Title: I demagoghi
Author: Cesare Monteverde
Release date: July 9, 2007 [eBook #22026]
Most recently updated: January 2, 2021
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the
Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)
Egli guardava sul mare che, in quella sera quietissimo, rifletteva i raggi della luna.
Vol. I, pag. 20.
Romanzo
AUTORE DEI ROMANZI
ASTORRE MANFREDI
e
IL DUCA DI ATENE
MILANO
PRESSO LUIGI CIOFFI EDITORE-LIBRAIO
Via di Chiaravalle, N. 11 rosso.
1862
Proprietà letteraria dell'editore, che intende far valere i propri diritti a norma di legge.
Milano—Ditta Wilmant.
Circa le ore 4 pomeridiane del 31 marzo 18…. nella sala di aspetto della ferrovia di…. si trovavano quattro persone i cui abiti non meno che l'atteggiamento dimostravano appartenere essi ad un ceto piuttosto elevato della odierna società. Uno di loro stavasi seduto sovra un sofà della sala, tenendosi sulle ginocchia un quaderno manoscritto, sul quale tranquillamente e qual se fosse stato solo solissimo faceva delle aggiunte o delle correzioni col lapis. Costui, semplicemente abbigliato ed anche con qualche trascuratezza, era un uomo pressochè di ordinaria statura, di carnagione bronzina, con barba corta castagna, coi mustacchi, con occhi scuri e vivaci; potea dirsi uomo di fisionomia schietta ed aperta, se un certo, come suol dirsi, cipiglio, o increspatura della fronte laddove si accoppiano le ciglia non gli avesse data la gravità d'uomo di toga o di studi severi. Gli altri tre che stavano in gruppo erano una signora di circa venticinque anni elegantissimamente vestita da viaggio e due signori del paro in elegante abbigliamento che le facevano, come suol dirsi, la corte.
—Ah! non mi sarei mai creduto di aver la fortuna di combinare la signora marchesa di ***, disse uno dei due (se non sbaglio) damerini moderni.
—Vi dirò, conte, rispose la signora, dopo il primo anno di vedovanza sfuggo la noia dei miei casini, dei miei palazzi, dei miei giardini di campagna e della capitale per girmene sola e nel più stretto incognito, viaggiando all'uopo di studiare il mondo.—
A questa frase, pronunziata ad alta voce, l'uomo del manoscritto alzò la testa e fece un involontario movimento indicante compassione, quindi eseguì una grande cancellatura sull'opera e si mise a meditare.
—Benissimo, soggiunse l'altro damerino replicando alla dichiarazione della signora, benissimo: così è che dovrebbero fare tutte le gentildonne.
—Sono del vostro parere, caro cavalier segretario, disse il primo; ma il male sta che non tutte le signore del nostro secolo hanno l'acutezza d'ingegno ed i gusti della marchesa.
—Obbligata del complimento! fu sollecita a riprendere la elogiata; sempre cortese e gentilissimo!—Indi, accostandosi al naso una boccetta d'oro contenente essenza odorosa, ne aspirò buona dose.—Io peraltro non lo merito, soggiunse: faccio il mio piacere e nulla più.
—In grazia, che avete raccolto dai vostri studi mondiali? interrogò il conte.
—Ditecelo, proruppe il cavalier segretario.
—Che bisognerà educare il popolo.
—Non v'ha dubbio esser questa una delle più grandi necessità dell'epoca.
—Ah! saltò su a dire l'uomo del manoscritto (chiudendo il quaderno ed avanzandosi a prender parte alla conversazione con quella libertà di modi che si pratica fra le persone con cui si è per viaggiare); ma il mezzo sapreste voi additarlo, o madama?
—Fa duopo discutere molto.
—Discuterò volentieri, replicò il cavalier segretario.
—Ed io pure, continuò il signor conte,
—Ed ella? dimandò la signora all'incognito
—Volentieri cedo al vostro desiderio. Educare il popolo non è molto difficile, ma fa duopo prepararlo ai suoi grandiosi destini: fa duopo sovvenirlo, reggerlo, dargli pane e lavoro.
—Son cose vecchie, interruppe la saputella damina.
—Son cose giovani, severamente rispose il brusco letterato, e che non invecchieranno mai; ma non bisogna inebriarlo di folli utopie: allora solo potrà esser libero e virtuoso.—
La damina fu assai piccata dello sguardo di quell'incognito, che pareva una specie di Diogene e le facea gli occhiacci; e mentre i due damerini si guardavano fra loro con certo modo di maraviglia,
—Ditemi, signor filosofo, dimandò, quel libro che avete nelle mani è forse uno dei trattati della vostra rigida filosofia popolare?
—Gentile signora, replicò l'interrogato con un sorriso di compiacenza, il libro che tengo nelle mani è il manoscritto di un mio romanzo.
—Un romanzo! sclamò la marchesa dando un passo indietro.
—Un romanzo! disse il segretario facendo il viso serio.
—Un romanzo! gridò il conte facendo un par di occhioni dalla sorpresa.
—Sì, miei signori, qual maraviglia? proseguì placidamente l'autore. Forse perchè mi avete sentito batter sodo sulla filosofia, vi fa specie di sapermi autore d'un romanzo? Non si può forse, scrivendone, dilettare ammaestrando? E non crediate (e qui lo scrittore prese un po' di fuoco e se gli accesero le guance) e non crediate che tutto quello che chiamasi romanzo sia un impasto di fole, di storie bizzarre. Ditemi un poco: quante volte la favola non ha ella insegnato delle apprezzabili verità?
—Voi ci avete posto nella massima curiosità, prese a dir la marchesa; favoriteci il titolo.
—I misteri di Livorno o i Demagoghi.
—Il titolo non mi dispiace, continuò la dama. Ma, quanto all'opera, la credete voi buona?
—Non sta a me a dirlo.
—La credete bella?
—Nessuno loda le proprie opere.
—La credete poi utile al popolo?—
Il treno che arrivò in quel momento non gli permise di replicare, ed entrò in vagone insieme agli altri.
Il Caprone.
—Non è possibile.
—Ma quando te lo dico io, ci puoi credere, caro Marco. Orsù, prendi il tuo fucile in ispalla e buona guardia.—
Questo breve dialogo aveva luogo la sera del 15 febbraio dell'anno 1821, alle ore undici, fra due soldati di linea che si cambiavano di fazione sulla piattaforma della fortezza vecchia in Livorno.
Questa fortezza dà, colle sue mura costrutte nel secolo decimosesto, sul mare dalla parte di ponente. Quelle mura, corrose dal tempo e dai venti marini, presentavano all'epoca di questo racconto alcune fessure del diametro di un sesto di braccio; ed essendo formate a scarpa, non sarebbe stato difficile lo scalarle, quando non custodite da vigili scolte. A destra del posto ove passeggiava la sentinella si vedeva, alta dal livello del mare poco più di due braccia, un'opera di fortificazione che, mezzo diruta, tuffava i suoi fondamenti nell'acqua marina dalla parte di ponente e nel fosso della così detta Venezia nuova, canale che serve di veicolo alla introduzione delle merci in quel quartiere della città. Il bisogno di provvedere alle esigenze sanitarie e d'impedire più specialmente il contrabbando del tabacco faceva sì che nella consegna del posto armato di sopra menzionato vi fosse l'obbligo di sorvegliare sul bastione sottoposto e particolarmente sull'opera semidiruta, la quale, separando con semplice e basso muro il mare dal fosso dello scalo di Santa Trinità, rendeva assai facile l'introdursi di contrabbando nella città stessa.
Livorno all'epoca da noi accennata non aveva risentito nulla dì quello sviluppo che sì maravigliosamente nel suo materiale ha conseguito di poi. Essa serbava ancora le sue medicee mura, di là delle quali erano vasti e popolosi sobborghi. Le sue strade anguste e tortuose (tranne due o tre principali), il lurido casone, l'annesso quartiere degli Ebrei col suo nome di ghetto, sporco nelle vie, nei muri, nelle case, nell'interno di esse, buio anzichè no, abitato da ciurmaglia povera e schifosa. Aveva il quartiere detto la Venezia nuova, ove vegeta piuttostochè vivere una popolazione diremmo quasi staccata dal rimanente pei suoi gusti, per le sue costumanze, per i suoi vizi, per l'accento non toscano; popolazione la quale, come vediamo, pel suo continuo contatto con la gente di mare si è improntata di un carattere tutto speciale e bizzarro; popolazione infine ignorantissima, di cuor fiero, di volontà decisa, di un coraggio e di un'audacia senza pari, facile per altro alla credulità ed a cedere a qualsivoglia cosa che abbia dello straordinario e del portentoso. Livorno adunque nel 1821 non poteva differire gran che da quella di un secolo addietro. Chi cercasse peraltro di ritrarne un'idea dalla ispezione che fosse per farne attualmente, invano spenderebbe il suo tempo. Cotesta marittima città ha fatto come la crisalide: essa è uscita dal suo lurido involucro per mostrarsi di straordinaria beltà, la quale però non permette di riconoscerla dall'epoca della sua metamorfosi.
Ma, del paro che colle fabbriche, ha ella cangiato nel suo morale, nei suoi costumi? Io sento che sì; fuorchè rispetto agli abitatori della Venezia. Il cangiamento sarà poi stato giovevole al suo commercio, alla sua industria, al suo bene essere, in una parola? Questo potrà dirlo altri; io per me scrivo un romanzo e mi astengo dal pronunziare. L'esito lo mostrerà.
Il militare che abbiamo sentito nominare per Marco era un giovane di bassa statura, piuttosto pingue, la cui fisionomia, ilare per abitudine, lo dichiarava per uno dei buoni villici delle nostre colline. Marco, in forza della sorte cruda che gli aveva fatto estrarre il numero sei dall'urna dei coscritti, aveva dovuto lasciare da un anno il poderetto della Sambuca, le care veglie dell'inverno, nelle quali, seduto su d'una ruvida panca accanto al domestico focolare, si occupava colle mani a lavorare panieri di giunchi e colle orecchie a sentire le gravi e spaventose storie cavate dalla non mai abbastanza lodata opera del 1300—Lo specchio della vera penitenza—, ove i morti fanno cose da strabiliare, i diavoli ne fanno da rabbrividire; i buoni cristiani hanno una paura che non può descriversi, paura salutare che giova moltissimo all'anima loro, mercè la quale, invece di rubare il terzo del raccolto al padrone, si contentano di pigliarne un sesto, un ottavo, un dodicesimo puranco, a seconda dell'impressione di quella paura, eccellente antidoto che l'ottimo paroco di quelle colline è in dovere di eccitare negli animi dei suoi popolani, che hanno le mani ben provviste di unghie e le gambe assai sottili. Don Antonio (il buon pastore di Sambuca), a forza di raccontare per quarant'anni di parochiale esercizio terribili apparizioni di dannati, aveva finito per crederci anche lui. E quasi che la fortuna lo avesse favorito in proposito, nello stesso circondario della sua parochia, infra le selve e i dirupi fiancheggianti il torrente Ugione, esistevano due profonde cavità, appellate l'Inferno e l'Infernino, dai contorni delle quali (per usare il termine del paese) fuggivano bestie e cristiani, e qualche temerario che aveva voluto sincerarsi da spirito forte aveva pagato ben cara la sua audacia. E fra le altre verità ad un Tonio Baggiani un asino era scappato; Tonio voleva acchiapparlo, ma l'animale non si era lasciato pigliare; e finalmente caduto nella voragine, da quella era uscito un suono terribile come di mille trombe e una fiamma che aveva abbruciate le vesti, cosicchè il povero Baggiani era morto dopo un'umile confessione de' suoi peccati.
Altra volta, una chioccia coi pulcini d'oro si era avanzata in quelle sponde, e i tre contadini che ebbero la disgrazia di vederla acciecarono e morirono fra gli spasimi. In altra epoca due Inglesi (gente luterana, ci s'intende) avevano voluto misurare gli abissi e, dopo avervi calato ben due mila braccia di fune, non avevano potuto toccare il fondo, e ritornati ai loro paesi, si erano convertiti e morirono da buoni cristiani.
Il giovane Marco aveva portato alla milizia i ricordi di tante verità; se le teneva presenti nel far gli esercizi, se le sognava e le raccontava ai camerati nello spazzare la caserma, e gli giovavano nell'adempimento de' suoi militari doveri.
Giudicherà ognuno della sua sorpresa e del suo timore quando, poche ore prima di entrare in fazione sulla piattaforma della fortezza vecchia, uno de' suoi compagni gli aveva detto:
—Marco, stasera si monta la guardia in luogo assai pericoloso.
—Come? aveva risposto Marco, e che cosa vi è?
—Oh! l'altro aveva soggiunto, si dice che dal mare, ove il fondo è molto basso, il quale lambe le mura del forte, qualche volta si veda uscire un enorme caprone.
—Un caprone?
—Precisamente un caprone, che, invece di due, ha quattro corna.—
—Non ne ho mai veduti caproni a quattro corna, e sì che ho fatto anche il pastore, aveva replicato Marco.
—Eh! lo credo disse l'altro, ma il caprone di cui ti parlo dev'essere il diavolo in persona.
—Il diavolo? rispose Marco; che viene a fare il diavolo nelle vicinanze della fortezza vecchia?
—Caro Marco, che cosa venga a fare il diavolo in questi luoghi non te lo so dire, perchè, come ben puoi credere, il diavolo non rende conto ad alcuno dei suoi passi e delle sue volontà; ma non importa, io suppongo che egli ci abbia degl'interessi: per esempio, al tempo dei Francesi, sulla piattaforma vennero fucilati dei disertori; e poi non siamo vicini alla Venezia nuova? Non sai che gentaccia vi sta? Gentaccia senz'anima, che bestemmia, giuoca, ruba e fa delle infamità di ogni genere: il diavolo ci fa bene i fatti suoi.
—Ma tu lo hai veduto mai questo caprone?
—Io no…., ma l'hanno veduto tanti che non si può mettere in dubbio.
—E non son morti quelli che l'hanno veduto?
—No…., ma allo spedale ci sono stati lungo tempo.
—Poveretti! aveva esclamato Marco. Io però non mi scordo del mio rosarino e mi propongo di consumare la mia ora di sentinella con dire tanti De profundis.
—Farai bene, rispose l'altro; questo è il miglior modo di liberarsi dall'orribile apparizione.—
Intanto venne per Marco l'ora di entrare in fazione; uscito dal guardiolo e preso il fucile e le cartucce, era salito (figuratevi con che cuore) sulla piattaforma.
Il soldato da cui fu preceduto nella guardia era quello stesso che aveva fatto il racconto a Marco: onde questi, nel ricevere la parola d'ordine, gli aveva susurrato all'orecchio:—
—Ma il caprone ci è proprio?… non ci credo.—
Noi abbiamo sentito l'assicurazione che gli fece l'altro.
—Ah! mormorò Marco quando fu solo (e si mise a passeggiare sulla piattaforma), brutto mestiere è quello del soldato: quel numero sei mi ha proprio rovinato. Quattro quattrini di paga al giorno (non servono per il vino), le guardie, le ronde, gli esercizi e per giunta quel maledetto caprone….—
Marco passeggiava da più di mezz'ora sulla piattaforma del forte: dopo d'essersi assicurato di avere al collo il suo rosarino, se ne stava un poco più tranquillo: egli guardava sul mare, che in quella sera quietissimo rifletteva i raggi della luna; più lungi sulla dorata superficie delle acque le nere moli dei navigli ancorati alla rada con le loro antenne disegnanti altrettante linee scure nel cielo sereno, da un lato gli scogli pur essi neri cui il barlume del cielo dava mille forme bizzarre; quindi il molo, le circostanti fortezze e parte della città, sepolta nel silenzio e nella quiete. Se il nostro Marco fosse stato un poeta, chi sa quali versi gli avrebbe ispirato la magnifica scena di cui era spettatore? ma egli era contadino e recluta, e trovava più poesia nel ricordo delle serate in cui faceva i panieri al podere di Montemassi che in quel panorama il quale gli si parava dinanzi. Sulla punta delle dita ei contava i minuti che gli restavano a passare in fazione, e già si rallegrava al pensiero di ritornare al guardiolo e scaldarsi al braciere stendendosi sul pancaccio, quando…. (mirate un poco se aveva disgrazia sì o no): quando in un naviglio ad alberatura latina ancorato ad un quarto di miglio dal forte parvegli di scorgere un lume il cui raggio strisciando sul livello delle acque era venuto a riverberargli sulla lucida canna del fucile che aveva in braccio. Marco seguì coll'occhio quel lume, che si mosse e si calò al fianco del naviglio: la mercè di questo lume, il nostro milite riuscì a vedere un corpo di non gran volume il quale dal naviglio passò in una barca assai sottile che stavagli a tribordo; questa barca, leggiera leggiera, scivolando sulle onde, staccossi dal bastimento e si diresse in una linea retta verso il forte. Il nostro Marco non vide più il lume, ma i suoi sguardi non potevano staccarsi dalla barchetta, la quale pareva contenere un solo remigante, di cui per altro non bene distinguevasi la figura. Giunta che fu a circa cento braccia dal lido, la barca si fermò come arenata sulla sabbia.
Questo è un contrabbando, pensò Marco, e alzò il cane del suo archibuso gridando: Chi vive? Nessuno rispose.
L'ho detto io, ripetè fra sè, è un contrabbandiere; ma per mia fè gli voglio fare scontar la paura di quest'ora di fazione.
—Chi vive? ripetè; e levatosi il fucile dal braccio, se lo pose alla spalla.
—Chi vive? finalmente urlò e prese di mira l'individuo, che, abbandonati i remi della barchetta, sembrava disposto a saltare in mare profittando del basso fondo. Non avendo Marco udito risposta, si accinse al suo dovere e già toccava lo scatto del fucile: un solo minuto secondo, ed era bella e finita pel misterioso guidatore della barchetta, poichè Marco era buon tiratore; ma ahimè! la luna, uscendo limpidissima dalle nuvole, aveva permesso all'occhio di Marco di discernere colui sul quale stava per esplodere…. e chi era desso? Un caprone; sì, un caprone più alto di tutti i caproni del Tibet, con ramose corna, con barbigi e quant'altro forma la razza lanuta dei capri. Marco di uomo divenne una statua, l'occhio suo rimase come petrificato nell'orbita; egli stesso in tutta la persona sentì gelarsi il sangue; il dito s'inchiodò sullo scatto, non gli fu possibile alcun movimento, e solo di vita gli restò la facoltà di vedere, e troppo ei vide. Il capro, senza darsi il menomo pensiero della canna del fucile diretta in linea del suo capo, tranquillamente balzò nelle acque, si accostò al basso muro, lo scalò come cosa a lui facilissima, rasentò il margine del fosso di Santa Trinità e quindi fu perduto di vista allo sbocco dello scalo del ponte della Crocetta, Poco dopo suonò mezzanotte; il soldato che venne a dare la muta al povero Marco lo trovò tuttavia immobile, coll'archibuso in atto di far fuoco; e quando lo trassero di là, egli parlava come un demente, non avendo per altro schiuso la bocca se non se dopo molte ore, allorchè in grave pericolo di vita riprese i sensi allo spedale di Sant'Antonio.
Durante le ore in cui e Marco e i militi di guardia alla fortezza vecchia alternavano la scolta e la stanzetta del guardiolo, una scena ben diversa accadeva nel quartiere della Venezia nuova da noi accennato e precisamente all'osteria dei Tre Mori, posta nel vicolo che dalla Crocetta mette alla via di Sant'Anna, via remota, solinga, del peggio quartiere di Livorno, dove un galantuomo non può passare pei fatti suoi nella notte senza pericolo di essere gratuitamente sventrato, e di giorno senza che gli sia rubata la pezzuola, l'oriuolo o la borsa.
L'osteria dei Tre Mori non aveva insegna e nè anche la frasca indispensabile ai templi di Bacco. La porta di essa, lungi dall'essere verticale, era orizzontale alla via, cioè consisteva in una apertura quadra della dimensione di due braccia di larghezza e altrettante di lunghezza, la quale aveva un coperchio che, dalla parte superiore alzandosi a guisa di una grande scatola, lasciava vedere gli scalini di una scala tortuosa e scura, in fondo alla quale stava la prima sala dell'osteria. Questa sala, o piuttosto cantina, non aveva palco, era a volta, nera ed umida: accanto ad essa erano altre tre stanze, una ad uso di cucina, l'altra ad uso di salotto, la terza ad uso di camera; in quest'ultima si vedevano tre botole le quali mettevano in altrettanti anditi sotterranei, destinati a ricevere l'onesto prodotto della così detta busca dei veneziani livornesi, nome con cui da costoro viene appellato quel giornaliero lor modo d'impadronirsi della roba altrui. La polizia, non che visitare quell'antro, prendeva ogni cura di allontanarsene quando era in ufficio di vigilanza, mentre peraltro non era raro al taverniere dei Tre Mori l'avere ad annoverare fra i suoi clienti qualche onesto famiglio del bargello.
Sonavano le dieci. Nella caldaia sul fuoco del camino bolliva un brodo di dentice, condito con peperoni rossi e cannella; pronta a friggere i totani era la padella, e la cuoca già ne infarinava alcuni ed altri ne asciugava ad un lino.
La cuoca era una giovane tra i quindici e i sedici anni, bruna di capelli come una Rebecca, grassoccia e di forme ben complesse: nella treccia accuratamente pettinata stavale confitto uno spillo con manico di rame dorato, spillo per altro che per le sue dimensioni e per la sua lama poteva piuttosto convenientemente appellarsi un pugnale; il collo e le braccia, nudi, avevano collane e braccialetti di grosso corallo rosso. La fanciulla copriva le spalle con una pezzuola di seta gialla a fiori, di quelle allora dette dell'Indie; aveva un busto ricamato a rabeschi, la gonnella corta, il grembiule di seta rosso, due scarpette che facevano un piedino d'incanto: essa aveva nome Concetta. Accanto al camino si vedeva un giovane di bassa statura, di faccia bronzina, con capelli crespi come quelli dei Mori, con largo petto e di atletica forma; costui aveva una di quelle facce che ti atterriscono al primo guardarle; al suo abbigliamento totalmente marinaresco si ravvisava, senza domandargliene, la sua professione. Ei sedeva su di una rozza panca di legno, aveva le mani incrocicchiate sul petto, stendeva sbadatamente le gambe in avanti e teneva una pipa in bocca dalla quale partivano grosse nuvole di fumo di un tabacco così acuto e forte da far venire (specialmente in quel luogo, che non aveva altro sbocco di aria tranne i camini e la porta) a chi men robusto dei clienti dell'oste dei Tre Mori una congestione cerebrale. Il nostro giovinotto sembrava dover essere in molta buona grazia della giovane cuciniera, giacchè per vezzo talvolta procurava di porre un piede fra mezzo a quelli di lei, come per farla cadere a terra quando si moveva dal camino; e talvolta la immergeva in una nube di fumo che le scaricava sul viso: e la fanciulla corrispondeva a tali amorosi scherzi col toccare il marinaro con le molle uscite dal fuoco o con gettargli nella pipa gli spruzzi del brodo del dentice. Onesti passatempi, che l'oste, padre della fanciulla, non vedeva, che la madre di lei approvava, e di cui il resto degli ospiti rideva. Nella serata di cui narriamo, la taverna conteneva proprio persone direi quasi di famiglia, cioè intimi di essa. Vi era cena e cena frugale; volevasi da costoro festeggiare il carnevale, ma non festeggiarlo in maschera; festeggiarlo col rhum, col ginepro di Olanda, col vino e con una buona mangiata. Gli ospiti che attendevano fosse preparata la mensa erano cinque, senza il giovane che accennammo, senza l'oste, sua moglie, e la figlia; e quei cinque colà conosciuti sotto nomi che al di fuori non avevano, per essere l'osteria dei Tre Mori un mondo particolare. Costoro, dei quali andiamo a dare una brevissima biografia, li chiameremo come li chiamavano laggiù.
Il Topo. Costui è un uomo di cinquant'anni, piccolo di statura con mento e naso aguzzo, senza barba, perchè solito a farsela radere tutti i giorni; il suo mestiere è quello dell'imballatore, e perciò la sua scarsella provvista sempre di una guaina ove, come nel suo fodero, sta un enorme coltellaccio affilato più che rasoio, ed è accompagnato da aghi lunghi un sesto di braccio, larghi mezzo quattrino, taglienti ed acuti, che ponno all'occorrenza servire di arme micidialissima. Il Topo è stato dieci anni in galera per omicidio, trenta mesi in Barberia sulle coralline per furto; la sua memoria non sa contare i giorni di carcere e le bastonate collo staffile che ha sostenuto per contravenzione ai precetti di polizia. D'altronde è un uomo religiosissimo che, piuttosto che non levarsi il cappello passando avanti una sacra imagine, si farebbe ammazzare.
Il secondo è un uomo di oltre quarant'anni conosciuto sotto il nome di Cacanastri. Costui al mondo passa per un linaiolo, ma il separare le lische della stoppa non piacendogli troppo, si occupò di frugare con ispeditezza nelle scarselle altrui; sono vent'anni che fa il mestiero, ed è sfuggito alle pene dei ladri attesa la sua pazienza di ricevere i colpi dei derubati che lo hanno còlto in fallo. D'altronde esso pure è pio quanto l'altro.
Il terzo dei commensali è un giovane imberbe che si diletta spacciare sfrontatamente anella ed orologi falsi per buoni, truffando in pubblico ed in pieno giorno, senza che i reclami della gente gabbata producano la menoma alterazione nelle sue abitudini. Pugilatore intrepido, famoso giuocatore di carte con sicura vittoria, introduttore in case di dubbia fama e per ultimo spia: costui si distingueva dagli altri per la facondia, per le maniere affettate che ha preso ad imprestito dai più famosi damerini, non che per l'eleganza e per la ricercatezza del suo vestiario. Esso è laggiù soprachiamato Narciso.
Gli ultimi due offerivano anche maggiori contrasti dei tre da noi delineati. L'uno in quell'antro era chiamato Bruto, l'altro Catone; ambedue dell'età di circa vent'anni, avevano tali maniere, tale fisionomia che gl'indicava appartenenti alla classe più elevata dei cittadini. Il loro contegno era freddo e severo, e dominavano senza pur volerlo sugli altri convitati. Bruto alla sua gravità abituale mesceva un egualmente abituale riso beffardo; Catone faceva pompa di un pretto cinismo: ambedue ritenevano per certo di essere qualche gran che nel mondo, e i loro discorsi concentrati facevano spicco di fronte alle sguaiate balordaggini dei loro compagni di taverna e di tavola. I primi tre, durante i preparativi della cena, giuocavano al giuoco clamoroso della briscola e bevevano e bestemmiavano copiosamente e per burla; il che non impediva ai signori Catone e Bruto di continuare nella seria discussione di un grave argomento tutto di pubblico interesse.
—Ma verrà? dimandò Bruto al compagno.
—Verrà sicuro, replicava Catone, colui non può mentire alle sue promesse. È uomo su cui riposa la felicità di tanti milioni d'uomini.
—Ma su cosa spera egli?
—Sul diritto, sulla bontà della causa.
—Armi?
—Ci saranno, ma vuolsi prima porre in bilancia la volontà suprema, invariabile, eterna.
—Carico a briscola.
—Ti pigli un dolore! urlavano i giuocatori mentre l'uno di essi rovesciava il mazzo delle carte sul viso dell'altro, e l'offeso rispondeva vibrandogli contro il boccale del vermutte, che inondò la tavola e spruzzò i due filosofi; i quali continuando pacificamente,
—La nostra missione durerà un pezzo, ma ci vuole costanza, disse uno dei sapienti asciugandosi il corpetto e il viso umettati dal caduto liquore.
—Giuro a D….
—Ti ho un paolo.
—Maladetto Narciso! ubriaco porco, mi hai rubato dieci lire.
—Zitto là, borsaiolo d'inferno; a me dai del ladro? a me? tu, avanzo di galera? To' questo.—E così dicendo cacciò il Cacanastri sotto la tavola.
—Ahi! ahi! mi hai rotto una costola.
—Una di più, una di meno, sclamò ridendo Topo, poco monta: non è mica un occhio.
—Cane, interruppe la cuciniera, che tirava il fuoco sotto la padella, cane! mi fai le corna con Sandrina.
—Dio m'acciechi se è vero, le rispose il ganzo, bella mi…. (E qui non è lecito ripetere il gentile epiteto dell'amante….) Dio mi acciechi! Sandrina ha tanti anni quanti il brodetto.
—Ma ha dei quaini*.
* Denari nel vernacolo livornese.
—E che m'importa a me? ho bisogno dei suoi? e che? raccolgo io forse nespole?—-E cavò fuori una manciata di zecchini d'oro.
—Uh belli! da' qua, facciamo la pace.
—Non minchioni? mezzi.
—Li vo' tutti.
—Mezzi to', Concetta.
—Li vo' tutti.
—Pigliali, ruffianella.—
E così dicendo se li rimesse in tasca. La bella, istizzita, lasciò il manico della padella, la quale sdrucciolando si empì di cenere.
—Accidenti! gridò la vecchia, mi tocca tutto fare da me.—
E rialzando l'utensile, vi ricacciò il fritto ceneroso.
—Qual deliziosa innocenza di costumi! mormorò Bruto conservando tutta la gravità dottorale.
—Sicuramente, replicò Catone, ed è perciò che la plebe dee trionfare nella grande lotta.
—Oh bei tempi di Cincinnato!—E guardò non volendo Topo.
—Cincinnato? parla meglio, Bruto, prese a dire Topo. Io non voglio altri soprannomi, o ti taglio la gola.—E levò fuori il formidabil coltello.
—Animo, ragazzi, gridò infuriato il padrone dell'osteria, destandosi dal grave sonno ed alzandosi di sopra d'un canile che era nella stanza. Non fate chiasso, lasciate riposare i galantuomini: voi, sapienti, continuò, avete la ruzza; eh! lo credo; a te, Bruto, non mancano persone da imbrogliare, carta da insudiciare, matasse da arruffare; e tu, Catone, hai buon babbo che ti fa le spese: di voialtri canaglia è inutile discorrere, chè il denaro non sapete cosa vi costa ed avete la zizzola allegra; ma io pover uomo ho bisogno di quiete, sono tre notti che non dormo per fare i sigari di contrabbando; almeno questo si chiama essere onesto. Ohè! Orsola, quanto si sta ad andare a cena?—
L'ostessa non rispose, era troppo occupata della pentola e della padella. Bruto e Catone continuarono a ragionare seriamente, come se nessun trambusto avesse luogo, ed i quattro, compreso Cacanastri intento ad asciuttarsi il sangue che dal naso gli grondava fin sulle carte, proseguirono a giuocare a briscola, come se nulla fosse successo.
—Cospettone! urlò il vecchio oste dando un'occhiata dalla parte del camino, che si fa colà in quel mucchio? Cospettone! che? vi picchiate voialtri che siete innamorati? Oh! questa è nuova di zecca.—
Infatti la giovinetta, ingarzullita dei bei zecchini del marinaro, gli si era gettata addosso con impeto; e questi, abbottonatosi la sarga per meglio assicurare il suo tesoretto dalle rapaci mani della sua fidanzata, si era sciolta la larga fascia rossa che gli cingeva i lombi e, postala al collo dell'amante, glielo stringeva fino quasi a soffocarla, mentre questa colle mani lo frugava per trovar l'oro. Nella rapidità dei movimenti erano caduti uno sopra l'altro; fortuna che i giuocatori ed i filosofi stavano troppo occupati, in caso diverso chi sa se qualche motteggio non avesse fatto andare in collera la bella Concetta? Questa per altro, scomposta nelle vesti e nella chioma, urlava, si dibatteva, voleva il denaro ad ogni costo: l'altro non curava i graffi ed i calci, e con la destra di quando in quando minacciava strozzare la bella, mentre colla sinistra teneva stretti i bottoni della sarga. Intanto che ciò accadeva, la mamma continuava a friggere; il babbo, non sentendosi rispondere, si era rivoltato sulla panca dall'altra parte ritornando a dormire profondamente; i quattro giuocavano, ridevano e fumavano; Bruto guardava con impazienza l'orologio e sospirava; e Catone, preso di tasca un taccuino, vi disegnava col lapis la pianta d'una fortezza e di un campo d'osservazione. Gli amanti, rotolandosi per terra, si erano ridotti in uno dei più oscuri cantucci della stanza, e da un pezzo parevano rimpaciati: finalmente si alzarono; la fanciulla si mise di nuovo lo stile dorato che servivale di spillo nei capelli, ed alla meglio si acconciò, si riassettò le vesti e, raccolta di terra la pipa rotta del suo amante, dicevagli all'orecchio:
—Birbone!
—Sta zitta, mia cara, le aveva risposto il marinaro, è tanto che ti voglio bene e ti sposerò; e poi non ti è riuscito di averli tutti i quaini?
—Sì, sì, ma li serbo per te, riprese allegra la bamboccia; con questi vo' comprarmi le gioie per le nozze, e a te l'oriolo. Quel che è stato è stato; ma quando mi sposi?
—Fra un anno, al ritorno delle coralline: to' un bacio in caparra.—
E pigliando un carbone dal focolare, riaccese la pipa.
—Mamma, mamma, disse la fanciulla, datemi la padella, tocca a me.
—Mi parrebbe tempo, brontolò la vecchia; è un'ora che mi arrostisco a friggere. Ma tu dove eri andata?
—Io? rispose la figlia arrossendo, non mi sono partita dalla stanza.
—Umh!—
E voltasi verso il marito:—Dormiglione! su, su; è l'ora di andare a cena; aiutami ad apparecchiare.
—Eccomi, disse il vecchio, e si alzò. I giuocatori gli fecero posto.
Bruto con riso sardonico, disse enfaticamente:
—Oh verginali costumi di plebe che un giorno dee dominare!—
Intanto suonò mezza notte, e si udirono tre colpi all'uscio.
—Chi sarà mai? dissero i giuocatori.
—Gente che aspetto io, replicò Bruto.—
E si avviò di sopra ad aprire. Quando discese, un nuovo commensale era con lui: Il caprone.
Rosina.
Il caprone entrò con Bruto. La sua venuta produsse un effetto magico su i nostri personaggi. L'oste si drizzò come un soldato in parata, si levò il berretto di testa e non ardiva parlare. L'ostessa si chinò per baciargli la mano; dico mano e non zampa, poichè fino dall'entrare nell'osteria il caprone aveva lasciato cadere a terra la veste lanuta, la testa e le corna fittizie, ed era apparso un bellissimo giovane, di maestoso portamento, di occhi cerulei, di capelli biondi.
Concetta aveva raccolto le spoglie dell'animale cornuto e le aveva poste su di una tavola in altra stanza perchè umide dal bagno fatto nel mare e nel fosso.
I quattro giuocatori si erano fatti attorno al nuovo commensale e, perduta ogni idea di rozzezza, esternarono segni di alto rispetto.
Catone lo aveva preso per la mano, ed anche il marinaro si era alzato dalla panca e, dismettendo il fumare, erasi posta la pipa in tasca. In un attimo tutti si affacendarono per porre in pochi minuti in sesto la mensa. Il Caprone (ci sia permesso chiamarlo così fino a che non verrà tempo di dargli altro nome) aveva una di quelle fisionomie dolci che incantano ovunque. Le sue maniere erano così affabili che attraevano la maggior simpatia, e soprattutto la sua voce aveva alcun chè di straordinario e d'insinuante, difficile ad esprimersi. Sì, egli era uno di quegli esseri nati proprio per comandare senza che paresse dolore il servirli; ma tante prerogative torneranno poi a vantaggio dell'umanità?… Chi lo sa? ed il mio racconto lo mostrerà in appresso. Quantunque in cuore ei credesse di giovare agli uomini, non sempre giova per far bene la volontà… Ma troppo non vo' dirvi, tanto più che il racconto è appena cominciato.
I nostri lettori per altro sospendano la loro curiosità intorno al signor Caprone e suoi amici e commensali; poichè dobbiamo condurli in altro luogo ben diverso dalla temibile osteria dei Tre Mori: ove lasceremo che Concetta, assisa al fianco del marinaro, faccia comodamente all'amore, Bruto studii le grandi teorie del Caprone, e gli altri servano ad ambedue pei loro misteriosi fini.
Luogo grazioso è quello ove ora vogliamo introdurre il lettore; è una palazzetta di due piani situata circa la metà della via Ferdinanda. Il primo e secondo piano sono abitati dalla signora Maria Guglielmi vedova con due figli: Alfredo, giovane militare al servizio di Sardegna, da qualche giorno rimpatriato, per ottenuto provvisorio congedo; la figlia, una giovinetta di sedici anni. Il suo portamento svelto e nobile la farebbe giudicare una di quelle vergini dipinte da Rafaello: tutto in lei era grazia e candore; nata per amare, fuoco d'innocente amore le brillava dai begli occhi cilestri, parole di amore spiravano i suoi labbri, e melanconico amore le stava sul viso pallidissimo, che rendevano più alabastrino i biondissimi capelli i quali le cadevano a ciocche sul collo tornito. Essa era pettinata alla vergine, avea cioè la divisione dei capelli perfettamente a mezzo del capo, senza ricci sulla fronte, ritondati all'indietro, ricinti da un nastro di seta celeste; le pendeva dal collo un monile di semplice avorio lavorato alla China e d'inestimabile prezzo, e della stessa materia avea gli orecchini, i quali contrastavano col niveo colore del bel volto. L'abito della fanciulla, tutto di raso celeste a fiori bianchi della più leggiadra forma del tempo, quasi sto per dire secondava le leggiadre forme della giovinetta. Aveva essa appunto terminato la sua toeletta, e già le cameriere stavano per licenziarsi, quando macchinalmente posò lo sguardo su d'un bellissimo oriuolo a pendolo che stava sul caminetto della camera.
—Ah! disse, sono le sette e mezza, manca un'ora all'apertura della festa; mi avete abbigliata troppo presto: mi noiano tanto queste feste, queste ricercatezze!
—Io credo che V. S. sia la sola fanciulla che a sedici anni parla in questa guisa. La festa che avrà luogo giù nell'appartamento del primo piano sarà una delle più splendide di Livorno, soggiunse la cameriera più avanzata in età, mentre che l'altra, rispettosamente inchinandosi, si era allontanata.
—Mary, per essere inglese, tu non sei punto inclinata alla misantropia; ti piacciono tanto le feste!
—Mi piacciono sicuramente, e come non avrebbero a piacermi? Mance di qua, mance di là…. Oh! la vita di noi cameriere ha bisogno di respirare in un'atmosfera di mance: e per questo viva la vostra patria! che cuore! Oh i Livornesi! per cuore e per generosità sono gli unici del mondo.
—Ti ringrazio per i miei concittadini, replicò la signora e si adagiò sul sofà di velluto che era da uno dei lati della camera. Orsù, Mary, resta a farmi compagnia mentre attenderò l'ora della festa; mi dispiace dovere scendere così per tempo. La mamma vuol così, bisogna obbedirla. Io non ho padre.—E qui un grosso sospiro partì dal cuore della bella.
—Il signor generale morì molto giovane, disse Mary.
—Ah! io era peranco bambina. Egli fu dei più intrepidi della guerra di Russia; fu fatto generale sul campo.
—E fece la carriera di soldato?
—Sì, mia cara, di semplice soldato; il suo valore passerà nei volumi della storia. Ah! perchè non posso io stringerlo al seno questo caro padre? Perchè non posso dirgli: deh! guida la tua figlia nel periglioso cammino della vita.
—Bando, bando alle idee malinconiche, signorina; si direbbe che foste impastata di lacrime e di sospiri.
—La memoria del padre…. oh! credimi, Mary, è il più dolce de' miei pensieri; eccolo là (e additava un ritratto di un guerriero), eccolo là; qual nobile fisionomia! qual coraggio spira dai fulminanti occhi! O padre mio, io vado superba di esserti figlia.
—Ma, signora Rosina, si affrettò a dire la cameriera, perchè tanto darsi in preda alla sensibilità? lo vedete? una grossa lacrima vi è caduta sul fisciù; voi scomponete il vostro assetto. Orsù date retta alla vecchia Mary, passate nel vostro gabinetto, ponetevi al piano forte, fatemi udire quella vostra vocina a cui vo' tanto bene. Ciò vi salverà dalla malinconia.
—Voglio compiacerti, Mary; sei troppo buona, mi ami qual madre.
—Certamente: vi ho quasi veduta nascere, vi ho tenuta sulle ginocchia intere giornate quando…. Ah! io pure cadeva a parlare della guerra moscovita.
—Cosa vuoi ch'io canti? soggiunse Rosina con un sorriso di compiacenza infantile.
—Oh! su questo poi… fate voi, padroncina: tutto mi piace da quel bel bocchino di corallo.
—Ho capito; canterò a capriccio, disse risoluta la fanciulla, improvviserò: andiamo nel mio gabinetto al piano-forte.
E, spiccato un salto, penetrò nella stanza favorita e, assisasi innanzi all'istrumento, preludiò una musica fantastica, tutta di sua idea, oltremodo appassionata, a cui unì con voce angelica le appresso parole.
O amor, possente spiro,
Dolce alimento al cor,
Recasti dell'empiro
Sovra la terra i fior.
Per te del padre mio
Sacro è il ricordo ognor;
Ben può sfidar l'oblío
Di figlia il casto amor.
Nel virginal mio petto
Non vo' diverso amor:
Mi basta il puro affetto,
Quello del genitor.
Ma se d'un altro fuoco
Arder potesse il cor,
Può sol trovarvi loco
Di patria il santo amor.
Rosina cantava queste strofe, le quali con tutto il fuoco dell'animo virginale accompagnava con soave melodia sugli armoniosi tasti, quando, posato l'occhio sopra un mobile di mogano sul quale vedevasi un magnifico specchio, vi scôrse un oggetto che attrasse tutta la di lei attenzione deviandola dall'argomento del canto.
—Mary, disse con accento alquanto iroso, Mary, non custodite voi questo segreto mio appartamento?
—Sì, amabile padroncina, rispose l'ancella alquanto arrossendo nel vedere che Rosina guardava sempre sul mobile ed aveva ritirate le mani dalla tastiera del piano-forte: se ho errato in qualche cosa, vi scongiuro a dirmelo.
—Errato, può darsi, riprese Rosina con accento un poco più dolce; o, almeno, azzardato di troppo.
—Ed in che mai?
—In che? non vedi tu quella camelia rossa che spicca sul marmo dello stipo?
—La vedo: vi sta ella forse male?
—Non dico ciò, riprese Rosina, ma nessuno dee azzardarsi di adornare il mio segreto gabinetto senza mio permesso. Lo sai, su ciò sono severa severissima; con te non vorrei esserlo, o Mary, ma lo sarò, oh! lo sarò certo (nel tono della voce della fanciulla si scorgeva un misto di sdegno e di amorevolezza). Orsù chi ti ha dato quel fiore?
—Signora, replicò l'ancella, nessuno.
—Come nessuno? È forse caduto dal cielo, oppure il marmo fa germogliare le camelie? Mary, Mary, aggiunse quindi un poco più dolcemente, da qui in avanti chiuderò il mio gabinetto a chiave. Fiori non ce ne voglio, ed in specie fiori rossi.
—Ah! ah! prese a dire Mary cercando di ricomporsi, vengo allo scoprimento del mistero: parmi stamane aver veduto quel fiore in petto della mia compagna Teresina; essa è venuta su per assettare i mobili mentre voi, signorina, eravate scesa per la colazione: ve lo avrà posato, o forse anche il signore Alfredo….
—E che? mio fratello viene egli nelle mie stanze? Te l'ho pur detto, il mio gabinetto dev'essere eguale a quelli delle donne turche; non ci voglio profani. Quel fiore, ah! quel fiore…. invano tu speri guarirmi della mia tristezza; se tu sapessi….
—O mia padroncina, perdonatemi, esclamò ad un tratto Mary, tante bugie non le posso dire; e poi dirle a voi mi parrebbe doppio peccato mortale.
—Dunque?
—Dunque quel fiore mi è stato dato.
—Dato? e da chi? riprese Rosina sentendosi un fuoco inusitato alle guance.
—Dato….. cioè fatto avere misteriosamente, ma non mi sgridate; voi sapete quanto io vi ami.
—Prosegui….
—Ebbene, questa mattina è venuto all'uscio un povero a me ignoto. Costui, dopo le solite nenie, «Dio la rimeriti, Dio la rimeriti», mi si è accostato, ed avendo levato una scatoletta di sotto il giubbone, me l'ha mostrata dicendo: È per la signorina, e quindi me l'ha gettata ai piedi.
—Ah Mary!…
—Io non volea prenderla: ma colui facendo un ceffo terribile mi ha troncata la volontà di rifiutarmi. «Mary, mi ha detto con una vociaccia, se vi è cara la vita, date ciò che contiene la scatola alla signorina, datela, non temete; si tratta del volere di chi comanda a me e a voi.» A me? ho risposto, oh!… Ma l'incognito si allontanò fuggendo; allora io per curiosità ho aperta la scatola e, vedendo che conteneva un fiore, mi sono, confesso il vero, tranquillizzata. Ah! ah! ho detto fra me, sarà qualche zerbinotto pretendente a fare il grazioso con la signorina, e non ho avuta più paura delle minacce del messaggero; ma siccome ho pensato certo non essere ben fatto disgustare il poveruomo (tanto più che chi ha una bella padroncina dee trovarsi spesso a simili faccende), ho fatto la cosa a metà, togliendo cioè il fiore dall'elegante scatola, che ho ritenuta per me, e mettendolo su quel mobile.
—Incauta!
—Perdonatemi, ma giacchè nell'inverno tali fiori sono rarissimi, non sarebbe bene approfittarsene? Se non lo sdegnate, vel porrò io con uno spillo sul camicino.
—Mary….—
Ma la cameriera, senza frapporre indugio, corse a prendere il fiore e presentollo alla signorina, la quale facendo atto come di ricusarlo, percosso con la mano il calice di quello, ne uscì e cadde in terra una piccola carta ripiegata.
—È destino! è destino! esclamò la fanciulla, anche un anno fa…. anche un anno fa!!!—
E dalla ritrosìa passando a senso diverso, prese il fiore dalla cameriera, adornossene il seno, mentre, leggermente curvandosi, raccolto il caduto involto, vi lesse vergato da mano a lei ignota:
Nel virginal tuo petto
Serba il filiale amor,
Ma non spregiar l'affetto
Di lui che per te muor.
La patria adoro anch'io,
La coprirò di allôr:
Chi sa che all'amor mio
Non pieghisi il tuo cor?
—Ahimè! riprese Rosina, ecco il metro della mia favorita romanza.
Destino! destino! tu mi perseguiti.
—Incominciano a circolare le carrozze, si popola già la casa, volete discendere, padroncina? o desiderate che io mi ritiri? disse Mary.
Ma Rosina, collo sguardo fisso sui versi testè ricevuti, non dava segno di udirla; ella era immersa in una folla di riflessioni e di reminiscenze. Onde Mary mormorò fra sè: Eh! feci pur bene a non rimandare il povero. Caspita! dieci zecchini di mancia! L'innamorato dev'essere un gran signore.
—Mary, Mary, proruppe Rosina uscendo da un'estasi, io l'ho veduta; era l'ombra del padre mio, sì, l'ombra del padre mio…. e questo fiore? qual coincidenza! Ah! esso deciderà della mia vita.—
Ed appoggiatasi al braccio dell'ancella, discese nell'appartamento delle danze.
Mary era cameriera intelligente; in materia di cognizioni sulla toeletta, sulla moda, sui teatri, sulle feste da ballo, sugl'innamorati che davano generose mance, non aveva l'eguale. È peraltro vero che ella amava di cuore la padroncina; ma bisognerebbe che le mamme a cui interessano le figlie, ed in specie le mamme signore, fossero un poco più caute nel mettere intorno alle figlie una cameriera. La cameriera è per le donzelle di alto ceto quel che sarebbe per il sultano un favorito. Spesse volte avviene che questi nei dispotici regni orientali comandi più del padrone e regni in effetto sui popoli soggetti. Quanti errori dei sultani del Mogol non furono loro ma dei loro favoriti! Quanti e quanti malanni non hanno elleno commessi agiate donzelle di cui tutta la colpa sta nelle loro cameriere! Ma ahimè! i favoriti e le cameriere sono esseri indispensabili. Ed in fatti un poveruomo che vuol chiedere una grazia, come è possibile che la ottenga senza cattivarsi la benevolenza del favorito? Un giovanotto che vuol far intendere i caldi sentimenti di eterno affetto alla nobile ed agiata sua Dulcinea come sperare di giungervi senza il benefico influsso della donzella di camera? Vivano dunque i signori favoriti e le signore cameriere, ed in ispecie le belle, le quali sono il perno su cui ruota la macchina amorosa della scelta società. Io consacro ai loro meriti questa mezza pagina senza pretendere nè ringraziamenti nè regali.
La signora Maria Guglielmi, madre di Rosina, aveva una fiducia grandissima nella cameriera Mary. Madama Guglielmi era di una cospicua famiglia francese del tempo di Luigi XVI. Restituita da Napoleone al suo primo splendore, se non alle prime fortune, ne erano rimasti due rampolli nel fratello di madama ed in essa, la quale, invaghitasi dell'amabile e prode colonnello Guglielmi non ancor generale, avevalo sposato con poca sodisfazione del giovane conte Brienne, il quale, tuttora tenace dell'antica aristocrazia, sentiva qualche ribrezzo a vedere il sangue degli antichi feudatari mischiarsi a quello di un soldato, foss'egli pure il primo guerriero del mondo. Ma siccome il bellicoso imperatore prediligeva il merito militare, il signor contino dette l'assenso e ne raddolcì l'amarezza al rilevare che il generoso monarca aveva egli stesso elargito nella dote della contessina, senza che i feudi assai debilitati dal lusso del fu vecchio conte ne risentissero detrimento. Caduto il dominio napoleonico, cadde il benessere di coloro che avevano brillato durante quel regime, ed a fatica la Guglielmi potè, mercè l'influenza del fratello, ottenere dal nuovo governo la pensione come vedova del fu generale. L'ebbe per altro, e col prodotto di quella e di alcuni considerevoli beni di sua dote riuscì, se non ricca, almeno assai agiata. Il caldo amore di patria le avrebbe fatto preferire la dimora di Francia, ma d'altronde come sodisfare alla brama di primeggiare? L'adito della corte era chiuso ermeticamente ai partigiani napoleonici. Che fare dunque? Piuttosto che vivere negletta in Francia, pensò esser meglio viver considerata in Toscana, ed a Livorno patria di suo marito, che non avea lasciato parenti, fissò il proprio domicilio. Le sue grazie, poichè tuttor giovane e bella, il suo lusso, le crescenti attrattive della figlia, i divertimenti che dava aveano attirato in sua casa la miglior società livornese, ed in specie la frequentavano coloro che puzzavano un po' di liberali. I personaggi stranieri non mancavano d'intervenirvi nel loro passaggio per la città marittima, ed i suoi connazionali vi si trattenevano piacevolmente, senza punto curarsi delle antiche o moderne idee politiche della signora. La casa era tenuta splendidamente e potea dirsi l'unica montata su quel treno in quella città, non essendo allora colà nessuna di quelle numerose famiglie che adesso danno principeschi trattamenti e festini. L'ottimo abate Grand, uno dei più scelti ingegni del clero francese, vi aveva introdotto gli ecclesiastici più distinti della città, e presso madama Guglielmi si vedevano alla conversazione negozianti, uffiziali, scienziati, giudici, avvocati, medici e notai. Nulla mancava in quel delizioso recinto. La Guglielmi avea affidata l'educazione letteraria di Rosina al brillante Grand, la donnesca a certa madama Germil.
Nella sera del 16 febbraio cadeva un anniversario di famiglia, e questo era celebrato con molta solennità: nel giorno vi era stato pranzo, a cui avean preso parte le più scelte persone della città e i più distinti stranieri. Nella sera doveva aver luogo l'accennata festa di ballo, nella quale, perchè maggiore fosse il brio, era stato permesso l'accesso delle maschere. Fin dal mattino erano stati accaparrati quei mezzi di trasporto detti timonelle, specie di vetture modestissime e che davansi a nolo, composte di una cattivissima cassa di legno con peggiori molle, tirate da un solo cavallo; poichè all'epoca in cui comincia il nostro racconto non si vedevano formicolare nella città di Livorno quelle superbe ed eleganti carrozze di svariatissima forma, con cocchiere e servitore in livrea, le quali in oggi talmente sono frequenti per le pubbliche vie da essere stato necessario il fabbricare i marciapiedi alle strade onde tutelare la sicurezza dei cittadini. In allora Livorno, che aveva molta ricchezza senza punto nobiltà, era proprio meschina città di provincia con tutti i costumi provinciali, in cui mercanti ricchissimi, nella loro opulenza, non si vergognavano di andare a piedi portandosi nella domenica dal pizzicagnolo a provvedere per il modesto dessert del pranzo le sottili fette di presciutto, di mortadella, di lingua salata, le quali riponevano involte in carta sottile in quelle medesime tasche nelle quali stavano di frequente splendide doppie di Spagna e lucidissimi rusponi gigliati: mercanti che nei dì destinati agli affari sedevano ai loro banchi a guisa dei moderni commessi, non sognando i fallimenti e gemendo nel vedere la tendenza del movimento progressista che avrebbe, come pur troppo è avvenuto, fatte passare le ricchezze in mano dei forastieri e degli ebrei, e terminato col creare una città nuova e di lusso sulle reliquie della vecchia, e fatto sostituire agli opachi lampioni da olio i moltiplici beccucci del gaz, pullulare i teatri, i luoghi di ameno passeggio, i casini, i ridotti, ecc., piangendo quei buoni tempi di vera dovizia e commerciale onestà che andavano a senso loro a spirare esclamando: «Oh poveri Livornesi! vanità! tutto vanità! Debiti sopra debiti; lusso sopra lusso; negozianti diventati garzoni di bottega, boria molta e quattrini niente!»
Come io diceva di sopra, in occasione della splendida festa di madama Guglielmi, le timonelle erano state fissate fin dal mattino: ed avvegnachè il loro numero fosse ristretto, ogni vetturino si era assunto l'onore di trasportare al festino più d'una famiglia.
Le modiste da oltre una settimana lavoravano a furia, i sarti si affaticavano volentieri inquantochè a quell'epoca erano sicuri di esser pagati dagli avventori non con parole, come sento dire che avvenga oggi, ma con buoni francesconi.
I caffè ed in specie quello Del Greco preparavano i sorbetti, le limonate, i punch, l'acque d'anici, di finocchio e di cedro. Il famoso Bocca di gloria nella sua botteguccia posta ai quattro canti allestiva i cialdoni. Le fanciulle si abbigliavano, le mamme strepitavano nel mettersi le scarpe piuttosto strette ai piedi sessagenari e gonfi per i geloni. I giovinotti si risciacquavano la bocca per togliere l'odore del sigaro, si profumavano i capelli e si radevano la barba laddove oggi son cresciuti gli eleganti baffi. Chi non avea servitore, nè poteva averlo, non si restava da farla da cameriere a sè stesso, preparandosi per la danza, tranquillamente lustrandosi gli scarpini, spazzolandosi i calzoni e la giubba con quella stessa mano che, calzato il guanto color canario di pelle venuto da Napoli, avrebbe poche ore dopo guidato qualche scelta damigella alla contradanza francese.
E qui sappiate, lettori carissimi, che ho detto scelta, e non nobile damigella, inquantochè, siccome vi avvertiva, a quell'epoca non vi era nobiltà livornese, non essendosi voluto per anco cambiare i sacchetti di zecchini d'oro coi segni blasonici.
Il più alto ceto era quello dei ricchi e dei mercanti, i quali nella loro semplicità stavano almeno tranquilli che il sonno che avrebbero preso nel giorno dopo d'una festa da ballo non sarebbe stato interrotto dall'arrivo nelle loro case di quell'uomo poco simpatico chiamato il Cursore, latore di quei fogliettini altrettanto antipatici chiamati volgarmente Precetti, coserelle non fuori d'uso oggidì.
Ma intanto l'ora del festino è sonata, i suonatori si trovano al loro posto. Le carrozze ruotano per la via Ferdinanda. Si sentono lo scoppiettío delle fruste e le bestemmie dei vetturini impazienti ed il fruscío delle scarpe di coloro che, non avendo vettura, si recano alla danza a piedi. Gl'istrumenti dell'orchestra si accordano, e la bella Rosina insieme colla madre trovasi a far gli onori del convito, ricevendo le invitate e gl'invitati.
Festa da ballo in maschera.
Gli appartamenti della signora Guglielmi sfolgoravano per cento accesi doppieri. Le sale erano magnificamente addobbate; tappeti di soprafino lavoro inglese screziati a mille colori cuoprivano morbidissimi il pavimento; le suppellettili di squisito gusto dimostravano tutto il lusso e la galanteria di una dama francese. Numerosi tavolini da giuoco erano apparecchiati per i militari invalidi, per coloro che amavano più la fortuna che il ballo; in una parola, vi era laggiù tutto il comodo di rovinarsi nella salute e nella borsa. Così vanno le cose quaggiù e così sono andate di secolo in secolo e così andranno fino alla fine del mondo.
Le danze erano cominciate da qualche tempo, e noi, sorpassando alcuni salotti di danzanti, ci arresteremo un momento in una stanza parata di damasco celeste, dove, vicino ad un caminetto sul quale ardono legna odorose, sta un tavolino attorno a cui giuocano la signora Guglielmi, un uffiziale, un finanziere ed una mascherina elegante in dominò bianco sul cui cappuccio vedesi accuratamente cucita una camelia rossa uguale a quella che mirammo nel gabinetto privato di Rosina. Si giuoca di grosso, poichè è carnevale; lasciamoli fare.
—Ventuno a quadri, disse con garbatezza madama Guglielmi guardando senza tirarli a sè i sedici zecchini della partita; sarebbe forse la mia posta?
—Con perdono, madama, esclamò il finanziere; mi duole veramente, ma avendo or or succhiellato l'ultima carta, metto in tavola trentuno a picche.
—Mi rallegro con voi, replicò madama Guglielmi deponendo le sue carte sul tavolo; ho troppa fretta e spesso mi trovo delusa nelle mie speranze: ma adagio, signor finanziere, vi esorto a non cantar vittoria; imperocchè vedo quella mascherina la quale sotto la visiera forse forse riderà di noi, e sta per succhiellare la quarta carta. Aspettiamo la di lei decisione.
—È giusto, disse il signor uffiziale; io non ho punti da mostrare.—
E tutti e tre stavano a guardare il quarto giuocatore, che con tutto il sangue freddo possibile succhiellava la sua ultima carta. Estratta che l'ebbe, senza dir parola schierò sul tappeto le sue carte, mostrando col dito che davano per punto quarantanove a fiori.
—Ah! disse l'uffiziale, il 21 è stato eclissato dal 31, e questo dal 49.—
La mascherina non potè trattenere uno scroscio di risa mentre ritirò il denaro.
Il signor uffiziale prese ciò in mala parte e, dopo alcune partite, essendosi sciolto il giuoco, mentre stavasi per passare alla sala da ballo, fattosi presso a colei dal dominò bianco, gli susurrò all'orecchio:
—Mascherina, ho bisogno di dirvi una parola in quattr'occhi.
—Dove e quando volete, riprese il dominò bianco senza esitazione.
—Subito e nella sala del buffet, se vi piace.
—Volentierissimo.—
Ed entrambi si avviarono al luogo indicato. Giunti peraltro che furono in fondo ad un corridoio solitario, ove appena arrivavano i suoni dell'orchestra, la maschera riprese la parola e, soffermatasi,
—Signor Alfredo, disse, ciò che volete dirmi, potete dirmelo qui.—
Nella voce della mascherina vi era un certo non so che di alterato e di sardonico che non sfuggì al giovine, il quale sollecitamente:
—Alfredo diceste; mi conoscete voi?
—Temete forse di esser conosciuto? rispose la maschera ridendo.
—Io temere? Deggio forse arrossir del mio nome?
—Non credo, ma di qualche fatterello potrebbe pur darsi.
—È questo il secondo insulto che ricevo da voi; il primo per aver riso alle mie parole nel giuoco, l'altro investe la mia condotta e….
—Ci s'intende, avete diritto ad una sodisfazione; or bene, ed io son pronto a darvela: mi spetta la scelta delle armi.
—Sono indifferente.
—Prima per altro conviene che mi domandiate conto dell'esser mio; non potrei essere un plebeo indegno di misurarsi con un nobile paladino?
—Il vostro linguaggio, sebbene ironico, nol dimostra; ma in questo caso potrei far adoprare il bastone da' miei servitori.
—Semprechè io, con vostra buona grazia, avessi la volontà di farmi accarezzare le spalle da gente che puzza di cucina.
—Termine agli scherzi. Ditemi qual è l'arma che sceglierete e prima di tutto l'esser vostro.
—Adagio, adagio, signor mio: quanto all'arma, io sono nemico del sangue; compatitemi, non sono ufficiale: quanto all'arma, siccome è una cosa tutta mia, scelgo i dadi.
—Come i dadi?
—I dadi ed un bicchier di veleno; la cosa è comodissima. Voi vedete, signor uffiziale, che non vi è bisogno di padrini, non si fa chiasso: questa sera stessa, in mezzo ad una festa, ritirati in un salotto appartato, noi ci mettiamo tranquillamente a sedere su di un sofà; si ordina un punch e da me o da voi vi si versa una dose di veleno; nessuno se ne avvede, oh! al certo nessuno bada ai segreti che possono avere un uffiziale e una mascherina. Da uno dei tavolini prendiamo i dadi, ne gittiamo la sorte, chi perde ingola il punch, si asside sul sofà ed attende tranquillo, come fece Socrate, di passare all'altro mondo. Chi vince si allontana cantarellando un'arietta di Rossini e si reca alla sala delle danze.—
Il militare guardava stupefatto la mascherina; e con voce di meraviglia:
—Voi scherzate.
—Non scherzo mai, replicò questa ed alla voce soave che aveva usata fino a quel momento fe' succedere un accento grave e severo. Non scherzo, no, mai non ho scherzato al mondo, e molto meno lo farei con voi; ma se mai credeste in me viltà, mirate (e in così dire trasse dal dominò due pistole). Voi vedete, aggiunse riprendendo la solita vocina flebile, che io potrei fare uso delle armi da fuoco, potrei, rimettendo l'affar del duello a domani, eludere la vostra vigilanza, i vostri desiderii; ma no, le cose vanno fatte subito, o non mai.—
Alfredo non sapeva che dire, tanto il linguaggio della maschera lo sorprendeva altamente.
—Giovane capitano, la maschera continuò, ora che conoscete con qual'arme io intenda di battermi, sul che non mi potete contradire, è giusto che io vi dica il mio nome.—
Qualunque idea di straordinaria visione cessò in Alfredo alla curiosità di conoscere finalmente il suo bizzarro antagonista.
—Ebbene? proseguì.
—Ebbene, disse la maschera, sono pronto a sodisfarvi; ma prima permettetemi ancora due parole. Giovine ardente, continuò, ed è così che tu vai violando i giuramenti più sacri? Quella vita che tu hai consecrato al più santo scopo tu la cimenti per una risata da tutt'altro prodotta che dalla volontà di offenderti? cimenti la tua vita per voler sodisfazione da un incognito il quale ti parla di alcune tue debolezze forse chimeriche? È così che….
—Mascherina, interruppe il giovane impaziente e tutto caldo di sdegno, tu perdi un tempo prezioso.
—No, signor maestro, questo tempo non è prezioso perchè è tempo di danza; e tanto val consumarlo facendo sgambetti, quanto ciarlando, siccome facciamo noi; altra volta l'ho perduto con te un tempo prezioso.
—Con me?
—Sì, con te. Dimmi: se il veleno tocca a te?… Perchè, vedi, non ho bisogno di ricorrere allo speziale; questa è una boccetta (e trasse un astuccetto dalle vesti), questa è una boccetta che ne contiene tal dose da avvelenare non solo te ma quanti sono alla danza.—
Alfredo retrocedè come atterrito; fino a quel momento egli aveva creduto che il suo antagonista fosse uno di quei belli spiriti che s'introducono nelle danze e nelle società per motteggiare, e sperava che avrebbe terminato per chiedergli scusa e nulla più; ma il contegno della maschera diveniva sempre più freddamente minaccioso.
—Gran Dio! esclamò il giovine, chi siete voi che tranquillamente intervenite ad un festino, danzate e vi assidete al tavolino da giuoco con armi da fuoco ed il veleno in tasca?
—Io? lo saprai, proruppe in tono di confidenza e di sdegno il dominò bianco; lo saprai quando avrai risposto ad una sola interrogazione che sono per farti. Alfredo, la mezzanotte di domani radunerà tutti gli amici nelle catacombe di San Iacopo…. Tu sai di quali argomenti sarà trattato, e quanto interessi nei supremi momenti che ogni generoso amante della patria si trovi al notturno convegno.
—Che ascolto! E come sai tu tal segreto?
—Per me non vi hanno segreti ove il bene della patria lo richieda. Tu vedi in me un nemico generoso il quale non avrebbe duopo del duello per perderti, denunziando i tuoi obblighi, i tuoi progetti, le tue trame, i tuoi abboccamenti; ma no, la sfida è corsa, uno solo di noi andrà alla misteriosa adunanza.
—Ah! no, o maschera, o nume, o demonio, cessa deh! cessa, disse Alfredo; io rinunzio alla sfida, ad ogni progetto di vendetta, di particolare sodisfazione; sacro è il dovere di figlio della patria. Ben tu dicevi, la mia vita è venduta. Essa la comprò, ceda il mio orgoglio di fronte a tanto dovere: ti prego a scusarmi, o mascherina.
—Scusarti? Ci sarebbe forse un poco di viltà?—
A tali parole Alfredo sentì montarsi il sangue al viso per eccesso di collera e,
—Viltà? replicò, mal ti apponi; lo saprai, o ardito incognito, quando la sorte della patria sarà decisa. Io ho un conto di morte da saldar teco: se hai onore, palésati onde io possa sodisfarlo.—
La mascherina, cacciandosi addietro il cappuccio del dominò, lasciò cadersi sulle spalle la più bella treccia bionda.
L'uffiziale trasalì; ma più crebbe la sua maraviglia quando il personaggio incognito, toltasi la visiera, lasciò contemplare uno dei più angelici volti dell'universo.
—Esmeralda! gridò Alfredo, mia Esmeralda!
—Taci, taci, amabile pazzarello, riprese la maschera rannodandosi la treccia e riponendosi in fretta la visiera; vien gente, non voglio esser conosciuta. Conducimi alla sala del ballo.—
E gli porse la mano.
Alfredo, coprendola di mille baci, si accompagnò coll'adorato avversario avviandosi alla sala delle danze.
In cima al corridoio incontrarono una folla di maschere tutte in dominò bianco sul quale era trapunta una camelia rossa; costoro si misero in cerchio intorno alla coppia canterellando un'aria plateale in guisa da impedirle di dirigersi verso il ballo, e dopo due o tre giri si misero a gridare:
—Sei de' nostri? sei dei nostri? su su, un balletto.—
Ed a vicenda afferrata Esmeralda, la fecero danzare.
Alfredo, impaziente, attendeva che lasciassero libera la giovinetta, e fissamente teneva dietro ad ogni suo movimento, temendo di confonderla colle mascherine sopraggiunte, ma erano esse tanto simili fra loro che nell'intreccio non gli fu più possibile di ravvisare quale di esse fosse la sua Esmeralda. Questa però, che avrebbe potuto staccarsi dalle compagne e ritornare al braccio dell'amante, bizzarra e capricciosa, volle aumentarne il malumore e, spiccando un salto in mezzo al gruppo coi dominò compagni, precipitò nella sala da ballo, ove a forza di strepiti carnevaleschi produssero uno di quei piacevoli disordini che sogliono animare il brio in tali circostanze.
Ma, durante la festa che già incominciava a declinare, noi abbiamo perduto da qualche tempo Rosina; non ci dispiaccia perciò di farci innanzi tra la folla a ritrovarla. Prima per altro non sarà male passare in rivista alcune signore e signori che incontreremo nelle sale che andiamo a percorrere prima d'imbatterci nella vezzosa fanciulla.
Nella sala del thè una fila di sedie coperte di damasco a spalliera dorata accoglie una dozzina di vecchie mamme e zie, le quali stanno a mirare i danzatori e le ballerine, cianciando fra loro di cuffie e di mode, di pettegolezzi amorosi e di piccoli scandali; ma coteste quinquagenarie declamatrici contro un lusso che non potevano più fare, contro l'amore cui avevano dovuto dire addio, contro la bellezza per esse passata, lasceremo in cura ai servitori in livrea che, di quando in quando passando innanzi al venerabil consesso coi vassoi pieni di biscottini e confetti, sapranno empire quelle bocche d'inferno, le quali almeno per qualche tempo cesseranno di qualificare le amabili zitelle per pettegole e scimunite, ed i bei giovani per sguaiati e monelli.
Nella sala da bigliardo e della bambara noi osserveremo quei visi di signori nei quali, invece dell'allegria, vediamo dipinti il burbero ed il cagnesco. Costoro, ognun se l'imagina, sono giuocatori sfortunati, mariti gelosi, amanti non corrisposti.
Prima peraltro di passare oltre fa duopo arrestarci una diecina di minuti in un salotto di transito e precisamente presso una portiera che copre colle cortine il vano di una finestra entro il quale due persone stanno chiacchierando; sicchè potrem sentire quanto appresso.
—Oh quanto è amabile quella fanciulla! si dice anche sia molta ricca.
—Ne so più di te; si chiama Rosina.
—Ma che? sarebbe ella forse della nostra congiura?
—Sì certo: Oh! non lo sai, disse Topo, cosa ci ha detto il nostro capitano ieri notte all'osteria dei Tre Mori?
—Come posso saperlo? all'osteria non ci venni, lo sai bene; ero di guardia in fortezza vecchia, smontai alle undici di fazione per dormir sul pancaccio.
—E per conseguenza disponesti alla paura il militare che doveva succederti in sentinella, onde esplodesse sul caprone maraviglioso.
—Certo che sì; e conoscendo quanto fosse babbeo il mio camerata, gli feci una paura tale che, veduto il supposto mostro, rimase come di pietra, e adesso è allo spedale di Sant'Antonio.
—Ottimo luogo per gli scimuniti suoi pari.
—Eppure Marco non è un giovine da disprezzarsi; io spero che un giorno sarà della nostra.
—Belzebù ti liberi dal farne nemmeno la proposta; caro amico, i contadini per le faccende della nostra congrega vanno tenuti alla larga, ci vuol il coraggio che abbiamo noi.
—Ma…. non mi dicevi che la signorina è dei nostri? più debole di una fanciulla nobile, educata, di sedici anni non saprei.
—Tu nei sai poco; costei è nostra, nostra affatto…. figúrati è la sposa del nostro capo.
—Del Caprone?
—Del Caprone appunto; come la sorella del Caprone, la cara Esmeralda, sarà, cioè lo è di già, la innamorata del capitano Alfredo fratello di Rosina.
—Topo mio, tu mi fai stupire!
—Sei un balordo; ed io voglio istruirti. Nella nostra setta hanno da entrare tutti coloro che o direttamente o indirettamente possono giovare allo scopo. Quindi il nostro degno capo, il quale si rende visibile ed invisibile, che con maravigliosa celerità si trasferisce da un luogo ad un altro, raccoglie tutto il migliore; cosicchè dai poveri facchini quali siam noi, dai ladri, dalle donne di mondo, dai marinari, dai barcaiuoli si sale ai soldati, agli ufficiali, alle damine, agli ottimati e….
—Ma dimmi un poco, proseguì il compagno, perchè il Caprone ci volle tutti quanti alla festa?
—L'avrà fatto per darci un'idea di questo mondo di signoria che prima non conoscevamo; per la bizzarra sodisfazione di vedere col benefizio della maschera mescolati insieme i ladri ed i galantuomini, i poveri e i ricchi, le dame e le pedine: e poi…. a lui sta a comandare, a noi spetta l'obbedire; nè ci è lecito dimandare la ragione degli ordini. D'altronde il nostro intervento qua è puramente pacifico: noi siamo disarmati.
—È vero, disse l'altro, io non ho che un coltellaccio a cricco.
—Ed io un corto stile a triangolo.
—Ma il Caprone è venuto alla festa?
—Non l'ho veduto: ma vi sarà di certo. Indovinala tu qual razza d'abito si sarà messo.
—Sicuro non avrà lasciato che la sua bella danzi con altri; avrai pure osservato che la Rosina tiene in petto la camelia rossa. Sì, te lo ripeto, essa è nostra, proprio nostra in anima e in corpo. Non vedi tu che quanti siamo in maschera abbiamo tutti lo stesso segnale? Il solo capo è forse quello che ne manca.—
Una delle maschere che così discorreva dietro la portiera l'aperse leggermente e, sporto fuori il capo, fece cenno all'altra che pur si affacciasse fra le tendine, dicendole all'orecchio:
—Che ardire! che bravura! che uomo maraviglioso! Vedi tu quel gentiluomo con due decorazioni sull'abito e cotanto splendidamente abbigliato, il quale ha sì bei mustacchi neri sotto il naso e quei bei capelli di colore morato, che è tutto grazie ed incanto?
—Lo vedo, rispose l'altro; dà il braccio alla amabile Rosina.
—Or bene: non hai tu riconosciuto il Caprone?
—Bah! il Caprone lui? il Caprone è biondo, costui è nero; il Caprone è senza barba, e costui l'ha folta.
—Stolto! riprese Topo, ti assicuro che colui è il Caprone come tu sei l'Arciero ed io son Topo; ma compatisco la tua incredulità. Egli ha cento mezzi di travisarsi, e gli riesce così bene che lo credo qualche volta lo stesso diavolo in persona. Anche esso ha la camelia; ecco il fiore della setta: viva essa in eterno!
—Che la duri così, mio caro Topo.
—Ti compiango se dubiti; sei troppo ragazzo: ma sappi che la nostra congrega abbraccia mezzo mondo, e tu vedrai che al fin dei conti il mondo muterà faccia per opera nostra. Intanto godiamo il buon tempo e i bei zecchini; e se non fossimo intimamente legati a colui, all'uomo misterioso, tu saresti a far la guardia, ed io a cucire le balle e rubare i baccalari. Ma andiamo a bere un paio di punch, chè il discorrere mette sete.—
Ed ambedue, usciti di sotto la portiera, si diressero alla stanza del buffet inseguiti da Alfredo, il quale ogni volta che s'imbatteva in un dominò bianco, credeva di rinvenire la sua cara Esmeralda.
Esmeralda per altro, dopo il rabbuffo fatto all'amante, del quale era gelosissima e tenera, aveva abbandonato le sale per rientrarvi in altre vesti, onde, per giovanil capriccio del suo sesso, stare sconosciuta ai fianchi di Alfredo, di cui temeva qualche imprudenza o leggiera infedeltà fra tante donzelle e donne amabilissime. Esmeralda, in nuova foggia abbigliata, stavasi travestita da maga egiziana; ed imbattutasi in Alfredo, con voce alterata e gutturale,
—Giovinotto, gli disse, vengo dal paese delle cabale, delle piramidi, ed ho buoni numeri da dare agli amatori del giuoco del lotto: 21. 31. 49.—
A Livorno il parlare di numeri e di cabale è tema favorito; sono sì buoni i Livornesi che credono ai sogni: perciò la finta maga si attirò la simpatia dei circostanti; e più di un giovane elegante, tirato fuori il taccuino, vi segnò col lapis i tre numeri bizzarramente dati, con animo di giuocarli davvero e ristorare le abbattute fortune.
Alfredo si morse le labbra per dispetto sentendo ripetute da quella maschera le parole da lui poco innanzi proferite al giuoco della primiera e per le quali aveva altercato con Esmeralda. La maga per altro seguitò a rallegrare la comitiva e, preso un piccolo portavoce d'argento,
—Io leggo nel destino, gridò ridendo di sè stessa nel farla da sibilla: questi tre numeri additano tre grandi epoche nelle quali si tenteranno grandi cose e si rinnoverà la faccia della terra: Renovabitur facies terræ.
—Sa anche di latino la maga, urlarono i circostanti.
—Anche d'ebraico, d'arabo, di turco, d'indiano e di cinese, se così vi piace. Ma lasciatemi; devo predire la sorte ad una vaga fanciulla. Indietro adunque, o profani, o che io con questa bacchetta vi cangio tutti in vipere, rospi, cani, gatti e in qualche cosa di peggio.—
La folla rise, e alcune altre maschere si misero a noiarla. Ella però le respinse facendo uso di una verghetta di ferro, la quale se non aveva il potere di cangiare gli uomini in bestie, aveva quella di far loro delle lividure ed era capacissima di tenere indietro gl'indiscreti.
Il brio cresceva, sebbene la festa volgesse al suo fine. Lungi dal romore delle ultime danze più fragorose e vivaci, lungi dalla folla delle maschere che dai salotti del ballo passavano a quelli dei giuochi e del buffet, in un salotto rischiarato da una pallida lampada con opaco cristallo, guarnito di damasco celeste e che aveva all'intorno un divano color di rosa pallido, e sulle cui consoles ardevano in candelabri d'argento candele aromatiche spandenti una luce gradita, una fanciulla stava in atto mesto assisa sul molle sofà; ed un giovine nel vigor dell'età elegantissimamente abbigliato, sul cui petto brillavano due decorazioni e si vedeva una camelia rossa, piegato un ginocchio innanzi alla fanciulla,
—O mia adorata fanciulla, le diceva, dovrò io dunque invano sperare da voi uno sguardo di compassione?
—Signore, parlatene a mia madre.
—Non posso, Rosina, non posso; un terribile arcano m'impedisce ora di palesarmi a lei ed a voi; il mio nome è un mistero: io ne ho tanti, ma non ne ho un solo da darmi di fronte a voi ed alla madre vostra. Ma io vi amo, è un anno che vi amo, e voi lo sapete; non sono indegno di voi: non vi basta?
—Signore!!
—Avrei io osato invocare l'ombra del padre vostro per farmi strada al vostro cuore e non avrei temuto che l'ira del cielo su me piombasse a punirmi ove osassi mentire?
—Il mio cuore non può sentire altro affetto che per l'ombra del genitore, per l'eroe della sua patria.
—Ah! Rosina….., interruppe l'amante, io vi giuro che più di lui l'amo e farò tutto per lei.
—Dimostratelo ed alzatevi; potrò allora amarvi, gli disse la fanciulla.
—Ho vinto, esclamò il giovane entusiasta, ho vinto. Ciò sarà; giurate di essermi fedele e di unirvi a me quando questa vostra patria sarà felice o che avrò esaurito tutti i mezzi per farla tale.
—Giovane che io non posso definire, il vostro ascendente mi opprime l'anima. Lasciatemi; la ragione mi dice di fuggirvi, il cuore non lo può: giurate voi di mantenere le vostre promesse. Dio, patria, padre e voi amerò in eterno.
—Lo giuro, o Rosina, lo giuro. Oh! se sapeste a qual altare più terribile l'ho io giurato oltre a quello del vostro amore, forse inorridireste.
—Gran Dio!
—Sì, Rosina, io l'ho giurato sull'altare della morte.—
La fanciulla, lasciate le mani dell'amante, si pose le sue alla fronte.
—Rosina, riprese l'incognito, Rosina, il vostro giuro mi sta sull'anima; io lo accetto, voi accettate il mio. Io mi allontano, ma voi mi rivedrete e ben presto.
—Signore!… replicò vivamente l'altra.
—Quando la vegnente notte sarà al suo colmo, soggiunse il giovine, se amate la patria, uscite dalle verginali vostre stanze e penetrate in quelle del fratel vostro.
—E perchè mai?
—Perchè sarà sonata l'ora in cui apprenderete il mio nome e tutto il nostro avvenire. Nella camera di vostro fratello troverete abito virile e di foggia militare; voi lo indosserete e seguiterete lui ciecamente fino alle catacombe.
—Ma egli?… gran Dio!
—Lo sa!
—Dimani? Per l'alta notte? alle catacombe? che mi chiedete mai?
—Io ve lo chieggo in nome di questo, ripetè il cavaliere, presentandole un medaglione che trasse dal petto. Era il ritratto del generale Guglielmi. Rosina la baciò fervidamente, ed il cavaliere si allontanò.
Fratello e sorella.
La dimane della festa la maggior parte di coloro che vi figurarono dormiva tranquillamente; e poichè aveva fatto di notte giorno, era naturale che facesse di giorno notte. Fra i dormienti era la signora Guglielmi; ma non così riposavano i due figli di lei.
Rosina, dopo le parole ricevute dall'amante, che, misteriosamente continuando nell'incognito, voleva non solo amore ma obbedienza dalla fanciulla, si era ritirata dalla sala della festa con dichiarare un incomodo prima che quella fosse giunta al suo termine.
Rientrata nelle sue stanze e rinchiusasi nel suo segreto gabinetto, posò sul tavolino la camelia rossa; ed abbandonatasi sopra una larga sedia a bracciuoli, incominciò a riandare con somma cura tutte le frasi, le parole, i gesti pur anco del colloquio avuto col suo amatore, colloquio di cui noi intendemmo una parte nel passato capitolo. Ella capiva benissimo dover argomentare che il giovane appassionato altro esser non doveva che un fanatico avventuriero, ma non capiva il perchè una forza prepotente legasse ai costui voleri lei, donzella tutta calma, tutta dolcezza! Dagli ultimi discorsi dell'incognito non poteva porsi in dubbio avere egli in mira un qualche passo audace, fatale e tremendo. Ora egli, non contento dell'amore di una fanciulla da lui adorata, voleva farla partecipe de' suoi fini: ma questo non era un chiamarla complice dell'atto pericoloso e forse temerario? Un convegno di notte in luogo remoto cui ella era invitata a comparire in abito mentito e guerresco ben le diceva di qual genere di abboccamento si trattasse; e, certo, abboccamento di amore esser non poteva quello, imperocchè il fratello di lei doveva pur prendervi parte. Ma i legami misteriosi che chiaramente appariva avere l'incognito col fratello di lei come s'eran formati? di quale specie erano essi? Dunque anche Alfredo dipendeva ciecamente dal volere di quell'uomo straordinario? fratello e sorella si trovavano come incatenati alla ferrea di lui volontà: e fratello e sorella fra loro non si erano detta una sola parola in proposito!
Rosina mesceva a queste riflessioni qualche lacrima che involontaria le cadeva dal ciglio: le parea di essere assolutamente come rinchiusa in un cerchio incantato di un negromante dal quale non poteva uscire. Ripensò al primo momento in cui nel più remoto del passeggio, sulla riva del mare, in compagnia della fida Mary, ella (terminava appunto l'anno) aveva per la prima volta veduto quell'uomo straordinario lanciarsi arditamente nei flutti in burrasca e salvare una misera fanciulla cadutavi: onde ella pure, accorsa sul luogo, aveva prestato qualche soccorso alla giovane uscita miracolosamente dalle acque, e così si era formato un gruppo fra lei, la cameriera, la fanciulletta e quell'uomo misterioso. Ricordava quali affettuose parole quell'uomo le avesse rispettosamente dette, e quali fatidiche e strane espressioni avesse usato nel pregarla di accettare un fiore (cioè una camelia rossa), dicendole che, come essa fosse appassita, ne avrebbe rinnovato il dono. Al che la stessa Rosina avendo replicato non potere accettare, egli risposto avevale: «Signorina, io non vi sono straniero quanto forse credete; il mio dono è innocente e l'offro all'innocenza; esso sarà non una memoria di me, ma una memoria del salvamento di questa ragazzetta, la quale affido alla vostra protezione.» Che ella allora aveva preso il fiore e, veduto partire lo straniero (che nell'allontanarsi le disse: «Signora Rosina, ci sono degli esseri che, una volta incontratisi in questo mondo, non possono più vivere estranei fra loro», si era sentita come scorrere un gelo nelle vene e penetrare di un sentimento fin a quel tempo non mai sentito.
Ricordava come spesso la fanciulletta salvata, che, essendo della plebe, veniva da lei a ricevere qualche beneficenza, le parlava del suo salvatore con tenero sentimento di gratitudine, e che a tali elogi essa, Rosina, provava una sodisfazione interna come se riguardanti una persona a lei cara ed appartenente, mentre peraltro trattava sè stessa da bambina nel dar peso ad un incontro galante e nulla più ed alle bizzarre parole di uno sconosciuto, il quale probabilmente non pensava più a lei. È vero che la camelia prima era appassita da gran tempo, ed il giovane straniero non aveva rinnovato il dono o il ricordo; ma essa aveva poi veduto avverarsi le fatte promesse, poichè, la sera in cui cadeva l'anniversario del loro primo colloquio, appunto un'altra camelia rossa era stata posta nell'appartamento, e in quella sera aveva riveduto colui il quale si era, dirò, con magico portento impadronito del suo cuore e della sua volontà. Tali erano le ricordanze di Rosina: ed ella vi pensava e ripensava da un pezzo, non potendo peraltro spiegare fra gli altri misteri il come ei possedesse una miniatura del padre.
Rosina, meditando, non sapeva a quale partito appigliarsi: aveva ella accettato l'invito misterioso per la vegnente notte? No; poichè non aveva risposto, ed il suo stesso amante si era allontanato. Doveva ella mancarvi? questo era uno spinoso quesito da sciogliersi. Se essa andava, avrebbe finalmente saputo almeno il nome, la condizione, i disegni di quell'ente portentoso e stravagante, e forse appreso il mistero della sua gita, degli stessi suoi travestimenti, poichè certamente la prima volta in cui lo aveva veduto non aveva che biondi capelli e viso pallido ed imberbe, la seconda aveva la chioma e la barba nera. Non andando ella al convegno, ci sarebbe andato certamente il fratello; ed essa, tenera sorella, come avrebbe potuto starsene quieta sull'esito di quel misterioso e strano abboccamento?
Rosina non ignorava che a quell'epoca la penisola aveva molte sette di giovani arditi che intenti a cospirare passavano i giorni; la sua saviezza ed una perspicacia eccellente le dicevano pur troppo doversi trattare di cosa simile, ragione di più per temere. In tali pensieri ella aveva trascorso buon tempo e non sapeva a qual partito appigliarsi. Parlarne alla madre? Buon Dio! è vero che le figlie tutto dovrebbero dire alle madri, alle madri però affettuose, alle vere madri di famiglia; ma a quelle madri che stanno in sussiego, che di tutto si occupano fuori che della vigilanza sulle figlie, le madri galanti in età matura, se le figlie non si azzardano, non saprei del tutto condannarle. Dirlo alla cameriera? A qual pro? la cameriera, secondo il solito, non ha altra volontà che quella della padroncina; e se mai differisce dall'opinione, dove sono le cameriere tanto coraggiose da dire la verità? Dunque era certa che la Mary non le avrebbe dato consiglio, o forse glielo avrebbe dato più pericoloso di quello che potesse prendere da sè stessa. Dirlo al fratello? Eh! sicuro che della faccenda della gita notturna e del travestimento avrebbe pur dovuto parlargliene; ma certo però, era da imaginarselo, avrebbe anzi costretto la sorella ad andarsene all'appuntamento.
In una parola, la giovinetta si trovava in una situazione la più imbarazzante, la più critica. Povera Rosina! tanto bella, tanto buona, tanto virtuosa, e già sotto l'influenza di un malefico genio, già immersa nei dispiaceri! Eppure quante e quante fanciulle che leggeranno questo volume avranno a trovarsi o trovate si saranno in eguale imbarazzo, quello cioè di essere innamorate e non poterlo dire ai genitori! Noi poi coll'autorità di scrittore le consigliamo a vincere questa renitenza, poichè migliori amici non possono trovarsi di essi.
Il cielo peraltro (cui nelle sue angosce si raccomandava) non tardò ad inviarle un soccorso: questo fu altrettanto inaspettato quanto caro. Giaceva travagliata la giovane, quando ecco verso le undici del mattino udì bussare leggermente all'uscio del gabinetto. Ella aprì.
—Oh Gesù mio! signorina, esclamò Mary, ma che? non siete anche andata a letto? Siete tuttavia abbigliata da festa?
—Non ne sentiva il bisogno, rispose Rosina, mi sono leggermente addormentata sulla poltrona; ma hai fatto bene, a venire a trovarmi: aiutami a spogliarmi, prenderò qualche ora di sonno fino al pranzo. —E volete stare digiuna fino alle quattro? riprese Mary, lo stomaco ci patisce, signorina; ma a proposito, vi è una ragione per far colazione: a momenti verranno a farla in vostra compagnia.
—Non voglio alcuno nel mio appartamento, soggiunse Rosina; dite a chiunque sia che io dormo.
—Farò come vi aggrada; ma il vecchio padre abate Gonsalvo….
—Il padre abate? sclamò Rosina con vivacità come se un lampo di speranza venisse a consolarla.
—Sì, signora, il savio dei vallombrosani del monastero, che vi ha tenuta a battesimo e, come sapete, vi ama qual figliuola.
—Fallo passare, rispose Rosina; ma poi, risovvenendole dell'abbigliamento da festa di ballo, continuò: No, fallo trattenere un momento nel salotto, ripetigli le mie scuse; in cinque minuti metterò giù queste vesti capricciose per indossare quelle più semplici e a me solite.
—Volete ch'io v'aiuti? disse Mary.
—No, no, replicò Rosina: tieni un momento compagnia al buon monaco e, quando senti sonare il campanello, lo farai entrare.—
Mary si allontanò assentendo col capo, e Rosina si accinse a ricevere il vecchio religioso.
Non molto diversa dalla situazione di Rosina era quella di Alfredo suo fratello. L'ufficiale, terminata la festa, lungi dall'entrare nella propria camera, aveva incessantemente tenuto d'occhio le maschere col domino bianco e la camelia rossa, nella speranza d'imbattersi nuovamente nella capricciosa Esmeralda; ma alfine, avendo veduto allontanarsi a gruppi le maschere stesse ed uscire dalla festa, deposto il pensiero di vedere l'amante prima di sera, si era deciso di uscire piuttosto che serrarsi in camera, nella quale era certo che, a malgrado della veglia della notte, non avrebbe potuto prendere sonno. Avvezzo ai militari disagi, non temeva al certo la rigida stagione di mattina, ed anzi era certo che un bicchiere di rhum ed un eccellente sigaro di Avana gli avrebbero fatto obliare il sonno che andava a perdere.
Preso adunque il mantello, acceso un sigaro, uscì prendendo la via lungo il mare allora detta dei Mulinacci; pensieroso costeggiava i flutti, e l'imagine di Esmeralda incalzavalo incessantemente. Possibile, dicea fra sè, possibile ch'io, giovane e di cuor generoso…, mi sia lasciato sedurre da colei? sì, colei… questo è il miglior modo d'indicare l'incomprensibile persona. La mia amante!.. ma, gran Dio, posso io qualificarla come amante? non mi vergogno io? sì, l'amo e appassionatamente l'amo, ma i suoi costumi…. Ahimè! essa di donna non ha che la bellezza, bellezza angelica ed unica al mondo. Ma poi con chi vive?… ciò mi fa orrore… eppure non posso staccarmi da lei; pure ha una bontà, una virtù… qual può mai essere la virtù della orgogliosa Esmeralda? L'amor patrio, tenace, vero; ma ma quest'amor patrio sarà egli sincero? Non è possibile che miri al secondo fine d'inalzarsi? Ah! no, essa non lo desidera, no; e se il volesse, non starebbe che in lei a divenire la donna più famosa del mondo. La sua voce non è ella tale da formare l'ammirazione dell'Europa? Le sue cognizioni letterarie, quelle di musica, di belle arti non la renderebbero l'idolo dell'universo? Non potrebbe ella circondarsi dei più brillanti corteggi? erigersi un trono su tutti i cuori? Ma no; libera di costumi, ella sdegna il cuore d'un mondo intiero, perchè si contenta del mio, anzi facciamo, da ragazzi, a chi è più geloso. Ma ahimè a qual duro prezzo posseggo io quell'angelica persona! a qual prezzo! Ne abbrividisco: doverla vedere quasi tuttodì nella più abbietta dimora del popolaccio, circondata da femmine perdute, in mezzo alle orgie dei marinai e degli artieri, nelle bische di giuoco, nelle osterie, vestita ora da uomo ora da donna del volgo, sentirla ridere alle sfacciate e stolte parole di coloro presso cui frequenta e applaudire alle loro bestemmie! Ella così perfetta, così amabile giovane! eppure, ecco le sue continue parole. «Alfredo, io non sono di sangue nobile: lasciami coi pari miei; un giorno o l'altro io dovrò dirti: Va, va, Alfredo, con le sentimentali tue damigelle; io posso avere quanti amanti voglio, e vattene con Dio.» Ed io? figlio di un prode guerriero, non posso distaccarmi dal cerchio magico di questa amabile fata!
Ma che? tutto questo è poco. Quel suo incomprensibile fratello cui ho dovuto giurare obbedienza! io soldato giurare obbedienza e cieca obbedienza a colui? Ahimè! l'ho giurato e bisognava giurarlo. Ho ancora presente quella terribil notte in cui, ammaliato dal fascino delle potenti attrattive di Esmeralda, io la seguitai per tutti i più luridi vicoli della Venezia nuova; or compie l'anno da quella notte tremenda. Ella parea prendersi giuoco di me: finalmente ecco che bussa ad una porta orizzontale alla via, urtandovi replicatamente col piede; io mi arresto, ella mi guarda.
«Hai tu paura di me, giovinotto?» mi disse. Io sorrisi e non risposi; la botola si aperse, ma ella trattenendosi anco un istante pria di scendere: «Addio, dunque, addio: non valeva la pena di seguitarmi per lasciarmi così.»
Non permisi che proseguisse, ma con uno slancio di che conservo memoria fui accanto a lei nella tenebrosa scala della botola: scendemmo alla vista di coloro che stavano dirò ammonticchiati nella fetida stanza, dove non si vedeva che a pena a causa del fumo dei sigari e del camino, ove non si respirava perchè niuna finestra metteva in quell'antro. Mio primo pensiero fu di retrocedere; ma ella mi prese pel braccio e «Ho fatto preda», esclamò con gioia infantile, gettando su d'una sedia lo scialletto che le copriva il seno.
«Brava! urlarono insieme coloro che abitavano quella spelonca; uccelli con queste penne mai non vedemmo entrare nella gabbia dei Tre Mori.»
E così dicendo mi si affollarono attorno per toccarmi con villana curiosità l'uniforme. Io fui per snudare la spada, tanto l'ira mi accese.
«Zitti là, temerari, esclamò la fanciulla, il cui viso era raggiante di beltà. Zitti, questo signore è mio sposo.
«Tuo sposo?… Oh graziosa! e da quando in qua ti sei fatta sposa, o
Esmeralda?
«Da un anno, da un secolo, da quando mi pare. Giovane, amante della libertà, io ne seguo le leggi: ho scelto e basta.
«Ha ragione la piccina», urlarono quasi tutti e dall'ammirazione si fecero ad accarezzarmi con le mani ruvide, callose e sporche.
Non potei trattenere lo sdegno: snudai la spada sino alla fine del fodero, ma in quell'istante dieci pugnali scintillarono ai miei occhi; io mi giudicai perduto. Esmeralda trasse il suo, e fu per vibrarlo nel petto di quello dei bevitori che mi stava più vicino.
«Ah! esclamò costui, quando minacci è un'altra cosa. Orsù statti in pace col tuo ganzo; ma lévati di qui, perchè tenerume non ne vogliamo.»
Anche gli altri riposero i loro pugnali nel fodero, ed io mi sentii dolcemente tirare per la veste ed introdurre in una camera; era quella di Esmeralda. Là io doveva divenir preda del fratello e della sorella.
Questo monologo, che noi per intiero abbiamo riferito, venne fatto da Alfredo in lungo spazio di tempo ed interrottamente, ora nel fermarsi lungo la solitaria via per accendere o spuntare i sigari, ora dopo essersi qualche tempo riposato sugli scogli che fiancheggiano il mare.
La mattina, per esser d'inverno, era bellissima; un venticello leggiero leggiero increspava le onde dalla parte di tramontana, il qual vento non toglie loro quella graziosa tinta cerulea nel mare Tirreno. Si vedevano i flutti spumare su piccoli scogli e quella bianca spuma adagio adagio venire a perdersi alla riva. Il cielo era sereno ed il sole già sorto dalle colline della Valle benedetta, posta ad oriente dal luogo ove il nostro Alfredo si sfogava fra sè stesso. Alfine, uscendo dalla dolorosa meditazione, tratto l'orologio,
—Le otto? sclamò. È duopo che io mi decida; questa volta colui che impera a me non otterrà che per metà il suo intento. Sì, io avrò forza di resistere a tutti i suoi argomenti, a tutte le sue minacce. E proferì queste parole con tono piuttosto alto.
—E che farai tu? riprese una voce a lui ben cognita, mentre ei sentì persona che leggiermente lo percosse colla mano sugli omeri, e che farai? ripetè quella voce.
—Voi siete dappertutto, non fa meraviglia, rispose Alfredo rivolgendosi a colui che era sopravenuto; un démone vi guida.
—No, Alfredo…, riprese dolcemente quegli, no, Alfredo; dite piuttosto che mi guida il desiderio di compiere una grande impresa.
—Voi sempre dite così, e l'ora non vien mai.
—Ah! verrà, verrà.
—Lasciatemi, gridò Alfredo, invano mi avete seguito o incontrato; io ho bisogno di essere solo.
—E solo vi lascerò. Prima però desidero conoscere perchè volete negarmi di annuire alle mie giuste dimande.
—Ebbene… tanto varrà che io qui vel dica in faccia del mare e del cielo, soli testimoni i quali ci guardano e ci odono, o che io vel dica nell'orrenda tana della locanda infernale dei Tre Mori.
—Parlate.
—Io verrò alle catacombe, ma verrò solo.
—Solo? urlò il sopraggiunto, solo? e perchè?
—Mia sorella…, ripetè con dignità l'uffiziale, è pura, essa non… può, non deve essere contaminata dalla sozzura di coloro che interverranno a San Iacopo.
—Alfredo!!! La vostra mentre vaneggia, il vostro orgoglio rinasce: tutti gli uomini, tutte le donne sono e saranno eguali; dal primo Adamo e dalla prima Eva tutti siam figli dei medesimi genitori. Voi obliate i vostri giuramenti. Ma no… il fratello di Rosina non può essere un traditore; il vostro contegno, se non credessi al sangue che vi circola nelle vene, potrebbe darmi sospetto. Oh guai per voi se il sospetto allignasse nell'anima mia!
—Già avrete ascoltato che non sono disposto a cedere alle vostre minacce; mia sorella non interverrà.
—Ella interverrà; e quando voi ricusaste il vostro braccio, io ho mezzi infallibili senza di voi.
—E che? Osereste un oltraggio, una violenza?
—Io un oltraggio? io una violenza a Rosina? Mal mi conoscete. Voi sì, signor uffiziale, voi sì che siete e potete esser capace di ciò; non già io povero marinaro, povero cospiratore, ma onesto, ma grande nella sventura. Voi sì che io ritrovava in luogo appartato e già trionfante dell'onore e della debolezza di mia sorella.
—Gran Dio! Che dite mai?
—Sì…, proseguì con accento di amara ironia, i miei amori non sono coronati dal successo dei vostri; io scelgo le taverne per cospirare, voi le scegliete per tradire vergini.
—Ah! quale linguaggio? E non fu la vostra Esmeralda che con modi, non saprei come qualificarli, mi attrasse nelle sue braccia?
—Sciagurato!! tacete: non siete degno di lei; nobile superbo, voi ignorate i costumi della plebe e li qualificate per turpi. Disingannatevi. Esmeralda, giovane ingenua, sventurata, senza direzione, senza scuola di mondo, ama ed amò come una selvaggia nel mezzo ai deserti. Il canto, la musica, il disegno, le scienze che possiede gliele appresi io; io le feci da padre, madre, fratello e maestro: ma io, continuò più vivamente, non volli toglierla alla semplicità de' suoi costumi che a voi sembrano rei; no, io non volli che apprendesse dalla mia bocca come l'amore in società ha la sua grammatica, i suoi modi, la sua logica, la sua finzione, il suo orpello. Ella ne sarebbe stata scandalizzata. No; io quanto a quella passione lasciai che crescesse, divampasse a mo' dei selvaggi. Ella vi vide, vi amò, ve lo espresse; questo è il più grande argomento di suo virginale candore. Voi la chiamate colpa? E non difese colla sua la vostra vita? Ma ahimè! che pur troppo ella ama ed amò un ingrato, allevossi la serpe nel seno. La sua innocenza or vi pare sfrenatezza, il suo costume vergogna; ma intanto ogni delizia è fuggita da quel tenero cuore. Andate: vi ho compreso abbastanza; voi non la rivedrete mai più.
—Dio! quale orrenda minaccia!
—Quando la sorpresi nelle vostre braccia questo pugnale scintillò sulla vostra testa: l'infelice ne deviò il colpo; ad un solo patto io sospesi la ben meritata vostra punizione. Vel rammentate voi?
—Ah! pur troppo: vi promisi cieca obbedienza.
—Io però vi rendo la vostra parola, vi sciolgo dai vostri giuramenti; non temo per me, ma per la infelice. Prima di questa sera Esmeralda e la creatura che porta nel seno avranno cessato di esistere.
—Gran Dio! Ah no! per l'amore di Esmeralda e del suo bambino. Io sarò padre? Oh gioia! esclamò Alfredo gettandosi in ginocchio ai piè del marinaro, non proferite più minaccia sì orribile. Deh! guidatemi a lei, fate che io apprenda il dolce annunzio dalle adorate labbra di Esmeralda.
—Giovane soldato, continuò il marinaro, le tue lacrime promuovono le mie; il volgere in mente impresa lunga e marziale non mi tolse, no, la sensibilità. Accetto il tuo pentimento; vedrai Esmeralda: deh! ch'ella non sappia quali ingiuriosi sospetti osasti formare contro di lei: ella ne morrebbe d'affanno; ella, sì, che avria diritto di maledirti nel momento in cui sarà madre….
—No, giammai; v'intendo: un altare accoglierà….
—Cessa, non è tempo di nozze; questo verrà, ed allora….
—Allora Esmeralda (e Dio acceleri il desiato momento) farà passaggio dall'umiltà dei natali al talamo dell'uomo che fortuna pose in grado elevato.
—Umiltà di natali! riprese il marinaro con sguardo severo. Ah! se pur di nobiltà vuoi parlare, sappi che essa scenderà dal grado ove nacque per passare al tuo talamo.
—Giovanni, qual mistero?
—Quando saprai chi io mi sia… quando saprai chi sia Esmeralda, o giovane superbo, non potrai, no, temprare lo stupore ed il pianto: lunga ed acerba storia di dolore e di grandi esempi sarà questa; grande lezione sulla fallacia, sulla ingiustizia delle umane apparenze. Dopo la rivelazione che udrai, misurerai te stesso ed Esmeralda: sentimi (aggiunse poi dolcemente), un solo essere sublime brillar veggo nel mio avvenire; questo….
—Ah! il comprendo, esclamò Alfredo.
—È Rosina! sì, Rosina; essa mi ama, ma io non sarò come Alfredo; io l'adoro, ed udrà la mia storia e quella dell'amante tua.
—Quando?
—Questa notte medesima.
—Dove?
—Alle catacombe.—
I due strinsersi la destra e si separarono avviandosi per opposto sentiero.
Vicende.
La nostra storia fa un passo retrogrado; ci è duopo ritornare indietro varii anni. In un piccolo villaggio sulla Dora una giovine abbigliata alla campagnola si affatica a trarre sulle deboli spalle un grave fascio di legna; la sua fisionomia è dolcissima, i suoi capelli sono biondi, il suo aspetto non par nulla quello di persona nata in un villaggio; le maniere poi contrastano coll'abito, siccome colle laboriose operazioni contrasta la gentile morbidezza e bianchezza delle sue mani. La giovinetta non solo è abbigliata da villica, ma le sue vesti di mezzalana sono assai logore, la rigida stagione di decembre aveva arrossato le sue guance, ed il freddo e qualche doloroso pensiero le aveva richiamato alcune stille di pianto sul viso.
—Ahimè! tu piangi sempre, mia buona mamma, aveva detto un fanciullino di circa sei anni che ella si teneva al fianco su per l'erta, il quale stavale appigliato al lembo della rustica sottana.
—Giannino mio, ho assai faticato quest'oggi, e queste sono stille di sudore: tu piuttosto sta' buono e non piangere; fra poco arriveremo alla capanna.
—Dio mio, quanto è lontana! sclamava il fanciullo mentre saliva appresso alla madre la scoscesa collina.
Ma la stanchezza della misera madre e del fanciullo sarà presto ben ristorata. Il loro dolore si muterà in allegrezza insperata, al loro giungere a quella capanna, da cui erano distanti un solo quarto di miglio: dalla parte opposta del villaggio era alfine ritornato colui che per essi era tutto. I due derelitti e tapini dovevano esser consolati dopo tanti anni di lacrime e di preghiere.
Non ebber tempo di vedere la cima del colle sul quale era posta la capanna, che un giovane uomo abbigliato signorilmente, decorato della insegna della Legione d'onore, si era precipitato verso i due che salivano contemporaneamente, abbracciando insieme e la donna e il fanciullo: avrebbe voluto recarsi in braccio l'uno e l'altra, Preso il ragazzo colla sinistra, e colla destra sorreggendo la cara metà del suo cuore,
—Ah! vi ho pur trovato, diceva stemprandosi in dolci lagrime di gioia.
—Sei tornato, sei tornato! siamo tanto poveri! sclamarono ambedue penetrati da un'indicibile commozione.
—Or siete ricchi: per noi è alfine ritornata la felicità; venite, deh! venite, teneri oggetti dell'amor mio.—
Il padre, la madre ed il figlio in breve ora furono alla capanna, nella quale non dimorarono che la sola notte: ma certo e madre e figlio più agiatamente delle precedenti, poichè il nuovo arrivato vi aveva fatto recare materassi e tappeti e le indispensabili suppellettili. All'indomane una comoda vettura trasportò i tre alla vicina città di Nizza, da dove ascesero in un naviglio che dovea trasportarli al luogo di loro nuova dimora.
Il signor Artini da giovanetto aveva militato in Francia e, ottenuto il suo congedo per le premure del signor di Brienne, di cui era parente la madre sua, era passato in Piemonte; colà si era invaghito di una giovane orfana, bella, virtuosa, ma priva di fortune e alle cui attrattive non aveva potuto resistere l'ex-uffiziale, che avevala condotta all'altare. La loro unione avvenne col massimo segreto; il giovane Artini doveva rispettare il contrario volere di uno zio, il quale, borioso di ricchezze e di tìtoli, avrebbe fulminato dell'ira sua lo sventurato nipote privo di beni dì fortuna, se questi avesse osato parlargli dell'affetto inspiratogli dalla leggiadra giovinetta.
L'uffiziale, che d'altronde non aveva potuto difendere il petto dallo strale del dio d'amore, il quale non rispetta nessuno e molto meno i giovani sensibili e militari, intesasela con un buon ecclesiastico, si sposò segretamente la fanciulla e con lei godette vari anni di completa felicità. Frutto di tale unione era stato il fanciullo che sentimmo nominare Giannino. Cresceva egli in bellezza e bontà nel più stretto ritiro di una villa posta non molto lungi dalla città, ove incognita stavasi la giovine coppia; quando, per una di quelle fatalità che spesso colpiscono le persone dabbene, venne a scoprirsi il nascondiglio del giovine Artini ed ii suo segreto matrimonio.
Artini, un tal dì uscito alla caccia, inseguendo un cinghiale, per disavventura in un momento di fretta, esplosa l'arme, ferì sebben leggermente un suo compagno di caccia. In quel subito, credutasi gravissima la ferita, fu quegli trasportato privo di sensi al domestico asilo dell'Artini; ed ognuno può imaginarsi lo spavento di lui, della sposa e del piccolo Giannino. In breve per altro dileguaronsi i loro timori, poichè sopravenuto il chirurgo, esaminando la ferita, la giudicò semplicissima, ed in quello stesso giorno feritore e ferito si assisero gaiamente alla medesima mensa. Quest'ultimo, giovane parigino, venne pregato di trattenersi colà fino a che non si fosse pienamente ristabilito in salute. Durante alcuni giorni l'ingenua madre di Giannino apprestógli tutte quelle cortesi e minute cure che vengono imposte dai sacri doveri dell'ospitalità. Costui, non potendo credere a tanta semplicità, osò pensare di aver suscitato un tenero sentimento nella giovane sposa, che, avvedutasi del troppo franco contegno di quell'ospite, non volle celarne gli arditi disegni al marito, il quale in un primo impeto dì sdegno si scagliò contro l'audace ed iniquo amico e lo costrinse a domandargli scusa e partire.
Non era anche scorso un mese da quell'accaduto che i due coniugi non vi pensavano più, quando una notte il buon Iago, servidore negro del signor Artini, penetrando improvvisamente nella camera degli sposi,
—Salvatevi, aveva loro gridato, salvatevi per la scala segreta; io condurrò vostra moglie ed il bimbo nel granaio, e voi, signor padrone, pigliate la via del giardino.
—E perchè mai? avevano chiesto i coniugi esterrefatti.
—Gente armata si avvicina al castello: un contadino che l'aveva scoperta al chiaro di luna è corso a gambe levate a porgermene avviso. Si dice che lo zio vostro, scoperto il segreto maritaggio, abbia ottenuto dai tribunali un ordine di cattura per voi e di reclusione in un monastero per la vostra consorte; si dice che sarà annullato il matrimonio.
—Ah giammai, giammai! esclamò il giovane Artini; venderò cara la mia vita; il principe mi ascolterà.—
Dare un balzo dal letto e vestirsi fu tutt'uno.
La giovane Amalia svenne.
Il buon Iago col soccorso della cameriera la fece avvolgere in un lenzuolo insieme col bambino che dormiva, traducendola nel granaio, in cui si penetrava per una botola.
Il signor Artini, che dapprima voleva far uso dell'armi, fu poscia persuaso esser migliore espediente fuggirsene alla capitale ed implorarvi l'aiuto delle leggi a suo vantaggio, onde far vano il progetto dell'iniquo suo zio.
Quando gli armati si presentarono, la casa fu trovata deserta.
Iago, dopo che nei dintorni cessò la mania di ciarlare in mille guise sull'avvenimento, per erti colli e cupe foreste condusse la padroncina ed il figlio su quella collina ove li abbiamo veduti, ed un tugurio servì loro di ricovero. Gli armati, nel desiderio d'impedire ai fuggitivi di valersi, quandochè ritornati, degli ori, degli argenti e delle gioie della villa, se ne impossessarono a nome del brutale zio. Ed Iago solo col ritratto dei suoi guadagni, per cui aveva un peculietto, provvide al sostentamento proprio e delle care creature, sperando di giorno in giorno che il padrone, ottenuta giustizia, sarebbe ritornato alla casetta di campagna, dove aveva lasciato il fedel contadino depositario del segreto nascondiglio di Amalia e di Giovanni. Ma passarono giorni, passarono anni, e il signor Artini non si vide; e d'altronde Iago credeva pericoloso il farne ricerca a motivo della potenza dello zio del padrone che poteva riuscir fatale ai suoi cari protetti.
La giovine Amalia si era abituata, dirò, alla vita rozza della povera campagnuola; faceva da gran tempo le faccenduole di casa, andava a provvedere il vitto traendosi dietro Giannino al vicino villaggio, poichè un giorno anche Iago, partito per la capitale, non era più ritornato. Dall'epoca in cui Amalia rimase sola col suo bambino, a lei toccava girsene al vicino bosco per le legna, a lei a coltivare un meschino orticello, a filare e vendere la filatura al mercato: e siccome la piccola somma portata dalla casa cominciava ad essere sugli ultimi, ella si vedeva sull'orlo dell'abisso e della miseria. L'infelice non tanto piangeva per sè, quanto per il marito e pel figlio: pel marito, di cui ormai non credeva ricevere altre novelle che della morte; pel figlio, che, pieno d'intelligenza e di amore, andava ad entrare nel più doloroso avvenire, ed i primi atti della sua tenera mano avrebbero dovuto esser quelli dello stenderla accattando limosina. Tale era la trista ed orribile posizione di Amalia quando noi la vedemmo insieme col bambino salire l'erta della capanna al principio di questo capitolo e quando miracolosamente e ormai contro ogni speranza ella aveva veduto arrivare l'adorato consorte.
Non dobbiamo nè possiamo tacere che, durante la separazione del marito dalla moglie, del padre dal figlio, il piccolo Giovanni, di focoso temperamento, di precoce intelletto aveva voluto apprendere la storia della propria sventura. Sensibilissimo e fiero, egli si era formata un'idea sinistra di tutti quegli uomini che la fortuna pone in una classe elevata. Abituato a conversare coi miseri fanciulli del villaggio subalpino, si era già affezionato ai costumi popolari, alle persone che soffrono, costrette a guadagnarsi la vita col sudore della fronte. Il rapido mutamento di sorte lo imbarazzava, e, toltone il dolore che avrebbe avuto di tornare ad essere privo del padre, il suo cuoricino batteva sempre di affetto per le rupi selvagge testè abbandonate. Ma intanto la nave, solcato il Mediterraneo, si avvicinava per l'oceano alle ospitali rive dell'America, facendo vela per le Antille, ove il nostro giovane erede del defunto zio era divenuto uno dei più ricchi possessori e coloni. Colà egli aveva divisato condurre la sua tenera Amalia ed il caro Giannino; l'Europa eragli divenuta un tristo soggiorno, tanto erano state le sventure che vi aveva provate; ei credeva che il nuovo mondo potesse aprirgli una carriera di novelle felicità. Sentiva il bisogno di respirare aura più libera, di svincolarsi da quei sociali impacci del costume europeo.
Il clima tropicale della Guadalupa sarebbe stato eziandio giovevole alla defatigata salute di Amalia. Il suo fanciullo colà avrebbe potuto maggiormente sviluppare le sue belle e robuste forme, inspirarsi a quelle vergini contrade, vivere la vita libera in mezzo ai semplici costumi di quei fortunati isolani. Non s'ingannava il signor Artini; giunta che fu la nave nella baia della tenuta di sua spettanza, un buon numero di negri, di cui era proprietario, lo attendeva alla riva per festeggiare l'arrivo di quell'amabil padrone che li volea far liberi. Il piccolo Giovanni, al vedere tanti uomini neri, aveva esclamato:—Oh quanti Iaghi! ma il mio Iago dov'è?—Nè aveva potuto ripetere la frase, che si trovò nelle braccia del vecchio negro, il quale, stemperandosi in lacrime di tenerezza, nel linguaggio natìo additava ai compagni la cara persona del loro padroncino. Non sì tosto i coniugi si trovarono fermi nel loro nuovo soggiorno, il signor Artini dichiarò liberi tutti i suoi schiavi.
—Lungi, lungi da me, aveva esclamato in uno de' suoi più bei giorni, lungi da me anco l'ombra del servaggio. La vecchia Europa serbi tal nome; io voglio bandirla anche dal mio frasario.—
Invano potrebbe esprimersi la gioia di quei miseri, i quali idearono una festa di cui mai non aveva veduta l'eguale quella estrema regione del mondo.
La sera medesima di quella festa, la giovane Amalia nel colmo dell'allegrezza riceveva le congratulazioni delle sue conoscenti; sentiva dal suo letto gli evviva replicati degli Indiani quasi pazzi dall'allegrezza: ella aveva dato alla luce Esmeralda.
Esmeralda fu levata al sacro fonte dal governatore della Guadalupa; tutti i navigli francesi ed esteri ancorati nel porto fecero intendere una salva delle loro artiglierie; il tamburo prolungò il suo rullo, e militari sinfonie alternarono per tutta la notte le più soavi melodie; la notte stessa era stata una delle più belle sotto l'infuocato cielo dei tropici. Nella cerimonia del battesimo il signor Artini, a riguardo della neonata, avea voluto che si ripetessero ad alta voce i suoi titoli di nobiltà statigli testè conferiti dalla Francia e di cui già era stata fatta menzione nell'atto civile della nascita della bambina, «Esmeralda, Clementina, Zaira, Sofia, aveva scritto il buon paroco, figlia del nobile signor cavaliere conte Adolfo Artini e della signora Amalia De-Chouet sua legittima consorte, è nata il 21 marzo l'anno 1805, alle due pomeridiane; tennela al sacro fonte il signor barone De-Guiche governatore della Guadalupa.»
—Ah! ah! aveva esclamato Giovanni all'età di due lustri, assai motteggiatore e molto più avverso al fasto, voglio domandare al buon Iago se, al mio nascere, baroni mi tennero al fonte, e se mio padre era un'eccellenza; in questo caso mi faccio registrare di nuovo, non essendovi cosa che maggiormente mi disgusti quanto i titoli e la nobiltà: non per questo amerò meno questa bimba, che anzi sarà la mia prediletta.—
Passavano intanto gli anni. Il vago appartamento dei signori Artini; che si estendeva in riva al mare, era circondato di giardini e boschi dove a migliaia si vedevano uccelli variopinti e dorati, e quadrupedi di mille specie. Il placido mare si ripiegava in seno a piccolo golfo che faceva l'isola proprio dirimpetto al palazzo; quel sito era stato fatto lastricare di marmo e presentava ai nostri avventurosi abitatori tutto il comodo di sollazzarsi alla pesca. Il nostro Giovanni, mentre per le cure del paroco diveniva scienziato ed uomo di liberi sentimenti, per le cure del padre era divenuto un instancabile pescatore, un robusto nuotatore, un cacciatore famoso. Ancora imberbe, armato or del fucile degli Europei, or dell'arco degl'Indiani, aveva atterrate delle bestie feroci e l'avvoltoio delle montagne. Munito a guerra un piccolo naviglio, si fece a percorrere i mari delle Antille ed a sedici anni era divenuto un esperto navigatore in quell'arcipelago. Una volta fu veduto ritornare dopo un'assenza di quindici giorni menando seco due poveri negri di sesso diverso.
—Gli hai tu acquistati? domandò il padre a Giovanni.
—Non compro i miei simili, aveva replicato il giovanetto; li ho salvati dall'ira del loro padrone che voleva disgiungerli a forza, ed essi si amano appassionatamente; è questo forse un delitto da meritar loro la pena delle verghe? Sono belli e buoni.—
Ciò dicendo presentolli a sua madre.
I due negri si sposarono e, dichiarati liberi come gli altri, andarono a lavorare nella vasta tenuta dei signori Artini.
—Ma se il padrone tornasse a riprenderli? avevasi fatto osservare a
Giovanni.
—Oh! non vi è pericolo, aveva questi replicato; colui ha ben altro da pensare.
—E come il sai tu?
—Nel mondo dove ei si trova dee pensar a scontare i propri peccati.
—Sciagurato! riprese con sdegno il padre, osasti violare l'altrui proprietà e commettere un omicidio?
—Mi credereste voi capace di disonorare il vostro nome? rispose sorridendo il giovinetto; quindi aggiunse: l'uomo generoso e libero è fatto per difendere i suoi simili, gli oppressi contro gli oppressori; l'uccidere per difendersi è dovere. Lo sfacciato mercante di carne umana ardì mirarmi col suo fucile; uno strale che li cacciai nel petto impedì la mia morte. Ecco il fatto.—
Così la pensava e così agiva il giovinetto all'età di sedici anni. La tenera madre palpitava sempre per lui. Il padre invece inorgogliva alle ardite prodezze del figlio.
I negri dell'isola lo benedicevano e lo adoravano siccome un nume protettore.
Una sera in cui, placidamente seduta sotto un pergolato di ribes, la famiglia aveva frugalmente cenato con la cacciagione del giorno e coi frutti saporitissimi del giardino, cadde discorso sull'Europa.
—Io mi son sempre trattenuto, disse Giovanni, dal parlarvi di cotesta Europa, di cui serbo dolorose rimembranze; imperocchè quel guasto mondo mi è sempre parso coperto dalla nera caligine che esalano i suoi vizi.
—Ah! figlio, io non nego che gli uomini di cotesto luogo sieno peggiori di quelli d'America, ma iniqui ve ne sono dappertutto.
—Isolatamente ne convengo, ma qui la perfidia è un'eccezione, colà è una regola; il cuore mel dice, la naturale antipatia me ne accerta, i libri della vostra biblioteca me ne ammaestrano infallibilmente.
—E che ne concludi? riprese il padre facendogli una carezza.
—Ne concludo che, se potrò, non ritornerò colà; ma se il destino della mia vita mi obbligasse a calcare nuovamente la terra che mi vide nascere, giuro di apparirvi come un angiolo vendicatore, come un genio benefico che la libererà dalle sue sventure.—
La mente fervida e precoce del giovanetto sviluppavasi a meraviglia, ed il corpo ne seguiva gli impulsi.
Il bravo governatore lo educava ai militari esercizi, il sole ardente delle Antille gli abbruciava il cuore; ei si sentiva come padrone di un'epoca.
—Ma, soggiunse un bel dì alla madre, i vostri patimenti, o madre, formano la più mesta reminiscenza dei miei primi anni; io ne serberò incancellabile la memoria. Io sento, sì, sento in me la pietà, la compassione propria dei nostri Indiani, ma sento altresì la ferocia di essi; quella compassione la serberò per i poveri, come eravamo io e voi quando il babbo ci raggiunse allora che io nel fitto inverno mi reggeva alla vostra lacera gonna per salire alla capanna e soffriva nel vedervi piangere e sudare sotto il peso delle legna che portavate per scaldarci. Ma la ferocia io la serberò contro quelle classi privilegiate che si pascono del sangue e del sudore dei poveri e a cui apparteneva quell'uomo che ci cagionò tanti affanni. Esso è morto; però ne esistono tanti eguali, madre mia. Ma… a proposito, continuò, mio padre debbe avervi narrata la storia delle sue sventure durante la sua assenza: e che? io dunque non debbo saperne nulla?
—A che vantaggio rinnovare la memoria di un fatto che è già registrato nel passato?
—A che pro, madre mia? Perchè sappia in qual modo coloro che avrebbero dovuto giovare ai miseri ardissero calpestare i più sacri doveri.
—No, figlio mio, le aveva detto l'Amalia; i mali che gli altri ci hanno fatto soffrire bisogna dimenticarli e lasciarne la vendetta a Dio.
—Egli si serve spesso del braccio degli uomini per compierla; chi sa che non voglia servirsi del mio?—
La tenera madre sforzossi di calmar l'ardore del figlio, ed egli non fece più parola intorno a tale materia; ma scelta l'occasione in cui i suoi genitori eransi recati per diporto all'isola di San Domingo, avuto a sè il vecchio Iago,
—Dimmi: che cosa successe a mio padre quando io bambino rimasi colla mamma alla capanna delle Alpi?
—La storia è breve ma dolorosa, riprese il negro: fuggito che fu vostro padre dalla parte del giardino della sua villa, già si appressava travestito alla capitale per far valere i suoi diritti, quando, incontratosi sventuratamente nel perfido amico cagione di tutti i suoi mali, non fu più padrone di sè stesso, e dopo aspre parole, snudate le spade, si batterono in quel luogo medesimo, e l'amico traditore espiò colla vita il nero suo tradimento. Il padre vostro, gravemente ferito e privo di sensi, venne da persone che il conoscevano e che ignoravano le discordie fra esso e lo zio trasportato al palazzo dello zio medesimo, il quale, nascondendo la gioia di quell'avvenimento, sembrò preoccupato da incidibil dolore, ed accarezzando il quasi esanime nipote, dette palesi ordini acciò fosse curato in un dei più sontuosi appartamenti del palazzo.
—E che avvenne poi? aggiunse il giovanetto impaziente.
—Il vostro misero genitore, appena ricuperati i sensi, si trovò in uno dei sotterranei dei palazzo destinatogli per carcere; ivi languì vari anni, e poichè ben poche persone avevano veduto il giovane uffiziale esser trasportato presso lo zio, fu a costui facile sparger voce che egli si era allontanato per correr dietro alla sua amante. Quel vecchio tiranno, irato del non poter discoprire il rifugio di voi e di vostra madre, inveiva sempre più nei mali trattamenti verso il padre vostro, e per colmo di barbarie avevagli dato a intendere essere ambedue voi periti nella fuga.
—Infame!
—Sei mesi prima che il mio adorato padrone giungesse a ricuperare la libertà io arrivai a scoprire ch'egli gemeva prigione del barbaro zio. Giurai di salvarlo o di morire e, sotto le mentite spoglie di povero, mi riuscì di penetrare nel palazzo del vostro indegno parente. Ma ahimè! il colore del mio volto mi tradì, per modo che venni rinchiuso nel medesimo sotterraneo.
—Gran Dio!
—Fu certamente gran conforto al vostro misero genitore la mia presenza: e rapprendere che voi e l'Amalia eravate in vita e al sicuro dalle trame dell'iniquo. I giorni passavano in mesti ragionari ed in copiose lacrime, pensando a voi misero fanciullino ed alla madre vostra. Inutilmente desiderammo di farvi pervenire nostre nuove. Di chi mai avremmo potuto fidarci? Avrebbe forse il barbaro oppressore risparmiata la vostra tenera età? Si sarebbe egli lasciato piegare dal sesso e dalla beltà dell'infelice madre vostra, o non piuttosto avrebbe ad altre due infelici creature fatti provare i più rigorosi tormenti? Invano tentammo di fuggire; troppe erano le guardie ed i satelliti di quel vile per eludere la loro vigilanza.
—Dio però….
—Si, Dio venne in aiuto degli oppressi. Un mattino nella cui precedente notte avevamo sentito forti strepiti e confusione nelle stanze superiori del palazzo come se una quantità straordinaria di persone andassero e venissero, vedemmo discendere nella nostra carcere un venerabile ecclesiastico. Costui, nel vedere il nostro squallore e la nostra miseria, colpito da grande e dolorosa meraviglia, ci fece soccorrere: morbido letto fu a noi apprestato, cibi delicati che ci rimettessero in forze; ma più di tutto riuscì a renderci gagliardi la nuova che l'iniquo persecutore era in quella notte morto di apoplessia e il desiderio vivissimo di partire per la capanna ove eravate rifugiati. Il resto voi lo sapete.—
Durante il racconto del negro, il giovanetto portò più volte la mano al cuore ed all'elsa di un pugnale elegantemente lavorato che, secondo il costume degl'Indiani, teneva al fianco. Alfine, dopo lungo represso sfogo, gli caddero abbondanti lacrime, e,
—Se tali avvenimenti fossero accaduti fra voi selvaggi?… dimandò.
—Ah! rispose Iago, fra i selvaggi tali mostri non hanno esistito giammai.
—Ma colui lasciò parenti? esclamò il giovane con ira feroce.
—Non altri che il padre vostro. Egli peraltro, non potendolo in tutto privare delle avite sostanze, s'ingegnò di toglierne gran parte, che fe' passare ai ricchi suoi amici.—
Il giovanetto meditò alquanto, quindi, snudando il pugnale,
—Vendetta, gridò, vendetta contro tutti i ricchi, contro tutti gli oppressori! Giuro di mantener la promessa.—
Esmeralda.
Il vecchio negro si era ingannato. Viveva un parente dell'antico signor Artini a cui erano devoluti molti averi di lui. Cinque anni dopo il racconto del povero Iago, Giovanni ed Esmeralda non avevano più genitori.
Caduto il dominio napoleonico, scritta nella nota de' di lui partigiani, la famiglia Artini, spogliata dei beni tutti che possedeva in Francia ed alla Guadalupa, era per cadere nell'indigenza. Amalia ed il marito, non potendo resistere a colpo così impreveduto, l'un dopo l'altro si spensero a guisa di teneri fiori colti dall'oragano. I loro figli e Iago ne accompagnarono i corpi alla tomba, e quel giorno fu giorno di lutto per tutta l'isola.
—Ed ora? disse il negro al giovane Artini non imberbe, ed ora?
—Ora, riprese l'intrepido giovane baciando la terra che copriva i suoi cari; ora non ho più nulla che mi obblighi a rispettare i desiderii di coloro che la morte spense. Ora io sono figlio dei miei pensieri.
—Quanto siam poveri! esclamò la bella ed interessante Esmeralda.
—Taci, le rispose l'animoso Giovanni; ch'io non oda mai più siffatta parola. Poveri sono coloro che giacciono schiavi del capriccio, del lusso, dell'orgoglio; te l'ho già detto.
—Buon Dio! riprese con malinconico sorriso la fanciulla; non abbiamo più case, più campi: ahimè!
—Mira, esclamò Giovanni bollente di entusiasmo, mira questo mare immenso che ci si para dinanzi: e dove più spazioso campo di questo? Mira (e mostrógli il piccolo naviglio di sua proprietà ancorato nel golfo), sapresti tu ideare un più vago palazzo?
—E come vivremo noi?
—Non ti affliggere, disse il giovane teneramente guardandola, non ti affliggere. Deh! ch'io non veda mai più lacrime sul tuo ciglio, se non vuoi che io mi perda. Ben misero è colui che ha bisogno di case, di campi, di vigne per campare la vita! L'uomo grande basta a sè stesso, ed io mi glorio di sentirmi tale. Vieni, porgiamo un ultimo addio a questa tua patria, un estremo addio ai nostri antichi domestici, un bacio ad Iago, e partiamo.
—Ah! no, rispose il vecchio stemperandosi in lacrime, fino a che una goccia di sangue animerà il mio braccio, un'aura di vita sosterrà questo frale, non fia ch'io vi lasci giammai.
—Ebbene verrai con noi; questa sera lasceremo quest'isoletta ridente.—
E la sera infatti, radunati in un cofano i pochi loro arredi preziosi, i gioielli della madre, il poco oro, unica eredità dei defunti, salirono a bordo del piccolo naviglio di Giovanni, spiegando le vele, secondati da tepida brezza, lungo il continente americano. Un mese bastò loro per trasportarsi sulle rive dell'Ohio, dove in una selvaggia tribù educata da un buon missionario al cristianesimo era nato il fedele ed amato loro Iago.
In questo pacifico ed ameno soggiorno Esmeralda, divenuta col progresso del tempo bellissima, aveva appreso tutte le cognizioni di cui già la sappiamo adorna. Pittrice dell'amena natura, la sua musica era la vergine e selvaggia espressione di tuttociò che la circondava; avresti detto ch'ella armonizzava lo strepito dei fiumi, la romba dei venti, la bellica tromba del vittorioso selvaggio; i suoi trapunti esprimevano la sapienza di una Indiana educata alla libertà. Ella era l'idolo della tribù; il negro e le vecchie l'appellavano figlia del gran Genio.
Il coraggioso Giovanni si era compiaciuto di ammaestrarla ai costumi delle nazioni civili, lasciandole la virginale purezza della figlia del deserto.
Nei precedenti capitoli noi abbiamo veduto l'effetto di tal bizzarra educazione. Venne finalmente giorno in cui Giovanni, il vecchio Iago ed i suoi amici ritornarono dopo lunga assenza non più abbigliati da selvaggi, ma seco traendo numerosa compagnia di Europei. Giovanni di pirata si era fatto capo di una delle più potenti sette che ardissero imaginare il rinnovellamento del sistema politico europeo; Giovanni in quell'assenza aveva riveduto il suolo natìo e si lusingava d'effettuare quel pensiero che fin dai primi anni gli si era fitto nel cuore. Esmeralda lasciò piangendo l'amata tribù, e dal nuovo mondo passò per la prima volta nel vecchio continente.
Ma ci è d'uopo ripigliare il filo del nostro racconto e ritornare a
Rosina.
Il gabinetto della giovane si era aperto al cenno da essa dato col campanello, ed il buon padre abate entrando benediva la fanciulla e si assideva al fianco di lei. Rosina era ricaduta nel più fiero accesso di sua malinconia.
—Molto strano il vedervi afflitta così, mia buona figlia, riprendendo il discorso aveale detto il padre abate: spero però che il vostro stato sia effetto della stanchezza della passata notte.
—Tutto il contrario, mio buon padre; io non ho ballato che due sole volte.
—Che è mai dunque?
—Un peso orribile, mio buon padre, un peso proprio qui in fondo al cuore mi debilita, mi annienta.
—Volete voi ch'io vi aiuti a sollevarlo? Ebbene, figlia mia, non sarà questa la prima volta che mi avete aperto il segreto dell'anima vostra. Io non dirò che dobbiate considerarmi come al tribunale di penitenza, dove io sono severo giudice in nome di Colui che regna nei cieli; ma consideratemi sempre pronto a spargere olio e vino sulle acerbe ferite dei miseri abitatori di questa valle di lacrime.
—No, non posso acconsentire ad affliggervi col racconto dei miei mali; voi siete venuto a me ad oggetto di trattenervi in amichevole conversare, anzi a far meco colezione. Permettete adunque che ordini il caffè o la cioccolata, come più vi aggrada.—Ed in questo dire fu per chiamare col campanello la cameriera
—Oh! no certo, figlia mia, riprese il monaco trattenendo la bianca di lei mano onde impedirle sonasse il campanello, oh! no certo; e come volete ch'io possa pensare a prender cibo, vedendovi così cupamente concentrata in voi stessa? Certo che io nol farò, a meno che prima non mi sveliate quei pensieri che l'animo vi tormentano; e qualora vogliate dinegarmelo, non torrò questo ad ingiuria, non volendo obbligarvi a parlare, ma mi ritirerò per lasciarvi in libertà e tornerò in altro momento più opportuno.—
La fanciulla, immersa nel più cupo dolore, non pensò a rispondergli; laonde il monaco si era alzato e già si avviava alla porta: il suo moversi scosse la giovane dalla dolorosa apatia, tal che, alzatasi, preselo per un lembo della veste e lo costrinse a seder nuovamente presso di sè.
Fu qualche tempo silenzio; finalmente in mezzo a mille strazianti dubbi la giovane svelò gli arcani del suo cuore all'ottimo religioso.
Durante il lungo racconto l'abate avea più volte afferrato un pensiero ed interrotta la narratrice esclamando:—Possibile? possibile?—
Quando la Rosina ebbe ultimato il suo ragguaglio, il monaco stette lunga pezza irresoluto; volgeva in mente un progetto, non sicuro sul modo di eseguirlo.
—Ebbene, qual consiglio mi date voi? esclamò Rosina, tenendosi fra le mani il volto; deh! non mi negate il soccorso della vostra sapienza.
—Figlia, riprese il frate dopo lunga pausa, i miei timori sono pur troppo fondati. Il vostro amante misterioso deve esser un settario. Guai a lui! Non è questa la via che dee battere un uomo il quale d'altronde vanta quei sentimenti d'onestà che voi mi dite; egli è uno sciagurato, pur forse traviato e che prevedo cadrà nell'abisso da sè stesso scavatosi.
—Ma il convegno di questa notte?
—Bisogna evitarlo.
—E mio fratello?
—Ei pure dee fuggire la tenebrosa congrega. Sì, mia figlia, sedicenti amatori della quiete, dell'ordine, del diritto, della patria, prendendo abbaglio sulla vera indole della passione che loro bolle nel cuore, traviano e son traviati; lungi dal fare il bene dei loro simili, li trascinano insieme con loro a perdita certa; simili al turbo impetuoso di estate, essi vorrebbero abbattere nella speranza di costruire, ma il turbine non fa rinascere la querce che schianta. Infelici! continuò, essi hanno speranze nelle tenebre, ma le tenebre non fia che partoriscano la luce. Pur troppo vanno incontro a morte sicura e calcan già la via del patibolo!
—Gran Dio! esclamò la misera fanciulla esterrefatta, che sarà mai di mio fratello e di lui…, sì, è pur forza che io il dica, di lui che amo?
—Infelice fanciulla! mormorò il monaco macchinalmente scorrendo col dito gli acini del rosario che gli pendeva dalla cintura. È un fatto, indi proseguì, che anche nella pacifica città di Livorno pullula una setta di cospiratori, ed io ben me ne avveggo alla comparsa e apparizione misteriosa e strana del vostro amatore; esso ha le mani in una grande matassa di cui molte sono le fila. Sia pure che tutti s'infrangano, egli non perderà il coraggio e l'ardire per porle su tela novella. Guai per lui! Io potrei…. ma no, voi mi avete palesato un segreto, io non posso svelarlo…. Conviene per altro che almeno le due fila, che siete voi ed Alfredo, che debolissime scorgo, io liberi dal pericolo di essere spezzate; io lo farò a rischio della mia vita stessa. Chi sa che non mi riesca di salvare…. di salvare anco la persona a voi cara? Ma or non è tempo di ulteriori ragionamenti; voi dovete ristorarvi con un poco di cibo, e quindi v'ingiungo di prendere un poco di riposo.—
Così dicendo suonò per la colazione, che venne portata. Rosina, cotanta agitata come vedemmo, appena gustò qualche goccia di caffè: il buon padre peraltro fece pacificamente la sua colazione; non già che fosse insensibile, ma, abituato a tanti e tanti travagli nella lunga sua vita, era assuefatto a mirare le cose più gravi con un animo veramente imperturbabile. Terminata la colazione, rinnovò a Rosina il positivo ordine di non muoversi dalla sua stanza: la consigliò di discendere sotto qualche pretesto nella camera della madre, quindi si allontanò.
Noi, mentre lasceremo il monaco studiare il miglior modo possibile con che i suoi protetti venissero allontanati dal luogo periglioso della notturna assemblea, terremo d'occhio i preparatori della stessa riunione. Fino dal mattino, al comparire del sole, nella osteria dei Tre Mori era stato concertato che Bruto, Cacanastri, Narciso e quanti erano là piccoli capi tenessero pronti i loro affigliati, i quali, per tempo uscendo fuori delle mura, dovevano trovarsi dopo la mezzanotte nel sotterraneo di San Iacopo lungo il mare. Gli ordini erano corsi con molta celerità, e certamente non avrebbero mancato di trovarsi colà tutti coloro di cui un giuramento tremendo legava il volere a quello del Caprone.
Ma qual era lo scopo di tal ragunata notturna? Noi andiamo a dirlo ai lettori nostri onde non tenerli in tanta curiosità.
Il Caprone era uno dei più accaniti carbonari che la setta di allora contasse nella penisola; teneva sotto il suo regime la congrega di Toscana, combinando coi capi della setta esistente in altre provincie un decisivo movimento di sommossa. Così avevano prestabilito quegli sciagurati, ideando di far nascere un qualche disordine, cosicchè fosse impossibile alla forza regolare ed ai buoni cittadini il porre un rimedio ed estinguere un incendio su tanti punti scoppiato. In quella sera adunque doveva stabilirsi il giorno e l'ora.
Il cielo però non permetteva tanta sventura: un accidente impensato doveva impedire che l'adunanza avesse luogo a risparmiare alla città le orribili conseguenze dei furori dell'anarchia. Sul far del mezzodì era insorta lite, a causa di una pezzuola rubata, fra Topo e Cacanastri; Topo aveva sul ponte di Venezia dato una stilettata al compagno, il quale, moribondo, veniva dalla compagnia della Misericordia trasportato allo spedale. Topo, sebbene espertissimo in fuggire fino allora dai birri, questa volta non aveva potuto riuscirvi; imperocchè, datosi a gambe per la via dei bottini dell'olio, nel voltare dalle Fontine per la via delle Carceri, si era imbattuto in una squadra che per caso passava da quella parte; sicchè piombò proprio negli artigli del falco.
Tradotto al cospetto del giudice, Topo, seguendo l'esempio dei vili, pensò di salvare sè stesso ruinando i compagni; onde interrogato dal magistrato sulla cagione dell'omicidio:
—Se vosustrissima mi fa aver l'impunità, le dirò tutto senza preamboli.—
E qui sfilò, come suol dirsi, la lunga corona, dicendo essersi finto settario e, venuto in sospetto del congiurato Cacanastri, aver pensato bene con una pugnalata spicciarsi di lui. E quindi narrò ciò che sapeva intorno alla congiura ed alla adunanza della prossima notte. Fortunatamente per i congiurati, il magistrato non lo interrogò sui nomi di quelli, riserbando ad altro momento un nuovo e più solenne interrogatorio, per prendere intanto consiglio da più alto personaggio e giudice intorno alla investigazione e i passi da farsi per tutti in un colpo avere in mano i settari. Topo, che si credeva potersene ir libero a casa sua, venne invece fatto tradurre in una delle più strette prigioni.
Gli altri congiurati intanto nulla sapevano del progetto loro per metà scoperto da Topo; stavano in breve per esser côlti al laccio. I nostri lettori sentimentali proveranno un certo ribrezzo nel vedere sull'orlo del precipizio l'entusiasta Giovanni, l'appassionata Rosina, il focoso Alfredo e la fantastica Esmeralda. Ma chi sa poi…. tiriamo innanzi il racconto.
Il ferito Cacanastri stava sul punto di esalare l'anima impura sopra un letticciuolo dello spedale di Sant'Antonio. Un confessore ascoltava la lunga storia de' suoi delitti e peccati, e questo ministro di Dio era quell'istesso padre abate che noi vedemmo poco fa presso Rosina. E come ciò? Ecco come.
Il padre abate traversava la strada quando il ladro era caduto immerso nel proprio sangue. Trattandosi di un moribondo, il buon sacerdote si curvò sovra di lui e non volle abbandonarlo nè mentre fu posto in lettiga nè per la via nè allo spedale, avendo già incominciato a confessarlo. Iddio aveva preparato l'incontro. Il buon padre colla confessione del ladro rannodando i fatti del racconto di Rosina, fortunatamente giunse a scoprire il ricovero di Esmeralda: ed appena spirato quel ladro, non frappose indugio a muovere verso l'osteria dei Tre Mori. I Veneziani di Livorno, se avessero veduto tutt'altri avvicinarsi alla caverna dei contrabbandi, lo avrebbero fatto a pezzi: ma trattandosi di un religioso, in ispecie di un padre abate di Montenero, padre mitrato e che ha il pastorale come i vescovi, eglino che, mentre non hanno scrupolo di rubare ed ammazzare, sono peraltro ciecamente, superstiziosamente ed anco bizzarramente devoti, si fecero a chiedere al padre la benedizione; le donne affollate a baciargli la tonaca, gli uomini a dimandargli la presa di tabacco: ed egli, profittando di quella cortese accoglienza, potè farsi additare la tana, alla quale avendo picchiato, poco dopo entrò.
Ah di qual patetica scena doveva esser egli testimone! Su di un piccolo letto di quelle luride stanze stava la bella, la già orgogliosa Esmeralda. Ai suoi piedi travisato da marinaro il giovane ufficiale Alfredo. Impossibile sarebbe dare una precisa idea del loro colloquio.
—Io ho giurato di venire al convegno ed ho giurato di recarvi una sorella; io vi andrò, sì, ma nè mia sorella nè tu vi verrete.
—O mio Alfredo, diceva la sventurata, che mai pensi? deh! non opporti a Giovanni; egli ti crederà un traditore, ti ucciderà.
—Sia pure! esclamava Alfredo, ma voi due mie care donne non mai vi troverete ad un tanto periglio, a quello di perder la testa su d'un patibolo.
—E che? diceva Esmeralda, e che? siam forse colpevoli noi?
—Cara, innocente e appassionata creatura, la tua semplicità ti vieta conoscere il vero.—
Esmeralda sorrideva come quando era fra le tribù dell'Ohio.
—Deh! non sorridere…., sclamava Alfredo, deh! non sorridere; il tuo sorriso mi fa l'orror della morte.—
Esmeralda dal sorriso era passata al riso sprezzante.
—Hai paura? gli diceva, hai paura? ebbene andrò sola: io ho il mio pugnale.—
Alfredo ignorava chi veramente fosse Esmeralda, ma però sentiva crescersi l'amore nelle vene. L'amore ch'ei le portava era, per così dire, raddoppiato. E l'amava come donna e come madre del figlio suo.
—Ascolta, Esmeralda, soggiungeva: sia pure che tu e io non curiamo la vita; ma puoi tu compromettere l'esistenza di quella creatura che porti nel seno?—
Era la prima volta che Esmeralda sentiva pronunziare simile parola. Il sentimento di madre parve la colpisse. Stette silenziosa alquanto. Alfredo a mani giunte aspettava una parola confortante; ei l'implorava, ma la giovane, dopo di essersi terso con la mano l'affannoso sudore della fronte,
—Ah, dovere di madre! sì, dovere di madre! io lo conosco, ma, prima che nascere schiava, la mia creatura morirà nel seno materno.—
Questa ultima decisione aveva agghiacciato le speranze e l'ardire d'Alfredo; una idea disperata gli si affacciò alla mente.
—Senti, gridò all'amante; il cuore mel dice, pur troppo mel dice, la via che calchiamo conduce al patibolo. Almen sia salva la sorella: morte per morte, val meglio trucidarsi che morire infamati.—
Proferiva questi dolorosi accenti fuor di sè stesso, alto levando uno sguainato pugnale; già stava per immergerlo nel seno dell'amante, che lo guardava impassibile, per poscia cacciarselo in cuore, quando il monaco, entrando in quell'istante, di sulla porta gridò:
—Infelici! io vengo a salvarvi.—
Le catacombe.
Lungo la scogliera delle spiagge di San Iacopo esisteva una sotterranea galleria scavata nel tufo. Forse le onde del mare coll'andare dei secoli addentrandosi nella terra aveano formato quella volta naturale; e l'acqua col volger del tempo ritirandosi aveva lasciato asciutto quel sotterraneo. La sua apertura, nascosta fra gli scogli coperti di alghe e piante marine e quasi turata dalla arena trasportatavi dai flutti, a pochissimi era nota. Attualmente essa è rimasta così ingombra che non può discernersi se non se da colui che abbiala veduta assai anni addietro. Il sotterraneo, che si estendeva molte e molte braccia, penetrava al di sotto della chiesa attuale: e nei primi secoli del cristianesimo, quando nei luoghi dell'attuale chiesa vi era un convento, probabilmente quella galleria, comunicando colle tombe della chiesa del cenobio, aveva servito di ritiro alle meditazioni di quei religiosi e forse di nascondiglio a non pochi dei primitivi cristiani, furiosamente perseguitati dai pagani, signori del mondo. Comunque la cosa sia, è un fatto che là dentro eransi rinvenute non poche ossa, mentre gran quantità di teschi ed umane reliquie si erano scoperte non lungi da quel cenobio verso la riva del mare, dove era ed è il superbo passeggio dell'Ardenza.
Gli archeologi e gli storici avrebbero potuto dirci con precisione a che cosa avesse servito in origine quel sotterraneo: i secondi se pure lo avessero creduto oggetto degno di occupare le gravi pagine dei loro scritti, ed i primi qualora non avessero preso qualche lucciola per lanterna. E qui (sia detto con buona pace) un romanziere, ricordando L'antiquario commedia dell'immortale Goldoni, e L'antiquario romanzo del celebre Walter Scott, non può trattenersi dal ridere sulle dotte asserzioni di coloro che, al lume dell'intelletto, hanno creduto penetrare con passo sicuro nel buio di centinaia di secoli. Concludo adunque che nulla mi cale di sapere quando il mio sotterraneo sia stato abitato e da chi; come anche nulla mi cale se certi zerbinotti increduli mi forzassero a dimostrar loro il suo sito, ed io non potessi additarlo. Se coloro che son vivi non lo hanno veduto, lo vedranno nel mio romanzo, giacchè per il buon andamento del racconto basta che ci sia stato: e quelli che lo hanno veduto e che non son più, non sanno nulla del mio scritto, il che mi risparmierà degli interrogatori noiosi. E poi in ultima analisi il mio sotterraneo è quello che era il luogo delle Acque di San Ronano del gran romanziere inglese: ci era, adesso non c'è più; ed è meglio, perchè infatti chi sa che paura ne avrebbero le modestissime damine e pedine cui piace il passeggiare cogli amanti nel bel sito che ora è lungo la via di San Iacopo, se sapessero che a pochi passi da dove fanno tranquillamente sospiri amorosi e si ricambiano dolci parolette esiste un sotterraneo di catacombe? Ma ritorniamo a a noi: come io dunque diceva, il sotterraneo aveva la sua entrata fra gli scogli e dopo un cento passi la volta si faceva stretta, ed il terreno si approfondava con sensibile declivio; talchè, camminando fra quelle tenebre, avresti creduto di essere entrato in quello da cui il vecchio Enea passo passo se ne andò alle porte dell'Averno. Il mio sotterraneo peraltro non era tanto lungo; poichè dopo circa quattrocento passi si arrivava ad un ripiano che formava un quadrilatero non disdicevole ad una grandiosa sala da ballo; le muraglie erano tutte di tufo e di conchiglie. Questa sala, tutta a volta spaziosa, comunicava con due lunghe gallerie; da queste metteva in altri due salotti più lontani e più grandi del primo; sicchè, come ognun vede, quella gran sala potea dirsi l'anticamera, e le altre potevano essere usate per luogo di numerosa riunione. È facile l'imaginare come quel luogo offrisse tutto il comodo di parlare ad alta voce, poichè quelle pareti non avevano orecchie, ed il suono non avrebbe giammai oltrepassato il palco della spessezza di un terzo di miglio di terreno. Egualmente impossibile sarebbe stato a qualunque curioso il sentire il cicaleccio di coloro che erano dentro stando all'estremità della grotta, sì perchè lo avrebbe impedito la lontananza, sì perchè il fiotto marino che incessante sbatteva gli scogli avrebbe spento anche la voce del basso Lablache nella cavatina del Figaro e i trilli della Malibran nelle cadenze finali della Sonnambula.
Ecco dunque che la nostra caverna era più che idonea al misterioso ritrovo di quei fanatici, i quali si eran posti in idea di rinnovellare il mondo sociale, tanto per tutelare la loro personal sicurezza quanto per la libertà di parlare a voce alta; il che suole accadere bene spesso in quel genere di assemblee. Al capo di quella segreta società non era sfuggito un luogo così magnifico, del quale era stato da lui scoperto l'ingresso in uno di quei momenti melanconici in cui passeggiava lungo la riva del Tirreno, e, per quanto crediamo potere asserire, quel luogo stesso in tempo di vacanza di congiure erasi più volte adoperato per dar ricetto ad ogni sorta di contrabbandi. Ma adagio, qualche lettore perito di cose marittime mi dirà: e come mai le guardie delle torricelle del vicino lazzaretto non vedevano andare e venire i frequentatori del sotterraneo? ed in tal caso come mai non far loro fuoco addosso? Sì, certamente, rispondiamo all'obiezione, che le guardie avrebbero ciò fatto; tutto sta che avessero veduto: ma la situazione dell'ingresso fra i due scogli era tale che prometteva ogni sicurezza di stare al coperto dagli sguardi altrui: e poi ognun sa che i ladri, i congiurati e gli amanti hanno amica la notte ed il passo così leggiero quasichè sempre portassero scarpe colla suola di velluto o di feltro; ed in ultima analisi guardia vien da guardare, ed ognun sa che molte volte si guarda e non si vede.
La prima sala delle catacombe aveva per pavimento il nudo suolo; quella a cui metteva l'ala destra del sotterraneo quando dalla sala si partiva in due era tutta sul pavimento coperta di un largo tavolato di grosso legno, il che dimostra che coloro i quali ne facevano uso avevano cura di tenere i piedi all'asciutto, o per qualche altra ragione adesso a noi sconosciuta avranno creduto bene che quel pavimento dovesse essere di grosse tavole di abete. La sala che noi abbiam descritto non aveva che un rozzo e gigantesco tavolo tondo con intorno una quantità di sedili dell'istessa forma e rozzezza. Alle pareti erano attaccati grossi anelli di ferro i quali sorreggevano dei candelabri tutti rugginosi dalla salsa umidità, sovrapposte ai quali grosse padelle di metallo con entro strutto o sevo e bitume, che una volta accese tramandavano tal rossa e funebre luce da far abbrividire qualunque buon cristiano; e siccome il fumo avrebbe certamente soffocati coloro che si fossero radunati in quella profonda caverna, al di sopra di quelle bizzarre e quasi infernali lucerne esisteva scavata nel tufo una specie di cappa non dissimile da quella dei nostri camini, la qual cappa metteva nel corridore primo del sotterraneo, da dove il fumo usciva per la imboccatura della grotta. La sala da noi descritta conteneva appesi al muro grossi triangoli di ferro, simili assai alle nostre graticole su cui poniamo le casserole e le pignatte, i quali triangoli, per quanto assicurano gl'intelligenti in materia di sette, erano altrettanti oggetti indispensabili a quei fanatici. Oltre i triangoli, vi avevano in quel luogo varie forchette a tre denti, dei dadi a tre facce, in somma il numero tre era molto ripetuto in quel luogo; ed in un quadro di grossolana pittura si mirava finalmente entro un triangolo dipinto uno sterminato occhio di bove. Quella sala era chiamata sala del comando o del gran maestro, poichè era in quella che gl'iniziati alla setta dovevano subire le strane prove per la definitiva ammissione e proferire il più terribile giuramento. La seconda sala, quella in cui metteva la galleria a sinistra, era chiamata sala d'aspetto, e là avevano luogo le abluzioni dei candidati, ed ivi si vedeva una gran vasca ad uso di bagno, un gran camino per scaldare le acque, caldaie, paioli, ecc., in somma vi erano tutti gli oggetti indispensabili alla cerimonia: quella sala era detta ancora la sala della purgazione.
Ahimè! lettori carissimi, questa sala a causa della arena che la ingombrò e delle alghe marine spintevi dai venti di libeccio è andata con le altre del tutto perduta, come un tempo si perderono le grandi città di Ercolano e di Pompeia! Ah! il tempo guasta gran cose, ma egualmente di grandi ne accomoda; e d'altronde è possibilissimo che fra diciasette o diciotto secoli qualche colono nel solcare la terra scopra le sale che vi ho descritte, ed i sapienti di quel tempo ne facciano una dottissima illustrazione degna di esser premiata dalle accademie che allora saranno nel mondo, a cui auguriamo ogni sorta di prosperità letteraria e scientifica.
Terminata che abbiamo appunto la descrizione delle catacombe, noi saremmo per introdurvi i lettori onde vedessero da per sè le cose descritte; ma riflettendo che essi ameranno più assai il vederle coll'occhio della mente quando il Caprone vi avrà introdotti i suoi aderenti, riteniamo dare nel genio dei lettori stessi riconducendoli nell'osteria dei Tre Mori allorquando il colloquio di Esmeralda e di Alfredo venne interrotto dall'improvvisa comparsa del monaco vallombrosano. I due amanti rimasero così colpiti a quella subita apparizione che non seppero proferire un accento.
I lineamenti del monaco erano ad essi affatto sconosciuti. Non così al monaco la fisionomia di Esmeralda, sebbene fosse la prima volta che si trovava al cospetto di questa fanciulla.
—Amalia! sclamò; gran Dio!
—Amalia…. Amalia…! gridò alla sua volta la fanciulla.
Alfredo non sapea come spiegare la venuta del nuovo personaggio e le parole di lui non meno che quelle dell'amata giovane. Dal mattino in poi egli era passato di emozione in emozione, di orgasmo in orgasmo; quanti affetti! quanti dolori!
Il monaco era rimasto in silenzio dopo la fatta esclamazione; egli stava concentrato nella più strana rimembranza; più guardava Esmeralda, e più sembravagli sognare.
Il giovane uffiziale voleva rompere il silenzio. Chi dava diritto ad un estraneo d'introdursi in quella camera? qual'era la sua missione? Ma la fanciulla ruppe il ghiaccio da cui sembravano tutti sorpresi all'improvviso e, con quella semplicità che distingue gli Indiani,
—Buon padre, prese a dire, se voi cercate di mia madre, ahimè! la cercate invano: ella riposa sotto la terra odorifera della Guadalupa.
—Dunque, lode a Dio! non mi ero ingannato. Oh previdenza celeste!—
E congiunte le mani, levolle al cielo in atto di fervorosa preghiera; quindi rivolto alla giovine, come se già ogni arcano fossesi svelato intorno alle condizioni della misera coppia,
—Non cerco la madre, cerco la figlia, la figlia di Amalia, prese a dire come ispirato.
—Son io, sì, son io; ebbene che volete da me?—
Il giovane militare, fattosi avanti e preso un poco di coraggio dopo sì strana apparizione,
—Signore! disse al monaco, io non vi domanderò con qual diritto siete qui penetrato; rispetto il sacro vostro carattere, e, non v'ha dubbio, voi qua moveste con ottimo fine; pure io ritengo che ad altre persone sieno dirette le cure vostre e che voi abbiate errato nel dirigervi a questa camera. Qui, signore, non vi sono persone da salvare come voi dite; ciò dimostra chiaro il vostro abbaglio. Io non vi licenzio, ma vi faccio osservare che la vostra presenza agita molto i sensi della mia compagna.—
Infatti Esmeralda nel guardare il frate pareva venir meno.
Il monaco non rispose alle osservazioni ed all'invito del giovane; era disposto a tutt'altro che ad allontanarsi.
—Fanciulla infelice! continuò dirigendo sempre le parole ad Esmeralda, fanciulla infelice! di voi cercava, voi voleva…. (e qui gli brillò in fronte un rassicurante pensiero): fanciulla, continuò, vostra madre qui mi manda e vi aspetta.—
Gli occhi di Esmeralda scintillarono di luce insolita; essa parea risorta dallo stato di debolezza in cui l'aveva prostrata il colloquio coll'amante suo. Con quella vivacità che forma il leggiero carattere delle Americane, essa non pensò che la madre era stata da lei stessa accompagnata alla tomba. L'eccesso della gioia nel sentire che la madre la chiamava le fece momentaneamente smarrire la ragione; e coll'imaginazione infiammata di cui noi l'abbiamo veduta dotata, colla educazione ricevuta in una tribù di selvaggi, col passionato ardente suo carattere, in lei l'esaltazione era al colmo. Imbevuta dei principii del fratello senza averne approfondito il valore, credendosi una creatura privilegiata, non dissimile dalle fatidiche donne d'Israello che infiammavano e guidavano alla pugna intere falangi, posta nella situazione di madre, di amante, di settaria…., ora qualunque altra specie di affetto se non potea giungere a spezzarle il cuore, era certo però che la ragione doveva almeno rimanerne sconcertata e sconvolta: talchè, preso di sopra il letticciuolo uno scialle ed avvoltavi la elegante persona,—Andiamo, disse, o buon religioso, andiamo: la nave sarà all'áncora, non facciamo più oltre attendere la madre che tanto mi aspetta.—
Il monaco, nel vedere Esmeralda, era stato colpito dalla rassomiglianza fra lei e la estinta Amalia. Un ritratto effigiato in un medaglione pendente dal collo della giovanetta aveva persuaso padre Gonsalvo che egli non s'ingannava nel ritenere la infelice fanciulla come figlia di quella stessa Amalia che egli molti anni prima aveva unita in matrimonio segreto col giovane Artini. Tal riconoscimento bastò per fargli desiderare di salvare anco questa dall'imminente pericolo della notturna assemblea, sebbene il primo pensamento del frate fosse quello di porre in salvo Alfredo e Rosina, e di servirsi della mutua passione di Esmeralda e di Alfredo onde impedire che il giovine uffiziale andasse alle fatali catacombe. Il morente sgherro gli aveva svelato il luogo del convegno, gli amori dei due giovani e l'osteria ove avrebbe potuto ritrovare costoro. Padre Gonsalvo, che da prima voleva fare di Esmeralda un semplice mezzo di salvezza, non sì tosto si avvide che quella sventurata creatura era figlia di altra non meno infelice ed amabile donna, fermò in pensiero di liberare essa pure; ed il cielo lo aiutò col prodigioso ed istantaneo smarrimento della ragione della giovinetta americana.
Alfredo, ripresa la padronanza di sè medesimo, dopo lo stupore in cui avevalo gettato questo nuovo avvenimento e l'improvvisa esaltazione di spirito di Esmeralda, la quale erasi messa d'accordo con quel bizzarro frate, fattosi alla porta della stanza, come per impedire che i due uscissero, sospinse indietro il buon vecchio, il quale aveva presa sotto il braccio la fanciulla.
—E che? gli gridò questi con dignitoso rimprovero, e che? osereste voi forse impedirmi di salvare la creatura che amate?
—Debbo io affidarla ad un incognito? qual diritto ne avete voi?
—Il diritto che dà l'Onnipotente di togliere dall'abisso le creature innocenti.—
Tanta era la maestà di padre Gonsalvo negli atti e nelle parole che il giovane Alfredo provava, suo malgrado, un'impotenza ad opporglisi; pareva inchiodato in ogni suo movimento, e la parola istessa gli moriva sul labbro. Pur nullameno balbettò:
—Ma di grazia, padre, chi siete voi? chi vi manda? ma voi….—
Il buon frate, senza dargli agio ad ultimare la frase, sollevata la fanciulla, che tutta ilare e fuor di sè lo seguiva, stupida a segno da non volgere nè anche uno sguardo all'amante diletto, si avviò per il tenebroso corridoio.
Alfredo voleva seguirlo: ma un gelo lo sorprese in mezzo al cuore, le membra ricusavano prestarsi al più piccolo movimento; invano tentò chiamare aiuto, poichè il labbro era incapace di proferire un accento. Era la mano di Dio che lo voleva liberare dall'abisso; egli cadde spossato a piè della scala che metteva all'appartamento superiore.
L'oste, l'ostessa, Concetta e tre o quattro beoni i quali stavansi nella cucina non si fecero veruna meraviglia mirando passare il frate colla fanciulla sotto il braccio. Costoro ne vedevano tante delle cose straordinarie in quella taverna che nulla vi era che potesse farli stupire. Padre Gonsalvo, giunto che fu sulla via, si fece più celeremente che potè al ponte della Crocetta, sempre traendo seco la vaga giovane; e veduta là una vettura, fatto cenno al cocchiere di fermarsi, fe' in quella salir la fanciulla ordinando, salitovi egli stesso, al cocchiere di partir di galoppo per Pisa. Il vetturino non fiatava ed obbediva all'istante, conoscendo il ricco padre abate: e chiunque abbia idea di Livorno sa qual rispetto porti la plebe per l'abito e pei rusponi dei ricchi monaci di Montenero. Ei non fece motto nè interrogazione: e poi quando mai i vetturini interrogano sul contegno, sia pure misterioso, dei loro avventori se questi hanno pingue la borsa?
Durante il viaggio, la povera Esmeralda, sempre fuor di sè stessa, non parlò di altro che della madre. Il monaco non le rispose mai, lasciandola in quello stato di aberrazione mentale che dava una tinta indefinibile al viso angelico dell'adorabile creatura. Conservando il silenzio, ripensava in sè stesso alle inesplicabili vie della provvidenza. Quanti casi erano succeduti in poche ore! quanti altri avevano a succederne, e come s'incalzavano gli avvenimenti con incessante celerità! Faceva duopo di togliere ad Esmeralda la facoltà d'indurre il giovane amante a recarsi all'assemblea, e ciò era riuscito quanto al salvare ella stessa; ma, per essere sicuro che il giovane non precipitasse in quel periglio, era duopo di tutta l'energia di Gonsalvo, il quale, tratto disotto la tonaca un ricco oriuolo, vedendo essere le sei pomeridiane ed avanzare sei ore alla mezzanotte, mise un sospiro doloroso, pensando a quanto ancora rimanevagli a fare.
Era evidente il pericolo che presentava per i congiurati la riunione alle catacombe; dappoichè, come il frate ben pensava, tal ritrovo doveva essere ormai scoperto ai magistrati dopo la morte dello sgherro e la cattura dell'altro birbante. Era duopo non solo liberare Alfredo e Rosina, ma sì pure quel misterioso individuo amatore di quest'ultima, che, in conseguenza delle scoperte fatte, il buon frate tenea per certo esser fratello di Esmeralda, e quell'istesso Giovanni da esso tenuto bambino sulle ginocchia, quel Giovanni così sensibile ed intelligente! E come salvare anche lui? Dove trovarlo? Come sperare di ridurlo, avendo inteso da Rosina esser egli un uomo straordinariamente tenace in ogni sua volontà? Ciò superava di troppo le forze del buon monaco: il tempo stringeva; bisognava trasportare Esmeralda al luogo di sicurezza da lui ideato; bisognava pensare ad Alfredo e Rosina, tornare a Livorno e pur anco al convento: sebbene quanto al convento gli desse ciò meno inquietudine, avendo egli, come superiore, la facoltà di rientrarvi a qualunque ora di notte; ma pure avrebbe amato tornarvi, onde non dar sospetto ai monaci, che son piuttosto curiosi. Il buon frate in tanta ambascia era pur sempre frate, e perciò con religiosa rassegnazione esclamò fra sè stesso: Io farò tutto quello che uomo al mondo può fare; il resto si abbandoni alla volontà di Dio. Padre Gonsalvo per certo non andava errato, misurando tutto il pericolo a cui giovani sconsigliati andavano incontro se fosse stato scoperto il luogo del loro clandestino ritrovamento e vi fossero stati côlti sul fatto.
Le leggi erano le più severe e rigorosamente osservate in tal maniera; troppo premeva alla pubblica quiete l'estinguere le cospirazioni col sangue dei cospiratori; e mentre il vigile magistrato dopo la rivelazione di Topo aveva saputo doversi nella notte congregare i congiurati tutti nella sala delle catacombe, pensò essere inutile pel momento il farsi dal masnadiero palesare i nomi dei congiurati stessi, ma meglio essere colpirli sul fatto nel luogo medesimo del loro delitto, ed a ciò fare avea drizzato tutte le sue mire. Intanto era giunta a Livorno notizia che altre congiure erano state sventate in diverse provincie e puniti di morte alcuni dei cospiratori ed altri tratti in catene. Il carbonarismo ognun sa come in quell'epoca avesse l'ultimo crollo: ed il magistrato già si rallegrava del bel colpo che era per fare. Ma lasciamo che costui si adopri in proposito e torniamo a padre Gonsalvo.
Sonavano le otto all'orologio della torre pretoriale di Pisa che già le reverende madri di Santa Chiara avevano tra le loro sante mura la infelice ed appassionata Esmeralda. Le melodie dell'organo, i sacri cantici, le tenere cure di quelle ancelle di Dio se calmata avevano l'effervescenza della giovane Americana, non le avevano restituito la ragione, che Dio le avea tolta onde liberarla da più tremenda sciagura.
Padre Gonsalvo, ritornato a Livorno intorno alle dieci ore, assicuratosi che Rosina era nelle mura della casa materna, che Alfredo vi era ritornato dopo la burrascosa scena dell'osteria dei Tre Mori, dette opera ad alacremente provvedere che il suo favorito Giovanni sfuggir potesse all'estremo periglio; ma vi riuscirà egli? Lo vedremo a momenti.
Si avvicina mezzanotte. Giovanni, ignaro di quanto era successo alla sorella e ad Alfredo, ai due subalterni Cacanastri e Topo, fino dal mezzodì se ne stava intanato nella sala delle catacombe ricevendo ad uno ad uno i più diligenti fra i congiurati: aveva con loro svolto varie carte, ammonendoli a star saldi nella decisione che erano per prendere nella futura notte. Giovanni fidava nel grande ascendente che aveva su Rosina, sopra Alfredo, sulla entusiasta Esmeralda, per esser sicuro che eglino non avrebbero mancato di intervenire alla notturna assemblea; e già aveva segnati i capitoli delle operazioni imminenti, da cui presagiva un esito felicissimo.
Ma a qual pro, diranno i lettori, volea Giovanni fare intervenire alla tenebrosa assemblea una timida e dilicata fanciulla qual'era Rosina? Giovanni in ciò aveva le sue buone o cattive ragioni: ei voleva sempre più impressionare i settari che nulla a lui era impossibile; e d'altronde era vago di brillare in faccia all'amata fanciulla nell'apogeo della sua gloria. Le catacombe eran per lui il suo mondo, il suo seggio; era là che poteva comandare ed essere obbedito, di là dettar leggi all'universo; giovane di ventisei anni, bisogna compatirlo se ei bramava dare ampia idea della propria potenza alla donna del suo cuore: e questa è la ragione per cui bramava che Rosina venisse al convegno.
La sala del gran mastro è già ripiena della folla de' congiurati.
È mezzanotte: la squilla lugubre di un oriolo a pendolo l'annunzia con dodici tocchi; i quali simultaneamente vengono ripetuti dall'orologio della piazza d'arme e del lazzaretto, dalle campanelle delle sentinelle che vanno mutando di fazione. La notte è cupa, nessun lume si vede nei dintorni di San Iacopo, la spiaggia è deserta.
Ma già l'ora fatale è nuovamente rimbombata per l'aere nei suoi dodici tocchi. Il sotterraneo è già pieno dei più fedeli al giovane entusiasta. Egli è al primo posto della tavola rotonda ed ha innanzi a sè alcune carte importanti; le pareti sono illuminate dalle faci che noi abbiamo già descritte. Giovanni batte tre colpi su uno scudo di bronzo che ha sopra la gran tavola. Il più cupo silenzio regna fra i radunati. Giovanni spia per quella folla onde vedere la testa dell'amata, di Esmeralda e di Alfredo; le sue indagini sono vane: egli batte tre tocchi nuovamente sul grave scudo, e l'eco li ripete per quei vasti sotterranei; tutti i radunati s'inginocchiano.
—Esmeralda? grida il giovane capo.
Nessuno risponde.
—Alfredo? esclama allora impaziente.
Nessuno risponde.
—Rosina? grida più vivamente ed appassionatamente il capo.—
Nessuno risponde.
Un personaggio però inaspettato, che produsse un misterioso terrore su quella fanatica assemblea, si presentò sulla porta.
Prologo Pag 7
CAP. I —Il Caprone » 12
» II —Rosina » 36
» III —Festa da ballo in maschera » 55
» IV —Fratello e sorella » 76
» V —Vicende » 96
» VI —Esmeralda » 117
» VII —Le catacombe » 133
Allora lo spettro si avventò sopra l'empio che fuggiva.
Vol. II, pag. 133
Romanzo
AUTORE DEI ROMANZI
ASTORRE MANFREDI
e
IL DUCA DI ATENE
MILANO
PRESSO LUIGI CIOFFI EDITORE-LIBRAIO
Via di Chiaravalle, N. 11 rosso.
1862
Proprietà letteraria dell'editore, che intende far valere i propri diritti a norma di legge.
Milano—Ditta Wilmant.
Sorpresa.
—Iago! esclamò con la maggior sorpresa il Caprone.
Il negro, sebbene cadente per la grave sua età, senza rispondere, si fece largo tra la folla dei congiurati e si avvicinò al tavolo. Ivi giunto, incrociate le mani al petto in segno di riverenza verso il gran capo, pronunziò alcune parole in un linguaggio ignoto a tutti quelli adunati. Il Caprone gli rispose nello stesso linguaggio, e i congiurati stupefatti si guardarono l'un l'altro. In quell'istante si udirono accelerati passi di molte persone dentro il corridoio; si sentivano voci di sdegno e rumor d'armi che già rimbombava verso la sala del gran maestro. Non poteva dubitarsi sulla qualità di coloro che s'inoltravano; poichè, oltre il romore delle armi che accennammo, si vedeva un insolito chiarore avanzarsi dalla parte del cortile sotterraneo. Infatti due uffiziali e molti soldati che portavano corti fucili e fiaccole eran giunti allo sbocco della sala del gran maestro e già stavano per irrompere sull'assemblea. Non furono però in tempo.
—Hourrah! esclamò il Caprone percuotendo con forza il pavimento di legno col piede destro; ed il pavimento, sebbene grave di tutte quelle persone, girò allo scattar d'una molla sui cardini che stavangli ai lati, e rovesciatosi impetuosamente toccò con un'estremità la volta, precipitando nel sottoposto abisso il Caprone, il negro e tutti i congiurati, e restando verticalmente, come una barriera insormontabile, sull'imboccatura della sala, in guisa da impedire agli armati di penetrare in quella. Il fragore fu orribile: invano i soldati tentarono di rompere quella parete di legno; quell'intavolato era grosso oltre un sesto di braccio e, munito di grossi chiodi, sfidava i colpi dei calci di fucile e delle scuri dei sopraggiunti, i quali, confusamente urlando ed imprecando per la fallita impresa, furono costretti a ritirarsi.
Ma i congiurati usciranno poi dal baratro ove li ha fatti piombare insieme con lui il loro misterioso capitano? oppure avranno eglino preferito una morte volontaria al portare la testa sul patibolo? Il resto della storia ce ne farà consapevoli. Ma intanto ci convien tener dietro ad un nuovo personaggio, fino ad ora sconosciuto nel nostro racconto; questo personaggio interessante non è altri che il signor Basilio.
Il signor Basilio è un uomo di mezza età: la sua professione è quella di onesto mercante; e se la sua qualità di mercante non può impugnarsi… forse la qualifica di onesto potrebbe incontrare degli ostacoli: ma tiriamo innanzi. Il signor Basilio ha un bellissimo modo di farsi strada nella pubblica estimazione: cortese con tutti, puntualissimo nel pagare chi avanza, puntuale nel riscuotere i suoi crediti, sapeva condire con molta affabilità anche qualche parola da per sé stessa un po' aspra; aveva sempre un risolino sulle labbra, teneva abitualmente gli occhi bassi; le paroline sue eran sempre melate, aveva una flemma inalterabile; il suo vestiario era pulito e quasi elegante, ma però sempre di un taglio antico; declamava ognora sulle bricconate del mondo; nemico giurato del progresso, aveva la precauzione di non urtar peraltro i progressisti, praticava con loro un contegno urbanissimo; rispondeva con monosillabi inchinando il capo, tossendo spesso e mostrando un aspetto arrendevole ed ossequioso; teneva o per vezzo o per abitudine il capo un poco pendente sulla spalla destra; sempre sbarbato, il suo viso di trentacinque anni pareva che ne dimostrasse venticinque; la cravatta bianca colla quale fasciavasi il collo faceva spiccare il rubicondo delle sue gote infiorate di un'eterna primavera. Il degno signor Basilio era insomma uno di quegli uomini che sanno stare al mondo. Non avendo prossimi parenti, se ne stava in un quartiere a pigione in una delle strade meno di grido, poiché amava la quiete: e siccome il mondo è inclinato a pensar male anche delle cose più oneste, il signor Basilio non aveva voluto né serva né servitore, e si era acconciato con una vecchia vedova, come suol dirsi, a dozzina o a retta: aveva nel suo quartiere una cameretta tutta decente e pulita, adorna di quadri di sacro tema; poi uno spogliatoio per le vesti, un salottino per mangiare, un'altra stanzetta per i bagagli. Le tende delle finestre della di lui camera e quartiere stavano chiuse, egualmente che i cristalli di esse, tanto di estate che d'inverno: e, tranne il caso che una decrepita serva entrasse a spazzare le stanze ed aprisse un pocolino l'invetriata alzando la portiera, nessun occhio curioso si era potuto ficcare nell'abitazione del signor Basilio.
Chi poi dei suoi vicini non avesse avuto orologio poteva servirsi del signor Basilio; poichè egli era periodicamente preciso nel suo uscire e nel suo entrare in casa la mattina, all'ora di pranzo e nel riporsi la sera, a seconda del crescere o del calare delle giornate. Ed infatti nell'estate e nell'autunno, quando usciva al mattino, erano le sei; quando tornava a pranzo, le due pomeridiane; quando di nuovo sortiva, le quattro; quando rientrava, le otto; e nell'inverno e primavera egli usciva alle sette, ritornava alla una, ed uscendo fino alle sei, a quest'ora si rintanava.
Pe' suoi negozi aveva una bottega cui assisteva solo, facendo da commesso e da principale insieme; e solo una volta la settimana si serviva del facchino di un vicino banco perchè spazzasse il suo e gli accendesse ogni sabato il lume all'imagine di sant'Omobono protettore dei mercanti, e mutasse la padelletta al gatto che periodicamente stava in bottega ed al quale il degno signor Basilio portava ogni dì il vitto dentro una pezzuola da naso turchina.
Pel signor Basilio non ci erano conversazioni, non c'erano teatri nè spettacoli; e tutto il tempo che si permetteva di sollazzo era quello impiegato dal Credo all'Angelus nella bottega del tabaccaio vicino e dall'Angelus al De profundis alla Coroncina e pia meditazione alla Cappellina dei catecumeni, della cui compagnia era stato più volte governatore. Come ognun pensa, il signor Basilio non avea per certo avuto in capo la minima idea per le donne. Oibò! Eppure, è venuto il tempo di dirlo ai lettori, ed essi faranno, udendolo, un tanto di Oh! eppure il signor Basilio era molto addentro nelle buone grazie della signora Guglielmi, e, vedete bene, faceva i fatti suoi molto riservatamente, perchè in realtà non lo abbiamo mai veduto nè a prendere il thè nè a fare la partita ai quadrigliati presso la signora e molto meno all'ultima festa di ballo in maschera. Dio guardi! Le maschere erano di orrore al degno signor Basilio, il quale nei giorni del carnevale teneva il suo negozio chiuso, non usciva quasi mai di casa e qualche volta passava quei giorni di tripudio o di pazza gioia e di peccati i più grossi presso i suoi buoni amici i religiosi conventuali, in devoti esercizi. Pure il signor Basilio era, se non in tutto, almeno due terzi padrone a casa della Guglielmi; e, quello che è maraviglioso, non ne sapevano nulla nè Rosina nè Alfredo; e, cosa ancor più straordinaria, non ne sapeva nulla la gente di servizio ed in ispecie la oculatissima Mary.
La mattina stessa in cui abbiamo veduto tanto in angosce Rosina ed Alfredo, in dolori Esmeralda, in trame più cupe il Caprone, cioè il cospiratore Giovanni, molto sul tardi fu sentito dare un buffetto all'uscio dell'appartamento segreto di madama Guglielmi: e sembra che quel modo di picchiare fosse conosciuto dalla signora, la quale fece un atto d'impazienza nel sentirlo; poichè quella visita non era aspettata e nemmeno gradita, distraendo la signora da una interessante lettura. Ripose ella il libro; ed appena proferita la parola—Entrate—compariva sull'uscio della camera il signor Basilio, che fece due profondi inchini, col secondo dei quali si avvicinò a madama, che, giusta il costume del secolo decorso, porse la bianca mano al degno cavaliere, il quale la baciò con trasporto, soggiungendo con voce dolcissima, pure alquanto stridula:
—Vi chieggo scusa, o madama, del disturbo che io per certo vi arreco…, ma non ho potuto resistere al piacere di augurarvi il buon giorno e dimandarvi notizie della preziosa vostra salute, che io voglio sperare non sconcertata dalle fatiche della danza.
—Mille grazie, ottimo signor Basilio! replicò la dama, graziosamente ritirando la mano sulla quale egli aveva deposto il bacio aristocratico.
—La vostra cortesia mi onora infinitamente nè so come potermene mostrar degno; io, davvero, povero mercantuzzo, voi dama pregiatissima, rampollo della più scelta nobiltà….
—Da banda le cerimonie, sempre complimentoso e compito al solito signor Basilio carissimo: ma voi sapete in quanto pregio vi tenga; onde fra noi non han luogo davvero i complimenti.
—Tutto effetto della incomparabile vostra cortesia; della quale tolga il cielo che io voglia abusare: permettetemi di conservare il più profondo ossequio verso una dama di tanto merito. Vi domandava adunque della vostra preziosa salute.
—Sono un poco stanca, signor Basilio, e nulla più.
—Oh! lode al cielo. Queste feste sono cose indispensabili: come si fa? quando si è nel grado in cui la provvidenza pose voi e la vostra famiglia, oh! davvero sono cose indispensabili.
—E le approvate voi? voi sì rigido, sì ritirato?
—Oh! madama, altro sono io, altra voi. Non può esistere idea di paragone: io sono un nulla, un nulla affatto; ignorato dal mondo, è giusto che io ignori il mondo; così ci trattiamo alla pari.
—Eh! caro Basilio, voi invano pretendete di celare la vostra immensa virtù; le beneficenze che spargete….
—Per pietà, madama, cessate di umiliare, elogiandomi, la nullità di un vostro servo devoto, e favelliamo d'altro. La signorina che fa? Si sarà stancata al festino. Degna giovane…., vero ritratto della madre!—
Madama sorrise di compiacenza.
—E quel degno signor Alfredo? qual ottimo giovane! oh! si conosce bene la discendenza del puro sangue degli eroi. Non mente, no, quel bollore guerresco che gli trapela dal viso; l'una è la casta Diana, l'altro il bellicoso Marte.—
E così dicendo si fregò le mani contento di avere sfoggiato questo gran pezzo di erudizione mitologica.
—Sono creature che prometton bene, replicò la dama.
—Gli amo tanto quei due cari giovani, continuò il signor Basilio; quanto sarà brillante il loro avvenire! Oh il loro avvenire! Ed avranno formato il brio della festa. Erano molti gl'intervenuti?
—Non vi era penuria di fanatici, caro signor Basilio, e poi oltre gl'invitati grande fu l'affluenza delle maschere.
—Non seguì nessuno inconveniente peraltro? richiese con affettata premura il signor Basilio.
—No, per grazia del cielo; ma quali inconvenienti potevano succedervi?
—Eh! signora mia, dico per causa delle maschere; chi sa mai quali facce si nascondono sotto la visiera?
—La vostra riflessione mi convince: buon Dio! sono tre giorni che non vi fate vivo; se foste venuto, io avrei profittato del vostro consiglio, e il mio quartiere sarebbe stato chiuso alle genti immascherate.
—Oh! se avessi potuto solamente sognare di esservi utile, potete ben credere, madama, che sarei volato qui al certo; ma in questi giorni di clamore, siccome il commercio non va, ed io non mi curo di tenere aperta la bottega e mostrare le mie merci alla folla dei matti, così mi ritiro a fare delle divote meditazioni sulla debolezza umana.
—Buon per voi! Io vorrei poter fare altrettanto.
—Madre giovane di figli giovani, sul fior dell'età, in un ritiro. Oh! non è questo il tempo. Ma a proposito, più che ci penso e più mi trovo io dalla parte dei torto: toccava a me a venire a suggerirvi…. (e così dicendo con atto di rammarico si percosse la fronte), toccava a me a venire a trovarvi, ad avvisarvi d'un pericolo; ma….
—Di qual pericolo, in grazia? prese a dire madama Guglielmi scorgendo un certo non so che di mistero nelle maniere e nelle reticenze del signor Basilio.
—Eh! vi dirò…. ma già lo saprete; una certa voce….
—Non so nulla; spiegatevi.
—Si dice…. ve', forse saranno chiacchiere; si dice che anche a
Livorno possa esservi una setta demagogica.
—Misericordia! sclamò spaurita la signora, che dite mai? E guardò il signor Basilio, il quale dal canto suo fissava la vedova con sguardo significante.
—Credeva che ne aveste sentito, così come io, vociferare.
—Vi ripeto che non so nulla, anzi sarei ansiosa….
—Vi soddisfaccio subito; ma, guardate, non intendo di accertare la cosa e desidero anzi che siano fandonie, cara madama: voi avreste orrore; si tratterebbe di voler far man bassa sui nobili, sui ricchi, sulle persone e, piango in dirlo, fino sui ministri di Dio; anzi da questi vorrebbero incominciare quei manigoldi e quei demonii.
—Ah! caro signor Basilio, una specie di 93 dunque?
—Altro che 93! quei diavoli si appellano carbonari ed hanno le carbonaie dappertutto, veri tizzi d'inferno; pur troppo le avranno anche qui! anzi da certi discorsetti che ho sentito in un luogo…. (e nel dire queste parole guardò maliziosamente madama).
—Buon Dio! voi mi atterrite.
—Siccome costoro ad altro evidentemente non mirano che a fare scoppiare il disordine, chi sa che anco una festa di ballo non potesse essere stata acconcia ai loro tristi divisamenti? Ma basta; ora il pericolo è passato, e può essere anche non esistito: sia lodato il cielo!—
La signora trasse un cocente sospiro.
—E…., guardate la combinazione, senza un certo discorso sentito bisbigliare nella bottega del tabaccaio che sta sui quattro canti, io forse non sarei venuto così presto ad incomodarvi: non vi terrò in pena nel dirvi tutto; prima peraltro fa duopo che mi diciate se è vera una cosa.
—E quale?
—Che alla vostra festa un numero considerevole di maschere che mai non si levarono la visiera avesse sull'abito appuntata una camelia rossa.
—Verissimo, e che perciò?
—Oh! non vi faccia specie: le buone persone stanno attente a tutto, anche i più piccoli segnali non isfuggono alla vigilanza dei magistrati; e tante volte da insignificante indizio sonosi scoperte le trame dei malvagi. Quel segnale così ripetuto sappiate, signora, che dette nell'occhio; e siccome il mondo è dedito a mormorare, nè mai si fa tanto che basti per evitare lo scoglio della maldicenza, il mondo questa volta ha trovato un ninnolo, vedete, un'inezia, ma pure qualche cosa contro di voi, ottima e rispettabile madama Guglielmi.
—Contro di me? esclamò la signora tirandosi addietro sulla poltrona ove stava mollemente adagiata, di me? E che vi è da ripetere sul mio conto?
—Oh! duolmi di avervi dato un dispiacere; nel caso perdonatelo al mio zelo, alla mia inalterabile affezione per voi: non parlo più.
—No, no, anzi dovete parlare; vedete, sono già tranquilla, ma non ho potuto reprimere un momento istantaneo di collera nel sentirmi ingiustamente censurata.
—Ingiustamente sicuro! coloro che parlavano nella bottega del tabaccaio le tengo per le peggiori linguacce della città.
—Su via dunque…
—Il discorso è andato così: «Bella festa!» diceva uno degli avventori spuntando un sigaro. «Bella davvero!» diceva un altro, è stato anche chiuso il teatro.» «Bellissima!» prendendo parte al colloquio entrò a dire per terzo il padrone di bottega. Ed il primo interlocutore, il quale ha una chiacchiera da sfidarne qualsivoglia ciarlatano, «Eh! eh! soggiunse, ma sarà poi liscia la cosa?» «Che? c'è forse del mistero? rispose l'altro, dicci un po' qualche cosa; tu che sei un birro riposato devi saperne delle belle, ai tuoi occhi non può sfuggir nulla.» «Sono riposato, riprese l'ex-famiglio, ma non sono stracco; il male è che non conto più nulla, ma giocherei che quella vedovina ha dato il festino per un pretesto.»
—Per un pretesto! esclamò la signora Guglielmi alzandosi dal seggiolone e ricadendo sul medesimo.
—Lasciatemi continuare, replicò con calma il signor Basilio. «Dunque dovete sapere, amici cari, seguì a dire l'ex-birro, dovete sapere che i belli spiriti moderni, questi innovatori del diavolo, le vanno cercando tutte; dunque dovete sapere che al festino della suddetta signora vi era una quantità di gentaccia immascherata, e questa gentaccia non era là senza qualche segreto fine: ma scoprirò io la faccenda, e se ci riesco….» Il tabaccaio, che è un galantuomo di quelli proprio della stampa antica, prese a difendervi con calore.
—Graziosa! prese a dire madama Guglielmi mordendosi le labbra con un certo dispetto: dopo le accuse gradirò conoscere cosa disse il mio difensor tabaccaio.
—Disse essere impossibile che una nobile signora del vostro carattere, dei vostri sentimenti aristocratici, tollerasse nè anche il puzzo della demagogia in casa propria.
—Fortuna, replicò con vivacità madama, fortuna che il sinistro sospetto passò per la testa di una persona volgare! per il che sarebbe pazzia l'adontarsene. Ah! ma tutto questo segue perchè son vedova; se io avessi un uomo cui appartenere, le cose non passerebbero così.—
E lanciò una tenera occhiatina al signor Basilio.
—Verissimo, rispose costei umilmente inchinandosi col capo, verissimo: la lingua sfrenata del maldicente percuote più facilmente le vedove isolate e leggiadre, alle quali si fanno i conti addosso con molta malignità. Quel temerario di birro riposato parlava delle spese vistose in cui vi siete messa, concludendo che avesser bisogno di qualche segreto aiuto; e siccome le sêtte si vuole possedano molti tesori, ei diceva che coll'oro….
—Non terminate l'iniqua frase, esclamò accesa di sdegno madama Guglielmi; temerario! dubitare della discendente dei conti di Brienne! E voi, signor Basilio, amico qual mi siete, non avete preso quel furfante pel collo e messolo fuori di bottega, oppure non lo avete minacciato in nome mio di farlo disdire avanti i tribunali e ricevere il meritato castigo?
—Mia buona signora, tutto riverenze, replicò il signor Basilio, sebbene io sia uomo di abituale calma, effetto del mio carattere, vi confesso che nell'udire l'empia bestemmia mi sono sentito venire il sangue al viso; ma in quanto allo schiaffeggiare, voi conoscete bene il mio cuore di pulcino: non mi vergogno; è effetto del mio timido naturale; nessuno si fa da sè.
—Ebbene ricorrerò io; la mia fama dev'essere rispettata….
—Su questo, colla mia solita prudenza, vi dirò che sono di opinione diversa; sono certi argomenti delicati che non conviene stuzzicare.
—Dunque sarà permesso alla plebe di denigrarmi? ed io me le sentirò dire senza prendere un'esemplare vendetta?
—Non dico questo, ma vi è il suo rimedio; in avvenire, madama, sempre riservandomi, vorrei essere un poco più oculato.
—Per esempio?…
—Per esempio: in molte coserelle…. ma badate, non vi offendete; è per carità fraterna che io mi azzardo a porger consigli.
—Dite, dite.
—Ecco: non vorrei introdurre in casa tanta gente forestiera.
—Come si fa? le convenienze….
—Sta benissimo, concordo: le convenienze sono tutto al mondo, è il perno su cui si aggira la gran macchina della civiltà; ma vi sono tante e tante cose che appunto sono convenienze, e convenienze da cui si può trar profitto per il proprio vantaggio.
—Caro signor Basilio, voi sapete che da due anni io mi lascio regolare da voi, e certamente ho ben ragione di ringraziarvi; voi siete il segreto mio Mentore, il mio vero amico, voi mi avete favorito dei vostri consigli e del vostro scrigno.
—Oh! quanto a quest'ultimo non merita il conto di parlarne…. sempre a vostra disposizione.
—Dunque, ritornando laddove mi avete interrotto il discorso, vi dirò che, essendo voi il mio Mentore, mi uniformerò a voi pienamente, e solo mi duole che persistiate a tenervi celato agli occhi del mondo, che bramerei conoscesse in voi il mio unico amico.
—Oh! madama, voi mi onorate di soverchio: io nulla sono, ve l'ho detto le mille volte e ve lo ripeto adesso; ma io so dare il vero peso alla parola convenienza, ed in fatti tutta la convenienza possibile vuole che la nostra amicizia appunto resti segreta. Cosa mai avrebbe detto il mondo se avesse conosciuto e conoscesse la bontà che avete per me? Chi sa quante chiacchiere, quanti castelli in aria? di voi si sarebbe detto che nuovo amore vi avrebbe fatto scordare l'antico; e poi chi sa quante annotazioni…? Di me, che un onesto negoziante, quando avvicina una nobile vedova e bella in specie, deve avere dei secondi fini; si sarebbe supposto che io abbia tesori a profondere, fatto il computo ai miei capitali, tirate malignamente delle conseguenze sinistre al mio buon nome infine ed al mio commercio.
—Voi siete la saggezza in persona.
—Troppo, troppo, madama!
—È però un fatto che io, carissimo signor Basilio, m'avveggo di non potere andare avanti su questo piede.
—E perchè mai? non sono io sempre ai vostri cenni? non già per farmi avanti, ma se vi accomodano altri due o tremila scudi, questi sono fino d'ora a vostra disposizione: anzi mi obblighereste infinitamente permettendomi di recarveli questa sera; ho più piacere che siano nelle vostre mani che nel mio scrigno.
—Grazie! per adesso non ho bisogno di prender somme ad imprestito. Riprendendo il filo del mio discorso, quando io poc'anzi vi diceva non poter durare su questo piede, intendeva parlare dello stato di vedovanza, parendomi conveniente il dare ai miei figli un consigliere col grado di secondo padre, essendo eglino ormai giunti ad un'età in cui l'autorità della madre non può produrre su loro che assai debole effetto.—
La vedova in dire queste parole lanciò un tenero sguardo al signor Basilio, il quale sentì montarsi al viso tutto quel verginale rossore di cui era capace ed abbassò lo sguardo. La signora continuò essa pure tenendo gli occhi bassi:
—Sì, carissimo amico, la bizzarra circostanza della festa mi ha fatto comprendere essere impossibile ad una vedova il salvarsi dalle censure del mondo; ho veduto che anche nella circostanza di dare una festa da ballo non son capace di regolarmi. Ciò accelera una spiegazione che io volea farvi da qualche tempo.—
Il signor Basilio, al momento di questa mezza dichiarazione, di cui prevedeva la conclusione, fece un viso serio e compunto, non dissimile da quello d'uno scolaro al momento di subire l'esame. Non interruppe con un sol motto la vedova, cosicchè ella continuò:
—Voi vedete, signor Basilio, in questa mia spiegazione l'effetto di quella prudenza che mi avete suggerita coi vostri consigli; ho consultata la mia ragione e vi paleso chiaramente trovarsi essa in pieno accordo col cuore.
—Oh! ne godo davvero, riprese il signor Basilio con una straordinaria affabilità Vostra Signoria pensa dunque a seconde nozze; io non saprei oppormici, anzi ne lodo il pensiero e gradirò conoscere la scelta, tenendomi lieto di essere sgravato della carica di consigliere.
—Tutto al contrario, caro Basilio, anzi mi sarete più efficace che mai.
—Ma se sono obbligato dall'amicizia e dalla carità a darvi quei pochi consigli di cui nella mia insufficienza mi credo capace, non saprei come darli ad una signora maritata. Orsù ditemi piuttosto dove cade la vostra scelta, chè la mia approvazione non mancherà di certo. Conosco la vostra prudenza.
—Possibile che non m'intendiate?
—Non v'intendo davvero, signora; nelle cose di amore sono veramente un bambino.
—Voglio crederlo, ma dite piuttosto che la vostra eccessiva modestia…. Ma orsù voglio dirla io questa magna parola; la mia età mi dà il diritto di dispensarmi dai pregiudizi in siffatta materia. Carissimo signor Basilio, ho pensato come un nodo consigliato dalla ragione non potrebbe da me meglio formarsi che unendo la mia destra alla vostra.—
Il signor Basilio non si scosse a questa dichiarazione d'amore di una donna quadragenaria; onde colla massima freddezza e come se si trattasse di negozio mercantile rispose:
—Ora ho compreso benissimo, madama, e come ben potete credere, ben volentieri aderirei alla vostra proposizione, anzi mi confonde l'onore che mi fate; ma la vostra scelta non poteva esser peggiore, provando io una decisa repugnanza pel santo vincolo del matrimonio.—
La vedova si morse le labbra dal dispetto: una donna, avesse anche 80 anni, non potrebbe conservare il suo sangue freddo sentendosi intonare una repulsa in chiare note di fronte ad una dichiarazione amorosa. Ambedue stettero qualche tempo in silenzio, e la signora Guglielmi si pose a sfogliare alcune carte per nascondere la sua confusione e far passare dalla sua fronte quel rossore che la rabbia e il dispetto vi avevano fatto salire. Il signor Basilio occupò questo tempo, con viso sereno e tranquillo e come se nulla fosse accaduto, nel tirare cinque o sei prese di tabacco dalla sua tabacchiera d'oro contornata di brillanti:
—Ebbene non se ne parli più, disse rompendo il silenzio la vedova e soffocando un sospiro di rabbia.
Il signor Basilio parve pensoso e finalmente, dopo la sua parte di silenzio, riprese:
—Signora, la manifestazione della vostra volontà e le ragioni che la animarono mi han posto, lo confesso, in un bivio: io veggo tutta la convenienza che un uomo di riflessione e di età possa entrare nella vostra famiglia, e dirò francamente che quest'uomo si rende quasi indispensabile; ed infatti, lasciando le piccolezze e considerando le cose gravi, io m'avveggo e convengo che i vostri due figli sono in quella età in cui naturalmente le passioni agitano e dominano il cuore umano, e ben difficilmente l'autorità d'una madre può giungere a liberare i suoi nati da quei pericoli che sono la conseguenza del bollor giovanile, specialmente in questi tempi, in cui la malizia arriva prima degli anni e che sono terribili per le idee progressive a cui volge il secolo. Una vedova può paragonarsi giustamente ad una vite a cui la tempesta abbia atterrato l'olmo che la sorreggeva.—
Madama Guglielmi a tal discorso sentì riaprirsi il cuore alla speranza.
—Ma, continuò il signor Basilio, io non sono inclinato al matrimonio.
—Ebbene proponete voi l'uomo che mi conviene, soggiunse la signora
Guglielmi, nascondendo il dispetto.
—Dio mi guardi! riprese ipocritamente il nostro Basilio; suggerire la scelta! Il cuore è libero; e poi qui a Livorno, ve lo dico schiettamente, sarebbe peggio il rimedio del male e….
—Ma dunque? interruppe madama Guglielmi impaziente, sacrificatevi al bene di un'amica.
—Madama, quando io pure potessi vincere l'antipatia per lo stato coniugale, la mia unione con voi sarebbe contro tutte le convenienze.
—E quali sarebbero di grazia le sconvenienze nel mio maritaggio con voi, signor Basilio?
—Moltissime, signora Guglielmi, e posso enumerarvele: primieramente voi mi siete debitrice di quarantamila scudi.
—Possibile? gridò la signora Guglielmi atterrita.
—I miei libri parlano, riprese tranquillamente l'ipocrita. Signora mia, il debitore si scorda facilmente la cifra de' suoi debiti, ma al creditore la cifra resta sempre impressa nella memoria.
—Ma, perdonate, non mi prestaste voi diecimila scudi?
—Non lo contrasto: per altro voi sapete che io feci un sacrifizio alloraquando per pura amicizia ebbe luogo lo sborso; voi non sapete che nelle mani di un commerciante è incalcolabile il frutto che può dare il denaro; voi ignorate gli scapiti per le speculazioni fallitemi per non aver la detta somma all'epoca della scadenza; sicchè calcolando i danni, gl'interessi, i frutti dei frutti, insomma tutto bilanciato, posso dirvi che se la somma che attualmente mi dovete è di quarantamila, è per effetto di longanimità.
—Gran Dio! proruppe madama Guglielmi, ma siete voi il solo che calcola in questa guisa; la mia adesione….
—La vostra adesione vi è benissimo: e non vi ricordate la cambiale che firmaste tre sere prima del festino?
—La cambiale? esclamò madama percuotendosi la fronte: come? io ho firmata una cambiale per quarantamila scudi? E non mi diceste che era il semplice rinnovo dell'antico mio debito?
—E credevate voi che io volessi danneggiare il mio commercio? Il foglio parla chiaro e non occorrono schiarimenti.—
Madama Guglielmi, vedendo il riso sardonico dell'iniquo amico, si sentì côlta da brivido febbrile: s'avvide di esser perduta ed indegnamente tradita; ella avea firmato il foglio senza pur leggerlo; riandò nella mente colla maggior celerità se vi fosse modo di sodisfare quel mostro, ma dolorosamente dovette convincersi che le sue dissestate finanze non potevano fornirgliene il mezzo. Si avvide di essere in balía della volontà di quell'uomo terribile e, mentre sentiva bagnarsi la fronte del sudore dell'angoscia, non fu capace di proferire parola.
—Secondariamente, proseguì il signor Basilio con quel suo infernale sogghigno, si oppone al nostro maritaggio l'opinione del mondo, il quale, conoscendo me per vostro creditore, potrebbe credere lo fossi divenuto per giungere al possesso della vostra mano, che io nell'amichevole imprestito fossi stato animato da secondo fine d'impalmare la vedova di un generale distinto….
—Ma, interruppe madama severamente, il mondo conosce quali interessi passino fra voi e me? I vostri registri son eglino cosa del pubblico?
—Non dico nè sì nè no; cioè distinguo: se voi per pubblico intendete gli sfaccendati e gli oziosi, oh! certo, no che io non mostro i miei registri a costoro. Ma se per pubblico intendiamo quegli uffizi ove esistono impiegati che devono conoscere indispensabilmente gli affari dei galantuomini, certamente il pubblico conosce la somma che io avanzo da voi.—
Madama era annichilata sotto lo sguardo del signor Basilio, il quale, senza mostrare di conoscere l'orgasmo della vedova, continuò:
—È vero ch'io professo la maggiore stima verso i signori impiegati nell'uffizio delle ipoteche e son certo del loro silenzio fino a che non sentissero parlare di noi; ma non potrei ripromettermi d'altrettanto alla notizia del nostro matrimonio. In generale le seconde nozze fanno sempre ciarlare; molto più lo farebbero le vostre, chè siete persona di alto rango. Vi è ben noto quanto io sia nemico del sentir parlare di mia persona; pure, se vi fosse un qualche mezzo termine….—
La vedova, fra la vita e la morte, ricovrata la parola, proferì:
—Su via, non mi tenete in tanta angoscia, parlate.—
Il signor Basilio si concentrò in sè stesso facendo una cera da ebreo convertito e traendo un lungo sospiro:
—Faccio uno sforzo nel proporlo, uno sforzo terribile.—
Madama era stupefatta.
—Ah! non sia mai detto che abbia abbandonata la causa dell'amicizia.
—Per carità, non mi tenete angustiata!
—Mentre tutte le convenienze si oppongono a che io divenga vostro sposo, potrebbe tollerarsi ch'io divenissi vostro genero, quando pur me ne crediate degno.—
La gran parola era finalmente scagliata; il signor Basilio avea, come dice il proverbio, presa la lepre col carro.
La signora Guglielmi fece il volto più livido di un cadavere: il suo amor proprio, già sacrilegamente oltraggiato nella ripulsa a sposare lei stessa, lo diveniva doppiamente nell'attuale proposta, per lei tinta del più amaro scherno. Ma si può egli transigere con un creditore di quella tempra che in tre anni aveva quadruplicato il capitale? Madama non ebbe forza di rispondere; chi sa che cosa avrebbe detto in quell'istante, se dalle di lei gelide e convulse labbra avesse potuto uscir la parola?
Il furbo per altro non interpretò favorevolmente il silenzio della signora, dai cui occhi partivano lampi di sdegno. Laonde con una vocina dolcissima ed in basso profondo:
—Mi pento, signora, d'aver parlato: la nostra conversazione è arrivata a un punto ben lontano da quello del suo principio; veggo bene che vi dispiaccio, sono mortificatissimo…., ma rasserenatevi, o signora; spariranno fra poco i vostri debiti, e fra noi resterà pura e limpida la nostra amicizia.
Che mai dirà ora? pensò fra sè la Guglielmi.
—Madama, il cielo mi manda un raggio di sua divina misericordia: perduta la vostra stima, nulla mi resta al mondo fuorchè un ritiro ove espiare i miei troppi falli.—
Dove tende quest'uomo straordinario? avrebbe detto chiunque altro fosse stato meno di buona fede della signora Guglielmi nel sentir quel discorso da volpe umana; ma la donna non poteva uscire dal suo stupore.
—Sì, aggiunse con un sospiro lunghissimo il signor Basilio, fra otto giorni al più tardi, il procuratore del convento a cui farò dono di quel poco che posseggo verrà a ritirare la piccola cambiale che mi avete fatto. Oh! non voglio più interessi col mondo; ne ho avuti assai: però dal quieto asilo non cesserò di assistervi coi miei consigli, implorando su voi e sui figli vostri la celeste benedizione.—
Il gran dado era gettato: la stupidezza momentanea della signora Guglielmi cessò; ella vide in un limpido quadro qual tristo sconvolgimento avrebbe prodotta l'ultima determinazione del signor Basilio, la cui inflessibilità le era nota, ed il cui bigottismo non ammetteva dubbio: tardi, ma pur si pentì della illimitata fiducia in lui avuta tanto tempo, e per l'onore della medesima vogliamo credere non vi fosse anche qualche altro motivo di segreta deferenza verso l'uomo terribile. Ella misurò l'abisso nel quale sarebbe caduta, se in breve termine avesse dovuto restituire l'immensa somma; vide la sua casa e i suoi arredi venduti, sè decaduta nell'opinion pubblica, l'avvenire dei figli compromesso e rovinato: pensò quindi, risolse, ed invano potrebbe descriversi il suono della sua voce nel pronunziare queste parole:
—Signore, non permetterò mai che rinunciate al mondo, in cui sapete sì bene condurvi e a cui potete esser di tanta utilità da non misurarsi. Acconsento a darvi mia figlia e già vi considero qual mio genero; voglio sperare che Rosina, la quale è ignara d'ogn'altro affetto fuorchè di quello filiale, sarà lieta di unirsi ad uomo di merito sì raro qual siete voi.
—Troppa bontà, signora, rispose seccamente quell'uomo impassibile, avvezzo a padroneggiare i suoi sensi in guisa che non si scôrse sul di lui viso la gioia che provò nel cuore udendo la promessa della Guglielmi; promessa che coronava tutti i suoi voti ed alla quale mirava da lungo tempo.
—Ahimè! continuò, madama, io mi assumo una grande responsabilità in faccia al cielo ed agli uomini.
—Oh! voi saprete ben sostenere il vostro incarico, riprese la Guglielmi, che avea penetrato nel fondo dell'anima del signor Basilio. Quindi, risoluta di trarre il miglior partito possibile dall'immenso sacrifizio che faceva e nel quale trascinava la innocente sua figlia, usando ella pure della doppiezza del futuro suo genero,
—Non credo ingannarmi, proseguì, nel ritenere che il disinteresse, il quale vi piegava alla donazione dei vostri averi al convento, vi spingerà a ricevere e considerare come sopraddote della figlia la somma ch'io vi devo allorquando le mie finanze mi permettano estinguere la mia cambiale.—
Il signor Basilio comprese bene che alla fin dei conti la faccenda era la stessa, poichè come marito avrebbe amministrato i beni della sposa.
—Madama, esclamò, son ben lieto di fare alla mia fidanzata un così insignificante regalo.—
Quando il turpe mercato fu concluso, il signor Basilio pregò madama di presentarlo alla figlia nella sua qualità di futuro sposo. La signora voleva far discernere Rosina, ma egli vi si oppose costantemente. Era troppo l'interesse che aveva di penetrare nelle verginali soglie della vaga fanciulla: onde entrò nel privato gabinetto di Rosina. La prima cosa che lo colpì fu sullo stipo, entro un bicchiere, la camelia rossa.
Il nuovo Giuda.
Nel precedente capitolo abbiamo veduto come il vecchio negro giungesse in tempo per avvertire nel linguaggio dei naturali delle sponde dell'Ohio il cospiratore Giovanni dell'imminente pericolo di essere scoperto insieme con gli altri congiurati: fa duopo adesso svelare come il negro apparisse così improvviso mentre anche noi lo credevamo o morto o tuttavia in America. La cosa è semplicissima. Iago, vecchio ed incapace di seguitare nei viaggi il suo prediletto Giovanni e la Esmeralda, tostochè costoro si stabilirono in Europa, il primo dandosi alla vita dell'avventuriere e del cospiratore alimentato dai denari della compagnia dei settari, l'altra vivendo della beneficenza del fratello, Iago, mesto e sconsolato di non potere a causa del suo colore entrare nel santuario di un chiostro per terminarvi i giorni, erasi (spinto dalla curiosità) azzardato ad appressarsi al convento di Montenero, chiedendo umilmente di passare qualche ora nel santo ritiro. Vennegli accordata la domanda, e, per fortuna dell'ottimo negro, il padre abate in persona passò per la chiesa mentre costui divotamente pregava. Entrambi si riconobbero, si abbracciarono, ed è superfluo il dire che padre Gonsalvo, appena udita la volontà di Iago di ritirarsi dal mondo, lo acconciò come supplente ortolano del convento, non già con l'idea di permettere che il negro logorasse gli ultimi giorni della sua vita a lavorare l'orto, ma per dargli un titolo a stare nel cenobio. La cosa fu accomodata, e già da qualche anno Iago riposava le stanche membra selvagge in quel santo soggiorno, ed era l'intimo, il confidente di padre Gonsalvo.
Avendo nel giorno il buon padre avute tante faccende, arrivata la sera senza che fosse presente al Benedicite nel refettorio, Iago, temendo di qualche sventura, si era condotto a Livorno ed aveva incontrato il buon religioso nelle vicinanze dell'abitazione di Rosina, presso cui vigilava al ben essere dei suoi protetti.
Il negro in poche parole fu incaricato dal religioso di muovere direttamente al luogo del convegno di Giovanni e di profittare di tutto l'ascendente che aveva sul giovane per persuaderlo della ragionevolezza che i suoi capricci non fossero secondati circa al pretendere che Rosina, Alfredo ed Esmeralda si recassero alle catacombe, ove non avrebbero fatto altro che la parte di ascoltatori. Di più il negro dovea dissuadere Giovanni da pratiche così perigliose, prive di vantaggio per la causa di felicità imaginaria che si era fitta in testa; e quando esso Giovanni avesse fatto pompa di una ostinazione solita in lui, Iago dovea palesargli la cattura di Topo, dalla quale certo aveano a sorgere funeste conseguenze; finalmente forzare il giovane entusiasta a differire almeno la pericolosa riunione.
Iago assunse con gioia l'incarico, e padre Gonsalvo rese nuove grazie all'Altissimo del sempre crescente favore con cui compiacevasi di assisterlo nella sua impresa. Il negro obbedì e, giunto nelle vicinanze delle catacombe, avendo veduto lucicare in distanza delle armi, giudicò che l'affare del suo antico padrone fosse scoperto; talchè, sempre più desideroso d'impedire una sorpresa, cautamente si celò fra gli scogli dell'imboccatura della caverna, fermo di restarvi per spiare i movimenti di quella truppa che se ne stava appiattata in vari punti della scogliera. E noi vedemmo con qual felice esito il povero negro giungesse a prevenire Giovanni del pericolo che gli sovrastava.
Ma e Giovanni ed il rimanente de' suoi, profondati nell'abisso sottoposto al mobile pavimento della sala, si salvarono eglino? domanderanno i lettori.
Essi il sapranno, rispondesi; ma siccome gli autori fra i molti loro privilegi hanno quello di narrare i fatti come più torna loro a capriccio, io invece, passando dal descrittivo al dramatico stile, vado ad appagare la loro curiosità sovra altro punto, ponendoli in grado di conoscere in qual maniera Rosina ed Alfredo non andassero alla notturna assemblea.
Le scene hanno luogo nel palazzo Guglielmi.
Salotto illuminato da lampada all'inglese pendente dal soffitto e con cristallo fiorito e diafano. Il salotto non contiene che una graziosa tavola di noce a pulimento; alcune sedie di mogano vi sono attorno, due canapè imbottiti ai lati: è salotto di passaggio che mette negli appartamenti di ROSINA a sinistra e di ALFREDO a destra, ai quali si va dalle relative porte d'ingresso a destra ed a sinistra della scena. In fondo è la porta comune che dà adito al rimanente del quartiere. Un orologio a pendolo suona le undici.
ROSINA, entrando nel salotto con passo assai leggiero.
Ah! è pur forza cedere al destino! Se lo stesso padre Gonsalvo qui si trovasse cambierebbe il datomi consiglio. (Si sofferma come per aspettare se alcuno si avanzi.) Fra poco io mi troverò sotto abito mentito; fra poco assisterò a terribile scena, il cuore me lo dice. Ma che? sia pur crudele la sorte che mi sovrasta, nol mai sarà quanto quella che la troppo condiscendente mia madre mi prepara. Io sposa di quell'ipocrita? io unir la mia mano a quella dello sdolcinato signor Basilio?… prima la morte. Sì! mi getterò nelle braccia dell'uomo misterioso, ma pur da me amato, sì!… Ma che dico? Non ho io un fratello, un fratello che mi ama? Oh! mio Alfredo, tu solo sarai il mio sostegno, tu solo la mia speranza! (Dopo avere lentamente traversato il salotto, si avvicina alla porta del quartiere di Alfredo.)
Ros. (sottovoce). Alfredo.
Alf. (aprendo la porta). Ah! mia Rosina, già ti aspettava.
Ros. Lo so…. I miei abiti alla militare sono essi preparati?
Alf. Ah! mia adorata, mia unica sorella, e che? tu dunque vuoi venire alla perigliosa riunione?
Ros. Sì, Alfredo.
Alf. Non mai! io non posso condurti.
Ros. Che dici? Oseremo noi disobbedire a colui oggimai arbitro dei nostri destini?
Alf. Cálmati, Rosina, dissuaditi; io solo andrò, io solo nel luogo ove ci appella il comando dell'uomo fatale. Si giuoca a giuoco terribile, capisci, Rosina? si giuoca la testa.
Ros. Alfredo!
Alf. Sì, Rosina, sì, mia adorata sorella. Ah qual trista sorte è la nostra! io non posso dirti di più; tempo verrà che mi sarà dato aprirti il mio cuore, sul quale posano tanti affanni.
Ros. Ah fratello! lasciami dividere il tuo periglio, sarà di noi quel che Dio vorrà.
Alf. Anche un'altra, un'angelica creatura come te, era ostinata, insistente; un nume benefico l'ha salvata; un monaco che palesandosi mi svela esser direttore della tua coscienza.
Ros. Il buon Gonsalvo! fidati, fidati in lui; ma se egli ha salvata la tua amante, tu salverai me.
Alf. Che mai dici? Nelle tue parole è contradizione manifesta.
Ros. No, Alfredo; a te sembra…. a te. Ahimè! sappi che in verun luogo io corro tanto pericolo quanto in questa casa.
Alf. Che favelli? qual mistero è questo?
Ros. Il tempo stringe: domani sarò sposa.
Alf. Tu? tu sposa? vaneggi!
Ros. Compiangimi: il mio carnefice…. colui cui sono promessa è….
Alf. Chi mai?
Ros. L'esecrabile signor Basilio…. sì, quella tigre ricoperta del manto di agnello.
Alf. Che ascolto? (resta pensoso).
Ros. Dunque non vorrai soccorrermi? (con ansietà).
Alf. (dopo qualche pausa). Ritirati…. mi viene un pensiero… Padre Gonsalvo… (L'orologio batte undici ore e un quarto)
Ros. Ah! come il tempo vola! Rosina, seguimi, indossa le vesti e le armi; ti condurrò in salvo, comprendo il tuo pericolo. Oh troppo debole madre!
Dalla porta di mezzo apparisce un servo con due lumi, ed entrano precipitosamente la signora GUGLIELMI ed il signor BASILIO.
Madama Guglielmi (con qualche sdegno). Voi qui a quest'ora?
Alf. e Ros. (insieme placidamente). Cara madre….
Mad. (interrompendoli con asprezza). I vostri progetti sono scoperti; questo degno amico invigilava su voi.
Basilio (interrompendo a sua posta la Guglielmi). Signora, i miei sospetti, voi il vedete, si convertono in certezza. L'occhio di un amico non s'inganna; la mia sposina è pregata a ricomporsi, il signor uffiziale tornerà al suo reggimento; per adesso entrambi ascoltino i miei precetti.
Alf. Signore, la presenza di mia madre può solo reprimere quel risentimento che d'altronde scoppierebbe repentino; a suo tempo e luogo mi renderete ragione del procedere vostro nel farla qui da consigliere.
Bas. (senza curarlo e rivolgendosi alla Guglielmi). Signora, come fidanzato della Rosina; io ho diritto su lei; ella si ritiri nelle stanze dell'appartamento materno. (L'orologio della sala batte undici ore e mezza.)
Alf. (con nobile risentimento). Un affare di molta importanza mi obbliga di uscire all'istante: dimani non è lontano, ci rivedremo (va per partire).
Mad. Fermatevi: senza spiegarmi la ragione per cui avete fretta di uscire ad ora sì inoltrata, voi non partirete.
Alf. (con accento di premura). Signora madre, la prego, non mi domandi spiegazioni in pubblico; dico pubblico perchè il signore è per me un estraneo: il mio onore mi obbliga ad uscire senza dilazione; dimani non avrò segreti per la più tenera delle madri.
Mad. (con fermezza). Voi non partirete: ve lo impongo; mi risparmio la fatica e forse il dolore di spiegarmi: figuratevi ch'io sappia ciò che volete celarmi; vi comando di restare.
Alf. (guardando minaccioso il signor Basilio). È duro il ricorrere ad un passo estremo…. ma la urgenza giustifica ogni mio procedere. Signora madre, voi siete ingannata, di più non dico; dimani, dimani sarà grande giornata. Olà, signore, (rivolgendosi al signor Basilio che erasi messo sulla porta) olà! sgombrate il passo, non mi obbligate ad usare la forza (trae la spada).
Rosina si getta come spossata dal dolore nelle braccia della madre, ed il signor Basilio cede il passo esclamando: Temerario! fra poco vedrai.
MARY, con le trecce scomposte, entra nel massimo disordine in sala esclamando:
Mar. Ah! signori, qual disavventura! (A tal parola tutti sono nel massimo stupore, fuori che il signor Basilio, il quale tranquillamente levando la tabacchiera d'oro contornata di brillanti, trae alcune prese per il naso.)
Mar. Signori, la casa è circondata da gente della polizia; alcuni soldati salgono le scale accompagnati da un commissario.
Tutti, eccetto Mary ed il signor Basilio, esclamano: Gran Dio!
Un COMMISSARIO e DETTI.
Il commissario entra e fa collocare alcuni soldati sulla porta. Quadro di doloroso stupore per parte di tutti i componenti la famiglia.
Com. Madama Guglielmi, non è senza il massimo dolore ch'io vengo a disturbarvi ad ora sì avanzata, ma il mio dovere mi vi obbliga nè posso dispensarmene.
Mad. (nobilmente). Signore, qualunque possa essere il motivo della vostra presenza in queste mie soglie, il rispetto verso la divisa che voi rivestite non verrà meno; ma di grazia qual motivo vi guida?
Com. Nelle apparenze gravissimo, argomentandolo dagli ordini che ho ricevuti. Nondimeno, considerando la qualità delle persone che formano l'oggetto della mia missione, io nutro speranza che le conseguenze non saranno sgradevoli (quindi rivolgendosi ad Alfredo). Signor capitano, in nome della legge vi prego consegnarmi la vostra spada ed a passare agli arresti.
Mad. Signore! mio figlio….
Ros. Il mio fratello….
Alf. (sciogliendosi la spada dal fianco, la consegna al magistrato). Conosco la disciplina e mi uniformo alla legge; protesto però la mia qualità d'uffiziale al servizio straniero, della quale intendo valermi per essere in breve restituito alla libertà (rivolgendosi alla madre). Madre mia, persuadetevi che nessun documento può dare argomenti di reità a mio carico: fra poco ritornerò nelle vostre braccia.
(Il signor Basilio ed il commissario si danno segni di mutua intelligenza.)
Mad. Mio figlio agli arresti?
Com. Madama, ciò è forse la sua fortuna, a quel che dice egli stesso, non teme il rigor della legge, e certamente il suo grado in armata straniera renderà precaria la di lui detenzione.
Alf. (con nobil fierezza, nel guardare l'oriuolo a pendolo, fra sè). Giovanni! non è mia colpa, io cedo ad una forza maggiore.
(Durante questa scena, Rosina, staccatasi dalla madre, si è gettata sovra una sedia a bracciuoli.)
Com. Sei un gran furbo, qualcuno ti ricompenserà (piano a Basilio).
Bas. Zitto zitto, che ci guardano! ho capito (piano al commissario).
Bas. (rivolgendosi a madama, vedendo che lo guardava). Signora, io tentava….
Alf. (con aria di dileggio marcatissima, interrompendolo). Vi dispenso da ogni premura a mio riguardo (quindi rivolgendosi al commissario). Signore! (con dignità) se vi piace io vi seguo: l'ora è tarda, mia madre e mia sorella han bisogno di riposo.
Com. Un momento, signor capitano. Altro più doloroso dovere mi resta a compiere prima di allontanarmi di qua.
Alf. e Mad. Gran Dio! qual altra nuova sciagura?
Com. (a Rosina). Madamigella, voi pure siete agli arresti.
(Rosina non dà segno di avere inteso, tanto la rende stupida il dolore.)
Mad. Ah! (Sviene ed è trasportata sopra una sedia: Alfredo si scuote, fa un movimento d'ira, si tocca il fianco, che trova privo della spada, e sospira incrociando le braccia al petto.)
Bas. (con estrema vivacità). Perdonate, signor commissario; voi forse avrete degli ordini verso madamigella Guglielmi; ma, perdonate, io dubito che possano eseguirsi sopra la mia futura sposa.
Com. (fingendo meraviglia), Oh! degnissimo signor Basilio, la cosa cangia aspetto sicuramente; la vostra futura consorte è dunque la signorina?
Ros. (scuotendosi). Ah! no: non è vero, prima la morte!
Alf. (con nobile sdegno). Pietà di una madre e di una donzella infelice! Ah! vieni, deh! vieni giustizia divina!
Com. (freddamente e senza curarlo). Gli schiarimenti datimi dall'ottimo signor Basilio tranquillizzano la mia coscienza. Mi rallegro con voi.
Alf. Ah! madre mia, scuotetevi, deh! non sacrificate la misera vostra figlia.
Ros. Ah la più tenera delle madri! (Ambedue i figli si accostano a mani giunte verso la donna svenuta colmandola di carezze.)
Mad. (rinvenendo dal deliquio). Dove sono io?…
Com. Godo di vedervi risorgere dal vostro abbattimento: la signora Rosina resterà nell'abitazione materna, sotto la malleveria del signor Basilio di lei fidanzato; il signor Alfredo avrà la bontà di seguirmi.
Mad. Signore, sono talmente confusa che mal comprendo me stessa: pur vi ringrazio per la urbanità con cui adempite agli uffici del vostro ministero; d'altronde voglio persuadermi che un disgraziato equivoco abbia prodotto questa disgustosa scena; ho troppa fiducia nell'onor dei miei figli, cui seppi inculcare i sentimenti migliori, per non temere sinistre conseguenze.
Com. Signor Basilio, ella è pregata a far le mie veci; dico cioè ad invigilare alla condotta della sua signora fidanzata.
Bas. Carissimo signore, rispondo di lei qual di me stesso.
Com. Signor ufficiale.
Alf. Ho inteso: addio, mia madre, addio, mia sorella; voi mi rivedrete fra poco: l'innocenza non teme il rigor della legge. (Nel proferire queste parole dà un'occhiata terribile al signor Basilio, il quale volge da altra parte la testa.)
Mad. e Ros. (con accento doloroso stendendo le braccia verso Alfredo). Addio. Voglia il cielo restituirti in breve all'amor nostro.
Il commissario, Alfredo ed i soldati escono.
MADAMA, BASILIO e ROSINA.
Mad. (con accento doloroso). Quale scena terribile! qual cordoglio per una madre! ma voi, signor Basilio, che oggi fate quasi parte di mia famiglia, voi che ne pensate di ciò?
Bas. (con aria cortesissima e con la solita flemma). Signora, vi consiglio a non temere di nulla; ecco l'effetto dell'imprudenza, l'effetto delle feste di ballo, delle maschere, e per sospetto….
Mad. Per sospetto si deviene all'arresto di un ufficiale d'onore? e lo s'intima ad una damigella?
Bas. Sicurissimo, in certi casi, in certe faccende…. Oh! ma tranquillizzatevi; io salverò tutti, io, vedete… Ah! se avessi potuto prevederlo; ma….
Mad. Ah! se non fosse per troppo disturbarvi, compatite un desiderio di una madre, non la lasciate una notte in preda al suo dolore.
Bas. Comandate.
Mad. (con qualche esitazione). Se non vi rincresce tener dietro al commissario, informarvi, parlare… su via, mio buon amico.
Bas. (con ipocrita affettazione). Dio guardi! Madama, un'insistenza per parte mia sarebbe peggio; a voi piuttosto…
Mad. Ma io!.. Rosina…
Bas. Tranquillatevi, penserò io a tutto, lasciatela pure in mia custodia, conoscete la mia onestà: vi è pur la sua gente di servizio.
Mad. Qual bivio terribile!
(L'orologio a pendolo suona mezzanotte. Il signor Basilio con somma gioia, fra sè.)
Bas. Ah! sei pur battuta, ora desiderata; io t'attendeva. (Durante il colloquio della signora Guglielmi col signor Basilio, Rosina, che dopo la partenza di Alfredo si è gettata sopra una poltrona verso la finestra, è adagio adagio passata sotto la portiera di damasco; nè Madama nè il signor Basilio han veduto quel movimento. Squillata l'ora, un prolungato colpo di cannone si ode romoreggiare per l'aere.)
Bas. (con gioia) Son presi!
Mad. Che dite mai? che è ciò?
Bas. (avviandosi verso la finestra). Or or lo saprete. (Penetrato sotto la portiera, retrocede coi capelli irti; quindi esclama). Gran Dio! Rosina!…
Mad. (accorgendosi della mancanza della figlia con affannosa ansietà). Ros…
Bas. (gridando verso la porta comune). Ahimè! presto accorrete, la finestra è aperta.
Mad. (con crescente agitazione). Me misera! Rosina? (inoltrandosi verso la finestra).
Bas. (nel massimo furore). Si è gettata dalla finestra!
Mad. Ah! (cade svenuta al suolo).
Bas. (scagliandosi fuor della porta comune, seguito da alcuni servi entrati nella sala con lumi). O viva, o morta.
(Le cameriere trasportano madama Guglielmi priva di sensi nella sua camera.)
Otto giorni dopo.
Otto giorni dopo queste dolorose scene cui il lettore si è compiaciuto di assistere, Alfredo Guglielmi, liberato dalla fortezza, la mercè delle premure dei suoi superiori, mestamente congedandosi dalla madre, ripartiva pel suo reggimento stanziato sulla Dora.
Padre Gonsalvo recitava col suo breviario l'uffizio, il negro Iago rispondeva agli Oremus del monaco, madama Guglielmi giacendo in letto ancora convalescente riceveva le visite di condoglianza dei suoi amici e di altri suoi conoscenti, ed appena aveva forza di sorreggere la testa sopra i cuscini. Ma Esmeralda, ma Rosina, ed il misterioso Giovanni che facevan eglino? Della sorte di Rosina circolarono varie voci, nessuna però si addiceva al vero. La fanciulla era scomparsa in modo maraviglioso e incomprensibile; appena il signor Basilio si avvide essersi ella gettata per la finestra, discese in un attimo le scale accompagnato dai servi con lumi, credendo di trovarla esanime e ferita al suolo, avvegnachè la finestra da cui erasi precipitata fosse alta una diecina di braccia dal livello della strada. Ma sulla strada non vi era orma di persona caduta, non una macchia di sangue, non un oggetto che le avesse appartenuto. Alcuni vicini discesi al trambusto che faceva il signor Basilio, interrogati, risposero non avere inteso il menomo rumore tranne quello che faceva lui stesso: ed egli furibondo si era dato a frugare per ogni dove nel palazzo coll'idea fossesi nascosta la fanciulla, ma la di lui ricerca era tornata inutile. Spumante di rabbia in vedersi deluso nella aspettativa di sicura felicità, mordendosi i labbri si era rivolto alla direzione di polizia, la quale, udito il caso straordinario, aveva immediatamente praticate le più scrupolose ricerche, ma invano. La stessa osteria dei Tre Mori, siccome conosciuta oramai per un nascondiglio di gente sospetta, era stata perlustrata da cima a fondo senza verun resultato. Si era dubitato che la fanciulla leggermente ferita ovvero miracolosamente sana fossesi diretta per qualche porta fuori della città, ma i portieri assicurarono come dalle undici della sera al vegnente mattino veruna donna era uscita dalle mura. È cosa impossibile l'esprimere la rabbia del degnissimo signor Basilio, a cui la preda era uscita proprio di fra gli ugnoli; e siccome l'arresto di Alfredo imputato di sospetta associazione ai settari era stato opera de' suoi maneggi per tor di mezzo un ostacolo alle mire che aveva sul possesso della Rosina, venuto per la di lei misteriosa scomparsa a mancare lo scopo, non aveva voluto più oltre insistere, ed il giovane fu rilasciato per mancanza di prove. E qui mi è duopo narrare come il signor Basilio era informato da certo suo confidente segreto che un malandrino nella persona di Topo, arrestato per omicida, aveva rivelato l'esistenza di una setta, di cui aveva dato alcuni riscontri circa il convegno, senza per altro al momento spiegarsi di più, mentre il magistrato sorvegliatore credette dispensarsi da ulteriori spiegazioni del detenuto, attenendosi piuttosto al partito di cogliere i settari sul fatto alla mezzanotte nelle catacombe. Esso signor Basilio, sopra l'unico riscontro dell'esistenza della camelia rossa, segnale sospetto nelle stanze di Rosina, piccato dal di lei costante rifiuto di sue nozze, aveva concepito il pensiero che fra Rosina ed alcuni dei congiurati dovesse esistere un qualche segreto legame, ed argomentò che certamente la fanciulla non poteva esser sola nella faccenda e che Alfredo, giovane riputato entusiasta, andasse con lei d'accordo. Su tal sospetto, insinuando analoghi dubbi alla signora Guglielmi, la quale insieme con lui sorprese i giovani, siccome vedemmo nel precedente capitolo, alle ore undici e un quarto di sera nel salotto in procinto di fuggire dalla casa materna, aveva preventivamente fatti nascere nel commissario suo amico sospetti utili al suo fine, instigandolo a procedere all'arresto del giovane, riservandosi di farla da protettore e padrone di Rosina, che divisava di trasportare presso di sè al più piccolo pretesto che gli fosse riuscito di cogliere. Ma il cielo si compiacque schernire questo briccone. Il salto di Giovanni co' suoi nella cloaca del sotterraneo aveva resa inutile la sorpresa tanto desiderata dal magistrato di cogliere in flagranti i congiurati. Il salto della Rosina dalla finestra aveva reso inutile l'arresto di Alfredo; il quale, ben sapendo come nessun documento potea comprometterlo, in specie non essendosi trovato alla riunione nel sotterraneo, era riuscito, come sappiamo, ad ottenere di essere restituito in libertà. Il signor Basilio, affettando una calma stoica, era tornato ad assidersi al suo banco di pannine, senza osare di presentarsi alla signora Guglielmi, temendo di esser corso troppo e di non avere colori bastanti onde ulteriormente contrafarsi ed ingannare quella donna. In mezzo a tante ambagi lo crucciava il pensiero della perdita di colei per il cui possesso avea sparso assidue cure durante un biennio; lo crucciava l'idea di non potere, senza pubblicamente tôrsi quella maschera di galantuomo a lui sì favorevole, ottenere il pagamento del suo credito verso madama Guglielmi; e lo angustiava infine il sentire che, contro sua voglia, qualche poco si ciarlava di lui. Talchè, simile alla volpe che dopo essere entrata nel pollaio non trova la via di uscirne dal solito buco per aver mangiato troppo, si trovava in preda ad un'agitazione da lui non mai provata tutto il tempo della ipocrita sua vita; pure, nella speranza di rimediare o almeno di non far peggio, seguitò ad uscire alle ore solite di casa, ad assidersi al banco ed in tutte le periodiche occupazioni in cui noi lo vedemmo esattissimo. Nella sua doppiezza non avea mancato di recarsi al tribunale ed esternare gravissimo cordoglio per la fallita impresa delle catacombe e per la mancanza di prove onde si prolungasse la detenzione di Alfredo.
—Ma…., aveva esclamato sul termine di un colloquio con un funzionario di polizia, quod differtur non aufertur; ne vada la mia pelle, sarò sempre buon servitore della giustizia.—
Tornato al suo banco, egli invano procurava d'imaginarsi un plausibil modo intorno alla sparizione della fanciulla; infatti chi poteva averla aiutata, sola, senza mezzi, senza esperienza, a sottrarsi non tanto alle ricerche di lui, quanto a quelle diligentissime della polizia? Forse il suo incognito amante? Ma se colui era, qual ei supponeva, uno dei settari, come trovarsi sotto la finestra per ricever nelle braccia la cara fanciulla e al tempo stesso essere alle catacombe? Alfredo, ito agli arresti col commissario, non era suscettibile di porgerle aiuto. Dunque? Il diavolo in persona doveva aver preso parte a vantaggio della giovane: ma nè anche quest'idea persuadevalo, sapendo come la purezza dei costumi di Rosina non poteva procacciarle le simpatie del formidabile ausiliario infernale. Lambiccatosi il cervello per mille differenti congetture, il degno signor Basilio aveva concluso di lasciare al tempo la cura di svelare l'impenetrabile arcano e dover lui deporne il pensiero, onde non rischiare di divenir pazzo a forza di meditare; ed infatti si era avveduto che la strana sua situazione avevalo alquanto dissestato nella direzione dei propri affari. Si era dimenticato di cancellare una partita di un suo debitore che lo aveva pagato; ma giacchè la cosa era passata, pensò esser meglio lasciare aperto il credito che scarabocchiare la carta. Si era scordato di accendere l'ultimo sabato la lampada alla imagine di sant'Omobono, ma pensò rimediare alla trascuranza col comprare il sabato venturo, invece di una crazia, due soldi d'olio. Il tremito dei suoi nervi rendendogli paralitiche le mani, queste tenevano il passetto in modo che nel misurare il panno a' suoi compratori le bracciature riuscivano piuttosto scarse, ma, per tranquillizzare la propria coscienza, diceva a sè stesso: Che colpa ho io se i dispiaceri che ho provati agitano i miei nervi? tutti coloro che son causa delle mie afflizioni sconteranno nel mondo di là il piccol danno che in questi giorni di confusione possono aver risentito i miei avventori. Troppo lungo sarebbe l'enumerare le sbadataggini di cui fu suscettibile il nostro mercante nel periodo transitorio che abbiamo accennato; una sola, come d'indole assai bizzarra e comica, non vogliamo passar sotto silenzio i nostri lettori. Si scordò di portare le solite teste di pesce fritto nel fazzoletto turchino al gatto che teneva in bottega, il quale essendo stato 48 ore in forzato digiuno, si mostrò piuttosto in broncio col padrone. Quando questi un bel dì aperse la bottega, in un momento di riflessione, appoggiati i gomiti sul banco, il micio, credendo che il padrone ingrato dormisse, imaginò di rifarsi del lungo digiuno a spese di uno dei di lui orecchi il quale per la portata del sangue pareva rosso come un salsicciotto. Onde, spiccato un salto sulla tavola del banco, glielo addentò così fieramente che, senza l'aiuto di benevole persone accorse alle grida del mercante, l'orecchio del signor Basilio sarebbe passato nelle interiora del famoso Buricchio. Da queste dimenticanze trasse frutto il signor Basilio; cessò dal meditare sulla sparizione di Rosina, restringendo i suoi studi mentali sul modo di ottenere dalla signora Guglielmi il pagamento del vistoso suo credito. Lasciamo intanto questo degno personaggio e ritorniamo ad Esmeralda. Esmeralda? Oh! qui sì che vi è del mistero; oh quanti misteri! dirà qualcheduno. Carissimi, rispondo io, non so che dirvi. Dunque zitti, e tiriamo innanzi.
Esmeralda dopo alquanti giorni di dimora al convento pareva più tranquilla, sebbene non avesse riacquistata la ragione. Le suore, a causa della sua beltà, quasi l'amavano. Essa aveva un certo che da farla considerare come superiore al resto delle femmine. La priora aveva per mezzo dell'ortolano mandata lettera confidenziale al padre Gonsalvo, onde questi le indicasse qualche cosa intorno alla frenetica fanciulla in modo brusco da lui introdotta come pensionaria in quel luogo, non avendo la buona madre potuto sfogare il femminil talento di curiosità colla fanciulla, imperocchè essa faceva dei discorsi fuori di senso: parlava di navigli, di catacombe, della Guadalupa, di un caprone, della tribù dell'Ohio e d'altre simili cose, alla madre priora inintelligibili ed a cui rispondeva con esorcismi onde fugare il demonio, da cui credeva ossessa la giovane. E noi certamente le daremo ragione del suo procedere; inoltre quel benedetto padre Gonsalvo aveva avuto tanta fretta nel partire dai monastero che non era stato possibile interrogarlo, e poi era tanto laconico quel buon padre!
Il giorno dopo l'improvvisa recezione di Esmeralda, madre Domitilla, parlando confidenzialmente a suor Dorotea in un'ora dopo il refettorio, le aveva detto:
—Ma che ne dite, suor Dorotea, della apparizione di quella specie di energumena?
—Oh! rispose la camarlinga, io non ne so nulla; tocca a voi, siete priora e basta, io non posso aprir bocca su certi argomenti.
—Ma pure….
—Pure, riprese suor Dorotea, dico che quel benedetto padre abate si prende certe facoltà un poco troppo spinte: capita qua ad ora quasi notturna, picchia, gli viene aperto, introduce una straniera che fa certi occhiacci di spiritata, parla di bastimenti, prende la soglia del convento per la bocca di una darsena, la fune del campanello per una corda d'una vela, voi per il grand'ammiraglio e me per il capitano dei cannonieri; e il reverendo, senza dirci chi è o chi non è costei, ci lascia colle laconiche espressioni: Suore mie, in nome del cielo custodite questa infelice fino al mio ritorno; ed aggiungendo: Benedicat vos, etc., se ne va, e non ne abbiamo saputo più nulla.
—Sì, cara camarlinga, io pure sono del vostro avviso; il buon abate non ci ha fatto il miglior regalo del mondo: ma su questo, transeat; peraltro non è scusabile quel non farci sapere, almeno in due parole, chi è la giovane, cosa voglia, se sia turca, ebrea, scismatica; se dobbiamo convertirla, riconciliarla, ecc., ecc. Quanto è strano quel reverendo!
—Eh! eh! madre priora, sento dire che quel religioso in sua gioventù fosse un po' cervellino strambo, ben s'intende avanti di vestir l'abito.
—Delicta juventutis meae ne reminiscaris, Domine, prese a dire la priora: in gioventù tutti più o meno avemmo i nostri falli; speriamo che il Signore voglia dimenticarli. Ma, tornando alla fanciulla, ella non può essere nè turca nè ebrea nè pagana nè protestante: perocchè sappiate, carissima suor Dorotea, come io, sebbene mi fidassi del degno padre abate, abbia voluto togliermi ogni dubbio di ricevere fra le pecorelle del Signore una qualche volpe pericolosa; e fino dal momento in cui l'incognita ci venne presentata dal padre abate, io colla scusa di accomodarle il fazzoletto da collo procurai di rintracciare se da quello pendesse qualche segno di buon cristiano. Indovinate un poco cosa vidi?
—Che? Dite, dite.—
—Una bella reliquia del santo Velo incastrata in una teca di oro a filograna.
—Cospetto! esclamò la camarlinga; deve essere non solo buona cattolica, ma anche ricca.
—Ed anche nobile, continuò la priora; dietro alla teca vi è una bellissima incisione della corona di conte e sotto le iniziali E. C. Z. S. A. 21 marzo 1805.
—Bagattelle! disse sorpresa la camarlinga. Oh! è da figurarselo.
Colei è nobil contessa. E non importa che sia forastiera; padre
Gonsalvo ha relazione con tutti i popoli del mondo. Sarà qualche
giovane scappata ai suoi parenti.
—O qualche innamorata di giovane pagano o liberale, il che è tutt'uno.
—Che bell'acquisto per il convento se si facesse monaca!
—Sicuro, e, a dirvela, io ci ho pensato subito subito: speriamo che riprenda la sua ragione.
—Ed io, vedete, madre priora, confesso il mio peccato: non sapendo tutta questa faccenda, sono stata non poco inquieta in questi giorni, poichè credeva che il convento ci rimettesse di suo, dando da mangiare ad un'incognita la quale….
—Zitta! zitta! riprese la priora: non vi fate sentire da nessuno. Non sapete cosa mi consegnò il frate al momento di lasciar la ragazza?… cinquanta luigi d'oro!
—Eh!
—Sicuro; il buon padre Gonsalvo disse poche parole, è vero, ma fece de' fatti e mi pose in mano un involtino con cinquanta bei luigioni lampanti.
Benedicamus Domino, disse la camarlinga, che aveva tutta la sfiducia propria dei cassieri; sicchè adesso non rimane che ad appagar la curiosità.
—Questa sera sapremo qualche cosa; ho inviato l'ortolano a Montenero,
—Ma intanto non potrei vedere il reliquiario? soggiunse la camarlinga sentendosi morire dalla curiosità.
—Non vi è difficoltà, riprese la superiora; andiamo nella cella N. 12; la fanciulla è tanto buona che è certo ci dirà «Mamma, mamma» e ci mostrerà ciò che volete.—
Entrambe si avviarono alla cella N. 12, bussarono. Nessun rispose; entrarono, non ci era alcuno. Il convento fu tutto frugato. La Esmeralda non ci era più, nessuno l'aveva veduta uscire. Considerate ciò che pensarono, ciò che dissero le suore. La priora spedì un altro espresso al padre Gonsalvo, e questi fu il garzon del vinaio, ritenendo peraltro i cinquanta luigi lampanti.
Esmeralda era sparita la sera dopo la sparizione di Rosina.
Quanto al Caprone ed Iago sappiate…. ma no, per adesso non avete a saper nulla. Bisogna ch'io ritorni nella carcere ov'è rinchiuso Topo. Ma non si potrebbe prima parlare di Giovanni, ossia del Caprone e di Iago? No, signore, non si può; perchè se si tardasse ad andare nella carcere di Topo, si correrebbe rischio di non trovar più nè anco lui. Caspita! ci sono scappati due dei nostri personaggi; non voglio che ci fugga anche il terzo.
Topo è in carcere. Passato il primo bollore della paura, costui si è pentito della rivelazione fatta così su quel subito dell'arresto; sapeva il birbante che, una volta sfuggito dalle unghie della giustizia, poteva cadere in quelle dei settari, i quali certamente a seconda dei loro terribili statuti l'avrebbero spedito all'altro mondo senza processo. Dunque si era pentito e, per riparare alla imprudenza, faceva giuro a modo suo di non dir altro. Caspita! diceva fra sè nella prigione: la tortura e quelle macchinucce con cui strappavano ai tempi antichi la verità dalla bocca dei rei non ci son più; sicchè non ho paura di corda, di argani, di caprette, di quegli ordigni che ho sentito tante volte nominare in un libro che il signor Bruto leggeva all'osteria dei Tre Mori. Dunque non ci son più, ed io?… resta sempre da imparare. Dopo che in carcere ci sono stato tante volte, questa volta l'ho fatta proprio da somaro e non da topo, e sì che i topi son furbi; sono stato tante volte fra le unghie del gatto e ne sono bravamente scappato senza lasciargli in bocca del mio pelo. E adesso?… Ah! proprio l'ora del minchione viene ai più furbi, e d'altronde ero tanto acciecato dalla rabbia…. quel birbante di Cacanastri voler per sè la roba rubata da me. Caspita! gli uccelli sono di chi li chiappa. Io con lui non ho agito così quando l'altra settimana rubò quella collana di perle all'erbaiola di piazza e la portò a vendere al signor Basilio, cioè al signor Giuda: cospetto! io non dissi mica: gliela voglio portar io. Ognuno che va da quel galantuomo ci deve portar ciò che busca. Birbante di Cacanastri! ma almeno dal signor Giuda ci andrò io solo. Gran galantuomo che è quello! paga a contanti, e si sapesse mai nulla! è più segreto del muro. Ma, soggiunse, se ho fatto male, farò emenda da me, il signor giudice non saprà più nulla: se ha voglia di gridare, di urlare, di minacciare, di spezzare il campanello, per me saranno le sei*.
* Espressione volgare di quell'epoca, che equivarrebbe: a non so nulla.
Mentre Topo faceva questi discorsi fra sè udì in uno degli anditi delle carceri dei domenicani* una voce che accompagnandosi col tintinnio del mazzo delle chiavi cantava l'appresso stornello.
* Luogo detto così volgarmente.
Che mangerà la sposa la prima sera?
Un mezzo piccioncin*.
* Canzonaccia popolare di quei giorni.
—Veh! veh! questa voce non m'inganna; è Caicchia il fruttaiolo di via San Francesco; no, è del suo figliuolo, quel monello che non ha mai fatto nulla di bene.
—Oh! oh! Caicchia.
—Chi mi chiama? rispose la voce.
—Son io, è Topo che hanno fatto cascare nella trappola: ma tu sei dentro?
—Son fuori; non son gonzo.
—E che ci fai?
—Faccio il gatto.
—Gnau, buon pro ti faccia; almeno avvicinati alla mia stamberga, briccone!—
Un giovanotto dai venti ai ventidue anni, che ben si scorgeva per un secondino di quello stabilimento, si avvicinò alla cella di Topo, ed aperto il piccolo finestrino dell'uscio a doppio sportello, si fece vedere al detenuto.
—Figliol d'un tette* di Caicchia, to', chi ti faceva qua dentro. Come se' grosso e grasso; lo dicevo io tu' pa' che non avevi voglia di far nulla al mondo…. Eccoti diventato un signore.
* Espressione del volgo.
—Tutti i mestieri danno pane, ma tu, pezzaccio di galera, che hai fatto?
—Ho sbertito Cacanastri*.
* Nel gergo: ucciso.
—Ci ho gusto davvero; ma dimmi ho sentito di' che sei anche della congiura della fusciacca rossa* eh!
* Il volgo chiamava così, quasi appartenenti ad una specie di setta, tutti coloro che a quell'epoca erano compromessi colla giustizia: e riteneva che i congiurati, per commettere insieme dei misfatti, portassero una fusciacca o cintura rossa con cui legassero i calzoni alle reni.
—Chene?…: chene? non me ne vendi: co' tu' pari acqua in bocca
Secondino. Ti compatisco: per chi m'hai preso?
Topo. Per un ferro di bottega*. Se non hai altri moccoli, va' a letto al buio, Da questo sportello tira troppo vento.
* Nel gergo: impiegato di polizia.
Sec. Bene: serrerò.
Topo. Noe, l'ho fatto per celia; anzi ho piacere di vedetti quìe; semo camberati.
Sec. Della Bulca….
Topo. Della Bulca…. ma mene mi hanno ilscaraventato ai malmetti*.
* Messo in luogo di prigione.
Sec. Ma tu hai ilbotrato* tutto.
* Palesato.
Topo. Noe…. noe ho ilbotrato nulla due hosine al pittore* pel conia.
* Cancelliere criminale, in gergo.
Sec. Ma e del Caprone e di Concetta e di Bruto….
Topo. (confuso). Futtulsco Caicchia! anche te della fusciacca rossa.
Sec. Sie sie,,, non ti arioldi barabba.
Topo. Barabba! sì me ne arioldo, sei tene, che volevi bulscherar la Honcetta.
Sec. E te ne mi arreggevi lume.
Topo. E hai poltato la balchetta in questo molo*?
* Venuto in questi luoghi.
Sec. È stato mi pae* pttosto il sniffo** che ha holoniali.
* Padre. ** Birro.
Topo. Magari!
Sec. Ora se tu vuo' fa bene, va' a ilbotrare anche di mene.
Topo. De' camberati! accidenti! ma giacchè sei della corda*, non mi potlelti aprimmi un poino.
* Della lega.
Sec. Gnau… gnau…
Topo. Ohè, se torni a ilmiaulare, ritorno Topo, abbasso i camberati e ilbotro anche di tene al pittore.
Sec. Hoe; ho fatto conia, e poi la chiave della bujosa* l'ha il soprastante.
* Prigione.
Topo. Accidenti a lui e alla sua famiglia!
Sec. Non beltemmiare…. vuoi una mezzetta? pago io.
Topo. Bravo, camberata!
Dopo qualche spazio di tempo Caicchia torna con mezzo boccale in mano e, riaprendo lo sportello, porge da bere a Topo.
Topo (prendendo il boccale ed accostandoselo alla bocca). E tu non bei?
Sec. Ho beuto.
Topo (rendendo il boccale). Buh! che roba! a che osteria l'hai preso? come è amaro! Buh!
Sec. (chiudendo lo sportello e rompendo il boccale sgangheratamente ridendo). È roba da Tobi, birbante!
Topo (con urlo soffocato di dentro). Caicchia! ahimè! brucio, brucio, brucio, muoio, muoio.
Sec. (ridendo). O vai ora a ilbotrare di Caicchia*!
* A palesarmi.
Topo (Con voce appena intelligibile). Ah!… t'aspetto all'inferno! ah!
Sec. (allontanandosi). Clepa pure ed avviati o ilbotra di Caicchia*!
* A palesarmi adesso.
Prima di notte Topo era morto: credettero fossesi avvelenato da sè stesso; la sua morte e la fallita impresa delle catacombe aveano salvato i congiurati. In quella notte medesima da incogniti ladri venne derubata madama Guglielmi degli ori, degli argenti e delle gioie. Il furto ascendeva a 10,000 scudi. La polizia non scoperse mai nulla.
N.B. Nel dialogo fra Topo e Caicchia si è adoprata l per r e si son soppresse alcune lettere dell'alfabeto per dare un'idea della pronunzia dei Veneziani di Livorno ed in genere del basso popolo.
Salvezza.
Persuasi che il cuore delle gentili nostre leggitrici batterà di palpito straordinario per l'impazienza di conoscere la sorte della sfortunata Rosina, non vogliamo tenerle oltre nella trepidazione. Prima però due parole intorno a Giovanni. Esse ricorderanno che, dopo pochi istanti dall'improvvisa comparsa del negro, quel cospiratore aveva, con un calcio dato in una molla, fatto alzare il pavimento di tavola della sala del maestro delle catacombe e ciascuno con lui precipitare nel sottoposto baratro. Ognuno crederà che, nel precipitare dall'alto al basso in modo brusco ed improvviso, qualcuno dei caduti si fosse fracassato un braccio, una gamba, lussata una spalla, rotto il cranio, e che so io? Ma no: nulla affatto di questo: nella sottostanza della sala del maestro era stata da gran tempo appositamente ammassata una quantità considerabile di lana da materassi, la quale, nel caso in cui ai congiurati facesse bisogno di precipitare nel baratro, potesse addolcire la caduta per modo che le loro membra non ne soffrissero alcun nocumento; ed infatti tutti gli adunati laggiù si trovarono in un monte; ma, passato il primo momento di sorpresa, si alzarono, si assettarono alla meglio nelle vesti e nei capelli e si avviarono per lunghissimo ed umido andito ad altra uscita del sotterraneo che metteva in luogo affatto opposto alla riva del mare, sulla quale sarebbero stati sorpresi dalla forza, se per là si fossero procurati una sortita. È superfluo il raccontare che di essi chi mosse di qua e chi di là, e se ne andarono raminghi tutta la notte per la campagna, e chi prese la via di Montenero e chi di Salviano, chi della Valle Benedetta, rientrando nella città per porte diverse, ad ore e giorni diversissimi e colla maggior cautela del mondo. Ognuno di essi si era creduto proprio, come suol dirsi, in bocca al lupo e ne era scampato per miracolo, e certamente a molti passò la volontà di cospirare. Quando tornarono in città avevano i volti molto smagrati, perchè, avendo dovuto all'impensata trattenersi fuori mezzo nascosti fra i boschi ed i cespugli, non avevano potuto sodisfare all'appetito naturale dopo lungo digiuno, ed appena appena avevan trovata un poco d'acqua per dissetarsi.
E qui giova osservare come veramente e propriamente appartenenti ad una setta non potevano dirsi che pochi di costoro; mentre i più erano persone date al malfare, soci di bricconata e conosciutisi fra loro per appartenenti ad una compagnia di persone rotte al delitto, cui il volgo dava nome della compagnia della Fusciacca, forse dal modo col quale ognuno di essi si soleva legare alla vita i calzoni con una ciarpa del colore suddetto.
L'entusiasta Giovanni, dalla inclinazione e per la ricevuta educazione trasportato a macchinare trame a danno del ceto dei nobili e de' ricchi da lui odiato, aveva innestato quest'odio all'idea di un miglioramento di sorte nei poveri; e concluso ciò non potersi sperare che al sorger di un popolare regime, erasi veramente associato ai carbonari d'allora e aveva fatto dei proseliti anche fra persone al mal far dedicate, pur di accrescere il numero dei soci e fra' giovinastri suoi conoscenti di mezzi disgraziati, a cui ferveva in petto ambizione estrema, da essi scambiata col creduto amore della patria e degli uomini. Fra questi eran coloro che abbiamo nominati Bruto e Catone ed alcuni altri di quella tempra. Tranne peraltro costoro, che almeno avevano una idea di politica, gli altri non erano se non se adoperati come stromento materiale di trambusto e scene violenti, nelle quali la setta molto sperava per dar opera a quanto meditava. L'infausto esito per essi della notturna congrega tolse ai capi, come suol dirsi, le mani, perchè i malandrini di cui si componeva quella riunione si erano sbandati per non si riunire almeno per qualche tempo, tenendosi fermi nel proposito di commettere dei proditorii ferimenti, dei furti e altre iniquità con animo di lucro infame e di sete di sangue. I nostri lettori faranno certamente le meraviglie nel vedere come un uomo del pensare, dirò anche del cuore, di Giovanni potesse associarsi con siffatta gente. Ahimè! nessuna cosa è più al caso di accecare il buon senso di quello che lo sia il demonio demagogico che attacchi il cuore e la mente di un povero uomo; e così avvenne di Giovanni.
Non sì tosto ei si vide fuor del nascondiglio nel quale aveva corso rischio di essere preso, appena respirò le aure del cielo sereno, un grosso sospiro ed una lacrima gli uscirono ad un tempo.
—Ahimè! tutto è perduto,—esclamò, e lungamente stette colla testa fra le mani. Il solo Iago lo seguiva a capo basso senza proferir parola, lasciandolo sfogare. Quando i primi scoppi di dolore per la fallita impresa cominciarono a calmarsi, allora un tetro pensiero gli si affacciò alla mente. E che? Alfredo, Esmeralda l'avrebber forse tradito? Perchè non comparsi presso di lui? perchè?… E furioso per tal pensiero, lungi dal tenersi discosto dalla città, andava a gran passi verso la medesima. Quando peraltro Iago lo vide deciso di entrare in quella, d'improvviso afferrandolo per la destra,
—Padrone! esclamò nel linguaggio natio tanto da Giovanni ben inteso, padrone! non contento di far piangere Rosina, Alfredo, Esmeralda sulla certa e vituperosa vostra morte, volete anche che nel mondo migliore ne piangano gli ottimi vostri genitori estinti?—
Il dolore ed il tono patetico di queste parole fece soprassedere il turbato Giovanni, il quale, è pur forza dirlo, credendosi tradito, meditava di rientrare in città, vendicarsi ed uccidersi. I nomi proferiti dal negro avevano per il cuore del giovane una infinita potenza; inoltre nella notizia del servo vi era quasi implicitamente la notizia dell'innocenza dei tre individui da lui nominati.
Giovanni si fermò e, postosi a sedere su d'un arginello di un campo poco lungi dalle mura, riprese il suo pianto e i suoi sospiri, e quindi vivacemente:
—Ebbene! perchè mia sorella, il mio amico, colei che amo non son eglino qui? almeno piangerebbero meco e ci daremmo un estremo addio.—
Il negro narrò di loro ciò che allora sapeva per averglielo detto il frate, cioè che esso aveva e con persuasioni e con stratagemmi allontanati i tre giovani del convegno e condotta la Esmeralda in luogo sacro e sicuro. Di più a quell'ora non sapeva il servo.
Giovanni, al racconto di lui, teneva il volto accigliato e severo in modo che, battendogli il raggio della luna in fronte, fealo assomigliare a quelle facce di bronzo delle statue di qualche antico guerriero. Fiero e nemico a chiunque si mostrasse avverso alle cose sue e vi s'immischiasse dentro per dar loro un altro corso, gridò:
—E qual diritto aveva colui di quasi rapirmi la sorella, di obbligare a disobbedirmi la donna che dev'essere mia per sempre?
—Il diritto dell'amore, replicò il negro; il vecchio frate vi ha dato la più gran prova di affetto che mai potesse darvi; e se io non veniva, e se invece coloro che amate fossero stati con voi, che sarebbe e di voi e di loro?—
Il fiero Giovanni tacque, esso era calmato; alla sua calma contribuì più certamente l'assicurazione che i suoi diletti non si erano macchiati di tradimento di quello che l'idea di esser salvo ed eglino ed esso. Continuò:
—E chi mai, dimmi, rivelò il segreto delle catacombe?
—Per quanto credo, uno dei vostri complici.
—Sia in eterno maledetto! (indi traendo un pugnale) chiunque sia, morirà.—
I nostri lettori avranno veduto che non era destino di Giovanni il macchiarsi di sangue. Topo doveva morire per altre mani.
Il colloquio del negro col suo padrone non durò oltre, perchè quest'ultimo, bruscamente alzandosi, gli aveva detto:
—Questo padre Gonsalvo, quest'uomo singolare che, dopo avermi tenuto bambino, come mi narri, sulle ginocchia, viene dopo venti anni a occuparsi nuovamente delle cose mie, dove trovasi egli?
—Non lo so, riprese il negro; e dentro la città sarebbe malagevole il ritrovarlo quando che vi sia: meglio andarne al convento; in questo sacro luogo voi potrete trovarlo od aspettarlo, e ciò sarà acconcio a nascondervi fino a che abbiate dato una nuova direzione al vostro avvenire.—
Il consiglio del negro piacque al fervido Giovanni, il quale, cambiata direzione ai passi, li volse verso la chiesa del convento di Montenero, da cui erano distanti quattro miglia, ma che esso si proponeva di abbreviare tracciando la linea più retta che gli fosse possibile per quei campi e prati che gli si paravano davanti. Iago lo seguiva in silenzio, come se, invece di un uomo, fosse stato un cane da caccia.
Non faccia specie se quei due procederono così, invece di prendere la via: assuefatti a percorrere le inospite lande dell'America, per loro il saltar fossi, andar per i solchi, rompere filari di viti o di altre piccole piante che si opponessero al loro passaggio era cosa assai ordinaria; di più, tanta erane l'agitazione che il cercare la strada maestra ritengo non passasse lor per la mente. Ma, mentre costoro vanno di un passo rapido verso il monte della Vergine, io ritorno alla passionata Rosina. Rosina dall'immenso dolore in cui avevala gettata l'improvvisa proposta della madre di accordarla in sposa all'odiato signor Basilio da lei poche volte e sempre con indicibil ribrezzo veduto, era passata allo stato di delirio, allorchè dopo l'arresto di Alfredo si era veduta in balía di quell'uomo infernale. Dopo la scena terribile del salotto ella, fuor di mente, in una indicibile spossatezza, si era senza volerlo insinuata sotto la portiera di damasco, cogli occhi macchinalmente fissi sulla finestra; un pensiero nuovo, tremendo le balenò nella mente, quello cioè della possibilità di evadere precipitandosi dal verone, unico mezzo di sottrarsi alla sua situazione infelice. Fuggire, sì, fuggire fu l'unica idea di cui fu capace in quel doloroso frangente. La morte, nello stato di esaltazione in cui si trovava, le apparve ben mille volte più soave della vita di sposa dell'uomo abborrito; si persuase la madre non esser più padrona di sè stessa per sottrarla al sacrifizio più terribile; guardò anco una volta fremendo il suo persecutore, richiuse gli occhi mentre un brivido le corse per le ossa: riaperti gli occhi, affissando una stella del cielo, le parve che il raggio che da quella partiva le insinuasse nell'animo una insperata dolcezza; e, vaneggiando, credè che da quella lo spirito beato del padre suo la invitasse ad approfittare di quel rimedio estremo, le promettesse sovrumana assistenza. Risoluta, non più vide il suicidio, ma nel periglioso passo un invito della provvidenza a non dubitare delle tante e miracolose vie che ella ha per salvare i miseri mortali dal colmo della sventura. Trattasi dal petto una portentosa imagine della Vergine, se l'accostò ai labbri con indicibil fiducia e, leggermente aprendo il verone, spiccato un lancio da quello, fu nella via. Al cielo si era affidata, il cielo accolse l'intemerata sua fede e preghiera; trovossi ella in piede, qual se un angiolo l'avesse portata sulle ali sue; piegato il ginocchio, orò brevissimamente e quindi si pose a fuggire nella prima direzione che le si parò dinanzi. Ma il cielo vegliava su lei. Una vettura munita di due lampioni accesi stava fissa sulla parte opposta a quella della finestra di madamigella Guglielmi, vettura che dalle ore sette o le otto stava là ferma. Il vetturino non si vedeva sul davanti, cioè a cassetta, ma ciò non aveva dato nessun sospetto a coloro che transitavano la via grande; spesso si vedevano vetture ferme accanto ai portoni delle case, entro le quali il vetturino addormentato attendeva qualche signore o signora che uscisse dalla conversazione.
Non appena la fanciulla saltò e si mosse veloce verso la via de' Materassai, la misteriosa carrozza si mosse e le tenne dietro, ed in un momento un incognito, uscendo dallo sportello, precipitosamente afferrata la fanciulla e messale una mano alla bocca perchè non gridasse, la trasse in vettura, che partì di là con straordinaria celerità. Tutto questo fu opera di pochissimi istanti. Rosina era stata messa nella misteriosa vettura allo svoltare di via dei Materassai a cento passi di distanza dalla sua abitazione e senza che le persone guidate dal signor Basilio e fornite di lumi fossero state in tempo di veder nulla.
La misteriosa vettura coll'incognito che vi era dentro, il quale teneva dolcemente fra le braccia il capo di Rosina svenuta per l'emozione e per lo spavento, non aveva preso nessuna direzione verso le porte della città, ma, dopo aver girato varie strade, si era fermata sulla piazza dell'erbe e davanti una casa di poverissimo aspetto, donde una donna era uscita a prendere la misera fanciulla: e sebbene il personale di quella donna non fosse molto felice perchè pingue, il di lei vigore era tanto che in un baleno, tratta a sè la giovane, chiuse la porta. L'incognito partì colla vettura senza che si sapesse dove andassero e come così prodigiosamente avesse giovato alla salvezza della fanciulla. La casa della donna era una di quelle che, mediocremente mobiliata, spiccava per la nettezza. Costei, trasportata la fanciulla tuttora svenuta in una politissima camera, avevala collocata sopra un morbido letto prodigandole tenere cure. Quando Rosina aprì gli occhi, credè di sognare. Tuttociò che vedeva talmente le pareva straordinario che suppose essere passata in un mondo migliore. Mezz'ora prima in casa propria! ora viva dopo il periglioso passo e senza saper come, quasi rapita di mezzo alla via, trasportata in un incognita magione! Dove mai era stata condotta? Chi era quella donna che salmeggiava accanto al suo letto? E quella bella biondina in abito bruno che mormorava divote litanie? Rosina non azzardavasi a parlare mentre le due donne pregavano. Finita la prece, la donna prese una porzione di cordiale e la fece sorbire alla fanciulla, che ne fu riconfortata ed in grado di parlare.
—Dove son io? richiese timidamente.
Tanto la vecchia che la giovane, senza replicare parola, diressero gli occhi verso una pia imagine pendente dal muro e quindi al cielo.
—Non m'intendete voi forse, o pie donne? proseguì la fanciulla, a cui il trovarsi fra due persone del suo sesso aveva dato coraggio. Ma le due donne non risposero nè manco a questa domanda.
Rosina incominciava a dubitare della buona maniera delle due ascoltanti; quel silenzio la sconfortava, mentre le loro fisionomie e gli atti di tanta religiosità stavano da un lato a dirle che si trovava fra persone oneste. Essa era per nuovamente volgere l'interrogatorio, quando una porta si aperse e quattro giovanette portando una piccola bara con entro una giovinetta estinta traversarono la sua camera e discesero seguite da un sacerdote e mormorando alcuni salmi. La donna e l'assistente s'inginocchiarono al loro passaggio. Rosina chiuse gli occhi al primo apparire del funebre spettacolo.
Sul mare.
Due mesi dopo la perigliosa risoluzione della Rosina, una nave veliera e di bandiera inglese solcava l'oceano. Marinari e soldati l'occupavano; imperocchè fosse armata da guerra ed appartenesse ad una squadra di crociera. La nave per bizzarra combinazione chiamavasi Rosina. Era una fregata che, per la struttura della sua chiglia, la leggerezza delle sue vele, la squisitezza del suo armamento, incantava a vederla. Essa procedeva maestosa sulle onde come un padrone pettoruto sul suo podere. Nessun passeggero si trovava posto in quel legno, imperocchè mercantile non fosse; eppure su quella fregata Rosina si trovava Rosina nostra insieme con colui dal quale ella ormai più esser non poteva disgiunta.
Rosina e Giovanni si erano ritrovati e ritrovati per non più lasciarsi; ritrovati per amarsi, per dirselo, per soccorrersi. Sono eglino sposi? Lo sapremo, ma fino a che venga il tempo di saperlo non giudichiamo male dell'eroina del nostro romanzo; la sua purezza le dee servire di scudo contro qualunque sinistro pensare. Chi può dire a qual punto non possano elleno far giungere impreviste circostanze? D'altronde il mio racconto non è finito, ed io non voglio precipitarlo. Se il modo di narrare così bizzarro, così a salti, che tiene del misterioso, non piace al lettore, chiuda il libro, che è padrone; se poi vuol continuare, noi ne saremo contenti, perchè alla fin fine terminerà, e saremo sodisfatti maggiormente, io d'avere scritto, egli d'aver letto.
La nave solca l'oceano. È una sera dolcissima; un lieve venticello increspa le onde e tiene la fregata come in panna. L'equipaggio (meno coloro che erano di guardia, militari e marinai) è al riposo. Nella camera del capitano si mirava una lampada sospesa al soffitto di legno di abete, ondeggiante in una custodia di cristallo, la quale rischiarava la stanza che eleganti mobili guarnivano. Presso un letto incavato nel vano dell'intavolato delle pareti stava collocato un canapè ricoperto di velluto, sul quale una leggiadra damina vestita di amaranto, i cui piedini parevano appena toccare il tappeto del pavimento, i cui capelli negligentemente annodati cadevanle sulle spalle alabastrine, il cui volto era di una espressione angelica, stavasene assisa mollemente. Sebbene una specie di mestizia si vedesse su quel volto, d'altronde un fino conoscitore del cuore di una donna avrebbe scorto sui tratti di quel bel viso che se esso non era quello di una persona tranquilla, era almeno quello di persona che dopo lungo volger di procellosi affetti aveva ricovrato la calma.
Dirimpetto alla damina, sopra di un carro di cannone, il quale con una parte del fusto di lucido bronzo faceva un bizzarro contrasto coll'assetto gentile di quella stanza, sedeva un giovane la cui faccia esprimeva l'uomo che in mezzo al contento ha un qualche segreto affanno che lo divora. Ben si scorgea sui lineamenti di quel volto caratteristico che un'anima bollente si celava in quel frate. Chi è mai costui che vestito alla marinaresca tiene alla cintura due pistole ed un pugnale? Costui è il capitano della fregata o, se non vi basta, è il già chiamato Caprone, il cospiratore Giovanni.
I lettori crederanno che la donzella testè accennata sia Rosina, ma io debbo trarle d'inganno, rispondendo essere invece Angiolina.
Angiolina! sento dirmi, chi è costei? come entra adesso nel romanzo? costei, replico io, è la figlia del popolo, bella, interessante, sventurata; poteva io negarle il posto in queste pagine? Vi ricorderete che io poco fa vi narrava come Rosina, tratta misteriosamente dall'incognito della carrozza in quella casa anco più misteriosa, aveva veduto una specie di processione passare presso il suo letto, accompagnante una fanciulla estinta in un feretro. Or bene quella fanciulla è precisamente Angiolina, la quale stassi nel salotto del capitano in molta intrinsichezza con lui. Ma guardate di non far giudizi temerari; il cuore di Giovanni appartiene a Rosina, nè fia che il perda. Angiolina è però l'amica di ambedue ed insieme con essi viaggiava verso il nuovo continente. Vi ho detto esser Angiolina la figlia del popolo, esser bella e quasi quasi una morta risuscitata. Tali notizie hanno certo provocato la vostra curiosità, ed io sono a sodisfarla; tanto più che mi occorre svelarvi chi fosse l'incognito della carrozza e qualche altra cosa di più.
Il misterioso incognito della vettura altri non era se non se il buon padre Gonsalvo, il quale, reduce da Pisa, dopo avere, come sappiamo, inviato il negro alle catacombe, aveva divisato passare la notte come in sentinella dirimpetto all'abitazione de' suoi protetti e sorvegliare ai loro andamenti; ma, pensando come il cacciarsi ritto come un palo laggiù avrebbe destato dei sospetti, pensò provvedersi di una vettura, sempre utile in qualsivoglia emergente; ed infatti acconciatosi col vettore Nardellino*, gli aveva ingiunto di piantarsi là nella via grande col suo legno, di non muoversi senza suo cenno, ed egli stesso il buon frate si era appiattato in fondo alla carrozza, ansioso di veder terminare quella notte senza alcuno di quegli avvenimenti sinistri che ahi! pur troppo il cuore predicevagli. Di fondo al mobile suo nascondiglio aveva veduto uscire dalla casa Guglielmi il signor Basilio fino dalle prime ore della sera e di poi ritornarvi, aveva veduto i soldati ed il commissario introdursi in quella casa ed uscirne avanti la mezzanotte recando agli arresti il giovane Alfredo; del che il buon monaco aveva provato indicibile cordoglio, persuadendosi sempre più che quel biasciapaternostri del signor Basilio, Giuda novello, era il tarlo micidiale che rodeva la famiglia Guglielmi. In mezzo al suo dolore peraltro pensò come Alfredo, non anche compromesso, minor danno avria risentito da quell'arresto che dal girne alle catacombe, e si proponeva il dimani di adoprarsi a pro del giovane con ogni mezzo migliore. Tutte le sue premure si volsero allora a Rosina. Il monaco era vecchio e furbo, nè stentò a credere come, rimaste le due donne in casa in balía di quel mostro, certamente avrebbero corso il maggior dei perigli: pensò allora di non frammettere indugio nell'introdursi egli stesso in casa della vedova, starvi ostinatamente fino a che vi avesse dimorato colui, sperando che il dimani gli permettesse far qualche cosa di più. Stava già per eseguire tal divisamento quando, veduta aprire pian piano la finestra del salotto della casa dei suoi protetti, vide qualche cosa di bianco agitarsi per l'aere e cadere al basso. Gli occhi del frate si velarono per il dolore. Temette il suicidio di Rosina, ma scôrto essersi ella prodigiosamente salvata dalla rischiosa caduta, e vedutala fuggire, pensò volesse irne alle catacombe; onde, fatta muovere sulle tracce di lei la vettura, in un attimo raggiuntala, la tolse seco e posesi a far correre la vettura stessa per la città sepolta nelle tenebre, senza decidersi a nulla, purchè potesse evitare le ricerche e per aver modo durante quel tragitto di pensare al luogo ove condur la fanciulla, onde poi rimanere libero di sventare le trame dell'impostore Basilio. Pensò che non senza grave motivo la fanciulla sarebbesi esposta al periglioso passo: e tanto bastò per fargli respingere la prima idea che gli era venuta in mente, quella cioè di ricondurre la Rosina alla casa materna. Mentre mulinava cento pensieri nella sua testa, si ricordò come nella piazza dell'erbe abitasse una donna sua penitente, la quale avrebbe potuto assumere la custodia della giovane senza obbligarlo a palesare il segreto. Certo di riuscire, fece trottare la vettura in quel luogo verso la casipola della donna. Giunto alla porta di quella, fatto bussare, scese infatti una persona che raccolse e seco trasse la giovane. Ciò eseguito, il buon Gonsalvo si sentì come sgravato d'un gran pensiero, applaudendosi d'aver fatto bene; ma sventuratamente questa volta il religioso avea sbagliato. La donna che aveva ricevuto la Rosina non era l'erbaiola, ma tutt'altra. Costei aveva segretamente aperta quella casa ad equivoche conversazioni. L'avvicinarsi di notte di una vettura la quale contenesse una fanciulla, o rapita o consenziente, per riceverla in quelle mura non le era cosa nuova; cosicchè, senza far motto, prese la misera Rosina svenuta, la quale credette ricevere dalle mani di un amante, non avendo nel buio e nella fretta osservato all'abito ed alla fisionomia del frate. Collocata in letto la giovane, le apprestò dei soccorsi, siccome noi vedemmo, onde rinvenisse, attendendo poi che il conduttore di lei tornasse a trovarla dando a lei buona mancia per il favore ricevuto. Nè faccia specie il silenzio di quella megera e della giovane sua compagna se non risposero alle dimande della Rosina; questo era il loro costume colle persone arrivate di fresco, fino a che non sapessero con chi avevano a trattare; non faccia meraviglia se esse stavano in orazione, perchè quelle anime turpi non rispettavano neppur la Divinità e, per avvolgere agli occhi delle infelici che capitavano in quelle nefande mura una benda che celasse la turpitudine della casa, erano solite far pratiche esterne di religione, e così appunto facevano mentre Rosina stavasi languente in quel letto. Povera Rosina! Oh come avrebbe palpitato di orrore se avesse saputo in qual nefando luogo si ritrovava! Nè avrebbe, crediamo, esitato un momento a cacciarsi dal balcone con certezza di perdere la vita, anzichè restare un istante di più in quell'orribile albergo.
* Padrone di vetture a quell'epoca.
Dal dialogo che andiamo a riferire, il quale ebbe luogo in un momento in cui la sventurata Rosina era immersa in profondo letargo, apprenderanno i lettori di che tempra fossero le anime nere delle due donne che circondavano il letto della sventurata. Una di esse, cioè la padrona di casa, che era quella la quale aveva ricevuta nelle braccia Rosina, si dicea per sopranome Vascello; l'altra era una fanciulla bellissima immersa nel vizio, sopranominata Catraia.
Catraia. Mamma Vascello, ecco una buona triglia per la tua rete.
Vascello. Bellina davvero! le metteremo il sopranome di triglia, essendo d'un biondo assai chiaro il colore de' suoi capelli.
Cat. E chi sarà il pesce cane che se la papperà quella creaturina? Ma tu l'hai sborniato il delfino che l'ha portata nella tonnara?
Vas. Non m'è riuscito: peraltro al lume del lampione di pescheria e' mi è parso un bel tôcco di calafato*; tornerà, e lo vedremo meglio.
* Un bell'uomo.
Cat. Lugagni* ne hai avuti?
* Danari.
Vas. Noe, ma questa mercanzia la piglio gratis; e se colui che l'ha condotta non torna, mi venga il canchero, se non mi rifaccio a mio modo. Ma guarda un po' che tôcco d'orecchini si rimpasta alle orecchie; diventi una balena se non valgono cento scudi!
Cat. Mamma Vascello, non sarebbe bene levarle quel peso?
Vas. Dannata di Catraia! sei un gran diavolo; e quando torna il suo ganzo, che gli dirò?
Cat. Corna* allo stoino**. Le ha fatto forse l'inventario? Se brontola, gli metteremo giudizio; e quando avrà visto il salotto da basso, gli passerà la voglia di cantare.
* Espressione ingiuriosa volgarissima. ** Damerino.
Dicendo queste parole la Catraia in punta di piedi si fa presso a Rosina immersa nel sopore e le stacca dall'orecchio sinistro l'orecchino di brillanti; Vascello fa altrettanto dalla parte destra.
Cat. Quanto dev'esser ricca! (si mette l'orecchino in tasca).
Ros. (sempre immersa nel sopore). Giovanni….
Cat. e Vas. Oremus…. (quindi avvedendosi che Rosina dorme).
Vas. (a Catraia). Si chiama Gianni il suo ganzo, è un bel nomino; ma orsù dammi l'orecchino, che lo riponga con quest'altro.
Cat. Che orecchino? Sei briaca? E non l'hai tu tutti e due?
Vas. Animo, qua l'orecchino: non facciamo celie, o ti spacco la testa con questo caldano (in atto di avventarle uno scaldino).
Cat. Zitta, sta buona: se desti la bimba, sarà peggio per te. Se fai chiasso, verranno i birri.
Vas. I birri qua non ci vengono.
Cat. Li chiamerò io: dimani faremo i conti; non ne vo' più. Io lavoro, e tu ti mangi i miei guadagni; io lavoro, e tu t'intaschi i quattrini che ti danno i miei avventori.
Vas. Spilorcia! e hai il coraggio di rinfacciarmi? Chi ti raccolse di sulla paglia? chi ti pulì dal fastidio se non io? Tu fai una vita da signora, io ti do da mangiare, da bere, da fumare, ti pago il mercante, la modista; e tu ti lamenti! qua, meno smorfie, dammi l'orecchino e finiscila.
Cat. Animo via, non vi corrucciate, eccolo qua (leva l'orecchino di tasca e guardandolo esclama). Caspita! non mi par compagno, la piccina gli aveva accompagnati.—
Vascello trasse dalla tasca l'altro orecchino, come per confrontarlo, ma la furba Catraia, dato uno slancio, addentò il braccio di Vascello su cui impresse un terribile morso; il dolore fece sì che le cadesse il gioiello, il quale la donzella destramente raccolse involandosi e, recatasi alla propria camera, li ripose ambedue in un cassetto, che serrò, ponendosi la chiave in tasca.
Vascello era per correrle dietro, ma se ne astenne, pensando che, attesa la sua pinguedine, invano avrebbe potuto raggiungere quella specie di folletto. D'altronde stimò opportuno non lasciare la camera di Rosina e borbottò fra sè: Maledetta Catraia, ti colga il fulmine; ma te la farò scontare: da qui avanti se Bruto o Catone vuol vederla questa briccona, mi rifarò: civetta monella! ti sequestrerò le mance degli ospiti a nolo che ti porta Narciso; è un gran diavolo.
La Catraia ritornata, aveva un riso beffardo da disgradarne Lucifero.
Cat. Orsù non farmi la conia, o Vascello.
Vas. Ti leverò di torno.
Cat. Pagami e poi me ne anderò; o che credi di essere sola al mondo? Pel diavolo! le tue pari non mancano (susurrò un cognome).
Vascello, al sentire nominare la rivale nella trista professione, si morse le labbra e si tacque: il perdere la Catraia sarebbe stato un danno; onde rasserenandosi fintamente,
—Almeno, le disse, fammi bere alla tua salute di quel cognac che ti regalò l'altra sera quel marinaro inghilese.
Cat. Mamma Vascello, quella non è roba per voi; diventereste cionca, siete vecchia.—
Vascello, che aveva già le gote tinte di rosso artificiale, sentì infiammarsele per rabbia.
—E anco mi minchioni? disse.
Cat. No…. vo a prenderlo, non sono avara, (per discendere).
Vas. Ferma, ferma, lo berremo dimani.—
Ma la Catraia fu nell'altra stanza in un salto e tornò con la bottiglia del rhum.
Vascello ne guardò il turacciolo se fosse smosso, e veduto che era intatto e che poteva trincare senza sospetto di veleno o di qualche altro brutto scherzo, si mise a tracannare il liquore come se fosse stato acqua della cisterna: vero è però che chi l'avesse guardata negli occhi avrebbe veduto che eran pregni di lacrime, lacrime peraltro di tutt'altra specie che di pianto; infatti il rhum dell'Inglese era a trentasei gradi.
Fatto che ebbe una buona trincata, porse la boccia alla Catraia, la quale a sua posta, accostatasela alla bocca, ne tirò giù di un fiato il rimanente, ed esclamò:
—Viva l'Inghilterra! E con pazza gioia scagliata la boccia nel muro, la fece in tritoli; poi guardando Rosina che non dava segni di vita:
Ma che sia morta? (ed accostatasi al letto dell'inferma, sollevò le coltri). Ci è anche il vezzo, esclamò; e scioltolo dal collo dell'infelice, se lo pose in tasca colla velocità propria di un gatto nell'afferrare un salsicciuolo. Avrà anche la borsa dei quattrini, disse poi; una volta che si tocca questo luogo, bisogna abbandonare ogni cosa che venga di fuori.—
Ciò dicendo si accostò a una sedia ove stavano le vesti della Rosina.
—Oh! questa volta puoi stringere il vento, esclamò Vascello ridendo.
—Brava mamma, soggiunse Catraia, me l'hai fatta, non sono più a tempo: ma pazienza! si ha da campar tutti.—
Rosina, scossasi dal suo letargo, pronunziò quelle parole: Ove son'io? da noi riferite nel precedente capitolo, a cui poco dopo le donne che or conosciamo risposero salmeggiando il latino che non intendevano, e non andò guari che entrò nella stanza il funebre corteggio da noi accennato e di cui tanto si spaventò la misera fanciulla. Ma come mai, mi direte, un sacerdote cogli abiti di funzione a quell'ora, in quel luogo infame?
Eh! miei cari, sappiate che quell'uomo, sotto le vesti più venerande, altro non era che quel Catone, giovane scapigliato, che voi vedeste nel primo capitolo di quest'istoria nell'osteria dei Tre Mori.
Costui era un ateo, uno di quei giovani sconsigliati che, per aver letto nei frontespizi di molti libri, credono di saper tutto, di poter censurar tutto; ed era ateo perchè l'ateismo era di moda e si faceva consistere la sapienza nell'incredulità, mentre che l'incredulità è anzi indizio d'ignoranza. Egli si piccava di essere incredulo, irreligioso, gozzovigliatore, libertino, appunto perchè volea passare per elegante; ed appunto onde dar pascolo alle sue frenetiche tendenze, si era associato ai cospiratori nella speranza che un rovescio di ordine sociale potesse affrancarlo dai ceppi da cui gli parea d'essere stretto in forza delle leggi religiose e civili. Figlio di un onesto negoziante, disertava il banco per frequentare i bagordi, amava le sgualdrine più che le merci, il danaro dei settari anzichè il peculio paterno; e la vita di ozio che teneva si persuadeva esser quella degna del suo grado, credendo coprire le proprie nefandità colla divisa dell'amor patrio. Così pur troppo hanno sempre pensato i facinorosi sovvertitori dell'ordine pubblico da Catilina fino ai moderni Bruti e Catoni. Intanto il nostro personaggio non era andato alle catacombe, sebbene vi fosse, come sappiamo, invitato; il perchè è facile imaginarlo. Egli era un di coloro che ostentano gran coraggio ed hanno in cuore una gran paura. All'avvicinarsi dell'ora fatale, Catone, seguendo l'antico dettato «rumores fuge», se l'era battuta, sperando di trovare una scusa ai compagni di congiura, e per tempo introdottosi nella casa di Vascello, aveva incominciato a bere ed era già ubriaco in una delle stanze recondite di quella casa infame. Sedutosi a tavola insieme con altri degni di tal compagnia, con la Catraia, la Cleofe, la Pisellina ed alcune altre di quel convitto, era giunto a quello stato di ebrietà che, lungi dall'indebolire, rende diabolicamente energici e pronti al mal fare. Il perverso giovane, sul finire del pasto, aveva scommesso di levare la ganza ad un garzone di caffettiere per nome Roberto, e questi dal canto suo giurando rifarsi a spese di Catone, erano venuti alle mani, e già da qualche tempo aspramente percuotevansi fra le risate e lo schiamazzio di quelle perdute creature, le quali gl'incitavano a proseguire ed a tirarsi bicchieri, bottiglie ed altri utensili. Sporchi di vino e sangue, alla fine si erano alzati per invocare l'aiuto delle amanti e dei commensali; cosicchè era per divenir generale la pugna. Invano mamma Vascello era accorsa a sedare la lite, chè aveva dovuto ritirarsi al primo urlaccio e alla minaccia di romperle il capo a furia di bicchieri.
La scena avea luogo in una stanza a vôlta ad uso di cantina e profondissima, per modo che al di fuori appena poteva sentirsi quello strepito, e se pure intronava qualche orecchia, non era nuovo che simil frastuono si partisse da quel lupanare.
Siccome io vi diceva, la rissa di Roberto e di Catone incominciava a farsi seria quando questa cessò a causa dell'arrivo di un nostro personaggio. Entrò Narciso tutto attillato, profumato e lindo, sebbene il suo abito ed il suo cappello avessero per il lungo esercizio della spazzola perduta ogni ombra di pelo; costui aveva al solito le mani piene di anelli, un gran spillo falso appuntato al cravattone di raso, con una gran catena d'oro falso al collo ed orologio dell'istesso metallo, con guanti di pelle gialla alle mani; ei s'era fatto in mezzo ai combattenti cavallerescamente esclamando:
—Alto là, camerata, che diavol fate? qua, qua a sedere qua, presto bottiglie, sigari; abbasso le mani.—
E tutte le convittrici ad una voce:—Viva il damerino, viva il piacere! a tavola, a tavola!—
L'invito della donna era stato secondato dalle mani di Narciso, il quale, afferrato colla destra per il corpetto Catone, lo forzò a sedere alla tavola, facendo altrettanto di Roberto. Costoro non fecero resistenza, ma misersi a ridere di quel riso scipito che è proprio degli ubriachi. Composta la lite, Narciso esclamò:
—Ma diavolo! Volevate far come Topo, il quale ha ammazzato Cacanastri e andrà in galera?—
A tale notizia una delle giovani che sedevano a quella esecrabil mensa, ma che non aveva ganzo ed era stata sempre malinconica, gridò:
—Mio padre in galera? Gran Dio!—E cadde.
Le compagne la presero e la portarono sul letto della sua camera; arrivata che fu la sera, quei malandrini, volendo sollazzarsi con una sacrilega mascherata, col mezzo di alcuni abiti sacri derubati e colà in serbo idearono una funebre processione; e passando per la camera occupata da Rosina trasportarono entro un feretro in una stanza remota la sventurata Angiolina.
Angiolina.
Angiolina è la figlia del popolo, Rosina quella della nobiltà. Ambedue belle, ambedue sensibili, ma quale immensa differenza fra loro! eppure dovevano trovarsi, unirsi ed amarsi. Vedi bizzarria del destino!
Alla età di sette anni, Angiolina coi piè nudi, colle vesti lacere, coperta di luridume, coi capelli sparsi sugli omeri, senza asilo, senza pane, appena sapendo comprendere che fosse sua vita, era stata cacciata sulla pubblica via, abbandonata a sè stessa, una fanciulla a quell'età! Sì: e questo barbaro padre era quel medesimo brigante sopranomato Topo, di cui sentimmo la misera fine in uno de' precedenti capitoli. Parrà impossibile che, se i leoni, le tigri amano i figli sino al punto di non sembrar più feroci, quando vanno lambendoli dolcemente, quando per difenderli non curano le mortali ferite del cacciatore, l'uomo, dotato di tanta intelligenza, possa aver cuore di lasciare una figlia di sette anni seminuda, senza pane sulla pubblica via. Ahimè! è così, e le grandi città dal lezzo del delitto vedono uscire simili mostri. Topo peraltro, cui gli stessi compagni di ladroneccio avevano fatto un rimprovero per tanta barbarie, si era loro spiegato e scusato dicendo:—Non la riconosco per figlia.
—Ma dunque? avevano risposto gli amici.
—Eh! cari miei, vi basti che non vo' riconoscerla; la buon'anima di mia moglie ve lo potrebbe dir lei il perchè. Era sì buona donna la mia beona che de' ganzi se ne ricordava a punti di luna, ne aveva tanti! va compatita, non sapea l'aritmetica.
—E tu tolleravi?…
—Ah ah! ridendo aveva risposto Topo con un poetico frizzo «quando il conto torna»…. il resto della rima voi lo sapete; io ho avuto sempre gusto a lavorar poco, mangiar bene e ber meglio; e siccome non si trovan sempre oriuoli e pezzuole da rubare, baccalari e aringhe da buscare, così una bella e buona moglie è ottima bottega.
—Come? è così?
—È così sicuro, camberati, ma veh! dicevo alla buon'anima, non mi far figliuoli, che se no, te gli affogo come i gattini della vecchia micia; non vo' sgnauli per casa. E la buona donna la intese, cioè per un pezzo; quando un bel giorno torno a casa, che c'è, che non c'è, mi aveva figliato.
—E tu? avevan detto i beoni scherzando durante quel dialogo bizzarro e turpe qual si addiceva al vergognoso personaggio.
—Ed io (aveva risposto) voleva buttar giù nel fosso la mamma e la figliuola; ma per fortuna, siccome ero un po' briaco, presi la bimba e mi affacciai alla finestra, e già le faceva fare il volo fra i navicelli, quando la mamma, levatasi da letto e venutami dietro, m'infilzò un coltello nel lombo; io cascai, essa riprese la bimba.
—Fortuna che non moristi!
—Ci mancò poco; quella buon'anima sapeva tirar di coltello più che d'ago: e mi trovai l'arme fissa nelle lonze, quando mi destai, perchè, a dirla, nel momento in cui caddi, mi parve d'avere un sonno, oh che sonno! bisognò chiuder gli occhi: quando mi alzai mi trassi il coltello dalle costole; ero tutto sangue, nei calzoni, nella camicia, nelle scarpe; parevo un migliaccio.
—Dovevi esser bello, Topo!
—Son cose strane, o camberati; ma già toccò a me: dunque mi rizzai e, siccome era di notte, mi gettai dalla finestra nel fosso per lavarmi tutto per bene; e siccome nel navicello di Cacco vi era un bel paio di pantaloni di pilord, una giacchetta di satiné e una camicia colla trina, insomma vi era a poppa tutto il bisogno per rivestirsi da festa, mi messi i panni del camberata e me ne andai dal cerusico a farmi medicare: lo cognoscete il signor cerusico dello spedale?
—Sì che lo cognosciamo.
—Quando mi visitò, «Oh che hai fatto, Topo? mi disse, è un affaraccio.» È una graffiatura, gli risposi, son cascato sopra l'uncino della stanga (capite, i fatti miei non li volli dire a quel cerusico). E dopo che m'ebbe medicato, «Bada di non ber vino, mi disse.» Diavolo! risposi, poco no certo, e me ne andai all'osteria dei Tre Mori a bere un par di fiaschi di verdèa, che è vino da donne. Grazie a Dio, la mattina non mi ricordavo più di niente e andai a portare le balle di baccalà a Ilsmit.
—E la moglie?
—La furia m'era passata, ma alla bimba ci pensava sempre; tant'è, le voleva far fare il tuffo.
—E poi?
—E poi tornai a casa: avevo dell'ideacce; sgnauli non ne volevo; ma lì nella mia camera c'era un signorone col soprabito nero, con una bella catena da oriuolo al collo, che solamente a veder quella grazia di Dio mi venne l'acquolina in bocca; e lo sapete chi era quel signore?
—Chi era?
—Il signor Basilio, quello che sta in via del Teatro vecchio da' Lavatoi; quello che ci aiuta nelle nostre speculazioni mercantili e compra la roba buscata.
—Bau!
—Sentite, costui mi fece mille smorfie. «Topo, Topino, mi diceva, hai a voler bene a questa creatura; vi somigliate come due gocciole d'acqua.» E non minchiono, gli risposi, e' mi pare che assomigli a V.S. «Sarà, disse il signor Basilio, ma la bimba l'hai a tener per te.»
—Per mene? Che mi caschi la testa! e dove l'ho i quaini? «A questo ci penso io»; e senza far altri discorsi, mi pianta lì sul tavolino la borsa zeppa di francesconi. Maramau! dissi allora fra me, ho capito, ho inteso; e presi la bimba fra le braccia. Oh che bella creatura! mi messi a di'; è proprio un gioiello; tienne di conto, moglie mia, sarà la nostra fortuna. Quel signore se ne andò, e ogni mese mi portava la solita borsa di francesconi. Ma una cosa mi scordava di dirvi, cari amici; quel signore prima di levarsi di torno mi fece un par d'occhiacci e mi disse: «Senti, Topo, con me guadagnerai dimolto, ma bada, potresti perder tutto.» In che maniera? ripresi io meravigliato. «Se mai t'azzardassi di parlare o riconoscermi in pubblico, bada bene; non ci siamo visti.» Ho capito, gli risposi, basta che vengano i quaini, quando vi vedo, farò conto di vedè Pitena*. «Benissimo: così mi piace, non voglio ringraziamenti del bene che faccio, non deve saperlo nessuno.» Che birbone! esclamai quando se ne fu ito, e pare un Agnus Dei. E allora aveva venti anni, figuratevi quando sarà vecchio; da quel giorno in poi siamo sempre stati amici.
* Frase sconcia per denotare persona di nessun conto.
—Ma, dissero i camerati, e perchè mettesti poi fuori la bambina?
—Gua', dopochè morì la moglie, lui non volle pensare a niente, anzi era un anno che la mi' donna campava la bimba del suo, e sapete? colle limosine.
—Colle limosine?
—Sì: era diventata vecchia, vecchia in gioventù, e non aveva più di ventisette anni. Gran brutta cosa che sono i peccati!
—Ma il signor Basilio?…
—Quel furbone, l'ultima volta che lo vidi, mi dette una doppia di Spagna e mi disse: «Topo, questa faccenda non la vo' più; questa carità la tua moglie non se la merita, è troppo peccatrice.» Come? dissi io ridendo, e ve ne avvedete ora? Ma lui mi fece zittare, non voleva repliche; solamente gli dissi: E la bimba? «Della bimba fanne ciò che vuoi.» Io allora andai a casa e bastonai la moglie e la bimba: e sapete, la mi' moglie in pochi mesi andò al campetto*; e così mi vendicai della coltellata che m'avea data sette anni prima. La bimba con una pedata la messi fuor dell'uscio; in sostanza son ritornato giovinotto, e non mi par vero.—
* Morì.
Dal riferito dialogo giudicherassi il perfido carattere di Topo. Pur troppo questo carattere non è una romanzesca finzione; la povera Angiolina in quella sera stessa sarebbe morta di freddo o di fame, e meglio per lei se la sua disgrazia non avesse fatto passare Vascello di là dallo scalo di Porta Trinità, ove a poca distanza dal fosso giaceva quasi esanime la infelice creatura. Nessuno l'aveva assistita durante la giornata, perchè, conoscendola i vicini appartenere a Topo, credevano fosse laggiù per trastullarsi fanciullescamente fino a che la venisse a prendere il padre. Ahimè! la misera era stata cacciata fuor di casa a pugni e a calci, dopo che il cadavere della madre era stato trasportato al camposanto. Vascello passò vicino a lei. Vascello allora viveva facendo da serva ambulante; e siccome nella stanzuccia ove abitava aveva paura nella notte, era molto tempo che cercava una bambinella che le tenesse compagnia. Ma nessun padre nè madre, benchè poveri, aveva acconsentito a dare a donna di tal mestiere tenera prole. Vascello, veduta la fanciullina, che giudicò abbandonata, contò di poterla far sua, e perciò:
—Chi sei? le disse.
—Non ho babbo nè mamma, rispose singhiozzando Angiolina; mamma è morta, e babbo mi ha mandato via.
—E chi è il tuo babbo?
—Si chiama Topo.
Vascello sorrise; conosceva per fama costui e si persuase di aver fatta omai sua la fanciullina.
—Vuoi venire con me? le disse.
—Magari! replicò la piccina alzandosi a stento, ho tanta fame e tanto freddo!
—Vieni con me, poverina, soggiunse Vascello; ti rivestirò, ti darò da mangiare e dei bocconi buoni, sai? E così dicendo le faceva delle carezze.
La bambina teneva le mani giunte per ringraziarla. Oh infelice! ella sorrideva al futuro suo danno. Sventuratamente la fame e il freddo la consigliarono ad accettare; la infantile di lei innocenza non le permetteva scorgere il periglio tremendo. Vascello, presa la bambina, la trasse nella sua spelonca.
Noi tireremo un velo sugli avvenimenti che toccarono ad Angiolina da quel fatale momento. Il nostro cuore si strazierebbe se non fosse concesso alla penna di fermarsi.
Durante il periodo di dieci anni ella aveva veduto due o tre volte Topo, al quale credeva dover la vita. Ma ahimè! in quali circostanze! Una volta, quando, dopo di aver ferito un suo compagno, si era per più giorni trattenuto nel segreto delle stanze della turpe donna. Altra volta quando vi era venuto di notte a recar degli oggetti furtivi o di contrabbando. Topo fin dal primo giorno in cui Vascello si era presa la bambina per farsene una servetta lo aveva saputo; il suo perfido cuore aveva gioito per doppia ragione: l'una, perchè, una volta che la fanciulletta era stata raccolta, cessava in lui il pericolo che la autorità, sapendolo padre, almeno putativo, l'obbligassero a riprenderla o a passarle gli alimenti, e l'altra (e ci convien dirlo con orrore) perchè, vedendo come dalla tenera età si sviluppassero in Angiolina forme leggiadrissime, sperava di trarne partito. Ah! ah! diceva fra sè, tal madre, tal figlia; avrò un nuovo podere per la mia tasca. E proprio in lui l'infamia era il teatro della sua vita. Allorchè seppe come l'Angiolina era giunta all'età di piacere altrui, non esitò l'infame ad affacciare le pretensioni di paternità su colei che aveva respinto di casa bambina, all'oggetto che la Vascello gli sborsasse una somma per la cessione di quella misera creatura.
Fra Topo e la Vascello aveva avuto luogo una di quelle scene esecrande degna di loro. Si separarono peraltro buoni amici: all'uno rendevasi necessaria l'altra per ricettare i suoi ladroneggi; all'altra era necessario l'uno per non perdere sul più bello il frutto che sperava ritrarre dall'Angiolina.
Questa misera creatura, perduta senza pur saper di esserlo, ignara delle cose tutte di religione, ignorava (fa ribrezzo a dirlo) non solo i più conosciuti santi dogmi di essa, ma ignorava l'esistenza stessa di un Dio! All'età di quindici anni credeva che al piacere fossero consacrate tutte le azioni dei viventi, e fosse l'unico bene, e non esservi delitto nel cercare, nel volere per forza questo piacere. I sensi essere tutto, tutto doversi alle passioni, colla morte cessare ogni bene; e della vita futura e dell'anima non ne aveva giammai sentito parlare. Venutale la malizia, l'esecranda sua maestra avevale date il mi-rallegro, dicendole essere giunto il tempo della felicità per lei; che dunque ne profittasse e senza indugio e senza riguardo e senza tema, perchè il tempo passa e presto, e questo essere il nemico dell'uman genere. Angiolina, nel vigor della sua gioventù, con questa educazione, come ognun pensa, si slanciò nella carriera voluttuosa, di cui tanti esempi aveva avuto sotto gli occhi. Assuefatta dirò dall'infanzia (perchè la condotta della moglie di Topo non poteva gran che differire da quella della Vascello) a stare con turpi persone, ella non conosceva altro frasario che quello del libertinaggio; e non avendo giammai praticato altro che rei, credeva tutte le persone dovessero esser simili alle sue conoscenze. Priva d'ogni idea di rispetto alle proprietà, ella aveva (così consigliandola la sua institutrice) posto le mani sulla roba altrui quando la maestra glielo aveva comandato; e così, sua mercè, le cassette della Vascello erano ripieni di orologi, di fazzoletti, di tabacchiere, di gioielli degli avventori della medesima. Una volta, e fu quella la prima luce per lei, una volta, côlta in fallo dagli agenti della polizia per un fazzoletto rubato, fu condotta in prigione; ella aveva undici anni! Colà trovò gente non dissimile da quella con cui era solita conversare; ma quando poi (dopo un esame del giudice, nel quale non capì nulla) venne tradotta nel cortile del tribunale e ivi frustata, sentì il pudore, o almeno l'ombra del pudore, e da quel dì in poi, per le minacce o le lusinghe della Vascello, non volle più rubare, dicendo che non voleva essere esposta a mostrare le nude sue membra al boia.
In mezzo alle orgie nefande, Angiolina peraltro sentiva un interno senso di ribrezzo che non capiva ed a cui non dava retta, e continuava quella vita, soffocando negl'incessanti piaceri la smania che le dava il rimorso senza che ella sapesse che cosa fosse il rimorso.
Ma si avvicinava il giorno di sua redenzione. Ella da un anno stava nella casa di Vascello più come serva che come convittrice, e ciò perchè da un anno, schivando qualunque contatto di persone di sesso diverso, schivando le stesse sue amiche di pensione, sentiva un improvviso odio per quei piaceri che poc'anzi le eran sembrati tanto lusinghieri. Ah! sì, infelice! era Iddio che volea toglierla all'ulteriore sua perdizione. Nel convitto essa divenne odiosa alla Vascello, odiosa perchè il suo improvviso ritegno le aveva tolto il lucro; ma per altro, siccome costei di una serva aveva duopo,—Ebbene, le aveva detto, fino a che non cangerai costume farai la guattera.—E la povera fanciulla si era adattata ai bassi e dolorosi servigi. Le compagne di una volta l'odiavano perchè ricusava di stare con loro in quelle orribili confabulazioni e preferiva la cucina presso il fuoco ai salotti coi canapè e coi sofà a molla coperti di moire o raso amaranto e celeste. La chiamavano la pinzochera e la sbeffavano di giorno in giorno. E per ultimo abbiamo veduto qual sacrilega burla si permettessero sulla di lei persona i frequentatori del luogo nefando.
Angiolina da un anno vestiva modestamente; stava ritirata perchè pativa, e solo si assideva a mensa con le compagne quando non poteva schivarne l'impuro contatto. Per lei non più grazie, non più bellezza, non più piaceri; spesso lacrime e lacrime cocenti le cadevano sul volto; ella sentiva un'afflizione invincibile e non sapeva il perchè; quell'aura stessa della casa di Vascello erale divenuta a un tratto irrespirabile, sentiva il bisogno di uscirne e di uscirne per sempre. Ma dove andare? Una volta che capitato era colà Topo, si azzardò a parlargliene, ma egli bruscamente, dandole una ceffata, le aveva detto:—Non ho casa…. sto all'osteria,—e se n'era andato. Ma qual causa aveva operato un tanto cangiamento nella fanciulla?
Ve lo dirò.
Una sera (era il carnevale precedente a quello in cui ha principio la nostra storia) una sera pioveva orribilmente ed era la mezzanotte; il Narciso bussò alla porta e gli fu aperto.
—L'Angiolina dov'è? disse colui
—Nella sua camera, rispose la Vascello.
—Che salga subito; voglio vederla.—E continuando (mentre questo discorso lo aveva fatto sul pianerottolo della porta d'ingresso), Venga, venga, mascherina, aveva detto ad alcuno che stava per le scale; salga, salga.—
Dopo tali parole una persona mascherata si era introdotta in casa della Vascello.
Completa visiera coprivale il viso, l'abbigliamento era un bornous stretto al collo con vasto cappuccio che l'immascherato teneva in capo; discoperti vedevansi l'estremità dei pantaloni di finissimo panno ed un paio di attillati stivali. Esso doveva essere un personaggio di qualità. Fu fatto passare e sedere in un salotto elegantissimo, ove appesi al muro stavano quadri rappresentanti imagini che solo si confacevano a quel luogo di lascivia.
—È un buon merlo, disse Narciso all'orecchio di Vascello.
—Hai avuta mancia?
—Tre zecchini.
—Capperi!
—L'ho adocchiato nel sortire del veglione e mi preme, m'intendete…
—Ho capito.
La persona immascherata pareva ossessa; non aveva membro che le stesse fermo, dalla visiera le partivano lampi dagli occhi, un'impazienza diabolica lo agitava.
La povera Angiolina, sentendosi destare a quell'ora dopo i proponimenti fatti, si mise a piangere; eppure, e pur troppo per sua disgrazia, doveva obbedire.
—Angiolina, Angiolina! urlò con voce diabolica Vascello; Angiolina, perd…. sali su; vi è un signore che vuol parlarti.—
La fanciulla, assuefatta a tremare alla voce della padrona, cintasi alla meglio una gonnella e gettatasi sulle spalle una sciarpa che le lasciava seminude, entrò nella stanza. Nella negligenza dell'abbigliamento spiccavano più perfette quelle angeliche forme. L'uomo immascherato la fissò con visibil piacere.
Angiolina mirò, con ribrezzo impossibile a descriversi, colui che sapeva averla ricercata; ad un cenno della padrona, essa fu accanto all'uomo immascherato, che pose una mano ardente come fuoco in una delle sue come gelo.
—Signore, non volete levarvi la visiera? dissegli Vascello.
—È certo un Inglese, riprese Narciso, non lo interrogate; è avaro della parola, o forse non intende la lingua nostra, ma noi intendiamo i suoi zecchini, due per voi e uno per me.
—Will you drink? disse la Vascello in cattivo inglese.
La maschera non rispose, ma rizzatisi si accostò ad un caminetto, ove ardevano buone legna e seco trasse la infelice Angiolina.
—Beautifiul girl, Milord, sexteen years old, she is a country lass.
La maschera non rispose, però strinse la mano violentemente ad
Angiolina, che mostrò visibil pena.
—Sarà un Francese, disse a Vascello Narciso.
—Eh bien, Monsieur, cette fille là est tout à fait angelique, par ma foi, elle est proprement un enfant.—
La maschera serbò il silenzio e volse bruscamente le spalle alla molesta interrogatrice, fissando in Angiolina quelle pupille infernali che brillavano di sotto la visiera come due carbonchi.
Vo' provare se è Spagnuolo questo diavolo, disse fra sè la Vascello, o se è sordo: parliamogli spagnuolo.
—Par nuestra Señora de la ciudad, esta muchacha es toda corazon.—
La maschera, infastidita, senza fiatare, prese di tasca la borsa zeppa d'oro, la gettò sul pavimento a Vascello, che l'afferrò colla lestezza del folgore, e, facendo cenno di volere andare coll'Angiolina in luogo ove non fosser testimoni, si mosse.
Vascello, lasciato Narciso, si fece ad accompagnare la coppia e prestamente ritornò nella sala.
—Ah! ah! o Inglese, o Spagnolo, o Turco, o il diavolo in persona, è una buona bestia. In questa borsa vi sono altri zecchini.
—Zitta un po': il diavolo non convien nominarlo, proruppe Narciso scherzando, è dopo mezzanotte, e più che si nomina e più s'avvicina.
—Ah! ah, prese a dire Vascello, tirando giù un'orribile bestemmia: esso sta qui dalla mattina alla sera, e non l'ho visto mai.
—Avrà paura delle vostre bellezze.
—Vezzoso mercante, replicò la donna facendo risuonare gli zecchini della borsa, quanto sei amabile con le tue lepidezze! ma orsù dammi da bere.—
Narciso andò all'armario vicino, ne tolse un grosso fiasco di acquavite, che i due personaggi quasi vuotarono, ora ridendo, ora dicendo cose che la penna non può riferire.
—Eppure, saltò su la Vascello, l'uomo che è di là con l'Angiolina mi sorprende; a che tenersi fitta al viso la maschera? qui se la leva ognuno.
—Cara Vascello, a volte vi son certi personaggi che, avvezzi a mostrar la faccia in luoghi ben diversi da questo vostro grazioso albergo, qui non osano scoprirla.
—Sciocchi! o che? forse è vergogna passar due ore in buona compagnia?
—Oh! che volete? saranno pregiudizi del mondo. Ci ha chi vuole apparire una cosa mentre in cuore sarà un'altra, ed ecco la ragione per cui nel tempo del carnevale il vostro albergo dolcissimo è frequentato da maggior numero di avventori. Il bello sarebbe che costui non si fosse levata la visiera nemmeno a quattrocchi con l'Angiolina. La ragazza è tanto stupida da non averci pensato; ed io muoio dalla curiosità di sapere chi sia questo notturno galante. Tornando all'Angiolina, non so comprendere come da qualche tempo sia immersa nella più cupa malinconia.
—Sarà innamorata.
—Eh! non ci vorrebb'altro; non vo' amori. Ma sono stanca, vo' irmene a letto; buona notte, Narciso.
—Un altro bicchier d'acquavite, alla tua salute, amabile fregata; ma no, ho sbagliato, vi rendo il vostro titolo, Vascello a tre ponti.
—Sguaiato! sempre colle giullerie. Orsù bevi e vattene.—
Narciso si fece a bere un altro bicchiere d'acquavite e poi, prendendo pel mento la donna:
—Mamma Vascello, non senti tu che scroscio? uh!…—
In questo tempo si udì il cupo rimbombo di un folgore, che fece tremar l'invetriata e col lampo ceruleo abbarbagliò la vista.
—Misericordia! urlò Vascello. È inverno, pare impossibile: quale oragano!
—Non mi muovo di qui, disse Narciso: dormirò su questo sofà; a quest'ora affogherei per la via.—
Ed in fatti la piccola pioggia si era convertita in un gran temporale: tremavano il pavimento e le finestre, il vento mugghiava, l'acqua cadeva a torrenti, e la gragnuola parea volesse spezzare i tetti.
—Perd…!—
Un altro scoppio di folgore coprì la parola a Vascello, che mitigò lo spavento con una tirata d'acquavite.
—Penso alla piccina, disse Narciso.
—Mi fai paura, riprese Vascello; dal momento in cui è venuta quella maschera, il temporale è rinforzato: sarà il diavolo, continuò.
Un urlo prolungato cupo e straziante mugolò per tutte le stanze. I due intrepidi schernitori della Divinità e della tempesta si guardarono muti, sentendo irti i capelli per lo spavento.
Fu un silenzio per qualche momento.
Una voce infantile si sentì esclamare «Ahimè, ahimè! muoio!».
—Ammazzano Angiolina, replicò Narciso; quella maschera….—E si precipitò verso la stanza da cui partivano i singulti, impugnando una pistola.
—Qui non si distrugge la nostra mercanzia, gridò Vascello, e brandito uno stiletto, mosse ella pure verso la stanza di Angiolina.
Non affezione, ma interesse muoveva quei due a soccorrere la infelice.
Appena ebbero fatti due passi, l'uomo immascherato, sempre coperto nel volto, col cappuccio del bornous sulle spalle, lasciava vedere sul capo irti i capelli, bagnati di sudore. Nel bornous erano due grossi strappi. Sempre colla visiera calata, esso lanciava dagli occhi lampi più terribili di quelli della tempesta. Dalla bocca di lui usciva la più nera spuma, ed egli, fattosi largo spingendo quei due che erano accorsi come se fosse inseguito da una potenza terribile, aperto l'uscio, si precipitò per le scale.
Vascello e Narciso erano muti per lo stupore. Giunsero anelanti alla camera di Angiolina, che credevano ferita od estinta; ma invece la trovarono tranquillamente genuflessa innanzi ad una sacra imagine. Cosa le era successo? Chi mai era quella maschera?
Il ratto.
L'uomo mascherato si era ritirato, come vedemmo, nelle stanze di Angiolina. Nessuna parola avea proferito la sua bocca; i suoi occhi scintillavano sempre più infernalmente.
Angiolina aveva paura e tremava. La maschera intanto aveva cessato da quello stato di fremito convulso da cui la vedemmo assalita. Costante nel tenersi celata nel volto e nello stare avviluppata nel suo bornous, si era dato a far mute carezze verso la giovane; la giovane lo respinse con dignità fino a che potè, ma accintasi la maschera a pretendere reciprocità di carezze,
—Signore, le disse decisa, la mia triste, la mia tristissima posizione non mi consente di rifiutare visite di persone incognite; ma non ho mai conversato con persone il cui volto sia pertinacemente coperto da quella eterna visiera che cuopre il vostro. Orsù levatevela e ch'io vegga i vostri lineamenti.
—Giammai, urlò l'immascherato, giammai il mio volto si scoprirà nel luogo ove noi siamo; ne avvamperei di vergogna.
—Signore, non è il luogo che fa vergogna, sono le azioni che si commettono, sono le azioni, sì; e se voi non vi vergognate di commettere queste azioni, io ritengo superfluo che vi nascondiate.
—L'uomo sconosciuto può tutto fare, perchè come uomo ha passioni e dee e può soddisfarle, ma l'uomo qui dee essere puramente uomo; il suo nome e la sua reputazione debbon premergli quanto i piaceri.
—Scusa inutile allorchè questi piaceri sono illeciti: voi vorreste commettere un'azione colpevole, poichè ve ne vergognate, e al di fuori serbare quel pudore di che non vi sentite capace al di dentro.
—Meno ciarle, gridò l'immascherato, qui non venni, ragazza, nè a discutere di morale nè a contendere; voi dovete tacere.
—Giammai, giammai! se qui mi ha gettato la barbarie di un padre, io non ho perduto…. tutto.
—Tutto, sì, tutto…. anche la volontà; essa non è più vostra, essa….
—Scostatavi, gli gridò la fanciulla, scostatevi, non vi appressate a me con quella visiera.
—Capricci da bambina, riprese l'incognito, da bambina! me l'hanno detto che voi eravate bambina; non hanno avuto torto. Ma…. la mia pazienza si stanca.
—E la mia è stancata; fuori la maschera, o che io mi ritiro e vi lascio qui solo.
—Insolente! mi burleresti tu? ma io ho mezzo di farmi obbedire.—
E frugossi nelle tasche dell'abito, come per trarne un'arme.
—Alle minacce rispondo con le minacce: non sono nuova nel tristo cammino come voi pensate; guardate.—
E in così dire si trasse dal seno un lucidissimo stile brunito.
L'incognito a tal vista indietreggiò.
—Ah! bella bambina, siete anco armata? soggiunse, quindi, come deridendola: e credete voi ch'io abbia paura di quel ferro nelle vostre piccole mani? riponetelo, imparate ad esser più gentile; questo è un tratto da novizia.
—Novizia? ah lo fossi! lo volesse il mio destino! Ma no, sappiatelo, uomo ostinato, sappiatelo, io non son novizia; ho passato la lunga trafila de' guai e dell'abiezione, tardi ho conosciuto l'abisso in cui son precipitata, tardi l'onor mio…. Ma, nello stato passivo in cui sono piombata, posso anche volere e voglio; questa volta me ne dà la spinta la vostra maschera.
—Io perdo la pazienza; ripetè l'immascherato fremendo.
—Ed io l'ho perduta.—E così dicendo, avventatasi all'uomo, gli strappò la maschera dal volto e la gettò sul pavimento.
—Sciagurata!—urlò l'incognito.
—Che vedo mai! gridò Angiolina, signor Basilio!
—Mi conoscete voi? Oh rabbia! a bassa voce mormorò l'incognito scoperto: che dirà il mondo?
—Dirà che siete quell'ipocrita che in realtà voi siete, quell'ipocrita che….
—M'insulti?…
—Sì, v'insulto e lo deggio; voi siete la causa delle mie sciagure.
—Io?… proruppe turbato il signor Basilio, fole, baie….
—No: verità, verità, verità. Voi appariste al mio nascere come infausto pianeta; mio padre mi odiò per voi e, morta la madre, mi respinse per voi. Il mistero non lo so; ma legami passano fra voi e lui, di qual tempra voi lo sapete.—
Il signor Basilio pareva colpito da fulmine, e la sua mente riandava cose orribili.
—Ah! voi siete…
—La figlia di Marianna dello scalo di porta Trinità, la figlia di Topo.—
Il signor Basilio di rosso acceso nel volto diventò pallido come un lenzuolo funebre, il cuore gli dava pulsazioni febrili.
Riflettè un momento: ei ben sapeva chi gli stava davanti, qual creatura aveva per sempre lanciata in un abisso di miseria, e quella creatura era di aspetto angelico! Involontariamente si ritrasse. Desisteva adunque dall'ulteriore conversazione con lei, con lei che…. ma no: il demonio, più furente assalse quell'anima nera; nessuna idea lo trattenne; veramente ossesso, spumante di rabbia, si fe' d'un lancio a raccorre la visiera, se la ripose con mani convulse al viso, aveva pur troppo bisogno di tornare a nascondere quell'empia sua faccia; e ciò fatto, decise di usare violenza verso l'infelice Angiolina, su cui slanciatosi come una tigre sulla preda, dappoi che le tolse lo stile, l'empio si apprestava…., ma non fu a tempo.
Dalle cortine del letto parato di damasco celeste uscì improvvisa la figura di una donna velata di bianco; il volto di lei era quello di un cadavere, le mani scarne, levatesi al cielo, parea supplicassero; una voce sepolcrale le uscì dal labbro.
—Empio che fai?… ed osi sfidare quel Dio che punisce?—
Il signor Basilio ed Angiolina videro l'apparizione.
—Sciagurato! proseguì lo spettro gettandosi su di quel mostro, verso cui lanciò più crude parole, le quali rimasero soffocate da un orribile scoppio di folgore.
La fanciulla cadde in ginocchio, e l'empio coi capelli irti sulla fronte, inseguito dalla celeste maledizione, precipitoso fuggì dalla camera e dall'abitazione infame.
Una sacra imagine che pendeva dappresso il letto della giovane apparve così raggiante che l'Angiolina ne stupì; un interno sentimento di riconoscenza, un amore fin a quell'ora non provato per la Divinità, toccò il cuore della fanciulla e la costrinse ad inginocchiarsi verso l'imagine della sua divina benefattrice. Ma la misteriosa apparizione fu ella realtà?
Chi può dirlo? Nessuno fuorchè i due che la videro; arcane sono le vie della provvidenza.
Da quella sera in poi Angiolina non fu più quella di prima; noi già lo abbiamo avvertito. E il mutamento della sua vita e dei suoi sentimenti cominciò da quella sera tremenda.
L'anniversario dell'apparizione del signor Basilio e dello spettro in casa di Vascello cadeva appunto in quella sera nella quale ella era stata scherno delle convittrici di quell'albergo e dei loro amanti. Costoro, invece di soccorrerla, avevanla gettata in una bara coperta di fiori e fatta soggetto della sacrilega mascherata che noi descrivemmo.
Quei figli di Satanno, non rispettando nè religione nè pietà, avevano, onde spingere più a lungo la burla, parata di nero la stanza, ove deposero priva di sensi l'infelice fanciulla, la quale al destarsi dopo qualche ora di deliquio credè di esser vittima di un orribile sogno; ma poi, non comprendendo peraltro in qual maniera trovavasi colaggiù, suo primo pensiero era stato quello di raccomandarsi alla provvidenza per un qualche aiuto, inquantochè nell'anno del suo pentimento, di quando in quando furtivamente uscendo, era stata alla chiesa, aveva appreso le sante verità della religione ed ansiosamente bramava la favorevole circostanza di fuggir per sempre da quella abominevole abitazione.
Un benefico nume accoglieva tanti sinceri desiderii, ed appressavasi il momento di vederli sodisfatti.
Rosina ed Angiolina dovevano vicendevolmente salvarsi.
Rosina, nella mattina dopo la trista notte in cui venne per fatale errore trasportata nell'empia casa di Vascello, aveva ripreso l'uso dei sensi e completamente schiarita la ragione. Con decise parole impose alla donna che l'assisteva di aiutarla a vestirsi: s'accorse della mancanza degli orecchini, del vezzo e della borsa dei denari, sicchè comprese pur troppo con quale specie di persone avesse a farla, ma usò tutta la simulazione di cui è capace il sesso feminile. Stimando inutile di domandare schiarimenti a persone di quella sorta, lasciò che Iddio le facesse conoscere per qual causa era stata da un incognito trasferita in vettura, dopo lo slanciarsi dal verone e per qual trista fatalità fosse stata rinchiusa in quella casa di pessimo aspetto.
Instruita dai libri, dotata di energica tempra, ella non si sgomentò, fidando in un avvenire più lieto, e risolse di profittare di qualsivoglia piccola circostanza per fuggire di là e direttamente muovere verso Montenero a gettarsi nelle braccia del buon Gonsalvo e chiedere a lui assistenza. La sua prudenza, calmata alquanto l'agitazione dei sensi, la consigliò a non dare ombra di sospetto intorno la casa e non lasciar trapelare la più piccola idea delle sue determinazioni. Era giovane, ma era dotta, avea letto nei romanzi bizzarre avventure di eroine e non le aveva credute; allora però ci credeva.
Il suo stato tosto la persuase darsi nella vita tali e tante
circostanze che lette in un libro crederebbersi invenzioni poetiche.
Avvezza a comandare, seppe imporre alla Vascello ed all'assistente
Catraia, che fra loro più volte si eran detto:
—È una principessa.
—Vedremo l'esito; verrà l'incognito che la condusse.
Ahimè! l'incognito pur troppo non ci pensava; il buon padre Gonsalvo, credendo di aver messa in luogo sicuro la giovane, giunto al convento e ritrovati colà Iago e Giovanni, aveva avuto da pensare ad essi e per maggior sventura era stato colpito per cagion dei disagi di quel tristo giorno del 27 febbraio da repentina febbre che, cagionandogli spossatezza e delirio, lo aveva inchiodato per alquanti giorni nel letto. Non sì tosto potè far uso della ragione e delle forze, volò a Livorno per riprendere la Rosina, cui già preparava un asilo nel convento ove aveva condotto Esmeralda. Ma ahimè! due dolori doveva provare in un tempo quel venerabile ecclesiastico, cioè apprendere la improvvisa sparizione di Esmeralda dal convento e, giunto a Livorno, conoscere che la Rosina era stata da lui sventuratamente addotta in luogo infame e, quel che è peggio, non più trovarsi in quel luogo.
Ma non era il solo che muovesse sulle tracce della fanciulla, che bramasse averla a qualunque costo nelle mani: vi era un altro personaggio che la voleva e che la voleva con fini ben diversi; e questi, non v'ha dubbio, era il signor Basilio. Costui, dopo la fuga della giovane dal balcone, vantandosi compromesso nella custodia affidatale, aveva, come vedemmo, messa sottosopra tutta la città. Del mistero della sua sparizione era al buio, come sentimmo in addietro, e molto più del luogo ove l'aveva tradotta lo sbaglio del padre Gonsalvo. Oh! se il signor Basilio l'avesse solamente imaginato! Noi conosciamo che la Vascello non gli era ignota; e, come ognun pensa, sarebbe volato colà, ma, come dico, non ne sapeva nulla. Ciò peraltro nei primi otto giorni della sparizione, ma dopo…. non affrettiamo lo svolgimento.
Padre Gonsalvo, appena riposto piede in Livorno, accostatosi con orrore alla dimora di Vascello, salite le orribili scale, si appalesò qual conduttore della fanciulla, e ne fece reclamo non simulando lo sbaglio; ma Vascello, sebbene empia e dissoluta, non aveva mentito nel dirgli che non vi era più, assicurandolo che durante il di lei soggiorno era stata trattata come si conveniva ad educata e ricca giovane e col più gran rispetto. A quel breve racconto le gote del frate erano infiammate dal dolore, dalla collera, e bagnate di mal rattenuto pianto.
—Guai a voi se mentite! aveva detto a Vascello. I fulmini di un Dio vendicatore e che il suo ministro invoca su voi vi giungeranno, e quelli dell'umana giustizia non mancheranno, vel giuro, per il carattere di sacerdote.—
Il buon padre nel parlare dell'umana giustizia aveva fatto per ispaurire la donna; egli ormai non confidava che in quella del cielo, poichè aveva veduto affisso un bando in cui la povera Rosina era stata messa a taglia, cioè premiato sarebbe colui che rimettessela come contumace nelle mani del tribunal criminale.
Umana giustizia! aveva esclamato fra sè il buon frate, umana giustizia! fallace come tutto ciò ch'è terreno.
Nel dolore della perdita di Esmeralda e di Rosina, il buon padre appena potea sentir la gioia di veder in salvo Alfredo. Quel degno uomo si rimproverava di esser causa della sventura delle due giovani che col miglior animo del mondo aveva creduto porre in salvo.
La Vascello, perchè il frate prestasse maggior fede alla sua asserzione, aveva voluto che da capo a fondo girasse la casa.
—Sì, molto reverendo Bonsignore: sono un'indegna peccatrice e, quel che è peggio, non sono per convertirmi.
—Dio ne faccia arrivare il momento! disse il padre con apostolica gravità.
—Sia pure, diceva come compunta la Vascello. Ma comunque la cosa sia di me, fra tutti i miei peccati non vi è quello di burlare un padre santo di Montenero.—
Noi sappiamo fin dal principio di questo racconto, ed è istorica verità, come il volgo livornese veneri i monaci di quell'abbazia. Il frate, veduta la casa, si rassegnò, pur non mancando di prendere qualche lume sulla sparizione della fanciulla; ma la Vascello protestava continuamente non avere la più piccola idea del come fosse avvenuto quel caso. Padre Gonsalvo si ritirò coll'amarezza nel cuore, recossi alla casa Guglielmi, sperando che la fanciulla si fosse colà diretta e dicendo fra sè:
Rosina avrà preferito tornare nelle perigliose mura della casa materna, anzichè trattenersi nell'orribile dimora della Vascello. Commosso e dolente accedeva alla casa della vedova, ed ahimè! scena terribile gli si appresentava agli occhi. I ministri del tribunale eseguivano un sequestro sui mobili e su tutti gli oggetti di valore che potessero esser soggetto di oppignoramento. Il satanico signor Basilio era l'autore segreto di cotesta esecuzione, avendo ceduto fittiziamente il suo credito verso la signora; nè contento di ciò, avendo insinuato il sospetto che quella donna potesse favorire persone nemiche al governo, avea fatto sì che le fosse lanciato contro un ordine di tornare in Francia dentro tre giorni. L'infame collotorto aveva però avuto il coraggio di scrivere un biglietto a madama, nel quale ipocritamente dolendosi delle disgrazie a cui la detta signora era soggetta, le faceva una lunga predica sul modo di educare i figli e terminava con offrirle la sua debole servitù.
—Empio fariseo! aveva esclamato il padre Gonsalvo, nel leggere quel biglietto aperto su d'un tavolino, e sentendo dalla signora il racconto di tutte le sventure dalla sera del 17 febbraio in poi. Empio fariseo! e la misera Rosina doveva esser tua sposa? Ah! meglio mille volte che ella vada raminga pel mondo. Iddio l'assisterà; la mia benedizione e le mie preghiere l'accompagneranno ovunque.—
Quel buon religioso vedendo per il momento non poter far nulla in vantaggio della figlia assente, pensò giovare alla madre presente, ed avvegnachè copiose somme esistessero nella cassa del cenobio per erogarsi in pie azioni, pensò che certamente fosse opera meritoria far parte di alcune di esse a quella signora, la quale per la nequizia umana trovavasi allora in estrema penuria e nella più critica situazione. La difficoltà era di trovare il modo onde madama le accettasse senza offendersene. Gonsalvo riuscì con tale ammirabile delicatezza che la signora non potè ricusare.
—Madama, conviene rassegnarsi ai voleri di Dio ed obbedire alle leggi; partite adunque al più presto: intanto vado a porre a vostra disposizione un 3000 franchi, che non saprei come meglio impiegare; questa non è una limosina, non è un dono, è un puro imprestito fiduciario, che voi salderete a tutto vostro comodo.
—E non vedete l'abisso in cui mi ha piombato la fortuna da otto giorni a questa parte? Come sperare di rimettervi….
—Non è tempo adesso di occuparsi di restituzione, gli eventi stanno in mano di Dio: non disperiamo, ma adoriamo. Esso è il padre delle misericordie: partite; qui resterò io e mi occuperò nelle indagini intorno all'autore del furto che soffriste non ha molto e dell'indole di questa esecuzione: spero rinvenir qualche cosa e che possiate essere reintegrata nei vostri beni. Quel fariseo….
—E che sospettereste?
—I sospetti non sono peccaminosi allorquando si aggirano su un briccone d'ipocrita; questi non sono cattivi giudizi del prossimo; di tutto sospetto, e, se non altro, lo credo conscio o forse complice del furto.
—Che dite mai? allora, se fosse vero, qual mondo sarebbe mai questo?
—Valle di lagrime, madama, e basta; luogo di calamità e di miseria: noi siamo qua per patire, e appunto per il soffrire dei buoni Dio permette la esistenza ed il trionfo dei malvagi.
—E della mia povera figlia?
—Calmatevi, si troverà; io non me ne stancherò: meglio profuga che in prigione.
—Questo è vero, disse madama con mesta consolazione. Ahimè! saperla imputata sotto la censura di un grave delitto!
—Eh! madama, non è la incolpazione, è il delitto che aggrava la fama dell'uomo; l'innocenza non si macchia, e viene il dì in cui si scopre e brilla di eterna luce.—
Consolata dal buon padre e sovvenuta dalla cassa del convento, la Guglielmi partì in breve per raggiungere il figlio a Genova. Il frate era divenuto proprio il padre di quella scomposta famiglia, ma la sua forza morale non poteva soccombere a verun peso. La sera stessa, riconducendosi mesto e solo al convento, aveva salmeggiato per tutta la via e svelato il tutto a Giovanni; permise quindi a questi che con uno di quei tanti travestimenti di cui quell'ardente giovane era capace osasse tornare in città per vedere se più felici potessero essere le sue ricerche. Giovanni con immensa gioia accettò il consiglio; in ogni modo ei sarebbe andato anco senza di quello. Vide un lampo di speranza per rannodare i suoi aderenti, e gli parve di sentirsi certo di trovare la misera Rosina. Sarà egli felice nei suoi desiderii? Ne dubito, ma torniamo a Rosina.
Rosina si era tenuta nella sua camera, erasi fatta dare del lavoro e stava intenta ad occupazioni donnesche; ed a tutt'altro pensando che il buon frate potesse averla condotta in quella casa o tratta in vettura, opinò di essere stata presa per altra persona e che un equivoco terribile la facesse dimorare in quelle sospette mura suo malgrado. Il vedersi così miracolosamente salvata, dopo essersi in un momento terribile precipitata dal balcone, attribuiva giustamente alla bontà della provvidenza, e da questa sperava il termine di sue angosce rassegnata e fidente. D'altronde, ci è permesso il dirlo, ella non aveva quell'idea che altre ne avrebbero avuta della casa di Vascello. Chi poteva aver dato ad una fanciulla sua pari la più piccola idea di tanta turpitudine? Nessuno. Era dunque come una bambina di due anni su di un precipizio nel quale volge gli occhi indifferente e sorride, ma da cui per istinto si allontana. Il ceffo peraltro di Vascello, il contegno di costei, quello di Catraia qualche cosa le dicevano ch'ella appieno non comprendeva, ma che tuttavia le facea desiderar di fuggire, siccome dicemmo. In ogni modo colui che in quel luogo avevala condotta doveva naturalmente venire a prenderla, ed ella sperava che colui (chiunque fosse), conosciuto l'inganno, avrebbe ceduto alle sue preghiere per esserle d'aiuto e di direzione. Questi presso a poco erano i pensieri, le congetture, i proponimenti di Rosina, che in fondo del cuore sentiva come il suo stato non era mai tanto terribile quanto se fosse stata nelle braccia del signor Basilio.
Vascello, nella speranza di lucro vistoso, teneva un contegno rispettoso ed obbediente verso la persona a lei incognita, ma che argomentava ricca. Non si presentava nella sua camera che quando era chiamata, e le aveva lasciata libera altra stanza ad uso di salotto. In quegli appartamenti non si offendeva la decenza.
Nessuna ricerca di mera curiosità per parte di Rosina, e veruna per parte della Vascello. Così passarono qualche giorni.
Alla fine del terzo, Rosina incominciò a divenire inquieta, ed approfittandosi del non sentire verun rumore di passi, si mise a guardare minutamente per la camera e, con sua somma sorpresa, vide che dietro ad un gran quadro di tela posto a livello del terreno era praticata un'apertura ad uso di bodola. Questa veduta la fece trasalire di spavento in modo che sulle prime fu quasi per cadere priva di sensi. Fattasi peraltro coraggio, s'inoltrò in essa e, discesi pochi gradini di legno, si trovò in una specie di pianerottolo che metteva nella già da noi accennata sala parata di nero. Angiolina non vi era più; perocchè dopo un giorno la Vascello, fatta una sgridata da maestra alle convittrici, aveva usato alla giovinetta moltissime e straordinarie attenzioni, in specie poi dacchè seppe che il presunto padre di lei era morto in carcere, e fu (cosa strana in una donna) capace di tenere per qualche tempo il segreto. Angiolina era tornata alla cucina ed alle solite basse funzioni di servizio. Ma la faccenda della stanza nera e della comunicazione con quella della sua camera fe' risolver Rosina a volere e pretendere una compagnia; onde, appena veduta la Vascello,
—Sappiate, le disse con tono imperioso, che se io vi palesassi chi sono, voi non sapreste che avvolgervi nella polvere; se taccio, ho le mie gravi ragioni, ed ho le mie ragioni anco per restar qui.
—Signora, comandate, le rispose con ossequio la donna.
—Sappiate, continuò che se colui (e qui diresse lo strale all'azzardo) se colui che qui mi addusse per i suoi fini sapesse che….
—Signora, comandate, ripetè interrompendola la Vascello, io son vostra umilissima serva (la donna si era riservata in petto la riflessione che le persone le quali ruban di notte donzelle di quella specie devono essere ricchissime).
—Ebbene, riprese la Rosina, io voglio una compagna perfino a che mi piacerà restar qui: intendetemi, la voglio buona; potete voi averne?—-E qui guardò maliziosamente Vascello.
—Sì, madamigella, ho una fanciulla affatto degna di farvi la cameriera; ah! sono la gran scapata a non averci pensato prima. Ma tant'è: Vostra Signoria è stata così taciturna; anzi se volesse…., se per distrarsi….—Ma gli occhi nobilmente severi di Rosina le impedirono di continuare.
—Mandatemi questa fanciulla; credo che ne abbiate, almeno mi sembra dal cicaleggio che ho inteso. La giovane sarà da me rimunerata e come merita, poichè dovrà tenermi compagnia di giorno e di notte.
—Come, vi piace, signora.—
Vascello non capiva come altri potesse comandare così imperiosamente in casa sua; ma questo è il privilegio della virtù sul vizio.
In pochi momenti la Vascello tornò con Angiolina, dicendo:
—Ecco, madamigella, la servetta che voi mi avete chiesto; spero che essa incontrerà nel vostro genio.—
Quindi si allontanò, lasciandole sole.
La figlia del popolo e la figlia della nobiltà si videro, si unirono e si amarono. In un sol giorno dal primo vedersi si eran palesate a vicenda le loro pene. Oh santa forza della simpatia in due anime benfatte! Piansero, si consolarono, sperarono insieme. A vicenda si giurarono soccorso, e quel giuro salì al cielo.
Povera creatura! tanto bella! tanto sventurata!
Rosina dovea ancora subire altre prove di crudo fato.
Il signor Basilio aveva avuto più fortuna del frate e di Giovanni, in quantochè giunse con sicurezza a sapere che Rosina era ricovrata presso la Vascello.
E come mai?
I lettori ricorderanno la collana dalla Catraia rubata a Rosina; or bene la Catraia, Volendo farne denaro, l'aveva data a Narciso dicendogli d'averla rubata ad una fanciulla misteriosamente comparsa nella casa della Vascello.
Narciso vendè, al solito, la roba rubata a quel galantuomo del signor
Basilio.
Il signor Basilio non lasciò trapelare la gioia di simile scoperta, pagò la collana della futura sua sposa un prezzo minore della metà del valore. Narciso si contentò, e la Catraia egualmente.
—Ah! ah! sclamò quando fu solo, aprendo uno scrigno, qua le gioie della madre e in questo canto quelle della figlia.—E così dicendo sorrise di un sorriso infernale.—Mia sposa! poi disse, e perchè no? Dovrò io consegnare questo bocconcino di fanciulla alla giustizia? Eh! non son sì gonzo: per essa è fuggita ed ella non l'ha ritrovata; io l'ho trovata ma per me. Ma sposarmi! E il consenso della madre e del fratello? Ah! ah! ne faremo a meno. Nella mia abitazione ho appunto bisogno di una vezzosa angioletta. Poi, proseguì il monologo, sarà mia amica….—
Sei ore dopo questa scena, otto uomini mascherati, furtivamente entrati nella casa della Vascello, rapivano dal letto la sventurata Rosina.
CAP. VIII.—Sorpresa Pag. 5
» IX.—Il nuovo Giuda » 37
» X.—Otto giorni dopo » 55
» XI.—Salvezza » 75
» XII.—Sul mare » 88
» XIII.—Angiolina » 107
» XIV.—Il ratto » 128
Gridò la vecchierella, altro che ingombro, è una donna affogata.
Vol. III, pag. 92.
Romanzo
AUTORE DEI ROMANZI
ASTORRE MANFREDI
e
IL DUCA DI ATENE
MILANO
PRESSO LUIGI CIOFFI EDITORE-LIBRAIO
Via di Chiaravalle, N. 11 rosso.
1862
Proprietà letteraria dell'editore, che intende far valere i propri diritti a norma di legge.
Milano—Ditta Wilmant.
La camera del signor Basilio.
Giovanni, staccatosi da Montenero, pensò di visitare le catacombe. Travestito da ortolano del convento e seguito dal negro, che volle accompagnarlo nella pericolosa impresa, si affacciò da prima all'ingresso dalla parte del mare; ma questo, ahimè! era stato ad arte reso inaccessibile all'oggetto di racchiudere colà dentro per sempre i congiurati, ignorandosi dalla giustizia la seconda uscita del sotterraneo. Si era fatto ammassare una grande quantità di rena, di macerie e di calce all'imboccatura che bagnavano i flutti. Giovanni adunque e il negro ritornarono indietro, divisando di penetrare nell'interno dalla parte della campagna. Sebbene, come già vedemmo, quel sentiero fosse malagevole, pure lo seguirono e si trovarono in brev'ora in quella cantina a volta ove erano precipitati la sera del 17 febbraio, al rintocco della mezzanotte: colà giunti, fra le tavole scomposte, fra i rottami e le schegge dell'assito, Giovanni si diè premura di raccogliere le ammassate carte, delle quali gran parte abbruciò al lume della torcia che rischiarava quell'antro. Dipoi, salito arrampicandosi su pel muro superiore, potè col premere altra molla riporre il tavolato al suo posto, e dalla stanza, di cui aveva fatto tornare a sesto il pavimento, passò in quella contigua, nel muro della quale v'era un armario da lui solo conosciuto e che s'internava nella parete senza dare al di fuori idea che vi fosse tale ripostiglio. Aperto l'armario, ne trasse due eccellenti pistole e due passaporti, uno inglese ed uno francese. Nel primo era qualificato come cavaliere Hautbuisson membro della Legion d'Onore e dell'ordine di San Luigi, ed in questo aspetto era stato invitato alla festa di madama Guglielmi, in quel ballo la sera antecedente alla catastrofe; col secondo egli appariva sir Edmond Rokeby capitano in riposo e ricco viaggiatore sul continente. Giovanni divisò di servirsi di questo nome per rientrare in Livorno, ed avendo raso la barba e i mostacci, apparve uno dei più bei giovani d'Inghilterra. Ed infatti la sua bianca e rubiconda carnagione, i suoi capelli biondi, i suoi occhi cerulei molto si confacevano al personaggio ch'ei voleva rappresentare. Nell'armario segreto egli avea molti abiti adatti a vari travestimenti. Abbigliato ch'ei fu nella nuova maniera, si avviò con passo franco verso Livorno come se di poco ne fosse uscito, ed Iago, che lo precedè, s'incaricò del trasporto di un baule di biancheria ad una delle prime locande. Per qualche giorno le più brillanti conversazioni della città si stimarono liete di possedere l'amabile e dotto capitano di marina inglese, ed egli appunto si era dato a frequentare tali società onde meglio nascondere il vero esser suo ed apprendere, nel sentirne parlare, la sorte dell'adorata Rosina.
Ed infatti spesso ne udì tener proposito; ma ahimè! le più strane congetture si facevano intorno alla di lei sparizione. Si diceva che ella fosse perita affogata in uno dei canali della città; si diceva fuggita con qualcheduno dei settari; insomma si diceva una quantità di bugie le quali lacerarono il cuore del povero Giovanni, mentre affettava una stoica indifferenza, onde meglio conservare l'impassibile aspetto d'inglese. Facendola da forastiero, volle anche visitar Pisa, come ognun s'imagina, per attinger novelle della infelice Esmeralda, anch'essa misteriosamente sparita.
Tornate invano le sue lunghe indagini su ciò, soprafatto da intenso affanno, alla perfine si era ricondotto a Livorno, ove non si ristette dal tener pratiche con alcuni dei dispersi congiurati; avvedendosi peraltro come lo spirito di quella gioventù si fosse cambiato per l'abbattimento in cui erano caduti alla notizia del come lor cose peggiorassero in tutta la penisola, Giovanni pure decise di attendere tempo ed occasion migliore e, trasandando la pubblica cosa, sue cure tutte volse agli affari privati, riservandosi di ascriversi alla milizia in qualche stato straniero quando che tutte le più minute ricerche intorno alle donne del suo cuore fossero pienamente esaurite. Un altro pensiero stava pur fitto nella mente di Giovanni, ed era quello di nobilmente vendicarsi del satanico Basilio, le cui iniquità erangli state narrate da padre Gonsalvo. E guai all'ipocrita se Giovanni fosse stato uomo di ricorrere a tradimento! per l'ipocrita sarebbe stata finita. Ma no: il nostro eroe, che sappiamo essere un singolare entusiasta, abborriva da ogni opera che agli occhi suoi fosse paruta infame. Desiderava la morte di Basilio, ma avrebbe desiderato dargliela in un duello all'ultimo sangue. Ah povero Giovanni! piuttosto sarebbe possibile all'acqua di un fiume il muoversi verso la sorgente, di quello che il signor Basilio avesse voluto cimentarsi con la spada o colla pistola alla mano; fermo peraltro nel suo pensiero di provocare il codardo impostore, Giovanni, che teneva vita d'uomo dedito al lusso, in uno dei migliori alberghi della città, contornato da amici novelli, fece un giorno dopo lauto pranzo cadere il discorso sulle mode e sopra i migliori mercanti. Non mancò di esser nominato fra questi il signor Basilio, e pregò gli amici di condurlo alla bottega di costui onde provvedere elegante vestiario per una prossima festa da ballo. In breve l'ufficiale e gli amici furono in bottega del mercante, ed il signor Basilio, facendo il collo più torto del solito, non mancò di complimenti e cortesie, mostrò le stoffe da cima a fondo e si augurò gran guadagno. Il sangue bolliva nelle vene a Giovanni, ripensando alle infamie di costui, e fu mille volte tentato di fracassargli il cranio con una pistola. Volendolo peraltro in qualunque modo provocare, domandógli il prezzo d'un abito. Quantunque il bottegaio gli richiedesse il giusto (e qui conviene avvertire che sebbene il signor Basilio comprasse roba rubata a mezzo prezzo, la vendeva a prezzo corrente),
—Voi siete un infame ladro, gli disse Giovanni affettando accento forastiero, un infame ladro, aggiunse guardandolo con occhio di disprezzo.
—Sarà come piace a vostra Eccellenza.—
Ah cane! disse fra sè Giovanni, manco all'ingiurie ti scuoti? or vedremo. E guardandolo con più fiero cipiglio, alzata la mano destra, lanciò sulla guancia del mercante un potentissimo schiaffo.
Il signor Basilio, che sentì crollarsi i denti dalla parte percossa, rispose con un sorriso e con un gentilissimo inchino. E quindi volgendosi agli amici del finto Inglese prese a dire:
—Ah! ah! Milord è in collera: voglio placarlo; il mio facchino porterà al suo albergo le stoffe più belle ed al miglior prezzo.
—Non voglio niente da voi, urlò Giovanni irato per la fallita impresa: mi sono divertito. Tenete per il vostro incomodo, brutto e vile scimmiotto!—
E gli lanciò sul banco un pugno di monete, quindi si allontanò.
Bizzarri questi inglesi! disse fra sè Basilio curvandosi fino a terra per fare un profondissimo inchino; hanno sempre le mani avanti: fortuna che io per sì piccole cose non mi scaldo. E raccogliendo il denaro, se lo pose in tasca.
La sera mentre trovossi nella solita bottega del tabaccaio, gli disse il padrone di quella:
—Di grazia, signor Basilio, ma è vero che V. S. ha quest'oggi buscato il titolo di ladro e più uno schiaffo da un milord inglese?
—Verissimo, Sua Eccellenza si è degnata di applicare una delle sue mani alla mia guancia.
—Delicata quell'applicazione! riprese il tabaccaio, io per me non mi curerei di simili onorificenze.
—E che fareste? sentiamo.
—Ricorrerei.
—Per queste bagattelle uh!
—Eh! chiamate bagattelle il titolo di ladro e uno schiaffo?
—Parlando sul serio, vi dirò che l'uomo deve essere umile; e poi non lo dice la santa Scrittura che se vien dato uno schiaffo, bisogna voltarsi dall'altra parte per averne un secondo? Non lo sapete che gli umili vanno alla celeste beatitudine?
—Buon pro vi faccia, signor Basilio! avete una gran pazienza; vi ammiro, ma non saprei imitarvi.—
Se fossi gonzo, disse fra sè l'ipocrita quando fu per la via, a pigliarla con i milord che nuotano nell'oro. Ricorrere? Ricorrere a chi? alla giustizia? coi pezzi grossi ci si perde sempre, ed io degnissimo signor Basilio me ne tornerei colle trombe nel sacco. Sì, sì!… vorrebbero dar ragione ad un Basilio e torto ad un milord! queste son cose che usavano ai tempi del re Pipino. D'altronde ho mezzi di risarcirmi nel segreto pacifico mio albergo coi più squisiti piaceri di quei pochi disturbi del mondo sociale. L'uomo regna a casa sua. Ed in così dire, guardando l'orologio, fece un moto di sorpresa; eran passati due minuti dopo l'ora del periodico ritiro. E' s'avviò a casa.
—Ah! di quei perni di galantuomo se ne trovan pochi al mondo, aveva esclamato il tabaccaio, quando se ne fu andato; e gli altri della bottega risposero io coro:
—È proprio vero; colui è un Giobbe novello, è un gran santo.—
Nella camera del signor Basilio, che abbiamo saputo esser chiusa a tutti, meno che alla vecchia serva una volta alla settimana, esisteva nel pavimento a fianco del letto una botola, la quale però non era di legno, ma bensì di mattoni, sicchè quando era chiusa non poteva scorgersi, tanto era simile al resto del mattonato, e così pesante che una persona la quale fosse stata sotto di quella invano avrebbe tentato di alzarla. Il signor Basilio peraltro aveva il modo di aprirla colla maggior facilità del mondo, mediante una buona molla che terminava in un bottone di ferro; e siccome questo bottone avrebbe potuto essere scôrto, esso vi teneva sopra una delle gambe del suo letto. Tal botola l'aveva fatta da sè, poichè il signor Basilio era, oltre che ladro, adultero, ecc., ecc., anche fabbricatore di false chiavi, e conosceva così bene la meccanica che ne avrebbe potuto tener scuola. Fino da qualche anno in una circostanza di pessima invernata non uscì mai; e siccome si serrava sempre in camera, ognuno ignorò cosa facesse: quanto ai mattoni ed alla calcina n'erano occorsi ben pochi ed aveva portato colà il tutto, celandolo sotto il pastrano ed involtando il gesso in un fazzoletto da naso. Il signor Basilio aveva scoperto che sotto il pavimento della sua camera era una stanza, forse in antico servita per qualche uso domestico, di cui era stato coll'andar dei secoli turato affatto l'ingresso, forse nel tempo in cui la strada era più bassa, e chi sa quante centinaia d'anni prima? Sceso in questa stanza sotterranea, aveva veduto che essa metteva in un corridoio lungo, umido e stretto, il quale in fondo gradatamente discendeva ed entrava in un canale asciutto, che nei secoli andati probabilmente esser poteva stato uno dei canali di sfogo a qualche fogna. Da questo canale si passava in un recinto affatto scavato nel terreno arenoso, in mezzo a cui stava un pozzo per la vetustà asciutto ed ingombro di materiali.
Il signor Basilio aveva scoperto con gioia questo laberinto sotterraneo incognito a tutti fuori che a lui e che si sprofondava moltissime braccia sotterra. Gli venne subito il pensiero di metterlo a profitto per le sue illecite speculazioni: onde, con indefessa fatica sgombrato il pozzo, in cui discendeva con una piccola scala a piuoli, si accinse a render quel recipiente atto a nascondere i suoi tesori, persuaso che in quel luogo non sarebbero stati nè scoperti nè derubati. Lo scaltro briccone dopo lunghissima fatica era giunto a fare dentro il pozzo degli scavi laterali a guisa di armari, entro cui ripose una quantità di oggetti di ogni genere che esso comprava dai ladri e dagli assassini di Livorno; talchè in quegli armari si vedevano vesti, collane, ori, coralli seterie e altre robe preziose, poichè robe di poco valore e di molto ingombro non ne acquistava giammai. In fondo al pozzo aveva lasciato nudo il terreno onde non avere impedimento di sorta nel calarvi la scala a piuoli che teneva celata nel corridoio. Quella cloaca ove regnava una perpetua notte abbondava d'indicibili ricchezze. E qui giova accennare che il signor Basilio nell'acquistare la roba dei ladri si valeva del giorno di sabbato, in cui aveva permesso a tutti i poveri di accedere alla sua abitazione per avere la settimanale limosina; e così agli occhi del mondo la carità era una delle più grandi sue virtù. E sotto la specie di accattoni, ladri di ogni sorta andavano a lui: ed egli ad uno per volta li faceva entrare nella sua camera e comprava gli oggetti, che poi calava nel rammentato pozzo.
All'epoca della schiaffo datogli da Giovanni era qualche giorno che gli armari del pozzo erano chiusi dai loro sportelli, e ciò non senza ragione.
In fondo al pozzo sull'umidissimo terreno giaceva consunta dalla fame e dal freddo su poca paglia una creatura angelica a cui continue tenebre velavano gli occhi. Questa fanciulla era l'infelice Rosina.
Quattro dei più destri ladri usi a frequentare ogni sabbato la casa del signor Basilio vi avevano per larga mancia e nel più fitto di una notte invernale recata la sventurata giovinetta, che avevano rubata alla turpe magione di Vascello.
La fanciulla non aveva potuto gridare, poichè, immersa in un sonno letargico procuratole ad arte, era stata per mezzo dei ladri trasportata infra le tenebre dell'orribile pozzo; ed onde non potesse esser soccorsa dalla tenera Angiolina, la diabolica Catraia aveva anche a questa somministrata l'infernale pozione; talchè quando si destò trovossi priva dell'amabil compagna e padrona. Ma lasciamola nelle smanie per l'infausto avvenimento e passiamo a dare ai nostri lettori un'idea degli orribili tormenti che Rosina provava in fondo al suo carcere e che rileveremo dagli appresso monologhi.
«O madre mia! o mio fratello! voi non mi vedrete mai più; sono sepolta viva.
»Tenebre! eterne tenebre! Un poco di pane, quanto appena può starne in bocca, ogni due dì! acqua impura mi disseta.
»Povera Angiolina! È vero che eri sventurata più di me, si, più di me…. ma ora lo sono più di te. Ah! vacillo, mi sento morire!
»Un animale schifoso mi è passato sul viso; un rettile, un rettile! io sento il puzzo di muschio!… ah! mio Dio, toglimi alla vita, io te lo chiedo per pietà.
»Oh! Dio, eccolo…. eccolo…. veggo il lume: ecco il mio tiranno…. scende le scale, viene a tormentarmi…. Ma vieni, vieni pure…. Prima morta che tua…. sì…. ah! respiro…. non è lui; nessun lume viene a rischiarare questo abisso.
»Dove sono?… quante braccia sotterra?… sepolta viva! uomo empio… e tu ora alla faccia della terra sorriderai, ti beerai del mio martirio!… o illusi, fuggitelo, fuggitelo questo demonio incarnato!»
Con voci interrotte da' singulti la misera sfogava il suo intenso dolore; già da tre dì agonizzava nel fondo dell'orribile pozzo profondo trenta braccia sotterra: il barbaro signor Basilio ogni due giorni le portava due once di pane ed un boccale di acqua putrida.
—Questo è il tuo posto, superba, le aveva detto ogni volta che era sceso a portarle lo scarsissimo alimento. Questo è il tuo posto; tu non morrai, ma nè anco viverai: io mi vendico così; questo è il tuo luogo, il tuo nutrimento, questo il tuo letto nuziale, fino a che tu non ceda alla passione che mi divora per te.—
La misera invano colle più calde preghiere lo supplicava di darle la morte anzichè prolungarle la vita ormai insopportabile.
Quell'empio scherniva la moribonda.
—Fuggi fuggi adesso se ti riuscirà; nessuno, nessuno si curverà su te nell'ultimo tuo momento; i rettili immondi divoreranno il cadavere della superba.
—Demone in forma d'uomo! nel mezzo dei suoi strazi aveva urlato la giovine.
—Demone? aveva risposto con schernevole riso il traditore. Demone sarò qui sotterra, ma alla faccia del sole io sono l'ottimo signor Basilio, il ricco ed il benefico; e tu? sai chi sei tu? la condannata, la fuggitiva, l'amica di un congiurato. A me fama e vita, a te infamia e morte. Ma io voglio salvarti…. di' una parola, e ricchezze ed agi e fortuna ti darà Basilio se sarai la sua consorte.
—Ah giammai!
—Sarai la mia amica.
—No, demone d'inferno.
—Sarai la mia vittima.
—Ah!… il sono.
—Muori adunque!—
E l'orribile coperchio della botola, riserrandosi con fragore, lasciò l'infelice priva della presenza dell'infernale Basilio.
Costui periodicamente scendeva a tormentarla; ed ella ormai sentiva sempre più avvicinarsi l'ora estrema.
Ella morrà, diceva fra sè il signor Basilio udendo i di lei gemiti mentre stava sulla comoda sua poltrona nella camera. Ella morrà, ne sono certo; otto giorni di questa vita bastano ad uccidere un gigante: ella morrà; ebbene che m'importa? muoia pure. E vuotò un colmo bicchiere di vino del Reno che aveva sulla tavola.
Si avvicinava il termine della vita di Rosina; i rettili più schifosi, le tarantole, i sorci le passavano sul volto, sulle braccia, su tutte le membra; l'aria mofetica, pesante e diacciata, il lungo digiuno avevanla estenuata; ella già era fatta scheletro.
Il signor Basilio gioiva della sua preda e della sua vendetta. Il giorno che toccò lo schiaffo da Giovanni, schiaffo che tollerò con tanta rassegnazione, il che gli meritò gli elogi del tabaccaio, decise di tormentare più orribilmente Rosina e di sfogare su quel misero corpo tutta la sua sfrenata passione. Presa una lanterna ed armatosi di un pugnale, discese per la scala di legno a piuoli nel pozzo dopo la mezzanotte: incominciò le solite frasi, ma niuna risposta.
—È morta…. sclamò, è morta.
Ed infatti, toccata la giovinetta nel volto, sentì che era gelida come un cadavere. Curvatosi sulla misera, raccolse che non respirava. È morta, ripetè fra sè allontanando con un piede quel corpo bellissimo. Così muoiano i traditori e le superbe. Miratala poi nuovamente,—Ah! disse con sorriso beffardo, non fa bisogno di sepoltura; ma no… alle volte le combinazioni… Farò io da beccamorti. Non voglio che si scuoprano ossa quaggiù; le combinazioni son tante!—
E con una freddezza abominevole si mise a raccorre con una mano dei pezzi di masso staccati dalle umide pareti del pozzo per gettarli addosso al bel corpo di Rosina e così, diceva fra sè, seppellirla. Aveva in mano la prima pietra, quando una branca della scala si scosse. Il signor Basilio trasalì; che mai poteva averla fatta muovere? Per la prima volta quell'empio rabbrividì per la paura, non osando alzar il capo verso la imboccatura del pozzo che dava nel corridoio sotterraneo.
Il movimento della scala si ripetè.
Al signor Basilio caddero le pietre di mano. Postosi in ascolto, parvegli udire dei passi nel corridoio.
—Chi è là? sclamò, chi è là? Me misero! che mi sieno entrati in camera! eppure la casa è serrata! Ma no…. sarà un'illusione…. sarà il vento: questa è corrente d'aria.—
E così dicendo batteva i denti per il freddo e per la paura. Ma lo spavento di essere derubato la vinse su tutto; in un attimo salì la scala a piuoli e trovossi nel sotterraneo corridoio: ma qual vista!
Due figure venivano verso di lui aventi due fiaccole; una di esse era una donzella vestita di bianco, l'altra un uomo con uniforme da militare inglese.
Il signor Basilio si vide perduto; sentì vacillarsi la terra sotto i piedi.
—Infame! gli gridò la donzella, ricevi il premio delle tue scelleraggini!—E così dicendo gli piantò uno stile nel petto. Il signor Basilio cadde immerso nel suo sangue, ma nel cadere, ravvisata la fanciulla, ebbe forza di esclamare:
—Sciagurata! hai ucciso tuo padre.—
La fanciulla omicida svenne.
Di lì a pochi momenti l'ufficiale inglese entrò nella camera del signor Basilio, seco portando con immensa fatica, quasi corpi esanimi, Rosina e Angiolina.
Per viaggio.
Due mesi erano trascorsi dagli accennati avvenimenti, e sul naviglio da guerra, siccome dicemmo, veleggiavano verso l'ospitale America Giovanni, Rosina e Angiolina ancora. Sì, dopo che l'amica avevala salvata dal disonore, dalla morte, esse erano divenute ognor più inseparabili.
Secondo quanto accennammo sul principio del capitolo duodecimo, nella sala del naviglio s'intratteneva la vezzosa Angiolina, la cui mestizia si appalesava sempre più viva dal principio del viaggio. Troppe erano le dolorose sue reminiscenze; e sebbene purificata dopo i suoi involontari trascorsi, da cui se il suo bel corpo fu macchiato, ne rimase l'anima intatta, pure ella non si persuadeva, a malgrado delle tante assicurazioni degli amici suoi, di esser degna di entrare nel consorzio delle persone dabbene.
—Ah! Invano tentate di consolarmi su tal proposito, prendeva a dire appunto, seduta sul canapè di rimpetto a Giovanni assiso sul cannone. Invano credete, signore, che abbia a cancellarsi la macchia che mi rese immonda; sia pure che la vita di aberrazione e di licenza da me passata fosse l'effetto di forza superiore, ch'io calcassi nel colmo della più buia ignoranza del bene e del male le empie vie della turpitudine; ditemi, non è forse più turpe il nascer mio? Pur troppo io passo per figlia legittima di un uomo infame per delitti di furto e di sangue, morto avvelenato in una prigione; e sono figlia adulterina d'un uomo forse anco più infame, del signor Basilio.
—Zitta là, aveva ripreso Rosina, che da una delle contigue stanze era passata in quella ove stava Giovanni e l'amica, zitta un po': chi mai è responsabile della nascita? siam forse arbitri di scegliere pria di venire al mondo? Se così fosse, tutti vorrebbero esser figli di persone elevate, ricche e felici. Tali idee, non cesserò mai dal ripeterlo, ti fanno torto; tu devi considerarti come l'oro, che nasce ingombro di terra e di altri metalli impuri, ma che si purifica al fuoco; tu sei purificata nel crogiuolo della sventura. Il tuo spontaneo fuggire l'abisso in cui ti avvolse dal nascere il più tristo dei destini, e il sortirne senza aiuto, colle forze tue proprie, forze di misera ed abbandonata fanciulla, bastano a renderti grande, magnanima, degna d'invidia.—
Giovanni assentì col capo, e le due amiche si dettero un lungo abbraccio e molti baci.
—Ma orsù, per distrarsi prese a dimandare Rosina, dimmi un po', come facesti a scoprire il mio nascondiglio?
—Oh! s'altro non vuoi, tel dico subito. La mattina nella quale mi avvidi della tua sparizione, io mi feci a sospettare qualche tradimento, e la confusione in cui era la Vascello mi confermò nell'idea. Tutto quel giorno peraltro stetti cheta, poichè il mistero per il quale tu eri entrata colà mi era ignoto. Fortunatamente giunse in quei dì il buon padre Gonsalvo, e non cadde dubbio in me dolente delle tue sventure che questa fosse opera di colui…. (e qui si terse una lacrima) di colui che attese che la figlia gli vibrasse un pugnale nel petto per chiamarsi padre adultero, di colui che godo sia sfuggito alla morte, che gli avrebbe cacciata l'anima all'inferno e che mai non riconoscerò per padre (pregando peraltro ogni giorno per lui). Chi altri mai poteva aver comandato quel ratto? tu vedi che non ci voleva molta scaltrezza dopo l'orribile scena che ebbi a patire per causa di esso. Secondo che ti narrai quando eravamo dalla Vascello, io non ignorava come il signor Basilio avesse aderenti nei frequentatori di quel luogo. Tacqui covando il pensiero di salvarti dall'uomo terribile, e poco stante, fuggita dall'abitazione infame, mi ricovrai dalla donna dell'osteria dei Tre Mori. Voi sapete come Concetta fu mia compagna d'infanzia. Perciò colà venni in chiaro di tutto; il ganzo di Concetta fu uno dei rapitori, il quale non resse alle dimande della bella, che poi ne fece a me il racconto.
—Povera Angiolina! quante premure! Iddio te ne rimeriterà. Ti farà felice,
—Ah!… esclamò con un sospiro la fanciulla. Dunque, tornando al nostro discorso, io conosceva il luogo del tuo supplizio; ma come liberarti? io, inerme, povera, fuggiasca, che altro asilo non aveva per me che una misera osteria di cattiva fama, altro sostentamento che quello della carità dei padroni dell'osteria stessa? senza amici a cui fidarmi, io quasi disperava, e calcolava che ogni istante nelle mani di quell'uomo essere doveva insoffribile per te. Stolta! e non sapeva che alle buone azioni ci aiuta sempre un Dio? sì, venne il soccorso. Una sera capitò nell'osteria il tuo Giovanni; la sua figura vantaggiosa, il suo bell'aspetto mi fece subito tale impressione che non me ne scorderò mai.—
E qui bisogna pur dirlo, vi era nell'espressione della voce dell'Angiolina tale una dolcezza inesprimibile, tal mestizia nei suoi sguardi che le davano un celeste incanto.
—Veduto il tuo Giovanni e saputo dalla Concetta esser egli appunto quell'amante di cui mi avevi favellato. Ah! dissi, ecco il soccorso di Dio! e colle mani giunte, col cuore immerso nel giubilo ringraziai il Dator d'ogni bene. A Giovanni io spiegai il tutto. Lui solo può dirlo di qual gioia si sentisse compreso nel saperti ritrovata, ma ahimè! nelle mani però dell'empio tuo persecutore. Poche ore bastarono per porre in pronto il mezzo di salvarti, se pure ne fossimo stati in tempo. Il cielo secondò le nostre brame, una scala di corda e due rampini servirono per far giungere alla finestra l'Arciero, uno dei più famosi ladri della città. Ah! non ti stupire dei mezzi che adoprammo per salvarti. Costui, giunto alla finestra, reciso il cristallo con un brillante che aveva in dito, aperse la finestra della camera, disceso, spalancò l'uscio di strada, e noi ci introducemmo nell'abitazione seguendo l'amante di Concetta, fummo nel sotterraneo del pozzo. Il tuo Giovanni aveva vestito l'uniforme per maggior sicurezza nel caso che fossero accorsi dei curiosi; ei sapeva qual divisa rispettata vestisse, divisa che allora portava indebitamente, ma che adesso veste in ragione del suo ufficio. Il di più dell'avventura notturna non posso dirtelo; tu sai ch'io colpissi, che versai il sangue d'un uomo infame, ma che, ahimè! si vanta mio genitore.—
Il racconto terminò con lacrime di tenerezza. Le due amiche salirono sul ponte a passeggiare per respirare le placidissime aure marine. Il nostro Giovanni si rimase nella camera solo. Colla donna del cuor suo era egli felice? ah! pur troppo due cose lo tormentavano nell'anima: l'amore fervente di patria e le nessune nuove della sventurata sorella. Rosina peraltro, tutta in preda alla gioia di esser per sempre sfuggita all'empio signor Basilio, sapeva salvi la madre ed il fratello, e sperava di veder ricomposti gli sbilanciati interessi della madre stessa, mercè le assidue cure del padre Gonsalvo. E nei primi momenti di un appagato amore ella non aveva altre afflizioni che l'afflizione dell'uomo adorato. Ma egli era allora suo sposo? quali erano state le vicende sue nei due mesi dell'avvenuto ratto e liberazione? Noi potremo saperlo leggendo le seguenti lettere dirette alla madre ed al fratello.
Mia cara madre, Malta, li 27 marzo 1821.
Non prima d'ora ho potuto scrivervi, durante il mio viaggio; il medico mi aveva proibito d'occuparmi. Sì, madre mia, io sono stata sull'orlo del sepolcro: un Dio mi ha conservata all'affetto vostro e di colui che mi ha salvata ed al quale col più sacro titolo appartengo. Il venerando padre Gonsalvo, il mio tenero Giovanni so avervi scritto la istoria delle mie sventure fino alla notte in cui venni esanime e puro scheletro involata a morte certa, poichè il barbaro mio rapitore era già sul procinto di seppellirmi: inorridisco al solo pensarvi. Iddio mi usò misericordia di avermi tolti i sensi in quell'estremo momento: almeno io non vidi l'ultima volta colui che ha rovinata e dispersa completamente la nostra famiglia, ne ha involate le sostanze, disonorato il nome. Ma il tempo della giustizia divina verrà e verrà tremenda: colui non è morto, Iddio non senza ragione serba quella vita abominevole; chi sa qual morte gli prepara la vendetta dell'Onnipossente? Nel momento della mia liberazione io nol vidi, come anche non vidi le creature che mi liberarono, cioè Giovanni ed Angiolina. (Di costei, mia tenera amica, so avervi scritto a lungo il buon padre Gonsalvo.) Quando ripresi i sensi mi avvidi di essere in una stanza mobile; infatti io mi trovava in un naviglio: come mi vi conducessero, eccovelo.
Giovanni aveva condotti nella camera del signor Basilio uomini arrischiati e pronti ad ogni suo cenno: a costoro affidò l'Angiolina svenuta, e quanto a me volle egli stesso darsi cura di questo, com'egli lo chiamò, carissimo peso. Ei temea sempre di perdermi nuovamente. In breve fummo condotte in una barchetta che ci attendeva nel fosso vicino e di là fummo trasportati da quell'agile schifo oltre il Calambrone. Come ei facesse ad oltrepassare la dogana senza che fosse veduto quel che stava in fondo al battello, nol so; ma mi do a credere che quei remiganti, espertissimi contrabbandieri, non nuovi a passare alla insaputa delle guardie doganali, manco pensassero a quella difficoltà; forse le guardie furono innocenti, forse comprate, ma ciò non interessa al mio racconto. Quando mi destai dal mio lungo sopore, io, come vi diceva, era in una comodissima camera di un naviglio, la bandiera del quale così è temuta che, sebbene a poche miglia di distanza dal signor Basilio, non sarebbero bastati cento suoi pari a levarmi di colà. E poi il degno signor galantuomo aveva altro da pensare in quel momento. Noi anzi per molti giorni il tenemmo siccome morto; e se nol fu, convien dire che il demonio avesse prodigiosamente salvato quel suo favorito. Al primo ritornare in vita io non riconobbi nè Giovanni nè Angiolina, che continuamente al mio fianco stettero ad assistermi, nè da me furono riconosciuti se non dopo qualche giorno e quando mille cure vi vollero per farmi riprendere le forze smarrite a causa degli orribili patimenti da me sofferti in quel pozzo del signor Basilio. Come fui in grado di poter resistere alla consolazione, Giovanni mi si palesò qual era: ciò basta; di più non posso dirvi, sebbene siate mia madre; è un segreto che egli confidò a me sola e che niuno oltre di me può conoscere. Vi basti che esso è degno di me, di voi, di Alfredo, di tutta la famiglia. Io credo che il mio Giovanni sia uno di quegli esseri straordinari che appariscono a quando a quando nel mondo per far prendere al secolo in cui nacquero tutta l'impronta delle loro passioni: giovane ancora, egli non è conosciuto, ma tempo verrà che si farà conoscere ed il mondo lungamente parlerà di lui, quando solo uno di quegli alti meriti che lo adornano egli si avesse. Io gli debbo l'onore e la vita, che senza di lui avrei perduta nelle mani del signor Basilio. Datosi egli a conoscere, senza quel misterioso linguaggio che è solito usare quando in specie lavora ad un gran piano che va maturando, egli mi si appalesò, ed io non resistetti ai di lui desiderii di farmi sua sposa; quando pur l'amore non mi avesse consigliato di fare tal passo, mi vi spingevano la mia ragione, la mia critica situazione. Che aveva a fare io isolata al mondo? Che avrebbe detto il mondo se avessi dimorato sciolta dai vincoli del sacro legame coll'uomo cui sono debitrice della vita? Sì, mia cara madre, padre Gonsalvo ci dette la benedizione nuziale poco prima che il naviglio mettesse alla vela. Il giorno di tale avvenimento fu giorno festivo per tutto l'equipaggio; il legno fu tutto bandiere, ed in mezzo agli evviva di quella buona gente fui salutata sposa, La mia debolezza era estrema; appena potei uscire dal letto della mia lunga infermità per trasportarmi all'altare, ma di più non poteva indugiarsi. Ah! madre mia, io fui felice, felice però quanto poteva esserlo una figlia che non vide la madre assistere ai suoi sponsali, che vede l'uomo che ama non lieto ma cogitabondo. Ahimè! sempre più mi persuado non esservi in terra completa felicità.
Noi siamo a Malta; il mio avventuriero (che così soglio per vezzo chiamare il mio sposo) trova oro ed amici in tutte le parti del mondo. Al vedere come è ossequiato, come è compiaciuto, come ricercato da tutte le persone, voi lo credereste un gran principe: io però non me ne meraviglio; le più scelte dame di qui si compiacciono chiamarmi sorella, mi scelgono per compagna e per intima amica. Ah! son pur lieta in questa isola amena, e spero farvi un progetto al quale m'auguro vedervi sorridere. Ma…. qui chiudo la lettera: pochissimo vi ho scritto come figlia, troppo come convalescente; se lo sapesse il medico! mi sgriderebbe, ma gli farò il piccolo torto di non dirgli nulla.
Vi bacio la mano.
La vostra obbed. ed amorosa
Cara mamma, Malta, li 30 marzo 1821.
Attendeva vostre lettere per continuare la mia corrispondenza.
Sono lietissima di sentire che voi avete approvato il mio matrimonio e che le speranze di riacquistare le facoltà vostre a Livorno sono vive mercè le premure dell'ottimo padre Gonsalvo. Ma di più avrei goduto se avessi saputo che la nostra buona fama fosse ristabilita. Quanto a voi è sperabile, ma quanto a me ho il dolore di essere sempre calunniata senza poter giustificarmi nella mia buona patria. Ciò lo apprendo da un articolo della gazzetta in data di Livorno; quella lettura mi fece molto piangere e mi fruttò una lunga sgridata per parte di Giovanni, il quale con serietà mi disse:
—Non sono i giornali che coi loro comprati articoli danno o tolgono la fama agli uomini; sono le loro azioni, è il mondo che ne giudica, gli eventi che li coronano di alloro.—E qui prese un'espressione di profeta. Pure voglio trascrivervi l'articolo tal quale, nel dubbio che voi non lo abbiate letto.
«Nello scorso mese la nostra città di Livorno fu teatro di un avvenimento che farebbe anco più orrore, se non si sapesse essere opera di gente perduta e dedita a trame contro i buoni per sovvertimento della macchina sociale. Questo avvenimento è un assassinio commesso sopra uno dei più onesti mercanti di questa città, il signor Basilio Semplici. Costui, che, come ognun sa, vive ritiratissimo, dedito ai suoi affari e all'opere di vera e rara pietà religiosa, ha un quartiere situato in via del teatro degli Avvalorati. In questo quartiere è posta una stanza nella quale l'insigne capitalista ha con molta prudenza celati quei tesori, frutto dei suoi risparmi e lucri commerciali che, proprio convien dire, benedetti dal cielo, cotanto si sono prodigiosamente aumentati, poichè, a quanto dicesi pubblicamente, non vi ha uomo più denaroso di lui nella nostra città. L'avvenimento dell'assassinio non sarebbe tanto straordinario, se non vi fossero pur troppo dei particolari che meritano di esser pubblicati nel nostro giornale. Convien sapere che sino dalla sera del 17 febbraio decorso era misteriosamente scomparsa la fanciulla Rosina figlia di quella vedova Guglielmi adesso sfrattata dalla città per non pochi sospetti di liberalismo. La figlia di lei, la quale era fuggita per darsi impunemente in preda ad una tresca scandalosa con uno dei capi di quei settari dai quali è avvelenata la città nostra, stata era dal medesimo abbandonata in una casa di empietà, in quella cioè della famigerata Vascello (ecco cosa guadagnano le imprudenti giovani a calcare le vie del vizio). Di colà, priva di mezzi e nella vergogna, la giovane non aveva osato di ritornare nella famiglia materna, tanto più sapendo esistere contro di lei un ordine di cattura. Nel colmo della miseria pensò ricorrere al degno signor Basilio, il quale per carità aveva prestato delle rilevanti somme alla madre di lei (truffategli di poi). Il buon uomo, veduto il pericolo della fanciulla e la di lei perdizione, sperando ricondurla al buon sentiero ed al pentimento con farla rinchiudere in appresso in una pia casa di penitenza, si degnò di accordare alla sconsigliata giovane la sua protezione, e di notte tempo le permise di nascondersi nella sua abitazione, ove per alquanti giorni la tenne celata, colmandola di mille attenzioni e facendola servire da una cameriera per nome Angiolina, che ei credeva dabbene. Questo tempo fu impiegato dal caritatevole signor Basilio nel curare alla traviata fanciulla un collocamento in un reclusorio di monache che va fondandosi; nella qual cosa ebbe molto a penare, stante la pessima fama che già correva di quella giovane: pure, a forza di amicizie e di danaro, era quasi riuscito nel benevolo intento e ne rendeva grazie al cielo, quando quelle donne infernali tramarono a lui la ruina e la morte. Scoperto ai loro drudi il tesoro del negoziante, in una notte, mentre costui riposava lieto di esser al punto di compire l'incominciata opera di misericordia di cui non aveva ad alcuno svelato il segreto, le due donne apersero l'uscio ai ladri, i quali pugnalarono il signor Basilio, che per un vero miracolo scampò la vita. Pare che la paura atterrisse i masnadieri, i quali s'involarono senza commettere il furto. La mattina di quella notte terribile, la donna di servizio e la padrona del quartiere, meravigliate in vedere la porta della camera del signor Basilio aperta, il che non era mai accaduto, temerono di qualche sventura e s'innoltrarono in quella, che trovarono vuota. Penetrarono allora nell'andito sotterraneo, da esse veduto per la prima volta, e trovarono nel fondo quel galantuomo immerso nel suo sangue con uno stile nel petto e quasi privo di vita. E qui giova avvertire che il degno uomo, per meglio prodigare attenzioni alle ospiti traditrici nel tempo di loro dimora con lui, aveva loro ceduto la sua camera ed il suo letto, e si era ritirato in fondo ad un pozzo situato all'estremità di quel corridoio su poca ed umida paglia, passando la notte in continue preghiere e digiuni onde implorare che il cielo perdonasse alla sconsigliata giovane, che egli amava qual figlia, i suoi lunghi trascorsi. Siamo lieti di tessere nel nostro giornale i meritati elogi di questo moderno eroe della carità, che senza questo avvenimento avrebbe nella tenebre della modestia sepolto questo nuovo tratto di esemplare virtù. Gli assassini sono scomparsi o forse si nascondono ancora nella tenebrosità di cui non è scevra questa città nostra. Quanto alle due fanciulle, si sa essersi vendute ad un signore forestiere, ufficiale di marina, il quale è scomparso nella mattina susseguente al tragico avvenimento e partito per le Indie orientali. Quelle due sciagurate espieranno probabilmente colà il fio delle loro colpe, passando al servizio di qualche capo d'Indiani, che, come ognun sa, tengono le donne in concetto poco men che di bestie.
»Il signor Basilio, maravigliosamente restituito alla vita, agli amici, ai poveri, agli orfani, corre voce che voglia consacrare il resto dei suoi giorni alla quiete del chiostro, lasciando gli immensi suoi averi ai miserabili.»
Il bugiardo articolo, cara mamma, contiene altre frasi intorno alla mia persona, che io amo di non trascrivere; oggi mi sento le vampe al viso, sebbene innocente. Sapeva già che nulla vi è di più menzognero di certi giornali che passano per le mani di tutti, ma non credeva possibile tanta sfrontatezza nella stampa. Quantunque io pensi che nessuna sensata persona, se si eccettuano i partigiani della ipocrisia, potrà credere a simili menzogne, pure mi angustia il dubbio che un tale articolo possa nuocere agli interessi vostri e di mio fratello Alfredo, il quale occupa un grado rispettabile nell'armata. Non vorrei che aprisse una strada ai nemici suoi onde togliergli un meritato avanzamento; vero è che si può ribattere l'empio articolo con una minuta descrizione dei casi i quali percossero me, grazie al cielo, innocente, sebbene infelice. Voleva insistere presso il mio sposo affinchè, nel Malta-Mail, reputato giornale che qui si pubblica, si rispondesse alle sfrontate menzogne della Gazzetta Livornese, ma egli mi ha replicato con aria di nobile sicurezza:—Mia cara Rosina, tempo verrà che io darò replica alle parole coi fatti e non colle ciarle.—Non oso inquietare su tal proposito ulteriormente lo sposo mio. Intanto la provvidenza si è compiaciuta di temperare con un favore insperato il dolore prodottomi dalla iniqua e falsa narrazione del citato articolo, pubblicato certamente sotto l'influenza e coi denari del signor Basilio. Mio marito, il quale nel tempo passato prestò dei servigi alla Gran Bretagna, è stato ricevuto al soldo di quella formidabile potenza. Nel momento in cui vi scrivo gli viene consegnato il brevetto di luogotenente di fregata. E per quanto ci assicura il lord governatore di Malta, egli prenderà il comando di una corvetta chiamata per bizzarra combinazione The Rosina, la quale giunger dee da Alessandria in questo porto. Se potrà ottener quel comando, lo scriverò con altra mia diretta a voi o a mio fratello, a cui voglio far giungere i miei caratteri per avere il piacere di ricevere i suoi.
Di cuore mi dico
Vostra affez. figlia
Al sig. comandante dei bersaglieri di Genova.
Caro Alfredo, fratello diletto,
A bordo della corvetta Rosina, il 28 aprile 1821.
Comincio la mia lettera con dirti prima di tutto avere in questa notte avuto un sogno molto lieto. Non increspare le ciglia sentendo come io mi rallegri di un sogno, caro fratello: spesse volte le notturne visioni sono state annunzio di future disgrazie; or perchè mai ci sarà vietato credere che alcune possano presagirci felicità avvenire? Mi sono sognata di essere in un bosco ove alcuni amici avevano a noi apprestata una lauta refezione; e, nota bene, era un bosco di palmizi della specie di quelli che insieme cogli arboscelli di aranci e di limoni danno un fresco refrigerante ed imbalsamano l'aria di soavi profumi nei climi meridionali. Già la mensa frugale, cui avevamo preso parte seduti sull'erba fiorita vicini ad una fontana di acqua zampillante e limpidissima, era al suo termine; quando sentimmo da vicino il preludio di un'arpa e quindi una dolce canzone patetica che ci ha scosso le fibre. Fra non molto vedemmo avanzarsi verso di noi una donna assai bella seco traentesi un grazioso fanciullino di sette in otto anni il quale aveva una piccola arpa al collo; e tosto abbiamo indovinato esser ella la cantatrice, ed il fanciullino l'amabile suonatore. La dolce fisionomia della donna e del fanciullo ed il loro meschino abbigliamento ci hanno commosso: e subito abbiamo pensato di far ristorare e la cantante ed il suonatore col resto del nostro pasto campereccio, mettendo inoltre mano alla borsa per trarne qualche moneta d'oro da darsi ai virtuosi di musica, il cui aspetto ci diceva chiaramente essere acceduti fino a noi coll'animo di ricreare la brigata e di ottenere dalla nostra liberalità alcun che onde andare avanti nella misera vita. Ci proponevamo di domandare alla signora (poichè, malgrado il di lei abito e lo squallor del suo volto, appariva essa fornita di modi eleganti e civili) la di lei istoria, che ci auguravamo interessante, quando tu, che eri alla refezione, ma ti trovavi distante per esplodere il tuo archibuso contro di una quaglia, ritornato in quel momento, hai gettato un grido e, abbandonato il fucile, ti sei precipitato al collo della signora gridando: Esmeralda! e dopo molte carezze ella ti disse con tenera voce: Alfredo, benedici tuo figlio.
In mezzo all'effusione dei trasporti della tua amante e del tenerello suonatore di arpa, mi sono svegliata. Ti confesso che mi è dispiaciuto di destarmi così presto. Ebbene, mi dirai tu, amata sorella, a che riaprire le più funeste piaghe del mio cuore? Pur troppo ho perduto il mio idolo, pur troppo a quest'ora Esmeralda non respira più le aure vitali! No, mio caro fratello, il mio sogno non dee dolerti; esso è un avviso del cielo. La misera tua amica, in preda all'aberrazione sua mentale, scomparsa dal convento di Santa Chiara, quando pur fosse caduta vittima della sua frenesia, non si riunirà ella forse con noi dopo questa misera vita nel prato delle celesti beatitudini? Sì, mio Alfredo: il mio sogno è lieto, possa stillare nel tuo cuore quella dolcezza che stillò nel mio e renderti paziente nelle avversità, più gagliardo nel nobil mestiere delle armi.
Passando dalla visione alla realtà, pregoti dire, alla nostra tenera madre che la corvetta La Rosina è giunta di Alessandria, ed è di su questa che io ti scrivo, mentre spieghiamo le vele per la Barbada, una delle Antille inglesi, vicina alla seconda patria del mio Giovanni. Esso è il comandante in capo del naviglio, ed anzi, giunti che saremo colà, egli, come praticissimo di quei luoghi, viene interinalmente nominato governatore dell'isola. Noi crediamo che, vicini alla Guadaluppa, ci sarà facile ricuperare i beni di Giovanni, tanto più ora che l'Inghilterra, di cui egli è milite, è in buona armonia colla Francia. Se però tal cosa non mi riesce, noi abbiamo tanto da star bene, anzi benissimo. Già so aver egli scritto a nostra madre che, appena stabilito alla Barbada, vuole ch'ella si riunisca a noi e desidera che tu pure, ottenuto il congedo, venga nel nuovo mondo, il quale è, come dice Giovanni, tanto meglio del vecchio. Vorrei per altro che il nuovo mondo gli facesse uscir di mente certe idee che vi ha impietrite, ma come sposa non me ne ristarò.
Una notizia ho saputa la quale in parte mi affligge, in parte mi consola. Si dice che il venerabile padre Gonsalvo abbia abbandonata l'abbazia di Montenero a malgrado della sua avanzata età, per entrare nella carriera dei missionari. Caro Alfredo, sarebbe mai questo un effetto delle opere del signor Basilio, cui certamente non poteva garbare la vicinanza di padre Gonsalvo? Io molto ne dubito; vero è che il venerando; abbate non ci ha scritto nulla. Ah! se la notizia fosse vera, addio interessi nostri a Livorno. Ebbene, se Iddio ci provvede da altra parte, non possiamo lamentarci: anzi se padre Gonsalvo è divenuto un missionario, potrò vederlo in America, mentre se ei restasse a Montenero, nol vedrei mai più. A Livorno ho detto addio per sempre. Ama la tua sorella.
Alla Barbada.
Il tempo, che passa velocemente più che non può fare un racconto, era trascorso colle immense sue ali attraverso alcuni anni dall'epoca in cui ebbero luogo i passati avvenimenti. Già da tre lustri la gentile, appassionata ed avventurata Rosina trovavasi alla Barbada, ove il suo Giovanni dopo non molto era stato nominato governatore effettivo. Fin dal primo anno un vezzoso bambinello aveva rallegrato le speranze dei teneri sposi, bambino che dal grembo della madre era stato accolto in quello della nonna, poichè la signora Guglielmi aveva raggiunto la figlia alle Antille.
Alfredo era in un decennio per ben due volte stato ospite del governatore e dal servizio del Piemonte era entrato in quello d'una repubblica dell'America meridionale, nella quale era tenuto in tal conto che ben presto come generale segnò luminose tracce nella guerresca sua via. Terrore dei despoti, sostegno delle nazioni oppresse, Alfredo era un uomo il cui nome si estendeva ai più remoti luoghi della vecchia Europa. Bandita ogni speranza di felicità personale, egli godeva di quella di Rosina e della quiete della madre e del prosperare del nipote Antonio, il quale nel suo anno quartodecimo di età già addimostrava ciò che sarebbe stato più in là e come il sangue dell'entusiasta genitore ribollisse in quello del figlio.
Angiolina, come un fiore appassito da un colpo terribile sul suo nascere, dirò non viveva, ma stava così come quell'essere che una lunga valetudine abbatte e percuote. Il verme delle dolorose rimembranze era quello che la rodeva tuttora. Ma che? Il tempo non cancella esso o almeno indebolisce le più vive reminiscenze? noi crediamo che sì. Ma e non potrebbe esservi nel cuore d'Angiolina qualche altro germe di affanno, qualche piaga insanabile e che il tempo non potesse mai rimarginare? ahimè! come penetrare potremmo nel segreto del cuore di quella fanciulla, che appena sul fiore dell'età matura, non oltrepassando che i trentadue anni, parea ne avesse cinquanta al volto pallido, alla mestizia degli sguardi e del sorriso, al tardo muovere delle membra, al quasi disprezzo di ogni esteriore eleganza, alle devotissime pratiche a cui intendeva? Forse il dolore per lei era divenuto un'abitudine; così almeno la pensava Rosina. Tutte le cure di Angiolina, oltre la preghiera, eran volte al giovane Carlo, terzo figlio degli Artini. Tenutolo lattante sulle ginocchia e su su vedutolo crescere, era per lei qual proprio figlio; essa ne temprava gli ardenti desiderii e lo educava alla calma, onde non imitasse il focoso genitore.
Nel periodo di questi quindici anni, due volte i coniugi Giovanni e Rosina erano stati alla Guadalupa, ma delle sostanze paterne Giovanni aveva potuto riavere ben poco, e minor frutto aveva conseguito la Guglielmi, ormai vecchia, dal suo stabile di Livorno; poichè venuto, come sentimmo accennare, a partire da quella città per le missioni delle Indie orientali il buon padre Gonsalvo, mancò il solo antagonista del signor Basilio, di cui era maneggio la improvvisa risoluzione del padre. Ed ecco come a quell'epoca andò la cosa.
L'accorto Basilio ben si era addato nello scuoprire in gran parte che la salvezza di Rosina quasi interamente potevasi attribuire al religioso; d'altronde con cotesta persona come battagliare? Hanno tutto in mano, esso aveva detto fra sè passeggiando per la sua camera in un dì della convalescenza dalla pericolosa ferita cagionatale da Angiolina; con cotesta gente c'è da rompersi il collo, romperselo davvero. Perdinci! un padre abbate, un mitrato!!—Eppure, mormorava (con libertà bestemmiando, giacchè sapea di esser solo), eppure colui è il mio più terribile nemico! Sì, non m'inganno; è lui che ha protetto Rosina: mi fanno più paura le sue orazioni dei colpi di cannone.—Pensa e ripensa, venne in mente a Basilio di far gettare così alla lontana del sospetto sui sentimenti politici del monaco; e un buon sacco di zecchini fatto tenere non so a chi, poichè gli scartafacci da cui pesco questa notizia si guardarono di registrarla,… ma d'altronde li fece tenere ad una persona, e basta. Da lì a poco il monaco venne consigliato di non fraudare le speranze di quanti il conoscevano, che in lui ravvisavano uno di quei caldi apostoli che ponno a migliaia convertire gl'infedeli. Padre Gonsalvo capì da dove tirava il vento, e stette forte: ma l'oro del signor Basilio produceva effetti terribili, pronti e maravigliosi; tali che dopo la partenza di Rosina per la Barbada i fogli pubblici annunziarono come monsignor Gonsalvo Rodey, già abbate, incaricato di mantenere l'ordine vallombrosano, era stato eletto vescovo in partibus infidelium e della chiesa di Goa nell'Indostan, con la facoltà di esercitarvi come vicario apostolico le immense fatiche delle missioni. Il mondo cattolico applaudì l'elevazione del frate, il quale, come sappiamo, aggiungeva la dottrina alla carità, e questo era un bell'acquisto per la fede; ma il povero vecchio avrebbe forse preferito la quiete del chiostro ad un viaggio di ottomila miglia. Il fatto è che partì e colla sua partenza lasciò in mano del signor Basilio tutti gli stabili della Guglielmi; il che, unito al furto delle gioie di cui questo iniquo era stato l'istigatore ed il primo artefice, poteva ben compensarlo delle spese secrete fatte per l'allontanamento di quel terribile monaco, mercè la cui sapienza e scaltrezza egli temeva di essere smascherato.
Il padre Gonsalvo partì e di lui appena qualche volta giunser lettere dall'Indostan alla Rosina ed a Giovanni. Il caldo clima, l'abbandono delle antiche abitudini avevano così affievolito quel grand'uomo che i suoi amici avrebbero penato a riconoscerlo.
Il signor Basilio non erasi altrimenti dato al chiostro; ei si era fatto pregare, scongiurare di restare al secolo, ed acconsentì alle generali preghiere. Eh! un tant'uomo non poteva lasciarsi nel segreto della cella; di lui aveva bisogno il mondo, ed al mondo resti.
All'epoca in cui trovasi il nostro racconto, cioè nel 1836, in Livorno più non parlavasi della signora Guglielmi e dei già narrati avvenimenti. Nuovi fatti tocca la nostra istoria, nuovi fatti i quali non vanno disgiunti dai narrati; e di vero, se non fosse ciò, il libro sarebbe terminato, ed altro nuovo ne comincerebbe.
Prima peraltro di trasportare il nostro lettore sopra scena europea, non posso del tutto staccarlo dall'America, ed è qui che con esso mi soffermo nel palazzo del nostro governatore.
Era un bel giorno di state nel 1836. Sul declinare quel dì era stato limpidissimo oltre l'usato, ed il clima tutto fuoco veniva rattemprato da fresco venticello marino; una festicciuola domestica aveva avuto luogo in quel giorno, ed in essa si erano moltissimo rallegrati danzando coi negri Antonio, il giovinetto Carlo e la vaghissima Ofelia, tutti e tre figli di Giovanni e di Rosina. Sotto le benefiche ombre dei banani e dei cocchi, nel parco del palazzo, aveva avuto luogo la danza. Quando il sole si avvicinò all'occaso una frugale refezione era stata imbandita ai danzatori sull'erba fiorita. Mille augelli di variopinte piume facevano risuonare l'aura di melodiosi concenti. Sotto un padiglione di verzura stavano assisi il governatore e Rosina col ciglio umido per pianto di tenerezza nel mirare tanto allegri i teneri figliuoletti; e la stessa eternamente malinconica Angiolina si era quasi lasciata abbandonare dalle tetraggini, a quelle amabili scene. Dalle vicine boscaglie ad un tratto si era udito il suono flebilissimo di un liuto ed una voce di donna soavissima aveva intonato la seguente patetica canzone:
Per il mondo vanno errando
Madre e figlio abbandonati,
Nulla, ahi! nulla omai sperando
Fuorchè sterile pietà.
Nelle membra di Rosina corse un brivido di tenerezza: essa ricordava il sogno fatto a Malta tanti anni addietro; la canzone era italiana, italiana la musica. Giovanni pure sembrò altamente commosso. Il canto proseguiva:
Madre sono e son fanciulla,
Ed il figlio, ahimè! non ha
Genitore: ah! dalla culla
Chi sia il padre, ah! no non sa.
—Quali parole! senti tu, mio Giovanni?
—Il mondo è pieno di sfortunati, rispose questi, ed alzatosi accennò verso donde veniva la patetica voce dal bosco.
Non molto lunge dai nostri personaggi discendevano per una china una donna ed un fanciullo ch'ella tenea per mano; essi avanzavano verso il padiglione.
—Ah! continuò Giovanni vedendo quella coppia, sì, il mondo è pieno di sventurati: saranno forse di elevata condizione, costretti a mendicare per opera degl'iniqui. Anch'io nell'età di quel fanciullino fui un dì immerso nel pianto e mia madre derelitta: mentre mio padre era imprigionato, ella affaticavasi in portare alla capanna un pesante fardello di legna; ma almeno quello fu l'ultimo istante di mia miseria. Da quel dì rividi il padre e mi lanciai nella turbolenta carriera dell'avventuriero; oggi son dovizioso e governo.—
Così dicendo fe' cenno a quei due titubanti di avvicinarsi che lo facessero liberamente. I due stranieri parvero molto confortati da quel cenno ed affrettarono il passo. La distanza non permetteva ancora di scorgere perfettamente i loro lineamenti.
—Accoglili tu, disse Giovanni a Rosina, accoglili tu; io verrò in seguito: probabilmente avranno una lunga storia di dolore a narrare, ed io, come tu sai, dopo la perdita della mia infelice Esmeralda non posso più, senza provare un terribile strazio, mirare in volto donne infelici senza figurarmi che la sorte della mia povera sorella non sia d'ogn'altra peggiore. Accoglila tu quella coppia di sventurati; chi sa di dove vengono e qual causa li ha trasportati in quest'isola? falli ristorare, regalali come conviene; io pavento gli effetti di una scossa di sensibilità nervosa.—
Rosina, la quale conosceva come pur troppo il passionato e bollente suo sposo non avesse bisogno di scene sensibili onde non cadere in una delle sue solite cupe malinconie, fu sollecita a promettergli che avrebbe sollevato quei miseri: ond'egli, lasciandole la sua borsa, accesa la pipa, mosse verso il palazzo.
Lo stretto colloquio dei due sposi aveva posto in una certa soggezione i due poveri virtuosi di canto, i quali si erano arrestati nel loro cammino ad una conveniente distanza e fino a che Giovanni parlò all'orecchio della sposa. Tal precauzione di rispetto non passò inosservata presso Rosina, la quale, dopo che il marito si fu allontanato, fe' nuovo cenno affinchè i due timidi viandanti si approssimassero. Essi mostrarono aver inteso, dando evidenti segni di gioia, ma prima che giungessero al padiglione erano stati raggiunti dai figli di Rosina, i quali con una tenera pietà si erano dati a festeggiare il fanciullo di circa quattordici anni che accompagnava la cantante. Anch'ella, fu costretta a fermarsi; e mentre quei giovanetti formavano un gruppo pittoresco, e il suonatorello era impedito di preludiare sull'istrumento, la donna continuò con queste strofe:
Ah! se un dì sull'ali ai venti
Fia che giunga il mio martir
All'autor de' miei tormenti,
Sarò lieta di morir.
Il suo pargolo innocente
Egli al seno stringerà:
Sulla tomba alla gemente
Nuzial serto poserà.
—Ahimè! qual malinconica canzone! esclamò la Rosina penetrata fino nell'interno dell'anima dalla tremula voce e dal patetico suono della musica di quella straniera. Cara Angiolina, disse quindi rivolgendosi all'amica, vola tu presso costei; dille che cessi dal canto lugubre, che troppo mi scuote le fibre, perocchè mi figuro che ella abbia ad un tempo ad essere e il soggetto del canto e l'autrice della canzone.—
Angiolina, non meno dell'amica penetrata dalla tenerezza, in poco tempo raggiunse la forestiera, la quale, vedendosela così presso, cessò dal cantare e si avviò verso il padiglione, mentre il giovanetto suonatore di liuto e gli altri ragazzi la seguivano. Giunta che fu presso Rosina, fece atto di piegare un ginocchio a terra in segno di quel rispetto che gli Indiani sogliono usare verso le persone di alto affare, ma Rosina, con la inesauribile sua cortesia, le stese una mano, su cui la donna impresse un rispettoso bacio.
—Mia signora, le disse, vi prego perdonarmi, se io povera straniera vengo ad importunarvi, ma sappiate che io e mio figlio (che è quel fanciulletto che voi vedete colà coi vostri, m'imagino, coi vostri figli, poichè tanto a voi somigliano) non abbiamo alcun mezzo di sostentarci nella nostra estrema miseria tranne che col canto delle nostre terribili sventure.
—Gran Dio! che dite mai, amabil donna? riprese la Rosina. E che? quella lugubre canzone alluderebbe forse ai casi vostri?
—Sì, madama: ma se mi è lecito toccarne di volo poetando e cantando, non mi permetterei al certo di tediare col racconto di essi una persona distinta.
—Ah! mal mi conoscete, signora, e voi non partirete di qui se non dopo aver versato nel mio seno tutte le vostre amarezze. Intanto è necessario che vi refocilliate voi ed il vostro figlio.—
Angiolina, a questo discorso, aveva presentato alla straniera delle frutte e degli scelti vini. Ella si assise e ne gustò volentieri. I suoi modi franchi, malgrado il rispetto e l'estrema miseria, additavano nella cantante una persona di elevati natali; la sua fisionomia, delicata nei tratti ma virile nell'espressione energica, non faceva punto contrasto colla sua naturale dignità. Ella indossava un abito di seta color turchino piuttosto logoro; anche le scarpe non erano in molto florido stato, ed uno scialletto che le copriva le spalle, anch'esso molto usato, terminava la sua toeletta; alle orecchie aveva due boccole di granato ed al collo un vezzo simile: ciò che peraltro faceva singolar contrasto era un anello che tenea nel dito, di oro purissimo con ricco lavoro cesellato in foggia di piastra, della quale la metà stava nascosta fra l'indice ed il medio della mano sinistra. In capo ella aveva un largo cappello di paglia, molto adatto a riparare quel bel volto dai caldi raggi del sole dei tropici. Il fanciullo era amabilissimo e gaio: suonava a meraviglia il liuto; era anch'esso miseramente vestito, ma con molta decenza, a malgrado delle toppe che aveva nella blusa di panno blù e nei calzoni che indossava. Anche i di lui calceamenti erano logori, il che dimostrava che era uso a viaggiare a piedi. Il fanciullo, di assai maggiore statura che nol fossero i figli del governatore, aveva sulle spalle una piccola valigia di pelle attaccata con cigne che gli passavano sul petto e sotto le ascelle; e tutto quello, pur troppo, era il misero bagaglio della madre e del figlio.
La forestiera, dopo aver bevuto un poco e gustato di qualche frutta, si alzò per ringraziare la governatrice.
—Ah signora! non vi celo che aveva fame; è da questa mane che siamo sbarcati ed abbiamo fatto a piedi questo tragitto per l'isola sull'indicazione di un buon negro vecchissimo che è rimasto al porto sulla nave, il quale ha molta cognizione di questi luoghi.
—Voi non avete fatto questo viaggio invano, le disse Rosina, nè partirete così presto da noi. Che mai sarebbero le ricchezze, se non un peso, quando non si spendessero per rendere meno misero il nostro simile?
—Madama, i vostri sensi mi sono carissimi ed armonizzano colla buona fama che corre di voi anche nelle altre Antille.
—Troppo lusinghiere espressioni! comunque sia, vi son grata e farò di tutto per non smentire coi fatti la buona fama che corre di me. Intanto favorite appagare la mia curiosità; ditemi un poco: perchè mai voi, che tanto bene mi favellaste in inglese fin dal primo avvicinarvi, cantate strofe italiane allorchè volete dipingere la storia di vostre sventure? La ricerca non è senza un'arcana ragione, che spiegherovvi di poi. Oh se voi sapeste quanto mi avete commossa!
—Signora, fino dal mio giungere in quest'isola conosceva esser voi italiana, ed ho scelta la lingua vostra nel porre in versi le mie sventure, mentrechè, sapendo esser voi la moglie del governatore d'un'isola inglese, ho creduto bene favellarvi in quell'idioma.
—E come, sì istruita, sì amabile, non avete alcuno che….
—Comprendo, signora, ciò che volete dirmi; vorreste esprimermi il desiderio che io mi valessi di qualche mia cognizione onde lucrarmi il pane più convenientemente e con maggior decoro.
—Non dico ciò….
—Sì, o signora: se la vostra bontà non vi permette di formarvi un sinistro concetto di me, non è perciò che tale non debbano formarlo quasi tutte le persone alle quali debbo avvicinarmi nella mia vita errante, vita che menerò fino a che….
—Fino a che?… domandò Rosina con molta premura.
—Fino a che, o madama (Dio mel conceda), io non ritrovi il padre di quella creatura.—
A Rosina scorse un brivido tale per le ossa che le si scolorarono le labbra.
—Vi sentite male, signora? proruppe la straniera; ah! per mia causa forse….
—No; no, fu sollecita a dire Rosina; continuate.
—Sì, madama, sono dieci mesi che giro pel mondo in traccia dell'uomo che adoro.
—È molto tempo che siete separata da lui? prese a dire con molta premura Rosina.
—Si direbbe, replicò la forestiera, che avreste parte nella mia storia; tanto è l'interesse che vi degnate prendere ai miei casi. Quindi con una lacrima sul ciglio: È molto tempo, sì, signora; quel mio caro angioletto non era nato.
—Così tardi,… riprese Rosina turbata, lo cercate?…
—Ah! avesse voluto Iddio che lo avessi potuto prima, Ma da quel tempo in poi ho avuto un velo sugli occhi.
—Cielo! spiegatevi.
—Fui pazza….
—Giovanni, Giovanni! sclamò la Rosina. Deh! Angiolina, va da
Giovanni, che presto venga qua, che non tardi un istante.
—Giovanni?… esclamò la straniera con un visibile tremore e si pose la sinistra alla fronte. Qual nome!—
Nel movimento fatto dalla mano di costei, rimase totalmente visibile la piastra del ricco anello che essa aveva in dito; vi brillava inciso lo stemma della famiglia Guglielmi, consistente in un guerriero in atto d'imbrandire un'asta di ferro, sormontato da una corona di cavaliere. Quell'anello era d'Alfredo. Rosina ebbe appena la forza di esclamare:—Ecco il mio sogno! ecco il mio sogno!—e di gettarsi a braccia aperte al collo della straniera chiamandola Esmeralda.
La giovane, dando in un dirotto pianto per l'eccesso della gioia, svenne nelle braccia di Rosina.
Il figlio, in vedendo le donne in quello stato, scioltosi dal cerchio dei festeggianti giovanetti, si slanciò presso la madre e, piegato un ginocchio, le prese una mano, che scaldò col fiato. Vi fu un quadro degno del più celebre pennello.
Giovanni, avvisato dall'Angiolina e dalle grida di gioia della moglie, accorse sul luogo: e per la prima volta da quel ciglio di ferro uscirono due calde lacrime di commozione. Egli abbracciava la perduta sorella.
Quali vicende avesse fino a questo punto patite la infelice lo vedremo nel capitolo seguente.
Lazzeretto.
La vecchia Europa, già tribolata per torbidi avvenimenti, doveva divenirlo più ancora per malattia contagiosa e mortale. Grandi mutamenti politici nella Francia, ove, in mezzo a rivi di sangue cittadino, Parigi, scacciato il rampollo del buon re Luigi, accoglieva Filippo per arbitro dei suoi destini nella estate del 1830; e nella primavera del vegnente si erano rianimate le speranze di quei carbonari che, a malgrado della contrarietà degli eventi, non cessarono in seguito anco da lungi di fomentare il fuoco della ribellione. Dal colmo degli onori e delle agiatezze, Giovanni, cui stava sempre fisso in cuore il pensiero di novità nel terreno natío, se non colla persona aveva con scritti ed oro sovvenuto alle imprese degli antichi compagni, favorito speculazioni rischiose, spedite armi in segreto. Come poteva egli farlo senza rischio? questo è problema.
Alfredo poi, militante per la repubblica di Colombia, al primo annunzio di mutamenti europei si era spiccato dal continente americano onde soccorrere l'impresa col senno e col braccio valoroso.
Ma anche questa volta i disegni di novità andarono falliti. Nuovo sangue grondò dai patiboli. Vi furono emigrazioni, prigionie ed esigli, e l'antico statu quo resse intrepido alla procella progressista. Ma, come sì dura traversia poco fosse alle sciagure dei popoli, un morbo pestifero movendo gigante pel Tibet dalla China, passato il Volga e gli Urali, infestata Russia, Polonia, Germania, Inghilterra e Francia, alla perfine attraversò le Alpi venne a piombare sul nostro paese. Volgeva l'anno 1835, Livorno non fu l'ultima ad esserne afflitta; ed avvegnachè lo squallore, il dolore, la miseria che vi recò un nemico sì distruttore non sia stato estraneo a sollevare altro lembo del velo che copriva i misteri di quella popolosa città, è duopo che i nostri lettori dalle amabili e toccanti scene del ritrovo di Esmeralda, retrocedendo col tempo, ci seguano fra i malati, i morti, i carrettoni e la compagnia della Misericordia di quella città, da cui prese le mosse il nostro racconto. Volgevano gli ultimi di luglio. Ad estate fresca ed umida erano successi giorni di un'afa terribile ed opprimente. Un languore in tutte le membra tribolava giovani e vecchi, una malinconia regnava su tutti i volti; il brio da cui è accompagnato il franco e leale carattere del Livornese pareva intorpidito o perduto; intanto una insolita mortalità incominciò a dare nell'occhio ed in specie in certe contrade popolose e sudicie. Nel quartiere della Venezia nuova, ove noi vedemmo l'osteria dei Tre Mori, nelle vie di San Giovanni e di Pescheria, di Sant'Anna, di Crocetta, si videro ad un tempo attaccate varie persone da certa malattia della quale sul principio o non si sapeva o non si voleva dire il nome. Questo malore assaliva violento e sprezzante ogni rimedio; senza dar tempo all'arte di esercitarsi, colpiva di morte: in pochi dì il mormorio per siffatta sventura era in bocca di tutti; chi ne diceva una, chi ne diceva un'altra, ma nella sostanza ognuno temeva. I dotti si perdevano in indagini, il popolaccio attribuiva a sortilegio ed avvelenamento la moría. Intanto il morbo facea passi da gigante, nè si sapea come venuto in città: chi dicea comunicato da persona infetta venuta da Genova, chi da merce introdotta di contrabbando. Come fosse venuto, poco montava; il terribile chólera era là come un demone invasore, tenace, mortale. Aperte sull'infierir del morbo le case ai medici, agli impiegati, alla guardie di sanità, ai soldati, si svelarono incredibili misteri, e si vide come in Livorno quella gran parte di popolazione che ne forma il nerbo e che al di fuori mostrasi in vesta linda e civile non ha in casa pane per sfamarsi, letto per giacervi, lenzuola per coprirsi, a malgrado dell'operosità del travaglio. Terribile verità che un chólera può far conoscere; mistero che un romanzo può liberamente rivelare e darsi il vanto di storia. Ma come il morbo tanto si diffuse e così rapidamente? Ah! la ragione è la miseria; quella miseria che se dotto o filantropo potesse trovare un mezzo da estinguere, io lo saluterei novello salvatore degli uomini: sì, perchè la miseria è peste, peste sociale, peste morale, la qual produce il delitto, il disonore, la morte. Livorno come città popolosa ha due bisogni: che cessi la miseria delle classi più numerose; che si educhi e si satolli l'artigiano e la famiglia. E qui nella classe degli artigiani giova porre anco i facchini, i barcaiuoli; imperocchè in vece di commercio queste sono arti ed insieme industria. La fame è consigliere di tutti i delitti; quindi i furti, i lenocinii, tutto deriva da quel mostro, e per ultimo la ribellione. Quando le masse sono affamate, hanno perduto fra la ignoranza e i disagi quella poca ragione che loro rimaneva.
Un casamento della via San Giovanni, cui dava accesso un lurido e buio cortile, a quell'epoca conteneva in sè cento persone, divise in poche famiglie; e per lo più teneri fanciullini privi di vesti, di scarpe, con pochi stracci alla vita, fanciulli che per modestia non uscivano fuori non avendo di che coprirsi. Tutti, maschi, femmine, adulti, impuberi, tutti, famiglia per famiglia, dormivano in un letto! Ma che? quel giaciglio di paglia imputridita posto sul nudo ed umido mattonato, fra nere muraglie coperte di salnitro, in mezzo ad una stanza buia e senza sfogo d'aria libera, coperto di mille cenci, privo di lenzuola, a buon dritto appellar si potrebbe canile. Ebbene colà mesto il livornese artigiano, dopo intere giornate di sudori e d'immense fatiche, viene a posar le stanche membra martoriato dal pianto dei figli e della moglie, che spesse volte il vedono riedere senza pane. Colà in quelle oscure tane la figlia perde l'onore, perchè l'orribile miseria la getta in braccio della seduzione e dell'infamia. Colà il giovanetto, senza nozioni di bene, perchè il padre stanco ed affamato non può dargliele e forse non le possiede, ed egli non può riceverle, spinto negli orribili stenti, educato alla bestemmia, al vedere il brutale commercio della sorella che si vende per fame, impara il furto e l'assassinio. Ah pur troppo! di quei sozzi tugurii abbonda la città, mentre ben pochi Livornesi abitano i bei palagi moderni che sono stanza degli scaltri forestieri, i quali venuti in sul bel suolo hanno saputo arricchirsi col sudore del povero che lasciò morendo un'eredità di dolore e di maledizione. La casa detta delle cento anime, a sinistra della vecchia dogana venendo di verso la Piazzetta dei grani, era situata a metà di via San Giovanni, che a quell'epoca non avea sfondo; strada pericolosa per le aggressioni, per i ferimenti, per i furti, per gli stupri, che negli oscuri pianerottoli delle sue case sporche e povere potevano impunemente commettersi. La casa delle cento anime doveva in breve rimanere deserta, sì; poichè il chólera, introdottosi colà, era venuto a mietere la vita di tutti quei miseri abitanti dal primo fino all'ultimo. Morti e moribondi, privi di conforto in quel trambusto di ammalati e di tali che assaliva il morbo, giacevano sull'istessa paglia. Gemiti, urli, maledizioni rendevano quel luogo un inferno in terra che dava un'idea di quello dell'altra vita. Molti e molti quadri simili a quello che ho cercato di descrivere offrirebbero la scena eguale a quella ch'io debbo narrare, ed il farei, se raddoppiare potessi le scene di sensibilità e disinteresse, quando nol fossero d'infamia, di cupidigia ad un tempo. Però da uno dei quadri potremo averli tutti per dipinti, poichè l'imaginazione, primo dono di Dio, crea imitando. Nel casone delle cento anime all'ultimo piano, cioè dopo il sesto, è una soffitta composta di una sola stanza, il cui focolare strettissimo è al pari del solaio. A metà della cappa del camino si trova un'apertura, larga un quarto di braccio, lunga altrettanto, che dà la luce a quell'abituro; il quale è ad un tempo cucina, camera e salotto, mentre ha appena sei braccia di lunghezza e quattro di larghezza. Quell'abituro, posto sovra i tetti, non ha veduta, è privo del palco, che coprono poche tegole sconnesse, e viene spesso inondato nelle grandi cadute della pioggia. Il mobiliare che andiamo a descrivere sta pur troppo in armonia colla bruttezza di quel locale: un saccone ripieno di foglie di granturco giace sull'umido pavimento nell'angolo opposto al camino. Accanto a quello stanno una brocca di coccio, una sedia rotta e spagliata, un candeliere di legno con una candela di sevo, due o tre tondini, una scodella di legno, una pignatta. Presso al focolare, una tavola fissa nel muro e mezzo tarlata, ha sopra una saliera, due forchette di ferro, un bicchiere di vetro ed una piccola boccetta di olio, un fascetto di erbaggi e un pane nero. Accanto al letto dal lato della porta è un piccolo baule, e sopra quello un liuto ed alcune carte da musica. Sovra il letto è una coperta a colori, e ciò che fa contrasto col rimanente è la nitidezza del lenzuolo. Poche paia di scarpe, un tempo di forma elegante, veggonsi poste ad asciuttare accanto al fuoco.
Sul pagliariccio giace una giovane donna nel fior dell'età, di vago aspetto, la quale mezzo sollevata sulla persona tiene coperto da uno scialle il dorso appoggiato alla nuda parete. Ai suoi piedi su di un piccolo materassino è il giaciglio di un giovanetto di cui primavera infiora le gote, biondissimo e bello; il quale fa ad alta voce questa preghiera diretta alla imagine della Vergine affissa a capo del letto.
—O voi gran madre degli sventurati, che tanto soffriste quaggiù, che tanto amaste il Figlio vostro, deh! soccorrete mia madre.—
La donna per la cui salvezza pregava il tenero figlio era immersa nel delirio più atroce; il terribile malore che l'aveva côlta era nel suo maggior vigore.
—Regina degli angioli, proseguiva il fanciullo, ella muore senza soccorso! Io non ho nessuno che vada a cercare un aiuto: se esco, quando ritornerò, la troverò morta.
—Eccolo, eccolo; torna, torna: urlò la donna; è trovato.
—Chi mai? disse il fanciullo.
—Tuo padre.—E cadde supina.
—È morta! gridò il giovanetto gettandosi a corpo perduto su quella misera, che nell'eccesso dello spasimo era caduta quasi esanime. Ei l'abbracciava pur pregando con queste parole il divino aiuto:—Madre santissima, soccorrete la moribonda mia genitrice.—E mescolava i singhiozzi alla preghiera.—Essa palpita ancora: deh! voi che portaste nel seno il Creatore del mondo, abbiate pietà.—
La donna si alzò, i suoi occhi brillarono d'insolita luce, il suo aspetto parve sereno, cessati i suoi spasimi.
—Figlio, figlio! esclamò, e coprì di baci la bionda capellatura del fanciullo. Sei qui? non mi hai abbandonato?
—No, madre mia: gran Dio! avrei avuto forse la grazia più completa? cesseremmo noi di ritrarre dalla sua infelicità il misero sostentamento? Potrò io allora lasciarla senza timore che si anneghi o si uccida, ed andare a lavorare per lei? O gran Madre di Dio, grazie, grazie! me l'avete salvata; ella tornerà in vita e sarà ragionevole.—
I cieli si aprirono, sì, certo, si aprirono ad una preghiera sì fervente, sì pura. La donna, vinta la crisi violenta del malore, ne risentia tal possente scossa che di un tratto le faceva ricuperare la ragione per tanti anni smarrita. Il tenero figlio aveva, nell'accertarsi di tanta verità, veduto come gli occhi della divina imagine avevano tramandato sì vivi raggi che tutta ne era stata illuminata la cameretta, la quale parve convertirsi in una parte di paradiso. Il fanciullo cadde genuflesso, e quando si alzò dall'estasi beata, la madre, già sana di mente, dal cielo istesso guarita, era in grado di reggersi sopra di sè, di prodigare tali carezze al suo nato quali mai non aveva potuto durante i tredici anni della di lui vita, sebbene nei gravi accessi di follia ella lo avesse accarezzato sovente.
Queste scene avvennero nella soffitta, mentre là solo aveva fatto grazia la morte, così volendo Iddio.
Ma il giovanetto e la donna dovevano appena aver tempo di gustare della dolce soddisfazione di così segnalato prodigio. Un uomo di età matura, sprezzando la morte e calpestando i cadaveri degli appestati, si era precipitato nella stanza senza neppure annunziarsi; costui non credeva nel chólera, cioè riteneva assai potenti gli antidoti di che si profumava le vesti, per andar sicuro fra i moribondi ed i morti. Costui era il proprietario di quella casa.
—Ebbene, entrando gridò, maledetta canaglia, non è ancor giunto il tempo di pagarmi della carità che vi ho usata? fuori, canaglia, fuori le cinque lire di pigione.
La donna lo guardò stupida e disse:—Ah signore!
—Per pietà, esclamò il giovanetto afferrando quell'uomo per le vesti, per pietà lasciateci respirare, noi abbiamo ricevuta una grazia dalla Madonna; ce ne farà un altra, e vi pagheremo.
—Eh! monello, gridò nuovamente quell'uomo, tu mi burli, pezzo di ladroncello, di vagabondo, di cantastorie; fino a che tua madre cantava, io ci credevo, ma ora che so esser moribonda, voglio esser pagato.
—Tigre! gli urlò la donna, abbi pietà di questo ragazzo!
—Ah! ah! sei donna e basta; morrai, sta bene: ed io non voglio conti coi morti; qua i denari, e si mise per saltare alla vita della donna. Qua i denari, so che gli avete accattati; malandrini, qua.
—Mio Dio! urlò il giovane, mia madre tornerà pazza.
—Meglio così, riprese l'uomo infamemente ridendo, canterà meglio. Ma che vedo? un anello? ah! un anello d'oro? l'avrai rubato; qua quell'anello, e vi ci tengo un mese di più.
—Giammai, giammai! urlò la donna come immersa in un orribile furore.
Giammai, la vita…. ahi! sì prima la vita.—
E tentò di respingere il violento.
Il fanciullo si provò anch'esso a trattenere l'iniquo; ma colui, cupido di quel pezzo di oro che vedeva brillare in dito a quella sventurata, nulla curando di lottare contro una specie di cadavere, raddoppiò la sua lena e violentemente con un piede percosso nel volto ed atterrato il giovane, era per commettere l'infame furto, e chi sa se di quel solo delitto sarebbesi appagato un uomo sì brutale? poichè la donna, come dicemmo, era bellissima. Presso a quello era un altro casamento pieno di morti e moribondi. Chi lo avrebbe veduto? chi? Iddio, e Dio lo vide e protesse la donna e l'orfano: in quell'istante un lugubre passo si udì vicino; entrò nella stanza un medico fiscale e alcuni della compagnia della Misericordia.
—Al Lazzeretto, al Lazzeretto! gridò il medico vedendo su quel giaciglio il giovanetto in ginocchio, il fiero uomo ritto e la misera donna svenuta. Al Lazzeretto! continuò, e gl'incappati si disposero ad obbedire.
—Ah! no…. salvateci piuttosto da questo mostro! urlò il giovanetto. Ah! Madonna, ecco un'altra grazia. Che fate voi? mia madre è guarita, riprese vedendo che i fratelli della Misericordia si facevano a prendere per le braccia la donna svenuta, è guarita, le ha fatto la grazia la Madonna, non c'intendete? eccola lì (ed additò la santa imagine), ed io son sano.
—Buon fanciullo, dissegli il dottore commosso dalla tenera fisionomia e dall'accento del giovinetto, lascia, lascia che portiamo via la tua mamma; poveretta! ella sarà guarita, sì, ma qui poi morrebbe di stento e di miseria, di patimenti, di freddo e di fame.—
Il fanciullo vedendo che già quegli uomini incappati si erano tolti in braccio la cara sua mamma, fatto un gesto di fiducia nella beata Vergine,
—Ebbene, disse rassegnato, sia così, ma io non posso lasciarla.
—Figliuol mio, aveva risposto il dottore, e dove possiam noi condurti se sei sano?
—Ebbene ammalerò qui; sento stringermi il capo come in un cerchio di ferro rovente; desidero, sì, desidero di esser malato, almeno per seguire la mamma: la Madonna che mi ha fatto due grazie (e qui il caro giovanetto alludeva a quella comparsa della compagnia della Misericordia che aveva salvato la mamma dai rapaci artigli di quel crudele e disumano creditore che volea derubare l'infelice moribonda) e mi farà anco la terza.—
Il dottore, commosso fino all'estremo:—E non ti farà paura stare nel
Lazzeretto fra tanti malati, in mezzo a tante morti?
—Buon Dio! e qui non è peggio? sclamò il fanciullo accennando la miserissima stanza; e poi colla mamma starò bene dappertutto.—
Il dottore, onde compiacere il fanciullo e per dare al pio suo desiderio una favorevole risoluzione, toccò le tempie ed il polso di quell'amabile creatura, e quindi, diretta agl'incappati la parola,
—Signori, disse, questo fanciullo ha il polso quasi febbrile; sarà dunque prudenza condurlo al Lazzeretto con sua madre; d'altronde lasciarlo qui è per lui morte sicura.
Il fanciullo trasalì dalla gioia: madre e figlio furono messi in una stessa barella e trasportati al Lazzeretto di San Iacopo: partita che fu la prima barella, gl'incappati erano per uscire.
Quell'inumano creditore, cui essi avevano impedito la più orribile violenza, per tutto il tempo di questa lugubre scena si era appoggiato al muro, dando segno della sua fredda indifferenza col tenere le braccia incrociate sul petto.
—Signor Basilio! sclamò il dottore; ovunque è miseria la di lei ottima persona trovasi presente; ah! ella è proprio il genio della beneficenza!—
L'uomo non rispondeva.
—Signor Basilio degnissimo, continuò il medico, non mi sorprende trovarlo in luogo ove la sua solida pietà e religione trova pascolo a confortare gl'infelici; ed il cielo e gli uomini le saranno larghi di ricompense: ma mi permetta il dirle che ella si azzarda di troppo; la sua carità le fa trascurare il pericolo maggiore. Ma non sa ella che questa malattia è terribilmente contagiosa ed in specie nel lezzo di simili abitazioni? non sente ella che questo tanfo, che questa puzza insopportabile possono accrescere senza dubbio il pericolo del contagio?—
Il signor Basilio fece come una specie di sorriso in disprezzo del male.
—Eh! comprendo, soggiunse il dottore, la sola pietà sfida i pericoli…. ma buon Dio! signor Basilio, che l'è mai sopraggiunto? ella trema: che veggio mai? ella vorrebbe rispondermi, ma la contrazione dei muscoli del mento indicherebbe un accesso di parossismo febbrile.
—Eh! eh! eh!… non è nulla…. un effetto nervoso.—E nel proferire queste parole il signor Basilio ansava terribilmente.
—Non si allontanino ancora, o signori, disse il dottore ad alcuni incappati della Misericordia che erano per andarsene.
Il signor Basilio volea rispondere a questo tristo preludio, come per confortare il dottore e confortarsi egli stesso; ma appena potè proferire il monosillabo no…. che il suo volto, di rosso scarlatto, divenne nero piombo; i suoi occhi s'iniettarono di sangue, la sua lingua s'ingrossò nella bocca, sentì ardersi la faccia. In sì terribile posizione, esso provò, non potendo parlare, di allontanarsi per sfuggire dalle mani del dottore; ma non sì tosto muovevasi dal muro ove era appoggiato che le gambe ricusarono di servire il suo corpo; ei fu preso dall'orrendo vomito, uno dei sintomi del fiero chólera e cadde al suolo privo di sensi.
—Signori, facciano il loro dovere; ecco un altro allo spedale, una vittima della compassione. E gl'incappati, preso il signor Basilio che la collera di Dio aveva finalmente colpito, lo recarono al Lazzeretto, ove lo avevano preceduto le due care creature.
Il Lazzeretto, in cui la polizia sanitaria aveva decretato doversi trasportare gl'infetti dal chólera, era un fabbricato assai vasto situato fra il così allora detto Mulinaccio e la chiesa di San Iacopo. Alcune palizzate o lunghi cancellati di legno tinto di nero lo accerchiavano, e le vicinanze istesse di quel luogo di pietà e di dolore ne indicavano con caratteristici segni tutto il tetro. Da lungi si vedevano alti fumacchi neri e cerulei salir verso il cielo, prodotti dalla combustione di letti marciti dai malati e di vesti avanzate ai morti, di masserizie sospette di contagio. Un silenzio lugubre regnava nell'interno, ed il timido viandante non avrebbe osato avvicinarsi a quelle temute barriere per tutto l'oro del mondo. Dalle finestre uscivano vapori di zolfo e d'altre materie adatte a disinfettare l'aere, vapori che, mescolandosi col fumo delle robe dei defunti, arse in vari punti del prato da cui era circondato lo stabilimento ed a quello di veri camini, giunti a certa altezza dal suolo, si coagulavano in una eterna nuvola che pareva formare un funebre baldacchino sopra quel luogo di dolore. Accenti di lamento dei malati, urli strazianti dei moribondi, voci di tanti e tanti guardiani e medici ed inservienti che qua e là accorrevano, chi per assistere un moriente, chi per medicare un ammalato, chi per togliere dal letto un morto, facevano un cupo e confuso mormorio che da lontano assomigliava al fiotto di un mare in burrasca. Soprintendeva a quel luogo un ufficial militare, onde stretta e severa ne fosse la disciplina, inquantochè ogni subalterno dovea rigorosamente obbedire agli ordini ricevuti senza farvi osservazioni, senza dilazione, senza mormorare, con fedeltà e con puntualità; ed in fatti, privo di questo severo disciplinare reggimento, come avrebbe potuto governarsi quel luogo, ove la confusione era pronta sempre a scaturire da ogni parte? Ed infatti colà abbisognava porgere agli ammalati a tutte le ore medicine di ogni sorta ed a seconda del grado del malore; trasportare i cadaveri e svestirli a tutte le ore; assistere i convalescenti, rinviare i sanati, il cui numero in specie nei primi tempi era sì raro che a tutti coloro che si trasportavano in quel locale funesto dicevasi per sempre addio. Conveniva riparare ai furti che nel trambusto avrebbero potuto commettersi a danno degli impiegati e degli ammalati e delle famiglie degli estinti; conveniva impedire scandali e delitti carnali fra persone di sesso diverso: era questo un caos novello che bisognava ordinare. La vigile sapienza del governo seppe por gli occhi sopra un ufficiale militare, il quale intrepidamente accettò il periglioso incarico: e siagli qui reso eterno e pubblico tributo di lode e di riconoscenza; imperocchè, oltre le immense difficoltà dell'ufficio, le fatiche egualmente grandi, più di quello v'era il pericolo sempre minaccioso di essere colpito dal contagio, e conveniva trovare un uomo che per virtù e per amor dei suoi simili mettesse in non cale la propria vita; imperocchè era un rinchiudersi fra quelle mura con la morte sempre pronta a vibrare la falce micidiale; faceva duopo di una vera e completa abnegazione di sè stesso, e bisognava avere un cuore di tempra adamantina per reggere a tanti colpi sulla sensibilità fisica e morale. Quest'uomo che sul campo di battaglia aveva mietuto allori e sprezzata la morte erasi accinto a sfidare la stessa terribile nemica dei viventi in campo chiuso, cioè nel Lazzeretto.
Erano le ore cinque di sera quando il cancello fu schiuso aggirandosi sopra i cardini, e il funebre convoglio accompagnava una lettiga su di un carro a due ruote tutto coperto di drappo nero e di stoffa incerata; il legno veniva tirato da un solo cavallo. Il vettore era esso pure vestito di tela nera; perfino i guanti erano dello stesso drappo; sul sellino del cavallo attaccato alla funebre vettura stava un campanello e sventolava una bandiera bianca e nera; il suono del campanello era procurato all'effetto che i sani i quali per la via lo sentivano si allontanassero il più presto possibile, onde evitare che i miasmi funesti i quali partivansi dalle vetture ripiene d'infetti propagassero il morbo. Per maggior precauzione a tutela della sanità, due o tre soldati scortavano la vettura stessa, allontanando da quella chi o non avesse inteso il suono della squilla o avesse creduto sprezzare il pericolo. Due inservienti dello spedale, aventi a tracollo una specie di stola indicatrice della loro qualità e armati di bastone a punta, terminavano il corteggio lugubre. Essi erano coloro che avevano nella vettura rinchiusi gli ammalati, che di quella li toglievano per affidarli all'altra consimile guardia detta di sanità, la quale aveva l'altro incarico di trasportare nelle cellette del Lazzeretto coloro fra i rinchiusi nella vettura che erano malati, e alla stanza mortuaria coloro che, troppo aggravati dal male, fossero periti nel fare il tragitto.
Oltre quel Lazzeretto che testè abbiamo descritto, anche altro luogo era destinato al ricovero degli infetti quando il primo era troppo ripieno, ed era la moderna chiesa di San Paolo, posta sull'antico spalto e che allora non era sacrata. Una pietra sulla porta maggiore ricorda e ricorderà ai fedeli come prima che al sacro uso venuto fosse quell'edifizio l'aveva già l'umanità consacrato a benefizio della languente progenie di Adamo.
La città pareva deserta: tutte le botteghe chiuse rendevanla pari ad una città dissotterrata dopo tanti secoli e restituita alla luce, i cui fabbricati più non contassero abitatori; ed oltre le botteghe, non una finestra aperta con qualche viso confortante affacciato. Coloro cui le convenienze non permisero di emigrare nelle vicine campagne e città per fuggire il morbo desolatore in traccia di aere salubre e confortante, si erano rinchiusi rigorosamente nell'interno di loro abitazione, segregandosi dagli altri viventi e ricevendo da quei di fuori le vettovaglie per mezzo di corda incatramata, per sospetto sempre d'infezione: e queste vettovaglie accuratamente purgavano pria di toccarle, tanto era il riguardo e la paura, servendosi dei cortili per calar giù dei panieri ed altri recipienti. Ed appena i più divoti si azzardavano ad uscire per girne ai sacri uffizi; e questi pochi li avreste veduti tenersi per le vie e nel tempio a grandi distanze fra loro per non urtare veste con veste, dappoichè il solo tatto poteva essere veicolo di morte. Anche dalla città si levavano in alto colonne a spirale di fumo o per masserizie e vesti abbruciate, o per suffumigi di zolfo e di bitume, i quali poi rannodandosi formavano un nuvolone nero galleggiante per l'aere ed equilibrato, tenentesi fisso sovra la città quasi gigantesco ombrello. Il che aumentava la tetraggine di chi dall'alto dei vicini colli vedeva là quel vapore denso che, unito all'aere affannoso, dava una tinta lugubre alla città stessa e ne rivelava le dure calamità; e quei miseri che stavan là dentro trepidanti per la loro vita e per quella dei cari, volgendo l'occhio al cielo e vedendolo tinto di funebre velo, più e più si scoravano, quasi che il cielo coperto di un panno mortuario dicesse a note di terrore: Per ora è morte, e tutti morrete, così volendo Iddio sdegnato.
In quel doloroso periodo di comune dolore, gli uomini sentirono veramente il palpito di fratello che lor rivela esser tutti nati di un istesso sangue: e perciò mille e mille grandi esempi di carità, di amore, di abnegazione di sè stessi offrirono quei giorni di tribolazione; ricchezze non curate, nobiltà che scese a stender la superba mano al povero; povero che, obliando gli insulti del ricco, gli fu largo di aiuti che con l'oro avrebbero potuto pagarsi; là l'ammirabile e filantropica società della Misericordia, degna sentendosi della sua generosa divisa, operò tanti e tali eroici tratti di cittadina virtù che bene avrebbe meritato ad ognuno dei fratelli quella corona di quercia che gli antichi Romani solevano imporre ai cittadini che un cittadino salvavano. La compagnia della Misericordia imitò le altre consorelle d'Italia, in ispecie nelle orribili pestilenze de' secoli scorsi, tanto fu benemerita della umanità. E se in mezzo a tanta espansione di affetti generosi qualche indegno del nome di uomo si macchiò di delitti…. deh! non turbi il bel quadro delle eroiche di lei azioni tal ricordanza. Noi vedremo che il Nume seppe coglierlo sul fatto. Ed invero la vettura funebre che, siccome narrammo, alle ore cinque entrava nel Lazzeretto, vi conduceva l'infame signor Basilio sul doloroso letto di morte.
La capanna dello zio Neri.
Prima che facciamo ad introdurci nel locale doloroso in cui abbiamo veduto trasportare la misera cantatrice di storie ed il suo pargoletto, e rinchiudere il signor Basilio, ne fa duopo ritornare molti anni addietro, cioè a quel punto del nostro racconto in cui con tanta sorpresa e rammarico delle reverende madri priora e camarlinga di Santa Chiara, disparve da quell'asilo di pace la sventurata Esmeralda.
Quella entusiasta giovane, che improvvisa mania colpiva nella mente, alla quale peraltro gradatamente avevanla preparata lo strano modo di sentire e quel darsi alla vita della selvaggia in un mondo civilizzato, stava, come sappiamo, trattenuta nel convento senza sapere ove fosse, credendosi in riva ad un porto di mare e pronta a salire su di un naviglio che recassela in America alla rediviva sua madre. La fisionomia delle donne velate di nero che circondavanla, la ristrettezza della cella, il suono dell'organo, le voci femminili ed acute delle monache producevano nella sua mente una di quelle confusioni che ella non poteva e non sapeva spiegare, ma che pur troppo dovevano rendere più intensa quella passeggera aberrazione mentale che il discorso di padre Gonsalvo nell'osteria dei Tre Mori in un momento di eccitazione ed il colloquio col suo amante avevano fatta improvvisamente nascere.
Se il buon religioso avesse creduto che tanto sinistro effetto avessero a produrre in quella giovane le sue parole, oh! chi sa se le avrebbe proferite? Ed infatti una delle più crucciose rimembranze che angosciassero quel venerando, laggiù nel fondo dell'Indostan era quella del giorno torbido e fatale 17 febbraio 1821, in cui aveva sottratta la giovane al suo amatore. Ma chi mai può prevedere gli eventi? una delle cause più energiche che avesse preparato il tristo effetto della demenza della infelice fu quella di accorgersi di avere fecondo il seno. Avvezza a disprezzare là nei deserti dell'America un avvenimento che, a senso di quella selvaggia sua semplice vita, non aveva in sè vergogna; purchè rilevasse da affetto verso un sol uomo, e che quest'uomo fosse l'unico amante, ella non pensava che in Europa e nella moderna civiltà si giudica ben altrimenti. Ma un senso di dolore nel riflettere che la frenesia da cui sentivasi posseduta verso la causa di un fallace risorgimento, e da cui pure era invaso il suo amante Alfredo per la felicità della patria, potevano portare entrambi i giovani insieme sul patibolo, avevala scossa terribilmente, pensando di dovere salirvi o incinta o madre di fresco. Il crudele contrasto fra il dovere di cittadina e l'amore di madre, amore che voleva soffocare per vincere nella ardua palestra, avevale acceso il sangue.
Trovatasi al convento, ella s'imaginò di esser già stata giustiziata e di aver perduta la vita sul palco e di trovarsi in luogo di beatitudine eterna, a ciò suadendola le pie voci delle monache e la melodia dell'organo. Esmeralda, dai deserti dell'Ohio passata alle popolose città di Europa, ingolfata fra le turbe cospiratrici, immersa nei piaceri di una vita turbolenta e variata, internata dei discorsi e delle aringhe esaltate ed esagerate, non aveva la menoma idea di un convento, e quella pace di esso e quella maestosità dei sacri riti, non vi ha dubbio, doveva aver penetrato nell'anima della giovane, sebbene la sua ragione fosse smarrita.
Credutasi in cielo, la sua anima agitata parea acquietarsi; ma nell'interno bolliva più fiera la tempesta. In un momento di delirio più forte le venne in mente il figlio di cui era incinta: credè di averlo lasciato nel mondo, e sebbene ormai si credesse puro spirito, l'amor del figlio la riconducea alla terra; e la terra essere le parea quel giardino fioritissimo sul quale dava la finestra della sua cella, la quale era ben poco elevata dal suolo, ed ella nell'idea di avere le ali, giù si cacciò a precipizio. Ma avvegnachè fosse nei decreti della provvidenza che non dovesse risentirne danno veruno, sotto appunto la finestrella l'ortolano aveva trasportato per avventura una quantità considerevole di paglia per foraggio delle giumente e delle capre ad uso del convento, ed Esmeralda si rialzò subito e messesi a cercare per tutto il vasto giardino. Delusa nelle sue ricerche, incontrò la porta, che l'ortolano medesimo per disgrazia aveva lasciata aperta; uscita senza saper dove andava, errò per l'alta notte illuminata dalla luna, fino a che trovossi sopra di una sponda dell'Arno; curvatasi per vedere laggiù, scôrse la propria imagine riflettuta dalle acque limpide del fiume, e siccome l'onde movendo verso la foce facean vacillare l'imagine che parea fuggire sull'acqua,—Ah! ah! non mi fuggire, cattivello, esclamò la misera pazza; e non sai che io son tua madre e che quando ti avrò acchiappato torneremo insieme al paradiso?—Disse e di un lancio si gettò nell'acqua profonda. Non più vedendo l'imagine, ella, vigorosamente nuotando, nel che era espertissima, e seguendo la corrente, in breve fu verso lo sbocco del fiume nel mare; ma il lungo digiuno che ella aveva fatto in quel dì, in cui più che mai aveva farneticato, lo stato morboso in cui erano le sue fibre, il gelo dell'acque che avevanle inzuppato tutti i panni, fecero sì che prima di arrivare allo sbocco del mare ella aveva completamente perduto i sensi e come corpo morto seguitava la corrente, quando uno dei molti arbusti che scorgonsi sulla destra di quel fiume essendosi intricato nelle vesti, rattenne quel corpo quasi esanime. Volle fortuna che presso a quello si trovasse un tal Neri, vecchio pescatore e cacciatore ad un tempo; il quale da molti e molti anni passava la vita dentro ad un barchetto a pescare ed a cacciare gli uccelli acquatici: e sulla prossima riva estrema a confine degli spessi boschi di San Rossore, luogo tutto selvaggio e tutto pineti ed arbusti intricati fra loro, stanza favorita di daini, di cinghiali e di caprioli, il vecchio Neri teneva una capanna di cui la moglie avanzata in età era l'altra abitatrice. Neri, sentendo l'acqua rimulinare intorno al barchetto, nel quale quella notte era anche la moglie che accomodava alcune reti, voltossi a lei:
—Ohe, Teresa, le disse, guarda un po' quaggiù fra i salci; ci ha da essere qualche ingombro: l'acqua rimulina sotto il barchetto e lo fa girare intorno al palo (poichè il barchetto di Neri era legato ad un palo o remo confitto nell'alveo del fiume); se è così, è inutile gettar la lenza.—
Teresa ubbidì e, tratto fuori del barchetto un lanternino, si mise a sbilucciare verso i salci indicatile.
—Oh Madonna santa di sotto gli organi! gridò la vecchierella, altro che ingombro, è una donna affogata.—
Neri a tal voce lasciò andare la lenza nel fiume ed esso pure gridò:
—Perdinci! potrebbe essere non anco affogata; in questo caso è dovere di cristiano aiutarla; e se mai è morta, sarà quello che Dio vuole.—
Neri accompagnò le parole coi fatti (e sappiate, lettori carissimi, che Neri era livornese e livornese schietto, un tôcco di cuore, non potete imaginarvelo, ignorante, ma cristiano, che tutta la vita aveva passato a bocca d'Arno fino dall'infanzia): fatto girare il battello, l'accostò alle sponde e, tiratosi i calzoni fino sopra al ginocchio, cavatesi le scarpe, si calò nell'acqua, che presso la riva aveva basso fondo; amorosamente raccolta la Esmeralda, la pose nel suo barchetto, mentre la buona vecchierella gli faceva lume dalla sponda del medesimo. Siccome uomo di forza erculea, presa nelle braccia la misera giovane come noi faremmo di un bambino, leggiermente inchinò la testa di essa verso il suolo onde rigettasse quell'acqua che potesse avere ingoiata. Ma ben poca ne aveva trangugiata Esmeralda, perchè, sebbene svenuta, era stata sempre a fior d'acqua; imperocchè le larghe sue vesti le avevano servito come di sostegno. Fatta questa operazione, la donna, posta sopra il cuore della giovane una mano e sentito che batteva, disse:
—Caspita! questo non è luogo per noi, andiamo in capanna, caro Neri; questa ragazza non è morta, è svenuta, e va subito slacciata e messa a letto.—
Il pescatore comprese che la moglie aveva ragione; e perciò, saltato sulla riva, condusse attraverso i salci, i giunchi e la bassa pineta, la derelitta alla propria capanna, che stava ad un quarto di miglio dalla riva ed in luogo così inospito che le selve del fiume Ohio non avevano a perderne. Giunti colà, i coniugi intesero a mille cure verso la sfortunata, che, rinfrancata da una quantità di rhum che il pescatore volle cacciarle per la gola, sbrogliata dei panni e collocata nel letto di quei sessagenari sposi, riprese in breve i sensi e la vita.
—Ah! te l'ho detto tante volte, ed ora te lo ripeto, esclamò Neri fregandosi per gran sodisfazione le palme; il mio rhum è un liquore miracoloso, ha fatto e farà sempre prodigi: viva il contrabbando; senza di questo il povero pescatore sarebbe costretto a bere dell'acquerello o del cognac.
—Eh giusto! sempre col tuo rhum di contrabbando; mi hai stonate le orecchie: è stata prima la Madonna di sotto gli organi e poi questo letto caldo.
—Ah! in quanto alla Madonna sta benissimo, io non contrasto, poichè senza il di lei patrocinio nè anche il rhum potrebbe aver fatto bene; ma quanto al letto, ci vuol altro che pannicelli caldi.—
Il marito e la moglie ebbero un piccolo ed innocente diverbio, mentrechè Esmeralda aveva preso un placido sonno. Finalmente, dopo aver egli vantato i pregi infiniti del suo rhum, la donna quei del suo letto caldo, terminavano per pacificarsi, dicendo Teresa:
—Dimmi un po', Neri, e chi sarà questa giovane?
—Oh bella! rispose il pescatore, sarà chi sarà; sarà una donna e te lo dirà ella stessa, se le pare dimani; caspita! non son mica l'oste delle Tre Donzelle che dimanda il passaporto ai forestieri che arrivano. Ma bando alle inutili chiacchiere: sono contento di aver fatto un'azione da galantuomo; questa però non deve impedirmi di badare al mio interesse. È quasi l'alba; io ritorno al barchetto: tu sai che sul far del dì i germani fanno il ripasso; dammi l'archibuso e tu resta qui colla padroncina, giacchè di fronte a noi è di certo una signora.—
Neri, preso da capo del letto un fucile coll'acciarino alla fiorentina e di canna lunghissima, fece ritorno ai barchetto.
Al mattino la Esmeralda era risorta ed in grado di ricevere le cure della vecchia, la quale però non potè cavarle una parola di bocca intorno all'esser suo; la buona donna, sebben curiosa come tutte le donne, aspettò il miglior tempo e le continuò quelle attenzioni proprie di una disinteressata persona di quel deserto.
Neri era una specie di uomo che non dipendeva da nessuno. Tanto esso che la moglie andavano le feste alle funzioni del mattino nella chiesa di San Piero a grado, posta dall'altra parte dell'Arno, e facevano ritorno alla capanna ed al barchetto. Non praticavano nessuno, come nessuno accedeva alla loro dimora, così nascosta nel bosco che anco passandovi dappresso la non poteva scorgersi. Due volte o tre la settimana Neri portavasi alle vicine città di Pisa o di Livorno per vendere la cacciagione ed il pesce; questo era l'ordinario suo tenore di vita. Quello della Teresa consisteva nel filare, nell'aiutare il marito alla pesca ed in rassettargli la rete ed in preparargli il frugalissimo cibo della mattina e della sera; occupazione che qualche volta Neri, in specie le domeniche ed altre principali feste dell'anno, faceva da sè. I due consorti vestivano panni grossolani che da sè stessa cuciva la vecchia, e calzavano scarpe di legno coperte di poco cuoio, nella cui fabbricazione il buon Neri era espertissimo. Erano ormai quarant'anni che menavano quella vita patriarcale lieti e contenti, ed il solo figlio che avevano avuto, andato alla guerra nel 1813, era morto gloriosamente sul campo. Questo era stato l'unico dolore di Neri e Teresa, i quali, veramente religiosi e filosofi, avevano offerto a Dio il loro immenso spasimo; dopo di che si erano già dati pace all'epoca in cui venne da essi salvata la Esmeralda.
Passati i primi tre giorni del ristabilimento della misera, allorchè ella cominciò a parlare, costoro si avvidero di leggieri che essa era pazza.
—Caspita! è pazza, disse Neri con una delle sue solite esclamazioni.
—E che perciò? prese a dire Teresa, i pazzi vanno forse abbandonati?
—Non dico questo, riprese il buon uomo: dico che se mai venissero a cercarla….
—Ah ah! se la cercano, non gliela darò certo quella creaturina; non vedi che angelica fisionomia? ella è quieta quietissima; non usa alle faccende, passa tutto il tempo a guardare il cielo; forse è una santa. In ogni modo, non la renderei al certo, perchè coloro cui apparteneva dovevano tenerne conto. Oh! oh! certo, sicuro, se non eravamo noi, era morta; dunque? dunque la roba trovata è di chi la trova.
—Dici bene, ma se fosse fuggita dallo spedale?
—Peggio! disse la vecchia, oh là sì che non ce la rimanderei: e non sai tu che laggiù per medicina danno le bastonate?
—Bella medicina! riprese Neri.
—Figúrati se è possibile che un cristiano guarisca a dargli le bastonate….
—Dici bene, moglie mia, la terremo per noi; giacchè la provvidenza ci levò il figliuolo e non ce ne dette altri, piglieremo questa.
—Bravo Neri! ora sì che ti vo' più bene di prima. Ma dimmi un poco… mi viene un dubbio…. e se le guardie di San Rossore facessero la spia?
—Ah! ah! ah!… mi fai crepar dal ridere, moglie cara; le guardie di San Rossore! ah! ah! ah! e non ti ricordi le grandi lezioni che ho dato loro io fino dalla mia giovinezza? non ti rammenti, sui primi tempi che venni a stabilirmi qua, quante bravure volevano fare, volevano dire, e poi non fecero nulla nè mi dissero nulla? Oh! dimmi un po', fanno esse la spia che io caccio di contrabbando continuamente in San Rossore, che vi ammazzo caprioli, cervi e cinghiali e che me li porto a vendere tranquillamente a Pisa? considera se vorranno occuparsi di una fanciulla. Non sai che cosa dicono? ed io lo so dal mio compare oste dei Tre Mori; dicono: Eh! con quel Neri non ci si piglia; con lui ci si ragiona male, perchè gli si parla colla voce, e risponde con le schioppettate. Tu vedi bene che io feci ottimamente sul principio del mio mestiere ad usare, come dicono i maestri, la grammatica dell'archibuso. Oh! è un gran linguaggio! e come si fa intendere in tutte le parti del mondo!—
Neri chiuse il discorso che aveva fatto tutto ad un fiato per porre le labbra sopra un bicchiere ripieno del suo favoritissimo rhum di contrabbando e si pose a cantarellare la strofa della canzone sua favorita:
Sulla poppa del mio brich,
Buoni sigari fumando,
Col bicchier facendo trich
Col mio rhum di contrabbando….
canzone che un poeta gli rubò, la mise in un libretto o melodramma e che noi poi abbiamo sentita accompagnata da scelta musica in teatro. Oh! mirate un po' questi poeti dove si attaccano per rubare i versi: fino quelli del povero Neri non furon salvi. Ma torniamo ad Esmeralda.
Esmeralda, divenuta nel bosco di San Rossore seconda figlia di Neri e di Teresa, aveva naturalmente e molto presto riprese le sue abitudini selvagge e, come in riva al gran fiume dell'America settentrionale, era intenta alla pesca ed alla caccia ed a rassettare le reti; di più con le fila di certe erbe palustri quasi essiccate cominciò a tessere delle vesti alla foggia dei selvaggi americani, di cui faceva anco le stuoie.
—Questa ragazza è un portento, diceva spesso Neri; è nata cacciatrice e mi sorpassa nell'abilità: il mio traffico di pesca e di caccia è raddoppiato; io faccio invidia ai miei rivali di mestiere di Stagno e del Calambrone; e quando mi vedono, mi fanno mille smorfie dicendomi con un risino mendace: Buon pro ti faccia, Neri; tu fai più da te solo che noi insieme, e nell'invecchiare ti fai sempre più abile. Ed io: Eh! che volete…. la provvidenza aiuta i galantuomini.—
Esmeralda, menochè immemore della sua passata vita, come se fosse nata dopo il terribile giorno dello smarrimento della sua ragione, del resto non conservava più altra foggia della sua pazzia. Mangiava, beveva, rideva, tesseva stuoie e vesti, cacciava e pescava, e per bizzarria, essendo da qualche tempo addivenute logore le sue vesti, non conservava di prezioso che il medaglione vedutole al collo dalle monache di Santa Chiara ed un anello con lastra incisa in arme gentilizia. Ella si era tutta vestita degli abiti tessuti di giunchi marini alla stessa maniera delle selvagge della sponda dell'Ohio. E di quella stoffa anco Neri portava, quando era nel barchetto, la giacchetta, trovandola comodissima.
Nei primi mesi della dimora di Esmeralda presso Neri e Teresa avvenne ciò che doveva avvenire: ella si sgravò di un vezzoso bambino, che Teresa raccolse colle sue mani, facendo da levatrice. I coniugi rimasero un poco stupiti a tal faccenda, ma non ne cercarono il mistero.
—Sarà sposa di qualcheduno, disse Teresa.
—Eh! sicuro, disse Neri sbavigliando, o vedova.
—O forse qualche briccone, profittando dello stato della sua mente….
—Può essere, replicò laconicamente Neri, raddoppiando la dose del rhum, cosa che egli faceva quando avveniva alcun che di straordinario o nel barchetto o nella capanna.
—Ebbene si terrà mamma e figlio.
—Ebbene si terranno tutti e due.
—Ma…. e per battezzarlo?
—Caspita! manca acqua? riprese Neri; siamo fra l'Arno ed il mare.
—Sguaiato!… senza prete?
—Oh! è bella e trovata. Don Silvestro non vien qui forse una volta l'anno per l'acqua benedetta? Ci verrà una volta di più in quest'anno, perchè, caspita! dopo questo la signorina non ne farà più.
—Ma don Silvestro ci verrà?
—Ci verrà sicuro: è tanto ghiotto del cinghiale; glielo farò fra due fuochi.
—Ma trattandosi di rito….
—Che rito e non rito?… Coi cacciatori non ci si bada; gli dirò che l'ho trovato in un cespuglio, e che, non avendo figliuoli, adotto questo: gli dirò… oh! non vo' confondermi; quello che gli dirò gli dirò: oh! farà a modo mio; basta che ciò che gli chiedo non sia peccato e sia a fin di bene. Tu quel giorno allontanerai Esmeralda, cioè tutte e due vi rinchiuderete nel battello, ed io starò in capanna col bimbo e con don Silvestro, e quando sentirete un archibusata verrete a casa.—
Così fu detto e così fu fatto. Il fanciullo ebbe nome Selvaggio; certo che nome più adatto non avrebbe potuto avere.
Il figlio di Esmeralda, sviluppatosi, era il più bel bambino del mondo: la madre nello stato di pazzia se fu capace a nutrirlo del suo latte, certamente non gli avrebbe potuto dare quella educazione morale ch'è indispensabile anco ai fanciulli delle più povere classi. Di ciò si prese cura la ottima Teresa: essa amava Selvaggio come un vero e proprio figlio; e siccome nella sua giovinezza era stata cameriera, sapeva discretamente leggere e scrivere e la dottrina cristiana, cose tutte che rendevano la sua educazione e coltura molto superiore a quella di Neri. Il fanciullo in breve apparò tutto quello che gli insegnò la vecchia, la quale, per non infurbire il giovanetto, gli apprese a chiamar mamma la madre, zio Neri il pescatore e zia Teresa lei medesima. Selvaggio in breve aiutò la mamma e lo zio Neri nelle cacce e nella pesca e nel tessere i panni pescherecci, mentre (e qui va detto) anco lo zio Neri, avendo voluto fare sfoggio di qualche coltura, ricordandosi di avere in sua gioventù suonato il liuto (a quell'epoca fuor di moda), rimestati tutti i rigattieri di Livorno e di Pisa, riuscì a trovare un tal vecchio istrumento che, alla meglio raccomodato, pervenne a render suonabile, e ne istruì il giovanotto, il quale fece notabili progressi. Lieta così la famigliuola giunse all'anno 1831, epoca in cui pel povero Selvaggio incominciarono le sventure, e per l'Esmeralda ripresero con maggior violenza.
Esmeralda ed il figlio spesse volte si aggiravano soli pel bosco, fino al confine di quello sulla riva del mare; colà la donna farneticava cantando storie malinconiche, ed il figlio, che era un genio per la musica, l'accompagnava col liuto. Una sera, ahimè! madre e figlio più non tornarono alla capanna. Il dipingere le smanie della buona Teresa e dello zio Neri sarebbe cosa impossibile; invano si misero a girare il bosco per tutta la notte; invano li chiamarono qua e là. L'indomani pur troppo si apprese cosa fosse divenuto di loro: una banda di zingari, spinta dal desiderio di fare acqua in quel luogo, vide la madre ed il figlio che si aggiravano sul lido; il capo di essa nel mirare le selvagge vesti dei due formò subito l'ardito progetto d'impossessarsi di quegl'infelici, onde, traendoli seco, farli passare pel selvaggi tratti dall'Oceania. In un attimo Esmeralda e Selvaggio vennero circondati e rapiti dagli zingari, che, rientrati nella barca, presero il largo in mare.
In mezzo a costoro passarono quattro lunghi anni, e spesse volte Esmeralda, che nella sua pazzia aveva serbato il gusto per il canto, ed il giovinetto suonatore col lucro da essi guadagnato avevano servito al sostentamento di tutta quell'orda, colla quale a piè nudo aveano talvolta percorso gran parte d'Italia e di Europa. Il giovinetto Selvaggio aveva saputo resistere alle battiture ed agli strapazzi inumani di quella barbara e mercenaria gente; ma non seppe frenare il suo impeto giovanile quando un dì vide orribilmente frustare la madre perchè si era ricusata di cantare e far capriole e salti su di una pubblica piazza. Favorito dalla notte, venduto quel gioiello che la madre teneva al collo, ei si era procacciato tanto denaro quanto fosse occorso per fare il viaggio da Genova a Livorno. Giunti in questa città, noi accennammo come col mezzo del canto e del suono andassero campando la vita per effetto della pubblica commiserazione. Oh! se Selvaggio avesse saputo che lo zio Neri e la Teresa erano tanto vicini a loro! Ma chi mai avevagli detto che quel luogo ove nacque fosse il bosco di San Rossore? Ignaro di quel rifugio, ei campò la madre fino a che, sorpresa questa dal terribile chólera, venne con esso lui trasportata al da noi mentovato Lazzeretto.
L'agonia di un empio.
La cantatrice di storie ed il figlio, che noi or conosciamo per Esmeralda e Selvaggio, entrati che furono nel Lazzeretto, vennero collocati l'uno accanto all'altra: sebbene il sesso fosse diverso, pure il fanciullo aveva così teneramente scongiurato il severissimo soprintendente che costui, a malgrado dell'abituale rigore, si era lasciato vincere e fatto aveva un'eccezione alla regola. Ma il giorno dopo le cose avevano mutato di aspetto. La donna aveva vinta tutta l'ira della malattia; e sebbene fosse stata portata colà in stato grave, e lo stento l'avesse sì terribilmente prostrata da farla parere moribonda, il male era cessato. Ciò non sfuggì al vigile occhio del medico di turno: costui dichiarò che la donna avrebbe potuto dopo uno o due giorni rinviarsi perchè guarita. Ma ben altra era la situazione del misero fanciullo: egli era soprafatto dal male in modo sì violento che temeasi della sua vita. La infelice Esmeralda, che nel tempo stesso di sua pazzia non aveva disconosciuto il figlio, renduta alla ragione, sentì di amarlo oltre ogni umana idea; ma buon Dio! in qual mai tristo momento aveva ella ricuperata la mente! in una miserissima soffitta e nel Lazzeretto del chólera; lassù, per essere soggetta alla tentata violenza del signor Basilio, quaggiù, per trovarsi nell'asilo della morte e per conoscere tutta la intensità della dolorosa sua situazione, senza mezzi, in uno spedale, presso un figlio, il suo unico figlio, agonizzante…. senza sapere ove rivolgersi per averne un soccorso. Ahimè! questo non era il solo suo immenso dolore; resa a sè stessa, ella sentì il terribile vuoto dell'anima sua, sentì più cocente l'affetto verso Alfredo, verso il padre di quella creatura ora morente. Oltre ogni dire intollerante e bramosa di sapere le nuove di quell'uomo che ella aveva adorato e che adorava, non aveva a chi domandarne a chi ricorrere. Quanto tempo era che ella nol vedea? domandava a sè stessa: per i pazzi il tempo della demenza non può calcolarsi, cosicchè ella si trovava come se il corso di quattordici anni fosse stato quello di un'ora, come se si fosse destata dopo aver dormito quel lungo periodo; ma che anni ed anni dovevano esser passati ella il comprendeva pur troppo dall'età in cui vedeva adesso quel figlio, forse sull'orlo del sepolcro. Gran Dio! qual riflessione! che sarà divenuto dell'amante dopo sì lungo tempo? che di Giovanni? saranno essi vivi? e dove, se lo sono, si trovano eglino? Tutte queste riflessioni l'avrebbero pur troppo gettata di nuovo nel disordine della mente, se un più grande pensiero, quello del momento attuale, quello del figlio, non l'avesse distratta dal fermarsi di troppo sugli altri. E il pensiero del figlio era angoscioso: non solo temea di perderlo, ma che le fosse pur anco negato di poterlo assistere nelle ultime ore. Ma la preghiera e la fiducia in Dio la sostenne; ella chiese di essere ammessa al cospetto dell'ufficiale soprintendente, ed ebbe luogo tra loro una scena che rivelava i franchi modi di ambedue: ella donna che si ricordava le selvagge sue primarie abitudini, egli che credeva sempre dover parlare coi soldati per comandar loro di attaccare i Cosacchi.
—Chi siete? che volete? sbrigatevi.
—Sono Esmeralda, una madre che ama.
—Il cognome? orsù….
—Artini.
—Artini? non lo conosco tal cognome, ma non importa.
—Voglio stare accanto a mio figlio per assisterlo.
—Voi non l'assisterete, non voglio.
—Ebbene, signore, uccidetemi.
—Non uccido nessuno…. e poi una donna.
—Ebbene io mi ucciderò, ne ho coraggio.
—Così va bene… le donne dovrebber esser tutte così.—
Il modo con cui Esmeralda, tolta una pistola dalla tavola dell'ufficiale, se l'appressò all'orecchio, sorprese in tal guisa il soprintendente che, balzato dalla sedia, fu in un attimo al braccio della donna e distornollo dall'orecchio.
—Per la battaglia di Smolensko! voi dite davvero.
—Non ho mai mentito.
—Lo credo.
—Io al mondo non ho alcuno; lasciate, signore, che finisca i miei giorni dopo aver chiuso gli occhi a mio figlio.—
Gli occhi di Esmeralda assunsero un'espressione di dolore, talchè l'uffiziale ne fu penetrato.
Tanto coraggio! tanta beltà infelici! disse fra sè; ma già questo è il solito delle cose del mondo. Indi in modo burbero ma cortese:—Ebbene restate.—
Esmeralda trasalì dalla gioia e con calma soggiunse:
—Signore, io resterò, ma credo darovvi poco incomodo; mio figlio starà forse qualche ora in vita, ed io domani lo seguirò nella tomba.—Indi si allontanò.
L'uffiziale le tenne dietro lungamente cogli occhi nel corridoio in fondo al quale era la stanza di Selvaggio ammalato; quindi dopo avere qualche tempo passeggiato su e giù per la stanza esclamò:—Oh! per la battaglia di Smolensko, costei ha l'anima di un granatiere della vecchia guardia.—
Accese la sua pipa ed andò per lo spedale in traccia di coloro che avevano portata colà la Esmeralda ed il figlio. Voglio conoscere quest'ottima madre, fra sè borbottava, ed anzi voglio che costei resti nello spedale a servire i malati. Una donna di quella tempra non si trova così frequente. Per la battaglia di Smolensko! costei ha l'anima di un granatiere della vecchia guardia.—
Intanto Esmeralda sta presso al letto del figlio; le sue mani stanno congiunte a preghiera, e quello sguardo che essa figge al cielo penetra le volte celesti e arriva al cospetto del Creatore dei mondi. Il sospiro di una madre che geme sul figlio moribondo è accolto da un coro di angioli, che lo presentano al trono di Dio. Quel sospiro fu la vita di Selvaggio. Gli angioli tutti pregavano per Esmeralda. Il fanciullo, che quasi era divenuto cadavere, andava riprendendo il calor della vita; nel seno dell'afflitta madre tornava a gradi a gradi la speranza.—Ah! se egli vive, gran Dio! se voi lo ritornate a me, io vi offro le mie più calde speranze….—Ed era per dire:—Io rinunzierò ad Alfredo—, ma la imprudente promessa parve che per volere di Dio le spirasse sul labbro: poichè ella, credendo di offrire qualche cosa di più grande ancora, tratto un gran sospiro, continuò:—Io non apparterrò più alla setta.—Proferito questo voto, ella diede un tenero, un indefinibile sguardo al figlio come per volere esprimere: Ah quanto mi costi! Ma il sorriso del pari indefinibile che il fanciullo fece al tenero sguardo della madre fu di gran lunga più prezioso del sacrifizio.
Selvaggio migliorava a gran passi, e già nel quarto giorno dall'arrivo allo spedale ogni pericolo era sparito. Non un giorno, non un'ora, non un minuto Esmeralda aveva lasciato il giaciglio del dolcissimo suo figliuolo.
Il soprintendente aveva risoluto. Esmeralda, così operosa, così ferma, così pia nel ministero di assistere i miseri infermi della corsia ove stava malato il figlio, veniva nominata ispettrice di quello spedale ove avevanla portata insieme con la sua creatura. Colà aveva raccolto abbondante frutto di benedizioni, e colà doveva ricevere la consolazione di essere informata delle vicende corse dalle persone tanto care alla misera donna. Nelle ultime corsie dalla parte di settentrione di quello stabilimento giaceva in un letticciuolo un povero e vecchio negro, cui, per la differenza del colore e per quella ripugnanza che le persone del volgo di cui si componevano gl'inservienti di quel luogo ben minor cura prestavasi che agli altri. Esmeralda si appressò al letto di lui: quel negro che ella consolava al letto di morte era quel tenero Iago che avevala veduta nascere, quell'uomo che dopo la morte de' suoi genitori era stato un secondo padre a lei ed a Giovanni. Il conoscersi, il rendere vive grazie a Dio fu un punto solo; e dopochè la malattia del vecchio negro volse a un più lieto fine, servendosi della lingua dei naturali di America, ei palesò a colei che amava qual figlia come Giovanni fosse ritornato in America, come Alfredo pur militasse in quel nuovo continente, ma che ignorava il preciso luogo di sua dimora. Di più non ne sapeva il misero vecchio; poichè, dopo la partenza del padre Gonsalvo per la missione dell'Indie, il resto dei frati non si era gran che curato del povero negro, e lunghi anni era stato senza pur lasciare il convento. Ma Esmeralda si contentò di sentire almeno qualche nuova: essa aveva un punto ove dirigersi in traccia del fratello e del padre di Selvaggio. Il solo stato di inopia la spaventava, e lo confessò al negro; ed il negro confortavala a farsi conoscere all'autorità od almeno al soprintendente. La donna peraltro, che ben sapea quali accuse pesassero pur sempre sui settari, severamente proibiva al fedel negro di palesare a chicchessia l'esser suo. Il negro obbediva, giurando che da quel momento, posto che Dio gli avesse reso la vita mercè della sua cara padroncina, egli avrebbe seguito la sorte di lei e del figlio suo. Ad Esmeralda rinacque in cuore la speranza; ella sentiva di non esser più sola, nè parvele essere tanto lungi da coloro che amava. Iddio le aveva mandato il povero negro.
—Padrona, le diceva Iago, ecco qui (e levava di sotto al capezzale del letto un involto) ecco qui; questi sono quaranta scudi in oro, altri ne ho al convento; perciò torneremo in America.
—Ah! mio Dio… mio Dio, affretta quest'istante. O Iago, io non ho altri che te al mondo che mi possa assistere.
—Padrona… la mano, la mano.—E su v'impresse un bacio rispettoso.
Quindici giorni dopo questo dialogo, Esmeralda, Selvaggio ed Iago uscivano dal Lazzeretto; ma, prima di uscire, la tenera giovane era stata presente alla scena che andiamo a descrivere.
Uno dei giorni più terribili era stato quello del 31 agosto: la morte aveva mietuto maggiori vittime; nella seconda corsia dello spedale un uomo agonizzava.
Quest'uomo, orribilmente contratto dagli spasimi della più angosciosa paralisia, era il signor Basilio. Una donna genuflessa da una parte del letto ed un fanciullo prostrato dall'altra pregavano. Essi erano Esmeralda e Selvaggio…. pregavano per il loro persecutore.
—Mamma, mamma (aveva detto Selvaggio già in convalescenza e che girava per la corsia, aiutando nelle sue incombenze la madre), accorrete, accorrete quaggiù: al N. 12 vi è un uomo che muore; quell'uomo che voleva pigliarvi l'anello e cacciarci fuori della soffitta.
—Eccomi, figliuol mio.
—Sì, mamma; il Salvatore del mondo ci ha insegnato a prestarci per i nostri nemici. E qual più nemico nostro di questo?—Selvaggio infelice! non sapeva tutto il male che gli aveva fatto il signor Basilio. E madre e figlio pregavano il Dio delle misericordie; ma era Iddio il terribile Dio dell'ira che passeggia sui fulmini e sulle tempeste, conculca i draghi e i leoni.
Un cappuccino, posata sul letto dell'ammalato in quell'estremo la stola, recitava le preghiere degli agonizzanti.
Negli occhi del malato stava dipinto l'inferno; esso volgevali come carboni ardenti sulla donna e sul figlio, e con voce rauca ed interrotta urlava:—Satanno, Satanno, non vo' morire; non vo' morire; maledizione!…
—Exorcizo te, spiritus immunde.
—No, urlava il malato vomitando nera schiuma dalla bocca, no, non posso morire; il mio oro, i miei brillanti, le mie cambiali!
—Pax tibi.—
Ma il malato, sollevandosi in furioso modo sul letto, aveva afferrato la stola e, postasela in bocca, l'aveva messa in pezzi e tinta di sangue. Tutti gl'inservienti, meno Esmeralda e Selvaggio, erano fuggiti; anco il frate aveva con orrore abbandonato quel peccatore moribondo. Il malato nell'eccesso della smania che divoravalo facea orribili rivelazioni.
Se invece di Esmeralda e di Selvaggio, i quali soli udirono, vi fossero state altre persone, madama Guglielmi avrebbe ricuperato il suo palazzo, le sue gioie, Rosina sarebbe stata reintegrata nella sua fama presso i suoi concittadini, e la infelice e sensibile Angiolina avrebbe avuto il patrimonio del suo vero padre; ma sventuratamente non fu così.
—Morire!… urlava diabolicamente il moribondo, morire! dopo avere accumulate ricchezze immense, morire!… no, non voglio morire. Vieni, vieni, inferno, tu che ho sempre invocato, tu che mi hai protetto, opponi la tua potenza; io son tuo in carne e in anima; opponi la tua potenza a quella celeste… qua quei sacchi d'oro, qua quei diamanti, qua le mie belle concubine, qua tutto; voglio portare sotterra tutto all'inferno con me. Rosina…. Rosina…. beltà sprezzante che ho amata, che ho perduta, no, non ridere della mia morte, no; io dall'inferno riderò di te e ti sarò spettro persecutore, ti sarò demonio incarnato! Ma che?… no… non voglio morire.—
Mentre le più orribili imprecazioni e bestemmie venivano a mescolarsi a tanto tremendo soliloquio, Esmeralda e Selvaggio, innocenti creature, stavano genuflessi ai piè di quel letto di angoscia supplicando l'Eterno di dare all'ultima ora di quell'uomo la calma per prepararsi all'estremo viaggio per l'eternità. Seguendo l'esempio del divino Redentore, eglino pregavano per il loro acerrimo persecutore.
Il Dio di bontà e di giustizia ascoltava quelle preghiere, e nella sua immutabile volontà destinava il premio all'anima di quegli ingenui e la pena pure di quell'uomo delittuoso: ma era scritto nei suoi volumi eterni che l'uomo colpevole per quel momento dovesse vivere; ei lo serbava a più terribili tempi.
Se gli ammiratori della condotta sociale o, piuttosto dirò, dell'apparente condotta sociale del signor Basilio fossero stati testimoni della sua agonia, oh quanti si sarebbero ricreduti! oh come avrebbero veduto non doversi gli uomini misurare dalle pratiche esteriori! e chi sa che, riflettendo come il signor Basilio non fosse forse che una mostra di tanti suoi simili, non avessero appreso ad esser più cauti nel dare laudi o biasimi a tanti e tanti esseri di questo mondo?
Ma…., come io diceva, la scena aveva luogo fra tre persone: imperocchè le orribili bestemmie del bigotto Basilio avevano fatto allontanare tutti gl'inservienti dello spedale; e siccome le celle circostanti erano vuote, così nessuno, oltre i due infelici, sentì quel monologo infame.
Il signor Basilio molto disse e di troppo avrebbe detto se Esmeralda avesse potuto penetrare il mistero delle di lui parole: ma, come sappiamo, Esmeralda era affatto ignara della persecuzione di Rosina e delle iniquità dal signor Basilio esercitate contro di lei; di più ignorava anco chi fosse lo stesso signor Basilio. Quando costui cessò dal bestemmiare ad intervalli e chiuse con maledizioni il suo monologo, in cui parlò dell'Angiolina, che era sua figlia adulterina, della Rosina oggetto dei suo amore iniquo e sprezzato, del pozzo del sotterraneo, della di lei liberazione, dell'ufficiale inglese, del furto delle gioie, cadde in profondo letargo ed in un mar di sudore. Allora Esmeralda, dopo aver somministrata al languente una refrigerante bevanda, fatti tornare sul luogo il frate, gl'inservienti ed il medico, si dipartì dalla cella di colui col conforto di un'anima buona che sa di aver compito il sacro dovere della carità.
Due giorni dopo il signor Basilio era dichiarato fuori di pericolo, ed il contegno da lui tenuto quando assistevalo il frate fu ritenuto come aberrazione di cervello infermo dalla malattia. Così vanno le cose del mondo! Egli ricuperò la salute, e la fama sua di uomo pio rimase intatta; esso fu commiserato e felicitato, ed al suo ritorno al negozio in Livorno sentì che lo qualificavano per martire dell'umanità, e tutti il mostravano a dito come un uomo che, per soccorrere ad un sesto piano una famiglia languente dalla fame e dal chólera, aveva egli stesso contratto l'orribil malore ed era stato agli estremi di vita.
Così giudica il mondo; ma, per fortuna e sodisfazione dei buoni, noi sappiamo che dopo il mondo v'è l'eternità, là dove la verità si scopre dalle mani di Dio stesso.
La condotta di Esmeralda e del figlio aveva eccitata l'ammirazione di tutti i buoni, e al partire dallo spedale del Lazzeretto essa aveva dovuto accettare non poche limosine. Queste, la scienza del canto e del suono e i pochi denari di Iago (licenziatosi dal convento di Montenero) aiutarono la misera a lasciare il vecchio continente ed a vagare per il nuovo in traccia dell'amante suo e padre del proprio figlio: e noi già vedemmo come miracolosamente capitasse fra le braccia di Rosina e di Giovanni. Or noi ricondurremo il lettore all'isola della Barbada, un solo mese dopo quel felice incontro, dappoichè il nostro cuore sente il bisogno di passare a descrivere scena più dolce di quella precedente.
Le campane della chiesa maggiore della Barbada suonavano a festa, e le artiglierie del forte tuonavano in segno di gioia: tutti gli alberi dei navigli posti in rada erano carichi di cento diverse bandiere; il tripudio degli abitatori di quell'isola era al colmo. Aveva luogo una festa nuziale ed il più venerabile ecclesiastico parato di abiti pontificali aveva data la benedizione agli sposi!
Chi erano essi? il cuore ce lo dice, e quando non cel dicesse, lo apprenderemmo sentendo questo dialogo che in linguaggio indiano (quale noi tradurremo) tenevano presso il parco della residenza del governatore un vecchio negro e due ancelle di servizio di Rosina.
—Gran bella festa! mio buon Iago, diceva la più adulta delle femmine, cui un vago cappello di paglia di riso nascondeva per metà il volto abbronzito dal sole dei tropici.
—Bella, sì, rispondeva il vecchio fregandosi le mani in segno di gioia e secondo il costume dei negri battendo le palme. Per la Dio grazia, è la seconda volta in cui ad alta voce sento il sacerdote pronunziare: Esmeralda Clementina Zaira Sofia figlia del signor cavaliere Adolfo Artini conte di ****; se non che la prima volta a queste parole sentii aggiunger quelle di Credis in Deum Patrem? ed adesso ho sentito aggiungere: Siete contenta di sposare il signor Alfredo Guglielmi capitano, ecc.?
—Quanto era bella l'acconciatura della sposa! riprese l'altra fantesca.
—Quanto erano vaghi, quanto sono belli entrambi!
—E quanto hanno sofferto! ditelo a me, care fanciulle, a me che li ho veduti nascere e li ho veduti soffrire; ma Dio è giusto, ed il giorno del premio arriva o presto o tardi, ma arriva sicuramente.
—Ma…. a proposito…. si eran già prima segretamente sposati? prese a dire una delle giovanette negre rivolgendosi al negro Iago.
E Iago, facendo una specie di smorfia che difficilmente potrebbe descriversi, rispose:
—Uh uf, quanto son curiose le donne! sicuro sicurissimo, si erano sposati segretamente; e non avete veduto il figlio loro grande e grosso? A poco per volta anzi è quasi un mezzo uffiziale.
—Selvaggio! ma converrà dargli un altro nome.
—Oibò! per me Selvaggio è il più bel nome del mondo; è quello che più si avvicina allo stato naturale, ed io lo cambierei volentieri con quello d'Iago, che a quanto credo deve avermi messo un qualche spagnuolo che sarà stato mio compare.—
Il racconto fu interrotto dall'arrivo di un personaggio a noi cognito, ma che da lungo tempo era obliato nel nostro racconto. Tal personaggio alla maestà del volto di un venerabil vecchio aggiungeva un'affabilità che gli acquistava sempre più grazia; aveva affatto bianchi i pochi e radi capelli che gli restavano; la lunga barba, pur essa bianca, gli scendeva maestosa sul petto; un paio di occhi scintillanti come di sacro fuoco gli brillavano sotto la fronte; ed un insieme di gravità e di dolcezza rendevano angelico quel viso, il cui labbro aveva un continuo nobile sorriso di benevolenza. Tal personaggio vestiva una tunica paonazza e portava il cappello a grandi ale e piccola e rotonda cucuzza; sul petto del vecchio sfolgorava la croce vescovile dei missionari. Al di lui apparire, i tre interlocutori si tacquero e trassero in disparte curvandosi per ricevere l'episcopale benedizione, che il degno prelato non lasciò di compartire con tutta l'effusione del cuore. Quel prelato sarebbe forse?…
Sì, miei cari lettori, quel prelato, comechè per gli anni e per le fatiche apostoliche invecchiato, è appunto colui che vi suggerisce il cuore, l'ottimo padre Gonsalvo, che dovere di missionario per traslocazione di seggio dall'Indostan fece passare alle americane isole, e da poco era giunto alla Barbada.
Il cielo aveva riunito alla perfine insieme quegli esseri che tanto si amavano. Chi sarà che possa dipingere la loro gioia? La mattina delle nozze, il prelato aveva toccato di volo le loro vicende, e di più egli avrebbe voluto che nell'anima di Giovanni e di Alfredo fosse omai spenta quella mania d'innovare. Di Esmeralda ei più non temeva; restituita alla ragione, ella aveva affatto perduto quel fervido carattere della sua prima giovinezza; gli altri non già, che, ahimè! il tempo ancora non giunse di loro ravvedimento.
Il missionario diceva:
—Qui riuniti, io vi benedico, o miei cari, in nome dell'onnipotente Signore dei cieli e del mondo: forse un sì fausto momento non si rinnoverà mai più per me, e già sento essere anche troppa la pienezza della mia gioia. I perversi non sono estinti, no; e sebbene un immenso mare separi i due emisferi, il veleno dell'uomo è più sottile di quello del più malefico serpente, esso attossica passando i mari ed i monti. Forse a voi ch'io tenni sulle mie braccia Iddio prepara nuovi dolori e nuovi travagli, forse la nebbia e gli oragani della sventura si addensano sui capi innocenti di questi cari pargoletti che in questo tempio vi ricingono, o Giovanni, Rosina, Esmeralda ed Alfredo, simili agli angioletti che implorano su voi la celeste benedizione. Grandi sono gli arcani del Nume, sempre e sempre adorabili e nella sventura e nella felicità. Ma se a me ministro di Dio, ma se a me il più vecchio di quanti oggi vi amano e vi ameranno, è lecito fare degli augurii, io non saprei fare miglior voto di quello di vedervi per sempre riuniti in quest'isola lungi dai rumori di un mondo da cui, fra le innovazioni, fra le inutili cogitazioni, fra le ambagi tumultuose della guerra e del commercio, disparvero la pace e la virtù. Pensate troppo difficile impresa essere quella di rinnovare la faccia della terra. Non è da tanto lo spirito dell'uomo; solo può tal miracolo lo spirito di Dio, e noi non siamo più che uomini, quando pure la sapienza fosse il nostro retaggio. Vivete, sì, e vivete per una generazione di esseri novelli che qui trapianterete; scordate quegli sfrenati desiderii che vi partoriranno, come vi partorirono, lunga catena di sciagure. E se mai queste parole del vecchio amico vostro oltre le orecchie non vi scendano al cuore, voglia il Dio a cui servo non punire per voi quei pargoli a cui deste la vita. Vi benedico.—
Chiuse il sermone il buon vescovo, e niuno di quei cigli, avvezzi ai patimenti, alle più dure vicende, ai guerreschi ludi, alle più pertinaci avversità, sapea frenare le lacrime. Il buon pastore stesso nel prendere dalle mani di Selvaggio vestito di bianco ed a guisa di angelo due corone di mirto per porle sul capo di Esmeralda e di Alfredo, nel congiungerli in matrimonio, aveva lasciato corrersi abbondante il pianto di tenerezza sulle gote appassite. Rosina, cui circondavano i figli, singhiozzava di gioia; e Giovanni, a malgrado di sua abituale fierezza, sentiva in cuore un sentimento non mai provato. Angiolina, la patetica Angiolina, guardando i nuovi coniugi, aveva vôlto gli occhi al cielo come per dirgli: O voi Creatore dell'universo, non avete dunque una simile gioia anco per me? Ma posando poscia lo sguardo su Rosina, su Giovanni e sui loro figli, e dipoi su quel vegliardo venerando, di nuovo rivolgendosi al cielo, aveva esclamato:—Oh! sì, gran Dio! tutte le felicità che può gustare una misera io le ho gustate in quest'istante; di più non poteva darsi ad Angiolina.—
Di ritorno dal tempio, le due famiglie riunite si dettero in braccio alla gioia; e lungamente strette in abbraccio fra loro Esmeralda e Rosina si dissero, si ripeterono la loro storia, e i baci volarono e rivolarono fra esse ed i figli che Angiolina teneva fra le braccia.
In una sala a parte peraltro Giovanni ed Alfredo si ricambiarono queste parole:
—Hai sentito il buon vescovo?
—Sì.
—E che pensi?
—Prima morire che rinunziare al mio progetto.
—Ed io pure.—
Un astro novello.
Pochi giorni dopo Giovanni aveva mantenuta la parola data al cognato.—Il molle ozio non è per me, più volte avevagli detto, o mio Alfredo; ed ozio imbelle io chiamo la vita che meno. Io sperai che le gioie purissime dell'affetto di sposo e di padre mi staccassero dal cuore quella smania immensa che mi divora, ma no: essa vi è fissa come uno stile acuto e mi lacera senza uccidermi. Io sento il bisogno di ripiombarmi nei maneggi che ponno darmi una fatica; io non l'ho, cioè non l'ho come la vorrei.
—Ma, Giovanni, tu lo sai se io divida il tuo fuoco, il tuo desio; se al primo volger di una luce fra tante tenebre, or son pochi anni, mi ricacciai in Europa, rividi gli amici; se tentammo: ci parve avere ottenuto alcun che; ma ahimè! nobili ed entusiasti giovani caddero sul patibolo o morirono nelle prigioni o nell'esiglio, ed io miracolosamente salvato feci ritorno in America. Quanto a me, Dio mi ha fatto ritrovare la mia Esmeralda, son marito, son padre; ciò versa un balsamo di calma nel fervido mio cuore. Non me ne starò per altro, se un'aura benefica disperde e dissipa le tenebre del nostro orizzonte.
—Ed io voglio pugnare per un suolo non mio, se pel mio nol posso; almeno snuderò un acciaro per la medesima causa: ovunque vedo oppressi, io ritrovo fratelli.—
Giovanni lasciava la Barbada; gli subentrava Alfredo nel governo dell'isola. L'indomito cospiratore adduceva seco il suo primogenito, ancora imberbe, nei cimenti della gloria. America suonò di eterne laudi al guerriero intrepido e generoso, cui l'Europa, memore di essergli madre, decretava una spada di onore. Carico di allori, esso dopo alcuni anni rientrava nel seno della famiglia.
—Ebbene? dopo gli affettuosi abbracci che si dettero, or ti riposerai, dissegli Alfredo.
—Chi sa? aveva risposto laconico il cospiratore.—
Ma lasciamo nella vaga isola i nostri più cari personaggi e riconduciamo in Europa i lettori e precisamente in Livorno; mutata così nel fabbricato, dirò quasi anche nel costume del ceto più alto, ma la stessa nei bisogni e nella ignoranza del popolo, il quale fa come dicesi del mondo, cioè peggiorando invecchia.
«Ma questi salti, dirà qualche leggitore o leggitrice, sono un poco grossi.» Al che io rispondo: faccio la parte del narratore, e lasciatemi la facoltà di narrare a mio modo; d'altronde un romanzo non è un libro di annali, ed anzi dovete consolarvi se mi studio ad esser meno lungo e se più presto vi levo l'incomodo di starmi ad udire; ed essendo poi il libro più breve, costerà meno, ed ecco contentati anco gli avari: gli avari! e voi sapete che questa è una pianta umana che non cessa di vegetare molto propiziamente in tutte le parti del globo.
D'altronde che avrei a dirvi d'interessante, quando la vita dei nostri personaggi in questi anni andò là là secondo il solito, secondo il comune andamento delle cose umane? E meglio al certo, quando sarà suo tempo, mostrarveli di nuovo sulla scena turbinosa del mondo.
«Or via dunque affrettatevi.»
Calma, calma, lettori carissimi, chè saprete tuttociò che è giusto sappiate; ma se io ho saltato a piè pari circa un decimo di secolo, non voglio peraltro abbozzare il mio racconto, poichè alla fine dei conti ho interesse anch'io che il libro vada meglio che può al suo termine. Non crediate già per paura delle critiche: perchè sappiate che ho sempre creduto doversi dire di loro ciò che dice il volgo della nebbia, cioè che lasciano il tempo che trovano; ma perchè mi è grato sodisfare alla mia coscienza col fare il libro tal quale mi son proposto di farlo. Ma andiamo avanti, chè la disgressione è terminata. Siamo al settembre del 1847.
Noi ricorderemo certamente che fino da ventisei anni prima, in quella famosa osteria dei Tre Mori, disparsa adesso dal numero delle bettole, nella serata dell'improvvisa comparsa del Caprone stavano insieme due giovani, uno dei quali noto per il nome di Bruto, l'altro per quello di Catone, e che altri individui di animo cogitabondo e di fama dubbia si assidevano al medesimo desco. Or bene di quei personaggi non erano morti che il Topo e il Cacanastri, come già vedemmo, ed il Narciso, a cui il chólera troncò la vita piena d'imbrogli e di lenocinii. Gli altri restavano e vivevano sani e gagliardi sebbene invecchiati; in specie il vecchio oste e sua moglie, i quali dal ricettare robe rubate erano divenuti negozianti, possedevano un bello stabile nella piazza del luogo pio ed avevano maritato Concetta al giovane marinaro, il quale aveva avuto anch'esso non poca fortuna e, fatto uomo adulto, era divenuto proprietario di vari bastimenti che carichi di merci ed in specie di grano veleggiavano per il Mediterraneo.
Vero è però che i nostri personaggi non avevano sempre goduta la prosperità: infatti più volte erano stati qualche mese in prigione per sospetto di furti, avevano avuto delle bastonate per altre turpitudini; ma ciò non impediva che marciassero adesso in vesti assai ricche, con catena d'oro agli orologi, avessero carrozza e servitori, ed anzi servitori in livrea, e già già aspirassero alla nobiltà. Ciò non faccia meraviglia: sulle mani callose e nere continuamente tenendo dei soprafini guanti di seta e di pelle canarina, non si vedevano i calli di esse; il parrucchiere acconciando ai signori capitano di marina e negoziante le fedine ed i baffi, dando pomate odorose ai capelli e pettinando elegantemente la signora Concetta e le sue figlie (nulla importa se nate prima del matrimonio), ne era avvenuto che sparisse da quei personaggi ogni puzza di catrame e di unto. E poi chi in quella florida e commerciante città bada all'origine degli abitanti suoi? se marcia in carrozza il rivenditore di stoccofissi e di carbone? se i bettolieri hanno palazzi, ville e fattorie ove più loro piaccia? Se antichi ed onesti commercianti hanno battuta la capata, peggio per loro, il mondo bada al presente. Il danaro fa tutto, sono i denari che fanno l'uomo, dice il proverbio: Chi ha è, chi non ha non è, e quel che è più chi ha danari è ancora sapiente; vedi mo' che razza di prodigi fa l'oro coniato!!! Dunque, come io vi diceva, la signora Concetta, ora madama Concetta, ed il suo signor consorte (a cui i commessi della casa di commercio da lui stabilita a Malta si levano tanto di cappello) danno feste di ballo splendidissime, hanno lacchè gallonati, nessuno si vergogna a praticarli, sono ammessi nelle migliori società. Ed in questo la popolazione di Livorno ha progredito come le nuove case; ciò che prima era una soffitta lurida e cimiciosa è divenuto un palagio a cinque piani con colonnati, con finestre gotiche ed altro e che si vede da dieci miglia lontano; ed i cenciosi di un dì oggi camminano cogli staffieri accanto. In tanto progresso Bruto e Catone non sono stati indietro; entrambi, per opinioni sporcate le carceri nei decorsi anni, ne sortirono alla pulita, si fecero avventori e clienti, e, per bacco! non sono più quei discolacci di anni ed anni indietro; sanno fare le cose con destrezza; tengono in mano le fila di una gran tela e, quel che è più, si sono accaparrati il genio e la volontà della moltitudine, della quale a suo tempo sapranno giovarsi, e lo vedremo. Ad essi la prosperità si para davanti come una umilissima serva che spazza ben bene la camera al suo padrone. Costoro se la ridono di quella dabbenaggine della moltitudine che gl'incensa e dalla quale, sotto lo specioso titolo di libertà, si propongono di levare le penne maestre, e già si beano di quell'alto loco ove la loro ambizione è per guidarli.
In mezzo ai voli della cupida fantasia, essi hanno qualche volta rammentato con dileggio quel buon baggiano del cospiratore Giovanni, che faceva per gli altri e non per sè, e sghignazzando gli hanno accordato titoli i più bizzarri che ei non seppe mai.
Mi scordava di dire che il signor Bruto è il favorito bracciere di madama Concetta; ed è una gioia il vedere la damina, un dì bettoliera, oggi in un superbo legno a quattro ruote ed a due bei cavalli inglesi, con servi e cocchiere in serpa e cacciatore dietro, due o tre pellicce o cappotte, due o tre canini pomeri seco sdraiati sui cuscini di raso del phaeton, dare le occhiatine al ganzo che galoppa al fianco del legno su cavallo arabo riccamente bardato.
Il gabinetto di studi di Bruto era affollato di ogni genere di clienti, ed i commessi avevano un bel fare a tenerli indietro tutti; e poi tutti volevano vedere l'oracolo del giorno, gran cosa è il tempo! tutte queste che son cose da fare maraviglia, non lo sono tanto quanto la meraviglia, delle maraviglie, cioè, non s'indovina alle cento, il signor Basilio….
«Ebbene su….»
Sì, lettori carissimi, il signor Basilio, quell'uomo tutto collo torto, era diventato un gran liberale, eh! un liberalone, e di quei più grossi, amati leggitori! Non più stavasi romito giù nella solita via: ma, affittata quella casetta dopo averla comperata, aveva acquistato una vaga palazzetta proprio fuori del Casone, nel luogo il più di chiasso e di brio, ove, circondato da scelta società, dava serate di musica e di ballo; insomma era un vecchio alla moda: ma che vecchio? pareva un giovanetto sui venticinque anni, con capelli nerissimi, baffi neri.
«Anche i baffi?»
Anche i baffi, e di più aveva cessato di essere avaro, eh! Dio guardi! il denaro, dalle sue mani usciva a pugni: aveva proprio la palma traforata, e non figuratevi già che largheggiasse a paoli e testoni, erano francesconi, erano doppie d'oro di buona zecca. Ora sento che mi domanderete: «Ma come spender tanto? è vero ch'era ricco, sappiamo come gli ha fatti, e si saranno moltiplicati e decuplati, un uomo come lui, ma….» Eh! che volete? rispondo, avrà trovato una qualche cava d'oro bello e coniato; o che? credete che di queste cave non ve ne siano? ve ne sono, eh! ve ne sono delle inesauribili.
Ma se lo aveste sentito sputare di politica nel salone del bigliardo della sua villa! nella platea del teatro Rossini! al casino di San Marco! eh! avreste strabiliato; e, quel che è meglio, i suoi sproloqui, per dir come dice il volgo, non li faceva mica nelle brigate degli amici o in qualche ritirata conversazione. Eh! il signor Basilio non aveva paura di nessuno: per lui nel caffè, al teatro, al casino, al veglione, alla bisca, era tutt'uno; parlava alto, sputava sentenze a bizzeffe, censurava leggi e moveva guerre, e che so io?
—Oh che coraggio! dicevano taluni nel sentirlo toccare certi argomenti pericolosi; eppure tutti il salutano, va nelle migliori società!
—Il cielo lo ha sempre protetto, diceva il vecchio tabaccaio che noi già conoscemmo nei precedenti capitoli; e se egli ora parla in tono diverso, è segno che sa di poter parlare. I tempi sono cangiati, ed egli, che conosce come adesso possa mostrarsi, si mostra: quando era tempo di starsene zitto, pareva un pesce. Il galantuomo fa così.—
Il mio lettore ed io conosciamo perfettamente il galantomismo del signor Basilio; e siccome ci dispiace staccarci così presto da lui, vogliamo passare a seguirlo nella sala da giuoco della signora Concetta, ove è raccolto il fiore e la crema della società livornese: e perchè qualcheduno potrebbe dubitare che nel dir crema e fiore io esagerassi, lo prego di ascoltar meco ciò che il vecchio oste dei Tre Mori, uno dei signori della società, dice ad un giovane francese che venne come forestiero invitato alla festa, il quale passa in rivista alcune delle signore ed alcuni dei signori che dalla sala da giuoco vanno in quella del ballo, del buffet e della musica.
—Ebbene, signore, chi è quella damina coll'abito di raso celeste guarnito di fiori bianchi, col ventaglio color fuoco?
—Ah! ah! monsieur (il vecchio oste dei Tre Mori divenuto paladino aveva imparato a memoria qualche parola francese) cette dame, cioè la signora, è consorte del barone Pradky, un signore polacco che hanno fatto barone da poco in qua, e badate bene polacco proprio di Polonia, che ha centomila scudi di rendita e riceve tutte le balle del cotone, di seta, e che so io, le quali si vendono in Europa! Vedete, è quello appunto che ride colla figlia del signore Armary; e questo Armary è un sensale che, dopo aver fatto quattrini, ha aggiunto un ipsilon al suo casato.
—E quell'altra dama grassa e piuttosto bassa che tiene in capo una specie di turbante di velo ed è a sinistra di quel cavaliere da tre decorazioni?
—Ah! quella è la baronessa Muleynà; è una signora tartara (per quanto credo) che spende tesori ed è amica di un giovane maestro di musica, il quale, di spiantato che era, un giorno sarà cavaliere, se pure non l'hanno già fatto.
—Cavaliere del merito di qualche…?
—Sicuramente; e vi par poco merito l'aver saputo incantare un pezzo di donna di quella fatta? Per bacco! altro che scriver note ed assordare le orecchie dei galantuomini coi crescendo delle sinfonie a piena orchestra!—
Il giovane francese, dopo qualche tempo e dopo avere passeggiato alcun poco col signor De-Raudy (cognome novello del già oste dei Tre Mori), si fermò nella maggior sala tutta contornata di specchi che riflettevano le cento eleganti persone di ambo i sessi ivi adunate, e non fu avaro en passant di francesi sdolcinature a madama Concetta, la quale più non puzzava di brodo di dentice, ma, esalando mille preziosi profumi, stava ricevendo gli omaggi del forestiere e rispondendo nel di lui idioma, giacchè in vent'anni era riuscito passabilmente ad un povero maestro di lingua di cacciarle nella testa quell'idioma del bon ton, in quella guisa con cui un ammaestratore di pappagalli sa far dotto un perrocchetto di America. La signora Concetta, che nelle ricchezze e nella vita dell'alta società aveva sotto le vesti terribili stecche delle moderne fascette, mercè quel cilizio, invece di una donna di quarantacinque anni aveva l'aria d'una di trenta tutto al più; ma mentre in fatto di sapienza non aveva, per dire il vero, fatto grande profitto, aveva però superato molte e molte dame galantissime in quelle loro indispensabili smorfie; e credo che ben poche contesse, baronesse, marchesine avrebbero potuto starle a confronto in quelle scipite leziosaggini e svenevolezze nell'aria di spensierataggine e di astrazione, ne' gesti così sguaiati da muover la bile al buon senso, se pure il buon senso frequenta i luoghi ove si compiacciono trovarsi tali persone.
—Comment vous amusez-vous?
—Oh! infinitamente, mia bella dama, riprese il Francese baciandole la mano coperta dal guanto e rispondendole in pretto italiano. Ma madama Concetta, che voleva fare spiccare la metamorfosi da cuoca in damina:
—Parlons français, s'il vous plait. C'est la langue de la mode.
—Parla parla livornese le susurrò passandole vicino l'ex-oste dei Tre
Mori.—
Ma la Concetta s'assise mollemente sopra un sofà chermisi, sbadatamente sdraiandosi e battendosi il ventaglio sulla mano sinistra e trascurando l'avvertenza del padre.
—On m'a dit que vous avez à la corvette bien de jolies dames; et pourquoi ne les amener avec vous? je serais été bien aise de les entretenir chez moi.
—Ah ma belle dame! nous avons à la corvette quelques dames et des demoiselles, que à la verité ne sont pas sans grâces, mais, bon Dieu! quelle difference entre elles et vous!
—Vous badinez; je ne suis pas charmante et je me persuade bien que ma soirée serait été bien plus passable si cettes dames eussent voulu l'honorer.
—Cela était impossible.
—Et pourquoi?
—Il faut savoir que le deux plus âgés sont les femmes de deux officiers anglais, et tout a fait inabimées dans (comme on dit) leur spleen.
—N'en parlons plus donc; j'haïs toute sorte de melancolie: mais pourquoi vous ne dansez pas?
—Puis-je avoir l'honneur de vous guider a la galope?
—Je ne puis me refuser, quoique assez fatiguée.
—On joue la polka.
—-Eh bien, tant mieux! la polka est plus charmante; je viens de danser avec monsieur le baron Jolaky, le marquis Bell'Isle, lord….—
Per buona fortuna dei lettori la elegante damina ex-cuoca, avendo veduto dentro uno specchio la figura terribile di Bruto dare uno sguardo truce al francesino, non seguitò l'elenco lunghissimo dei signori che avevanla guidata al ballo, e lasciò di numerare le dame alle quali avrebbe potuto esso signor francese offrire il braccio per la danza, poichè altrimenti non basterebbe questo capitolo a numerarle; ed infatti quella scelta società di musica e ballo detta in termini di moda soirée dansante (che sarebbe ridicolezza se dovesse tradursi serata che balla) erano quasi tutte le famiglie forestiere ed indigene comprese quelle degli ex-salumai, ex-carbonai, ex-muratori, ex-sarti, ex-barcaiuoli, e direi quasi ex-ladri se taluno degli insignoriti avesse certamente cessato dall'aver le mani piuttosto lunghe.
Madama Concetta ed il signor francese si erano avviati verso la sala ove ballavasi la polka; e nel salotto che la precedeva beveva tranquillamente il thè il signor Bruto, cui facevano cerchio gli amatori delle novità di ogni genere, fra cui il signor Basilio, vecchio ganimede coi capelli neri e i baffi morati: ambedue parlavano di affari molto interessanti. Il signor Basilio affondava molto spesso il pollice e l'indice ora nella tabacchiera, dorata di Bruto, ora in quella del padre della padrona di casa ex-oste dei Tre Mori, che era tutta d'oro tempestata di brillanti e di perle, ed alcune volte nella propria, la quale era tutta di conchiglie, guarnita di oro e cesellata di squisito estranio lavoro. Presso Bruto mi scordava dirvi che stava sempre col suo solito sogghigno beffardo il suo compagno Catone.
—Caro Bruto, disse Basilio, le cose nostre vanno molto bene; ah! certamente la città nostra….
—Si danno casi…. certi casi in cui…. rispose colui.
—Che casi? che casi?… soggiunse Basilio, già voi mi foste sempre uno scettico indiavolato; non credete a niente.
—La storia degli uomini mi fa conoscere l'uomo.
—Affè ch'io perdo la pazienza, riprese Basilio; con quella freddezza che mostrate, avete un bel diritto alle comune ammirazione dei vostri concittadini! caro mio, le nazioni hanno fatto progressi da gigante; che giogo, che giogo? il giogo l'hanno a mettere ai bovi, e gli uomini, affè di Bacco! non son bovi. Ah! ah! il tempo è venuto; per me lo dico e lo sostengo: via via quelle brutte angherie dei tempi passati, viva il progresso, per Bacco!—
Catone pareva che prendesse tutta la sodisfazione a ghignare sotto i baffi con un pro' da far gola, pareva che non avesse mai riso a questo mondo e che si volesse sfogar tutto allora. Bruto aveva preso un'aria di noncuranza e di astrazione: per lo che il signor Basilio, che continuava a discorrere alto di faccende pubbliche, di speranze e di liberazioni, di franchigie, di popolo, ecc., fu costretto ad indirizzare il discorso al vecchio della barba bianca, il signor ex-oste dei Tre Mori, al quale a prima giunta disse:
—Eh! eh! quell'astro novello lassù….
Il vecchio si fece a guardare verso il cielo che scorgeva da una vicina finestra; e siccome il cielo era nubiloso ed oscuro, soggiunse:
—Ah! per me non ne vedo nè nuovi nè vecchi.
—Ma che dunque? non m'intendete?…
—Io no.
—L'astro rigeneratore…. che adesso è comparso a sicura guida nella via del progresso e della verità, non lo esaltate voi?
—Ah! ah! ora intendo…. riprese il vecchio che, sebbene rozzo oste, aveva capito che il signor Basilio aveva toccato qualchecosa di serio. Ah! ora intendo: cioè non intendo altro se non che voi siete un bravo merlo.—
Il signor Basilio si morse le labbra e mutò discorso; Bruto se le morse pur lui, per non dare in uno scroscio di risa,
—La polka, la polka! urlavano le coppie del salone da ballo.
—Evviva la polka e la mazurka!—
La corvetta.
La corvetta francese la Vengeance, di cui abbiamo sentito parlare nel dialogo fra madama Concetta e il damerino, aveva nel giorno dopo la soirée salpato improvvisamente per Genova. Facilmente se ne indovinerà la causa, dicendo che su quel naviglio si trovavano Giovanni ex-governatore pensionato della Barbada, Alfredo e le rispettive mogli e famiglie.
L'antico cospiratore Giovanni non aveva potuto resistere alla tentazione di ritornare a pescare, come suol dirsi, nel torbo: le grandi mutazioni suscitatesi nella vecchia Europa al comparire di colui che il signor Basilio e molti chiamavano astro novello avevano scosso Giovanni. La Guglielmi, il buon Gonsalvo, Iago erano scesi nel sepolcro. Chi mai poteva trattenere quello spirito bollente? Egli aveva figli adulti, credeva più che mai possibile conseguire il da lui vagheggiato momento. Ventisette anni di lunga aspettativa non ne avevano calmato il desiderio nè dileguate le fallaci speranze. Credeva (il buon uomo!) nella virtù del popolo. Aveva deciso partire. Prima di porre il piede sul naviglio che solcar doveva l'Atlantico ebbe luogo fra lui e la moglie un breve dialogo di tale importanza che non possiamo tralasciare di trascriverlo.
—Le familiari dolcezze, i miei pianti, le mie preghiere, le carezze dei nostri figli, quelle di Esmeralda, di Angiolina te dunque non tratterranno giammai? gli aveva detto Rosina.
—No.
—E non pago di slanciarti a sangue freddo nel pericolo, corri a precipitarvi te e la innocente famiglia? noi periremo tutti.
—Rosina! questi funesti augurii non fare per pietà…. Ah! se tu sapessi…. io ho un voto da sciogliere; nulla al mondo saprebbe arrestarmi: prima d'ogni affetto vi è quello della patria.
—Lo so. Ma che mai speri tu? non vedi come gli anni ci ammaestrano sulla fallacia delle tue giovanili speranze? omai i tuoi capelli, già biondi, incanutiscono, la tua fronte s'increspa delle rughe della età matura; credi tu che questa vedrà coronati i tuoi desiderii?
—Sì, lo credo e fermamente lo credo: oggi una spada dal cielo benedetta si snudò sulla Dora; io mi beerò a quel lampo e per la prima volta abbraccerò mio fratello.
—Chi mai? proruppe Rosina: sarebbe forse giunta l'ora in cui mi svelerai il tuo segreto?
—Rosina, ascoltami: tu ne sei degna, il momento arrivò; giurami però custodire il grande arcano.
—Lo giuro per la vita dei nostri cari figli e pel nostro amore.
—Ebbene, proseguì Giovanni tergendosi una lacrima, sappilo: io non sono che figlio per adozione dei coniugi Artini; il loro vero figlio morì nelle fasce.
—Gran Dio!!!
—Ecco le carte che padre Gonsalvo mi consegnò pochi istanti pria di morire; leggi e dimmi se io posso trattenermi.—
Così dicendo porse alla moglie un piccolo portafogli di marocchino nero con fermagli d'argento, sul quale una placca dello stesso metallo che portava incisa un'arme o stemma di principesca famiglia colla fascia blasonica indicante rampollo bastardo.
—Cielo! esclamò Rosina coprendosi la faccia con ambe le mani, tu illegittima prole?
—Io sono il figlio naturale di….—Ma non proseguì, e solo abbracciò la moglie prossima a svenire e la coprì di baci.
—Dio eterno! tu sì grande? disse Rosina con un misto di gioia ed affanno leggendo le carte ricevute.
—Grande? riprese Giovanni? non lo sarò che compiuto il mio voto; ora sdegno ogni altra grandezza.—
I coniugi si presero per mano e s'avviarono alla corvetta pronta a lasciare le Antille.
I nostri personaggi tragittarono felicemente l'Atlantico ed il Mediterraneo, giungendo alla rada di Livorno. Alfredo e Giovanni discesero a terra nel giorno che precedè la sera del festino dell'ex-cuoca signora Concetta; travisati in abiti marinareschi si erano recati a terra e, percorrendo le bettole ed osterie più triviali, raccolsero a larga mano quelle notizie che più desideravano.
In fondo alla via San Giovanni, ridotta in tutt'altro aspetto da quello che era ventisei anni prima, nell'osteria delle Stelle, alla bettola della Coroncina, al giardino degli antichi acquedotti, insomma in tutti quei luoghi in cui più frequentemente solevano radunarsi i caporioni della plebe, i nostri personaggi sentirono presso a poco gli appresso discorsi.
—Oh! dev'esser pure la bella cuccagna, compare!
—Affè de mio, lo credo! è tanto tempo che si lavora e non si mangia; deve venire il tempo in cui si deve mangiare senza lavorare.
—E come fare?
—Caspita! e non l'hai sentito il signor Bruto? per la barba di Maometto! costui la sa più lunga di quanti sapienti sono al mondo tanto di legge che di medicina, che di grammatica.
—Ebbene?
—Diceva che, quando nacque il primo uomo, cioè dopochè il primo uomo fu fatto, e fu il nostro primo padre Adamo, non ci eran quaini; e questi quaini* son venuti dopo. Era meglio che non fossero venuti mai; questi quaini son di tutti, e pelciòe** non ci hanno a essere più nè poveri nè più ricchi, e si ha da campare proprio in cuccagna, e tutti si ha da sta' senza fa' niente.
* Danari, in vernacolo livornese. ** Per ciò.
—Oh questa è bella! e la roba chi la fa? e il grano chi lo raccoglie? e il vino chi lo leva dal tino?
—Ah! bel mi' omo, il Bruto ci ha pensato; tutti quelli che devono travagliare ci hanno da essere, ma la roba dev'esser tutta spartita.
—Dunque tutti lavoreranno?
—Sicuro; ma lavorare così per ispasso, non perchè uno lavori e l'altro intaschi: ci saranno cioè i vinai, i facchini, gli operai, ci s'intende; ma di tutto il guadagno si ha a fare un cacciucco*, e ognuno deve avere la sua parte.
* Miscuglio.
—Eh! mi piace, ma che riesca! qui vuol essere il busillis, dice il latino: per esempio a mo' di di', que' signori che vanno nelle belle carrozze…. chi ha fatto fortuna vorrà poi piegare il collo al lavoro?
—Oh! questo è quello appunto che vuol far seguire questo signor Bruto; vedi, per esempio, quando arriva il punto, tutti gli amici della conia*, cioè no' altri, dovremo star pronti e lasciarci regola', e quando ci diranno piglia su, e no' altri allora su come i cani da presa.
* Buon umore.
—Su? e contro chi?
—Contro i ricchi. Intanto ha detto quel galantuomo di Bruto che a far nascer l'occasione ci pensa lui con quelli che hanno istudiato; insomma le cose le avremo di riffa*.
* Prepotentemente.
—Ma seguiranno delle guerre da diavoli.
—Gua' e' seguiranno sicuro; ma almeno quelli che camperanno staranno bene.
—Ci credo poco.
—Senti, diceva quell'omone; è venuto, non mi ricordo di dove, il perdono per quelli che erano, m'intendi?… capi matti qua e là per il mondo. E questo perdono si dice che sarà per tutti: dunque presto verranno quaggiù quelle barbe che erano ite via a busca'* per il mondo; quando saranno venuti, dice Bruto che tutti vorranno delle franchigie.
* Far fortuna.
—E che sono le franchigie?
—Non lo so neppur io, ma non m'importa: queste franchigie verranno concesse perchè sulle prime saranno poche; ma poi dopo la prima dell'altre, e dell'altre, e se alla fine quelli che comandano non vorranno dar più: su piglia, to': to', piglia su; e il tempo di comandare per noi sarà venuto.
—Ci ho gusto; ma dimmi: di queste franchigie ne abbiamo avuto altre volte?
—No; ma presto verranno.
—Corpo di una fregata da cinquanta! ci ho gusto davvero; allora si potrà rubare senza paura d'andare in prigione.
—Sicuro, perchè a rubare il nostro non è peccato ed è una prepotenza a gastigarci; di fatti quelle robe che hanno i signori non son nostre? dunque sono loro che ce l'hanno rubate, e noi ce le ripigliamo, e si fa patta*.
* Pari.
—Viva la faccia di Bruto, che ci vuol tanto bene!
—Mi era scordato di dirti una cosa: poi tutti no' altri si deve procurare degli amici della conia e dirlo chi a' parenti, chi a' figliuoli; sicchè tutti a Livorno quanta vi è gente che s'industria sia proprio al chiaro dei fatti nostri.
—Non dubitare che quanto a me farò come le trombe della comunità.
—Ih! adagio: queste cose si hanno a di' alle persone di conoscenza e per bene; perchè se trovassimo delle spie, addio mi mengoi*, la faccenda anderebbe a traverso.
* I miei quattrini.
—Ho capito; ma dimmi fra le franchigie non si potrebbe domandare: abbasso le spie?
—Le spie? quelle le butteremo abbasso noi quando sarà tempo, e averemo a far tanta salsiccia di quella ciccia di porco.
—Bravissimo!—
I due interlocutori si separarono dopo aver bevuto un intero fiasco di vino di Frontignano.
Giovanni ed Alfredo di ritorno alla corvetta erano mesti e malinconici. I colloqui che avevano sentito lor laceravano l'anima e toglievano un gran velo dalla loro mente. Quando furono soli, Giovanni, tratto un sospiro, sclamò:
—O Alfredo! sarebbe mai possibile che del più santo dei nomi volessero farsi schermo e tradire migliaia d'uomini, Alfredo….? questa plebe sarebbe mai indegna di esser salvata? ma no; sebbene questo giorno noi abbiamo udito dire bestemmie intorno al più santo dei desiderii, io preferisco star nell'errore anzichè conoscere una terribile verità.
—Giovanni, riprese Alfredo mestamente, gli scaltri hanno sempre abusato dei semplici; oggi non vi ha dubbio le masse sono ingannate più che nol fosser mai, ma che perciò? ti arresteresti forse dall'oprare ora che tutte le circostanze favoriscono la nostra impresa? dopochè invano vi abbiamo tenuto dietro tanti e tanti anni, dopochè abbiamo sfidato i rischi più tremendi? dimmi, ti par egli che sia stata vita la nostra? Oh! no…. abbiamo bevuto aure di un altro cielo, brezza di un altro mare, noi abbiamo vegetato in suolo straniero, vissuto…. E ora che incominceremmo a vivere, d'ora innanzi che….
—Ma e se, lungi dall'ottenere quel trionfo del bene, noi dovessimo poi vederlo precipitato in un più terribile abisso, dimmi: che resterebbe a noi se non un rimorso avvelenativo ed infernale?
—Giovanni, e di che temi? ti scoraggia sentir qua e là quei discorsi che testè udimmo? dubiti forse che il popolo si arretri?
—Questo non temo; temo di peggio…. l'anarchia!
—Ah! ah! se un momento…. e poi nelle grandi commozioni qualche cosa bisogna condonare: dopo il disordine vien l'ordine, così è sempre andato il mondo. Ma che? pretenderesti che così di un salto il popolo acquistasse saggezza?
—Non sono esigente, ma laggiù nella patria non mia, soldato non per il mio paese, portando nel cuore un tarlo divoratore, non ho cessato di pensare (o amici o fratelli) al bene degli uomini. Quest'idea fissa mi ha portato ad odiare i prepotenti, ed in mezzo agli onori li ho sprezzati nel fondo dell'anima, li ho anche ambiti, dirò, per farmene sgabello al mio scopo; ma, abbandonando le utopie di qualunque setta, ho voluto agir solo per mio impulso, non per obbligo; e così farò: ma se non m'inganno, è venuto il tempo di molte novità e di grandi scoperte…. Giovanni vestito da marinaro seguirà a spiare le idee del popolo qui e altrove.
—E poi?
—E poi io qui morrò sul terreno dei padri miei quando fia duopo e anche in breve; o per sempre dicendo un addio ad una colpevole Gerosolima, io mi addentrerò nelle foreste siccome fece il Battista.—
I due amici terminarono questo colloquio che avevan tenuto lunghesso la via finchè fu scevra di gente; quindi, ripigliando in silenzio la via del molo, si ricondussero al battello che doveva riportarli a bordo.
Da Genova i nostri entusiasti toccarono il Piemonte. Giovanni condusse la moglie, i figli e gli altri parenti alla capanna dove aveva passato gli anni infantili; indi, essendo scoppiata la guerra lombarda, padre e figli vestirono la divisa di volontario milite, lasciando le donne a Torino a pregare e raccorre oblazioni per la guerra sospirata. Se non ci proponessimo far tema di altro nostro romanzo le gesta di quella grande campagna, daremmo qui ragguaglio delle prodezze dei nostri amici; ma avvegnachè troppo angusto loco lor toccherebbe in questo racconto, esso ripiglia il filo nel marzo del 1849.
La medesima corvetta la Vengeance, coi nostri medesimi personaggi, che in nulla eran mutati, tranne l'aver tutti gli uomini decorazioni militari e Giovanni una mano di meno, perchè di due una gli era rimasta sul campo di battaglia, aveva di nuovo dato fondo nel molo di Livorno. La corvetta era bella e comoda, e per i passeggeri di qualità aveva splendidi appartamenti. Mentre i figli di Rosina e di Esmeralda trovavansi sul ponte a prender parte agli esercizi militari che avevano luogo nell'assenza di Giovanni e di Alfredo discesi travestiti come due anni prima in città, le due donne unite ad Angiolina ed alla figlia di Giovanni stavansi sedute in un elegante salotto. Sui volti delle donne era impressa quella profonda malinconia che aveva in proposito fatto dire al damerino francese, due anni avanti, alla signora Concetta che esse erano inabissate nella tristezza; ma più di tutte Angiolina, che sappiamo essere di abituale mestizia. La fanciulla figlia di Rosina, intenta a ricamare un fazzoletto di tela batista, non prendeva parte al colloquio segreto che aveva luogo fra le donne.
—I nostri mariti sono sempre più acciecati dal loro tenebroso proposito, prese a dire per la prima Rosina.
—Ah! pur troppo! rispose sospirando Esmeralda; quando un'idea si è fitta nel capo di un uomo, è difficile rimuoverla.
—Ahimè! soggiunse Rosina, invano ho sperato che i pubblici uffizi in altra parte di mondo sostenuti dal mio Giovanni, potessero fargli dimenticare quella bollente idea della sua prima gioventù; ahimè! e quando mi credeva che l'età, l'avvenire dei cresciuti figli dovesse dar l'ultimo crollo a quella sua ostinazione, le novità prodigiose che hanno avuto luogo in Italia da circa tre anni a questa parte hanno converso in fiamma quelle faville che io credeva spente e che covavano sotto la cenere.
—Eh! tu, mia cara, avevi sperato nella conversione del tuo sposo, io poi non ho mai sperato in quella del mio; vi sono certi caratteri che io chiamerò ferrei, in cui il tempo stesso non produce alterazione veruna. Ma finalmente non vi è ragione di allarmarsi; essi sono venuti quaggiù: non come facenti parte di qualche segreta società. Tu sai, ed in questo la divina provvidenza ci ha esaudite, tu sai che i nostri sposi sonosi da alcun tempo sciolti da quei pericolosi vincoli, e questo accennerebbe ad un principio di conversione; ma ritornando al primo filo del mio discorso, dirò che nulla abbiamo a temere: i nostri sposi seguiranno la corrente, e parmi, a ciò che sento e leggo sui giornali, che quella prosperità nazionale cui essi diressero sempre i voti del loro cuore vada, come suol dirsi, da sè: se mai i nostri uomini intendono di dar la spinta onde si acceleri, su ciò non vi è periglio; lasciamoli fare, ottenuto il loro intento, quelle anime focose si acquieteranno.
—Ma chi sa se tutto anderà bene? Vedi, mia cara Esmeralda, tempi addietro noi abbiamo temuto per i nostri mariti, ora ci sarebbe da temere per essi e per i nostri figli; ah! questo è proprio un mondo di lacrime.
—Lacrime! (quest'ultima parola scosse Angiolina da una specie di profonda apatìa nella quale era caduta) lacrime! pronunziò, ah! mie care, il cuore mi dice che queste saranno in breve finite per voi.
—Per noi sole? ripresero insieme le donne. E per te?
—Ah! per me è forse venuto il tempo del loro apogeo.
—Che dici mai?
—O mie care, da lungo tempo questa mia sensibilità che dalla nascita mi consuma si è resa così intensa che, ruminando la fralezza del nostro impasto, mi fa quasi essere spirito nudo quaggiù; spirito veggente, mi sembra che il futuro perda la sua nebbia innanzi allo sguardo acuto che vi caccia l'imaginazione; sì, mie care, soggiunse con un sorriso d'indefinibile dolcezza malinconica, sì, io sono una veggente, io sento una certezza di non ingannarmi. Adagio adagio, il fuoco animatore di noi miseri mortali divora il suo involucro e si avvia per l'eternità; ai miei occhi il mondo sparisce a grandi tratti, e mi par di essere qualche cosa di più che mortale.—
Nelle parole della languente Angiolina vi era tanto sentimento, tanta nobiltà, tanta sicurezza che le due amiche, sebbene avvezze a vederla da gran tempo versare in un genere di vita contemplativa, ne furono scosse ed abbrividirono, pur non osando dimandare che continuasse nel suo dire e pur desiderando che lo facesse. Angiolina, dopo lunga pausa, tratto un cocente sospiro dal seno, continuò con tono da estatica:
—Il leone furente vuol rompere i suoi lacci e li rompe; eccolo rugge per le campagne, scuote la rabbuffata criniera; tutto par che pieghi davanti all'ira sua, ma dall'alto scende un genio terribile che lo rincalza nel suo serraglio. Che è ciò? Egli aveva preso una storta via, non quella che doveva renderlo alla libertà delle foreste. È perchè due maligni genii se li erano cacciati ai fianchi fino dal momento in cui per bugiarda pietà gli avevano aperto la gabbia ferrata. Essi non volevano farne il dominatore dei boschi, volevano farne un cacciatore che arrecasse copiosa preda alle loro dimore. Genii malefici e mentitori! Genii malefici e mentitori, che si morderanno le labbra per la fallita impresa, che si copriranno di vermi della invidia nel precipitare nell'abisso della universale maledizione; intantochè inutilmente saranno corsi rivi di sangue. Le sciagure saranno piombate sull'umanità come le nevi sui gioghi dell'alpi.
Una spaventosa bufera avrà atterrato i semi delle generazioni, nè i virgulti nè le vecchie piante avranno potuto resisterle. O genti traviate, pentitevi! già si avvicina la terribile procella dell'ira di Dio.
Essi erano nel peccato e speravano nella salvezza; stolti ed iniqui! guida forse il peccato alla grazia?—
Angiolina ristette un poco in silenzio, quando con passione e completamente inspirata esclamò:
—Le classi!… le classi!… Oh quanto più sublime sarebbe l'uomo nella civiltà se non obliasse ciò che fu l'uomo in natura! L'eguaglianza è impossibile! la fratellanza può solo felicitare l'umanità; mutuo soccorso, mutua affezione, ma i figli di Sem comanderanno ai figli di Caino; è la conseguenza del primo anatema; d'altronde il peccato fu commesso qui in questo mondo e qui deve espiarsi. Di là, di là…. lo spirito è spirito; i colpevoli sono rigenerati dal sangue del giusto; la gioia è l'eternità, l'eternità è la gioia, l'uguaglianza è in cielo.
È scritto; Beati quelli che piangono; essi saranno consolati; e la consolazione è lassù oltre l'umana miseria. La lotta tra le creature è il retaggio delle prime colpe. Il fratello uccise il fratello per invidia; e sarà così fino alla consumazione dei secoli.
Caino!! Abele!! sono le due classi, il ricco ed il povero: l'uno armato di clava, l'altro soccombente. Caino invidioso del profumo che dall'olocausto d'Abele salì al trono dall'Eterno. E quel profumo è la pace del cuore che umana perfidia non può togliere a chi ama Iddio, geme, soffre, non si lamenta e spera.—
Angiolina, perdurante il suo soliloquio, aveva gli occhi fissi al cielo, immobili e vitrei come quelli del cieco: se non che pareva da quelli si partisse una fiamma che incontrandosi nei raggi del sole s'immedesimasse in loro e formasse un raggio di luce continuo che da quella pupilla salisse all'astro maggiore, col quale andava a congiungersi; le due donne e la tenera Ofelia parevano penetrarsi del magico influsso della presenza di quell'infelice e sublime donzella.
Lo straordinario eccitamento aveva, collo sviluppo immenso delle forze morali, sostenuto le forze fisiche della fanciulla; il suo volto, per abitudine pallidissimo, si era coperto di un rosso acceso; dalla di lei fronte gelata cadevano abbondanti gocce di sudore: alla fine ella cadde in una specie di deliquio, e le amorevoli amiche, toltala di peso dal pavimento, la collocarono nella sua cameretta.
Lo stato di morte apparente di Angiolina non si protrasse a lungo; cessato che fu quello, essa si rivolse amorosamente alle due amiche, le quali stavano come in atto di preghiera presso il suo letto.
—Mie care, prese a dire con modo tutto suo proprio incantevole ed oltre ogni dire dolcissimo, mie care, non andrà in lungo questo mio stato che tutti tribola fuorchè me, al quale peraltro la vostra pietà vi ha abituato da lungo tempo: abbiate dunque un poco di sofferenza.
—Ah! crudele Angiolina! è questo il modo di rimproverarci, se mai….
—Zitto zitto, fu sollecita a dire la fanciulla: non volete ch'io parli dei vostri sacrifizi per me? ebbene obbedirò, tacerò, ma sapete voi che dopo questo attacco di nervi che vengo a soffrire io ho fatto un sogno? ma no…. io non dormiva e perciò non poteva sognare; è stata una visione, visione beata che mi rivela un dolcissimo avvenire per voi.
—Dio buono! sclamò Esmeralda singhiozzando, siamo così abituate a ritenerti per una profetessa che tuttociò che dici ci scuote nel più intimo dell'animo e ci fa sperare o disperare; ma ti preghiamo di non parlare così misteriosamente come hai fatto nell'attacco di nervi che hai sofferto.
—Mie care, io allora non parlava a voi, parlava al mondo intero, alla mia patria. Verrà un dì che sarò compresa, quando queste ossa riposeranno nella pace del sepolcro: ma via, non vi contristate, chè io vi narrerò la visione.
—Cara zia, saltò a dire la fanciulla Ofelia, ch'era solita chiamar così per vezzo Angiolina, mamma ha bisogno di confortarsi; dicci dicci della tua visione.
—Ho veduto due giovani combattere sul campo della gloria e tornare ai focolari paterni coperti di onorate ferite per una causa che brillerà come fulgida gemma nella pagina della storia; ho veduto che questi giovani lacrimavano nell'asciugarsi la fronte cospersa di nobile sudore. Questi due giovani, o mie care, erano i vostri due figli.
—Tu presagisci la guerra, disse con emozione vivacissima Rosina.
—Non è d'ora ch'io vedo il mover d'armi e che odo il nitrito dei cavalli ed il calpestio dei fanti; guerra onorata e senza frutto, perchè….
—Perchè? esclamarono tutte le ascoltatrici.
—Perchè le nazioni prima di vincere devono essere purificate al crogiuolo dell'afflizione e scevre di colpa; guai a quei soldati che entrano in campo senza la benedizione del Dio degli eserciti! Ma, come io vi diceva, i vostri figli li ho veduti tornare gloriosi nelle vostre braccia materne.—
Le donne tacevano di un silenzio religioso.
—Ho veduto due uomini, e non voglio nascondervelo, due uomini cari a noi tutte ritornare sul sentiero della ragione, dolersi e pentirsi, non sperare nell'agitazione del mondo, ma sperare nella pace, e da quella argomentarne ai posteri quella felicità che può dare la religione e la virtù cittadina, non per essi ma per i figli loro. Non per loro; perchè è scritto che i figli sconteranno i peccati dei padri, e l'ira del Dio delle vendette arriverà fino alla terza generazione.
—Ahimè! esclamavano le due madri percuotendosi la fronte, ahimè! dunque?…
—No, mie care, questa profezia di dolore non è particolare a voi; è per la nazione che non conosce i suoi delitti e pretende concorrere al premio, ed io le grido: Tre volte guai a te che pretendi il nome di Sionne e non sei che un'empia Babele!—
Angiolina sospirò; quindi, con ambo le mani fregandosi con violenza la fronte, ricomposta la chioma:
—Mi scordava di dirvi che voi tutte sarete felici quanto domestica fortuna permette esserlo…. e in quella domestica pace…. io vi prego…. non vi scordate di me.
—Gran Dio!…
—Preparatevi a lasciarmi; sebbene non sia, come disse il Salvatore, venuta anche l'ora mia, pure essa non è lontana: io ho anche una missione da compiere quaggiù, ed il momento si avvicina; missione di dolore, ma che? il divino Artefice non patì egli per noi…? felice chi può imitarlo!—
Angiolina discese nella camera e, lungi dal sembrare spossata, parve avere acquistato quella energia che possedeva ne' primi suoi anni giovanili; lasciato il tono misterioso e profetico, ella prese parte al doloroso donnesco colloquio che succedette alla concitata scena che abbiamo descritto: nel mezzo alle sue amiche Angiolina era dall'altezza degli spiriti celesti passata alla semplicità della donna nel seno della sua famiglia; si era diffusa in tante nuove tenerezze con Ofelia ed aveva anco baciato in fronte Antonio, Carlo e Selvaggio, quando eran ritornati sotto coverta dopo avere ultimati gli esercizi. Rosina ed Esmeralda si erano racconsolate. Elleno amavano assai starsene con l'Angiolina quando essa era in calma e come ritornata nella sfera donnesca, anzichè vederla nello stato di estasi in cui da qualche tempo cadeva. Il rimanente del giorno che era per terminare lo passarono in reciproche carezze: solo la sera, quando Angiolina fu per ritirarsi nella sua stanza, avendo pregato Antonio di prepararle un completo abito da marinaro ed Ofelia di tagliarle i capelli alla foggia degli uomini, Rosina ed Esmeralda non poterono trattenere una domanda che espressero insieme.
—Angiolina, e perchè mai?
—Zitte, mie care, rispose loro baciandole in fronte, zitte; non tutto…. non tutto può dirvi una veggente.
CAP. XV.—La camera del signor Basilio. Pag. 5
» XVI.—Per viaggio » 23
» XVII.—Alla Barbada » 46
» XVIII.—Lazzeretto » 63
» XIX.—La capanna dello zio Neri » 87
» XX.—L'agonia di un empio » 107
» XXI.—Un astro novello » 128
» XXII.—La corvetta » 146
Le di lui mani stringevano una delle superbe colonne di granito.
Vol. IV, pag. 244.
Romanzo
AUTORE DEI ROMANZI
ASTORRE MANFREDI
e
IL DUCA DI ATENE
MILANO
PRESSO LUIGI CIOFFI EDITORE-LIBRAIO
Via di Chiaravalle, N. 11 rosso.
1862
Proprietà letteraria dell'editore, che intende far valere i propri diritti a norma di legge.
Milano—Ditta Wilmant.
Conferenze.
Tutto il fermento della città di Livorno (che all'epoca in cui arriva il nostro racconto era incontentabile, nè aveva nè volea conoscere misura nelle riforme) era nella bocca, nelle braccia di molti, nel cervello di pochi. Le più famose lancie spezzate del carbonarismo, trasformatosi in altra setta non meno peggiore che quella e micidiale al vero ben essere del mondo, profittando della miseria, della ignoranza di quella popolazione, dirò semplice, senza studi, senza regola di condotta, tentavano il gran colpo di mano per innalzarsi fin dove avrebbe potuto arrivare la loro cupidigia, la effrenata loro voglia di onori, di primeggiare, di dominare. Quella classe che sta fra il popolo ed i magnati, in specie oggidì, è una classe la quale tiene dei bisogni, delle innormalità dell'una, degli appetiti dell'altra. Vorrebbe sfuggire dalle miserie della prima e slanciarsi nelle beate sedi della seconda. Gli uomini di tal classe, che hanno troppo orgoglio, troppi fittizi bisogni per essere tolleranti del nome di plebe e troppa incapacità per giungere a far parte di quell'alta società che mirano sopra la loro testa, sono quelli che nell'anarchia han fatto maggiore strepito degli altri, son coloro che gli evocatori di subbugli vanno trattando e tentando più degli altri.
Questa classe, in forza del commercio, aveva già veduto operarsi miracoli; ed infatti il denaro da alcuni di queste classi acquistato in alcuni anni (Dio sa come! ma a noi scrittore di romanzi non importa sindacare i loro libri di banca) avevali collocati al livello di quel seggio là dove si assideva la classe elevata, e perciò si sono trovati senza merito, se non con quello dell'oro, a faccia a faccia con questa classe invidiata e privilegiata: e quindi ecco nascer la manìa di fondersi in quella, di prenderne tutte le abitudini, tutti i vizi, senza poi curare di emularne le virtù; ed ecco come un lusso smodato, un puzzo di città capitale, e di capitale parigina, entrava nella modesta Livorno, ed ecco moltiplicato il numero delle scimie che d'uomo non sanno far altro che imitare, nascondendo ciò che del primo loro essere sociale avrebbe potuto rivelare l'origine bassa e vigliacca. Un infinito numero di uomini per tal modo non di altro curanti che dell'esteriore e della fortuna, non pur pensando ad emulare qualche cittadina virtù, ha fatto consistere la propria prosperità nel più basso egoismo, e trovavasi in una posizione non conforme alla nascita, alla educazione, al modo di sentire; si è lanciato nella corrente dell'ambizione, sperando sempre di giungere a quella perfezione a cui non potrà giungere giammai; e di fronte al mondo si è reso ridicolo e dispregiabile a malgrado le ricche vesti, la sfolgorante albagia, gli scrigni di oro; la servitù gallonata, ahi! fa agli occhi degli illuminati la figura del corvo vestito colle penne di pavone. Parendo a costoro che l'agiatezza del vivere sia poco, eccoli sognare gradi ed onori, e tutto imprendere per conseguirli. Ed eccoli slanciarsi nel burrascoso mare delle novità, nella speranza che, anco facendo naufragio, sia dato loro di afferrare una tavola salvatrice.
Sull'esempio della classe media, ecco che la classe povera tenta anch'essa di levare il suo volo, e d'infima diventare media. Consiglieri di questo volo sono dapprima i bisogni, dipoi l'intolleranza dei dispregi, la mancanza di lavori che abitua all'ozio, il quale fa sentire e centuplica gli stessi bisogni. Questa classe peraltro non può avere speranza di fare un passo nè colla via ordinaria, nè così uomo per uomo, sente la necessità di una catastrofe nella quale muoversi in massa e cacciarsi in quella posizione sociale alla quale aspira come ad apice di sua felicità. A questa i demagoghi non hanno da far altro che parlare e, ben s'intende, parlare a modo loro proprio, dare ad intendere mari e monti; colla gente di questa sfera inabile a riflettere tutto si fa credere.
Bruto era a quell'epoca divenuto l'arbitro della volontà popolare: tutto doveva piegarsi al suo volere; ed in questo era potentemente secondato e dagli eventi e dagli accordi con altri suoi simili agitatori. Quante teste esaltate potevano raccapezzarsi per il mondo, e che avessero bisogno di far fortuna erano state da lui fatte venire a Livorno; esso sentiva la necessità di avere dei collaboratori a tanta impresa, parendogli poco l'avere un potente ausiliare nel da noi conosciuto Catone. Ciò peraltro che farà specie ai lettori è il sapere che altro collega si era associato costui, e questo era nientemeno che il signor Basilio, il quale avendo veduto come il tempo di fare il delatore era passato e che per ingannare il pubblico conveniva prendere altro mestiere, appoco a poco si era insinuato nel sinedrio degli agitatori, i quali, sapendo alla perfine come ad essi non potesse nuocere, ma anzi giovare verso le masse nel vedere acclamare le massime dette moderne da un uomo della stampa del pio signor Basilio, certamente non avrebbero più oltre dubitato della giustizia dei movimenti che erano per fare essi (lupi vestiti da agnelli).
Così erano preparate le cose; e così quella città commerciale e pacifica la quale portava in seno i germi della dissoluzione della sua morale andava a gran passi verso la propria ruina. Così adunque, come io vi diceva, erano preparate le cose all'epoca dell'arrivo in rada di Giovanni e di Alfredo, i quali, dopo aver percorsa nuovamente la città girovagando per le bettole e per altri luoghi impuri, un bel mattino, discesi a terra e vestito abito borghese e civile, si erano decisi di recarsi direttamente alla dimora del vecchio amico Bruto, ove si proponevano tenere lungo colloquio, il quale ebbe luogo ed a cui invitiamo i nostri lettori di assistere.
L'appartamento del demagogo, che possedeva uno dei più bei palagi, era magnificamente mobiliato con un lusso quasi orientale. Nel piano superiore era il quartiere domestico; nell'inferiore, che di molte sale si componeva, si trovava il suo segreto gabinetto: una quantità di giovani di più o meno età stava in servizio pel disimpegno di affari particolari, altra per quelli pubblici; e coloro che appartenevano a quest'ultima categoria erano tratti dalle infime classi ed educati a modo suo. Ordinariamente il segretario era quegli che introduceva i forestieri che venivano per visitare il sapiente. Un servo accompagnò Alfredo e Giovanni fino alle stanze del segretario antedetto, e questi con modo cortese, venuto a richiedere i due dei loro nomi e cognomi, essi risposero in modo piuttosto laconico che non desideravano di spiegarsi su ciò, ma che bastava avvertire il suo principale che due dei più vecchi amici desideravano di vederlo. Il giovinetto segretario, rispettando l'incognito che volevano serbare i due, non senza averli ben bene squadrati da cima a fondo con uno sguardo malizioso ed indagatore, fatto loro cenno di sedersi, passò nella sala del suo principale,
—Annunzio una misteriosa visita, disse allorchè fu entrato.
Il suo padrone con gravità distogliendo gli occhi da un grosso volume in foglio sul quale studiava:
—Che è ciò, Giorgio? mi sembra che questa mattina siate di miglior umore del solito; ebbene cosa dicevate?
—Vengo ad annunziarvi che due forestieri i quali desiderano tener celato il loro nome e cognome bramano di essere introdotti; dicono peraltro di essere vostri vecchi amici.
—Vecchi amici! vecchi amici! borbottò fra sè colui, e quando mai io ho avuto amici vecchi o nuovi? Sono uomo da sentir l'amicizia io?…—Quindi volgendosi al segretario:—Orsù che faccia hanno costoro? che abiti? parla su; dalla soprascritta ho uso d'indovinare il contenuto delle lettere.
—Vostra signoria eccellentissima….
—Stolido! da quando in qua ti ribollono per la mente i titoli? Che eccellenze? che eccellentissimi? che illustrissimi? ad ogni modo non sai tu che siamo e saremo sempre gli stessi scimiotti vestiti?
—L'ho fatto per dire; non mi avete voi stesso detto, o cittadino, ch'io era questa mattina di assai buon umore?
—A banda gli scherzi; io sugli affari non scherzo mai: dunque costoro…?
—Son due uomini di mezza età con facce piuttosto cupe; sembrano di poche parole, e quanto agli abiti li hanno modestissimi; ed uno è monco.
—Capisco, saranno due comici che, lasciate le scene, verranno qua all'opera di cui sono impresario; due disperati: meglio così; il mio avviso è corso per tutto il mondo, e se non vedo di meglio, fra un mese avrò radunato tanti avventurieri da far sì che i Livornesi nati se ne dovranno andare a trovare un altro luogo…. Ma no: caspita! non si possono pensar tutte insieme le cose di questo caos; li collocherò fra le spie; questa è la valvola di sicurezza onde non scoppi la gran caldaia, ove bollono i cervelli degli uomini.—Poneva fine al suo monologo con secco dire:—Fagli passare.—
Il segretario fece l'ambasciata, e mentre si prepara ad introdurre i nostri due personaggi, daremo una breve occhiata alla camera, ossia al gabinetto.
Era questo assai spazioso e prendeva luce da due grandi finestre; i cristalli delle quali dalla parie del davanzale tutto di marmo bianco erano diafani, ciò perchè la luce assai più dolce penetrasse sul banco di mocogon, avanti il quale stava il grand'uomo: alle finestre eranvi ricche portiere di mussolina d'India a fiori di ricamo e a grandi festoni di seta verde. Un divano di raso parimente verde occupava con semicerchi la stanza: e davanti al banco si vedevano alcuni sgabelli di mocogon imbottiti pure di raso verde. Il pavimento era coperto di un finissimo tappeto di Persia a vivacissimi disegni, e solo la parete alla quale il padrone voltava le spalle era coperta da uno scaffale di mocogon nel quale vedevansi collocati libri di ricche rilegature, opere tutte che erano il balsamo delle idee correnti, ossia la loro essenza distillata. Sul banco si miravano un elegante lume a tripode, due magnifiche pistole ed una quantità di carte di ogni genere, tutte spiegate, quali a forma di lettere, quali a forma di cartolare. Nel resto, le pareti erano adorne di quadri, di carte geografiche; e dal soffitto dipinto a fresco, rappresentante Giove nell'Olimpo attorniato dai maggiori dei, pendeva una lampada con cristallo diacciato. Il sapiente vestiva un'ampia zimarra di lana del Tibet a fiori, a larghe maniche, ed aveva in piede delle pianelle di elegantissimo lavoro e di stoffa preziosa.
I due entrarono senza far cerimonie, così con i cappelli in capo, e serrarono la porta dietro di loro. Bruto, come macchinalmente, stese le mani sulle due pistole.
—Ah! ah! ti facciam paura? gridò Alfredo cacciandosi avanti e dando in uno scroscio di risa.
La parola: «Chi siete voi», che era venuta sul labbro di Bruto, vi spirò senza esser proferita, in quantochè non alla cangiata fisionomia di Alfredo, ma a quella di lui voce sì bene conosciuta ravvisò l'antico collega: onde in un subito slanciatosi dalla sedia incontro,
—Poffar di Bacco! gridò, chi vedo mai! Alfredo, e certo tu, Giovanni.
—Sì, mio buon amico, presero a dire simultaneamente i due, siamo noi.—
In questo dire si reciprocarono i più cordiali abbracci.
Nella fisionomia del demagogo, a malgrado del riso sardonico abituale, si leggeva un evidente dispetto, ed infatti pensava in sè: Che vengono qui a fare costoro? forse per carpirmi il frutto di mie fatiche? oh! ma saprò presto sbarazzarmene. Quindi:
—Ah! miei cari, assidetevi qua, qua: rinasco alla vita vedendovi. Quanto tempo! quanti anni! e sopratutto tu, o Giovanni…. Ma poffare! tu sei invecchiato di molto; come te la passi? hai moglie, hai figli? su via, anelo di saper tutto di voi; e di te pure, Alfredo: ma qui starete male, passeremo nel mio appartamento.
—Amico, rispose pacatamente Giovanni, non occorre che noi replichiamo alle domande che ci fai intorno alla famiglia nostra; queste son cose private, nè il tempo soliamo impiegare in inutili ciarle.
—Qualche affare?… interruppe Bruto, ebbene allora sediamoci; son qua ad ascoltarvi.—E così dicendo fece sedere sul divano i due amici.
Giovanni si assise dimostrando un evidente cattivo umore; e prima che
Alfredo prendesse la parola:
—Oh! qual morbidezza! qual lusso! dimmi ed è così che suoli accogliere gli amici? ahi! quanto diverso da quei tempi in cui l'osteria dei Tre Mori….
—Capisco, ma i tempi sono cangiati; allora era una cosa, ora è un'altra; allora poveri cospiratori, adesso ricchi padroni.
—Padroni di chi?… voleva urlare Giovanni, cui l'accoglimento del già collega era sembrato derisorio ed insultante, ma facendo cenno ad Alfredo, il quale era per aprir bocca, che tacesse, prese a dire:
—Basta…. ho troppe cose da dire, sarò laconico: ti ricordi dei tempi andati?
—Qual dubbio?
—E delle promesse?
—Sì certo.
—Su dunque: sia a te a narrare del come vanno gli affari; che fai, che pensi? credi tu che siamo venuti a fare da semplici spettatori? ah! no; il nostro braccio, la nostra mente sono sempre quelli di prima, il mio cuore non ha mai cessato di palpitare.
—Ed il mio più forte, esclamò Alfredo con nobile entusiasmo.
—Risponderò ad entrambi qual vuolsi a me ed a voi: dappoichè veggo al vostro fare che non volete preamboli, se voi veniste per avere dei soccorsi, la cassa del popolo è aperta per i confratelli; ma se veniste coll'animo di servirlo, io vi ringrazio, non ne ho bisogno.—
Le strane parole resero muti per alcun tempo i due, sicchè Bruto proseguì con una specie d'ira concitata:
—Sì, io non posso che considerarvi per avventurieri o per avoltoi che vengon qui attirati dall'odore della preda; voi più (e da molto tempo) non appartenete alla setta.—
Giovanni non fu più suscettibile di freno, ed afferrato un braccio a
Bruto fu per ispezzarglielo a forza.
—Che osi tu vantare? Che osi tu?… Quello che da qualche dì vado scoprendo sempre più mi addolora. Di quai sette vai parlando? stolto! credi che a forza di macchinare in segreto potrai render felice il suolo natío? passarono quei tenebrosi tempi, ed oggi saria vergogna l'appartenere a quella misteriosa setta; ciò farebbe altrettanto torto quanto far parte di una masnada di assassini. Si, e conosciuto ch'io ebbi le sette, le abborrii come micidiali, le reputai come inutili, non le stimai più degne di quel nome di liberatrici che si erano date. Forse a quell'epoca alcuni potevano crederle vantaggiose, ma il tempo ha svelato la verità. Che adunque? tu, che sai chi sono, vai rimproverandomi, credi sia qui venuto per mercede o per sussidi; vergógnati. Io sono e sarò sempre lo stesso, grande, onesto, caldo amatore del mio paese.—
Giovanni non aveva lasciato la mano di Bruto, e Bruto, vinto dal fascino terribile che Giovanni aveva per l'addietro esercitato su di lui, cedette a quell'ira che gli divampava dagli occhi accesi e furibondi, ed a stento ricovrando la parola:
—Via via, Giovanni, tu sai ch'io sono focoso e suscettibile d'ira; la tua lontananza e….
—La mia lontananza ha durato fino a che io mi credeva inutile; ella ha cessato allorchè io credetti la mia presenza necessaria.
—Necessaria!… riprese con calma Bruto, se tu lo credi, sarà: anzi ho piacere che possa esserlo: divideremo insieme la gloria.
—La gloria! esclamò Giovanni, la gloria, non l'ho cercata; io ho cercato l'utile del mio simile, e credo che sarò giunto a tempo.
—Deh! pregovi d'intendervi senza irritarvi, disse Alfredo desiderando di mettere il colloquio in più pacato andamento. Parmi superfluo il filosofar sulle parole, come tener motto di rimproveri.
—Alfredo ha ragione; entrambi ci siamo lasciati trasportare, rispose Bruto desideroso di riprendere la calma, di cui sentiva più bisogno per giunger meglio ai suoi fini. Giovanni, continuò, se ti ho offeso, perdonami; tu sai quanto bollente io sia nell'ira mia: orsù, io primo darò l'esempio di moderazione dappoichè m'avveggo che fui il primo a varcarne i limiti; e poichè sento che entrambi gradite conoscere lo stato delle cose, io vel dirò schietto, schietto.—
I due amici stettero in silenzio, ed il demagogo, con finta pacatezza, parlò in questa sentenza:
—Lo spirito di fazione, o miei cari, converrò che non deve animare i nostri cuori, ma pur troppo fino a che vi saranno uomini vi saranno fazioni.
—E le cose andranno sempre male e come sono ite fin qui, proruppe
Giovanni.
—Ma lasciami dire, rispose Bruto, non mi interrompere. Quanto a me, mi spoglio di ogni spirito di partito, e calmo e quieto mi propongo di secondare lo spirito delle masse, che tende assolutamente ad un nuovo ordine di cose, ordine il quale evidentemente è quello che è indispensabile per la comune prosperità. Sappi dunque che io ho rannodato i legami di amicizia con coloro che egualmente che me amano il suolo natio, che ho in mano le fila di una gran tela.
—Il vostro piano, o Bruto, non trova censure nella mia mente, disse Giovanni rimessosi in calma; gradirei peraltro sapere se avete veramente fatto conoscere al popolo i suoi diritti e i suoi doveri.
—I suoi diritti certamente, o Giovanni; e vi dirò che siamo in certi tempi in cui non ha bisogno di maestri su ciò: quanto poi ai suoi doveri, io credo che non debba erigermi in catechista.
—Su ciò non andiamo d'accordo con voi: voi sapete che mal si conosce il proprio diritto se non si ha cognizione del proprio dovere; nelle franchigie la misura è il tutto, il traboccare può e deve naturalmente portare degli sconcerti nel godimento di queste franchigie istesse; preferirei qualunque stato, fuori che quello di un'anarchia.
—Ed io pure, disse Alfredo, il quale, profittando che Bruto era rimasto in silenzio, volle esprimere la sua opinione, io pure sono del parere di Giovanni: non vi hanno eccessi che non si possano commettere da una sfrenata ed indisciplinata moltitudine, e se non si desse una misura, una regola, un freno ai movimenti di questa, quando è eccitata, sarebbe lo stesso che pretendere di procurare la integrità di un gregge lanciandovi nel bel mezzo un lupo affamato.
—Miei cari, rispose il demagogo, che durante questo colloquio aveva tirato su grosse prese di tabacco per serbare quella freddezza che voleva mantenere, miei cari, noi senza volerlo ritorneremmo alla questione di parole o almeno di mezzi. Io ho su questo punto idee diverse dalle vostre: voi altri, dimoranti da lungo tempo in altro emisfero, mi avete preso tutte quelle maniere di sentire dei popoli stranieri; in voi tutto è calcolo, ed io credo che quando la spinta è data e data a tempo, il retto debba andare da sè; vi prego lasciarmi in questa opinione ed anche lasciarvi chi la divide meco: non pregati e non richiesti siete venuti, ed io alla buon'ora vi accolgo; ma ormai il mio piano è preso, ed io non posso nè voglio ritornare indietro.
—Questo era quello appunto ch'io voleva sentire da te, quantunque tu non mi dica cosa ch'io già non sapessi. In mezzo al popolo ho veduto che tu l'hai ciurmato come farebbe un negromante: ebbene io lascerò che tu e lui andiate secondo il vostro merito nella bilancia dei decreti di Dio. Quanto a me, se le mie forze varranno, cercherò di ricondurre li agnelli al vero pascolo, se no….
—Di moderati non è duopo, carissimo Giovanni: ti lascio colle tue utopie; tu vorresti fare il possibile nella tua testa con mezzi impossibili. Educazione, moderazione nel popolo! Ah! filastrocche di racconti della nonna nel canto del fuoco.—
Alfredo era per parlare ed appoggiar le idee di Giovanni e per concludere come esso, quando la porta si aperse ed un nuovo personaggio familiare a Bruto entrò nella stanza. Egli non riconobbe i due; ben essi lo riconobbero, ed insieme con un accento di sdegno esclamarono:
—Qui costui?… ora tutto intendiamo. Questo paese non è più per noi, torniamo in America.—
E così dicendo, senza degnarsi di un saluto, uscirono dalla stanza.
Colloquio di diverso genere.
La persona entrata era il signor Basilio. La vista di lui produsse su di Alfredo e Giovanni la sensazione di quella di un aspide. Un sol momento bastò loro per comprendere i misteriosi legami che attaccavano costui al demagogo.
—Ora sì che non credo possibile il risorgimento del mio paese, urlò Giovanni percuotendosi forte colla destra la fronte: con siffatti uomini alla testa gli abitanti di questa città passeranno al cospetto degli uomini per masnadieri; e dai due che ne sono capitani supremi argomento il resto del consiglio dirigente.—
Una cocente lacrima gli bagnò le gote al chiudere di questo discorso.
Alfredo pure era colpito dal più profondo dolore.
—Pur nullameno, soggiunse Giovanni, farò il possibile per loro, finchè l'onore non sarà da essi fuggito, col braccio e col consiglio.
—Ed io seguirò il tuo nobile esempio, io e mio figlio ti seguiremo: ma se non salveremo il paese dall'anarchia….
—Tu sai che io son nato in Piemonte, tu sai che laggiù ho amici; noi torneremo colà, fuggiremo questo luogo ammorbato da pestifere serpi che spargeranno il loro veleno dappertutto; io non voglio macchiarmi col loro contatto. Noi partiremo per Nizza, e colà comprerò una villetta per le donne, mentre che noi uomini, due padri e due figli, offriremo il nostro braccio ed il nostro cuore alla schiettezza sabauda.
—Il tuo desiderio, Giovanni, è pure il mio, lasciar che i rei si perdano; peggio per loro: ma forse vi è speranza che riconoscano il loro errore.
—Nol spero io; e non ti rammenti che cosa fecero della Francia un Robespierre e tutti gl'infami membri della Convenzione? quella storia di cittadini macelli, di turpi condanne, di orribili carnificine, Dio il voglia che non si rinnovi nella bella Toscana! Tu lo comprendi qual me; quei capi avidi di prede, di ricchezze, mirano unicamente allo stabilimento dell'anarchia; ed il popolo ignorante li crede e li crederà fino a che le sciagure gli faran conoscere, ma tardi, il suo fallo.—
Giovanni ed Alfredo erano parificabili a colui chi si desta dopo un lungo letargo: videro pur troppo l'amor patrio falsato; e sebbene quelle anime ardenti non fossero suscettibili di pentimento, pur nullameno quanto sentivano e vedevano li persuadeva della inutilità degli sforzi che avevano fatti pel bene comune; convenivano in loro stessi che, prima di pensare ed avere una rappresentanza, il popolo deve giungere al più alto grado di perfezione morale, e che quanti passi dista da quella, altrettanti sarà lontano dalla sua autonomia. Fino ad ora i due nostri personaggi si erano illusi inquantochè non si erano mai dati tanti fatti, tante combinazioni, quanti si erano dirò accalcati in quel poco spazio di tempo in cui eransi allontanati dal nuovo mondo. Fino allora non era giunto il tempo dell'azione, la quale a chiare note di realtà dimostrava il pessimo andamento della plebe, che, credendo slanciarsi così senza essersi purificata nella via del progresso civile, si era viepiù cacciata nella perdizione per un cammino del tutto opposto. Ma fa duopo lasciare i due spiriti bollenti di sdegno generoso per ritornare al gabinetto di Bruto, ove, come vedemmo, era entrato il signor Basilio.
Costui, sedutosi familiarmente sul divano di raso, tenendo in segno di confidenza il cappello in capo, aveva incominciato così la conversazione.
—Ebbene, caro il mio luminare del secolo, come sei tu contento di me?
—Caro Basilio, se tutti gli uomini giovassero come fai tu alla buona causa, io credo che in poco tempo si rinnoverebbe completamente la faccia della terra; ma a proposito, dimmi, hai tu assistito al panegirico del tuo fanatico missionario?
—L'ho diretto specialmente, ed oh tu avessi sentito come sbuffava e come faceva venir la mosca al naso al popolo affollato! parlava di fucili, di guerre, di franchigie con una faccia da energumeno; citava Catilina, come se fosse stato uno dei più dotti santi padri: è un gran diavolo costui.
—E di dove l'hai pescato?
—Non so di qual luogo sia scappato questo nuovo Lutero; e ti assicuro che per le stranezze, per le contorsioni, per le ispirazioni profetiche, costui non la cede a Maometto, nè a quanti impostori di quel genere.
—Ma, dimmi un poco, e a denaro come si sta?
—Ah! quanto a ciò non dartene pensiero; le scrivanie ed i forzieri dei ricchi stanno nelle nostre mani, e noi abbiamo in tasca le chiavi di tutti quanti gli stipi, cioè è in nostra mano farli forzare a piacimento.
—Ed il tuo? disse il Bruto in tuono beffardo.
—Oh! quanto a ciò, rispose il signor Basilio collo stesso tono, è un'altra faccenda; in casa dei ladri non ci si ruba.—
Il signor Bruto dette in uno scoppio di risa così clamoroso che i giovani dell'anticamera ne furono maravigliati.
—Dimmi e il giornalismo come lavora?
—Oh! caspita! ne stampa ogni giorno più da fare strabiliare; nel giornalismo livornese abbiamo due periodici che a senso mio potrebbero ricreare una conversazione di demonii, e tu vedessi che effetto magico! Si direbbe che la placida popolazione della città ha il diavolo in corpo; i ricchi tremano di una paura indicibile; i poveri pendono alle speranze del lucro e già s'ingegnano; il commercio vacilla; insomma tutto si affretta alla dissoluzione dell'antica società, sui rottami della quale noi edificatori ne pianteremo una nuova.
—In questi prodigiosi passi, caro Basilio, vi è del maraviglioso, ma quello che corona l'opera è la tua conversione, caro Basilio.
—Conversione? con ciò dire mi dimostri ch'io sono stato un uomo mal conosciuto; ma che credi? che ai tempi in cui biasciava i paternostri e teneva il collo torto e fuggiva le donne, io lo facessi davvero? eh! caro amico, stupisco come tu lo abbi creduto, un uomo della tua fatta…. Era tutta tutta polvere negli occhi, e lo faceva per ingannare i babbei e, come suol dirsi, tirare l'acqua al mio mulino. Ma in casa ah! amico, avresti veduto con che dirittura teneva il collo e che belle fantoline ricreavano le mie veglie notturne.
—Ma e quei certi soffietti in certi luoghi…. che so io…. non li facevi da vero?
—Sicuro, era il miglior mestiero per giungere alla meta; altri tempi altre cure. Oh! ma le tue facezie mi hanno fatto dimenticare un caso: sai tu che possiamo dirci proprio fortunati, fortunatissimi? indovina un po'? il bravo nostro collega Catone il censore è salito al posto di proconsole. Il popolo ce l'ha messo, e possiamo dire che siamo al punto beato di fare quello che ci piace.—
Oh! Catone! mormorò fra sè Bruto, è già salito! e mentre in sè mulinava un pensiero d'ira, il suo volto non era mutato dal sorriso abituale, onde freddamente:—Ne ho piacere; dimmi, Basilio, e i bollettini sulfurei?
—Ah! piglian fuoco da sè.
—E la tassa che divisava porre su tutti i negozianti?
—Ho la minuta del nostro decreto.
—Sei proprio un Perù; ma pria che io nella moltiplicità degli affari i quali da tutte parti mi attorniano mel dimentichi, che si ha da fare dei retrogradi? queste bocche inutili e cervelli guasti si hanno a metter fuori! il mio segretario ha minutato il programma, io lo firmerò e tu lo farai stampare: ma a proposito; io ho su ciò da palesarti un arcano.—
Quando si trattava di arcani da conoscere, il signor Basilio era peggio di una donna per la curiosità; onde con somma fretta esclamò:
—Presto presto, di che si tratta?
—Hai tu veduto bene quei due che con brutto cipiglio si sono allontanati dalla mia stanza al tuo ingresso?
—Gli ho veduti di volo, ma non ho badato gran fatto alla loro faccia; avevano l'aria da disperati.
—E forse lo sono; sappi però che costoro li stimo pregiudicevolissimi al buon andamento delle cose nostre.
—Quand'era così, perchè non mi facevi un cenno? non avevi forse le pistole sul tavolo? non ho io il mio pugnale? non ci erano i giovani in anticamera? si saltava loro al collo e con un fazzoletto turando ad essi la bocca in due minuti erano belli e spacciati; dopo avremmo gettati i loro cadaveri nel sottoposto canale urlando all'affollata moltitudine: Così periscano i traditori!
—Lodo il tuo zelo, caro Basilio, ma sappi che quei due furfanti non erano due oche, e probabilmente prima che tu avessi potuto fare la festa a loro avrebberla essi fatta a te; ma è inutile perder tempo in questa digressione. Coloro sono due dei più indiavolati moderati che io conosca; hanno aderenti e mezzi e son capaci di guastare le cose sul più bello: conviene sul momento spiccare un ordine del proconsole che non ardiscano più presentarsi in città sotto le più severe comminazioni.
—Ebbene si farà; ma, in grazia, dimmi i nomi e i casati, perchè io possa parlarne al saggio Catone.
—Nel tempo passato credo che tu avrai sentito nominarli, son essi quel Giovanni ed Alfredo….—
Bruto non ebbe duopo di proferire i cognomi, poichè se una miniera d'oro fosse stata scoperta sotto il terreno di proprietà del signor Basilio, avrebbe questi risentito minor gioia; laonde con tanto d'occhi spalancati e con la bocca aperta:
—Ah!… ah!…, ho capito, ho capito benissimo; questa nuova mi consola: servirò di tutto cuore il mio paese; con costoro ho qualche conto da regolare; io volo dal proconsole.—
E fe' per uscire.
—Senti…. senti…
—Non mi trattenere: quanto siano terribili costoro, lo so molto più di te; altro che esilio! costoro bisogna farli legare, incatenare, imprigionare, o meglio, fucilare.—
E così dicendo, a malgrado delle premure di Bruto, uscì precipitoso dalla stanza; se non che, con eguale precipitazione ritornando per un momento indietro, con voce affannosa:
—Dimmi, dimmi… e…. donne ne hanno con loro?
—Donne? E che importa delle donne?
—Importa benissimo; sono forse peggio degli uomini; ma a me, a me costoro, tutti tutti fino ad uno, non mi fuggiranno una seconda volta.—
E terminando queste parole uscì della stanza col volto radiante della più pazza ed infernale gioia.
Il perfido signor Basilio non aveva perduto un istante di tempo per sfogare una vendetta da lungo tempo covata: qual gioia per lui, il percuotere di colpo mortale quel Giovanni che aveva posseduto colei per cui il vedemmo ardere di amore! qual sodisfazione di potere in un tempo schiacciare due abominate famiglie! e ben lo sperava, anzi tenevasi sicuro dell'esito, dal fermento popolare che esso era per destare contro le due designate vittime; sapeva bene che il popolo non ragiona, ed aveva presente con qual felice resultato i demagoghi del 1793 all'epoca della terribile anarchia avean fatto cadere le teste delle da loro odiate persone, gavazzando nel sangue più puro e più innocente, senza rispetto all'età, al sesso ed al grado. Basilio aveva in cuore l'anima di Robespierre e di Marat; e se fosse permesso di credere alla metempsicosi, io vi direi che l'anima infernale di uno di quei due mostri fosse trasmigrata nel corpo del signor Basilio. Ma nell'eccesso del suo sfrenato desiderio esso uscì dal gabinetto senza direzione veruna e come se, appena uscito, avesse potuto raggiungere i due personaggi, farli arrestare dal popolaccio e tradurli in prigione. Egli forse sperò incontrarli, riconoscerli alle loro vesti, alle loro fisionomie quando avesse comodo di fissarli. In questa speranza e per la fretta di giungere al suo scopo, non pensò a dimandare qualche schiarimento al demagogo o ai giovani dell'ufficio di lui. Giunto che fu sulla Piazza d'arme, si avvide del commesso sbaglio e se ne morse le mani. Dove saranno alloggiati? disse fra sè: in questo stato di disordine ei sapeva che le denunzie fatte al comitato di sicurezza circa i forestieri erano molto incomplete. Da una parte si rasserenò pensando che neppure Bruto avesse saputo dirgli qualche cosa intorno alla dimora dei due, ed infatti ciò era vero; tanta fu la sorpresa in cui gettò quell'agitatore la comparsa improvvisa dei due antichi colleghi che non aveva pensato a dimandar loro dove dimorassero e se si trovassero in Livorno sotto il loro vero nome; e forse, quando pure ciò avesse loro dimandato, noi abbiamo ragione di credere che non sarebbe stato soddisfatto nelle risposte. Il signor Basilio dunque si dispose almeno per il momento a far da sè ed a fiutare come un bracco le peste del cervo o della lepre; e pensando che più facile gli sarebbe stato rinvenire coloro nei luoghi più frequentati, si diresse quasi trafelante verso la bocca del Porto, urtando senza pur chiedere scusa or l'uno or l'altro di tanti che si trovavano sulla via, i quali, non conoscendolo, lo presero per un matto, mercanzia umana in grande abbondanza in quell'epoca a Livorno. Tali altri, conoscendolo, si guardavano in viso come per dirsi: Eh! esso oggi è l'uomo del giorno, l'uomo di affari, bisogna scusarlo; le grandi cure che lo molestano, non gli permettono di fare cerimonie.
Sul canto di via della Tazza, allora detta Via Marsillana, stava un banco di arance di Portogallo l'une sopra le altre a piramide; per sventura del povero rivenditore, un'acuta estremità del banco medesimo s'internò nella fodera delle falde dell'abito del corrente signor Basilio, il quale, non arrestandosi per il contrasto, fece sì che trassesi dietro per un poco la panca, ed ecco rotolare a centinaia le arance per terra, con gioia immensa degli sfaccendati, dei ragazzi, e risa anche degli adulti; mentre il signor Basilio, credendosi preso per le falde dell'abito da qualche persona che volesse alcun che, cui egli divisava di non dar retta, urlava senza guardare e gridava:
—Fermatevi, fermatevi, non mi trattenete; si tratta della salvezza della città.
—E si tratta della salvezza delle mie arance, urlava dalla sua parte il povero rivendugliolo; nessuno vi ferma, è voi che dovete fermarvi.—
Ma la corsa del signor Basilio doveva inevitabilmente essere trattenuta, perchè la panca che stava attaccata alle falde di lui, avendo nello strisciare per terra fatto cadere delle persone che passavano per direzioni opposte a quella dell'infaticabile persecutore, si levò un gridìo, una diavoleria, e ben tosto il signor Basilio si vide circondato da persone e ceffi minacciosi, e davvero questa volta preso per l'abito e tirato da tutte le parti.
—Perdio! questo è un procedere da bestia, gridava un tale rialzandosi a stento da terra e zoppicando colla gamba destra; ahi ahi! che sbucciatura! che frizzore! ma da quando in qua si cammina colle panche attaccate al vestito?
—Oh il mio occhio! strillava un altro lacrimando e turandosi l'occhio sinistro; ho avuto un bel fare a metter le mani avanti che un sasso mi si è cacciato sotto, e sarò per divenir cieco.
—Che impertinenza! che sfacciataggine! gridava come indiavolata una vecchia signora di circa sessant'anni che era, per causa di quella maladetta panca, caduta con la gonnella alzata sopra il marciapiede, ed aveva sopra di sè un ricco Ebreo, la cui grossa pancia non temeva confronto di quella del basso cantante Lablache, essendo del peso di cinquecento libbre almeno. Che birbonata è questa, saltare addosso in questa guisa? aiuto, aiuto!
—Per Mosè, per Aronne, per Baruch, ahi ahi! cara lei affogo! per Esdra e Neemia, signori, cioè cittadini, chi mi aiuta a sbarazzarmi da questa vecchiaccia la quale mi ha incatenato un piede con lo strascico di sua gonnella?—
Ed invano gridavan tutti quei poveri caduti; troppo ci vorrebbe a numerarli tutti ed a trascrivere gli accenti d'ira, di bestemmie, non meno che i lazzi curiosi che facevano crepar dal ridere: e, come ben pensate, lettori carissimi, neppur uno di quelli che erano all'intorno dei caduti divisava di dare aiuto ai meschini attrappati dalla panca del signor Basilio; ma invece si divertivano a far calca all'intorno di quel mucchio di gente, la quale dava uno spettacolo ridicolo. Così ognuno dei caduti, vedendo che da niuna parte veniva soccorso, pensava di alzarsi da sè, chi colle mani, chi col bastone, chi col gomito; ed in fatti si alzarono alla meglio che poterono, gli ultimi la vecchia e l'Ebreo, i quali, stirando le gambe e spolverandosi la giubba e tirandosi giù la gonnella, alzati che furono, si guardarono in cagnesco.
—Buh! buh! urlò la vecchia digrignando i denti.
—Auf! auf! esclamò il grasso Ebreo, per Malachia, l'ho avuta bella la grazia; credevo di affogare presso quel cadavere.—
Le risa degli astanti furono troncate dall'arrivo di un tamburo e di una massa d'uomini armati.
Era cosa ben naturale il loro intervento: a quell'epoca tutto destava allarme; e siccome ogni uomo si credeva in diritto di armarsi, di pattugliare e di arrestare o almeno di girare in truppa, dalla vicina pescheria un tal Grongo pescivendolo dei più clamorosi, sentito il fruscío di via della Tazza e visto il popolo accorrere a quella volta, si credè in dovere di riunire in un attimo la compagnia delle guardie di sicurezza e portarsi sul luogo del supposto tumulto.
—Alto alto! affè de mio! urlava il capitano; fate largo alla giustizia, figli di cani (scuseranno i nostri pudici lettori il poco purgato linguaggio del capitano di sicurezza), che fate quaggiù birbe sconsagrate?
Le risa avendo ricominciato, il furibondo capitano ordinò:—Spianate le baionette!—Ed era la commedia per divenire tragedia, se il signor Basilio, sempre accerchiato dalla folla, avendo riconosciuto il pescivendolo, non gli avesse gridato:
—Ferma, Grongo, son io…. non tirare perdinci!
—Ohè! abbasso l'arme, gridò il capitano. Lo dice il signor Basilio. Ma insomma cosa è stato? aggiunse calmatosi il feroce Grongo a coloro che più gli stavano vicini.
—Te lo diremo, ma abbassa quella fiocina, che qui non son tonni nè balene da infilzarsi, disse un dotto parrucchiere. Ma perdinci! non ci far più di queste paure co' tuoi soldati. Vedi quella cittadina è là per morire di convulsioni.—Ed accennò quella signora a cui il grasso Ebreo aveva quasi schiacciata una coscia e che avevano posta su di quella terribile panca staccata dalle falde del signor Basilio.
—Lasciate che muoia pure, riprese l'Ebreo grasso.
—Zittati, Ebreo cane, gli gridò infastidito Grongo, rispetta la ciccia nostra; (sì dicendo gli lanciò un solenne pugno nella pancia, la quale fece crich! come una vescica di aria percossa) lasciami funzionare, interrogare e far giustizia.—Ed appressandosi al signor Basilio:—In somma come è ita?—
Il signor Basilio, veduta l'imponente radunata di gente intorno a sè e quegli armati che sapea dipendere da un menomo suo cenno, non tralasciò così bella occasione di magnificare il suo amor patrio: per cui con ampolloso discorso fece sapere alla moltitudine che il disgraziato accidente era accaduto per la fretta in cui si trovava di rintracciare per la città due persone pericolose al ben essere di quella: due…. e per spiegarsi meglio nel linguaggio plateale di quell'epoca, due più formidabili codini; il che suonava ancora uomini avversi al buon ordine di cose. Il popolaccio fece plauso alle premure del signor Basilio: e il capitano giurò su quella coltella colla quale era solito tagliare in pescheria il pesce tonno e il pesce spada, la quale portava in mano in modo bellicoso, giurò di cacciarla nel ventre ai due codini ricercati dal signor Basilio, e si pose immediatamente insieme colla compagnia dei pescivendoli a disposizione dell'eroe dell'indipendenza, il degnissimo signor Basilio. Costui, pettoruto e gonfio di boria, ringraziò la provvidenza (ci s'intende la provvidenza di cui era degno) dell'aiuto novello; ma non sapendo la dimora di coloro che ricercava, dubitò di riuscire nell'impresa: pur nullameno, infaticabile nello zelo, fu per muoversi a nuova ricerca traendosi dietro que' forsennati, allorchè la sorte lo favorì appunto quando meno se lo aspettava.
Alfredo e Giovanni si erano determinati di ricondursi a bordo della corvetta passando per la via San Giovanni ed imboccando nella darsena. Erano già sullo scalo, allorchè il frastuono che aveva luogo in via della Tazza penetrò nelle loro orecchie.
—Ah! qualche scenata popolare! urlò Giovanni; andiamo, vediamo se si può fare intender la ragione a questa belva di popolo aizzato dagli iniqui.
—Andiamo, rispose Alfredo: in ogni utile e pericolosa impresa mi avrai sempre compagno.—
Così dicendo, presisi a braccetto, si avviavano per la Pescheria, in via del Giardino, e di là per via Materassai in via Ferdinanda, detta comunemente via Grande. Giunti colà, in breve furono laddove stava predicando il signor Basilio; il quale, all'avvicinarsi dei due, come colpito da improvvisa reminiscenza, ravvisando gli odiati personaggi, con voce stentorea urlò:
—Eccoli, eccoli; son quei due: addosso, addosso!—
Ed in un attimo i due vennero accerchiati ed atterrati dal popolo.
Quadri popolari.
Fa duopo lasciare per il momento i due nostri perseguitati in mano del popolo furibondo; il che certamente starà loro in luogo di terribile lezione. Lasciamoli dunque, sicchè abbiano tempo di fare amare riflessioni e pentirsi delle utopie di cui furono vaghi, sto per dire, tutto il tempo di loro vita. Il periglio in cui si trovano, se non servirà loro di emenda, servirà, non vi ha dubbio, di esempio a chi, nutrendo nel cervello le idee più fantastiche, fosse preso dalla smania di imitarli. Intanto noi anderemo al palazzo del proconsole, dove già ci ha preceduto il nuovo Bruto.
Costui, tuttora coll'animo inquieto per la comparsa improvvisa degli antichi compagni di partito, si stava pauroso che essi volessero rovesciare il piano di cose da lui con fatica di tanti anni edificato, rapirgli, non dirò la gloria, poichè la gloria era la vernice del quadro, ma il tesoro ed il potere, preziosi gioielli per quel genio di cupidigia e di superbia. Cresceva il malumore del nostro personaggio la nuova che il bravo Catone così di slancio si fosse impadronito del posto eminente e, come dice il proverbio, gli avesse fatta una finestra sul tetto. Pieno d'ira avrebbe veduto volentieri fucilare i vecchi compagni Giovanni ed Alfredo e per giunta anco Catone: se non che la prudenza e la finzione gli suggerivano di spingere solamente lo sdegno popolare contro Giovanni ed Alfredo, ch'ei ben sapea poter avere pochi aderenti in città ed essere venuti alla ventura ed a pescar nel torbo; mentre era a lui vantaggioso adulare ed avvicinare Catone, presentarsi col miele sulle labbra ed allargarsi il meglio possibile, simulando un affetto dei più sviscerati. E perciò, fattosi annunziare dalle guardie del nuovo reggitore, si fu al di lui cospetto in una sala delle più leggiadramente adornate dell'appartamento.
—Si può inchinare la novella Eccellenza, prese a dire tenendosi fra il brioso ed il serio e facendo per altro cenno di rispetto curvando la schiena.
—Poffare! sei tu che mi vieni con queste nonnate? a banda gli scherzi; appunto aveva bisogno di te: tu mi lasci negli impicci….
—Per…. sclamò Bruto rassicurato che almeno in apparenza il potente non voleva omaggi. Per…. sei tu che mi rimproveri? è strano; ed io invece doveva rimproverar te.
—Mi burli?
—Dico sul serio per…. ti cacci nientemeno nel posto di timoniere di questa barca e non avvisi il piloto.
—Graziosa questa metafora e non mi dispiace; ma che vuoi ch'io ti dica? sarà forse due ore ch'io mi trovo qui a regere et gubernare, e tanto è lo sbalordimento del balzo o meglio della salita che non ho avuto tempo di ripigliar fiato per fare scrivere le officiali di nomina agli altri poteri della città. Ti prego dunque di disimpegnarmi dalle formule dell'etichetta diplomatica; d'altronde tu vedi bene che bisogna in prima che cominci a far conoscenza con queste superbe suppellettili dalle quali sono circondato, poscia coi miei segretari e per ultimo col portinaio. La mia elevazione subitanea non mi ha anche permesso questa indispensabile ricognizione, fra cui vuolsi por per la prima quella della cassa proconsolare. La mia è stata a un dipresso come l'elevazione di Vespasiano; le turbe lo acclamarono e sopra uno scudo lo elevarono al cospetto dei sudditi: io sono stato inalzato collo stesso entusiasmo sopra un fondo di botte nella piazza dell'erbe; ma ciò non vieta che sia valida l'elezione per acclamazione piuttostochè per plebiscito.—
Bruto si mise cordialmente a ridere e porse al caro amico un grosso abbraccio.
—Mi rallegro teco, riprese il primo con effusione di cuore. Tu stai bene dove sei, ed io ti ci sosterrò.
—Diamine! vorrei vedere che tu mi abbandonassi, il mio caro piloto. Sono impaziente di vederti salire sulla mia nave, colla quale sfideremo le tempeste dei venti retrogradi.
—Son con te in vita e in morte.
—Oh! ma mi scordava il meglio: sai tu ch'io considero questo passo come un gradino per andare più su, e che voglio trarti meco al tempio della felicità e della gloria e….?
—E delle ricchezze…. capisco benissimo, mia cara Eccellenza cittadina; ma ecco qua, incominciamo subito con quell'aria di protezione.
—Me ne guardi il berretto frigio, alto nume che invoco; io e tu ci abbracceremo come un ramo di ellera per salire al più alto delle mura cittadine.
—Poetico ed amichevole concetto! accolgo la tua promessa e lodo la tua affezione: se non che permettimi di far uso di altra metafora; noi ci inalzeremo non già come ellera, sebbene possiamo coscienziosamente ritenerci come pianta parasita, ma come due gatti, reggendoci sugli ugnoli e graffiando chi c'impedisce di salire.
—Bravo per…. ti cedo in tutto, eziandio nella vivacità, nel fuoco sublime della tua ferrea imaginazione: ma noi siamo abbastanza infiammati, per quanto parmi, di alto amor patrio; e siccome potrebbe operarsi nel nostro interno una spaventosa combustione, mi parrebbe conveniente di vuotare insieme un paio di rinfrescanti bottiglie di Sciampagna, del quale ho fatto innaffiare alcuni crostini di beccaccia. Orsù saliamo alla mia sala del déjeuner, e, per non infrancesarci, diremo colla Crusca dello asciolvere.
—Tu sai che feci voto di religione, di mia religione…. non bevo vini nè liquori spiritosi.
—Ah! sì lo so, ma quei voti si osservano in pubblico e non in privato; anche il sultano Mahamud non beveva nè spiriti nè vini, e crepò per eccesso di ubbriachezza.
—Il mio Corano è più severo, ed appunto la sorte di Mahamud mi è di esempio.
—Orsù non voglio teco contendere: se non bevi tu liquori spiritosi, li beverò io ed altri nostri compagni e cavalieri che hanno per impresa sullo scudo quel motto di Orazio:
Nunc est bibendum, nunc pede libero
Pulsanda tellus.
Laonde se tu non vorrai ber vino, berrai acqua e mangerai i crostini coi tartufi.
—Il tuo nuovo posto ti esalta più del solito; veggo benone che tu sapresti reggere a fortuna maggiore.
—Lo vedremo; per me sai che, per contentarmi appieno, sarebbe poco l'impero del Mogol.
—Sì, sì, ne son persuaso: ma quelli che ascoltarono le tue lezioni di modestia, di moderazione, ecc., ecc.
—Ait latro ad latronem. Bruto, quelli che udirono le nostre lezioni volevi dire; io ritengo che niente vi sia di nuovo sotto il sole, e che i favori e le fortune siano per i furbi e per gl'impostori.
—Massime da scolpirsi in bronzo, ma in caratteri di geroglifici, perchè i posteri non apprendano a metter giudizio. Diamine! dobbiamo noi essere gli ultimi al mondo, e il fatto sta che non sarebbe prudenza dir quattro finchè non è chiuso nel sacco. Che diresti mai se nel mare che ora navighiamo fossero molto vicini degli scogli?
—Tu burli: non sai tu al par di me come a Livorno abbiamo assestato le uova nel panierino a mo' di non romperle, e come questa aristocrazia di pescivendoli, navicellai e borsaioli che marciano in carrozza ci abbia secondato colle opere, col denaro? Quasi mi faresti ridere colle tue ubbíe.
—Eppure io sto per dirti che, senza il mio modo laconico di parlare e di agire e senza il pronto soccorso dell'indefesso atleta del progresso, il degno signor Basilio….
—Quell'ex-spia.
—Di' pure quella spia; perchè, cangiando di partito, non ha cangiato nè costumi nè abitudini nè mestiero.
—Ebbene?
—Il signor Basilio sta in traccia di due rompicolli che erano venuti appunto a guastare quelle uova che tu, prudentissima Eccellenza novella, credevi di aver collocate così bene.
—Ma per…. spiégati.
—Son qui, cascati come dalle nuvole, quei due malandrini antichi nostri compagnoni dell'osteria dei Tre Mori.
—Giovanni ed Alfredo?
—Appunto loro.
—Per mia fè! giungono in buon punto quei demagoghi indiavolati, di quelli abbiamo sempre bisogno…. gente che attizza il fuoco….
—Cara Eccellenza cittadina, sul conto di costoro devi cambiare opinione e devi sapere come io li abbia in conto di perfetti rinnegati. Ed infatti tu sai come di loro non si sentisse più parlare da anni e anni, come si rifuggissero in America con le loro donne e che mettessero assieme molti figli e molto denaro; il fatto sta che costoro rinunziarono alla setta nostra.
—Ma pure Alfredo nel trentuno….
—Eh baie! Fece come gli avoltoi; venne all'odore della preda e disparve allorchè vide che non ci era da buscar nulla. Caro amico, cotesta gente la temo come la gragnuola; è pur funesta alla messe del risorgimento!
—Ma dove sono costoro?
—A me lo domandi? Potrei risponderti che a te, oggi padrone della città, spetterebbe render conto di chi vi si trova: veggo pur troppo che non si è fatto nulla se non si organizza un drappello di polizia; signor sì, non inarcare le ciglia, sarà polizia democratica; vi ha da essere forza, altrimenti le nostre cose faranno fiasco.
—Se costoro sono perniziosi, li farò ricercare e tradurre alle carceri.
—E se avessero fatto come fecero sempre, cioè apparvero e sparvero a guisa di comete?
—Pazienza! non avremo a temere di loro.
—Quel che è certo è che le cose sono andate male fin qui, poichè gli statuti della nostra società non sono stati mai osservati perfettamente; ed in fatti quanti sarebbero i traditori che avrebbero dovuto essere stilettati a tenore del codice da cui si regola la nostra società stessa!
—Tu hai detto benissimo: quel che peraltro è differito non è perduto; tengo in manica costoro.
—Se mai peraltro si trovassero, io ritengo doversi abbandonare al popolo; tu sai che difficil sarebbe trovare una bestia più feroce.
—Lo credo.—
I due amici, nelle cui mani stava pur troppo la misera Livorno, sorridevano di compiacenza e si fregavano le palme delle mani; quando un romore di popolo che si avanzava con urli e fischi a suono di acclamazioni e di tamburi troncò i loro ragionamenti. A tal romore la curiosità spinse quei due ad affacciarsi al verone che dà sulla piazza, sicchè ebbero agio di vedere, dalla parte di via Grande ossia dalla tromba, immensa folla di popolo che teneva dietro ad una fila di militi in mezzo ai quali sembrava fossero delle persone arrestate.
Erano infatti Alfredo e Giovanni, che, a malgrado di una vigorosa resistenza, a malgrado che facessero conoscersi antichi amici del popolo, a malgrado i loro generosi sensi di oneste speranze, aveano dovuto soccombere sotto il peso degli oltraggi dell'armi e dei più violenti trattamenti. Procedevano essi colle mani legate a tergo e stretti ai fianchi da quattro manigoldi che loro tenevano a forza le braccia; imprecazioni orribili echeggiavano per l'aria, e li accompagnava il suono di scordati tamburi. Il signor Basilio eccitava sempre più l'ira della sfrenata plebe contro i miseri arrestati, e brandendo per l'aria la canna d'India a guisa di spada, avendovi posto il suo fazzoletto di seta rossa a mo' di bandiera, urlava fino a perdere il fiato:—Fucilate costoro, fucilate gli empi che vengono a spargere la zizzania fra noi! costoro vorrebbero venderci.
—Morte, morte! urlava il popolaccio.
—Ammazziamoli subito! gridarono più voci di forsennati.
—Intanto la piazza sempre più e più si gremiva di gente che sboccava al trambusto da tutte le vie, e cresceva la folla ed il trambusto stesso. Le finestre pure delle abitazioni erano gremite di persone curiose.
—Ammazziamoli subito! seguitavano ad urlare quei demonii.
—Facciamoli prima confessare, gridavano i pacifici.
—Facciamoli palesare i loro compagni, urlavano i prudenti.
—Li faremo fare doppia confessione, dicevano i filosofi.—
L'opinione di straziarli prevaleva sempre: ed il corteggio terribile si avvicinava al palazzo del proconsole; se non che, entrato diverbio e susurro sul modo di spacciarli, poco mancò che non succedessero omicidii nella folla medesima, la quale, dividendosi in più partiti, fu causa che coloro che menavano i disgraziati dovettero arrestarsi.
Fu tenuto una specie di parlamento generale.
Bruto e Catone sulla terrazza pigliavano tabacco sorridendo.
—Sono essi? disse Catone nel vedere i due legati a non molta distanza.
—Sì, sono essi: possiamo dirci fortunati; scena così bella chi sa se vedremo più mai?
—Io credo che Nerone e Caligola dall'alto dell'anfiteatro non abbian veduto così strano spettacolo.
—Allora erano le tigri che si slanciavano sopra i condannati, adesso la plebe.
—Evidente segno del progresso! ma zitto, sentiamo la deliberazione delle bestie ragionevoli.
—Tocca a me a parlare per…. urlò con voce stentorea il capitano Grongo; e siccome tale esclamazione fu seguita dallo schiamazzo affermativo di tutti i di lui fautori, l'opposta fazione credè utile compiacerlo.
—Che li dobbiamo ammazzare questi due rinnegati sta benissimo, e basta che l'abbia assicurato quel pio signor Basilio; ma di qual morte debbano poi morire, è questo un caso che tocca a deciderlo a me che li ho arrestati. Prima di tutto bisogna domandare a questa gente chi sono e chi non sono, poichè, voi m'intendete, non bisogna ammazzare le persone senza prima sapere i loro nomi, tanto più che una volta morti non si può più loro domandar nulla.—
Tutti quei forsennati in mezzo a così luttuosa scena ebbero il cuore di ridere alla dotta osservazione del capitano. Terminato lo schiamazzo, il capitano riprese la parola dicendo:
—Dunque appena sapremo chi sono, li potremo per la più lesta spellare vivi, ossia scorticare.—(Ognun sa che il capitano era uno scorticatore di pesci.)
Dopo di lui vennero a parlare i beccai, i fabbri, i falegnami, ecc., ed ognuno insisteva perchè i due sventurati fossero fatti morire per mezzo di istrumenti propri del loro mestiere. In tanta lascivia di sangue, in tanta sfrenatezza di popolare licenza, due soli uomini che mestamente seguivano i furibondi e, forse con l'animo pio di sottrarre le vittime a tanti carnefici, fra loro bisbigliavano:—Ah! ci aiuti Dio: in quali mani siam caduti!
—Eh! ma non sento l'ira per questi di quaggiù, bensì per quelli di lassù.—Ed indicava Bruto e Catone che dalla loggia del palazzo proconsolare guardavano con indifferenza e brutto sogghigno la turba insultante e fremente.
—Mi sdegno con quei due e con quel seguito di congrega; e che sì, sono pochi ed hanno ammaliato tanti! ma guarda veh! soggiunse in tono profetico, ha da venire anche per loro il Dies magna.
—Et amara valde.—
Quindi tacquero: e buon per loro che nessuno li intese, altrimenti la festa che quei manigoldi eran per fare ad Alfredo e Giovanni sarebbe pur troppo toccata anche ad essi.
Peraltro alla scena di terrore e di pietà doveva succederne altra.
Dalla parte del porticciuolo ecco venirne un drappello di giovanetti armati di fucile, i quali avevano per capo un elegante giovane di forme robuste che, sguainata la spada, si cacciò urlando di fronte a coloro che tenevano i due prigionieri, e in un attimo i suoi compagni trassero i colpi di fucile; cui fu risposto dai militi che guidava il capitano pescivendolo.
—Furfanti, gridava il giovane eroe, furfanti! lasciate le vittime, lasciate le vittime.
—O Selvaggio!—urlò uno degli arrestati, ed Alfredo, che nel trambusto di quella zuffa si era liberato da coloro che lo tenevano, si slanciò verso il figlio; ma ahimè! erano pur essi di nuovo per essere sopraffatti e trucidati spietatamente, se la mano divina non avesse loro inviato un insperato soccorso.
Alla parola Selvaggio pronunziata in quella zuffa ed in quel tumulto di grida, di bestemmie, di fucilate, fra il fragore delle baionette ed il fuggire del popolaccio inerme, un grido che rimbombò per l'aere ripetè:—Selvaggio! Selvaggio!—
Ed un uomo canuto fu visto precipitarsi a braccia aperte sul giovane che abbracciava il padre. Era un gruppo magnifico.
Al grido di quell'uomo parve che l'ira di quei mostri si fosse spenta come per prodigio; le armi micidiali si abbassarono al severo sguardo di lui.
Chi era mai il nuovo venuto?
Era un uomo che poteva avere fra i sessanta e i settant'anni, con una di quelle fisionomie franche e burbere che a prima vista incantano e che spesso si trovano fra i buoni popolani. Egli era sboccato dalla via del Giardino, tranquillamente portando sulle spalle una corba da pesce vuota, quando, veduta quella folla di popolo, si era accostato per mera curiosità, ed appunto quasi in quel momento era successa la scaramuccia fra i giovani marinai condotti da Selvaggio ed il patetico incontro di costui col padre.
Il tono di protezione del vecchio verso del giovane avrebbe avuto troppo sterili conseguenze, non sarebbe servito che a sopire per un momento quell'ira ed effrenatezza popolare, perchè queste ripigliassero un maggior vigore e più tremende scoppiassero, se in primo luogo il vecchio stesso non avesse esercitato una specie di magico potere sul diabolico capitano pescivendolo; in secondo luogo, se alla di lui aria di protezione non se ne fossero uniti ben cento e cento, i quali, sollevando per l'aria i berretti e le pezzuole, urlavano come spiritati:
—Viva lo zio Neri! per…… luogo allo zio Neri!—E questi applausi erano formidabili e decisivi perchè partivano di mezzo alle stesse infuocate turbe e dalle gole di qualche centinaio di pescatori e navicellai del Calambrone e di bocca d'Arno e di Pisa, i quali avevano il nostro zio Neri in quel conto in cui i nostri vecchi progenitori si ebbero un tempo i patriarchi ed i profeti.
Gli animosi giovani che Selvaggio aveva seco addotti dalla nave in traccia del genitore e di Giovanni, la cui assenza aveva posto in apprensione le donne e della cui pericolosa situazione in Livorno era giunta notizia sulla corvetta, cessarono dal trarre coll'armi quando videro che anche le turbe avevano momentaneamente cessato d'inferocire; si guardavano peraltro i due partiti in cagnesco: ma quello del buon zio Neri ingrossato di ben trecento o quattrocento proseliti, le di cui armi in parte altro non erano che buone e callose mani serrate a pugno e armate di coltello, permisero al vecchio pescatore di bocca d'Arno di allontanarsi dal luogo della zuffa insieme al suo caro protetto ed al genitore di lui, i quali da un gruppo di pescatori erano stati posti in salvo con quella velocità con cui si sottrarrebbe da uomo nerboruto un fanciullo da un incendio o da altro periglio. Ma per sventura di Giovanni il partito di Grongo, vedendo l'altro starsene colle mani a cintola e come non solo uno dei prigioni fosse salvato restando impunito l'ardire di quel giovane marinaro piovuto proprio come una saetta su loro, con eguale velocità tratto di peso Giovanni e circuitolo di folla, lo fecero in un batter d'occhio sparire dalla scena per cacciarlo in una delle stanze di forza del palazzo proconsolare.
I due del terrazzo al primo scoppiettar degli archibusi si erano, come nimici delle palle di piombo, tolti dal verone, ed ormai credendosi sicuri della preda, avevano fatto ingresso nella sala della colazione, ove tracannavano e Sciampagna e Bordò ed altri preziosi vini, e rosicchiavano polpe di selvaggiume e pasticcini alla crema, quando vennero dalle guardie avvisati che il prigioniero era già nella cantina ad uso di carcere.
—Come! urlò il proconsole spezzando un bicchiere di Sciampagna nelle pareti, come! canaglia, e l'altro?
—L'altro, dissero i manigoldi, l'ha voluto per sè lo zio Neri!
—E chi è lo zio Neri?
—Chi è? replicarono i popolani: è uno che conta quanto voi; poichè voi è poco che contate, ed esso comanda da trent'anni sull'Alghe di bocca d'Arno.
I due demagoghi si morsero le labbra.
—Uno per uno non fa male a nessuno, ripetevano con ilarità i popolani; e con una espressione che la decenza non consente trascrivere suggellando la massima, si ritirarono.
—Non ci frastorniamo di ciò, gridò Catone riprendendo la sua solita gaiezza; basta che uno sia in gabbia, e penserò io a dargli un esempio: ormai la congiura è sventata; evviva il trionfo dei galantuomini, evviva il bene dell'umanità!
—Evviva evviva! urlò ansante il signor Basilio entrando dopo coloro che avevano fatto l'accompagnatura di Giovanni; evviva, amici! Dei due colombi potremo mettere nello spiedo il più grosso.—
E si assise nel mezzo dei convitati chiedendo da bere. Largamente fu provvisto. La gioia gli sfavillava negli occhi. Fu cantato un coro patriotico.
—Ma chi è un certo zio Neri? disse il Catone all'orecchio del signor
Basilio dopochè il frastuono dei bicchieri ebbe un momento di tregua.
Vorrei far pentire costui, ma non mancherà tempo, sai.
—Caro amico, per conto di costui stimo conveniente far passata; sarebbe un osso ove rischieremmo di rompere i denti quanti siamo: costui ha in mano tutto il popolaccio di Pisa e tutto il litorale fino a Livorno.
—Basta basta; m'inchino e taccio, disse Catone; gireremo di bordo.—
Il canto patriotico avendo ricominciato con più alto tono e con gorgheggi molto spontanei, coloro che ormai più non parlavano ma balbettavano essendo accompagnati dalla musica dei bicchieri e dei piatti percossi fra loro, i due cessarono di favellare per unirsi ai cantanti. Dopo un'ora non ve n'era un solo che non fosse ubriaco.
Rivelazioni.
Non sì tosto Giovanni ed Alfredo eransi, come vedemmo, recati dal bordo della corvetta alla città nella quale dovevan subire tante sventure e perigli, la sentimentale Angiolina, ognor più passionata ed afflitta, diresse preghiere alle amiche di scendere nella sua camera, ove, ella disse, farebbe delle rivelazioni che elleno al certo non si sarebbero aspettate. Ed avvegnachè reputassero inconveniente udissele la fanciulletta Ofelia, questa per alcun tempo affidata alle cure della moglie del capitano del naviglio, si condussero alla camera di Angioina. Ivi giunte, la donzella pregolle ad assidersi, e dopo avere brevemente orato genuflessa innanzi una sacra imagine, parve riconfortata dalla preghiera e, sedutasi al fianco delle amiche, così parlò:
—Tutto, o mie care, tutto mi annunzia una vicina catastrofe, e parmi che una voce della provvidenza mi avverta esser giunto il momento di separarmi per sempre da ciò che ho di più caro al mondo.—
Le due amiche sentirono empirsi gli occhi di lacrime a tale annunzio, ma le trattennero onde non impedire all'amica di continuare.
—Sì, disse ella proseguendo, io non mi inganno; prima peraltro di eseguire un progetto che ritengo pericoloso voglio dopo tanti e tanti anni di silenzio rivelarvi un segreto che ho tenuto nel fondo del mio cuore e che adagio adagio ha infranto questo misero frale. Oh! possa questo frale consumarsi totalmente e permettere all'anima mia di volare al più presto purificata dai terreni martirii nel seno del suo Creatore.—
Le due amiche non poterono trattenere lo sfogo del pianto.
—Calmatevi, disse loro dolcemente Angiolina, serbate a più tardi lo sfogo della vostra pietà, non mi togliete colle vostre lacrime quel coraggio che ora sento di avere per fare una confessione tremenda; chi sa se, perdendolo adesso, potrei mai più ricovrarlo? d'altronde mi è necessario svelarvi un arcano terribile non per me, ma per chi ha diritto che sia svelato: questo segreto non può nè dee rimanere sepolto nella mia tomba.—
Le due amiche, guardandosi in volto, convennero di reprimere decisamente il dolore che loro arrecava il dire di Angiolina; gliel promisero, ed ella continuò:
—Voi certamente avrete fin d'ora creduto che non vi potessero essere per me sciagure più tremende di quelle che conoscete; ma v'ingannate. Sappiatelo, sì, sappiatelo…. io pure sono madre!…—
Alle due donne sfuggì un'esclamazione di sorpresa.
—Cielo! e la tua creatura?
—Non so se sia morta, o se sia tuttavia in questa valle di tribolazione.
—Ah!… esclamarono insieme Rosina ed Esmeralda.
—O mie care, il fallo non fu mio; io ne sono la vittima al pari dell'essere infelice che diedi alla luce.
—Prosegui…. ah! prosegui.
—Nel mezzo della vita che la mia sventura volle che io tenessi, abbandonata, senza lumi di religione e di fede, finchè non piacque a Dio di ritrarmivi, l'avvenimento funesto non avrebbe a me stessa fatto meraviglia. Ma ahimè, ahimè!…—Giunta a tal punto Angiolina non ebbe più forza di proseguire, chè un dirotto pianto ed opprimente singulto alquanto le impediva la parola: come fu per le cure dell'amiche un poco rimessa,—Ahimè! proseguì, era segnato nel libro fatale del destino ch'io dovessi bere fino all'ultima goccia il calice delle amaritudini. Nel tempo della mia tribolazione, io desiderava almeno conoscere chi potesse essere il padre di quell'essere che avrebbe dovuto pur troppo con orrore risguardare la madre sua; io era determinata di rinunziare per sempre al conforto di sentirmi chiamar madre, perchè il figlio non dovesse arrossirne, perchè il mondo non stampasse su quella fronte innocente il suggello della esecrazione. Oh quanto era infelice, amiche mie, quanto ora lo sono ancor più! Ma come scoprire il padre del frutto delle mie viscere?… Cresceva intanto nel mio seno quell'essere infelice, e le mie compagne di turpitudini e l'infamissima maestra di esse volgevano in dileggi e le mie lacrime e la mia affezione. Finalmente il giorno da me desiderato e temuto giunse, ed io misi alla luce un vezzoso fanciullo. Chi può narrare ciò che provai in quell'istante? Non osava guardarlo, poichè il primo di lui sorriso esser doveva l'ultimo per la madre sventurata. Lo strinsi al mio seno. Dopo pochi momenti le infami braccia della padrona di quell'orribile albergo me lo strappavano fra le risa e gl'insulti delle mie compagne di ludibrio. Buon Dio! che può mai impedire ad una madre, sia pur le mille volte colpevole, di ritrovarsi un dì su questa terra col parto delle viscere sue? Formai un progetto e tosto l'eseguii: ah! io ben sapeva come quella infelice creatura andava ad essere confusa fra le mille e mille sventurate sue pari in un di quei luoghi ove la pietà degli uomini ha cura degl'innocenti frutti del disonore. Una vertigine mi colpì: un segno, un segno era indispensabile onde se un dì sulla faccia di questa terra lo avessi scontrato, mi desse a riconoscerlo: ma come imprimerglielo? con qual mezzo, con quale istromento? Avrebbe forse la orribile donna che a me imperava acconsentito giammai alla mia preghiera? Gli istanti volavano; il più piccolo indugio rendeva vana l'esecuzione del mio desio. Senza coraggio di risguardare la mia creatura, senza pure osare di mirare le fattezze infantili, afferratogli colla ferocia di una leonessa il padiglione dell'orecchio sinistro, non mi distaccai se non avendone un brano fra i denti sanguinosi. Il figlio gettò uno strido: io svenni. Madre e figlio fummo separati per sempre. Ah! ecco il frutto della povertà! il frutto del disonore! Orrore, sangue, maledizione: eppure io era nata innocente.—
Lo stupore delle amiche impediva loro di proferire parola, un brivido di orrore corse per le loro membra, e nel risguardare la pallida faccia della loro sventurata amica, nata sì casta, sì virtuosa, degna di tanta pietà, di tanta compassione, simultaneamente abbracciandola, confusero con le sue le loro cocenti lacrime.
Lungo tempo fu silenzio non interrotto che da lacrime e baci.
—Di noi, chi più chi meno, tutte abbiamo provato l'ira del destino e possiamo dire pur troppo non esser finite le dure prove per noi, esclamò con un sospiro Rosina che ruppe il silenzio. Tu vedi, Angiolina, che nostro malgrado, lasciato il pacifico rifugio dell'America, ci siamo dovuti condurre qui ove i torbidi nascono di ora in ora, e dove i nostri più cari vanno rischiando la vita e, ahimè! io temo l'onore.
—I tuoi disastri sono miei, replicò Angiolina; i miei non sono tuoi, chè io ho doppio carico di sventura: tu sai quanto amo te ed i tuoi; sì, non vi offendo, io amo e voi e gli sposi ed i figli vostri di un amore superiore a quello e di sposa e di madre; il mio amore non ha nulla di terreno, esso è spirituale come l'anima; io tenterei e chiunque tenterebbe invano di esprimerlo; ma quanto più sento la purezza dell'anima mia, tanto più spregio questa carne che l'adombra e la imprigiona.—
Grosse gocce di sudore gelato stillavano della pallida fronte della derelitta, la quale a questa interruzione di dire non aveva perduto lo scopo principale della sua dolorosa narrazione, e perciò fu sollecita a continuare:
—Voi siete madre, ma non madre a cui il figlio fu divelto dal seno appena nato e cui ella dette un ricordo acerbo di sangue e di crudeltà in un delirio di affetto materno onde, rivedendolo, riconoscerlo; non potete appieno comprendermi: ma quando io vi avrò palesato il più terribile dubbio, ah! temo che il vostro amore, la vostra pietà dovrà convertirsi in ribrezzo.
—Gran Dio! che dici mai? sclamarono in una volta Rosina ed Esmeralda.
—Io son…. figlia dell'ipocrita Basilio…. Quella maschera… Oh
Dio! io svenni! Amiche, il mio dubbio mi dilania le viscere! io….
Ah! non fia vero: ditemi che non può essere, ditemelo per pietà….—
E cadde priva dì sensi.
Quando ebbe ricovrato la parola non poterono le due amiche udire che le interrotte frasi:—Ah, il mio dubbio! dubbio di morte…. Ah Dio! non sarà…. no…. non sarà…. vero….—E così dicendo, con mano tremante si trasse un involto di carta dalle vesti, e consegnatolo alle due amiche, queste vi lessero quanto segue.
Reverendissimo padre,
Dal Lazzeretto di Livorno, li 3 settembre 1835.
Invano tenterei dipingere al vero come io vorrei l'orrore che questo luogo inspira. Oh quanto è da compiangersi, padre reverendissimo, l'umanità! Terribile malore crucia i corpi degli infelici che vengono qui tradotti colpiti già dalle tremende unghie della morte. Oh! ben pochi di essi ne ho veduti tornare alle loro desolate famiglie. Padri divisi dai figli, consorti dagli sposi, fratelli dai fratelli; e tutti, nel più intenso esasperare del morbo conservando la limpidezza e sanità della mente, sentono più vivi i loro spasimi fisici, poichè a quelli vi si aggiungono i morali. Chi può descrivervi i lai, le lacrime, gli urli feroci e dirò, ahimè! le più esecrande bestemmie di cui risuonano gli echi di questo albergo lugubre? Pur troppo pochi essendo in pace e in grazia di Dio, giungono a vedere con fronte serena avvicinarsi il termine di loro mortale carriera, pochissimi sono tanto virtuosi da rassegnarsi ai voleri inalterabili della divina provvidenza. I più di questi moribondi (inorridisco a riferirlo alla paternità di vostra signoria reverendissima) sembra che con imprecazioni diaboliche strappar vogliano dal trono di Dio la grazia di loro guarigione. Oh insensati e doppiamente infelici! essi non si avvedono che fra pochi istanti perderanno una vita di dolori quaggiù per incominciarne una che non avrà mai fine nell'eternità dell'inferno.
Siccome vostra paternità reverendissima agevolmente crederà, non manco, in unione ai miei venerabili fratelli, di alleviare i patimenti fisici e morali di tante centinaia d'infelici, e ogni vittima che noi strappiamo al nemico infernale è per noi oggetto di indefinibile gioia che ne fa dimenticare gli altri disagi di questo vivere di penitenza, che la fiducia in Dio e la carità del prossimo ci dà forza di tollerare.
Conforta in tanta miseria il cuore paterno di noi religiosi e di quanti sentono amore di cristiano il vedere a quando a quando fra questi orrori brillare la carità e l'annegazione di sè stessi, di alcuni degli inservienti di questo luogo e fra gli altri delle donne. Ed a questo proposito merita special menzione certa donna infelice, qui conosciuta per il nome di Esmeralda, la quale, tradotta dalla città quasi moribonda, riprese la vita che tutta volle consacrare alla cura di un suo diletto figlio fanciulletto amabile per nome Selvaggio, e di poi è rimasta nell'ospedale per assistere altri infelici.
Per quanto si dice, costei non ha genitori, e vuolsi sia stata per alcun tempo vittima di certi zingani. È questa una di quelle poche creature che veramente nobilitano il genere umano e sono, come pur troppo accade nel mondo, le più infelici tra i figli di Adamo.
Fino dal suo giunger qui confessolla il degnissimo padre Giuseppe da Montepulciano, di cui vostra paternità reverendissima conosce la pietà e la dottrina. Or bene il reverendo padre, senza punto violare il sacro segreto della confessione, mi accennò ch'ei sapeva tali cose intorno a questa donna che eccitavano la più alta compassione verso di lei; talchè un giorno, e parmi ieri l'altro, nel vederla passare per le corsie del Lazzeretto apportando cordiali per gl'infelici ammalati, mi disse: «Oh! padre Roberto, punto non dubito che questo malore sia per cessare presto, quando tali creature sono per disarmare la collera celeste.»
Ma ahimè! se abbiamo qui creature angeliche, abbiamo pure, come io vi accennava, dei peccatori ostinati, ed il giorno stesso in cui il padre Giuseppe mi elogiava le virtù di quella donna che all'aspetto si rivelava per donna di alta condizione caduta nel basso, dovemmo fuggire dal letto di un moribondo che nella più tremenda agonia parea già in possesso di una legione di demonii. La carità cristiana m'impedisce di segnar qui il nome di colui; voglia il cielo farlo ravvedere e portarlo a sè. Sento un campanello della infermeria che mi avvisa; un servente in tutta fretta mi dice che una delle più ostinate femmine di mondo mi chiama per la confessione. Chiudo la presente e vi raccomando, o padre, e me e quella infelice nelle vostre sante orazioni. E con tutto il filiale ossequio
Vostro figlio nel Signore
ROBERTO DA SANTA CROCE.
Reverendissimo padre,
Dal Lazzeretto, il 5 settembre 1835.
Il dovere del sacro mio ministero mi obbliga a scrivervi, e lo faccio appunto per obbedire alla volontà di quella disgraziata peccatrice che stavasi morendo allorchè io era sull'ultimare della mia precedente. Cotesta donna, per nomignolo Vascello*, dopo aver narrato le più orribili peccata, mi confessò aver tratto nell'infamia una infelice giovanetta per nome Angiolina, figlia di tal signor Basilio negoziante di Livorno e della moglie di certo facchino per sopranome Topo, il quale dubitando della legittimità della figlia, ebbe cuore di abbandonare quella creatura all'età di sette anni sulla pubblica via. Quella fanciulletta, che avrebbe avuto miglior sorte a morire la prima notte del suo abbandono, fu trascinata nel vizio dalla Vascello, la quale per tal peccato era inconsolabile allorchè la confessai. Ma ahimè! ciò era nulla rimpetto di più orribili misfatti che io per commissione della defunta vado a narrare alla vostra paternità, onde, per quanto sia possibile, riparare ai peccati e danni ulteriori. L'iniquo padre della misera ed infelice fanciulla avvicinò la sventurata in preda del più grave letargo. Forse…. non sarà…. ma pur troppo era nei destini che altra vittima dovesse venire al mondo. L'Angiolina partorì un maschio che fu gettato nella ruota dei trovatelli con entro le fasce il nome di Enrico e del casato imaginario di Sprinel. La donna Vascello, per una di quelle bizzarrie che veggonsi nei caratteri dei mortali, mentre non si era fatta scrupolo di maneggiare la trama, si fece peraltro un dovere di sorvegliare alla infelice creatura che ne derivò; per lo che, tenuta intelligenza con alcune donne, potè sapere che il giovanetto Sprinel dapprima venne collocato presso una famiglia di contadini e dipoi, entrato nella militare carriera come tamburo, aveva disertato e si era arruolato sotto estera bandiera. Di più non aveva potuto saperne, ed in quell'ora terribile, colla morte innanzi, col pentimento nel cuore e col desiderio verace di riparare il meglio possibile il male, mi supplicò di occuparmi io del rintraccio dell'Angiolina e del di lei figlio, a cui intendeva lasciare quelle poche sostanze ammassate coi suoi delitti.
* Storico.
La donna, padre reverendissimo, a quanto parmi, avrebbe molto desiderato prima di morire che l'autore di tanti misfatti potesse disporre delle sue immense ricchezze a pro delle infelici sue vittime; e nominò questo mostro nella persona del signor Basilio sopraccennato. Giudichi vostra paternità reverendissima del mio stupore e di quello dell'ottimo padre Giuseppe nell'apprendere che tal insigne peccatore giaceva a pochi passi di distanza dalla cella della moribonda ed esso pure era agli estremi della sua vita nefanda, e che avanti a lui era il suo complice in vari grandi misfatti, certo Narciso, uomo dissoluto e mezzano di amori. Ci portammo alla cella del signor Basilio; ma ahimè! quel peccatore (che è quello stesso di cui io le parlai non nominandolo nella mia precedente lettera e che faceva fuggire i sacerdoti per le ereticali sue bestemmie in punto di morte) ricusò costantemente di confessarsi. E piacendo a Dio per i suoi impenetrabili fini di non toglierlo adesso dal mondo, non abbiamo nè io nè padre Giuseppe creduto bene di entrare in terribili dettagli con lui, tanto più che l'Angiolina ed il giovane (il quale adesso aver dee circa quattordici anni se pur vive) non si sa dove sieno.
Tanto io quanto padre Giuseppe abbiamo combinato di scrivere la breve e lacrimevole storia di questi peccati a vostra paternità reverendissima, perchè ella coi suoi superiori lumi ci diriga in quello in che la nostra insufficienza mancasse.
E con la solita affezione filiale e rispettosa
Suo figlio nel Signore
PADRE ROBERTO DA SANTA CROCE.
PS. Mi dimenticava di dirgli che, avendo il moribondo Narciso dopo la sua confessione confermato il discorso e la narrazione della Vascello, e tanto io quanto il padre Giuseppe avendo domandato ai peccatori se, a riparazione delle loro colpe, avesser consentito che la loro deposizione in proposito di Angiolina e di Enrico fosse ripetuta alla presenza di notaro e di testimoni per maggiore autenticità, essi avendo acconsentito volentieri, mostrandosi anzi ansiosi che ciò succedesse, è stato in proposito redatto un istromento che accompagno a vostra paternità reverendissima per quel migliore uso che crederà nell'alta sua saviezza. Preghiamo pace all'anima di quei peccatori, che almeno dettero prova di pentimento all'ora estrema. E mi ripeto, ecc.
Queste due lettere autografe erano state accompagnate all'Angiolina col seguente biglietto:
Dilettissima nel Signore,
Avendo sentito da un nostro confratello missionario che in coteste remote parti del mondo esistete voi la quale siete certamente quella fanciulla sventurata cui può molto interessare il contenuto delle due lettere nel nostro venerabil figlio nel Signore padre Roberto da Santa Croce, ve le accludiamo e spediamo per persona di nostra fiducia. Non v'importi sapere come dall'eremo nostro sì distante dal luogo ove voi siete abbiamo scoperto la vostra dimora; grandi sono le vie della provvidenza, cui non mancano mezzi di operare ciò che ella vuole per i suoi adorabili fini. Così potessimo avere scoperto il soggiorno del disgraziato vostro figlio: ma vogliamo sperare nella misericordia dell'onnipotente Iddio che un giorno o l'altro lo scopriremo; e se potremo ravvicinare la madre al figlio, ciò rallegrerà il nostro cuore; e per tale oggetto non mancheremo di pregare notte e dì il Creatore d'ogni bene.
Dai nostri venerabili figliuoli nel Signore abbiamo scoperto molte particolarità della vostra storia oltre quelle del documento che vi inviamo, onde, se pur vi occorre, possiate adoprarli a vantaggio vostro e della vostra infelice creatura.
Creatura infelice! mi è caro vedere che voi siete innocente, e che le pene da voi sofferte e che soffrirete disarmeranno l'ira divina. Non disperate del divino aiuto; e se in questa vita dovrete sopportare il peso della iniquità del padre, sappiate offrire i vostri travagli a quell'Ente puro ed eterno che ve ne farà largo tesoro al regno dei cieli.
Il Signore vi benedica.
PADRE GEREMIA DA PISA.
Generale dei Minori di San Francesco.
Roma, li 6 maggio 1840.
Unito a queste lettere era un chirografo che conteneva la confessione più esplicita della Vascello e di Narciso relativa alle vicende dell'Angiolina, che già i nostri lettori conoscono.
Terminata la lettura dei fogli, Esmeralda e Rosina domandarono all'Angiolina:
—Ebbene che pensi tu fare adesso?
—Il mio piano è fissato; il segreto che per tanti anni ho tenuto nel fondo del cuore è svelato. Fra poco noi ci diremo addio, e voglia il cielo non sia eterno: scenderò a terra travestita da uomo; già, vedete, ho fatto tagliarmi i capelli, che vi lascio per eredità.—
Sentendosi cadere le lacrime dal ciglio per la commozione, fu pronta a dire:
—Scenderò a terra; è duopo che mi trovi a faccia col mio…. (e non ebbe forza di proferire i nomi che al mondo sono i più cari ma che per quella misera erano un argomento di orrore). Lo vedrò colui, deh! potessi ritrarlo dal lezzo de' suoi misfatti…. Dio mi aiuterà…. e…., non oso concepire questa speranza, se una sola, una sola consolazione, la più grande ch'io possa imaginare…. se mio figlio….—La forza delle lacrime le tolse la parola.
Di lì ad un'ora Angiolina, armata e vestita da marinaro, era a Livorno nel drappello dei giovani che Selvaggio aveva condotto in città alla ricerca di Giovanni e di Alfredo.
Varietà.
Otto giorni dopo i fatti descritti nel capitolo decimoquinto, Bruto e Catone non si trovavano più a Livorno: la loro ambizione aveva trovato il modo di collocarli in seggio più alto; il che a noi basta indicare, non ci volendo spiegare di più, poichè non scriviamo una storia, ma bensì un romanzo. E non ci faccia specie la celerità con cui s'incalzavano gli avvenimenti. Succedevano mutamenti di ogni genere a quei giorni, inquantochè questa sorprendente celerità non è finzione romantica, ma è una verità che sarà oggetto di maraviglia nei posteri.
Dunque, tornando al filo del discorso, vi dirò che i due caporioni demagoghi erano iti più su di quello che credevano, e nei loro posti a Livorno erano subentrati per la parte civile il famoso signor Basilio e sul militare il capitano Grongo con altri loro pari, e certo non passeremo sotto silenzio che fra questi vi erano il vecchio oste dei Tre Mori ed il degno suo genero, il marito della elegante signora Concetta. Costoro, assunte le redini della città, spalleggiati da un numero straordinario di seguaci, ordinavano, disordinavano, abbattevano, creavano, insomma erano gli arbitri di tuttociò che costituisce il potere. I giornali in tanto trambusto magnificavano la longanimità di quelle turbe sfrenate che ebbero tanta virtù di non svaligiare i pacifici cittadini, di non dare il sacco a quella città ormai in potere dell'anarchia; e se ciò avvenne, parrebbe cosa sensata attribuirne tutto il merito alla provvidenza, la quale per i suoi ammirabili fini volle risparmiare ai buoni una nuova e più terribile sequela di dolori, e non alla mitezza del mostro popolare scatenato; e se questo rimase innocuo, fu certo per uno di quegli strepitosi miracoli in forza dei quali furon talvolta veduti girare innocui per fiorenti città leoni scatenati e fuggiti dal serraglio.
L'inalzamento vicendevole dei capi demagoghi e del signor Basilio e due sette formatesi nella stessa città, una delle quali avea per capo il nominato zio Neri, giunte ad azzuffarsi tra loro, ritardarono il supplizio a cui dal signor Basilio era stato destinato il misero Giovanni, coperto di ferri e languente nelle segrete più dure della fortezza vecchia in quel torrione che ha le pareti esterne tuffantisi nel mare di là dalla darsena. Giovanni in quel profondo dava luogo ad amare riflessioni e ripensava come circa ventott'anni addietro, tutto infiammato di amore per quel popolo che adesso lo aveva destinato a morte, sfidando immensi pericoli, sprezzando disagi, si era fatto a penetrare in città sotto il travestimento di un caprone, scalando una muraglia vicino al forte ove si trovava or detenuto. Nel fare quelle riflessioni, alfine compiangeva il popolo che in pochi giorni fa passare dall'Osanna al Crucifige i suoi protettori; non disgiungeva queste riflessioni dal pensiero della propria salvezza, rimulinando come frangere i suoi ferri, come salire alla prima ferriata della torre, come da quella precipitarsi nel mare e nuotando raggiungere la corvetta. In questi pensieri passava notte e dì, non osando chiedere ai custodi notizie della moglie e dei figli, per non esporli alla tremenda ira popolare, consolandosi nel supporli tuttora sul naviglio e credendo di sicuro che Alfredo o Selvaggio li avrebbero potuti raggiungere colà. Disperando poi della propria salvezza, misurava con freddo occhio l'avvenire; e quando tutto, ahimè! dicevagli impossibile la sua fuga, si rassegnava alla morte con quel ferreo coraggio che non gli era mancato giammai nelle tante vicende della turbolenta sua vita. Io sono stato infelice, diceva fra sè, dalla nascita, dovrò esserlo fino alla morte immatura che mi si prepara: così era scritto nel destino. Ma se non lascerò ai figli in retaggio la mia vendetta…., io lascerò loro il più eloquente esempio del come fuggir debbansi i matti delirii di emancipazione sociale la mercè di sêtte. Deh, diceva l'ex-demagogo, voglia il cielo che lo spirito bollente e cieco del padre non siasi instillato nei figli e che essi già non sieno infetti dalla tabe delle rivoluzioni e delle segrete società! Questi presso a poco erano i soliloqui ed i pensieri di Giovanni durante la sua detenzione, nel periodo della quale l'audace signor Basilio aveva osato di fare più visite alla sua vittima pel piacere di aggravare colla sua odiosa presenza lo stato del prigioniero. Ma i suoi desiderii erano rimasti frustrati: imperocchè Giovanni non era una di quelle femminelle a cui gli stenti della prigionia indebolissero gli spiriti, e la vista del persecutore facesse paura. Giovanni in ognuna delle insultanti visite del signor Basilio, per qualunque modo che tenesse quel proteiforme birbante, aveva opposto un invincibile silenzio. Il più pretto stoicismo stava impresso sulle labbra dell'ex-capitano dei demagoghi. Perciò agl'insulti sanguinosi, alle melate parole, alle frasi dolcissime o minacciose del signor Basilio aveva risposto con uno di quei sogghigni da far sempre rientrare e rannicchiarsi in sè stesso il corpicciolo basiliesco. Alla perfine il persecutore aveva risoluto di non più tornar a visitare il prigioniero, dappoichè ne soffriva più il visitatore che il visitato, e risoluto altresì di affrettare l'invio all'altro mondo dell'odiato rivale.
Durante l'esercizio del supremo potere nell'anarchica città, invano aveva tentato d'impadronirsi di Rosina e di Esmeralda, da lui sapute sulla corvetta; quell'asilo era inviolabile: invano procurato di avere fra gli artigli Alfredo e Selvaggio; di costoro ignorava l'asilo, eran essi scomparsi sotto l'egida formidabile dello zio Neri, il capoccia dei pescatori di bocca d'Arno e del Calambrone. Tutta l'ira dunque dell'uomo feroce erasi concentrata sulla persona di Giovanni, e questa non aveva potuto ancora sfogarsi, dappoichè a guardia del misero si stavano armati appartenenti a due partiti.
Così volgevano le cose, mentre le calde preghiere di Rosina, di Esmeralda, di Ofelia e delle altre creature delle infelici famiglie disarmavano la collera celeste, e la operosità di Alfredo e di Selvaggio, coadiuvate potentemente dallo zio Neri, andavano pensando ad un mezzo di salvezza del prigioniero. Noi lasceremo frattanto le donne ed i fanciulli pregare sulla corvetta; Alfredo, Selvaggio con lo zio Neri: e lasceremo Giovanni a meditare ed alternativamente a far lo stoico in prigione, per assistere alle più bizzarre funzioni che un popolo aberrato potesse inventare. Prima di lasciare Giovanni, peraltro conviene avvertire che nell'ultima visita il signor Basilio fu accompagnato da un giovane con capelli rasi, vestito da marinaro, di svelto portamento e di occhi languidissimi, d'incarnato simile ad un mulatto. Costui non aveva mai parlato durante il colloquio o piuttosto monologo del signor Basilio, inquantochè, come già sappiamo, Giovanni non degnossi rispondergli; ma quando l'occhio del prigioniero si affissava sul volto del compagno del signor Basilio, cercando di richiamarsi a memoria i tratti di un volto che credeva per certo aver veduto altre volte, quel marinaro non si stancava di rispondere a quelli sguardi scrutatori con altrettanti di significante intelligenza e di marcatissima pietà. Giovanni questa volta possiamo dire che non dette neppure materialmente ascolto al velenoso Basilio, tanto era occupato dalla presenza di quell'incognito misterioso, i cui sguardi eran così espressivi; s'andava lambiccando il cervello per indovinare chi mai fosse, e pel raziocinare il più sottile andava lungi mille miglia. Gli parea aver veduta quella stessa fisionomia e come di volo, come una visione, fra i componenti il drappello di Selvaggio; ma d'altronde non avea idea di aver veduto quel mulatto fra l'equipaggio della corvetta. D'altronde pensava: come mai? se costui fosse stato in quel drappello di valorosi, sarebbe adesso al servizio, dirò di più, nella intimità del signor Basilio? Ma il tempo in cui il signor Basilio tribolava il prigioniero ebbe pur fine, e così il nostro Giovanni rimase privo della gradita vista dell'incognito; la sua sorpresa crebbe allora che, nel voltarsi che fece il vile persecutore verso la porta della carcere, l'incognito popolano, alzati gli occhi supplichevoli con dolcezza, gettò nella prigione un piccolo foglio ripiegato che, appena partiti i visitatori, Giovanni raccolse premurosamente, ed apertolo vi lesse in inglese queste parole:
Giovanni, confortatevi, i vostri vivono in libertà, voi la riacquisterete: fermezza e coraggio!
Dopo tal biglietto Giovanni non ebbe più dubbi; tutto gli faceva ravvisare nell'amabile incognito la virtuosa e sensibile donzella che al certo era una molla principale della salvezza comune. Giovanni si sentì come rinascere a nuova esistenza, benedisse il cielo, benedisse la cara giovane e sperò.
Io qui vi descriverei la più bizzarra delle popolari aberrazioni, una funzionaccia plateale in cui più d'un facchino sperò diventare un Ercole novello e più di un ladro d'aringhe oscurar la fama di Bacco, se avessimo bisogno di tenere dietro agli errori del popolo per convincerci che questi nella maggior parte hanno origine dalla miseria, dalla fame, dall'abbrutimento, dall'ignoranza. Lasciamo adunque la scena e ritorniamo ad Angiolina, che abbiamo già veduta al fianco del signor Basilio, persuasi che i nostri lettori saranno desiderosi di conoscere se costui nel gentile domestico mulatto sapea di aver al fianco la figlia.
Noi ci ricordiamo certamente che il signor Basilio intervenne alla colazione demagogica nel palazzo di Catone, ove terminarono per essere tutti ubriachi; anche il nostro eroe bigotto si ritrasse mal reggendosi sulle vacillanti gambe e si diresse appoggiandosi sulla sua canna d'India verso la propria abitazione. Angiolina, appena vide in salvo Alfredo e Selvaggio, risolse di restare in città, di accostarsi al signor Basilio anche col fine di giovare al povero Giovanni rimasto in preda dei forsennati. Senza deporre il suo marinaresco abito e senza punto togliersi dal viso quella vernice applicatasi con unto di noce di cocco, che le dava una tinta di mulatto; senza in specie lasciare il pugnale che teneva a cintola e la carabina che avea sulle spalle nè le cartucce che teneva nella giberna legata ai fianchi da una striscia di cuoio, si pose sulle tracce dell'uomo da lei cercato e che ella aveva ravvisato benissimo a quei lineamenti, ahi! troppo impressi nella sua mente e nel suo cuore fin da quando si era incontrata nella turba di coloro che menavan legati Giovanni ed Alfredo, ma che poi aveva veduto sparire dopo la disgrazia del primo e la salvezza del secondo. Rivoltasi ad un popolano, gli aveva domandato:
—Di grazia, cittadino, vorresti tu indicarmi l'abitazione del signor
Basilio, di casato….?
—Non occorre il casato, aveva risposto il popolano sogghignando, mio bel marinaro; il signor Basilio è uno di quegli uomini che per essere conosciuto universalmente non ha bisogno di un cognome. Esso è così celebre che anzi lascerà che il suo nome battesimale si trasformi in casato e che tutti coloro i quali al mondo avranno la felicità di possedere i suoi requisiti possano chiamarsi la famiglia dei Basilii.—
Angiolina, che sapeva pur troppo qual fosse la specie delle virtù del padre suo, si affrettò a soggiungere:
—Non occorre che tu ti diffonda in elogi verso il personaggio di cui ti addimando l'abitazione, lo conosco quanto te e (trattenendo un sospiro) forse più di te.
—Ma sì, dico io per mia fè, sì che è necessario l'elogio di quel fior di galantuomini; sempre onesto, sembra portato per il suo simile tanto nei tempi andati, quanto nei tempi presenti. Perchè sappi, caro cittadino marinaro, che quando il popolo doveva rintanarsi e tacere, il signor Basilio taceva e stava rintanato; ora che è tempo in cui il popolo grida e si mostra, esso urla ed è tutto dì per le piazze e per le vie.
—Comprendo benissimo: so tutto, ti dico, ma sembra che tu, desiderando ragguagliarmi di ciò che so, dimentichi d'indicarmi ciò che non so, cioè dove esso abita.
—Quel morigerato! quell'esempio di pacatezza, di moderazione! sempre padron di sè stesso! dimora…. ma caspita! cittadino marinaro, eccolo appunto che s'avvia alla sua abitazione, tu potrai accostarti e seguitarlo come ti piace, giacchè, a quanto mi sembra, il peso delle occupazioni pubbliche deve avergli dato alla testa; potrai anche sostenerlo, se ti pare:—E si allontanò.
Angiolina, girato il capo, vide anch'essa il signor Basilio, cotto fradicio dalla ubriachezza, reggersi a stento e camminare lungo le muraglie. Tal vista mosse a pietà quel cuore sensibile, e due lacrime irrigarono le belle guance della donna, la quale sospirando seguì da vicino l'empio suo genitore.
Il padre e la figlia.
—Chi siete voi? aveva esclamato il signor Basilio ubriaco nel sentirsi prendere per un braccio mentre scivolando su di umido terreno aveva corso rischio di cadere. Chi siete voi? che volete? andate in pace, non ho che darvi. Ma il braccio che sostenevalo parea robusto per guisa che l'uomo gridò:—Non stringete tanto. Eccovi un luigi d'oro.—
—Miserabile! a sua posta disse la persona che lo tenea fermo.
Miserabile! tienti il tuo oro, pensa ai tuoi peccati.—
Il signor Basilio si voltò e, sebbene alterato dal fumo dei liquori, ravvisando un soldato di marina che aveva la carabina ad armacollo, fu côlto da improvvisa paura, si provò a chiamare aiuto, ma il popolaccio, che vedeva dal garbo del marinaro come questi per fini amorevoli sorreggesse l'altro e come quest'ultimo fosse dal vino fradicio, rispose agl'inviti di soccorso che gli facevan gli occhi, non le parole, del signor Basilio con scrosci di risa.
—Che vuoi da me che mi trascini, prode fanciullo? seguitò a dire il signor Basilio balbettando.
—Condurti in luogo ove non ti accompagni il pubblico dileggio; così pur troppo potessi salvarti dallo sdegno del cielo!
—Andiamo dunque, camerata, andiamo pure, seguitò Basilio. Andiamo ah! ah! poffare! sono amico dei militari io perdinci! Ah! ah! ah!—
Il giovane marinaro procedeva mestissimo procurando di divorare la via.
—Non parli? affè di Nettuno! sei un marinaro molto curioso ed originale; ma dimmi, non saresti di quelli…. per bacco! ho le idee chiare io: che dico? non saresti di quelli che un paio d'ore fa ci hanno tolto uno di quei tordi che eravamo pronti ad infilare nello spiedo?—
Il giovane marinaro per tutta risposta pose la mano sull'elsa del pugnale che teneva a cintola.
Il signor Basilio vide il gesto.
—Capperi! fu sollecito a dire, tu sei di poche parole; ma io credo d'intendere la ragione della tua grammatica: orsù dunque siamo buoni amici. Ma, di grazia, dimmi: dove vuoi condurmi?
—A casa tua.
—In questo caso possiamo fermarci; eccola qui.—E fece cenno di sostare: il marinaro gli lasciò il braccio, ed uno dopo l'altro entrarono nel magnifico palagio, una delle ricchezze dell'impostore.
La porta del palagio si richiuse; da quel giorno in poi il signor Basilio fu visto uscire quasi sempre in compagnia del misterioso marinaro.
—Chi sarà mai quella specie di moro? dicevansi i vicini: pare che abbia incantato quel degno uomo del signor Basilio.
—Sarà il suo nuovo segretario o qualche sua prima ordinanza.
—Sarà qualche gran liberale del mondo di sotto.
—Sarà una spia per sorvegliare al buon ordine.
—Che sia il boia venuto per impiccare quel famoso codino che sta in segreta nella fortezza?—
Varie erano le opinioni intorno al vero essere del personaggio che stava attaccato come l'ombra al corpo del signor Basilio.
Povera Angiolina!!!
Ma avrà ella fatto breccia nel cuore di quell'empio? avrà essa parlato, rivelato il suo essere? Noi lo vedremo nel prossimo capitolo; perchè adesso fa duopo ritornare ad Alfredo e Selvaggio che abbiamo lasciati da qualche tempo.
Poche ore dopo la scena di Piazza d'arme e l'incontro dello zio Neri nel suo giovane protetto, questi riposava nella capanna che avevalo veduto nascere sulla riva dell'Arno.
Chi può dire la gioia della sua seconda madre? Chi potrebbe numerare gli abbracci ed i baci che si dettero a vicenda egli giovane dalla barba e dai baffi cresputi, essa vecchia grinzosa?
Fu presentato Alfredo; vennero refocillati: a tutti stava a cuore il povero Giovanni, che sapevano in mano di quelle tigri sitibonde di sangue.
—È affar mio, riprese con sicurezza e gravità il vecchio zio Neri; per la vita di uno storione e per tutte l'oche selvatiche di San Rossore, rispondo io della sua persona.
—Voi ci rassicurate, mio buon protettore, sclamò Selvaggio, ma quei demonii….
—Non hai sentito il discorso da me fatto a compar Biagio del Calambrone? Eh! San Ranieri mi punisca se costui non la può coi suoi su tutti quei briachi di Venezia nova e di quant'altri. Ohe! ci siamo intesi; occhio alla bomba*, gli ho detto: quell'uomo guardalo tu. E lui mi ha strizzato l'occhio; è affar sicuro. Per mio Bacco! ma mangiate e bevete…. quando ve lo dico io.—
* Stiamo attenti.
I due si riconfortarono alquanto; la sicurezza del buon pescatore non avvezzo a mentire, la facilità con cui aveva liberato loro stessi dalle mani di un popolaccio insano erano argomenti sufficienti per credere alle sue parole.
—Oh! ma non intendo già che voi stiate come suol dirsi colle mani a cintola, prese a dire lo zio Neri tirando in un sorso più rhum che non ne starebbe in un quartuccio; sì davvero, questa notte concerteremo. Dite un po', a denaro come si sta?
—Ah! se questo occorre, contate pure, buon zio Neri.
—Caspita! se occorre? vedete, quei bricconi ci hanno proprio levato il sangue, ma se ci fosse una somma grossa veh!
—Quanto vuoi?
—Oro ne avete? sclamò Neri guardando la scarsella de' suoi protetti.
—Abbiamo gioie, zecchini e cedole di banco alla corvetta.
—Bene benissimo! e tirò giù una delle solite sorsate del da noi conosciuto rhum di contrabando. Bene benissimo! quattrini, ed al resto penso io…. Domani all'alba col mio battello alla vela io e voi andremo alla corvetta e porteremo qui Rosina, Esmeralda, i ragazzi, le bambine, insomma chi vorrete. Per Sant'Andrea protettore dei pescatori, che caschi il mio naso nell'Arno se non siamo più sicuri qui fra queste alghe, fra queste macchie che sotto il cannone della corvetta. Sì, signori miei: e chi vi dice che ad un rovescio di cose non potessero ricovrarsi sulla corvetta stessa i vostri nemici? e allora, oh che brutta mescolanza! non sapete che costoro tengono il miele sulle labbra e il rasoio a cintola? Su, su dunque: dimani a bordo; e poi è tempo di finirla con queste faccende; alla demagogia (come la chiamate voi altri dotti) tien dietro la rovina della libertà.
—Voi mi fate stupire, disse Alfredo.
—Perchè son un pescatore: ah! ma non sapete che val più l'esperienza che non i vostri libracci? so che voi siete un famoso capitano, ma quanto alle furie e alle bravate popolari ne saprò più di voi: fuoco di paglia fa molto fracasso e più fumo e poco dura; ne ho vedute tante dal 93 in poi! che so io? le son faccende le quali van sempre a terminare poco bene.—
L'indomani del colloquio che noi riferiamo l'antica dimora di Esmeralda e di Selvaggio quella divenne di tutti i nostri personaggi che sappiamo rimasti sulla corvetta. Il loro arrivo, la loro dimora fra quei boschi fu cosa tanto celata che non vennero a saperla neanco i pescatori vicini; d'altronde noi già conosciamo come il vecchio zio Neri sapesse cacciarsi le mosche dal naso in proposito di curiosi.
S'avvicinava un momento terribile.
A Livorno il signor Basilio aveva avuto qualche sentore di mutamento di cose; e siccome la vita di libertinaggio che gli permetteva l'attuale sua posizione demagogica gli andava a genio più d'ogni altra, egli ch'era stato, diremo, di diversa fazione, quando i pensatori di quel genere erano in fiore s'era finto liberale per prudenza. Al primo bucinare di progressismo, era adesso proprio di cuore e di mente un demagogo indiavolato; e se qualcheduno storcerà i labbri e tentennerà le spalle in atto dubitativo, noi lo inviamo al frontespizio del libro, ove, conoscendo che si tratta di un romanzo, capirà che non siamo obbligati che a star nei limiti del possibile.
Il signor Basilio aveva avuto sentore, io vi diceva, di un certo movimento di truppe straniere, aveva stretto intorno a sè i più fedeli, aveva divisato sè resistesse colla forza a qualunque armata minaccia; e, fatte sul serio cose ridicole, si apprestò a qualunque evento a vigorosa difesa. Già Livorno, convien dirlo ad elogio di molti buoni di cotesta città, era divenuta una fogna, ove era penetrato ogni genere di colaticcio demagogico da tutte le parti del mondo, ed il signor Basilio poteva disporre di molte migliaia di disperati i quali senza patria, senza tetto, senza onore, senza un soldo, senza religione, senza speranze, vivendo alla giornata, erano riputati talmente capaci di ogni eccesso che i savi ed onesti Livornesi temevano più di essi che di quanti potessero piovere addosso di fuori. Taluni dei buoni, per sfuggire il prospetto continuo di esecrabili intemperanze, erano emigrati dalla città più solleciti, più premurosi di quello che anni indietro non lo erano stati nel fuggire dal choleroso contagio. In mezzo al coraggio ed alla paura il signor Basilio, lasciato il circolo popolare ove discutevasi ed approvavasi la proposta di difesa all'ultimo sangue in caso di assalto, tenendo attivi i fili elettrici che non avevano tregua nella trasmissione dei consigli e dei progetti fra il signor Basilio et adepti ed il potentissimo Bruto, si condusse nel segreto del suo palagio, ove il nuovo suo servo indiano Angiolo, a lui versando il caffè in una tazza di porcellana del Giappone, si decideva al gran passo della rivelazione.
—Angiolo, disse il signor Basilio mollemente adagiandosi sul cuscino di raso del suo divano, Angiolo, porgimi quella carta ed incominciamo da questo giorno a farla da padrone da vero.—E sì dicendo accennò ad Angiolina un foglio che stava piegato su un vicino mobile. La fanciulla obbedì, e recatogli il foglio, il signor Basilio lo lesse per ben due volte, e quindi toltosi dalle tasche dell'abito un piccolo calamaro di bronzo, v'intinse una penna che aveva dentro lo stesso calamaio e segnò il proprio nome appiè del foglio, quindi ripose il tutto nella saccoccia del soprabito.
Angiolina lo guardava con un misto di stupore e di curiosità; il suo animo era agitato, le parea che quel foglio dovesse portare a qualche grave conseguenza. Il signor Basilio si avvide della bramosia di Angiolina, che ei credeva un mulatto fin dal momento in cui, piacendogli la sua fisionomia, l'aveva presa al suo servizio.
—E che sì che tu saresti curioso di sapere cosa si contiene in questo foglio? io ci scommetto.
—Padrone, la curiosità è il debole della razza indiana; io non posso liberarmi da un difetto di famiglia.
—Tu sei così divoto alla sincerità, anco quando sta contro di te, e d'altronde io ho per te un affetto sì strano, dirò, e straordinario che non saprei negarti la piccola consolazione di compiacerti; tu desideri sapere cosa contenga questo foglio?
—Non v'ingannate; voi avete contratto in tal guisa il vostro volto nel rileggere quel foglio che la curiosità di conoscerne il tenore non sarebbe venuta solamente ad un Indiano, ma a qualunque siasi persona che vi amasse.
—Alla buon'ora, sclamò il signor Basilio, almeno mi sento dire una volta che sono amato.
—Credereste forse di non meritarlo? esclamò Angiolina guardando fisso con quei suoi occhi il signor Basilio, che dovette abbassare i suoi.
—Questo giovane bizzarro m'intenerisce e mi atterrisce, mormorò il perfido. D'altronde perchè lo tengo io?
—V'avrebbe offeso il mio detto, padrone? continuò Angiolina cessando da quello sguardo ammaliatore che ben s'avvedeva avere sconcertato terribilmente l'uomo fatale. Sebbene i meriti sieno premiati da Dio, come da lui punite le colpe, sebbene spessissimo e gli uni e le altre possano celarsi a tutti gli uomini, è nondimeno una terribile verità che entrambi sono conosciuti da colui che gli ha: in questo caso….
—Tu sei ben dotto in morale, giovanetto, fu sollecito a dire Basilio premuroso di togliersi a discorsi di quel genere; ma vedi bene, io uomo di stato non amo i sermoni: potresti piuttosto intertenermi in questo momento di riposo con qualche canto popolare americano.
—Volentieri, ma vi avverto che non potrebbe tradursi nei vostri melliflui versi; esso è troppo robusto.
—Puoi dirmelo in prosa: amo più i concetti che i versi; e la poesia non sta nel ritmo e nella rima.
—Ma…. e di sodisfare la mia curiosità non ci pensate?
—Saremo a tempo.
—No….
—Or via dunque sappilo; quel foglio è il mio testamento.—
Nel proferire queste parole, un riso beffardo spuntò sulle labbra del vecchio. Angiolina ne fu sconcertata, ebbe quel senso di ribrezzo che si sente trovandosi vicino ad un rettile velenoso; onde fu sollecita a dire:
—Padrone, ben m'avveggo che voi scherzate: ma d'altronde non sta bene scherzare con la provvidenza.
—Saresti forse tu la provvidenza?
—Chi sa? forse sì, disse Angiolina misteriosamente, ripensando alla dolorosa sua missione, potrebbe darsi di sì; io son certa che quel foglio non è il vostro testamento, sebbene quel foglio lo creda assai riferirsi alla morte.
—Angiolo! urlò il signor Basilio, tu hai veduto, hai letto quel foglio!
—Padrone, vi dimenticate che nel tornar di fuori voi l'avete, minuti sono, posato su quel tavolo, nè io sono partito dal vostro fianco?
—Saresti forse versato nelle scienze della divinazione? io so che nei vostri paesi selvaggi….
—Pur troppo, padrone, pur troppo, io leggo nel futuro!
—Nuovo pregio che scuopro nel mio servo. Oh! per la santa guerra, non mi credeva sì fortunato di possedere un servo astrologo; non ho più bisogno di canti del tuo paese per sollazzarmi; mi basteranno i risultati delle tue profezie…, il mio impostorello.
—Voi non mi credete?
—No, mio caro, ho troppo buon senso: ti sei addato intorno al doloroso argomento del foglio, dappoichè tu sai come, a questi tempi di periglio, noi capi e tutori del popolo siamo obbligati a insanguinare le carceri e le piazze; e su ciò ti dirò che quella è una sentenza di morte che il circolo proferiva e io ho sanzionata.—
Angiolina rimase un poco confusa; il suo cuore glielo diceva, e le diceva trattarsi pur troppo del misero Giovanni. Sapeva, ahimè! in qual diffidenza il popolo vivesse da qualche giorno, ed essere tutto in mani di demagoghi nazionali e stranieri. Come salvare quel misero? come strappare quel foglio? d'altronde anche distrutto siffatto documento, avrebbe ella potuto credere dovesse derivarne la salvezza del prigioniero? avevano forse quei cannibali bisogno di sentenza regolare o irregolare per disfarsi di chi odiavano? avevano forse duopo di legittimare per mezzo di giuridiche forme l'assassinio? come giovare allo sventurato della cui vita vedeva il prossimo termine? La passionata giovane pensò che il far nascere un contromovimento nel partito degli onesti avrebbe potuto, se non impedire totalmente l'esecuzione del supplizio di Giovanni, almeno differirla; ma quel progetto comprese tosto essere inutile, pericoloso ed impossibile. Infatti le armi le avevano in mano i più esaltati; al più piccolo romore di reazione, non solo Giovanni, ma quante altre vittime stavansi in mano di quei feroci certamente sarebbero state spente. Pensò allora di gettarsi ai piedi dell'inumano chiedendo pietà; ma dopo un istante di riflessione cacciò da sè questa tentazione diabolica: ed infatti non conosceva ella il signor Basilio? ben essa si avvide esser giunto il tempo di un passo estremo, di un ultimo tentativo; ed il signor Basilio stesso ne affrettò il compimento.
—Ah! ah! il mio piccolo negromante indiano, la mia franchezza ha sconcertato tutti i tuoi sortilegi; ah! ah! ma non vi è modo di cavarsela; io voglio o canzone americana o l'avvenire rivelato.—
Angiolina, da un senso di dolore stretta nel cuore, aveva cominciato a sentirsi sorprendere da uno di quegli assalti di estasi e di rapimento cui andava soggetta nelle grandi crisi della sua vita. I suoi occhi rimasero fissi nell'orbita; e sebbene la sua fronte grondasse sudore, il suo volto era divenuto più bianco della carta e le sue pupille più ardenti del fuoco; ritta in piede ed immobile tremava di tale eccitamento convulso che ne facea risentire il pavimento e le vetriate. Il signor Basilio la guardava da principio come in dileggio, credendo quei gesti e quei movimenti effetto della scena che ella voleva rappresentare; e conveniva in sè stesso che il personaggio conosceva a perfezione il suo mestiere. Ma ahimè! fu ben diverso il suo pensare quando la giovane alto levando un pugnale e girandolo all'intorno, quale inspirata, gridò:
—Basilio! Il tuo passato è scritto a caratteri di sangue nel gran libro di Dio; la tua morte è vicina; tu non vedrai coricarsi il sole che domani sorgerà; morrai qual vivesti, come traditore!
—Angiolo! gridò il signor Basilio.—
Ma Angiolo ai suoi sguardi pareva fosse addivenuto un'altra creatura; la fittizia tinta del suo volto era sparita. Il signor Basilio aveva pur troppo dinanzi la sventurata orfanella, colei che aveva cacciata nel vituperio; il tardo rimorso lo lacerava. Volle alzarsi per afferrare quell'essere che ormai lo spaventava, ma le sue membra agghiacciate non gli permisero di muoversi.
—Rammenta le ore della tua giovinezza, il talamo di un popolano violato; rammenta le infamie, i furti, i latrocini; rammenta la ruina di una rispettabil famiglia; rammenta l'infame pozzo da dove una fanciulla agonizzante fu tolta per virtù di un miracolo; rammenta le tue mascherate e quando tradisti la….
—Angiolo, Angiolo, per pietà!… gridava il vecchio; taci, deh! taci per pietà!
—No. Dio è stanco…. non vuol riparazione, vuol morte.—
In quest'istante Angiolina, sempre nel suo delirio profetico, avanzandosi verso il signor Basilio ed apertogli l'abito, trattone il foglio fatale, lo lacerava in mille pezzi. L'uomo non fu suscettibile di alcun movimento; chiunque avrebbe potuto spegnerlo in quel momento. Ma un fragore improvviso di molte detonazioni fece tremare la casa; erano colpi di cannone.
—Giustizia di Dio! esclamò Angiolina con un ineffabile sorriso e cadde.
—Angiolina figl…. (non ebbe forza di proferire la dolorosa parola) sì: ah! tardi ti ravviso.—
E curvossi su lei pietoso ma invano. L'inumano stringeva un cadavere;
Angiolina era morta.
Ultima scena.
Per la prima volta il signor Basilio fu tocco da un sentimento che molto si avvicinava all'affetto ed alla pietà: il pungolo del rimorso entrò pure per la prima volta nell'egoista suo cuore; nel contemplare quelle angeliche sembianze, or fatte cadavere, sentì un brivido corrergli per tutte le membra. Gran Dio! Egli contemplava il cadavere della più infelice creatura; un'immensità di avvenimenti gli tornava al pensiero, e, convien pur dirlo, nel vedere spenta quella soave fanciulla, il dolore penetrò nelle sue viscere, desiderò la vita di lei; perchè mai? per far felice quella creatura. Ah! guai a coloro che, per beneficare, hanno bisogno di vedere innanzi a sè cadavere chi dovrebbe risentirne il benefizio.
La brutalità dell'empio era cessata. La prima lacrima era spuntata su quel ciglio che aveva saputo rimanersi asciutto al cospetto delle umane infelicità e dai tanti misfatti di cui era stato continuo autore. La benda dell'egoismo, la più fatale perchè l'uomo s'inabissi nelle colpe, era alfine caduta. Ahimè troppo tardi! La infelice ma sempre ognor più cara Angiolina lo aveva detto nell'eccesso del suo delirio, allo scoppio di quelle salve di artiglierie che aveva intronato le finestre del superbo palagio: Ecco la giustizia di Dio! Il dolore pertanto di vedere che questa era pur per piombare sul capo del padre suo aveva affrettato il termine di quella vita sempre dolorosa da lei menata quaggiù; ed era volata al cielo quale anima purificata dalle sventure, con la speranza di chiedere al Dio delle misericordie perdono per il padre, protezione per quel figlio che la misera madre, ahimè! più non doveva rivedere quaggiù.
Ma la giustizia di Dio è inesorabile. Quella detonazione di artiglieria annunziava che erano giunte pur troppo armi straniere alle mura della città. Essendo state serrate le porte al primo apparire delle falangi ostili, queste avevano tosto incominciato il cannoneggiamento. Al rimbombo di questo il signor Basilio si scosse dal suo letargo o meglio dal suo stupore: un brivido l'assalse; la profezia dell'infelice sua figlia gli romoreggiava alle orecchie più che il suono fragoroso del cannone e della moschetteria. Sollevato il corpo esanime della giovane, con atto dolce e mesto lo depose su quello stesso divano su cui un'ora prima aveva seduto con pensieri tanto diversi. Quasi mentecatto, era per uscire di casa abbigliato siccome si trovava, quando disperate grida dei suoi proseliti che ad alta voce il chiamavano lo fecero ritornare in sè stesso.
—Eccomi, eccomi, gridava come forsennato, eccomi, che volete da me?
—Alle mura, alle mura, schiamazzavano centinaia di cittadini armati chi più chi meno, alle mura: ne abbattono la cinta.
—Eccomi, eccomi! seguitava a dire il signor Basilio mentecatto, senza pure trovare l'uscita della stanza.
Intanto il suono di tutte le campane a martello, le grida feroci del popolo eccitato dai facinorosi, gli urli e i gemiti delle donne e dei fanciulli, lo scoppio dei razzi, delle bombe, delle palle di cannone e dei moschetti assordavano l'aria.
Era scena d'inferno.
In tanta ambascia, fra i mille tementi l'eccidio, palpitanti per i lor più cari, per le sostanze, per l'onore, non vi fu alcuno che osasse dire al popolo: O popolo, tu che hai creduto ai novelli Mosè, chiedi loro il miracolo di salvarti. Ove si ascondono eglino i tuoi Giosuè, i tuoi Gedeoni, i tuoi Jefte? ben io glieli avrei mostrati nascosti sotto le materasse e fra le botti nelle cantine. Il popolaccio gli andava cercando, e fra questi andava pur cercando il signor Basilio, il quale ad un tratto si vide piena la casa di persone raccozzate ed armate, e sebbene uomo di consiglio e non di guerra, dovè prendere un'arme e lasciarsi guidare.
—Dove mi conducete? sclamò con voce semispenta quando in mezzo a tanta turba si avvide di essere sulla via.
—Dove ti conduciamo? urlarono minacciosi cento e cento. Saresti forse, come gli altri che ci hanno spinti a questi estremi, un cane cioè di fariseo? non sai tu che siamo côlti alla sprovvista e che fa duopo di un coraggio da leoni per uscirne salvi?
—A noi basta il tempo, un poco di tempo è quello che ci bisogna; superato questo primo impeto di espugnazione, noi non mancheremo di aiuti da tutte le città vicine che faranno causa comune con noi.
—Certamente che lo faranno, come il nostro esempio avrà saputo infiammarli, saprà deciderli il nostro coraggio. Ah! noi ci acquisteremo una pagina eterna di gloria nel volume della storia.—
Il signor Basilio era come coloro di cui si dice hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non sentono, hanno lingua e non parlano; ciò che gli succedeva da poche ore a quella parte gli sembrava come tremenda visione.
Ma visione non sembrava ciò che avveniva a coloro che circondavano l'uomo di stato spingendolo alle porte.
—Su su, carissimo signor Basilio, nostro Ulisse, dicevagli il capitano Grongo, che durante i momenti di ozio aveva letto l'Iliade, che poi riponeva sotto il banco del pesce quando gli avventori venivano in pescheria a provvederne da lui, il quale era ritenuto il meno ladro dei pescivendoli, su su, caro Ulisse, vi farebbe paura un poco di puzzo di zolfo? Eh! non credo; ormai la vostra fama è assicurata; dopo la partenza del cittadino Bruto, del cittadino Catone e di tanti altri valenti uomini, voi siete il nostro sostegno: e non sentite il tamburo che musica dolce va strimpellando alle orecchie dei valorosi amanti della libertà? eh! se voi morite, convien dire che una morte sì bella non la credevate per certo, ed io e l'oste dei Tre Mori di certo ve l'auguriamo di cuore.—
Il signor Basilio, momentaneamente reso a sè stesso, nel fare qualche passo sorrise di uno di quei sorrisi che usava al tempo del collo torto, dachè dopo le riforme lo aveva egregiamente raddrizzato.
—Ma che morte? prese a dire il vecchio oste, affè di D… ma che? abbiamo forse paura di poche palle e di qualche razzo? e non si attende un rinforzo dalla parte del mare, dalla Corsica, un rinforzo di trentamila uomini?
—E chi vi ha detto queste fandonie? saltò su bruscamente un uomo di mezza età infra coloro che erano nella folla.
—Chi ci ha detto queste fandonie? chiami fandonie le verità del cittadino padre G…..?
—Padre zappata, dice il proverbio, predica bene e razzola male: sì sì, credete a quel rinnegato!
—Ed a buon conto al primo rumore del cannone costui e la più parte dei vostri agitatori se la è svignata; anche la corvetta francese alla rada è piena di gente che scappa.—
Il consiglio dello zio Neri di togliere dalla corvetta Rosina e gli altri nostri conoscenti vediamo che fu savissimo.
—Ma un'altra città non è ella insorta? non ci prepara prodi e denari?
—Baie, fandonie… eh!…
—Come baie? non giunse notizia per telegrafo, notizia officiale che ci manderanno 200,000 scudi e soldati e fucili?
—I 200,000 scudi verranno dal mondo della luna quando sarà in quintadecima, disse il vecchio oste.
—E che? saremmo traditi?…
—Arrendiamoci allora, urlarono i paurosi.
—No…. no, moriamo, gridava un'infinità di feroci (e il loro grido estinse in molti l'idea della resa). Per D… si arrende chi ha da perdere, ma noi non abbiamo nulla da perdere per D…. Denari no, amici no, case no, donne no, onore nemmeno: perderemo la vita; ebbene questa come la camperemo se ci arrendiamo? morire per morire, difendiamoci.
—Le muraglie son deboli.
—Ci faremo un baluardo di corpi de' paurosi: tanto per D… per costoro ha da esser finita in ogni modo; avanti dunque, fratelli, avanti.—
Il più forte interlocutore era il capitano Grongo, che, non avendo potuto riparare a bordo di nessun naviglio da guerra ancorato al molo, aveva fatto di necessità virtù e si accingeva con gli altri alle mura.
Sulla torre del duomo sventolava una bandiera nera, segno di lutto e che volevano tutti morire anzi che arrendersi.
La notte che successe fu una delle più terribili per i miseri abitanti pacifici della bella città: ognuno paventava che la cecità e l'accanimento dei rivoltosi provocasse lo sdegno di coloro che, sebbene nemici, pur tuttavia venivano ad abbattere quel regime anarchico, impossibile a durare nella sua efimera esistenza; si temeva un saccheggio del popolaccio o che questi desse fuoco alla città come un tempo fecero i Moscoviti quando la grande armata napoleonica invase Mosca; si temeva che i demagoghi, vedendosi alla vigilia di desistere dalle bravate, non facessero qualunque eccesso.
Il signor Basilio, forzato dalla turba, si era condotto verso la barriera di porta San Marco, dove appunto ferveva l'attacco. Quell'uomo sì crudo, sì falso, nelle poche ore di tregua in cui avevalo lasciato, dirò, la cortesia degli assalitori (poichè quando essi non avessero voluto soprassedere nella speranza di risparmiar sangue attendendo che la città si arrendesse spontanea, avrebbero potuto dar l'assalto nella notte stessa), raccoltosi nella stanza di guardia, scrisse le sue ultime volontà; in cui dettagliatamente svelando tanti misteri che hanno servito di argomento al nostro racconto, venne a conoscersi che egli ruinò la famiglia Guglielmi, ed il furto che la dispogliò di ogni avere essere tutta opera di cotesto uomo, il quale poi nell'istituire suo unico erede il giovine Sprinel, qualora vivesse, volle largheggiare in beneficenze a riguardo della famiglia danneggiata, a cui passar doveva tutto l'asse ereditario sempre che fosse morto il giovane suo figlio, che come tale adottava, dappoichè, per la memoria dell'infelice Angiolina, quell'uomo che aveva sprezzato ogni ombra di vera onestà si credè obbligato a celare il misfatto cui quel giovane doveva la vita.
Gli armati all'intorno della stanza di quell'uomo lo credevano assorto in pensieri di difesa.
Quando il sole comparve sull'orizzonte e tracciò il primo suo raggio sul volto del reprobo, ei ne provò un brivido mortale: quell'astro sorgeva ed ei non doveva vederne il tramonto; la profezia della figlia gli si era cacciata nel cuore.
L'assalto ricominciò più furioso; a centinaia cadevano quei forsennati che si appressavano alle debolissime mura della cinta: La città, fatta più saggia, parlava di capitolare, ma la fatale bandiera nera, funereo segno di provocazione e di esterminio, tuttora stava sventolando per l'aere.
Ma chi può dire di qual palpito battesse il cuore di Giovanni? egli sentiva giunto il momento o della sua liberazione o del suo fine; il suo cuore, aprendosi all'allegria, quasichè presagisse il termine delle sue sventure, si spezzava all'idea medesima del trionfo degli assalitori. Egli non poteva ristarsi dall'amore verso il popolo, ei lo sentiva davvero, ma, traviato da erronei principii, anche egli, non volendolo, aveva contribuito a quell'accecamento di cui noi lo vedemmo sui primordi di questo libro gettare i semi funesti.
Poche braccia lo separavano dai suoi più cari.
Su questo piede andavano le cose, quando i partigiani dello zio Neri, alcuni dei quali erano a guardia presso Giovanni, udendo come le cose dell'assedio potessero andare avanti poche ore, avvisaronsi di potere impunemente sciogliere dai ceppi il misero prigioniero; e gli altri custodi lasciarono che si aprisse il carcere dando ad esso la libertà.
Il primo movimento di Giovanni fu di cercare una spada, un fucile e di avviarsi al luogo del combattimento; quell'anima ardente aveva scordato tutti i torti, gli strazi del popolo ingrato; ripigliando la sua nobile energia, egli sperò far trionfare i principii che dal nascere aveva incarnati nel cuore, sperò di redimere il popolo, di farne un eroe; già si avviava per la via che conduce alla porta, e, al suo bollor guerriero rinato il coraggio in molti giovani, si vide quando men lo pensava circondato di una numerosa falange. Osò credersi fortunato, osò sperare; ma un lugubre spettacolo, in quell'ammasso di scene dolorose, venne a trattenere la sua marcia guerriera. Incontro a lui ed al suo drappello, ecco venirne una brigata di donzelle vestite di bianco con funebri ceri in mano e un velo nero in testa. Costoro accompagnavano un cadavere situato su di una barella, che era scoperto e circondato di fiori. Giovanni, diviso in due il drappello, si ritrasse alquanto…. Ahimè! sul funereo lenzuolo posava estinta la sventurata, la bella, la sublime Angiolina.
A quella vista il guerriero indietreggiò. Un gelido sudore gli cadde dalla fronte: era quella l'amica, quella che, dopo Rosina, amava più di quante al mondo. Stava per domandare spiegazione del tristo avvenimento alle donzelle, quando il convoglio proseguì silenzioso. Giovanni fissò la mesta faccia dell'estinta, e nel fondo dell'anima parvegli udire la sua voce con queste parole:
«Giovanni, Giovanni, che io, posso ora dirlo, ho amato di amore appassionato, infelice e senza speranza (puro però quanto quello delle creature celesti), vuoi tu perire come un traditore se côlto colle armi alla mano in questa sventurata città? Vuoi tu far la fine che farà lo sciagurato mio padre?»
Giovanni, ristato un breve momento, era per riaversi da quella specie di visione; quando in realtà sentì afferrarsi per il braccio e togliersi la spada.
Era Alfredo che aveva fatto quel colpo. Alfredo, che in un attimo con tutta intiera la sua famiglia circondatolo, lo trasse ad un palagio che ormai era suo. E qual era questo? e chi poteva guidarveli?
Il signor Basilio.
Già gli armati erano in città, che inondarono in pochi momenti; cessate l'ostilità, neanche l'ombra di saccheggio, neanche l'idea di strazi. Fu un miracolo!
Il signor Basilio, nell'entrare delle truppe, aveva riconosciuto Selvaggio e di leggieri compreso il resto; aveva gettate le armi. Il seguir quel giovine fu cosa di un momento; ad esso rimise un piego sigillato di nero, quindi si avviò con lui e con Alfredo e gli altri nostri personaggi. Non una parola, non una lacrima, non una risposta; quell'uomo era incomprensibile. Ma poteva egli cangiarsi ad un tratto? Ah! no: egli agiva sotto l'influsso di un potere non suo: invano avrebbe potuto rendersi ragione di quello che operava; egli era un automa guidato da forza sconosciuta; nello spargere quelli che sarebbero detti beneficii, nel fare azioni che avevano l'aspetto di giustizia, il suo volto tetro e severo come quello di un tiranno, i suoi occhi immobili e sanguigni lo addimostravano per un essere invaso da uno spirito agitatore. Appena ebbe posto sulla soglia del suo palagio Giovanni e la sua famiglia, dato un balzo all'indietro, strappato un fucile di mano ad un soldato, corse a furia laddove si stavano accalcate le truppe e, come uomo che abbia perduto il senno, si dette con urli feroci a gridare:—Morte, morte, morte!—
Migliaia d'uomini gli stavano a fronte: egli era solo; pareva un démone che sfidasse l'ira di esseri umani; una schiuma bianca gli partiva dalla bocca, e dagli occhi gli uscivano fiamme cerulee come di zolfo.
Al forsennato si strinsero attorno alcuni disperati;—Morte! gridavano essi con lui, morte!
I soldati riguardavano quel drappello con impassibile curiosità; avrebbe un sol uomo potuto resistere a tanti?
Ma il destino aveva deciso. Il signor Basilio, tolto di mira uno dei capi dell'armata, esplosagli contro l'arme, lo gettava a terra cadavere.
Fu generale tumulto. All'armi, all'armi! cento e cento fucili furono per ridurre in minuti brani lo scellerato ed i suoi seguaci. Un giovane ufficiale, visto l'atto,
—Ah! non fia, gridò alle schiere, non fia che vi bruttiate di sangue innocente coll'esplodere contro migliaia d'inermi; a me costui, a me l'insano; sia terribile, sia giusto l'esempio.—
All'ordine del giovane capitano, tratto dal drappello il signor Basilio ormai fuori di sè, venne sull'istante bendato e colle mani a tergo fatto inginocchiare sul nudo terreno nello stesso luogo ove aveva esploso.
Un plotone di soldati caricò gli archibusi.
—Ch'ei pera della morte dei malfattori, gridò il giovane ufficiale; fuoco!—
S'intese una detonazione. Il cadavere del signor Basilio rotolò nella polvere.
Il capo dell'esercito richiamò plaudendo il giovane che, col punire un empio, aveva salvato dall'ira della sdegnosa soldatesca un'intera città. Quel giovane nel togliersi l'elmo aveva mostrato l'orecchio sinistro mancante di un lembo.
—Viva Sprinel!—plaudendo gridarono i soldati.
Giustizia di Dio! il signor Basilio era perito, qual visse, da traditore.
Conclusione.
Un'amena villetta il cui parco si estendeva in riva al mare e situata a poca distanza da Nizza accoglieva nel 1850 una famiglia di signori forestieri, così appellata comunemente dai buoni villici di quei pittoreschi dintorni. Questa famiglia si componeva di due signore sul declinare della età, una delle quali, abitualmente pallida, non avea mai deposto il lutto dal momento in cui si era fatta abitatrice di quel luogo. Queste due signore vivevano ritiratissime e dividevano le ore del giorno fra le occupazioni domestiche e gli esercizi di pietà, al cui compimento si prestava un elegante oratorio posto sul confine del parco, e nei quali erano dirette da un venerabile vecchio cappuccino che lor serviva di cappellano. Il resto della famiglia si formava, senza parlar di un discreto numero di servi dell'uno e dell'altro sesso, di due giovani militari ammogliati e di un altro tuttor celibe e di una sposa e del consorte di lei, che si chiamava Sprinel. Gli uomini si dilettavano della caccia, della pesca e di lunghe passeggiate a cavallo nei dintorni, e solo raramente si conducevano alla vicina città. Nessun estraneo alla famiglia era stato veduto penetrare nella medesima. Quei signori erano ricchissimi, diceva il pubblico e lo diremo noi pure: ma se erano doviziosi, non erano però felici; ed il lettore ne converrà, poichè costoro erano nientemeno che i componenti la famiglia di Giovanni e di Alfredo.
In una sera di estate, circa il tramonto del sole, le due signore tornavano a passo lento dall'oratorio in compagnia di padre Roberto, chè così si appellava il religioso.
—Sediamoci un poco su questo monticello di verzura, disse la signora non vestita a bruno.
—Con sommo piacere, rispose la compagna abbrunata, io infatti sono molto debole.
—Ma, signora Rosina, replicò il frate assidendosi presso di lei, quando sarà che abbia tregua il vostro cordoglio? conviene rassegnarsi ai supremi voleri della provvidenza; d'altronde non è estinta la speranza; ecco la signora Esmeralda che può farle fede come Dio non permette che eterne sieno le sventure. Mi sovviene ancora quando, sedici anni fa, in una serata di estate come questa, ella venne condotta, miserabile, moribonda e quasi pazza, al Lazzeretto del cholera di Livorno. Chi mai avrebbe creduto, vedendola in quel deplorabile stato, che le sue lunghe sventure fossero appunto allora per toccare il loro termine? grandi ed incomprensibili, non mi stancherò mai di ripeterlo, sono le arcane vie della provvidenza.
—È vero, riprese languidamente la signora abbrunata, ed io sarei indegna di esser cristiana se osassi o lamentarmi o non sperare: adoro le volontà dell'Essere supremo, ma la fralezza umana mi fa considerare come irrimediabili i miei mali.
—Ma no.
—Buon padre, come pensare diversamente? tutto il soccorso dell'umana filosofia vien meno di fronte alla durissima acerbità de' miei casi: permetta che io torni per la millesima volta a rileggere quel fatale biglietto lasciato dal mio Giovanni sullo stipo della mia camera in Livorno la mattina dopo di quel terribile giorno del 1849 in cui disparve per sempre dal mio seno.
—Per sempre?
—E come dubitarne? a quel biglietto era legato con nastro di seta un fiore secco, una camelia rossa! primo dono di amore che il mio infelice Giovanni aveva tenuto ventotto anni sul cuore. Ah! il restituirmi quel fiore è tacito annunzio che la nostra separazione deve essere eterna quaggiù: noi non ci vedremo che in cielo.
—Non continuare, ti prego, cognata dolcissima; il tuo Giovanni, il mio caro fratello è sempre stato un uomo incomprensibile: quel suo passo, convengo anch'io, ha del misterioso, io ne ho pianto, ne piango ancora; ma però un segreto intimo senso mi dice che noi lo rivedremo.
—Esmeralda, Giovanni, che, come ti dissi, dopo la tremenda rivelazione fattami pria di lasciare per sempre l'America, non era tuo fratello se non per cuore, Giovanni non aveva potuto, non poteva resistere all'ultimo crollo delle sue giovanili speranze! chi sa in qual nuovo abisso di avventure si è slanciato? Ma che dico? a quest'ora la sua bell'anima esser dee volata al cielo; di là prega per me, io lo sento, chè, senza le sue celesti preghiere, a quest'ora il dolore mi avrebbe consunta. Ah! se almeno sapessi qual terra accoglie le fredde sue ceneri, io vi sarei corsa e ci avrei spirati sopra gli ultimi aneliti di vita.
—Cessa deh! cessa, cognata mia; io non ho più forza di udirti, manco già.—E sì dicendo proruppe in amari singulti.
Rosina, che pur singhiozzava, tratta dal seno una carta, dopo averla replicatamente baciata la dispiegò e lesse:
Mia sposa adorata, mia cara famiglia: Giovanni, il vostro sventurato Giovanni, vi dà l'estremo addio. Io non posso resistere all'aspetto della distruzione delle mie più care speranze. Io volo a raggiungere il solo essere col quale le ebbi sempre comuni, per piangere e per morire al suo fianco. Non ricercate di me, inutili sarebbero le vostre ricerche. Io prendo le misure per eluderle. Se io restassi fra voi, sarei oggetto di continuo vostro dolore. Io vi lascio: sa Iddio quanto pesi il mio affanno; il cuore mi si spezza al doloroso passo, ma io non posso resistere al ferreo destino che mi opprime. Tutto è perduto fuorchè l'onore. L'unica mia consolazione, se pur posso vergar questa parola, è il pensar che il mio fine sarà di esempio ai miei figli, a' miei nipoti, onde misurino a che si riduce la vita per un cospiratore.
La mia perdita vi affliggerà meno che la presenza di un uomo disperato. Il tempo calma gli affanni; a lui affido la vostra calma futura. D'altronde a te, Rosina, lascio i nostri figli, essi ti consoleranno della mia assenza. Noi ci raggiungeremo in cielo. Desidero che il giovane Sprinel, lasciate le bandiere nemiche, faccia parte della nostra famiglia: esso è lo sventurato figlio di Angiolina e terrà luogo di quell'angiolo volato all'empireo presso di voi, mentre la di lui madre, addivenuta spirito celeste, non cesserà di spargere sulle nostre famiglie la possente sua benedizione. D'altronde, le ricchezze dell'esecrabile Basilio (cui possa aver Iddio perdonati i molti delitti) appartengono a questo giovane. È vero che quell'uomo doveva alla famiglia tua, o Rosina, una riparazione di sostanze, ma Iddio ne ha largamente provveduti senza il retaggio del reprobo. Ogni obolo che se ne versasse nella nostra cassa mi farebbe orrore; esso stilla sangue di sventurati; io l'abborrisco. Non così Sprinel: esso è legittimo erede di quell'uomo; ei ne goda i beni. Deh possa il tempo unito alle vostre carezze mitigare nel giovane Sprinel l'affanno di aver ordinato la morte del barbaro padre; pensi che così volle Iddio per punire quel peccatore delle sue moltiplicate scelleraggini, e il fine dell'iniquo serva di terribile esempio che nissuno sfugge alla meritata pena. Nel luogo che sceglierete a dimora vi accompagni la mia benedizione e quella del cielo; non vi scordate di far celebrare ogni anno una funzione religiosa per la memoria della amica nostra Angiolina. Addio: sento che sono uomo e che, se più oltre mi intertenessi a scrivere questa dolorosa mia lettera, il mio proponimento causato dall'ultimo rovescio di ogni mia speranza correrebbe rischio di vacillare. Diffido del mio coraggio di fronte ai cari sensi di padre, di fratello e di sposo. Addio, addio. Riprendi, o Rosina, il primo mio dono di amore che per tanti anni ho tenuto sul cuore come religioso deposito. Addio, addio: non piangete, addio.
Il vostro amoroso GIOVANNI.
—Amoroso? gridò Rosina, dopo avere a ciglio asciutto e con ferma voce letto la lettera sulla quale il sole che si tuffava nel Mediterraneo gettava un ultimo e patetico raggio. Amoroso? ah no, crudele, crudele! dovevi tu lasciarmi così? lo aveva io meritato? ahi misera, ahi misera!—
La forza dell'affanno aveva essiccate le lacrime sue, ma dopo quella dolorosa e ripetuta esclamazione cadde priva di sensi; la Esmeralda ed il religioso a fatica la condussero alla villa.
L'indomani cadeva l'anniversario de' funerali di Angiolina. L'oratorio venne parato di lugubri arazzi; ghirlande di cipresso coronavano la facciata del piccolo tempio, e la via che menava a quella era pur tutta sparsa di cipresso e di fiori; tutta la famiglia abbigliata a gran lutto assistè, secondo il pio costume, alla cerimonia, ed invano si era pregata Rosina di non intervenirvi.
—E che? aveva ella risposto ai figli ed ai parenti, e che? pensate voi forse che il doloroso apparato e la pia memoria mi funestino? no, anzi io non desidero che scene lugubri; sono esse sole che ponno farmi gustare la mesta voluttà di cui è capace il mio cuore straziato. Nel celebrare la funerea pompa per la memoria dell'amica, il mio pensiero vola alla memoria del caro sposo mio, che or certo è lassù fra i cori degli angioli, collo spirito di colei che lo amò quanto me, e che quanto me ne fu amata di un amore per cui sarebbe delitto l'aver provato gelosia.—
In mezzo al tempietto avanti all'ara maggiore avevano collocato il cenotafio, su cui pendeva un tappeto di velluto nero a frangie di oro ricamato dalle mani di Rosina e di Esmeralda; ai lati del monumento leggevansi queste patetiche e brevi iscrizioni:
Terminato il servizio funebre, che riuscì commoventissimo, il giorno passò in domestici ragionari.
—Ecco, diceva Antonio, noi abbiamo anche oggi commemorata una creatura nata per soffrire quaggiù. Ah! gran che! la virtù dunque essere dee sempre sventurata sulla terra?
—No, rispondeva Esmeralda. La virtù ha il suo premio, la sua felicità in sè stessa; l'ira dei fatti può opprimerla, ma non per questo potrà dirsi sventurata, come l'oro non potrà mai perdere il suo splendore per contatto di corpi a lui estranei o contrari. D'altronde sono le sventure che purificano questo involucro di polve chiamato creatura.
—E la creatura, quasi che pochi fossero i mali che, per volger di vicende o per ragioni derivanti dalla sua stessa natura, devono opprimerla, va il più delle volte procacciandoseli maggiori; e su questo proposito la nostra famiglia ne porge tristo e veritiero esempio.
—Tu vuoi accennare alle utopie delle rivoluzioni e della manía di cospirare, non è egli vero, o mio fratello? disse la tenera Ofelia rivolgendosi ad Antonio.
—Sicuro; tra i mali che noi stessi ci procacciamo vi è pur quello di darsi in balía di inutili speranze e cercar di ottenere il bene con mezzi del tutto opposti.
—E lungi dal conseguirsi il bene del popolo, ne viene a lui il peggior male, la peggior peste morale che affligger possa la società, riprese Ofelia.
—Ed aggiungi che nasce il peggior fra tutti i mostri che la bizzarra favola abbia potuto ideare.
—L'anarchia! esclamarono insieme Alfredo e Selvaggio prendendo parte al colloquio.
—L'anarchia, proseguì Antonio, che io dipingerei un serpente gigantesco che avesse tante teste quante sono le scaglie della sua pelle, e teste sempre rinascenti come quelle dell'idra.
—Ah! voglia il cielo liberarne per sempre il mondo.
—Ciò arriverà, disse Antonio, quando il popolo sarà veramente religioso e morale; e, sapete voi? ben poco ci vuole perchè lo sia: dategli lavoro, istruzione, la cosa è fatta.
—Dio benedica al filosofo! esclamarono tutti.—
Antonio sorrise per compiacenza.
Intanto si era fatto notte, ed il silenzio che succedette al breve colloquio che noi riferimmo venne interrotto da ripetuti colpi che si udirono alla porta d'ingresso della palazzetta.
—Chi sarà mai? dissero gli uomini levandosi e movendo verso l'ingresso.
—Chi siete? chi volete? si udì dire dal portinaio.
—Non ho bisogno di farmi annunziare, rispose una voce cupa e che parve di un forastiero.
—Ma io….—
Il portinaio non potè proseguire, chè l'uomo il quale aveva parlato con un urto lo aveva costretto a lasciargli libero il varco.
Il misterioso incognito s'avviò su per la scala di marmo che menava all'appartamento superiore; un solo lume all'inglese racchiuso entro un cristallo diacciato rischiarava quel luogo.
L'incognito aveva i capelli quasi canuti, la barba lunga e presso che bianca; l'occhio suo brillava del fuoco della gioventù. Vestiva esso di antica uniforme verde con spalline d'oro, aveva un braccio mutilato.
Non sì tosto fu a metà della scala, un grido si udì; lo mandava Rosina che al primo vedere quell'uomo aveva esclamato:
—Giovanni!
—Rosina!
E caddero l'uno nelle braccia dell'altro.
Fu scena patetica, indescrivibile di purissimo amore.
—O mio adorato Giovanni, o mio sposo, ed è pur vero, o sogno è questo? tu ritorni a me!
—O amore mio, o mia diletta, Iddio non ha voluto che io bevessi tutto il calice dell'amarezza… sì… noi non ci separeremo più mai.
—Saremo adunque una volta felici! esclamarono insieme tutti gli altri.
—Ah! riprese Giovanni tergendosi il sudore che copiosamente gl'irrigava la fronte. Io sperai che vi avrei riveduti arrecandovi novella di felicità, ma ahimè! la grande stella di Italia è tramontata attuffandosi nelle onde dell'oceano, è tramontata pallida e sanguinosa; vano è lo sperare.
—Ma tu vivi, sclamò Rosina con ineffabile trasporto, tu vivi; che possiamo desiderare di più?
—Cuore di donna, tu non ti smentisci giammai, interruppe Giovanni; non a me… che sarei morto lungi da voi, non potendovi arrecare quella felicità che avrei voluto, ma a Lui, a quel grande che fu, è dovuto il ritorno del vecchio cospiratore. I suoi ordini sono sacri per me, io l'ho obbedito; ancor mi suonano all'anima le sue ultime memorande parole: Verrà verrà il giorno della libertà per questa Italia che tanto amiamo. Verrà l'unità di essa, quando vinta l'idra della demagogia, i popoli sapranno essere virtuosi. Allora lo straniero rientrerà nella sua tana oltre le Alpi.—
Tutti fecero silenzio, colmando di affettuose carezze quel redivivo padre di famiglia.
—Sostato alquanto nel dire, rivolse gli occhi al cielo come per invocare un avvenire di felicità, e quindi con fioche parole: «Giovanni, volgimi il capo verso l'Italia, fa che io spiri volgendole la fronte, come il divoto pellegrino all'eccelsa Gerusalemme.» Io obbedii, esso rivolse lo sguardo al cielo, e la sua bell'anima raggiunse l'eternità. Un coro di angioli le scese incontro, io sentii la celeste fragranza, vidi la luce divina, mi prostrai e piansi.—
Giovanni fece lunga pausa e stette a ciglia asciutte; i circostanti dettero in dirotto pianto. Ogni anno ei fe' giuro di visitare una tomba; e mantenne quel giuramento. Un giorno egli volle anticipare; montato su di uno dei più veloci cavalli, il resto della famiglia lo seguì qualche ora dopo.
Giunti che furono al sacro recinto, videro il loro capo genuflesso appiè del funebre marmo, le mani di lui stringevano delle superbe colonne di granito del monumento. Nessuno osò disturbarlo in quel pio atteggiamento, e s'inginocchiarono presso di lui orando. Passato intanto non poco spazio di tempo senza che Giovanni facesse il più piccolo movimento, avvisarono fosse caduto in deliquio. Rosina ed Alfredo se gli accostarono, sel trassero nelle braccia e, miratolo, un grido affannoso uscì loro dalle labbra.
—Ahimè!—
Giovanni era morto.
Ma chi era quest'uomo indomabile nel suo antico pensiero? Niuno il seppe, niuno il saprà giammai.
CAP. XXIII.—Conferenze Pag. 5
» XXIV.—Colloquio di diverso genere » 22
» XXV.—Quadri popolari » 41
» XXVI.—Rivelazioni » 60
» XXVII.—Varietà » 78
» XXVIII.—Il padre e la figlia » 89
» XXIX.—Ultima scena » 105
» XXX.—Conclusione » 120
I seguenti refusi sono stati corretti; indichiamo l'originale, con (sostituzioni) ed [omissioni].
abbiamo perduto da qualche tempo Rosina; non ci dispaccia (dispiaccia)
dove aveva lasciato li (il) fedel contadino
intorno alle condizioni della misera copia (coppia),
sè decaduta nell'opnion (opinion) pubblica,
e padre Gonsalvo rese nuove grazie all'Altissmo (Altissimo)
deluso nella espettativa (aspettativa) di sicura felicità,
Si era dubitato che la fanciullla (fanciulla) leggermente ferita
il quale essendo stato 48 ore in orzato (forzato) digiuno
In ofndo (fondo) al pozzo aveva lasciato nudo
alla passione che mi divora per [per] te.—
I due interloculori (interlocutori) si separarono
due più formidabili codidini (codini); il che suonava
Erano infatti Alfredo e Giovanni, che, a [a] malgrado
Quindi tacquero: e buon per loro che esnsuno (nessuno)
—L'altro, dissero i manigoldi, l'ha voluto per sè lo zio Neri? (!)
—Evviva evviva! urlo (urlò) ansante
E si assise nel mezzo dei convitati ciehdendo (chiedendo)
e tutto il litorale fino a iLvorno.(Livorno)
Oh insensati e doppiamente inlici! (infelici)
alla cella del signor Basilio; ma ahime (ahimè)
a questi tempi di periglio, nei (noi) capi e tutori
Un plutone (plotone) di soldati caricò gli archibusi.