The Project Gutenberg eBook of I sogni dell'Anarchico

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Title: I sogni dell'Anarchico

Author: Ugo Mioni

Release date: April 26, 2008 [eBook #25175]
Most recently updated: January 3, 2021

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I SOGNI DELL'ANARCHICO ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

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UGO MIONI

I sogni dell'Anarchico

ROMANZO

MONZA

LIBRERIA EDITRICE ARTIGIANELLI

PROPRIETA' LETTERARIA

SCUOLA TIPOGRAFICA ARTIGIANELLI

PREAMBOLO

I.

Il salotto era molto elegante. Nel caminetto ardevano le legna e crepitavano allegramente. Su di un piccolo tavolo era collocata una bottiglia sturata con due bicchieri riempiti di vino ed un servizio da fumo. Al tavolo sedevano due uomini, l'uno beatamente sprofondato in una gigantesca sedia a bracciuoli, che ne celava quasi tutta la persona, l'altro seduto a cavalcioni di una sedia di cuoio, colle braccia incrociate sul davanzale.

Quei due uomini erano del tutto dissimili tra di loro, come diverso era il modo, nel quale stavano seduti.

Il primo era un uomo di mezza età, alto, slanciato, magro, con un volto molto espressivo, sbarbato e ad eccezione di un paia di piccolissimi mustacchi neri, che aveva tollerato sul labbro superiore. Qualche raro filo d'argento tra quelli. L'occhio grigio era freddo; come una di quelle antiche lame di Damasco, così grigie, così fredde, eppure così taglienti, che formano la delizia dei collezionisti e ti fendono i macigni. Le labbra erano lunghe, pallidissime; bella la dentatura di neve, un po' canina. I capelli molto corti, a spazzola, leggermente brizzolati; le mani fine, aristocratiche, con unghie lunghe, a mandorla, ben curate. Aveva indossata un'ampia veste da camera, di seta azzurra, coperta di certi fiori strani, di certe figure umane più strane ancora, con cappelli a cono ed ombrellini fantastici, e tra fiori e mandarini si arrampicavano certi animali, che non hanno mai figurato nella natura e che erano dovuti alla pazza fantasia di qualche ricamatore cinese, perchè quella veste da camera singolare, era stata certo importata dal regno della coda.

L'altro era molto più giovane, tra i venti ed i trent'anni, vestito, con affettata noncuranza, a nero, con una gigantesca cravatta nera, annodata al collo; il suo volto era sbarbato, magro, dalle guancie infossate, dagli zigomi sporgenti, e con certe chiazze rosse, che si accentuavano quando egli s'infervorava nel discorso. L'occhio bello, di un nero carico, si accendeva allora di certe luci strane; le labbra un po' tumide, erano pallidissime; la dentatura pessima; le unghie non coltivate; i capelli arruffati, spettenati.

All'esterno dei due uomini corrispondeva anche il loro modo di parlare. L'uomo dalla veste da camera cinese era breve, conciso, imperioso, autoritario; sembrava avvezzo a comandare. I pensieri gli uscivano dal cervello e poi dalle labbra, sotto forme di sentenze brevi, concise; egli era un uomo che aveva un'opinione propria non solo, ma era persuaso, che quella fosse la sola opinione giusta e perciò da seguirsi, e la voleva imporre a tutti. L'altro invece balzava col suo dire di palo in frasca; si agitava per ogni inezia; s'infervorava, diventava tragico, ed allora le chiazze rosse andavano accentuandosi, l'occhio prendeva strani bagliori, egli agitava le mani, muoveva le dita, stringeva il pugno, si dimenava….

—Ripeto: La vita del sogno è qualche cosa di stranamente misterioso. L'anima è allora sciolta dai lacci del tempo e misura gli eventi in un altro modo. Vive alle volte una vita di mesi e mesi ed anzi di anni ed anni in uno spazio infinitesimale di tempo, in mezzo secondo, in un secondo. Dal che si deduce, che la vita dell'anima è del tutto diversa da quella del corpo. La vita del corpo si misura da aurora a tramonto e da tramonto ad aurora, a giorni, a mesi, ad anni, e quella dell'anima invece…. e s'interruppe bruscamente.

L'altro rise. Il suo riso era così beffardo.

—Non continui? domandò.

—Mi manca il termine.

—Od il concetto. Pazzo! L'uomo non ha anima. È un animale rapace, sentenziò l'uomo dagli occhi grigi.

Le chiazze sul volto dell'altro si accentuarono.

—La ho. La sento! esclamò con persuasione.

—Ed allora fatti frate!

L'altro fece un gesto di scherno.

—Studio filosofia. Appunto perchè ho un'anima sono ateo, sono anticlericale, sono libertario! esclamò.—Come devo odiare tutti coloro i quali metterebbero in ceppi il mio corpo, così devo odiare la religione, perchè essa mette i ceppi al mio spirito. Schiavo di nessuno, nè nell'anima nè nel corpo!

—Già. Ma intanto, mentre c'è tanto bisogno di chi diffonda le nostre idee, i nostri sani e santi principi, tu perdi il tuo tempo studiando filosofia, osservò l'altro con scherno.

—Io lavoro.

—Che cosa fai?

—Parlo! Propagando le nostre idee…..

—Non abbiamo bisogno di ciarloni. Vogliamo gente che lavori!

—E tu, che cosa fai? domandò il più giovane, mentre un grande colpo di tosse ne scuoteva lo scarno petto.

—Questo, disse l'altro e, alzatosi, avvicinò un elegante stipo di legno lucidato, dalle grosse borchie di bronzo giallo, caldo.

Premette una suola ed aprì una porticina. L'altro vide alcuni ordigni di metallo giallo, piccolini, rotondi, lucidi.

—Quattro! mormorò.

—Ecco i nostri grandi argomenti nella lotta per la rivendicazione dei nostri diritti e nella campagna che meniamo contro ogni tirannide! disse l'uomo dagli occhi grigi e fissò l'altro in volto. Il suo sguardo gli penetrò attraverso gli occhi fin nel cuore, procurandogli un disagio grande, un malessere acuto, che invano cercò di vincere.

—Quando? domandò scuotendosi.

—È inutile che te lo dica.

—Perchè?

—Non hai coraggio! disse l'uomo dalla veste cinese con sprezzo.

L'altro si eresse sulla persona; lo sguardo divenne più strano che mai; le chiazze assunsero una tinta quasi scarlatta.

—Del vile a me! A me che ho sacrificato tutto al nostro ideale; che odio con infinito livore ogni tiranno, il governo, la chiesa, l'aristocrazia, i ricchi, ed anche tutti i papi del partito socialista! Del vile a me, che ho troncato la mia carriera, che mi sono logorato la salute, che ho….. esclamò con un fare tragico.

L'altro lo interruppe con un gesto di disprezzo.

—Meno chiacchiere! Hai davvero coraggio? gli domandò.

—Sì.

—Quante?

L'altro fece un gesto di terrore.

—Io?

—Se non sei vile.

—Non lo sono.

—Vuoi?

—Sì.

—Quante?

—Una.

—E vada per una. Domani!

—Il giorno di Natale! esclamò l'altro, scuotendosi.

Un sorriso di scherno errò sulle pallide labbra del primo.

—Il Natale t'impone? domandò.

—Certi ricordi…..

—Di antiche debolezze, delle quali dobbiamo vergognarci, Io una e tu una. Dove vuoi? Nella chiesa, durante la Messa, o tra la folla che passeggia?

—Tra la folla. E tu?

—Io in chiesa. Resta stanotte presso di me. Ordinerò dal trattore la cena per due. Potrai dormire nel gabinetto, e domani usciremo assieme.

—Dispensami stasera. Verrò domattina per tempo, disse l'altro imbarazzato.

Il più anziano gli diede un'occhiata di scherno.

—Vuoi santificare la notte di Natale? domandò.

—Ho promesso di passarla con mia sorella e coi suoi figli, rispose imbarazzato.

—Non dovevi accettare.

—Non potevo dire di no.

—Hanno invitato anche me al cenone, alla allegria dell'albero di Natale. Infami ricordi della più infame tra le tirannidi, la clericale! Non ho accettato! Non andare neppure tu. Rimani con me. Una cenetta e poi……

—Ho accettato.

Novello sorriso di scherno.

—Vile!

—Non potevo dire di no. Ma domattina sarò qua alle otto e ti proverò che ho coraggio.

L'altro rise.

—Ti attendo. Ma la tua venuta non proverà la tesi. Avrai audacia ma non coraggio. Chi ha coraggio la rompe con tutto; anche con certe pratiche care, con certe credenze.

—Non credo. Odio. Ma mi hanno invitato. Non è una festa religiosa ma di famiglia.

—Che ha però le proprie radici in quella fede cattolica, che noi dobbiamo sradicare dal mondo. Finchè noi avremo la debolezza di solennizzare il Natale, magari soltanto con una scorpacciata, proveremo la nostra dipendenza da quelle idee, concorreremo a tenerle vive e faremo del nostro, acciocchè resti sempre desto il ricordo del fanciullo di Nazaret e di quello che esso significa.

—Non dovrei andare?

—No.

Il giovane esitò un istante.

—Ho promesso, disse.

—Vile!

—Eppoi sarà l'ultima cena in famiglia, mormorò.

L'altro rise di nuovo con scherno.

—Per me sarà domani probabilmente l'ultima aurora, mormorò, mentre i suoi occhi grigi contemplavano quasi con amore le quattro bombe a mano, che egli aveva allineate nell'armadio, sopra un palchetto.

—Anche per me!

—Per te? Tu credi nell'anima ed in una vita avvenire.

—Nella mia reincarnazione! esclamò il giovane, mentre il suo sguardo divenne luminoso. Esso brillava allora del fuoco sinistro e pure non antipatico del fanatismo. Il fanatico ha almeno un ideale; l'indifferente, l'apatico ne va privo.

Per me domani tutto sarà finito, mormorò l'altro.

Il giovane non gli rispose. La proposta dell'amico gli era venuta troppo inattesa. L'aveva accettata. Non se ne pentiva. Doveva dimostrare che non era vile, eppoi era davvero ora d'incominciare. Le parole non bastavano più. Bisognava passare ai fatti.

Pure il pensiero che domani…. domani…. gli creava un grande malessere, contro del quale non giovava richiamarsi al pensiero l'immortalità e la reincarnazione dello spirito. Certo; egli sarebbe ritornato sulla terra sott'altra forma ma collo stesso principio vivificatore. Pure la vita era bella; quella sera specialmente tutto lo invitava a vivere, a godere, ed invece domani…. domani…. Cercò di cacciare quei foschi pensieri. Aveva deciso! Era suo dovere! Perchè rattristarsi quella sera colla previsione del domani? Gli sarebbe forse riuscito di salvare la vita; di scappare inosservato nell'infinito panico. Pure bramava di allontanarsi da quell'uomo, il cui sguardo era sì freddo; che era sì terribilmente logico nelle sue delusioni; vicino al quale si sentiva tanto a disagio.

Gli tese la mano.

—A domani! disse.

Vuotò il bicchiere, uscì di stanza e dalla casa e passò sulla via fredda, coperta di neve indurita, che scricchiolava sotto i suoi passi.

II.

—Vile! mormorò Giovanni Giunti quando l'amico fu uscito.

Egli disprezzava tutti questi uomini dalle mezze misure, che non la sapevano rompere a pieno col passato, che non sapevano farla finita colla loro antica esistenza; e quanto maggiore era l'eroismo che essi mostravano nelle cose grandi, tanto maggiore era il suo disprezzo, se essi non sapevano sacrificare certe cose da nulla.

La vigilia del Natale.

La osservavano molti, molti, anche indifferenti, anche miscredenti. Le famiglie si radunavano per il cenone; accendevano l'albero del Natale; attendevano la mezzanotte, andavano forse in chiesa e passavano l'indomani in letizia: il pranzo di famiglia, forse la visita a qualche presepio; le campane suonavano, sostava il lavoro, le fabbriche erano chiuse, la gente girava per le vie colla letizia sul volto; dovunque entusiasmo, dovunque allegria, perchè era Natale, era Natale.

Maledetto il Natale! Molti non ci pensavano alla nascita del Cristo; non intendevano di solennizzare una festa cristiana; ma pure festeggiavano il Natale, e davano così una speciale impronta a quella giornata; il forestiero che fosse arrivato in quel giorno nella città avrebbe detto: Il sentimento religioso deve essere ancora fortemente radicato in questo popolo, chè oggi tutti celebrano il Natale. Eppoi perchè solennizzare una data così indifferente; la problematica nascita di quel Gesù, del quale non si sapeva neppure se fosse esistito? Ma anche se davvero visse, perchè tante feste per la nascita di un fanciullo ebreo, e di un ebreo per giunta, del quale la superstizione si era impossessato, per celebrare le sue orgie?

Il Natale? Bisognava toglierlo dal calendario. Il 25 dicembre doveva diventare giorno lavorativo, ed in quel giorno venir dato al popolo un altro giorno festivo; p. e. il Natale dell'anarchia. La data era indovinata. Attorno al Natale nasce il sole, il quale incomincia la sua ascesa e festeggia il suo trionfo sopra le tenebre. E non trionfa anche il sole dell'anarchia sulle tenebre dell'autoritarismo ieratico, civile e militare?

Odiava le feste dell'anno ecclesiastico. Esse concorrevano a perpetuare l'errore. Chiesa e feste religiose, ecco le due cose, che andavano cancellate, per rendere laica la società.

Domani.

Il popolo si ostinava a celebrare ancora il Natale; le autorità vi aderivano vilmente e, quello che era peggio, molti che la pensavano come lui bruciavano il loro incenso alla superstiziosa costumanza. Ebbene. Non avevano da lamentarsi, se verrebbero coinvolti, domani, nella giusta punizione, nella grande vendetta.

Nemesi! Vendetta! Egli era il vendicatore! Voleva lanciare la bomba.
Era quella l'ultima conseguenza della sua evoluzione.

Una evoluzione magnifica, perchè egli si vantava grande pensatore; una rapida evoluzione da ragazzo credente, da socio di un circolo cattolico all'anarchia.

Era stato pieno di fede e di entusiasmo per il cristianesimo. Ma a scuola gli avevano aperto gli occhi; là aveva compreso che il cattolicismo, ed in genere tutte le religioni, sono un grande cancro, che logora la vita dell'umanità. La storia, maestra della vita, gli aveva insegnato, che la Chiesa fu sempre funesta alle nazioni, il maggior puntello del trono, la grande fautrice della tirannide più atroce, e che tutto il male nel mondo viene soltanto da lei.

Comprese. La Chiesa è come un palcoscenico. Sulla scena gli attori recitano la parte dei grandi eroi, degli uomini disinteressati, spremono le lagrime e destano entusiasmo. Dietro le scene invece sono di spesso volgari, il rifiuto della società. Tali i Papi, i vescovi, il clero, nessuno eccettuato.

La filosofia, la fisica, la teologia gli avevano dimostrato che Dio non esiste, la materia è eterna e colla morte tutto è finito. L'uomo è un animale, infelice da secoli, perchè lo hanno privato di quell'unica dote che lo distingue dagli altri animali, il suo amore smisurato alla libertà.

Sognò libertà; rottura di tutti i ceppi, di tutti i vincoli e perciò anarchia.

Nessuno doveva comandare, nessuno stare soggetto: esclusa la formazione di qualsiasi associazione, perchè l'associazione suppone statuti, suppone un presidente e perciò limitazione di libertà; non più leggi, non più consigli, non più Chiesa, non più stato, nulla, nulla. Uomo libero, conservati libero; difendi la tua libertà. Oppressi del mondo intero scuotetevi, organizzatevi, alla difesa del comune ideale!

Il pensiero, che bisognava rompere ogni ceppo lo ossessionò. Passò tra gli anarchici estremi e fu estremo tra di loro. Non condivideva le idee dei più. Essi volevano propagandarle colla parola, colla stampa, coi giornali. Egli non trovava questi mezzi sufficienti; voleva che si passasse alle vie di fatto, alle bombe, al pugnale, alla rivoluzione. Bisognava spazzare chi la pensava diversamente; mettere rapida fine all'attuale società, imporre alle masse neghittose e vili, la libertà. Che importa se in tal modo sarebbe scorso sangue? I veramente grandi non hanno mai indietreggiato avanti al sangue e sacrificato tutto e tutti alle loro opinioni. Che importa se molti sarebbero morti? La morte genera la vita. Che importa se in tal modo avrebbe dovuto imporre le proprie vedute a chi non la pensava come lui? Chi non la pensava a modo suo non era degno di vivere; era un microbo dannoso alla società e doveva venire perciò soppresso. Parlò ed agitò in questo senso, ma non venne compreso che da pochi. I più erano anarchici per sport o magari per convinzione, ma non ritenevano venuto ancora il momento opportuno. L'anarchia si era legata al carro della massoneria e doveva seguire perciò ciecamente il verde vessillo. E la massoneria, guidata essa pure dall'alta finanza internazionale giudaica, non riteneva opportuno di procedere. Sarebbe stata la sua rovina. Un po' di anarchismo stava bene per tener domi i capi dello stato, per incutere un po' di spavento alle autorità; ma ne quid nimis.

Giovanni Giunti non trovò ascolto; ma non venne neppur espulso dal partito. Era un elemento pericoloso, focoso, il quale, in omaggio all'anarchia, non voleva seguire nessuno nè ubbidire a nessuno; voleva procedere colla violenza; ma era una tempra focosa, che entusiasmava, pronto a qualunque sacrificio. Molto ricco, profondeva il danaro a piene mani, per sostenere i vari periodici, per la diffusione di stampati sovversivi, per la propaganda; aiutava i consenzienti poveri, era disposto a qualsiasi lavoro, a qualsiasi fatica, e quanto maggiore il pericolo tanto più volentieri lo affrontava. Non faceva alcun conto della propria esistenza.

Era ricco. Suo padre non aveva voluto altri figli, pago del suo primo ed unico, per concentrare nelle mani di lui tutte le dovizie della sua casa commerciale di primo rango, ed averlo continuatore della propria ditta, accumulatore di ricchezze sempre maggiori.

Il figlio non solo non seguì le idee paterne ma le ostacolò con energia. Il padre ne vide spaventato la discesa; l'ascrisse all'educazione religiosa datagli dalla madre. Questa morì di crepacuore al vedere il figlio ateo ed anarchico, all'udirlo parlare di bombe e di pugnali, ed al notare in lui un odio particolarmente intenso e fanatico contro il pensiero cristiano e la Chiesa, un odio tanto più inesplicabile quanto più grande era stata la sua antica fede. Il padre aveva deciso di diseredare il figlio e di farlo dichiarare discolo, per potergli negare financo la legittima; ma non arrivò a farlo. Uomo dal collo corto, collerico, sanguigno, autoritario; carattere dominatore, che voleva tenere tutti soggetti e non ammetteva neppur possibile un pensiero, diverso dal suo, si adirò una volta col figlio al segno, da venir colpito da paralisi.

Visse ancora qualche settimana, paralizzato, schizzando, coll'unico occhio che poteva muovere, fuoco contro il figlio; voleva parlare, ma non riusciva; mostrava di voler scrivere, ma la matita non disegnava che ghirigori senza senso. Morì, disperato di non poter manifestare la propria volontà. Giovanni ne fu l'erede. Liquidò subito l'azienda; si ridusse ad un appartamento piccolo ma elegante, dove viveva solo, e fu lieto di aver molto danaro, per poter spendere molto per la propaganda anarchica.

Metodisti, avventisti, valdesi cercarono di avvicinarlo; volevano sfruttare il suo odio contro la Chiesa; speravano di averlo alleato; ma vennero respinti. Egli non odiava soltanto il cattolicismo ma ogni specie di religione, perchè tutte dicevano abuso di libertà e servaggio di coscienza; perchè tutte cercavano di asservire lo spirito dell'uomo, favorivano la tirannide, puntellavano l'autorità, benedivano il pugnale; odiava la Chiesa cattolica sopra tutte, perchè la più potente, la meglio organizzata, la più logica, una Chiesa, la quale esercita tuttora sulle coscienze un fascino che egli non sapeva spiegare, ma che doveva constatare e ne aumentava l'odio. Quanto più agguerrito il nemico tanto maggiore l'avversione che gli si deve portare.

Passarono gli anni. L'anarchia era diventata accademica. Qua e là qualche singola alzata di scudi, dovuta all'energia di stranieri e d'italiani educati all'estero, in America; qualche sovrano pugnalato; ma non si andava più di là. Gli antichi ideali svanivano; non si parlava più di bombe, di pugnali, di rivoluzioni.

Il tempo passava; tempo perduto, secondo lui. Cercò invano di destare le coscienze dei suoi consenzienti; di spronarli ad un'azione energica. Non riuscì.

Allora decise di agire da solo, e costruì quattro bombe.

Voleva gettarle, possibilmente tutte quattro, terribile ammonimento ai tiranni. Non dovevano illudersi. L'anarchia non era spenta; lo spirito anarchico era tuttora desto in Italia; ammonimento pure ai consenzienti e sprone ad imitarlo.

Sarebbe morto lui pure. Ciò non lo turbava. Non faceva nessun conto della propria vita. Non valeva la pena di vivere, schiavo tra schiavi; e se il sacrifizio della sua vita avrebbe potuto accelerare alquanto il gran momento della redenzione, era lieto di farlo.

Forse l'avrebbero arrestato. In tal caso i giudici avrebbero udito la sua franca parola; uno scatto fiero e sincero dell'anima italiana, ribelle ad ogni giogo e stanca di ubbidire a mille tiranni.

La sola scelta del luogo gli era difficile. Dove lanciare le bombe?

In chiesa? Avrebbe colpito i tiranni della teocrazia, ma la borghese non si sarebbe scossa. Avrebbero ascritto il tentativo ad uno sfogo di anticlericalismo. Sulla via? In tal caso i preti si sarebbero fregate le mani e creduti indisturbati nel luogo santo.

Dove dunque?

Ora aveva trovato una soluzione. In Chiesa e nella via, purchè Narciso Rossi avesse mantenuto la promessa. L'avrebbe mantenuta. Era idealista e perciò fedele.

Lo chiamarono al telefono. Dalla trattoria, donde gli portavano la cena, gli domandavano se la voleva di grasso o di magro. Era la vigilia del Natale.

—Di grasso! gridò indispettito, offeso, sdegnato che si osasse anche sol sospettare che egli poteva fare il magro nella vigilia del Natale.

Coprì d'improperi il cameriere, che gli portò la cena.

Cenò e bevette qualche gotto di vino. Durante la cena gli ritornarono alla memoria le parole di Narciso Rossi, che gli sembravano così paradossali. L'anima non misura gli spazi del pensiero colla misura del tempo.

L'anima!

L'uomo non ha anima!

La neve aveva ripreso la sua discesa. Le vie erano deserte. I rari passanti si affrettavano a raggiungere le loro case. Egli vide le finestre di fronte alle sue illuminate; vide gli strani bagliori di alberi di Natale, ricchi di candele e di lampadine elettriche: gli sembrava di udire il riso argentino di bambini e fanciulle, che danzavano felici attorno all'albergo, grate al Bambino Gesù per i bei doni.

Natale.

La gioia di quella famiglia gli dava sui nervi; lo riempiva di sdegno. Nel Natale ebbe principio la più terribile tra le tirannidi, la teocratica. Un uomo colto deve maledire il Natale.

Eppoi udì il suono delle campane. Erano le ventidue; esse invitavano ai sacri uffici nelle varie chiese.

Quel suono, così solenne nella notte fredda, piena di neve, ne aumentò lo sdegno.

Maledetto! Ma domani….. domani…

Vuotò rapidamente un altro gotto e poi si abbandonò nella sua sedia a bracciuoli e guardò distratto l'allegro fuoco, che schioppettava nel caminetto: una sua singolarità. Odiava le stufe. Voleva vedere il fuoco, quel fuoco che avrebbe purgato un giorno l'umanità.

E mentre guardava quelle fiamme pensava ai delitti della chiesa, al danno infinito che il cristianesimo ha recato all'Italia, ad ogni singolo italiano ed anzi ad ogni uomo; ed il suo odio giganteggiava……

Domani!

Si spogliò rapidamente e si cacciò sotto le coltri.

Domani!

I.

Lo schiavo

L'infinita estensione del deserto. Un mare di sabbia gialla, profonda, calda, infuocata, dalla quale escono, simili alle isole nel mare, delle rocce nude, brulle, dalle forme fantasiose, strane, le quali riflettono i cocenti raggi del sole, aumentano il calore di altiforno ed accecano quel povero uomo il quale cavalca stanco, sfinito, sul suo destriero, stanco, sfinito esso pure. Il cavaliere non ne può più.

È un magnifico esemplare della razza camita, come essa si è conservata pura nelle regioni settentrionali dell'Africa; il color della pelle è bruno, come antico rame; i lineamenti del volto dolci e non sgradevoli; la fronte bassa, l'occhio infossato, gli zigomi leggermente sporgenti; le grosse, tumide labbra hanno il colore del corallo, i capelli sono crespi, la persona grande, forte, bella, tutta nervi e muscoli, una figura regale, un uomo, il quale sembra chiamato al dominio. Ed il vestito è quello di un uomo che può, di un dominatore. I sandali sono di cuoio finissimo, rosso; i calzoncini corti di pelle concia, elegantissimi; il petto è ignudo, ma dalle spalle gli pende un prezioso mantello azzurro, di lana finissima, orlato di porpora, di vera porpora, preziosa come la imperiale. Ha anella di oro alle braccia muscolose, ed anella alle dita, mentre il capo è coperto da un drappo prezioso, multicolore, che gli svolazza dalle spalle. Al fianco gli pendono una spada romana, corta, dall'impugnatura di ebano ed avorio, ed un magnifico pugnale.

Il cavallo è di rara bellezza; uno di quei cavalli grigi, come sono grigie le rocce del deserto, che gli sceicchi arabi, gl'ismaeliti, allevano nella penisola sinaitica ed al di là del breve mare, nelle regioni asiatiche, e vengono importati rare volte nell'Africa; un cavallo prezioso, che sarà stato pagato certo il prezzo di venti cammelli o di cento asine; un cavallo tutto fuoco, dall'occhio sagace e dalle narici di corallo.

L'uomo è stanco, sfinito, non ne può più. Il sudore non ne imperla più la fronte, perchè il suo corpo è privo di umor; la bocca spalancata è secca ed arida la lingua; è da trent'ore a cavallo e da venti che non beve; la testa gli arde, i pensieri gli si confondono; non ne può più. Arrestarsi? Non può; non deve! Avanti a lui è la vita, perchè può trovare dell'acqua e conservare la libertà. Dietro di lui c'è una schiavitù, ben peggiore della morte.

Avanti, mio Veloce! avanti. Egli stimola il fido destriero, lo sprona con certe spine di argento che ha ai calzari, gli flagella il ventre, gli apre ferite, lo fa sanguinare. Il cavallo spiega la sua maggior velocità, ma questa è così poca; perchè è stanco, è tanto stanco. È da una settimana che non riposa; è da due giorni che non beve; eppoi il nobile destriero non è avvezzo alla vita del deserto, alla sabbia.

Avanti, Veloce, avanti!

Il cavallo, spronato dalla voce supplichevole del padrone, intende le proprie forze, tutte; ma non può, non può più, ed il suo passo è così lento, così lento.

Il cavaliere volta di quando in quando la testa, fa colla mano disco agli occhi, e fissa il lontano orizzonte. Non vengono ancora; ma possono venire ogni istante, ed allora…..

Mio dio serpente, salvami, ed io offrirò in tuo onore dieci bambini appena nati e scannerò dieci vergini, che non hanno ancora conosciuto lo sposo! esclama, mentre il suo occhio guarda supplice un piccolo serpente, arrotolato al suo braccio sinistro; il suo odio, l'onnipotente, il patrono della sua tribù, che la rese sempre grande, la conservò potente, le concesse sempre grandi trionfi e l'aveva abbandonata soltanto due giorni innanzi: un dio sanguinario, che chiedeva molte vittime, bambini innocenti e vergini pure.

Dio serpente! Perchè mi hai abbandonato?

Sì; lo aveva abbandonato. Ricordava la sua tribù forte, potente, padrona della grande oasi, dominatrice delle vie del deserto. Egli ne era il capo temuto. Suo padre gli aveva lasciato un nome terribile, che tutti paventavano, un'autorità, avanti alla quale tremavano tutti, un forte esercito di tremila armati, le casse piene di oro giallo, caldo, più caldo della sabbia del deserto, molti schiavi e molte schiave.

Egli aveva stretto con mano forte le redini del governo ed avido di dominare sul deserto, di essere padrone delle grandi vie, che conducono al suo interno, per poter taglieggiare a piacimento le carovane ed imporre loro le tasse che voleva; per diventare il padrone del paese, aveva dato battaglia ad una tribù finittima e che gli era rivale, l'aveva debellata ed era stato senza misericordia coi vinti. Chi gli era caduto vivo nelle mani era stato macellato o fatto schiavo e conservato ad una sorte più terribile della morte.

Quanto sangue sparso allora! Egli fremeva della barbara Gioia al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di veder scorrere ancora ai suoi piedi, sulla sabbia del deserto, un ruscello di sangue umano, rosso; gli pareva di allungare il braccio colla mano, piegata a mo' di scodella, di attingere quel liquore rosso, caldo, e di portarlo alle labbra. Spegnere la propria sete col sangue dei morti nemici! Dimenticò per un'istante la propria sete, il suo sfinimento, e si rizzò fiero, maestoso, sul suo cavallo.

Io! Il principe Ramsette! Ma poi ricadde nell'antica prostrazione; la persona si curvò ed egli dovette con ambo le braccia afferrare il collo del fido cavallo e stringersi a quello, per non stramazzare al suolo.

La sua ultima vittoria, perchè i vinti avevano implorato l'aiuto dei potenti ed odiati romani, ed il proconsole aveva avocato a sè la causa ed osato citare lui, un principe, lui, Ramsette, al proprio tribunale.

Aveva risposto: Un libero principe non può venir giudicato da nessuno! ed aveva invitato il proconsole al proprio tribunale.

Aveva armato la sua tribù. Sperava di vincere. I suoi erano uomini liberi; i romani schiavi. Un uomo libero vale per cento, per mille schiavi e ne sbaraglia una legione. Eppoi egli si lusingava, che tutte le altre tribù si sarebbero unite a lui, le libere, per conservare la propria libertà, le soggiogate, per scuotere il durissimo giogo.

Ma le sue speranze non si erano avverate. Molti Io temevano, molti lo odiavano, molti lo volevano veder umiliato; la sua umiliazione premeva loro assai più della loro libertà. Non vedevano il loro vero nemico nel proconsole romano, che li teneva domi, li soggiogava alla dominatrice del mondo; vedevano piuttosto in lui un rivale pericoloso, che andava umiliato. Nessuno lo aiutò; uno o l'altro favorì anzi i romani. Si venne alla lotta, ed egli fu vinto. Le centurie romane, bene armate di bronzo, furono insensibili alle leggere frecce; i suoi invece non poterono resistere al loro impeto; molti fuggirono; molti vennero mietuti dalle loro spade, molti furono trapassati dalle loro lancie. Dall'alto del suo destriere egli aveva diretto la pugna e cercato d'infiammare i suoi e di condurli al trionfo; ma quando aveva visto sbaragliati i suoi uomini, prima invincibili, da un pugno di nemici, inferiori di numero; quando gli avversari si erano lanciati contro di lui; quando aveva udito la voce del centurione gridare: «Mille sesterzi a chi lo piglia vivo», un terribile spavento lo aveva incolto. Morto sì, ma schiavo mai. Aveva dato di sprone al suo cavallo ed incominciato quella fuga pazza, da parte sua, quell'inseguimento pazzo da parte loro.

Fuggire? Dove? Alla sua oasi, per condurre colà il nemico; per dargli in preda le donne, i fanciulli, il suo oro? Mai! Si lusingava, che il nemico non avesse trovato la via dell'oasi, non si fosse spinto fin là, a predare, sgozzare ed incendiare; si lusingava di poterlo allontanare in un'altra direzione. E perciò fuggì all'impazzata, nel deserto, senza una meta, avido solo di mettere una immensa distanza tra sè ed il nemico; di mettere in salvo la propria vita; di non cadere nelle mani di quell'avversario temuto, di non diventare suo schiavo.

Dio serpente! Mi salva, mi salva!

E continuava la cavalcata pazza.

Il sole volge rapidamente al tramonto. I colli gettano lunghe ombre, strane, e prendono tinte fiammeggianti; domina, da principio, il giallo, un giallo saturo che diventa poi arancione e poi rosso fuoco mentre i colli ardono; sembra che un gigantesco incendio divampi nel deserto; l'orizzonte è in fiamme, ed in mezzo a quelle fiamme, rossa essa pure, un'enorme brace, si tuffa la gigantesca palla solare.

Il rosso cede il luogo al violetto; sembra che le rocce vestano a mestizia per l'occaso del sole. Il fuoco si spegne sull'orizzonte, rapidamente; i colli si coprono di gramaglie, e sul padiglione nero del cielo compariscono numerose stelle.

Il capo prorompe in un urlo di spavento. In mezzo a quelle stelle è comparso un indice luminoso, gigantesco, il dito di Dio, che gli minaccia sventura.

«La cometa! L'astro della mia rovina!» e cade privo di sensi a terra.

II.

Rimane a lungo, molto a lungo privo di sensi. Il cavallo si è coricato al suo fianco, ed ansa; ha la bocca aperta; la lingua ne esce penzoloni, inaridita; gli occhi si spengono; la povera bestia è prossima a morire di stanchezza, d'inedia, di sete.

Il capo si desta. Da principio non riesce a raccogliere i pensieri; sono così confusi; ma poi vede sopra di sè il cielo stellato; vede la maestosa luna; vede la cometa. Ma alla luce lunare l'astro minaccioso ha perduto parte del suo terrore; la sua luce è sbiadita tanto. Pure ciò non reca conforto al capo. Egli guarda la cometa, con un infinito spavento. È certo di essere perduto.

—Schiavo mai! freme, leva il pugnale amico e lo porta alle labbra.

Non paventa la morte: Ha scannato già molti di sua mano. Suo padre, quando gli ha donato il pugnale gli ha detto;—Il miglior amico! Esso non permetterà giammai che tu diventi prigioniero.

Lo avevano assuefatto a vedere nella prigionia la maggior sventura, il pugnale era là, l'amico fido.

Era deciso! Voleva cacciarselo nel petto, voleva farla finita. La cometa era là e gli diceva: Schiavitù o morte! E tutto, tutto: la sua educazione, i suoi fremiti di libertà, la sua condizione di capo, il suo passato, il presente, i timori per l'avvenire, tutto, tutto gli diceva: Schiavo mai! Preferisci la morte; mille volte la morte!

Stava già per cacciarsi il pugnale nel petto quando il suo sguardo venne a cadere sul cavallo morente.

Lo guardò a lungo e provò un senso d'infinita mestizia. Gli sembrava di veder morire un amico; anzi, più che un amico un fratello. Ma poi gli si affacciò alla mente un pensiero; cercò di cacciarlo, ma invano. Esso gettò subito radici; si abbarbicò nel suo cervello, gli s'impose. Non era quella la prima volta…. Non sacrificava nulla.

Il cavallo era condannato a morire. Avido di bere; reso pazzo dalla sete; desioso di conservare la vita, per radunare le sparse membra della sua tribù, per organizzarle, per prepararle alla vendetta, si gettò sul cavallo, gli aprì, col pugnale, una vena al collo, portò le labbra alla ferita e succhiò il sangue caldo dell'animale, che si dimenava negli spasimi dell'agonia.

Beveva, beveva! Mio serpente, sii lodato! Beveva, beveva! Il liquore era denso, caldo, nauseabondo, dolcignolo. Sangue! Ma egli non ci faceva conto. Non badava alla nausea che esso gli recava; era un liquido che spegneva la sua sete grande, intensa, infuocata, che gli faceva ritornare la vita.

Beveva, beveva. Bevette fin che non ne potè più, e poi si abbandonò sulla carogna del suo cavallo, incapace di più muoversi, in preda ad un dolore di testa infinito; in preda a certi tremiti, a certi vomiti spaventosi, che poi cessarono, lasciandogli una grande sfinitezza e facendolo cadere in un supremo letargo….

Un dolore terribile ai polsi lo fece rinvenire. Spalancò gli occhi. Il sole era alto ed innondava il deserto di sua luce gialla, festosa, calda, e a quella luce egli vide attorno a sè degli uomini sbarbati, nell'odiato costume romano, udì le loro risa di scherno e si vide strette le mani da pesanti catene. La predizione della cometa si era avverata. Era prigioniero, era schiavo.

Cercò di spezzare quelle catene; invano. Volle balzare in piedi, ma era incatenato anche a questi. Gridò, urlò, si dimenò, ma essi risposero alle sue grida, alle sue proteste, ai suoi urli, con alte risate di scherno, con parole beffarde. Egli non li comprendeva. Il loro gergo era così diverso dal latino, che parlavano a Cartagine e del quale egli aveva appreso alcune parole dal suo precettore. È buona cosa conoscere anche il gergo degli avversari, per rilevarne le intenzioni.

Ma poi ricordò che era principe, e che quegli erano schiavi; che non doveva dare loro spettacolo di sè; che non doveva destare il loro scherno, le loro risa; che doveva imporre loro colla sua dignità, e più non si mosse. Finse esternamente la maggior calma, mentre nel suo cuore si rodeva dalla rabbia e da uno sdegno grande, immenso, infinito, cocente. Prigioniero, schiavo. Gli diedero da mangiare. Non rifiutò il cibo, gli diedero da bere; non rifiutò la bevanda. Ma quando gli dissero di alzarsi si accorse che non aveva più al braccio il serpente adorato. Girò smarrito Io sguardo, e lo vide a terra, morto, col capo schiacciato. Provò un dolore indicibile. Il suo idolo venerato; il suo dio! Morto l'idolo della tribù; questa distrutta, il suo principe prigioniero. Una sventura più atroce non lo poteva colpire.

Lo condussero prigioniero a Cartagine.

La terribile marcia attraverso il deserto, a piedi, legato alla sella di un centurione germanico, uomo senza cuore, brutale, che spronava il proprio cavallo, per costringere il prigioniero ad una corsa veloce, sulla sabbia infuocata, su pietre che bruciavano, attraverso a valli anguste, su rapidi pendii. Gli avevano tolto il mantello, i calzari, le armi, i braccialetti, tutto; non gli avevano lasciato che i calzoncini di cuoio. Il piede ignudo sprofondava nella sabbia; le pietre aguzze gli foravano la pelle; i granellini di sabbia, i piccoli cristalli di quarzo, penetravano nelle piaghe, nelle ferite, causando un dolore atroce, un intenso prurito; le ferite si allargavano; il sudore gli colava copioso dalla fronte; ansava; non ne poteva più: era sfinito e si trascinava con fatica avanti. Malediva al suo dio serpente che lo aveva abbandonato, ai romani, alla cometa, a se stesso, che non aveva messo fine alla propria sventura; che aveva avuto il pugnale e non lo aveva piantato nel proprio cuore, nè messa, così, rapida fine alla propria vita.

Quella sera la cometa apparve di nuovo. Essa destò in lui una lieta speranza. Non era apparsa dunque per lui, per annunziare la sua sventura, chè questa era compiuta. Annunziava la rovina dei romani? Venisse! Non l'anelava per la propria liberazione, ma perchè li odiava tanto.

La marcia continua. Non ne può più, e riceve dal centurione un colpo di sferza sul dorso; il primo colpo, che sfiora le sue vergini spalle. Urla più che dal dolore dalla rabbia, dallo sdegno, dall'infinita vergogna; lui, un principe, battuto di verga! stringe i pugni, vuole gettarsi, colle mani legate, contro l'audace che lo ha battuto, ma viene ricevuto a colpi di verga, abbondanti…..

Hanno passato il deserto e sono arrivati su territori fertili, ben coltivati, fittamente abitati, dove il suo passaggio viene accolto ora da parole di scherno, di beffe, ed ora di meraviglia, di stupore. Nessuno ha compassione di lui. Egli muore dalla vergogna nel vedersi meta di quello stupore, di quello scherno, nell'accorgersi che nessuno lo compiange.

Giunge finalmente a Cartagine, dove viene trascinato dal proconsole. Ode parole di scherno. Viene considerato prigioniero di guerra e condannato alla schiavitù imperiale. Verrà mandato a Roma. Protesta. È africano, è principe. La guerra fu ingiusta; esige la libertà; si dichiara pronto di venire a patti; di assoggettare la sua tribù ai romani, di riconoscere l'imperatore, di pagare un annuo tributo. Le sue parole vengono accolte con un riso di scherno. La sua tribù più non esiste; è stata annientata; tutti gli uomini sono morti e le donne trascinate sui mercati; la sua oasi è diventata proprietà del fisco.

Lo conducono allo stabulum, fra gli schiavi, dove la verga lo costringe all'ubbidienza, al lavoro. Il cibo è scarso, le piaghe molte, il lavoro faticoso. È incatenato assieme a prigionieri di guerra, frementi di libertà; a delinquenti, condannati per volgari delitti, a schiavi, nati tra le catene, che non hanno mai gustato la libertà, che hanno cambiato di spesso padrone e furono acquistati dallo stato per venire inviati a Roma.

Fra gli schiavi vi sono parecchi suoi antichi sudditi, catturati nella battaglia o nella sua oasi e parecchi suoi antichi schiavi, lieti quest'ultimi che il loro antico padrone sia pure schiavo. Egli è stato sempre un padrone molto crudele; non ha mai avuto compassione di loro; non può chiedere, che essi abbiano ora compassione di lui.

III.

L'immensa estensione del mare. La trireme, mossa da cento robuste braccia che muovono il remo, vola sulla tranquilla superficie del Mediterraneo, il gran mare, il bacino della civiltà. Vola, ma non trasporta passeggieri, lieti di fare il bel tragitto; felici di andare verso l'Italia, bramosi di vedere Roma, la grande ammaliatrice del mondo; ma trasporta una schiera di infelici, i quali vengono inviati a duro lavoro, ad un trattamento disumano; che hanno da aspettarsi, in Italia, a Roma, una crudeltà maggiore ancora di quella che hanno dovuto soffrire sul suolo africano.

La disciplina di bordo è draconiana. Gli schiavi sono troppo numerosi. Potrebbero accordarsi coi galeotti e tentare un colpo di mano. Perciò i soldati sono di una severità eccessiva. Tutti portano le catene da mane a sera; i più riottosi non possono abbandonare la stiva nè uscire sopra coperta e là, nel corpo della nave, devono respirare l'aria mefitica ed i più ammorbanti fetori. Il cibo è scarso; la frusta fende continuamente l'aria e cade sulle loro povere spalle.

Tra i più riottosi Ramsette. Egli si trova là, incatenato alla parete, nell'angolo più buio della stiva, col corpo coperto di piaghe, sulle quali nidificano le mosche; si contorce dalla rabbia, dallo sdegno, freme, spuma, urla, grida. È un prigioniero indocile, il quale si è opposto all'imbarco, ha osato aizzare gli altri prigionieri, ha tentato, quando gli hanno permesso di salire sulla tolda, di gettarsi in mare; ha detto ai suoi compagni: «Gettiamoci nelle acque. Meglio morire che condurre vita di schiavitù»; ha resistito ai soldati; si è lanciato contro di loro coi pugni chiusi e ne ha atterrato due; uno anzi lo ha conciato male. I carcerieri lo laceravano allora colle loro verghe e lo avrebbero finito, se il centurione non si fosse intromesso. «È un prigioniero prezioso; un antico principe. Che dirà Nerone se glie lo consegneremo con troppe piaghe sul dorso?»

Avevano finito di batterlo, ma lo avevano trascinato nell'angolo più buio della stiva; lo avevano assicurato ad un forte anello di ferro, caricato di doppie, di triple catene; non gli portavano più nè da mangiare nè da bere; ed egli sentiva gli orrori della fame e più ancora gli stimoli della sete.

Un vento forte flagella il mare; si sollevano altissime onde, dalle creste candide di schiuma, e la nave danza su quelle. Gli schiavi vengono cacciati tutti nella stiva ed accatastati colà; la bodola viene chiusa; essi si trovano al buio; incapaci di reggersi su quel suolo che danza sotto i loro piedi, che si alza, che scende, essi vengono sbattuti di qua e di là, perdono l'equilibrio, rotolano gli uni sugli altri, formando certi acervi, certi agglomeramenti di carne umana; e poi viene il terribile mal di mare, che non conoscono neppur di nome e sembra loro presagio di morte vicina; odono sul loro capo il calpestio dei marinari che corrono, urlano, bestemmiano; dei soldati, che imprecano al servizio di mare, a quel viaggio, ed invocano o maledicono gli immortali, e il rumore delle onde, che flagellano i fianchi della nave, il sibilo del vento, che passa tra i cordami e le sartie.

Ramsette urla pur lui, bestemmia, grida, aizza i compagni: Se la nave resiste alla procella, mettete fine alla vostra esistenza. Il mare vi attende; stende a voi ancora le braccia. Gettatevi tra quelle!

Nessuno rispondeva alle sue parole. Erano schiavi, ma pure amavano la vita e rifuggivano istintivamente dalla morte. La vita rappresentava sempre una grande speranza, la speranza della libertà, la morte invece? No, no! Non morire! Vivere sempre, sempre; anche tra le catene! Vivere, magari sorretti soltanto dalla speranza della vendetta…….

Ed egli, al vedere che nessuno lo abbadava, dava in smanie maggiori.

Un vecchio schiavo lo avvicinò; un povero vecchio, ricurvo sotto il peso degli anni. Veniva mandato a Roma per morire nel circo, perchè egli, un rettore ben noto a Cartagine per la sua eloquenza e sapienza, era stato scoperto consenziente agli incendiari di Roma.

Il vecchio disse allo schiavo.

—Ti calma fratello! Pazienza!

—Mai! Sono principe! La pazienza è la virtù dello schiavo.

—Di un animo nobile. Egli, abbandonò, per nostro amore, il suo trono, e non solo volle spontaneamente, da nessuno costretto e soltanto per eccesso di amore, diventare schiavo, ma volle morire financo la morte degli schiavi.

—Un pazzo, urlò Ramsette.

—Dio. Il figlio di Dio!

—Il mio dio serpente non ha saputo difendere nè la mia tribù nè se stesso e venne perciò giustamente schiacciato da un soldato romano, disse Ramsette con una sghignazzata amara.

—Fratello….. incominciò l'altro con dolcezza,

—Io, un principe, non sono il fratello di uno schiavo! urlò Ramsette.

L'altro non si perdette di pazienza. Gli rimase vicino e cercò di convincerlo della bellezza del cristianesimo e dell'amore di Gesù, ma invano. Ramsette non voleva accettare la lieta novella e si ribellava a quella dottrina, che predicava l'amore ed insegnava il perdono….

Il viaggio fu molto lungo e doloroso; ma egli non morì; arrivò ad
Ostia, venne sbarcato e, caricato di ceppi, fu condotto a Roma.

IV.

Non degnò di nessuno sguardo ammirato la dominatrice dell'orbe. Non era sensibile alle sue magnificenze. Anima di scorridore del deserto, il suo spirito era troppo assuefatto all'infinita grandezza di quelle lande ed all'elegante bellezza delle palme, che nelle oasi si agitavano allo zeffiro, per poter ammirare quel mare di case, quelle vie anguste, sinuose, nelle quali si pigiava la folla; quei lunghi filari di tombe, di colonne, di statue; tutte cose che vide una volta sola, nel rapido passaggio verso lo stabulum, la prigione. Vide soltanto la folla curiosa che lo guardava, e faceva delle osservazioni punto lusinghiere sulla sua persona ed i molti, che non lo degnavano neppure di uno sguardo; e se sentiva uno sdegno infinito per i primi, provava una rabbia ancora maggiore dell'indifferenza degli altri. O questi romani! Sentiva di odiarli. Poterli schiacciare tutti.

Eccolo nello stabulum, schiavo in mezzo a molti schiavi: costretto ad un lavoro faticoso, umiliante, di pulizia dei cortili, di spaccatura di legno, a portare fardelli, sempre sotto la sferza, pieno di fame, di sete, colla febbre che lo divora, desideroso di presto finire quella vita.

Chiede di venir introdotto da Cesare e gli rispondono con parole di scherno; domanda di potergli esporre le proprie ragioni; di poter affrontare, a testa alta, lui, il capo temuto e rispettato dei beduini, il capo temuto e potente dei romani, ma gli si risponde con una risata.

Intanto passano i giorni, lunghi, monotoni; ed egli altro non vede che le grigie pareti dello stabulum, dal pavimento coperto di eterne immondezze; respira l'aria afosa, viziata, pregna di fetore; e non vede che di rado un po' di cielo, quando passa nel minuscolo cortile, chiuso da alte mura, dove c'è il pozzo, dal quale ha da attingere l'acqua, mentre nello stabulum stesso regnano le semi tenebre e la luce non entra che scarsa da una stretta finestra, chiusa da grate di ferro.

Quanti schiavi!….. Là si parlano tutte le lingue del mondo conosciuto; là ci sono tutti gli strati sociali; uomini, caduti nella schiavitù per la violenza delle armi e che primeggiavano nelle loro terre; malfattori, della peggior specie, debitori incapaci di pagare ed antichi schiavi, i quali avevano perduto la grazia del padrone ed erano stati regalati o venduti al fisco; schiavi inviati colà dai paesi più remoti, perchè i proconsoli ed i prefetti, non mandavano alla capitale del mondo soltanto il tributo di oro e gemme ed il bottino di quadri, bronzi, colonne e statue, rubate nei templi degli dei e nei palazzi dei ricchi; non inviavano soltanto copia di cereali, vettovaglie, animali selvaggi o rari per i giochi nel circo, leoni, pantere, leopardi, elefanti, iene, ma anche il tributo umano, schiavi molti, per i lavori pubblici, per il circo.

Egli era in mezzo a quegli schiavi, che maledivano il loro rio destino, auspicavano la rovina di Roma, un novello incendio che l'avesse distrutta tutta nè si fosse arrestato avanti a nessun quartiere, e che coi palazzi e coi templi, avesse incenerito anche Nerone e tutto quel popolo borioso, sanguinario, dominatore, avido di sangue e di morte.

Fra tutti quei malcontenti si aggiravano alcuni prigionieri, catturati di fresco, accusati di appiccato incendio, condannati a comparire nei prossimi giochi nel circo ed a servire colà di pasto alle fiere; prigionieri in buona parte di alto lignaggio, di nobilissime famiglie.

Gl'incendiari di Roma! Gli schiavi guardavano ammirati quegli audaci, che avevano osato appiccare l'incendio alla capitale del mondo e Ramsette si fece loro giulivo incontro, tese loro le mani incatenate e inneggiò agli audaci. Quelli sì erano uomini. Aver osato mettere l'accetta alla radice, e dare fuoco alla città!

O l'odio, l'odio grande che essi dovevano portare a Roma! Averla incendiata!

Qual delusione invece! Quella gente si protestava innocente; insegnava che bisognava rispettare Cesare anche se era Nerone; che si doveva ubbidire alle autorità e sottostare anche a ingiuste sentenze; insegnava la pazienza, la compassione, la rassegnazione, la misericordia, il perdono. Erano così simili al vecchio che lo aveva avvicinato nella nave…..

Sentì nausea di loro, del loro atteggiamento, delle loro parole; una nausea tanto più grande quanto erano più intense le sue aspettative e maggiore la delusione provata. Ne invidiò la rassegnazione, ma l'ascrisse a stupidaggine; ne invidiò la calma, ma la ritenne indegna di un uomo; non volle ascoltare le loro parole: fece il sordo alle loro dottrine; li respinse da sè. Adorare un Dio fatto schiavo e morto la morte degli schiavi, che insegna la pazienza e domanda rassegnazione? Mai.

Ogni giorno coloro che dirigevano i giochi pubblici venivano nello stabulum, e sceglievano tra gli schiavi quelli, che dovevano venir esposti alla plebe: fiaccole viventi, da illuminare le orgie di Nerone; povere vittime, da essere crocifisse; da venir offerte, vestite di pelli di agnello, in pasto alle fiere; costrette ad uccidersi a vicenda, adoperate in terribili riproduzioni realistiche di antichi miti… Alcuni uscivano colpiti, schiacciati, frementi, maledicendo alla loro sorte, imprecando a Roma ed a Cesare; altri calmi, rassegnati, col sorriso sulle labbra, quasi andassero incontro alle nozze più liete, ad un festino: quegli imbecilli, che avevano bruciato Roma, ed ora si vergognavano del loro eroismo, e lo sconfessavano, abbenchè sapessero che in tal modo non risparmiavano la vita. Sciocchi! perchè non andavano alla morte, fieri del loro operato, menando vanto di aver bruciato Roma e gridando in faccia al tiranno: «Siamo stati noi!».

Altri occupavano i posti, resi vacanti dalle vittime.

Venne il momento nel quale scelsero lui pure; lui, il principe, il libero capo di un libero popolo. Lui, dato in pasto alle fiere! Lui, dover appagare l'avida curiosità di quel Cesare che tanto odiava, di quel popolo che aborriva!

Nessuno si curò delle sue proteste. Volle opporsi. La sferza lo domò; lo unirono ad altri schiavi, e lo trascinarono di notte, sulle vie addormentate, al Circo.

Vicino a lui camminava un incendiario di Roma. Questo gli mostrava la sua compassione, gli rivolgeva dolci domande, cercava di confortarlo; gli parlò del cielo, di Dio, del suo amore infinito, lo esortò alla rassegnazione. Egli gli sputò in faccia, cercò di colpirlo col gomito, coi pugni chiusi, colle catene pesanti, lo ingiuriò, gli diede del vile.

Giunsero al circo di legno, grande, costruito ieri; lo fecero scendere in un corridoio sotterraneo, cieco, e gli offersero il pasto della morte: alcuni mangiarono; altri rifiutarono. Egli pure. Non avrebbe potuto inghiottire un boccone.

Perchè non si era dato la morte là, nel deserto, a fianco del suo cavallo; perchè aveva allora prolungato la sua triste esistenza?

Passò del tempo eppoi udì un sordo vociare.

Il circo si riempie! Spicciatevi! comandò la voce del custode di quei corridoi sotterranei. Entrarono dei gladiatori, degli schiavi, strapparono ad alcuni schiavi le vesti e passarono alla loro flagellazione, che precedeva il supplizio di croce; la pelle e la carne veniva strappata a brandelli dai loro corpi. Erano gl'incendiari di Roma. Essi non si lamentavano; guardavano sereni nello spazio; qualcuno anzi sorrideva, come se provasse una grande gioia, se gustasse una dolcezza infinita. Eppoi li condussero alla crocifissione, alla morte.

Anche ad altri vennero tolte le antiche vesti e vennero indossate delle nuove; furono incoronati di fiori, mentre altri ancora venivano avviluppati in pelli di agnello, di pecora, e magari di cani, di leopardi. Essi urlavano, protestavano, si dimenavano, imploravano grazia, paventavano la morte, ma venivano allontanati. Non tutti piangevano però. Molti tacevano, pregavano; essi erano gl'incendiari di Roma!

Qua un giovinetto si acconciava alla meglio le vesti, per coprir l'ignudo petto; là un altro s'inginocchiava avanti ad un vecchio e lo supplicava: Mi benedici!

Christiani ad leones!

Questo urlo terribile, di una folla briaca di sangue, penetrava nel corridoio e giungeva alle orecchie di Ramsette e degli altri. Era la folla romana, la dominatrice del mondo, la plebe imperiale, che chiedeva sangue e voleva vittime. Altre vittime ed altre ancora andavano a pascerne la morbosa crudeltà. Nerone largheggiava di vittime. Cristiani e non cristiani, alle volte divisi, tal'altra confusi, venivano cacciati nel circo. Si distinguevano soltanto del loro atteggiamento di fronte alla morte….. Venne la volta di lui; gli tolgono le catene; vuole gettarsi sui suoi carcerieri, ma la sferza di un gigantesco decurione lo tiene domo; eppoi una voce gli dice: mostrati eroe, fa vedere a Roma come l'Africa sa morire!

Già. Vuole far vedere a questa plebe, che egli sa morire. Morire sì, ma piegarsi avanti a quel popolo, lui, mai, mai! Chiedere grazia, mai, mai!

Eccolo vestito da cacciatore; gli danno la breve spada e la refe.

—Coraggio! Chissà? Forse? Puoi vincere; puoi uccidere la fiera tu; il popolo è volubile; ti farà forse grazia.

Implorare grazia? Dai romani, Mai! Giustizia sì, ma grazia, no, no; mai! In eterno!

—A te!

Lo conducono all'uscio; questo si apre, ed egli vede sorpreso, colpito, meravigliato, l'infinita estensione del circo, la gigantesca elisse, dalle innumerevoli gradinate di legno, sulle quali si agita una folla mai ferma, che brulica, grida, si contorce, batte le mani, chiede morte, sangue, vuole vedere morti, molti morti.

Vede la loggia imperiale; vede Nerone, pingue, miope, dagli occhi lippi, che si contorce dalle risa: un volto volgare, sul quale lo stravizio ha impresso le sue orme; vede i crocefissi, che si contorcono fra gli spasimi dell'agonia; vede fiere che si avvicinano in piccoli, eleganti balzi alle vittime, avide di sbranarle; vede corpi umani nell'arena, mutilati, sbranati; fiuta l'acre odore del sangue, e sopra il suo capo si estende l'azzurra volta del cielo, così bella, così bella, quasi così bella come nel suo deserto. Sente una nostalgia infinita della sua Africa, del suo deserto, della sua patria lontana; un dolore infinito di morire in terra straniera.

Lo spingono sulla sabbia.

In quel momento una pantera ha raggiunto un giovanetto biancovestito, che se ne stava inginocchiato in mezzo al circo, colle braccia tese a modo di croce, e col bell'occhio elevato verso il cielo; un fanciullo, che aspetta estatico, giulivo la morte.

La fiera lo addenta al collo. Egli ode lo scricchiolare delle ossa.

—Gesù! esclama il fanciullo, e poi cade a terra.

Egli è giunto in mezzo al circo; si mette sulla difesa; brandisce la breve spada; vuole lottare col leone che lo avvicina, lo guarda coi suoi occhi astuti, si flagella colla coda i fianchi, lo osserva, quasi coll'aria di un buongustaio, preda sicura.

La folla plaude all'audace, che vuole lottare contro il leone; ma in quel momento egli ricorda, che è capo, che è principe. Non vuole servire da spettacolo a quella folla. Getta via la spada e la rete. Urli di rabbia da parte della folla; il leone lo ha raggiunto; gli caccia i denti nella gola, le ugne nelle carni calde, calde, palpitanti…..

II.

Cesare

I.

Egli si destò, sul suo letto di porpora, e aprì gli occhi. Un sudore freddo, gelido, gl'imperlava la fronte. Girò gli occhi e guardò smarrito attorno a sè.

L'ampia stanza, dalle pareti di marmo prezioso, ornate di grandi scudi di bronzo e di oro, era innondata di una luce tepida, che usciva da due grandi lampade d'oro, nutrite di olii aromatici, presso le quali vegliava un bellissimo schiavo greco. Il pavimento di marmo era celato da soffici tappeti, ed in mezzo alla stanza sorgeva il basso letto di argento e di oro, su quattro piedi, simili a gigantesche zampe di leone; soffici materassi e magnifiche coltri di porpora ornavano il letto, sul quale egli aveva posato le pingui membra.

—Ho sognato! mormorò. Ho sognato! Gli dei immortali siano ringraziati.

Il sogno era stato terribile davvero. Aveva sognato di essere stato libero principe africano; di aver lottato per la libertà della sua tribù; di essere stato battuto, vinto, catturato, reso schiavo e costretto a lottare nel circo, a venir gettato in pasto alle fiere assieme agli incendiari di Roma.

Già. Gli incendiari! Un brutto sorriso errò sulle sue tumide labbra. I cristiani avevano dato Roma alle fiamme. Certamente, certamente……

Quel terribile sogno. Ed aveva durato così a lungo; egli aveva vissuto molti mesi, anzi anni nello stato obbrobrioso di schiavitù, condannato alla morte; ed invece il sogno aveva durato…..

Puer! Che ora fa?

Il giovane schiavo bello balzò in piedi, guardò l'orologio ad acqua e si prostrò a terra.

È la quarta vigilia della notte, divino Apollo, rispose.

La quarta vigilia. L'alba non era ancora spuntata sul cielo. Egli si era coricato, che la terza vigilia stava per finire. Aveva dormito brevissimo tempo. Eppure un simile sogno.

—Gli immortali ne tengano lontano ogni sventuroso significato, mormorò e tese la destra verso il cielo. Era il Pontefice Massimo che supplicava gli dei, era Apollo, l'immortale, che invocava gl'immortali. Già. Egli era un dio, era lo stesso Apollo. Glielo avevano dichiarato in Grecia le mille volte. Non era egli forse il signore del dolce canto? Non lo avevano supplicato gli ambasciatori greci ginocchioni di deliziare le loro orecchie col suo canto? Non aveva egli destato l'applauso infinito della folla delirante, ed era ritornato dalla Grecia a Roma con un bottino, quale nessuno prima di lui aveva fatto, un bottino, col quale offuscava la fama e la gloria di Mario e di Sulla, di Scipione e di Cesare; migliaia di corone d'oro e di alloro, guadagnate nelle gare, dopo di aver superato tutti i rivali colla potenza del suo genio immortale? Egli era grande come imperatore; il più grande tra i Cesari, ma più, assai più grande per il suo canto: Apollo, Apollo, il divino Apollo!

Perciò aveva incendiato lui, cioè no, i cristiani, la eterna città; essa non doveva portare più il nome di quel meschino che fu Romolo, ma il suo. Doveva chiamarsi, d'ora innanzi, Neronia, la sua città.

Pensò alla casa di oro che si era fatta costruire e dove abitava. Giove grande, ti ho superato! Neppure gl'immortali, sull'Olimpo, avevano un'abitazione, che potesse gareggiare colla sua!

Si sentiva stanco, sfinito dell'orgia del giorno innanzi. Aveva durato una notte, ed un giorno ed alcune ore della notte; fino alla terza vigilia. L'aveva allestita per ricordare i suoi grandi trionfi nella Grecia.

La festa era stata degna di lui. Quale profusione dei cibi più rari; quanto lusso; e quei regali! Egli aveva donato ad ogni ospite la tavola di argento incrostata di verde malachite, la sedia di argento, il vasellame d'oro, gli schiavi che lo avevano servito, il fanciullo che gli aveva versato il vino nella coppa ed una bella schiava di Oriente, dalla pelle candida come l'alabastro e dalle leggere tinte rosee nelle guancie di velluto. Egli stesso aveva scelto quelle bellissime schiave tra le molte, che possedeva e la sua scelta era stata felice, perchè egli s'intendeva di bellezza femminile. Ne era il più profondo conoscitore.

Eppoi…. eppoi…. Ricordava i cibi rari, la musica, i canti…. tutti avevano applaudito ai celebri cantanti, che egli aveva fatto venire dalla Grecia lontana. Avevano applaudito, perchè non avevano udito lui, il sommo Apollo.

Lo avevano supplicato di cantare. Ed egli, finalmente, si era arreso ed aveva cantato, destando, più che entusiasmo, vero delirio. Quali applausi! Degni di lui, del vero Apollo. Lo avevano incoronato cantore massimo; lo avevano adorato come una rivelazione celeste; eppoi l'orgia era continuata. Le più belle fanciulle si erano gettate tra le sue braccia. E Poppea Sabina……… Già… Con Tigellino!

Un sorriso di scherno sfiorò le sue labbra. Con Tigellino! Godesse pure! Egli, l'immortale, fingeva di non vedere, di ignorare. Ma sarebbe venuto il suo giorno! Era venuto per Messalina, sua madre: sarebbe venuto anche per loro. Giove Nerone risparmiava i suoi fulmini; ma guai quando li lanciava! Guai a colui che ne veniva colpito!

Quelle fanciulle, che si erano gettate, pazze di amore, al suo petto! Quanto lo amavano! Era impossibile vederlo e non amarlo, e non gettarsi fra le sue braccia, implorando un amplesso come la maggiore tra le grazie, il più desiderato tra i doni; era impossibile vederlo, e non adorarlo.

Ma egli sentiva una nausea di questi facili amori, che gli venivano offerti, imposti, che non gli costavano nessuna lotta; e le schiere dei nobili, dei patrizi, dei senatori, che strisciavano avanti a lui e l'omaggiavano, gli facevano schifo. Ricordò il detto di Caligola, il divino, che l'aveva preceduto: O, se tutto il popolo romano, avesse una sola testa! Qual voluttà, poterla spiccare dal busto!

Ma poi ricordò. Una volta….. Non la poteva dimenticare quella fanciulla. Non era più bella delle altre, tutt'altro, ma era la prima che non gli si fosse offerta, che non avesse mendicato amore. Gli era venuto un vivo desiderio di possederla, una vera frenesia. Se l'era fatta portare nel palazzo ed aveva voluto farla sua.

Era la prima volta che aveva lottato; che aveva dovuto ricorrere a certe arti di seduzione, che non aveva usato fino allora mai; che aveva cercato di piacerle, di conquistarne il cuore. Lui, Nerone, il divino Apollo, si era abbassato a lei, aveva supplicato affetto, aveva mendicato amore. E lei aveva resistito; non si era arresa; aveva fatto la sorda alle sue promesse, alle sue minacce; aveva osato resistere financo alla violenza. Una cristiana…. un'incendiaria di Roma; perchè i cristiani avevano incendiato l'eterna città…..

In un momento di collera l'aveva condannata a morte; l'aveva fatta uccidere sotto i propri occhi, onde punirla per la sua ritrosia; ne aveva voluto veder scorrere il sangue. Ma quando l'aveva vista morta era montato su tutte le furie; aveva voluto richiamarla in vita; aveva maledetto a se stesso, alla propria potenza, alla propria autorità, perchè l'aveva fatta morire! Perchè era Cesare, era Augusto, era Apollo, era dio, eppure non poteva richiamarla in vita quella bella?

Inveì allora contro chi gli aveva suggerito quella condanna, contro chi non l'aveva impedita, contro il carnefice che aveva ubbidito ai suoi comandi; fece rotolare teste, fece crocifiggere, volle vedere sangue, molto sangue; girò, cieco dall'ira, per le sale della casa d'oro, scannò, ferì, comandò che tutti i cristiani venissero scannati l'indomani senza misericordia, e si gettò a capofitto in braccio alla voluttà; cercò di dimenticare, tra altre braccia, quelle della pudica cristiana; con altri baci, i baci che essa gli aveva rifiutato. Ma tuttora, che ci pensava, sentiva un desiderio infinito di lei, la sola degna di appartenere a lui. Ed egli l'aveva uccisa.

Eppoi ricordò certi cristiani. Ne aveva giudicato due soli; i loro capi: due ebrei. Ma qual differenza tra loro e i senatori, e i patrizi? Quando uno di questi compariva al suo tribunale, si contorceva come un verme e supplicava grazia; nessuna dignità in loro. Quei due ebrei, invece….. Quanta maestà! Sembrava che si ritenessero pari a lui. Volevano ricordargli….. già, che egli non era un sovrano assoluto; che sopra di lui v'era un Dio; che doveva essere giusto e misericordioso, che doveva….. scioccaggini, scioccaggini!

Avrebbe perdonato se si fossero piegati avanti a lui. Era questo che voleva da loro; che riconoscessero la sua autorità, che lo adorassero. Gli premeva piegare quei due capi superbi. Non è gioia vedere milioni di umili, di vili, strisciare ai propri piedi; la voluttà sta nel costringere un superbo a piegare il capo lui pure. Si erano rifiutati. Li aveva condannati a morte: l'uno alla croce e l'altro alla spada.

Non rimpiangeva quelle condanne. Rimpiangere un morto; lui; Nerone? Mai! Eppure sarebbe stato meglio, molto meglio, se quei due uomini si fossero piegati. La loro adorazione gli avrebbe recato maggior gaudio che gli umili omaggi di Roma tutta. Piegare capi superbi, ecco la maggior voluttà. Peccato che questi capi non esistevano; che tutti si piegavano, senza attendere neppure la più piccola pressione, il menomo segno….

Valeva la pena di vivere? Che cosa gli poteva offrire ancora la vita. Era sazio di tutto: di guadi e di amori… Ma il suo canto, il suo canto divino! Poteva egli privare il mondo di tanta delizia? Come il mondo sarebbe sì triste se il sole si spegnesse, così l'umanità non poteva vivere senza il suo canto. Se egli non avesse cantato si sarebbe otturata la maggior sorgente di vera gioia, di puro giubilo, di lieto entusiasmo. Che cosa sarebbe stato il mondo senza il suo canto?

Voleva cantare e godere.

Ma quel sogno? Non ci volle più pensare. Sbadigliò e chiuse di nuovo gli occhi al sonno.

II.

Si destò quando lo volle Giove suo padre. Accorsero servi ad indossargli la tonaca di porpora, a gettargli sulle spalle il manto imperiale, a cingergli il capo della corona di alloro, che si era guadagnata nella Grecia.

Uscì di stanza. Passò tra una schiera di senatori, i quali si curvavano profondamente; non degnò nessuno di uno sguardo; gli schiavi favoriti gli imbandirono la colazione; mangiò molto, bevè molto, assistì a danze lascive, a giochi pazzi, di gladiatori che si ammazzavano sotto i suoi occhi; gli portarono immensi vasi di cristallo, nei quali morivano le triglie più belle, cangiando i più rari riflessi metallici delle loro squame, ma non trovò piacere. Era uno dei giorni consacrati alla celebrazione dei suoi trionfi in Grecia. Il senato gli aveva decretato tante feste, che un anno non sarebbe bastato a compierle, onde un senatore aveva osato proporre, si lasciasse qualche giorno anche al popolo, per le sue faccende. L'audace aveva pagato colla propria testa l'inopportuna proposta.

Nel circo vi erano i giochi. Non vi volle andare. Era sazio di vedere scorrere sangue umano. Volle vedere le corone d'oro che aveva portato dalla Grecia. Erano milleottocento, di grande valore. Le maggiori decorazioni, i premi più rari, dei quali disponeva la patria del bello. Neppure la vista di quelle corone lo appagò. Non gli sembravano un premio adeguato al suo canto.

Ricordò il viaggio in Grecia, preceduto, seguito da migliaia di citaredi, colla lira in mano e da un esercito di commedianti e di mimi. Ricordò l'inno solenne, che aveva cantato per salutare la riva greca; ricordò i giochi olimpici ed istmici e gli altri giochi, che la Grecia celebrava nel corso di decenni, condensati in pochi mesi per onorare lui. Fu dovunque, cantò dovunque. I più celebri cantanti e citaredi del mondo greco erano accorsi per vincerlo; facevano sforzi infiniti per non venir vinti da lui, ma egli li superava facilmente; essi dovevano dichiararsi vinti, ed il popolo delirava e decretava a lui ghirlande, corone e premi. Colse ad Olimpia novanta premi, cento ai giochi istmici; mai tanta profusione di corone e di lauri, mai tanto plauso. Fu dovunque, eccezione fatta di Atene, dove sorgeva il tempio delle Furie vendicatrici del parricidio, ed a Sparta, perchè odiava Licurgo ed i suoi rigori. Fu a Delfo ma non ebbe dall'oracolo la risposta che gli premeva, onde inveì contro il santuario, asportò 500 statue, che perdette per mare, e si era proposto di distruggere il santuario e di scannare i sacerdoti. Non era egli forse Apollo, il padrone del santuario?

Ricordò Corinto. Voleva tagliare l'istmo e precedette tutti nel lavoro. Lavorava con una zappa d'oro. Ricordò i suoi amori e la coppa del piacere vuotata fino alla nausea.

Sì, fino alla nausea. Tutto gli recava nausea. Sospirava onori sempre nuovi, piaceri sempre più intensi, gaudi sempre più raffinati…. Abbandonò adirato le sue corone. Milleottocento; ne meritava centinaia di migliaia. Corone e lauri. Questi erano stati già tributati ad altri mortali, ed egli non era un mortale, nè un dio, ma qualche cosa di più di un uomo e di un dio. Era il primo degli dei, il creatore dell'universo, il signore del canto…..

Voleva piegare al proprio culto volontà ribelli, orgogliose.

Questi cristiani! I soli che non si piegavano al suo cospetto; i soli, coi quali valeva la pena di lottare, il cui omaggio valeva la pena di ambire. Sognò cristiani da umiliare.

—Ce ne sono nelle carceri?

—Sì, divino.

—Vengano.

—Quanti?

—Tutti.

Vennero: molti. Un brillante senatore, sua moglie, nobili patrizi, candide donzelle, fanciulli, operai dalle mani incallite, poveri schiavi. Egli li guardò con disprezzo.

—Incendiari!

Nessuno rispose.

Il loro silenzio gli diede sui nervi. Li sapeva innocenti e voleva che si confessassero rei od almeno si scolpassero.

—In ginocchio avanti a me, ad Apollo, al vostro dio! Adoratemi!

Un vecchio tremante; una rovina umana; un povero scheletro scoperto di gialla pelle; i digiuni avevano sfibrato il corpo di Lino, rispose:

—Cesare. La vita per te ed il sangue alla tua difesa. Non hai mai avuto sudditi più fedeli di noi. Ma non possiamo adorare che il solo Dio che ci creò ed il suo Cristo che ci redense.

I cortigiani volevano costringere i cristiani colla forza a piegare le ginocchia avanti al nuovo nume, ma Nerone il proibì.

Promise. Le sue promesse non smossero quei prodi; minacciò; annunziò la sua grandezza; toccò la sua cetra e cantò. Se il canto di Orfeo aveva ammansato le fiere, il suo doveva ammansare i cristiani.

Ma il suo canto non compì il prodigio, ed egli ne fu adiratissimo; più adirato del loro rifiuto di adorarlo. Essi lo umiliavano avanti a tutti, ne volevano distruggere la fama e la gloria, col provare, che quanto era riuscito a Orfeo non riusciva a lui. Montò sulle furie. Bisognava piegarli.

Cantò ancora, molto, molto. La sua voce non era bella; la sua scuola poverissima. Il canto straziava le orecchie dei cortigiani, che se ne mostravano però deliziati e lo proclamavano dio e Apollo novello.

Alle sue insistenze il vecchio rispondeva in nome di tutti:

—Mai!

Montò su tutte le furie. Volle vedere sangue. Comandò torture; torturò di sua mano. Voleva, doveva piegare quei ribelli. Gli avrebbe fatto più piacere l'adorazione di uno di loro che di mille senatori curvi ai suoi piedi.

Invano.

Allora li condannò ad ardere quella sera, fiaccole viventi…..

Nessun rimprovero, nessuna protesta uscì da quelle labbra. I martiri chinarono il capo.

—Così sia!

La loro rassegnazione gli sembrò stupida e ne aumentò lo sdegno; tanta forza d'animo nel resistere ai suoi comandi, tanta stupida remissività davanti alla condanna.

O questi cristiani!

Malcontento di sè stesso girò infuriato per il palazzo. Ammazzò con una pedata nel ventre una fanciulla, che aveva amato ieri e che gli si era fatta incontro col sorriso sulle labbra; condannò a morte Pitagora, spudorato liberto, che aveva sposato pubblicamente a Corinto, vestendolo da imperatrice, per profanare, con quella infame parodia, i riti sacri matrimoniali; girò quella sera vestito da Apollo, in lettiga, tra le fiaccole ardenti, non pago dei crucirati delle sue vittime: ne avrebbe preferito l'adulazione. Chiese l'indomani adorazione dal senato e la ebbe; fu al Circo, acclamato dalla folla Apollo e padre degli dei; vide sangue, molto sangue, e non ne fu pago; ideò novelle costruzioni; la casa d'oro doveva arrivare fino al mare; sognò immensi giardini, fiumi navigabili, laghi artificiali, sporgenze di terreno ricche di alberi, sognò…. ma niente lo appagava.

Diede banchetti senza fine; invitò migliaia di patrizi, di senatori; allestì orgie infami; commise delitti nefandi, per appagare la propria sete di gaudio; si adirò con Poppea Sabina che portava sotto il petto il suo figlio e con un calcio la uccise; la fece poi imbalsamare, proclamare dea, e bruciare in onore di lei tanti incensi, quanti l'Arabia produce in un anno.

Ma non trovava l'ebrezza che sognava; il gaudio che sospirava.
Dovunque gli si presentava la nausea.

Ed allora decise di recarsi a Napoli.

III.

Fa il viaggio, con mille vetture; giganteschi carri portano le sue corone, che non vuole abbandonare a Roma, che conduce seco, tanto gli sono care. È un'intiera città che emigra con lui; un esercito di senatori, di patrizi, che lo accompagna; cantanti, numi, gladiatori, liberti, schiavi suoi compagni di ebbrezza; legioni intere di donne, rotte ad ogni vizio.

Ecco il bel mare; ecco le cittadine, che sorgono quali gemme alla sua sponda; ecco il bel Vesuvio, il più bello tra i monti, il più delizioso; ecco Partenope, che esce luminosa dall'onda, e che egli vuole deliziare del suo canto. La folla gli si fa incontro festosa; inneggia ad Apollo; i sacerdoti conducono pingui tori dalle corna dorate, per immolarle al sacro nume. Egli osserva dalla lettiga d'oro con scherno quella folla, che si prostra ai suoi piedi, che lo adora; è troppo assuefatto all'adorazione delle masse, è troppo avvezzo a quelle feste.

S'aggira ammirato nel grande palazzo, sognando novelle feste, novelle orgie, novelli delitti.

I giorni passano lenti, nella nausea suprema di quelle feste, avido cercando sempre novelle emozioni, macchiandosi di colpe sempre più infami, ma che non lo saziano nè gli procurano la soddisfazione che cerca.

Sempre lo stesso spettacolo: Dorsi che si curvavano avanti a lui; omaggi che non costano lotta, piaceri che non richiedono sacrifizi.

E da Roma giungono notizie di feste date in suo onore e della folla che gli plaude.

Dal terrazzino del suo grande palazzo di Baia egli domina l'infinita distesa del mare, così bello, così tranquillo, e sogna di solcarlo un'altra volta, per andare a deliziare col suo canto altri mondi: l'Egitto, la costa africana, Cartagine; per conquistare quelle terre colla pastosità della sua voce. Guarda, osserva, contempla, ed un pensiero gli frulla per la mente. Valeva la pena d'essere imperatore? Non era meglio render felici le genti col suo canto? Un cortigiano l'avvicina collo spavento sul volto. Nella Gallia celtica è scoppiata la rivoluzione. Giulio Vindice, rampollo degli antichi re di Aquitania e vicepretore di quella provincia, ha fatto sventolare la bandiera della sommossa, ha dichiarato che l'impero non può sopportare più a lungo un tiranno come Nerone, lo ha dichiarato decaduto da trono e marcia contro Roma.

Egli diventa pallido dallo sdegno e sfoga la propria collera sul malaugurato cortigiano, sugli oggetti che lo circondano, su certi vasi preziosi, d'immenso valore, su certi ninnoli, che si trovano sui tavoli di marmo; getta tutto a terra, spezza, frantuma, rovina.

—Egli vuole cingere la corona imperiale? domanda.

—No. L'ha offerta al vecchio senatore Sulpicio Galba, governatore della Spagna.

—A quel vecchio imbecille? Sotto qual titolo? freme il tiranno.

—Perchè congiunto dell'imperatrice Livia.

—Galba ha accettato?

Il cortigiano non lo sa. Novelle collere dell'Augusto.

—Va! Domanda; informati. Galba è condannato a morte. Sicari vadano nelle Spagne per eseguire la condanna. Centomila sesterzi a chi mi porta la sua testa o può provarlo di averlo giustiziato, urla.

Il cortigiano è lieto di poter allontanarsi dalla presenza dell'infuriato signore col pretesto di eseguire gli ordini.

Egli urla, grida, freme. La corona imperiale spetta soltanto a lui, all'erede del divino Augusto, all'immortale Apollo, che si è degnato rivelarsi ai mortali.

Guarda sdegnato Napoli ai suoi piedi; freme al pensiero, che forse nella città v'erano alcuni, parecchi, molti, i quali godevano a quella notizia e simpatizzavano con Sulpicio Galba. Tra questi erano certo anche i cristiani.

Vuole sfogare la propria collera sopra di loro.

—A Napoli ci sono dei cristiani?

Nessuno lo sa.

—Vengano ricercati e trascinati alla mia presenza.

Cerca altri oggetti, sui quali sfogare la propria collera e li trova. Cortigiani vengono cacciati in esilio; schiavi torturati, crocifissi; i delatori lavorano, denunziano, accusano; vengono imbastiti mille processi di lesa maestà e molti innocenti devono pagare il fio per la collera del tiranno.

Alcuni cristiani vengono catturati; pochi, troppo pochi per le sue collere. Egli è adirato contro la polizia e contro i delatori; ne vuole altri, altri ancora. Ma la comunità di Napoli è così piccola.

Vuole che i prigionieri facciano i nomi dei loro compagni di delitto, ma essi si rifiutano. Non sono delinquenti.

—Cesare. Adoriamo Dio e rispettiamo la tua persona. Non hai sudditi più tranquilli e fedeli di noi. Vuoi dormire sicuro, specialmente ora, che alcuni si ribellano a te? Circondati di una guardia di corpo, formata di soli cristiani. Noi ti difenderemo col nostro corpo, col nostro sangue; ci lasceremo ammazzare tutti alla tua difesa.

Queste parole ne aumentarono le collere. Le ritenne sarcasmo. Eppoi, anche se questo fosse vero, avrebbe rinunziato al trono piuttosto di affidare la propria difesa ai cristiani. Che si curava lui dell'impero; che del trono; che del benessere dei popoli soggetti. Una cosa gli premeva, una sola aveva vero valore: Che lo riconoscessero quale Apollo, quale uno degl'immortali, e i cristiani gli rifiutavano adorazione.

—I nomi dei vostri complici!

Vennero messi alla tortura. Non fecero i delatori; non si macchiarono di tanta infamia.

Vennero condannati alla più terribile tra le morti.

Il comune di Napoli gli aveva decretato molti onori, ed egli volava da festa a festa; nei templi, dove gli si offrivano sacrifizi, nei teatri, per assistere a pantomine e recite, nell'anfiteatro, nel circo, dove gladiatori, fatti venire espressamente da Roma, lo salutavano, condannati a morire; dove si faceva grande spreco di vittime umane, dove cristiani venivano dati in preda ai leoni. Egli andava a quelle feste, per soffocare i suoi timori, per dimenticare il pericolo, e, supplicato dalla plebe, cantava, cantava.

Lo applaudono, ed egli è lieto di quegli applausi, e di nuovo pensa a rinunziare al trono ed a dedicarsi soltanto al canto.

Il cielo ritorna sereno. Virginio Rufo, semplice cavaliere ma uomo stimato, legato dell'Alta Germania, ha dichiarato guerra a Giulio Vindice e muove contro di lui alla tutela dell'impero.

Nerone ne è lieto. Un generale fedele. Ricompenserà la sua fedeltà. Lo farà trionfare a Roma e poi…. Portava sempre con sè una boccetta di cristallo, quasi piena di un liquore incolore, che Lomita gli aveva preparato. Una goccia di quel liquore versato in un calice di vino generoso avrebbe piantato nel cuore di Virginio Rufo il germe della morte.

Nessuno gli deve contrastare la gloria; egli solo ha da venir ammirato nell'impero. Guai a chi vuole emergere!

Feste si succedono a feste. Virginio Rufo vince Giulio Vindice il quale suicide.

Novelle feste per celebrare la morte dell'audace.

Ma il cielo si offusca di nuovo. Un cortigiano, il solo che ha coraggio, osa avvicinarlo e comunicargli la triste novella. Virginio Rufo lo ha dichiarato decaduto dall'impero.

—Egli aspira al trono? chiese fremendo.

—No, gli venne offerta la porpora dall'esercito vittorioso ma egli l'ha rifiutata.

—Galba?

—Neppure. Virginio Rufo marcia verso Roma. Vuole che l'impero si conceda soltanto per voto di senato.

—Il senato! Il mio senato! Mi è fedele! Mi confermerà. Non sono io forse Apollo? esclama rassicurato. Non è possibile, che i senatori, che lo avevano ricolmato di tanti onori; lo avevano dichiarato il migliore tra i Cesari e l'amore e la delizia del genere umano; avevano dichiarata Roma felice sotto tanto principe, non lo avessero supplicato di rimanere in carica. Doveva accettare la riconferma o non era forse meglio?….. d'imperatori v'era dovizia, ma di cantanti, di citaredi suoi pari non ve n'era nessuno. È facile cosa governare un impero, difficile invece cantare come cantava lui. Egli era grande, non perchè imperatore ma perchè citaredo; la sua vera gloria era dovuta alla sua gola, al suo canto armonioso, che innamorava e rapiva tutti i cuori. Non doveva forse rinunziare al trono per andar a conquistare il mondo intero, Alessandro novello, Orfeo redivivo, colla sua voce, col suo canto? A Roma, a Roma; nella Roma fedele, dal senato, che non poteva vivere senza di lui.

Vuole abbandonare Napoli per mettere al sicuro le sue corone, i suoi istrumenti musicali, i suoi mimi, le sue danzatrici, le sue cortigiane. Le fa vestire da amazzoni, affida loro se stesso, la sua gloria, la sua voce, il suo canto.

Promette all'esercito, al popolo, frumento; ve n'era tanta scarsità.
Navi verranno dall'Egitto; ve ne sarà per tutti.

Canta l'arrivo delle navi cariche di pane.

Il suo canto è onnipotente! Ecco navi spuntare sul lontano orizzonte; sono desse, sono desse. Il suo canto, il suo divin canto le ha attirate.

Fa annunziare all'esercito, al popolo, che le navi stanno per entrare nel porto; che si farà una grande distribuzione di frumento; ve ne sarà per tutti.

Le navi entrano, ma sono cariche di sabbia d'Egitto, da cospargere il teatro, dove gladiatori e lottatori hanno da presentarsi alla folla.

IV.

Egli infuria nelle sale del suo palazzo. Nessuno osa avvicinarlo, tanto è adirato.

La folla infuria essa pure. La delusione è stata troppo grande. Inveiscono contro di lui, e le loro imprecazioni arrivano al suo orecchio e lo fanno fremere: Matricida! Matricida!

Già. Egli ha fatto uccidere sua madre; ma questo era un suo diritto. Chi può proibire ad Apollo, al padrone del mondo, di fare quanto più gli piace e di ammazzare chi vuole?

Hanno atterrato le sue statue nelle piazze e sul foro e negano soccorso alle sue truppe.

—I miei pretoriani!

Vuole mettersi alla loro testa, marciare contro la folla e decimarla.

I pretoriani lo hanno abbandonato.

—Le amazzoni!

—Sono fuggite. Sono andate a cercare altri protettori. Anche i mimi lo hanno abbandonato.

Schiavi, liberti, cortigiani saccheggiano il palazzo. Gli portano via tutto; financo le coperte del letto e la fiala preziosa, che Lomita gli aveva preparato. Vuole difendere le sue corone di alloro. È solo. Non riesce. I suoi strumenti musicali; la sua cetra. Anche questi gli vengono tolti. Nessuno ne ascolta i comandi, le proteste, le suppliche; si ride del suo pianto; egli viene schernito, beffeggiato od ignorato. Un sovrano decaduto.

Quanto soffre! Pazzi pensieri gli passano per la mente: vuole recarsi nelle Gallie, incontro all'esercito ribelle. Domerà i soldati col suo canto; s'inginocchierà avanti a loro e piangerà. Le sue lagrime li commuoveranno, il suo canto li renderà propizi. Ma poi cambia pensiero. Vuole rifugiarsi dai Parti e riconquistare col loro aiuto il trono; si recherà a Roma, salirà la tribuna e commuoverà il popolo, coll'eloquenza appresa da Seneca. Manda messi da Virgilio Rufo. È disposto di rinunziare al trono, purchè gli lascino la prefettura d'Egitto. Manda messi a Roma. Lo lascino in vita, l'Apollo novello. Non ne sa che fare del trono. Se lo tengano. Anela glorie maggiori.

Quanto soffre! Oh questa ingrata plebe! Avesse l'umanità una testa sola, per spiccarla dal busto, con un taglio solo! Solo il re del canto, il dio Apollo, ha diritto alla vita!

Nessuno si cura di lui; trova a stento uno schiavo che gli prepara un boccone. Il palazzo svaligiato è deserto, ma la folla non è contenta della sua umiliazione; ne chiede il sangue. Chi lo difenderà?

Oh queste umiliazioni, queste ingiurie, questa solitudine! Lo accascia tanto.

Un uomo, vestito poveramente, entra nel palazzo e lo avvicina.

—Cesare. Un pugno di fedeli è deciso di salvarti.

Di fedeli? Vi erano adunque ancora degli uomini che gli erano rimasti fedeli? Tutti lo avevano abbandonato.

Respira.

—Salvatemi!

Promette loro ricchezze, cariche, condividerà con loro il dominio del mondo, purchè lo salvino.

Sono decisi di salvarlo. Verranno a prenderlo, di notte, con una lettiga; lo porteranno in una villa romita, dove se ne starà nascosto, finchè la procella si sarà calmata. Non possono conservargli il trono; non sta nella loro potestà. Gli vogliono conservare almeno la vita.

Egli paventa un tranello.

—Non temere. Noi ti difenderemo col nostro sangue. Andremo volentieri per te alla morte, lieti di morire per te, è la risposta.

Gli viene un sospetto.

—Chi siete?

L'uomo non risponde.

—Mi volete salvare, perchè adorate in me l'Apollo vivente, perchè siete entusiasmati della mia voce, del mio canto?

—Perchè il nostro Dio ci ha imposto di esserti fedeli e di dare per te anche il sangue.

—Cristiani? chiede, fremendo dallo sdegno.

—Cristiani!

L'uomo non può continuare. Il pugnale del sovrano lo ha trafitto nel petto. È caduto morto al suolo.

Freme al vedere quel morto. È adirato seco stesso che ha ucciso quell'uomo. Chissà?…. Forse?….. Ora avrà anche i cristiani contro di sè, ed i cristiani sono grandi fattucchieri, che vorranno vendicare su di lui tutto il sangue che egli ha sparso. Deve fuggire.

Un cortigiano gli suggerisce:

—Apriti le vene.

È il solo, che gli è rimasto fedele.

Il suicidio! Mai! Non può privare il mondo del suo canto. La fuga! Si getta ai piedi del cortigiano.

—Salvami!

Poi cambia pensiero.—Uccidimi! lo supplica.

Nessuno osa farlo, si teme.

—Suicidati!

Non ha coraggio. Fugge sopra un povero ronzino, seguito da quattro servi; uno solo gli è fedele, gli altri lo seguono costretti.

Un servo fedele; un fenice—Chi sei? Perchè non mi abbandoni tu pure?

Il servo, il povero schiavo, gli parla; cerca di sollevarne lo spirito, di destare in lui fiducia in Dio. Un cristiano! Maledetti cristiani!

Giunge al Tevere. Si vuole gettare nelle sue acque ma non ha coraggio.

—Alla villa di Faone.

È un liberto che ha beneficato, che ha amato, che gli sarà rimasto fedele.

La via è polverosa; il caldo soffocante. I rari passanti guardano con indifferenza il cavaliere, madido di sudore, in groppa al magro ronzino, seguito da quattro schiavi; certo un uomo povero. Ignorano, che egli è il dominatore del mondo.

Lo era. Ora non lo era più.

Sciocco! Perchè non ha rinunziato all'impero? Gli dei gli hanno pur dato il canto!

Giunge da Faone.

—Il senato ti ha deposto; ti ha giudicato. Sei stato dichiarato nemico della patria. Ti hanno condannato alle forche!

Il senato! Quei senatori, che ha tanto beneficato, che ha avuto ai suoi piedi, che lo hanno dichiarato l'amore e la delizia del genere umano, il miglior tra i Cesari. Il senato! Maledetti, maledetti!

È adirato con se stesso, che li ha tollerati in vita, che non li ha fatti scannare tutti, tutti. Eppoi pensa a se stesso. Deposto, condannato alle forche! Gli avessero lasciato almeno l'Egitto!

—Suicidati!

Deve suicidarsi. Le forche. Mai! Ma non sa decidersi.

—Scavatemi la fossa.

Mentre la scavano gira desolato per la villa, per i giardini. Il sudore dell'angoscia gl'imperla la fronte; il cuore gli si stringe come in una morsa; gli si fa scuro avanti agli occhi; si sente tanto infelice.—Un grande artista perisce! esclama.

Soffre, pensando al suo canto, e rumina fughe. Vuole salvare la vita, andare in Grecia, e colà cantare, cantare.

—Suicidati!

—Il mio canto?

—Non suicidarti! Ricorri a Dio. Lo prega; invoca il suo aiuto e ti rassegna alla sua volontà! Quello che vuole il Signore!

È lo schiavo cristiano che gli suggerisce così. Egli si avventa sdegnato contro di lui.

—Maledetto! Mi vuoi vivo acciocchè il senato mi conduca alle forche!

Lo uccide.

E mentre osserva sdegnato quel cadavere, imbrattato di sangue, che giace ai suoi piedi, viene ansante un nunzio.

—Cesare. Vengono!

—Chi?

—I messi del senato per catturarti e condurti alle forche. Odi.

Ode il calpestio dei cavalli. Le forche! Mai! Non può indugiare.

Vuole cacciare il pugnale insanguinato nelle mani del messo.

—Uccidimi! Ti prego, ti scongiuro! Uccidimi! esclama con angoscia di morte. Ha tanta paura della morte. Gli manca il coraggio del suicidio.

—Suicidati!

Il calpestio si fa più vicino. Ecco apparire i soldati a cavallo.
Deve, deve!

Un ultimo sguardo al sole, che splende infuocato sul cielo: agli alberi verdi del giardino, La vita è cosi bella, e dover piombare nel regno delle ombre!

Uno sguardo al cadavere ai suoi piedi. Un grande scatto di odio, contro i cristiani. Sono essi la causa della sua sventura. Ogni male viene dai cristiani. Un grande rimpianto. Muore il più grande cantante di ogni tempo.

Vibra il pugnale e se lo caccia nel petto. L'acciaio freddo, freddo, entra lentamente nelle sue carni…. sente brividi di morte…

Primo intermezzo

Il vento soffia impetuoso, e sbatte la neve contro le lastre, scuotendo i telai delle finestre; passa sibilando per le vie, agita i fili del telegrafo e del telefono, che corrono sulle case, producendo certi suoni, i quali sembrano melanconici lamenti, che scendono dall'alto; e poi le campane di tutte le chiese incominciano a suonare a gran festa. Annunziano che il Verbo si è fatto carne ed abitò tra di noi; annunziano la grande Natività.

In una povera stalla, nel rigore dell'inverno, nelle tenebre della mezzanotte, viene alla luce un piccolo fanciullo ebreo; la giovanetta madre lo avvolge in un pannolino e lo reclina nel presepio. Questo Bambino è il Verbo incarnato, e attorno a questa culla gravitano i destini dell'umanità.

Il suono giulivo delle campane supera il sibilare del vento, che per qualche tempo non viene udito, supera il gemito lamentoso delle condutture aeree, e sembra voce di angeli che nelle tenebre di un secolo, nel quale imperversano i venti delle passioni, trionfa il gelo dell'egoismo più brutale e l'umanità si lamenta per inaudite sofferenze, annunziano il grande mistero dell'amore di Dio e auspicano pace agli uomini di buon volere.

Il suono festivo delle campane giunge ai fedeli che si pigiano nelle chiese, vagamente illuminate, e fissano lo sguardo sull'altare della vita, al quale il sacerdote celebra i divini misteri e dove egli evoca quello stesso divino Infante che è nato a Betlemme. Essi uniscono la loro voce a quella del celebrante. Cantano: Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà!, professano in mezzo alle tenebre di un ateismo profondo: «Tu sei il solo santo, tu il solo Signore, tu il solo Altissimo, Gesù Cristo» e sono così lieti di questa franca professione della loro fede e della loro convinzione, che lungi dal piccolo bambino ebreo non havvi salvezza.

Il suono delle campane giunge nelle case, dove le famiglie sono ancora deste, in attesa della mezzanotte. Mezzanotte!

Buon Natale! Lo dicono tutti. In molte case il genitore credente racconta ai figli il grande avvenimento, e li trasporta colla navicella della fantasia a Betlemme, nella stalletta: in altre, dove la fede è svanita, il suono delle campane evoca lontani ricordi, così dolci, così soavi; il ricordo dei defunti genitori, dei nonni, che avevano creduto; toccano certe corde nell'anima, che da anni danno suono lontano in quella notte fortunata e destano la nostalgia di un passato che non ritorna, di un futuro, al quale non vogliono tendere e che pure sentono così desiderabile; desta la nostalgia di un raggio di fede nella notte della loro vita mondana; di un grande raggio di fede, che illumini la loro esistenza così egoistica e faccia luce sul mistero della morte.

Entra in certe osterie, in certi luoghi di peccato, dove il Natale viene festeggiato nell'orgia e nell'ebbrezza dei sensi; ed è simile ad un rimorso dì coscienza, grande, che non viene ascoltato, ma che li avrebbe resi poi non scusabili.

Entra nella stanza, dove sotto soffici coltri riposa un uomo.

Egli ha avuto fino allora un sonno molto irrequieto. Deve soffrire nel sonno, perchè sudori affannosi gl'imperlano la fronte; le braccia si agitano convulsive, la mano stringe il pugno, e voci di lamento escon di quando in quando dalle sue labbra; di un'angoscia grande, infinita.

Il suono delle campane non lo desta, ma gli procura un po' di calma. Egli si tranquilla per un momento. I solchi della fronte si spianano, il volto perde l'antica espressione di grande angoscia, di un infinito affanno; i pugni si chiudono; sembra che la calma sia ritornata in quel cuore.

È questo l'effetto delle campane; la loro voce benedetta ha donato la pace a quel poveretto, quella pace che esse annunziavano in quella sacratissima notte all'umanità credente, oppure, per un processo fisiologico qualunque, i terribili sogni, che forse agitavano quello spirito sono cessati ed il sonno è diventato più tranquillo?

Chi lo può dire?

Fatto sta, che nello stesso istante, nel quale le campane cessano di suonare, il volto del dormiente prende l'antica espressione di terrore e le sue labbra si schiudono all'antico gemito doloroso, fugato dal suono dei sacri bronzi.

Un infermo? No, che sul comodino non ci sono boccette di medicine, scatole con pillole, polverine.

Ed allora?

Gli affanni di una cattiva coscienza, calmata da quel suono dolce, maestoso, sereno?

Chi lo sa?

III.

Il monaco

Egli era in preda ad un'angoscia infinita. Le notizie, giunte qualche minuto fa al suo orecchio, erano state così truci. Le aveva avute da un uomo che fuggiva terrorizzato, schiacciato dal peso di una sciagura infinita.

Quell'uomo era stramazzato al suolo, estenuato, avanti alla sua casa. Egli lo aveva rialzato, si era preso cura di lui, gli aveva offerto cibo ed una ciotola di latte. L'uomo aveva bevuto avidamente il latte; aveva divorato il pane, la carne, e raccontato all'agricoltore la propria sventura.

Egli era stato pure un agricoltore assiduo, laborioso. Aveva dissodato il terreno, lo aveva concimato, seminato, lavorato; lo aveva bagnato coi suoi sudori e costretto a dare quanto poteva: pane a sè, ai propri figli.

Il suolo, grato per quelle cure, per quei lavori assidui, non si era rifiutato di mantenere l'onesto lavoratore ed egli si era trovato bene in quel bell'angolo d'Umbria.

Era stato così felice, colla moglie sana, robusta, lavoratrice essa pure; un bel pezzo di donna, capace di guidare i bovi e di governare l'aratro, e che gli aveva donato sette figli sani, forti, una vera benedizione del cielo, i futuri lavoratori assidui del suolo. Egli riposava, alle volte, seduto sul supremo gradino della bassa scala che conduceva all'uscio della sua piccola casa; i bambini lo attorniavano, e guardava felice i campi, che aveva lavorato, le sue mandrie, che ritornavano dal pascolo, i suoi bovi aratori, e lo sguardo spaziava lontano, fino all'estremo lembo del suo possesso, e più lontano ancora, fino ad un bianco mucchio di casolari, dai quali usciva una fabbrica maggiore, la chiesa, l'abitazione di Dio sulla terra.

Era così felice d'essere agricoltore, di possedere la sua terra; amava tanto i suoi campi, la sua casa, la sua Umbria, la sua Italia, questa terra, che gli aveva dato la vita e della quale egli si sentiva figlio, rampollo e parte; fibra del corpo amoroso di lei, ed era grato a Dio, che lo aveva voluto figlio d'Italia, agricoltore assiduo, che gli aveva dato una patria, una famiglia, la sua fede.

Ed ora tutto era perduto. La moglie assassinata, i figli morti o prigionieri, la sua casa incendiata, le sue mandrie rapite o scannate; scannati i bovi, bruciate le messi, devastati i campi, ed egli povero, fuggiasco, orbato della patria, della famiglia, dei suoi cari, costretto a fuggire.

—Come?—lo aveva richiesto l'ospite.

Dal nord, dal di là delle Alpi, erano calate barbare schiere, le quali rinnovavano tutti gli orrori delle antiche invasioni. Egli faceva, tremante, alcuni nomi, che aveva udito con spavento dai genitori, dagli avi: Genserico, i Vandali, Odoacre, Teodorico, che era piombato tra le fiamme del vulcano Stromboli, Attila, flagel di Dio! Ma i barbari novelli, superavano tutti in malizia atroce. Erano goti, guidato da Totila, a devastare l'Italia.

—Maledetti!—dissero i due lavoratori del suolo,—Che venite a cercare nelle nostre terre? Lasciateci in pace! Abbiamo diritto alla patria, alla famiglia, al lavoro!

Un pugno di questi barbari aveva assalito la sua casa; egli si era messo alla difesa, ma era stato atterrato. Lo avevano creduto morto ma non lo era; e quando rinvenne vide la casa in fiamme; in fiamme le biade e le messi biondeggianti, mature; vide il cadavere di sua moglie; vide i morti pastori; uno, ferito, gli disse, che i suoi figli erano stati, parte uccisi e parte fatti schiavi; vide il lontano villaggio: ardeva; ardeva la casa del Signore. Una paura pazza lo incolse; un infinito timore; e si allontanò a gran corsa, fuggendo, spaventato, dal teatro di quelle sventure, dalla sua casa in fiamme, dal cadavere della moglie che aveva sepolto in fretta e furia, per salvare la vita e poi…. e poi…. Già. Voleva ricercare i propri figli, senza avere però speranza di ritrovarli, di riscattarli.

—Resta presso di me, lo invitò l'ospite.

—No, no! Fuggi tu pure! Vieni con me! Prendi teco i tuoi cari. Fuggiamo! Essi mi sono alle calcagna! Vieni; andiamo! La salvezza è nella fuga! Vieni! Mettiamo in salvo la vita! Non sai quanto sono brutti, orridi, crudeli! Vieni, andiamo!—insistè il fuggiasco, in preda ad un orgasmo indicibile.

L'altro cercò di calmarlo ma non riuscì. L'impressione, lasciata da quegli orribili eventi sull'animo del lavoratore assiduo dei campi era stata troppo atroce. Non potè, non volle rimanere. Essa dava ali ai suoi piedi; lo aveva reso irrequieto; non gli dava pace; novello Asvero, l'impressione prodotta dalla casa in fiamme e dalla moglie uccisa; il grande eccidio di quanto gli era più caro al mondo, lo spronavano a correre, a fuggire; non gli dava pace; lo rendeva errante, ramingo, senza patria.

E l'altro rimase solo, sulla soglia della sua casa, pensando.

II.

Rimane a lungo solo, sul limitare della casa e contempla i campi pingui, i lunghi filari di alberi fruttiferi, le viti, maritate ai gelsi, i pioppi altissimi; osserva le messi bionde e mature al taglio; osserva quella terra buona, umile, ubbidiente; la sua madre e la sua nutrice, la quale, lavorata con amore, offre centuplice frutto.

È quella la terra dei suoi avi; là lavorò il nonno, là il padre, là egli apprese amore al lavoro, alla vita all'aperto, alla piena luce del sole; i fratelli si erano dipartiti; uno era partito al servizio delle armi, l'altro andato ad abitare in città, del terzo non si sapeva nulla: Uno strano fanciullo, così diverso dal babbo e dai fratelli; un fanciullo dagli occhi grandi, profondi come il mare, neri come la notte; un'anima serena, pia, chiusa, che porgeva ascolto alle voci misteriose dei venti, del lago, dei torrenti, dei fiori: i fiori gli sembravano piccoli campanelli, simili alle squille di argento che i fanciulli agitavano in chiesa per annunziare che il sacrifizio stava per incominciare; e quelle squille lo chiamavano lontano, lontano; in altre terre, in altre regioni. Egli aveva seguito il suono misterioso di quelle campane, la voce del vento, il rumoreggiar dei torrenti, che gli destavano una nostalgia grande di una patria lontana, della sua vera patria, che non era ancora la patria celeste; che si trovava sulla terra; dove, ei non lo sapeva; ma si doveva trovare, e dove avrebbe trovato l'avveramento dei suoi sogni, l'esaudimento dei suoi voti, e pace, grande pace, quella pace che desiderava, sospirava, anelava; senza della quale non poteva vivere, e che non trovava, non avrebbe mai trovato a casa, presso i fratelli; nemmeno presso Cecilia, la bella fanciulla bruna, robusta, dall'eterno sorriso sulle labbra di corallo, la quale lo seguiva continuamente; appariva sempre là dove egli si trovava, e gli offriva istintivamente le sue braccia, ben tornite come fusi e le sue labbra coralline al bacio. I suoi fratelli gli avevano detto: Ti ama. Non è povera. Ti porterà della terra, sufficiente per te, per lei, per i figli che avrete. Prendila in moglie. Vedi come langue di amore di te.

Ma egli le volse sdegnoso il capo e partì in cerca della patria lontana, del paese dei suoi sospiri. Il sorriso si spense allora sulle labbra di Cecilia; eppoi essa pure sparve. Nessuno seppe dove si fosse recata. Alcuni dicevano, che essa era corsa dietro il fanciullo, senza del quale non poteva vivere; altri, che era andata a seppellire la sua giovinezza presso le donne vestite di bianco, che Scolastica aveva incominciato ad unire nell'amore allo sposo Gesù e nell'esercizio della carità più fiorita.

Anche la sorella era passata a marito, ed egli era rimasto solo, il padrone di quel terreno; il capo di una famiglia discreta di pastori e di agricoltori, antichi schiavi, che non portavano di schiavi nè il nome nè gli oneri, Nessuno li aveva mai manomessi; vivevano su quella gleba, anche a loro cara, e formavano col padrone, una sola famiglia, uniti dagli stessi interessi, dallo stesso amore verso la bruna terra, verso le mandrie, verso i bovi pazienti, verso quanto c'era di bello, di pingue, di ricco in quella tenuta.

Qualche giorno ancora, eppoi, a raccolto terminato, egli avrebbe condotto sulla sua casa la nuova padrona, che vi avrebbe portato l'allegria del suo sorriso, la robustezza del suo braccio, le proprie energie, qualche po' di terra, ed una pentola ricolma di monete di oro, perchè egli aveva cercato nella sua futura moglie, la donna sana, la quale gli avrebbe dato sanissimi figli, la lavoratrice assidua e anche qualche po' di terra e di oro.

Era così lieto al pensiero che quel bel pezzo d'Italia era suo; che presto, presto, avrebbe una forte compagna al fianco.

L'Italia. Egli l'amava tanto, tanto! Non ne sapeva la storia; ne ignorava i fasti gloriosi, non ne conosceva i confini; non sapeva neppure il nome dei popoli che in essa abitavano; non gli avvenimenti politici degli ultimi giorni. Per lui l'Italia era quel pezzo di terra che egli lavorava; che aveva là, avanti agli occhi, che dominava collo sguardo; la terra sua, che gli dava da vivere, che rispondeva affettuosa alle sue fatiche ed al suo assiduo lavoro, e le terre vicine, i vicini campi, ed italiani erano quanti conosceva: i suoi vicini, coloro che egli vedeva alla domenica in chiesa o sulla piazza del villaggio, sotto il bel tiglio; e questa Italia, questi italiani, egli sentiva di amare tanto, tanto.

Ora i barbari volevano bruciare le sue biade, le sue messi bionde, scannare i suoi manzi, rubare le sue agnella, incendiare la sua casa e distruggere tutto, tutto. Con qual diritto?

Tutto il suo interno si ribellava alla loro avanzata: sentiva di odiarli, questi grandi nemici d'Italia e degli italiani, di odiarli con tutte le proprie forze; eppure essi avanzavano. Lo aveva detto il fuggiasco.

Che fare? Fuggire? Abbandonare la sua casa, i suoi campi, le sue mandrie? Mai! Doveva dunque rimanere e lottare, alla difesa di quel suolo santo, benedetto?

Ma che è quel bagliore lontano, rosso; che è quel fumo che là si alza al cielo? In quella direzione sono ì campi di un suo amico, sono le case di lui, le abitazioni dei suoi compagni di lavoro, i suoi granai grandi, ampi, ricchi. Quelle case ardono? Chi ha dato loro fuoco? I barbari!

Sente un fremito infinito; un immenso timore per la sua sorte, per le sue campagne, per le sue messi, per le sue mandrie; uno sdegno indicibile che altri, stranieri, abbiamo diritto di profanare, in tal modo, l'Italia, la sua Italia, di calpestarla, di rovinarla, d'impoverirla, di maltrattare gli italiani, di derubarli, di renderli schiavi, di ucciderli. Allo sdegno si sposa la brama della difesa e della vendetta. Vuole difendere le proprie terre dai barbari; vuole punirli per il male che fanno; vuole vendicare l'onta che hanno recato, che recano all'Italia.

Dà fiato al corno. Accorrono i suoi dipendenti, i forti lavoratori della terra, i pazienti pastori. Egli parla loro e diventa eloquente. Dice delle stragi, che i goti vanno menando; indica loro quelle fiamme lontane, quel fumo acre, denso, che sale al cielo; li esorta a stare uniti a lui, a lottare; ma non ottiene l'effetto.

I Goti! Terribile nome, che evoca antichi, dolorosi ricordi, di una potenza fiera, indomabile, la quale scende come valanga; che tutto travolge, rovina, distrugge e cui nessuno sa resistere. Un terribile flagello di Dio.

A periculo Gothorum libera nos, Domine,—si pregava nelle chiese. I goti! Ogni resistenza era vana. Non restava che la fuga!

—Scappiamo, padrone! Rifugiamoci nella foresta, in certe caverne, che essi non conoscono. Colà attenderemo, che il flagello sia passato. E salviamo quanto possiamo!

—Vili! Resistiamo; lottiamo! Difendiamo le nostre terre, pronti a morire per l'Italia!—dice loro.

Già appariscono i primi fuggiaschi; gente spaventata, terrorizzata. Raccontano cose terribili dei goti: uomini truci, crudeli, barbari, senza misericordia. Giganti nel corpo, orribili nell'esterno, terribili nelle armi, veri demoni incarnati. È impossibile resistere loro. Bruciano tutto; scannano gli uomini e le mandrie, per il solo piacere di scannare; rubano e fanno schiavi; non hanno compassione di nessuno. Hanno ucciso il padrone e catturato i suoi figli. Non resta che di scappare, per mettere in salvo la vita.

Scappano, scappano. Invano egli dice loro di arrestarsi, di lottare, di difendersi, di resistere. Invano li supplica, per amore di quella terra sì buona, che ha diritto alla difesa, perchè è stata loro madre amorosa e larga di aiuto. Invano promette loro vittoria.

Essi scappano; ed i suoi dipendenti; i suoi schiavi secondo la legge; gli assidui agricoltori, i pastori così pazienti, scappano pure; nessuno resta indietro; lo abbandonano tutti.

Egli resta solo, là, immobile, nel crepuscolo serotino, nelle tenebre della notte, collo sguardo fisso verso quelle lontane fiamme rosse, le quali annunziano il grande incendio; fremente dallo sdegno; pieno di un livore infinito, contro il nemico che si avanzava borioso, crudele, e contro gl'italiani sì vili; che non vogliono, che non sanno resistere ed opporsi all'impeto nemico, e mentre maledice alla boriosa crudeltà dei primi ed all'ignavia degli altri, il suo ciglio viene inumidito da una lagrima amara sulla sorte d'Italia; del suo amato suolo natio, in balia del primo venuto, dello straniero, sempre.

III.

Sono venuti. Tutto arde; le fiamme si alzano altissime e divorano il frutto del suo lavoro, dei suoi sudori; le sue messi, le sue biade, i suoi granai, la sua casa, tutto, tutto. I barbari sono là che gridano, urlano, ridono, danzano, bevono il suo vino, mangiano la carne dei suoi bovi che hanno dichiarato loro proprietà, che hanno in parte scannato, guastato.

Quanto sono brutti! I loro corpi sono avviluppati in pelli di orso, di lupo, di capra, il teschio dell'animale ne ricopre la testa; le loro barbe rosse sono lunghe, fluenti, lunghi i capelli rossi, spettenati, arruffati, estremamente sudicio il volto. Le loro armi sono gigantesche: Lancie, alabarde, bastoni ferrati. Non hanno compassione di nessuno; ammazzano colla stessa indifferenza un agnello ed un fanciullo, una donna, un vecchio. Guai a chi si oppone loro, guai a chi non ubbidisce, guai ai prigionieri che non ritengono atti a venir trascinati in dura prigionia, per lavori servili oppure per il mercato! Li uccidono tra i dolori più raffinati, le torture più scelte, perchè sono lieti di poter torturare, scannare, uccidere.

Egli ha voluto opporsi loro; ma tre, quattro, cinque, dieci si sono gettati sopra di lui, lo hanno atterrato, legato e trascinato dal loro capo, e questi ha decretato che rimanga in vita; è forte, è robusto, sarà un buono schiavo. Viene caricato di ceppi e buttato là, tra altri schiavi italiani, che i barbari hanno fatto, e che gli raccontano gli orrori della loro cattura e della loro marcia attraverso la patria; dei patimenti della schiavitù; della frusta che cadde continuamente sulle loro spalle; degli orrori che hanno veduto; di scene raccapriccianti, cui hanno assistito. I barbari non pensano che a rovinare, a devastare, a distruggere. Attraversano le lande più floride, lasciando dietro di sè un deserto. Hanno visto case distrutte, messi in fiamme, animali scannati per il piacere dii scannare, eccidi senza numero. Egli ascolta fremente e poi deve assistere all'incendio della sua casa, della sua messe, alla devastazione delle sue terre. Si dimena dall'indomito e pure impotente sdegno; freme, digrigna i denti, urla, si dibatte, fa sforzi sovrumani per spezzare le catene, che lo tengono stretto, per gettarsi sugli avversar!, sui nemici…… invano, invano……

Perchè non è fuggito? Perchè non ha salvato la vita, per vendicare la patria?

Passa una notte d'inferno, e alla mattina la sferza lo costringe ad alzarsi e a mettersi in cammino. La sferza! Non è caduta ancora mai sulle sue libere spalle; oggi invece; oggi….

Vorrebbe resistere; vorrebbe opporsi; vorrebbe destare la rabbia dei suoi novelli padroni e ricevere il colpo di grazia. Meglio, assai meglio morto che schiavo; ma un compagno di sventura gli dice:

Non ti ribellare. Vivi! Dio lo vuole! Eppoi finchè vedremo il sole possiamo sperare.

Sperare? No; non aveva più nulla da sperare. E Dio? Perchè Dio tollerava simili eccidi? Perchè non insorgeva alla difesa d'Italia?

Eppure non vuole morire. Chissà? È sempre possibile che gli riesca la fuga, la vendetta.

Ubbidisce. Viene onusto di bottino e marcia, marcia, coi suoi catturatori.

Oh la marcia terribile, attraverso l'Umbria così ricca, così bella, così serena, così tranquilla, così melanconica: una terra tutta propria, che ha un'intonazione tutta speciale, così diversa dal rimanente d'Italia. Egli sente quel non so che di sacro, di singolare, di indefinibile, di speciale che ha l'Umbria; sente che essa è una terra privilegiata; ma allora quel privilegio speciale non le giova; anzi sembra che i goti infurino più che mai in quella terra. Dietro di loro è il deserto, e quanto si oppone al loro passaggio diventa deserto.

Case bruciate; la popolazione passata a fil di spada, scannata, uccisa tra indicibili dolori, tra infiniti tormenti, o menata schiava.

Giunsero alla casa dove abitava la sua sposa diletta. Maledice a se stesso che non l'ha resa attenta al grave pericolo, che non ha cercato di metterla in salvo. Anche quella casa viene bruciata, ed egli deve vedere la sua sposa tra le braccia dei goti, in uno stato più terribile della morte.

Egli agita allora le braccia incatenate verso il cielo e maledice all'Eterno che ha abbandonato l'Italia e permette la rovina di questa terra!

IV.

Ma chi sono quei due uomini che si fanno imperterriti avanti, nulla temendo?

Vestono una talare di lana bianca, che giunge loro al malleolo, e sulla quale scende lo scapolare della stessa stoffa. Uno ha la barba lunga, di neve, e l'altro è un giovane, dalla faccia spiritualizzata, dallo sguardo estatico, ispirato; un giovane bello, infinitamente bello, di una bellezza ieratica. Gli sembra un angelo; uno di quegli angeli che la mano esperta di un umile pittore aveva dipinto nella chiesetta, ormai distrutta, del suo villaggio. Quel giovane sembra un santo; sembra Pancrazio od Oreste; o è forse Tobia, che l'altro, il venerando vegliardo, guida?

Il volto del giovanetto gli sembra così noto. Deve averlo veduto altre volte. Ma dove? Lui? No, non può essere! Eppure è lui, è lui! Romano, fratello mio! Romano! Romano! Egli ha cercato la patria, il suo fratello amato, e l'ha trovata. Il paese della pace, il regno della tranquillità serena. Il bel giovane, dal volto di angelo, ode il grido, volge verso di lui la faccia, lo riconosce, gli addita, coll'indice della destra il cielo e segue il vecchio.

I goti si sono arrestasi sorpresi, al vedere la croce astata che il giovane sorregge ed il vecchio che segue, ed il capo li avvicina.

—Che vuoi vegliardo? Chi sei? gli domanda in un pessimo latino.

Il vecchio parla. Egli non ne ode le parole, è troppo lontano. Ma devono essere parole severe, perchè il goto freme dalla rabbia, minaccia il vecchio, e fa un gesto, quasi lo volesse scannare; ma l'altro sorride dolcemente e continua a parlare. Parla a lungo ed addita la croce che il suo compagno sorregge e mostra a tutti: ai nemici ed ai prigionieri. L'agricoltore vede la croce, bagnata dai raggi caldi del sole, che sale maestoso sul firmamento, e mai comprese così bene il mistero di quel sacro legno, l'unica salvezza d'Italia, l'albero santo, dai cui rami pendette Colui, che allarga le braccia, per stringere tutti al suo petto, in un solo abbraccio: italiani e goti, vincitori e vinti, per unirli e fonderli assieme, nel crogiolo del suo cuore, del suo amore infinito…..

Oh la croce, la croce! La vista del suo Dio crocifisso ne calma lo spavento agitato, porta lenimento ai suoi dolori ed egli esclama:

—Signore! Come vuoi tu! Pietà!

Il vecchio parla a lungo. Il capo dei goti diventa sempre più meditabondo. Finalmente scende da cavallo, si inchina avanti alla Croce, la bacia e fa un cenno ai suoi uomini. Essi pure scendono da cavallo, piegano le superbe ginocchia, ed il vecchio traccia colla grande croce sul loro capo un segno di benedizione.

Il vecchio passa poi dai prigionieri ed annunzia loro la lieta novella. Il capo dei goti gli ha lato licenza di riscattarli e di condurli con sè nella vicina abbazia, dove essi rimarranno e che egli ha promesso di rispettare.

—Coleremo i calici; daremo loro i vasi sacri, fatti a pezzi. Il Signore non ha bisogno di quei vasi; egli preferisce abitare nei vostri petti, che sono il suo tempio vivo ed eletto, non fatto da mano umana ma creato da lui, per la sua gloria, osserva. E poi dice loro, che i goti hanno promesso di non più bruciare, di non uccidere, di non fare schiavi; si accontenteranno di prelevare dalla popolazione il necessario alla vita, nella loro grande marcia verso Roma.

Il giovane monaco avvicinò l'agricoltore.

—Publio mio!—gli disse, gettandogli le braccia al collo.

—Romano! Tutto, tutto perduto!

—Hai perduto beni terreni. Dio ti darà in cambio beni eterni, fu la dolce risposta.

—La mia casa?

—La rifabbricherai.

—Le mie messi?

—Ti è rimasta la terra, questa buona madre. Essa avrà compassione di te, ti sarà grata del tuo lavoro e ti produrrà centuplicati frutti.

—Le mie mandrie? Il Signore provvederà.

—E la mia donna?

—Sei ammogliato?

—Dovevo prendere moglie appena messo al sicuro il raccolto.

—Se ti ama ti prenderà anche povero.

—Non posso più prenderla.

—È morta?

—I barbari…..e non potè continuare.

—Dove si trova? chiese il giovane monaco pieno di compassione.

Il fratello gli indicò la bella contadina, che guardava confusa il suolo, in uno stato che rasentava la pazzia.

—Insegna sant'Agostino, che la vera verginità risiede nel cuore.
Gl'impudici abbracci dei barbari non ne hanno diminuito il candore.
Prendila.

—È stata d'altri.

—Ha sofferto ingiuria, come l'hai sofferta tu, come l'hanno sofferta mille e mille, come l'ha sofferta questa povera terra, che noi tanto amiamo. Prendila! Il tuo amore le sia di conforto nelle sue amarezze.

Il fratello non risponde.

—E tu? domanda piuttosto.

Il bell'occhio profondo del giovane brilla d'infinito entusiasmo.

—Sono felice! esclama.

—Hai trovato?

—Quanto cercava. La terra sospirata dai miei sogni; la patria terrena, che mi fa pregustare le dolcezze dell'eterna; un padre buono, fratelli dolcissimi, all'ombra della chiesa, secondo la regola del mio santo padre Benedetto, benedetto davvero, dal quale venne a me ed al mondo tanta pace, tanta benedizione!

I goti conducono i prigionieri alla non lontana abbazia.

Un colle, anticamente selvaggio, ed ora reso fertile dal lavoro di monaci industriosi. Una chiesa semplice, ma vasta, tutta candore, con un grande coro ed un altare coperto di veli; attorno a quella alcuni piccoli edifizi: il dormitorio dei monaci, la biblioteca ricca di volumi, da loro pazientemente copiati, la scuola, la troppo modesta cucina. E tra quegli edifizî si aggirano parecchi monaci, vestiti di bianco, provetti alcuni negli anni e quasi cadenti, altri ancora giovani e quasi fanciulli, ma tutti spiranti la stessa pace di paradiso.

I goti ne sono colpiti. Chinano rispettosi il capo avanti a tanta pace e non osano venir meno alla parola data.

L'abbate rompe i vasi sacri e dà loro quell'oro, quelle gemme. Lo fa senza alcun rimpianto, abbenchè quei vasi fossero la sua delizia. Ne era tanto fiero. Li aveva fatti fondere coi gioielli della sua defunta madre, lieto di poter offrire un calice, degno di ricever il sacrosanto sangue del Signore. Ma avrebbe dato non solo quei calici, ma tutto se stesso, la propria libertà, la propria vita, per riscattare anche uno solo di loro.

I goti accettano l'oro e partono.

I prigionieri vengono assistiti dai monaci e l'agricoltore comprende, che l'opera di san Benedetto e la grande salvezza della scienza, dell'arte, della libertà d'Italia; che quei santi monaci sono i custodi vigili del pensiero cattolico ed italiano; che sicurezza e libertà non havvi che all'ombra delle loro abbazie. Non sente voglia di ritornare alla sua terra devastata, ma decide di rimanere all'ombra dell'abbazia.

Giura, nella Chiesa bianca, fede incrollabile alla sua sposa, che mai gli sembra così pura e così degna di amore come ora, che ha sofferto tant'onta; che vuole consolare, col suo maschio amore, per l'onta subita, ed incomincia a diradare una foresta abbandonata, a coltivare la fertile terra, a edificare un rustica casa; lieto di trovarsi anche là in Italia, perchè sa che là, dove si trova anche un solo italiano, vi è pure l'adorata madre Italia……

IV.

Rovine fumanti

Che bel sogno! Ho sognato di essere marito amato, libero lavoratore della terra, della mia terra. Certo, aveva sofferto molto, nell'incendio della mia antica casa e nella dura prigionia; le mie spalle avevano sentito i colpi della frusta; ma poi era riuscito, per opera di buoni monaci, a riavere la libertà, a ricostruire la casa bruciata, e voleva procreare dei figli forti, robusti, sani, nei quali trasfondere tutto il grande amore che portava alla patria.

Invece tutto fu un sogno, ed io mi trovo davanti alle rovine fumanti della mia città natia.

Maledetto tedesco! Assassino della nostra libertà, distruttore della nostra patria! Chi ti ha chiamato in Italia? Che cosa cerchi su questo nostro caro suolo? La mia città! Distrutta, distrutta! Perchè il sogno non fu realtà?

Comprendo il sogno. Ho sognato incendi e rovine, perchè ho veduto incendi e rovine; ho sognato omicidi, catture, vergini violate, delitti senza nome, perchè questi miei occhi, inariditi dal troppo pianto ed incapaci di più spargere una lagrima, hanno veduto questi infiniti orrori, ho sognato goti perchè ho visto tedeschi. Il sogno terminò però bene. Ha da essere questo un omen? Mi sorriderà ancora un istante di felicità?

Strano questo sogno! Devo essermi addormentato pochi minuti fa, ed in esso ho vissuto mesi ed anzi anni; ho patito, ho sofferto, ho lottato, mi sono redento col lavoro assiduo all'ombra della croce, ho avuta famiglia. Non comprendo. Tutta una vita, vissuta in brevissimi istanti. Cercherò il mio pedagogo. Chissà? Ha salvato forse la vita, e lo interrogherò….. Ma che vado io sognando? Posso occuparmi di filosofia e di cose di pensiero, mentre la patria arde e il petto di noi, che siamo rimasti in vita, non deve palpitare che di una sola brama, di un desiderio unico: della brama della vendetta?

Sì, vendetta di te, Federico! Finchè un milanese resterà in vita vivrà un vendicatore. Vendetta per la patria distrutta, per le nostre case incenerite, per l'aratro, tirato sulle rovine di Milano, per il sale sparso nei solchi; vendetta per i nostri genitori uccisi, per le nostre sorelle violate, trascinate in dura prigionia; vendetta per tanti delitti commessi, per questa nostra patria violata, esecrata; vendetta per l'Italia che piange, che geme, che non vuole portare lei, la regina del mondo, pesanti catene di duro servaggio; vendetta per tanti morti!—esclama il giovane, scuotendo il pugno chiuso verso il cielo, mentre il suo sguardo contempla le rovine che si presentano al suo sguardo; rovine dolorose, terribili e sconfinate: rovine di case, di palazzi, di chiese; sì, anche di chiese, perchè alcune chiese soltanto vennero risparmiate e altre furono distrutte esse pure. Le rovine di una intera città, punita soltanto perchè voleva conservare la propria libertà ed essere padrona a casa sua; perchè, come non voleva disturbare nessuno, così non voleva venir disturbata; perchè voleva conservare Roma al Papa e l'Italia agl'italiani.

La presa, l'incendio, la distruzione di Milano! Uno dei delitti maggiori che la storia conosca.

Altri giovani gli si uniscono. Essi contemplano pure sdegnati le rovine, ed anche dalle loro labbra escono parole di esecrazione contro il teutone odiato; essi pure fanno il giuramento di vendicarsi.

—Milano deve risorgere, fenice novella, dalle rovine!—esclama uno dei giovani.

—Non è possibile—risponde con tristezza.—Siamo troppo pochi e troppo divisi e la potenza del Barbarossa è troppo grande; noi possiamo cercare di vendicarci, e benedetta la mano che caccerà il pugnale nel suo petto; ma la ricostruzione della città non è possibile!

—Uomo di poca fede! Riusciremo!

—No.

—Riusciremo ti dico! C'è un uomo, capace di unire gl'italiani od almeno noi lombardi in un solo fascio, e di condurci alla vittoria!

—Chi?

—Alessandro.

—Il Papa?

—Una vittima anche lui della crudeltà teutonica. Egli deve difendere dalla barbarie tedesca qualche cosa più prezioso di Milano.

—Roma? Roma vale Milano?

—La Chiesa, che il Barbarossa perseguita, che dilania, che vuole privare della sua libertà. È lui, che oppone le su vili creature all'Apostolico; che insulta Cristo e Pietro coi suoi antipapi; che vuole fare a brandelli la veste inconsutile del Redentore. E Alessandro…

—Ha perduto nella gran lotta.

—Il Papa non perde mai quando lotta per la Chiesa, perchè Gesù è con lui.

—Ma il Papa erra ramingo in Francia.

—Ritornerà. E nel suo nome e col suo aiuto lotteremo e vinceremo. Combattiamo per l'Italia, per Milano Qua la mano, amici! Formiamo la compagnia della morte!

«Siano nere le nostre vesti ed abbrunate le nostre armi. Vogliamo lottare, vincere o morire. Non possiamo vivere mentre Milano è distrutta, nè vedere l'abiezione estrema della patria amata! Al giuro, amici, al giuro! La compagnia nera della morte! O vincitori o morti! Sant'Ambrogio, Sant'Ambrogio!

Le destre impugnanti i pugnali si alzano verso il cielo e le labbra pronunziano il terribile giuro, che consacra quei giovani alla morte per la patria. Essi, che avevano avuto da lei la vita, erano disposti di sacrificarla per conservarle la libertà.

II.

Passano i mesi, lunghi, durante i quali egli gira di qua, di là, organizzando le masse, destando entusiasmo, esercitando i giovani, esortandoli a fare anche il maggior sacrificio per la patria.

E Milano risorge. Le sue mura? I nostri petti. Abbiamo costruito una novella città; la vogliamo chiamare Alessandria, in onore del nostro duce supremo, Alessandria non ha bisogno di mura; e se mura devono essere, la circonderemo di paglia. I nostri petti saranno anche a lei mura. La Chiesa e l'Italia combattono la battaglia decisiva, per la libertà, per la vita. Se Alessandro non vince non potrà più ritornare a Roma e maledetti apostati, infami e vili creature imperiali, profaneranno la maggior basilica; sulla tomba del Pescatore mani sacrileghe offriranno la gran vittima, e l'Italia sarà per sempre schiava dell'invasore.

Alla lotta, per la fede e per l'Italia. Egli comprende, che questi due concerti non possono venir separati; che l'Italia ha bisogno della fede per la sua vera grandezza; che solo la religione del Cristo la può rendere grande; che la sola fede riempie i cuori di nobili palpiti; che non vi può essere vero amore di patria senza vero, sentito, intenso amore alla Chiesa. Egli sente che la religione è la scintilla che accende i cuori di amore all'Italia. Alessandro, Alessandro!

Tutti inneggiano al Papa. È nel suo nome che si vuole combattere, è nel suo nome che si spera di vincere.

O questa fertile pianura lombarda; questa terra così ricca; questa madre così buona; questa nutrice amorosa di propri figli! Tu non impinguerai il forestiero! O queste belle città, nelle quali freme una grande vita cittadina; queste ingenti fucine di liberi spiriti! Libertà, libertà! Distruggiamole e moriamo tutti sotto le loro rovine, piuttosto di vederle asservite allo straniero; queste chiese, create dalla pietà degli avi; belle chiese dove dal pergamo c'insegnano nel nostro dolce idioma natio assieme all'amore di Dio anche l'amore a quella libertà che è il dono più prezioso del Signore, noi vi difenderemo! Alessandro, Alessandro! Pietro vince in Alessandro! Il mercenario, la maledetta creatura dell'imperatore teutone, non profanerà queste chiese; il suo nome non vi verrà mai fatto. Noi in comunione coll'antipapa? Mai! Viva Alessandro!

Il carroccio! Costruiamo il carroccio! Lo condurremo con noi, e noi, la compagnia della morte, lo difenderemo coi nostri petti! Sacro carroccio, simbolo di cittadina libertà! Pianteremo su di te le nostre bandiere; alta sopra tutte sventolerà quella di sant'Ambrogio. Sant'Ambrogio, sant'Ambrogio! Milano, Milano! Le opere di Dio per le mani dei milanesi! Date fiato alle vostre trombe. Le odano i governatori che egli ha lasciato in Lombardia e riferiscano a lui, che Milano risorge, che abbiamo rifabbricato il carroccio.

III.

Egli lo guarda estatico il carroccio, lo bacia, non sa staccare lo sguardo da lui e poi va da Alessandro.

Il viaggio non gli reca difficoltà. È così veloce; gli sembra di volare. Non sente stanchezza alcuna. Rapidamente si susseguono i giorni ai giorni. Finalmente è giunto. Ottiene di venir ammesso al suo cospetto.

Ecco l'Apostolico. Un vecchio piccolo, scarno, sciupato da infinite fatiche, da indicibili dolori, con un dolce sorriso paterno sullo scarno volto e certi occhi grandi, buoni, ma velati d'infinita mestizia. Il cuore del padre soffre tanto a quelle lotte, a quel sangue; soffre di dover difendere i diritti di Dio, della Chiesa e della libertà colla spada, colle lancie, colle frecce, colle armi. Ma non è possibile diversamente. Anche Giuda Maccabeo ha dovuto difendere colle armi e spargendo sangue la città santa e l'altare del Dio vivente. Ed ora non si trattava di un tempio di pietre, ricco di metalli, ma dello stesso corpo mistico del Redentore, della sua Chiesa.

Egli comprende tutto questo; legge i pensieri del Papa quando si prostra al bacio del sacro piede ed implora dal Vicario di Gesù Cristo una speciale benedizione per Milano, per la compagnia della morte, per il carroccio, una benedizione, che sia caparra di vittoria.

—Vi benedico! Il Papa auspica le benedizioni dall'Alto a chi combatte alla difesa della buona causa, per la libertà della Chiesa e della patria. Anch'io sono italiano. Benedico ai vostri sforzi di conservare la libertà dei vostri Comuni, d'impedire che le schiere imperiali apportino novelle rovine a queste terre, che Dio ha dato a noi e dove noi abbiamo diritto di condurre libera vita, sempre con gran rispetto dei diritti altrui, e dell'autorità che ci è superiore—è la benedizione del Papa.

Come volano questi mesi! sembra un sogno. Sono già passati l'estate e l'autunno; è passato l'inverno temuto, ed egli non se ne è quasi accorto, non ha sentito il freddo invernale, così rigido, così temuto ai piedi delle Alpi. Già; quando si lavora.

Ricorda di spesso l'antico sogno. Là il tempo gli era passato quasi con maggior lentezza. Già. La vita è un sogno e nel sogno si vive quasi una vita novella.

Il lavoro; la tensione grande, infinita delle proprie forze! Dio mio, come passa presto la vita!

Le truppe imperiali scendono le Alpi e si riversano in Italia. Barbarossa è furente. I fuggiaschi raccontano delle sue collere infinite. Ha giurato di distruggere quanto si opporrà al suo passaggio; vuole punire la superbia dei lombardi; chi gli cade nelle mani viene scannato; non usa misericordia a nessuno. Tutte le città, nelle quali s'incontrerà per via, verranno date alle fiamme; rischiareranno la sua via; ed Alessandro ha da diventare il suo cappellano umile e devoto; perchè egli è l'imperatore e perciò il capo universale della Chiesa e dello stato; nel suo petto sono due sorgenti, dalle quali sgorga ogni legge, la civile e l'umana; egli è l'arbitro del mondo. Ciò che egli vuole ed approva è buono; cattivo ciò che egli non vuole o condanna; la sua volontà è legge e doverosa ogni cosa voluta da lui. Non è Dio l'autore delle leggi, neppure il Papa, ma soltanto lui, Barbarossa!

Così gli riferiscono i Fuggiaschi, ed il suo cuore divampa di sempre maggior sdegno; un oltraggio sì grande alla patria, all'Italia, a Milano, a Alessandro!

La compagnia della morte si arma. Si arma lui pure. Quanto è dolce morire per la patria! Ora incomincia a comprenderlo. Si sente invaso di un grande entusiasmo, di un delirio immenso. Ecco le sue armi; sono velate a nero. Finchè Milano non è libera, non è risorta, i suoi figli vestano a gramaglie.

Avanti! Alla marcia, alla marcia contro il nemico!

Quanti soldati! Nessuno li ha costretti; nessuno li stipendia. Sono tutti volontari; i figli di Milano e delle città sorelle; la balda gioventù lombarda, che marcia contro il nemico, avida di combattere, di vincere o di morire. Libertà o morte! Molti moriranno, ma la morte non incute loro terrore. Moriranno per l'Italia, per Milano. Libertà o morte!

Dietro a quella folla di giovani così fieri, così baldi, decisi di combattere, di morire per la patria, viene il carroccio gigantesco, dal quale sventolano le sacre bandiere, e che è Milano stessa che accompagna i propri figli; il carroccio, l'emblema della sacra libertà. Vedere il carroccio vuol dire vedere Milano; difendere il carroccio difendere Milano. Non deve cadere nelle mani del nemico; mai, mai, finchè anche uno solo di noi resterà in vita.

Ecco Legnano. Ecco l'esercito nemico; ecco le aquile imperiali. Quanto è numeroso quell'esercito, quanto potente! Quanti avversari! Gente nordica, semibarbara, vestita di ferro, con grandi elmi piumati, con forti macchine di guerra; molti a cavallo. Gente in gran parte mercenaria; pagata dall'imperatore; combattono per la speranza del bottino. Hanno detto loro che le città lombarde sono ricche, abbondante il loro oro, generosi i loro vini, belle le loro donne. Dio creò l'Italia per i tedeschi; il lavoro italiano per arricchire i tedeschi, e volle belle le donne italiane per i loro amatori di Germania. Oro! Bottino! Donne! Vino! Barbarossa! Barbarossa! E poi l'antipapa li ha benedetti, ha assicurato loro la vittoria, perdono dei loro peccati, assoluzione generale, la gloria beata del cielo; chi muore sul campo di battaglia diventa martire e verrà venerato come martire. Che cosa non promette un antipapa?

Barbarossa! Barbarossa!

Egli ode questo grido uscire da mille e mille rauchi petti. Comprende che è venuto il grande momento; che si decide allora la sorte di Milano, dell'Italia tutta, i destini della Chiesa. Se Barbarossa vince Milano apparterà alla storia, l'Italia sarà feudo tedesco, terra da sfrutto; Roma città imperiale, il papato trasportato altrove, in Francia, in altre terre; non più a Roma, dove il vicario di Cristo non poteva essere lo zimbello dell'autorità imperiale.

E quant'egli comprende lo sentono anche i suoi compagni, che da mille petti esce festoso il grido: Alessandro! Alessandro! Sant'Ambrogio! Sant'Ambrogio! S'invoca il nome del santo patrono, acciocchè difenda dal cielo la sua Milano e si fa il nome del Papa, che racchiude, in quell'istante, un intero programma di libertà. Alessandro, Alessandro!

Le sacre bandiere milanesi e delle altre città lombarde sventolano allegramente al vento e gli eserciti si scontrano. Suonano le fanfare, per tener alto il morale dei lottatori; il sole viene oscurato da immensi nugoli di frecce; la cavalleria atterra i fanti e mena scempio tra i pedoni; i cavalieri, vestiti di ferro, brandiscono le immense spade e spiccano teste; ma anche i fanti vanno lieti alla lotta, alla difesa, e più di un cavallo viene colpito in pieno petto od ha le gambe ferite, cade a terra e ribalta il suo cavaliere, che non è più capace di alzarsi.

Avanti, avanti! Già la lotta si accende corpo a corpo.

Difendiamo il carroccio! Alessandro, Alessandro! Sant'Ambrogio,
Sant'Ambrogio!

I nemici fanno grandi sforzi per giungere al carroccio, per strappare le bandiere, per impossessarsi di quel sacro legno. I milanesi lo difendono col loro petto; la compagnia della morte fa prodigi di valore.

Egli si sente pieno di un indomito entusiasmo; avido di difendere la Chiesa e la patria, i suoi due maggiori tesori. Brandisce la spada. Ha già lottato corpo a corpo contro un nemico e lo ha ucciso. Altri lo aggrediscono. Sono tedeschi; c'è anche qualche traditore italiano, tra di loro. Oh, questi traditori! Servire la causa del nemico; combattere per l'assassinio della patria libertà!

Si difende da loro; lotta da prode; ma i nemici sono tanto numerosi; egli non può parare tutti i colpi; viene crivellato da parecchie ferite. Quanto gli dolgono; ma è per la patria, per la patria diletta; e finalmente riceve un gran colpo al petto. La daga gli apre una ferita grande, profonda, mortale, dalla quale sfugge abbondante il sangue e col sangue la vita.

Giace sul campo di battaglia, a fianco di molti morii e morenti. Ne ode i gemiti, i lamenti, le bestemmie, le preghiere. Gli è così difficile respirare. Ansa. O questo affanno! Ed intanto la lotta continua; ode rumore di armi; ode grida.

L'affanno si fa sempre più forte; i poveri polmoni si dilatano spasmodicamente e cercano invano un po' d'aria! Eppoi ode un urlo di gioia pazza, indicibile, infinita.

Sant'Ambrogio! Sant'Ambrogio! Alessandro, Alessandro!

Alza con fatica la testa morente. Vede le truppe tedesche allontanarsi in una vertiginosa fuga. Il carroccio si avanza maestoso, solenne; le bandiere trionfanti svolazzano vittoriose al vento.

Alessandro! Sant'Ambrogio! esclama giulivo.

È l'ultimo grido che esce dalle sue labbra; l'affanno diventa sempre più forte; le immagini delle cose che lo circondano si scoloriscono; è la morte che s'avvicina…

Secondo intermezzo

Le campane della cattedrale suonano a festa. È la consacrazione. Sul sacrosanto altare si ripete il grande prodigio di Betlemme. Il Verbo incarnato vi discende sotto le specie di candido pane ed il sacerdote alza, tra nubi d'incenso, la bianca Ostia e la mostra al popolo, il quale l'adora riverente.

Mirabile degnazione del Verbo! A Betlemme cela i bagliori della sua divinità sotto la natura umana assunta; sull'altare la divinità gloriosa e la umanità trasfigurata, il corpo glorificato e l'anima beata, sotto le sacrate specie.

Molti fedeli comprendono la poesia del grande istante, fissano commossi la sacra particola e più d'uno piange.

Il suono delle campane è giunto anche nella sua stanza ed egli si desta. La camera è buia.

—Maledette campane! è il primo pensiero che gli si affaccia, e poi ricorda, colpito, stupito, ammirato; ed il ricordo gli desta un grande spavento, un infinito disagio.

—Non è vero!—esclama.—Non è vero!

Allunga il braccio e chiude la corrente elettrica. La stanza viene inondata da una luce intensa, bianchissima, che lo abbarbaglia per un istante. Troppo rapido è il passaggio dalle tenebre a quella luce infinita. Chiude gli occhi e poi li apre di nuovo, a poco, a poco.

Volge il capo e guarda l'orologio a pendolo, appeso alla parete.

—La mezza! Mi sono coricato alle ventitrè ed ho udito battere i tre quarti. Neppure un'ora! E tanti, tanti anni di vita. Egli aveva ragione. Vi sono altre misure. Ed allora?

Non tirò la conseguenza. Il ricordo delle immagini vedute nel sogno non lo voleva abbandonare. Rivedeva…. E il ricordo gli creava grande disagio; gli ripeteva con insistenza certe verità, alle quali rifiutava fede, che non poteva, non voleva ammettere. Eppure….. eppure…..

—No, no!—urlò adirato.—Maledette campane! Il loro suono!

Tese il braccio ed interruppe la corrente. Nella stanza si fece di nuovo scuro; tutto ripiombò nelle tenebre.

Gli venne un pensiero. Allo stesso modo tu fai volontariamente tenebre al tuo spirito.

No, no! Egli non voleva le tenebre, voleva la luce; l'aveva cercata sempre; l'aveva trovata, e quella mattina… La bomba… la bomba!

Sogni pazzi di notte di Natale, causati dalle stupide osservazioni dell'amico, dal suono delle campane, e dal microbo della superstizione che ammorba tuttora l'Italia.

Dormire, e non sognare, oppure sognare rivoluzioni, bombe, tiranni uccisi, aristocratici e borghesi sfracellati in un mare di sangue; sognare vescovi scannati, papi col ventre squarciato; la rivoluzione, la grande rivoluzione, operazione terribile ma necessaria, che sola può salvare l'Italia.

Maledette campane! Si avvolge ben bene nelle coltri, cela la testa nel lenzuolo e cerca sonno.

Morfeo fa scendere lentamente fiori di papavero sul suo capo. Sbadiglia; le idee gli si confondono; dimentica il luogo dove si trova; dimentica che è la notte di Natale.

Dorme…

V.

Il signorotto.

I.

Egli era uscito dalla sua piccola casa, dove abitava colla moglie ed una nidiata di figli, e guardava il colle vicino, dai pendii rapidi, scoscesi, sul quale mani affaccendate costruivano una grande fabbrica. Qualche settimana prima colà non v'erano che quattro alberi ed un po' d'erba, ed ora sorgevano, come d'incanto, alte mura, munite di strette finestre, e già incominciava su quelle ad alzarsi una torre. Egli osservava sdegnato, adirato, con un grande, immenso fremito di rabbia, e malediva a colui, che aveva ordinato la fabbrica e a coloro che eseguivano il lavoro.

—Vili! Per qualche berlinga vendono il loro lavoro allo straniero, all'usurpatore! Qualche settimana ancora ed il castello sarà ultimato. Egli vi abiterà ed allora guai a noi! Ci tratterà da schiavi, come già ci trattano altrove. Ritengono queste nostre terre paese di conquista.

Egli fa il pugno e freme, dalla grande rabbia, dallo sdegno impotente. La persuasione della propria impotenza ne aumenta la collera; gli sembra di essere simile ad un piccolo cane fedele, che non può opporsi al ladro, il quale entra nell'abitazione del padrone amato. Il cagnolino deve limitarsi a latrare; ma il ladro neppure si cura di lui; tira innanzi con disprezzo e questo disprezzo fa al cane assai più male, che se il passante avesse aggredito, si fosse posto alla difesa, lo avesse magari ucciso a bastonate. Avrebbe almeno mostrato di fare conto dell'animale fedele….. Ma un disprezzo simile. Perchè non era cane, un cane forte, robusto, da san Bernardo, capace di slanciarsi contro lo straniero, di costringerlo a mettersi alla difesa, di addentarlo, di metterlo in fuga?

Avrebbe voluto difendere la propria terra da quei prepotenti; ma come farlo? Essi erano molti; avevano con sè la forza, l'autorità, tutto tutto; ed egli era solo. Nessuno la pensava come lui; nessuno aveva il suo coraggio. I più ubbidivano supini. Erano nati per servire, e loro era indifferente a chi servivano; proprio come una mula, alla quale è indifferente di portare in groppa un sacco di carbone o delle fasce di legna, il signor curato o quel malanno, che ora, fabbricava lassù il suo castello. E gli altri; i pochi che fremevano al pensiero del giogo che veniva loro imposto, che si sentivano impari a portarlo, che lo avrebbero scosso così volentieri, gli altri non avevano coraggio. Si lamentavano; ma quando egli aveva detto loro: Prendiamo le vanghe, le zappe, i picconi, andiamo a distruggere quanto è stato già fabbricato e impediamo che la fabbrica continui, essi lo avevano guardato col terrore sul volto; avevano protestato contro le sue parole; lo avevano supplicato di tacere. Taci, per l'amore del cielo! Che nessuno ti oda! Il mondo è pieno di spie. Egli guardava, e il suo sdegno diventa sempre più intenso; il maschio petto ansa fortemente sotto l'impulso di quella collera infinita, e gli viene la pazza voglia di correre, di arrampicarsi sul colle, di arringare gli operai, di suggerire loro di abbandonare il lavoro, di sospenderlo, di non permettere che continui; il desiderio, di atterrare, colle proprie mani, quelle mura, quella torre, d'impedire che si continui la fabbrica del castello.

Un rumore di cavalcature. Volge il capo in quella direzione. Ah! È lui, l'odiato. Non lo ha veduto ancora mai; ma comprende che è lui, che deve essere lui, che non può essere che lui; un uomo molto grasso, tarchiato, con una faccia molto ampia, pingue, grandi mustacchi, pizzo, giganteschi stivaloni di cuoio giallo, muniti di enormi speroni di argento, larghe uose di velluto marrone, un enorme mantello di velluto con grandi bottoni di argento; un cappellone enorme, di panno finissimo, con gigantesche piume, una larga fascia attorno ai fianchi, dalla quale pende una grande pistola, ed il cavallo magnificamente bardato. Mani inanellate stringono le briglie ed il frustino; il portamento dell'uomo e altero, è ridicolmente altero; e dietro a lui vengono otto armati, pure a cavallo e con facce patibolari; i capelli sono lunghi; il ciuffo enorme pende loro di dietro; uno solo lo ha lasciato cadere davanti, ed esso gli maschera il volto. È impossibile ravvisarlo.

Il piumato si arresta e domanda in un pessimo italiano, irto di vocaboli spagnoli.

—Quale è la via che conduce lassù?—ed addita col frustino il castello in costruzione.

—Non lo so!—risponde con scherno. Sentiva di odiare quell'uomo, il quale veniva ad istallarsi, come dominatore, in mezzo a loro. Non gli avrebbe indicato la via che conduce lassù. Ad un suo nemico; ad uno di quegli spagnoli superbi? Mai! Era troppo italiano per farlo.

—Lo costringiamo?—domandò uno dei bravi al suo signore.

Questi ebbe un'occhiata di infinito disprezzo per l'agricoltore.

—Non vale la pena-!—rispose con scherno. Queste parole fecero venire al lavoratore dei campi il sangue alla fronte. Il ricco spagnolo non lo riteneva neppure degno di osservazione. Si riteneva tanto alto, da non degnarsi neppure di far conto delle sue parole e di punirlo per quel rifiuto.

Un urlo di rabbia gli uscì dalle labbra.

Il signorotto rise, i bravi risero pure, ed uno di loro, quello del ciuffo, lo minacciò col pugno chiuso.

—Faremo i conti!—gli disse minaccioso. Si allontanarono.

Egli li seguì collo sguardo, in preda ad una rabbia infinita…

II.

Passano i giorni. Egli è assiduo al lavoro; lavora da mane a sera, e la moglie robusta e due figli lo aiutano sui campi, mentre l'unica figlia disimpegna i lavori di casa. È troppo gracile per lavorare.

—Non diventerà una contadina a modo—dicono di spesso i genitori, crollando il capo.

—Non lo vuole neppur diventare—rispondeva sorridendo la madre, la quale conosceva il segreto della figlia e l'aveva approvato.

Lavorava, lavorava ma non valeva la pena di lavorare.

Le notizie che giungevano in paese erano così brutte; se ne raccontavano tante della crudeltà degli spagnoli.

Qua essi avevano ammazzato una vacca, soltanto per mangiarne il fegato; là erano penetrati in una casa ed avevano chiesto del vino; si erano poi rifiutati di pagarlo, e il proprietario avendo insistito, lo avevano legato, denudato e flagellato a sangue; avevano flagellato pure la moglie, che era accorsa alla difesa del marito, rotto il fondo delle botti e lasciato scorrer tutto il vino; si parlava di signorotti che taglieggiavano i contadini; imponevano loro forti tasse; nel villaggio vicino era scomparsa la figlia di un agricoltore, una ragazza belloccia; nessuno sapeva dove fosse andata, ma la voce generale diceva, che era stata rapita dal signorotto.

Questi racconti girano di bocca in bocca, venivano arricchiti di sempre nuovi particolari, i quali lì rendevano sempre più crudeli, più sanguinari, più truci; e tutti ci prestavano fede. Egli poi li raccoglieva con avidità, li assaporava con una voluttà crudele; era lieto di udirli, e ci credeva, abbenchè certe volte la ragione gli suggerisse di non prestar fede a tutto, di fare una larga tara, di non generalizzare. C'erano tra gli spagnoli dei cattivi, certamente, ma ce n'erano anche dei buoni, dei santi. Ed i loro sovrani? Non si era ritirato Carlo I[1] in un convento, per passare gli ultimi anni della sua vita nella preghiera e nel ritiro, e Filippo II che allora viveva, non era forse un sovrano buono e pio, che conduceva una vita soprannaturale, cristiana? Ma l'odio che egli portava a quanto sapeva di spagnolo era troppo intenso, per fargli apprezzare il bene che si trovava presso quel popolo.

[1] Carlo I di Spagna, V di Germania.

Passarono i giorni, rapidamente; il castello va incontro alla sua ultimazione; i grandi carri portano un ricco mobiglio ad ammirare il quale si affollano i curiosi, e poi il castellano vi conduce la moglie, i figli e grande quantità di invitati, di amici; si fanno grandi feste, e le allegre brigate girano per il paese, battono le campagne, allestiscono grandi cacce, e, nell'inseguimento della lepre o della volpe, attraversano a spron battuto il seminato, senza fare alcun conto delle proteste dei contadini, i quali si vedono privati del frutto di lungo lavoro, vedono rovinati i loro campi e messo in forse il raccolto.

Tonio, il padrone di una campagna vicina, si era opposto ad un gruppo di cacciatori, i quali ne attraversavano, a spron battuto, il seminato; aveva gridato loro di cessare e di non rovinare le sue terre, ma uno di loro, per tutta risposta, aveva fatto fuoco sopra del poveretto e lo aveva ferito gravemente.

Tutta la borgata era sossopra. Tutti maledicevano il signorotto, i suoi amici, i suoi ospiti, agitavano minacciosi i pugni nella direzione del castello, invocavano i fulmini del cielo sopra i brutali, ma tutto si limitava a questo.

Il barbiere del villaggio aveva fasciato Tonio e dichiarato la ferita gravissima. La povera moglie del ferito ed i figliuoletti piangevano desolati.

Egli era stato a vedere di Tonio, aveva confortato l'amico ed avuto parole roventi per il signorotto.

—Ed a dire che non possiamo fare nulla, che siamo assolutamente impotenti di fronte a lui!—esclama adiratissimo, e ritorna a casa, con questa rabbia impotente nel cuore.

Per via s'imbatte in una figura lunga, straordinariamente magra: dal dorso ricurvo, coperta di un abito nero, logorato dall'uso. Il volto dell'uomo è straordinariamente pallido, ed il suo pallore armonizza col candore dei mustacchi e del pizzo. Quel vecchio ha una faccia così dolce; un volto così paterno. Eppure egli sente in quell'istante avversione di lui. Quante volte non ha egli insegnato di ubbidire all'autorità. Era per colpa sua se nessuno si rivoltava nel villaggio.

—Che ne dice don Protasio, della ferita, del povero Tonio?—gli domanda.

—Un avvenimento dolorosissimo.

—Ecco che cosa ha ottenuto colle sue prediche!

—Io?—domanda il vecchio, tutto stupore.

—Lei, proprio lei! Non ci ha raccomandato le tante volte di aver pazienza e di ubbidire alle autorità?

—Ho da predicare forse la ribellione? Ho da dirvi di ribellarvi e di andare così incontro a morte certa, perchè una vostra sommossa sarebbe condannata al più deplorevole insuccesso?—domandò il parroco.

—Ma intanto hanno ferito Tonio.

—Don Fernando, il castellano non è mica l'autorità.

—Dobbiamo però, nevvero, tollerarne le crudeltà, senza poter protestare?—domanda con sarcasmo.

—Chi vi proibisce di protestare. Io mi reco ora al castello, per tutelare i vostri interessi, e per parlare, al castellano, di Tonio e della sua famiglia—esclamò il parroco.

Il suo volto era, in quel momento, trasfigurato, ed esprimeva un'energia tale, che Tonio lo guardò meravigliato. Quello non era più il vecchio dolce, amoroso, timido, ma il pastore forte, audace, il quale si moveva alla difesa delle sue pecorelle contro il lupo del male, senza punto paventare la fiera; il pastore, pronto a dare la vita ed il sangue per le pecorelle.

—Vuole andare davvero?—domandò.

—È mio dovere.

—Azzarda la vita.

Il parroco sorrise.

—Non lo credo. Don Fernando è cristiano. Ma anche se avessi da incorrere in qualche pericolo, che per ciò? Non mi sono fatto prete per il mio vantaggio materiale, ma per la salvezza delle anime—rispose.

—Stia bene in guardia, signor parroco.

—Non me lo raccomandare. Sarò prudente ma anche di ferro—disse il parroco e si allontanò a buon passo.

Egli lo seguì collo sguardo.

—I soli che si prendono cura di noi, che ci difendono,—disse tra sè e sè, ed il suo pensiero volò da quell'umile parroco al grande, che allora reggeva le sorti dell'arcidiocesi, e del quale tutti parlavano come di un sant'Ambrogio redivivo, del conte Carlo Borromeo, il nipote del Papa che, nominato quasi fanciullo arcivescovo, era l'uomo di Dio e della Provvidenza, il padre dei poveri. Il difensore degl'umili, il conforto dei sofferenti, il grande tutore dei diritti della Chiesa e del popolo. Tutti lo proclamavano santo, grande santo; le madri accorrevano al suo passaggio per vederlo, ascoltarlo, baciare il lembo della sua veste e ricevere la sua benedizione. La sua persona destava un delirio. Ed egli sapeva difendere il suo popolo, anche dagli spagnoli, perchè non si sentiva soltanto vescovo cattolico, ma anche lombardo ed italiano, amava il suo popolo, soffriva al vedere calpestati i diritti, e si abbassava, lui, il conte, il rampollo di nobile casato, l'arcivescovo, il cardinale, il santo, fino all'ultimo dei suoi figli spirituali, al meno intellettuale, al più povero, al più umile, per sollevarlo a sè.

—O la Chiesa. Se essa non fosse poveri noi!—esclama.

Ora comprende, che anche il parroco fa quanto può, fa più di quello che può. Ne attende il ritorno; e mentre le mani assidue lavorano, chè egli non può rimanere a lungo senza lavorare, il suo sguardo spia la via che conduce al castello del signorotto, attendendo il ritorno del curatore d'anime, curioso di rilevare, ciò che egli ha potuto ottenere.

Sarà già arrivato; ecco che parla, che discute, che si accalora. Don Fernando cede, lo minaccia, nega ogni cosa, lo fa cacciare dal castello dai servi, dai cani… Ma egli non ritorna. Che l'abbia trattenuto, fatto prigioniero, chiuso in carcere? I contadini che avevano aiutato i muratori di professione nella costruzione del castello raccontavano, che ai piedi della torre erano stati costruiti certi ambienti oscuri, che dovevano servire da prigione. Il parroco incarcerato? Il villaggio non doveva tollerare una simile onta. Bisognava liberare l'amato pastore.

Verso sera vede finalmente una figura umana, che avanza veloce. È lui, è lui. Gli corre incontro. Ma egli viene da una direzione diversa da quella del castello. Non vi è dunque stato? Ha fatto il gradasso ed ha avuto paura di avvicinare il covo del leone?

—Signor Parroco. Lei?

—Ritorno da Tonio. Il medico spera di salvarlo.

—Il barbiere?—domanda.

—Il medico della borgata vicina. Don Fernando, da principio, non voleva credere. Non gli avevano raccontato nulla. Poi ritenne che i suoi si erano difesi da un attacco. Ma io ho parlato…. gli ho detto ogni cosa, gli ho fatto toccare con mano…—disse il parroco infervorandosi.

—Non ha avuto paura? domanda Tonio ammirato.

Il parroco non risponde alla domanda ma continua a raccontare. Don Fernando era montato sulle furie quando egli aveva chiesto un indennizzo per Tonio, voluto che gli mandasse un medico e pensasse alla moglie di lui ed ai figli, e quando aveva pur domandato, che fosse rispettata la popolazione inerme e tranquilla.

Il signorotto aveva dato ordine ai servi di cacciare il prete importuno, che veniva a tutelare gli interessi di quegli italiani, che egli, nella sua boria spagnola, disprezzava tanto; ma l'audace sacerdote non si era lasciato imporre da quelle parole, ed aveva invitato il superbo spagnolo al tribunale di Dio.

Don Fernando era cristiano. Le parole del prete lo avevano impressionato. Aveva incominciato a cedere lentamente.

—Ho finito per ottenere tutto quello che volevo. Egli si è ravveduto; ha mandato per il medico; ha promesso di risarcire a Tonio i danni sofferti, di rispettare il seminato, di aver riguardo del popolo. Non so se manterrà la promessa. È così difficile ridurre questa gente a buon senno. Sono così superbi, così boriosi, così poco malleabili; si credono gente di ordine superiore, ci disprezzano tanto. Pure voglio sperare…. Intanto per Tonio venne provveduto—disse il sacerdote.

Egli si congratula con lui di quanto ha ottenuto.

Il sacerdote gli disse, che anche il cardinale si prendeva cura del suo gregge e faceva quanto stava nelle sue forze per fargli sentire meno il dominio spagnolo.

—Volevano introdurre la loro inquisizione.

—Cielo! Con tutti i suoi orrori!—esclama, egli, che ne aveva udito parlare con spavento.

—Le si esagerano le cose sul suo conto; pure si sparge sangue. Il cardinale però si oppose. Volle libero il ducato da tanta piaga.

—È riuscito?

—Al cardinale riesce tutto quello che si prefigge—fu la risposta del sacerdote, il quale era fiero del proprio arcivescovo, come sono sempre fieri i buoni di un superiore santo.

Il sacerdote si allontanò per ritornare alla sua cura, ed egli rimase indietro e guardò pensieroso il castello, piantato lassù quale un gigantesco guanto di sfida di un'aristocrazia senza cuore ad un popolo sofferente e paziente; quale un'eterna minaccia del feudalismo spagnolo a questo buon popolo italiano, così fremente di libertà; pensava che il popolo avrebbe sofferto assai di più senza la Chiesa, la quale s'interponeva presso i potenti e cercava di tutelare i diritti dei poveri, dei repressi, degli umili e sentiva nel suo cuore una riconoscenza infinita per il parroco, il cardinale, e quanti difendono e tutelano i diritti degli oppressi. Ritornò stanco a casa, e dopo una cena molto parca si coricò nel vecchio talamo, dove nacquero tre generazioni, e cercò e trovò sonno…..

VI.

Sulla via di Savona.

Una via polverosa. Egli procede a piedi, stanco, sfinito. Va alla città vicina per chiedere giustizia. La otterrà? Ne è quasi sfiduciato. Eppure la cosa è così lampante, che, se fosse giustizia sulla terra, gli si dovrebbe dare piena ragione; ma la giustizia, l'equità, il diritto, tutto, tutto è esulato dalla terra, dal giorno, nel quale quei maledetti francesi sono calati in Italia, se ne sono impossessati ed hanno incominciato a comportarsi come in terra di conquista.

Ladri, ladri! Avevano rubato tutto, e quanto non potevano trascinare seco, veniva distrutto.

Ricorda le terribili notizie giunte al suo orecchio, dei furti da loro commessi, delle loro rapine. Distrutto a Venezia il Pucintoro; distrutte numerose merci, saccheggiato il tesoro della basilica di S. Marco; levati da quella gli apostoli d'argento e mandati alla zecca; calati i famosi cavalli di bronzo ed inviati a Parigi; saccheggiate le chiese, levati i quadri migliori, e mandati tutti in Francia; derubato il santuario di Loreto; asportate le ricchezze della Madonna: saccheggiata Roma e asportato di là tutto: quadri, archivi, documenti; un miracolo, che non avevano asportato anche la cupola di san Pietro; dovunque rubate le ricchezze nazionali e gli oggetti di valore; il metallo venduto, colato; imposte taglie immense alle popolazioni che queste non erano capaci di pagare.

E come Napoleone, il gran ladro, così i suoi generali, i suoi ufficiali, i suoi soldati; tutti fino all'ultimo uomo.

Una mezza compagnia aveva rovinato, col suo passaggio, i suoi campi, invaso la sua casa, mangiato i suoi viveri, bevuto il suo vino, ucciso i suoi polli, scannate le sue due vacche, rubato il suo denaro, e quando sua moglie, egli era assente, li aveva pregati di cessare, di non uccidere per il barbaro piacer di uccidere, di lasciare in vita almeno il bove aratore; erano così poveri e quel bove rappresentava per loro una sostanza, senza di quel bove come avrebbero potuto arare i loro campi; eppoi essi, i soldati, erano fin troppo sazi e carne c'era là in abbondanza, allora essi erano montati sulle furie; avevano scannato il bove, il mulo, le poche pecore; avevano rotto, fuori di sè dalla rabbia, tutti i mobili della casa: le sedie, le scranne, gli armadi, i letti, avevano bastonato, con quelle scheggie, la donna a sangue; ne avevano percosso i figli, e poi avevano fatto un gran falò, con quei mobili rotti, guasti, e se ne erano andati, fieri del loro operato, maledicendo agli italiani…

Egli era ritornato ed aveva trovato ogni suo avere distrutto; si era trovato in una casa completamente vuota e piena di lordure, colla moglie malconcia, i figli battuti, pesti, insanguinati, il bestiame scannato; ridotto alla miseria, incapace di uscire da quella, privo dei mezzi di lavoro.

Aveva avuto allora fremiti d'impotente sdegno; aveva sentito un desiderio infinito ma insoddisfabile di vendetta; ed ora si recava alla città vicina, dove risiedeva il generale, per raccontare il fatto; per chiedere il risarcimento dei danni; per domandare giustizia; deciso di commettere, per ottenerla, magari un eccesso; risoluto a tutto.

Camminava sulla via polverosa, lunga, sotto la sferza del sollione, e fremeva pensando ai francesi, a Napoleone, all'umiliazione d'Italia, divenuta schiava dei francesi; pensava ai tanti principi e sovrani, i quali s'inchinavano avanti all'usurpatore, non sapevano insorgere alla difesa dei loro sudditi; pensava all'imperatore d'Austria, il quale aveva dato sua figlia in concubina all'imperatore; pensava e fremeva.

Nessuno sapeva insorgere, contro l'usurpatore, alla difesa dei diritti del popolo schiacciato, maltrattato, oppresso, privo di alcun diritto; nessuno era capace di alzare la voce e di ricordare a Napoleone… Che cosa?

Un ufficiale francese viene a spron battuto verso di lui, che si trova ad un crocevia e gli domanda con accento imperioso in un pessimo italiano:

—Quale via conduce al villaggio di….

Egli si sente bollire il sangue alla vista di quell'uniforme; ricorda la moglie, che giace malconcia, pesta a casa, sopra un pugno di fieno; ricorda le schiene piagate dei propri figli innocenti: sente un ribrezzo, un orrore dell'uniforme, uno sdegno infinito, e risponde:

—Non lo so.

Per tutta risposta l'ufficiale gli tira il frustino un paio di volte sulla testa, sulle spalle. Egli freme dalla rabbia; muggisce come un toro; è la prima volta, che una frusta sfiorasse le sue spalle; e questa è una frusta francese; spicca un balzo, vuole afferrare la frusta, strapparla dalle mani dell'ufficiale e misurargliela in collo. Non pensa alle conseguenze di un tale agire; non le valuta in quell'istante; ma anche se le avesse valutate a pieno non avrebbe agito diversamente. Una simile offesa!

Ma l'altro dà di sprone al cavallo e si allontana ridendo.

Egli lo minaccia nell'impotente collera col pugno chiuso e continua verso la città.

Alcuni carri passano: carri grandi, onusti di quadri in cornici d'oro; di volumacci enormi. I quadri sono esposti alla polvere; soffrono certo danno; le tele sono vecchie; la pittura s'impalta qua e là. Quadri magnifici, d'infinito valore. Con quanto riguardo non erano stati conservati in qualche chiesa, in qualche palazzo, in qualche galleria privata, ed ora venivano trascinati lontano, lontano. Dove?

Egli chiede ad uno dei carradori, che camminava a piedi, a fianco dei cavalli, e bestemmiava perchè c'era un po' di salita, le bestie stanche trovavano difficoltà di procedere ed essi avevano dovuto scendere per alleggerir il carico:

—Dove andate?

—A Parigi.

—Parigi è lontana.

—Ci si arriva.

—Già. Si arriva anche nell'inferno, che è più lontano o magari più vicino—pensò.

—Donde venite?

—Da Roma.

—E questa roba?

—Bottino di guerra. Hanno dato il sacco al Vaticano ed alle chiese. Quadri levati di là. Dicono che queste vecchie tele abbiano valore. Io preferirei, se fossi Napoleone, una botte di quel vino soave che beve il Papa. Anche questi libri vennero presi in Vaticano. Pesano quintali e non capisco il valore che hanno.

Gli si stringe il cuore. Bottino italiano che va all'estero. Le cose più belle d'Italia che vanno a finire a Parigi.

Povera Italia! egli prova un dolore infinito, come se gli avessero catturato la mamma; povera vecchia mamma; riposa da anni nel camposanto! se glie l'avessero derubata, portandole via i vestiti ed i pochi gioielli, per adornare con quelli una donna, che gli era stata sempre nemica, che egli doveva odiare.

Bottino italiano!

Non hanno preso a lui quelle cose; le hanno prese a Roma, e Roma è Italia, come è Italia Venezia, Loreto, Firenze, Siena e le cent'altre città, che il francese possiede, che il francese saccheggia.

I carri sono senza numero; sono dieci, venti, trenta, quaranta almeno; tutti sì onusti che stentano a procedere.

I quadri ne soffrono. Arriveranno, in parte guasti al destino. E poi il carradore gli narra di certi scartafacci buttati via lungo la strada, per alleggerire i carri; di certi volumacci bruciati di notte per mancanza di combustibile e coi quali era stata preparata la cena; di qualche quadro di minor mole venduto.

Ve ne erano tanti quadri sui carri; nessuno li aveva contati, nessuno li avrebbe numerati. Uno di più, uno di meno. Ed egli piangeva su tanto sperpero, su questi danni incalcolabili, e pensava che quei furti erano in buona parte inutili, perchè non giovavano neppure alla Francia; parte del bottino veniva sciupato per via.

Povera Italia! E nessuno alzava la voce alla sua difesa.

Ma che cosa è quella vettura, che avanza in rapida corsa? È così semplice, così umile; viene trascinata da due cavalli veloci, cambiati all'ultima posta e agli sportelli cavalcano due dragoni francesi.

I carradori piegano le ginocchia e tendono le braccia verso la vettura.

Egli vede in quella tre uomini, due preti, in veste nera, uno dei quali dal volto cereo, spiritualizzato, colle stimmate di un dolore infinito, mentre di fronte a loro siede un ufficiale francese, serio, duro, istecchito.

—Chi? domanda.

—Il Papa.

Egli pure s'inginocchia, tende le braccia verso la carrozza e grida:

—Santo Padre, beneditemi.

Un soave sorriso abbellisce le pallide labbra del vecchio prete dai dolcissimi lineamenti; ed egli alza la scarna destra benedicendo, mentre l'ufficiale francese fa un gesto di rabbia; è sdegnato delle riverenze che dovunque si fanno al Papa, dell'entusiasmo che desta.

Il Papa vien condotto prigioniero in Francia, perchè non ha voluto piegarsi all'onnipotente volontà di Napoleone; perchè lui, unico sulla terra, gli ha saputo resistere in nome della Chiesa e del popolo; perchè ha osato ricordare a Napoleone, che egli pure ha il suo superiore, quel Dio, al quale tutti devono rendere conto del proprio operato.

I carradori gli parlano con entusiasmo del Papa. Sono italiani e perciò apprezzano il gran Pio; e gli raccontano di un altro Pio, che riposava nell'umile cimitero di Fontainbleau, dove era stato tenuto pure in dura prigionia, per non aver voluto piegarsi avanti a Napoleone, tradire la causa della Chiesa, dei fedeli di Roma e degli italiani.

Procede a lungo, silenzioso, meditando quanto ha visto e udito; e corregge sempre più antiche idee inveterate, che ora vede in tutta la sua falsità; sempre più si convince, che la Chiesa è la sola vera amica d'Italia; che essa sola la ha aiutata in tutti gli eventi e nelle maggiori necessità; che quando il mondo intero tradiva il popolo, abbandonava le masse e non si curava d'Italia, la Chiesa era là, vigile alla loro difesa…

VII.

Rivoluzione!

I.

Ode un tumulto immenso. Dove si trova? Non più sulla via, che conduceva dalla sua casa, svaligiata dai francesi, alla cittadella, dove voleva porgere denunzia al generale francese e chiedere giustizia. Non camminava sulla strada polverosa, a fianco di una fila interminabile di carri, onusti del frutto delle ruberie francesi, del bottino, che essi avevano fatto a Roma e che portavano a Parigi; ed invece del rumore dei carri questi urli, questo fracasso, scariche di fucili, lo schioppettio nefasto e lugubre delle mitragliatrici, urli di rabbia, di dolore, ed il rombo minaccioso del cannone.

Che è avvenuto? Balza dal letto. Già. Ha sognato.

La realtà invece si è, che la tanto sospirata rivoluzione sociale è finalmente scoppiata.

Egli ne gode. È ora, è ora! È giusto che il popolo, sfruttato dai secoli, finalmente si sollevi e si vendichi. Bisogna distruggere l'antica mole dello stato aristocratico, borghese, succhione, socialista ufficiale e ricostruire, su quelle rovine, la società.

Egli l'aveva sospirata tanto la rivoluzione sociale, l'aveva preparata, ne aveva propagandato l'idea. Non era egli forse uno dei capi del movimento comunista? Ma non aveva pensato che essa fosse scoppiata così presto, ed era adiratissimo, che era scoppiata a sua insaputa, senza il suo ordine. In ogni partito deve regnare l'ordine, e quanto maggiore l'ordine e lo spirito di ubbidienza, tanto meglio procede il partito.

Egli era uno dei capi del comunismo; avrebbero dovuto attendere che egli avesse dato l'ordine di ribellarsi; che il segno della rivoluzione fosse partito da lui, od almeno avrebbero dovuto agire di suo accordo. Ed invece?

La rivoluzione è scoppiata. Egli è così felice! Si veste in fretta e corre alla finestra. Già la città è in piena sommossa. Ecco gente che corre, che fugge, terrorizzata; ode il lontano rombo di scariche di fucile e di mitragliatrici. Questo rombo poi, così cupo, così funesto, che cosa è mai? Un cannone? Ma i rivoltosi non hanno cannone. Dunque i soldati! Il governo borghese ha inviato le truppe contro i rivoltosi e questi ricorrono al cannone contro i cittadini? Governo maledetto! Egli sente uno sdegno infinito contro il governo, che cerca di ritardare la propria rovina; che osa mettersi alla difesa; che ha l'ardire di puntare le armi sui rivoltosi.

Ecco una compagnia di guardie regie che procede a passo di marcia, col fucile in pugno, pronte alla scarica. Dove vanno? Ma tò! Da una casa vicina vengono lanciate alcune bombe. Egli ne vede le proiettorie luminose; quello sembra un filo d'argento che scende rapido dall'alto; una nube di fumo; urli strazianti, d'infinito dolore; e poi la nube si dilegua; ed egli vede il suolo rosseggiante di sangue; vede cadaveri, vede feriti, che si contorcono tra gli spasimi più atroci, e sente una grande gioia per lo scoppio di una bomba, per quella rovina, perchè essa ha ucciso parecchie guardie, schiavi venduti al governo, i maggiori nemici del popolo.

Non è quella la casa dove abita Beppe storpio? Le bombe le ha lanciate lui, l'anarchico fanatico, traboccante d'odio contro la moderna società; lui, l'impulsivo; lui, che non volle mai ragionare, che voleva soltanto agire, persuaso, che unico mezzo per giungere all'attuazione dei grandi ideali del popolo è la bomba ed il pugnale. Egli gli aveva proibito le tante volte di ricorrere alle bombe; il tempo non gli sembrava ancora maturo per la grande rivoluzione sociale, ma Beppe storpio s'infischiava di tutti.

Aveva fatto bene a gettare la bomba sui carabinieri. Ma le conseguenze? I carabinieri rimasti in vita, e sono i più, non sono fuggiti, ma cercano di penetrare nella casa, donde sono uscite le bombe; fanno violenza all'uscio; questo cede; entrano. Dall'alto non scendono altre bombe. Beppe non ne ha certo delle altre.

Come procede la grande rivoluzione, promossa e fatta scoppiare contro la volontà dei capi? vuole dirigerla, per averne il merito se riesce, per assumersi la responsabilità se non riesce. Certo, non l'ha voluta; la ritiene anzi prematura; ma non sarà mai, che egli, in un momento si critico, separi la propria responsabilità da quella delle masse anarchiche. Con loro sempre, anche quando errano. Dirà: Approvo la rivoluzione, abbenchè non l'abbia voluta e debba condannarla come prematura.—Ma riuscirà, ma deve riuscire. L'aria è satura di anarchia.

Esce di corsa di casa e passa sulla via, dove viene quasi coinvolto dalla fiumana di gente che fugge, che scappa, che si rintana nelle case, che urla spaventata, che implora soccorso, che invoca le guardie regie, i carabinieri.

Egli sente una grande nausea di questa gente. Come? questo è il popolo oppresso, che egli vuole liberare dal giogo di un governo maledettamente borghese; questi vili, i quali, ora che viene la redenzione, non la vogliono, la rifiutano, ed allontanano sdegnosi la mano amica che porta loro un sollievo? Oh! se non fosse la grande causa, l'ideale! Questa gente non sarebbe degna del suo lavoro, del suo interesse, del suo grande e nobile sacrifizio.

Continua nella direzione dalla quale vengano le scariche, del teatro della lotta.

Gente corre ancora sempre, spaventata. Passa in vicinanza di una chiesa; la porta è spalancata e dal suo interno giunge a lui un rumore di voci che gridano, urlano, schiamazzano. I maledetti borghesi ed i socialisti ufficiali hanno certo approfittato della rivoluzione per saccheggiare le chiese e riversare la colpa sugli anarchici. Egli odia la religione e le chiese, che vorrebbe distrutte; ma non è questo il modo di procedere; non è così che si promuovono gl'interessi dell'anarchia. La rivoluzione deve procedere seria, dignitosa.

Entra.

La chiesa è profanata. Al suolo giacciono alcuni cadaveri; due, tre uomini sono intenti ad impiccare un prete ad una colonna dell'altare maggiore, mentre altri saccheggiano, rubano ad una statua della Madonna gli anelli d'oro, le gemme, i cuori di argento; altri fanno man bassa sugli altri altari; hanno scassinato il tabernacolo, versate le particole, che coprono il pavimento quali fiocchi di neve, e due, quattro, cinque si accapigliano per il possesso della pisside.

Egli stenta a prestar fede ai suoi occhi. Gli scassinatori, i ladri, non sono grassi borghesi, non socialisti e neppure la teppa, che approfitta della rivoluzione per sfogare le proprie passioni, ma i suoi anarchici, i più caldi aderenti delle teorie più azzardate.

Egli freme dallo sdegno,

—Vergognatevi!—esclama.

—Vergognati tu!—è la risposta

—Così si risponde ad un capo?—domanda fremendo.

—Che capo d'Egitto! È suonata l'ora per tutti i capi, gli autoritari, gli czar: per tutti, per tutti! Anarchia! Anarchia! Comandano tutti!—urlarono.

—Desistete da questi delitti!… Non comprendete, che in tal modo disonorate il partito?—esclama, ma nessuno l'ascolta.

—Via! via—gridano molti, ed egli si vede investito, minacciato. Comprende che ha perduto il dominio di loro; che non sanno, che non vogliono ubbidire, ed esce addolorato, scoraggiato.

Continua nella direzione di quelle scariche. Vede palazzi messi a sacco; anarchici, i quali, invece di combattere, cercano di mettere in salvo il bottino; hanno predicato teorie comunarde; hanno dichiarato che la proprietà è un furto, che tutto è di tutti; hanno affettato il maggior disprezzo della proprietà, tanto individuale come collettiva, ed ora che la rivoluzione è scoppiata non badano ad incanalarla ed a promuovere il trionfo all'idea, ma a fare bottino.

Li rimbrotta.

Rispondono con scherno.

Impone loro di desistere dal saccheggio.

—Libertà per tutti. Viva l'anarchia! Ognuno può fare ciò che gli talenta!—

Impone loro di combattere piuttosto per il trionfo dell'idea.

Gli rispondono con una sghignazzata. Preferiscono saccheggiare e fare il bottino al portare la pelle al mercato.

Il rossore copre le sue guancie. Questo è il frutto di lunghi anni di educazione anarchica? Egli si era lusingato di aver condotto i suoi verso l'ideale ed invece comprende, che le sue dottrine non furono bastanti per uccidere la bestia nell'uomo; che gli antichi istinti sono divenuti più forti di prima: lo spirito di finzione, la viltà, il desiderio di mettere in salvo la pelle, ed in modo speciale la brama del possesso, il desiderio di accumulare ricchezze…. Comprende, che ci deve essere una mente che diriga, che guidi e comandi, e freme dallo sdegno, che nessuno gli voglia ubbidire, e che perciò l'ideale degeneri….

Continua la corsa; ecco una chiesa che arde; ecco parecchi cadaveri che penzolano dai fanali: un prete, due suore, un carabiniere, una guardia regia, qualche borghese. Non ne piange la morte: se la sono meritata; ma quello non è il tempo di fare giustizia; questa si farà di poi; è tempo di lotta! e continua…

Eccolo investito da una fiumana di gente che viene nella sua direzione; sono uomini, sono giovani, in parte feriti, colle mani lorde di sangue, in preda ad una grande rabbia, ad un forte sdegno, ad un'immensa paura. Li ravvisa. Sono dessi. L'avanguardia anarchica, che egli ha educato, ha entusiasmato, ha riempito di sete di sangue, di desiderio di rivoluzione. Hanno lottato contro l'esercito e vennero messi in fuga dal cannone, dalle mitragliatrici, dai fucili.

Lo vedono, lo riconoscono, lo minacciano.

—Maledetto! Tu sei la causa di tutto!—e lo trascinano seco nella fuga.

Egli cerca di scolparsi.

—Non sono stato io! Vi ho proibito di passare alla lotta.

—Non accettiamo nè comandi nè proibizioni da nessuno.

—Vi ho detto che i tempi non sono ancorai maturi.

—Viva l'anarchia!

—La colpa la avete tutta voi!

—Tu! Tu! Maledetto, maledetto!

E quelle turbe, briache di sangue, piene di sdegno e di livore, avide di sfogarlo sopra qualcheduno, desiderose di trovare un capro espiatorio, sono liete di poter sfogare su di lui la loro rabbia, il loro sdegno; egli viene maltrattato, battuto, percosso; cento pugni lo minacciano; molti cadono fitti, fitti, sul suo corpo; egli ne sente il dolore; grida, urla, strilla, cerca di parare i colpi, ma non riesce; si professa innocente; gli rispondono colle risa e finalmente lo atterrano. Stramazza al suolo e sopra di lui passano i fuggiaschi calpestandolo, senza misericordia, finchè perde i sensi.

II.

Rinviene. Soffre indicibilmente; ha tutto il corpo pesto. Apre gli occhi ma non vede nulla. Il buio è fitto.

Notte? Ma prova un dolore infinito agli occhi, e sente che sono bendati; la benda gli preme la fronte; vuole muovere le membra, ma tutte sono fasciate, bendate.

Dove si trova?

Ricorda il passato; ricorda quelle scene truci; ricorda il modo crudele, nel quale è stato buttato dai suoi; ricorda e freme.

La rivoluzione è riuscita? I rivoluzionari sono rinsaviti; si sono convinti, che egli era un loro benefattore, che dovevano il trionfo a lui; lo hanno raccolto, lo hanno medicato con amore; oppure? oppure?

Prorompe in un grido. Ode un rumore di ciabatte ode una voce senile, carezzevole che gli dice:

—Non si agiti! Il medico non lo permette.

—Dove sono?

—Presso amici.

—Anarchici?

—Ella è anarchico?—domanda la voce.

—Uno dei capi. Abbiamo vinto.

—Calma, calma! Non si agiti. Il medico vuole la calma. Il suo stato è gravissimo; ma ne uscirà, purchè non si agiti—disse la voce.

—Non vedo.

—Le abbiamo bendati gli occhi. È meglio. Sono ammalati.

Un brivido gli scorse per le vene.

—Sono cieco?—domanda.

—Speriamo…—dice la voce con esitanza.

—Sono dunque cieco, cieco!—urla, vedendo confermato da quell'esitanza il suo sospetto.

—Non sono medico. Speri—osserva la voce con imbarazzo.

Egli solleva le braccia piagate, fasciate, dolenti, e vuole strappare la benda, ma una mano l'impedisce.

—Non lo faccia! Abbia pazienza! Si calmi! ed intanto prenda questa pozione calmante—dice la voce, porgendogli una tazza.

Egli la respinge bruscamente.

—Come posso essere calmo se non mi risponde?—domandò.

—Chieda. Risponderò, purchè mi prometta di essere molto calmo.

—Mi dirà la verità?

—Glielo prometto, purchè sia però calmo; chè alla prima agitazione da parte sua non parlo più.

—Tiranno!

—È il medico al quale ubbidisco.

—La rivoluzione è riuscita?

—No.

—No?—domandò con accento di amarezza.

—Il governo la ha soffocata.

—Governo maledetto! Scorse molto sangue?

—Sì.

—Anarchico?

—Borghese in modo speciale.

Viene a rilevare a furia di domande, che gli anarchici hanno bruciato chiese e palazzi, rovinato e saccheggiato case, ucciso preti, frati, monache e molti, molti innocenti.

Non potè approvare un tale operato, ma non osò neppur condannarlo. I suoi fratelli nella fede.

—Ed il governo? domandò.

—Ha soffocato la rivoluzione.

—Quali misure intende di prendere?

—Non lo so.

Egli fa una pausa lunga, lunga, nella quale riflette.

I suoi ideali sono tramontati per sempre come si è spenta la luce dei suoi occhi. Non soffre soltanto perchè la rivoluzione non è riuscita; soffre di più, assai di più, per il disinganno che gli hanno recato i suoi, perchè ha scoperto che il popolo non è maturo per certi ideali; che l'anarchìa è un ideale troppo alto per la società odierna.

Il popolo sarà un giorno maturo?

—Ella è ancora qui?—domanda dopo una pausa.

—Sì.

—Dove mi trovo?

—Nel convento dei cappuccini. Nella piccola parte risparmiata dalle fiamme—è la risposta.

—Ella è dunque?—chiese spaventato.

—Un cappuccino. La chiesa è diventata pasto delle fiamme; una parte del convento pure: il guardiano e tre frati vennero impiccati e due morirono tra le fiamme. L'abbiamo trovato semivivo sulla via, vicino al nostro convento; cinque giorni fà…

—Cinque giorni! Da tanto tempo era privo di sensi!

—Si meraviglia che l'abbiamo raccolto e cercato di conservare la vita?—domanda il cappuccino.

—Sapete chi sono?—domanda. Forse non lo sapevano.

—Il loro capo. Lo sapevano.

—Perchè mi avete raccolto, me, il loro capo?—domanda.

—Perchè Egli lo vuole.

Non chiese altro e meditò la nobilissima risposta. Intuiva chi fosse colui, che aveva imposto la propria volontà a quei frati e per ubbidire al quale essi avevano soffocato l'odio e lo sdegno che sentivano necessariamente contro di lui e gli usavano misericordia, e gli sembrò che una voce gli dicesse: Non l'anarchia ma Lui, Lui solo, è la salvezza di Italia…

Si sentiva così stanco; sfinito; le sensazioni gli si sbiadirono.
Cadde in un sonno profondo…..

Il racconto

L'orologio a pendola battè le sei.

Il dormiente tirò un profondo respiro, aprì gli occhi, girò attorno lo sguardo smarrito e chiese a sè stesso:

—Dove sono?

Attorno a lui tenebre fitte; comprese però di trovarsi sul suo letto buono, nella sua stanza.

—Un sogno!—mormorò.—Ho sognato.

Godette un istante che quello fosse stato un sogno, ma poi continuò:

—Peccato che non fu che un sogno. Sarei morto la morte dell'eroe.

Dell'eroe?

Ma il suo passato anarchico, le convinzioni politiche, le sue antiche persuasioni? No, non sarebbe morto da eroe ma piuttosto da pazzo, da seduttore o da sedotto; certo da uomo che non aveva recato vantaggio ma grave danno all'umanità.

Meglio, molto meglio essere ancora in vita.

Volle allargare il braccio per chiudere la conduttura elettrica e per fare luce nella stanza. Era sempre molto mattiniero; ma poi pensò:

—È l'ultimo giorno della mia vita. Vale la pena alzarsi e mettersi allo studio, al lavoro? Studiare? Che cosa e per chi? E lavorare? Aveva scritto il suo testamento politico; aveva disposto di ogni suo avere; aveva già confezionato le bombe e quel giorno, gettandole, avrebbe recato il maggior servizio alla patria, all'umanità. Voleva godere, per qualche istante ancora, le dolcezze del letto.

Vere dolcezze, che gustava di nuovo, dopo anni, proprio oggi, nel giorno del suo eroismo e forse della sua morte. Già, della sua morte, perchè egli ha da gettare le bombe; le getterà in chiesa e, se ben ci pensa, le getterà in modo da venir sconvolto anche lui dalla rovina e da morire assieme alle sue vittime. Il partito anarchico locale ha bisogno di un martire ed egli sarà questo martire. Il suo ricordo servirà agli altri di sprone alla propaganda anarchica, li persuaderà d'imitarne l'esempio, di fare la rivoluzione sociale; e poi egli non vuole dare a questo maledetto governo borghese il gusto di catturarlo e di condannarlo. Temeva che i giudici lo avessero dichiarato irresponsabile oppure avessero chiesto una perizia medica; che lo avessero sottoposto a lunghi esami minuziosi, a misurazioni di cranio, a studi del suo angolo facciale, delle protuberanze del suo cervello e lo avessero umiliato così negli occhi delle masse. Temeva che gli avessero dato qualche anno soltanto di carcere. La prigione non basta alle masse; esse vogliono la morte dell'eroe per onorarlo. Silvio Pellico si sarebbe assicurato maggior fama se lo avessero impiccato, invece di mandarlo allo Spielberg. Non avrebbe scritto Le Mie Prigioni, ma l'Italia lo avrebbe venerato qual martire, mentre oggi lo dimentica.

Già. Morire nel lancio della bomba, in chiesa, assieme ai preti, che avrebbe ammazzato all'altare, ai preti, ciurmatori, imbroglioni, falsi, bugiardi, correi sempre e causa prima di spesso di tutto il male che colpisce il mondo, e dei fedeli, così sciocchi o cattivi da lasciarsi sedurre dai preti.

Dura lezione, ma una lezione necessaria: avrebbe reso attenti i preti a non abusare del luogo santo; a non servirsi della religione, impasto d'infinite bugie, per tenere il popolo schiavo, supinamente schiavo dei ricchi: li avrebbe resi attenti, che neppure la chiesa concedeva loro sicurezza; che l'idea anarchica sa penetrare financo nel tempio e non si arresta neppure davanti all'altare; e i devoti avrebbero incominciato ad evitare le chiese, ora che queste offrivano loro simili doni.

Le campane invitavano i fedeli alla chiesa. Ce n'erano tante Messe il giorno di Natale. I parroci non avevano bisogno di andar a mendicare una Messa di qua, di là, per completare l'orario; e le campane suonavano, ed invitavano i fedeli ad accorrere alla Messa, perchè era nato Gesù.

Il suono delle campane gli diede più che mai sui nervi.

—Maledette campane—esclamò—e pensò con una gioia feroce al frutto di quel suono. I preti facevano suonare le campane per attirare i fedeli alle loro rappresentazioni sceniche, alle loro fatiche particolari di quella giornata, ed i fedeli ne ascoltavano la voce sonora. Quella voce doveva diventare però loro fatale. Quella mattina, alle dieci, nella cattedrale……

Le campane suonano, suonano, perchè è Natale.

Natale! Il mondo è ancora sì sciocco di festeggiare il Natale, ed anche Narciso Rossi, ier sera, si era lasciato sedurre da questo ricordo.

Narciso Rossi! Sarebbe venuto quella mattina, come aveva promesso, a prendere le due bombe? Non lo dubitava, abbenchè fosse sempre possibile che si fosse lasciato sedurre dalla poesia del Natale, Oh questa Chiesa cattolica! Egli sentiva di odiarla. A venti secoli dalla sua fondazione; antica come era; combattuta da tutte le menti più elette; dimostrata falsa nelle sue dottrine e perniciosa nei suoi effetti, essa suscitava tuttavia un fascino, che egli non si sapeva spiegare, ed al quale soccombevano molti. Le sue dottrine bugiarde; il suo simbolismo ridicolo, trovano ancora degli ammiratori, persone che le accettano e seguono, in pieno secolo ventesimo.

Bisognava farla finita col cristianesimo; faceva duopo distruggere questo errore micidiale, che aveva recato tanto danno all'Italia ed all'umanità.

Ma mentre è arrivato a questo punto nella sua meditazione, ricorda i sogni della notte passata.

Che notte, che notte! Non la dimenticherà mai più!

Ha vissuto, in un paio di ore, molti anni di vita, in varie epoche della storia d'Italia. Era stato principe africano, schiavo, condannato al Circo, e Nerone; agricoltore, lavoratore del dolce suolo natio, rivoluzionario comunardo.

Ricordava i sogni con una spaventosa chiarezza. Avevano durato pochi minuti caduno; l'orologio era là ad attestarlo; si era coricato la vigilia di Natale ad ora tarda, ed allora erano le prime ore del Natale stesso. Eppure egli ricordava quella serie di lunghi fatti; la fuga nel deserto, la cattura, la marcia, gli anni di schiavitù, la traversata del mare, i mesi passati come Cesare e come agricoltore. Quelli erano stati mesi e mesi di una vita fittizia, nel sonno, ma pure mesi e non istanti. Aveva fatto viaggi, per pensare soltanto ai quali si richiede molto del tempo.

Come mai una vita di mesi ed anzi di anni può venir ristretta nel breve spazio di pochi minuti?

Lo aveva chiesto a molti, ma nessuno aveva saputo dargli risposta. La vita del sogno è così misteriosa.

Ricorda la spiegazione datagli la sera innanzi da Narciso Rossi.

—La vita del sogno è qualche cosa di straordinario. L'anima vive allora, di spesso, mesi ed anni in un solo minuto secondo. Questo mi prova, che la sua vita è del tutto diversa da quella del corpo e che perciò misura il tempo in un modo diverso. Nella vita del corpo esso si misura da aurora a tramonto, a giorni, mesi, ed anni; nell'altra vita invece…

Una spiegazione che non spiegava nulla, perchè per spiegare un mistero ricorreva ad un altro mistero; per spiegare come nel sogno un evento lunghissimo non richieda che pochi secondi di tempo ricorreva ad un mistero, ancora più difficile a venir compreso; ricorreva ad un'anima spirituale ed immortale, diversa dal corpo e da lui così distinta, da poter vivere senza di lui, ciò che è un assurdo.

L'anima? Mai! Ed allora?

Proruppe in una risata breve, di scherno. Egli era pazzo, davvero pazzo! Distava di qualche ora dalla morte e si occupava della vita del sogno e di alta psicologia. Stava per piombare nel nulla e strologava su problemi, la cui soluzione era priva di un vantaggio pratico. Quale utile ne avrebbero avuto le masse dalla sua soluzione? Quale vantaggio l'anarchia?

Ma i suoi sogni?

Cercò di dimenticarli ma nol potè. Aveva sognato cose strane. Ma le poteva dire false? Non era forse vero quanto aveva sognato; non era la storia, la maestra della vita, là ad insegnare un tanto? La Chiesa, l'odiata Chiesa cattolica…

Non volle continuare. La conclusione era troppo spaventosa; non voleva, non poteva, non doveva ammettere, che la Chiesa cattolica…

Eppure…

Cercò di distrarre il pensiero; d'immaginare il tempio, pieno di fedeli, che circondavano l'altare, dove il prete celebra. Egli è passato tra la folla; chissà? lo crederanno pure un devoto e qualche beatella piangerà lagrime di commozione e loderà Dio che lui, un uomo, si trova nel tempio, ascolta la Messa e crede; prega e crede in questo secolo ventesimo, dove la fede e la preghiera sembravano diventate un privilegio delle donne, che il sesso forte abbandona loro incontrastato. Avessero saputo quelle beate ciò che egli stringeva al suo petto; che cosa sarebbe volato di lì a qualche istante nella chiesa.

Sorrise con scherno. I credenti asseriscono che Gesù è Dio e Figlio di Dio, onnisciente ed onnipotente, e che diventa presente nell'Ostia. Ma se davvero è là presente, come va, che non ignori ciò che egli porta sul petto, e se lo sa, perchè non lo impedisce? Col far scoppiare la bomba in chiesa egli prova che Dio non esiste, oppure, se esiste, nulla sa e nulla può; neppure difendere i suoi fedeli, i suoi ministri, la sua chiesa, sè stesso.

Questo pensiero dura un solo istante, chè poi la sua mente torna ad occuparsi dei suoi sogni. Cerca di distrarsi di nuovo. Come mai gli sono venuti quei sogni? V'è chi sostiene che il sogno è causato da qualche grande sensazione del giorno innanzi, oppure dallo stato fisico dell'individuo; ma egli non aveva mai pensato alle benemerenze della Chiesa, nelle quali non credeva, ed era da anni, che non pensava nè a Cartagine nè a Nerone o a Napoleone, a Filippo II, alla storia d'Italia, e fisicamente si sentiva così bene; digeriva bene; mangiava bene; beveva bene; non sentiva nessun malessere. Donde dunque quei sogni?

Ma più, assai più dell'origine dei sogni, lo interessava il loro contenuto; cercava di smentirlo; di convincersi, che quelle erano le pazze fantasie di una mente esaltata; ma non riusciva.

Non volle occuparsi più a lungo di quei sogni; ne temeva l'influenza. Chiuse la corrente elettrica; la stanza venne inondata di luce; balzò dal letto abbenchè facesse freddo, perchè non aveva la stufa ed il fuoco del caminetto, la sua specialità, era spento da ore, e si gettò nei suoi panni. Ma mentre si vestiva lo perseguitava il ricordo dei suoi sogni. Voleva smentirli. Diceva a sè stesso: Non sono veri! La Chiesa è stata sempre la maggior nemica dell'Italia ed anzi del genere umano. Ma una voce interna rispondeva:

—Tu menti, sapendo di mentire. Non è vero! non è vero!

Per fugare quei pensieri tuffò la testa nell'acqua diaccia della bacinella, ma neppure il freddo li cacciò.

Passò all'armadio, lo aprì e guardò le quattro bombe di bronzo lucido, bel giallo come l'oro caldo. Provò da principio un immenso piacere alla vista di quei terribili gingilli. Li aveva fatti lui; erano sue fatture; opera sua; egli li aveva saldati, li aveva costruiti con tanta pazienza, li aveva lucidati con amore; non dovevano essere soltanto micidiali ma anche belli; li aveva riempiti colla dinamite…. Fu, per un istante, fiero di questi lavori. Ed a dire che essi contenevano la morte di decine di persone; che sarebbero stati la grande voce dell'anarchia; un monito severissimo alla Chiesa, alla borghesia, al putridume strozzinesco, i quali avviliscono l'umanità.

Allungò il braccio, quasi per accarezzare quelle bombe micidiali, e specialmente una, la più elegante, a forma d'ovo, che egli aveva destinata per se stesso, che avrebbe lanciata in chiesa, avanti all'altare, per punire…

Chi?

…. per vendicare…

Chi?

Ed i suoi sogni gli si affacciavano imperiosi e gli dicevano:

—Mentitore! Inganni te stesso sapendo di essere nell'inganno. La Chiesa non è stata mai la nemica del popolo ne d'Italia, ma anzi tutelò sempre i diritti del popolo ed insorse a difendere l'Italia; s'interpose tra lei ed i barbari; e se l'Italia è tuttora faro di civiltà, lo si deve a lei!

—No, non è vero!—gridò angoscioso.—Tutto il male venne al mondo dall'altare, il maggior puntello del trono, che lo sostiene da canto suo.

Tutto il male viene dalla Chiesa e perciò…

Non potè continuare.

Aveva fatto da ragazzo il proponimento di non fare mai contro la luce. Non voleva respingere mai una verità riconosciuta, nè abbracciare mai un evidente errore. E nel momento stesso, nel quale la dottrina più cara, l'assioma più gradito, la teoria più desiderata gli sarebbe apparso errore l'avrebbe tosto abbandonato, perchè per lui la verità era superiore a tutto.

Quando poi era andato a militare nelle file dell'anarchia, aveva detto a tutti i suoi aderenti di questo suo proposito; lo sapevano tutti, che egli era passato alle file anarchiche per persuasione; erano fieri di averlo compagno e lo additavano agli altri partiti, come una grande prova della bontà del loro sistema.

—Se non fosse convinto, che l'anarchia è il miglior sistema e contiene la verità, non militerebbe nelle nostre file—dicevano.

Ed ora una voce lo rimproverava:

—Tu fai contro la luce.

—Pah! Per un sogno! per un sogno sciocco!

Chiuse l'armadio e consultò l'orologio. Le sette erano passate di poco. L'amico Narciso sarebbe venuto attorno le otto. Aveva tempo di prendere un caffè.

Passò alla finestra e aprì le invetriate, per poter spalancare le persiane. Una raffica di vento freddo entrò nella stanza. Di fuori il buio era ancora perfetto; il cielo gravido di nubi; il lastrico coperto di un alto strato di neve candida; le vie deserte. Per il momento non nevicava.

Chiuse rapidamente la finestra, cacciò una berretta di pelle in capo, tirò su il collare del pastrano, cacciò nelle tasche le mani inguantate, uscì dal suo piccolo appartamento, scese le scale e passò sulla via.

Il pensiero: tu scendi per l'ultima volta queste scale, gli sembrò così strano; lo fece trasalire.

Pensò: Non potrei lanciare ora la bomba e approfittare della confusione, che avverrà, per svignarmela? Era per lo meno probabile che avrebbe messo al sicuro la propria vita. Ma poi cacciò questo pensiero. Non voleva sembrare vile; non voleva che si fosse detto l'indomani: la bomba venne lanciata da uno dei nostri soliti avversari, gente vile, capace di commettere il delitto, ma incapace di sopportarne le conseguenze.

Giunse sulla via e l'attraversò. Era deserta.

Chi mai esce a quell'ora il giorno di Natale?

Il freddo era cane; la neve, dura, scricchiolava sotto i suoi piedi, che imprimevano in quella orme profonde. Giunse alla piccola piazza, dove c'era un caffè.

Era aperto. Attraverso le lastre, appannate dall'alito di chi si trovava entro, trapelava uno scialbo bagliore. Pose la mano sul saliscendi, aprì l'uscio ed entrò.

Il caffè era deserto; non v'era allora anima vivente. Chi mai va alla mattina di Natale, alle sette, al caffè? A quell'ora i più dormono ancora; e chi non dorme è in chiesa oppur prende il caffè a casa sua. I pochi frequentatori assidui del caffè nelle prime ore del mattino, operai ed impiegati, non ci vanno il giorno di Natale. Nessuno lavorava in questo giorno ed essi potevano custodire perciò un po' più a lungo le piume.

I camerieri sbadigliavano annoiati. Uno gli si fa incontro.

—Buon Natale!

Egli non risponde. Gli viene il prurito di protestare contro il saluto, contro il Natale, contro i gonzi, che ancora lo festeggiano, ma comprende, che ciò non avrebbe giovato. Ci voleva la rivoluzione ed il trionfo dell'anarchia, per cancellare ogni traccia di superstizione.

Si fece portare il suo solito caffè ed i giornali.

Fu di malumore al rilevare, che i giornali del mattino non erano usciti, in omaggio alla festa.

—Maledetto Natale!—mormorò tra sè e sè..

Il cameriere del suo tavolo gli domandò colla confidenza che concede una lunga conoscenza:

—Ha passato bene la notte di Natale?

—Ho dormito—fu la brusca risposta.

—Non è stato invitato a cena da nessuno; non ha atteso la mezzanotte?

Egli proruppe in una breve risata di scherno.

—Sono superiore a queste scioccaggini! Per me il Natale è un giorno come tutti gli altri, e la notte di Natale ho dormito e sognato, come in tutte le altre notti—rispose.

Il cameriere sorrise. Sorrideva sempre: Osservò:

—C'è chi ci tiene moltissimo ai sogni della notte di Natale.

Giovanni Giunti non rispose ma si occupò del suo caffè. Il cameriere comprese e si allontanò.

Vuotò in fretta la tazza. Non si sentiva ad agio in quell'ambiente pubblico, allora vuoto, sotto gli occhi curiosi dei camerieri sfaccendati, i quali lo osservavano come una rara avis, una bestia strana. Non voleva pascere, colla sua persona, l'altrui curiosità.

Fece un breve giro per la città silenziosa, alla luce grigia di un'alba, contrastata dalle dense nubi, che velavano il cielo, e poi ritornò a casa per attendere Narciso Rossi.

Erano le sette e tre quarti.

Che cosa aveva da fare; come ammazzare il tempo fino alle dieci, quando sarebbe andato alla cattedrale, per gettare la bomba tra i fedeli?

Girò irrequieto su e giù nella stanza da studio, tormentato dai suoi antichi sogni, il cui ricordo, strana cosa, non lo abbandonava. Aprì due volte lo stipo e lo rinchiuse. La vista delle bombe non gli faceva più piacere. Una voce interna lo rimproverava:

—Tu fai contro la luce. Ed egli sentiva, che la voce non aveva tutti i torti.

L'anarchia?

L'unica tavola di salvezza.

Gettare la bomba?

Era necessario

In chiesa?

Voleva attendere Narciso Rossi.

Il tempo passava, lentamente, molto lentamente, ma pur passava. Passano anche le ore delle maggiori angoscie, che sembrano interminabili, e quanto più interminabìle sembrò uno spazio di tempo prima d'incominciarlo o mentre ci si era dentro, perchè tempo di sofferenze, di dolori, d'ignominia, tanto più breve esso sembra di poi, quando è terminato, osservato alla serena luce di giorni lontani.

Vennero le otto e un quarto, la mezza, i tre quarti. Incominciò a diventare impaziente. Avevano pur deciso di lanciare la bomba quella mattina!

Quanto più attende, tanto più si concretizza in lui un pensiero, e questo, si è: Attendere. Attendiamo, che la calma ritorni nel mio spirito.

Non era detto, che si dovevano lanciare le bombe proprio quella mattina. Non era neppur detto che dovevano venir lanciate. La direzione del partito, forte a parole e vile a fatti, aveva anzi deciso che non dovevano venir lanciate, che il loro getto avrebbe danneggiato la causa piuttosto di favorirla. Voleva dire a Narciso Rossi:

—Ti tengo legato alla tua promessa, ma oggi non è ancora venuto il giorno opportuno. È meglio attendere alquanto e fare i preparativi con maggior calma. Le lancieremo più tardi, in un giorno di maggior concorso, di gran folla, dopo di aver combinato le cose in modo da poter fuggire.

L'amico avrebbe accettato con voluttà la proposta, ed intanto egli avrebbe potuto riflettere; sciogliere le potenti obiezioni, causate dai terribili sogni; cercare prove per dimostrare, che la Chiesa è il maggior nemico dell'umanità.

Avrebbe continuato a vivere, per qualche giorno ancora. La vita non è spiacevole neppur per un anarchico. L'attuale società è la peggiore che immaginar si possa eppure non la si abbandona volentieri.

Ma un evento venne a turbare i suoi calcoli.

Erano le nove, quando bussarono.

—Chi può essere?—esclamò. La visita gli veniva importuna. Non poteva essere Marcello. Questi sapeva che c'era il campanello elettrico; non la domestica la quale aveva le chiavi dell'abitazione, per poter venire quando le sarebbe parso bene. Una visita la mattina di Natale; in quella mattina così brutta, così piena di vento, di neve, alle nove?

Andò all'uscio e lo aperse. Gli si presentò la faccia rossa di un fattorino, dal grosso naso a peperone, che brillava di una luce rossastra, intensa, e dall'alito, che puzzava di alcool. Il fattorino aveva fatto già il sacrifizio mattutino a Dio Bacco. Tra le dita, coperte da un paio di guanti di lana, una volta grigi, ed ora coperti di sudiciume, egli teneva una lettera.

—È lei il signor Giunti?—domandò.

—Chi manda?

—È lei o non è lei?—insistè il fattorino

—Date qui.

—È lei o non è lei?—ripetè il fattorino, il quale aveva fatto delle libazioni durante tutta la notte e non sembrava disposto a cedere la lettera senza aver prima risposta a quella domanda.

—Sì—rispose l'anarchico, che si era accorto dello stato anormale del fattorino.

—Prenda—rispose questi soddisfatto, dandogli la lettera.

—Chi manda?—insistè Giunti da canto suo.

Il fattorino rise.

—Un uomo in calzoni.—rispose.—Matta idea la sua. Mi diede la lettera qua, sulla strada. Buona idea la mia di appostarmi il giorno di Natale. Cioè. Non mi era appostato. Ero stato a Messa Diamine. Ci vado a Natale ed a Pasqua. Non sono mica un cane io. Eppoi ero andato a bere un bicchierino. Tempo cane, signori. Loro signori non sentono l'inverno. Hanno una bella abitazione, mangiano bene, bevono meglio, sono ben vestiti. Ma verrà il giorno, sa! Non sono anarchico io! il ciel mi guardi! Ma verrà il giorno; deve venire il giorno..!—esclamò il fattorino, e i suoi piccoli occhi lustri, brillavano di una luce strana, tra il minaccioso e l'allegro. Egli assaporava già ora le gioie di quel dì, vicino o lontano, ma che doveva certo venire, nel quale sarebbero state livellate le condizioni sociali ed egli avrebbe potuto passarsela come i signori, liberi questi di fare i fattorini se credevano, e magari di mendicare.

Giunti non dimenticò di essere anarchico. Volle fare un po' di propaganda alle sue persuasioni, e disse perciò:

—Il giorno è vicino!

Stupore del vecchio.

—Lo dice anche lei?—domandò.

—Sì.

—Allora si farà tutto a parte?

—Tutto sarà di tutti.

—Ella, un signore, lo dice?

—Ne sono convinto ed anelo, ed anelo il momento.

Il fattorino rise. Il suo riso era ironico. Il popolo ha un'ironia sublime.

—Se il signore vuole può affrettare quel momento. Si decida. Io sono disposto di accettare tutto. Mettiamo in comune la sua abitazione. Sono pronto di entrare subito—disse.

Una leggera nube velò il volto di Giunti. È questa la solita obiezione che i non anarchici fanno a chi professa queste dottrine.—Voi siete anche comunardi. Ebbene: Procedete coll'esempio.

—Lo farò, quando lo faranno tutti. Per guarire la società è necessario che il capitale sparisca, che spariscano i superiori, le autorità, le leggi, e che tutto diventi proprietà di tutti—osservò.

Il fattorino rise.

—Così lo dicono tutti. E mentre l'uno attende che incomincino gli altri, noi si muore di fame e di freddo—osservò.

Giunti sentì nausea di quell'uomo.

—Se spendeste un po' meglio il vostro danaro; se invece di ricorrere al bicchierino ed ai liquori vi compraste pane, non avreste da lamentarvi—disse.

Il fattorino rise.

—Non ho bisogno di lezioni—osservò.

Giunti prese la lettera e diede al fattorino una lira di mancia. Questi neppure ringraziò. La lira gli sembrava troppo poca cosa per un uomo, il quale si vantava comunardo e predicava venuto il tempo della divisione, nel quale tutto doveva diventare proprietà di tutti.

Giunti rientrò nella sua stanza calda, ben illuminata.

—Manda Marcello. Cosa scrive?—disse, osservando la soprascritta.

Gli venne un sospetto.

—Che sia davvero vile?—domandò a se stesso. Stracciò la busta e lesse le poche righe.

—Vile!—esclamò.—Davvero vile!

Il biglietto, scritto colla mano tremante, diceva:

—Non posso! Tanti innocenti..?

—Tanti, tanti innocenti!—motteggiò.

Innocenti? No, non erano innocenti. Erano correi; correi magari senza volerlo, senza saperlo; correi per l'istruzione sbagliata, ricevuta dai genitori, dagli avi; correi, perchè non avevano saputo sollevarsi in alto, a più spirabil aere; eppoi tutta la società era folle, era fiacca; aveva bisogno di una lezione.

Innocenti? Non lo erano; perchè frequentavano la chiesa, i passeggi, perchè facevano sfoggio del loro lusso, perchè erano borghesi, perchè volevano che sopravvivesse una società avariata, perchè volevano conservare le disuguaglianze sociali? Ma anche se fossero stati innocenti, il mondo è fatto così. La natura non bada nè agli innocenti nè ai rei; sacrifica quanti occorrono venir sacrificati, per il raggiungimento dei propri fini; il falcone e l'aquila fanno allo stesso modo scempio della pacifica gallina e del superbo tacchino, il falcone divora egualmente il passero, così dannoso, e il rosignolo canoro, e gli uragani schiantano l'inutile pioppo e la quercia, il melo, il pero, il susino ed altri alberi, così utili alla vita.

Innocenti? La sua era opera necessaria e purificatrice; si trattava di ricostruire una società nuova sulle rovine dell'antica; e questa non volendo crollare da sè andava atterrata. Non era per colpa sua se nel suo crollo essa avrebbe schiacciato e seppellito sotto le macerie anche qualche innocente. Egli non voleva che il bene altrui; non era per colpa sua, se, per ottenere il bene, doveva schiantare coloro che vi si opponevano.

Narciso Rossi si rifiutava. Vile! Vile! Già; il Natale; la pazza poesia della sacra notte. Egli l'aveva passata coi congiunti, alla luce di qualche albero, scioccamente ornato di fiori e di lumi; aveva udito il canto di inni e canzoni natalizie, e si era commosso. Vile, vile!

Non pensò, che qualche minuto prima aveva deciso di non gettare la bomba; di rinunziare, per il momento, a quell'atto di vendetta sociale; di dire a Narciso, che avrebbe atteso tempi migliori. Non sentì che rabbia e sdegno per l'antico amico ed un'avversione grande contro di lui…

Che aveva da fare? Rimanere fedele alla decisione presa poc'anzi e procrastinare il getto delle bombe?

Ma che ne avrebbe detto Narciso Rossi?

Lo avrebbe giudicato egualmente vile; oppure avrebbe pensato che non si poteva fare senza di lui; che egli, Narciso, era indispensabile?

Avrebbe potuto rimproverargli la sua colpa?

No.

L'altro gli avrebbe potuto dire: Perchè rimproveri a me quanto dovresti rimproverare prima a te stesso? sei forse un bambino, che non osi agire da solo; che dipendi da me nel tuo operato? se io sono un vile, che mi sono rifiutato di gettare la bomba, lo sei tu pure. Era proprio necessario che due scoppiassero allo stesso tempo? Non bastava una sola, la tua?

Potenza dell'orgoglio umano, di un falso amor proprio, della tema di venir giudicato male! Egli mutò rapidamente pensiero. Aveva deciso di soprassedere a quel getto; di attendere un istante più opportuno. La sua prudenza gli aveva suggerito questo. Aveva preso questa decisione dopo un esame maturo e prudente, ed ora bastò quello scritto, bastò la tema di venir creduto vile, per fargli mutare pensiero.

—Non avrà il gusto di rimproverarmi la sua viltà!—disse, e prese la rapida decisione di attuare il suo progetto e di diventare, quella mattina ancora, assassino e omicida.

La ragione gli diceva: Attendi, attendi! Ma egli ne faceva tacere con violenza la voce.

La coscienza gli diceva: Bada che fai contro la luce; ed i suoi sogni si ergevano maestosi, terribili, avanti a lui e gridavano: Tu agisci male; tu inganni la tua coscienza; la Chiesa non ha mai avversato la vera libertà, non è nemica d'Italia.

Il suo falso amor proprio fece tacere anche questa voce. Non gli riuscì di ridurla al silenzio; pure la soffocò dicendo a se stesso: Non essere vile!

Prese posto al tavolo e scrisse a Narciso Rossi. Gli scrisse parole molto amare, di grande rimprovero per la sua viltà senza nome.

Vile, che non sai mantenere una promessa!

Vile, che non sai sacrificarti per un ideale!

Vile, che paventi le conseguenze di un'azione, che riconosci doverosa e giusta!

Vile, vile! Ora e sempre vile!

Sii maledetto, da chi va a morire per il suo ideale; va a morire solo, perchè ti rifiuti; va a morire colla certezza, che il suo sacrifizio non porterà lo isperato frutto, perchè tu gli neghi la tua cooperazione!

Vile! Disonore del partito; sii maledetto!

Chiuse la lettera in una busta, vergò la soprascritta e l'abbandonò sul tavolo.

Dopo la sua morte l'avrebbero trovata e pubblicata.

Ne era lieto. Avrebbe procurato così a Narciso Rossi la maggior onta. I veri anarchici avrebbero disprezzato il traditore, e gli altri, i partiti dell'ordine, i borghesi, avrebbero lodato il giovane onesto, che si era rifiutato di commettere un delitto di lanciare una bomba, di macchiarsi di tanta colpa; e le lodi, l'approvazione delle autorità e dei circoli borghesi, già avrebbero recato un'onta ancora maggiore del biasimo dei suoi antichi consenzienti.

Narciso Rossi era spacciato. Non gli rimaneva che il suicidio.

Sogghignò a questo pensiero. Consultò l'orologio. Erano le nove e mezzo. Doveva spicciarsi se voleva arrivare nella cattedrale a tempo.

Aprì l'armadio, levò la bomba sua, l'accarezzò, la baciò e la celò sul petto, sopra il cuore. Indossò il mantello di uscita, tirò alto il collare, cacciò la beretta fin sugli occhi e uscì di stanza.

Chiuse l'uscio della propria abitazione.

L'abbandonava per sempre.

Chi ci sarebbe andato ad abitare? Che se ne curava? Di chi sarebbero stati i suoi mobili? Che gl'importava? Aveva lasciato erede universale Gianni Carpi, il solo onesto fra gli anarchici; il solo veramente povero ed audace tra di loro, coll'incarico di usare dell'asse ereditario soltanto per scopi di partito, per diffondere l'anarchia.

Gianni Carpi avrebbe fatto un buon uso di quel danaro e del ricavato dei mobili; non avrebbe tenuto nulla per sè. Egli non dubitava della di lui onestà…

Giunse sulla via. Nevicava di nuovo, ed il vento impetuoso gli sbatteva la neve sul volto accecandolo quasi. Doveva procedere con grande cautela per non scivolare. Una caduta sarebbe stata disastrosissima; avrebbe causato lo scoppio della bomba, ed era questo che egli voleva impedire. Sacrificare la vita, sì, ma con costrutto. Abbenchè il tempo fosse brutto c'era della gente sulla via. Vide delle faccie allegre. La grande festa del Natale aveva riempito gli animi di letizia. Gente andava a fare certi piccoli acquisti nelle pasticcerie, i soli ambienti aperti nella sacra giornata; andavano a fare delle visite, andavano in chiesa.

Quei volti allegri gli davano sui nervi. Sentiva di odiare gli uomini; provava una grande nausea. Eterni malcontenti, protestavano continuamente contro la Chiesa, contro l'autorità, contro ogni sorta di tirannide; e bastava che la Chiesa, ricordando antiche favole, offrisse loro un giorno un po' diverso dagli altri, per far loro dimenticare il passato e renderli scioccamente, stupidamente felici. Valeva la pena sacrificarsi per simile gente: valeva la pena morire per loro?

Portò la mano al petto, alla bomba. Che avrebbe giovato il suo getto? Avrebbe esso scosso le coscienze e destato le masse; quello sarebbe stato il primo segno di una grande rivoluzione sociale, oppure?… Già; il suo eroico attentato sarebbe passato forse inosservato. Le masse non erano ancora mature.

Doveva attendere?

Oh, se non fosse stata quella infame lettera di Narciso Rossi. Ma ora non poteva assolutamente desistere. Nessuno doveva neppur lontanamente sospettare che egli fosse vile.

Giunse alla cattedrale. Le campane suonavano allegramente. Il Vescovo faceva il suo ingresso nella chiesa illuminata a festa e piena, zeppa di una folla festante.

Il vescovo! Uno degli oppressori delle masse. Quanto l'odiava! Non lo aveva veduto ancora mai; ora lo vedeva per la prima volta: un povero vecchio, dal volto di asceta, con un sorriso buono, paterno, sulle labbra, che procedeva ricurvo, schiacciato dal peso degli anni e dalle cure, dalle brighe, dalle fatiche del suo ministero; un vecchio buono, tanto diverso dall'immagine che egli si era formata di lui.

Si cacciò tra la folla.

L'organo cominciò a suonare e la Messa ebbe principio.

Vide i volti atteggiati a grande letizia. Comprese che quella giornata rappresentava per l'umanità un grande punto di riposo: era quello un giorno, nel quale il povero dimenticava per un istante le proprie miserie; l'operaio riposava dal lavoro snervante; il ricco scendeva al povero e ne comprendeva, per un istante, le miserie; un giorno di pace, di letizia per tutti.

Doveva egli turbare la serenità di quel giorno? Doveva portare la desolazione, la morte, in quel luogo di pace?

Oh, i suoi sogni! La Chiesa ha fatto sempre quanto stava nelle sue forze per il bene dell'umanità. Non era lei responsabile dei danni che le classi povere ed umili risentivano, nè dell'abuso di libertà nelle classi dirigenti, o dello squilibrio sociale.

Certo. La religione aveva fatto il suo tempo. Ma perchè non lasciarla morire in pace; perchè voler punire nella Chiesa gli altrui delitti?

Cercò di allontanare il ricordo dei suoi sogni.

La Chiesa è stata sempre il puntello dei troni; essa ha benedetto la guerra e sanzionato ogni sorta di ingiustizie sociali. Eppoi non poteva tollerare la taccia di vile.

La Messa ha incominciato.

Il venerando veglio è salito all'altare e lo avvolge in profumi che escono dal ricolmo incensiere.

Chi ha da colpire? Dove ha da lanciare la bomba? Nel presbitero? Ha da colpire il vescovo, i canonici, oppure la ha da lanciare in mezzo alla folla che ora?

Il vescovo è ritornato al suo trono.

Gloria in excelsis Deo!

Già! Dio! Dio! Non si pensa che al nume trascendentale e crudele, che risiede in cielo e non si cura nè si è mai curato dei propri figli, chiede da loro gloria e non dà loro in cambio nulla.

Il coro canta giulivo: Gloria, gloria in excelsis Deo!

Sono voci di fanciulli che scendono dall'alto della cantoria nella chiesa, accompagnate dal suono grave dell'organo e da alcuni violini, sapientemente toccati.

Le voci erano così dolci, così soavi, così carezzevoli. Sembrava udire il canto degli angeli nella notte di Natale.

Fuori imperversa la bufera; il vento scuote le gigantesche invetriate multicolori, attraverso le quali giunge scarsa la luce scialba di quella mattina; nel suo cuore imperversavano pure le bufere, ed intanto i fanciulli cantavano il loro Gloria in excelsis Deo!

Subentra un coro di uomini forte, solenne.

Et in terra pax….

Egli ride ironicamente.

Pace! Quale menzogna! Dal giorno della nascita del bambino ebreo ad oggi si ripete la bugiarda promessa. In terra pax! Ma quando mai venne pace alla terra?

Il coro continua:

Hominibus bonae voluntatìs.

Queste parole sono una rivelazione.

Pace agli uomini di buon volere!

Ed il mondo non vuole la pace! A chi si deve ascrivere la mancanza di pace?

Non ode altro.

Non è per la colpa della Chiesa e del Nume, se pure esso esiste, che la pace non regna sul mondo, ma per la mala volontà degli uomini.

Gli angeli annunziarono la pace. Non crede che furono gli angeli, ma l'annunzio fu dato. Si promise la pace ma si chiese in cambio buon volere Qual meraviglia, se gli uomini non avendo offerto la loro buona volontà non abbiano avuto la sospirata pace?

La pace? Poteva egli portare al mondo la vera pace, fondata su di una forte, ben sentita e ben radicata anarchia, se gli uomini non erano di buon volere?

A che cosa avrebbe giovato il gettito della bomba se gli uomini, ed i più bisognosi, i più reietti in modo speciale, facevano brutto viso all'anarchia e si rifiutavano di occuparsi della loro misera sorte e di cercare i remedi opportuni al loro male ed a quello della società?

Doveva gettare la bomba?

Non in chiesa.

Dunque sulla via; in qualche ritrovo di ricchi, di gaudenti, al caffè, in teatro?

Con qual profitto?

Urgeva qualche cosa di ben più importante. Bisognava organizzare le file anarchiche e fare la propaganda al vangelo dell'anarchia. Un libro anarchico, diffuso in migliaia di esemplari, avrebbe giovato assai di più di cento bombe.

Non doveva dunque lanciarla?

Narciso Rossi che cosa avrebbe detto? Lo avrebbe schernito, avrebbe raccontato a tutti la sua viltà, perchè egli, l'idealista, si era rifiutato di aiutarlo, per disciplina di partito, per stare agli ordini dei superiori, mentre l'altro, il ribelle, l'audace, non aveva trovato il coraggio necessario. Da vero bambino aveva bisogno di un compagno, e da solo non sapeva, non poteva fare nulla… Sentì uno sdegno infinito contro Narciso Rossi e la brama di punirlo. Voleva affrontarlo, giungere a lui, costringerlo ad uscire in sua compagnia, menarlo in qualche ritrovo e allora lanciare la bomba, per compromettere lui pure, per unirlo alle altre vittime e per fargli subire la morte del traditore.

Non ne poteva più in chiesa. Si fece largo tra la folla, giunse all'uscio e passò sulla via.

Il vento soffiava più forte che mai; la neve scendeva fitta; i passanti procedevano frettolosi; nessuno si curava dell'uomo, che portava sul petto la morte.

Un grido, un urlo. Una fanciulla è scivolata; fa degli sforzi immensi per tenersi in piedi ed urla dalla paura, dallo spavento di dover stramazzare al suolo, a rischio di rompersi le gambe e le braccia.

Egli le è vicino; ad un passo di distanza. Corre da lei per aiutarla. Essa getta disperata le braccia al suo collo, per sostenersi a lui: una fanciulla modesta, poveramente vestita. Dal collo le pende una medaglina della Madonna.

Povera fanciulla; la sua esile persona cozza col suo maschio petto sul quale riposa la bomba. Un rombo terribile, spaventoso, e sul suolo candido di neve giacciono due cadaveri insanguinati, sfracellati, orrendamente mutilati, sui quali scende fitta, fitta la neve, coprendo tutti e due, l'assassino e l'assassinata, di un candido mantello.

Candido per l'umile vergine, che era stata quella mattina alla Comunione ed ora si recava con un incarico della madre inferma dalla zia. Candido anche per lui, l'assassino, che era colpevole al cospetto degli uomini.

Lo era anche al cospetto di Dio?

La grazia aveva picchiato al suo cuore più volte, e specialmente quella notte nel sonno; ed egli le aveva fatto il sordo. Ma quante volte disprezziamo la grazia, perchè non la conosciamo, perchè ci hanno insegnato a non farne conto, perchè ci hanno educato male?

Quante volte tutta la colpa non l'abbiamo noi, ma essa è di coloro che ci hanno educato, dell'ambiente, di quel libro, che fu galeotto come chi lo scrisse?

Dio solo conosce tutto: l'ambiente nel quale ci troviamo e le cause del nostro traviamento.

Non dobbiamo perciò disperare della salvezza spirituale di nessuno e pregare per tutti.

Perchè, se è grande la giustizia di Dio, ben maggiore ne è la misericordia.

Quando noi abbiamo da agire riflettiamo alla sua giustizia; quando abbiamo da giudicare pensiamo agli abissi della sua misericordia infinita.

FINE.

INDICE

       Preambolo pag. 3
  I. Lo schiavo » 19
  II. Cesare » 41
       Primo intermezzo » 65
  III. Il monaco » 69
  IV. Rovine fumanti » 86
       Secondo intermezzo » 98
  V. Il signorotto » 101
  VI. Sulla via di Savona » 113
  VII. Rivoluzione » 120
       Il racconto » 131

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  CHAMPOL.—__Suor Alessandrina__—2^a edizione riccamente
    illustrata L.

NOTA del trascrittore: Sono stati corretti i seguenti refusi (tra [parentesi] l'originale):

felici attorno all'albergo[albergo], grate al Bambino Gesù per i bei Il cavallo, spronato[sprontato] dalla voce supplichevole del padrone, Gioia [giova] al pensiero di quell'eccidio, e gli sembrava di prima invincibili, da [dai] un pugno di nemici, inferiori di catene! Vivere, magari sorretti soltanto[soltando] dalla speranza Nessuno[Nesuno] si curò delle sue proteste. Volle opporsi. La non ve n'era nessuno. È facile cosa governare un impero[un'impero], corsa? È [E] così semplice, così umile; viene trascinata da speciale la brama del possesso, il desiderio di [dei] accumulare ma incapace di sopportarne le conseguenze[consegunze]. una società avariata[avareata], perchè volevano conservare presa poc'anzi e procrastinare[procastinare] il getto delle bombe?