The Project Gutenberg eBook of Il peccato di Loreta

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: Il peccato di Loreta

Author: Alberto Boccardi

Release date: November 4, 2008 [eBook #27158]

Language: Italian

Credits: E-text prepared by Braidense, Carlo Traverso, Claudio Paganelli, and the Project Gutenberg Online Distributed Proofreaders Europe

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL PECCATO DI LORETA ***



E-text prepared by Braidense, Carlo Traverso, Claudio Paganelli,
and the Project Gutenberg Online Distributed Proofreaders Europe
(http://dp.rastko.net)



 


 

 

 

ALBERTO BOCCARDI

Il Peccato di Loreta



ROMANZO



MILANO
Fratelli Treves, Editori

1896.



PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.

_______________
Tip. Fratelli Treves.



IL PECCATO DI LORETA


I.

La vecchia casa, appartenente da oltre settanta anni alla famiglia dei Sant'Angelo, è sita in una delle più belle e pittoresche posizioni dell'alto Friuli.

L'edificio a due piani, fabbricato nello stile de' villini veneti, è posto sul colmo di una collinetta in mezzo alla vallata ubertosa, che si stende da Tricesimo a Cividale. La vista che vi si gode è stupenda: dal grande balcone della sala al primo piano l'occhio abbraccia una distesa larghissima di paese: di fronte, nella lontananza, ritto sulla curva cerulea dell'orizzonte, l'angelo d'oro che si libra sul castello di Udine; poi, mezzo nascosti tra le spalliere de' gelseti, o surgenti come bianche fantasie in mezzo alla vastità dei prati verdeggianti, i numerosi villaggetti, fatti di poche casipole aggruppate intorno a un campanile: Leonacco, Fraelacco, Nimis, San Pelagio, Torreano; di fianco, in una sfumatura candida, la linea serpeggiante del Torre, e in fondo, di là dai poggi di Montegnacco, il fosco profilo delle Carniche, dalle creste brulle e dentellate.

Nel paese la famiglia dei Sant'Angelo è notissima ed amata. Gente buona ed alla mano, amica del povero e dedita tutta ad un'onesta ed indefessa operosità, i Sant'Angelo hanno una storia semplice e si sono creata la loro modesta fortuna a furia di lavoro.

Dura ancora, come una simpatica tradizione nelle vecchie case del Friuli, la memoria di un Sant'Angelo, venuto alla metà del secolo scorso a stabilirsi dalle native valli del Veronese nel paese di Tricesimo. Sulla piazza della gaia borgata vi mostrano ancora una botteguccia nella quale anticamente questo Sant'Angelo aveva aperto un suo esercizio di caffetteria, divenuto in breve tempo, per la gioconda urbanità del padrone e per l'eccellenza delle bibite, ch'egli sapeva preparare, il ritrovo prediletto di tutti i maggiorenti del luogo. Il vecchio caffettiere era una figura originalissima: seduto in mezzo a' suoi avventori, pronto a fare servizio a tutti quanti, dava continue prove del suo raro criterio e dello spirito svegliatissimo. Si racconta di lui come avesse composte molte ed ardue liti, come avesse ridotto a conciliazione famiglie divise da lunghi ed atroci rancori, e ancora si ripetono certe graziose poesie in dialetto friulano, ch'egli improvvisava nelle ore d'ozio, dietro il suo banco di caffettiere, e recitava poscia agli avventori in mezzo all'ilarità generale.

Così, favorito dalle simpatie di tutti, il buon Sant'Angelo, se provvide alla sua rinomanza di valent'uomo e di giovialone numero uno, riuscì anche a mettere le basi ad una discreta fortuna. L'esercizio andava benone; subito dopo i primi anni, qualche grosso centinaio di fiorini d'argento veniva portato, a non lunghi intervalli, alla Banca di Udine; quindi alcune speculazioni, tentate con prudente abilità e riuscite in modo felice, avevano messo la famiglia in ottimo stato.

Il modesto caffettiere un bel giorno divenne proprietario di un largo tratto di terreni, sui quali era da gran tempo l'occhio cupido di molti fra i più ricchi possidenti del circondario. Il vecchietto peraltro non insuperbì, nè smise, per la mutata posizione, le sue abitudini di rigorosa economia e di assiduo lavoro. "Bisogna pensare--era una delle sue massime favorite--a quelli che ci toccherà lasciare dietro di noi!" E questi, per i quali il Sant'Angelo aveva un'adorazione infinita, erano i suoi due figli, Camilla e Giovanni: il dolce suo conforto dopo la morte, avvenuta in giovanissima età, della madre loro.

Il vecchio però ebbe da entrambi le maggiori consolazioni. La figlia andò sposa a un negoziante di panni, vicentino, tenuto in conto di uomo probo ed assestato; il figlio riuscì a compiere i suoi studi di medicina all'università di Padova, con eccellente successo. E così il brav'uomo potè chiudere tranquillamente gli occhi, pago di avere speso in ottimo modo la propria esistenza.

Giovanni Sant'Angelo, che negli anni passati a Padova in mezzo alla baraonda tanto gioconda degli studenti, aveva appreso ad amare con foga di giovane qualche alto ideale, tornato in famiglia dovette fare uno sforzo sopra sè stesso per acconciarsi a vivere nella breve cerchia di quei paeselli di campagna. C'erano laggiù tante cose che lo chiamavano: c'erano a que' tempi tante care visioni che passavano per le menti giovanili, e a Padova, nelle espansive nottate, trascorse coi compagni intorno ai tavoli di qualche osteria popolare, s'erano fatti a bassa voce, ma col sangue in tumulto, tanti bei progetti, inspirati dal più fervido e generoso entusiasmo! Che sugo c'era a trascinare la vita lì, in un paese così piccino, attendendo a formarsi una clientela di poveri contadini, e colla prospettiva così incresciosa di dover lottare chi sa quanto coi pregiudizi loro e colla naturale malfidenza, ch'essi unanimi nutrivano verso il giovane discepolo d'Igea?

Tuttavia si adattò. Doveva farlo. Suo padre, non più sano e vegeto come una volta, omai per la molta debolezza era ridotto a passare le intere sue giornate dietro il banco della caffetteria, beatificandosi nel vedere il figliuolo intorno a sè, ed esultando allorchè qualcuno veniva a chiedere per qualche urgente consultazione se ci fosse il dottore. In quell'epiteto, ch'egli pronunciava cogli occhi luccicanti d'orgoglio, pareva al povero vecchietto di raccogliere il premio di tutta la sua vita di operosità e di sacrificio. Epperò Giovanni, che amava suo padre sinceramente, non ebbe il cuore di turbargli, mostrandosi malcontento o seccato, questa serena contentezza.

Poi un altro argomento venne quasi d'improvviso ad occupare la mente del giovane. Il dottorino, andando a far le sue visite ne' paeselli vicini, s'era accorto più volte che quando passava col suo carrozzino dinanzi alle cancellate delle fattorie e delle ville, molti begli occhi di fanciulle l'avevano guardato con interesse. Poi ne' balli dell'inverno, nelle liete sagre del settembre, aveva potuto comprendere da molti indizi come ormai ci fosse più d'un cuore, di cui egli era il segreto sospiro. Ma il dottorino non lasciandosi far velo dall'ambizione, nè sedurre dalle offerte di ricchissimi maritaggi, che la sollecitudine di qualche amico gli aveva procurate, scelse a modo suo, e scelse molto bene.

Egli conobbe una ragazza povera, assai bella e molto buona, Chiara Morselli, orfana di un valoroso militare, morto al servizio del suo paese. Si prese di lei profondamente perchè ne apprezzò il carattere fortissimo. E la sposò dopo poche settimane da che s'erano incontrati.

Se mai al mondo ci fu una esistenza felice, certo fu quella del dottore Sant'Angelo e della sua compagna. V'era una così profonda corrispondenza di sentimenti in quei due cuori, che non il più lieve fatto era giunto mai a turbare la buon'armonia, della quale vivevano tanto paghi.

Dopo un anno la signora Chiara mise al mondo un bel bambino, cui fu imposto il nome di Mattia in ricordo del nonno Sant'Angelo, e pareva che ormai dopo la venuta di quella creaturina niente più dovesse mancare alla contentezza della famiglia.

Pure v'erano dei momenti in cui sulla fronte del dottore Giovanni un'improvvisa mestizia si addensava. Avveniva ciò non di rado, quando restavano insieme alla moglie, nel loro tinello confortevole a leggere i giornali che giungevano da Venezia e da Milano, od a commentare le frasi laconiche e sibilline di qualche scritto pervenuto da amici lontani. In que' momenti nel dottore Sant'Angelo la calma abituale spariva. A tratti, interrompendosi nella lettura fatta con accento commosso, il buon dottore stringeva convulsamente le pugna e qualche parola fiera gli usciva con impeto dal labbro.

Erano tempi di febbre quelli. L'alba del 1848 era sôrta con gli indizî primi di que' grandi e generosi commovimenti, onde l'Italia doveva essere scossa in questo memorabile anno. Di città in città, preparato lentamente, suscitato dalla paziente opera de' comitati segreti, rafforzato dalla fervida parola de' poeti, correva un fremito d'impazienza e d'entusiasmo. Giovanni Sant'Angelo anche nella quiete del suo borgo natío, anche tra le dolcezze della sua placida casa, non aveva dimenticato i suoi sogni di studente: non aveva dimenticato il patto d'amore e di fede, nel quale s'eran stretti laggiù, con tanta concordia, egli ed i suoi compagni di studio.

Fido alle sue promesse, incrollabile nel fervore della sua valida anima d'italiano, Giovanni Sant'Angelo non aveva cessato neppure per un momento di cooperare attivamente alla causa comune. Nella sua casa, libera ancora da ogni sospetto, molte e molte riunioni s'erano fatte d'animosi patriotti. Là, fra le pareti discrete e sicure, dove tanto sorriso di onestà regnava, molti ed audaci piani vennero concertati. E il buon Sant'Angelo, come in ogni incontro aveva offerto con alta cordialità la sua casa a ricetto di chi ne avesse avuto bisogno, anche e più volte non s'era fatto pregare ad offrire materiali soccorsi, che dava con larghezza abbondevole, superiori d'assai a quanto il suo stato glielo avrebbe permesso.

In tutto ciò--questo era un argomento pel quale la sua compagna gli diveniva ognora più diletta--la signora Chiara l'aveva continuamente aiutato. Non debolezza femminea in lei: non quelle timide apprensioni che le donne, per indole loro e forse loro malgrado, hanno quasi sempre dinanzi ad ogni fatto il quale serri una minaccia per la tranquillità de' loro cari. Chiara Sant'Angelo, di innata indole gagliarda, era cresciuta alla scuola di esempi fortissimi. Nella sua famiglia aveva imparato come si debba amare la patria. Suo padre gliene aveva lasciato colla propria morte l'esempio maggiore.

Ma vennero giorni cattivi. E furono durissime le prove a cui l'animo de' coniugi Sant'Angelo venne sottomesso.

Il dottore Giovanni, mosso da troppo imprudente zelo, lanciatosi con foga malcauta in un arduo e complicato piano, che per la stessa sua audacia presentava ben poca probabilità di riuscita, si trovò improvvisamente sotto il peso di una gravissima accusa d'alto tradimento. Era a Verona con la moglie quando gli giunse da parte fidata l'annuncio che un mandato di cattura era stato spiccato contro di lui. Depositario di moltissime carte importanti, dalla scoperta delle quali sarebbero stati compromessi pericolosamente non pochi amici suoi, egli comprese la gravità della sua posizione. E pensò alla fuga, Ma come? Ostacoli immensi vi si opponevano. Eludere le ricerche rigorose e sollecite, che sapeva incominciate, gli parve follia. E sua moglie? Ed il figlio? Per un istante disperò e si credette vinto.

Ma non calcolò sulla generosità di un amico, il conte Gottardo Polverari di Verona, suo antico ed affezionato compagno di studi, involto al pari di lui nel piano che ora stava per essere scoperto e del quale aveva avuto con qualche altro consorte la prima idea.

Il Polverari, riconoscendo, nella nobiltà del suo cuore, come più che a tutto, ad un suo malconcepito disegno si dovessero le circostanze fatali in cui si trovavano, dichiarò con disprezzo della vita che se infine aveva errato, intendeva pagare di proprio l'errore commesso. E facilitando la salvezza al Sant'Angelo perdette sè stesso. Il conte Polverari morì quattro anni dopo, lontano dalla patria, lontano dalla sua adorata famiglia, nella fortezza di Theresienstadt. Il Sant'Angelo riparò colla moglie a Ginevra, ove trasse una vita ritiratissima, attendendo quasi esclusivamente alla educazione del suo Mattia.

Fu circa dopo dieci anni di soggiorno in Isvizzera che il dottor Giovanni Sant'Angelo, assalito da un lento male mancò a' suoi cari, lasciando dietro di sè il più vivo dolore e la memoria più venerata.

Percossi da quella immensa sventura la signora Chiara e suo figlio viaggiarono qualche tempo, poi stanchi, col bisogno profondo del riposo, tornarono melanconici alla patria loro e ripresero stabile dimora nella vecchia casa dove gli attendevano tanti ricordi, grati e tormentosi per il loro cuore.

La vedova Sant'Angelo aveva ormai concentrata la propria esistenza in un unico pensiero: la felicità e la riuscita del figlio suo.

Ella non vedeva, non respirava che per il bene di lui, circondandolo delle cure più gelose, de' riguardi più attenti.

Vero angelo protettore di quel suo adorato, ella esultava al vederlo crescere sano, forte e felice.

Nè le previdenti premure materne rimasero senza frutto, chè la giovinezza di Mattia trascorse, in mezzo alle splendide campagne native, placidissima e serena, non conturbata mai nè da alcuna irrequieta aspirazione, nò da alcuna contrarietà.

Bisogni non ne avevano. Le loro terre, il piccolo patrimonio, bastavano per poter condurre un'esistenza senza sopraccapi. Poi la signora Chiara era quel che si dice una massaia coi fiocchi. Economia fino all'osso in casa; vigilanza con cent'occhi sui campi; buona con tutti, ma intransigente ogni volta che ci andavano di mezzo gli interessi, la signora Chiara valeva per dieci e non v'era pericolo che nessuno la potesse danneggiare nemmen di un quattrino.

Così, senza pensieri, senza neppure la più piccola noia inerente all'amministrazione de' suoi beni, Mattia Sant'Angelo si fece un uomo.

Il giovane, pieno d'ingegno e costretto dall'abitudine, dall'ambiente e un po' anche dall'indole propria riflessiva, si dette con trasporto agli studi. Suo padre aveva radunato nella loro casa una grande biblioteca, composta per la maggior parte di opere scientifiche, d'archeologia e di storia, ed anche aveva lasciato un ricco medagliere, cominciato ancora ne' primi anni dopo il suo ritorno dall'Università e nel quale si contavano intere e pregevolissime serie di monete, delle antiche zecche del Friuli, dell'Istria e di Venezia.

Mattia Sant'Angelo si innamorò di quegli studi. Essi gli destavano nel cuore molti e soavi ricordi. Rammentava come suo padre si facesse un orgoglio di quelle collezioni, alle quali aveva pensato persino negli ultimi tempi di sua vita, in terra straniera. E attratto sempre più dall'interesse delle ricerche, lusingato dai primi successi ottenuti, il giovane, rinunciando ad ogni altra ambizione, se ne viveva contento. In casa, nelle due ampie stanze terrene, onde vedeva tanta estensione, di bella campagna, a poco a poco, a furia di spese sapienti e di cure indefesse, si era venuto formando un vero museo.

E là, fra le vetrine, dove le vecchie medaglie diligentemente classificate posavano in file ordinate nelle loro scatoline di cartone, in mezzo a' suoi libri rari, tra le pareti ornate di armi antiche, dinanzi al suo enorme tavolo dove s'accatastavano codici e pergamene, istrumenti di saggio e manoscritti, il giovane studioso passò lunghi anni, tutelato, dalla pavida vigilanza di sua madre, contro ogni soverchia emozione.

E degli anni ne passarono molti. Ne passarono tanti che già sui capelli del Sant'Angelo--del professore Sant'Angelo, come erano avvezzi a chiamarlo in paese,--era caduta una prima brinata.

--Eh! eh! sono un vecchio oramai!--il professore diceva scherzando.--Sono un vecchio per tutti, tranne per questa mia santa mamma che adoro!

E per lei era infatti sempre come una volta, un ragazzo ubbidiente e buono, che aveva bisogno de' suoi baci, che aveva la necessità delle sue parole confortatrici, che si sentiva consolato dalla sua presenza.

A questo modo scorreva da molti anni pacifica la vita nell'antica casa dei Sant'Angelo.

Se taluno qualchevolta chiedeva al professore se egli non desiderasse nulla, se non aspirasse a qualche mutamento come infine il suo sapere, la sua bontà e la sua posizione gli avrebbero concesso di sperare, rispondeva immutabilmente levando le spalle, in atto di un filosofo timoroso delle molestie che sogliono arrecare le cose nuove:

--Mutare! Perchè? Così, accanto a mia madre ed in mezzo a' miei studi, sono tanto felice!


II.

--E dunque, Vige, siamo all'ordine?--domandò la signora Chiara affacciandosi all'uscio dell'ampia cucina, che un bel sole d'ottobre penetrando dai due finestroni spalancati allietava di festevole luce.

Vige, la contadinotta che stavasene intenta al focolare, alzò il capo dalle marmitte, in cui cuocevasi il desinare della famiglia:

--In pochi minuti, signora. E poi al mezzogiorno ci manca ancora.

--Non ci deve mancare mica molto. E sai che il signor Mattia....

--Eh! lo so che a lui l'attendere non piace....

In quel momento stesso dalla chiesa di Tricesimo uno scampanìo allegro annunciò le dodici.

--Mezzogiorno!--disse la signora Chiara.--Affrettiamoci.

La domestica allora si mise in grandi faccende intorno al suo focolare. Coll'aiuto delle molle, scoperchiò una padella e soffiato sul fumo profumato che ne uscì in una densa nube, guardò con occhio esperto se il punto di cottura fosse soddisfacente:

--È pronto!--esclamò poi.--Il professore oggi sarà contento.

E in fretta, slacciatosi il grembialone di tela bigia che aveva dinanzi, staccò da un chiodo un altro grembiale bianco di bucato, che si legò alla vita; si diè una sciacquatina alle mani in una catinella, poi soggiunse tutta sorridente:

--Ed ora appena il professore esce dal suo studio metterò in tavola.

La signora Chiara, colla tranquillità della padrona di casa che sa ormai tutto quanto bene disposto, passò nel tinello e, attendendo che il figlio uscisse dalle sue stanze, si occupò ancora a mettere in una più precisa posizione i vari oggetti sulla mensa preparata.

Ma il professore tardava.

--Viene?--domandò Vige comparendo sull'uscio.

--Ma.... non so.

--Lo chiamiamo?

--È capace d'inquietarsi.

--E intanto il pranzo ne soffre.....

La vecchia signora in punta di piedi andò allora presso un altro uscio e curvatasi, con una certa fatica, che la sua età spiegava, a guardare attraverso la toppa:

--Eh! sì! Ci pensa al desinare lui! È là a cavarsi gli occhi con le sue eterne monete!

Poi, timidamente, quasi col timore di chi sta per imprendere un atto sconsigliato, schiuse pian piano l'uscio:

--Mattia.

Il professore volse il capo.

--Oh! mamma!--esclamò sorridendo.

--Il pranzo aspetta.

--È mezzogiorno di già?

--Suonato da un pezzo.

--Eh! questo tempo che scappa così!

E si levò dal seggiolone di canna ricurva, si tolse gli occhiali che depose diligentemente sur un mucchio di carte, prese il suo fazzoletto turchino che giaceva lì accanto, e dopo avere con esso detersa la fronte tutta bagnata, venne con ciera allegra incontro alla signora:

--Scusami, la mia povera vecchietta. Eccomi qua e con una fame: con una fame che guai se il pranzo non è proprio eccellente!

Passò il braccio intorno alle spalle della madre e celiando insieme, com'era loro costume, andarono a prendere i loro posti.

Vige entrò. Coll'aria tra modesta e superba di un artista il quale presenti solennemente una propria opera che sa riuscita un capolavoro, posò in mezzo alla tavola un bel pasticcio fumante, appetitosissimo al solo guardare la sua crosta dal colore di oro.

--Benone!--esclamò il professore Mattia.--Proprio quello che ci voleva! Il pasticcio di polenta che mi piace tanto e che la Vige quando vuole sa far così bene!

--Eh! oggi poi....--rispose la servetta tutta inorgoglita dagli elogi--Agnul ha portato stamane dall'uccellanda dodici tordi così grassi e belli.... Vedrà, vedrà!

La signora Chiara tagliò il pasticcio. E il professore si mise a mangiare con grande appetito, lasciandosi sfuggire delle esclamazioni di plauso, che se facevano sorridere la signora Chiara, mandavano addirittura in solluchero la bravissima cuoca.

--Eh! mi viziate voialtre con questi bocconcini da principe. Mi viziate!

E il desinare proseguiva così, allegro. Allegro come del resto esso era ogni giorno in quella casa.

Poichè il professore in quelle ore si trasformava, e davvero bisognava sorprenderlo in tali momenti per farsi un esatto giudizio sul conto suo. Abituato a starsene tanto lungamente chiuso nel suo studio, curvato a leggere vecchi volumi, ad esaminare con la lente monete e medaglie, a classificarle per ischede con una pazienza da certosino, quando usciva di là e trovavasi presso sua madre diventava un altro uomo. Allora voleva, secondo la sua espressione, rifarsi del tempo perduto. E si divertiva a parlare di mille cose, di tutte le futilità della vita casalinga, di tutti i pettegolezzi del borgo, contento di vedere sua madre che ci prendeva interesse, che s'incaloriva nelle discussioni e si divertiva alle sue facezie.

Talora anche parlavano de' loro interessi, del raccolto sperato, de' contratti coi loro affittaiuoli: discorsi codesti a' quali il professore amava di tagliar corto: se ne intendeva così poco, c'era la mamma che faceva lei e faceva tutto tanto bene!

Più di rado assai, chè Mattia evitava con molto tatto quegli argomenti, evocavano qualche ricordo del passato. Allora la signora Chiara si faceva triste, il professore si metteva a tormentare con le dita la sua fluente barba un po' brizzolata, e finivano tutti e due per cercare cogli occhi inumiditi in alto sulla parete un'immagine seria e severa, che parea li guardasse affettuosamente giù dalla cornice di legno dorato.

Quel giorno però i pensieri melanconici sembravano messi in bando. Il professore era anche più loquace e ridanciano che non fosse suo costume. Come avviene a tutti coloro che dedican la loro vita alle minute ricerche storiche e provano un'immensa soddisfazione ne' momenti in cui riescono a sciogliere taluno di que' dubbi sottili, intorno a' quali si tormentano senza requie il cervello, quel giorno il professore Mattia sentivasi esultante. Era finalmente pervenuto a mettere in chiaro alcuni punti controversi in un lungo suo studio sulle antiche zecche di Aquileia e di Gorizia. L'opera che gli era costata cinque anni di lavoro poteva così dirsi compita. E questo, per il professore Sant'Angelo, era il raggiungimento della più cara fra le sue aspirazioni.

--Ah! mamma mia, come sto bene quest'oggi! È da un gran pezzo che non feci tanto onore a' tuoi buoni piattini, cara la mia vecchietta.

E con grande soddisfazione della signora Chiara e anche della Vige, che gli voleva un bene dell'anima, si pigliava sul piatto un'altra bella fetta di pasticcio.

Fu verso la fine del pranzo, mentre la Vige poneva in tavola un corbellino di magnifiche prugne e d'uva mora, che il professore Sant'Angelo e la signora Chiara ebbero una grande sorpresa.

Improvvisamente sui ciottoli dei cortile si udì il rotolìo di una carrozza che entrava, salutata dall'abbaiare insistente del cane di guardia.

--Oh! chi c'è mai a quest'ora?

La Vige si fece alla finestra, socchiuse le imposte verdi che in causa del sole eran unite a libro, e, data un'occhiatina al di fuori, proruppe in un'esclamazione di meraviglia:

--Guarda, guarda! Prè Letterio....

Il professore, come udendo il nome di un amico desiderato e diletto, balzò in piedi:

--Prè Letterio!

E seguito dalla mamma andò frettoloso all'uscio per incontrare il nuovo arrivato.

Intanto fuori, nel gran sole che inondava il cortile, il carrozzino erasi fermato e il piccolo Agnul, il ragazzo cui era affidata la cura della stalla, aveva preso per la briglia il cavallo. Un vecchio prete, che era solo nel carrozzino, ne discese un po' lentamente e mosse verso il professore colle braccia aperte.

Si baciarono con affetto; quindi, stretta la mano alla signora ed alla Vige, l'ospite s'avviò alla casa.

--Ma che bella sorpresa, Prè Letterio, che bella sorpresa!

--Non m'aspettavate così presto, è vero?--diceva il prete sedendo nel seggiolone che la Vige aveva rotolato per lui accanto alla tavola.--Eppure sono già sette settimane dal giorno della mia partenza.

--Perchè non scrivermi un rigo del vostro arrivo? Sarei venuto io a Udine per vedervi, Eppoi vi dobbiamo fare un grande rimprovero. Ci avete lasciato per tanto tempo senza vostre notizie....

--Eh! forza maggiore, amici miei; non certo mancanza di volere. Sono settanta suonati e un viaggio così lungo, con tanti pensieri...

--Avete dovuto affaticarvi assai?

--Sì, molto. Ma ne sono contento: ho trovato così buone accoglienze! Però quanto m'è toccato di correre in quella benedetta Roma! Da un ufficio all'altro, da una parte all'altra della città.... Certe distanze! Ma poco monta. La morale è di aver ottenuto quel che speravo.

--È una bella soddisfazione, Prè Letterio!--disse la signora Chiara.--Come i vostri poverelli vi dovranno benedire!

--Sono i miei figliuoli! Se il buon Dio mi consente di provvedere al loro bene, a me non resta altro da domandargli.

Don Letterio Prandina era un ottimo sacerdote. Ultimo discendente di una nobile e ricca famiglia di Cividale, contristato ne' suoi giovani anni da molti dolori, si era dato per vocazione al sacerdozio, consacrando a quella ch'egli intendeva come un'alta missione di d'amore, nonchè tutta la sua intelligenza bellissima, l'intero patrimonio. Compiuti appena i suoi studi sollecitò ed ottenne di andare come missionario in terre lontane e ne ritornò con molta letizia per i risultati ottenuti nel suo apostolato. Il suo libro, pubblicato intorno al '5 dai Bollandisti di Bruxelles, De missione canonica, è tuttodì ritenuto come opera di alto valore, non solo religioso, ma anche scientifico. Indi, costretto da debole salute a fermare il suo domicilio in patria, continuò a dedicare l'attivissima vita ad opere di carità, così che a lui si dovette la fondazione di parecchi tra i più utili istituti di beneficenza che conti il Friuli. In Udine aprì egli, sorretto dal peculio civico e dall'appoggio di parecchi cittadini, un Asilo per fanciulli ammalati, che funziona tuttodì egregiamente, tenuto in conto di esemplare per l'ottimo ordinamento; e fu appunto per regolare presso il governo alcune gravi questioni d'interesse, concernenti la dotazione di codesto istituto, ch'egli aveva voluto recarsi di persona a Roma.

--Dunque, Prè Letterio,--disse allegramente il professore Mattia, versando del vino nel bicchiere che Vige s'era affrettata a recare per l'ospite,--- quei signori a Roma non sono poi tanto dispettosi come qualcheduno si piace di descriverli....

--Ma che! Lasciamo gracchiare i cattivi, che ne hanno interesse! Quando stavo per partire mi avevano messo tanti scrupoli: "vedrà che butta i denari del viaggio; vedrà che col suo abito da prete non le daranno il più piccolo ascolto: vedrà questo, vedrà quello..." Vidi una cosa sola: che alle porte dove ho battuto in nome dei miei poveri, ho trovato accoglienze le più cordiali e che dal ministro, al quale ho chiesto udienza, mi vennero offerte tutte le facilitazioni possibili....

Il prete pareva soddisfattissimo nel dir queste cose, Nè il professore sembrava meno lieto di udirle a dire.

--Eh! sì,--riprese don Letterio, dopo aver aspirato con lentezza una presa di tabacco,--della gente buona ce n'è ancora. E fa bene di incontrarla in mezzo a tante amarezze che ci tocca di subire nella vita. Vedete, amici miei, anche in questo viaggio.... Ero contento, me ne tornavo felice; e proprio agli ultimi giorni....

--Vi è avvenuto qualche cosa di triste?--domandò premurosamente la signora Chiara.

--Che cosa mai?--soggiunse con pari interesse il professore.

--Sì, qualchecosa che mi rammaricò profondamente e farà dispiacere a voi pure, amici miei.

--Don Letterio, ci mettete in una curiosità!

--È un incontro che io feci otto giorni sono per un capriccio bizzarro del caso o piuttosto (si corresse il prete con una dolcezza serena nella voce) per il benefico volere della Provvidenza. Ve lo avevo detto quando partivo: nel mio ritorno avevo divisato di fermarmi qualche giorno in un piccolo luogo della Toscana a metà della strada fra Firenze ed Arezzo. C'è là un mio cugino, curato in quella pieve: non ci vedevamo da più di ventisette anni....

--Ebbene?

--Feci quanto avevo stabilito. Fui accolto a braccia aperte, come un fratello. Così contento com'ero, mi parve una vera benedizione di potermi riposare un poco senza pensieri, in quella casa ospitale, nella fresca ombra di quell'orto, che il mio vecchio amico si coltiva da sè. È un santo prete: un'anima giusta veramente, capace di qualunque sacrificio per il bene del prossimo.

--Vi somiglia, don Letterio.

--Fa il suo dovere come me: nient'altro. Ma ne raccoglie il più grande dei conforti: la benevolenza generale. Vi racconto tutto questo per venire a quanto mi preme.

--L'incontro che avete fatto, don Letterio?--chiese la signora Chiara.

--Appunto.... Fra due amici che da tanto non si sono incontrati, si hanno sempre mille cose da narrarsi!... E fu così, che tra una chiacchiera e l'altra, l'amico mio fu tratto ad espormi, non so proprio più come, anche un caso assai triste, avvenuto allora allora nel suo piccolo paese. Si trattava di una maestrina, una giovane che veniva da Vicenza e che il municipio, sulla fede di eccellenti certificati presentati al concorso, aveva assunto per la scuola popolare del borgo.... Quando ella s'era presentata--narrava mio cugino--- tutti quanti ne avevano avuta una profonda impressione. Era una povera ragazza, bellissima di volto, ma coi segni così vivi di un grande dolore da inspirare in tutti gli animi il più caldo interessamento. Seria, modesta, intelligentissima, s'era data al proprio dovere con la massima solerzia; e tanto più i conoscenti, che aveva già numerosi e buoni, si rammaricavano nel vederla sempre così sofferente. Un bel giorno corse per il paese una curiosa voce--La giovine maestra stava malissimo; era stata trovata nella sua stanza in uno stato dei più allarmanti; e fu solo per effetto degli energici soccorsi s'ella potè essere salvata da una certa morte.... Taluni vollero--e la cosa, mormorata dapprima vagamente, assunse a poco a poco una certa verosimiglianza--che si fosse trattato di un tentativo di suicìdio....

Il prete si riposò un istante, indi proseguì:

--Breve: la giovane venne salvata. Ma la malattia fu lunghissima e grave. C'era là un forte dolore da confortare, una grande miseria da lenire, e mio cugino intervenne pronto. Soccorse quella povera creatura, ch'era buona ed infelice, come meglio gli fu dato, e coi fatti e colle parole. Ella si ristabilì a poco a poco, ma il medico dichiarò ch'ella sarebbe stata ormai nella impossibilità di riprendere, senza tema di una ricaduta mortale, le fatiche dell'insegnamento. Il comune--un comunello non ricco--le elargì qualche sussidio; poi, per quanto a malincuore, dovette metterla in disponibilità....

--Povera giovane!

--Povera davvero!... Fu appunto in quei giorni, dopo averne appreso la tristissima storia, ch'io stesso la vidi in casa del mio amico. Vi era venuta a supplicarlo di raccomandarla presso a qualche famiglia di conoscenti per farle ottenere un posto di istitutrice, di cameriera.... un posto qualunque pur di vivere onoratamente. Mi fece pietà. Ben di raro ho visto una faccia più dolcemente buona e rassegnata; ben di raro intesi una parola più soave o piena di tristezza. Mi fece pietà ancor maggiore quando io seppi il suo nome....

--Qual nome?--domandò subito il professore.

--Loreta Lambertenghi.

--Loreta!--esclamò la signora Chiara con grande sorpresa.--Loreta, la figlia di Prospero Lambertenghi!

--Sì, la figlia di Prospero Lambertenghi e della povera Cannila Sant'Angelo. Ah! è stata ben fortunata la povera Camilla di morir così presto per non vedere il triste destino riserbato alla sua creatura!

--Ma dunque il Lambertenghi?

--Ha finito la sua miserabile esistenza. È morto a Sidney, in un ospitale di suore francesi, dieci mesi sono. La notizia della sua morte deve aver portato un ultimo colpo sulla salute malferma della sua sfortunata figliuola.

--Poveretta, poveretta!--sclamò la signora Chiara con accento commosso.

E un improvviso silenzio si fece fra i tre interlocutori di quella scena.

Prè Letterio aveva compreso la penosa impressione destata dal proprio racconto nell'animo del professore e di sua madre. Eglino sentivano entrambi risvegliarsi in quel momento tanti ricordi, che il tempo aveva addormentali in fondo ai loro cuori.

Dall'epoca in cui il dottor Giovanni Sant'Angelo, compromesso in complotti politici, era stato costretto a riparare in Isvizzera, pochi rapporti aveva egli più avuto colla famiglia della sorella. Col cognato, Prospero Lambertenghi, non erano mai andati d'accordo; diversità d'indole e di sentimenti gli aveva tenuti discosti. Quando, dopo sedici mesi da che il Sant'Angelo trovavasi a Ginevra, giunse la notizia che Camilla era morta, rapita in breve tempo da un fiero morbo, ci fu un momentaneo ravvicinamento de' due cognati. Allora nelle lettere, scritte da ambo le parti sotto la impressione di quella sventura, molte cose dolcissime furono dette a proposito della povera bimba, Loreta, che restava a cinque anni senza il conforto amoroso della mamma. Indi tutto cambiò. Da un lato le fortunose vicende di que' tempi, dall'altro alcune brutte voci corse sulla condotta del Lambertenghi, valser, a rimettere un nuovo gelo tra le due famiglie. Come in simili casi avviene? nè dall'una parte nè dall'altra fu più nè desiderato nè tentato un riavvicinamento, I Sant'Angelo avevano udito per mera combinazione di grandi viaggi impresi dal Lambertenghi; avevano vagamente saputo che la giovane sua figlia, uscita da un educandato, s'era data a fare l'istitutrice. Più in là, nulla. Le ultime novelle le avevano ricevute quel giorno per bocca del prete Letterio.

Dopo un lungo silenzio, la signora Sant'Angelo tornò a mormorare, come a conclusione di tutto ciò che le era ripassato nella mente:

--Povera creatura, povera creatura!

--Eh!--fe' il prete con un profondo sospiro,--sarebbe un'opera ben meritoria il porgere una mano a questa sventurata!...

Il professore, serio, colle dita sprofondate nel suo barbone, guardava fissamente la madre come per leggerle sul viso ciò ch'ella pensava.

Poi ad un tratto:

--Potendolo fare!--disse a mezza voce.--Potendolo.... sicuro!

--Potendolo, professor mio! Ma è tanto facile. Che cosa chiede quella poveretta? Ve lo dissi prima. S'accontenterebbe persino di un posto di cameriera....

--E tu, mamma, che dici?

--Che vuoi ch'io dica? Penso che, dopo tutto, quella lì è sangue nostro. È la nipote di tuo padre. Che se anche infine il Lambertenghi, che Dio lo riposi, è stato un cattivo soggetto, non è poi giusto che la figlia di lui, che non ne ha colpa nè peccato, debba soffrire a questo modo....

La vecchietta, la quale aveva messo in quella risposta tutta la focosa convinzione di cui si sentiva dominata, s'interruppe un momento guardando il figliuolo:

--Tu approvi quello ch'io penso?

--E chi mai non approverebbe i buoni pensieri che tu hai sempre, mamma.... coll'angelico tuo cuore.... La signora sorrise un poco.

--Ah! per questo sì, mi ci sottoscrivo anch'io!--intervenne prè Letterio.--E che voi, signora Chiara, e che il professore Mattia avreste pensato così, io non ho dubitato un istante. Anzi, volete che ve la dica tutta?

--Ma sì, ma sì.

--Ebbene: viaggio facendo, nel mio cervello ho architettato perfino un mio bravo progetto. Ma, badate, un progettino in tutta regola, che se mai potesse avverarsi sarebbe una cosa tanto bella.... Ve lo dico?

--Fuori, prè Letterio, fuori!

--Ecco qua. Già tante volte il professore Mattia mi aveva fatto un certo discorso: "La mamma è una donna forte, una donna che per la casa è un tesoro, ma infine cogli anni che passano avrà pure bisogno di condurre una vita un po' più tranquilla...." E poi, non una ma cento volte, un'altra cosa mi disse: "lui deve badare agli studi, deve restarsene tante e tante ore chiuso con i suoi scartafacci e le sue medaglie.... e la mamma intanto a star sola si deve pur annoiare; così, in campagna, d'inverno, avere almeno una persona amica da barattar dieci parole lavorando insieme, da farsi leggere un libro per ammazzare il tempo!..." A tutto questo io ho pensato. Se vi prendeste la povera Loreta.... Un posto qui alla vostra tavola si farebbe tanto presto. Poi, in fine di tutti i conti, meglio che un'estranea, una persona del vostro sangue.... Eh?

Il vecchio prete sostò, aprendo le braccia nell'atto di chi, avendo esposto una cosa molto logica, aspetti con tutta sicurezza la pronta adesione de' suoi interlocutori.

E la risposta non tardò.

--Certo che quanto don Letterio dice è molto giusto!--fe' il professore.--La combinazione sarebbe buonissima....

E così a furia di reticenze continuò ancora un poco, senza dare tuttavia un'esplicita dichiarazione.

Ma al prete Letterio brillavano gli occhi, perchè, conoscendo perfettamente il suo amico, comprendeva che quegli, persuaso, persuasissimo, desideroso di annuire, restava in forse unicamente per lasciare che la madre decidesse lei, come le pareva:

--Dunque, signora Chiara, che cosa vi consiglia il cuore?

--Ma! il cuore mi consiglia di offrire a quella povera creatura il soccorso che ci domanda. Se Dio vuole che così sia per il bene di lei, ch'essa venga dunque! Purchè mio figlio sia contento....

--Qua dentro la padrona sei tu, mamma. E poi, te l'ho detto già prima, tu non puoi volere una cosa che non sia bella.

Don Letterio battè insieme le palme:

--Bravi, bravissimi! È un'azione benedetta la vostra, e ne avrete il compenso. Figuratevi la gioia di quella creatura!

--Le scriverete voi?

--Immediatamente.

--E siete contento?

--Mi avete fatto il più caro dei regali per il mio ritorno.... Ed ora, una gocciola ancora del vostro buon vino. E poi in viaggio.

La signora Chiara riempì il bicchiere del prete e quello di suo figlio, ed anche nel proprio versò qualche stilla.

Ridendo tutti e tre toccarono i bicchieri.

Poi, prè Letterio risalì nel carrozzino che l'aspettava nel cortile, e, salutati gli ospiti, riprese la strada di Udine.


III.

L'arrivo di Loreta fu stabilito per l'ultima settimana di ottobre. Prè Letterio l'aveva preannunciato con una lettera affettuosissima, in cui si dichiarava addolorato di non potere, a cagione di certi gravi suoi affari, recarsi al paese per assistere alla venuta della sua protetta.

In casa Sant'Angelo già da qualche settimana era quello il discorso di tutte le ore.

A mano a mano che il giorno dell'arrivo si approssimava, cresceva la impazienza della signora Chiara. E lo stesso professore, che di solito serbava in ogni cosa la piena serenità dell'animo, non sapeva sottrarsi dal dividere la irrequietezza di sua madre, la quale per parlargli di quell'argomento aveva perfino smesso il suo abituale scrupoloso riguardo di entrare nello studio di lui, durante le ore ch'egli consacrava al lavoro.

Tale irrequietezza doveva spiegarsi assai facilmente da quanti conoscevano il modo uniforme di vita che i due Sant'Angelo conducevano da tanti anni. Soltanto che, mentre nell'animo della signora Chiara altro non era che la spinta della sua bontà e il forte desiderio di conoscere questa ignorata parente, in quello del professore era pure un dubbio molesto, sortogli involontariamente per effetto di qualche parola maligna, ch'egli aveva potuto cogliere quasi per caso sulle labbra di alcuni conoscenti.

Una sera, al Caffè della posta, un vecchio amico di casa, il conte Leonardo Mangilli, un burberaccio che godeva in paese la fama di un vero orso, mentre gli altri, venuti a conoscenza del divisamento del Sant'Angelo, gliene davano in coro gran lode, s'era lasciato scappare una delle sue solite sfuriate:

--Eh! una giocata al lotto, professore mio! Non si sa mai che numeri sortono da quella ruota benedetta. E poi io, io che orso lo sono sempre stato, a' miei parenti, peggio che al diavolo, la porta l'ho sempre serrata a triplo giro. Chi ha la pace non si muova, dice il proverbio!... E dice assai bene!

Gli altri s'erano messi a far baccano: "quello scettico del conte Leonardo aveva sempre le sue; a sentirlo pareva che ci avesse un cuore con tanto di pelo; invece...." E avevan finito per celiare tutti, compreso il conte, il quale provava una certa soddisfazione a vedere come la gente lo tenesse in fondo per un burbero benefico di quelli della vecchia commedia.

Ma il professore Mattia di coteste parole si ricordò. E quella sera, quando fu solo nel suo studio, in mezzo a' libri, in quell'ambiente tranquillo dove passava tante ore deliziose, stette a lungo collo sguardo fisso sulle pagine di un volume, aperto dinanzi a lui, vinto da una strana preoccupazione. Il proverbio che il conte aveva citato gli ronzava all'orecchio fastidiosamente.... Se, obbedendo ad un consiglio inspirato dalla bontà, avessero commesso un errore? Se per quella decisione presa con troppa sollecitudine, avessero dovuto poi subire qualche amarezza?... Fatta questa prima riflessione, una lunga catena di pensieri tristi, nerissimi, pieni di torve previsioni, si formava nella mente del professore. Vecchie storie dimenticate, nelle quali la ingratitudine umana era sorgente di dolori e di ansietà, rinascevano nella sua memoria. Di molti fatti analoghi si ricordava: amici suoi che per animo buono eran stati spinti al beneficio e ne avevano avuto pagamento colle peggiori disillusioni. Poi.... conoscevano essi abbastanza quella giovane che stavano per accogliere? Chi era? Donde veniva? Che cosa aveva nel suo passato?... È vero, Prè Letterio l'aveva raccomandata: era uomo di coscienza, e non l'avrebbe fatto senza convinzione. Ma d'altro lato non poteva essere stato tratto in inganno egli pure?... E lo afferrava quasi un pentimento e si sentiva assalito da un arcano timore pensando che sua madre avrebbe forse un giorno potuto dolersi del passo che avevano fatto.

Di tali suoi timori il professore Mattia, nel desiderio di alleggerirsi l'animo di una preoccupazione della quale provava acuta molestia, aveva voluto muovere qualche accenno anche alla signora Chiara.

Lo aveva fatto attendendo con pazienza il momento opportuno, senza darvi importanza, a velate parole. Ma la signora Chiara gli tappò la bocca subito, con una di quelle frasi, piene di dolce mitezza, che erano in lei consuete e per le quali si faceva adorare:

--Che vuoi che avvenga, figlio mio? Al bene si risponde col bene. Noi abbiamo offerto la nostra casa a questa giovane sventurata, come era nostro dovere, con tutto il nostro cuore. Ella non potrà non amarci. E poi--non ridere, sai, se ti dirò una cosa--ma credi che i miei presentimenti non contino per nulla?

Il professore non si tenne dal sorridere.

--Oh! mamma, i tuoi presentimenti!

--Già, già, lo so, tu li metti in canzone. Roba da vecchiette, che amano le fantasticherie.... Ma intanto--voialtri gente seria, fìlosofoni che non credete a nulla di nulla, potete ridere quanto volete--certi presentimenti non fallano mai! E questa volta....

--Ebbene, mamma, questa volta?

--Sono presentimenti de' migliori!--fè la signora tutta allegra, fregandosi le mani.

Il professore, dinanzi alla figura così placida, così serena di sua madre, sentì anche questa volta, come sempre nelle incertezze della propria vita, venire una tranquillità soave nel suo spirito:

--Iddio voglia che sia così, mamma,--disse. E non ci pensò più.

Intanto il giorno della venuta di Loreta era giunto e mezz'ora prima dell'arrivo del treno il professore Mattia trovatasi già in attesa alla stazione di Tricesimo.

Passeggiava impaziente in su ed in giù dinanzi alla piccola casa, tendendo l'orecchio se si udisse il rumore del convoglio, affacciandosi allo stanzino ove il capostazione se ne stava curvo sull'apparato del telegrafo, per sapere se per caso fosse segnalato qualche ritardo. Intanto fuori, sulla strada, di là dallo stecconato dipinto di verde, Agnul stavasene curiosando anche lui, colla frusta fra le mani, accanto al cavallino che sonnecchiava.

Il treno finalmente arrivò.

L'unica persona che scese a quella stazione fu Loreta Lambertenghi. Ma se anche ve ne fossero state cento, il professore Mattia non avrebbe durato fatica a riconoscerla, tanto la sua figura era distinta e tanto rassomigliava al ritratto fattone da don Letterio Prandina.

Era una donna ancor giovane, alta, bruna, molto pallida, dalle vesti di lutto semplicissime. Portava un cappello rotondo, di paglia nera, e sul viso una veletta grigia sotto la quale brillavano due occhi grandi e profondi.

Scese rapidamente da una carrozza di terza classe e volse subito uno sguardo in giro come cercando qualcuno.

Il professore Mattia si avanzò:

--La signorina Lambertenghi....--chiese con voce un po' tremante.

La ragazza ebbe un sorriso di piacere.

--Sono io. E lei.... il professore Sant'Angelo?

--Sì.

Si strinsero la mano non trovando subito altro da dirsi, con quella incertezza che non si scompagna mai da un primo incontro il quale avvenga in così delicate contingenze.

--Ha fatto un buon viaggio?

--Buonissimo; solo mi parve tanto lungo. Non vedevo l'ora di essere arrivata.

--L'attendevamo anche noi con tanto desiderio. La mamma poi....

--Sua madre! Come dev'essere buona!

E uscirono dopo che il professore ebbe incaricato un guardiano della stazione di ritirare il bagaglio di Loreta e di recarlo poi in casa.

Fuori, Agnul era già pronto. Il ragazzo seduto a cassetta colla frusta tra le ginocchia, spalancò tanto d'occhi a vedere la forastiera e nella sua grande curiosità dimenticò perfino di mettere la mano al cappello.

--E presto!--disse il professore quand'ebbero preso posto.

Il carrozzino partì velocissimo.

Per qualche minuto nè Mattia nè la giovane dissero parola. Lei guardava intorno le belle distese de' prati già invasi dalla mestizia autunnale.

--Che luoghi pittoreschi!--mormorò dopo un poco.

--Sì, il paese è bello. Certo, adesso che l'autunno avanza, tutto apparisce più malinconico. Ma nella stagione buona....

Erano giunti ad uno svolto della strada e sul colmo di un poggio apparve la casa dei Sant'Angelo, bianca, coi vetri luccicanti nello splendore del tramonto.

--Ecco lì la nostra casa,--fe' il professore accennando col dito,--laggiù dietro a quei due grandi pini.

--Ah! laggiù!

--Sì: ed ecco mia madre, che ci sta aspettando. Infatti a piede del viale che saliva alla casa, fiancheggiato di vecchi pini, la signora Chiara, avvolta nel suo sciallino di lana scura e colla sua cuffietta nera in capo, li stava aspettando.

Con un sorriso sulle labbra la buona donna si avvicinò al carrozzino quand'esso sostò, e affabilmente, con quel modo incoraggiante che concilia di primo acchito la simpatia, tese le mani a Loreta.

La giovane balzò a terra, afferrò le mani della signora e con espansione, vincendo con uno sforzo la riluttanza di lei, gliele baciò replicatamente:

--Come la ringrazio! come la ringrazio!

La signora Chiara si strinse la ragazza al petto, dandole un bacio sulla bocca:

--Ma che, ma che! Siate benvenuta nella nostra casa. Lassù c'è bene un posto anche per voi....

Loreta, confusa, sorpresa quasi, da quell'accoglienza tanto affettuosa, si provò indarno a parlare. Le parole non le uscivano, mentre una lagrima le scorreva giù per le guance patite.

La signora le cinse col braccio la vita e riprese il cammino verso la casa.

--Aveva ragione Prè Letterio,--disse dopo un lungo silenzio la giovane,--aveva ragione quando mi scrisse che avrei trovato la bontà più grande....

--Prè Letterio ci vuol troppo bene,--rispose la signora Chiara.--Non è bontà questa. È un dovere ed una gioia. Io spero che mi vorrete bene, e che sarete contenta in mezzo a noi.

--Se sarò contenta!... Dio è stato così pietoso verso di me, mandandomi questa grazia. Se vi vorrò bene?... Come mai altrimenti!

E nel trasporto sincero della sua gratitudine, altre cose la giovane soggiunse, ed altre molte ne avrebbe soggiunte se la signora Chiara non glielo avesse proibito. "Era momento di finirla adesso! Doveva riposarsi, doveva tranquillizzarsi che proprio il bisogno ce lo aveva. E poi già glielo comandava e intendeva di essere subito obbedita...."

Tale fu l'ingresso di Loreta nella famiglia dei Sant'Angelo.


IV.

Per quanto da una parte le accoglienze fossero state cordialissime, e per quanto dall'altra vi avesse risposto la più calda riconoscenza, certo, ne' primi giorni non potè completamente essere vinto quel vicendevole imbarazzo, che tratto tratto s'impadroniva così dei Sant'Angelo come di Loreta, e che tutti e tre riuscivano assai malamente a dissimulare.

V'erano delle ore nella giornata--quelle specialmente che di solito sono consacrate alle intime confidenze familiari--in cui cotesto imbarazzo manifestavasi più molesto. Alla sera, quando terminavano la cena e si erano esauriti i soliti argomenti della chiacchiera giornaliera, facevasi assai sovente un improvviso silenzio fra que' tre personaggi. La signora Chiara andava a sedersi nella sua grande poltrona, in un angolo della stanza, che rimaneva quasi immerso nella penombra, accanto alla stufa dove già s'era acceso il primo fuoco; il professore si poneva a giocherellare col grosso cane di casa--un bel terranova dagli occhi intelligenti--che veniva a posargli la testa sulle ginocchia. Loreta rimanevasene al suo posto, pallidissima, collo sguardo fisso a terra, come assorta in una lontana visione. Sulla sua fronte bianca si sarebbe creduto di scorgere una nube di tristezza. E nel fissarla attentamente quasi s'indovinava uno sforzo ch'ella s'imponesse per celare il vero stato dell'anima sua.

La signora Chiara pescava nelle proprie memorie, per rompere que' silenzi incresciosi, i vecchi aneddoti paesani, le burlette di cui in altri tempi era stato maestro il nonno Sant'Angelo, qualche strofetta allegra, di quelle che l'arguto vecchietto improvvisava ne' momenti di buon umore nella sua caffetteria di Tricesimo e che si citano ancora oggi nel Friuli insieme a' versi migliori di Pietro Zorutti.

E quando Loreta sorrideva:

--Eh! eh!--esclamava tutta soddisfatta la buona signora--casa Sant'Angelo è stata sempre casa di gente allegra. Visacci mai, neanche nelle ore cattive. E tutti così: il nonno non si dice; il babbo di Mattia, con tanti pensieri, allegro sempre anche lui. E Mattia come lo vedete, con tutti i suoi studi e le sue medaglie e i suoi occhiali d'oro, così serione ch'egli pare.... Ma se ci si mette!

--Non ci credete veh! alla mamma. Dice così per farmi arrabbiare.

--Sicuro, poverino! Ma se mi ponessi a narrare un paio soltanto delle sue storielle!

E ne narrava alcune difatti, ad onta delle proteste che il professore affettava di fare.

Una fra quelle storielle era graziosissima davvero e curiosa anche per la sua eccentricità.

Si riferiva al grosso cane di Terranova, che accompagnava dovunque il professore come la sua ombra e per il quale in famiglia si avevano grandissime cure.

La storiella rimontava ad un paio di anni ed aveva avuto origine da un singolare processo che per il corso di molti mesi era stato argomento di ardenti discussioni in tutto l'alto Friuli. Si trattava di una querela sporta contro il professore Sant'Angelo al tribunale di Udine da un notissimo prete di Collalto, don Giovanni Morganti, a proposito del diritto di proprietà sur una breve zona di prato, che trovavasi sul confine de' loro possedimenti. Era una prateria piccina, di poche centinaia di metri quadrati, che dava ogni anno uno scarsissimo raccolto di fieno e che, a giudizio della gente, non meritava certo il chiasso e le spese che i due litiganti avevano fatto. Ma c'era per questo la sua brava ragione. In quel campo pochi mesi prima un contadino, scavando una fossa, aveva trovato una piccola urna contenente dieci o dodici monetucce coll'effigie dell'imperatore Massimino, una fibula, una collana di ametiste e due aghi crinali, che al professore Mattia erano parsi un vero tesoro. Il prete Morganti, collettore arrabbiato di vecchie medaglie, e che in fondo sentiva una grande invidia per la bella fama del Sant'Angelo, non aveva più dormito i suoi sonni tranquilli. E avendo, tra antiche carte di famiglia, ritrovato certi documenti, che gli parevano dargli un titolo ad accampare de' diritti su quel pezzo di terreno, s'era affrettato a movere lite al professore.

La lotta fu lunga. Gli avvocati--i migliori di Udine--moltiplicarono scritture e controscritture. I due litiganti ebbero a spendere di gran quattrini. Ma la vittoria infine rimase al Sant'Angelo.

La sentenza del tribunale, se mise in regola la questione giuridica, non bastò a conciliare i due antagonisti. Il prete non si dette più pace e non lasciò occasione per manifestare il suo malanimo contro l'usurpatore. Questi dal canto suo se la godette a rispondere coi dispetti ai dispetti. E ne pescò di quelle che fecero montare il prete Giovanni su tutte le furie. Basti il dire che un bel giorno, per far rabbia a don Morganti, gli venne il ticchio di imporre al suo grosso terranova il nome di prè Zuan, cosa che fece ridere di cuore tutto il paese e fruttò al magnifico cane una rinomanza quasi maggiore di quella procurata da Alcibiade al suo col famoso taglio della coda.

--Eh! ho ragione io se dico che i Sant'Angelo sono gente allegra!--concludeva la signora Chiara tutta gongolante nel vedere che un sorriso illuminava la bella faccia della giovane Lambertenghi.

La signora Sant'Angelo provava una soddisfazione, nell'agire in tal guisa. Ottima di cuore e un po' facile a prestar fede a quello ch'essa soleva chiamare il volere del destino, aveva sentito di primo impulso, appena l'ebbe veduta, una viva simpatia per la nipote. Ne' suoi lineamenti severi, in quegli occhi pieni di pensiero, nella parola di lei misurata e dolce, le pareva di avere già indovinato il carattere della giovane. Certo in quell'anima la tempesta delle passioni doveva essere già passata implacabile, lasciandovi il segno del suo furore. Ma in quell'anima non poteva essere distrutta l'ingenita delicatezza di sentimento, che è la più bella qualità di ogni umana creatura. Tutto questo la signora Chiara era riuscita a comprendere osservando attentamente ogni atto di Loreta, pesando ogni sua parola, non lasciandosi sfuggire alcun particolare del suo contegno.

La vita che Loreta conduceva era assai semplice. In pochi giorni aveva saputo perfettamente accordarsi alle abitudini regolate ed uniformi della casa. Di più, con tatto squisito, aveva subito cercato di mostrarsi premurosa e non inutile nelle bisogne domestici. Quando la signora Chiara accingevasi a qualche lavoro, Loreta prontamente si offeriva di darle mano. Se il professore esprimeva qualche desiderio concernente la casa, la giovane procurava subito di concorrere perchè egli fosse soddisfatto. Perfino, talora, ne' giorni che c'era gran da fare, o pel bucato o per i fittaiuoli che venivano a pagar le pigioni o per qualche forestiero che capitava a visitare il medagliere e le lapidi del professore, Loreta, ad ogni costo, voleva addossarsi una parte de' lavori che incombevano alla Vige.

La vispa contadina però si ribellava. Non poteva permettere che quella signorina sciupasse le sue piccole manine bianche nell'attendere a certe cose. Mani da ricamare, mani da contessina. E poi, con quella salute che aveva, starsene al foco de' fornelli, starsene curva sulla tavola da stirare. Mai e poi mai!

--Vige mia, lasciatemi fare. Mi ci diverto e mi fa piacere!

Vige la guardava, la guardava fissamente, e comprendendo che le parole della giovane erano veritiere si guardava dal contraddirla più oltre.

Ma quando, qualche volta, Loreta usciva a fare degli acquisti a Tricesimo od andava, accompagnata da Agnul col carrozzino a Udine, per visitare il suo amico e protettore don Letterio, Vige provava il bisogno di dire l'animo suo alla padrona:

--Non è una donna quella lì, è un angelo! Buona, buona come il pane. Ha fatto una gran opera santa, signora mia, prendendola in casa.

--Per buona, sì, mi pare.

--E dev'essere stata così sfortunata! Guai a dirlo: è un grosso peccato! ma è proprio vero che sono i buoni quelli che hanno le maggiori disgrazie!

--Ti narrò mai qualchecosa la signorina?

--A me! si figuri! Che confidenza vuole che abbia per una povera serva come son io? Però ho indovinato ed ho anche udito....

--Udito? Che cosa?

--Eh! ma tante volte! Alla sera quando ella, signora, ed il professore son già coricati ed io passo, per andarmene a dormire, dinanzi alla camera della signorina....

--Ebbene?

--La odo di dentro a piangere sommessamente. E una volta anzi....--ho fatto male, lo so--ma, avendo visto ohe il lume era ancora acceso, presa dalla curiosità, ho anche guardato dal buco della toppa.... Avesse visto! La povera signorina era inginocchiata dinanzi al suo letto e tenendo fra le mani un oggetto lucente,--che so? una croce, un medaglione....--lo baciava replicatamente, colla faccia tutta bagnata di lagrime. Certo qualche memoria de' suoi cari....

--Certo,--fe' la signora Chiara.--Queste sono cose che provano ad ogni modo un animo buono ed affettuoso....

--Altro che buono!... Se sapesse la pietà che m'ha fatto!

E l'ottima Vige, per poco fosse stata incoraggiata, quasi quasi si lasciava intenerire al solo ricordo di questi particolari.

Ma la signora Chiara non gliene lasciò il tempo:

--Tutto va bene.... tutto va bene. Ma non va bene niente affatto di spiare, come hai fatto tu, dal buco delle serrature....

La Vige chinò il capo tutta mortificata, buscandosi senza proteste quel piccolo rimprovero che sapeva bene di meritarsi.

La signora Chiara non avrebbe del resto avuto bisogno alcuno dei racconti della sentimentale servetta per essere persuasa della grande bontà della sua povera parente, il cui carattere espansivo e cordiale le si veniva rivelando ogni giorno di più colle prove che Loreta le dava del suo attaccamento e della sua gratitudine. S'erano fatte amiche. Omai per la signora Chiara la compagnia della giovane era divenuta un'abitudine gradevolissima, di cui non si sarebbe privata che a malincuore. Erano pochi mesi dall'arrivo di Loreta e la vecchia signora la considerava già com'ella fosse stata sempre nella loro famiglia.

Ora, che l'invernata scorreva rigida e che si era obbligati a starsene per intere settimane chiusi in casa, la giovane riesciva di vero conforto alla signora. Il professore Mattia, da quel rusticone che era, se ne stava adesso più che mai seppellito nel suo studio, intento a dar l'ultima mano ad una memoria Sulle antichità aquileiesi, che gli era stata richiesta dal Mommsen per una rivista tedesca. E le due donne solette nel tinello, al lume raccolto della lampada, passavano le loro serate lavorando: per lo più capi di biancheria e di vestiario, che la Sant'Angelo, secondo una sua antica abitudine, destinava ai fanciulli poveri della parrocchia. La buona signora, cogli occhiali sul naso, ferruzzava le grosse calze di cotone bigio; Loreta attendeva a qualche lavoro di cucito.

Poi, a tratti, quando le raffiche del vento venivano, giù dalle gole nevicate della Carnia, a rompersi con impeto contro la casa facendone tremare i vetri delle finestre, la signora Chiara deponeva il lavoro:

--Che brutta notte, oggi! L'inverno in queste campagne è assai triste. Per coloro poi che non ci sono avvezzi.... Voi, mia cara Loreta, dovete trovarvi assai male.

--Male? Ma che dite, signora! Qui per me è il paradiso. Se Dio non mi avesse protetta mandandomi il soccorso provvidenziale che voi mi avete offerto, che cosa sarebbe di me? Si apprezza il bene solo quando si è imparato che cosa sia la sventura!

--Sì, sì, figliuola mia; ciò che dite mostra il vostro bell'animo. Ma via, siete tanto giovane ancora: la vostra mente deve volare ben lontano da queste nostre solitudini così fredde!

--Lontano! Ma dove mai? No, signora Chiara. Al di là della soglia di questa casa benedetta, dove ho trovato tanto tesoro di amorevolezza e di pietà, non c'è più nulla per me. Al di là non ho lasciato nulla: nulla al'infuori di memorie dolorose. E guai per me se non fossi riuscita a cancellarle dall'anima mia!

In quelle conversazioni Loreta aveva anche accennato più volte a suo padre, e talora aveva pure insistito nel discorso a malgrado che la signora Chiara, con gentile sentimento, nulla avesse fatto mai per indurla a confidenze ed anzi si fosse tenuta in proposito nel riserbo più delicato.

I giovani anni di Loreta erano stati infelicissimi. Sua madre, Camilla Sant'Angelo, era morta presto, trentenne appena, coll'illusione beata che alla bambina sarebbero riserbate le più dolci tenerezze dell'affetto. Prospero Lambertenghi glielo aveva promesso dandole l'ultimo bacio e fu con questo pensiero tranquillante che la poveretta si spense. Ma Prospero obbliò assai presto. Carattere volubile, dominato dalla sete de' pronti guadagni, insofferente di una vita umile e regolata, dopo breve tempo sentì il peso dell'esistenza a cui le contingenze della sua famiglia lo costringevano. Nei primi tempi il pensiero di dedicarsi tutto alla felicità di quella povera creatura, che, col suo vestitino da lutto lo attendeva sul limitare del loro quartiere, compensandolo col suo sorriso d'ogni fatica, gli era apparso bellissimo e pieno di poesia. Poi più tardi, quando nuovi arditi progetti di intraprese larghissime gli balenarono alla mente; ne' giorni nervosi, quando la cerchia ristretta delle pareti domestiche apparì, al suo spirito ansioso di voli infrenati, simile ad una prigione, quella bimba gli sembrò un ostacolo posto fra lui ed il raggiungimento de' suoi ideali. Non voleva essere lo schiavo di stupidi platonismi. Finalmente col bene proprio avrebbe fatto pur quello della bambina. Al suo cuore, che talora gli opponeva un palpito affettuoso, impose il silenzio. E si lanciò nel mare magno degli affari, delle imprese arrischiate, in que' giuochi ardimentosi, in cui il segreto del trionfo sta quasi interamente nel freddo disprezzo di ogni contrarietà della sorte.

Quale poteva essere la vita della giovanetta ognuno può immaginare. Affidata a mani mercenarie, la sua educazione fu fiacca, incerta, senza una guida severa, priva totalmente di quelle influenze benefiche che la vigilanza dell'affetto apporta ed assicura. L'istinto del bene, innato nell'anima sua, corse i maggiori pericoli di essere vinto ed attutito. Gente strana, esempî tristi e brutali, passarono intorno a lei, pericolosamente. Nella casa, nulla che valesse a inspirarle un sentimento di nobiltà od a metterle nel core un palpito di entusiasmo. Ricordava in confusione una folla di persone equivoche, che suo padre riceveva continuamente; ricordava certe notti rumorose, nelle quali giungevano fino alla sua stanza di fanciulla, voci concitate e clamori di canti. Del padre non ricordava nè baci, nè carezze. Era un uomo freddo, di poca espansione, di modi aspri. Una mattina la sua governante le annunciò ch'egli era partito: partito per un viaggio lontano, reclamato da urgenti interessi, che compromettevano ogni loro avere. Non l'aveva salutata neppure: il tempo gliene era mancato; ma stesse di buon animo: egli non l'avrebbe dimenticata un solo momento.

Questa partenza non turbò gran fatto l'animo di Loreta. Era abituata alle stranezze di suo padre. Provò invece un turbamento infinito, un'oppressione potente, quando un giorno, per puro caso, udì dalle labbra di un servo la ragione che dalla gente si attribuiva alla precipitosa partenza di lui. Era un'accusa infamante, che le chiamò il rossore al viso e l'amarezza nel cuore. Lottò per non crederci, per rompere il fatale incubo di quel sospetto, per raccogliere le prove che contro suo padre si fosse ordita dall'altrui malignità non altro che una bassa calunnia.

Ma non potè. Gli indizî tutti congiuravano a distruggere ogni pietoso sentimento che nel suo cuore restava.... Suo padre non solo l'aveva abbandonata, ma a poco a poco obbliò perfino di mandarle i necessarî soccorsi. A diciott'anni Loreta si trovò sola, senza consigli, senza conforti, sul limitare della vita, esposta a tutti i pericoli ed a tutte le seduzioni.

Che fare in quel frangente? Ancora una volta il suo ingenito senso di onestà e di coraggio le fu scorta. Suo padre se non altro le aveva fatto dare un'educazione sufficiente. E questa doveva bastarle a guadagnarsi un pane onorato. Bisognava rassegnarsi a servire rinunciando a tutte le idee di indipendenza e di benessere, che un tempo le avevano arriso. E seppe rassegnarvisi animosamente.

--È stata una prova difficile!--soggiungeva Loreta.--E credetti di poter in essa trovare la felicità!... Per un tempo, sì, mi parve anche di esservi riuscita. Ma una delusione ben più grande mi aspettava. Quel che ho sofferto.... Guai per me se volessi risuscitare i ricordi!...

Il discorso così fu tronco più volte. Le confidenze che Loreta aveva fatto alla signora Chiara s'erano sempre arrestate a quel punto.

La prima volta in cui l'ottima signora potè apprendere dal labbro della giovane un più particolare accenno ai fatti che avevano da ultimo amareggiata la sua vita, fu improvvisamente in una brutta giornata, nella quale i Sant'Angelo ebbero a soffrire per causa sua una grande emozione.

Da più giorni la Lambertenghi mostravasi singolarmente abbattuta e preoccupata. Alla mattina, come di solito, scendeva per tempissimo dalla sua stanza, mettendosi tosto alle usate faccende. Ma a nessuno di casa sfuggivano le tracce dell'insonnia o del pianto, ch'ella aveva costantemente negli occhi pensosi. Forzavasi di mostrarsi vivace, metteva nella esecuzione delle faccende domestiche una foga speciale; alla signora che le moveva qualche domanda se si sentisse male ed alla Vige che si arrabbattava per toglierle di mano qualche lavoro, assicurava che non aveva nulla. Però a sera, verso le nove, dopo aver tenuto per un poco compagnia alla signora Chiara, ella chiedeva con manifesto dispiacere di potersi ritirare. Diceva di sentir bisogno di riposo, di avere la testa confusa e indolenzita. E se ne andava scusandosi, rammaricandosi di dover lasciare la signora, ringraziando per le premure con cui tutti si interessavano a lei.

--Non è nulla, ma nulla affatto. Un po' di sonno.... Ecco la miglior medicina.

La Vige che stava ad udirla con grande attenzione, fissandole in viso gli occhi buoni, profondamente, tentennava allora il capo, e appena ell'era uscita, volgendosi alla signora Chiara:

--Medicina, sì!--mormorava sottovoce.--La sua medicina sono le lagrime. Il sonno, il riposo.... A chi lo racconta? Povera signorina, mi fa tanto male!...

--E a me!--soggiungeva la signora Chiara.--Ma bisogna mostrare di non accorgersi di nulla. Il tempo.... Vedrai, le passerà!

Pochi giorni appresso, una mattina verso le sette, che la Vige era appena scesa in cucina per accendere il fuoco e preparare la colazione, vide uscire dalla sua stanza anche la signorina. Vestiva il suo solito abito nero, ma aveva lo scialle e un velo in testa, come pronta ad uscire. La domestica spalancò tanto d'occhi. Loreta non scendeva mai così presto; poi... uscire col tempaccio che faceva! Infatti, durante la notte un violento uragano si era scatenato, ed ora sulle campagne allagate spirava un fortissimo vento.

--Signorina, esce?

La Lambertenghi, assai pallida, si fermò un po' contrariata:

--Sì, vado in chiesa.

--Ma con questo tempo! C'è un bel tratto. Vuole che chiami Agnul che attacchi il carrozzino?

--No, grazie, non monta. Non vi date pensiero.

Ed usci.

La povera Vige non potè frenare un gesto d'impazienza. Aveva un bel dire la sua padrona che bisognava fingere di non accorgersi di nulla! Ma vedere certe bizzarrie e cucirsi le labbra era davvero un po' troppo! La buona donnetta non poteva darsi requie e andando e venendo per la sua cucina non riusciva a mettere nelle sue faccenduole la solita meticolosa diligenza. La sua mente correva altrove, seguendo per la strada fangosa la giovane che recavasi alla chiesa, mentre da lunge, sulle raffiche impetuose del vento, giungeva da Tricesimo il lento scampanìo della prima messa.

Passò un'ora, ne passarono due. Il professore e la signora avevano già fatta la loro colazione e Loreta non era peranco rientrata. La funzione doveva essere finita da un pezzo e senza un particolare motivo ella non poteva tardare così. Un po' allarmati s'eran posti a fare ogni possibile congettura, poi, non riuscendo a darsi una spiegazione, stavan già per mandare il ragazzo ad incontrare la giovane, quando una carrozza si fermò dinanzi alla casa.

Vige ed Agnul corsero subito fuori e con meraviglia videro scendere dal legno il conte Leonardo Mangilli, che col suo fare burbero e colla ciera più scura del consueto venne loro incontro sollecitamente, accennando colla mano al carrozzino.

--Che c'è? che c'è?--domandarono.

--Nulla di grave. La signorina....--non ne so il nome io....--la signorina che sta con voialtri.... L'hanno trovata in chiesa, dopo la messa, svenuta.... Passavo di là. L'hanno posta nella carrozza.

La Vige si fece allo sportello e vide sui cuscini, riversa, con le labbra smorte e gli occhi socchiusi, la signorina Loreta.

--Oh! poveretta, poveretta! L'avevo detto io, l'avevo detto che stava male!

Uscì intanto dalla casa anche il Sant'Angelo, che si avvicinò al gruppo, trepidante egli pure e pallidissimo.

Trassero di carrozza la giovane, che in quel mentre parve avesse ripreso conoscenza e, sostenendola fra le loro braccia, la trasportarono in casa.

Quindi, senza per tempo in mezzo, l'ottima Vige e la signora Chiara la svestirono e la misero a letto.

Il medico chiamato d'urgenza non potè constatare se non una forte febbre, cagionata con molta probabilità da un grave turbamento nervoso. Lasciarla tranquilla; nient'altro. Pericoli non v'erano di sorta.

Quel giorno Loreta stette assai male. Ebbe a più riprese delle violente convulsioni; poi, quando riusciva ad assopirsi, il suo sonno era affannoso, e strane, scucite parole le sfuggivano dalle labbra. Ma fu cosa passeggiera. Dopo tre giorni tutto era finito, e meno un po' di sfinitezza, ogni altra sofferenza pareva svanita.

Fu allora che Loreta ebbe uno slancio improvviso di tenerezza e di espansione per la signora Chiara, che era lì, al suo fianco, con un sorriso di affetto sul labbro, tenendole maternamente una mano.

--Ah! signora.... signora, come mai posso chiedervi perdono di tutte le pene che vi reco! Non lo avrei voluto, io! Ma le forze mi son venute a mancare!... Era un giorno di così tristi ricordi per me! La data più funesta della mia vita: un anno, da che laggiù, in mezzo a gente sconosciuta, io avevo deciso di morire.... M'era parso che nella preghiera avrei potuto trovare l'obblìo di quell'ora, il perdono anche.... Ma lì, in quella chiesa fredda, in quel silenzio profondo, mi sono sentita più oppressa che mai. M'è sembrato che tutta l'amarezza delle mie memorie si riversasse in un momento solo dentro il mio cuore. E non vidi più nulla, non sentii più nulla....

Indi interrompendosi e chinando sulla spalla della signora Chiara il suo bel volto bagnato di lagrime:

--Eppure, signora, io sono degna di perdono. Dio deve avermi perdonato.

La signora Chiara levò pietosamente gli occhi al cielo, accarezzando il capo della povera giovane:

--Potrei essere vostra madre!--le susurrò con dolcezza all'orecchio.--E dicono che l'affetto delle madri è quello che sa confortare i più grandi dolori.

Gli occhi di Loreta s'illuminarono di una luce di letizia:

--Come siete buona, signora! E come sento di amarvi!...


V.

Dopo quell'ora di espansiva confidenza, le simpatie fra la signora Sant'Angelo e Loreta Lambertenghi si manifestarono sempre più vive.

In casa stavano insieme di continuo, e ormai la signora Chiara non usciva più se non accompagnata dalla giovane parente.

Alle sue amiche di Tarcento e di Tricesimo, colle quali di tratto in tratto si scambiavano qualche visita, non faceva che esaltare le virtù e la bontà di Loreta. E nel tessere le sue lodi era con particolare compiacenza ch'ella benediceva il momento in cui s'era presa con sè la Lambertenghi.

--Nessun capriccio. Contenta di tutto. Una massaia di quelle che s'è perso lo stampo. E poi se non l'avessi, che guaio sarebbe! I settanta son belli e sonati: la vista non è più quella di una volta, e queste benedette gambe si son fatte così deboli!...

--Ma che dice, signora Chiara? Lei è un fiore di salute!--le rispondevano.

--Un fiore! un fiore!...

La signora Chiara tentennava il capo e sorrideva. Ma il pensiero della sua età, che era già così avanzata, e della sua salute, divenuta negli ultimi tempi molto malferma, la preoccupava ora, in certi momenti di riflessione, assai gravemente. Non certo per sè: la morte non le faceva paura. Ma era per suo figlio, ch'ella adorava: per suo figlio alla cui tranquilla esistenza s'era dedicata sempre con tanta abnegazione. Che ne sarebbe di lui,--abituato a vivere in mezzo a' suoi studî, libero da ogni molesto pensiero,--senza di lei, senza la mamma sua, in quella casa deserta?

Queste immagini, che dapprima passavan di rado nella mente della signora Chiara e che una parola lepida di suo figlio bastava a fugare, ora le rinascevano più vive. Le rinascevano specialmente in quelle ore della sera, quando, sentendosi stanchi gli occhi, smetteva il lavoro ed ascoltava le letture di qualche buon libro, che Loreta le veniva facendo.

La voce dolce, carezzevole, armoniosa di quella giovane, che si accalorava nella lettura, che a certe pagine appassionate trovava accenti di una soavità commovente, le parlava nel core. Sul volto di lei, illuminato in pieno dalla luce della lampada, così puro nelle sue linee, così bello nella sua serenità, le pareva di scorgere quasi un riflesso del suo animo buono e rassegnato.

Fu il suo amore materno che le fece per la prima volta balenare il pensiero della missione provvidenziale che Loreta avrebbe potuto compiere nell'ora triste in cui ella fosse venuta a mancare. Ma nè al figlio Mattia, nè alla giovane, ebbe mai il modo di dire in proposito un'esplicita parola. Per quanto tentasse di farlo, le occasioni le sfuggivano. Talchè il massimo che le riusciva era di lasciar cadere in mezzo a' discorsi, e come per semplice caso, qualche frase allusiva a codesti progetti.

Così, molte volte, in via di scherzo, aveva fatto rimprovero a Mattia di non mostrare sempre le eguali deferenti premure verso la giovane:

--Non dico che tu la tratti male, no! Ma non le sai dire mai il più piccolo complimento! E chi è giovane ci tiene tanto a sentirsi dire qualche bella parola!

Il professore rideva e scrollava le spalle:

--Ma, cara la mia mamma, anche tu hai certe idee pel capo! Sono io proprio l'uomo da mettermi a dire delle galanterie! E se anche lo tentassi, ci farei proprio la gran bella figura!

--Oh! per questo poi.... Se tu lo volessi, non è mica la loquela che ti manca. Ma, sfido io! Certe volte, se la ragazza si mette a parlare di qualche argomento serio, tu ti pianti là, in un angolo, cogli occhi fissi, ingrullito, da parere che tu non sappia porre in croce quattro parole. Santa pazienza! In questo non somigli ai Sant'Angelo, tu! Tuo padre.... Avessi visto tuo padre....

--Via, via, signora brontolona, non si arrabbi così. Per farle piacere, questo selvaticone saprà operare anche un miracolo e buttar alle ortiche la sua pelle di bestia feroce....

Ridevano quindi insieme, ma il miracolo Mattia non lo faceva. Anzi, dal momento che sua madre gli aveva tenuto que' discorsi, si sarebbe detto che un nuovo imbarazzo lo dominasse quando si trovava insieme a Loreta. Talora, nella foga del discorrere, se i suoi occhi si incontravano in quelli profondamente dolci della giovane, era un visibile turbamento che lo sopraffaceva. Evitava di rimanere solo in sua compagnia. Un senso penoso di inquietudine lo assaliva ogni volta che la signora Chiara toccava in presenza di Loreta qualche argomento che avesse avuto la più lieve attinenza agli scherzi sul suo contegno.

Il professore Mattia di tutto ciò provava in certi giorni un vero dispetto. Si domandava come mai un uomo del suo stampo, un uomo forte, uno scienziato tagliato all'antica, poteva lasciarsi vincere da così stolte inquietudini. Egli che aveva sempre sorriso cinicamente a sentir narrare certe debolezze degli uomini: egli che non era mai riuscito a spingere più in là delle dieci pagine la lettura di un romanzo! Sciocchezze, sciocchezze! Puerilità belle e buone, che bisognava saper vincere. Altrimenti c'era da vergognarsene davvero!

E da allora in poi mise quasi uno studio ad ostentare verso Loreta una allegra disinvoltura. Se il più lieve adito gli era offerto, non lasciava di metter fuori, con grande stizza della signora Chiara, i suoi predicozzi di filosofo per il quale la vita non ha più sorrisi. Si compiaceva a dirsi vecchio, a mostrarsi privo d'ogni illusione, a darsi delle pose di studioso infaticabile, assorbito interamente dalla passione de' libri.

Ma molte volte non ci riusciva. Una parola, un gesto, una frase, lo tradivano. E per un momento sembrava che gli sfuggisse la coscienza della parte di commedia che imponevasi di sostenere.

Così fu specialmente in un giorno memorabile, al principio di aprile, nell'occasione di una gita, che la signora Chiara aveva progettato da molto tempo di fare in unione alla Lambertenghi, e che sempre si era dovuto rimandare o per la stagione poco propizia, o per la salute malsicura della signora.

Si trattava di una visita ad un antico palazzo, posto sulla riva destra del torrente Cormor, non lunge dal colle di Fontanabona, e del quale avevano avuto adito di parlare molto sovente nel corso della precedente invernata. Questo palazzo era una curiosità del paese, e il professore Sant'Angelo ne aveva fatto anche soggetto di un'interessante dissertazione storica, pubblicata alcuni anni innanzi dalla Rivista archeologica italiana.

A giudicare da una lapide mezzo corrosa, immurata sotto l'arcata dell'ampio portone, l'edificio doveva essere stato eretto sul principio del secolo decimosettimo da un nobile udinese, sulle rovine di un'antica chiesetta fondata verso il 1330 dal patriarca Bertrando di San Genesio, sfuggito in quel luogo, quasi miracolosamente, da un'imboscata tesagli dagli armati di Rizzardo da Camino. Era una fabbrica solida e tetra, con due torri rotonde piantate agli angoli della facciata, nella quale aprivansi, fra i ricami dell'edera, otto grandi veroni sormontati alternatamente da stemmi gentilizi e da mascheroni chimerici. All'edificio principale addossavasi una specie di padiglione basso, di costruzione moderna, senza gusto di stile, abitato ora dalla famiglia del gastaldo. Innanzi all'ingresso principale del palazzo un'ampia braida, tenuta male, estendevasi in forma di un rettangolo, mostrando, sotto la invasione delle erbe alte, le tracce degli antichi vialetti disegnati capricciosamente, mentre di mezzo ad alcuni cespugli di bosso sorgevano quattro o cinque statue mutilate di deità campestri. Intorno, giù per i fianchi digradanti della collina, macchie di querciuoli, grappi diffusi di piante basse, cresciute liberamente: poi, giù a' piedi, di là dal letto petroso del Cormor, asciutto talvolta per lunghi mesi, la distesa vastissima delle piantagioni di sorgo, di trifoglio, d'avena, chiuse fra le file regolari dei gelsi e frastagliate dalle linee candide de' sentieri.

Il palazzo era da molti anni disabitato. Assai di rado quando qualche forastiere veniva a visitarlo, il gastaldo andava ad aprire le griglie verdi dei veroni. Del rimanente il vecchio fabbricato conservava il suo aspetto di solitudine. Lo spazioso cortile dormiva in una grande calma claustrale. E soltanto verso la fine di ottobre, quando i contadini venivano a portare al gastaldo le loro derrate, animavasi per alcuni giorni, fino a che durava tra chiassose discussioni la consegna del grano, delle frutta e del vino.

L'amministrazione era affidata dall'attuale proprietaria--una ricca signora veronese, maritata in Londra con un alto funzionario della corte--ad un avvocato di Udine, che solo due o tre volte all'anno faceva una visitina al gastaldo per la regolazione dei conti. In paese la padrona del castello era del tutto sconosciuta, e solo sapevasi che quel possedimento era venuto in sue mani per ragioni di eredità, quale unica parente superstite della famiglia dei Morò-Casabianca, cui il palazzo e le terre circostanti avevano appartenuto fino dal principio del secolo passato.

L'ultimo dei Morò-Casabianca, che aveva abitato il castello, era stato il conte Sebastiano, e durava in tutto il circondario la memoria di questo gentiluomo, il cui nome era congiunto ad un doloroso dramma domestico, intorno al quale la fantasia dei contadini aveva immaginato le più bizzarre leggende.

--La storia dei Morò-Casabianca bisogna sentirla non già dal mio figliuolo,--diceva la signora Chiara a Loreta Lambertenghi,--perchè quello lì non vuol saperne di certe poesie. Bisogna chiederne alla vecchia Mariute, la nonna del nostro Agnul, che è nata nel palazzo e ci vive da ottanta anni....

--Eh! grazie tanto! La vecchia Mariute ve ne racconta di quelle!--soggiungeva il professore.--È una povera matta che sogna ad occhi aperti.

La signora Sant'Angelo sorrideva anche lei. Ma tentava tuttavia di difendere questa vecchierella, ch'era tra le sue protette. Ogni anno per Natale, poi al principio dell'estate, aveva l'abitudine di mandarle qualche oggetto di vestiario e qualche quattrino. E la vecchia contadina, ch'era un po' parente alla famiglia del gastaldo e viveva in una casetta colonica presso il palazzo, gliene serbava la maggiore riconoscenza.

La gita al palazzo Morò-Casabianca la fecero in un bel pomeriggio di aprile partendo di casa verso le due ore. Nel carrozzino guidato da Agnul avevano preso posto la signora Chiara e Loreta. Il professore Mattia precedeva in un altro legnetto col conte Leonardo Mangilli, che aveva voluto essere della partita anche lui.

Il Mangilli era quel giorno di allegro umore, e durante la gita non aveva lasciato un momento di scherzare:

--Oggi, professore mio caro, non vi sembrerà vero di montare in cattedra e di tenere la vostra brava lezione di archeologia ad un pubblico tanto gentile. Ah! professore fortunato!

Ma il Sant'Angelo era tutt'altro che in vena di scherzi. E a quelle allusioni tagliò corto bruscamente, mostrando con tutta chiarezza che non gli piacevano affatto.

La visita al palazzo interessò vivamente Loreta. Il gastaldo, visto appena il professore, era venuto con molta premura a porsi agli ordini degli ospiti e gli aveva guidati nel giro dell'edificio. Avevano percorso ad una ad una tutte le vaste sale dai soffitti affrescati, arredate di antichi mobili massicci recanti lo stemma del casato; eran saliti per le ripide scale a chiocciola negli stanzoni delle due torri, nudi, spogli, freddi per l'aria frizzante che entrava dalle finestre ogivali, munite di grosse inferriate. Poi, più a lungo, eransi fermati in un salotto, nell'ala meridionale della fabbrica, ricco di particolare interesse per le molte curiosità storiche che racchiudeva.

Era una stanza spaziosissima rischiarata da tre grandi veroni, prospicienti sulla vallata del Cormor; ma tetra, coll'enorme camino dalla cappa adorna di barocche sculture, e co' suoi mobili di noce, dalle sagome severe, coperti di antico broccato veneziano. Sulle pareti spiccavano, chiusi in nere cornici, quattro grandi dipinti storici, attribuiti, per il loro carattere di correttezza belliniana, a qualche pittore del 500, uscito dalla scuola di Pellegrino da San Daniele. In essi il fondatore aveva voluto fossero raffigurati i momenti principali della vita del prode Bertrando di San Genesio: la disfatta di Rizzardo da Camino sotto le mura di Sacile, la consacrazione della chiesa maggiore di Venzone tolto a' Goriziani, l'erezione del castello di Moscardo a tutela delle valli carniche, e il soccorso dato a' poveri dal pio patriarca nella carestia che afflisse il Friuli nel 1348.--In un angolo, sopra una colonna di legno scolpito, un busto in marmo, opera non priva di merito artistico: l'effigie del conte Sebastiano, l'ultimo dei Morò-Casabianca.

Lì il gastaldo gli aveva invitati a riposarsi dopo avere avanzato per le signore due delle vecchie sedie a bracciuoli presso i grandi veroni. Il conte Leonardo celiava intanto col professore intorno al pregio di questi logori "nidi di talpe" ai quali nella sua posa d'uomo utilitario negava qualsifosse attrattiva. Poi il discorso era caduto, naturalmente, sulle vicende dei Morò-Casabianca.

--La leggenda del castello!...--esclamò il Mangilli accentando colla voce grossa questa frase melodrammatica.

--Me ne dispiace per voi, conte mio, ma non è leggenda niente affatto. Pura storia e tragica anche troppo....

E la riepilogò brevemente.

La storia era del resto semplicissima. L'ultimo abitatore di quel palazzo, il conte Sebastiano Morò-Casabianca, gentiluomo campagnuolo vissuto con fedeltà rigorosa secondo le tradizioni de' suoi maggiori, dividendo il proprio tempo tra utili studî di economia rurale e tra le cure inerenti a' suoi beni, si era, quando già aveva varcati i quarant'anni, ammogliato ad una bella e ricca giovane del Trevigiano, una contessa Elti di Fontebasso: nobiltà antica e famiglia che godeva di larghe aderenze così per il censo come per le cospicue parentele. La contessa era ricordata da tutti nel paese: una figura superba dall'occhio altiero, che vedevano passare spesso a cavallo per i lunghi stradoni polverosi, bellissima nell'abito di amazzone, che faceva risaltare la correttezza stupenda delle sue forme. Si narrava dell'amore intenso, appassionato, ardente, che il conte Sebastiano aveva per la moglie: viveva per lei, circondandola di tutte le premure di un culto idolatra. Ma la donna mancò a' suoi doveri. Anima abbietta ascosa in una forma divina, sentì presto il peso de' propri legami e li franse ignobilmente, con uno di quei tradimenti codardi, che tolgono alla colpa ogni scusa. Il dramma s'era preparato lentamente, pazientemente, fino alla sua scena capitale. Una notte, eludendo la tranquilla fede del marito, la contessa Eleonora se ne fuggì dal paese, in compagnia di un volgarissimo amante, verso terre lontane. Il dolore atterrò il conte Sebastiano. Ferito mortalmente nella dolcezza de' suoi affetti come nella onestà purissima delle tradizioni domestiche, egli si chiuse in una melanconia cupa, facendo ogni sforzo per sottrarre alla triste curiosità della gente i particolari strazianti della sua sventura. Della contessa Eleonora non si seppe per lungo tempo novella; poi ad un tratto corse confusa la voce che dopo una vita di libertinaggi disordinati ella fosse morta improvvisamente in una stazione balneare dell'estero, a Scheveningen o a Biarritz. Sebastiano non si confidò ad alcuno, ebbe a disprezzo ogni mendicata commiserazione. Una mattina, il domestico entrando nella stanza di lavoro del conte,--la storica stanza dai vecchi quadri, che gli era particolarmente diletta,--lo trovò riverso nel seggiolone, colla fronte insanguinata, freddo, con una rivoltella scarica a' piedi....

--È una storia assai lugubre!--disse Loreta Lambertenghi quando il professore ebbe finito.

--Un fatto diverso, come se ne leggono cento ogni giorno!--aggiunse con un risolino ironico il conte Leonardo.

--Un fatto commovente ad ogni modo; questo me lo concederete.

--Commovente, secondo i gusti. Io direi piuttosto istruttivo.

--Figuriamoci: una morale a vostro modo....

--Sicuramente, una morale, di cui io ho principiato ad approfittare per mio conto. Ed è questa: che con quarant'anni sulla gobba si commette la più grande corbelleria a lasciarsi pigliar dall'amore. Poi, beato chi è solo; quanta pace di più!

--E quante gioie di meno!--esclamò subito la signora Chiara, alla quale le sortite pessimiste del Mangilli avevan sempre irritato i nervi.--Il conte Leonardo dice così per dire: è il primo lui a non pensarlo.... "E quante gioie di meno" lo ripeto!... È vero: ci saran delle donne cattive, leggiere, senza cuore. Ma ve ne hanno anche di quelle che sono la pace, la provvidenza, la letizia di una casa....

--Mosche bianche, signora mia. E sì trovano tanto di raro!...

--Non tanto, non tanto! Basta saper cercare, basta saper aprire gli occhi e leggere un pochino nei cuori....

Dicendo così, la signora Chiara, fissa sempre nel pensiero che ormai non la abbandonava più, piantò i suoi sguardi nella faccia del professore; poi cercò gli occhi di Loreta.

Il professore sforzavasi indarno di mostrarsi indifferente; Loreta guardava fuori lo splendido spettacolo del tramonto che accendeva d'un bagliore croceo la linea dell'orizzonte.

--Il povero conte Sebastiano se fosse qui ad udirvi non vi darebbe ragione, signora mia!...

--Il conte Sebastiano è stato uno sfortunato. Che vuol dire per questo? Che tutti debbono essere sfortunati come lui? No, no e poi no!--insisteva animandosi la signora.--Queste sono idee pericolose, di gente senza fede. Sapete quale è stato il torto del conte Sebastiano? Quello di aver voluto finire in tal modo. Quella donna non valeva davvero il sacrificio della sua vita. Sono esaltazioni da romanzo, codeste!...

--Sarà vero, cara mamma, quel che tu dici. Ma con tutto questo mi par pure che per il conte ci sia una scusa. Era accecato. Era crollato intorno a lui tutto quanto. Io mi metto ne' suoi panni e lo capisco. O amare così o non amare affatto!

Nel profferire queste parole il professore Mattia era seriissimo e la sua voce rivelava la profonda convinzione.

La signora Chiara si levò allora, con un po' di dispetto, contrariata, dal suo seggiolone:

--Già, già: siete tutti d'accordo! Una bella declamazione anche la tua!...

Il professore si mise a ridere:

--È assai buffa, non è vero, una declamazione di questo genere sulle mie labbra? Ma mi ci avete tirato voialtri proprio per i capelli!...

Proseguendo indi lo scherzo uscirono dal palazzo che già il sole era scomparso. L'aria era fresca. Nella luce rosea del crepuscolo una leggiera nebbiolina alzavasi dalle valli, lungo il piede delle Carniche, avvolgendo come in un velo i bianchi villaggi lontani.

Nello scendere lo stradone che conduceva alla strada maestra, i visitatori passarono dinanzi al gruppo delle case coloniche, costrutte al di là dell'ampia braida. Le porte erano quasi tutte aperte e le piccole cucine affumicate, in cui le donne apprestavan la cena, apparivano rosse al guizzare delle grandi fiammate accese sui bassi focolari. Sulla soglia di una di quelle casette, una vecchia stavasene seduta sur un banco di pietra, coi gomiti sulle ginocchia e la testa raccolta fra le palme.

La signora Chiara la riconobbe, si fermò un istante e la salutò coll'affettuosa espressione dialettale, che è d'uso comune in tutta la campagna friulana:

--Mandi, Mariute. Come va?

La vecchia si scosse, si levò in piedi e ravvisando la signora Sant'Angelo:

--Mandi, signori. Va poco bene. L'inverno è stato assai cattivo....

La Sant'Angelo stette ad udire benevolmente le lamentazioni della vecchia dicendole qualche parola di conforto.

Era un tipo spettrale: alta, magrissima, con una faccia ossea e due grosse ciocche di capelli arruffati, ricadenti dalla fronte, sotto le pieghe di un fazzoletto giallo, gettato sul capo.

--Nonna Mariute,--disse il conte Leonardo avvicinandosi anche lui col suo abituale tono di canzone,--e come va colle vostre storielle? È tornato il conte Sebastiano?

La vecchia lo fissò coi suoi occhi grigi, illuminati da uno strano bagliore:

--Il signor conte mi burla, lo so bene. Ma non importa: quello che è vero è vero. Sì, il signor conte Sebastiano è tornato ancora. Torna sempre nelle notti di temporale, là su quel balcone: l'ho visto passare io venti volte, pallido, colla lunga barba, col volto pensieroso, là....

E accennava col dito verso la mole bruna del palazzo, segnando il balcone della stanza, in cui l'ultimo dei Morò-Casabianca era morto.

Loreta non potè a meno di gittare uno sguardo da quella parte, come suggestionata dalle fantastiche parole della vecchia.

Nel tornare a casa parlarono poco. Tanto la signora Chiara, quanto Loreta, parevano dominate da una particolare preoccupazione.

Quella notte la Lambertenghi dormì di un sonno irrequieto, nel quale più volte le apparve, così come la vecchia contadina l'aveva descritta, la immagine torva e melanconica del gentiluomo suicida.


VI.

I primi mesi dell'estate passarono bene. Fu verso il settembre che un fatto penoso venne a turbare la pacifica vita della famiglia Sant'Angelo.

Era già da gran tempo che la signora Chiara non godeva più della sua antica salute. Le più brevi passeggiate la stancavano fortemente e, causa il progressivo indebolirsi della vista, aveva dovuto tralasciare del tutto di occuparsi di qualsifosse lavoro d'ago e della lettura. Ma la signora Sant'Angelo, obbedendo alla sua vecchia tempra coraggiosa, non voleva essere ammalata e de' suoi acciacchi aveva più e più volte fatto argomento di scherzi col figlio e con la nipote.

Una sera di settembre, mentr'era seduta nel suo seggiolone, ascoltando la lettura, che Loreta le faceva secondo il solito, del Giornale di Udine, chiuse ad un tratto gli occhi lasciandosi sfuggire un gemito e sarebbe caduta a terra se la giovane rapidamente non fosse sorta a sostenerla.

Accorso subito alle grida di Loreta il professore Mattia, questi, bianco in viso come un cadavere e col presentimento di una sventura, fece del suo meglio per far rinvenire la madre, mentre si correva precipitosamente al paese alla ricerca del medico.

La signora Chiara ricuperò il sentimento e trovandosi fra le braccia di Mattia, si sforzò di sorridere, ma solo a stento pervenne ad articolare poche parole:

--Non vi spaventate. Non è nulla.... proprio nulla.

Ma il medico, giunto senz'indugio, ritenne dover suo d'onest'uomo di non tenere celata al professore la verità. Era stato un insulto apoplettico quello che aveva colpito la signora: lieve per fortuna e tale da non dare peranco luogo a timori di una imminente catastrofe: le estremità inferiori eran però paralizzate del tutto e, attesa la tarda età dell'ammalata, il caso si presentava ad ogni modo grave abbastanza.

Alle parole confortatrici del medico, Mattia non credette. Tutte le terribili conseguenze di una disgrazia si delinearono prontamente con crudele evidenza nel suo pensiero. Alla possibilità di perdere la sua adorata madre non aveva mai potuto riflettere. Ora, dinanzi a questa minaccia, egli sentì fiaccate tutte le proprie forze.

Ma la speranza rinacque ancora. A poco a poco la signora Chiara parve riaversi. La parola che nelle prime settimane, dopo la sera fatale, le usciva con un po' di stento dalle labbra, si rifece limpida e spedita; le idee si mantenevano ordinatissime e precise. Soltanto gli occhi servivano ben poco alla signora e le gambe potevano dirsi interamente perdute.

Il medico aveva incorato Mattia a consolarsi.

--Vostra madre vi rimarrà ancora per molto tempo. Con assidue cure è anche sperabile di poter ottenere un qualche miglioramento. La cosa principale è quella di averla strappata alla morte.

Il professore aveva alzato gli occhi al cielo con uno slancio di contentezza.

--Ah! sì! purchè non me la portino via! purchè io la veda, purchè io la sappia vicina a me!

La sua caldissima pietà filiale gli metteva sulle labbra tali parole. Ed era un sentimento di perdonabile egoismo al quale quest'uomo semplice e buono obbediva nel pronunciarle.

Ma la vita, cui la povera signora Sant'Angelo trovavasi ormai condannata, era per certo peggiore d'ogni morte.

Stremata di forze, per intere settimane non poteva abbandonare il letto. Passava notti angosciose, insonni o tormentate da incubi penosi. Ne' giorni buoni, quando la temperatura era mite e il medico aveva dato il suo consenso, la adagiavano sopra una grande poltrona, in cui rimaneva, colle gambe ravvolte in una grossa coltre, per qualche ora.

In pochi mesi ella fu ridotta pressochè irreconoscibile. Il suo corpo sempre magro s'era quasi ischeletrito; la pelle del viso s'era fatta grinzosa e di un pallore cadaverico; paralizzata dal male ne' suoi movimenti, aveva una necessità di cure continue, tanto che quando lasciava il suo letto conveniva recarla a forza di braccia fino al seggiolone.

A tutto ciò attendeva Loreta, forte, instancabile, paziente. Amorosa come una figlia, come un angelo, resistente ad ogni strapazzo, ella non lasciava neppure per un momento la signora Chiara. Dormiva accanto a lei, nella stessa stanza, molte notti senza spogliarsi, attenta ad ogni chiamata. Quella vita di fatiche la sfiniva. Le tracce della stanchezza si dipingevano sul suo volto. Ma rifiutava con risolutezza ogni osservazione.

Una volta il medico, profondamente impressionato, ne aveva tenuto parola al professore Mattia.

--Bisogna provvedere. Questa giovane fa dei miracoli. Ma le forze di uno valgono per uno. Se continua così si ammalerà anche lei.

E propose di far venire una suora dall'ospitale di Udine.

Quando Loreta udì questo, protestò energicamente. Non lo avrebbe permesso mai più. Non temessero per lei: si sentiva forte; era giovane, non soffriva punto: anzi era per lei una dolcezza il sentirsi utile, il potersi mostrare grata alla sua benefattrice. D'altronde, qualunque disposizione avessero presa, sarebbe riuscita dispiacevole anche alla signora....

Ed era vero. L'ammalata non voleva che Loreta. Qualunque cura le fosse resa da altri di casa, la uggiva e la rendeva malcontenta. Nelle sue veglie, nelle ore in cui era assalita da' suoi dolori, ne' momenti in cui il male pareva aggravarsi, non chiamava che Loreta. La voce di lei la pacificava, la mano di lei posata sulla sua fronte pareva le inducesse la calma nello spirito.

--Loreta....--le aveva detto un giorno che si sentiva un po' meglio e l'avevano posta nel suo seggiolone, accanto alla finestra aperta per la quale entrava il salubre profumo della campagna,--Loreta, tu sei per me più buona d'una santa. Che cosa mai potrei io fare per mostrarti la mia riconoscenza?

La giovane aveva risposto, con un sorriso che illuminò la sua bella faccia magrissima:

--Che cosa dite, signora! Io faccio il mio dovere: nulla più. Sono felice nel farlo e sono sicura che Dio mi accorderà la grazia di vedervi presto guarita.

--Guarita!

La vecchierella alzava gli occhi, che più non discernevano, verso il cielo, seria, con un tremito cupo nella voce:

--Guarita!...

E la testa bianca le ricadeva sul petto, gravemente, mentre una lagrima scorreva grossa tra le rughe del suo povero viso.

Perchè, se nella signora Sant'Angelo il male aveva infrante le forze, lo spirito conservava la sua pura e serena limpidezza, interamente. E quelle immagini che già da lungo tempo la assediavano, ora le apparivano dinanzi con più penosa e sinistra evidenza.

Una volta che don Letterio Prandina era venuto da Udine per visitarla,--come del resto negli ultimi tempi faceva con molta frequenza,--la vecchia signora si lasciò andare con lui ad uno slancio di confidenza.

--Vedete, don Letterio, tutti quelli che mi circondano vanno a gara perchè io non possa accorgermi del mio stato.... Io mi sforzo di far credere a tutti ch'essi riescono nel loro intento. Ma non è così. So che i miei giorni sono contati. E attendo senza timori che Dio mi chiami. Ma il mio povero Mattia.... lasciarlo, lasciarlo così!

Don Letterio aveva procurato di consolarla con dolci parole:

--La Provvidenza non abbandona mai i buoni! Anche Mattia troverà un giorno la sua felicità!

--Avete ragione, Prè Letterio: la provvidenza c'è, c'è per tutti. E bisogna sperare. Ah! se io potessi sperare che Loreta resti per sempre accanto al mio figliuolo....

--Se questo sarà il volere di Dio....

Prè Letterio troncò così quel discorso. Egli comprendeva perfettamente quale sentimento di bontà inspirava il voto della signora Sant'Angelo. Era un sentimento a cui egli con tutto il suo cuore applaudiva. Ma da uomo pratico del mondo e della vita una riflessione lo sopraffaceva. Ed era quella della gravità grandissima che quel fatto avrebbe potuto avere nell'esistenza del professore: gravità che quella madre amorosa, sotto l'impulso della sua passione, era ben lunge dal poter misurare.

La signora Sant'Angelo si acquietò alle parole del vecchio amico, limitandosi a commentarle con un lungo sospiro, nel quale ella poneva tutto il fervore della sua anima piena di fede. E per alcuni giorni non toccò più con alcuno quell'argomento.

Ma il suo stato di prostrazione andava aumentando con rapido ed allarmante progresso. Distesa nel suo lettuccio, colle spalle affondate ne' cuscini, rimaneva ormai lunghe ore immobile, cogli occhi chiusi, colle mani piccole e bianche raccolte sullo scarno petto. Loreta le stava accanto continuamente. Mattia, nervoso, col volto pallido, andava e veniva per la stanza, girandosi spesso a sedere in un angolo, donde fissava, cogli occhi ardenti, intensamente, la sua cara ammalata, in una espressione di alto ed appassionato dolore. Quando poi la signora ridestavasi e chiamava, accorreva al suo fianco, tergendosi rapidamente le lagrime; e più di una volta Loreta doveva trattenerlo, perchè nell'impeto suo, non desse a comprendere alla sofferente lo stato di angoscia in cui egli si trovava.

Una sera, che Loreta erasi allontanata per pochi momenti, la signora Chiara aveva voluto accanto a sè il figliuolo. Era una sera triste sul finire dell'ottobre. Sulla campagna piovigginava. E per l'aria, già fredda, veniva lento dalle chiese di Tricesimo e de' villaggi vicini il rintocco delle campane. La vecchia pareva si fosse raccolta ad ascoltare que' suoni, poi quasi improvvisamente aveva chiamato il professore:

--Sei qui? sei qui?

--Sì, mamma, sì.

Ella aveva sorriso. Colle mani tremanti cercò la testa di suo figlio e gli accarezzò i capelli brizzolati, con una lunga carezza, come avrebbe fatto una madre al più tenero fanciulletto.

--Suonano laggiù.... suonano. Per poco ancora li sentirò. Forse domani sarà tutto finito!

--Che dici, mamma!--esclamò il professore con voce soffocata, sforzandosi a celare il suo struggicore.

Ma la signora colle sue dita gli sfiorò la faccia bagnata di pianto:

--Tu piangi, Mattia. Sì. Non ti veggo più, ma sento che hai le lagrime sul viso. Perche? Tu sei stato un buon figlio sempre. Non ho che da benedirti. Se anche ti debbo lasciare resterà con te la mia benedizione sempre, sempre....

Poi abbassando la voce:

--Ed ama Loreta, figlio mio,--aggiunse la signora Sant'Angelo,--amala; essa è buona, ha sofferto, ha pagato coi dolori ogni suo errore; amala: non è indegna di te.

Dopo quelle parole reclinò il capo stanco, ricadendo in uno stato di dormiveglia placidissimo, interrotto da qualche lieve scotimento nervoso. Si sarebbe detto ch'ella riposasse in un tranquillo sonno se tratto tratto non avesse dischiuso gli occhi volgendoli in giro, come cercando taluno.

Il medico, venuto nella notte due volte, poi per tempissimo alla mattina seguente, avvertì che la fine era giunta. Ed infatti, prima di sera, la signora Sant'Angelo si addormentò per sempre, senz'alcuna agonia penosa, fra le braccia di suo figlio e di Loreta.


VII.

Erano passati quasi due mesi dalla morte della signora Chiara. Ma la calma non era peranco rientrata nello spirito del professore. Indarno aveva egli cercato di darsi con febbrile foga a nuovi lavori. Dopo breve tempo si sentiva stanco. Ed a certi momenti, colto da un'improvvisa sfiducia del proprio ingegno, provava dinanzi alle opere sue quel profondo inesplicabile sgomento, che nelle ore dell'amarezza fa sembrare misera illusione tutto ciò che poco prima, al raggio della felicità, appariva circondato dagli incanti della gloria e della vittoria.

Quante sere, solo, chiuso nel suo studio, aveva lasciato sfuggirsi dalle dita la penna, abbandonando il capo sul dorso della sua seggiola, sopraffatto da un ardente bisogno di pensare al passato. Ed era sempre la stessa lugubre apparizione che lo tormentava: di un corteo funebre, il quale, sotto un freddo cielo d'ottobre, s'avviava frettoloso giù per la lunga strada fangosa, mentre l'aria umida della sera faceva oscillare le fiamme gialle de ceri e sperdeva le preghiere de' preti e de' contadini. Egli si vedeva ancor là, su quella fossa aperta, dove gli pareva che stessero per seppellire ogni suo affetto. E per quanto facesse, non sapeva liberare il suo cuore da quel senso di gelida mestizia onde fu vinto nel rientrare poi nella sua vecchia casa, priva ormai dell'angelo buono che gliela rendeva così cara.

Il professore dopo quella disgrazia aveva provato quasi una voluttà nel cercare la solitudine. Si alzava all'alba ed entrava nel suo studio, uscendone di rado, pregando perfino talvolta Loreta che gli facesse recare il pranzo colà. Verso il tramonto andava a fare una passeggiata in mezzo ai campi, evitando di passare per i villaggi, salutando appena i conoscenti in cui s'avveniva. Poi rientrava, mandava giù un boccone svogliatamente e si ritirava nelle sue camere.

Gli amici di Tricesimo, che sulle prime eran venuti replicate volte a prendere sue notizie, a poco a poco, dinanzi al contegno freddissimo del professore, avevan cessato dalle visite, convinti di riuscirgli molesti. Taluno di essi non mancò neppure di aversene a male, e tra questi specialmente il conte Leonardo Mangilli, che s'arrabbiava di veder riuscire inutili sull'animo dell'amico tutti i conforti ch'egli procurava di recargli con i suoi predicozzi altisonanti di uomo spregiudicato.

Tolto a' suoi studî, il professore non aveva la testa a nulla. Degli interessi di casa non s'occupava punto: di tutto quanto riguardava l'azienda economica de' suoi poderi, non voleva udire a parlare. Quando i coloni venivano o per pagare gli affitti o per ricevere qualche disposizione, e la Vige, piena di titubanza, recavasi a bussare alla porta dello studio per avvertirne il padrone, questi si sentiva profondamente contrariato, e talora lasciavasi andare a vive parole d'impazienza.

La Vige tutta intimorita scusavasi del suo meglio: non sapeva come fare, vi era forzata.

Allora il professore si levava, e ponendo la mano sulla spalla della fedele domestica:

--Abbiate pazienza se sono così!--diceva.--Che volete? Penso sempre a quella poveretta. Faceva lei tutto così bene: faceva lei tutto sempre. Ora non c'è più!

Aveva nel dir così la voce ingroppata, e alla Vige, ohe adorava la vecchia padrona, si riempivano pure gli occhi di pianto.

--Pregate la signorina, che vegga lei...--concludeva il professore.

E la serva usciva quanto più presto poteva per celare la sua commozione.

Così, adesso avveniva sempre. In casa, Loreta era tutto. Come obbedendo alla forza delle circostanze, e senza mai mostrare di accorgersi dei servigi ch'ella rendeva, s'era assunta tacitamente tutti gli uffici ai quali altra volta attendeva di persona la signora Chiara. Al professore evitava di parlare di qualsifosse interesse, a meno di non esservi costretta da qualche imprescindibile necessità. E solo alla fine di ciascun mese gli faceva trovare sulla scrivania, tutti raccolti in un fascio, i conti ed i registri, sui quali egli gittava appena e per pura forma un fuggevole sguardo.

Fu un giorno, ch'ella veniva appunto a riprendere alcuni di cotesti conti--otto o dieci mesi dopo la morte della signora--ch'egli per la prima volta la trattenne presso di sè più lungamente:

--Loreta, è assai bello e gentile tutto quello che voi avete fatto e fate per la mia casa. Voi dovete compatirmi se io non vi dico mai nulla della mia gratitudine. Se sapeste però quante volte ci penso! e come vorrei trovare il modo per esprimervi quanto si passa nel mio cuore....

Ella, udendo quelle parole, s'era fatta un po' rossa in viso; con manifesto imbarazzo, girando fra le mani il fascio delle carte, mormorò qualche frase evasiva e subito fece l'atto di andarsene.

Ma il professore ne la impedì:

--No, Loreta, aspettate ancora un momento, non andate via così. Voglio che voi mi assicuriate che non mi tenete carico se io apparisco talvolta così chiuso in me stesso. Non è colpa mia se son fatto a questo modo. Vi ricordate che anche la mamma me ne rimproverava sempre....

E prendendo con mano tremante una delle mani di lei:

--Mi perdonate, non è vero?--le dimandò.

--Mattia.... Io, io che debbo tutto a voi.... che cosa mai dovrei perdonarvi?...

E ritirando la mano, senza aggiungere altro, uscì in fretta, con la faccia invasa da un vivo rossore.

Quando l'uscio si chiuse dietro a lei, il professore tornò lentamente al suo posto presso la scrivania e, trattosi dinanzi un grosso quaderno tutto coperto di appunti e di note, parve accingersi a riprendere il lavoro.

Ma dopo pochi momenti, sfogliate appena alcune pagine, egli raccolse il capo fra le palme, meditabondo, cogli occhi assorti verso l'uscio dal quale la giovane donna era partita.

Nè codesto poteva più dirsi per lui un fatto anormale.

Nella cupa freddezza della sua vita, in mezzo al fervore de' suoi lavori e quando più grave gli pesava sull'animo la melanconia de' ricordi, era sempre la figura serena di questa giovane povera e buona che gli si elevava dinanzi come una mite visione riconfortante. In tutto ciò che lo circondava, in tutta la sua casa, egli sentiva l'opera salutare di lei: la sentiva costante, in cento minute e previdenti cure, disposte sempre tacitamente, col sottile delicatissimo studio che l'intenzione non ne trasparisse.

"Voi dovete compatirmi se io non vi dico mai nulla della mia gratitudine. Se sapeste però quante volte ci penso!..." Mattia in queste parole era stato veritiero. Avrebbe cercato invano di dire a Loreta quale influenza benefica ella esercitasse sopra il suo cuore; sapeva il proprio labbro impotente a trovare ed a pronunciare delle frasi che corrispondessero a questo suo sentimento. Ma se il labbro taceva, non restava muta l'anima sua. Il pensiero, che non s'era peranco tradotto in un accento vivo, gli rinasceva ora con frequenza ognor più rapida, lo riafferrava sempre più insistente temperandogli nelle ore tristi l'acerbità de' suoi dolori e troncandogli anche sovente la lena al lavoro.

Talvolta udendo il passo di lei, sommesso e lieve, nelle stanze vicine, gli avveniva senza sapere il perchè di tendere l'orecchio, ascoltando ansioso finchè il rumore si allontanava, sentendo un palpito accelerato nel petto quando il passo pareva più prossimo all'uscio dello studio. Altre volte gli avveniva di staccarsi, come colto da un'estrema stanchezza, dalla sua scrivania e di approssimarsi alla finestra, d'onde indugiavasi lungamente a guardar giù nel cortile, dove al solito posto, sotto al porticato inghirlandato dai festoni dell'edera, la giovane attendeva a qualche lavoro: ora tutta sola, seria e pensierosa col viso bianco chinato sull'opera di cucito, ora scambiando qualche parola con la Vige, che sempre laboriosa andava e veniva dall'uscio della sua cucina al pozzo, ora col ragazzo Agnul, che accudiva alle proprie incombenze dinanzi alla rimessa, ora infine coi coloni che giungevano a recar le derrate od a prendere qualche comando.

I contadini l'amavano tutti per l'affabilità sua, per quella dolcezza che aveva nella voce e nei lineamenti. Anche quand'era costretta per l'interesse domestico di movere a taluno qualche rimprovero o di mostrarsi insoddisfatta di qualche prestazione, trovava sempre per farlo quella parola che, pur essendo severa, non irrita e persuadendo non lascia traccia alcuna d'amarezza. Pietosa coi poveri, aveva ottenuto dal professore il permesso di continuare in tutti quegli atti di beneficenza, per i quali la signora Chiara aveva lasciato di sè memoria così benedetta. E li compiva religiosamente, con una soddisfazione intensa, facendosi un carico di rammentare a' suoi poverelli il nome della loro antica benefattrice.

Così una volta il professore Mattìa provò una emozione ineffabile potendo cogliere, inosservato, alcune parole con le quali la vecchia Mariute, venuta a prendersi un fardelletto di biancheria, ringraziava la giovane, usando le frasi ed i titoli che i contadini friulani hanno sempre per i signori del loro paese:

--Siete buona anche voi, contessina: tanto, tanto, come la vecchia contessa..., che Dio abbia in gloria!...

"Come la vecchia contessa!" Povera signora Chiara quanto rideva lei di quell'epiteto nobiliare che tutti si ostinavano a darle secondo il costume del paese; e come il professore ne rideva cordialmente egli pure! Ma quel giorno non rise: le parole che la vecchia aveva pronunciate lentamente, colla sua voce roca, gli vibrarono nel cuore come una musica. Il ricordo delle virtù di sua madre, accoppiato così al nome di Loreta, assunse per lui--anche sulle labbra di quella misera donna, in cui pareva che la intelligenza non si risvegliasse che quando provava qualche grande gioia--un particolare significato, rispondente a pieno al pensiero che adesso più non lo abbandonava.

Di tutto ciò a Loreta non disse mai nulla. Ma ora--non più come una volta--piacevasi della sua presenza, la cercava, procurava di creare sempre qualche pretesto per prolungarne la durata. I discorsi si aggiravano per lo più su argomenti futili, sulle faccenduole domestiche; e il professore, che aveva sempre mostrato una grande avversione a preoccuparsi di tutto ciò che si riferiva agli oggotti dell'economia, ora sembrava trovasse il massimo interosse per tutte le cose onde Loreta sentivasi in debito di venirlo ad informare. Ascoltandola si distraeva, rimanendo talora come attonito in una muta contemplazione, imbarazzato quando si accorgeva che le risposte, da lui date alla giovane, corrispondevano assai male e spesso non corrispondevano affatto alle domande che quella gli rivolgeva.

Una sola volta egli stette per tradire il pensiero che gli martellava nel capo; una volta sola gli stette per fuggire dal labbro, aperta, franca, una confessione: la dolce confessione, alla quale la ingenita selvatiehezza, la ritrosìa a commettere un atto incompatibile con la sua età e forse il timore di una repulsa, facevano nel suo spirito un argine potente.

E fu alcuni mesi appresso, nell'anniversario della morte della signora Chiara.

In quel giorno--con l'ingenua pietà filiale, che era stata la religione sola della sua vita e ch'egli aveva conservata, forte e caro retaggio, mentre la testa gli si incanutiva e tante illusioni s'eran svanite intorno a lui,-- in quel memore giorno egli era entrato dopo lunghissimo tempo nella camera ove la signora era morta e nella quale, per una mesta affettuosa superstizione, aveva voluto fosse mantenuta ogni cosa al suo posto.

Confinato per intere giornate nel suo studio, presso il quale aveva ora anche la sua stanza di riposo, egli saliva di raro assai nelle camere superiori; ed in quella già abitata da sua madre raramente egli metteva il piede, sentendo riaccendersi troppo vivo il proprio dolore tra quelle pareti dove tutto gli parlava di lei, dove tutto gli diceva con nuove lancinanti parole, quanto tesoro di bontà e di affetti egli avesse perduto.

Quel giorno egli vi entrò di buonissima mattina, uscito appena dalle sue stanze, volendo compiere quest'atto gentile di pietà quasi di soppiatto, con quel riserbo soave, onde i veri dolori sentono spesso la voluttà di circondarsi. La mattina era limpida. Sulle ampie invetriate del corridoio, ch'egli attraversava a passo frettoloso, il chiarore dell'alba pioveva come una luce d'oro. Intorno per le campagne tutto ancora taceva: solo tra le pergole dell'orto e negli alberi alti intorno alla casa era un sommesso gorgheggio di uccelletti: il saluto festoso al bel sole che rinasceva.

Il professore Mattia giunto all'uscio di quella camera, dove una volta ogni mattina egli soleva venire come un ragazzo a prendere il bacio, il caro bacio della sua santa vecchietta, si arrestò un momento con uno stringimento al cuore. Poi girata lentamente la maniglia, dischiuse pianamente l'imposta, come avesse temuto di risvegliare una persona dormente.

Ma ristette perplesso dinanzi alla visione che gli apparve.

Genuflessa sull'inginocchiatoio di noce nero, dove sua madre era abituata a dire le proprie orazioni, una donna stava assorta a pregare. Sotto il quadretto sacro--una vecchia litografia ingiallita, che era una memoria di famiglia,--due grossi fasci di rose eran posati: rose grandi, gialle, dalla fragranza delicata, che la povera signora Chiara aveva particolarmente amato.

Al rumore del passo la donna balzò in piedi volgendosi come atterrita.

--Loreta!--mormorò il professore, avanzandosi lentamente, con gli occhi lucenti.

Ella lo guardò, senza poter dire una parola, colle guance fatte vermiglie, restando immobile al suo posto.

La stanza ora era inondata di luce. Dalle finestre spalancate l'aria mattinale entrava con una fragranza balsamica di campagna. Le tende un po' ingiallite del vecchio letto in fondo all'alcova si agitavano lievemente.

Dall'alto della parete il volto placido di Giovanni Sant'Angelo pareva sorridere con melanconia nella sua cornice d'oro.

--Loreta, quanto siete buona!--disse il professore con la voce che gli tremava.--Quanto è bello tutto ciò che voi sapete fare! E come sento di volervi bene per la vostra bontà!

E rapidamente, come per un impulso naturale e castissimo, si portò la mano di lei alle labbra, posandovi un bacio con tenerezza infinita.


VIII.

Passato quel momento di espansione, del quale entrambi avevano sentita per diverse ragioni la grande dolcezza, si sarebbe detto che Loreta e il Sant'Angelo si fossero tacitamente accordati per evitare tutto ciò che ne avesse potuto richiamare il ricordo.

La loro vita in casa continuò nel suo consueto uniforme andamento. E unicamente a certi momenti, quando si trovavano soli, l'uno di fronte all'altra, pareva che un grande imbarazzo sorgesse improvviso a paralizzare la loro parola.

Secondo un'inveterata consuetudine, che il professore aveva seguito fin là costantemente, ogni anno, da quando le sere principiavano a farsi tiepide sino a tardissimo autunno, soleva egli indugiarsi, dopo la cena, fumando tranquillamente, per un paio d'ore dinanzi al portone della casa, in una specie di spianata, dove si collocavano alcuni rustici sedili e d'onde lo sguardo spaziava ampiamente sulla pianura.

Colà, in altri tempi, si facevano le lunghe chiacchierate con qualche ospite amico; colà, nella grande quiete notturna, che suadeva ai giocondi familiari colloqui, egli soleva trovare il più caro ristoro alla sua mente affaticata.

La primavera tornò quell'anno; già i campi erano in piena rifioritura e il maggio imminente, arriso da un costante sereno, invitava con le sue sere placide all'aria aperta. L'ortolano aveva avuto premura che fossero rinnovate intorno alla spianata certe ricche spalliere di amorini, che un dì formavano l'orgoglio della signora Sant'Angelo; e il piccolo Agnul, secondo l'antico uso, disponeva già ogni giorno, subito dopo il tramonto, ai posti consueti, le vecchie sedie di legno, che al principiare della buona stagione egli aveva ridipinto con una bella mano di color verde com'era ogni anno sua gelosa cura particolare.

Ma quella primavera, con molta meraviglia della Vige e non piccola mortificazione del diligente ragazzo, il professore non scese neppure una volta al luogo favorito. Terminato appena di cenare, accendeva il sigaro e seguito da Prè Zuan, il fido cane di casa, se ne andava a fare qualche lunga passeggiata scegliendo di solito le strade meno battute ed evitando di attraversare i luoghi più popolosi. Loreta intanto attendeva ai lavori, e, solo quando questi erano compiti, esciva un po' dinanzi al portone, trattenendosi a respirare l'aria refrigerante della sera.

Ma ritiravasi presto; quasi sempre prima che il professore fosse rientrato.

Di ciò pareva ch'ella facesse uno studio particolare. Anzi non era sfuggito neppure all'ingenuità dell'ottima Vige come la signorina alcune volte in cui il professore ritornava per caso prima del solito, s'affrettava vivamente a ritirarsi, non appena il passo di lui si facesse distinto su per lo stradone o quando per i campi s'udiva abbaiare il vecchio Prè Zuan, lieto di quelle libere scorrazzate in mezzo al verde.

Di questo s'era accorto lo stesso Sant'Angelo e tale osservazione non aveva fatto che accrescergli quel profondo e molesto turbamento, del quale, ad onta di tutti i suoi sforzi, non riusciva ad ottenere vittoria.

Assai spesso, nelle sue ore solitarie, egli si sentiva costretto a domandarsi il perchè dello strano mutamento operatosi in lui. Non si riconosceva più: la sua forza, l'amore del lavoro, la calma dello spirito gli parevano irreparabilmente svaniti; persino il pensiero triste, che prima dominava costante nel suo cervello, il pensiero della madre che aveva perduto, ora non tornava più così assiduo e doloroso. Era in lui un'inesplicabile inquietudine, un desiderio insistente di stancarsi, una malìa acuta e crucciosa, che talora gli accendeva le guance smorte di un foco improvviso ed altre volte gli velava repentinamente gli occhi di pianto.

Contro questo stato d'animo il Sant'Angelo volle reagire. Virilmente volle, e quasi disdegnando di confessare a sè stesso quello che dentro gli ferveva, cercò di porre un freno al male, che comprendeva farsi ogni giorno più veemente e più tenace.

Per riuscire in questo cimento, ch'egli sentiva a sè imposto dalla voce della ragione, procurò di concentrare tutti i suoi pensieri nella fredda realtà della propria vita, perchè da quella essi avessero ritegno ad ogni vano e sconsigliato volo. Indugiandosi talora dinanzi allo specchio, che colle sue abitudini di semplicità aveva sempre considerato inutile ornamento della propria camera, ostinavasi a fissare con una certa amarezza il suo volto avvizzito, il fronte calvo già solcato di rughe, gli occhi deboli e affaticati, la barba cresciuta incolta e pressochè interamente bianca. Si ricordava in quei momenti gli scherzi che con sua madre egli aveva fatto tanto spesso sulla propria vecchiezza. Lei non voleva udire, protestava che quelle erano declamazioni per farla andare in collera. Povera e buona madre, che aveva sempre veduto ogni cosa con gli occhi dell'affetto! No, egli non voleva e non doveva avere di queste illusioni: sarebbe stata debolezza indegna d'un uomo assennato. E dicevasi che la coscienza di sè, per quanto possa riuscire spiacevole e dura, è sempre il dovere del prudente ed è la salvaguardia più forte contro i disinganni.

Il Sant'Angelo di queste sue conclusioni provava un orgoglio, come d'un trionfo che l'animo suo avesse conseguito sopra una misera tentazione della vanità. E tacitamente egli faceva a sè stesso promessa di non lasciarsi rimuovere da siffatti pensieri, sotto il governo de' quali vedeva assicurata durevolmente la sua dignità e la sua pace.

Ma per quanto egli tentasse d'illudersi sulla saldezza di tali proponimenti, le sconfitte della sua volontà si venivano moltiplicando giorno per giorno.

A quale fascino obbediva egli mai per nascondersi ora, ogni sera, nelle ombre della campagna, e spiare di là, lungamente, al lume incerto delle stelle, se una nota figura apparisse lassù, tra le spalliere de' gelsomini, al memore posto, ov'egli nel suo tempo felice aveva passato tante ore tranquille?

Per queste improvvise debolezze, delle quali avrebbe voluto cacciare da sè ogni ricordo, egli era assalito poi da un rammarico crudele. Così una notte egli pianse di rabbia per aver baciato furtivamente, cento volte, una sciarpa di velo ch'egli aveva trovato, dimenticata da Loreta, sopra uno de' banchi rustici dinanzi alla casa, quand'egli era rientrato. Aveva compiuto quell'atto gentile, per potente stimolo dell'anima, col corpo scosso da un fremito delizioso, dopo essersi guardato intorno timorosamente, come fosse stato per commettere un'azione colpevole.... E passato appena quell'istante di obblio, allorchè fu solo nel raccoglimento delle sue stanze e ripensò a' propositi fatti, ne ebbe vergogna e dolore.

Delle segrete battaglie, che lo turbavano così, il Sant'Angelo non cercò e non volle confidenti. Anzi, la ferma convinzione che nessuno avesse potuto leggergli nell'animo, gli era argomento di vivo conforto.

Senonchè, anche per tale riguardo trovavasi in errore. Per quanto egli vivesse isolato, sfuggendo le compagnie, l'occhio vigile de' disoccupati era intento abbastanza sopra di lui, perchè egli potesse andar salvo dai commenti della malignità. Il mutamento tanto radicale nelle sue abitudini, delle quali tutti lo sapevano schiavo, la sua taciturnità quasi scontrosa anche verso coloro che in altri tempi aveva particolarmente diletti, dovevano di necessità svegliare l'altrui attenzione. E se da un lato quest'attenzione nasceva unicamente da naturale curiosità, non mancava neppure chi con intento nemico vi infondesse nuovo alimento, ricorrendo pure alle più basse e volgari insinuazioni.

Il Sant'Angelo, così amato in tutto il paese, vi aveva anche de' nemici, pochi di numero, ma fieri e giurati: gente divisa da lui da questioni di partito o che, per atti da lui disapprovati, aveva sempre tenuto da sè lontana con freddezza e riserbo. In mezzo a costoro, più fiero di tutti, col lievito di un vecchio rancore, che non aveva peranco potuto trovar sfogo, don Giovanni Morganti, il prete-archeologo di Collalto.

Dell'essere rimasto soccombente nella memorabile e puntigliosa lite sostenuta contro il professore, il Morganti non tanto si risentiva ancora, quanto dell'atto di dileggio che quegli aveva voluto fargli col famoso battesimo del Terranova: origine di spassi clamorosi, che tuttavia, dopo tanti anni, si rinnovavano ancora a sue spese. Il vecchio non sapeva mettersi in pace: un odio sordo s'alimentava di continuo in lui contro quello "spregiudicato usurpatore" ed era odio così implacabile che se solamente il professore passava per caso dinanzi alla trattoria di Tricesimo, dove il Morganti soleva bere la sua tazza di birra facendo con gli amici la partita a tresette, il suo viso diventava scarlatto e la vista gli si annebbiava da non distinguere più le carte che aveva tra mano.

Le voci corse in paese sull'"innamoramento" del professore giunsero assai propizie al prete di Collalto, che subito vi scorse un mezzo più che favorevole per soccorrerlo ne' suoi non confessati, ma fermi propositi di vendetta.

Approfittando delle narrazioni che molti facevano durante le lunghe chiacchierate all'osteria, fra una partita e l'altra, sul cupo umore e sulla ciera rannuvolata, che il Sant'Angelo aveva costantemente, lo scaltro prete fu quegli che iniziò i commenti maliziosi. Con arte gesuitesca, fingendo prima una certa titubanza ad ammettere "benchè si trattasse di quel bel figuro" che un uomo come lui, non certo privo di senno, potesse alla sua età lasciarsi invescare così puerilmente nei lacci dell'amore, metteva poi, con molto lusso di parole, in evidenza il ridicolo che da ciò doveva necessariamente ricadere sulle sue spalle. Quindi, senza darsene l'aria e coordinando le ciarle vaghe, che or l'uno or l'altro riferiva, venne a poco a poco mettendo insieme una completa storiella, secondo la quale il professore Sant'Angelo era oramai ridotto alla parte di un povero zimbello, che la forastiera si divertiva a muovere a suo talento, dopo avergli fatta perdere la testa ed essersi impadronita di ogni potere in casa.

--Non sarà vero forse!--concludeva il vecchio ipocrita intrecciando le sue grasse mani di fannullone sull'ampio torace.--Ma intanto prima d'ora non s'era parlato mai ne' nostri paesi d'una simile tresca! Ah! questi liberaloni, questi liberaloni!...

Sciolto così il volo alle dicerie maligne, esse divulgaronsi rapidamente, e, come sempre, nel divulgarsi crebbero di intensità e d'acrimonia.

Si suol dire che al male facilmente si crede. In tesi generale è vero. Ma non manca, per onore degli uomini, anche chi, dinanzi all'aperta cattiveria altrui, protesti e si ribelli.

Il degno don Morganti trovò alle sue manovre insidiose sostenitori conniventi ed inconsapevoli complici; ma trovò anche chi gli oppose non solo confutazioni piene di convinzione, ma anche calde e vivaci rimostranze.

Fra questi ultimi fu il conte Leonardo Mangilli, che con tutta la sua ruvidezza, per la quale molti nel paese lo chiamavano semplicemente il conte orso, non era tipo da lasciar passare senza sdegno e senza difesa gli attacchi vilmente diretti alle spalle di persona, ch'egli stimasse degna di rispetto e di considerazione.

Il prete, che vedeva cadere con sì grande facilità nei suoi tranelli tanti semplicioni, i quali poi divenivano ciechi strumenti delle sue bieche arti, ingannato dalla rudezza del Mangilli, da lui interpretata come inclemenza d'animo, aveva sulle prime creduto d'aver trovato in quello, un nuovo e facile alleato. L'altro l'aveva lasciato dire. Per sapere ogni cosa sino al fondo, gli diè anzi animo a continuare; ma quando ebbe appreso fin dove si spingesse la perversità del suo interlocutore, gli fe' morire bruscamente sul labbro la parola.

--Potrà essere che il Sant'Angelo come tutti gli uomini al mondo commetta delle corbellerie. È cosa che accade ogni giorno e ne accadranno di simili in ogni tempo. Ma voler gittare su lui e sopra una povera e indifesa donna il fango a questo modo, è opera codarda e degna solo di gente cattiva!

A cotesta sfuriata il prete, rosso come un gallo, si sottrasse con mille assicurazioni di essere stato malinteso. "Eran cose che gli altri--tutti gli altri--dicevano: non lui, che anzi ci credeva pochissimo!" Ma il conte tagliò corto al discorso, mostrandosi profondamente nauseato di quelle malignità.--"L'orso ha mostrato i denti!" dissero in quell'occasione gli avventori del Caffè della Posta a Tricesimo, dove la scena era avvenuta.

E il Mangilli infatti aveva dovuto far violenza a sè stesso per non dar fuori in più aspre invettive. Che nello schiudere con tanta generosità le porte della sua casa alla cugina il professore si fosse tirato sul capo molti pericoli, egli aveva sempre creduto. In que' giorni, mentre gli altri lodavano in coro la buona azione, egli solo, contro tutti, aveva fatto le proprie riserve, con la sua rude ingenita franchezza. Ma ora, anche se i fatti venivano a dargli ragione, non poteva lasciar vilipendere a quel modo un fiore di galantuomo, com'era il Sant'Angelo, nè adattavasi a tollerare che la cattiveria altrui fosse lasciata proseguire, senza repressione, nelle sue velenose ed esagerate insinuazioni.

Col suo concetto dell'amicizia, reciso e franco, gli parve dovere d'aprire gli occhi al Sant'Angelo; e, senza dissimularsi la difficoltà del suo compito, si propose di parlarne subito, senza reticenze, al professore. Anche se la verità gli dovesse tornar discara, poco male: la conoscenza del vero l'avrebbe messo in guardia. Ed a questo unicamente egli tendeva.

Non parendogli adatto di recarsi a questo scopo speciale alla casa del Sant'Angelo, ch'egli da qualche tempo più non frequentava, stimò miglior consiglio cercare d'incontrarlo come per caso.

Nè questo gli riuscì difficile. Sapeva quali erano le passeggiate che ora il professore preferiva; e una di quelle sere, messosi da quelle parti, si avvenne in lui precisamente secondo il suo disegno.

Al primo incontrarsi parlarono di cose indifferenti, con quello scambio di frasi usuali, che la circostanza suggeriva. Ma il conte Mangilli, deciso, a non lasciarsi sfuggire l'occasione che aveva cercato, trovò il modo di entrare difilato in argomento.

--Non vi si vede più, professore. Vi siete messo a fare propriamente l'eremita. Che cosa vuol dire?

Il Sant'Angelo s'attaccò alle solite scuse: gli studi, l'umore cattivo, la salute che non aveva più buona come una volta.

--Male, male, caro Mattia!--l'altro riprese.--Con questa vita di solitudine vi avvelenate l'esistenza. Un uomo come voi, che era l'anima delle brigate, che portava a tutti la consolazione e l'allegrezza! Che abbiate avuto dei dolori, chi non lo sa! Non si perde, senza che sia uno schianto per l'anima, una madre come la vostra. Ma anche il dolore ha un limite. E fare come voi fate è torturarsi inutilmente!

--Che volete, caro conte Nardin, quando si hanno certi temperamenti benedetti!

--Sì, capisco; i temperamenti voglion dire assai. Ma, corpo di mille diavoli, quando si ha un po' di sangue nelle vene, si deve ben trovare la maniera di vincersi!

E, passato il braccio sotto quello del Sant'Angelo:

--In confidenza, professor Mattia, non andate in collera se vi riferisco quel che dicono in paese? Gente maligna, lingue sacrileghe, certo! ma poichè di queste si deve sempre temere....

Il conte sentì come il braccio del Sant'Angelo ebbe un sussulto sotto il suo.

--Che cosa dicono?--chiese forzandosi a che la voce non tradisse l'emozione.

Il Mangilli, arrivato al punto cui egli mirava, non si tenne più e ruvidamente, senza ambagi, spiattellò quanto s'era proposto di dire, sino all'ultima sillaba, solo tacendo i nomi delle persone, onde aveva saputo la cosa.

--Vi volli dir tutto,--egli concluse,--non perchè io lo creda; non perchè, ove fosse vero, io ve ne terrei carico. Il mondo è mondo. Noi diciamo con un nostro proverbio che l'aghe rovine i puints e il vin il çhav... 1, ma più del vino rovina il capo l'amore. Disgrazie queste.... possono capitare a ognuno.... anche a me, che sarebbe tutto dire! Ma poichè ci va di mezzo col vostro nome il nome di una donna.... e che di questa si dicono le cose più tristi, sta bene che almeno voi abbiate gli occhi aperti e vi sappiate regolare!

Note 1: (ritorno) "L'acqua rovina i ponti e il vino il capo."

Mattia a quella narrazione restò tutto sconcertato. Le parole rudi del conte, che senza mendicare perifrasi chiamavano le cose col loro vero nome, gli avevano dapprima messo il fuoco alle guance e alla fronte. Il comprendere che il suo segreto, ch'egli credeva da nessuno sospettato, fosse stato già scoperto e fatto argomento di bassi commenti, gli recava un profondo rammarico. Ma questo sentimento fu quasi cancellato al pensiero che il nome di Loreta, di quella donna gentile e buona, ch'egli adorava e stimava, fosse trascinato così nel dileggio con una diceria codarda ed oltraggiosa.

--Chi? chi?--egli chiese a un tratto stringendo le pugna, con un trasporto di collera, che contrastava in modo singolare colla sua indole pacifica e mite.

--Chi?--rispose il conte, fermandosi per non dire il nome che il suo sdegno di uomo onesto gli sospingeva al labbro.--Chi? Tutti e nessuno. La rana che gracida nel pantano, ma il cui grido insistente, che viene dall'ombra, tutti possono udire.... Per questo: occhi aperti, diffidenza con tutti. Uomo avvisato mezzo salvato!


IX.

Le cose risapute dal Mangilli misero l'inferno nell'animo del professore; e se da un lato comprendeva di dovergli riconoscenza per quella prova di amicizia, dall'altro quasi dolevasi ch'egli non gli avesse risparmiato una pena così crudele.

Da principio, colla testa ancora in fuoco, ad una sola cosa egli pensò: scoprire i tristi che avevano messo in giro le calunniose voci, affrontarli risolutamente e costringerli a farne immediata ammenda.

Ma che tale proposito fosse inattuabile s'appalesò a lui stesso non appena calmato il primo bollore dell'ira. Come avrebbe egli potuto con sicurezza, per quanto guidato da fondati sospetti, chiedere ragione a singoli individui di ciarle, che ad ogni ora trascorsa si spandevano sempre più vastamente nel paese? Poi in uno scandalo non sarebbe per avventura stato compromesso in modo ancor più grave il nome di Loreta, il nome stesso dei Sant'Angelo? E forse nella dimostrazione dei proprî risentimenti non avrebbero avuto conferma ed avvaloramento le dicerie circolate?

Queste considerazioni trattennero il Sant'Angelo da que' passi ai quali sulle prime erasi trovato spinto con istintiva veemenza. Ed anche da questo lato ebbe gratitudine al Mangilli dell'avernelo freddamente ammonito mettendogli sottocchio tutte le possibili conseguenze.

Con tutto questo però la battaglia che lo affannava non ebbe tregua. A tutte le interrogazioni che egli si proponeva sul modo di liberarsi dal martirio di quella situazione, non gli veniva fatto di dare risposta. E in tale impotenza della propria ragione egli s'abbatteva percosso in un avvilimento sempre maggiore, senza speranza di più poterne uscire ritemperato e vittorioso.

Mai come in quei giorni egli sentì il dolore della propria solitudine. Gli pareva che nella tristezza di quei frangenti la parola affettuosa di una persona amata gli avrebbe fatto un bene immenso. E questo pensiero gli si faceva più cocente ogni volta che si trovava di fronte a Loreta. Da lei sola gli pareva che un conforto gli sarebbe potuto venire, da lei ch'era stata sempre per la sua casa come un buon genio consolatore.

Ma neppure siffatto bisogno di una espansione confidente valse a disuggellare il labbro del Sant'Angelo nei suoi incontri con la cugina. Diffidando di sè stesso, comprendeva come una sola parola avrebbe potuto trascinarlo alla confessione di quel segreto, ch'egli ascondeva con tanta gelosia. E si prefisse di durare coraggiosamente nel proprio silenzio.

Questo però gli costava una fatica estrema, non pure per gli impulsi del proprio cuore, ch'egli doveva frenare, ma più ancor in causa d'un fatto, ch'era venuto ad accrescere in modo grave le sue preoccupazioni.

Loreta in que' giorni mostravasi assai sofferente. Ella che di consueto lavorava in casa senza tregua, lieta di quell'attività continua, da qualche tempo era costretta a negligere una parte delle sue occupazioni. Restava a lungo ritirata nella sua camera, evitava di scendere alle ore dei pasti allegando un malessere, ch'ella assicurava passeggero e pel quale non d'altro sentiva bisogno che d'un poco di quiete.

A Mattia, che con affettuosa premura venne a chiederle che cosa soffrisse, ella rispose forzandosi a trovare qualche frase scherzosa. Nè altrimenti si contenne colla Vige, che le stava intorno continuamente piena di sollecitudine e di interessamento.

Ma nè la Vige nè il professore rimasero per tal guisa tranquillati. Che Loreta soffrisse e che i dinieghi suoi non rispondessero al vero, lo diceva chiaramente la pallidezza del suo viso e lo dicevano i suoi occhi arrossati e gonfi come per lungo piangere.

La Vige non potè tenersi dal dire al professore ciò ch'ella pensava:

--La signorina sta male. Io so che non mi sbaglio. Così, com'è ora, non l'ho vista che una volta, nel primo tempo quando venne in casa.... Si ricorda, padrone mio, di quella volta.... Era lo stesso, proprio lo stesso!

Il Sant'Angelo non rispose. Che la giovane si trovasse sotto il peso di una preoccupazione fortissima non aveva dubbio. E subito il pensiero gli venne ch'ella non soffrisse per qualche maligna voce giunta al suo orecchio. Benchè Loreta vivesse isolatissima, uscendo di casa appena due volte la settimana, per recarsi a Tricesimo nel giorno di mercato e alle domeniche per la messa, certo i nemici suoi dovevano aver trovato il mezzo perchè ella venisse a cognizione delle dicerie che s'erano fatte.

Cotesta idea lo inasprì vivamente. Le sofferenze proprie gli parvero avessero ad un tratto perduto la loro insistente asprezza. E assorbito completamente in questo nuovo pensiero, si sentì riardere d'ira contro i vili, che non paghi del male a lui fatto, avevano per fermo voluto gittare il turbamento anche nell'anima di quella povera donna.

Incapace di appigliarsi ad alcun partito e tormentato ognor più acerbamente da tanta indecisione, un lampo di luce balenò al professore nel leggere una breve lettera che gli giunse improvvisamente da Udine da parte di don Letterio Prandina.

L'ottimo prete chiedeva di avere con lui un abboccamento: si trattava di cosa delicata, risguardante lui stesso e Loreta Lambertenghi: era costretto a pregarlo di venire in Udine non potendo egli, in causa di malferma salute, recarsi al paese.

Il professore non frappose ritardo. Letta appena la lettera, chiamò Agnul perchè allestisse il carrozzino e, fatta avvertire la Lambertenghi che recavasi in città per affari, si mise tosto in via.

Mai come in quel giorno il cavallino di casa fu costretto a percorrere di un trotto continuo e serrato il lungo stradone polveroso, che congiunge con una linea retta Tricesimo a Udine.

In men d'un'ora il professore giunse alla meta e, lasciato il carrozzino al solito stallaggio dell'Albergo Italia, se ne andò rapidamente alla casa di don Letterio, posta appunto in quei pressi, non lunge dal palazzo arcivescovile.

Egli trovò il vecchio prete nella sua stanza da lavoro. Benchè ammalato, don Letterio sedeva alla sua scrivania e, con gli occhiali a cavalcioni del naso, stava ordinando un voluminoso pacco di atti. La stanza, che il Sant'Angelo conosceva benissimo, era quasi povera: mobili vecchi coperti d'una stoffa che il tempo aveva scolorato, moltissimi libri ammontati un po' dappertutto, due o tre rozzi disegni a penna incorniciati di nero e rappresentanti alcune vedute de' paesi ove il prete era stato da giovane in missione: unico ornamento appariscente sulla nudità delle bianche pareti un grande crocefisso, pregevolissima opera di scultura in legno. Sul tavolo, in un bicchiere di cristallo alcune grosse rose rosse.

Quando il professore entrò, don Letterio alzò il capo da' suoi scartafacci e tendendogli la magra mano bianchissima, lo salutò con affetto:

--Siete venuto presto, Mattia. Così va bene; vi ringrazio.

--Mi ringraziate, don Letterio? Che cosa dovrei dir io a voi per la bontà vostra? E la salute?

--Non bene, figlio mio. La vecchiaia è per sè stessa una brutta malattia.... Con tutto ciò, Iddio m'aiuta.... Vedete: lavoro....

--Fate male, Prè Letterio, ad affaticarvi.

--Che volete? Non posso farne a meno. Poi i miei poverelli avevano bisogno di me. Da due settimane non avevo potuto muovermi di casa. Dovevo bene, appena ne ebbi il modo, riparare a tanti giorni perduti.

--Benedetto voi, siete sempre eguale. Dovunque passate tutti vi debbono benedire.

--Non dite queste cose, Mattia: non mi piace di udirle.

--Non è forse la verità cotesta? E d'altronde non la dicono tutti? Perchè dovrei tacerla io, che vi debbo tanto, che non posso dimenticare il bene che avete sempre fatto alla mia famiglia; io, che anche oggi, venendo qui, entrando in questa vostra pacifica casa, ho sentito tanta dolcezza? Se sapeste, don Letterio, il bisogno che ne avevo!

Il vecchio ebbe un sorriso buono sul suo volto pieno di serenità.

--Lo immaginavo, Mattia, lo immaginavo.

--Lo immaginavate?

--Sì.

--E come? come mai?

--Perchè so che siete buono; perchè so che i Sant'Angelo hanno il cuore ben fatto, da padre in figlio; ch'essi non possono a meno di ribellarsi e di soffrire dinanzi alla ingiusta malignità altrui.

--Voi sapete dunque, sapete.... e in qual modo?

Il vecchio rimosse colla sua destra, che parea scossa da un tremito continuo, il monte di carte che aveva dinanzi e presane una lettera la porse al professore.

--Leggete.

Mattia spiegò la carta e corse con gli occhi alla firma:

--Loreta!... È lei che vi narra? Lei!

Don Letterio rimase tranquillo a quelle esclamazioni irruenti, come vi fosse preparato.

--Lei,--rispose,--lei stessa. Leggete.

La lettera che il professore percorse rapidissimamente, in un baleno, non era lunga: tre sole facciate di piccolo formato; ma nella brevità delle frasi, piene di quella naturalezza che è figlia del vero, era ritratto con potente evidenza lo stato d'animo in che la giovane si trovava.

Quello che il professore Mattia s'attendeva era avvenuto. La malignità, che già era riuscita ad ordire intorno a lui così tenace la rete dell'intrigo, aveva trovato la maniera di arrivare con le sue subdole arti fino a Loreta.

Narrava ella in termini precisi e dolorosi il modo con cui ebbe sospetto da prima, e più tardi certezza, delle dicerie oltraggiose che sul conto suo si facevano in paese: fu sul principio un'eco vaga, che le giunse senza sapere da qual parte; furono quindi voci discrete di amici che la metteano, con indeterminati accenni, in guardia; e fu da ultimo l'improvviso glaciale riserbo che notò in alcune famiglie del vicinato, da taluna delle quali si vide togliere perfino quel saluto di convenienza, che sin allora le ricambiavano sempre con tanta simpatia nell'incontrarla in paese o alle domeniche in chiesa. In una condizione siffatta non si sentiva di poter resistere: per quanto negli anni trascorsi in casa Sant'Angelo si fosse trovata felice, non le bastava l'animo di continuarci a vivere adesso a quel modo, sotto il peso di un disprezzo, non men doloroso perchè ingiusto, il quale si sarebbe fatto su lei sempre più grave e l'avrebbe condannata ad un avviliente e sconfortato isolamento. Ricordando con molta gratitudine e con soave rimpianto la ospitalità de' suoi parenti e la bontà di don Letterio, cui era debitrice di quegli anni sereni, a lui rivolgevasi Loreta esponendogli com'ella fosse decisa di uscire da quella situazione insostenibile e supplicandolo ch'egli le fosse largo del suo soccorso ancora una volta in questo frangente.

A mano a mano che Mattia avanzava nella lettura uno strano rimescolio si faceva dentro di lui, e quando fu giunto alla fine sentì così ardente il viso per il sangue che v'era affluito, che durante alcuni istanti rimase immobile, fissando sempre la carta, come avesse provato, un'esitanza a rialzare il capo e ad incontrare lo sguardo del suo interlocutore.

Questi fu il primo a rompere il silenzio:

--Ebbene?--domandò.--Che ne pensate?

Il Sant'Angelo si scosse e, stringendo nervosamente la lettera fra le mani poderose, ebbe uno scatto improvviso d'ira:

--I miserabili!--esclamò.--I miserabili!

Il prete lo lasciò dire e solo dopo un momento riprese con molta calma:

--Dell'ira? Sì, è giustificata, è umana, e non saprei io stesso, come sarebbe dover mio, farvene rimprovero. Ma a che potrebbe giovare la vostra ira? E contro chi potrebbe essa con maggior ragione essere rivolta? No, no, innanzi tutto ponderazione e calma! Che negli uomini abbia maggiore dominio la malvagità è vero purtroppo, ma è altresì dolorosamente vero che qualche volta a tale malvagità sono troppo deboli le armi degli onesti!

--Quando si ha per sè la coscienza della propria illibatezza!...--esclamò il professore.

--Si, in teoria, voi avete ragione. Sarebbe bello il poter ricambiare sempre col disprezzo la malignità. Ma potete voi, onestamente, chiedere ad una povera creatura, che è debole, che ha già patito, che ha bisogno di pace, di accettare una simile battaglia, in cui i nemici le si moltiplicheranno ogni giorno di contro e che le costerà ogni giorno più aspre ferite? E perchè dovrebbe questa povera creatura, quando non le sia negato di cercarsi altrove la pace, durare in cotesto cimento?

--Allora voi approvate quello che Loreta vuol fare?

--Se scorgessi un mezzo per mutare la situazione, che le circostanze hanno creato, avrei forse qualche esitanza. Ma così....

--Così?

--Debbo approvarlo non solo, ma consigliarlo e lodarlo. È il divisamento di chi si rispetta. E vi confesso che da questo momento, se compiango Loreta per la tristezza della sua sorte, sento accresciuta a cento doppî la mia stima per lei. È una buona, sventurata, esemplare donna....

Il professore ebbe un rapido sfolgorio in tutti i suoi lineamenti.

--Sì, questo sì,--riprese con sùbito trasporto,--buona, esemplare donna.... Io lo posso dire che l'ho vista per la mia casa, per la povera mia madre, ricca di tante tenerezze, capace di tanta abnegazione.... Vedete, don Letterio, io non posso adattarmi all'idea ch'ella debba abbandonare la mia casa: sarebbe un vuoto, che nulla potrebbe colmare, sarebbe per me una nuova sventura!

--Lo capisco. Ma allora....

--Allora....

E ripetuta questa parola come macchinalmente, il Sant'Angelo curvò il mento sul petto senza poter proseguire.

Il vecchio amico gli posò in atto di benevolenza la mano sulla spalla.

--Andiamo dunque, Mattia, uscite una volta da queste esitanze. Perchè non sapete trovare, voi che siete un uomo forte ed onesto, il coraggio di chiedere al vostro cuore che cosa esso voglia? Perchè non avete almeno un poco di confidenza verso chi vi vuol bene?

L'altro gli afferrò la destra con effusione e con voce che l'emozione rendeva malferma:

--Che debbo dirvi, Prè Letterio,--riprese,--che debbo dirvi? Voi avete letto nell'anima mia. Voi sapeste indovinare assai più di quello che con le mie parole avrei potuto dirvi. Vedete, dunque, se io non sono da compiangere!

--Da compiangere? E perchè dunque?--dimandò il vecchio placidamente.

--Mi chiedete questo, Prè Letterio? Potete chiederlo? Poco fa avete detto voi stesso che mi stimate un uomo forte ed onesto. Ebbene, queste due virtù, che so di avere, che voglio gelosamente conservarmi, sono quelle che mi mettono in guardia contro me stesso. Prè Letterio, potete voi dunque credere che dopo tanti dolori che sono passati sopra il mio capo, io pure non abbia ceduto alla tentazione di un bel sogno; potete credere che io pure non abbia pensato, con aspirazione cocente, a veder tornare ancora una volta e per sempre la felicità nella mia casa e nell'anima mia? Sì, all'amicizia vostra lo confesso: questo sogno io lo feci, questa aspirazione la sentii, fortissima e tormentatrice. Ma ho saputo vincermi pensando a ciò che sono. Ma ditemi voi ora! Potrei io chiedere a una donna ancor giovane e bella, a una donna cui possono arridere ancora le speranze, ad una donna infine che non mi ama.... di sacrificarsi per sempre a me, di legare il suo destino alla mia senilità già così triste?

Il Prandina l'aveva ascoltato silenziosamente in atto meditabondo.

--Via, don Letterio, potreste darmi torto? avreste animo di dirmi che non ho fatto il dover mio?

--Avete ascoltato come sempre quel sentimento di rettitudine che onora il vostro carattere. Lo riconosco. Ma lasciatemi in pari tempo che con franchezza vi dica che a questo sentimento avete dato ascolto così ciecamente da obbliare per esso ogni altro criterio. Guardate, Sant'Angelo: io non vi obbietterò che voi vi siete esagerata la vostra posizione e che le virtù vostre dovrebbero bastare per assicurarvi l'affetto di qualunque donna voi voleste eleggervi a compagna; so che non dareste alle mie parole altro valore che quello d'un vieto conforto. Però rispondetemi: che cosa avete fatto voi finora per sapere quello che forse sta celato nel cuore di Loreta? Chi vi dice che questa donna, che ha per la vostra famiglia sì forti argomenti di gratitudine; non abbia concepito per voi tanta affezione, che le sia di dolore il dovervi abbandonare? Infine, dinanzi alla necessità imperiosa, che il suo onore le detta, di lasciare la vostra famiglia ospitale, di tornare alle lotte di una vita dura ed incerta, pari a quelle che essa ha già una volta sostenute, che avete fatto voi per offrirle un conforto, per salvarla da una sciagura, per darle forse quella pace, cui essa nel suo cuore anela?... No, Sant'Angelo, voi non avete ascoltato che la voce esagerata de' vostri scrupoli: voi vi siete piegato alle esigenze de' cattivi senza nulla tentare perchè essi sieno vinti e perchè voi siate felice.... Chiedere a Loreta una spiegazione esplicita, chiara, confidente, come si può farla ad un amico, come si deve farla ad un fratello: ecco il vostro dovere: ecco quello che almeno a me pare che sia il vostro dovere....

--Ma poi, Prè Letterio.... poi?

--Poi, quando aveste la certezza che Loreta non vi ama, ch'ella non potrebbe essere felice con voi, ch'ella è pronta, per isfuggire ad una situazione equivoca e non onorevole, a riaccettare una vita malsicura e tempestosa.... converrà chinare il capo. Sarà triste il doverlo fare, ma almeno vi sarete tolto il dubbio di non aver accettato con colpevole cecità un dolore, che la malvagità degli uomini e la forza delle circostanze vi hanno procurato! Il professore era rimasto ad ascoltare queste parole--che il vecchio aveva pronunciato con un tranquillo accento di persuasione--senza nulla opporre, con gli occhi lucenti, tormentandosi colla mano convulsa la lunga barba canuta.

Quando quegli ebbe finito si sforzò indarno, nella piena dell'emozione, a cercare una frase che valesse a manifestare ciò che si passava dentro al suo cuore:

--Amico mio! amico mio!

Non disse che questo ed alzandosi di scatto gittò le braccia intorno al collo del vecchio e lo baciò con effusione.

--Coraggio, via, Sant'Angelo!--disse l'altro sempre sereno.--Un giorno che vostra madre, côlta già dal presentimento della sua fine, mi parlò della possibilità che voi e Loreta aveste ad unirvi per sempre, io le risposi che, se questo sarà il volere di Dio, il suo sogno si sarebbe avverato. E le dissi ancora, che la Provvidenza non abbandona mai i buoni. Che altro volete ch'io dica oggi a voi? La mia povera scienza si arresta qui.... Ma è quella, vedete, che basta per condurre al vero! Coraggio, Sant'Angelo, coraggio!


X.

Uscito dalla casa di don Letterio col cuore come alleggerito di un peso, il Sant'Angelo si prefisse di seguire senza por tempo in mezzo i consigli del suo amico.

Doveva farlo: tutto sarebbe stato peggiore che il durare in tanta incertezza; poi sapeva come la più lieve esitanza avrebbe potuto di un sol tratto fargli dileguare quella fermezza, che i ragionamenti del vecchio gli avevano infuso.

Sceso appena dal carrozzino aveva chiesto alla Vige, che gli era mossa incontro nel cortile, dove si trovasse la signorina, e saputo com'ella si fosse già ritirata nelle sue stanze le mandò a chiedere di poterle parlare senza dilazione.

La Vige, comprendendo dalla ciera sconvolta del suo padrone che qualchecosa di grosso c'era per aria, corse subito a fare l'ambasciata; e tornata ad annunciargli che la signorina lo attendeva, non potè trattenersi dal fare, mentre il professore saliva frettolosamente le scale, una mimica eloquentissima per esprimere il dubbio ed il timore che al suo povero padrone non avesse dato di volta il cervello.

Fu con passo vacillante e col volto pallidissimo che il professore entrò nella camera di Loreta.

La giovane lo stava attendendo sull'uscio ed appena lo vide si scusò con lui di non aver potuto ella stessa discendere:

--Dovete perdonarmi; non sto bene.

Con un rapido gesto egli diede a divedere come reputasse tale scusa del tutto oziosa; poi subito le chiese con sollecitudine:

--Vi sentite male, Loreta?

--Un poco sì; la notte scorsa non ho dormito quasi nulla e me ne restò per tutta la giornata una grande stanchezza.... Se sapeste come mi indispettiscono queste stupide debolezze. Ma deve passare presto: voglio che passi!

Il professore la guardò: da tutti i lineamenti di lei traspariva l'abbattimento: la consueta melanconia dei suoi occhi era quel giorno accresciuta dalla diffusa sfumatura azzurra ond'erano cerchiati.

--Loreta,--disse il Sant'Angelo,--è da più tempo che io vi vedo soffrire; ed è da più tempo ch'io me ne chiedo la ragione. Oggi, è inutile mentire più a lungo, questa ragione la so....

La giovane, benchè fosse preparata a questo momento, trasalì.

--La so, Loreta,--egli riprese subito,--e non posso dirvi quanto mi addolori che voi dobbiate soffrire così, senza colpa alcuna, per causa mia....

--Per causa vostra!--esclamò lei con affettuosa mestizia.--No, non dite questo. Verso di me siete stato sempre lo stesso; buono e generoso, avete avuto per me costantemente la indulgenza e le premure di un fratello. Perchè vorreste assumervi la responsabilità delle altrui cattiverie? No, non colpa vostra, Sant'Angelo, nè mia. È piuttosto il mio cattivo destino che ha voluto così.

Tacque un istante, poi come risoluta di venir a parlare, senza perdersi in vani commenti, della decisione che intendeva prendere:

--Avete visto Prè Letterio?--gli chiese.

--Sì, lo vidi e da lui ebbi la dolorosa conferma di quanto sospettavo.

--Vi disse ch'io gli avevo scritto?

--Fece di più: volle ch'io conoscessi il tenore della vostra lettera.

E, interpretando giustamente l'atto con cui la giovane accolse tali parole, soggiunse subito con islancio:

--.... E fece bene così, Loreta! Quel vecchio amico non poteva, anche condannandomi al più aspro de' dispiaceri, non offrirmi il modo di giudicare esattamente quale sia oggi la vostra posizione e la mia. Nulla del resto in quella lettera che non vi onori; nulla che io non comprenda o di cui vi possa fare un rimprovero....

Ella levò il capo, vivamente.

--Grazie, Mattia, di queste vostre parole. Le aspettavo. Non potevo aspettarne altre dalla vostra lealtà. In questo momento così cattivo non mi potevate dare un più grande conforto!

--Loreta,--egli chiese dopo un istante, lentissimamente,--- e voi.... siete dunque decisa ad abbandonarmi?

--Lo debbo. Voi sapete se lo debbo.

--Si, è vero. Ma almeno, ditemi, non v'addolora affatto di lasciare la mia casa?...

--Se m'addolora, Mattia?... Pensate al bene che ho trovato nella vostra casa! Ero sola, non avevo più nulla; nè una speranza, nè un affetto. Qui ho ritrovato tutto: ho ritrovato la fede e il coraggio, ho compreso che la mia povera vita poteva avere ancora uno scopo. Vostra madre, dopo essere stata il buon angelo della mia salvezza, ha saputo insegnarmi colla parola e coll'esempio la virtù della rassegnazione. Ero felice, mi pareva che non avrei avuto a desiderarmi altro mai più, sentendomi come risorta ad una nuova esistenza così confortata e serena! E mi chiedete se mi addolora di lasciare la vostra casa! Ne escirò, Mattia, perchè così il destino ha voluto, perchè il mio onore me lo impone e la pace nostra lo esige. Ma ne escirò benedicendo la ospitalità che vi trovai, portando con me il più caro ricordo, e serbando nel mio cuore incancellabile e adorata la memoria di vostra madre....

--E dove.... dove andrete?

--Non so. La Provvidenza m'assisterà ancora una volta. Porse Prè Letterio potrà giovarmi con qualche raccomandazione. In caso diverso.... ho il mio diploma di maestra.... Mi riammetteranno forse in qualche scuola.... Mi cercherò un lavoro.... Non si respinge chi chiede di guadagnarsi onestamente la vita.

--E questo destino non v'impaura?

--No.

--Ma sapete, Loreta, a quante difficoltà, a quanti pericoli voi volete esporvi?

--Sì, lo so.

Ella rispose in tal modo, calmissima sempre, piena di fede, senza abbassare lo sguardo.

Il Sant'Angelo intendendo tutta la nobiltà di quelle parole fu spinto irresistibilmente a dar manifestazione del suo sentimento.

--Siete forte, Loreta, io vi ammiro e v'invidio. Vorrei anch'io, in questo momento, poter dire come voi dite, essere forte come siete voi. Ma non posso. No, Loreta, non posso adattarmi all'idea che voi abbiate a lasciarmi così. In voi m'ero abituato ad amare colei che fu l'amica devota, il sostegno e il conforto della mia vecchia madre: in voi ho visto continuata l'opera gentile di lei quando Iddio me la tolse. Che cosa sarà ora di me? Che cosa diverrà la mia povera casa? Loreta, Loreta, non avete dunque pensato anche a questo, prima di decidervi a tale passo?

Ella taceva, assorta nel suo pensiero, col capo chino.

--Loreta, guardate!--proruppe allora il professore con una sùbita fiamma che salì ad imporporargli il viso --guardate, Loreta, è così doloroso, è così fatale per me questo momento, che io trovo ora il coraggio, che non ebbi mai, che credevo di non poter mai trovare, di confessarvi il segreto, che da sì lungo tempo io nascondo. Loreta, non potete lasciarmi.... per me voi siete tutto, siete l'unica persona al mondo in cui si sono concentrati i miei affetti.... Se mi mancaste, portereste via con voi l'anima mia, la mia pace, tutto me stesso....

Ed arrestandosi un istante e passandosi con gesto febbrile la mano sul fronte, quasi per calmarne l'ardore:

--Ah! Loreta,--prosegui egli con un'intonazione di mestizia,--ve lo giuro che non avrei voluto dirvi mai ciò che ora vi ho confessato. Ho sofferto atrocemente per tener sepolto in me il mio segreto. Confessarvi, o Loreta, io--che per gli anni miei potrei quasi esservi padre--il sentimento che avete destato in me, mi pareva follia indegna d'un uomo, il quale non abbia smarrito la coscienza di sè stesso.... Ebbene; questo coraggio io l'ho trovato: dinanzi alla vostra risolutezza, di fronte alla sorte che mi si prepara, io sento cadere ogni mia esitanza; io non vacillo pensando al rossore che ora m'infiamma le guance e vi dico, lealmente, come il cuore m'impone: Loreta, restate.... restate per amor mio!...

Ella aveva ascoltato, colpita profondamente dalla sincerità del suo accento. Poi quando ebbe finito e restò incerto, a fissarla con intenso ardore, attendendo una sua parola, ella piegò ancora una volta il capo tristemente.

--Restare!--mormorò quindi con un'amara inflessione di dubbio.

Al Sant'Angelo balenò allora l'idea ch ella avesse potuto fraintendere il vero significato delle sue parole.

--È un sacrificio che io vi chiedo, Loreta; lo so: era per questo che mille volte mi son sentito mancare l'animo di dirvi quello che mi stava nel cuore. Ma ora che ho parlato, non posso più nascondervi nulla; sento che adesso si gioca di tutta la mia vita: sento che tutto il mio destino è riposto ormai nelle vostre mani!

E afferratale la destra, con un repentino slancio, in cui la sua passione, per tanto tempo rattenuta, scoppiava finalmente senza freni, vittoriosa:

--Rimani, Loreta, rimani.... Non capisci che senza di te la mia esistenza sarebbe infranta? Non capisci che tu sei la mia pace, il mio solo pensiero, l'unico e caro mio amore?... Senti: è vero, io non ti posso più dare nè gli entusiasmi della giovinezza, nè le ebbrezze di un'anima ancora sorridente. Ma questo sì ti posso dare: un affetto puro, una venerazione costante che sarà la legge della mia vita, che non cesserà che coll'ultimo battito del mio cuore. Loreta, resta.... Tu sarai la mia compagna fida e adorata, l'arbitra della mia sorte, la regina della mia casa....

Mentre il professore diceva queste cose appassionatamente, stringendole forte le bianche mani, ella, guardandolo con molta tenerezza, aveva gli occhi gonfi di pianto.

--Siete generoso, Mattia. Non vi posso dire quanto bene mi abbiate fatto con la vostra profferta, di cui apprezzo tutta la grande nobiltà. Ma appunto per questo, no.... non posso accettarla!

--Non potete, Loreta, non potete?--chiese il professore con accento d'angoscia.

Ella non rispose subito.

--Dunque--egli insistè con voce ognor più commossa--voi sentite di non potere assolutamente concedermi il vostro affetto?

--Il mio affetto!--la giovane proruppe.--No, no, Mattia, non è questo. Chi mai conoscendovi ed apprezzando le vostre virtù potrebbe non amarvi? Qual donna non dovrebbe essere orgogliosa ed onorata della profferta che voi avete fatto a me ora con tanta sincera bontà? Mio Dio! sarebbe stato questo il mio bel sogno, sarebbe stato il mio paradiso....

--Ma allora.... allora?

--Non posso, non devo. Lasciate ch'io parta, Mattia, lasciate ch'io segua la mia stella cattiva!

--Loreta, per pietà, non farmi impazzire. Se tu dici che senti per me qualche affetto, che hai per me della stima, che la mia casa ti è grata.... ma allora perchè queste esitanze? Pensa, Loreta, al male che tu fai a me col tuo rifiuto, al male che faresti a te stessa! Qui c'è la pace per te e per me: qui vivresti onorata, potendo disprezzare ogni viltà dei cattivi.... qui, Loreta, avrai nella mia casa e nell'anima mia il posto che vi tenne mia madre....

--No, non dirmi questo, Mattia,--proruppe con accento commosso la giovane donna.--È una profanazione il ricordo che tu adesso richiami della santa tua madre.... Vedi, Mattia, è in nome di lei ch'io ti prego; lasciami andare, lasciami partire!

Egli abbandonò la sua mano ed ergendo la persona in atto di risolutezza:

--Ah! no, Loreta, non partirai! Dopo quello che m'hai detto non è più possibile che tu parta, lasciandomi col tormento di questi dubbi. Credi tu dunque che ora--sentendomi forte e felice nella certezza del tuo affetto--io non saprò difendere il mio avvenire? Ah! Loreta, non si vive com'io ho vissuto in preda a sì grandi angoscie per poter poi rinunciare così facilmente al bene, quando ci sembra di averlo al fine raggiunto! No. Tu devi dirmi quello che ti spinge a volermi lasciare: ho il diritto di saperlo e tu me lo dirai!

--Mattia, ciò che mi domandi è molto triste. Il ricordo che tu mi costringi ad evocare io volevo che fosse morto per sempre. È il mio passato, Mattia, che oggi risorge fra noi. È questo l'ostacolo che si frappone alla mia felicità!

Il Sant'Angelo restò calmissimo: una pietà profonda si dipinse sul suo nobile viso, che aveva ripreso l'abituale pallidezza:

--Il tuo passato, Loreta....--egli disse lentamente. --So ch'esso fu doloroso. Ma qualunque cosa in esso si celi, colle tue lagrime, col tuo lavoro, col sacrificio della tua giovinezza, hai conquistato il diritto dell'oblìo. Che tu sei buona e che l'anima tua è bella, questo io so. Che altro m'importa di sapere per amarti e per stimarti? Mi basta ricordare ciò che mia madre, che aveva pur letto ne' tuoi segreti, mi disse un giorno, già prossima alla sua fine, sognando di vederci uniti: "ama Loreta, non è indegna di te!" Ed io ti amo, Loreta, ed altro non ti chiedo. La parola di mia madre mi è sacra e mi basta!

La giovane proruppe in uno scoppio dolcissimo di pianto e, prese le mani del professore, fe' l'atto d'inginocchiarsi dinanzi a lui.

Egli la trattenne, l'attirò sul suo petto e ve la strinse forte, alzando gli occhi al cielo, con una soave letizia che pareva irradiarsi sul suo placido volto.


XI.

La notizia del matrimonio di Mattia Sant'Angelo con sua cugina Loreta Lambertenghi si diffuse rapidamente nel paese.

Agli amici veri e provati--e Mattia ne aveva certo di molti--essa giunse oltremodo gradita. "Era tempo (dicevano i più) che quel benedetto professore provvedesse ai casi suoi. Dopo la morte di sua madre faceva pietà vederlo. Almeno adesso tornerà a vivere tranquillo!"

Fra coloro, che facili a credere alle calunnie avevan negli ultimi tempi malignato sul conto suo e gli avevano perfino mostrato un certo riserbo, non pochi furon quelli che nell'apprendere la novella si compiacquero di potersi riconoscere in errore. "Già non era possibile (dicevano questi col facile senno da poi ed obliando assai disinvoltamente le loro stesse mormorazioni) che a casa Sant'Angelo avessero luogo le storie che si sono narrate!"

Ma chi in questa occasione se la godette un mondo fu il bravo conte Mangilli, che per il primo potè portare la notizia in "pieno campo nemico" ed anzi al quartiere generale, avente, come si sa, la sua sede nel Caffè della Posta a Tricesimo.

Non che il Mangilli dentro di sè avesse potuto far tacere neppur allora le convinzioni, che aveva sempre avute in fatto di matrimoni. Celibatario impenitente, pensava con una certa soddisfazione che lui non si sarebbe adattato giammai a quello che il Sant'Angelo faceva. Ma sebbene attaccato con tanta fermezza alle sue teoriche, ammetteva questa volta volentieri l'eccezione; e poichè il suo amico s'era risolto a quel passo per la propria felicità e per farla in barba ai cattivi, ne aveva sincero piacere.

--Prè Zuan ha da mangiarsi le mani!--disse il conte al professore.--Un miracolo se dalla bile non gli piglia un accidente!

E capitò al Caffè di Tricesimo proprio in momento buono. Don Morganti era più rosso del solito: per farsi passare il malumore della disdetta, che quella sera lo perseguitava accanitamente al consueto tresette, aveva già asciugato tra partita e partita un bel numero di quartini della fresca e bionda birra che la piccola fabbrica di Ospedaletto fornisce ai paeselli del circondario. Col virginia tra i denti e gli occhiali sul nasone scarlatto, il prete, col corpo un po' abbandonato sulla scranna, disfogava la sua stizza contro le carte, tirando giù delle invettive tanto fatte, di cui però nessuno pensava a scandalezzarsi essendo ormai formata da un pezzo l'abitudine di udirne da quelle labbra di più marchiane ancora.

Il Mangilli approfittò per lasciar "scappare il razzo" di un breve intervallo prima della "bella" ossia della partita che doveva essere l'ultima della giornata e nella quale prè Zuan dichiarava che avrebbe salvato l'onore delle armi.

Ma il "razzo" del conte Nardin ebbe effetto sì grande che la "bella" non ebbe più luogo. E fu tale lo sbalordimento del prete, che meglio per lui se la giocata fallì, poichè diversamente per quella sera l'onore delle sue armi, anzichè essere salvo, avrebbe toccato per certo qualche altra vergognosissima disfatta.

Ci fu taluno della comitiva, che tanto per non essere obbligato a dover riconoscere come con quella notizia fosse tappata la bocca a tutti quanti, volle far dello spirito e tentò di volgere la cosa in burletta. Spirito grossolano e burletta ben poco comica, di cui i più risero a pena a fior di labbro, mentre il solo prè Zuan strizzando d'occhio ai vicini con intenzione furbesca pareva ne avesse gustato oltre misura la lepidezza. E poichè altro non poteva, mise fuori, lentamente, senza darsene l'aria, con un tono loiolesco di bonaccione ingenuo, una di quelle facili insinuazioni velenose, che la situazione quasi naturalmente gli suggeriva.

Senonchè il conte Leonardo, che, dopo l'effetto del suo razzo, ci teneva a mettere un altro po' di rumore in mezzo alla comitiva sì degnamente presieduta dal Morganti, lasciò andare sulla tavola un pugno così sonoro, che fe' saltare le carte e per poco non mandò in rovina bottiglie e bicchieri. E con un piglio che non lasciava luogo a troppi commenti, dichiarò che in sua presenza non tollerava a danno dell'amico chiacchiere di quel genere, le quali non potevano essere calcolate che come la prova di un basso ed impotente livore.

E poichè il conte accompagnava la vigoria de' suoi pugni e la risolutezza delle sue parole con certe occhiatacce da basilisco assai poco incoraggianti alle repliche, il prete, che con quell'orso non se l'era mai fatta, si ritrasse anche questa volta per il primo; e gli altri mogi, mogi, gli tennero dietro non senza procurar di ammansare il conte con qualche timida assicurazione che essi, dopotutto, col professore Sant'Angelo nè rancori, nè inimicizia non avevano mai avuto.

Naturalmente che lo sfogo de' malumori, contenuto allora in via di prudenza per il riguardo dovuto a quello spiritato del Mangilli, ebbe modo di compiersi in tutta la violenza, ne' giorni successivi, allorchè la combriccola del Caffè di Tricesimo potè trovarsi raccolta in camera charitatis.

Allora il prete ne tirò giù di cotte e di crude e, dopo aver esaurito i più grossi improperî del suo repertorio, conchiuse coll'affermare, compiacendosi nella parte d'uccellaccio di malaugurio, che già della famosa felicità del professore non dava due palanche bucate ed anzi era pronto a scommettere che in men d'un anno "se ne sarebbero viste delle belle."

E col tossico sulla bocca, ridendo verde, il pretaccio continuò per lunga pezza sul tono istesso, anche facendo presente come quello gli paresse proprio il caso di preparare al Sant'Angelo una sonorissima sdrondenade, cioè quella serenata burlesca e fragorosa che per antica costumanza popolare, assai diffusa nelle campagne del Friuli, si fa a' vedovi quando vanno a nuove nozze e talvolta a' vecchi, che passano a matrimonio.

Ma don Morganti, a malgrado di tutte le sue astutissime manovre, restò questa volta con un pugno di mosche. All'ultimo momento anche coloro che per consueto si mantenevano fedeli nel fargli coro, gli defezionarono o con una scusa o con l'altra. Talchè il matrimonio del professore Sant'Angelo seguì fra le generali simpatie, senza che una sola nota discorde avesse in alcun modo turbata la serenità della festa.

Il matrimonio si fece alla chetichella: nelle prime ore del mattino, al duomo di Tricesimo, celebrando l'ottimo prè Letterio Prandina, venuto espressamente da Udine. Pochi amici si raccolsero poi in casa ad una bella refezione, ove si fecero degli allegri brindisi e si stapparono molte preziose bottiglie, dormenti già da varie decine d'anni sotto la polvere della cantina padronale. Poi gli sposi partirono per un breve viaggio a Venezia ed a Milano.

I pochi che assistettero alla cerimonia furono assediati da ogni parte da insistenti domande: come fosse la sposa, quale aspetto avesse avuto lo sposo e se ci fossero state delle "commozioni". La curiosità generale ebbe però pochissimo a godere. La cerimonia--tutti i presenti lo asserirono--procedette semplice, liscia, senza alcun particolare ad effetto. Una cosa soltanto era risultata chiarissima, anche a coloro che non l'avessero voluta vedere, ed era la felicità piena, manifesta, grandissima, dei due sposi.

Nè fu cotesta, vana apparenza. Il Sant'Angelo pareva rinato: nel breve volgere di pochi giorni si sarebbe detto che tutta la sua persona avesse subìto quasi un magico ringiovanimento: il sorriso, che da sì lungo tempo erasi spento sulle sue labbra, ora era riapparso mettendo un novello bagliore di vita nel suo volto sereno. Loreta sorrideva ella pure, senza parole, riconoscente a quanti si congratulavano, levando tratto tratto gli occhi pensosi con intensa espressione di gratitudine in faccia al suo sposo.

Questo la gente vide e narrò con grande stizza di coloro che per tali fatti si rodevano nella loro astiosa impotenza. Ma ciò che avrebbe messo ben più duramente a prova gli invidi fu quello che la gente non vide e non potè narrare: l'espansione viva di reciproco affetto, che i due sposi ebbero, allorchè, terminate appena le formalità della cerimonia, si trovarono novamente soli, nella pace della loro casa.

--Vedi, Loreta, rimettendo ora il piede qui dentro, mi pare che tutto sia cambiato. Tutto mi pare più bello, tutto mi par più sorridente....

Queste furono le prime parole, che il professore disse a sua moglie, con una grande semplicità, e che pur nella dolcezza infinitamente amorosa del pensiero, non disdicevano per nulla sulle labbra di un uomo come lui, già sì lunge dalla lieta età degli amori.

Ed obbedendo a quella gentilezza d'animo che gli era connaturata, volle, per un affettuoso pregiudizio, che prima di partire andassero insieme alla stanza che fu di sua madre.

--Qui per la prima volta ti lasciai intendere il mio affetto. Ora è compiuto il voto della mia povera madre. Che il suo nome, Loreta, ci porti fortuna!

Egli aveva gli occhi, nel dir ciò, pieni di lagrime:

--Perdonami, sai; in questo sono sempre un ragazzo. Ma guai, guai per me se ora non credessi che il tuo amore durerà costante: è la mia vita.... è tutto....

Loreta non rispose: risposero per lei i suoi occhi in cui c'era una intensa, leale promessa, che Mattia comprese e dalla quale gli venne all'anima la più viva esultanza.

E Loreta non mentì.

Da quel giorno ella fu veramente la compagna buona, previdente, esemplare, che il professore aveva sognato. La vita loro--che dopo il non lungo viaggio a Venezia e a Milano riprese il suo andamento ordinato--scorreva per entrambi in una dolce serenità. Loreta tutta alle cose domestiche, attenta all'oculata amministrazione de' loro poderi, instancabile e premurosa, veniva citata nel paese, dai coloni, dai vicini, come un modello d'ottima massaia. Il professore, ora, con animo tranquillo, s'era rivolto a' suoi cari studî per lungo tempo negletti e attendendovi con molta lena era giunto al compimento della sua opera sulle Zecche friulane, che un operoso editore di Udine si accinse subito a pubblicare.

Così trascorse un anno, ne trascorsero due; e il tempo, passato senza turbamento alcuno, parve ad essi breve come un lampo. Il modo della loro vita semplicissimo e modesto li metteva in sicurezza contro quegli assalti della malignità, che quasi sempre muovono dalle altrui invidie. E il prete Morganti, che rammaricavasi tra sè d'essere stato così bugiardo profeta, evitava di parlare del suo nemico, mascherando sotto l'aspetto dell'indifferenza l'aspettazione impaziente del giorno per lui avventurato, in cui qualche grosso nuvolone venisse ad addensarsi sulla casa dei Sant'Angelo.

Però per quanto il pretaccio spiasse nell'ombra l'arrivo del temporale e ne affrettasse il momento coi più cocenti voti, tutto parea congiurare perchè i suoi pii desideri non avessero soddisfazione. Anzi troppo spesso, in cambio di quanto stava nelle sue speranze, gli toccava d'invelenirsi il sangue sempre di più, per le molte contentezze che ai Sant'Angelo capitavano e per il bene che diceasi di loro in tutto il paese.

E per vero eran sì nobili e frequenti gli atti di munificenza, che il professore, secondo l'antica tradizione della famiglia, esercitava, da conciliargli con la gratitudine de' beneficati la stima generale.

Cosi l'anniversario del suo matrimonio aveva egli voluto solennizzare con un'opera di carità tanto squisitamente pensata da doverne ottenere il plauso di tutti.

A Tricesimo mancava fino lì un asilo infantile regolato secondo le norme igieniche e didattiche, che si richiedono dalle esigenze odierne per siffatti istituti. Più e più volte il Comune, che pur provvede con lodevole larghezza alla scuola popolare, aveva progettato di aprire uno di questi stabilimenti desiderato vivissimamente da tutto il paese. Ma l'attuazione del progetto dovette essere sempre aggiornata per molte difficoltà, tra le quali non ultima la mancanza di adatti e corrispondenti locali.

Fu a questo che il Sant'Angelo volle provvedere offerendo al Municipio l'uso gratuito per un lungo numero d'anni d'una piccola casa ch'egli possedeva in capo al paese: la stessa casa dove tanti decenni innanzi i Sant'Angelo avevano cominciata la loro fortuna e dove qualche vecchio ricordava ancora l'antica caffetteria; in cui il nonno Sant'Angelo, col berretto di velluto e gli occhiali sul naso, recitava allegramente agli avventori le sue gustose strofette dialettali.

Con quanto plauso quest'atto nobilissimo fosse accolto non è da dire. Ma il professore non volle saperne di ringraziamenti, nè tollerò che si facesse in quel proposito pubblicità alcuna. Al sindaco e agli assessori, che vennero a manifestargli la riconoscenza del Municipio, rispose con molta semplicità pregandoli che di quell'argomento non si facessero altre parole e sforzandosi a convincerli come a conti fatti la sua offerta si risolvesse in una cosa di ben esiguo valore.

I soliti brontoloni del Caffè della Posta, ebbero un bello stillarsi i cervelli per esercitare anche in questo caso la loro parte di denigratori sistematici. Essi di meglio non seppero trovare, se non l'affermazione che dopo tutto il professore non faceva certo un grande sacrificio col cedere quella sua "vecchia baracca" dove, in mancanza d'inquilini, ballavano da gran tempo i topi. Però queste buone lane dovettero smettere per forza anche coteste asserzioni, quando s'avvidero com'esse facevano manifestamente ai pugni col vero. Per l'autunno seguente quella ch'essi chiamavano la "vecchia baracca" era bella e pronta per accogliere i piccoli allievi. La casina, ridipinta a nuovo e convenientemente ridotta alla novella destinazione, aveva un aspetto pieno di gaiezza. Due belle sale spaziose e chiare s'aprivano sopra un piccolo giardino; e sulla facciata bianca a grosse lettere nere spiccava la scritta ancor fresca di colore: "Asilo infantile municipale."

Il professore e sua moglie a quei preparativi prendevano il massimo interesse. Loreta, ricordevole sempre del tempo passato come maestra in istituti di quel genere, si compiaceva di cooperare anche da parte sua con qualche consiglio. E fu lei stessa che, attendendosi la maestra già nominata dal Municipio, provvide volontariamente di persona a parecchie minute disposizioni inerenti all'apprestamento dell'asilo.

E mentre il Sant'Angelo, un po' tra gli studî, un po' con tali cure, vedeva trascorrere tranquille le sue giornate, un altro e grandissimo motivo di consolazione gli era offerto dall'incontro insperato che la sua opera sulle Zecche friulane veniva trovando. L'editore aveva fatto le cose a modo: il volume, stampato con molta diligenza e con copioso corredo di tavole, era riuscito magnifico e nel corso di pochi mesi aveva raggiunto una diffusione superiore di assai a quanto avvenga di solito per una monografia d'interesse più che altro provinciale. Un cenno di calorosa lode, che il Friedlaender ne fece nella Archeologische Zeitung di Stoccarda, ebbe per effetto che molti eruditi della Germania se ne interessarono. I maggiori Musei d'antichità d'Italia e dell'estero ne commisero degli esemplari. E il Valussi, in una brillante sua appendice nel Giornale di Udine, citando cotesti fatti, conchiudeva a giusto titolo coll'asserzione avere il Sant'Angelo compiuta un'opera che onorava veramente la scienza italiana.

Il modesto erudito, che intorno a quel lavoro aveva speso tanti anni di pazienti e costose indagini, esultava a questi elogi. Ma non è a descriversi la gioia intensa ch'egli provò quando un bel giorno, chiamato cortesemente dal prefetto della provincia in Udine, ebbe da lui la comunicazione che il ministro dell'istruzione pubblica, riconosciuta la sua benemerenza, aveva chiesto per lui la croce di cavaliere.

Raccontando a sua moglie e all'amico Mangilli l'emozione da lui provata a quella inattesa notizia, il buon professore affermava candidamente la sua contentezza. Nè, parlandone con altri, velò in modo alcuno cotesto suo sentimento.

--Sarebbe una stupida ipocrisia se volessi ostentare indifferenza. La croce che il mio re mi manda sarà per me il ricordo più caro del lavoro a cui ho dedicato tanti pensieri.

E con una allegrezza da bambino, con quella semplicità cara e nobile, che era in lui tanto bella, scherzava con Loreta.

--Vedrai che figurona farà adesso al dì dello Statuto il tuo povero vecchio con la croce al petto! Quel giorno la barba bianca sfigurerà assai meno. E prè Zuan se mi vede.... colla croce sul petto.... figurati che occhiatacce!

E prè Zuan, senza aspettare che venisse il dì dello Statuto e che il professore gli passasse accanto colla sua brava decorazione, si rodeva già allora allegramente dalla bile. L'antica pretesa ad archeologo, a cui ostinavasi ancora il Morganti, a ore perse, tra la messa e il tresette, era stata la prima, la vera ragione dell'odio implacabile ch'egli covava contro il Sant'Angelo. Costretto cento volte a vedersi rinfacciati i madornali spropositi detti non solo, ma, quel ch'era peggio, stampati in qualche giornalucolo clericale della provincia: vistosi portar via dal professore per le sue collezioni parecchie anticaglie, su cui aveva posto l'occhio subodorando qualche buon commercio, ora le lodi della stampa e l'onorificenza che il Sant'Angelo aveva avuto, lo facevano addirittura uscir dalla pelle. Tanto, che incapace di contenere più a lungo il suo sdegno, se la pigliava con tutti: col governo, che regala a occhi chiusi titoli e croci al primo che capita; contro i "famosi liberaloni" che hanno ciò che vogliono; perfino contro il bravo Valussi, che almeno lui, giornalista vecchio ed onesto, avrebbe dovuto disdegnare di profondere a quel modo tante turibolate....

Il conte Nardin, che di tutte queste espettorazioni del prete ebbe notizia e che ormai provava un gusto matto--com'egli diceva--"a farlo ballare" pensò allora di prendere due piccioni ad una fava: dare una soddisfazione al Sant'Angelo e procurare all'altro un nuovo argomento di dispetto.

E per ottenere tale intento passò parola con alcuni membri del Municipio e con pochi altri fidati amici perchè nel giorno fissato per la inaugurazione dell'asilo, si improvvisasse una bella serenata al Sant'Angelo, con la banda comunale: sarebbe questa una dimostrazione di gratitudine per l'atto generoso da lui compiuto e in pari tempo un festeggiamento per la onorificenza da lui ricevuta.

La proposta del bravo conte fu accolta con grande trasporto. E tutto fu disposto assai bene senza che nulla ne trapelasse al festeggiato od alle persone a lui attinenti.

La sera di quella domenica in cui l'asilo fu inaugurato, a casa Sant'Angelo c'era un po' di festa. Intorno alla mensa, con pochi altri amici, sedeva il prè Letterio Prandina venuto da Udine a passare la giornata in campagna: sedeva il conte Nardin, che tratto tratto, facendo lo gnorri, gittava delle occhiate furtive fuor dal balcone, verso il paese, senza che alcuno sospettasse affatto a ciò ch'egli pensava.

E fu una sorpresa generale, proprio al momento in cui si sturavano certe vecchie bottiglie di moscato, l'udire lo scoppio di un'allegra musica a breve distanza dalla casa. Tutti balzarono in piedi e corsero alle finestre, curiosamente; e fu allora che si vide avanzarsi su per lo stradone in bell'ordine di marcia tutta la banda di Tricesimo, coi pennacchioni verdi alla bersagliera e un codazzo di gente dietro.

Quasi contemporaneamente entravano nella sala il sindaco ed altri cinque o sei signori del luogo; e al professore, che non capiva ancor nulla, spiegarono la ragione di quella improvvisata.

Inutile dire i ringraziamenti in cui il Sant'Angelo si profuse per quel pensiero gentilissimo. E inutile il descrivere l'allegria, con cui trascorse quella serata.

Bastarono i primi concenti della musica perchè da tutte le parti accorressero a frotte i contadini. E poichè il maestro, ritto in mezzo al circolo formato dalla sua banda nell'ampio cortile, attaccò sulla cornetta, ch'egli dirigendo suonava, una di quelle polche gioconde, che formano la delizia delle sagre paesane, si videro presto unirsi le coppie e principiare il ballo, animatissimo, caratteristico, colla calada, in cui i contadini del Friuli mettono una passione ed una grazia straordinaria.

Si ballò assai tardi, si fecero de' grandi evviva al Sant'Angelo, alla signora Loreta, a tutti, e si vuotarono due grossi barilotti del buon vinello asprognolo e leggiero, che i padroni di casa fecero portare nel mezzo del cortile affinchè ballerini e sonatori potessero di tratto in tratto rinfrescarsi la gola a ripigliar nuova lena per altre sonate ed altri balli.

Il Sant'Angelo fra tutti questi festeggiamenti era raggiante, non aveva più parole per ringraziare; stringeva le mani a tutti; voleva attribuire a tutti il merito della gentile affettuosa sorpresa.

E quando prè Letterio gli accennò con benevolenza a Loreta che affaccendatissima, rossa in viso, andava e veniva, intenta a far onore agli ospiti, il professore, volgendo verso di lei uno sguardo pieno di tenerezza:

--Sì, prè Letterio,--esclamò con accento profondamente sincero--non potrei essere più felice! È così grande la mia felicità, che quasi, ve lo giuro.... ho paura!...


XII.

Circa un anno dopo la festicciuola fatta al professore Sant'Angelo, una mattina che questi recavasi col suo cavallino alla volta di San Daniele, dove aveva a consultare alcuni codici di quella piccola ma preziosa biblioteca comunale, fu vivamente sorpreso allorchè passando dinanzi all'antico palazzo dei Morò-Casabianca vide insolitamente spalancati tutti i veroni e diverse persone, in animato andirivieni per il cortile e dinanzi agli stallaggi, affaccendatissime nel seguire gli ordini, che il fattore, in maniche di camicia e col cappellone di paglia indietro sulla nuca, veniva impartendo con grande importanza.

Il Sant'Angelo, colpito da codesto movimento così inconsueto, fermò un istante il carrozzino in mezzo alla strada e fe' un cenno al fattore con cui era in ottima conoscenza.

Questi, che subito lo vide, gridò ai contadini qualche altro ordine perchè non avessero a perder del tempo mentr'egli si assentava e, facendosi vento col cappellone che s'era tolto, venne premuroso a dare il buon giorno al professore.

--Novità grandi, signor professore, novità grandi!

--Lo vedo. Che è dunque avvenuto?

--Niente di meno che il palazzo ha cambiato padrone!

--Davvero?

--Una cosa improvvisa. Si figuri che non più tardi di iersera mi capita da Udine un ordine dell'amministratore,--sa bene, il dottor Gigi Franzolini,--che si metta tutto in assetto, che si dia aria alle sale, perchè tra domani e posdomani ha da capitare a veder il palazzo il nuovo proprietario.

--E chi è?

--Chi diamine lo sa! Quel benedetto dottor Gigi, lei lo conosce.... Un angelo d'uomo, ma ci vogliono le tanaglie a tirargli di bocca le parole. Se scrive poi.... peggio che peggio!

E il fattore, che di quella notizia era tutt'altro che edificato, non iscorgendo nell'annunciato mutamento se non una minaccia alla pacifica e quasi indipendente sua vita, attaccò a questo punto una serie di considerazioni, le quali, sebbene fondate su pure ipotesi, non avrebbero per certo potuto tornare più sfavorevoli al nuovo proprietario.

--Abbiate pazienza, caro Beppo, il diavolo non sarà forse tanto nero! Poi da oggi a domani non è un secolo da aspettare per cavarsi la curiosità!

--Ha un bel dire, lei! Ma colla pace che si aveva!... Non vede che baccano c'è già adesso!

E il buon fattore, avvezzo alla tranquillità solenne del vecchio palazzo, gettava uno sguardo pieno di egoistico rimpianto verso le finestre tutte spalancate, presso alle quali scorgevansi tratto tratto la fattoressa e le sue ragazze intente a spolverare mobili e cortinaggi.

Il professore, comprendendo benissimo come il fattore, preso l'abbrivo, sarebbe andato chi sa fin dove con la litania degli omèi, stimò bene di tagliar corto con un saluto scherzoso, scotendo le redini sulla groppa del cavallino.

--Niente paura, niente, paura. A reviodisi, Beppo.

--Mandi, sior cavaliere.

Il Sant'Angelo, che de' fatti altrui s'interessava assai poco, non s'occupò più che tanto circa il nuovo proprietario del palazzo Morò-Casabianca e ne' giorni successivi, non avendo occasione di passare da quelle parti, neppure gli cadde in pensiero d'informarsi se l'atteso fosse arrivato.

Una mattina, verso la fine di quella settimana, mentre lavorava nello studio intorno a una collezione di cammei recentemente scoperti in Aquileia, udì ad un tratto entrare nel cortile una carrozza, in cui doveva essere della gente forastiera a giudicare dall'abbaiamento con cui l'accolse prè Zuan che dormiva come di consueto al sole presso la cancellata.

Il Sant'Angelo si levò subito, e fattosi alla finestra vide scendere da un legnetto, che il fattore del palazzo Morò-Casabianca guidava, un signore forastiero: alto della persona, magrissimo e pallido, vestito d'un abito completo di stoffa grigia, colle mani guantate. Vide poi la Vige uscir dalla cucina e avvicinarsi, chiamata da un gesto cortese, al forastiere, che sorridendo nello scorgerla farsi più rossa del fazzoletto di cambrì che aveva sul capo, trasse di tasca un elegante portafogli e toltone un biglietto di visita glielo porse, perchè lo portasse al padrone.

La contadina sbattendo con gran romore i suoi zoccoli di legno sui ciottoli del cortile e poi sul selciato del portone, fu in un lampo nello studio.

Il Sant'Angelo, che si era avviato ad incontrarla, prese il biglietto e gittatovi appena uno sguardo fe' un atto di profonda meraviglia. Il nome che aveva letto era questo: Conte Alvise Polverari-Nathan.

Con molta sollecitudine il professore mosse verso l'uscio, sul quale l'ospite in quel momento appariva.

--Il professore Sant'Angelo?

--Son io, signor conte,--rispose il Sant'Angelo inchinandosi profondamente.

--Ella vorrà perdonarmi, professore, se io mi permisi di venirla a disturbare. Il mio avvocato, il dottor Franzolini di Udine, mi ha parlato sì lungamente di lei, ieri, mentre mi accompagnava al palazzo Morò-Casabianca, di cui--non so se Ella lo sappia--io sono venuto ora in proprietà come erede di una mia zia paterna, la contessa Polverari-Nathan. Quando seppi com'Ella avesse il suo domicilio in queste campagne, ebbi subito il desiderio di poterle stringere la mano. Il suo nome, professore Sant'Angelo, mi è noto per più ragioni: amante com'io sono degli studi storici, non le farà meraviglia, ch'io la conosca per la sua bella fama di scienziato; poi, nella famiglia mia io ho imparato a conoscere il suo nome per tanti ricordi....

--Le son grato, signor conte, per la cortesia infinita delle sue parole. Ma più grato ancora per la gioia ch'Ella mi volle dare onorando la mia casa. Chi reca il nome venerato, ch'Ella porta, non può essere che l'ospite più caro e più desiderato dei Sant'Angelo! Non le posso dire la viva emozione ch'io provai ora nel leggere questo biglietto....

E deponendo il biglietto, che ancora teneva tra le mani, invitò il conte ad entrare ed a prendere posto.

Il forastiero, con modi assai disinvolti nella loro perfetta distinzione, si sedette sur una seggiola accanto al tavolo da lavoro.

--La ringrazio di queste parole, professore, che mi danno prova della sua bontà. Io comprendo che per gli antichi rapporti, onde furon vincolate le nostre famiglie--rapporti forti e sacri, di cui il tempo non può aver cancellata la memoria--il leggere il mio nome le abbia recato sorpresa. Tale sorpresa però deve essere stata ancor maggiore dopo le tante voci che son corse sul mio conto e di cui per fermo qualche eco le sarà giunta. Non è egli vero?

Il giovane ebbe un lieve sorriso nel fare cotesta domanda.

--Debbo confessarlo,--l'altro rispose.--È da lunghi anni che io non potei più avere, per quanto desiderate, precise notizie sul conto suo. Non è da stupirsene quando si pensi alla mia vita: sepolto sempre in queste campagne, segregato da tutti, tra i miei studî e la famiglia. Tuttavia avevo saputo del suo tramutamento all'estero, de' viaggi intrapresi in paesi lontani: indi, appena qualche voce assai vaga, che mi lasciò in piena incertezza sulla sua sorte.

--So quante cose si dissero in Europa sul conto mio e di quali avventurosi romanzi venni fatto l'eroe. Secondo alcuni avrei contratto uno splendido maritaggio a Valparaiso con la figlia di un ricchissimo armatore spagnuolo--e sarebbe stato meno male!--secondo altri avrei trovato la morte, una tragica morte, colto con alcuni arditi viaggiatori italiani, in un agguato di indigeni, sulle rive del fiume Darling in Australia. A dar vigore a coteste voci deve aver contribuito il nome di Nathan (appartenente anche a un illustre viaggiatore irlandese) che io dovetti aggiungere al mio nome di famiglia, per patto di adozione, allorchè mia zia, la contessa Maria-Luigia Polverari, rimasta vedova del barone Nathan di Londra, volle con questo mezzo generoso assicurarmi l'eredità del suo vistoso patrimonio. Se però le cose da romanzo narrate di me ebbero sì poco fondamento nella verità, le assicuro, professore, che la mia parte di avversità e di dolori l'ho avuta purtroppo anch'io.... Sono ancor giovane, ma le giuro che ormai sono ben poche le illusioni che mi rimangono.

--Non dica questo. Quando si ha la sua età ed un nome come il suo, non è lecito parlare con tanta amarezza e con tanta sfiducia. Poi,--perdoni alla mia franchezza,--da quanto appresi finora da lei stesso....

Il professore ruppe a mezzo la frase con una delicata reticenza.

--Sì, comprendo ciò che Ella vuol dire!--il conte soggiunse subito.--La mia posizione è per fermo tale che da molti mi potrebbe essere invidiata. Sono ricco, ho un nome antico e illibato, potrei aspirare ancora a qualche brillante carriera. Ma, che vuole? Con tutte le mie ricchezze non posso essere felice. Si direbbe che un astro maligno mi abbia accompagnato per tutta la vita, dall'ora della mia nascita.... sempre. Ella sa in quali momenti dolorosi per la mia casa io son nato!

All'evocazione di quel ricordo il professore sentì una stretta al cuore. Tutte le memorie che nell'anima sua duravano conservate con alta e pietosa religione filiale, si ridestarono in folla nel suo pensiero. Mai forse come in quell'istante egli ricordò con ardente commozione il nome del gentiluomo eroico e generoso che, sentendo con pari nobiltà l'amicizia e l'amor della patria, gli ebbe salvo un giorno, col sacrificio di sè stesso, il padre suo.

Incapace di trovar una parola che valesse a manifestare la intensità profonda del suo sentimento, il Sant'Angelo afferrò la destra del suo ospite e gliela strinse forte, tacitamente.

Il giovane mostrò d'aver compreso tutta la gentilezza ch'era in questo atto e come spinto da esso ad un confidente abbandono, proseguì subito con una malinconica e toccante serenità narrando i tristi particolari--in molta parte non ignoti al Sant'Angelo,--che avevano accompagnato la sua nascita e gli anni suoi infantili.

Sua madre, Laura,--una contessa Rezzonico di Vicenza--donna di fibra gracilissima e di temperamento eccezionalmente sensibile, erasi unita assai giovane in un matrimonio di puro amore al conte Gottardo Polverari. I medici, che nella salute di lei sempre malferma,--fatti esperti da sconfortanti prove del passato--avean già temuto di scorgere i segni di un fatale morbo gentilizio, sperarono bene da quell'unione. E per vero la salute della giovane sposa parve ritemprarsi nella felicità matrimoniale che la nascita di una bambina venne a rendere ancor più perfetta. Così trascorsero alcuni anni placidamente. Ma le gioie domestiche non bastarono a far obliare al conte Gottardo altri doveri ed altri affetti. Discendente da una vecchia famiglia, ricca di generose tradizioni patriottiche, doveva egli condividere i forti entusiasmi, che in quegli anni belli e fatali, destavano un concorde palpito di speranza in tutta la gioventù d'Italia. Animoso ed ardente gli parve dovere di rispondere egli pure alla gran voce della patria, di cooperare anch'egli all'intento comune. La sua sposa, conoscendo l'animo di lui, non l'avversò ne' suoi divisamenti; nè lo rattenne; ma, antivedendo i pericoli, ne' quali per l'indole sua ardimentosa si sarebbe avventurato, cominciò a soffrire tacitamente, oppressa da mille sinistri presentimenti, torturata da continue angoscie, superiori di troppo alla fragile sua fibra, specie in quel tempo, in cui essendo prossima a divenir madre per la seconda volta, avrebbe dovuto, come molto le era raccomandato, sfuggire ogni forte emozione.

I presentimenti di donna Laura non tardarono ad avere aspra conferma dai fatti. In una notte invernale il palazzo fu invaso dalla polizia: non ci fu angolo più riposto che gli agenti con rude fiscalità non avessero perquisito: poscia la povera donna, quasi pazza dallo spavento, s'era vista strappare a forza dalle braccia il suo sposo, il quale anche in quegli estremi momenti, pur sapendo di essere perduto, non venne meno nè per un atto nè con una parola alla fermezza nobilissima del suo carattere.

Fu sotto il peso di coteste terribili emozioni che la contessa, colpita da fierissima febbre, pochi giorni dopo l'arresto del consorte, si sgravò prematuramente di un bambino, che per la grande sua gracilità pareva votato alla morte: Alvise.

--Così io nacqui. Fu un miracolo della scienza e dell'amor materno che mi sottrasse alla morte. Ma se questa vittoria fu la consolazione di mia madre, lei, la povera donna, era ben lunge dall'aver coscienza dell'infausto dono che mi venne fatto col serbarmi alla vita. Erede di quel germe funesto, che mia madre portava seco dalla sua famiglia, il complesso delle circostanze da cui la mia nascita fu accompagnata non poteva che rendere più fatale il retaggio che mi era riserbato....

E indovinando da un gesto del professore l'intenzione che questi aveva di interromperlo pietosamente:

--No, no,--proseguì con dolcezza,--mi lasci dire, professore. Io non m'illusi mai, neppure quando taluno de' più insigni clinici, ch'io volli consultare ne' miei viaggi, tentò di ingannarmi con qualche frase benevolmente mendace. Poi....--in questo almeno ebbi la fortuna di rassomigliare a mio padre,--non fu certo l'idea della morte che turbò mai la serenità del mio spirito. Furono ben altre le ragioni che mi fecero trascorrere così poco lieta la mia giovinezza!

E con appassionato accento egli riepilogò la sua vita, fatta quasi interamente di dolori, non arrisa che da poche e fuggevoli gioie: tutta la sua vita, dal giorno in cui seppe la rassegnata morte del padre, da lui mai conosciuto, nelle carceri austriache di Theresienstadt, ai giorni luttuosissimi in cui vide successivamente spegnersi, vittime entrambe del medesimo inesorabile morbo, prima la sorella, pia e dolce fanciulla non anco ventenne, quindi poco appresso la madre.

--Allora mi diedi ai viaggi, cercai una distrazione nello studio, procurai di obliare tante traversie, avendo, in mezzo ad esse, un unico ma infinito conforto: l'affetto di una sorella di mio padre, da lunghi anni domiciliata in Inghilterra, la quale--vedova da poco del barone Nathan, già ambasciatore britannico in Austria e in Francia--ebbe per me cure e tenerezze veramente materne.

E qui, dopo un breve intervallo, ritrovò il sorriso melanconico di poco prima.

--Quante tristezze le ho narrate, professore. Peraltro me lo deve perdonare. Non so perchè, ma mentre io era venuto qui con tutt'altra intenzione, la sua presenza, le sue parole, la sua bontà, mi obbligarono quasi a queste mie confidenze. Che vuole? Si obbedisce spesso, anche senza volerlo, a certi moti dell'anima, i quali del resto non ingannano mai. Varcata appena la sua porta io mi sono sentito in una casa amica ed ospitale....

--Oh! questo sì! Ella non s'è ingannato, signor conte. È questa la casa sua.... e se vorrà ritenerla tale sarà per me l'orgoglio maggiore e la gioia più cara.

--Grazie, glielo credo e gliene sono gratissimo. Quando venni qui da Venezia, ove mi recai per la cura de' bagni, avevo divisato di rimanervi per poche ore soltanto: il tempo di vedere questo possedimento di Morò-Casabianca, che mi venne dall'eredità di mia zia. Ma le confesso che ora ch'io vidi questo storico palazzo e queste belle campagne, ne restai così innamorato da non saper decidermi a partire.

--Morò-Casabianca le piacque?

--E come altrimenti? È un palazzo veramente signorile. La posizione ne è quanto mai pittoresca.... Poi.... le antichità che racchiude, le leggende che corrono....

--Sa già anche questo?

--Non vuole? Prima l'avvocato Franzolini.... quindi il fattore.... Ah, quest'ultimo una vera macchietta di chiacchierone, però tanto simpatico e intelligente! Anzi, appena arrivato, dichiarandosi incapace di spiegarmi lui ogni cosa, ha avuto un bellissimo pensiero, di cui proprio gli fui riconoscente.

--Quale?

--Quello di farmi trovare sul tavolo della mia stanza un suo opuscolo, professore, sul palazzo Morò-Casabianca: una monografìa perfetta, ch'io lessi con profondo interesse ed alla quale, glielo confesso, debbo in gran parte il mio desiderio di fermarmi qui per qualche tempo.

--Ecco, signor conte, una delle poche soddisfazioni che io dovrò a quel mio lavoretto. Però--a parte il mio amore per questi luoghi dove io son nato--è certo che Morò-Casabianca è d'un interesse storico veramente prezioso. Basterebbe la sala dei quadri....

--Stupenda da vero. Le due tele rappresentanti la battaglia di Bacile e la consacrazione del duomo di Venzone.... Stile purissimo di scuola belliniana.

--Opere ch'io affermerei dovute ad uno de' migliori allievi di Pellegrino da San Daniele, quando non siano del maestro stesso....

Posto così sul terreno dell'arte, il professore parlò lungamente de' pregi dell'antico palazzo, delle sue origini, de' suoi oggetti artistici, della sua architettura, delle varie famiglie che ne ebbero la proprietà.

Il conte l'ascoltò con molta attenzione.

--Vede bene, professore, che dopo queste illustrazioni, avute dalla viva sua voce e venute da fonte così competente, io devo sentirmi ben lieto di essere ora in possesso di quel palazzo. E comprenderà come mi sia cresciuto il desiderio che già provavo di farvi una più lunga dimora. Ma fra le molte cose che a ciò mi invitano mi lasci ch'io le dica come sia primissima la speranza della sua compagnia.

--Ella mi confonde.

--Io le sarò ben riconoscente se mi vorrà dedicare qualche breve ritaglio del suo tempo. Di quante cose potremo parlare! Quanti ricordi potremo richiamare, insieme! E quanto conforto mi sarà di ripensare con lei ai fatti del passato! Me lo promette?

--Con tutto il mio cuore e con la più grande esultanza! E si strinsero amichevolmente, con reciproca espansione, le destre.

Ancora il conte Alvise, girando gli occhi curiosi intorno allo studio, s'interessò alle collezioni che vi erano adunate: parlò con enfasi della bella pace che colà regnava suadente al lieto raccoglimento degli studi: accennò al suo desiderio di poter prendere cognizione esatta delle molte antichità ivi raccolte e, fattosi reiterare la promessa che il professore si sarebbe recato presto al palazzo, promise di ritornare tra non molto alla villa.

--Io l'attenderò sempre con piacere, signor conte. E quando vorrà onorarmi la prossima volta, sarò lieto di presentarle anche la mia signora, che oggi--sa bene... giorno di mercato...--da brava massaia s'è recata a Udine a fare le sue spesucce.

--Ne sarò lieto veramente. E... a quanto prima.

--A quanto prima.

Così, affabilissimamente, come due amici di data già antica, il professore ed il conte si accommiatarono.

Il Sant'Angelo volle accompagnare l'ospite fino al carrozzino e poichè egli vi fu salito accanto al fattore Beppo, che in quel frattempo s'era rinfrescato il becco con un buon bicchierone di vino preparatogli dalla Vige sotto la pergola, rimase a lungo sulla spianata dinanzi alla casa finchè il veicolo si perdette tra il verde della campagna alla girata del colle.

Loreta non rientrò che mezz'ora più tardi.

Il professore, che la stava attendendo un po' impaziente, ebbe un senso di apprensione quando la vide scendere dal calesse. La signora, partita alla mattina d'ottimo umore, scherzando, con una ciera che parlava di salute, aveva ora pallidissimo il viso e mostravasi in preda ad una insolita agitazione.

Il Sant'Angelo notò tosto tale cambiamento e impressionato ne la richiese de' motivi.

--Che hai, Loreta, stai male? Mi sembri turbata.

--Sì, non so che cosa sia. Strada facendo, senza che me ne possa spiegare il motivo, fui assalita da un forte capogiro. Forse il sole.... Ma non è nulla. Ora non me ne risento affatto.

Con uno sforzo sopra sè stessa Loreta volle mostrarsi indifferente. Parlò con diffusione al marito di vari interessi domestici, degli acquisti fatti in Udine; dell'incontro avuto con parecchi loro amici. Poi, quando la Vige venne ad avvertire che il pranzo era pronto, si pose a tavola, affettando un'ilarità che evidentemente non avea.

Ma non potè mangiare. Dopo poche cucchiaiate di zuppa dovette smettere.

--Non so che cos'abbia. Mi sento così nervosa. Guarda un po' dopo tanto tempo! Se questi miei benedetti nervi dovessero tornare a farne delle loro!

La sua voce tremava nel profferire questi scherzi. E il professore nell'intento di distrarla da coteste idee, cominciò a narrarle i fatti occorsi in quella giornata.

--Sai che ho ricevuto la visita del nuovo proprietario di Morò-Casabianca?

--Davvero?--ella chiese con accento che voleva apparire tranquillo.

--Sì, avrebbe voluto conoscerti. Si trattenne a lungo con me e promise di ritornare presto. Se sei rientrata per lo stradone di Tricesimo devi averlo incontrato, Partì di qua mezz'ora prima del tuo ritorno....

--Nel carrozzino del fattore Beppo?

--Appunto. Un giovanotto pallido, alto, assai magro, tutto vestito di grigio....

--Sì, lo incontrai infatti, al crocicchio di Leonacco, davanti alla villa dei Prampero...,

--Figurati la mia sorpresa. È il figlio dell'amico più caro, del salvatore del mio povero padre. Un gentiluomo veramente perfetto..., il conte Alvise Polverari di Verona.

A questo nome Loreta parve colpita e un lieve tremito contrasse per un momento le sue labbra.

Ma fu meno d'un istante. Ella trovò subito una frase qualunque per continuare il dialogo. E il Sant'Angelo per lungo tempo si abbandonò, come il suo cuore voleva, a parlare con calda animazione de' molti ricordi, che in quella giornata, per l'arrivo dell'ospite inatteso, gli erano risorti così vivi nel pensiero.


XIII.

Mattia Sant'Angelo non volle porre un indugio troppo lungo nel recarsi a restituire la visita al conte Polverari, spinto a questo, assai più che da un mero riguardo di convenienza, dal sentimento di schietta simpatia che il forastiero avea fin dal primo momento destato in lui.

Discorrendone con Loreta non rifiniva di lodarne i modi squisiti, la cortesia del parlare, la bontà che tralucea evidente da' suoi lineamenti così nobili. E per poco non s'impazientì allorchè la signora, accampando qualche pretesto, gli diè a comprendere con velati accenni com'ella sarebbe stata lieta di vedersi evitato l'imbarazzo di una presentazione.

--Che vuoi? In tanti anni che faccio questa vita ritirata son divenuta quasi una selvaggia. Trovarmi innanzi a delle persone forastiere di tanto merito e di tanta levatura....

Il professore da prima un po' contrariato volse la cosa in canzone;

--Già, già, si capisce. Prima di tutto sei troppo brutta.... poi, tutti lo sanno che sei una povera sempliciona, incapace di mettere insieme quattro parole.... E vero, signora Sant'Angelo, che la cosa sta proprio così?!

--Non dico questo, ma....

--Ma... invece io le dirò che tutti questi non sono che dei pretestucci senza senso comune. La signora Sant'Angelo, checchè se ne dica, è ancora un bel fior di donnetta; di più, quando voglia, dello spirito ne ha da vendere non che a una ma a venti signore di città. Si metta dunque l'animo in pace. Sono pronto a rispondere io che anche davanti al conte Polverari non farà la brutta figura che teme. Anzi son certo che l'ospite nostro non potrà che rivolgermi degli altri complimenti per la mia brava moglietta!... Con tutto questo, il giorno in cui il Sant'Angelo, recatosi a Morò-Casabianca, ne ritornò sull'imbrunire insieme al conte che lo volle riaccompagnare con i suoi cavalli, Loreta sfuggì l'occasione di farsi vedere. Appena ebbe avvertito, dalla spianata dove lavorava, l'avvicinarsi della carrozza, fuggì lesta in camera sua, ordinando alla Vige di dire all'ospite, ove chiedesse di lei, trovarsi ella ritirata nelle sue stanze in causa d'un forte male di capo.

Il conte infatti non mancò d'informarsi sul conto suo con una certa insistenza. Poi, affermando di non voler riuscire di troppa molestia, ringraziato il professore della sua visita e salutatolo con espansione, risalì in carrozza e riprese direttamente la strada del palazzo.

Verso Mattia la signora si scusò anche questa volta dicendo che, sorpresa da quella visita, non avrebbe potuto farsi vedere, come trovavasi, in assai dimessi abiti di casa. Senonchè il professore, vôlta un'occhiata alle vesti semplici ma linde, che come sempre anche in quel giorno ella portava, non potè trattenersi dal farle un aperto rimprovero per l'atto suo, il quale poteva, ciò che altamente gli sarebbe doluto, dar luogo a qualche non lusinghiera interpretazione.

--Ti ho detto già quali legami mi stringono a questo forastiero. Sai il piacere che ho provato nel vederlo in casa mia. Dovrebbe bastare questo per forzarti, anche quando ciò ti riesca di noia o di peso, a non usargli da parte tua un tale contegno!

Abituata ai modi inalterabilmente dolcissimi del marito, Loreta comprese, dal tono serio con cui pronunciò queste parole, come egli avesse provato per causa sua una reale contrarietà.

Ella parve di ciò vivamente turbata e, con le guance accese da un subitaneo rossore, si scusò ancora, promettendo che per quel riguardo non gli avrebbe dato ulteriori motivi di farle rimprovero.

--Meno male!--esclamò allora il professore.--Se tu sapessi quante volte il conte oggi stesso mi ha chiesto di te! Gli feci presente che vi dovevate essere incontrati ier l'altro sul crocicchio di Leonacco. Se ne ricordava. Però l'incontro è stato così momentaneo--pare proprio alla svoltata dello stagno--che egli nella rapida corsa de' due carrozzini non potè distinguere se non vagamente una signora con un velo in capo, e seppe dal fattore Beppo chi tu fossi, solo quando il nostro calesse era già sparito dietro le ultime case del villaggio.

Loreta si limitò a rispondere con qualche monosillabo di conferma. E il discorso non ebbe sèguito. Anzi parve che per tutta quella sera la signora, la quale del resto accusava di sentirsi poco bene e perciò punto disposta a discorrere, avesse voluto di proposito evitare che l'argomento fosse ripreso.

Come tutta quella sera, così il giorno appresso Loreta si mostrò nervosissima. Mentre il professore ritirato nelle sue camere attendeva nelle ore consuete ai proprî studî, la signora andava e veniva per la casa, senza trovare il destro di porsi alle solite faccende, mostrando una grande impazienza nel dover ascoltare i fittaiuoli, che come sempre in autunno venivano a recare le loro derrate coll'inevitabile accompagnamento di querimonie per la lunga siccità o per i troppi calori, che avevano rovinati i raccolti.

Ogni volta che il rumore di qualche ruotabile s'udiva per lo stradone e che prè Zuan balzava dal sonno mettendosi ad abbaiare, Loreta aveva quasi uno scotimento di tema. Ed era in tutti i suoi atti, come ne' suoi lineamenti, una così marcata inquietudine, che la Vige, colpita vivamente e senza tuttavia arrischiarsi di moverle domanda alcuna, la sbirciava di sottecchi con profonda curiosità.

L'incontro col conte Polverari avvenne però in modo assai diverso da quello che Loreta s'attendeva e in un momento in cui ella vi era meno preparata. E fu due giorni dopo, una domenica, al termine della messa grande, che si celebra nel duomo di Tricesimo alle dieci del mattino.

Scendeva Loreta i gradini della chiesa insieme a un gruppo di signore sue conoscenti, quando notò dinanzi al municipio, in unione a suo marito, che ve la stava attendendo come ne aveva costume, il nuovo proprietario di Morò-Casabianca.

Il gentiluomo, vestito d'un elegante abito chiaro di campagna, pallido in viso, coi grandi mustacchi bruni che davano al suo tipo una certa marziale fierezza, parve un po' turbato nel vederla. Ma, corrispondendo disinvoltamente a un avvertimento che in quell'istante gli movea il professore, s'avvicinò subito, seguendolo, verso la signora, portando la mano al cappello.

--Ecco mia moglie, conte.

E quindi a lei sorridendo:

--Il conte Alvise Polverari-Nathan, di cui ti ho già tanto parlato....

La signora fissò in volto al forastiero i suoi occhi lucenti e si fece smorta sotto la veletta che le copriva il viso.

Il Polverari s'inchinò profondamente e subito, con molta scioltezza, le porse la mano:

--Signora, io sono ben lieto di fare la sua conoscenza. Col professore noi siamo già,--(e volgendosi a lui) posso dirlo, non è vero?--ottimi amici. Sarò felice se di pari cortesia vorrà onorarmi Ella pure.

Loreta tardò un istante a rispondere--ciò che Mattia interpretò come conseguenza del naturale imbarazzo di lei al cospetto del forastiero;--ma lo fece quindi con voce ferma e con una frase felice:

--Gli amici di mio marito non possono che essere i benvenuti nella nostra casa. Ella poi, signor conte....

Alvise non la lasciò proseguire, ringraziò vivamente per la sua bontà; indi, seguendo con essi la via, si mise a parlare d'altro togliendo argomento dal lieto spettacolo che presentava il paese nell'animazione festiva, dalla bellezza delle contadine, che coi fazzoletti di tinte fiammanti, legati pittorescamente al capo od annodati con grazia intorno al collo, raccoglievansi in crocchi sulla piazza, scherzando tra loro ed occhieggiando coi loro dami.

--Non possono credere come a me piaccia questa bella e semplice vita delle campagne....

--Ella è un artista, signor conte, e quindi lo si capisce,--rispose il professore.--Però devo riconoscere io pure che quassù in questo nostro Friuli, a torto forse non ancora abbastanza conosciuto dagli altri fratelli italiani, la natura è bellissima, il popolo è pieno di cuore e gli usi vi sono pittoreschi veramente.

E l'ottimo Sant'Angelo, che nell'intenso amore per la sua terra stimavasi felice tutte le volte che gli era offerto il modo di metterne in luce i pregi, accennò subito al forestiere esservi appunto in quella domenica un'occasione eccellente di assistere--ov'egli ne avesse avuto vaghezza--ad uno dei più giocondi e caratteristici spettacoli della vita popolare in quelle campagne: la sagra d'autunno a Nimis, piccolo ma amenissimo paesello nel distretto di Tarcento.

--È una delle più belle sagre dell'alto Friuli. L'allegria ne è così tradizionale che la gente vi accorre a frotte e non solo dai luoghi del circondario, ma da Udine, da Cividale, da Gemona. È un quadretto che merita la pena d'essere veduto. Per noi stessi che vi andiamo ogni anno, è sempre una festa a tornarci. Non è vero, Loreta?

La signora assentì.

--Anche a Morò-Casabianca me ne fu già parlato. Il mio bravo fattore, che sanno bene come ha abbondevole la parola, me ne ha già descritto ier sera con entusiasmo le meraviglie.

--Sfido io!... Ma vuol credere, signor conte,--proseguì il professore ridendo,--che quel vecchio matto, coi suoi grossi sessanta sulle spalle ci tiene ancona ad essere uno de' più accaniti ballerini!... Bisogna vederlo!

--Allora oggi.... guai a chi manca a Nimis! E poichè Ella, professore, e la sua signora ci vanno tutti gli anni, non comincieranno, io spero, da questo col fare un'eccezione all'abitudine antica. Posso contarci?

Queste parole erano state dette dal conte con garbatissimo tono di scherzo, e, solo nell'atto ch'egli profferiva l'ultima domanda, i suoi occhi si fissarono rapidamente negli occhi di Loreta.

--Si figuri se sarà per noi un piacere!--esclamò cordialmente il Sant'Angelo.

E siccome egli, nel rispondere così, volgevasi alla moglie quasi chiedendo ch'ella si unisse in tale affermazione, Loreta si sentì obbligata ad assentire ancora una volta. E lo fece con un cortese cenno del capo, senza parole.

Dopo questo, qualunque scusa per evitare di recarsi quel giorno a Nimis sarebbe stata impossibile. Loreta lo riconobbe e tralasciò ogni tentativo in tale riguardo.

Il Sant'Angelo intanto aveva atteso con una compiacenza particolare ai preparativi per la gita. Come ogni anno, per questa occasione era stata apparecchiata la carrozza grande, la quale non usciva dalla rimessa che per certe speciali ricorrenze, e il piccolo Agnul l'aveva pulita, lavata, lucidata con tanta cura che il vecchio legno, un po' pesante nelle sue forme antiche, brillava come nuovo dinanzi alla porta dello stallaggio. Poi il professore era sceso colla Vige in cantina e risalitone con un bel numero di bottiglie le aveva collocate accuratamente egli stesso, insieme a due bei cestoni colmi di ghiotte provviste, nell'ampia cassetta del carrozzone. Indi, verso le quattro del pomeriggio, quando l'aria era già più fresca, si partì.

Lungo tutta la strada, che da Tricesimo conduce a Nimis, il movimento era grandissimo: calessi signorili e carrette da nolo, molti phaetons tirati da bellissimi cavalli e grandi carri da lavoro, ne' quali su certi sedili, improvvisati con sacchi di paglia o pezzi di tavole, si pigiavano intere comitive di contadini. E lungo tutto il percorso, da ciascuno de' piccoli borghi che fiancheggiano la strada e fuor dalle scorciatoie tagliate ne' prati o tra i cespugli delle colline, un continuo sorvenire di paesani vestiti a festa: le donne col mazzo di fiori al petto, gli uomini col cappello di panno a larga falda, piegato alla sgherra sull'orecchio.

Allorchè la carrozza dei Sant'Angelo giunse sul prato di Nimis ove ha luogo la festa, questa era già in pieno fervore, e tale la ressa de' ruotabili e della gente che arrivava, che il professore dovette mettere a passo i cavalli ed aspettare un bel pezzo prima di poter trovare un posticino ove li potesse lasciare alla custodia di Agnul.

--Guarda!--disse il professore a Loreta.--Il conte è già qui!

Ed infatti il Polverari, che addossato ad un albero pareva assistere con molto diletto alla sfilata degli arrivanti lungo lo stradone, appena la carrozza dei Sant'Angelo si fu arrestata, mosse loro incontro salutando.

Il professore, sceso per il primo, ricambiò il saluto affettuosamente, poi il conte con molto garbo porse la mano alla signora per esserle d'aiuto.

--Bravissimo, signor conte!--esclamò Mattia con quel tono di giovialità che gli era ormai abituale.--Ella è stato davvero più bravo di noi!

--Non vuole? L'attrattiva era per me così grande che ho antecipato un pochino. Ora però, quasi quasi cominciavo a dubitare della loro venuta....

--Dubitare a malgrado della nostra formale promessa!? Senti, Loreta, che dice il signor conte? E non ti sembra che noi dobbiamo protestare?

--Infatti....--ella disse con un certo sforzo assecondando lo scherzo di suo marito.

--L'egoismo qualchevolta ci rende perfino ingiusti!--soggiunse il conte con molta gentilezza.--Ed io sono loro ben riconoscente d'essere venuti....

Dicendo questo l'occhio di lui si fissò per un momento nel volto di Loreta con la stessa profonda intensità d'espressione con cui l'aveva fissata quella mattina nell'accennare alla speranza d'incontrarli alla festa.

Ma l'animazione grandissima, che intorno regnava, e la bellezza pittoresca del quadro, che s'offriva ai loro sguardi, diedero subito agio al conte di cangiare il discorso.

Per la vastissima prateria di Nimis, sulla quale sorgono qua e là de' gruppi d'annosi castagni, una folla variopinta s'aggirava, vociando, ridendo, pigiandosi, intorno ai banchetti della fiera ed alle baracche de' saltimbanchi. I mercanti, con alte grida, offerivan intorno le loro merci: chincaglierie passate di moda, giocattoli a buon mercato, immagini sacre dalle tinte stridenti, utensili domestici, arnesi agrarî, cianfrusaglie donnesche e certe campanelle di terra cotta col battaglio di legno, che sono una vera specialità del paese e si trovano in tutte le grandezze desiderabili e con la più variata gradazione di toni. Pochi erano i contadini che di queste campanelle non regalassero i loro ragazzi, i quali, armati di codesto bizzarro quanto romoroso balocco, si stringevano poi, scampanando a distesa, intorno a' banchetti, ne' quali, disposti in bell'ordine sulle tovaglie di bucato, s'ammiravano, pieni di seduzione, i cartocci colmi di mandorle toste, le ciambelle ornate di zucchero filato e i panciuti bottiglioni di limonata e di tamarindo, sorgenti, col tappo di foglie di vite, in mezzo a una corona di bicchieri di tutti gli stampi. Non minor folla, nè minor chiasso dinanzi alle tre o quattro baracche: della fotografia istantanea, del carosello coi cavalli giranti a suon d'organo, del panorama che offriva un regalo ad ogni visitatore e del circo americano, di cui un povero clown col viso infarinato e la rossa parrucca spelacchiata svociavasi a decantare le mai vedute meraviglie.

E mentre sul colle che sovrasta il paese un gran numero di contadini si accalcava per visitare il piccolo santuario della Madonna, che a gran distanza, oltre la porta spalancata, vedevasi rifulgere di ceri accesi e di lumini colorati, la vera allegria ferveva su per i poggi, che elevatisi con facile pendìo, verdi d'erba altissima e di macchie frondose, quasi ad anfiteatro intorno al prato. Lassù compagnie numerosissime, o raccolte intorno a grandi fiammate, sulle quali s'apprestava alla campagnuola qualche manicaretto improvvisato, o intorno alle tovaglie stese per terra e sulle quali si disponevano con molta festa e molte risate le copiose provviste che tutti sogliono recare con sè; larghe brigate di amici, che avevano già intorno, come avanzi dimenticati sopra un campo di battaglia, intere batterie di bottiglie asciutte. E in mezzo a quella festante popolazione campestre non poche comitive di villeggianti--signore e signori in abiti di campagna--che adattandosi all'occasione si associavano al chiasso generale facendo molto onore, coll'allegrezza e l'appetito ond'è larga dispensatrice la buona aria libera, a' cibi ed ai vini che i servitori venivan togliendo dalle ricolme paniere.

E a tutto questo era bella cornice lo spettacolo della vallata, che s'apriva dinanzi, magnifica nella felice ubertà autunnale, e della curva maestosa delle Carniche, che alzavasi in fondo colle vette erte e i fianchi boscosi, spiccante sul cielo purissimo, nella tinta violetta del tramonto imminente.

Ai coniugi Sant'Angelo si era unita subito una famiglia di Fontanabona, solita per vecchia abitudine a trascorrere con essi quella giornata, più il conte Leonardo Mangilli, arrivato egli pure allora allora col suo cavallino, e qualche altro conoscente. Le presentazioni furono fatte presto e poichè, come il Polverari amabilmente affermava, "in campagna non ci hanno da essere complimenti" anche la lieve soggezione, inevitabile a' primi momenti, dileguò al più presto.

Il professore, lieto come un bambino di aver potuto trovare ancor libero il "loro posto di tutti gli anni" proprio sul colmo del poggio, in un punto da cui dominavasi stupendamente l'intero paesaggio, aveva fatto ad Agnul, che attendeva giù presso alla carrozza, il segnale convenuto; e il ragazzo, lesto come sempre, era salito a portare in due o tre volte i panieri delle provvigioni. Le donne apprestarono presto bicchieri e posate sull'erba, il professore si die' premura a svoltare i numerosi cartocci contenenti le grosse provviste di carni rifredde e de' famosi salati paesani, e il conte Mangilli, reclamando il suo ufficio consueto, cominciò a far saltare i turaccioli del vecchio vino.

La merenda fu allegra. Il professore pareva avesse ritrovato il brio de' suoi anni giovanili e con quella piacevolezza, che già lo aveva reso sì caro alle ragunate, cominciò a narrare cento gaie storielle: qualcuna delle comiche burle del nonno Sant'Angelo, qualche aneddoto intorno alle macchiette più caratteristiche del paese. E il conte Nardin, che in quel giorno non giustificava punto col lieto suo umore la sua taccia d'orsaggine, fu egli pure felicissimo d'arguzia quando volle narrare all'ospite la storia del famoso prè Zuan, il Terranova di Mattia Sant'Angelo: storia ch'ebbe di molto accresciuto l'effetto allorchè egli potè far notare al Polverari ed agli amici la buffa figura di don Giovanni Morganti, che, col cilindro bisunto sulla nuca e il viso infocato, barellava malsaldo in gambe in mezzo alla folla sul prato sottostante, gittando in alto, contro il loro gruppo, delle brutte occhiatacce piene di acrimonia.

A tutti questi discorsi il conte Polverari mostrava di prendere non poco piacere ed interesse. Però a chi l'avesse attentamente osservato non sarebbe per fermo sfuggito come di sovente il sorriso venisse a spegnersi sulle sue labbra e come egli dovesse imporsi un certo sforzo per manifestare l'ilarità che le arguzie, recitate intorno a lui, reclamavano. Tratto tratto egli volgeva gli occhi verso la signora Loreta, che s'era messa al lato opposto del crocchio, in mezzo a due altre signore della compagnia e che, a malgrado del vivace chiacchierio delle sue vicine, sembrava molto distratta. Ella aveva infatti appena toccato cibo e messo alle labbra il bicchiere. Tutte le volte che il conte Polverari le aveva diretta la parola aveva risposto breve, con un certo imbarazzo, procurando di sfuggire l'incontro degli sguardi di lui. E in qualche momento, allorchè il conte Nardin, un po' soverchiamente animato dalla sua vena felice, eccedeva un tantino nello scherzo, ella con istento riusciva a frenare una tal quale impazienza.

I discorsi però uscirono in breve da cotesta intonazione: il Polverari, togliendo adito dal piacere provato in quella giornata, accennò alla decisione da lui presa di prolungare, oltre al termine da prima divisato, il suo soggiorno a Morò-Casabianca.

--Il tempo mi passa qui con una celerità incredibile ed è tanto ricco il programma che mi sono prefisso: una gita ad Arta, un'altra al forte di Osoppo ed a Venzone; poi una visita, a cui tengo in modo particolare, al castello di Colloredo....

--Ah! Colloredo di Montalbano!--fe' il Mangilli.--Esso franca infatti la spesa d'essere veduto. Posizione magnifica e non poche memorie storiche.

--A me interessa più che altro per il ricordo che vi si lega di un caro amico della mia famiglia: Ippolito Nievo....

--Sicuro! È lì che il Nievo trascorse molti anni della sua vita così breve ed onorata!--soggiunse il professore.--Ed è lì ch'egli ha pure pensate e scritte in gran parte le sue stupende e troppo dimenticate Confessioni di un ottuagenario. Fu amico de' suoi il Nievo?

--Sì. La madre di lui, una Marin di Padova, fu intima di mia madre. Ippolito ancor giovanetto fu spesso ospite in casa nostra a Verona e noi conservammo di lui varie care memorie. Ricordo tra altro certi suoi bellissimi versi, che credo assolutamente inediti e ch'egli scrisse una sera, l'ultima volta che lo vedemmo, sull'album di una mia povera sorella, morta anche lei così giovane! Erano versi d'amore, ma pieni di tanta melanconia, ne' quali pareva fosse quasi il presentimento della fine di lui così immatura!

E recitò due quartine: semplici, armoniose, assai tristi, in cui sentivasi l'intonazione di alcuno fra i più bei componimenti delle Lucciole e dei Canti garibaldini.

Mentre il Polverari faceva questo racconto, Loreta parve raccogliersi in un'attenzione profonda: i suoi occhi eransi assorti come attratti da un influsso magnetico nel volto di Alvise e, quando egli ebbe terminato la citazione dei versi, impallidì fortemente.

--Che avete, signora?--domandò una delle amiche, che le stavano allato e notò il suo turbamento.

--Nulla, nulla!--rispose ella rapidamente a voce bassa.--Un improvviso capogiro. Avrei bisogno di muovermi un poco.

L'amica intese, si levò tosto, propose di far un giro tra la gente. E Loreta, afferrandosi alla mano, che la signora le porgeva quasi in atto di scherzo, si levò con uno stento ella pure.

--Vi ringrazio!--ella mormorò all'amica, la quale credette ad un momentaneo malessere,--vi ringrazio: mi sentivo tanto male!

E appoggiandosi a lei discese lentamente il colle, mentre gli altri, dopo aver vuotato l'ultimo sorso, levavansi chiassando per una freddura un po' salace che il conte Nardin, viste allontanarsi le signore, non si tenne più dal lanciare.

La sera intanto era discesa. I mercanti di balocchi, di dolciumi e di frutta avevano acceso delle lanterne sui loro banchetti; dinanzi alle baracche del circo americano e del carosello ardevano con larghe fiamme rossastre ed un fumaccio ammorbante alcune fiaccole di pece, e intorno allo steccato del ballo pubblico, ove in quell'ora parea concentrarsi il divertimento, spargevano un'allegra luce numerosi palloncini di carta colorata, pendenti in ordine architettonico dai festoni di mortella e in mezzo alle aste delle bandiere.

I musicanti pigiati nel loro palco faceano il proprio dovere con molta coscienza. Le vecchie melodie più note e gradite ai ballerini s'avvicendavano senza posa guadagnando in brio quello che lasciavano a desiderare per varietà.

E gli impresarî del ballo, intenti allo spaccio dei biglietti presso all'entrata dello steccato, avevano un gran da fare a raccogliere i soldoni di rame ohe all'attacco d'ogni nuova danza ciascuna coppia pagava salendo la piattaforma.

La comitiva dei Sant'Angelo, dopo aver attraversato il prato, sul quale ora da tutte le parti si cantava allegramente, s'era pure diretta verso il palco del ballo.

--Il conte ha da vedere il fattore Beppo come tien alta la vecchia rinomanza dei ballerini friulani!--aveva detto Mattia.

E s'avviarono tutti, facendosi largo in mezzo alla folla, che si stringeva intorno al palco e nella quale dominavano le giovani contadine, raccolte tutte insieme, col fiore in seno, ardenti nell'attesa dell'innamorato o del galante, che le venisse ad invitare pel giro.

E riuscì per verità uno spasso a tutti l'assistere ad una polca, ballata, non colle forme moderne, ma secondo l'antico e graziosissimo uso friulano, dal vecchio fattore. Magro, con la testa calva, col cappello di panno sotto l'ascella, tenendo per mano la ballerina,--una ragazzotta fresca e vispa, scelta fra le più belle,--il vecchio danzava con un gusto, con un'animazione ed una eleganza sì perfetta da destar l'ammirazione generale. Alla fine del ballo il pubblico applaudiva e bisognava vedere il sorrisetto di compiacimento con cui il vecchio lion campagnuolo, nella coscienza della propria maestria, ringraziava intorno, riconducendo pettoruto e svelto la sua ballerina.

Fu tra il movimento di questa folla che per un istante il conte Polverari potè trovarsi al fianco di Loreta, solo, un po' discosto dagli altri compagni.

E fu allora che di repente, appressatosi a lei ed abbassando quanto più potè la sua voce vibrante d'emozione, le mormorò all'orecchio queste parole:

--Finalmente, signora, finalmente! Attendevo questo momento con ansia. Ho da dirvi tante cose!

Ella fe' l'atto di allontanarsi, ma il conte non gliene lasciò il tempo insistendo con energica risolutezza:

--Loreta, Loreta, datemi il modo ch'io possa parlarvi! Ve lo domando come una grazia.... ve lo domando pel ricordo di tutto il passato!

--No, no, non posso!--ella mormorò con voce strozzata.

--Dovete poterlo, Loreta.... od altrimenti, ve lo giuro, il modo saprò trovarlo io stesso!

Non poterono dirsi di più. In quel momento il professore ed il conte Mangilli si riavvicinavano ad essi e Loreta, pur sentendo venirsi meno, riuscì con un violento sforzo di volontà a dominarsi.

Come vinta da uno stordimento, poichè l'ora di ripartire era intanto venuta, ella ricambiò, quasi inconsapevole di quanto avveniva, i saluti dei suoi amici. Un brivido di freddo le corse per la persona allorchè il conte con una stretta di mano lunga e tenace parve volerle ricordare le parole ch'egli le aveva detto poco prima.

Loreta respirò quando i cavalli, usciti lentamente dal viale ancora affollato, si misero a trotto per lo stradone che dava sull'aperta campagna.

Il professore si sentiva lietissimo: diceva che quella giornata gli era passata come un lampo, si lodava della bontà degli amici, attestava, con la sua bonomia d'uomo sano e sincero, che si ricordava poche volte d'aver mangiato e bevuto con tanto gusto. E piegando la testa, giovialmente, verso Loreta, le susurrava qualche carezzosa parola, com'era rimasta ancor sempre tra loro consuetudine gentile.

La sera era placida, il cielo pieno di stelle, i campi odoravano soavemente.

Ne' villaggetti che attraversavano, i contadini sedevano ancora presso alle porte, godendosi la fresca aria notturna. Lungo tutta la strada incontravansi in allegre brigate, che a piedi od in vetture, ritornavano dalla sagra.

A un certo punto il professore dovette mettere a passo i cavalli per ischivare un grosso carrettone, nel quale una numerosa comitiva di contadini era raccolta: il carrettone, troppo carico e tirato da due povere rozze, procedeva assai lento, e le donne, con fresche voci giovanili cantavano pianamente una delle più popolari villotte friulane, così dolci nella mestizia del verso e nella semplicità del ritmo musicale:

Oh! denant di maridassi

Nome rosis, nome flors

E po dopo maridadis

Nome spinis e dolors.

Mattia e Loreta stettero un istante silenziosi ascoltando il canto. Poi quando la carrozza, approfittando di un largo che aprivasi nella strada, potè superare il carrettone e riprendere la corsa di prima, Mattia fe' scoppiettar gioiosamente la frusta e volgendosi con tenerezza alla moglie:

--Si dice che i canti popolari parlano sempre il vero. Hai sentito questa canzone? Ebbene.... chi meglio di noi può affermare ch'essa è bugiarda!

E, raccogliendo le redini in una mano, passò il braccio libero intorno alla vita di Loreta e la attrasse affettuosamente contro di sè.

Ella a quell'atto provò una dolorosa stretta al cuore, come sotto la pressione di una mano di ferro.

E il canto delle contadine risonava ancora, sempre più fievole nella lontananza, in mezzo alla placida quiete delle campagne.


XIV.

Allorchè Loreta nel silenzio della casa potè riaversi alquanto dalle emozioni di quella sera, ella si chiese con sufficiente freddezza qual norma di condotta avrebbe dovuto tenere ora nella difficoltà estrema della situazione, che il giuoco della sorte le aveva creato.

Ella, che in tanta vicenda di amarezze aveva vedute disfiorarsi ad una ad una tutte le sue speranze, tutte le sue illusioni; ella che, giovane ancora, aveva già conosciuto per aspra esperienza le più sanguinose battaglie dell'anima, s'era ormai abituata a considerare il passato come un sogno, del quale le estasi sublimi e le pene atroci non avrebbero dovuto rinnovarsi mai più. Coll'affetto e la stima, a lei generosamente offerti dal Sant'Angelo, una vita novella le si era dischiusa, suadente all'obblio di ogni cosa, piena di quella poesia ineffabile che ritempera i cori e fa riamare l'esistenza.

Ma il passato ch'ella credeva morto rinasceva d'improvviso, minaccioso come il decreto di una tragica fatalità. E il suo passato era tutto in quell'uomo dalla parola ammaliante e dal viso pallido, la cui apparizione le era sembrata da prima giuoco crudele dei suoi sensi allucinati.

E mentre ora, ripensando alle parole brevi ed ardenti, che il conte Alvise le aveva susurrate in quella sera, ella chiedevasi che cosa dovesse fare, una penosa incertezza, prima debole e lieve, indi ognora più forte, si veniva impadronendo di lei.

Non che, pure in balìa di tanto turbamento, Loreta avesse smarrito neppure per un istante la coscienza del proprio dovere. Ma erano sì dolci e possenti le voci che le tornavano dalla sua povera giovinezza tramontata, ed erano state così grandi le emozioni che avevano consunta tanta parte del suo cuore, ch'ella ormai sentivasi incapace di comprendere se più forte fosse in quell'ora dentro di lei la sorpresa, lo sgomento o la gioia.

Il desiderio acuto, che l'aveva dominata da prima, di fuggire, di gittare tra lei e quell'uomo, tra lei e il risorgere del suo passato, un ostacolo insormontabile, l'aveva quasi repentinamente abbandonata. Nell'apparente frivolezza della conversazione tenuta in quel pomeriggio, il conte Alvise aveva trovato il modo di fare alcune allusioni che, inavvertibili a tutti, parlarono sì forte allo spirito di lei, che per immediato effetto aveva ella sentito svegliarsi nel core come una strana nostalgia dei tempi trascorsi. Ella, che rifuggiva con terrore da tutto quello che poteva richiamarle le ricordanze assopite, sentivasi ora trascinata, come per l'impulso di una malsana voluttà, a tornare indietro col pensiero alle sue ore più angosciose. E rifatto intero il fortunoso romanzo della sua vita, dal momento in cui era principiato rassomigliante a un bel sogno felice, fino al giorno in cui era stato bruscamente troncato, le nasceva l'ansiosa infrenabile brama di apprendere, di conoscere in tutta la verità quello che, dopo la pagina da lei creduta l'ultima, il capriccio del destino aveva ordito e che, forse a colmo dei suoi mali, una ostile fatalità le aveva celato.

E mentre cotesti pensieri la tenevano violentemente in loro potere, senza ch'ella fosse capace di romperne l'incantamento, dinanzi alla serenità di suo marito, ai discorsi affettuosi che aveva sempre sul labbro, alle amabilità espansive, di cui la faceva costantemente segno, un rimorso la prendeva, una tentazione irragionevole di gittarsi a' suoi piedi, di dirgli ogni cosa, di confessarsi indegna della bontà sua e della fiduciosa sua tenerezza.

Così, coll'animo perplesso, in una febbre continua, ella vide, dopo la memorabile giornata di Nimis, scorrere altri due giorni, che le parvero di una lunghezza eterna. Un violento temporale d'autunno s'era scaricato sulle campagne e la pioggia che durava insistente gli aveva costretti in casa. Il professore dichiaravasi tutto lieto chè il frescolino capitato così all'improvviso gli aveva ridato il desiderio del lavoro; ed infatti in quei due giorni aveva atteso allo studio lungamente, rimanendosene per ore ed ore chiuso nelle sue camere. Lei, spinta da una irrequietezza nervosa, non trovava pace: a malgrado del tempo sfavorevole usciva spesso dinanzi alla casa e colà, appoggiatasi alla balaustrata, non peranco rasciutta dalla pioggia recente, restava immobile per molto tempo cogli occhi fissi sulla campagna annebbiata, in mezzo alla quale lo stradone perdevasi, giallastro di fango, deserto, fra le spalliere dei gelsi, che l'ottobre aveva già in gran parte sfrondato.

Per quei due giorni Alvise non comparve. E Loreta adesso provava di ciò quasi un'impazienza: svanito il primiero timore, ora avrebbe voluto ch'egli fosse venuto, avrebbe voluto uscire da quello stato d'animo, varcare al più presto quell'ora, dopo la quale le pareva che la sua pace le sarebbe tornata piena e durevole; sicura che in quel risveglio del passato nessun rimorso le sarebbe rimasto nell'anima.

Allorchè, il terzo giorno, levatasi assai per tempo dopo una notte agitata, ella schiuse le imposte e vide ridente la campagna sotto il raggio di un bel sole, ella provò come un sussulto di contentezza. L'aria piena di una blanda frescura le parve una deliziosa carezza sugli occhi affaticati e sulla fronte ardente. Ella sentiva ora come un acquietamento soave, come se tutte le preoccupazioni che l'avevano angustiata si fossero d'un tratto dileguate, come se un indefinibile senso di dolcezza si fosse diffuso per tutto l'essere suo.

--Che hai oggi?--le disse il professore cingendole ad un tratto la vita e ponendole un bacio sulla bocca. --Mi sembri così bella! Hai negli occhi qualchecosa d'insolito.

--Che cosa dici ora, Mattia?

--Sai cosa dico? Che più si diventa vecchi e più si diventa matti. Ma se anche le son pazzie e chi ce ne ha colpa! Per me so una cosa sola: che ad ogni giorno che passa mi par di essere più innamorato della mia adorata moglietta!

Il Sant'Angelo era d'allegro umore anche lui.--"Non vuoi?--diceva--oggi ha da essere una giornata buona! È tornato il sole: ti ho visto dopo tanti giorni sorridere!" E come uno scolaretto che si propone di far festa, dichiarava che per quella mattina non voleva saperne di libri: di giornate autunnali splendide come quella non se ne sarebbero forse avute più: e pensava di recarsi a Collalto per fare una sorpresa "a quell'orso del conte Nardin" ch'egli troverebbe, neanche a dirlo, incantucciato chi sa da quante ore nel casottino dell'uccellanda godendosela a vedere il lungo armeggiare dei passeri e dei tordi, che volando e rivolando, come presaghi della propria sorte, finivano per rimanere impigliati nelle sue reti.

Rimasta sola in casa e date con inusata indifferenza alla Vige le disposizioni pel desinare, e ad Agnul per altre minute faccenduole domestiche, ella, come era solita a fare nei giorni in cui aveva un minor numero d'incombenze a cui attendere, prese il suo cestello da lavoro e, messovi qualche libro, uscì dal cancello che chiudeva la braida, diretta ad un boschetto fittissimo d'ippocastani, già molto distante dalla casa, dove il professore, innamorato dalla bellezza del luogo e dalla grande ombria, aveva fatto porre un tavolo di pietra e qualche sedile rustico. Colà si recavano abbastanza frequentemente nelle ore più calde dell'estate. Il fogliame degli antichi ippocastani si addensava così fittamente che non un raggio di sole vi passava. Era un angolo romito e pittoresco, nel quale il silenzio regnava profondo, solo a tratti interrotto dal fischio lontano della ferrovia, che gira con una lunghissima curva da Reana di Roiale giù giù fino ai primi valichi della Carnia, e da qualche squillo di campana che viene a lunghi intervalli dalle chiese dei villaggi sparsi nella vallata.

Quel luogo era a Loreta assai caro. Ancora ai tempi della signora Sant'Angelo ella ve l'accompagnava spesso e, mentre la signora agucchiava a qualche lavoro di maglia, le leggeva qualcuno dei vecchi romanzi d'avventure cui ella prendeva tanto diletto e che il professore, pur ridendo un po' di quei gusti della mamma, andava a scegliere egli stesso ed a scambiare in una biblioteca circolante di Udine. Loreta aveva conservato da allora l'abitudine di recarsi colà quando il tempo glielo permetteva. Questo però era raro: "Una donna come me (diceva al professore mostrando certi libri che aveva nel cestello da lavoro e che mai non leggeva) ha ben altro per il capo che la lettura de' romanzi!" E il professore approfittava di quelle parole per fare una volta di più l'elogio di lei, ch'egli proclamava "una perla di donnetta, una padroncina di casa come se ne trovano poche!"

Quella mattina Loreta si avviò a lenti passi verso quel posto favorito. Tratto tratto, salendo la collina, ella fermavasi a guardar giù tra le radure degli ippocastani la bella campagna autunnale che ora, dopo il violento temporale de' giorni precedenti, pareva rinnovellata nella freschezza e nella luminosità de' suoi colori. A metà della salita, dinanzi ad un cespuglio di grossi fiori campestri, che piegavano tra il fogliame i calici screziati ancor umidi di pioggia, ella ne strappò un'intera manata provando poi una voluttà nell'aspirarne intensamente e lungamente il lieve profumo e nel sentirne la molle freschezza sulle labbra e sul viso.

Giunta al tavolo di pietra, sotto l'arcata, che gli ippocastani formavano, ella depose il suo cestello da lavoro e sedutasi sopra una delle seggiole rustiche, trasse di sotto a' canovacci per metà ricamati uno de' libri che aveva recato con sè. Ma non lesse. Il libro, aperto distrattamente a mezzo, restò sulle sue ginocchia. Ed ella, reclinato il capo, fissi gli occhi dinanzi a sè, colle labbra socchiuse come per respirare a grand'agio l'aria buona de' campi, restavasene, quasi smarrita ogni coscienza di sè stessa, colla mente assorta in una fantasticheria vaga e febbrile.

Ad un tratto un rumore di passi, benchè lievissimo perchè attutito dal terreno erboso, la fe' trasalire. E per poco un grido non le sfuggi dalla gola allorchè volgengendosi ella vide a pochi passi da sè, ritto alla svolta del viale, il conte Polverari.

Istintivamente, con un atto di timore, si levò in piedi.

--Ella, signor conte!

Alvise si tolse il cappello e con molta pacatezza, avvicinandosi un poco:

--Io, signora....--rispose.

E dopo un momento con un lievissimo sorriso:

--Tanto ve ne dispiace!--esclamò.

--Non questo....--Loreta rispose forzandosi a parer disinvolta,--non questo. Però Ella è comparso così improvvisamente.... qui....

--La mia meta era oggi, signora, la casa Sant'Angelo. Ho voluto prender la via dei campi. Dalla sua gastalda, che trovai sullo stradone, ho potuto sapere che il professore è andato a Collalto, ch'Ella era venuta a questa parte....

E s'arrestò un istante fissandola con intensità.

Loreta, turbatissima, fe' per rispondere, ma la parola male accattata le si spezzò sulle labbra.

Il conte allora volse uno sguardo in giro, rapidamente, come per assicurarsi della piena solitudine; indi avvicinandosi con molta vivacità:

--Vi ho detto l'altra sera, signora, che se voi non consentivate a darmi il modo d'incontrarvi, l'avrei trovato da me. Ho affrettato questo istante col più ardente desiderio. M'ero proposto di aggirarmi intorno alla vostra casa finchè mi sarebbe riuscito di potervi vedere, deciso, in caso contrario, ad ogni cosa, anche ad un atto di folle audacia. Ho avuto la fortuna per me.... vedete.... ed ora....

--Ora?--ella chiese con voce soffocata.

--Ora, Loreta, dovete ascoltarmi!

--No,--soggiunse lei debolmente,--no, non lo devo.

--No? E potete pensare che io possa adattarmi a questo rifiuto? Potete immaginare che dopo avervi ritrovata, dopo avervi riveduta in modo così strano ed inatteso, io possa rinunciare a dirvi ciò che è nell'animo mio, a chiedervi di voi, de' vostri casi, a ricordarvi il nostro passato? Ah! no, Loreta, voi non potete pensarlo.... Se siete giusta, se siete ricordevole, se siete pietosa, non potete domandarmelo....

--Il passato è morto. Voler ch'esso risorga sarebbe per voi ingeneroso, per me colpevole!

Egli scosse tristemente il capo.

--No, Loreta, non è così. Io comprendo il sentimento che vi spinge queste parole sulle labbra. Però, guardate, fosse pur vero quello che dite, credete voi che sia possibile di chiedere alle anime umane tanta forza di sacrificio, tanta virtù di abnegazione da soffocare ogni risveglio delle memorie più care, ogni voce più dolce della nostra giovinezza, quando in essa abbiamo lasciata tanta e sì viva.... la più bella, la migliore parte di noi stessi? No, non è colpa, nè mancanza di generosità. Potrà essere dolore: questo sì! Ma che importa se dopo quest'ora di dolore, potrà dissiparsi quell'ombra di tristezza e di dubbio, che ha intorbidato così penosamente la soavità delle nostre memorie e che nulla, mai più, avrebbe potuto distruggere, se oggi il caso non ci avesse fatti incontrare?

Loreta a queste parole si trovò impotente ad opporre una qualunque risposta. Il pensiero d'Alvise corrispondeva così perfettamente al suo pensiero: la voce di lui aveva trovato così bene la via del suo cuore, che ella si sentì disarmata.

Il conte tacque per qualche minuto e poichè aveva intuito ciò che passavasi nell'animo della donna:

--Vedete,--disse con molta lentezza,--voi avete compreso che io ho ragione. Non era possibile altrimenti. Nè d'altronde, fin dal momento in cui vi ho riveduta, non ne ho dubitato. Passano gli anni, mutano i destini, ma vi sono ricordi che nulla può cancellare!

--Lo credete?--ella esclamò amaramente.--Siete in errore. Che sia grave e straziante far morire certi ricordi, è vero. Occorre talvolta dare a questo scopo tutte le proprie lagrime, tutta la propria vita. Ma ci si riesce! E allora, ve lo ripeto, non è opera pietosa il voler togliere altrui, ancora una volta, la pace conseguita a prezzo sì caro!

--Voi siete felice, Loreta?...--egli domandò con voce tremante.

--Sì.

--Lo vidi, lo compresi. Ma con tutto questo....--ed ebbe dicendo ciò uno slancio impetuoso nell'accento commosso,--via, confessatelo, mai.... mai, in tanti anni, dopo tanti avvenimenti, il vostro pensiero non è tornato indietro ai giorni trascorsi, mai non avete sentito il bisogno di rammentarvi?...

Ella lo guardò un istante e, come se dalle pupille di lui una malìa le fosse penetrata nelle vene, credette per un momento di non poter trattenere la confessione franca, che sentivasi ormai strappare irresistibilmente.

--No!--disse poi con un accento fievole, onde chiaro traspariva come quel diniego mal rispondesse alla veracità del sentimento.

Egli non rimase ingannato.

--Non dite il vero adesso, Loreta, non dite il vero! Ma via.... a che possono valere queste inutili per quanto generose menzogne? Credete ch'io possa restare ingannato dalla fallacia di una parola, che il vostro labbro è riluttante a pronunciare? Credete che io non abbia letto ieri sulla vostra fronte quello che voi avete provato quando io ricordai le due quartine del povero Nievo? Credete che io non sappia ora ciò che voi in questo momento provate, quello che non volete dirmi, quello che la vostra anima vi imporrebbe di dirmi?

Egli si avvicinò ancora, ansimando, facendo l'atto di afferrarle una mano.

Ma Loreta si ritrasse subito, con energia.

--No, no, non temete!--diss'egli rattenendosi immediatamente.--E perdonatemi se mi vedete così. Ma se voi poteste sapere quale tempesta s'è destata in me dal momento che vi ho ritrovata; e se sapeste quanto ho sofferto!

--Voi.... voi!--ella esclamò con un subitaneo slancio.

E colle labbra frementi, colle mani strette febbrilmente l'una all'altra, gli volse uno sguardo ardente, come se alle parole di lui avesse sentito rinnovarsi tutta l'asprezza dei dolori, che lei pure aveva sostenuti, in una solitudine ignorata, e de' quali, in quel momento ella sentiva come un geloso orgoglio.

--Io vi comprendo, Loreta. Conoscendo la nobiltà vostra, ho potuto immaginare come dovete aver sofferto anche voi. E il pensiero di queste sofferenze sopportate da voi, per causa mia, è stato sempre, ve lo giuro, il dolore della mia vita. È stato per voi un giorno ben funesto quello in cui la sorte vi ha portato nella nostra casa e furono ben grandi i mali che noi vi abbiamo fatti! Mia madre....

Ella subito l'interruppe.

--No, conte, non incolpate alcuno. Per quanto grandi sieno stati i miei dolori, nell'anima mia non esiste alcun rancore.

--Voi avete saputo perdonare, Loreta?... Perdonare.... a tutti?...

--Perdonare! Non è questa la parola che voi dovete dire. Delle mie sventure altra causa io non riconobbi mai che l'avversità del mio destino. E se qualchevolta, ne' momenti più tristi, a malgrado di me, mi sono sentita spinta a qualche pensiero d'odio, mi è bastato per farlo svanire ch'io ripensassi a qualche dolce ora che pure trascorsi nella vostra casa: mi è bastato di pronunciare il nome di quella santa fanciulla, che ha avuto per me tanto affetto....

--La mia povera Bianca!--egli esclamò molto commosso.--La mia povera cara sorella!

E dopo una breve pausa:

--Ve ne rammentate?--domandò.

--E come altrimenti!... Mi basta chiudere gli occhi per rivedere dinanzi a me la sua soave figura indimenticabile....

--Povera Bianca! Ella non aveva saputo.... ella non aveva compreso!... Nella sua ingenua inconsapevolezza di tutto, non aveva potuto indovinare la fiera battaglia di passione che si era combattuta tacitamente a lei dappresso.... E vi conservò la sua affezione sempre: sempre: fino all'ultimo. Negli estremi giorni ancora, quando la vita le fuggiva ed ancora l'illusione rinasceva in lei, facendo a noi tutti più aspro lo strazio della catastrofe che ci soprastava, il nome vostro ricorreva sulle sue labbra.... come quello dell'amica più buona....

--Il mio nome! Ma poteva quella povera giovinetta pronunciarlo ancora con affetto? poteva pronunciarlo senza pensare che di quell'affetto io forse m'ero resa indegna? Vedete, Alvise: dall'ora terribile in cui io sono uscita dalla vostra casa, è stato il mio cruccio più acerbo di pensare che lasciavo, nel core pietoso e candido di quella fanciulla, così foscamente ottenebrata la mia memoria. Ella seppe?

--Nulla.... affatto.

--Vostra madre....

--Tacque.

--E voi?

--Io.... potete chiederlo, Loreta? Voi non potevate morir nel mio cuore. Qualunque cosa fosse avvenuta, per quanto gravi fossero state le ragioni che gittavano fra me e voi una barriera apparentemente insormontabile, non potevo strapparmi dall'anima nè il vostro nome nè l'immagine vostra. E quante volte, quando voi eravate già lontana, quando avevo visti cadere infruttuosi tutti i miei sforzi per ritrovare le vostre tracce, io, assistendo nelle lunghe notti insonni il mio povero angelo che si spegneva, ho parlato con lei di voi lungamente, rievocando il vostro ricordo, mendicando delle pietose menzogne per tranquillarla sulla incertezza del vostro destino.... La povera Bianca ricordava di voi tanto: tante minute cose: certe letture fatte insieme: una gita in primavera, vi rammentate?, alla nostra villa di Arsizzo, a' piedi di Montebaldo: i versi che il Nievo aveva scritto nel suo albo, che vi piacevano tanto e che recitavate insieme.... i versi, Loreta, che io citai l'altro giorno, e che dopo tanta simulazione di freddezza v'hanno costretta a tradirvi, a tradire il vostro pensiero, a mostrarmi che mi avevate compreso!

Loreta l'ascoltava come rapita, cogli occhi sfavillanti, vedendo, sotto l'influsso delle sue parole, rivivere dinanzi a lei tante immagini che il tempo aveva affievolito tra le sue gelide nebbie.

--Basta, Alvise, basta. Cessate di parlarmi così: mi fate troppo male!

--No, che non basta, Loreta. Era scritto che questi ricordi dovessero rinascere: essi vengono a dirci una parola che ripara al passato, che ci conforta a volgerci indietro col cuore liberato da ogni amarezza e da ogni rancore. Loreta, ascoltatemi ancora. Non è alcuna colpa in questo.... non è colpa alcuna!... Ascoltatemi ancora!

Ella, che durante il discorso di Alvise aveva sgualcito nervosamente fra le dita il mazzo di fiori campestri, ch'era rimasto sul tavolo dinanzi a lei, ora, lasciando cadere sull'erba gli steli sfrondati, era surta in piedi, agitatissima, risoluta a mettere fine a quella scena.

Nello stesso momento da lunge, nella gran calma del meriggio ormai già sorvenuto, si udì aprire e richiudere rumorosamente il cancello di ferro, che dal cortile della casa metteva sui campi.

La donna si volse con vivacità ed una esclamazione soffocata, quasi di sollievo, le sfuggì:

--Ah!

Alvise si volse egli pure e guardò.

Su per l'erta erbosa onde giungevasi al poggio veniva il professore Sant'Angelo, seguito dal suo terranova, il quale, sentendo ridestarsi al menomo fruscìo di foglie il suo istinto di fido guardiano, gittavasi ogni momento a testa bassa tra i cespugli del sentiero.

Il professore avvicinavasi a passo spedito: in pochi minuti gli avrebbe raggiunti.

Allora il conte si fece appresso a Loreta ed abbassando il capo verso di lei quasi a sfiorarle la spalla col suo viso:

--Dobbiamo parlarci ancora, Loreta. I mezzi non mi mancheranno. Però badate di non sfuggirmi. Sarebbe peggio per voi.... per tutti.

Ella non ebbe il tempo di rispondergli nulla. Il professore era già giunto a loro.

Con viva cordialità Mattia s'avanzò sorridendo e si fece una festa di quell'incontro. Al conte strinse la mano, poi si volse a Loreta:

--M'avvertirono in casa che eri qui, che il conte era venuto e ti aveva qui raggiunto.... A Collalto non trovai nessuno: il conte Nardin per oggi ha lasciato in pace gli uccelletti e se n'è andato a Udine non so per quali faccende. Ed ecco una combinazione fortunata, chè così ho il piacere di godermi anch'io la visita del signor conte....

Il professore disse tutto ciò con la consueta sua sincerità affettuosa.

Però ad un tratto il sorriso gli si spense quasi sul labbro dinanzi al turbamento evidente che gli parve riscontrare nel volto e negli atti di sua moglie e di Alvise.

Per un istante egli stette perplesso, la parola gli si fece lenta e impacciata, un orgasmo improvviso gli nacque molestamente.

Ma, riavutosi subito, seppe ritrovare senza alcun visibile sforzo la intonazione lieta ed espansiva di prima.


XV.

Breve e semplicissima, di dolore e di amore, era la storia di Loreta.

Allorchè, dopo un'infanzia trascorsa gelidamente nella mancanza d'ogni gioia domestica, Loreta Lambertenghi si vide sola nella vita e potè comprendere a qual duro cammino ella fosse sospinta, altro conforto non aveva saputo trovare che nella fermezza della propria fede. Giovanissima ancora, in quell'età che presto dimentica e facilmente si riconsola al rapido rinascere delle speranze, fu solo con un miracolo di volontà intensa ch'ella pervenne a sollevarsi dall'abbattimento in cui la sua sventura l'aveva piegata. Ed era stata per vero immane sventura la sua, perocchè, più dell'isolamento, più delle privazioni, più d'ogni crudele miseria, le era uno strazio indicibile l'esser costretta a curvare la fronte infiammata di vergogna quando pronunciavasi in sua presenza il nome paterno.

A far cessare quelle voci, che talora con inconscia crudeltà e tal altra con impietosa intenzione, udiva elevarsi a giudicare la vita disordinata, le losche azioni, il carattere dubbio di Prospero Lambertenghi, avrebbe ella dato tutto il suo sangue. La glaciale incuria, che quell'uomo cupo ed eccentrico aveva avuto quasi costantemente per lei, l'abbandono in cui l'aveva lasciata, la sorte acerba che colla sua condotta disamorevole e imprevidente le aveva preparato, tutto avrebbe saputo obbliare, tutto gli avrebbe perdonato, se almeno di lui le fosse rimasta, eredità sacra e preziosa, la illibatezza del nome.

Ma pure in tanto accasciamento dello spirito, pur comprendendo come la ferita ch'ella portava nel cuore fosse di quelle che non si rimarginano, che danno vivo sangue e dolore per tutta la vita, ella seppe nobilmente sostenersi. Il soccorso, che dagli altri non le venne o le fu negato, cercò e trovò nell'indole sua buona e forte. Sentì un'ebbrezza fiera nell'accettare la lotta che il destino le imponeva; le parve bello e glorioso il non piegare fiaccamente alla sventura e cercarsi, a malgrado di tutto, fra la indifferenza degli uomini e contro l'asprezza delle vicende, la propria redenzione, la propria pace. E poichè aveva per sè la gioventù, la salute, l'educazione, poichè chiedeva sì poco per essere felice, la sicurezza della riescita sorse in lei presto a infonderle animazione e forza.

Lavorò. Accettò la vita di tante ragazze povere al pari di lei. I cari nomi e le immagini di tante compagne, conosciute un giorno, al tempo degli studi, laggiù tra le mura opprimenti della scuola magistrale, le ricorsero in quei giorni al pensiero. Tutte insieme, tal volta, tra l'uggia penosa dello studio avevan provato il bisogno dei giovani cuori, delle giovani menti, di sognare qualche bel sogno radioso: e tutte, nelle confidenze segrete, che sono la consolazione delle anime, avevano parlato dell'avvenire, non volendo porgere ascolto, non volendo credere che alla promessa della felicità, come se il male non esistesse e i giorni cattivi non dovessero sorgere mai. Oh! vani e leggiadri sogni! Oh! care e credule amiche! Quante, al pari di lei, avevan veduto dileguarsi i bei sogni giovanili; quante, dopo quei memori anni, separate l'una dall'altra dalla tirannia del destino, obbedendo all'appello irremissibile del dovere, eran andate lontano, così lontano che non si sarebbero rivedute mai più, all'esercizio della loro generosa missione, a lavorare, a soffrire, a continuare il sogno destinato a non realizzarsi forse giammai. Avrebbe fatto così anche lei! E traendo lena dalla nobiltà del proponimento, il suo avvenire non le apparve più così minaccioso.

Però le difficoltà, che col suo coraggio pieno di entusiasmo ella da prima s'era affidata di poter rapidamente e felicemente sormontare, le si manifestarono entro tempo assai breve in tutta la loro asprezza. E nel contatto diuturno con le più crude realtà della vita, molte disillusioni, troppo presto trovate, vennero a illanguidire la sua fede.

L'esistenza, che era obbligata a condurre, la prostrava talvolta in una stanchezza estrema. Dopo una giornata lunga, spesa, dalla prima mattina a tarda sera, ad impartire lezioni di ricamo, di francese, di pianoforte, retribuita scarsamente, in famigliole modeste di borghesucci, di impiegati, di artigiani, cui pareva di spendere un occhio del capo coi pochi centesimi onde pagavano la maestrina, rientrava mezza morta, coi nervi spossati, altrettanto abbattuta dalla continua tensione mentale quanto dallo strapazzo fisico. Poi in altri momenti le lezioni mancavano: veniva l'autunno, si chiudevano le scuole: la gran mania del viaggio, della villeggiatura, cui tutti obbediscono, che invade ora tutte le classi, irresistibilmente, ogni anno, metteva in fuga gran parte, la massima parte, pur di quelle famigliole modeste, presso cui ella andava a dare le sue lezioni. Il suo pane si faceva scarso ed incerto. Indarno ella cercava altri lavori. Mancante d'amicizie, senza appoggi, risoluta a non venir meno, qualunque cosa dovesse costarle, a quel sentimento di dignità e di onoratezza, che era il suo orgoglio, dovette imporsi privazioni d'ogni maniera richiedenti abnegazione rara, energia infinita.

A Loreta parve fortuna senza pari l'occasione che un dì, per un concorso di fortuite circostanze da lei nè cercate nè prevedute, le si presentò, di poter ottenere un posto in una cospicua e assai rispettata casa, quella dei conti Polverari di Verona. L'ufficio, quale le veniva offerto, era quello di istitutrice; però dalle stesse persone, che per le prime gliene avevano parlato, era stata resa attenta come per le peculiari condizioni di quella famiglia si ricercasse, assai più che un'abile maestra, una persona di educazione distinta e di virtuosi costumi, atta a divenire la vigile compagna di una gentile giovinetta, che, per la molta fragilità della salute, aveva bisogno d'essere circondata da costanti ed amorevoli riguardi.

Il giorno in cui Loreta Lambertenghi entrò per la prima volta nel palazzo dei Polverari, edificio bruno e melanconico, posto in una delle più quiete strade di Verona, e che un vecchio domestico, tutto curvo nella sua livrea, la guidò silenziosamente attraverso a una fila di sale spaziose, dalle pitture antiche, dagli arredi severi, dove i passi risonavano forte sul lucido terrazzo, sino alla stanza in cui la padrona di casa la stava attendendo, ella ebbe una inesplicabile sensazione di orgasmo come se, emanando da quelle pareti scure, da quelle pitture tetre, dall'aspetto desolato di tutta quella casa, una superstiziosa titubanza si fosse repentinamente impadronita di lei.

Tale sentimento penoso, anzichè svanire od attenuarsi, si accrebbe allorchè il servo, che l'aveva lasciata un momento per annunciarne l'arrivo alla padrona, la invitò ad entrare ed ella si trovò in presenza della contessa.

Pallida, di un pallore cereo d'ammalata, reso più evidente dagli abiti neri, ch'ella mai aveva smesso dopo la morte del marito; coi capelli tutti canuti divisi in due larghe liste sulla fronte solcata di rughe; con la persona magrissima e debole già lievemente curva, Laura Rezzonico-Polverari era una figura profondamente triste. Benchè all'entrare della giovane un lieve sorriso di affabilità si fosse disegnato sulle sue labbra, parve a Loreta di scorgere subito ne' lineamenti severi e ne' profondi occhi pensosi di quella donna una certa espressione di alterigia e di durezza, che per un istante la tenne interdetta e senza parole.

La contessa, accortasi forse della soggezione che il suo aspetto aveva incusso alla giovane forastiera o spinta da naturai cortesia a toglierla d'imbarazzo, ebbe allora qualche frase molto amabile, ma pur sempre assai sostenuta, per darle il benvenuto. Poi, esaurite queste premesse, fu con poche e laconiche frasi che accennò a quanto da lei si riprometteva nell'adempimento degli ufficî, per i quali l'aveva assunta in sua casa.

--Le informazioni che ho avuto sul vostro conto, signorina Lambertenghi, furono ottime. So che siete una fanciulla laboriosa ed onesta. Se non avessi avuto tale certezza non mi sarei decisa ad affidarvi il delicato còmpito di essere una fidata compagna alla figlia mia.

Io nutro speranza che colle vostre doti d'ingegno e di cuore saprete corrispondere nel modo più degno alla fiducia ch'io pongo in voi. Così facendo vi acquisterete il diritto di essere nella mia casa non più un'estranea, ma un'amica....

--Signora contessa, io mi sento lusingata, più che non lo possa dire, dalla fiducia ch'Ella ha la bontà di dimostrarmi. Farò quanto starà nelle mie forze per rendermene meritevole. E mi chiamerò felice se mi sarà concesso di conquistarmi la sua stima.

La contessa l'ascoltò seria, senza toglierle dal viso i suoi sguardi penetranti, poi tendendole la mano brevissima e gelida, che Loreta strinse timidamente:

--Vi ringrazio di questa promessa, signorina,--ella disse un po' rigidamente.--M'affido ch'essa sia sincera e che voi la saprete mantenere.

La promessa, che Loreta aveva fatta, era sincera veramente. Però, quando poco appresso, prima di conoscere ancora gli altri membri della famiglia, ella si trovò sola nella stanza che le avevano assegnata e ripensò all'accoglienza avuta da quella gentildonna dalla faccia austera e dall'accento reciso, istantaneamente, come se una voce misteriosa l'avesse avvertita di un ignoto imminente pericolo, un folle desiderio la prese di fuggirsene subito dalla tetraggine di quei luoghi e di tornare alla sua povera vita agitata, le cui durezze, per uno strano effetto della fantasia, le riapparivano ora quasi men fosche e meno penose. Ma fu la debolezza di un momento. La riflessione riguadagnò presto il suo dominio e Loreta si dolse di quegli ingiustificati timori come d'una ingratitudine verso la benignità della sorte.

Ancor maggiormente se ne dolse subito ne' giorni successivi, quando, avuta più intima conoscenza della famiglia, potè apprezzarne i modi elettissimi e giudicarne i sentimenti.

La tristezza profonda che incombeva sulla casa dei Polverari era giustificata da un concorso veramente tragico di fatti luttuosi. Le tracce di una grande sventura si scorgevano evidenti ne' più minuti particolari della vita di quella famiglia e più che tutto nell'amore vivissimo, vigile, geloso, ond'erano stretti fra loro la contessa Laura e i suoi due figliuoli.

--Vedete,--aveva detto una volta la contessa a Loreta parlandole de' suoi figli,--se io non mi fossi rifugiata nel loro amore dopo le atroci avversità di cui fui colpita, non avrei potuto sopravvivere!

E per vero donna Laura aveva sostenuti così fieri dolori da prostrare anche l'animo più saldamente temprato. E se nelle pagine della storia italiana è dato ragguardevole posto al nome di Gottardo Polverari, il gentiluomo fortissimo, morto con la stoica fermezza di un patriotta antico, vi si associa giustamente il pietoso ricordo di quella povera sposa ammalata e giovane, la quale, fra tanto imperversare di sciagure, era riuscita come per miracolo ad attingere una forza novella nel suo amore di madre.

Quando per le vie di Verona, in una carrozza chiusa, dagli sportelli stemmati, passava la contessa, pallidissima nelle sue gramaglie, accompagnata sempre da' suoi due figli Bianca ed Alvise, non c'era chi non si scoprisse con rispetto e non l'accompagnasse con uno sguardo di simpatia e di pietà insieme. I due fanciulli rassomigliavano perfettamente alla loro madre, non pure nella nobiltà delle fattezze, ma ancora nella gracilità somma delle persone. La contessina Bianca, col suo bel visino filato, coi copiosi capelli dorati, disciolti in grossi riccioloni giù per le spalle, sorrideva quasi sempre con una grande espressione di bontà. Il fratello invece, più giovane di lei, appariva assai serio e già accusava, nello sguardo meditabondo e nella compostezza degli atti, affatto insolita a quell'età, l'indole sua inclinata alla tristezza.

La vita, che i Polverari conducevano, era ritiratissima. Donna Laura, tremante sempre per la salute de' suoi figli, che sapeva assai cagionevole, non vivea che per essi, vigilando con instancabile sollecitudine alle loro cure ed attendendo con iscrupolo alla loro istruzione. Oculatissima nella scelta de' maestri, voleva che i suoi figli si formassero anzitutto buoni nell'animo, degni del nome che avevano ereditato; ma, memore dell'alto lignaggio onde usciva e imbevuta per educazione di principi altamente aristocratici, intendeva del pari ch'eglino crescessero ligi a quelle tradizioni rigorose, alle quali le sarebbe sembrato una colpa di derogare.

Nel vecchio palazzo pochi amici recavansi a far delle visite, E donna Laura, mentre col suo riserbo incoraggiava pochissimo le amicizie nuove, anche quando cordialmente offerte, mostravasi ed era felice nell'accogliere gli amici antichi, legati per provato affetto alla famiglia. Con essi le pareva di rivivere nel passato: si sentiva, nella tenerezza de' ricordi, riportata a' tempi, quando, intorno al suo Gottardo, bello, fiero, animoso, si raccoglievano quegli amici e s'accendevano le vive discussioni animate, e si facevano, coli' entusiasmo negli occhi, i propositi audaci nel nome della patria, a' quali lei, povera donna, provava insieme un timoroso accoramento ed un palpito di fierezza.

Fida così al culto delle memorie, donna Laura, dopo la morte del conte a Theresienstadt, aveva mostrato sempre una particolare predilezione per il soggiorno alla loro villa di Arsizzo, piena per lei di tante ridenti rimembranze. Là, nella pace solenne de' grandi boschi, onde il palazzo era circondato, aveva ella trascorsi i primi felicissimi anni del suo matrimonio; ed ancora, dopo tanto volgere di tempi, affacciandosi a' balconi e spingendo lontano lo sguardo per le belle valli, solcate dall'Adige, ella provava la cara illusione, propria a chi molto ha sofferto, che i dolci tempi non fossero ancora passati e che le lagrime sparse non fossero state che un sogno cruccioso.

Ma troppo fugace era il sollievo, che queste illusioni le concedevano. E quando al loro svanire ella riportava lo sguardo alla realtà, il suo cuore di ottima fra le madri sentiva addoppiarsi l'angoscia del presente e le apprensioni per il futuro.

Poichè, donna Laura era di mente troppo acuta per non avere, di fronte a' proprî figli ed alla eloquente evidenza de' fatti, la piena coscienza del vero. La pietà mentitrice degli uomini della scienza e l'intensità del suo amore non erano sufficienti per indurla in inganno. La storia de' suoi maggiori, nella quale una legge inesorabile di atavismo aveva segnato tante pagine luttuose, le era ognora presente. Sentiva in sè d'essere ella pure un povero rampollo di quella pianta condannata a intristire anzi tempo. E guardando le bianche fronti e le guance scolorate de' suoi figliuoli comprendeva di aver trasfuso nelle loro vene il suo sangue misero e avvelenato. Di ciò l'assaliva, spesso più acuto del dolore, un rimorso opprimente.

E per lottare contro quel barbaro volere del destino, per disarmare quel male, il cui progresso latentemente vittorioso ella indovinava e spiava con affannosa chiaroveggenza, ella chiedeva le forze al suo amore, alla sua fede, alla preghiera, vedendo in tutto una minaccia, traendo da ogni più lieve fatto una cagione di allarme.

Bianca ed Alvise crebbero in tal modo come due fiori di serra, allevati sotto l'occhio sapientemente vigile del più innamorato fra i giardinieri. E a simiglianza di siffatti fiori riuscirono due creature fragilissime, che già nella delicatezza del loro tipo svelavano l'inettitudine a sostenere ogni spiro troppo vivo di vento avverso.

La gentilezza rara e la bontà, che erano proprie alla contessina Bianca, avevano in brevissimo tempo conquistato l'animo di Loreta. Era una tale dolcezza d'accento e di pensieri nelle parole di questa povera fanciulla che nell'ascoltarla tornava difficile non restarne affascinati e non subire in pari tempo quel senso di superstiziosa pietà che ci coglie qualchevolta dinanzi a certe eccezionali creature, in cui sembra che la soverchia bellezza del cuore preannunci una troppo rapida sparizione fatalmente segnata.

Fra Bianca e Loreta Lambertenghi la simpatia nacque di primo impulso vicendevole e sincera. In quella giovane seria, che veniva a lei già nota per una storia commovente di sacrificî e di virtù, Bianca presentì tosto una compagna amorosa, che avrebbe saputo comprenderla ed esserle di sollievo nella uniformità della sua vita. Loreta dal canto suo comprese immediatamente di quanta pietà fosse degna quella fanciulla così buona e sfortunata. E ciò che prima le parve pietà, naturale e doverosa, non tardò a tramutarsi in affetto verace.

Le due giovani passavano lunghe ore insieme. Nella stagione cattiva, durante i mesi invernali, che pareano ancor più lenti nel vecchio palazzo, Bianca non usciva quasi mai dalle sue camere. La vita della contessina scorreva colà in una uniformità placida, per la quale ella non aveva mai il più lieve lamento. Si sarebbe detto che nessuna delle aspirazioni, le quali nascono affascinanti nelle menti giovanili e affrettano misteriosamente i battiti del cuore, fosse mai balenata alla mente di Bianca. L'eco delle feste mondane, ove le sue coetanee brillavano acclamate ed adulate, giungeva sino a lei senza destarle la più piccola invidia. Là, nelle sue camerette ben calde e riparate, ella traeva, priva di qualsifosse rammarico, la povera esistenza; beata de' suoi libri, ch'ella amava con passione, de' suoi fiori che sfidavano al pari di lei nel tepore costante di quelle stanze i rigori del verno, ma più beata della compagnia, intellettuale ed affettuosa, che Loreta le faceva.

Quasi sempre alla sera la famiglia raccoglievasi in una delle camere della contessina. Donna Laura ed Alvise gareggiavano di amorevolissimi espedienti perchè il tempo scorresse meno increscioso alla loro cara ammalata. E lei, seduta al suo posto preferito, in un ampio seggiolone a sdraio, avvolta, a malgrado del fuoco che ardeva nel caminetto, in un ricco mantello di martora, mostrava di divertirsi ad ogni cosa, paga di tutto, riconoscente anche per le più tenui attenzioni.

Ma il più gradito de' suoi passatempi formavan sempre le letture ad alta voce, in cui Alvise e Loreta si venivano cordialmente avvicendando.

Erano per lo più racconti di viaggi, cronache del risorgimento nazionale, poesie patriottiche: libri che donna Laura sceglieva ella stessa con sagace discernimento. E riesciva piacevole e commovente insieme, l'udire gli aneddoti, che l'elettissima dama trovava occasione di interpolare a quelle letture: ora a proposito di qualche scrittore, ch'ella aveva avvicinato da fanciulla, quando nello storico palazzo dei Rezzonico s'accoglievano, col fiore della cittadinanza vicentina, ospiti festeggiati, i più illustri artisti d'Italia, ora a proposito di taluno di que' giovani e valorosi patriotti, che condiscepoli al suo Gottardo ne' lieti tempi dell'Università di Padova, avevan poi trovata sempre aperta la casa del loro antico camerata come quella di un fratello.

Talora, e non era di rado, quando in qualche narrazione storica il nome del conte Polverari ricorreva citato, una commozione vivissima s'impadroniva di donna Laura. Ma la povera madre si frenava immantinente allo scorgere il lampo di fierezza che in quei momenti s'accendeva nelle pupille del suo Alvise.

--Come vorrei poter somigliare a mio padre!--diceva il giovane con un accento ricco di passione.

E donna Laura, pensando a tutti i dolori ch'ella aveva già sopportati ed alla sorte riserbata a suo figlio, era sopraffatta da un angoscioso timore dinanzi alla balda fierezza di lui.

Alvise, senz'essere bello, aveva in sè una singolare attraenza, la quale accrescevasi a mano a mano che si contraeva con lui qualche dimestichezza. Solitamente assai parco di parole, il suo discorso si faceva caloroso e brillante sotto l'impulso di ogni forte impressione. Dotato d'una cavalleresca nobiltà di sentire, ogni suo atto era una conferma dell'animo suo. E se donna Laura, guardando talora la faccia risoluta e gli occhi ardenti del figlio, credeva di veder rivivere in lui il compagno adorato della propria giovinezza, era giustificata la sua apprensione che Alvise avesse ereditato, con la bontà del cuore paterno, il bisogno fatale delle passioni veementi. Questo pensiero la turbava di continuo. Ed era con orgasmo immenso ch'ella rifletteva al giorno in cui ogni sforzo le sarebbe riescito vano per impedire a suo figlio di cedere alla legge ineluttabile dell'età e dell'istinto, che attrae irresistibilmente i giovani alle grandi battaglie della vita e degli amori.

Più volte donna Laura credette giunto il momento ch'ella temeva. Certi scatti d'impazienza onde Alvise era côlto, certi discorsi vaghi ch'egli faceva sull'impiego delle sue ricchezze e del suo ingegno, la stessa ammirazione fervida ch'egli manifestava dinanzi a qualunque fatto generoso, erano altrettanti motivi per alimentare le apprensioni della contessa. Ma Alvise tornava presto alla calma: molti disegni di viaggi, di studî, di imprese, da lui caldamente vagheggiati, eran svaniti rapidamente dopo i primi e timidi accenni, in proposito fatti alla madre ed alla sorella. Dalla somma trepidazione, che soltanto a quelle parole avevano mostrato e Bianca e la contessa, s'era convinto come fosse suo dovere di non riflettere a nulla che potesse avere per conseguenza un suo qualunque e pur temporaneo allontanamento da quelle povere donne. E questa considerazione gli fu poi sempre bastante per cacciare le visioni seducenti che tratto tratto gli risorgevano d'intorno.

Venne però un tempo--e fu alcuni mesi dopo l'ingresso di Loreta in casa loro--che un cambiamento, per quanto abilmente dissimulato, s'avverò nel conte Alvise. Avvezzo ad evitare con la prudenza dell'affetto ogni frase che potesse non che spiacere, ma indurre un pensiero molesto, alla madre od a Bianca, ora più volte egli lasciavasi sfuggire qualche frase melanconica, in cui s'accentuava il suo rammarico per la vita inutile e fredda, ch'egli si vedeva dinanzi anche per l'avvenire; e talvolta, in certe sere che veniva a passare accanto alla sorella, rimanevasene così a lungo taciturno, da far supporre che la sua mente si trovasse le cento miglia lontana.

Questo mutamento, di cui donna Laura s'era vivamente impensierita, non era sfuggito neppure a Loreta Lambertenghi. E mentre sulle prime non ne aveva fatto che un caso relativo, a poco a poco, si trovò, senza rendersi conto della ragione, interessata stranamente dinanzi al contegno del giovane. Più volte, allorchè giunta al termine di una lettura, ella aveva alzato gli occhi dal libro, il suo sguardo nell'incontrare quello del conte Alvise, ne aveva ritratta una esplicabile sensazione. La fiamma di quegli occhi profondi e neri, che si figgevano nel suo viso, come assorti in una fissità estatica, avea provocato in lei un ignoto turbamento. Così altre volte era ella rimasta profondamente colpita da qualche frase breve, ma piena di pensiero, con cui egli, dopo certi lunghissimi silenzî, rientrava bruscamente nella conversazione, quasi scotendosi da un dormiveglia, onde si fosse fino a quel punto lasciato sopraffare.

Fu così che Loreta, come soggiacendo ad una sottile malìa, si trovò d'un tratto conquiso lo spirito e turbata la pace.

L'immagine di Alvise non la lasciava più; l'eco delle parole, anche le più vaghe, anche le più inconcludenti, ch'egli le avesse detto, tornava a risonare a' suoi orecchi nel silenzio della notte, mentre il sonno le fuggiva dagli occhi e la fronte le ardeva di una fiamma cocente. Ed alla sera, quando si trovavano uniti nelle stanze di Bianca, era quasi un malessere che le pervadeva d'un tratto le vene, allorchè, pur avendo il capo chino alla lettura, sentiva l'ardore degli occhi d'Alvise, intenti in quel momento su lei.

Per molto tempo non ci fu fra i due giovani spiegazione alcuna: nè una di quelle furtive parole rivelatrici, che sono sì care a chi ama, nè la più timida e più discreta allusione lasciata mai accortamente cadere nel giro de' discorsi abituali.

Ma queste delicate esitanze del sentimento hanno segnato il limite della loro durata. Alvise e Loreta s'erano letti già così profondamente ne' cuori, che la più lieve occasione, creata dal caso, doveva bastare perchè eglino fossero spinti a rivelarsi scambievolmente il loro affetto.

E ciò seguì inopinatamente una sera, in cui, ritiratasi la contessa Laura per una indisposizione prima dell'ora usata, era egli rimasto solo nelle stanze di Bianca, con la sorella e con Loreta.

Seduti intorno ad un tavolo, su cui una lampada velata d'azzurro pioveva un raccolto lume, sfogliavano un libro d'autografi, che, appartenuto alla contessa Laura ancora da giovanetta, conteneva numerosi componimenti offerti, già tanti e tanti anni innanzi, da letterati insigni, alla gentile fanciulla dei Rezzonico, mentre nelle pagine più recenti ricorrevano altri nomi non meno cari ed illustri di valentissimi poeti: Antonio Gazzoletti e Teobaldo Ciconi: Giuseppe Revere, che in un vibrato sonetto evocava con amara nostalgia il golfo pittoresco della sua nativa Trieste, e Ippolito Nievo, che in due sole agilissime quartine aveva rispecchiato tutta la gentilezza della sua musa geniale.

Quella sera la loro attenzione erasi arrestata appunto su questi versi del Nievo, per i quali Bianca aveva una particolare predilezione. Armoniosissimi e delicati, Loreta gli aveva letti con profonda passione. Ma forse mai come in quella sera la sua voce ne aveva saputo far comprendere, coll'accento caldo e vibrato, l'intensità del pensiero.--Quand'ella ebbe finito sentì la mano divampante di Alvise, il quale le sedeva dappresso, afferrare la sua improvvisamente, con una stretta nervosa, che le die' un brivido per tutta la persona. Di quel moto rapido, che si compì in un solo istante, Bianca non s'accorse neppure. E solo ella ebbe una esclamazione di spavento quando vide ad un tratto Loreta farsi pallidissima e sorgere dalla sua seggiola con uno scatto convulso.

Ma Loreta si ricompose subito. Accusò una vertigine violenta, che l'aveva côlta d'un tratto, e si die' a rassicurare la contessina già tutta in allarme. Poi, poco appresso, salutando anche il conte con modi per nulla diversi da' consueti, chiese licenza di ritirarsi.

Il domani, per tempissimo, quando Loreta, colle tracce in volto di una notte insonne, accingevasi a scendere da Bianca, fu sorpresa dal veder comparire con un fascio di volumi elegantemente legati il servo di Alvise, il quale dicevasi inviato dal conte a portarle i libri ch'ella gli aveva domandato la sera precedente.

Benchè insospettita tosto di ciò che potesse celarsi sotto quel pretesto, Loreta comprese di non potere, senza addurre un qualche plausibile motivo, rimandare al conte i volumi. Epperò, forzandosi a parere indifferente, li prese di mano al domestico ringraziandolo con qualche parola.

Appena rimasta sola, ella sfogliò con agitazione que' volumi e, come aveva preveduto, una lettera ne cadde di mezzo alle pagine. Primo moto di Loreta fu quello di non leggere, di restituire intatto quel foglio ad Alvise. Ma non potè. Lacerò nervosamente la busta e con avida ansietà si mise a percorrere lo scritto. Era una confessione ardente, appassionata, in quel linguaggio semplice e conciso, che è il segno non dubbio della sincerità.

Loreta, alla lettura di quelle parole, che cercavano con tanta potenza la via del suo cuore, fu pervasa da un sentimento così nuovo, ch'ella credette di venir meno. L'amore, a cui ella nella sua vita di privazioni e di lotte non aveva mai pensato, le si svelava improvvisamente colle sue più inebbrianti attrattive. La sua vita, in cui finora non aveva provato che l'abbandono, la miseria, la solitudine, s'abbelliva ad un tratto di un primo e così vivo raggio di luce. Ella pianse di tenerezza nel rileggere quel foglio. E quando il pensiero le sorvenne, che fosse suo dovere di sottrarsi a quella passione e di resistere alle sue allettative, un moto di ribellione si manifestò in lei. No, non poteva: non era una colpa se ella amava: aveva troppo patito per poter respingere questa piccola parte di gioia a cui sentiva di avere un sacro diritto! Dopo.... Che le importava? Forse sarebbe tornato il dolore: un'altra volta il dolore, ch'ella aveva già conosciuto. Ma forse.... E un radioso miraggio, vago, incerto, evanescente, appariva a' suoi occhi sognanti: il caro miraggio della speranza, compagna fedele ed eterna di tutti gli amori.

Alla loro passione Loreta ed Alvise avevano ceduto così, con trasporto. Nata nel segreto di una tacita corrispondenza, essi continuarono a tener celata allo sguardo di tutti, gelosamente, questa passione, che alimentata nel mistero, si faceva d'ora in ora più forte e più deliziosa. Consapevoli entrambi della necessità di circondare il loro segreto delle maggiori cautele, perchè il bel sogno potesse durare, era uno studio sagace e continuo per non tradire i proprî sentimenti. E il dolce romanzo si svolgea così, pagina per pagina, in quella letizia serena, che nessun'ombra ha peranco offuscato.

Ma se fino allora con cento sottili circospezioni eran riusciti ad ingannare la indagatrice vigilanza di donna Laura, non poteva ormai più tardare il momento in cui ella avrebbe avuto la conferma di quanto da lunga pezza avea concepito, e veduto poi a grado a grado consolidarsi, il sospetto.

Il vero le fu chiaramente palese nell'estate successiva durante la consueta dimora alla villa d'Arsizzo. Nella pace di quel soggiorno amenissimo, ove tutto concorreva a rendere più bello un romanzo d'amore, i due giovani avevan sentito farsi così irresistibile il fascino della loro passione, che entrambi ebbero quasi un repentino disdegno di tutte le timorose cautele, di cui avevan dovuto subire sino allora la pesante necessità. Furono quelle le ore più beate del loro amore. Ma fu anche ben doloroso l'istante in cui per il solo concorso di alcune banali circostanze--la volgare curiosità di un servo e la conseguente inconsapevole delazione--essi furono in aspro modo richiamati alla realtà.

Sì Alvise che Loreta, per quanto in alto grado commossi, si fecero subito ragione del vero. Ed il conte, conscio perfettamente dell'obbligo suo di fronte a quella povera giovane che gli aveva ceduto, assunse anche dinanzi alla rigida severità di sua madre quel contegno risoluto che il dovere gli imponeva. Egli parlò a donna Laura con aperta franchezza: di quell'amore, che gli aveva dischiuso una nuova vita, si dichiarava orgoglioso: era stato più forte di lui: Loreta era buona, era bella.... E volgevasi alla madre, facendo appello alla sua bontà, che aveva sempre saputo perdonare: al suo affetto, che non poteva negargli la felicità, di cui ormai egli aveva assaporata con tanta beatitudine la dolcezza.

Ma tutti i generosi conati del giovane si fransero inutili contro la inalterabile freddezza della contessa. In quel frangente decisivo una vigoria, di cui ognuno l'avrebbe supposta incapace, era venuta in lei come per incanto. Era la madre, che sorgeva a difesa disperata de' suoi affetti: la madre, che memore delle mille dubitanze avute per la salute, per la pace, per la vita dei suoi figli--dubitanze avvalorate dal mònito della scienza e ingigantite dalla grandezza dell'affetto--vedeva ora in quell'amore la minaccia più forte, l'imminenza di quel momento fatale, di cui ella aveva sempre tremato.

Animata da questi potenti pensieri, nè obbliando in pari tempo quel sentimento alto di casta, che era stato per lei una legge in ogni fase della sua vita, ella si sentì la forza per imporsi a suo figlio. La madre tenera, arrendevole, indulgente, che aveva fin allora dominato sull'animo de' figli unicamente con l'affetto, s'imponeva ora con la severa manifestazione di una volontà inflessibile. Alvise, dinanzi al rapido mutamento di donna Laura, non seppe più trovare il primiero coraggio: di fronte a quella nuova energia, che non lasciava adito a speranze, si vide ridivenuto fanciullo, inabile ad ogni opposizione, forzato ad una obbedienza tacita e riverente.

Dell'istantaneo abbattimento, in cui col suo ascendente era riuscita a piegare il figlio, donna Laura pensò di dover trarre il partito migliore per raggiungere nel modo più sollecito e radicale il fine cui ella tendeva. La sera stessa, senz'ammettere alcuna dilazione, obbligò suo figlio a lasciare Arsizzo: sua cognata, la contessa Maria Luigia Polverari-Nathan, che si trovava a villeggiare dopo lunga assenza dall'Italia appunto in quei giorni a Bordighera, aveva scritto più volte pregando Alvise di venire a passare con lei qualche settimana: la partenza appariva dunque naturale e giustificata. Ed Alvise, un po' per incapacità di opporsi a sua madre, che vedeva troppo sofferente ed irritata, ed un po' anche con la speranza che mostrandosi ora pieghevole potesse aver adito a rinnovare poi con più fortuna qualche tentativo per ismuoverla dalle sue decisioni, turbatissimo, col pensiero sempre fisso a Loreta ed addolorato intensamente che gli fosse conteso ogni modo di lasciarle almeno un cenno di saluto, di promessa, di intesa, partì come sua madre gli aveva ingiunto.

Fra donna Laura e Loreta le spiegazioni furono brevissime. Allorchè la giovane venne innanzi alla contessa e che questa con un ironico sorriso sul labbro la fissò in volto, alteramente, senza parole, ella, nascondendo tra le palme il viso infiammato, cadde in ginocchio dinanzi a lei. Non pensò a scolparsi: non sapeva e non poteva: il suo fallo in quel momento le parve così grande da rendere vana ogni difesa. Tutte le ragioni possenti della sua anima assetata di amore, del suo sangue ardente di giovinezza e di salute, del suo pensiero sedotto dall'ebbrezza più sublime, ora, dopo averla costretta all'obblio di tutto, si dileguavano dal suo pensiero, si cancellavano, sparivano. Al cospetto di quella madre, di cui aveva tradito la fiducia, volgarmente, si sentiva disarmata, senza scusa, immeritevole di pietà, pronta a sopportare ogni umiliazione.

E quando donna Laura, dopo una lunga pausa, le ebbe con poche frasi secche ed incisive, fatto rimprovero del suo contegno, ella, senza levare gli sguardi, disse candidamente quello che le stava nell'anima; la confessione del proprio errore le parve in quell'ora una espiazione coraggiosa; rassegnata ad obbedire a tutto ciò che la signora le avrebbe ingiunto, una sola cosa chiedeva come una grazia suprema: che le fosse risparmiato il dolore della disistima da parte di Bianca: che il suo ricordo nella mente della cara giovinetta potesse rimanere incontaminato e sereno.

Nel far questa confessione e nel chiedere tale grazia era tanta sincerità vera e forte nelle parole, nello sguardo, nelle lagrime di Loreta, che donna Laura, a malgrado del suo corruccio, non seppe sottrarsi a un imperioso moto di tenerezza. Una voce di pietà si levò in lei a favore di quella giovane, rea forse soltanto di aver amato. E per un momento tutte le inquietudini, che le erano imposte per riguardo alla fragile vita de' suoi figli, e tutti i pregiudizî di casta, che l'avevano ognor dominata, s'acquetarono in lei, lasciando luogo ad un mite sentimento di benignità e di indulgenza.

Rialzò Loreta vivamente: con accento dal quale era sparita la primitiva asprezza, le fe' comprendere tutta la penosa angoscia che per cagion sua agitava ora il suo cuore.

--Avrei avuto il diritto di scacciarvi da casa mia, come si scaccia chi è colpevole di un tradimento o di una disonestà. Non lo farò. Posso pensare che siete degna di compassione. Potrò anche dimenticare il male che mi avete fatto. Ma dovete promettermi che lascierete questi luoghi, che non attenterete mai più alla pace della mia famiglia. Vedete: non è più il rimprovero che viene da un giusto risentimento; è la preghiera di una madre quella che io vi faccio....

Loreta alzò il capo, subitaneamente, coll'anima già piena di un'energica risoluzione; poi, cogli occhi gonfi di lagrime, timorosamente domandò:

--E.... Bianca?...

--Bianca non saprà nulla mai di quanto avvenne. Nulla offuscherà in lei il ricordo d'amicizia e d'affetto che voi le lasciate....

Loreta si portò allora le mani al petto come avesse voluto contenere il dolore che in quel momento l'afferrava con rinnovata violenza. Poi chinò il capo, sommessamente, in atto di muta rassegnazione.

Così lasciò la casa, ov'era entrata sotto l'apprensione di un sinistro presentimento, dove aveva passate molte ore felici e dove aveva conosciuto la dolce ebbrezza e, in pari tempo, le più fiere pene dell'amore.

Così ella tornò alla sua vita solitaria ed incerta, decisa al sacrificio di sè stessa, sicura ch'ella non avrebbe riveduto mai più l'uomo, al quale aveva dato il primo sogno della sua giovinezza e ch'ella, sebbene priva ormai d'ogni speranza, immensamente amava....


XVI.

Dopo il primo colloquio avuto con Loreta, Alvise per molti giorni non riuscì più a ritrovarsi da solo a sola con lei.

I brevi momenti passati al suo fianco erano stati troppo fugaci perchè egli ne avesse potuto ritrarre un durevole sollievo alla concitazione tumultuosa di cui si trovava in balìa. Troppo poco aveva egli detto e troppo poco aveva ella saputo di quanto gli tenzonava nel cuore. E, stimolato da una brama incessante di rivederla ancora, era ricorso ai più sottili stratagemmi, contrariato di scorgere com'essi cadevano infruttuosi, sia per effetto delle riluttanze, che la signora opponeva, sia per le difficoltà infinite, che la semplicità del vivere in mezzo a quelle campagne veniva moltiplicando.

Sempre intento al suo scopo, Alvise aveva trovato il modo di rendere frequentissima la sua presenza in casa Sant'Angelo: i pretesti creati con rara avvedutezza non gli mancavano: e se talvolta un rammarico lo coglieva per le simulazioni, alle quali gli era forza ricorrere, questi scrupoli molesti s'acquetavano presto. Il sentimento sotto il quale agiva lo signoreggiava per modo da non lasciargli adito a pensare ch'egli stesse per commettere uno de' più sleali tradimenti all'ospitalità, a lui fiduciosamente accordata. Il trovarsi vicino a Loreta, la possibilità di scrutare nel volto e nelle parole di lei il riflesso dell'anima sua, eran divenuti per lui un bisogno smanioso, un desiderio tirannico, che nell'esaltazione de' suoi pensieri gli parea immune da ogni colpa e dal quale nessuna considerazione l'avrebbe distolto.

L'idea che il professore Sant'Angelo avesse potuto concepire un qualche sospetto non gli balenò affatto. Nella figura mite e bonaria di Mattia il suo occhio vigile ed accorto non aveva potuto scoprire mai il segno più lieve di diffidenza. Come l'aveva accolto nel primo momento, in cui era entrato in casa sua, Mattia aveva continuato a trattarlo costantemente, studioso di delicate sollecitudini, antiveggente d'ogni suo desiderio, mostrando, più che piacere, ambizione nel provargli come egli fosse l'ospite graditissimo della famiglia. In coteste amabili dimostrazioni Mattia non ispendeva forme e frasi mendicate. Usava i modi che gli erano abituali: semplici e schietti. E di questi, con qualche arguzia festevole, si scusava:

--Vede, conte mio, con lei non facciamo più complimenti. Noi, gente di campagna, siamo abituati così.... Con quelli a cui si vuol bene, il cuore alla mano.... e basta!... È vero, Loreta, che tu pure mi dai ragione?...

Loreta, obbligata a non rispondere in tono che stesse in disaccordo con gli scherzi di Mattia, studiava d'assecondarlo, ma raramente vi riusciva senza manifestare l'imbarazzo da ciò in lei provocato.

E il professore allora, ingannandosi sulla cagione delle frasi impacciate o sul rossore che imporporava il viso della moglie, ne profittava per volgere lo scherzo in qualche affettuoso complimento:

--Che vuole, conte Alvise? Loreta, che non ha ancora saputo dimenticarsi le sue abitudini cittadine, non si sente il coraggio di darmi francamente ragione in faccia a lei. Ma ella pensa al pari di me. Siamo d'accordo in tutto come in questo, oggi come fu sempre. Perchè, caro conte (e dicendo così accarezzava con la sua mano ruvida la guancia di Loreta), una moglie come questa è un vero tesoro. Bisogna venire qui, in fondo a queste nostre campagne, per trovare una coppia di vecchi sposi, che si vogliano bene e s'accordino così pienamente come noi due....

In que' momenti un'amarezza si facea strada nell'animo di Alvise: più che un senso d'invidia, era uno sgomento quello che s'impadroniva di lui: e, leggendo il pensiero di Loreta, che tradivasi in una fuggevole contrazione delle labbra e nel rapido corrugarsi delle ciglia, dovea stornare gli occhi da quelli del Sant'Angelo, incapace di sostenerne gli sguardi limpidi e tranquilli.

Ma quello che Alvise non aveva mai pensato e che Loreta non aveva creduto, erasi, a malgrado d'ogni esteriore smentita, avverato nel cuore di Mattia. Sebbene incredulo per indole a tutto ciò che potesse essere doppiezza o malvagità, non aveva potuto schermirsi da un primo increscioso pensiero dinanzi al turbamento, che gli era parso di scorgere in sua moglie e nel conte il giorno della sua inattesa ricomparsa, reduce dalla gita fatta indarno a Collalto per visitarvi il Mangilli. Di quel dubbio poco appresso aveva provato dispiacere ravvisando in esso un'offesa ingiustamente recata all'onestà di sua moglie ed alla lealtà del suo ospite. Ne aveva provato afflizione come di una codarda aberrazione dello spirito. E procurò di non pensarci ulteriormente. Ma la venefica pianta del dubbio aveva ormai gittate le proprie radici nel cuore di lui e, più forte d'ogni generoso ragionamento, procedeva tenace nel suo maligno sviluppo. Indarno Mattia combatteva contro il rinnovarsi di codesti attacchi alla sua pace: indarno egli procurava di convincere sè stesso come quelle non fossero che vane fantasie, nate dal nulla, in un momento di malsana tristezza. E cercava di moltiplicare a' propri occhi le prove tranquillanti: studiava di sovvenirsi di tutti que' piccoli fatti e di tutte le espressioni, per cui aveva giudicato fin dal primo istante nobile e leale il carattere del conte Alvise; e gli era confortevole di mostrare più vivo il proprio attaccamento alla moglie, forzandosi di riconoscere in lei inalterato l'antico suo affetto.

E se, in questo combattimento, ad onta di tutti i proprî sforzi rimaneva soggiacente, gli ripugnò sempre, anche sapendo di condannarsi ad un raddoppiato martirio, di svelare in alcun modo i suoi dubbî e, peggio ancora, di usare qualsifosse de' mezzi volgari, che la sete del vero avrebbe forse potuto suggerirgli. Il ridicolo, che sarebbe stato congiunto ad una manifestazione di infondata gelosia, lo intimoriva altrettanto quanto la bassezza di un insidioso spionaggio. Gli pareva così inammissibile e folle e insussistente l'ipotesi di poter essere la vittima di un tradimento, che la sua intelligenza, il suo cuore, il suo buonsenso vi si ribellavano energicamente.

Un giorno, che Loreta ed Alvise erano rimasti per qualche momento soli e che questi ne aveva approfittato per rinnovare alla signora la preghiera di un colloquio, fervidamente, con uno scoppio penetrante di passione, ella s'era difesa rammentandogli la cieca ed onesta fiducia del marito:

--Vedete come è tristo quello che voi mi domandate. Giudicatene voi, se siete giusto. Come posso ascoltarvi?...

Ma Alvise non s'era acquietato a quelle obbiezioni.

--Potete aver ragione in quello che dite. Ma che cosa vi domando io di male? che cosa vi chiedo che offenda i vostri scrupoli? Nulla, nulla. Loreta, siate buona, siate pietosa: pensate che questo nostro ravvicinamento durerà così poco.... Io non vi domando di obbedire a me: obbedite al vostro cuore: so che cosa egli vi dice, so che voi lo dovrete ascoltare....

Ella resistette ancora. Coraggiosamente, con forte coscienza del dovere, ella fe' appello a tutta la sua virtù. Ma le persuasioni acute e sapienti, di cui egli si era valso per ismuoverla da' suoi propositi, soverchiarono la tenacia, sempre meno resistente, della sua volontà. "Che cosa vi domando di male?" Questa domanda supplice e tranquillante tornava ad accarezzarle l'orecchio come una seducente tentazione, tornava ad addormentare i suoi scrupoli risorgenti. Misurando le proprie forze, stimò insania il dubitare di sè stessa. L'idea degli obblighi suoi d'affetto, di riconoscenza, di stima, per l'uomo che l'aveva redenta alla quiete ed all'onestà della vita, non poteva abbandonarla, l'avrebbe guardata da ogni pericolo, sarebbe stata il talismano infallibile della sua salvezza. E fidente in tal modo nell'ausilio, che la sua ragione le rappresentava siccome immancabile, ella veniva cedendo, grado per grado, senza averne coscienza, alle ingiunzioni sempre più fervide, che il suo cuore le faceva.

Così ella accettò due o tre lettere, passionate, accennanti con frasi di fuoco al loro passato, che Alvise trovò il mezzo di farle nascostamente recapitare. E nel modo stesso, avendo da prima negato, essendosi anche giurato di rimanere ferma al proprio diniego, ella finì per accondiscendere,--com'egli aveva voluto, valendosi di tutti i pretesti ch'egli aveva suggeriti,--ad un nuovo abboccamento. C'era venuta vincendo tutti gli ostacoli, sormontando tutte le sue esitanze, forzandosi ad attenuare col ragionamento, radicato d'altronde nella fermezza de' suoi propositi, ogni scrupolo, da cui sulle prime era stata rattenuta.

L'incontro seguì, in modo che avesse tutte le apparenze di una innocente casualità, sulla pittoresca strada di Fontanabona, che Loreta percorreva non di rado nel recarsi a visitare una delle poche famiglie del paese, con le quali manteneva rapporti d'amicizia.

Si trova--a mezzo di quella strada, la quale s'inerpica, costeggiata da alti pioppi, sui fianchi di una facile collina,--una sorgente d'acqua limpidissima e fresca, che i campagnuoli chiamano, con una delle loro armoniose voci dialettali, il Çiton, ed a cui attribuiscono per inveterata tradizione meravigliose virtù salutari. In autunno, i villeggianti, che trovansi numerosi ne' paeselli della pianura di Tricesimo, prendono volentieri questo luogo a meta delle loro escursioni e se le grandi meraviglie della sorgente si riducono per giudizio degli increduli alla purezza della vena invariabilmente gelida e chiara come cristallo, pure, specialmente nelle primissime ore del mattino, al Çiton ritornano tutti assai di buon grado, attratti dall'amenità della strada e dal romantico paesaggio che da quel punto si ammira.

Nel pomeriggio sono assai più scarsi i visitatori, tanto che ordinariamente per il lungo viale non s'incontra che a radi intervalli qualche abitante del paese, che sale verso Fontanabona o ne scende avviato alla pianura.

Il conte aveva pensato che questo fosse il luogo migliore per incontrarsi con Loreta; e tale pensiero gli era venuto naturalmente quand'ella ebbe una volta accennato per caso in sua presenza al Çiton, parlando delle proprie visite alla famiglia di Fontanabona, che egli pure aveva conosciuto alla sagra di Nimis.

Però ad onta di tutte le persuasioni impiegate e della promessa, ch'egli alla fine aveva saputo strappare alla Sant'Angelo, Alvise sino all'ultimo momento dubitò ch'ella tenesse la data parola. Fremente d'impazienza egli erasi trovato al luogo del convegno ben più d'un'ora innanzi a quella fissata. E poichè il tempo dell'attesa, nel silenzio di quel viale solitario, gli pareva interminabile, aveva già cominciato a disperare che Loreta venisse. Fermo sul muricciuolo, che circonda la spianata nel cui mezzo è la polla della sorgente, egli tenea fissi gli occhi sulla campagna, spiando se la signora apparisse, tendendo l'orecchio ad ogni rumore. E fu con un palpito forte nel cuore ch'egli vide alla fine spuntare alla svolta del sentiero, presso il piede della collina, la figura di Loreta.

La Sant'Angelo veniva a passo lento, un po' pallida, con una perplessità manifesta nell'andatura e nel viso.

Egli le mosse incontro e le prese la mano dolcemente:

--Come vi son grato d'essere venuta. Come siete stata buona, Loreta....

Ella non rispose subito e, tentando di svincolare la mano, abbassò gli occhi, confusa.

--Ho aspettato con tanta impazienza. Mi era così tormentoso il pensiero che aveste potuto mancarmi.

E sentendo com'ella rinnovava lo sforzo per liberare la sua mano che tremava febbrilmente:

--Via, dunque,--egli soggiunse con tenerezza,--perchè tremate così? Di che avete paura?

--Ho fatto male, ho fatto male! Avrei dovuto trovare la forza per non ascoltarvi.

--Per non ascoltarmi! Ah! no, Loreta, sarebbe stata crudeltà la vostra. Ancora un vostro rifiuto e non so a che cosa mi avreste spinto.... Guardate, io so che ormai il passato è perduto e che nulla mi resta a sperare. Ma quando tra due cuori ci fu un giorno un vincolo forte e sincero, com'è stato quello fra noi due.... non è possibile che tutto finisca così, senza una spiegazione dalla quale rinasca almeno quel sentimento di stima che aiuta a perdonare e a rendere men grave il ricordo dei torti sofferti....

E dopo una breve pausa, durante la quale Loreta s'era lasciata cadere, come vinta da una prostrazione, sur uno dei sedili posti intorno al fonte:

--Sentite,--egli proseguì.--Quando alcuni giorni sono, approfittando di pochi momenti concessi dal caso, io ho potuto parlarvi per la prima volta senza testimonî, furono tanti i pensieri che si affollarono alla mia mente, tante le cose che io avrei voluto dirvi, che quell'ora mi parve un baleno. Quel giorno--ve ne rammentate?--noi abbiamo rifatto insieme il cammino del passato, abbiamo ritessuta insieme la storia dei dolori, che io--sì, io, con la mia passione, che non vedeva ostacoli, che non ragionava!--vi ho preparato nella mia casa. Ma di ciò che avvenne poi.... di quello che è stato poi di me, della mia anima, della mia sorte, non avete saputo nulla, non vi ho detto nulla. Eppure, Loreta, è una storia ben triste anche questa: così triste che potrebbe valere un'espiazione. E conviene che voi la conosciate. Forse allora sentirete che io fui più degno di commiserazione che di rancore o di sprezzo....

La voce di Alvise s'era fatta supplichevole e sommessa ed aveva un accento che non poteva ingannare.

--Io non vi chiedo delle giustificazioni.

--Lo so e non tento di farne. Qualunque cosa diciate, obbedendo alla bontà della vostra anima, sarebbe inutile: la coscienza de' miei errori mi è chiara: il giudice migliore e più severo di me stesso son io! Ma appunto per questo voglio che sappiate quali traversie io dovetti sostenere dopo la nostra separazione. Non dovessi, dopo questo racconto, rivedervi mai più, avrò almeno la speranza che voi potrete riconoscere che quello che forse avrete giudicato freddo, volgare, abbietto oblìo, altro non era che la volontà cieca di circostanze ineluttabili, il predominio vittorioso di quei dolori, sotto il peso de' quali deve addormirsi e tacere ogni altro per quanto nobile e forte sentimento. Mi ascolterete voi, Loreta?

Ella reclinò il capo, vinta, senza dargli alcuna risposta.

Ma Alvise comprese la significazione di quel silenzio e cominciò, animandosi grado a grado, a narrare quanto si era passato in casa sua dal giorno in cui, dopo il breve tempo passato a Bordighera in compagnia della contessa Nathan, era ritornato alla villa di Arsizzo.

--Ritornavo triste, ma senza avere ancora rinunciato a qualche speranza. Se sapeste come ho combattuto, quanto ho fatto perchè mia madre si lasciasse rimuovere dai suoi voleri! Tutto fu vano. E mentr'io, disperato de' suoi dinieghi, vedevo cadere inutile ogni mio tentativo per riuscire a sapere almeno dove voi eravate.... che nuovo periodo di dolore principiava per la nostra casa! D'un tratto, senza che nessun sintomo allarmante ci avesse potuto far pensare all'imminenza di una catastrofe, la povera Bianca ammalò. Era un assalto fiero di quel male che mia madre, con le sue cure amorose durate per tanti anni, s'era illusa di aver debellato. Ma l'illusione, mantenuta per poco dalla speranza e dal conforto dei medici, svanì ben presto.... Bianca moriva: le sue povere forze le fuggivano giorno per giorno; ella sola non s'accorgeva, non sospettava di nulla, sperava sempre.... Loreta, voi potete immaginare che cosa fu di noi in quel periodo. Avete conosciuto mia madre: avete visto come ci amava: avete ammirato l'eroismo di quella donna, che trovava tanta forza e tanta abnegazione per i suoi figli.... Potete immaginarvi quello che avvenne!

Egli si fermò un momento, come percosso egli stesso dalla visione che evocava.

--Povera Bianca! Povera Bianca!--mormorò quasi parlando a sè medesima, inconsapevolmente, Loreta.

--Cinque mesi,--egli proseguì,--indi.... la fine....

E brevemente, colla voce che gli tremava, narrò, incalzato da qualche rapida domanda di Loreta, alcuni strazianti particolari che accompagnarono lo spegnersi di quella miserevole e purissima vita: le parole di ricordo, d'affetto, di pietà, ch'ella ebbe per tutti, che lasciò per tutti, soavi come l'ultimo profumo di un bel fiore, che si piega intristito.

--Poi,--egli continuò,--quando io e mia madre fummo soli....

Qui ebbe una nuova e prolungata reticenza, durante la quale parve volesse raccogliere le sue idee; quindi, con un gesto come di chi rinuncia a descrivere cosa, per la quale comprende la propria parola impotente:

--No, inutile il dirvi; voi comprendete.... Davanti al cordoglio intenso, commovente, ribelle ad ogni conforto, in cui vedeva piegata mia madre, io non ebbi più il capo a nulla. Non v'era ora del giorno in cui la mente di quella donna infelice non tornasse con un furore disperato, con una commozione ardente, a quell'angelo poveretto che la morte ci aveva rapito.... Nulla riusciva a distrarla, nulla a scuoterla: il dolore di quella nuova sventura aveva portato una scossa terribile alla sua fragile salute. E fu appena in quei giorni, Loreta, che io sentii quanto amavo mia madre; e vi giuro che, al vederla così com'era, sarei stato pronto a tutto purchè da me le potesse venire una consolazione, purchè le sue forze avessero potuto ritemperarsi.... Consultammo i medici: chiedemmo il consiglio degli amici. Ma con quale profitto!... La sorella di mio padre, Maria Luigia Nathan, un'angelica e pietosa donna, accorse allora. Venne a Verona, impiegò tutte le più calde persuasive dell'affetto per indurre mia madre a lasciare quel soggiorno: suo marito, il barone Nathan, doveva passare quell'inverno in Egitto per incombenze diplomatiche affidategli dal governo inglese: ci offerse l'ospitalità più cordiale nella sua casa, facendo valere la circostanza del beneficio che da quel clima mitissimo avrebbe potuto derivare a mia madre.... Ma ella non volle. Protestò con l'usato animo che, sentendosi ormai condannata ella pure, voleva morire nella sua patria, nella vecchia sua casa, dove aveva per sì poco goduta la felicità e dove aveva veduto distruggersi tanta parte del suo cuore. E quel presentimento si avverò, ahimè, troppo presto.... Ella passò come visse, serena, rassegnata, senza timori della morte... Una sola cosa ella mi domandò per poter morire tranquilla: che io le promettessi di non far nulla mai nella mia vita che fosse derogazione alle massime da lei ognora professate o ch'ella avesse potuto in alcun modo disapprovare. Promisi, senza pensare a ciò che facessi, dimenticando--e lo confesso come una colpa che non so perdonarmi--dimenticando.... anche quello che dalla mia mente non avrebbe dovuto cancellarsi mai più....

--Avete compiuto il vostro dovere, Alvise. Questo era il primo de' vostri doveri.

--Sì, avete ragione. Così in quell'ora angosciosa ho giudicato anch'io. Ma poi--oh! questo almeno credetemi!--ho sentito che altri doveri erano per me altrettanto forti, altrettanto santi!... Da quel momento non pensai che a voi: vi cercai con desiderio intenso: ho sperato mille volte che vi sareste decisa un dì o l'altro a darmi vostre notizie. Ma nulla, nulla e sempre nulla! Mi credetti obbliato; vi credetti morta; pensai (sì anche questo pensai!) che la vostra sorte vi avesse condotto a migliori fortune.... Allora, infiacchito, sfiduciato, senza più uno scopo dinanzi a me ed esortato dai medici a vigilare sulla mia salute gravemente scossa, lasciai l'Italia, vissi per qualche tempo con mia zia, la contessa Polverari-Nathan, la quale m'aveva preso affetto di madre; poi, in cerca di distrazione e di arie salutari, viaggiai: un inverno a Madera, quindi alle Indie, in China, al Giappone.... Mi feci una nominanza di avventure singolari e romanzesche: fole di cronisti male informati e dicerie senz'ombra di verità. Dissero di un mio matrimonio a Valparaiso. Poi, forse indotti in errore da una somiglianza di nome, mi fecero eroicamente morto... che so io in quale strana avventura in un angolo selvaggio dell'Australia.... Morto; no, non era vero.... Ah! quanto meglio sarebbe stato per me!... Era finito tutto, allora, tutto....

Loreta, che aveva ascoltato fin qui, come soggiogata dalla potenza dell'accento d'Alvise, rialzò a questo punto i suoi occhi lucenti di lagrime:

--Finito!--ella esclamò poi, con lentezza.--Finito era tutto egualmente. Ormai nulla avrebbe potuto più ricongiungerci....

--Nulla! Perche? Se io vi avessi ritrovata.... Se voi non aveste voluto sottrarvi a me, come avete fatto, senza darmi più notizia alcuna della vostra sorte....

--No, Alvise, non dite così! Abbiamo piegato entrambi a un volere più forte di noi.... Così doveva essere. Sarebbe stato inutile il ribellarci a quello che il destino aveva segnato!

--Io....--esclamò egli con un istantaneo scatto di protesta,--io....

Ma Loreta, troncandogli vivamente la parola:

--Voi,--proseguì con una severità melanconica nella voce,--avreste potuto disobbedire ai voleri di vostra madre?... No, sarebbe stato male: non l'avreste fatto. E se anche l'aveste voluto, se anche, ritrovandomi sul vostro cammino, mi aveste offerta la realizzazione di quel sogno, al quale follemente un giorno mi ero abbandonata.... ve lo giuro, Alvise, avrei saputo resistere ad ogni vostra profferta....

--Questo avreste fatto?--egli dimandò concitatissimo.

--Questo.

--A malgrado di tutto il passato?

--Sì.

--E perchè, Loreta, perchè?

--Perchè....

Ella s'arrestò un momento. L'amara confessione, ch'era indotta a fare, le si arrestava sul labbro: il suo spirito le negava l'espressione atta a compendiare il sacrificio intenso, eroico, doloroso, cui ella si era rassegnata sotto il vincolo della promessa strappatale, in un'ora di pentimento e di bontà, dalla commovente eloquenza della madre di Alvise.

--Perchè?--egli insistette.--Era dunque svanito il vostro amore?... Ditelo almeno, ditelo....

Ella senti una puntura acuta nel cuore a questa domanda, che l'offendeva come un oltraggio a tutte le dolci memorie dormenti nell'intimo della sua anima, non cancellate mai nè dal tempo nè dagli eventi, custodite segretamente sempre, con una pietà alta e gelosa.

Per un istante esitò: l'anima si ribellava a quella menzogna.

Egli, vedendola titubante, ebbe un lampo di speranza. Credette indovinare e con raddoppiato calore ripetette il suo invito:

--Ditelo, Loreta, ditelo!... Era dunque morto.... era morto il vostro amore?

Ella allora, colle labbra contratte da un tremito convulsivo, fiocamente, senza levare gli occhi, rispose una sola parola:

--Sì.

Ma egli non si dette per vinto. Subito, senza esitanze, con una fiera convinzione, respinse quella parola:

--Ah! non è vero! Non può essere vero. Voi mentite, Loreta. C'è qualcosa che voi mi nascondete, che vi obbliga a parlare così. Ma per l'amore di Dio, per l'amore nostro, io vi supplico di non lasciarmi in questo dubbio.... Confessatemi il vero, Loreta. Ditemi che cosa fu di voi dopo quei giorni. Ditemi perchè non avete cercato di rivedermi....

Il conte, dicendo così, l'aveva afferrata per le mani, e cogli occhi ardenti, colle guance soffuse di un vivo rossore, ripeteva al suo orecchio con crescente emozione la stessa incalzante richiesta:

--Ditemi, ditemi....

Ella allora, bruscamente, come se una forza novella l'avesse ad un tratto soccorsa, si svincolò da lui e sorgendo in piedi, col capo eretto energicamente, lo fissò negli occhi.

--Basta, signor conte. Quanto vi ho detto è vero. La vostra insistenza non è nè generosa nè bella.... Lasciatemi partire. Non vogliate prolungarmi ancora questa tortura....

Dinanzi all'atto energico di Loreta, Alvise si arrestò come percosso da un singolare sbigottimento. La parola, prima così ardita ed irruente, gli morì tra le labbra. E immobile, con una perplessità angosciosa nelle pupille, fissò intensamente la donna....

Il sole era ormai al tramonto. In fondo, sulla curva dell'orizzonte, un rossore di porpora tingeva il cielo. E un alito d'aria frizzante levavasi sulla campagna destando un fruscìo lene di foglie per gli alti rami dei pioppi, che imboscano il colle di Fontanabona.

Il silenzio era alto tutto intorno. Il filo d'acqua del Çiton, sgorgando con una lucentezza d'argento dalla roccia muscosa, faceva sentire il monotono suo gorgogliare tra i sassi ed i cespugli, in mezzo a' quali si apriva la via.

--Loreta....--mormorò dopo qualche momento Alvise con accento di preghiera, come per riprendere il discorso troncato.

Ma s'interruppe subito vedendo come Loreta ad un improvviso scarpiccio su per il viale avesse trasalito invitandolo col gesto a tacere.

Infatti un passo grave, come d'uomo che cammini lentissimo, si avvicinava. La tortuosità del viale impediva di distinguere ancora chi si avanzasse. Tuttavia, per un solo momento, da una brevissima radura aperta tra i cespugli, sì Loreta che Alvise credettero intravvedere una figura di uomo in abiti neri.

Loreta ebbe paura.

--Lasciatemi....--mormorò concitata.--Io scendo sola verso il villaggio.... Voi seguite la strada del colle verso Fontanabona....

Egli le prese rapidissimamente la mano:

--Ci rivedremo, Loreta?--mormorò ansimante, mentr'ella già si staccava da lui, avviandosi.

Confusa, tremante e come vinta per un attimo da quella incoscienza di tutto, che colpisce lo spirito sotto la minaccia di uno stringente pericolo, ella si lasciò sfuggire una parola di adesione, breve e sommessa come un sospiro:

--Sì.... sì....

E si separarono frettolosi: Alvise prendendo la via verso il colmo del poggio, Loreta scendendo alla pianura, ove il sentiero campestre raggiunge la strada maestra, che attraversando Tricesimo conduce direttamente alla villa dei Sant'Angelo.

Dopo solo pochi momenti Loreta s'imbattè nella persona che coi suoi passi aveva determinato la rapida separazione di lei e d'Alvise. E fu con un senso di ripugnanza ch'ella riconobbe nel solitario passeggiatore il pievano di Collalto, don Giovanni Morganti. Secondo il suo costume il degno Prè Zuan se ne veniva lentissimamente, col cilindro all'indietro, colle lucide guance vivamente arrossate, col sigaro di Virginia all'angolo della bocca sdentata. Allo scorgere la signora Sant'Angelo il vecchio prete trasse dalle labbra il sigaro e, fissandola in viso coi suoi occhi insolenti, ebbe una curiosa smorfia, che si sarebbe detta di ironia e di gioia al tempo stesso.

Loreta passò rapida oltre. E il prete allora, lanciatale dietro un'altra occhiata, affrettò a sua volta il passo curiosamente, mettendosi a fischiettare con aria di spavalderia il ritornello allegro di una canzone popolare.

La Sant'Angelo era rientrata agitatissima, in preda ad una eccitazione penosa, che per qualche momento ella credette impossibile di poter nascondere o dominare. La coscienza della propria agitazione era così piena in lei da farle credere inutile ogni tentativo per mascherare più oltre al professore il vero stato dell'animo suo. La sua mente le diceva che appena egli l'avrebbe veduta, il vero gli sarebbe stato palese. Epperò nel varcare la soglia della casa, ella aveva provato un invincibile e profondo timore. Ma il capriccio del caso parve venuto in suo soccorso. Il suo incontro con Mattia fu ritardato da speciali circostanze: il professore era stato trattenuto all'ufficio comunale di Tricesimo per certi urgenti ed improvvisi interessi d'indole elettorale ed aveva lasciato detto che sarebbe rientrato più tardi, anzi che non l'attendessero nemmeno. Il tempo così intercorso giovò a rimettere l'animo di Loreta ed a riguadagnarle la calma necessaria a coprire il suo turbamento.

Il Sant'Angelo ritornò infatti assai tardi e, trovata la moglie che ancor l'attendeva per la cena, non mancò di farle un gentile rimprovero per il disturbo dell'attesa, ch'ella, a malgrado del suo avvertimento, s'era voluto procurare. Poi, poco appresso, quando furono a tavola, Loreta notò subito come il consorte fosse tutt'altro che del consueto umore: parlava poco, rannuvolato in viso, e la premurosa Vige spendeva indarno le sue abitudinarie magnificazioni a' propri manicaretti, che quella sera rimanevano proprio quasi intatti, con grandissima mortificazione al suo orgoglio di abilissima cuoca.

Il professore, che ad una timida interrogazione della moglie aveva accusato della propria svogliatezza l'uggia delle molte brighe avute in quel pomeriggio, non potè trattenere qualche segno d'impazienza anche quando la Vige, dopo avergli servito il bicchierino di vecchia acquavite, ch'egli prendeva sempre al finire della cena, stimò opportuno, forse nell'intento di distrarlo dai suoi foschi pensieri, di toccare un argomento, del quale s'era già parlato moltissimo in casa Sant'Angelo. Si trattava della sparizione, che durava ormai da più giorni, del fido terranova, prè Zuan. Il professore, avvertitone subito, non vi aveva fatto da prima gran caso: tratto tratto quel vigile guardiano, obbedendo chi sa mai a quale allegro desiderio di avventure, soleva prendersi le sue brave vacanze, e di certi suoi lunghi vagabondaggi per le campagne e sino ai più lontani villaggi s'eran fatti assai spesso tra i contadini del luogo i commenti più faceti e più maliziosi. È vero che, questo suo amore per le avventure, il povero prè Zuan fu replicatamente a un pelo di pagarlo assai caro. Col nome che portava, di nemici non aveva difetto. Il Morganti e i suoi accoliti una buona schioppettata, se l'avessero avuto a tiro in qualche loro podere, sarebbero stati ben lieti di potergliela regalare: anzi più volte gliel'avevano, senza tanti misteri, promessa. E se il valoroso terranova era riuscito fino allora a salvare la sua pelle, non aveva per contro saputo risparmiarsi più d'un matto colpo di randello e qualche brava sassata, che l'avevano fatto tornare zoppicante e malconcio alla casa del padrone. Le sue sparizioni duravan però assai poco: dopo un paio di giorni di baldoria si era certi di vederlo ricomparire a un tratto, mogio mogio, con le orecchie basse, quasi col timore di qualche castigo. E poichè questa volta la sua scomparsa durava un tempo ben più lungo dell'ordinario, tutti in casa ne avevano parlato più volte come di un fatto che suscitava una vera curiosità: Agnul specialmente, che pel vecchio cane aveva un affetto grandissimo.

Ora quella mattina una ragazza di Collalto, capitata a trovare la Vige con cui eran da lungo amiche, le aveva, tra le molte storielle del suo villaggio, narrata pur quella di un magnifico tiro, che un certo suo parente, colono del prete Morganti, furbo trincato e maestro insuperabile di burle, aveva fatto un paio di giorni innanzi, e questa volta non già col proposito di prendersi uno spasso, ma con quello assai più positivo di ingraziarsi il padrone, il quale--diceva lei--era un ministro del Signore, degno certo di tutto il rispetto, ma duro co' suoi contadini assai peggio di un sasso. Il tiro, soggiungeva la donnetta, senza immaginarsi mai più quanto la cosa toccasse i Sant'Angelo, era stato giocato nel modo il più comico, tanto che in paese non rifinivano dal farne le più matte risate. Si trattava, figurarsi!, di un vecchio cagnaccio, al quale uno "spregiudicato" aveva avuto la faccia fresca d'imporre per ischerno il nome stesso del signor pievano!... E al contadino--che dei debiti col prete suo padrone ne aveva per disgrazia un grosso sacco e cercava sotto terra il modo di renderselo paziente e buono--quando una bella mattina si trovò il famoso cane che s'aggirava pel suo cortile.... immaginarsi se non parve un regalo della provvidenza! Che fa? Panf! gli aggiusta prima un tal colpo di pietra che per poco non lo lascia morto, e lo chiude quindi in un suo fienile, giurando di fargli fare un digiuno così bello, da rimandarlo poi con tanto di cestole fuori a quel "poco di buono, senza timor di Dio" che s'era permesso di dare ad una simile bestiaccia niente di meno che un nome cristiano!--E la ragazza, che a narrare cotesta storiella aveva adoperato un vero fiume di parole, venne alla conclusione che il tiro era stato così destro e bene ideato che il furbo suo autore poteva, senza tema di errare, ripromettersene dal prete Morganti uno strappo da far epoca alla sua proverbiale spilorceria....

La buona Vige, chiacchierina sempre, volle condire a sua volta questo racconto con una serie di commenti così prolissi e con un lusso talmente abbondante di digressioni, che il professore, per quanto interessato dall'argomento, terminò per infastidirsi, mandando al diavolo il prè Morganti, tutti coloro che gli volevano bene e perfino la Vige, a cui, nel sentirlo a parlare in quel modo, eran venuti lì per lì i lucciconi agli occhi.

Ma stette zitta, perchè quando il professore era in quello stato, prudenza insegnava a non rifiatare ed a lasciarlo in pace.

Del resto Mattia stesso, appena finito quel racconto, accese il suo virginia, e salutata la moglie, che diceva di volersi ritirare, uscì solo sulla spianata, dinanzi alla casa, per fumare un poco tranquillamente.

"Tranquillamente"--aveva detto così a Loreta nel lasciarla. Ma chi lo avesse veduto poco appresso, allorchè si trovò solo, nel silenzio della notte, con la coscienza d'essere al sicuro di ogni sguardo indiscreto, avrebbe compreso come quella parola non fosse stata per nulla corrispondente alle condizioni dell'animo suo. Sedutosi al posto consueto, presso alla balaustrata che guardava sui campi, il professore aveva gittato con un senso di nausea il suo sigaro; poi, rialzata l'ala del cappello sulla fronte, erasi raccolto il capo fra le palme, fissando lo sguardo pensieroso sulla campagna nera e silente. La notte era cupa. Sul cielo, dove correvano con la minaccia di un maltempo grosse nuvole scure, luccicavano a tratti poche pallide stelle. Solo da lunge un lieve riflesso rossastro lasciava indovinare, di là dalle macchie brune de' villaggi dormenti e punteggiati ancora di qualche fievole lume, la città di Udine con le sue strade ben rischiarate.

Il tempo passava e Mattia restavasene immobile al suo posto. Era lì da un pezzo e pareva che neppure si fosse accorto del silenzio che s'era fatto in quel mentre nell'interno della casa. Sparecchiata la mensa e riordinata la cucina, la Vige aveva spento i lumi; nella camera della signora, al primo piano, il bagliore della lampada di tra le persiane era sparito da molto tempo. Ma il professore non pensava affatto a rientrare. Il pensiero ond'era dominato lo teneva così tenacemente che il sentimento d'ogni altra cosa erasi estinto in lui. Ed era il pensiero doloroso, che da più giorni lo torturava senza tregua. Il dubbio, da lui respinto prima come insensato, s'era negli ultimi giorni, nelle ultime ore, fatto a poco a poco sempre più acuto. E l'impotenza della difesa, subito, con velocità fulminea, si presentò alla sua mente agitata. Quanto credulo prima, diffidente a un tratto, era cominciato in lui un lavorio febbrile di idee, un cozzo di mille supposizioni, da cui gli veniva una sofferenza insopportabile. Non sapeva ancor nulla, non aveva raccolto ancora nessun indizio positivo, ma pure il suo animo tremava in uno di quei tetri presentimenti; che nascono talora da un nonnulla appena avvertito, ma che nessun ragionamento riesce a far dileguare.

Il cielo intanto s'era venuto sempre più oscurando: uno spiro molesto di vento faceva stormire gli alberi intorno alla casa: per tre o quattro volte il guaìto lamentoso di un cane risonò nella campagna. Il professore si scosse e tendendo l'orecchio a quella voce sinistra, che rinnovavasi ancora con penosa insistenza nell'oscurità ormai profonda, non potè schermirsi dal pensare al malurioso significato, che a tali voci notturne suole attribuire la superstizione dominante tra quelle popolazioni agricole.

Lentamente, il professore accingevasi a rientrare, quando di là dal cancello osservò dischiudersi la porta dello stallaggio ed uscirne frettoloso, con una lanterna accesa dondolante in mano, il piccolo famiglio Agnul. Con passo rapido egli attraversò il cortile e in pochi momenti fu innanzi al padrone:

--Che c'è? Dove vai?--chiese questi,

Agnul alzò la sua lanterna a livello del capo e Mattia notò subito uno strano sbigottimento ne' lineamenti del bravo ragazzo.

--Signor padrone, venivo in cerca di lei. Mi immaginavo ch'Ella potesse essere ancor qui, come ogni sera.... Non avrei potuto aspettare domani per dirle.... È una cosa tanto curiosa....

--Ma via dunque, cosa è stato?

--Prè Zuan....

--Ebbene?

--Povero prè Zuan! È tornato.

Mattia non potè frenare un gesto di noia: per quanto quella notizia gli facesse piacere, non giustificava per fermo tutta la sollecitudine e il grande sbigottimento del ragazzo.

--Ebbene.... tanto meglio!

--Eh! sì, sarebbe meglio.... Ma se vedesse in quale stato!... Ero andato a dare un'occhiata ai cavalli come faccio ogni sera, poi stavo per recarmi a dormire, quando dalla porta della stalla--dalla piccola porta che dà sulla campagna--odo un certo rumore come di chi spingesse dal di fuori l'imposta, e poi, subito, due o tre lamenti lunghi.... ma così tristi, proprio come di un uomo che chiamasse in aiuto. Corsi subito a vedere e là, proprio sulla soglia, giacente in mezzo all'erba, ho trovato il povero nostro prè Zuan.... Se sapesse che male mi ha fatto a vederlo così! Magro, infangato, colla testa macchiata di sangue. Chi sa mai da dove viene, chi l'ha conciato a questo modo e come ha fatto a trascinarsi fin qui!... Lo portai dentro, lo distesi sulla paglia: mi guardava con due occhi.... con due occhi che dicevano tante cose.... Ho paura, povero prè Zuan, che questa volta non la scappa più!... Ma la cosa più strana principia adesso.... Quando feci per levargli il collare che portava ancora, notai subito un oggetto, che non capivo che fosse e che vi stava attaccato con un pezzo di spago. Era un rotoletto di carta.... eccolo qui!

E si trasse dallo sparato della camicia, aperta sul petto, un involtino che porse al professore.

Colpito dalla bizzarria del fatto, il Sant'Angelo tolse vivamente di mano al ragazzo l'involto e dopo averlo per un istante guardato al lume della lanterna, lo svoltò. Era un foglietto di carta grossolana, piegato in doppio, e conteneva poche linee di scritto a matita rossa con un grosso carattere contraffatto.

Sotto un notissimo distico friulano, che allude salacemente alla cecità de' mariti vecchi, il nome di Loreta e quello di Alvise Polverari si leggevano uniti in una frase brutalmente accusatrice. Poi in chiusa poche parole, piene di velenoso livore, contenevano un ammonimento, a lui stesso diretto, di aprire gli occhi "per vedere anche lui quello che tutti gli altri avevan già veduto."

Quelle parole, lette ansiosamente al lume tremulo della lanterna e che venivano proprio in quell'ora a ribadirgli i suoi sospetti tormentosi, furono come tanti colpi di una lama avvelenata nel cuore del Sant'Angelo. Non pensò alla mano nemica che le poteva aver tracciate; non ebbe uno scatto d'ira contro gli autori presumibili di quell'azione bassa e vigliacca: non sentì che una voce, la quale lo riconfermava nei suoi dubbî e gli appalesava quella verità, contro la quale s'era fin allora con tanta tenacia ribellato.

Barcollante, senza poter articolare una parola, credendo di venir meno ad ogni passo, egli rientrò in casa. Ma invece di salire alla sua camera per coricarsi, entrò al buio nello studio, e colà, gittatosi a sedere nella sua poltrona e, abbandonato il capo fra le braccia, si mise a piangere disperatamente, come un fanciullo.


XVII.

Quando la mattina seguente Loreta si vide innanzi suo marito non potè reprimere un atto di sgomento, tanto le parve mutato e sofferente. Pallido, con gli occhi congestionati e con un tremore convulsivo, che gli contraeva le labbra ad ogni parola, tutto tradiva in lui una celata angoscia. E allorchè Loreta, trovatolo così nel suo studio, lo interrogò se si sentisse male, stette un istante perplesso, come côlto da un dubbio circa la vera significazione di quella domanda. Poi avendo ella insistito, sostenendo lo sguardo scrutatore ch'egli figgeva in lei, rispose seccamante con alcune frasi evasive:

--Sto male. Ti ho detto già ieri che mi sento un po' spossato. L'eccesso di lavoro in questi ultimi giorni....

Quindi vedendo com'ella accennava a soggiungere qualche parola, con fare un po' aspro ne la impedì:

--Non ho bisogno che di un poco di riposo. Lasciatemi stare: passerà.

Ma Loreta conosceva così bene l'animo di suo marito, ribelle ad ogni simulazione, che quelle parole, cercate con tanto stento e pronunciate con tanto sforzo, non potevano ingannarla. E poichè l'eccitazione vivissima, in cui ella stessa trovavasi, doveva di necessità farle apparire chiaro il vero motivo del turbamento di Mattia, ella pensò tosto con un senso di terrore, ch'egli avesse potuto già intuire di quale recondita lotta ella fosse in preda. Per un risveglio repentino d'onestà e di gratitudine, ogni altra riflessione tacque in quel momento in lei. Il pericolo a cui stava dappresso le balenò con piena evidenza. E con uno slancio, altrettanto pronto quanto sincero, si propose di uscire coraggiosamente da quella situazione. Conveniva non vedere più il Polverari: sottrarsi a tempo al fascino di cui pareva egli possedesse il segreto e contro il quale, come in un giorno lontano della giovinezza, ella sentiva già vacillare la propria volontà.

Penetrata della necessità di tradurre ad effetto questo divisamento, ella si tenne sicura di potervi riescire. Alvise l'avrebbe compresa e sarebbe stato costretto ad apprezzare il sentimento, al quale ella imponevasi di porgere ascolto. Era il dovere d'entrambi e bisognava compierlo senza esitanze.

Con l'anima tutta piena di questo pensiero, Loreta s'era chiusa nella sua camera e febbrilmente aveva cominciato una lettera per il conte Polverari. La penna le era corsa veloce per un intero foglietto, senza un pentimento, con quell'ardore di frasi che le veniva dalla sincerità del suo proposito. Era un appello energico al cuore di lui, alla sua bontà, al suo antico affetto: ed era in pari tempo un ultimo richiamo a quel passato, che doveva cancellarsi per sempre dalla loro memoria.

Ma a questo punto Loreta si arrestò. La mano, improvvisamente irrigidita, lasciò sfuggirsi la penna. E la signora, reclinato il capo, rimase con gli occhi immobilmente assorti nelle ultime parole da lei tracciate.

Dinanzi a quelle parole, che eran pure la ingenua confessione di quanto aveva sofferto per il suo amore infelice, uno scoraggiamento la invase paralizzandole d'un sol tratto le forze, dalle quali poco prima si sentiva sorretta. Nell'atto di dare così un addio decisivo al sogno della sua giovinezza, la poesia di quel sogno la riafferrava violentemente con una potenza nuova di seduzione.

In questo momento Loreta ebbe onta della propria fiacchezza. L'idea di trovarsi vinta le repugnò. Ma poi, persuasa ormai di non poter riprendere il dominio di so stessa, quasi si compiacque della riflessione, a poco a poco sôrta nel suo cervello, che il mezzo al quale aveva pensato di ricorrere fosse scelto con sì poca accortezza da dovervisi senz'altro rinunciare. Pensò a tutte le difficoltà, che avrebbe incontrato per far pervenire la lettera ad Alvise: si domandò quale contegno avrebbe egli tenuto dopo la lettura di quel foglio. Se, lunge dal piegare alla preghiera di lei, egli avesse voluto rivederla ancora? Se, come un giorno le aveva minacciato, fosse ricorso, pur di avere con lei una nuova spiegazione, ad un atto d'imprudenza?

Con una sùbita risoluzione Loreta balzò in piedi e lacerò la lettera. Indi, quasi con un senso di sollievo e con un rinnovamento d'animo, uscì dalla sua camera per tornare alle faccende di casa. Avrebbe trovato di meglio: il suo dovere l'avrebbe saputo compiere ad ogni modo.

In tutto quel giorno vide suo marito appena per brevi momenti. Pareva abbattutissimo; al pranzo scambiò con lei poche parole: di sera non volle prendere cibo e si mostrò d'umore così tetro, che a Loreta venne meno il coraggio di muovergli alcuna domanda.

La mattina appresso, subito dopo che il procaccia di Tricesimo gli ebbe rimesse le lettere, fe' chiamare il famiglio Agnul:

--Attaccherai la Grigia col carrozzino piccolo. Vado a Udine per affari e non tornerò che tardi questa sera....

Loreta, che aveva notato come il professore avesse cercato nel pacchetto della posta e percorsa con molto interesse una lettera, sulla cui soprascritta ella aveva riconosciuto il carattere grosso e malfermo di don Letterio Prandina, che sapeva da più tempo sofferente:

--Ti scrive Prè Letterio?--domandò al Sant'Angelo.--Sarebbe per caso aggravato?

--Sì, mi scrive. Sta molto meglio. Se sbrigo presto ciò che ho da fare.... alla prefettura e al municipio.... passerò un momento a salutarlo.

--Farai bene. Povero Prè Letterio, quello è un amico! Il professore la guardò in viso un istante. Poi con una lievissima intonazione di ironia:

--Quello.... sì!--rispose.

E poichè in quel momento Agnul veniva a dirgli che il carrozzino era pronto e se desiderava ch'egli venisse con lui:

--No, puoi restare,--soggiunse subito.--Forse la signora può aver bisogno di te. Se vuoi uscire.... colla carrozza....

Quindi volgendosi a Loreta:

--Uscirai oggi?--domandò con naturalezza.

--Non so.... forse. C'è la fiera a Moruzzo. Sai che s'era stabilito di andarvi.... Avevamo promesso alla Vige....

E siccome la Vige, che dalla porta della cucina aveva ascoltato il dialogo, avvicinavasi ora sorridendo, la signora accennò a lei benevolmente:

--È da un anno che predica perchè si vada proprio a questa fiera a comperarle le stoviglie nuove per la credenza.... Una sua fissazione..... Se il tempo si mantenesse bello....

La buona Vige a questo punto sarebbe stata ben lieta di poter mettere a sua volta quattro parolette nel discorso. Ma il professore non gliene lasciò modo:

--Bene, bene, bisogna accontentarla!--disse brevemente, con l'aria di chi comincia già a sentirsi infastidito.

Poi, scambiato un rapido saluto con la moglie, prese posto nel carrozzino e partì.

Durante la giornata Loreta stette a lungo indecisa. Ella pensava che non approfittando di quell'assenza di suo marito, difficilmente le sì sarebbe più offerta occasione di rivedere da sola a solo il Polverari, per potergli dire ciò ch'ella si era risolutamente fissato nell'animo. E ricordando come in presenza di lui si fosse ne' giorni antecedenti fatto cenno della loro andata alla fiera di Moruzzo, giudicò ch'egli, tenuto di ciò memoria, vi si sarebbe certamente recato egli pure. In quel luogo popoloso il loro incontro non poteva destare sospetti ed essi avrebbero avuto adito di parlarsi con tutta facilità anche lungamente, senza correre nessuno de' pericoli, ch'ella ravvisava in ogni altro modo di abboccamento. Le sue esitanze furono con ciò completamente vinte: anzi riconobbe come felicissima la combinazione che le si era presentata. Epperò verso le prime ore del pomeriggio die' ordine al ragazzo di apprestare la carrozza.

Il ragazzo a quell'ordine fe' un salto dalla consolazione. Era una delle sue grandi gioie quando poteva uscire con la signora. E così tutta quella mattina, attendendo ch'ella si decidesse, non aveva fatto che consultare il cielo, nel timore che una grossa nuvola, comparsa improvvisamente ad offuscare il sole, non fosso venuta a rovinargli ogni cosa. Ma questo pericolo per fortuna fu scongiurato e in pochi minuti Agnul si trovò lesto con la carrozza, così azzimato e liscio nel suo abito da festa che la Vige, uscita ad accompagnare la signora, non si tenne dal fargli i suoi complimenti, cui egli--bisogna dire anche questo--mostrò di accettare con molta modestia, ma non certo senza una visibile soddisfazione.

Contento come una pasqua il ragazzo con quattro belle schioccate di frusta mise a buon trotto il cavallino e lungo tutta la strada che da Tricesimo conduce a Moruzzo non lasciò di rivolgere alla signora ad ogni momento qualche domanda, non tanto per tenerla allegra, quanto per ottenerne,--ambiziosetto com'era,--almeno una parola di elogio per la propria abilità di valente auriga.

Loreta però non era in vena di discorrere: di quanto il ragazzo le veniva dicendo pareva accorgersi appena, tanto che l'ottimo Agnul, vedendola così persistentemente seria, finì egli stesso per sentirsi sfumare tutta la sua allegria di poco prima. Faceva egli ancora scoppiettare la sua frusta, ma adesso non era più in segno di letizia, anzi le frustate sul dorso del cavallino eransi fatte così rabbiose, che questo, se avesse potuto, non avrebbe certo mancato di protestare contro la immeritata parte che gli toccava, di servire di sfogo all'altrui malumore.

Poi, dopo circa un'ora di corsa, il tempo s'era venuto peggiorando. Il sole, che dal meriggio in poi aveva lottato vittoriosamente con l'addensarsi delle nubi, ora era sparito sotto un fitto velo di nebbia, che cacciata da un'aria frizzante si stendeva rapidamente pel cielo.

Il bravo Agnul, che come tutta la gente di campagna era pratico di queste sorprese del tempo, cominciò a guardarsi intorno impensierito. Egli sapeva come quel nebbione, che fumava ognora più fosco laggiù dai piedi delle Alpi, era sempre stato foriero di temporali. Ma poichè la signora nulla diceva, egli guardavasi bene dall'essere il primo a parlare. Mentre attraversavano i villaggi la gente guardava con un po' di sorpresa la carrozza dei Sant'Angelo che passava veloce a malgrado della minaccia del tempo. E quando, nel salire l'erta un po' faticosa che costeggia il palazzo Morò-Casabianca, il cavallo rallentò il passo, il fattore Beppo, uscito dal cortile al rumore delle ruote, s'avvicinò alla carrozza, per salutare la signora.

--Va a Moruzzo, contessina?--domandò garbatamente, col berretto in mano.

--Sì, a Moruzzo.

--C'è andato anche il signor conte Alvise. Ma mi pare che il tempo voglia farne una delle sue. C'è un buio laggiù dalla parte di Tarcento.... Sarebbe meglio tornare, contessina.

Loreta sorrise.

--Non ne indovinate mai una voialtri. Non sarà nulla. In meno di mezz'ora avremo il sole.

E la carrozza proseguì.

Ma non erano trascorsi dieci minuti che un improvviso incalzare del vento die' ragione a' consigli del vecchio fattore. Un polverone bianco, accecante, si sollevò sulla strada maestra, mentre in fondo all'orizzonte oscuro, di là dalla città di Udine, un rapido balenio rompeva a tratti con un solco rossastro la nuvolaglia bigia.

Lungo la strada vedevansi ora le contadine chiudere affrettate le finestre dei casolari e sbarrare le porte degli stallaggi. Dalla parte di Moruzzo scendevano di seguito numerosi carrozzini coi cavalli lanciati a gran trotto: molte donne e molti uomini coi canestri in capo e con fardelli in mano venivano frettolosi nel gran polverone, cacciati evidentemente dal campo della fiera, ove l'avvicinarsi del temporale aveva disertato il mercato e rotte le contrattazioni.

Il cavallo dei Sant'Angelo repentinamente s'arrestò recalcitrando, colle orecchie ritte, fiutando esso pure il maltempo.

Allora Agnul si risolse a parlare:

--Che si fa, signora? Il temporale viene. Torniamo?

Ella parve per un momento indecisa. Quell'aria acuta che le sferzava il volto, quella sorda minaccia della tempesta che pesava tutto intorno, le dava quasi un senso di ebbrezza.

Agnul timidamente ripetè la sua domanda.

Fu in questo momento che una carrozza, la quale scendeva dal paese, s'incrociò con quella dei Sant'Angelo. E tosto una voce: quella di Alvise Polverari, ordinò vibratamente al cocchiere di fermarsi.

Subito i cavalli si arrestarono e il conte Alvise, balzato a terra, s'affrettò premurosamente al carrozzino, in cui sedeva Loreta.

--Ella pure diretta a Moruzzo? Peccato, peccato!... Un vero contrattempo.... Avesse visto! Un fuggi-fuggi generale: lassù ormai non ci deve più essere anima viva.

--Infatti,--ella disse,--non c'è ormai proprio che il tempo di mettersi in salvo.

--Avrebbe in mente di rifare la strada?

--E come no! Da qui a Tricesimo....

--Da qui a Tricesimo c'è un'ora buona. Il temporale sta per iscoppiare. Sarebbe un'imprudenza. Guardi....

Ed egli tese la mano sotto le gocciole della pioggia, che già cominciavano a cadere grosse e lente. Indi con molta cortesia:

--Morò-Casabianca,--proseguì,--è a due passi. Io spero ch'Ella vorrà accettare una breve ospitalità. I temporali in questa stagione durano tanto poco.... Ma avventurarsi ora....

Loreta non potè schermirsi. Era così naturale che non opponesse un rifiuto a quella profferta gentile, che ella rinunciò subito a farlo, tanto più che Agnul, il quale, al pari di tutti i contadini di quelle campagne, coraggioso d'indole si faceva piccino piccino durante le tempeste, le veniva da un pezzo ammiccando perchè ella acconsentisse. Di quel contrattempo il ragazzo a conti fatti avrebbe trovato motivo di consolarsi: alla fattoria un bicchiere di quel buono non gli sarebbe mancato, poi, dopo sì lungo tempo, non gli spiaceva niente niente di rivedere la sua vecchia nonna Mariute, l'unica parente che gli restava ed alla quale voleva bene a malgrado vivessero già da tanti anni separati.

Le due carrozze procedettero a passo spedito di conserva verso il palazzo e in meno di dieci minuti entravano sotto la vôlta dell'androne dove il fattore Beppo e le sue figliuole stavano attendendo.

Il conte, che aveva aiutato Loreta a scendere dal carrozzino, ordinò rapidamente al fattore di provvedere ai cavalli; poi, con molto garbo, invitò la signora ad entrare. La pioggia in quel momento cominciava a cadere con uno scroscio torrenziale, e il vento cacciandosi con veemenza nell'androne fe' sbatacchiare violentemente tutte le imposte.

--Vede, signora, se avevo ragione quando le dicevo che sarebbe stata imprudenza il voler continuare la strada.

--Infatti!--ella rispose brevemente salendo lo scalone, preceduta da una delle figlie del fattore.

Poco appresso, licenziata la fanciulla, si trovarono soli nella sala dei quadri, che il conte Alvise, in quei brevi giorni da che durava la sua dimora al paese, aveva scelto nel palazzo a suo luogo preferito.

Loreta, entrata appena, si guardò intorno con curiosità. Ella riconobbe quella sala, ricordando il giorno in cui parecchi anni prima c'era venuta in un pomeriggio d'aprile con Mattia, la signora Chiara ed il conte Mangilli. Nulla v'era di mutato: sempre al loro posto gli antichi mobili di noce, coperti di broccato veneziano: sempre in alto sulle pareti le vecchie tele che eternavano colla bellezza delle loro linee il nome e la gloria di Bertrando da San Genesio, il patriarca-guerriero.

--Ah! qui?--ella chiese naturalmente.

--Qui.... è il luogo dove io passo quasi tutte le mie ore. Ho scelto questo per tante ragioni: prima di tutto le memorie, anzi le leggende, che vi si connettono; poi.... la splendida vista che vi si gode.

Ella guardò dagli ampî balconi. Ma la scena non era più quella che un giorno le si era affacciata, beata e sorridente, de' campi in festa. Una bruma bassa e folta addensavasi sopra l'intero paesaggio: nel letto del Cormor, fra le due rive rocciose, l'acqua alta e giallastra scrosciava con sordo rumore fuggendo sotto le sferzate violenti della pioggia. Da lunge il brontolìo del tuono prolungavasi cupo, mentre da tutti i villaggi della vallata giungeva il suono affrettato e insistente delle campane, col quale i contadini hanno la superstiziosa credenza di scongiurare il pericolo delle saette.

--Brutta sera!--disse Loreta a un tratto come obbedendo macchinalmente alla sensazione ch'ella provava nello spingere l'occhio per la campagna sconvolta.

--Brutta sera....--esclamò dopo un'esitanza Alvise.--Per tutti, signora.... Per me solo, no, certamente.

E fissandola in volto con gli occhi lucenti, pareva volesse dirle con l'eloquenza dello sguardo quale profondo sentimento egli avesse inteso di celare sotto il velo di quella frase, che sonava in apparenza come un semplice madrigale.

Poi, subito, con grande effusione:

--Loreta,--mormorò,--non potete sapere con quanta ansietà io attendevo questo momento. Vi ricordate l'ultima volta che ci vedemmo.... sul colle di Fontanabona? Vi ricordate la parola che mi diceste nel lasciarci? Era la promessa di rivederci ancora. Ed oggi....

Detto ciò con voce commossa, egli s'arrestò per un breve momento:

--Se sapeste come mi sento ora felice!--soggiunse poi con impeto.

Ella lo guardò fissamente, come se quel linguaggio, che presupponeva in lei un'intenzione tanto diversa da quella ond'era animata, le fosse spiaciuto.

--Non dite così, conte. È vero che io vi ho dato promessa che ci saremmo riveduti. È pur vero che io stessa ho desiderato di potervi parlare. Ma....

--Ma?...--egli chiese ansiosamente, incoraggiandola a continuare.

--Ma--ella rispose con accento severo,--ritenevo che voi doveste immaginarvi quale poteva essere lo scopo, l'unico scopo, del nostro incontro....

Poi, dopo un breve silenzio, ella proseguì lentamente:

--Se è vero, Alvise, che voi mi avete amata e che in un'ora della vostra vita io fui qualche cosa per voi, saprete ascoltare la mia preghiera; poichè è una preghiera, Alvise, che io vi faccio con tutto il mio cuore.... Lasciatemi, andate lontano, non vogliate, dopo tutto quello che ho sofferto, farmi ancora del male. Io voglio, Alvise, che voi sappiate obbedire alla ragione; e se la mia parola non sa infondervi questa forza, voglio che la chiediate alla vostra coscienza di gentiluomo. Perchè vorreste turbare una casa onorata, distruggere quella felicità che io, dopo tante traversie, mi sono finalmente creata qui, nella stima e nell'affetto di un uomo onesto e buono?...

Egli ascoltò senza rispondere, agitatissimo.

--Mi parlate di doveri!--esclamò poi vibratamente. --È bello quello che voi fate ed io ne sento e ne apprezzo tutta la generosità. Ma voi credete che a questi doveri si possa obbedire con tanta abnegazione, senza che il cuore si ribelli, senza che nulla, nemmeno la sicurezza di essere stati amati veramente, ci conforti?

E poichè ella levava su lui in atto di interrogazione gli occhi, stupita di quell'ultima frase:

--Sì,--egli ripetè,--ho detto "senza la sicurezza di essere stati amati" perchè se voi, Loreta, in un tempo lontano mi aveste amato veramente, se mi aveste amato soltanto un poco, no, non avreste potuto parlarmi ora con la freddezza con cui mi parlaste....

--Io ho fatto il mio dovere, Alvise!

--Il vostro dovere! V'ho detto già che è virtù il saperlo compiere: facile virtù per altro quando non si ama e non si è mai amato! E voi, Loreta, non mi amaste: tutto me lo fece comprendere nel passato e tutto me lo comprova anche adesso,...

Ella erse il capo fieramente, stringendo le labbra pallide, trafitta da quelle parole.

--Nel passato!--ella esclamò.--Dite voi questo? lo pensate? lo avete creduto? Lo avete creduto dopo tutto quello che mi avete fatto soffrire! Ah! Alvise, come non mi conoscete oggi e non sapete comprendermi nella lotta di questo momento, non mi avete compresa mai!

Ma egli sempre più animato insistette:

--Oh! Loreta, non mi sono ingannato, no, purtroppo per me, purtroppo per le mie illusioni, in tutto quello che ho pensato di voi. L'altro giorno vi dissi quanti dubbi hanno distrutto la mia pace dal momento in cui la sorte ci divise. I miei dubbi eran fondati. A chi non sa amare è ben facile l'oblìo!

Di smorta ch'ella era, Loreta a questo punto s'imporporò in viso, sotto un impeto violento d'indignazione. Il linguaggio scettico ed aspro di quell'uomo la offendeva nella parte più sensibile dell'anima. Era dunque cotesto il frutto del sacrificio ch'ella aveva fatto? era questo il premio della lotta che si era imposta per fuggirlo, per far tacere il proprio amore, per restar fedele ad un giuramento fatto quasi ad espiazione d'una sua colpa?

E le sovvenne in quel momento tutto quello ch'ella dovette passare: l'ultimo colloquio da lei avuto, laggiù, in una delle vecchie sale della villa d'Arsizzo con la madre del conte Alvise: le parve di rivedere dinanzi a sè la figura di quella donna, non più severa come chi è nel diritto di punire, ma umile e mite come chi implora una grazia: le rinacque vivo nello spirito il ricordo delle sue ore di stento, di miseria, di solitudine, passate talora baciando e bagnando di lagrime una scialba miniatura, il ritratto di Alvise, l'unica memoria portata con sè del tempo felice: finalmente pensò con terrore al giorno quando, stremata di forze e di coraggio, letto in un giornale la morte di Alvise in un paese lontano, volle finirla ella pure, chiedendo alla pace del nulla la sua liberazione.

E sotto l'impressione di tutte quelle immagini risorte dinanzi a lei tumultuosamente non resse più, si sentì soffocata, e dimenticando ogni altra cosa, irresistibilmente, non obbedì che al bisogno di difendersi, di respingere la taccia ch'egli le gittava in viso, di dirgli tutto:

--Non vi ho amato? Non ho fatto nulla per voi? Mi avete creduto un'anima incapace di ogni virtù e di ogni forza?... Ebbene, no, non è vero: vi ho amato intensamente, come si ama una volta sola, come non meritavate che vi amassi. Se vi ho fuggito, se non ho cercato di rivedervi era per obbedire ad una promessa che non potevo infrangere, che avevo fatto a vostra madre.... Se la mia miseria e la mia solitudine mi parvero più dolorose, era sempre per il pensiero che voi mi aveste dimenticata.... Il giorno che vi credetti morto mi lasciai trascinare io stessa a un passo disperato, obbliando tutto, obbliando la mia fede di cristiana.... Ah! Alvise, e questo non è amore?... Come foste ingiusto verso di me, Alvise! Come mi avete giudicata male!

Egli che l'aveva ascoltata interdetto, pendente dal suo labbro, colpito da quella rivelazione inattesa, come ella ebbe finito le afferrò appassionatamente le mani:

--Oh! Loreta,--esclamò subito,--come posso io dirvi la gioia immensa che voi mi avete recato con le vostre parole? Era questo che io voleva da voi: questo il supremo bene al quale io anelava!

Ma la donna, come se ad un tratto avesse riacquistata la coscienza di ciò che faceva, sciolse subito le proprie mani dalle mani ardenti di Alvise.

--Ah! che cosa mi avete fatto dire!... Lasciatemi, lasciatemi, Alvise!

--No, Loreta, non vi pentite della parola, che più forte di voi vi è sfuggita dal cuore. Sarebbe inutile ora: non potreste più togliermi la felicità che senza volerlo mi avete data! Il vostro amore, Loreta, il vostro amore.... È stata questa l'unica gioia della mia vita: è stato in esso il compendio di tutta la mia giovinezza. Tutto era morto con esso: non ebbi più nulla poi, nè un sorriso, nè una speranza, nulla. Comprendete ora il bene che mi avete fatto, Loreta.... lo comprendete?

--Il bene che vi ho fatto!--- ella ripetè lentamente. --No, Alvise. Sarebbe stato ben meglio se questo momento non fosse venuto. Per l'affetto che ci siamo portati un giorno, abbiamo sofferto entrambi abbastanza. Nell'incontrarci dopo tanti anni avremmo dovuto avere la fermezza di non ripensare più al passato. Voi, che siete uomo, che siete più forte di me, avreste dovuto darmene l'esempio; e quando avete visto vacillare quel coraggio che io mi ero imposta e che avevo ancor oggi varcando la soglia di questa casa, avreste dovuto sentire compassione di me, non trascinarmi a dire quello che in un momento di incoscienza ho detto....

--Loreta!--egli esclamò supplichevole perchè ella non continuasse.

--Tuttavia io non deploro la confessione che vi ho fatto. Ora sapete come vi ho amato.... sapete quanto per voi ho sofferto.... Ebbene, è in nome di questo amore che io vi rinnovo la mia preghiera, alla quale dovete porgere ascolto: lasciatemi, non turbate più la mia pace, dimentichiamo entrambi!...

--Lasciarvi? E lo dite da senno, Loreta! E lo stimate possibile?

--Esitereste?

--Lo chiedete! Dopo quanto mi avete confessato adesso, dopo questa beatitudine tanto agognata, potrei lasciarvi?... Ah! no. Questo non è nelle forze di un uomo. Non vedete, Loreta, non leggete negli occhi miei ciò ch'io provo?... In questo momento tutto ciò che è passato non esiste più per me: questa è stata la potenza grande delle vostre parole, che hanno tutto cancellato, che mi hanno in un minuto solo fatto dimenticare tutto ciò che è trascorso.... Loreta, è stato un brutto sogno il nostro: un sogno la nostra separazione, un sogno quello che abbiamo uno dell'altro creduto. Noi siamo tornati al tempo che credevamo non dovesse ritornare mai più: ai primi giorni del nostro amore.... vi ricordate, Loreta, laggiù alla villa d'Arsizzo: i dolci pensieri nostri, le nostre prime confidenze, i trepidi colloqui.... laggiù, coll'ansia di essere scoperti, dicendoci mille cose senza parlare, colle mani strette l'uno all'altra--così--nell'ombra verde del parco.... vi ricordate, vi ricordate?...

Egli parlava ora irruentemente, col volto presso il volto di lei in modo che il suo respiro infiammato le bruciava la fronte. Era nel suo accento tale una soave dolcezza, tale un'intonazione di preghiera e di passione a un tempo, ch'ella ad un tratto, come pervasa da una malìa per tutte le vene, chiuse gli occhi, debolmente, infiacchita.

--No, Alvise, no.

Ma egli non le lasciava più le mani, che aveva allacciate alle sue, tenacemente, in una stretta convulsa.

--No, Alvise, no.

--Loreta, pensate, pensate: sarebbe ben tristo da parte vostra il contendermi quest'ora felice che la sorte mi ha riserbato.... Sì, sì, partirò, se vorrete: tra pochi giorni fra me e voi sarà ancora una volta la lontananza infinita.... Ma oggi.... oggi.... L'oggi, Loreta, è mio, è nostro: nessuno può rubarmi questo momento di contentezza sublime ed insperata. Poi.... sarà quello che il destino ha segnato: sapete che i miei giorni sono contati, sapete quale condanna grava sopra di me.... Morirò presto. Ma non importa, Loreta: so che tu mi hai amato, so che ti amo.... supremamente, immensamente....

Dicendo così con voce rotta, quasi con un rantolo di gioia e di trasporto, le sue mani faceansi sempre più forti, stringendola in una stretta disperata.

--Loreta, Loreta!

Ella non vide più nulla: un velo grigio s'era steso dinanzi alle sue pupille: subitamente, come se tutto il suo sangue avesse cessato di scorrere, ella si sentì irrigidita, coi nervi paralizzati, fissi gli occhi estatici negli occhi deliranti di quell'uomo che la teneva in sua balìa, vinta, incapace di sprigionare più una parola od un grido dalle labbra frementi, ch'egli premeva ormai in un lungo ardentissimo bacio....

Da quel delirio soave a cui s'erano abbandonati e l'uno e l'altra quasi inconsciamente, cedendo al fiero impulso delle anime loro; da quella ebbrezza, colpevole ma divina, che era il trionfo ineluttabile della giovinezza, dell'amore rinascente, delle memorie risorgenti, si destarono entrambi con un turbamento amaro e doloroso. Rinato appena il dominio della ragione sulla febbre cieca dei sensi, e l'una e l'altro ripresero tosto la coscienza della loro posizione.

Loreta per la prima si riebbe da quello smarrimento: per la prima riascoltò la voce del dovere che elevavasi ora con un aspro rimprovero dal fondo del suo cuore.

Smorta al pari di un cadavere, colle guance rigate di lagrime, ella sciolse lentamente le sue mani da quelle di Alvise e senza parole si lasciò cadere in una delle ampie poltrone reclinando il capo affaticato.

Nella sala regnava un silenzio profondo. Di fuori la pioggia aveva cessato: sordamente un ultimo romore di tuono si perdeva nella lontananza e qualche pallido lampeggiamento rompeva ancora a lunghi intervalli le nubi cinerognole, che sfumavano lente sull'orizzonte di là dalle campagne allagate dall'acquazzone. Sotto i balconi del palazzo, scrosciando impetuoso fra le sponde soverchiate, mormorava colle sue gialle acque fangose il Cormor. Ancora, tratto tratto, qualche rintocco di campana giungeva fioco per l'aria commossa, dai villaggi lontani della montagna.

L'ombra di quel melanconico crepuscolo autunnale aveva ormai invasa la vasta sala. Sull'alto delle pareti le fosche pitture, in cui campeggiava la rossa figura del grande patriarca, investite gradatamente dall'oscurità, si faceano a poco a poco quasi indistinte. Solo di fronte a Loreta staccavasi nitido dallo sfondo bruno della parete il volto marmoreo di Sebastiano Morò-Casabianca. E come se ad un tratto un magico influsso fosse caduto su lei, Loreta fissò gli occhi in quella immagine candida, che parea la guardasse co' suoi occhi morti, con una strana espressione di tristezza diffusa nelle fattezze severe.

Immediatamente Loreta ripensò ai discorsi, che nel giorno lontano della sua prima visita al palazzo eransi fatti colà, ed alla storia, che vi aveva udita per la prima volta dalle labbra del Sant'Angelo, di quello sventurato gentiluomo.

Una sensazione di freddo le corse per le ossa e come presa da un folle terrore balzò in piedi, agitata.

--Ch'io parta, ch'io parta di qui.... subito, subito!--ella esclamò soffocatamente.

Alvise le si fece appresso e con affettuosa sollecitudine la chiamò per nome:

--Loreta....

Ma ella arretrò tosto, con un moto di repulsione:

--Lasciatemi!--disse risolutamente, incrociando le braccia sul petto.--Lasciatemi!

Egli rimase interdetto, fissandola, indovinando il pensiero che era in lei, invaso a sua volta da un malessere sinistro, che gli gelava la parola sul labbro.

Lentamente, senza dirsi più nulla, uscirono dalla sala e scesero lo scalone, rischiarato scialbamente dalla luce tremola che pioveva da una vecchia lanterna veneziana, accesa già sotto l'arcata ampia del vestibolo.

Nel cortile il cavallo era attaccato. Ma Agnul, il fattore Beppo e le figlie di lui unitamente ad altri contadini, trovavansi a qualche distanza, raccolti tutti insieme dinanzi all'uscio d'una delle piccole case coloniche, presso il quale, sopra un ceppo rovesciato, sedeva la vecchia nonna Mariute.

La vecchia parlava a lenta voce e pareva che tutti l'ascoltassero con profonda attenzione. Era generale nel paese l'abitudine di farle narrare per ispasso le solite storielle, ma per quanto tutti le conoscessero a memoria e sapessero pure come la povera ottuagenaria da molti anni non avesse più la sua ragione, finivano sempre per ascoltarla con un curioso interessamento.

Quella sera il solo Beppo pareva che, tanto per farla arrabbiare o per crescere il divertimento degli altri, si mostrasse incredulo di quanto ella veniva narrando, poichè appunto verso di lui ella rivolgevasi stizzosamente nel momento stesso in cui Loreta ed il conte uscivano dall'androne:

--Ridete, ridete voialtri! Ma io vi dico che il conte Sebastiano è tornato.... Torna sempre nelle sere come questa.... In una sera come questa si è ucciso lassù....

E tendeva il dito verso i veroni della sala, che Loreta e Alvise avevano lasciata, illuminati in quel momento dal rapido strisciare di un lampo.

Loreta a quel discorso, che già un'altra volta aveva udito con le stesse frasi dalla bocca della strana vecchia, si sentì riafferrata dal terrore di poco prima.

E nell'atto che saliva nel carrozzino, costretta a porgere la mano al Polverari, non gli disse che alcune poche parole, rapidamente, con accento di intensa preghiera:

--Ed ora.... Alvise, siate forte.... ed abbiate pietà di me!


XVIII.

La notte era già alta quando il carrozzino della Sant'Angelo fu presso alla casa.

La Vige, la quale attendeva inquietissima e s'era crucciata l'intero pomeriggio col rimorso d'essere stata proprio lei la causa che la padrona si fosse esposta a quel malcapitato temporale, era corsa ad incontrarla giù per lo stradone e appena le fu vicino cominciò, con la verbosità che le era connaturata, una serie interminabile di lamentazioni.

Loreta la lasciò dire, rispondendo appena qualche monosillabo, pressochè senza porre attenzione a tutto quello che la povera serva si credeva in obbligo di farle sapere. E soltanto si scosse impressionata quando la Vige ebbe fatto cenno all'inquietudine nella quale s'era trovato al pari di lei il professore Mattia.

--È tornato?--chiese la signora vivamente.

--Sì. Poco dopo il primo acquazzone. In cinquanta minuti da Udine.... Una corsa! Quella brava Grigia.... mezza morta parea quando entrò nella stalla....

--Ha chiesto di me il padrone?

--Più volte: impazientissimo. Bisognava vederlo. Con tutta l'acqua che veniva giù era ogni momento alla finestra aperta per guardare nella campagna.... Ah! eccolo.

Infatti in quel momento il professore, chiamato egli pure dal rotolìo della carrozza, affacciavasi al portone.

Al vederlo, una fiamma subitanea s'accese sulle guance esangui di Loreta. Una debolezza la prese impedendole di avanzare il passo. E nella mente le passò fulminea la visione di ciò che forse l'attendeva tra poco, senza rimedio, quando ridotta ormai incapace di ogni ulteriore simulazione, nulla avrebbe potuto più scongiurare il momento temuto di una spiegazione decisiva tra lei e Mattia.

Ma da questa perplessità angosciosa, durata appena un istante, ella fu tratta immediatamente dall'accento con cui il professore le volgeva il suo saluto. Colpita dapprima da quell'intonazione pacata, che nell'animo agitato da tanti timori le riusciva pressochè inattesa, si sentì tosto rinfrancata. E al saluto di Mattia rispose con sufficiente naturalezza riguadagnando a poco a poco lo spirito e ricuperando, a mano a mano ch'egli le parlava, la propria sicurezza.

Il professore pareva tranquillo: l'irritazione nervosa, che quella mattina aveva tradito in ogni suo atto, sembrava svanita; solo permaneva nelle fattezze di lui come un'ombra di stanchezza, che allo sguardo di Loreta non poteva sfuggire.

Tuttavia di quella calma ella restò persuasa. E soltanto a un certo momento il dubbio le venne d'essere indotta in errore, alla contrazione che apparve per un attimo nel volto di Mattia, quand'ella ebbe detto dell'ospitalità trovata durante l'imperversare del temporale nel palazzo Morò-Casabianca.

--Ah!--egli aveva esclamato subito,--nel palazzo Morò!

Poi con una interrogazione, fatta lentamente, cogliendo una frase del racconto udito:

--Per un'ora?--egli disse.

--Sì.... per un'ora,--rispose lei, macchinalmente, fissandolo come per iscoprire il recondito senso di quella domanda.

Ma il discorso non ebbe seguito. Un silenzio increscioso regnò quindi fra i due. Solo più tardi, al momento che stavano per ritirarsi dopo la cena, il professore, levando d'un tratto uno sguardo freddo e severo sopra la moglie, pronunciò con manifesta intenzione queste parole, che la fecero trasalire:

--Domattina, molto per tempo, debbo recarmi a Morò-Casabianca....

--A Morò?--ella chiese, non riuscendo a nascondere il suo turbamento.

--A Morò,--egli ripetè con un tenue sorriso.--Debbo vedere il conte Alvise, al più presto, per un argomento assai grave....

Dicendo così la fissava negli occhi insistentemente, non perdendo ogni più piccolo suo movimento, con una acutezza penetrante.

Ella ebbe paura.

--Assai grave?--chiese, interdetta, con voce tremante.

Il professore si sforzò a sorridere.

--No, non aver paura.... Affari.... affari! Non c'è altro. Non ci può, non ci deve essere altro!

E levatosi, lento, con quel sorriso che gli increspava le labbra ancora, senz'aggiungere nulla di più, si dispose a ritirarsi.

--Sono molto stanco. Oggi è stato un giorno assai brutto. E finito però.... è finito anche questo. Domani..., Sarà meglio forse domani....

Questa fu l'ultima cosa che si dissero. Poscia il professore si ritirò nella sua stanza, ordinando che lo svegliassero all'alba, infallibilmente.

La notte che Loreta passò fu turbata da mille incubi affannosi. Sfinita dalle emozioni di quella giornata, ora un nuovo dolore ancor più tormentoso s'era impossessato di lei. La speranza estrema, che per un momento ella aveva nutrito dinanzi al contegno calmo di Mattia, era vanita. Le parole tristi, ch'egli le aveva detto poco prima di lasciarla, in quel breve colloquio concitato, ora le risorgevano al pensiero, come ripetute da una voce interiore, implacabilmente, senza fine, sinistre come la profezia di una grande sventura. Egli sapeva tutto: il risveglio colpevole di quella passione ch'ella aveva creduto di poter dominare: forse la debolezza suprema di quell'ultima ora: tutto ciò che ormai doveva distruggere per sempre la pace della loro casa.... E domani, domani?...

Un sonno pesante s'aggravò al fine sugli occhi di Loreta, trionfo della stanchezza fisica sull'eccitazione tumultuosa del pensiero. Il giorno era già avanzato quand'ella uscì da quella specie di sopore, attraversato da torbide visioni. Levatasi subito, s'affrettò a discendere, ansiosa di vedere suo marito, quasi sedotta dall'idea che forse vedendolo o parlandogli avrebbe potuto persuadere sè stessa d'essersi troppo irragionevolmente abbandonata alle esagerate allucinazioni d'un sogno febbrile. Ma il Sant'Angelo era già partito. Ad Agnul, che l'aveva chiamato per tempo, disse che nella mattina si sarebbe recato a Morò-Casabianca. Poi, senza prendere nulla, rifiutando persino la tazza di caffè nero, che la Vige gli aveva apprestato, s'era messo per la via delle campagne, solo.

--Il padrone deve aver qualche gran brutto pensiero per il capo!--aveva detto quella mattina la Vige alla signora Sant'Angelo.--È da un pezzo che non è più lo stesso. Quando lo guardo, mi par tornato al tempo che la povera padrona vecchia stava male. Era tal quale, allora. Poi.... poi, è stata lei, signora, a far tornare la consolazione. E bisogna che faccia presto lo stesso, anche ora. Che vita sarebbe, se continuasse così.... Che vita!

Loreta tacque. Ma un'onda novella di sconforto le corse al cuore al suono di quelle parole, che nella rozza loro semplicità, pur sulle labbra di quella povera serva, ignorante di tutto ed inspirata unicamente da un cieco sentimento di devozione, chiudevano un sì grande significato.

Far tornare la consolazione in quella casa--ancora una volta--ora? No, non era più possibile: tutto era ormai finito: tutto ormai era deciso!... "Che vita sarebbe se dovesse continuare così?" La domanda, che la vecchia domestica fedele s'era fatta poco prima, ingenuamente, quasi ammettendo la lieta fidanza che ogni nube dovesse dileguarsi tosto, avrebbe avuto una ben triste conferma.

Colle tempie addolorate da una pulsazione violenta, lottando contro uno smarrimento, in cui le pareva che le sue idee si confondessero senza nesso in una nebbia oscura, Loreta sentì il bisogno di raccogliere tutte le sue facoltà per seguire col pensiero suo marito, per indovinare quanto avveniva tra quei due uomini, laggiù, dove la voce del presentimento le diceva che in quell'ora dovesse compiersi il fatto decisivo della sua vita.

Ma per quanto Loreta nell'agitazione del suo spirito immaginasse quanto si passava allora nell'animo di Mattia, era ella ben lunge dal sapere a quale strazio quell'uomo generoso e forte si trovava in preda e quale sforzo immane di volontà egli avesse durato per mascherare in quegli ultimi giorni ciò che egli soffriva.

Al Sant'Angelo la verità era apparsa di schianto, con evidenza inesorabile. La lettera infame, che una mano nemica gli aveva fatto pervenire, non era stata che la conferma brutale del dubbio, onde l'anima sua era avvelenata. Mille volte, nelle ore pensierose, quando il suo spirito aveva piegato alla malsana evocazione delle previsioni nere, a quel bisogno tirannico di sognare gli avvenimenti nefasti, il quale sorge nell'anima dei felici quasi a rendere poi più inebbriante la preziosa realità del benessere e della pace, mille volte aveva sognato con terrore ciò che oggi vedeva sorgere con aspra verità dinanzi a' suoi occhi. Era il crollo della sua felicità, l'annientamento crudele d'ogni sua gioia, la fine di tutto. Le larve temute prendevano consistenza e forma. Le fantasime minacciose non erano più la evocazione melanconica della sua mente turbata. Ogni illusione sarebbe stata vana; qualunque rivolta, per quanto disperata, non avrebbe potuto tornargli nulla di ciò ch'egli vedeva ormai irremissibilmente perduto. E nella piena del suo dolore, pur nella prima crisi acutissima che gli aveva fatto piangere le più tristi lagrime le quali possono sgorgare da un cuore esulcerato, un pensiero solo non l'abbandonò mai, dominando con fredda lucidità nella sua mente: lo stesso pensiero nel quale una volta aveva già così a lungo esitato di cedere alla voce imperiosa del suo cuore, e di legare il proprio destino a quello di Loreta....

Perchè s'era lasciato vincere? perchè non aveva seguito quel primo istintivo consiglio della ragione, che era giusto e previdente e nel quale sarebbe stata la sua salute!... Egli era stato leale: a Loreta, nel giorno in cui la loro sorte si era decisa, aveva detto con candida lealtà, per quale affliggente esitanza si fosse arrestata tante volte sul suo labbro la confessione di quell'amore per cui egli viveva e del quale rimproveravasi come di una follia; poi aveva ceduto, aveva creduto che la virtù, la bontà dell'animo, le premure costanti, l'affetto diuturno--fatti religione immutabile della casa--sarebbero bastati ad assicurargli per sempre quella felicità che gli era apparsa come la meta radiosa d'ogni più ardita e più lusinghiera sua aspirazione.

Ed ora il vero tornava: la legge eterna della giovinezza, più forte dei doveri sociali, più forte d'ogni legge umana, doveva necessariamente trionfare. Il segreto di Loreta, ch'egli aveva sempre ignorato fin là, la stessa colpa del suo passato, ch'egli aveva cancellato col perdono, gli si erano appalesati crudamente. Quell'uomo, ignaro d'ogni raffinatezza mendace ed incredulo d'ogni inganno, aveva ricostituito con ispietata divinazione la storia dell'amore di Loreta e d'Alvise. La fede ch'egli aveva nutrito che quell'amore fosse morto per sempre, e il sogno, lungamente accarezzato, che nell'animo di Loreta null'altro affetto regnasse più se non quello ch'egli le aveva offerto con tanta appassionata sincerità, svanivano insieme, in un punto solo.

E mentre col cuore in orgasmo e colle vene ardenti egli chiedevasi a quale partito dovesse appigliarsi; mentre un'impetuosa brama lo afferrava di rompere ogni dubbiezza e di erigersi a tutore vigile e severo del suo onore o minacciato o forse già offeso, egli pure non riusciva a difendersi da un dolore acutissimo nel pensare alla crudeltà degli eventi che ora lo trascinavano, dopo tanta illusione di pace, al più fiero combattimento, che anima umana potesse sopportare.

Poichè anche fra gli spasimi della gelosia, sotto l'impulso del risentimento, non cancellavansi dalla mente del professore tutte le ragioni d'affetto, che lo legavano per diversi fatti, ma con pari strettezza, a Loreta e ad Alvise.

Loreta era stata il buon genio della sua casa. Per qualunque volgere di eventi non poteva egli dimenticare quanto quella donna avesse saputo fare per rendere men dolorose le sofferenze, men triste l'ultimo periodo di vita, dell'adorata sua madre. In quegli istanti terribili di scoramento, di esasperazione, era costretto a pensare alle lunghe notti, durante quell'ultimo inverno sconsolato, vegliate insieme a Loreta, accanto al capezzale della povera vecchia inferma; era costretto a pensare al sorriso che la sofferente aveva sempre avuto, pur nelle ore più crudeli del suo male, per la vigile e infaticata custode; nè aveva dimenticato mai, mai, malgrado tutto, come la sua santa madre, poco prima di abbandonarlo per sempre, avesse accomunato in un solo abbraccio, lui, figlio devoto e rispettoso, e quella giovane buona, paziente, coraggiosa. Loreta da quel momento gli era divenuta sacra: il suo affetto per lei si era, purificandosi, fatto così forte ed intenso, che nulla avrebbe potuto distruggerlo mai più. E in quell'affetto era rinato: per esso aveva egli avuto una serie d'anni senza nubi, senza turbamenti, pieni di sole: anni rapidi, in cui la giovinezza pareva tornata, in cui le speranze parevan risorte, in cui la vita gli era sembrata ancora piena di allettative e di ebbrezze....

Ed Alvise? Se v'era persona al mondo a cui il Sant'Angelo sarebbe stato lieto di poter mostrare, anche col massimo sacrificio, la propria devozione, era quest'uomo, ultimo erede di un nome, ch'egli era stato abituato a benedire fin dai primi giorni dell'infanzia: il figlio del patriotta esemplare, del generoso amico, alla cui abnegazione egli doveva la vita, la salvezza, le cure dolci e indimenticate del padre suo. Il giorno, in cui l'aveva visto entrare, ospite inatteso nella sua casa, era stato per lui una grande gioia di fratello ricordevole ed amoroso. E quando ne' primi momenti del loro avvicinamento egli ebbe appreso dalle labbra di Alvise la storia triste della giovinezza di lui, trascorsa così priva di ogni gioia, in mezzo alle conseguenze dolorose lasciate nella famiglia desolata dalla tragica morte di Gottardo Polverari, aveva egli sentito non solo accrescersi quella riconoscenza alta e profonda, che i suoi vecchi gli avevano inspirata come un dovere sacrosanto, ma s'era trovato avvinto istintivamente, potentemente, da un nuovo sentimento di simpatia, di pietà, di amicizia per quell'uomo sventurato che pareva venuto a ricordargli, in tutta la sua generosa magnanimità, l'eroico sacrificio, pel quale gli era stato conservato suo padre.

In questa lotta penosissima, in cui egli temeva di veder ad un tratto annientate le sue forze intellettuali, il suo isolamento gli sembrò mille volte più pauroso. E subito la mente gli corse, con desiderio ardentissimo, al solo vero amico ch'egli avesse mai avuto: eguale sempre, nelle avversità e nel tempo felice: l'ottimo don Letterio Prandina. Come in un altro incontro decisivo della sua vita, a lui solo avrebbe potuto chiedere un consiglio ed un conforto: a lui, che pratico nella dura scienza dei dolori umani, possedeva tanta rettitudine di giudizio e tanta dolcezza di sentimenti.

Ed invero, laggiù tra le pareti ospitali di quella casa, in cui tutto spirava come un alito benefico di pace e tutto facea pensare all'esercizio costante di virtù pietose ed austere, egli trovò ancora una volta l'amico desiderato, pronto, indulgente: l'inestimabile amico dei giorni dolorosi. A lui egli aperse il suo cuore, provando la voluttà refrigerante di poter dire alfine, senza freno di timori o di vergogna, tutto ciò che s'era forzato a tener chiuso, sino a quel momento, ne' più intimi penetrali dell'anima. Tra le braccia di quell'amico egli potè trovare, dopo tanto tempo, il sollievo di piangere liberamente, non trattenuto più dall'umiliante pensiero che quelle lagrime potessero essere giudicate come segno d'animo debole e vile.

Da quel colloquio sortì riconfortato. La crisi violenta di dolore, che il vecchio amico, antivedendone il beneficio, aveva favorito colle sue parole amorevoli, gli era stata di un immenso sollievo. Quell'uomo onesto, che anche dinanzi alla cruda evidenza de' fatti forzavasi a scuotere le dubitanze altrui con l'ottimismo delle ipotesi inspirate sempre ad una serena indulgenza, era riescito, se non ad illuderlo ancora, certo a ricondurre il suo spirito ad una calma relativa. Venuto colà con una fiera indecisione tenzonante nel cervello, ne usciva con un piano prestabilito di condotta. Mentre da prima tutto gli era parso irrimediabilmente perduto, ora un bagliore fioco di speranza veniva a rompere ancora la tenebria luttuosa di cui si sentiva circondato. E forse quella sera, nelle parole dette a sua moglie al momento che stavano per lasciarsi: "Oggi è stato un giorno assai brutto. Domani.... Sarà meglio forse domani...." era un riflesso di quel sentimento, che l'amico suo buono gli aveva saputo infondere.

Durante il cammino da Tricesimo a Morò-Casabianca il Sant'Angelo aveva ripensato a tutte queste cose. Deciso ad uscire, come il suo amico gli aveva consigliato, recisamente, da una posizione insostenibile e falsa, che ogni ora trascorsa avrebbe reso più ardua e più grave, egli si sentiva compenetrato dall'idea che quanto aveva stabilito di fare stava nel suo diritto, ch'era in ciò la tutela sacra del suo onore, la difesa legittima della sua felicità; e ciò nullameno a tratti gli sembrava che le forze necessarie gli sarebbero mancate.

Aveva preso la strada fra i campi, lunghissima, per raggiungere l'ora in cui potesse presentarsi al palazzo senz'offesa de' voluti riguardi e senza dar ombra alla malignità, che certo vigilava, allarmata. E più volte s'era dovuto arrestare côlto da una repentina ambascia. A poca distanza da Morò-Casabianca, mentr'egli già discerneva tra il verde del bosco, di là dalla linea gialla del Cormor, il profilo bizzarro dell'antica fabbrica colle due torri tozze emergenti sul caseggiato, una cantilena che usciva da un casolare solitario, intonata da una voce muliebre in cadenza col battito secco della spola d'un telaio da tessere, lo colpì nel cuore, con una trafittura acuta. La tessitrice invisibile cantava lentamente, con profonda tristezza, la vecchia villotta paesana che gli era notissima:

Oh! denant di maridassi

Nome rosis, nome flors,

E po dopo maridadis

Nome spinis e dolors.

Egli ricordò. Ricordò le parole che quella stessa canzone gli aveva inspirate una notte non lontana, sulla strada di Nimis, quand'egli credulo, felice, sicuro, piegavasi all'orecchio della sua Loreta, appassionato come un amante, mormorandole un complimento che era una carezza, una benedizione, l'espressione fervidissima della riconoscenza ch'egli le doveva per la propria felicità invidiabile ed invidiata: "Questa canzone?... Ebbene?.... chi meglio di noi può affermare ch'essa è bugiarda!"

E adesso?...

Pochi minuti di poi il fattore Beppo, accoltolo con la sua solita festosità cordialona, lo conduceva al conte Alvise.

--Nella sala dei quadri....--aveva detto il vecchio fattore con quella specie di orgoglio, che la rinomanza del palazzo affidato alle sue cure giustificava,--è sempre lì: ci si trova tanto bene!

Alvise era infatti nella sala dei quadri e quando Mattia Sant'Angelo entrò stava ordinando alcune carte sulla scrivania posta presso uno de' grandi veroni, dov'era il busto marmoreo di Sebastiano Morò.

Il professore ristette con un involontario atto di titubanza presso alla soglia. Ma il conte subito sorse in piedi e gli mosse incontro.

Benchè Alvise nel compiere quest'atto cortese non avesse tradito il menomo imbarazzo, tuttavia non isfuggì al Sant'Angelo il pallore straordinario del suo viso e l'aggrottamento subitaneo della sua fronte quand'egli entrò nella camera.

--Professore, lei! È una lieta sorpresa!

--L'ora è poco dicevole.... mi deve perdonare.

--Che dice, professore! Non permetto ch'Ella dica queste cose. Venga piuttosto qui e segga accanto a me.

--La ringrazio.

Sedettero. E per un momento rimasero tutti e due silenziosi, subendo un penoso imbarazzo, quasi nella prescienza che quell'incontro, improntato sulle prime di così scambievole cordialità, dovesse tramutarsi in una spiegazione per entrambi difficile e dolorosa.

--Signor conte,--disse pel primo il professore,--Ella deve essere sorpreso di vedermi qui a quest'ora, senz'un annuncio, senza nulla che potesse farmi attendere.

--Mi è sempre grato il vederla, professore. Tuttavia....

--Tuttavia Ella comprende che dev'essere un grave motivo che mi conduce qui?

--Un motivo grave?

--Sì, conte. E se non glielo avesse detto l'ora insolita.... Ella, che è esperto degli uomini e della vita, l'avrebbe dovuto leggere in quel turbamento, che io so di non riuscire, a malgrado di tutti i miei propositi, a dissimulare in questo momento.

--Non comprendo, professore.

--È strano!--esclamò Mattia amaramente.--Speravo mi potesse essere risparmiato il dolore di una spiegazione.

--Una spiegazione?

--Sì. Poichè non è possibile che Ella, conte, non mi intenda. Un suo sforzo di generosità, ora, sarebbe vano. Non servirebbe ad ingannare nessuno.

--Ma io ripeto, professore, che non la intendo. Tanto meno la intendo adesso, dopo queste parole.

La voce di lui, dicendo così, era leggermente alterata dall'emozione, ch'egli studiavasi di dominare.

--Mi comprenderà subito,--disse allora Mattia con una certa risolutezza.--A lei, legga!

E tratta dalla tasca interna dell'abito una carta, la porse al conte.

Questi la prese, la spiegò, lesse. Era il foglio di carta grossolana, trovato due notti innanzi legato al collare del Terranova ferito: la denuncia anonima, scritta con velenosa acrimonia contro Loreta Sant'Angelo ed Alvise Polverari.

--Ebbene?--mormorò il professore quando l'altro ebbe finito di leggere.

--Oh!--esclamò il conte sgualcendo con indignazione il foglio,--una infame vigliaccheria!

--Sì, l'ho detto anch'io: una vigliaccheria di persona nemica, una bassa vendetta suggerita certo da vecchi rancori.... Ma che importa! Non è per giudicare questo atto codardo che io sono qui....

--Ed allora?--chiese Alvise lentamente, levando lo sguardo interrogatore in volto al Sant'Angelo.

Questi ebbe un momento di esitanza. Poi riprese subito:

--Allora.... È per fare innanzi tutto appello a quel sentimento, col quale io ho salutato la sua presenza in casa mia come quella di un fratello. Poi.... È per dirle, conte, con aperta schiettezza, quale battaglia si vada combattendo dentro di me.... Se un giorno un sospetto aveva potuto farsi strada nel mio cuore, ho combattuto con ogni mia forza per cacciarlo, per farlo tacere.... È venuto questo foglio maledetto.... Non fui più padrone di me: non si ragiona più quando ci par di veder crollare in un punto solo tutti i nostri affetti, tutti gli ideali nostri più cari. Mi vedevo colpito in quello di più sacro che io avevo al mondo: Loreta, la compagna adorata e stimata: Ella, conte Alvise, l'uomo a cui mi legano tante memorie incancellabili di gratitudine e di reverenza! Se avessi potuto darle il mio sangue, i miei beni, la vita, sarei stato pronto: sarebbero stati nulla di fronte a quello che i Polverari hanno fatto per la famiglia mia.... Ma il mio onore, l'aspirazione gelosa di tutta la mia esistenza!... Comprende ora ciò che deve essersi agitato in me dopo la lettura di quella lettera infame? Comprende la necessità alla quale obbedisco nel chiedere alla sua fede di gentiluomo una franca dichiarazione, alla sua lealtà di amico una parola sincera, che metta in fuga i miei dubbî e mi torni alla mia pace?...

Mentr'egli parlava ognor più concitato, con l'irruenza d'un'emozione crescente, Alvise Polverari sentiva farsi sempre più forte nel suo interiore quello sgomento strano che non l'aveva più abbandonato dall'istante in cui Loreta, lasciandolo la sera innanzi, gli aveva mormorato con tanto sentimento quella frase supplice e così eloquente: "Ed ora, Alvise, siate forte ed abbiate pietà di me!"

Il male, ch'egli aveva fatto con la sua comparsa in quella casa onorata e felice, gli appariva chiaro alla vista: la debolezza, cui aveva ceduto e nella quale aveva trascinato pure quella donna, sedotta dall'irresistibile miraggio del passato, gli risorgeva ora al pensiero come un'ignobile colpa: la parola seria e cordiale dell'uomo semplice ed onesto, che veniva a lui con tanta nobiltà di espansione a difendere il proprio onore ed a tutelare la propria felicità e che, mentre avrebbe avuto il diritto di erigersi a giudice implacabile, non sapeva rinunciare ancora ad un estremo raggio di fede, al culto delle sue memorie custodite come un pio retaggio nella sua anima intemerata--la parola di quell'uomo generoso gli era penetrata nel cuore, acuta come il più duro dei rimproveri, dolce come la più commovente delle preghiere.

Nell'ora del delirio, in cui non aveva saputo più nulla, non aveva ascoltato più nulla, tranne la voce irragionevole dell'istinto reclamante con fiero grido l'esaltamento supremo dell'amore lungamente frenato, lungamente deluso, s'era egli lasciato già sfuggire, alla povera donna languente sotto il fascino della sua parola infocata, la promessa ch'egli sarebbe partito, che l'avrebbe ridonata alla sua pace, che non avrebbe attentato più alla tranquillità in cui ella erasi conseguito il diritto di continuare e fornire la sua travagliosa esistenza.

Sarebbe stato questo un sacrificio immenso: la rinuncia a tutto: il distacco definitivo dalla parte migliore della sua vita.

Ma se un'esitanza fino a quell'ora era rimasta in lui; se, pensando al bene ch'egli perdeva, ancora s'era affaticato a ricercare morbosamente con tutte le sottigliezze del suo spirito, il modo di eludere la voce che l'ammoniva a non volere il male di quella donna da lui così fortemente amata, ora, dinanzi al nobile contegno, alla commovente bontà del Sant'Angelo si sentiva sopraffatto, novellamente, come da una chiara perfetta nozione di ciò che ormai era il suo dovere impreteribile, d'uomo di cuore e di gentiluomo.

Nel suo pensiero la decisione di quello che avrebbe fatto s'era determinata nettamente; si sentiva sicuro di sè, obbediente ad un impulso interamente sincero.

Tuttavia, benchè forte di questa coscienza, Alvise cercò invano di darne manifestazione concreta con una esplicita risposta al Sant'Angelo.

Ma il professore dopo una breve pausa rinnovò con voce molto commossa la sua domanda:

--Ebbene, conte Alvise, ebbene?

--Ebbene, professore.... Quando poco fa ho letto quelle brevi linee, che non so chi--un'anima certo malvagia--le ha diretto, non ho saputo qualificarle altrimenti che come una sozza vigliaccheria. Dopo quanto mi ha Ella detto adesso io non saprei più trovare una parola atta a qualificare cotesta azione bassa ed infame. Ed ora, di fronte ad un simile atto codardo dovrei scendere ad una giustificazione! No. Ella non può domandarmelo ed io non lo farei. Questo solo le dico: che Ella si renda conto del vero, dai fatti.... Fra poco, domani ancora, io partirò: vissuto appena poche ore in un luogo, dove mi parve di aver trovato tanto sorriso di amicizia e di simpatia, me ne allontano, come vuole la mia sorte, non ancor paga di cospirare contro di me.... Andrò lunge ad aspettare la fine di questa miserabile mia vita.... Non sarà lontana, per fortuna: lo sento e vi sono preparato.... Ma così.... che cosa potrei io più farle di male? di quali timori potrei io esserle ancora la causa?...

Il Polverari aveva detto questo con una grande tristezza, forzandosi ad infondere alle sue parole, pur pronunciate con palese pena, quell'accento di sincerità che induce ed afferma in altri la fede.

Il Sant'Angelo fu scosso dalla risposta, ma l'animo suo non ne restò persuaso.

--Ella partirà?--domandò vivamente.

--Partirò, l'ho detto.

--Partirà.... per riguardo a quello che si è parlato oggi fra noi?

--Anche per quello.

--E sta bene. Non mi dovevo attendere meno dalla sua onestà. Peraltro ancora una domanda io debbo farle, per la mia pace, per il mio bene.... Conte, può Ella giurarmi che tra lei e Loreta non ci fu nulla nel passato?

--Non è una domanda generosa ch'Ella mi fa ora.... Credevo che il mio contegno gliene avesse tolto il diritto.

--Sarà vero. Ma io debbo sapere: tutto sarebbe più atroce di questo dubbio.... Mi può Ella affermare sul nome che ci è parimenti sacro.... sul nome di suo padre.... che non c'è stato nulla nel passato fra Loreta e lei?

--Sul nome di mio padre?

Ne' lineamenti di lui era l'espressione di una tremenda battaglia: colle mani nervose egli si stringeva il petto che gli balzava ansimante: smarrito, egli aveva levato in alto gli occhi lucenti come per chiedere un'ispirazione che venisse a sorreggerlo in quell'arduo momento.

Finalmente obbedendo ad una incoercibile esortazione della sua anima, scossa ogni riluttanza, con un'alterezza energica che gli brillava nelle pupille, egli lasciò prorompere la risposta, che l'altro ansiosamente attendeva, pendente dalle sue labbra:

--Ebbene, sì, è vero.... È vero! Io ho creduto che questo ricordo, morto ormai nel passato, le fosse noto; ho creduto che la sua generosità l'avesse obbliato per sempre.... Poichè così non è, è meglio confessarlo.... Al punto in cui oggi noi siamo tutto potrebbe rendere, nella nostra vita, nella nostra pace, nelle nostre memorie, più gravi quelle conseguenze, che coraggiosamente e onestamente dobbiamo forzarci ad evitare.... È vero! Ci siamo incontrati nella giovinezza, ci siamo amati coll'entusiamo di chi ha vent'anni, e non sa, e sfida la contrarietà della sorte. Poi....

--Poi?

--Fummo divisi. Il destino, avverso al nostro amore, ci volle separati per sempre.... Passarono gli anni: non ci siamo rivisti mai più: di quell'antico sogno non restava che una traccia dolorosa nel nostro pensiero, come la memoria di una illusione svanita.... Ciò che avvenne di me, Ella lo sa. Loreta.... Se ebbe, per causa mia, un'ora cattiva nella sua giovinezza, ella seppe riconquistarsi il diritto alla felicità.... Fu sua sposa, fu amata, lo meritava.... Questo è tutto. Ora....

--Ora?--domandò il professore lentamente, con una grande severità di accento come avesse voluto raccogliere in quell'unica parola tutto ciò che in quell'istante si agitava nel suo cuore.

Alvise comprese; e s'arrestò titubante.

Per quanto gli ripugnasse di dover mentire, ne sentiva adesso la inoppugnabile necessità. Non era una colpa il farlo, nè una bassezza. La stessa memoria del padre suo, che l'altro aveva invocata, non ne avrebbe patito offesa.

Egli si posò la palma sul petto e fissando in volto il Sant'Angelo, senza esitanze:

--Ora,--egli disse,--se il caso ha voluto ricondurci uno di fronte all'altra, se anche per un solo momento s'è potuta risvegliare in me la voce del passato.... Loreta non ha rimprovero a farsi.... veruno!... Quello che oggi sia il mio dovere lo so ed avrò la forza di compierlo. Questo le giuro, professore, per i ricordi che uniscono le famiglie nostre; come le giuro che nulla mai sarà da me fatto per attentare alla sua felicità.... Me lo crede?

Il professore lo guardò intensamente.

--Sì, glielo credo!--esclamò poi subito.--Guai se in questo momento non avessi una tal fede!

Il conte, pallidissimo, affranto dalla violenza delle emozioni sostenute, gli tese la mano, quasi richiedendo una conferma di queste parole.

Il Sant'Angelo allora, sinceramente la prese e la strinse.

Ma Alvise Polverari al tocco di quella mano leale, che s'abbandonava alla sua senza sospetti, come in una attestazione fiduciosa di amicizia, provò un cordoglio profondo, di cui sentiva che non avrebbe potuto liberarsi mai più.


XIX.

Benchè in preda egli stesso ad un'ansietà fortissima, che gli aveva fatto sembrare interminabile la strada fra Morò-Casabianca e Tricesimo, Mattia Sant'Angelo rimase colpito allo scorgere l'aspetto turbatissimo di sua moglie nel momento in cui egli fu di ritorno a casa. Immune d'ogni femminea fatuità, ma scrupolosa per gentile abitudine nelle cure della persona, Loreta non aveva a quell'ora già avanzata smesso peranco la veste da mattina. La folta capigliatura bruna, che le scendeva ancora in disordine intorno alla fronte, facendone risaltare la grande pallidezza, completava il suo aspetto di sofferenza e di sfinimento.

Per un istante stettero uno di fronte all'altra senza parlare, fissandosi con intensità, come avessero voluto scambievolmente leggersi nel cuore.

Loreta alla fine, pensando che quella tortura dovesse pure aver un termine, mosse alcuni passi verso il marito e con voce, strozzata quasi da un singulto, lo interpellò vivamente:

--E dunque, Mattia.... e dunque?

Durante un momento il professore parve indeciso dinanzi all'impeto inatteso di quella domanda. Ma il tono con cui Loreta aveva parlato e l'atteggiamento ch'ella aveva assunto, ora, al cospetto di lui, gli fecero comprendere la inutilità di perdurare nella finzione, che fino a quell'ora si erano imposti. Il sentimento della loro reciproca posizione era ormai ad entrambi chiarissimo. Ciò che le loro labbra avevano ostinatamente rifiutato di dire, s'era svelato adesso al loro sguardo in un attimo solo.

Loreta, la quale nell'ambascia dell'attendere s'era già rassegnata a sostenere, senza difendersi, come doveva, per debito naturale di espiazione, lo scoppio della giusta ira del Sant'Angelo, rinnovò la sua domanda, subito, quasi fremente nell'impazienza di quell'istante solenne.

--E dunque, Mattia, e dunque?...

Un tremito passò fugacemente sulla bocca del professore. Poi, lasciandosi cadere, affaticato, sur una seggiola, mentre Loreta, ritta dinanzi a lui attendeva, nel mezzo della camera, colle mani serrate contro il petto:

--E dunque....--cominciò.--Che cosa debbo dirti che tu non sappia, che tu non abbia già indovinato? Senti, Loreta: quel che io ho sofferto non lo potrei dire: se lo dicessi, ogni parola sarebbe inferiore al vero. Tu sai ciò che sei stata per me; quando io avevo creduto finita la mia esistenza, tu mi hai redento alla felicità: ti ho adorata! Lo sai, lo hai visto giorno per giorno, ora per ora, dacchè sei qui nella mia casa, arbitra del mio cuore. Prima che io mi fossi risolto a offrirti il mio nome sai anche quali scrupoli mi hanno tormentato: avevo coscienza di ciò che io ero, avevo paura di vederti un giorno pentita di quello che allora accondiscendevi di fare forse per pietà, forse perchè ti aveva commosso la sincerità del mio affetto. Tuttavia mi sono illuso: con gli anni che passavano, felici, vedevo farsi sempre meno minaccioso il pericolo che io avevo sognato: credetti infine mia, conquistata per sempre, la tua affezione. Così.... non doveva essere! Quel passato, che per me non esisteva, che io non avevo voluto conoscere, che credevo morto per sempre, è tornato....

--Tu.... ora sai?--ella chiese lentamente.

--So.

Loreta si portò le mani al volto con uno scroscio di pianto dirottissimo. Indi appassionatamente proruppe:

--Mattia, perchè hai tu voluto essere così generoso allora con me!... No, non meritavo io, miserabile creatura, la bontà che tu avesti. Non dovevo accettare il tuo beneficio; dovevo ricordare quello che era stato; dovevo temere quello che poteva avvenire. Non ho potuto, non ho saputo, fui sopraffatta dalla tua bontà.... Eppure quel giorno in cui tu mi hai offerto il tuo nome, così nobilmente, ti ricordi?... io volevo che tu sapessi, volevo dire a te pure ciò che in un'ora di confidenza non avevo arrossito di confessare a tua madre.... alla donna santa e buona, che mi aveva amato e compatito.... Non volesti.... non volesti.... Adesso....

Egli levò gli occhi in alto, serenamente, poi quasi calmo:

--Adesso,--egli disse interrompendola,--come in quel giorno la parola di mia madre mi è sacra.... Se una colpa c'è stata nel passato lontano, una colpa che l'inesperienza, la giovinezza e la fatalità dei casi hanno preparato, hai saputo farla obbliare.... Mia madre, nella rettitudine della sua anima, ha riconosciuto che quella colpa l'avevi cancellata.... ti ha dato il suo affetto materno.... ti ha stimata degna d'essere la sua continuatrice nella nostra casa....

Loreta, a mano a mano che il Sant'Angelo parlava, acuiva sopra di lui il suo sguardo interrogatore, percossa, côlta da una nuova fierissima perplessità.

Egli si arrestò per un breve momento, poi passandosi la destra rapidamente sul largo fronte imperlato di sudore:

--Oggi...--soggiunse,--nulla da allora è mutato.

--Nulla, tu dici.... nulla?

--Sì. Poichè se oggi per onesta confessione di un uomo, incapace di mentire dinanzi all'appello dell'onore e dell'amicizia, io so quello che fino ad ora era rimasto un segreto fra te e la povera mia madre: quello che io avevo indovinato e presentito, che importa!... È il passato remoto, che l'obblio ha sepolto, che mia madre ha cancellato per sempre col suo perdono, tu colle tue virtù.... Che m'importa di questo passato, se so che il presente è mio ancora, se è mia.... soltanto mia.... la tua fede!...

Ella a queste parole si sentì venir meno. Ma dunque s'era ella ingannata ancora una volta, quando aveva creduto che a Mattia fosse nota per intero la gravità del suo peccato? Era possibile ancora un'illusione? Non aveva egli dunque intuito peranco nel suo volto, nel suo smarrimento, nella sua angoscia, tutta l'orribile verità di quello che era stato?

Terrorizzata da questo pensiero, incapace di articolare parola, aveva abbassato lo sguardo, sentendo un'onda di fuoco che le saliva al viso.

Per un momento ella stette per tradirsi. Dall'anima sua, martoriata già troppo, stava per erompere la parola del vero. Vacillante, estenuata, tendendo le mani supplici verso quell'uomo, ch'ella non doveva lasciar più a lungo nell'inganno, cadde in ginocchio innanzi a lui.

--Mattia, Mattia!

Il professore, con le guance bagnate di lagrime, la sostenne, la rialzò.

--Loreta, è stata per noi una brutta ora! Essa è trascorsa. Nulla deve farla più rammentare. Bisogna che sia così. Se non avessi creduto che ciò possa essere, avrei preferito morire....

Ella si scosse, con un brivido sinistro, stringendosi in un atto istintivo contro il petto di Mattia.

Un lungo silenzio corse.

Quindi egli, come se in quell'intervallo avesse ritrovata tutta la sua energia:

--Non piangere più,--riprese con l'accento ridivenuto mitissimo.--La nostra vita potrà essere bella ancora. Coloro che mi vogliono male non avranno raggiunto nemmen questa volta il loro scopo. Sì, Loreta, io dovevo sapere che qualunque cosa ti avesse parlato nell'anima del passato, tu non avresti potuto dimenticare quello che sei, la promessa che tu mi hai dato.... il nome che porti....

E dopo una breve pausa, durante la quale sentì Loreta abbandonarsi più gravemente sul suo petto:

--Alvise....--egli soggiunse, interrompendosi con una esitanza improvvisa.

Ella levò il capo, vivamente.

--Alvise?...--domandò come esortandolo a continuare.

--È onesto. Comprese quale sia il suo dovere. Partirà.

Loreta non rispose, le sue labbra si agitarono per un istante senza che ne escisse una voce. Poi ella chiuse gli occhi, stringendosi con forza alle braccia di Mattia.

Il Sant'Angelo la sostenne e l'adagiò con soave premura in un seggiolone, ch'era lì presso. Poi non ascoltando più che un sentimento di pietà dinanzi a quella crisi, che gli appariva naturale dopo le tante emozioni per le quali Loreta era passata, egli si curvò affettuosamente su lei, in atto di accarezzarle i capelli.

Ma d'improvviso s'arrestò. Dagli occhi affossati di Loreta continuava a scendere, sulle sue guance mortalmente pallide, un lento e copioso pianto. E quando una di quelle lagrime gli cadde ardente sulla mano un torbido lampo gli attraversò il pensiero, facendogli risorgere più tormentoso il dubbio crudele, che s'era affidato non dovesse tornargli mai più. L'amore, ch'egli aveva creduto morto nel cuore di Loreta durava dunque ancora? Ed eran forse quelle lagrime per l'amore remoto, per l'amore della giovinezza, trionfante ancora?...

Ritto in faccia a lei, come assorto in un rapimento morboso, egli attese. Furon forse pochi minuti e parvero a Mattia un tempo infinito. Ella finalmente parve riaversi, si riscosse e fe' l'atto di correre a lui.

--Oh! Mattia, Mattia.... Non ho sognato? È vero quello che tu mi hai detto? che mi vuoi bene ancora, che mi credi degna di te?...

Eravi in queste sue domande febbrili, concitate, tanta effusione e tanta ansietà, che Mattia ne ebbe una dolce scossa in tutte le sue fibre.

Egli le schiuse le braccia, desiderando di credere, anelante di liberarsi dalla maledetta visione di poco prima.

--Mattia,--ella gli disse allora, abbandonata la faccia sull'omero di lui, con un accento vibrante di passione,--che cosa farei, Mattia, per poterti dare la felicità.... la più grande felicità!...

--Amami,--egli rispose.--E dimentica. Così saremo felici.... ancora.

Fu questa la spiegazione tra Loreta e il Sant'Angelo.

Ma nè l'uno nè l'altra ne uscirono coll'animo tranquillato.

Mattia, che in tutto quello che aveva detto era stato inspirato da una sincerità profonda, forzavasi invano a cacciare il pensiero sôrto a turbare l'illusione confortatrice, alla quale egli si era per un momento abbandonato. Loreta, dinanzi al contegno di quell'uomo buono, che illudevasi ancora, che ancora la riteneva degna del suo amore e della sua stima, sentivasi presa da un fiero disdegno contro sè stessa: era un inganno vile, era una usurpazione codarda di cui ella rendevasi ora colpevole; e si rimproverava la mancanza del coraggio per dire tutto, per confessare il suo fallo ed affrontarne tutte le conseguenze.

Ma indarno ella faceva appello disperatamente alla propria energia. Ad ogni ora che passava cresceva l'abbattimento in cui era caduta. E i fatti della vita domestica, che avevano già ripreso intorno a lei la loro abituale uniformità, lunge dall'arrecarle il più lieve sentimento di calma, non faceano che inasprire con implacabile insistenza il dolore inguaribile dell'anima sua.

Con Alvise non s'eran rivisti più. Fedele alla promessa fatta e conscio pienamente dell'obbligo suo di agire così, per quanto questo dovesse costargli, egli era partito. Solo, a supremo suo conforto, aveva egli fatto recapitare collo stesso mezzo sicuro, ch'egli aveva adoperato due o tre volte ne' giorni precedenti, un breve biglietto a Loreta. Poche linee soltanto: scritte con studiata concisione e tali da non portare compromissione soverchia se per caso fossero cadute sott'occhio d'altra persona, ma eloquentissime nella loro voluta semplicità. Era un addio risoluto: una supplicazione toccante perchè ella serbasse di lui, che andava lontano, ad una meta ignota, per non tornare mai più, una non ingrata ed indulgente memoria.

Loreta nel leggere questo foglio aveva pianto a lungo. Nè valse ad arrestare quelle lagrime, sgorganti con voluttà intensa dal suo cuore, il pensiero ch'esse erano una nuova offesa a quei doveri che suo malgrado era stata trascinata a calpestare così gravemente.

A celare quest'angoscia senza requie, ella impiegava ogni sforzo. Ma se la sua parola, penosamente cercata, poteva indurre in inganno, il suo aspetto la tradiva. Una tinta livida si stendeva ne' suoi lineamenti: nelle fonde pupille brune permaneva l'intensità di sguardo propria agli allucinati: nelle sue mani pallide erano dei rapidi sussulti, che le contraevano spasmodicamente.

Mattia vedeva. Nella vigilante attenzione, ond'egli con l'animo sospettoso, circondava ora sua moglie, tutto ciò che ella tentava di nascondergli, appariva con evidenza più allarmante dinanzi al suo pensiero. L'odiosa ipotesi, che gli era balenata nello scorgere l'abbattimento di Loreta quand'egli le ebbe appreso la partenza del Polverari, era ora sovrana del suo spirito. Egli sentiva ormai incrollabile la certezza che quell'amore, non ispento mai, rinato violentemente, avrebbe creato fra lui e sua moglie un vuoto ed una freddezza, che nulla avrebbe potuto più far sparire. Alvise Polverari, lontano, lontano per sempre, sarebbe stato pure presente ognora in mezzo ad essi, involontario distruggitore della loro felicità.... Era questo il decreto del destino: ed era inutile contro di esso ogni lotta ed ogni ribellione.

Così un incubo penoso regnava ora diuturnamente nella casa. Sparite le antiche consuetudini, rallentato ogni rapporto confidenziale, pareva che un soffio sinistro di sventura avesse recato in tutta la casa, prima così patriarcalmente quieta, un malurioso senso di mestizia.

Mattia Sant'Angelo nel breve giro di venti giorni parea invecchiato di dieci anni. Silenzioso, fiacco, trasandato nella persona, passava lunghe ore nella campagna, senza leggere, senza far nulla, cogli occhi persi nella lontananza. Nello studio entrava di raro, per pochi minuti, lasciando intatti i libri nuovi, i giornali, le lettere, che giungevano ogni mattina. La vecchia Vige, avvezza alle abitudini regolarissime della casa, la quale (per dir la sua frase) soleva "andare come un orologio", giudicava che ben gravi dovessero essere le ragioni se tutto in poco d'ora s'era così stranamente mutato.

Della prostrazione in cui il Sant'Angelo trovavasi Loreta aveva piena consapevolezza. E comprendendo come quella gagliarda fibra d'uomo si veniva stremando sotto il peso delle sue acerbe preoccupazioni, minato nella salute, scoraggito nel lavoro, sentiva levarsi sempre più severa la voce di rimprovero, da cui era senza posa incalzata.

In tal modo cominciò per lei una vita di torture incessanti, che s'inasprivano spietatamente, di continuo, talvolta per una sola parola, talvolta per qualche semplicissimo fatto, a cui ella, nella perenne trepidazione della sua mente, attribuiva i più desolanti significati.

Così fu per lei un'indicibile sofferenza un dialogo, cui ella dovette assistere un giorno, fra suo marito e il loro vecchio amico, il conte Leonardo Mangilli. L'ottimo conte orso, il quale coll'andare degli anni diventava sempre meno socievole, tanto che ora pareva un miracolo se mai si decideva a lasciare anche per poco il suo delizioso romitorio di Collalto, aveva fatto sempre un'eccezione a' suoi usi per la famiglia Sant'Angelo. Veniva di raro, ma cordialmente, come ad una festa. Egli, che l'avea sempre con tutto il mondo giudicandolo composto pressochè interamente di birbe e di matti, continuava la sua antica stima al Sant'Angelo, di cui aveva apprezzato in ogni istante le rare doti dell'intelligenza e del cuore. Ruvido nelle forme, questo suo sentimento l'aveva affermato cento volte. E vi si appellava anche quel giorno, volendo spiegare la ragione della sua visita.

Ma la ragione citata non era la vera, o forse, per dire più esattamente, non era la sola.

Delle dicerie che correvano pel paese l'eco era giunta fino al romitorio di Collalto: si parlava vagamente di gravi dispiaceri domestici in casa Sant'Angelo, si narrava di una forte scossa nella salute del professore, soggiungendosi anche ch'egli non potesse più reggere a fatiche della mente, così che aveva pur dato rinuncia a varî ufficî pubblici, da lui per tanti anni tenuti nel paese con appassionata operosità.

Il conte Nardin, che ricordava il passato, la parte da lui avuta nel matrimonio del Sant'Angelo e tutte le sorde inimicizie di cui quest'ultimo era pur sempre l'oggetto, volle persuadersi subito di quanto fosse avvenuto.

Gli bastò un momento per comprendere il vero. Trovò il Sant'Angelo tristissimo, abbattuto, ammalato. Nè valsero a fargli mutare avviso le proteste di lui, debolissime del resto e punto convincenti.

--Sì, è inutile celarlo: a voi sopratutto, conte, che mi siete stato sempre amico vero. Non sto bene: non so neppur io che cosa abbia avuto, ma mi è parso come se ad un tratto le mie forze avessero subìto una grande depressione. Sarà il lavoro (egli soggiunse forzando un sorriso) sarà anche l'età che viene.... Non può essere altro.... null'altro, conte.

IL Sant'Angelo aveva procurato di dare a queste parole un'intonazione di naturalezza. Ma non isfuggì al Mangilli lo sguardo significativo ch'egli, nel profferirle aveva rivolto a Loreta, taciturna e smorta, nella sua seggiola, presso il vano di una finestra.

Poi confermò le rinunce mandate ed accennò al bisogno imperioso ch'egli sentiva di una quiete assoluta.

--Non ho che un rammarico solo: quello di non poter attendere a' miei studi. La mia opera sulle inscrizioni lapidarie della provincia sarebbe riuscita.... assai bene....

Il conte, con uno scatto d'impazienza, non si tenne dal lasciarsi scappare a questo punto una molto energica esclamazione dialettale di protesta; poi, pentendosi della parola detta:

--Andiamo dunque,--continuò,--me ne fareste scappare di più grosse ancora! Ma che diamine dite! Ma che specie di ubbie vi siete cacciato nella testa!...

--Ubbie!--disse il Sant'Angelo cercando di sorridere ancora una volta--sì, sì, può anche essere. Voglia Dio che sia così...

Il conte Nardin tornò quella sera a casa di pessimo umore; e quando nel passare per la piazza di Tricesimo, intravvide, di là dai vetri annebbiati del Caffè della posta, la solita compagnia di giuocatori, in mezzo alla quale la figura tarchiata di don Morganti emergeva, egli sentì un desiderio matto di scendere là dentro e di rompere almeno ad un di quei degni messeri il manico della sua frusta sul viso.

Poi, quando si trovò solo, nella sua grande casa, dove nessuno l'attendeva, dove avrebbe finito nella solitudine la sua vita, egli pensò alla ragione che aveva avuto di guardarsi sempre dagli affetti: quindi ebbe quasi un sentimento di rimorso pensando che l'unica volta in cui solamente per pochi momenti s'era lasciato smuovere da questa sua antica convinzione, era stato per il matrimonio del suo amico con Loreta Lambertenghi.


XX.

L'autunno era giunto con una grande malinconia di giornate nebbiose. Dalle feste d'Ognissanti una fredda pioggerella cadeva senza tregua. Durante le sere, già divenute lunghissime, si principiava a sentire il desiderio delle belle fiammate invernali. Una mattina, dopo una nottata tempestosa in cui il vento aveva infuriato con molta veemenza, le vette dentellate della Carnia erano apparse, lontano, bianche della prima neve.

In questa profonda tristezza delle cose, l'angoscia che stringeva in aspro modo l'animo di Loreta, facevasi continuamente più fiera. Ormai ella non viveva più: la sua esistenza si era mutata in un supplizio di tutte le ore: nessun conforto che la sorreggesse, anzi ogni cosa cospirante a farle sentire più squallido il vuoto che si era formato intorno a lei.

Spinta da un'amara voluttà ella era costretta a riepilogare senza riposo nell'agitato suo spirito la compassionevole storia della sua vita. E in quel confuso risvegliarsi delle sensazioni passate il pensiero indugiavasi più a lungo e dolorosamente a qualche speciale e più forte ricordo; come in un sogno ella rivedeva i verdi viali, pieni di pace e di mistero, della villa d'Arsizzo: la figura dolce di Bianca Polverari, ancor lì, bella, buona, colla parola dell'illusione sulle labbra pallide: le sale cupe del vecchio palazzo di Verona: il profilo dolente e severo di donna Laura, come le era apparso l'ultima volta: poi il tipo sereno di Chiara Sant'Angelo, che logorata dal male le sorrideva ancora, indulgendo a tutti i suoi falli, raccomandandole di essere lei la custode degli affetti nella casa ch'ella doveva abbandonare.

Quindi, dileguate queste larve, tornava inesorabile il pensiero della sua ingratitudine, della sua debolezza, della menzogna, con cui ella ancora macchiavasi, momento per momento, senza rossore, di fronte all'uomo clemente, che con un raro esempio di bontà aveva tuttavia per lei la parola del perdono ed era condannato in causa sua a perdere per sempre la sua felicità così a lungo agognata.

In questi momenti il male, ch'ella faceva, le appariva senza confini. Ella comprendeva ciò che il Sant'Angelo doveva soffrire. Sentiva come su di lei unicamente ricadesse la colpa se quella nobile ed utile vita s'era piegata così fiaccamente. E nelle sue veglie prolungate, sovvenendosi di certe frasi côlte sulle labbra di suo marito, uno snervante sgomento s'impadroniva di lei. "Se non avessi creduto che ciò possa essere--aveva egli detto parlando della sua fiducia nell'obblio di ogni fatto trascorso--avrei preferito morire!" E ripetendosi questa frase, ancora una larva sinistra le appariva, lugubremente, così come le era apparsa una volta sotto la impressione funerea delle parole di una povera vecchia visionaria: l'immagine di Sebastiano Morò, il gentiluomo morto laggiù, tragicamente, pel suo amore tradito e pel suo onore offeso....

Ma dunque doveva ella proprio concambiare i beneficî ricevuti, con la rovina finale di tutto in quella casa, con la distruzione d'ogni letizia, e forse con la morte?

No, no, sarebbe stato troppo. Gli innocenti non dovevano portare le conseguenze del peccato altrui. Era lei la colpevole, era lei su cui pesava la responsabilità di tutto: doveva essere lei pure la vittima: nessun altro, assolutamente.

E nella mestizia opprimente di quelle notti già rigide, mentre per la campagna scrosciavano le piogge diluviali e incombeva un silenzio greve sulla casa, l'idea sinistra di finire, di finire per sempre, risolutamente, la sua vita disgraziata, le s'imponeva ognor più vittoriosa. Succedeva nell'animo di lei lo stesso lavorìo lento, invadente, dell'idea disperata e fatale, che le era nata, un'altra volta in un giorno della giovinezza, là nella sua povera stanza in un villaggio alpestre, quando aveva visto estinguersi l'ultimo raggio di fede, che ancora la sosteneva.... Continuare a vivere così, con un amore colpevole non ispento peranco nel segreto dell'anima, tradendo giorno per giorno la fiducia dell'uomo cui doveva la sua riabilitazione, il nome rispettato, l'onore.... no, non doveva: sarebbe stato turpe e vile. Finire, era meglio, era il suo dovere. Poi, una volta sparita, sarebbe venuto l'obblìo, il perdono. Si perdona sempre a chi sa scontare con animo forte il proprio peccato. Lei, voleva, era decisa, era convinta che altro più non le restava a fare. Il torbido proposito s'era così radicato profondamente nel suo pensiero, cancellandovi ogni altra idea, infondendo in lei quasi un benefico sentimento di calma. E fu allora ch'ella pensò all'ultimo dovere che le rimaneva da compiere: quello di far conoscere all'uomo, ch'era stato il compagno fedele degli anni suoi più buoni, tutto ciò ch'ella ancora nascondeva nel suo cuore, tutta la verità del suo peccato, le ragioni forti e ineluttabili ond'ella era trascinata al divisamente estremo. Chiusa nella sua camera, cogli occhi gonfî dal pianto, rattenendo i singhiozzi che le spezzavano il petto, ella scrisse, sentendo di mettere tutta l'anima nelle parole roventi, che le scorrevano dalla penna, una lunga lettera al Sant'Angelo. Gli diceva tutto, si doleva di tutte le sofferenze che così ingiustamente gli aveva portato, e, benedicendolo per la sua magnanimità infinita, gli chiedeva perdono. Terminato il foglio non volle rileggerlo, temendo di venir meno alla sua decisione: lo chiuse rapidamente, vi pose la soprascritta con mano tremante; indi andò a riporre la lettera in un cassetto della piccola scrivania ch'ella aveva nella sua stanza da dormire e nel quale tenea raccolte molte sue care memorie. Colà il professore l'avrebbe trovata dopo, certamente e presto.

Compiuto quest'atto pressochè in modo inconsapevole, come guidata da un potere magnetico, le parve che già ogni suo vincolo con la vita fosse spezzato. Gli occhi le si erano fatti aridi, le tempie le ardevano come strette da un cerchio di fuoco: una torpidezza plumbea era subentrata all'orgasmo che l'aveva tenuta fin poco prima; e solo, in quella invadente atonia, un'acuta trafittura al petto, con uno spesso rinnovellarsi, la richiamava alla coscienza del suo dolore.

La sera era venuta, una sera umida e fredda, che con le folate impetuose del vento e col romoreggiare della pioggia insistente facea presentire l'inverno vicino. In casa erano a quell'ora le consuete faccende. Nell'ampia cucina, la Vige, intenta al gran focolare, apprestava la cena, mentre in giro, seduti sulle vecchie panche addossate a' muri scintillanti di arnesi di rame, i famigli attendevano fumando e ciarlando.

Guardandosi dal far rumore, col passo vacillante, simile ad una sonnambula, Loreta uscì dalla sua stanza, attraversò l'andito buio, si fermò un momento ad ascoltare l'allegro vocìo che usciva dalla cucina illuminata; poi, più lungamente presso all'uscio dello studio di Mattia. La porta era socchiusa: una lampada ardeva sulla scrivania: potò vederlo. Sedeva, lontano dal tavolo, in una sedia a bracciuoli, col mento sul petto, cogli occhi semichiusi, come in un dormiveglia. Le guance di lui le parvero, alla debole luce che la lampada riverberava, ancor più pallide del consueto: la sua fronte scavata di rughe profonde, piegavasi stanca; vedendo com'egli appressava al volto replicatamente la destra, le sembrò ch'egli vi tergesse delle lagrime.

Ella appoggiò estenuata la fronte scottante allo spigolo dell'uscio e sentendo rinnovarsi con accresciuto furore la trafittura lancinante al suo petto, represse, con isforzo sovrumano, un gemito di sofferenza. Poi, come riprendendo ad un tratto la lena, scese l'ultimo ramo di scale, traversò l'atrio buio, dischiuse la pesante imposta del portone ed uscì all'aperto.

Una raffica di vento le flagellò aspramente il volto. Non pioveva più. Ma l'aria era tagliente; il cielo oscurissimo.

Dove andava? Che stava per fare? Non lo sapeva ella stessa. Doveva andare lontano, in un luogo così lontano, d'onde non avrebbe potuto tornare mai più. E nelle tenebre folte che si addensavano intorno a lei, di là dalla macchia bruna del bosco, nel quale il vento strepeva con sinistre voci, ella aveva come una visione vaga del torrente Cormor, che scendea in quella stagione coi suoi flutti limacciosi, gonfio e vorticoso, laggiù, a' piedi del palazzo Morò-Casabianca. Sì, laggiù, laggiù: era una voce che la chiamava, la voce del destino cui non si resiste, la voce annunciatrice della sua liberazione.

Sfinita, ansante, ella si afferrò alle sbarre umide del cancello per dischiuderne il battente. Ma questo resistè. Raccogliendo tutte le sue forze ella scosse un'altra volta, con ambe le mani tremanti, i ferri, inutilmente. Madida la fronte di sudore, digrignando i denti in un brivido di febbre e di rabbia, ella si ostinò ancora in quello sforzo. Ma di repente, côlta da una nuova trafittura al petto, sentendo un gran gelo diffondersi per tutta la persona, ella stese le braccia, e mentre un breve grido soffocato le sfuggiva dalla gola, cadde riversa sul terreno molle urtando col capo nelle sbarre del cancello.

Ella rimase colà, sola, senz'alcun soccorso, per alcuni minuti. Intanto in casa la sua assenza era già stata notata. La Vige, come avea terminato di apprestare la cena, erasi recata alle stanze della padrona per avvertirla che tutto era pronto; indi, meravigliata di non trovarla colà, era entrata nello studio, calcolando ch'ella vi fosse in compagnia del professore. Ma poichè questi era solo, non potè nascondere l'inquietudine che tosto le nacque, nel presentimento di un fatto triste che stesse per sopravvenire. Mattia vide lo sbigottimento di lei: la interrogò vivacemente ed appena ella ebbe borbottate tre o quattro parole provò una stretta al cuore, subendo egli pure la sensazione che facea tremare in quell'istante la povera donna. Nello stesso momento apparve all'uscio della camera Agnul, bianco in viso, smarrito, chiamando con voce rotta dall'ansia:--Presto, presto.... la signora.... venite, venite....--

Mattia balzò in piedi e di corsa seguì il ragazzo giù per le scale, oltre l'androne buio, all'aperto.

--Qui.... qui.... al cancello!--mormorava Agnul precedendo rapidamente.

Colà riversa, colle braccia distese, inerte sul suolo fangoso, trovarono Loreta.

Mattia, invaso dal terrore, s'era gittato subito a ginocchio accanto a lei, sollevandole il capo, cercando le sue mani. Ella era fredda, inanimata, con le pugna contratte come in una convulsione dolorosa: solo, ad intervalli, un breve respiro le usciva affannosamente dalle labbra. Il professore ebbe un lampo di speranza: viveva, viveva!... e tosto, ringagliardito, con una slancio pieno di passione, sollevò da solo fra le sue braccia il corpo di Loreta e, tenendola strettamente contro il petto, la portò in casa.

Coricata nella sua stanza, mentre si ricorreva premurosamente a tutti gli espedienti consigliati dalla pratica domestica per simili casi, Agnul era corso al paese a cercarvi il medico. Ma sia che il ragazzo non l'avesse subito trovato o che per qualche altra ragione questi non potesse incontanente rendersi all'invito, si dovette attendere prima del suo arrivo per oltre un'ora: tempo che parve, all'ansiosa impazienza del Sant'Angelo, più lungo d'un secolo. Loreta, a malgrado avessero tentato ogni mezzo per ricondurre il calore alle sue membra irrigidite, pareva scossa continuamente da un brivido di freddo: chiusi sempre gli occhi, mentre giù per le guance livide scendevano sempre le lagrime, ella, col capo bruno affondato ne' guanciali, rimaneva immobile, senza conoscenza.

Mattia agitato, fremente, smorto come un cadavere, non sapeva allontanarsi da lei. Curvo sul letto, procurando di scaldare nelle sue mani le povere mani assiderate di lei, spiava ansimante ogni suo movimento, tendendo l'orecchio ad ogni rumore giù nel cortile, nella speranza che il medico finalmente arrivasse. Ma il tempo passava e questi non compariva.

La Vige pallida anche lei, taciturna, vedendosi impotente ad ogni soccorso, s'era messa accanto alla finestra a spiare se tra la nebbia della notte, giù per lo stradone, comparissero alla fine le lanterne del carrozzino. Ma nulla, nulla. Le tenebre intorno alla casa parea la chiudessero in un isolamento sinistro. Sempre, nel silenzio grave della camera, il respiro difficile che sfuggiva a irregolari intervalli di mezzo alle labbra azzurrastre della signora.

Finalmente a un tratto parve a Mattia che un leggero acquietamento intervenisse in lei. Le sue dita si agitarono, come cercando un appoggio: un sospiro profondo le uscì dal petto.

--Loreta, Loreta....--egli la chiamò.

Lentissimamente ella aperse gli occhi: con uno sguardo smarrito li girò intorno a sè, poi fissando il professore, un'espressione di sgomento le si delineò nel viso.

--Loreta, Loreta!--egli ripetè con una intonazione supplichevole, per chiamarla alla vita, alla coscienza, accarezzandole il capo con una carezza soave come quella di una madre.

Ella parve riconoscerlo: parve riacquistare subito consapevolezza di tutto e con un impeto subitaneo s'afferrò alle sue mani:

--Mattia, perdono, perdono!...

--Non agitarti, non parlare.... acquietati, Loreta.... Ella per un istante tacque, poi guardandolo sempre con malinconica fissità:

--Mattia, Mattia, perchè non mi hai lasciato morire? Io volevo morire.... Sarebbe stato tanto meglio se tu mi avessi lasciato morire....

Egli ebbe un senso di raccapriccio. Morire? Voleva morire? Ma dunque era vero ciò ch'egli aveva sospettato?... Era sì grande il rimpianto di lei per l'amore perduto?...

Si chinò sul letto, tremante, volendo ch'ella continuasse, ch'ella dicesse tutto, ch'ella gli confermasse ancora una volta la temuta verità.... Ma ella sembrò venir meno novamente: piegò con uno scatto repentino il viso contro il guanciale e, mentre gli occhi le si richiudevano, ricominciò a tremare, scossa da uno spasimo persistente.

Il medico venne. Esaminò l'ammalata, fece molte domande a Mattia, alla Vige, poi rimase visibilmente incerto. Ordinò qualche calmante, ghiaccio al capo: non poteva dir nulla, bisognava attendere il domani: certo che lo stato della signora lasciava adito a molte apprensioni: non lo nascose, per debito di franchezza, al professore: tuttavia non si esagerasse nelle apprensioni. E promise di tornare al domani.

La notte, trascorsa in una indicibile agitazione, non segnò alcun miglioramento. Il dottore, tornato all'alba, appena gittato uno sguardo sulla sofferente, apparve conturbato. Rinnovò il suo esame, con grande attenzione. Quindi, lasciate alcune prescrizioni, che raccomandò di seguire con iscrupolosa esattezza, nell'uscire con Mattia gli dichiarò di aver trovato l'ammalata in condizioni di molta gravità: un'infiammazione degli organi respiratorî s'era manifestata con una gagliardìa pressochè eccezionale, ma quello che più lo impensieriva era lo stato anormale del cuore, che (egli non sapeva se per congenita predisposizione o per cause efficienti del momento) presentava un'assai notevole irregolarità del suo funzionamento.

--Ma dunque è un caso disperato, dottore?--chiese trepidante il Sant'Angelo.

--Non si deve disperare mai fino a che la scienza può esperimentare i suoi mezzi e fino a che--soggiunse il medico con dolcezza--si è ancor giovani com'è la sua signora....

Il Sant'Angelo comprese il fine pietoso di quelle parole; ne sentì riconoscenza, ma nessun affidamento a sperare. Vedeva. Nell'immensa angoscia, ond'era divorato, sapeva di non essere sotto l'impressione pessimista, propria a chi si vede minacciato nelle cose più care: lo stato, in cui Loreta trovavasi, non lasciava, purtroppo, adito ad illusioni.

Allora, ogni altra idea dileguò dal suo spirito per lasciar luogo a quella del dovere: bisognava disputare alla morte il trionfo: gli pareva, che se ad ottenere questa vittoria fosse stato necessario un miracolo, egli avrebbe trovato le forze per compierlo.

Ma le ore passavano e passavano le giornate senza che alcun mutamento favorevole subentrasse nello stato dell'ammalata. A malgrado di tutte le cure, che si moltiplicavano intorno a lei con vigilante sollecitudine, il male progrediva nel suo corso fatale. Il medico pareva scoraggito vedendo come la fierezza del morbo persistesse ribelle a' mezzi più energici impiegati per domarlo. Lo stato di atonia perdurava costante in Loreta: cogli occhi pesantemente chiusi e la faccia infiammata, pareva che un'invincibile sonnolenza la tenesse: solo un respiro rantoloso, quasi rauco, frammezzato a tratti da suoni inarticolati, che forse corrispondevano alle torve visioni d'un sogno, continuavano a sfuggire dal suo petto.

--Che cosa sarà, dottore, che cosa sarà?

Il medico confondevasi, cercava delle frasi evasive, sperava in una crisi che poteva determinarsi nel settimo giorno, affermava di aver trovato (e l'indicava come un indizio favorevole) una tendenza migliorata nelle pulsazioni del cuore.

Ed una sera, alla vigilia appunto del settimo giorno della malattia, così ansiosamente atteso, il Sant'Angelo per un momento credette di veder verificate le previsioni del medico e la speranza ch'egli nutriva così caldamente. Quasi d'improvviso Loreta sembrò calmarsi, la sua respirazione si fece più regolare, il secco rossore che le affocava la faccia parve attenuarsi fin quasi a scomparire. E ad un tratto ella aperse gli occhi, lo vide, lo riconobbe, e con un rapido gesto lo chiamò a sè. Egli avvicinò il volto a quello di lei, sorridendole, coll'animo diviso fra la tema e la speranza. E fu allora che con voce malferma--una voce che a Mattia sonò nuova, come quella di persona ignota,--ella con molto sforzo potè profferire poche parole:

--Mattia.... vedi, la morte, che io ho chiamato, sta per venire. La sento che viene.... Ma tu non maledirmi quando saprai perchè ho desiderato la morte.... Ho voluto che tu sapessi tutto.... Ho confessato tutto.... Vedrai: là.... là....

E colla mano pallida e coll'occhio brillante di una strana luce indicò la scrivania tra le due finestre.

Egli esitò.

Ma Loreta insistette ancora, mentre le forze visibilmente le si venivano esaurendo:

--Là....

Egli comprese, andò al tavolo, cercò fra gli oggetti sparsi, aperse uno o due cassetti; finalmente nel piccolo tiretto, ove sapeva ch'ella conservava i suoi ricordi, trovò il piego chiuso, colla soprascritta a suo nome.

Prese la lettera e d'uno slancio tornò verso il letto.

--Perdonami, Mattia, perdonami. Ho tanto sofferto....

Loreta non potè proseguire. I suoi occhi si velarono, un singulto le troncò la voce, e ricadde come prima in un sopore profondo.

Da questo ella non uscì più. Il medico chiamato in fretta non potè dir nulla: il male continuava il suo corso; la crisi, benchè sciaguratamente molti indizî negativi fossero già apparsi, poteva tuttavia compiersi ancora, all'ultimo istante, in senso favorevole.

La Vige cogli occhi pieni di lagrime venne al padrone e con poche parole lo pregò di mandare qualcuno a Udine perchè venisse don Letterio: pareva a lei, nella sua povera fede di contadina, ch'egli avrebbe potuto con la sua presenza determinare un miracolo. Il Sant'Angelo accondiscese immantinente, volle anzi che a malgrado dell'ora tarda e del pessimo tempo il ragazzo partisse subito col carrozzino.

Mattia rimase poi solo nella stanza dell'ammalata e abbandonato in una poltrona, con lo sguardo intento nel suo viso sofferente, parea stesse scrutando se la crisi, di cui il medico aveva forse per ingannarlo parlato, non accennasse con qualche lieve segno a manifestarsi.

La serata era cruda. Fuori, sulla campagna, il vento s'era levato con insolita furia. Seguendo il consiglio del medico, un buon fuoco--il primo di quella invernata, che si annunciava in così tetro modo--era stato acceso. E nella camera non era che una fioca luce, piovente dalla lampada velata, e il bagliore rossastro che gittava a intermittenze la fiammata del camino.

Immoto al suo posto, il professore per lungo tempo non avea saputo staccare gli occhi da Loreta, poi ad un tratto, quasi macchinalmente, cercò nella tasca del petto la lettera, che vi aveva rapidamente deposta poco prima. E strettala per un istante fra le dita, la lasciò subito cadere, come preso da un istintivo orrore, sul tavolo che gli stava dinanzi.

Il tempo scorreva lentissimo: sempre in quella stanza, ove ora l'atmosfera s'era fatta caldissima, durava penoso il respiro greve dell'ammalata: fuori, intorno alla villa isolata, sempre il rombo cupo del vento, che incalzava coll'avanzar della notte.

E il professore, in quell'ora lugubre, dinanzi a quel foglio ov'era l'ultima parola del segreto fra lui e Loreta, la confessione estrema di tutto ciò che aveva deciso irreparabilmente la perdita d'ogni suo bene, ebbe come una rapida visione di tutto il passato: sentì, nel fondo dell'anima, risorgere tutta la lotta de' suoi affetti. Egli ripensò alla crudeltà del destino che l'aveva gittato fra quelle due anime, ancor legate da tanta tenacia di sentimenti, obbedienti ancora ai richiami imperiosi de' ricordi e della giovinezza: ed anche ripensò, con un'amarezza infinita, a tutto ciò onde egli era debitore ad Alvise Polverari, a quanto egli doveva alla misera donna che ora moriva, che gli aveva chiesto il suo perdono e ch'egli sentiva di amare ancora, sempre, immensamente.

Di nuovo i suoi sguardi caddero sulla lettera chiusa: una curiosità acuta, ardente, s'impadronì di lui: sapere tutto, subito, leggere confermato da lei stessa il fatto abbominevole, ch'egli aveva presentito e per il quale ella moriva.

Ma mentre le mani afferravano già il piego, egli ad un tratto s'arrestò, repentinamente, come se un sentimento nuovo fosse venuto a mutare il corso de' suoi pensieri.

I suoi occhi, che fissavansi ora assorti nel volto dell'ammalata, parvero accendersi d'un vivido lampo: una profonda espressione di bontà si diffuse su tutti i suoi lineamenti.

Egli stette alcuni istanti immobile, come porgendo ascolto ad una voce segreta, che venisse da lontano, da un mondo migliore del nostro: la cara voce familiare, che nelle ore più gravi della sua vita gli aveva parlato nell'anima la santa parola dell'amore, della pietà, del perdono.

Col viso bagnato di lagrime egli sorse in piedi e, presa con atto risoluto la lettera di Loreta, la gittò vivamente tra le fiamme del camino.

Poi, subito, come obbedendo a un violento impulso, egli cadde ginocchioni presso il letto, piegando sulle coltri la sua povera testa canuta. E congiunte le palme, in un risveglio inconscio e potente della fede appresa nel dolce tempo infantile, quell'uomo forte, provato già tanto alla scuola della sventura, pregò fervidamente, con tutte le forze del suo cuore, per la salvezza di Loreta.