The Project Gutenberg eBook of I misteri del processo Monti e Tognetti

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Title: I misteri del processo Monti e Tognetti

Author: Gaetano Sanvittore

Release date: May 26, 2008 [eBook #25605]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by Biblioteca Nazionale Braidense - Milano)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I MISTERI DEL PROCESSO MONTI E TOGNETTI ***

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I MISTERI DEL PROCESSO

MONTI E TOGNETTI

ROMANZO

di

G^no SANVITTORE

ROMANO

VOLUME UNICO

MILANO

Presso CESARE CIOFFI, Editore

Via S. Zeno, N. 7.

1869

Proprietà letteraria, a norma della legge 25 giugno 1863, N. 2337.

Tip Guglielmini.

MONTI E TOGNETTI

I.

Il prete di vettura.

V'ha in Roma una classe di preti diseredati, che non hanno alcuna parte nell'orgia dei lauti piatti e delle grasse prebende. Questi sciagurati vengono chiamati comunemente preti di vettura.

Per essi il maggior provento di lucro è quello che traggono dai mortori; e perciò a somiglianza dei corvi costoro fiutano l'odore dei morti, e calano a stormo sul fresco cadavere di un estinto.

La loro opera, tanto per l'associazione, come per la messa, viene appigionata da un sensale, che contratta a cottimo col sagrestano della parocchia, gli fornisce un dato numero di preti, e distribuisce a ciascuno di essi la dovuta mercede. La parte migliore del mortorio rimane naturalmente al sensale e al sagrestano; quelli che ne ricavano minor profitto sono i preti di vettura.

Questi preti traggono dunque una magra esistenza, accanto alle lautezze dei prelati e dei cardinali. Potrebbero paragonarsi al mendico che raccatta le briciole sotto la mensa dell'Epulone.

Un prete di vettura, fra i cinquanta e i sessant'anni, piccolo, magro, con un viso da buon uomo, su cui stavano dipinte le afflizioni di una vita stentata, il quale rispondeva appunto al nome di don Omobono, sgambettava per le vie di Roma, nella mattina del giorno 22 ottobre 1867.

Il suo cappello colle ale disfatte, il suo abito stretto e monco, le calze di un nero rossastro, e le scarpe scalcagnate attestavano lo stato poco florido delle sue finanze; mentre i lineamenti del suo volto smunto portavano l'impronta della timidezza e della rassegnazione.

Don Omobono entrò in una modesta casa della Longara, e salita una scala, bussò a una porta di povera apparenza.

—Avanti! disse dall'interno una voce di donna.

Il prete tirò la funicella che alzava il saliscendi, ed entrò, dicendo:

—Lodato sia Gesù Cristo!

—Sempre sia lodato! rispose una donna di età avanzata, dalle sembianze oneste, dall'aspetto pulito, la quale stava seduta presso una tavola facendo la calza.

Era una stanza meschina, ma posta in buon assetto.

—Signora Maria, soggiunse il sacerdote, sono venuto a incomodarvi…

—Anzi!… disse la donna. Don Omobono, accomodatevi.

—Sono venuto per quella messa che siete solita a far dire tutte le settimane per le anime del purgatorio.

—Bravo! appunto vi aspettava.

—Solamente… sarei a pregarvi questa volta di aumentare la elemosina… Non mi è proprio possibile dirla per venti soldi, bisogna che me ne diate almeno ventidue. Se sapeste in che panni mi trovo!…

—Cosa volete che dica?… anch'io sono poveretta… ma ve li darò…
Capisco che anche voi dovete campare.

—Si campa malamente, signora Maria! E poi con questa paura in corpo!…

E don Omobono accompagnò con un profondo sospirone quella espressiva reticenza.

La signora Maria sospese il suo lavoro, e guardando in faccia il prete, chiese con ansietà:

—Che c'è di nuovo quest'oggi?

—C'è di nuovo che questi spiritati garibaldini si vanno avvicinando alle porte di Roma: questa mattina stando a Porta del Popolo si sentivano le cannonate dalla parte di Ponte Molle. Se fanno tanto di passare il ponte, siamo belli e fritti; santa Vergine, che mai sarà di noi?

—Non vi spaventate poi tanto, don Omobono! E che credete? che i garibaldini entrando in Roma vorranno farvi del male? Scacciatevi dalla mente queste idee; essi non vogliono infin dei conti far altro che abbattere il governo del Santo Padre. Ma che vogliano commettere delle stragi e degli assassinii, questo non è possibile.

—Per me, signora Maria, non mi ci fido punto. In questo momento piuttosto che essere in Roma, vorrei trovarmi… che so io? al Perù, a Messico, e quasi quasi all'inferno, che Dio me lo perdoni. Solo il pensiero di vedere i garibaldini mi fa venire la pelle d'oca.

—Ma Garibaldi, sapete pure che non si trova cogl'insorti: egli è sempre a Caprera, dov'è guardato a vista.

—Ma con questi demoni ci sta però suo figlio, che sarà m'immagino un diavolo incarnato come suo padre. Domine! Domine! Libera nos Domine!

E così dicendo, don Omobono tutto tremante fece un segnale scongiuratore dell'esorcismo.

—Io torno a dirvi che vi calmiate, riprese Maria. Che cosa avete a temere voi che siete un povero prete infelice, che vivete si può dire di carità, e non avete mai fatto male ad alcuno?

—Oh questo poi è vero! non ho mai fatto male nemmeno a una mosca.

—Sono i cardinali, i prelati che devono temere, poichè per essi si avvicina il termine del potere e delle delizie mondane.

—Signora Maria! esclamò il pretoccolo, spalancando tanto d'occhi, anche voi! Che cosa mi fate sentire!

—Oh sì! lasciatemelo dire, proseguì la donna con maggior calore. Se tutti i sacerdoti fossero come voi, poveretto, che vivete a stento, e siete incapace di far del male, le cose della nostra santa religione andrebbero meglio. Sono i vizi dei cardinali, e della corte papale che hanno prodotti tanti scandali e tante eresie.

—Che cosa mi tocca sentire!

—Se volete dire la verità, don Omobono, pensate così anche voi.

In quella si aperse la porta ed entrò nella stanza un giovane sui ventidue anni: aveva una corporatura svelta, il volto melanconico, gli occhi vivaci; portava le vesti semplici dell'operaio romano. Quel giovane era il figlio di Maria, era Gaetano Tognetti.

—Mamma! mamma! esclamò egli, entrando in fretta, ed altro avrebbe aggiunto, ma quando vide il prete si oscurò nel volto, e tacque.

—Gaetano! soggiunse la madre. Che cosa volevi dirmi?

—Niente, niente; non serve, rispose Tognetti, che si era posto di cattivo umore, e andava guardando in cagnesco don Omobono.

Questi se ne accorse, e si levò in piedi.

—La non s'incomodi, sor prete, disse il giovane. Rimanga seduto.

—Oh no, signore! anzi me ne vado via. Signora Maria, vi riverisco.
Signor Gaetano!

—Le son servo.

La buona donna, levatasi in piedi, accompagnò il prete fino alla porta, e quivi prendendo la sua mano per baciarla, vi pose un cartocetto di soldi, che si era tolto dalla saccoccia.

—Don Omobono, mi raccomando alle vostre orazioni.

—Vi servirò indegnamente, rispose il prete, e se ne andò.

—Pare impossibile, mamma, che debba sempre trovarti con dei preti! disse Gaetano, quando fu solo con Maria.

—Quegli, vedi, rispose essa, è un buonissimo uomo, e son certa che le sue preghiere valgono qualche cosa presso il Signore. Ebbene, Gaetano, che cosa volevi dirmi? Sei entrato tutto ansioso!

—Voleva dirti, mamma, che ho avuto proprio adesso una bella notizia.
Garibaldi è riuscito a partire da Caprera, e in questo momento si
trova alla testa dei volontari. Anche uno sforzo ad essi saranno in
Roma. Però…

Il giovine s'interruppe.

—Però che cosa? chiese ansiosamente la madre. Perchè ti sei fermato?

—Non ti spaventare sai, non ti angustiare per quello che ti dirò; è bene che io ti prevenga, ma vedrai che tutto andrà bene.

—Oh Dio! spiegati dunque.

—Capisci bene che in questo momento decisivo la città di Roma non può restarsene inoperosa; sarebbe un'infamia eterna per noi altri romani, se non avessimo partecipato al movimento. È vero che c'è una grande quantità di romani là fuori fra i volontari, ma pure anche quei di dentro bisogna che facciano qualche cosa.

—Dunque si farà una rivoluzione! esclamò la madre di più in più atterrita. E tu vi prenderai parte! E rimarrai ferito… morto, fors'anche!… Ah no, Gaetano, per amor di Dio!…

—Ecco qua come sono le donne! L'ho detto io che ti saresti subito spaventata. Ho voluto prevenirti, appunto perchè non ti agitassi troppo. Non v'è niente d'aver paura; sai, non si tratta che di una semplice dimostrazione, si faranno quattro schiopettate, e…

—Ah!

La madre mandò un grido, che le partì dal cuore, all'idea del pericolo che avrebbe corso il suo Gaetano in una mischia.

—No, no, soggiunse egli, che avvedutosi dell'effetto che avevano prodotto le sue parole, voleva attenuarne l'importanza. No, voleva dire che si spareranno delle bombe… cioè no! insomma sarà l'affare di un momento. E vuoi che io, proprio io, sia colpito? Eh! non c'è paura!

Maria si asciugò tacitamente gli occhi pregni di lagrime, poi disse:

—Povere donne! ecco qua il nostro destino: facciamo dei figli, diamo loro il nostro latte, li alleviamo con istenti e fatiche, perchè poi si espongano a questi rischi, per vederli un giorno feriti… insanguinati… Oh no! Gaetano, no, insomma: tu non devi esporti a quel modo. Lascia che gli altri vadano, ma tu…

—Se tutti dicessero così non si farebbe nulla… bisogna bene che
qualcuno si esponga. Via, mamma, calmati. Tu pregherai la Beata
Vergine, e vedrai che non mi succederà niente di male. È venuto
Curzio?

—Non s'è visto ancora.

—Eppure non v'è un'ora da perdere! Esclamò Tognetti. Bisogna che intanto io vada…

—Dove? gridò Maria con ispavento.

—Qua vicino… a vedere un amico.

—Ah no! tu non vuoi ritornare.

—Ti giuro che devo veder Curzio qui a mezzogiorno; e mancano pochi minuti. Sta sicura che vado e ritorno sul momento.

Tognetti aveva appena finito di pronunziare queste parole, e strette le mani della madre fra le sue affettuosamente, stava per avviarsi, quando s'intese a bussare alla porta. Maria andò ad aprire.

Una signora dall'apparenza aristocratica, tutta vestita di nero, e col capo coperto di un velo, che scendeva a celarle la faccia, apparve sulla soglia.

II.

Il segreto di una madre.

Maria non si mostrò punto sorpresa della visita; pareva ch'essa aspettasse quella persona.

La signora sconosciuta si fermò sulla porta, e chiese piano a Maria:

—Chi è quell'uomo?

—Non temete, signora, rispose a bassa voce la povera donna. È mio figlio.

Poi siccome pareva che quella esitasse, aggiunse più piano:

—Entrate pure!

Mentre la signora si avanzava nella stanza, Gaetano meravigliato trasse in disparte la madre, e le chiese.

—Chi è quella signora?

Maria parve imbarazzata a rispondere, e mormorò fra i denti:

—È… una mia amica.

—Ohè mamma! soggiunse Tognetti in tuono faceto. Tua amica una signora di quello stampo! Se tu non fossi quella brava donna che sei, faresti pensare…

E sorridendo il giovane baciò la mano alla madre, e mosse verso la porta.

Maria lo fermò per un braccio, e disse con tuono espressivo:

—Dunque ritorni!

—Fra cinque minuti, rispose Gaetano. Anzi se viene Curzio gli dirai che mi aspetti.

—Pensa, replicò la madre, che mi lasci nella maggior angoscia.

—Non temere! disse Gaetano.

Poi, volgendosi alla signora velata, ch'era rimasta immobile in piedi, nel mezzo della stanza, la salutò chinando la testa.

—Signora!

Ed uscì.

Appena fu partito il figlio, Maria accorse accanto alla donna, dicendole:

—Perdonate, signora!

Questa rispose con un'amichevole stretta di mano, poi dopo aver guardato intorno, per assicurarsi ch'ella era sola con Maria, alzò il velo nero che le copriva il volto.

La principessa Rizzi ch'era dessa, era una donna, che sebbene avesse varcato il limite dell'età giovanile, conservava tutto il prestigio di una possente bellezza. La sua statura elevata, le forme statuarie, le trecce d'ebano, gli occhi eloquenti, il profilo veramente romano formavano un insieme che destava l'ammirazione, e imponeva il rispetto.

Gli anni non avevano recata una ruga su quella fronte maestosa, quelle labbra incantevoli conservavano tutta la freschezza dell'adolescenza.

—Perdonate! proseguiva Maria. In questi momenti io sono tanto angustiata! Sto in pena per la vita di mio figlio.

—Buona Maria! soggiunse la principessa. Il mio cuore comprende le angoscie del tuo: pel cuore non v'è distinzione di gradi sociali: il cuore delle madri è sempre lo stesso, lo ti trovo tremante per la vita di tuo figlio, e io venni appunto, perchè anch'io temo per la sicurezza del figlio mio. È necessario che io lo veda.

—Egli deve venir qui fra poco, rispose Maria. Ha un appuntamento con
Gaetano.

—Povera Maria! riprese la principessa prendendola per mano. Tu fosti una seconda madre pel mio Curzio; tu gli hai dato il tuo latte, gli hai prodigate le tue cure. Quanto debbo esserti riconoscente! Ma dimmi: egli ignora sempre chi sia la madre sua?

—Sempre. Io gliel'ho tenuto occulto questo segreto, come voi mi avete imposto.

—Ed egli non ha indovinato che le mie premure, il mio affetto, avevano una sorgente pura, innocente, santa?

In quel momento qualcuno bussò alla porta. La dama abbassò il velo.

—Eccolo, esclamò Maria, deve esser lui, signora!

E andò ad aprire.

Entrò un bel giovane che di poco aveva passati i vent'anni, ma dall'aspetto maschio, virile, superiore all'età. I lunghi capelli neri, sciolti con pittoresco disordine, lo sguardo di fiamma, la fisonomia ispirata, l'abito negletto eppure elegante, tutto in lui rivelava a prima veduta un'artista.

Infatti il giovane Curzio Ventura era un valente scultore. L'occhio esercitato fin dall'infanzia sui preziosi avanzi dell'arte antica, racchiusi in quel vasto museo che si chiama Roma, la vocazione naturale, l'istintiva intuizione del bello, avevano abbreviato il suo tirocinio; ed egli già plasmava nella creta le ideali creature della sua mente, quando i suoi coetanei, modellavano gli studi dell'accademia.

—Curzio! esclamò Maria.

—È lui! gridò la principessa, e rialzò il suo velo.

Il giovane scultore, senza badare alla dama, chiese tutto frettoloso a
Maria:

—Gaetano? Dov'è Gaetano?

—Egli è uscito per un momento, rispose la madre di Tognetti.

—Ah Dio! esclamò Curzio, con un energico movimento di rabbia. Poi si volse, per ripartire senz'altro.

Maria lo arrestò, e disse:

—Aspettate! Egli mi ha incombenzata di dirvi che ritornerà fra pochi istanti, che lo aspettiate.

—Non posso! rispose Curzio.

—Per pochi momenti, soggiunse Maria. Intanto…. vi è quella signora che vuole parlarvi.

—Ah! la signora!… ma in questo momento….

—Finchè aspettate Gaetano potete trattenervi con lei.

Ciò detto, senza lasciar tempo a Curzio di replicare, Maria uscì dalla stanza, entrando in una cameretta attigua. Il giovane non sapeva dissimulare il suo dispetto.

—Vi duole di rimanere qualche istante in mia compagnia?

Così disse con accento dolcissimo la principessa, rimasta sola col giovane.

Curzio tacque un istante, poi disse:

—Oh no, signora! Sapete bene che io nutro per voi della gratitudine e del rispetto.

—Ma non dell'affetto, Curzio? Del rispetto e della gratitudine! Il vostro cuore non vi detta nessun altro sentimento per me?

—Signora! È venuto il momento che io vi parli col cuore sulle labbra. Finora io accettai i vostri benefici, senza scrupolo di sorta. Io fui educato a vostre spese; da voi fui sovvenuto ne' miei bisogni; assistito nelle disgrazie; da voi ebbi sempre in ogni circostanza della mia vita una parola di affetto, e un soccorso di danaro. Voi vi dicevate incaricata da mia madre, ed io non poteva respingere i doni che mi facevate in suo nome. Da qualche tempo però il vostro linguaggio si è mutato; l'espansione con cui mi parlate, il fervore delle vostre premure, la passione, lasciate che ve lo dica, la passione, che traspare nelle vostre parole, mi fanno comprendere che un'altra è la ragione, un altro è il movente dei vostri rapporti con me. No, signora; voi non siete l'incaricata di mia madre; voi agite per conto vostro, e il sentimento che vi ispira questa condotta è tale, che io non potrei d'ora innanzi senza arrossire accettare il frutto della vostra bontà.

Il giovane artista pronunciò queste parole con accento solenne.

La principessa lo ascoltò anelando, di pallida ch'era si fece vermiglia nel volto, e quando egli si tacque proruppe:

—Curzio! Tu mi stimi così poco! Tu mi credi capace di un sentimento basso e umiliante! Ma dunque tu non hai indovinato; il tuo cuore è rimasto muto alla voce della natura! No, Curzio; io non sono l'incaricata di tua madre, no io, io stessa sono tua madre!

—Voi! mia madre! Ah!

Curzio si lanciò a baciare la mano della principessa, ripetendo:

—Perdono! perdono!

La madre impresse un bacio sulla fronte del giovane, con tutta l'effusione dell'affetto lungamente compresso.

Successe qualche momento di eloquente silenzio.

—Adesso, riprese la principessa, comprendi adesso la ragione delle mie cure, la fonte del mio affetto. Io sono tua madre, e se finora non ti ho rivelato questo dolce nome si è perchè tutti devono ignorare i legami che ci uniscono, mio marito pel primo, perchè egli sarebbe un nemico terribile per te. E se quest'oggi io mi sono risoluta di rompere il silenzio, gli è perchè quest'oggi ho bisogno d'invocare i miei diritti di madre. Sì, Curzio; un gran pericolo ti sovrasta. Sì, figlio mio, io so, non t'importi come, io so che tu appartieni al comitato d'insurrezione, che tu sei anzi uno dei capi sezione, so che voi altri avete concertato per quest'oggi un movimento di rivolta nell'interno di Roma. Ebbene, sappi che lo spionaggio si è insinuato nella vostre file, che la polizia è prevenuta, che il governo sta sull'avviso. È impossibile la riuscita del tentativo; voi correte a inevitabile rovina.

—Ebbene? chiese Curzio.

—Ebbene, fino che siete in tempo rinunziate a questo progetto.

—Impossibile! Tutto è stabilito; si è tardato anche troppo.
L'insurrezione di Roma deve scoppiare.

—Ma siete traditi, vi dico, sarete schiacciati!

—Non importa: Noi protesteremo col nostro sangue contro la tirannia del pontefice, e se morremo, la nostra morte affretterà il giorno della redenzione di Roma.

—S'egli è destino che debba compiersi la rivolta, si compia; ma tu figlio mio, rimani in disparte. Pensa che il tuo sacrificio sarebbe inutile alla causa della libertà, e fatale al cuore di tua madre.

—Che? esclamò Curzio. Che io lasci morire i miei fratelli, e che mi tenga vilmente in disparte! Voi mia madre mi consigliate una viltà. Ah! voi non siete romana!

—Io sono madre!

—Ebbene, armatevi di coraggio: vostro figlio sarà degno di voi.

La principessa, pure tremando per la vita del figlio, sentiva nel cuore la santa gioja dell'orgoglio materno.

Curzio fatto un supremo cenno d'addio, mosse verso la porta per partire.

Tutta l'angoscia della paura risorse nell'anima della madre, e con energico sforzo essa trattenne il figliuolo. Gli si parò dinanzi, e sclamò:

—Ah no! Io non ti lascio in quest'istante.

—È necessario! sclamò Curzio, e cercò di distoglierla dolcemente dalla resistenza.

Ne seguì una specie di lotta, piena di affanno, di lagrime, di amore. Da un lato combatteva la tenerezza materna: dall'altro un generoso proposto, in contrasto coll'affetto figliale.

In quella si aperse la porta, e un uomo di sinistra apparenza comparve sulla soglia.

III.

Il principe Rizzi.

Francesco Rizzi di Castelgrande principe assistente al soglio pontificio, antico allievo dei gesuiti, abbarbicato da lunga mano ai caporioni della reazione, era uno dei più accaniti sostenitori del potere temporale del Papa.

La sua natura malvagia era apertamente rivelata dalle sue fosche sembianze. Allo, magro, stecchito, egli aveva radi capelli, tinta olivigna, naso grifagno, guardatura losca. Camminava di sbieco, parlava con voce rauca, profonda; v'era nella sua persona qualche cosa che suscitava istintivamente il ribrezzo.

Tale era l'uomo, al quale era congiunta coi vincoli del matrimonio la bella principessa.

—Mio marito! esclamò essa, con un acuto grido di terrore, quando lo vide apparire sulla porta, come bieco fantasma.

Egli si avanzò lentamente, in silenzio, mentre Curzio, interdetto, scostatosi d'un passo, guardava il nuovo venuto.

Giunto vicino alla moglie, il principe Rizzi le disse in tuono severo:

—Io vi chiederò, o signora, che cosa sia venuta a fare la principessa Rizzi nella casa di un povero muratore, dove io la trovo in compagnia di…

Qui egli s'interruppe, e volta un'occhiata sdegnosa sopra Curzio, proseguì in tuono sprezzante:

—Di uno sconosciuto!

Le fiamme salirono al volto del giovane, il quale acceso d'ira proruppe in aria minacciosa.

—Di tale sconosciuto, che….

E più avrebbe detto, se la principessa frapponendosi e trattenendolo non gli avesse detto piano e rapidamente:

—Per pietà, Curzio!…

Poi, voltasi al marito, gli disse con tutta la serenità della purezza offesa:

—Ed io vi risponderò, o signore, che la principessa Rizzi sente troppo altamente di sè per rendere conto delle sue azioni a chi sospetta di lei; e che voi, o signore, dovreste stimarmi abbastanza per non abbassarvi fino a spiare la mia condotta.

Il principe, accigliando di più in più la fronte, soggiunse:

—Le vostre parole sono altere, ma i fatti vi accusano palesemente, ed io, usando del mio diritto di marito e signore, v'impongo di giustificarvi.

Questi detti furono pronunziati come una brutale ostentazione di forza.

Curzio, testimonio di quella scena, non potè più frenarsi, e volgendosi al principe, disse:

—Mi pare che il signore abbia scelto assai male il suo momento per una spiegazione conjugale. Egli è, s'io non erro, un principe assistente al soglio pontificio. Ora che i nemici del potere temporale del Papa stanno per giungere alle porte di Roma, egli dovrebbe affrettarsi a sorreggere il soglio, che minaccia di crollare e cadere per sempre.

—Se tale è il mio dovere in questo momento, rispose Rizzi con fredda ironia, il dovere di un framassone, quale voi siete se io non erro, si è quello di recarsi in mezzo alla congrega, ed affilare il pugnale della sua setta. Ciò vuol dire che se io ho scelto male il momento di una spiegazione conjugale, voi sceglieste assai male l'ora di un abboccamento amoroso.

A quelle parole, che suonavano un atroce insulto per sua madre, Curzio stette per lanciarsi addosso al principe, gridando:

—Miserabile!

La principessa si frappose anche una volta: il giovane si contenne fremendo. Un riso sarcastico inarcò le labbra sottili di Rizzi.

—Signora, diss'egli, la vostra carrozza vi aspetta qui fuori. Quanto a voi, bel giovinotto, non tanto fuoco: ci rivedremo, ve lo prometto, ci rivedremo!

—Quando e dove vorrete, esclamò prontamente Curzio.

La principessa, onde por termine a una situazione tanto perigliosa, decise di seguire il marito; fece un segno di fervente preghiera verso il figlio, ed uscì con Rizzi, il quale l'accompagnò col suo cupo sogghigno sulla bocca.

—La lascerò partire con colui, così?… pensava Curzio. Ah no!

Si avviò per seguire i due ch'erano partiti.

Maria ch'era intanto entrata nella stanza lo trattenne.

—Fermatevi, Curzio! Voi non sapete chi è il principe, e di che cosa è capace.

—E che mi cale di lui?

—Egli è fratello d'un cardinale, e potentissimo. Vi farà arrestare.

—Dunque anche tu, povera madre, sclamò il giovane, anche tu sei vittima di questo abborrito potere sacerdotale! Colle catene di Roma cadranno anche le tue. All'opera dunque! alla lotta!

La porta s'aperse, e Tognetti entrò frettoloso nella stanza.

—Tu appunto, disse, tu, Curzio, fratello!

Poi, trattolo in disparte, scambiò con esso alcune parole piano e in fretta.

—Ho parlato ora con Cucchi, tutto è concertato per questa sera. L'ora fissata è alle sette. A noi è affidata una missione importante. Vieni, parleremo fuori.

—Andiamo.

—Ah no! gridò Maria posta in apprensione dal mistero di quel breve colloquio. No, non partite. Voi andate a farvi uccidere, ed io povera madre…

—No, disse Tognetti, rassicurati, mamma. Ti ho già detto che sarà un affare da nulla. Prega il Signore per noi.

—Un bacio, figlio mio, un abbraccio, pregò la povera donna, che si sentì impotente a trattenerli.

E li abbracciò entrambi.

—Anche voi, Curzio, anche voi siete mio figlio. Che il Signore vi benedica entrambi.

—Il Signore ci assisterà, disse Gaetano, perchè noi vogliamo la libertà della patria e il trionfo della vera religione di Cristo.

I due giovani baciarono un'ultima volta la donna, e svincolati dall'abbraccio partirono.

Essa tentava di richiamarli ancora.

—Figlio!… Fermati… Si sono allontanati! non odo più i loro passi.
Oh Dio! se non dovessi più rivederlo il mio Gaetano! Santa madre di
Dio, aiutatemi voi!

Poi si volse a un'immagine della Madonna che pendeva da una parete della stanza con un lume acceso dinanzi, e postasi in ginocchio, e giunte le mani in atto di fervorosa preghiera:

—Santa Vergine! esclamò. Voi che provaste la pena atroce di vedere il vostro figliuolo tormentato e morto, voi che sentiste tutti gli spasimi che può sentire una donna, abbiate compassione di una povera madre. Proteggete mio figlio!

IV.

Le due cugine.

Il rione di Trastevere presentava in quella mattina un aspetto singolare. I popolani si aggiravano per le strade; si scambiavano cenni e parole misteriose, si adunavano in crocchi, si dividevano per ritrovarsi poco dopo in altri punti, e in mezzo a quel va e vieni spuntavano ad ora ad ora le figure sospette degli spioni, dei birri travestiti, che aguzzavano gli sguardi, tendevano le orecchie, notavano le fisonomie e gli andamenti; e ad ora ad ora qualche pattuglia di zuavi, qualche drappello di gendarmi passava per le strade, donde al loro avvicinarsi si erano dileguati i cittadini.

Le trasteverine, quelle donne belle e sdegnose, che serbano viva la tradizione dell'antica fortezza e maestà del popolo romano, tranquille nel sembiante, ardenti nel cuore, si mescevano agli accordi degli uomini loro, guardavano con piglio di provocante disprezzo i satelliti della tirannide sacerdotale.

Una giovane di statura alta, di forme statuarie, il cui vestiario semplice e modesto presentava quella naturale eleganza di panneggiamento ch'è proprio delle statue romane, portando un suo cesto colla grazia ingenita di una Flora antica, camminava sola e con passo celere verso la propria dimora.

Uno zuavo papalino atteggiato a un portamento soldatesco fra lo spavaldo e il galante, la seguiva dappresso, arrischiando alcuni motti sguaiati in gergo mezzo francese, ai quali la romana non rispondeva altrimenti che colla più sprezzante noncuranza.

Giunta alla propria casa, la giovane sta per entrare, quando il soldato, venutole vicino, vuol seguirla oltre la soglia, ma essa, frappostasi coll'aitante persona fra la porta e lui:

—Va via! prorompe, e passando oltre chiude l'uscio con fracasso.

Sacrè non! grida lo zuavo rimasto al di fuori; e intanto tenta, scuotendola, la porta chiusa al di dentro.

—Mangiati la lingua, brutta figura! esclama la donzella entrata in una stanza, dove l'aspetta un'altra giovane.

—Che cos'è stato, Teresa? Che cos'è questo rumore? questa le chiede.

—Niente, niente, risponde. Figurati che andando a fare la spesa, ho incontrato un signore zuavo, che s'è messo a farmi l'occhio di triglia, e a dirmi delle paroline inzuccherate. Io, via senza badargli, e lui ha avuto il coraggio di seguirmi fino a casa, e voleva entrare per forza; ma io gli ho chiuso la porta in faccia ben bene.

Così dicendo Teresa aveva deposto il cesto che recava sotto il braccio, e ne aveva tratto dell'insalata, del pane e dei frutti che andava disponendo sul desco.

Intanto lo zuavo seguitava a far chiasso al di fuori, bussando alla porta, e urlando:

Ouvrez non de Dieu!

E Teresa di rimando a gridare:

—Batti, batti! così ti battesse il core!

—Oh Dio! sclamò l'altra donna. Non vorrei che in questo frattempo arrivasse il mio Peppe. Se ritrova costui lì fuori, si compromette di certo.

—Or ora, se non se ne va, disse Teresa, vedrai, Lucia, che vado a cacciarlo via col manico della scopa. Ma taci: mi sembra che si sia persuaso e se ne sia andato da sè.

Infatti il papalino, stanco di bussare inutilmente o pauroso di qualche brutto incontro, aveva lasciata l'impresa.

Una bella bambina di cinque anni entrò nella stanza dov'erano Teresa e Lucia, e s'ebbe carezze dall'una e dall'altra. Era una brunettina fresca e vivace.

Quella ragazzina con una sorelluccia e un fratellino più piccoli di lei, erano i figliuoli di Lucia e di Giuseppe Monti suo marito.

Monti era un soprastante muratore, nato a Fermo, ma da più anni dimorante in Roma, dove per causa di lavoro si era stabilito colla famiglia.

Quanto alla romana Teresa, essa era una cugina di Lucia, rimasta priva, dei genitori in giovane età. Era tenuta dalla moglie di Monti in conto di una vera sorella.

Era vicina l'ora in cui Giuseppe soleva venire a casa per dividere colla sua famigliuola il pasto frugale, e ritornarsene poscia al lavoro quotidiano.

Lucia, avvicinatasi al focolare, attendeva alla minestra perchè si cuocesse; intanto Teresa accudiva ad altre faccenduole; e la piccola Paolina, così come lo comportava l'età infantile, prestava l'opera sua ora all'una ora all'altra delle due donne, con quel vezzo adorabile che è proprio della sua età, e spesso la madre ricambiava coi baci i suoi tenui servigi.

Finalmente le due cugine si diedero ad apparecchiare la mensa.

E Teresa non ristava di parlare colla sua spigliata loquela, mentre stendeva la tovaglia o recava i piatti, i bicchieri, le posate.

—Ma sai, Lucia, che ci vuole una bella fronte! andava dicendo. Oh! i bei difensori che ha il Papa! Villani rifatti che si danno bel tempo con l'obolo di san Pietro. O che san Pietro manteneva dei soldati? Questa non l'ho mai sentita a dire. Managgia l'anima loro! Perchè non stanno ai loro paesi? Fortuna che siamo alla fine, per quanto pare! Ma non sai la bella notizia? Garibaldi se n'è fuggito da Caprera. E adesso si trova coi volontari là fuori; si può dire alle porte di Roma. Guarda!

E la bella giovane toltasi di saccoccia una coccarda tricolore, la mostrò tutta allegra a Lucia.

—Questa me la sono composta da me, e voglio mettermela sul petto appena Garibaldi sarà entrato in Roma. Ma che non ti rallegri anche tu? non salti dalla contentezza?

—Che vuoi? disse tristamente Lucia. Io non posso dividere la tua letizia. Ho un presentimento che mi opprime. Non so perchè, ma ho paura che la voglia finir male!

—Sei pazza? E che, credi che i soldati papali potranno resistere ai Garibaldini? Ma se ne hanno già prese tante, se ne hanno prese! Quel bravo giovane di Menotti, il degno figliuolo di Garibaldi, che Dio lo benedica, gliene ha già date finchè ne hanno volute. Li abbiamo pure veduti ritornare in città scornati e fuggiaschi, tutti quegli zuavi e antibojani ch'erano usciti come tanti rodomonti. Li hai pur visti anche tu!

Lucia taceva, crollando il capo, come se cupe visioni le ingombrassero la mente; poi dopo qualche istante di silenzio, soggiunse a un tratto:

—E se ritornassero i Francesi?

—I Francesi! esclamò Teresa; ma non è possibile!

—E perchè dici che non è possibile?

—Perchè… perchè… ce ne sono tanti dei perchè, ma non li posso spiegare. Oh! non si sono impegnati con una… so molto io… con una… convocazione? non hanno promesso insomma di non tornare più?

—Le promesse sono chiacchiere belle e buone! Io ho paura, ecco!

—Tu hai paura, ed io invece mi sento un coraggio da leone.

Teresa pronunciando quelle parole ardeva negli occhi, e il suo bel volto esprimeva tutta l'energia d'un'anima virile. Si sarebbe detto che in lei riviveva lo spirito della vergine Clelia.

Bussarono alla porta.

—Ohè! sclamò Teresa, che sia quella marmotta? Mo' lo concio io per le feste.

E avvicinatasi alla porta, chiese ad alta voce:

—Chi è?

—Son io! rispose una voce tremolante.

Teresa aperse, e apparve sulla soglia la figura sparuta e paurosa di
Don Omobono, il prete di vettura.

Egli era un vicino della famiglia.

—Oh don Omobono! sclamò Teresa. Venite avanti.

V.

Gli spasimi di don Omobono.

Il povero prete metteva paura a vederlo; stava rannicchiato, colla testa sprofondata fra le spalle e tutta nascosta nel cappellaccio, le gambe piegate e le ginocchia che si toccavano. I denti gli battevano come per freddo, e i muscoli della sua faccia erano ad ogni momento travagliati da un contorcimento convulsivo, che gli faceva allargare la bocca in direzione delle orecchie, e avvicinare la punta del naso a quella del mento.

—Che cos'ha, don Omobono? chiese Teresa.

—Niente, niente, balbettò egli. Mi permettete di passare per andare nella mia stanza?

—S'accomodi pure.

Convien sapere che l'ingresso principale della casa, donde avrebbe dovuto passare don Omobono per andare nella sua stanza, era aperto sopra una delle strade principali di Trastevere; mentre invece l'alloggio delle donne, per il quale si poteva passare in quello del prete, aveva un'uscita sul vicolo adiacente.

—Perchè non è passato dalla parte della strada? gli domandò Teresa.

—Perchè, rispose, in questi giorni di pericolo io non mi azzardo a camminare senonchè pei vicoli, e cerco anche di sgambettare presto presto e scivolare rasente i muri, per essere veduto il meno che sia possibile.

—E di che cosa ha paura?

—Che so io? qualche gran cosa è imminente. Non avete sentite le trombe poco fa? erano gli zuavi che andavano a raddoppiare i corpi di guardia. Scommetto io che fra poco sentiremo le fucilate anche in città! Sapete che cosa ho sentito dire?

—Che cosa? via!

—Che Garibaldi abbia già passato Ponte-Molle.

—Il ciel lo volesse! esclamò Teresa. Io andrei subito ad incontrarlo.

—Ed io, disse don Omobono, andrei subito a nascondermi in cantina.

—Ma che cantina! Via, si faccia coraggio. Io le darò un talismano, con cui potrà presentarsi arditamente dinanzi ai garibaldini senza paura, anzi colla certezza di essere festeggiato.

—Che cosa mai? vediamo.

Teresa trasse fuori la sua coccarda e la mostrò al prete impaurito.

—Ecco qua, la guardi: una bella coccarda tricolore.

—Una coccarda! esclamò don Omobono indietreggiando e portando la mano alla fronte in atto di segnarsi colla croce.

—Sì, signore, disse Teresa. Qua!…

E, preso il cappello a tre punte del prete, appuntò con una spilla sopra una delle falde rialzate la coccarda.

—Questa sarà d'ora innanzi la sua salvezza. Così!…

Gli mise il cappello in testa.

—Così sta come un angelo.

Don Omobono, che non ardiva nè tenere nè levarsi quel cappello scomunicato, rimase duro, stecchito come una statua di legno, mormorando fra i denti:

—Io portare la coccarda tricolore!

E Teresa ridendo:

—I garibaldini lo porteranno in trionfo.

In quella bussarono di nuovo alla porta di strada.

Teresa andò ad aprire.

—Oh Dio! Chi sarà? diceva intanto don Omobono.

E toltosi di capo il cappello, cercava di staccarne la coccarda; ma non riusciva che a pungersi ripetutamente collo spillo.

Si presentò all'uscio un signore vestito di nero, di statura vantaggiosa, col viso tondo, roseo, sbarbato, e i capelli rossicci composti e lisciati con cura. Poteva avere quarant'anni.

Tuttochè vestito da secolare, egli aveva nel suo insieme un non so che d'ecclesiastico, che rivelava facilmente la sua condizione.

—Sta qui don Omobono? chiese egli con tutta civiltà.

—Sissignore, rispose Teresa: eccolo là. E additò il prete di vettura.

—Ahimè! Chi vedo! mormorò questi tutto spaventato.

E disperando ormai di poter staccare la coccarda dal suo cappello, cercò di coprire alla meglio il corpo del delitto prima con una mano, poi con un lembo dell'abito.

—S'acco….comodi, mon….

Stava per dire Monsignore, ma un rapido gesto e un'occhiataccia dello sconosciuto gli strozzarono la parola in bocca, e riprese più imbarazzato che mai:

—S'accomodi.

—Son venuto, disse il monsignore travestito, per parlarvi di un affare riservato.

E così dicendo, volse in giro un'occhiata, che si fermò a due riprese prima sull'una poi sull'altra delle due donne.

—Troppo onore, soggiunse il prete. Venga, venga nella mia stanza.

Ma l'altro, senza far mostra di volerlo seguire, disse seccamente:

—Stiamo bene anche qui.

Teresa, alla quale l'incognito riusciva sommamente antipatico, e che aveva già fiutata la merce di contrabbando, s'era avvicinata a Lucia, e le disse sottovoce:

—Ohè, che ne dici? Stiamo bene anche qui! Pare che sia in casa sua!

—E noi andremo di là, rispose Lucia.

—No, signore, soggiunse Teresa, che siamo padrone in casa nostra.

—Andiamo per prudenza, riprese Lucia; e salutò il signore con un asciutto: Serva sua!

—Rimanete pure, bella giovane, diss'egli con un sorriso smorfioso.

—Grazie tante: vieni Paolina.

E le due donne colla bambina passarono nella camera attigua.

Quando monsignore si trovò solo col prete:

—Dunque, riprese, devo parlarvi di un affare importante.

Don Omobono, imbarazzatissimo, seguitava a fare i massimi sforzi per nascondere la coccarda appuntata sul cappello. Cercando insieme di dissimulare la sua confusione, diceva:

—S'accomodi, eccellenza reverendissima, s'accomodi.

E gli porgeva una sedia, sulla quale monsignore sedette, facendo in pari tempo segno a don Omobono di sedersi vicino a lui.

—Come mai, disse il prete, come mai vostra eccellenza si arrischia a camminare per le vie di Roma in queste giornate?

—Che? avete paura voi? soggiunse in tuono beffardo monsignore.

—Io? no…. cioè…. così…. un pochettino.

—Prima di tutto, vedete che mi sono messo l'abito da secolare, e così non posso essere riconosciuto. E poi, credete pure che non v'è nulla a temere.

—No, eh!

—Quest'oggi appunto l'inviato francese ha assicurato Sua Santità che in ogni caso non sarà per mancargli l'aiuto della Francia.

—Ma se prima che arrivino i Francesi dovesse…. così per caso…
  succedere…?

—Che cosa?

—Una rivoluzione, che Dio ci scampi e liberi!

—Ohibò! Ci avevano pensato i framassoni: ma siamo stati prevenuti a tempo. Tulle le misure sono prese, e non c'è nulla, proprio nulla a temere. Ma che avete? mi sembrate agitato.

Don Omobono era infatti irrequieto, tormentato dalla paura che monsignore scoprisse la coccarda. Però richiamò sulle labbra un sorrisino di tranquillità, e rispose:

—Io non ho niente, monsignore, proprio niente. Non è altro che la soddisfazione, la gioia che provo per l'onore che mi ha fatto vostra eccellenza reverendissima, degnandosi di venire a trovarmi…. gli è questo che… che…

—Io sono venuto, riprese monsignore, sono venuto per… Ecco qua: voi abitate in questa casa, non è vero?

—Eccellenza, sì; sto in quella stanza, là, quello è tutto il mio
  appartamento.

—Questa è la casa di un soprastante muratore, non è così?

—Eccellenza, sì; si chiama Giuseppe Monti.

—E quella ch'era qui poco fa è sua moglie?

—Eccellenza sì.

—Ebbene, don Omobono: io ho saputo che gli sovrasta una disgrazia.

—A chi? a Monti?

—Precisamente. Pare che si sia mischiato nella congiura. Il fatto sta che dev'essere arrestato.

—Oh poveretto! questo mi dispiace!

—Però… soggiunse dopo qualche momento monsignore, però… vi potrebbe essere un rimedio.

—E quale? chiese don Omobono.

—Che so io, rispose monsignore con piglio d'indifferenza… se qualcuno volesse pregare per lui…

Il prete di vettura roteò gli occhi, strisciando in pari tempo la punta della lingua sul labbro superiore.

Con quella pantomina egli voleva dire:

—Ho capito!

Infatti un lampo gli aveva chiarita la mente, e quella luce improvvisa gli rendeva manifeste le ragioni della visita di monsignore e de' suoi discorsi.

Non occorreva essere un'aquila d'ingegno per penetrare nella mente del prelato travestito. Certi casi sono così frequenti nella capitale del mondo cattolico, che si parano subito alla mente del più idiota.

Un monsignore, un dignitario della Chiesa, uno dei capi del governo pontificio, girando intorno per le vie di Roma, come un damerino, colla sua mantelletta di seta pavonazza appiccata leggiadramente sugli omeri, colla sua chioma arricciata, colle sue scarpette a fibbie d'argento, seguito dal domestico in gran livrea, adocchia una bella donna, s'informa per mezzo de' suoi agenti della sua condizione, del nome, della dimora. L'avventura è la più facile del mondo: si spargono dei dubbj sulla sicurezza del marito, del fratello, del padre, insomma della persona più cara che si abbia la donna. Si minaccia la libertà di quell'uomo, e con tale pressione si cerca di trascinare la misera sulla via del disonore. Ma s'ella resiste, se le minaccie tornano vane, allora si adoperano i mezzi più energici: l'arresto si opera davvero, e allora la povera donna vien posta nell'alternativa di veder languire il suo diletto in una prigione, e consumarvi la vita, o di mancare a' suoi doveri più sacri.

Ecco ciò che avviene ogni giorno nei luoghi soggetti al felice dominio del papa-re, per opera di coloro che con una mano inalzano la croce, mentre coll'altra stringono le catene del popolo.

È naturale adunque che don Omobono, conscio appieno di tali fatti, dopo quel primo cenno di monsignore, penetrasse addentro nelle sue recondite intenzioni.

E volendo andare innanzi ai suoi desiderj, disse:

—È naturale: se qualcuno pregasse per lui, per esempio… sua
  moglie…

—Oh sì! rispose monsignore, affettando noncuranza, la moglie può destare compassione, e…

—L'ho detta io! pensava fra sè don Omobono.

—Voi la conoscete, proseguiva il prelato; potete parlarle, dirle il pericolo in cui si trova suo marito, consigliarla…

In quel momento il cappello, che il povero prete andava rotolando fra le mani, gli fuggì, e cadde a terra.

Egli mise un grido di terrore.

La coccarda tricolore si mostrava in tutta la sua pompa nel bel mezzo di un'ala, proprio dalla parte meglio esposta agli sguardi di monsignore.

Un fulmine che fosse caduto sulla testa di don Omobono non lo avrebbe ridotto in uno stato di annichilamento simile a quello che lo investì in quel punto.

—Che cosa vedo? esclamò monsignore, alzandosi, raccogliendo il cappello tricornuto, e guardando da vicino il segnacolo della rivolta. La coccarda tricolore! l'emblema dei rivoluzionari! il simbolo della setta! Un ecclesiastico! inalberare il vessillo della ribellione sulla propria testa!

—Eccellenza, diceva don Omobono tutto tremante, eccellenza reverendissima… l'assicuro ch'io non l'ho fatto apposta… che non ci ho proprio colpa, io…

—Va bene! soggiungeva in tuono di minaccia monsignore. Va bene!
Penseremo anche a questo.

Il prete di vettura, giunto al parossismo dello spavento, perdè le forze; scivolò giù dalla sedia, cadde in ginocchio dinanzi al prelato.

—Eccellenza, gridava, creda che non ci ho colpa. Mi usi misericordia.

Monsignore rasserenò la faccia accigliata con un benigno sorriso, e porta la sua mano a baciare a don Omobono, e rialzatolo insieme, con piglio di clemenza:

—Orsù! disse, voglio perdonarvi… non se ne parli più… nessuno saprà nulla… purchè…

Il pretoccolo comprese a volo il significato di quella reticenza eloquente. E trangugiando un altro mentale: ho capito! si avvicinò alla porta della stanza, ov'erano entrate poco prima le due donne, e chiamò:

—Signora Lucia!

Il prelato gli si avvicinò, e gli disse all'orecchio:

—Per ora non le dite chi sono.

Lucia entrò nella stanza.

—Che volete, don Omobono?

—C'è questo signore, disse il prete, che vuol parlarvi.

—Io non conosco questo signore, disse Lucia, nè so che affari possa avere con me.

—Non siate tanto sdegnosa! disse monsignore, avvicinandosi. Io venni unicamente per giovarvi.

Lucia insospettita guardava con occhio diffidente il prelato incognito, e con accento di dubbio soggiunse:

—Per giovare a me?

—Sì, replicò monsignore, per giovare a voi… o piuttosto a vostro marito.

Intanto don Omobono, il quale temeva che pei modi bruschi della donna il prelato s'incollerisse, e la tempesta si rovesciasse anche sul suo capo, postosi di dietro a monsignore, faceva verso Lucia dei gesti grotteschi, con cui voleva avvertirla che quello con cui parlava era un pezzo grosso, e che aveva la chierica, e che portava la mantelletta, e che gli usasse bei modi, e non lo disgustasse, e badasse a lei.

Lucia non capiva nulla a quei lazzi stranissimi, ma sempre più sospettava vagamente del vero, e volta a monsignore, gli disse con alterezza:

—Ma noi, signore, non abbiamo bisogno dei soccorsi di alcuno.

—Se vostro marito, riprese lentamente il prelato, corresse un pericolo, s'egli per esempio…

E l'astuto s'interruppe.

—Ebbene, che cosa? gridò Lucia, cui già si rimescolava il sangue all'idea che qualche male potesse incogliere al suo Giuseppe.

—S'egli, per esempio, fosse in procinto di essere arrestato!…

—Che cosa dice? esclamò la donna atterrita.

Ma poi, dando luogo alla riflessione, e rimettendosi, disse con maggior calma:

—Oh non è possibile! mio marito è un galantuomo; non ha mai fatto del male; e non credo assolutamente ch'egli corra il pericolo ch'ella dice.

—Ed io vi dico, bella sposina…

Così parlando il prelato con modi leziosi, si avvicinava a Lucia, che indietreggiò, e prese fieramente a dire:

—Ed io, bel signore le dico, che non sono poi tanto gonza da non capire ch'ella si è introdotta qui con codesto pretesto per fini non buoni. E mi meraviglio che don Omobono, che io ho sempre rispettato come un degno sacerdote, tenga mano a simili faccende!

Lucia pronunziò ad alta voce, queste parole, e Teresa chiamata dal rumore entrò nella stanza anch'essa.

Don Omobono, che dopo molti sforzi infelici, era giunto finalmente a staccare quella maledetta coccarda, e a gettarla lontano in un angolo, colpito ora dalla violenza di quell'apostrofe, non sapeva che cosa rispondere alla donna irritata, e borbottava:

—Io!… non so niente!

Monsignore, chiamandosi sulle labbra il miele più dolce, cercava di acquetarla, dicendo:

—Badate, voi siete in errore.

—In errore quanto vuole, proruppe essa di più in più sdegnata, ma quella è la porta, e la prego di andarsene.

A tale affronto le vampe della collera salirono al volto di monsignore. Fulminò con un'occhiata da tigre la donna, e con voce tremante di rabbia le disse:

—Potreste pentirvi di avermi trattato così!

Intanto don Omobono erasi avvicinato a Teresa, entrata allora nella stanza, e le aveva susurrato all'orecchio:

—Ditele voi che si rovina, che quello è nientemeno che monsignor
Pagni, un prelato, un giudice della Sacra Consulta!

L'effetto che il buon prete si riprometteva dal suo avvertimento fu ben diverso nel fatto.

Teresa, che già aveva letto qualche cosa di sinistro nella ciera del prelato travestito, e che ora si rendeva certa delle turpi intenzioni che avevano spinto quell'uomo malvagio nella sua casa, montò su tutte le furie, e senza alcun riguardo si diede a gridare:

—Un sacerdote che mentisce le sue vesti per introdursi in una casa di gente onesta, non può venirci che con cattive intenzioni! E se è poi un prelato che opera così, non può essere altro che un indegno ministro del Signore!

Poi, volgendosi a monsignor Pagni, che fingeva di non capire, esclamò con maggior forza:

—Ha inteso, monsignore?

—Che dici, Teresa? chiese Lucia maravigliata.

—Ma sì, rispose quella, non hai visto che ha la chierica?

E con piglio buffonesco accennò la testa di monsignore, il quale, essendosi alquanto voltato, aveva posto in evidenza il segno ecclesiastico della tonsura.

Poi Teresa aggiunse, con quanta espressione di sprezzo può assumere una donna:

—La vada a dir messa, la vada!

Monsignore, che poco prima si era fatto rosso per la collera, ora divenne a un tratto pallido, anzi livido in volto; i suoi occhi balenarono di fosca luce, come se avessero schizzato fuori il veleno della rabbia concentrata.

Non parlò, non fiatò; stese la mano con gesto di minaccia, come se avesse detto: «Me la pagherete!»

E furiosamente partì.

È impossibile descrivere la tremerella che assalse don Omobono. Fuori di sè per la paura, accompagnò il prelato incollerito fin sulla porta, e sprofondandosi in un inchino, balbettò sommessamente:

—Ecce….cellenza…. reve…. reverendissima!

Poi, tornato in mezzo alla stanza, colla più comica disperazione disse alle donne:

—Povere voi! che cosa avete fatto!

—E non dovevamo trattarlo così? esclamò Teresa. Si provi a ritornare!

—Ma non capite, replicò don Omobono, che vi siete rovinate? E quello ch'è peggio si è che avete rovinato anche me, che non ci entro per nulla.

—E che? chiese Lucia alquanto allarmata. Credete che sarà capace di farci del male?

—Monsignor Pagni! esclamò il prete. Altro che male! Intanto per la prima farà carcerar davvero vostro marito.

—Arrestarmi Peppe? e perchè poi?

—Oh bella! per vendicarsi di voi, per costringervi a domandargli grazia.

—Ah! non è possibile tanta perfidia!

—Non è possibile? ma se son casi che si vedono ogni giorno.

—Oh Dio mio! se Peppe sapesse!… Non gli dite nulla per carità!

—È meglio anzi avvertirlo, disse Teresa.

—Ah no!

—Eccolo.

Infatti Monti entrava nella stanza.

VI.

Giuseppe Monti.

Giuseppe Monti era un uomo di belle forme. I capelli e la barba, bruni gli uni e l'altra, contornavano il suo volto virile, espressivo, leggermente abbronzato dalle abitudini del lavoro; si leggeva ne' suoi lineamenti la bontà del carattere, accoppiata a quell'energia che ispira le forti risoluzioni. Lo sguardo de' suoi occhi neri, blando e amoroso nella calma, diveniva terribile se lo animava lo sdegno.

Monti era un bravo operaio; la naturale intelligenza e l'amore indefesso del lavoro avevano supplito in lui al difetto dello studio. Nella sua qualità di capo-maestro muratore, egli aveva condotto a termine dei lavori che avrebbero fatto onore ad un architetto. Eppure, modesto per natura, egli si era mantenuto nell'umiltà della sua condizione. Non essendo ingordo di danaro, non si era mai lanciato in quelle temerarie speculazioni di appalti, che spesso arricchiscono in breve ora i capi-maestri. Erasi sempre contentato di quell'onesto guadagno che bastava al sostentamento della sua famigliuola. Amantissimo della moglie e dei figli, passava con essi tutto il tempo che gli avanzava dal lavoro, e che altri operai consacrano alla gozzoviglia e al vizio.

Monti entrò in casa tutto animato di quell'intima soddisfazione, che investe l'uomo che ha lavorato quanto deve. Egli stava allora dirigendo una nuova fabbrica nelle vicinanze della Longara.

Portava seco alcuni utensili della sua professione; li depose entrando: si avanzò verso Lucia, le strinse affettuosamente le mani, e:

—Presto, presto! esclamò. Ho una fame indiavolata; metti in tavola,
Lucia. E i ragazzi dove sono?

—Eccoci babbo! rispose la voce argentina di una fanciulla.

Era Paolina, che veniva dal babbo, tenendo per mano un ragazzo più piccolo d'uno o due anni.

Monti li abbracciò, e baciò l'uno poi l'altro, li prese sulle ginocchia, li fece giocherellare, e diceva fra sè:

—Che piacere quando si ritorna dal lavoro accarezzare i proprii
  figliuoli!

Poi chiese a Lucia, che attendeva con Teresa a far cuocere la minestra:

—Il piccino?

—È nella sua culla che dorme, rispose la moglie.

—E la minestra è cotta?

—Manca poco; aspetta.

—Oh don Omobono! riprese Monti, salutando il prete di vettura. Perdonate; non vi aveva veduto. E tu non parli quest'oggi, Teresa? Che cos'è? Ve ne state tutti ingrugnati? cosa è avvenuto? che cosa c'è di nuovo?

—Niente, proprio niente, rispose Lucia.

—No, v'è qualche cosa. Non mi ricevete mai così, quando ritorno a casa dal lavoro. Sentiamo, Teresa; tu che sei la bocca della verità. Che cosa è accaduto?

—Abbiamo ricevuto una visita di malaugurio, rispose Teresa.

—Taci! disse piano Lucia.

—Oh lascia che glielo dica! esclamò l'altra. Infin dei conti, è meglio che lo sappia.

—Ma che è stato dunque? sentiamo.

—Sappi che c'è stato qui un nottolone di sagrestia, che ha voluto parlare con Lucia, e ha cominciato a infinocchiare tante e poi tante bubbole, con qual fine poi… lo saprà qui don Omobono, che l'ha introdotto.

—Don Omobono! esclamò Monti, guardandolo.

—Io! non è vero, soggiunse il povero prete, facendosi piccin piccino.

—Ah! se arrivavo prima! se lo trovavo qui! E come è finita?

—È finita, rispose Teresa, che lo abbiamo cacciato via.

—Brave! esclamò Monti.

E don Omobono:

—Sì, andate là, che avete fatta una bella cosa. Monsignore Pagni è capace….

—Di che cosa?

—Di farvi arrestare.

—Farmi arrestare! gridò il capo-maestro: poi prese per mano il pretuccio tutto tremante, e gli disse con voce vibrante:

—Ma non sapete, don Omobono, che è finito il tempo delle ingiustizie, delle violenze, dei soprusi? Non sapete, che non passeranno ventiquattro ore che Garibaldi sarà entrato in Roma?

—Che! davvero? esclamarono le donne.

Don Omobono corse a raccattare la coccarda nell'angolo, dove l'aveva gettata poco prima.

Frattanto Lucia aveva portato la minestra in tavola, e Teresa metteva i bimbi a sedere nelle loro seggioline.

Monti sedette a mensa in mezzo alla sua famiglia, e mentre la moglie scodellava la minestra, egli seguitava a dire:

—Ma sì! Abbiamo finito di stare sotto il governo della perfidia e della ipocrisia. Non più preti sovrani! non più farisei, che benedicono e uccidono colla medesima mano!

Don Omobono, che non sapeva ormai più che contegno tenere, li salutò con un:

Prosit!

E se ne andò, passando nella sua camera.

—Qua, miei cari figliuoli, proseguiva Monti. Voi crescerete in un'epoca migliore!… Mangia, Paolina. E tu, Tonino, che vuoi?… Lucia, dàgli da bere. Avremo finito di dipendere dai birri e dalle spie, di tremare continuamente per la nostra vita, per la nostra libertà, per l'onore delle nostre donne!… Santo Iddio! che non debba venire il momento della giustizia anche per Roma, per Roma che è la nostra capitale, la capitale d'Italia!… Mangia, Tonino. Lucia, non aver paura, ormai non abbiamo più nulla a temere. Teresa, vedi un poco chi è.

Avevano bussato alla porta di strada. Teresa andò ad aprire.

Un lieto sorriso apparve sulle labbra della bella romana: il suo sguardo si era incontrato nella simpatica figura del giovane Tognetti.

—Oh, ben venuto! Avanti! esclamarono tutti.

Tognetti si arrestò un poco confuso, e disse:

—Mi dispiace di trovarvi a tavola.

—Avanti, avanti! replicò Lucia. Tra noi non si fanno complimenti.

—Vieni, vieni, Gaetano, soggiunse Monti. Vieni a mangiare un boccone con noi.

—No, no, disse il giovane visibilmente imbarazzato. Avrei bisogno di parlarti.

—Parla pure.

—Guarda che bell'innamorato! disse Teresa con un cenno burlesco di sdegno. Non dice nemmeno una parola alla sua sposa! Meriterebbe che lo lasciassi in piedi.

E così dicendo, avvicinava una sedia. Ma Tognetti rimase in piedi.

—Scusami, Teta, disse, ho un affare di grande premura. Senti, Peppe.

E con un cenno chiamò Monti in disparte.

—Che, non dobbiamo sentire noi? esclamò la vivace Teresa. Che usanze sono queste?

Monti si alzò in fretta, e si ritrasse in un canto della stanza coll'amico.

Lucia lo seguì con guardo inquieto.

—Non c'è tempo da perdere, disse Tognetti a bassa voce; abbiamo bisogno di te. Stiamo per fare un gran colpo, capisci?

—Sì! rispose Monti. Vengo subito con te.

—No, no, partirò prima io, per non dare sospetto alle tue donne.

—Va bene, io verrò fra un momento.

—Ti aspetto.

—Dove?

—A Ponte Rotto.

—Va bene.

Monti tornò alla tavola, e sedette. Era tranquillissimo in vista, ma pure avea sulla fronte un'ombra tenuissima di pensiero, che non sfuggì all'occhio intento della moglie.

—Dunque siamo intesi, disse forte Tognetti. A rivederci, Peppe. Sora
Lucia, vi saluto. Teresa!…

—Aspettate, soggiunse Lucia. Bevete almeno un bicchiere di vino.

—Grazie tante: ho un affare… sono aspettato.

Intanto il giovane si avviava.

—E a me, non si stringe nemmeno la mano? disse Teresa.

—Hai ragione, Teta.

E tornando indietro, Tognetti strinse con forza la mano alla sua fidanzata.

—Ahi! Ahi! gridò essa. E adesso per ricompensa mi fai male! Uh! che sgarbataccio!

—Addio!

—Che brutta parola! Si dice: A rivederci!

—Ebbene a rivederci!

—A rivederci, Gaetano, ripetè anch'essa la piccola Paolina colla sua grazia infantile.

Tognetti rispose con un ultimo saluto, e partì.

Tutti rimasero in silenzio. Monti era pensoso: quell'ombra leggera della sua fronte si era fatta scura e profonda.

—Peppe, che hai? chiese Lucia con subito grido.

—Nulla.

—Tu non mangi più.

—Ma sì; vedi pure che mangio. Non ho nulla.

—La visita di Gaetano ti ha turbato, disse Teresa.

—Che cosa è venuto a dirti? domandò Lucia.

—Niente! È venuto ad annunziarmi… così… che c'è un lavoro nuovo da intraprendere.

—Perchè dunque ti ha chiamato da parte? perchè ti ha parlato con tanto mistero?

—Non so davvero! È proprio matto quel Gaetano!

—No, tu m'inganni; mi nascondi qualche cosa.

—Sei pazza! or via, bando a queste follie. Bisogna che io vada…

—Dove?

—Sai pure, al mio lavoro consueto. Ti par cosa strana? Devo ben ritornare dopo il desinare: non faccio così ogni giorno?… ho indugiato anche troppo quest'oggi.

Monti, così dicendo, si levò; Lucia fece lo stesso. Ormai il sospetto si era inoltrato addentro nel suo cuore.

—Monti, lo ripeto, tu mi nascondi qualche cosa.

—Nulla, te ne assicuro. Ma via, calmati. Non vedi come io stesso sono tranquillo? Che cosa ti metti in mente?

Prese il cappello, e allontanando dolcemente la moglie, si avviava.

—No, non partirai, esclamò a un tratto Lucia con accento risoluto. Tu vai ad esporti a qualche pericolo. Ne son certa.

—Perchè pensare queste cose? Lasciami, Lucia. Addio, Teresa!

Con queste parole Monti si sciolse con forza da Lucia, e s'incamminò frettolosamente: ma giunto sul limitare della porta, un improvviso pensiero lo assalse, si arrestò, tornò indietro con impeto, e corse ad abbracciare i suoi bambini.

—Figli miei! esclamò, e li coperse di baci.

Per quanto un uomo sia fermo, egli s'intenerisce sempre quando bacia i suoi figli. Monti sapeva che andava incontro a un pericolo mortale; gli balenò in mente l'idea: Se non dovessi rivederli più!

E a' suoi baci si mescolarono alcune lagrime.

—Babbo! perché piangi? chiese Paolina.

—Io? non è vero!

—Egli piange! gridò Lucia. Ma dunque è vero; io non m'inganno: egli vuol lasciarci per sempre.

—Addio, miei cari.

—No, trattenetelo, figliuoli. Egli va a morire.

—Lucia!

—Fermati.

Invano la moglie cercò trattenerlo; invano i bambini si aggrapparono alle sue ginocchia. Monti si staccò rapidamente da quelle braccia affettuose, e gridando un'altra volta: Addio! partì.

Lucia si gettò fra le braccia di Teresa, dicendo:

—Oh Dio! Un fatale presentimento mi stringe il cuore.

—Calmati, soggiunse Teresa. Non sarà nulla; finalmente poi ti spaventi senza ragione.

—Ma perché ha pianto nel baciare i suoi figli?

—Chi sa? si danno certi momenti di commozione senza motivo.

—Ah no! Qualche cosa di terribile deve accadere! Me lo dice il cuore!

E la povera Lucia, piangendo, si strinse al seno i suoi figliuoletti.

VII.

Monte Aventino.

Il monte Aventino, celebre in antico pei famosi ladroni, che vi annidavano ai tempi della fondazione di Roma, è adesso occupato quasi unicamente da varj conventi di frati. Alle falde di quel colle ameno, stanno diverse osterie, dove si beve un vino delizioso. E infatti una di esse, dall'aspetto più ridente dell'altre, invita i passeggieri, che transitano per la via che mena a Porta San Paolo, con questa scritta, il cui senso è tanto chiaro, per quanto i versi sono zoppicanti:

/* Chi vuol bere del buon vino Venga a piedi del Monte Aventino. */

A poca distanza da quell'osteria, si trovava una grotta, che una volta servì da cantina, ed ora era abbandonata quasi del tutto. Vi si giungeva da diverse parti, dalla sommità del colle, dalla strada sottoposta, dalle viuzze serpeggianti nei fianchi del poggio, per le porte posteriori delle taverne o attraverso le siepi delle vigne. In mille modi ci si poteva giungere, e in altrettanti era facile partirsi di là.

Quel luogo fu scelto per qualche tempo pei ritrovi del comitato d'insurrezione romana.

Questo comitato, che portava anche il nome di comitato di Salute Pubblica, si era composto in Roma appena la rivolta era scoppiata nella campagna viterbese.

L'antica Giunta Nazionale romana, che prima ebbe la direzione del partito liberale nella città di Roma, aveva sempre consigliata la moderazione, e si era limitata a comporre innocue dimostrazioni contro il governo pontificio. E perciò questa Giunta, fin da quando cominciò a prepararsi il movimento rivoluzionario delle provincie romane, si trovò incompatibile col nuovo indirizzo delle cose; e infatti nel 21 settembre di quell'anno 1866 si era ritirata dalla direzione.

Alla Giunta subentrarono allora i Capi-sezione dell'associazione romana, i quali ai 27 dello stesso settembre diressero un proclama al popolo romano, perchè si tenesse preparato all'insurrezione.

Dal seno poi di questi Capi-sezione sorse il Comitato di Salute pubblica, nel quale al cominciare dell'azione si accentrarono tutti i poteri rivoluzionari.

È questo comitato, il quale aveva assunta la terribile responsabilità del supremo conflitto, che all'epoca di cui parliamo teneva le sue riunioni in una grotta del Monte Aventino.

Tognetti aveva aspettato il suo amico Monti al cominciare del Ponte Rotto; avevano insieme varcato il Tevere in quel punto che serba ancora i vestigi dell'eroismo di Orazio Coclite, e costeggiando il fiume, si avviarono verso le falde dell'Aventino: essi dovevano recarsi alla grotta misteriosa.

S'inoltrarono in un vicoletto, che sale verso la vetta del colle, passarono fra le rotture di un muro diroccato, e traversato un breve spazio di ortaglia abbandonata e imboschita, trovarono, nascosta fra i rovi, l'ellera e i rottami l'imboccatura della grotta; il terreno scendeva lievemente, e la luce andava mancando di mano in mano che si procedeva.

Fatti dieci passi, Tognetti, che andava innanzi, si arrestò, toccò sulla sua diritta la parete umida e scabrosa del masso, e andò palpeggiando finchè trovò l'apertura, per la quale doveva voltare. Trovata che l'ebbe, s'inoltrò in quel fitto bujo.

Aveva mosso appena un passo là dentro, che si sentì bruscamente arrestato da una mano, che gli afferrò la giubba sul petto, e in pari tempo la punta aguzza di una lama di ferro, forando le vesti, venne a posarsi a fior di pelle sotto la sua mammella sinistra.

Tognetti sporse innanzi la testa cercando quella dell'assalitore, e all'orecchio di questo, mormorò:

—È il giorno dei morti!

Il pugno che stringeva il suo abito si aperse. La lama dello stiletto si ritrasse, e il giovane passò oltre.

Monti ripetè le medesime parole, e anch'esso passò.

Fecero molte giravolte, salirono e scesero degli informi gradini, ajutandosi in quella tenebra col continuo tentar delle mani, finchè arrivarono a una specie di sala a volta scavata nel sasso.

Era la grotta del Comitato.

Molte erano le persone quivi adunate; ma tanto poco era lo spiraglio di luce che arrivava là dentro, che gli uomini sembravano altrettante ombre dalle vaghe sembianze, dall'aspetto incerto e oscillante. Solamente dopo un lungo soggiorno che si fosse fatto là dentro, si poteva pervenire a veder chiari gli oggetti.

Quando i due compagni giunsero nel luogo della riunione, una voce parlava, una voce franca, ardita, impetuosa.

—È tempo, diceva, proseguendo in mezzo al silenzio degli altri un lungo discorso, è tempo ormai che vi laviate da questa macchia, o Romani. L'Italia segue con occhio intento i suoi figli, che mossero per liberarvi a prezzo del loro sangue. E guarda voi pure, e dice, sì, fratelli, ve lo dice colla mia bocca: E Roma, che fa, che non risponde all'appello? Sarebbe vero ch'essa ami le sue catene? Sarà vero che i nepoti degli Scipioni e dei Bruti siano schiavi adoratori del pontefice-re? Questa, questa è l'accusa che vi grava sul capo. A voi, Romani, a voi: rispondete.

La voce si tacque, e subito dopo un'altra, non meno maschia della prima, ma più giovanile, più ardente, proruppe dall'altro lato della grotta:

—Io, figlio di Roma, in nome di tutti risponderò.

Un mormorio di approvazione successe a quella parole. E Tognetti, che aveva riconosciuta quella voce, sussultò dal piacere, e stretta vivamente la mano di Monti, che aveva vicino, gli disse all'orecchio:

—Ascolta, ascolta! È Curzio che parla.

E Curzio, ch'era esso infatti, così riprese il suo dire:

—Io non dovrei rispondere colle parole. Tra poco Roma risponderà coll'azione, col sangue: ma io non posso lasciar cadere quest'accusa di codardia. Dite codarda Roma perchè non è insorta ancora! Ma non sapete che a Roma manca il suo sangue più caldo e più puro, e invece di quel sangue le circola nelle vene una tabe immonda e non sua? Che sono nove anni che i suoi figli migliori emigrano continuamente, e vanno ad accrescere le file dell'esercito italiano, e sono nove anni che piovono in seno a lei sciami di stranieri reazionari e feroci? Roma non si è ancora mossa! Ma ridatele, per Dio, il suo sangue, le sue forze! Sbrattatela una volta di questa canaglia cosmopolita, e allora, allora vedrete che cosa le sta nel cuore. No, la gente che oggi circola entro le sue sacre mura non sono i figli di Roma; questi voi li troverete là fuori, colla camicia rossa, col fucile del volontario. Coloro che ci circondano da ogni parte, coloro che ci stanno sopra a opprimerci il respiro, a soffocare ogni tentativo, a schiacciare ogni anelito del nostro cuore, sono i satelliti della reazione mondiale, sono le spie e i poliziotti d'ogni paese. Non è la soldatesca straniera che ci tiene schiavi, che paralizza le nostre forze. È questo fecciume di chierici e di delatori, che ha resa la nostra eterna città la cloaca dell'orbe intero. È questa melma, che ci avvolge, c'imprigiona, ci mozza il fiato. Un popolo inerme ma generoso può insorgere contro una truppa agguerrita: ma come guardarsi le spalle dal tradimento, quando vi sta intorno una turba infinita di delatori o di birri? E costoro non sono romani, per Iddio! Tenetelo a mente, sono i clericali di tutta la terra, che hanno piantata la loro cittadella qui, nel cuore d'Italia. Questa è la nostra situazione; per questo furono finora sventati i nostri intendimenti; per questo, Dio nol voglia, ma io temo che il nostro tentativo sarà soffocato nel sangue. Io lo temo, sì, perchè so che siamo circuiti, spiati, e per ogni buon cittadino romano v'hanno cento delatori forestieri che lo tengono d'occhio. Non importa, noi daremo tutte le nostre forze, tutta la nostra vita per la patria, protesteremo almeno colla morte contro il governo dei preti. Il plebiscito di Roma sarà scritto, non foss'altro, col sangue de' suoi cittadini cadenti sotto il piombo de' mercenari stranieri, o sotto la mannaja del pontefice. All'armi, all'armi dunque, o veri Romani! In questo supremo momento taccia ogni rancore; tutti siamo concordi in un solo volere. Mostriamo all'Italia, al mondo intero che non vogliamo, no, non vogliamo essere sudditi di un sacerdote coronato, che insulta il Vangelo e la croce di Cristo!

Curzio aveva pronunziato il suo discorso con quella foga irresistibile della passione che trascina invincibilmente gli uditori. Tutto l'entusiasmo dell'amor patrio e dell'abnegazione era impresso nelle sue parole. Pareva che in lui rivivesse lo spirito di quel grande di cui portava il nome.

Il fremito che percorse l'assemblea fece comprendere che quel fervido impulso si era rapidamente trasfuso a commuovere tutti gli astanti.

—Andiamo, dunque!

—Alle armi!

—Viva la libertà!

Così gridarono molte voci, e insieme si udirono in quella oscurità il rumore delle lame sguainate e lo scricchiolio de' revolver.

—Fermate! aspettate! gridò in quella la voce calma e severa di un uomo, che pareva il capo della riunione. Ogni movimento incomposto condusse sempre a rovina. È necessario adunque che le nostre mosse siano coordinate insieme, e regolate da un piano, perchè più pronto e sicuro sia l'effetto. Solamente una disciplina assoluta accoppiata a disperato coraggio può condurre a buon termine un'impresa come la nostra. A me dunque; ascoltate. Brevi saranno le mie istruzioni. Pronta e rapida sia l'azione. Il movimento deve aver principio alla stessa ora in diversi punti di Roma, per distrarre e dividere le forze dell'inimico: una volta impegnata la lotta, la città intera diverrà il campo della battaglia. Il centro dell'azione dev'essere il Campidoglio; la campana di quella torre, che rappresenta anche oggi il capo di Roma, risveglierà e chiamerà all'armi tutti quanti i cittadini. L'antico propugnacolo della grandezza romana diverrà la rocca inespugnabile della nascente libertà. Ottocento giovani scelti guidati dai loro capi-sezione sono già destinati dal comitato a occupare il Campidoglio, e a porvi il presidio. Le armi necessarie a tale impresa sono nascoste in una vigna fuori di Porta San Paolo. Al momento dell'azione è necessario che quelle armi siano introdotte a forza per la porta San Paolo sbarrata e occupata dagli zuavi del Papa. Duecento giovani sono destinati a questo colpo: essi usciranno alla spicciolata dalla Porta San Giovanni, che è l'unica aperta in questo giorno, si riuniranno in prossimità della vigna; e dopo aver caricate le armi sui carri, si avvieranno con quelle verso la Porta San Paolo. Frattanto alla medesima ora un altro drappello dall'interno della città assalirà il corpo di guardia degli zuavi, se ne impadronirà, e aprirà la porta ai compagni che sopraggiungono colle armi. Queste saranno rapidamente distribuite agli ottocento giovani destinati alla presa del Campidoglio, i quali si troveranno disseminati per tutte le vie che da Porta San Paolo, per la Marmorata, Bocca della Verità e Piazza Montanara conducono al Campidoglio; ed essi non tarderanno un istante ad occuparlo. Mentre si compirà questa fazione, in tutti gli altri punti principali della città deve scoppiare simultaneamente l'insurrezione: sarà cura di ogni capo-sezione di avvertire e raccogliere al dato momento gli uomini del suo rione. In Piazza Colonna si attaccherà il corpo di guardia, e quivi si aduneranno gli uomini destinati a impadronirsi del Comando di piazza e del palazzo di polizia a Monte Citorio. In pari tempo la caserma degli zuavi sarà minata; quello scoppio servirà di segnale a tutti gl'insorgenti di Borgo e della Longara. Romani, fratelli! il momento supremo è giunto! Concordia e prontezza nell'azione, e la vittoria sarà per noi! L'ora fissata pel principio dell'azione è quella delle sette.

Il capo tacque; alle sue parole successe un silenzio pieno di solennità; ognuno sentiva la gravità di quell'ora. Dagli uomini là radunati dipendeva la vita dei concittadini, la salute della patria. La maggior parte di loro era forse in quell'istante consacrata alla morte.

Prima di separarsi, sentirono spontaneamente la necessità di un bacio fraterno. Ognuno abbracciò il suo vicino, come si abbraccia l'uomo che va a morire.

Monti e Tognetti aspettarono Curzio sull'imboccatura della grotta.

Egli si pose in mezzo a loro; li prese per mano, li trasse in disparte, e tutto lieto loro disse:

—Coraggio, amici miei! a noi è affidata la missione più importante: quella di far saltare in aria la caserma degli zuavi!…

VIII.

L'insurrezione.

Sciolta l'adunanza della grotta, i capi-sezione si affrettarono a recarsi al proprio rione; quivi ognuno, per mezzo de' suoi sotto-capi, uomini fedeli e provati, diede l'avviso agli uomini della sua squadra.

I capi-sezione avevano ricevuto nel seno del Comitato l'indicazione delle speciali incombenze che a ciascuno erano affidate, ed essi alla loro volta, diramando i loro comandi, adopravano che ognuno all'ora fissata si trovasse al suo posto, pronto al cimento.

I cittadini romani, dipendenti da quei caporioni, erano animati da uno spirito ardente, erano ansiosi di venire alla lotta. E se un generoso proposito, sorretto dalla gagliardia dell'azione, fosse bastato pel trionfo della causa migliore, a quest'ora la bandiera dei tre colori sventolerebbe vittoriosa sulla vetta del Campidoglio.

Ma un malefico genio sovrastava all'impresa. Curzio aveva detto pur troppo il vero. Gli sforzi magnanimi dei patrioti romani erano paralizzati da quel colossale spionaggio che la Curia romana accumulò in tanti anni, chiamando in suo aiuto tutti gli avanzi della barbarie che i popoli civili hanno ributtati innanzi all'impulso della libertà.

E se gli sforzi riuscirono vani, se inutilmente fu sparso il sangue di tanti generosi, la colpa è tutta di questo mostruoso connubio della rete di Pietro collo scettro di Nerone.

La delazione, dalla quale i patrioti non potevano difendersi, fu quella appunto che fin da principio sventò il piano della rivolta.

Nel momento stesso in cui il Comitato aveva raccolti nella grotta di Monte Aventino i capi-sezione e tutti quei congiurati ai quali era devoluta una importante missione da compiere, il direttore della polizia, nel suo palazzo di Monte Citorio, veniva avvertito da' suoi confidenti segreti, che fuori della Porta San Paolo, e precisamente nella vigna Matteini, stava nascosto un deposito di armi e di munizioni che dovevano servire per la insurrezione di Roma.

È facile immaginare l'allarme che produsse nel Governo una tale notizia; le precauzioni furono adottate, gli ordini furono diramati in un lampo; e mentre si raddoppiava il presidio dei corpi di guardia, e si mandavano grosse pattuglie per la città, una colonna, composta di una compagnia di zuavi e di mezzo squadrone di gendarmi a cavallo, moveva verso la Porta San Paolo.

Alle ore cinque e un quarto pomeridiane quella colonna giungeva alla vigna Matteini, e la circondava.

In quell'ora non si trovavano alla vigna che otto uomini. I duecento giovani destinati ad introdurre in città le armi e le munizioni non dovevano raccogliersi in quel luogo se non che verso le sei ore e mezzo.

Al primo presentarsi della truppa, quegli otto valorosi, che avevano la custodia del deposito, tentarono una resistenza impossibile esplodendo i loro fucili, ma ben presto furono sopraffatti dal numero, e alcuni di essi vennero uccisi, altri arrestati.

Così le armi che dovevano servire alle forze della rivolta, caddero in potere dei satelliti dell'oppressione.

Frattanto i giovani, che alla spicciolata uscivano dalla Porta San Giovanni per recarsi, girando le mura, alla villa Matteini, venivano di mano in mano, senza possibile resistenza, arrestati dalle numerose pattuglie che colà erano state a tal uopo disposte.

Non ostante queste precauzioni della polizia e della forza militare, nei dintorni del Monte Testaccio era riuscito di adunarsi al drappello destinato ad attaccare dal di dentro della città la Porta San Paolo, per facilitare così l'ingresso ai compagni, che dovevano recare dalla vigna le armi e le munizioni.

Infatti, all'ora fissata delle sei e mezzo, ignorando che le armi erano cadute in mano dei pontificj, quell'ardito drappello assaliva bravamente il corpo di guardia della Porta San Paolo.

Gli zuavi di guardia, superiori di numero, si difesero con accanimento, ma dovettero cedere all'impeto degli audaci Romani; questi s'impadronirono della porta, e non potendo aprirla, vi appiccarono il fuoco, e così schiusero il varco. Ma in quella che credevano d'incontrarsi coi loro compagni, reduci col carico delle armi dal luogo del deposito, s'imbatterono invece nelle truppe inimiche, che di quelle armi si erano appunto allora impossessate.

Non si scoraggiarono i patrioti di contro alla preponderanza del numero e all'avversità dell'opposta fortuna. Si fecero baluardo della porta, e tennero fermo.

La compagnia degli zuavi si avanzò alla bajonetta: fu accolta con un fuoco vivissimo, e costretta a ripiegare.

Allora mossero innanzi i gendarmi a cavallo, mulinando colle sciabole sguainate: i patrioti li aspettarono di piè fermo, e combattendo disperatamente li posero in fuga.

La colonna pontificia si ritirò nella vigna Matteini, e la Porta San
Paolo rimase in potere di quel pugno di forti.

Intanto gli ottocento uomini destinati ad occupare il Campidoglio aspettavano inutilmente le armi, dispersi pel lungo tramite di vie che dalla Marmorata conduce fino a' piedi di quel colle.

Così inermi, isolati, e delusi nell'aspettativa, furono in breve circondati da un fitto cordone di truppe. Affrontarono imperterriti il fuoco nemico, ma circuiti da ogni parte e oppressi dalle forze sproporzionate degli assalitori, furono per la maggior parte arrestati, e tradotti nelle riboccanti carceri pontificie.

Non ostante il cumulo di questi disastri, o la mancanza delle armi, tutti quelli che poterono sottrarsi all'arresto, o liberarsi violentemente dalle mani degli sgherri papali, si lanciarono verso il Campidoglio. Erano pochi, divisi e muniti a mala pena di qualche fucile e di alcune bombe all'Orsini: ma pure sarebbero bastati all'impresa, se anche in questa non li avesse attraversati l'opera nefanda dello spionaggio.

Il Governo pontificio, avvisato fin dalla mattina del tentativo che si preparava, aveva fatto occupare improvvisamente il palazzo dei Conservatori, in cima del Campidoglio, da più compagnie di cacciatori esteri.

Così, quando gl'insorti si avanzarono per occupare quella posizione, furono ricevuti da una scarica tremenda, che partendo dalle finestre del palazzo e colpendoli di fronte, ne rovesciò la maggior parte sul terreno. La grande scalinata del Campidoglio apparve tutta seminata di cadaveri e bagnata di sangue.

Tutti i superstiti seguitarono a salire, esplodendo i loro fucili.
Dalle finestre del palazzo continuava a partire un fuoco vivissimo.

Intanto i popolani del rione dei Monti, guidati dai loro capi-sezione, tentavano di giungere sul Campidoglio dalla parte del Foro Romano.

Si diedero a salire per le due gradinate secondarie dal lato dell'arco di Settimio Severo e da quello della Rupe Tarpea.

Quegli sbocchi erano fortemente occupati dai cacciatori esteri e dai gendarmi.

I Romani si trovarono nella svantaggiosa situazione di chi sale, combattendo contro chi si trova in alto; erano pochi e quasi inermi contro i molti e armati, ma pure procedevano animosi.

Si combatteva da ogni parte del Campidoglio: frequenti e micidiali erano i colpi dei soldati; scarsi e spesso vani quelli degli insorti.

La sacra collina, la fortezza di Roma, era come in antico attaccata e difesa accanitamente. Ma questa volta non erano i barbari che assalivano, non erano i romani che resistevano.

I barbari chiamati dai sacerdoti stavano accampati sul Campidoglio; e il popolo romano tentava invano di ripigliare ciò che la frode gli tolse, e gli contrasta la forza.

Lunghi ed eroici furono gli sforzi degli insorti, ma il soccorso delle truppe fresche in vantaggio dei pontificj decise della giornata.

I popolani, assaliti a tergo da nuove compagnie di cacciatori esteri, partiti al passo di corsa dalla vicina caserma, furono schiacciati fra due fuochi, mentre la fucilata continua del palazzo spazzava la grande scalinata.

Funeste del pari procedevano le sorti della rivolta in altri punti di
Roma; e dappertutto invano si spargeva il sangue cittadino.

Il deposito di revolver destinato ad armare quei patriotti che dovevano attaccare il comando di piazza e il palazzo di polizia a Monte Citorio, fu scoperto anche quello per opera dei delatori, e venne sequestrato nel momento appunto in cui si doveva farne la distribuzione.

Pur tuttavia si tentò l'impresa; uccisa la sentinella, gli insorti attaccarono il corpo di guardia di Piazza Colonna, esplodendo delle bombe all'Orsini, unica arma che lor rimanesse: ma furono soprafatti dai drappelli di cavalleria che quivi giunsero a sgominarli.

IX.

La Caserma di Serristori.

Mentre accadevano le cose narrate nei capitoli precedenti, Curzio, Monti, e Tognetti si accingevano all'opera, ch'era stata affidata al loro patriottismo. Una delle parti più importanti del piano d'insurrezione era certamente la mina della caserma Serristori.

La caserma situata nel rione di Borgo, e a poca distanza dal palazzo del Vaticano, era occupata dagli zuavi pontifici. Questo corpo è reclutato fra i clericali più fanatici e feroci, su tutti i punti del globo. È un'accozzaglia di gente, di stirpi, e di lingue diverse, che non ha altro vincolo comune se non che l'acciecamento e l'intolleranza religiosa. Sono i giannizzeri del potere temporale.

Facendo saltare in aria quella caserma, e con essa la maggior parte degli zuavi, si toglieva il nerbo principale delle truppe papali, e mentre gl'insorti si trovavano a fronte di un numero preponderante, s'impediva almeno che nuove forze sopraggiungessero ad opprimerli del tutto, siccome poi sgraziatamente avvenne.

Quella operazione non era però senza un grave pericolo, e si richiedeva ad eseguirla una straordinaria audacia combinata col massimo sangue freddo. Fu perciò che Tognetti, il quale godeva tutta la fiducia dei capi, avendo ricevuto insieme a Curzio l'incarico di quella impresa, pensò di associarsi nella esecuzione l'opera dell'amico Monti, del quale gli erano noti così il coraggio come la sicurezza.

Si trattava d'introdursi in un magazzino di armi sottoposto alla caserma, al quale si poteva accedere per una porta che si apriva sulla via di Borgo Vecchio, introdurvi dei barili di polvere, e appiccarvi il fuoco. Conveniva eludere la vigilanza delle sentinelle, e correre il pericolo imminente di rimanere vittima dell'esplosione.

L'impresa era stata da lunga mano preparata dai capi; erasi fabbricata una chiave, che poteva aprire dal di fuori il magazzino, si erano riempiti di polvere due grossi barili, e finalmente si erano eseguite delle esperienze, dirette a conoscere se l'esito del colpo sarebbe riuscito quale si voleva.

Fu concertato fra i tre compagni che Monti e Curzio per primi, passando per la via di Borgo Vecchio, sarebbero entrati rapidamente nel magazzino, richiudendo la porta; per essere pronti ad aprirla quando Tognetti, che andava in traccia dei barili di polvere, fosse sopravvenuto con quelli in una vettura.

Pochi istanti prima che Monti e Curzio entrassero nel magazzino, questo era occupato da più zuavi.

Un capitano si era recato, con un sergente e diversi soldati, a prendervi delle munizioni, per due compagnie che dovevano andare a rinforzare il posto di Porta San Paolo. Là, come sappiamo una intera colonna di pontificj aveva impegnata battaglia contro pochi valorosi, ed era stata respinta.

Mancavano pochi minuti alle sette ore, quando Curzio e Monti, entrarono dentro il magazzino, e lo trovarono affatto vuoto di gente.

Il loro ingresso era passato inosservato anche al di fuori.

Era una vasta camera terrena a vôlta, e in quel momento, dopo richiusa la porta vi regnava una perfetta oscurità.

I due compagni s'inoltrarono cautamente a tentoni, tenendosi per mano.

Curzio inciampò in qualche cosa che diede un suono metallico.

Sporse innanzi la destra e tastò. Era un fascio di fucili.

Procedettero innanzi, e questa volta fu Monti che incespicò, e quasi cadde: aveva inciampato contro un mucchio di mattoni.

Quivi si fermarono, argomentando di trovarsi nel bel mezzo del camerone.

—Eccoci nel magazzino, disse Curzio a bassa voce. E qui sopra sta la caserma degli zuavi.

—Ed ora, disse Monti, aspettiamo Tognetti. Non tarderà molto.

—Le cose sono male avviate, riprese il primo, e senza questo colpo decisivo la causa della libertà è perduta.

—Ma si sentono sempre delle fucilate. I nostri si battono tuttora.

—I nostri sono inermi, che vengono scannati senza pietà dalle bajonette e dal piombo degli stranieri. Sì, Monti, or ora n'ebbi l'avviso. Le spie della polizia hanno scoperto il deposito delle nostre armi fuori della Porta San Paolo, e tutti i fucili colle munizioni furono sequestrati. In questo momento il popolo romano senz'armi e senza difesa è abbandonato alla strage.

—Ma dunque non c'è speranza?

—Sì, Monti, c'è una speranza ancora. I nostri stanno in questo momento assaltando il Campidoglio, sono armi per essi il furore e il disperato coraggio. Quando noi avremo fatto saltare questa caserma, e avremo impedito così che nuovi nemici vadano ad assalirli alle spalle, non tarderanno a impadronirsi di quel sacro e antico asilo di libertà. Colassù potremo tener fermo finchè ci giunga il soccorso di Garibaldi. È necessario che l'alba di domani vegga sventolare la bandiera nazionale sulle alture di Roma; altrimenti tutto è finito.

Una vettura si fermò sulla strada, e poco dopo un colpo leggerissimo fu bussato alla porta.

Curzio si avvicinò, e chiese sommessamente:

—Chi è?

—La Libertà di Roma! rispose piano del pari la voce di Gaetano
  Tognetti.

La porta fu aperta. E Tognetti coll'ajuto dei due compagni, trasse dalla vettura, e introdusse nel magazzino due barili, poi entrò dentro anch'esso.

La porta fu richiusa: la vettura partì.

—Come vanno le cose nostre?

Così chiese Curzio a Tognetti.

—Male, rispose. I nostri si trovano dappertutto senz'armi, e vengono massacrati senza pietà.

—Bisogna pensare a soccorrerli, disse Curzio. Entrando qui dentro abbiamo urtato in un fascio di fucili. Eccoli… sono qua. Noi porteremo loro queste armi.

—Ma prima, disse Tognetti, dobbiamo eseguire questo colpo della mina.

—Per la mina basto io solo! esclamò Monti. Voi altri andate.

—Che dici?

—Sì, fidatevi di me! penso io a tutto. Voi altri andate ad assistere i nostri fratelli, che si battono uno contro dieci.

—Qua, Tognetti, dammi la miccia e parti, al resto penso io.

—La miccia?

—Ma sì.

—Ah! non ci ho pensato!

—Disgraziato! e come fare?

—Vado a cercare…

—Ma no, non v'è da perdere un istante. Ogni minuto che passa costa la vita di cento romani.

—Non c'è più scampo!

—No, no, disse Monti. C'è un riparo!

—Quale? chiesero Curzio e Tognetti, ansiosamente, a una voce.

—Ecco qua: io tengo in saccoccia dei fiammiferi e un pezzo d'esca, questo mi è sufficiente.

—Che dici?

—Andate voi altri. Qui basto io solo, vi dico.

—No, no: un tanto pericolo vogliamo dividerlo con te.

—Ah sì!

—E i fratelli che hanno bisogno del nostro soccorso, li lascerete voi senza ajuto? Andate! non perdete tempo; andate a portar loro dei fucili.

—Ma tu come farai?

—Accenderò questo pezzo d'esca, poi lo porrò vicino alla polvere.

—Ma tu ti esponi così a una morte quasi sicura.

—Non importa: se io rimango morto, pensate voi alla mia povera moglie, a' miei figli.

—L'Italia intera ci penserà, disse Curzio. Tu rinnovi l'eroismo di
Pietro Micca.

—Andate, andate; prendete i fucili.

—E dobbiamo lasciarti solo in tanto rischio!

—Non andate ad arrischiare la vita anche voi altri? correte dove c'è bisogno di voi.

I tre patrioti si strinsero le destre in atto di supremo addio.

Curzio e Tognetti si caricarono di quanti fucili poterono portare, ed uscirono.

Monti rimase solo.

Chi potrà dire quanti e quali pensieri gli corsero per la mente in quell'istante? V'hanno dei momenti nei quali si comprende una eternità di idee, e quello fu l'un d'essi per Monti. Egli pensò certo a sua moglie e a' suoi figli, che aveva nominati poco prima; alla moglie e ai figli, che stava forse per lasciare abbandonati e soli sopra la terra!

Pure egli non cedette a lungo al fascino di quei pensieri: l'idea del dovere, dell'obbligo ch'egli si era assunto in faccia ai compagni, lo dominò, e si accinse all'opera.

Assuefatto al barlume di luce che rischiarava debolmente il magazzino, scorgeva abbastanza gli oggetti che lo circondavano.

Andò a prendere i due barili di polvere nel luogo dove erano stati deposti, e ad uno ad uno li trasportò nel mezzo della camera. Li dispose in modo che le due bocche s'incontrassero.

Poteva avvenire però che non prendessero fuoco insieme. Per ovviare a questo inconveniente, dispose fra le due bocche un mattone, ed estratto da uno dei barili un pugno di polvere, la seminò su quel mattone in modo che servisse di strada da una bocca all'altra.

Toccò di nuovo i barili, si assicurò che fossero ben disposti, che la polvere di ognuno d'essi si congiungesse a quella del mattone.

—Ed ora, pensò, mi protegga Iddio!

Estrasse di saccoccia il pezzo di esca, lo palpò, lo stirò. Poi trasse fuori un astuccio, ne cavò un fiammifero, e lo accese fregandolo contro il medesimo astuccio.

Accostò uno dei capi dell'esca alla fiamma di quel fiammifero, poi la buttò via.

Si assicurò che l'esca fosse bene accesa soffiandovi sopra; poi, aiutato dal debole chiarore che spandeva lo stecco dello zolfanello, tuttora ardente per terra, appressò l'esca alla polvere sparsa sul mattone, e quivi la depose in maniera che coll'estremità non accesa toccasse la polvere¹.

¹ Questi particolari sono esattamente conformi alla stessa confessione fatta dal Monti durante il processo

Dopo ciò, procedendo a tentoni, ma rapidamente, Monti trovò la porta, ed uscì sulla via.

Era giunto appena nella vicina piazza di Scossa-Cavalli, che una detonazione spaventosa lo avvertiva che la mina era scoppiata.

X.

Ultimi sforzi.

Lo scoppio della mina non produsse quell'effetto che il Comitato di
Salute Pubblica erasi ripromesso.

Solo una parte della caserma crollò, e precisamente quella ch'era situata sull'angolo della via Borgo Vecchio, e soli trentaquattro zuavi furono travolti nella rovina. La maggior parte degli zuavi era assente dalla caserma: chè, quando avvenne lo scoppio della mina, nuove compagnie erano già partite alla volta di Porta San Paolo.

Ormai piegavano senza riparo le sorti della rivolta.

I patrioti che accorsero al segnale dello scoppio furono arrestati dalle grosse pattuglie che sbarravano le vie.

Al Campidoglio, a Piazza Colonna, gl'insorti erano sbaragliati.

Solo resisteva ancora la Porta San Paolo. E contro quell'ultimo baluardo della libertà si scagliarono tutte le forze del dispotismo clericale.

Nuove colonne giungevano ogni momento a rinforzare l'attacco di fronte a quell'eroico drappello, che resisteva coll'energia della disperazione.

Solamente alle nove e mezzo della sera le truppe papali giunsero a ricuperare la Porta San Paolo, mentre i suoi difensori si disperdevano, cercando un asilo nelle vigne circostanti.

In quella sera la città presentava da ogni parte un desolante spettacolo: le strade, vuote di cittadini, erano asserragliate dalle truppe accampanti sulle piazze, e percorse da minacciose pattuglie. Intanto i gendarmi e i poliziotti andavano a picchiare alle case chiuse ed oscure, atterravano le porte, invadevano le dimore delle famiglie, strappavano i Romani dalle braccia delle mogli, delle madri, dei figli, per trascinarli nelle prigioni.

Bastava il più lieve sospetto, la più calunniosa delazione per incorrere in quella sorte. L'accusa sola era l'arresto, era il processo, era la condanna. Le spie e i birri stavano padroni della situazione.

Tutti quelli ch'erano segnati in nero nel libro della polizia (ed erano molti) in quella sera venivano ricercati. Nessuno era sicuro nel proprio letto!

Cupo e silenzioso sorse il giorno 23 ottobre sull'angustiata città. Quanti patrioti poterono sottrarsi alla carcerazione, e passare illesi attraverso dei fitti cordoni di truppa che barricavano in ogni parte le strade, accorrevano presso il Comitato, dicendo:

—Bisogna continuare a qualunque costo!

V'era però una fatalità che si frapponeva a quella tenace energia: era la mancanza di armi.

Dopo la vittoria riportata da Menotti a Monte Maggiore, respingendo, gli zuavi del papa, il campo dei garibaldini giungeva fino a Monte Libretti, a poche miglia da Roma. La presenza di Garibaldi, che alcuni giorni prima era giunto fra i volontari, aveva infuso nuovo spirito in quei valorosi, ed essi si accingevano all'ultimo attacco. Però le fortificazioni dei pontificj non permettevano ai garibaldini di avanzarsi colla celerità, che avrebbero voluto adoprare.

L'insurrezione di Roma doveva agevolare l'opera loro: ma il primo tentativo di rivolta fu represso nel modo che abbiamo veduto.

Il Comitato, incuorato dal coraggio indomito dei patrioti, si dispose alla riscossa. Organizzò un nuovo movimento, e frattanto spedì dei messi al campo dei garibaldini, perchè facessero noto il bisogno estremo di armi, in cui si trovavano i Romani.

Fu allora che i prodi fratelli Cairoli si accinsero a quell'ardua impresa, che doveva costare all'uno di essi e a molti compagni la vita.

Si unirono ad altri cinquanta animosi, e caricati di un buon numero di fucili, presero via pei monti Parioli, con intendimento di penetrare ad ogni costo nella città, e recare quel prezioso soccorso ai cittadini di Roma.

Giunti alla vigna Glorio fuori di porta del Popolo, alla distanza di due miglia circa dalla città, si fermarono quivi ad aspettare, secondo i concerti presi, il momento opportuno per introdursi in Roma.

Erano le ore 4 pomeridiane di quel giorno 23 ottobre quando il loro asilo fu scoperto.

La vigna Glorio venne assalita da cinquecento zuavi, che combatterono dieci contro uno.

I magnanimi compagni si difesero eroicamente, ma furono schiacciati dalla forza preponderante.

Il sangue italiano scorse a larga mano sotto le bajonette dei mercenari papali!

Frattanto le porte della città erano barricate e munite di artiglierie; i ponti sul Tevere erano minati per opera delle truppe; tutti i posti di guardia raddoppiati. Le pattuglie a piedi e a cavallo erano in moto giorno e notte. La piazza Colonna, piazza del Popolo, il Campidoglio, il Pincio, il Quirinale, tutti insomma i punti strategici, erano mutati in altrettanti campi trincerati, dove accampavano continuamente le colonne pontificie; la circolazione, divenuta difficile di giorno, era impossibile la sera. Roma dopo l'imbrunire era affatto deserta di popolo, occupata solo dai soldati.

Tale era l'aspetto della città in quelle funeste giornate; e intanto la polizia proseguiva imperturbabile ne' suoi arresti. Le prigioni non bastavano più ai detenuti, schifosamente agglomerati nei cameroni, nelle segrete, nei sotterranei, dappertutto.

Finalmente il generale Zappi proclamò ufficialmente lo stato d'assedio, e impose il disarmo generale, nuovo pretesto di perquisizioni e d'imprigionamenti.

Roma era dunque stretta in un cerchio di ferro e di bronzo; e mentre gli sgherri stranieri ribadivano le sue catene, i feroci poliziotti esercitavano liberamente il loro ufficio di manigoldi.

Eppure non cadde ancora l'animo dei generosi, che avevano giurato di vincere o morire, e coi polsi insanguinati dai ceppi, e col ginocchio degli oppressori sul petto, tentarono gli sforzi estremi contro la tirannide sacerdotale che li soffocava.

In vari punti della città s'impegnarono accaniti conflitti fra il popolo inerme e i prepotenti sgherri del papa.

A San Lorenzo e Damaso una compagnia di Antiboini, che traduceva un drappello di prigionieri romani, fu assalita dal popolo, costretta a lasciare i prigionieri, e cacciata in fuga.

Altre pattuglie venivano nello stesso tempo aggredite con bombe all'Orsini verso piazza di Pasquino, a Santa Lucia della Chiavica, alla Trinità dei Pellegrini, ai Monti, e in altri luoghi.

Questi atti di disperata audacia costarono nuove vite di cittadini, ma non valsero a smuovere le falangi reclutate dall'avidità e dal fanatismo su tutta la superficie del globo.

Il fatto più memorabile di quei giorni, e che formerà soggetto d'altra storia, fu quello della casa Ajani.

In quel vasto lanificio di Trastevere alcuni patrioti andavano faticosamente raccogliendo armi e munizioni nell'intento di adoperarle nel nuovo tentativo che si ordiva.

Per opera dei soliti delatori, la polizia fu avvertita di quei preparativi. Alle due antimeridiane del 25 ottobre una compagnia di gendarmi, coadjuvata da un battaglione di zuavi si presentò alla casa Ajani, intimando la consegna delle armi e la resa.

Alla minacciosa intimazione i Romani risposero impegnando un sanguinoso conflitto. Erano cinquanta, e non avevano che 28 fucili e 20 bombe alla Orsini!

Quattro ore durò la lotta; e ad ogni istante accorrevano nuove milizie in soccorso degli assalitori.

Il popolo, dalle contrade vicine, tentava ogni mezzo per ajutare i difensori della casa. In mancanza d'armi, i popolani di Trastevere rovesciavano sul nemico mattoni, sassi, masserizie, quanto loro veniva alle mani.

Propagatasi la notizia del conflitto, da ogni parte i cittadini, quantunque inermi, tentavano di accorrere in soccorso dei loro fratelli, ma in ogni contrada le comunicazioni erano chiuse da un fitto cordone di truppe; vano ogni ardimento.

Anche questa volta la fortuna sorrise ai carnefici. I prodi difensori della casa Ajani, isolati, divisi dai loro concittadini, circuiti da un migliajo di combattenti nemici, consumate le munizioni, esauste le forze, ma non il coraggio, furono assaltati dagli zuavi, che giunsero a penetrare dentro la casa.

Non cedettero quei valorosi: e lottando corpo a corpo, contrastarono ogni palmo di terreno ai soldati irrompenti. Nell'atrio, sulle scale scorreva il sangue. Le donne combattevano al fianco degli uomini, e cogli uomini cadevano trafitte, senza mandare un lamento.

Una di esse, Giuditta Tavani romana, incinta di sei mesi, con un suo bambino in braccio, combatteva armata di revolver, e vicino a lei combatteva un suo figliuoletto, garzoncello di tredici anni.

Ferita da molti colpi di bajonetta, Giuditta seguitava a lottare, e a difendere i suoi figli: finalmente cadde colpita da una palla nel mezzo del petto. L'eroica donna, il suo ragazzo, il bambino furono sgozzati senza pietà dai soldati del papa!

La lotta durò continua di piano in piano, di stanza in stanza; finchè, divenuta impossibile la resistenza, incominciò la strage; uomini, donne, fanciulli, combattenti e inermi, furono passati a fil di bajonetta o moschettati.

Così Roma nel 25 ottobre suggellò col proprio sangue il voto, che col sangue istesso aveva scritto il 22, e quel voto suonava: Odio eterno alla sovranità del papato!

In quel medesimo giorno 25, Garibaldi, quasi per vendicare gli assassinati di casa Ajani, riportava la splendida vittoria di Monte Rotondo. Molti pontificj restarono morti in quella gloriosa giornata, e duecento prigionieri e tre cannoni caddero in potere dei nostri.

È un nuovo passo verso Roma: anche uno sforzo e Garibaldi vi sarà entrato. Già i suoi volontari inseguono i papalini fin sotto le mura, ed esso dal casino di San Colombo in vista della città avverte i romani di tenersi pronti al supremo cimento…. quando le truppe francesi sbarcano a Civitavecchia, e alle ore tre pomeridiane del 30 ottobre entrano in Roma!

XI.

L'osteria della Sora Rosa.

Ai bevitori del buon vino dei Castelli era nota una taverna, situata in un vicolo a piedi del Monte Quirinale, a poca distanza della fontana di Trevi. Era l'osteria della Sora Rosa.

La Sora Rosa, l'ostessa, stava imperturbata al suo banco nei giorni di sommossa come in quelli di reazione, o che si dovesse nella sua bettola organizzare una rivolta, od operare un arresto; era amica dei liberali, come delle spie, purchè suoi avventori, e purchè pagassero: era un'immagine di quelle antiche deità che i pagani fingevano indifferenti ai casi umani, immutabili per volger di tempi e di eventi.

Era la sera del 30 ottobre; del giorno stesso in cui i Francesi erano entrati in Roma, troncando ogni speranza di ulteriori tentativi, rendendo vani tutti gli eroici sforzi tentati fino allora. L'osteria della Sora Rosa presentava un aspetto singolare. Da un lato stavano seduti alcuni uomini del popolo, dall'aspetto torbido e cupo. Giuocavano e bevevano, eppure sembrava che li occupassero altri pensieri che non erano quelli del vino e delle carte.

A un altro tavolo stavano a cioncare allegramente alcuni zuavi, un tedesco, uno spagnuolo, un francese, bella miscela di fedeli credenti!

Erano lieti; nei giorni passati avevano sacrificate tante vite di scomunicati rivoluzionari, alla maggior gloria del Santo Padre, che già credevano di vedere schiuso sulle loro teste un lembo di paradiso.

Erano lieti: avevano per tanti giorni, ricevuto un lauto soprassoldo, che le loro tasche riboccavano di monete d'argento, portanti la effigie del benedetto pontefice e re.

Erano lieti, per Dio! Non erano forse sopraggiunti i Francesi a sorreggere la loro fortuna vacillante, a ricacciare indietro i garibaldini colla furia dei fucili Chassepots?

Epperciò esalavano la loro letizia in ogni maniera possibile. Bevevano, canticchiavano, cozzavano insieme i bicchieri, facevano brindisi al Papa e alla Francia, al buon vino e alle monete d'argento, alla morte degli eretici romani, e alla prosperità della chiesa cattolica.

E quand'ebbero cioncato e inneggiato a loro bell'agio, si alzarono traballando, si presero a braccetto, e se ne andarono cantarellando nelle loro tre lingue un coro degno dell'antica Babele.

Quando furono usciti dalla osteria, un giovane che giuocava gettò le carte rabbiosamente sul tavolo, e sclamò:

—Hanno ragione di cantare questi maledetti, hanno ragione! Uh! se non tornavano i Francesi, dàlli e dàlli, avremmo poi finito con cacciarli tutti quanti nel Tevere.

Vicino a quel giovane stava un uomo di mezza età, di grossa corporatura, di fisonomia sinistra, vestito con una giubba di velluto e con un cappello di feltro, calato sulla fronte.

Costui diede col gomito sul braccio a quegli che aveva parlato, e gli susurrò a mezza voce:

—Non vi fate sentire a dir queste cose; potrebbe succedervi qualche
  male.

—Io, caro mio, riprese l'altro, parlo come me la sento. Il cuore ce l'ho sulle labbra, io.

—Male, amico, male! A questi tempi il cuore bisogna tenerlo serrato a doppio catenaccio, come faccio io. Vi voglio bene, e per questo vi dò un consiglio di amico. Ci sono tante spie in giro!

—Accidenti a loro! a me non importa niente. Mi mandino anche in galera: ci starò per poco! Oh sì!

Un nuovo personaggio entrò nell'osteria.

Era un uomo di alta statura, tutto avvolto in un mantello, che gli celava parte del volto.

Quello sconosciuto passò vicino al tavolo, dove stavano i giuocatori; si arrestò per un istante vicino a quell'uomo di bieco aspetto, che aveva raccomandata la prudenza al suo compagno; gli battè sulla spalla, poi essendosi quello rivoltato a guardarlo, senza aprir bocca, gli fe' cenno di seguirlo, indi andò a sedersi in una tavola isolata e lontana da quella dove si giuocava.

L'uomo lo seguì, e sedette vicino a lui, poi disse:

—Ebbene? Che volete, compare?…

Si arrestò; guardò meglio l'incognito, lo riconobbe, e soggiunse rispettosamente:

—Lei! eccellenza!…

Ma l'altro lo interruppe, facendogli segno di tacere; poi chiamò il garzone dell'osteria, e fece portare un boccale.

—Che cosa fai qui, mascalzone? chiese l'uomo che veniva chiamato eccellenza, mentre il suo interlocutore, dopo aver riempito il bicchiere, lo vuotava in un fiato.

—Io farei la medesima domanda a lei, rispose questi con quel tuono mezzo officioso, mezzo insolente, che assume qualche volta la bassa gente quando il superiore si pone al suo livello.

—Rispondi a me. Che cosa fai qui?

—Sto qui, così… per passare un'ora… per divertirmi.

—Tu menti, mio vecchio Giano.

—Come vuole vostra eccellen…

—Taci!

Intanto l'uomo misterioso non aveva più la faccia coperta dal mantello, e Giano poteva liberamente riconoscere nelle sue fosche sembianze il principe Rizzi.

Era proprio desso, ch'era venuto incognito e solo nell'osteria della
Sora Rosa: ora vedremo a qual fine.

—Tu menti, replicò il principe. Vuoi che io ti dica perchè sei qui?

—Avrei piacere di saperlo, disse Giano.

—Prima di tutto, tu aspetti una persona.

—Questo è vero. Avanti.

—Questa persona è un giovane chiamato Curzio, un settario, uno dei capi della rivoluzione.

—Questo poi! fece Giano con una smorfia. Non sono capace!

—Zitto là! disse bruscamente il principe, e proseguì: Tu l'aspetti per farlo fuggire. Hai già pronti i cavalli che devono portarlo fuori di Roma, ed anche oltre il confine. Tu tieni lì in saccoccia…

—Che cosa? i cavalli?

—Il falso passaporto che deve servire per la fuga di quel giovane.

—Ma, eccellenza, per chi mi prende?

—Ti prendo appunto per quello che sei. Tu tieni anche in saccoccia la somma di duecento scudi romani, dei quali cento devono servire per tuo compenso, e gli altri cento per le spese della fuga.

—Vedo ch'ella è informata proprio benino, e io non persisterò a negare, purchè mi dica come mai ha saputo…

—Io so inoltre, che la persona, la quale ti ha dato quei duecento scudi insieme all'incarico di questa impresa, non è altri che la mia signora moglie, la principessa Rizzi: essa, che vuol salvare ad ogni costo il suo amante Curzio. Nega adesso, se hai coraggio.

—Io non nego nulla; vorrei solamente sapere come mai vostra eccellen…

—Zitto!.. Ora tu hai due strade da scegliere: una è quella di mettere in esecuzione il progetto della fuga; in tal caso sarai arrestato insieme a Curzio, tradotto alle Carceri Nove, e posto sotto processo a disposizione della Sacra Consulta.

—Questa strada non mi garba affatto. Sentiamo l'altra.

—L'altra consiste nel lasciar le cose come stanno, e non opporsi all'arresto di Curzio. In tal caso egli solo sarà carcerato, e tu ti godrai in santa pace l'intera somma dei duecento scudi. Scegli fra la Carceri Nove e i duecento scudi.

—Scelgo i duecento scudi.

—Sta bene. Ascolta dunque come devi comportarti: fra poco verrà in questa osteria Curzio, secondo quanto ha concertato con te. Tu devi tenerlo a bada, dicendogli di aspettare qui in tua compagnia la persona con cui dovete partire. Egli si tratterrà qui senza sospetto, finchè verrà la forza ad arrestarlo. Tu allora ti trarrai da parte, e lascerai fare. Va bene così?

—Benissimo, rispose Giano. E aggiunse fra sè: Eh, per essere un principe la sa lunga in queste cose!

Poi, dopo qualche istante di silenzio, riprese:

—C'è una sola difficoltà.

—Sentiamo.

—Io devo render conto dell'affare alla signora principessa…

—La signora principessa deve credere che la commissione è stata eseguita: tu dunque le dirai che Curzio ha passato felicemente il confine e si trova in salvo.

—Ma se poi viene a sapere che invece si trova in prigione?

—Imbecille! i processi della Sacra Consulta si conducono nel più stretto segreto, e nessuno conosce il nome dei carcerati. La principessa non saprà mai nulla.

Ciò detto, il principe si alzò in piedi, poi disse a Giano:

—Dunque, giudizio! Pensa che se tu fossi arrestato saresti tradotto…

—Alle Carceri Nove.

—Pensa che dalle Carceri Nove qualche volta si passa…

—Sulla piazza dei Cerchi.

—E sulla piazza dei Cerchi…

—Zaf! esclamò Giano, facendo il gesto di un rapido taglio.

—Mi hai inteso. Prudenza e fedeltà! aggiunse il principe pianissimo.

Poi gettò una moneta sul tavolo, si avvolse nel mantello, e uscì dalla taverna.

Giano ritornò al tavolo dei giuocatori, canterellando:

—La-la-laral-là! La-la-laral-là!

—Ohè! mastro Giano! gli chiese la Sora Rosa dal suo banco. Chi è, se è lecito, quell'omaccio nero nero, che ha parlato fino adesso con voi? mi ha tutta l'aria d'un beccamorti.

—Altro che beccamorti! disse Giano, Quello è nientemeno… sapete chi e?

—Chi mai?

—Un venditore di cerotti pei calli. Sì, proprio. Un uomo che ha l'abilità di farvi camminare diritto come un fuso. Mastro Matteo, eccomi qua: ripigliamo la nostra partita: a me le carte.

Un uomo entrò nell'osteria, e andò a sedersi inosservato in un angolo oscuro.

Era Giuseppe Monti. Egli era sfuggito quasi per miracolo alle carcerazioni di quei giorni. Niuno aveva sospettato di lui; nessuna spia lo aveva denunziato.

Ora che tutto era finito, egli avrebbe voluto partire da Roma senza ritardo. A lui solo non sarebbe riuscita difficile la fuga; ma egli non poteva lasciare esposta alle crudeli rappresaglie del Governo pontificio la sua innocente famiglia.

Troppo spesso i preti governanti sogliono vendicarsi della salvezza dei patrioti sui loro congiunti.

Domandare un passaporto in quei giorni sarebbe stato lo stesso che svegliare un sospetto, che poteva riuscire fatale.

Egli aveva dunque deciso di aspettare ancora, a meno che non si fosse presentato un modo di scampo per tutta la sua famiglia.

In quella sera Curzio gli aveva dato appuntamento nell'osteria della
Sora Rosa.

XII.

L'arresto.

Non era molto che Monti aspettava, quando Curzio giunse nell'osteria.

Entrato appena, il giovane scultore si assicurò con un'occhiata di tutte le persone ch'erano là dentro.

Si avvicinò a Monti, e gli disse all'orecchio:

—Aspetta.

Poi passò dall'altra parte della stanza, e fattosi accanto ai tavolo dei giuocatori, chiamò Giano.

—Lascio le carte per un momento, disse questi a' suoi compagni.
Aspettatemi.

Quindi si alzò in piedi, e si ridusse con Curzio in un canto della taverna.

—È tutto all'ordine? chiese il giovane.

—Tutto, rispose Giano.

—Il passaporto?

—L'ho in saccoccia.

—I danari?

—Anche.

—La carrozza?

—Anche… cioè voglio dire che la carrozza ci aspetta.

—Dove?

—Non so…

—Come, non sai?

—Il vetturino deve venire a prenderci qui.

—A prenderci qui?… Ma è un uomo sicuro?

—Come me stesso. È un mio compare.

—Dunque, non abbiamo niente a temere?

—Nientissimo.

—Me ne accerti?

—Quanto è vero ch'io sono un galantuomo.

—E a che ora deve venire questo tuo vetturino?

—Alle otto.

—Sono già suonate.

—Ebbene, sarà qui a momenti.

Curzio rimase pensoso, poi disse:

—Senti, Giano, prima di partire vorrei… se fosse possibile…

—Che cosa?

—Rivedere mia… la principessa.

—Manca il tempo.

—Avrei voluto darle un ultimo saluto.

—Glielo darò io per voi. Non vi movete di qui. Sarà qui a momenti.

—Chi?

—Non ve l'ho detto? il vetturino, il mio compare. Aspettiamo, non abbiamo che da aspettare. Intanto, così, per non destare sospetti, io vado a finire la mia partita.

E infatti, Giano tornò a sedere al tavolo di prima, e a giuocare tranquillamente.

Un altro uomo entrò nell'osteria, e si avvicinò a Curzio: era Gaetano Tognetti. Anch'esso aveva ricevuto dallo scultore un appuntamento in quel luogo.

Curzio lo prese per mano, e lo condusse al tavolo dove aspettava
Monti.

—Amici, disse allora il giovane artista, la nostra partita per ora è perduta. La ricominceremo forse in breve, ma questa volta abbiamo perduto. In questo momento il trionfo è pei preti e pei loro spioni. Bisogna partire da Roma; per giovar meglio alla causa del suo riscatto, bisogna partire. Tutto è concertato per la mia partenza, ma mi piangeva il cuore di lasciar voi, miei fratelli, nel pericolo, che ad ogni ora che passa pende sui vostri capi. Una persona amica pensò già a provvedermi di passaporto e di danaro. Or bene, io mi sono procurato un foglio di via, che può servire per voi due. Seguitemi, amici miei, e fra poche ore avremo varcato il confine, saremo in salvo.

—Amico mio, ti ringrazio, disse Monti, ma io non posso dividermi dalla mia famiglia: non posso lasciare mia moglie e i miei figli soli, in preda alla vendetta dei preti, la più implacabile delle vendette!

—E tu, Tognetti?

—Io, rispose Tognetti, non posso abbandonare mia madre. La mia fuga scoprirebbe che io ebbi parte nella congiura, e questi cani, non potendomi avere in loro potere, non tarderebbero un istante a vendicarsi sulla povera vecchia, cacciandola in prigione.

Curzio rimase pensoso.

—Dunque, come farete? chiese dopo un momento di silenzio.

—Aspetteremo, rispose Monti, che si presenti il modo di salvare con noi anche la famiglia.

—Ma voi rimanete esposti a un pericolo tremendo! Se vengono a scoprirvi, siete perduti.

—Piuttosto morire, disse Tognetti, che mancare al mio dovere di
  figlio.

—Nel giorno in cui ci siamo posti nella congiura abbiamo rinunciato alla vita, aggiunse Monti.

—Ottimi amici! soggiunse Curzio. Voi siete migliori di me.

—Non è vero. Tu non hai famiglia, sei libero di partire. Non sei astretto dai doveri che incombono su noi.

—E poi, la polizia conosce certamente il tuo nome come quello di un Capo-sezione; mentre noi oscuri popolani non saremo sospettati da nessuno.

A questo punto la porta dell'osteria si aperse.

Un uomo dall'aspetto sinistro comparve.

—Oh che brutta figura! disse uno dei giuocatori.

—Dio ne scampi, disse piano un altro. È un lavorante di manichini.

Quell'uomo, ch'era un commissario di polizia, entrò scambiando un segno impercettibile con Giano.

Sulla porta semischiusa si mostrarono le faccie laide dei birri papali.

Ognuno comprese che cosa stava per accadere, e nella osteria non s'intese un respiro.

Il commissario mosse difilato alla tavola, dove stavano i tre amici, si volse a Curzio, e gli chiese con tuono burbero:

—Siete voi il signor Curzio Ventura?

—Son io, rispose lo scultore.

—Ebbene, siete in arresto, gridò il commissario. E nello stesso tempo gli afferrò la giubba sul petto.

Monti e Tognetti si alzarono, e cacciando indietro lo sgherro, lo costrinsero a lasciare l'amico.

Alla vista di quella lotta i birri, ch'erano rimasti fino allora sull'ingresso entrarono tumultuosamente nell'osteria della Sora Rosa.

Erano otto o dieci manigoldi, vestiti in borghese, ma muniti di stili e pistole.

In un attimo si scagliarono addosso ai tre amici.

—Legateli tutti e tre, gridò il commissario.

—Indietro! esclamò Curzio.

E facendosi innanzi colle braccia robuste, atterrò due birri, che si erano avvicinati per impadronirsi di lui.

Al primo cominciare del tafferuglio, Giano aveva imboccata la porta della taverna, e se l'era svignata.

Gli altri giuocatori balzarono in piedi, e si diedero a lottare coi birri.

È indescrivibile lo scompiglio che si produsse nell'osteria. Volavano i bicchieri, le bottiglie; le panche venivano inalberate a modo di bastoni, le tavole erano rovesciate.

I poliziotti spararono alcuni colpi di pistola, che in quella confusione non ferirono alcuno. La stanza si riempì di fumo, e si accrebbe il serra serra, e l'intreccio dei lottanti.

Sola la Sora Rosa in mezzo a quell'immenso schiamazzo se ne stava seduta al suo banco, imperturbabile, con una specie di olimpica serenità.

Fra la nebbia del fumo, e il disordine di quel parapiglia, poteva riuscire ai tre amici di guadagnare la porta, e fuggire. E già divisavano di farlo, e già riusciva loro di mettere il piede sulla soglia, quando la via apparve sbarrata da una compagnia di gendarmi che si avanzava colla bajonetta in canna.

La resistenza non fu più possibile. Monti, Tognetti e Curzio, e i loro difensori dell'osteria furono legati, ammanettati, e trascinati alle Carceri Nove.

XIII.

Il giudice processante e l'avvocato.

Era passato un mese dopo gli avvenimenti narrati nei capitoli precedenti, quando due uomini s'incontrarono nelle anticamere del palazzo Rizzi, e insieme furono introdotti nel salotto della principessa.

L'uno era il giudice processante Marini, vera figura da inquisitore in abito secolare; lungo, scarno, occhi grifagni, naso adunco, bocca che si spalancava in modo spaventoso, dita lunghe, sottili, artigliate. Era qualche cosa di mezzo fra l'uomo e l'avoltojo.

L'altro presentava col primo un marcato contrasto: giovane dalla fisonomia simpatica, dall'occhio trasparente, dalla fronte elevata, pareva l'ideale della franchezza e della lealtà: era il giovane avvocato Leoni.

Quei due personaggi si scambiarono al primo incontro un freddo saluto. Quando furono soli nel salotto, il giudice pareva che volesse scandagliare l'avvocato co' suoi sguardi penetranti; poi gli si avvicinò, e cominciò con accento melifluo:

—Ho piacere di avervi incontrato, signor avvocato; è un dolce conforto quello di rivedere gli amici dopo i pericoli e la sventura.

—Grazie, signor giudice, grazie, rispose seccamente Leoni.

—Finalmente si respira liberamente, riprese Marini. I tentativi diabolici dei nostri perversi nemici andarono in perdizione. Il trono del Sommo Pontefice si basa ormai sopra incrollabili fondamenta.

—Sopra le armi francesi, non è vero, signor giudice? disse l'avvocato
Leoni con un sorriso impercettibile d'ironia.

—Le armi francesi furono mandate dall'Onnipotente a difendere il suo rappresentante. Gli empi satelliti dell'inferno furono vinti.

—Colla potenza delle armi spirituali!

—Ecco la signora principessa.

La principessa Rizzi entrava infatti nel salotto vestita con un elegante abito da mattina. L'affanno di una celata angoscia traspariva nel suo volto incantevole, come un'aura ineffabile di poesia.

Essa salutò con un grazioso inchino i due visitatori, che l'aspettavano.

Il giudice processante fece tre o quattro reverenze profonde, dicendo:

—M'inchino umilmente all'eccellentissima signora principessa. Come sta la sua preziosissima salute?

—Sto bene, rispose freddamente la principessa. Poi volgendosi a
Leoni: Come va, signor avvocato? gli disse con amabile sorriso.

—Grazie, principessa.

—Sedete, signori.

La signora sedette; i due uomini l'imitarono. Poi la principessa suonò il campanello, e al servo che comparve ordinò:

—La cioccolata.

—Come sta, riprese il giudice processante, l'eccellentissimo signor principe, suo consorte degnissimo?

—Bene, rispose la signora, poi si volse di nuovo all'altro:
  Avvocato….

—Come sta, continuò il giudice, il reverendissimo monsignore, suo cugino?

—Bene! Avvocato, era molto tempo che non aveva il piacere di vedervi.

—Sapete, o signora, rispose Leoni, che io non frequento le sale
  dell'aristocrazia.

—Convien dire adunque, soggiunse la principessa, che vi conduca qualche cosa di straordinario.

—Non lo nego, o signora, rispose Leoni. Io son venuto a trovarvi colla speranza di ottenere una grazia, ma una grazia di tal natura, che son certo mi perdonerete di essere venuto per questo motivo.

Un servo entrò, recando la guantiera colle tazze di cioccolata e coi biscottini, e servì la principessa, e i due signori.

—Oh squisita! esclamò il giudice processante, dopo ch'ebbe intinto un biscottino nella sua tazza.

—Ma se non l'avete ancora assaggiata! disse la signora.

—Non importa; a me basta vedere la cioccolata per giudicarla. Questa è propriamente una cioccolata alla gesuita.

—Alla gesuita! ma voi ci spaventate, signor giudice, disse ridendo
  Leoni.

—Non vi spaventate, signor avvocato, continuò Marini. Si chiama una cioccolata alla gesuita quella, nella quale, immerso il biscottino, rimane diritto come un palo confitto in terra, senza piegare nè da un lato, nè dall'altro. Tale è la cioccolata che io prendo nella sagrestia di Sant'Ignazio, nella prima domenica d'ogni mese, dopo aver fatta la santa comunione.

—Dunque, soggiunse la principessa, volgendosi all'avvocato Leoni, dicevate che avete da chiedermi qualche cosa; dite pure: vi ascolto.

—Non a voi, signora, veramente, rispose Leoni, ma per intercessione vostra son certo di ottenere quanto bramo, poichè la cosa dipende da vostro cugino monsignor Pagni.

—L'eccellentissimo e reverendissimo monsignor Pagni! soggiunse a modo di correzione il giudice Marini, che stava intingendo il quinto biscotto nella sua tazza.

—Di che si tratta dunque? chiese la principessa all'avvocato.

—Sapete, o signora, rispose questi, che si sta facendo il processo contro coloro che hanno avuto parte nella insurrezione del mese passato. Sarà una causa importante, terribile. Ebbene, io ambisco l'onore di essere ammesso a difendere gli accusati principali.

—E ciò dipende da monsignor Pagni?

—Sì signora, poichè egli è uno dei membri più influenti del Supremo
Tribunale della Sacra Consulta.

—Siete ambizioso, avvocato; cercate la via di farvi un nome.

—No signora. Non è per ambizione che io domando che mi sia affidata questa missione difficile e pericolosa, ma perchè nell'intimo del cuore sono convinto che quegli accusati non sono così rei come si vorrebbe far credere. No, non sono malfattori prezzolati quelli che impugnarono le armi nei giorni della rivolta; saranno stati ribelli, traviati, colpevoli, se volete; saranno caduti nell'errore, nel delitto anche, ma ciò che li spingeva era un'idea nobile e generosa; e non dovrebbero condannarli coloro che sostengono che il fine giustifica i mezzi!

L'avvocato aveva pronunziate queste ultime parole (colle quali alludeva chiaramente alla setta gesuitica) con una tinta finissima di sarcasmo, lanciando insieme un'occhiata significante all'indirizzo del giudice Marini.

Questi raccolse la sfida contenuta in quello sguardo, e prese a parlare così:

—Col rispetto dovuto all'eccellentissima signora principessa, io non posso soffrire che il signor avvocato prosegua su questo tuono. Sappia il signor avvocato che io stesso sono incaricato della inquisitoria di questo processo, e a quest'ora ho già raccolti fatti tali da far dirizzare i capelli; ho un cumulo di prove, un arsenale di testimonianze, confessioni giudiziali e stragiudiziali, conquestioni, indizi probatori e amminicoli da far condannare due terzi di Roma. E se la clemenza del Sommo Pontefice non s'interponesse a quest'ora… a quest'ora… basta, non dico altro.

—Ignorava, riprese Leoni, che il signor giudice Marini fosse inquisitore di questo processo; ora tanto più sono desideroso di sostenere la parte di difensore, per quanto egli magnifica la gravità dell'accusa.

—Badi, signor avvocato, che la difesa criminale è un'arma a due tagli, e alle volte adoperandola si potrebbe insanguinare le mani.

—Quelli che riportano le mani insanguinate per solito sono gl'inquisitori…. e i carnefici!

Il giovane avvocato pronunziò codeste parole con tale un tuono sdegnoso, che il giudice si levò in piedi, pallido per la collera, esclamando:

—Signor avvocato!…

In buon punto giunse il servo della principessa, annunziando ad alta voce:

—Sua eccellenza monsignor Pagni.

XIV.

Il prelato e la principessa.

Monsignor Pagni, che noi incontrammo vestito da secolare nella povera casa di Giuseppe Monti, era in quella mattina abbigliato con tutta quanta la civetteria prelatizia. Dalla chioma leggiadramente azzimata intorno alla chierica fino alle scarpette da damigella, tutto era in lui accurato e lindo; l'abito dal taglio elegante, la mantelletta paonazza, finamente pieghettata, le calze di seta, il cappello coi fiocchi lucenti, ogni cosa rappresentava il lusso ecclesiastico in tutta la sua pompa.

Marini e Leoni si alzarono in piedi, al primo presentarsi di monsignore.

Il giudice si profuse in inchini, esclamando più volte:

—Eccellenza reverendissima!

Il prelato si avanzò con passo ardito e disinvolto; fece passando un leggero cenno della testa in risposta al saluto dei due signori, poi venuto innanzi alla principessa, le baciò la mano con galanteria, e le disse familiaramente:

—Bella cugina, come va?

—Bene, monsignore, rispose essa. Accomodatevi. Abbiamo appunto bisogno di voi.

Il prelato sedè vicino alla signora. Marini andò per baciargli la mano; egli fece un gesto di rifiuto.

—Avete bisogno di me! esclamò monsignor Pagni. Me fortunato! È una buona sorte trovarmi nel caso di poter servire in qualche cosa la mia amabile cugina.

—L'avvocato Leoni, che io vi presento, disse la principessa (Leoni fece un leggero inchino) bramerebbe di ottenere una grazia da voi, monsignore. Ed io ve la chiedo per lui.

—Una grazia, voi dite: chiamatelo piuttosto un comando. Ciò che vien chiesto dalla bocca della mia gentile cugina io non posso rifiutarlo.

—Egli vorrebbe come avvocato, difendere innanzi al Tribunale della
Sacra Consulta i principali accusati della gran causa….

—Di lesa Maestà in primo grado, soggiunse il giudice processante.

—Io gli accorderò volentieri quanto egli mi domanda per vostro mezzo, disse monsignor Pagni alla principessa; ma credo bene di prevenirlo ch'egli aspira a un ufficio pericoloso.

—È quello che gli diceva io medesimo…..

Così soggiunse Marini, e più avrebbe detto, ma una brusca occhiata di monsignore, lo rese avvertito che non toccava a lui a interloquire in quel momento, ed egli si tacque tutto compunto.

—Per quanto periglioso sia quest'ufficio, disse Leoni con fermezza, io mi sento coraggioso abbastanza per compierlo.

—Quand'è così, soggiunse il prelato, io vi ammetterò a sostenere questa difesa, ma vi prevengo che il giudizio non avrà luogo tanto presto; non siamo che ai primi stadi dell'inquisizione. Non è vero, signor giudice?

Questa volta non parve vero a Marini di essere invitato a parlare da monsignore, e rispose senza timore:

—Al primissimo stadio, eccellenza. Si stanno appunto raccogliendo le fila preliminari degli indizi. Il processo intero sarà l'opera di molti mesi, sarà una mole ingente; sempre si aggiungono nuovi nomi, nuovi accusati.

—Intanto, disse Leoni, io ringrazio la signora principessa e monsignore; quando verrà il giorno del cimento, pregherò il cielo che mi dia forze bastanti all'impresa.

Poi si alzò salutando, e uscì. Anche il giudice si alzò, dicendo:

—Io pure riverisco la signora principessa, e prego umilmente monsignore di avermi nella sua memoria.

Poi camminando all'indietro, e intercalando quella marcia retrograda con riverenze da minuetto, uscì dal salotto.

La principessa e il prelato rimasero soli. Regnò qualche momento di silenzio. Monsignor Pagni fu il primo a romperlo, dicendo:

—È qualche tempo ch'io vedo una nube sulla fronte della mia cara cugina. Luigia, v'è qualche cosa che vi addolora.

—Nulla; v'ingannate, monsignore.

—Eppure sapete che da lungo tempo io sono uso a leggere nella parte più riposta del vostro cuore.

—Ebbene, che cosa vi leggete adesso?

—Un'occulta pena; voi non sorridete più; voi…. insomma non siete più la stessa.

—E a che cosa attribuite il mio cambiamento?

—Non saprei, disse il prelato con un accento particolare; poi dopo un momento aggiunse, guardando in faccia la principessa: A meno che non fosse vero ciò che si va dicendo per Roma, a bassa voce, ma si va dicendo.

—Che cosa mai? chiese essa con noncuranza.

—Che fra gl'insorti v'era un vostro amante, rispose lentamente monsignor Pagni, senza staccare gli occhi da lei. E ch'egli si trova ora in qualche pericolo.

—Che? esclamò la principessa con un grido irresistibile di spavento. Poi subito dopo represse la sua commozione, e disse con orgoglio: E voi poteste credere a questa bassezza?

—Io! aggiunse con ipocrisia il prelato. Il cielo me ne guardi!… Vi è però qualcuno che ci crede.

—E chi, di grazia?

—Vostro marito.

—Mio marito!

—Ma non temete; la mia protezione non sarà mai per mancarvi.

—Oh! esclamò essa con indignazione. Io so bene quello che vale la vostra protezione! di voi altri santi pastori! È la protezione del lupo sopra l'agnello. E non l'ho provata io stessa? E non era una povera orfanella, giovinetta, sola, e innocente, quando fui affidata alla vostra tutela? Voi eravate il nipote di mio padre, maggiore a me di anni e di senno, incamminato nella carriera ecclesiastica, uomo di pietà e di religione!… Ebbene, voi abusaste indegnamente di quell'incarico sacrosanto. Valendovi del potere che vi affidavano le leggi ed il sangue, invece di difendermi, voi mi avete sedotta, tradita; e nel giorno istesso nel quale il vostro dito riceveva l'anello vescovile, io sola, abbandonata, sopra un letto di dolore…

—Basta! proruppe monsignore. Qualcuno potrebbe udirvi.

—Io divenni madre: e la mia sventura fu un mistero per tutti. Ma voi, snaturato, voi che non miravate ad altro che all'ambizione della casa, voi mi costringeste a sposare un uomo che io aborriva, minacciandomi, se io rifiutava, di pubblicare la mia vergogna. Questa fu la tutela, questa la difesa, la protezione che io m'ebbi da voi!… Ed ora io debbo sorridervi, porgervi la mano, chiamarvi caro cugino, e anche ascoltare in pace gli oltraggi che mi volgete col sorriso di miele sul labbro!

Un servo entrò.

—Signora principessa, disse, un uomo domanda di parlarvi.

—Ha detto il suo nome? chiese ansiosamente la signora.

—Ha detto di chiamarsi Giano.

—Ah! finalmente!… Venga.

Giano fu introdotto dal servo.

—Vieni, gli disse la principessa. Avanzati.

Poi essa guardò in modo significativo il prelato. Egli comprese ch'era invitato ad uscire: squadrò con rapida occhiata da capo a piedi l'ignobile figura di Giano; poi, volto alla cugina, le disse:

—Vedo, signora, che avete degli affari. Vado nel gabinetto di vostro marito: ho appunto bisogno di parlargli.

—Accomodatevi, monsignore.

Il prelato uscì. La dama rimase sola con Giano.

XV.

Due madri.

La principessa guardò intorno per assicurarsi che nessuno era in quella stanza, fuorchè l'uomo che le stava dinanzi, poi gli chiese:

—Ebbene?

—L'ho portato in salvo, rispose Giano.

—Dove?

—A Firenze.

—E perchè hai tardato tanto?

—Non ho voluto ritornare finchè non sono stato proprio certo ch'egli fosse in sicuro. Adesso posso accertarla, signora, che è assicurato per bene.

—E non mi hai recato sue lettere?

—No, signora.

—Ma perchè non mi ha scritto?

—Ecco… si è fatto male a un braccio.

—E come?

—È cosa da nulla. Ha detto che le scriverà appena…

—Viene qualcuno: prendi, e parti.

Così dicendo, pose in mano a Giano una borsa di danaro. Egli s'inchinò, e partì.

La persona che sopraggiungeva nel salotto era il principe Rizzi. S'incontrò sulla soglia con Giano, e scambiò con esso uno sguardo d'intelligenza, poi si avanzò verso la moglie.

Essa era raggiante di gioia.

—Principessa!… diss'egli salutandola con ironica cerimonia.

—Voi, signore!

—Vi trovo assai lieta.

—E cercate indagarne la cagione, non è così, signore?

—È una prova dell'interesse che m'ispira la mia nobile sposa!

—Io sono avvezza a questo spionaggio di ogni ora, di ogni momento, che mi circonda e mi ravvolge, e investiga i moti più riposti del mio cuore. Questa volta, o mio signore, io voglio risparmiarvi la pena. Voi cercate di conoscere la causa della mia gioia, ed io ve la dirò. Sì, o signore, fra i giovani insorti, fra i campioni della rivoluzione, vi era un uomo che mi era caro, sì, caro più d'ogni altra cosa al mondo. E questo affetto, vedete, io io confesso a fronte alta, senza l'ombra della vergogna!

—Io ammiro la vostra franchezza, il vostro coraggio!

—Ebbene, o signore: questo giovane, che voi avete perseguitato, inseguito con accanimento, adesso è in salvo, è libero come son libere le nubi dell'aria. Ne ho avuta la certezza or ora. Egli è al sicuro dalle vostre persecuzioni: a meno che non vogliate andare a raggiungerlo fino a Firenze.

Il principe non rispondeva una sillaba. Solamente guardava la moglie con un'espressione infernale di dileggio.

—Tra noi, proseguiva essa, si era impegnata una partita, ed io l'ho vinta; il trionfo è mio, ecco perchè mi vedete lieta. Siete pago della spiegazione?

Il principe seguitava a tacere, e a guardarla in modo beffardo.

—Mi guardate e ridete! esclamò essa, atterrita suo malgrado dall'insistenza di quello sguardo diabolico. Perchè quel riso infernale? Esso mi spaventa e mi agghiaccia. Parlate, parlate, in nome di Dio!

In quel momento s'intesero delle acute grida al di fuori, e una voce di donna che proferiva queste parole:

—Lasciatemi!… voglio vederla!… voglio parlarle!…

—Quali grida!

Un servo entrò nella stanza, e disse alla principessa, che una donna si era presentata come una forsennata al palazzo, gridando di volere ad ogni costo parlare colla signora, e che essendole stato negato l'ingresso, era andata fuori di sè, tanto che i servi non poterono più trattenerla.

Infatti quella donna giunse quasi subito sulla soglia del salotto.

La principessa la riconobbe: era Maria Tognetti.

Maria si lanciò ai piedi della signora.

Il principe le guardò entrambe sempre ridendo, ed uscì.

—Maria, buona Maria, vieni! che ti è accaduto?

Così disse la principessa, quando fu sola colla povera donna, rialzandola, e accogliendola amorosamente fra le proprie braccia.

—Signora… soggiunse Maria con parole interrotte da spessi singhiozzi. Mio figlio… mio figlio è carcerato! sarà condannato!… Oh Dio! voi sola potete aiutarmi!

—Mio Dio! calmati, siedi, raccontami tutto.

—Io credeva che Gaetano fosse fuggito; aspettava una sua lettera di giorno in giorno… e questa lettera non veniva mai! Mi è venuto il dubbio che fosse carcerato!… Sono andata a tutti i tribunali, a tutte le carceri: tutti mi rispondevano che non sapevano nulla, che il nome di mio figlio sui registri non v'era. Io aveva cominciato a persuadermi ch'egli fosse in salvo, e aspettava, aspettava sempre che mi scrivesse. Questa mattina finalmente viene a trovarmi uno che è uscito dalle Carceri Nove, e mi dice che mio figlio è là dentro… là dentro, mia signora! processato per l'affare della caserma Serristori, e corre pericolo di essere condannato a morte!… Ahi signora, signora mia! voi sola potete salvarlo. Per l'amor di Dio, per le piaghe del Signore, per l'amore che portate al figlio vostro, salvate, salvate il mio povero figlio!…

Così dicendo. Maria s'inginocchiò nuovamente.

—Maria, alzatevi! tranquillatevi, per pietà! soggiunse la principessa. Tutto quanto io potrò fare lo farò; oh sì, spero di riuscire. Calmatevi, calmatevi, Maria.

Poi suonò un campanello. Entrò il servo.

—Monsignor Pagni? chiese ella.

—È nel gabinetto di sua eccellenza, rispose il domestico.

—Ditegli che io lo prego di venire da me. Ora, Maria, ritiratevi in questa stanza.

—Signora, a voi mi raccomando!

—Io vi devo la vita di mio figlio. Me fortunata, se potrò donarvi la vita del vostro!

La principessa condusse Maria Tognetti in un gabinetto attiguo, e ne chiuse la porta.

Monsignor Pagni comparve nel salotto.

—Io ho bisogno di una grazia suprema, disse la signora appena egli fu entrato. Non mi parlate d'impossibilità. Ciò che vi domando è necessario. Io stessa sono disposta a cosa che fino a questo momento credetti impossibile, a perdonarvi tutto il passato, a dimenticare tutto, purchè voi mi accordiate quello che sono per domandarvi.

—Se ciò che chiederete dipende da me, è mio dovere l'obbedirvi.
Comandate.

—Non finte proteste! Io so che voi potete tutto; e quanto sono per chiedervi non eccede certamente il vostro potere. Se vorrete, mi esaudirete.

—Parlate.

—È necessario che uno de' processati per la rivolta sia salvo.

—Quando sarà pronunziata la sentenza, vedremo…

—No, no: non si deve frapporre indugio; ogni giorno, ogni minuto che quel giovane passa in carcere, è contato con angoscia indicibile dalla sua povera madre. Io voglio che oggi stesso quella donna sia consolata. Questa sera…

—Impossibile!

—Non lo dite. Io so che voi potete accordare la libertà a uno di quei detenuti.

—E come ordinare la scarcerazione di un reo di lesa maestà? Ma ciò è impossibile assolutamente, lo ripeto.

—È questa l'ultima vostra parola?

—L'ultima, la sola.

—Ebbene, disse la principessa dopo un istante con risoluzione: Voi non mi vedrete mai più.

—Cugina!

—Ho deciso.

—Che cosa?

—Non m'interrogate. Fui troppo vile per essermi esposta a un vostro rifiuto.

Il silenzio regnò per qualche minuto nella sala. La principessa era seduta in un seggiolone collo sguardo fisso dinanzi a sè. Monsignor Pagni, in piedi a poca distanza, la guardava cupamente. Finalmente egli disse:

—Voi, o signora, volete ottenere per mio mezzo la salvezza di un uomo che amate.

—Non è vero!… Ve lo giuro per la mia estrema salute. Non si tratta che di un debito di gratitudine. L'uomo ch'io voglio salvare, è il figlio di una donna, a cui debbo più che la vita.

—E nessun altro vincolo vi lega a lui?

—Nessuno.

—Non è desso…?

—È un povero giovane, un semplice muratore.

—Ebbene, vi farò vedere quanto mi è preziosa la vostra amicizia. Per servirvi mi espongo a un'assoluta rovina. Mi faccio complice della evasione di un detenuto politico!

E il prelato andò a scrivere alcune linee sopra un foglietto di carta, poi lo porse alla principessa.

—A voi!… Il capo-custode delle Carceri Nove consegnerà uno dei prigionieri a chi gli presenterà questo viglietto.

—Oh grazie!

Così dicendo essa vinse un intimo senso di ribrezzo, e stese la sua destra a monsignor Pagni.

Egli prese quella mano, la strinse, sorrise, e uscì dalla stanza.

—La principessa aperse la porta del gabinetto e chiamò Maria.

—Ho vinto… ho ottenuto! Tuo figlio è salvo.

—Mia buona signora! esclamò Maria, baciandole ripetutamente la mano.

—Ascolta: questa notte dobbiamo farlo uscire dalla prigione, e ridurlo in salvo. Prendi questo danaro; cerca una vettura. A mezzanotte ti troverai con quella in via Giulia innanzi alle Carceri Nove. Là mi rivedrai.

—Oh grazie! grazie! A mezzanotte.

Maria Tognetti baciò un'ultima volta le mani della principessa, e partì col cuore pieno di speranze e di preghiere.

Monsignor Pagni, che aveva tutto inteso da una stanza vicina:

—A mezzanotte! disse fra sè. Vi sarò io pure!

XVI.

Le Carceri Nove.

Come una minaccia e un incubo si eleva nel bel mezzo di Roma il tetro monumento delle Carceri Nove. Quella fabbrica quadrata, massiccia, scura, sembra, com'è infatti, la tomba di uomini viventi.

Ai quattro angoli vegliano eternamente le sentinelle; la porta è chiusa da un triplice cancello. Non un accento, non un gemito manifesta la vita disperata che si respira là dentro. Il Tevere passa mormorando a poca distanza, e par quasi che gema sulla sorte di tanti sventurati.

Il primo oggetto che chiama l'attenzione di chi s'inoltra in quella spaziosa e bella via Giulia, il primo pensiero che occupa la mente è l'edifizio delle Carceri Nove; e l'idea degli infelici che là dentro espiano l'amore della patria, turba l'anima siffattamente, che la bellezza scenografica della strada non è più ammirata nè avvertita.

Non è già che le Carceri Nove siano le sole carceri politiche di Roma. Dal Castello Sant'Angelo fino all'ultimo convento di frati; non v'ha in Roma un angolo che non sia stato adoperato dal governo dei preti a torturare un'anima generosa, a comprimere i palpiti più vitali di un cuore.

Quanto ai detenuti politici, la giustizia dei papi aveva edificato a posta per essi il vastissimo carcere di San Michele, nel quale dovevano starsi imprigionati insieme alle donne di mala vita. Strano concetto che dimostra la nequitosa malizia della Curia romana! Il carcere di San Michele fu destinato ai rei di stato, e alle femmine di mala vita!

I chiercuti carnefici credevano d'infamare i patrioti, accomunando il loro destino a quello delle prostitute. Stolti! la gemma della virtù rifulge più bella in mezzo alle sozzure del fango: e l'infamia ricade tutta sul capo di coloro che tentarono avvilirla.

Del resto, per quanto vasto il carcere di San Michele, non bastò ai detenuti politici nella felicissima capitale del mondo cattolico, e non bastò nemmeno la succursale di quel carcere, inaugurata per vezzo pretino col nome di San Micheletto. Non bastò il forte di Paliano, scelto con sottile perfidia per l'espiazione delle condanne politiche nel luogo più insalubre e mortifero dell'agro romano, perchè le febbri maligne ajutassero e affrettassero l'opera micidiale degli aguzzini.

In breve, tutte le prigioni di Roma furono occupate dai carcerati per delitto di lesa maestà, confusi in quelle bolgie cogli omicidi e coi ladri mentre i conventi dei frati erano serbati come luogo di espiazione a quegli inquisiti più giovani e inesperti che davano ai preti qualche speranza di conversione.

Anche nella prigione delle Carceri Nove si trovarono adunque i patrioti agglomerati coi rei di delitti comuni; e non fu raro il caso in cui il giovinetto carcerato per semplice sospetto di patriotismo si trovò rinchiuso nella medesima cella con un assassino già condannato a morte, che aspettava di giorno in giorno l'ora del suo supplizio.

Un'iscrizione sulla porta di quella prigione ci ammonisce che la clemenza fu uno dei motivi che indussero Papa Innocenzo a far costruire le Carceri Nove. L'infelice che vi si trova detenuto può farsi un'idea esatta della clemenza dei papi.

I carcerati, e specialmente i politici, vi sono esposti a durissimi trattamenti. O accalcati alla rinfusa in fetidi cameroni, o isolati in celle umide e sotterranee, mancano d'aria pura e di luce. La nequizia dei preposti rese nulle e disusate anche le regole dell'igiene che presiedettero alla fondazione di quel carcere, duro ma non insalubre nella sua origine.

I detenuti delle Carceri Nove hanno oggigiorno per letto poca e sucida paglia: il loro vitto è scarso e malsano; sono sottoposti al digiuno e alla sferza per colpe leggere e spesso immaginarie!

Ma ciò che rende più orribile quel luogo infernale è la tortura morale, alla quale sono spesso soggetti quei detenuti per la durezza dei guardiani, degni interpreti della efferatezza dei governanti. Non solo manca agli sventurati ogni parola di conforto, ogni ajuto di benigno consiglio, ma vien loro negata sovente quella consolazione che i congiunti o gli amici con gentile pietà cercano di inviare oltre le mura del carcere. Avviene sovente che ai prigionieri si lascia ignorare che i parenti furono a chiedere loro novelle, loro si contende un semplice ricordo, un saluto: cosicchè alle loro pene si aggiunge il martirio dell'incertezza: sia che temano sulla sorte dei loro cari, sia che li angosci il dubbio di essere nella loro miseria obliati.

Un'altra pena atroce di quella crudele fra le carceri preventive si è lo spionaggio, la mala pianta che nell'interno delle prigioni pontificie trova salde e vigorose radici. Il sollievo più caro degli infelici è il racconto dei proprii casi, il compianto delle comuni sventure. Ebbene, anche quest'ultimo conforto è conteso ai detenuti politici nelle prigioni pontificie. Il compagno di carcere, che in sembiante di amico vi si stringe d'intorno, che con modi affettuosi vi sforza a parlare, è quasi sempre uno scellerato spione, che la polizia papale ha destinato al soggiorno delle carceri, un miserabile che, abusando della vostra sventura, compra colla nefanda delazione l'impunità di altri atroci delitti.

E, incredibile a dirsi, le relazioni di quegli ignobili e degradati strumenti formano spesso la parte sostanziale dei processi politici di Roma. Le confidenze strappate sotto il velo dell'amicizia, della compassione dai compagni di carcere, divengono il sostegno più saldo dell'accusa.

E come no? La forma inquisitoria del processo, abolita oggi da ogni Stato civile del mondo, è tuttora in vigore presso quel governo, che trovasi in lotta continua colla nuova civiltà. In Roma il processo inquisitorio è l'arme più terribile dei governanti, è la repressione più violenta contro le legittime aspirazioni del popolo, è la vendetta del forte sul debole.

Gli atti della procedura si compiono nel segreto e nel mistero. Le relazioni della polizia e le rivelazioni impunitarie sono la guida prima del giudice. Le delazioni carcerarie, di cui abbiamo sopra parlato, battezzate col nome pomposo di confessioni stragiudiziali, sorreggono tutto l'edifizio del suo processo. Quale possibile difesa, quale speranza di scampo rimane agl'inquisiti? Nessuna! Le forme della legalità non sono che vane apparenze dirette a perderli, a infamarli. Essi vengono sempre condannati nel modo e nella misura che giova e piace al Governo.

Appena il trono del papa fu puntellato dalle baionette francesi, e i difensori della libertà furono oppressi e respinti, e in Roma fu ristabilito l'ordine alla moda di Varsavia, i prelati che avevano tremato nei giorni della insurrezione si accinsero a vendicarsi del passato terrore sui carcerati.

In quei giorni le tante prigioni di Roma, e molti conventi, cambiati in luoghi di reclusione, bastavano appena ai detenuti politici.

Monti, Tognetti e il loro amico e compagno Curzio Ventura, erano stati, come vedemmo, rinchiusi nelle Carceri Nove: là dentro li avevano isolati in altrettante segrete.

Il loro contegno era diverso, secondo la differenza del loro carattere. Curzio, anima sdegnosa, che aveva imparato fino dai primi passi della vita a combattere colle avversità della sorte, si era chiuso in una specie di stoica rassegnazione. Non una sua parola, non un suo gesto dimostrava rabbia o sdegno in faccia ai carcerieri. Egli serrava tutto in sè stesso il magnanimo dispetto dell'impresa mancata. Calmo e sereno in vista, ruminava fra sè e sè le delusioni del passato e le speranze di una futura riscossa. Noncurante del suo destino e della sua vita, pensoso solo di quelle grandi idee che occupavano la sua mente: la patria e la libertà!

Gaetano Tognetti, giovane di carattere più irrequieto e impaziente, non sapeva adattarsi alle angustie del carcere, nè sopportare in pace la rovina di tanti ardimenti, nè riposarsi nelle aspettazioni dell'avvenire. Insofferente della prigione, si martoriava più e più colle smanie incessanti, che gli rodevano il cuore, e che esalavano in grida disperate di cruccio e di dolore.

Giuseppe Monti era tutto concentrato nel pensiero della sua famiglia. Sua moglie e i suoi figliuoletti abbandonati, esposti alla miseria; gli strazj di quella povera donna, incerta della sorte di lui, tremante per la sua vita, i pericoli ai quali essa era in preda; queste erano le immagini crudeli che angustiavano il suo cuore, e rendevano più dolorose per lui le ore interminabili della prigione. Tutto compreso da quella pena, tanto orribile pel cuore di un marito e di un padre, Giuseppe Monti non dava segno di vita; soffriva pazientemente la durezza del carcere, e solo ad ora ad ora, quando le torture del suo pensiero si facevano più insoffribili, mormorava a bassa voce queste sole parole:

—Povera mia moglie! poveri miei figli!

XVII.

Il secondino Petronio.

Fra i secondini delle Carceri Nove, fra quei manigoldi dal cuore indurito v'era per caso un buon uomo, che in mezzo a tanto spietata ribalderia serbava un cuore accessibile alla pietà.

Era un certo Petronio, bolognese, antico lavorante di canapa; condannato una volta per un ferimento da lui commesso nel calore di una rissa, gli avevano commutata la pena della galera nell'ufficio del carceriere, cosa non rara negli Stati del papa, dove son pochi gli uomini onesti e liberi che si offrano spontanei al mestiere dell'aguzzino.

Nella sera di quel giorno in cui avvenivano nel palazzo del principe Rizzi le scene narrate nei capitoli precedenti, il secondino Petronio si trovava di guardia in un camerone interno delle carceri; toccava a lui di vegliare per tutta la notte in quel luogo.

Il buon uomo si aiutava col tabacco da naso e con quello da fumo, contro il sonno che minacciava d'invaderlo. Guai se il capo-custode nella sua ispezione notturna lo avesse trovato addormentato! Una mezza dozzina di nerbate, susseguita da una giornata di cella e di digiuno, era il meno che potesse toccargli.

Egli prendeva un tratto la pipa, e tirava quattro boccate di fumo, poi deponeva la pipa e pigliava la scatola, e fiutava due prese di tabacco, poi ricorreva di nuovo alla pipa per ritornare poscia alla scatola. Ma ormai tutti i provvedimenti tornavano vani: già le sue palpebre divenivano pesanti pesanti, e si chiudevano, e la sua testa si abbassava prima lentamente, poi più presto, fino a che il mento gli si andò a posare addirittura sul petto.

Per fortuna in quel momento stesso l'orologio della prigione suonò le undici ore.

Petronio si svegliò di soprassalto, gridando:

—Olà! alt! ferma! vuol scappare!… Ah! proseguì poscia, fregandosi ripetutamente gli occhi e la fronte, mi pareva che qualcuno volesse scappare… Maledetto sonno! la pipa non basta più a farmi stare sveglio, e il tabacco nemmeno!… Uh! che brutta vitaccia quella del carceriere!

E qui il buon Petronio, dopo essersi ben bene impinzato il naso di rapè, ed avere sgombrata la testa con una scarica continuata di starnuti, si abbandonò al corso delle sue consuete meditazioni.

—Brutta vita! ripeteva fra sè. Sempre in mezzo alle miserie, sempre chiusi in questa spelonca come tanti gufi! E poi non potere neanche dormire alla notte. Almeno i carcerati riposano a loro bell'agio!

In quel momento, quasi a smentire l'assertiva del carceriere, un lungo, penoso gemito uscì da una segreta vicina, la cui porta si apriva appunto in quel camerone, dov'era Petronio.

—Chi è? cos'è stato? esclamò egli. Sarà questo qua che ogni tanto si lamenta.

Petronio si alzò dalla sedia, e si avvicinò alla porta, donde pareva che il gemito fosse uscito. Quella porta aveva un finestrino che poteva aprirsi dal di fuori per spiare nell'interno della segreta. Egli tirò il catenaccio, e aperto il finestrino, guardò dentro.

La luce di un fanale appeso alla volta di quel lugubre camerone, mandava per il pertugio aperto da Petronio raggio bastante per discernere dentro la segreta la figura di un uomo, che stava rovesciato sul suo coviglio, colle mani intrecciate sopra la testa, in atto di disperato dolore.

Petronio si fermò a contemplare quei misero, e intanto pensava fra sè:

—L'ho detto io. Era lui che mandava quel lamento. Sempre così questo povero Monti! Ah! è proprio vero! egli riposa meno ancora di me.

Poi il dabben uomo richiuse il finestrino, e passò dall'altra parte del camerone, dove aprì un simile sportello, e guardò dentro a un'altra segreta. Era quella di Curzio.

—Quest'altro invece se la dorme in pace! pensò Petronio. Beato lui!
Se potessi fare lo stesso anch'io!

Staccatosi anche da quella porta, il bravo secondino si diede a passeggiare in lungo ed in largo per opporre migliore resistenza al sonno, ch'era sempre lì lì per tornare ad assalirlo.

In fondo al camerone era un cancello, pel quale si passava nelle altre parti della prigione… a quel cancello stava di guardia una sentinella.

Petronio si avvicinò al soldato, e gli chiese:

—Camerata, che ora abbiamo?

—Sono appena suonate le undici ore.

—Le undici! e io credeva che fosse passata la mezzanotte!

—Ho ancora un'ora da passare in fazione.

—Ed io ho ancora sette ore da vegliare! Maledetto mestiere!…
Torniamo a fumare.

Era appena tornato a sedere nel posto di prima, e aveva riaccesa la pipa che si era spenta, quando Petronio intese un altro lamento, che come il primo proveniva dalla cella di Monti.

Il pietoso secondino si sentì rimescolare il sangue; e ritornò al finestrino della porta. Guardò un tratto il prigioniero, poi lo chiamò, dicendogli:

—Ehi! pover'uomo, non potete dormire?

Monti volse la testa verso il pertugio, stette alquanto in silenzio, chè gli pareva strano quell'accento di compassione in un carceriere, poi domandò:

—Siete padre voi?

—Io no.

—Allora non sapete… non potete sapere… Il padre ch'è staccato dalla sua famiglia non trova mai pace.

—Avete moglie e figli?

—Tre figli: e il più piccino non ha che sei mesi!

—Poveretto!

Monti aguzzò lo sguardo, fissando il volto di Petronio, attraverso le sbarre del finestrino: e cercava d'indovinare in quell'oscurità se la pietà del secondino fosse vera o finta.

Pare che l'esame tornasse favorevole a Petronio, poichè Monti prese a dire:

—Voi, che mi sembrate più buono degli altri, ditemi qualche cosa della mia famiglia: dacchè sono qui dentro, non ho mai potuto vedere la mia povera Lucia.

—Io… disse Petronio tutto confuso. Io non so nulla.

—Ella sarà venuta, riprese Monti, sarà venuta per vedermi, e gliel'avranno negato. Non è così?

—Io vi dico che non so niente.

—Ah! se volete dirlo, lo sapete. Abbiate compassione di un povero carcerato; che io sappia almeno se mia moglie è in salute, se è libera!

Il povero Petronio, che non era assolutamente della stoffa, con cui si fanno i carcerieri, si sentiva ammollire il cuore, e non sapeva come fare a resistere alle preghiere del prigioniero.

In quel momento altre persone entrarono nel camerone, senza che il secondino, tutto assorto ne' suoi pietosi sentimenti, se ne accorgesse.

Il giudice Marini, al quale era devoluta insieme all'istruttoria del processo politico, la sorveglianza del carcere dove erano detenuti gl'inquisiti, faceva sempre le sue visite in ore insolite e inaspettate, a modo di sorpresa.

Egli si era fatto aprire senza rumore il cancello del fondo, e si avanzava cautamente nel camerone, mentre Petronio aveva tutta rivolta la sua attenzione verso Monti.

E questi seguitava a pregarlo che gli desse qualche notizia della sua famiglia, e lo togliesse da quella insoffribile ansietà.

—Ma io non posso dirvi niente, ripeteva il secondino.

—Non posso! soggiunse Monti: non posso, voi dite; ma dunque, è vero, voi lo sapete!… Oh ditelo! date un sollievo a questo tribolato!

—Non posso dirlo.

—Ve ne prego; voi siete un buon uomo. Ditemi solo se mia moglie viene qualche volta.

—Viene ogni giorno! gridò Petronio, che non poteva più trattenere le lagrime.

—Birbante! gridò subito dopo una voce tuonante.

Era quella del giudice Marini, che nello stesso momento diede un forte colpo sulla spalla del disgraziato Petronio.

Non può descriversi la confusione del secondino. Tutto tremante, si cavò dal capo la berretta, gli cadde di mano la pipa, e balbettò:

—Si…signor… giu…giudice!… Eccellenza!…

—A questo modo fai il tuo dovere? esclamò Marini tutto infuriato. Stai a far conversazione coi carcerati; e di più dici loro quello che non devono sapere! Penserò io a farti castigare! Ti farò cacciare in cella oscura, a digiuno rigoroso.

—Signor giu…giudice!

—Meriteresti di starci un pajo di mesi.

—Signor…

—Animo! prepara la stanza degli esami; portavi i lumi e tutto l'occorrente.

Petronio non se lo fece dire due volte, e corse ad approntare una stanza attigua a quel camerone, la quale serviva ad uso di cancelleria criminale per l'interrogatorio dei detenuti.

Marini si volse al suo cancelliere Passerini, ch'era rimasto rispettosamente indietro.

—Questa sera, disse, voglio assumere i costituti di Curzio Ventura, di Giuseppe Monti e di Gaetano Tognetti. Imparate, signor cancelliere, imparate l'arte del criminalista! Noi dobbiamo far tesoro delle ore notturne. Questi sono i momenti più propizi per esaminare i detenuti. Essi vengono svegliati dal sonno e subito tratti innanzi al giudice; si presentano all'esame tutti sbalorditi e confusi. Non hanno tempo di architettare un sistema di difesa, di preparare le loro risposte, e vengono a cadere nella rete da loro medesimi siccome uccelletti inesperti. Alla notte, signor cancelliere, sempre alla notte!

Petronio venne a dire che la camera degli esami era preparata. Il giudice e il cancelliere vi entrarono.

Era una stanza che metteva i brividi solo a vederla. Le muraglie erano quelle nude e annerite della prigione. Un gran tavolo coperto da un tappeto nero occupava quasi per intero lo spazio: un enorme crocifisso appeso alla parete pareva che guardasse fieramente gl'infelici che venivano tradotti là dentro; quattro candele infisse nei candelieri di legno erano disposte in quadrato, come se fossero state intorno a una bara. Da un lato stava uno scaffale pieno di processi voluminosi, che per ogni pagina indicavano una lagrima e una stilla di sangue!

Sua Signoria illustrissima (così veniva chiamato il giudice nelle intestazioni degli esami) si assise comodamente in un seggiolone dal cuscino di cuoio, posto sotto il crocifisso, di faccia alla porta d'ingresso.

Il cancelliere, uomo piccolo e ranicchiato, al quale l'antica abitudine degli inchini aveva notevolmente arcuata la spina dorsale, si era seduto sopra una sedia di paglia; e postisi gli occhiali inseparabili sul naso, stava provando le sue penne sopra un foglio di carta.

Petronio se ne stava in piedi sull'uscio, col mazzo delle chiavi in una mano e la berretta nell'altra, aspettando gli ordini del signor giudice.

Il pover'uomo, guardando quella faccia torbida e buia, rabbrividiva non più per sè, ma pei disgraziati, la cui sorte pendeva dall'arbitrio di quell'uomo e dei suoi padroni.

XVIII.

L'inquisizione del processo.

—Fate venire alla mia presenza il detenuto Curzio Ventura, disse il giudice a Petronio, che uscì immantinente, scegliendo una fra le chiavi del suo mazzo. E voi, soggiunse volgendosi a Passerini, voi, signor cancelliere, cominciate a intestare il costituto.

Poi seguitò, dettando con gravità:

«Addì venticinque novembre eccetera, nel locale delle Carceri Nove eccetera, innanzi a Sua Signoria illustrissima eccetera.»

Curzio fu introdotto da Petronio.

Il giovane artista era stato vestito colla casacca dei prigionieri, e aveva le mani unite e serrate dalle manette, ma pure non aveva dimessa la sua aria di dignità e d'incrollabile fermezza. Postosi in piedi accanto alla tavola, dirimpetto al giudice, lo fulminò con un'occhiata sdegnosa.

—Aspettate i miei ordini lì fuori dalla porta, disse il giudice al carceriere.

E Petronio uscì inchinandosi, e chiuse l'uscio.

—Come vi chiamate? chiese poscia Marini al detenuto.

—Mi avete interrogato un'altra volta, rispose Curzio con piglio sprezzante. Il mio nome vi è noto.

Il giudice processante, vedendo che incontrava del duro, si atteggiò al sembiante della dolcezza.

Egli sapeva assumere modi e parole diversi, secondo l'indole dei detenuti da esaminare.

—Io sono venuto, caro figliuolo, disse con voce benigna, a vedere se le meditazioni del carcere vi hanno insegnato la via della prudenza. Voi per parte vostra già siete confesso di aver presa una parte attiva nella nefanda ribellione del mese passato, ma ostinatamente vi siete ricusato di parlare dei complici e degli istigatori; e questi appunto sono quelli che importa conoscere alla giustizia.

—Io posso rispondere del fatto mio, non di quello degli altri, rispose Curzio fieramente.

—Pensate, figliuolo, riprese il giudice col medesimo tuono di paterna mansuetudine; pensate che quando si rendesse palese che voi, suddito del Santo Padre, istigato e traviato per opera dei perversi venuti dal di fuori, v'incamminaste vostro malgrado nella via della perdizione, tutto potreste sperare dalla sovrana clemenza.

—Io solo, liberamente, e di mia propria volontà, presi parte alla rivolta, e l'unico fine che mi proposi fu quello di abbattere il trono del papa, e congiungere Roma all'Italia!

—Badate, non vi lasciate vincere dalle suggestioni dell'orgoglio; non rigettate da voi stesso la misericordia del Santo Padre, ch'è già disposta e pronta a venire in vostro soccorso. La vostra salvezza sta in vostra mano, figliuolo; basta che diciate le cose come stanno. Non è egli vero che foste spinto a ribellarvi al vostro legittimo sovrano dai malvagi venuti appositamente per sedurre e traviare i fedeli Romani? Se così è veramente, la vostra colpa è molto leggera, perchè voi siete giovane e facile ad essere ingannato. In tal caso, io posso impegnarmi di ottenere in vostro favore il benefizio di una grazia sovrana.

—È l'impunità che voi mi offrite? esclamò il giovane scuotendo in atto d'indignazione le mani avvinte dalle manette. L'impunità!… Ma non sapete che io non curo nè la prigione, nè il patibolo? Fatemi pure mozzare la testa; io sono in vostre mani, voi potete farlo impunemente. Ma non vi lusingate che per le fallaci promesse di una grazia disonorante, io m'induca a tradire la santa causa della libertà. Oh! comprendo bene la ragione per cui vorreste da me le risposte che mi chiedete! Questo vostro processo è diretto a mostrare che il movimento della insurrezione di Roma fu opera di gente venuta di fuori; che i cittadini romani non v'ebbero parte alcuna, o l'ebbero affatto secondaria. Vorreste far credere al mondo che i Romani adorano il papa e lo scettro dei preti! Impostori! numerate i prigionieri politici, de' quali rigurgitano le vostre prigioni, e vedrete quanti sono i sudditi fedeli che l'amoroso pontefice serba all'ergastolo e alla galera! Romani siamo noi che impugnammo la armi contro il potere sacerdotale; Romani furono i morti del Campidoglio, di porta San Paolo, di Trastevere, ed essi e noi, morti e viventi, non abbiamo che una voce per esecrare il governo del papa e i suoi infami ministri. Scrivete, signor cancelliere, scrivete, questa è la mia confessione.

Sebbene questa parlata, e il calore col quale la pronunziò il giovane carcerato, avesse dovuto togliere al giudice ogni speranza d'indurlo a servire alle sue brame, tuttavia esso continuò impassibile nel suo sistema di gesuitismo.

E, rendendo tanto più benigno il suo sorriso, per quanto l'altro vibrava più terribili occhiate:

—Ma figliuolo! riprese, possibile che siate in preda a un simile acciecamento! E non conoscete l'enormezza del vostro peccato? Se non vi spaventano le pene temporali, dovrebbero atterrirvi gli eterni castighi, che vi aspettano nell'altra vita.

—Quelli, se esistono, non a noi, ma ai nostri giudici sono serbati.

—Dunque non sentite il pungolo del rimorso?

—L'unico rimorso che io provo è quello di non essere riuscito nell'intento, ma mi consola una fiducia: che tanto sangue non fu sparso invano, e che non è lontano il giorno della nostra vittoria.

—Tanto giovane, e tanto pervertito! esclamò il giudice, congiungendo ipocritamente le mani. Ma non sapete che terribile è la sorte che vi si prepara?

—Qualunque sia, io l'aspetto senza paura. Tremerete forse voi altri nel segnare la mia condanna; ma non io nell'affrontarla.

—Voi volete morire nell'impenitenza finale! Così disse il giudice crollando la testa; poi, dopo qualche momento di pausa, riprese:

—Dite dunque qual parte aveste nella rivolta.

—Voi siete il giudice, rispose Curzio. A voi spetta indagarlo.

—Da costui non caviamo nulla, disse Marini sottovoce al cancelliere; poi voltosi all'inquisito, e dimessa l'apparenza della bontà:

—Se continuate a questo modo, gli disse, lascerete la testa sul palco. Ve lo prometto.

Poi chiamò:—Petronio! E al carceriere che si presentò: Riconducetelo, disse, al suo carcere.

Il prigioniero si avviava col secondino, quando il giudice li richiamò indietro:

—Aspettate! Petronio, domani, che è un giorno dedicato a san Pietro, farete digiunare rigorosamente questo detenuto: ciò servirà al bene dell'anima sua.

E poichè il carceriere e il prigioniero furono partiti del tutto, voltosi al cancelliere, con libero sfogo il giudice Marini proruppe:

—Questi indemoniati liberali sono tutti a un modo! Non si piegano neanche colle bastonate. Oh! se io potessi vorrei finirla presto con costoro! Una buona catasta di legne in mezzo a piazza San Pietro, e poi metterveli sopra tutti dal primo fino all'ultimo. Non c'è altro mezzo per finirla con questi scellerati.

Petronio, dopo aver ricondotto Curzio alla sua segreta, ritornò a ricevere gli ordini di Sua Signoria illustrissima.

—Fa venire Giuseppe Monti! disse Marini.

Dopo due minuti Petronio ritornava, conducendo Monti ammanettato come il compagno che l'aveva preceduto.

—Siete voi Giuseppe Monti?

—Son io.

—Voi, poveretto, avete moglie, e tre figli?

—Sì signore, rispose sospirando.

—Avreste desiderio di rivedere la vostra famiglia? chiese il giudice, atteggiandosi a quanto mai poteva mostrare di affettuosa premura.

—E me lo domanda? disse Monti con un accento che diceva tutto.

—Ebbene, prese a dire Marini dolcissimamente, v'insegnerò il mezzo vero e sicuro, per rivedere presto la vostra famiglia: una franca, piena e sincera confessione. Finchè persistete a negare fate il vostro danno, e non altro. Non c'è che un veritiero racconto dei vostri falli che possa salvarvi. Ma credete che la clemenza del Santo Padre rimarrà indifferente di fronte a una simile prova di pentimento? Una grazia intera e assoluta sarà la vostra ricompensa. Esitate ancora? Prendete esempio dal vostro complice Curzio Ventura, che in questo momento ha fatto una spontanea confessione, raccontando tutti i particolari del suo misfatto e narrando anche la parte che voi stesso ci avete avuta.

—Possibile!

—Vedete adunque che la giustizia è già informata d'ogni cosa. Ci sono prove bastanti per condannarvi tutti: ma io desidero la vostra confessione, unicamente per avere una prova del vostro pentimento, e con questa ottenere per voi la sovrana grazia, e così rimettervi in seno alla vostra povera famiglia. Questa sarebbe la consolazione più cara al mio cuore. Da voi dunque dipende assicurarvi con una parola sola la salvezza in questa vita, e di più la salute eterna nell'altra. Confessate, figliuolo. Pensate a quella meschinella di vostra moglie, ai vostri tre figli, poverini, che rimangono senza un appoggio, senza una guida nel mondo!

Una lotta terribile si combatteva nel cuore del povero padre, e l'interno contrasto traspariva evidente dalle contrazioni del suo volto e dalla immobilità degli occhi pensosi.

Marini indagava con acuto sguardo la penosa battaglia di quel cuore; simile alla jena, che aspetta l'ultimo anelito di un morente, per lanciarsi a divorarne il cadavere.

—Ebbene, disse finalmente Giuseppe Monti. Sì, signore, io confesserò!

—Oh bravo! esclamò il giudice sorridendo. Scrivete, signor cancelliere, scrivete che l'inquisito Monti confessa.

—Dunque, riprese poscia volto al prigioniero, con un raddoppiamento di benevolenza, dunque, figliuolo, voi confessate. Dite, dite pur tutto senza timore; quanto sarà più ampia la vostra confessione, tanto più largo vi sarà schiuso il tesoro inesauribile della sovrana clemenza. Voi dunque foste uno di quei settari, che iniquamente sovvertirono l'ordine pubblico, e si ribellarono contro il potere del Sommo Pontefice, operando stragi infinite e nequizie d'ogni maniera? Non è vero? Scrivete, signor cancelliere, scrivete che confessa tutto.

—Ma io…. prese a dire Monti.

—Voi non vorrete, figliuolo, interruppe il giudice, non vorrete perdere il merito della vostra confessione spontanea con delle restrizioni inopportune. Voi dunque volete dire che operaste nella rivolta qualche fatto speciale, non è così?

Monti esitava ancora a rispondere, e il giudice ripigliò, con sembiante d'amorosa sollecitudine:

—Io già lo so, vedete, so tutto. Solamente desidero di sentirlo dalla vostra bocca, per procacciarvi il frutto della confessione. Da bravo… pensate ai vostri figliuoli! Dite dunque, qual'è il fatto che fu perpetrato da voi? ditelo pure liberamente: non temete che debba mancarvi la grazia per quanto enorme sia il vostro misfatto. La clemenza del Santo Padre non conosce confini. Coraggio figliuolo: anche una parola, e tutto è finito. Qual'è questo fatto? dite.

E tanto andò innanzi l'astuto, uso a strappare dagli inquisiti la confessione di falli veri e non veri, con quella sorta di tortura morale, tanto insistè nelle fallaci esortazioni, che il povero Monti, perduto, smarrito, preso come si dice col laccio alla gola, lasciò sfuggire quelle fatali parole:

—La mina!

Il giudice Marini ebbe appena intesa quella voce, che l'afferrò a volo tutto giulivo.

—Ecco, pensò fra sè, il bandolo della matassa; costui è uno dei rei principali! costui è destinato ad essere il capro espiatorio della insurrezione! Questo processo mi procaccerà onore immortale!

Formulate in un baleno queste conclusioni, l'inquisitore si volse alla vittima destinata fino da quel momento al supplizio, e con un sorriso di benigno incoraggiamento sulle labbra, gli disse:

—Proseguite, figliuolo, dite pur tutto; guardate l'immagine di Nostro Signore Gesù Cristo che col suo esempio vi esorta alla mansuetudine, e fate un atto di vera contrizione; raccontatemi la cosa in tutti i suoi particolari.

Poi, precorrendo alle risposte di Monti, si volse impaziente al cancelliere dicendogli:—Scrivete, scrivete: egli confessa di aver fatta rovinare la caserma Serristori, mediante una mina accesa di sua propria mano, con deliberato proposito di cagionare la morte di tutti quanti i prodi difensori della Santa Sede, e della santissima religione.

Stretto da nuove insistenze, e suggestioni, Monti raccontò il fatto della mina in tutta la parte che lo riguardava, tacendo assolutamente quanto avevano operato i suoi compagni, guardandosi bene dal pronunziare il loro nome.

Per tal modo il giudice non era soddisfatto del tutto, e mentre con premura dettava al cancelliere tutti i dettagli che potevano aggravare la posizione del Monti, dimostrava poi con un torcimento di bocca il malcontento che gli cagionavano le reticenze del medesimo confesso.

—Male, male, figliuolo! disse finalmente. Voi non volete salvare nè l'anima nè il corpo; non volete dir tutto!

—Io ho detto tutto, e ora condannatemi, se volete, disse Giuseppe
Monti in atto di suprema rassegnazione.

—Ma voi aveste dei compagni nella esecuzione del nero misfatto, e di questi non avete parlato. Perchè la vostra confessione possa ritenersi piena ed intera, voi dovete accennare alla giustizia i nomi di tutti quanti i vostri complici, coadjutori, mandanti, correi e fautori.

—Signor giudice, proruppe Monti passando dall'umiliazione allo sdegno, io posso confessare le mie azioni, ma non quelle degli altri. Se così facessi, io mi renderei un vil delatore!

—Ma io vi prevengo, figlio caro, che la vostra confessione non può valer nulla, proprio nulla, vedete, se non è piena ed intera; e, come vi ho detto, non può chiamarsi tale se non dite anche i nomi dei vostri compagni.

—Questi io non li dirò mai.

—In tal caso, me ne duole nel cuore, ma voi rimanete esposto a tutto il rigore della legge. Pensate alla moglie e ai figli!

—No! esclamò Monti; l'amore che io porto ai figli e alla moglie non mi farà mai diventare una spia! Morirò sul patibolo, se occorre, ma non mi farò mai il denunciatore de' miei fratelli.

—Peggio per voi! gridò il giudice coll'espressione della più fiera minaccia.

Allora comprese il povero Monti a qual laccio era stato colto da quell'infame che gli aveva fatta balenare la speranza della grazia, e rappresentata la miseria della sua famiglia, per meglio estorcergli la confessione, e così spingerlo più facilmente sotto il taglio della ghigliottina. Tale era il suo infame mestiere!

—Doveva immaginarlo! gridò il carcerato scuotendo fieramente le sue manette di ferro. Voi altri non fate grazia se non che alle spie; ed io, stolto, mi sono lasciato adescare dalle vostre lusinghe, e vi ho prestata l'arma per colpirmi più facilmente! Non importa: mi avreste assassinato egualmente. Ma sentite: voi siete il giudice, io sarò il condannato; ebbene, io mi sento tranquillo nella mia coscienza; dite voi altrettanto, se lo potete!

—Riconducetelo nella sua prigione, urlò il giudice, e se parla ancora domatelo colle nerbate.

Petronio accorse, e preso per un braccio il prigioniero, lo trasse alla segreta, mentre col ruvido dorso della mano si asciugava una lagrima.

—Oh grazie! mormorò Monti, che lo sorprese in quell'atto.

La tacita compassione del suo carceriere lo compensava della durezza del giudice.

XIX.

Il figlio.

Frattanto il giudice inquisitore si fregava le mani, e diceva al cancelliere Passerini:

—Benissimo! benissimo! ecco il frutto delle mie operazioni notturne. Noi cominciamo ad avere in mano un filo della trama, e questo filo basterà per svolgerla tutta quanta.

Poi, volto a Petronio, ch'era ritornato, dopo avere cautamente cancellati da' suoi occhi i vestigi del pianto pietoso:

—Presto, presto, disse. Fate venire l'accusato Gaetano Tognetti.

Tognetti dormiva, e fu risvegliato dalla voce e dalla mano di
Petronio, che lo scuoteva.

—Chi è? mia madre? gridò l'infelice giovane, svegliandosi
  all'improvviso.

—Altro che mamma! c'è qui il giudice che vi aspetta.

—E che vuole il giudice da me?

—Vuole esaminarvi.

—Proprio adesso che stava dormendo. Maledetti! non ci lasciano riposare nemmeno alla notte.

Questo breve dialogo ebbe luogo fra Tognetti e il carceriere, mentre quest'ultimo eseguiva la penosa operazione di costringergli le mani nei ferri, senza i quali, non potevano i detenuti comparire alla presenza di Sua Signoria illustrissima.

—Come ti chiami? cominciò il giudice, quando Tognetti fu alla sua presenza.

—Non lo sapete? Mi avete pur fatto chiamare.

—Sei Gaetano Tognetti?

—Se l'ho detto che lo sapete! perchè dunque me lo domandate?

—Meno arroganza, giovinotto, e rispondi a dovere. Come hai passata la sera del 22 ottobre?

—E voi, come l'avete passata?

—Rispondi a dovere. Come hai passata la sera del 22 ottobre?

—So molto io!… E chi se ne ricorda?

—Questi infingimenti sono inutili! esclamò il giudice, adoperando questa volta la ciera brusca, per atterrire il giovane Tognetti. Consta alla giustizia che in quella sera tu hai preso parte alla nefanda ribellione; consta che hai commessi misfatti e nequizie senza termine; consta che hai perpetrati omicidi, ferite, ed altri crimini e delitti; consta sopratutto, che ti sei macchiato del crimine di lesa maestà in primo grado.

—Consta, consta, consta! soggiunse Tognetti con piglio beffardo. E se vi consta tutto questo, perchè mi venite a interrogare?

—Per ottenere dal tuo labbro la genuina narrazione del fatto.

—Resterete colla voglia in corpo, perchè da me non otterrete nessuna confessione.

—Pensa, riprese il giudice, pensa che la negativa non potrà giovarti, perchè i tuoi stessi compagni ti hanno accusato, e sopratutto Giuseppe Monti, che è stato esaminato in questo punto prima di te. Esso ha raccontato ed esposto per filo e per segno la compartecipazione che tu hai avuta nella perpetrazione del reato.

Tognetti, niente spaventato dal volto arcigno, nè dai biechi sguardi, nè dalle fiere parole del processante, volendo almeno vendicarsi collo scherno, che è l'ultima sfida dei vinti, si mise a ridere, e disse:

—Queste sono tutte bugie: ed io non credo un'acca di quanto mi dite. Nessuno de' miei compagni è capace di un simile tradimento. Voi mi date ad intendere queste fandonie per farmi cadere nella rete, e poter poi vantare che mi avete indotto a fare una confessione spontanea. Ma con me non ci arrivate, sapete.

—Pensa, gridò il giudice, piantandogli in faccia que' suoi occhiacci grifagni, pensa, che persistendo in questo contegno tu vai incontro diritto diritto alla morte!

—E che m'importa? soggiunse il giovane. Credete che io non capisca che la nostra sorte è decisa fino d'adesso? A che mi gioverebbero le umiliazioni, i pianti e le preghiere? a niente; avete già destinato di farmi morire. Ebbene io morirò; ma voi non avrete la consolazione di vedermi a piegare la fronte, e dimandarvi perdono. Io morirò sì, ma almeno voglio avere la soddisfazione di parlare liberamente fino all'estremo della mia vita.

—Pensa all'anima tua! disse l'inquisitore con voce lugubre.

—I conti dell'anima, io li faccio direttamente col mio Dio: fate lo stesso anche voi.

—Pensa alla tua vecchia madre.

—Mia madre! poveretta! esclamò Tognetti con tenerezza mista di rabbia. Voi altri infami la farete morire di dolore!

—Vedo che sei un peccatore indurito, soggiunse il processante, crollando la testa. Ritorna nella tua prigione!

E questo aggiunse con un gesto di ripulsione, con cui pareva dicesse le parole sacramentali degli esorcisti: Vade retro Satana!

Suonava appunto la mezzanotte, nel momento in cui Petronio rinserrava coi chiavistelli la segreta, ove era rientrato Tognetti.

—È mezzanotte! disse il cancelliere, sollevando per la prima volta la punta del naso dalle sue carte, e guardando il suo principale. Il pover'uomo sperava che fosse giunto il termine del lavoro, poichè dal grande scrivere aveva le dita tutte indolenzite. Ma la sua speranza fu delusa.

—Prima che ce ne andiamo, disse il giudice, voglio interrogare nuovamente Curzio Ventura. Appoggiandomi sulla confessione di Monti, potrò cavare qualche cosa anche da lui.

E a Petronio, ch'era di ritorno, al solito, col mazzo delle chiavi e la sua berretta nelle mani:

—Animo, disse, andate a prendere il detenuto Curzio Ventura.

Una carrozza si fermò in quel momento innanzi alla porta delle Carceri
Nove.

Era la principessa Rizzi, che giungeva con Maria Tognetti.

La principessa comandò a Maria di aspettarla nella carrozza; poi, dopo avere abbassato il velo sul volto, si presentò al cancello della prigione, chiese del capo-custode, e a questi mostrò lo scritto di monsignor Pagni.

Il capo-custode s'inchinò profondamente, e condusse la signora attraverso un labirinto d'anditi e di scalette, fino a quel tal camerone, a cui mettevano capo le porte di tante segrete, e nel quale vedemmo già il secondino Petronio lottare col sonno. Giunto quivi:

—Sono ai comandi di vostra eccellenza, disse il capo-custode, che aveva fiutato la gran dama.

—Come vedete, soggiunse la principessa, che teneva sempre in mano il foglio: quest'ordine di monsignore vi comanda di consegnarmi il prigioniero che io nominerò.

—Eccellenza, sì. Qual è il prigioniero che devo consegnarle?

—È…

La principessa Rizzi stava per pronunziare il nome di Gaetano Tognetti, ma nello stesso punto si arrestò, e invece di quel nome emise un grido acutissimo.

Essa aveva veduto aprirsi una fra le porte ferrate delle segrete, e uscirne scortato da un secondino un giovane prigioniero. Era Curzio Ventura, che veniva condotto da Petronio innanzi al giudice Marini.

Lo vide essa appena, che lo riconobbe: ma pure non credeva a' suoi occhi, e si avvicinò a guardarlo meglio nel viso; poi fra i singhiozzi esclamò:

—Curzio! Curzio! sei tu?

Intese la voce della madre il giovane, e mosse per abbracciarla, ma lo impedirono i ferri che gli tenevano strettamente avvinte le mani e le braccia.

Il giudice Marini, cui già pareva troppo lungo l'indugio del carceriere, che doveva condurgli dinanzi l'inquisito, all'udire, quelle voci, uscì fuori dalla stanza degli esami, e venne nel camerone, seguito a breve distanza dal suo indivisibile cancelliere Passerini.

—Che significa ciò? esclamò vedendo una signora in atto di favellare al detenuto. Che cosa cerca quella donna? cacciatela fuori!

La principessa allora si avvicinò al giudice, e sollevando il velo, che subito dopo abbassò nuovamente, gli mostrò chi essa era.

Il giudice si raumiliò tutto; e cercando di emendare le maniere ostili di prima a furia di servilità, s'inchinò fino a terra, dicendo:

—Eccellenza, che cosa comanda?

—Guardi questo foglio, diss'ella, mostrandogli lo scritto. Conosce il carattere di monsignor Pagni?

Il giudice processante lanciò sulla carta uno sguardo, con cui si assicurò ben bene dell'autenticità della firma, poi disse:

—Ma ella è padrona, padronissima, collo scritto e senza scritto; può fare e disfare quello che vuole.

La principessa si volse allora al capo-custode, e disse, indicando
Curzio:

—Il prigioniero che dovete consegnarmi è questo.

Ad un cenno del capo-custode, Petronio, tutto lieto, si affrettò a togliere le manette al detenuto.

—Venga, signor cancelliere, abbiamo finito, diceva intanto il giudice a Passerini; e questi, contento anch'esso come Petronio, raccolse in fretta le carte e le penne.

Marini, passando innanzi alla signora, si sprofondò nuovamente in un inchino, dicendo:

—Servo umilissima di vostra eccellenza! e si diresse verso la scala, seguilo dal suo caudatario.

—Curzio, affrettati, vieni! disse a Curzio la principessa.

—Dove? chiese il giovane sbalordito.

—In libertà, rispose ella, in libertà! Io posso salvarti; ma non tardare, vieni.

—Io dovrò fuggire, salvarmi, esclamò Curzio, mentre i miei fratelli rimangono in carcere, colla morte sospesa sui loro capi?

Essa non si attendeva quella resistenza; tremò che qualche ostacolo sopraggiungesse a frapporsi alla salvezza del figlio, e cercando un mezzo d'indurre Curzio a seguirla, esclamò:

—I tuoi compagni! anch'essi saranno salvi.

—Anch'essi?

—Sì, te lo prometto; ma ora non indugiare, vieni, altrimenti non saremo più in tempo… Pensa che frapponendo un ritardo, non solo cagioni la tua perdita, ma anche la loro.

Cieca per la paura di quella situazione tremenda, ansiosa di persuadere il figliuolo a seguirla, la povera madre non sapeva più che dire.

E Curzio riprese:

—Avrai tanto potere da salvarli anch'essi?

—E non ho il potere di farti fuggire?

—Mi giuri che otterrai anche la loro salvezza?

—Sì, te lo giuro. E ora vieni, se pure non vuoi perdere anche tua madre. Se tu rimani, io, no, non mi divido da te!

—Ebbene, io vengo teco! disse Curzio, dopo aver pensato un ultimo istante. Accetto la libertà, ma a patto che ne godranno anche i miei compagni.

—Fidati in me; vieni.

Così dicendo, la principessa conduceva seco Curzio; quando, giunta con esso al cancello del camerone, s'imbattè sulla soglia con monsignor Pagni.

—Fermatevi, o signora! gridò il prelato.

Essa si arrestò come impietrita. Curzio si ritrasse sdegnosamente lontano.

—Voi mi avete ingannato, disse monsignore a bassa voce alla
  principessa.

—Lasciatemi! diss'ella.

—Fermatevi, ripigliò monsignor Pagni. Voi non uscirete di qui con quell'uomo. È quello il giovane muratore che volete salvare? pel quale mi chiedeste un salvacondotto? quello è lo scultore Curzio Ventura, che la fama dice vostro drudo; e non erra, perchè gli è per salvar lui che voi abusaste della mia buona fede; è per salvar lui che voi siete qui dentro!

—Se sapeste… disse la principessa. Io non posso tutto spiegarvi. In nome di Dio, lasciatemi uscire!

—Voi non uscirete con lui, vi dico.

—Ebbene, volete tutto sapere? sappiatelo, soggiunse ella con risoluzione; e fattasi dappresso al prelato, parlandogli all'orecchio, con voce sommessa ma vibrata continuò:

—No, non è una tresca impudica che mi lega al giovane scultore; è l'amore il più puro, il più santo; è l'amore di madre!… Sì, io sono la madre di Curzio Ventura!… E, se non basta, sappiate ch'egli ha vent'anni, ch'egli è nato dopo che voi mi abbandonaste indegnamente al rimorso e all'infamia. M'intendete, o signore?

Monsignor Pagni, colpito profondamente da quelle parole, guardò fisso la principessa; lesse ne' suoi occhi smarriti l'espressione del vero; volse lo sguardo dalla parte ov'era Curzio tutto tacito e concentrato, esclamò:

—Egli è mio…

—Tacete! gl'impose essa con un gesto eloquente.

Il prelato la rassicurò con un cenno della mano; poi si avvicinò al giovane, guardandolo con tutta l'espressione dell'affetto.

Curzio all'appressarsi del monsignore si arretrò alquanto, e lo fissò con quell'occhiata di schifo e di diffidenza, che suol volgersi ad un rettile velenoso.

Il prelato si arrestò, curvò la testa, rimase un istante in silenzio, poi voltosi alla principessa:

—Andate, signora, le disse; voi siete libera di partire.

Essa prese Curzio per mano, e traendolo seco, scese precipitosamente le scale, i cancelli della prigione si aprivano l'uno dopo l'altro innanzi allo scritto di monsignor Pagni.

Giunta che fu sulla strada, la principessa trovò Maria Tognetti, che impaziente di abbracciare suo figlio, era scesa dalla carrozza, e si era avvicinata alla porta della prigione.

Appena vide giungere la sua protettrice seguita da un giovane carcerato, porse innanzi le braccia per stringere al seno il suo figliuolo; ma vedendo, invece del suo Gaetano, Curzio, che la principessa fece salire rapidamente nella carrozza, salendo anch'essa subito dopo, la povera Maria rimase immobile e muta. Voleva gridare, chiamare suo figlio, chiederne conto alla principessa, lanciarsi allo sportello del legno, al cancello delle carceri. Ma la sorpresa, l'emozione, il contrasto, le tolsero a un tratto il movimento e la parola. Agitò le mani, mandò un rauco gemito, ma si sforzò invano di muoversi e parlare.

La principessa sentì tutto il pericolo di quel momento; se Curzio si accorgeva dello scambio, pel quale esso veniva salvato invece del suo compagno Tognetti, avrebbe rifiutato di fuggire, e chi sa cosa sarebbe avvenuto.

La paura la rese crudele; seguendo l'impulso irresistibile dell'amore materno, che fa anteporre la salvezza di un figlio ad ogni altra considerazione, comandò al cocchiere di far partire la carrozza al galoppo.

Maria vide allontanarsi rapidamente il legno, e con esso ogni sua speranza; guardò anche una volta le tetre muraglie che le contendevano il figlio, mandò un grido, e cadde riversa sopra il selciato della via.

XX.

La rivincita di un prelato.

La desolazione più fiera era entrata nella casetta di Trastevere, dove un giorno aveva regnato la pace e la serena tranquillità di una vita modesta e incolpata. La famiglia di Giuseppe Monti era colpita dalla maggiore fra le disgrazie. Il capo maestro languiva in un carcere durissimo, minacciato da una condanna di morte, soggetto a tutte le privazioni e ai patimenti del prigioniero, e martoriato da quell'angoscia più crudele d'ogni altra d'essere diviso dalle persone tanto care al suo cuore.

Intanto sua moglie, i suoi figli, abbandonati, privi di soccorso, soffrivano l'inopia delle cose più neccessarie, e il tormento più feroce struggeva il cuore della Lucia, il pensiero delle sofferenze di suo marito, e il terrore della sorte che gli soprastava.

Essa era ignara della parte che Monti aveva avuta nella rivolta; ma sinistre voci erano giunte fino a lei, che parlavano di gravi indizi, di prove, di confessioni, di pene estreme, e tremende; e in quella incertezza paurosa quanto fosse straziata l'anima della povera donna, chi ha cuore nel petto può facilmente immaginarlo.

Nei primi giorni essa aveva trovata quella violenta energia, che assiste la donna nei momenti più terribili della vita. Animata da un virile coraggio, si era presentata agli uffici, alle prigioni, aveva parlato ai giudici, ai cancellieri, aveva chiesta udienza a prelati, e cardinali; preci, pianti, denaro, tutto aveva posto in opera per giovare al marito.

Ma quando vide tornar vani tanti sforzi pertinaci; quando vide accolte con fredda indifferenza le sue disperate supplicazioni, e perdersi tutte le sue monete nelle ingorde mani degli uscieri e dei secondini, senza alcun frutto, e ch'essa non poteva nemmeno aver notizia dello stato di suo marito, e del suo destino, e che le era conteso perfino il conforto di vederlo una volta, di mescere con esso il pianto degl'infelici, allora la povera donna sentì lo scuoramento entrarle nel cuore, e venirle meno ogni forza. In quella febbrile attività dei primi giorni si era consumata tutta quanta la sua energia; essa cadde in uno stato terribile di prostrazione.

Frattanto le sue risorse pecuniarie erano mancate, avendo ella consunti tutt'i suoi risparmi in quegli inutili tentativi: e i suoi bambini avevano bisogno di pane. Fu allora che la buona Teresa divenne l'angelo tutelare della famiglia.

Anch'essa aveva un pensiero d'amore che si volgeva dolorosamente alle Carceri Nove; ch'essa era amante e fidanzata del giovane Tognetti; ma all'aspetto di quella immensa sventura, che aveva colpita la sua cugina Lucia, dimenticava gli affanni suoi proprii per dividere le pene atroci della moglie di Monti. E quando il coraggio di questa, giunto all'estremo, diè luogo a un cupo sconforto, essa pensò e provvide ai bisogni della famiglia.

Si diede a lavorare giorno e notte senza riposo, e per quella fatica continua, smagrito il bel corpo, ingiallite le guancie e incavati gli occhi, mutò in breve sembiante, meno avvenente agli sguardi, ma più eletta e divina pel cuore; chè nulla sublima la donna quanto l'esercizio della pietà, la più celeste fra le virtù.

Lucia voleva lavorare anch'essa, ma in quello stato di affralimento a mala pena poteva reggere l'ago, e troppo spesso il pianto le faceva velo agli occhi, ed il dolore le toglieva ogni senso di vita.

Allora la brava Teresa moltiplicava le sue forze, i suoi pensieri; assisteva la desolata, acquietava i bimbi, provvedeva il vitto, e trovava tempo da lavorare per tutti.

Quando Lucia riacquistò un poco di vigore, ricominciò le sue gite. Si recava al cancello delle Carceri Nove supplicando quei cerberi che le lasciassero almeno vedere in lontananza il marito, per assicurarsi ch'esso era in vita; correva di porta in porta dai giudici per impetrare la salvezza del prigioniero, e ritornava sempre più sconsolata.

Un giorno le fu indicato il palazzo di monsignor Pagni, siccome quello d'uno dei membri più potenti della Sacra Consulta, del supremo tribunale, dal quale dipendeva la causa di suo marito. Ed essa, poveretta, salì anche quelle scale, e chiese di monsignore.

Dapprima le fu negato l'ingresso, ma insistè e pianse tanto, che il suo nome fu annunziato al prelato. Subito dopo essa fa introdotta nel salotto elegante, dove monsignore dava udienza ai supplicanti, insultando quasi col suo fasto alla loro miseria.

Monsignor Pagni, vestito colla consueta ricercatezza, in sottana di seta paonazza, stava seduto, in atto di molle riposo, sopra un soffice seggiolone; nè all'aprirsi della porta si volse a guardare chi entrasse. La povera Lucia si avanzò trepidando, e non osava guardare in volto il prelato. Poi si fermò, e rimase in umile atteggiamento, aspettando di essere interrogata ma egli noncurante, non la guardava nemmeno.

Essa allora si accinse a parlare, e alzò gli occhi da terra. Lo vide, appena che riconobbe il prelato, non ostante le mutate vesti e il tempo trascorso. Rabbrividì; avrebbe voluto fuggire, ma il pensiero del marito, la cui vita pendeva forse dalla volontà di quell'uomo, l'arrestò. Si provò di parlare, ma la sua lingua incollata al palato non poteva articolare un accento.

Lucia stava immobile, quasi istupidita: monsignore si degnò finalmente di volgere il capo dalla sua parte; la guardò, la squadrò dalla testa ai piedi, poi disse in tuono di benigna clemenza:

—Che volete, buona donna?

Ella si sforzò allora di pronunciare qualche parola, e riuscì a stento a balbettare:

—Mio marito… si trova… in prigione…

—Chi siete voi? chiese il prelato, mirandola cogli occhi socchiusi come fanno i miopi.

—La moglie… di Giuseppe Monti.

—Ahimè! fece monsignore con una smorfia; mi dispiace per voi, povera donna, ma non so mica come vostro marito potrà cavarsela. Uhm! si tratta di lesa maestà in primo grado. L'ha fatta grossa quel Monti. Voi dunque siete sua moglie!… Avvicinatevi; avete figli?

—Tre, eccellenza.

—Guardate, se un padre di famiglia deve cospirare contro il suo legittimo sovrano!… E voi, non vi siete mai accorta dei raggiri, delle male pratiche di vostro marito?

—No, eccellenza…

Monsignor Pagni fingeva di non riconoscere la moglie del soprastante muratore, e intanto osservava i mutamenti cagionati dal dolore su quella donna. Il volto emaciato dalle angoscie, gli occhi arrossiti dal pianto continuo non erano più tali da suscitare dei desiderj amorosi. Il prelato sorbiva invece la voluttà infernale della vendetta.

Quella donna l'aveva un giorno respinto sdegnosamente: ed egli aveva giurato di vendicarsi. Il giorno del suo trionfo era giunto più presto che non credeva: pareva che la cieca fortuna avesse cospirato in suo favore.

Ed ora quella donna orgogliosa, che lo disprezzò, era lì supplicante, paurosa, piangente, ed egli poteva a colpi di spillo ferirla nella parte più sensibile del cuore. Proseguiva dunque lentamente, e studiando con feroce piacere l'effetto delle sue parole sul volto di quella disgraziata:

—Uhm! non so: è una causa grave; potrebbe anche andar bene, ma sarebbe un miracolo del cielo. Quel disgraziato Monti, sopratutto, si trova in una condizione più seria degli altri.

Poi, dopo una pausa atroce:

—Non so davvero se gli riuscirà di salvare la pelle!

—Ah!

Lucia diede un grido fortissimo; poi, diritta, irrigidita, colla bocca anelante, coi grandi occhi neri aperti, spalancati, colle braccia protese in avanti, mormorò con voce soffocata:

—Che dite, eccellenza? Mio marito… si trova in pericolo di…

—Di andare alla morte… Ma, Dio buono, sicuro; credete che si possa impunemente ribellarsi al proprio sovrano, al padre amoroso dei fedeli?

—Ah Dio! credo di divenir pazza… non lo dica, eccellenza… pensi che abbiamo tre figliuoli… tre fanciulletti innocenti… che non hanno colpa di nulla…

—E che cosa ci posso fare io?… Egli doveva pensarci, prima di mischiarsi nelle cospirazioni della setta. Adesso l'ha fatta: la pagherà.

—Dio mio!

Lucia si mise le mani congiunte sul seno, dove aveva sentita una fitta acutissima che le toglieva il respiro, sentì piegarsi le gambe, e stette lì lì per cadere.

Ma in quel momento il suo sguardo si volse sulla faccia del prelato. Essa lo vide guardarla con un sogghigno beffardo, nel quale stava dipinta tutta la diabolica gioia di un uomo che si beava all'aspetto di tanta sventura. Lucia comprese la crudeltà di quello scellerato, e non volle dargli un ultimo piacere coll'aspetto della sua debolezza. Richiamò gli spiriti attivi dell'anima con un supremo sforzo di energia. Indietreggiò come inorridita, si coperse la faccia colle mani, e fuggì correndo da quella casa abbominata.

XXI

Il giudice processante.

Erano pochi minuti dacchè Lucia Monti aveva lasciato il palazzo di monsignor Pagni quando si presentò nelle anticamere del prelato il giudice processante Marini, chiedendo udienza. Gli fu risposto che monsignore per quella mattina non voleva ricevere nessuno.

Il giudice guardò in aria furbesca il cameriere che gli parlava, mise la mano destra in una saccoccetta del suo panciotto nero, la cavò fuori carica di un bel mezzo scudo d'argento, e con quella strinse la mano del cameriere, dicendogli a mezza voce:

—Galantuomo, fatemi il piacere di dire a sua eccellenza reverendissima che il giudice Marini ha bisogno di parlarle, per un affare urgentissimo, che non ammette proprio dilazione.

—Vossignoria sarà servita all'istante, riprese il cameriere vinto da quei bei modi.

E dopo di essere entrato nelle stanze di monsignore, rientrò spalancando la porta, e dicendo:

—Entri, illustrissimo signor giudice.

—S'accomodi. Che cosa desidera? disse monsignore colla solita aria di protezione, lasciando in piedi Sua Signoria illustrissima, mentre egli se ne stava mezzo sdraialo sulla sua poltrona.

—Domando perdono a vostra eccellenza reverendissima, se riesco importuno in questo momento. Così esordì Marini, stando colla schiena curva e il collo piegato sull'omero destro, e tenendo il cappello con ambe le mani sopra la pancia.

—Dica, dica pure quello che ha da dirmi; purchè faccia presto. Questa mattina ho un mondo di cose da sbrigare, e mi piovono le noje.

—Io sono, come vostra eccellenza sa benissimo, l'istruttore del famoso processo…..

—Di lesa maestà.

—In primo grado. Non le dirò le fatiche, i sudori indefessi, le notti vegliate che mi costa questa causa. Io conosco tutta l'importanza della mia missione; non risparmio travagli, non mi arresto innanzi agli ostacoli. E…. posso dire, con qualche orgoglio (e qui accompagnò le sue parole con un risolino modesto) che la mia operosità fu già coronata da un certo successo. Uno dei punti più tenebrosi del processo, mercè le mie cure, è venuto in chiaro; quello che riguarda la mina della caserma Serristori. E su questo punto, eccellenza, sono stato proprio fortunato, perchè mi è riuscito di ottenere da uno dei rei principali la genuina confessione del fatto. Giuseppe Monti ha confessato il delitto ne' suoi più minuti particolari.

—È dunque vero? interruppe il prelato: quel Monti è uno dei principali delinquenti?

—Eccellenza, sì; ed io mi tengo sicuro, che non potrà andar esente dalla condanna capitale.

Gli occhi di monsignor Pagni mandarono un lampo di gioia selvaggia.

—Però, proseguì il giudice, ad onta de' miei sforzi pertinaci, non sono riuscito a cavargli di bocca i nomi de' suoi complici; e le mie cure sono dirette adesso a supplire in qualche modo al suo silenzio. Ho potuto raccogliere de' gravissimi indizi a carico di altri coinquisiti. Consta, per esempio, per la relazione di un confidente segreto, che Giuseppe Monti fu visto pochi momenti prima della esecuzione del misfatto in compagnia di Gaetano Tognetti, e di un certo Curzio Ventura… che…

Il processante si arrestò a questo punto, guardando in faccia monsignore, e cercando di misurare l'espressione della sua fisonomia per dedurne se dovesse seguitare oppur no.

Il prelato gli volse un'occhiata brusca, dicendo:

—Ebbene?

—Di un certo Curzio Ventura, proseguì il giudice, pel quale vostra eccellenza reverendissima si è degnata di mostrare un particolare interesse.

—E perchè? chiese monsignor Pagni con tal voce tonante, che fece tremare il terribile inquisitore.

—Perchè, rispose questi con voce sommessa, e arrestandosi ad ogni parola, come quegli che mette innanzi il piede per tastare il terreno prima di fare un passo: perchè vostra eccellenza reverendissima… si è compiaciuta… di accordare un salvacondotto al nominato Curzio Ven…

—Se così feci, interruppe il prelato con accento di collera, non fu già perchè io abbia qualche interesse per quel giovane. Mi meraviglio ch'ella, signor giudice, osi solamente supporlo. Se ella avesse più rispetto pe' suoi superiori, non penserebbe nemmeno che essi possano sacrificare le esigenze della giustizia alle loro particolari affezioni. Se io accordai un salvacondotto a Curzio Ventura, si fu unicamente perchè gl'interessi dello Stato lo esigevano imperiosamente. Capisce? perchè era una suprema necessità che il nome di quell'individuo non figurasse nel processo. Intende? E così facendo, io mi valsi di quella facoltà che mi viene concessa dal mio grado, e dai poteri straordinari che mi competono… ha capito? E mi stupisco, le dico, che il signor giudice processante abbia trovato a ridire su quanto io ho creduto di fare e comandare, me ne stupisco assai!

Durante quella intemerata il povero Marini aveva fatto una pantomina continua di assicurazioni, di proteste, di sottomissioni, e quando monsignore ebbe finito di parlare:

—Ma io, soggiunse, non ho supposto… non ho creduto… ma le pare, eccellenza, che io voglia ardire di sindacare le operazioni di un mio superiore? Ma ciò ch'ella fa è ben fatto; ma ella non deve rendere conto delle sue azioni all'umilissimo suo servitore. E poi, io mi sono espresso male. Capisco bene io ciò che vuol dire. Sì signore, gl'interessi dello Stato esigono…. capisco…. so bene. Ventura è romano; non si deve credere che gli agenti principali della ribellione fossero sudditi del Santo Padre. Dico bene, eccellenza?

E qui si arrestò temendo di cadere un'altra volta in fallo; ma il prelato non rispose, il giudice interpretò il suo silenzio come una tacita approvazione, e continuò:

—Ed è appunto per servire in questo senso agl'interessi dello Stato che io mi sono permesso di venire a disturbare l'eccellenza vostra.

—Che cosa vuol dire? si spieghi.

—Voglio dire, monsignore, che quel tal individuo, quel Curzio Ventura, il cui nome non deve figurare nella sentenza, è stato arrestato ai confini.

—Arrestato ai confini?

—Mentre faceva ritorno nello Stato Pontificio con abiti falsi, e falso passaporto.

—E dove si trova adesso?

—È trattenuto nella caserma dei gendarmi a mia disposizione: prima di farlo tradurre nelle Carceri Nove ho pensato bene d'interpellare l'eccellenza vostra.

—Ella ha fatto benissimo, signor giudice; il farlo rinchiudere nuovamente nelle Carceri Nove sarebbe stato un gravissimo errore.

—È quello che ho detto io medesimo, eccellenza, e per questo sono venuto ad avvertirla.

—Va bene; di questo affare me ne incarico io; vado anzi sul momento a consultarmi con Sua Eminenza il segretario di Stato. Quanto a lei, non se ne dia altro pensiero: il detenuto passi a mia disposizione, ed io penso al rimanente.

—Come comanda vostra eccellenza; sarà obbedita puntualmente.

E così dicendo, Marini s'inchinò per la centesima volta.

Il prelato suonò un campanello, e al servo che si presentò sulla porta, ordinò:

—La mia carrozza.

—Monsignore la riverisco, disse allora il processante, baciando la mano al prelato con un centunesimo inchino.

—La saluto, rispose seccamente monsignore.

Poi, mentre Marini se ne andava, camminando a ritroso come i gamberi, soggiunse:

—Aspetti!

Il giudice si fermò in tronco.

—So ch'ella desidera qualche cosa.

—Oh troppo buono a occuparsi di me, fece il giudice con una smorfia.

—Un avanzamento, una promozione…

—Io terrei paghi i miei voti quando… ma non ardisco sperare…

—Oh, dica pure.

—Quando fossi nominato assessore di polizia.

—Va bene; ne parleremo con sua eminenza.

—Ah monsignore! Ella vorrà degnarsi…

—Conti sulla mia protezione.

—Eccellenza!

Il giudice Marini ritornò a baciare la mano di monsignore coll'entusiasmo della riconoscenza anticipata, poi riprese il suo cammino retrogrado, finchè fu uscito dalla porta del salotto.

In anticamera sorrise al cameriere, che lo aveva introdotto, e nello scendere per le scale si fregò le mani, pensando:

—Ecco un mezzo scudo bene speso. Il posto di assessore questa volta è assicurato.

XXII.

Per salvarlo.

Misteri del cuore umano!

Vedemmo abbastanza quanto fosse perversa l'anima di monsignor Pagni. Eppure uno spiraglio di luce era penetrato in quel tanto bujo. Quando la principessa gli fece comprendere quale vincolo misterioso passasse fra lui e il prigioniero Curzio, quell'uomo crudele, dal cuore incallito nella ferocia spietata, provò qualche cosa d'incognito, di nuovo che si agitava dentro di lui, e si sentì spinto a volere la salvezza di quel giovane, ad amarlo!

Se il prelato avesse avuto una famiglia, una moglie, dei figli, il suo cuore ingentilito dalla dolcezza dei domestici affetti, non sarebbe mai giunto a quell'eccesso di perfidia nel quale era piombato. Ma così chiuso e serrato, come egli era, nell'egoismo ecclesiastico, siccome in un involucro impenetrabile ai più dolci sentimenti dell'umana natura, egli sentì a poco a poco la malvagità farsi arbitra assoluta delle sue azioni. E quel lampo di bene che gli balenò nella mente insieme alle parole mio figlio! quel lampo fugace si era perduto ben presto nelle fitte tenebre della sua anima fosca.

Ora, in mezzo al più brutale sfogo della sua perfidia, egli veniva sorpreso da un tenero sentimento al pensiero che Curzio si trovava nuovamente in pericolo della vita. Mistero inconcepibile! Quell'uomo istesso che pochi minuti prima aveva sorriso con barbara compiacenza innanzi agli strazi della povera Lucia Monti, ora si affrettava, e accorreva anelante per salvare la vita di un uomo!

La carrozza di monsignore Pagni si fermò in Piazza del Popolo innanzi alla caserma dei gendarmi papali.

La guardia uscì fuori; si schierò in parata; furono presentate le armi al prelato; e gli ufficiali scesero ad incontrarlo.

Ebbe egli appena manifestato il desiderio di parlare coll'arrestato, che fu posta a sua disposizione la miglior camera del quartiere; là dentro fu condotto alla sua presenza Curzio Ventura; e a un cenno di monsignore furono lasciati soli.

Curzio guardò sdegnosamente il prelato.

—Accomodatevi, disse questi, sedete, qui, vicino a me, senza cerimonie; non abbiate timore.

—Io non ho timore, rispose il giovane, e rimase in piedi.

—Voi non dovete vedere in me, riprese monsignor Pagni, nè il giudice, nè il prelato: consideratemi come un buon amico, che vuole il vostro bene, ed è venuto qui unicamente per giovarvi.

Curzio lo guardò, esprimendo la sua incredulità con un sorriso.

—Io sono mandato dalla principessa Rizzi, aggiunse allora Pagni.

—E che vuole essa da me? disse vivamente il giovane, essa mi ha ingannato!

—Per salvarvi.

—Essa mi ha ingannato! ripetè Curzio con maggior forza. Ella sapeva che io non avrei accettata la mia salvezza che ad un patto, e questo era che con me sarebbero salvi i miei compagni Monti e Tognetti. Come ha essa mantenute le sue promesse? Monti e Tognetti languono tuttora nelle Carceri Nove; dipendono sempre dal sanguinario tribunale della Sacra Consulta, e sulle loro teste sta sospeso il ferro della ghigliottina! E poteva io intanto starmene in sicurezza, sano e salvo, al di là dei confini, rinnegando l'amicizia, la solidarietà, la fratellanza, tutti i sentimenti, che mi legano a quegli infelici? Ah, no!… Dite alla principessa che le sue cure, i suoi inganni, furono vani; io sono ritornato!

—A che ritornaste, sconsigliato? Sperate forse di ridonare la libertà a coloro che nominaste, ormai non è più cosa possibile.

—Ebbene, io sarò pago di morire con essi. Sapranno almeno che io non ho acconsentito a dividere la mia dalla loro fortuna.

—Ah giovane, giovane! esclamò monsignor Ragni crollando la testa: questi sentimenti sono belli da leggersi nei libri di Plutarco, ma nella realtà della vita…

—Voi, voi, sacerdoti, proruppe Curzio, ci vorreste santi nelle massime, perfidi nella realtà. Voi ci vorreste ipocriti e bugiardi, anneghititi e schiavi, turpemente vigliacchi, per tenerci più sicuramente il piede sul collo. Ma no, viva Dio! qui dentro abbiamo ancora un alito di vita; e tanti secoli, nei quali ci avete addensata intorno quest'atmosfera di piombo non ebbero potere di soffocare ne' nostri petti il libero respiro. Arde ancora, scintilla la virtù latina. E voi lo sapete, voi che tremate, nell'intimo del cuore; e paurosi vi raccomandate alle spie e ai carcerieri, ai monaci e al boja, perchè sperdano e struggano la semenza dei framassoni! Sciagurati! a che vi giovano le catene ed il sangue? Un popolo non si uccide, un'idea non si estingue. Il sangue sparso ricade in tanta vergogna sulle vostre teste; e affretta il giorno della giustizia.

—Sangue caldo! testa esaltata! pensava intanto fra sè il prelato, crollando sempre la testa. Se io lo rimettessi in libertà, costui si rovinerebbe senza rimedio. Come fare adunque?

Stette alquanto pensieroso come chi cerca un consiglio, poi con un gesto risoluto.

—Non c'è altro partito! esclamò.

Si alzò, si avvicinò a una tavola; scrisse alcune righe sopra un foglio, volse un ultimo sguardo a Curzio senza parlare, e uscì dalla stanza.

Consegnò lo scritto con poche parole a un ufficiale superiore dei gendarmi, che lo accompagnò fino alla carrozza. Prima di salire in legno il prelato porse la sua mano a baciare agii ufficiali, poi ordinò al cocchiere:

—Al Vaticano!

Poche ore dopo la visita di monsignor Pagni, Curzio veniva posto in una vettura chiusa ermeticamente, la quale si avviò colla scorta dei gendarmi a cavallo verso Civitavecchia. Giunto in quella città, fu introdotto nella fortezza, e là dentro venne serrato in una prigione, e dato in custodia ai profossi militari.

Da quel momento il più assoluto segreto circondò il prigioniero. I suoi guardiani erano tedeschi, che non sapevano una parola d'italiano. Avevano per consegna di usargli ogni riguardo, di non lasciargli mancare alcuna cosa; e nello stesso tempo d'impedire il minimo tentativo d'evasione e qualsiasi comunicazione del detenuto col di fuori.

Curzio non vide più che i volti austeri dei profossi, dei quali non capiva il linguaggio, e che dal canto loro non comprendevano il suo. Egli divenne qualche cosa di simile al famoso prigioniero della maschera di ferro, poichè nessuno sapeva nella fortezza chi fosse, e perchè si trovasse là dentro. Solamente, fra i soldati esteri, di cui si componeva la guarnigione, si era sparsa la voce, che Curzio fosse un colonnello delle truppe pontificie, passato al nemico nella occasione dell'insurrezione, il quale aspettava di essere giudicato da un consiglio di guerra.

Monsignor Pagni, per salvargli la vita aveva ottenuto dal cardinale Antonelli, che Curzio restasse rinchiuso in quella fortezza e rigorosamente guardato e inaccessibile, fino a che fosse compiuto e definito il processo di Lesa Maestà, dal quale doveva essere escluso il suo nome.

La povera Maria Tognetti, la quale era rimasta come pazza pel dolore, quando la principessa Rizzi aveva salvato il proprio figlio invece di Gaetano Tognetti, si era presentata più volte al palazzo Rizzi, chiedendo di parlare colla principessa, ma sempre le era stato negato. La necessità terribile della situazione aveva resa spietata quella signora, che pure ebbe da natura un buon cuore. Essa aveva più volte pregato monsignor Pagni, perchè liberasse anche Tognetti, ma egli aveva sempre opposto che non era possibile, che c'era stato bisogno di tutto il suo credito per coonestare la liberazione di Curzio, che quella stessa non era riuscita che per sorpresa, che il tentarne un'altra sarebbe stata opera vana, che le più severe misure erano state prese perchè non avesser più a verificarsi simili cose, e finalmente che la sua stessa potenza non sarebbe bastata ad effettuarla.

Le preghiere della principessa non l'avevano dunque condotta ad alcun risultato, ed è perciò che non potendo esaudire la Maria, e, non avendo cuore di sopportare i suoi lamenti, e i rimproveri ch'essa aveva diritto di volgerle, era venuta nella crudele determinazione di tener chiusa la sua porta alla povera madre.

XXIII.

Scene preliminari.

Fra gli strazi dei prigionieri, le lagrime delle famiglie, le perfidie dei giudici, giunse, dopo un anno, il giorno del giudizio definitivo.

Il 16 ottobre 1868 si riuniva nella gran sala del palazzo Innocenziano di Monte Citorio il supremo tribunale della Sacra Consulta per giudicare la gran causa di Lesa Maestà.

Quanto sangue e quanto pianto gronda intorno alle pareti di quella sala, dove furono condannati al patibolo e alle galere tanti generosi patrioti! In quella sala sta scritta tutta la storia del papato moderno, di un potere che si regge col solo puntello delle bajonette e delle mannaje.

Un grande crocifisso pende dalla parete, e sott'esso sta un busto marmoreo di papa Pio IX.

Una gran tavola semicircolare, coperta da un drappo nero, è anteposta a dodici scanni pei giudici, fra i quali uno più elevato per il presidente. A diritta e a sinistra stanno altri scanni, pel procuratore fiscale, per monsignor relatore, pel difensore.

Dodici sono i giudici, compreso il presidente, e tutti prelati; tutti chiercuti, che giudicano della vita e della morte.

Per gli accusati non v'era posto; ch'essi non comparivano innanzi ai loro giudici, nè la loro voce si udiva nella sala del tribunale.

Il giudice processante Marini aveva fatta stampare e distribuire ai giudici la sua relazione del processo, la quale doveva servir di base alla sentenza; perchè i giudici non isvolgono mai le carte processuali, e si rimettono in tutto alla relazione del processante.

La relazione di Marini era riuscita un capo d'opera di perfidia e di astuzia. Nel compilarla egli si era mantenuto fedele al sistema, che gli vedemmo tenere nella istruzione del processo. Due fini principali gli erano stati imposti, e a questi aveva diretto tutto il suo lavoro. Egli doveva dimostrare queste due cose: che il movimento della insurrezione romana non fu opera dei cittadini di Roma, ma fu importato dal di fuori, e che gl'imputati non erano stati spinti nei loro atti dall'idea patriottica, ma sibbene da un vile interesse. Monti e Tognetti non solamente dovevano essere uccisi, dovevano anche essere infamati!

Tale fu la direzione che Marini diede alla sua relazione processuale, contorcendo i fatti e ravvolgendoli in ambagi cavillose.

Non tardò il processante a ricevere i rallegramenti dei monsignori della Sacra Consulta, e una ricompensa più gradita, che fu una croce dell'ordine Piano, che lo elevava al grado di cavaliere.

Tronfio dei novelli onori, e colla sua bella croce sul petto, Marini si aggirava nelle anticamere del Supremo Tribunale. Ad ogni monsignore che entrava, egli accorreva a baciare la mano, e ne riceveva una stretta, un sorriso, una benigna parola, che lo facevano andare in visibilio.

Quando fu la volta di monsignor Pagni, questi strinse la mano a Marini più a lungo degli altri, e:

—Bravo! gli disse. Bravo, signor cavaliere! Ho letta la vostra relazione e posso assicurarvi che è un bel lavoro. Ve ne faccio i miei rallegramenti.

—Sono troppo fortunato, se l'opera mia ha incontrato l'approvazione dell'eccellenza vostra reverendissima, rispose Marini con un inchino.

—Sì, la mia piena approvazione, riprese monsignore. Ed io farò in modo che il sovrano favore non si limiti alla croce che vedo brillare sul vostro petto.

—E di cui sono riconoscentissimo a Sua Santità, e anche all'eccellenza vostra reverendissima, che colla sua potentissima protezione….

—Un posto di assessore di polizia è appunto vacante, e forse…

—Che? potrei forse ottenerlo! Ah eccellenza!

—Facciamo prima di compir l'opera, e poi verranno le ricompense.
Anche noi sudiamo sangue per questa causa.

—A vostra eccellenza spetta un guiderdone più elevato. Questo processo diventa la base della cattedra di Pietro. Altro che bajonette e cannoni! processi, vogliono essere, processi e condanne, e condanne di morte.

Monsignore sorrise all'insolita parlantina del giudice processante. La croce dell'ordine piano, e la speranza dell'assessorato l'avevano posto fuori di sè.

—Le condanne di morte! mormorò il prelato a mezza voce, in questa causa non dovrebbero mancare.

—Due per lo meno mi sembrano sicure, riprese il cavaliere piano, quelle di Monti e di Tognetti.

—Ah sì! ripigliò monsignore, queste due sono necessarie. Bisogna dare un esempio agli empi rivoluzionari.

—Vendicare i valorosi zuavi.

—E far vedere al sedicente regno d'Italia che non abbiamo paura dei framassoni.

—Dunque le pare, eccellenza, che la mia relazione sia bene diretta a codesto fine?

—È una rete inestricabile, dalla quale non si potranno sciogliere gli accusati: è un documento, che rimarrà a infamia eterna dei nostri nemici.

—E alla maggior gloria del Santo Padre, soggiunse modestamente il cavaliere.

L'avvocato Leoni entrò nella sala, e salutò monsignor Pagni.

—Benvenuto, signor avvocato, disse questi. Vedete che ho mantenuta la promessa che vi feci in casa della principessa Rizzi. A voi è affidata la difesa degli accusati.

—Ho ottenuta la grazia, disse Leoni, e sono quasi pentito di averla impetrata.

—Eh capisco! soggiunse Marini, col suo risolino. Riandando il processo, vi siete persuaso anche voi della scelleraggine dei vostri difesi.

—No, rispose con forza l'avvocato, mi sono anzi convinto della loro innocenza!

—Come?

—Sì, della loro innocenza, e cercherò di trasfondere la mia convinzione nell'animo dei giudici. Ciò che mi rende titubante, e quasi smarrito, è la tremenda responsabilità che pesa sopra di me, ed io diffido delle mie deboli forze. Pazienza! io conosco qual'è il mio dovere, e spero coll'aiuto del Signore di compirlo.

—Dal lato nostro, disse monsignor Pagni, in tuono di compunzione religiosa, non bramiamo altro che di poter seguire i miti consigli della difesa. Preghiamo lo Spirito Santo perchè voglia illuminarci colla sua luce.

In quel punto, un usciere si avvicinò a monsignor Pagni, annunziandogli che una vecchia aspettava nella sala delle udienze private, implorando la grazia di parlargli per un momento.

—Sta per incominciare la seduta. Non posso.

Così disse monsignore; poi parve che gli sopravvenisse un pensiero, che gli fece mutare risoluzione. Fe' cenno all'usciere di ristare; si accomiatò dal giudice processante e dall'avvocato, e si avviò verso la sala delle udienze private.

Una vecchia lo aspettava infatti.

—Avvicinatevi, buona donna, diss'egli, con finta benignità. Chi siete? che cosa volete da me?

—Io sono la madre di Tognetti, monsignore, e voglio giustizia, intendete, giustizia.

—Non vi mancherà, buona donna. Noi siamo qui appunto per rendere giustizia.

—Mio figlio è innocente, monsignore: egli non merita la morte! Eppure ho inteso a dire che la Sacra Consulta vuol condannarlo a morte! Mio figlio è stato arrestato, perchè difendeva un altro, nell'atto che i birri volevano arrestarlo, e quest'altro, monsignore, era Curzio Ventura. Ora perchè Curzio Ventura è salvo, e mio figlio è in procinto di essere condannato a morte? Mio figlio doveva essere liberato; io aveva ottenuto la promessa dalla principessa Rizzi, e per suo mezzo anche la vostra, monsignore. Perchè dunque egli è rimasto in prigione, perchè dev'essere condannato?

Il prelato taceva.

—Il perchè ve lo dirò io, continuò la povera madre furibonda: perchè in vece di mio figlio avete voluto far fuggire Curzio Ventura; perchè Curzio Ventura è vostro figlio!

—Silenzio! gridò monsignor Pagni.

—Sì, vostro figlio! ripetè più forte Maria. Per questo avete voluto salvarlo, per questo volete condannare in vece sua il mio Gaetano! Ecco la giustizia che fate voi altri! e vi dite sacerdoti di Dio!

La collera ribolliva nell'interno del prelato, ma il suo volto si manteneva atteggiato alla mansuetudine, e con voce pacifica, ripigliò:

—Voi dunque, buona donna, venite a reclamare contro la salvezza di
Curzio Ventura.

—No, diss'ella, non m'importa che Curzio sia salvo, ne ho piacere anzi, perchè l'ho amato come un figliuolo, ma il mio Gaetano non dev'essere condannato; non voglio che sia sparso il sangue del mio povero figlio.

—Povera donna! soggiunse ipocritamente il prelato. Io compatisco il vostro dolore di madre; me ne piange il cuore. Ma la giustizia deve avere il suo corso.

—Che dite? gridò la donna infelice… Volete proprio assassinare il mio Gaetano? Ma allora io dirò… forte che tutti sentano…

—Silenzio! esclamò il prelato, prendendola per un braccio.

—Lasciatemi.

Monsignore suonò un campanello.

Si presentò un usciere.

—Le guardie! gridò il prelato.

L'usciere uscì, e dopo un istante entrò coi soldati di guardia.
Intanto la mano vigorosa di monsignor Pagni tratteneva la disperata.

—Sappiate tutti… essa urlava, che mio figlio…

—Portate via questa donna; e impeditele di gridare, ordinò monsignore alle guardie.

I soldati si lanciarono sulla povera vecchia; la ridussero all'impotenza e al silenzio; e la trassero via.

L'usciere avvertì il prelato che il Supremo Tribunale si stava raccogliendo nella gran sala.

XXIV

Una seduta della Sacra Consulta.

Tutti erano al loro posto: i dodici giudici in sottana paonazza sui loro scanni, e fra essi il presidente in seggio più elevato; monsignor relatore alla sua tribuna, il procuratore del fisco al suo scanno, e dirimpetto a lui il difensore, l'avvocato Leoni.

Gli uscieri chiusero tutte le porte.

In mezzo al silenzio universale il presidente si levò in piedi, e tutti l'imitarono.

Egli invocò il nome santissimo di Dio colle solite preci latine, alle quali risposero in coro tutti i presenti: Amen!

Poi rivolse la parola ai giudici, dicendo:

—Carissimi fratelli! leviamo lo spirito all'Onnipotente, e preghiamolo, perchè voglia illuminare le nostre menti, scaldare i nostri cuori, cosicchè il nostro giudizio riesca conforme ai santi consigli della giustizia, della clemenza e della carità.

Dopo ciò, il presidente sedette, e tutti sedettero dopo di lui.

—Fratelli carissimi! ripigliò egli. Noi siamo qui congregati per giudicare la causa di Lesa Maestà, contro i ribelli che commisero gli atrocissimi fatti dell'ottobre nell'anno passato. In questa seduta ci occuperemo più specialmente di quella parte che riguarda gli accusati Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Monsignore! aggiunse poi, volgendosi alla tribuna del relatore, si compiaccia di fare la relazione della causa.

Monsignor relatore si levò in piedi, salutò l'uditorio a diritta e a mancina, poi cominciò il suo discorso così:

—Eccellentissimi e reverendissimi monsignori giudici! Dappoichè, per opera d'uomini scellerati, furono indegnamente usurpate alla Santa Sede le principali provincie, gli empj rivoluzionari non ristettero dal tentare ogni mezzo più iniquo per abbattere e distruggere del tutto il governo del Sommo Pontefice. E finalmente, non più paghi delle occulte insidie, si ridussero palesemente alle aperte violenze. Fin dallo scorrere del mese di settembre 1867 masnade garibaldinesche muovevano a invadere l'attuale territorio della Santa Sede, commettendo scelleraggini d'ogni maniera, e intanto uomini protervi, sanguinari e feroci s'introducevano nella capitale.

«Mentre le provincie erano messe a fuoco e sangue dai perfidi invasori, Roma, che giusta i preconcetti disegni avrebbe dovuto insorgere, se ne stava salda, quieta, imperturbata, pronta bensì agli eventi, ma fidente, e stretta al suo amato sovrano. I membri del sedicente Comitato romano davansi bene attorno a fare proseliti, ma gli sforzi non riuscendo alla vastità dell'impresa scellerata, fu d'uopo movessero da Firenze uomini esperti delle rivoluzioni.

«Allo intento delle mire rivoluzionarie facevano ostacolo le truppe straniere al servizio della Santa Sede, e di preferenza gli animosi zuavi: Castel Sant'Angelo, baluardo del Vaticano, ben guardato e difeso, non offriva modo di aversi con un colpo di mano. Quindi sorse negli empj il pensiero infernale di ricorrere al tradimento, minando le caserme dei militari pontificj.

«La sera del 22 ottobre scoppiò l'insurrezione in Roma, per opera di forastieri, non ajutati dal vero popolo romano, e subito vinta e repressa dal valore delle truppe papali.

«Alla operazione delle mine si prestarono in quella occasione gli accusati Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, i quali si accinsero all'opera, non già per ispirito di parte, ma unicamente per sete di danaro, avendo prima del misfatto pattuito il pagamento, che ricevettero infatti dappoi.

«Risulta adunque dal processo, che Monti e Tognetti alle ore 7 pom. di quel giorno, 22 ottobre 1867, mediante una chiave falsa, s'introdussero in un locale ad uso di deposito d'armi e di munizioni, sottoposto alla caserma Serristori, occupata dai prodi zuavi, e là dentro avendo portati due barili di polvere, a questi appiccarono il fuoco.

«Catastrofe orrenda! La caserma Serristori crollò in gran parte, travolgendo nella ruina non pochi zuavi, dei quali ventidue furono tratti morti di sotto alle macerie, e dodici rimasero malconci e feriti per modo, che tre di essi ne perirono in progresso di tempo.

«Sussiste adunque l'insurrezione, sussiste la rovina della caserma
Serristori procurata mediante lo scoppio di una mina, e di questo
delitto sono convinti per le risultanze del processo Giuseppe Monti e
Gaetano Tognetti.»

Terminato così il suo discorso, monsignor relatore, salutò nuovamente l'uditorio, e sedè nel suo seggio.

—La parola spetta al signor procuratore generale del Fisco, disse il
Presidente.

Il procurator generale si levò in piedi, salutò gli astanti, poi disse:

—Eccellentissimi e reverendissimi monsignori giudici, breve sarà il mio dire, dopo la splendida e chiara esposizione della causa, fatta da monsignor relatore. Da essa conobbero chiaramente le eccellenze vostre quali fatti risultino dal processo, a carico degli odierni accusati.

«Riguardo a questi fatti, Giuseppe Monti ha confessato spontaneamente e limpidamente ogni cosa. Gaetano Tognetti, sebbene non abbia assolutamente confessato in ogni sua parte il misfatto, ha tenuto però nell'istruttoria del processo tale un contegno, da non lasciare dubbio alcuno sulla sua reità.

«Da tutte le altre parti del processo, dalle rivelazioni e confidenze segrete, testimonianze, confessioni giudiziali, e stragiudiziali, dai rapporti della polizia, dagli interrogatorj e verbali, vengono i due accusati Monti e Tognetti ampiamente convinti dei delitti di lesa maestà, insurrezione, devastamento e omicidio.

«Laonde, in applicazione degli articoli 85 e 273, del Regolamento penale, e degli articoli 3, 708, 711, 715 del Regolamento di procedura criminale, devono essere condannati alla pena di morte, da eseguirsi mediante decapitazione, nonchè alla rifusione dei danni ed interessi a chi di ragione, e alla rifusione delle spese giudiziali verso il governo pontificio.»

Il procuratore generale del fisco tacque, e si ripose a sedere.

Il presidente allora sì volse al banco della difesa:

—Parli l'avvocato difensore.

L'avvocato Leoni si levò in piedi.

Esso era pallido nelle guancie, e mestamente pensoso nella fronte. E cominciò a dire così:

—Voi mi vedete, o signori, peritoso e tremante. Non è già che io non abbia fede nella innocenza degli accusati da me difesi. Oh no! Gli è che io vedo con orrore pendere la pena di morte sul capo di due uomini onesti e valorosi.

A questo punto il presidente interruppe il difensore, e soggiunse:

—Prevengo il signor difensore di attenersi nel suo discorso al rispetto dovuto alla religione, al governo, e alle leggi.

—Non mancherò a questo rispetto in alcuna maniera, rispose il difensore. E se alcune delle mie parole dovessero sembrare troppo ardenti e avventate, invoco fin d'ora il perdono del tribunale. Quello che mi anima non è altro che l'amore della giustizia, quel medesimo che deve parlare, o signori, nell'interno delle vostre coscienze. Io ho sentito il procuratore del fisco invocare una pena gravissima contro i miei difesi, la tremenda, la irreparabile pena di morte. Io ho tremato, ho inorridito, o signori, all'intendere le sue parole, perchè io sono convinto nell'intimo dell'anima mia ch'essi sono innocenti.

»Innocenti! potrà rispondermi il signor procuratore del fisco. Ma essi sono convinti dal processo di avere minata una caserma, e cagionata la morte di varj soldati. È vero! Io non voglio inoltrarmi nelle strettoje di questo processo, sentiero troppo intralciato ed oscuro per la difesa. Io potrei cercare fin dove siano credibili le rivelazioni degli impunitari, i rapporti delle spie; potrei chiedere fin dove meriti fede una confessione emessa negli orrori del carcere, e sotto il timore di una condanna di morte. Potrei svolgere e indagare tutte le carte del processo, e porre il dubbio nell'animo vostro, o signori, e il dubbio dovrebbe bastare perchè gli accusati fossero assolti.

»Ma io non voglio farlo. Ammettiamo pure, che Monti e Tognetti abbiano veramente avuto parte nella insurrezione, ch'essi abbiano anzi operata la mina della caserma Serristori: ebbene, anche in tal caso io sostengo in appoggio alla verità, alla ragione, alla giustizia, ch'essi non sono colpevoli di un delitto capitale, che non sono meritevoli della pena di morte! Essi hanno, voi dite, cagionate delle uccisioni; sia pure, ma chiamate colpevole, punite di morte il soldato che in battaglia uccide il nemico? Rispondete: perchè qui sta tutta la questione. Nel giorno 22 ottobre, è un fatto che nessuno può negarlo, i Romani si battevano in Roma contro i soldati del governo…..

—I Romani, no! esclamò il presidente. Era tutta gente venuta di fuori. I Romani non hanno preso parte all'azione.

—Il mio difeso Gaetano Tognetti è romano, riprese con fermezza l'avvocato. Io devo parlare di Romani. I Romani adunque lottavano: il conflitto era impegnato, si combatteva a Porta San Paolo, al Campidoglio, a Piazza Colonna, in altri punti della città: i Romani cadevano sotto le fucilate degli zuavi: fu in quel momento che Monti e Tognetti fecero saltare la caserma. Non si può guardare questo fatto isolato; bisogna coordinarlo con tutto il resto. Monti e Tognetti facevano parte di quella forza di popolo che in quel giorno, in quell'ora medesima, si batteva contro la truppa degli zuavi. Fra gli insorti e i soldati vi era battaglia; quanto sangue non fu sparso dalle truppe? Furono uccisi dei fanciulli, delle donne… Se voi non puniste i soldati che hanno operate quelle carnificine, perchè si trovavano nello stato di guerra, non potete per la stessa ragione punire gl'insorti che caddero in vostro potere.

»Ma si dirà che i miei difesi invece di battersi a corpo a corpo hanno accesa una mina. Ebbene? e per questo? Quegli che compie tali operazioni combatte del pari di quello che incede colla sciabola o il fucile nel pugno. Essi si sono esposti a un pericolo più terribile e immediato; ecco la sola differenza che passa fra loro e quegli altri, che si moschettarono cogli zuavi e coi gendarmi. L'uso delle mine non è consueto nelle guerre? E chi si è mai sognato di condannare quei valorosi soldati che hanno posta in forse la vita nell'esplosione delle mine per salvare i loro compagni? Chi è che non esalta l'eroismo di Pietro Micca?»

Il presidente, che da un pezzo andava sbuffando, e si dimenava sul suo seggiolone, interruppe di nuovo il difensore, soggiungendo:

—Il caso è diverso: quello era un soldato che serviva regolarmente il suo governo legittimo. Questi invece erano ribelli che lo combattevano.

—Ribelli o soldati, proruppe l'avvocato, essi erano combattenti nello stato di guerra. È un fatto storico, che non può mettersi in dubbio. Garibaldi si avanzava colle sue truppe; le milizie pontificie avevano pugnato contro quelle in regolari combattimenti. Or bene, il movimento di Roma non era altro che un episodio, o una conseguenza, se vuolsi, di quella medesima guerra. Si combatteva dentro e di fuori di Roma, ma per la stessa causa, in nome dei medesimi principii. Gli aggressori del di fuori erano d'accordo coi rivoltosi del di dentro; il governo stesso lo ha riconosciuto, lo stesso processo lo ha dimostrato.

»Dunque, o signori, dunque Monti e Tognetti hanno combattuto in Roma nel modo medesimo, che i garibaldini hanno combattuto a Bagnorea, a Monte Rotondo, a Mentana. Essi si trovano nel medesimo caso dei garibaldini prigionieri di guerra. E chi si è sognato che i prigionieri di guerra dovessero essere massacrati? Perchè dunque spargere il sangue di questi due infelici? Essi sono coperti dal diritto delle genti, che vuol salva la vita dei guerreggianti, quando cadono in potere dell'inimico. Da questo dilemma non si esce. O si dovevano sterminare tutti quanti i prigionieri garibaldini (e notate che in questo caso Garibaldi avrebbe usato del diritto di rappresaglia) o si devono liberare anche questi due.

Il difensore così parlando si era animato con tutta l'energia dell'anima. Il pallore era scomparso dal suo volto; si sarebbe detto che mandava fiamme dagli occhi. Egli si deterse il sudore della fronte, poi ripigliò:

—E poi, signori, mettiamo una mano sul petto. Se Monti e Tognetti fossero anche colpevoli, lo sarebbero essi al punto di meritarsi la pena di morte? No, o signori, essi non sono volgari malfattori. Monsignor relatore ha detto ch'essi agirono per interesse, che furono pagati! Non è vero. Lo provi il fisco, se può.

»Monti e Tognetti erano due onesti operai. Non v'ha nulla di colpevole nel loro passato. Monti è anche padre di famiglia. Ebbene, o signori, due bravi operai, due figli del lavoro, un uomo sopratutto ch'è marito e padre, avvinto alla vita dai vincoli più tenaci e cari, non espongono la loro vita per pochi soldi. Oh no! essi non furono spinti in quella strada dall'ingordigia di un vile guadagno. Essi seguirono un'idea nobile e generosa… sarà stata un'illusione, un'utopia, un errore, non importa; quell'idea era grande, era bella nel loro pensiero. Essi volevano liberare la loro patria, questa Roma…..

—-Signor difensore! gridò il presidente. Non seguiti a parlare così, altrimenti le tolgo la parola.

—Monti e Tognetti avranno errato, lo ripeto, riprese il difensore, saranno illusi, traviati, ma il loro inganno era generoso. Dalla loro colpa, se colpa v'ha in essi, a quella dell'assassino v'è un abisso. Se errarono nel fatto, nell'intenzione erano puri. E in nome di quanto v'ha di sovrumano nel culto dell'idea, per quell'amore che indusse il divino Redentore a perdonare i falli dell'uomo, entrate, o giudici, nei penetrali della vostra coscienza, interrogate il vostro cuore, e pronunciate, se lo potete, che questi due uomini sono meritevoli di una morte ignominiosa!»

Una breve pausa seguì queste parole, pronunciate con tutto il calore del sentimento. Il difensore pareva oppresso dall'emozione; pareva quasi che il suo entusiasmo fosse giunto a trasfondersi nei cuori gelidi di quei sacerdoti. Essi stavano immoti a guardarlo, aspettando che riprendesse la parola.

E il giovane generoso così continuò:

—E poi, perchè vorrete far ricadere tutta la colpa sul capo di questi due sventurati? Perchè devono essere essi soli i capri espiatori dei passati mali? L'impresa ebbe pure dei capi. Dove sono essi? Se quell'impresa fu un delitto, andranno impuniti i rei principali, e gli agenti subalterni assoggettati alla morte? V'erano pure altre persone coinvolte in questa parte della causa. Le carte processuali serbano traccia di un nome, scomparso nella relazione, il nome di un certo Curzio Ventura.

»Per quanto ho potuto raccogliere, l'uomo così chiamato avrebbe rappresentata una parte principale nel fatto di cui sono accusati Monti e Tognetti. Che è avvenuto di lui? dov'è desso? La difesa dei due accusati ha diritto di domandarlo.

—Signor avvocato, proruppe il presidente. Ella passa in un campo estraneo alla difesa, ed io le tolgo la parola.

—Una sola parola mi sia lecito aggiungere, esclamò il difensore. Una vecchia madre, una sposa derelitta, dei piccoli bambini aspettano tremando la vostra decisione. Un detto può farli piombare nella desolazione, un detto può consolare tutti quei cuori angustiati. Quale sarete voi per pronunciare? quale? Io volgo lo sguardo a quella santa immagine del Nazareno, che pende sui vostri capi, e su quelle labbra divine io leggo la parola Perdono. L'ultima voce della sua vita mortale non fu una una prece per quelli stessi che l'avevano crocifisso? Padre, pregò egli, perdonate loro perchè non sanno quel che si fanno. Avrò io bisogno di ripetere le sacrosante parole del Redentore, a voi, che siete i suoi sacerdoti? Non vi stanno esse scolpite a caratteri indelebili nel cuore? Non sono esse il simbolo del vostro ministero, che è tutto di pace e di perdono? E vorrete voi comandare che sia sparso questo sangue, quando il divino Maestro comandò a Pietro di riporre la spada nel fodero? Io non aggiungo altro. Volgetevi a quella immagine, e da quella ricevete l'ispirazione, quando sarete per pronunziare la vostra sentenza.

Il giovane pose fine al suo dire, interrotto dalle lagrime, che calde e copiose gli sgorgavano dal ciglio.

XXV.

La condanna.

Il presidente fe' cenno di ritirarsi alle persone estranee alla deliberazione.

Il relatore, il procuratore del fisco, il difensore, s'incamminarono in silenzio; anche gli uscieri varcarono la soglia, e chiusero le porte.

I giudici rimasero soli col cancelliere, che doveva raccogliere e registrare i voti.

Cosa strana, che rende manifesto la incomprensibile mescolanza degli umani affetti!

Quei dodici prelati, giudici del Supremo Tribunale della Sacra Consulta, scelti fra quanto vi è di più freddo, inesorabile nella curia romana per giudicare le cause di Stato, avvezzi da lunga mano a dettare le sentenze di morte, sordi ad ogni sentimento di pietà o di misericordia, si erano recati al palazzo di Monte Citorio già informati di quanto si attendeva da loro, già conoscenti della causa, e decisi di attenersi in tutto alla relazione fiscale del processo, deliberati insomma di pronunciare la condanna di morte contro Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti. Ebbene, quell'eloquenza calda e sentita del giovane avvocato, quella espansione, quell'accento di verità, quelle lagrime sgorganti dal cuore, erano giunte a passare lo spesso involucro di insensibilità, onde avevano fasciato il petto; essi avevano sentito il contraccolpo di quella commozione: erano inteneriti.

Il presidente, ch'era in certa maniera responsabile del giudicato in faccia al Governo, volse intorno lo sguardo, e si accorse di quella disposizione degli animi.

Gli parve di leggere in quei volti pensosi, in quegli sguardi concentrati la salvezza degli inquisiti. Stette alquanto a guardarli in silenzio, poi disse:

—Monsignori! avete intesa la relazione del processo, le conclusioni del fisco, e per ultimo le parole della difesa. Voi siete uomini di senno profondo e di provata esperienza. Non vi lascerete abbagliare per fermo dagli artifici di un eloquio studiato da chi ha la missione di interporsi fra la spada della giustizia e il reo che deve esserne colpito. Non vi sfuggirà certo l'importanza di questa causa, che si identifica cogli interessi supremi del papato e della religione. Roma, la Chiesa, tutto il mondo cattolico hanno gli occhi su noi. Noi dobbiamo dire colla nostra sentenza se i settarj, che nell'anno decorso tentarono di rovesciare il trono del Sommo Pontefice, e furono fugati dall'ira dell'Onnipotente, erano uomini dabbene; se in quel modo essi agirono rettamente, secondo ragione e giustizia. Noi dovremo dire se tanti valorosi soldati, che vennero ad esporre la vita in difesa delle cose più sante, furono giustamente uccisi e massacrati con tanta barbarie. Dovremo dire, infine, se coloro che attentano alla sicurezza del trono e dell'altare, se i ribelli, gli assassini, i sicari, debbono andar impuniti oggi, per essere domani glorificati, per ricominciare più tardi la loro opera nefanda di strage e di distruzione. Ecco, o signori, che cosa il mondo aspetta di sapere dalla nostra sentenza. Invochiamo adunque il nome dell'Altissimo, perchè c'illumini e ci guidi nella pronunciazione del nostro voto.

Questo artificioso discorso pose un fiero dubbio nel cuore di quei prelati. Parlavano ancora nei loro petti le voci della pietà, e più di queste le norme inconcusse dell'onestà e del vero, quei sentimenti morali che non vengono mai distrutti del tutto nell'animo umano.

Questi sentimenti li avrebbero spinti ad assolvere dalla pena di morte due uomini non d'altro rei, che di avere virilmente combattuto in un campo opposto a quello dei loro giudici.

D'altra parte, i monsignori della Sacra Consulta riflettevano alle parole del presidente. Il Governo aspettava da loro una condanna severa: essi non potevano assolvere Monti e Tognetti senza condannare il Governo. L'assoluzione di que' due inquisiti li rendeva moralmente loro complici; con quella assoluzione essi rinnegavano quel potere pel quale esistevano, rinnegavano tutto quanto il loro passato. La lotta era dunque assai fiera, e diverso ne fu il risultato; in alcuni cuori prevalse il consiglio più mite, in altri la crudele ragion di Stato; e se non fosse stato che alcuni di essi erano guidati da motivi personali, estranei al merito della causa, il maggior numero sarebbe stato di quelli che inchinavano alla clemenza, e la salvezza di Monti e Tognetti sarebbe stata pronunciata.

—Signor cancelliere, disse in mezzo al silenzio universale la voce lugubre del presidente: raccogliete i voti. Monsignori, chi si pronunzia per la pena di morte risponda sì, chi non vuole che quella pena sia applicata dirà no. Cominciamo.

—Voi, monsignore, disse poscia, volgendosi al giudice ch'era seduto alla estremità sinistra del banco. Giudicate che a Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti debba infliggersi la pena di morte?

Quello al quale il presidente volgeva la prima interrogazione, era un prelato dai capelli bianchi, curvo nel collo e nella testa; i travolgimenti delle passioni giovanili avevano devastato profondamente il suo volto, sul quale regnava adesso per consueto una calma impassibile.

Egli non levò la testa nè gli occhi, e rispose con voce ferma:

—No!

Gli occhi del presidente sfavillarono d'ira; rimase come incerto, poi soggiunse:

—Non ho bene intesa la vostra risposta, monsignore. Io vi ho chiesto se credete Monti e Tognetti meritevoli di morte.

Il vecchio levò lentamente il capo, fissò i suoi occhi bianchi e quasi velati in faccia al presidente, e ripetè con maggior forza:

—No!

Il presidente, senza dissimulare il dispetto, che gli traspariva negli occhi e nel cipiglio, si volse al secondo, e ripetè la domanda.

Questi, era un uomo di trent'anni, dal volto bruno, dal portamento ardito; esso era rinomato per la severità, e potrebbe dirsi la ferocia delle sue decisioni; e il presidente non dubitava che dalla sua bocca dovesse uscire il voto della condanna. Egli ristette alquanto come esitante, poi pronunziò la parola:

—No.

Il presidente strabiliò. Già gli pareva certa l'assoluzione dei due accusati. Volse un'occhiata in giro sui giudici, come un uomo che sta per annegarsi, e cerca un punto d'appoggio. Senza frapporre altro indugio, interrogò il terzo prelato, e questi rispose:

—Sì.

Questa volta il presidente respirò, e più tranquillo interrogò il quarto, che replicò:

—No.

Il quinto e il sesto risposero con un .

Il settimo no.

Il presidente ritornò a tremare.

Fra i voti raccolti v'erano quattro no; bastavano altri due per formare parità e determinare l'esclusione della pena di morte.

L'ottavo giudice e il nono furono pel .

Il decimo pel no.

Anche un voto negativo, e gli accusati erano salvi.

Mancavano due voti: quello di monsignor Pagni e quello del presidente.

Questi interrogò Pagni tremando.

—Sì! rispose questi con voce vibrante.

Mancava solo il voto del presidente.

L'istante era solenne.

I voti raccolti erano undici, sei pel , cinque pel no. Se il voto del presidente era pel , gl'inquisiti venivano condannati; se era pel no, si formava la parità de' sei voti contrarj co' sei favorevoli, e in tal caso essi erano salvi. La loro vita e la loro morte dipendevano dunque dal voto di monsignor Presidente.

Tutti gli sguardi dei prelati, tanto di quelli che avevano pronunciato il sì come degli altri che avevano detto no, si volsero a guardare quell'uomo, che con un monosillabo doveva decidere di due esistenze.

Un'antica consuetudine è in vigore nei tribunali romani. Quando dal voto del presidente, che è sempre l'ultimo a votare, dipende l'assoluzione o la condanna degli accusati, quel voto è sempre favorevole, specialmente se si tratta di pena capitale.

Ma la morte di Monti e di Tognetti era decretata prima ancora di quel giudizio. Ben lo sapeva il presidente, che dopo un istante di sospensione pronunciò la fatale parola: !

Così il risultato della votazione fu di sette e cinque no. Monti e Tognetti furono condannati a morte alla maggioranza di sette voci su dodici. Un voto contrario di meno li avrebbe salvati. Essi furono dunque dannati all'ultimo supplizio in forza di un solo voto, che fece traboccare la bilancia in loro danno.

Anche fra i prelati pontificj della Sacra Consulta ve ne furono cinque che credettero Monti e Tognetti immeritevoli di morte; eppure essi furono condannati alla ghigliottina!

Il presidente proclamò il risultato della votazione, esclamando trionfalmente:

—La pena di morte è pronunziata!

Il cancelliere stese la sentenza. Poi il presidente suonò il campanello.

Gli uscieri rientrarono; a un cenno del presidente introdussero il relatore, il procuratore fiscale e il difensore.

La sentenza, colla quale Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti venivano condannati alla pena di morte, fu letta ad alta voce dal cancelliere.

La seduta si sciolse.

Monsignor presidente prese a parte l'avvocato Leoni, ch'era rimasto come esterrefatto, e gli disse con ipocrita ironia:

—Mi rallegro con lei, signor avvocato; ha fatto una bella difesa. Ella è giovane, e le si prepara un bell'avvenire. Quanto a quei due infelici, io la consiglio a ricorrere per essi alla clemenza e pietà del Sommo Pontefice.

—Alla clemenza del papa! sclamò con fuoco l'avvocato Leoni; e più avrebbe detto, ma si trattenne.

Tacque alquanto; poi disse, indicando il crocifisso che dall'alto aveva assistito a quella scena:

—Io me ne appello piuttosto alla giustizia di Dio!…

Nella sera medesima, il cancelliere si presentava alle Carceri Nove per leggere la sentenza ai prigionieri. Si recò prima alla segreta di Giuseppe Monti, poi a quella di Gaetano Tognetti.

Monti ascoltò sino alla fine la lettura senza dar segno di commozione.
E quando fu finita, diede un solo grido:

—Poveri miei figliuoli!…

E gemendo si rovesciò sul suo coviglio di paglia.

Tognetti si diede a ridere rabbiosamente, poi disse al cancelliere:

—Direte a quei signori della Sacra Consulta, che auguro loro un buon sonno!

XXVI.

L'áncora di salvezza.

La sentenza della Sacra Consulta aveva portato un colpo terribile in seno a due famiglie.

Rinunzieremo a descrivere quegli strazj; quando il dolore è giunto a un certo punto, la penna e il pennello sono impotenti del pari a ritrarlo. Per questo il pittore greco coperse con un velo la testa sulla quale doveva essere impresso il colmo dell'angoscia.

Erano sopratutto i cuori di due donne, che sanguinavano atrocemente: la moglie di Monti e la madre di Tognetti.

L'avvocato Leoni, quel giovane generoso, che aveva con tanto coraggio perorato la causa dei due condannati; e che s'era trovato a un punto di salvarli entrambi, volle fino all'estremo compiere la sua missione.

Colla pietà del Cireneo nel cuore, si recò nella mattina seguente alla casa di quelle due donne, per dividere le loro lagrime, unico conforto che possa arrecarsi in quei supremi dolori.

Poi non volle limitarsi al sollievo del compianto, ma volle aggiungere un consiglio. Egli non aveva alcuna fede nella clemenza del papa, ma pure comprese che quelle poverette erano in diritto di tentare almeno di appigliarsi all'unica áncora di salvamento che restasse, e questa era appunto la grazia del pontefice.

Egli consigliò dunque a Lucia Monti di tentare ogni mezzo per poter presentarsi al pontefice.

Lucia scosse la testa in atto di sconforto.

Essa avea salite tante scale durante il processo, e aveva trovato il gelo in tanti cuori sacerdotali, che non poteva fondare nessuna speranza sulla compassione di un prete.

Pure ella sentì il dovere di tentare ogni estremo mezzo per la salvezza di suo marito, e si raccomandò all'avvocato, poichè era tanto buono con lei, che le trovasse egli il mezzo di penetrare nel recinto del Vaticano, sino ai piedi del papa.

Leoni disse che vi avrebbe subito pensato, con quella sollecitudine che richiedeva l'urgenza del caso, e sperava di ritornare con una buona novella.

Come abbiamo detto, egli non fidava nella riuscita di quel tentativo, ma non poteva lasciare quel cuore che stava per spezzarsi, senza consolarlo almeno con un alito di speranza.

Dalla casa di Monti l'avvocato passò in quella di Tognetti.

Maria Tognetti era stata, come vedemmo, duramente respinta da monsignor Pagni nel giorno innanzi nelle sale della Sacra Consulta. Era stata ricondotta a casa a viva forza: e quivi un commissario di polizia le aveva intimato di non recarsi più nel palazzo di Monte Citorio, altrimenti verrebbe arrestata.

La povera donna era quasi demente.

Si può facilmente immaginare l'esacerbazione che aveva prodotto nel suo animo contristato quel trattamento; alla sera poi era sopravvenuta la notizia che suo figlio era condannato a morte: notizia, che le pietose vicine le avevano data con tutti i possibili riguardi, ma che necessariamente aveva portato una trafittura tremenda nel suo cuore di madre.

L'avvocato la trovò dunque in tale stato di esaltazione, che faceva veramente temere della sua ragione.

Ella volle rimaner sola con lui; e con una narrazione, interrotta ad ogni tratto dai singulti e dalle lagrime, le raccontò tutto quanto era passato fra lei, la principessa Rizzi e monsignor Pagni, e come essi per salvare il loro figliuolo avevano sagrificato il suo Gaetano, e come le porte del palazzo Rizzi le fossero chiuse irrevocabilmente, e nel giorno prima fosse stata cacciata a forza dal palazzo di Monte Citorio, dove erasi presentata a monsignor Pagni.

L'avvocato l'ascoltò senza far parola, poi rimase lungamente pensando in silenzio; finalmente levò la testa, e disse alla donna, la quale aspettava ansiosamente ch'egli parlasse:

—Acquietatevi, Maria. Mettete, per quanto potete, in calma il vostro spirito, che in questa storia io travedo un filo di speranza per la salvezza di vostro figlio.

—Davvero? Oh santa Vergine del cielo! gridò la Tognetti, esaltandosi a un tratto, all'idea di quella speranza.

—Ma calmatevi, ve ne supplico! Noi otterremo forse qualche cosa, ma a patto di essere, per quanto è possibile, tranquilli e prudenti. Abbiamo a fare con gente potentissima, e colla violenza e l'audacia non faremmo nulla; bisogna adoperare invece le arti dell'astuzia e della preghiera. Ascoltate, Maria: la principessa Rizzi è buona; perchè si sia ridotta a chiudervi spietatamente la strada di giungere fino a lei, bisogna dire che vi sia stata astretta da tutto l'esaltamento dell'amor materno, che è il più esclusivo e il più prepotente dei sentimenti. Pietosa per suo figlio; fu costretta ad essere crudele con voi. Voi forse, che tanto amate il vostro Gaetano, al suo posto avreste fatto lo stesso. Ma il suo cuore non è cattivo: io son certo ch'ella sente rimorso di avere trattato con voi a quel modo. Il fatale annunzio della sentenza di jeri deve averle pesato nel cuore. Se voi poteste in questo momento giungere a presentarvi a lei, se voi le parlaste, non già come una donna offesa che reclama giustizia, ma come una povera madre che prega e piange per la vita del figlio, io sono certo che voi arrivereste a toccare le fibre più sensibili del suo cuore. E siccome la famiglia Rizzi è una delle più potenti di Roma, per mezzo di lei non sarà difficile ottenere la grazia di vostro figlio.

—Dio lo voglia! esclamò Maria congiungendo le mani, con l'espressione più commovente della preghiera.

—Ora a voi, riprese l'avvocato: mettetevi in calma più che potete. Adesso bisogna pensare al modo d'introdurvi nel palazzo Rizzi. Sarebbe opportuno che io mi trovassi vicino per… Oh! appunto… io non vi pensavo più. Devo averlo in saccoccia… Ecco.

Leoni tolse di tasca il portafogli, lo aperse, e cercò fra le carte che vi erano contenute. Trovò quella che voleva, la svolse, la guardò, poi disse:

—È questa sera!

La carta che guardava era l'invito a un ballo di gala che la principessa Rizzi dava appunto in quella sera.

—Aspettatemi, disse l'avvocato alla Maria, e pregate il Signore.
Prima di sera mi rivedrete.

Egli corse al palazzo Rizzi: attraversò l'atrio, salutato dal guardaportone, che lo conosceva; salì le scale. I servi erano tutti affaccendati nei preparativi della festa.

Giunto all'anticamera, l'avvocato Leoni chiese del cameriere Giuseppe.

Giuseppe, antico servitore della casa Rizzi, era un vecchio dai capelli bianchi, padre di numerosa famiglia. Leoni lo conosceva da lungo tempo.

—Giuseppe, gli disse questi, quando furono soli in uno stanzino, bisogna che tu mi aiuti a fare una buona azione.

—Dica pure, signor avvocato, e se posso…

—Sai che io sono il difensore di quei due poveretti, che ieri sono stati condannati a morte. Ebbene, sappi ancora che la madre d'uno di essi vorrebbe pregare la signora principessa, affinchè intercedesse, allo scopo di ottenere la grazia sovrana per suo figlio. Io le ho promesso di trovar modo d'introdurla presso la signora, ed è in questo appunto che ho bisogno del tuo aiuto.

Giuseppe pensò alquanto, poi disse:

—Si vedrà. Domani…

—Oh no! Vedi bene che è cosa di tale e tanta urgenza, che un'ora di ritardo può decidere della vita. È necessario che questa sera Maria Tognetti parli alla principessa.

—Ma questa sera è impossibile! Vossignoria sa bene che vi è il ballo.

—Appunto; non si potrebbe, nella confusione della festa…?

—Aspetti!… Sì, vi sarebbe un mezzo. Questa sera, oltre alle sale, sarà illuminato anche il giardino, al quale si discende per una scala della loggia superiore, e vi si recheranno gli invitati a passeggiare. La Tognetti potrebbe introdursi per una porticella, che dal vicolo qui vicino mena al giardino, e là potrebbe starsene nascosta fra i cespugli, finchè le capitasse agio di parlare colla padrona.

—Va bene; al rimanente penserò io, disse l'avvocato,

—Or bene, io posso procurarle la chiave della porticina.

—Siate benedetto!

Il vecchio uscì dalla stanza, e ritornò, dopo qualche minuto, con una chiave.

—Ma badi, disse, se qualcuno venisse a sapere che io le ho affidata questa chiave, sarei rovinato.

—State sicuro, buon Giuseppe.

—Io pongo in sua mano l'avvenire della mia famiglia.

Così dicendo, il cameriere porse la chiave a Leoni.

—Queste sono quelle azioni, disse l'avvocato, per cui non bastano i ringraziamenti. Vi ricompensi il cielo della vostra misericordia.

—Così potesse quella poveretta ottenere l'intento!

Leoni strinse la mano al vecchio cameriere, e corse a casa della
Tognetti, alla quale consegnò la chiave colle opportune istruzioni.

XXVII.

La festa da ballo.

Le sale della principessa Rizzi erano illuminate; la musica vi spandeva i suoi concenti: si ballava.

La principessa aveva la morte nel cuore. Essa sapeva come il suo Curzio si trovasse nella fortezza di Civita-Vecchia, e conoscendo il suo carattere, e i motivi della sua detenzione, tremava per i pericoli che gli sovrastavano continuamente, e più tremava per l'avvenire. Se anche riusciva a Monsignor Pagni di tenerlo illeso finchè durava quel malaugurato processo, che avverrebbe dopo quando egli fosse in libertà? A che cosa lo avrebbe spinto quell'indole focosa, e il desiderio di vendicare i suoi compagni? Dovevano dunque tenerlo sempre in istato di prigionia? E così non sarebbe egli deperito egualmente per giungere al suo fine?

Tali erano i pensieri angosciosi che occupavano il suo cuore, ai quali si aggiungeva, come aveva pensato Leoni, il pungolo del rimorso. Difatti per giovare a suo figlio, per ottenere una salvezza, che non avrebbe forse mai raggiunta compiutamente, essa aveva crudelmente tradita quella buona Maria, che aveva ricorso a lei, come al suo angelo tutelare. Per appagare il suo sentimento materno, aveva straziato il cuore di un'altra madre. Essa aveva fatto di più, aveva respinte le preghiere della povera donna, interdicendole l'accesso alla sua casa; aveva chiuse le orecchie per non udire i suoi lamenti, e le sue supplicazioni. Essa era stata non solo cattiva, ma ingrata e crudele.

Queste ed altre riflessioni tormentavano senza posa il cuore della principessa. Eppure essa dava una festa. Ohimè! vi era costretta.

Ogni anno in quel giorno si dava un ballo nel palazzo Rizzi. Era l'anniversario del giorno in cui il cardinale Rizzi, il fratello del principe, era stato rivestito della porpora cardinalizia, e quella solennità ecclesiastica veniva sempre ricordata con una festa profana.

In quel ballo adunque il cardinale era il re della festa, e riceveva gli omaggi delle più belle dame dell'aristocrazia romana, che v'intervenivano sempre.

Il cardinale Rizzi era un uomo di cinquantacinque anni, piuttosto grasso, la sua faccia era rotonda e schiacciata, vermiglia a macchie paonazze, e tempestata di bitorzoli; aveva i capelli rossi distesi sulla sommità della fronte e sopra le orecchie. In quella sera era vestito coll'abito da festa: sottana di porpora, coi guarnimenti d'armellino e il fermaglio di gioje, vestiario pomposo, che faceva risaltare la sua bruttezza ributtante, piuttosto che sminuirla.

Monsignor Pagni, vestito anch'esso col suo abito di gala, faceva una corte assidua a Sua Eminenza. Egli agognava al giorno in cui avrebbe anch'esso acquistata la dignità di principe della chiesa; sapeva che il cammino più rapido per arrivarvi è quello dell'adulazione e della servilità: e mormorava fra sè e sè questa giaculatoria: Abbassatevi per essere innalzati.

Il cardinale era seduto in luogo elevato nella gran sala da ballo, e tutte le signore che entravano col loro abbigliamento da veglia, colle spalle nude e il seno scoperto, andavano per la prima cosa a inchinarsi dinanzi a lui, e a baciare la mano morbida e liscia, ch'egli porgeva.

La principessa affranta nel cuore, ma sorridente nel volto, come richiedeva la sua posizione, riceveva gli invitati, e faceva gli onori di casa con quella squisitezza di grazia, che è un privilegio delle nature più elevate.

Il principe suo marito fin dal principio della festa si era dileguato dalle sale. Un servo gli si era avvicinato, gli aveva mormorato qualche parola all'orecchio, ed esso si era prontamente ritratto nelle sue stanze.

Un uomo dall'aspetto volgare, dalle vesti grossolane lo aspettava, nel suo gabinetto: era un'antica nostra conoscenza, era Giano.

Dalla sera dell'osteria, nella quale esso aveva servito così bene ai voleri del principe, lo stesso Giano era diventato il suo agente segreto, il suo intimo confidente, il suo spione.

Quell'uomo spiegava un'abilità particolare negli intrighi tenebrosi, e specialmente nei maneggi dello spionaggio. Egli dunque servì il principe Rizzi mirabilmente.

Sarebbe cosa lunga e tediosa seguire Giano per tutta la tortuosa trafila de' suoi raggiri. Il fatto sta che il principe era arrivato a sapere da lui la liberazione di Curzio dalle Carceri Nove, il suo ritorno nello Stato Pontificio, il suo arresto, e per ultimo la sua detenzione nella fortezza di Civita-Vecchia.

Fra il principe e sua moglie, lo sappiamo, s'era da lungo tempo impegnata una partita accanita, e la posta del giuoco era la vita di Curzio, quel giovane ch'era avvinto alla principessa con un misterioso legame.

Da principio la vittoria parve piegare dal lato della moglie, quando ella seppe disporre la fuga di Curzio con arte infinita al cessare dell'insurrezione, poi il marito aveva preso il sopravvento, comprando il soccorso di Giano, e facendo operare l'arresto del giovane, poscia pareva ch'ella avesse vinto, quando lo fece uscire dalle Carceri Nove, e condurre fino al di là del confine; il suo ritorno aveva riposto la superiorità dalla parte del principe: finalmente la sua reclusione nella fortezza di Civita-Vecchia tornava a dare la probabilità del trionfo alla principessa; ed era appunto in quel momento che il marito di lei si sforzava di riguadagnare il vantaggio.

Informato appuntino d'ogni cosa dal suo Giano, il principe concertava con esso i modi di riuscire nell'intento. In quella sera della festa Giano reduce appunto da una sua gita a Civita-Vecchia, era venuto a riferire al principe il risultato delle sue osservazioni, e a comunicargli un suo piano.

Si trattava di procurare l'evasione di Curzio dalla fortezza, e per tal modo cagionare la sua perdita.

Il progetto piacque al principe Rizzi, il modo della esecuzione fu discusso a lungo fra lui e il suo satellite, e infine venne adottato e approvato in ogni sua parte.

Giano ricevè dal padrone una buona somma di monete, e partì.

Il principe fece ritorno nelle sale del ballo. Nella prima s'incontrò colla moglie: egli sorrise, e volse a lei uno sguardo trionfante. Essa ignorava la ragione di quel riso e di quell'occhiata, ma sentì un brivido correrle per tutto il corpo.

La sentenza del giorno innanzi, alla quale il governo annetteva grande importanza, formava il soggetto principale delle conversazioni, di mezzo alle danze e alle armonie musicali nella festa del palazzo Rizzi.

Il cardinale Rizzi era uno dei sanfedisti più arrabbiati, e nel sacro collegio dei cardinali faceva parte di quella, che potrebbe chiamarsi l'estrema sinistra, ossia il partito d'azione dei clericali, quel partito che con De Merode e Lamoricière condusse il governo del Papa all'attitudine bellicosa, e alla campagna delle Marche ed Umbria nel 1860.

Il suo consiglio era sempre pel contegno più energico, e pei mezzi più violenti. Nessuna transazione colle tendenze del secolo, nessuna moderazione nell'esercizio della sovranità ecclesiastica e temporale, la massima prepotenza sui sudditi, la massima severità contro i liberali; tali erano i suoi principj.

Non è a dire dunque s'egli approvasse di gran cuore la doppia condanna di morte che la Sacra Consulta aveva emanata nel giorno antecedente; se qualche cosa gli dispiaceva in quella sentenza si era che i capi consacrati alla morte invece di due non fossero almeno almeno due dozzine.

Egli dunque si congratulava con monsignor Pagni, che faceva parte del Supremo Tribunale, e mostrava la soddisfazione che sentiva, perchè (come egli diceva) i membri della Sacra Consulta si erano in quella occasione mostrati consci dei loro doveri, degni della fiducia che in essi aveva riposto il Santo Padre e il Governo.

Anche il giudice Marini, il neo-cavaliere dell'ordine Piano fu presentato a Sua Eminenza come una delle persone più benemerite in quel processo, dovendosi attribuire, come disse officiosamente monsignor Pagni, in gran parte al suo zelo, al suo acume, alla sua operosità lo splendido risultato della causa.

Il cardinale si degnò di sorridere benignamente all'indirizzo del cavaliere, e questi ne andò tutto gonfio del sorriso eminentissimo, più che non lo fosse per la sua croce, e per l'assessorato di là da venire.

La principessa pallida, pallida, e col bagliore della febbre negli occhi, passeggiava sotto il braccio all'avvocato Leoni. Ella sapeva ch'egli era stato innanzi alla Sacra Consulta il difensore di Monti e Tognetti, ma non ardiva d'interrogarlo sui particolari di quella seduta, chè troppo si sentiva lacerata nell'intimo del cuore al solo pensarvi.

L'avvocato le chiese di ballare seco un valzer, di cui l'orchestra aveva intuonato il preludio.

—Grazie! rispose essa con voce soffocata, non ballo stassera.

—Si sente poco bene? chiese il giovane, al quale non era sfuggito il tremito della mano, che posava sul suo braccio.

—No, soggiunse la signora; ma il caldo delle sale, lo splendore dei lumi, il chiasso della musica, mi hanno fatto girare la testa.

—Vuole che scendiamo in giardino? un poco d'aria fresca le porterà giovamento.

—Non vorrei che fosse troppo freddo.

—Potrà coprirsi colla sua mantellina.

E senza aspettare la risposta, Leoni corse a prendere la mantellina di casimiro, che la principessa avea deposta sopra un divano. Traversarono la sala, e giunsero alla loggia, dalla quale si scendeva al giardino. Era un portico magnifico a colonne di granito e a dipinti raffaelleschi, tutto chiuso dalle invetriate e adorno di specchi e di busti antichi.

Una scala di marmo bianco coi parapetti intagliati conduceva al giardino ricco di aranci e di fontane, e in quella sera vagamente illuminato, a lampade opache di vario colore.

In cima alla scala Leoni adattò la mantellina sulle spalle della principessa, poi sostenendole il braccio, scese con essa.

Il giardino era pressochè deserto. Le coppie che poco prima si aggiravano per le curve dei viali infiorati, erano state richiamate nelle sale dalle battute del valzer.

L'avvocato Leoni, tenendo al braccio la principessa, prese la via che costeggiava il muro di cinta, tutto coperto da un fitto rosajo, immaginandosi, che da quella parte si trovasse la porticella, per la quale Maria Tognetti doveva essere entrata nel giardino.

L'uno e l'altra tacevano, tutti assorti com'erano in pensieri, che sebbene diversi, convergevano a un punto solo. Così silenziosi arrivarono dove il viale si perdeva in quattro o cinque sentieri, in mezzo ai quali era una statua dal vasto piedistallo circuito di sedili.

Dietro a quello, stava nascosta Maria, che, sporgendo ad ora ad ora la testa celata dalle foglie dei virgulti, cercava di conoscere chi si andava avvicinando.

Quando vide appressarsi l'avvocato e la principessa, sentì battere violentemente il cuore, e delle goccie di sudore freddo bagnarle la fronte. Le pareva che la vita del figlio suo dipendesse da quel momento.

Si resse colla mano ai fregi marmorei del piedestallo, poi quando i due che si avanzavano le furono proprio vicini, uscì fuori, e si piantò ritta in piedi dinanzi a loro.

La principessa mandò un grido, subito rattenuto. Essa aveva creduto a una visione, a un'illusione della sua fantasia agitata dal rimorso, e rimase immobile pel terrore. Ma quando Maria si avanzò ancora, e si accinse a parlare, ed essa non potè più dubitare della realtà di quella figura, si sciolse rapidamente dal braccio di Leoni, e mosse per fuggire. Ma la Tognetti non gliene diede il tempo; l'afferrò per le vesti, e sclamò:

—Voi m'ascolterete, signora, mi ascolterete!

—So che cosa volete: la vita di vostro figlio! mormorò a bassa voce la principessa, senza volgersi a guardare quella donna, che le faceva veramente paura.

—Egli è condannato a morte! intendete, signora? Aspetta il giorno del suo supplizio… e per vostra cagione!

—È vero, è vero: voi avete il diritto di accusarmi, di maledirmi; ma per quanto ho di più sacro, per la vita del figlio mio, vi giuro che io farò tutto quanto è possibile per salvare il vostro.

—Un'altra volta mi faceste la medesima promessa.

—Una forza irresistibile mi costrinse a mancarvi, ma questa volta…

Un subito rumore giunse all'orecchie delle due donne e dell'avvocato, che assisteva in silenzio a quel dialogo.

Il valzer era terminato: le liete coppie ritornavano a respirare l'aria aperta nel giardino; e si affollavano nella scala cianciando e ridendo.

—In nome di Dio, partite, gridò la principessa.

—Dunque me lo giurate? la vostra mano, signora! disse la Maria.

La principessa le porse la sua mano agghiacciata. La povera donna la strinse con forza, replicando:

—Lo giurate!

Poi sparì rapidamente fra il fogliame del boschetto.

XXVIII

Spionaggio.

L'avvocato sostenne la principessa che vacillava.

—Non si devono frapporre indugi, disse una voce a poca distanza da loro: la sentenza deve eseguirsi immediatamente.

—E se intervenisse la grazia sovrana? soggiunse un'altra voce.

—È impossibile! riprese la prima. In questo caso la grazia sarebbe abdicazione. Se quei due ribaldi non venissero decapitati, manderei all'aria il mio cappello rosso.

La principessa si volse; quegli che aveva pronunciate queste ultime parole era suo cognato, il cardinale Rizzi, ch'era sceso in giardino, passeggiando con monsignor Pagni.

Essa rabbrividì fino nelle ossa, si strinse al braccio dell'avvocato, e quasi trascinandolo, fece ritorno con esso alle sale del ballo.

Passando accanto al cardinale Rizzi, aveva sentito l'orrore che si prova al contatto di un'aspide, e a quella sensazione penosa per contraccolpo era succeduto il baleno di un'improvvisa speranza.

Alla festa assisteva un altro cardinale, ch'era appunto il contrapposto di quello; era uno di quei rari esempi di tolleranza e di moderazione, che appajono come eccezioni in mezzo allo stuolo idrofobo delle eminenze e dei prelati. Il cardinale Baldoni, più che sessagenario, aveva una testa coronata di capelli bianchi, sulla quale stava impressa la serenità dell'anima. Egli doveva la porpora alla profondità de' suoi studi teologici, che per quanto assidui, non erano giunti a isterilire del tutto il suo cuore. Si sapeva che il Papa lo stimava, e gli voleva bene, e spesso i suo' miti consigli erano riusciti bene accetti a Sua Santità; sebbene nel fatto avesse poi prevalso la volontà dei più accaniti clericali. Costoro disponendo dell'obolo di San Pietro, e degli arrolamenti della marmaglia mondiale, avevano acquistato un tale sopravvento nelle cose di governo, che sovente lo stesso cardinale Antonelli aveva dovuto piegarsi ai loro voleri.

Conoscendo l'indole buona del cardinale Baldoni, la principessa pensò che da lui solo si poteva ottenere una intercessione abbastanza potente per indurre il Papa a fare la grazia ai due condannati, o almeno al più giovane di essi, ch'era Tognetti.

Si avvicinò dunque al porporato, e lo pregò di passare con essa in un salottino, dove a sua richiesta li seguì anche l'avvocato Leoni.

La signora lo presentò al cardinale, come l'avvocato che aveva strenuamente difesi i due condannati a morte dalla Sacra Consulta, poi espose con tutto il calore la domanda, ch'essa medesima gli faceva in nome di lui. Tutto ciò che può dettare la passione a una donna essa lo disse; l'avvocato aggiunse tutte le ragioni, che la giurisprudenza e la logica suggerivano, per consigliare la grazia sovrana in quella occasione.

Egli fece osservare a Sua Eminenza come Monti e Tognetti non potessero dirsi autori principali del delitto di Lesa Maestà, pel quale erano stati condannati, non potendo essi venir considerati altrimenti che come agenti subalterni della ribellione, e perciò non dovevano essere puniti colla pena capitale; tanto più che la condanna, non solo non era stata pronunciata all'unanimità, ma era stata anzi decisa da una debolissima maggioranza. Che Tognetti in ispecie, stando anche all'accusa, non avrebbe avuto nel fatto che una parte del tutto secondaria, e militava poi anche a suo favore la giovane età di ventitrè anni.

Il cardinale Baldoni ascoltò attentamente, stette alquanto pensoso in silenzio. Poi prese una mano della principessa e una dell'avvocato, le strinse colle sue e disse:

—Domani io mi presenterò a Sua Santità; e tutto quanto è possibile per ottenere la grazia dei due condannati, o almeno del solo Tognetti, io lo dirò, e lo farò. Pregate il Signore perchè mi assista.

La principessa e l'avvocato, con moto spontaneo e concorde, si abbassarono a baciare le mani del cardinale, ch'era in quel momento il sacerdote vero dell'amore e del perdono.

La principessa Rizzi non aveva chiusa la porta del gabinetto per non destare sospetti, e credendo che nessuno sarebbe stato tanto indiscreto da scrutare il segreto di quel colloquio.

Ma ella si era ingannata.

Il cavaliere Marini era, come sappiamo, nella festa. Quell'uomo possedeva un istinto poliziesco tutto speciale, un colpo d'occhio da vero inquisitore: erano queste le qualità che lo distinguevano, e che avevano fatto di lui il processante pontificio per eccellenza.

Con queste facoltà naturali perfezionate da un lungo esercizio, esso era arrivato a un tal punto di percezione subitanea, che nulla, di quanto si diceva o si operava intorno a lui, gli sfuggiva. Coglieva a volo le frasi, vedeva colla coda dell'occhio, e a forza di raziocinii istantanei penetrava nell'intima ragione dei fatti.

Egli si accorse dunque delle parole che la principessa rivolse al cardinale Baldoni, quando essa lo pregò di accompagnarla nel gabinetto; e ne aveva indovinato istintivamente il motivo.

Quando poi vide la signora ritirarsi in compagnia del cardinale, e seguirli l'avvocato Leoni, non ebbe più dubbio sull'oggetto di quella conferenza, e passando più volte innanzi alla porta del gabinetto, vi ficcò dentro lo sguardo; vide l'avvocato parlare con calore, mentre la principessa era atteggiata alle preghiere, di più intese pronunziare il nome di Tognetti, e infine vide lo slancio con cui i due supplicanti avevano attestata la loro riconoscenza al cardinale.

Era ormai cosa evidente per il giudice processante. L'avvocato e la principessa avevano pregato l'eminentissimo Baldoni, perchè chiedesse al Papa la grazia dei due condannati a morte, ed esso aveva acconsentito. A' suoi occhi era quella una specie di complotto, che metteva in pericolo il governo, la religione, e più ancora il compimento dell'edifizio processuale da lui con tanta fatica innalzato, e che doveva essere coronato con due capi recisi.

Quelle tre persone non erano ancora uscite dal gabinetto, che il cavaliere Marini, correndo a rompicollo giù per la scala della loggia, scendeva in giardino per dare avviso della sua scoperta al cardinale Rizzi. Questi inorridì alla sola idea che i due ribelli potessero andar salvi dalla morte, che un suo collega, una delle colonne di Santa Madre Chiesa, potesse proporne la grazia al Pontefice. Pensò che non v'era tempo da perdere per scongiurare un tanto pericolo. Ringraziò fervorosamente il giudice processante: e senza risalire nelle sale, fece venire la sua carrozza, e non ostante che fosse notte inoltrata comandò al cocchiere di condurlo al Gesù, celebre convento dei gesuiti romani.

XXIX

A Civita-Vecchia.

Curzio era stato rinchiuso nel maschio della fortezza: la sua celletta quadrata era posta nella sommità dell'edifizio; riceveva aria e luce da un finestrino sbarrato posto al di sopra della porta, la quale si apriva in una loggetta coperta, che guardava il mare. Gli era accordata un'ora di passeggio ogni giorno su quella loggetta.

Gli sguardi di Curzio in quell'ora di sollievo, nella quale poteva godere dell'aria e della luce a suo piacere spaziavano sulla vasta superficie delle acque, e la sua mente trasvolava in quei sogni di libertà, che sono così cari al prigioniero. Avveniva qualche volta che la sua attenzione era attirata più in basso da un rumore di catene e da un indistinto frastuono di voci.

Il prigioniero si volgeva allora a guardare in fondo alle mura stesse della fortezza, e scorgeva dapprima un indistinto brulicare d'esseri viventi somiglianti a uno sciame di rettili raggomitolati nel fondo di un pozzo; poi guardando meglio si avvedeva che quegli esseri appartenevano alla razza umana. Erano infatti uomini, vestiti uniformemente a righe di colore oscuro, e agglomerati in un profondo e fetido cortile; alcuno di essi mandava ad ogni passo il lugubre suono dei ferri che gli stavano avvinti a' piedi; altri appajati dai ceppi, erano costretti a muoversi di concerto. Erano insomma galeotti.

Eppure quegli uomini chiacchieravano, scherzavano allegramente, a giudicare dai loro movimenti e dalle voci, e qualche volta uno scroscio di risa schietto e romoroso giungeva fino alle orecchie di Curzio.

Egli rabbrividiva allora, pensando che anch'esso poteva essere condannato alla galera, e quindi venire calcato in quella putrida fogna, e frammisto a quei volgari malfattori, a quei ladri, a quegli omicidi, che colle infami vesti sul dosso, e colle colpe più infami sulla coscienza ridevano della pena insieme e del delitto.

Pensava che più dolce sarebbe in tal caso la morte incontrata e subìta in un punto, e gli sorgea la voglia di precipitarsi giù da quella loggia andando a battere il capo sulle pietre o le roccie del fondo. Ma l'idea del dovere lo tratteneva dal farlo. Egli rifletteva che fino a tanto che fosse in lui fiato di vita poteva tornar utile alla sorte de' suoi fratelli, e quindi non aveva il diritto di disporre de' suoi giorni, finchè quelli dei compagni fossero in pericolo.

E così pensando, lo angosciava l'idea di essere là chiuso e isolato, e di non poter far nulla per essi. Cento volte aveva chiesto a' suoi carcerieri con parole e con cenni, che lo facessero parlare con un giudice, con un uditore, con un ufficiale qualunque. Esso aveva l'intenzione di fare una deposizione sul fatto della mina, in modo da aggravare tutta la colpa sopra sè stesso, e così giovare in qualche modo a Monti e Tognetti. Ma quei militari, non intendevano, o fingevano di non intendere, e non rispondevano in modo alcuno alle sue interrogazioni, tali essendo gli ordini che dovevano eseguire.

Un giorno il giovane prigioniero tutto rapito da' suoi pensieri, misurava a gran passi la piccola loggia, sì che in tanta strettezza di spazio gli era forza di rivolgersi ad ogni tratto, e finiva con descrivere quasi un cerchio, come fanno le belve chiuse nella gabbia, quando sentì cadere vicino a sè un piccolo oggetto penetrato dal di fuori.

Lo cercò, lo raccolse, era un sassetto al quale era ravvolto e legato con un filo un pezzetto di carta. Slegò e svolse quella carta, e vi trovò scritte in un brutto carattere, e con pessima ortografia queste sole parole:

«Monti e Tognetti sono stati condannati a morte.»

Corse ad affacciarsi al parapetto e guardò di fuori.

Dinanzi si apriva allo sguardo la scena interminata del mare; laggiù sotto il maschio i baluardi con qualche sentinella che passeggiava col fucile sopra la spalla, più in fondo la darsena che in quel momento pareva deserta; i galeotti erano fuori al lavoro.

Curzio non poteva capire donde e da chi gli fosse stato lanciato quel dispaccio aereo. Seguitò a guardare da ogni parte, e si accorse che sopra una specie di terrazza che copriva un fabbricato basso e adjacente al maschio della fortezza stavano lavorando otto o dieci forzati: non era impossibile che qualcuno di essi lanciando con braccio vigoroso il sassetto l'avesse spinto fino alla loggetta dov'egli si trovava.

Ma tutti quei condannati parevano intenti al loro lavoro, e nessuno di essi rispose ai cenni che Curzio rivolse da quella parte. E poi, come e perchè uno di quei galeotti avrebbe potuto trasmettergli quell'avviso? da chi dunque sarebbe proceduto? da persona amica o nemica? Fosse vera o falsa la notizia?

Queste furono le riflessioni nelle quali si sprofondò la mente di
Curzio.

—Ad ogni modo, questa fu la conclusione a cui venne, l'obbligo mio è quello di accorrere in loro soccorso, di tentarlo almeno. La sola possibilità del fatto m'impone questo dovere.

Sporse il capo fuori dal parapetto, e misurò l'altezza a cui si trovava, studiò tutte le sporgenze e le scabrosità del muro, per vedere se era possibile una discesa. Si ricordò di aver letto come Benvenuto Cellini operasse la sua fuga da Castel Sant'Angelo, calando da un'altezza molto maggiore. Ma poi? quando fosse disceso non sarebbe osservato da otto o dieci sentinelle, che non tarderebbero un momento a fargli fuoco adosso? E quand'anche arrivasse a toccare illeso il terreno; non si troverebbe sempre dentro il recinto della fortezza, e soprafatto dal numero dei soldati? E non sarebbe allora rinchiuso in una cella più stretta e sicura della prima? Stava discutendo questi pensieri, quando venne il sergente profosso colle sue chiavi a chiuderlo nella segreta; l'ora del suo passeggio era trascorsa.

Nel giorno seguente Curzio, mulinando sempre mille diversi progetti, aspettò con impazienza il momento in cui lo stesso sergente sarebbe venuto ad aprire la porta della sua cella, ed egli sarebbe stato libero di passeggiare nella loggetta. Giunse finalmente il momento, e Curzio appena fu solo, corse ad affacciarsi al parapetto, e rivolse la sua attenzione da quella parte dove stavano a lavorare i forzati. Si accorse allora che in quel giorno erano passati a un altro posto molto più vicino a quello dove egli si trovava: stavano sul tetto di un corpo di fabbrica che faceva parte del maschio, ma non giungeva all'altezza maggiore dell'edifizio.

Alcuni galeotti erano stati scelti per eseguire tutte le opere muratorie di riparazione di cui avevano bisogno i fabbricati del forte: ed erano quelli appunto che nel giorno innanzi il prigioniero aveva visti a lavorare in una terrazza, e in quel dì erano passati sopra un tetto vicino.

Curzio li osservò con attenzione; se da quelli era provenuto l'avviso, senza dubbio con essi si avvicinava anche il soccorso. Così pensava, quando si avvide che uno dei condannati, colto il momento in cui i suoi compagni erano volti da un'altra parte, fece verso lui un rapido cenno, di cui esso non comprese bene il significato; ma pareva che volesse dire: Aspettate.

Non v'era dubbio, era da quella parte ch'egli aveva un amico. L'idea che si trattava di un galeotto mosse un istintivo ribrezzo nell'animo del giovane. Ma poi pensò che poteva anche essere un patriota condannato agl'infami ferri della galera per causa politica, e si decise di accettare l'ajuto che quegli non avrebbe tardato ad offrirgli.

Pure egli aspettò invano un altro segno; passò l'ora intera senza alcuna novità, e il sergente profosso, puntuale e inesorabile come il tempo, venne ad aprire la porta della cella, e a riserrarla, dopo ch'esso fu entrato. Curzio passò quella notte in una agitazione continua; erano passati due giorni, dacchè gli era pervenuta la notizia della condanna; certamente la esecuzione era vicina. Nel suo modo di sentire magnanimo ed entusiasta lo starsene inoperoso in tale frangente era un delitto, anche per lui così chiuso e guardato a vista nella cinta d'una fortezza; a costo di frantumarsi il capo od essere crivellato dalle palle egli doveva tentare di evadere. Non sarebbe forse riuscito a giovare a' suoi compagni. Non importa: egli sarebbe morto com'essi; e il salvamento della sua vita non avrebbe lasciato sul suo nome il sospetto di un'impunità comprata a prezzo del tradimento. In questi pensieri vagò per tutta quella notte e nel dì seguente, sicchè quando vennero ad aprirgli la porta pel consueto passeggio, egli aveva già fermato fra sè e sè un proposito disperato.

XXX

Tradimento.

Curzio, venuto fuori sulla loggia ed affacciatosi al parapetto, si accorse con meraviglia e piacere, che quella volta i galeotti addetti alle opere muratorie della fortezza, erano molto più vicini a lui che non fossero il dì prima. Essi lavoravano in quel giorno sopra una specie di ponte mobile, situato a ridosso di quella parte del maschio, ov'egli appunto si trovava.

A un leggero sibilo ch'egli emise, un forzato, che Curzio riconobbe per quello stesso che nel giorno innanzi gli aveva fatto cenno di aspettare, volse la testa in su, e appena lo vide, gli fece un altro segno, più espressivo del primo, col quale gli diceva con tutta evidenza: Tenetevi pronto.

Curzio rimase intento cogli occhi ad ogni più piccolo moto di quei condannati; gli parve che quel medesimo che gli aveva diretti quei segni, scambiasse un rapido cenno col loro guardiano. Poi di lì a poco, come se avessero terminato il lavoro della giornata, i galeotti a due a due sfilarono giù dal ponte: uno solo rimase: era proprio quello che aveva stretta seco una segreta intelligenza. Era di quelli che non portavano la catena.

Il giovane prigioniero non ebbe tempo di maravigliarsi del come quel forzato avesse potuto rimanere indietro sul ponte non ostante la sorveglianza del guardiano, chè una sorpresa più forte lo aspettava. Appena il condannato fu rimasto solo, con una sveltezza e un'agilità, che lo dimostravano provetto in siffatti esercizi, si diede a salire ponendo i piedi sulle ineguaglianze del muro, come avrebbe fatto sui gradini di una scala. Fu così rapida la sua salita, ch'egli giunse al parapetto e saltò dentro la loggia di Curzio, prima che questi potesse rendersi ragione di tutta l'estensione del pericolo che quell'uomo correva, e prima che nessuna delle tante sentinelle che vigilavano all'intorno si accorgesse di quel viaggio prodigioso.

—Presto, presto! disse quell'uomo appena fu vicino a Curzio; vestitevi con questi abiti.

E così dicendo in un baleno egli si trasse di dosso la casacca, i calzoni, e il berretto a righe gialle e nere, che formavano il suo vestiario da galeotto.

Curzio rimase un istante irresoluto; per quanto forte fosse il desiderio ch'egli aveva di fuggire dalla sua prigione, si arrestò per un momento innanzi all'idea d'indossare quegli abiti. Ma vinse ben presto la ripugnanza, e spogliati con prestezza eguale a quella del condannato il suo soprabito e i suoi calzoni, si vestì rapidamente cogli abiti di colui.

—Ora, gli disse il galeotto, scendete subito per la strada per la quale io sono montato; la discesa vi riuscirà certo più facile della salita.

—E poi? chiese Curzio.

—Poi raggiungete il drappello dei forzati, e non temete. Il guardiano farà il resto.

Dunque il guardiano era d'accordo, pensò Curzio. Ma non era tempo da riflessioni. Salutò con un'occhiata più che con la voce quell'uomo misterioso; misurò collo sguardo la distanza che lo separava dal ponte mobile, scavalcò il parapetto, si aggrappò a quello colle mani, lasciò andare le gambe, cercò coi piedi un appoggio, e coi piedi e colle mani attaccandosi ai buchi della muraglia e alle rotture delle pietre diroccate, discese per l'altezza di cinque o sei metri, finchè cadde, più che non arrivasse, sul ponte. Di lì senza perder tempo entrò nella finestra, per la quale si penetrava nell'interno dell'edifizio. S'incamminò per un corridoio che trovò aperto dinanzi, e in fondo a quello raggiunse il drappello dei forzati, al quale doveva unirsi. Il guardiano gli fece un segno segreto con cui gli confermò la sua connivenza.

Curzio si confuse nel branco dei galeotti, e il guardiano li avviò innanzi.

Essi passarono corridoi, scalette, e baluardi, finchè giunsero nel cortile della fortezza, e di quivi passarono dalla gran porta, per ridursi alla darsena. Era cosa consueta, e nessuno vi faceva attenzione.

Quando furono giunti fuori della fortezza, si avviarono giù per una stradella vicina. In quella via il guardiano s'incontrò in un suo collega e con quello scambiò poche parole, dopo le quali gli cesse la guardia del drappello, ed egli col solo Curzio si avviò da altra parte.

È cosa consueta in Civita-Vecchia dove i galeotti sono occupati in ogni sorta di lavori, anche pei privati, il vederne un solo scortato da un guardiano volgere in una direzione qualunque.

Curzio e il guardiano passarono per molte vie, finchè si condussero all'aperta campagna. Quando furono giunti a un certo punto il guardiano fe' cenno a Curzio di fermarsi, poi si volse indietro, si accertò che non erano spiati da nessuno, e disse:

—Seguitemi!

Presero un sentiero di traverso, camminarono senza altre parole. Passarono in mezzo a una melanconica pianura, intralciata da roveti e da acque stagnanti, percorsa qua e là dalle mandre di bufali e di cavalli selvaggi; sì ch'era forza ad ora ad ora ripararsi nelle _staggionate_¹.

¹ Così chiamano nell'agro romano quei ripari di legno, dove si sta al sicuro dalle offese dei bufali e dei cavalli sciolti.

Il guardiano si fermava ad ogni tratto, e guardava intorno come per orizzontarsi, poi proseguiva il cammino, Curzio si fermava con esso, e con esso riprendeva la strada.

Andavano e tacevano. Pareva inutile a Curzio il fare domande. O quell'uomo voleva salvarlo, ed egli non aveva che a seguirlo per ridursi a buon porto: od era un traditore, e in questo caso egli era ormai in sua balìa, e non v'era possibile riparo. Unica via era quella di abbandonarsi alla sorte.

Quando furono pervenuti, dove la boscaglia si faceva più fitta, e l'acqua dilagava in palude, il guardiano si arrestò, e mandò un fischio prolungato al quale quasi subito fece risposta un fischio più acuto. Ed ecco sbucare da un cespuglio un uomo, e farsi incontro a quei due.

Curzio riconobbe la figura di Giano. Egli ignorava la parte di complicità che quell'uomo aveva avuto nel suo arresto, ma non poteva a meno di nutrire una certa diffidenza contro colui, che gli aveva promesso di condurlo a salvamento nella sera stessa in cui venne arrestato. E perciò quell'incontro gli mise nell'anima il sospetto, di cui diè segno indietreggiando d'alcuni passi.

—Non temete, disse allora Giano avanzandosi, io ho giurato alla signora principessa di liberarvi dalla prigione, e se l'altra volta non giunsi a trarvi a salvamento, spero questa volta coll'ajuto del Signore di riuscirvi.

Poi Giano fece un segno di convenzione al guardiano, che aveva condotto Curzio fino in quel luogo, e gli pose in mano del denaro che, l'altro guardò, e numerò ben bene prima di allontanarsi. Il giovane fuggitivo non era troppo rassicurato dal discorso di quell'uomo misterioso, ma egli si trovava in tale condizione, che gli era forza di seguire l'unica via che gli si era schiusa dinanzi.

Giano s'inoltrò nella boscaglia, facendo un cenno a Curzio, e questi gli tenne dietro.

Girarono a lungo in quel labirinto di macchioni e di paludi. Più s'inoltravano, e più si faceva forte nella mente di Curzio il sospetto del tradimento, e già meditava di abbandonare la sua guida, e qual si fosse il rischio, cacciarsi a caso nel bosco, fidandosi alla cieca fortuna: quando all'improvviso lo stesso Giano, che sopravanzava d'un buon tratto di strada il compagno spicca una rapida corsa, e in un baleno si perde nel più fitto della macchia, lasciando Curzio solo sopra il sentiero.

Allora ciò ch'era dubbio, diventa un'assoluta certezza. Giano era un traditore, che aveva procurata la sua evasione per condurlo a più sicura rovina.

Ma che fare in una situazione tanto pericolosa? Da che parte potea egli rivolgersi, così perduto in un bosco, all'avvicinarsi della notte, ignaro delle strade, stanco del cammino, senza cibo, senza denaro, e con quelle vesti da galeotto sul dosso?

Non poteva nemmeno decidersi a passare la notte alla meglio in quel luogo. Giano era andato senza dubbio a denunziarlo; e i soldati sarebbero venuti a cercarlo senza ritardo. Si mise in braccio della provvidenza, avviandosi alla ventura per uno di quei tanti sentieri della boscaglia. Dove lo condurrebbe? egli non lo sapeva ma camminava, camminava, colla speranza di allontanarsi almeno a tempo dal punto dove il traditore l'aveva lasciato.

Era forse un quarto d'ora che procedeva in quella direzione, quando si trovò sbarrata la via da un bacino d'acqua stagnante. Retrocedere, sarebbe stato un perdere tutto il frutto del cammino percorso: tentare il guado era troppo rischio e forse inutile. In quella stretta il giovane pensò di costeggiare lo stagno fino a che potesse riprendere il sentiero nella direzione di prima.

La riva di quella palude era frastagliata ad angoli che raddoppiavano il cammino. Curzio era giunto in un luogo nel quale i cespugli selvaggi riuniti a modo di siepe giungevano a toccare l'orlo dell'acqua, allorchè intese al di là di quel fogliame un rumore metallico simile a quello ch'è prodotto dal cozzo delle armi da fuoco. Certamente v'erano dei soldati nascosti fra quegli arbusti.

Retrocedè subito, e seguendo sempre la riva dello stagno, e raddoppiando il passo, continuò ad allontanarsi; a un tratto si trovò impedito il cammino da un corso d'acqua che veniva a perdersi nella palude. Con un salto vigoroso, si slanciò, e giunse a piede asciutto dall'altra parte del rivoletto.

Di là si apriva uno spazio più largo, libero dalle acque e dalla boscaglia; il fuggiasco poteva inerpicarsi sopra una piccola eminenza, che aveva di fronte, e franando giù dall'altra costa, trovare la salvezza. Ma in quella appunto che formava questo pensiero, ecco sbucare da quello stesso rilievo di terreno altri armati.

Era ormai cosa evidente: gli davano la caccia. Esso era circondato, come il cignale, intorno a cui si è formato un circolo di mute e di cacciatori.

Senz'armi, senza difesa, senza ajuto alcuno, esso era abbandonato ai nemici che si avanzavano da ogni parte. Già il cerchio si faceva più stretto, e le voci dei soldati, che si additavano fra loro il fuggitivo, giungevano fino a lui.

Che fare in quel supremo momento? Raggiunto dai soldati, avvinto, incatenato, sarebbe ricondotto a prigionia più dura, più disperata, si sarebbe di nuovo macerato in quegli sforzi impotenti, in quei desolanti pensieri di prima. Valeva meglio attirare sopra di sè il piombo di quelle carabine… e finirla! Fu con tale intendimento che Curzio simulò di volgere a impetuosa fuga dalla parte dell'acqua stagnante.

—Egli ci sfugge! gridò una voce. Fuoco!

E subito dopo i colpi dei moschetti echeggiarono in quella mesta solitudine.

Curzio, colpito da cinque o sei colpi, cadde supino. Non gli rimase che un istante di vita: il tempo di rivolgere un pensiero a sua madre, e un'ultima invocazione al Dio dell'avvenire.

Quando i soldati giunsero al luogo dov'era caduto lo trovarono cadavere.

Le trame tenebrose del principe Rizzi e del suo sicario avevano ricevuto il loro compimento.

Era vicina la notte: pochi soldati rimasero a far guardia al morto che si sarebbe trasportato l'indomani. Gli altri ritornarono in città.

Dopo la mezzanotte un soldato boemo stava di sentinella presso il cadavere, mentre i suoi compagni dormivano avvolti nei loro pastrani sotto un riparo di frasche. Stanco e un poco avvinazzato, egli andava sonnecchiando, finchè postosi a sedere sopra un sasso si lasciò vincere da quel torpore, che è una cosa di mezzo fra il sonno e la veglia.

Il buon boemo vagava da qualche istante in quella indecisa regione che sta fra i sogni e la vita reale, quando è svegliato del tutto da un rumore indistinto: spalanca gli occhi, balza in piedi, e vede vagamente in quell'ombra un braccio del morto alzato che ricade, e nello stesso tempo sente qualche cosa strisciar via tra l'erbe del terreno e le frasche.

Restò colpito da un improvviso terrore. Le fole superstiziose da cui fu cullata la sua infanzia diventano in quel momento realtà spaventose; vuol gridare e non può, vuol camminare, e non lo reggono le gambe. Trema come per freddo, e gli battono i denti.

Quando venne il caporale per toglierlo di sentinella, lo trovò in quello stato, fu deriso da tutti come pauroso, e alla mattina fu portato all'ospedale con una febbre gagliarda.

Quegli che produsse la disgrazia del soldato boemo fu Giano. Egli aveva promesso al principe un segno palpabile del suo trionfo. Curzio teneva al dito un anello, dal quale non si era mai diviso, perchè era un ricordo della principessa, e Giano lo sapeva, perchè una volta egli stesso aveva recato quel dono. Egli pensò dunque di portare al principe quel contrassegno.

Ronzando intorno al luogo dell'uccisione, approfittò della dormiveglia di quel soldato per avvicinarsi al cadavere, e strappargli dal dito l'anello, fuggendo subito carpone per terra, mentre la sentinella, allibita dallo spavento, divenne incapace di muoversi e di gridare.

Quando fu sotto il raggio della luna, guardò l'anello per riconoscerlo. Era ben quello; e di più, era tutto macchiato di sangue rappreso: ciò gli accresceva valore!

XXXI

Sua Santità Papa Pio IX.

Pio IX!… Pochi uomini della storia ebbero nella vita tanti singolari contrasti quanti se n'ebbe il conte Giovanni Maria Mastai Ferretti, assunto al pontificato col nome di Pio Nono. Capitano di cavalleria, lasciò le spalline per la mantelletta di prelato; missionario, viaggiò il vecchio e il nuovo mondo; antico framassone, iniziato in una loggia d'America, ha poi anatemizzati e scomunicati tutti quanti i framassoni dei due emisferi; esordì nel governo formandosi un ministero di repubblicani, e termina il suo regno ricevendo dai gesuiti l'imbeccata dei sillabi e delle encicliche.

Nessuno è giunto come lui all'apice delle benedizioni, per piombare poscia nel più profondo dell'abbominazione. Fuvvi un tempo in cui il suo nome fece il giro di tutta la terra, accompagnato da un eco di riconoscenza e di osanna; oggi esso è segno alle maledizioni di un popolo intero. Quella mano che nel 1846, scrivendo l'amnistia dei patrioti, diede il segnale della grande riscossa italiana, quella stessa mano ha segnato il comando esecutivo di tante sentenze di morte, ha consegnato tante teste al carnefice!

Che cosa è dunque quest'uomo? È il fariseo, che ravvolge il coltello traditore nelle pieghe del manto sacerdotale? È il tiranno assetato di sangue, che numera con gioia feroce le vittime scannate a' suoi piedi? È il prepotente erede d'Ildebrando che agogna la signoria del pastorale sopra la spada, e vuole elevare la cattedra di Piero sovra i troni più alti dei re?

Niente di tutto questo. Pio IX non è altro che un uomo volgare, che ha tutte le aspirazioni e gli stimoli della vanagloria, senza quella forza invincibile di volontà che è fonte e sostegno delle grandi ambizioni.

Nel principio del suo regno, quando egli bandì le riforme liberali, il suo primo desiderio fu quello di procacciarsi la fama dell'innovatore benefico, dell'uomo clemente e generoso. Fu allora che il partito retrogrado spinse le cose all'estrema rovina: quell'uomo debole si smarrì in faccia alle conseguenze della politica da esso inaugurata, e si lasciò andare come perduto in braccio di quel partito. Riposto sul trono riconquistato dalle armi straniere a prezzo di tanto sangue, il Papa non doveva regnare più che di nome. Il cardinale Antonelli, interprete della grande maggioranza dei cardinali, fu il vero sovrano; non così però, che anch'esso non dovesse subire lo sterminato potere dei gesuiti, che sopra ogni altro domina in Roma, e contro il quale nessuna potestà ecclesiastica potrebbe impunemente cozzare.

Coloro che governano in vece del Pontefice, conoscendone intimamente il carattere, blandiscono la sua vanità in tutti i modi. Una turba di fanatici intuona incessantemente un coro inesausto di lodi sul suo sistema di governo, che è appunto quello che piace ai dominatori gesuiti. Ed egli, vecchio acciaccato, e indebolito nelle facoltà della mente siccome nelle fibre, si compiace della definizione dei dommi, della pubblicazione dei memorandi, e della convocazione dei concilii, come di cose che devono raccomandare il suo nome alla posterità, sogno supremo e vaneggiamento dell'anima sua. E dopo un ricevimento di ufficiali, o una rivista di artiglierie sui prati della Farnesina, passa a far pompa dei paramenti levitici, nelle feste sontuose del Vaticano, o nelle visite dei conventi: e in mezzo a quelle soddisfazioni dell'amor proprio, a quegli orgogliuzzi, a quelle superbie puerili, passa contento l'ultimo avanzo della sua vita, senza badare più che tanto al sangue e alle lagrime che si spargono in suo nome.

A quel vegliardo dal cuore appassito, non resta vivo altro sentimento di quel medesimo che lo faceva caracollare baldanzosamente sul suo cavallo parato negli anni primi della giovinezza. Solamente l'oggetto della sua vanità è mutato: l'impulso è lo stesso.

Entriamo a vederlo; entriamo in quel sublime palazzo del Vaticano, che è quasi un Panteon dell'arte italiana; che ha per appartamenti le stanze dipinte da Raffaello, e per oratorio la Cappella Sistina, e per museo domestico il Belvedere; che racchiude insieme la Trasfigurazione e il Giudizio Universale, l'Apollo e il Laocoonte.

Entriamo. Passiamo per l'atrio custodito dagli alabardieri svizzeri, traversiamo il cortile vigilato dai palatini, percorriamo le anticamere gremite di guardie nobili, di prelati, di camerieri segreti, di _scopatori_¹, di bussolanti, di servidorame alto e basso; arriviamo alle stanze intime di Sua Santità. Ecco una camera parata da un damasco cremisi, che rimanda una tinta rossastra su tutti gli oggetti; e cremisini sono anche i divani, le seggiole, i tappeti che coprono le tavole; e rosso è il cortinaggio delle finestre, e rosso è il riflesso degli specchi. Si direbbe un lago di sangue.

¹ Così è chiamata una delle cariche più onorifiche della corte romana.

Un uomo solo, un vecchio pingue e grasso, sta genuflesso in un inginocchiatoio ornato da cuscini di velluto; egli è coperto da una veste bianca, che gli scende fino ai piedi, adorna di finissima trina e coperta da un ampio bavero circolare. Tiene giunte le mani e levata la testa, e lo sguardo rivolto verso un bassorilievo di marmo bianco infisso alla parete, dinanzi al quale, sta accesa una lampada. E testa e sguardo sembrano atteggiati al raccoglimento religioso.

Così pregava il Papa nella mattina del 18 ottobre 1868, e sotto le sue ginocchia, sopra un cuscino dell'inginocchiatoio, stava un foglio di carta ripiegato. Quel foglio era la sentenza, colla quale due giorni innanzi il Tribunale Supremo della Sacra Consulta aveva condannati a morte Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti.

Ogni volta che il sanguinario tribunale emana una sentenza di morte, perchè questa possa eseguirsi è necessario che il Pontefice la faccia seguire dalla sua approvazione. Epperciò ognuna di quelle sentenze, dopo pronunciata, viene trasmessa dal presidente della Sacra Consulta nelle mani di Sua Santità, perchè si degni approvarla.

In tale occasione i pontefici sogliono mettersi in orazione colla sentenza sotto le ginocchia, invocando, come dicono, la ispirazione divina, per decidersi ad approvare la condanna, oppure a far grazia della vita ai condannati.

Papa Pio IX stava dunque in quella mattina inginocchiato sulla sentenza di Monti e Tognetti.

Il bassorilievo, sul quale teneva intento lo sguardo, rappresentava la santissima Trinità, il Padre Eterno in sembianza di vecchio venerando, alla sua destra il Figliuolo in figura di Salvatore, col simbolo della redenzione fra le braccia, e sopra essi lo Spirito Santo in aspetto di colomba di pace. Ognuna di quelle figure, considerata secondo le credenze cristiane, doveva ispirare sentimenti di mansuetudine nella mente del vecchio sacerdote. Il Creatore rappresenta la paternità col suo inesauribile affetto; il Redentore del mondo è la personificazione più commovente del perdono; lo Spirito Paracleto rende visibile e toccante il vincolo d'amore che stringe l'uomo al suo Dio.

Ahimè! non erano queste considerazioni spirituali, non erano i sublimi precetti dell'Evangelio, che tenevano occupata la mente del vecchio in quei solenni momenti. Il suo pensiero vagava sulle grandezze temporali del soglio, abbracciava la sede dei Cesari, venuta in potere del prete coronato, raccapricciava per gli sforzi dei ribelli che vogliono rovesciare il suo trono, si compiaceva nel novero delle baionette e delle bocche da fuoco, che stanno in difesa della sua sovranità, e trasvolava più lontano nei campi insanguinati di Mentana, e gli pareva di ascoltare il rimbombo dei fucili chassepots, e credeva di vedere un branco di camicie rosse, lacere e disperse, e la bandiera francese e la papale, insieme conserte, piantarsi vittoriose in mezzo alla strage.

Eppure, fra quelle nebbie dell'orgoglio si facevano strada i miti consigli della pietà. Egli, vecchio cadente, spingere nel sepolcro due vite rigogliose e fiorenti! E sarebbe stata tanto bene la parola del perdono sulla bocca di un sacerdote!

Questi pensieri erano baleni fugaci in mezzo a una tenebra fitta. I consiglieri, i confidenti, i confessori, e cardinali, e prelati, e gesuiti, gli avevano susurrato lungamente all'orecchio, che l'unica via di salvare il papato e la Chiesa era la severità, che i nemici della religione avevano colmo il sacco della nequizia, che spargere il sangue di due ribelli era opera pietosa, perchè con questo s'impediva il traviamento di mille innocenti, che il perdono sarebbe stato, più che periglioso, funesto e irreparabile danno, perchè dalla mitezza i nemici traevano maggiore ardimento, e sarebbe venuto il tempo che avrebbero soverchiata ogni possa, ogni riparo, e che era un tentare Iddio fidare ciecamente nel suo aiuto, senza por mano agli argomenti umani, e non si doveva abusare della Provvidenza, nè ostentare in tali casi la clemenza, chè ogni virtù giunta all'eccesso diventa vizio colpevole e dannoso.

Così lo stuolo dei neri corvi aveva ammonito e impaurito il povero vegliardo: ed erano questi i pensieri che colle fantasmagorie delle schiere armate, e delle battaglie, e delle rivolte, e delle mine, tornavano più spesso a travolgere la sua testa vacillante; sì che i tepidi sentimenti della compassione e della benignità restavano in quel turbine soffocati e dispersi.

XXXII

Scene intime del Vaticano.

Stava il Pontefice raccolto in quella meditazione, di cui abbiamo dato un'idea, quando un camerario bussò discretamente alla porta; poi a un cenno del Papa entrò nella stanza. S'inginocchiò sulla soglia, e disse:

—Santità, l'eminentissimo Baldoni domanda la grazia d'essere ammesso al bacio del santo piede.

Pio IX si levò in piedi, appoggiandosi all'inginocchiatoio, e con due o tre passi lenti e stentati si ridusse a sedere in un soffice seggiolone di velluto.

Stette alquanto immobile e come irresoluto, poi si volse al camerario, sempre inginocchiato, e gli disse:

—Venga Baldoni.

Il camerario si levò ed uscì.

Dopo un istante si riaperse la porta; entrò nella stanza il cardinale
Baldoni, e si genuflesse.

Il Papa gli fe' cenno di alzarsi, e di venire innanzi.

—Venite, figliuolo, disse: la vostra visita è benvenuta in questo
  momento.

—Voglia il Signore che io sia esaudito nella grazia, che vengo a domandare a Vostra Santità, disse il cardinale.

—Voi venite a chiedere la grazia di due condannati?

—Sì, beatissimo Padre.

—Dunque, voi siete del parere, che l'accordare questa grazia sarebbe cosa opportuna?

—Io credo che sarebbe l'opera più buona che Vostra Santità possa eseguire in questo momento.

Pio IX stette alquanto pensoso in silenzio, poi soggiunse, ripetendo ciò che gli era stato detto all'orecchio ben cento volte in quei giorni:

—Eppure è necessario un esempio! così dicono tutti.

—Si vuole l'esempio della severità e del rigore; e non sarebbe più efficace quello della clemenza e del perdono?

—La baldanza dei nostri nemici cresce a dismisura.

—E si crede atterrarla col sangue?… Beatissimo Padre, io non dovrei parlare con argomenti umani a chi riceve le sue ispirazioni dal cielo; ma se guardiamo alla storia dei popoli e dei regni, vedremo che lo spargimento del sangue non ha mai rassodato un trono, ma piuttosto ne ha accelerato la caduta.

—Questo non potrà accadere della cattedra di San Pietro, la quale è fondamento di quella Chiesa, contro cui le porte dell'inferno non potranno mai prevalere.

—Appunto per questo, Santità, perchè siamo certi di quell'aiuto divino, che non sarà mai per mancarci, non abbiamo d'uopo di ricorrere a quei mezzi violenti, ai quali sogliono affidarsi i re della terra pel mantenimento delle loro monarchie. Solamente il vicario di Cristo può mantenersi intatto, come colomba che sorvola sul lago delle brutture umane, senza averne le ali insozzate.

Il Papa non rispondeva più, ma appoggiato colla faccia alla palma della mano, pensava. Quelle parole del cardinale avevano evocate le ridenti immagini del tempo passato, allorquando esso aveva seguiti i consigli di pace e di perdono, che Gesù Cristo gli trasmise dall'alto della sua croce, e disserrate le prigioni, e frante le catene, s'era vista intorno una famiglia amorosa ed esultante, e un popolo intero lo aveva chiamato l'angelo della redenzione. Per fermo quello era stato il tempo più bello della sua vita; quella fu l'aureola più splendente, che abbia mai circondato un capo coperto dal pesante triregno.

E il suo cuore, fatto sterile e duro da quella lunga solitudine del trono, ritrovava un'onda di tenerezza, alla quale si rannodava quell'indomito sentimento, che a traverso i traviamenti della vita, gli fa sempre ambire l'esaltamento e la glorificazione del suo nome.

Il cardinale Baldoni guardava intento la figura del Pontefice, scrutando nel suo interno; e parve che indovinasse quanto si volgeva dentro quell'anima, perchè, avvicinandosi alquanto, gli mormorò quasi all'orecchio:

—Quante benedizioni, quanti auguri, quante espansioni di gratitudine giungerebbero fino alla Santità Vostra!…

Quelle parole furono come la stilla che fa traboccare il vaso pieno, perchè subito dopo il Papa disse:

—Baldoni, datemi un foglio.

Il cardinale corse a un tavolo, su cui stava carta e calamajo, prese un foglio, lo sovrappose a una cartella, e intinse una penna, poi venne innanzi al Pontefice; s'inginocchiò, gli porse la penna, e gli presentò il foglio sulla cartella, sostenuta dalle sue mani.

—Il divino Spirito, disse, guidi ora la mano di Vostra Santità.

Il Papa si accinse a scrivere.

In quel momento sopraggiunse il camerario ad annunziare a Sua Santità che sua Eminenza il cardinale Antonelli, Segretario di Stato, domandava udienza.

Antonelli entrò col suo riso sarcastico sulle labbra. S'inginocchiò sulla soglia, sorse, si avvicinò.

Pio IX con un movimento istintivo gettò con una mano la penna, e coll'altra respinse la cartella col foglio, che Baldoni gli stava porgendo.

Quei movimenti non sfuggirono all'occhio linceo del Segretario di
Stato.

—Beatissimo Padre, disse questi, sono venuto a pormi agli ordini della Santità Vostra, per accompagnarla alla rivista.

—La rivista! disse il Papa come trasognato.

—La Santità Vostra ha forse dimenticato che per oggi fu fissata una rivista del corpo degli zuavi, alla quale si è degnata promettere che sarebbe intervenuta.

—Davvero che non me ne ricordava affatto; ma è proprio oggi?

—Oggi appunto; e l'ora sta per suonare.

—Ed io che non ci aveva pensato! Ora converrà che mi faccia vestire.

Il cardinale Baldoni guardò in faccia l'Antonelli, che teneva le labbra inarcate a un ghigno beffardo.

Quell'incidente della rivista gli pareva uno stratagemma del
Segretario di Stato.

Antonelli si avvicinò a una finestra: e sollevò la cortina.

—Ecco, disse, che la truppa è schierata in Piazza San Pietro e senza dubbio aspetta l'arrivo di Vostra Beatitudine.

—Aspetta? suonate dunque, Antonelli; fate allestire la carrozza, e vengano a vestirmi.

Antonelli suonò il campanello, e diede degli ordini al camerario.

Baldoni si avvicinò intanto al Papa, e gli disse a bassa voce:

—Se prima di uscire Vostra Santità volesse degnarsi di scrivere quelle due righe…

—È meglio che vi pensi ancora, rispose Pio IX.

—Pensarvi! riprese il cardinale. Con un tratto di penna può salvare due vite umane, e vuole pensarvi!

—Zitto, che Antonelli non vi senta, disse piano il Papa.

Baldoni si volse, e vide Antonelli, che in quel momento esprimeva col riso la sicurezza del trionfo.

Baldoni volse un'occhiata di compassione al Pontefice, poi s'inginocchiò in atto di congedo.

Pio IX gli fece sul capo il segno della benedizione, e gli disse:

—Venite a trovarmi.

Il cardinale rispose a mezza voce:

—Quando ritornerò, Santità, sarà troppo tardi.

Il Papa finse di non capire.

Baldoni fu raggiunto in anticamera dal cardinale Antonelli, che lo accompagnò fino alle scale con ironiche dimostrazioni di cordialità e di ossequio.

Intanto i camerieri intimi erano entrati nella stanza del Papa per comporre il suo abbigliamento.

XXXIII

Il Papa nero.

Lasciammo il cardinale Rizzi quando dalla festa da ballo si era fatto condurre al convento del Gesù, dove si fece annunciare al Padre Generale dei gesuiti. Un tanto visitatore fu ricevuto non ostante l'ora tarda dal Generale.

Egli stava lavorando nel suo gabinetto; due giovani gesuiti francesi suoi segretari particolari, gli leggevano delle lunghe filze di rapporti segreti, ai quali egli apponeva di sua propria mano delle brevi postille in matita rossa.

All'ingresso del cardinale si levò in piedi, e fe' cenno ai segretari di lasciarli soli. I due frati uscirono. Il Generale indicò un seggiolone all'eminentissimo, e sedè dopo di lui.

Prima di assistere a quel colloquio, è necessario farsi un'idea della potenza straordinaria del Generale dei gesuiti.

In Roma esso è chiamato comunemente il Papa nero. Ed è cosa notoria che mentre il Papa bianco, ossia il vero Pontefice, non ha che un'autorità nominale ed apparente, come quella degli antichi dogi di Venezia, non v'ha nessuna potenza che stia sopra a quella del Papa nero.

Ciò proviene sopratutto da quella forza meravigliosa di organizzazione che seppe dare alla sua società Ignazio di Loyola, spirito veramente straordinario, mezzo soldato e mezzo estatico, che seppe associare l'elemento della subordinazione militare all'annientamento religioso, e così raggiunse l'ideale della passività nell'uomo, ridotto come una macchina in mano dei suoi superiori. Così i gesuiti hanno migliaia e migliaia di forze e d'intelligenze, spoglie di volontà, al servizio di una intelligenza e di una volontà, identificate in un uomo che è l'unico motore di tutto quell'immenso organismo. Questo è appunto il Generale, ossia il Papa nero.

Col mezzo dell'istruzione, della confessione, della stampa, del commercio, dei viaggi, usando a proprio vantaggio di tutti i progressi della civiltà, variando norme e sistemi a seconda dei tempi, il gesuitismo ha saputo dominare sul mondo, e resiste ancora agli attacchi incessanti della filosofia, della morale e del patriottismo.

In Roma i gesuiti sono i padroni veri della situazione, e usufruiscono del pari le truppe forestiere, l'obolo di San Pietro, le credenze religiose, e le influenze politiche. Il Papa, capo apparente della chiesa e il cardinale Antonelli, che regge il governo temporale di Roma, stanno sotto il dominio dei gesuiti. L'uno e l'altro hanno per confessore un padre gesuita incaricato di dirigere le loro coscienze, cioè di conformare i loro atti, nella sfera spirituale come nella temporale, agli intendimenti del loro Generale.

Pio IX, è poi il vero Pontefice che si richiede ai gesuiti; dominato com'è dalla vanagloria, egli si appaga degli elogi, degli omaggi e delle esaltazioni, in cui essi lo avvolgono, come in una nube d'incenso. Contento di quelle innocue soddisfazioni, come il fanciullo dei suoi balocchi, non imprende nemmeno un tentativo di rivolta contro la volontà che lo soggioga e dirige in tutte le sue operazioni.

È dunque vero che il potere del Papa nero è tanto solido e reale, per quanto è vano ed illusorio quello del Papa bianco.

—Reverendissimo Padre! cominciò il cardinale Rizzi, l'ora della mia visita le dirà abbastanza che si tratta di cosa della massima urgenza.

—Ed io ringrazio vostra Eminenza della sua premura, rispose il
Generale offrendo una presa di tabacco al cardinale.

—Si tratta nientemeno di un complotto, che ho scoperto questa sera alla festa di mia cognata, un complotto nel quale entra perfino un'Eminentissimo, e che ha per iscopo di salvare la vita ai due ribelli condannati a morte dal Supremo Tribunale della Sacra Consulta.

—Vogliono salvarli per mezzo della grazia sovrana! interuppe il
Generale sorridendo ironicamente.

—Appunto: ed io temo che vi possano riuscire. Sua Santità ha un cuore tanto angelico, che la compassione degli infelici basta a commuoverlo. Non mi farebbe meraviglia che arrivassero a voltargli la testa.

—È vero! il pericolo è abbastanza serio, e convien pensare senz'altro al rimedio.

—Per questo sono venuto subito a prevenirne vostra Riverenza.

—Ringrazio vostra Eminenza della sua premura.

—Ella troverà senza dubbio il riparo.

—Vi ho già pensato. Chi è il cardinale che si è incaricato di chiedere la grazia?

—Credo che sia l'eminentissimo Baldoni.

—Ah! Ah! capisco: è pecora segnata.

—Dunque ci pensa lei.

—Viva tranquillo, Eminenza.

—Non udremo un tanto scandalo.

—Non è il momento di mostrar debolezza.

—La riverisco.

—Le bacio le mani.

Il cardinal Rizzi partì soddisfatto di sè; si fece condurre a casa, e andò a dormire il sonno del giusto.

Il Generale fece venir subito nelle sue stanze tre padri, fra quelli che erano più addentro nei suoi segreti, erano il confessore del Papa, il confessore del cardinale Antonelli, il confessore del colonnello De Charette, comandante degli zuavi pontifici. Con essi il Generale tenne un lungo conciliabolo, ch'ebbe per iscopo di stabilire il modo sicuro di sventare gli sforzi di coloro che volevano ottenere dal Papa la grazia di Monti e Tognetti.

I confessori di Antonelli e di De Charette si posero all'opera alla mattina seguente; il confessore del Papa doveva operare più tardi.

La parata degli zuavi in Piazza San Pietro, e il ricordo che il Segretario di Stato fece al Pontefice di una supposta promessa erano conseguenze delle loro manovre.

Gli zuavi erano schierati sulla piazza, col loro colonnello De Charette alla testa. Quando apparve scalpitando sotto gli archi del colonnato il primo drappello della scorta del Papa, i tamburi suonarono, la fronte di battaglia si allineò, e al comando del colonnello i soldati presentarono le armi. Al primo drappello di cavalleria successe quello dei gendarmi, poi l'altro delle guardie nobili, e finalmente apparve la splendida carrozza dell'erede del pescatore.

Allora gli zuavi s'inginocchiarono, la bandiera si abbassò, e il colonnello in ginocchio anch'esso sul terreno aspettò la visita del sovrano. La carrozza del Papa si fermò innanzi alla truppa; i servi apersero lo sportello. Il cardinale Antonelli e un prelato, ch'erano in compagnia del Pontefice, lo aiutarono a scendere.

Pio IX, seguito dal cardinale e dal prelato, mosse verso il colonnello, e gli fece il cenno della benedizione sopra la testa, poi percorse tutta la fronte del reggimento, guardando con visibile compiacenza gli armati e le armi, e trinciando ad ora ad ora segni di croce colla mano aperta verso i soldati genuflessi.

Poi il Papa si avvicinò di nuovo al colonnello, e gli disse:

—Ci consoliamo con lei: noi riconosciamo sempre i nostri bravi zuavi, e sempre più ci teniamo contenti di loro.

—Beatissimo padre! soggiunse De Charette, i miei soldati anelano sempre l'occasione di potere spargere di nuovo il loro sangue in difesa della Santità Vostra.

Il Papa mise un sospiro, e:

—Sappiamo, disse, pur troppo che il loro sangue fu sparso!

—Ne sono compensati a esuberanza dalla benevolenza di Vostra Beatitudine, ripigliò il colonnello. Poi aggiunse: E anche dalla severa giustizia, che ha colpito i loro assassini.

Pio IX mandò un altro sospiro.

—Anzi, mi è forza chiedere in loro nome una grazia a Vostra Santità.

—Una grazia! esclamò il Pontefice, al quale sorse in mente il pensiero, che gli stessi zuavi volessero domandare la grazia dei due condannati. Dite pure, quale essa sia l'accorderemo.

—I bravi zuavi, a cui sta impressa nell'animo la morte dei loro fratelli, di quei prodi uccisi, il cui sangue grida tuttora vendetta, domandano l'onore di assistere sotto le armi alla esecuzione dei due delinquenti.

—È una soddisfazione ch'essi reclamano! disse il Papa sorpreso.

—È un servigio che si offrono di prestare, ribattè il colonnello.

—Sta bene, saranno esauditi.

Ciò detto, il Papa rifece sul capo del colonnello il segno della benedizione, poi ajutato dal cardinale e dal prelato, rimontò in carrozza.

Il cocchio papale insieme al corteo si avviò verso Porta Angelica, per la consueta passeggiata.

XXXIV

La firma del Papa.

Dopo tre quarti d'ora, il Papa era di ritorno nel palazzo del Vaticano, scese di carrozza sotto il portico del gran cortile quadrato, e preceduto dalle guardie e dai prelati di camera, seguito a breve distanza dal cardinale, salì le scale.

Erano giunti alla loggia dove stanno le scene del Vecchio Testamento, dipinte dalla mano di Raffaello d'Urbino, e da quella passavano nell'atrio vicino, quando all'improvviso apparve una donna, la quale, resistendo alle guardie, e trapassando lo stuolo dei cortigiani, venne a genuflettersi innanzi al Papa.

La voce soffocata dall'emozione e dai singhiozzi non le serviva, e invano cercava di parlare distintamente.

—Santo Padre!… mio marito!… furono le sole parole che potè emettere a stento, poi cadde svenuta.

L'inaspettata apparizione, l'agitazione di quella donna, fecero qualche impressione sull'animo di Pio IX, il quale ordinò che appena fosse rinvenuta fosse introdotta nelle sue stanze.

Infatti, dopo qualche minuto, Lucia Monti veniva condotta in quella medesima stanza cremisina, dove vedemmo il Papa pregare colle ginocchia posate sulla doppia sentenza di morte.

Questa volta, rinfrancata alquanto, e rimessa dallo sgomento del primo incontro, la moglie del condannato trovò una parola libera e commovente, pregando per suo marito.

—Santità! diceva ella, con una parola lei può ritornare da morte a vita il mio povero marito, la pronunci questa parola, per amore di Dio; e lei sarà come un Dio per me! Io la prego pei miei piccoli bambini, che aspettano il loro padre. Pensi che ha tanto sofferto, poveretto, in quest'anno, che ha passato in prigione, lontano dalla sua famiglia, e sopratutto dopo la condanna, all'idea di non poter più abbracciare i suoi figli. Oh! se ha fatto del male lo ha già pagato. Santo Padre! gli perdoni, come ha perdonato Nostro Signore. Renda il padre a quei poveri piccini, renda il marito a questa povera derelitta! Non abbiamo nel mondo altro sostegno, altra guida. Se questa ci manca, che sarà di noi? Ella, che è il padre degli afflitti, il ministro di Gesù Cristo, si lasci commovere da questo pianto, abbia compassione di noi poveri cristiani, ci tolga dalla desolazione! Può consolarci con una parola, la dica, per la Beata Vergine, per tutti i Santi la dica!

A questo punto l'infelice donna fu vinta nuovamente dall'emozione, si lasciò andare singhiozzando, prostesa colle mani giunte e la testa sul terreno.

Nel cuore del Papa si agitava una fiera tenzone. Lo abbiamo già detto, il cuore di Pio IX non è del tutto indurito. Sotto il lievito dell'egoismo e dell'indifferenza epicurea, accumulata da tanti anni di pontificato, serba ancora una fibra sensibile: e questa fu scossa dal pianto e dalle preci di quella meschina.

Egli si sarebbe adunque piegato a far la grazia ai condannati; ma appena vi poneva il pensiero, gli si presentavano nello stesso tempo i fantasmi dei gesuiti, e degli zuavi, e di Antonelli, e dei cardinali arrabbiati, che l'impaurivano, e sgridavano, e lo distoglievano dall'idea della clemenza, come da una debolezza imperdonabile e fatale.

Ma i muti singulti di Lucia, più eloquenti delle sue parole, a poco a poco finivano di vincere il cuore dei vecchio. Egli si alzò di subito: si avvicinò al tavolo, vi trovò la carta, e la penna, che poco prima gli aveva presentato il cardinale Baldoni. Intinse la penna, e scrisse una linea sulla carta.

In quel momento entrò un camerario, ad annunziare il padre Ferri.

Pio Nono rabbrividì.

Il padre Ferri era il confessore che la compagnia di Gesù aveva scelto a dominarlo: esso rappresentava agli occhi del Papa tutta intera l'idra gesuitica nella sua immensità spaventosa.

Egli si scostò dal tavolo, e fe' cenno al camerario di allontanare la supplicante. Il domestico disse a Lucia di seguirlo. Essa avrebbe voluto aggrapparsi disperatamente a quell'ultima speranza della grazia, ma sentiva mancarsi le forze. In quello sforzo supremo aveva esaurito ogni vigore, mandò un ultimo gemito di preghiera verso il Pontefice, e dovè attaccarsi al braccio del camerario per uscire senza cadere.

Mentre Lucia si allontanava dalla stanza del Papa, vi entrava in sua vece il Padre Ferri.

Egli s'inginocchiò dinanzi al Pontefice, e cominciò:

—Santo Padre! È la beatissima Vergine concetta senza macchia, che mi ha ispirata l'idea di venire a trovarla. Vostra Santità sta per prendere una gravissima risoluzione, ed io che indegnamente fui assunto all'onore di dirigere la sua coscienza, mi sento in dovere di porgerle una parola di consiglio.

—Padre! Venite a parlarmi in qualità di mio confessore? disse il
  Papa.

—Santità sì.

—Alzatevi dunque, e parlate al servo dei servi di Dio.

Il gesuita si levò in piedi e parlò in tuono d'ispirazione profetica, mentre il Papa seduto sul seggiolone, ma curvo col tronco, e col capo in segno di reverenza, lo stava ascoltando.

—Voi, Padre beatissimo, in questo momento porgete l'orecchio alla voce della clemenza, bella virtù e degna veramente d'un re sacerdote! Ma quando la giustizia fa udire la sua parola, la clemenza deve cedere e tacere. Perfino l'Onnipotente chiuse l'orecchio alle voci della misericordia e non esitò a sacrificare il suo prediletto figliuolo per soddisfare alla giustizia. La giustizia è la base e il cardine d'ogni opera buona, e senza la giustizia le altre virtù non sono altro che ombre ed errori. Nubi gravide di tempeste stanno addensate nei cieli, il tuono rumoreggia nell'aere, le mine degli empj sono approntate sotto i nostri piedi, e non aspettano che la scintilla che mandi tutto in rovina. Da chi troveremo soccorso, se mostriamo di amare i nostri nemici più degli stessi difensori, e se lascieremo inulte le ossa di coloro che sono morti per noi? Nè possiamo lusingarci di vincere colla mansuetudine i nostri nemici. Il demone dell'empietà li ha acciecati, e non anelano se non che distruzione e rovina. Il nostro perdono è l'arma di cui si sono valsi altra volta per ribellarsi, e cacciare lontano gli eletti del Signore. Con costoro la misericordia diventa empietà, e pietà il rigore.

Pio IX ascoltava tacendo; non rispose, non fiatò. Stese la mano sulla tavola, prese la carta che aveva scritta poco prima, e la lacerò.

Il gesuita comprese il suo trionfo e sorrise.

Nello stesso tempo veniva annunziato il cardinale Antonelli.

—Datemi quel foglio, disse il Papa al Camerario.

E indicò la sentenza, ch'era rimasta sul cuscino dell'inginocchiatoio.

Il famigliare prese la carta, e la porse inginocchiandosi al
Pontefice.

Questi afferrò la medesima penna con cui aveva un minuto prima vergato la grazia, e scrisse rapidamente due parole in calce a quel foglio, mentre il segretario di Stato entrava nella stanza.

—Eminentissimo, a voi! disse Pio IX porgendogli il foglio. Ecco la sentenza approvata.

Antonelli la prese senza parlare, e scambiò col padre Ferri un'occhiata di soddisfazione.

Il Papa li invitò a lasciarlo solo, dicendo che non si sentiva bene.

Quel debole vecchio, sbattuto da tante emozioni, stava male veramente.

Il cardinale e il gesuita uscirono insieme.

XXXV

Raffinamenti gesuitici.

Il segretario di Stato era aspettato nel suo gabinetto dal Generale dei gesuiti, al quale entrando mostrò la sentenza che aveva in mano.

Tanta era l'impazienza del generale, ch'esso la prese dalle mani del cardinale, prima che questi gliela porgesse. La svolse, la guardò e appena ebbe posti gli occhi sull'exequatur papale, sul suo volto si dipinse quel sorriso, che poco prima si era ripercosso fra il padre Ferri, e il cardinale Antonelli.

Fra quelle tre persone regnava il silenzio. Antonelli si era seduto allo scrittoio. Il generale, ritto in piedi colla sentenza in mano, vi teneva fisso lo sguardo senza leggerla. Il gesuita stava in piedi in alto rispettoso vicino alla porta.

Il primo a rompere il silenzio fu il cardinale.

—Ed ora, disse, non resta a far altro che a dare esecuzione alla sentenza.

—E nel più breve tempo possibile, aggiunse a modo di coda il gesuita.

Il Generale tacque alquanto, poi disse:

—No!

E mentre pronunciava quel monosillabo, i suoi occhi mandarono un lampo che dava a quella parola una sinistra espressione.

Il cardinale, alquanto sorpreso di questo contegno, di cui non comprendeva il significato, soggiunse, rivolto al Generale:

—Che cosa dice, vostra reverenza? Non è urgente di dare questo esempio al più presto possibile?

—No! ripetè il Generale colla stessa energia selvaggia.

—Mi permetta di dirle, reverenza, che non comprendo perchè si dovrebbe tardare. Il lavoro della Sacra Consulta fu anzi affrettato negli ultimi stadi del processo, perchè la sentenza potesse venire emanata qualche giorno prima del dì 22 ottobre. Il 22 ottobre, come ella sa, fu il giorno in cui scoppiò la nefanda ribellione, il giorno in cui Monti e Tognetti commisero il loro misfatto. Ebbene, fu nostro pensiero che quel giorno stesso sia destinato al loro supplizio. Così daremo occasione ai framassoni romani di festeggiare degnamente l'anniversario della loro impresa. Ai piedi del patibolo dei loro compagni, potranno rinnovare i giuramenti della cospirazione.

E il cardinale pose fine al suo dire con un riso secco e stridente.

Il Generale dei gesuiti lo guardò fisso, con uno sguardo così cupo che mise un brivido nelle fibre dello stesso cardinale: gli si avvicinò; prese una sua mano fra le sue; gli appressò la bocca all'orecchio, e mormorò con strano accento queste sole parole:

—Eminenza! Aspettiamo: non vi perderemo nulla.

Poi baciò la mano al cardinale, e dopo gl'inchini di uso, seguito dal suo gesuita, uscì dalle stanze, e discese le scale del Vaticano.

Col suo consiglio, il Padre Generale dei gesuiti induceva il governo pontificio a protrarre per lunghi giorni l'agonia dei due condannati, dopo che, essendo stata dal sovrano rifiutata la grazia, e ordinata l'esecuzione della sentenza, la loro morte era irrevocabilmente decisa. Ciò che indusse il Generale a questo consiglio, non fu solamente il desiderio di una raffinata vendetta, prodotta dagli spasimi di quegli infelici, sospesi fra la vita e la morte, e lungamente straziati dalla terribile alternativa, dalla lotta tormentosa fra la speranza e il timore che accompagnano fino sul palco il condannato a morte.

Esso pensava ancora che si poteva usufruire quel martirio atroce, pel maggior utile della Santa Sede, e la maggior gloria di Dio.

Era facile infatti che facendo balenare la speranza della grazia, ossia della vita, a quegli sventurati che già si sentivano col piè nella fossa, si ottenessero dalle loro labbra delle rivelazioni, che mettessero la curia sulla strada di nuove procedure, e procacciassero altre vittime alla ghigliottina papale.

In tale bisogna, s'impiegò lo zelo e l'acume del giudice Marini, uomo rotto a tutte le arti sottili del processante pontificio, e che aveva data tanta prova del suo valore in quel medesimo processo. Egli con lena infaticabile, ritornò a tentare e premere con domande suggestive e artificiose lusinghe i due condannati, cercando con ogni mezzo di estorcere da loro il nome di nuovi complici tuttora impuniti.

Ma tutte le fatiche del cavaliere piano riuscirono vane di contro alla fortezza dei due martiri coraggiosi, che si dichiararono mille volte pronti alla morte, piuttosto che all'infamia del tradimento.

Nè si diedero vinti per questo i martoriatori, che disperando di ottenere le bramate rivelazioni, volsero ad altro intento l'ingegno, perchè non restasse affatto senza frutto l'indugio frapposto alla piena soddisfazione della vendetta sacerdotale.

Pensarono, che i condannati fermi al niego sul punto della denuncia, si potevano almeno, in quell'estrema angoscia della prolungata agonia, costringere a umilianti ritrattazioni, a forzate dimostrazioni di pentimento. Così, non solamente avrebbero essi immolate quelle vittime, ma le avrebbero insultate e vilipese, presentandole al cospetto del mondo siccome colpevoli morsi dal pungolo della coscienza, e maledicenti il loro passato, siccome codardi che genuflessi implorano il perdono dai loro carnefici.

Che i gesuiti abbiano raggiunto questo scopo meglio del primo, hanno voluto farlo credere essi medesimi. Infatti essi fecero stampare, diffondere e spiegare al popolo nelle chiese una lettera che, dicono, Giuseppe Monti avea diretta al Papa dal fondo della sua prigione.

In quella lettera, Monti avrebbe manifestato di essere stato ascritto alla società massonica, e che da questa era stato condotto al passo in cui si trovava; avrebbe inoltre chiesto umilmente perdono a Dio e al Santo Padre del suo operato, rivolgendosi per ultimo allo stesso Pontefice, implorandone la benedizione, e raccomandando alle preghiere di lui l'anima sua, ed alla sovrana generosità un piccolo figlio.

Sappiamo quante volte la Corte romana abbia falsate consimili ritrattazioni, e abbiamo quindi tutta la ragione di credere apocrifa anche questa: tanto più dopo che la loggia massonica Fabio Massimo ha dichiarato che l'infelice Monti non aveva mai appartenuto a quell'associazione. Ma fosse pur vera quella lettera, essa ridonderebbe a maggiore infamia del Papa e del suo governo.

Si comprende infatti come possa essere carpita facilmente una simile dichiarazione, nelle angosce del carcere e alla vigilia del supplizio, a un povero condannato a morte, marito e padre! Ma ciò che sorpassa le forze ordinarie della mente, si è il comprendere come il vecchio prete che regna in Roma abbia risposto al padre di famiglia che gli domandava perdono e implorava la sua compassione per la prole innocente, gli abbia risposto, diciamo, compartendo sul di lui capo la paterna benedizione, e consegnando in pari tempo quel capo alle mani del boja!

Stentavano intanto nella durezza della prigione e nella riflessione della morte imminente, i due condannati, sorbendo da oltre un mese l'amarezza degli estremi momenti. E intanto i loro carnefici stavano studiando il modo di rendere più raffinate le delizie della vendetta. La vendetta fu chiamata un giorno il piacere degli dèi: ora potrebbe dirsi il piacere prediletto dei preti sovrani.

Passato l'anniversario della insurrezione romana, si studiava di scegliere per l'esecuzione un giorno, nel quale il supplizio di Monti e Tognetti suonasse come un insulto eloquente al principio nazionale degl'Italiani.

Di lì a poco parve presentarsi una favorevole occasione per porre in atto quel divisamento. Il principe Umberto e la principessa Margherita, recandosi da Firenze a Napoli per la via ferrata, sarebbero passati dalla stazione di Roma.

Nessun momento poteva essere più propizio di quello. Quando appunto i principi italiani si fermavano per qualche momento alla stazione di Roma, dovevano balzare le teste dei due condannati. Per tal modo i giovani principi, la dinastia di Savoja, la nazione italiana, il principio unificatore, ricevevano ad un punto l'impronta di un oltraggio feroce.

È noto come i principi fossero avvertiti a tempo di quanto meditava a loro scorno la Corte papale, e come, cambiando l'itinerario prescritto, evitassero studiosamente la cerchia di Roma e i confini papali.

Perduta anche quella occasione, e impazienti oramai dell'ultima strage, piuttosto che stanchi di martoriare le loro vittime, i preti governanti di Roma fissarono la morte di Monti e Tognetti pel giorno 24 novembre, giorno della riapertura del Parlamento italiano, per inviare quell'annunzio ferale, come saluto beffardo ai rappresentanti della nazione.

Dal giorno della condanna erano passati trentanove giorni! trentanove giorni che i condannati a morte consumarono ora per ora in dolorosa agonia! Trentanove giorni, nei quali i loro parenti attesero mille e mille volte la grazia, per ripiombare mille e mille volte nella disperazione.

XXXVI

La vigilia dei condannati a morte.

L'orologio della Chiesa Nuova batteva le ore 11 pomeridiane del giorno 23 novembre 1867, e le sentinelle degli zuavi appostate intorno alle Carceri Nove si davano di tratto in tratto la voce: All'erta, sentinella! quando all'imboccatura della strada Giulia, dalla parte di San Giovanni dei Fiorentini si avanzavano lentamente i confratelli di San Giovanni Decollato. È una compagnia composta di nobili e di ecclesiastici romani, che esercitano verso i condannati a morte l'ufficio di confortatori. Essi andavano alle Carceri Nove per cominciare le loro funzioni.

A Monti e Tognetti era conteso perfino il sollievo che poteva porger loro la natura, con un estremo riposo: dovevano passare le otto ore, che li separavano dal momento del supplizio, fra le nenie dei confortatori e le esortazioni dei preti.

Mentre i confortatori entravano per la porta del carcere e salivano sulle scale, il secondino Petronio, che doveva aprire le segrete dei condannati, e condurli nella cappella, aspettava l'arrivo della confraternita in quel camerone della prigione, dove l'abbiamo incontrato un'altra volta, e dove faceva fra sè e sè queste riflessioni:

—Quei due poveretti devono proprio andare alle morte questa mattina!… Questo pensiero mi produce un affanno, che non posso spiegare. Io sono avvezzo a vedere queste disgrazie. Eppure questa volta mi sento proprio stringere il cuore. Ma perchè? Perchè questi due disgraziati non sono assassini. Avranno forse fallato, ma credevano di far bene!… Quel povero Tognetti così giovane! E Monti, poveretto, che lascia la moglie e tre figli, e il bambino più piccolo ha diciotto mesi!… Ah, che miseria!… Se dipendesse da me, io farei loro la grazia sul momento. Pare impossibile che il Santo Padre, che dicono che è tanto buono, non debba sentir compassione, quando la sento io, che sono una pellaccia dura d'un carceriere! Ma io sono un ignorante, e lui ne sa più di me. Dovrà andare così, dovrà andare.

Il canto mortuario del miserere che saliva sulla scala, e di lì a poco il chiarore dei ceri, che apparve oltre il cancello, annunziarono l'arrivo della compagnia di San Giovanni Decollato. I confratelli incappucciati entrarono nel camerone.

Uno dei confratelli teneva inalberato il lugubre vessillo della compagnia, che porta dipinto nel drappo nero una testa recisa. Dietro a lui si schierarono in due file gli altri tutti coi cappucci calati sul volto e i ceri accesi in mano, continuando il loro canto funerario.

Due di essi si staccarono dal nero drappello, e, uniti al secondino Petronio, andarono a prendere Gaetano Tognetti nella sua segreta. Lo trovarono che dormiva: lo risvegliarono, e gli annunziarono che si avvicinava l'ora della sua morte. Egli fu assalito da una spasmodica contrazione dei nervi: quella natura giovane e vigorosa si ribellava all'idea di una immatura e violenta distruzione.

Lo condussero in cappella, per consegnarlo colà ad un gesuita, che doveva essere il suo confessore.

Poscia passarono alla segreta di Monti; esso non dormiva, stava invece pregando. Pregava per la donna che lasciava vedova, pei bambini che lasciava orfanelli.

Durante il tragitto dalla segreta alla cappella, Tognetti, sedato quel primo tumulto del sangue, si rimise in calma, e ai confortatori che lo esortavano ad incontrare la morte rassegnato e da buon cristiano, e a pazientare.

—Pazienza! diceva, sì, avrò finito almeno di tribolare. Io già la grazia non l'ho mai sperata. Sapevo bene che il Papa non me l'avrebbe mai fatta.

Appena giunto nella cappella, fu posto nelle mani del gesuita, che subito lo prese a braccetto, e, presentatogli un crocifisso dinanzi alla faccia, gli chiese per prima cosa se credesse nella passione e morte di Nostro Signore Gesù Cristo.

—Sì, padre, rispose Tognetti: io credo in Nostro Signore, e i miei conti desidero farli direttamente con lui.

Intanto altri confortatori conducevano Monti nella stessa cappella.

E anche a lui:

—Rassegnatevi, dicevano, rassegnatevi, fratello, all'ultima fine.

Esso rispondeva:

—Per me ci sono rassegnato. Solamente mi duole di lasciare senza un aiuto, senza un sostegno al mondo la mia povera moglie e i miei innocenti figliuoli.

—Non temete per essi: il Santo Padre si prenderà cura di loro.

—Quegli che fa morire il padre si curerà dei figli? Io non ho speranza che in Dio! Esso è il padre vero di tutti gli afflitti, e avrà compassione de' miei poveri piccini.

Intanto il mesto corteo giungeva alla cappella, dove già stava Tognetti inginocchiato. Appena questi vide arrivare Monti, balzò in piedi, e gli corse incontro.

—Giuseppe!

—Gaetano!

E si strinsero in un lungo abbraccio.

Quante memorie, quanti affetti, quanti dolori si riassumevano in quella stretta! I due amici non si erano più riveduti dalla sera in cui furono arrestati nell'osteria della Sora Rosa. Quanto avevano dovuto soffrire dopo quella sera! Ed ora si rivedevano così vicini alla morte!…

Il primo a trovar la parola fu Tognetti, che disse:

—Povero Beppe! Dopo un anno ti rivedo! e in questo giorno!

—L'ultimo della nostra vita.

Gli astanti rispettarono quell'ultimo segno di amicizia e di ambascia dei due moribondi, e li lasciarono scambiarsi liberamente le supreme parole di addio.

—Povero amico! ripigliò Tognetti. Per colpa mia ti vedo ridotto a questo passo. Io fui che venni a cercarti, a toglierti dal seno della tua famiglia. Perdonami!

—Che io ti perdoni? rispose Monti. No, ciò che ho fatto lo feci perchè me lo consigliava la mia coscienza. Ho cercato di giovare, per quanto potevo, al mio paese: e ho una voce qui dentro che mi dice che il sangue che stiamo per versare non sarà inutile alla causa della libertà, della giustizia e della vera religione di Cristo.

—Coraggio, dunque, caro Giuseppe! Già, quanto avremmo vissuto ancora noi altri? Venti o trent'anni, e poi bisognava in ogni modo morire. Ebbene, figuriamoci di averli campati.

Poi mandò un sospiro, e proseguì:

—Solo mi duole per quella poveretta di mia madre, e anche per la buona Teresa, che mi voleva tanto bene.

—E a me duole per la povera Lucia, per le nostre creature! Le lascio nella miseria.

—Rassicurati per questo, soggiunse Tognetti. Non è possibile che i nostri fratelli lascino languire le nostre famiglie; noi non lasciamo loro del denaro, ma il nostro nome e il sangue che spargeremo, questo sarà il loro patrimonio.

In questo momento uno dei confratelli, staccandosi dagli altri, venne a porsi fra i due condannati, e li abbracciò entrambi in atto d'amore. Non si poteva distinguere il suo volto a causa del cappuccio che lo copriva, ma era tanta la commozione che appariva ne' suoi occhi, che Monti e Tognetti si convinsero che lo sconosciuto era un vero amico.

Pareva che volesse parlare e non potesse per la piena dell'affetto.
Finalmente proferì con voce tremante queste sole parole:

—Miei cari!

La sua voce era ignota ai condannati.

—Chi siete, che vi mostrate tanto pietoso con noi? chiese Tognetti.

—Diteci almeno il vostro nome, che possiamo tenerlo a mente in queste poche ore che ci restano da vivere, disse Monti.

—Io sono Leoni.

—Il nostro avvocato! esclamarono ad una voce Monti e Tognetti.

Anche nel fondo della loro prigione era giunta la voce del calore e della passione con cui li aveva difesi il giovane avvocato.

—Non posso dirvi, diss'egli, con voce soffocata dalla commozione, non posso dirvi, miei cari amici, quanto io sono addolorato di vedervi a questo punto. Tutto quanto poteva suggerirmi l'ingegno, il cuore, la coscienza, tutto ho detto per voi, ma inutilmente!

—Siamo persuasi di quanto ha fatto per noi, disse Tognetti. Ma è inutile: doveva andare così. La ringraziamo proprio di cuore.

—Non possiamo compensarla di tanta carità, se non col nostro amore, e anche per poco, soggiunse Monti.

—Miei cari, riprese Leoni, io avrei voluto procacciarvi la vita, la libertà, ahimè! non ho potuto. Solo un ultimo conforto posso recarvi. Vostra madre, Tognetti, vostra moglie, Monti, avrebbero voluto esser qui ad abbracciarvi per l'ultima volta, ma non è stato loro concesso. Io mi sono offerto di venire in loro vece; esse vi mandano per mio mezzo gli ultimi baci. Tognetti, abbracciate vostra madre.

Tognetti si lanciò ad abbracciare Leoni, singhiozzando e baciandolo, come se avesse baciato sua madre. Poi venne la volta di Monti, che intenerito del pari, non si stancava di mandare altri e altri baci a ciascuna delle sue creature.

—Signor avvocato, a lei mi raccomando, disse poscia Giuseppe Monti: la prego di pensare a' miei figliuoli. Dica alla mia povera moglie, che mi ha visto ne' miei ultimi momenti, che io era tranquillo, perchè sicuro nella mia coscienza, e perchè confidava nella misericordia del Signore, che non manca come quella degli uomini. Le dica che fino all'ultimo ho avuta in mente la sua memoria.

—Ed io, aggiunse Tognetti, la prego di andare, dopo che io sarò morto, a consolare mia madre. Le dia lei il tremendo annunzio nel modo che saprà dettarle il cuore. L'aiuti lei a sopportare questo colpo… se pure… potrà rimanere in vita!… Mi ama tanto!… Le dica che mi perdoni tutte le amarezze che le ho cagionate, e che, piacendo a Dio, ci rivedremo nel cielo.

L'amoroso colloquio fu troncato dai gesuiti, i quali, temendo forse che i condannati si occupassero troppo delle cose di questa terra, vennero a prenderli, perchè ciascuno di essi si confessasse.

Intanto sopravvenne un canonico di Santa Maria Maggiore, il quale disse messa all'altare della cappella, e dopo la messa, essendo terminata la confessione dei due pazienti, diresse loro dall'altare un fervorino d'occasione, poi li comunicò coll'ostia consacrata.

Dopo quella, dovettero gl'infelici ascoltare altre due messe in ginocchio, recitando il rosario: nuove torture adottate dalla chiesa romana in sostituzione delle tanaglie roventi, che una volta si applicavano ai condannati prima di assoggettarli all'ultimo supplizio.

Che diavolo! la morte tutta in un colpo è cosa troppo dolce, non dura che un istante! Bisogna farne gustare l'amaro a goccia a goccia, e per questo ufficio pietoso le messe valgono un tanto più delle tanaglie. Queste coll'acutezza del dolore fisico facevano dimenticare lo strazio morale della distruzione imminente; quelle invece rinforzano più viva nell'animo la tortura del pensiero.

XXXVII

Il martirio.

Erano terminate le messe, quando entrò nella cappella il cancelliere Passerini, incaricato di ricevere il testamento dei due condannati. Quel pover'uomo di cancelliere aveva un cuore che non era assolutamente fatto per la sua carica; era tutto agitato e contrafatto in volto, e balbutiva nell'annunziare a Monti e a Tognetti il motivo della sua venuta.

—Io non ho nulla da lasciare a' miei bambini! disse Monti, al quale le lagrime gonfiarono gli occhi a quel pensiero. Li affido alla pubblica carità.

—E voi, Tognetti?

—Non lascio altro che i miei abiti, ma non li fate portare a mia madre, perchè nel vederli proverebbe troppo tracollo; piuttosto fateli distribuire a dei poveri bisognosi.

L'orologio delle Carceri Nove suonò lentamente le cinque ore. Non si travedeva ancora il primo chiarore del mattino. Era ancor notte, notte profonda.

S'intese nella strada uno scalpito di cavalli e il ruotare di due carrozze. I condannati rabbrividirono.

Erano i cavalli della scorta; erano le carrozze che dovevano condurli al patibolo.

In quel punto si aperse rumorosamente la porta della cappella. Monti e
Tognetti credettero di veder comparire il carnefice. Era un prelato.

Monsignor Pagni, non astretto dalla sua carica, ma per spontanea volontà, era venuto, come membro della Sacra Consulta, ad assistere agli ultimi momenti dei condannati.

Pareva che uno spirito di odio segreto o di rappresaglia rabbiosa lo rendesse bramoso del loro sangue.

Il suo intervento in quell'ultimo stadio della condanna era cosa così odiosa, ch'egli pensò di coprirne l'efferatezza con un motivo plausibile. E perciò, atteggiato il volto all'espressione della benignità religiosa:

—Cari figliuoli! disse rivolto ai condannati, ho una buona notizia da darvi. Sua Santità, il beatissimo Padre dei fedeli, mosso a pietà del vostro stato, e per darvi una prova del suo paterno amore, nonchè della sovrana clemenza, manda ad entrambi…

Il cuore dei due sventurati aveva cominciato a palpitare fino dalle prime parole del prelato: un vago presentimento pareva annunciar loro qualche cosa di fausto. Di mano in mano che progrediva il suo dire, l'ebbrezza della speranza rinfiammava rapidamente i loro cuori, e giunsero a tale, che prima ch'egli terminasse esclamarono ad una con tutto l'entusiasmo della letizia:

—La grazia!!

—Manda ad entrambi, proseguì imperturbabile il prelato, la sua apostolica benedizione, e in pari tempo l'indulgenza plenaria, la quale dopo la morte vi farà salire prontamente alle glorie sempiterne del cielo.

Quell'atroce derisione dell'ipocrisia sacerdotale strappò un grido di rabbia ai due condannati. E Tognetti, al quale l'amarezza della delusione fece ribollire il sangue.

—Sì! esclamò. Il Santo Padre ci vuol molto bene! Perchè arriviamo più presto in paradiso, manda il boja ad aprirci la porta.

Un gesuita corse a prenderlo per un braccio, e ad imporgli silenzio. L'altro s'impadronì di Monti. Poi l'uno e l'altro tenendo sotto il braccio ciascuno un paziente, preceduti e seguiti dai confratelli di San Giovanni Decollato, si avviarono verso le scale. I confratelli recavano i ceri come in un funerale, e cantavano le preci dei morti.

Così accompagnati Monti e Tognetti scendevano lentamente le scale. A metà di quelle trovarono una immagine della Vergine, che in atto d'amore teneva il bambolo fra le braccia. In altra occasione sarebbero passati innanzi a quel quadro senza badarvi, ma nello stato dell'animo loro quella vista li commosse talmente, che entrambi si lanciarono insieme in ginocchio dinanzi all'emblema del più santo fra gli amori umani, l'amore materno.

Scesero ancora: varcarono la porta delle Carceri Nove, per entrare in una prigione più stretta e terribile: il cocchio chiuso, che doveva condurli fino a piedi della ghigliottina. Entrarono infatti ciascuno in una carrozza, insieme al gesuita confessore, e a due confratelli confortatori.

Grossi drappelli di dragoni e di gendarmi a cavallo scortavano le due
Carrozze.

Le prime file dei cavalli s'incamminarono; poi di lì poco, si mossero le vetture. E il corteo si avviò lentamente verso la piazza de' Cerchi.

Folte pattuglie di gendarmi e di fantaccini percorrevano le strade, donde dovevano passare i condannati: facevano sgombrare la gente e chiudere le finestre.

A prolungare fino all'ultimo il tormento morale dei pazienti si faceva procedere lentissimo il convoglio: tanto che giunsero sulla Piazza de' Cerchi dopo un'ora di cammino!

Erano le sei e mezza antimeridiane.

La piazza dei Cerchi era vuota di popolo, chè gli armati che ne occupavano gli sbocchi impedivano a chiunque l'accesso. V'era solamente disposta in quadrato la truppa degli zuavi. Secondo che il loro colonnello aveva chiesto, e il Papa accordato, essi assistevano al supplizio di Monti e Tognetti.

In mezzo al quadrato militare, si elevava un palco di legname, e sopra quello l'infame macchina della ghigliottina.

I primi raggi del sole nascente facevano scintillare il ferro massiccio dal taglio obliquo, aguzzo, lucente.

Un uomo barbuto stava ritto in piedi con una mano appoggiata a uno dei bracci della ghigliottina, quell'uomo era il carnefice. Altri due uomini erano seduti sulla scala che conduceva alla piattaforma: erano i suoi ajutanti. Essi aspettavano.

Le carrozze si fermarono presso al palco; Monti e Tognetti scesero ajutati dal confessore e dai confortatori. Le carrozze ripartirono vuote.

Monti pel primo fu condotto a piedi della scala e gli fu ordinato di salire. Uno degli ajutanti lo prese per mano, e lo trasse su.

Giunto in cima alla piattaforma, il carnefice lo fece inginocchiare, e posare il collo sul ceppo. Il ferro discese, e la testa spiccata dal busto rotolò sul palco; mentre il corpo informe cadeva dall'altra parte, mandando fiotti di sangue dal collo reciso.

Il boja raccolse quella testa: l'afferrò colla mano destra pei capelli, e stendendo il braccio, e girandolo intorno la mostrò da ogni parte agli zuavi schierati.

Intanto, uno degli ajutanti asciugava con una spugna il ferro della ghigliottina; l'altro era sceso a metà della scala ad incontrare Tognetti.

Il carnefice rialzò rapidamente il ferro pesante.

Salendo la scala, Tognetti scivolò: i gradini erano bagnati dal sangue che scorreva giù dalla sommità del palco. L'aiutante lo prese fra le braccia, e lo portò su pegli ultimi gradini. Quivi fu sospinto dall'esecutore che aveva fretta. E in un attimo tutto fu finito.

Anche la testa di Tognetti fu mostrata agli zuavi: e i loro tamburi suonarono lungamente.

I due cadaveri furono chiusi nelle bare, che partirono accompagnate dalla compagnia di San Giovanni Decollato, mentre la truppa sfilava, e nella piazza guardata dai gendarmi e dai birri rimanevano il carnefice e i suoi uomini intenti a smontare e disfare l'apparato omicida.

Se abbiamo narrata in tutti i suoi particolari la scena funesta non fu per vaghezza dell'orribile, ma per rappresentare più vivamente quale fu nella sua esecuzione la condanna che la Sacra Consulta inflisse ai due martiri Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti.

XXXVIII

La moglie e la madre.

Le precauzioni della polizia romana non si erano limitate a vietare l'accesso del popolo nella piazza dell'esecuzione, e impedire la circolazione nelle vie che i due condannati dovevano percorrere.

Alla moglie dell'uno, alla madre dell'altro era stato negato di dar loro l'estremo addio. Ora si temeva che quelle donne pazze di dolore fossero uscite dalle loro case, e cercando di giungere fino ai loro cari, mentre venivano condotti al supplizio, avessero colle loro grida chiamata gente ed eccitato del tumulto. Perciò fino dalla notte le abitazioni di entrambe erano state circuite da un picchetto di zuavi, che avevano per consegna d'impedire l'uscita a chiunque.

Quelle infelici, per tutto quel giorno orrendo, in cui la immaginazione rappresentava alla loro mente lo strazio della persona amata, ebbero presente ad accrescimento di dolore, e quasi a scherno del loro patire, l'abborrita divisa degli zuavi pontifici.

La povera Lucia, che aveva pel lungo lagrimare essiccata la sorgente delle lagrime, non piangeva più, ma esalava un lugubre, continuo ululato: piangevano i figliuoletti nel vedere così mesta la madre, sebbene non ne sapessero la terribile cagione, e Teresa doveva reprimere il pianto e consolarli, e acquetarli, perchè colle loro grida non rendessero più acerbe le pene della sventurata.

Ma in quell'età infantile il dolore non fa tacere i bisogni istintivi della vita, e non molto andò che i fanciulletti chiesero del pane. In casa non v'era cibo di sorta, e Teresa si avviò per provvederne: ma gli zuavi di guardia le impedirono il passo. Non valsero rimostranze e preghiere, nè il pianto dei bimbi che avevano fame. Cosa incredibile, ma vera! Nel giorno del supplizio di Monti sua moglie, e i suoi figli mancarono di pane!

Verso sera alla vedova infelice, si presentò, una visita inaspettata, il colonnello De Charette, il comandante degli zuavi, quello stesso che aveva domandato al Papa l'onore di assistere alla esecuzione di Monti e Tognetti.

Egli entrò con aspetto triste e benevolo, si tolse di capo il cappello, e si avvicinò a Lucia, circondata da suoi figlioletti.

—Signora! diss'egli. La sventura che vi ha colpito è di quelle che non hanno riparo, ed io non venni a porgervi sterili parole di consolazione. Ma voi siete madre, proseguì accennando i fanciulli, che lo guardavano meravigliati e spauriti da quella nuova figura. Siete madre, e i vostri figli sono certamente la cosa più cara che vi rimanga al mondo. Vostro marito ha pagato il debito che aveva colla giustizia; il pensiero de' miei zuavi doveva volgersi naturalmente alla sua vedova e ai suoi orfani, che non ebbero nessuna parte nel suo fallo, eppure ne portano la pena, restando derelitti e soli sopra la terra. Lenire un dolore così grande e immeritato come il vostro, signora, non è possibile: ciò che possiamo fare si è di rendere meno trista la vostra sorte, provvedendo all'avvenire dei vostri bambini. Gli è con questo intendimento che gli zuavi pontifici, non serbando nessun rancore verso la famiglia del condannato, commossi anzi dalla vostra condizione infelice, hanno posto in comune delle offerte. Esse devono servire come ho detto a migliorare la sorte dei vostri figli, e come madre, non potete rifiutare quanto ho l'onore di porgervi a nome del corpo degli zuavi pontifici.

Posto fine al suo dire con un inchino rispettoso, il colonnello presentò a Lucia un portafoglio.

Lucia Monti balzò in piedi con uno slancio, e sebbene un tremito convulsivo l'agitasse, rimase ferma colla testa alta, e gli occhi fissi in quelli del colonnello. Essa era una povera popolana, non usa a studiare le frasi e i bei modi, in quel punto poi si trovava in tale stato di prostrazione, che male reggeva il pensiero: ma la naturale altezza dell'animo, e il tumulto dei sentimenti le dettarono in quel momento solenne, le parole più proprie a rintuzzare la tracotanza dello straniero, il quale sotto le apparenze della bontà celava la superbia, che coi suoi zuavi lo aveva spinto ad ostentare quel beneficio.

—Signore, disse con voce sicura, mio marito è morto! e voi lo avete ucciso. Bastava una preghiera degli zuavi, e in ispecie del loro comandante, perchè il Papa gli facesse la grazia. Ma voi altri invece lo voleste morto, voi altri lo avete posto sotto il taglio della ghigliottina. Ed ora venite ad offrirci delle monete come un prezzo della sua vita! Avete parlato de' miei figli! Ma sappiate, o signore, che io vorrei vederli morire ad uno ad uno di fame, piuttosto che cibarli col vostro pane. No, i miei figli non sono poveri; essi possedono una grande eredità, il nome del loro padre, il nome di Giuseppe Monti!

Ciò detto, Lucia con un gesto della mano indicò la porta al colonnello. Egli fece un altro inchino, ed uscì. V'era tanta nobiltà nel contegno di quella donna, ch'egli si sentì profondamente umiliato.

L'avvocato Leoni, reduce col cuore affranto della chiesetta di San Giovanni Decollato, dov'erano state deposte le bare, contenenti i resti di Monti e Tognetti, pensò che il dolore più atroce da consolare era quello della madre. La vedova aveva almeno un conforto, sebbene amaro anche esso in tanta desolazione: la vista de' suoi figli.

A passi ora lenti, ora affrettati, come di chi vorrebbe giungere a un tempo, e non vorrebbe, arrivò alla casa della Tognetti, dov'erano di guardia, come abbiamo detto, gli zuavi. La vecchia infelice stava prostesa in un letto, quasi assopita in quella calma, che segue un lungo sussulto convulsivo.

Sentì appena il passo dell'avvocato, che indovinando chi era si scosse, e spalancando gli occhi, li protese verso la persona che veniva. Per quanto dovesse aver perduta la speranza della grazia, pure una ostinata lusinga le stava nel fondo del cuore, che troppo insoffribile torna al cuore di una madre adattarsi all'idea della morte del figlio.

L'ora dell'esecuzione era trascorsa; tutto era finito. Eppure essa sperava ancora, sperava in un evento straordinario, in un miracolo del cielo. Poveretta! le pareva ancora impossibile che il suo Gaetano dovesse morire a quel modo.

Al riconoscere l'avvocato parve che un segreto presentimento le annunziasse una buona novella.

—Mio figlio! gridò. La grazia!

Il sangue le affluì alla testa; le sue mani si agitarono, come cercando un sostegno.

La situazione di Leoni era terribile. Gli conveniva disingannare subito quella donna: ogni indugio avrebbe accresciuta la sua speranza, e resa più fatale la delusione.

Fece colla testa un'impercettibile segno negativo; l'espressione della sua fisonomia disse il rimanente.

L'idea terribile di quanto era avvenuto si affacciò allora alla mente della madre.

L'ora era passata; se la grazia non era intervenuta, e dunque la morte del suo Gaetano era consumata. Lo pensò in un baleno.

Essa si era lasciata vincere dall'entusiasmo della speranza troppo addentro; il contraccolpo fu tremendo.

Leoni la vide farsi livida a un tratto, e cadere all'indietro sul letto.

Corse a sostenerla: era morta!

In quel medesimo giorno il principe Rizzi presentò a sua moglie come un regalo l'anello insanguinato di Curzio, con queste parole:

—La partita è vinta!

La principessa mandò un grido, e fuggì dal palazzo. Poche ore dopo essa era chiusa nel convento delle sepolte vive, dov'era badessa una sua zia. Tutto il potere del cardinale suo cognato non valse a toglierla da quell'asilo.

XXXIX

Don Omobono.

I lettori ricorderanno il povero prete di vettura che comparve nel principio di questo racconto, colla sua miseria e le sue paure. Passata quella burrasca dell'insurrezione, egli era ritornato alle sue consuete abitudini: frequentava le sagrestie delle cento chiese di Roma, e confuso nel crocchio dei sagrestani e dei chierici, tendeva l'orecchio per sentire se si bucinasse di qualche ricco di quella parrocchia che stesse per rendere l'anima al Creatore. In questo caso egli metteva in moto le sue gambe secche e sottili come quelle di uno struzzo; andava a spiare intorno al palazzo del morituro; chiedeva quale fosse la finestra della sua camera da letto, e in quelle imposte figgeva lo sguardo, come il navigante d'un tempo alla stella polare. Appena vedeva aprirsi la finestra, ed era segno che il malato era morto, don Omobono correva subito alla chiesa parrocchiale a farsi iscrivere fra i primi per la messa funebre, sicuro così d'intascare sei, otto, o dieci paoli, secondo il grado di ricchezza o piuttosto di vanagloria della famiglia del defunto.

Nè si creda che il povero prete armeggiasse così per avidità di danaro; gli era proprio che a forza di messe di vettura, per quanto fosse limitato nelle sue esigenze, stentava a campare la vita.

Egli abitava sempre nella casetta di Trastevere, in una stanza adjacente all'abitazione della Lucia Monti. Dopo l'incidente di monsignor Pagni, e più ancora dopo l'arresto e il processo di Giuseppe Monti, don Omobono non era più entrato nella casa delle due donne, per paura di compromettersi; ma, quando giunsero i giorni della massima afflizione, quando Monti fu condannato a morte, allora il naturale buon cuore del povero prete la vinse sul sentimento di paura che lo predominava, ed egli accorse a confortare come meglio potè la misera famiglia, e, non potendo far altro, a piangere con quelle donne. Quando poi Monti e Tognetti furono decapitati, egli si propose di consacrare alla loro memoria una messa, che avrebbe detta gratuitamente, non ostanti le sue strettezze finanziarie.

Nel giorno seguente a quello in cui ebbe luogo l'esecuzione, don Omobono, incantucciato fra due pilastri di un palazzo in piazza del Gesù, guardava a bocca spalancata una finestra del primo piano, nella casa dirimpetto: aveva saputo appunto allora, nella sagrestia del Gesù, che stava per morire un ricco signore, pel cui funerale si sarebbero dette delle messe da uno scudo l'una per lo meno, ed egli già calcolava su quello straordinario provento, per potere poi nel dì dopo dire la messa gratuita, che stava ne' suoi progetti.

Un chierico della chiesa, ch'egli aveva lasciata pochi minuti prima, venne a toglierlo da quella contemplazione.

—Don Omobono, disse il chierico, eravate appena partito dalla sagrestia, che il padre Bindi ha mandato a cercare di voi con gran premura.

—Il padre Bindi! disse don Omobono sgusciando gli occhi. Ha cercato di me?

—E con grande premura.

—Eccomi, eccomi; che sua reverenza non abbia da aspettare.

E il prete di vettura, sopravvanzando il chierico, traversò quasi di corsa la piazza, ed entrò con gran furia nel fabbricato del Gesù, per quella porta laterale che mena all'atrio della sagrestia e del chiostro.

La ragione di quella premura si era questa, che padre Bindi era uno dei segretari primari del Padre Generale: a tutti era nota la sua potenza, e don Omobono doveva aspettarsi da quella inattesa chiamata molto bene o molto male.

Salì a tre a tre i gradini della scala, e dal primo laico che incontrò nel corridoio fu guidato, non già nella cella, ma nell'appartamento di padre Bindi. Questi, che era un gesuita lungo e magro, ricevè don Omobono nel suo gabinetto di lavoro, seduto allo scrittoio ingombro di carte, e co' suoi occhiali sul naso.

—Reverenza, reverenza, mormorò più volte il povero prete, strisciando i piedi per terra, e battendosi il petto col mento.

—S'accomodi, don Omobono, sieda qui vicino a me.

—Troppo onore; mi hanno detto ch'ella mi comandava.

—Sì, desidero parlare con lei, ma senza cerimonie, così… da amici.

—Cosa dice? Troppo onore, reverendissimo!

—Sappia adunque, che l'ho fatto chiamare per l'esercizio di un'opera misericordiosa. Lei è, se non erro, quel sacerdote che abita nella stessa casa colla famiglia di quel disgraziato Monti, che è stato giustiziato jeri: pace all'anima sua!

—Reverenza sì, rispose il prete impaurito, io abito nella stessa casa; ma ho domicilio separato, separatissimo, reverenza.

—Ne sono persuaso; ma insomma, stando ad abitare vicino, avrà, m'immagino, qualche relazione colla vedova del Monti.

—Oh nessuna, reverenza, nessuna, ci conosciamo… così… di saluto appena… e nient'altro.

—Mi basta: senta adunque di che cosa si tratta.

Il nostro Santo Padre, che ha quel cuore pietoso ed angelico che tutti sappiamo, è commosso a compassione pensando al destino di quella donna infelice, di quei poveri figliuoletti. Pensa che quella famigliuola povera e abbandonata potrebbe facilmente volgersi al peccato, e cadere nell'eterna perdizione. Ecco pertanto che cosa Sua Santità ha destinato nell'inesauribile sua misericordia. I figli troveranno asilo nel nostro collegio, e la bambina nell'orfanotrofio del Sacro Cuore. Questa e quelli saranno allevati a nostra cura, e a spese di Sua Santità. La povera madre poi potrà celare il suo dolore nel convento delle Carmelitane scalze, dove per carità della stessa Santità Sua sarà ricevuta senza il pagamento della dote necessaria. Così sarà provveduto alla sorte dell'intera famiglia, la madre e i figli saranno preservati dalle diaboliche tentazioni, e vivranno nel santo timor di Dio. Ella, don Omobono, che è conosciuto dalla Monti, è incaricato di parteciparle le sovrane disposizioni. Queste notizie si ricevono con maggior piacere da una persona amica. E poi, potrebbe avvenire che delle cattive suggestioni, o un funesto spirito di indipendenza, distogliessero la donna dall'accettare per sè e pei figli delle offerte tanto generose e caritatevoli. In tal caso spetta a lei, don Omobono, che come amico di casa, e come sacerdote, parla naturalmente pel bene corporale e spirituale della famiglia. Spetta a lei persuaderla, convincerla e indurla ad accettare il beneficio, che deve ridondare in vantaggio de' suoi figliuoli. È disposto ad assumere questo ufficio pietoso?

—Sì signore, reverenza! Un incarico che mi viene da lei! Io la servirei in qualunque incontro, in qualsiasi evenienza.

—Va bene; si regoli dunque con prudenza. Ella è stato scelto per questo incarico appunto perchè nella sua qualità di prete… dirò così alla buona, e popolare, non è tale da svegliare… che so io? sospetti… dubbi, timori. Insomma, mi ha capito. Si ricordi sopratutto che preme sommamente al bene spirituale e corporale della vedova Monti, e de' suoi figli, ch'essa accetti questo paterno e amoroso consiglio. La vada dunque, e il Signore la soccorra col suo divino ajuto in quest'opera di misericordia.

Così dicendo, padre Bindi si levò in piedi, e con un inchino del capo congedò don Omobono, il quale intanto ripeteva gl'inchini con cui era entrato, dicendo sempre:

—La non dubiti, reverendo. Lasci fare a me. La servirò come si deve.

—Poi verrà ad avvertirmi del risultato, gli disse il gesuita quando esso fu giunto sulla soglia.

—Sì, reverendo; al più presto; stia pur sicuro.

Poi dopo un ultimo inchino, infilò il corridojo, quindi la scala, e giù pei gradini, saltandoli questa volta a quattro a quattro. Traversò la piazza del Gesù, sbirciando quella finestra, ch'era tuttora chiusa, e via via s'avviò verso Trastevere.

XL

Reti gesuitiche.

Lascio figurare qual notte angosciosa avevano passata Lucia e Teresa: solo i fanciulletti, che in sulla sera avevano ottenuto un poco di cibo, avevano poi dormito placidamente per tutta la notte.

Le povere afflitte vedevano volontieri don Omobono, del quale conoscevano la semplicità mansueta, tanto diversa dalla consueta boria dei preti di Roma.

Quando lo vide entrare, Lucia levò l'occhio mesto, e lo salutò con un breve cenno del capo.

—Poveretta!… fatevi cuore!… disse don Omobono, avvicinandosi a lei. Pensate ai vostri figliuoli, che sono il maggior bene che vi rimanga a questo mondo; pensate a questi cari angioletti, ai quali resta aperto un avvenire migliore.

—E quale? Poveri orfani, senza guida, senza sostegno! esclamò Lucia baciando con trasporto ciascuno de' suoi figli, che al solito stavano aggruppati, quale in grembo, e quale accanto a lei.

—La misericordia del Santo Padre è inesauribile, e… riprese don Omobono col suo fare dinoccolato, martoriando al solito il suo cappello, quasi volesse spremerne le parole che non trovava.

—Non mi parli del Papa! gridò Lucia, di quel vecchio spietato, innanzi al quale mi sono inginocchiata come innanzi a Dio, e che avrebbe potuto salvare la vita di mio marito con una parola, con un cenno della mano. Egli è stato l'assassino, il boja del povero Peppe!

—Non parlate così, sora Lucia, altrimenti scappo via, e non ritorno più. Non posso tollerare che in mia presenza si parli in tal modo di Sua Santità. Specialmente poi, quando vengo a parteciparvi un tratto veramente angelico del suo cuore paterno.

—Che? esclamò Lucia stupita, che cosa viene a parteciparmi?

—Guardate, proseguì il prete, se avete torto d'interpretare così sinistramente l'operato del Santo Padre! S'egli non ha salvato vostro marito, gli è proprio che non poteva senza ledere la giustizia: ma il suo cuore oh! il suo cuore ne ha pianto sicuramente. E ne volete una prova? eccola appunto, è questa, che appena soddisfatta la giustizia, il suo primo pensiero è quello di correre in soccorso della famiglia del condannato.

—Anch'esso! Che buona gente! disse Lucia, sorridendo amaramente. Che gente pietosa! Non posso lagnarmi di loro! È vero che mi hanno ammazzato il marito: ma poi in compenso mi mandano del denaro!

—Non è questa veramente l'intenzione di Sua Santità, soggiunse don Omobono. La sua munificenza va più oltre. Egli ha destinati i vostri figli ad essere mantenuti ed educati a sue spese nel collegio dei gesuiti, e la bambina nell'orfanotrofio del Sacro Cuore; e voi, che sarete naturalmente stanca del mondo, potrete trovar riposo nel convento delle Carmelitane, dove potrete pregar pace all'anima del vostro sposo, e passare in santa quiete la vostra vita.

—Ciò vuol dire, esclamò Lucia, ch'esso mi offre la prigione per me e pei miei figli! Egli, che non conosce il cuore di una madre, crede che io avrei acconsentito a lasciarmi strappare i miei figli così, e vuol fare di me una monaca, e de' miei ragazzi dei gesuiti!… Ebbene, dite voi, a Sua Santità, che s'inganna, che io non so che farne de' suoi doni, che io porterò alteramente per tutta la vita il nome di vedova Monti, e che questi miei figli saranno educati ad onorare la memoria del loro padre, e a maledire i suoi carnefici, come io in questo momento li maledico!

Don Omobono non aveva petto da resistere a tanta furia, e conobbe che innanzi a quella tempesta, era forza ripiegare le vele. Si ricacciò in testa il cappellaccio, ch'era ridotto in uno stato da non dire, e infilò la porta borbottando fra i denti.

Riprese poscia la via, non già con passo allegro e frettoloso, come aveva fatto prima, ma camminando lento lento, e di sghimbescio, chè lo turbava l'idea di ritornare innanzi a padre Bindi con una prova palese della sua imbecillità, e con una solenne lavata di capo in prospettiva.

Più si avvicinava al Gesù, più avrebbe voluto esserne lontano, e gli avveniva spesso di fare, senza accorgersene, un passo innanzi e due indietro. Nemmeno la vista della finestra aperta, che indicava la morte dell'ammalato, valse a rinfrancarlo, ed esso entrò a capo chino e in aspetto ritroso nel convento del Gesù, e salì alle stanze di padre Bindi.

—Ebbene? gli chiese questi.

—Ebbene, io sono un asino, reverenza! riprese don Omobono, con quel tuono di compunzione con cui si recita il Confiteor. E vostra reverenza ha fatto male a scegliere un asino come me per una missione di tanta importanza.

—E perchè? chiese il gesuita.

Allora don Omobono raccontò come la vedova di Monti avesse respinto sdegnosamente le sue offerte, tacendo però le frasi ingiuriose da lei proferite contro la santità del Beatissimo Padre, frasi ch'egli non avrebbe ripetute per tutto l'oro del mondo. Confessò ch'egli non aveva saputo trovare l'eloquenza necessaria per persuadere quella donna; e facendo quella esposizione, il povero prete faceva seguire ogni parola del suo discorso da una piccola pausa, nella quale pareva che ripetesse mentalmente: mea culpa, mea culpa!

Giunto alla fine, egli si aspettava una grandine di vituperi, o per lo meno una patente di bestia in tutte le forme, come gli era avvenuto di riceverne spesso da' suoi superiori ecclesiastici in circostanze di molto minore importanza.

Niente di tutto questo: il padre Bindi accolse con aspetto benigno, e quasi quasi con un risolino di compiacenza, la narrazione del prete; e quando questi ebbe finito:

—Bravissimo! egli disse stringendogli una mano. Vedo ch'ella ha benissimo compreso la sua missione, e l'ha eseguita precisamente in quel modo che si aspettava da lei.

Don Omobono rimase a bocca aperta.

Padre Bindi proseguì:

—Era da prevedersi che quella donna avrebbe rifiutato le nostre offerte. Eh! naturalmente il mal seme delle opinioni perverse si è trasfuso da suo marito in lei. Essa vorrebbe educare i figli coi medesimi principii libertini, i quali produrrebbero per essi la rovina del corpo e la dannazione dell'anima: il male di questa vita e dell'altra. Ma noi non possiamo permettere la perdita di queste creature, non possiamo tollerare ch'esse vengano allevate con delle idee contrarie ai santi principii della Chiesa Romana. E perciò bisogna ricovrare quelle anime benedette sotto il patrocinio della Santa Chiesa. E se la madre si oppone, ebbene lo faremo anche suo malgrado: la prima madre è la Chiesa. Dunque, don Omobono, noi faremo in modo che quei piccini siano portati nel santo asilo che li aspetta: e la madre, siccome bisogna pensare anche all'anima sua, sarà ricoverata anch'essa nel convento delle Carmelitane.

Quelle belle parole, proferite dal gesuita con tutta l'unzione della pietà e l'effusione della carità, volevano dire che si sarebbero strappati gli orfanelli di Monti dal seno della loro madre per farne dei monaci, e si sarebbe rinchiusa la loro madre in un convento, come in una prigione perpetua. Tali erano le benigne intenzioni del governo romano riguardo la famiglia del condannato.

—Noi dovevamo, riprese Bindi, provare colle buone maniere. Se la vedova Monti aderiva al nostro caritatevole invito, tanto meglio, allora ci avrebbe risparmiato le misure energiche alle quali, nel suo medesimo interesse, ci troviamo ora astretti di ricorrere. Ma, siccome quella donna ostinata, quella peccatrice indurita respinse la mano diretta a soccorrerla, così sarà necessario di adoprare per forza quei mezzi che devono condurre lei e i suoi figli sul cammino dell'eterna salute.

Don Omobono guardava maravigliato il reverendo padre, che seguitava a parlare. Il povero prete non comprendeva perchè mai si facessero a lui quelle confidenze.

—Potrebbe avvenire però, continuò il gesuita, e lì stava senza dubbio il nodo dell'affare, perchè così parlando esso piantò gli occhi in faccia a don Omobono in modo significante: potrebbe avvenire che la vedova Monti cercasse di fuggire, opponesse resistenza, e dovessero nascere scandali, calunnie. La cosa deve dunque condursi segretamente, e con tutta prudenza. Ed ecco come convien fare. Qui sta, e accennò i cassetti dello scrittoio, un passaporto regolare per quella donna; ella, don Omobono, glielo recherà, e le dirà, che non avendo essa accettato le offerte generose di Sua Santità, è invitata a lasciare lo Stato. Essa accetterà con gioia, entrando naturalmente la partenza ne' suoi disegni. Però, per vidimare il passaporto, dovrà presentarsi alla Direzione di Polizia; ora la Direzione sta sull'avviso, e quando essa si presenterà, sarà introdotta in una vettura chiusa, e senz'altro verrà condotta al convento delle Carmelitane. Assicurata così la madre, i figli verranno senza resistenza guidati al loro destino.

—Io dunque devo…

—Non far altro, che porgere amorosamente questo passaporto alla vedova Monti: il resto verrà da sè.

—Ma…

—Prenda dunque, e rifletta all'importanza di questo incarico.

Padre Bindi, consegnandogli il passaporto, licenziò don Omobono, e questi si avviò per le scale.

XLI

Eroismo di don Omobono.

Se il lettore si chiedesse perchè mai gli astuti gesuiti affidassero quell'incarico a un uomo, che aveva dato proprio allora una prova palmare di dappocaggine, facile è la risposta. Ciò ch'essi volevano, era di evitare la pubblicità, gli schiammazzi, che non si parlasse del fatto, e nessuno sapesse più nulla della donna e dei ragazzi. Così speravano che i figli della vittima, invece di crescere vendicatori del padre, divenendo gesuiti anch'essi, avrebbero un giorno maledetto la sua memoria. Ora, per condurre Lucia nel tranello, nulla valeva meglio della nota bonarietà del prete di vettura. Il dono che le veniva da lui non poteva tornarle sospetto in modo alcuno, ed essa sarebbe caduta sicuramente nell'agguato che le si tendeva. Avevano poi creduto necessario avvertirlo della trama, perchè sapesse regolarsi in conformità: e d'altra parte il suo carattere di sacerdote timido e pauroso, escludeva la possibilità di un tradimento. Tutto doveva adunque andare, secondo essi, per lo meglio.

Avevano fatti i conti senza il cuore di don Omobono; sì, questo cuoruccio, sebbene rincantucciato e impicciolito dalle frequenti paure, batteva ancora in un angolo di quel petto scarno e incavato. Il buon pretucolo si sentì rimescolare tutto all'idea di quel tradimento inaudito, che pareva al gesuita cosa tanto piana e naturale, da non farne nemmeno soggetto di discussione. D'altra parte però, l'obbedienza ai superiori ecclesiastici, in nome dei quali padre Bindi gli aveva parlato, sembrava a quell'omiciattolo, ch'era la genuflessione incarnata, una ineluttabile necessità. Combattevano dunque aspramente nel suo interno due principii, che la Chiesa Romana pone sempre in lotta fra loro: il sentimento del cuore, e il dovere dell'obbedienza passiva.

Per quanto il velo dell'ipocrisia avesse ravvolte le intenzioni dei gesuiti sulla superstite famiglia del condannato, quelle intenzioni dovevano apparire alla mente ingenua di don Omobono ciò che erano realmente, cioè, infamie belle e buone. Disporre dei figli contro il volere della madre, carcerare per tutta la vita una povera donna, di null'altro colpevole che di amare la sua prole e d'esser devota alla memoria di suo marito; trarla in inganno con un'offerta mendace, e farle trovare l'ultima rovina là dove le si prometteva salvezza, sono delitti che nessuna religione può giustificare, e contro essi si ribellava, suo malgrado, la coscienza di don Omobono.

Ne veniva di conseguenza, che se fece a lenti passi la strada che lo condusse al Gesù, ora poi non sapeva decidersi in nessuna maniera a imbroccare la via che doveva condurlo a Trastevere. Sostava a ogni tratto, retrocedeva a modo dei gamberi, cambiava strada, faceva strane giravolte, e chi l'avesse osservato e seguito, avrebbe creduto che gli fosse dato volta al cervello.

Finalmente, quando Dio volle, pose il piede sulla soglia della casetta, come sulla vetta del Golgota, sospirando e travolgendo gli occhi.

Lucia, meravigliata del suo ritorno, gli chiese che cosa gli recasse.

—Una buona notizia, disse don Omobono, col fare di chi trangugia un boccone amaro.

—A modo dell'altra? In tal caso, la tenga per sè.

—No… prendete.

E senz'altre parole, che troppo gli costava il parlare, le porse il passaporto traditore.

—Oh, bravo! esclamò Teresa; questo sì, ch'è un regalo che mi piace; e la ringrazio, don Omobono, e Dio le ne renda merito. Guarda, Teresa, un passaporto per andarmene dagli Stati del Papa. Io ritornerò a Fermo, e anche tu ci verrai. Ritornerò a Fermo! chi me l'avesse detto ritornare senza il mio Peppe… il mio Peppe, finito a quel modo!

Così dicendo, la povera donna diede in uno scoppio di pianto, che le sollevò il cuore: erano due giorni che non poteva più piangere.

Poi corse ad abbracciare ad uno ad uno i suoi piccini.

—E io vi condurrò in salvo, miei cari, diceva intanto. Finchè stavamo qui, io temeva per voi altri; pareva che un funesto presentimento mi avvertisse di qualche male che vi sovrastasse. Ma ora, grazie a Dio, potrò condurvi meco; andremo insieme dove si respira aria libera e si dormono i sonni tranquilli. Presto, presto, non tardiamo un momento. Teresa, aiutami a riempiere questa cassetta, e poi…

—Ma prima…, soggiunse don Omobono, parlando a stento, come se un nodo gli avesse serrata la gola. Prima bisogna… che voi andiate in persona alla Direzione di Polizia… per la vidimazione del passaporto, altrimenti…

—Ebbene, vado subito. Attendi ai ragazzi, Teresa. Ritorno in un batter d'occhio. Ogni ora che rimango in Roma, mi pare un secolo. Pare che il terreno mi bruci sotto i piedi. Dammi lo sciallo. Grazie anche una volta, don Omobono.

E Lucia si avviò rapidamente verso la porta.

Il povero prete non ne poteva più; la fiducia di Lucia, la sua gratitudine, le espansioni del suo amor materno, erano altrettanti colpi di pugnale per lui, che sapeva d'esser venuto a far la parte di Giuda. E quand'essa, dopo aver baciati un'ultima volta i suoi figli, si avviò rapidamente, tenendo fra le mani il passaporto, egli non resse più, e la richiamò, gridando:

—Lucia, aspettate!

—Che cos'è? cosa vuole?

—Per quanto amate i vostri figli, non andate alla Direzione di
  Polizia.

—Ma perchè?

—Quel passaporto è un inganno.

—Che cosa dice?

—Non mi chiedete altro. Salvatevi, fuggite, se potete, ma non fate uso di quel passaporto: quello è il segnale per farvi arrestare, per portar via i vostri figli.

—Ah! gridò Lucia, correndo a raccogliere i suoi figliuoli in un gruppo, che abbracciò in ginocchio.

—E lei me l'ha portato! disse poscia verso don Omobono.

—Fui costretto! me l'avevano comandato! Ma io, no, non mi sento la forza di tradirvi, povera donna; facciano pure quel che vogliono, mi chiudano a San Michele, mi taglino anche la testa, ma io voglio salvare l'anima mia.

Bisogna credere che don Omobono fosse arrivato a un grado supremo di esaltamento, per lanciare quella eroica sfida alla morte, e più ancora per cercare la salvezza dell'anima fuori dei precetti de' suoi superiori.

L'eroismo di don Omobono fu la salvezza di Lucia Monti e de' suoi figli, ed esso la sconta tuttora colla reclusione in un convento di capuccini, dove però, a dispetto del castigo, esso comincia ad ingrassare.

Lucia e la sua fedele Teresa poterono, coll'aiuto di un travestimento, fuggire a tempo dalla Roma dei preti, e portare a salvamento anche i bimbi.

Quella buona famiglia si trova adesso nella patria di Giuseppe Monti, confortata dalle consolazioni dei concittadini e dal compianto di tutta la nazione.

La povera madre di Gaetano Tognetti ha raggiunto il figliuolo!

————

La Corte di Roma si è macchiata di nuovo sangue. Essa ha affrettato il giorno della sua caduta e il trionfo della libertà.

Abbiamo accennato di volo nel capitolo X alla catastrofe di casa Ajani, nella quale i Romani si batterono disperatamente contro i soldati del Papa: una donna generosa fu sgozzata co' suoi figli, e molti altri furono fucilati, dopo fatti prigionieri, dagli zuavi.

Questo fatto diede origine ad altro processo, definito colla condanna a morte di due cittadini romani, Giulio Ajani e Pietro Luzzi, la qual pena fu poi commutata, in seguito alla intercessione di re Vittorio Emanuele, in quella dei lavori forzati a vita. Le più scrupolose ricerche ci pongono in grado di fare interessanti e curiose rivelazioni intorno all'andamento di questo processo, non meno importante di quello che s'intitola dal nome degl'infelici Monti e Tognetti.

Ajani e Luzzi, vittime illustri, languono tuttora nella galere del
Papa-re.

APPENDICE

STORIA SUCCINTA DELL'INSURREZIONE ROMANA

Dacchè la nazione italiana per mirabile forza degli uomini e degli eventi, dopo tanti secoli di schiavitù e di divisione, potè dirsi libera e unita, un sentimento unanime, spontaneo, interpretato da un voto del Parlamento nazionale, volle e gridò Roma capitale d'Italia.

Una necessità storica e politica, dettò quel voto, e mantenne costantemente fisso nell'animo degli Italiani il desiderio di aver libera dal giogo dei preti la propria capitale. E quando le provincie venete furono anch'esse liberate dallo straniero, e cessò quell'incubo del quadrilatero, che pesava su noi come un'eterna minaccia, e quando mancò al re di Roma il sostegno delle armi francesi, quel desiderio divenne più irresistibile e veemente. Parve venuto il momento di redimere l'antica regina, di rivendicare la capitale d'Italia, e gli sguardi di tutti si volsero su Roma.

Questa opportunità fu sentita, egualmente dai Romani, i quali decisi ad affrettare il giorno del riscatto, fino dall'aprile 1867 costituirono un centro d'insurrezione, che fu rappresentato in Firenze dal centro di emigrazione sotto gli auspici di Garibaldi.

I concerti e i preparativi del movimento durarono tutto l'estate, fino a che nel 17 settembre, il generale Garibaldi, nel quale si accentravano le speranze della liberazione di Roma, comparve a Firenze manifestando apertamente l'intenzione di operare per quello scopo supremo.

Nei giorni seguenti apparvero le prime schiere d'insorti nelle provincie soggette al dominio pontificio, e per entrare in azione aspettavano forse la venuta di Garibaldi, designato naturalmente qual duce di quell'impresa. Ma il Generale, che il 22 settembre era partito da Firenze per Arezzo, e, oltrepassata quest'ultima città, procedeva verso il confine romano, veniva arrestato ad Asinalunga per ordine del ministro Rattazzi: e in pari tempo una nota del governo italiano, spiegando quella misura, disapprovava gli atti di Garibaldi. Esso dopo essere stato rinchiuso per due giorni nella fortezza di Alessandria fu condotto a Caprera.

A Firenze, a Milano, a Napoli e nelle altre città principali, del regno imponenti dimostrazioni popolari protestarono contro l'arresto del generale e in favore del movimento romano.

Nel giorno 30 di settembre, non ostante la mancanza di Garibaldi, scoppiò la rivolta nella provincia di Viterbo. Il fatto più importante di quel giorno fu la presa di Acquapendente, dove quaranta gendarmi rimasero prigionieri degli insorti.

A Bagnorea in uno scontro che durò due ore i pontifici sono battuti; così pure a Otricoli. Il movimento si propaga a Orte e a Ronciglione, convergendo verso Viterbo. La rivolta si estende in pari tempo nei monti di Bolsena, Soriano e Caprarolo.

Frattanto il comitato d'insurrezione rivolge un appello ai fratelli italiani, chiedendo il loro soccorso; e insieme agli emigrati romani, che si affrettano a rientrare nel loro paese, dei giovani animosi d'ogni parte d'Italia corrono ad ingrossare le file degli insorti. Garibaldi tenta anch'esso di accorrere in loro ajuto, ma avendo lasciato Caprera il 2 ottobre, viene arrestato in mare, e ricondotto in quell'isola.

Nella città di Roma la Giunta Nazionale Romana che precedentemente vi aveva dirette le dimostrazioni, nazionali, credendosi incompatibile coi nuovi avvenimenti si era ritirata fino dal 21 settembre; e nella direzione del partito liberale erano subentrati i capi-sezione dell'associazione nazionale, i quali al 27 dello stesso settembre avevano diretto un proclama al popolo romano, perchè si tenesse pronto al movimento insurrezionale. Ora allo scoppio della rivolta viterbese la direzione dei moti rivoluzionari, fu assunta in Roma da un comitato di salute pubblica. Il governo papale intanto procedeva a perquisizioni ed arresti senza fine, i quali cominciati il 30 settembre proseguirono non interrotti nei giorni seguenti.

L'insurrezione procedeva; non passava giorno senza che avvenisse qualche scontro, ora a Nerola, ora a S. Lorenzo, e al Pianale, e a Corneto, dove furono battuti gli zuavi del papa. Fu contrario alle fortune della rivolta il combattimento di Bagnorea del 5 ottobre, nel quale 350 insorti attaccati da 1200 papalini, dopo avere strenuamente combattuto, sopraffatti dal numero, furono astretti a ripiegare nei boschi di Goti e di Sipicciano, lasciando nelle mani degli zuavi cento prigionieri, che vennero tradotti nelle carceri di Civitavecchia.

Una brillante rivincita fu presa nel giorno seguente a Monte Rotondo, dove la squadra comandata da Menotti Garibaldi battè e respinse quattro compagnie di zuavi, e occupò quel paese.

L'insurrezione si estende sempre: le schiere degli insorti si spiegano nelle vicinanze di Frosinone, nei boschi sopra Monte Fiascone, e lungo la linea dell'Appennino, mentre una squadra importante tiene la campagna presso Velletri. Nelle scaramuccie di Corese e di Mentana i pontifici hanno la peggio: le schiere dei volontari occupano Nerola, Vicovaro, Ferentino, e i loro sforzi si dirigono verso la capitale. Menotti Garibaldi con cinquecento giovani si spinge fino a venti miglia da Roma. Gli zuavi che lo attaccano sono battuti e respinti fino a Montemaggiore, dove si fortificano. Nel giorno 13 ottobre gli stessi zuavi sono nuovamente sconfitti dalle schiere di Menotti a Montelibretti.

Nei giorni seguenti le squadre di Nicotera e di Ghirelli si congiungono a quelle di Menotti che arriva fino a sei miglia di distanza da Roma.

Così procedendo le cose degli insorti, e avvicinandosi essi alle porte della città, il Senatore di Roma presenta al Pontefice un indirizzo con cui dodici mila cittadini romani domandano, che s'invochi l'ingresso delle truppe italiane; ma l'astuta Curia, che sapeva di poter contare sull'appoggio francese, respinge sdegnosamente la domanda dei sudditi romani. Infatti in quel giorno medesimo, 18 ottobre, l'inviato francese aveva assicurato il governo papale che non gli sarebbe mancato l'appoggio della Francia.

Nel giorno 21 di quel mese riesce a Garibaldi di lasciare Caprera e raggiungere gl'insorti; la sua presenza infonde nuovo spirito in quei valorosi, che si accingono al supremo cimento.

In tale situazione la città di Roma non può più restarsene inoperosa. Sebbene stremata delle forze liberali, per le precedenti emigrazioni, e per le continue e raddoppiate carcerazioni, sebbene soffocata dalla sterminata immigrazione cosmopolita che fece delle sue sacre mura il recinto della reazione, sebbene avviluppata nelle spire della polizia, e del clericalismo, essa sente il dovere di partecipare alla lotta, come che sia, a costo di rimanere schiacciata; e si dispone a quella insurrezione, alla quale se mancarono le armi e le fortune non difettarono il coraggio e la costanza.

Il giorno che il comitato romano d'insurrezione aveva destinato all'azione era il 22 di ottobre, l'ora del cominciamento le 7 di sera.

Una fatalità, dalla quale ebbero principio i disastri di quella rivolta, e divenne la causa principale del rovescio totale, fu la perdita del deposito di armi e munizioni, che il comitato superando infinite difficoltà aveva adunato fuori di porta San Paolo. Quelle armi deposte nella vigna Matteini dovevano essere introdotte a forza per la porta San Paolo, al momento d'incominciare la lotta. Disgraziatamente la polizia pontificia ebbe a scoprire in tempo quel deposito, e alle ore 5 e un quarto, cioè quasi due ore prima dell'ora fissata, una colonna di pontifici composta di una compagnia di zuavi e di mezzo squadrone di gendarmi a cavallo moveva ad attaccare la vigna Matteini per impossessarsene.

In quel momento alla vigna non si trovavano che sette od otto individui lasciati a custodia delle armi. Il resto della gente destinata a trovarsi in questa posizione, circa 200 giovani scelti, era stata o arrestata o costretta a retrocedere nell'uscire dalla porta San Giovanni, l'unica aperta in quel giorno. Lottare contro un numero così soverchiante di nemici pareva follia. Tuttavia, prima d'abbandonare la casa furono scambiati da una parte e dall'altra alcuni colpi.

Intanto che fuori di Roma le armi andavano perdute, quei di dentro, ignari del fatto, alle sei e mezza, ora stabilita, assalivano audacemente il corpo di guardia alla porta San Paolo, se ne impadronivano, l'abbruciavano, e l'aprivano.

Ma atterrata la porta, invece di trovare gli amici, trovarono i nemici. Era la colonna reduce dall'impresa della vigna Matteini, e contr'essa sostennero l'urto, costringendola a ripiegare.

Di più, attaccarono il picchetto di guardia della polveriera vicina, e lo fecero prigioniero.

Non fu che alle 9 e mezza di sera che una forte colonna nemica ritornò all'attacco e potè ricuperare porta San Paolo, mentre gl'insorti ripararono, alcuni nelle vigne vicine, altri sull'Aventino.

Una colonna di circa 800 giovani, fiore di Roma, occupando tutto il lungo tramite di vie che da porta San Paolo va lungo la Marmorata fino alla Bocca della Verità, ed a piazza Montanara stava aspettando le armi per lanciarsi secondo i punti designati nell'azione; ma inermi, circondati in brev'ora da un fitto cordone di truppa, dopo aver ricevuto di piè fermo il fuoco nemico, sopraffatti dal numero, dovettero darsi prigionieri.

Ben duecento giovani romani andarono a stipare le già popolate prigioni della tirannide pontificia.

Fallito il tentativo nella vigna Matteini e porta San Paolo, il difetto di armi paralizzava ormai l'azione di tutta quell'altra parte di popolo, che da piazza Montanara e dalle vie circostanti aveva per principale obbiettivo la presa del Campidoglio.

Il Campidoglio, che fin dalle ultime ore del giorno non pareva guardato che da un picchetto di pochi uomini, apparve improvvisamente occupato da una compagnia di cacciatori esteri, che stava nascosta nel palazzo dei Conservatori, sicchè quando gl'insorti aprirono il fuoco e tentarono salire la scalinata, furono respinti da una vivissima fucilata, che ne rovesciò parecchi sul terreno.

Tuttavia, ad onta del fallito tentativo di sorpresa, e quindi della sfavorevole posizione nella quale si trovavano gl'insorti, muniti di pochi fucili e di bombe Orsini, tennero fermo per qualche tempo, e risposero arditamente al fuoco del nemico arrecandogli sensibili perdite, fra le quali un capitano di gendarmi ucciso.

Anche dal lato del Foro Romano buon numero di popolani tentò occupare il Campidoglio, salendo dalla parte di rupe Tarpea e dell'arco di Settimio Severo.

Trovarono quegli sbocchi fortemente occupati, e sebbene minacciati alle spalle dai cacciatori esteri della vicina caserma, sostennero animosi gli attacchi del nemico, che al pari dei Romani lasciò sul terreno buon numero di morti e feriti.

In piazza Colonna la fazione di guardia venne uccisa, parecchie bombe furono esplose, ma fatalmente il deposito di revolvers destinato ad armare gli insorti che dovevano attaccare il comando di piazza ed il palazzo di polizia a Monte Citorio fu scoperto e sequestrato nel momento appunto che si doveva farne la distribuzione. Non fu più possibile nemmeno impegnare il conflitto, e forti pattuglie di cavalleria e fanteria dispersero gli assembramenti facendo numerosi arresti.

Nello stesso tempo avveniva l'esplosione della mina ch'era stata sottoposta alla caserma Serristori occupata dagli zuavi pontifici. Una parte di quella caserma crollò seppellendo alcuni soldati nella ruina.

Nel giorno seguente accadeva un altro grave infortunio per la causa dell'insurrezione. I prodi fratelli Cairoli, saputo il bisogno d'armi in cui si trovavano i Romani, avevano stabilito di portare con altri cinquanta compagni un buon numero di fucili dentro le mura di Roma. Quegli animosi avevano presa posizione sui monti Parioli, nella vigna Glorio fuori di porta del Popolo, circa a due miglia di Roma, e attendevano il momento propizio per introdursi nella città, quando alle ore 4 di quel nefasto giorno 23 il loro asilo fu scoperto. La vigna Glorio venne assalita da cinquecento zuavi, che combatterono dieci contro uno, e i magnanimi compagni difendendosi eroicamente furono sopraffatti dalla forza preponderante.

Percossi dal cumulo di tanti rovesci, agitati dal sospetto che il tradimento si fosse già insinuato nelle loro file, i Romani non deposero il pensiero della resistenza. Quanti patrioti potevano sottrarsi alle prigioni accorrevano presso il comitato dicendo: «Bisogna continuare a qualunque costo.» E i Romani continuarono a protestare collo spargimento del proprio sangue contro l'abborrito governo del papa.

La sera del 23 imbruniva appena, quando a San Lorenzo e Damaso una compagnia di antiboini che traduceva un drappello di prigionieri romani e garibaldini venne attaccata dal popolo, in parte disarmata, e costretta a lasciare i prigionieri.

Molte altre pattuglie venivano nello stesso tempo assalite con bombe all'Orsini verso piazza di Pasquino, Santa Lucia della Chiavica, alla Trinità dei Pellegrini, ai Monti, ed in altri luoghi.

Alla caserma di Sora i soldati tumultuarono, atterriti dal sospetto che fosse minata, ed il popolo inerme che trovavasi nelle vicinanze, venne preso a fucilate. Parecchi caddero vittime, fra le quali una donna.

Per la città cresceva l'agitazione; la polizia faceva arresti in massa, le porte erano barricate e munite d'artiglierie, i ponti sul Tevere minati, tutti i posti raddoppiati, pattuglie a piedi e a cavallo in moto giorno e notte; piazza Colonna, piazza del Popolo, il Campidoglio, il Pincio, il Quirinale, tutte le posizioni strategiche erano occupate da forti colonne di truppe d'ogni arma; la circolazione per la città difficile di giorno, pericolosissima di sera; Roma dall'imbrunire in poi deserta.

Era lo stato d'assedio di fatto: insidioso, mascherato, senza proclamazione, senza norme, più pericoloso e terribile di qualunque altro; ma era quello che giovava al governo pontificio per opprimere Roma nelle tenebre, e strombazzare fuori per la credula Europa che Roma era tranquilla e il governo sicuro.

Ma alla fine il crescente pericolo lo costrinse a levarsi la maschera.

Il 24 ottobre, a mezzogiorno, il generalo Zappi proclamò ufficialmente lo stato d'assedio per Roma e suo territorio, e il disarmo generale.

La proclamazione aveva la data in bianco, prova che da molto tempo era preparata, e che non si osava pubblicarla.

Era la prima sfida aperta dal governo papale al popolo romano, e ad essa fu data conveniente risposta.

Nella casa dei signori Ajani, vasto lanificio in Trastevere, alcuni animosi andavano faticosamente raccogliendo armi e munizioni, nell'intento di adoperarle per un nuovo tentativo che si ordiva.

In mezzo a questi preparativi, la polizia, avutone sentore, alle due antimeridiane del 25 si presentò con grande apparato di gendarmi e zuavi onde intimare la consegna delle armi e la resa.

Alla minacciosa intimazione, risposero coi revolvers, e li respinsero. Possedevano solo 28 fucili e 20 bombe Orsini, erano 50 contro un battaglione di zuavi, a cui tutta la guarnigione pontificia poteva andare da un istante all'altro in soccorso.

La lotta era disperata, e non restava loro altra certezza di vittoria che quella del martirio.

Lo accettarono, ma per quattro ore vendettero cara la loro vita, e seminarono di corpi nemici la contrada.

In alcune case vicine a quella Ajani il popolo tentava ogni mezzo onde portar aiuto ai difensori. In mancanza d'armi, rovesciava sul nemico quanto gli veniva alle mani: tegole, mattoni, masserizie. Alla fine il numero prevalse, e gli zuavi penetrarono nella casa.

Allora fu un duello corpo a corpo, uno contro dieci, e le donne davano l'esempio.

Una romana, Giuditta Tavani, con un bambino in braccio, e incinta da sei mesi, lottando eroicamente coi revolvers contro il nemico irrompente, ferita da molti colpi di baionetta, fu alla fine colpita da una palla nel mezzo del petto e spirò l'anima virile.

Nello stesso momento cadeva estinto presso di lei un figlio di 13 anni, e veniva trucidato il bambino.

La lotta durò accanita di stanza in stanza, di piano in piano, finchè divenuta impossibile la resistenza, cominciò la strage.

Gli zuavi non accordarono quartiere ad alcuno: uomini, donne, fanciulli, quanti si trovavano, combattenti o inermi nella casa, furono passati a fil di baionetta.

Intanto prima di sera il popolo tentava accorrere da ogni parte in aiuto dei combattenti, ma tutte le vie e le comunicazioni erano chiuse da un fitto cordone di truppa; circa un migliaio di uomini circondavano il campo di quell'eroica difesa.

Basterebbe questo fatto, iniziato e compiuto dai soli Romani, per dimostrare che fra Roma e il papato sorse una barriera insormontabile; basterebbe il sangue degli sgozzati di casa Ajani per consacrare la Corte di Roma ad un odio immortale.

Nei successivi giorni, 26, 27, 28 e 29, continuarono su varii punti gli assalti alle pattuglie e gli scoppii di bombe Orsini. Gendarmi, zuavi, antiboini, erano pugnalati; il popolo, giunto alla disperazione, si vendicava come poteva.

Frattanto Garibaldi spingendosi verso Roma, riportava il 25 ottobre la splendida vittoria di Monte Rotondo, prendendo ai pontifici 200 prigionieri e tre cannoni. Nei giorni seguenti nuovi trionfi segnalano l'avanzarsi dei garibaldini che inseguono i papalini fin sotto le mura di Roma. Già Garibaldi dal casino di San Colombo in vista della città dice ai Romani di tenersi pronti alla riscossa, quando il giorno 30 le truppe francesi comandate dal generale De Failly sbarcano a Civitavecchia, e alle ore 3 pom., di quel giorno medesimo entrano in Roma il 1.° e il 7.° di linea, seguiti poco dopo dal 29.° e da altri reggimenti.

Questo fatto doveva schiacciare quel resto di energia che ancora rimaneva ai Romani, però prima di ripiegare la vinta ma non domata bandiera della sacra rivolta, il popolo romano volle ancora dar segno di sè.

Gli pareva che il ritorno dei Francesi, codesto nuovo insulto ai patti giurati, al diritto, all'onore, codesta nuova violenza usata dalla nazione madre delle rivoluzioni alla più giusta delle rivoluzioni, codesto nuovo misfatto del cesarismo alleato del papato non dovesse passare senza una nuova protesta di sangue e che fosse giusto castigo alla vanità militare dei soldati della Marsigliese che il loro cammino fosse seminato di romani cadaveri caduti per la libertà sotto il piombo clericale.

Così un pugno di risoluti, tentando rinnovare alla villa Cecchini Mattei a Sant'Onofrio l'impresa fallita in Trastevere, attaccati da due compagnie di zuavi si difesero disperatamente fino a sera, finchè divenuto vano il resistere accettarono la morte. Fu questo lo spettacolo cui assistette la Francia dell'89 reduce in Roma il 30 ottobre 1867.

Così la sola città di Roma dal 22 al 30 ottobre, per esprimere e suggellare il proprio voto, per sgombrare dalla mente degli illusi ogni idea di conciliazione, e di transazione, diede alla causa italiana oltre cinquanta morti, un centinajo di feriti, e ottocento carcerati.

La sanguinosa epopea doveva avere un triste eppur glorioso scioglimento a Mentana. Garibaldi, che dopo l'intervento francese aveva riconosciuta l'impossibilità d'impadronirsi di Roma, partiva da Monte Rotondo con 5000 uomini e cinque cannoni alle ore 12-1/2 del 3 novembre, e moveva verso Tivoli per volgersi al confine ed entrare nel regno. Oltrepassata di poco Mentana, la truppa garibaldina fu assalita da preponderanti forze di pontifici e resistè bravamente. Alle 2-1/2 la posizione era ancora di Garibaldi; fu allora che sopraggiunsero i Francesi, e portando nella bilancia tutto il peso dei loro fucili chassepots, decisero della giornata. I garibaldini furono astretti a ritirarsi innanzi a un numero più che doppio, lasciando sul terreno 250 caduti!

La storia ha registrati questi fatti, distribuendo l'onore e l'infamia a cui spetta.

SUNTO DELLA RELAZIONE FISCALE NEL PROCESSO MONTI E TOGNETTI

Nel santuario della giustizia incomincia a farsi luce sui fatti orrendi che col pretesto di libertà e dell'unità italiana, bruttarono Roma di rovine e di stragi nella sera memoranda del 22 e nei giorni seguenti dell'ottobre 1867.—La rivoluzione fu vinta dalla fedeltà valorosa delle truppe del papa, e per le misure prudenti prese dal suo governo.

È provata la connivenza prestata nei moti di Roma e delle provincie, alle bande garibaldine dal governo di Firenze, che acconsentì agli ufficiali dell'esercito regolare di capitanarle nella invasione del piccolo territorio pontificio, ed a concorrere colla persona alla rivoluzione interna di Roma. La quale, già preparata dalle varie fazioni di guerra combattute nelle provincie, e fin quasi alle porte di Roma, scoppiò la sera del 22 ottobre per opera di forastieri, non ajutati dal vero popolo romano, e subito vinta e repressa dal valore delle truppe papali.

Il processo, dà piena confermazione delle cose anzidette, ma indica altresì che taluno degli onorevoli deputati al parlamento italiano, per non essere da meno dei capi invasori, suoi colleghi, Garibaldi, Acerbi e Nicotera, venne alla direzione e si pose alla testa della sommossa, che ad ogni costo volevasi suscitare in Roma, e dopo avere, d'accordo con emissari e con nuovi ed antichi felloni emigrati romani approntate armi d'ogni ragione, non si peritò di vilmente ricorrere ai tradimenti coll'apprestare mine a caserme di militari pontificii, e col dare opera che si facesse saltare in aria una delle polveriere di Castel Sant'Angelo a strage, distruzione e desolazione di Roma.

Mentre le provincie erano messe a fuoco e sangue dai perfidi invasori, Roma, che giusta i preconcetti disegni avrebbe dovuto insorgere, stavasene salda, quieta, imperturbata, pronta bensì agli eventi, fidente e stretta al suo amato sovrano. I membri del sedicente Comitato romano davansi bene attorno a fare proseliti, ma, gli sforzi non riuscendo alla vastità dell'impresa scellerata, fu duopo muovessero da Firenze uomini sperti delle rivoluzioni: ed ecco venire alla spicciolata un buon numero con passaporti regolari sotto mentiti nomi, fra i quali primi e più capaci e influenti Luigi Castellazzo, pavese, Francesco Cucchi, bergamasco, deputato al Parlamento e colonnello garibaldino, ed altri ancora insieme ad un Giuseppe Ansiglioni, emigrato romano, tutti ufficiali di Garibaldi, e ad un Giulio Silvestri, ufficiale nell'esercito italiano, destinati a coadiuvare il Cucchi, capo supremo della impresa. Dessi, giunti in Roma, si affiatarono coi caporioni settarii romani, essendo di essi primi e più intraprendenti Cesare Perfetti, Giovanni Borzelli e Filippo Fioretti, i quali avevano ubbidienti altri ugualmente pronti e faccendieri.

Allo intento delle mire rivoluzionarie facevano ostacolo le truppe straniere al servizio della Santa Sede, e di preferenza gli animosi zuavi. Castel Sant'Angelo, baluardo del Vaticano, ben guardato e difeso, non offriva modo ad aversi con un colpo di mano. Quindi il pensiero infernale di ricorrere al tradimento minando caserme, inchiodare i cannoni del forte nel momento dell'azione, farne scoppiare le polveriere, lanciare bombe all'Orsini, a strage de' zuavi, uccidere i più zelanti degli ufficiali d'artiglieria.

All'uopo accordarono uomini esperti dei luoghi, e risoluti ad agire; degli artiglieri subornarono alla fellonia sei bassi ufficiali.

Gli emigrati Ansiglioni e Silvestri trassero a loro l'ingegnere Giuseppe Bossi, il quale assunse l'incarico di esplorare le caserme, e scegliere i luoghi opportuni ove collocare le mine. Lo coadiuvarono i muratori Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, i quali di notte tentarono varie esperienze inutilmente per trovar modo di introdurre barili di polvere ne' sotterranei della caserma Serristori. Fu dovuto rinunziarvi ed attenersi invece al partito di aprire con chiave falsa un locale terreno della stessa caserma, collocarvi due barili di polvere ed appiccarvi fuoco. Lo scoppio di essi dovea ancora servire di segnale allo scatenarsi della rivoluzione; e così fu.

Per la mina della caserma di Cimarra, ove stanziano i legionari d'Antibo, si ricorse allo spediente di far prendere in affitto da un Augusto Ammaniti alcuni sotterranei a contatto col muro posteriore di essa caserma; vi si tentarono gli apparecchi opportuni, ma non riuscirono.

Un Filippo Fioretti intanto riusciva a sedurre con danaro e con promesse lusinghiere di avanzamenti militari quattro marescialli, due brigadieri ed un milite comune di artiglieria, che gli giurarono ajutarlo nell'opera d'inchiodare i cannoni, ed in ciò che venisse imposto dalle circostanze della rivoluzione.

Così disposte le cose, andavasi incontro al momento della gran lotta. Roma per altro, confidente negli aiuti di Francia, per resistere all'urto dei nemici interni ed esterni, faceva sforzi inauditi, ma non le fu conceduto sfuggire ai mali di una rivoluzione, alla quale spingevano i garibaldini che romoreggiavano per ogni intorno, e gl'intendimenti dei rivoluzionari, che presero maggior ansa, quando nel Moniteur del 22 ottobre apparve la notizia della sospensione dell'imbarco delle truppe francesi a difesa della Santa Sede. A questa novella, assicurato il Governo italiano, aprì liberamente i confini a migliaja di garibaldini, onde si riversassero sullo Stato pontificio, e fece giungere a Cucchi l'ordine che Roma onninamente la sera stessa insorgesse.

Come si fu un tal ordine diramato ai capi agitatori, corsero dessi a darne gli avvisi ai loro cagnotti, a fermare gli accordi, a fissare le poste, a dispensare le armi. Roma nelle ore pomeridiane di quel dì formicolava di sgherri forastieri misti a bordaglia, che mai non manca in popolose città, presta sempre a scelleratezze, ove trovi di avvantaggiarsene. Il Governo messo sull'avviso, vegliava; i corpi d'ogni arma stavano all'erta, di guisa che, quando nella sera alcune bande d'insorgenti, le quali si avvolgevano con armi in varii punti della città e fuori della porta San Paolo, vollero misurarsi co' soldati, furono per ogni dove battute, vinte o disperse.

La sola fazione che rispose ai biechi intendimenti, degna certamente de' suoi autori, e di che si compiacque il Cucchi e mandò a farne i suoi rallegramenti, fu la mina fatta scoppiare sotto la caserma Serristori. Per essa crollò da cima a fondo con ispaventevole detonazione una parte del fabbricato, e furono travolti a precipizio e sepolti fra le rovine parecchi militari zuavi, e la più parte italiani, dei quali pochi andarono illesi; dodici rimasero chi più chi meno gravemente feriti, per modo che in progresso di tempo tre ne perirono, ventidue furono estratti morti: una famigliuola che a caso andava per via, marito, moglie ed una fanciulla di presso a sei anni, restarono anch'essi sotto le macerie; la sola donna ne potè essere tratta semiviva e pesta; le case circostanti allo scoppio orrendo, ed al crollo violento patirono tale una scossa che si screpolarono in più parti, andarono in frantumi porte e finestre.

Nel dì seguente i cittadini, inorriditi alla vista di tanto disastro, maledicevano gli autori di così nero e barbaro tradimento. Ma i settari, freddi, per nulla scorati delle iatture e dello smacco della sera innanzi, sicuri degli appoggi esteri, pieni di dispetto e di odio, che mai non muore nei loro petti, sghignazzavano, si preparavano alla riscossa, intendevano alla vendetta. Infatti nella notte appresso mandavano a nascondere nei già detti sotterranei attigui alla caserma di Cimarra un barile di polvere, ed avvertiti del danno che ne sarebbe avvenuto piuttosto alle case sottostanti della via Paradisi: non importare, dicevano, purchè si spargesse il terrore e lo spavento, ed in questo si potesse sorprendere ed assaltare i legionari d'Antibo; pressavano, onde accadessero orrori in Castel Sant'Angelo; ma già prima della sera della sommossa gli ufficiali superiori di artiglieria, avuto sentore delle ree macchinazioni e della infedeltà del loro maresciallo Zaffetti e di talun altro, avevano fatto sgombrare della polvere la polveriera designata n. 5, e con bel garbo avevano tenuto lontano i sospetti, e resili incapaci di male oprare. Qua e là in più luoghi, per mantenere l'agitazione, si esplodevano bombe: nel Trastevere il dì 25 si riunivano armi e molte persone nella casa abitata da certo Giulio Ajani, e s'ingaggiava una fiera lotta colla truppa, e ne succedevano ferimenti ed uccisioni, di che darà conto una separata processura all'uopo intrapresa: nel giorno 30, due ore dopo entrati i Francesi in Roma, veniva insidiosamente assalita una mano di zuavi presso la villa Cecchini, e ne conseguiva un conflitto con morti da ambe le parti.

Vinto finalmente a Mentana Garibaldi, e datosi alla fuga, i suoi ne seguirono le peste; Roma fu purgata da esterni ed interni agitatori. E quando si fu in grado di ordinare l'arresto di coloro che avevano preso parte morale e materiale nell'apprestare le mine, e nelle ree macchinazioni e conati su Castel Sant'Angelo, i capi principali Francesco Cucchi, Giuseppe Ansiglioni e Giulio Silvestri aveano già provveduto alla loro salvezza, tornandosene là di dove erano venuti, e si constatò la fuga e contumacia di Cesare Perfetti, di Filippo Fioretti, di Angelo Tognetti, di Augusto Ammaniti, di Giovanni Borzelli e di Camillo Brica. I soli che caddero in potere della giustizia furono: Luigi Castellazzo, Giuseppe Manti, Giuseppe Bossi, Gaetano Tognetti, Benedetto Raffo, Rocco Dimaggio, Mariano De Mattias, Tito Sernicoli, Carlo Palanca, Francesco Zaffetti, Pietro Santarelli, Claudio Marchesi, Giuseppe Moresi, Vincenzo Patrizi, Antonio Zamperini, Achille Semprebene e Luigi Claudili. Fra questi arrestati confessarono la propria e l'altrui colpabilità con qualità scusanti Giuseppe Monti, Giuseppe Bossi, Tito Sernicoli e Francesco Zaffetti.

Il titolo principale di accusa è Di promossa insurrezione contro il Sovrano ed il Governo con apprestamento di mina alla caserma Serristori con omicidi e ferimenti. La prova generica dell'esistenza del titolo d'accusa la offre il fatto stesso dello scoppio della mina avvenuto nella sera del 22 ottobre, e del rovinio di un angolo della caserma che ne seguiva coll'eccidio e col ferimento di molti individui. Catastrofe orrenda che veniva pietosamente narrata da Giuseppa Cecchi, vedova di Francesco Ferri, la quale per caso vi fu travolta insieme col marito ed una figlietta di sei anni, che vi rimanevano estinti, mentre dessa ne riportava gravi ferite.

Alcuni zuavi sopravvissuti deposero «che partita da non molto una loro compagnia per alla volta di San Paolo, i rimasti attendevano chi ad una, chi ad altra faccenda, quando circa le ore sette di sera fu udita una subitanea e cupa esplosione con tale un percuotimento e rovinio, che sembrò la caserma inabissasse e profondasse capovolta; i lumi si spensero tutti; un fitto polverio invase ogni parte: al terrore succedè momentanea e profonda quiete. Chè, smarriti i militi a quella inaspettata scossa, incerti di che si minacciasse a loro danno, stettero per alcun tempo in forse: indi animosamente, brancicando e barcollando nel buio, diedero di piglio alle armi, vennero all'aperto in sulla strada.» Tutto era tenebre e mortale silenzio; una polvere densissima spinta dal vento trascorrea vorticosa largamente intorno; l'angolo esterno della caserma, fra la via de' Penitenzieri e l'altra di Borgo Vecchio, caduto a grande spazio in ruina: di là a quando a quando uscivano lamentosi e fiochi gemiti perdentisi fra i sassi e i massi delle diroccate mura. In quelle distrette corsero eglino a guardare i passi; accesero torcie a vento, si munirono di attrezzi, che in sull'atto poterono avere acconci a scavare, si provarono di soccorrere i loro commilitoni feriti o morenti, traendoli di sotto alle macerie: nel che, coadiuvati più tardi dal benemerito Corpo de' Vigili, riuscirono a camparne parecchi, non senza esporsi a gravi pericoli. Perchè, solleciti tutti più dell'altrui che della propria salvezza, operarono spesso in quella notte sotto mura squarciate e cadenti, con sovra al capo lunghe travi penzolanti, tra fucili carichi colle casse scavezze, facili a scattare al più lieve urto, e sopra mazzi di cartucce qua e là seminati, cui una scintilla sola bastava ad accendere. Ventiquattro furono i morti scavati dalla notte anzidetta sino al giorno 2 di novembre, dei quali 22 zuavi e due borghesi, cioè l'operaio sunnominato Francesco Ferri e la sua figliuoletta Rosa; tredici i feriti, compresa la donna Giuseppa, moglie del Ferri. Di questi, tre cessarono di vivere in progresso di cura. Onde, si ebbero a lamentare danni più o meno gravi a dieci persone e la perdita di ventisette individui.

La direzione generale di polizia nei giorni 7 e 28 novembre 1868, per due diverse relazioni di due che sostennero le prime parti nella rivoluzione, venne istruita di tutto il piano di essa, come concepita, da chi diretta, a quali fini, e dei particolari più minuti di esecuzione: rivelazioni che poi furono ampiamente confermate dalle confessioni giudiziali di Monti e degli altri ugualmente confessi. Le seguenti parole attribuite al Castellazzo, e che leggonsi in aggiunta a quelle rivelazioni, meritano per la importanza loro di essere riferite, siccome quelle che confermando la lealtà onesta del Governo italiano, rivelano per nuova prova di fatto la concordia fraterna e politica per la quale gl'Italiani sono congiunti fra di loro.

«Garibaldi aveva ordine di non entrare in Roma, ma solamente costeggiare le mura per incoraggiare l'insurrezione; ed allorchè fosse stata questa superata, sarebbe entrata in Roma la truppa regolare italiana col pretesto di mettere l'ordine; se fosse entrato prima Garibaldi, si temeva non di lui, ch'era di perfetto accordo con Rattazzi, ma dei molti che lo circondavano del partito mazziniano, che aveano dichiarato di fare un plebiscito in senso repubblicano, giacchè Mazzini medesimo avea dato l'ordine di proclamare la repubblica italiana; ed in Roma a tal uopo vi erano gli emissari di Mazzini e di Rattazzi, i quali contrastavano a vicenda coi partiti esistenti in Roma.»

Nel piano pratico della rivoluzione venne avvisato di attentare alla vita dei militari esteri, massacrandoli in massa col mezzo, consentito in tempo di guerra, delle mine, lo scoppio delle quali, abilmente disposte, avrebbe dovuto farne saltare in aria le caserme con quanti vi sarebbero dentro. Ed una tale idea suggeriva ai capi mestatori di rivoluzione la necessità in cui erano di far molto e presto, imperocchè mancavano le armi e le munizioni, e così erano una fiaba le provviste imponenti che tanto vantava da anni il celebre Comitato nazionale romano, e per le quali parimente avea succhiate alla buona fede dei creduli rilevanti somme di danaro.

E un fatto attestato persino nei rapporti militari del generale pontificio ministro Kanzler, che alla rivoluzione romana mancarono le armi promesse dal Comitato nazionale, in cui sconsigliatamente fidando migliaia di giovani, si esposero contro le truppe regolari, nella sicurezza, tradita, che sarebbero loro state distribuite le armi al momento d'incominciare la lotta; invece furono inermi ed abbandonati! Niuno al mondo potrebbe accusarci di mendaci nel ricordare che facciamo questa verità dolorosa pur troppo di tradimenti, ma storica.

Risoluto il mezzo delle mine, studiando nella carta topografica di Roma, si designavano i luoghi ove poterle, con gli ostacoli minori possibili, collocare, ed ove stazionassero soltanto gli esteri, osservando per altro che i circonvicini non ne risentissero danno. I progetti si fermarono sopra le due caserme di Serristori e di Cimarra, tenuta dai zuavi la prima, dai legionari di Antibo la seconda.

Inutile qui sarebbe ripetere i varii tentativi, i molti sperimenti, sempre riusciti invano, per minare, secondo le regole dell'arte, le due caserme. Interessa bensì a sapersi, che i più attivi negli studii e nella direzione pratica di esse furono i due romani Giuseppe Ansiglioni e Giulio Silvestri, dichiarati assenti, con l'ingegnere Giuseppe Bossi, romano, e Giuseppe Monti, muratore di Fermo, intrepido esecutore, entrambi arrestati. Lo scoppio di una mina «era addivenuto necessario, essendosi divulgato che un gran rimbombo dovea essere il segnale della rivolta, stabilita per le ore otto circa di detto giorno 22 ottobre prossimo passato» ed inoltre la sfida erasi già data, gittato apertamente il guanto.

Del modo come fu eseguita la mina a Serristori dirà, meglio che ogni altro studiato racconto, la confessione genuina dell'esecutore Giuseppe Monti, il quale fu per accidentalità arrestato nelle ore pomeridiane del 24 ottobre nell'osteria dell'altro arrestato Domenico Lucci, dove si condusse la forza per requisire alcune accette nascoste in cantina e preparate per la sommossa.

Monti avea avuti poi abboccamenti coll'Ansiglioni, col Silvestri, e con un tal Perfetti, e talvolta erasi incontrato col Cucchi. Ansiglioni lo istigava con le minaccie, e lo allettava con promesse le più vantaggiose. Nel giorno 22 ottobre fu combinato che egli, all'operazione nella caserma Serristori, avrebbe avuti a compagni un tal giovine Peppe, e due soldati di linea, dei quali uno caporale. (Forse erano due congiurati vestiti alla militare). Peppe era quegli che doveva aprire la porta, di cui avea falsificata la chiave, d'un locale terreno sottostante alla caserma Serristori: i due soldati lo avrebbero aiutato portandovi dentro due barili di polvere: che, presi dalla bottega d'uno stagnaro al vicolo della Campanella in Panico, il Monti dovea collocare al posto e incendiare. La divisa militare serviva ad allontanare i sospetti, perchè quel locale terreno era tenuto ad uso di magazzeno del Corpo pontificio del Genio. Infatti, Monti, Peppe ed i due veri o finti soldati, andarono al luogo designato; a Monti vennero date da un incognito circa tre libbre di polvere sciolta per versarla in un foglio di latta, preparato dall'Ansiglioni, per mettere in comunicazione i due barili, i quali presi su dai due soldati li adagiarono in una vettura di piazza che avevano a loro disposizione, e, salitivi sopra i quattro congiurati, si diressero verso la caserma Serristori. Si fermarono sulla vicina piazza di Scossa-Cavalli. Soltanto Monti discese dal legno, diede al vetturino uno scudo, gl'inculcò di accostarsi bene presso la caserma Serristori, alla seconda porta.

Il giovane Peppe aprì in un batter d'occhio; i soldati del pari in un batter d'occhio portarono dentro i barili colla polvere; il legno partì. Avvisato Monti, che attendeva sulla piazza Scossa-Cavalli, essere tutto pronto, e che a lui toccava di fare il resto, chiese se coi barili avessero messo dentro il foglio di latta che era nel legno, al che risposero averlo dimenticato. I soldati suggerirono che si poteva supplire con un mattone, dei quali ve n'era un mucchio nell'interno del locale, ed il giovane Peppe andò a prendere un pezzo d'esca lungo circa un mezzo palmo. Egli, Monti, entrò nel locale apertogli, chiuse dietro a sè la porta, accese un fosforo, e colla languida luce del principio di esso e dello zolfo adocchiò dove stavano i due barili colla polvere e dove i mattoni; smorzò il fosforo per impedire che si accendesse lo zeppo e spandesse troppa luce; trascinò i barili fino nel mezzo della munizione, li congiunse palpando così all'oscuro, ne congiunse le bocche in modo che poco distassero l'una dall'altra. Sempre col sussidio del fosforo appena acceso e quasi sull'istante smorzato, raccolse un mattone dal mucchio che avea visto, lo collocò tra una bocca e l'altra dei barili; raccolse colla mano dal barile pieno (l'altro ne conteneva appena un terzo) la polvere accostandola all'orlo del mattone, versò su questo l'altra polvere che avea ricevuto, vi applicò la striscia di esca, fermandola con un sassetto perchè non cadesse, accese un ultimo fosforo, e con questo l'esca, e via richiudendo la porta.

Quindi andato sulla piazza Scossa-Cavalli, lo seguirono i soldati ed il giovine Peppe, e lì per lì consegnò ad uno dei soldati scudi trenta in boni di Banca per dividerseli insieme!!… Lasciati sulla piazza anzidetta gl'indicati tre individui, senza sapere dove si recassero, si diresse egli verso Borgo Vecchio, e, come fu alla metà di quel borgo, intese lo scoppio dei barili di polvere dalla parte della caserma Serristori, che fece rintronare tutti i luoghi circonvicini; al che fu preso da forte terrore. L'orologio segnava le ore sette in punto, e conobbe che dalla esplosione all'avere appiccato il fuoco all'esca ci saranno corsi circa cinque minuti. La notte questo sciagurato, cui mancò il coraggio di trattenersi nella propria casa in Trastevere, la passò in un lettino della casa alla Rotonda, ove alloggiava l'Ansiglioni, il quale nella mattina seguente del 23 ottobre gli regalò scudi dieci!! Giuda vendette Cristo per trenta danari; Ansiglioni, in nome della redenzione d'Italia una, della vita di ventisette infelici, sepolti nelle rovine di Serristori, e del ferimento di dieci altri, ricompensa quattro sciagurati con dieci scudi cadauno!!… È vero però che fu consolato dai complimenti, di gratulazioni del generale, il quale fecegli ancora dire che si era preparato un felice avvenire, non avrebbe più campato di braccia, avrebbe fatto il padrone, non gli sarebbe più mancato niente. Ed in fatto dall'ottobre 1867 ad oggi, la sorte di questo disgraziato è invidiabile!… e l'avvenire di lui lo sarà più ancora!…

Basta alla storia della catastrofe funesta della caserma quanto venne narrato sin qui. Rendere conto minuto della parte che vi presero gli altri correi sarebbe una ripetizione superflua. La confessione dell'ingegnere Bossi, che tutta si aggira sugli studii e sulle sperienze per tentare con risultato giammai ottenuto le mine, se prova la correità sua e di altri negli attentati e nella rivoluzione, non isparge di maggior luce la verità delle cose esposte.

Per questo delitto della mina Serristori, la legge chiama a sindacato: Francesco Cucchi di Bergamo, Giuseppe Ansiglioni e Giulio Silvestri, romani (dichiarati assenti), Cesare Perfetti, Angelo Tognetti, Giovanni Borzelli, romani (contumaci), e gli arrestati Giuseppe Bossi, Gaetano Tognetti, romani, Giuseppe Monti di Fermo, Giuseppe Moresi, Achille Semprebene, romani, e Luigi Claudili di Piedilugo.

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Questo capolavoro d'ipocrisia e di malafede non ha bisogno di commenti. Già accennammo le mire che si era proposto il giudice inquirente nell'opera tenebrosa di questo processo.

Si voleva dimostrare che il movimento romano non fu opera dei cittadini di Roma; ma fu importato dal di fuori; si voleva dimostrare che gl'imputati non furono spinti ai loro atti dall'idea patriottica ma sibbene da un vile interesse.

Diretto a tali intenti il giudice si valse dello sterminato potere che gli accorda la procedura inquisitoria, contorse i fatti, li ravvolse nelle ambagi di capziosi ragionamenti.

E come potevano gl'inquisiti difendersi da quelle insidie? quale garanzia accorda loro la legge sotto il governo del Papa?

Nessuna idea di giustizia e d'equità nemmeno subordinata ai fini preconcetti entrò nella compilazione del processo e della relazione, che n'è il riassunto. Spargimento di sangue doveva esservi ad ogni costo, e come il carnefice appresta e forbisce il suo arnese di morte, così il giudice pontificio ordì la rete delle sue disquisizioni per modo, che almeno due degli imputati vi lasciassero impigliata la testa.

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La decapitazione di Monti e Tognetti, eseguita dalla ghigliottina pontificia, salutò un grido unanime d'indignazione da un capo all'altro d'Italia. Questo grido risuonò anche in Parlamento per la bocca dei rappresentanti del popolo. La riparazione di quell'atto inumano fu espresso innanzi alla Camera dei deputati dallo stesso presidente del Consiglio dei ministri generale Menabrea, con queste parole che acquistarono una speciale importanza per la persona che le pronunziava.

«Signori. La notizia della esecuzione del Monti e del Tognetti ci ha dolorosamente contristati. Noi speravamo fino all'ultimo istante che, un atto di clemenza avesse risparmiata la vita a quei due infelici; e lo credevamo tanto più, che già da più di un anno essi erano trattenuti nelle carceri; e che il fatto per cui furono condannati, aveva un carattere politico, perchè esso era principalmente diretto contro quella truppa straniera, che più d'ogni altra aveva suscitato lo sdegno del popolo romano.

«Crediamo che quest'atto sarà considerato come una inutile vendetta, e non servirà certo a rialzare il prestigio di un'autorità, la quale non si regge che per le influenze straniere.

«Il ministero, o signori, non ha trascurato nulla di quanto era nelle sue facoltà, per fare in modo che fossero sottratti all'ultimo supplizio quei due infelici; questo non occorre dirlo; ciò che mi preme di rilevare è, che questo fatto, per parte del governo pontificio, fu un grandissimo errore politico, e questo errore dimostrerà al mondo che nell'interesse della pace, e nell'interesse stesso della religione, è necessario che si muti una condizione di cose che conduce a così fatali risultamenti».

Alla riprovazione espressa dal presidente del Consiglio dei ministri si associava con voto unanime la Camera dei deputati.

Più splendida manifestazione ricevè la indignazione di tutto il paese mediante la sottoscrizione che in ogni parte d'Italia si aperse a favore delle superstiti famiglie di Monti e di Tognetti. A tale protesta concorse già un numero immenso di firme e si raccolse una somma considerevole a sollievo di quegli infelici.

FINE

SECONDO ROMANZO DELLA SERIE

I PROCESSI DI ROMA

SVELATI AL POPOLO DA GAETANO SANVITTORE ROMANO

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GIUDITTA TAVANI

RIVELAZIONI SUL PROCESSO AJANI E LUZZI

Questo romanzo sarà composto di dodici Dispense precise dello stesso formato del presente, con accurate incisioni.

INDICE

         I. Il prete di vettura Pag. 3
        II. Il segreto di una madre » 7
       III. Il principe Rizzi » 11
        IV. Le due cugine » 14
         V. Gli spasimi di don Omobono » 18
        VI. Giuseppe Monti » 25
       VII. Monte Aventino » 30
      VIII. L'insurrezione » 36
        IX. La caserma di Serristori » 39
         X. Ultimi sforzi! » 43
        XI. L'osteria della Sora Rosa » 47
       XII. L'arresto » 52
      XIII. Il giudice processante e l'avvocato » 55
       XIV. Il prelato e la principessa » 58
        XV. Due madri » 61
       XVI. Le Carceri Nove » 66
      XVII. Il secondino Petronio » 69
     XVIII. L'inquisizione del processo » 73
       XIX. Il figlio » 79
        XX. La rivincita di un prelato » 85
       XXI. Il giudice processante » 89
      XXII. Per salvarlo » 92
     XXIII. Scene preliminari » 95
      XXIV. Una seduta della Sacra Consulta » 100
       XXV. La condanna » 106
      XXVI. L'áncora di salvezza » 110
     XXVII. La festa da ballo » 114
    XXVIII. Spionaggio » 119
      XXIX. A Civitavecchia » 121
       XXX. Tradimento » 125
      XXXI. Sua Santità Papa Pio IX » 130
     XXXII. Scene intime del Vaticano » 134
    XXXIII. Il Papa nero » 137
     XXXIV. La firma del Papa » 140
      XXXV. Raffinamenti gesuitici » 143
     XXXVI. La vigilia dei condannati a morte » 147
    XXXVII. Il martirio » 151
   XXXVIII. La moglie e la madre » 154
     XXXIX. Don Omobono » 157
        XL. Reti gesuitiche » 160
       XLI. Eroismo di don Omobono » 164

APPENDICE

       Storia succinta dell'insurrezione romana » 171
       Sunto della relazione fiscale
          nel Processo Monti e Tognetti » 180

  Il medesimo Editore CESARE CIOFFI ha pubblicato la 19.^ma
  Dispensa del bellissimo Romanzo Storico contemporaneo

I MOHICANI DI PARIGI

DI

ALESSANDRO DUMAS (padre)

CENTESIMI DIECI ALLA DISPENSA.

  Le Dispense saranno al maximum cento circa, e ne usciranno
  una o due alla settimana.

  La vendita è affidata ai rivenditori dei Giornali e Librai di
  tutte le Città d'Italia.

Chi volesse associarsi a pagamento anticipato dell'Opera intiera dovrà inviare al succitato Editore L. 9, e riceverà franco a domicilio le Dispense già uscite e regolarmente le altre che usciranno, e alla fine dei due Volumi riceveranno le due elegantissime coperte per la legatura.

NOTA DI TRASCRIZIONE: sono state apportate le seguenti correzioni:

non si tratta che di una semplice dimostrazione[dimostazione], pel cuore non v'è distinzione di gradi[grandi] sociali: che la polizia è prevenuta, che il governo[gogerno] si è tardato anche troppo. L'insurrezione[insurrerezione] esprimeva tutta l'energia d'un'anima[d'un anima] virile. e si era limitata a comporre innocue[inocue] dimostrazioni per la porta San Paolo sbarrata e occupata[ocpata] È indescrivibile[indescrivile] lo scompiglio che si produsse suo rappresentante. Gli empi satelliti[satteliti] dell'inferno ha tenuto però nell'istruttoria[istrutoria] che è l'unico motore di tutto quell'immenso[quell'im-l'immenso] nuove torture adottate dalla chiesa romana in sostituzione [sostizione] E il corteo si avviò lentamente[lantamente] verso la piazza i fanciulletti[fanciuletti], che in sulla sera avevano ottenuto de' suoi autori, e di che si compiacque[compiaque] il Cucchi progresso[progesso] di tempo tre ne perirono, Carlo Palanca, Francesco[Franceso] Zaffetti, Pietro Santarelli, ed ove stazionassero[stanzionassero] soltanto gli esteri,