The Project Gutenberg eBook of Il processo Bartelloni

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Title: Il processo Bartelloni

Author: Jarro

Release date: May 13, 2009 [eBook #28786]
Most recently updated: January 5, 2021

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK IL PROCESSO BARTELLONI ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

Online Distributed Proofreading Team at https://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

Il Processo Bartelloni.

DEL MEDESIMO AUTORE (edizioni Treves).

La Principessa. 3.^a edizione. L. 1 — La vita capricciosa. 3.^a edizione. 1 — L'assassinio nel vicolo della Lima. 4.^a edizione. 1 — I ladri di cadaveri (esaurito). La figlia dell'aria. 4.^a edizione. 1 — Apparenze. Due volumi. 2.^a edizione. 2 — La polizia del diavolo (esaurito). L'Istrione. 2.^a edizione. 1 — La duchessa di Nala. 3.^a edizione. 1 —

Storia di un Cuore, di EMILIO CASTELAR, ridotta dallo spagnuolo da Jarro. 3.^a edizione. 1 —

Il Processo Bartelloni

ROMANZO

DI
JARRO

(Giulio Piccini)

                      Quarta Edizione
            riveduta e corretta, dall'autore.

MILANO FRATELLI TREVES, EDITORI

1906.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

IL PROCESSO BARTELLONI

I.

Il 2 decembre 1831, circa le dieci antimeridiane, i sei auditori della Rota Fiorentina, che formavano il Turno Giudicante sugli affari criminali, erano tutti congregati nella stanza in cui solevano tener consiglio.

Arrivati alla spicciolata, si eran messi a discorrer fra loro degli argomenti più estranei allo scopo pel quale si riunivano.

Un auditore raccontava che un suo bambino di tre anni aveva ruzzolato la scala: un secondo si lamentava del mal di capo: un terzo deplorava di non trovar rimedio alle sue insonnie. Non posso dormire, diceva, neppur all'udienza!

Dopo un quarto d'ora giunse il presidente.

Tutti gli mossero incontro per stringergli la mano e dargli il buon giorno.

Il presidente entrò sorridendo, fece riverenze a destra e a sinistra, e strinse con tutte e due le mani la mano che gli porgeva ciascuno degli auditori.

—Vostra signoria sta bene?—domandò l'auditore Lechini, un omettino di bassa statura, magrolino, sempre ligio, cerimonioso, e che faceva uno sforzo per non buttarsi in ginocchioni quando parlava col presidente, con gli alti magistrati della Consulta, o con qualche altro dignitario da cui dipendeva il suo avanzamento.

—Sto benissimo, caro Lechini,—rispose il presidente, gratificando di un sorriso speciale il suo prediletto.—Loro, signori, stanno tutti ottimamente, lo vedo!—continuò, volgendo attorno un'occhiata benevola e con un gesto di cordiale protezione.—Ci sono notizie da Pisa sulla salute di Sua Altezza la Granduchessa?

—Lo stato di Sua Altezza—rispose il Lechini, inchinandosi nel pronunziare la parola Altezza, e andando a cercare tra molte carte sopra una tavola la Gazzetta di Firenze, del giovedì—è sempre il medesimo. Ecco quello che dice il giornale.

Il presidente, sedutosi nella sua poltrona, faceva sembiante di prepararsi ad ascoltare con grande raccoglimento.

Il Lechini lesse, sotto la data di Pisa:

«Tutto quello che ha rapporto allo stato attuale della nostra adorabile Sovrana forma ora, può dirsi, la principale e più importante occupazione di tutta questa popolazione. Tra le altre pie funzioni dedicate a tale interessantissimo oggetto…»

Gli auditori, tutti in piedi, intorno al banco del presidente, ascoltavano attenti, o ne facevan sembiante, la lettura del giornale.

Quando l'auditore Lechini ebbe finito, il presidente esclamò:

—E' ammirabile in ogni circostanza l'esempio, che dà la famiglia regnante, di sentimento religioso… A proposito, Lechini, avete sentito la messa del maestro Andrea Nencini nell'Oratorio dei Preti di San Firenze?

—Sicuro, signor Presidente!—disse il Lechini—Anzi l'arcivescovo
Minucci mi ha domandato notizie di lei.

—E' un buon lavoro questa messa?

—Stupendo!—rispose l'auditore—L'esecuzione poi magnifica… Il tenore Giovanni Duprez ci ha imparadisati. Anche il basso Domenico Cosselli ha fatto prodigi. L'orchestra del Teatro della Pergola è stata eccellente…

Il presidente della Rota, colto, ingegnoso, faceva pompa volentieri del suo gusto per la letteratura, per le arti, e in specie per la musica.

—Ho sentito sere sono—riprese il presidente—al Teatro degl'Infuocati una ragazza, che canta di contralto, in modo…—creda, Lechini….—da sbalordire…. Si chiama Clementina Vecchietti. E cantava quella bellissima aria del nostro Mercadante:

Ah! s'estinto ancor mi vuoi…

E il magistrato ripeteva l'aria a mezza voce, e con la mano destra batteva la misura sopra un bracciuolo della poltrona.

—Sembra che sia piaciuto molto il Torquato Tasso recitato dalla Compagnia Internari e Paladini… La Internari mi scrivono che nella parte della duchessa Eleonora è insuperabile.

—Ma l'autore del lavoro si è scoperto?

—Oh! si scopre facilmente l'autore di un lavoro che piace, anche se voglia sulle prime farsi pregare…. Si è quindi saputo subito che il Torquato Tasso è dell'autore della Monaca di Monza.

Fu picchiato alla porta.

—Entrate!—disse il presidente.

Un usciere entrò, portando una lettera, e la consegnò al presidente.

Il presidente l'aprì e lesse: «Vostra signoria è invitata ad assistere alla prima adunanza, che l'I. e R. Accademia dei Georgofili terrà domenica mattina, 4 decembre, a ore 10 e mezzo.»

La porta fu spalancata di nuovo con grande strepito ed entrò, tutto accigliato, e con mal garbo, l'auditore Pantellini.

Questo auditore rappresentava in tutte le discussioni la contradizione, l'opposizione.

Mentre l'auditore Lechini credeva suo obbligo di essere sempre dello stesso parere del presidente, l'auditore Pantellini si compiaceva di esporre sempre un parere contrario a quello del suo superiore.

—Buon giorno!—disse bruscamente, appena entrato, e come se avesse voluto addentare tutti i presenti. E, mentre posava il cappello sopra una sedia, guardava il Lechini con un piglio quasi stesse in forse di divorarlo.

L'auditorìno aveva paura delle violenze e delle escandescenze del suo collega, alle quali serviva spesso di bersaglio.

—Buon giorno, signor auditore!—rispose il presidente al saluto quasi minaccioso del collega.

Il presidente, che non si era mosso dalla poltrona, tendeva la mano al nuovo arrivato con fisonomia ilare e in atto di molta cortesia.

Il presidente apparteneva ad una famiglia nobile, frequentava i più eletti convegni della città, era uomo di squisita educazione, di animo mitissimo, di carattere amabile.

Mise la sua mano bianca, morbida, in quella ruvida e nervosa dell'auditore Pantellini: quindi, alzandosi, esclamò:

—Signori!… è tardi, dobbiamo entrare in udienza.

L'auditore Lechini corse al cordone del campanello e lo tirò.

Subito comparve un usciere.

—Andate ad avvertire il signor Avvocato Fiscale e il Cancelliere che il signor presidente vuol cominciare l'udienza…

L'usciere, che aveva lasciato la porta aperta, fece un cenno.

Altri due uscieri entrarono: e cavarono da due armadii le toghe dei magistrati.

—Il prigioniero è sceso?—domandò il presidente all'usciere capo, mentre questi gli legava con molta diligenza le facciòle.

—Sì, signor presidente: si trova nella stanza di custodia, accompagnato dall'agente Lucertolo che è ora di servizio alle carceri, e con il quale l'inquisito parla molto volentieri.

—L'Avvocato Fiscale, il Cancelliere sono già in sala d'udienza!…—disse, tornando con la toga già in dosso, e col berretto in mano, l'usciere, che era stato mandato a far l'ambasciata.

—Signori, sono pronti?—interrogò il presidente.

E visto che tutti avevano infilato la toga, aggiunse, rivolto al capo usciere:

—Dunque, possiamo andare!

—Prendete!—disse all'usciere l'auditore Pantellini, relatore nella causa, tendendogli, con un gesto molto brusco, un grosso fascio di fogli.

Pochi secondi dopo, i sei magistrati della Rota entravano nella sala d'udienza, preceduti dall'usciere, che alzando una mano verso il pubblico, gridava: abbasso i cappelli!

Gli auditori sedettero.

Il presidente scambiò un lieve saluto con l'avvocato fiscale, quindi rivolto al birro graduato, che stava dinanzi una porta chiusa, a sinistra della sala, vicino al banco dei magistrati:

—Fate entrare—gli disse—l'inquisito.

Ci fu un mormorìo di curiosità.

Subito entrarono un gruppo di birri e dietro di loro comparve, sereno, tranquillo, quasi sorridente, Nello Bartelloni, accompagnato da altri birri.

Da un'altra porta entrava nel medesimo istante l'avvocato Arzellini.

Prima di sedersi al banco della difesa, si tolse di capo il berretto nero, e s'inchinò rispettoso al Presidente e all'Avvocato Fiscale.

II.

La sala nella quale teneva le udienze la Rota Criminale fiorentina, al pianterreno, nel palazzo detto del Bargello, riceveva luce da finestre che davano sul cortile: era piuttosto oscura.

Vi si accedeva dalla porta, che è oggi quasi sulla cantonata di Via del Proconsolo e della piazza San Firenze. Allora quel tratto di via del Proconsolo si chiamava Via de' Librai: la porta era più bassa, adorna di fregi e di un gran cornicione, e in alto, posati su due aggetti, erano due leoni.

Sulla testa di questi leoni, in certi giorni solenni, si metteva una corona in ferro dorato.

Una scaletta segreta metteva in comunicazione gli ufficii della Cancelleria con la stanza del Soprastante alle carceri della Rota e per questa scaletta scendevano i prigionieri, condotti alle udienze, e passavano spesso anche i Cancellieri, recandosi a visitare i detenuti.

Un trabocchetto che, movendo da una gran sala del palazzo rasentava gli uffici della Rota Criminale e andava a finire nei sotterranei, dette in antichissimi tempi origine alle più cupe leggende.

La disposizione e l'ornamento della sala d'udienza poco differivano dal modo oggi per tal rispetto praticato.

I sei auditori sedevano dietro a un lungo banco coperto da un tappeto verde; a destra dei giudici sedeva l'Avvocato Fiscale, a sinistra il Cancelliere.

Dinanzi al banco dei giudici, più in basso, era il banco al quale sedevano gli avvocati, e dietro una lunga fila di sedie sulle quali prendevano posto gli attuarii, giovani, cioè, che nella Cancelleria facevano pratiche per abilitarsi alla magistratura, e altri giovani, che studiavano per diventare avvocati.

Un cancello di legno, alto quasi fino al collo di un uomo di ordinaria statura, spartiva la sala delle udienze dal posto riservato al pubblico.

La curiosità destata dal processo di Nello era acutissima.

Tutti volevano vedere il presunto assassino.

Un'ora prima che l'udienza cominciasse, la gente era entrata nella sala.

Alcuni venditori del Mercato avevano persino chiuso le botteghe per assistere all'interrogatorio di Nello, che doveva esser fatto dopo la lettura della relazione.

Uomini e donne erano lì pigiati e si alzavano in punta di piedi, e quelli rimasti indietro cercavano spingersi innanzi a furia di gomiti e d'imprecazioni. I due birri, che stavano di guardia alla porta della sala, ogni tanto facevano cenni con le mani, prima che cominciasse l'udienza, e il silenzio a un tratto si ristabiliva.

Poco dopo le vociferazioni, le esclamazioni d'impazienza ripigliavano, e i birri, chiamandoli per nome, minacciavano di far uscire i più rumorosi.

Due consiglieri di Stato, alcuni magistrati della Consulta, un segretario del ministro inglese, alcuni ragguardevoli personaggi dell'aristocrazia erano seduti nel posto riservato agli attuarii, e ai giovani avvocati.

Ogni tanto essi si volgevano indietro, come disgustati per gli acri odori che emanavano dalla folla dei mercatìni.

Nello aveva fatto atto di buttarsi a sedere, ma Lucertolo, afferratolo per un braccio, glielo aveva impedito.

—Devi stare alzato!—gli mormorò, digrignando i denti,—finchè il presidente non ti dica di sederti.

L'auditore Pantellini era occupato a mettere in ordine le pagine della sua relazione.

Il presidente richiese il cancelliere di adempiere alle solite formalità, e quindi, rivoltosi all'auditore Pantellini che gli sedeva a destra:

—Signor auditore!—gli disse a bassa voce,—può leggere la sua relazione!

Il pubblico s'impazientiva di non veder Nello.

Lucertolo, Zampa di Ferro, il Matto, Vendifumo, il birro più agghindato e più elegante della città, ritti e vigilanti attorno all'inquisito, ne toglievano la vista agli astanti.

L'auditore Pantellini cominciò a leggere con voce dura, e ogni tanto accompagnava la lettura con un gesto minaccioso e vibrato.

Il delitto del Vicolo della Luna era esaminato in tutti i suoi particolari.

L'auditore parlava della stanza misteriosa, della constatazione della ferita, dei precedenti di Nello.

Spesso il nome di un mercatìno, citato come testimone, pronunziato dal giudice in mezzo alla sua relazione, faceva scorrere un brivido, un sommesso mormorìo nella folla accalcata di là dal cancello.

La relazione, che leggeva l'auditore Pantellini, era imparziale, ma da essa la colpabilità di Nello risultava chiara, quasi indiscutibile.

I deposti di alcuni testimoni erano molto gravi: tutti i più piccoli precedenti del povero ragazzo presentati nel modo più odioso.

Esclamazioni di orrore si udirono nella sala, quando il giudice cominciò a parlare delle condizioni in cui era stato trovato il corpo del ferito in mezzo a una gora di sangue nella Piazza della Luna.

La sala, sempre scarsa di luce, appariva anche più buia per la giornata piovigginosa. Il giudice leggeva con accento quasi lugubre.

Le sue descrizioni brevi, evidenti, aumentavano l'atrocità della scena, che ricordava.

Quando egli cominciò a dire della ferita, per la quale l'assassinato aveva perduto il dono della parola, quando accennò ai lunghi mesi di acute sofferenze sopportate dal paziente, quando annunziò che, sebbene fosse stato necessario di fargli cambiar clima, e trasportarlo con ogni precauzione, come un moribondo, pure si avevano di lui notizie che tuttora inducevano a sperar poco della sua vita, quando accennò che la ferita era stata resa più larga e più dolorosa dal modo violento, brutale con cui l'assassino n'aveva tratto fuori il pugnale, da diecine di petti si alzò un grido di esecrazione!

Negli atti del processo non si trovava un solo argomento in favore di Nello, non ostante la buona volontà dell'auditore Nolmi, che lo aveva preparato: invece si accumulavano contro di lui le risultanze più compromettenti.

Come sa il lettore, l'auditore Francesco Nolmi aveva raccolto la convinzione morale che Nello non fosse colpevole, o per lo meno che la sua colpabilità fosse dubbia; ma il suo era sentimento, basato sopra osservazioni da filosofo, e sopra induzioni di una mente delicata, fondato su ingegnose, sottili ipotesi piuttosto che su fatti certi e positivi. Ora agli animi volgari doveva naturalmente sfuggire ciò che aveva colpito il magistrato, uomo dottissimo, e di grande intelletto. Non era già sfuggito anche a' suoi colleghi? E nel Turno di Revisione non era stato deciso di rinviare il processo alla Rota con due voti contro il suo?

La relazione volgeva al termine.

Lucertolo era tra coloro che l'ascoltavano più ansiosamente.

Di tanto in tanto, durante la lettura, egli faceva col capo un lieve cenno, appena percettibile, come se rispondesse a qualche suo interno ragionamento.

Il birro attento, trepidante, aveva aspettato di scorgere da un momento all'altro nell'arida relazione uno di quei tratti, che nella loro evidenza e semplicità bastano ad illuminare tutto un processo, che recano un raggio di verità nelle tenebre più intricate di un'istruttoria mal riuscita, che dimostrano ai veri intelligenti come il giudice abbia a traverso il fitto velo, che ingannevoli apparenze gli mettevano innanzi, veduta la strada da battersi e dalla quale i suoi colleghi, che l'hanno preceduto nelle ricerche, si sono allontanati.

Ma nulla di ciò traspariva da quella relazione.

Il giudice, severo, implacabile, seguiva le traccie del processo inquisitorio: non si alzava di una spanna dal terreno, che già aveva trovato battuto.

Spesso a certi punti della relazione, Lucertolo e Zampa di Ferro scambiavano sguardi significativi.

Allorchè il giudice arrivò al punto in cui sosteneva apertamente che Nello doveva aver commesso il delitto da sè solo, senza il menomo aiuto di complici, senza istigazione, secondo che si poteva con sicurezza inferir dagli atti del processo, Lucertolo battè un piede sul pavimento, facendo tal rumore, che molti torsero il capo verso di lui.

Accortosi, benchè troppo tardi, dell'imprudenza, il birro cercò di comporre la fisonomia ad una espressione di profonda concentrazione e di serietà.

Sebbene si sentisse mira agli sguardi di molti, non alzò gli occhi, non mosse ciglio, volendo dare ad intendere, o che non era stato lui che aveva battuto il piede in terra, o che aveva compiuto quell'atto inconsciamente.

Del resto, in quel momento, Lucertolo era bello a vedere. Ormai si teneva sicuro di non essere scoperto del furto da lui commesso nella camera della vecchia Tittoli, agonizzante: aveva ripreso tutta la sua maestà, tutta la sua alacrità e, a dire il vero, aveva speso una parte dei denari rubati a render più agevoli le indagini a cui si era consacrato.

L'amore dell'arte era potentissimo, radicato in questo poliziotto, che ad ogni costo, e pei fini da noi palesati, voleva far carriera e spingersi in alto.

Una prova del suo genio era stata quella di farsi mettere di servizio alle Carceri della Rota.

In tal guisa egli esercitava una duplice ed efficace sorveglianza.

Vegliava fuori su Bobi Carminati, ed entro le carceri si trovava di continuo in contatto con Nello.

Così egli non perdeva mai di vista i due punti estremi a' quali, secondo il suo pensiero, il delitto del Vicolo della Luna era strettamente collegato.

Ma Bobi Carminati, dopo pochi mesi, gli era sfuggito.

Audace sino alla temerità, non scaltro quanto Lucertolo, ma come lui arrischiato e avventuroso, Bobi Carminati lasciava il Corpo dei Pompieri, dove era inviso, e con una misteriosa protezione trovava nientemeno il modo d'entrare nella polizia.

Cinque mesi dopo il delitto, il pompiere Bobi Carminati era divenuto famiglio in uno dei sobborghi più lontani di Firenze, e sotto la dipendenza del Capitan Bargello di Brozzi.

Appena entrato nella milizia civile, appellativo ambizioso che il governo aveva dato ad una polizia sulla quale contava molto, e che guardava con occhio davvero paterno, il Carminati non fu più chiamato per nome, perdette anche il suo nomignolo di Marrone e ricevette un soprannome, ispirato dal suo truce aspetto, dai propositi feroci, che spesso teneva, il soprannome di Boia.

Quando si trattava di fare qualche spedizione penosa, di mettere un birro risoluto, che non scherzasse, alle calcagna di qualche manigoldo, il caporale diceva:—Ci manderemo il Boia!—E già Bobi Carminati era in pochi mesi divenuto lo spauracchio dei ladri campestri e dei rompicolli che infestavano le campagne.

Il disegno di Lucertolo si era dunque allargato.

La sua operazione diveniva più brillante, acquistava nuova importanza.

Non si trattava più per lui soltanto di scoprir l'innocenza di Nello, di scovar il vero autore dell'assassinio commesso sul pittore Gandi, ma si trattava eziandio di provare che l'assassino era un suo collega, di mostrare che la polizia degenerava, che andava troppo abbassandosi, raccogliendo i suoi agenti nella feccia dello stesso volgo.

Questo doveva, tornando in discredito di coloro che allora dirigevano la polizia, sempre più mettere in grido Lucertolo, procacciargli nome tra' suoi, poichè nei birri in quel periodo del 1831 era grande l'odio simulato verso gli altissimi capi della polizia: grande quasi quanto l'obbedienza, l'umiltà che ostentavano dinanzi ad essi.

Dieci minuti dopo che Lucertolo si era lasciato sfuggire l'improvvido atto d'impazienza, l'auditore Pantellini aveva finito di leggere la sua relazione.

L'accusa era formidabile, stringata, logica, convincente. Il rigido auditore aveva fatto un capolavoro. Nulla era sfuggito al suo acume; i più piccoli indizii, raccolti con abilità, accortamente disposti, acquistavano una forza indicibile. Il povero Nello era avvinghiato in una rete di ferro.

Durante l'esposizione dei fatti, così stringata e così inesorabile, il pubblico era rimasto di continuo perplesso, sospeso, agitato.

Tutti erano esasperati, irritati contro Nello e, dopo che l'auditore ebbe pronunziata l'ultima parola della sua relazione, vi fu un secondo di silenzio, di terribile e angoscioso silenzio.

Bisognava passare all'interrogatorio dell'inquisito,

I cuori battevano, tutti gli occhi erano rivolti verso Nello.

Lucertolo, cercato destramente il modo di parlare più volte solo con lui nella carcere, lo aveva, senza parere, o eccitar sospetti, preparato a questo interrogatorio.

Egli, dunque, ne aspettava più impaziente di ogni altro i risultati.

All'invito del presidente, Nello si alzò.

Pallido, e col labbro inferiore cadente, ma tranquillo, quasi sorridendo, fissava i suoi occhi nei giudici con una strana espressione.

Dopo averlo interrogato sulle generalità, il presidente gli disse.

—Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?

Il momento era solenne.

Tutti quelli che erano dietro la cancellata, allungavano il collo, si rizzavano sempre più in punta di piedi per veder Nello.

Quattro o cinque de' mercatìni più arditi si permisero alcune esclamazioni, proferite a mezza voce fra le più energiche del loro linguaggio, come se volessero indurre i birri che circondavano Nello a tirarsi in disparte e così dar modo al pubblico di sodisfare la sua curiosità di veder l'inquisito.

Ma Zampa di Ferro, il Matto, Lucertolo, si voltarono con certi ceffi, che consigliavano il silenzio a' più loquaci.

Le esclamazioni cessarono immantinente.

Nello non rispose alla prima interrogazione.

Allora il presidente con voce più scolpita rinnovò la domanda.

—Come avete udito, voi siete accusato del delitto di tentato omicidio a scopo di furto nella persona del signor Roberto Gandi. Che cosa potete dire a vostra discolpa?

—Io dichiaro—rispose Nello con voce ferma—che sono innocente.

Si udì un mormorìo di disapprovazione.

—Ricordo—disse il presidente in tuono minaccioso—che la maestà del luogo non consente interruzioni indecorose ed inutili. Dò fin d'ora ordine agli esecutori di vigilare da chi partano certe voci e di arrestare i disturbatori!… La giustizia ha bisogno di calma, non di intempestive eccitazioni.

Altri due birri entrarono nel recinto riservato al pubblico.

Pareva ormai sicuro che tutti avrebbero trattenuto anche il respiro.

—Voi dunque insistete—continuò il presidente, parlando a Nello—nell'affermare la vostra innocenza, che del resto avete dichiarato sempre nei vostri costituti?

—Giuro—disse Nello, questa volta alzando anche più la voce—che io sono innocente!

—Signor presidente—soggiunse l'Avvocato fiscale—vorrei che a complemento di quanto si trova in atti nel processo scritto, fosse domandato all'inquisito come egli passò la notte del 14 gennaio.

—Diteci come e dove passaste la notte del 14 gennaio?—richiese a
Nello il presidente.

Nello rimase un istante perplesso: egli non si ricordava più di nulla.

Come abbiamo già raccontato, la sua mente debole era piena di lacune: la sua memoria era imperfetta.

L'idiota aveva tratti di apparente lucidità, si fermava con pertinacia su certe idee, ma il legame tra l'una e l'altra idea sovente gli sfuggiva; si confondeva, titubava, precipitava nelle tenebre della ragione.

Il modo con cui sapeva parlare di certi fatti estrinseci, di certe circostanze più ordinarie, impediva che i non esercitati nella conoscenza di certe misteriose malattie, di certe profonde imperfezioni dell'intelletto si persuadessero, sentissero che quel disgraziato non poteva essere responsabile.

Anche questa volta il presidente dovè tornare a ribattere la domanda.

—Diteci come e dove passaste la notte del 14 gennaio?

—Nel mio letto… a dormire!—rispose Nello.

—A che ora voi eravate andato a dormire?

—Sarò andato alla solita ora… quasi appena buio… non avendo mai avuto lume per vegliare, ed essendomi proibito dalla polizia di girare la notte.

—E perchè la polizia ve lo aveva proibito?

—Perchè alle volte, senz'accorgermene, cascavo per la strada, e mi addormentavo… e mi trovavano addormentato lungo i muri, sugli scalini delle porte: e spesso… dice… mi pigliavano le convulsioni: poi perchè i ragazzi mi davano noia… Una sera un branco di ragazzi mi si avventarono addosso verso le Loggie del Mercato Nuovo, mi portarono a forza di spinte nell'osteria dell'Impannataccia; là mi fecero bere; c'erano altri uomini, che mi misero le mani addosso, e fui trovato sotto una tavola ferito alla testa e tutto insanguinato…

—Basta! Basta!—accennò il presidente—Voglio sapere…

—Vostra Signoria mi perdoni!—interruppe in tuono cortese, ma serio, l'avvocato Arzellini, alzandosi. E tenendo nella mano destra il berretto e congiungendo i polpastrelli del pollice e dell'indice della mano sinistra, che agitava in aria, continuò nel gergo curialesco di allora:

—Con licenza di V. S. io credo che il racconto dell'inquisito giovi all'interesse della difesa perchè ci dimostra come l'inquisito fosse inviso, perseguitato in mezzo a quella classe di mercatìni dalla quale il Fisco ha scelto le testimonianze più gravi, che si trovano nel suo libello…

—Parlerà dopo, signor avvocato—osservò il presidente.—Ella entra ora nel merito…

—È dovere del mio sacro ministero… ripigliava l'avvocato.

—La prego!…—E il presidente accompagnò l'invito con un gesto affabile e risoluto.

L'avvocato sedette, senza protestare, e in atto molto rispettoso.

—Voi assicurate—disse il presidente indirizzandosi a Nello—che vi coricaste appena buio? Prima di addormentarvi, o durante il sonno avete sentito qualche rumore?

—No, Eccellenza!—rispose Nello tutto intimorito.—Non mi pare.

—Spiegateci, dunque, come accadde che essendo voi andato a dormire di prima sera, siete stato trovato la notte nel vostro letto tutto coperto di sangue? Come può essere avvenuto che un uomo sia stato assassinato, trascinato sino alla porta della vostra stanza, senza che voi abbiate udito il più piccolo rumore?

—Ma, signor presidente!—tuonò l'avvocato Arzellini, alzandosi impetuoso.—Mi permetto far notare a V. S. che nessuno dei vicini ha udito alcun rumore.

—Signor avvocato… non interrompa… la prego!—replicò asciutto e un po' sconcertato il presidente.—Voi… Nello… siete stato trovato nel vostro letto, insanguinato… Ma non basta… Sotto il materasso furon trovati nascosti l'orologio, la catena, uno spillo rubati all'uomo che giaceva dinanzi alla vostra porta, e il pugnale col quale era stata fatta la ferita da lui riportata alla testa.

—Il pugnale, la catena, l'orologio li ho presi io—rispose Nello, senza turbarsi,—ma l'uomo non l'ho assassinato io!

—Dove e come avete preso questi oggetti, se dianzi avete asserito che vi coricaste di sì buon'ora e vi addormentaste?

La mente di Nello già principiava a smarrirsi.

Egli non sapeva dare alcuna risposta.

—E voi siete in mendacio—proseguì il presidente, parlando con molta rapidità—poichè, mentre asserite di esser rimasto a letto sin dalle prime ore della sera, ci è un testimonio, che abita nel palazzo della Cavolaja, il quale la sera del 14 gennaio, circa le 10, mentre egli suonava il violino, vi ha udito cantare nella Piazza Luna.

Nello restò come fulminato.

Nella sala, ove regnava il più profondo silenzio, si sarebbe sentito alitare una mosca.

Ma ad un tratto, il silenzio fu turbato dai suoni di un organetto.

Una specie di zingaro, che la polizia tollerava pe' misteriosi servigi da lui resi, passava nella via de' Librai, suonando un'arietta popolarissima.

Nello, come già è noto al lettore, aveva una qualità, che si riscontra pure in molti poco sani della mente: una spiccata propensione alla musica.

La memoria musicale però in lui aveva bisogno per agire, secondo già dicemmo, d'essere aiutata dal ritmo. Era incapace di ripetere le parole senza l'accompagnamento della musica, e di rammentarsene altro che cantando.

Gli uomini di scienza conoscono questo fenomeno.

Dopo le prime note dell'organetto, Nello, invece di rispondere alla interrogazione del presidente, cominciò a cantare.

Cantava a squarciagola nella sala, come quando si trovava nella Piazza
Luna.

Lì per lì tutti furono presi da stupore.

Poi nacque un baccano indiavolato.

Il pubblico si agitava.

Gli auditori, l'Avvocato fiscale, il cancelliere si alzarono.

L'avvocato Arzellini si accostò, anch'egli meravigliato, al suo cliente.

Ma già Lucertolo aveva steso una mano e sbarrato la bocca al mentecatto.

Nessuno capiva la vera ragione di quel canto improvviso.

Neppure uno tra coloro, che si trovavano nella sala, dubitò di attribuire a impostura, a raffinata simulazione, quell'atto di demenza del disgraziato.

—Impostore!

—Ipocrita!

—Birbante!

—Assassino!

Così il pubblico, e i birri, eccettuato Lucertolo, salutavano Nello.

L'eccitazione era immensa.

Specialmente dopo le risposte dell'inquisito, che avevano tanto aumentato, in apparenza, gl'indizii della sua colpabilità.

—Silenzio!—gridò l'usciere.

E tutti i birri rivolsero al pubblico le loro fisonomie accigliate.

Lo zingaro continuava a suonare l'organetto.

E Nello, appena Lucertolo gli ebbe lasciato la bocca libera, principiò di nuovo a cantare.

Allora gli esecutori, ad un cenno del presidente, lo trassero fuori della sala.

Ritornò due minuti dopo, tutto eccitato.

Lo zingaro si era ormai allontanato nella direzione della piazza San
Firenze e Nello non cantava più.

Non rammentava anzi neppure di aver cantato.

Il pubblico strabiliava, ma ormai nessuno osava più far mormorii o atti, che provocassero rigori, secondo gli ordini dati dal presidente.

Il presidente fece a Nello un severo rabbuffo, gli spiegò come egli sempre più aggravava la sua condizione, tentando d'ingannare i giudici con mezzi tanto irrispettosi e grossolani, annunziandogli che, in separato giudizio, sarebbe stato chiamato a rispondere per schiamazzi, disordini nella sala d'udienza.

—Persistete—riprese il presidente—nel dichiarare di non aver commesso voi l'omicidio nella persona del pittore Roberto Gandi?

—Io dichiaro davanti a Dio, davanti ai giudici, davanti al popolo—disse Nello, in preda ad una singolare esaltazione—che qualcun altro ha commesso l'assassinio: io sono innocente… innocente… innocente…

E si mise a piangere.

—Signor presidente!—disse alzandosi l'avvocato Arzellini.—Credo anch'io—proseguì commosso—che il vero assassino non sia dinanzi alla Rota…

—Signor avvocato?

—Credo insomma che l'Attuario, che il Fisco abbiano troppo precipitato…

—Le ripeto!…

—Voglio far intendere, come spiegherò più ampiamente nella difesa, che altra mano versò il sangue dell'illustre artista Gandi… che sia opportuno rivolgere all'inquisito una domanda, che è stata negletta in tutta l'inquisizione…. cioè se egli abbia sospetti su colui, che può aver tentato di assassinare il signor Gandi.

—Signor avvocato!—rispose il presidente—non è questa domanda, che io creda strettamente necessaria, pure… per massima deferenza alla difesa, io la farò.

Ed il presidente formulò la domanda.

Lucertolo ascoltava ansioso.

Egli aveva indirettamente suggerito più volte a Nello di accusare il
Carminati.

Aspettava dunque la risposta con impazienza.

III.

Il birro era sui carboni ardenti.

Ma Nello restò muto.

I suoi occhi si erano posati sopra un tavolino sul quale si trovavano i corpi del delitto: il pugnale, l'orologio, la catena, lo spillo, trovati sotto il materasso di Nello.

Egli ora guardava quegli oggetti con avidità; la vista di quei metalli luccicanti lo occupava, lo distraeva.

—Vede…. signor avvocato—osservò il presidente, rivolto all'avvocato Arzellini—l'inquisito non dà alcuna risposta.

—Prego V. S. di voler rinnovare la domanda.

Il presidente aderì.

L'inquisito fece un lieve moto con le labbra.

Tutti credevano che questa volta avrebbe parlato.

Ma non gli uscì di bocca un solo accento e continuò a guardare i metalli.

Sullo stesso tavolino erano gettati da un lato le vesti, il cappello del pittore Roberto Gandi, le vesti di Nello, e sotto il tavolino, in una cassetta, erano ammonticchiati i sozzi e sucidi panni insanguinati, che a Nello servivano di coperte nel suo giaciglio e fra' quali era stato trovato ravviluppato, dagli esecutori nella notte del delitto.

Il presidente rivolse altre domande all'inquisito, ma questi rispose in modo subdolo, indeterminato.

Fu concordato, con l'assenso del difensore, che poteva ormai considerarsi l'interrogatorio come esaurito.

—Il signor Avvocato Fiscale ha la parola!—disse il presidente, voltandosi verso il banco al quale sedeva il primo magistrato del Fisco.

Il magistrato si alzò, e appoggiando le mani all'orlo del banco, protendendo la persona alquanto in avanti, pronunziò, con vibrato accento, e con voce sonora le seguenti parole:

«Signori, presidente e auditori!

«Nei molti anni, dacchè esercito l'alto mio ministero, di rado mi fu dato studiar causa nella quale apparissero più chiari indizi della colpabilità dell'inquisito.

«La pubblica discussione ha sempre più messo in evidenza l'esattezza dei precedenti atti processuali.

«Giammai la mia coscienza è stata più tranquilla nel chiedere la esemplare punizione di un reo.

«Vindice della società offesa, io ho il dovere di parlare con severità. Il delitto sul quale voi, esimii signori, dovete dare il vostro onorando iudicato, è de' più nefandi e odiosi, che da molti anni si sieno commessi nella nostra città: è tale, che quasi toglie ad una mite popolazione il suo vanto di miti, temperati costumi e ci mette in mala vista fra le altre genti.»

Dopo essersi addentrato, alla minuta, in certi particolari della causa, l'oratore esclamava:

«Ah! signori, la causa nella quale io debbo concludere, è una causa tremenda, una di quelle cause per cui il magistrato con secura coscienza può ben parlare di catene e di patibolo!

«È inutile che io abusi della bontà vostra, cercando di provare con lunghi ragionamenti la responsabilità dell'inquisito.

«Alle speciose ipotesi di una pazzia incipiente, di uno stato mentale irregolare, rispondono con molta eloquenza le perizie dei medici fiscali.

«Che cosa potrei io aggiungere a ciò che con tanta limpidezza hanno detto uomini dottissimi?»

L'avvocato fiscale raccolse alcuni fogli, che aveva dinanzi e ne dette lettura.

Due medici, fra' più ragguardevoli che avesse Firenze, asserivano che Nello possedeva compiuta coscienza de' suoi atti, e che poteva tenersi per fermo avesse agito la notte del 14 gennaio con proposito deliberato, se non con una vera e lunga premeditazione.

La lettura di tali dichiarazioni produceva nel pubblico il più vivo eccitamento: rendeva sempre più acuta l'avversione contro Nello.

—Ma abbiamo pure le perizie estragiudiciali!—ribattè l'avvocato
Arzellini.

Il presidente con un gesto benevolo fece cenno al difensore che non interrompesse.

—Lei parlerà a suo tempo… la prego… potrà dire tutte le sue ragioni—aggiunse l'egregio magistrato.

Si capiva che il presidente, nonostante la sua apparente severità, era già guadagnato o quasi alla causa di Nello.

Uomo di mente elevata, di molta esperienza, educato alla lettura delle opere dei filosofi, di intelligenza facile e pronta, aveva già capito ciò che i suoi colleghi non capivano: cioè che l'avvocato Arzellini combatteva in quei momenti per disputare un disgraziato, se non al patibolo, ad una pena che per lui sarebbe stata equivalente alla morte.

L'Avvocato fiscale riprese il suo discorso.

Descrisse con grande sfoggio di colori, con tutta la pompa retorica e declamatoria, della quale si faceva allora un immenso scupìo nei tribunali, la scena avvenuta tra il Vicolo della Luna e Piazza Luna la notte in cui era stato commesso il delitto.

Cercò di rimettere in azione quella cupa tragedia; parlò dell'assassinato, giovane, bello, famoso, caro a tutti, ospitato con orgoglio nella città, visitato, ricercato da cospicui personaggi, amato dal Sovrano, che era stato addoloratissimo del truce misfatto.

Lo mostrò proditoriamente aggredito, vacillante sul lubrico suolo del Vicolo, piombato a terra, atrocemente trascinato da un punto all'altro, lasciando per tutto quel luogo immondo le traccie del suo nobile sangue, poi spogliato, derubato.

La sua parola fluida, abbondante, efficace, scuoteva il pubblico, e, quello che più importava, s'insinuava abilmente nell'animo de' giudici, e per lo meno quattro degli auditori sentivano nascere, svilupparsi potente, irresistibile nei loro intelletti la convinzione della reità di Nello.

Il rappresentante della legge toccava da maestro, e con peculiare accortezza, tutti i punti della causa, deboli per l'inquisito, raccoglieva di tanto in tanto una falange di argomenti indiziarli e se ne serviva con la bravura di un uomo, abituato a tali conflitti, e che non temeva rivali: memore del dettato sì spesso ripetuto nel foro: Et quæ non prosunt singula, juncta juvant.

Naturalmente sfuggiva tutta la parte contraddittoria, che doveva poi esser raccolta, sviluppata, con sì valido acume, dal suo grande avversario, l'avvocato Arzellini, del quale però egli cercava con molta finezza screditare in precedenza gli argomenti; supponendo che gli fossero mosse obiezioni a quello che asseriva, e poi confutandole.

«Per stornare la inquisizione dal suo vero scopo—disse a un certo punto l'Avvocato fiscale—si è voluto far credere che il delitto, consumato nel Vicolo della Luna nella funesta notte del 14 gennaio, non fosse un semplice e volgare latrocinio, ma bensì un delitto cui sia collegato il più poetico, il più forte dei sentimenti umani:—l'amore!

«Ma come una tale tesi potrà essere sostenuta dalla difesa dell'inquisito?

«Non distruggerebbe essa a dirittura l'edificio, già così fragilmente architettato, sulla base dell'idiotismo del giudicabile?

«Si parla di amori… di una donna, che si sarebbe trovata nella stanza misteriosa del Vicolo, che vi avrebbe lasciato fuggendo il velo, del quale aveva coperto il suo volto, prima di recarsi ad un desiderato convegno, di una donna, la cui presenza alla stessa polizia, dopo le sue prime indagini, parve rivelata, oltre che dal velo dimenticato, dalle impronte lasciate da denti affilati e minutissimi in un pezzetto di candito… Ben lieve e frivolo indizio!…. Si è parlato di colloquio fra due amanti perchè si scuoprirono due bicchieri, l'uno quasi accanto all'altro sopra una tavola, e nei quali era stato versato il vino di una stessa bottiglia.

«Queste sono avventure ingegnose, bizzarrie, che starebbero bene in un romanzo, che non sono conformi davvero alla gravità della causa che ci occupa.

«E, anzi, sono persuaso che la difesa rinunzierà a inoltrarsi in così vani strattagemmi.»

L'avvocato Arzellini, che guardava fisso l'avvocato fiscale, e non perdeva sillaba di tutto quello che diceva, scosse vivamente il capo, e battendo un pugno sulla tavola, esclamò ad alta voce:

—Vedremo…. se saranno vani!

Il presidente fece al focoso patrocinatore un'altra ammonizione.

«Vani stratagemmi!—riprese l'Avvocato fiscale, in tuono sempre più veemente.—Imperocchè, ammesso questo dramma d'amore, qual parte vi avrebbe avuto l'inquisito? Sarebbe stato egli forse il bel cavaliere, per cui la donna sospirava e si comprometteva, andandolo a visitare nella stanza misteriosa? Sarebbe stato egli, che aspettava una amante e la rifocillava di canditi e di vino di Cipro? Egli, che avrebbe nell'impeto, nell'accecamento della gelosia assassinato il pittore Gandi suo rivale?

«E come potrà la difesa darci un racconto plausibile del modo con cui il Gandi fu condotto, tratto nell'agguato?….

«Chi si rivolgerà ad uno stolido, ad un idiota per commettergli sì ardua, sì delicata, sì terribile impresa, e in che modo un idiota la forniva con tanta intelligenza, con tanta audacia, con tanto abominevole precisione?

«Perchè egli oggi ha così avvedutamente taciuto il nome del suo complice, e lo ha sottratto alle insistenti ricerche della giustizia?

«È questa la critica che ci permettiamo, secondo la nostra ragione cui non possiamo rinunziare, e la nostra coscienza che non vogliamo tradire.

«È egli d'uopo ch'io mi soffermi a dimostrare gli esecrabili antecedenti dell'inquisito?

«E, per citare un estremo della più temeraria ferocia, non basta che noi ripensiamo alla brutale aggressione dell'inquisito contro il nostro esimio collega, il cancelliere Buriatti, durante la preparatoria inquisizione del processo?»

E l'Avvocato fiscale andava innanzi, abbellendo il suo dire di tutta quelle suppellettile oratoria che era allora in voga.

Avvocati fiscali, e avvocati difensori citavano versi di Orazio, di Virgilio, di Catullo, a profusione, intere ottave dell'Ariosto e del Tasso, versi del La Fontaine, diluviavano le massime dei pratici e dei dottori; i tropi, le metafore, le similitudini, le allusioni storiche e mitologiche, le parole altisonanti, sesquipedali.

«Ma io debbo accennare alla stanza misteriosa del Vicolo della Luna,—proseguiva l'avvocato fiscale—alla connessione che essa può avere col barbaro delitto, da cui fu la notte del 14 gennaio contaminata quella già località così sinistra.

«Ascoltatemi con attenzione.

«La stanza N. 5 serviva di certo ai convegni di qualche strano e capriccioso amatore; ma ogni retta induzione ci porta ad escludere qualsiasi relazione fra coloro che vi s'incontravano e il delitto che dette origine a questo processo.

«Il Fisco appose i suggelli alla porta, e vi sono tuttora, e sebbene la stanza sia piuttosto sfarzosamente arredata, nessuno si è presentato fino ad oggi a ripetere la proprietà degli oggetti che essa contiene.

«Ci è ignoto dunque chi fossero le persone che vi convivevano. Chi l'aveva presa in affitto si è circondato di tali precauzioni che non è stato possibile chiarirne la identità!

«Ad ogni modo si tratta di una galante avventura, che non è davvero interesse della giustizia l'approfondire nella presente causa.

«Per noi è certo che l'inquisito meditava da vario tempo il suo latrocinio. Per noi è certo che egli si è appostato alcune ore, aspettando una preda.»

Dopo una lunga perorazione, nella quale ricapitolò tutte le resultanze del processo, l'avvocato fiscale fece intendere che egli avrebbe preso le sue conclusioni.

IV.

Aveva parlato da circa tre ore, e il pubblico lo aveva sempre ascoltato con l'attenzione più concentrata.

Nella perorazione scongiurò i giudici a non lasciarsi vincere da alcuna perplessità per le incoerenze dimostrate dall'inquisito nel suo interrogatorio, pel suo rifiuto a rispondere, per gli schiamazzi con cui non aveva esitato ad offendere la stessa Rota.

Tali simulazioni non erano nuove, altri rei se n'erano valsi come espediente a sviare la meritata severità della Legge.

L'Avvocato fiscale terminò dicendo, che egli domandava per l'inquisito la stessa condanna da lui già domandata nelle sue conclusioni, che si trovavano fra gli atti del processo scritto.

«Concludo dunque—queste furono le ultime parole dell'oratore fiscale—che la Regia Rota condanni l'inquisito Nello Bartelloni nella pena di servizio ai pubblici lavori per anni venti, previa un'ora di esposizione, a indennizzare la parte lesa, e nelle spese della procedura.»

Previa un'ora di esposizione!

I mercatìni quasi non si tenevano più. Il loro desiderio era sodisfatto! Nello sarebbe messo alla gogna; lo avrebbero riveduto: avrebbero ricavato da lui i numeri del Lotto. Insomma si preparava ad essi in quel triste avvenimento una eccellente occasione di darsi bel tempo, di andar attorno con le spose, coi figliuoli, e far gazzarra.

Ma il pubblico, agitato, commosso, non ebbe tempo di lasciarsi sfuggire la più piccola espressione di sodisfazione o di meraviglia, poichè già si era alzato il celebre avvocato Arzellini.

Eravamo, dunque, al punto di quella lotta da atleti fra i due ragguardevoli oratori, che già abbiamo annunziato al lettore, e alla quale il pubblico ardeva di assistere.

L'avvocato Arzellini era quasi circondato da giovani avvocati, che, non avendo potuto trovare posto nelle sedie, gli si erano avvicinati, e, in piedi, gli stavano dappresso con la reverenza, l'affettuoso raccoglimento di discepoli, che non volevano perdere una sola parola del maestro venerato.

Tutti i cuori battevano, tutte le orecchie erano tese.

Gli stessi giudici si erano rivolti verso il difensore, e mostravano di esser disposti ad ascoltarlo con la maggior deferenza.

Lucertolo si era messo quasi accanto all'avvocato.

L'orazione non doveva avere ascoltatore più attento e più appassionato di lui.

—«Se grave e dolorosa causa—cominciò l'avvocato Arzellini—fu mai al mio patrocinio commessa, come non dirò io esser tale quella che quasi tremando mi accingo a discutere?… Nè le tristezze di questa causa, sebbene di fatti e varia e complicatissima sia, nascono dagl'intrinseci, che la presentano come problema giuridico da risolversi. Esse nascon piuttosto dagli sventurati estrinseci, che la circondano.

«Grave la fa l'inaudito e quasi inesplicabile coraggio di chi ispirò gli aliti primi dell'accusa… formando nella contradizione evidente di ogni diretto, o indiretto mezzo di prova un'ipotesi, la quale obietta un delitto della più incallita umana ferocia a giovane di tenera età, quasi demente, e peregrino nel cammin della vita.

«Grave la fanno il terrore e la perplessità in cui l'accusa ha gettato i nostri animi.

«Fa grave questa causa l'incontro fatale di circostanze, le quali, sebben nate dalla sciagura, o dalla imprudenza, assumono aspetto fallace di delittuose apparenze ad eccitare lo straordinario zelo, con cui l'encomiabile Uffizio fiscale sostiene l'accusa con tutte le forze dell'ingegno e dell'eloquenza.

«Grave fa pesar questa causa nell'afflitto mio cuore il dovere di un padre, che corre alla difesa del proprio figlio. Non mi fè certo la natura padre dell'inquisito: ma tal mi fece la Legge collocando tra le mie braccia questo sventurato innocente, questo tapino, solo nel mondo, senza guida, e senza alcun'altra tenerezza, affinchè io lo difenda e lo protegga. Di rado sentii più, ottimi giudici, quanto fosse sacro il mio ufficio.

«E qui un lamento mi sia permesso se non utile alla causa, e agli ottimi giudici, utile a me, ed al pubblico, che mi ascolta e che la Legge ammette a questo congresso solenne.»

L'avvocato lamentò quindi con parole energiche la condotta seguìta dalla polizia nelle prime indagini; la sua cieca persuasione di aver messo subito le mani sul delinquente, trascurando ogni altra ricerca, e adoperandosi anzi a propalare contro l'inquisito la più spaventevole leggenda.

Deplorò che alte influenze avessero pur regolato l'andamento del processo e che più volte in esso si fosse pronunziato, come potentissima arme contro il disgraziato, che egli doveva difendere, il nome dell'augusto Sovrano.

«Abbiamo, o giudici—proseguì l'avvocato—ben luttuoso argomento a trattare: un tentativo d'omicidio, seguíto da furto. Una vittima illustre, che, trafitta da pugnale, cade ferita, in mezzo alle più terribili angoscie, merita l'attenzione del magistrato e la società offesa reclama la severa ed esemplare punizione dell'assassino. Ma, se la società offesa nel più sacro de' suoi diritti domanda vendetta, la legge richiede imperiosamente che sia chiaramente ed evidentemente dimostrata la reità di chi è accusato, affinchè il giudice, trascinato da una fallace apparenza, non sacrifichi la vita di un innocente.

«È egli o no dimostrato, nel concreto del nostro lacrimevole caso, chi abbia sparso il sangue dell'infelicissimo pittore Roberto Gandi?

«Esiste un tentato omicidio; ma fatalmente per la Giustizia, come io vi mostrerò, s'ignora ancora la mano feritrice, il colpevole. Possiamo classificare questo delitto fra quei tanti, che sfuggono tutto giorno alla scure delle Leggi. Se ne cruccia la società, ne ha dispetto il giudice virtuoso, ma quanti innocenti ha salvata la tollerata impunità di alcuni colpevoli! Se si freme sul delitto fortunato, non si piange sulla innocenza sacrificata!

«Mettiam fine alle considerazioni generali.

«Credo che altro ordine non voglia questa causa, se non quello di sottoporre al criterio legale, l'un dopo l'altro, gl'indizii tutti di reità, con infinito studio raccolti dall'analitica penetrazione del Fisco.

«Esamineremo la natura di ciaschedun indizio, la sua qualità, la prova che lo assiste.

«Se un lodevole zelo per il ben pubblico, se l'orrore per gli atroci delitti hanno a pregiudizio del Bartelloni fatta illusione al magistrato inquirente ed al Fisco, religiosamente da voi, sapientissimi giudici, dopo le risultanze processuali, verrà riconosciuta la loro legale insussistenza, e il vostro equo giudicato, la ragione e la giustizia porranno fine alle tante immeritate sciagure ed al carcere in cui ha dovuto gemere il mio difeso.

«Scusabile è il Fisco nell'accusare, ed io di buon grado lo scuserò: ma perchè, eziandio chiedendo una minor pena, è venuto a parlarci di patibolo e di catene: ad atterrire un debole innocente con la sanguinosa suppellettile del suo spaventevole armamentario?

«Il Fisco vi ha raccontato, prestantissimi giudici, come si svolgesse, giusta i suoi criterii, la scena nefasta, che macchiò di sangue la notte del 14 gennaio il Vicolo della Luna e la Piazza Luna.

«Di nuovo io ammiro la fervida fantasia dell'oratore, il suo immenso, sconfinato zelo per perseguitare il delitto.

«Ma, ad ordire la sua tragica favola, il Fisco non tien conto neppure dei costituti, delle giudiciali dichiarazioni, dei giurati asserti dei testimoni, che già si trovano in atti.

«Dice il Fisco che il mio cliente si appostò varie sere nell'orrendo
Vicolo, deciso a commettere un latrocinio.

«Egli non aspettava il Gandi, aspettava una preda qualsiasi, aspettava un uomo che potesse derubare.

«E pure, o signori, il testimonio Cosimo Pardilli, suonatore nell'orchestra del Teatro della Pergola, non ha giurato dinanzi al giudice inquirente che la sera del 14 gennaio, dopo le 10, mentre chiuso nella stanza, che egli abita nel così detto Palazzo della Cavolaia, suonava il violino, udì il mio cliente che cantava sotto la sua finestra, rispondente in Piazza Luna?

«Ah, è nuovo l'esempio, concedetemelo, eccellentissimi giudici, di questo assassino, che aspetta, cantando, col pugnale alzato, la sua vittima.

«Il Fisco non ha sentito quanto diventava grottesca la sua accusa?»

Sebbene cercasse di frenarsi, a Lucertolo sfuggivano segni non dubbi di approvazione.

«Gran trionfo mena il Fisco pel ritrovamento del pugnale insanguinato nello squallido e misero giaciglio del mio povero cliente.

«Però, o signori, concedetemi pure che diviene sempre più singolare questo assassino, il quale, invece di gettare lontano da sè il materiale del delitto, lo raccoglie quasi con cura e se ne circonda!

«È singolare un assassino, che trascina l'uomo che si suppone da lui ferito, proprio dinanzi all'uscio della sua abitazione, e quando gli ha posato il capo quasi sulla soglia, egli stesso la varca e si chiude, e si getta nel proprio letto senza pensare ad allontanare da sè i sospetti, anzi studiandosi di accumularli, di renderli, a così dire, palpabili, cercando di insanguinarsi le mani, i piedi, il volto, le vesti!

«Fino ad ora gli assassini, commesso il loro crimine, fuggivano, loro primo pensiero era di gettare il ferro omicida, di allontanarsi dal luogo del delitto, ma l'assassino pervicace che il Fisco vuole scuoprire nel mio infelice cliente, è un fenomeno, un fenomeno, che viola tutte le leggi di natura, ma che si accomoda mirabilmente alle crudeli esigenze dell'accusa.»

Dopo una breve pausa, che l'avvocato occupò nel consultare alcuni appunti, che aveva sparpagliati dinanzi a sè, così riprese:

«Nell'accurato, sintetico documento che ci ha letto il rispettabilissimo Auditore, relatore della causa, trovo una deplorevole lacuna.

«Egli non ci ha dato descrizione della struttura fisica del ferito, della struttura fisica del supposto feritore.

«Tal punto è di somma importanza!

«Il supposto feritore voi l'avete dinanzi ai vostri occhi nella compassionevole delicatezza e gracilità delle sue membra, nella triste debolezza delle sue forze, del suo mancato sviluppo, nella sua deficiente statura. Nel gramo corpicciuolo del mio cliente la Regia Rota ha uno straziante compendio di tutti i patimenti, di tutte le privazioni, di tutte le torture, che questo derelitto deve aver subito sin dalla nascita.

«Il pittore Roberto Gandi, il ferito, è invece di alta statura, di robusta corporatura, di forza muscolare straordinaria.

«Eppure il Fisco vuole indiscusso che il mio sventurato cliente, non ostante la sua piccolezza, il suo breve e debol braccio, abbia potuto ferire alla testa, gettarsi ai piedi, di un colpo, un uomo che tanto lo superava e di statura e di forze!

«Omicidio tentato per latrocinio, grida il Fisco. E sia pure! Ma è strano l'autore di questo latrocinio, che mentre non lascia nel corpo del ferito il pugnale, anzi lo strappa a forza, gli lascia nelle tasche il portamonete contenente una somma cospicua, e che, rinvenuto dagli agenti della polizia, si trova appunto su quel tavolino fra i corpi del delitto come una fra le tante prove d'innocenza dell'inquisito.

«Ed ora, prima che io entri a trattare più alto tema, a mostrarvi cioè le condizioni morali e intellettuali del mio sciagurato cliente, lasciate che io vi accenni al modo incompleto, assurdo, inumano, con cui la preparatoria inquisizione è stata condotta, adulterata….»

V.

—Signor avvocato, la prego a moderarsi…

—Non si può moderare, signor presidente, l'amore della verità, della giustizia… la convinzione profonda, che io ho della innocenza di un infelice perseguitato…

Si udirono nel pubblico mormorii ostili a Nello.

—La impopolarità non mi spaventa,—continuò il sommo avvocato, voltandosi e lanciando intorno a sè occhiate di sprezzo.—Non spaventò Socrate quando quel grandissimo, divino….

—Signor avvocato, ella deve parlare alla Rota e non al pubblico… E alla più piccola vociferazione avverto il pubblico che non sarà più ammesso ad assistere alla continuazione del processo.

I poteri del presidente della Rota erano amplissimi.

Il pubblico tornò in un attimo ad essere tranquillo.

Il focoso oratore, incoraggiato dai giovani entusiasti, che gli stavano sempre dattorno, e lo salutavano di tanto in tanto con un mal simulato fremito d'ammirazione, andò innanzi dicendo:

«Io devo insistere nell'affermare che l'inquisizione è stata in questo processo mal condotta, e senza imparzialità…»

—Ma, signor avvocato…

—Qui dunque si vuol violare la mia coscienza?

—Continui… ma l'avverto di tenersi nei limiti.

«Sì, la mia coscienza di galantuomo si ribella nel percorrere le carte, preparate nei silenzi della Cancelleria, quelle carte, su cui il Fisco fonda il suo spietato Vangelo!

«Il Fisco vuole esclusa ogni relazione fra il delitto consumato la notte del 14 gennaio, e la stanza misteriosa, segnata di N. 5, che si apre nel Vicolo della Luna. Ma noi sogniamo, o siamo desti? Assistiamo allo svolgimento di un terribile, serio dramma giudiziario, o all'intrigo di una commedia?»

Il presidente tornò a interrompere l'oratore. Di rado gli avvocati davano allora in tali escandescenze, e lo stesso avvocato Arzellini, sebbene noto per una insolita impetuosità, non era mai andato tant'oltre.

Il presidente lo avvertiva con benevolenza perchè anch'egli si sentiva sempre più propenso in favore di Nello, e la convinzione della innocenza di lui gli si approfondiva nell'animo.

«Quasi avrei abbandonato tale argomento,—aggiunse l'avvocato Arzellini,—se nelle stesse carte processuali, preparate dagli attuarii, non avessi trovato un gravissimo indizio.

«E a comprendere che sia gravissimo non vi è bisogno davvero di avere sfogliato i ponderosi volumi de' Bruni, de' Bianchi, dei Casonii, de' Farinacci sulla materia indiziaria.

«Gli agenti della polizia, allorchè fecero l'accesso nella stanza misteriosa, vi trovarono… fate bene attenzione, o signori… vi trovarono acceso un lume.

«Dunque quel lume avea servito ad illuminare le carezze, i trasporti di un convegno amoroso… aveva servito ad illuminare qualcuno, che poco innanzi era presente nella stanza, seduto alla tavola sulla quale si trovarono bicchieri sempre umidi del vino versatovi, i dolci a metà morsicchiati…

«Forse per il Fisco la lampada pendeva accesa da quel soffitto sin dalla creazione del mondo?… Chi dunque si trovava nella stanza, al momento in cui il delitto era consumato dinanzi alla porta, anche ammesso che le persone in tale stanza convenute al delitto sien rimaste estranee?

«Chi vi si trovava? Quali rumori ha udito? E che cosa ha fatto la polizia, non sapendo scuoprire, perdendo, anzi, a dirittura, le traccie di tal gente?

«E non basta!

«Attiguo al luogo del delitto è un infame raddotto.

«Perchè la polizia non ha spinto oltre quelle infette pareti le sue indagini?

«Ha forse essa avuto paura, mettendo il piede in quella soglia di sozzure, di contaminarsi, di lasciarvi il proprio candore?

«Perchè il processo inquisitorio è muto su tutti questi particolari?

«Perchè noi non sappiamo oggi—e l'elevatissimo accento dell'avvocato scuoteva tutti—chi è entrato nell'immondo raddotto della Palla tra la sera e la notte del 14 gennaio, se qualcuno vi entrò titubante, eccitando sospetti; infine perchè non si è cercato anche là, dove ben potevano trovare, o cercare asilo un delinquente, e i complici, gli ausiliarii di un delinquente?

«Altra lacuna imperdonabile e di suprema gravità è negli atti.

«Chi ci dice dove il pittore Gandi abbia passato la sera del 14 gennaio?

«È vero che egli non poteva parlare, che non si potevano ottener da lui risposte, ma se il suo labbro era muto, perchè la polizia, l'autorità inquisitoria non è eloquente e zelante nel fornirci tutti i particolari della causa, almeno quanto è eloquente e zelante il Fisco nell'accusare questo sfortunato?

«Sopra un tal punto io debbo esser molto circospetto, alti riguardi mi prescrivono una necessaria discrezione, ma di un indizio molto importante dobbiamo tener conto, che il pittore Roberto Gandi indossava panni umili, dimessi, la sera del delitto… si era insomma travestito!

«Ciò risulta dagli atti del processo.

«Ma travestito si era a quale scopo?

«Vedete quante oscurità; quanti dubbii, quante ambagi solleva questo processo!…

«Solo il Fisco è sicuro, egli non ama i complicati problemi. Non gli va a grado l'analisi, la quale separa e decompone. Egli vagheggia la sintesi, che tutto riduce ad un'asserzione compatta e unica.

«Meno a lui piacciono il dubbio, la lentezza di esame e la
irresolutezza alla quale conduce. Lo incomoderebbe la titubanza di
Ercole al bivio tra i due opposti inviti di Aretea e di Edonide.
Valendosi della sua forza, taglia e non scioglie il nodo gordiano.

«Questa causa gronda da ogni lato di umano sangue!

«Sia pace dunque al Fisco ed a noi! Bene egli fece a perseguitare nell'inquisito le apparenze di reità, e meglio faremo noi dileguandole. Egli non dubita, come non dee dubitare, delle proprie asserzioni, essendo esse separate e disgiunte, come esser debbono gli articoli dell'accusa, a guisa di chi chiamato non a edificare, a lapidare altrui, è costretto a prendere alla rinfusa una pietra dopo l'altra. Noi raccoglieremo queste pietre per studiarne il peso, la foggia e la tempra, e vedere se, come quelle che Deucalione lanciò, possano acquistare e moto e vita di valutabile indizio.

«La fattispecie, che ci porge il Fisco nel suo libello, è compendiata, anzi storpiata; bisogna darle una maggiore estensione, che ci scorga passo passo, nel cammino diretto, alla ricerca del vero.

«Nulla prepara la catastrofe, nulla vi s'incatena, come anello per anello, come causa ed effetto, come provenienza e flusso di antecedenti e conseguenti, perchè anzi dell'effetto, che spunta improvviso, non abbiamo precedenza di causa, e ben possiamo chiamarlo: prolem sine matre creatam!

«Dove, dite in verità, o giudici, è la causa proporzionata a delinquere? Nec enim, mi è grato ripetere col sommo Farinaccio, factum quaeritur, sed causa faciendi

E qui l'avvocato sviluppava una delle parti più belle, più eloquenti della sua arringa.

A un certo punto ripigliava in tal modo:

«L'innocenza non salva dalla sventura, anzi la sventura suol essere dell'innocenza indivisibile compagna. Ben disse l'ingenuo La Fontaine:

Et c'est d'être innocent que d'être malheureux!

«Avete trovato alcuni oggetti appartenuti al ferito nascosti nello squallido abituro del mio cliente?

«Il minor figlio e più caro del credente Giacobbe è sorpreso, avendo presso di sè una preziosa coppa furtiva. Se Iddio nol proteggeva, egli avrebbe dovuto soccombere sotto un'accusa di furto».

L'avvocato Arzellini combattè uno a uno gli argomenti, contenuti nel libello fiscale; venne ad affermare che non l'inquisito, ma altri era stato l'assassino del pittore Roberto Gandi. Nello, uscito di notte tempo dalla sua catapecchia, si era imbattuto nel cadavere, e da pazzo com'era lo aveva spogliato di alcuni oggetti preziosi, si era tutto imbrattato di sangue, aveva preso il pugnale, tale e quale come avrebbe forse fatto un fanciullo.

Che Nello avesse come una certa mania pei metalli non era stabilito da una testimonianza così cara al Fisco, e registrata in atti, quella della donna Lazzarini?

«Essa non ci ha detto—esclamava l'avvocato—che il mio cliente ebbe un giorno diverbio con una bambina di lei per toglierle di mano un pezzo di metallo; e a che motivo, se non agli occhiali d'oro che portava il giudice Buriatti, è dovuta la sua tanto decantata ed esagerata aggressione?

«Lungi da me l'idea di dir cosa spiacevole a quell'egregio e solerte magistrato, ma l'aggressione non è mai esistita che nella sua eccitata fantasia: mancano di essa, non già le prove, ma perfino gl'indizii più lievi. Ed è chiaro che il mio cliente in un suo vaneggiamento protese la mano soltanto per il metallo prezioso degli occhiali, che a lui apparivano come un trastullo.»

Nel pubblico molti e molti scuotevano la testa quasi in segno di dileggio per l'insufficienza di tale ragionamento; un osservatore attento avrebbe potuto scorgere segni di ironia, appena visibili ad altri, nel volto degli stessi magistrati.

L'avvocato Arzellini si mise a dimostrare, con la scorta delle perizie estragiudiciali, che lo stato mentale dell'inquisito non era sano. Egli, sin dalla prima fanciullezza, aveva dato prove di demenza.

Accusarlo di simulazione negli interrogatorii, nella sua condotta, era contrario ad ogni dettame della scienza; ad ogni retto criterio.

Come, egli non si era mai smentito, non aveva mai avuto un momento di titubanza, non aveva mai vacillato?

Ormai era incarcerato da mesi, aveva subìto interrogatorii dagli ufficiali della polizia, dai ministri processanti, e alla pubblica udienza.

E sempre, a gran distanza di tempo, si erano riscontrate in lui le medesime, identiche incoerenze. Esse non potevano essere frutto di simulazione, corrispondevano bensì ad una condizione permanente, immutabile, dello stato mentale, morboso dell'individuo.

«Vi fu chi scrisse—osservò l'avvocato Arzellini—un libro intitolato: Della Ciarlataneria degli Eruditi. Dopo ciò che i periti fiscali dissero sulla potenza ragionativa e intellettiva dell'inquisito, si potrebbe a quel libro aggiungerne un altro, intitolandolo: Della Ciarlataneria della Medicina Legale!

«Leggo a pagina 180 negli atti del processo:

«Si ripose in atti una relazione dei medici fiscali signor dottor F***
M*** e dottor F*** S*** del tenore ecc.»

«E leggo più oltre:

—«Presentata la suddetta relazione dai nominati signori dottor F*** M*** e dottor F*** S*** medici fiscali, ai quali letta di parola in parola, e a loro chiara e piena intelligenza come asserirono, quella e suo contenuto con la viva voce, tanto unitamente che separatamente confermarono e ratificarono in tutte le sue parti, con giuramento per me deferitogli, e da essi rispettosamente preso tacta imagine C. J., asserendo di averla firmata di proprio pugno e carattere.»—

«Non era questo il metodo, o signori, che doveva tenersi coi periti nella loro qualità di testimoni. Essi ratificarono prima, e dopo giurarono, e il testimone deve prima giurare, e poi deporre, mentre egli giura de veritate dicenda, e non de veritate jam dicta.

«I periti udiron leggere la loro relazione dall'Attuario, e concordarono i fatti, vale a dire, produssero in atti un attestato scritto, nè come testimoni alle legittime interrogazioni deposero, lo che non ne' giudizii civili, non ne' criminali è permesso.

«Ma spingiamo più oltre le osservazioni della difesa.»

L'avvocato Arzellini s'ingolfò quindi in lunghe elaborate e peregrine considerazioni.

Insistè di nuovo specialmente sul fatto che altri che Nello era stato di certo l'assassino del pittore Roberto Gandi, che la poca oculatezza, la negligenza della polizia lo avevan lasciato sfuggire: che i ministri processanti, accecati subito dalle prime prevenzioni, non avevano, con grave jattura, ricercato.

Lucertolo si sarebbe gettato al collo dell'avvocato Arzellini.

Quello per lui era un grand'uomo! Come egli aveva subito indicato, e con quanta chiarezza, i metodi per scoprire il vero colpevole!… Come era fino, giusto, da artista, il suggerimento di fare indagini su chi era entrato, tra la sera e la notte del 14 gennaio, nel raddotto della Palla.

E dire che, lasciamo stare i suoi compagni, ma egli, egli Lucertolo, che si teneva così furbo, così destro, non ci aveva pensato! Da qualche tempo le sue facoltà erano ottuse!

—Ma mi rifarò, mi rifarò!—pensava l'irrequieto e ardente esecutore.

L'avvocato, giunto alla fine della sua orazione, dopo aver esaminato la causa in ogni suo lato e averla esaminata con tutto il calore della sua eloquenza, e la dirittura della sua logica, persuaso di aver luminosamente provato l'innocenza del suo cliente, così terminava:

«Altri che l'inquisito fu il feritore. Questo diverso assassino vi è certo; ma il Fisco si scusa e dice di non vederlo. Vorrà dunque egli valersi delle pene, delle ingiuste sofferenze inflitte al mio cliente come medicina a meglio vederci? E la pena, che tanto desidera pel mio cliente, sul cui capo una deplorevole fatalità accumulò apparenze delittuose, gli dirà forse chi fu il vero autore dell'assassinio?

«Il barbaro conquistatore di Roma, dopo aver convenuto il peso dell'oro, che dovea esser prezzo del suo riscatto, giunta la bilancia alla misura del peso, vi gettò sopra la propria spada per aggiungere un nuovo prezzo al già convenuto, intuonando quell'epifonema terribile: Guai ai vinti!

«Non altrimenti opera il Fisco con l'inquisito. Sostituendo al criterio la forza, getta sulla bilancia della causa per farla preponderare a suo grado un numero di congetture, che la ragione, la equità, e la giustizia rigettano.

«Ove è certa la reità e il reo non men certo, la giustizia inesorabile colpisca il reo, ma ove la reità non abbia altro appoggio che apparenze ingannevoli, sempre tenga di tutto sommo conto la giustizia per non punire, essendo questo il suggerimento della clemenza non già, di cui è vano rammentare ai giudici il nome, ma della scritta ragione, guida indeclinabile di chi accusa, di chi difende, e di chi siede per giudicare.

«Concludo che la Regia Rota debba assolvere il mio cliente.»

L'avvocato Arzellini uscì dalla sala, mentre un domestico gli gettava sulle spalle una grossa pelliccia.

Egli era in preda ad una specie di febbre, tanto aveva parlato con zelo, con convinzione, e commozione, tale era lo sforzo da lui fatto, la tensione della mente in cui aveva perdurato alcune ore.

L'Avvocato fiscale rinunziò a rispondere al difensore. Ripetè in brevissime parole che egli era profondamente convinto della reità dell'inquisito, e aspettava fidente dalla Regia Rota la severa condanna dell'assassino.

Adempite le formalità, il presidente dichiarò levata l'udienza.

L'ora era tarda: gli uscieri già avevano portato i lumi.

La sentenza doveva essere pronunziata, come vedrà il lettore, due giorni dopo.

Subito Lucertolo correva alla Palla per effettuare il piano di guerra, indicato dall'avvocato Arzellini.

Quali persone erano entrate nel raddotto la notte del 14 gennaio?

Fra queste persone ci era Bobi Carminati?

Era espediente lo scoprirlo!

VI.

Nello fu ricondotto nel carcere, molto abbattuto, affranto.

Le lunghe ore della udienza, il tormento degli interrogatorii, gli urli e le minaccie del Fisco, i rabbuffi del presidente, le grandi parole commoventi dell'avvocato, i mormorii del pubblico lo avevano stancato, confuso, stordito.

Appena entrato nella prigione, sedette, poi si accasciò come una massa inerte sull'intavolato, che gli serviva di letto, e, senza prender cibo, si addormentò.

Più volte i carcerieri lo udirono la notte urlare, schiamazzare nel sonno.

Lo stolido farneticava, rivedeva le immagini guaste e corrotte dei fatti, che tutta la giornata aveva udito ripetere, raccontare distesamente: un uomo ferito, morente, e poi sangue, pugnale, birri, persecuzioni, giudici, patibolo, altri terribili fantasmi.

La discussione fra gli auditori di Rota per compilare la sentenza fu lunga e tempestosa.

Le varie opinioni furono ventilate con passione; più che con zelo, con acrimonia.

Come già sa il lettore, gli auditori erano sei, il loro modo di giudicare severo, truce, inflessibile, peggio che inesorabile.

«Terminata la sessione,—scrive Agostino Ademollo¹—i giudici si ritiravano in segreto e quindi davano la sentenza a pluralità di voti, determinati non già dalla morale convinzione, ma dalla prova o, convinzione legale, resultante dalle carte processuali, il che spesso situava il giudice nella inumana posizione di condannare un inquisito contro di cui concorreva la prova legale, sebbene l'animo suo non fosse convinto della di lui reità…

¹ Agostino Ademollo. Il giudizio criminale in Toscana.

«Dalla sentenza non si dava appello, nè cassazione.

Soltanto si accordava al condannato la facoltà di esperimentare la revisione del giudicato, o la grazia del principe per mezzo di supplica da inviarsi per il canale della Regia Consulta.

«Così finiva il giudizio criminale prima del 1838.

«Il processo inquisitorio, fin qui praticato, aveva questo gravissimo difetto e questa fatale conseguenza che, appena avvenuta la trasmissione della speciale inquisizione, essa nuoceva grandemente alla fama e al benessere del cittadino. Egli veniva generosamente ritenuto per delinquente, veniva sospeso da ogni pubblica carica; veniva cassato dai ruoli delle milizie se militare; veniva privato del consorzio degli onesti cittadini; e difficilmente si lavava la macchia dell'inquisizione, nonostante che con la difesa avesse provato la sua innocenza, non ostante che la sentenza la proclamasse.»

Il lettore attento faccia su questi rapidi cenni le sue meditazioni, chè gli gioveranno.

Noi torniamo alla Camera di Consiglio ove erano riuniti i sei auditori.

Il presidente sedeva ad una gran tavola, che era quasi nel mezzo della stanza. Accanto al presidente, quasi incollata alla sua poltrona, era la sedia su cui appoggiava il gramo dorso l'auditorino Lechini.

Dirimpetto al presidente, torbido, minaccioso, rannuvolato, con un cipiglio da augurarne ogni sinistro, sedeva il Relatore della causa, auditore Pantellini.

L'auditore Biscotti era a destra del Relatore.

Questo Giudice era un fanatico studioso dei Testi di lingua: spesso costringeva i suoi colleghi a sospendere la compilazione di una sentenza per i motivi che diremo.

Si trattava, poniamo, di mandare un disgraziato per quindici, venti anni, per tutta la vita, in galera.

L'estensore della sentenza, rigido, raccolto, dettava il racconto delle circostanze, che avevano potuto servire ad aggravare, o render migliori le condizioni dell'inquisito.

Si scrivevano allora lunghe, interminabili sentenze, i cui attesochè si prolungavano per quaranta e cinquanta pagine.

D'un tratto si udivano un grido, un'escandescenza, il rumore di una sedia, che si moveva. L'auditore Biscotti si alzava, tutto irritato, rosso in volto, solenne.

—Che cosa c'è, signor auditore!—domandava il presidente.

—Se io debbo firmare la sentenza non ammetto che si metta il participio concernente con il dativo…

—Signor auditore!…

—Non son disposto a transigere, signor presidente. La proprietà dei vocaboli è cosa sempre necessaria, necessarissima in una sentenza. Abbiamo l'obbligo di mostrar prima di tutto che sappiamo far giustizia alle parole, esser giusti nella espressione. Bisogna dire «concernente il delitto:» «concernente al delitto» è un solecismo. So bene che il poeta mugellese ha scritto nel suo Torracchione:

    Fè quel tanto ordinare e porre in punto,
    Che ad opra così pia fu concernente.

Però l'esempio è del seicento: c'è anche un altro esempio nel Segneri, ma questi autori bisogna citarli con cautela…

—Andiamo!… Basta!… Sempre tali questioni!—ripetevano gli auditori in coro.

Però erano sempre costretti a modificare la frase.

L'auditore Biscotti non si impauriva.

Alla prima occasione, egli tornava ad interrompere, ad esigere il cambiamento dell'espressione difettuosa.

Se il presidente talvolta gli rispondeva con una certa severità, e dichiarava assolutamente con la sua autorità che una parola era propria, che la discussione doveva troncarsi, il giorno dopo l'auditore arrivava in Camera di Consiglio col suo bravo volume del Vocabolario della Crusca, con un'osservazione di Basilio Puoti, con la Grammatica del Corticelli.

Bisognava, o dargli la sua parola, o… la vita!

A sinistra dell'auditore Pantellini, relatore, sedeva l'auditore Comettini, che tutte le sere andava a giuocare a calabresella, o a picchetto, col vicario dell'arcivescovo, e in Camera di Consiglio meditava, preparava i suoi più bei colpi.

Il sesto auditore, Dario Salti, vedovo, aveva per casa una grossa, ossuta fantesca, che lo dominava, lo raggirava, gl'incuteva un inesplicabile terrore, co' suoi modi pazzeschi e indiavolati.

L'arcigna creatura aveva un odio furibondo contro i libri. Non voleva che l'auditore ne comprasse, nè gli aveva mai permesso di metter su, in casa, uno scaffale.

L'auditore, per studiare, per consultare un volume, andava qua e là, or con un pretesto, or con l'altro, nelle case de' suoi colleghi.

Le stanze della Rota erano per lui il Paradiso. Non avrebbe mai voluto uscire dalla Camera di Consiglio: vi si trovava più contento che in casa sua.

Quando una sessione, una discussione era finita, mentre i suoi colleghi si alzavano in fretta, e apparivano sodisfatti di andarsene, egli diventava cupo, attristato; l'idea di dover tornare a casa, delle accoglienze, che gli avrebbe fatto la rozza e irosa Megera, il suo carnefice in gonnella di rigatino, lo atterriva.

Era lungo lungo, secco, calvo, con un naso sperticato, di larghe narici. Aveva circa sessant'anni.

Il presidente quella mattina, appena entrato, fece con gli auditori la sua solita conversazione.

—Avevano letto la poesia a Santa Cecilia del canonico Trenti?… Un nuovo Metastasio!… Si preparava alla Pergola un bello spettacolo… Era arrivata a Firenze Miss Zigstown… È dovuta venir via da Londra, dicono, perchè una sera un grande personaggio della Corte è stato sorpreso nel corridoio, che metteva alla cappella del palazzo dove la Miss, che è cattolica, si trovava… a pregare. Un altro magistrato, mio amico, mi scrive da Lucca che la marchesa Flabelli è fuggita col tenore Ottavini…

—Sempre bene informato il nostro presidente!—diceva in atto estatico l'auditore Lechini.

—Ora dunque passiamo agli affari!—osservò il presidente, interrompendo ad un certo punto la conversazione.

Era tornato molto serio. Si preparava a ribattere con la sua coscienza, con la finezza e il vigore del suo ragionamento le obiezioni, che prevedeva gli sarebbero mosse dall'auditore Pantellini. La lotta doveva essere combattuta fra que' due magistrati, d'indole così diversa, sempre avversarii, l'uno, il Pantellini, geloso e rabbiosamente invidioso dell'altro, ma tutti e due le migliori teste, che avesse quel Turno della Rota. Secondo che l'uno o l'altro prevalesse nella discussione, era certo avrebbe avuto con sè il maggior numero de' colleghi, salvo il Lechini, che dava sempre il suo voto conforme a quello del presidente, l'auditore Comettini, che votava sempre con l'auditore Pantellini suo pigionale.

L'auditore Pantellini fece un gesto brusco, come se avesse voluto dire:—Era tempo!

—Come sanno,—ripigliava il presidente,—dobbiamo occuparci della causa pel latrocinio commesso nel Vicolo della Luna. La Rota deve giudicare dei punti seguenti:

«È provato, in genere, il fatto che il signor Roberto Gandi pittore, come risulta dal libello fiscale, fosse proditoriamente assalito la sera del 14 gennaio nel Vicolo della Luna, che fosse ferito, e in conseguenza della ferita riportata alla testa, sia da varii mesi obbligato a guardare il letto…

—Costrutto francese! costrutto francese!—brontolò l'auditore
Biscotti.

—A stare a letto, dunque, signor auditore, si calmi!… È provato che la ferita abbia messo in grave pericolo la vita del signor Gandi?

«È provato, in specie, che colui che produsse la ferita fu l'inquisito Nello Bartelloni?

«È provato che lo facesse a scopo di furto e con premeditazione?

«È provato che l'inquisito fosse in stato mentale, come ha dedotto la difesa, tale da escludere, o diminuire la sua imputabilità?»

—Ah se mi fosse toccato ieri sera l'asso di cuori!—pensava tra sè l'auditore Cometti!

—Questa causa è grave, molto grave, secondo me—riprese il presidente—Non so quali sieno i pareri degli egregî auditori, ma quanto a me dichiaro che il libello fiscale non mi ha lasciato molto persuaso.

—Come? Come?—domandò subito esasperato l'auditore Pantellini—lei può dubitare della reità dell'inquisito?

—Sì, signor auditore, io ne dubito…

—Ed io pure e da un pezzo!—interruppe l'auditore Lechini.

—Mi sembra che anche scartando…. molte prove—soggiunse l'auditore Comettini, che aveva sempre per la mente un resto di partita a calabresella—ci rimangano pur sempre prove irrefragabili….

—Se ci rimangono!… Ma dica che a ogni parola del processo si moltiplicano!—replicava ingrugnito il relatore.

—Prove… prove: è presto detto. Ma scrutiamole un poco, ventiliamole queste prove… Non si accorgono, lor signori, quanto appunto ci sia deficienza di prove assolute sulla origine del delitto?… Ecco, io apro il processo a pag. 26. Leggo la querela, in atti, dello Scrivano della Piazza. Stiano bene attenti! in questo documento è dichiarato che le prime traccie del sangue furon trovate nel Vicolo dinanzi alla porta della stanza segnata col num. 5.

—È chiaro—continuò il presidente—che l'assassinato ha ricevuto davanti a questa porta la ferita, l'ha ricevuta, cioè, dopo aver fatto alcuni passi nel Vicolo. È spiegato, è provato bene come il signor Gandi abbia potuto essere indotto a inoltrarsi a tale ora, in tal luogo? Per ricevere la ferita alla testa da un giovane di piccola statura come l'inquisito, è evidente che egli ha dovuto chinarsi, prestarsi all'aggressione… In che modo?… Il pugnale, che ha prodotto la ferita è stato brandito da mano robusta… Ora l'inquisito ha appena la forza di un fanciullo. Avranno osservato, durante l'udienza, che il suo braccio trema con una specie di movimento paralitico…

—Solite simulazioni di questi furfanti!—interruppe l'auditore
Pantellini.

—Per ammettere che tutto ciò che ha fatto, o detto l'inquisito sia una simulazione, bisognerebbe ammettere che egli sia dotato di una intelligenza veramente straordinaria… Egli non si è smentito un momento… Per varii mesi è stato sempre eguale a sè stesso, non si è tradito un solo istante…. Dove ha attinto questa forza d'intelletto, questa sagacità un giovinastro, che sino a che non è stato arrestato, fu sempre creduto uno stolido, un imbecille?… Ci sono certi ragguagli insignificanti, in apparenza, ma de' quali noi, cui è affidato un sì prezioso tesoro, l'onore, la tranquillità, la felicità talvolta dei nostri simili, siamo obbligati a tener conto. Non vi è nulla anzi di piccolo, d'insignificante per la giustizia.

—Il signor Presidente è stato convertito dal canto di sirena dell'avvocato Arzellini!—osservò con piglio ironico, il relatore della causa.

—No, caro auditore, io non mi lascio convertire, ma neppure mi ostino contro le evidenze, che mi porgono la scienza e la ricerca della verità. Mi ascolti. Abbiamo un ragguaglio, che ricorre più volte nel processo. L'inquisito la sera in cui fu commesso il delitto, è stato udito cantare. Ha cantato spesso, nel carcere: talora, lasciando il cibo e interrompendo di parlare con coloro che l'interrogavano… ha cantato all'udienza. Queste vociferazioni sono considerate come un espediente, di cui l'inquisito si serve a sviare l'accusa. Però si dice che egli è rimasto colto nella propria rete: volendo ingannare, ha rivelato invece la propria malizia perchè la sera del 14 gennaio egli cantava, ripetendo con precisione l'aria eseguita dal testimone Pardili sul violino; all'udienza cantava un'aria, che si è verificato esser quella eseguita, sull'organetto, da uno zingaro che passava per la strada in quel momento. Dunque, si conclude, egli non è stolido, non è idiota, è intelligente.

—Sicuro! sicuro!—bofonchiava l'auditore Pantellini.

—Ma, no, signor auditore! Posso mostrarle libri di scienziati, provarle con casi antichi e recenti che ci sono veri e propri idioti, i quali hanno speciali attitudini per la musica, si commovono, si esaltano all'udire melodie, le ritengono con estrema facilità, le ripetono con orecchio sì fine da disgradarne certi artisti dei teatri minori. Alcuni arrivano a suonare e ad inventare delle arie…. Questo delinquente, che cantava con premeditazione al momento di commettere il delitto, e ha cantato all'udienza, è troppo abile e troppo incauto al tempo stesso; per credere alla sua prodigiosa penetrazione, alla sua acutezza, ci vuole, mi lascin pur dire, uno sforzo maggiore che per credere alla sua innocenza, alla sua irresponsabilità.

Le sottili osservazioni del valoroso magistrato andavano perdute.

Gli auditori, Pantellini, Comettini e Salti non dissimulavano più i gesti della loro impazienza.

Il presidente non li vedeva. Egli era tutto assorto nella sua teoria.

—Le perizie estragiudiciali sono dovute ad uno scienziato eminente, ad uno di quegli osservatori perspicaci, che hanno studiato i fenomeni morali con una pazienza sublime. Ciò che si dice sulle condizioni mentali dell'inquisito, confesso, che mi ha colpito… Egli ha apparenza in certi istanti di uomo ragionevole, ma l'esistenza in certi infermi della mente di una facoltà qualunque, di una attitudine speciale, superiore, se vuolsi, non solo alle altre, ma eziandio a quelle degli uomini psichicamente sani, pone spesso in inganno gli osservatori superficiali… Io sento che abbiamo dinanzi un tipo degenerato: un eccentrico piuttosto che un delinquente.

—Ah, ma queste, scusi, sono utopie!—disse con la sua voce stridula il Pantellini.

—Ed io l'assicuro, signor auditore—ribattè il presidente—che la mia coscienza è molto titubante, e molto agitata. Io sono turbato da un'idea che mi è tornata spesso alla mente durante il processo, che cioè l'origine del delitto commesso la sera del 14 gennaio è sempre un mistero per la giustizia: che esso ci sfugge nel suo complesso: che non ne abbiamo in poter nostro che una parte accidentale. Una voce, che non posso far tacere, la voce della mia coscienza, mi grida che il sangue, di cui fu trovato cosparso l'inquisito, non è stato versato da lui. Egli è la vittima di un delinquente accorto quanto feroce. Nella debolezza del suo intelletto, invece di difendersi, egli si accusa, corre da sè incontro al precipizio.

Il magistrato, con la sua esperienza, con la sua squisita sensibilità, con la sua profonda intelligenza, vedeva, in quel momento d'immensa lucidità, la vera condizione del fatto luttuoso di cui la Rota doveva giudicare.

La sua mirabile intuizione parve a un tratto dissipare le oscurità del processo.

Nessuno fino allora aveva scrutato con tanta chiaroveggenza nell'intricatissimo e tenebroso affare.

Svolse più ampiamente le circostanze di fatto, le prove, le risultanze del processo, e finì esclamando:

—Riflettiamo; ponderiamo bene, o signori, prima di condannare un innocente!

I quattro auditori, che sedevano dall'altro lato della tavola, presero tutti insieme la parola.

—Lascino parlar me!—disse il relatore della causa,—poi ciascuno di loro farà le sue osservazioni…. Il ragionamento del dotto nostro presidente—si capiva che quell'aggettivo aveva scottato le labbra dell'auditore Pantellini—è ingegnoso, sottile, ma non distrugge le prove materiali, che ci sono contro l'inquisito. Alle teorie sullo stato mentale dell'inquisito io sono incredulo…. peggio che incredulo!—dichiarò con crudezza l'auditore,—per me sono ammennicoli…. Li detesto come argomenti di difesa, ma in qual via c'inoltreremo, se noi magistrati li raccogliamo e cominciamo a ripeterli in Camera di Consiglio?

Il presidente fece un lieve movimento d'impazienza, ma uomo di tatto squisito, di educazione eletta, si rattenne.

—Lei auditore,—rispose con calma il presidente, gingillandosi con la catena dell'orologio, e mezzo rovesciato sulla spalliera della poltrona,—insiste tanto sulle prove materiali, mentre fa assoluta astrazione dall'origine, dalla sostanza del delitto…

Il più grande scoglio,—aggiunse il presidente—quando si tratta di scoprire un delitto misterioso, è un errore sul movente di esso… Se le prime ricerche prendono una falsa direzione, più uno si avventura in queste, più si allontana dal vero… Mi pare, scusi, che Lei segua un poco la strada che pur troppo è stata tenuta dagli attuarii nel formare il processo. Essi hanno dimenticato l'assioma: prius de re quam de reo inquirendum! Quanti innocenti, in casi consimili, sarebbero stati condannati, se il magistrato non si fosse elevato a considerazioni, che sono imprescindibili nel nostro ufficio, e si fosse fermato ai soli indizii, per quanto gravi?… Tutti loro conoscono ciò che ha detto uno dei nostri più grandi dottori sulla importanza delle prove congetturali: «Etiam si mille conjecturas Fiscus cumularet, tamen illae nihil prorsus efficerent non data… ascoltino bene… non data… probatione præcedenti in qua præsumptiones et adminicula fundari possint!….

—Bella dottrina!—interruppe con certo sdegno l'auditore Pantellini.—Dottrina da avvocato! E in fatti è roba del Farinaccio… Le prove necessarie alla convinzione legale abbondano negli atti del processo, per me ce n'è anche troppe. E la Rota…. mi par superfluo ricordarlo… deve giudicare secondo la convinzione legale, non già ingolfarsi in ipotesi scientifiche, morali…

Il presidente combattè anche questa obiezione.

La discussione divenne sempre più irritante.

—Va bene,—disse alla fine il presidente.—Veniamo ai voti.—

Succedette allora un grande silenzio.

Que' giudici, tutti noti per la loro severità, alcuni proverbiali per il carattere bisbetico, per una certa ferocia nel condannare, vero spavento dei delinquenti e disperazione dei difensori, che sapevano bene come erano composti i turni; que' giudici, gelosi della loro indipendenza, rigidissimi, alieni dalle facili indulgenze, si preparavano a dir alto la loro opinione.

—Al voto! al voto!—mormorava, tutto rubicondo l'auditore Pantellini girando attorno gli occhi, che dardeggiavano sotto le folte sopracciglia grigie.

Gli pareva di esser certo di aver guadagnato il Collegio, di averli tirati quasi tutti dalla sua.

Sul primo quesito in genere non ci furono negative.

Naturalmente nessuno degli auditori poteva pensare a negare che il pittore Gandi fosse stato ferito.

Al presidente tremava la voce, formulando il quesito in specie:

«È provato, che colui che produsse la ferita fu l'inquisito Nello
Bartelloni?

Il magistrato era divenuto pallido.

Egli si trovava in una grande angoscia.

!—rispose con accento limpido, spiccato, sicuro, l'auditore Pantellini.

!—rispose l'auditore Comettini.

!—rispose in tuono aspro anche l'auditore Salti.

Tre auditori si erano già dichiarati contrarii all'inquisito.

L'ansietà del presidente aumentava.

Egli sapeva che il suo voto, quello del suo amico Lechini, sarebbero stati favorevoli all'inquisito.

Mancava il voto dell'auditore Biscotti.

Se egli avesse dato il voto negativo all'accusa, l'inquisito era salvo!

A parità di voti, tre contrarii, tre favorevoli, non si pronunziava condanna.

Se non si assolveva, poichè le assoluzioni fossero rare, l'inquisito era però liberato dal carcere, prosciolto da ogni pena: soltanto egli poteva di nuovo per nuovi indizii esser richiamato in giudizio, e allora la sentenza, assolvendolo pel momento, dichiarava che il processo rimaneva aperto.

Il presidente si sarebbe contentato di questa vittoria!

Ma, prima che fosse spirato il minuto secondo, in cui egli faceva tali riflessioni, l'auditore Biscotti aveva già aperto le labbra per pronunziare egli pure il monosillabo fatale a Nello.

!—egli disse, e il suo sì ebbe un'eco sinistra nel cuore del primo dei magistrati presenti.

Ormai la sorte di Nello era decisa!

No!—egli proferì tristamente.

No!—ripetè l'auditore Lechini con voce più forte, come se mettesse il suo più legittimo orgoglio nel mostrare che egli era della stessa opinione del suo superiore.

Le altre domande ebbero eguale risposta.

L'auditore Salti si alzò.

—Ho bisogno di assentarmi per un momento!—egli mormorò.

—L'aspetteremo,—soggiunse il presidente.—Dobbiamo deliberare sul quantitativo della pena…

—Oh, facciano pure… Quando la Rota ha giudicato reo un inquisito, circa la pena… lo sanno…. il mio voto è sempre per il più!

E uscì per una certa porticina a muro, che si trovava in un canto della stanza.

—La Rota,—continuò il presidente,—ha ammesso dunque come provato che l'inquisito è reo dell'assassinio, di cui fu vittima il pittore Roberto Gandi la sera del 14 gennaio… Sotto questo titolo sono varie le pene comminate dal Codice… Attendiamo pure che torni il signor auditore Salti per discutere sulla maggiore, o minor quantità della pena.

—Intanto possiamo dettare il principio della sentenza!—osservò l'auditore Pantellini, che si stropicciava le mani, e che ardeva di uno di quelli inesplicabili e rabbiosi amor proprii, che pur si trovano in ogni professione, stimolato, inasprito, centuplicato dal trionfo ottenuto allora sul presidente, dalla sicurezza di aver persuaso, convinto i colleghi, su' quali si vedeva cresciuto di autorità.

Ma l'auditor Salti tornava nella Camera di Consiglio.

La discussione pel quantitativo della pena fu breve; fu adottata la pena richiesta dal Fisco.

Il presidente fu battuto anche in questo, non ostante che il suo voto nel genere minimo della pena fosse preponderante, se unito a quello di soli due auditori.

Si cominciò a dettare la sentenza:

«La Rota Criminale di Firenze, Turno di sei, nella causa contro

«Nello Bartelloni, nato in Firenze, e quivi domiciliato, senza mestiere, ecc. ecc.

«Veduto il processo:

«Udita la relazione dell'auditore Pantellini;

«Sentito il signor avvocato fiscale nelle sue conclusioni con le quali ha domandato la condanna dell'inquisito come urgentissimamente indiziato, nella pena dei pubblici lavori per anni venti.

«Sentito il signor avvocato G. B. Arzellini difensore del reo, e che ha parlato in ultimo luogo in difesa di esso.

«Sentito il Bartelloni medesimo, presente al giudizio, che ha confermato essere autore del furto, commesso sul ferito, sebbene abbia negato d'esser egli autore del ferimento.

«Attesochè la prova in genere resulta, ecc.»

(Qui erano sviluppati sedici o diciassette attesochè).

«Vedute le disposizioni aggiunte al Motuproprio del 22 giugno 1816.

Deliberatis deliberandis

condanna l'inquisito Nello Bartelloni, addebitato nella speciale inquisizione di latrocinio, ecc. ecc….»

Una esclamazione del presidente interruppe il copista, che scriveva la sentenza.

Costui rimase con la penna in aria, guardando i giudici.

—Prima che sia scritta l'ultima parola di questa sentenza, da cui dipende la sorte di uno sventurato—affermò il presidente—io chiedo alla Rota di poterle sottoporre alcune nuove riflessioni.

—Ormai è tardi!—replicò l'auditore Pantellini.—La Rota ha già deciso!

—Ma il presidente deve parlare!—disse l'auditore Salti.

—Deve parlare!—soggiunse il Lechini.

Nacque di nuovo tra gli auditori un dialogo vivace.

E, mentre i giudici erano occupati a compilare la sentenza, Lucertolo si affaccendava nella stanza degli uffici della Rota, in cui si accumulavano e si conservavano gli oggetti pertinenti a qualche delitto.

Fra tali oggetti era il tappeto, tolto dalla stanza misteriosa nel
Vicolo della Luna.

In un punto di questo tappeto si vedevano molte orme sanguigne; le orme, le traccie lasciatevi dai birri, dagli ufficiali di polizia, che erano entrati nella stanza la sera del delitto, dopo aver messo il piede sulla gora del sangue.

Lucertolo, sempre spinto dalla sua smania di ricerche, esaminava il tappeto.

Ad un tratto gettò un grido.

Fra le traccie del sangue egli ne aveva scorta una, la più singolare di tutte, poi un'altra simile, poi un'altra….

Queste traccie erano indefinite, confuse, ma rappresentavano l'orma più o meno completa di un piede scalzo. Si scorgevano le dita, in due punti diversi anche la pianta del piede.

Tale traccia non era stata di certo lasciata dagli agenti di polizia.

Naturalmente, nessuno era scalzo fra gli agenti accorsi nel Vicolo la sera del delitto.

Dunque era chiaro che l'assassino era entrato nella stanza.

A lui solo poteva appartenere l'orma del piede ignudo.

Ed il povero Lucertolo si smarriva in congetture che dovevano sempre più allontanarlo dalla verità.

L'orma sanguinosa di un piede scalzo era sul tappeto, ma non era quella del piede dell'assassino.

La sera stessa, in cui finiva la pubblica discussione sul processo di
Nello, il celebre birro si avviava alla Palla.

Poi pensò che l'entrare nel raddotto a tale ora, il sottoporre ad interrogatorii la Sguancia e le altre donne, avrebbe eccitato sospetti.

Bisognava trovare un espediente per entrare, senza troppo richiamar su di sè l'attenzione, nella casa malfamata.

L'espediente era facile.

Sorgevano quasi ogni giorno diverbii in quel luogo frequentato da precettati, da pregiudicati, da pessimi arnesi.

Occorreva dunque vigilare ed entrare alla prima occasione di rumori. La sua qualità di agente della polizia non poteva allora dar luogo a sinistre congetture.

In fatti il giorno stesso in cui Lucertolo scopriva sul tappeto, custodito tra i corpi del delitto, le traccie del piede scalzo, verso le sei pomeridiane, mentre stava appostato verso il canto di Via Naccaioli, vicino al mercato, udì un grande schiamazzo, che usciva dalla stanza d'ingresso della Palla.

In pochi secondi lo schiamazzo si fece sempre più forte, poi, proferendo parole grossolane frammiste a bestemmie, uscì precipitando per la scaletta esterna un giovinastro inseguito da un omaccio, che pareva ubriaco, e che si voleva scagliare contro colui che fuggiva, e gli lanciava mille vituperii.

—Che c'è?—che c'è, birbanti!—urlò Lucertolo, staccandosi dalla cantonata alla quale stava appoggiato.—Tu, canaglia—disse, acciuffando pei capelli il giovinastro, che aveva lasciato nella stanza il berretto cadutogli durante il tafferuglio—sei in contravvenzione al precetto. Che fai qui e a quest'ora? E tu, Astrologo—disse, rivolgendosi all'uomo più adulto—fai all'amore da capo con la prigione?… Ti contento subito!

Il birro prese per mano i due vagabondi, stringendoli ai polsi con le sue dita di acciaio, come fra le morse di una tanaglia, e li ricondusse dentro la stanza da cui uscivano.

—Che cos'è stato?—domandò Lucertolo, dopo avere cacciato i due litiganti in mezzo alla stanza, e aver richiuso l'uscio.

—Nulla… io credevo che scherzassero!—rispose la Sguancia, alzandosi dalla panca su cui era seduta.

—Ho capito io quel che bisogna fare perchè finiscano questi scherzi!—esclamò Lucertolo in tuono minaccioso.—Ci vuole un rapporto all'ispettore… ottener l'ordine che la casa sia chiusa.

—Ma perchè, Lucertolo?—rispose la paffuta zitellona.—Mi pare—proseguì, accostandosi al birro per non esser udita dagli altri due—che non mi sono mai rifiutata in tante occasioni ad aiutare la polizia…

—Bene! questo si chiama parlare!—rispose Lucertolo, in tuono reciso.

Poi, guardando con occhio torvo i due ribaldi, che erano stati la sua provvidenza:

—Voialtri andate per ora!—disse loro.—Con vostra licenza verrò più tardi a farvi visita io!… E state sicuri che saprò ritrovarvi!

I due non se lo fecero ripetere e sgattaiolarono via, come se avessero alle spalle il boia, che li frustasse.

—Ed ora a noi, Sguancia!

Pronunziando queste parole Lucertolo era andato a sprangare l'uscio, e si era seduto sulla panca accanto alla donna.

—Che cosa volete?—domandava la triste mezzana, guatando il birro con occhi imbambolati.

—Ehi, biondina!—disse il birro con malizia ironica e con un piglio che non ammetteva repliche—non sono qui per far la celia!… O rispondi alle mie domande, o fra dieci minuti ti sbatacchio davanti al Commissario.

La mezzana rabbrividì.

—Ma io sono qui al vostro comando, Lucertolo,—rispose balbettando.

—Capisco!…. Ti devo dunque dire che la polizia ha ricevuto molti rapporti contro di te.

—Contro di me!—interrogò con un affettato stupore la baldracca scozzonata.

—Contro di te, appunto!

E Lucertolo fissava gli occhi in quelli di lei.

—La scena avvenuta ora è una delle tante che si ripetono spesso in questo luogo, che sono occasione di scandalo, una vergogna per tutto il Mercato… La gente si lamenta e ha ragione… Questo è il riparo di tutti i peggiori arnesi di Firenze…

—Io però vado di tanto in tanto a denunziare al capo agente del quartiere chi viene qui, che cosa fanno, che cosa dicono…

—Senti, Sguancia—ricominciava il birro in modo più amorevole, quasi mostrando una certa premura verso di lei—già che mi trovo qui, voglio dirti per tuo bene una cosa.

—Dite! dite!—insistè la donna, che già era presa dallo spavento; tanto la polizia ne incuteva allora ai malviventi.

—Ti pende sul capo un gran castigo!… Non mi meraviglierebbe che un giorno o l'altro tu fossi chiamata al Commissariato di Valfonda, stesa sulla panca e…

Il birro fece un gesto, imitando uno che menasse colpi…

—Gesummaria!—ripetè la Sguancia inorridita, e portandosi le mani al viso.

—C'è qualcuno, io credo, che ti ha fatto la spia…

La donna dette uno scatto sulla panca.

Essa aveva la mano in tante turpi azioni, che mille sospetti la assalivano di un tratto.

—Che dite? che dite?

—Dico che tu, disgraziata, sei già segnata nel Libro Nero.

Queste parole bastavano allora a far rimescolare il sangue alla gente grossolana.

La Sguancia non aveva più fiato, non poteva più spiccicare parola, la lingua le si era attaccata al palato.

—Si pretende… sta' bene attenta—continuava il birro con aria tragica, e stringendo in modo febbrile le rozze mani della donna, che squassava con forza—si pretende che tu sia complice…

—Complice?—esclamò la donna, gettando un grido di raccapriccio.

—Complice del delitto commesso qui nel Vicolo la sera del 14 gennaio…

La Sguancia era divenuta livida.

—Complice!—ripetè la donna, dopo un istante.

Aveva appoggiati i gomiti alla rozza tavola sulla quale ardevano due candele di sego, e si copriva il volto con le mani carnose.

Poi, avvezza com'era al mentire, piena di diffidenze, consumata nelle male arti, un'idea le balenò: che cioè il birro non sapesse nulla della verità, e volesse sobillarla.

—A che pensi?—disse Lucertolo buttandole giù una mano, e guardandola in faccia.

La vide molto conturbata, e capì l'effetto delle sue parole.

—Penso—soggiunse la donna in apparenza più calma—che ci sono dei mascalzoni… e chi sa per qual fine, a sfogo di quale vendetta… mi calunniano, mi vogliono rovinare…

E teneva d'occhio Lucertolo.

Il birro comprese che per quel momento la donna gli sfuggiva.

—Ma io non ho paura!—ripetè la Sguancia alzandosi.—Chi tentò d'ammazzare il signore, trovato steso qui nel vicolo fu il birbante di Nello. Ormai è stato giudicato… E come si può credere ch'io sia stata sua complice?

—La sbagli! La sbagli!—esclamò Lucertolo—Il pericolo nasce da questo: che si comincia a dubitare che Nello sia innocente, vittima di qualchedun altro… e se il sospetto si propala…

—Che sospetto?

—Vedi, Sguancia, io non ti dovrei parlare come fo; noi siamo obbligati al segreto; ma io ti vorrei salvare, perchè… insomma… anch'io comincio a dubitare che certe spie abbiano ragione.

—In che cosa?

—Si racconta che l'assassino sia stato un altro… uno, che bazzicava in questa casa… che la sera del 14 gennaio, dopo aver tirata la coltellata, sia entrato qui…

—Che orrore! che orrore! come si possono dire queste infamie? Non l'avrei subito denunziato?

—E anzi l'assassino nel venir qui era tutto insanguinato…

La Sguancia allibiva.

La brutta scena a cui aveva assistito in quella sera, ormai lontana, le tornava ora alla memoria nel modo più spiccato.

Rivedeva Bobi Carminati nella piccola cucina, che chinato sulla catinella, si lavava il sangue.

Fu per tradirsi, ma soffocò a tempo il grido che voleva proromperle dal petto.

Lucertolo notava tutti i movimenti della donna, i più lievi cambiamenti della sua fisonomia.

Una voce chiamò la Sguancia dal piano di sopra.

La voce giungeva in buon punto.

La Sguancia fu chiamata una, due, tre volte.

—Salgo… e torno subito—disse al birro, lieta di sottrarsi anche per un momento alle incalzanti domande e di avere il tempo di riflettere, e preparare altre risposte.

Lucertolo, rimasto solo, si mise a pensare.

Le sue parole avevano prodotto sulla donna grande effetto.

Si era confusa, era impallidita, aveva tremato.

Dunque egli si accostava alla verità; questa volta dirigeva bene le sue ricerche e sarebbe giunto ad un buon resultato.

La trepidanza con cui la Sguancia lo aveva ascoltato gli rivelava che egli non si era ingannato nel descrivere il modo onde l'assassino era entrato alla Palla la sera del delitto.

E restava assorto nelle sue meditazioni.

La polizia è fidente: i suoi agenti obbediscono talvolta a ispirazioni che sembrano inesplicabili, ma che essi attingono naturalmente alla pratica della loro professione, ad un certo sentimento, che è in essi acuito, perfezionato dall'esperienza. Così alcuni agenti, visitando talvolta il luogo dove fu compiuto un misfatto, anche alcuni mesi dopo l'avvenimento, sono riusciti a ricostruire, con indizii i quali sarebbero sfuggiti ad ogni altro, la storia di un delitto dei più tenebrosi.

Lucertolo immaginò che l'assassino, se era entrato alla Palla la sera del 14 gennaio, doveva avervi lasciato traccie.

Cercò di ripristinare la scena in tutti i suoi particolari.

Quando l'assassino era entrato, nessuno doveva trovarsi di certo nella stanza d'ingresso.

Se avesse udito rumori, se avesse sentito che vi si trovava gente, egli non avrebbe spinto la porta, sarebbe anzi tornato indietro.

L'assassino era insanguinato!

Naturale che il suo immediato pensiero, entrando, fosse stato quello di far sparire i segni che lo accusavano.

Al primo piano non era di certo salito perchè sempre frequentato.

Era lecito supporre che egli si fosse subito diretto alla cucina.

E, dominato dal suo pensiero, Lucertolo prese una delle candele sulla tavola e si avviò alla cucina, tale e quale come aveva fatto il pompiere Bobi Carminati la sera del 14 gennaio, dopo aver colpito la sua vittima.

Arrivato in cucina, Lucertolo cominciò a fiutare per tutto, a rifrustare ogni angolo.

La cucina era sucida, mandava fetori, l'acquaio, il camino luccicavano per l'untuosità ai crassi bagliori della candela di sego.

Guardò prima l'acquaio. Per tutto dove la pietra fa orlo si vedeva un fitto strato di fimo, formatosi con le scolature delle acque putride, delle sostanze oleose, non rimosse col granatino.

Lucertolo si mise a grattare quel fimo aderente alla pietra verso il reticolato.

A un tratto vide una materia rossastra.

Allora raccolse tutti quegli atomi rossi, e li gettò, a uno a uno, sopra un pezzo di carta.

Arrivò così a scuoprire la pietra, sulla quale vide ben chiara l'impronta di un grosso spruzzo di sangue, che vi era rimasto accagliato, penetrando a traverso le altre materie, che aveva imbevute.

La sera del delitto Bobi si era lavato due volte, e la prima volta, allontanando da sè il cane, che si accostava a lambire la catinella, avea gettato il liquido denso di sangue nell'acquaio, e andando giù a fiotto, sbattendo nell'angolo della pietra presso il reticolato, alcune particelle del sangue vi si erano fermate, infiltrandosi per le altre materie.

—Oh!—esclamò Lucertolo a tal vista, alzando il labbro superiore, con espressione di vera meraviglia.

Osservò ben bene la macchia, poi la ricoprì subito con altra di quella sozzura.

Non bisognava distruggere tale indizio, se pur fosse un indizio!

Intanto chiudeva nel foglio accuratamente gli atomi insanguinati, e si metteva il foglio in tasca, riserbandosi di sottoporre il contenuto agli esami di persone più autorevoli di lui, e di valersene come sarebbe stato meglio.

Frugò tutta la cucina, infuriato, quasi un ladro che stesse in timore di esser sorpreso; gli premeva di non farsi trovar lì dalla Sguancia.

E teneva sempre l'orecchio teso verso la scala per sentire se ella scendesse.

Non trovò nulla, e stava per uscire, quando a un tratto vide una catinella sbocconcellata, e screpolata, in un angolo del camino.

La prese, la guardò; niente che attraesse la sua attenzione.

La catinelletta era piena di cenere.

Gli venne in mente di rovesciarla.

O stupore!

Qua e là, in varii punti, nella parte sottoposta della catinella vi erano macchiuzze, appena visibili, di sangue rappreso. La catinella non era mai stata lavata.

E, in mezzo alla cucina, tra le profonde anfratture, gli screpoli dei mattoni, rimovendo gli straticelli di lordure, che vi si erano addensati, Lucertolo, guardando bene, vide nuove e corrose e scolorite macchiuzze di sangue.

Non poteva più dubitare!

Egli non si era ingannato nelle sue previsioni.

L'assassino era venuto lì di sicuro la sera del delitto.

Prese la catinella, la nascose sotto il tabarro, e andò via.

Pensò che il più savio partito era di rimettere ad altro tempo il colloquio con la Sguancia.

Ora gli dava martello la traccia sanguinosa del piede scalzo.

Si recò nella prigione, paragonò le misure, che aveva preso, col piede di Nello.

Le misure non corrispondevano.

Il piede di Nello era più lungo e più affilato.

Occorreva confrontare le misure col piede di Bobi Carminati.

Come fare?

Pochi giorni appresso, Lucertolo si recava a Campi, dove si celebravano feste popolari, cui dovevano accorrere i famigli di tutta la squadra dei dintorni per vigilare; Lucertolo v'incontrò, infatti, il Carminati.

Si accompagnò con lui, gli guardò il piede, ma neppure il piede del
Carminati corrispondeva alla misura.

Il piede scalzo, che si era posato sul tappeto, era un piede più grosso, quasi quadro, e cortissimo.

Il Carminati aveva il piede lungo e assai stretto.

Dunque nè Nello, nè il pompiere erano entrati nella stanza del Vicolo della Luna la sera del 14 gennaio.

O chi vi era entrato?

V.

Circa tre settimane dopo i fatti da noi narrati, Lucertolo si trovava una sera sulla Piazza del Granduca: oggi soltanto: Piazza della Signoria.

Tra le quattro e le cinque pomeridiane, la Piazza era frequentatissima: vi si affollavano operai, impiegati, le coglie, come si chiamavano allora i giovanotti eleganti, le più vispe donnette del popolino, le serve coi bambini, qualche prete, e, diremo più sotto il perchè, tutti i soldati.

Intorno al castello mobile dei burattini, collocato di solito rimpetto alla fonte del Biancone, si affollava la gente, e dava in grandi scrosci di risa.

Il castello era formato da quattro tavole unite insieme e coperte all'esterno da un rozzo panno.

Ad una certa altezza, quasi l'ordinaria altezza di un uomo, sul dinanzi del castello era praticata un'apertura, che raffigurava un piccolo palcoscenico.

Un uomo nascosto tra le quattro tavole, faceva agire sul palcoscenico i suoi bizzarrissimi attori, e una donnaccola girava tra i gruppi degli spettatori, tendendo un piccolo vassoio, sul quale gli scioperati gettavano un quattrino, due quattrini.

Finito lo spettacolo l'impresario se n'andava, camminando in mezzo alle strade, sempre dentro al suo teatro.

Qua e là per la piazza erano i bruciatai, i lupinai, i venditori di ciambelle e di sommommoli caldi e tutti urlavano, davano in lazzi, facevano affari eccellenti.

Verso la cantonata di via Calzaioli, davanti a un vetusto usciolino, che si vede tuttora, e che rammenta l'antico livello della Piazza più basso dell'attuale, metteva banco ogni sera un venditore di cannelloni, conditi con cacio romano e pepe, a una crazia la porzione, delicatamente servita in un piattino coperto da altro piattino.

Sul banco del venditore erano in gran numero forchette di ferro.

La povera gente, gli operai, si accalcavano al banco: il venditore smerciava perfino duecento porzioni del suo manicaretto in una sera.

Alcuni avventori, preso il piatto e la forchetta, si allontanavano dal banco, si mettevano vicino alle case, e voltati verso il muro, diluviavano allegramente.

Era quella l'ora della ritirata militare!

Dopo le ventitrè, quando la Piazza cominciava a popolarsi, arrivavano i drappelli de' suonatori di tamburo e di pifferi, addetti al corpo dei granatieri acquartierati nel forte di Belvedere, o a quello dei fucilieri, accasermati nella fortezza da Basso, arrivavano i tamburi dei Veterani, acquartierati nello stabile della Zecca, con ingresso in Via Lambertesca, le trombe dei dragoni alloggiati nel Corso dei Tintori, dei Cacciatori a piedi e dei Cacciatori volontarii.

Tutti si riunivano alla Gran Guardia, schierandosi sulla gradinata maggiore del palazzo della Signoria, dove giornalmente stava di servizio una compagnia di linea, circa 80 uomini fra ufficiali, sott'ufficiali e soldati.

Alle ventiquattro precise, la Milizia si metteva in parata e gli strumenti suonavano.

Dopo il «presentate arme», i soldati di servizio, portando la mano al gasco, facevano la seconda preghiera della giornata, poichè la prima era fatta allo scocco del mezzogiorno.

Il capo-tamburo maggiore, che di tanto in tanto lanciava e riprendeva per aria, molto destramente, una gran mazza con grosso pomo d'argento, si poneva alla testa dei suonatori di tamburo, di pifferi, e dei trombettieri, e comandava diverse evoluzioni attorno alla Piazza.

Andavano loro innanzi frotte di ragazzacci, che messi in ruzzo dai rulli de' tamburi, dagli squilli delle trombe, dalle note acute dei pifferi, si davano con smania a far di quelle capriole, conosciute nel loro gergo col nome di cameruzzoli.

Spesso un ragazzo o l'altro rotolava per terra, e incontanente si rizzava, richiamato a migliori consigli dai calci, che prodigava un celebre comandante di piazza, il quale, adempiendo al suo ufficio, precedeva ogni sera, senza sguainare la sciabola, il capo-tamburo al momento della ritirata.

Era questa forse per il pubblico una delle parti più attraenti del curioso spettacolo.

Fatto il giro della piazza, i drappelli si separavano all'imboccatura di Via Calzaioli, e, suonando, muovevano ai rispettivi quartieri.

La descrizione, raccolta da uomini provetti, e che furono più volte testimoni di simili scene, crediamo debba essere esatta.

Una sera del decembre, come abbiamo detto, Lucertolo si trovava nella Piazza e girava tutto stranito in mezzo alla folla, con le mani nelle tasche profonde della sua carniera di velluto, e col bastone sotto l'ascella del braccio destro, nel suo favorito atteggiamento.

Una strana notizia correva quella sera di bocca in bocca.

Nella giurisdizione del Capitan Bargello di Brozzi era avvenuto un fatto sinistro.

La notte innanzi due famigli perlustravano lungo la sponda dell'Arno, all'aperta campagna.

Il fiume era grosso, minacciava di straripare.

I famigli avevano tutti e due una lanterna.

Ad un tratto sentono un rumore, fatto da persone che correvano, e che senza dubbio, accortesi della presenza dei famigli, aveano gettato a terra qualche cosa, che era caduto con strepito, e si eran fermate.

I famigli, insospettiti, chiuse le lanterne, per non esporsi a servir di mira a colpi di sassi, o a colpi anche più micidiali, avevan fatto più volte le loro intimazioni.

Nessuno rispose.

Si trattava certo di delinquenti.

Allora Bobi Carminati, uno dei famigli, sparava in aria il suo schioppo, come se volesse impaurire i malandrini.

Non sì tosto sparato il colpo, il Carminati e l'altro famiglio avevano cambiato posizione appostandosi pian piano dietro a due alberi.

L'ispirazione era stata ottima.

Due altri colpi di schioppo furono quasi subito sparati dai malandrini in direzione del luogo, che i famigli avevano così cautamente abbandonato.

I due birri, o famigli, stavano nascosti sotto una siepe l'uno accanto all'altro.

—Che cosa dobbiamo fare?—disse Bobi Carminati al compagno, dopo che i malandrini ebbero sparati i loro colpi.

Le acque del fiume ingrossato, gorgogliando, mulinando, levavano alto rumore.

—Devono essere in diversi—ripetè l'altro birro, appena articolando la voce.—Gli ho sentiti dianzi al correre, e poi si capisce… perchè hanno tirato insieme due colpi, e, come hai veduto, i colpi scattavano da due schioppi l'uno poco distante dall'altro.

—Aspettiamo!—disse il Carminati.

Intanto il suo compagno stava in orecchi per accertarsi se gli altri si movessero.

I malandrini erano sei.

Tre di loro, al momento in cui si erano incontrati ne' famigli, andavano di corsa, e ciascuno portava in spalla un grosso sacco: gli altri due seguivano con gli schioppi carichi in mano, e pronti a far fuoco nel caso che si avvedessero di esser sorpresi o inseguiti.

Venivano dall'aver commesso un furto in una casa colonica.

Le notizie di ciò che era accaduto la notte verso la sponda dell'Arno erano state recate la mattina a Firenze dallo stesso famiglio, che insieme col Carminati aveva affrontato i malviventi.

E le notizie erano davvero straordinarie, e tutta la gente che si trovava quella sera in Piazza del Granduca ne parlava; ognuno, travisando il racconto a suo modo, vi aggiungeva, vi toglieva, lo modificava a suo talento.

Ma più incaloriti di tutti nel discorrere, nel gesticolare apparivano i birri, che a tale ora calavano ogni sera nella Piazza.

Il famiglio, trattenuto da' superiori a Firenze, era chiamato da un gruppo all'altro e a tutti ripeteva la sua storia.

Ed eccola ne' suoi particolari.

—Io mi era gettato quasi in terra—raccontava il famiglio—e aspettava ansiosamente quello che avrebbero fatto costoro, che si dovevano trovare a venti o trenta passi di distanza… Per un quarto d'ora circa non ho udito altro che scrosciar l'acqua e il fischiare del vento… Ad un tratto mi par di sentir qualcuno che si muove… passi che si fanno, a poco a poco, precipitosi… Accosto l'orecchio quasi alla terra e subito sento che a poca distanza da noi sette o otto persone almeno fuggivano.

Il famiglio esagerava a bella posta per aumentare l'importanza del pericolo da lui corso.

—Allora—continuava—io chiamo: Bobi! Bobi!… ma nessuno risponde. Pensai che, mentre io era intento a vigilare i movimenti dei malandrini, il Carminati si fosse allontanato allo stesso scopo… Chiamai più forte… non ebbi daccapo nessuna risposta… Senza più pensare ai malandrini, se si fossero tutti dati alla fuga, o se qualcuno ne rimanesse, io apro la lanterna e guardo tutt'all'intorno… In quell'istante sento verso l'acqua un gemito acuto, un grido di: aiuto, aiuto!… Il vento impetuoso mi spense la lanterna!

—E poi? e poi?—domandava la gente raccapriccita a questo punto del racconto.

Il famiglio, dando a divedere una estrema commozione, ripigliava tutto conturbato:

—Non mi è riuscito, per quanto abbia fatto, di riaccendere la lanterna.. Ho chiamato cinque o sei volte il Carminati, e ad alta voce… ma sempre senza risposta… Allora ho avuto un brutto presentimento… Ma come fare? Non mi restava altro che tornare indietro, fermarmi alla prima casa, e poi venir di nuovo lì con lumi e accompagnato da altri… Pratico come sono di que' luoghi, feci il conto che in mezz'ora sarei arrivato a svegliare una famiglia di contadini, che abitavano in una casa poco lontana… e sarei tornato. Mi tenni a questa idea… E quasi una mezz'ora dopo arrivo, preceduto da lumi, circondato da gente con schioppi e altri lumi, al punto dal quale insieme al Carminati avevamo fatte le prime intimazioni… Tutti chiamammo il Carminati, e sempre indarno… Allora ci mettemmo a cercare… Fatti una diecina di passi, vedemmo poco lontano da noi tre sacchi, gettati sull'erba, uno qua, uno là… Due erano pieni di farina, uno di grano. Quello era il bottino lasciato dai malandrini…

—E il Carminati?—interrompevano i curiosi.

—Non si trovava… Finalmente, mi viene un pensiero… Che si sia avanzato verso l'acqua e nel buio… con la piena… Su, ragazzi… dico ai contadini che mi accompagnavano, guardiamo un poco giù verso il fiume… alle volte… non vorrei fosse successo… Tutti gettarono un grido d'orrore. Camminammo alcuni secondi nel più tetro silenzio… Vi assicuro che il cuore mi batteva! Alla fine un giovinotto, che andava innanzi a tutti, dette un urlo.

—Che c'è? che c'è?—domando io.

—Ho trovato un cappello!—mi risponde un giovinotto. «Corro verso di lui, prendo il cappello, e subito lo riconosco… era il cappello di Bobi… Ci guardammo tutti costernati… Di sicuro, disse il più attempato dei contadini, qui si tratta di una grande disgrazia!… Mi sentii rabbrividir… Ma mi restava una speranza… Avanti! avanti!—ripetei. Ci avanzammo di più, sempre chiamando il Carminati, e cercando con le nostre voci dominare il rumore dell'acqua, che scrosciava, e del vento.»

Giunto a questo tratto del racconto, il famiglio invariabilmente si strusciava sulla fronte una pezzolaccia giallognola, che si cavava di tasca.

Il racconto finiva sempre con queste parole: «A una diecina di passi dal cappello, proprio rasente all'acqua, e mezzo affondato nella fanghiglia, abbiamo trovato… indovinate che cosa?… lo schioppo di Bobi… Nessuno ha più dubitato… Era chiaro che Bobi, forse dopo che il vento gli aveva portato via il cappello, volendolo ricercare, cacciandosi nel buio per esplorare… aveva inciampato, ed era cascato all'improvviso nel fiume… Aveva cercato di salvarsi disperatamente… e da lui veniva il grido di aiuto, aiuto! che avevo udito. Povero Bobi! e sino ad ora non si è avuta notizia del ritrovamento del cadavere!… Già con questa piena!»

E tutti si scalmanavano, si spolmonavano, si arrovellavano a commentare il fatto.

Gli autori del furto dei sacchi erano stati subito scoperti, e si trovavano in prigione.

Ma Bobi?

La sua tragica fine era motivo di stupore.

Lucertolo si era fermato sotto la Tettoia, detta de' Pisani, grottesca e barocca costruzione, tirata su a metà del caseggiato, che formava allora il lato della piazza di contro al Palazzo della Signoria.

La Tettoia serviva di riparo alle finestre degli Uffici Postali, rispondenti sulla Piazza, dalle quali si faceva la distribuzione delle lettere.

Visto comparire il capo agente del quartiere. Lucertolo lo salutava e gl'indicava il famiglio venuto da Brozzi, di bizzarra apparenza co' suoi rozzi panni, e che raccontava per la cinquantesima volta la catastrofe della notte precedente.

—Ebbene!—disse il capo agente—lasciate vociare quel tanghero!…

I birri delle città, specialmente quelli residenti in Firenze, si consideravano molto superiori ai famigli che servivano nei Capitanati.

—Lasciatelo vociare!—soggiungeva l'agente.—E' l'elogio funebre che merita un arnese, com'era quel Bobi… E' affogato… e meglio per lui… Altrimenti ne avrebbe fatte un giorno delle sue… Ricordatevi che nel Corpo dei Pompieri non ce l'avevano più voluto… Era stato un bel regalo per la polizia…

—Ma credete voi—osservò Lucertolo, tutto pensoso—che il Carminati sia affogato davvero?

—E chi ne può dubitare?

—Io!—replicò Lucertolo con voce cupa.

—Siete pazzo?

—Chi sa!

—Spiegatevi.

I due birri, camminando mentre discorrevano; erano arrivati all'imboccatura del Chiasso dei Lanzi.

—Sì! io ne dubito—tornò a dire Lucertolo.—Il Carminati è un uomo capace di tutto… A quest'ora chi sa dove se l'è svignata.

—Ma perchè?

—Eh, perchè… perchè… lo so io, insomma. L'uomo da un pezzo non si sentiva più tanto sicuro. Aveva capito che io mi era accorto… e che un giorno o l'altro sarebbe rimasto alla pania, che io gli tendevo… E così ha preso il volo… Lo riacchiapperò, lo riacchiapperò!…

E Lucertolo si accendeva nel parlare.

Il suo confabulatore non si raccapezzava bene in quella foga di parole, poichè il birro discorreva, come se rispondesse a' suoi interni ragionamenti, in modo confuso e interrotto.

—C'è qualche cosa di nuovo!—osservò l'agente.

Infatti una gran folla si andava sempre più accalcando in un certo punto della piazza.

Tra la folla si sbracciava, vociava un contadino tutto trafelato e senza cappello.

Costui giungeva da Montelupo e recava notizia che un cadavere era stato gettato dalle acque gonfie sopra un greto del fiume.

Il cadavere dell'annegato aveva però la testa tutta sfracellata.

La violenza della corrente lo aveva di certo sbattuto forte contro le pile dei ponti. Il cranio si era spaccato, gli occhi pesti, il naso infranto, la bocca squarciata; era impossibile riconoscerlo.

Il colore dei capelli, della barba, la statura inducevano a credere che l'affogato fosse il Carminati.

Il cadavere era vestito di una giacchetta simile a quella che indossava il birro.

Due famigli di Montelupo avevano dichiarato esplicitamente di riconoscere nel cadavere il Carminati, per quanto fosse arduo ritrovare il ricordo di note fattezze su quella testa così lacerata.

—Domani—asseverava il contadino—il cadavere sarà seppellito!

Lucertolo si sentiva affranto.

Tutto cospirava contro di lui.

Ormai le sue ricerche per provare l'innocenza di Nello sarebbero state anche più difficili.

Gli restava però una speranza.

L'orma del piede scalzo da lui scoperta sul tappeto doveva almeno rivelargli un complice.

E il birro entrava in una via di nuove e strane ipotesi.

Strane, perchè l'orma del piede scalzo, come già forse ha indovinato il lettore, era stata lasciata sul tappeto dal povero ebreo Isacco la sera del delitto, quando era accorso a liberare Antonietta.

E Lucertolo sarebbe mai arrivato a scovare l'ebreo?

VI.

In una stanza al primo piano d'un antico palazzo, appartenuto a gloriosa famiglia fiorentina, la mattina del 20 decembre 1831 era seduto davanti ad un gran banco, tutto ingombro di libri, di fogli, un uomo piuttosto corpulento, con la testa calva, di bellissime linee, chinata sopra le pagine ingiallite di un grosso volume, ed ogni tanto la agitava, la scrollava nel modo più significativo.

Lo studioso, entrato nella stanza con un lume acceso fin dalle primissime ore della mattina, non si era alzato, nè distratto un istante, sebbene in quel momento scoccassero le dieci.

Di tratto in tratto, pronunziava a voce alta qualche parola.

Le parole da lui proferite erano: Fisco… indizii… Tribunale supremo:

E interrompeva la lettura e scriveva con mano febbrile alcune righe.

La stanza era altissima, sul soffitto erano dipinte ad affresco donne simboliche, dalle forme massiccie, con elmi in capo, con ampli panneggiamenti dai colori vivaci, circondate da nubi, da amorini paffutelli, da genietti scherzosi, ridanciani, chiassoni.

Le pareti, scombiccherate anch'esse da scene mitologiche, nelle quali si era sbizzarrita la fantasia di un pittore, che vedeva tutto grasso, paffuto, adiposo, erano fortunatamente quasi tutte coperte sino ad una certa altezza da scaffali pieni zeppi di libri.

Come abbiamo detto, suonavano le dieci.

Lo studioso non pareva stanco, anzi era forse più che mai infervorato nelle sue ricerche.

La stanza aveva tre porte, ognuna aprentesi a una diversa parete; porte da palazzo, larghe e pesanti, verniciate di bianco, luccicanti e filettate d'oro.

Da circa due minuti una mano leggiera picchiava lentamente ogni pochi secondi ad una delle porte.

Ma il nostro personaggio, assorto nella lettura e nelle sue meditazioni, non aveva udito.

Alla fine fu dato un picchio più forte, poi un altro.

Lo studioso alzò la testa, guardò verso la porta da cui veniva il rumore, quindi, come se non si fosse accorto di nulla, tornò a leggere.

La persona che stava di fuori pare avesse motivo di insistere perchè dette un terzo colpo.

Allora lo studioso cessò di nuovo la lettura, e guardando la porta con un lieve sorriso che rivelava un sentimento dei più teneri e soavi, domandò:

—Chi è?

—Io!—rispose una vocina molle, carezzosa, la quale si capiva che doveva vibrar su due labbra anch'esse sorridenti in quel momento.

La porta si aprì, ed entrò una giovane signora, ravviluppata in una magnifica veste da camera, coi capelli sciolti e cadenti sulle spalle in un disordine delizioso.

L'uomo si alzò dalla poltrona, lasciò il banco, i libri, i fogli, e come dimentico di tutto, corse incontro alla incantevole visione…

Pareva un altro.

Gli occhi erano coruscanti, da tutta la fisonomia gli traspariva una grande contentezza.

Baciò le mani, che gli tendeva la giovane signora, le ribaciò, e la guardava quasi estatico.

—È tanto che batto lì alla porta!—essa disse, rivolgendosi indietro.

—O come?

—Tu eri forse troppo occupato, e non mi hai sentito… Sai che ho ordine di non entrare qui nello studio senza avvertirti… E non volevo, entrando all'improvviso, procurarti uno di quei sussulti, che anche il medico ha detto ti sono molto nocivi, e che ti procura facilmente il più piccolo rumore, quando sei tutto distratto, pensoso, in mezzo a' tuoi scartafacci.

La giovane sorrideva con un'espressione quasi celeste.

Fra lei e il marito vi era una notabile differenza di età, poichè essi aveva oltrepassati di poco i ventotto anni: il marito si avvicinava ai sessanta.

Ma essa lo adorava: e que' due cuori battevano uno per l'altro con tutto l'entusiasmo sincero delle vere e profonde affezioni.

—Ti levi ora, mia cara!—disse l'uomo grave, e piuttosto corpulento.—E' il primo raggio di sole che entra nella mia stanza.—E tutto ilare le accarezzava i bei capelli biondi.—Vieni, siedi…

—No! no!… c'è un tale che aspetta da una mezz'ora in anticamera, e che dice ha bisogno di parlarti ad ogni costo… Non ti hanno avvisato perchè al solito ho voluto esser io la prima, come tutte le mattine, a entrare nello studio.

E gettava le sue braccia, che uscivano nude e meravigliose di venustà dalle ampie maniche, al collo del marito.

Egli accoglieva con giubilo, con una allegria giovanile quelle caste effusioni: la sua testa intelligente si appoggiava ad una spalla della graziosa signora, e si rialzava come irradiata da lampi di tenerezza.

—Tu sei il mio angiolo, Ilma—ripeteva il marito innamorato—il mio caro angiolo, nessuno può esser più felice di quanto sono io nell'amarti… Oggi pensi di uscire?… quali sono i tuoi disegni per la giornata?… parla, Ilma, da' ordini al tuo schiavo, che è così orgoglioso di obbedirti.

E l'uomo serio, lo scienziato, faceva un gesto di amabile ostentazione, inchinandosi dinanzi alla moglie, e rimirandola come se pendesse dal suo labbro per ascoltare i comandi, che a lei fosse piaciuto di impartirgli.

Eseguire quei comandi preziosi, esaudire i desiderii di colei che aveva tutto il suo amore, era per lui sempre la più grande consolazione della giornata.

—Dunque parliamo!

E così dicendo, aveva porto il braccio alla moglie, e con lei si era messo a fare alcuni passi per la stanza, tutto gaio e quasi leggero nella sua corpulenza.

—Ma…—interrompeva la moglie—di là c'è sempre quell'uomo… E pare che abbia un affare di gran premura.

—Hai ragione! hai ragione!… Ha detto chi è?

—Sì.

—Chi?

—Un agente della polizia.

—Un agente?… che cosa vuole?—domandò a se stesso l'avvocato
Arzellini (poichè siamo appunto nello studio del celebre avvocato).

—Basta!… io ti lascio!…—disse la signora Arzellini, avvicinandosi alla porta e, prima di uscire, facendo al marito con la sua mano bianca un affettuoso cenno di addio.

L'avvocato, rimasto solo, suonò il campanello. Entrò un vecchio servitore.

—C'è qualcuno che domanda di me?—egli chiese subito.

—Sì, signore—rispose il vecchio.—C'è un birro…

—Vi ha detto il nome?

—No, ma io l'ho riconosciuto… E' quel famoso Lucertolo!…

—Lucertolo! Lucertolo!—mormorò l'avvocato.—Ah, ho capito!—ripeteva fra sè.—E' il birro che non mi si staccava mai dattorno, durante il processo di Nello. Che cosa vorrà?… Fatelo pure passare.

Poco dopo il servitore tornava ad aprire la porta, e Lucertolo entrava, col cappello in mano, un po' imbarazzato, e fermandosi in mezzo alla stanza, salutava l'avvocato nel modo più rispettoso.

—Voi siete un agente…—domandò l'avvocato.

—Sì, signor avvocato!—rispose l'altro, senza lasciarlo finire—e sono venuto a trovarla per un motivo di molta importanza.

L'avvocato squadrò l'agente di polizia con un'occhiata, e quindi, allargando le braccia, e chinando leggermente il capo, fece un gesto, come se volesse dire:—Parlate pure, io vi ascolto!

—La sera del 14 gennaio—così esordì Lucertolo—mentre fu commesso il delitto nel Vicolo della Luna io era di servizio nel Ghetto…

—Ah!—interruppe l'avvocato, mostrando una grande attenzione.

—Sebbene il delitto accadesse lì, a due passi, l'assassino operò con tali precauzioni, che io non ne ebbi notizia sino al momento in cui giunsero varii agenti, varii ufficiali, guidati dall'Ispettore che, incontratomi nella Piazza dell'Olio, mi domandarono se avessi a denunziare nulla di nuovo… Risposi negativamente… Soltanto dichiarai che avevo udito un grido acuto entro il Ghetto proferito di certo da una donna, e che ero subito accorso, ma senza poter riuscire a scuoprir nulla… L'Ispettore mi rispose brusco, irritato, e proseguì, accompagnato dagli agenti, fino alla cantonata di Via Naccaiòli. Si svoltò, arrivammo al Vicolo… trovammo il cadavere…

—Scusate—osservò l'avvocato con una certa espressione di diffidenza—quale scopo vi proponete nel farmi questo racconto?

—La prego di aver pazienza, signor avvocato—riprese il birro con un piglio di grottesca dignità—e quando avrò parlato lei saprà…

—Vi avverto che sono molto occupato…

—Ho capito!—disse il birro alzandosi con mal simulata alterezza.—La riverisco! Da alcuni mesi io mi affatico, ho perduto il sonno, mi logoro il cervello per fare ricerche, indagini contro le indagini e le ricerche già fatte dalla polizia, e tutto per provare l'innocenza di Nello…

—Pigliate una sedia!—E l'avvocato proseguì con tuono autorevole, e meravigliato della serietà con cui parlava l'agente:—Ora vi comprendo! Voi volete dirmi cose che è mio dovere professionale l'ascoltare… Voi, a quello che intendo, siete disposto ad associare le vostre forze alle mie per provare l'innocenza di un accusato… Ma, permettetemi di dirvi che nella vostra condizione di «esecutore» l'idea che vi è venuta è un po' strana!

—Non le parrà strano se ha la bontà di lasciarmi parlare.

—Dunque, parlate!

—Dalla sera del delitto io ebbi un solo pensiero, prendere una rivincita della umiliazione subita, riparare lo scacco, che avevo ricevuto, e che poteva nuocere alla mia carriera…. Prevedevo che i miei rivali se ne sarebbero valsi… Cominciai dal ripensar bene tutte le circostanze del delitto… Subito vidi chiaro che la polizia aveva messo le mani sopra un disgraziato, il quale aveva contro di sè i più gravi indizii… in apparenza, ma che il vero delinquente c'era sfuggito…. Insieme ad un esecutore, mio collega, principiammo una serie di nuove ricerche e avevo trovato alla fine il vero colpevole.

—Eh?—interrogò l'avvocato, divenuto tutto acceso nel volto, e battendo un pugno sul banco.

—L'argomento è delicato… è inutile che io raccomandi alla sua prudenza quello che le confido…

—Andate avanti…

—Mi sono dato alle mie ricerche con tutta l'anima, con tutto l'ardore. Per me si trattava di arrivare a mostrare che tutta la polizia era caduta in errore, di liberare un innocente, di metter il vero colpevole nelle mani della giustizia, di distinguermi su gli altri, di trionfare.

—E dunque?

—Le mie pene sono state inutili.

—Ma non avete trovato l'assassino?

—Ora sono certo di averlo trovato…

—Bravo!

—Però non potremo raggiungerlo.

—Perchè?—domandò ansioso l'avvocato, inchinandosi verso Lucertolo.

—Si è suicidato!…—rispose il birro con voce lenta e solenne.

—Suicidato?…

Lucertolo raccontò la catastrofe avvenuta, la supposta caduta del
Carminati nelle acque del fiume, accennò al cadavere ritrovato.

Palesò all'avvocato come fossero sorti in lui i primi sospetti sul Carminati, parlò della sua visita notturna alla casa del pompiere, dello spavento cagionato dal suo arrivo, della fuga pei tetti, delle menzogne della sorella, del modo col quale aveva scoperto che il Carminati era in casa quella notte.

Ma fu magnifico, eloquente, allorchè si mise a descrivere l'effetto da lui provato ascoltando l'arringa dell'avvocato Arzellini dinanzi alla Rota. Il suo entusiasmo per l'oratore, che aveva così acutamente indicato la via, che avrebbe dovuto seguire la polizia nelle sue indagini, lo inebriava.

Un lieve sorriso di compiacenza sfiorava le labbra dell'avvocato.

Lucertolo rammentò che, finita l'udienza, aveva subito messo ad effetto l'idea manifestata dal difensore di far ricerche nel sozzo locale della Palla.

Riferì tutto il dialogo con la Sguancia; insistè sulle particelle di materia insanguinata che aveva raccolto, sulla catinella, che aveva trovato nel rovescio tutta impiastrata di sangue, e di sangue che vi si era accagliato, e poteva esser rimasto lì fin dalla sera del delitto.

—L'ho fatto esaminare—soggiunse Lucertolo con un gesto pien d'orgoglio—ed è sangue umano!

L'avvocato dette in uno scroscio di risa.

—Di che lei ride?—chiese il birro perplesso.

—Ve lo dirò… ve lo dirò!… Continuate!

Lucertolo si diffuse nello esporre le prove che egli aveva sulla tresca, sulla intimità fra la Sguancia e il Carminati; rivelò il turbamento cui la donna era stata in preda durante l'interrogatorio al quale l'aveva sottoposta; corroborò di tutti gli argomenti, che aveva alle mani, la sua convinzione circa la reità del Carminati.

Finito che ebbe il suo discorso, vi fu una breve pausa.

L'avvocato era pensoso, teneva sugli occhi la mano sinistra, come in atto di raccogliersi.

Poi, drizzandosi sulla persona, proruppe in queste parole:

—Voi siete ingegnoso, intelligente! Ma non mi pare che vi siate messo ad una bella impresa per far carriera, come desiderate…

Il birro inarcava le ciglia dallo stupore.

—Nello non è reo… voi sapete quanto io ne sono convinto… ma è reo, come voi dite, il Carminati?… Prima di tutto, siete sicuro che egli sia morto?

—Il suo cadavere—rispose Lucertolo—sebbene la testa fosse sfracellata e deformata, è stato riconosciuto da due famigli, sono stati riconosciuti alcuni vestiti…

—E voi credete?…

—Io credo che il Carminati, ridotto alle strette dalle mie ricerche insistenti, avvisato del mio dialogo con la Sguancia, avvertito da certe mie occhiate, si sia impaurito, si sia gettato nel fiume… non ammetto che vi possa esser caduto inavvertitamente per… sfuggire alla sua pena…

—Ah! inezie!… inezie!… Dato che questo Bobi fosse l'assassino, gli uomini come lui non si suicidano… L'idea dell'onore può armare la mano di un gentiluomo, che ha commesso un delitto in un momento di aberrazione, contro sè stesso, ma non udirete mai che un delinquente volgare si sia ucciso per sottrarsi alla giustizia… E, del resto, le prigioni sono piene di gente che ve lo dimostrano… Non riconosco qui il vostro acume… E poi, a che scopo il Carminati avrebbe commesso il delitto?

Lucertolo rifletteva.

L'avvocato gli scuopriva un altro punto debole delle sue ricerche.

Egli aveva negletto di risalire all'origine del reato.

Però non si perdette d'animo.

—La massima legale che l'autore del delitto deve ricercarsi in colui al quale il delitto giova, signor avvocato, non è sempre vera, e lei deve saperlo meglio di me… Ci sono delitti, il cui movente è così nascosto, così celato, che sfugge alle nostre prime osservazioni. Nella ricerca di essi bisogna procedere per induzioni. E bisogna diffidare ad ogni passo di mettere il piede in fallo. Quando un agente lavora per scoprire un delitto è alle volte disposto ad evitare le cose più facili, a non tener conto delle circostanze più semplici, a supporre in tutti i delinquenti un grande artifizio… E questo è causa di molti errori… Inoltre, nelle ricerche spesso si vede un lato solo, e si trascurano gli altri… Io sono sicuro che Nello è innocente, che il Carminati era il reo, e le giuro che presto avrò trovato la prova materiale di questi fatti.

—Spiegatemi il vostro ragionamento, ditemi in qual modo con le vostre ipotesi voi ricostruirete, per così dire, il delitto.

—Ecco… Io sono persuaso che il Carminati ha dato il colpo di pugnale… Quindi egli è fuggito alla Palla… Là ha parlato con la Sguancia… si è lavato il sangue… il sangue di cui restano tuttora scarse, ma sufficienti traccie, quasi distrutte, ma evidenti, nella lurida cucinaccia, ove di rado è adoperata la scopa e dove, pare, si fa risparmio di acqua.

L'avvocato dette di nuovo in uno scroscio di risa; come aveva fatto poc'anzi, quando Lucertolo gli aveva parlato della catinella da lui trafugata, e che conservava come un prezioso indizio.

—Mi rincresce di dover demolire a pezzo a pezzo l'edificio da voi architettato… Ma mi fa troppo ridere l'insistenza che voi mettete a voler considerare come un grande indizio quelle traccie… trovate in un tal luogo… in casa della Sguancia.

—Sangue umano!—disse Lucertolo bruscamente.

L'avvocato continuava a sghignazzare.

—Per Bacco!…—esclamò a un tratto Lucertolo, battendosi la fronte. Poi, lasciando ricadere la mano sul ginocchio, e chinando la testa, mormorò:

—L'equivoco è troppo ritorto!… Ora capisco—proseguì Lucertolo a voce più alta—perchè anche la Sguancia rideva alcuni giorni dopo… e quasi mi sfidava. Aveva già preparato una difesa… se pure…

—Su che fondate ancora—ripetè con serietà l'avvocato—le vostre presunzioni circa l'innocenza di Nello e la reità dei Carminati?

—Non potrei specificarlo con più minuti particolari di quelli che le ho riferiti…. Ma è una convinzione che io sento, che mi domina, che mi viene da un esame attento, da una sorveglianza continua di certe persone, che per alcuni mesi ho sempre pedinato; una convinzione che è nata, si è rafforzata in me, dopo certi sguardi che ho sorpreso, dopo che ho veduto in alcuni momenti certi volti impallidire… Insomma, sono uomo vecchio del mestiere…. ho fiducia assoluta che proverò l'innocenza di Nello.

—Ve lo auguro… Intanto io dubito che la Consulta accetti il ricorso in grazia, che ho già presentato, e prevedo che Nello fra qualche settimana sarà esposto alla gogna, insieme all'ultimo assassino condannato dalla Rota, e poi mandato a Pisa, a Livorno, o altrove, a fare i pubblici servizii con altri galeotti. Ed è innocente! innocente!…—ribatteva l'avvocato, esasperandosi.

—Anderà a scontare la sua pena, sì… ma ne uscirà… Anni sono,—così si esprimeva Lucertolo—quando io era famiglio nel capitanato di Siena, mi sono trovato a un caso, il cui ricordo ravviva ora tutte le mie speranze. Una donna dimorava in una casetta ad un solo piano insieme col marito. Dormivano separati, ciascuno in una stanza diversa… Un amante della donna si arrampicava talvolta di notte ad una terrazza, di là entrava nella camera della donna… Una notte entra, spinge la fragile porta, che dava nella terrazza, si accosta dove credeva che fosse la sua innamorata… La chiama, essa non si muove. Tenta di scuoterla, e si sente le mani bagnate… Riesce ad accendere un lume, e vede la donna immersa nel proprio sangue, con una gran ferita sotto la mammella sinistra… L'amante fugge, ma nel fuggire lascia sul muro traccie delle sue mani insanguinate. La mattina si scuopre il delitto… Nessuno pensò ad accusare il marito!… Si sapeva che la donna aveva un amante. La polizia si recò alla casa di quest'ultimo, gli trovò le vesti insanguinate, fu riscontrato che la traccia sanguinosa lasciata nel muro corrispondeva alla mano di lui… Due donne deposero che il giorno innanzi avevano udito fra i due amanti un grande alterco, seguito da violenti minaccie… Le circostanze, gl'indizii erano gravi contro l'inquisito… Fu condannato…

Lucertolo si riposò un istante, quindi aggiunse:

—Anche allora io dubitavo della reità dell'inquisito… A forza di induzioni, e di domande, mi parve di avere scoperto che il marito era sonnambulo. Ci nascondemmo per alcune notti in quattro persone, tutti d'accordo, nella casa… Una notte, sentiamo un rumore… L'uomo esce dalla sua camera con un lume, va nella cucina, prende un coltello, si accosta alla camera dove aveva dormito la defunta sua moglie, si avvicina al letto, che vi era sempre, e fa l'atto di menar giù un colpo di coltello. Tutti gettammo un grido!… Il sonnambulo si svegliò, il mistero era spiegato.

L'avvocato si era alzato e passeggiava su e giù per la stanza.

Si fermò dinanzi al caminetto, e volgendo le spalle al fuoco, mentre guardava il birro, che, sempre seduto, si dimenava sulla seggiola per vedere in viso il suo interlocutore, l'avvocato dette in un'esclamazione.

—Ah! ah!—egli ripetè—se io volessi raccontare tutti i casi ne' quali dopo una condanna, è stata riconosciuta l'innocenza di un inquisito, vi dovrei trattenere qui un pezzo… Sono quasi quarant'anni che esercito la mia professione, e mai, fortunatamente, fino ad ora, io mi era trovato nel caso di difendere un innocente e vederlo condannato… Ma oggi, oggi è altrimenti… Io sono certo che quel ragazzo non è reo.

—Dunque?…

—Dunque—soggiunse l'avvocato molto perplesso, e cogitabondo—gl'indizii contro di lui, dirò meglio le apparenze son tali da rendere timoroso anche il giudice più benevolo che si sentisse disposto in favore del disgraziato… Pure abbiamo un giudice dalla nostra, e il giudice più autorevole del Collegio della Rota, il presidente… Concorde con quello di lui ha dato il voto anche un altro auditore… Se un terzo auditore, dubbioso sulla reità dell'inquisito, avesse esitato… avesse dato il voto favorevole… il mio cliente sarebbe stato assoluto… Il processo è ora sottoposto alla revisione della Consulta, appunto per il dissenso del presidente con gli altri quattro auditori… Questo dissenso, secondo la nostra legge, autorizza la revisione!

—E allora—ripigliò Lucertolo, anch'egli tutto concentrato e pensieroso—abbiamo dinanzi a noi un mese, due mesi forse, fino a che pende la revisione, per continuare, per completare le ricerche.

—Sì, ma vi dico chiaro—insistè l'avvocato—che io non spero nulla dalla revisione! Conosco troppo quei giudici, conosco le severe abitudini della Consulta nei processi criminali… E poi, parliamoci franchi, io e voi siamo convinti della innocenza del mio cliente… sta bene; ma possediamo un solo, un valido argomento, che la provi in modo da dileguare ogni contradizione?… E bisogna ricordare che i nostri giudici, sempre secondo la legge, debbono inspirarsi nel dar il loro voto alla convinzione legale, non alla convinzione morale.

—Mi pare che lei disperi troppo!—affermava l'agente di polizia, che non voleva lasciarsi sfuggire quella occasione di segnalarsi, occasione che egli teneva per molto propizia.—Io, invece, sono pieno di fiducia… Io vedrò Nello alla gogna, lo vedrò partire per la galera… e pure avrò sempre una speranza, quella di riuscire a salvarlo…

—Forse!—interruppe l'avvocato.

—E la mia vittoria sarà tanto più grande quanto saranno stati maggiori gli ostacoli, che avrò superato, e i pericoli a cui sarà stato esposto un innocente.

Sembrava che il giureconsulto fosse a poco a poco guadagnato dalla fede del poliziotto, riscaldato da quell'ardore, e che il suo scetticismo in parte cedesse.

—Riflettete bene—egli prese a dire con molta lentezza—che per strappare un uomo dalla galera, quando ci è entrato, ci vuole quasi un prodigio… Nello non ha per sè neppure quell'effimero favore, che certi condannati trovano nell'opinione pubblica… Il pubblico sino dai primi giorni del processo si è pronunziato contro di lui… Questo ragazzo povero, vagabondo, che andava in giro ogni giorno pel Mercato, guardato da tutti con sospetto, bisognoso di chiedere a tutti, di carattere strano e bisbetico, idiota, come io lo credo, aveva fra i mercatini molti nemici: i nemici che ha naturalmente chi è sciagurato, derelitto, chi ha necessità di tutto, e vive fra gente, la quale pensa di continuo ai guadagni, e vuol esser circondata soltanto di persone che le profittino.

—L'odiosità—notò Lucertolo—nasce appunto da questo. Il giovinastro non ha mai lavorato, perchè inetto ad ogni lavoro, e pure si sapeva che doveva campare. Come?… Ecco la domanda di tutti. Quindi ogni volta che avveniva un piccolo furto se ne accusava Nello: quelli stessi forse che lo commettevano preparavano più o meno abilmente prove, lievi indizi contro di lui… Allorchè si accostava a un banco era guardato con sospetto, allontanato con urli… Il ragazzaccio melenso diventava torvo, talvolta minacciava… ne avvenivano conflitti… Ecco perchè i mercatini sono lieti di vedersi sbarazzati di lui.

—Però la vostra impresa non è facile: da una parte indizii, che paiono concludenti, e che escludono ogni dubbio; dall'altra la voce pubblica ostile… Aggiungete la immensa prevenzione di una condanna… E poi, ammettiamo l'innocenza di Nello, dove è l'uomo che noi possiamo presentare come reo, con sicurezza?… E quando è commesso un delitto, la giustizia cerca e vuole un delinquente… No, credetelo. Nello è innocente, ma farà i suoi venti anni di galera…

—Non li farà, signor avvocato!… non li farà!…—disse il birro con voce enfatica, e balzando sulla sedia.—Parola di Lucertolo, sangue della…—e il birro si mise l'indice della mano destra fra i denti, come se rattenesse a dispetto la fine della sua violenta esclamazione—non li farà!

—Io spero che potrò tutt'al più, mediante alte influenze, trovar modo che giunga all'orecchio del Sovrano la storia veridica del caso… Però anche il Sovrano, dato fosse inclinato alla clemenza, sarà rattenuto dalla gravità dell'ingiuria fatta ad un forestiero, ad un ospite così ragguardevole, e che personalmente gli era caro… Insomma, da ogni lato che ci voltiamo, troveremo un terreno infuocato o irto di spine… Pure io ho qualche fiducia in una modificazione della pena per grazia del principe.

—Ed io confido nelle mie ricerche, le quali paleseranno la verità!

Sino allora l'avvocato aveva tergiversato, aveva tentennato, ad un solo scopo: di chiarirsi qual fosse l'energia, il vigore, la forza di carattere dell'agente, qual fosse l'impegno, quanta fosse la serietà, la costanza con cui si era messo all'opera.

Ma appurato con che zelo, con che indomito, intrepido, pertinace volere vi si accingeva, egli mutò.

La sua fronte, sino allora rannuvolata, si rasserenò, apparve più tranquillo, più disinvolto, più umano.

Tornò a sedersi dinanzi al birro.

Fissò gli occhi in quelli di lui, e dopo un istante:

—Fino ad ora,—così parlò,—ho voluto mettervi alla prova.

L'agente di polizia trasecolava.

—Sapete già quanto profonda sia la mia convinzione sull'innocenza di Nello… Ve l'ho detto oggi, l'avrete udito il giorno in cui svolsi la mia difesa!

Lucertolo assentiva, facendo cenni col capo.

—Non vi nascondo che la vostra venuta, le vostre prime parole hanno eccitato in me la diffidenza… la diffidenza che è sempre esistita, che esisterà sempre fra gli uomini della mia professione e quelli della vostra…

Il birro contrasse lievemente le labbra.

—Dovete convenire che era assai naturale che il vostro atto mi sembrasse strano. Nella mia lunga carriera… non ve lo dissimulo… è la prima volta che m'incontro in un agente della polizia, il quale piglia in cotesto modo le difese di un accusato… In generale, nei processi, l'agente comparisce unicamente per aggravare, per inasprire l'accusa; per ingigantire, avvalorare gl'indizii, non per combatterli. Gli agenti sono, a così dire, il braccio destro con cui il Fisco combatte la difesa: un agente ausiliario del difensore è raro, raro, lasciate che ve lo ripeta, e… se volete… che me ne commova!

A Lucertolo non sfuggiva la benevola e sottile ironia di tali parole.

—Voi vi proponete, in questo processo per tentato omicidio di scoprire la verità… Per la conoscenza, che ho ormai acquistato degli uomini, mi accorgo che simil proposito è in voi serio, radicato, incrollabile. Vi faccio un'offerta.

—Quale?—domandò Lucertolo, i cui occhi già brillavano di mille ansietà e di cupidigia.

—Vi offro—rispose solennemente l'avvocato—di diventare vostro cooperatore nelle nuove ricerche che farete. Voi agirete con la stessa alacrità con cui avete agito fino ad ora, però, affinchè la vostra operosità non vada perduta, non vi sobbarchiate a fatiche superflue, inutili… io vi dirigerò.

—Bravo! bene!—disse Lucertolo, battendo le mani, a palma a palma—è proprio quello che ci voleva.

E allungando un braccio verso l'avvocato, col gomito appoggiato sul banco:

—Perchè io… veda, signor avvocato… io sento qui—e parlando si percuoteva la fronte con una mano—sento che ci è stoffa… sento che ci sono idee e che idee!… Se mi lasciassero fare, se gli ufficiali, i capi-agenti gelosi non mi tarpasser le ali, a quest'ora, in fede mia, non sarei no, il misero birracchiuolo Lucertolo, povero e in carniera, sarei arrivato anch'io, mi sarei slanciato ai primi posti… Ma mi è sempre mancato qualche cosa… Una certa facoltà, che hanno gli uomini come lei, di poter far nascere un'idea da un'altra rapidamente, di collegarle, di vedere fra un'idea e l'altra certe relazioni sottili, che sfuggono a noi di cervello grossolano… Quando io ascoltavo la sua difesa, mi dicevo: se io avessi l'acutezza, l'ingegno pronto di quest'uomo unito alle mie facoltà di esame e di osservazione!… E oggi lei mi offre… Oh, benissimo, ora poi sono tranquillo sulla vittoria…

—Non voglio indagare i veri e riposti motivi, che stimolano la vostra attività… Ma vi riconosco sincero nel vostro entusiasmo e vi prometto tutto il mio aiuto. State attento!

Il birro inarcava le ciglia.

—Due avvenimenti straordinarii si sono compiuti la sera del 14 gennaio… L'assassinio nel Vicolo della Luna… e un altro avvenimento al quale non ho voluto accennare nella difesa per ragioni delicate…

Lucertolo era addirittura assorto nell'ascoltare.

—Il secondo avvenimento è… la sparizione di una ragazza che abitava in Piazza degli Amieri.

—Mio Dio!

—Non avete mai pensato che ci possa essere una relazione fra i due avvenimenti?… La mia polizia è più attiva della vostra… Io so, per esempio, che la ragazza conosceva il pittore Gandi… Non vorrei fare ipotesi ingiuriose, nè troppo arrischiate che, invece di condurci alla verità, ce ne allontanassero, ma è un lato questo da non trascurare nelle ricerche… Si è più saputo nulla della ragazza?…

—No!

—Altro lato delle ricerche: bisogna occuparsi della famiglia
Carminati! Bobi Carminati è morto?

—Morto!—soggiunse Lucertolo.

—Avete notizie di sua sorella Lina? dov'è, dov'è andata?… e con chi, partendo da Firenze?

—Lei è un genio!—disse Lucertolo, alzandosi e portandosi alle labbra la mano destra dell'avvocato. Un lampo d'immensa luce aveva ora rischiarato la sua mente.—Se sapesse quante, quante cose io vedo in questo momento!

Lucertolo uscì poco dopo dallo studio dell'avvocato, tutto baldanzoso.

Ma al solerte agente i fatti preparavano le più amare delusioni!

VII.

L'anno 1831 finì, senza che Lucertolo avesse ottenuto alcun notevole trionfo nelle sue ricerche.

Nella prima settimana del gennaio 1832, pochi giorni dopo il colloquio fra il birro e l'avvocato, la I. e R. Consulta rigettava unanime la domanda di revisione del processo di Nello.

Egli dunque doveva partire per il luogo di pena a lui destinato.

Lo stolido, sin dal giorno in cui il cancelliere gli aveva letto la sentenza della Rota, che lo condannava, era caduto in un grande abbattimento; passava le giornate sdraiato in terra nella prigione, alzando appena la testa quando qualcuno entrava, rispondendo di rado alle domande che gli erano volte, e soltanto dando in risposta parole sconnesse e insensate.

Gli rimaneva a subire la dolorosa prova della gogna.

La mattina del 23 gennaio 1832, in via del Palagio il sotto-boia, personaggio allora notissimo in Firenze, era occupato con un suo ragazzo a rizzare intorno al muricciuolo, che era a destra della porta del Palazzo Pretorio, che rispondeva in Via del Palagio, un cancelletto di legno.

I curiosi cominciavano a fermarsi in quel tratto di strada dinanzi al
Bargello.

Le beghine, che entravano nella vicina chiesa di Badia per udire la prima messa, palpitavano d'impazienza, e attendevano ansiose il Deo Gratias! per svignarsela, e prender posto sulla scalinata del tempio.

Ma, quando uscirono, trovarono già il terrazzino e gli scalini quasi gremiti di gente.

Ne era andata la voce: tutta Firenze sapeva ormai che quella mattina, verso le 10, sarebbero stati esposti alla berlina alcuni delinquenti.

E ognuno si era affrettato, e non ostante la rigida mattinata di inverno centinaia di persone non aveano avuto paura di fare una levataccia.

Due ore prima che la campana del Bargello cominciasse a suonare a gogna, in via del Palagio la gente si pigiava.

La folla era allegra, chiassona, rumorosa. I mercatini vi si trovavano in gran numero, e si riconoscevano più che altro al delicato profumo che tramandavano, ai dialoghi pittoreschi, alle energiche esclamazioni, ai soprannomi sonori, e non tutti puliti, con cui si chiamavano fra loro.

Da un punto all'altro, alla distanza di cinque, di dieci passi si parlavano, si distribuivano i loro salaci appellativi, si comunicavano le loro idee pellegrine.

Le donne mercatine, in capelli e in ciabatte, alcune scalze e sbricie, erano accorse ad aumentare la gazzarra, e univano le loro voci stridule a quelle più vibrate dei congiunti.

Qua e là giravano i venditori di leccornìe, berciando la loro merce.

La folla era mossa da un solo desiderio: veder Nello, veder l'assassino, il ladro del Vicolo della Luna!

A un tratto si udirono i primi gravi rintocchi della campana.

Un urlo immenso proruppe da tutti que' petti: centinaia di teste e di braccia si alzarono in aria; il mite popolo toscano impazzava di ferocia in quei momenti.

La campana continuava a suonare lenta, monotona, sinistra su quell'osceno tripudio.

La gente fitta sulle scalinate di Badia si rizzava in punta di piedi, si spenzolava dai parapetti delle gradinate.

Un gruppo di preti stavano solenni, maestosi sulla porta della chiesa; i preti, non meno degli altri, curiosi, gli occhiali inforcati, e due di essi ritti su sgabelli.

Volevano tutti vedere l'assassino del Vicolo della Luna, ma il vedere le sue fattezze, la sua persona non era la principale attrattiva.

I vecchi, le donnicciuole, le beghine, i mercatini erano stati stimolati da un'altra idea.

Aspettavano che uscissero i condannati per leggere il cartello, che portavano legato al collo e sul quale erano scritti la età, gli anni della condanna, il giorno del delitto, ecc., ecc.

Si trattava di studiare i cartelli, saperli interpretar bene, farci una buona cabala, levarci i numeri del lotto.

E a favoreggiare così nobili istinti la gogna aveva luogo, in generale, di venerdì.

La campana ora suonava, suonava a distesa.

Era la stessa campana, che aveva un tempo servito a chiamare i messi del Potestà, a indicare il momento in cui quell'ufficiale e i suoi giudici cominciavano l'amministrazione della giustizia.

Proprio la medesima campana, che poi fu destinata ad annunziare che un misero colpito dal rigor della legge s'incamminava al supplizio.

Più tardi con il suonarla si volle notare quell'ora, dopo la quale non era lecito ai cittadini di percorrere le vie senza lumi ed armati, senz'averne uno speciale privilegio, e per questo si chiamò campana dell'armi. Suonò per tale oggetto finchè ebbero vita le leggi repubblicane; suonò ancora dopo che Cosimo I ebbe pubblicato leggi ben più severe, per le quali condannavasi al taglio della mano chi dopo il suono di quella fosse stato trovato per le vie di Firenze!

Suonava, come ricorderà il lettore, sul principio di questo racconto, e suonò, sino a che spariti certi avanzi di barbarici ordinamenti, nel 1848 fu lasciata in pace, anzi calata.

Quella campana, con la sua lingua di bronzo, poteva ripetere la storia di cinque secoli!

E all'ombra della torre, in cima alla quale dindonava, si erano svolte
Dio sa quante tragedie!

Un erudito, scrivendo sul palazzo del Bargello, si dichiarava «persuaso che di gran lunga maggiore delle già conosciute, esser debba il numero delle tragedie, che per effetto di una tirannia timida o sospetta vi si sono consumate nell'ombra e nel mistero, senza che all'occhio dei profani sia stato concesso di scorgere neppure una stilla del sangue che si è versato!»

La smania dei convenuti era di veder Nello, sebbene gli altri delinquenti, che con lui dovevano subire l'ora di esposizione, non fossero, a così dire, di minor levatura.

L'uno era antico cursore, già appartenuto alla polizia. Se n'era andato da Firenze con la moglie, sotto colore che la moglie desiderasse riveder il suo paesello nativo. Tornato poco appresso solo, dette voce di aver lasciato la moglie tra i suoi. Intanto egli trescava con una druda. Venuto un giorno a parole con la mala femmina, e ad aspre e infuocate parole, costei, entrata in ruzzo, si lasciò scappar di bocca che egli aveva ammazzato la propria moglie. Fu detto a due o tre persone, poi ripetuto, propalato: il cadavere della povera donna fu scoperto, dissepolto: l'uxoricida arrestato, condannato. Ecco uno di coloro che quel giorno dovevano comparire alla gogna: o, come pur si diceva, alla berlina.

Ne stavano alquanto di mal'animo i suoi antichi colleghi della polizia, a' quali pareva ricadesse anche su loro un po' dell'orrore di quel delitto.

Ma il popolo non era eccitato dall'uxoricida.

E neppure lo eccitava la imminente comparsa alla gogna di un altro assassino: di colui che aveva subito davanti alla Rota un processo assai clamoroso per avere scannata una serva in una casupola presso l'Arco dei Pescioni.

La scoperta dell'autore del delitto era stata un miracolo di abilità per parte della polizia.

Rimasto lungo tempo ignoto, lo scannatore era stato arrestato una notte caldo caldo nel suo letto, quando ormai credeva all'impunità.

Bellissimo uomo, egli era al servizio di una famiglia cospicua, soleva indossare smagliante livrea, e il popolo lo conosceva per averlo veduto sempre da anni ritto sulla predella dietro la carrozza di un patrizio, come stavano allora i valletti, denominati cacciatori; maestosi e risguardevoli col loro cappello a due punte e i copiosi pennacchi.

Però anche pel cacciatore il popolo non si dava briga più che tanto.

Voleva Nello, non altri che Nello, voleva l'assassino del Vicolo della
Luna!

Da lui soltanto in quell'occasione si dovevano levare i numeri del lotto; da lui doveva venire la fortuna: sul suo cartello tutti avrebbero cercato gli storni, gli ambi, i terni propizi.

—Eccoli! eccoli!

Si udì un immenso grido, che rimbombò per tutte le vie circostanti e fu ripetuto da tutti gli echi.

—Sì, eccoli… Son davvero!

E la gente allungava il collo, lavorava coi gomiti, si accalcava, si pigiava sempre più; quelli sulle scalinate di Badia, strimizziti, addosso l'uno all'altro quasi soffocavano e si contorcevano, si divincolavano, si dibisciavano per arrivare a dar un'occhiata sino all'angolo della porta.

I preti grassi, paffuti, dall'alto dell'ultimo scalino che metteva nella chiesa, guardavano sorridendo quell'agitatissimo ondeggiar di teste.

—Eccolo!—tuonò di nuovo un grido formidabile dalla chiesa di Badia fino all'angolo di via Vergognosa, e il grido fu seguito da una straordinaria concitazione.

Infatti alcuni birri eran comparsi sulla soglia della porta, e dietro ad essi subito uscì fuori Nello pallido, esterrefatto, atterrito dinanzi a quella folla, coi capelli irti sulla fronte, sulla quale gli scendeva a grosse goccie il sudore.

I mercatini lo salutavano con esclamazioni bestiali, gli mostravano i pugni, rompendo in motti di scherno.

Il sotto-boia aprì il cancelletto di legno che era attorno al muricciuolo e spinse dentro Nello.

Poi egli pure salì sul muricciuolo, e legò le gracili braccia del condannato a due campanellette di ferro fitte nel muro.

Entrarono quindi gli altri due assassini, torvi, terribili, fulminando con occhiate di disprezzo la folla, che li salutava col solito vocìo, li bersagliava co' suoi motti insolenti e spietati.

Richiuso il cancelletto, il sotto-boia andò a mettersi sulla soglia della porta, fosco, rigido, impalato.

Una fila di birri faceva la guardia intorno e dinanzi al cancelletto.

—Che numeri ci sono nel cartello?

La domanda andava di bocca in bocca: la urlavano i lontani a' più vicini, ammiccando al cartello, che Nello aveva al collo.

Alcuni scrivevano i numeri in un foglietto e lo passavano di mano in mano agli altri.

Le vecchierelle insistenti, di bassa statura, o di vista corta, non esitavano a tirar per la manica anche le persone più civili che si trovassero lì presenti, e chiedere:

—Via… mi dice i numeri?¹

    ¹ Questa strofa di Giuseppe Giusti nella Apologia del
    Lotto
ci dipinge la scena:

        «Se suonano a gogna,
        Ci vedi la piena;
        Ma in quella vergogna
        Si specchia e si frena?
        Nel braccio ti dà
          La donna vicina,
        E dice: Berlina,
        Che numero fa?
»

Un'ora durava quello scempio, «affinchè, diceva la legge, i delinquenti sieno generalmente conosciuti ed il pubblico resti sodisfatto della retta amministrazione della giustizia.»

I legislatori fiorentini avevano sempre avuto strane idee di tormenti.

Non furono fiorentini i legislatori che statuirono la pena del battesimo:—debeat aqua baptizari—che consisteva nel tradurre il colpevole sopra uno dei ponti della città, e legato con una fune tuffarlo, una o più volte, nell'Arno? Era considerata come infamante e in molti statuti ordinata contro i bestemmiatori e le meretrici…

—(Vien fatto di domandare, dato che si amministrassero oggi tali castighi ai bestemmiatori, se le acque d'Arno sarebbero sufficienti)!

A un certo punto della gogna, un birro prendeva i cappelli dei condannati e li buttava in terra arrovesciati dinanzi al cancello.

Se il condannato ispirava qualche simpatia, se si trattava di un omicidio in rissa, di un delitto per cui il popolo avesse circostanze attenuanti, i quattrini, i soldi, le crazie, piovevano nei cappelli. Ma se i delinquenti erano invisi, ben pochi davano loro anche quel lievissimo obolo.

Infatti in tal mattina appena cinque o sei persone avevano gettato pochi miseri quattrini nei cappelli.

Una donna, tutta velata di nero, traversò a stento la folla, si accostò al cancelletto, e gettò nel cappello di Nello un pugno di monete d'argento.

Poi si allontanò, vacillando, quasi barcollando, fino a che giunta alla cantonata di Via de' Librai si sentì ghermire per una spalla da una mano, forte, come acciaio.

La donna era Lina Carminati.

Si voltò indietro raccapricciata: e si trovò dinanzi Lucertolo!

VIII.

—Ti fo paura!—prese a dire il birro.

—No!—rispose la bella ragazza, guardando imperterrita e disinvolta l'agente.

Era tornata a Firenze convinta che avrebbe dovuto sostener con lui una lotta e disposta a combattere con tutte le armi della sua astuzia femminile.

L'incontro improvviso l'aveva un istante sorpresa, ma si era subito riavuta dal suo turbamento.

Capì che incominciavano le prime avvisaglie, bisognava battersi con grande accorgimento, misurando bene le forze.

—Sei tornata?—ripigliava il birro con aria paterna, tentando di carezzare il mento alla giovane.

—Giù le mani, signor Lucertolo!—essa rispondeva, percotendo con un pugno, che non era leggero, il braccio destro dell'agente.

—E perchè sei tornata, di grazia?—domandava il birro con garbo insinuante.

—Dovreste accorgervene—replicava Lina, accennando agli abiti di lutto che indossava;—sono tornata…. appena ebbi notizia della morte di Bobi!

Una lacrimetta spuntava fra le nere e folte palpebre della ragazza.

Chi l'avesse ben guardata però si sarebbe forse accorto che la fisonomia di lei, non ostante la lacrima, piuttosto che a cordoglio era atteggiata a fine sarcasmo.

—Povero Bobi!—ribattè Lucertolo con voce lamentosa, e componendo il volto a compunzione.—Che morte!… M'è andata al cuore… perchè gli volevo bene—e la voce di Lucertolo sempre più s'inteneriva.—Carattere vivace!… ma, in fondo, un buon figliuolo!….

Lina teneva gli occhi bassi, come se non trovasse espressioni adeguate al suo dolore.

L'una valeva l'altro: avevano tutti e due intelligenza, e l'abito contratto del simulare: a tutti e due quadrava a pennello la parte che sostenevano nella commedia.

Era difficile che a così bravi attori sfuggisse una parola, che non fosse propria della loro parte.

Lucertolo capì che bisognava prendere un'altra strada.

Il tuono patetico non giovava.

Lina era più che mai bella con le sue vesti di lutto.

Il nero facea meglio spiccare il vivo incarnato delle guancie, i denti splendidi, le labbra color di rosa. Il seno si agitava sotto il velo, che non ne cuopriva all'intutto le linee formose; gli occhioni neri, fulgidi, mobilissimi, dardeggiavano il birro.

—Ho fretta!—disse bruscamente la ragazza.—Vi lascio…

—Ti accompagnerò un poco!—riprese Lucertolo.

Gli schiamazzi, le escandescenze in cui dava la folla, che sempre più aumentava in Via del Palagio, giungevano fino a loro, e al loro dialogo teneva bordone il funesto suono della campana.

—Andiamo! andiamo!—disse la ragazza come rabbrividendo, e stringendosi addosso lo scialletto di lana nera.

Vedeva dinanzi a sè la faccia pallida, stralunata del povero Nello; le pareva di non poter mai dimenticare l'occhiata supplichevole che credeva le avesse lanciato il disgraziato nel momento in cui gli aveva gettato le monete nel cappello.

Consapevole dell'innocenza di Nello, della ingiustizia della condanna, ritenuta dal parlar subito per gravi motivi, si sentiva atterrita, disperata; temeva che da un istante all'altro le mancassero le forze per schermirsi dai destri e formidabili attacchi del birro.

—Dove sei stata tutto questo tempo?—chiese Lucertolo, affettando gran premura.

—Qua e là sempre a servizio del mio padrone…

—E come sta ora il tuo padrone?

—Male… male… La ferita, che ebbe alla testa, è di quelle che guariscono difficilmente…. e anche guarite lasciano brutti ricordi.

E la ragazza sospirava: mostrava di essere in preda a tale agitazione che il birro non potè continuare le sue domande.

Camminavano in silenzio, l'uno accanto all'altra, da alcuni istanti, quando a un tratto la ragazza, che era stata un po' soprappensiero, e in quegli istanti aveva fatto rapide riflessioni, si fermò verso la metà di Via Condotta, mise la mano sul braccio di Lucertolo, e guardandolo in viso con un'occhiata singolare, gli disse:

—Voglio chiedervi un piacere!

—Parla… chiedi pure—rispose il birro, tutto inuzzolito.—Son pronto a fare tutto quello che vorrai…

Credeva che finalmente gli si offrisse l'occasione di chiarire i suoi dubbii: invece la ragazza gli tendeva un'insidia.

—Posso fidarmi di voi?

—Come ti saresti fidata di tuo fratello… del tuo povero fratello!—replicò Lucertolo con molta serietà.

—Ebbene… io ora vado a casa… Voi verrete fra poco… Non voglio che la gente vi veda entrare con me…. Vi raccomando anzi di esser cauto, e di evitare quanto potete di dar nell'occhio… Ho da confidarvi una cosa….

Lucertolo drizzava le orecchie, ratteneva anche il respiro per paura di tradirsi, di rivelare la sua commozione.

—Voi siete proprio l'uomo adattato… Un agente della polizia m'ispira la più grande sicurezza.

—Dunque va'!—disse Lucertolo, impaziente di trovarsi solo per raccogliersi, e timoroso che gli sfuggisse un gesto, gli venisse pronunziata una parola, che palesasse la sua ansietà.—Va'! fra pochi minuti io sono da te.

La ragazza continuò per la sua strada, svelta, leggera senza badare alle parolette, che le scoccavano i passanti, ammirati della sua freschezza, della vegeta e florida venustà delle sue forme.

Teneva il capo un po' ricurvo e un curioso sorriso le schiudeva le labbra.

Tra sè e sè andava mulinando un'idea, architettando uno strattagemma, che la rendeva contenta.

Si fermò in Via San Miniato fra le Torri, salì in casa, e richiusa la porta, senza neppur levarsi lo scialle, entrò nella cucina, prese una sedia, l'accostò all'uscio, e vi montò sopra… Poi aprì lo sportello del ripostiglio, che era sopra l'uscio di cucina, ripostiglio nel quale, come rammenterà il lettore, essa aveva tentato di far entrare il fratello la notte in cui Lucertolo era venuto a picchiare alla loro porta.

Il ripostiglio era uno stanzino assai grande, praticato in alto nel muro, come se ne vedeano in molte case del Vecchio Mercato.

Lina, accesa una candeletta, ficcò il capo e le spalle nel ripostiglio.

Tolse da un certo punto varii oggetti pesanti, e li gettò in disparte. Poi con un ferro cominciò a lavorare su quel punto, che aveva lasciato scoperto.

Dopo sforzi faticosi riuscì ad alzare un mattone, che nessuno, anche aguzzando gli occhi in quel luogo, quando pur fosse stato bene illuminato, avrebbe creduto potesse essere mosso.

Alzato il mattone, rimase aperta una piccola botoletta.

Lina vi mise il braccio, e ne trasse fuori una camicia, e il fodero di un pugnale.

Quindi riaccomodò il mattone, vi gettò sopra di nuovo tutti gli oggetti, richiuse il ripostiglio e scese dalla sedia.

Se n'andò in camera, e stese sul letto la camicia.

Alla manica destra, dal gomito in giù, la camicia era tutta chiazzata di sangue.

Lina tagliò questo pezzo della manica.

Prese il fodero del pugnale e lo tagliò alle due estremità perchè non si potesse più verificare la lunghezza. Ritagliò accuratamente una iscrizione di poche parole, che un tempo dovevano essere dorate, scritte per traverso al centro del fodero.

Chiuse la camicia tagliata, il fodero del pugnale in una cassettina saldissima, di legno rozzo, ma forte, e la serrò a chiave.

Poi raccolse il pezzo della camicia insanguinata e lo guardò, gettando un profondo sospiro.

Lo rivoltò in un foglio insieme con i frammenti del fodero del pugnale e passò nella stanzuccia, che aveva servito di camera a suo fratello Bobi.

Tutto questo aveva fatto con la massima furia in pochi minuti, e da poco era nella stanzuccia di Bobi, quando si avvisò di udir per le scale il passo pesante dell'agente di polizia…

IX.

Ma la buona stella di Lucertolo, quella buona stella sotto il cui influsso egli era venuto in reputazione, impallidiva.

Probabilmente il birro non sarebbe mai arrivato a quegli onori di cui era così vago!

Il giorno, dopo quello in cui era morta sua madre, Carlo Tittoli, rovistando per la stanza ove la vecchia adorata aveva dato l'ultimo sospiro, vide sotto il letto una lettera tutta spiegazzata.

Si chinò per raccoglierla.

Era una lettera scritta da suo padre nella prima giovinezza, quando corteggiava la donna, che poi aveva sposato.

Come mai si trovava lì in terra?

Ma, mentre si rivolgeva questa domanda, vide biancheggiare a qualche distanza, sempre sotto il letto, alcuni fiori.

Era il mazzetto di fiori d'arancio di giaconetta, portato dalla donna il giorno delle sue nozze.

Nella fretta con cui aveva riempito il baule. Lucertolo aveva lasciato cadere in terra quegli oggetti.

Un sospetto tremendo entrò nel mite animo del Tittoli.

Trasse a sè il baule, lo aprì….

E vide il disordine con cui tutto vi era stato gettato alla rinfusa.

Evidentemente, nel morire, sua madre era stata vittima di un furto.

Forse il ladro, spaventandola, o facendole violenza, aveva contribuito a precipitarne, se non a cagionarne la morte.

Il dubbio divenne atroce.

Straziava il cuore del Tittoli, gli dava mille torture.

Sua madre, la sua povera madre, era forse morta disperata, chiamandolo, invocando il suo nome.

Ed egli dove si trovava?

Si era allontanato da lei per accompagnare Antonietta.

Per mettere in salvo una delle due donne, a cui doveva tutte le sue tristezze, le sue angoscie mortali, egli aveva lasciato sola nella suprema agonia l'unica donna, che davvero lo avesse amato.

Inginocchiato in terra, col corpo a metà steso sul baule, tenendosi la testa fra le mani, egli singhiozzava; le sue lacrime cadevano sulle misere vesticciuole, sugli squallidi oggetti, che avevano appartenuto alla povera donna.

Volle vincere il dolore: volle cercare, indagare chi poteva essere stato l'autore di quel furto così abietto.

L'atto infame chiedeva vendetta.

E si mise a riflettere.

Sua madre era stata curata, assistita dalla Nencia.

Di certo quella donna…

Però il cuore del Tittoli nobile, generoso, repugnava da bassi sospetti.

Egli esitava, come se temesse di commettere un'ingiustizia anche soltanto in pensiero.

Decise d'interrogare la Nencia.

X.

È una mattina del maggio 1833.

Nella sala di un palazzetto sul Canal Grande di Venezia, si trovano due personaggi, che il nostro lettore già conosce.

Una giovane signora stava quasi sdraiata sopra un sofà, coperto di velluto rosso, e adorno di gran fogliami, e fiori a intaglio nel legno dorato.

I raggi del sole entravano nella stanza discreti, temperati dalle tende di seta, che pendevano dinanzi alle finestre.

Il tappeto della stanza era bianco e azzurro: le pareti coperte di damasco rosso, a filettature d'oro: sul soffitto era dipinta un'allegrissima scena, a colori delicati; una Venere, splendente di venustà, circondata da Ninfe giovialissime e paffutelle, da Amorini in atteggiamenti scherzevoli e piacevolmente leziosi.

Nei grandi e alti specchi si riflettevano le ricchissime, sfarzose, artistiche suppellettili: si riflettevano le molli, voluttuose ondulazioni che facevano i contorni squisiti di un corpo flessuoso, abbagliante per meravigliosa leggiadria: ogni gesto della signora, ogni portamento della testa, ogni nuovo aspetto della sua bellezza poetica e sovranamente gentile.

La giovane signora era avviluppata in una gran veste di drappo fino, color di rosa, tutta guarnita sul dinanzi ed intorno al lembo da un soprammesso di raso bianco con ricami a rabeschi in oro.

Dalla veste usciva un piede minuscolo, delizioso nella sua incomparabile perfezione.

Le braccia spiccavano sulla fodera di raso delle ampie maniche con una bianchezza di gigli e di gardenie.

Il volto piccolo, tale da destare l'estasi dell'artista più vago della vera bellezza, era illuminato da un sorriso di un'espressione celeste, di una bontà ineffabile.

Un giovane era seduto sopra due cuscini, gettati sul tappeto, dinanzi al sofà.

—Stamani mi sono levata così presto per te!—diceva la signora, mentre con la sua mano destra, una mano affilata, sfavillante di anelli, si accomodava, facendo un gesto che le era familiare, i copiosi capelli biondi, di un biondo fulgido, che le formavano come uno splendido diadema sulla fronte divina.—Sono uscita di camera ora… mi avevi detto che saresti venuto a vedermi… e ti assicuro che ero proprio stanca!… Ieri sera, oltre il cantare l'Anna Bolena, l'aver dovuto ripetere tutta l'aria di Desdemona mi aveva spossato… E poi… che vuoi che ti dica… tutti quegli applausi… quei fiori… gli urli della gente, che mi aspettava all'uscita del Teatro… Già tu stesso avrai veduto lo spettacolo… Una trentina di gondole mi hanno accompagnato… Da tutte uscivano suoni, canti, grida di Evviva la Amieri!… Io, nella mia gondola sola, tutta palpitante, pensavo a te… Avrei voluto averti accanto, godere con te di quella immensa ovazione… Appena sono entrata in casa hanno incominciato una serenata… Mi sono affacciata al balcone… Non dimenticherò mai ciò che ho veduto e provato in quel momento incantevole… I suoni, i canti si confondevano in una lieta armonia, la luna gettava splendori su palazzi di marmo, su le acque, su la folla delirante di entusiasmo…

—Ma c'ero anch'io tra quella folla!—diceva il giovane, guardando la bella creatura con gli occhi inondati da lacrime di gioia—c'ero anch'io, e ti ho veduta affacciarti… È stata come un'apparizione divina… Sono io che ho gridato in mezzo al silenzio profondo, che succedette un istante al tuo apparire:—Viva la Amieri!… Ah, tu non hai riconosciuto la mia voce?… Forse perchè la mia voce tremava… come ora… ed io era più inebriato, più commosso di tutti da quella festa…

—Sei sempre buono tu!… Tu sei la mia gioia nel mondo!

E la donna ammaliante tendeva la sua mano profumata al giovane, che la baciava con trasporto.

—Ti ripeto quello che io ti ho detto più volte: io non posso, io non voglio esistere senza di te!—essa replicava.

Il giovane la guardava, orgoglioso, felice d'inspirare tale passione in un cuore così nobile, di veder accettata, prescelta la sua adorazione da una donna di tanta bellezza.

La signora, stesa sul sofà di velluto, era Antonietta, la scolara del Brinda, la ragazza fuggita dalla casa in Piazza degli Amieri la sera del 14 gennaio 1831: la ragazza che Carlo Tittoli aveva consigliato a farsi artista, e aveva messo in salvo.

Le lezioni del Brinda le avevano profittato.

In due anni essa era salita all'apogeo della gloria: aveva cantato a
Vienna e a Parigi, e per la prima volta rimetteva allora il piede in
Italia.

Dandosi all'arte, aveva serbato il nome di Antonietta e avea lasciato il suo casato per quello di Amieri, che le ricordava l'antica dimora de' suoi cari vecchi: di Agatina e di Emilio, che il lettore rivedrà fra poco.

Ha indovinato il lettore che il giovane il quale si trovava dinanzi ad
Antonietta era il pittore Roberto Gandi?

—Stamani è uscita la Gazzetta!—interruppe Roberto, cavandosi di tasca un giornaletto, stampato su carta giallognola.—C'è l'articolo del celebre abate Pildani sull'Anna Bolena.

L'abate passava per un maestro, e quale maestro! nella critica musicale.

Un altro abate in quel tempo faceva la critica delle opere e dei balli anche nella Gazzetta di Firenze.

Così le prime donne e le prime ballerine godevano il privilegio di aver il loro panegirico dalle stesse penne che scrivevano quelli delle Sante, delle Vergini più immacolate.

—Che cosa dice il celebre abate?—domandò la cantante, allungando un braccio verso una tavoletta in lacca, sulla quale prese una delle rose che erano in un'anforetta finissima di cristallo di Boemia.

—Te lo leggo subito!

E il pittore principiò la lettura dell'articolo, che era un vero esempio dello stile con cui in quel tempo si scrivevano le critiche musicali.

Dopo lette le prime parole, il pittore fu interrotto da un lieve gesto dell'artista, da un sorrisetto sdegnoso.

Il critico moveva da alcune considerazioni generali; queste essa non voleva udirle.

—Più giù… più giù!—ella disse.—Dove parla di me… della esecuzione…

Il pittore dette un'occhiata sul giornale, quindi lesse:

—«Due parole di grata menzione ai cantanti che ci dilettarono nella stagione che cade, rappresentando l'Anna Bolena del M.^o Donizetti! La signora Amieri sostenne la parte di protagonista (d'Anna) e la sostenne da protagonista. Nell'arte del canto, non men che dell'azione, la signora Amieri è insigne. Vuol ella attenersi a canto semplice e spianato? (per lo più preferibile nelle opere degli ottimi scrittori). Tutto è intonato, tutto corretto. Vuol ella tentar voli, e sparger fiori? Son vigorosi, son felici, i voli; i fiori son di tutta eleganza, di tutta bellezza. Ma (sia detto di passaggio) non la invoglin questi pregi ad esserne troppo prodiga! quel che è più prezioso vuol esser anzi con più parsimonia dispensato.»

Erano press'a poco gli avvertimenti che, due anni prima, le dava il suo maestro Brinda.

Durante la lettura, la fisonomia ammaliantissima della giovane artista aveva preso un'arietta di sovrana alterigia.

Ma allorchè il pittore giunse al punto ove era dato il paterno consiglio di parsimonia, la rosa, che la cantante carezzava con le sue dita affusolate, cadde, a foglia a foglia, sparpagliata da una mano febbrile, sul sofà e sul tappeto.

—Non legger più, Roberto!—disse con un attuccio di sprezzo.—Questi abati la mattina dicono la Messa: il resto del giorno non sanno quello che dicono!

E rideva, ma di un riso poco spontaneo.

—Lascia che legga!—soggiunse Roberto, che teneva sempre gli occhi sulla Gazzetta.—Sentirai che c'è del buono…

—No, no… Tanto non ti confondere… questi critici non hanno gusto, e non si intendono della musica… Figurati che uno di loro ha scritto, tempo fa, che il mio trillo non è bello… Ma si può essere più disgraziati di costui!

Roberto era avvezzo a sodisfare i più piccoli desiderii di Antonietta.

Sapeva che non tollerava contradizioni. Però essa si credeva di un carattere così dolce, così pieghevole, così condiscendente!

Ma l'innamorato non conosceva altra legge che quella che emanava dalle labbra rosee della giovane vezzosa, nè avrebbe voluto obbedirne altra.

Ripiegò il giornale, senza proferir verbo, senza arrischiare la più piccola osservazione, abituato a quella sommissione illimitata, volontaria, che si trova in tutte le anime veramente amanti.

L'opera del Donizetti, Anna Bolena, scritta allora da poco più di due anni, aveva tutte le attrattive della novità. Se ne appassionavano il pubblico, gl'interpreti, i critici. Se ne disputava negli ambulatori de' Teatri, sulle scene, nelle sale dei principi come nei crocchi degli artisti.

Quando nell'anno, in cui comincia il nostro racconto, cioè il 30 decembre 1830, la sublime Pasta, la Orlandi, il Rubini, il Galli avevano cantato a Milano la nuova opera del maestro bergamasco, per tutta Italia, dove allora i cuori palpitavano per le grandezze dell'arte più che non palpitino oggi, e l'arte era ad essi suprema religione, e gli entusiasmi prorompevano più alti e più facili, per tutta Italia, dico, corse il grido delle vaghezze che infioravano l'opera nuova, ne furono ripetute le soavi melodie.

Gaetano Donizetti, sino allora fervido seguace del Rossini, si spingeva rapito nel tramite lucente della melodia belliniana. Nell'Anna Bolena, nel Pirata e nella Straniera parve s'incontrassero, si assimilassero le ispirazioni dei due genii più affettuosi, che la musica abbia avuto dopo il Pergolese.

Un silenzio era succeduto alla cessata lettura.

I due amanti si guardavano sorridendo.

Gli occhietti azzurri e furbacchiòli di Antonietta brillavano di una insolita espressione di malizia.

—Vedo che tu sei mortificato!—essa riprese in tuono leggermente sarcastico.—Leggimi, leggimi il giornale… te lo permetto!

E Roberto spiegò di nuovo la piccola Gazzetta, dicendo:

—Sentirai che l'abate è poi giusto!

—Giusto, o no, leggi pure!

Ecco che cosa scriveva il terribile abate, la cui prosa aveva irritato gli eccitabilissimi nervi della regina del canto:

—«Intese poi profondamente e sentì la signora Amieri il suo personaggio, Anna Bolena. La catastrofi d'una donna sensibile al pari ed altera, da un potente amore inalzata al soglio, e da una feroce incostanza precipitata nella morte dell'infamia… l'abbattimento nel vedersi sprezzata… il rinfranco d'una coscienza che si sente illibata… le furie e le imprecazioni della rivalità… la triste calma della rassegnazione… e le tenerezze del perdono… il delirio… e l'orribil sorriso della disperazione, al pronunziarsi della sentenza del suo disonore… il grido del raccapriccio al rimbombo dei bronzi che la chiamano al supplizio…»

—Quante cose, quante cose!—esclamò Antonietta impaziente.

«… tutti i miserandi e crudeli tumulti dell'anima di quella grande infelice,—proseguì Roberto leggendo e scolpendo viemeglio le parole—furono dalla somma attrice, coll'eloquenza dell'accento, coll'evidenza del gesto, in un quadro spaventevole e commovente, vivissimamente dipinti allo spettatore. È inutile il dire che ella ha destato nel pubblico un entusiasmo, e che ne ricevè i più unanimi e lusinghieri contrassegni.»

—O che cosa dice del tenore?—domandò Antonietta, che era un po' gelosa del virtuoso, che le era emulo nel favore del pubblico.

E Roberto ricominciò:

—Il celebre Darvili…

—Vedi… vedi… me non mi ha chiamata celebre! Oh, non importa,… continua.

L'articolo, come già ne' periodi citati, ritraeva esattamente il modo di scrivere, che era in voga.

«Il celebre Darvili (Percy),—diceva il critico tonsurato—si sostenne, mercè il suo gran possesso dell'arte, ma non essendo a lui molto adattata la parte, non può dirsi che abbia colta una palma di più.

«Del resto non è qui il luogo di parlare del metodo del signor Darvili. Egli ha avuto sempre critici ed ammiratori. Egli si è sempre segnalato non col tenere vigorosamente la nota, non col canto spianato, ma colla vivacità, colla grazia degli ornamenti. Egli, per così dire, non trionfò combattendo a piè fermo come il Romano, ma fuggendo come il Parto!»

Il critico, contemporaneo del Donizetti, andava innanzi con nuovo ardore.

«E nulla dite, ci sentiam domandare—egli scriveva,—della musica del signor maestro Donizetti, della poesia del signor Romani?—Quanto alla musica non possiam che ripetere le lodi di cui essa fu già onorata. Alcuni vi notarono varie reminiscenze d'idee d'altri compositori. Ma, oltre che è difficile l'assicurare che sien vere reminiscenze, potendo due ingegni incontrarsi senza imitarsi, a molti scrittori anche insigni venne fatto di prendere da opere precedenti qualche idea, nè questo derogò alla lor fama, quando nel resto si mostrarono ricchi d'originalità.»

E ribattendo le osservazioni di alcuni, concludeva: «Per certo non si desidera musicale eloquenza nel duo del primo e del secondo atto, e nel finale del primo. L'aria: al dolce guidami, è commoventissima. E per tutta l'opera riluce quella somma dottrina nell'arte dell'armonia, per cui è celebre il signor Donizetti.»

Con la sua voce flebile, che carezzava e molceva le orecchie, che scendeva all'animo come una voce di paradiso, la cantante, sempre distesa sul sofà, battendo il tempo con una mano intonò l'adagio:

Al dolce guidami Castel natìo.

E il suo accento interpretava a perfezione quel canto stupendo, di una semplicità e di una grazia ideale, di un'espressione, che desta la più ineffabile mestizia.

Poi, guardando Roberto con piglio civettuòlo, e mentre egli le stringeva la mano, gorgheggiava con note limpidissime, terse, alate, per così dire,—con tanta facilità di emissione le uscivano dal labbro—l'aria:

Come, innocente giovane, Come mi hai scosso il core!

Ma già, prima che avesse finito, Roberto si era alzato, si era accostato al cembalo, e quando essa ebbe gettato l'ultimo suo gruppetto di note, scintillanti come le perle luminose e colorate di un piccolo fuoco d'artifizio, Roberto, accompagnandosi, e volgendosi per guardarla, intuonava a mezza voce le parole del tenore:

    Deh, non voler costringere
      A finto gaudio il viso.
      Bella è la tua mestizia
      Siccome il tuo sorriso!

—Bravo!—gridò Antonietta, che si era alzata anch'essa e si era avvicinata a Roberto, tendendogli la fronte sulla quale egli dava un bacio caldissimo.

Roberto Gandi non era un vero e proprio musicista, ma aveva al canto una innata disposizione; ogni bella armonia lo commoveva. Ripeteva i pezzi migliori delle opere che udiva, ne parlava con un linguaggio ardentissimo. La musica è una passione violenta come l'amore.

La sua affezione per Antonietta lo aveva sempre più infervorato nella musica, gliel'aveva fatta meglio comprendere: sin da quando la conobbe, alle lezioni del Brinda, egli si sentì a un tratto più addentro nei misteri della musica, più destro, più sicuro nella stessa arte che esercitava.

I primi momenti della passione fanno sorgere nel cuore di un artista un tumulto di idee; i suoi studii, anche gli studii che credeva più sterili, dànno un frutto insperato; la intensità della sua vita raddoppia; egli trova l'espressione adeguata, spesso cercata invano, a' suoi più alti concetti.

—Bravo! Bravo!—ripeteva Antonietta, passeggiando per la stanza, fermandosi qua e là a carezzare i bei fiori disposti su varii mobili, e sui fiori trascorrevano le sue dita morbide e candide come i più fragili petali di alcuni di essi.

Si accostò di nuovo al cembalo e fissò i suoi occhi in quelli di
Roberto.

Roberto la contemplava con un sentimento di adorazione sovrumana.

Così rimasero alcuni istanti.

Non si parlavano, non facevano un gesto; l'amore li faceva trepidare, li inebriava come una di quelle melodie senza parole, che sono la più celeste espressione della musica.

Ad un tratto udirono rumore.

Si volsero ambedue verso la porta.

Entrò una cameriera elegantissima, di forme appariscenti, e a cui sfavillavano in volto la salute e la giovinezza.

—C'è l'abate Pildani!—essa disse a voce bassa.

—Oh, il celebre abate!—osservò Antonietta, facendo un gesto teatrale.—Che passi!

Ma erano scorsi alcuni secondi, e l'abate non si presentava.

Egli era occupatissimo nell'anticamera a guardare, a interrogare la ragazza avvenente e grassotta, la cui vista lo giocondava.

E per sbirciarla meglio, si era alzato gli occhialoni verdi che portava sempre: il giorno in casa, per le strade; la sera al teatro.

La ragazza, obietto alla profonda e onorevole ammirazione del più illustre critico musicale di Venezia, era Lina Carminati.

—Passi, signor abate, passi pure!—diceva Lina, accennando alla porta della sala, quindi fattasi bruscamente innanzi, la aprì.

L'abate si trovò dinanzi a Antonietta, che gli corse incontro tutta festosa, e in atto tra il devoto e il motteggevole, come se volesse a un tempo chiedergli di benedirla e burlarsi di lui.

L'abate aveva aspetto singolarissimo. Era piccolo, tarchiato, con una grossa testa, un naso rigonfio e rossastro, in mezzo a un faccione, esilarato da un largo e perpetuo sorriso: nella fisonomia aperta si leggeva una grande astuzia, temperata da una sincera bonomia. Poi, gli occhiali verdi, e sotto il braccio, altro oggetto da cui non si separava mai quasi neppur in casa, un ombrellone verde, che teneva sulle ginocchia, come un bambino a cui facesse la nanna, anche quando scriveva i suoi articoli.

—Come va, figliuola?—domandò all'artista famosa, cui tutti parlavano con ossequio e trepidando, in un tuono che sembrava parlasse alla più umile delle mortali.

Anna Bolena rispose un po' crucciata. Quel modo familiare verso la Sua
Maestà la indispettiva.

—Ah, ah, capisco!—mormorò l'abate, i cui occhiali verdi erano volti verso il cembalo sul quale si trovava spiegata la Gazzetta.—Ho osato toccare la regina! Tocchi di penna, e di penna d'oca… non lasciano traccie, figliuola… Andiamo… via! Ti hai per male che un vecchio, che ti vuol bene, ti dica un po' di verità?… Un uomo, che ha i capelli bianchi, come me, non avrebbe diritto di dare un consiglio ad una monelluccia come te?…

Antonietta taceva, ma l'abate, accortosi che essa era in procinto di scattare, mutò subito registro, e si dette ad ammansare la piccola tigre.

Pochi istanti appresso, il sorriso era tornato sulle labbra di
Antonietta.

—Peccato,—disse l'abate Pildani a un certo punto della conversazione—peccato che il Donizetti abbia scelto quel libretto…

—Non le piace?—chiese Antonietta, con l'aria del maestro, che interroga uno scolaro.

—Non mi piace, no, se tu me ne dài licenza… e se non me la dài, me la piglio,—replicò il faceto abate.—O non hai letto il mio articolo?…

—Non abbiamo finito di leggerlo,—osservò Roberto, che aveva già scambiato con l'abate un cordiale saluto.

—Allora, ragazzi, ve lo finisco di leggere io. E l'abate si alzò, andò a prendere la Gazzetta, sollevò gli occhialoni verdi e lesse:

—«Della poesia, nelle opere per musica, non si può veramente parlare, senza sentir pietà del servaggio, cui qui son ridotte le muse. Se si paragona la lunghezza dei drammi dello Zeno e del Metastasio, con quella dei nostri libretti, si vedrà, anche materialmente, quanto in angusto sia stata ognor più coartata la poesia; e che quasi tutto il campo è occupato dalla musica, che spazia orgogliosamente, profondendo i tesori della melodia e dell'armonia.

«Poeta e scrittor di musica sulla scena paiono un magro e rannicchiato cliente, accanto al giovenalesco Matone, pingue causidico, riempiente la sua lettiga.»

L'abate guardò i due interlocutori per sorprendere sui loro volti l'effetto del suo ingegnoso e pomposo paragone.

—«Noi—e l'abate qui assumeva un accento solenne—non intendiamo di predicar riforma su questo punto, si segua pur così: ma la necessaria conseguenza è che la poesia in tante ristrettezze, non ha bastante sviluppo; e bisogna che talvolta resti per brevità oscura; tal altra si contenti d'una interiezione Ah!, di parole vaghe e generali, fato, avversa sorte, ecc., mentre converrebbe scendere a particolarità, a figure determinate, che solo parlano alla fantasia, facoltà dominatrice nella vera poesia.

«Conviene accennar figurine da paesaggio, ove non scoprendosi lineamenti, fisonomie, non si commovono affetti al loro aspetto. Vi resta più la verseggiatura che la poesia. Il signor Romani, bisogna confessare, che in varii de' suoi drammi ha portato queste catene colla maggior disinvoltura, e felicità possibile. Ma il libretto dell'Anna Bolena non è forse uno de' suoi migliori, neppur per la verseggiatura. Vi son luoghi in cui la lira di Romani si riconosce; ma spesso le corde dissonanti stridono.»

—Eh, che ve ne pare? Ma sentite anche questa. Ho voluto aggiustare una bottata al gran lusso delle scene, alla importanza che si dà a certi accessorii… E badate, figliuoli… Dio voglia si muti indirizzo… ma io prevedo fin d'ora che fra poco si scriveranno le opere per i macchinisti, per gli scenografi, per i vestiaristi… Se pure essi non saranno i veri autori! E si applaudiranno, non i canti, ma le scene dipinte, il vestiario dei sarti, i brillanti, i gioielli delle prime donne… Eccovi il mio paragrafo, corto, ma chiaro… come parlo sempre io:

«Diasi lode anche agli scenarii, particolarmente al primo, e al vestiario che è molto ricco. In oggi si sfoggia assai in vestiario: ciò è bene; ma guardiamoci dal fidarci troppo. Ricordiamoci del detto di Dèmonace a un tale che ne andava superbo del suo bel manto: Amico, prima di te, portò queste lane un ariete, e non era che un ariete

E l'abate, ridendo, buttò la Gazzetta sul tappeto.

XI.

Antonietta aveva avuto davvero a Venezia splendido incontro.

E l'incontro più lieto le aveva sempre arriso dacchè calcava le scene.

Bella, acclamata, idolatrata; nel gesto, negli atteggiamenti, nella voce della giovane tutto rivelava l'abitudine del comando, tutto indicava un essere gentile, abituato a soprastare, sicuro di piacere, certo che nessuno oserebbe pensare ad opporgli resistenze.

—Voglio che tu mi ripeta,—disse l'abate,—quel pezzo… Al dolce guidami… L'ho già sentito dalla Pasta, che lo accentava così!

E l'abate, in piedi, agitando l'ombrello verde, che teneva sempre nella mano destra, canticchiava il pezzo con una voce assai fresca e intonatissima per la sua età.

—Dunque, ripetimelo!

Antonietta sedette al cembalo.

La sua veste color di rosa ricadeva in larghissime pieghe sul tappeto.

E la testolina bionda, un po' rovesciata all'indietro, in un'attitudine graziosissima, essa cominciò a cantare.

Il canto la trasfigurava, aumentava le seduzioni di quel visetto di sfinge, così perfetto nella tenue soavità delle sue linee. Le labbra vellutate non si contorcevano, ma pigliavano una movenza delle più leggiadre, come se appena le agitasse un sospiro armonioso. Le note uscivano così facili e folgoranti da una bocca così piccola, e così ben modellata, che davano l'illusione di un canto, che uscisse dal calice di una rosa.

Roberto ascoltava, puntellandosi con un ginocchio sull'orlo di una poltrona e i gomiti appoggiati alla spalliera.

Antonietta cantava.

Egli non poteva contemplarla, udirla senza estasi e senza fremiti nei momenti in cui, nel silenzio della sua casa, essa cantava per lui solo, tranquilla, dimentica della folla, degli applausi volgari, e prodigava per lui solo i prodigi del suo ingegno. Che cosa gl'importava di tutte quelle che aveva udito, lodato, applaudito, cercato sino allora?

E passava le intere giornate accanto a lei, amante, in un assoluto oblìo di tutto, beato di piacerle, di indovinare i suoi desiderii, beato di quello spontaneo sacrifizio che le faceva di tutto sè stesso in una abnegazione, in una devozione illimitata, accettata, professata con gioia, in una mite e attenta servitù che a lui era più cara di qualsiasi sovranità.

Universalmente conosciuto, ricco di amici, di aderenti; in tutte le città che visitava, il grande artista era veduto da pochi: viveva solo, silenzioso, rifuggente dai rumori, sempre come assorto in una interna visione. Si diceva di lui:—è innamorato!

Soltanto da poco tempo Antonietta e Roberto dimoravano nello stesso paese. La malattia di Roberto li aveva sempre tenuti disgiunti. Antonietta era andata a vederlo due o tre volte, nei periodi del riposo, che le lasciavano le sue rappresentazioni, quando egli non poteva uscire dalla sua camera, in una quieta campagna, vicino a Londra.

Aveva fatto tutti questi viaggi sola, accompagnata da Lina, che non vedeva se non per gli occhi di lei. In ogni città al suo arrivo aveva trovato adoratori già pronti ad umiliarsile, sospiranti, che rivelavano in bigliettini, fattile ingegnosamente recapitare, tutta la loro bestiale stoltezza. Ma la ragazza era tanto altera da non cedere a queste lusinghe, e le disprezzava, e aveva chiuso la sua porta a tutti gli oziosi, ai melensi, che calano a stormi, come le cavallette, egualmente molesti, dove apparisce una donna, giovane, bella, circondata di qualche mistero.

Naturalmente le era accaduto quello che accade a una donnina giovane, bella, che ride de' suoi presuntuosi pretendenti, che li pone in scompiglio col suo disprezzo. La calunnia aveva cercato di addentarla. Si ripetevano di lei quelle storielle con cui la canaglia elegante crede poter vendicarsi dei nobili orgogli che la sferzano, la puniscono, la respingono.

E le calunnie erano giunte a Roberto, avevano sibilato intorno a lui con la maggior energia, ma indarno. Tutte le volgarità della vita non potevano neppure sfiorarlo.

Insieme con Antonietta visitavano ora i monumenti, uscivano ad ammirare nelle giornate più miti gli splendori del cielo, della terra che si cuopriva di fiori. Contemperavano i loro entusiasmi, il loro affetto, le loro ammirazioni.

Che importava ormai a lui de' ritrovi, della società, che di tanto in tanto gli mandava le sue tentazioni, lo richiamava, cercava di riattirarlo a sè? Egli fuggiva tutto.

In quegli istanti, mentre ascoltava Antonietta, gli tornava alla mente tutta la storia della loro passione. Un solo punto in essa lo rattristava ogni volta che il suo pensiero ricorreva a certi tempi; la passione che Carlo Tittoli aveva avuto per la sua amante; passione generosa, esaltata, che aveva ispirato a quell'uomo infelicissimo i più duri sacrifizii.

Guarito della ferita, non pensava più al delitto di via della Luna; per lui e per Antonietta quel delitto aveva avuto un solo movente: il furto. Essi credevano Nello reo, e il Gandi era persuaso che Nello avesse tentato ucciderlo per derubarlo.

Lina non aveva osato fino allora di dire la verità, ma da anni aspettava, anelava le si presentasse il momento di palesarla, di liberarsi dal segreto orribile che la opprimeva.

Intorno a Roberto e a Antonietta, che vivevano così sereni e tranquilli, così contenti e sodisfatti del loro amore, si addensava, si preparava la più cupa tempesta.

Antonietta aveva finito di cantare il suo pezzo.

L'abate si profondeva in lodi, faceva le sue osservazioni estetiche.

Ma egli mandava in lungo la conversazione, non si decideva ad andarsene.

Era facile capire che era venuto con altro scopo che quello della musica.

Il celebre giornalista veneziano sapeva tutto quello che si diceva nella città, raccoglieva tutte le chiacchiere, tutti i pettegolezzi, che si mormoravano intorno a lui.

A que' tempi correvano facilmente sugli artisti le più strane leggende.

Non si raccontava, per esempio, che il Paganini aveva assassinato una donna; non si vendeva per le piazze un lamento, stampato in foglietti volanti, e le cui strofe erano sormontate da una grossolana incisione, che rappresentava il Paganini, affacciato alle inferriate della prigione?

Si aggiungeva che, carcerato, aveva ottenuto di poter suonare il violino per divertire la noia della prigionia, ma che il carceriere, per paura che si impiccasse, gli aveva lasciato soltanto allo strumento la quarta corda. Così egli aveva acquistato una delle sue più meravigliose abilità!…

Antonietta era giunta a Venezia, preceduta, accompagnata dalle calunnie, da una certa leggenda, che si era bisbigliata in certi piccoli crocchi per tutto dove era stata.

Naturalmente, come avviene in simili casi, si faceva una spaventevole confusione.

I mezzi di locomozione allora erano scarsi, lentissimi. Un fatto, accaduto a Firenze, arrivava per esempio a Venezia trasformato, modificato, abbellito, aggravato dalla fantasia, dai capricci, dalla malignità, dalla spensieratezza di tutti coloro per la cui bocca passava e, in certe congiunture, il numero di essi era davvero straordinario.

I giornaletti, che andavano per le mani de' più, non parlavano mai di delitti; reputati argomento troppo umile, o troppo abbietto. Ciò che oggi solletica tanto la curiosità, pareva indegno di attenzione.

Ma sul delitto del Vicolo della Luna si eran fatte chiacchiere anche a Venezia; il nome, notissimo, del pittore, che era stato vittima del latrocinio, dava al delitto una certa importanza.

Quando arrivarono a Venezia il Gandi e Antonietta, circa tre anni dopo, il nome del Gandi tornò ad essere ripetuto, unito a quello della cantante famosa; si fece il più strano accozzo di circostanze e, con la rapidità con cui si propalano le più ingiustificabili, le più inesplicabili voci, cominciò a serpeggiare la notizia più bislacca e più feroce.

La notizia giunse subito all'abate, lo tenne perplesso, gli parve assurda, divisò di parlarne subito con Antonietta.

Dopo essersi trattenuto più di un'ora, mandando in lungo la visita, dopo aver titubato, esitato, prese la ragazza in disparte, come se volesse parlarle in segreto.

Il Gandi si trovava all'altra estremità della sala, ed era tutto occupato a disegnare.

L'abate parlò alcuni minuti, facendo il suo esordio, insistendo sul mal vezzo delle calunnie, sulle accuse strampalate da cui erano spesso bersagliati gli artisti; alla fine soggiunse:

—Sai che cosa si dice di te?

—Che cosa?—domandò Antonietta, i cui occhi cercavano il Gandi in fondo alla sala, e che ascoltava l'abate con molta noncuranza.

—Si dice… si dice…—e l'abate non osava andare innanzi.

—Ma dunque?

—Si dice… che tu abbia ammazzato un uomo!

Con grande sorpresa dell'abate, Antonietta, invece di respingere la odiosa calunnia, di indignarsi, impallidì, si turbò.

In un attimo essa aveva compreso l'origine di quella voce: il delitto del Vicolo della Luna.

Non riflettè che essa non poteva esser coinvolta in quel delitto, che il suo nome non era stato mai pronunziato nel processo, che il vero reo, secondo lei, era stato riconosciuto. Non riflettè che ognuno aveva ignorato la sua presenza nella stanza misteriosa, mentre si compieva il delitto; non pensò che la leggenda poteva nascere tutt'al più dalla presenza del Gandi in Venezia, vicino a lei; che poteva essere uno di quei ciechi colpi, che dà l'ingiustizia popolare a coloro che l'ingegno, la bellezza, il valore, le ricchezze mettono in vista, al di sopra della folla.

No, una simile idea, così semplice, così facile, non le balenò neppure alla mente. Fu presa subito da uno spavento: che si fosse risaputo il suo convegno nella stanza dinanzi alla quale il delitto era stato commesso, che si sospettasse….

E da quel convegno, il primo, il solo che essa avesse dato all'amante, era uscita pura, vi era andata, forte della sua innocenza e del suo amore, per assistere ad una effusione di tenerezze, per avere, lontano da sguardi malevoli e curiosi, un colloquio con lui, interrogarlo seriamente sull'avvenire, discorrere insieme dei loro disegni di felicità.

Aveva arrischiato molto, come fanno spesso le donne virtuose, appassionate, guidate, sospinte dai loro sentimenti, che incaute si fabbricano i pericoli, a' quali sfuggono le abili, le accorte, che sono sempre vigilanti, e sanno preparare i loro convegni, lo svolgimento dei loro capricci con astuzie sottili. Invece le indoli buone, altere, sdegnose di ogni bassezza, rifuggono dalla ipocrisia, dagli avvilimenti della menzogna: affrontano il pericolo a fronte alta, trovano il coraggio, la fede nel loro amore indomito e nella loro coscienza.

Il colloquio fra l'abate e Antonietta durò poco.

L'abate la lasciò convinto che la voce popolare fosse ridicola, si aggirasse sopra un fatto insussistente, fosse una grottesca, immane esagerazione; ma il pallore della ragazza, alla domanda che egli le aveva mossa, non sapeva bene spiegarsi.

Antonietta rimase addolorata dopo quella conversazione.

Nella giornata essa uscì con Roberto,

Il sole splendeva pel cielo azzurro: l'aria era carica di tutti gli effluvii, di tutte le fragranze, di tutti gl'inebrianti tepori della primavera.

Ad un tratto Antonietta gettò un grido, e si rannicchiò nel fondo della gondola, accanto a Roberto.

In una gondola, che era passata quasi volando accanto a quella in cui essi si trovavano, aveva veduto un uomo, tutto vestito di nero, pallidissimo, col volto esprimente un'angoscia mortale.

In quell'uomo, che si teneva diritto, rigido, nell'atteggiamento di una statua sopra una tomba, appoggiato fuori del felze della gondola, essa aveva riconosciuto Carlo Tittoli!

XII.

E che faceva a Venezia Carlo Tittoli?

Era forse tornato alla sua antica utopia, traeva a cercare nuove afflizioni vicino alla donna, per la quale già aveva versato lacrime e sangue?

Perchè era egli venuto a Venezia, che gli ricordava l'onta della sorella: a Venezia ove sua sorella aveva commesso l'atto vituperoso, dopo il quale, per salvarla da una condanna infamante, aveva dovuto immolare sè stesso, ed egli, così buono, di sentimenti così puri e così elevati, era precipitato nella geldra dei delatori?

Antonietta, non disse nulla quel giorno, nè il giorno appresso, a Roberto, volle tenergli il segreto sull'incontro, che forse a lui poteva spiacere.

Ma, nel momento in cui vide il Tittoli così severo, così cupo, così contraffatto dall'angoscia, da tutte le torture cui aveva dovuto andar incontro, si era sentita tutta rabbrividire.

Le era entrato in cuore il più funesto presentimento.

—Torniamo a casa!—aveva detto a Roberto—Ho freddo….

—Come! hai freddo in questa bella giornata?—Ma l'amante, prima che ella avesse finito di pronunziare queste parole, si era già avvicinato ad uno dei gondolieri e gli aveva ordinato di tornare dinanzi al palazzo.

—Ah!… mi sento male!… mi sento male!—ripeteva Antonietta.—Non so se stasera potrò cantare.

—Così ad un tratto!—mormorò Roberto, sul cui volto si dipingeva la più sincera desolazione.—Ma che cosa ti senti?

—Non te lo so dire….

E la ragazza rimaneva pensosa, mentre Roberto con la cura più amorevole le accomodava uno scialletto intorno alle spalle, chiudeva le finestruole del felze, le domandava se volesse un medico, se desiderava che egli le portasse a casa qualche medicina, smaniava di sgomento per quella subita indisposizione.

Antonietta era avvezza a vederlo così affaccendato, così premuroso in quelle occasioni, e, in mezzo alle sue pene, sorrideva di tenerezza.

Arrivati alla porta del palazzetto, Roberto la aiutò ad entrare, e domandatole reiteratamente se le occorreva alcuna cosa, le baciò la mano, rispettoso, e si accomiatò.

—Non sarà nulla…. Ho bisogno di un po' di riposo…. e sono sicura che tutto passerà…— essa gli susurrava con piccoli gesti e con inflessioni adorabili.

Roberto, come gli accadeva ogni volta che si separava da lei, fosse pure per breve spazio di tempo, cadde in una grande mestizia.

Gli era sembrato che la mano, che egli aveva baciato, fosse troppo calda.

Se avesse la febbre!

L'idea lo martellava, lo teneva sulle spine.

Un quarto d'ora dopo Roberto tirava di nuovo il campanello del palazzetto.

Lina veniva ad aprire. Le domandava notizie. Antonietta era un po' agitata. Egli le lasciava un piccolo involto, e le scriveva in un biglietto che vi avrebbe trovato rimedio infallibile al suo male.

Dopo una mezz'ora un uomo portava al palazzetto un libro. Roberto lo mandava ad Antonietta perchè lo leggesse, si distraesse, immaginandosi che doveva già star meglio.

Un'ora appresso un ragazzetto saliva le scale portando un grosso mazzo.

Fiori, che Roberto mandava ad Antonietta!

Essa gli era gratissima di tali premure, a cui l'aveva abituata, e con le quali l'innamorato gli rivelava che pensava a lei, che si occupava di lei ad ogni istante.

Antonietta, appena tornata in casa, se n'era andata in camera, dopo che Lina le aveva tolto il cappello e il mantello, e là, gettatasi sopra una poltrona, si era ingolfata ne' suoi pensieri.

Cercava d'illudersi: forse l'uomo, che aveva veduto, non era il Tittoli…. Ma no, lo aveva veduto troppo bene…. aveva dinanzi agli occhi quella fisonomia così triste…. Gli sguardi di lui si erano incontrati co' suoi, e avevano una tale espressione di rammarico, avevano gettato lampi di gelosia nel vederla accanto al rivale fortunato!

Le lacrime le venivano agli occhi ripensando alla sua oscura casa di Piazza degli Amieri, in Firenze, a' suoi poveri vecchi, agli anni della sua infanzia, a quelle sere in cui Carlo Tittoli andava a vederla, accompagnato dalla propria madre.

Fu colpita a questo punto delle sue riflessioni da un'idea più straziante di tutte quelle che l'avevano assalita.

Carlo Tittoli era vestito a lutto, certo aveva perduto sua madre!

Egli aveva dunque bisogno di consolazioni.

Due lacrime calde, grosse, le rigarono le guancie, uno spasimo interno le contraeva il volto. Si morse il labbro inferiore, chinò la sua bella testina fra le mani, i singhiozzi la soffocavano.

Pianse, pianse senza ritegno: il cuore le scoppiava a tutte quelle rimembranze della sua infanzia, de' suoi vecchi, dell'amico fedele.

Quando si alzò, si vide nel grande specchio, che aveva dinanzi.

Era lei, lei la cantante applaudita, la donna celebre, amata, per cui delirava la folla, lei che quella sera stessa doveva comparir sulla scena coperta di gemme, scintillante di bellezza, per rappresentare la parte della Regina? Era lei con gli occhi gonfi di lacrime, arrossati dal pianto, col volto bianco per la commozione, lei, non più artista, non più commediante, ma la povera ragazza di Piazza degli Armieri, la povera figliuola di Agatina e di Enrico, che piangeva!

Stette sola, affranta, oppressa dai ricordi, lacrimando, per alcune ore.

Verso le 7, quando già cominciavano a cadere le prime ombre della sera, Lina venne a chiamarla.

Era l'ora di andare al teatro.

Come sempre, Lina l'accompagnava. La aiutava a vestirsi nel camerino: poi, mentre cantava, la aspettava tra le quinte per gettarle addosso lo scialle, quando usciva di scena: le teneva pronta una sedia, allorchè doveva trattenersi fra le quinte soltanto alcuni minuti, per ricomparire subito dinanzi al pubblico; le offriva da bere, le porgeva il ventaglio, le stava attorno come se l'adorasse.

Quella sera il teatro era affollatissimo: la platea stipata: nei palchi il fiore dell'aristocrazia veneziana: uno splendore di spalle bianche, un folgorio di sguardi, di gemme, un ondeggiar di ventagli variopinti.

Antonietta ebbe un applauso di sortita, unanime, fragoroso, un applauso da far crollare il teatro, e che durò alcuni secondi.

Tutta Venezia aveva saputo della gran festa popolare, che le era stata fatta due notti innanzi all'uscire dal teatro. Le signore erano curiose di vedere la donna sulla quale correvano così strane leggende, leggende che anche in quel momento si ripetevano sotto i ventagli. E poi quella sera al teatro si raccontava una cosa di più, che eccitava le fantasie, che dava l'aìre alle supposizioni…

Carlo Tittoli non aveva potuto più oltre nascondere la professione a cui apparteneva. Egli era conosciuto ormai anche in Firenze come uno degli uomini più ragguardevoli, più intelligenti, che contasse la polizia toscana. Se avesse voluto, avrebbe potuto arrivare ai primi gradi. La profezia che gli aveva fatto in un momento terribile per lui, il Presidente del buon Governo, si avverava.

Arrivato a Venezia con altri viaggiatori, le parole scambiate con l'ufficiale, che riceveva i passaporti, gli atti d'ossequio e di deferenza degl'impiegati subalterni, richiamarono l'attenzione su di lui. All'albergo dove andò ad alloggiare si trovava un fiorentino, che lo riconobbe. Subito si seppe che un alto impiegato della polizia del Granduca di Toscana era giunto nella città.

Ne' due giorni fu veduto spesso vicino al palazzetto dove abitava la cantante.

Era forse venuto a sorvegliarla?

A poco a poco il forse sparì: il fatto fu affermato, ripetuto co' soliti ornamenti, si inventarono circostanze, particolari, perfino parole pronunziate dall'agente superiore della polizia.

E la gente bisbigliava, commentava quelle fiabe sinistre, quella storia di sangue, di sospetti, di orrori.

—Così giovane!—dicevano le signore più benevole, e tutte tenevano i canocchiali fissi sulla leggiadra artista, e non la perdevano d'occhio un minuto—così giovane e già vi è un tal mistero nella sua vita!

Era appunto quel mistero, nato dalle calunnie, dalle cupe, contradittorie e spaventevoli voci, che serpeggiavano, che sorvolavano di labbro in labbro, era quel mistero che agitava, scuoteva, attirava la folla: la rendeva più commovibile ai canti strazianti, che udiva.

Nel palco della principessa Calliraki, bellissima dama greca, che si trovava da un mese a Venezia, l'abate Pildani dopo il primo atto declamava, gestiva con in mano il suo ombrello verde.

—Dica, signor Abate… lei che conosce questa grande artista…. crede sia possibile che essa abbia commesso un delitto?…—domandava la principessa.

—No… Eccellenza… no—rispondeva l'abate—non è possibile!… E' una leggenda, una leggenda infame… come quella che raccontano sul sublime violinista, sul mio amico Paganini… L'ingegno della ragazza ha del prodigioso… la sua voce è un miracolo musicale. La folla crede difficilmente ai prodigi, ma quando ci crede, quando si è formato un idolo, dopo le prime pazze adorazioni cerca il punto debole, la fragilità, che possono avere questi esseri, che vede, con invidia, tanto superiori a sè, dopo averli essa stessa inalzati freneticamente a quelle altezze… E se può trovare il punto debole… se può scoprire un pretesto, un appiglio a queste fragilità… come è contenta! Le mille bocche briache, che urlavano l'osanna, che facevano intorno alla donna, all'uomo d'ingegno un tal baccano da divezzarli dal comprendere il valore della lode vera, onesta, temperata, immutabile perchè senza esagerazioni… le mille bocche, su cui tuonava l'iperbole, allora diventano bocche di vipere, e di vipere mai sazie di spargere il loro veleno… E' la folla cieca, ilota, che ha avvelenato così le più nobili esistenze, le reputazioni più gloriose, le fame più intemerate… Ciò che si racconta di questa ragazza è mostruoso….

—Bravo, signor Abate!—esclamava la Principessa, tendendo al principe della critica la sua mano delicata.—Gli occhi, tutta la fisonomia della ragazza confutano da sè le infami calunnie… Le si legge nel volto, negli atteggiamenti, la bontà, la generosa fierezza dell'animo.

La Principessa era giovane, ricca, corteggiata indipendente, e come abbiamo detto bellissima: non prendeva quindi alcun piacere alle calunnie: le era anzi molto a grado che la sfuriata dell'Abate le avesse dato modo di umiliare le tre o quattro creature meschine, spigolistre, che si trovavano nel suo palco, e che avevano lacerato fino allora il nome della artista.

Le parole dell'Abate furono, entro un quarto d'ora, riportate di palco in palco, e anch'esse cresciute, aumentate, a favore della ragazza: e del resto, prima che il secondo atto fosse a mezzo, l'ombrello verde dell'Abate aveva fatto la sua comparsa in varii palchi; egli aveva ripetuto da sè il suo giudizio, e con la sua solita chiarezza.

La calunnia si andava dissipando rapidamente, come era sorta.

Antonietta riceveva feste come una sovrana.

Ad ogni sua frase la salutavano grida entusiastiche, prorompeva l'applauso, immenso, alto, fragoroso, e sotto quell'onda sonora, vibrante nell'aria, la bella testolina bionda s'inchinava, in atto di ringraziare gli spettatori, senza però perder nulla della sua alterezza, della sua compostezza dignitosa.

Il pubblico aspettava con grande ansietà il duo fra il soprano e il contralto.

Le due donne si avanzarono verso la ribalta.

Regnava un silenzio profondo: tutti rattenevano perfino il respiro.

Anna Bolena intuonava il duo famoso con le parole rivolte a Giovanna
Seymour:

Sul suo capo aggravi Iddio…

Era arrivata alle cadenze del primo tempo sulle parole: fia la scure a me concessa: dove, copiando una puntatura della Pasta, levava un do acuto di effetto meraviglioso.

In quell'istante si udì il rumore dello sparo d'un'arma da fuoco.

Vi fu un panico.

Tutti erano rimasti sbigottiti.

La gente si alzava in piedi, le signore si spenzolavano dai palchi; conturbate, esterrefatte.

In alcuni palchi del terz'ordine si vedevano spettatori, che gesticolavano in modo furibondo.

—Fermi tutti—gridò una voce robusta—si tratta di un suicidio!

Da un palco del terz'ordine veniva già una gora di sangue, che aveva spruzzato gli abiti, il volto di signore, che si trovavano nei palchi sottoposti.

Il sangue cadeva nella platea, sotto que' palchi, e la gente, essendosi ritirata per raccapriccio, da quel punto si scorgevano sul pavimento le goccie rosse.

XIII.

I primi ad entrar nel palco, dal quale cadeva la pioggia di sangue, videro un uomo con la testa tutta sfracellata, appoggiata al davanzale del palco e il cui corpo si era ripiegato nell'angustia dello spazio, cadendo, dopo la spaventevole ferita.

Le persone entrate proferivano grida di orrore.

Sulla parete del palco, in faccia alla scena, e alla quale l'uomo era appoggiato nel momento in cui aveva attentato alla sua vita, sulla parete si vedevano schizzati e rappresi piccoli frammenti di cervello.

Il sangue usciva dalle labbra dell'infelice, e gli bruttava le vesti.

Chi era?

Il volto del cadavere appariva irriconoscibile, nessuno sapeva ravvisarlo.

Nel Teatro l'eccitazione aumentava di istante in istante.

La folla invadeva i corridoi.

Tutti nei palchi restavano in piedi.

Si scambiavano dialoghi ad alta voce da una parte all'altra del
Teatro.

Udito il colpo, poi le prime grida, la parola si ghiacciò sulle labbra di Antonietta; quindi essa cadde svenuta.

Il contralto, impaurito, fuggì subito fra le quinte.

Accorsero altre persone e sollevarono Antonietta, e la trasportarono nel suo camerino.

Un secondo appresso, il Gandi accorato, sopraffatto dalla passione, dallo sbigottimento era accanto a lei.

Il dramma d'amore, cominciato pochi anni innanzi in Piazza degli
Amieri aveva un ben orrido fine.

A poca distanza l'uno dall'altro erano il cadavere di Carlo Tittoli, il corpo affralito, scosso da terribili convulsioni, di Antonietta.

Il Commissario della polizia austriaca accompagnato da un medico, seguito da varii suoi agenti, salì al palco, e mostrando i segni del suo grado, con le ripetute intimazioni, riuscì a farsi luogo fra la folla.

La identità del Tittoli fu facilmente e presto riconosciuta, mediante le carte che egli aveva indosso.

Nella sala continuavano le grida, la effervescenza.

Il Commissario intimò ad uno de' suoi agenti di recarsi sul palcoscenico, e tornar subito a riferirgli quello che avesse veduto.

Tutti gl'impiegati della polizia, presenti in teatro, in un momento furono nel palco.

L'agente mandato sulla scena tornò immantinente e conferì col
Commissario.

—Ho capito!—egli disse, dopo averlo ascoltato.

Si rivolse ad altri agenti, e scambiò con essi in furia alcune parole.

Costoro facevano rapidi segni di assentimento.

Allora il Commissario, guardando la folla, alzò una mano, come se volesse far cenno agli spettatori di acquietarsi, di tacere.

—Zitti! zitti!—gridarono più voci.—Parla il Commissario.

—Psss…. psss….—si mormorava da ogni parte.

Tornò a regnare quel profondo silenzio in mezzo al quale era stato intuonato il bel duo del Donizetti.

—Signori!—esclamò il Commissario, sporgendo dal palco la sua testa calva, e tenendosi con un ginocchio sopra uno sgabello, accanto al cadavere—la rappresentazione non può continuare…. La prima donna è stata presa da violente convulsioni…. La polizia ha bisogno di quiete per trasportare il cadavere…. In nome della legge v'invito a sgombrare la sala!

Successe un gran tumulto.

Tutti si affrettavano ad uscire.

Tutti erano impauriti, impressionati dalla grande catastrofe.

Uscirono e si sparsero per Venezia dove propalarono la triste notizia.

Molte signore, appena arrivate a casa, si misero in letto con la febbre, il dì appresso alcune erano ammalate.

La bella e sensibilissima principessa Calliraki la notte tenne sempre sveglie le sue cameriere, essendo in preda ad un'agitazione, che pareva delirio.

Un'ora dopo che il pubblico aveva lasciato il teatro, il cadavere sformato del Tittoli era trasportato sino in riva all'acqua e adagiato nella barca dei pompieri; di lì a non molto si trovava steso sopra una tavola di marmo nella stanza mortuaria dello spedale.

Là fu spogliato, un medico, sebbene convinto di adempiere una inutile formalità, procedette alla ascoltazione del cuore.

Ma il cuore di Carlo Tittoli non batteva più.

La morte gli era sembrata l'unica riparazione al disonore, che credeva ricaduto sul suo nome dal vile impiego che aveva accettato, l'ultimo balsamo alle ferite di un amore non corrisposto, che era stato la sola, la più grande, la infelice passione di tutta la sua vita!

Più volte si era detto nei giorni del dolore, quando si sentiva soverchiato dal peso de' suoi affanni:—«se non fosse mia madre!»—Sua madre morta, composta nel sepolcro, tributate alla sua memoria tutte le cure estreme dell'affetto, che sopravvive ad un essere adorato, egli era venuto a Venezia per compiere la ferale promessa.

Aveva voluto morire dinanzi alla donna che egli considerava come sleale, aveva voluto colpirla in mezzo a' suoi trionfi: lasciarle il ricordo della sua morte come un atroce rimorso.

Mentre il cadavere del Tittoli era lentamente trasportato allo spedale nella barca di servizio, Antonietta riavutasi, sorretta da Roberto e da Lina, scendeva verso la gondola, che doveva condurla a casa.

Entrarono tutti e tre nel felze, tutti e tre muti, costernati, e tutti e tre in quel momento i soli in Venezia che capissero i veri motivi di quella disgrazia.

Nessuno di loro osava parlare.

Arrivarono dinanzi al palazzetto.

Senza proferir verbo, Antonietta tese la mano a Roberto che la baciò, e poi la strinse fra le sue.

E ambedue silenziosi, tremanti, si accomiatarono.

Antonietta e Lina non chiusero mai occhio, durante la notte.

Lina si era sdraiata in un lettuccio accanto al letto della padrona, e di tratto in tratto l'una sentiva i singhiozzi dell'altra.

—Voglio andare a vederlo!—disse Antonietta prima che albeggiasse.—Voglio andare ad ogni costo!

—Andiamo pure,—rispose Lina in tuono piuttosto severo.—Anche questa sarà un'espiazione!

XIV.

E, balzando dal lettuccio, scarmigliata e discinta com'era, avvicinandosi al letto d'Antonietta, tutta trafelata soggiunse:

—Un'espiazione sì, perchè qui siamo tutti colpevoli!… e mentre laggiù ci è un cadavere, un altro innocente è in galera per causa nostra.

—Innocente!… in galera!… che cosa dici?—domandò Antonietta, inorridita, alzandosi a sedere sul letto.

—Dico che il giovane, il quale fu condannato per la ferita fatta al signor Roberto… non è lui l'assassino….

Antonietta ricadde col capo sul guanciale.

—Ma parla…. parla….—soggiunse a stento, col volto tutto bagnato di lacrime, mentre cercava con una mano la mano di Lina.

—Sì, parlerò…. parlerò…. perchè altrimenti io sono sicura che Dio il quale già ha cominciato a punirci ci manderà altri più tremendi castighi…

Però la ragazza non andò più innanzi. La parola che stava per pronunziare sembrava le scottasse le labbra.

—Dunque,.. confidati—ripeteva Antonietta, attirando Lina verso di sè, e ben lungi dall'attendersi la rivelazione, che le doveva esser fatta.

—Ebbene—riprese tutta ansante Lina, dopo un breve momento di ansietà.—Sì, lo dirò… l'assassino del signor Gandi è stato… mio fratello!

E, dato un urlo, cadde stecchita sul pavimento.

Antonietta anch'essa per qualche tempo non fece alcun moto.

Le commozioni di quella notte ormai erano tali che si sarebbero spezzate fibre ben più robuste della sua.

Dopo il primo abbattimento, dopo la prostrazione, in cui gettano a un tratto le angosce supreme, avviene nell'animo umano una pronta reazione. La coscienza assopita si ridesta, le sofferenze divengono più generali, ma si fanno meno acute. La mente riacquista il privilegio funesto di poter esaminare, ragionare il dolore.

Antonietta poco appresso si scuoteva dalla sua atonia.

Guardava intorno a sè, e non vedendo Lina, la chiamò.

Sono qua!—rispose la sciagurata ragazza, sempre stesa sul tappeto, che cuopriva il pavimento.

E si strappava i capelli, e mandava imprecazioni, arrivata a uno stato di parossismo nel quale certo nessuno mai l'aveva veduta.

—Sono rovinata… rovinata… e tutto per lei… Se non fosse stato il suo amore con questo forestiero!

Antonietta non rispose.

Neppure in quel momento la sua indole fierissima le consentiva di venire a spiegazioni, a discussioni con una creatura come Lina, non ostante che le volesse un gran bene.

Ma Lina subito si alzava in ginocchioni, si avvicinava di nuovo al letto, prendeva le mani della sua padrona, e le cuopriva di baci, ripetendo, in mezzo alle lacrime:

—No… no… io sono un'ingrata… una cattiva… mi perdoni… io ho detto una cosa che non avrei dovuto mai dire… Sono tanto disperata!

E così, interrotta dai singhiozzi. Lina raccontò ad Antonietta tutto quello che sapeva sul delitto di Via della Luna, le sue scene col fratello, con Lucertolo, la condanna, la gogna di Nello, le angustie da lei patite, subite sin'allora, le lotte sostenute per non palesare la verità.

Quella effusione fra le due donne durò circa un'ora.

Antonietta aveva ascoltato tutti quei racconti, strabiliando, esterrefatta.

Vedeva chiaro, alla fine, la verità, che tante volte aveva sospettata.

Il suo amore era dunque una cosa fatale!

Già aveva spinto un uomo a darsi la morte, e per gli effetti del suo amore un altro, innocente, era precipitato in galera.

Ma, come avviene, nello sconforto profondo, mentre tutto cadeva, crollava, grondava sangue intorno a lei, essa sentiva avvivarsi e rinvigorirsi la sua passione per Roberto.

Le vere passioni si alimentano e crescono, divampano fra gli ostacoli.

—Voglio andare a vederlo!… Voglio andare a vederlo!—balbettava
Antonietta.

Le due donne, vestite a lutto, uscirono di casa. Era sempre in sull'albeggiare.

Si presentarono all'Ospedale e chiesero di entrare nelle stanze in cui si custodiva il cadavere dell'uomo che si era ucciso. Ma fu loro negato.

Allora Antonietta domandò con insistenza del medico di servizio.

Il giovane medico accorse, riconobbe la celebre artista; e sebbene un poco meravigliato che essa venisse a tale ora, credendo obbedisse a un capriccio, a una curiosità di vedere l'uomo, del quale tutti dovevano averle parlato, la guidò egli stesso sino alla stanza mortuaria.

Ad un cenno del medico, un guardiano prima che le donne entrassero, corse a gettare sul cadavere un gran lenzuolo, che lo cuoprì quasi tutto.

Le donne entrarono trepidanti.

E si gettarono subito in ginocchio, ciascuna da un lato di quella tavola di marmo sulla quale giaceva la povera, straziata spoglia di Carlo Tittoli.

Una sola delle lacrime che Antonietta versava in quel momento, avrebbe potuto, versata in altri tempi, salvare la vita dello sventurato!

Ma la morte è sorda ai gemiti, ai preghi, alle lacrime, ai pentimenti. Il sepolcro non rende nè alle madri, nè alle amanti, nè alle spose, nè alle figliuole desolate che invocano, e supplicano, le vittime che esso ha divorato!

E in quell'ora che cosa faceva Roberto?

XV.

Le donne non avevano dormito, ma Roberto quella notte non si era neppur coricato.

La camera di Antonietta corrispondeva in via della Ca' d'or, ed egli aveva passeggiato su e giù per ore intere, guardando in alto verso la finestra, che vedeva illuminata.

Voleva esser pronto ad ogni rumore, che udisse nel palazzetto; la quiete, che pareva vi dominasse, lo aveva alquanto rassicurato, e si era allontanato, molto sul tardi, aggirandosi sempre in angoscie e tutto agitato, per le più curiose straduzze, sulle quali batteva appena uno scarso raggio di luna.

La morte del Tittoli, lo stato in cui aveva lasciato Antonietta, lo travagliavano.

Egli aveva veduto il Tittoli una volta sola: quando cioè l'amico d'infanzia di Antonietta aveva consentito a visitarlo in via de' Renai, poco prima della fuga della ragazza da Firenze, come ricorderà il lettore.

Poi ne aveva udito qualche volta parlare da Antonietta e da Lina, che ne avevano esaltato la devozione, le premure; ma nulla egli mai era venuto a sapere dell'odio concepito dal Tittoli contro di lui, della gelosia che gli aveva ispirato, della passione che esso aveva nutrito per Antonietta.

Antonietta non gli aveva naturalmente parlato mai della scena accaduta fra essa e il Tittoli nella osteria di campagna, allorchè egli si era ferito dinanzi a lei, e le aveva annunziato la sua risoluzione di morire.

Ma la scena le tornava in mente tale e quale l'aveva veduta due anni prima, nel momento in cui stava inginocchiata accanto al cadavere di Carlo.

Essa ricordava il consiglio, che le aveva dato di farsi artista, di trar partito dalle lezioni del Brinda, gli aiuti che le aveva procurato per esordire nella sua carriera.

Ed egli moriva proprio nel momento in cui era salita a quella gloria, a quei trionfi, che egli aveva affettuosamente vagheggiato, sognato per lei, che le aveva predetto nel suo entusiasmo verso di essa.

Già il cielo era soffuso dai primi chiarori dell'aurora.

Quando, ad un tratto, Roberto Gandi vide avvicinarsi due donne. Due donne in strada, e a quell'ora! il fatto era tale da sorprendere, ma incontanente ebbe riconosciuto Lina e Antonietta.

Si diresse verso di esse. Antonietta, ravvisatolo, fu piena di confusione.

XVI.

—Fuori… a quest'ora?—le domandò il Gandi.—E di dove vieni?

—Abbiamo passeggiato un poco… sentivo soffocarmi… non potevo dormire!—rispose Antonietta, che non aveva mai detto una menzogna al suo amante, e alla quale il sotterfugio, il primo che adoperasse con lui, spiaceva talmente, che essa tremava e balbettava.

Roberto aveva tanto rispetto, tanta fiducia, tanta passione per
Antonietta, che non osò ripetere.

Si mise a camminare accanto a lei, a capo chino, molto sconfortato da quella risposta.

Sentiva per la prima volta la diffidenza, il dubbio sorgere fra lui e
Antonietta.

Ma non stette molto che Antonietta posò una mano su un braccio di lui. Essa non poteva patire di vederlo così mesto, immaginava, conoscendone bene la indole, quanto egli dovesse soffrire in quel momento, e non voleva tener nulla celato al solo uomo che amava, che avesse mai amato.

Roberto, commosso da quell'atto, alzò il capo e la guardò.

Antonietta aveva preso una forte risoluzione: confessargli tutto, palesargli le sue relazioni col Tittoli, il motivo probabile che lo aveva indotto al suicidio, raccontargli tutte le confidenze, che aveva avuto da Lina sull'assassinio.

—Ho passato davvero una brutta nottata!—riprese Antonietta con un tuono dolcissimo di voce.—Se tu sapessi quanto ho sofferto!

—E io non mi sono mosso un istante dalla strada… Vedevo la tua finestra illuminata… Se avessi potuto farti sapere che ero là…. Tu però avresti dovuto immaginarlo…. Tu sai che quando soffri è per me il maggiore dei tormenti….

—Ah, lo so che tu sei sempre buono!—mormorava Antonietta.

—Ma tu hai pianto… tu piangi ancora?—domandava Roberto.

Antonietta infatti piangeva in un nuovo accesso di commozione, ripensando al cadavere, che aveva lasciato laggiù sulla tavola di marmo.

—Ti dirò tutto,—replicava Antonietta.—Ora andiamo a casa!…

Antonietta taceva, mentre Roberto era tutto intento a indovinare il segreto che le dava tanta ambascia.

La notte insonne, le emozioni provate in poche ore avevano lasciato sul volto delicato della giovane traccie spiccate.

Roberto si accorse che anche Lina piangeva.

Che cosa era dunque accaduto?

—Che c'è?—domandò a Lina con voce sommessa.

—Immense disgrazie!—costei rispose angosciata.

I più lugubri presentimenti si succedevano nell'animo di Roberto.

Il suicidio del Tittoli, l'abbattimento in cui aveva lasciato Antonietta già lo avevano predisposto alla malinconia, eccitando la sua sensibilità. Si era domandato fra sè e sè come mai il Tittoli fosse venuto a Venezia, avesse preso il partito di suicidarsi proprio al Teatro in mezzo ad una rappresentazione, mentre la sala era affollata, il pubblico, plaudente, allegro, sodisfatto.

Come mai aveva voluto morire con tanto clamore, circondare la sua morte di tanto apparato?

Questi pensieri da cui si era distratto per tornare ai pensieri del suo amore, che lo occupavano sempre, ora si facevano più insistenti.

L'uscita di Antonietta così per tempo doveva essere in qualche relazione col suicidio della sera precedente.

Essa aveva conosciuto il Tittoli, egli la aveva aiutata a fuggire dal
Ghetto… La gratitudine, la compassione…

Il mistero che già trapelava in questo affare, lo teneva sospeso e perplesso nelle più crudeli ansietà.

Arrivarono a casa, e Antonietta, Lina, Roberto si trovarono riuniti nella sala ove pochi giorni innanzi era stato ricevuto l'abate Pildani.

In quella sala ora non risuonavano più i canti, nè le voci liete, ma solo il pianto delle due donne.

Antonietta fu la prima a rompere il silenzio.

Roberto ascoltò impassibile tutte le penose rivelazioni.

Allorchè essa ebbe finito:

—Bisogna,—egli disse,—partir subito e tornare a Firenze… Dobbiamo ad ogni costo far rendere la libertà a quell'innocente… Dobbiamo risarcirlo del male, che ha patito, e del quale noi… noi siamo causa… Abbiamo taciuto anche troppo…

La sera appresso il cadavere del Tittoli era portato a seppellire.

Il trasporto fu quasi solenne; qualcuno, che si teneva nell'ombra, aveva pensato a tutto.

Sulla bara erano state deposte due grandi corone di fiori.

Tutta Venezia parlava del caso orrendo.

La leggenda popolare contro la bella cantante si ridestava più fosca che mai.

Nessuno poteva ora più trattenere la calunnia, neppure il buon abate
Pildani.

Il suicidio del Tittoli era collegato nel modo più strano dalla pubblica voce, sebbene inconsapevole, a qualche atto della vita passata di Antonietta.

La sera stessa in cui il cadavere del Tittoli fu condotto al cimitero,
Roberto prese in disparte Lina e le domandò molto concitato:

—E tuo fratello… l'assassino che mi ferì… è morto?

XVII.

La conversazione fra Roberto e Lina fu lunga. Non cessò fino al momento in cui Lina dovè andare ad aprire la porta. Un visitatore, a quanto pare molto vivace, aveva tirato giù tre o quattro scampanellate una dopo l'altra e con non piccola forza. Sembrava deciso, se non gli fosse subito aperto, a rimanere col campanello in mano piuttosto che desistere dal pensiero di entrare.

Era l'abate Pildani.

Lina lo fece subito passare nella sala dove si trovava Antonietta.

Roberto rimase in un salotto a confabulare con Lina.

—Buona sera, mia cara!—disse l'abate, tendendo la mano all'artista, che era quasi sepolta fra alcuni guanciali, in atteggiamento languidissimo.

—Buona sera, mio caro… maestro!—rispose Antonietta, con voce spenta.—Desiderava appunto di vederlo… Ho bisogno di lei!

—E io ti servirò volentieri, figliuola, in tutto quello che ti occorre. Ma come stai?…

—Oh, molto male… Non mi sono ancora riavuta dallo spavento dell'altra sera e credo che ne risentirò gli effetti per un pezzo…

—Conoscevi quel disgraziato!

—Sì, lo conoscevo!

—Però tu hai commesso una grande imprudenza.

—Quale?

—Presentandoti poche ore dopo, prima che facesse giorno, all'ospedale, insistendo per vedere il cadavere…

—E chi lo sa?

—A quest'ora tutta Venezia.

—Mio Dio!

—E non immagini quello che si dice?

—Oh, per me… mi è indifferente quello che si dice… io agisco sempre, secondo la mia coscienza.

—Belle, nobili parole—riprese l'abate—degne di te… ma che sono costate molti dolori ad anime molto generose, dolori che bastarono a scuotere fibre più forti della tua.

—Oh, se sapesse quanto sono forte io contro certe viltà, contro certe ingiustizie!—disse la ragazza, i cui bellissimi occhi lampeggiavano di sdegno.—Lei deve farmi un favore… Sarei obbligata a cantare altre due sere… La prego a adoperarsi perchè io sia sciolta subito dal mio contratto… Lei è onnipotente… ed io sono pronta a pagare tutto quello che vogliono, pur che mi lascino libera… Se avrò la forza di reggermi in piedi, domani voglio partire da Venezia…

—Va bene… Sebbene non sia facile, io otterrò che tu sii lasciata libera… ma a partire da Venezia ora… in questo momento… non ci pensare… Che cosa direbbe la gente?… No, no, tutti crederebbero che tu fossi fuggita… Tutto quello che io ho detto, che io ho fatto in questi giorni per te sarebbe inutile… E i maligni avrebbero ragione e si stropiccerebbero le mani!… No, no… spero mi ubbidirai… tu non devi partire!

L'abate era veramente concitato, poichè si alzò e andò a posare in un canto della sala il suo ombrello verde, separazione alla quale non si rassegnava che in ben solenni congiunture.

—Ma che cosa c'è di così terribile contro di me? Che cosa ho io fatto a questa gente, che mi calunnia?

—Che cosa hai loro fatto?… Tu sei giovane, tu sei bella, sei celebre… E la più parte di loro non sono nè giovani, nè belli; e, nonostante le vanitose cupidigie, le sordide ambizioni che li divorano, sono destinati a rimaner sempre oscuri… Che cosa c'è di terribile contro di te?… Le gagliofferie inventate dalla marmaglia… Non si contentano ora di dire che a Firenze tu hai ucciso un uomo… hai commesso un assassinio misterioso… ma aggiungono che questo Tittoli che si è suicidato, era stato mandato dalla polizia granducale per sorvegliarti… ma che egli è stato un tempo il tuo amante… e che si è ammazzato piuttosto che nuocerti…

—Stoltezze degne di chi le dice…

—E di chi le crede… siamo d'accordo… Ma il numero di coloro che sono disposti a credere il male, non è scarso… non sono pochi i codardi, che calunniano in segreto, che provano una gioia bestiale a contaminare tutto quello che vi è di puro, di nobile, di giovane, di gentile, di illibato, a contrariare gli sforzi che fa l'ingegno per riuscire, a contendere tutti i successi, i successi della grazia, della bellezza, dell'arte, dello studio… No, non voglio che tu parta da Venezia così.

—Ma che mi consiglia di fare?

—Ecco… tu hai chiesto un favore a me, io ne chiedo ora uno a te… Fra tre giorni è l'onomastico della principessa Calliraky. Questa gran dama già ti adora, senza conoscerti… Essa ha preso le tue difese contro i tuoi turpi e volgari nemici… Per la sera del suo onomastico, ha invitato il fiore della aristocrazia veneziana, poi gli artisti più eletti, una società sceltissima… Essa ti prega di voler cantare un pezzo in suo onore… Noi anderemo sul tardi, quando le sale saranno affollatissime. Tu entrerai, dando il braccio a me, a me, che ti rispetto, e che sarò orgoglioso di sfidare la calunnia al tuo fianco. Roberto ti accompagnerà anch'egli… Vedremo, se i calunniatori avranno il coraggio di alzare la testa, vedendoti in mezzo a due uomini d'onore, ciascuno de' quali è pronto a difenderti…

—Ma perchè darsi tanta pena?… Io non tengo che alla stima di coloro che amo… Che m'importa di quello che dicono di me certi oziosi… certi sciagurati?

Antonietta parlava con appena un filo di voce.

Un po' era sofferente, un po' obbediva ad un vezzo.

Una cantante, quando è oppressa da qualche sciagura, quando vuol esprimere un gran dolore, o un gran disgusto che la muove, abbassa la voce… anche se l'ha.

L'abbassamento della voce in lei è destinato a rappresentare il supremo limite dello sconforto e della prostrazione, l'abbandono di tutte le facoltà. Sta quasi a indicare che, almeno per il momento, il male è senza rimedio. In simili congiunture è rigorosamente richiesta negli astanti una costernazione profonda, come se davvero una gola d'oro avesse perduto il suo metallo meraviglioso, o l'onda di una voce avesse gettato l'ultima perla.

L'abate conosceva bene le capricciose, delicate e suscettibili divinità dei teatri di musica. Ristette dalle sue domande e cominciò a parlare della voce di Antonietta.

—Questo abbassamento di voce, che mostri stasera—egli disse ad un certo punto—non è naturale. Il dispiacere che provi ti fa discorrere con un accento così velato, ma credo che se tu cantassi un poco, la voce ridiverrebbe subito più limpida e più chiara… Non bisogna prendere l'abitudine di parlare con coteste velature… Stasera lo fai per stanchezza, per ispossatezza, perchè sei triste e svogliata. Domani tornerai a fare lo stesso e l'organo si vizia facilmente… Fammi sentire una scala…

Antonietta prese una o due note e mostrò al maestro che sapeva ritrovare la sua magnifica voce.

L'abate si trattenne un pezzo con lei, si diffuse in ragionamenti sull'arte, sulla musica.

La giovane artista lo ascoltava un po' distratta, immersa nelle tristezze, che le derivavano da tutto ciò che aveva saputo, sofferto nella notte, dopo il suicidio del Tittoli, un po' attirata dai discorsi che la solleticavano ne' suoi istinti di artista.

Alla fine l'abate, prendendola per una mano, e parlandole in tuono quasi paterno:

—Tu devi essere condiscendente col tuo vecchio Pildani—le disse in un impeto di affettuosa espansione—devi promettermi che canterai per l'onomastico della principessa.

Antonietta, dopo un istante di riflessione:

—Ebbene…—rispose—canterò… Lo prometto.

—Brava!—E il buon vecchio, chinandosi, le dette un bacio sulla fronte.—E ora ti lascio!

E, ripreso l'ombrello, con un gesto come se volesse fargli dimenticare il lungo distacco da sè a cui l'aveva condannato, si accomiatò.

Il giorno dopo, tutto il palazzetto era sossopra.

Fu fissato che Antonietta e Roberto partirebbero con Lina da Venezia la sera appresso a quella in cui dovevano trovarsi alla festa della principessa, e si sarebbero diretti a Firenze. Appena arrivati, Lina si sarebbe presentata al capo della polizia o all'avvocato fiscale della Rota per fare le sue rivelazioni.

Intanto essa aveva già subito dato mano a preparare i bauli.

XVIII.

La sera convenuta Antonietta si recò alla festa, accompagnata da
Roberto e dall'abate Pildani.

Aveva fatto un grande sforzo per lasciarsi abbigliare, per vincere un cupo presentimento, che l'angustiava.

Pure arrivò alla festa, più bella, più seducente, più poetica che mai non fosse stata, nel suo pallore, nel soave languore che traspariva da tutta la vaghissima persona.

La principessa, anch'essa giovanissima, e di una bellezza portentosa, l'aveva accolta come una sorella non vista da molto tempo.

Varii gentiluomini avevano fatto gruppo intorno alla celebre artista, staccandosi uno a uno dalle signore con cui avevano sino allora parlato. Molte fronti si imbrunivano, molte labbra femminili erano sfiorate da sorrisi di geloso disprezzo.

Quella donna, che trionfava in modo così splendido, con tanta grazia ed affabilità, irritava, aizzava contro di sè molti amor proprii.

Una feroce insidia le era preparata quella sera; doveva esser vittima di una trama infernale.

Ad un certo punto, Antonietta si sentì male, fu colta da una specie di deliquio.

Si sedette, o piuttosto cadde sopra un sofà.

Tutti le furono attorno, le furono fatti respirare dei sali.

Mostrò il desiderio di rimaner sola per alcuni minuti.

La principessa allora la condusse fino alla soglia della sua camera, le disse che vi restasse quanto voleva, e richiuse l'uscio.

Antonietta dieci minuti dopo tornava nelle sale, compiutamente rimessa.

Una signora armena, ricchissima, giunta tra le prime alla festa, si era, appena arrivata, tolta una collana di grosse perle nere di grandissimo prezzo.

La signora, nell'entrare, si era accorta che i fermagli della collana, allentatisi, alcune perle si sfilavano. Una delle più grosse perle nere era caduta anzi, mentre la signora traversava le sale, senza che essa se ne accorgesse.

La signora armena aveva consegnato la collana alla principessa, che l'aveva gettata nel cassetto di uno stipo nella sua camera, lasciando la piccola chiave d'argento nel cassetto.

Antonietta, dopo che ebbe cantato il suo pezzo, domandò di partire, allegando che aveva bisogno di riposo.

La principessa l'accompagnò sino all'anticamera e la baciò.

Dopo un istante anche la signora armena si accomiatava.

—Ti darò la tua collana!—disse la principessa.

E insieme andarono nella camera, e aprirono lo stipo.

La collana non c'era più!

Guardarono per tutto, frugarono i mobili, ma indarno.

Nessuno era entrato nella camera, fuorchè Antonietta.

Mentre le due signore erano dinanzi allo stipo, estatiche, senza sapere che dirsi, entrò nella camera con gran disinvoltura un'altra signora, magra come la fame, con una testa secca che pareva un teschio, con un corpo smilzo come un bastone, e ravvolta in un abito sfarzoso, coperto di ricche trine.

—Principessa—disse lo scheletro elegante con la sua disinvoltura—abbiamo trovato ora questa perla nera davanti al sofà su cui era seduta la signora Amieri!

La dama armena guardò la perla, poi la principessa.

—Ma questa—ella soggiunse tremando—è una perla della mia collana!…

Antonietta, giunta a mezza scala, si era volta all'abate che le dava il braccio, dicendogli:

—Mi sono dimenticata di prender la musica… e ho lasciato anche il velo che devo mettermi intorno al collo.

—Torniamo indietro!—rispose l'Abate.

E, mentre la cantante entrava di nuovo nelle sale, tutti parlavano della sparizione della collana.

L'abate sentì a un tratto tremare il braccio di Antonietta.

Un imprudente, che li aveva veduti, pronunziava ad alta voce il nome dell'artista, facendo un atto di sprezzo.

Ma, dati altri due passi, Antonietta impallidì, le si piegarono le ginocchia, l'abate potè a stento sorreggerla, e farla sedere sopra una poltrona.

Essa non rispondeva più alle domande, che le erano mosse. Gli occhi vitrei, immobili, le braccia penzoloni; le labbra bianche; sembrava più morta che viva.

Alcune parole pronunziate in un gruppo di persone che non si erano accorte della sua presenza, l'avevano avvertita della calunnia, ed essa ne aveva ricevuto un colpo tremendo.

—Che hai? che hai?—domandava l'abate, tutto premuroso, senza ricevere alcuna risposta.

Girò gli occhi intorno a sè, e con sua gran meraviglia vide che nessuno si accostava.

Le sofferenze della giovane non ispiravan alcuna pietà; tutti si erano discostati; i pochi che le passavano dinanzi, le gettavano occhiate che parve all'abate avessero una singolare espressione.

Roberto, con altri invitati, era sceso nel giardino e dal giardino saliva in quel momento un vecchio gentiluomo, il marito della signora strimizzita, che era andata a riferire di aver ritrovato la perla nera davanti al sofà, sul quale si era seduta Antonietta.

Il vecchio gentiluomo non sapeva nulla della sparizione della collana, delle ciarle, che volavano di bocca in bocca.

Veduto l'Abate solo, in un salotto, accanto ad Antonietta, subito si appressò.

—La ragazza sta male… molto male—gli disse in fretta l'abate—l'affido a voi per un istante… io vado a cercare la principessa.

Ma già la principessa, avvertita del ritorno di Antonietta, accompagnata dalla dama armena e da altre signore, veniva incontro all'abate, ed egli la raggiunse, quasi sull'uscio della camera.

—Principessa—disse l'abate, tutto affannato—sono tornato con la signorina Amieri perchè aveva lasciata qui la sua musica ed un velo… ma la signorina, appena ha rimesso il piede nelle sale, è stata presa da un nuovo deliquio… Principessa—soggiunse l'abate, sorpreso dal modo con cui la signora lo guardava, dai sorrisi maligni che vedeva su molte labbra—Principessa, che cosa è accaduto in questi pochi minuti?

—La ragazza—osservò una vedova di cinquant'anni, che si tingeva per parer giovane, e parlava continuamente di lumi di luna, di sentimenti incompresi, della rarità delle grandi passioni,—la ragazza mistifica il povero abate… È una commedia… a quest'ora la collana si è allontanata!…

Le parole furono accolte con molti segni di assentimento.

—La collana?—domandò l'abate Pildani, divenuto serio, e il cui carattere iroso e collerico già cominciava a ribollire.—Di che collana si tratta? Chi discorre di commedie, di mistificazioni?… Voglio sapere…

Si risovvenne però subito del luogo in cui si trovava, e abbassando la voce con umiltà, e inchinandosi in atto ossequioso:

—Principessa—riprese—io sono sui carboni ardenti: là ho lasciato la ragazza in preda ad un male improvviso, e che par grave, qui sento che qualcuno la morde nella reputazione… Però andiamo prima a soccorrerla.

L'abate tornò nel salotto, seguìto dalla padrona di casa. Essa era donna, e donna di sentire squisito; l'idea del trafugamento della collana l'aveva molto commossa; ma già dal suo bell'animo il sospetto si era dileguato, diceva a sè stessa che la ragazza non poteva esser colpevole… Una creatura così graziosa, di una bellezza così pura, a cui irraggiavano nel volto tutte le nobili alterezze di una natura generosa, tutte le affabilità di un cuore delicato, non poteva esser capace di un'azione così abietta… E poi essa soffriva… e doveva esser soccorsa.

La principessa si accostò alla ragazza insieme con l'abate.

Il vecchio gentiluomo le stava attorno con ogni cura, ma essa non aveva fatto più alcun movimento.

Teneva la sua testina seducente reclinata, quasi abbandonata sulla spalliera della poltrona; tutta la persona era irrigidita.

La signora, che aveva trovato la perla, lanciò al marito, vedendolo accanto alla giovane, una occhiata piena d'odio.

Pochi istanti dopo, Antonietta fu trasportata nella camera della principessa e adagiata sul sofà, ove essa si era seduta un'ora prima.

—È già la seconda volta, che stasera si fa venir male!—osservava inasprita la signora magra e stentata, col capo secco e schiacciato, divincolando fra le trine il suo corpo lungo e smilzo, di serpente.

La camera della principessa era piena di gente.

Vi si soffocava.

Fuori della porta, si accalcava altra gente.

I trenta o quaranta invitati erano tutti lì, salvo cinque o sei, che chiacchieravano e passeggiavano nel giardino.

In quel profondo silenzio spiccava la voce calda e robusta dell'abate.

Insieme con la principessa egli era in piedi dinanzi al sofà su cui giaceva Antonietta.

La vista di quel corpo inerte lo rendeva severo, implacabile.

—Ora—egli disse, dirigendosi alla principessa, mentre tutti tacevano—dobbiamo formar qui come un tribunale. Io domando, io supplico che mi sia raccontato il fatto di questa collana… a cui ho sentito alludere dianzi… Che cosa è la commedia, di cui si parlava?

Tutti tacevano, nessuno osava rispondere all'abate.

—Principessa, la scongiuro!—insistette il buon vecchio.—In nome della deferenza che ella mi ha sempre mostrato, per amore di questa ragazza, che soffre…

Antonietta si scuoteva sul canapè, punta da qualche spasimo. Si dichiarava in lei una crisi.

—Ebbene,—replicò la principessa,—ve lo dirò!

La principessa narrò come le fosse stata consegnata la collana, come si fosse accorta della sparizione… Nessuno era entrato nella camera, altro che la ragazza; non potevano esservi entrati i domestici.

—Ma la collana si ritroverà… ne sono certa-soggiungeva la principessa—non c'è che una falsa apparenza contro la ragazza, verso la quale vi giuro che avrei orrore di nutrire il menomo sospetto…

—Anch'io—riprese generosamente la dama armena, a cui apparteneva la collana…—Basta guardare quella ragazza, per escludere ogni accusa come un'infamia…

L'abate era livido nel volto, le tempie gli battevano, la sua ampia fronte era madida di sudore.

—È sicuro dunque che nessuno è entrato nella camera dopo la ragazza?—domandò l'abate in tuono solenne, volgendo attorno uno sguardo.

Alla signora secca crocchiaron le ossa.

—Questo è sicuro!—rispose la principessa,

—Ebbene, no!—esclamò con voce sempre più alta l'abate.—Un'altra persona è entrata in questa camera, dopo che la ragazza n'è uscita… e l'ho veduta entrare io… e se essa non lo confessa… se non domanda perdono a quella innocente, che ora soffre per causa sua… l'avverto che io debbo obbedire al mio dovere, alla mia coscienza di onest'uomo, e di sacerdote… e che io paleserò tutto.

Succedette un nuovo silenzio, che durò circa un minuto.

Tutti si guardavano, nessuno rifiatava.

—Parli! parli!—dissero alla fine alcuni signori, che si trovavano pigiati fra gli stipiti della porta.

—Parlerò… parlerò…—balbettava l'abate, e cavatosi di tasca un pezzolone di seta rosso a fiori gialli, si tergeva la fronte.

E rifletteva allo scandalo, che stava per accadere.

Alla fine, dirigendosi verso la signora impresciuttita, che agitava il suo capetto di vipera, l'abate, minaccioso, esaltato, stendendo un dito verso di lei:

—Voi,—disse,—voi siete entrata in questa camera, dopo Antonietta… e vi ho veduta io!

Tutti gettarono un grido di stupore.

La signora non seppe proferire una parola.

—E ora diteci—continuò l'abate—dove è la collana?

La signora si mosse di scatto, si accostò allo stipo, fece l'atto di aprire il cassetto, e lo trasse fuori tutto. Allora molte persone videro la collana, che era stata gettata dietro al cassetto, spinta verso la parete estrema del mobile.

L'abate allungò il braccio, prese la collana, e la porse alla principessa.

Essa era tutta accigliata, la sua nobile fisonomia rivelava l'interno sdegno, che la avvampava.

Esaminò la collana, e ad un tratto, accostandosela al volto, con voce vibrante di collera, disse alla proterva signora, che le aveva riportato la prima perla trovata:

—Ci avete lasciato anche il vostro profumo!

Un profumo acutissimo, penetrante, si era attaccato alle perle, il profumo di cui si serviva la calunniatrice.

Quella donna aveva conosciuto Roberto in Firenze, ne' primi tempi in cui egli vi era arrivato, si era immaginata di avergli inspirato una passione, ora credeva, in quel modo atroce, con perversità raffinata, vendicarsi della sua rivale.

Uscì dalla casa della principessa sopraffatta dall'onta, impaurita dall'atto nefando che aveva commesso, nell'empito di un furore geloso.

Mezz'ora dopo, Antonietta si svegliava dal suo torpore.

Era sempre nella camera della principessa.

Roberto le stringeva una mano, e l'abate le carezzava l'altra.

E la principessa, inginocchiata dinanzi a lei, le prestava le più amorevoli cure.

XIX.

Quella sera stessa arrivava in Pisa, tutto glorioso, tutto anfanato, il birro Lucertolo, e anch'egli ne aveva scampata una bella!

Subito se ne andava al Ponte a Mare dove era il Bagno centrale.

Presentatosi al direttore del Bagno, munito di tutte le necessarie autorizzazioni, domandò di vedere il galeotto Nello Bartelloni.

Il disgraziato dormiva.

Lucertolo si avvicinò al letto.

Nello era più pallido e più emaciato del solito.

Dormiva vestito della sua giacchetta di lana rossa, e tenendo in capo il berrettino rosso.

Aveva al piede sinistro l'anello in cui ogni mattina prima di andare al lavoro gli ribadivano la catena.

Lucertolo ripensò alla notte del 14 gennaio in cui tre anni prima egli si era accostato al lettuccio di Nello nel tugurio in piazza Luna, con ben altri pensieri.

Ah, se avesse allora potuto gridare, infondendo in tutti la sua convinzione:—non l'arrestiamo… riflettiamo… noi perseguitiamo un innocente!

Ma allora egli stesso era de' più accaniti, forse il più accanito contro Nello: era stato così contento di entrare per il primo nella sua tana, di strapparlo dal letto, di scuoprire gli oggetti nascosti sotto il piccolo materasso!

—Su, alzati!—disse Lucertolo, scuotendolo.

Intorno al letto erano altri birri, i guardiani del Bagno, che tenevano i lumi, il direttore, un magistrato.

Nello non voleva alzarsi.

Pareva che non comprendesse le parole del birro, come nella sera in cui, tre anni prima, l'aveva arrestato.

Appena ebbe bene aperto gli occhi e ebbe visto Lucertolo, dette in un urlo di spavento.

Quell'uomo era il suo persecutore. Era il primo, che gli avesse rivolto la parola la sera del 14 gennaio; era egli che lo aveva tirato giù dal suo letticello, che in prigione e durante il processo lo aveva sempre subillato, aggirato.

Secondo Nello, Lucertolo era stato il principale strumento della sua condanna!

—È questo il detenuto che voi cercate?—domandò per formalità il magistrato a Lucertolo.

—Sì, signore!—rispose l'agente.

Lucertolo si chinò un'altra volta sul letto, guardò Nello di nuovo, e gli posò una mano sulla fronte.

Poco dopo, Lucertolo si trovava in una stanza insieme col magistrato e col direttore del Bagno centrale di Pisa.

Il magistrato, il direttore, erano seduti: il birro stava in piedi dinanzi a loro.

—Raccontateci—chiese il direttore all'agente—come è stata riconosciuta l'innocenza di questo condannato!

—Sono tre anni—cominciò Lucertolo—tre anni che io faccio quasi ogni giorno ricerche continue a questo scopo… Dopo essermi tanto adoperato la sera in cui fu scoperto il delitto a cercare ogni traccia, che ci potesse aiutare a metter la mano sul colpevole, dopo aver creduto di esser riuscito ad arrestarlo, mi cominciarono a nascere fortissimi dubbi… Non ero persuaso che quel giovinastro avesse commesso lui, e specialmente lui solo, l'assassinio… Prima del processo, durante e dopo il processo, più volte mi parve di esser vicino a scuoprire la verità… Ma, appunto quando credeva di averla colta, mi sfuggiva… Appena mi pareva aver edificato qualche cosa con molto stento e molta fatica… il mio edificio rovinava… Gl'indizii che avevo accumulati, a uno a uno, erano distrutti da nuove e più ingegnose ipotesi di persone gravissime con le quali io parlava delle mie indagini… Un uomo, che io tenevo, se non per il solo autore, di certo per l'autore principale dell'assassinio, è morto… o dirò meglio, ha cercato di sottrarsi con la morte alle conseguenze delle mie ricerche, che egli aveva già subodorate…

—E chi era costui?—chiese il magistrato, serio, e attirato da quel racconto, che lo appassionava.

—Qui posso parlar chiaro—riprese l'agente con tuono di circospezione—… Era un certo Bobi Carminati, stato già pompiere, poi famiglio sotto gli ordini del capitan Bargello di Brozzi.

I due impiegati non poterono rattenere un'esclamazione di sorpresa.

—È il famiglio—osservò il direttore—che cadde nell'Arno di notte, mentre vi era una grossa piena, e di cui fu ritrovato il cadavere sformato e quasi irriconoscibile a Signa?

—Precisamente.

—Seguitate il vostro racconto!

—Dopo la condanna di Nello,—riprese Lucertolo—esaminando il tappeto, che era stato tolto dalla stanza, dinanzi la quale fu commesso il delitto la sera del 14 gennaio 1831, e che fu trovata illuminata da una lampada… fra le varie traccie lasciatevi dagli ufficiali e dagli agenti di polizia, che vi entrarono in quella sera, e che erano costretti a metter i piedi sulla gora del sangue, sparso per tutto davanti la porta… vidi le orme di un piede scalzo. Tali orme erano ripetute tre volte, e, sebbene imperfette, da esse poteva ricavarsi l'esatta misura del piede, che le aveva fatte… Nessuno degli ufficiali, degli agenti, entrati nella stanza era scalzo… dunque… io pensai… quest'orma è stata lasciata da qualcuno che è entrato prima di tutti, appena consumato il delitto, dall'assassino o dal suo complice!

Il magistrato scuoteva la testa in segno di approvazione.

—Non era il piede di Nello, molto più sottile e affilato e non era neppure… bisogna che lo dica… il piede dell'altro, che io avevo sospettato autore principale del latrocinio.

—E di chi era?—interrogò il direttore.

—Ecco quello che mi occupava… che mi ha per tanti mesi occupato… Alla fine avevo rinunziato, lo confesso, alla speranza di riuscire a identificare l'orma di quel piede… Molto tempo dopo, riflettendo al delitto… non pensavo mai ad altro… mi rammentai che una notte del 1831, mentre ero di servizio, in uno degli androni del Ghetto, avevo udito certi insoliti rumori, i quali mi avevano insospettito… Ero entrato nell'androne… avevo visto gente a qualche distanza in una stanza aperta e illuminata… due uomini che gesticolavano, e un'ombra di donna, che appariva di tanto in tanto sulla parete… Inciampai in un ferro… subito il lume fu spento… Rimasi al buio nel lungo androne nel quale gettava qualche bagliore la mia lanterna…

Lucertolo tacque un istante, rabbrividendo al ricordo di quella scena.

—Domandai:—soggiunse—chi va là?… Nessuno rispose… ma mi parve udire lo scricchiolìo del cane di una pistola: qualcuno si preparava a tirare… Alzai subito la pistola e feci fuoco…

—E allora?—tornò a interrogare il direttore.

Lucertolo ripeteva la storia di quello che gli era capitato la notte della fuga di Antonietta dal Ghetto, dopo che nell'androne aveva esploso la pistola verso la stanza in cui si trovavano Antonietta, Carlo Tittoli e l'ebreo Isacco.

—Udii un grido soffocato… Poi mi fu scagliata una pietra, che mandò in frantumi la lanterna, e mi spezzò questo dito…. Cascai giù privo di sensi… La mattina mi ritrovai affranto dal dolore della mano, stecchito dal freddo, steso sul nudo pavimento di un androne, e ne uscii a fatica, strascicandomi… Mi accorsi che i furfanti mi avevano trasportato, mentre io ero fuori di me, all'entrata di un altro androne… In quel momento mi era impossibile di mettermi a verificare… Alcuni giorni dopo, quando vi tornai, non riuscivo a orientarmi… Mi ricordavo sì che ero entrato la notte dalle così dette Coriaccie, ma non mi ricordavo quante svolte avevo fatto, quanti passi avevo mosso, prima di fermarmi… Gli androni sono lunghi… tortuosi… uno dentro l'altro, con ramificazioni, ripostigli, terrazze aperte… un vero laberinto…

—Ma, sedetevi!—disse il direttore.

—Grazie!—rispose l'agente.

Egli gesticolava, si moveva ad ogni frase del suo racconto, invaso dall'orgoglio di mostrare tutta la sua sagacia, tutto il suo acume. Non avrebbe potuto in quei momenti star fermo sopra una sedia.

—Un giorno,—proseguì—come ho loro accennato, ripensavo tra me e me alla scena dell'androne… Mi venne un'idea, che non riuscii a scacciare… Secondo quell'idea la scena dell'androne doveva essere in qualche relazione col delitto del Vicolo della Luna… Avevo un bel dirmi che non poteva esservi relazione, poichè il Ghetto all'ora in cui il delitto era stato commesso doveva esser chiuso… Però quell'idea mi tornava sempre alla mente….

—E non bisognava trascurar questa idea,—interruppe il magistrato, smettendo il suo riserbo, e come trascinato, suo malgrado, dalla foga del racconto.

—Infatti non la trascurai!—ribattè l'agente della polizia.—Poniamo—così cominciai a ragionare,—che il delitto sia stato commesso fra le 10 e le 10 e mezzo della sera. A quell'ora le porte del Ghetto erano chiuse, ma appunto dalla Piazza del Mercato si suole aprire almeno fino all'undici, e anche più tardi, a coloro che si sono un po' indugiati fuori… Al tempo in cui fu commesso il delitto del Vicolo della Luna aspettava quelli, che non fosser tornati al momento in cui si chiudevano le porte, un vecchio ebreo, poverissimo, di nome Isacco Spoleto… Costui faceva tal mestier per amore dei pochi soldi che così guadagnava… Era però come un fiduciario della polizia… impossibile dubitare di lui…

—Perchè?—interruppe di nuovo il magistrato.

—Il vecchio ebreo era onestissimo… illibato… e la polizia, alla quale aveva reso sempre tanti servizii, lo sapeva… Viveva con grande parsimonia e abitava un tugurietto, che rispondeva in uno degli androni del Ghetto, dove stava più a mo' di bestia che d'uomo… pure contentissimo. Come supporlo capace di un delitto?… Ma pare fosse destino che nelle mie ricerche sull'assassinio del Vicolo della Luna io dovessi sempre abbattermi in qualcuno che appartenesse alla polizia… Bobi Carminati era famiglio, l'ebreo Spoleto era nostro alleato… Ormai la mia esperienza mi ha insegnato che un agente non deve mai cacciare un'idea, che gli è suggerita da varie contingenze di fatti… l'idea più strana bisogna accettarla… Se qualche indizio, sia pur lieve, viene a dirvi, per esempio: vostro padre è l'autore del delitto misterioso, di cui vi occupate: bisogna che la voce della natura taccia, bisogna con coraggio andar innanzi nella via del dovere… Un agente non deve mai rigettare un'idea come improbabile, anche se gli appaia inverosimile… Procedendo per eliminazioni, non si giunge mai alla verità…

—Al fatto!

—Sì, al fatto!…—replicarono il direttore del Bagno e il magistrato.

—L'ebreo,—così tornò a parlare Lucertolo—da un anno non serviva più… Da vari mesi non usciva più dalla sua catapecchia… Avevo saputo che era gravemente infermo, senza che mai mi venisse l'estro di andarlo a vedere, non ostante che ci fosse stata fra noi grande familiarità… Un giorno, non potendo più contenermi, così verso il tocco, entrai nel Ghetto e domandai della catapecchia di Isacco nella quale non avevo messo mai piede e che non sapevo precisamente dove fosse… Si figurino che la casa in cui stava ha otto piani, ad ogni piano vi sono le abitazioni di sette, otto, dieci famiglie, e poi comunica con altri casamenti, vi s'entra e vi s'esce per quattro o cinque sbocchi diversi, da una corte all'altra, da una strada all'altra… insomma un vero laberinto…

Il bastone, che Lucertolo aveva in mano gli cadde, mentre egli faceva un gran gesto, e il birro si chinò per raccoglierlo. Ma, prima di rialzarsi, aveva riappiccato il discorso.

—Entrai,—diceva col suo vocione pieno, sonoro, e colorito dall'enfasi, messo in ùzzolo dalla persona con cui parlava—entrai nella catapecchia… Se avessero veduto!… Il vecchio livido, con le labbra schiumanti, la barba e i capelli giallognoli, gli occhi stralunati, le mani scarne, tese come artigli sul lenzuolo più nero che bianco… era quasi in agonia… Appena mi vide, la sua fisonomia prese un'espressione spaventevole…. Mi sentii agghiacciare dal modo con cui mi guardava quel moribondo… E restai perplesso, immobile, come se i miei piedi non potessero più staccarsi dal pavimento… Nella stamberguccia si trovavano altre persone. Una vecchia cieca, che borbottava certe preghiere in una lingua indiavolata… un vecchio zoppo, che scattava qua e là sorreggendosi sulle gruccie, che battevano con gran rumore sull'ammattonato… e sotto la finestra un ragazzaccio, più lurido anche della cieca e dello zoppo, un ragazzaccio storpio, il quale non poteva camminare altro che seduto, appoggiandosi con le mani al pavimento e spingendo innanzi le gambe… Erano gli ultimi esseri rimasti fedeli al moribondo!… Era una prova della carità inspirata alla disperazione che i disgraziati hanno fra loro!…

Il magistrato agitò in aria la mano sinistra, come per accennare all'agente di polizia che non deviasse in digressioni.

Tra i birri non pochi avevano pretensioni a letterati; ripetevano nei loro discorsi gli squarci dei predicatori, o brani di libri, in generale di devozione, che leggevano; alcuni, come il ben noto caporale Monti, erano poeti, improvvisatori; anzi le poesie del brioso caporale, quasi tutte di giocondissima vena, circolano anche oggi manoscritte fra certi impiegati della polizia.

Dobbiamo dire che il cuore dell'uomo abbia davvero bisogno di poesia, se la cerca e la trova perfino tra gli orrori del delitto, fra i gemiti delle vittime, fra il sangue che gronda, fra le gesta dei ladri e degli assassini, tra le acute, perseveranti indagini, e fra il cigolìo delle catene!

—Mentre stavo,—disse Lucertolo—così esitante… e proprio sbalordito dallo spettacolo che vedevo, dal tanfo, dal cattivo odore che ammorbava quella stanzaccia… mi vennero fissati gli occhi dinanzi a me, sulla parete vicino alla finestra… Mio Dio! che cosa vidi!… M'accostai… Scorsi nel muro una grossa scalfittura… altre scalfitture… Era facile riconoscere le traccie lasciate dai proiettili di cui era carica la mia pistola la notte in cui sparai il colpo nell'androne… Avevo dunque fatto fuoco in quella notte nella direzione della camera d'Isacco?… Ormai i miei dubbi principiavano a cadere… Alzai il lenzuolo di sul letto, scuoprii i piedi del morente: riscontrai l'orma… L'orma sanguinosa, da me trovata sul tappeto, era stata lasciata dal piede destro dell'ebreo; corrispondeva con la massima esattezza: la stessa lunghezza delle dita, la stessa curiosa conformazione della pianta del piede… Lo ricuoprii, e senza dir verbo mi slanciai nell'androne; uscii, corsi alla Rota… Gridai a tutti la mia scoperta… tornai accompagnato da un sostituto dell'Avvocato fiscale, da un cancelliere, dallo Scrivano della Piazza, dal tenente… Si figurino, quando traversammo il Ghetto, così di pieno giorno!… In pochi istanti la folla si pigiava alla porta, e su su si accalcava per le scale e per gli androni…

«Entrammo nella stanzaccia… Avevo già raccontato tutto quello che m'era accaduto la notte in cui mi avevan spezzato il dito… indicai le traccie dei proiettili nel muro… Insieme con un altro agente, Zampa di Ferro, aprimmo il tappeto che egli aveva portato, alzammo il lenzuolo… verificammo le orme sanguinose… Posammo sopra tutte il piede del vecchio… Non ci era che dire!… era lui! Tutti eravamo meravigliati, commossi!

«La vecchia cieca tendeva l'orecchio come per cogliere ogni parola, che sentiva pronunziare intorno a sè; lo zoppo, e lo storpiato, suo figliuolo, ci guardavano attoniti.

«Il vecchio Isacco metteva un esile rantolo come se si dibattesse negli ultimi istanti dell'agonia.

«Non vi era da perder tempo!

«Il giovane sostituto dell'Avvocato fiscale si avvicinò al morente, e gli domandò ad alta voce:

—Commetteste voi tre anni or sono il delitto nel Vicolo della Luna?

«Non potrò mai dimenticare quello che accadde allora.

«Il vecchio fece un leggero movimento.

«Alzò il volto scarno, smunto, divenuto orrido.

«Il sole, che filtrava per i sucidi vetri della finestruola, ci illuminava tutti di una luce sinistra… In quella luce le miserie, le sozzure, lo squallore della cameraccia apparivano più brutte e più stomachevoli.

«Il sostituto rinnovò la sua domanda.

«Isacco tentò di sostenersi un poco, ma non vi riuscì.

«Allora io e Zampa di Ferro lo sorreggemmo e tutti lo udimmo proferire a stento, ma con molta chiarezza, nel modo più intelligibile, queste parole:

—Nello… è… innocente!…

«Ad altre interrogazioni potè rispondere soltanto:

—Nello… innocente!

«Poi la sua testa cadde sulla spalla di Zampa di Ferro.

«Era morto!

«Rammentai a' miei compagni il grido di donna che avevo udito nel Ghetto la notte del delitto, prima che essi giungessero con l'Ispettore a cercare il ferito… Di sicuro la donna, che aveva gettato quel grido, era la stessa che aveva lasciato il suo velo nella misteriosa stanza del Vicolo, dalla quale era fuggita con Isacco dopo il delitto… Era la donna, che si trovava nella camera d'Isacco la notte in cui io aveva sparato la pistola…»

—E chi era?

A questa domanda del magistrato. Lucertolo rispose, facendo un atto di sdegno:

—Pur troppo non lo sappiamo!

—Ma l'asserzione dell'ebreo prova forse l'innocenza del galeotto che abbiamo nel nostro Bagno?—chiese il direttore al magistrato.—Come si spiega che egli sia stato trovato insanguinato e possessore degli oggetti preziosi rubati al ferito?

—Eh!—rispose il magistrato che era divenuto pensieroso, e che il fervore con cui esercitava la sua professione rendeva molto inclinato a studiare questo caso singolare.—L'asserzione del moribondo ha un gran peso… Se non prova assolutamente l'innocenza di questo Nello è tale da far nascere dubbii gravi, grandi perplessità nell'animo del giudice più severo… Qual magistrato sarebbe ora tranquillo di aver pronunziato una condanna dopo simili dichiarazioni?

—L'ebreo—ripigliò il magistrato—era entrato nella stanza dinanzi alla quale fu commesso il delitto… Vi era entrato come unico o principale autore di esso, come complice?… In ogni più rigida ipotesi, dunque, mancano ora i dati per chiarire in modo preciso la colpabilità del condannato…

—Notino—aggiunse Lucertolo—che il giovinastro è stato sempre mezzo idiota… che ha avuto, come si è rilevato da varii indizii, la manìa dei metalli… Io dubitai sempre che egli potesse aver commesso il delitto: prima per la sua gracilità, poi perchè un assassino non è naturale che si trascini il corpo dell'uomo, da lui ferito, davanti all'uscio della propria abitazione, e passi poi quell'uscio per andarsene a dormire, circondato da tutti gli oggetti derubati, e macchiato dal sangue della vittima… Di più: il giovinastro era stato udito cantare da un testimone all'incirca nell'ora in cui il delitto doveva esser consumato… Come si spiega un assassino che canta?… Invece l'interpretazione del fatto, che abbiamo trovata insieme con il celebre avvocato Arzellini, che fu il difensore dell'accusato, è la seguente:—L'idiota è uscito quella sera dalla sua tana, si è messo a cantare, appena ha sentito suonare un violino… ha inciampato nel corpo del ferito, lo ha tirato davanti alla sua porta, ha preso un lume, e lo ha spogliato della catena, dell'orologio, di uno spillo, insanguinandosi tutto… Lo ha spogliato di quegli oggetti che adescavano la sua manìa… gli ha lasciato però in tasca il portafogli…

—Ma che cosa ha deciso la Rota?… Revisione del processo?…—chiese il magistrato.

—No! no!—rispose il birro.—Nello era stato condannato; ma soltanto per un voto… Ormai si sa… e non si sarebbe saputo senza gli ultimi fatti… che il Presidente e un altro auditore votarono contro la condanna… L'avvocato Arzellini e insieme con lui il Presidente si sono dati grandi cure… hanno parlato ad alti personaggi… La dichiarazione d'Isacco, l'esser io riuscito a provare—e il birro acquistava una vera maestà, proferendo tali parole—che costui era entrato nella stanza e vi aveva lasciato traccie del suo piede… mutarono subito il disfavore che Nello ebbe sempre dal pubblico sin da che fu arrestato… E insomma Sua Altezza… che a giorni parte per Napoli dove va a sposare la R. Principessa Maria Antonia delle Due Sicilie ha fatto la grazia!… L'ebreo era di certo nella stanza quando fu consumato il delitto… Bobi Carminati forse ci era anche lui. Ora cercheremo la donna!

XX.

Lucertolo però non aveva raccontato a che bel rischio egli fosse sfuggito.

Carlo Tittoli, accortosi che sua madre prima di morire era stata derubata, aveva fatto disegno di scuoprire il colpevole.

Andò a interrogare la Nencia.

Le parlò del baule trovato tutto sossopra, del mazzetto di fiori, della lettera, che il ladro, nella fretta, richiudendo il baule, forse sentendo avvicinarsi qualcuno, aveva lasciato cadere.

Ma la Nencia, divenuta bianca nel volto, si gettò in ginocchioni, gridò, spergiurò che non solo essa non era stata, ma neppure poteva immaginare chi avesse osato tanto.

—Io uscii—ella diceva—poco prima che la povera Berta morisse… Nella camera rimase Lucertolo, perchè la Berta faceva cenno di volergli parlare…

Il Tittoli subito mostrò di non volersene più occupare, e avvertì la donna di tacere.

Già l'animo di quell'infelice era combattuto da tante afflizioni che egli non si sentiva la forza di avventurarsi in uno scandalo.

Però gli entrò in cuore che Lucertolo potesse esser l'autore del furto.

Ma come accusare un agente della polizia? e con quali prove? E avesse pure avuto le prove, egli non era propenso a procacciarsi nuove lotte, crearsi nuovi imbarazzi.

Carlo Tittoli tenne in sè il vago sospetto, e si chiuse di nuovo nelle sue tristezze.

Meditava di togliersi la vita, di rompere tutti i legami che l'avvincevano a un mondo di dolori e di pene, e nel maggio del 1833 si recava a Venezia, ove compieva risoluto il suo ben maturato disegno.

Egli solo era stato sino allora a parte del segreto di Antonietta; egli solo sapeva che il celebre nome di Amieri era portato dalla umile ragazza, che egli aveva veduto in anni non lontani girare per le vie del Mercato, accompagnandosi spesso con lei.

Allora nè l'uno nè l'altra prevedevano quanto avrebbero amato, sofferto, fra quali catastrofi sarebbero trascorse le loro esistenze.

La Nencia non si era mai scordata delle parole dettele dal Tittoli. Anch'essa aveva gettato i suoi sospetti addosso a Lucertolo, e si era posta in animo di strappargli la confessione della verità.

Dette opera a varii espedienti, che non le riuscirono a bene. Finalmente venne in pensiero di manifestare tutto ad un birro, suo fratellastro, il birro Vendifumo, che già il lettore conosce, e che era rivale, nemico accanito di Lucertolo.

Cadde d'accordo con lui di ridur Lucertolo a tal partito che egli non potesse più infingersi.

Lucertolo era forte, aitante della persona, coraggioso, ma pieno di superstizioni. Credeva ai sogni, agli spiriti, alle apparizioni, ai morti resuscitati e a tutta la lugubre suppellettile, che anche oggi riempie le facili, estrose fantasie del popolo.

Si avvisarono di coglierlo da questo suo lato debole.

Egli abitava in una casipola nel vicolo degli Anselmi, una di quelle casipole, sol da pochi anni distrutte, ed allora messe in comunicazione una con l'altra da corti, da anditi, da tetti, su' quali era agevole lo scendere dalle finestre; casipole, per le quali un uomo preso da talento di andare randagio poteva passeggiare liberamente, andando dall'una all'altra, senza bisogno di entrarvi per gli usci.

La Nencia e Vendifumo abitavano pure in quei caseggiati.

Una notte, mentre Lucertolo, libero dal servizio, dormiva la grossa, contento della scoperta che aveva coronato i suoi sforzi e alla vigilia di partire alla volta di Pisa ad ottenere la liberazione di Nello, la Nencia e il suo compare, che covavano da lungo tempo il loro disegno, decisero di mandarlo ad effetto.

La notte era propizia: una brutta notte di maggio, col vento che muggiva, una pioggia che cadeva a rovesci, con una bufera che imperversava all'impazzata.

Ad un tratto Lucertolo è svegliato da un gran rumore.

La finestra si spalanca: entra nella camera il vento soffiando, e portandogli fino sul letto gli spruzzi della pioggia.

Sente pure uno strepito di passi sul pavimento.

Si alza a sedere sul materasso, vede verso la finestra un lumicino, poi come un fantasma, che il riflesso del lume faceva apparire tutto giallastro, avvolto in un lenzuolo.

Tutte le idee di streghe, di versiere, di spiriti, di apparizioni tornano alla mente turbata del birro.

Stende le braccia verso il fantasma, vuol urlare…

Il fantasma alza il lumicino!

Santo nome della Madonna!… Era proprio dessa, era la vecchia
Tittoli, uscita dalla fossa, che veniva ad atterrirlo, a spaventarlo.

Che cosa voleva da lui?

Dalla finestra aperta il fresco penetrava nella stanza.

Il birro sentiva agghiacciarsi il sudore sulle carni.

Non poteva urlare, aveva la gola inaridita.

Si turò gli occhi coi pugni chiusi.

Poi protese il volto come per meglio udir quello che diceva il fantasma, se parlasse.

Udì uno scarpiccìo sul tetto sottostante alla finestra, uno strepito di tegoli smossi, come se una legione di spiriti irrequieti si avanzasse dietro al fantasma.

Non osava più guardare.

Abbassò i pugni.

E vide che la vecchia Tittoli camminava per la stanza.

Lucertolo si buttò giù, coprendosi il capo con le lenzuola.

Il fatto non è straordinario.

Molti uomini, e specialmente del popolo, comechè robustissimi, impavidi, tali che non darebbero un passo indietro dinanzi al maggior pericolo, rischiosi, temerarii, sono in preda alle più singolari paure, derivanti da superstizioni.

Metteteli contro altri uomini e si getteranno volentieri nelle mischie più furibonde; dite loro di salire una certa scala, di traversare certe stanze al buio, di passare di notte da un certo tratto di campagna, e rifiuteranno.

La paura del soprannaturale ha scosso sempre l'uomo; l'uomo, il cui animo è così pieno di misteriose, ineffabili singolarità; l'uomo, che anche ne' periodi ne' quali si dà per più incredulo, è tutto affaticato ad architettare e sognare prodigi!

Lucertolo sentì pigiare il letto.

Era la mano del fantasma, posata vicino a lui.

Non osava muoversi. La coscienza in quel momento gli rimordeva del furto commesso, e anche tenendosi così acquattato sotto le lenzuola gli pareva di scorgere la vecchia moribonda nel momento in cui, erano quasi due anni, gli accennava, dove aveva riposto il denaro, che egli doveva consegnare al figliuolo.

Poi udì smuovere e aprire i pochi mobili che erano nella camera; uno sbattere di cassetti.

Quindi di nuovo tutto tornò in silenzio, se non che l'orecchio del birro era percosso dal fiotto del vento, della pioggia, che batteva sui tetti e che arrivava fino a lui per la finestra sempre spalancata.

Cacciò il capo fuori delle lenzuola.

E questa volta dette un grido.

La stanza era rimasta all'oscuro, ma il fantasma non se n'era andato:
Lucertolo lo sentiva, o gli pareva di sentire che si muovesse sempre.

Un lampo guizzò, rischiarando all'improvviso la cameruccia.

Al lampo succedette subito il rombo, il boato di un tuono, che si andò allontanando con immenso fragore.

Nel bagliore del lampo Lucertolo aveva scorto il fantasma, e accanto ad esso, ritto, stecchito, volgendo il dorso verso il letto un altro fantasma più nero, di più alta statura, più spaventoso.

La sera, prima di coricarsi. Lucertolo era andato dal vinaio Barba, in Via degli Speziali, e aveva tracannato diversi quartucci.

Il vino non gli era mai tornato ostico: lo stomaco del celebre birro era citato nelle botteghe de' vinai come un esempio di vasta capacità.

—Beve come Lucertolo!—era un elogio, equivalente, fra i più intrepidi cioncatori, all'elogio che allora si poteva fare di un autore, dicendo:—scrive come un Accademico della Crusca!

I fumi del vino, l'essere stato svegliato così di colpo, il fresco che veniva dalla finestra, la subita apparizione, le naturali paure avevano messo Lucertolo in uno stato di grandissima agitazione, di sensibilità acutissima.

I capelli gli si rizzarono sulla testa alla vista dei due fantasmi, apparsigli nel rutilante balenìo del lampo.

Essi si accostavano a lui, li sentiva, li sentiva avvicinarsi, gli sembrò aver udito mormorare una parola.

La parola fu ripetuta due volte, quasi al suo orecchio.

—Ladro!

—Ladro!

—Rendi i denari al mio figliuolo!

E Lucertolo balzò dal letto inorridito, poichè si avvisò di aver riconosciuto la voce della vecchia Tittoli.

—Misericordia!… misericordia!…—egli gridò tutto spaventato, e decise rivelare la sua colpa, chiederne perdono, sopraffatto dal suo superstizioso sgomento.

Però, allungando un braccio, egli aveva urtato in un corpo solido, come nel braccio di un altro uomo.

Cercò di nuovo, così al tasto, non trovò più nulla, il corpo da lui urtato si era mosso.

Allora lo prese un forte sospetto.

Il fresco pungente lo aveva richiamato in sè.

Si mise a camminar furibondo per la camera a braccia aperte, gettando in terra una sedia, urtando in un tavolino.

Incontanente fu colpito da un rumore, che gli parve quello di un ombrello che si aprisse, della pioggia che vi battesse, da un nuovo rumore di passi sul tetto.

Dio del cielo! I fantasmi erano spariti. Dunque erano veri e proprii fantasmi! Accese il lume: vide la finestra spalancata; pel tetto non si scorgeva più alcuno, non si sentiva più altro strepito; nella camera nessuna traccia.

Era stata di certo un'apparizione!

XXI.

Ma se l'aveva scampata bella Lucertolo, molto si rallegrava e si compiaceva d'essere scampato da un brutto frangente l'altro birro Vendifumo. Se Lucertolo fosse riuscito a mettergli le granfie addosso, se lo avesse scoperto, egli sapeva che non l'avrebbe passata liscia!

La forza di Lucertolo era proverbiale, e il birro picchiava di rado, e soltanto se molto aizzato e provocato, ma dove picchiava lasciava il segno.

Ora Vendifumo ragionava, e ragionava diritto, che se Lucertolo lo avesse arrivato, sarebbe stato uomo da lasciargli per un pezzo il ricordo del suo strattagemma.

Del resto, la Nencia e Vendifumo furono di lì a non molto delusi nelle loro ricerche.

Poco dopo che fu giunta a Firenze la notizia del suicidio del Tittoli, la polizia facendo l'accesso nella abitazione dell'estinto, trovò in un ripostiglio un involto di monete d'argento, e una medaglia con ornati in filigrana, e altri oggetti appartenuti alla madre di lui.

Si capì che era quella l'eredità che egli aveva avuto dalla vecchia, e che aveva serbato intatta.

Chi l'aveva rimessa in quel luogo?

Lucertolo, che facilmente era potuto entrare nella soffitta, che il
Tittoli aveva voluto abitar sempre, dopo la morte di sua madre.

Lucertolo, sbigottito dalla apparizione, e che non voleva più rivedere gli spettri, i fantasmi; che non voleva più che venissero a turbargli i sonni.

Aveva ritenuto soltanto una moneta, e l'aveva ritenuta per superstizione, e andò subito a giuocarla al lotto, giuocando i numeri, che corrispondevano a quello che egli era certo di aver veduto.

Giuocò la moneta di dieci paoli su due biglietti. Lucertolo aveva studiato le cabale, si stillava di continuo il cervello sul Casamia, sul Rutilio, sul Cornelio Agrippa, opere immortali per coloro che giuocano al lotto.

Giuocò su un biglietto il 47, morto resuscitato;—il 90, la paura che aveva avuto;—il 13, la morte;—il 52, la madre del Tittoli;—il 26 le monete.

Nell'altro biglietto giuocò i numeri dell'anno, che correva, 1833, così divisi: 18—33—il mese, che era il maggio, cioè il 5:—il giorno, cioè il 20: l'ora della apparizione, poco dopo la mezzanotte, cioè il 12.

E poichè in quel periodo tutto doveva andare di bene in meglio a Lucertolo, il giorno dopo quello in cui era giunto a Pisa, e aveva avuto il colloquio col magistrato e col direttore del Bagno, passeggiando per la città vide i numeri dell'estrazione.

I primi erano il 47, il 90, il 13.

Lucertolo aveva vinto un terno sul primo biglietto!

XXII.

Una mattina del giugno 1833, poche settimane dopo i fatti avvenuti a Venezia in casa della principessa Calliraky, il maestro Antonio Brinda, alzatosi da circa un quarto d'ora, se ne stava nel suo salotto, che rispondeva in una delle vie più frequentate di Firenze, sorbendo la cioccolata. Il maestro era seduto ad un piccolo tavolino in faccia al ritratto di Giovacchino Rossini.

In quello stesso salotto, tre anni innanzi, si erano incontrati per la prima volta Roberto e Antonietta.

Il Brinda era lì, con la sua veste da camera, con la sua papalina a rabeschi dorati, tra il tavolino e il cembalo, sorridente a qualche suo pensiero; bel vecchio, tale e quale lo ha conosciuto il lettore al principio di questo racconto.

Sul tavolino, accanto alla tazza della cioccolata, che il Brinda sorbiva di tanto in tanto, era il giornaletto veneziano nel quale l'abate Pildani rendeva conto della esecuzione dell'Anna Bolena e criticava con garbo le volatine, i fiori, di cui abusava la giovane artista Amieri.

L'Anna Bolena, che era stata cantata a Firenze dalla Ungher, in quei giorni era interpretata al Teatro Alfieri dalla signora Brighenti e da altri bravi artisti, che l'impresario Giuseppe Feroci aveva condotto nella capitale dopo aver fatto con essi la stagione di primavera al Teatro Petrarca di Arezzo.

L'Anna Bolena porgeva dunque di nuovo alimento alle conversazioni, alle elucubrazioni dei buongustai fiorentini.

L'ultimo colpo, che Antonietta aveva ricevuto a Venezia, era stato tremendo. Tornata, o piuttosto trasportata al palazzetto, in cui dimorava, le si mise addosso la febbre e per varii giorni non uscì dalla camera. Appena ristabilita, volle subito partire.

Composero con Roberto che egli sarebbe partito cinque o sei giorni dopo per non destare sospetti.

Anche Lina era impaziente di giungere a Firenze per darsi attorno a provar l'innocenza di Nello.

Nessuno di loro sapeva della dichiarazione d'Isacco, nè che Nello era stato messo in libertà, per grazia del Sovrano, che un ricco signore, mosso a pietà, lo aveva raccolto nella sua casa ove era impiegato ne' servizi meno faticosi, e trattato con tutti i riguardi, che doveva ispirare in anime ben nate la sua grande, immeritata sventura.

Al vecchio Brinda era spesso capitato sott'occhio da circa due anni il nome della Amieri, e in quel momento appunto, dopo aver letto le critiche dell'abate Pildani, rifletteva tra sè:

—Tutte così queste ragazze… queste nuove celebrità… vogliono strafare… non vogliono cantare la musica come è scritta… chi sa dove arriveremo fra poco… bisognerà che noi maestri andiamo a scuola dai cantanti…

E tornava a sorbire la cioccolata, che le malinconiche riflessioni non gli facevano parer meno buona.

Fu suonato il campanello; poi la vecchia governante, ex-musicista, ex-comprimaria, che sapeva a mente tutta la Serva Padrona del Pergolese, entrò nel salotto, senza bussare alla porta, e annunziò al maestro che due donne domandavano di parlargli.

—A quest'ora?—disse il Brinda, spingendosi verso la nuca la papalina con la mano sinistra.—Chi sono?

—Una di esse soltanto mi ha detto il nome… si chiama Amieri…

—Amieri?… Amieri?… E che cosa vuole da me questa celebrità?—borbottava il vecchio assai burbero.—Basta! fa' passare.

Entrarono due donne tutte vestite di nero.

Una di esse restò vicino alla porta, che aveva serrato dopo di sè, l'altra, slanciandosi verso il maestro, che si era alzato, gli si avviticchiò al collo con uno slancio di affetto filiale.

—Animo!… Che c'è, ragazza? Che hai?—disse il buon vecchio, meravigliato, e cercando liberarsi da quelle due braccia rotonde, ben tornite, che lo stringevano e quasi lo soffocavano.

Ma Antonietta si era già scostata di un passo e aveva alzato il velo.

—Tu… tu… sei tu… la Amieri!—borbottò il buon vecchio—vieni qua!—e piangendo le tese le braccia.

La ragazza vi si gettò con effusione. Allora si misero a parlare, muovendosi continue domande.

Antonietta le raccontò tutta la sua storia, che il Brinda, seduto fra lei e Lina, ascoltò con profondo raccoglimento e con la più viva commozione.

—E il babbo… e la mamma?—disse a un tratto Antonietta, prorompendo in singhiozzi.

—Stanno meglio,—rispose il Brinda—e credo che tu li potrai salvare!

La ragazza dette un grido di gioia.

—Ci vorrà molta prudenza; anche un'allegrezza inaspettata potrebbe uccidere que' due poveri vecchi, che hanno tanto sofferto per te… Ma saranno ricompensati—aggiunse, vedendo che Antonietta tremava.

—Voglio andar subito… subito a vederli!—interruppe la ragazza.

—Questo no!—riprese il Brinda con uno di quei gesti di autorità, di quegli atti di collera, che usava un tempo con la scolara e de' quali gli pareva aver sempre il diritto.

Convennero sul modo di propalare il ritorno di lei.

Bisognava far credere che fosse stata rapita da persone, che si erano proposte di speculare sulla sua voce, che l'avevano tenuta come prigioniera per molto tempo, e più tardi le avevano fatto pervenire notizia della morte de' suoi genitori in maniera che essa non potesse dubitarne. Una così pietosa menzogna era necessaria, diceva il Brinda, a scusare la fuga, la lunga assenza, l'essersi tanto celata, precauzioni che egli ben capiva ormai essere state richieste da durissima necessità.

—Del resto arrivate in buon punto—concluse il Brinda.—Nello, quel
Nello, è stato liberato dalla galera… ha avuto la grazia!…

—La grazia? la grazia?—interrogò Lina, conturbata e palpitante. E il maestro dovette raccontar tutto, punto per punto, alle donne.

—Signorina, Dio ci perdona!—mormorò Lina, accostandosi alle labbra la mano di Antonietta e baciandola.

—Oggi tu passi la giornata… tutta la giornata con me—soggiunse il Brinda rivolto ad Antonietta.—Avremo tante cose da dirci—e la teneva per le mani e gliele stringeva, trepidante.—Ghita!…

La ex-comprimaria ricomparve maestosa, piegandosi ad un mezzo inchino, come quelli che faceva al pubblico trent'anni prima quando usciva di scena a capo delle comparse.

—Ghita… oggi a pranzo, invece di due, saremo quattro… C'è anche questa tua antica amica… Oh, non la riconosci?

La Ghita, prima che il maestro avesse finito di parlare, abbracciava la cantante, e asciugandosi gli occhi con una cocca del grembiale, ripeteva:

—O Antoniettina!… Antoniettina!… è lei! Com'è bella… Se la tua mamma… la povera Agatina fosse qui…

Antonietta dette di nuovo in uno scoppio di pianto e tra le lacrime ripeteva, come nei giorni del delirio, quando era stata chiusa nel Ghetto, e vegliata da Isacco, dal Tittoli e da Lina:—mamma!… o mamma mia!

Quando si fu un po' calmata, e partita la Ghita, il Brinda riprese:

—Non devi lasciarti vincere dal dolore…. Agatina e Enrico sono stati sempre due coppe d'oro, due buoni cristiani; hanno patito, come hai patito tanto anche tu, figliuola, in questo tempo; hanno espiato e ti hanno fatto espiare il troppo bene che ti volevano… Sarebbe un grande esempio pei genitori che non sanno temperare la loro affezione verso i figliuoli, che li amano troppo ciecamente… Sarà un grande esempio per te, se un giorno diverrai madre… Ma l'ora della espiazione è finita… e vedrai che tutti saremo felici!

—Come?

—Lascia fare al tuo vecchio Brinda… Noi vecchi leggiamo nell'avvenire meglio di voi altri giovani, troppo inconsiderati… Raccomando la prudenza a te, a Lina, a Roberto quando verrà… Prudenza!… prudenza!… e saremo salvi… Quanto al delitto, ora nessuno ci pensa. La liberazione di Nello ha fatto un po' di rumore, lì per lì, adesso nessuno se ne dà più per inteso… Non avete saputo la notizia, di cui si occupano tutti? Il Granduca si ammoglia con la principessa delle Due Sicilie!… Qui avremo feste, spettacoli: migliaia di persone accorreranno dai paesi vicini. Chi vuoi che pensi più ora al delitto del Vicolo della Luna?… Devi restar tranquilla, farti vedere poco per ora, e pensare a' tuoi genitori… Prima di tutto bisogna guarirli!… Probabilmente il Granduca deve sbarcare domani o domani l'altro a Livorno con la sposa e col seguito. Ho qui la Gazzetta delle Due Sicilie del 25 maggio che mi manda un amico… Ci deve essere qualche cosa sul matrimonio…

«La mattina del 23 maggio—lesse il Brinda in fretta, mentre le due donne l'ascoltavano disattente, distratte in ben altri e dolorosi pensieri—S. E. il principe Tommaso Corsini ebbe l'onore di presentare in particolare udienza a S. M. il Re le lettere che lo accreditano in qualità d'inviato straordinario di S. A. I. e R. il Granduca di Toscana… Il dì 25 il Principe fece in pubblica udienza la solenne richiesta della mano di S. A. R. la Principessa D. M. Antonia per S. A. I. e R. il Granduca di Toscana…»—senti questa descrizione:

—«Si recò a tal uopo S. E. il principe Corsini alle 11 a. m., col Segretario e i Gentiluomini della Legazione, al R. Palazzo, ove trovò a piè delle scale un usciere di camera, che lo precedè nel salire, egualmente che tutta la sua Corte: alla porta dell'appartamento di S. M. il Re trovò poi l'usciere maggiore il quale lo condusse nella prima anticamera. Ivi andolle incontro il Cerimoniere di Corte commendator Pignatelli, ecc., ecc..

«L'illustre inviato straordinario entrò nella Camera d'udienza introdottovi dal Cerimoniere di Corte; e lasciando sotto la porta il Segretario ed i Gentiluomini della Legazione, si avanzò prima tra il Gentiluomo di camera e il lodato Cerimoniere facendo i convenevoli inchini; poscia inoltratosi solo fino allo strato, diresse a S. M. il seguente discorso:

«Maestà,

«Il Granduca di Toscana, Principe Reale di Ungheria e di Boemia, Arciduca d'Austria, mio Signore, m'invia presso la Maestà Vostra per chiederle la mano della Principessa Reale D. Maria Antonia, sua diletta sorella, ed è sommo l'onore che ho, ed il gradimento che provo nell'eseguire questo sovrano comando…»

—Non ho più fiato per legger tutto questo discorso!—concluse il
Brinda, rimettendo il giornaletto napoletano sul tavolino.

Il matrimonio del Granduca fu celebrato il 7 giugno.

Il 2 giugno il principe Corsini dava in Napoli un pranzo sontuoso al quale intervenivano i Ministri, Consiglieri e Segretarii di Stato, il Corpo diplomatico, i capi della Real Corte e altri personaggi.

Due grandi e magnifiche feste furono pure date la sera del 9 corrente, per le stesse faustissime circostanze, come dicevano i nobili anfitrioni, da S. E. il conte di Lebtzeltrn, inviato straordinario e ministro plenipotenziario a Napoli di S. M. l'Imperatore d'Austria; l'altra da S. E. il Principe Corsini. E fra gli stranieri più ragguardevoli che convennero a quelle feste, si notavano S. A. R. la Granduchessa di Baden e S. A. il Principe di Oldenburgo.

Raccogliamo queste notizie, che leggeva il maestro Brinda, perchè indarno i lettori le cercherebbero oggi così minute nei libri di storie.

XXIII.

Circa sei giorni dopo, nel salotto del Brinda, all'ora stessa in cui egli aveva ricevuto la prima visita della Amieri, tornata allora da Venezia, si trovavano il maestro, Antonietta, Roberto. Tutti e tre sedevano al solito tavolino, di faccia al ritratto del Rossini; bevevan la cioccolata, offerta dal Brinda, preparata da Ghita, e c'inzuppavano i gustosi biscottini, che manipolavano per il maestro le oblate di Santa Maria Maddalena de' Pazzi, nella cui chiesa egli aveva suonato l'organo per tanti anni.

—Ti ricordi—diceva Antonietta a Roberto—della prima volta che ci siamo incontrati qui?

—Bricconi! bricconi!—ripeteva il vecchio musicista, scrollando la testa.—Ed io che mi sgolavo a darvi lezioni di estetica… Altro che estetica!… Ora mi sono persuaso finalmente che l'estetica è buona a qualche cosa… a dar modo a due ragazzacci, che si vogliono bene, d'intendersi, mentre il maestro predica… E d'altronde anch'io ho fatto così… proprio come voialtri, quando ero giovane; così facevano mio padre e mio nonno, e il nonno del mio bisnonno, e la nonna della mia bisnonna… Beata gioventù! Beata gioventù! Ve lo canta anche il divino Mozart:

Giovinetti, che fate all'amore Non lasciate che passi l'età.

Ma l'arzillo e amabile vecchietto fu interrotto mentre canticchiava dal fragore di una salva di cannoni, dallo scatenìo di tutte le campane di Firenze, che suonavano a distesa.

—Che cos'è? che cos'è?—domandarono Roberto e Antonietta.

—Caspita!—rispose il vecchio, balzando in piedi.—E' il Granduca che arriva con la sua sposa… Evviva il Sovrano!—disse, scuoprendosi il capo.—Dobbiamo andare a vedere?

I due giovani non si sentivano d'umore d'avventurarsi tra la folla.

I colpi di cannone si seguivano dal forte di San Giovanni e rimbombavano per tutta la città.

Era il 20 giugno 1833, e scoccavano le dieci antimeridiane.

Il Granduca faceva il suo ingresso nella Capitale dalla Porta San Frediano in mezzo agli applausi più vivi e prolungati. Accanto al Principe sedeva nella carrozza la giovane sposa, allora sfavillante di bellezza, magnifica, e più che seducente nel rigoglio delle sue forme, la carnagione bianca come latte sul quale si fosse sfogliata una rosa, giovane e splendente Maestà, che un popolo di artisti salutava con grida di giubilo e di ammirazione, inebriato, affascinato dalla grazia, dalla gentile e forte appariscenza di lei, piuttosto che spinto da un impulso di eccessiva devozione verso la nuova Sovrana.

«L'entusiasmo della gioia—scrive un testimone oculare—e della devozione spinse a tentare di staccare i cavalli della carrozza, ove trovavasi la R. Coppia, onde trarla a braccia; e sol si ristette al cenno di desistere.»

Il corteggio si componeva, oltre la carrozza dei sovrani, di altre quattro carrozze occupate da Ciambellani, Cariche e Dame di Corte. E fra questi, il maggiordomo Ferdinando duca Strozzi, la maggiordoma maggiore marchesa Ginori ne' Riccardi, il ciambellano marchese Incontri, la dama di Corte marchesa Corsi, che avevano seguito a Napoli il Granduca.

Precedevano i reali Cacciatori a cavallo.

Poi venivano le carrozze delle LL. AA. la Granduchessa, vedova di Ferdinando III, la arciduchessa Maria Luisa, che il popolo conosceva più familiarmente col nome di Gobbina, e della quale i poveri celebravano la pietà.

Chiudeva il corteggio un drappello di Guardie del Corpo.

Dalla Porta San Frediano fino al palazzo Pitti le finestre, i balconi delle case erano adorni di arazzi, di tappeti; le vie erano calcate di folla, «Procedeva lentamente—scrive il cronista di un giornale—per appagare le rispettose brame della concorsa moltitudine il Reale Corteggio. Di mano in mano che passava il Granduca con la novella Sovrana, applausi ad applausi, dimostrazioni a dimostrazioni di gioia succedevano.»

I Sovrani giunsero al Palazzo Pitti.

«La vasta piazza—continua il giornalista nello schietto stile del suo tempo—avanti all'I. e R. Palazzo di Residenza, rigurgitante di popolo, all'arrivo dei RR. Sovrani, di voci di letizia risuonò. Ed allorchè dopo esser la R. Comitiva entrata nella Reggia, S. A. I. e R, il Granduca colla Granduchessa Sposa ebbe la degnazione di presentarsi sopra la ringhiera, la circostante moltitudine proruppe in nuove e sempre più vive acclamazioni, a cui gli Augusti Sovrani si compiacquero di rispondere con reiterati segni di soddisfazione e della lor gioia, da quella di sì leali sudditi rendute maggiore.»

Alle 6 pomeridiane il cannone tuonava di nuovo dal forte di San Giovanni, annunziando la partenza degli Augusti Sovrani dalla Reggia per la Metropolitana. Alla porta della Metropolitana la Real Coppia fu ricevuta dal Clero e dalla Nobiltà ivi raccolta.

L'Arcivescovo intuonava l'Inno Ambrosiano, cantato «in scelta musica» dai signori Professori della I. e R. Cappella di Corte.

Tra le armonie dei cantici, tra i profumi dell'incenso, alla molle, bionda luce, che cadeva dai ceri, e che mandavan le lampade, appariva come soffusa di nuova grazia, e di più soavi attrattive la florida bellezza della giovane Sovrana.

«Nella sera—scrive il citato cronista, nostro avolo—tutta la città, non meno che i sobborghi, s'illuminarono: varii palazzi, e le principali strade offrivano superbi colpi d'occhio. Ma quel che richiamò maggiormente l'attenzione, e che non si era mai fin qui veduto, fu l'illuminazione delle alture che circondano la nostra bella città. Appena imbrunì l'aria che tutti i punti elevati delle adiacenti campagne, i monti, i colli, le pendici, risplenderono, dove per fiamme sparse, dove, a seconda delle situazioni, per fuochi in ordine distribuiti, dove per serie di faci ricorrenti le linee architettoniche delle ville e dei più insigni edifizi.

«Una placida notte e senza luna favorì l'effetto dell'insolito spettacolo, che presentava la doppia illuminazione di Firenze, e del quasi anfiteatro delle sue famose circonvicine eminenze, combinata.

«Fuochi d'artifizio, inoltre, incendiati qua e là per le vicine campagne, indicavano sempre più l'esultanza degli abitanti di esse.»

In que' giorni ordinava il Granduca che a carico del suo erario fossero distribuite cinquecentosessanta doti, di scudi venti ciascuna, a favore di povere fanciulle.

E ciò senza pregiudizio delle doti di Regia Data di cui si faceva collazione, secondo la formola adoperata, ogni anno nel mese di giugno, per San Giovanni.

Il Granduca ordinava pure che fosse fatta una gratuita distribuzione di pane in favore della classe indigente della città, a ragione di diciotto oncie per individuo.

Ordinava inoltre che si regalassero centocinquanta letti ad altrettante famiglie della classe indigente nella Capitale.

E la mattina del 10 giugno era stata affissa alle cantonate di Firenze la seguente Notificazione:

«Resta concesso un libero perdono a tutti i disertori delle truppe toscane di qualunque Corpo, purchè a tutto il mese di novembre prossimo si restituiscano volontariamente ai loro Corpi, siccome a tutti coloro che a tali diserzioni avessero prestato assistenza, aiuto e consiglio.

«E' fatta grazia a tutti i sudditi, e domiciliati per cinque anni familiarmente nel Granducato, i quali si trovassero querelati, inquisiti, o condannati per danno dato, turbato possesso, insulti, ingiurie e risse; percosse e ferite date in atto di rissa, e senza uccisione, purchè tali percosse e ferite non sieno state commesse in occasione di far danno negli altrui beni; per delazione d'arme, sgrillettamento, o sparo di armi da fuoco senza offesa della persona, trasgressioni di lotti, di caccia e pesca, trasgressioni doganali, trasgressioni ai regolamenti, ed ordini sulla occupazione, ed ingombri di strade, suolo pubblico, fiumi, rii, fossi, argini, ripe, ed altri oggetti di pubblico diritto ed uso; ai regolamenti ed ordini del Collegio Medico, ai regolamenti ed ordini dell'Archivio Generale, escluse le falsità; rottura e fuga dalle Carceri, resistenza agli esecutori di Giustizia, esimizione di catturati; prima e semplice inosservanza di confine, o esilio, contrabbando di sale, trasgressioni alle leggi e consuetudini dello Stato sopra i giuochi, sopra le questue, sopra i funerali, sopra le osterie e bettole, e generalmente per tutte le altre trasgressioni ai regolamenti di semplice polizia…»

E qui venivano altri particolari.

XXIV.

La mattina del 17 giugno gruppi di curiosi si fermavano a leggere la Notificazione dell'«illustrissimo signor Gonfaloniere di Firenze» che annunziava grandi e nuove feste per la ricorrenza del Santo Protettore.

Nella mattina della festività (24 giugno) il Magistrato civico, preceduto dal Gonfaloniere, si recava a fare la visita ed offerta al Battistero. Il Granduca, la Granduchessa regnante, la Granduchessa vedova, la Arciduchessa Maria Luisa si recavano in gran gala e con gran seguito alle ore 11 alla Metropolitana e assistevano alla messa solenne.

Al momento della elevazione rimbombarono salve di artiglieria dal forte di San Giovanni, e successivamente furono eseguiti sei spari di moschetteria dalla truppa dei granatieri e fucilieri in bella tenuta schierati sulla piazza del Duomo, unitamente alla cavalleria.

Nel pomeriggio vi fu la corsa dei «cavalli sciolti» alla quale i sovrani assistettero dalla così detta Terrazza del Prato.

La sera fu data una festa di ballo nello stabilimento Goldoni.

I Sovrani andavano al Teatro della Pergola, sfarzosamente illuminato. «L'entusiasmo—dice il mio più volte citato cronista—che aveva spinto il popolo ad applaudire i Sovrani, tutte le volte che in questi giorni si erano mostrati in pubblico, qui viemaggiormente eruppe in acclamazioni le più energiche e le più prolungate, cui le LL. AA. esternarono con reiterati segni il loro reale aggradimento.»

Si rappresentava alla Pergola Ivanhoe del Maestro Pacini e il ballo scritto espressamente in occasione del fausto imeneo, col titolo:—I Viaggiatori all'Isola d'Amore.

Poche settimane innanzi vi si era eseguito il Crociato in Egitto, del «celebre maestro sig. Barone Meyerbeer».

Sulla nobile scena del Teatro del Cocomero annunziavano esperimenti di lotte, di pugilato i primi Alcidi francesi Manches e Darras.

Nei salotti si declamavano le ottave scritte e pubblicate pel matrimonio reale dal poeta aretino Tommaso Sgricci.

In Pisa si univano i Pastori Arcadi della Colonia Alfea, che recitarono varie pregevoli poesie, sull'argomento: precedute da una prolusione del professore Giovanni Rosini.

Anche gl'Israeliti solennizzarono il felice ritorno e l'imeneo del Sovrano. Fu cantato un inno per rendimento di grazie in musica nella scuola italiana: le straducole del Ghetto, ove esistono le scuole ed altri stabilimenti degl'Israeliti, furono illuminate.

A Livorno i Sovrani, con la Granduchessa vedova, l'Arciduchessa Maria Luisa, accompagnati dalla Corte, preceduti dal governatore, erano intervenuti al tempio della nazione israelitica. Ivi furono invocate le celesti benedizioni con preci ed inni, che stampati nell'originale ebraico, con la versione italiana, furono presentati alle LL. AA., che vollero esaminare i cinque libri delle leggi mosaiche vergati sopra lunghe pergamene.

Una festa di ballo dava il Casino dei Nobili, una festa più grandiosa fu quella data la sera del 25 da S. E. il conte Luigi Grifeo de' principi di Partanna, incaricato d'affari di S. M. Siciliana.

Il principe abitava in via San Sebastiano il palazzetto, oggi recinto da muri, quasi attiguo al già convento della Annunziata, e che allora aveva dinanzi a sè un largo prato.

E a dimostrare come i nostri vecchi si sapessero divertire anch'essi nelle feste sfarzose, che si protraggono sino alle prime ore del mattino, e, cominciate tra lo scintillar dei doppieri, finiscono ai raggi sfolgoranti del sole, riferiamo la genuina narrazione di una fra le più allegre e gentili invitate:¹

¹ Da una lettera scritta in quell'anno da una signora fiorentina: dal giornale fiorentino di quel tempo e da altri documenti e da narrazioni orali di persone fededegne, ho raccolti tutti i particolari storici, dei quali garantisco la scrupolosa veridicità.

«Eccitava fin dal primo ingresso, un moto di sorpresa e di piacere, la vista del prato in cui sorge il palazzo abitato dall'Ecc. Sua. Con sagace industria di gusto, esso era stato ridotto a vaghissimo giardino, sparso di graziose macchine d'architettura chinese riccamente illuminate, e fra cui s'inalzava un gran Trasparente dove era rappresentata co' suoi simboli la Toscana, in atto d'offrire un sacrifizio di ringraziamento a Imeneo: felice allegoria della circostanza.

«Ma quel che veramente rapiva, erano le suppellettili, l'apparato, l'illuminazione dell'interno del palazzo. Per tutto si ammirava ricchezza, eleganza, novità. La stanza però all'entrar nella quale, specialmente, niuno della numerosa e scelta società poteva contenersi da giusti encomii, era la così detta stanza chinese, che pel brio, per la vaghezza e per l'armonia dei colori produceva un effetto magico.

«Le LL. AA. II. e RR., gli Augusti Sovrani, come pure la Granduchessa Vedova e l'Arciduchessa Maria Luisa che onorarono questa festa della loro presenza, si degnarono di manifestare all'egregio diplomatico la Loro Reale soddisfazione sì con lusinghiere espressioni come col trattenersi fino ad ora della notte avanzata, prendendo parte coll'usata loro affabilità alle danze.

«Straordinaria fu pure in questa festa la profusione dei rinfreschi, e la squisitezza del buffet. Destava particolarmente meraviglia la tavola del pel ricco vasellame, ond'era munita e adorna.

«Si calcola che concorressero a questa festa più di 700 persone. La bella società non si sciolse fino alle ore 6 del mattino, quando sulla terrazza fu imbandito un lautissimo déjuné, a cui vennero invitate tutte le dame e i cavalieri ancora rimasti, e che di sì grandiosa festa fu il degno compimento.

La sera del 29 il teatro della Pergola si apriva a benefizio della Pia Casa di Lavoro con il gran ballo Anna Erizzo, composto e diretto dal signor Monticini: ballo nel quale—scrive un critico del tempo—«pel carattere come per la ricchezza, il vestiario rammentava (non è adulazione) l'Oriente.»

Alcune settimane innanzi era stata solennizzata nella Pia Casa di
Lavoro la festa di San Ferdinando.

«Il concorso di ogni ceto di persone—scrive un cronista—ammesso a forma del costume nell'interno dello stabilimento fu in quest'anno maggiore del consueto e continuò fino all'ora permessa.

«Oltre alla pulitezza del locale e al buon'ordine che vi si ammira costantemente, meritarono osservazione le manifatture che si eseguiscono nel luogo e in special modo quella dei tappeti e dei berretti alla levantina.

«Ebbervi luogo le consuete sacre funzioni nella chiesa dove si distribuirono ai reclusi che ne erano meritevoli i soliti premi, ed alle fanciulle le dieci doti concesse annualmente dalla sovrana munificenza.»

Storia di cinquant'anni fa che, in certe cose, par storia di ieri!

XXV

Siamo nello Spedale dei Pazzi, detto di Bonifazio.

—No, no! non si accosti!… Stia nascosta il più che può!—diceva il vecchio dottore ad Antonietta.

La ragazza aveva gli occhi gonfii di lacrime.

A qualche distanza da lei si tenevano Roberto, il Brinda, Lina.

Dallo spiraglio della porta socchiusa si vedeva in mezzo ad una stanza uno strano gruppo.

Ad un tavolino sedevano Enrico ed Agatina.

I due vecchi mangiavano, e di tanto in tanto il cieco tendeva una mano, cercava la mano scarna della sua vecchierella e la accarezzava.

—E non l'abbiamo trovata neppure iersera—mormorava il cieco—la nostra figliuola!… Il dottore ci ha assicurato che l'avremmo ritrovata presto!

—Sta' sicuro che la ritroveremo, Enrico!—ripigliava Agatina.—Ho fatto un sogno stanotte… Mi è parso che avevo sentito laggiù… nella stanza dove c'è il cembalo… cantare una di quelle canzoni che tu stesso insegnavi ad Antonietta quando era bambina… mi suonava nell'orecchio proprio la sua voce… ho dato una spinta all'uscio… e… era lei… tutta vestita di bianco… Mi sono slanciata per abbracciarla, e gridarle: figliuola, figliuola!… ma allora mi sono svegliata.

—Sente! sente!—ripetè il dottore ad Antonietta.

La ragazza non poteva rattenersi: voleva entrar di forza nella stanza, saltare al collo de' suoi vecchi; colmarli di baci, di carezze: inginocchiarsi dinanzi a loro.

Il Brinda e Roberto, a un cenno del dottore, avevano dovuto avvicinarsele e l'avevano presa ciascuno per una mano.

Nello stato di prostrazione in cui erano i vecchi una commozione troppo forte poteva ucciderli!

Finito che ebbero il loro pasto frugale, Agatina disse ad Enrico:

—Andiamo a cercarla, come tutte le sere! Si alzò, prese il braccio del cieco, e traversarono insieme una fila di stanze.

Agatina guardava dietro a ogni porta; il cieco, inquieto, frugava per tutto col bastone.

—Non c'è! non c'è!—ripetevano tutti e due, di tanto in tanto, desolati, soprassedendo alle loro ricerche.

Arrivarono alla stanza in cui era il cembalo.

Come sempre, il vecchio fece correr le dita per alcuni istanti sulla tastiera.

A' suoni, che ne uscivano, i due vecchi provavano un fremito, ricordando sempre più la figliuola tanto amata.

L'offuscamento della loro ragione, senza violenza, senza grida incomposte, nato dal dolore, la stessa cupa, silenziosa tranquillità della loro disperazione straziavano il cuore.

Fu necessario strappare Antonietta a quello spettacolo.

—Stasera e domattina—soggiunse il dottore, quando la porta fu riserrata—io parlerò di nuovo coi vecchi, li preparerò all'incontro… e domani sera, all'ora fissata, tutti loro verranno qui, e tenteremo l'esperimento.

—Riuscirà?—domandò Antonietta, ansiosa.

—Dio solo può saperlo, figliuola!—interruppe il Brinda.—La ragione umana muove da Lui.

—Che sarà di me?—e la povera ragazza si gettò singhiozzante tra le braccia del maestro.

—Lei è abbattuta!—ripigliò il medico—e per domani sera avrà bisogno di molta forza, di molto coraggio… Non deve passare tutte queste ore a piangere, ad angosciarsi… Bisogna cercare—disse, rivolto al Brinda e a Roberto—di distrarla.

Dacchè era giunta a Firenze, Antonietta, che aveva preso dimora ad un piano della stessa casa in cui abitava il Brinda, non era mai uscita, se non per recarsi all'Ospedale a domandar nuove de' suoi vecchi.

Un giorno aveva voluto rivedere la sua casupola in via degli Amieri, ma non le era bastato l'animo di rimanervi a lungo.

Il cuore le si schiantava alle memorie delle cure affettuose, che vi aveva ricevuto, dei giorni felici, che vi aveva trascorso, abbelliti dalla pietà, dall'amore immenso di un padre e di una madre, che Dio aveva messo ai lati della sua culla, come due veri angioli di bontà.

XXVI.

Firenze continuava ad esser tutta risuonante di grida gioconde, di lieti rumori, affollata di gente accorsa a godere, a partecipare delle pubbliche allegrezze.

In quella sera, 30 giugno, la festa campestre delle Cascine lasciava spopolate, quasi deserte, tutte le vie della città: la gente facilmente usciva a diporto, come ad assistere ad un gaudio della natura.

Serata incantevole!

Il cielo folgorava di una luce bianca, nel plenilunio.

Uno zeffiro, carico di profumi, portava nelle strade, dopo aver asolato tra i fiori dei giardini, un'onda di fragranze, e temperava, molceva deliziosamente il caldo della giornata.

—Ah! che splendida sera!—osservò il Brinda, quando ebbero fatto alcuni passi fuori dell'Ospedale.—Antoniettina! tu devi contentarmi. Tu hai bisogno di aria, di distrazione… Domani sarai di certo consolata di tutto, ora ci vuole coraggio!… Promettimi che più tardi verrai con noi alle Cascine. Prenderemo per uno de' viali più solitarii… staremo da noi, in disparte… ma vedremo anche noi la bellissima festa, e godremo di questa nottata di paradiso…

Il Brinda aveva tutt'altro che piacere di andare a quella festa, ma voleva distrarre Antonietta, voleva tentare, se fosse possibile, acquetare per poco in lei il tumulto de' tristissimi pensieri.

E la ragazza aveva pure ben altra inclinazione che di andare alla festa; ma l'idea delicata che, rifiutando, essa avrebbe forse privato il maestro, il suo grande amico Brinda, di una sodisfazione, a cui forse il buon vecchio teneva, si lasciò sfuggire un sì, disposta a rassegnarsi.

—Però—riprese—anderemo tardi…—certa che avrebbe potuto allora persuader il vecchio a uscir solo.

—Quando vorrai.

In quell'ora migliaia di persone si sparpagliavano pei viali, nei prati delle Cascine.

Nel 1833 le mura di Firenze sorgevano al Ponte alla Carraia. Tutto il Lungarno, dal ponte alla Carraia sino a dove è oggi la così detta barriera delle Cascine, non esisteva: vi erano le mura e il greto.

Si accedeva alle Cascine dalla così detta Porticciuola, oltre che dalla Porta al Prato. La Porticciuola era dove è oggi la Piazza Curtatone, allo sbocco di Via Borgognissanti, e di un'altra viuzza, parallela, che si chiamava Via Gora, famoso raddotto di donnaccole, di poverissime famiglie dell'infima plebe, che abitavano i luridi tugurii, i quali avevano dietro a sè le mura della città, di costa all'Arno.

Dalla Porticciuola e dalla Porta al Prato sino alla Real Villa, per lo spazio di un miglio, centinaia di fiammelle, ricorrenti in molteplici ordini tra le file degli alberi, delle strade, degli attigui viali, gettavano torrenti di luce.

L'ingegnere comunale Paolo Veraci aveva fatto prodigii!

Splendevano altresì, in quest'intervallo, due grandi guglie e due colonne, quelle con insolito chiarore poco fuori della Porta al Prato, queste al bivio delle due strade dalla Porta al Prato e dall'altra detta la Porticciuola; e la illuminazione continuava pel ponte del Fosso Bandito, la Ghiacciaia, il Fonte di Narciso, ecc. Lumi sparsi anche per entro ai boschetti tramandavano al di fuori un vago chiarore, ed offrivano frappe allo sguardo di bell'effetto.

Fin oltre alla R. Villa si spiegava la maggior pompa dell'illuminazione e dell'apparato. Ivi da prima, verso l'estremità del Prato detto della Tinaia, scorgevasi un gran padiglione ottagono destinato per sala da ballo agli invitati più ragguardevoli. Nè con eleganza, nè con ricchezza maggiore poteva questo essere adorno e illuminato. Al di dentro l'addobbo di drappi, di veli e di tappeti; le belle suppellettili, lo splendor delle lumiere e dei candelabri ardenti che il riverberar degli specchi ripeteva in varie guise. Anche l'esterno del padiglione era illuminato con sfarzo corrispondente. Lì vicino, da un lato, sovrastava un cerchio d'alberi; da altra parte si era formato con vasi di fiori e piante ivi a tal uopo in giro raccolti un vago giardinetto; un attendamento, in fine era stato a breve distanza costrutto per la preparazione e distribuzione dei rinfreschi. Questi annessi pure erano illuminati.

In faccia alla Real Villa attirava tutti gli sguardi una pagoda chinese, che di leggiadra architettura e simmetricamente illuminata s'innalzava in mezzo alle illuminazioni non solo del prossimo parterre e dei contigui viali, ma anche della periferia dei maestosi alberi sorgenti all'intorno, ai rami dei quali essendosi appesi fanaletti variamente colorati, e con industria compartiti, quasi ne risultava il prodigio d'una vasta Iride notturna, quanto bella altrettanto grandiosa.

Di là, si entrava nel Prato, detto del Quercione.

«Qui—scrive un cronista—la festa era stata specialmente apparecchiata per l'effusione della gioia popolare. L'ampiezza della superficie del Prato avea costretto a dividerla in due parti, una sola e la più prossima alla Villa apparandone per la festa. Quello spazio che rimaneva pur vasto, era sparso di varii padiglioni, ove ristorar si potesse la moltitudine con cibi e rinfreschi; di palchi eretti per varie bande musicali, e nel centro si elevava un tempietto della Fortuna costrutto per l'estrazione a sorte dei cento premii, la collazione dei quali era stata prenunziata.»

Circa la mezzanotte una coppia furtiva si avanzava per uno dei vialetti, non illuminati.

I due innamorati godevano gli splendori di quella notte, soave come un bel sogno, nell'armonia delle orchestre, nelle grida garrule della folla, nello scintillìo di miriadi di lumi, come se la terra si fosse cosparsa di stelle di fuoco.

Il venticello notturno alitava all'intorno, come per portar con sè le promesse, i giuramenti, che si scambiavano in quelle ore incantevoli i cuori appassionati.

—Mi amerai sempre?—diceva l'uomo sommessamente, accostando il labbro all'orecchio della donna, a cui dava il braccio.

—Sempre! sempre!—rispondeva la donna.—Non ti pare che abbiamo abbastanza sofferto per meritare ciascuno di noi il nostro amore?… Ma… torniamo indietro.

Erano Roberto e Antonietta che, appena arrivati, lasciavano la festa.

XXVII.

Nessuno pensava più al delitto del Vicolo della Luna.

Lucertolo sentiva che le sue scoperte non erano compiute: che mancava tuttora qualche cosa a ristabilire nella sua pienezza la scena di sangue avvenuta la notte del 14 gennaio 1831.

Appena Lina fu tornata in Firenze, il birro, sebbene essa cercasse nascondersi, l'aveva subito scovata, e se le era attaccato alle calcagna.

Lina non poteva fare un passo, senza trovarselo attorno.

Lucertolo, dopo la notte in cui aveva sorpreso la bella ragazza nel disordine, che scopriva le sue forme seducenti, aveva concepito un'idea: idea, che gli si era sempre più radicata nella mente, dacchè aveva riconosciuto essere stata una favola quella dell'amante, fuggiasco per i tetti.

L'atto disperato con cui Lina, punta dai rimorsi, che non le lasciavano tregua, non sapendo francamente risolversi a denunziare il fratello, aveva consegnato al birro la cassetta, che conteneva le prove imperfette della reità di Bobi, da Lucertolo era stato interpretato in modo ben diverso dall'intendimento ond'ella era stata mossa ad eseguirlo.

Lina, consegnando al birro la cassetta, era certa della discrezione di lui, e con quel mezzo termine credeva acquetare la propria coscienza; sebbene, quando anche Lucertolo fosse stato tentato di frugare nella cassetta, nulla vi avrebbe trovato che potesse approdare alle sue ricerche, poichè Lina aveva tagliato i pezzi del fodero del pugnale e dalla camicia l'estremità della manica insanguinata.

Sognava Lina nel consegnare la cassetta, comechè essa stessa molto non credesse al sogno, che, serbando per sè i pezzi del fodero del pugnale, il pezzo della camicia insanguinata, allorchè non potesse più tacere, e il dovere le imponesse di denunziare il fratello per salvare dalla galera un innocente, gli oggetti depositati nelle mani dell'agente della polizia servirebbero a dare maggior peso alle sue dichiarazioni.

E pur denunziando il fratello avrebbe avuto una piccola vendetta dell'agente, che lo aveva tanto perseguitato, e il quale farebbe una ben trista figura dinanzi a' suoi per essersi lasciato abbindolare da una donna!

Queste erano le apparenti ragioni che a sè dava Lina per scusare il suo operato, ma chi le avesse potuto leggere nel più riposto dell'animo vi avrebbe trovato altre cause.

Si diceva Lina che Lucertolo, ricevendo da lei la piccola cassetta, avrebbe creduto naturalmente vi fosse qualche ricordo di famiglia, qualche oggetto a cui teneva la povera ragazza, e avrebbe riputato l'atto come segno di fiducia in lui, come indizio che la ragazza fosse estranea ad ogni complicità nel delitto del Vicolo della Luna, poichè ricorreva a lui, e se gli confidava in quella maniera.

Ma Lucertolo non aveva pensato a nulla.

Aveva preso la rozza cassetta, l'aveva gettata in fondo ad un baule, e subito fece il disegno che la cassetta dovesse giovargli un giorno ad attuare certo suo disegno.

—Vi riporterò quella cassetta!—aveva detto più volte a Lina, incontrandola.

La ragazza gli aveva sempre risposto, indifferente alle occhiate
assassine, che le lanciava il birro, disinvolta:—Quando vi pare!…
Non c'è furia!… Quando sarò tornata nella mia casa in Via
Cardinali… Per ora non ci vado!

Una parente di Lina era rimasta nella antica casupola del pompiere varii anni, e, tornata Lina, se n'era andata perchè essa potesse di nuovo abitarvi, se volesse.

La sera del 30 giugno. Lina aveva chiesto il permesso di passare la notte in casa sua. E le era stato accordato da Antonietta, che pensava la ragazza vaga di andarsene a godere la festa delle Cascine con le sue amiche, non rivedute più da tanto tempo.

Invece Lina si indirizzò subito verso la via San Miniato fra le Torri e salì la scaletta della Torre, che era dinanzi ad un vecchio albergo.

Oggi anche quel vetusto edificio fu abbattuto.

La scaletta era così angusta che un uomo molto pingue, anche solo, non avrebbe potuto passarvi.

Le stanzuccie all'ultimo piano che abitava Lina, furono abitate sino a circa quarant'anni or sono: di lassù si godeva la vista di tutta Firenze, delle montagne, delle colline che la circondano: vi si viveva in pace da tutti i rumori, che non giungevano sino a quella tranquilla e ardua altezza.

Dieci minuti dopo che Lina era entrata nella Torre, un uomo usciva dal Vicolo degli Anselmi, e ratto ratto, traversando il Mercato, imboccava la via Cardinali, e si fermava al primo uscietto, a sinistra, così angusto e così basso, e si chinava, si rimpicciniva per entrarvi. Poi si arrampicava a stento, imbarazzato dalla sua corpulenza, nell'andar su per la scala.

Lina già si era tolte le vesti, non resistendo al caldo di quella notte di giugno, e andava qua e là, facendosi lume, rovistando per la casa, che non aveva a suo agio riveduto da tanto tempo.

Ad un tratto sente che qualcuno saliva la scala.

Poi un picchio dato alla porta come nella notte in cui aveva avuto tanto spavento.

Stette cheta e spense il lume.

Il picchio fu ripetuto.

Sentiva che una mano cercava la serratura della porta.

Forse era un ladro!

Lina pensò di domandare: chi è; di urlare, di chiedere aiuto, se non avesse risposta.

—Chi è?—domandò la procace ragazza, tutta tremante, accostandosi in punta di piedi alla porta.

—Io… Lina… io!—rispose sommessamente una voce a lei nota.

Era Lucertolo!

XXVIII.

La ragazza stette un po' perplessa, se dovesse o no aprire.

Ma ormai aveva gran desiderio di ricuperare la cassetta, poichè quello che conteneva non poteva più servire ad altro che ad eccitare sospetti. Ad ogni modo era inutile che restasse nelle mani del birro.

—Aspettate!—mormorò attraverso la porta.

Si allontanò e, ripresi i suoi panni, si rivestì così in fretta.

Poi andò ad aprire.

Il birro, entrando, trasse un grosso respiro.

Però Lina, appena ebbe aperto e il birro fu entrato, tese la mano per ripigliare la cassetta, ma non richiuse la porta, come se volesse indicare all'agente che doveva subito svignarsela.

—Ah, vuoi scacciarmi, senza che neanche ripigli fiato!—osservava il birro, tornato al tuono familiare e scherzevole che in altri tempi adoperava con Lina.

—E' troppo tardi—continuava la ragazza—se qualcuno sapesse che siete qui!

—Non ti confondere!—replicava l'agente.—Ti assolverebbe anche il San Sebastiano, che è nella nicchia d'Orsammichele, visti i motivi per cui sono venuto a trovarti.

—Quali motivi?

—Eccoti… il primo… quello di chiuder l'uscio.

E il birro eseguì l'atto annunziato.

—Ora passiamo di qua.

E se ne andarono nella stanzetta, che un tempo aveva servito di camera a Bobi Carminati e sedettero l'uno di contro all'altra.

—Tieni la cassetta… e ringraziami… di averla custodita così bene!—cominciò Lucertolo.

—Vi ringrazio! vi ringrazio!—rispose Lina.

—E ora lasciati dire un'altra paroletta… Sai che io sarò nominato fra pochi giorni capo agente?

La ragazza dette in un piccolo grido di sorpresa.

Il birro intanto la guardava.

Le vedeva le meravigliose braccia bianche uscire dalla manica della vesticciuola leggerissima che indossava, il seno turgido, tuttora agitato per la paura che la ragazza aveva avuto.

—Ti vorrei dire una mia idea…

Lucertolo in quel momento sentiva più forte che mai tornargli alla mente la sua idea favorita, l'idea, che aveva tanto accarezzato.

Esitava a palesarla.

Voleva far una proposta e temeva che non fosse accolta.

Non sapeva da che parte rifarsi, che via tenere, se adescar la ragazza con tutte le dolcezze di eloquio delle quali era capace, o incuterle spavento per quello che egli ancora poteva fare a suo danno.

Come accade, fra varie ispirazioni, il birro si appigliò alla peggiore.

—Siete tutti tornati a Firenze… finalmente!—disse con una certa espressione d'ironia.

—Tutti… chi…?

—Il pittore… tu… la ragazza di Via degli Amieri…

—La ragazza di Via…—rispose Lina confusa, balbettando.

—Eh, sì, mia cara… L'ho veduta un par di volte soltanto, mentre pedinavo te, e l'ho subito riconosciuta… Ti dirò qui, a quattr'occhi, che c'è chi può riconoscerla, se io pronunzio una parola… Nella stanza del Vicolo della Luna, davanti la quale il pittore fu ferito da tuo fratello…

—Ma che dite?

—Da tuo fratello… Dio l'abbia in gloria, e si sia pentito a tempo… prima d'affogare!…

Lina respirava.

—In quella stanza furono trovati alcuni quadri. In tutti è dipinta una donna, una bella donnina, nelle più graziose e provocanti attitudini… Sai chi è quella donna? La stessa che si trovava nella stanza la sera in cui fu commesso il delitto…

Il birro tacque, poi quasi subito aggiunse:

—E' la tua padrona!

A Lina ghiacciava il sangue.

—I quadri non sono ritratti… in tutti è raffigurata la fisonomia con espressione così diversa che pare un'altra fisonomia, il pittore ha cambiato, ha fatto di suo capriccio, ma… il tipo c'è… c'è sempre il colore dei capelli e il modello di quel bel nasino… E' difficile che altri l'avverta, ma l'ho avvertito io che da anni aguzzo gli occhi sulle prove, sui corpi di quel delitto, ho esaminato centinaia, per non dire migliaia di volte, tutti gli oggetti che si trovavano in quella stanza per trarne una rivelazione… io, che dopo la confessione d'Isacco, dopo quello che avevo per induzione scoperto sul conto di tuo fratello ero in condizione di poter mettere in relazione tutte le circostanze stranissime, che avevano concorso al compimento del delitto, che lo avevano preceduto, accompagnato, seguito…

—Sognate!—interruppe Lina, che aveva ricuperato la sua baldanza.

—Sogno, sì, ed eccoti proprio quel che ho sognato… Ecco come ho rifatto la scena accaduta la sera del 14 gennaio… Il pittore era nella stanza con la ragazza di Via degli Amieri… Bobi doveva essere inferocito contro il pittore; forse egli ti sospettava di avere una tresca con lui, mentre stavi in casa sua alcune ore della giornata, forse sentiva sempre più vergogna, vedendo che egli ti tradiva, che amoreggiava con un'altra… Lo ha aspettato, nascosto nel Vicolo, e quando è uscito dal convegno lo ha pugnalato… Poi è fuggito… E' accorso Nello, il povero pazzo, ha frugato il ferito, lo ha trascinato sino all'entrata del suo tugurio, e si è gettato sul suo giaciglio, macchiato di sangue, e nascondendo gli oggetti preziosi, che aveva preso… Di dove è uscito Isacco? ove si trovava mentre si compieva il delitto? Come è entrato nella stanza? Qui principiano i miei dubbii… E' certo che egli non era un complice di Bobi, perchè è lui che ha salvato la ragazza, che l'ha portata pel Ghetto, che di là ha trovato modo di farla fuggire, aiutato certamente da te, bellissima Lina!…

E il birro cercava di afferrarla per le vegete braccia e attirarla a sè.

Lina si alzava tutta infuocata nel volto, lo respingeva, e gli domandava ansiosa:

—E che cosa ora intendete di fare?

Dopo alcuni istanti di pausa, il birro che figgeva in lei gli occhi imbambolati, soggiunse con piglio truce e severo:

—Intendo di fare il mio dovere… denunziar tutto alla giustizia… La mia nomina a capo agente è combattuta dai miei rivali… Si accorgeranno tutti sempre più che razza d'uomo è Lucertolo, e che con lui non si combatte!

—Lucertolo!…—disse Lina.

Il birro sgranava tanto d'occhi e tendeva le orecchie, avido di ascoltar quello che la ragazza faceva sembiante di voler dire…

—Voi—continuò Lina—non agirete così!… Sarebbe una grande viltà—e la bella ragazza si faceva sempre più rossa nel volto, i suoi occhioni sfavillavano, e in un gesto di rabbia le era caduta un po' in giù la vesticciuola leggiera, lasciandole scoperta quasi tutta una spalla, bianca come il marmo, grassetta, e di linee voluttuose.

—Ma denunziate pure—riprese la ragazza, alzandosi, rassettandosi addosso la veste, e gettando al birro sguardi pieni di odio e di sprezzo—denunziate pure la ragazza di Piazza degli Amieri… come voi la chiamate… denunziate il pittore… e poi? Vi assicuro io che vi troverete con un brutto partito alle mani. Ah! voi credete che nessuno possa lottare con voi?… Proverete… Voi volete attaccare due persone influenti, che hanno alte relazioni… due persone innocentissime… e io son pronta a deporre in modo da provare la loro innocenza…. Ebbene…. vedremo che cosa accadrà…

Lucertolo badava poco a quello che la ragazza diceva.

Non si lasciava commovere dagli sproloquii di lei.

Ma la guardava, gli appariva così fresca, così robusta, così appetitosa: ad ogni movimento, che essa faceva in quell'angusta stanzetta, gli veniva a passar quasi daccanto, le vesti di lei lo toccavano; respirava il fiato caldo, ardente, che usciva dalle tumide labbra, rosseggianti nell'ovale paffutello del volto delizioso.

—Innocenti!… innocenti!—esclamò il birro, contorcendosi, con un atto che voleva significare suprema indifferenza.—Lo dici tu… innocenti… Se tu sapessi però quanto ha lavorato la mia testa… Capisco che avrei da combattere con due donne e con due donne nel giuoco… anche in affari di polizia… si perde sempre!…

Lina era ferma in mezzo alla stanza, tutta pensosa, e si mordeva le labbra, come se l'ira che le covava in seno le avesse richiesto quello sfogo.

—Io… avrei un gran disegno—disse a un tratto Lucertolo, sporgendosi innanzi, con un gomito appoggiato sulla punta del ginocchio, e sostenendo il mento sul pugno chiuso.—Un progetto col quale, invece di farci del male, potremmo giovarci, esserci utili, a vicenda, completarci, o carissima Lina!

—Sentiamo.

—Nessuno si occupa più del delitto… Ormai è dimenticato… La grazia del Sovrano ha perfino risparmiato una revisione del processo che poteva dar luogo a nuove ricerche, a incidenti tali da compromettere qualcuno… Il pittore so che ha risposto abilmente a tutti coloro che lo interrogavano sul modo con cui era stato attirato nel Vicolo la sera del 14 gennaio… Egli ripete che è stato tanto tempo fuori di sè, a causa della ferita, che non si ricorda più di nulla… Lo strattagemma è buono, specie in un uomo della sua autorità, e mentre nessuno è più interessato a scuoprire il vero in quest'affare… La ragazza di… Piazza degli Amieri, dice che è stata rapita da gente crudele, che l'hanno sottoposta a mali trattamenti, l'hanno atterrita con minaccie, nel caso si fosse data a conoscere, l'hanno venduta ad un grande impresario forestiero, che ora soltanto l'ha lasciata libera… Un romanzo più divertente della Tavola Rotonda, o del Guerino… La gente lo beve perchè costei è oggi la grande, la celebre, la bella Amieri… e come è bella!… tutti vogliono farle la corte, ingraziosirsi; e prima della sua fuga era così poco conosciuta… La conoscevano alcune donnaccole, le sue pigionali in piazza degli Amieri, e il maestro Brinda, una buona testa, un uomo sottile come un filo di rasoio, e che contribuisce a far accettare a tutti per oro di coppella le storie che si raccontano, e che forse sono in parte sua invenzione…

—Ma il progetto… il progetto?…—domandò Lina.

Il birro non si attentava a esternarlo e però si compiaceva nel pigliarla da più lontano che potesse.

—Tutto dunque—seguitò—cospira in nostro favore… Si deve a me, a me questo edificio così bene architettato… Senza le dichiarazioni di Isacco, Nello sarebbe sempre in galera… e bisognava salvarlo!… Però con una parola io posso distruggere la tranquillità in cui vivono i tuoi amici…

—E non la direte…

—Se la dirò…

—Vi sfido!

La ragazza, avvampante di collera, invasa tutta da un fremito, acquistava nuove, irresistibili seduzioni.

—Non la dirò ad un patto…—soggiunse Lucertolo balbettando.

E quasi barcollante, con gli occhi semichiusi, le braccia protese si avanzò verso la ragazza.

—Indietro!—gridò Lina sbigottita, raccapriccita al contatto delle mani del birro.

Ma Lucertolo la teneva stretta con le sue dita, forti come tenaglie, e che le si ficcavano nelle carni floride, dure, prosperose.

—Lasciatemi!—diceva la ragazza con voce soffocata, cercando divincolarsi con sforzi disperati da quella stretta.

—Ti lascio!—rispondeva Lucertolo, mettendosi dinanzi a lei in atteggiamento umile e supplichevole.—Ti lascio ad una condizione!

—Non voglio altre condizioni—ribattè Lina indispettita.—Dovete subito andarvene!

—Anderò, ma prima voglio che tu ascolti una parola… Io sono innamorato… innamorato…

—Voi, voi innamorato… voi, Lucertolo?

—Innamorato…

—Scherzate!

—Innamorato… di te…

—Finiamola!—interruppe Lina.—Andate!…—E si avvicinava all'uscio per aprirlo.

—Dalla notte che ti sorpresi là—e il birro ammiccava la camera vicina—che ti vidi… a quel modo… tutta agitata… gettarti ai miei ginocchi… non ho avuto più pace. Mi sei ribollita sempre nel sangue!—e il birro fece un gesto energico.—Il mio progetto… il progetto, che non mi riusciva di confessare… sarebbe quello di sposarti… Tu sei libera… io fra giorni, forse a ore riceverò la mia nomina di capo-agente…

Lina si accostò a Lucertolo, che si era abbonito, e gli mise una mano sulla spalla, ridendo, anzi sghignazzando.

—Non ti burlar di me!—tornava a dire l'agente.—Non credi che potremo esser felici? Tutti ti guarderanno… tutti vorranno conoscere la Ninfa, che ha fatto rompere il collo a Lucertolo… E poi tu hai bisogno, ora che sei sola, di un braccio, di un petto come questo per difenderti—e il birro drizzava con orgoglio la sua robusta, quasi immane corporatura.—Hai bisogno di me anche per un'altra cosa… Dopo aver fatto tanto per scuoprire la verità, lavorerò insieme con te perchè nessuno la scuopra!… Ed ecco che Lucertolo sarà diventato un occultatore di prove. Lucertolo, che rinunzierà ad una brillante operazione di polizia per due occhiacci neri, neri… Un capo-agente, che entra al servizio dell'amore!… Pronunzia un , un … così grosso.

E Lucertolo faceva un gesto, allargando le braccia.

Lina teneva gli occhi sul birro.

Infine, Lucertolo era un bell'uomo! alto, fortissimo, con una fisonomia intelligente, con modi assai buoni per uno della sua condizione. Gli si leggeva nel volto quell'abbandono confidente, quella certa simpatica spavalderia, che hanno gli uomini di carattere non tristo, e che sanno di poter contare, al bisogno, sui proprii muscoli.

Lì per lì la ragazza avrebbe voluto rispondergli, motteggiandolo, o adirandosi; le venne però in mente che era più opportuno per lei in quel momento di non irritarlo.

—L'idea è nuova!… vi assicuro che a me non era mai venuta!—replicò Lina.—Sono cose che domandano tempo… riflessione… Vedremo… vedremo… Ma sarebbe strano, non è vero?

E dava a Lucertolo una di quelle occhiate alle quali il birro andava in visibilio e si sentiva fervere il sangue come lava.

Egli si era di nuovo accostato a Lina e le aveva schioccato un bacio su una delle sue spalle d'avorio.

—Ora basta davvero!—disse la ragazza, tirandolo dolcemente per un orecchio.

Lucertolo lasciava fare, tutto lieto di quella curiosa carezza.

—Ora basta! è tempo che baciate… il chiavistello.

Si avvicinò con lui alla porta e lo accompagnò su lo squallido, angusto pianerottolo, tenendolo sempre per l'orecchio.

—Buona notte, assassina!—mormorò il birro a traverso la porta, quando Lina con la sua mano bianca l'ebbe richiusa.

—Buona notte, Lucertolo!—mormorò una vocina scherzosa dall'altra parte.

XXIX.

Due giorni dopo la scena avuta con Lucertolo, Lina partiva da Firenze.

La sera del 1° luglio, come era stato convenuto, essa aveva seguitato
Antonietta, il Brinda e Roberto all'Ospedale dei Pazzi.

I due vecchi, Enrico e Agatina, il padre e la madre di Antonietta, a' quali il dolore aveva fatto smarrir la ragione, erano stati preparati abilmente dai medici all'incontro, sul quale costoro contavano per una guarigione immediata. Ma occorreva che tutto fosse fatto con cura, e ogni precipitazione fosse evitata. Un'impressione troppo violenta, improvvisa, poteva aggravare la infermità delle stanche e così vacillanti intelligenze dei vecchi: deboli fiamme, che ogni soffio troppo forte avrebbe spento per sempre.

Da vario tempo essi erano tenuti appartati dagli altri ammalati.

Antonietta profondeva il suo denaro perchè fossero trattati con ogni attenzione, e non mancasse ad essi nella lor penosa condizione alcuna dolcezza. Mangiavano soli, come già abbiamo veduto, e ogni sera, dopo la loro refezione, sull'ora del crepuscolo, si mettevano in giro, passando da una stanza all'altra, e cercando ansiosi la figliuola.

Ormai i dottori li avevano assicurati che la ritroverebbero, che si era risaputo che era viva e che da un'ora all'altra poteva arrivare.

I due dementi scuotevano la testa in atto d'incredulità, e si rimettevano alle loro instancabili ricerche. Ma il sogno che aveva fatto Agatina, e che essa aveva raccontato ad Enrico, li aveva scossi ambedue, e speravano di dover alla fine ritrovare il loro angiolo.

La sera dunque del 1° luglio 1833, mentre si avviavano al solito verso la stanza ov'era il cembalo, i vecchi si fermarono come trasecolati.

Il cembalo mandava un suono che subito aveva colpito le loro orecchie.

Poi a quello si unì il suono di una voce limpida, argentina, che s'inalzava sempre più puro, più melodioso, e riempiva le stanze tutt'all'intorno.

I due vecchi erano arrivati in mezzo ad una sala.

Nascosti, agli spiragli di due porte semichiuse, stavano il Brinda,
Roberto, Lina, i due medici.

—Agatina!—esclamò subito Enrico.—Ma questa… è la voce della nostra figliuola!

Agatina non rispose.

Essa stringeva la mano del marito e ascoltava ansiosa, tutta tremante.

—È lei!… è lei!…—disse a un tratto, e lasciando la mano del cieco si precipitò nella stanza.

Ma al cembalo non vi era più alcuno. Conformandosi a' consigli ricevuti dai medici, Antonietta si era nascosta, appena aveva udito che la sua povera mamma si avvicinava.

E il nascondersi le era venuto opportuno. Dopo le prime note da lei emesse con tanto affetto, con tanta soavità; note di una canzone, che suo padre le aveva insegnato sin da bambina, e della quale aveva udito le migliaia di volte ripetere i motivi da lui e dalla madre, le lacrime le erano salite agli occhi e i singhiozzi la soffocavano.

Già il cieco aveva raggiunto la moglie nella stanza in cui era il cembalo.

—Non c'è nessuno! non c'è nessuno!—esclamò Agatina gettandosi al collo di Enrico.

I due vecchi piangevano a dirotto.

Le lacrime rigavano la maestosa e triste faccia del cieco come nella sera in cui, cessati i tocchi della campana del Bargello, era uscito insieme con la moglie in cerca della figliuola.

—Non c'è!… non c'è!…—ripeteva il vecchio, cupo, desolato.

Ma tutti e due quegli sventurati avevano provato una immensa commozione.

Quella acuta sensazione di dolore risvegliava lentamente la loro ragione, che una gioia immoderata avrebbe più che mai disordinato, travolto.

I vecchi non potevano scostarsi dal cembalo, Dimoraron nella stanza più che non solevano le altre sere: il cieco fece più volte, come era usato, scorrer le sue dita sulla tastiera.

Era una magnifica serata di estate.

Da due finestre, che si aprivano sopra un giardino, entrava un'aria carica di effluvii fragranti; il cielo nitido, e tutto un blando riso di luce, che diffondeva innanzi a sè un grandioso, stupendo tramonto.

Alla fine i vecchi risolvettero di allontanarsi.

Quando si mossero per uscire dalla stanza, cominciavano a cadere le prime lievi ombre della sera.

Parevano calmi, rassegnati.

—Non la rivedremo dunque più… più… la nostra angioletta!—diceva il cieco ad Agatina.

—Non ti ricordi—replicava la vecchiarella—quello che tu mi hai sempre risposto: che Dio…

—Ah! hai ragione—interruppe il vecchio—che Dio… ci aiuterà… E lo credo… sai… lo credo sempre.

Si cercò in seno la crocellina d'oro, e se la portò alle labbra, come aveva fatto la sera del 14 gennaio, dopo aver pregato.

Per alcuni minuti i vecchi stettero nella sala, dalla quale avevano udito la prima volta i suoni.

Seduti l'uno accanto all'altro, immersi in una meditazione profonda, non si parlavano.

L'oscurità aumentava.

Un raggio di luna pallido, incerto batteva su una parete della sala.

—Enrico—disse a un tratto Agatina, rompendo il silenzio—è tardi…
Andiamo via di qui!

E i due vecchi si alzarono.

Quando ebbero fatti pochi passi, si fermarono.

Lo stesso suono usciva dal cembalo, lo stesso suono che poc'anzi avevano udito, e una voce giungeva alle loro orecchie, modulata al solito con un accento ad essi familiare, delizioso.

I due non si mossero più.

Ascoltavano col più grande raccoglimento, estatici, beati, assolutamente felici, scossi come da un brivido.

La voce celeste continuava i suoi gorgheggi, le note venivano a loro, per l'aria, nel silenzio, nella calma di quella bella sera, squisitamente melodiose: trasfondevano in essi la commozione che le ispirava.

—È lei!… è lei!—gridò Agatina, e tenendo per mano il cieco entrò di nuovo nella stanza, che era ormai quasi all'oscuro.

Le parve vedere un'ombra bianca dinanzi al cembalo.

Era Antonietta in una vesticciola leggera, coi suoi copiosi capelli biondi sciolti sugli omeri.

I vecchi erano rimasti sulla soglia. Agatina aveva trattenuto il cieco dall'andare più oltre.

—Forse non è lei!—gli aveva mormorato alle orecchie.

Quella penosa, viva ansietà, quel concentramento di tutte le loro facoltà, quel ravvivarsi di speranze dell'amore paterno e materno rendeva a' due infelici la ragione.

Agatina si accostò piano piano ad Antonietta, che cantava sempre.

—E' lei! è lei!—urlò ad un tratto la vecchia, che aveva riconosciuto, aguzzando gli occhi nella scarsa luce, che veniva dalle finestre aperte e pel chiarore della luna nascente, il colore singolare dei mirabili capelli di Antonietta.

E cominciò a cuoprirli di baci.

Antonietta non seppe più rattenersi.

Si alzò precipitosa, raccolse tra le sue braccia i due vecchi, e stringendoli forte, forte, e baciandoli in fronte, sospirava di quando in quando.

—Babbo!… mamma!…

Ma già il Brinda, Roberto, Lina, i due medici erano accorsi.

—L'affetto filiale, l'affetto di padre e di madre—disse il medico più attempato—hanno fatto uno dei loro miracoli… I vecchi sono salvi!

Agatina e Enrico non udivano più nulla.

Essi accarezzavano, abbracciavano la figliuola: piangevano.

Momento sublime, che ad esser descritto domanderebbe penna di poeta, ben diversa dalla mia; momento sublime come tutti quelli che nella vita riempie la divina poesia, traboccante da cuori che si amano!

Due giorni dopo, come ho detto, Lina partiva e traversava il confine del ducato di Lucca.

XXX.

Arrivava a Candino, presso Pescia: limite estremo del confine toscano, e di là al ponte dell'Abate, dove cominciava il ducato lucchese, e dove la bella ragazza s'incontrò ne' carabinieri del duca, quel giorno in alta tenuta per una festa di Stato, che la sbirciarono e l'accolsero con motti allegri. Ma Lina non badava a loro: troppo era abituata a sentirsi scoccare, suonar intorno alle orecchie parole di elogio alla sua fresca, aitante bellezza.

Neppure il ricco vestiario de' carabinieri ebbe da lei uno sguardo: e sì che era sfarzoso, come ricordano i vecchi; vestiario di foggia spagnuola; giubba lunga con mostreggiature rosse, buffetterie bianche, elmo, con una folta criniera, che ricadeva giù sulle spalle: tutti uomini di corpo prosperoso, di alta statura, quasi tutti còrsi.

Fatto circa un miglio oltre il ponte dell'Abate, Lina scese dalla diligenza e inforcò un viottolo, che andava tortuoso in mezzo ai campi, poi entrò in una strada più larga, salì una collinetta, a metà della quale sorgeva un bianco lungo caseggiato, che aveva accanto una chiesa, e un piccolo campanile.

Proprio nel momento in cui Lina saliva, il suono di due campane, garrulo, acuto, vibrava nell'aria pura e tranquilla della serena mattinata di luglio.

Un uomo seguiva Lina ad una grande distanza, tenendola sempre d'occhio, balzando da un luogo all'altro, talora appiattandosi dietro un albero, un cespuglio, o scendendo in qualche fossato, in qualche borratello, donde solo a tratti sguizzava fuori, volendo tenersi nascosto, e non essere scoperto dalla ragazza, che pedinava con tanta alacrità.

Lina si era messa per una selvetta, che circondava il caseggiato, e di tanto in tanto le pareva di udire uno stormìo di frasche, uno scalpiccìo, come se altri corresse dietro a lei, e si era voltata più volte, senza che però le venisse fatto di veder alcuno.

Arrivò dinanzi al caseggiato e si fermò sotto un porticato dal quale era l'entrata principale. Sulle due pareti laterali si leggevano scritte a grossi caratteri, da una parte, le parole: Dio ti vede!—dall'altra:—Penitenza, o Inferno!

La parete di fondo era quasi tutta occupata da una amplissima porta, sul davanti della quale penzolava una corda greggia, e assai lurida, che serviva per tirare il campanello.

Lina era ad un Convento di cappuccini.

Che cosa vi andava a fare la seducente e florida ragazza?

Guardò a destra e a sinistra, come se le stesse a cuore che nessuno in quell'istante potesse vederla, poi accostò alla corda una mano quasi tremante.

Subito udì lo scampanellìo di un grosso campanone: poi un ciabattare lungo il corridoio: finalmente gli occhi lucenti di un fratacchione scintillarono tra i buchi di un piccolo reticolato infisso nella porta.

—Sia laudato Gesù Cristo!… Che cosa vuoi, figliuola?—domandò con un vocione robusto.

—Sempre sia!…—rispose Lina tutta rossa.—Desidero parlare a Fra
Leone…

—Credo sia a pulire la chiesa… ma vado a chiamartelo e sarà qui nel tempo che tu dici un Gloria patri.

Poco dopo Lina udiva di nuovo un rumore di sandali, di tonache battute nelle gambe di coloro che camminavano, udì cigolare un grosso catenaccio e la porta si aprì.

Un frate di elevata statura, pallido, macilento, con lunga e folta barba nera, comparve sulla soglia.

Vista la ragazza, socchiuse la porta dietro a sè, fece alcuni passi e con ogni cautela si allontanò dal porticato, tenendo per mano Lina e guidandola verso un luogo più remoto, tutto coperto da alberi, su uno dei fianchi del caseggiato.

—Sorella!—disse il frate dopo un breve silenzio, con voce esile, quasi appena gli restasse la forza di respirare.

La ragazza cominciò a parlare, con voce anche più sommessa, quasi all'orecchio del frate, facendo vivissimi gesti, tutta concitata come se proferisse parole che le scottassero il labbro, girando sempre attorno gli occhi per timore che altri la spiasse.

Al frate sfuggì due o tre volte un gesto di sodisfazione, una volta levò le mani al cielo, come in atto di preghiera e di ringraziamento.

—Ma c'è qualcuno tra quelle piante!—disse a un tratto Lina, raccapriccita, indicando al frate la punta di due alberetti, quasi accosto l'uno all'altro, e che si agitavano in modo strano, non ostante che non vi fosse alito di vento in quella calda mattinata.

Il rumore tra le foglie aumentò. Apparve fra il verde un grosso cappellaccio, poi un uomo che si faceva largo tra gli arbusti con le braccia lunghe e nerborute, e spiccando un salto balzò in mezzo al frate e alla ragazza, e arrivò così bruscamente e all'improvviso, che i due, i quali avevano cessato il dialogo, gettarono insieme un grido di spavento.

L'uomo, arrivato così in mal punto, era Lucertolo.

Ficcò gli occhi addosso al frate, poi, facendo un ghigno sinistro, dando in un urlo di gioia, lo aggranfiò con le sue mani di acciaio sotto il mento, e scuotendolo, squassandolo con quanta forza aveva:

—Ti ho ritrovato alla fine—esclamò.—Ti ho ritrovato, Bobi Carminati!… Ah, sei vivo anche tu… Il mio trionfo doveva essere completo.

Il frate barcollava, affranto, atterrito da quella improvvisa apparizione, e Lucertolo dovette spingerlo a sedere verso un alto mucchio di sassi perchè non cadesse.

—E che cosa volete fare ora?—domandò a Lucertolo Lina.

L'uno e l'altra stavano in piedi dinanzi al frate, che era quasi disteso, prostrato sui sassi.

—Intendo, prima di tutto, di sapere come Bobi è arrivato qui…
Voglio che mi spieghi la storia dell'annegato!

Bobi Carminati fece il suo racconto in brevi parole.

La notte in cui egli si trovava insieme con un altro famiglio a perlustrare lungo la sponda dell'Arno, si erano incontrati, come già sa il lettore, in alcuni ladri che, udite le intimazioni dei famigli, avevano lasciato in terra varie sacca che portavano, e si erano dati alla fuga.

—Io li avevo inseguiti…—continuava il Carminati.—A un certo punto dovei fermarmi… Un cadavere era disteso sull'erba… Gli accostai la lanterna e vidi che aveva la testa sfracellata da un grosso colpo di bastone. Era di sicuro un complice pericoloso, del quale i ladri avevano voluto sbarazzarsi… Pensai a incarnare una idea, che da molto tempo mi angustiava… I rimorsi del delitto da me commesso nel Vicolo della Luna non mi lasciavano più tregua… Vestii il cadavere, de' miei panni e lo gettai nel fiume… Stetti poi alcuni giorni errante per la campagna… Seppi che mi si credeva morto… Una notte scura, burrascosa, potei traversare il confine… Mi recai a questo convento… Chiesi di poter lavorare… e fui adoperato in alcune faccende… portar legna, tirar acqua, zappare l'orto… Pochi mesi dopo, riuscii a farmi accettare come converso, e vestii l'abito… Lina era avvisata… Ci eravamo proposti in un modo o nell'altro di far risaltare l'innocenza di Nello… Dio mi aveva toccato il cuore… Ho fatto la più dura penitenza del mio delitto, ed ero pronto ad espiarlo anche con la confessione, se non fossimo riusciti a salvare Nello in altro modo… Guardami—concluse il Carminati, indirizzandosi a Lucertolo—e vedrai se ho sofferto!

Lucertolo taceva, tutto assorto nelle sue meditazioni.

Si accostò a Lina dopo un istante, e stendendole la mano, disse in modo solenne:

—Hai fatto le tue riflessioni sulla mia domanda… Vuoi dunque sposare il capo-agente Lucertolo?… Io ho già ricevuto la mia nomina!

Lina impallidì, e non rispose; ma guardava il fratello, e si sentiva impietosire dal misero stato di lui.

—Se tu acconsenti—ripigliava il capo-agente—Lucertolo servirà prima te per tutta la vita e poi la polizia… Tutti gli sforzi, che ho fatto sin ora per scuoprire la verità circa il delitto del Vicolo della Luna, li raddoppierò perchè la verità rimanga sempre, come rimarrà se tu vuoi, occulta… Parla?

Una conversazione concitata, a mezza voce, durò per alcuni minuti tra il frate, il birro e Lina.

—Acconsenti?—disse alla fine Lucertolo, quasi inginocchiato dinanzi alla appetitosa e robusta ragazza.

Il Carminati faceva un cenno di adesione alla sorella.

—Acconsento!—replicò Lina, tutta sfavillante di un malizioso sorriso.

—E lo giuri?—domandò Lucertolo.

—Lo giuro!

—Quando potrò entrare in servizio… attivo?—insistè il birro, gongolante.

—Ai primi freschi… in ottobre—soggiungeva Lina con un'espressione sempre più furbacchiola.

Rimasero una mezz'ora insieme tutti e tre, divisando come dovessero regolarsi, disponendo tutte le cautele per l'avvenire.

—Addio, Bobi!—disse Lina accomiatandosi.

—Addio, sorella!—soggiunse il frate.—E da qui innanzi non ci vedremo mai più… Io sarò veramente morto per tutti: e, quando venga la mia ora, sarò seppellito laggiù nel cimitero del convento, dove non si scrive nessun nome sulle fosse, in segno della nostra umiltà… Alcuni frati si ricorderanno forse di me, per qualche tempo, col finto nome che ora porto.

—Addio, Marrone!—disse Lucertolo, dando al Carminati il nomignolo che egli aveva da pompiere.—Marrone frate!… chi l'avrebbe mai detto?…

—Addio—ripetè il frate, stringendo loro la mano.—Rammentate che Bobi Carminati è morto… e la preghiera contrita di Fra Leone salirà al cielo per voi!…

Proferite queste parole, il frate rientrò nel convento e serrò dietro di sè la porta pesante.

Lina e il capo-agente Lucertolo, tenendosi per mano, scesero, saltellando, l'erta.

XXXI.

Un mese dopo in una chiesa di Roma si celebrava con gran pompa il matrimonio fra Antonietta e Roberto: ufficiava un arcivescovo cattolico in tutto lo sfarzo de' suoi ricchi paramenti.

Due vecchi erano inginocchiati vicino agli sposi: Agatina ed Enrico.

Il sì fu pronunziato da Roberto e Antonietta con profonda commozione.

I loro cuori, che battevano concordi, amantissimi, non dovevano disgiungersi mai nella vita: un amore immenso li esaltava, li faceva palpitare; erano contenti della loro passione, dei grandi, terribili ostacoli superati.

Era stato fortemente combattuto il loro amore ma, nella sua potenza, usciva vincitore da tutti gli ostacoli.

Ormai la felicità li aspettava e quale felicità!

E sui primi dell'autunno fu celebrato con assai minor pompa, ma con più clamore e con non minore allegrezza, il matrimonio fra Lina e Lucertolo, matrimonio dal quale nacquero due figli, che sono oggi tra i migliori agenti della polizia, e il cui nome è spesso citato con elogii.

Intrepidi, ingegnosi, giungeranno essi ad occupare tra poco un grado più elevato di quello a cui giunse, dopo tante fatiche, il loro strano e bizzarro genitore Lucertolo?

FINE