Title: L'undecimo comandamento: Romanzo
Author: Anton Giulio Barrili
Release date: March 13, 2009 [eBook #28321]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)
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Anton Giulio Barrili
1891.
Riservati tutti i diritti
Milano.—Tip. Treves.
Leviamoci il cappello, signori lettori, perchè siamo in casa del sottoprefetto di Castelnuovo.
I Castelnuovi sono molti, sulla faccia della terra, e voi forse aspetterete che io vi dica in quale dei tanti vi abbia condotti. Ma io, con vostra licenza, non lo farò, per ragioni di alta convenienza ed anche di sicurezza personale. Il sottoprefetto del mio Castelnuovo sarebbe capace di aversela a male e di farmi arrestare come ozioso e vagabondo, la prima volta che mi saltasse il ticchio di visitare il suo circondario. Ora, siccome io ci ho proprio un gran desiderio di tornare laggiù e di non esser molestato nelle mie corse sconclusionate, voi consentirete, spero, che in questo particolare io mi tenga prudentemente a mezz'aria.
Per le necessità della storia, vi basti di sapere che si dice Castelnuovo in opposizione di Castelvecchio. Castelvecchio, ancora due anni fa, quando io ci sono stato, era una rovina sulla vetta del monte Acuto; il qual monte è uno dei soliti contrafforti dell'Appennino, che ricorrono così spesso nella orografia dei romanzieri. Castelnuovo è una cittadina fabbricata più in basso, tra il poggio dei Gemmi e la riva destra del Bedonia, un torrente in cui gli eruditi hanno trovato due radici celtiche, e le lavandaie di Castelnuovo cercano ancora due once d'acqua per otto mesi dell'anno.
Castelnuovo, come vi dice il nome, doveva averci il suo castello anche lui. Ma il forte arnese era sparito sotto un intonaco più moderno; le feritoie erano diventate finestre, e la gran mole bucherellata, imbiancata, rimessa a nuovo, accoglieva nel suo grembo quasi tutti gli uffici e le rispettive abitazioni dei rappresentanti del governo. C'era, ad esempio, la sottoprefettura, c'era la pretura, il ricevitore del registro, il conservatore delle ipoteche, e non ci mancavano i reali carabinieri, comandati dalla perla dei marescialli. Il verificatore dei pesi e misure abitava più lungi, e così pure il ricevitore delle dogane, con altri ufficiali, i cui nomi non vogliono venirmi alla penna. Lo spazio tiranno vietava l'accentramento della gran famiglia governativa di Castelnuovo. Si diceva anzi che ben presto dovesse andar fuori del palazzo demaniale il ricevitore del registro; un po' perchè ci stava a disagio lui, che aveva mezza dozzina di marmocchi, debitamente registrati, un po' perchè teneva a disagio il sottoprefetto, quantunque la famiglia di quest'ultimo constasse di due sole persone; marito e moglie, sottoprefetto e sottoprefettessa.
Si spiccica male, quel "sottoprefettessa", non è vero? Ma in fede mia, non si può fare altrimenti. E buon per noi che non abbiamo da masticar altro che il nome! La signora sottoprefettessa era asciutta e dura come uno stoccafisso, con una pelle risecchita, che pareva di cartapecora. Ottima signora, per altro, ed anche piacevole in conversazione, purchè non entrasse a parlare dei torti fatti a suo marito. Disgraziatamente, ciò le accadeva dieci volte al giorno. Ma, d'altra parte, siamo giusti, la signora sottoprefettessa aveva ragioni da vendere. Quei benedetti ministeri che passavano promettendo, e se n'andavano senza aver mantenuto, avrebbero fatta perdere la pazienza ad una santa, nonchè alla sottoprefettessa di Castelnuovo, che era a mala pena uno stinco. Otto o nove promozioni erano già venute, dacchè suo marito aveva diritto all'avanzamento. E quei bravi signori del ministero glielo avevano sempre saltato. Già, non amavano suo marito, perchè era un uomo d'ingegno e perchè il suo circondario era il meglio amministrato d'Italia. Per far carriera, con quei signori, bisognava essere asini calzati e vestiti, e lasciare che tutto andasse a rifascio, nella amministrazione del regno.
Il sottoprefetto ascoltava e sorrideva. Il filosofo sorride sempre. Il mare, più è profondo, più apparisce tranquillo a fior d'acqua. Queste olimpiche calme sono i conforti superbi del mare, dei filosofi e dei sottoprefetti saltati. Dopo tutto, il cavaliere Tiraquelli vedeva approssimarsi il giorno della giustizia. Sentiva egli altamente di sè? O serbava egli in corpo un segreto, uno di quei segreti che non si rifischiano ad anima viva, neanche alla moglie, nelle ore confidenti in cui l'uomo pubblico si leva dal capo l'aureola del potere e assume il berretto di cotone dell'uomo privato?
Lo vedremo tra breve, poichè siamo entrati in casa, anzi a dirittura nella sala di ricevimento. Il cavalier Tiraquelli riceve tutti i mercoledì. Novità inaudita negli annali della sottoprefettura di Castelnuovo! E riceve già da due mesi, con gran giubilo delle primarie famiglie del paese. I mercoledì della sottoprefettessa forniscono l'argomento delle chiacchiere cittadine, per tutti gli altri sei giorni della settimana. Voi, frattanto, lettori discreti, già avete capito esser questa la ragione che fa parere ristretto il suo quartierino al cavalier Tiraquelli, e che farà sgomberare il ricevitore del registro dal suo. Il ministro dell'interno, che non ha ancora pensato a mettere il cavaliere nell'elenco delle promozioni, il ministro dell'interno, dico, ha promesso di fargli dare tutto il secondo piano del palazzo demaniale, a patto che tiri avanti i suoi famosi mercoledì. Gatta ci cova; non pare anche a voi?
Infatti, vediamo. Ecco un sottoprefetto a quattromila lire, che non ha nulla di suo, nè rincalzi alla paga per ispese di rappresentanza, e che tuttavia si fa lecito di avere dei mercoledì! Capisco che non ci si mangia, alle sue veglie, e ci si beve al più al più, qualche bicchier d'acqua inzuccherata; ma infine, i lumi ci vogliono, e il pianoforte richiede ogni settimana l'accordatore. Notate anche la cortesia del ministro, che ascolta le lagnanze del sottoprefetto intorno alla ristrettezza del quartierino e si dispone a concedergli l'uso di tutto il secondo piano, relegando gli uffici della sottoprefettura al primo, donde il ricevitore del registro dovrà sgomberare alla svelta. Un segreto c'è sotto, lo vedete anche voi, e certamente vorrete saperlo. Ma, vi prego, non istate a beccarvi il cervello; io stesso ve lo dirò a suo tempo, e mettete pure che ciò avverrà quanto prima.
Tutti i rami della amministrazione erano rappresentati nella loro doppia essenza, mascolina e femminile, ai mercoledì del sottoprefetto di Castelnuovo. Quanto ai naturali del paese, sulle prime si erano tenuti un pochino in disparte. Le signore, in ispecie, non avvezze alle conversazioni e alle feste da ballo, temevano forse di sfigurare al paragone delle dame governative, che avevano viaggiato e conoscevano gli usi del mondo elegante. Ma a poco a poco la vergogna era sparita, e tutte quelle brave signore andavano alla sottoprefettura, maritate, zitelle e zitellone, che era un piacere a vederle. Si facevano quattro salti, mentre gli uomini sodi chiacchieravano di politica, di finanza e di amministrazione. Il maestro della banda cittadina, giovinotto di buona volontà e di alte speranze, suonava passabilmente il cembalo, dedicava polke e mazurke di sua composizione alle signorine di Castelnuovo, e qualche volta gli riusciva di farle stampare a Torino, o a Milano. Tutto ciò metteva un pizzico di sale nella vita, per il passato così insipida, di Castelnuovo Bedonia; gli conferiva un'aria di capitale, e sarei per dire di piccola Parigi.
C'era un guaio, nei mercoledì della sottoprefettura. Tanto è vero che non c'è niente di perfetto in questo basso mondo. I giovanotti non abbondavano a Castelnuovo Bedonia. Ma per compenso ballavano gli ufficiali del governo, che avevano quasi tutti la leggerezza voluta da questo nobile esercizio ginnastico. Di tanto in tanto capitava qualche ospite nuovo; ora un ispettore, mandato dal governo per rivedere le bucce ad un comune; ora un ufficiale dei carabinieri, che veniva a dare un'occhiatina alla caserma di Castelnuovo; ora uno studente in vacanze; ora un curioso giramondo, che amava le vie meno frequentate. La specie di questi fannulloni emeriti non si è ancora perduta; anzi pare che tenda ad accrescersi, dopo l'invenzione dell'alpinismo. E a proposito di alpinisti, ne erano capitati dodici in una volta, dal capoluogo della provincia, per far l'ascensione del monte Acuto, i cui mille centotrentadue metri sul livello del mare non meritavano forse che si scomodassero per lui tante brave persone.
Piuttosto, era da desiderare che andassero a visitarlo i geologi e gli studiosi di archeologia preistorica; gli uni per le belle concrezioni calcaree, pei quarzi e per le tracce di minerali che presentava la roccia; gli altri per le caverne ossifere che si aprivano nel fianco della montagna. Di questi ultimi, voglio dire degli archeologi, uno solo era capitato a Castelnuovo, e fortunatamente non mostrava desiderio di andarsene. Non era uno scienziato di professione, ma un semplice dilettante, e per giunta non aveva ancora stampato nessuna memoria sull'Homo diluvii testis. Ma, non dubitate, se ancora non l'aveva stampata, nè scritta, minacciava di voler fare una cosa e l'altra al più presto. L'epoca neolitica e l'archeolitica erano il fatto suo, e le caverne di monte Acuto gliene davano saggi stupendi, in cuspidi di frecce, asce e raschiatoi di selce, amuleti di serpentina e di giadeite, cocci, depositi di ceneri e di ossa carbonizzate, ornamenti di conchiglie, grumi di terra d'ocra e via discorrendo. Gli avanzi dei banchetti attiravano particolarmente la sua attenzione. Studiava la forma delle ossa, delle mascelle, dei denti e delle corna, per accertare quali specie di cervi, di cani, e d'altri animali più prossimi alla domesticità, vivessero dieci e quindicimil'anni fa in compagnia dell'uomo, su per le forre di monte Acuto. Con l'ardimento della fantasia, andava anche più oltre. Non contento di aver trovato l'ursus spelaeus, che accennava già ad una bella antichità, sperava di trovare anche l'elephas primigenius, che è come a dire il babbo degli elefanti. Notate, che si sarebbe fatto onore, con la scoperta di un elefante, e in una parte d'Italia da cui non era passato il re Pirro, l'unico che avrebbe potuto lasciarcene qualcheduno, per trarre in inganno gli scienziati futuri.
Così sapiente come lo vedete, non era punto noioso. Il duca di Francavilla era prima di tutto un bel giovinotto, simpatico, spiritoso, elegante, alla mano, un principe democratico, un felicissimo impasto di gran signore e di buon figliuolo. Ballava, inoltre, come…. In verità, non saprei dirvi come ballasse. Le signore di Castelnuovo affermavano che ballava come un angelo; ma è poi vero che gli angeli ballino? Comunque, ballava bene, dettava quadriglie stupende, architettava sciarrade in azione. I suoi talenti di società non si contavano sulle dita. Infine, sappiate questa: fu lui che introdusse lo skating ring nelle usanze di Castelnuovo. Per un dilettante d'archeologia preistorica, non c'era male; che ne dite?
Immaginate dunque come fossero allegri, dopo l'arrivo del duca di Francavilla, i mercoledì della sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia. Si ballava, si faceva musica, si giuocava di galanteria, ci si divertiva a quel dio. La sottoprefettessa si faceva un onore immortale; il sottoprefetto gongolava dal canto suo e prevedeva non lontano il gran giorno in cui tutto il circondario di Castelnuovo si mostrasse ligio alla politica del governo, o meglio, del partito che siedeva al governo.
Perchè a questo egli lavorava, con altezza di concetto non intieramente richiesta dalla sua condizione secondaria. Volete sentirlo? coglierlo sul fatto, mentre egli sfodera tutti i più sottili accorgimenti della sua politica e tutti i più riposti artifizi della sua eloquenza?
Il cavalier Tiraquelli aveva condotto fuor della sala uno de' suoi convitati, col pretesto abbastanza ragionevole di fumare un sigaro. Passeggiavano ambedue sotto un loggiato che guardava nel cortile, collegando il quartierino del sottoprefetto con gli uffizi della sottoprefettura.
—Glielo assicuro io,—andava dicendo il rappresentante dell'autorità al suo interlocutore, uomo sulla sessantina, piccolo di statura, e cuor contento per dieci, come dimostravano le sue guance paffute,—glielo assicuro io, signor Prospero, Ella sarà cavaliere. Ma che dico, cavaliere? commendatore di schianto. Se la cosa si fa, come il ministro desidera, Lei non può dubitarne un minuto; abbia il collare per giunto a destinazione. Gliene impegno la parola mia, che è quella del governo;—aggiunse il sottoprefetto, con accento e gesto ugualmente solenni.
—Per me,—rispose quell'altro, stringendosi nelle spalle,—vorrei che fosse già combinata ogni cosa. Ma Ella capirà, signor cavaliere….
—Che cosa? che difficoltà può incontrare il signor Prospero in una faccenda di questo genere, e con l'autorità domestica di cui è, la Dio grazia, investito?
—Eh, più che Ella non pensi;—ripigliò il signor Prospero.—Se quella birichina si mettesse in testa di non volerlo, che ci potrei far io?
—Niente le dice che ci sia questo pericolo;—osservò gravemente il cavalier Tiraquelli.—Perchè la signorina rifiutasse, bisognerebbe che ci fosse un altro alle viste. Mi spiego? Ora, quest'altro non c'è; almeno, a noi non consta. Lei da una parte, come zio e tutore, io dall'altra come pubblico ufficiale che ha l'obbligo di sapere ogni cosa, non abbiamo notizie, nè indizii, che ci conducano a sospettare nulla di simile.
—È vero signor cavaliere, è vero. Ma, se debbo parlare alla libera, non è il cuore della mia nepote che mi dà pensiero, è la testa. Non ama nessuno, un po' perchè non ha ancora trovato quel tale che dovrebbe andarle a genio, ma molto perchè vuole la sua libertà, per fare a modo suo, contentare i suoi capriccetti….
—Tutta roba che passerà.
—Speriamolo;—disse il signor Prospero, accompagnando la frase con un sospiro tanto fatto;—ma l'avverto che è molto bizzarra. Si figuri che uscita appena di collegio, voleva andare al polo!
—Al polo artico?
—Artico, od antartico, non so; ma il fatto sta che m'è scappata fuori con questa idea, pescata non so dove.
—Forse in un trattato di geografia;—notò giudiziosamente il sottoprefetto.
—Può darsi. Ma che diamine gli salta in testa alle maestre, d'insegnare la geografia alle ragazze? A che cosa può servire la geografia?—
Il sottoprefetto lo fermò con un gesto.
—Signor Prospero,—gli disse,—la geografia è un ornamento necessario per l'uomo civile. Ella forse ignora che presso la sede del governo fiorisce una società geografica, posta sotto il patrocinio del re e sussidiata particolarmente dal ministero.
—Quand'è così, non dico più altro;—rispose il signor Prospero, inchinandosi.—La geografia sarà un ornamento necessario per gli uomini; ma per le donne…. poi….
—Qui Ella potrebbe aver ragione;—interruppe il sottoprefetto con aria di benevola condiscendenza.—E m'immagino che avrà detto alla signorina che le donne non debbono andare ai poli.
—Se gliel ho detto! Ma vuol sapere che cosa mi ha risposto, quella testa bizzarra? Bene, andrò dunque all'equatore; c'è due terzi d'Africa da esplorare; gli influenti del Nilo da riconoscere…. Ha detto influenti o affluenti? Non so.
—Affluenti ed influenti, è tutt'uno;—-osservò il sottoprefetto;—credo, per altro, che sia più proprio il dire affluenti. Dobbiamo badare anche al patrimonio della lingua, signor Prospero; dobbiamo badarci sopra tutto noi, che siamo i depositarii del potere. Ma anche sulla faccenda dell'equatore, io spero che Ella avrà fatto valere la sua autorità tutoria.
—-Autorità, veramente, ne ho poca;—confessò il signor Prospero.—Mi sono contentato di dirle che ci fa troppo caldo in Africa, come fa troppo freddo ai poli, che non avrei potuto risolvermi lì su due piedi ad accompagnarla; che, infine, ci avevo i conti della tutela da aggiustare, e che questa fatica, necessaria per lo meno quanto l'ornamento della geografia, mi avrebbe preso un anno di tempo.
—È un anno di guadagnato;—disse il sottoprefetto;—e in un anno la testa di una ragazza può far variazioni di molte. La signorina Adele è romantica, e, in fondo in fondo, questo non mi dispiace. Il nostro giovinotto calcherà su questo tasto. E non gli sarà difficile, perchè, a dirla in confidenza, è innamorato cotto, e gl'innamorati vedono sempre con gli occhi della persona amata. Signor Prospero mio, ne faremo una duchessa, della sua bella nepote. Dica sinceramente, non le va?
—Che! ci avrei un gusto matto. Quei Gamberini, così superbi della loro contea, che guardano il paese con tanto disprezzo, dall'alto di una bicocca piena zeppa d'ipoteche….
—Parli piano, per carità!…
—Ha ragione, ha ragione. Ma il maestro è al cembalo e non si sentirebbe neanche una cannonata, là dentro. Quei Gamberini, dico, s'avrebbero a far gialli dalla rabbia. E la povera contessina!… Come la vedo brutta, quando saprà che il signor duca di Francavilla, venuto tra noi per studiare antropofagia….
—Antropologia, signor Prospero!
—Vada per antropologia. Tanto, non conosco nè l'una nè l'altra, di queste riverite signore. M'andrebbe in tanto sangue, la rabbia dei Gamberini! E se Adele si risolverà, non sarò io che ci avrò nulla a ridire. Ma bisognerà andar cauti, signor cavaliere, trattar la cosa coi guanti….
—È la massima dell'uomo politico;—notò opportunamente il sottoprefetto.—Solo la mano ha da esser di ferro; chi è guidato da essa non deve sentirla.
—Ed Ella mi dice,—ripigliò il signor Prospero,—che Sua Eccellenza il ministro….—
Il sottoprefetto non lo lasciò finire.
—In confidenza,—diss'egli, mettendo familiarmente il suo braccio sotto quello del suo interlocutore,—in confidenza, commendatore mio…. (lasci che io la chiami fin d'ora così)…. se rimango a Castelnuovo Bedonia, gli è solamente per questo. Abbiamo qui una parte, e non l'ultima, di un vasto disegno politico.—
A quella confidenza inattesa, ed anche oscura parecchio, del sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, il signor Prospero spalancò gli occhi e la bocca ad un tempo.
—Come!—diss'egli, dopo esser rimasto un istante in quell'atteggiamento di stupore.—Tutto questo, nel matrimonio della mia nepote?
—Ma sicuro! E non può vederlo anche Lei, solo che ci pensi un pochino? Signor Prospero mio, le faccio un ragionamento. Mi segua attentamente. Che cos'è, prima di tutto, la ricchezza d'un paese? La proprietà territoriale, mi risponderà Lei, la proprietà territoriale che dà i frutti e guarentisce le rendite, rappresentate nei loro termini visibili e trasmissibili, dell'oro, dell'argento e della carta. È un cànone di economia che la carta non possa superare una certa quantità, oltre la quale il suo valore si scema, crescendone di tanto il valore delle cose cercate. Cionondimeno, è desiderabile che la carta, termine transitorio di scambio, come l'oro è un termine fisso, dia nell'abbondanza piuttosto che nel difetto, ottenendosi con ciò una mobilità maggiore del capitale e una tendenza a spendere, di cui tutte le industrie e tutte le arti si vantaggiano, e per conseguenza tutte le classi di cittadini. Ella mi segue, signor Prospero?
—La seguo, ma veramente…. non vedo ancora….
—Vedrà poi. I ricchi, signor Prospero, i proprietarii della terra, sono i distributori della vita in un popolo. Ma non sono ancora tutto, come non è tutto ancora, nel corpo umano, quel congegnato sistema di arterie e di vene che spinge il sangue dal cuore a tutte le estremità, e dalle estremità lo riconduce al cuore. Non sono ancora tutto, ripeto. Accanto alla ricchezza, alla forza dell'oggi, c'è la tradizione, la ricchezza dell'ieri, che può esser forza o ricchezza del domani. Per uscir di metafora, ci sono i nobili, le grandi famiglie storiche, a cui principi e stati son debitori di tanta gloria e di tanta fortuna. Un paese ha mestieri di gloria come di pane. Anche la gloria è un elemento di prosperità. Un paese che non abbia tradizioni è come una casa a cui manchino i quadri. Ci avete il letto, la tavola, i cassettoni, le sedie, ma quella parete nuda vi dà la sensazione del vuoto. Ella m'intende, signor Prospero?
—Faccia conto;—rispose quell'altro, che incominciava a confondersi.
—Or dunque,—ripigliò con aria di trionfo il sottoprefetto,—che cosa dobbiamo far noi, per ornamento della gran casa che si chiama paese? Dobbiamo, o ch'io m'inganno, mantenere gelosamente le sue tradizioni. Il tentativo di cancellare ogni cosa non è savio; aggiungo volentieri che è vano, come si è dimostrato in Inghilterra sotto il Cromwell, e peggio in Francia, sotto il Robespierre. La reazione succede fatalmente all'azione. È una legge storica, com'è una legge meccanica. Uno stato prudente e previdente deve trasformare quello che non può mutare, tener conto di tutte le forze e moltiplicarle, associandole. Non le pare?
—Sono intieramente della sua opinione;—rispose il signor Prospero che non capiva più nulla.
—Ah, meglio così!—ripigliò l'oratore.—Ella dunque ammette con noi la necessità di queste alleanze tra famiglie e famiglie, tra i grandi nomi e le grandi ricchezze. Ma non basta.
—Come? Non basta ancora?—si provò a dire il signor Prospero.
—No, certamente, e la ragione non isfuggirà alla sua perspicacia. L'opera di un savio governo non finisce qui; deve andar oltre, promuovere queste alleanze tra provincia e provincia, perchè tutte le parti del gran corpo sociale ne risentano i benefici effetti e il corpo medesimo si rassodi nell'intreccio di tutte le parti che lo compongono. Ora, che cosa siamo noi, prefetti (e dico prefetti, perchè la promozione non può star molto a venire), che cosa siamo noi, se non gli strumenti di questa indagine, di questa cura diligente, di questa….—
Il cavalier Tiraquelli cercava il sostantivo, e il signor Prospero glielo suggerì.
—Impresa matrimoniale;—diss'egli.
—Signor Prospero!—esclamò il sottoprefetto, rizzando la testa, come per dare tutta la misura della sua dignità offesa.
Ma tosto si avvide, all'aria modesta del signor Prospero, che il suo interlocutore non aveva voluto dir niente di malizioso, e ripigliò, sorridendo:
—Diciamo anche impresa matrimoniale, quando i matrimonii non escano da quest'ordine elevato d'idee. Noi, inoltre, abbiamo l'ufficio, ugualmente nobile, di cercare il merito, dovunque si trovi, di farlo risaltare e di premiarlo, ad esempio ed incitamento per tutti. Ella, signor Prospero, ne ha la sua parte, e il governo aveva già pensato a mandarle la croce.
—A me?
—Sicuramente. Il nostro signor Prospero non era forse capitano della guardia nazionale?
—Che non si è mai radunata.
—Non è colpa sua, signor Prospero, ma dei passati ministeri, che non hanno pensato mai a rialzare il prestigio di questa istituzione in Castelnuovo Bedonia. Per me, ufficiale del governo, Ella è stato capitano per oltre dieci anni; ha dunque diritto alla croce di cavaliere. E non basta.
—Non basta?—disse il signor Prospero, con accento perplesso, tra il dubbio e la speranza.
—Non basta,—ribattè il sottoprefetto,—Ella ha parlato nel comizio agrario di Collemezzo.
—Dio buono—esclamò con aria modesta il signor Prospero.—Per dire che avrei piantato grano, scambio di sorgo, e patate, scambio di barbabietole.
—Egregiamente! Con ciò Ella ha dimostrata la sodezza del suo raziocinio. Non tutto è da cangiare nel mondo;—si degnò di riconoscere il sottoprefetto;—e ci sono delle vecchie usanze a cui bisogna attenersi, perchè esse hanno con sè il rincalzo dell'esperienza. Se i nostri padri, da tempo immemorabile, hanno creduto di mantenersi fedeli alla coltivazione della patata…. Cioè, no da tempo immemorabile, perchè la patata è relativamente moderna…. Ma insomma, signor Prospero, l'esperienza insegna, e Lei rappresenta l'esperienza, che bisogna star fermi nella conservazione dei vecchi sistemi. Un partito conservatore, saviamente conservatore, è anche necessario come forza d'equilibrio, in uno stato bene congegnato. Tutto è equilibrio, in politica come in meccanica. Ed io non tralascerò di dirlo in Senato.
—Come?—gridò il signor Prospero.—In Senato? E quando?
—Quando ci andrò;—rispose il sottoprefetto, abbassando le ali della sua ambizione.—Ma torniamo a noi. Ella è un agronomo, signor Prospero. L'Italia ha bisogno di agronomi. Non lo ha letto, Virgilio? Salve magna parens frugum Saturnia tellus. Eccole un bel verso, da mettere per epigrafe sopra un opuscolo, che io le consiglio di scrivere.—
L'idea dell'opuscolo agrario, ad onta dell'epigrafe, nuova di zecca, che gli suggeriva il sottoprefetto, sorrise mediocremente al signor Prospero degnissimo.
—In fede mia,—diss'egli,—non saprei da che parte rifarmi.
—Buona volontà, amico mio, e il resto viene da sè. Leggete qualche libro d'agronomia; servirà per risvegliarvi le idee. Io ho avuto molto profitto dai Segreti di Don Rebo, dell'Ottavi; un libro aureo, che m'ha aiutato ad improvvisare quattro discorsi. Capirà, signor Prospero, che il mio campo non è l'agronomia. Io sono anzi tutto un uomo politico. Legga l'Ottavi, è una miniera; metta insieme quattro principii di scienza, per far da preambolo ai consigli della sua pratica, e vedrà. Come capitano della guardia nazionale aveva diritto alla croce di cavaliere; come agronomo l'avrà a quella d'ufficiale.
—Il commendatore è ancora lontano;—osservò il signor Prospero, ridendo.
—Tutt'altro; facciamo questo matrimonio, che tanto premerebbe al ministro per le ragioni che ho avuto l'onore di esporle, e avrà subito il collare.
—Capisco, capisco, sarebbe un premio per un fortunato incrociamento di razze.
—Ella ha molto spirito, commendatore; le faccio i miei complimenti.
—Oh, con Lei, signor prefetto, chi non ne avrebbe?
—Dunque, da bravo, abbia anche un poco della mia premura, e mi conduca questa faccenda a buon porto.
—Farò quel che potrò, ne stia certo. Se l'Italia ha da avere un benefizio da questo matrimonio, non sarò io che darò indietro. Ma badi, signor prefetto, io non sono che un tutore e uno zio. Posso consigliare, aiutare, spalleggiare; ma bisogna che il giovinotto, dal canto suo….
—Farà il suo dovere, non dubiti. Lo faremo tutti, il nostro dovere, perchè sia contento il ministro e incarnato il suo profondo disegno. Lo metteremo in evidenza, il duca di Francavilla, lo faremo brillare. E frattanto, incominciamo dal ritornare nella sala. Il sigaro è finito e non si deve sospettare che abbiamo a ragionare di troppe cose fra noi.
—Dice bene; andiamo.—
E il signor Prospero Gentili, zio materno e tutore della signorina Adele Ruzzani, fanciulla romantica come vi ho detto, e milionaria, come avrete capito, gittò il suo mozzicone dal loggiato nel sottoposto cortile; indi seguì il cavaliere Tiraquelli, sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, nella sala di ricevimento.
I soliti quattro salti non erano ancora incominciati, sebbene il maestro di musica avesse già tentate le dame e i cavalieri con gli accordi d'un valzer, e i ballerini più feroci della sottoprefettura fossero tutti presenti. Ma prima di dirvi il perchè di quell'indugio coreografico, credo necessario di darvi un'idea della sala. Non sarà un quadro, ma un semplice abbozzo.
Accanto alla sottoprefettessa, sul canapè di damasco rosso, che era la cattedra pontificale, il sancta sanctorum, e tutto quel che vorrete di più solenne là dentro, sedeva la contessa Gamberini, signora bofficiona e rosea, come contrapposto e compenso all'altra risecchita e giallognola. Tre quattro dame, delle più venerabili di Castelnuovo, sedevano nelle poltrone, vicino al canapè, facendo circolo alle due maggiori divinità. Altrettanti medaglioni mascolini si accompagnavano ai femminili. Erano i notabili di Castelnuovo, il sindaco, l'assessore anziano, il notaio, un magistrato a riposo, e via discorrendo. Pareva di vedere un lettisternio di Numi, sul fare di quelli che gli antichi romani collocavano in un luogo rilevato del triclinio, per avere gli Dei testimoni ed auspici ai loro banchetti. Se l'immagine pagana non vi garba, mettete che il canapè fosse un altare cristiano. Il signor sottoprefetto ne era il sacerdote; ed ora appoggiato ad un bracciuolo, in cornu epistolae, dov'era sua moglie, ora all'altro, in cornu evangelii, dov'era la contessa Gamberini, celebrava i divini uffizi, ministrava il verbo governativo ai fedeli.
Più in là, accanto ad una mensola enorme, su cui torreggiava uno specchio antico, dalla cornice intagliata e dorata, si raccoglieva un crocchio più allegro, sebbene le teste grigie vi abbondassero. Il ricevitore del registro, ottima persona, amante della burletta, intratteneva i suoi colleghi delle ipoteche, delle dogane e dei pesi e misure, con qualche storiella di gioventù e con qualche accenno discreto alla divina bottiglia. Quelli erano gli uomini che attendevano tutto il santo giorno al loro ministero, ma non amavano portarne il ricordo con sè, dopo la chiusura dell'uffizio.
Vicino al pianoforte, dall'altra parte della sala, era un altro crocchio, più numeroso, quello dei giovani. Lo dominava con tutta la sua autorità quadragenaria la signora Morselli, donna stimabilissima, che aveva un solo difetto, quello di credersi un soprano sfogato. Lo temperava, per altro, non cantando mai se non pregata e ripregata. E la pregavano, e la ripregavano sempre, non foss'altro, per sentimento di gratitudine; poichè la sua presenza dava a tutti i giovani dei due sessi un ottimo pretesto per rimanere lontani dal gruppo delle persone gravi, che pontificavano intorno al canapè di damasco rosso. In quel crocchio di giovani, amanti della musica, si degnava di stare più a lungo che altrove la contessina Berta Gamberini. Laggiù si vedevano i pochi zerbinotti di Castelnuovo; farfallini più o meno eleganti, che aliavano dal pianoforte ad una tavola rotonda, su cui, intorno ad una lampada Carcel, piantata in un vaso che voleva parere della Cina, erano disposti gli albi, le strenne, i giornali, ed altre curiosità, che ottenevano di tanto in tanto uno sguardo della signorina Adele Ruzzani.
Berta Gamberini e Adele Ruzzani erano i due poli di quel piccolo mondo.
I due poli magnetici, intendiamoci, e non i geografici, che non mi servirebbero di paragone, così freddi come sono, e circondati di ghiacci millenarii, mentre qui s'ha a descrivere la gioventù che piace e la bellezza che rimescola il sangue.
Berta, a dir vero, non era una bellezza da far ammattire la gente. Inoltre, appariva troppo grave, troppo compassata; e questo, se conferiva alla nobiltà dell'aspetto, nuoceva all'espressione. Ci si vedeva l'alterigia di cinque generazioni di Gamberini, ci si sentiva la degnazione, anche quando, pregata dalle amiche, metteva le mani sulla tastiera del pianoforte. Adele Ruzzani era più bella, più attraente, e, secondo i casi e gli umori, anche più amabile. Per altro, bisognava far l'occhio a certe bizzarrie. Adele Ruzzani portava i capelli corti, tagliati poco sotto all'orecchio, come un paggetto medievale. A taluni la novità piaceva, ad altri no; le amiche sostenevano che i capegli di Adele, scorciati fin da quando era bambina, duravano così, perchè non avevano voluto più crescere. Ma l'acconciatura di Adele Ruzzani era certamente un capriccio. Piacesse, o no, quella zazzerina bionda, che saltellava ad ogni moto del capo, si attagliava benissimo alla sua spiritosa figura. Adele Ruzzani, poi, non amava molto la musica; ballava per mera condiscendenza e non voleva parlar mai di mode. Non aveva i gusti femminili; le piacevano i discorsi gravi, quantunque non isgradisse di variarli spesso, saltando, come suol dirsi, di palo in frasca; si lagnava qualche volta di non sapere il greco e il latino, e prometteva d'imparar l'uno e l'altro alla prima occasione. Quasi sarebbe inutile il dirvi che l'occasione non veniva mai. A quella graziosa birichina mancava sempre il tempo di fare una cosa simile, e di desiderarla per due giorni di seguito.
Ad onta di questi difetti, che parranno piccoli o grossi, secondo il modo di vedere, i giovani facevano tutti la ruota davanti alla signorina Adele. Non sempre ci si trovavano bene, con lei, che aveva l'aria di canzonarli, e che li piantava lì su due piedi, non badando ai loro madrigali, per tener dietro ad un ragionamento di amministrazione, o di politica pura. Sì, Dio buono, anche di politica, che è il colmo dell'abominio.
—O perchè non lascia questi discorsi agli uomini?—si chiedeva qualche volta, vedendo la signorina Adele infervorarsi in quelle miserie dello spirito.
Domanda vana, che risponde ad un sentimento sciocco. Io, per me, vorrei che certi discorsi, con cui andiamo turbando la nostra esistenza mascolina, se li usurpassero pure le donne. Quando odo una bella figlia d'Eva ragionar di politica, Dio mi perdoni, l'abbraccerei. Ecco, io dico tra me, ecco una persona che ci trova gusto, a masticare questo pezzo di sughero!
Adele Ruzzani era dunque una fanciulla capricciosa. Ma, lo ripeto, non faceva fuggire nessuno. Quante cose non si permettono ad una coppia di milioni, quando vestono gonnella? Si può dir corna di quei milioni, desiderare di vederli spartiti, quegli spicchi di settantacinque centesimi, che toccherebbero ad ognuno, secondo i calcoli più diligenti, se la divisione fosse fatta con equità, dal primo dei livellatori all'ultimo dei livellati; ma intanto quei due milioni comandano il rispetto, incatenano lo sguardo. Si fa il filosofo, si torce il muso, si gira, ma ci si casca poi sempre, anche giurando che ciò si è fatto per la bellezza di due occhi, per la freschezza di due guance, e via discorrendo. Il fatto sta che si guarda quella bellezza due volte più delle altre, collocate su d'un piedestallo più umile, e si ha l'aria di voler trovare la ragione di certi riflessi dorati nella cavità dell'occhio e nel sottosquadro della guancia.
Resta sempre che bisogna essere scaltri e non lasciarsi scorgere. Le ragazze in genere sono furbacchiotte, e le ricche in particolare sono sospettose. Con loro, anche a non pensarci affatto, potreste passare per cacciatori di doti.
E scaltro la parte sua era il signor duca di Francavilla. Il giovane dilettante di archeologia preistorica mostrava un'eguale sollecitudine per tutti gli strati sociali di Castelnuovo. Faceva nobilmente la sua corte alle signore attempate; poi, senza parere, andava dalle giovani, prendendo posto in mezzo ai due crocchi, mettendosi all'equatore tra quei due poli, ora tenendo a chiacchiera la signorina Adele, ora la contessina Berta, parlando a questa di musica, a quella di viaggi. Per allora, la Gamberini amava discorrere di Riccardo Wagner, la Ruzzani della Nuova Guinea. E il Francavilla passava dal Lohengrin ai Papuas, con quella leggerezza, con quella disinvoltura che fa onore a chi parla e invidia a chi ascolta.
Nè, per la signorina Adele e per la contessina Berta, erano dimenticate le altre. Il signor duca di Francavilla pagava nobilmente l'ospitalità di Castelnuovo. Aveva gentilezze per tutte; gli bastava il cenno di questa o di quella per cambiar materia; pari alle farfalle di carta inventate dai giapponesi, svolazzava di qua e di là ad ogni soffio, e non toccava mai terra. Duca portentoso! E dire che quel giovinotto, uno tra i primi gentiluomini d'Italia, era là, ascoso in un circondario campestre, passando le mattinate a scavare il suolo delle caverne, e le serate a profondere il suo spirito nella sala di una sottoprefettura!
A proposito, e dove abbiamo lasciato il nostro ottimo sottoprefetto?
Un uomo simile non va trascurato. Egli è il primo in Castelnuovo
Bedonia, non lo dimentichiamo.
Il nostro cavalier Tiraquelli era rientrato nella sala di ricevimento, in compagnia del fido signor Prospero Gentili, il cui volto aperto e sorridente pareva già lumeggiato dai toni caldi d'un collare della Corona d'Italia. Il futuro commendatore aveva fatto un mezzo giro a sinistra, per andare tra gli uomini gravi, nel consesso degli Dei, accanto al canapè di damasco rosso, dove sfolgoravano di luce propria la padrona di casa e la contessa Gamberini. Il sottoprefetto aveva fatto un mezzo giro a destra, verso il crocchio dei begli umori; aveva ascoltata con benevola gravità una barzelletta del ricevitore del registro; quindi, come un sovrano in volta attraverso le file de' suoi cortigiani, era andato verso il pianoforte, dove scoppiettava l'arguzia del duca di Francavilla.
—Signor duca, bene arrivato. Di che si parlava?
—Ah sì, Ella capita proprio a tempo, signor cavaliere,—disse il duca, ridendo.—Ce n'ho una che vale un Perù. Ella ha nella sua giurisdizione una meraviglia, ed io non ne sapevo ancor nulla.—
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia atteggiò le labbra ad un sorriso tra l'arguto e il melenso, che rispondeva benissimo allo stato particolare di un uomo, il quale per ragione dell'ufficio dovesse indovinare a volo e che frattanto avrebbe voluto essere aiutato un pochino.
—Una meraviglia!—esclamò egli avvicinandosi e cercando di guadagnar tempo.
—Mi correggo;—ripigliò il duca di Francavilla.—Le meraviglie, nel suo circondario, sono parecchie, anzi più delle sette di cui si vantava l'antichità;—soggiunse egli, volgendo intorno una rapida occhiata, come se volesse sparpagliare il complimento tra tutte le sue ascoltatrici.—Ma intendevo parlare d'una meraviglia medievale, di una stranezza, d'un anacronismo…. infine, per chiamar le cose col loro nome, del convento dei matti.
—Ah!—rispose il sottoprefetto, dando una rifiatata.—E lei, signor duca, si è inerpicato fin là?
—Certamente; il dilettante d'archeologia preistorica ha perduta la sua giornata, facendola guadagnare al curioso. Ho veduto il convento dei matti e ci ho mangiata anche la frittata dell'amicizia.—
Il duca di Francavilla non s'immaginava di aver fatto una cosa tanto singolare. Lo pensò, quando vide che tutti gli si strinsero intorno, come altrettanti bambini a cui avesse raccontato di essere andato alle tre montagne d'oro, o agli alberi del sole.
—Racconti, signor duca, racconti!—gli dissero.
—Penetrare nel convento dei matti non è mica una cosa facile!
—Davvero?
—Sicuramente, e Lei può stimarsi fortunato. Ci è una guardia così severa contro tutti i curiosi!
—È vero quello che se ne dice?—domandò la signorina Adele Ruzzani.
—Signorina….—rispose il duca,—io veramente non so che cosa se ne dica….
—Che ci sono in quel convento degli uomini in collera col mondo.
—Come tutti i frati, signorina.
—Che si lasciano crescere la barba fino alla cintura;—soggiunse la signora Morselli.
—E si scavano la fossa come i certosini;—rincalzò la contessina
Berta.
—Signore mie, non ho veduto niente di ciò;—rispose il duca di Francavilla.—Ho trovato delle persone a modo, con le barbe regolari, ed anche col mento raso. Che siano in collera col mondo, mi par di capirlo dal fatto che si son dati alla vita monastica. Ma infine, non mi è sembrato che odiassero tutti, poichè mi hanno ricevuto benissimo, senza sapere chi fossi, e mi hanno lasciato andare via senza domandarmelo affatto.
—Essi,—notò il sottoprefetto,—non odiano che il sesso gentile.
—Oh brutti!—esclamò la signora Morselli, con un gesto di orrore.
—Già,—continuò il sottoprefetto,—abborrono le giovani; per aver grazia davanti a loro, bisogna essere venerabili.—
La signora Morselli che voleva essere annoverata fra le giovani, arricciò il naso, peggio che non avesse fatto da prima.
—Ma in che modo è andato a battere lassù, signor duca?—ripigliò il sottoprefetto, lasciando a mezzo il suo dialogo con la signora Morselli.
—Oh, in un modo naturalissimo, e quasi senza avvedermene. M'ero alzato stamane per tempo, e andavo al mio lavoro prediletto nella caverna della Ripa, quando mi venne udito dalla costa di rimpetto il rumore di alcuni sassi che si staccavano dall'alto e sdrucciolavano giù per la frana. Alzai gli occhi e guardai. Credetti alle prime di riconoscere un cane; ma la sua andatura guardinga per un sentiero così strano, mi pose in sospetto.
—Un lupo, forse?—disse la signora Morselli, fingendo un brivido di leggiadra paura.
—No, una volpe. Non istetti molto ad accertarmene, osservando la sua coda alta e vistosa. Avevo il mio fucile ad armacollo; ma la distanza era troppo grande e non mi fidai di lasciarle andare una botta. Un contadinello che veniva dietro a me, con un carico sulle spalle, mi disse:—"Badate, se volete prenderla, io posso insegnarvi il suo covo, che è là."—E mi additava una balza, sormontata da cinque o sei pini bistorti, a forse cinquecento metri dal punto ov'era la volpe.—"Vuoi tu accompagnarmi?"—gli dissi.—"Per ora, fino a mezza strada,—mi rispose;—ma se volete aspettarmi, tanto che io consegni questo carico alla badìa, vi accompagnerò fino alla tana."—Non sapevo che si trovasse una badìa da quelle parti, e domandai che frati ci fossero.—"Non son frati,—mi disse il contadino,—quantunque vestano da frati; il parroco dice che son lupi travestiti da pastori; la gente dice che son matti."—"E tu che cosa ne dici?"—"Che potranno benissimo esser matti, ma che di sicuro non sono lupi, e che non vanno vestiti da pastori, perchè hanno la tonaca, proprio alla maniera dei frati."—La cosa mi parve singolare. Lasciai correre la volpe e interrogai il contadino, sperando di cavarne qualche notizia intorno a quel convento di frati che non erano frati, di lupi che non erano lupi, e di matti che potevano esser savi, più di tanti e tanti che ne hanno la riputazione. Ma il contadino mi aveva detto quasi tutto quel che sapeva. Gli abitatori del convento non li conosceva; soltanto ne aveva veduti due o tre da lontano, e non era in relazione che col frate converso. Egli non mi sapeva descriver nulla, neanche l'abito di quei monaci, se avesse qualche particolarità notevole, che lo avvicinasse ad un ordine, o lo distinguesse da un altro. Ed io, curioso come…. un uomo, risolsi di accompagnarlo fino alla porta del convento. Tanto, a sentir lui, era tutta strada per andare verso i pini, dove ci aveva il suo covo la volpe. Mi allontanavo invece dalla mia caverna ossifera; ma questa mi avrebbe sempre aspettato. Eccomi dunque, signore e signori, in viaggio per il convento dei matti. Si passa un torrentello, si entra in una forra, si scende ancora, fino ad un ponte massiccio, d'un arco solo, che mette ad una torre quadrata con le sue feritoie in basso, le sue caditoie in alto e i merli sul colmo, come ogni torre che si rispetta.
—Dio, come descrive bene!—mormorò la signora Morselli.—Par di vederla.
La modestia del duca di Francavilla fece le viste di non aver udita la mezza voce del soprano sfogato.
—Di là dal ponte,—diss'egli, continuando,—è una macchia fitta di frassini e di cerri che nasconde il sentiero. Che pace, là dentro! Solo a vedere quella conca di verde cupo, ho intesa la vita monastica, e per cinque minuti ho invidiati i santi uomini che vissero là dentro, ignorati dal mondo.
—Fino alla soppressione delle fraterie;—notò il sottoprefetto.—L'eremo di San Bruno è stato venduto dieci anni fa.
Le signore mostravano desiderio di udire la continuazione del racconto. E il duca proseguì:
—Entrato sotto il portico in compagnia del contadino, vidi il frate converso, un giovialone con tre giri di pappagorgia, tondo come una botte, ma giovane ancora, e con due occhietti neri che non stavano mai fermi. Voleva parere arcigno, ma non gli riuscì.—"Che cosa vuole, questo signore?" chiese egli al contadino.—"È un cacciatore, e domanda di riposarsi un poco."—"E vorrà un bicchier di vino, m'immagino."—"Padre,—risposi io,—l'ora è troppo mattutina."—"Che! mattina o sera, è sempre ora di bere."—"Concedo, ma a patto che si sia mangiato un boccone."—Il converso mi guardò con aria compassionevole.—"Non è l'opinione di tutti i filosofi;—rispose;—Anassagora pretende che si debba ber vino soltanto post pastum; Zenone invece sostiene che potum semper juvabit."—Volli mettermi anch'io all'altezza di quella erudizione burlesca e replicai:—"Ambedue s'accordano per combattere la dottrina di Talete."—"Ah sì?—ribattè egli con accento tra il burbero e il rabbonito.—E che cosa dice Talete?"—"Aqua optima rerum."—"Per risciacquarsi il viso una volta alla settimana, non nego."—"Padre, io m'inchino alla sua equanimità; il mondo fu più severo di Lei, e condannò il sistema di Talete all'oblìo." Queste parole mi fruttarono un sorriso del frate converso, il quale mi disse:—"Venga al convento e farà colazione."—In ogni altra circostanza avrei ringraziato, rifiutando; ma quella fortunata occasione di visitare un convento di matti non era da lasciarsi sfuggire, e ringraziai, accettando. Signor ricevitore, non avrebbe fatto lo stesso? Intanto, guardavo il mio uomo, così tondo e così vispo, con quella sua tonaca color tabacco, tutta strappi e frittelle. L'illusione era perfetta; avevo davanti un vero frate torzone. Sbrigatosi dal contadino e preso l'involto sulle braccia, il converso mi accennò di seguirlo. La strada era più grande che non l'avessi creduta da prima, vedendo quella macchia così fitta di cerri e di frassini. Il mio strano compagno mi domandò se fossi del paese, ed io notai l'aria di contentezza che si dipinse sulla sua faccia rubiconda, appena gli ebbi detto che ero forestiero, che mi trovavo a Castelnuovo per ragione di studio. "Il priore è gentilissimo,—mi disse,—e sarebbe anche ospitale, se le visite non fossero quasi sempre di curiosi, che vogliono sapere chi siamo, e perchè viviamo qui ritirati."—"Non vorrei essere importuno"—mi affrettai a rispondere.—"No, non ci pensi neanche;—replicò il converso!—Lei è uno studioso, dunque non è un curioso."—Mi parve che la distinzione fosse molto arbitraria, ma lasciai correre, pensando che lo studioso mascherava abbastanza bene il curioso e che sarei potuto giungere a quel benedetto convento. La strada costeggiava un rigagnolo, ma a poco a poco si alzava sul fianco della collina. Qua e là, a giuste distanze, sorgevano certi tabernacoli, che rispondevano alle stazioni della Via crucis. Dalle vette circostanti si vedevano spuntare i tetti dei romitorii. Finalmente, svoltato un angolo tra due poggi, mi si parò davanti agli occhi una valle, con qualche segno di coltivazione, e un grosso edifizio nel mezzo.
—Il convento di San Bruno:—disse il sottoprefetto, approfittando di una pausa del narratore.—È stato venduto per ottomila lire, e un solo taglio d'alberi ne ha fruttate cento cinquantamila.
—Ai frati nuovi?
—No, a certi speculatori che avevano comperato l'eremo e poi lo hanno rivenduto ai frati nuovi, ai matti, come li chiamano in paese.
—Son matti davvero!—gridò la signora Morselli.—Odiare le donne! Ma si può dar di peggio?
—E quanti sono?—chiese Adele Ruzzani, a cui piacevano poco tutte quelle interruzioni.
—Nove, per ora, ma se ne aspettano cinque.
—Graziosi, quei novizi!—esclamò il sottoprefetto.
—Avanti, coi nemici delle donne!—ripigliò la signora Morselli.—E
Lei, cavaliere, non li obbliga a smettere?
—Signora, mi dica lei come si potrebbe farlo. Sono in regola con tutte le leggi dello stato. Non sono mica una famiglia di monaci all'antica; sono una brigata d'amici che vivono in comune, e non domandano d'essere riconosciuti come ente morale.
—Non ci mancherebbe altro! un ente morale, questo covo di celibi!
—Covo di celibi! Ben trovato! Come a dire un covo di bricconi;—gridò il duca di Francavilla, dando la sua occhiata in giro, per comprenderci anche la signorina Adele, senza aver aria di far preferenze:
—Bisogna disfare il covo!—ripicchiò la signora Morselli, facendo di buona voglia la sua parte di mamma.—Signor cavaliere pensiamoci.
—Eh, pensiamoci pure;—disse il sottoprefetto con aria di condiscendenza, temperata da un sorrisetto e da una crollatina di spalle.—Se in Parlamento penseranno a votarmi una legge contro il celibato, non dubiti, mi metterò subito in campagna, con una mezza dozzina di carabinieri. Signor Prospero, Lei mi aiuterà, chiamando sotto le armi la guardia nazionale.
—Propongo un altro metodo;—entrò a dire il ricevitore del registro.—Sono quattordici, i frati di San Bruno? Si va col sindaco e con quattordici ragazze da marito.
—Bella trovata!—gridò la signora Morselli.—Resta a vedersi se le ragazze di Castelnuovo si degneranno di fare la strada per quei quattordici sciocchi. Già m'immagino che saranno anche brutti.
—No, signora mia;—rispose il duca di Francavilla;—li ho veduti in refettorio e….
—A proposito. Ella deve continuare la sua storia, signor duca. Era rimasto…. Dov'era rimasto?
—In vista del convento. Ma il resto del viaggio può esser soppresso, senza nuocere alla chiarezza del racconto.
—No, no, vogliamo tutto, dall'a fino alla zeta.
—Non le facciamo grazia d'una virgola.
—Capisco,—disse il duca ridendo,—non mi permettono di far punto.
—Incominci, la prego, a non far punto e virgola;—gridò quel capo ameno del ricevitore.
—Obbedisco;—replicò il duca di Francavilla, inchinandosi.—Dalla svolta a cui eravamo rimasti, fino al convento, sono forse mille passi, e la strada scende insensibilmente fin là. Non si direbbe che, in un luogo alpestre come quello, si nasconda una valle, e direi quasi una conca, di così dolce declivio. Ah, non è questo che vogliono, signore mie? Accettino dunque il mio metodo; prendiamo la via più breve ed entriamo difilati in convento. È fabbricato come tutti gli altri, ha un portone, un androne, un parlatoio; certi santi dipinti a fresco lungo le pareti, e i miracoli di san Bruno nelle lunette tra i cornicioni delle mura e gli archetti della vôlta; un cortile con un porticato in giro, il pozzo nel mezzo, e gli ortaggi intorno al pozzo. Dico male; ortaggi, no; ci hanno piantato dei fiori. E questi fiori mi hanno dato da pensare. Perchè dei fiori, nel convento dei matti? Non è una comunità di odiatori delle donne? Ora, dove non si amano le donne, e che servono i fiori? Io non mi ci raccapezzo, e lascio il quesito ad ingegni più accorti del mio. Accennerò soltanto una cosa, che potrà servire come schiarimento agli studiosi. Il frate converso mi ha detto che il priore non ama l'aglio e tollera appena il prezzemolo nella frittata.
—Avanti, signor duca, avanti!
—Sono agli ordini delle signorie loro. Andando oltre in compagnia del converso, incontrai un frate, vestito in tutto come il mio accompagnatore, ma più pulito quel tanto. Mi parve un uomo sui quarant'anni, ma forse lo faceva più vecchio la gravità dell'aspetto. Non badò a me, tranne per rispondere al mio saluto con un cenno del capo.—"Padre Anselmo!" gli disse il converso, inchinandosi.—"Fratello Giocondo!" gli rispose quell'altro. Seppi così che il converso si chiamava Giocondo; un bel nome e bene appropriato al personaggio.—"Chi è questo padre Anselmo?" gli domandai.—"È il bibliotecario" mi rispose il converso.—"Diamine! non l'hanno in cantina, la biblioteca?"—"Che! Magari avessero più vino e meno libri! Ma già, all'esser tinozzi di quel buono, preferiscono d'esser pozzi di scienza, ed hanno fatto una biblioteca ricchissima."—Più avanti, c'incontrammo in un altro.—"Padre Bonaventura!" disse il converso, inchinandosi come prima.—"Fratello Giocondo!" rispose quell'altro, e tirò via.—"E questo chi è?" domandai.—"L'astronomo."—"Come? Avete anche un osservatorio?"—"Sicuramente, e un laboratorio di chimica, e tante altre diavolerie. Tutte le settimane i padri si radunano un giorno a capitolo, e mettono i loro studi in comune."—"Benissimo! E faranno un giornale?"—"Ci hanno pensato,—mi rispose fratello Giocondo,—ma finora non sono in numero per impiantare anche una tipografia. Presto saranno quattordici e allora stamperanno il giornale scientifico."—"Riescirà interessante e lo leggerò volentieri."—"Credo che sarà difficile; fanno conto di stamparne a mala pena quindici copie; una per ciascheduno di loro, ed una per la biblioteca. Almeno, così ho sentito dire."—Rimasi di stucco. Saranno matti, sì e no, pensavo, ma certamente sono molto curiosi. Seguitai il converso; vidi la chiesa, che è stata trasformata in biblioteca; quindi entrai nella sala del capitolo, che ha i sedili torno torno, come al tempo dei frati Camaldolesi, con la giunta di certi scaffali nel mezzo, per le riviste scientifiche, letterarie ed artistiche di tutte le parti d'Europa. Dal medaglione della vôlta, san Bruno benedice ogni cosa.—
La società raccolta intorno al duca di Francavilla s'era fatta seria, a mano a mano che egli procedeva nella sua narrazione.
—È una rinunzia al mondo, senza uscire dal mondo;—osservò il più sentenzioso tra tutti i sottoprefetti del regno.
—Così la intendono difatti;—ripigliò il duca di Francavilla.—Ho veduto finalmente il priore; un uomo sui trentacinque, o giù di lì; bruno di capegli, di fattezze regolari con due occhioni intelligenti che prendono risalto dalla bianchezza del viso. Anch'egli porta la tunica color tabacco, ma dallo scollo gli escono fuori i solini della camicia, che rompono la monotonia del vestiario, e porta in capo una berretta di velluto, tagliata artisticamente, sulla foggia del Cinquecento. Mi accolse benissimo, quantunque gli occhi indagatori tradissero un'ombra di sospetto. Gli raccontai sinceramente chi fossi, perchè mi trovassi a Castelnuovo e, pel momento, lassù. Egli allora ad interrogarmi sulle caverne, sugli scavi, e sulla profondità de' miei studi, che è poca davvero. Si vedeva chiara l'intenzione di darmi l'esame; ma io feci mostra di non avvedermi di nulla e gli sciorinai tutta la mia povera scienza. Ebbi la fortuna di entrargli in grazia; il suo volto si rasserenò e la sua lingua si sciolse.—"Voi ci guadagnate la mano;—mi disse;—anche noi volevamo intraprendere qualche ricerca di questo genere; perchè qui, nel convento di San Bruno, si vuol bastare a molte cose e fare un piccolo mondo per noi."—"Non c'è il grande?" osservai.—"Grande, sì,—mi rispose,—ma noioso troppo, con le sue invidie, co' suoi rancori, e con tutte l'altre malinconie che guastano ogni cosa. Nessuno può viverci a modo suo; e questo sarebbe il meno male;—soggiunse con aria benevola;—ma il guaio è questo, che nessuno può adoperarsi per gli altri, senza esserne pagato di mala moneta. Faccia il mondo i fatti suoi e ci viva dentro chi vuole; noi, tirati in disparte, avremo tutto il buono del mondo, e respingeremo il cattivo."—"Incominciando dalle donne?" osai domandargli.
—Ah, ci siamo!—gridarono le signore.—E che cosa le ha risposto?
—Rimase a tutta prima in silenzio, guardandomi fisso. Veramente, m'ero spinto un po' troppo. Ma la mia aria non era d'uomo che avesse gettato là un frizzo per dar noia al proprio interlocutore, bensì di un uomo che amava illuminarsi nella discussione. E il priore lo intese, poichè, fatto un sorriso malinconico e data una crollatina di testa, mi rispose…. Aspettino, signore mie, vorrei ricordarmi con precisione di tutto. Un ragionamento così bello!…
—Via, per farcelo parere più bello, questo benedetto discorso, non ce lo faccia aspettar troppo;—gridarono le dame, con quel tono di familiare autorità, che dimostrava il conto in cui era tenuto il personaggio.
—Pazienza, lo ripeterò male; ma non sarà colpa mia;—ripigliò il duca di Francavilla.—"Signore, mi disse il frate, non è così che l'intendiamo noi altri. La nostra comunità non ha ufficio di odiare le donne. Esse non entrano nel nostro credo, non fanno parte del nostro ideale, ecco tutto. Si odiano forse i diamanti, per la semplice ragione che non si portano in dito?"
—Ha detto questo, il priore?—domandò la signora Morselli.
—Per l'appunto, signora, e m'è sembrato abbastanza gentile. Non pare anche a lei?
—Sì, per un uomo che sfugge le donne, non c'è male. Continui, la prego.
—Questa, dissi io, è l'opinione della comunità; ma personalmente, quale concetto si formano delle donne?—"Signore mio, personalmente si sfuggono; si sono sfuggite. Ognuno di noi è venuto qua con la seconda vocazione. Si meraviglia di questa mia distinzione? Pure è naturalissima. Ogni uomo ha due vocazioni, nella sua gioventù. La prima, che è vera o falsa, senza che a tutta prima si possa discernere; donde vengono i tardi pentimenti, le smanie e le lunghe agonie del chiostro. Sant'Antonio, romito volontario nella Tebaide, raccolto da mane a sera nelle sue sante meditazioni, vedeva ad ogni tratto il demonio che assumeva tutte le forme de' suoi desiderii soffocati e delle sue ambizioni represse. Santa Teresa sofferse indicibili tormenti, rimpianse più volte il suo voto, e l'ardente misticismo della sua vita e le cagioni della sua morte provarono qual grande sacrificio avesse fatto, e certamente superiore alle sue forze. Non è da fidarsi della prima vocazione. Perciò, la società moderna fa bene a sopprimere, in quel modo che può, tutti gli ordini monastici, fondati sulla indissolubilità d'un voto pronunziato prima del tempo. La seconda vocazione è vera, perchè essa càpita all'uomo esperto nelle battaglie della vita, ed egli vi si abbandona con piena cognizione di causa. Non mi dicano male di questa vocazione e non muovano guerra a' suoi legittimi affetti; lascino a tutti i cuori feriti, a tutte le anime deluse, il loro rifugio nella solitudine, il loro conforto nella pace di un fraterno ritrovo."—"Come è vero!" gridai. La mia esclamazione gli piacque, poichè egli continuò, infervorandosi:—"Voi dunque lo vedete, o signore, ci siamo raccolti in parecchi, tutti colpiti dai medesimi disinganni. Eravamo tre, da principio, come la prima compagnia di san Bruno, e ci eravamo affratellati nei nostri dolori. Non già i dolori dei vent'anni, che son passeggeri come i nembi di primavera; bensì i dolori dei trenta, che hanno una radice più profonda e si nutrono nell'amara esperienza del mondo."—"Scusate,—interruppi,—voi qui parlate dei dolori che reca all'uomo un affetto infelice; ma l'uomo non vive soltanto per l'amore; c'è l'ambizione, potente diversivo; c'è il desiderio di esser utile al suo simile. La politica, per esempio…"—Non mi lasciò finire. E per quanto io m'immagini di far dispiacere al nostro ottimo signor sottoprefetto….
—Dica pure, dica pure!—rispose il cavalier Tiraquelli, a cui era dedicata quella sospensione rettorica.
—Sì,—ripigliò il duca di Francavilla,—a giudizio del mio interlocutore la politica e il desiderio di adoperarsi a pro' del suo simile, sono altrettante afflizioni di spirito.—"È vero,—mi rispose,—ad una certa età l'uomo incomincia a sentire questi filantropici stimoli, d'esser consigliere comunale, deputato, amministratore d'opere pie, membro d'un consiglio agrario, capitano della guardia nazionale…."
—Signor Prospero,—disse il sottoprefetto, interrompendo, non senza un perchè, il duca di Francavilla,—questa è per noi.
—Anzi, tutta per me;—replicò il signor Prospero.—Ma io non me ne lagno. Continui, signor duca, continui.—
Il duca di Francavilla rimase a tutta prima un po' sconcertato; ma intese benissimo che il sottoprefetto voleva offrirgli un appiglio a correggere con le sue note il discorso del priore di San Bruno.
—Non son io che parlo, è il priore;—disse egli;—relata refero, e ambasciatore non porta pena. Non è vero, signor Gentili?
—Gliel ho già detto; continui. Capitano della guardia nazionale lo ero così poco, che il giudizio di questo priore dei matti non potrebbe neanche risguardarmi. Del resto, io non sono un ambizioso pentito,—soggiunse con amabile ipocrisia il signor Prospero,—e senza mestieri di farmi frate.
—Torno dunque con animo tranquillo al priore di San Bruno;—ripigliò il duca di Francavilla.—"Appunto nella politica, diceva egli, toccano all'uomo le delusioni peggiori. Che cos'è la politica, e in genere la passione dell'uomo per la cosa pubblica? Per gli uni è soddisfazione di vanità personale, o giuoco d'interesse; per gli altri uno sfogo d'amor patrio, sentimento nobilissimo tra tutti. Lascio i primi, che non meritano neanche la nostra indignazione, e bado solamente ai secondi. Che conforto è il loro? Che onesta soddisfazione derivano dal tempo e dall'ingegno che sprecano e dalle amarezze che ingoiano? La persuasione di aver fatto opera inutile, oltre che sospetta. E allora vi domando io, con che animo consigliare ad un galantuomo di star saldo nel suo ufficio di palo, che non arresta nulla, e sarà egli stesso travolto? Avete osservata mai,—soggiunse il priore,—la corrente d'un fiume, in un giorno di piena? Rami, tronchi d'alberi, quanto è caduto sotto il gorgo invasore, va via rapidamente a fior d'acqua. Un ramo, un fuscello, quel che volete, lentamente si allontana dalla via diritta. Un vortice ha turbato il suo corso, un fiotto lo ha mandato fuori di strada. E quel ramo, quel fuscello, tentenna un istante, indi a mano a mano si scosta. Sono molti con esso, nella corrente del fiume; parecchi, come attratti da una forza irresistibile, tornano al mezzo, per essere travolti dall'onda; altri se ne allontanano sempre più, e riescono ad afferrare il punto in cui l'acqua, risospinta dalla piena, si ristagna, offrendo a quei rami, a quei fuscellini, un rifugio, un asilo. Io ho sempre pensato che quei fuscellini possiedano un'anima, la coscienza e la volontà di non essere travolti dalla corrente."—"Scusate,—interruppi,—ma l'acqua stagnante è limacciosa, solo la corrente è limpida."—"Volete dire che il mio paragone non corre?—ripigliò il priore, sorridendo.—Sia pure; rivoltatelo, fate che il torbido sia nel mezzo della corrente e il limpido sui lati. Oppure, non vedete nel paragone che il tumulto e la calma."—
—Caspiterina, che sfarzo di ragionamento, per dirle che hanno seguito il rumores fuge di Catone e che odiano il mondo!—esclamò il ricevitore del registro.
—No, mio signore;—rispose il duca di Francavilla;—non odiano il mondo, a rigore di termini. Anche su questo capitolo, come su quello delle donne, ci hanno le loro idee capricciose.—"Il mondo non è brutto,—mi diceva per l'appunto il priore;—il crederlo tale è un errore di coloro che hanno già la mania suicida nel sangue. Il mondo è quello che è, un complesso di bene e di male, con sovrabbondanza di male o di bene, secondo gli umori e la condizione di chi giudica. In ogni sua parte, il mondo può offrire qualche allegrezza, o qualche consolazione, come può offrirne la vita, in ogni classe sociale. L'uomo di senno, in qualunque condizione egli sia, a qualunque classe appartenga, misura il pro e il contro della sua partecipazione, non già con gli occhi dell'egoista, che bada a sè, ma con quelli del generoso, che vuol fare tutto ciò che è utile altrui. E lo fa, all'occorrenza, non badando a speranze di premio, nè guastandosi il sangue, se le trova fallaci; lo fa, sopratutto, perchè giova al suo simile, e solamente nel caso in cui egli è persuaso di giovare. Tra tutte le fatiche una sola è grave, l'inutile. E l'uomo, governandosi in quella guisa, senza sdegno, senza debolezze, senza vani rimpianti, cerca di mettere al sicuro la sua parte di felicità. Non vedete Cincinnato, che coltiva i suoi campi, e prima e dopo i ripetuti onori del consolato, della dittatura e dello interregno? Scipione Africano è inescusabile davvero, perchè va troppo tardi a digerire nella quiete di Literno gli amari bocconi che gli hanno fatto inghiottire i suoi concittadini. Se ci fosse andato prima, non lo avrebbero trovato superbo, nè arrogante, e non gli avrebbero dato del ladro, o poco meno, come fecero, con molto accanimento, in pubblica assemblea; ed egli, educando fiori in riva al suo lago, esule volontario e benevolo, non sarebbe morto arrabbiato."—Così parlò, signore mie, il priore di San Bruno, con molta bontà e senza quel tono cattedratico, che io, compendiando le sue parole, ho dovuto dare al discorso.
—Confessi, signor duca,—osservò la sottoprefetessa,—ch'Ella è innamorato del discorso ed anche dell'oratore.
—Sì, non lo nego, ho trovato del buono nell'uno e nell'altro. E poi, quella cortese accoglienza del refettorio, mi ha messo di buon umore, mi ha fatto parer grazioso, tollerabile, anche quel branco di matti.
—Saluteremo dunque un nuovo frate di San Bruno?—domandò la signora
Morselli.
—Se parla per me, non credo;—rispose il duca.—Ho ben altre idee per il capo!
—E ben altri uffici l'aspettano nel mondo;—aggiunse gravemente il sottoprefetto, dando un'occhiata al signor Prospero, commendatore di là da venire.
—Non ho ambizione,—rispose modestamente il duca;—ma siccome il mondo non mi ha fatto nulla, e non ho ragione di fuggire il bel sesso, che mi è tanto cortese della sua attenzione in questo momento, io non mi farò frate, lo giuro. Dico soltanto che anche lassù, per qualche settimana, ci si potrebbe vivere. È intenzione di quei frati di avere nel loro convento ogni cosa necessaria, ed anche molte delle superflue, che pure aiutano tanto ad abbellire la vita e a coltivare lo spirito. A farla breve, si foggiano un piccolo mondo nel grande, e ci si chiudono dentro.
—E dal grande,—chiese il sottoprefetto, col suo solito acume,—non filtrerà nulla di gramo nel piccolo?
—Sostengono di no, cavaliere mio. La loro teorica, come ho avuto l'onore di dirle, è fondata sulla serietà della seconda vocazione. Uomini provati alle battaglie e infastiditi dalle vanità della vita, si ritirano al deserto, non portando altro con sè che il desiderio della pace. Quali ambizioni minute potrebbero turbarli nel loro ritiro, se hanno rinunziato alle grandi? L'Ariosto ha collocata la discordia in un convento di frati. Ma questi hanno giurato di non volercela a nessun patto. Per dare il buon esempio, il priore, a mala pena saranno arrivati i cinque nuovi compagni che si aspettano, convocherà il capitolo, per rassegnare la sua dignità, accettata pro tempore e nel solo intento di dare indirizzo al suo ordine.
—Ed è un bel giovane, questo priore?—domandò la signora Morselli.
—Tanto simpatico;—rispose il duca.
—E in che modo s'è ridotto lassù? Che disinganni ha potuto avere?
—Signora mia, glie l'avrei chiesto volentieri, ma ho avuto paura di passare per un curioso. Lassù non amano i curiosi, e ho dovuto tenermi la voglia in petto.
—E gli altri frati, come sono?
—Belli e brutti, giovani e maturi; ce n'è per tutti i gusti.
—Oh, stiano pure da sè;—gridò la signora Morselli.—Nessuna donna vorrà piangere la loro fuga dal mondo. Quantunque,—soggiunse,—bisognerebbe trovare il modo di farli pentire. Questo loro proponimento mi pare una sfida bella e buona, e Lei, signor cavaliere, dovrebbe raccoglierla.
—Ci penserò;—disse il sottoprefetto, con accento solenne.—Qualche cosa si potrà fare certamente. Perchè infine, Ella ha ragione, signora; qui c'è un principio di mal esempio. Nessuno può sottrarsi agli obblighi della convivenza sociale; è cànone di filosofia civile. Siamo tutti operai, del pensiero o del braccio. Una società bene costituita non può ammettere queste diserzioni, e un savio governo dee volgere tutta la sua autorità a rimediarci. Questi tentativi di ribellione alla legge morale, anche non espressamente vietati dal codice, vogliono essere repressi, con quel diritto che emana dallo spirito, se non dalla lettera del codice. L'uomo che si apparta è come il lavorante che si arresta, ritardando col fatto suo il compimento dell'opera comune. Sventura ai popoli in cui s'infiltra questo male del ritirarsi in disparte, poichè allora la decadenza incomincia! Abbandonare le vie del consorzio benevolo, per pochi o molti dolori che se ne temano, è un rinunziare anticipatamente all'onore e al frutto delle utili iniziative, in cui c'è campo per tutte le operosità; un rinnegare la saviezza vigilante del governo, che tutto vede, punisce e premia quando occorre, ed ha balsami anche per la virtù male ricompensata. Questa, almeno,—conchiuse il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia,—è la mia opinione.—
E si concentrò gloriosamente nel vuoto sonoro delle sue frasi, lasciando che i suoi uditori argomentassero, da quel piccolo saggio, con quante chiacchiere si governi il mondo.
Arrivato a questo punto della mia narrazione mi par di sentire il lettore che esclama:—Un nuovo ordine monastico nel secolo decimonono! E, quel che è peggio, senza l'accompagnamento dello scopo religioso! nel solo intento di appartarsi dal mondo! Eh via!
Lettore umanissimo, e perchè no? Siamo davanti ad un caso strano, lo capisco. Ma il secolo decimonono, in riga di pazzie, va forse celebrato come la perla dei secoli? O non ne ha già fatte fin d'ora più di tutti i suoi riveritissimi predecessori? Vedete l'Icaria di Cabet, il Falanstero di Saint-Simon, il mormonismo, lo spiritismo, il comunismo, il nichilismo, e tanti altri tentativi di cataclismo. Io non voglio certamente paragonare tutta questa grazia di Dio con un povero convento di matti; mi fermo, anzi, a stabilire come esso sia il meno spiccato, il più innocente, il più roseo, tra tanti bei saggi della incontentabilità umana; i quali, germogliati all'ombra delle patrie leggi e fiorenti al sole della libertà….
Ma qui m'accorgo di metter mano ad una retorica, sulla quale il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia potrebbe vantare il diritto della priorità. Prior in tempore, potior in jure; lasciamo dunque la retorica al degnissimo cavalier Tiraquelli, e ripigliamo il filo del nostro racconto.
Il monastero di San Bruno aspettava in quei giorni un rinforzo. Erano cinque i nuovi ospiti, cinque le anime deluse che la seconda vocazione spingeva a cercare la pace in quel nido di laici regolari, sotto il governo temporaneo di padre Anacleto. Con questo nome era riconosciuto il priore. Fratel Giocondo aveva ricevuto ordine di dar passo ai cinque nuovi compagni, a mala pena si fossero presentati sul ponte, chiedendo d'essere avviati al convento.
La stessa mattina in cui aveva ricevuto quell'ordine del priore, il nostro converso dischiuse i battenti della torre a due ospiti. Veramente, gliene avevano annunziato cinque; ma non era poi necessario che dovessero capitargli tutti insieme.—Sono già due;—osservò egli giudiziosamente in cuor suo,—gli altri verranno dopo.
E rivolto ai due visitatori, domandò loro col sorriso sulle labbra:
—Vengono per farsi frati?
—È il nostro desiderio;—disse il più giovane dei due, mentre l'altro crollava la testa in atto di santa rassegnazione.
Erano due tipi diversi, nell'età, nell'aspetto, nella espressione. Il giovine era biondo, di belle fattezze e di proporzioni elegantissime, ma un pochettino impacciato ne' suoi abiti di viaggio. Come mai, sul limitare della vita, sentiva il desiderio di rinchiudersi in un convento? Quali dispiaceri potevano averlo colpito, con quella figura di arcangelo in vacanza, che pareva fatta a bella posta per vincere ogni resistenza? E il vecchio, così grasso, tondo, rubicondo e lucente, di che cosa poteva egli lagnarsi? Forse il cuoco gli aveva mandata a male una salsa? Ma bastava ciò per disamorare del mondo un bofficione di quella fatta?
Ahimè, lettori, pur troppo le apparenze ingannano. E nel caso presente ingannavano più che mai.
Scambiate le poche parole necessarie e pagato il contadino che aveva portate le loro valigie, i due viaggiatori seguirono il converso, a cui il più giovine dei due sorrise amabilmente, come si sorride in paese straniero ad una faccia conosciuta. Entrati nel bosco, risalirono il viale dei frassini, svoltarono tra i due poggi che sapete, videro il convento in mezzo alla sua conca di verdura, ridiscesero e finalmente giunsero al parlatorio.
—Vado ad avvertire il padre priore;—disse fratello
Giocondo.—Intanto farò mettere le loro valigie nella foresteria.
—Benissimo!—rispose l'arcangelo in vacanza; e parve (mi scusi l'ombra dell'Ariosto, se guasto un verso all'Orlando) e parve Gabriel che dicesse: ave.
Prima di andarsene di là, il frate converso diede una sbirciata ai due viaggiatori.
—Sarà un bel fratino, in fede mia!—diss'egli tra sè.—Ma lo accetterà il priore, che vuole la seconda vocazione? Speriamo che il su' babbo ne abbia per due;—soggiunse, pensando al più vecchio dei nuovi venuti.—Quello là è uomo da prendere di primo acchito il posto di cantiniere.—
Il parlatorio era, come tutti i parlatorii di frati, una stanza seminuda e fredda.—Nè i laici regolari, che avevano preso il posto dei Camaldolesi, si erano dati pensiero di abbellire quella parte dell'edifizio; una tavola di noce contro il muro, otto seggioloni in giro, un quadro scorniciato alla parete, erano tutti gli arredi della stanza. Il quadro rappresentava Mastino II della Scala; un uomo dalla barba di color castano, con un berrettone di pelo in testa, il sorcotto rosso sulla maglia di ferro, e la faccia veduta di profilo, forse per lodevole intendimento del pittore di far sapere alla posterità che quel pessimo arnese non aveva il tipo greco. Che diamine faceva Mastino II nel parlatorio di San Bruno? Quel che fanno tanti vecchi ritratti nelle case moderne. Avanzi di eredità trapassate più volte, compre fatte da un antenato in un momento di buona luna, non si sa il più delle volte chi siano; o quando si sa, resta il dubbio intorno alla strada che hanno fatta per giungere in casa.
Non c'era da guardar nulla, in quel ritratto, almeno cent'anni più giovane del suo originale. Veduto il nome di Mastino II, che era scritto a lettere gialle nel fondo del quadro, secondo il costume del quattrocento, il più giovane dei due viaggiatori si volse all'altro, e sorrise ammiccando, come se volesse prendersi spasso di lui.
—È proprio così? Non si ritorna indietro?—gli chiese quell'altro, con un piglio malinconico che faceva un bizzarro contrasto con la sua florida cera.
Il giovine aggrottò le ciglia in atto di chi non vuol sentire osservazioni ed è lì lì per escire dai gangheri.
—Zio, te l'ho detto; o fai a modo mio, o mando giù un veleno. Bada a te, di qui non si sfugge.
—Ma vedete un po'!—disse quell'altro, salutato col nome di zio.—Son dilemmi da farsi?
—Eh, sicuramente; quando si ha a fare con un ostinato come te!… Al polo, no; all'equatore nemmeno….
—Ma era un'impresa da matti!—esclamò il povero uomo.
—Non esciamo dunque di strada;—ribattè il giovine, crollando la testa con un piglio d'autorità consapevole;—eccoci a casa nostra, nel convento dei matti.—
Con quel biondo cherubino non si poteva vincerla nè impattarla. Lo zio fece come Giacobbe nella sua pugna con l'angelo; si diede per vinto ed alzò gli occhi al cielo, in atto di offerta e di rassegnazione, ma non senza aver data una sbirciatina malinconica all'occhiello del soprabito, che sarebbe rimasto vergine del brigidino commendatorio. E sospirò, tra un'occhiata e l'altra.
L'uscio del parlatorio si aperse e fratel Giocondo annunziò la venuta del priore. Lo zio, ricordandosi d'essere stato capitano della guardia nazionale, assunse un'aria dignitosa, se non a dirittura marziale. Il nepote scosse leggiadramente la sua zazzerina bionda, compose le labbra ad un sorrisetto malizioso e volse gli occhi all'entrata, per ricevere la prima impressione.
C'era un fil di ridicolo in quella condizione di laici che volevano parer frati. Ma bisogna dire ad onor loro che non si curavano affatto di ciò, e che la noncuranza prendeva carattere di dignità. Vivevano in quella solitudine non cercando nessuno; chi ci andava doveva accettarli come volevano essere. Frati o non frati, avevano scritta sulla porta del monastero la sentenza inventata dal Rabelais: Fais ce que voudras, e non si occupavano d'altro.
Il padre Anacleto, degno priore di San Bruno, non era grave che a mezzo, e portava con disinvoltura cavalleresca la sua tonaca lunga, di color tabacco. Aveva la barba nera, finissima, un po' rada e corta sulle guance, i capegli riccioluti e lucenti, la fronte ampia, lo sguardo aperto, il naso diritto e fine, il labbro sottile e vermiglio. Il primo sentimento che destava a vederlo, era di schietta simpatia; il secondo di stupore e di curiosità. Come poteva essere che un uomo così giovane e d'aspetto così piacente si fosse dato ad un genere di vita, che era una rinunzia anticipata a tante allegre vittorie? Ma guardandolo attentamente, nel corso della conversazione, si notavano alcune rughe sottili sulla fronte, le quali talvolta si raccoglievano a fascio nel mezzo delle sopracciglia; si vedevano certe contrazioni improvvise di labbra, certe nubi di tristezza sugli occhi, e si capiva allora che quell'uomo era vissuto molto in breve spazio di tempo, e che le burrasche della vita potevano aver fatto assai più che solcargli la fronte, o adombrargli lo sguardo.
Aveva in mano la sua berretta di velluto, e la sporse avanti, in atto di salutare, mentre con una occhiata cercava di abbracciare i due visitatori e di coglierne a volo i pensieri.
—In che posso servire le Signorie loro?—dimandò, poichè li ebbe invitati a sedere.
Lo zio aperse le labbra per rispondergli, ma non gli venne fatto di spiccicare una sillaba. Perciò, rinunziando ad una impresa che vedeva superiore alle sue forze, si volse al nepote con la muta preghiera dello sguardo. L'arcangelo in vacanza crollò leggermente le spalle, in atto di stizza non potuta nascondere, per quella che gli pareva una insigne debolezza d'animo, e rispose tutto d'un fiato:
—Signore, siamo due che vogliamo ascriverci alla regola di San
Bruno.—
Il priore sorrise, e, con accento pacato che non escludeva un senso d'arguzia, ripigliò:
—Si dice San Bruno per mo' di dire. Ma sanno proprio le Signorie loro di che cosa si tratta? L'ordine è forse un tantino burlesco nella forma, poichè non siamo frati, ma è serio nella sostanza, poichè abbiamo una parola d'onore, la quale ci obbliga come il più solenne dei voti.
—Lo sappiamo;—replicò l'arcangelo.—Si vien qua per vivere fuori del mondo, non curando le sue vanità dolorose.
—È vero,—disse il priore, inchinandosi,—ma non è tutto il vero. Ciò ch'Ella dice, mio giovine signore, ognuno di noi potrebbe farlo da sè, ritirandosi per sua elezione a vivere in campagna. Qui, invece, viviamo uniti, foggiandoci il nostro piccolo mondo, riveduto e corretto, senza le noie del grande, ma con tutto il buono, con tutto l'utile che può trovarsi nella vita. Rinunziamo agli affetti pericolosi che lasciano tracce di dolore e di amarezza, ma vogliamo e pratichiamo la carità fraterna, che è un santo bisogno del cuore: rinunziamo alle ambizioni, ma ci dedichiamo allo studio, che affina l'intelligenza ed è poi il naturale ufficio dello spirito.
—Lo sappiamo, padre, e Le domandiamo di poterci dedicare con Lei a questo genere di vita.
—Ma badi;—osservò il priore.—È un genere di vita più alto, o più umile, secondo si guarda, ma certamente diverso da quello che si fa generalmente e a cui c'indirizza la nostra educazione e l'ardore delle nostre passioni. Perciò, a non aver pentimenti, è necessaria una vocazione sincera, e riconosciuta tale, mercè il confronto, che può farsi solamente quando si è vissuto a lungo tra gli uomini. Non basta un desiderio onesto di pace, o una poetica aspirazione alle squisite compiacenze della solitudine; è necessario che il desiderio sia profondo e l'aspirazione provata nei disinganni della vita. Che il mondo offra amarezze e dolori in molto maggior numero e quantità dei piaceri e delle consolazioni, è cosa nota oramai, e può esser creduta anche, sulla fede dei vecchi, da coloro che non ne hanno fatta la triste esperienza in sè medesimi. Ma altro è l'accettare per vera una massima, altro il conformarvi tutta quanta la vita. Si conosce il bene e si loda, ma ci si attiene al peggio, o ci si torna quando fa comodo. Da questo rifugio, invece, non si ritorna più indietro. Donde la conseguenza che ci si debba venire…. (mi scusi, ma la franchezza è necessaria)…. che ci si debba venire ad una età più matura, che non sia, per esempio, la sua.
—Ho ventidue anni;—disse arditamente l'arcangelo.
—Sia pure, ma non è molto. E poi, Ella non ha neanche l'ombra dei baffi.
—Scusi, che gliene importa a lei?—
Il priore sorrise, a quella involontaria scappata del biondino.
—A me, nulla;—rispose.—Ma non vorrei aver l'aria di accalappiar minorenni.
—Son solo; non ho che mio zio;—ribattè il giovine.—E mio zio, qui presente, si fa frate con me.
—Davvero?—chiese il priore, volgendosi allo zio.
—Davvero;—rispose questi, facendo il gesto dello et cum spiritu tuo.
Il padre Anacleto ebbe un istante di raccoglimento; indi alzò la fronte, come un uomo che ha preso un partito e si dispone a parlare. Ma il pensiero del nostro personaggio doveva essere difficile ad esprimersi, anche per un uomo della sua autorità, perchè egli, dopo aver sollevata la fronte, stette parecchi secondi immobile, con gli occhi fissi sul volto del giovane cherubino. Questi arrossì fino alla radice dei capegli, ma non chinò altrimenti i suoi.
—Mi perdonano la franchezza?—incominciò finalmente il priore.
—Dica liberamente.
—Ma badino,—soggiunse,—voglio essere schietto, anche a risico di parere…. scortese.
—Non le riuscirà;—disse il cherubino, che non aveva ancora ombra di baffi, ma dimostrava già di aver molto giudizio.
—Grazie;—rispose il priore, cascando e sapendo di cascare.—Volevo dire che dubiterò; e il dubbio è sempre scortese; ne conviene?
—Secondo la maniera di esprimerlo;—ripigliò il cherubino.
—Orbene,—disse il priore, stringendosi nelle spalle,—prendiamo la forma più mite. Qui vedo due cose, egualmente temibili. O si tratta d'uno scherzo….—
A queste parole, il cherubino scattò sulla sedia.
—Non c'è scherzo, qui;—interruppe egli vivacemente;—La prego a crederlo; lo giuro sul mio onore. M'ingannerò…. c'inganneremo,—soggiunse, ravvedendosi tosto,—ma è un nostro desiderio sincero di viver qui, se Ella non ce ne reputa indegni. Siamo gente per bene, pronti a sopportare la nostra parte di spese, a metter fuori quanto occorre, e più ancora, per vivere in questa comunità di San Bruno. L'idea è superiore alla mia età, dice Lei. Che cosa ne sa? Scusi, veh! Non sono ancora sotto la sua tutela. Riconoscerò domani la sua autorità, la sua giurisdizione. Per oggi almeno mi lasci dire liberamente quello che penso. Che cosa ne sa? Metta che io sia vissuto nel mondo quanto occorre per capire che esso non val nulla, che è bugiardo, sciocco e noioso. Non basta, forse, per venire a rifugio quassù?
—Eh, non basterebbe;—disse il priore, crollando la testa e sorridendo.—Ma lasciamola lì. Io le aveva accennato un mio dubbio. Le è dispiaciuto e non voglio tornarci su. L'ardore che Ella ha messo a ribatterlo, mi dice chiaro che non debbo ripeterlo, neanche spiegandolo.
—Dovrebbe ritirarlo senz'altro;—replicò il cherubino.—Per nessuna cosa al mondo io mi farei lecito uno scherzo di questa fatta, e sopratutto con Lei!…—
Non era niente più d'un complimento; ma il tono con cui fu detto turbò lo spirito del padre Anacleto.
—Rimane l'altra parte del dilemma;—diss'egli, mutando registro.—Il suo sarà dunque un desiderio sincero. Ella lo afferma ed io lo credo. Ma anche un desiderio sincero può essere…. di poco durata.
—Durerà, creda anche questo, durerà.
—Oggi le pare, ma chi ci assicura del domani? Io, veda, sono obbligato a distinguere, a considerare tra i possibili, se non a dirittura tra i probabili, che il suo desiderio, vivissimo oggi, si muti un giorno in avversione. E allora? Il voto pronunziato adesso, il patto conchiuso tra noi, non rincrescerebbe a Lei solamente, e farebbe anche torto alla mia previdenza, che si sarebbe mostrata assai misera. A farla breve, sono il priore di nove (e saranno presto quattordici), tutta gente posata, che vive in una quiete esemplare. Ma Ella sa come si ottenga lo stato di quiete negli animi, materia assai più delicata e gelosa che non siano le bilance dell'oro, e come un nulla possa turbare quel felice equilibrio. Se un giorno—osservò acutamente il padre Anacleto, fissando i suoi occhi scrutatori in viso al cherubino,—se un giorno dovessero dirmi: "Signor priore, siete andato un po' leggermente nella faccenda di quella ammissione," crede Lei che non ne sarebbe turbata la nostra bella armonia, unica guarentigia di pace, unico bene che renda la nostra vita preferibile a quella del mondo?—
Un'aria di profonda mestizia si dipinse sul volto del giovine. Pareva uno di quegli angeli del buon tempo antico, che, tornati al paradiso, trovarono la spiacevole novità della porta chiusa.
—Orvia,—ripigliò il padre Anacleto, dolente di aver fatto pena al suo giovine interlocutore,—non ci fermiamo a guardare tutti i casi possibili, che saranno ugualmente improbabili. Ella e suo zio mi aiutino a mettere in pace la mia coscienza; accettino di entrare come ospiti, per ora, e questa ospitalità la chiamino pure un noviziato. Tra un anno…. Non le piace? Diciamo adunque fra sei mesi. Neanche? Diciamo allora fra tre, riparleremo della loro vocazione.—S'intende,—osservò il priore,—che anche dopo accettati nella famiglia, il vincolo non sarebbe indissolubile. Ma c'è sempre una parola d'onore che impegna; si è ammessi per questa parola, e la parola, pei gentiluomini, è legge. Se così non fosse, mi capiranno, il convento di San Bruno si tramuterebbe facilmente in albergo, ed io ne sarei l'albergatore, o il direttore pro tempore. Ora, nè il mio carattere concentrato, nè le mie abitudini studiose, mi consentirebbero di esercitare questo ufficio.
—Ha ragione; ma noi Le giuriamo fin d'ora….
—No, non giurino, per carità. Io non accetto il giuramento, non l'ho udito. Rimangano qui, li avremo in qualità di novizi. Finora non se n'erano accettati; ma sarà una eccezione alla regola. E prima di tutto, siccome qui ognuno si dedica a qualche lavoro, vediamo un po' che cosa sanno far Loro?
—Io…. veramente….—balbettò lo zio—qualche cognizione di agronomia….
—Troverà da applicar poco;—riprese il padre;—qui non abbiamo che l'orto e il frutteto. I campi mancano affatto; i boschi sono stati decimati prima che noi si comperasse il convento. Ma infine, quel poco che c'è offrirà a Lei materia di studio, e saremo lieti di avere un agronomo in famiglia, come già abbiamo il botanico. E Lei?
—Quasi nulla;—rispose il cherubino arrossendo.—Un po' di canto…. il pianoforte…. Frivolezze, Ella dice bene;—soggiunse tosto, notando un atto involontario di labbra, con cui il padre Anacleto aveva accolte le sue parole.
—No, non dico questo;—notò il priore.
—Lo penserà; è tutt'uno.
—Non lo penso nemmeno. Anche la musica è una bella cosa, e più seria che non si creda generalmente. È matematica applicata ai suoni e interessa una parte della fisica, che non è certo la meno importante. Helmholtz ci ha scritto un libro, il quale è tutt'altro che frivolo, poichè ci dà una dimostrazione completa dei fenomeni del suono e delle leggi musicali che ne derivano. Herschel, studiando a fondo l'arte sua, che era per l'appunto la musica, fu gradatamente condotto allo studio della geometria e quindi alla conoscenza dell'astronomia teoretica, al perfezionamento del telescopio e alla scoperta di Urano. Amo ricordare questi fatti,—soggiunse il padre Anacleto, che si sentiva alquanto impacciato a dover conversare con quello strano novizio,—per dimostrarle che apprezzo la musica anch'io. Disgraziatamente, qui mancano i mezzi di coltivarla; abbiamo volta la chiesa ad uso di biblioteca, e non c'è neanche la fortuna dell'organo.
—So disegnare un pochino;—si provò a dire il giovane.
—Ah bene! questo è il fatto nostro;—gridò il padre Anacleto.—Oh, non dubiti, non le domanderemo i cartoni di Raffaello. I soli principii del disegno basterebbero. Abbiamo in mente di fare un giornale, una specie di rassegna mensile, per registrarvi i nostri studi, e avremo appunto bisogno di tavole illustrative; segnatamente per gli scavi delle nostre caverne.
—Ahi come il duca di Francavilla!—scappò detto allo zio.
—Lo conoscono? È un bravo signore, che ha voluto farci una visita.
Egli è qui a Castelnuovo per certi suoi studi preistorici….
—Per studi, e per altro;—mormorò il cherubino, che la sapeva lunga, anche senza aver ombra di baffi.
—Non saprei;—ripigliò il padre Anacleto, che era prudente e non andava a cercare il pel nell'uovo.—È venuto a trovarci una settimana fa e non ci ha parlato d'altro che delle sue ricerche scientifiche. Anche noi avevamo già pensato a scavare le caverne ossifere di monte Acuto; ma finora ci mancava l'uomo da ciò. Ora avremo uno studioso di queste materie, tra i cinque che verranno in settimana a far vita con noi. È un valente professore. Insegnava a Torino. Gli hanno fatto torto, a quanto pare; qualcheduno si è fatto bello di una sua scoperta; il governo non lo ha tenuto nella giusta considerazione, ed egli ha abbandonata la cattedra. Come vedono, son tutti i delusi, i disgustati delle perfidie umane, che vengono ad accrescere la nostra schiera. Metteremo il professore all'archeologia, ed Ella disegnerà gli oggetti ritrovati. Va bene?
—Sì, sì!—gridò il cherubino, battendo allegramente le palme.
Ma subito si penti di mostrarsi così bambino in faccia al priore, che lo guardava tra sospettoso e ammirato; arrossì per la terza volta, chinò gli occhi e ripigliò:
—Scusi, la prego; ma gli è che son tutto felice di trovare in me un piccolo talento, che possa tornare utile alla comunità.—
Stabiliti questi preliminari, il padre Anacleto si offerse ai nuovi ospiti di San Bruno, per condurli a visitare il convento, e l'offerta fu accettata con giubilo dal biondo cherubino, che vedeva così superate tutte le difficoltà della sua introduzione in quella bizzarra clausura.
Anche allo zio era parso di escirne egregiamente. A farselo apposta, un priore, non si poteva ottenerlo più pastoso di così.
—Che sia cieco?—pensava egli, mentre seguiva il padre Anacleto e il biondino, nella loro passeggiata per tutti i corridoi del convento.—Quando egli ha messo fuori quel dubbio intorno all'età, ho subito detto: ci siamo! E come lo squadrava dal capo alle piante! Ma poi, sia lode al cielo, s'è lasciato abbindolare con tanta buona grazia! È anche vero che gli è stato risposto con un certo calore!… Non fo per dire, ma il mio signor nepote, poichè oramai bisogna chiamarlo così, ha una eloquenza che va diritta al cuore. Non si sgomenta di nulla, lui! Vi guarda nel bianco degli occhi, e vi fa fare tutto quello che vuole; anche delle pazzie come questa. Ma saranno tutti ciechi e tre volte buoni come il padre Anacleto! Qui sta il busilli.—
Il nepote, frattanto, pensava anche lui, mentre andava scambiando osservazioni col priore.
—Ha capito? Temo di sì. Per lo meno, il dubbio gli è nato. Ma egli è un gentiluomo, e non è andato più in là. Questa avventura mi piace. Ci sarà qualcosa da ridire; ma infine, si servano, io non ho da render conti a nessuno. E poi, sono con mio zio. Questo priore, che uomo! Il duca di Francavilla lo ha chiamato simpatico; ma mi pare che sia più di simpatico; un bel giovane addirittura; e senza saperlo, senza averne l'aria, come dovrebbero esser tutti. È la prima faccia d'uomo che vedo. O son tutti insipidi, svenevoli, come il duca di Francavilla, o duri, arcigni, antipatici…. Che orrore!—
Vi fo grazia del resto. E non mi fermo neanche a dipingervi tutto quello che videro i nuovi ospiti di San Bruno. I conventi, su per giù, si rassomigliano tutti nella loro semplicità grandiosa ed umile ad un tempo, che credo entri per molto nella tenacità del sentimento che fa perdurare gli ordini monastici, che li fa sopravvivere alle leggi da cui sono stati colpiti. C'è una virtù arcana che attrae verso le mezze solitudini del chiostro, e quella forma architettonica stabilita, quasi invariabile, salvo nei minuti particolari, esercita un fascino sullo spirito moderno, che pure ha distrutto il pensiero onde quella forma è scaturita. Sono spariti i conventini, i monasteruzzi borromineschi di due secoli fa; il largo tipo dei chiostri antichi è rimasto, e se ne ricorda volentieri perfino…. indovinate chi? il nostro soldato, che è stato così spesso ad alloggio nei vecchi monasteri tramutati in caserme.
Il convento di San Bruno, come tutti quelli del medesimo ordine, aveva i suoi quartierini, in cui ogni frate potesse viver solo, con la sua stanza da letto, l'oratorio, l'anticamera e la ruota per cui introdurre il suo pasto frugale, o metter fuori la scodella vuota. Ma la ruota, oramai, serviva soltanto per le lettere e i giornali, quando giungeva il postino; la stanza da letto non era più così nuda come al tempo dei camaldolesi; quanto all'oratorio, ognuno ci teneva la sua biancheria, i suoi abiti, e all'occorrenza i suoi libri più alla mano. Fratel Giocondo, ad esempio, ci teneva il Gattinara e il Pomino, due autori di sua predilezione, tra i quali da lungo tempo aveva istituito un confronto.
I due novizi furono condotti alle loro stanze. Il priore non aveva chiesto i loro nomi, ma li chiese allora il converso, facendosi avanti col registro dell'ordine.
—È vero;—disse il cherubino;—avevamo dimenticato di darli. Zio, incominciate.—
Il vecchio prese la penna e scrisse il nome di Prospero Gentili.
Il giovine, con meno sincerità, ma con altrettanto coraggio, vi scrisse quello di Adelindo Ruzzani.
E intanto, la signorina Adele Ruzzani, dov'era?
Domandiamolo al sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia. Il degno ufficiale del governo, che ha in mano il servizio della pubblica sicurezza di tutto il circondario, dovrebbe sapere ogni cosa. "Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità" era una delle sue frasi predilette.
Ora, ecco ciò che sapeva il cavalier Tiraquelli.
Due giorni dopo quella sua famosa conversazione sotto il loggiato, egli vedeva di bel nuovo il suo interlocutore ed amico, il futuro commendatore signor Prospero Gentili.
—Orbene, come vanno le cose?—gli aveva chiesto senza dargli tempo di esporre le ragioni della sua visita mattutina.—A me pare che ci sia un progresso. L'ha notata anche Lei, l'attenzione vivissima con cui la sua bella nepote ascoltava l'altra sera il duca di Francavilla? È un buon segno; che ne dice?
—Sì, un buon segno,—ripetè il signor Prospero con aria distratta.
—Che? Non le pare?—gridò il sottoprefetto, che coglieva le mosche per aria.
—Ho forse detto il contrario?—chiese il signor Prospero, prendendo una scossa improvvisa.
E dentro di sè aggiunse:
—Non ci mancherebbe altro! Dopo che quella birichina m'ha fatto giurare!….
—No;—rispondeva frattanto il sottoprefetto;—ma credevo che Ella ci avesse ancora qualche dubbio.
—Per me, niente affatto;—ripigliò il signor Prospero.—Quantunque, per esser sicuri, sarà utile di parlare con lei.
—Lo faccia una volta, al nome di Dio. Se non lo fa Lei, chi ha da farlo?
—È giusto;—disse il signor Prospero,—è giusto. Gliene parlerò, appena saremo tornati da questo viaggio.
—Questo viaggio!—esclamò il sottoprefetto.—O dove?
—Come? Non gliel ho ancor detto? Ero venuto a bella posta per prendere congedo. Veda un poco dove ho la testa!
—E dove va?—tornò a chiedere il sottoprefetto, senza curarsi più che tanto di vedere dove avesse la testa il signor Prospero.
—A Milano, con mia nepote. Sì, pare che ciò sia necessario;—soggiunse il signor Gentili, notando un atto di stupore del sottoprefetto.—La mia Adelina ha certe spesucce da fare….—
Il cavalier Tiraquelli era visibilmente sconcertato dall'annunzio di quella gita.
—E dica…. staranno molto?—domandò.
—Oh, non credo. Si tratta di una visita alla modista…. Come sa, la mia nepote si serve d'ogni cosa a Milano. Ci sarà anche una conferenza col gioielliere, per rinnovare la legatura di tutte le gioie di famiglia. Anche per le gioie la moda è cambiata, e la mia nepote vuol tutte legature a giorno.—
La faccia del sottoprefetto si rasserenò.
—Potrebb'essere un indizio;—diss'egli.
—Indizio, di che?
—Non vede? Questa cura di rimettere a nuovo le sue gioie. Signor Prospero mio, non ha mai posto mente che, quando si avvicina il tempo della cova, la cingallegra si mette al grave, e va attorno pel bosco a beccar le pagliuzze, per comporre il suo nido?—
Il signor Prospero spalancò gli occhi e la bocca ad un tempo; gli occhi per ammirare e la bocca per ridere.
—Ah ah!—esclamò egli.—Ed io, bestia, non ci aveva pensato. Ella ha una grande penetrazione, signor cavaliere!—
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia assunse un'aria conveniente all'ammirazione ond'era fatto argomento.
—Oh, guarda!—aggiungeva mentalmente il signor Prospero.—Quella birichina m'ha consigliato di metter fuori il pretesto delle gioie, ed io non ci ho scoperto il baco. Ma già, le donne hanno un punto più del diavolo.
—Benissimo, dunque, tutto va a gonfie vele;—disse il sottoprefetto.—Mi rincresce, per verità, che abbiano a stare lontani una settimana…. Voglio credere che la loro assenza non durerà di più. Ad ogni modo, Ella mi scriverà, non è vero? Avrò così un buon argomento per consolare quel povero duca. Poveretto, è innamorato morto. Confessi, signor Prospero mio arcicarissimo, che una coppia così bella non si potrebbe immaginare, anche se non si trattasse di secondare un alto concetto politico di Sua Eccellenza.
—Eh, eh!—rispose il signor Prospero, seguitando a ridere.—Sono del suo parere.
—Ella, dunque, tasterà il terreno.
—Tasterò, non dubiti, tasterò. Quantunque…
—Quantunque, che cosa?
—Quantunque, dopo la spiegazione che Lei mi ha data sulle gioie e sui nidi, sarebbe quasi inutile; non le pare?
—Sì, ma, anche a prevedere una risposta, è chiaro che bisogna provocarla. E oramai, più presto si fa, meglio è. Io la consiglierei di parlarne a dirittura in viaggio. E mi scriva, sa? Appena ha qualche cosa di nuovo, me ne avverta. Se c'è un sì chiaro e tondo, lo mando per telegrafo al ministro. E la commenda vien subito.—
Il signor Prospero sospirò. Quella benedetta commenda, egli non l'aveva mai veduta così lontana come in quel punto.
Il mercoledì seguente fu freddo, almeno nel salotto della sottoprefettura. Il duca di Francavilla, che per solito era così gentile, così premuroso, con tutte le dame, giovani e vecchie, belle e brutte di Castelnuovo, per modo che non si sapeva quali fossero le sue preferenze, il duca di Francavilla scoperse quasi il suo giuoco, mostrandosi distratto nella conversazione, svogliato nel ballo, infastidito d'ogni cosa. La contessina Berta ebbe un bel tormentare il cembalo; non le toccò neppure un complimento. Ed anche lei fu noiosa parecchio. Le amiche trovarono che i suoi nervi erano più aristocratici del solito. E il ricevimento della sottoprefettura risentì di quella diversità d'umori; se non fosse stato il ricevitore del registro, che era sempre uguale a sè stesso, sarebbe parso un mortorio.
—Dunque, la bella Ruzzani è partita?—chiese la contessa Gamberini alla sottoprefettessa, su quel canapè di damasco rosso che i lettori conoscono.
—Sì, è andata a Milano per certe spese.
—Un matrimonio alle viste?
—Eh!—rispose la sottoprefettessa, non dicendo nè sì nè no.
—Qui non c'è nessun partito per lei, ch'io mi sappia;—ripigliò la contessa, cercando di scoprir terreno.
—Pare anche a me;—replicò la sottoprefettessa.—Ma forse ci sarà qualche domanda di fuori.—
La signora sottoprefettessa non era nel segreto di suo marito, o era d'una fintaggine a tutta prova. La contessa Gamberini non potè cavarne altro.
Intanto il sottoprefetto, sicuro del fatto suo, aspettava la lettera del Prospero. Il giorno stesso in cui il futuro commendatore era stato a prender congedo, per accompagnare la sua bella nepote a Milano, egli scriveva al ministro questa lettera confidenziale:
"Ho l'onore di annunziare a Vostra Eccellenza che la faccenda procede benissimo. Il duca di Francavilla ha fatto il viaggio di Cesare: veni, vidi, vici. Quest'oggi la ragazza è partita per Milano, dove rimarrà otto giorni, al più. Le mie informazioni particolari, e sicurissime, mi pongono in grado di dirle che essa è andata a far rilegare a nuovo le gioie di famiglia. Questo è, come vede l'Eccellenza Vostra, un indizio eccellente delle sue inclinazioni. Del resto, lo zio e tutore della signorina è felicissimo di aiutare a questa unione, ed io confido che Vostra Eccellenza vorrà premiare lo zelo di questo egregio cittadino, il quale è entrato con tanta facilità nelle idee del primo ministro (lo dico senza adulazione, e con la mia usata schiettezza) che abbia mai avuto l'Italia. Frattanto, io gli ho lasciata intravvedere la commenda. I motivi, per i due primi gradi, ci sarebbero: dieci anni di grado nella guardia nazionale, in qualità di capitano, per la croce di cavaliere; l'opera prestata nel comizio agrario, e le analoghe cognizioni, per quello di ufficiale. Quanto all'esito dei nostri negoziati, spero di poterle mandare qualche ragguaglio tra breve e di mostrarmi degno dei favori che la Eccellenza Vostra si è degnata di promettermi."
Tre giorni dopo, il ministro rispondeva di suo pugno:
"Cavaliere carissimo.—Non dubiti, provvederò pel Gentili, com'Ella giustamente propone. Ella faccia il suo dovere, come sempre. Lavoriamo per un nobile intento. In questa faccenda, a prima vista di così poco rilievo, c'è più importanza che Ella, già tanto perspicace, non veda. Perseveri, stringa le fila, e mi mandi buone notizie; io farò altrettanto con Lei."
—Sono commendatore e prefetto!—gridò il cavaliere Tiraquelli, appena ebbe finito di leggere.
La sottoprefettessa, che era presente a quello sfogo di onesta soddisfazione, inarcò tosto le ciglia.
—Che? come? Si lascia Castelnuovo?
—Sì, Erminia; sì, Erminiuccia mia, ma non per ora. Ci vuole ad ogni cosa il suo tempo. Non dubitare, sarai prefettessa entro l'anno. E senatrice, per giunta. Perchè, si sa, una ciliegia tira l'altra. Esser prefetto e non senatore, mi parrebbe una sconcordanza. Che cosa sono i prefetti, se non le colonne amministrative del regno? E i senatori che cosa sono? Le colonne legislative. Ora, non può esser buon legislatore se non chi ha dato prova di esser buon amministratore. Donde la conseguenza…. mi pare…. Oh le dirò io, le ragioni di questa necessaria connessione;—proseguì il sottoprefetto di Castelnuovo, quando fu solo nel suo ufficio.—L'amministrazione, o signori…. una saggia amministrazione è una legislazione applicata, come la legislazione…. una saggia legislazione, è una amministrazione pensata. E perchè l'opera amministrativa proceda regolarmente, è necessario… porro unum est necessarium, che l'opera legislativa sia informata ad un concetto pratico, eminentemente pratico. Non si è mai badato a questa necessità; ed è stato l'errore, da cui son proceduti tutti gli altri. L'organismo di uno stato… Bello, quest'organismo dello stato!—osservò il sottoprefetto, fermandosi, come per ammirare l'opera sua.—Dev'essere anche nuovo. L'organismo dello stato, o signori, è come un ben inteso sistema di distribuzione d'acque, che, attinte alla sorgente donde emanano tutti i poteri, si dividono in cento canali, per recare a tutte le parti del campo i benefizi della vita. Et uda mobilibus pomaria rivis. Questa è la chiave, questo è il problema.—Hoc opus, hic labor.—That is the question.—Anche l'inglese ci sta bene, in un discorso, quasi più del latino. Già, le citazioni fanno sempre buon giuoco. E le frasi, anche. Il prestigio delle istituzioni, l'era dei sacrifizi, la servitù secolare, il trionfo delle idee, la forza del diritto che si contrappone al diritto della forza, il vasto campo delle ipotesi e la severa scuola dei fatti…. Vedete come le trovo! Come mi fioriscono sulla lingua! Ed anche questo fioriscono! Non l'ho mica cercato. Tiraquelli, amico mio, siamo nati oratori; dobbiamo andare in Senato.—
Qui il signor sottoprefetto si fermò di schianto.
—Ma quando?—pensò egli.—Prima di tutto la promozione a prefetto, e un po' di fortuna per saltare una classe. Ma prima di tutto, ancora, il matrimonio Francavilla Ruzzani. E questo diavolo del signor Prospero, che non mi ha scritto ancora! È capace di non esser forte in ortografia, e di vergognarsi. Se sapessi dov'è alloggiato, gli manderei un telegramma.—
Quest'idea del telegramma, passata a caso per la mente del sottoprefetto, ci tornò il giorno dopo. Il signor Prospero non si era fatto vivo, e il cavalier Tiraquelli era sulle spine.
—Ah, lo accomodo io! Non mi ha detto a che albergo voleva scendere; ma io gli farò vedere che posso saperlo ugualmente. Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità.—
E quel giorno, per l'appunto, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia batteva il telegrafo per domandare al questore di Milano in quale albergo si trovasse ad alloggio un signor Prospero Gentili, di cui dava tutte le indicazioni necessarie.
—Sarà maravigliato, domattina, di ricevere un mio telegramma, prima di alzarsi da letto. Caro signor Prospero! Sarà pure obbligato a rispondermi.—
Per intanto, capitò la risposta del questore di Milano. In nessun albergo, secondo che appariva dai rispettivi elenchi dei viaggiatori, esisteva un Prospero Gentili, od altro di somigliante, con nepote o senza.
Se aveste veduto il muso del sottoprefetto di Castelnuovo, dopo la lettura di quel telegramma! L'usciere, che aveva portato il foglio e lo aveva veduto accogliere con tanto allegra sollecitudine, dovette svignarsela in fretta, per non ricevere il calamaio, od altro arnese dello scrittoio, nella testa. Il segretario venne per la firma, e fu mandato al diavolo. Entrò la sottoprefettessa e fu mandata col segretario. Insomma, il nostro uomo schiattava dalla rabbia, e finì col chiudersi nel suo ufficio, dichiarando che per tutto quel giorno non voleva vedere nessuno.
Il signor Prospero non era andato a Milano! Che cosa voleva dire quella novità? Peggio ancora, che cosa voleva dire quella bugia? Perchè, infatti, si trattava d'una bugia, e detta con animo deliberato. Era il "mentire sapendo di mentire" di cui si è fatto tanto spreco in politica. La bugia del signor Prospero sarebbe stata perdonabile, se egli fosse partito solo. Un ripesco amoroso, Dio buono, chi non l'ha? Ed è forse necessario che un uomo dica chiaro e tondo: badate, io vo da questa parte, anzi che da un'altra? Ma il signor Gentili era partito con la sua nepote, e dopo aver preso formalmente congedo. La cosa era grave; rasentava lo sfregio. Uno sfregio all'autorità? Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia non era uomo da tollerarlo.
E frattanto, nessuno si presentava. Lo lasciavano solo co' suoi dubbi, senza offrirgli l'occasione d'un piccolo sfogo. Il signor cavaliere si rammentò allora di aver detto che non voleva vedere nessuno.
E afferrato il campanello, suonò furiosamente.
L'usciere comparve sull'ingresso.
—Che cosa comanda il signor cavaliere?
—Chiamatemi il signor Borgnetti.—
Il signor Borgnetti era il delegato di pubblica sicurezza del circondario di Castelnuovo Bedonia.
Un pensiero venne in mente al sottoprefetto, poichè l'usciere fu andato. Se il questore di Milano si fosse ingannato, negando l'arrivo del signor Gentili in quella città? Ma no; come poteva ingannarsi, se aveva veduto l'elenco dei viaggiatori? O forse il signor Prospero, andando a Milano, aveva creduto opportuno di cangiar nome? Perchè? Ma, lo avesse pur fatto, il telegramma del cavalier Tiraquelli al questore di Milano dava chiaramente i connotati della persona, e il telegramma del questore rispondeva con uguale chiarezza intorno ai due casi.
Il sottoprefetto di Castelnuovo non ci vedeva più lume.—Oh, devo saperlo!—borbottava.—Lo saprò, dovesse costarmi…. È un'azionaccia che mi fa il signor Prospero. Ma è possibile? No, non può essere, qui c'è di sicuro un equivoco. Ah sciocco petulante! Asino calzato e vestito! T'hanno a far commendatore! Te lo darò io, il collare! Ma che cosa può essere accaduto, che questo signor Prospero…. Non vorrei che gli fosse capitata qualche disgrazia per istrada. Ma, in questo caso, perchè non mandarmelo a dire?
Il sottoprefetto ripigliò il campanello e suonò da capo. L'usciere ricomparve sull'ingresso.
—Il signor Borgnetti?
—S'è mandato a chiamare. Era a letto, e si veste.
—A letto! a quest'ora? E il governo non dirà che gli si mangia il pane a tradimento?—
Il Borgnetti capitò finalmente. Era un coso secco allampanato, colore e fibra di stoccafisso, con baffi arroncigliati e mosca ripiegata in fuori, gli occhi grigi e mobilissimi, una gran smania di parere un hidalgo spagnuolo, col solo guadagno di poter essere paragonato a Don Chisciotte della Mancia. Le sue grandi imprese si restringevano a qualche articolo su pei giornali, buttato giù a tempo avanzato. In confidenza, era una vittima della sua grande schiettezza; i governanti lo avevano in uggia, perchè in altri tempi un suo scritto aveva risicato di far nascere una quistione europea. Come avrete capito, era un buon diavolo, incapace di quelle brutte cose che con tanta grandezza d'animo voleva appiopparsi, e aggiungerò incapace di far male ad una mosca, se non avesse avuto il vizio di tormentare ad ogni momento la sua.
—Ella dormiva!—notò severamente il sottoprefetto.
—Cavaliere….—mormorò il delegato;—quando l'ufficio è chiuso… quando non c'è niente da fare…
—C'è sempre da fare, nel suo ministero, come nel mio;—replicò il superiore.—Sieda; dobbiamo parlare a lungo. Sono scontento di Lei.
—Di me?
—Di Lei.
—Ma…. il motivo?….
—I motivi, vorrà dire? Sono parecchi, i motivi. Le parlo franco, perchè Lei ama la franchezza.
—È il mio difetto;—rispose l'hidalgo con enfasi.
—Bene; si senta dunque dire che la polizia in Castelnuovo Bedonia è mal fatta; sì, molto mal fatta. Ho lagnanze continue del governo, sempre e solamente per questo. I tre banditi, perchè non si prendono? perchè si lasciano ad infestare la campagna, con gran pericolo della…
—Banditi!—interruppe il delegato.—Dica renitenti alla leva. È male, non dico di no; ma non si tratta punto di uomini pericolosi. Non hanno rubato nulla, finora; i contadini li proteggono, li sottraggono a tutte le ricerche della forza. Un servizio per le forre di monte Acuto, tra quelle selve di faggi e di cerri, non è mica la cosa più agevole del mondo. Un po' di tempo, e saranno presi anche i tre renitenti; un po' di tempo e non altro.
—Il sindaco di Trigallo,—proseguì implacato il sottoprefetto,—continua a fare orecchi da mercante alle nostre ingiunzioni.
—Quello non è affar mio;—rispose il delegato;—è affar suo.
—Per le questioni che avvengono, o che possono avvenire in paese, tocca alla pubblica sicurezza, ed Ella ci deve pensare;—ribattè il sottoprefetto.—Ma già, secondo Lei, niente ha attinenza con la pubblica sicurezza. Questo spetta ai carabinieri, quello agli uscieri, quell'altro ai doganieri; le guardie di questura debbono stare al corpo di guardia, e il signor delegato deve spartire il suo tempo tra il letto e la letteratura. Le parlo franco, perchè Lei ama la franchezza. Da Lei, dal suo ufficio, non si può neanche sapere donde vengono, e dove vanno tante persone…. che vengono e che se ne vanno.
—Si spieghi;—disse il signor Borgnetti, che quella volta aveva dimenticato di vantarsi del suo difetto, rammemoratogli con patente ironia dal superiore imbizzito.—Si spieghi!
—La servo subito;—ripigliò il sottoprefetto, che era giunto dove voleva.—Ella non tiene neanche un elenco quotidiano di chi giunge e di chi parte dal circondario.
—Ella non me lo ha mai domandato.
—Si domandano, queste cose? Sono i principii, i rudimenti del mestiere.
—Mestiere!…—osservò il signor Borgnetti, impermalito.
—Bene, dica sacerdozio e mi lasci tranquillo. Io le ripeto che certe cose si debbono sapere. Perchè, poi, succede che….
—Che cosa? A buon conto, da una settimana in qua non è venuto un forestiero che abbia dato sospetto di nulla. E quanto a partenze, nessuno si è mosso di qui.
—Nessuno! Proprio nessuno! E il Gentili, che è andato con la nepote, è dunque nessuno?—
Qui il Borgnetti ebbe l'aria di cascar dalle nuvole.
—Scusi, signor cavaliere,—diss'egli,—non mettevo il Gentili tra le persone che vanno osservate…
—Tutte, tutte egualmente, e il signor Gentili non dee sfuggire alla legge comune;—rispose il sottoprefetto.—Che cos'è la partenza? Un fatto. Orbene, Lei deve prendere nota del fatto, e delle ragioni del fatto, perchè il suo superiore le sappia.
—Voglio sperare, almeno,—si provò a dire il povero delegato,—che le ragioni del viaggio del signor Gentili le avrà sapute, senza bisogno delle mie indagini.
—Io so quel che so;—rispose il sottoprefetto,—ma Lei deve metterle in carta, come tutte le altre informazioni d'ugual genere. Io debbo averle sott'occhi, come un maestro di musica ha lo spartito di un'opera, dove sono notate tutte le parti. L'amministrazione è un'orchestra. Guai se manca l'accordo fra due istrumenti; ogni cosa va a rotoli. Dov'eravamo rimasti? Ah, ecco, al caso del signor Gentili. Saprebbe dirmi Lei dov'è andato il signor Gentili con la sua nepote? È l'esempio che mi viene a taglio per la dimostrazione del mio assunto, ed io me ne servo. Ella vedrà poi con che frutto. Suvvia, mi dica dunque dov'è andato il Gentili?
—A Milano,—rispose il delegato.
—No;—ribattè il sottoprefetto, con accento di rimprovero, come se la colpa fosse tutta del delegato.
Il Borgnetti si strinse nelle spalle.
—Bene;—diss'egli;—tutti l'han detto ed io non ho creduto di doverne dubitare. Ma, se non è andato a Milano, vuol dire che sarà andato altrove.
—Ed ecco dove Ella perde la bussola, signor Borgnetti mio riverito. Ma veniamo a noi. Ella si ricordi che io so tutto, ma che voglio metterla alla prova. Infatti, è una specie d'esame d'idoneità, a cui la sottopongo, ed eccole il tema: Sapere dove è andato veramente il signor Prospero Gentili, con sua nipote Adele Ruzzani. Se non riesce nella prova, l'avverto, signor Borgnetti, che Lei ritorna negli Abruzzi, donde è piovuto a Castelnuovo Bedonia.
—Signor cavaliere,—gridò il Borgnetti, scuotendo la testa con aria che voleva parer fiera,—è una prova di sfiducia, che non avrei creduto mai….
—Bene, lo creda adesso e non avrà più a maravigliarsene. Io fo il mio dovere;—borbottò il cavaliere Tiraquelli, chinando la testa e misurando a lunghi passi il pavimento.—Il ministero ci fulmina con le sue osservazioni. Crede Lei che sia una cosa piacevole aver dei rimproveri, quando si ha tutto il diritto di aspettare degli elogi?
—No, davvero;—rispose il Borgnetti;—ed io, per l'appunto….
—Ed io per l'appunto,—riprese il sottoprefetto,—che dovrei ricevere i rimproveri per la via gerarchica della prefettura da cui dipende Castelnuovo, pel solo fatto che mi trovo a godere la confidenza particolare di Sua Eccellenza il ministro dell'interno, ricevo biasimi in prima mano. Ecco qua,—soggiunse il sottoprefetto, togliendo una lettera dallo scrittoio e spiegandola all'altezza del proprio naso,—ieri il ministro mi ha scritto:—"Caro Tiraquelli…. Vedi un po' tu, se hai un delegato pratico del servizio, o no. A me, dopo quel che ne sento, pare di no. Ne vuoi un altro? Domandalo."—
Al delegato parve un po' strana la intromissione del ministro dell'interno in quelle piccolezze d'un circondario così poco importante, com'era quello di Castelnuovo Bedonia. Ma non potendo dubitare del fatto, così audacemente asserito dal suo superiore e corroborato da una lettera di quella fatta, arrisicò un giudizio severo sulla gravità dei ministri in genere, e di quello dell'interno in particolare.
—Vedete di che cosa si dà pensiero un ministro!—diss'egli tra sè.—Almeno ci avesse un'ombra di ragione!—
Il sottoprefetto depose la lettera sullo scrittoio, non senza dare una guardata altezzosa al Borgnetti, per vedere che senso gli avesse fatto quel saggio di stile epistolare. Il povero delegato stava duro, ma era diventato verde come un ramarro.
—Capisce?—gridò il sottoprefetto, per ribadire il chiodo,—la forma è amichevole, ma il colpo mi è venuto ugualmente. Ed Ella, frattanto, non sa dirmi neanche dove sia andato il Gentili. La cosa più naturale del mondo! Non si tratta mica di andar sulle traccie d'un ladro, che fugge di nottetempo, nè d'un bancarottiere, che ha bisogno di sottrarsi alle ricerche combinate dell'autorità e dei proprii creditori. Si tratta d'un pacifico ed onesto cittadino, che, non avendo nulla a nascondere, se ne va tranquillamente, alla luce del giorno, per una gita di piacere. Ed Ella non sa nulla!
—Se mi avesse mostrato il desiderio di sapere qualche cosa,—rispose il delegato,—lo avrei fatto pedinare. Lo avrei pedinato io, per maggior sicurezza. Noti, cavaliere, che ero appunto sulla piazza dello Statuto, quando il signor Gentili è montato in carrozza.—"Signor Gentili, se ne va?"—"Sì, vado a Milano."—"Ah, bene; una città che merita. E resterà molto lontano da noi?"—"Oh, una ventina di giorni."
—Anche una ventina!—esclamò il sottoprefetto.—E a me aveva detto una settimana!
—Sì,—ripigliò il delegato,—mi disse una ventina di giorni.—"Buon divertimento," gli risposi.—"E a Lei, signor Borgnetti, quiete perfetta in Castelnuovo."—Così ci siamo lasciati. Dovevo io immaginare che mi spacciasse una frottola?
—Doveva;—replicò il sottoprefetto, con breviloquenza alfieresca.
—Ma scusi, non si trattava mica d'un ladro… d'un bancarottiere….
—Non si sa mai. Un uomo è sempre un essere pericoloso, per l'ufficiale di pubblica sicurezza. Oggi è sano; domani ammattisce. Oggi le sue faccende vanno bene ed egli è un galantuomo; domani vanno male ed egli mette una firma falsa. Nulla e nessuno deve sfuggire all'occhio vigile dell'autorità. Maledictus homo qui fidit in hominem, dovrebb'essere la massima della Questura…. ed anche d'altri uffici più alti;—mormorò il sottoprefetto, traendo un sospiro.
—Signor cavaliere, le prometto che saprò dove è andato il Gentili.
—Sì, bravo, a quest'ora!
—Farò quel che potrò, anche in ritardo. Poichè non vuol dirmelo
Lei….
—Oh, non ci mancherebbe altro, che io le dessi l'esame e le suggerissi la risposta! Vada là; faccia le sue indagini, mi sappia dire la cosa più facile del mondo, ed io…. le restituirò la mia stima.—
Il delegato se ne andò, con la sua lavata di testa. Come fu nelle scale, si messe a ridere.
—Sono uno sciocco io, a spaventarmi di queste alzate d'ingegno!—diss'egli.—Questo rogantino è in collera col Gentili, che gli ha detto una cosa per un'altra. Non sa nulla e vuole appoggiarsi a me, senza parere di averne bisogno. Contentiamolo, via! I superiori son tutti così. Tutto sta a saper conoscere l'umore della bestia.—
Nella sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia era già il secondo mercoledì senza Adele Ruzzani. L'astro maggiore si nascondeva, e il cielo, quantunque ci avesse in mostra tutti i minori, pareva orbo di luce. Queste cose, per altro, non bisognerebbe andarle a dire alla contessina Berta Gamberini, nè alla contessa Beatrice, sua madre. Secondo la loro opinione, dove son esse c'è tutto, o, per dire la cosa con un po' di modestia, non ci manca più nulla.
Il sottoprefetto ignorava ancora che diavolo fosse accaduto del signor Gentili e della sua bella nepote. Quella cima del delegato non ne sapeva di più, quantunque, per far le cose a modo e venire in chiaro di tutto, avesse mandato le guardie travestite a prender lingua in casa Ruzzani.—I padroni sono andati a Milano;—rispondeva il segretario.—A Milano;—soggiungeva il maestro di casa.—A Milano;—ribadiva il cuoco.—A Milano;—ripeteva lo sguattero. Se in casa Ruzzani ci fosse stato anche un pappagallo, son certo che il signor Borgnetti ci avrebbe avuto una testimonianza di più per l'andata a Milano.
Chieder notizie in casa degli assenti, non era di sicuro il miglior mezzo per averle autentiche. Ma il delegato non sapeva a qual santo votarsi; tanto più che il santo dei questori e dei delegati di pubblica sicurezza non è ancora stato fissato, ed è forse un po' tardi per pensarci adesso. In città mancavano a dirittura le tracce dei colpevoli. La loro carrozza li aveva trasportati alla stazione della strada ferrata, e laggiù facevano coincidenza due volte al giorno i treni diretti, per modo che non si poteva argomentare dall'ora, se fossero andati a levante o a ponente. I carabinieri, mi direte. Ma in quel tempo c'era dissidio tra i carabinieri e la pubblica sicurezza; dissidio che credo non sia anche stato composto. I carabinieri, interrogati sulla partenza del signor Gentili, avevano risposto: noi andiamo alla stazione per vedere le facce sospette; il signor Gentili non era una faccia sospetta, dunque…. Il sillogismo non faceva una grinza, e i carabinieri non dovevano sapere se il signor Prospero fosse andato da quella parte, anzi che da un'altra. Ma era proprio partito? I carabinieri si stringevano nelle spalle. Neanche questo li riguardava. Il carabiniere non ha che la consegna; ora, quando la consegna non dice di ricordarsi di un fatto, il carabiniere può benissimo dimenticarlo; meglio ancora, non osservarlo.
Così restavano le cose, al regime del buio pesto. Intanto il sottoprefetto non poteva sfogare con nessuno quella rabbia che aveva in corpo; doveva fremere e tacere; sopra tutto tacere, anche col duca di Francavilla, che ad ogni tanto gli toccava il tasto delicato della propria felicità.
—Orbene, cavaliere, quando tornano i nostri viaggiatori?
—A giorni, signor duca, a giorni. È impaziente?
—Dio buono, i giorni mi paion mesi. Castelnuovo, non lo nego, è una bella città….
—A chi lo dice?—gridava il sottoprefetto, prevedendo il resto.—Io non vedo l'ora di andarmene, da questo paese di orsi intrattabili. Ma finirà, vivaddio, o in un modo o nell'altro. Ma di grazia, signor duca, mi levi una curiosità. Le piace poi tanto quella signorina Ruzzani? Io credevo che anche la contessina Berta Gamberini….
—Berte Gamberini ce n'è mille in ogni città d'Italia;—sentenziò il duca di Francavilla.
—Eh, capisco; capisco che non si sarebbe scomodato a far il viaggio di Castelnuovo Bedonia;—ripigliò il sottoprefetto, crollando la testa.—E poi, c'è la grande, la luminosa idea del ministro, che soverchierebbe ogni altra ragione, quando pure ci fosse. Concetti meravigliosi… quando si possono applicare! Ma, pur troppo, non sempre gli alti concetti hanno la fortuna d'incarnarsi nei fatti. E un modesto terra terra è ancora un sufficiente ideale di governo.
—Che cosa dice?—gridò il duca di Francavilla.—Vede forse qualche difficoltà nella conclusione del negozio?
—No;—rispose il sottoprefetto.—Cioè, possiamo dire sì e no, no e sì. Com'Ella sa, queste cose vanno trattate con somma delicatezza, anzi a dirittura coi guanti. Ora, quando si palpa così poco, non si sa mai se si è molto avanti, o molto indietro. Mi spiego? Del resto, il signor Prospero, tutore della ragazza, è contentissimo, onoratissimo di questo disegno. Quanto alla signorina, che dirle di più, dopo l'idea che le è venuta di far rilegare a nuovo tutte le gioie di famiglia?
—Che capriccio!—esclamò il duca.—Non si poteva far dopo?
—Eh, duca mio, le ragazze hanno tutto il loro pizzico di vanità. Questa poi ci aggiunge di aver sempre fatto a modo suo e di tener dietro a tutte le prime impressioni. Compatiamola, del resto. Ha da sposare un duca di Francavilla, e non vuole che il mondo rida di lei. Tutto ha da essere rinnovato in casa sua. Dopo le gioie, vedrà i mobili e tutto il rimanente. Scommetterei che rifaranno la facciata al palazzo.—
Il duca strinse le labbra, in atto d'uomo che non è punto contento di certe lungherie; crollò la testa e se ne andò pei fatti suoi.
—Auf!—disse il prefetto, come fu solo.—Una gran noia, questo posare in falso! E durarla, poi!—
Immaginate con che animo si trovasse a fare il suo ufficio di padrone di casa, nel secondo mercoledì che vi ho detto, e con che gusto dovesse sentire dei ragionamenti come questi:
—Quel signor Prospero è un traditore! Chi l'avrebbe mai detto, con quell'aria ingenua! Piantarci lì, senza una parola d'avvertimento! E passi che ci abbia lasciati lui; ma rapirci la signorina Adele! Questa è grossa davvero. Vogliamo domandarne soddisfazione. Avrà da pentirsene!—
Mentre queste inezie si dicevano nel crocchio dei buontemponi, il duca di Francavilla, con aria svogliata, sedeva accanto alla tavola rotonda, sfogliando un albo, per la decima, o per la dodicesima volta, e mandando al diavolo Castelnuovo Bedonia, con tutte le sue dipendenze. La contessina Berta sedeva al pianoforte e suonava una romanza per la signora Morselli, che andava inutilmente in visibilio. La serata era fredda, quasi più fredda di quella della settimana antecedente; tutti i convenuti, qual più, qual meno, quale per un verso, quale per un altro, avevano le lune.
La sola contessa Beatrice Gamberini era più ilare del solito, più pomposa, più bofficiona, più rosea.
Avete mai provato a mettere una mela vizza sotto la campana d'una macchina pneumatica? A mano a mano che l'aria si rarefà, la mela va perdendo le rughe; la sua pelle si rialza, si stende, brilla, vi dà l'illusione della freschezza. Così la contessa Beatrice; veduta ad una certa distanza, così colorita e con gli occhi pieni d'insolito brio, pareva di dieci anni più giovane.
La contessa Beatrice era l'unica persona che quella sera non avesse dato noia al sottoprefetto con l'eterno argomento del signor Prospero e della signorina Adele. Umana tra tutte le contesse del mondo! Anzi, divina senz'altro! Il cavalier Tiraquelli le votò nel segreto dell'anima sua una gratitudine immensa. E per dimostrargliela in qualche modo, ed anche per sottrarsi alle domande importune degli altri, si piantò al fianco della contessa, stando a chiacchiera con lei e dandole ragione in ogni cosa che ella dicesse.
Si era parlato del più e del meno, di un'omelia del vescovo, di una lettera su Castelnuovo, stampata due giorni addietro in un foglio della capitale, di amministrazione comunale e di mode. La varietà dei discorsi aveva tirata intorno al canapè di damasco rosso la maggior parte degli ospiti, perfino le ragazze, che, di solito, si raccoglievano accanto al pianoforte. Dalle mode, per natural transazione, si venne a parlare del lusso, veramente sfrenato, che invadeva tutte le classi sociali, anche nella piccola città di Castelnuovo; poi delle sostanze limitate, degli scarsi raccolti, con una piccola scorribanda sull'agricoltura.
—Qui ci vorrebbe il signor Prospero Gentili,—saltò su a dire il ricevitore del registro.—Sentiremmo un bel discorso sui concimi artificiali.—
Quell'accenno personale diede maledettamente sui nervi al cavalier
Tiraquelli. Era un presentimento?
—Il signor Gentili! Poveretto!—esclamò la contessa Beatrice, levando il viso a mezz'aria.
—Poveretto! Perchè?—domandò il ricevitore.
Il sottoprefetto non domandò nulla, ma tese gli occhi e aperse la bocca anche lui. Andava incontro alle parole della contessa Gamberini, come la biscia all'incanto.
—Non sa?—ripigliò la contessa.—È andato a farsi frate.—
Un grido universale accolse quella rivelazione improvvisa.
—Frate!—esclamò il ricevitore.—E dove?
—Poco lungi da noi; nel convento dei matti.—
La bomba era scoppiata. E quella candida bofficiona della contessa Beatrice se ne stava lì, con le braccia raccolte alla cintura, le labbra aperte e gli occhi di smalto, in mezzo a quella ventina di persone stupefatte, come se non fosse stata lei che aveva dato fuoco alla miccia.
Il duca di Francavilla aveva alzata la testa e lasciato di sfogliare il suo albo. La contessina Berta, dal canto suo, aveva abbandonato il pianoforte, e bel bello, senza parere, si era accostata al crocchio del canapè di damasco.
—Dei matti!—balbettava frattanto il signor sottoprefetto.
—Sì, mio Dio; non lo sapevano?—ribattè la contessa Beatrice.
—Ecco;—rispose il sottoprefetto, vedendo che tutti avevano posti gli occhi su lui, e che non c'era verso di cansarla;—qui bisognerebbe distinguere. Io so, per esempio, e non so. Ma di grazia, contessa, che cosa consta a Lei, di questa risoluzione del signor Prospero? Se ci sarà qualche discrepanza tra le sue informazioni e le mie,—soggiunse il cavaliere Tiraquelli con aria di suprema bontà,—correggeremo le une o le altre, secondo il bisogno.
—Oh, l'avverto che non correggerà le mie;—gridò la contessa
Gamberini.—So poco, io; ma quel poco io l'ho per sicuro.
—Da fonte per ordinario assai bene informata;—notò ridendo il signor ricevitore del registro.
Ma nessun giornalista era presente, per arrossire, e la insigne scioccheria destò a mala pena il sorriso di due o tre intendenti.
—Dal mio fattore;—ripigliò la contessa.—Ed ecco come è andata la cosa. Il mio fattore era in campagna, alla Serra, per visitare un piccolo podere che abbiamo noi, tra monte Acuto e San Bruno. Discendeva appunto da una scorciatoia in mezzo ai faggi, quando vide andare in su due persone, sedute sugli asinelli, e seguite da un contadino, che portava due sacche da viaggio. Una di quelle due persone era il signor Prospero Gentili.
—Quando?—chiese il sottoprefetto, con aria di voler stabilire i fatti e le date.
—Nove giorni fa;—rispose la contessa.—Il signor Gentili non vide il nostro fattore che era nascosto dietro alle frasche; ma questi vide lui e lo riconobbe benissimo. E quando gli venne tra i piedi il contadino, che ritornava con le due umili cavalcature al piano, gli domandò come fosse che aveva lasciato il signor Gentili lassù.
—E lui?
—Il contadino rispose che non conosceva punto il signor Gentili. Lo aveva trovato, col suo compagno, presso la stazione della strada ferrata. Si era offerto a portargli le sacche da viaggio, e quello gli aveva risposto: "Vorremmo andare fino a San Bruno; sapreste trovarci due cavalcature?"—"Sicuro, che le troverò;—rispose il contadino;—ci ho il fatto vostro in casa di mio padre."—Così si erano conosciuti ed intesi; il contadino li aveva accompagnati fino al ponte di San Bruno, e aveva udito dalle labbra stesse del viaggiatore le parole: "veniamo per farci frati" dette al converso che era andato ad aprire.—
Tutti quei particolari fecero un gran colpo sull'animo degli astanti. La meraviglia era stata così forte, che nessuno si era dato pensiero di chiedere chi fosse il compagno del signor Gentili in quella domanda d'ammissione. Ma era pronta alla riscossa la contessina Berta, che si fece innanzi, col suo giovanile candore, e dimandò:
—C'era anche Adele?
—Anche Adele;—rispose la contessa madre alla contessina figlia.
—Sarà un po' difficile che riesca a farsi frate;—disse il ricevitore del registro.
—Uno scherzo! una ragazzata!—mormorò il sottoprefetto.
—Scherzo e ragazzata finchè si vuole;—osservò la signora Morselli.—Ma una donna…. una ragazza…. in un convento d'uomini….
—Dio buono!—interruppe quella santa creatura della contessa Beatrice.—Adele è in compagnia del suo tutore, del fratello di sua madre. Io non ci trovo nulla di male. Ah, signor duca,—proseguì la contessa Beatrice, volgendosi al Francavilla, che era rimasto là ingrullito, e, da Almaviva che voleva essere, incominciava a far la figura di Don Bartolo,—Lei ha fatto una descrizione troppo bella del convento di San Bruno, e i nostri amici se ne sono innamorati di schianto.—
Il duca di Francavilla fece una risatina melensa, indi si morse le labbra e tornò a sfogliare il suo albo. Fu una gran confusione, un pandemonio, nel salotto della sottoprefettura di Castelnuovo Bedonia. E in verità, c'era materia a discorrere per tutti i versi. Una occasione più ghiotta non era capitata mai. Dio buono, la signorina Adele in un convento d'uomini! Era ben fatto, forse? E se era male, fino a che punto lo era? Certo, l'idea di quella gita era venuta a lei e il tutore non aveva fatto che obbedire. Altro che Milano! conchiudevano tutti. Altro che rilegare a nuovo le gioie di famiglia! avrebbe potuto conchiudere il sottoprefetto.
Il degno rappresentante del governo in Castelnuovo Bedonia non badò neanche più a dissimulare la sua ignoranza. Quella notizia così inattesa, così stravagante, lo aveva colto in pieno, lo aveva sbalordito.
Quasi sarebbe inutile il dire che per quella sera non si parlò più dei soliti quattro salti. Gran bella quadriglia avrebbe potuto comandare il duca di Francavilla! Berta, la gentil contessina, passò davanti a quella rovina di duca e gli gettò un'occhiata di compassione; indi, tornata al cembalo, rimase là tutta sola, facendo scorrere le agili dita sulla tastiera, e cavandone accordi sommessi, mentre laggiù, presso il canapè di damasco, si faceva un chiasso indiavolato. Ve l'ho già detto, era scoppiata una bomba; bisognava raccogliere i cocci.
Quella sera, ad uno ad uno, spulezzarono tutti i convitati due ore prima del solito. Non si ballava e la partenza anticipata aveva la sua scusa. Ultimo rimase nel salotto il signor duca di Francavilla. Il sottoprefetto, anzi che doversi sorbire cinque minuti di conversazione con lui, in quella circostanza, avrebbe voluto essere dieci palmi sotterra. Ma il duca di Francavilla, o non si accorse del suo misero stato, o non volle fargli grazia; e andatogli incontro, senza far l'atto di stendergli la mano, come il sottoprefetto sperava, lo interrogò con un cenno del capo. Con un cenno uguale il sottoprefetto rispose.
—Che cos'è questa storia?
—Ne so quanto Lei.
—Ma… e i discorsi fatti col signor Prospero?
—Non erano ancora discorsi fatti con la ragazza; glielo avevo già detto, io!
—E la storiella delle gioie?
—Santi Numi! Un artifizio per pigliar tempo.—
Il duca s'inalberò.
—Troverebbero qualche cosa a ridire sul conto mio?—domandò egli, rabbruscato.
—Non credo. Che cosa potrebbero trovare? Io lo domando a Lei. Ma vorranno un po' di tempo a pensarci su. La gente che possiede i quattrini, ci ha sempre qualche dubbio, qualche esitanza…. Infine, che so io? Signor duca, si commenta Dante, che ne vale la pena, e ci fanno una discreta figura anche gli asini. A commentare i passi oscuri del signor Prospero, c'è assai meno sugo, e ci diventerebbe un asino anche un sottoprefetto.—
Ciò detto, il degno uomo si lasciò andare per morto sul canapè di damasco rosso, come un uomo che avesse risoluto di non commentare più nulla.
Il signor duca faceva le volte del leone e non accennava punto a volersene andare. Tutto ad un tratto si fermò, fissò gli occhi in volto al padrone di casa, e gli disse:
—Che cosa ne penserà il ministero?—
L'ombra minacciosa, evocata dal duca di Francavilla, si rizzò davanti agli occhi del povero cavaliere. E la sua nomina a prefetto, la commenda, la dignità senatoria? Quella triplice forma delle sue future grandezze gli fuggiva veloce dallo sguardo. Illa levem fugiens raptim secat aethera pennis, avrebbe detto Virgilio.
—Signor duca, che ne so io?—gridò il sottoprefetto, coll'ansia dell'uomo che affoga.—Vuole condannar me, per una colpa non mia? Il signor Prospero è un imbecille e non sarà mai commendatore. Quantunque, a voler esser giusti, una qualità non escluda l'altra in modo assoluto. Ma può darsi che…. Non giudichiamo senza sapere le cose. Un po' di tempo per raccapezzarci! Intanto, se permette, chiamerò il delegato di pubblica sicurezza. Ho da dargli certi ordini.—
Il duca di Francavilla se ne andò, mediocremente soddisfatto di quella proroga, e il sottoprefetto chiamò l'usciere, che a certe ore del giorno esercitava anche l'ufficio di servitore.
—Dove sarà il delegato? A letto?
—Oh, a quest'ora no, signor cavaliere. A quest'ora sarà al caffè delle Tre Rose, per far la partita a tarocchi col cancelliere della pretura.
—Andate a chiamarlo. Ho bisogno di vederlo subito.—
Il cavaliere Tiraquelli, tanto seccato durante la sera, aveva bisogno di sfogarsi su qualcheduno. E la vittima designata era il povero signor Borgnetti.
Il delegato capitò alla sottoprefettura con un'aria ilare, fin troppo ilare, che accennava ad uno stomaco pieno e ad un'anima senza rimorsi.
—Or bene, sa nulla?—gli chiese il sottoprefetto.
—Sì,—rispose il delegato, ammiccando e sorridendo con insolita familiarità.
—Dica su, dunque!
—Nel convento di San Bruno;—ripigliò il signor Borgnetti.—È andato nel convento da burla, e la sua nepote con lui. A farsi frati; anche questo da burla. Veda che razza di matti! La ragazza non troverà più marito; lo zio è un imbecille.
—Quanto al signor Prospero, è anche la mia opinione;—osservò molto giudiziosamente il sottoprefetto.—Quanto alla signorina, sappia, signor Borgnetti, che con una dote come la sua….
—Capisco; si chiudono gli occhi su molte cose.
—Del resto,—rispose il sottoprefetto,—non c'è niente di male. Non si tratta che d'un capriccio di fanciulla inesperta, e la presenza dello zio chiuderà la bocca ai maligni. Ma ora, mi dica il resto. Perchè, m'immagino, appena trovato il bandolo, Ella sarà andato sino in fondo.
—Eh, non guari più di così. L'amico non sapeva altro, e me n'ha informato pochi minuti fa. Eravamo ancora a discorrere insieme, quando è capitato l'usciere a cercarmi.
—Pochi minuti fa!—esclamò il sottoprefetto.—L'amico! Ma chi è costui?
—-Senta, non vo' fargliene un mistero. Ho saputo tutto…. dal ricevitore del registro.—
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia diede un balzo sulla seggiola, che fece balzare di contraccolpo il delegato.
—Dal ricevitore del registro!—esclamò il degno rappresentante del governo.—Dal ricevitore del registro, che lo aveva risaputo da me!
—Non da Lei, scusi;—ribattè il delegato, a cui i caldi vapori del vino avevano destato il senso della ribellione;—dalla signora contessa Gamberini. Vede, cavaliere; per saper le cose, non ci sono che le donne. In massima, le scoperte più importanti si fanno tutte a caso. La traccia misteriosa, indovinata da pochi segni fugaci, non si trova che nei romanzi. Me lo diceva appunto il questore di Rossano, da cui dipendevo, prima di venire a Castelnuovo.—Se Lei vuol far carriera,—mi soggiungeva quell'uomo impareggiabile,—lasci credere che tutto proceda dalla sua accortezza: ma in cuor suo non si vergogni di non essere accorto. In queste materie, non lo è nessuno. La fortuna è donna, ed è giusto che s'innamori di qualcheduno; ecco tutto.—
Il sottoprefetto lo avrebbe strozzato con le sue mani, quel burlone di un delegato.
—Lei ha alzato un po' il gomito, quest'oggi;—gli disse, con accento sarcastico.
—Oh, poco, assai poco;—rispose il delegato, con aria di sommo candore.—A mala pena una bottiglia di Capri bianco. Ne hanno mandato al conservatore delle ipoteche, da Napoli, dov'egli è stato cinque anni. Mi ha invitato a festeggiare l'arrivo, e si è stati due ore in gaudeamus.
—Beato Lei, che ha tempo da perdere!—esclamò il sottoprefetto con piglio severo, che contrastava con quella forma di benevolo augurio.—Vada a dormire, adesso, mentre io veglio per Lei e per tutti.—
E fatto un gesto nobilissimo, ad accompagnamento di quel nobile commiato, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia volse le spalle al signor delegato Borgnetti.
—Non sapeva nulla!—disse il signor Borgnetti, mentre scendeva le scale e si stropicciava le mani,—non sapeva nulla del signor Prospero; perciò è andato in collera, vedendo che la polizia della contessa Gamberini era meglio fatta della sua. Ma badiamo, signor Borgnetti;—soggiunse egli gravemente;—la polizia della sottoprefettura di Castelnuovo siamo noi che la facciamo, e non bisogna dirne male. Baie! Alla fin fine, o che s'ha da aver l'occhio a tutte le minuzie di Castelnuovo Bedonia? E non aveva ragione il mio vecchio principale a dire che la fortuna è donna? Venga la fortuna, e terrà luogo d'ingegno.—
Abbiamo lasciato i nostri novizi al convento di San Bruno; andiamo a ripigliarli nelle loro celle. Ma non per condurli via, intendiamoci. Cotesto metterebbe conto al sottoprefetto di Castelnuovo, ma troncherebbe il filo del nostro racconto.
Frate Adelindo era rimasto un pochettino sconcertato, vedendo che la sua cella era separata da quella di frate Prospero, suo ottimo zio e compagno di clausura. Senza formarsi un giusto concetto del suo nuovo stato, il vezzoso fraticello aveva fatto assegnamento su d'un quartierino per due, e non si era appunto preparato all'idea di restar solo in un ritiro di due camerette, come un antico Camaldolese. Ma infine, ci voleva pazienza. Frate Adelindo voleva esser uomo, e con la pazienza tirò anche dentro il coraggio. L'uscio, del resto, era di quercia, salde le sbarre, e una persona sprangata là dentro poteva dormire tranquilla, specie in un luogo di pace, dov'erano tutti fratelli.
Padre Prospero batteva le labbra e tentennava la testa. Quella impresa seguitava a piacergli poco. E non gli piacevano punto punto le guardate curiose di fratel Giocondo, spartite in giuste proporzioni tra lui e frate Adelindo, ancora così poco frate all'aspetto, e così poco uomo per giunta.
A farlo parere più uomo non poteva certamente contribuire la buona volontà di suo zio. A farlo parere più frate doveva bastare una corsa di fratel Giocondo in sartoria. Si erano preparate le tonache pei cinque che si aspettavano in settimana; due potevano essere distratte da quella loro destinazione, per servire ai primi venuti. E fratel Giocondo, mentre s'incamminava alla sartoria, andava borbottando tra sè:—Quel giovinotto! Ma è troppo giovane! Pare una fanciulla.—
Lungo i corridoi, il nostro frate converso s'imbattè nel padre
Bonaventura.
—Or bene, fratel Giocondo;—disse l'astronomo di San Bruno;—che novità abbiamo? Son venuti i cinque?
—No, padre; sono invece capitati i due, che non appartengono ai cinque.
—Due nuovi, dunque?
—Nuovi di zecca. Uno, anzi, mi pare fin troppo nuovo, e non capisco come il priore lo abbia ammesso.
—Fratel Giocondo, non discutiamo l'autorità del priore.
—Oh, non è per discutere. Dico che non capisco. Ma già, io non ho da capire. Fo il portinaio, io, il cantiniere, il fattorino, e il cerimoniere a tempo avanzato.
—Questo cumulo di occupazioni servirà a tenervi in esercizio;—disse il padre Bonaventura ridendo.—Ingrassate troppo, fratel Giocondo!
—I dispiaceri, padre, i dispiaceri!—
E fratel Giocondo se ne andò alla sartoria, per prendere le due tonache.
La voce dell'arrivo dei due ospiti nuovi si sparse subito per tutto il convento. Quel giorno, al refettorio, ci doveva essere un gran movimento di curiosità. I frati del nuovo ordine di San Bruno vivevano bensì fuori del mondo; ma un piccolo resto della vita passata non poteva non esserci negli animi loro, come non può non esserci in fondo al bicchiere quell'ombra di rosso che è indizio del vino da poco tempo bevuto. E poi, non si è mica detto che quei bravi eremiti rinunziassero ad ogni consuetudine della vita. Si erano formato il loro piccolo mondo, ma il piccolo mondo non esclude un movimento di curiosità; specie quando questa curiosità risguarda le persone che vengono a far vita con noi.
Alle cinque del pomeriggio la campana del convento suonò l'appello al refettorio. Tosto sbucarono i frati dalle loro celle, con una prontezza e con una simultaneità, che facevano credere aver essi aspettato quel momento con la mano sul saliscendi. C'erano tutti, presenti; il padre Anacleto, priore, e i padri Anselmo, Bonaventura, Natale, Restituto, Ottaviano. E tutti, andando lungo le arcate del portico, mandavano la loro sbirciatina agli usci delle due celle, da cui dovevano escire i nuovi ospiti del convento di San Bruno.
Uno di quegli usci si aperse, e ne balzò fuori un coso tondo, un cor contento in tonaca da frate. Era il signor Prospero. Alcuni secondi dopo si aperse l'altro e ne usci un bel padrino, su cui si posarono gli sguardi curiosi di tutta la famiglia fratesca. Dio santo, che figura d'angelo fatto frate! Angeli, arcangeli, serafini, cherubini, troni, dominazioni, virtù, potenze, principati, ditelo voi, a quale dei vostri cori e delle vostre gerarchie appartenesse quel gentile padrino biondo, con que' labbruzzi vermigli, quelle guance rosse e quegli occhietti ladri. In verità, io vi dico, se non fosse stato per quegli occhi, il padrino sarebbe stato preso per una monachina. Lo avrebbero forse lasciato supporre le guance che si tingevano del "color di fiamma viva"; ma il padrino, sicuramente, si era fatto forza, si era armato di coraggio, aveva alzato que' suoi occhietti pieni di malizia, aperte le labbra ad un sorriso arguto; ed ogni sospetto era svanito.
—Così giovane e venire a rinchiudersi qui dentro!—esclamarono i padri, raccolti in osservazione davanti all'uscio del refettorio.
Il priore udì quelle parole, che potevano essere anche un mezzo rimprovero alla sua condiscendenza soverchia. E, per farla finita con ogni mormorazione, così prese a parlare, indicando i nuovi venuti:
—Fratelli, vi presento due ospiti, due compagni, il padre Prospero e il padre Adelindo. È forse un po' troppo giovane, quest'ultimo, ed io non ho lasciato di osservarglielo. Ma egli a nessun patto vuole restar diviso da suo zio, e fa nobilmente sue le tristi cagioni che allontanano il padre Prospero dalle vanità e dalle afflizioni del mondo.—
Bisognava vedere in quel momento la faccia contenta del signor Prospero Gentili. Ma andiamo avanti, senza descrivere quello che ognuno di voi può figurarsi facilmente in cuor suo.
—Non mi sono tuttavia intieramente arreso alla sua insistenza;—continuò il padre Anacleto.—Dubitando della vocazione sua, che non può essere accertata finora, come fu accertata quella di tutti noi, l'ho accolto solamente come novizio; e come novizio, per conseguenza, ho accettato suo zio, non volendo separare con una troppo sollecita disparità di promesse due congiunti di sangue. Ho fatto una cosa nuova, non conforme alle nostre consuetudini, interpretando il principio che, dove la legge tace, s'intende libera l'azione.
—In dubiis libertas;—osservò il padre Bonaventura.
—Grazie, et in omnibus charitas;—ripigliò il padre Anacleto.—Io spero adunque che voi, miei cari fratelli in solitudine, non disapproverete questa novità, badando alle intenzioni che l'hanno dettata.
Il padrino guardò in viso i suoi giudici, e comprese che nessuno avrebbe detto di no.
—Savio consiglio;—mormorò il padre Atanasio.
—Come tutto ciò che esce dalla mente del nostro degno priore;—aggiunse il padre Restituto.
—Sia dunque così, col volere di Dio;—replicò il padre Anacleto, non aspettando più altri segni di approvazione.—E adesso, miei fratelli, andiamo a vedere come ci tratta il cuoco. Vi avverto,—soggiunse, rivolgendosi ai due novizi,—che qui si mangia male.
—E si beve peggio;—-borbottò fratel Giocondo, che chiudeva la marcia.
Il padre Prospero credette obbligo suo di rispondere che egli e il suo nepote si sarebbero acconciati volentieri a tutto, pur di essere ammessi a vivere nella comunità di San Bruno. Povero signor Prospero! Ci aveva sempre addosso gli occhi del padrino biondo, che quando voleva una cosa, non c'era più verso di resistergli. Infine non si trattava più di andare al polo Artico, nè alle sorgenti del Nilo. E poi, con l'aiuto di Dio, quella pazzia del chiostro non sarebbe mica durata eternamente! Il padre Anacleto si era dimostrato veramente un buon diavolo, non accettandoli che in qualità di novizi. Ottimo padre Anacleto! Il meno che si potesse fare con lui, era di rispondergli a tono.
—Che? Anzi! Più sarà frugale il pasto, meglio sarà per la mia salute;—rispose il signor Prospero.—Ingrassavo troppo, quantunque senza mia colpa.
—Del moto, fratello, del moto!—raccomandò uno dei frati, che si trovava vicino al signor Prospero.—Bisogna combattere in tempo la polisarcia.
—Poli….—balbettò il signor Prospero, inchinandosi al suo nuovo interlocutore.
—….sarcìa;—riprese quell'altro, che era il medico della comunità.—È un composto di due vocaboli greci, polis e sarcos, e significa abbondanza di carne. Questo non sarebbe, a dir vero, un gran male; ma la parola si usa impropriamente a significare un eccesso di pinguedine, il che si esprimerebbe meglio con la parola polipionìa, ugualmente greca, pion volendo per l'appunto dir pingue.
—Vedete mo' che diavoli ci ho in corpo!—mormorò il signor Prospero.—Polisarcia! Polipionìa! Grazie tante, padre…. Il suo nome, se è lecito!
—Tranquillo, per servirla. È il nome che ho scelto, entrando qua. E lo sono davvero, poichè inveni portum; e posso aggiungere col poeta: spes et fortuna valete; sat me lusistis, ludite nunc alios.—
Il signor Prospero amò meglio restare nella sua ignoranza, che domandare la traduzione del distico.
—Son cascato bene;—diss'egli tra sè.—Son tutti sapienti, qui dentro; ci hanno il greco e il latino sulla punta delle dita. Uno è astronomo, l'altro è chimico; un terzo archeologo; un quarto meccanico…. Ma che Iddio mi benedica, o non sono agronomo, io? Un agronomo…. agrodolce, per verità! Mi ha fatto tale il sottoprefetto di Castelnuovo. E la mia nepote mi fa frate. Si fermeranno qui l'uno e l'altra?—
Facendo queste riflessioni, il signor Prospero (anzi, diciamo a dirittura padre Prospero, per metterlo alla pari con tutti i suoi colleghi) si trovò seduto a tavola, fra il padre Tranquillo, medico, e il padre Marcellino, filosofo. Il suo nepote, o fosse caso, o fosse elezione, si trovò dall'altra parte della tavola, accanto al priore, con cui si era accompagnato, entrando in refettorio.
La sala era vasta, e lo appariva due cotanti di più, perchè bianca ed ignuda. I nuovi frati di San Bruno non avevano fatto nessuna spesa colà, non si erano incaricati di abbellire quella parte della loro abitazione. Avevano perfino lasciato in piedi un certo pulpito di fabbrica, destinato alla lettura durante il pasto. Per fortuna, lassù non si leggeva più nulla, non avendo la nuova regola di San Bruno reputato necessario di aggravare un cattivo pranzo con una uggiosa lettura. Gli antichi Camaldolesi andavano a prendere il loro nutrimento in quel refettorio una volta alla settimana; tutti gli altri giorni desinavano nelle loro celle, e la broda disciplinare passava da quelle ruote che ho detto. Poi, bevevano l'acqua in certe ciotole di terra cotta, che accostavano alla bocca, sostenendole con tutt'e due le palme. Un modo di bere piuttosto incomodo; ma era di rito. E i riformati di San Bruno, per accostarsi in qualche modo alle vecchie costumanze, avevano aboliti i bicchieri, attenendosi a certe ciotole di maiolica, che non avevano neanche il pregio di escire dalle fabbriche del Ginori.
Non l'abbiate per una ragazzata, vi prego. Il padre Anacleto, interrogato su quella stranezza apparente, avrebbe potuto darvene una ragione plausibilissima. Ciò che fa amar molto la tavola è la tovaglia, lo sfoggio del vasellame, lo scintillìo dei cristalli. Una mezza batteria di bicchieri a calice, sfaccettati, smerigliati, lucidi, opachi, quando spessi come il diamante, quando sottili come la mussolina, fanno bere tre volte più di quello che porterebbe il vostro bisogno. Provate in quella vece a bere il Reno o il Borgogna in una ciotola di terra cotta, rozzamente inverniciata. Quel vino vi parrà una povera cosa; manderete giù quel che vi occorre, non un centellino di più. Per contro, il vino cattivo vi parrà semplicemente mediocre, ed anche di quello berrete come e quanto mangiate, cioè a dire tutto quello che occorre per le ineluttabili necessità della vita.
Ammiriamo i riformati di San Bruno e lasciamo gridare i gaudenti. Anche la tavola è tra i piaceri e le vanità del mondo che lasciano tormento ed afflizione di spirito. Il pensatore è sobrio; il lavoratore non potrà sempre esser sobrio, ma non avrà mai vizi di gola.
Frate Adelindo, seduto alla destra del priore, era l'argomento della curiosità universale. Si voleva non averne l'aria, ma gli occhi correvano di tanto in tanto dal piatto a quella bionda testina, a quel collo di cigno che sbucava dall'orlo della cocolla color di tabacco.
—È molto giovane, il vostro nepote;—disse il padre Tranquillo all'orecchio del padre Prospero.—Non si adatterà alla nostra vita rinchiusa.
—Perchè?—disse di rimando il padre Prospero, che sentiva la necessità di nascondere il suo giuoco.—Sono appunto i giovani che possono adattarsi a certi sacrifizi. Ai panni vecchi non è facile far perdere le pieghe.
—Questo è vero per molti;—replicò il padre Tranquillo;—ma poichè qui ci si viene in forza di una vera e profonda vocazione, bisogna ammettere che la nuova piega sia già fatta prima d'entrare.
—Ah sì, la vocazione!—mormorò il padre Prospero.—Una gran cosa, la vocazione. Scusate, padre, la mia indiscretezza. Qual è stata la vostra vocazione?
—Seccato;—rispose il padre Tranquillo;—seccato del mondo; seccato in un modo da non dirsi. Facevo il medico, per utile del mio simile. Ed io avrò fatto male a lui; ma egli di certo ha fatto male a me. L'ho abbandonato come vedete, e me ne trovo bene. Auguro a lui altrettanto. Già, fratello mio, che serve il nasconderlo? Neanche la scienza medica può pretendere all'infallibilità. Richiede atti di fede continui; è teologia, o poco ci manca. Una cosa è certa, che la natura ha rimedi efficaci, e forze vive nell'organismo per farli operare. Noi, studiosi dell'arte salutare, non possiamo vantarci che di un po' d'accortezza nell'accomodare certi rimedi ai bisogni dell'uomo. Audacia somma nell'esperimento, audacia immensa nella dichiarazione della malattia, audacia infinita nell'attribuire alla natura gli errori dell'arte nostra e all'arte nostra i benefizi della natura; eccovi, padre Prospero, la medicina, da Ippocrate fino a Boerhaave, e da Boerhaave fino a me. Dico a me, per non far torto a nessuno;—soggiunse il padre Tranquillo, ridendo.—Empirismo che qualche volta riesce; dottrina che qualche volta azzecca giusto; dissidio quasi sempre tra la teorica e la pratica; questa è la scienza nostra. Seccato, vi dico io, padre Prospero, seccato dell'arte, seccato del mondo, seccato del resto.—
Evidentemente il padre Tranquillo non diceva tutto. Anzi, pensandoci bene, era facile di scorgere che non aveva detto nulla. Ma è questa l'arte degli uomini bene educati, che vogliono nascondere il loro pensiero, aver l'aria di prendervi a confidente e di spiattellarvi ogni cosa. Il padre Prospero fu grato di quelle confidenze al suo vicino di tavola, e gli giurò lì per lì un'amicizia eterna.
—Che bravo giovinotto!—diceva egli tra sè.—Col suo ingegno, poteva diventare un altro Galeno. Ed eccolo qua, invece, tra i giubilati, contento di averne cavato i piedi, come un altro lo sarebbe di averceli messi. In verità, non ho torto io a dolermi di essere uscito dalla via degli onori?—
Leggiadro collare della Corona d'Italia, tu danzavi sempre, immagine cara, davanti agli occhi del signor Prospero Gentili.
Di tanto in tanto quegli occhi si volgevano con paterna sollecitudine a quel biondo novizio che sedeva a fianco del priore, sostenendo abbastanza bene la sua parte di fraticello. Non arrossiva più, il serafino; continuava in quella vece a parlar poco, e quel poco con un suo accento particolare, come se le parole gli si formassero in gola, anzi che nella classica chiostra dei denti.
Nessuno, tranne il padre Prospero, doveva capire che quel vezzoso padrino si studiava d'ingrossare la voce, nel lodevole intento di parere tutt'altro da quel ch'egli era veramente. Riusciva egli nel suo tentativo? Non so. Forse ne dubitiamo noi, che siamo nel segreto, non potendo immaginare che altri non lo indovini alla prima. Comunque fosse, quello sforzo del leggiadro novizio dava al suo discorso una certa velatura di suoni gutturali, che non dispiaceva punto, anzi poteva parere una grazia di più.
—Gran diavola!—esclamava mentalmente il padre Prospero.—Che cosa si ripromette da questa sua impresa arrischiata? Spero bene che fra cinque o sei giorni si annoierà, e noi torneremo a Castelnuovo.—
Il pranzo finì e la comitiva andò a fare il chilo sotto una loggia che guardava la campagna. Il sole era già tramontato, e le ombre del crepuscolo incominciavano a salire dal burrone, nel cui fondo romoreggiavano le acque del torrente. I profili delle colline s'infoscavano sul primo piano del quadro; più lungi si tingevano di violetto e d'azzurro le vette digradanti dell'Appennino. Non gruppo di case, non traccia di campi coltivati, si vedeva d'intorno; la solitudine regnava sovrana, e nella solitudine si espandeva liberamente il pensiero.
Tutti i giorni, dopo il pranzo, i frati di San Bruno solevano dividersi in piccole brigate, ed anche in semplici coppie, per andare a diporto di qua o di là, assorti in familiari colloquii, che mutavano indirizzo secondo la composizione dei crocchi e gli umori del momento. Quel giorno, invece, dovevano raccogliersi tutti quanti sotto la loggia e star seduti a chiacchiera, come una società di buontemponi che metta in pratica il post prandium stabis della vecchia scuola di Salerno.
Il padre Adelindo, che aveva preso un pochettino di confidenza co' suoi compagni di tavola, notò una cert'aria di somiglianza che traspariva da tutte quelle fisonomie. Forse era da vederci un effetto della convivenza, essendo noto che ogni persona, come ogni cosa al mondo, assume il colore dell'ambiente in cui sia rimasta a lungo, e che certi modi di essere, di atteggiarsi, di discorrere, si copiano facilmente e quasi inavvertitamente gli uni dagli altri. Tutti i frati di San Bruno avevano poi, nella loro medesima apparenza di gioventù, una balìa, una padronanza, e vorrei dir quasi un possesso di scena, che accennava ad una età più matura. E questo forse era da attribuirsi in parte alle gravità dell'abito che indossavano, in parte alle burrasche per cui erano passati, prima di giungere a quel porto di rifugio.
Perchè si fossero raccolti in quella solitudine, mi pare di averlo già detto. Ma perchè avevano adottata quella foggia di vestire? Non potevano vivere in comunità, ed anche con una certa regola fratesca, senza l'impaccio della tonaca?
Lettori miei, il vecchio entra per una gran parte nella composizione del nuovo. Si rinunzia mal volentieri a certe anticaglie, quando si vogliono rinnovate le sensazioni che solevano accompagnarsi a quelle immagini del tempo trascorso. Si direbbe quasi che l'intima virtù di certe cose è tutta nella forma di cui erano rivestite. Gli Ebrei continuarono sempre, anche dopo l'uso comunemente invalso del ferro, a sacrificare con coltelli di selce. Dite ai Liberi Muratori di rinunziare ai loro simbolici riti, che rammentano i Templarii da una parte, e le compagnie artigiane medievali dall'altra, e vi diranno che appunto in quei riti è la forza loro, perchè c'è la poesia del loro istituto. Che più? Un amico mio ha giurato fede alle staffe, fermate in fondo ai calzoni, perchè questi non salgano su. Egli dice e sostiene che ciò gli è indispensabile, per creder sempre di avere vent'anni. Ora, se ciò basta a mantenere la sua illusione, vorremo noi lesinargli le staffe?
Il convento di San Bruno, nel corso di una settimana, aveva mutato a dirittura d'aspetto. Prima, e sia detto senza ombra di mal animo, ci si dormiva molto; allora ci si vegliava, ci si viveva, ci si lavorava a gran furia. Avrete già indovinato che il gran lavoro della comunità di San Bruno era il giornale scientifico. Erano giunti i cinque nuovi colleghi aspettati; anch'essi nel vigore dell'età e pieni di buon volere. Le casse tipografiche erano state collocate a posto; il torchio egualmente; un gran disegno del padre Anacleto era sul punto d'incarnarsi, o se vi piace meglio, d'impiombarsi; perchè infatti era questione di piombo.
Di nove che erano pochi giorni addietro, i frati di San Bruno giungevano per tal modo al numero di sedici. Ed erano forse già troppi, per la quiete operosa a cui mirava il padre Anacleto.
—Fratelli,—aveva detto il priore, raccogliendo intorno a sè la cresciuta famiglia,—il nostro ordine accenna a voler prosperare velocemente. Dobbiamo rallegrarcene? Dobbiamo rammaricarcene? Certo, se ce ne rallegriamo, sarà per noi medesimi, non per il mondo, che mostra così di perdere ogni attrattiva sugli uomini. Ma anche noi dobbiamo badare ad un pericolo. L'essere in troppi nuoce, e forse sarà da pensare alla fondazione d'un nuovo convento, come fecero, per gli ordini loro, san Bruno e san Bernardo di Chiaravalle.
—Non siamo in troppi, finora;—osservò modestamente il padre
Marcellino.
—Stiamo bene, così;—aggiunse il padre Restituto.
—Siamo come in famiglia;—ribadì il padre Atanasio.—Si sente una dolcezza nuova, che, per dirla col poeta, e guadagnandoci anche la rima, intender non la può chi non la prova.—
Il padre Atanasio esprimeva, assai meglio che non credesse egli in cuor suo, il pensiero di tutti. Era in tutti un sentimento di dolcezza che io non potrei significarvi appuntino, senza far capo ad un paragone di cucina. Ma badate, cucina poetica; una di quelle cucine ascose tra le gole dei nostri Appennini, cucina fuligginosa e nera, per modo che la fiammata dell'ampio cammino non disperda la sua luce benefica lungo le pareti, ma la concentri sulle otto o dieci persone beatamente sedute intorno al focolare, con la schiena protetta dall'alta spalliera delle cassapanche di quercia. Di fuori, cade a larghe falde la neve, e soffia acuto il rovaio; di dentro si prova la delizia dello stare al coperto e raccolti nella compagnia delle persone più care. La famiglia qui restringe i soavi suoi vincoli; l'ospitalità diventa amicizia; quella padellata di bruciate, che scoppiettano nel fuoco, vuol essere una cosa gustosa. Di tanto in tanto, e come per rendere più spiccato il confronto, si dà un'occhiata all'uscio, che si scuote ai buffi del vento; poi si torna a guardare la fiamma consolatrice. Dio di misericordia, per una di quelle serate sull'Appennino io rinunzierei non so che, perfino il mio ufficio di storiografo dell'ordine riformato di San Bruno. E come paiono sciocchi coloro che, avendo questa fortuna sotto la mano, si lagnano ancora e chiedono altro al destino! Ma pur troppo siamo tutti così; non intendiamo che tardi, essere le gioie della vita ristrette in poche immagini, in poche scene, quadretti di genere, anzi che di storia, e quasi sarei per dire di paese soltanto, anzichè di genere; perchè la figura non è sempre bella a vedere, e un po' di frappa con un raggio di sole attraverso può bastare alla pace dell'anima, come alla consolazione degli occhi.
Voi lo vedete, lettori; anche facendo una piccola digressione, mi trovo d'accordo coi frati di San Bruno. Poca gente, ma provata e simpatica, ecco il non plus ultra. Se c'è una bella figurina nel numero, tanto meglio; anzi credete pure che io la supponevo presente. È forse lei che ci fa amare le solitudini e riconoscere e abbandonare senza rimpianti le vanità' rumorose del mondo. Perchè, diciamolo pure, anche a risico di far insuperbire le donne, c'è sempre un po' di femminile nella nostra bontà. Quando c'è in noi della bontà, si capisce.
I miei monaci sentivano essi l'arcana influenza del serafino biondo? È lecito di sospettarlo. Sentite questa, che potrebbe mutare il sospetto in una mezza certezza. Il serafino, quel medesimo giorno che era entrato in convento, ricordando ciò che gli aveva detto in parlatorio il priore, si era arrisicato a toccare il tasto del giornale scientifico. E di là era subito nata tutta quella gran ressa che v'ho accennata più sopra. Perchè? I miei monaci sapevano pure che la loro rassegna non l'avrebbe letta nessuno, poichè essi non l'avrebbero mandata a nessuno di fuori via. Ma essi oramai sentivano di bastare a sè medesimi. Non se lo dicevano; forse non ci pensavano neanche; ma una nuova vena di tiepido umore era penetrata nel circolo vitale della comunità di San Bruno.
Quella medesima settimana comparvero finiti i primi saggi della operosità scientifica dei nostri claustrali. Cito ad esempio una memoria sulle stelle cadenti, del padre Bonaventura, che ne minacciava anche un'altra sulla costituzione fisica del pianeta Marte; uno studio sulla circolazione del sangue e sullo scambio molecolare, del padre Tranquillo; alcuni cenni sulla formazione geologica di Monte Acuto, del padre Ottaviano, e una dissertazione Sul passaggio di Annibale da Castelnuovo, del padre Anselmo, che nella sua qualità di bibliotecario, doveva essere l'erudito della compagnia. Padre Anacleto non voleva esser da meno de' suoi colleghi; aveva messo fuori certe note d'archeologia preistorica, raccapezzate lì per lì dopo il suo colloquio col duca di Francavilla. Ma perchè quelle note non davano ancora un appiglio ai disegni del padrino Adelindo, e perchè senza i disegni di quest'ultimo il giornale di San Bruno non poteva andarsi a riporre, il degno priore immaginò di finire i suoi studi con una descrizione degli scavi di Monte Acuto, che sarebbero stati disegnati dalla matita del serafino biondo. E perchè gli scavi in discorso erano ancora di là da venire, il padre Anacleto opinò che si procedesse immediatamente agli scavi.
La spedizione archeologica fu prontamente deliberata. Si vogava sul remo al duca di Francavilla; ma questi non era che un dilettante, e i nostri monaci volevano fare da senno. Inoltre, il signor duca faceva i suoi scavi nella caverna della Ripa; i nostri monaci scelsero un campo più lontano, sul pendìo settentrionale di Monte Acuto, nella caverna delle Streghe.
Non vi starò a dire perchè la chiamassero delle Streghe, lasciando immaginare a voi le leggende popolari che avevano assegnato quel luogo a notturno ritrovo delle amiche di Belzebù. Vi dirò invece, dando una sbirciatina nei quaderni del padre Anacleto, che il monte Acuto, studiato da quella parte, appariva incoronato da banchi di formazione terziaria, posti orizzontalmente sopra gli strati verticali della calcarea compatta giurassica, ond'era formato il nocciolo di quella catena montuosa. Quei banchi di calcarea grossolana, o meglio d'un sabbione indurito, erano tutti ripieni di gusci d'ostriche e d'altri bivalvi, come l'Arca diluvii, la Venus rugosa, la Terebratula bipartita, non senza tracce di polipi, di èchini, e d'altri resti organici poco determinabili.
La costiera del monte era brulla, o quasi; soltanto tra le fenditure della roccia spuntava qualche ciuffo d'erba, e qualche arbusto malinconico e scarno, che pareva maledire la sorte da cui era stato sbalestrato lassù. La caverna delle Streghe, vuoi per la difficoltà dell'accesso, vuoi per la tristezza del nome, non era mai stata esplorata. Soltanto poteva esserci stato qualche pastore, od anche qualche bandito, a rifugio; e delle scarse visite faceva fede una piccola traccia di sentiero, meglio intravveduta da lunge, che potuta seguitare da vicino.
Segnar meglio il sentiero e nei punti malagevoli renderlo più sicuro scavando qualche gradino nella roccia, fu la prima cura dei nostri esploratori. Intanto il priore, seguito dal serafino e dal padre Prospero, andava oltre, verso l'ingresso della caverna. Senonchè il padre Prospero, afflitto dalla sua polisarcìa che gli sembrava già due tanti più grave, dopo che il padre Tranquillo gliel'aveva battezzata col suo nome scientifico, protestò ben presto di non poter seguitare i due scoiattoli a cui si era accompagnato con una fiducia superiore alle proprie forze, e, come Mosè in vista della Terra promessa, si accasciò presso un cespuglio, in vista della buca, che gli pareva ancora troppo lontana, quantunque non ci fosse più a fare che un centinaio di passi.
—Andate, andate!—diss'egli.—Ricolgo il fiato e vi raggiungo.—
E si sdraiò su d'un lastrone, soffiando come un mantice.
Il serafino biondo sorrise, lasciò lo zio in quella postura, che aveva pure i suoi pregi, e seguitò il padre Anacleto pei meandri sassosi del sentiero fino all'entrata della caverna.
Lo spettacolo era meraviglioso. I due esploratori si trovarono davanti ad una vasta fenditura orizzontale della roccia. Più che una fenditura, pareva una corrosione, una carie gigantesca del monte. Si entrava da quell'apertura in un atrio vastissimo, la cui vôlta, di colore rossastro, era in alcuni punti tappezzata di felci, e in altri faceva mostra di grappoli quarzosi, che scintillavano alla luce riflessa del sole. Un masso enorme, piantato in mezzo all'entrata, spartiva in due quella grande apertura, e intorno a quel masso un prunaio stendeva i suoi rami spinosi, che già facevano pompa delle vette fiorite. Quell'allegria di tinte delicate, che temperava l'orridezza selvaggia del luogo, colpì l'animo del serafino e gli strappò un grido di gioia.
Gentil serafino! Com'era giovane! La vista d'un fiore lo faceva andare in visibilio. E anch'egli era un bel fiore, bianco, roseo, come quello del rovo che gli stava dinanzi. Se egli si fosse guardato allora in uno specchio, metto pegno che avrebbe gettato un altro grido; ma non di gioia, bensì di paura, al vedersi così bello, troppo bello per un padrino, che volesse rimaner tale agli occhi della gente.
Il padre Anacleto, con atto cortese su cui spero non troverete nulla a ridire, si accostò al prunaio, spiccò una ciocca di fiori e l'offerse al suo giovine compagno.
—È strano,—diceva egli frattanto, quasi per rispondere al grido di gioia che la vista di quel prunaio fiorito aveva strappato al serafino biondo,—è strano trovar de' fiori quassù, dove è già molto se si trova un fil d'erba.—
Il serafino accettò il ramicello fiorito, senza risponder parola. Povero serafino, compatitelo, perchè era tutto confuso, e dal pensiero della sua bambinesca esclamazione e dalla molto cavalleresca ma poco monastica gentilezza del priore.
—Bella quiete!—diss'egli poscia, sviando la mente e lo sguardo di là, ov'essi stavano muti, con le spalle appoggiate alle sporgenze del masso.
—Sì;—rispose il priore, crollando malinconicamente la testa;—c'è sempre un luogo più quieto della solitudine in cui si vive. A noi pareva già tanto tranquillo il convento di San Bruno, e qui si sta meglio ancora. Ma forse,—soggiunse il padre Anacleto, sorridendo,—ciò avviene perchè laggiù siamo in molti, e qui non ci troviamo che in due.
—È vero;—osservò candidamente il serafino.
E nel profferire la frase guardò involontariamente il priore. Era bello, il padre Anacleto, con la sua barba nera e lucente, i suoi grandi occhi turchini, le labbra di corallo tenero, e la pelle fine, morbida e perlata, che somigliava ad un fiore di pomo. Inoltre, parlava con un accento così dolce, e così penetrante ad un tempo! Il serafino non aveva mai osservata prima d'allora una cosa simile. E quella scoperta, e il pensiero di averla fatta, lo turbarono grandemente, senza che pure egli ne sapesse il come e il perchè.
—Dove sarà rimasto mio zio?—gridò egli ad un tratto.
E si spiccò dall'ingresso della caverna, per andare verso la china del monte.
—Vado io, se permettete;—gridò il priore, trattenendolo con un cenno della mano.—Voi siete così giovane, amico mio! Riposatevi.—
Il serafino chinò la testa e si ritrasse per lasciar passare il compagno. Nello sguardo a lui rivolto dal priore egli aveva creduto di scorgere un'aria di mezzo rimprovero, e fu quasi pentito del suo movimento involontario. Poteva anche pentirsi della piccola bugia che gli era sfuggita, anche quella involontariamente. O non lo aveva egli veduto, dov'era rimasto suo zio? Ma già, benedetti giovani, quando incominciano a confondersi!
Il padre Anacleto scendeva giù pel sentiero, e il serafino stava fermo sull'ingresso della caverna a guardarlo. Agli occhi suoi il priore non aveva più una tunica da frate, in quel punto; era un cavaliere del milletrecento e indossava il lucco fiorentino. Anche il cappuccio poteva stare, poichè era una foggia medievale comune a tutti, e monaci e cavalieri.
—Padre Anacleto!—mormorò il serafino.—Quali dispiaceri lo avranno condotto a fare questa vita solitaria? Se non avessi avuta questa sciocca paura…. avrei potuto domandarglielo. Non voglio aver paura. Non l'avrò più!—
Il padre Prospero, cercato con una premura che egli era ben lungi dal sospettare possibile, stava a colloquio col padre Tranquillo, che lo aveva raggiunto da pochi momenti. Il degno uomo si era fermato e sdraiato in quel punto della salita per ricogliere il fiato, e continuava ancora in quella rumorosa occupazione, quando gli capitò dinanzi il medico della comunità di San Bruno.
—Su, su!—gli disse il padre Tranquillo.—Queste passeggiate sono il rimedio della polisarcìa.
—Speriamolo;—rispose il padre Prospero.—Ma proprio credete che sia una cosa grave?
—Grave! Secondo s'intende. Per esempio, se non pesa a voi, tutto quel carico di oleina e di stearina che portate continuamente addosso, il male non è grave di certo.
—Ah! stearina? oleina? E poichè siamo a parlare di queste materie combustibili e illuminanti, vorreste dirmi, padre Tranquillo, che cosa potrei fare per liberarmene.
—Regime di vita! regime di vita! Da che deriva la polisarcìa, infatti? Cause remote assegnate a questo incomodo dell'umanità sono: il clima freddo e umido, che qui non c'entra affatto; il temperamento linfatico, che nel caso vostro mi pare c'entri anche meno; finalmente la vita sedentaria e l'uso di cibi in quantità soverchia e troppo nutritivi. Quale di queste due ultime cause abbia avuto maggior parte nel vostro aumento di volume, fratello carissimo, io non so, perchè da troppo pochi giorni ci conosciamo e voi non mi avete fatte le vostre confidenze; ma io sospetto che tutt'e due ci abbiano lavorato. Del resto, i rimedi son molti, e tutti adatti, qualunque sia stata la causa del male. Aria sottile e montanina…. eccola qui! Esercizi del corpo…. eccoli qui! Cioè no, non li vedo per ora, poichè siete seduto: ma per venire fin qua, e per tornare al convento, avrete fatto un bel po' di ginnastica. Vi raccomanderei inoltre l'uso dei subacidi; non già dell'aceto, che potrebbe esser cagione di flògosi.
—Flògosi!—esclamò il padre Prospero.—Di grazia, che bestia è?
—Non fate caso; è una delle nostre parole difficili, con cui si cerca d'ingrossare un pochettino le molestie dell'infermo, e le benemerenze del medico. Dite pure infiammazione; è lo stesso che flògosi. Eravamo ai subacidi; aggiungo le acque sulfureo-saline, quelle di Seltz e di Sedlitz, e segnatamente la dieta.
—Ah, sì la dieta? Mi sembra che il cuoco di San Bruno la faccia fare anche ai magri;—osservò il padre Prospero.—Del resto, meglio così; una cura fatta in comune è più tollerabile.—
Con questi discorsi il padre Prospero teneva a bada il compagno. E sapete perchè? Per non dargli il passo alla caverna. Il padre Prospero era seduto a mezzo del sentiero, e per lasciar passare il padre Tranquillo avrebbe dovuto star su; la qual cosa gli comodava poco, anzi nulla.
In quel mezzo capitò il priore. Stretto da fronte e da tergo, il povero signor Gentili doveva fare di necessità virtù e rimettersi in piedi.
—Temevo che vi fosse intervenuto qualche guaio;—disse il padre
Anacleto, arrisicando anche lui la sua piccola bugia.
—Oh no, si chiacchierava di medicina con padre Tranquillo, che è veramente un pozzo di scienza. Padre, voi siete un gran medico, e se non mi guarirete di questa pappagorgia, la colpa non sarà vostra sicuramente.
—Avanti, dunque, e del moto;—concluse il padre Tranquillo.—Andiamo a vedere questa caverna.
—È stupenda;—disse il priore.
Anch'egli aveva fretta di giungere, e certo nel lodevole intento di dar principio agli scavi. Anche gli altri compagni, tracciato alla meglio il sentiero, incominciavano a venire sulle orme dei primi.
Giunta la comitiva ad una svolta del sentiero d'onde si vedeva l'apertura della roccia che formava l'ingresso della caverna, si parò davanti agli occhi dei nostri viaggiatori la bella figura del serafino, che era rimasto là, accanto al masso, nella postura in cui lo aveva lasciato il padre Anacleto.
—Miracolo!—gridò il padre Atanasio.—Un'apparizione!
—San Bruno adolescente!—soggiunse il padre Ottaviano.
—Dite piuttosto santa Teresa, o qualche altra santa claustrale;—entrò a dire il padre Marcellino.
Quel paragone femmineo, del resto naturalissimo per chiunque avesse veduto in quel punto il fraticello solitario, ritto in piedi sull'ingresso della caverna, turbò fortemente il padre Prospero, che temeva sempre di vedere scoperto il segreto della signorina Adele Ruzzani, sua bella e capricciosa nepote.
—-Sì, infatti….—balbettò egli.—Il mio nepote ha una faccia che sembra piuttosto una ragazza. Beato lui, che conserva la sua gioventù!
—Rimpiangereste forse la vostra?—domandò il priore.—Essa non vi servirebbe a nulla, nel chiostro di San Bruno.
—Eh, dopo tutto,—rispose il padre Prospero,—ed anche a non servirsene affatto, mi pare che la gioventù…. Ditelo voi, padre Tranquillo, che sapete tante cose. La gioventù è proprio così inutile, come mostra di credere il nostro degno priore?
—La gioventù,—disse il padre Tranquillo,—è uno degli elementi della salute. Direi quasi che è il solo. Almeno,—soggiunse, temperando la frase,—si potrebbe sostenerlo con qualche apparenza di verità. Infatti, tutto ciò che noi facciamo per la nostra salute, quando la gioventù se n'è andata, non è che un seguito di palliativi, più o meno felici, per dissimulare la mancanza di un elemento essenziale.—
Ne parlavano con molta tranquillità, di palliativi e di salute, essendo tutti così giovani, che il più vecchio di loro passava a mala pena i quaranta. Ed era strano il vederli, anche più strano del vedere quel biondo serafino in abito di frate; era strano, dico, di vedere tanti uomini, giovani ancora, e già stanchi delle tempeste della vita; stanchi delle tempeste, e così felici, così allegri nella piccola compagnia di naufraghi che erano riusciti a formarsi entro una piega dell'Appennino. Il contrasto tra il grande e il piccolo mondo, tra la società naturale e l'artificiale, non poteva essere più spiccato di così. E il vantaggio restava alla società artificiale, per la semplicissima ragione che la naturale si è fatta da sè, laddove l'artificiale ce la foggiamo da per noi, e ci prendiamo gusto fino a tanto che dura.
Ma in fin de' conti, o non è la medesima cosa nel gran mondo? L'umanità vive, con tutti i suoi dirizzoni e con tutte le sue tirannie; noi in quella vece passiamo. Guastarci il sangue, che giova? O non è forse meglio lasciar correre tutto ciò che vuol correre, e lasciar stare tutto ciò che vuol stare? A voler fare diverso, non si cava un ragno da un buco. Lasciate pure che gridino contro l'egoismo del piccolo mondo, e contro la stravaganza delle società artificiali. Al diritto della tirannia si contrappone il diritto della resistenza; e sono naturali ambedue.
Vi siete già accorti, o lettori, che io cedo un pochettino all'influsso dell'ambiente. Sto coi frati e zappo l'orto.
Il monachino biondo era assai lungi dallo immaginarsi d'aver fatto quella grande impressione sull'animo de' suoi compagni. La bellezza è sempre consapevole, non lo nego; ma una donna che si traveste da uomo sa anche di perdere il cinquanta per cento delle sue attrattive. E frate Adelindo non badava punto a quegl'impeti spontanei d'ammirazione che la sua faccia di serafino destava tra i riformati di San Bruno, come essi burlescamente si chiamavano qualche volta. Confidava, nella sua giovanile audacia, di non essere scoperto, e godeva la novità di quella vita, senza sapere come sarebbe andata a finire.
Ma proprio senza saperlo? S'ha a credere che il biondo monachino non avesse uno scopo? No, lettori, non lo credete. Ma, per intanto, venite con me. La miglior maniera per averne l'intiero, è quella di far procedere il racconto.
Entrati sotto l'atrio della caverna, i conventuali di San Bruno ammirarono quel saggio architettonico di madre natura e tutte le fioriture ond'era stato adornato dall'incomparabile artista. Poscia, come i visitatori d'una casa che vogliono veder tutto fin da principio, andarono ad esplorare i tenebrosi recessi del luogo. La caverna si estendeva un mezzo miglio nelle viscere del monte, ora restringendosi, ora allargandosi da capo, ma tutta d'un filo, come una grande spaccatura interna del monte. La causa di quella spaccatura? Forse era da vederci l'ultimo sfiatatoio rimasto al vulcano che aveva sollevato dal fondo dei mari antichissimi quello strato calcareo; forse era effetto più modesto e più lento di una erosione delle acque. Io non mi ci confondo, e lascio la soluzione del problema agli studi del padre Anacleto.
Qua e là i nostri esploratori si abbattevano in fantastiche vedute, che sarebbero state una vera fortuna per l'albo di frate Adelindo, se il nostro serafino pittore ci avesse avuto là dentro un raggio di sole, scambio del lume incerto d'una torcia di resina. La via in qualche punto risaliva, stretta fra due ordini di stalagmiti, che si addensavano le une sulle altre come i colonnini d'un chiostro; altrove si arrotondava la vôlta in cupolette alabastrine, o si allungava in peducci e festoni, campati in aria che era una vaghezza a vederli. Frequentissime occorrevano lungo le scabre pareti le pile dell'acqua benedetta, esempi illustrativi dell'antico adagio: gutta cavat lapidem. Ma la meraviglia più grande fu una specie di cattedra, formata su d'un rialzo dello scoglio dal largo tondeggiamento di una grossa stalagmite, e incoronata in alto da un mezzo cerchio di stalattiti, che raffiguravano un baldacchino. Il fraticello biondo, gettato uno de' suoi soliti gridi d'ammirazione ingenua, era corso a piantarsi su quella cattedra, restando là in piedi, elegante a vedersi come un santo di Donatello nella sua nicchia di marmo. E il padre Ottaviano aveva subito proposto di chiamare quel punto della caverna "il pergamo di frate Adelindo". Gli altri avevano approvato; il serafino si era fatto rosso come una fravola, e si era affrettato a saltare da quel tronco di colonna, per timore che a qualcheduno, nel lodevole intento di agevolargli la calata, venisse il ticchio di andarlo a pigliare di peso.
La ricreazione era finita e incominciava il lavoro. Vi ho già detto che il padre Anacleto era andato nella caverna delle Streghe per trovare qualche saggio d'archeologia preistorica, dei cocci, delle armi di selce, delle ossa lavorate e via discorrendo. La caverna doveva essere stata abitata, come tutte le altre degli Appennini, nei tempi in cui l'uomo non aveva ancora imparato l'arte di fabbricarsi una casa di pietra, e le capanne non offrivano bastante riparo contro le fiere dei boschi, o contro gli assalti delle vicine tribù. Le tracce dell'uomo preistorico erano evidenti anche nella caverna delle Streghe. A quell'altezza dal suolo coltivabile, in una cavità rocciosa come quella, lo strato di terriccio appariva profondo, e certamente non ci si era formato da sè, per l'azione dell'acqua sulla pietra, poichè questa era troppo salda, e quella filtrava in così poca quantità, da bastare appena al sostentamento delle felci che tappezzavano alcune parti della vôlta.
Restava un dubbio. La caverna aveva servito come abitazione, o solamente come luogo di sepoltura? Quei poveri rappresentanti della specie umana, nei primi tempi dell'epoca quaternaria, solevano vivere nelle caverne donde avevano cacciate le fiere; ma in alcune di esse, meno accessibili, o più lontane dai luoghi donde traevano il sostentamento, usavano compiere i riti funebri, dopo averci sepolti i loro trapassati. Spesso, o perchè i luoghi di rifugio fossero scarsi, o scarsa la reverenza delle tombe, una medesima caverna era abitazione e sepolcreto ad un tempo, ed il focolare destinato al banchetto funebre era lo stesso focolare domestico, che seguitava a dar fiamma sulla fossa del morto.
Il padre Anacleto si proponeva di chiarire più tardi a quale dei due generi appartenesse la caverna delle Streghe. Prima di tutto importava di rinvenire le traccie dell'uomo, di qualunque natura si fossero. E il nostro esploratore, dato uno sguardo in giro, per argomentare dalla curva delle pareti da qual lato fosse la maggior profondità del terreno, deliberò d'incominciare gli scavi poco lontano dal mezzo dell'atrio, e verso l'interno della montagna. Frattanto, nell'angolo più lontano, sotto la direzione di fratello Giocondo, e con l'assistenza del padre Prospero, s'impiantava un focolare posticcio, per riscaldare le conserve alimentari che doveano servire alla colazione.
I primi colpi di vanga furono dati alla svelta e con molta confidenza. Ma come fu scotennato il terreno, l'opera procedette a mano a mano più riguardosa, volendo il padre Anacleto por mente a tutti gli avanzi che si sarebbero rinvenuti, e sopratutto riscontrare nel taglio verticale del terreno la successione degli strati, certamente riconoscibili alla diversità di colore e di composizione, corrispondenti qualche volta ad età d'uomini, ma più spesso a gradi e a ricorsi di civiltà, presso quelle povere genti che in Italia precedettero l'arrivo e la diffusione della schiatta pelasgica.
Infatti, nei primi strati, s'incominciarono a trovare rottami di stoviglie, il cui colore rosso carico significava una diligente cottura, e le sagome tondeggianti, e qualche traccia d'ornato lineare, accennavano un certo grado di perfezione a cui era giunta l'industria figulina. E questo poteva denotare che gli abitanti della caverna, ancora mezzo selvaggi, erano in relazione con gente più civile, o abitante al piano, o venuta pur dianzi da lontano paese, presso cui le arti più utili alla vita erano già bastantemente avanzate. Proseguendo gli scavi, i cocci apparivano di forma più rozza, e di meno diligente cottura, fino al segno di parere a mala pena riscaldati al fuoco; indizio evidentissimo d'una industria casalinga, che non conosceva commerci, nè intendeva nulla di perfezionamento nell'arte. Quanto alle ossa lavorate e alle armi di selce, non se ne vedeva pur l'ombra. Cosa naturalissima, fintanto che non si scoprisse una tomba. Infatti, le armi di pietra e le ossa ridotte ad uso domestico, essendo allora preziosissime per la difficoltà del loro adattamento, erano più rare, ed era già molto che se ne mettesse un saggio accanto ai cadaveri, quasi a non privare i morti di ciò che avevano avuto di più caro e di più utile in vita.
Il padre Anacleto spiegava ad alta voce tutte queste belle cose, mentre dava occhio al proseguimento dell'opera. Gli strati del terreno si succedevano con varia vicenda di chiaro e di scuro. Tutto ad un tratto, le vanghe diedero un suono sordo, come di cosa asciutta e consistente che si sfaldi. E venne fuori una sostanza grigia, lamellare, in cui si riconobbe tosto uno strato di ceneri.
Qui per l'appunto cascava il dubbio. Erano quelle ceneri un avanzo di banchetto funebre, o indizi d'un focolare domestico? Il padre Anacleto, interrogato dal serafino biondo, che prendeva tanto diletto in quella esplorazione quanto suo zio ne prendeva negli apparecchi della colazione, mostrò di credere al banchetto funebre, anzichè al focolare domestico. E ne disse anche le ragioni; verbigrazia la postura del deposito, che non corrispondeva alla naturale collocazione d'un focolare. La caverna essendo abitata da una famiglia, o da un aggregato di famiglie consanguinee sotto l'autorità d'un capo, non era da credersi che il focolare fosse posto quasi nel mezzo, per dar noia a tutti; laddove la presenza delle ceneri, intesa come avanzo d'un banchetto funebre, si spiegava benissimo colà, portando la consuetudine che il fuoco si accendesse sulla tomba del congiunto, a cui si facevano i funerali.
Accanto a quell'ammasso di cenere si scopersero altri cocci ed ossa di animali domestici, ma rotte irregolarmente, e qua e là intaccate da solchi poco profondi. I banchettanti ci avevano di sicuro lavorato attorno coi denti.
L'attenzione degli esploratori andava a mano a mano crescendo. Ma essa arrivò al colmo, quando, a forse un metro e mezzo di profondità, le vanghe diedero un suono metallico, scoprendo la grigia e scabra superficie di una falda di sasso.
Il priore non volle che il lastrone fosse subito alzato; ma fece scavare torno torno il terreno ed allargare la buca. Mercè questa operazione, fu posto in chiaro che quel lastrone orizzontale posava su altri quattro, verticalmente piantati.
Un silenzio religioso regnava nella caverna. Qualche cosa di sepolto cinque o diecimil'anni addietro stava per ritornare alla luce.
—A voi, fratello Adelindo,—disse il priore,—copiate questa forma di sepoltura, prima che sia scoperchiata.—
Il serafino biondo mise mano al suo albo e segnò con pochi tratti sulla carta il fondo della buca, sul cui orlo si era seduto. Com'ebbe date le ultime ombreggiature al disegno, si tirò da banda e fu rimosso il lastrone.
Apparve prima di tutto…. Cioè, diciamo le cose come stanno, non apparve niente; che non poteva dirsi qualche cosa, almeno per gli occhi, il terriccio nerastro di cui era piena la buca. Ma rimuovendolo con garbo, incominciarono a presentarsi al tatto, quindi alla vista, alcuni frammenti d'ossa, in cui, e per la forma loro, e per la collocazione che avevano, il padre Anacleto ravvisò le coste di uno scheletro umano. Mescolati a questo si rinvennero parecchi ossicini di forma irregolare e di grandezze diverse, che potevano appartenere al carpo e al metacarpo delle mani. Così era difatti, e si trovarono anche le falangi delle dita; segno che il cadavere era stato composto là dentro con le mani incrociate sul petto. Proseguendo l'opera con ogni diligenza maggiore, per non iscompigliare la disposizione anatomica delle parti, si scopersero i radii e gli omeri, indi il teschio, e via via tutte le membra in quella postura di persona raggomitolata, a cui era stato costretto il cadavere, per farlo capire in quella piccola buca.
Il serafino biondo aveva ripigliato il suo albo. E quegli avanzi d'un corpo raccolto nel sonno eterno furono ritratti dalla matita sulla carta; dopo di che, pezzo per pezzo, lo scheletro fu levato dalla fossa e collocato in un canestro. Il teschio era benissimo conservato, e la bianchezza e la porosità del tessuto osseo facevano fede di molta antichità, non meno che della asciuttezza del suolo. Del resto, la sua superficie allappava la lingua; cioè a dire vi lasciava quella impressione, accompagnata da un cotale asciugamento, che fanno sulle labbra, e sul palato, certe sostanze acerbe od amare. Voi qui, lettori umanissimi, farete le maraviglie, ed anche qualche gesto di orrore, pensando che se quelle ossa allappavano la lingua, bisogna dire che qualche lingua ci si fosse accostata. Ma che volete farci? I dotti son fabbricati così, e non c'è verso di mutarli. Sanno che quel gusto d'asciutto ed acerbo nella superficie delle ossa è indizio d'antichità, e l'accertamento d'un fatto così importante val pure un piccolo sacrifizio. Del resto, o non avete mai veduto nei quadri santa Maria Maddalena al deserto? Anche lei bacia un teschio, e senza averci la scusa nell'amore della scienza. Pure, nessuno di voi inorridisce, vedendo una cosa simile. Non inorridite dunque, vi prego, se vedete il padre Anacleto accostare la lingua all'osso frontale, o al parietale d'un povero sepolto di cinquanta o cento secoli fa.
E tiriamo innanzi. Le suture del cranio, molto visibili nella loro indentatura, indicavano una persona giovane; l'altezza mediocre dello scheletro e la forma del pelvi lasciavano argomentare che fosse lo scheletro d'una donna. I denti erano piccoli, bianchi perlati, e lo smalto era integro; fatto maraviglioso, quantunque abbastanza comune in simili scoperte. Accanto al teschio, e proprio all'altezza dell'orecchio, era una piccola coppa d'argilla nera, in cui si rinvenne una sostanza grumosa e rossiccia. Era la terra d'ocra, di cui gli antichissimi nostri progenitori, non dissimilmente dai moderni selvaggi d'America, usavano tingersi le membra. Un'altra particolarità indicava che quello scheletro apparteneva ad una donna, ed era la mancanza d'armi nel sepolcro, mentre c'erano in quella vece parecchi aghi e punteruoli d'osso di cervo, quelli riconoscibili dalla cruna, questi dal capo tondeggiante. Una cinquantina di conchiglie bucate, che si raccolsero nel terriccio a poca distanza dalle prime vertebre, dimostrava che la donna era stata sepolta con la sua collana, e che essa era certamente di condizione non povera, poichè aveva un monile di quella fatta, composto di tal materia che doveva esser cavata da luogo lontano. Rammentate infatti che la caverna era sull'Appennino, e distante parecchie giornate dal mare.
Tutti quegli avanzi, raccolti con diligenza dal fondo della buca, erano a mano a mano deposti in un canestro. Il padre Anacleto ci vedeva il principio d'un museo preistorico di San Bruno. La caverna delle Streghe, vasta com'era, poteva dar tesori alla scienza; verbigrazia una cinquantina di scheletri, che, tenuti ritti con acconcie legature di fil di ferro, e disposti in bell'ordine, con tutti gli utensili, armi, amuleti ed ornamenti rinvenuti nelle tombe, avrebbero raccontata una bella pagina di storia delle prime genti italiche, e dati gli elementi ad ingegnose induzioni. Sarebbe riuscito in verità un museo da attirare molti curiosi al monastero di San Bruno. Ma, come sapete, quei bizzarri conventuali non gradivano le visite del prossimo, e la loro scienza amavano tenersela tutta per sè.
Frattanto, il monachino biondo avrebbe ricavati i disegni di tutta quella ricca collezione scientifica. Udendo i discorsi del padre Anacleto, egli si rallegrava in cuor suo di possedere quel piccolo talento del disegno, un talento che non faceva chiasso, ma che per contro era altrettanto più utile, e che tramutava lui, adolescente accettato per grazia al convento, in un personaggio necessario.
Bisognava vederlo, il nostro serafino, seduto sulla proda del fosso col suo ginocchio piegato, l'albo sul ginocchio e la matita in aria. Il soggetto dei suoi disegni era malinconico. Per la prima volta in sua vita, Adelindo Ruzzani adoperava la matita a copiare gli scheletri. Ma che cosa non si farebbe per l'amore della scienza?
E i frati gli erano tutti intorno, un po' per vedere i suoi tratti di matita, un po' per contemplare quel grazioso profilo di monachino, che somigliava tanto a quello d'una bella ragazza.—Bene, bravo, stupendo!—erano le parole con cui essi incoraggiavano il pittore. Metto pegno che Raffaello d'Urbino non ebbe tante lodi dai personaggi che andavano nel suo studio, a vederlo lavorare. Ma sono anche disposto ad ammettere che Raffaello ne avrebbe avuto altrettante, se, scambio di esser lui, fosse stato, ad esempio…. la Fornarina.
La gita archeologica alla caverna delle Streghe parve stringere viemmeglio, se pure la cosa era possibile, i vincoli fraterni della famiglia di San Bruno. Tornati lassù, i miei frati da burla erano più amici che mai; solo al modo con cui si davano a vicenda il buon giorno e la buona sera, si sarebbe detto che erano sempre lì lì per abbracciarsi, non pure all'ombra discreta dei corridoi, ma anche alla viva luce del sole. I miei frati da burla si muovevano tutti in un'orbita, di cui Adelindo Ruzzani era il fuoco. Ma che serve più chiamarlo Adelindo? Diciamo Adele Ruzzani, poichè ognuno di quei frati aveva indovinata la donna. Per altro, non diremo Adele, quando si sarà in molti; e ciò per una ragione semplicissima, che i lettori non devono ignorare. Ognuno degli ospiti di San Bruno aveva, come ho detto, indovinato la donna; ma nessuno s'era pigliata la briga di annunziare la sua scoperta al compagno. Tirava ognuno, o cercava di tirare a sè; la qual cosa è stata espressa dai nostri antichi con la felicissima immagine del vogare alla galeotta.
Frate Adelindo! Il monachino, il serafino biondo! Tutti erano intorno a lui, si occupavano tutti di lui, e poco o punto delle varie faccende in cui per lo passato si spartiva la pacifica operosità del convento. Il giornale, come potete immaginare, andava per le lunghe; si scriveva poco e non si meditava affatto, nelle celle solitarie; gli strumenti dell'osservatorio dormivano sui cavalletti, o nelle buste di velluto; le storte del laboratorio di chimica giacevano sui fornelli senza fuoco; i libri della biblioteca non aspettavano più i frati, ma i topi e le tignuole. Dio mi perdoni se avviene ch'io tenga bordone ad una voce calunniosa; ma si credeva che lo stesso priore badasse poco agli uffici della sua carica, e non rivedesse neanche più i conti all'economo.
Ma che importava tutto ciò, se i frati di San Bruno erano di buon umore? Gente allegra il ciel l'aiuta, dice il proverbio. Beati i miei conventuali, che erano ancora nel periodo allegro, per solito il più breve, nel dramma delle umane passioni. Meno ilare, ad onta del nome, era fratel Giocondo. E perchè? Voi sapete, o lettori, che il nostro converso passava una gran parte del giorno all'ingresso del convento, in capo a quel ponte per cui bisognava passare, quando si voleva penetrare nell'eremo di San Bruno. Ora, quest'obbligo quotidiano faceva sì che il bravo converso fosse meno soggetto all'influenza benefica del serafino biondo, e per contro più esposto alle seccature che venivano di fuori.
E ne venivano molte, non dubitate. Capitavano a diecine, ogni giorno, i curiosi che volevano vedere il convento. Qualche volta erano brigate di buontemponi, o cavalcate di forestieri più o meno autentici; qualche altra erano signori travestiti, che domandavano di essere condotti al priore, per presentargli una supplica, un memoriale, e che so io. Tra gli altri ne venne uno (e fratel Giocondo manifestò il sospetto che fosse una donna; ma brutta, si affrettò a soggiungere) che domandava di confessarsi al padre Anacleto.
—Qui non si confessa;—aveva risposto il converso, alzando sdegnosamente le spalle.—Andate dai frati veri.
—Ma che convento è questo?—aveva ribattuto l'importuno.
—Il convento dei matti. Non è questo il nome che gli date voi altri di Castelnuovo?—replicò fratel Giocondo, che aveva fiutato il cittadino curioso, sotto le spoglie del penitente.—Andate, andate, ad arrostire i vostri peccati ad un'altra graticola.—Questi modi burberi di fratel Giocondo rispondevano ad un ordine severo del padre Anacleto, che si era annoiato da prima, e quindi impensierito di quel continuo viavai di curiosi e di facce sospette. Per solito non si ammettevano forestieri; ma perchè ne capitavano di rado, si usava anche la cortesia di lasciar visitare il convento a qualche giramondo riconosciuto per tale. Ma la frequenza delle visite non si spiegava più con la supposta qualità di viaggiatori. Evidentemente, erano Castelnovesi indiscreti che venivano a bracare i fatti altrui. E questa ancora non sarebbe stata che una seccatura, più o meno tollerabile, secondo i casi e gli umori. Ma il padre Anacleto aveva sospettato che ci fosse sotto dell'altro, e si era affrettato a proibire l'ingresso ad ogni genere di persone. I contadini, che portavano qualche cosa al convento, potevano contentarsi di trattare col frate converso; e neanche era necessario che capitassero in due, per portare un canestro di uova, o di frutta. Se poi qualcheduno voleva parlare con padre Atanasio, o con padre Marcellino, restasse sul ponte, a prendere una boccata d'aria fresca, fin tanto che il converso tornasse con la persona chiamata, o con un suo rifiuto di farsi vedere, come più spesso accadeva.
Una volta, per altro, fu chiamato il padre Prospero; e questi, non che ricusare di lasciarsi vedere al parlatorio del ponte, non mostrò nessuna meraviglia d'essere stato chiamato. Che voleva dir ciò? Voleva dire che la visita non gli giungeva inaspettata; che anzi gli era stata annunziata in una certa lettera, ricevuta il giorno prima; lettera da lui meditata a lungo, e non fatta leggere al serafino biondo. Ci aveva i suoi piccoli segreti, il signor Prospero Gentili! A dirvela schietta, il brav'uomo incominciava a seccarsi di tutto quel ronzìo quotidiano di frati apocrifi intorno al monachino biondo, che era senza fallo il più apocrifo di tutti. E la lettera misteriosa, che dieci giorni prima lo avrebbe sconturbato quel tanto, gli giunse invece gratissima, come l'annunzio d'un amico a chi s'annoia in campagna, anzi meglio, come la voce d'un salvatore a chi è sul punto d'affogare. Donde si vede chiaro che ogni cosa può tornar utile e piacevole, purchè giunga a suo tempo.
Seguitiamo il padre Prospero e vedremo anche noi il personaggio che lo faceva correre con tanta fretta al parlatorio del ponte. Ma già, voi siete capaci di averlo indovinato, o lettori, e mormorate già il nome del…. Sicuro, avete indovinato, era lui.
Il signor Prospero entrò risoluto nella stanza del parlatorio. Ma come fu davanti al suo visitatore, e come si avvide che questi lo guardava con aria tra curiosa e canzonatoria, rimase lì grullo e confuso. Il pover'uomo, nell'atto di recarsi al colloquio, non aveva pensato ad una cosa; vo' dire a quella tonaca di color tabacco, che involgeva la sua rispettabile circonferenza. E il pensarci allora, sotto l'esame di quegli occhi indagatori, gli fece sentire quanto fosse ridicolo nella sua veste da frate.
Quell'altro aspettò che fosse partito il converso e l'uscio del parlatorio richiuso alle spalle del signor Prospero; indi si lasciò andare sopra uno dei seggioloni di cuoio che decoravano la sala, e diede in uno scoppio di risa.
—Ah, signor Prospero…. anzi no, padre Prospero, mi permetta…. voglia compatire…. voglia scusare questo piccolo sfogo d'ilarità. Ma è proprio Lei? Sogno o son desto? come dicono in tragedia. Dovevo capitar qua, per vederla in tonaca e cocolla? Quanti voti ha già pronunziati, di grazia? Vuol permettermi, padre Prospero mio reverendissimo, che io le baci la santa mano?—
Il signor Prospero lasciò passare quella raffica di motteggi, a cui non oppose che un malinconico tentennamento del capo.
—Forza maggiore, signor cavaliere, forza maggiore!—diss'egli poscia, con aria contrita.—Potevo provarmi a far diverso da ciò che voleva quella birichina?
—Eh via! Un tutore, un uomo grave come Lei…. quasi un commendatore! Non trovare in sè quel tanto di forza che bastasse a farle vincere un capriccio di ragazza! Sopra tutto, poi, non avvertirmi di nulla!
—Sì, sì, Lei ne parla a suo comodo!—rispose il signor Prospero.—Ma dovrebbe mettersi un po' ne' miei panni…. Ne' miei panni d'allora, non in questi!—soggiunse, con una bonarietà che sapeva quasi di arguzia.—Dovrebbe considerare, signor cavaliere, che non era più tempo di oppormi, di far trionfare la mia volontà. Si figuri! Ero scapolo, e mi son conservato tale, perchè volevo troppo bene alla figliuola di mia sorella. Era il mio occhio destro, quel caro demonietto; e dal sinistro ci ho sempre veduto poco. L'Adelina aveva sei mesi, che io incominciavo già a fare tutto quello che voleva lei. Appena mi conobbe, mi tirò i baffi, ed io non l'ebbi per male. Poi, fatta più grandicella, prendeva un gusto matto a darmi noia, a stracciarmi il giornale, per farne gli uccellini e i cappelli da generale, a scompigliarmi lo scrittoio, a rovesciarmi la boccetta dell'inchiostro, per dipingere le sue signorine vestite all'ultima moda, a rubarmi il mio berretto da notte, per far la cuccia al suo gatto. Ma, siamo giusti, mi voleva un gran bene, e mi diceva "caro zio" in un certo modo! Era lei che ricamava le mie babbucce; la custodia dell'orologio appesa accanto al mio letto, l'ha fatta lei, come la mia papalina di velluto, con la nappina d'oro. Volevo ammogliarmi…. Sì, anche questa idea stramba m'è passata per la testa. Adelina aveva allora undici anni. Domandai il suo riverito parere: ed ella me lo diede negativo. "Zio Prospero, mi disse, che bisogno hai tu di prender moglie? Non ci sono io, per aver cura delle cose tue, per ricamare le tue babbucce, e per badare che non ti manchi nulla, nè l'acqua fresca nella boccia di cristallo, nè il mazzo di rose nel vaso di porcellana?" Ella deve sapere, signor cavaliere, che amo molto le rose, e mi piace di averne in camera tutto l'anno. Mi sono adattato a non prender moglie; ho fatto allora, ho fatto sempre quel che voleva la mia cara prepotente. Insomma, signor cavaliere, mi dica un po' Lei; quando s'è preso il verso di obbedire, come si fa a comandare?
—Buon per Lei, che non ha preso moglie, perchè sarebbe caduto di Scilla in Cariddi!—osservò con l'usata profondità di giudizio il signor cavaliere.—Ma basta, cosa fatta capo ha. Ora bisogna vedere di uscir fuori da questo imbroglio.
—Dica Lei, proponga Lei; non domando altro.
—La cosa non è facile. In città si è mormorato assai, come può immaginarsi. Io l'ho saputo…. subito. Io so tutto, ho l'obbligo di saper tutto. Non lo volevo credere, da principio; ma dovetti arrendermi alla certezza delle mie informazioni. Ho taciuto fin che ho potuto, quasi a rischio di passare per male informato. Ma infine, anche non ammettendo, non ho potuto negare troppo recisamente. La voce è corsa, signor Prospero; le Gamberini me l'hanno riferita, con un piacere da non dirsi. E adesso sarà un bel guaio, dover rimediare agli effetti.—
Il signor Prospero vide allora tutta la gravità della cosa, e ne rimase atterrato.
—Se si potesse negarlo!—esclamò.
—Si potrebbe, anche a rischio di non esser creduti. Ma già, quando non ci sono prove, tanto vale il nostro no, quanto il sì di mezzo mondo. Per altro, non bisognerebbe perder tempo. Vadano subito via, partano per Torino e ci restino un mese; questo mi sembra il meglio che possano fare. Io frattanto, avrei modo di preparare il terreno, dissiperei i sospetti, opporrei la certezza alla chiacchiere senza fondamento. Quanto all'andar via di qui, non ci pensino, me ne incarico io. Mando una carrozza, con persona fidatissima, che li conduca alla seconda stazione, dopo Castelnuovo. Partiranno di notte e nessuno li avrà veduti. Che gliene pare?
—Oh, essa non accetterà!—rispose il signor Prospero.—Quando s'è fitta in capo una cosa!…
—Ma di grazia signor Prospero, si potrebbe sapere che cosa si sia fitta in capo, la sua bella nepote? Vuol vivere in un chiostro? Lo cerchi di monache, almeno! E questi sciocchi di frati non si sono accorti di nulla?
—Che cosa vuole che le dica? Li ha stregati tutti, come ha stregato me. La chiamano il padrino. Padrino di qua, padrino di là, è sempre in ballo lei, non la lasciano un minuto. Nelle ore di ricreazione ella dipinge, all'aria aperta, sotto gli archi del porticato. E ci son tutti, a starla a vedere; uno le tiene i pennelli, un altro le porge i colori, un altro si mette in azione, un altro loda, un altro va in visibilio. Par d'essere in una casa dove ci sia un bambino, che tutti diventano bambini come lui, e più di lui, se occorre.
—E il priore?
—Il priore? è l'unico che non abbia persa la testa. Almeno, è il più grave di tutti.
—Dica il più pericoloso, signor Prospero.
—Perchè? Lo conosce forse?
—Non di persona; ma ho avuta la sua fotografia…. ed anche parecchie informazioni sul conto suo. È un ferrarese….
—Ah, lo avrei dovuto indovinare all'accento.
—Ma più ancora alla stranezza della sua fantasia. Questo suo convento di frati che non son frati, è degno di quel capo balzano dell'Ariosto. Era un ufficiale di cavalleria. Ha lasciato il servizio militare per gettarsi nella politica, di cui si è presto annoiato. Ha avuto amori a bizeffe. Un bel giorno gli è saltata la manìa di riformare il mondo. E qui doveva finire in una specie di manicomio. Un bell'uomo, non lo nego; ma tanto più pericoloso; ne conviene?
—Se fosse ricco!…—scappò detto al signor Prospero.
—Non tanto da poter pretendere alla mano della sua nepote; e non possiede neanche un titolo di nobiltà, che in questi casi vale ricchezza. Ma poi, ritenga, signor Prospero, quello è un matto tranquillo, che è come dire insanabile. C'è forse più da sperare che egli lasci la sua utopia, per prender moglie? Questi filosofi, questi riformatori, son tutti ostinati. Anche quando nel loro interno siano persuasi d'aver dato in ciampanelle, l'amor proprio li consiglia a tener duro. Badi, io le fo una profezia, se rimangono qua dentro; sua nepote, con quella sua testolina bizzarra, s'innamorerà di questo priore, o d'un altro della comunità. L'occasione fa l'uomo ladro, e Lei, signor Prospero….
—Non mi spaventi, per carità;—interruppe il povero zio, mettendosi le mani ai capegli.—Forse è un timore esagerato, il suo. Questi signori sono molto gentili, cavalieri compiti, ed anche quando s'immaginassero…. o già si fossero immaginati….
—Mi piace la correzione, che le è venuta così spontanea;—ripigliò quell'altro.—Senza pensarci, Ella ha trovata la verità. Or dunque, signor Prospero, metta il cervello a partito. Che crede, che quando abbiano riconosciuta la donna nel suo finto nepote, glielo verranno a dire a Lei, perchè abbia tempo a provvedere?
—Capisco, capisco;—mormorò il signor Prospero.—Ma come si fa, ora?
Io non so che pesci pigliare.
—Accetti il mio consiglio, parli alla signorina, veda di persuaderla.
Se poi Ella farà un buco nell'acqua, provvederò io.
—Lei, signor cavaliere?
—Sì, io. Qualcheduno ha pur da trovarla, una via per uscirne.
—Ah, signor cavaliere, Ella mi rende la vita. Provveda Lei, trovi Lei questa via benedetta.
—Ma intendiamoci, ad un patto.
—Un patto?
—Sicuramente. E vorrebbe che io mi stillassi il cervello, che io giuocassi in questo affare la dignità del governo, senza un giusto compenso?
—Si spieghi.
—La contento subito. Cominci dal rispondere ad una mia domanda. Come vede lei il matrimonio che s'era combinato?
—Ma…. io lo vedo ora come prima. Dubiterebbe di me?
—Eh, se così fosse, non ci dovrebbe vedere nulla di strano. Dopo essere fuggito da Castelnuovo a quel modo, senza avvertirmi di nulla! Non mi venga fuori con le scuse; non potrei fargliele buone. Con tutta la sua debolezza di zio, Ella non poteva ignorare che io mi sarei trovato negli impicci, e che quel povero duca mi avrebbe chiesto spiegazioni. È l'unico discendente di una delle prime famiglie d'Italia, e possiamo dire di Europa, non lo dimentichi. Non si può trattare con lui come col primo venuto. Che cosa dovevo rispondergli? Come colorire la loro partenza, anzi peggio, la loro fuga? Ho fatto come potevo; ho battuta la campagna. Dio guardi se avesse saputo….
—Ah sì, dice bene; se avesse saputo!…
—Capisco che un rimedio ci sarebbe sempre stato. Non c'era lei, in compagnia della sua nepote?
—Benissimo! Infatti, che cosa le dicevo dianzi? Essendoci io, colla mia nepote, mi pare….
—Sì, ma badi, signor Prospero; queste ragioni hanno valore con una persona di spirito. Non potrebbe farle valere coi signori di Castelnuovo. A questi bisognerà sempre poter dire che la cosa non è vera. Crederanno, non crederanno, padroni. Non avranno mica da sposarla loro! E quando la sua nepote sarà duchessa di Francavilla, voglio vedere a che cosa servirà loro il sostenere che è stata in un convento di frati. Ma torniamo a noi. Ella dunque mi assicura che è sempre dello stesso parere?
—Ma sì, cavaliere, ma sì! Creda che non desidero altro.
—E la signorina? Sa nulla ancora? Ha forse manifestato un desiderio diverso?
—No, non sa nulla, e non ha manifestato nulla. Ha voluto venir qua per un capriccio, una curiosità repentina…. Ella sa, signor cavaliere, quando le donne vogliono una cosa….
—E quando hanno degli zii che non sanno volerne un'altra…. Ho capito, signor Prospero, ho capito. Dunque, stringiamo il discorso. Lei parli alla sua nepote e veda di persuaderla. Lo faccia; è necessario, come preliminare. Essa dirà di non voler partire? E Lei mi manderà due righe di biglietto, che un mio fidato verrà a prendere domani. Al resto penserò io, appena ricevuti i suoi pregiati caratteri. Ah signor Prospero, signor Prospero! Quante noie, per Lei!
—Abbia pazienza, signor cavaliere!—
Il cavaliere Tiraquelli non fece altre parole. Diede con un gesto dignitoso la sua assoluzione al signor Prospero, ed usci dal parlatorio, per riprendere la via di Castelnuovo Bedonia.
—Che cosa pensa di fare?—andava dicendo tra sè il signor Prospero Gentili, mentre rifaceva a lento passo il sentiero dei frassini.—Se non provvede lui, a levarmi di qua, io non ci riesco di certo. Parlare all'Adelina! persuaderla? io? Fossi matto! Quella diavola lì sarebbe capace di far peggio; d'innamorarsi del padre Anacleto, come s'è già innamorata del convento dei matti, solo a sentirne discorrere. No, no, io non le parlo di nulla; scrivo a lui, come se avessi fatto il discorso, e un conseguente buco nell'acqua; anzi preparo la lettera fin d'oggi, per non avere altre noie domani. Signor cavaliere degnissimo, a Lei preme il negozio, ci pensi Lei. Questo le diranno domani i miei pregiati caratteri.—
Tra questi ed altri pensieri di tal fatta, il signor Prospero giunse al convento. L'orologio del cortile segnava le due e mezzo. Nessuno dei frati era in vista, e la cosa parve strana al signor Prospero, che li aveva lasciati quasi tutti a soleggiarsi nel cortile, quando era stato chiamato al parlatorio del ponte. Ma più strano gli parve di non trovare il suo nepote, o sua nepote, secondo vi tornerà meglio detto. S'avvicinò all'uscio della sua cella e battè ripetutamente con le nocche delle dita, ma non ebbe risposta.
Andò allora lungo il corridoio, fino all'ingresso del capitolo. Giunto colà, gli venne udito un rumore confuso di voci. Girò la maniglia per entrare, ma l'uscio era chiuso di dentro. Che novità era quella? Per qual ragione si rinchiudevano i frati, se in convento non c'erano che loro? Il padre Prospero credette che fosse stato chiuso per inavvertenza, e si provò a bussare.
Poco dopo si udì il passo di un uomo che veniva ad aprire. Il catenaccio scorse sugli anelli, l'uscio si dischiuse a metà, e comparve nel vano la faccia del padre Atanasio.
—Ah, siete voi, padre Prospero?
—Sì, son io. C'è capitolo, a quanto pare.
—C'è capitolo;—rispose il padre Atanasio con aria evidentemente impacciata, e senza dischiudere intieramente l'uscio.
—Bene;—ripigliò il padre Prospero;—eccomi dunque a prendere la mia parte.
—Scusate;—replicò quell'altro;—si tratta di gravi faccende; e voi… siete ancora novizio.—
Il padre Prospero fu colpito da quella osservazione, altrettanto giudiziosa quanto inaspettata.
—È vero, perbacco!—diss'egli.—Sono ancora novizio e non ho voce in capitolo. Vuol dire che non ci sarà neanche il mio nepote?
—S'intende; andate dunque, ed abbiate pazienza;—rispose il padre
Atanasio.—Tra una mezz'ora abbiamo finito.—
E con queste parole il padre Atanasio si accomiatò, richiudendo l'uscio sul naso al padre Prospero; padre di nome, ma novizio di fatto, ad onta delle sue cinquantotto primavere.
—Non è in capitolo;—mormorò il padre Prospero, allontanandosi.—Dove diavolo sarà?—
Così dicendo, proseguì fino in fondo al corridoio, dove era l'ingresso laterale alla chiesa.
La chiesa, come sapete, era stata convertita in biblioteca. Tra la chiesa e il capitolo c'era la sagrestia. Il padre Prospero entrò dunque in biblioteca, sperando di trovare colà quel diavolo di serafino biondo, che si era reso invisibile.
In chiesa non c'era anima nata. E ciò si capiva per i frati, che erano tutti a capitolo; ma non si capiva per il monachino, che a capitolo non c'era.
—Dove diavolo sarà andato?—tornò a chiedere il padre Prospero.
La domanda di certo fu fatta a voce alta, e qualcheduno di certo udì il suono della sua voce, poichè subito dopo il padre Prospero si sentì chiamare con un sibilo sommesso ma prolungato. Il suono veniva dall'alto. E il padre Prospero, prima di credere ad una chiamata del Signore, chè in verità non si sentiva tanto in grazia da meritarla, alzò gli occhi alla ringhiera che girava tutt'intorno al cornicione, fino all'arco del presbiterio. Proprio lassù, dal vano di un uscio che metteva sul ballatoio, vide apparire la testolina bionda del serafino.
—Ah!—gridò il padre Prospero.—Finalmente!—
Ma quell'altro gli mozzò le parole in bocca, mettendosi un dito sul labbro e ripetendo il suo sibilo; indi, quasi a commento della raccomandazione, gli accennò verso l'interno.
Il padre Prospero sapeva quello che già sapete voi, cioè che di là dalla sagrestia c'era il capitolo. Lì presso c'era l'andito per dove si andava in sagrestia; ma l'uscio di questa era chiuso. Per altro, in quell'andito medesimo c'era la scala che metteva al campanile, trasformato in osservatorio, e a mezza scala si riusciva da una parte sul cornicione della chiesa, dall'altra in certe stamberghe, le quali servivano probabilmente di seccatoio agli antichi frati di San Bruno, ed erano proprio sopra alla sagrestia, al capitolo, e alle celle del primo piano.
—Ah, capisco!—disse il padre Prospero tra sè.—Vorrà sentire quel che dicono i frati, nella loro adunanza segreta. Curiosità di donna! Solamente vorrei sapere come farà ad udire i loro discorsi dal pian di sopra.—
Il padre Prospero non sapeva, e i frati di San Bruno avevano dimenticato dal canto loro, che le stamberghe del pian di sopra avevano il solaio di legno, senz'altro ostacolo di mattoni e di calce tra esse e le sale del pian terreno. Non lo sapeva neanche il serafino, prima d'allora; ma lo aveva scoperto poc'anzi. Sapete il proverbio: chi cerca trova. Il serafino aveva cercato; era giusto che trovasse.
Ma perchè aveva cercato? Dovete sapere, umanissimi lettori, che quella mattina frate Adelindo si era avveduto d'una cert'aria di segreto con cui si salutavano i conventuali di San Bruno, e di certe paroline che si bisbigliavano passando. Inoltre, qualcheduno di loro aveva guardato lui con aria più affettuosa e più malinconica del solito. Intorno alle occhiate, agli affetti e alle malinconie de' suoi compagni, il serafino biondo aveva un'opinione già fatta; ma quel giorno gli parve che la malinconia abbondasse. C'era dunque dell'altro? Il serafino lo sospettò, quando seppe che i frati si raccoglievano quel giorno stesso a capitolo.
—Fratello,—gli aveva detto il padre Anacleto,—perdonerete se dobbiamo lasciarvi. Abbiamo una radunanza, chiesta da quattro dei nostri compagni, per un negozio urgente, a quanto dicono essi. Voi siete novizio….
—E non ci ho da entrare, non è così?—aveva ribattuto il serafino.—È giustissimo; fate pure.—
Giustissimo! fate pure! Ma, dentro di sè, il serafino biondo non trovò niente giusto che si discutesse, e probabilmente di lui (il cuore glielo diceva), senza che egli avesse a sentirne nulla. In pari tempo, promise a sè stesso che essi non avrebbero fatto nulla senza il suo beneplacito.
Perciò, a mala pena i conventuali di San Bruno incominciarono a recarsi in capitolo, egli, destramente, girando pel corridoio, era scivolato in chiesa. Cercava un luogo donde gli venisse fatto sentire qualcosa di tutti quei misteriosi discorsi, e andava attorno, assai più grazioso in vista, ma non meno avido, del leo rugiens quaerens quem devoret, di cui parlano le Scritture.
La sala del capitolo, come già si è veduto, aveva un uscio sul corridoio e un altro sulla sagrestia, che era attigua alla chiesa. Ora, dalla parte della chiesa la sagrestia era stata chiusa, certo in previsione di quella radunanza segretissima.
Entrato nell'anditino che era tra la chiesa e quell'uscio chiuso, il serafino biondo ebbe un'idea luminosa. Già, se le idee luminose non vengono ai serafini, a chi dovranno venire? Lettori, io lo domando a voi.
In quell'andito c'era la scala che metteva al campanile. Su per quella scala il serafino biondo c'era stato, per andare all'osservatorio del padre Bonaventura. E andando lassù, aveva anche veduti a mezza salita i due usci, uno dei quali dava sul cornicione della chiesa, e l'altro nel seccatoio. Pensare a quel seccatoio e infilar la scala del campanile fu un punto solo. In quelle due o tre camere, fatte nei soppalchi del tetto, i nuovi conventuali di San Bruno avevano raccolte tutte le cose inutili del monastero, le panche della chiesa, i palii degli altari, le tele polverose e sfondate, i tozzi candelabri di legno dorato, e via discorrendo. Il solaio era di legno. Ma anche il soffitto della sagrestia e del capitolo era di legno. Dunque? Dunque il serafino biondo ascese la scala col suo passo ventenne, e due minuti dopo mise il piede leggiero e guardingo su quel solaio benedetto, che prometteva tante consolazioni alla sua curiosità.
Veramente, a tutta prima, il nostro serafino mostrò di essere poco contento di quel solaio. Il palco era a doppio tavolato e le voci dei frati giungevano troppo confuse all'orecchio. Ma dopo essersi aggirato da una parte e dall'altra, come permettevano quei mucchi di anticaglie, che ingombravano la stanza, gli venne veduto un buco, largo quanto bastava perchè potesse passarci anche il pugno d'un serafino. Quel buco, saviamente scavato in prossimità dell'angolo che facevano due travi del palco insieme calettate, riusciva quasi sul mezzo della sala del capitolo, e dava modo, non solamente di udire tutto ciò che si dicesse laggiù, ma anche di vedere otto o dieci dei ventiquattro stalli di legno intagliato, che correvano intorno alle pareti. Quanto allo stallo più eminente, che era quello del priore, si poteva vederlo in pieno.
Come era stato fatto quel buco? Si trattava dell'opera vana di un topo, il quale avesse sperato di entrare da un palco morto ad una dispensa? O dell'opera utile d'un altro novizio, a cui premesse di sapere gli arcani del capitolo di San Bruno? Il serafino biondo non istette a meditarci su; ma salutò con animo grato quella tonda apertura, e v'applicò l'occhio da prima, indi l'orecchio.
I frati, in quel mentre, andavano ai loro posti, e il serafino biondo potè vedere il padre Anacleto che si era già rannicchiato nel suo stallo dalla spalliera intarsiata e dai bracciuoli in forma di mensole rovesciate.
Il cuore gli batteva forte, al serafino biondo. Egli sentiva di fare una cosa non bella, a spiare in quel modo i segreti degli altri. Ma infine si trattava di lui, laggiù; ne aveva il presentimento, e i presentimenti ingannano di rado. Del resto, a mettere la coscienza in pace, egli aveva fatto dentro di sè questo ragionamento:
—Se parlano di me, è giusto che io sappia che cosa dicono. Se parleranno d'altro, io me ne accorgerò alle prime, e me ne andrò subito subito.—
Mentre egli poneva il suo dilemma, i frati incominciavano la loro discussione.
—Padre Restituto,—disse il priore,—voi avete fatto una proposta….
—Non io solo;—interruppe il padre Restituto;—l'hanno fatta con me il padre Agapito, il padre Costanzo, il padre Ilarione.
—È strano,—osservò il padre Anselmo, volgendosi al suo vicino di destra, che era il padre Marcellino,—è strano che questi tre aiutanti del padre Restituto siano tutti nuovi venuti.
—L'ultimo a comparir fu Gambastorta;—rispose il padre Marcellino.
Ma la sua risposta e l'osservazione del padre Anselmo, profferite a mezza voce, non giunsero all'orecchio del monachino, quantunque fosse attentissimo.
—Bene;—diceva frattanto il priore;—siate anche quattro. Esponete le vostre ragioni; i nostri fratelli le ascolteranno, e nella loro saviezza risolveranno.
—Ecco, dunque;—incominciò a dire il padre Restituto.—A voler parlar nello stile degli antichi frati di San Bruno, direi che c'è scandalo, o principio di scandalo, nella nostra comunità. Ma poichè frati all'antica non siamo, e un certo frasario va lasciato da banda, dirò pianamente, ma con uguale schiettezza, che la nostra comunità, per una certa intrusione, contraria a tutte le nostre consuetudini, anzi allo stesso principio della nostra fondazione, corre grave pericolo di andarsene a rotoli.
—La cosa è grave;—notò il padre Anacleto,—ed io nella mia qualità di priore, dovrò metterci un pronto rimedio.
—Noi lo speriamo;—osservò il padre Ilarione.
In quel mentre si udì bussare all'uscio.
—Battono, dal corridoio. Chi sarà mai?—disse il padre Atanasio.
—Il padre Prospero o il padre Adelindo;—entrò a dire il padre
Marcellino.
—Padre Prospero, forse;—notò il priore;—quanto al padrino, io stesso l'ho avvertito poc'anzi che, nella sua qualità di novizio, non poteva entrare in capitolo. Lo avrei detto anche al padre Prospero, se lo avessi incontrato.
—E adesso che facciamo?—domandò il padre Atanasio.
—Andate voi, fratello, che siete più vicino all'uscio;—gli disse il priore;—ditegli che è novizio e che abbia pazienza, se lo lasciamo fuori.—
La discussione fu per pochi istanti sospesa. Il serafino biondo approfittò della interruzione, per alzarsi dalla sua incomoda postura e ricogliere il fiato. Pensava, intanto, pensava alla misteriosa proposta del padre Restituto e de' suoi bravi compagni. Misteriosa! In verità non lo era gran fatto. Quegli accenni allo scandalo, al pericolo di scioglimento della comunità, e ciò per una intrusione contraria alle consuetudini del convento, non potevano risguardare che lui, il vezzoso monachino. E quei nuovi venuti, che tenevano bordone per l'appunto al padre Restituto! Bei tipi, davvero! Il serafino ne sapeva qualche cosa. Capitati gli ultimi nella comunità, si erano mostrati i più caldi nelle tenerezze per lui.
Monachino! monachino! anche voi, scusate la libertà grande del vostro istoriografo, anche voi non avete un'oncia di senno. Perchè andarvi a ficcare là dentro? O non lo sapevate, che una donna si nasconde male, e che il miglior travestimento, anche dissimulando perfettamente la forma, non basta a sopprimere l'arcano quid, l'incognito indistinto, che la fa sentire presente? Dicono che, quando nacque Eva, la natura tutta si commosse dal profondo; molli tepori compenetrarono l'aria, le erbe crebbero più rigogliose, i fiori si dipinsero di più vaghi colori. La cosa sarà e non sarà; possiamo anche lasciare la malleveria della notizia ai poeti. Ma il fatto sta che appena balzò Eva dalle mani del Creatore, Adamo si svegliò dal suo sonno. E qui il testo biblico ha un senso riposto, di cui mi fecero intendere la grandezza i miei professori di ermeneutica. La presenza della donna si sente; sono in lei certe delicatezze che parlano una lingua arcana ai nostri sensi, e questa lingua i nostri sensi la intendono senza averla imparata; miracolo che non è ancora avvenuto pel latino e pel greco. Inoltre, la donna ha questo potere su noi, che a tutta prima ci rende più teneri, desiderosi di apparir buoni, cortesi, galanti, spiritosi e via discorrendo. In ciò somigliamo grandemente agli uccelli, che nella lieta stagione mettono fuori la cosidetta "livrea d'amore", per piacere alla futura compagna, che aiuteranno poi nella fabbricazione del nido. Ma in seguito? In seguito perdiamo le staffe, la rivalità ci guasta il sangue, non ci vediamo più lume; per la donna ci guardiamo in cagnesco, davanti a lei ci azzuffiamo, ci sbraniamo come leoni. Tanto è vero che in un uomo solo ci sono varie specie di bestie!
Nell'alzarsi in piedi, il serafino biondo aveva voltata la faccia verso l'ingresso della stamberga. La luce della navata, che giungeva fino a lui, gli rammentò che non aveva chiuso l'uscio dietro di sè, e che forse era prudente il farlo, per aver tempo a levarsi da terra, nel caso che qualcheduno fosse capitato lassù. La cosa non era probabile, poichè tutti i frati erano a capitolo e il converso e la gente di servizio stavano altrove; ma era tra le possibili, e il nostro monachino si mosse per andare a richiudere quell'uscio. In quel mentre, gli venne udito un rumore di passi, che lo fece tremare. La cosa possibile diventava probabile. Se lo avessero colto là dentro, come avrebbe potuto spiegare il negozio? Per fortuna, al rumore di passi tenne dietro un suono di voce, e il monachino riconobbe suo zio, che era entrato in chiesa, non avendo potuto penetrare nel capitolo.
Corse allora sul pianerottolo, si affacciò all'apertura e chiamò lo zio con quel sibilo sommesso che già sapete; indi con la mano gli fe' cenno che restasse, dovendo egli trattenersi per qualche cosa lassù. Ma il padre Prospero, o non avesse ben capita la mimica del serafino, o aspettasse qualche altro schiarimento, si era inoltrato fin sotto al cornicione. Allora il serafino curvò il busto sulla ringhiera e raccolte le palme intorno alle labbra, lanciò allo zio questo savio consiglio:
—Prendi un libro e aspettami leggendo; ti dirò tutto, quando avrò udito quello che non hanno permesso a te di sentire.—
Il serafino aveva abbassata la voce d'un tono, ma staccava le sillabe in guisa che il suo discorso giunse intiero all'orecchio dello zio.
—Dove diamine avrà saputo che non mi hanno permesso di sentire?—pensò egli, ammirato.—Ah, ci sono, ci sono. Se ella può udire di lassù tutto quello che dicono, avrà anche sentito che non mi hanno voluto ricevere.—
E contento di quella scoperta, il padre Prospero s'inchinò con quell'aria di fiat voluntas tua, che soleva assumere ogni qual volta il serafino biondo mostrasse di voler qualche cosa per davvero. In prova d'obbedienza sollecita, si accostò allo scaffale più vicino, ne tolse il primo libro che gli venne alla mano, e andò a sprofondarsi nella lettura, ma non senza essersi sprofondato da prima in un seggiolone imbottito di bambagia, che era una delizia a sentirlo.
Il padrino Adelindo era tornato in quel mezzo al suo ascoltatorio.
I frati di San Bruno erano tutti seduti nei loro stalli di legno. Il priore doveva aver ridata allora allora al padre Restituto la facoltà di parlare, perchè questi incominciava in quel mentre.
—Fratelli, io mi sbrigherò in poche parole. A che scopo ci siamo raccolti a vivere in questo convento? Per star lontani dal mondo e dalle sue noie; non è così? Per conoscere certe afflizioni, bisogna averle provate; per desiderare di non provarle più, bisogna esserne stati offesi nel profondo. Orbene, signori miei, se massima tra le afflizioni umane è l'amore, e cagione di questo tormento è la donna, la conseguenza del ragionamento mi par questa: che noi dal convento di San Bruno abbiamo respinte implicitamente le donne.
—Non vogliamo donne!—gridarono ad una voce i padri Agapito, Costanzo e Ilarione.
Il priore sorrise di quel terzetto all'unissono.
—Continuate;—diss'egli.
—Ho quasi finito;—ripigliò il padre Restituto.—Non vogliamo donne e frattanto ne abbiamo una in convento. E quel che è peggio, non in forma di visitatrice, che potrebbe ancora tollerarsi per un giorno, ma in forma di tentatrice.
—Oh!—gridarono parecchi, dando un sobbalzo sui loro sedili di legno.
—Certo;—ribadì l'oratore;—il diavolo non si fece un giorno eremita?
—Quando diventò vecchio;—disse una voce.
—Eh, scusate;—ripigliò il padre Restituto;—vecchio oramai lo è tanto, che non lo sarà mai stato più di così. E noi lo abbiamo in casa, o signori; e sotto tonaca di frate. Il suo nome…. volete saperlo, il suo nome?
—Bella scoperta!—esclamò il padre Anselmo, ridendo.—Amico Restituto, voi prendete il più giovane, il più biondo, il più avvenente di noi, e ne fate di schianto una donna. Badate, per altro; egli è assente, e degli assenti non si può dir male.
—Non ne ho detto male;—gridò il padre Restituto;—e voi m'avete inteso malissimo.
—Avete parlato del diavolo, sotto forma di tentatrice, e mi pare che basti.—
La disputa minacciava di farsi più grave. Perciò il priore stimò intromettersi.
—Fratelli, vi prego, lasciamo questa discussione del più e del meno. Voi, padre Anselmo, non interrompete l'oratore e consentite ch'egli dica tutto quello che pensa. Il padre Restituto, dal canto suo, non pensava punto di dare al vocabolo "tentatrice" un significato ingiurioso. Ci sono anche le tentazioni involontarie;—soggiunse con placida arguzia il padre Anacleto;—e qui saremmo proprio nel caso.
—Ringrazio il nostro degno priore di questa interpretazione, che risponde perfettamente al mio concetto;—disse il padre Restituto, inchinandosi.—E soggiungo che queste tentazioni, innocenti da una parte, non sono meno pericolose per l'altra. Noi veramente saremmo indegni di scusa, se, conosciuto il pericolo, non ci affrettassimo a provvedere. Io dunque domando al priore una cosa semplicissima; chiami egli il padrino Adelindo, gli faccia sapere quel che si pensa di lui, e lo rimandi a casa sua, con tutti quei riguardi che sono dovuti ad una donna.
—Lo domandate sul serio?—gridò il priore, in mezzo ai rumori che aveva destato la proposta del padre Restituto.—Io non farò mai una cosa simile. Darei piuttosto la mia rinunzia all'ufficio. Fratelli, siamo calmi e consideriamo attentamente il caso. Esso è grave, ma non è punto nuovo. Di donne travestite da uomo, vissute tranquillamente e decorosamente in mezzo agli uomini, ne è piena la storia. Potrei citarvi un venerabile esempio, ma non lo farò, perchè il fatto è ancora controverso e non è qui il luogo nè il tempo per intavolare una quistione di storia papale. Vi parlerò invece degli eserciti moderni, in cui non fu raro il caso di trovar donne, passate per uomini, che seppero acconciarsi a tutti i disagi e a tutti i pericoli della milizia, facendo egregiamente il debito loro e meritando anche di esser poste all'ordine del giorno, per qualche impresa notevole. A chi, sospettando dell'esser loro, sarebbe mai venuto in testa di scacciarle dal reggimento? Via, siamo giusti; è egli permesso a noi di scacciare dalla nostra milizia pacifica un fratello così quieto e gentile come il padrino Adelindo? Non è un padrino, lo capisco; potrebbe star meglio in un convento di monache. Anch'io lo pensavo, fin dai primi giorni ch'egli è venuto fra noi….
—Ah, lo sapevate?—interruppe il padre Restituto.—E come va, allora….
Il padre Anacleto lo interruppe a sua volta.
—Non lo sapevo;—diss'egli.—Il sospetto che quell'adolescente potesse essere una donna, mi si era affacciato alla mente; ma egli era accompagnato da un suo vecchio zio, che abbiamo accettato insieme con lui, e mi parve che quest'uomo, per tener mano ad un giuoco di tal fatta, avrebbe dovuto avere, o troppo ardimento, o….
—Troppa dabbenaggine, non è vero?—chiese il padre Restituto.
—Rispettiamo gli assenti, vi prego. Io volevo dire soltanto: o troppa fede nella nostra… bontà. Respinsi dunque il sospetto, e dissi tra me: facce di giovani che possono trarre in inganno ce ne sono di sicuro, specie nei biondi, e quando la comparsa dei peli vani sulle guance è un po' tarda a venire. Inoltre, era forse da credere che una ragazza si disponesse con tanta facilità a sacrificare una bella treccia di capelli d'oro, per la smania di entrare in un convento di frati, mettiamo anche di frati per burla? E a farci che? Intendo benissimo che questa domanda si potrebbe fare anche per un giovane. Ma infine, si può credere che qualche piccolo dispiacere, creduto eterno, e l'esempio di uno stretto parente, portino anche a questa estremità. Mosso da queste ragioni, sebbene credessi poco alla serietà della vocazione di quel giovinotto, ma rispettando la fermezza della sua volontà e cedendo all'ardore del suo desiderio, lo accettai, mettendo per altro, a tutela sua e nostra, la condizione del noviziato, e per lo zio e per lui. Così facendo, o signori, ho messi in salvo gli scrupoli miei, come la dignità del convento, ed ho creduto di far bene.—
Il padre Restituto non si diede per vinto.
—Voi parlate del primo giorno;—diss'egli;—e sta bene. Ma poi? Non vi è tornato il dubbio che l'adolescente fosse una donna?
—Anzi, è diventato certezza;—rispose il padre Anacleto.—Come e perchè, domanderete. Non saprei dirvelo con precisione. Forse mi ha guidato la considerazione d'un fatto fisiologico non avvertito da prima. Nell'uomo, prima che si mostrino i peli morbidi sul viso, abbiamo sempre un ragazzo, con la sua petulanza, se vogliamo, ma con altrettanta bambineria di atti e di pensieri. Ora, il padrino Adelindo, senza indizio di lanugine sulle guance, è già pieno di brio; ha una grazia ingenua, che non è più dei giovani alla sua età, ed una serietà che essi avranno solamente più tardi, ma rinfiancata di tristezza e di mal umore. No, non è un uomo, dissi allora tra me, il terzo giorno dopo la sua entrata nel convento.
—E lasciavate correre?
—Lasciavo.
—Ma perchè, di grazia, perchè?
—Perchè, signori miei…. Ma debbo io dirvi tutto, dall'a fino alla zeta?
—Dite, dite!—gridarono ad una tutte le voci del capitolo.
—Perchè, signori miei,—ripigliò il padre Anacleto,—si sarebbe detto che noi non siamo cavalieri, o che non eravamo troppo sicuri di noi. Credete che ciò non si sarebbe detto? Riconoscete almeno che si sarebbe potuto dire, e questo è più che bastante per determinare la via d'un gentiluomo. In verità, non saremmo stati cavalieri, se quella donna, entrata così fidente sotto la custodia dell'onor nostro, avesse potuto correre un pericolo; sicuri di noi avremmo dimostrato di non essere, se avessimo pensato, prima di accettarla, o di respingerla, che essa poteva farci perdere quel po' di cervello che ci avevano lasciato intatto le burrasche della vita. Uomini provati, davvero, questi frati di San Bruno, se avessero detto ad un biondo adolescente che domandava di entrare, accettando anche la condizione del noviziato: noi vi crediamo una donna, e, scusate, abbiamo paura di voi!
—È vero, è vero!—gridò il padre Anselmo.
—È verissimo!—ribadì il padre Bonaventura.
Un mormorio di approvazione salutò le parole del padre Anacleto e rincalzò le esclamazioni dei due lodatori.
Si capirà per altro, che i quattro oppositori non tenessero bordone a quelle prove di simpatia.
—Nobili sentimenti, espressi in nobilissima forma!—osservò il padre Restituto, che parlava per tutti i suoi compagni d'opposizione.—Ma infine, ciò che ha fatto il nostro degno priore, anche credendo di far bene, è contrario agli statuti dell'ordine.
—Statuti che non furono mai scritti,—osservò il padre Anselmo.
—E che nessuno è stato chiamato a votare;—soggiunse il padre
Bonaventura.
—Avete ragione, o signori;—replicò il padre Restituto;—avete ragione, se non badate allo spirito, e vi attenete soltanto alla lettera. La lettera nel caso nostro non c'è; ma c'è lo spirito, il quale si è svelato nelle consuetudini nostre, e in quel medesimo principio che ha già raccolto sedici uomini nel convento di San Bruno.
—Ex ore tuo te judico!—gridò il padre Bonaventura.—Voi non volete nella comunità il padre Adelindo, e lo contate fra i presenti.
—Dio buono! Leviamolo pure dal conto e diciamo quindici. Facciamo anzi quattordici, levando anche lo zio, che mi pare un vero fuor d'opera. Resta sempre che quattordici uomini si sono raccolti qui per vivere in pace, lontani dalle tempeste del mondo. Siamo i savi di cui parla Lucrezio, che stanno sulla riva a guardare la brutta figura degli altri.
Suave mari magno, turbantibus aequora ventis
E terra magnum alterius spectare laborem.
Vedete, padre Bonaventura, che anch'io so parlare latino, quando bisogna.
—La citazione è profondamente egoistica;—ribattè il padre
Bonaventura.
—Bravo! E che cosa facciamo noi, se non un'opera d'egoismo? Egoismo intelligente, egoismo ragionevole, che non giunge fino al punto di godere della morte degli altri, ma che si ferma alla consolazione di ritrar noi dalla mischia, donde non si ha potere nè speranza di ritrarre anche gli altri. La solitudine sdegnosa, o il disprezzo benevolo, secondo gli umori, è tutto il meglio che ci resta a fare, in una società male ordinata. Così la intendo io; nè credo che voi l'abbiate intesa diversamente finora. E in questa solitudine, il cui primo disegno è titolo di merito insigne pel nostro venerato priore, in questa solitudine si stava benissimo; ci si potrebbe stare ugualmente in futuro, ma a patto di rimanere come eravamo in principio. Levate di qui gli elementi eterogenei, quegli elementi che abbiamo fuggiti per ottenere la pace. Una donna nel convento di San Bruno è argomento di discordia; è una tentazione, involontaria fin che vorrete, innocente quanto vi piacerà, ma sempre una tentazione.—
Così parlò, con aria di convinzione profonda, il padre Restituto. Ma il priore, che attingeva dalla sua olimpica serenità più elevate ragioni, così prontamente rispose:
—E lasciatela stare, questa tentazione; lasciate che faccia le sue prove tra noi. La tentazione, saputa vincere, ha fatto onori ai santi; è stata anzi la ragione del loro innalzamento ai seggi celesti. Rammentate, amico Restituto, rammentate Antonio nella Tebaide. Il bravo eremita se ne stava nella sua grotta, contemplando le invenzioni sempre nuove dello spirito maligno, e non c'era caso che il sangue gli si rimescolasse nelle vene e gli dèsse una battuta più forte dell'altra. Sant'Antonio era un uomo! Per lui la bellezza non aveva lusinghe, le grandezze umane non avevano attrattive. Più grande di sant'Uberto, che amava le cacce e i bei cani levrieri, sant'Antonio pose l'affetto suo in un…. come chiamarlo decentemente? Diciamo, o fratelli, in un cinghiale domestico. Sant'Antonio aveva la vocazione di tutte le più alte rinunzie. Lasciamo stare il cinghiale domestico, che veramente è un po' troppo; ma imitiamo sant'Antonio nella serena baldanza delle sue vittorie morali. La vocazione del deserto non si prova che nel pericolo. Ringraziamo la sorte, che ci ha recata l'occasione d'un pericolo, perchè noi possiamo trionfarne. In verità sarebbe curiosa che noi, uomini provati al fuoco delle passioni, facessimo oggi una sconcia caduta! Sarebbe curiosa, o signori, che a noi la seconda vocazione non bastasse, e che fosse per noi dimostrata la necessità della terza!—
Un grido di ammirazione accolse la chiusa del discorso. Un bel discorso, o lettori, che io vi ho abbreviato, disperando di poterne ritrarre la sarcastica energia.
—Stupendo!—gridò il padre Anselmo.
—Divino!—soggiunse il padre Bonaventura.
—Immenso!—ribadì il padre Atanasio.
Il padre Restituto, fulminato da quel ragionamento del priore, oppresso da quelle grida entusiastiche dell'uditorio, non sapeva più da qual parte rifarsi.
Il padre Anacleto approfittò del silenzio del suo avversario, per fare una diversione sul gusto di quella che rese celebre nei fasti oratorii Scipione Africano.
—Parliamo d'altro;—diss'egli, dopo un istante di pausa.—Come vanno le memorie scientifiche destinate al nuovo giornale? Voi, padre Bonaventura, dovevate finire il vostro studio sulle stelle cadenti. A che punto siete? La teorica dello Schiaparelli vi par sempre così giusta come prima?
—Ahimè!—esclamò ingenuamente il padre Bonaventura.—Dopo che sull'orizzonte di San Bruno è comparso quel bòlide, non capisco più nulla.
—Male!—osservò il priore, non sapendo bene se dovesse andare in collera, o ridere.—Voi, almeno, padre Atanasio, avrete data l'ultima mano ai vostri appunti di fisica?
—Dio buono!—rispose il padre Atanasio, tentennando malinconicamente il capo.—Come fare, con tanta elettricità per aria?
Il priore cominciava a rabbruscarsi. Che frutto avrebbe egli ottenuto dal suo discorso, se i partigiani suoi più fedeli mostravano di cedere così debolmente alla tentazione?
—Capisco,—diss'egli,—capisco che il giornale non si farà più.
—È nato morto;—soggiunse il padre Restituto.
A quella osservazione agrodolce, scattò come una molla il padre
Tranquillo.
—E perchè, di grazia? Aspettate che sia venuto alla luce, per fare la vostra registrazione necroscopica. Io frattanto ho l'onore di avvertirvi che c'è modo di farlo nascer vitale.
—Ah, sia lode al cielo!—esclamò il priore.—Voi, padre Tranquillo, ci rassicurate intorno al buon avviamento della vostra memoria, sulla circolazione del sangue.
—Questa l'ho finita da un pezzo;—rispose il padre Tranquillo.—Ma qui non intendo parlare dell'opera mia. Dico invece che il sangue potrà scorrere liberamente nelle arterie del neonato, se noi sapremo introdurvi in tempo qualche nuovo elemento.
—Spiegatevi.
—Mi spiego subito. Nel nuovo giornale ci ha da entrare anche la parte amena; un po' di letteratura, per esempio, sotto forma di novella, o di componimento poetico.
—Già! per piacere al padrino!—entrò a dire con accento sarcastico il padre Agapito, sorretto da una benevola occhiata del padre Restituto.
—Padrino o no, un giornale ha da essere un giornale;—replicò il padre Tranquillo.—Non vogliamo mica fare un'arida rassegna, sul gusto degli Atti di questa o di quella società scientifica! Quella è davvero il genere condannato, e parecchie società l'hanno inteso così bene, che già mirano a recare nelle loro pubblicazioni un pochettino di varietà. Guardate, ad esempio, il Journal Asiatique. È tutta filologia orientale; ma in ogni fascicolo vi passa sott'occhio un mondo di cose, algebra indiana, demonologia babilonese, medicina araba, poesia assira, apologo persiano e via discorrendo. Anche un giornale archeologico può e deve esser fatto in modo da non riescire noioso. A voi piacciono le citazioni latine, padre Restituto? Eccone una di Orazio: Omne tulit punctum qui miscuit utile dulci. Infine, un giornale ha da essere, o no, uno specchio della vita?
—Della nostra, sicuro,—osservò il priore.—E se la nostra è una vita studiosa, basterà che il nostro sia un giornale di studi.—
Il padre Tranquillo, vedendosi così abbandonato dal priore a cui credeva di essere andato in aiuto, non rispose più altro. Ma entrò a parlare per lui il padre Natale.
—Un giornale,—diss'egli,—deve servire a qualche cosa. Essere un giornale, o non essere, ecco il punto. In altri termini, un giornale dev'essere come l'uomo; o servire come lui a qualche ufficio, o non essere.
—Come l'uomo!—esclamò il priore, inarcando le ciglia.—Padre Natale, voi volete dire di più che non appaia dalle vostre parole. Se credete che l'uomo abbia l'obbligo di fare qualche cosa per gli altri, sapete come se n'esce. Tornate al secolo!—
Il padre Natale borbottò qualche cosa tra i denti, ma non credette opportuno di farne parte ai colleghi.
—Quella birichina ci ha tutti stregati;—pensò il padre Anacleto.
Indi, rivolto ai colleghi, proseguì:
—Signori, fratelli miei, vedo pur troppo che gli umori sono discordi. Non mi pare che ci sia nulla da mettere ai voti, perchè voi medesimi mostrate di non sapere abbastanza che cosa vogliate. Vi farò in quella vece una proposta, che mi gira per la mente fin dal principio di questa discussione. Eleggetevi un altro priore. Egli potrà dar fuori una nuova regola; più stretta, come la vuole il padre Restituto; più larga, come la vuole il padre Natale. Farete quel che vi piacerà meglio, e per me sarà tutt'uno, purchè io me ne lavi le mani.—
Un vocìo confuso accolse quella scappata del priore.
—Che umiltà!—gridò il padre Restituto.
—Che degnazione!—gridò il padre Natale.
—Egli ha ragione; voi siete esorbitanti nelle vostre pretese.
—Non l'ha; ci sono gli statuti.
—Non ci sono statuti, ma consuetudini.
—Si osservino dunque le consuetudini.
—Che consuetudini d'Egitto! L'assemblea è sovrana.
—Oh, insomma, sapete che cosa v'ho a dire?—tuonò il priore, dominando per un istante quello schiamazzo infernale.—Che siamo una gabbia di matti.
—La voce ne è corsa da un pezzo;—osservò il padre Marcellino, che non aveva aperto bocca fino a quel punto.
I congregati ruppero in una sonora risata. Non era una bella cosa, ne convengo; ma infine, che ci posso far io, se l'osservazione del padre Marcellino ruppe le parole in bocca ai contendenti e fece smascellar dalle risa quella grave assemblea? Non è solamente contagioso lo sbadiglio; anche il riso, quando prorompe a tempo, muove il fegato più indurito del mondo. Figuratevi! Non seppe tenersi dal ridere neanche il padre Anacleto, con tutti i gravi pensieri che gli giravano in testa.
Come si fu chetato quello scoppio d'ilarità, il padre Atanasio così prese a parlare:
—Abbiate pazienza, priore, e compatite le nostre follìe. C'è molta elettricità per aria, ve lo dicevo ben io! Si scaricherà, come e quando potrà. Intanto, se volessimo rimandare ogni decisione…. Che ve ne sembra?
—Rimandiamo!—gridò il padre Anselmo.
—Sì, sì, rimandiamo!—gridò il padre Bonaventura, mentre gli altri, in maggioranza facevano eco.
—E sia. Quantunque il rimandare la decisione lasci il vostro priore in una condizione difficile, rimandiamo pure;—disse il padre Anacleto.—Ma badate, o signori, metto una condizione. Siamo cavalieri! Fa bene alla salute, dopo tutto; ed è una consolazione morale, in un tempo come questo, che il mondo gira al mal animo e alla cattiva educazione. Siamo cavalieri, o signori, e i nostri novizi, uomini o donne che siano, non abbiano fumo dei nostri sospetti.
—È un dovere;—rispose il padre Agapito, in nome dei dissidenti.
Il serafino biondo non istette a sentir altro. Appena veduto il movimento che si faceva da alcuni stalli, sollevò la testa, balzò in piedi e fuggì con passo leggiero verso la scala. Un minuto dopo, era in chiesa.
Lo zio Prospero dormiva saporitamente sulla sua poltrona, con un libro aperto sulle ginocchia. Il serafino biondo non si fermò neanche a guardare che libro fosse, ed uscì, volgendo i suoi passi fuori del convento. Ma non ne fece molti, all'aperto; come fu al principio del sentiero dei frassini, che incominciava appunto dove finiva il piazzale, tornò indietro, in atto di persona stanca, che abbia fatta una lunga passeggiata. Così avvenne che alcuni frati, usciti a prender aria sotto l'atrio del convento, lo vedessero sbucare dal verde.
—Caussa mali tanti!—mormorò il padre Tranquillo all'orecchio del padre Restituto.
—Ah, voi dunque ammettete che sia una donna;—disse di rimando il padre Restituto.—Il pentametro vuole infatti la chiusa: foemina sola fuit.
—Scusate,—replicò il padre Tranquillo,—ne ho citato appena quel tanto che faceva al caso mio. Nelle citazioni avviene sempre così. Del resto, io non credo che sia una donna. È la mia opinione.
—Non dev'essere quella del priore;—ribattè il padre Restituto.—Guardatelo lì, che si muove per uscire dall'atrio. Vedrete che va incontro al padrino…. per fargli un pochettino la corte.—
Il priore non fece nulla di ciò che prevedeva il padre Restituto. Era uscito dall'atrio, come per far posto agli altri cinque o sei frati che venivano dietro a lui. Forse allora, guardando verso il bosco, vide il padrino Adelindo e pensò di evitarne l'incontro, poichè, scambio di andar oltre, voltò a sinistra, lungo il muro della chiesa, donde si riesciva ad un bastione, che piombava sulla sponda del torrente, di cui si udiva il gorgoglio nello stretto fondo della valle. Giunto colà, si sedette sul parapetto, volgendo le spalle al convento, come uomo che volesse star solo coi suoi pensieri, senza occuparsi di ciò che facessero o dicessero i compagni.
—Non mi pare che voglia darvi ragione;—mormorò il padre Tranquillo all'orecchio del padre Restituto.
—Diplomazia! diplomazia!—rispose il padre Restituto, crollando la testa, in atto di uomo che la sa lunga.—Queste arti son note. Del resto, se non è andato il priore incontro al padrino, il padrino può ancora andarci lui, incontro al priore.—
Neanche qui il fatto diede ragione al padre Restituto. Il padrino Adelindo se ne veniva verso l'atrio, col suo visetto d'angelo, con un grazioso incarnatino sulle guance, indizio di una camminata frettolosa all'aperto, e col sorriso sulle labbra, testimonianza del suo adorabile candore.
Giunto sotto l'atrio, senza avere neanche rivolta un'occhiata dalla
parte del bastione, salutò con un leggiadro cenno del capo e il padre
Restituto e il padre Tranquillo, e andò a fermarsi davanti al padre
Agapito, che stava alquanto più indietro.
—Fratello,—gli disse,—vorreste farmi un favore?
—Due, se posso,—rispose il padre Agapito, facendo a suo malgrado un inchino.
—Amerei sapere dov'è andato mio zio. L'ho cercato per tutto il bosco, senza trovarlo.
—Sarà nella sua cella, m'immagino.
—No, non c'era, e appunto per ciò sono andato a cercarlo fuori.
—Avete guardato in biblioteca?
~ Ah sì, davvero,—gridò il serafino, ridendo,—l'unico luogo dove non sono andato! Ma egli è così poco amante della lettura, che in verità non mi passò neanche per la mente di cercarlo là dentro. E così,—soggiunse, per tirar bellamente il padre Agapito ad accompagnarsi con lui,—avete fatta la vostra radunanza?
—Sì;—disse il padre Agapito.
Il serafino trasse un sospiro tanto fatto.
—Che peccato esser novizio!—esclamò.—Mi sarebbe tanto piaciuto di entrare in capitolo!
—Non ci sarebbe mancato altro;—pensò padre Agapito.
—E dite;—ripigliò il serafino, col suo solito candore;—non per desiderio di sapere i vostri segreti, ma per amore dell'ordine, siete venuti ad una risoluzione?
—Sì e no;—rispose il padre Agapito, che era sulle spine.—Si è discusso intorno al giornale.
—Ah, il cuore me lo diceva!—gridò il serafino.—Dunque è minacciato, quel povero giornale? I miei disegni saranno inutili?
—No, non temete, il giornale si farà; soltanto…. ve lo dico in confidenza….—
Il candido monachino si mise una mano sul petto e diede al padre
Agapito un'occhiata, che gli passò il cuore senz'altro.
—Soltanto,—proseguì il padre Agapito,—si vuol dargli un po' di garbo, un po' di gusto letterario, farlo più ameno, mettendoci che so io, dei romanzi, dei versi….
—Ah sì, bene, dei versi!—gridò il serafino, battendo le palme.—Li amo tanto! Siete poeta, voi, padre Agapito? La vostra aria pensosa mi dice di sì.
—Eh, una volta…. nei tempi andati….—balbettò il padre
Agapito.—Siete troppo buono.
—Almeno ne rammenterete qualcheduno. Me li reciterete, non è vero?—
Il padre Agapito non rispose più nulla, confuso com'era. Ma chinò la fronte, in atto di assentimento.
Quel giorno, trovandosi solo nella sua cella, il padre Agapito si guardò nello specchio.
—È vero;—diss'egli tra sè;—ci ho l'aria pensosa. È osservatore, il padrino!—
A che pensava frattanto il padre Anacleto, priore dei conventuali di San Bruno? Gli balenava alla mente il doloroso pensiero di avere fatti male i suoi conti, di avere tirato avanti, di operazione in operazione, un faticoso problema, non tenendo a calcolo un elemento essenziale, la cui presenza, inavvertita da prima, gli mandava a rotoli tutto il suo edifizio di numeri.
Ma perchè, poi, s'aveva a parlare di conti sbagliati? E non si dava forse troppa importanza ad un elemento, fastidioso sì, più fastidioso delle mosche in estate, ma non certamente essenziale nella vita? Un fiore non fa primavera; e una quistioncella tra frati non doveva credersi il finimondo. Di certo, quello screzio si sarebbe composto; non era possibile, non era credibile, che quattordici persone ragionevoli perdessero la tramontana per una donna entrata in convento.
Che sotto le spoglie del nepote di Prospero Gentili si nascondesse una donna, il padre Anacleto lo aveva sospettato fino dal primo giorno; poi ne aveva acquistata la certezza, ma senza curarsi più che tanto del fatto e delle conseguenze che potesse portare in famiglia. Con tutto il suo ingegno, il padre Anacleto era un grande innocente.
E non vi faccia meraviglia. La penetrazione dell'uomo non è il più delle volte che effetto di cattiveria naturale. Non s'indovina il peggio; accade di pensarlo, con la certezza, o con la speranza, di apporsi al vero. Così è l'uomo; pensa il male per abitudine, lo cerca per desiderio. C'è della gente che va a caccia di scorpioni, per farne quell'olio balsamico che sapete; e c'è della gente che va frucando qua e là, in busca di cattive interpretazioni, che debbono far onore alla sua perspicacia. Guardate che talentone! Come vedeva giusto! Prima ancora di osservare il baccello, ha gridato: c'è il tonchio.
Il padre Anacleto non era fatto così; anzi, per dirvela in tutta confidenza, era sempre stato un buon ragazzo. La vita ad un certo punto lo aveva seccato, ed egli si era tratto un poco da banda senza molta ira, o, per dire più esattamente, con un'ira generosa, assai presto sbollita. Per odiare gli mancava il tempo, e dedicava ai suoi nemici una profonda noncuranza; tanto profonda, che pareva qualcos'altro e lasciava credere che egli affogasse in una medesima broda l'umanità tutta quanta. Ma questo era tutt'altro che vero. Il padre Anacleto non disprezzava l'umanità; soltanto amava lasciarla tranquilla, non la molestava co' suoi cerotti filosofici e gradiva in ricambio di non esserne molestato.
—Mi sono annoiato del mondo;—soleva dire il priore, quando gli chiedevano il perchè della sua ritirata al deserto;—non ci avevo da far nulla di utile; ho fatte le valigie ed eccomi qua. Ancora giovane, voi dite. O che? avrei dovuto aspettare ad aprir gli occhi da vecchio? E non sarebbe meglio che l'esperienza venisse all'uomo dieci o vent'anni prima del termine usuale?—
L'idea di cercare la solitudine gli era venuta di schianto; ma le ragioni psicologiche erano assai più lontane. In tutti, del resto, è una propensione antica verso la società ristretta, e sono in ciò degni di nota i fanciulli che fanno con sedie e sgabelli un piccolo serraglio nell'angolo di una camera, come a dire una casa nella casa, per andarcisi a chiudere, quando la pioggia batte sui vetri. Neanche a star nella camera, al largo, si sarebbero bagnati; ma no, bisognava guarentirsi meglio, tapparsi in un cantuccio, e in una casa fatta con le proprie mani. Ogni uomo ha l'istinto di star chiuso. E chi vive in piazza, come chi pensa ad alta voce, o presto o tardi si pente.
Il futuro padre Anacleto aveva dunque veduto un grande vantaggio nella casa fatta da sè, nella famiglia artificiale, di cui gli aveva dato un esempio la milizia, e di cui ne vedeva un altro nelle fraterie. Di quella e di queste aveva fatto un miscuglio, come i cavalieri di Rodi, e lo aveva trovato gustoso. E in quella stessa guisa che un giorno, nel grande sfacelo del mondo romano, alcune anime accorte si erano ridotte a salvezza nella vita monastica, così pareva al futuro padre Anacleto che potessero raccogliersi in pace, lontani dal mondo pazzo, i naufraghi della vita moderna, o per espiarvi la loro parte di follie, o per non commetterne altre. Il monachismo si aboliva, come istituto sociale; ma era proprio il caso d'inventarlo da capo, come istituto personale. Vivere in disparte, astenersi dallo assassinare il prossimo, come molti usano, sotto pretesto di fargli del bene, studiare, nutrire la mente di cose belle, poteva essere ancora un savio consiglio, e non tanto egoistico come a prima giunta sembrava. A buon conto, meglio amare sè stessi che non amare nessuno, vi pare? È meglio una vita contemplativa, che giri al dolce far niente, che una vita operativa, la quale vi conduca al far male. Del resto, che obblighi si hanno con la società? Il futuro padre Anacleto ci aveva studiato su, e non era giunto a persuadersi che ce ne fossero di positivi. Perciò considerava la società come una corrente che attrae e costringe ad andare con lei quanti si trovano nella sua via; ma non costringe e non attrae chi è riuscito a cavarsene fuori.
Sopprimere le attrazioni, le lusinghe sociali; questo era il punto. A lui parve che la cosa potesse ottenersi a quel periodo della vita in cui le due lusinghe più forti ci hanno fatto soffrire di più. Naufraghi dell'ambizione e naufraghi dell'amore, gli uomini intelligenti potevano riconoscersi a vicenda, vivere insieme, guarire insieme, trovare in terra quella pace che le anime afflitte sperano in cielo.
La prima società era nata quasi ad un tempo con l'idea, tra pochi amici, che usavano da gran pezza ricambiarsi i loro pensieri. Ma presto la voce era corsa, ed altri compagni si erano offerti. Il concetto era buono; la regola nuova, a cui il caso aveva dato il nome di San Bruno, attecchiva; e il padre Anacleto, non più futuro, ma presente, ed eletto a voti unanimi priore, mirava già a nuovi trionfi dell'ordine.
E qui, non era forse la natura che operava dentro di lui? La natura, questa virtù misteriosa che si lascia qualche volta strappare un segreto, qualche altra imporre una legge, ma che a lungo andare governa sempre lei e manda in aria tutti gli artifizi degli uomini?
La voglia d'ingrandire l'ordine nuovo di San Bruno poteva giustificarsi col numero dei frati, che erano già troppi nel convento; ma non c'entrava anche un pochettino di quello spirito di propaganda, che è la vanità o l'ambizione di tutti gli uomini e di tutte le sètte? E il padre Anacleto, prendendo il suo mandato sul serio, innamorandosi dell'opera sua fino al punto di fondare una dottrina e una regola di vita su ciò che poteva intendersi ancora e permettersi come capriccio personale, non lavorava forse a ricomperarsi una parte di quelle noie, per cui gli era venuto in uggia il mondo, da cui era fuggito con tanta sollecitudine?
Per intanto, ne aveva già avuto un saggio dalla radunanza del capitolo. Che matti, i suoi frati! Anch'essi avevano preso il loro stato sul serio. Ma allora, perchè non aggradire un pizzico di tentazione? Perchè non cogliere con giubilo l'occasione di un trionfo, che li avrebbe mostrati davvero uomini superiori? Così pensava, e giustamente, il buon padre Anacleto. E poi, gli sfuggivano delle frasi come queste:—Tanto chiasso per una ragazza! Se tutti la vedessero con gli occhi miei!—
A proposito, con che occhi la vedeva lui? Non vorrei che il sor priore degnissimo si vantasse un pochino. Vediamo dunque, scrutiamo corda et renes. Il serafino biondo gli piaceva; non c'è che dire, gli piaceva, ed egli non se lo dissimulava neanche: segno che il suo peccato era di quelli che si confessano liberamente a sè medesimi, perchè non si credono destinati a portar conseguenze. Il serafino gli piaceva, come piace un bel quadro, mettiamo la Trasfigurazione di Raffaello, o la Comunione di San Gerolamo del Domenichino. Si ammira, si rimane estatici a contemplare, magari ad adorare, ma il sentimento del bello è così puro in noi, che non si forma neanche il desiderio di possedere quel quadro; salvo nel caso che si sia principi della finanza, o rigattieri; due tipi che qualche volta si trovano fusi in una sola persona. Ma fate che per un caso straordinario quel quadro ammirabile vi appartenga; e lo stesso sentimento del bello, così profondo e così puro dentro di voi, farà sì che non vi saprete risolvere per nessun patto a cedere il quadro. Questa è dunque la passione intelligente e schietta dell'uomo per la bellezza, in ogni sua manifestazione. E certo, lo ammetto anch'io, sarà più difficile sentirla così schietta, quando la bellezza si incarni in una donna viva. Ma infine, dato un carattere nobile, e uno stadio iniziale (poichè l'amore stesso ha il suo primo gradino nell'ammirazione) anche una cosa tanto difficile potrà sembrarvi possibile. E non vi parrà più così strano il mio padre Anacleto.
Al quale, dopo tutto, quel serafino biondo appariva quasi un raggio di sole nel cielo grigio ed uniforme di San Bruno. Quel monachino roseo ci aveva anche del paggio; e al padre Anacleto sembrava che egli facesse in convento il medesimo contrapposto felice che un bel paggio elegante ed amoroso doveva fare in una di quelle corti medievali, sempre minacciose e sempre minacciate, che stringono il cuore al solo pensarci.
E poi, e poi, gli pareva da gentiluomo non avvedersi di nulla, non cercare nelle sue sensazioni più oltre di quello che esse lasciavano scorgere. C'era del poeta, nel padre Anacleto; e forse per questo aveva meritato di esser priore in un convento di matti.
Finita la radunanza del capitolo in quel modo che sapete, il nostro priore sperò che i suoi degni colleghi non sarebbero andati più avanti con le loro ingiuste antipatie, e con le loro sciocche paure. Il padrino si sarebbe annoiato di quella vita rinchiusa e avrebbe accomodato lui ogni cosa, abbandonando il convento? Sì e no. Del resto, l'idea di una fuga del serafino biondo non veniva molto chiara alla mente del priore. Non vengono mai chiare e spiccate alla mente che le cose vagheggiate un po' a lungo o più profondamente desiderate. Infatti, vedete, gli veniva chiarissima l'idea che i suoi compagni si sarebbero chetati. Che diamine! Mandar via un novizio che non faceva male a nessuno! Chi avrebbe avuto mai un così triste coraggio, poichè non voleva averlo lui? lui, più equanime, più freddo, e più tranquillo di tutti?
E frattanto, notava un fatto curioso. I suoi vecchi amici, padre Anselmo e padre Bonaventura, suoi partigiani dichiarati in capitolo e difensori del serafino, incominciavano a girargli nel manico; erano di giorno in giorno meno teneri pel loro protetto; quel latte e miele che scorreva dalle loro labbra quando parlavano di lui, incominciava a saper d'agro. Per contro, padrineggiavano, serafineggiavano gli oppositori. Padre Agapito e padre Restituto, in ispecie, erano diventati col serafino d'una cortesia, d'una dolcezza, che sarebbe stato impossibile desiderarne di più. A buon conto, il priore ne avrebbe desiderato di meno. Perchè? Forse perchè nella sua qualità di priore doveva amare le parti giuste per tutti; forse perchè nella sua qualità di osservatore, notava un cangiamento troppo rapido di sentimenti e di modi; forse perchè… Oh insomma, trovatelo un po' voi, il perchè.
Tra questi giuochi d'altalena, e osservazioni e malinconie psicologiche, capitò al priore la visita del sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia. E accompagnata da circostanze eroicomiche, che io vi racconterò senza farmi pregare. Il signor sottoprefetto era venuto a cavallo, con una coppia di carabinieri per iscorta. D'onore, o di sicurezza? Il fratello Giocondo, che non lo conosceva e che stava fermo alla consegna, non aveva voluto lasciarlo salire al convento, come egli mostrava desiderio di fare.
—O scusi;—gli aveva detto, con un tono agrodolce, come faceva quando incominciava a scappargli la pazienza.—Se viene a cercare il priore per arrestarlo, mi mostri il mandato di cattura e passi. Se viene per fargli visita, dica il suo nome ed aspetti, come fanno tutti gli altri.—
Il signor sottoprefetto l'aveva masticata male e aveva risposto:—aspetterò.—
Così dicendo, il nostro personaggio porgeva al converso la sua carta di visita, con un gesto che voleva dire:—A voi, ecco chi fate aspettare; andatelo a riferire al vostro principale, che vi darà una strapazzata coi fiocchi.—
Ma il converso non pose gli occhi sul cartoncino di Bristol, o non volle dare al visitatore burbanzoso la consolazione di farlo in sua presenza. Del resto, lo conosceva già, per averlo veduto alcuni giorni addietro, quando era stato al parlatorio chiedendo del padre Prospero e annunziandosi modestamente "il suo amico Tiraquelli". Tira quelli, o quelli altri, era tutt'uno pel fratello Giocondo, che uscì con la carta di visita in mano, per andare ad avvertire il priore.
Il signor cavaliere e sottoprefetto misurò una ventina di volte la lunghezza del parlatorio, che era di otto metri e qualche centimetro, e non domandava tante fatiche per essere accertata. Indi uscì sul piazzale a contemplare la valle e sentir mormorare il torrente; poi tornò in parlatorio a guardare il brutto muso di Mastino II della Scala; battè le labbra e crollò il capo più volte in segno d'impazienza; finalmente trasse una rifiatata, perchè si udiva un passo abbastanza frettoloso sul battuto del piazzale, certo indizio della venuta del priore.
Era infatti il padre Anacleto, e il sottoprefetto lo vide tosto apparire nel vano dell'uscio.
Il sottoprefetto aveva udito parlare più volte della gioventù e della bellezza del priore; ma aveva sempre data la tara alle chiacchiere della gente, pensando che si esagerano sempre le qualità degli uomini misteriosi, quando per l'appunto queste qualità paiono in contraddizione col genere di vita, a cui questi uomini si sono consacrati. Perciò, dovette stupirsi al vedere quell'uomo, più giovane e più bello di ciò che egli si degnava di credere, e punto ridicolo nella sua veste di frate. Il padre Anacleto portava la tonaca con quella medesima disinvoltura, con quella medesima coscienza di fare il comodo suo, che si riscontra negli artisti, pittori e scultori, quando vi compariscono dinanzi con certe zimarre, farsetti, e berrette di velluto, che paiono spiccati da un quadro del Cinquecento.
Il padre Anacleto, per dirvi tutto con una frase vecchia e francese, aveva una bella testa italiana. Perciò voi dovete immaginarvi subito i grandi occhi profondi, dalle pupille nere, circonfuse da una luce azzurrina, le ciglia lunghe, la pelle fine, i lineamenti grandiosi, saviamente accompagnati da una bella barba e da una bella capigliatura ondata e lucente. Il suo volto esprimeva l'onesta alterezza dell'uomo giovane e forte; gli occhi, la nobiltà del pensiero che sa elevarsi per virtù propria e non ama prender nessuno a compagno.
Tutte queste minuzie, che io vi descrivo, non istette ad osservarle partitamente il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia; le colse come a dire in un fascio, e, senza pure volerlo, paragonò quel tipo di maschia bellezza con la faccia dilavata e sciocca del duca di Francavilla. Anche quello era un bel giovane (chi dice di no?); ma bisognava vederlo senza confronti.
Poco, anzi nulla contento del suo esame, il signor sottoprefetto si disponeva a rispondere con un inchino alle prime parole del padre Anacleto.
Il priore era entrato con la carta di visita tra le dita, e le aveva data un'ultima occhiata, prima di attaccare la frase:
—Signor…. commendatore….—
Il vocabolo dava la giustificazione dell'occhiata. Sul pezzo di cartoncino Bristol, che il visitatore aveva consegnato al fratello Giocondo, c'era scritto per l'appunto così: "C. avv. Eudossio Tiraquelli, sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia." Ma quel C, che diavolo significava? Cavaliere, o commendatore? Una persona bene educata non poteva mica fermarsi lì, a domandare: scusi, che grado ha lei nella gerarchia delle umane grandezze? E quella medesima persona, trovandosi ad un bivio di quella fatta, non poteva mica fidarsi di dire: "signor cavaliere"; doveva dire senz'altro: "signor commendatore", anche pensando che se l'interlocutore lo fosse stato davvero, non si sarebbe contentato di lasciarlo argomentare da una semplice iniziale.
Il signor sottoprefetto fece l'inchino che vi avevo annunziato; un inchino che pareva una tacita accettazione del titolo, o un atto di ringraziamento per l'augurio, pensato o involontario che fosse.
—Signor…. commendatore….—diceva il padre Anacleto;—a che cosa posso attribuir l'onore di una sua visita?
—Al desiderio, al piacere di conoscerla. Non si meravigli, la prego;—rispose con grande volubilità di parole il sottoprefetto di Castelnuovo;—noi, poveri ufficiali preposti alla amministrazione delle provincie, dobbiamo conoscere il paese, per formarci un giusto concetto dei suoi bisogni; e dobbiamo per conseguenza conoscer tutti i nostri amministrati…. anche quelli che non hanno bisogno di noi.—
Il priore fece un inchino e additò un seggiolone al suo ospite. Ma il sottoprefetto fece le viste di non essersi accorto di quell'invito.
—Sono in volta per visitare tutti i comunelli del circondario;—proseguì egli.—È la nostra Via crucis. Perciò spero non vorrà trovar nulla a ridire sull'accompagnamento di due carabinieri. L'autorità—soggiunse il sottoprefetto, atteggiando le labbra ad un sorriso, come faceva ogni qual volta stava per dire qualche cosa di profondo o di grazioso,—l'autorità è amicizia, quasi fratellanza, che è come a dire confidenza, per gli uomini di vaglia; ma pel volgo, che non la intende senza una certa solennità d'apparato, dev'essere ravvolta nella nube, accompagnata da lampi e tuoni, come il Dio degli eserciti.—
Il priore s'inchinò da capo, ma non aggiunse nulla del suo a quel saggio d'eloquenza sublime.
—Ella vedrà nella mia visita anche un pochino di curiosità;—riprese il sottoprefetto, lasciando i lampi e i tuoni in disparte e degnandosi di uscir dalla nube.—Non voglio negarlo; anzi le confesso sinceramente che avevo da gran tempo un desiderio vivissimo di conoscer Lei, persona tanto ed universalmente stimata, e di dare una sbirciatina al suo convento laico.—
Il priore, che l'aveva capito fin da principio, e che non voleva parere uno di quelli che bevono grosso, accettò la dichiarazione e ci appose il suo visto.
—Sarà sempre un onore per noi di appagare la sua curiosità. Del resto, non si potrebbe neanche rifiutarglielo,—soggiunse il priore, temperando con un sorriso l'asprezza del colpo,—come si è fatto con tutti i signori di Castelnuovo.
—Ah, se non ci hanno piacere….—balbettò il sottoprefetto;—se non amano le visite…. non vorrei essere importuno.
—No, la prego, non si dia pensiero di ciò;—rispose il priore.—La sua curiosità, signor commendatore, non è offensiva per noi, dacchè il suo ufficio la rende quasi obbligatoria. Lei deve sapere ogni cosa; gli altri non hanno nessun diritto di metter gli occhi nelle nostre faccende. Frati, nel senso religioso, non siamo; non diciamo messa, non confessiamo, non distilliamo acqua di melissa, non fabbrichiamo cerotti. No, nessun rimedio, nè per le anime travagliate, nè pei corpi infermi. Attendiamo invece a medicare noi medesimi, nel silenzio e nella pace d'un chiostro; e ci pare che si faccia già molto. A che volerci vedere? Siamo fatti come tutti gli altri, e viviamo qui come essi vivrebbero in villa, godendo il fresco e facendo qualche cosa d'inutile, tanto per ammazzare il tempo. Ma basti dei signori di Castelnuovo. Mi permetta, signor commendatore; dò un ordine e sono da Lei.—
Il commendatore in votis fece un inchino, che voleva dire: s'accomodi. E il padre Anacleto, uscito dal parlatorio, andò a cercare il converso che aspettava i comandi.
—Fratel Giocondo,—gli disse sotto voce,—avvertite di questa visita i colleghi. Capisco che il sottoprefetto si fermerà a colazione. Chi vorrà venire in refettorio mi farà piacere; chi vorrà essere ammalato sarà servito in camera.—
Fratel Giocondo rispose col cenno del capo di chi ha inteso tutto e non ha bisogno d'altro; indi si mosse per andare al convento. Ma il padre Anacleto lo trattenne ancora.
—Prendetevi cura dei carabinieri, che non abbiano a mancar di nulla, nè essi, nè le loro cavalcature. I carabinieri sono ottima gente; trattateli bene. Ma mi raccomando, che non vi facciano cantare!
—Non c'è pericolo;—rispose il fratel Giocondo.—Lei sa, priore, che stono maledettamente.
—Bene; vi permetto di stonare…. nel senso di non rispondere a tono;—ripigliò il padre Anacleto.—Non abbiamo niente da nascondere, è vero; ma non tutto ciò che si può dire va detto.—
Dopo questo breve colloquio, il priore tornò nel parlatorio.
—Eccomi a Lei, commendatore;—diss'egli.—Se vuol favorire….—
Ecco adunque il signor sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia messo dentro alle segrete cose del convento di San Bruno. Ma ohimè, molto meno addentro di quello che egli credesse. Perchè, infatti, se egli si era posto in mente di sorprendere la signora Adele Ruzzani, il conto gli riusciva fallato, per la prontezza di spirito del priore.
Questi, a dir vero, aveva date le sue istruzioni in genere, per lasciar libertà a tutti i suoi colleghi di essere o di non essere presenti. Ma non voglio neanche tacervi che nella sua sollecitudine c'entrava un pochino il pensiero del serafino biondo. Bisognava stare con gli occhi bene aperti, poichè tutti quei tentativi di entrare in convento, da parte dei signori Castelnovesi, miravano al padrino Adelindo. Il priore lo aveva indovinato, anche senza sapere che il padrino veniva dal capoluogo del circondario. Lo perseguitavano dentro e fuori, il grazioso monachino, e lui lo difendeva di dentro e di fuori. Questo era nella nobiltà dell'animo suo, ed anche un pochino in quel certo che di gentilmente puerile, che tutti gli uomini hanno, quando non si vergognano di essere a tempo e luogo bambini.
Così avvenne che all'ora della colazione, di sedici frati che vivevano a San Bruno, non ce ne fossero in refettorio che quattordici. Il padre Prospero e il padre Adelindo erano andati fuori, e la campana del refettorio non aspettava nessuno.
Ma, che diavolo? Non erano neanche quattordici, i presenti. Oltre quei due, che il priore non s'aspettava di vedere a tavola, mancava anche il padre Agapito. Anche lui fuori; e perchè?
Il priore trovò un minuto di tempo per chiederne al fratello Giocondo.
—È andato a passeggio col padre Prospero e col padrino;—rispose il converso;—per non lasciarli soli. Tutti e tre mi hanno detto di andarli ad avvertire al romitorio delle Querci, quando sarà partito il sottoprefetto.
—Per non lasciarli soli!—mormorò dentro di sè il padre
Anacleto.—Benissimo!—
E qui sarebbe il caso di soggiungere: "benissimo un corno!" perchè al padre Anacleto quella novità piaceva poco. Il degno priore si seccò maledettamente, a colazione, e il malumore gli crebbe tanto, mentre faceva vedere il convento al suo noioso visitatore, che incominciò a rispondergli in un certo modo agrodolce, che non era mai stato nelle sue consuetudini.
—Ma sa Lei che questo è un piccolo paradiso?—andava dicendo il sottoprefetto.—Non ci manca che l'angelo con la spada di fuoco, per cacciarli fuori. Perchè, infine, scusi la libertà delle mie parole, questo è un tradimento che fanno alla società.
—Signor commendatore,—rispose il padre Anacleto,—alla società non siamo debitori di nulla.
—Eh, nulla!… nulla, poi! Dove mi mette Lei i canoni della filosofia civile?
—La filosofia civile! La filosofia civile, è una spiritosa invenzione dei filosofi. E poi, quand'anche fosse una cosa seria…. Scusi, non parlo pe' miei colleghi, che possono difendersi meglio da sè; parlo pel mio signor me, che conosco un tantino. Qual è, secondo la filosofia civile, il mio debito verso la società? Darmi a lei, secondo le forze e l'ingegno. Le forze, le ho date, quando era necessario, e fin dove ho potuto, in uno di quegli uffici che non sono dei più ricercati, in una di quelle posizioni in cui non c'è nessuno che voglia starvi dinanzi. Se Dio vuole, ce n'è uno, dei posti, che non fa invidia ai soliti competitori; il posto del soldato in faccia al nemico. E qui, modestamente, ma volentieri, ho fatto il debito mio. Resta l'obbligo secondo l'ingegno. Ma qui, la prego a considerare una cosa. Io non ho ingegno; sono una talpa; non devo dunque più nulla.
—Il suo modo di argomentare, perdoni, non è solamente un tantino paradossale;—osservò il sottoprefetto;—ma è grandemente ingiusto verso di Lei.—
Il complimento era girato bene; ma il priore non ci si lasciò cogliere.
—Non creda, commendatore, non creda. Ci ho un po' di chiacchiera che inganna; ma è tutto spolvero, praticaccia, senza alcun lume di scienza. Ho studiato poco, da giovane, ed ho lasciato correre, da uomo maturo. Tornando alla questione, io, senza dottrina e senza trattati la ragiono così. Che cos'è questo diritto sociale? Come lo intendono loro, non è altro che la giustificazione di tutte le tirannie, levate di mano a Tizio e Caio, e date in custodia al signor Tutti, un benedetto uomo il quale non sa mai che cosa si voglia. La società vuol questo; la società vuole quest'altro; qui non si può stare perchè l'interesse sociale non lo permette; di qui non si può escire, perchè l'interesse sociale non lo consente. Se studio l'arabo, la società vuol far di me un professore; non mi serve a nulla il dire che l'ho studiato per mio gusto; debbo essere professore, l'interesse sociale esige che io lo sia, affinchè un altro professore possa dar dell'asino a qualcheduno e dichiararmi un intruso nel gran tempio del sapere. Perchè c'è anche il tempio, coi rispettivi penetrali e il rispettivo sacerdozio. La società si tratta bene, con la rettorica per maestra di casa. Ma in nome di Dio, bisognerebbe che c'intendessimo sul valore delle parole e sulla definizione dei doveri. Ci abbiamo invece una dozzina di scuole, se non più, ognuna delle quali interpreta tutto a suo modo. Un giorno erano dottrinarii; oggi son tutti sperimentali; domani saranno tutti evoluzionisti; dottrinari che ammettevano questo e negavano quest'altro, scindendosi in varie chiesuole; sperimentali che negavano questo e ammettevano quell'altro, spartendosi anche loro in tanti laboratorii; evoluzionisti, che ammetteranno e negheranno ogni cosa, per far la strada pulita e ritornare da capo. Prima avevamo l'individuo libero, anzi allo stato selvaggio e nato, magari Dio, senza levatrice; poi venne, o tornò, l'uomo schiavo di tutte le autorità ideali e materiali, dalla formola del filosofo alla chiamata del questore (scusi, veh, ma questa è storia per sommi capi); adesso abbiamo l'uomo libero da capo, e tutte le teoriche a bollire nella medesima pentola. Sciogliere, legare, accentrare, decentrare, libero arbitrio e impulso fatale, probabilità e necessità, leggi scaturite dal fatto, fatti rampollati dalla legge, l'ovo prima della gallina e la gallina prima dell'ovo; io, per me, credo sia tutto un intruglio, un sacco d'invenzioni più o meno felici, per esercitare i rètori moderni e intrattenere i curiosi. Credo anch'io a certi doveri, ma d'indole negativa, come il non far male a nessuno. Credo ancora che il fare del bene sia una bella e nobile cosa; ma anzi tutto, che cosa sono la nobiltà e la bellezza? Armonia di linee, equilibrio di facoltà, dicono i moderni. Appunto per ciò, la nobiltà è un fatto, non una legge. Se pure lo fosse, noi potremmo mettere tra i contravventori i cinque sesti dell'umanità. Veda un po' che razza d'armonie! C'è anzi dei filosofi che le chiamano antinomie, e ci hanno bravamente già costrutto un sistema. Ella si annoia, commendatore…. Non mi dica di no; lo vedo, lo sento, e finisco. Noi siamo qui oltre una dozzina d'uomini, i quali, in tanta confusione d'idee, abbiamo creduto savio partito di tirarci da banda. Aggiunga che la società ci annoiava; tutti, qual più, qual meno, abbiamo avuto a dolerci della società, o di qualcheduno dei suoi, e ci siamo allontanati dal giuoco. Eccoci qua in un convento laico, come ha detto benissimo Lei. Questa è la vita in pochi, e perciò facilmente accomodata al gusto di tutti gli interessati, con norme accettate volentieri da ognuno. Viviamo in pace rispettosa con le leggi del paese, paghiamo le tasse, non domandiamo d'essere riconosciuti come un ente morale; agli occhi della società siamo e non siamo. In compenso della nostra modestia, le domandiamo una cosa sola; di non parlarci delle sue tirannie, battezzate col nome di doveri positivi. Vede, avevamo un tiranno, Mastino II della Scala, capitato qui non so come, forse come un avanzo d'eredità toccata agli antichi frati di San Bruno. Anche dipinto, quel tiranno ci dava noia; lo abbiamo messo alla porta, lo abbiamo relegato nel parlatorio, là presso al ponte, perchè se la dica coi forestieri, lasciando in pace noi altri.—
Il padre Anacleto non era stato mai così sciolto di lingua, nè così fiero e sarcastico. Ma già, voi l'avete capito, o lettori; il padre Anacleto aveva perdute le staffe. E intanto che snocciolava le sue massime, dentro di sè il padre Anacleto pensava a tutt'altro; per esempio al padre Agapito, che era andato fuori col padre Prospero e col padrino Adelindo.
—Per non lasciarli soli!—
Questa era la frase detta dal converso. E questa frase gli si era scolpita davanti agli occhi, come il famosissimo Mane Thecel Fares agli occhi di Baldassare.
—Per non lasciarli soli!—
E in questo pensiero si andava crucciando il nostro degno priore. Perchè? Mettete che fosse per amore del buon ordine e della serietà del convento, frutto di quella tale abitudine di sorveglianza, che fa scorgere un guaio in ogni piccola novità. Il pensare in questa guisa sarà anche un fargli cortesia, poichè egli stesso credeva di crucciarsi per quella sola ragione.
Frattanto, il sottoprefetto si disponeva a rispondergli.
—Ella ha parlato eloquentemente. Sì, mi permetta di dirlo, eloquentemente! Ma Lei mi perdonerà se io mi permetterò di soggiungere che anco Cicerone e Demostene….
—Hanno perdute delle cause; è questo che vuol dire?—interruppe il padre Anacleto.—Oh, Dio buono, lo so; come so di non esser Demostene, nè Marco Tullio. Noi, del resto, signor commendatore, le cause nostre ce le trattiamo e ce le giudichiamo da noi, e in questa, che è capitale, ci siam data ragione. Di grazia, che cosa fanno, loro del governo, a chi vive secondo le leggi? Lo lasciano stare ne' suoi panni; al più al più, glieli fanno stringere addosso qualche volta dall'agente delle tasse.—
Il sottoprefetto sorrise di mala voglia. E le parole e il tono con cui erano profferite lo seccavano ad un modo.
—E qualche volta,—replicò egli,—si fanno lecita una piccola osservazione. Noi siamo per la libertà in tutto e per tutti, ma non rinunziamo all'ufficio di dare un consiglio, quando ci sembri utile il farlo. Io, le parlerò schiettamente, sono venuto qua per due cose. Anzitutto, per vedere di persuadere Lei e i suoi colleghi dell'errore in cui vivono. Scusi, sa, ma non è bella questa loro rinunzia al civile consorzio, con tutti i danni che la società ne risente. Se non vogliono riconoscere i diritti della società, pensino, pensino a quelli dell'Italia, di questa gran madre, al cui risorgimento non sarà troppo il concorso di tutti i suoi figli.
—Questo è un argomento più serio;—rispose il priore, a cui il nome d'Italia aveva fatto rizzare la fronte e balenar gli occhi d'una luce improvvisa.—Dicono che la patria non sia una cosa sensibile e che c'entri molta poesia nella formazione di questo ideale. Io so che c'entrano i nostri amori d'infanzia, le nostre lagrime d'adolescenti, i nostri rossori e i nostri sdegni d'uomini fatti. L'Italia comprende in sè la parte più pura dei nostri interessi, che sono gli affetti e le consuetudini; l'Italia è la nostra medesima superbia di schiatta, la nostra consapevole nobiltà di sangue, forte come un'idea maturata lungamente nell'animo, vigorosa come un istinto, che non si può soffocare, nè discutere. Tristo colui che nei furori della politica, o seguendo il filo di certe sue deduzioni, dimentica questo concetto della patria, e impaziente di provar tutto, di rimutar tutto, non sa sopportare qualche piccolo guaio in famiglia, dopo aver dovuto soffrire tanta vergogna di comandi stranieri!—
La faccia del sottoprefetto di Castelnuovo risplendeva d'allegrezza.
Ma a spegnere i lumi venne subito la seconda parte del ragionamento.
—La patria dobbiamo avere in cima a tutti i nostri pensieri;—proseguiva il padre Anacleto;—per lei dobbiamo lavorare; ma per lei, quando è tempo, saperci trarre in disparte. Anche la lontananza volontaria è una forma dell'amore. E poi, siamo forse fuori d'Italia? E i bisogni suoi, quando si mostrassero tali da richiedere l'opera nostra, non ci troverebbero al posto? So stare in arcioni come un altro e mettere un cavallo a carriera. Ero a Montebello, signor commendatore, e nessuno può dirmi che io abbia dimenticato l'obbligo mio verso la patria. O che vorrebbe Lei? che, per adempiere a quest'obbligo, facessi il consigliere comunale, o l'aspirante al ministero? Ce n'è già tanti, su quella via! A buon conto, io faccio pure qualcosa. Non vede? Dò esempio di modestia a tutti i poveri di spirito della mia circoscrizione. E adesso, signor commendatore, se non le spiace, passiamo alla seconda ragione della sua visita.—
Il sottoprefetto non gradì troppo quel modo spicciativo che aveva il priore di condurre la conversazione, parlando lui come e quando voleva, per cangiare argomento quando e come gli facesse comodo. Ma poichè si era imbarcato, gli bisognava andare fino all'ultimo. E accettò di passare all'altra parte del discorso, ma promettendo in cuor suo di ricattarsi di quella leggerezza del priore, col peso delle sue osservazioni.
—Volevo appunto venirci,—diss'egli,—e stavo cercando le parole. Questa è veramente la parte più delicata, ed io avrò mestieri di tutta la sua indulgenza. Loro signori son tutti uomini, qua dentro? Voglio dire…. non ci hanno donne?—
Il padre Anacleto balzò sulla seggiola.—Ci siamo!—pensò egli, frattanto.
—Perchè mi fa questa domanda?—chiese egli poscia, guardando il sottoprefetto con aria di curiosità che voleva essere soddisfatta.
—Perchè,—rispose il sottoprefetto,—perchè corre una voce in
Castelnuovo….
—Ah, una voce! E quale, di grazia?
—Che ci sia nel convento di San Bruno una donna, anzi una ragazza, fuggita da casa sua.—
Ciò detto, il nostro personaggio ricolse il fiato. L'aveva finalmente dato fuori, quel che gli pesava sullo stomaco!
Il priore stette alcuni minuti secondi senza rispondergli. Lo guardava sempre in viso, ma non più con quell'aria di curiosità che aspetta una spiegazione, bensì di curiosità che vorrebbe indovinare gli arcani gelosi, i moti dell'animo, i fini riposti.
—Minorenne?—chiese egli, dopo quell'istante di pausa.
—E ancora sotto tutela;—rispose il sottoprefetto di Castelnuovo
Bedonia.
—Ciò è grave;—disse il priore.—E noi siamo accusati di rapimento, o di qualche altra cosa consimile; non è vero?
—No, tolga il cielo che io pensi una cosa simile, o la dia per pensata da altri;—rispose prontamente il sottoprefetto.—La signorina Adele Ruzzani, poichè questo è il nome della ragazza, è qui, sempre giusta le voci che corrono in Castelnuovo, col suo zio e tutore signor Prospero Gentili.
—Di buona voglia, adunque?—notò il priore.
—Sembra;—disse quell'altro.
—Sembra ed è, signor sottoprefetto;—ribattè il padre Anacleto, tralasciando di dare del commendatore al suo ospite, come aveva fatto fino a quel punto.—Io non ho più schiarimenti da chiederle, poichè Lei ha profferito dei nomi. C'è infatti qui, tra gli ultimi venuti, un padre Prospero, con un suo nepote, assai giovane, il cui nome corrisponde benissimo a quello della signorina Ruzzani, accennato da Lei. Mi hanno pregato di accoglierli nella nostra comunità; ed io, considerando la giovinezza del nepote, li ho accettati soltanto come novizi. Ciò significa che nessuna parola li costringe; sono padroni di andarsene quando vogliono. Desidera di vederli e di interrogarli? Si accomodi. Ma non qui, intendiamoci, non qui; al parlatorio del ponte, dove potrà farli chiamare. Perchè, lo sappia, signor sottoprefetto, nel nostro convento non è che una fortuna, la pace. Ed ogni sua domanda di veder qui, subito, i due nuovi compagni nostri, che non erano a farle corona in refettorio, potrebbe dare argomento a chiacchiere e sospetti, che io debbo in ogni modo evitare.
—No, non occorre che io li veda;—rispose il sottoprefetto appena gli venne fatto di entrare in discorso.—Ella si altera…. mi giudica male…. mentre io era venuto semplicemente per dirle come stavano le cose. Supponevo che non sapesse nulla…. che fosse stato ingannato…. E poichè la casa Ruzzani è una delle primarie di Castelnuovo e di tutto il circondario…. Oramai, non è rappresentata che dalla signorina Adele; una ragazza di molto ingegno, ma un pochettino bizzarra. Sempre rispettabile per altro, sempre rispettabile! Una cosa solamente non si riesce a capire, per qual ragione, o capriccio, la signorina si sia risoluta ad entrare così di schianto in una società d'uomini….
—Di cavalieri, signor sottoprefetto;—interruppe il priore;—di cavalieri, la prego a volerlo considerare.
—Oh, non ne dubito punto. Ma infine, Lei capirà, il mondo ha i suoi diritti. Su questa fuga della signorina Ruzzani e sulla sua entrata nel convento di San Bruno, in veste d'uomo, poichè non potrebb'essere altrimenti, si è fatto un gran chiasso a Castelnuovo e fuori; cosicchè l'autorità superiore della provincia ha già chiesto ragguagli a me, che ero bensì informato del fatto, ma non avrei voluto dar noia a Lei per tutto l'oro del mondo. Questo è lo stato delle cose. Aggiungo che non mi sono mosso a bella posta. Come ho già avuto l'onore di dirle, andavo attorno per visitare i nostri comuni di montagna, e ho fatto, come si suol dir, un viaggio e due servizi. Avrei potuto mandarle l'avviso di ciò che sapevo, ma ho preferito recarlo io stesso, per ragioni di delicatezza e di convenienza che spero vorrà riconoscere.
—Grazie,—rispose il priore, con un tono di voce da cui traspariva un filo d'ironia.—Ma, la prego, qual è lo scopo del suo cortese avvertimento? Debbo io respingere la signorina Ruzzani e il suo tutore dal convento di San Bruno, per far piacere ai signori chiacchieroni di Castelnuovo?
—Eh, non per contentar nessuno; ma per far cessare le mormorazioni, le ciarle assassine del mondo, perchè no? Intenderei che non volesse far nulla, se, nell'atto di accogliere i due novizi, avesse saputo che uno di essi era una donna; ma poichè Lei non sapeva affatto….
—Non lo sapevo,—ripigliò il priore;—sono stato ingannato tanto più facilmente, in quanto che non ho voluto farci troppa attenzione. Ma se l'avessi fatta, se mi fossi avveduto, e mi fosse piaciuto di accogliere egualmente il finto novizio, che male ci sarebbe?
—Nessuno, da parte sua. Ma poichè è detto che chi ha più prudenza ha anche l'obbligo di usarne, e perchè sarebbe stata opera di buon cavaliere avvertire quella fanciulla del passo falso che ella faceva….
—La sua osservazione sarebbe eccellente,—interruppe il priore,—se la fanciulla fosse capitata da sola. Ma io la prego a non dimenticare che è venuta in compagnia del tutore, e vive qui…. sempre in compagnia del tutore.
—Ah, una gran testa, il tutore!—scappò detto al cavaliere
Tiraquelli.
—Infatti, non brilla per averne molta;—si degnò di ammettere il priore, che pensava in quel punto alla gita del romitorio.
—Ah, vede, lo riconosce anche Lei;—gridò con accento di vittoria il sottoprefetto.—Aggiunga che sarà un gran guaio…. Parlo ad un uomo di cuore, e perciò vengo a Lei col cuore in mano. Sarà un gran guaio se la signorina Ruzzani non tornerà presto a casa sua, trovando il modo di negare questa scappatella. In verità, se rimane al convento, se lascia correre dell'altro le ciarle della gente, ella non troverà marito; ad onta de' suoi milioni non lo troverà, salvo il caso che ne esca uno di qui, dove tutti l'hanno conosciuta e possono fare testimonianza che questo capriccio, imprudentissimo sempre, non ha potuto offuscarne il buon nome.—
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia giunse con evidente compiacenza alla chiusa del periodo. E più si compiacque d'averlo rigirato con quell'arte, allorquando vide che il padre Anacleto ne era stato tocco sul vivo.
—Non abbia paura, signor sottoprefetto, non abbia paura;—gridò il priore, con impeto.—Qui nessuno pensa ad ammogliarsi. Che forse crederebbe Lei che qui si tendessero trappole alle ragazze con dote?—
Il sottoprefetto balzò in piedi con aria tra scandalizzata e mortificata.
—Lei crede proprio che io…. con le mie parole….—E qui le reticenze del signor sottoprefetto dovevano far fede di una commozione profonda.—Se Lei ci trova alcun che di offensivo, od anche di meno rispettoso per la sua comunità, la prego, faccia conto che io non abbia neanche aperto bocca.
—Sì, bene, la ringrazio;—disse il priore, che appariva grandemente confuso, e non fingeva davvero;—la ringrazio della sua… comunicazione…. Vedrò, penserò, farò cessare questa ragazzata, perchè, infatti, Lei ha ragione; un galantuomo non può permettere che una fanciulla si perda così nella stima della gente. Ha ragione, ripeto, ed io le sono gratissimo. Non mi domandi di far tutto oggi stesso; debbo studiare il modo e l'opportunità; ma infine, stia certo, rimanderemo a casa la signorina…. Come ha detto?
—Ruzzani.
—Ruzzani, bene; la signorina Ruzzani…. Adelina Ruzzani, che si fa lecite le scappatelle a San Bruno. Daniele femmina, che entra spontaneamente nella fossa dei leoni!… E perchè, poi? Capriccetti di ragazza, fatti più vivi e più strani da una testa bizzarra. Non le pare, signor commendatore?
—Ho piacere che le torni il buon umore;—disse il sottoprefetto.—In fede mia, sarei stato troppo dolente, se le mie parole, dette a buon fine, avessero potuto….
—No, non s'incomodi a cercare le scuse. La mia giustificazione è tutta nel non aver badato più che tanto a certe apparenze, ed essermi lasciato cogliere alla franchezza meravigliosa con cui zio e nepote si sono presentati quassù. Capisco che è tutto merito della signorina. Una bella commediante, glielo assicuro io; se va sul teatro, fa furore di certo. La sua giustificazione, signor commendatore, è tutta nell'onesto desiderio di far cessare uno scandalo nel circondario che così degnamente amministra. Esso non era qui, Vossignoria ne è persuasa; sta tutto nella interpetrazione che il pubblico può dare ad un fatto già così nuovo in apparenza e poco naturale per giunta. E noti, signor commendatore, il danno morale che ne deriva anco a noi. La quiete nostra, che è il primo dei beni, per cui ci siamo raccolti in questa solitudine, la quiete nostra vuole oramai che la signorina Adele Ruzzani faccia ritorno a Castelnuovo…. o vada altrove, se la residenza non le piace, che a noi non importa saperlo.—
Il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia era fuori di sè dalla contentezza.
—Mi permette che io l'abbracci?—gridò.
Il padre Anacleto lo lasciò fare. Non vedeva l'ora di levarselo dai piedi, per gittar via quella maschera che gli pesava sul volto.
—È una gran fortuna per me di aver conosciuto un uomo del suo merito tra i miei amministrati;—ripigliò il sottoprefetto.—Perchè, infatti, il convento laico di San Bruno è nella mia giurisdizione. Sono il solo, tra i capi di circondario in Italia, che possa vantarsi di possedere una simile novità.
—San Bruno ha adunque ottenuto grazia presso di Lei?—domandò il padre Anacleto.
—Che mi canzona? Dopo tutte le savie considerazioni che Ella mi ha svolto, ho sentito quasi il desiderio di piantar lì le grandezze umane e di venirmi a chiudere in San Bruno con Lei.
—Se verrà,—disse il priore, ridendo a fior di labbro,—lo faremo prefetto della nostra congregazione.—
Come Dio volle, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia se ne andò, accompagnato dai due "satelliti del potere". Si stropicciava le mani, il degno personaggio, passando il ponte dell'eremo.
—Gli auspici sono favorevoli;—diceva egli tra sè.—Il misantropo mi ha promesso di mandar via la signorina; mi ha chiamato commendatore; ha finito con offrirmi una prefettura…. Che Iddio e il ministro dell'interno lo imitino!—
Intanto Adele fra le ombrose piante….
Ma no, parliamo anzi tutto del padre Anacleto. Voi lo avete visto assai brutto, nella sua conversazione col sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, e non solamente perchè lo annoiasse quella visita del rappresentante del governo. Gli erano rimaste scolpite in mente le parole del fratello Giocondo, e le andava considerando da tutti i lati. "Per non lasciarli soli!" Ma era proprio necessario che non andassero soli a passeggiare nel bosco, mentre il bosco era rinchiuso nella cinta del convento, e a forse dugento passi da casa? Ed era proprio necessario che quella cura cavalleresca se la prendesse il padre Agapito? Egli non aveva mai osservato il padre Agapito con occhio d'artista; ma in quel momento, pensandoci su, gli pareva il più giovane e il più bello tra tutti i conventuali di San Bruno. E proprio lui ad accompagnare la signorina e lo zio, per non lasciarli soli!
Si aggiunga che il sottoprefetto, con tutte le sue chiacchiere, gli faceva perdere un tempo prezioso. Quanti altri discorsi non si sarebbero fatti in quel mezzo, e più gustosi, nel romitorio delle Querci? E lui, frattanto, il povero priore, a dirsela col sottoprefetto, per cagione di madonna! E lui a sentirsi gettar là il sospetto che un pretendente alla mano di Adele Ruzzani potesse uscir fuori dal convento laico di San Bruno! E quel pretendente di cui egli negava l'esistenza, non poteva essere il padre Agapito in persona? Questo pensiero gli aveva dato una stretta al cuore; lo aveva fatto scattare come una molla; lo aveva reso ingiusto con lei, feroce col signor Prospero, rabbioso col padre Agapito, e in fine, e sopra tutto, scontento di sè medesimo. Oh, scontento, poi, in un modo da non dirsi!
Il povero priore non lo sapeva mica, che diavolo s'avesse in corpo. Son io, che, dovendo pure dipingervi l'uomo, mi trovo costretto a lasciarvelo indovinare. Se uno in quel punto gli fosse capitato davanti e gli avesse spifferato lì chiaro e tondo quello che noi ora pensiamo di lui, altro che scattare come una molla! Scommetto che il nostro ottimo priore sarebbe saltato come saltano qualche volta le polveriere, per un tiro bene aggiustato di artiglierie nemiche, o per imprudenza di amici e custodi. Lui, per esempio, lui innamorato? lui, l'uomo della pace, il cuor morto ad ogni affetto, e l'inventore benemerito della seconda vocazione? Oh, mai!
Accompagnato il sottoprefetto fino all'ingresso del ponte (e con che gusto, immaginatelo voi), il padre Anacleto se ne ritornò verso il convento. Erano le tre del pomeriggio. Il cielo appariva sereno, di zaffiro sbiancato e asperso di una polvere d'oro, sotto la vampa del sole. Il vecchio monastero di San Bruno aveva un'aria di festa, quasi di gioventù. Spariscono le rughe dal volto, alla luce dei doppieri, in una festa da ballo. Ed anche un muro screpolato, un intonaco annerito e corroso da un centinaio d'inverni, può apparir bello, quando vi batton sopra i raggi del sole. E poi, le mura del convento di San Bruno prendevano come un aspetto di vita dalle alte finestre, coi davanzali sporgenti, donde ricadevano in fuori le mostre variopinte dei violaciocchi, delle verbene e dei garofani schiattoni; bella usanza svecchiata dagli antichi conventuali, che amavano tutti di avere il loro orto pensile, come un invito ai sorrisi del sole nelle prime ore del giorno. Il portone era spalancato, e di là dalla mezz'ombra dell'androne, si vedeva scherzare tra i colonnini del chiostro una luce più viva, forse perchè riflessa dalle mura rintonacate di fresco; e insieme con quella luce spiccavano tra i vani le tinte vermiglie dei vivaci oleandri e le gialle delle eleganti giorgine.
Il lieto spettacolo dell'ingresso non attrasse il padre Anacleto. Nel lume di quella apertura donde gli veniva tanta varietà di toni più caldi, si disegnavano a tratti e sparivano certi profili scuri come chiazze di terra d'ombra. Erano i compagni del padre Anacleto, che andavano e venivano lungo le arcate del chiostro. Per solito, intorno a quell'ora, i frati di San Bruno, a riposarsi dalle ore di studio, si raccoglievano a chiacchierare, ed erano tra loro discorsi interminabili d'arte, di filosofia e di politica. Sì, anche di politica. Questa poco piacevole materia di discorso entrava anche a San Bruno, ma di sbieco, come di rimbalzo, e senza la millesima parte di quella che i matematici direbbero la sua forza iniziale. Politica svigorita, insomma; politica passata allo staccio, e che aveva lasciato per via tutto il noioso accompagnamento delle ragioni personali. Se sapeste come si parla bene di politica, quando non se ne spera e non se ne aspetta nulla, nè di prima, nè di seconda mano! Si gode come tanti astronomi, quando cade tra loro il discorso sulle rivoluzioni di Marte, sulle malinconie di Saturno, e sugli splendori di Venere.
Al padre Anacleto parve che quei frati si muovessero con una volubilità maggiore dell'usata, o almeno con più spigliatezza, indizio di vivacità, di allegrezza maggiore, e chi più n'ha ne metta. E la cosa gli piacque; perchè, come vi ho detto, il padre Anacleto non era in uno dei suoi giorni migliori, e tutto gli dava noia.
Voltò a destra, seguendo il sentiero che rasentava le mura del convento. Ed anche colà ogni cosa rideva al sole, più che egli non avesse veduto mai; forse perchè non gli era accaduto mai di osservare tanto contrasto fra l'aspetto delle cose e lo stato dell'anima sua. Il sentiero correva in mezzo a due file di erbe umilissime, di quelle tali erbe che solo un botanico riconosce. Mettete che fossero pastinache da un lato, e romici dall'altro. Ma le pastinache avevano gli ombrellini fioriti d'un bianco così splendido, le romici avevano le foglie d'un verde così insolente, che egli non si ricordava di avere mai visto l'eguale; forse perchè non gli era accaduto di osservare tanto contrasto…. Diavolo! ripetevo una frase già detta poc'anzi. Scusate, lettori, mi fermo in tempo e non vi dico più altro.
E i calabroni, che andavano ronzando qua e là nella frappa! E le farfalle screziate d'oro, che aliavano di fiore in fiore! E le cavallette, che saltavano di cespuglio in cespuglio! E le cicale, che facevano il loro verso monotono da ogni tronco d'albero, lungo la strada! E le lucertole, che guizzavano da un sasso all'altro! E gl'insetti di cento specie diverse, che susurravano d'ogni parte il loro inno alla vita! Tutte le forme delle operosità, tutte le voci dell'esistenza, stringevano d'ogni parte il padre Anacleto, che andava…. Dove andava? Or ora lo saprete, se già non l'avete indovinato.
A mano a mano che egli s'inoltrava, la via si faceva più scabra. Il terreno scoglioso dava ospitalità ad erbe di più facile contentatura. Ma in quella stagione le erbe di primavera cedevano il campo alle erbe d'estate, e si vedevano intiere famiglie di cadaveri ritti, che un soffio di vento avrebbe abbattuti, o l'urto d'un piede mandati in frantumi. La più parte erano imbrèntini, che nel maggio avevano fatto pompa delle bianche corolle e degli stami dorati, ma che allora mostravano i calici disseccati e le foglie bruciate dal sole. Ma tutto non era vecchio, nè moribondo, colà. In mezzo a quel seccume di cespugli, le eriche spingevano in alto le loro vette verdeggianti, gremite di fiorellini; e i prunai facevano pompa dei loro frutti rossicci che solo l'autunno avrebbe maturati; e il timo vestiva a nuovo i suoi piccoli rami serpeggianti, e la vitalba stendeva d'arbusto in arbusto le sue braccia sottili. Ogni cosa mostrava di vivere; anche la morte, poichè essa metteva in mostra i germi di una vita futura. Dai calici inariditi apparivano le capsule semi aperte, coi grani pronti a balzar fuori, per dar vita a nuove generazioni di piante. E la vampa del sole incombeva su tutto, con lo sguardo tranquillo e possente dell'eterno signore, che sa di possedere e di essere amato.
Ancora una volta, mi domanderete, dove andava il priore? E qui, se non mi risolvessi a dirvelo io, sareste capaci di dirmelo voi, facendomi perdere il merito dell'annunzio. Passin passino, il padre Anacleto se ne andava al romitorio delle Querci.
Il piccolo edifizio fratesco, chiamato con questo nome, sorgeva su d'un poggio alle spalle del convento. Di lassù si allargava la prospettiva, e in mezzo a due contrafforti del monte si spiegava in lontananza una valle, nel cui fondo, ove il cielo si confondeva col piano, appariva qualche cosa di bianco, che doveva essere la piccola città di Castelnuovo Bedonia. Veduto di lassù, il capoluogo del circondario amministrato dal cavaliere Eudossio Tiraquelli non riesciva punto noioso; anzi, il serafino biondo, appena giunto sul colmo dell'erta, aveva dichiarato che quello era l'unico punto da dove si potesse contemplare con qualche apparenza di gusto il suo domicilio legale.
L'eremo prendeva il nome da un filare di querci, che incominciava a vedersi in prossimità della sua vetta. Le querci costeggiavano il sentiero sassoso che metteva a quella solitudine. Ma la più parte degli alberi era stata tagliata dai primi compratori del convento. Restavano solamente cinque o sei querci, dai tronchi bistorti, che avevano avuta la fortuna di non parer buone a nulla, e di esser lasciate in piedi sul ciglio natale, donde protendevano i loro rami sfoggiati su d'una piega laterale del colle.
La pace del luogo era fatta per rasserenare uno spirito anche più turbato di quello del padre Anacleto. Al canto delle cicale, che sembrerebbe così monotono e fastidioso in città, si avvezzava facilmente l'orecchio in quella solitudine aprica. Il saltellare delle locuste, l'aliare delle farfalle di cespuglio in cespuglio, il trapassar veloce delle libellule dal corpo sottile e dai riflessi metallici, tutto, perfino quel confuso tremolìo dell'aria, che sembrava un continuo brulicar di vapori da terra ai raggi assidui del sole, doveva rallegrare lo sguardo del viandante, o, alla più trista, fargli dimenticare per un momento le molestie della vita. Ma all'orecchio del padre Anacleto era giunto un altro rumore, che non gli consentiva di tener dietro al canto delle cicale. E il suo occhio cercava qualcheduno, di cui quel rumore indicava la vicinanza.
Avrete già inteso che quello era un rumore di voci. Esso veniva per l'appunto dalla insenatura del poggio che era protetta dall'ombra delle querci. Il padre Anacleto si avanzò guardingo, per quella propensione naturale che abbiamo tutti a cogliere qualche segreto in aria, e che in lui era accresciuta da ragioni particolari, veramente inutili a dirsi.
Si avanzò guardingo, come vi ho detto, allungò il collo tra due cespugli, e vide…. Vide tal cosa che aveva il torto grandissimo di rassomigliare maledettamente ad una scena d'idillio. Lo saprete anche voi, lettori umanissimi; non c'è cosa che dia noia come un idillio, nel quale noi stessi non abbiamo una parte, ed una parte primaria, per giunta.
Accenniamo la scena. Anzi tutto il padre Prospero, sdraiato sul tappeto, in verità non troppo soffice e non troppo verdeggiante, del prato, con la testa posata contro la sporgenza d'un sasso e col suo fazzoletto sugli occhi, per ripararsi dai raggi del sole che sforacchiavano in alto la frappa. Accanto al padre Prospero il serafino biondo, seduto con una quantità di fiori in grembo. Più lungi, accanto ad un prunaio, il padre Agapito, che stendeva le mani davanti a sè, per cogliere certi ramoscelli fioriti e recarli al serafino biondo.
—Date qua,—diceva il monachino,—e non ne cogliete più altri. Vorreste per caso seppellirmi sotto i fiori? Ce n'ho già per tre ghirlande, non che per una.—
Il padre Agapito si era affrettato ad obbedire, e portava al serafino biondo due bei rami sarmentosi di fiammola. Se nol sapete, la fiammola è la più vaga e la più odorosa delle nostre clematiti. Nasce spontanea ne' boschi e ricinge con le sue braccia flessuose i tronchi degli alberi, s'intreccia coi prunai, serpeggia, s'innalza e ricade graziosamente, facendo pompa di bei fiorellini bianchi e stellati, dal cui mezzo si rizzano gli stami filiformi a pennacchio.
Di que' sottili ramicelli il serafino biondo aveva intrecciata una ghirlanda, e, cedendo ad un moto di vanità infantile, se n'era cinto le tempia. Pareva uno di quei leggiadri fraticelli incoronati, che occorrono così frequenti nelle tavole dipinte del Quattrocento, così piene di poesia e di sentimento religioso.
—Che ragazzate!—esclamò il priore stizzito.
Perdonate questo sfogo di malumore al padre Anacleto. Egli aveva veduto il padre Agapito piantarsi davanti al serafino, e rimaner là estatico, in adorazione, come un domenicano, o un francescano qualunque, al cospetto della Madonna, in una di quelle tavole che vi ho accennate poc'anzi.
Gli era venuta la voglia di balzar fuori dal suo nascondiglio. Ma il pensiero di capitar là come un guastafeste lo trattenne. Era un pensiero pieno di amarezza, che egli non conosceva ancora, o che forse aveva dimenticato da un pezzo. Il povero padre Anacleto stette alquanto sopra di sè, come studiando quel nuovo sentimento del suo cuore; indi scosse sdegnosamente la testa e si allontanò dal suo osservatorio. Lentamente da prima, per non farsi sentire; indi a precipizio, per la via che metteva al convento.
Tratto tratto si fermava lì sui due piedi, senza che ne apparisse il perchè; rotava gli occhi, si mordeva le labbra, crollava la testa, quindi ripigliava l'aìre. Ahi, padre Anacleto! Quanto mutato da quel degno priore d'una volta, che viveva contento a San Bruno, nella placida rinunzia e nel benevolo disprezzo dell'universo mondo! Era lui che aveva inventata la frase. E su lui la natura, eterna prepotente, vendicava l'umanità conculcata.
Niente gli andava a versi, in quel punto; nè il sole, che lo coglieva di sbieco, obbligandolo a torcer gli occhi; nè lo stridìo delle cicale, di cui si accorgeva la prima volta in quel giorno; nè lo svolazzare degli insetti, mosconi e libellule, che venivano a far le capate contro le sue guance imperlate di sudore, o farfalloni e vanesse, che gli facevano davanti agli occhi la loro danza capricciosa. Un bel ramarro verde si soleggiava sul colmo d'uno scoglio, e lo guardava con due occhietti lucidi come rubini. Sapete che il ramarro è l'amico dell'uomo. Io forse un giorno vi racconterò la storia della mia amicizia con due ramarri; amicizia che costò loro la vita. Ma per non allontanarmi dal ramarro del padre Anacleto, vi dirò che il saurio innocente se ne stava lassù, guatando il passeggero e ansando con le fauci semiaperte. Parve al priore di essere canzonato da quella graziosa bestiuola? Od era forse più vero che in quel momento non volesse veder nessuno, nè uomo, nè bestia? Fatto sta che il priore si chinò, raccolse un sasso da terra e lo levò in alto per castigare l'insolente. Per fortuna, il ramarro vide quel braccio in aria, e guizzò via come folgore. Del resto, anche il padre Anacleto, pentito di quel moto di collera irragionevole, lasciava ricadere la pietra.
—Diavolo!—borbottò egli, riprendendo la sua via.—Bisogna farla finita; se no, si perde la pace.—
Tornò al convento, senza fare altre fermate, o monologhi. I suoi frati erano quasi tutti sotto il portico, e in attesa del pranzo stavano ragionando di politica. Vi ho già detto che quell'argomento non era sbandito da San Bruno. Si può parlar di politica senza guastarsi il sangue, quando non c'entrano le ragioni personali, nè di prima, nè di seconda mano; in quella stessa guisa che si può toccare impunemente una vipera, o un serpente a sonagli, se a questi interessantissimi ofidii siano stati strappati prima i denti del veleno. Resta sempre la necessità di toccarli con precauzione, per cansare le strette. E così la politica, anche come discorso accademico, vuol essere trattata coi guanti.
Per quell'onesto riguardo che tutti usavano al padre Anacleto, gli si domandò il suo parere su d'un punto controverso. Ma il priore, che in ogni altra circostanza avrebbe trovato il modo di contentare le due parti, trovando il buono, o almeno la buona intenzione da per tutto, per quella volta si allontanò dal suo metodo e ne disse di tutti i colori. Niente andava più bene in Italia. Si era in un ronco. O saltava il ministero, o si sarebbe andati incontro a grossi guai.
—Priore, o che l'avete fatto anche al sottoprefetto, questo discorso?—chiese facetamente il padre Tranquillo.
—Gliel'avrei fatto sicuro, se avesse chiesta la mia opinione;—rispose il padre Anacleto.—Egli è venuto invece a parlarmi di tutt'altro. Sapete di che?
—Sentiamo;—dissero tutti, raccogliendosi intorno al priore.
—Dei due novizi che abbiamo accettati a San Bruno.—
Così disse il priore, e si pentì subito di aver cominciato. Ma i due novizi erano stati meno fortunati del ramarro. Il sasso era gettato e non si tirava più indietro col desiderio.
—Oh diamine!—esclamò il padre Atanasio.—E come c'entra il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia?
—C'entra…. c'entra,—balbettò il priore, che oramai doveva dir tutto,—perchè il padre Prospero è un vecchio tutore di Castelnuovo.
—Un nobile ufficio quello di tutore!—disse il padre Tranquillo.—E forse il nostro novizio ha dilapidate le sostanze del pupillo?
—Magari lo avesse fatto, che non ci avremmo a veder nulla noi altri!—scappò detto al priore.
—Che ha fatto dunque di male?—gridò il padre Bonaventura.
—Avete incominciato; dovete dirci ogni cosa;—soggiunse il padre
Restituto.
—Ha condotto il suo pupillo tra noi;—rispose con voce sepolcrale il priore.
—Ah! il padrino Adelindo?—esclamarono tutti.
—Che non è un padrino;—ripigliò il padre Anacleto.—Il pupillo, signori miei, è…. una pupilla.
—Grande scoperta!—gridò il padre Restituto.—Lo avevamo detto, noi altri, e voi non volevate crederlo.—
La faccia del priore si rabbruscò, a quell'escita del padre Restituto, capo dell'opposizione in capitolo.
—Adagio, Biagio!—osservò il padre Tranquillo, prendendo le difese del superiore.—Il nostro degno priore, se ben ricordo le sue parole, non ha già detto di non volerlo credere. Ha detto che, quando pure il monachino fosse stato… una monachina, non c'era da far nulla, e che la nostra cavalleria doveva far le viste di non accorgersi della cosa.
—E forse ho avuto torto;—soggiunse gravemente il priore.—Eravamo allora nel dubbio; oggi abbiamo la certezza. Il padrino Adelindo non è altro che Adele Ruzzani, una ragazza di Castelnuovo, pupilla del signor Prospero Gentili, suo zio materno, e fortunata erede d'un vistoso patrimonio. Un capriccio di testolina bizzarra l'ha condotta qui, nel convento dei matti…. come dicono cortesemente laggiù! Il tutore è uno sciocco. Almeno, la sua condiscendenza al disegno stravagante della nepote ce lo fa avere per tale.
—Quel caro padre Prospero!—notò pietosamente il padre Anselmo.
—E noi—proseguì il priore, senza por mente all'interruzione—siamo qui in un bivio curioso; o di perdere la nostra cara tranquillità monastica, ritenendo una donna tra noi, o di mostrarci ridicoli, fingendo di non saperlo. Che ve ne pare?
—Non vedo il ridicolo;—disse il padre Restituto.
—Come? Voi, per l'appunto, che gridavate più di tutti?
—Mi son convertito alle vostre ragioni;—rispose il padre Restituto, con un candore che sapeva d'ironia.—Del resto, amico priore, se voi mettete a' voti le due corna del dilemma, ci troverete in maggioranza pel ridicolo. Scusate, è un gusto come un altro, e chi si contenta gode. Il padrino Adelindo, poichè io sto sempre per chiamarlo così, è un ottimo ragazzo. È la luce e l'allegria del convento. Quando non c'è lui, par d'essere al buio. Infatti, signori,—conchiuse il padre Restituto, levando la voce e stendendo la mano,—ecco un raggio di sole.—
Proprio in quel punto, appariva dall'androne il serafino biondo, seguito dal padre Prospero e dal padre Agapito.
Quest'ultimo aveva una cera non troppo contenta. Forse gli dispiaceva che la passeggiata fosse finita; forse aveva avuto qualche piccola contrarietà. Più allegro era il padre Prospero, che si toglieva finalmente dal sole, e si avvicinava per giunta al refettorio. Quella mattina il cuoco gli aveva promesso un desinare di suo gusto, con una certa replica d'agnellotti, che gli erano maledettamente piaciuti il giorno prima, e il padre Prospero, mandando a quel paese i consigli del medico, si abbandonava tutto alla voluttà di una pregustazione, che era già per la sua incipiente polisarcia un prezioso alleato.
Precedendo di qualche passo i compagni, il padrino Adelindo entrava nel chiostro. Il viso, incoronato da quella bionda zazzerina che sapete, si mostrava tutto di un incarnatino tenero, pari al colore delle rose bengalesi, che trasparisce da una velatura di bianco. E gli occhi! Che dirvi degli occhi? Si capiva, vedendoli, anche il riso di Beatrice, che ha esercitata la pazienza di tanti commentatori della Divina Commedia. Ricorderete, o lettori, che Beatrice rideva con gli occhi.
Accenno un fatto nuovo, che s'intenderà di leggieri, quando si pensi che per la prima volta si vedeva il monachino biondo senza più dubitare del vero esser suo.
—Come mai si è potuta fidare di venir qua in veste d'uomo?—chiedevano gli astanti in cuor loro.
E la tacita domanda era naturale in tutta la comunità di San Bruno. Coloro che avevano creduto un uomo il biondo novizio, dovevano riconoscere di aver avute le traveggole; tutti gli altri potevano maravigliarsi che i loro compagni le avessero avute. E negli uni e negli altri era l'obbligo oramai di riconoscere la donna, anche facendo le viste di durar nell'inganno.
Gl'inchini al biondo serafino furono molti; i complimenti per il suo aspetto fiorente si alternarono con le premurose domande intorno alla sua passeggiata. Poco mancò che taluni non gli offrissero il braccio, per condurlo in refettorio. Arcano potere di due begli occhi!
—Bisogna finirla;—borbottava il priore, rimasto alquanto in disparte,—bisogna finirla!—
Il serafino biondo si accostò a lui col suo leggiadro sorriso. Al giocondo lume dei due smeraldi, onde Amore gli aveva scoccate le sue armi (permettete che io vi significhi la cosa con una immagine dantesca), il povero priore si sentì rimescolare il sangue nelle vene. E facendo forza a sè medesimo, e cercando di dare alla sua faccia una espressione più severa del solito, così disse al serafino biondo:
—Non avete più la vostra ghirlanda di fiammole?
—Ah!—esclamò il serafino.—Eravate lassù? Ma perchè non venirci a trovare?—
Il padre Anacleto non credette opportuno di rispondere.
—Del resto, avete fatto bene;—soggiunse il serafino.—Si parlava tanto di voi!
—Di me?—chiese il priore, inarcando le ciglia.—E che cosa si è potuto dire di me?
—Non male, sicuramente. Anzi ho pensato ad un certo punto che dovessero fischiarvi gli orecchi. Si parlava, tra l'altre cose, della gran noia che vi dava quel sottoprefetto con la sua lunga fermata.—
Così dicendo, il serafino fissava gli occhi addosso al priore, come se volesse leggergli in faccia il segreto di quella visita.
—Ah, sì;—disse il padre Anacleto;—quel sottoprefetto è un cert'uomo!…
—Che cosa voleva da voi? È lecito saperlo?
—Ve lo dirò più tardi, padrino Adelindo. Ho bisogno per l'appunto di parlare con voi e con vostro zio, e mi farete la grazia di passare dopo pranzo da me.
—No, no, niente grazia, con mio zio!—rispose il serafino.—Preferisco farla da solo. Andrò verso il giardino, e voi mi accompagnerete. Va bene così?—
Il priore Anacleto rimase un po' sconcertato da quell'aria di padronanza. Ma poi si strinse nelle spalle e chinò la testa in atto di dire:—sia fatta la vostra volontà.—
Il pranzo durò troppo per due persone, le quali avevano tante cose da dirsi. Cioè, mi spiego, l'una aveva da dirle e l'altra da sentirle; ma voi vorrete concedermi che quest'altra non si sarebbe contentata di stare a sentire e avrebbe detto anche del suo. Ora il padre Anacleto era tanto curioso di sapere che cosa gli avrebbe risposto il padrino, vedendosi scoperto, come il padrino era curioso di sapere che cosa gli avrebbe detto il priore, e con che tono, e con quali propositi.
Come Dio volle, si levarono tutti da tavola, e il padrino, uscito dei primi dal refettorio, andò a chiudersi nella sua cella. Voleva egli cansare i soliti accompagnatori, o più specialmente lo zio? Quest'ultimo, anche a volerlo per forza come terzo nella conversazione, non si sarebbe potuto ottenerlo. Aveva lavorato troppo e sentiva il bisogno di riposare un pochino; perciò era andato a finire in libreria, su quella tale poltrona, e il sonno aveva stese le ali sul suo capo innocente. Il padre Agapito, il padre Restituto, ed altri suoi cortigiani, che si erano accompagnati subito a lui, sperando di veder tornare il biondo nepote, dovettero assistere all'assopimento dello zio. Quando ritornarono all'aperto, videro il priore che si allontanava dall'altra parte del chiostro, col serafino a fianco. Il priore aveva incominciato un discorso di qualche importanza, e si fermava ad ogni tratto, come un uomo che vuol calcare sulle parole; il serafino andava o restava, secondo i movimenti del suo interlocutore, e dava segno di molta attenzione, chinando spesso la testa, in atto di assentimento. C'erano insomma tutti i caratteri d'un dialogo, che non voleva essere interrotto da compagni importuni.
—Amici,—disse il padre Restituto a tutti gli altri che erano rimasti come lui con un pugno di mosche,—non vorrei che il priore degnissimo, dopo che ha riconosciuta la donna, ne prendesse una cotta.
—Eh via!—esclamò il padre Marcellino, che passava di là per andare alla sua cella, e si era fermato, vedendo quel crocchio d'osservatori.—Vorreste voi che proprio il fondatore dell'ordine venisse meno alla sua stessa dottrina?
—Oh, non sarebbe il primo;—osservò il padre Ilarione.—C'è pure stato il Creatore, che si pentì d'aver fatto l'uomo.
—In verità,—soggiunse il padre Costanzo,—sarebbe grazioso che l'esempio della prevaricazione ci venisse da lui!
—Dal Creatore?—domandò argutamente il padre Marcellino.
—No, dico dal padre Anacleto, dall'inventore della seconda vocazione.
—Che, forse lo gradireste, l'esempio?—
La bottata era di quelle da levare il pelo; ma il padre Costanzo finse di non intendere.
—L'esempio! l'esempio!—borbottò egli.—È sempre una brutta cosa, l'esempio.
—Quando è brutto, sicuro. Ma chi vi dice, o signori, che il padre Anacleto voglia dare un brutto esempio alla comunità di San Bruno? È il priore che discorre con uno dei suoi frati, ed io non ci vedo altro.
—Dopo quello che si sa?—chiese il padre Restituto.—Dopo quello che ci ha detto egli stesso, prima di andare in refettorio?
—Eh, potrebbe darsi appunto che parlasse al biondo novizio di quella tal rivelazione che gli è stata fatta quest'oggi.
—Il fratello Marcellino ha ragione;—entrò a dire il padre Agapito, che era stato silenzioso fino allora.—Scommetto che il priore ne fa una delle sue.
—Che cosa?—gridarono ad una voce il padre Restituto, il padre
Costanzo e il padre Ilarione.
—Sta persuadendo il padrino Adelindo ad andarsene via del convento.
—Oh, questo, poi!
—Vedrete che è così per l'appunto. Il nostro priore è lo spirito dell'opposizione. Quando glielo dicevamo noi, non voleva crederlo, non voleva far nulla. E adesso che noi ci siamo acquetati…. Perchè noi ci siamo acquetati;-soggiunse il padre Agapito.—Voi stesso, fratello Restituto, glielo avete detto chiaro e tondo: ammettiamo anche il ridicolo. Il padrino Adelindo è un buon ragazzo; non dà molestia a nessuno; domanda soltanto di poter vivere con noi, in questa pacifica comunità. Anche lui, forse, avrà i suoi piccoli dispiaceri; vorrà anche lui dimenticare le noie del mondo; perchè vorremmo impedirglielo?
—Sicuramente!—gridò il padre Ilarione, sostenuto dall'approvazione dei colleghi.—Perchè vorremmo impedirglielo? Non sarebbe carità la nostra.
—E il priore avrebbe doppiamente torto a mandarlo via, senza consultare i suoi compagni;—aggiunse il padre Restituto.—Siamo tutti eguali qua dentro, e il suo priorato non è che una carica….
—D'ordine meramente amministrativo;—gridò il padre Costanzo.—Egli non può mettere la sua volontà, il suo capriccio, in luogo e vece della volontà di tutti.
—Si è sempre fatto ogni cosa d'accordo, non lo nego;—osservò il padre Marcellino.—Ma qui, forse, il caso è diverso. Le opinioni espresse l'altro giorno in capitolo potrebbero averlo persuaso a prendere una risoluzione da sè.
—No, niente risoluzione. Ogni cosa ha da farsi in capitolo.
—Bene, chiedetegli di convocare il capitolo, e fate la vostra domanda: vogliamo il padrino Adelindo; o Adelindo, o morte!—disse il padre Marcellino, ridendo.
—Andiamo, voi la mandate in burletta;—osservò il padre Costanzo, facendo il viso brusco.
—Noi non si dice che resti il padrino ad ogni costo;—aggiunse il padre Restituto.—Si dice soltanto, e si sosterrà, che ci vogliono certi riguardi.
—È questo, sì, è proprio questo!—gridarono ad una voce il padre
Costanzo e il padre Ilarione.
Ma il padre Agapito, che quel giorno era il meno parolaio di tutti, diede sulla voce ai colleghi.
—Noi chiacchieriamo,—diss'egli,—e il priore decide.
—O che vorreste fare?—domandò il padre Marcellino.
—Andar laggiù, a disturbare il colloquio.
—Bravo! E non pensate ch'egli potrà dirvi….
—Che cosa potrà dirci? Sentiamo.
—Quello che gli direste voi, se foste ne' suoi panni, ed egli nei vostri.—"Padre Agapito, di grazia, un po' di pazienza; fra mezz'ora siamo da voi."
—È vero;—notò il padre Agapito, arrendendosi all'evidenza dell'argomento;—non si potrebbe mandar via un uomo più cortesemente di così. Ma vediamo se non c'è di meglio. Mi viene un'idea.
—Quale?—gridarono tutti.
—Mandare laggiù un tale a cui non si possa dire: "scusate, fra mezz'ora siamo da voi." Il padre Prospero, per esempio! Lo destiamo, lo armiamo in guerra e lo avventiamo come un brulotto nei fianchi del nemico.—
L'idea piacque, anzi fece furore tra gli astanti. S'intende che il padre Marcellino va messo in disparte; anzi, vi aggiungo che se ne andò pei fatti suoi, dopo aver salutata quella mattìa dei colleghi con un benevolo sorriso.
I tre congiurati rientrarono in chiesa. Il padre Prospero, fortunato lui, russava beatamente nella sua fida poltrona. Ed essi a fargli intorno un chiasso indiavolato, saltando, gridando, sventolandogli i fazzoletti sul viso. Ma il padre Prospero resisteva virilmente all'assalto. Lo presero allora per le mani, che teneva incrociate sul ventre, e gli gridarono all'orecchio un visibilio di sciocchezze.
—Fratello Prospero, svegliatevi; brucia il convento.
—Chi dorme non piglia pesci.
—Chi veglia alla luna e dorme al sole, non acquista roba, nè onore.—
Il padre Prospero finalmente si scosse.
—Amici,—disse egli, aprendo gli occhi e richiudendoli subito,—ego dormio, sed cor meum vigilat.
—Ah sì, un bel vegliare che fa!
—Sicuro, fa il chilo;—rispose padre Prospero, tentando di rimettersi a dormire.
—Come? che avete detto? In voi, l'incaricato di questa delicatissima operazione sarebbe il cuore? O che fa intanto lo stomaco?
—Non ne so nulla, io; si tratta di affari interni, nei quali io non entro. Ci pensi chi deve. E voi lasciatemi dormire in pace.
—Bravo! Mentre la vostra bella nepote sta ascoltando la sua sentenza!—
Quelle parole ebbero la virtù di farlo saltare sulla poltrona.
—Che sentenza?—gridò.—Che sapete voi della mia nepote?
—Sappiamo, fratello Prospero,—disse il padre Restituto,—sappiamo quello che ci ha detto il priore, dopo il suo colloquio col sottoprefetto di Castelnuovo. Non vi confondete per così poco, e veniamo all'essenziale. Ora il priore è andato in giardino, col padrino Adelindo…. Mi capite? La visita del sottoprefetto e le sue rivelazioni stanno per avere un effetto.
—Ah!—disse il padre Prospero, come un uomo che avesse capito, od anche come un uomo che sbadigliasse.
E ricadde sulla poltrona, assai più disposto a riprender sonno, che a proseguire la conversazione.
—Come?—gridò il padre Restituto.—Non vi commovete?
—E perchè dovrei commuovermi, per un discorso del priore al… mio nepote? Il priore è una degnissima persona, che non vorrà mica dirgli una impertinenza.
—Sì, ma se egli frattanto gli dicesse pulitamente di andar via?
—Me ne andrei; il… mio nepote se ne andrebbe; noi due ce n'andremmo.
—Con questa flemma?
—Eh, proprio con questa. O che volete? Che si resti in paradiso a dispetto dei santi?
—Ma qui non ci siete, a dispetto di nessuno;—replicò il padre
Restituto.—Qui tutti vi amano.
—Siete il più prezioso tra gli amici;—soggiunse il padre Costanzo.
—Un vero fratello per tutti noi;—ribadì il padre Ilarione.
—Il più simpatico tra gli uomini;—rincalzò il padre Agapito.
—Grazie, grazie!—esclamò il padre Prospero ridendo.—Dite anche il più amabile tra gli zii. Che vi pare?—soggiunse, mostrando di accettare allegramente la sua condizione e di non voler sembrare troppo ridicolo.—Uno zio come me non si trova mica tutti i giorni. Forse un po' debole, che si è lasciato menare per il naso, e come zio, e come tutore. Ma che farci? Avrei voluto veder voi nei miei panni. L'ho tenuta a battesimo, quella cara fanciulla. Piccina così, mi capite? Non c'era che quella, in casa, e per lei non c'ero che io. Figuratevi che, quando vedeva me, non volesse stare neanche più con la balia, e vi farete un'idea del bene che ho dovuto volergli. Cara figliuola! E che testolina, buon Dio, che testolina! Perchè, signori miei, non è solamente la sua bellezza che fa senso….
—È un angelo!—mormorò il padre Agapito.
—…. Ma anche la sua dottrina;—proseguì il padre Prospero.
—Oh, per questo, è un san Tommaso redivivo;—interruppe il padre
Costanzo.
—Di che san Tommaso parlate?—chiese il padre Restituto.
—Di quello d'Aquino, per bacco!
—Ah! credevo di quello del dito. Infatti, la sua venuta quassù, che agli sciocchi potrebbe parere audacia, a me sembra amore di verità, sete di cognizioni….
—Oh, dite benissimo, sete di cognizioni:—ripigliò il padre Prospero.—Figuratevi che un giorno voleva andare al polo Artico. Se la sarebbe cavata, la sete, in quelle latitudini! E poi, voleva andare all'Equatore, per dissetarsi alle sorgenti del Nilo. Ed io che dovevo seguirla! Sarei guarito della polisarcia; non vi pare? Fortunatamente per le mie povere gambe, la malinconia gli è girata verso il convento dei matti…. Oh, scusate! Ripeto quel che si dice comunemente a Castelnuovo. Sebbene, tutto sommato…. via! siamo giusti…. un fil di pazzia ce lo avete. Dev'essere l'aria di San Bruno. Tanto è vero, che questo filo mi sembra di avercelo anch'io.—
Una schietta risata accolse l'ingenua confessione del padre Prospero.
—Dunque, dicevamo,—proseguì lo zio del padrino Adelindo,—eccoci qui tutt'e due. Voi non m'avete in conto di così sciocco, che non dovessi vedere il pericolo della nostra venuta.
—Un pericolo!—gridò il padre Restituto.—E quale?
—Ma sì, il pericolo di passare agli occhi del mondo per teste leggiere. Oramai, il male è fatto, e il giudizio è stato dato, poichè a Castelnuovo si chiacchiera alle nostre spese. Ma io me ne impipo, scusate il vocabolo. E se la mia signora nepote vorrà darmi retta, non ritorneremo a Castelnuovo.
—Ah, bravo!—gridarono tutti in coro.
—Grazie!—rispose il padre Prospero, inchinandosi.—Non ritorneremo laggiù; ce ne andremo a Torino, a Milano, a Venezia, a Vienna, a Parigi…. tutti paesi che hanno una eccellente cucina. Io sono eclettico, in materia di cucina. Mi basta che sia eccellente.—
L'allegria dei tre ascoltatori era prontamente svanita.
—Andarvene! Piantarci qui!—esclamò il padre Restituto.—Ma è possibile, fratello Prospero, che vi prenda una simile malinconia? E perchè, poi? Perchè al sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia è venuto in mente di portare quassù i pettegolezzi del suo capoluogo! Ma io per l'appunto vorrei star qui, in barba a tutti i sottoprefetti e a tutti i capiluoghi del mondo. Il priore parlerà come il sottoprefetto? Si sa;—notò ironicamente l'oratore;—le autorità si sostengono sempre tra loro. Ma noi, se occorre, abbatteremo le autorità.
—No, non vi scomodate;—rispose tranquillamente il padre
Prospero.—Vorreste fare di me un pomo di discordia. A qual pro?
Tanto, per essere offerto a Venere, sarei troppo peso.—
L'arguzia non fu molto gustata dal padre Restituto, che, secondo le parole del padre Prospero, avrebbe dovuto far le veci di Paride.
—Ho capito;—diss'egli, crollando malinconicamente la testa.—Siete voi, proprio voi, che volete lasciarci, ed ogni pretesto vi accomoda.
—Scusate, caro amico;—rispose il padre Prospero, che quel giorno prendeva ardimento dalle scoperte de' suoi interlocutori;—io non voglio nascondervi nulla. L'idea di partire non è mia; voi stessi vedete che tutta questa crise è venuta dalla visita del sottoprefetto. Ma è certo che questa crise mi fa comodo; oh sì, mi fa comodo. Ancora l'altro dì, io lo dicevo alla mia nepote: che pesci si pigliano? Non ti basta questo mesetto di noviziato? vuoi proprio aspettar la tonsura?
—Confessione preziosa!—gridò il padre Costanzo.—Eravate proprio voi, il tentatore.
—Ma almeno non vorrete lasciarci qui su due piedi;—entrò a dire il padre Ilarione.—Siate umano, fratello Prospero!
—Stiamo a vedere che sarò un barbaro, se vorrò togliermi da questa condizione curiosa!
—Curiosa fin che volete. Ma sono veramente i punti curiosi che piacciono nella vita, come piacciono in teatro.
—Dite bene, in teatro. Ci siamo, in teatro. E ci siamo venuti in maschera. Vedete, padre Ilarione? Io non ho mai respirato così bene come ora, che la maschera ci è caduta dal viso e che non c'è più bisogno di cambiar tono di voce.
—Avete fatto una mascherata graziosissima;—osservò il padre Restituto.—Dovreste continuarla per qualche settimana ancora. Via, mettiamo per qualche giorno, se le settimane vi spiacciono. Del resto, non eravate voi soli, in maschera. E noi, che cosa siamo, se non laici in maschera di frati?
—Che gusto ci abbiate, non so;—disse il padre Prospero;—ma credo, col proverbio, che ogni bel giuoco debba durar poco.
—Baie!—ribattè il padre Agapito.—Lasciate che duri quanto può.
D'altra parte, il termine non vi risguarda. Voi dovete obbedire.
—E a chi se è lecito?
—Alla vostra nepote, che vorrà rimanere.
—Rimanere! Che ne sapete voi, padre Agapito?
—Eh, mi riferisco alle sue stesse parole. Ancora questa mattina, al romitorio delle Querci, voi presente in carne ed ossa, se non per avventura in ispirito, ella diceva: sono tanto felice di trovarmi qui! La pace è una gran cosa, e non capisco come tanta gente a questo mondo si faccia in quattro per avere la guerra, come non capisco che si vada in capo al mondo per ammirare un effetto di sole, o di luna, che si ha sotto la mano, in casa propria.—
Il padre Prospero fece un sorrisetto, da cui traspariva tutto il suo amor proprio di zio.
—Cara fanciulla!—diss'egli, come parlando a sè stesso.—E non me le voleva mica far buone, a me, queste ragioni, quando le era saltato il ticchio di andare al polo Artico, o all'Equatore!
—Ella è contenta di star qui;—incalzò il padre Agapito.—E proprio ora, voi vorreste condurla via, perchè le riprendesse il capriccio dell'Equatore?
—State zitto! Non ci mancherebbe altro. Ma come volete che restiamo, se il priore ci scaccia?
—A questo ci penseremo noi. Egli, in una memorabile seduta del nostro capitolo, voleva tenere il padrino. Perchè oggi muta d'avviso? Gliene faremo questione.
—Ma….—ribattè il padre Prospero, che, tant'è, non se la sentiva di morire a San Bruno,—se le mie informazioni sono esatte, eravate voi che non volevate il padrino in convento. Perchè oggi mutate d'avviso? Io ve ne faccio questione.
—Fratello Prospero, volete saperlo? Volete proprio saperlo?—disse allora il padre Agapito.
—Sì, perbacco; quantunque mi sembri d'averlo già indovinato, il vostro segreto, ho una gran voglia di vedere come farete a spifferarmelo in tre.
—V'ingannate, se credete che ciò sia difficile. È un segreto che ve lo potremmo dire anche in sedici, quanti siamo a San Bruno. Infatti,—soggiunse il padre Agapito, col sorriso dello schermitore che è giunto in tempo ad una parata difficile,—non si tratta del nostro segreto, ma di quello del padre Anacleto. Il nostro degno priore non voleva saperne di congedare il padrino, fino a tanto si sentiva il cuore tranquillo. E non lo avrebbe voluto neanche adesso, se non gli fosse venuto il sospetto che qualcheduno mirava a vogargli sul remo. Ora, fratello Prospero, badate bene a ciò che ho l'onore di dirvi. Tutto dipende da questo colloquio che voi non volete andare ad interrompere. Se il priore si accorge di poter essere il preferito (la qual cosa è possibilissima, poichè con le donne non c'è da fidarsi mai), egli non dirà nulla, nel senso desiderato dal sottoprefetto di Castelnuovo. E voi, fratello Prospero, voi rimarrete qui, se non fino alla consumazione dei secoli, almeno almeno fino a quella dei capricci gentili della vostra bella nepote.
—Ah, per…. esempio, questa passerebbe ogni misura;—gridò il padre Prospero, niente rallegrato da quella prospettiva.—Capisco anch'io che sarà meglio andare un pochettino laggiù.—
E balzato in piedi, uscì con passo risoluto dalla biblioteca.
—Ce n'è voluto, per farlo muovere!—esclamò il padre Agapito.
—Lo spediente m'è parso arrischiato;—osservò il padre Restituto.—Si potrebbe anche ritorcere contro di noi.
—Ho bruciate le navi;—disse il padre Agapito, stendendo le palme e allungando il collo in atto di rassegnazione.—Tanto, badate a me, il padrino Adelindo non rimane più a San Bruno. Il priore non lo metterà alla porta; può darsi. Ma gli offrirà il braccio per condurlo fuori.
—È un vostro sospetto?—domandò il padre Restituto.
—Sì, per ciò che risguarda il priore. Ma ho qualche ragione per credere che il padrino si lascerà fare la corte. E voi sapete che quando una donna è disposta a lasciarsi fare la corte da un uomo, quell'uomo, se non è uno sciocco, se ne avvede; e quando quell'uomo se ne avvede…. Ma che cos'è? Ritorna il padre Prospero?—
Infatti, il padre Prospero ricompariva sull'uscio della biblioteca. Era andato con molta buona volontà verso il giardino. Restare a San Bruno gli piaceva poco. La cucina, veramente, si era migliorata, non senza merito del priore, che aveva interpretati i gusti gastronomici del suo preziosissimo ospite. Ma la bontà della cucina era troppo poco, messa a riscontro con la mancanza d'ogni svago. Il padre Prospero era un uomo amante del quieto vivere, non già della solitudine, fatta solamente per le anime che sanno bastare a sè medesime. E quel pericolo, poi!… Ma in fondo in fondo, era davvero un pericolo? Neanche il sottoprefetto di Castelnuovo, col suo Francavilla in pectore, aveva potuto dir male del padre Anacleto. Non era ricchissimo, da stare a petto con la sua nepote; ma a questo ci avrebbe dovuto pensar lei. Infine, se si volevano bene…. Se si volevano bene e se lo confessavano, era da credere che il priorato del padre Anacleto fosse per finire, e la vita claustrale con esso.
Questa luminosa conclusione fece sì che il padre Prospero, scambio di tirare innanzi verso il giardino, dèsse una pronta voltata e ritornasse in biblioteca.
—Come? Che vuol dir ciò? Perchè non siete andato?—chiesero, l'uno dopo l'altro, i suoi compagni importuni.
—Signori, ho pensato meglio. Quel che farà il priore sarà ben fatto; e quel che piacerà alla mia nepote piacerà anche a me. Ho detto, e me ne vado a dormire. Almeno…. se potrò riprender sonno, dopo le vostre interruzioni.—
E il padre Prospero fece proprio così come aveva detto. Andò a sdraiarsi nella sua poltrona, e non volle più sentir altro.
Il lettore che è giunto fin qua, con una pazienza e con una cortesia di cui debbo rendergli grazie, vorrà sapere che discorsi facessero insieme il padre Anacleto, priore di San Bruno, e il monachino Adelindo. Li ha visti fermarsi, andare di costa, fermarsi da capo, sempre in atto di persone infervorate nella conversazione, e certamente s'immagina che dovessero parlare di cose molto gravi.
Ma per allora non c'era nulla di questo. Anzi, debbo confessare che quel modo di andare e di gesticolare non era altro che una trovata dei due personaggi, a cui dispiaceva di essere seguitati. Era una specie di quel giuoco che si fa tra due amici per via, quando si vuol cansare l'intromissione d'un terzo; del terzo incomodo, come è stato battezzato dall'uso.
Il guaio si fu che quella mimica, con cui dovevano tener lontani i compagni, fece ridere il padrino e ridere di consenso il priore. Per un dialogo serio, si cominciava bene, come vedete! Ma già, solo a vederlo, quel grazioso monachino, passava la voglia dei discorsi uggiosi, e veniva quella, dirò così, di mangiarselo, come si mangia un marzapane.
Ridendo a quel modo, giunsero presso un sedile di pietra, a cui faceva ombra una pianta d'alloro. Il serafino biondo si fermò sui due piedi.
—Che cosa sono queste gravi cose che avete a dirmi, signor priore? Sedete là, come si conviene alla dignità dell'ufficio, mentre io starò in piedi davanti a voi, da quel povero novizio che sono.—
Le parole erano di celia, ma non dissimulavano abbastanza una certa inquietudine nervosa, che si era impadronita del monachino.
—Ma no;—proseguì egli, senza dar tempo al priore di aprir bocca,—ditemi prima di tutto perchè non siete venuto da noi, lassù al romitorio delle Querci.
—Son io che fo la parte del novizio, e il priore siete voi, padrino Adelindo;—osservò il padre Anacleto.—Ma è vero altresì,—soggiunse egli a mezza voce, quasi parlasse a sè stesso,—che ho fatto una cosa da novizio.
—Ah!—esclamò il padrino, che aveva udita la frase.—Dunque volete confessare?
—Ecco qua;—disse il priore, non senza un pochino di confusione.—Liberatomi dalla compagnia del sottoprefetto, desideravo sapere dove foste, per dar notizia a voi e al vostro zio di ciò che era avvenuto. Fratel Giocondo mi disse che eravate alle Querci. Venni lassù e sentii le vostre voci. Stavo per avvicinarmi, quando mi accorsi che era con voi il padre Agapito. E ciò non mi andava.
—Perchè?
—Me lo domandate? Per il discorso che dovevo farvi, il padre Agapito mi riesciva d'inciampo.—
Non era ciò che s'aspettava il serafino biondo. Pure, gli bisognò contentarsene.
—Ma dunque è assai grave ciò che vi ha raccontato il sottoprefetto?—chiese egli, tanto per dir qualche cosa.
—Sì, giudicatene voi. È venuto, con lo scopo apparente di conoscermi, e con l'altro, reale e non saputo dissimulare, d'intrattenermi su certi ospiti di San Bruno.—
Così dicendo, il padre Anacleto fissava gli occhi in volto al monachino, per vedere che effetto gli facesse l'esordio. Ma il monachino se ne stava là ritto, davanti al priore, con gli occhi e il naso in aria, e il labbro inferiore un pochettino sporgente, col proposito evidentissimo di secondare la mossa degli occhi e del naso. E quando io vi dico così asciuttamente gli occhi e il naso, credete pure, o lettori, che io faccio forza al mio naturale ed anche un pochettino alla giustizia. Due epiteti, via, ci vorrebbero, e per quegli occhi e per quel naso. In quanto alla bocca, poi, giuro per le labbra di san Giovanni Grisostomo, che ce ne vorrebbero tre.
—Per esempio,—continuò il padre Anacleto, vedendo che il monachino biondo non si commoveva punto della sua entrata in materia,—egli mi ha detto che il padre Prospero Gentili è un signore di Castelnuovo Bedonia, uomo per bene e molto rispettato in città.
—Oh, grazie tante della sua degnazione!—esclamò il monachino, che subito riprese la sua aria di me la rido.
—E m'ha aggiunto,—proseguì il padre Anacleto,—che il signor
Prospero è zio e tutore d'un fior di ragazza, la signorina Adele
Ruzzani.—
Una vampa di rossore tinse il volto del serafino biondo; ma non ci fu altro segno di commozione in lui, che restò fermo nel suo atteggiamento statuario.
—Mia sorella;—diss'egli, guardando in aria.
—Ah!—esclamò il priore.—Vostra…. sorella? E avete avuto il coraggio di lasciarla sola?
—Oh, non c'è bisogno di farle la guardia;—ribattè il serafino, senza muovere la testa, ma lasciando cadere dall'alto un'occhiata tra curiosa e canzonatoria al padre Anacleto;—ed ella si difenderà abbastanza bene da sè. Sarà vana, sarà sciocca; alcuni, anzi, pretendono che sia un po' matta….
—Eh, mi pare che, con tante belle qualità, la non ci abbia a star male;—osservò sarcasticamente il padre Anacleto.
Ma il monachino fu pronto alla parata, e ribattè il colpo del padre Anacleto, prima che questi potesse avvedersi d'esser giunto alla misura.
—Badate, signor priore;—disse il monachino;—io non ammetto nulla di ciò che pretendono gli altri, e voi farete ottima cosa, sopra tutto cavalleresca, a tenere da me. Volevo dire soltanto che, anco ammettendo ciò che agli altri, amici e nemici, piace di farla parere, Adele Ruzzani è una buona figliuola. In questo, almeno, signor priore, non eravate già della mia opinione?
—Dirò volentieri di sì, quantunque io non conosca vostra sorella. Ma questo non è strettamente necessario, se posso giudicarla da voi. Rispondetemi ora, e non istate con gli occhi rivolti alle nuvole, ve ne prego. Dimenticate per un momento la patria;—soggiunse il priore, con una sottile galanteria che fece sorridere il serafino, nell'atto che chinava gli occhi d'un punto.—Come va che voi siete qui a San Bruno? la vostra sorella, così buona, vi ha lasciato partire da casa? da quella casa che è tanto cara e fida ai giovani pari vostri? E voi perchè separarvi da lei, per venirvi a chiudere in una società di malinconici come la nostra? Quali afflizioni sono state le vostre?
—Vedo l'aria di trionfo con cui mi fate la vostra domanda;—notò il serafino.—Già, io, così giovane come sono, non posso, non debbo aver dispiaceri. Perciò, non mi riescirà di rispondere; balbetterò, mi confonderò, e voi, nella vostra autorità priorale, compatirete il mio stato. Disingannatevi, signor priore; so dire la mia ragione. Da bambino, m'hanno avvezzato a fare tutto ciò che volevo. È un difetto, lo capisco; ma io non me ne lagno. Sappiate intanto che su questo difetto io ci ho innestata una piccola qualità: la schiettezza. Dico sempre quello che penso, io.
—Ecco una bella digressione;—osservò il padre Anacleto.—Come pittura del vostro carattere, la gradisco moltissimo; come lezione a me, non so di averla meritata.
—Scontroso priore! Nè pittura, nè lezione;—replicò il serafino;—è stata una dichiarazione preliminare. Dopo di che, vengo subito a dirvi le mie afflizioni. Esse si confondono con quelle di mia sorella; i suoi dispiaceri sono per l'appunto i miei. Ammettete questo ravvicinamento di personaggi, e il resto va da sè.
—Ammetto anche la consustanzialità;—disse il padre
Anacleto.—Proseguite.
—Mia sorella, per questa medesima consustanzialità che voi avete trovata così opportunamente,—osservò il monachino biondo,—la pensa in ogni cosa come la penso io. Giovanissima, le pare di esser vissuta già molto; quello spirito di libero esame, che ha sempre recato in ogni particolarità della vita, le tien luogo d'esperienza e l'aiuta a vedere i tranelli ond'è seminata la strada. Non è bruttissima; almeno, quel che le manca in bellezza, lo possiede in ricchezza. E perciò molti si sono fatti avanti a chiedere la sua mano, e in famiglia s'era parlato di maritarla….
—Ah!—scappò detto al priore.
—Vi dispiace?—chiese il serafino, fermandosi a mezzo.
—Dispiace a voi, deve dispiacere anche a me;—disse il padre Anacleto, correggendosi in tempo.—Non mi dite voi forse che tutti quei vagheggini e pretendenti non erano degni di lei?
—In verità, non ho detto questo.
—Ma si sottintende, e sta come se fosse detto. Se così non fosse, perchè vi dorrebbe di certi corteggiamenti interessati?
—È vero;—rispose il monachino.—Diciamo dunque, non già che i partiti fossero indegni di lei, ma semplicemente che le spiacevano, come continuano a spiacerle. Tra gli altri quell'ultimo che le è stato proposto, con modi abbastanza incalzanti e in circostanze tali, che l'hanno mortalmente seccata.
—E messa in fuga da Castelnuovo, non è vero?—chiese argutamente il priore.
Ma il serafino biondo non raccolse la celia.
—Avrà torto, può darsi;—diss'egli continuando;—voglio anche ammettere che il sapersi ricca l'abbia anche un pochino guastata. Non già col farla insuperbire, intendiamoci! La ricchezza non fa girar la testa che agli sciocchi. La gente che ragiona non desidera la ricchezza per altro, fuorchè per procacciarsi tutte le possibili soddisfazioni intellettuali e morali. Mia sorella, invece, l'amerebbe per la soddisfazione del viaggiare, del veder sempre nuovo paese e nuovo orizzonte. Ma è donna, la poverina. Non la vedete voi, la noia dell'esser donna, in una società così mal combinata come la nostra? Dicono che sia la migliore delle esistenti, e bisogna rassegnarsi. Ma non senza qualche atto di protesta, ve l'assicuro. Ah, benedetti gli uomini! Voi, per esempio, voi, signor priore, lo avete potuto colorire, il vostro disegno. La società vi tornava molesta, e vi siete appartato dalla società. Una donna non può. La sua ricchezza e la sua libertà, quando possiede l'una cosa e l'altra, non le servono a nulla; debbono essere confiscate a benefizio di un altro, che sta per giungere, che sarà Tizio, sarà Caio, e che ella dovrà scegliere fra i cinque o sei più importuni, mentre forse le sarebbe piaciuto assai più di aspettare dal caso la conoscenza di Sempronio.
—Sempronio!—ripetè il priore, con accento malinconico che colpì il serafino biondo.
—Che c'è, signor priore?—domandò questi, fermandosi ad un tratto.—Vi dà forse noia, questo nome…. antico?
—No, anzi! Continuate.—
E sospirava, così dicendo, il povero padre Anacleto.
—Tizio e Caio, nel caso di mia sorella,—notò il monachino, proseguendo il discorso,—rappresentano il tornaconto, l'egoismo, la caccia alla dote, la volgarità mascolina, tanto più ributtante quanto più lavora a nascondersi sotto le apparenze d'un amore profondo, nato lì per lì come i funghi, e cresciuto gigante nello spazio di una settimana. Sempronio, invece, il povero Sempronio sarebbe la sincerità, l'amor vero, che nasce anche lui lì per lì….
—Come indovinare che è l'amor vero, se nasce lì per lì, come l'altro?—interruppe il padre Anacleto.
—C'è della gente che lo conosce, come si conoscono i funghi mangerecci dai velenosi;—rispose il monachino, ridendo.—A buon conto, i velenosi risplendono di più; mettono in mostra i più vivi colori. Vogliono sedurre, i bugiardi! Quegli altri, invece, sono più modesti, più umili, più timidi; si direbbe anzi che amino nascondersi, confondersi con le foglie secche ond'è coperto il terreno.
—Anche questo è un giuoco facile a imparare;—osservò il padre
Anacleto,—e guai al povero cercatore, o alla povera cercatrice, se
Tizio e Caio si mettono in testa di parergli Sempronio.—
Il monachino tentennò la testa, in atto d'incredulità.
—No, non ci riescono;—diss'egli.—L'esperienza in causa propria vien presto; e Tizio e Caio, per dissimulare che facciano, si tradiscono sempre in qualche nonnulla. Sempronio, quando c'è, s'indovina. Almeno, tale è la mia opinione.
—Indovinarlo, quando c'è, non dico di no;—ribattè il padre
Anacleto.—Ma badate, padrino Adelindo, è assai difficile trovarlo.
—Sono con voi. Mia sorella, difatti, non lo ha trovato. Inchini, genuflessioni, occhiate, sospiri, spasimi, n'ha avuti a bizzeffe; ma era tutta merce di Tizio e Caio.
—Povera sorella!—esclamò il padre Anacleto.—Intendo la sua tristezza. E l'ultimo dei Tizi, o dei Caj, com'è andato a finire?
—L'ultimo? Stava appunto per cominciare. E comincierà da senno, se mia sorella ritorna a Castelnuovo. Voi ora intenderete perchè mi dispiacerebbe di vederla andare laggiù. Col mondo inframmettente che vuol dire la sua in ogni cosa, coi parenti che non amano le zitelle in casa, con tutte le ciarle noiose, con tutti i sarcasmi che opprimono una povera ragazza, voi capirete, signor priore, che un giorno o l'altro bisogna prendere una risoluzione. Ed è doloroso il prenderla, quando si sa anticipatamente che sarà una risoluzione cattiva.
—Già,—disse il padre Anacleto,—quando la ragazza aspetta…. d'incontrare Sempronio. Vuol dire che il cuore di vostra sorella non ha ancora parlato?—
La domanda era ardita, e il serafino biondo stette un pochino perplesso.
—No, ch'io sappia;—diss'egli.—Se pure, più tardi, dopo la mia partenza da Castelnuovo….
—Ah! credete possibile che dopo la vostra partenza si sia trovato un…. Sempronio? Sarebbe un peccato!—disse il padre Anacleto, al cui pensiero si raffigurò in quel mentre l'immagine del padre Agapito, che raccoglieva tralci di fiammole, sotto il romitorio delle Querci.—Auguro a vostra sorella di non concedere così ciecamente il suo cuore. Gli uomini valgono così poco!—
Il serafino socchiuse gli occhi e diede al padre Anacleto una sbirciatina, donde trapelava il suo umor gaio e malizioso.
—Signor priore,—diss'egli poscia, con quel suo misto di timidezza e di confidenza che gli tornava così bene al viso,—siete forse venuto a San Bruno per ira contra gli uomini? Io, veramente, credevo che fosse per un altro genere di malinconia.
—Fratello mio,—disse il priore,—c'è stato un po' di tutto.
—Raccontate!
—A che servirebbe?
—Non badate a ciò; raccontate, ve ne prego, raccontate.—
E così dicendo, il serafino biondo, con atto di curiosità infantile, andava a sedersi accanto al padre Anacleto.
—Non v'aspettate un racconto come il secondo libro dell'Eneide;—rispose il priore, sorridendo.—Io mi sbrigherò in pochi versi, perchè la mia storia è molto comune. Ho creduto di amare….
—E vi hanno tradito?—chiese il serafino, interrompendo.—Ma qui c'è da farne due, di libri.
—No, v'ingannate. Se m'aveste lasciato finire! Ho creduto di amare…. e non era vero.—
Il serafino stette alquanto sopra di sè, meditando la frase del padre
Anacleto; quindi, con un'aria di sommo candore, rispose:
—M'hanno detto che tutti gli uomini siano usi a parlare così.
—Davvero? E chi ve lo ha detto, padrino Adelindo?—chiese il priore, rizzando il capo e guardando in faccia il serafino.—Sarebbe questo, per avventura, un frutto dell'esperienza…. di vostra sorella?
—Ecco, voi andate in collera;—notò il serafino, arrossendo.—Vi ho proprio toccato sul vivo. Senza volerlo, badate, senza volerlo.
—Non vado in collera, e voi non m'avete toccato sul vivo;—replicò il padre Anacleto.—Mi avete chiesto una confessione, ed io ve l'ho fatta sinceramente. Ma già, dovevo capire che certe cose vanno tenute per sè.
—No, anzi, dite ogni cosa. E non era vero, avete detto. Come vi siete accorto che non era vero? E se vi siete accorto che non era vero, perchè mai, riconosciuto l'errore, siete venuto a chiudervi in questa solitudine?
—Padrino, padrino, voi siete un gran curiosaccio!—disse il priore, cansando di rispondere.—Ho conosciuto nella mia giovinezza un uomo insigne, grande per l'ingegno, e tuttavia bambino per la cara ingenuità de' suoi modi. Perchè la tal cosa? perchè la tal altra? Era questa la sua forma consueta di dialogo. Gli dicevate: bella giornata, quest'oggi! E lui subito a domandarvi: perchè mi dici questo? Ma…. perchè mi pare una bella giornata; e non c'è altra ragione che questa. No, rispondeva lui, ce ne dev'essere un'altra; tu non puoi dire che è una bella giornata, senza averci una ragione più intima. E via di questo passo, il mio illustre amico ci aveva la manìa degli interrogatorii; per modo che io lo nominai di mia autorità presidente perpetuo di tutte le commissioni d'inchiesta del felicissimo regno d'Italia.
—Dev'essere stato un gran simpaticone, quel vostro amico!—osservò il serafino.—Egli aveva la manìa del sapere; perciò merita tutta la mia stima. E a lui, signor priore, rispondevate come ora a me, continuando a schermirvi?
—Pazzerello!—esclamò il padre Anacleto, volgendo un'occhiata amorevole al serafino, e reprimendo in pari tempo un sospiro.—Bisognerà contentarvi ad ogni costo. Sappiate dunque che io non mi sono accorto fin d'allora che non era vero. Anzi, ho sofferto molto, da principio. Credevo di non doverne guarire mai più. L'amore…. Ma scusate, padrino; questi non sono discorsi da farsi a voi.
—Perchè?
—Perchè siete giovane, molto giovane, e non siete passato ancora per queste trafile. Stando qui, poi, non dovrete passarci.
—Ah!—gridò il serafino.—Resterò dunque?—
Il padre Anacleto si scosse, come uomo che d'improvviso si sveglia.
—Scusate;—diss'egli;—non pensavo ora a questa necessità…. dolorosa. Voi uscirete, padrino Adelindo. Perchè, infatti, che cosa rimarreste a far voi, nell'eremo di San Bruno, in questa solitudine di giovani vecchi, in queste tenebre anticipate, mentre tutto risplende intorno a voi, mentre tutte le voci del creato vi salutano e vi richiamano alla vita?
—E mentre tutto mi scaccia di qui, incominciando da voi, non è così?—chiese il serafino.
Il priore stette un istante perplesso.
—No, non è proprio così. Io non vi scaccio; è la forza delle cose che vi consiglia a ritornare nel mondo.
—Per trovarci le afflizioni di cui mi parlavate poc'anzi?
—No, voi non le troverete;—rispose il padre Anacleto.—Se sarete buona, se sarete sincera…. Vedete, signorina, vi chiamo come bisogna chiamarvi, perchè questo incognito non può essere conservato più a lungo. Vedete, signorina, ciò che nuoce un pochino a voi donne è il vostro desiderio di piacere. Scusabile vanità, non lo nego, ma che porta le sue conseguenze spiacevoli. Gli uomini vi considerano schiave e vi proclamano regine. Vi lasciate lodare, ossequiare, incensare, e voi siete le vittime di questa lode, di questo ossequio, di questo incenso continuo. Così avviene che, mentre cento uomini si contentano di un ricambio superficiale d'affetto, che essi medesimi hanno voluto così, e v'ingannano allegramente, ce n'è uno che si trova ingannato e ne soffre, poichè il vostro carattere s'è fatto leggero, e voi non avete potuto dare a quell'uno ciò ch'egli chiedeva da voi, la sincerità, la fede, quello spirito di perfetta rinunzia della vostra volontà, dei vostri capricci, senza cui non è amor vero e durevole. Siate schietta, come siete bella; non vi compiacete nelle piccole vittorie dell'amor proprio, nei piccoli trionfi della vanità, ed aspettate. L'uomo degno di voi, quel Sempronio che dicevate poc'anzi, non tarderà a giungere, e voi lo amerete com'egli vi amerà; nè egli nè voi avrete forse mestieri di dirvelo. Qui, nella solitudine di San Bruno, un povero priore pregherà per voi e sarà lieto di sapervi felice.—
Il serafino biondo era stato ad udire con molto raccoglimento la predica. Ma, come il padre Anacleto ebbe finito, egli saltò su e rispose, con accento commosso:
—Venite fuori! Il mondo vi chiama, non lo sentite voi forse, signor priore? Le cicale hanno finito di stridere; i grilli non hanno ancora incominciato. Ma le voci del mondo suonano per voi, come suoneranno per me. Che fate voi della vostra gioventù, voi che date consigli? Non avete amato davvero…. Sono le vostre parole, ed io non vi credo un bugiardo. Venite fuori, dunque, e non istate ad intristire in quest'eremo!
—Serafino! serafino!—esclamò il padre Anacleto.—Non vi ho ancora detto ogni cosa. La vita, per l'uomo, non si compone tutta d'amore. È nell'indole nostra, pur troppo, che essa sia più complessa; in noi è una varietà di uffici, che non è fortunatamente in voi. Sappiate adunque che ci sono molte altre cose, le quali m'hanno fatto prendere in uggia il civile consorzio. Non lo credete? Eppure è così. Quando si è veduta l'invidia al posto dell'emulazione, l'egoismo al posto della fratellanza….—
Il serafino interruppe alle prime quella triste rassegna con una crollata di spalle.
—Tornate all'altro motivo, ve ne prego;—soggiunse.—Questo, che accennate, val poco; anzi non val nulla affatto. Quante volte, nella vostra vita, avete trovato…. che non era vero?—
Il padre Anacleto rimase un istante perplesso. Ma gli occhi scrutatori del monachino gli erano addosso. Perciò, fatta una pronta risoluzione, rispose:
—Parecchie volte; mettete anche cinque.
—Ah, meglio così;—disse il monachino, dopo aver fatta anche lui la sua piccola controscena.—Se m'aveste detto una volta sola, m'avreste fatto paura.
—Paura! perchè?
—Perchè? me lo domandate il perchè? Avevo creduto che non me lo domandereste;—rispose il monachino, con aria tra corrucciata e confusa.
Il padre Anacleto non vide lì per lì che il corruccio.
—Se v'ho offeso, perdonate;—diss'egli.—Io sono un pochettino ignorante. Vivo così fuori del mondo, che certe delicatezze mi riescono difficili oramai. Se dovessi intendere per un certo verso…. se mi apponessi al vero…. qualcheduno che so io mi salterebbe agli occhi.
—Qualcheduno! Chi?
—Il padre Agapito, per esempio.
—Ah, ecco il…. sospettoso;—esclamò il padrino, con una sospensione, che accennava alla voglia di usare un altro epiteto.—Siete sospettoso voi?
—Ferocemente?—disse il padre Anacleto, intendendo di rispondere all'epiteto che non era venuto fuori.—Ed eccovi per l'appunto una ragione per star qui, lontano dal mondo e dalle sue tentazioni. Sospettoso e fantastico, cioè nato per essere infelice. Non vi pare che io faccia bene a ritirarmi in disparte?
—Eh!—rispose il monachino, con un sorrisetto più malizioso che mai;—mi pare che siate in certe materie un po'….—
E s'interruppe aspettando, che l'altro gli ripigliasse la frase. Il padre Anacleto obbedì a quel tacito invito.
—Vile, volevate dire? Sì, ditemi pure che sono un vile. Sfuggo almeno al ridicolo. Non getto alle turbe il segreto delle mie debolezze. Mi chiudo in questa solitudine della mente e del cuore. Ho l'apparenza della felicità, e conquisto la pace.
—Una pace di tomba; gran bella cosa!—esclamò il serafino,—E credete di fare il vostro dovere? Anzi, dirò di più, credete di non esser debitore di nulla al mondo, per poter farne impunemente ciò che fate? Signor priore, lasciate che una donna, una fanciulla, si attenti di darvi una lezione; direte poi se ho torto, ed io m'inchinerò al vostro giudizio. Voi, ammaestrato dall'esperienza, m'istruirete nei misteri della vita, nelle guerre ch'io non conosco, nelle viltà, più o meno sapienti, che io aborro istintivamente, e davanti alle quali ho chiusi gli occhi finora. Son donna, e non posso e non devo vedere ogni cosa. Ma posso dirvi, indovinando…. Lo sapete pure, i più famosi indovini erano donne.
—Siete sul tripode, mia bella pitonessa; parlate;—rispose il padre
Anacleto.
—Benissimo. Io dunque vi dico che, se la vita è una guerra, bisogna saperla accettare com'è. Il soldato che si ritira davanti al pericolo, non è un soldato. Qualunque siano le sue ragioni, fossero anche quelle di Achille, il ritirarsi sotto la tenda non è stato e non sarà mai bello. Sapete voi perchè siete nato? E se non lo sapete, perchè vi mettete a vivere come se non foste nato, sottraendo una forza al concerto di forze di cui ha mestieri la natura?… Ho letto i miei libri anch'io, come vedete;—disse il serafino, ridendo.—Non ho esperienza mia; metto a profitto quella degli altri. Sentite qua, priore; Iddio si è pure scomodato a dare i suoi comandamenti all'uomo!…
—Dieci! Ed io non fo contro a nessuno dei dieci.
—Ma all'undicesimo? Qui vi voglio. C'è l'undicesimo, che li riassume tutti; o, per dire più esattamente, i dieci, che conoscete voi, ne suppongono un undicesimo ed ultimo.
—Ah sì? E qual è, di grazia, questo undicesimo?
—Eccolo qua. Non so se lo esprimo bene; ma voi mi correggerete, mettendolo in bella forma, e lo farete incidere nelle tavole della legge. Starai nel consorzio de' tuoi simili; vivrai della loro medesima vita; amerai e soffrirai con essi, perchè non ti è dato sottrarti alla legge comune.
—Egregiamente!—esclamò con ironico accento il padre Anacleto.—Ma la pena? Non c'è legge che valga, senza la sua sanzione penale. Spero che non mi vorrete già minacciare le pene dell'altra vita!
—Anche quelle, se occorre;—rispose il serafino.—Ma c'è una pena anche in questa, non dubitate.
—E quale?
—Pensateci, padre Anacleto, pensateci! E frattanto, ritorniamo al vostro ordine. Debbo restare, o partire?—
Il padre Anacleto guardò come trasognato quel biondo monachino che lo aveva messo con le spalle al muro. Voleva fargli la lezione, e per contro l'aveva ricevuta. E come se ciò non bastasse, quel malizioso padrino, dopo averlo così ridotto, gli diceva con piglio quasi beffardo: a voi, ricordate il perchè m'avete fatto venire a questo colloquio; debbo restare, o partire?
Partire! Era presto detto. Quella era stata anzi la prima idea del priore. Ma che diamine gli saltava in testa, al monachino, di richiamare il padre Anacleto all'adempimento di un dovere, proprio nel punto ch'egli se n'era scordato? Restare, poi! Come si sarebbe potuto dirgli di restare, dopo le rivelazioni del sottoprefetto di Castelnuovo, e la notizia che ne avevano avuta tutti i conventuali di San Bruno? E quella pena nella vita presente! Che cosa era quella pena? E perchè doveva pensarci lui, per indovinarla? Non era meglio andare per la più breve e dirgliela di volo?
Turbato da tutti quei dubbi, il padre Anacleto balzò in piedi e si diede a passeggiare lungo il viale. A passi concitati, si capisce; e rotando gli occhi, e mordendosi le labbra. Questo di mordersi le labbra, di rotar gli occhi e di fare le volte del leone, è un modo come un altro, per cercare un'idea: ma debbo soggiungere, per amore di sincerità, che esso non è sempre di effetto sicuro.
Una fiera battaglia si combatteva nell'anima del padre Anacleto. I tempi trascorsi gli ripassarono tutti dinanzi, mutandosi e rimutandosi senza posa, come le immagini bizzarre di un caleidoscopio. Vide i giorni in cui aveva amato e sofferto, ringraziato il cielo e bestemmiato…. Sì, anche bestemmiato, perchè l'uomo non è un angelo, e le sue ire hanno sempre mestieri d'uno sfogo volgarmente feroce. Aveva egli amato mai veramente? Poc'anzi, rispondendo al serafino, aveva detto di no, e creduto di rispondere il vero. Ma infine, poco o molto che fosse, aveva amato; diciamo pure che aveva amato secondo l'età, con più leggerezza, per vanità di carattere e per ardore di sensi; ma, ad ogni modo, aveva amato e si era trovato nel caso di soffrire così profondamente, come se quell'amore fosse il più grande, il più solenne di tutta la sua vita. Ma in quel punto, e facendo senza volerlo un esame di coscienza, il padre Anacleto notava di non essersi mai trovato così oppresso da due pensieri ad un tempo; anzi tutto dalla vergogna di confessarsi debole ad una donna che non gli aveva lasciato intender nulla del proprio cuore e poteva ridere saporitamente di lui; inoltre, dal voto della comunità di San Bruno, che, se pure non faceva di lui un frate, non impegnava meno la sua fede di gentiluomo. E poi, quelle ombre moleste de' suoi compagni, che s'erano invaghiti del serafino! e quella ghirlanda di fiammole, passate dalle mani del padre Agapito a quella testina bionda che gli aveva fatto perdere il senno! Dio! Non possedere ancora la certezza di essere amato ed essere già così ferocemente sospettoso! Ma che sospettoso d'Egitto? Là, nel segreto della sua coscienza, queste ipocrisie non avevano corso. Geloso, bisognava dire; ferocemente, diabolicamente geloso.
Il padre Anacleto apparteneva a quella classe d'uomini nei quali predomina la fantasia, e che perciò soffrono il doppio degli altri. La mente si finge terrori e sospetti nuovi, e li ripercuote sul cuore. Uomini siffatti hanno paura di non essere amati, anche nei casi in cui ogni altro figlio d'Adamo si crederebbe già d'essere il re del creato. Dico il re del creato, perchè, infatti, l'uomo che si sente amato, o ne ha l'illusione, va sempre col pensiero a questo apogèo della felicità, che è l'impero del mondo. Non così i fantastici, dei quali vi ho detto; essi dubitano sempre, e di tutto. Forse vedono meglio degli altri; perchè, andiamo in fondo, qual è la creatura di cui sia certo l'affetto, anche quando ve lo ha dimostrato? Non siamo noi esseri mutabili, secondo le varie impressioni? E non è possibile che una donna già mezzo vostra, anzi vostra del tutto, si cangi in un punto? Sono capricci indefinibili, quelli che muovono il cuore, come sono quantità imponderabili quelle che danno il crollo alla bilancia. Più delicato è il congegno, più è soggetto alle influenze esteriori.
Del resto, mettete pure che il padre Anacleto non pensasse nulla di tutto ciò che son venuto esponendo. Egli andava su e giù, non pensando affatto; faceva come l'ubbriaco, che cerca un filo e non lo trova, o che, vedendone parecchi, tra le idee confuse che gli si affacciano alla mente, non ne afferra nessuno. Una volta si fermò davanti al serafino, come se volesse dirgli qualche cosa; poi si volse di schianto e proseguì la sua via. Si pentì subito subito, e tornò indietro; si fermò da capo, e la parola gli tremava sulle labbra. "Vi amo!" voleva dirgli. Ma no; era una frase volgare. E poi, l'avesse anche detta, che cosa si sarebbe sentito rispondere? Se il monachino biondo gli avesse riso in faccia? Perciò non disse nulla; si contentò di guardare il serafino nel bianco degli occhi. E il serafino lo guardava a sua volta con una fermezza quasi beffarda, come se volesse dirgli: oh, se non incominci tu, bel priore, non parlo io di sicuro!
Finalmente, poichè tutto ha un fine quaggiù, anche i contrasti di un'anima innamorata, il padre Anacleto prese una risoluzione. Era forse la peggio; ma compatitelo, egli non era padrone di scegliere.
—Avete ragione;—diss'egli;—partirete.
—Ah!—esclamò il serafino.
Il padre Anacleto si pentì subito di averla detta; ma non era più tempo. Del resto, quella esclamazione del serafino non significava rammarico; era una esclamazione breve, senza espressione, senza colore; si poteva anche interpretarla per un grido di allegrezza.
—Partirete domani, se così vi piace;—soggiunse il padre
Anacleto.—Dopo tutto, meglio così. E ditemi…. Dove andrete?
—A Castelnuovo;—rispose il serafino, chinando la testa.
Potrei aggiungere che chinava la testa per nascondere il suo rossore. Ma, in verità, se lo dicessi, non potrei sostenerlo. La cosa non sarebbe neanche stata necessaria a quell'ora. Le ombre della notte calavano sul giardino del convento. I grilli incominciavano a cantare da tutti i punti della vallata. E il povero padre Anacleto sentiva una gran voglia di mandarli a quel paese.
—Ma, di grazia, ora che siamo fuori, si potrebbe sapere perchè si va via, così di schianto, senza dire neanche buon giorno?
—Non mi dir nulla, zio! Si va via….
—Dopo essere venuti, lo capisco, era il meglio che si potesse fare.
—Ah, sì, ho fatto male a venirci. Se ti avessi obbedito!
—Tarda confessione, ma preziosa. Te la ricorderò per le altre occasioni. Il polo artico! L'equatore!… Sai, non ci vengo, al polo; e all'equatore, nemmeno.
—No, non dubitare, non si andrà più in nessun luogo. Son divenuta una donna di casa. Da oggi in poi si rimarrà chiusi a Castelnuovo.
—Ecco un'altra esagerazione. Per un viaggetto in paesi cristiani, non ho mai detto di no. E se ora si dèsse una corsa a Torino, a Milano, a Venezia….
—No, voglio restare a Castelnuovo. Che cosa ci manca, laggiù? Tu ci hai tutte le tue abitudini; io le mie, i libri, i fiori, i pennelli. Sai, zio? la vita può esser bella anche così. Credo anzi che sia bella solamente così. Uno scrittore ha detto che la più bella cosa del mondo è la luce; poi vien subito il verde.
—Sarà un matto.
—No, sai! Voleva dire che il massimo dei piaceri è quello degli occhi. Vedere è sapere.
—Passi per la luce. Ma il verde! Che c'entra il verde, in seconda linea, se è già incluso fra i sette colori del prisma?
—È vero; ma lo scrittore, parlando del verde, intendeva lo spettacolo della campagna.
—Ha bisogno di troppi commenti, il tuo scrittore. E, se Dio vuole, non sarà Dante. Ma parliamo d'altro. Andare a Castelnuovo! Non ti sembra un errore?
—Già siamo in cammino, e, dovunque tu volessi andare, ti bisognerebbe sempre toccar l'uscio di casa.
—Lo capisco, ma si può andare a casa per fuggire da capo, oggi stesso o domani. Senti, ragazza mia, le ciarle di Castelnuovo mi spaventano. Tra noi e gl'importuni ci vorrei mettere un mese, almeno una quindicina di giorni, di cui si potesse dire dove li abbiamo passati. Intanto, nel nostro soggiorno temporaneo, si vedrebbe, si concerterebbe….
—No, non me ne parlare; non voglio.
—Non voglio, è una grama ragione.
—E poi, per viaggiare, fa troppo caldo.
—Oh, eccone una, che è molto seria, in verità! Come se qui presso, e con la tonaca del convento, si fosse stati al fresco!—
Questo dialogo, e il rimanente che si ommette per brevità, occorreva tra il signor Prospero Gentili e la sua bionda nepote, Adele Ruzzani, all'alba, nella discesa tra il ponte di San Bruno e la vallata sottostante, dove i nostri due personaggi erano aspettati per salire in carrozza.
Erano usciti dal convento alle cinque del mattino. L'ordine di far venire la carrozza laggiù era stato dato dal padre Anacleto la sera antecedente, subito dopo il colloquio in giardino. Era necessario provvedere in tempo, perchè lassù le carrozze non potevan giungere, non avendo gli antichi frati pensato mai a condurre una strada carrozzabile fino alla vetta del monte.
Come dovessero accogliere la notizia di quella partenza i frati nuovi, lascio argomentare a voi. Essi non si erano avveduti, non avevano sospettato di nulla in quella sera, perchè il padre Anacleto avea fatto il suo colpo alla chetichella, da quell'uomo savio e prudente che era. Povero padre Anacleto! La sua prudenza e la sua saviezza non lo avevano mica salvato dalle interne burrasche. In quella notte che era l'ultima del soggiorno di quel monachino biondo al convento, il padre Anacleto aveva passato ore d'inferno. La pena dei trasgressori dell'undecimo comandamento, che il monachino biondo non gli aveva voluto dire, lasciandogli la cura d'indovinarla da sè, egli già incominciava a scontarla. E ne sentì più acerbo lo strazio nell'anima, quando, allo scoccar delle cinque del mattino, gli venne udito un rumore di passi nel corridoio; indizio certo di una aspettata partenza.
Pochi minuti dopo le cinque, erano venuti a battere all'uscio della sua cella. Era andato ad aprire e il fratello Giocondo gli aveva recata una carta di visita, triste saluto degli ospiti che erano partiti pur dianzi. La carta diceva per l'appunto così:
e la sua nepote Adele Ruzzani, ringraziano il padre Anacleto, priore di San Bruno, della cortese ospitalità ad essi accordata. Ne serberanno grata memoria e rivedranno assai volentieri l'amico, in Castelnuovo Bedonia (palazzo Ruzzani, via S. Michele, N. 8) se egli vorrà ricordarsi de' suoi riconoscenti novizi ed amici.
Il nome del signor Prospero, come potete immaginare, era stampato; il resto era fatto a penna, e con una leggiadra mano di scritto, che non doveva esser quella del signor Prospero.
—Ah serafino! serafino!—esclamò il padre Anacleto, sospirando, poi ch'ebbe letto due volte.
Non era più il caso di aspettare un sonno che per tutta notte non aveva voluto scendere sulle ciglia del padre Anacleto. Il priore uscì dalla sua cella, e andò a passeggiare nel chiostro. Il luogo era deserto; peggio ancora, senza luce, quantunque incominciassero a penetrarvi i primi raggi del sole. Ma voi capirete benissimo che qui si parla per via di metafora, seguendo il pensiero del padre Anacleto, che ricordava in quel punto il verso dantesco:
Io venni in loco d'ogni luce muto,
e ben presto avrebbe potuto aggiungervi i due seguenti, che dànno intiera la terzina:
Che mugghia, come fa mar per tempesta,
Se da contrarii venti è combattuto.
Infatti, quella mattina, all'ora del refettorio, il padre Anacleto fu posto in mezzo da' suoi conventuali, che cominciarono a tempestarlo di domande.
—Padre priore!
—Orbene?
—I novizi?
—Sono partiti stamane.
—In che modo?
—Ma…. nel modo più naturale. A piedi, fino al fondo della discesa, dove hanno trovata la carrozza che li aspettava, per ricondurli a Castelnuovo. Signori miei,—soggiunse il priore, vedendo che quel breve racconto non persuadeva molto i suoi uditori,—dopo ciò che era intervenuto ieri mattina….
—Che cosa è intervenuto?
—Lo sapete pure: il mio colloquio col sottoprefetto di Castelnuovo. Dopo quel colloquio, di cui vi ho subito fatto parola, voi capirete bene che essi non potevano più rimanere a San Bruno.
—È doloroso!…—esclamò il padre Restituto.
—Eh, lo dico ancor io;—rispose il priore.
—È doloroso,—ripigliò il padre Restituto,—che siate venuto a questa estremità, senza sentire…..
—Che cosa? I vostri pareri? Li conoscevo già da ciò che si è detto, e lungamente, nella ultima adunanza del capitolo.
—C'è ben altro che il capitolo!—gridò il padre Restituto.—Se volete degnarvi di rammentare quel che s'è detto ieri, prima di entrare in refettorio, io stesso, che prima non vedevo di buon occhio la presenza dei novizi tra noi, vi ho confessato sinceramente d'essermi convertito alle vostre ragioni.
—Era una cortesia da parte vostra,—disse il priore, inchinandosi.—Ma restava sempre una opinione personale.
—A cui partecipavano tutti;—entrò a dire il padre Agapito.—Del resto,—soggiunse egli speditamente, per non lasciarsi sopraffare da nessuno,—e appunto perchè si era parlato di conversioni, avreste pure potuto aspettare un giorno e un'ora.
—Non bruciava mica il convento!—esclamò il padre Ilarione.
—Eccone un altro!—disse il priore, sforzandosi di ridere, ma assai più disposto a mandarli tutti al diavolo in un solo convoglio.
—E un altro ancora, e un altro, fino ad avere l'unanimità;—ribattè il padre Ilarione.—Scusate, priore, non c'eravate che voi, a vedere la necessità di mandar via i novizi: noi altri si era già tutti persuasi di tenerli.
—Ma per che farne, Dio buono?—gridò il priore, che già stava per mettere la pazienza da un lato.—Non voglio credere che vi passasse per la testa di farne due frati!
—E perchè no? Erano pure venuti per questo!
—Via, signori, parliamo sul serio, se si può. Ci eravamo prestati cortesemente ad un capriccetto di donna; ecco tutto. Non si fonda impunemente un ordine come il nostro, senza destare la curiosità della gente, senza far nascere le voglie più strane. Una ragazza molto gentile e molto romantica, s'è messa in capo di vedere il convento; ha trovato il modo di violare la consegna, o la clausura, se così mi è lecito dire. Non l'abbiamo riconosciuta subito; perciò ha potuto ella rimanere tra noi. Ma ditemi, o signori; poichè la cosa è stata scoperta, anzi, poichè c'è stata solennemente annunziata, era prudente da parte nostra, era savio, di dire a quella ragazza: restate? E in un convento d'uomini?
—Di cavalieri, lo avete detto voi;—osservò il padre Agapito.
—Sì, per non mandar via il padrino, fino a tanto non ci constava nulla di lui. Ma da ieri, o signori, avevamo una notizia ufficiale, e la confessione stessa del padrino Adelindo.
—Confessione ricevuta da voi!—ripetè ironicamente il padre Agapito.
Il priore era già per uscire dai gangheri.
—Di grazia, che cosa vorreste dire con ciò?
—Che era una confessione insufficiente, fatta a voi solo. Noi tutti, radunati in capitolo, avevamo il diritto di mandar via i novizi. E voi, facendo di vostro capo, lasciate sospettare….
—Signor Mario Novelli!—interruppe il priore.
—Lasciate sospettare,—proseguì stizzito il padre Agapito,—che vi piacesse poco, in così gelosa materia—(e calcò sull'epiteto)—aver consiglio da noi.
—Signor Mario Novelli!—ripetè il priore, alzando la voce d'un tono.
Ma l'altro aveva già perdute le staffe.
—Mario Novelli! Mario Novelli!—ripetè, alzando la voce a sua volta.—Che cosa è questa novità di chiamarmi oggi col mio nome di gentiluomo?
—Per richiamarvi appunto al vostro debito di gentiluomo;—replicò il padre Anacleto.—Mi avete detto villania, e ne chiamo a testimoni i vostri colleghi. Signor Mario Novelli,—proseguì con accento severo il priore,—appese alla parete della mia cella ci sono due lame di Toledo e due canne Lepage. E questo per farvi intendere che, se accetto le osservazioni di tutti, non ammetto le insinuazioni di nessuno.
—Poveri noi!—gridò il padre Marcellino, in mezzo al tumulto che le parole del priore avevano destato nella comunità.—Non ci mancava più altro.
—Conte Gualandi del Poggio,—rispondeva frattanto il padre Agapito, o se vi torna meglio, il signor Mario Novelli,—sono a vostra disposizione.
—Ma no, non è possibile!—gridarono parecchi, cercando d'intromettersi.—Un po' di calma, signori! Non facciamo uno scandalo.
—È necessario;—rispose il padre Restituto.—Il priore ha provocato.
—Che provocato!—ribattè il padre Anselmo.—Si è difeso contro un ingiurioso sospetto.—
La lite era per inasprirsi anche fra le seconde parti. Ma il priore la troncò subito con queste gravi parole:
—Signori, vi prego! Per qualche ora almeno, sono ancora il vostro superiore. Usatemi la cortesia di tenervi neutrali e lasciate a me la cura di sciogliere le questioni che mi risguardano. Signor Novelli,—proseguì, rivolgendosi al padre Agapito;—eccovi i miei padrini: il signor Giorgio Verna e il signor Nello Altoviti.—
Così dicendo, additava il padre Anselmo e il padre Bonaventura.
Il padre Agapito s'inchinò. E rivolgendosi ai due che gli erano stati indicati, disse loro:
—Favoriscano intendersi coi miei padrini: il signor Pellegrino della
Rosa e il signor Ariodante Soresi.—
Indicava, così dicendo, il padre Ilarione e il padre Restituto. E questi due, fatto l'inchino di rigore, si allontanarono in compagnia degli altri, che aveva indicati il priore.
Così, per un padrino che era fuggito da San Bruno, ce n'erano quattro in moto, nel chiostro. Ma di specie diversa, pur troppo, e, sia detto senza intenzione di offenderli, assai meno belli del primo.
Al tumulto era succeduta la calma: una calma solenne, la calma dei grandi apparecchi. Il grosso dei frati bisbigliava da un lato, ma l'interesse della scena era tutto raccolto in quel crocchio di quattro, che trattavano le condizioni dello scontro. Anche essi bisbigliavano; ma il loro bisbiglio decideva un gran punto, e da esso pendevano le sorti di due uomini.
Il padre Anacleto, dopo fatta la presentazione dei suoi assistenti, era andato a passeggiare in giardino. Come fu giunto al crocicchio dei sentieri, dove la sera antecedente gli era occorso quel dialogo importante che vi ho riferito, gli parve opportuno di andarsi a posare su quel sedile di pietra che vi ho pure accennato. Ma non al medesimo posto ch'egli aveva la sera antecedente; un pochettino più in là, verso lo spigolo.
Puerilità, direte; ma di queste puerilità s'intesse la vita. Se ci pensate un tantino, se interrogate i vostri ricordi, son certo che ammetterete anche questo.
Al padre Anacleto mancò il tempo di richiamare le memorie del luogo, perchè il padre Anselmo e il padre Bonaventura gli furono quasi subito ai fianchi.
—Orbene?—chiese egli, appena li vide apparire.
—Si è combinato;—risposero.
—Ora, arma e luogo?
—Che frase alfieresca! V'imiteremo anche noi, rispondendovi: subito, spada, qui.
—Grazie!—disse il padre Anacleto.—Aspettiamoli, dunque.
—Eccoli appunto;—ripigliò il padre Anselmo, segnando col capo tra le piante, donde appariva il padre Agapito, seguito dai padri Restituto e Ilarione.
Gravi ambedue, i padrini di Mario Novelli; gravi come si conveniva alla dignità dell'ufficio e alla solennità del momento. Uno di essi, il padre Restituto, portava tra mani le due spade di Toledo, spiccate allora dalla parete, nella cella del padre Anacleto.
—Conte,—disse egli,—abbiamo scelto le vostre per una semplicissima ragione. Non ce n'erano altre abbastanza buone in convento. Del resto, quantunque voi le abbiate forse maneggiate anni fa, non ci consta che in due anni, dacchè siete a San Bruno, vi siate mai più esercitato con esse.
—Nemmeno con semplici fioretti;—rispose il padre Anacleto.—Del resto, quelle due lame non mi sono servite mai. Erano il ricordo prezioso d'un amico d'infanzia, d'un compagno d'armi, e non ho voluto separarmene.
—Benissimo;—replicò il padre Restituto.—Anche il signor Novelli dichiara di esser fuori di esercizio da un anno. Sicchè, le condizioni sembrano pareggiate abbastanza.—
Fatte queste ed altre poche parole con la fredda urbanità analoga al caso, i padrini scelsero il terreno lì presso, ed assegnarono i posti ai combattenti. Intanto il padre Tranquillo, medico e chirurgo della comunità, si giovò del sedile, per deporvi, debitamente aperta, la busta dei ferri. Il fratello Giocondo, nominato suo aiutante, era andato a prendere acqua alla fontana, e tornava con la secchia ripiena, dando occhiate in qua e in là, con un'aria melensa da non si dire.
Il padre Anselmo, come più pratico di quei negozi, fu per comune accordo dei colleghi nominato maestro di combattimento. Egli, perciò, entrando subito nella dignità dell'ufficio, prese le due spade, le misurò l'una contro l'altra, e, dopo averle poste in croce sul forte delle lame, le porse al padre Restituto. E questi, indettato dal maestro di combattimento, andò a presentarle dalla parte della impugnatura, ai due combattenti. Una ne prese il conte Gualandi del Poggio, senza badarci più che tanto; l'altra andò al signor Mario Novelli.
—Signori,—disse allora il padre Anselmo, facendosi avanti con un fioretto in pugno, come simbolo della sua autorità,—avremmo stabilito volentieri uno scontro al primo sangue, trattandosi di una provocazione fatta senz'astio, in un momento di collera, e dopo tutto in famiglia. Ma perchè l'arma, con poca varietà di colpi, ha molta varietà di conseguenze, il dire primo sangue non vorrebbe dir nulla, potendo anche darsi che una sferzata violenta, su qualche muscolo importante, riescisse più grave per la continuazione del duello che non una vera puntata, quando non penetrasse più di due o tre centimetri. Vogliano scusare questo linguaggio, poco amabile in verità, ma necessario per la chiarezza della cosa. Abbiamo dunque pensato di rimettere la cessazione del combattimento all'arbitrio del chirurgo, secondo la gravità delle lesioni.—
Il fratello Giocondo si premette il ventre con un moto involontario delle palme. Una di quelle botte, accennate dal padre Anselmo col nome generico e quasi innocente di lesioni, gli pareva quasi di riceverla lui. E frattanto seguitava a dare occhiate in qua e in là, come se aspettasse qualcuno. I carabinieri, forse?
Frattanto, i due avversarii, con le punte rivolte a terra, s'inchinavano in atto di assentimento. Il padre Anselmo proseguì in questa forma:
—Signori, voi obbedirete rigorosamente ai comandi. Vi darò l'alto, quante volte mi sembrerà che uno di voi sia ferito, o abbia mestieri di ricogliere il fiato. Siete fuori d'esercizio tutt'e due, ed anche questo vi può intervenire. Siamo intesi;—conchiuse il padre Anselmo.—Signori, rammentate questo: che combattete lealmente. A voi!—
E accompagnato il segnale con una alzata del fioretto che gli serviva come bastone di comando, il maestro di combattimento si tirò indietro d'un passo, per lasciar libero il giuoco dei ferri.
Strana combinazione! Il duello si faceva davanti a quel sedile di pietra, su cui, la sera antecedente, si era posato il monachino biondo. Dov'era, in quel punto, e che pensava il monachino? Se avesse mai potuto immaginarsi quello che succedeva per lui! Il padre Anacleto diede un'occhiata a quel posto, e gli parve di vederlo là, col suo viso d'angelo e con gli occhi intenti alla scena. Ah, monachino adorato! Per quale dei due avversarii erano i vostri sguardi più teneri? Il padre Anacleto non lo distinse bene; forse perchè, la sera antecedente, al ricordo del padre Agapito, il monachino biondo si era chiuso in silenzio diplomatico. Lo sapete pure, il proverbio: chi tace non dice niente.
Comunque fosse, il dubbio non era punto piacevole. E il padre Anacleto, o, se vi torna meglio, il conte Gualandi del Poggio, diede un'occhiata al suo avversario, un'occhiata che pareva volesse passarlo fuor fuori; ma subito dopo sorrise, come bisogna sorridere nell'atto di sbudellare il proprio simile, od anche di esserne sbudellato; stese il braccio destro, alzò il braccio sinistro, ripiegando la palma verso la testa, e cadde in guardia con una grazia, che dimostrava l'uso antico e la padronanza dell'arma.
Qui, forse, v'immaginerete, che il fratello Giocondo, non che stringersi il ventre, si dèsse a dirittura per morto. Disingannatevi; proprio in quel punto il fratello Giocondo metteva un grido di gioia, che fece voltare la testa ai due combattenti.
—Che c'è?—disse il priore.
Ma prima che il converso potesse dargli risposta, sboccarono da un viale i conventuali di San Bruno. Otto in numero, perchè gli altri sei erano già sul terreno, e i due novizi erano partiti, otto in numero, ma disposti a far chiasso per sedici. Dovevano essersi concertati per quella irruzione, ed anche essersi appiattati in tempo dietro un filare di cipressi, per saltar fuori nel momento opportuno, preparati a sentirsi dire anche delle impertinenze, pur di mandare a monte ogni cosa.
—Non lo vogliamo, questo duello!—gridarono.—Non lo vogliamo! Non lo vogliamo!—
Il padre Anacleto fece un gesto espressivo di malcontento.
—Signori, vi prego;—disse egli;—voi non avete a che fare in questo luogo; rammentate gli obblighi della cavalleria.
—Che cavalleria d'Egitto! Qui c'è frateria e non altro. I Templarii, che erano frati e cavalieri, son morti da un pezzo.
—Poi,—soggiunse il padre Marcellino, che pareva il capitano della banda,—primo debito di cavalieri è quello di saper ragionare. E voi, sia detto con vostra licenza, non sapete, o non volete, che torna lo stesso.
—Sia pure, non vogliamo;—rispose il priore.—Vedete dunque che non è il caso d'insegnarci più nulla.—
E faceva l'atto di rimettersi in guardia. Ma lo spazio tra lui e il padre Agapito era occupato. Bisognava infilzarne parecchi, prima di giungere al petto dell'avversario.
—Ad ogni modo, sentiamolo!—disse il padre Restituto, vedendo che non c'era verso di mandar via gl'importuni.
—Forse ci avrà qualcosa di nuovo;—osservò il padre Tranquillo.
—Sì, anche di nuovo;—rispose il padre Marcellino, cogliendo la frase in aria.—Siamo venuti a predicare la pace, e vi mettiamo davanti agli occhi la popolazione di Castelnuovo, che trarrà partito da questo scandalo, per dire del nostro convento tutto il male possibile.
—Dicano quel che vogliono;—borbottò il padre Anacleto;—non me ne importa un bel nulla.
—A voi, sta bene; ma non così a noi, che non abbiamo le bizze in corpo. Il convento, o signori….
—Che convento! Vada al diavolo il convento!—gridò il padre Agapito, per non essere da meno del suo avversario.
—Ah, ecco un'idea!—ripigliò il padre Marcellino.—Al diavolo il convento! Cioè, traducendo la vostra esclamazione in forma piana e cortese, sciogliamo pure la nostra comunità. Non mi oppongo al disegno. Tanto, vedete, signori miei, qui c'è entrato il demonio. La pace se n'è andata, e niente varrà a ricondurla tra noi. Inoltre, senza quella donna che è partita stamane, non c'è più vita, non c'è più luce, a San Bruno; ma tenebre, ve lo dirò col Salmista, tenebre ed ombra di morte.—
I duellanti rimasero di sasso; il padre Restituto cascava dalle nuvole.
—Voi, padre Marcellino!—esclamò.—Siete voi, che parlate così?
—Io, sì, io! E che vi credevate? che fossi di pietra? Sono, è vero, il più tranquillo di tutti noi, non escluso il padre Tranquillo, che ha messo i ferri in batteria. Ma ci ho un cuore, ci ho un cuore…. come voi, Restituto, come voi, Agapito, come voi, Ilarione, Bonaventura ed Anselmo, che siete tutti innamorati. Negatelo, sì, fate la bella figura di Pietro nel pretorio di Gerusalemme! Peccato che non ci sia un gallo, per cantarci tre volte! Ma la farò io, la parte del gallo evangelico. Voi, Agapito, ieri mattina, mentre il sottoprefetto di Castelnuovo tratteneva il priore a colloquio, eravate fuggito alle Querci, sulle orme dei novizi; e non già per amore del novizio vecchio, si capisce. E voi, Restituto, che facevate frattanto? Andavate in qua e in là, chiedendo a tutti dove fosse andato l'amico Agapito. E non già per desiderio dell'amico, si capisce anche questo. E voi tutti, Agapito, Restituto, Ilarione, con qualchedun altro di giunta, iersera, mentre il priore discorreva col padrino Adelindo, per consigliarlo a darci questa brutta mattinata, che cosa facevate, di grazia? Lavoravate a tutt'uomo per muovere lo zio Prospero, e mandarlo in giardino, ad interrompere un colloquio che vi rendeva feroci. Dite di no, se vi dà l'animo! Volevate contrariare un'opera creduta necessaria dal nostro priore, dall'unico tra noi che non avesse perduta la testa, dall'unico tra noi che non fosse cotto del monachino biondo.—
Gli ascoltatori erano rimasti scombussolati da quell'assalto oratorio. Volevano parlare, interrompere il corso delle rivelazioni, ma non ne venivano a capo. Il padre Marcellino aveva preso l'aìre e voleva giungere in fondo. Ma anche lui dovette fermarsi un istante, per riprendere il fiato. E qui lo interruppe il priore.
—V'ingannate, Marcellino;—diss'egli gravemente.—Io sono più innamorato di loro; più innamorato di voi tutti, messi insieme.
—Oh! oh!—gridarono tutti in coro.
—Non c'è oh che tenga;—ripigliò il padre Anacleto.—Innamorato morto! Il padre Marcellino ha dato l'esempio delle confessioni; ricevete la mia.—
Il padre Agapito non era rimasto maravigliato come gli altri. Che il priore fosse innamorato del serafino biondo egli lo sospettava da parecchi giorni; e da ventiquattr'ore, poi, sospettava anche dell'altro, cioè a dire che fosse riamato. Gli avevano messo quella pulce nell'orecchio certi discorsi fatti alle Querci, dond'era per l'appunto ritornato al convento con quell'aria di cattivo umore, che ho già avuto l'onore di accennarvi. Lassù, presso il romitorio, dov'erano andati a consumare la mattinata, per cansare la vista del sottoprefetto di Castelnuovo, il serafino biondo non aveva fatto quasi altro che discorrere del padre Anacleto. Sulle prime, il padre Agapito non ci aveva badato, e dava intorno al priore di San Bruno tutte le notizie che il serafino aveva l'aria di chiedergli per semplice curiosità. Ma poi, volendo egli ricondurre la conversazione in una cerchia più intima, e non venendone a capo, perchè il serafino tornava sempre sul primo argomento, si era insospettito, anzi impermalito senz'altro, e l'avere il serafino accettata la sua ghirlanda di fiammole non era bastato a rasserenare la fronte del signor Mario Novelli. Perciò immaginate di che animo fosse, sul pomeriggio, quando il priore stava a colloquio col serafino; e quanto volentieri avesse dato fuori, nella mattina seguente, fino al segno di far perdere la pazienza al padre Anacleto e di buscarsi una sfida.
Egli, adunque, non si maravigliò della confessione del priore, considerata in sè stessa, ma piuttosto della sincerità bonaria con cui era stata fatta. E volle, come suol dirsi, averne l'intiero.
—Amate?—diss'egli.—E…. siete felice?
—Non intendo la vostra domanda,—rispose il priore.
Il padre Agapito diede una crollata di spalle in segno di stizza.
—Vi domando se siete riamato;—replicò.
—Riamato? Non so.
—Come? Non sapete! È strano.
—Perchè? Non so nulla, e per una semplice ragione. Non ho chiesto nulla e non mi si è dovuto rispondere.
—Ah, questa, poi, è grossa!—esclamò il padre Ilarione.—Siete stato tre ore a confessare il monachino, e non gli avete domandato nulla?
—Vorreste dubitare della mia parola?—chiese il padre
Anacleto.—Mettete che io sia stato uno sciocco, e sarete nel vero.
—Il priore ha ragione;—entrò a dire il padre Marcellino.
—Grazie!—rispose il priore, inchinandosi.
—Oh, non già per la patente di sciocco, che vi siete data da voi;—replicò il padre Marcellino;—ma per quel rispetto che merita una vostra affermazione. Voi dite che una cosa non è, e noi tutti dobbiamo credervi. Non ci avete mai dato argomento a sospettare il contrario.
—È vero! è vero!—gridarono tutti.—Anche il padre Agapito dovrà convenirne.
—Farò di più, o signori;—disse il padre Agapito, confuso.—Padre
Anacleto…. conte Gualandi…. volete voi stringermi la mano?—
Il padre Anacleto gli dischiuse le braccia, fra gli applausi di tutta la comunità.
Quell'abbraccio amichevole, riscaldò il padre Agapito, al secolo Mario
Novelli; l'applauso dei colleghi gli fece perdere la tramontana.
Anch'egli si trovò in vena di schiettezza e di magnanimità.
—Potrei dire al priore, a tutti, a tutti voi,—cominciò egli,—che ognuno è libero di farsi avanti col serafino. Ma, ohimè, signori! Nel cuore del serafino è posto occupato. Ieri mattina, mentre io cercavo di guadagnar terreno, ho dovuto accorgermi della triste verità. Accennavo Agapito, e mi si rispondeva Anacleto; tanto che mi seccai e proposi di ritornare al convento. Priore, è una brutta cosa, la gelosia. Ma essa non farà velo alla mia coscienza. Voi siete un cavaliere, e siete anche migliore di me. Sì, lasciatemelo dire, siete migliore di me. Voi non avete parlato, e la signorina Ruzzani è partita da San Bruno. Io, invece, ho cercato di parlare…. e non sono stato ascoltato. Eccovi la mia confessione, sincera come la vostra. Restiamo in pace, signor priore?
—Restiamo;—disse il padre Anacleto.—Soltanto vi domanderò di lasciare da banda il titolo. Non voglio esser priore; voglio rimanere l'ultimo dei frati di San Bruno. Ricorderete tutti che ve l'ho detto da un pezzo.
—È un nobile atto!—gridò il padre Restituto.—Ma se accettassimo la proposta del padre Marcellino?… Se sciogliessimo la comunità?… Signori, voi tutti lo intendete, lo sentite tutti, come l'ha detto il padre Marcellino; qui c'è stato il demonio; non c'è più pace, nè felicità, dove non c'è più luce. Già, anch'io lo pensavo da tempo; abbiamo fatti i conti senza la voce di natura.
—L'undecimo comandamento!—esclamò il priore.—Anche voi?
—Che undecimo? che comandamento?
—Sicuro! Starai nel consorzio de' tuoi simili; vivrai della loro medesima vita; amerai e soffrirai con essi; perchè non ti è dato sottrarti alle legge comune. Questo è l'undecimo comandamento; mi è stato rivelato:—disse il padre Anacleto.
—Sul Sinai?—chiese il padre Ilarione.
—Sul Tabor;—disse il padre Marcellino, ridendo.—Non vedete com'è trasfigurato, il nostro priore? Infatti, egli ha veduta la verità; si è trovato a faccia faccia con lei. E adesso, signori miei, sentite. Questi conventi laici si possono istituire per chiasso, e perchè durino una stagione. Ma istituiti sul serio, perchè ci s'abbia a passare la vita, tornano uggiosi più degli antichi, dove almeno alla mortificazione della carne rispondeva la speranza di un bene immortale. Torniamo al secolo, signori; il convento di San Bruno, nostra proprietà collettiva, lo daremo alle Opere pie; il materiale scientifico alle scuole di Castelnuovo. Agli altri particolari si provvederà; intanto io vi propongo il seguente ordine del giorno: "La comunità di San Bruno è sciolta."
Un grido, un urlo di approvazione, accolse la proposta del padre
Marcellino.
—È il caso di raccogliere i ferri;—disse il padre Tranquillo.
E richiuse la busta.
Il ritorno della signorina Ruzzani e del suo degnissimo zio, signor Prospero Gentili, non poteva restar celato agli abitanti di Castelnuovo. La notizia si sparse immediatamente dalla via San Michele, dove si era fermata la carrozza, a tutti i quartieri della città. I quartieri, veramente, non erano che due, cioè Castelnuovo alto e Castelnuovo basso; ma volevo dire per tutte le vie e per tutti i ritrovi della gente che suole occuparsi dei fatti del prossimo.
La mattina dopo l'arrivo, il signor Prospero fece la sua apparizione ufficiale per le vie di Castelnuovo alto, dov'era il meglio della società locale, coi palazzi più ragguardevoli, incominciando dal castello, in cui stava allogata la sottoprefettura con tutti gli uffici dipendenti, l'albergo della inevitabile Croce di Malta, la gran piazza dei Signori e il caffè della Rosa bianca, che era il rifugio degli sfaccendati del capoluogo.
Di questi, il signor Prospero ne incontrò subito una mezza dozzina. E non gli dolse punto; che anzi! Oramai la sciocchezza era stata fatta e bisognava sostenerne le conseguenze a grinta dura. Sentite, ad esempio, questo dialoghetto ch'egli ebbe col conte Gamberini.
—Oh, signor Prospero! Ben tornato da….
—Sicuro, da…. Grazie tante! La famiglia sta bene?
—Benissimo. E la signorina Adele? Si è divertita, a…. Oh! insomma signor Prospero, si può sapere dove siete stati? A Torino, forse?
—A Torino, certamente…. A Torino e in altri siti.
—Ah! in altri siti?
—Sicuro, di qua e di là, come l'Ebreo errante. Noi si esce poco da Castelnuovo…. Io, almeno, mi allontano poco volentieri da questi quattro sassi; ma quando esco, vedete, son capace di andare in capo al mondo.
—Al polo, per esempio.
—O all'equatore; nientemeno. Ma, per questa volta, ho cansati gli estremi;—disse il signor Prospero, dando, senza volerlo, una rifiatata di contentezza.—Vi prego, Don Ettore, di presentare i miei ossequi alla contessa e alla contessina.
—Grazie, e voi ricambierete i miei alla signorina Adele. Quella cara e bella fanciulla! Si è tanto parlato di lei, in questi venti giorni!…
—Oh, lo credo, lo credo; ci amate tanto! Don Ettore, son proprio felice di avervi stretta la mano.—
E scappò via, il signor Prospero, con una leggerezza, di cui, a vederlo, così tondo com'era, non lo avreste creduto capace.
—Diavolo d'un Gentili!—esclamò il conte Gamberini, vedendoselo guizzar di mano, vispo ed allegro come un pesce, che abbia mangiata l'esca senza restare all'amo.—Non ha l'aria di canzonarmi? E dopo la bella impresa del convento dei matti! Che facce toste! Ma già, questi villani rifatti, perchè hanno i milioni, si credono lecita ogni cosa.—
Con questo ragionamento, da cui potrete argomentare che la contea dei Gamberini non valeva un milione, il signor conte si ricattò dell'aria canzonatoria del signor Prospero. Il quale, dopo tutto, non voleva canzonare nessuno, ma solamente mostrarsi tetragono agli assalti della maldicenza di Castelnuovo Bedonia.
—Se credete che mi lasci prendere in giro da voi altri!—diceva egli tra sè.—Non sono un'aquila, è vero; ma neanche uno struzzo, da mandar giù ogni cosa. Del resto, ridete pure dei fatti nostri. Abbiamo due milioni di dote, e possiamo rider noi con più gusto. Ma via, al diavolo i Gamberini, e andiamo dal sottoprefetto. Povero cavaliere! Come sarà contento di vedermi! La nostra scappata gli aveva proprio guastate le uova nel paniere. Ma ora…. Ora gli si porta una buona notizia, da rimettergli il sangue nelle vene. Notizia, veramente, no. Ma sta a lui di cavare un costrutto dal nostro ritorno. Quanto a me, gli dò il mio consenso in formis et modis. Adelina duchessa! In verità, nessuna donna porterà la corona meglio di lei. Signori, la eccellentissima duchessa di Francavilla, nepote del commendatore Gentili. Come è dolce, questo titolo di commendatore! Il cavaliere lo è meno; ha del comune, del dozzinale! Va, ecco tutto; va; e non fa fermare la gente. Signor Prospero! ehi, dico, signor Prospero, un po' di calma! Siamo arrivati.—
Il signor Prospero entrava appunto allora in castello. Giunto nell'anticamera del sottoprefetto, si fece annunziare, e potè sentire il grido di gioia, che suonò nel santuario dell'autorità politica di Castelnuovo, appena l'usciere ebbe proferito il suo nome.
—Venga qua, venga qua, signor Prospero!—disse il sottoprefetto, apparendo sulla soglia, senza dar tempo all'usciere di introdurre il visitatore.—È tornato finalmente!
—Tornato, come Lei vede.—
E interrogato dal sottoprefetto, il signor Prospero Gentili, raccontò, fin dove sapeva lui, il come e il perchè della improvvisa deliberazione di sua nepote.
—Eh! non glielo dicevo io, signor Prospero? Lasci fare a me; parlo io, a questo priore dei matti, e metto io all'ordine ogni cosa!
—Lei è un grand'uomo, signor commendatore;—rispose il signor Prospero.—Sì, me lo lasci dire, un grand'uomo. Se non era Lei, mi toccava ancora Dio sa quanto di penitenza nel deserto. Non già che la compagnia fosse cattiva; oh no! Brava gente, quei matti; e mi volevano tutti un gran bene. Conserverò buona memoria delle loro gentilezze, e regalerò alla loro biblioteca tutti i libri di casa. Tanto, io non li ho letti mai, e non comincierò adesso certamente.
—Farà benissimo;—disse il sottoprefetto, per chiudere quella digressione.—E mi dica, ora; ha già parlato pel duca?
—No, non ancora. Siamo arrivati appena iersera.
—Non perda tempo, per carità! Il momento è opportuno. Domani a sera, se crede, vengo a farle una visita. Se Lei mi strizza l'occhio, è segno che ha cominciato il fuoco.
—E Lei, allora, giù la fiancata, non è vero?
—Bravo! Ha indovinato alla prima. Commendator Prospero, vogliamo riuscire.—
Quel giorno, appena il signor Prospero se ne andò via, il sottoprefetto si pose a tavolino e scrisse al ministro degl'interni. Il tenore della lettera fu questo:
"Eccellenza,
"Non mi ero fatto vivo da qualche settimana, e il signor duca di Francavilla gliene avrà fatto conoscere le ragioni, a mia scusa. Quelle certe persone erano andate fuori, lasciandomi capire che dovevano fare alcuni apparecchi per la grande occasione. Ma a Torino cadde infermo lo zio e questo contrattempo ha fatto perdere un mese. Sono tornati finalmente ieri, ed io mi affretto ad avvisarne l'Eccellenza Vostra, bene intendendo le alte ragioni politiche e sociali che fanno rivolgere anche su questo piccolo fatto lo sguardo acuto del nuovo conte di Cavour. Mi lasci dire ciò che penso. In altri, e parlando ad altri, potrebbe parere una piaggerìa; ma il caso presente esclude il sospetto, mi sembra. Del resto, io mi fo un vanto della mia schiettezza; sebbene in altri tempi, la Dio mercè passati per sempre, questa virtù mi sia stata causa di molte delusioni.
"Ma basti di ciò, e la Eccellenza Vostra mi perdoni lo sfogo. Sono ferite che ad ogni tanto si riaprono e dànno sangue. Il nostro signor duca si è adattato a questa vita di provincia con una pazienza ammirabile, e la sua amabilità gli ha conquistato tutti i cuori."
Seguivano i complimenti e gli atti di ossequio, che per brevità si ommettono.
Per la stessa ragione vi salterò un giorno, che fu occupato dal signor Prospero a passeggiare per le vie di Castelnuovo e dalla signorina Adele Ruzzani a ricever visite. E non tutte di naturali del paese, badate! Ce ne furono, anzi, cinque o sei…. Ma lasciamo anche queste in disparte, e veniamo all'ultima, che ci deve premere assai più. Giudicatene voi.
Erano le quattro del pomeriggio. La signorina Adele Ruzzani non appariva molto contenta di sè, nè del mondo. Il mondo, si sa, è tutto ciò che abbiamo d'intorno, e si usa più spesso chiamarlo il piccolo mondo. Ma siccome anche il grande è spesso una povera cosa, lasciamo correre la frase com'è escita dalla penna. Scontenta di sè e del mondo, la signorina Adele Ruzzani prendeva un libro, per leggiucchiarne due pagine e buttarlo via; si metteva a ricamare, e si fermava ai primi punti di catenella; voleva dipingere, e le passava la voglia, prima di aver preparata la tavolozza; infine, era seccata, mortalmente seccata, e incominciava a sentire il desiderio di andarsene da Castelnuovo.
In quel punto capitò il servitore.
—Una visita, signorina.
—Chi è? Altri noiosi?
—Non so;—rispose il vecchio arnese di casa Ruzzani, trattenendo un sorriso.—Ecco il nome.—
Così dicendo, porgeva alla sua signora un biglietto di visita. Adele Ruzzani (che peccato, non poterla più chiamare il monachino, o il serafino biondo!) prese il biglietto, gli diede una rapida occhiata e mise un grido, un piccolo grido, che pareva di stupore, ma poteva essere di gioia.
Diamo un'occhiata anche noi. Sotto una corona di conte (nove perline in vista, il che significa un giro di sedici) si leggeva il nome di Valentino Gualandi del Poggio, inciso in un bel carattere italico: e più sotto, aggiunto a matita, un altro nome: Anacleto.
Il biglietto non aveva traccia di pieghe.
—Hai fatto entrare il signore?—domandò la fanciulla.
—Nel salotto, come gli altri;—rispose il servitore.
—Bene; va, ed avverti mio zio, appena sarà di ritorno, che c'è il padre…. il signor Anacleto, che desidera di vederlo.—
Il servitore uscì, e Adele Ruzzani corse allo specchio. Aveva le fiamme al viso; perciò dovette rimanere per alcuni istanti colà, aspettando che quella commozione scemasse, e cercando di comprimere con le palme i battiti del suo cuore. Sorrideva, frattanto, sorrideva d'un riso stanco e beato. La stanchezza e la beatitudine son più vicine che a tutta prima non sembri. La beatitudine non è dessa un senso di assopimento delle nostre facoltà?
Quando la signorina Ruzzani entrò nel salotto, vide il conte Gualandi ritto davanti ad una tela che posava sul cavalletto, nel vano d'una finestra. Era uno studio ben noto a lui, perchè incominciato due settimane prima nel convento di San Bruno, e rappresentava l'interno del chiostro.
Al fruscìo della veste sul pavimento, il conte Gualandi si voltò, e la signorina Adele riconobbe il bel priore di San Bruno, meno grave all'aspetto, più elegante nel portamento, ma pur sempre severo, e rispondente a quell'immagine di dignità e di forza, che non dovrebbe scompagnarsi mai dall'idea dell'uomo.
Egli, frattanto, non vedeva più il monachino, ma una bella e graziosa fanciulla. L'aria birichina dello scolaro in vacanze non c'era più, ma l'aspetto della donna che sente e che pensa, rendeva il suo volto anche più attraente che non fosse da prima.
—Come….—balbettò ella, avvicinandosi.
—Signorina…. eccomi qua;—rispose egli, dissimulando con un profondo inchino la sua profonda commozione.
Seguì una scena muta di forse un minuto; il solito minuto che parve un secolo.
—Dunque,—ripigliò, la signorina Adele,—voi siete stato così gentile da ricordarvi della vostra promessa?
—Appena ho potuto; quarantott'ore dopo;—disse il conte
Gualandi.—Eccomi qui senza impiego, signorina. Sono spriorato.
—Veramente?
—Verissimamente, e il convento di San Bruno soppresso.
—Povero convento! Ci si stava così bene!
—Lo rimpiangete, signorina?
—Certo; non siamo debitori di qualche gratitudine ai luoghi in cui abbiamo passato ore felici?
—Grazie!—mormorò il conte Gualandi.
—Pel convento?—chiese argutamente la signorina Adele, che ripigliava padronanza di sè.
—Pel convento e per me;—rispose il conte.—Non ne ero forse il priore? e non lo rappresentavo al cospetto del mondo? Povera comunità di San Bruno!—continuò egli, mentre si sedeva sulla poltrona che gli era accennata dalla signorina Adele, accanto al sofà su cui essa stava adagiata.—Noi l'abbiamo disciolta ier l'altro.
—Subito dopo la nostra partenza; ho bene udito,—osservò la fanciulla.
—Ah, lo sapevate? Ma allora le notizie di monte Acuto giungono a Castelnuovo con la rapidità del fulmine? E non c'è un filo telegrafico, ch'io sappia.
—Che dite mai, signor conte? Ci hanno avuto tempo ad arrivare coi pedoni. Sono i vostri frati che mi hanno dato l'annunzio, tra ieri e quest'oggi.
—Davvero? I miei frati?
—Ma sì; ieri il signor Mario Novelli, e il signor Pellegrino della Rosa; cioè a dire padre Agapito e padre Ilarione. Stamane, poi, il signor Ariodante Soresi e il signor Nello Altoviti; che sono, se non mi confondo fra tanti nomi, i padri Restituto e Bonaventura. Adesso, m'aspettavo anche il padre Anselmo, il padre Tranquillo, e quei pochi altri che hanno mostrato di non vedermi di mal occhio;—disse la signorina Adele, chinando modestamente lo sguardo.
—A questi patti li vedrete capitare tutti quattordici;—rispose il conte Gualandi.—Ma vedete che fretta! E sono certamente venuti ad ossequiarvi prima di partire dal circondario;—soggiunse, mirando evidentemente a scoprir terreno.—Il signor Novelli, a capo di lista, per rammentarvi la sua ghirlanda di fiammole….
—Già;—interruppe la signorina Adele;—proprio così.—
Il conte Gualandi stava per replicare qualche cosa; ma ne fu impedito dall'arrivo del signor Prospero. Vi lascio immaginare la festa ch'egli fece al priore spriorato di San Bruno, quantunque, a dir vero, gli tornasse piacevole lì per lì come il fumo negli occhi.
—Anche lui!—aveva borbottato il signor Prospero, udendo in anticamera che era giunto il conte Gualandi.—Che il convento dei matti voglia scaricarsi tutto in casa nostra? E noi che eravamo riesciti a svignarcela! E la mia cara nepote che aveva mostrato tanta soddisfazione di venir via!—
Questo il monologo; frattanto bisognava dire delle gentilezze; masticar l'amaro e dar fuori il dolce. Povero signor Prospero!
—Vi fermate oggi da noi, non è vero?—disse la signorina Adele, parlando volentieri in nome dello zio, poichè questi era presente.—Dove siete alloggiato?
—Alla Croce di Malta;—rispose il conte.—E capisco adesso perchè l'albergatore fosse impacciato a darmi una camera degna di me, come si compiacque di dire. I miei bravi compagni debbono essere tutti alla Croce di Malta.
—Già,—entrò a dire il signor Prospero,—chi tardi arriva male alloggia.
—Eh, non vorrei proprio che fosse così, come dice il proverbio;—replicò il conte Gualandi, con accento più malinconico che non portasse quel piccolo guaio d'albergo.
—Vorremmo offrirvi ospitalità in casa nostra;—ripigliò la signorina Adele, fingendo di non aver intesa l'allusione.—Ma veramente, un giovanotto come voi…. Va bene che noi siamo stati ospiti vostri lassù; ma le anime caritatevoli di Castelnuovo non hanno a sapere questi obblighi che abbiamo contratti con voi;—soggiunse ella con una grazia adorabile.—Però ci restate a pranzo. È detta: non vogliamo osservazioni.
—Serafino!—mormorò il priore spriorato.
Il serafino lo guardò con aria tra ridente e scorrucciata, mettendosi un dito sulle labbra. Che ditino, lettori! Il priore fece involontariamente l'atto di mordere.
Per far l'ora di pranzo, i padroni di casa condussero il loro ospite a visitare il giardino. Il palazzo Ruzzani era uno dei primi nella via San Michele, ai piedi della città alta; perciò aveva molto spazio libero alle spalle, giardino, stufa, uccelliera, ed anche uno scampoletto di bosco.
Due ore passarono via come il vento. Il padre Anacleto pensò che egli aveva dimenticato qualche cosa, nel giudicare così severamente la vita, come aveva fatto da prima, e che tutto non era afflizione, o noia, nel mondo.
Lo zio Prospero si era allontanato per qualche faccenda domestica.
Adele Ruzzani e il conte Gualandi erano tornati nel salotto.
—Signorina,—disse il conte, cercando di riattaccare il discorso interrotto,—si potrebbe sapere….
—Che cosa?—disse Adele, ridendo.
—Che cosa volessero da voi tutti quei frati…. sfratati?
—Come? Non lo indovinate?
—Io no; se voi non mi aiutate….
—Aiutiamolo, dunque. Venivano l'un dopo l'altro a chiedere…. Ma no, questo non debbo dirvelo io. Dovete immaginarvelo; ed io sono un po' troppo buona a credere che voi non lo abbiate indovinato a tutta prima.
—No, vi assicuro, non lo avevo indovinato;—rispose il conte Gualandi, sconcertato da quel mezzo rimprovero.—Potevo benissimo argomentare il movente della loro calata a Castelnuovo. Se n'è parlato troppo, lassù. Ma non avrei potuto immaginare che ardissero venire a chiedere, per esempio, la vostra mano, così soli, senza la compagnia di un parente, d'un personaggio grave e ragguardevole, come vorrebbero le buone consuetudini.
—Eh, capisco, le consuetudini vorrebbero molte cose;—replicò la signorina Adele, con aria tra il serio e il faceto.—Ma forse i vostri amici hanno pensato che quelle consuetudini le aveva dimenticate per primo un certo novizio, arrisicandosi di metter piede a San Bruno.
—Perciò li avete scusati?—domandò ansiosamente il conte Gualandi.
—Proprio così; dopo aver dato quel cattivo esempio, non potevo fare diverso.—
E rideva, la birichina, dando quella notizia al povero conte. Ma a lui la notizia aveva dato un coraggio da leone. Si levò in piedi, il conte Gualandi, si tirò indietro due passi, e, facendo un amabile scorcio di vita, così parlò con cerimonioso sussiego:
—Signorina, potevo venire ieri a Castelnuovo, e mi era parso troppo presto. Dovevo venire domani, e mi pareva troppo tardi per il mio desiderio. Sappiate che appunto ier l'altro a sera avevo mandato un telegramma a Ferrara, al mio vecchio cugino, marchese Gherardo Melli, chiamandolo d'urgenza a Castelnuovo. Egli doveva esser qua domattina, ed io lo avrei pregato di chiedere la vostra mano per me. Ma poichè gli altri mettono le consuetudini da banda, e voi li scusate, spero che scuserete oggi anche me. Signorina Adele, questa mano divina….—e gli tremava la voce, parlando così, mentre cercava con atto divoto di prendere la mano della fanciulla—questa mano divina ho l'onore di chiederla io in persona.
—La mano divina si ritira…. in camera di consiglio;—rispose la signorina Adele, con un sorriso malizioso che ricordava il monachino biondo;—essa darà risposta domani al marchese Gherardo Melli, che sarà il benvenuto.—
Il padre Anacleto…. Maledetta piega dell'abitudine! mi vien sempre questo nome alle labbra. Diciamo dunque che il conte Gualandi del Poggio ebbe quel giorno una pregustazione delle beatitudini eterne.
Ciò mi dispensa dal parlarvi del pranzo, cosa tutta materiale e non degna di figurare accanto a così eterei godimenti. Del resto, se dovessi raccontarvi minutamente ogni cosa, ci avrei materia per un altro volume. E badiamo, le cose lunghe diventan serpi.
Vi racconterò invece che quella sera, mentre il signor Prospero leggiucchiava il giornale, e i nostri giovani parlavano di cose da nulla, mettendoci il senso arcano e profondo che si può mettere anche in cose da nulla, capitò il sottoprefetto di Castelnuovo; visita aspettata ma niente affatto gradita. Il signor Prospero, che rammentava gli accordi, non sapeva che pesci pigliare, e dentro di sè mandava al diavolo il conte Gualandi, il sottoprefetto, il duca di Francavilla, il ministro degli interni, le commende e i commendatori, i capricci delle nepoti, le proprie vanità e chi gliele aveva ispirate.
—Signorina,—disse il galante sottoprefetto, dopo le cerimonie d'uso,—non potevamo più vivere senza di Lei. La sua presenza è necessaria a Castelnuovo. Eravamo già per protestare contro Torino, che ce l'aveva rapita.
—Oh, non sono stata così lontano;—rispose la signorina Adele.
—Davvero? O dove allora?
—Signor cavaliere, dovrebbe indovinarlo. Non è del suo ufficio sapere ogni cosa?
—Certamente…. certamente! So tutto io;—rispose il sottoprefetto, sentendo la frecciata e volendo far l'uomo di spirito,—ma, qui, proprio, non so che cosa le piaccia che io sappia.
—Molto gentile!—replicò la signorina Adele.—Ma lei ha facoltà di sapere ogni cosa. Mi scusi intanto se io, confusa dalle sue cortesie, non ho fatto prima una presentazione. Veramente, toccherebbe a mio zio; ma Lei, che è tanto buono con me, non faccia attenzione a queste piccolezze. Signor cavaliere—soggiunse, additando con un sobrio gesto il suo giovane vicino,—ho l'onore di presentarle il conte Valentino Gualandi del Poggio, ferrarese, mio fidanzato.—
Scena muta e inarcamento di ciglia! Il conte Gualandi, primo, credette di vedere il cielo che si apriva, per rovesciargli addosso un nembo di fiori e di profumi; il signor Prospero ricordò il polo artico e l'equatore, che gli parvero una cosa da nulla al confronto di quella volata improvvisa; il cavaliere sottoprefetto vide a dirittura un abisso, in cui si sprofondava la sua commenda e la sua prefettura.
—Mi congratulo….—balbettò egli, obbedendo alla necessità del discorso.—Avevo già avuto il piacere di trattenermi con Lei, in altre circostanze, che veramente non mi lasciavano sperare…. Il signor conte è un uomo felice.
—Grazie!—esclamò il conte Gualandi, stringendo la mano del sottoprefetto.—Ella mi legge nel cuore.—
E guardò la signorina Adele, come per rivolgere a lei, in forma di ringraziamento, le parole dette al sottoprefetto. La bella birichina abbassò gli occhi e si morse le labbra, perchè aveva una gran voglia di ridere.
Prima di andarsene, il sottoprefetto trovò il modo di tirare in un angolo il signor Prospero, che tentava sempre di sfuggirgli, mettendosi al riparo dei giovani.
—Mi spiegherà poi, signor Prospero….—gli disse, fissandolo negli occhi, come se volesse conficcarlo nel muro.
—Che vuol che le spieghi?—ribattè quell'altro, annaspando.—Con la mia nepote non si sa mai quanti se n'ha in tasca. Questa, per esempio, è una tegola che cade sulla testa a me come a Lei.
—Ma lei, per tutti i diavoli….—
E stava per dire dell'altro, il nostro sottoprefetto, perchè veramente non ci vedeva più lume. Ma una voce argentina lo richiamò in carreggiata.
—Cavaliere, venga qua;—diceva la signorina Adele.—Venga a dare il suo giudizio su questo bozzetto.
—Oh, bello!—si degnò di esclamare il sottoprefetto, dopo aver dato una guardatina alla tela che stava sul cavalletto, nel vano della finestra.—Che cos'è?
—Il chiostro del convento dei matti;—rispose sorridendo il conte
Valentino.
—Una particolarità del nostro circondario?—soggiunse il sottoprefetto, ridendo anche lui, ma a denti stretti.
—Ahimè! Una particolarità andata a male;—replicò il conte Valentino.
—Andata a male! E perchè?
—Perchè la comunità di San Bruno è sciolta.
—La ragione?
—Eh, dovrebbe immaginarsela. Una donna, penetrata là dentro, ha mandato in aria ogni cosa, incominciando dai cuori. Non le pare un bel colpo, signor cavaliere? Lei, del resto, deve esserne contento.
—Io? E come?
—Ma sì, non era forse contrario alla nostra istituzione? Il nostro convento laico era un cattivo esempio, un tradimento fatto alla società. Son sue parole; non le rammenta?
—Sì, sì, le rammento; ed anche le sue risposte…. che le parevano di trionfo, l'altro dì.—
Il conte Valentino chinò la testa in atto di contrizione.
—Mi parevano;—rispose.—E in questo verbo è detta ogni cosa. Ma infine, io e lei si disputava di principii, si rimaneva nelle alte regioni filosofiche. Una donna animosa e gentile è venuta lassù con ben altri argomenti. Si è presentata, ed ha vinto senza combattere.
—Le faccio i miei complimenti;—disse il sottoprefetto, volgendosi alla signorina Ruzzani.—Ed anche i ringraziamenti della società vendicata.—
La masticava male, il povero cavaliere. Ma ci voleva pazienza. Con la pazienza, lo ha detto Orazio Flacco, s'impara a sopportare ciò che non è dato mutare. Il guaio grosso era questo, che bisognava rimbrodolarla con due persone ad un tempo; una meno importante, ma più vicina, che era il duca di Francavilla, pasciuto fino allora di chiacchiere; l'altra più lontana, ma collocata sul vertice dell'ordine gerarchico, e dalla quale il signor cavaliere sottoprefetto s'aspettava promozione o commenda. Ahimè! commenda e promozione si allontanavano ad occhi veggenti da lui.
Da uomo savio, che sa aspettare una buona ispirazione, il sottoprefetto di Castelnuovo rimandò al giorno seguente il discorso col duca di Francavilla; ma quel medesimo giorno scrisse al ministro, accettando l'idea che gli aveva ispirata in buon punto il fortunato priore di San Bruno. Salutem ex inimicis nostris, lo dice il testo latino.
Se il nostro ottimo cavaliere si apponesse, prendendo l'ispirazione dal nemico, giudicate voi, o lettori, da ciò ch'egli scrisse al ministro:
"Eccellenza,
"Il sogno più lieto della mia vita s'è dileguato; come tutti i sogni, pur troppo. E di ciò non mi dorrebbe molto, se non andasse anche in dileguo la cara speranza che io avevo concepita di aiutare secondo le mie umili forze un alto disegno della Eccellenza Vostra. Tutte le fila erano bene disposte pel matrimonio del duca; ma il destino le ha scompigliate ad un tratto, con uno di quei colpi impreveduti e imprevedibili, che entrano per tanta parte nelle umane combinazioni. Forse, considerando la cosa dal lato più ristretto, potremmo dire: meglio così! Ma questo potrà pensarlo il duca, a cui non mancheranno occasioni di illustri parentadi, e che ha tanti titoli a meritare la felicità della vita domestica, come ad ottenere i trionfi della vita pubblica. Io, frattanto, nella mala riuscita del nostro disegno, posso rallegrarmi di avere salvata la sua dignità. Il suo nome non è stato compromesso; questo è l'essenziale. Il degno gentiluomo è qui ben veduto, cercato, accarezzato da tutti. La società più ragguardevole di Castelnuovo sarebbe superba di imparentarsi con lui. Se la Eccellenza Vostra crede che io debba proseguire, mutando indirizzo, si potrebbe combinare con la famiglia Gamberini. C'è una figlia unica, degna di figurare alla capitale. Meno ricchezza di casa Ruzzani, è vero; ma quattordici generazioni di nobiltà. Sono conti da trecento e più anni. Un Gamberino fu tra i più reputati capitani di Braccio da Montone, e poscia di Francesco Sforza, come la Eccellenza Vostra potrà riscontrare nelle genealogie del Litta. I Gamberini hanno dato due cardinali alla Chiesa e un famoso colonnello all'Austria, nella guerra contro i Turchi, sotto gli ordini di quel fulmine di guerra che fu il maresciallo Laudon. Capisco che non sarà più l'alto concetto di Vostra Eccellenza; ma che farci? Io ci ho spesa tutta la mia buona volontà; se non ne sono venuto a capo, non è colpa mia. L'illustre uomo di Stato a cui ho l'onore di scrivere, mi conosce, sa il poco che valgo, e mi renderà piena giustizia.
"Sono stato assai più fortunato in un'altra faccenda, che non era tra le meno gravi di questo circondario, e che poteva riuscire di gran nocumento alla società civile, ove si fosse propagato l'esempio, come era a temersi. Un convento laico si era fondato da qualche anno a due ore di distanza da Castelnuovo, nell'antico monastero di San Bruno. Erano già sedici frati; tutti uomini di buon nome e di ragguardevole stato, che si erano dati pazzamente ad una vita claustrale di loro invenzione, sottraendo altrettante forze vive alla patria, e minacciando col loro esempio di sottrarne molte altre. Vostra Eccellenza non ignora come siano contagiose certe malattie morali, assai più delle fisiche. Persuaso di questa verità e compreso della grande malleveria che pesava su me, cercavo da oltre un anno di portar rimedio a questo gravissimo sconcio. Nella legge, non trovavo armi; nella filosofia non trovavo argomenti. Ho avuto ricorso alle astuzie, fin dove la lealtà della buona guerra consentiva; ho fatto operare in quella ostinata comunità di misantropi le forze irresistibili della natura. E il convento laico di San Bruno si è disciolto ier l'altro, senza che la dignità del governo ne scapitasse punto. Porgendo ascolto ai miei suggerimenti, i nuovi conventuali, nell'atto di sciogliersi, hanno deliberato di regalare il convento alle Opere pie di Castelnuovo; e appunto un'ora fa, parecchi di loro, venuti per ossequiare in me il rappresentante del governo, me ne hanno recato il gratissimo annunzio.
"Con ciò mi lusingo di avere interpretato un desiderio della Eccellenza Vostra, che io studio con riverente cura in tutti i suoi atti, improntati di quell'alto senno e di quella sottile preveggenza che mira alle cose lontane come alle cose presenti, per ottenere all'Italia il posto nobilissimo che le si addice al banchetto delle nazioni."
Perfino il banchetto delle nazioni! Il signor cavaliere aveva studiato sui buoni autori della giornata, e i ferri della rettorica gli erano assai familiari. Ma ohimè! questa volta la rettorica non doveva servirgli molto. Scritta la lettera confidenziale al ministro, ne aveva mandata un'altra al prefetto della provincia, suo capo immediato, magnificando l'impresa dello scioglimento che sapete e domandando abbastanza chiaramente una corona civica. Intendete la commenda, che è una corona da mettersi al collo. Ma Sua Eccellenza il ministro degli interni non reputò che, con lo scioglimento della comunità di San Bruno, il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia avesse salvata abbastanza la società, e gli decretò solamente una croce di cavaliere. Aveva già quella della Corona d'Italia; gli mandavano quella dei Santi Maurizio e Lazzaro.
Quella onorificenza che non lo alzava d'un grado nell'ordine equestre, gli venne un mese dopo le lettere su cui vi ho forse intrattenuti più a lungo del bisogno. E il signor Prospero, che non era neanche al primo scalino, ma che doveva essere almeno cavalier d'onore alle nozze della sua bella nepote, trovò il tempo per andarsi a rallegrare con lui.
—Hanno avuto torto a non mandarle la commenda;—gli disse.—Ma noi avremo se non altro la soddisfazione di chiamarlo…. biscavaliere.—
Convenite, lettori umanissimi, che la celia, quantunque detta senza cattiva intenzione, era di pessimo gusto. Il cavaliere Tiraquelli andò a dirittura fuori dei gangheri.
—Sa Lei, signor Prospero, che cosa debbo dirle?—gridò.—Vada…. vada…. dove le sarà facile di capire che io possa mandarla.—
Il signor Prospero, che era lontano mille miglia dall'idea di averlo toccato sul vivo, spalancò tanto d'occhi a quella improvvisa sfuriata.
—O che? La piglia per male? Una croce di più non è poi una bastonata da dolersene tanto.
—-La piglio come va presa. E di croci ne ho già avute abbastanza; specie, se penso a quella che m'ha dato Lei.
—Io?
—Sì. Lei. Non è forse per Lei che tutti questi malanni sono avvenuti? Il povero duca di Francavilla è partito da Castelnuovo su tutte le furie. E dire che potevano imparentarsi con la prima nobiltà d'Italia! Un Francavilla!… Altro che Gualandi del Poggio! Un Francavilla avrebbe fatto onore ai loro milioni, accettandoli.
—Grazie della sua degnazione!—disse il signor Prospero, chinando la testa.—Ma infine, signor cavaliere, se la mia nepote non ha voluto saperne, che ci posso far io?
—Già, questa è la sua scusa. Come se Lei non ci avesse la colpa maggiore, nella sua mancanza di autorità! E voleva esser fatto commendatore?
—Adagio, signor cavaliere, adagio! Non ero io che volevo; era Lei che mi aveva fatto il solletico,—replicò il signor Prospero, con molta dignità.—Io non ho domandato nulla, e, se ci penso, mi pare che non avrei avuto il diritto di domandar nulla al governo. Sa Lei, signor cavaliere? Qualche volta ci penso e me lo dico da me:—Amico Prospero, chi sei tu, di grazia, e che cosa hai fatto, per diventare ambizioso? Non sei già tra i felici della terra? Arrivato ai cinquantacinque, senza acciacchi, senza bisogni, senza moglie, e senza associazioni in corso, che cosa desideri di più, che cos'altro chiedi alla fortuna? Essere tra i felici non val meglio che essere annoverato tra i potenti? Vai, stai, ti muovi e ti fermi a tua posta; i denari che spendi sono tuoi; nè di denari spesi, nè di capricci soddisfatti, devi render conto a nessuno. No, Prospero, amico mio, tu non hai diritto a lagnarti della sorte, e molto meno di aspettarti onorificenze, pel solo fatto che Iddio t'ha posto in condizione di vivere senza difficoltà in questa valle di lagrime. Aspettare dal governo! Che cosa? Ah sì, una cosa puoi e devi aspettare da lui; che esso conservi al tuo paese una stazione di dieci carabinieri; cinque a piedi e cinque a cavallo. Ci fanno buona figura, i carabinieri a cavallo! Ecco un ordine cavalleresco che vale qualche cosa, e il governo farà bene ad esserne prodigo co' suoi amministrati. Tutto il resto è apparenza, oro falso, princisbecco. Scusi, sa, signor cavaliere; parlo come uno che non lo è. Ma le giuro che, se lo fossi, parlerei sempre egualmente.
—Bravo!—esclamò il sottoprefetto, accompagnando la parola con un riso sardonico.—Lei è un felice borghese. Ma io sono un ufficiale del governo, uno di quei poveri soldati del dovere, che vegliano alla sicurezza e alla tranquillità di lor signori gaudenti. Ho bisogno di autorità, io, di favore in alto e di prestigio in basso. E tutto ciò che è avvenuto scuote la mia autorità, scema il favore, offusca il prestigio. Potessi almeno levarmi di qui! Ma questo è più lontano che mai. Ne avrò per un altro paio d'anni, di questa sottoprefettura, se Iddio e il Parlamento non abbattono il Ministero.
—Preghiamo Dio e il Parlamento che ci facciano la grazia!—rispose il signor Prospero Gentili.—Vuole che faccia fare un triduo, secondo la sua intenzione?—
Non vi riferisco il rimanente di quella malinconica conversazione, poichè la mia storia non ne ha punto bisogno. Del resto, la mia storia è finita. Qualche settimana dopo, si celebrarono le nozze Gualandi Ruzzani, e gli sposi, felici che Dio vel dica, si disponevano ad un lungo viaggio, a mezza via tra l'equatore e il polo artico. Prima di andarsene da Castelnuovo Bedonia, vollero fare una gita. Indovinate dove? Al convento di San Bruno.
Era una bellissima giornata di settembre. Se fossimo in principio di volume, ve la descriverei. Siamo all'ultima pagina, e ciò vi salva da uno squarcio di prosa.
Il convento era deserto, ma per i nostri due protagonisti lo popolavano abbastanza i ricordi scambievoli. Del resto, c'erano essi, e per allora non si richiedevano comparse, a ravvivare la scena. I pochi parenti ed amici, che avevano accompagnata la coppia felice, erano fin troppi per l'uso.
—Cari luoghi!—mormorò lo sposo all'orecchio di lei, mentre si traversava il giardino.—In questo crocicchio, quando tu sei partito, bel serafino biondo, siamo venuti alle grosse.
—Un duello!—esclamò ella, stringendosi al fianco di Valentino.
—Quasi,—rispose il conte, stringendo a sua volta il braccio tremante del serafino biondo.
Questi, o questa, perchè gli è tutt'uno, fece l'atto di accostarsi a lui, per scoccargli un bacio; ma si trattenne a mezz'aria. Era presente un terzo incomodo, un amico, un compagno d'altri giorni, che il conte Gualandi aveva voluto testimone alla cerimonia nuziale. Mettete che fosse il narratore di questa povera storia, e non andrete lungi dal vero.
Il povero testimone, mentre gli sposi correvano di qua e di là per tutti i recessi del convento, evocandone ad una ad una le dolci memorie, era andato a sedersi sotto il colonnato del chiostro, ed era rimasto assorto in una meditazione profonda.
—Che peccato!—esclamò egli ad un tratto, senza por mente che pensava ad alta voce.—Dopo tutto, ci starei ben io, in questo bel luogo solitario, a far la vita che egli non ha avuto costanza di proseguire. E giuro a Dio che nessun monachino biondo….
—Non giurate!—interruppe una bella voce argentina.—O presto o tardi, c'è sempre il rischio di pentirsene.—
Sono stati corretti i seguenti refusi:
e sarei per dire di [piccolo] Parigi. alla mano, un principe democratico, un [feliciscissimo] i nembi di primavera; bensì i dolori [del] trenta, rimaner tale agli [occchi] della gente. [abbiamo] lavorato. Del resto, i rimedi son molti, cinquantina di scheletri, che, tenuti [riti] con acconcie poveri ufficiali preposti alla [ammistrazione] forse, avrà i suoi piccoli [dispiacerl]; vorrà anche tenebre anticipate, mentre tutto [riplende] intorno bisogna chiamarvi, [perche] questo incognito non più in là, verso [le] spigolo. —Grazie!—disse il padre Anacleto.—[Aspetttiamoli] come gli altri. Che il priore fosse [innamoraio] —Restiamo;—disse il padre [Anacheto].—Soltanto caso presente esclude il [sospetio], mi sembra.
End of Project Gutenberg's L'undecimo comandamento, by Anton Giulio Barrili