The Project Gutenberg eBook of I rossi e i neri, vol. 2

This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook.

Title: I rossi e i neri, vol. 2

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: August 29, 2009 [eBook #29846]

Language: Italian

Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK I ROSSI E I NERI, VOL. 2 ***

Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli and the

Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive)

I ROSSI E I NERI

II.

+—————————————————————————————————+ | OPERE di A. G. BARRILI. | ! | | Capitan Dodéro (1865). 13.ª ediz. L. 1 — | | Santa Cecilia (1866). 11.ª ediz. 1 — | | Il libro nero (1868). 4.ª ediz. 2 — | | I Rossi e i Neri (1870). 7.ª ediz. (2 vol) 2 — | | Le confessioni di Fra Gualberto (1873). 13.ª ediz. 1 — | | Val d'olivi (1873). 18.ª edizione 1 — | | Semiramide, racconto babilonese (1873). 9.ª ediz. 1 — | | La notte del commendatore (1875). 2.ª ediz. 4 — | | Castel Gavone (1875). 10.ª ediz. 1 — | | Come un sogno (1875). 25.ª ediz. 1 — | | Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). 18.ª ediz. (2 vol.). 2 — | | Tizio Caio Sempronio (1877). 2.ª ediz. 3 50 | | L'olmo e l'edera (1877). 20.ª ediz. 1 — | | Diana degli Embriaci (1877). 2.ª ediz. 3 — | | La conquista d'Alessandro (1879). 2.ª ediz. 4 — | | Il tesoro di Golconda (1879). 12.ª ediz. 1 — | | Il merlo bianco (1879). 2.ª ediz. 3 50 | | — Edizione illustrata (1890). 5.ª ediz. 5 — | | La donna di picche (1880). 6.ª ediz. 1 — | | L'undecimo comandamento (1881). 13.ª ediz. 1 — | | Il ritratto del Diavolo (1882). 4.ª ediz. 1 — | | Il biancospino (1882). 12.ª ediz. 1 — | | L'anello di Salomone (1883). 3.ª ediz. 3 50 | | O tutto o nulla (1883). 2.ª ediz. 3 50 | | Fior di Mughetto (1883). 4.ª ediz. 3 50 | | Dalla Rupe (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Il conte Rosso (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Amori alla macchia (1884). 3.ª ediz. 3 50 | | Monsù Tomè (1885). 3.ª ediz. 3 50 | | Il lettore della principessa (1885). 3.ª ediz. 4 — | | — Edizione illustrata (1891) 5 — | | Victor Hugo, discorso (1886) 2 50 | | Casa Polidori (1886). 2.ª ediz. 4 — | | La Montanara (1886). 8.ª ediz. 2 — | | — Edizione illustrata (1893) 5 — | | Uomini e bestie (1886). 2.ª ediz. 3 50 | | Arrigo il Savio (1886). 3.ª ediz. 1 — | | La spada di fuoco (1887). 2.ª ediz. 4 — | | Il giudizio di Dio (1887) 4 — | | Il Dantino (1888). 3.ª ediz. 3 50 | | La signora Àutari (1888). 3.ª ediz. 3 50 | | La Sirena (1889) 5.ª ediz. 1 — | | Scudi e corone (1890). 2.ª ediz. 4 — | | Amori antichi (1890). 2.ª ediz. 4 — | | Rosa di Gerico (1891). 3.ª ediz. 1 — | | La bella Graziana (1892). 2.ª ediz. 3 50 | | — Edizione illustrata (1893) 3 50 | | Le due Beatrici (1892) 5.ª ediz. 1 — | | Terra Vergine (1892). 5.ª ediz. 1 — | | I figli del cielo (1893) 5.ª ediz. 1 — | | La Castellana (1894). 2.ª ediz. 3 50 | | Fior d'oro (1895). 4.ª ediz. 1 — | | Il Prato Maledetto (1895) 3 50 | | Galatea (1896). 7.ª ediz. 1 — | | Diamante nero (1897) 3.ª ediz. 1 — | | Sorrisi di gioventù (1898). 2.ª ediz. 3 — | | Raggio di Dio (1899). 2.ª ediz. 1 — | | Il Ponte del Paradiso (1904). 2.º migliaio 3 50 | | | | ——— | | | | Lutezia (1878). 2.ª ediz. 2 — | | Con Garibaldi, alle porte di Roma, ricordi (1895) 4 — | | Zio Cesare, commedia in cinque atti (1888) 1 20 | +—————————————————————————————————+

I ROSSI E I NERI

                             ROMANZO
                                DI
                       Anton Giulio Barrili

(in due volumi)

Volume secondo

                        SETTIMA EDIZIONE
               intieramente riveduta dall'autore

                              MILANO
                     FRATELLI TREVES, EDITORI
                              1906.

PROPRIETÀ LETTERARIA

Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.

PARTE SECONDA.

I.

Di ciò che avvenne e di ciò che non avvenne la notte del 29 giugno.

Il cuore parla, ma la ragione giudica; quello si abbandona sovente agl'impeti generosi del sangue, questa non può sempre seguirlo ed è costretta a frenarlo, tal volta con un asciutto consiglio, tal altra con un gelido sarcasmo. Povera ragione! la chiamano fredda e severa, laddove essa non è che sincera. Se ella potesse! figuratevi se non farebbe anch'ella le sue brave pazzie!

Poco innanzi il suo colloquio con la dolce Maria, il nostro Lorenzo Salvani era triste, ma risoluto. Desideroso di finirla con una vita increscevole, già si vedeva il petto squarciato dal piombo di una mischia notturna; egli era il primo a correre innanzi e il primo a cadere. Ma innamorato di Maria, ma dopo di averle detto: «vi amo e non ho nessuna voglia di morire» che avrebb'egli fatto? Come si sarebb'egli sottratto a quel destino che si era, stiam per dire, foggiato colle sue mani medesime? Era egli uomo da ritrarsi dal fare, e, per diserzione o per fiacchezza d'opere, sacrificare all'utile suo la vita degli altri? No, certo; Lorenzo era uno di quegli uomini i quali, quando hanno detto a sè stessi: «farò la tal cosa» gli è come se l'avessero giurato davanti a centomila testimoni; così stando le cose, che sarebbe avvenuto? Il contrasto del nuovo desiderio coll'antico proposito, era evidente, irrimediabile.

Al turbamento che ciò doveva produrre nell'animo suo, si aggiunga la commozione destatagli in cuore dalla novità di quel dialogo. Egli non aveva mai veduto Maria sotto l'aspetto di una donna che potesse un giorno esser sua. Se nella riposata scioltezza di una disputazione estetica, gli avessero chiesto qual donna gli paresse meglio agguagliare il concetto della somma bellezza, egli avrebbe senza titubanza risposto: Maria; nè diversamente avrebbe pensato in quel tempo che il suo cuore cedeva a quella ebbrezza di sensi, che fu l'amor suo per la bionda Cisneri. Ma quella sua opinione era un sentimento ingenuo, che non andava ad alcuna conseguenza. Avvezzo a proteggere fraternamente quella fanciulla, venuta nella sua custodia per la sequela dei domestici eventi, egli non vedeva, non poteva onestamente vedere in lei che una sorella. E se i casi non fossero sopraggiunti imperiosi, urgenti, a strappare dalle vergini labbra di lei una di quelle parole che l'uomo, anco il più chiuso in se stesso, non può non intendere, una di quelle parole che gli rischiarano il cuor d'una donna ed il suo ad un tempo, egli sarebbe andato innanzi nella vita senza pensarvi mai, o senza ardire di pensarvi, chè in simili casi è tutt'uno. Ma la gran parola era detta, ed era stata una gran luce in due cuori. Egli amava Maria, come Maria amava lui. E non poterle dire: vivrò! e dover proseguire un vano disegno ch'egli aveva abbracciato nel fermo proponimento di cercarvi la morte!… La fatalità lo ravvolgeva, lo stritolava nelle sue innumeri spire.

Almeno, a breve conforto tra tanti affannosi pensieri, avesse avuto fede nella rivolta! Ma non l'aveva, e le ore che passò con Giorgio Assereto, innanzi di recarsi al suo posto di combattimento, non fecero altro che scorarlo di più. L'amico Assereto, come sanno i lettori, che lo conoscono un tratto pe' suoi ragionamenti con Lorenzo sul terrazzo della salita di San Francesco d'Albaro, era un pessimista. Ora, i pessimisti, di cento ne indovinano novantanove. Un proverbio dice: «pensa la peggio e l'indovinerai» e i proverbi, ha detto un grand'uomo, sono la sapienza dei popoli.

Il nostro pessimista, adunque, non si riprometteva nulla di buono da quella rivolta, generosa ma pazza. Imperocchè, diceva egli, non ci avevano mano tutte le classi sociali, nè una intieramente; che pure sarebbe stata fortuna. La forma costituzionale appariva a troppi una guarentigia di libertà cittadine, una promessa d'indipendenza nazionale, segnatamente alla gran moltitudine degli svogliati e dei timidi. I pochi volenterosi erano poi tali ad opere, come apparivano a ciance? Chi ti assicura (incalzava l'Assereto) che tutti i tuoi uomini saranno al posto loro? Questa congiura che avete ordita, più la volto e la rivolto, meno la scorgo efficace. Hai giurato? Va; ma bada a' piedi, che non incespichi. Trabocchelli ce ne saranno di molti per via, ma più ancora disinganni!

Così turbato dalla sua ragione e sconfortato dalle argomentazioni dell'amico, andava Lorenzo al suo posto di combattimento, in una viuzza del sestiere di Prè, alle otto di sera del 29 di giugno.

Qui verrebbe a taglio un po' di storia dei casi del 29 di giugno, i quali, che noi sappiamo, non furono mai partitamente narrati. Ma oltre che ciò condurrebbe noi fuor de' confini assegnati al genere del nostro racconto, quel tentativo, per metà venuto fuori, per metà rimasto nel limbo delle buone intenzioni, si mostra irto di grandi e diremmo quasi insuperabili difficoltà.

Agevolmente si racconta la storia degli eventi fortunati; qui i materiali abbondano, essendoci gloria per tutti, e lo storico non ha altra molestia che quella di variare in cento guise la forma delle lodi e di adagiarle in ordinati periodi. Meno agevole torna il narrare gli eventi sfortunati, laddove tutti gli attori del dramma mirano a scagionarsi di questo o di quel fatto che condusse a male il negozio, e non si sa sempre cui credere; ognuno volendo cavarsi d'impaccio col rovesciar la broda sugli altri, si riesce il più delle volte ingiusti. Difficilissimo poi, per non dire impossibile addirittura, narrar casi non interamente avvenuti, dove il fatto riescirebbe sovente a schiarimento del non fatto, e questo a sua volta di quello, e dove, mancando il sostegno delle autentiche relazioni, occorrerebbe inventare di pianta.

Non scriveremo adunque un capitolo di storia, chè tanto e tanto le nostre lettrici torcerebbero la bocca, e noi avremmo punizione, non premio, di una ingrata fatica. In quella vece, e per quel tanto che possa giovare alla chiarezza del nostro racconto, faremo di stringere molte cose in brevi parole.

Da chi venisse il disegno non è ben noto. I più, fidandosi alla consuetudine di siffatti rivolgimenti, lo ascrivono a Giuseppe Mazzini, padre dimostrato d'ogni moto rivoluzionario che dal 1833 al 1857 nascesse in Italia. Uomini che furono testimoni e parte nei casi del 29 giugno, ci asseriscono in quella vece che il disegno nacque tra le classi artigiane della nostra città, e l'illustre agitatore ne fu fatto consapevole solamente più tardi, quando non parve più tempo da indugi. Comunque ciò sia, certo si è che il Mazzini fu in Genova, e che soltanto dopo la sua prima venuta, la quale precedette di alcuni mesi il tentativo, fu posto mano alla costituzione d'un comitato segreto, mezzo di artigiani e mezzo di cittadini di altre classi, il quale raccogliesse denaro, armi ed uomini, e in ogni miglior modo provvedesse al buon esito dell'impresa.

Questa, poi, doveva esser cominciata simultaneamente in più luoghi della penisola, a Genova, a Livorno, a Napoli, e fors'anco altrove. In Genova aveva da venire il Mazzini in persona, e venne diffatti. In Livorno, i volenterosi di quella città dovevano pigliarsi il carico d'ogni cosa, e pareva bastassero. In Napoli dicevasi esser gli animi disposti ad ogni sbaraglio; tutto quel reame essere quasi una polveriera; ma occorrere una scintilla di fuori che andasse a mettervi il fuoco.

E la scintilla partì da Genova, il giorno 25 di giugno. Un drappello di animosi, la più parte fuorusciti napoletani, s'imbarcano sul __Cagliari__, vapore della società Rubattino che scioglie dal nostro porto alla volta di Cagliari e Tunisi. In alto mare s'impadroniscono del legno, e scambio di toccar la Sardegna, voltano la prua sull'isola di Ponza, nelle acque napoletane; liberano con audacissimo colpo i condannati politici che laggiù teneva custoditi il Borbone, e vanno quindi a sbarcare sul lido di Sapri, nel golfo di Policastro; dove non trovano quel che si ripromettevano nel generoso rapimento del loro amor patrio; dove la piccola falange è combattuta, dispersa, e il prode suo capitano Carlo Pisacane, suggella col proprio sangue una delle più belle pagine del martirologio italiano.

Diamo ora un'occhiata a Livorno. Anche colà aveva a cominciar la rivolta. E diffatti nel pomeriggio del 30 di giugno, cittadini armati la rompono in tre luoghi della città, cioè a dire sulla piazza del Voltone, alla Pina d'oro, e nelle vie San Giovanni e Reale. Lo sforzo maggiore è sulla piazza del Voltone, dove è la gran guardia del presidio; ma gli animosi non superano i duecento, e sono respinti. La zuffa è impegnata; si combatte per le vie, si fa fuoco dalle finestre delle case circonvicine. Miglior esito ha un assalto del popolo contro un altro corpo di guardia; intanto molti gendarmi che percorrono la città sono finiti a stilettate; ma il primo colpo, e il più rilevante è fallito; il presidio, rafforzato in tempo, mette gran nerbo di soldatesche sulla piazza del Voltone: gli sbocchi delle vie sono poderosamente occupati. Due colpi di cannone dànno il segnale di chiudere le porte e di impedire anche l'uscita dalla parte del mare. E la carneficina incomincia: quanti cittadini durano a combattere, quanti sono colti nelle case coll'armi alla mano o in atto di resistenza, tanti son trascinati sulla via e moschettati senza misericordia. La è giustizia sommaria, nè per condannare il prigione occorrono prove. A mezzanotte il governatore Bargagli può scrivere al ministro Landucci in Firenze che «l'ordine è ristabilito» e sette ore dopo, nella mattina del 1^o luglio, il general Ferrari da Grado mandare all'eccellentissimo personaggio anzidetto un nuovo telegramma nel quale si dice:—Qui tutto è tranquillo; la popolazione va pei fatti suoi.—Tuttavia, la vittoria era costata cara al governo granducale, che non ardì contare i suoi morti.

A Genova, siccome abbiamo già detto più volte, l'impresa doveva esser tentata nella sera del 29 di giugno. Ora, perchè in parte fallisse e in parte non giungesse nemmeno alla prova dei fatti, non diremo noi contemporanei. Certo non può dirsi che fosse sventata dalla vigilanza del governo, il quale anzi fu colto alla sprovveduta, e poteva essere sopraffatto dalla novità di un assalto notturno. Vagamente, così in di grosso, sapeva: fors'anco nella mattina era stato avvertito, e gli erano stati additati alcuni depositi d'armi; ma di sicuro non conosceva i particolari del tentativo. Se li avesse conosciuti, avrebbe saputo che ad un assalto per le vie della città doveva rispondere un assalto dei forti principali che la signoreggiavano, nei quali altro non era che uno scarso numero di soldati, tolti da uno dei quattro, e molto assottigliati reggimenti che allora presidiavano la città, insieme con un battaglione di bersaglieri. E se questo disegno non gli fosse stato ignoto, certo si sarebbe adoperato in tempo a sgominarlo, e avrebbe cansato lo scorno, che gli derivò al cospetto dell'universale, di vedersi pigliare impunemente un forte, e tentar la scalata di un altro, sul culmine della cinta fortificata di Genova.

Se dobbiamo aggiustar fede alle testimonianze del processo che fu fatto dipoi per questa congiura, essa fallì principalmente per la scarsezza del numero. Molti a gridare dapprima; pochi ad operare nell'ora convenuta. Laonde, se nella parte alta della città, vogliam dire ai forti, fu tentata l'impresa, nella parte bassa si può asserire che v'ebbero apprestamenti, non cominciamento di lotta.

Fu detto poscia che il segnale della pugna dovesse esser dato da un colpo di cannone, il quale accennasse al popolo congiurato essere gli uomini suoi padroni del forte Sperone. Ma se da questo evento dipendeva il cominciar della lotta, perchè non raddoppiare, triplicare il numero degli assalitori, e assicurare l'esito di quel colpo di mano? Perchè nei pressi di San Pantaleo, dov'era il nerbo degli uomini a ciò destinati, ebbero a trovarsi in quaranta, o poco più, i quali, saliti fin sotto le mura del forte, dovettero al primo allarme sbandarsi?

Il forte Diamante, di assai minore rilievo, cadde in potere dei congiurati per un felicissimo stratagemma. Il guardarme che lo aveva in custodia, teneva fondaco di vino e amava la gente allegra. Da parecchie settimane avea preso la consuetudine di andar lassù una brigatella di buontemponi, i quali entravano nel cortile, bevevano, giuocavano alle pallottole, o ballavano al suon dell'armonica, insieme coi pochi soldati del presidio. La sera del 29 erano, o, per dire più veramente, fingevano d'essere alticci dal vino, e non avrebbero mai detto d'andarsene. Senonchè, era l'ora di chiudere, e il guardarme li condusse al cancello. Colà, fanno ressa intorno alla sentinella; intanto una mano di compagni che stavano appiattati di fuori, balzano dall'aperto ingresso nel cortile, disarmano la sentinella, intimano ai soldati la resa, in nome del governo provvisorio. Il drappello di presidio è disarmato e chiuso in un camerone; il sergente Pastrone che vuole opporsi alle forze soverchianti e gridare, è steso a terra da un colpo di pistola; i congiurati sono padroni del forte.

Ma dallo Sperone non giunge alcun segnale; dalla città sottoposta nemmeno. Uno di loro è mandato fuori a chieder novelle; ma, sia che egli ne porti di tristi, o non torni neppure, il fatto sta che le speranze svaniscono, e sul primo romper dell'alba i vincitori abbandonano la preda e si disperdono lungo i sentieri che conducono al basso.

Che era egli avvenuto in città? Pare che si aspettasse il segnale dallo Sperone: ma il segnale, per quelle ragioni che abbiamo già dette, non era venuto. Intanto l'autorità governativa, posta sull'avviso, aveva schierato i suoi battaglioni nelle vie principali, dintorno al palazzo Ducale, e nei pressi del Municipio. Anche la Darsena era validamente munita. Frattanto, numerosi drappelli di soldati percorrevano le strade, e carabinieri e guardie di pubblica sicurezza andavano frugando qua e là, e mettendo le ugne addosso a quanti avessero aria sospetta. Parecchi depositi d'armi e luoghi di ritrovo erano stati accennati all'autorità governativa, che fu sollecita, sebbene senza ordinatezza di concetto, a mettere i suoi segugi in moto, e per tal guisa le venne fatto di ghermire al varco moltissimi giovanotti, e poscia fucili, polvere, con altri arnesi di guerra.

Niente era più possibile. La rivolta era soffocata sul nascere; le sue membra divise avrebbero tentato invano di ricongiungersi. Il disegno del comandante del presidio (se pure può dirsi che un vero disegno ci fosse) infelicissimo, laddove il popolo avesse potuto ingaggiar la battaglia, riusciva ottimo a dividere le forze, a togliere l'unità di comando, a sbigottire i centri particolari della rivolta.

E ogni cosa ebbe fine. Gli uomini raccolti per menar le mani, abbandonarono i luoghi di ritrovo, e ognuno cercò di provvedere a se stesso. L'illustre agitatore, che, nel segreto di un quartierino presso la Nunziata, stava attendendo (argomentate con quale ardore febbrile) che la gente incominciasse, ebbe in quella vece il triste annunzio che tutto volgeva alla peggio. Sperò un tratto, ma invano, che le cose potessero ancora mutarsi; ma poco stante egli medesimo era costretto ad uscire dal suo nascondiglio, che poteva essere, che già forse era scoperto. E ne uscì infatti, con quella temerità tutta sua, che gli aveva già tante volte giovato nella sua vita fortunosa, andando a riparare oltre l'Acquasola, accanto al teatro Diurno, nella casa ospitale di un gentiluomo suo concittadino; dove i carabinieri andarono inutilmente due volte a cercarlo, due volte ponendo le mani sopra un letto tra le cui materasse egli era stato allogato; due volte rimovendo un monte di biancheria allora allora insaldata, mentre una giovine donna, impavida e sorridente (benedette Inglesine, non ci siete che voi per uscirne con tanta bravura), seguitava col suo ferro a stirare.

I casi del 29 giugno del 1857 misero in chiaro un doppio errore, della rivoluzione e del governo ad un tempo; della rivoluzione, che lasciò fuggirsi il quarto d'ora della vittoria, aspettando un segnale, e si vide in rotta senza pure aver combattuto; del governo, che fu còlto all'impensata, non ebbe vera notizia del tentativo se non tardi, ed anche questa manchevole.

Si disse dai lodatori ad ogni costo che l'autorità sapeva tutto, ma che non volle sgominare i disegni dei rivoltosi, poichè mirava a coglierli tutti quanti in una retata. Ciò non è punto da credersi, perchè la retata non diede alcun frutto. Altri (e furono di parte clericale, che allora osteggiava il governo piemontese, come quegli che non voleva essere nè carne nè pesce, nè soffocare ogni germe di rivoluzione a pro' degli altri governi italiani, nè gittarsi alle imprese più arrisicate con suo danno gravissimo), altri accusarono il governo di sapere ogni cosa, ma di aver lasciato correre, perchè i tentativi di Livorno e di Napoli, dai quali avrebbe potuto cavare un costrutto, non andassero falliti. L'invenzione fece capolino su pei diarii della sètta; ma parve più acuta che verisimile.

Ed ora torniamo al nostro racconto. Abbiamo lasciato Lorenzo Salvani che si recava al suo posto di combattimento, sulle otto di sera, in una viottola del sentiero di Prè.

II.

Dove si legge come andasse a finire l'impresa di Lorenzo Salvani.

Il nostro giovinotto era stato poco dianzi dal capo della rivolta, ed aveva avuto un lungo colloquio con esso lui, tanto per indettarsi d'ogni cosa che avesse a fare, quanto per istabilire i modi più adatti a collegare l'impresa col centro dell'azione, e poterne avere, ad ogni occorrenza, consiglio od aiuto.

Per ciò che si riguardava a lui, comandante di quella perigliosa fazione, egli doveva andarsene al suo ritrovo di Prè. Colaggiù avrebbe trovato cento uomini, con armi e munizioni giusta il bisogno, parte raccolti al pianterreno di una casa a lui già nota, parte in uno stambugio, o cantina, o stalla che fosse, di rimpetto alla casa anzidetta, donde, per la strettezza del vicolo, avrebbe potuto agevolmente, e senza pericolo, comunicare ad ogni ora, ad ogni istante, con essi.

Questi cento uomini posti sotto il comando di Lorenzo, erano divisi in due drappelli, ad ognuno de' quali erano assegnati due uffiziali, scelti tra i più animosi e tra i più esperti dallo stesso Salvani. Il primo drappello, che doveva esser raccolto al pianterreno della casa sovraccennata, era guidato da due ottimi popolani, il Martini ed il Fresia, uno dei quali aveva fatto le campagne del 1848 e 1849, e l'altro, di fresco uscito dal servizio militare, conosceva benissimo il fatto suo. Al secondo drappello era preposto un Nava, lombardo, anch'egli prode soldato e un Doberti, genovese, giovine, adolescente quasi, ma ardito e volenteroso che nulla più. Seguivano i capi squadra, che non istaremo a nominare, i quali ripetevano il loro grado e l'ufficio da cotesto, che eglino avevano, ciascheduno per sè, tirati nell'impresa e raccolti a manipolo gli amici.

Il tentativo della Darsena doveva cominciare al segnale convenuto per l'azione simultanea di tutti i centri particolari della rivolta in città. E il modo in cui questo tentativo aveva ad esser condotto, non è da raccontarsi in queste pagine. Basti sapere che, oltre ai mezzi consueti della guerra, c'era un sottil stratagemma, immaginato da Lorenzo ed approvato dai capi; i quali, poi, facevano assegnamento sopra altri spedienti e fortunate combinazioni, che nemmeno s'hanno a dir qui a guerra finita, anzi neppure cominciata.

Nell'andare al ritrovo e dovendo passare per le vie più popolose di Genova, Lorenzo si stupì di non veder più gente del consueto a passeggio. Gli pareva che a quell'ora sull'imbrunire, e con tutta quella carne in pentola, dovesse notarsi in città maggior brulichio di persone. Ma tosto si fece a pensare che, essendo già forse tutti gli uomini più deliberati al loro posto, quella tranquillità delle vie poteva essere un buon segno; e con questo pensiero in mente giungeva nel vicolo, dov'era la meta del suo viaggio. Colà gli avvenne come ai destrieri generosi, che l'odor della polvere da cannone li scuote, li rinfranca, li rende più baldi. La lotta era imminente; il pericolo incominciava: Lorenzo rizzò alteramente il capo, e l'animo suo si riebbe, si fece pari all'altezza dei casi.

Dopo avere sbadatamente alzati gli occhi e sbirciata una scritta, entrò difilato in un andito buio. Esperto come era del luogo, si inoltrò con passo sicuro fino alla svolta di una parete: trovò brancicando un uscio, e bussò leggermente due volte.

Chi è?—gli fu chiesto di dentro.

—Patria!—rispose sommesso, accostando le labbra alla commettitura dell'imposta collo stipite.

A quella parola, magica come il famoso Sesamo di Ali Babà nelle __Mille e una notte__, l'uscio si aperse, e il Salvani entrò prontamente nel vano.

—Il comandante!—disse una voce.

—Ah, siete voi, Martini? Buona sera! I nostri uomini ci saranno già tutti, a quest'ora….

—Magari ci fossero i due terzi, ed anco la metà, che sarebbe tanto di guadagnato!—rispose il Martini.—Io ci ho il sospetto che molti siano dal notaio a far testamento, e non giungano che a pappa fatta…. se pure non sarà una frittata.—

Quest'ultima parte del periodo, il Martini se la tenne tra' denti, e noi la riferiamo, tanto per dipingervi l'uomo. __Ex ore tuo te judico__, dice il proverbio latino. Il Martini, come le sue parole dimostravano, era un capo ameno, se altro fu mai, sempre ricco di facezie, strambotti ed altre piacevolezze, anche nei momenti più gravi; vero tipo di popolano genovese, col suo ingegno naturale e non senza una certa coltura letteraria, frutto di buona volontà, anzichè di studi fatti. Aveva trentacinque anni; era scapolo; aveva combattuto in Lombardia, ed era giunto al grado di sottotenente nella difesa di Venezia; tornato in patria, aveva ripigliato il suo antico mestiere di bottaio, e cacciava innanzi i cerchi a colpi di mazzo, colla medesima ilarità, colla medesima lena operosa, con cui s'era guadagnato il cerchio di filo d'argento, intorno alla fascia della sua berretta da volontario. Nè tra il pialletto, la spina, il mazzo, il cocchiumatoio e gli altri ferri dell'arte sua, dimenticava la politica, vero ed unico ferro, stiam per dire, dell'anima sua. Nelle ore d'ozio, leggeva sempre; si metteva quotidianamente in corpo l'__Italia del Popolo__, il __Movimento__, e quant'altri fogli stampati gli capitassero sotto le mani; nè soltanto li leggeva, ma vi faceva le sue chiose, e se mai lo scrittore gli usciva di riga, avevate a sentirlo, come lo pettinava colla sua lingua! Ma quando, per contro, gli andava a' versi una cosa, non c'era santi a levargliela di testa, e si sarebbe buttato nel fuoco, se ciò fosse bisognato a provare che aveva ragione. Pensava col suo capo, insomma, se talvolta operava secondo il cenno degli altri. Nella rivolta, verbigrazia, egli c'era, non tanto perchè questa gli piacesse, o gli sembrasse sicura, quanto perchè molti succianespole, diceva egli, molti ciarloni, buoni a nulla, non parlavano d'altro che di menar le mani, ed egli voleva vederli un po' da vicino, i larghi promettitori, e fare a chi lavorasse più sodo. Il Salvani, severo, scarso di parole, gli era piaciuto; nè meno era piaciuto egli, col suo carattere schietto ed aperto, al Salvani, che anzi lo aveva voluto della sua banda, e suo primo uffiziale.

Alle parole del Martini, Lorenzo aveva crollato il capo e dimenate le labbra.

—Diamine!—esclamò egli, dopo una breve pausa.—E quanti sono?

—Qui venticinque, ed Ella fa ventisei. Là di rimpetto, or fanno tre minuti, erano diciotto. Ora ventisei e diciotto, se bene ho imparata l'aritmetica, fanno quarantaquattro, e da quarantaquattro a giungere sui cento, mancano ancora cinquantasei.—

Lorenzo si fece scuro in volto, e in cambio di dimenar le labbra, come aveva fatto prima, le morse, in un impeto di suprema amarezza.

—Per fortuna,—diss'egli poscia, quasi volesse ingannar se medesimo,—non sono appena le otto e mezzo, e gli amici possono capitare da un momento all'altro.

—Sì, aspettiamoli, questi veri Italiani!—soggiunse il Martini, accompagnando la sarcastica frase con un moto ondulatorio del suo atletico torso.—Ah, comandante! Noi in Italia, sia detto con sua licenza, siamo di gran chiacchieroni, col nostro __Elmo di Scipio__ irrugginito e coi nostri __giuriam!__ dove non si mette altro che il fiato. E la veda, non mi fa mica meraviglia che siamo così pochi alla posta. Io n'ero così certo, come della esistenza del figlio unico di mia madre. Ma, per l'anima del Ferruccio, e di tanti altri valentuomini che si citano così spesso e volentieri, io sono stupefatto di non veder qui certi ammazza sette e storpia quattordici, che gli sapeva mill'anni di far le schioppettate, ed erano sempre lì a spingere, a tacciar gli altri di mala voglia. Se mi cascano sotto l'ugne, questi figli di Bruto….

—C'è il Garasso?—chiese Lorenzo, che metteva i nomi dove il Martini non aveva messo altro che gli epiteti.—E il Dellaquinta e il Gasperini, ci sono?

—Neanche l'odore!—rispose il buon popolano.—Già, del Garasso ho sempre dubitato, io, e metterei la mano sul fuoco che egli è una spia.

—Che cosa dite, Martini?

—So quel che dico, e glielo ripeterò a lui, e gli romperò anche il grugno, se ardirà farsi vivo. Quanto agli altri due, non ci hanno altro peccato che la vanità, ed è questa che li fa uscire in tante smargiassate. In fondo son disperatacci che vorrebbero aver quattro soldi, e farebbero patto di non metter più elmi di Scipio, nè giurar morte ai tiranni, per tutto il tempo di lor vita.

—E il Tarlati, e il Geremia?

—Oh, ci sono, questi due, ci sono; ma il primo, mogio mogio, s'è accovacciato nella paglia e dorme dalla paura; il secondo è ubbriaco fradicio, e non fa che rompere il capo alla gente. Lo senta; grida come un dannato.—

E accostandosi ad un uscio semichiuso, donde giungeva ai due interlocutori dell'anticamera un suon confuso di gente raunata, lo spalancò gridando:

—Zitti là, che vi farete sentire di fuori! Ecco il comandante!—

Lorenzo Salvani entrò allora in una stanzaccia male rischiarata da una lucerna a beccucci, posata nel mezzo d'una gran tavola d'osteria, e da due o tre moccoli di candele steariche, piantati nel collo di altrettante bottiglie vuote. Lucerna e candele avevano tanto di moccolaia fungosa, che dava assai più fumo che luce, nè certo aiutava a diradare la nuvola fitta che l'assiduo fumar delle pipe aveva formata sulle teste dei congregati. I quali sedevano, in numero di quattordici o quindici, intorno alla tavola, piena stipata di fiaschi, bottiglie, bicchieri, picce di pane e fette di salame qua e là distese su brandelli di carta. Altri parecchi dormivano della grossa sdraiati lungo le pareti, sopra alcune bracciate di paglia, e se n'udiva il russo accompagnare le voci avvinazzate dei più verbosi seduti.

Un altro dormiva a gomitello, su d'un angolo della tavola, non udendo lo strepito che gli si faceva alle orecchie; due o tre altri comparivano dal vano dell'uscio di una camera vicina, dov'erano le armi, in atto di sperimentare lo scatto dei fucili, o le lame delle sciabole, che erano là dentro in quantità. E le voci alte e fioche dei seduti, l'acciottolìo de' bicchieri, lo strepito delle armi e il russo de' dormenti, facevano una babilonia da non dirsi a parole.

All'apparire di Lorenzo tutto quel frastuono cessò.—Il comandante!—fu la parola che corse sommessamente lungo le sponde della tavola.

—Il comandante?—ripetè, ma più alto, una voce fessa e impacciata dal vino.—Viva il comandante, e si beva alla sua salute!

—Zitto, Geremia!—gridò il Martini.—Tieni la tua parlantina per questa notte.

—O come, sor tenente? voi togliete la libertà della parola?—chiese con un ridevole strascico di frasi il poco biblico Geremia.—Non siamo qui radunati per salvare la libertà, noi? La libertà è libera, io dico; viva la libertà! Parlo bene, o parlo bene?—

Il comandante, a cui era rivolta questa burlesca domanda dell'ubbriaco (e lo dimostrava il gesto di Geremia, che accostava militarmente la palma rovesciata dalla mano alla visiera del caschetto), rispose asciuttamente:

—Sì, avete ragione; ma se fate chiasso fin d'ora, darete la sveglia ai nemici, e non si potrà più far nulla, per questa povera libertà.

—Ben detto! ha ragione il comandante!—soggiunsero molte voci.

—Ma, io dico….—balbettava Geremia.—Io dico che l'uomo….

—È ubbriaco!—proseguì un altro, daccanto al beone, dandogli sulla voce.

—Ubbriaco io? io che ho bevuto appena tre bicchieri di vino?

—Bevine un quarto,—interruppe il Martini,—e falla finita. Se ti garba, potrai andar sulla paglia, a tener compagnia al Tarlati, che russa come un contrabasso.—

In quel mentre si udì picchiare all'uscio. Il Martini andò ad aprire, colle solite cautele. Erano altri cinque che giungevano al ritrovo.

—Trentuno!—disse il tenente.—Vuol forse Ella che io vada a dare un'occhiata agli altri, nella cantina di rimpetto?

—Sì, da bravo. Martini, andate!—

E ciò detto, Lorenzo si diede a passeggiar per la camera, dopo aver accettato dalle mani di uno della brigata un bicchiere di vino, del quale non bevve altro che un sorso. Poco stante, fu di ritorno il tenente.

—Orbene?

—Ventiquattro laggiù, e con questi trentuno, cinquantacinque in tutto.

L'animo di Lorenzo s'era già acconciato a questa mala sorte; epperò il giovane comandante non si fermò a fare altre malinconiche considerazioni sulla scarsezza del numero. Entrato in una cameretta attigua, insieme col Martini e col Fresia, chiamò i sott'ufficiali presenti all'appello, per far la nota dei congregati e dividere, come si poteva la meglio, le squadre. Erano smilzi manipoli, ma bisognava contentarsi. Quanto agli uomini che ancora potevano giungere innanzi l'ora della mischia, Lorenzo comandò che dovessero entrare nelle squadre meno numerose.

Non dissimilmente si adoperò nella casa dirimpetto, dov'erano uffiziali il Nava e il Doberti. Intanto, i seduti a desco e i dormenti sulla paglia furono chiamati a star su, salvo tre o quattro che, non potendo reggersi pel vino cioncato, sarebbero stati d'impaccio anzi che d'aiuto ai compagni; e si venne alla distribuzione delle armi e delle cartucce.

Parecchi si lagnavano che i fucili fossero grami. E certamente avrebbero potuto essere migliori. La più parte eran a martellina, colla pietra focaia; lo scatto in alcuni era troppo duro, e a far battere il cane sulla martellina occorreva il pollice di Alcide; in altri non c'era verso che volesse stare sulla tacca di riposo: tutti avanzi di botteghe di armaiolo, eredità di guardia civica, notevoli a vedersi per le fascette e i guardamani di ottone.

—Ma questi son cassoni, non fucili!—diceva uno.

—Che cassoni?—soggiungeva un altro.—I cassoni son buoni da ardere, e questi non farebbero fuoco neanco a scaldarli in un forno.

—Ci vuol pazienza, amici!—diceva Lorenzo, che incominciava a perderla.—Voi sapete che la rivoluzione non è ricca; i fucili buoni potrete guadagnarveli là, dove andremo; ce ne sono di eccellenti.

—Cattivo soldato,—aggiungeva il Martini,—cattivo soldato quegli che si lagna del suo fucile, quando ci ha una baionetta da poterci innestare!—

In questi ragionamenti e in queste operazioni, erano giunte le dieci. E segnale nessuno! Parecchi incominciavano a mormorare. Che si fa? che si aspetta? Lorenzo aspettò ancora una ventina di minuti; poi, chiamato a sè uno dei più impazienti, lo mandò, con un suo biglietto, a chieder notizie al quartier generale.

—Vado e torno!—aveva detto il messaggero. Ma un quarto d'ora passò; passò mezz'ora; suonarono finalmente le undici; e il messaggero, che s'era veduto andare, non fu visto tornare. Egli aveva fatto come il corvo dell'Arca.

Allora il comandante fece quello che aveva fatto Noè; aspettò un altro poco, e pregò il Martini che volesse andar lui. Questi almeno sarebbe tornato.

Frattanto i capisquadra duravano gran fatica a trattenere i loro uomini. Taluni più chiassosi (gente di malavoglia, diceva il Martini) se la pigliavano coi capi della rivolta, sbraitavano contro i vili che non erano venuti al ritrovo, e bestemmiavano, sacramentavano d'esser stati traditi.

—Le bestemmie non colmano il vuoto;—diceva Lorenzo.—Cinquanta uomini volenterosi e gagliardi ne valgono cento. Quanto a ritardo, sapremo tra poco che cos'è; del resto, se avete voglia di fare, io ne ho quanto voi, e nasca quel che sa nascere, appena tornato il Martini, usciremo noi, la romperemo da soli!—

Queste parole calmarono gli spiriti più irrequieti; che anzi, parecchi incominciarono a dire sommessamente che non c'era gusto a muoversi da soli, e, mentre tutti gli altri se ne stavano colle mani alla cintola, andare a morte certa pel loro bel muso. E questa fu in breve l'opinione di tutti. Ma non ardivano parlarne ad alta voce; il comandante, a cui forse non era sfuggito quel nuovo giro dei loro pensamenti, s'era fatto scuro nel volto come un'imposta chiusa; egli andava accarezzando con troppo amore il calcio della sua rivoltina, che portava nelle tasche della giacca, e bisognava star zitti. Ma allora fu un'altra scena; chi si doleva dell'aria soffocata di quel pianterreno, ermeticamente chiuso; chi si rimetteva a bere, per guadagnarsi la fortuna dei quattro o cinque, lasciati sulla paglia a dormire. I meno vergognosi, poi, imitavano gli scolaretti che non sanno durarla con un'ora di lezione, e chiedevano, per una ragione o per l'altra, di uscire.

Finalmente fu picchiato all'uscio; era il Martini che tornava da far l'ambasciata, e, come la colomba dell'Arca, portava un ramoscello d'olivo. Il colpo era fallito; non c'era più nulla a tentare.

La cosa parve strana a Lorenzo, che fu sollecito a chiamare in disparte il suo luogotenente, e a farsi raccontare ogni cosa per filo e per segno. Il Martini era andato senza risico, passando pei vicoli, e cansando le vie principali, fin dove gli aveva accennato il comandante. Colà egli non aveva potuto abboccarsi col capo, che stava a stretto colloquio con altri. Per contro, aveva parlato con taluni dello stato maggiore (e ne citava i nomi) dai quali aveva udito che non c'era più rimedio: che lo Sperone non s'era potuto prenderlo: che il presidio era tutto in armi, ed occupava militarmente le vie della città; che finalmente non c'era più nulla a fare, e ognuno pensasse a cavarsela.

A Lorenzo non bastavano quelle notizie. Non che dubitasse del Martini, o che avesse fede nella possibilità del tentativo; ma, con una sì grave malleveria sulle spalle, voleva sincerarsi del contr'ordine, co' suoi occhi, colle sue orecchie medesime. Però, ceduto il comando all'ottimo popolano, e ordinato che la gente non si movesse dal posto, salvo il caso di suprema necessità (del resto il luogo aveva due uscite, l'una per l'andito che i lettori conoscono, l'altra dalla porticina d'un orto attiguo) uscì da quella casa per andare a sua volta al quartiere generale.

Verissima in ogni parte la relazione del luogotenente; il colpo era fallito. E ciò saputo dalla bocca istessa dei capi, Lorenzo rifece con pronto passo la sua strada, per andare a sciogliere i suoi, che lo aspettavano. Passato speditamente per la via del Campo e la porta dei Vacca, entrò nella via lunga ed angusta di Prè, dove già tutte le botteghe erano chiuse da un'ora, ed egli non si abbattè in anima nata, salvo in qualche ubbriaco, che proseguiva in lunedì il tripudio vinoso della domenica.

Così giunse alle spalle del palazzo reale; andò oltre; ma quando fu presso al vicolo, nel quale aveva a commettersi, gli ferì improvvisamente l'orecchio un rumore di passi, e uno strepito d'armi.

Era di sicuro un drappello di soldati. Tornare indietro e giuocar di calcagna? No certo, sebbene fosse quello il più savio consiglio. E i compagni? non doveva egli andare a cercarli, e, se erano scoperti, partecipare alla loro sorte? La sua deliberazione fu pronta: impugnò, senza cavarla tuttavia di tasca, la sua rivoltina, e affrettò il passo per entrare nel vicolo.

Ma egli aveva a mala pena svoltato l'angolo, che si udì gridare sul volto:

—Alto là!—

E innanzi che avesse potuto misurare la gravità del pericolo, si vide attorniato da un manipolo di soldati.

—Dove va Ella?—chiese il sergente che comandava la squadra.

—Pe' fatti miei;—rispose asciutto Lorenzo.

—Ah diamine, Sal….! siete voi?—gridò, balzando fuori a quelle parole del giovine, un uffiziale che era rimasto alcuni passi indietro.

—Nelli di Rovereto!—sclamò Lorenzo, ravvisando il capitano.

—Sì, per l'appunto, Nelli di Rovereto, che naviga in questi paraggi per comando del suo generale, e non avrebbe a lodarsene punto, se il caso non lo facesse imbattere in un volto d'amico.—

Ciò detto, il capitano si volse al sergente, che si era tirato in disparte co' suoi, per concedere alcuni minuti di riposo, mentr'egli stava ragionando con quel suo conoscente.

—E adesso a noi;—proseguì, tirando Lorenzo sull'angolo della strada.—Dove andate così frettoloso, mio buon Salvani?

—Passeggiavo; lo vedete.

—E avevate paura (scusate, dico paura, così, per modo di dire) e avevate paura dei ladri?

—Perchè?—dimandò stupefatto il Salvani.

—Perchè,—soggiunse, abbassando ancora la voce, il Rovereto,—perchè vi siete armato della vostra rivoltina, che vi fa un gomito traditore nella falda della giacca.

—Credete che fosse proprio paura dei ladri?—chiese Lorenzo, sorridendo.

—Non vi dirò quel che io credo, come voi non mi direste quello che è. Smettiamo dunque un simile discorso; e andate, che io non voglio trattenervi.

—Grazie!—rispose Lorenzo, stringendogli fortemente la mano. E fece per andar oltre; ma il capitano lo trattenne ancora.

—Intendiamoci, Salvani; non per di qua. Tornate indietro, e sarà meglio per tutti.

—Non posso; o lasciatemi passare, o fatemi
  arrestare senz'altro.—

Il buon capitano, che amava molto Lorenzo, avendolo conosciuto prode e gentil cavaliere in quella occasione che i nostri lettori rammentano, stette alquanto sovra pensiero; quindi, mettendo amorevolmente le mani sulle braccia di lui, e guardandolo fisso in volto, gli chiese:

—Che cosa sperate oramai?

—Nulla!—disse il Salvani.

—Dunque?…

—Dunque lasciatemi andare per di là, dove ho alcuni amici da vedere; e sarà, ve lo giuro, senza pericolo per la causa alla quale servite.

—Lo credo; ma se fosse, come io penso, con pericolo vostro?…

—Che importa? Non badate a ciò, e lasciatemi andare.

—Dovunque vi piacerà, salvo al numero __otto__.

—Che?—esclamò il giovine, piantando a sua volta gli occhi in viso all'amico.—Voi sapete….

—Ogni cosa. So, verbigrazia, che laggiù non trovereste più alcuno, salvo una mezza compagnia di soldati che custodisce le porte, e una mano d'altri personaggi, meno riguardosi coi loro avversari politici, i quali vanno rovistando dappertutto, per trovare una carta…. che non c'è.

—Ah!—disse Lorenzo.—E gli amici miei….

—State di buon animo!—interruppe il Nelli.—L'uffiziale di pubblica sicurezza aveva fatto male il suo piano di battaglia, e ha assalito il nemico senza chiudergli la ritirata. Io m'ero avveduto bensì dell'errore; ma non era affar mio. L'intento del soldato era di sgominare da questo lato i vostri disegni, e questo io l'ho fatto. Sono entrato per l'androne, mentre i vostri sgattaiolavano dalla parte del giardino; ho atterrato l'uscio, e sono anche stato il primo a metter il naso in una certa cameretta, su d'un certo tavolino….

—Proseguite!

—Dov'era un certo foglio di carta…. una specie di ruolino di compagnia.

—L'avevano dimenticato!—disse Lorenzo con accento di dolore.

—Sì, ma gli è caduto in mia mano, e mi servirà per accendere Biancolina, una eccellente spuma di mare, che consola i miei ozi pomeridiani.

—Grazie!—soggiunse Lorenzo, respirando;—grazie, non per me, ma per gli altri!

—Che diamine!—disse di rimando il Nelli.—Siamo amici, o non siamo? Io fo il soldato e non lo sgherro; combatto, non lego. Se vi avessi incontrati in armi, avrei comandato il fuoco; il resto non mi risguarda, e se c'è un amico di mezzo, mi adopero a salvarlo. Ma badate, Salvani; voi siete accennato a palazzo Ducale come uno dei capi della rivolta; si citava appunto il tentativo della Darsena come una impresa che doveva esser guidata da voi. Perciò, come addetto al comando generale, ho scelto di venire da questa parte, e la fortuna, che ama i soldati, quando non fa buscar loro una palla in petto, mi ha usato cortesia da gentildonna. Or dunque, io vi consiglio a non tornare in casa vostra, questa notte. Avete amici a cui chiedere ospitalità? andate da essi; io non vi ho veduto, non vi conosco.—

E finita la sua orazione, il cortese capitano profferse la mano, in atto di commiato, al suo avversario.

—Voi avete un cuor d'oro, signor Rovereto!—disse il Salvani, stringendo quella mano tra le sue.

—Che! che! Se foste voi ne' miei panni non fareste lo stesso? Non imitereste l'esempio di que' due amici dell'antichità, che, incontratisi in campo, si strinsero le destre, in cambio di uccidersi, e barattarono le armature? Glauco e Diomede! Bei nomi! E i tempi in cui vivevano di tali valentuomini, ora si chiamano barbari!

—Siete tutti classici, quest'oggi!—notò, sorridendo, il Salvani.—Il Pietrasanta, stamane, pensava all'Eneide; voi questa sera mi citate l'Iliade. Il fatto è che gli uomini generosi e cortesi sono di tutte le età, e niente c'è di nuovo sotto il sole, nemmeno la tolleranza scambievole delle opinioni, che ha in voi un così nobil campione.

—Ah, Salvani, Salvani, se comandassimo noi?

—Che cosa fareste, se comandaste voi, Rovereto?

—Io?… Vorrei anzitutto che non ci fosse più un palmo di terra italiana, dove rimanessero tirannelli a dividere, e forestieri a comandare.

—Mi accorgo che vorreste aver me per capo della maggioranza.

—E mio collega al ministero! Che bella cosa si annunzierebbe alla nazione! Un ministero Rovereto Salvani…. Diamine! mi pare che rimangano molti portafogli senza titolare.

—O dove lasciate il Montalto, il Pietrasanta e l'Assereto?

—Avete ragione, perdinci! Saremmo cinque ministri, e i portafogli d'avanzo li terremmo noi stessi per interim. Sarebbe il ministero di San Nazaro, che varrebbe in fin dei conti come tanti e tant'altri. Ottima pensata! ho da sognarne, stanotte! Ma noi,—proseguì ridendo come un pazzo, il capitano,—stiamo qui a ciaramellare, come se avessimo tempo da buttar via. Statemi sano: io torno ai miei uomini.

—Addio, dunque, e ancora una volta, grazie!

—Zitto là; ne parleremo domani. Buona notte!—

E il Nelli, data una giratina sui tacchi, si allontanò speditamente, alla volta del suo drappello, che aveva avuto dieci o quindici minuti di riposo, in cambio di cinque.

Anche Lorenzo si mosse dal canto suo per andarsene. Ma dove? A casa non era prudente consiglio tornare; perciò gli parve acconcio di andare a chiedere ospitalità presso l'amico Assereto, dal quale avrebbe avuto novelle di casa sua.

Ma l'Assereto quella notte non aveva tenuto fede a' suoi lari, e Lorenzo fu accolto amorevolmente dalla famiglia di lui, che lo introdusse in una linda cameretta, daccanto a quella dell'assente.

Rimasto solo, il giovine si lasciò andare bocconi sulla sponda del letto, colle ginocchia a terra, ringraziando il Nume ignoto che lo serbava in vita e in libertà.

Egli non pensava a se stesso in quel momento, lo sapete; pensava a
Maria.

III.

Di una corte d'amore, la quale fu tenuta nel secolo decimonono.

Messer Lodovico Ariosto, chiamato a buon dritto il divino, non se la cavò neppur egli dai tortuosi meandri del suo meraviglioso poema, se non coll'umile spediente di correre innanzi e indietro senza posa, e, servitore sgobbone di tutti i suoi personaggi (che non erano pochi, nè docili), pigliar questo per mano e guidarlo per un lungo tratto di strada; tornar sollecito indietro e cavarne un altro dal pozzo; voltarsi qua e là, scendere e salire per pianure e montagne, navigar per mare oltre le colonne d'Ercole, volare financo alla luna, ed intricare e districare mai sempre le fila che gli avevan posto tra mani «le donne, i cavalier, l'arme e gli amori».

Lettori, avete capito il latino? Vi abbiamo condotti senza intoppo, o quasi, fino alla prima ora del 30 di giugno, e adesso ci conviene, per le necessità della nostra narrazione, rifarci indietro una mezza giornata. Tante fila s'intrecciano, s'imbrogliano e s'aggrovigliano intorno ai nostri personaggi! Abbiamo veduto come finisse la sua impresa Lorenzo Salvani; ora dobbiamo vedere come finisse la sua Enrico Pietrasanta, tirato a buon trotto dalla sua pariglia di rovani alla villa Vivaldi, nelle vicinanze di Quinto.

Nè basta. Siccome da lungo tempo non s'è più visto in scena Aloise, nè la bella Ginevra dagli occhi verdi, precederemo il Pietrasanta colla nostra fantasia, specie d'ippogrifo che va più veloce a gran pezza de' suoi baldi cornipedi.

Siamo dunque a Quinto, alle spalle del paese, in quel palazzo che sapete, murato a foggia di castello, con la sua torre che usciva da un lato dell'edifizio, rompendo ad angolo due acque del tetto; in quella magnifica villa, dove vi abbiamo condotti, nella prima parte di queste fedelissime cronache contemporanee, il giorno della prima scampagnata del convalescente Aloise.

Ogni cosa colà, il giardino, il prato, la selva, la campagna tutta quanta, ha mutato d'aspetto, per opera d'una rigogliosa vegetazione. Giacomino, il giardiniere ortodosso che sapete, ha fatto miracoli coll'aiuto della madre natura. Le aiuole, le ampie gradinate dei vasi d'ogni forma e misura, i canestri foggiati in terra sulle falde del prato, risplendono di mille fiori svariati, vaporano mille diversi aromi per l'aria serena. Le camelie, le violette e i giacinti, hanno ceduto il luogo allo stuolo moltiforme della flora d'estate. Le molli ninfee sono fiorite nel laghetto dove scherzano i cigni; le paulonie dall'alto fusto e dal largo fogliame verde cupo, si rischiarano in color di smeraldo alla luce del sole; nè più chiedendo il riparo della veste di paglia, le magnolie mettono al sommo d'ogni ramo le candide bocce pannocchiute dalle sottili fragranze. Ne' vasi, in bell'ordine disposti, fioriscono cento famiglie di pelargonii, di rose e di garofani, i mugherini indiani e le gardenie del Malabar, che derivano a noi i narcotici effluvii della terra natale. Nelle aiuole crescono gli elitropii dai lunghi e fogliosi steli, gli eliotropii delle cui ciocche odorose le donne gentili amano ornarsi lo sparato del camicino; gli umili mughetti mettono fuori i verdi litui fregiati di brevi campanellini bianchi; gli amorini d'Egitto si tengono modestamente a terra, dissimulando nel verde delle foglioline la poca apparenza dei fiori, ma non la soavità degli odori, gradito compimento, insieme coi dittami, e quasi cornice dei mazzi eleganti; le tuberose scarse di foglie, ma ricche di fiori, torreggiano qua e là; i gelsomini e le gaggìe salgono a spalliera, s'inerpicano lungo le amiche pareti.

Pari alle gaggìe nei loro serpeggiamenti, s'innalzano le asclepie, mostrando su tenui fili quasi innestate le larghe foglie coriacee e i carnosi fiori stellati. Più sfoggiatamente vestiti si levano in alto gli abùtili, e lasciano con leggiadra civetteria ricader mollemente tra i pampinosi tralci le graziose campanelle socchiuse, dai petali giallognoli e bizzarramente venati di scuro. Guardate il prato, com'è tutto d'un bel verde tenero! Qua e là il dolce declivio è interrotto da larghi ed alti ciuffi di foglie ricadenti a ombrello, lunghe, sottili, affilate e pieghevoli come lame di Toledo. È il ginerio argenteo, che protende in aria, su svelte asticciole, e lascia cullar mollemente da ogni soffio i suoi candidi pennacchi, che appaiono (qua la mano, secentisti!) altrettanti colonnelli dell'esercito di Flora. Più in là l'ibisco siriaco e l'africano, cresciuti ad arbusto, schiudono a centinaia i larghi calici bianchi e vermigli, dagli orli vagamente intagliati e dal fondo screziato. Sui margini della prateria, sbucano le iridi dal fitto delle loro foglie gladiate, a far pompa di grossi fiori turchinicci e odorosi. I cacti, orrida famiglia, mostrano, coi fiorellini nati dai dorsi villosi, che anco nel cuor più duro spuntano qualche volta i soavi pensieri. Le agavi americane, colle vaste foglie aguzze e dentate, sfidano il cielo a battaglia. E più lontano ancora, l'orizzonte è celato agli occhi da una fitta selva di salici, di conifere e di piante d'ogni maniera, che descrivono il fondo a quella scena incantevole.

Tutto è allegrezza, tutto è festa, nella ringiovanita natura. Come tutto vive, come tutto si spande, luce, colori, fragranze, armonie! Vedete i campi, aiuole naturali, canestri foggiati capricciosamente nel suolo dal giardiniere invisibile, dove nascono, vivono ed amano migliaia di tenere pianticelle, dalla graziosa pratellina alla severa piantaggine, dalla euforbia ingrata alla cedragnola pietosa, confuse tutte tra ogni maniera di erbe matte, vicino all'utile cicerbita, all'aromatica pimpinella, al timo e al mentastro odoroso, che formano anch'essi il loro giardino! Vedete più oltre l'erica gentile, inconsapevole dell'uso ingrato a cui la condannerà l'industria umana, quando sarà sfiorata e sfrondata; il corbezzolo ed il ginepro, tutti e due ricchi di frutti, a ristoro dei pennuti avventori, e il pino domestico e il selvatico, e gli elci superbi delle non caduche foglie, e il rovere e il sughero, lieti dei nuovi germogli, che tutti descrivono anch'essi il loro fondo a quel complesso di naturali bellezze!

Il sughero! Lo ricordate, o lettori, quell'albero di sughero, che Giacomino, il giardiniere, faceva notare ad Enrico Pietrasanta, il quale, profano quel giorno alle delicature poetiche, lo sentenziò buonissimo per far turaccioli? Ricordate che a' piè di quell'albero era una tavola di lavagna, con parecchi sedili rustici tutt'intorno? Ricordate che quella era, a detta del giardiniere, la Corte di Amore, così chiamata da gran tempo, e dove tutte le Vivaldi, madre, nonna e bisnonna di Ginevra, avevano sempre avuto per costume di recarsi a passare le ore più calde della giornata? Se ciò v'è rimasto in mente, ricorderete ancora che la bella Ginevra dagli occhi verdi usava starci tre o quattr'ore ogni giorno; che faceva metter cuscini sopra i sedili, un gran tappeto sulla tavola, e una bella tenda tirata fra gli alberi, per custodirsi meglio dai raggi del sole; che Giacomino ci portava fiori; la cameriera dei libri e il telaio da ricamo della marchesa; il servitore dei rinfreschi, e gli amici convitati un subbisso di chiacchiere.

È il tocco dopo il meriggio; la vampa del sole che signoreggia liberamente il prato vicino, non penetra sotto il conserto fogliame degli alberi secolari; e l'ampio velario divisato a liste bianche ed azzurre, sospeso tra i rami sporgenti, vieta ai raggi indiscreti, che hanno potuto trapelare da qualche vano della frasca, di recar molestia alla gentil comitiva. Stridono con monotono metro le cicale su pei tronchi degli alberi soleggiati; le farfalle, screziate di mille colori e cosperse di polverina d'oro, vanno aliando qua e là, lungo le aiuole fiorite; le libellule, dalle svelte forme e dalle ali di zaffiro, si librano a volo sulla superficie del laghetto, che, solcata per ogni verso dalle candide prore dei cigni nuotanti, scintilla in riflessi d'argento.

Vedete ora, seduti al rezzo delle piante che v'abbiam detto, quali su rustici sgabelli di legno, quali su sedili di maiolica, foggiati a pila di cuscini vagamente istoriati, sei o sette gentiluomini. Fanno corona a tre dame, o, per dire più veramente, ad una sola. Le Grazie erano tre, tutte pari in bellezza, per modo che il riguardante rimanesse in forse a cui dare il vanto sulle altre due. Anche queste tre sono belle: ma una più dell'altre a gran pezza; di guisa che voi medesimi, o lettori, chiamati a giudicare, dareste il vostro voto alla marchesa Ginevra.

Padrona di casa, ella non può condurre la cortesia ospitale fino al segno di essere e di apparire inferiore in bellezza, o pari almeno, alle sue nobili visitatrici. La Giulia Monterosso, di cui già vi abbiamo dipinte le labbra tumide e coralline, le guance vivide come le pesche duràcine e gli guardi accesi che avrebbero rimescolato il sangue nelle vene al più tranquillo anacoreta della Tebaide, ha la sua villeggiatura poco lontano da quella di Ginevra, ed è spesso, quasi ogni giorno, presso di lei. Maddalena Torralba, la soave Maddalena, dai grand'occhi azzurrognoli, dalla carnagione di latte, tutta dolci pensieri e dolci parole, è da otto giorni, insieme col marito, ospite del tiranno e della tiranna di Quinto. Aveva stabilito di rimanere soltanto una settimana; ed ecco, è già incominciata l'altra, e Maddalena rimane, cedendo alla dolce violenza della Ginevra. Ma sabato se ne andrà, ella dice; i bagni di Voltaggio l'aspettano. Noi scommettiamo che non sarà neanche sabato, e i bagni, o, per dir meglio, i ballerini di Voltaggio l'aspetteranno ancora un bel pezzo. Maddalena è, come sapete, la più tenera amica di Ginevra, e, dove se ne tolga la Roche Huart, che vive a Parigi, e con cui la Vivaldi tiene assiduo carteggio, è anche la più amata. Ambedue sono state educate in Francia, nel medesimo convento; i loro caratteri, per ragion di contrasto, si combaciano e si fondono assai bene. Oltreciò, la Torralba fu la prima ad accorgersi dell'amor di Aloise per Ginevra, e questa, sebbene si schermisca, nè voglia lasciarsi cader parola a lui più benigna, ascolta tranquillamente le lodi del giovine dalle labbra della compassionevole amica. È riamato il poverino? Maddalena non giunge ad intenderlo, perchè Ginevra sorride sempre e mostra di non darsene gran pensiero, oltre i confini di quella eletta cortesia, di quella signorile dimestichezza, della quale è prodiga a lui, come ad altri parecchi; per esempio al vecchio De' Salvi, che se ne gonfia tutto quanto, e al giovine Cigàla, che non ci si fida per nulla.

Il nostro Aloise era quasi ogni giorno a Quinto, e andava facendo pazzie sopra pazzie, mandandole l'una di costa all'altra, come le avemmarie nella coroncina, e facendone tratto tratto alcuna più grossa, che tenesse luogo di paternostro. Il marchese Antoniotto lo vedeva di buon occhio, come il solo dei suoi giovani visitatori che si adattasse di buon grado alle sue tiranniche voglie di controversia politica. Sicuro; Aloise ragionava di politica, lasciandosi mettere colle spalle al muro al finire d'ogni disputa; inoltre giuocava a scacchi, e pigliava sempre scacco matto. Senonchè, di queste periodiche sconfitte, egli si ricattava in materia di coltivazione, della quale parlava come un __doctus in re__.

Aloise agronomo? Sissignori; agronomo col marchese Antoniotto, in quella guisa che era botanico colla marchesa Ginevra. E poi ci si venga a parlare delle vocazioni! Se lo aveste sentito, a disputare gravemente col suo ospite di terreni silicei, di magri e di grassi, dove meglio provasse la vite o l'ulivo; di nuove e più acconce maniere di sfruttare la terra; del tempo più adatto al taglio delle piante, e via dicendo, lo avreste tolto per un nobile campagnuolo, per un membro effettivo del Comizio agrario, o che so io.

Quando le conversazioni agricole andavano un po' per le lunghe (e questo avveniva ogniqualvolta ci fosse stato qualche dissidio nelle conversazioni botaniche) la marchesa Ginevra si faceva a liberare il giovinotto dalle ugne del marito e dai lacci della sua medesima eloquenza, chiamandolo ad altri e più geniali discorsi. Era pietà? era capriccio? Lo stesso Aloise non avrebbe saputo dirlo; ora gli pareva una cosa, ora l'altra. Intanto egli non s'era anche arrisicato a dirle: __vi amo__; nè ella mai gliene aveva pòrto occasione. E si struggeva, pensando che quella occasione non sarebbe venuta mai; giunto il mattino colla speranza, se ne andava ogni sera colla morte nel cuore, e ammazzava, siam per dire, i cavalli, per la furia di giungere a Genova, come li ammazzava il mattino pel gran desiderio di giungere a Quinto.

Il povero Aloise era per l'appunto in uno de' suoi più brutti quarti d'ora. Qualche nuvola era apparsa a contristare la serenità del suo mattino. La Ginevra, contegnosa oltremodo con lui, dacchè erano andati a sedersi sotto gli alberi, lo aveva a mala pena guardato; gli occhi della dea non si alzavano dal suo telaio da ricamo, se non per volgersi a questo o a quello de' suoi più ciarlieri vicini, accompagnando con graziose occhiate le sue graziose risposte. Luce di sguardi, musica di parole, armonia di sorrisi che non andava a lui, che a lui non era dato di libare, o gli si tramutava in veleno! Ma non aveva egli forse meritato quella severità di Ginevra? Non era egli rimasto un'ora senza parole, rispondendo a monosillabi, quando la pietosa Maddalena aveva tentato con qualche cortesia di tirarlo nella conversazione, quando il faceto Cigàla lo aveva stimolato con qualche arguta dimanda?

Così, scontento di lei e più ancora di sè medesimo, Aloise aveva lasciato il campo, per andarsene a passeggiare lungo la gradinata del palazzo, insieme col marchese Antoniotto, col De' Salvi e col Monterosso, il marito della Giulia, i quali disputavano di fabbricerie. Il Monterosso, uno dei fabbricieri della chiesa di Santa Geltrude, aveva lasciato correre, per alcuni e rilevanti restauri del vecchio organo, una spesa molto maggiore di quella che s'era tra colleghi convenuto di fare. Chi aveva a snocciolarli? I fabbricieri colleghi dicevano il Monterosso; egli per contro non voleva saperne, dappoichè (così argomentava) i restauri s'erano creduti necessarii, e se, nella progressione del lavoro, egli, incaricato di quella bisogna, aveva dovuto andar oltre nello spendere, non aveva fatto cosa che in sostanza non fosse stata decretata nel consiglio di tutti. E qui, controversia accademica tra il Monterosso e il De' Salvi, che voleva saper di ogni cosa; qui sentenze, disgressioni giuridiche del marchese Antoniotto, con qualche dimanda __pro forma__ ad Aloise, il quale doveva rispondere: «__et cum spiritu tuo__».

Come dovesse godersela in questi discorsi, lasciamo che pensiate voi, o lettrici. Egli non si era certo addottorato in leggi per venire a parar quella raffica di giurisprudenza dei suoi attempati colleghi in patriziato, ed esser quarto fra cotanto senno. E si noti che non la volevano smettere così presto; passeggiavano infervorandosi sempre più, e fermandosi ad ogni tratto per udir le sentenze del marchese Antoniotto, il quale amava ascoltar gli altri passeggiando, ma voleva parlare stando fermo e facendo star ferma l'udienza. Il Torre Vivaldi era senatore anche in villa.

Di certo, Aloise avrebbe potuto dire la sua, anco in materia di fabbricerie; ma gli tornava più comodo dar ragione suo ospite. Nè lo faceva per piaggeria; sibbene perchè non era sempre coll'animo presente alla disputa, e l'accennar del capo, e le rotte frasi di approvazione, gli davano licenza di pensare a tutt'altro. Epperò, ad ogni tratto, quando i quattro peripatetici avevano a dar volta per rifare la strada, uno di essi, Aloise, perdendo di vista l'organo e i fabbricieri, dava un'occhiata là dalla parte del prato, sospingeva lo sguardo fin sotto agli alberi, dove, più felici di lui, il Cigàla, il piccolo Riario, e il De' Carli soprannominato Tartaglia, stavano conversando colla bella Ginevra.

Vestita con quella cara semplicità che è lo sfoggio più conveniente della bellezza, Ginevra era seduta al suo solito posto, sotto l'albero prediletto, daccanto alla tavola di lavagna. Indossava una veste di quella seta tenue, leggiera, che i francesi chiamano __foulard__, bianchiccia di fondo e tutta disegnata a ciocche di minuti fiorellini. La vita era tagliata a mezzo scollo; ma, a dissimulare il sommo delle spalle ignude, e più ancora ad accrescere grazia a quella stupenda figura, le si girava intorno all'imbusto, secondo l'antica foggia di Maria Antonietta, un candido fisciù di velo trapunto, i cui capi (felicissimi capi, avrebbe detto il lezioso De' Carli) scendevano ad abbracciarle il giro di una vita, non troppo piena nè troppo snella, come vediamo essere stata condotta dal greco scalpello la vita di Venere. Teneva davanti a sè il suo telaio da ricamo, tra le stecche del quale era teso il canavaccio che ella con lana di svariati colori andava ricamando a punto in croce dei più graziosi rabeschi.

Daccanto a lei, Maddalena stava lavorando all'uncinetto certe maglie, che non sapremmo e che non mette conto descrivere; arnesi da salotto che si fanno per ingannare il tempo ed anco un tantino per impedire ai signori uomini di insudiciare colla manteca delle loro capigliature la spalliera di una poltrona, o d'un canapè. La Giulia, per contro, non faceva nulla, e da un'ora si andava dolendo di non aver portato nessun lavoruccio con sè.

—Cigàla,—disse ella finalmente,—aiutatemi a dipanare la lana di
Ginevra.

—Eccomi pronto;—rispose il giovinotto, mettendo con bel garbo le palme a sostegno di una piccola matassa che gli andava sporgendo la Giulia;—ma vi annunzio che vi servirò molto male.

—Perchè?—disse ella di rimando.—Ogni cosa andrà pel suo verso, se starete attento.

—E lo potrò io?—dimandò con aria di candore il
  Cigàla.

Al candore risponde assai bene il rossore, e la marchesa Giulia arrossì tanto più facilmente, in quanto che la cosa tornava agevolissima a quel suo viso di Erigone.

—Oggi siete più galante del solito!—ripigliò la dama, provandosi a guardare in volto il suo faceto vicino.

—Lo credo io!—rispose il Cigàla, che non si lasciava mai cogliere disarmato.—Sono galante per due. In me parla il presente e l'assente.

—Che cosa mi dite voi ora? Vedete, non trovo più il bandolo.

—Io l'ho già perduto da un pezzo!—aggiunse sospirando il giovinotto.

—Parlate anche per l'assente?

—No, marchesa; qui parlo per me, solamente per me.

—Cigàla, io vo in collera!—interruppe Ginevra.

—E perchè, di grazia?

—Perchè voi dite a tutte le dame la medesima cosa; ed è male, assai male!

—Ma il peggio, signora, è più ancora del male, se ben ricordo gl'insegnamenti del mio maestro di grammatica. Ora il peggio si è che con tutte faccio fiasco egualmente.

—E perchè? non lo indovinate voi, il perchè?—soggiunse Ginevra, proseguendo la celia.—Perchè mirate a troppe. Ora voi non ignorate che cos'abbia sentenziato una nostra gentile antecessora, la contessa di Sciampagna. «Egli non si può amare più d'una donna ad un tempo».

—Verissimo, pel tempo d'allora;—rispose il
  Cigàla.

—Perchè d'allora, e non d'adesso?—chiese
  Maddalena.

—Perchè? È presto detto. Perchè una dama a quel tempo era costretta dalle leggi d'amore a non mandar disperato il cavaliere ch'ella avesse ricevuto in sua mercè, il cavaliere che portasse i suoi colori e facesse ogni maniera di prodezze per lei. Che fanno ora, con vostra licenza, le dame? C'incatenano colle loro lusinghe (lusinghe inconsapevoli, involontarie, s'intende) e poi, come fanciulli crudeli cogli animalucci che cascano sotto le loro mani innocenti, si pigliano spasso de' nostri dolori; ci piantano spille tra le unghie e la carne ci punzecchiano il cuore, come si adopera colle oche, per dilatar loro il fegato; ci mettono a rosolare sulla graticola e in fondo a tutto questo martirio non c'è nemmeno quella speranza del paradiso, che consolava gli antichi confessori della fede cristiana.

—Benissimo!—tartagliò il De' Carli.

—È pretta verità!—soggiunse il piccolo Riario, battendo del tacco sull'erba.

—Mi fate venir la pelle d'oca!—disse a sua volta ridendo la marchesa
Ginevra.

—Ah, buon segno!—gridò con aria di trionfo il Cigàla.—Voi, almeno, sentireste pietà de' nostri tormenti. Ora, volete intorno a ciò il mio schietto parere? Io non voglio patire a questo modo; io sono un filosofo, non già un santo anacoreta che ami flagellarsi le carni, far penitenza de' suoi peccati e di quelli degli altri. Amo la donna in tutte le donne; piglio divotamente (e qui sta il mio pregio) tutto quello che esse non ricusano ad alcuno, voglio dire la vista delle loro bellezze, lo splendore delle loro grazie, i dolci sorrisi, le soavi parole, e ne compongo un elettuario, un brodo ristretto….

—Eravate galante, e diventate volgare!—esclamò Giulia, strappandogli la matassa dalle mani.

—Lasciatemi finire, signora!—ripigliò il Cigàla, trattenendo i pochi giri di lana che gli rimanevano sospesi tra il pollice e l'indice.—Ho detto e ripeto che ne compongo un elettuario, un brodo ristretto, che mi abbia a servire di viatico in questo deserto della vita. Il paragone è volgare, ma esprime il concetto; e il concetto non è volgare, finalmente! Amo in tutte le donne la donna; questo è l'essenziale. E ciò vale meglio che amarne una, una sola, e condannarsi a morire di rabbia. Che ne dici tu Aloise?—

La dimanda era rivolta al Montalto, che in quel frattempo s'era liberato dalle fabbricerie e tornava con lenti passi verso il crocchio delle signore.

—Io?—rispose il giovine, che aveva udito le ultime frasi del discorso di Cigàla.—Io dico che l'amore è la più trista delle umane passioni.—

Questo era l'atto di contrizione di un apostata che tornava alla fede!
Ma la vendetta della sdegnata divinità non si fece aspettare.

—Per chi non ama davvero, sì certo,—rispose asciuttamente Ginevra, senza alzare gli occhi verso di lui, in quella che spingeva la punta del suo ago da ricamo nei trafori del canavaccio.

Più acuto assai che non fosse l'ago da ricamo, giunse lo strale e si piantò nel cuore di Aloise. Egli ricevette il colpo senza badare a pararlo ne a renderlo; barcollò, e, per non far scorgere il suo turbamento, si lasciò andare su d'un sedile ch'era rimasto vuoto.

Ma il Cigàla, sempre armato di tutto punto, e destro schermidore in cosiffatte tenzoni (tanto più destro in quanto che non ci aveva malinconie dentro il cuore), fu pronto a rispondere.

—Questa sarebbe un'eccezione, signora, e noi parliamo sui generali.

—Rispondete anche pel signor di Montalto?

—S'egli lo permette, perchè no?—

Aloise, così messo al punto, accennò all'amico che proseguisse liberamente per tutti e due.

—Stando adunque sui generali,—disse il Cigàla,—io chiederò a voi, gentili signore, chi pensiate amar più fortemente, fra le donne e gli uomini.

—Ah, veramente, voi non volete più avere quest'altra matassa che io stavo slacciando per voi!—gridò la Monterosso in atto di minaccia.

—L'avrà un guindolo migliore;—rispose sospirando il Cigàla.—Ecco infatti un assente, che sarà lietissimo di pigliare il mio posto.—

L'arguta allusione del giovinotto accennava alla comparsa del Pietrasanta alle falde del prato. Poco dianzi s'era udito rumore d'una carrozza dall'altro lato del palazzo, ed era il __landau__ del nostro Eurialo, che veniva in traccia di Niso. Il Pietrasanta si avanzò spigliatamente sul prato, alla volta degli alberi, e col cappello tra mani, il sorriso sulle labbra, corse ad ossequiare la marchesa Ginevra e le altre due dame; dopo di che si volse a salutare i cavalieri, stringendo la mano ai più intrinseci, e da ultimo si sedette accanto ad Aloise, col quale già incominciava a barattare qualche parola, allorquando fu interrotto dalla marchesa Giulia.

—Siete venuto in buon punto, Pietrasanta,—ella diceva,—per aiutarmi a dipanare la lana di Ginevra. Il Cigàla ha ardito mettere in dubbio che le donne siano migliori degli uomini, e non mi farà più da guindolo.

—Crudelissimo Cigàla, ne fai di queste?

—Cioè a dire….—rispose il Cigàla,—io non ho messo in dubbio nulla; chiedevo mi si dicesse chi ami più fortemente, se l'uomo o la donna, e torno a chiederlo, checchè possiate infliggermi per penitenza, ingiustissima dama.

—Alzatevi intanto, e date il posto al Pietrasanta;—disse la Giulia.

—Signora,—soggiunse Enrico, in quella che poggiava amorevolmente le mani sulle spalle dell'amico, per trattenerlo sul sedile;—perdonate al Cigàla, e sarà la grazia maggiore che mi potrete concedere.

—Ma bene, ottimamente!—entrò a dire Ginevra.—Vedi Giulia, come sono galanti tra di loro, questi signori uomini.

—Perchè amano fortemente, marchesa!—gridò, con aria di trionfo, il Cigàla.—Questa cortesia di Enrico, che io non ho chiesta nè preparata, viene in aiuto alla mia tesi.

Ora io lo dimanderò alla signora Maddalena, che non mi ha ancora dato il suo voto di biasimo; chi ama più fortemente? gli uomini o le donne?

—E lo chiedete ancora?—rispose la soave Maddalena.—Le donne, a mio credere. E voi, seriamente, ardireste essere d'una contraria opinione?

—Pur troppo, signora, e non solo tengo che gli uomini amino più fortemente a gran pezza, ma aggiungo….

—Suvvia, non vi fermate a mezza strada!—disse Ginevra.—Dopo quello che avete già sentenziato, non ci può esser altro che rechi stupore a Maddalena.

—Or bene, aggiungo…. Ma intendiamoci, lascio da parte le dame presenti! Aggiungo insomma che le donne amano poco, per non dir nulla, addirittura.

—È grossa!—esclamò la Giulia.

—E la sostengo, foss'anche grossa come il nostro pianeta!—disse di rimando l'oratore pessimista.—Le donne, generalmente parlando, sono egoiste. Amano, sì, non lo nego, ma anzitutto sè stesse. L'affetto di un uomo dice loro, in tutti i modi, una cosa sola: «siete bella!» Ecco perchè l'uomo che ama è ricambiato, e per che modo. Notate, io parlo delle migliori, di quelle che sono grate all'uomo un tantino di più che non allo specchio. Ma che cos'è poi questo loro ricambio di amore? È il superfluo dei loro pensieri, delle loro cure, e che non impedisce loro di contentare ogni loro capriccio, pari a quel superfluo che il Vangelo ci comanda di dare ai poveri, e che, levato di tasca, ci lascia ancor tanto da non patir difetto di nulla. Ora io lo chiedo a voi, gentilissime eccezioni; questo amare per una decima, anzi per una centesima parte della propria potenza spirituale, è egli amare davvero, o non piuttosto per celia?

—L'accusa è antica,—rispose placidamente Ginevra,—e tutte le donne che ci hanno preceduto sulla scena del mondo, l'hanno combattuta, risospingendola agli uomini. Io non mi gioverò di questo spediente; non negherò neppure che ci sia molto di vero in quello che dite. Ma non si meritano questo, e peggio, i signori uomini? Lascio, s'intende, da parte i presenti;—aggiunse ella sorridendo, per rendere la pariglia al Cigàla, che s'alzò a mezzo, per farle un inchino;—ma è certo che i signori uomini sanno molto bene volere, e punto punto guadagnare. Oggi, pur di vederci, si contentano di starci dinanzi in adorazione; domani vogliono già udirci a parlare, e d'una cosa soltanto; entrati a mala pena, e quasi sempre a caso, nella cerchia delle nostre consuetudini, s'atteggiano a conquistatori, e vogliono essere adorati a lor volta, o chiedono una confessione in premio d'un sacrifizio che non hanno fatto, ed anche qui vogliono essere adorati alle prime. Ricordate la sentenza, Cigàla; «il vero amante è sempre timido».

—È la contessa di Sciampagna che lo dice?

—Non so, ma ne ricordo bene un'altra delle sue: «chi non sa nascondere non sa amare».

—Signora, Lanfranco Cigàla, mio antenato, e trovatore di grido, lasciò scritto in una delle sue canzoni: «chi nasconde non fa veder nulla».

—È autentica la citazione?

—Poniamo che sia apocrifa; la sentenza rimane, e può valer quanto un'altra.

—A questi patti ve ne citerò una terza, che potete leggere nel codice d'amore: «L'indiscreto non sarà mai un amante fedele». Ma tornando alla vostra, vi dirò che una donna si avvede mai sempre dell'affetto di un uomo, anco se gelosamente custodito nel profondo del cuore. E così i signori uomini si contentassero a lasciare indovinare i loro pensieri, che n'avrebbero assai più vantaggio.—

Aloise, il quale era stato muto ad udire quella tenzone, respirò più liberamente all'ultima frase della marchesa Ginevra, che gli parve uno zuccherino per lui. Ma il Cigàla, che non poteva averci le ragioni di Aloise a contentarsi di quella chiusa, s'impuntò ancora a rispondere.

—Voi dunque, signora, non ammettete nessuna uguaglianza tra le donne e gli uomini? Voi sarete un cortèo di regine, e noi un branco di schiavi?

—E che altro vorreste essere?—dimandò Ginevra, con piglio di leggiadra alterezza.—Non vi basta di avere lo scettro per tutte l'altre cose della vita? Lasciate a noi il regno del cuore, questo povero regno, questo alveare che abbiamo fabbricato noi, api pazienti, colla nostra industria sottile, cavando la cera e il miele dal calice dei fiori. Ma sapete che se questo regno grazioso cadesse per avventura anch'esso in vostra balìa, ne fareste un bell'uso!

—Non io certamente, marchesa!

—Lasciamo da parte i presenti, uomo di corta memoria! Vi arrendete?

—A discrezione.

—Bene! la Corte vi rimanda assolto, ma non già in grazia vostra, sibbene di Lanfranco Cigàla, vostro antenato, e gentil trovatore, che avete citato, in vostra buon'ora, testè. E poichè parliamo di trovatori, chi di voi, signori, saprebbe raccontarci la vita di Goffredo Rudel, e di Percivalle Doria?

IV.

Qui si racconta di Goffredo Rudel, come per amor si morisse.

Si ricordano i nostri lettori della visita che fece Aloise alla villa Vivaldi, allorquando l'amico Pietrasanta lo condusse a fare la prima passeggiata di convalescenza là dalla parte di Nervi? Se essi non hanno dimenticato quella gita campestre, rammenteranno ancora che, innanzi di uscir dalla villa, e quando il giardiniere aveva additato l'albo dei visitatori, Aloise di Montalto si era fatto sollecito a pigliar la matita, e, dopo avere rivolta un'occhiata d'intelligenza al compagno, aveva scritto sull'albo due strani nomi: __Goffredo Rudel__ e __Percivalle Doria__.

Di questa bizzarria il Pietrasanta aveva chiesta la ragione all'amico; e questi gli aveva risposto con un'altra, ripetendo una frase detta da Enrico al giardiniere, quando erano per rimettersi in carrozza: «i nostri noi viaggiano nel più stretto incognito».

Ma perchè, tra tanti nomi posticci che potevano venirgli in mente, egli era andato a cercar proprio que' due nomi storici? Perchè all'innamorato senza speranze pareva di scorgere una certa somiglianza tra la sua infelicità e quella famosa del poeta provenzale. Un trovatore, poi, ne tirava un altro, e tra i nomi di trovatori da poter mettere accanto al primo, gli era balenato alla fantasia quello di un genovese; però aveva aggiunto Percivalle Doria, come pseudonimo di Enrico Pietrasanta. Si noti che mezz'ora innanzi il giardiniere, conducendoli sotto l'albero di sughero, aveva accennato ad una Corte di amore; si aggiunga che Aloise, a que' tempi, secondo l'uso di tanti innamorati, leggeva assiduamente il Leopardi e il Petrarca. Ora, dal cenno del giardiniere e dai versi del Petrarca, ai trovatori, al Rudel, non c'era altro che un passo, e ad Aloise tornava in mente ciò che aveva scritto messer Francesco nel suo __Trionfo d'amore__.

    Gianfrè Rudel, che usò la vela e il remo
    A cercar la sua morte….

Dopo quel giorno, molte cose erano avvenute, ed Aloise era introdotto solennemente in casa Torre-Vivaldi. La sua prima visita alla marchesa, dopo ch'ella era in villeggiatura, gli aveva fatto ricordare, non senza un pochino di trepidanza, i due nomi scritti sul libro, e l'altro inciso sulla tavola di lavagna; ma s'era poscia raffidato nel pensiero che i primi dovessero rimanere ignorati, confusi com'erano tra tanti altri forestieri e visitatori d'ogni risma, e l'altro celato sotto il tappeto, che era sempre disteso sulla tavola di lavagna, in quelle ore che la marchesa usava passare in quel suo luogo prediletto.

Una volta aveva tremato davvero, ma non al tutto di sgomento. Egli era, con altri, vicino alla signora, e il discorso era per l'appunto caduto su quella rustica tavola, che il marchese Antoniotto avrebbe desiderato mutare in un'altra di marmo.

—No, essa m'è troppo cara così!—aveva esclamato la marchesa.

Ma il subitaneo timore e il dubbio dolcissimo di Aloise erano tosto svaniti. La marchesa, proseguendo, aveva narrato com'ella non volesse mutar nulla in quel luogo. La disposizione d'ogni cosa, la consuetudine di andarvi a passare le calde ore del giorno, il nome istesso di Corte d'amore, rimontavano alla sua bisavola, a quella «__celebrata—Per ingegno e beltà Tullia divina__» siccome l'avea cantata un poeta famoso del suo tempo. Agli orli di quella tavola si erano appoggiate le crespe rigonfie della sua veste di broccato; su quel piano s'era posato il suo ventaglio piumato, il suo occhialino, il suo libro; quella rozza lastra era sacra; sacri i rozzi sedili fatti di quel medesimo schisto nericcio, sorretti da scabri pilastrini; nient'altro di nuovo ci aveva da essere, salvo l'aggiunta dei sedili di maiolica, poichè i primi non sarebbero bastati alle geniali adunanze dei visitatori moderni.

Tornando ad Aloise, egli, poichè Ginevra niente aveva detto, o lontanamente accennato, s'era facilmente condotto a credere che non si fosse addata di nulla. E inoltre, come avrebbe ella potuto rintracciare in quei muti segni la mano di lui? Il giardiniere, nel quale s'era imbattuto due volte, non aveva mostrato di raffigurarlo; oltre di che, non avrebbe potuto affermare chi, dei tanti forestieri, avesse scritto que' nomi. E li aveva forse pur letti? In queste argomentazioni s'era chetata l'apprensione di Aloise, ed egli non ci pensava già più.

Ma bene, per contro, ci pensava Ginevra, come potrebbe dimostrarvi una lettera di lei alla Roche Huart, scritta ne' primi giorni del giugno, e già debitamente copiata da padre Bonaventura nel noto volume delle Opere di santo Agostino.

Volete leggerla? Tanto, per udire la continuazione dei lieti ragionari e la vita del trovatore Rudel, che qualcheduno si farà pure animo a raccontare, ci sarà sempre tempo, e noi, cronisti patentati, non ve ne faremo perdere neanche una sillaba.

È tempo, d'altra parte, che vi diciamo qualche cosa intorno al cuore della marchesa Ginevra, che fu una delle più notevoli donne della nostra generazione, in quella guisa che è una delle più importanti nel viluppo di questa veridica storia. Già minutamente ve l'abbiamo dipinta nella prima parte del libro, nè abbiamo tralasciato di accennarvi le egregie doti del suo intelletto; del cuore abbiamo detto soltanto che ancora non aveva dato segno di vita, così restando ella una donna della quale non si capiva un bel nulla. Tentiamo ora di capirne qualcosa; la lettera è qui:

«Sono finalmente nella mia tranquilla dimora di Quinto, dove mi è dato di respirare, di vivere. Sei mesi di agitazioni, di feste, di cure, di molestie parigine, non fanno anche a te, mia bellissima, desiderare la quiete della tua Bretagna? Le veglie, i teatri, le visite, le mille cure della città, opprimono me pure, m'infastidiscono per cinque o sei mesi colla monotona sequela dei loro trabalzamenti, e mi fanno parere cento volte più bella, più cara, questa mia vita campestre. Vivo in città, come il fiore nell'aria soffocata d'una stufa; qui torno all'aperto, dove il tepore è sano, dove la luce ravviva.

«Anche quassù s'alternano le visite e i passatempi; ma questi non sono comandati dalla consuetudine; la mia mente li trova e li varia a sua posta; quelle poi si ristringono a un picciol numero di famigliari, uomini sempre, e spesso adoratori molesti, ma sotto la comportabile maschera dell'ossequio, o della amicizia.

«Uomini! stirpe volgare, la cui ammirazione ti rimpicciolisce, il cui amore ti offende! Io non so intendere, per verità, come ci possano essere di così stolte donne, le quali commettano il cuore, la vita loro, al facile, insolente entusiasmo di un uomo. Or vedi che cosa avviene, sotto i nostri occhi, ogni giorno. Perchè una donna è giovane e bella (ardisco scrivere in tal guisa a te, mia bellissima, che m'hai guastata colle tue lodi e che solevi chiamarmi la tua __petite madone italienne__), si ascrivono a debito di ammirarla, di farle intendere in mille modi, non escluso quello della persecuzione, che ella ha l'altissimo onore di piacer loro non poco. Perchè questa donna ha un marito, tal volta severo e uggioso, tal altra maturo d'anni e logoro di cuore, eccoli tosto ad arrogarsi il diritto di amarla e di sperare che li ami. Questa è villania, insulto universale e continuo, che ognuna di noi è costretta a patire, e la più parte ne godono; tanto è vero che la servitù ci ha invilito lo spirito!

«Mi chiedi del Montalto, se continua a fare il malinconico. Sì, mia bellissima, continua, e va peggiorando; ma ti giuro che tutto ciò mi dispiace. Io lo stimavo assai più, allorquando, scrivendoti della mia prima comparsa di donna in questa società genovese, ti accennavo com'egli fosse il solo che non avesse cercato di farsi presentare a me, e in teatro, mentre tutti gli sguardi erano rivolti alla tua __petite madone italienne__, egli solo ostentasse di volger le spalle. Fui curiosa di conoscerlo, questo bizzarro giovinotto, del quale tutti erano, e sono ancora, invaghiti; e ciò forse ha potuto darti di me un concetto disforme dal vero. Egli è venuto, come sai, alla mia veglia annuale di congedo, e mio marito se n'è innamorato come tutti gli altri, egli che non va pazzo per alcuna cosa al mondo. Ma di lui ti ho già parlato a lungo, e di tutti i suoi amori colla politica: laonde non ti sarà difficile indovinare che la sua amicizia pel Montalto ha le sue radici nella ragion di Stato, che a noi donne mette i brividi addosso. Per fartela breve, il giovine amico è già venuto tre volte a Quinto, e mio marito vorrebbe vederlo ogni giorno. Intanto, sai che scoperta ho fatto io? Potrei dartela alle cento, alle mille, come madama Sevignè nella sua famosa lettera, che ci hanno fatta leggere tante volte in collegio, e tanto non la indovineresti. Figurati che quel suo contegno, quella sua arcana severità, nascondevano un antico affetto. E per chi? Per la madonnina italiana.

«Il primo giorno della mia villeggiatura, vado a salutare la Corte d'amore della marchesa Tullia, e quella tavola di lavagna che sai. Sull'orlo di quella tenera lastra di pietra che cosa trovo? Inciso il mio nome, __Ginevra__. Tutto ciò mi dà molto da fantasticare. Chi è stato? Vo a squadernare l'albo dei visitatori della villa. Son tutti nomi di Francesi, di Tedeschi, d'Inglesi, e di persone ignote. Ma l'incisore del mio nome, dico tra me, ha da essere uno del nostro ceto, e che mi conosca per bene. Ora io non so raccapezzarmi tra i nomi scritti nell'albo; due soli mi tengono dubbiosa, due nomi strani, due nomi d'antichi trovatori, Goffredo Rudel e Percivalle Doria. Piglio lingua dal giardiniere. Il brav'uomo si ricorda della venuta di due gran signori, giovani ambedue; l'uno pallido, biondo e svelto della persona, taciturno e infermiccio in apparenza; l'altro di capel bruno, spigliato nei modi, chiacchierino e sempre in moto. Sono certamente costoro che hanno lasciato quei due nomi nell'albo; il giardiniere ha notato che s'era negli ultimi giorni di febbraio, e sulla pagina c'è appunto scritta la data di quel mese. Essi visitarono la villa per ogni verso; ma, il biondo, che pareva stanco, non era andato più oltre della prateria, e, mentre il compagno scendeva nella grotta, era andato a sedersi presso la tavola di lavagna. Ci siamo, ho detto tra me; l'ignoto incisore è il giovine biondo.

«Ma ciò non bastava ancora; ho cavato le parole di bocca al Pietrasanta, l'amico inseparabile del Montalto, e lì, tra mille chiacchiere sbadatamente fatte, ho potuto sapere che egli era stato, in un tempo non molto lontano, a visitare la nostra villa. Non ho chiesto di più, per non metterlo in sospetto; ma il mio dubbio s'è fatto certezza; il tenue filo della mia logica mi ha guidato a questa scoperta: Aloise di Montalto aveva un segreto, e questo segreto lo ha confidato ad una tavola di lavagna, credendola muta. Ma oramai non parlano anche le tavole?

«Scriva a suo talento, il signorino: cada egli pure ed affoghi nella consuetudine di tutti gli uomini suoi pari. Ahimè, mia bellissima! non ci sono creature perfette quaggiù; salvo te, s'intende, salvo la prediletta, la lontana dagli occhi, ma non dal cuore di Ginevra.»

Di questa lettera, come dell'altre scritte prima e poi alla viscontessa di Roche Huart, come, a farla breve, di tutto ciò che pensasse la bella Ginevra, nulla poteva sapere Aloise. Però, argomenti il lettore come rimanesse sgomentito a quella improvvisa dimanda della marchesa, intorno ai due trovatori. Un fulmine, caduto a ciel sereno, non lo avrebbe scosso più forte. Per un tratto rimase muto; e fu ventura che altri parecchi gli fossero compagni, ai quali la domanda era rivolta come a lui; se no, impacciato come un pulcino nella stoppa, non avrebbe trovato niente da dire, e, quel che è peggio, il rossore lo avrebbe tradito.

Primo a rompere il silenzio fu il Cigàla, che rispose candidamente di non conoscere que' due personaggi. Il piccolo Riario fece una ugual confessione; altri due si strinsero nelle spalle; perfino il De' Carli tartagliò le sue quattro parole di scusa. Il Pietrasanta stette duro, come se la cosa non lo risguardasse punto, e se la cavò mandando una languida occhiata alla marchesa Giulia, che si fece tutta rossa nel volto. Ma i lettori non facciano sospetti temerarii; la marchesa arrossiva facilmente, perchè a ciò la traeva il suo color naturale.

Restava Aloise; ma, in quella che gli altri parlavano, il nostro giovine s'era fatto un cuor da leone. Non si diventa prodi, se non guardando in faccia il pericolo. Cotesto occorre in battaglia, e molti che leggono ne avranno fatto sperimento in sè stessi. Chinar la testa una volta al sibilar delle palle, conduce a chinarla per sempre; mettersi al riparo dietro un ciglione, persuade a non trarne più fuori la testa; e l'occasione, che potrebbe fare dell'uomo un eroe, la occasione se ne va, lasciando il soldato nella sua codarda postura.

Aloise aveva veduto il suo segreto scoperto; ma, tocco sul vivo, aveva pure considerata in un batter d'occhio la sua condizione disagiata, e fatto il proposito di uscirne. Però, a mala pena ebbe il marchese Onofrio tartagliate le sue scuse, volse lo sguardo animoso a Ginevra, e le disse:

—Orbene, se gli amici non la sanno, vedrò di raccontarvela io; ma quella soltanto di Goffredo Rudel, che l'altra del Doria non l'ho presente ora.

—Ci contenteremo di quella;—rispose Ginevra.

—Incomincio, dunque; ma badate, signora, che è
  lunga.

—Oh, non ve ne date pensiero; il tempo è tutto
  nostro.

—Aloise,—bisbigliò il Pietrasanta all'amico,—ero venuto per parlarti di un negozio….

—Me ne parlerai più tardi!—interruppe Aloise, con un accento che non isfuggì al fine udito della marchesa Ginevra.

E mentre tutta la nobile brigata si raccoglieva ad udirlo, Aloise, non senza arrossire un tantino, così incominciò la la narrazione:

—«Goffredo Rudel, signore di Blaia, è uno dei primi trovatori di cui facciano menzione le cronache di Linguadoca. Da giovine, amò, o credette di amare, una Guglielmetta di Benagues, viscontessa guascona, la quale doveva essere una gran lusinghiera, e amica del numero tre, poichè le piaceva tenere a bada, nel medesimo tempo, lui Goffredo, Elia Rudel suo cugino, e Savary di Mal Leone.»

—Povera viscontessa!—interruppe Giulia.—Non sareste per caso un po' crudele con lei?

—No, marchesa, imparziale. «Narra la storia che in una conversazione tra la dama e i tre gentiluomini anzidetti, ella sapesse diportarsi per modo che ognuno di loro, uscendo di là, si tenne il prediletto di lei. Infatti, venuti a disputa, si chiarì che a Goffredo avea data una dolcissima occhiata; ad Elia una eloquentissima stretta di mano; a Savary aveva premuto il piede, sotto la tavola. Così narra Nostradamus, ed io lo ripeto, per dimostrarvi in che guisa Goffredo Rudel si allontanasse da lei. Per ventura, quell'amore del giovine per la Guascona, era un capriccio, uno scherzo, non già un affetto profondo….»

—Non amano tutti ad un modo i signori uomini?—chiese argutamente
Ginevra.

—La storia di Goffredo Rudel vi dimostrerà il contrario;—soggiunse Aloise,—ed io vado innanzi senza paura. «Fatto esperto da quel primo disinganno, Goffredo Rudel non volle metter più la sua fede fuorchè in nobili cuori. Ora i nobili cuori erano rari al suo tempo tra le donne, e per lunga pezza il signore di Blaia visse soltanto per l'amicizia, nè altro ebbe a celebrare ne' suoi versi che questa. Il signore d'Agoult era l'amico suo, e il castello dell'amico lo trattenne a lungo tra le sue mura ospitali. Ma giunge in Provenza il conte Goffredo Plantageneto, fratello a Riccardo Cuor di leone, re d'Inghilterra, e nella breve dimora fatta al castello di Agoult, s'innamora cosiffattamente del gentile poeta, che lo vuole con sè alla corte d'Inghilterra. Il trovatore si schermisce; ma il signore d'Agoult, liberale com'era, nè volendo rimandare scontento un così potente barone, prega a sua volta l'amico di cedere allo invito del conte Goffredo. Ed ecco i due Goffredi, il principe e il trovatore, in viaggio, alla volta d'Albione.»

—Dell'__avara Albione__!—tartagliò il De' Carli.

—Ma non avara di lusinghe pel nostro provenzale;—soggiunse il Cigàla.—Egli certamente avrà fatto dar volta al cervello di molte __ladies__!

—Può darsi;—soggiunse, continuando, Aloise:—«Quel che avvenisse alle dame inglesi non so; ma posso starvi pagatore che Goffredo Rudel non n'ebbe il cuore commosso, e in quella vece s'accese del più gagliardo affetto che uomo sentisse mai, per una donna la quale egli non aveva mai vista, per la contessa di Tripoli, la quale viveva nella sua corte, sulle spiagge di Soria. Innamorarsi di veduta, è cosa agevole e naturale; innamorarsi d'udita, è cosa strana, che molti stenterebbero a credere. Ma che volete? Udendo dai pellegrini, che tornavano da Terrasanta, narrare i pregi della contessa, celebrare la prestanza delle forme, la soavità dei modi, l'ingegno acuto, e virtù d'ogni maniera che la facevano superiore all'altre dame del suo tempo, il povero trovatore tanto se ne invaghì, che non ebbe più pace. E certo quel suo insolito e strano amore diventava la favola di tutta la corte d'Inghilterra, se le canzoni che egli scriveva in lode della lontana sua dama, della sconosciuta beltà, destando l'ammirazione universale, non avessero fatto tacere il sarcasmo.»

—Voi pure ammettete,—interruppe Ginevra,—che fosse strano non poco, questo amore d'udita?

—Non lo nego; sebbene, a que' tempi, la cosa poteva parere meno bizzarra. Le cronache provenzali ci hanno conservata una tenzone tra due poeti, Gerardo e Peronetto, intorno alla quistione, chi più ami la sua dama, se il presente o l'assente, e chi più possente amore introduca, o il cuore o gli occhi.

—Questione difficile!—notò il Pietrasanta.—Che ne pensate voi, signora?

—Io tengo per gli occhi;—rispose arrossendo la Giulia, a cui la dimanda era rivolta.

—E voi?—chiese il Cigàla, alla Torralba.

—Pel cuore;—rispose la soave Maddalena.

—Ed io per tutti e due!—sbruffò il lezioso De'
  Carli.

—Ma come fu sciolta la questione, allora?—chiese Ginevra, per dar la parola di bel nuovo al narratore.

—Non saprei dirvelo. Le cronache raccontano che fu portata innanzi alla corte d'amore di Pierafuoco e di Signa; ma non ci recano la sentenza che ne fu data. So bensì che in quella tenzone poetica, tra molte buone ragioni ed esempi per l'una parte e per l'altra, c'era una strofa che vi traduco così: «Tutti gli uomini di perfetto giudizio conoscono molto bene che il cuore ha signoria sopra gli occhi, e che gli occhi non servono punto nelle cose d'amore, se il cuore non acconsente; laddove, senza gli occhi, il cuore può francamente amare una cosa che giammai non abbia veduta, siccome avvenne al signore di Blaia.»

—L'esempio non scioglie la questione!—disse
  Ginevra.

—È un circolo vizioso!—aggiunse il De' Carli.

—Ma via,—ripigliò la marchesa,—continuate la vostra storia, signor Aloise, e perdonate le interruzioni troppo frequenti a un uditorio curioso ed attento.

—«Infiammato sempre più dal desiderio di veder la contessa, Goffredo deliberò di andarsene pellegrino in Terrasanta. Un suo dilettissimo, anch'egli buon trovatore, Bertrando di Alamannone, fu pronto, come suol dirsi, a tenergli bordone, e ambedue fecero il disegno d'imbarcarsi a quella volta. Doleva di quella partenza al Plantageneto, che usò d'ogni suo potere per distogliere il suo protetto da quel faticoso viaggio. Ma nulla valse; e finalmente, ottenuta licenza dal conte, il Rudel monta in nave coll'amico. Eccoli in viaggio, alla scoperta dell'ignota bellezza. Il vento fischia nel sartiame; la tempesta assale il naviglio; il masso di Gibilterra torreggia spaventoso frammezzo alle brume; Goffredo Rudel non ode il fischio del vento; non bada ai marosi che invadono la coperta, e canta dolcemente d'amore. Udite la canzone ch'egli ha composto nel tragitto, temendo di non poter subito parlare alla contessa, anzi d'aversene a tornare con suo estremo dolore, dopo un sì lungo e pericoloso viaggio:

      <i>Irat et dolent m'en partray.
    S'yeu no vey est amour deluench
    Et ne say qu' ouras la veyray,
    Car son trop nostras terras luench.</i>

«Ma scusate; senza badarvi, la recitavo nel testo provenzale, non rammentando che l'avevo tradotta.

      «Corrucciato, dolente, io partirò,
    Se pria non vegga l'amor mio lontano,
    E non so quando mai lo rivedrò,
    Chè nostre terre son troppo lontano!

      «Quel Dio che quanto viene e va creò,
    Che vita diede a quest'amor lontano,
    Mi dia conforto al cor, perchè pur ho
    Speranza di vederti, amor lontano!

      «Signor, per vero e per leale io dò
    L'amor che porto a lei, così lontano:
    Giacchè per un sol gaudio che n'avrò,
    N'ho mille affanni, tanto son lontano!

      «Già d'altri amori ormai non gioirò,
    Se di te non gioisco, amor lontano;
    Chè donna pia leggiadra esser non so,
    In alcun luogo, prossimo, o lontano!

«L'amore è stato paragonato ad una lama che, troppo a lungo rinchiusa, irrugginisce e corrode la guaina. Al misero Goffredo, quell'amore fortissimo per una donna ignota, compresso per così lunga stagione nel profondo del cuore, aveva turbate, distrutte, le fonti della vita. I venti contrarii, le stazioni forzate nei porti del Mediterraneo, tutto concorreva ad accrescere i disagi del tragitto; laonde il desiderio di giungere si tramutò in febbre, e colla febbre si svolsero in breve ora i segni dell'interno struggimento di quelle membra affralite. La nave non aveva anche oltrepassata la punta estrema di Sicilia, che già l'infermo non era più in grado di muoversi dal suo giaciglio, e i governatori del legno pensavano di averlo tra pochi giorni a seppellire nei gorghi del mare.

«—Almeno vivessi io tanto da vederla una volta!—andava ripetendo l'infermo al cortese amico, che passava i giorni e le notti al suo fianco, studiandosi di consolarlo. Veder la contessa e poi morire, era il suo pensiero assiduo, incessante, e, diremo anzi, la sua agonìa.

«La nave giunse finalmente nelle acque di Soria, in vista di Tripoli. Trascinatosi a stento sul cassero di poppa, Goffredo Rudel salutò le bianche torri della sospirata città, che parevano accostarsi a lui sulla liquida superficie, e non volle smuoversi da quella contemplazione fuorchè per scendere a riva. Ma un tanto sforzo lo aveva stremato; e quando, a gran fatica di braccia amorevoli, calato in uno schifo, fu condotto a terra più morto che vivo, parve necessario portarlo immantinente allo spedale dei pellegrini, dove si credette che in quella notte medesima dovesse render l'anima a Dio.

—Poveretto!—esclamò la pietosa Torralba.

—«In tali distrette—proseguì Aloise—Bertrando di Alamannone fu sollecito a recarsi presso il conte di Tripoli. Ma il conte Raimondo non era in città, sibbene ai confini della sua vasta contea, per abboccarsi con un messaggero del Saladino, al quale egli, cristiano, doveva più tardi riuscire di così valido aiuto nella conquista di Gerusalemme. Vide in quella vece la contessa e n'ebbe le più oneste accoglienze che sperar si potesse. E allorquando egli ebbe detto a quella nobile dama com'egli fosse giunto in compagnia del signore di Blaia, la cui fama era pervenuta fino a lei, insieme coi suoi versi d'amore per essa (perchè allora le canzoni dei trovatori correvano il mondo, in quella stessa guisa che oggidì corrono i libri dei più famosi scrittori) e come il gentil trovatore fosse ridotto in fin di vita, ella fu presa da così forte turbamento che la costrinse a sorreggersi sulle braccia delle sue ancelle, per non cadere come corpo morto sul pavimento.

«La donna che sa d'essere amata, è facilmente pietosa (almeno così dicono): e la contessa di Tripoli sentiva nei canti celebrati di Goffredo Rudel e nella fama che del suo affetto correva da più anni in Europa e sulle spiaggie di Palestina, di essere la più amata tra tutte le donne della cristianità. Epperò, tornata in sè stessa, non volle mettere indugio a vedere il morente, e corse, volò, in compagnia di Bertrando, allo spedale dei pellegrini.

«Allorquando dalle labbra dell'amico, che era corso innanzi, udì Goffredo che la sospirata donna gli era già tanto vicina, non seppe resistere a quella grande allegrezza, e uscì per tal modo fuori de' sensi, che fu da Bertrando creduto morto senz'altro.

«—Ahimè,—gridò la contessa di Tripoli, entrando nella cameretta e vedendo quella pallida fronte supina sul capezzale—che questa mia infausta bellezza ha ucciso il più gentil cavaliere che al mondo fosse!—

«E corsa alla sponda del letto, ov'egli giaceva, strinse quella mano che pendeva prosciolta sul ruvido copertoio, e recatasela alle labbra, la baciò amorosamente più volte.

«Al tocco di quelle labbra, tornò in sensi, riaperse gli occhi il moribondo, e vide finalmente, ahi troppo tardi! quella immagine divina. Un'aria di supremo contento gli si diffuse sul volto; la sua mano strinse dolcemente quella di lei; i suoi occhi si affisarono estatici sul bianco viso, sul collo, sugli omeri, e sulla persona tutta quanta di quella gentile, quasi non volessero perdere un lineamento, un contorno, di tanta bellezza. Così guardandola, e palpitando, raggiando verso di lei con tutte le forze stremate dell'anima sua, notò Goffredo le lagrime che le sgorgavano copiose dagli occhi.

«—Madonna,—diss'egli allora, con un filo di voce, e traendo a sè, come gli veniva fatto, quella maravigliosa persona,—qui, qui, presso a me, ve ne prego, che quelle dolcissime lagrime non vadano perdute!

«—State di buon animo, messere!—soggiunse ella, accostando la sua alla faccia di Goffredo, per modo che i suoi capelli ricadenti gli sfiorarono le guance e l'alito della sua bocca scese come una divina ambrosia a rinfrescargli le labbra;—Voi risanerete, e la nostra corte udrà ammirata i nuovi versi di un sì gentil trovatore.—

«A queste parole della contessa di Tripoli, Goffredo crollò malinconicamente la testa sull'origliere.

«—No, madonna,—ripigliò;—io mi sento morire. Solo la speranza di vedervi una volta, mi ha serbato questo soffio di vita. Addio, madonna; io non mi dolgo ora della morte, ora che vi ho veduta. Il mio labbro ha bevute le vostre lagrime; il mio cuore le porterà nella tomba.—

«Furono le ultime parole di Goffredo Rudel, che poco stante, felicissimo nella morte, com'era stato infelicissimo in vita, esalava lo spirito tra le braccia della donna adorata. La quale compose la salma di lui in una ricca ed onorevole sepoltura di porfido, su cui fece intagliare alcuni versi in lingua arabica, a ricordo di un così grande amatore.

«E i versi tutti che Goffredo Rudel aveva composti in lode di lei, fece trascrivere in lettere d'oro e serbò gelosamente con sè. Ma, da quel giorno, mai più la contessa di Tripoli fu veduta con faccia lieta. Visse ancora, ma soltanto per ricordare quel giorno, quell'ora, in cui avea conosciuto, e perduto ad un tempo, il signore di Blaia.

«Il codice dei trovatori che si conserva a Roma, nella biblioteca Vaticana, racconta che la contessa di Tripoli, come potè farlo liberamente, si chiuse in un monastero. Tutti gli altri cronisti narrano che non tardasse molto a seguir nella tomba l'uomo che era morto d'amore per lei.»

V.

L'uomo propone e la donna dispone.

Così finì il racconto di Aloise di Montalto, che, interrotto sul principio dalle gaie considerazioni della brigata, fu poscia, a mano a mano che si avvicinava alla catastrofe, ascoltato con molto raccoglimento da tutti, segnatamente dalle tre dame.

—Se amassero tutti come Goffredo Rudel!—disse la bianca Maddalena.—Ma, pur troppo, nella vita comune non sarà così; e il suo caso….

—Il suo caso prova,—interruppe prontamente Aloise,—che gli uomini non sono poi così brutti come le signore donne li dipingono.

—Non lo nego,—rispose la marchesa Maddalena,—ma il caso è tuttavia dei più strani.—

Aloise si preparava a rispondere; ma Ginevra, accennando col gesto di voler parlare, gli ruppe il filo delle sue argomentazioni.

—Io qui non sono dalla tua;—disse Ginevra.—Io so di un caso anche più strano.—

E così dicendo, ella aveva volto lo sguardo ad Aloise.

—E quale?—dimandò egli.

—Quello del signor Aloise, che sa così bene la storia di Goffredo Rudel, da raccontarcela con tanti particolari, e ricorda i suoi versi provenzali e li ha tradotti per giunta. Sareste per caso un dilettante d'anticaglie?

—Un pochino, signora;—rispose il giovine, cercando di vincere il suo turbamento.—Son sempre vissuto volentieri coi vecchi libri, e se la storia che ne ho cavata non v'è riuscita spiacevole….

—Che dite voi mai? C'è andata anzi a genio, e ve ne siamo gratissime. Peccato che non sappiate anche quella di Percivalle Doria, che vi pregheremmo di raccontarcela adesso. Ho letto questi due nomi in un libro francese,—soggiunse ella, a mo' di parentesi,—e m'era venuta la curiosità di sapere chi fossero. Il secondo, a giudicarne dal nome, dovrebbe essere un genovese. Spero che voi, così dotto nella materia, vorrete cercarne sui libri, e narrarci di quest'altro tra breve.

—Anche domani!—rispose Aloise.—Questa sera medesima andrò a scartabellare i miei vecchi amici.

—Non tanta fretta!—esclamò Ginevra.—Noi leggeremo stasera, se vi piacerà rimanere, quel proverbio di Alfredo de Musset che dicevamo ieri, e che reciteremo sul nostro teatrino rustico, all'aria aperta. Non volete voi che vi diamo una parte?—

A quel cortese invito di Ginevra, la gioia balenò sugli occhi del giovine. Ma tremò in cuor suo l'amico Pietrasanta, a cui la lettera di Lorenzo Salvani bruciava, stiam per dire, nella tasca della giacca.

Come vengono le inspirazioni? Gli antichi, per cavarsela dai viluppi psicologici, le facevano discendere senz'altro dal cielo. Per non metterci a nostra volta nel ginepraio, le deriveremo anche noi di lassù, raccontando che dal cielo venne una ispirazione ad Enrico Pietrasanta; sebbene egli, facendo l'atto di grattarsi una certa protuberanza dietro l'orecchio, dimostrasse che gli veniva dal cervello, posto in quel momento a tortura.

—Voi dicevate dunque, o signora,—entrò egli a dire sollecito,—che vi piacerebbe sapere la vita e i miracoli di Percivalle Doria?

—Sì, per l'appunto, la vita…. e i miracoli, se pure ne ha fatti;—rispose sorridendo la marchesa.

—Oh, ne ha fatti, ne ha fatti!—soggiunse il Pietrasanta, colla deliberata prontezza di un uomo che, dovendo affrontare un pericolo, si butta disperato innanzi, per non rimanere più oltre perplesso.

—E li sapete voi?

—Da capo a fondo.

—E perchè non dircelo subito?

—Perchè…. perchè volevo anzitutto raccapezzarmi…. Ho letto anch'io la mia parte di libri vecchi.

—Benissimo!—saltò su a dire il Cigàla.—Anche a te, Pietrasanta, s'è dischiusa la vena?

—Sicuro, e perchè no? Certo, non racconterò così bene come il mio amico Aloise; ma ognuno fa quel che può, e in fin de' conti, meglio poco e male, che nulla.

—Sentiamola,—disse Ginevra,—sentiamola dunque, la vostra storia!

—La mia, signora?

—Sì, quella che sapete voi. Ho detto forse male?

—Tolga il cielo che io voglia correggervi!—rispose Enrico, che pure avea sentita la botta, e l'aveva per tale.—Voi ci avete le labbra d'oro!

Questa volta fu Ginevra che s'inchinò, per ringraziar l'oratore.

—I complimenti del nostro amico Pietrasanta,—ella soggiunse,—ci fanno pensare che udremo un'altra storia da mandar superbo il nostro sesso.

—Oh no, signora, no!

—Come, no!—interruppe la Giulia.—E avreste allora il coraggio di raccontarla?

—Certamente! Le storie si seguono, e non si rassomigliano. Quella di Aloise incominciava coll'amicizia, e finì coll'amore. La mia rimane da capo a fondo fedele alla amicizia. Io non posso già inventare di pianta! Questa è storia perfetta, la storia, che è donna, non fa complimenti mai, nè a donne, perchè eguale, nè ad uomini, perchè superiore.

—Via, consoliamoci!—disse Ginevra.—Questo almeno è uno zuccherino per noi.

—Voi lo vedete;—ripigliò il Pietrasanta,—finora la storia non è cominciata, e son io che parlo. Ma torniamo al fatto; che cos'è poi l'amicizia? L'amore senz'ali.

—Perciò rade la terra!—notò asciuttamente la
  Giulia.

—Ma almeno non vola via;—disse Enrico di
  rimando.

—Ben parata!—esclamò il Cigàla, a cui quelle scherme piacevano;—che ne dite, signora?

—Dico, signor Cigàla, che udremo di belle cose, in verità!—rispose la Giulia, fingendo lo sdegno.—Ma via, signor Pietrasanta, raccontate la storia del vostro Percivalle; la Corte d'amore, qui sedente, vi giudicherà.—

Così posto alle strette, Enrico incominciò il suo racconto ai maravigliati uditori. Ma la più gran meraviglia era quella di Aloise, il quale ben sapeva come il Medio Evo non fosse il forte dell'amico Pietrasanta. Che diamine racconterà egli? chiedeva Aloise tra sè. Certo, Enrico ha le sue gravi ragioni, per mettersi in questo garbuglio!

Frattanto, come abbiam detto, Enrico Pietrasanta prendeva il largo.

—Percivalle Doria,—incominciò egli,—fu buon poeta provenzale, come i suoi due concittadini Lanfranco Cigàla e Folchetto, che molti s'ostinano, contro l'autorità del Petrarca, a reputar marsigliese. Io spero che la gravità di questo esordio mi concilierà l'attenzione della nobilissima udienza.

—Contaci su!—rispose il Cigàla, discendente di
  Lanfranco.

—Grazie!—ripigliò il Pietrasanta.—Ora, perchè il mio eroe si allontanasse da casa e di cittadino genovese diventasse trovator provenzale, non saprei raccontarvi. Ben so che uscì giovanissimo dalla terra natale, e andò alla corte del re di Francia, Odoacre…. cioè, Faramondo…. anzi no. Luigi Filippo…. Insomma, il nome non mette conto saperlo.

—Lasciamo stare il nome del re;—disse Ginevra ridendo,—ma almeno diteci il secolo, per non farci correre su e giù, quanto è lunga, la storia di Francia.

—Il secolo, signora? Avete ragione! Percivalle Doria fiorì (notate la bellezza del verbo) nel secolo decimoterzo, o giù di lì.

—Sta bene; e adesso, proseguite!

—Proseguo. Percivalle Doria era alla corte del re di Francia…..

—Odoacre!—notò sarcasticamente la marchesa
  Giulia.

—No, Alboino!—rispose il Pietrasanta, sul medesimo tono.—Adesso me ne ricordo; era proprio Alboino. Or bene, il mio Percivalle era un fior di cavaliere, sebbene non credesse all'amore, nè ad altre cose parecchie.

—Era un miscredente, adunque?—dimandò Ginevra.

—No: era un uomo che conosceva il mondò e amava la vita, senza concederle una soverchia importanza. E non istate a credere che avesse patito gravi disinganni, perchè era giovine, e la fortuna gli era sempre stata propizia. Ma egli, più felice di tanti e tanti, i quali non acquistano l'esperienza delle cose umane se non a proprie spese, l'aveva acquistata alle spese altrui, vedendo ciò che agli altri accadeva, e facendone tesoro per sè.

—Come può esser ciò?—chiese a sua, volta la
  Torralba.

—Non saprei, signora, darvene una spiegazione plausibile, se non col dirvi che nella grande famiglia umana ci sono i caratteri privilegiati, i quali imparano nelle miserie altrui a cansare per se medesimi i dolori della vita.

—Privilegiati!—soggiunse la marchesa Ginevra.—Dite piuttosto senza cuore.

—Oh, vedrete se non ci avesse cuore, il mio Percivalle!—disse di rimando il Pietrasanta.—Egli era, ripeto, alla corte d'Alboino, dove gli avvenne di stringersi in salda amicizia con messere Alardo di Anglona gran siniscalco del re; il quale messer Alardo, a sua volta, era amicissimo di un povero ma gentil cavalier normanno, chiamato Laurent di Sauvaine.

—Erano in tre!—disse il piccolo Riario.

—__Omne trinum est perfectum!__—rispose, senza turbarsi, il Pietrasanta.—Ora udite che cosa avvenisse al povero Laurent di Sauvaine. A cagione di un suo alterco con un possente barone, egli era tenuto lontano dalla corte, Messere Alardo, in quella vece, ci viveva da mattina a sera, e per ragione dell'ufficio suo, e per altro ancora, che gli faceva dimenticare ogni altra cosa che al mondo fosse. Notate, nobilissime dame, come parlo anch'io in pretta lingua del Trecento! Ora, poichè Laurent di Sauvaine, lontano dagli occhi, era anche lontano dal cuore di Alardo d'Anglona, il trovatore, che li aveva in gran pregio ambedue, e si doleva di questa dimenticanza di Alardo, scrisse una canzone bellissima, che io pur troppo non rammento in provenzale, e che in italiano non ho saputo voltare, nella quale erano fortemente biasimati coloro che dimenticano gli amici, poichè l'amicizia, com'è superiore alle mondane ambizioni, così deve essere superiore all'amore.

—In verità,—interruppe la marchesa Giulia,—era poco galante, il vostro Percivalle, e voi, signor Pietrasanta, non siete da meno di lui.

—Badate;—aggiunse Ginevra,—se andate innanzi di questa guisa, non vi daremo più ascolto.

—Lo volesse il cielo!—disse in cuor suo il narratore impacciato, che le buttava fuori a bella posta, quelle massime, tanto per essere interrotto e guadagnar tempo alle sue faticose invenzioni.

—Questa non sarebbe giustizia;—rispose egli poscia ad alta voce,—e voi non vorrete dannarmi prima che sia finita la storia. Ora la mia storia dice che Alboino…. cioè, messere Alardo d'Anglona…. anzi, no, volevo dire Laurent di Sauvaine, fosse stato colto ad un agguato tesogli dal suo nemico e chiuso per comando di questi in un carcere donde non avrebbe potuto toglierlo se non un altro e più possente barone, come il signore d'Anglona. Ma il siniscalco, già ve lo dissi, non pensava all'amico Sauvaine, e questi sarebbe rimasto anco un mese senza comparirgli dinanzi, che egli, immerso com'era nelle delizie della corte, non si sarebbe pur ricordato di lui, non avrebbe pur chiesto a sè stesso: che diamine è egli avvenuto del nostro Sauvaine? Per fortuna, Percivalle vegliava, e saputo del caso del cavaliere di Sauvaine, n'andò da messere Alardo, il quale stava appunto allora architettando un torneo, per far cosa grata alla regina….

—Rosmunda!—saltò su a gridare, non senza sbruffi, il marchese
Tartaglia.

—Ah! l'avete pigliato proprio sul serio, il mio Alboino?—chiese il Pietrasanta, voltandosi all'interruttore.—Orbene, sì, Rosmunda, figlia di Cunimondo, re del Belgio, la quale poi volle un mal di morte a Percivalle Doria, per averle guastata la festa, e fu cagione che re Alboino lo cacciasse dalla sua corte.»

—Ma che cosa aveva egli fatto, il vostro Percivalle?—dimandò
Ginevra.

—Ecco! La corte era adunata e il siniscalco era tutto in faccende. Il trovatore lo tira in disparte e gli dice: messere, l'amico Sauvaine ha bisogno di voi, e subito subito.—O come? Ed io che non posso muovermi! Il re, la regina….—Non c'è re, nè regine, che tengano; l'amico ha bisogno d'aiuto; ponete che sia in fin di vita; lo abbandonereste voi?—A Dio non piaccia….—Orbene, gli è appunto il caso; partiamo, e si dimostri per voi che l'amicizia non è un nome vano. Il siniscalco, cedendo alle istanze di Percivalle Doria, andò con esso lui, e fu tratto il cavaliere di Sauvaine dall'unghie del suo mortale nemico. Ma la corte era rimasta senza il siniscalco; il torneo non fu fatto; la regina si dolse; Alboino strepitò, e il povero trovatore, che aveva turbato le gioie della corte, fu mandato con Dio, senza la croce d'un quattrino; contento tuttavia, nel profondo del cuore, di aver fatto sì che l'amico non fallisse all'amico. __Amen.__

—E finisce qui?—dimandò maliziosamente Ginevra, alla cui perspicacia non era sfuggita la titubanza del narratore, nè certe occhiate ch'egli andava tratto tratto gettando, a mo' di chiosa, all'amico Aloise.

—Finisce qui, marchesa;—rispose Enrico.

—Non mi piace.

—Pure, è storia pretta.

—Mi date licenza di non crederlo?

—Questa ed ogni altra che vi piaccia di ottenere, o di prendervi; ma, per non aggiustar fede ad una storia, bisogna averci le sue brave ragioni. E fino a tanto non venga fuori una storia più autorevole della mia, non mi darò certamente per vinto.

—Qual è l'autore che avete letto voi?

—Non lo ricordo.

—Ha da essere il…. Pietrasanta!—disse, tra le risa di tutti gli astanti, la marchesa Ginevra.

—E per questo non v'è piaciuta la storia!—notò di rimando Enrico.

—Non mi fate dire ciò che neppure mi era passato per la fantasia;—soggiunse Ginevra;—ho detto soltanto che di voi, sviscerato campione dell'amicizia, non bisognava fidarsi.

—Mano agli altri autori, dunque, se li trovate!

—Oh non temete, li troverò. Venite qua, voi, Antoniotto!—proseguì la marchesa, volgendosi al marito, che s'innoltrava a lenti passi verso l'allegra brigata.—Avete qualche libro intorno ai poeti provenzali nella vostra biblioteca?

—Credo di sì; il Crescimbeni…. Anzi, aspettate, ci ha da essere perfino un vecchio esemplare del…. del…. Aiutatemi a dire, Aloise!

—Intorno alle vite dei poeti provenzali ha scritto il
Nostradamus;—rispose il Montalto.

—Sì, per l'appunto, un esemplare del Nostradamus. Volete che vada a cercarlo, Ginevra?

—Mi farete cosa gratissima.

—Spietata giudichessa!—esclamò con aria malinconica il
Pietrasanta.—Voi mi volete morto, senz'altro?

—No, voglio la giustizia e nulla più. Anzi, perchè abbiate a riconoscere la nostra imparzialità, deleghiamo il vostro migliore amico ad accompagnare Antoniotto nelle sue ricerche in libreria.—

L'invito di Ginevra era accompagnato da un sorriso così lusinghiero, che Aloise, quantunque avesse capito il senso della storiella del Pietrasanta e gli premesse di rimaner solo due minuti con esso lui, fu pronto ad alzarsi e rispose all'amata:

—Grazie, signora; vado subito.

—Vado anch'io, se lo permettete….—soggiunse Enrico, che voleva ad ogni costo trovar l'occasione di tirare in disparte Aloise.

—No, Pietrasanta, la Corte non può concedervi tanto. Non siete voi l'accusato? E come abbiamo delegato il vostro amico per le indagini, così deleghiamo la nostra amica Giulia a tenervi in custodia.

—Ed ecco le catene! qua i polsi!—soggiunse la Giulia, mostrando una nuova matassa di lana.

Enrico Pietrasanta, che si era morso il labbro alle prime parole della marchesa Ginevra, non seppe resistere alla dolce violenza della Giulia.

—Non si faccia resistenza a un così vezzoso carabiniere!—diss'egli, sorridendo.—Eccomi in vostra balìa!—

E porse le mani per accettar le catene.

Al marchese Antoniotto, frattanto, non tornò difficile metter le mani su quell'esemplare del Nostradamus che aveva accennato a sua moglie. E fu uno scoppio universale di risa, un nembo d'arguzie, una gazzarra di festosi motteggi, quando venne fuori, da quelle pagine ingiallite dal tempo e rose dai tarli, la vera storia di Percivalle Doria, trovatore di Carlo d'Angiò, poco dianzi svisata, anzi rifatta di pianta, dall'amico di Aloise.

Ma a lui poco importava delle risa universali: se la cavò ridendo ancor egli da quella tempesta di motteggi, alla quale era già preparato, e allorquando la marchesa Giulia notò malignamente che gli allori di Aloise lo avevano ingelosito, non si provò neanche a contraddirla.

Dal canto suo, Aloise pensava, e andava cercando da sè che diamine avesse inteso di fare il Pietrasanta con quella sua pazzesca narrazione. Come gli parve di aver trovato, si accostò discretamente all'amico, e, cogliendo il destro che gli era offerto da alcune frasi impacciate del marchese De' Carli che tiravano altrove l'attenzione delle dame, gli domandò sommessamente:

—Dimmi, il tuo Laurent di Sauvaine sarebbe
  egli….

—Sicuramente;—rispose l'altro,—sarebbe Lorenzo
  Salvani.—

Ma in quella che Aloise stava per ripigliar la parola, i ragionari della brigata furono interrotti da un servo, che, fermatosi ad una rispettosa distanza dal crocchio, annunziò esser l'ora del pranzo. E qui Aloise fu sollecito ad offrire il suo braccio alla Ginevra; il marchese Antoniotto alla Maddalena; laddove ad Enrico Pietrasanta fu preso, più ch'egli non l'offrisse a lei, dalla vezzosa Giulia, che si avviava con lui, come i lettori discreti hanno già inteso, in quelle amene regioni del Tenero, che ci lasciò descritte, nella sua famosa carta, madamigella di Scudéry.

La faccenda del pranzo occupò due ore buone. Il Pietrasanta, seduto lontano da Aloise, aveva un bel saettarlo d'occhiate; Aloise era tutto nei discorsi di Ginevra, e non poteva badare a lui. Le occhiate, d'altra parte, se bastano talvolta a significare un sentimento, un affetto, non giungono mai ad esprimere un ragionamento.

Per pochi minuti, quando si furono alzati e la consuetudine li ebbe condotti in giardino, Enrico potè finalmente tirare in disparte Aloise. Ma il loro dialogo era a mala pena cominciato, che le dame inoltrandosi da quella banda, vennero a rompergli il filo.

—Voi siete un guastafeste, Pietrasanta;—disse la Ginevra, con un accento che imparadisò il giovine Aloise;—le dame escono a passeggio; e voi rapite loro i cavalieri.

—Perdonatemi, signora; parlavo ad Aloise di un mio negozio piuttosto grave….

—Parlatene a me!—entrò a dire la Giulia.—Le donne ci hanno spesso di buoni consigli in serbo.—

E prese, come aveva già fatto da prima, il braccio di Enrico. Ed egli, che non era sant'Antonio, cedette a quella dolce violenza.

Qui certamente era da scorgersi un deliberato proposito delle signore. La Giulia voleva far ricredere il Pietrasanta di tutte le sue chiacchiere contro l'amore, e questo era facile ad immaginarsi. Ma Ginevra! Che cosa pensava Ginevra? Ella mirava a trattenere Aloise, ed anche questo s'intendeva facilmente. Ma perchè? Voleva forse fare ammenda con lui della sua solita severità? O non era che un capriccio di donna, che aveva notato un segreto tra i due giovani, e s'impuntava a tenerli divisi? O c'era ad un tempo dell'una cosa e dell'altra?

Comunque fosse, la fine fu questa, che suonarono le undici di sera e il Pietrasanta non aveva anche potuto ragionare da solo a solo coll'amico. E bisogna poi dire che ad una cert'ora della sera, il nostro diplomatico aveva fatto di necessità virtù, e tra per le difficoltà moltiplicatesi intorno a lui e i rapimenti di una conversazione geniale, s'era adattato allo __statu quo__, com'era voluto da que' potentati femminei.

Ora, il partire così, presso alla mezzanotte, non metteva più conto; poichè, fossero pure andati di galoppo avrebbero trovate chiuse le porte per rientrare in città. E il Pietrasanta, pensato assai ragionevolmente che avrebbero potuto alzarsi per tempissimo nella mattina vegnente, pose il suo animo in pace.

Tutto il suo correre, il suo almanaccare, il suo beccarsi il cervello, non avevano trovato nulla contro i sottili accorgimenti del sesso gentile. L'uomo propone e la donna dispone.

VI.

Dove si legge di tre naviganti che avevano perduta la bussola.

Per tutto ciò che vi abbiamo raccontato, Enrico Pietrasanta non potè consegnare all'amico la lettera di Lorenzo Salvani se non a notte alta, quando finalmente rimasero soli nel quartierino serbato dal marchese Antoniotto a' suoi ospiti. Ora, a mala pena l'ebbe scorsa da capo a fondo, il giovine Montalto rimase come trasognato. Lo scritto del Salvani diceva troppe cose e troppo poche ad un tempo, svegliando nell'anima di Aloise, insieme coll'ansietà dell'amico, la curiosità dell'uomo, la sollecitudine del cavaliere, la pietà del congiunto.

Però, lasciamo argomentare al lettore con che impazienza Aloise aspettasse il mattino. E sebbene molti altri pensieri, frutto delle prime cortesie usategli dalla donna amata, gli stessero in mente, dobbiamo pur confessare, ad onor suo, ch'egli era assai più sollecito di correre in città che non di rimanere lassù, a sperimentare, nella sua continuazione, la dolcezza di questi scherzi e guerricciuole di donna, che mostra per la prima volta di accorgersi dello amore di un uomo.

Al primo romper dell'alba, egli era già in piedi e raccomandava ad Enrico Pietrasanta, di non metter due ore a vestirsi, come soleva. Ma Enrico, fin dal giorno innanzi, col Salvani, aveva mostrato di sapere alla occorrenza far presto: quella mattina, poi, non era meno impaziente dell'amico Aloise. Per tal modo egli avvenne che le sei non erano anche suonate, e già i due amici passeggiavano davanti al vestibolo, aspettando che il __landau__ fosse pronto per la partenza.

Il palazzo Torre Vivaldi non aveva ancora schiusi gli occhi alla tiepida luce del mattino; la qual cosa, ridotta in istile volgare, significa che le persiane erano tutte chiuse, sulla facciata, e che i signori del luogo dormivano, o ne facevano le viste.

Nel salire in carrozza, gli occhi di Aloise si volsero furtivamente a una persiana del secondo piano, e il suo fazzoletto bianco, cavato di tasca, con atto che voleva parer naturale, andò a stropicciargli la fronte, dove non c'erano sudori da tergere, ma donde per avventura si sprigionavano saluti, giaculatorie, alla diva del luogo. Era dessa in piedi, la diva, dietro le stecche di quella persiana? Il cuore gli diceva di sì; gli veniva persuadendo che la bellissima donna, svegliata dallo scalpitar dei cavalli innanzi al vestibolo, fosse discesa dalle molli piume e, ravvolta nel suo peplo mattutino, stesse dal vano della finestra a vederlo partire. S'ingannava egli, forse; noi non diremo ne sì, nè no; lasciamolo nel suo dolce inganno, o nella sua dolcissima certezza, secondo i casi.

I rovàni del Pietrasanta fornirono rapidamente la corsa da Quinto a Genova. Colà, presso l'entrata di porta Pila, un insolito moto, un affollarsi di gente curiosa, svegliò l'attenzione di Enrico.

—Che è ciò?—domandò egli, senza por mente che Aloise non gli avrebbe potuto rispondere.—Perchè tutti quei capannelli affaccendati, che guardano verso la porta?—Passato il ponte levatoio e l'androne, la curiosità del Pietrasanta si mutò in maraviglia. Drappelli di soldati, coi fucili al piede, vigilavano l'entrata, e visitavano, frugavano, quanti dessero loro nell'occhio, dei viandanti che venivano di fuori. Un carrozzone, di quelli che son chiamati latinamente __omnibus__, e che onestamente non avrebbe dovuto servire a nessuno, tanto era sgangherato, sudicio e polveroso, stava per l'appunto lì fermo, e i viaggiatori malcapitati avevano a sbottarsi la giubba e rivoltare le tasche al cospetto dei vigili.

I due amici si ricambiarono le loro considerazioni, in quella che un sergente, più a modo di formalità che di precauzione, dava una sbirciata in quel cocchio, la cui fresca vernice, la fodera di seta, lo stemma dipinto sugli sportelli e il cocchiere gallonato a cassetta, non davano certamente aria, nè odore, di rivoluzione. E il frutto di quelle loro considerazioni si fu, che, in cambio di andar prima a casa loro, smontarono in piazza Carlo Felice, e, scesi da' Luccoli, si recarono tosto all'uscio di Lorenzo Salvani.

Ma qui, suonarono inutilmente due volte; l'uscio rimase chiuso, la casa muta come una tomba. Aloise ed Enrico si guardarono in volto, senza far motto; poi suonarono una terza volta, una quarta, e, a farvela breve, scampanellarono a riprese per forse dieci minuti. In quella casa, di sicuro, non c'era anima nata. E la sorella adottiva di Lorenzo, fuori anche lei? E Michele, dov'era egli andato a far capo?

Turbati, senza un concetto in mente, uscirono per le vie, dove seppero del tentativo fallito la sera innanzi e dei pericoli che aveva corso la cosa pubblica; pericoli ingranditi nell'universale dalla paura del caso recente e dalla ignoranza de' particolari. Certo il Salvani era imprigionato, o nascosto; ma la fanciulla? ma il servo? E i due amici di Lorenzo, in queste indagini al buio, si andavano stillando inutilmente il cervello.

Due ore dopo, sperando che qualcuno ci sarebbe finalmente tornato, andarono di bel nuovo a casa Salvani. Ma, in quella che facevano le scale, ebbero a persuadersi che era un altro viaggio inutile, il loro; poichè qualcuno stava martellando e scampanellando disperatamente all'uscio, in quella medesima guisa che essi avevano fatto dapprima.

—Basta; vediamo intanto chi sarà quest'altro;—disse Aloise.

E, seguendo la buona ispirazione, continuarono a salire le scale. Alla loro comparsa sul pianerottolo, quegli che stava all'uscio si volse, e il Pietrasanta e il Montalto lo ravvisarono; era l'Assereto, l'Assereto, che, com'essi, veniva a cercar di Maria e di Michele per la seconda volta in quella mattina.

—Oh, alla perfine troviamo un amico!—esclamò Aloise.—Orbene, non c'è alcuno?

—Che volete? Suono, sto per dire, da un'ora, e nessuno mi apre.

—Noi siamo già stati….—disse il Pietrasanta.

—E anch'io,—rispose l'Assereto,—ma, come stavolta, ho trovato faccia di legno.

—E il Salvani, quando lo avete veduto?—dimandò
  Aloise.

—Stanotte, nel tornare a casa, dov'egli era ad aspettarmi. Saprete del tentativo di iersera?….

—Sì, e appunto per ciò temevamo.

—Oh, quanto a lui, gli è in salvo, sebbene siano venuti i carabinieri a rovistargli la casa.

—Quando?

—Iersera, sulle dieci. Venne appunto il Michele, in fretta in furia, ad avvisarmene, ed io corsi dalla signorina, la quale era in uno stato da far compassione. I messeri del pennacchio, entrati nella camera di Lorenzo, avevano frugato dappertutto, ed erano usciti portando con sè una cassettina….

—D'ebano?—chiese, interrompendolo, con aria di grave ansietà, il marchese di Montalto.

—Sì, d'ebano; ne sapevate qualcosa?—dimandò stupefatto l'Assereto; ma tosto, col piglio di un uomo che si ricordi, proseguì:—ah! è vero; Lorenzo mi ha detto, per l'appunto, questa notte, della lettera che aveva mandata a voi. Sapete dunque il segreto, come ho dovuto saperlo anch'io. Ora notate; quella cassettina è l'unica cosa che i carabinieri hanno portata via di casa Salvani.

—Strano!—esclamò il Pietrasanta.

—Stranissimo!—rincalzò l'Assereto.—Il nostro amico, a dir vero, non aveva, rispetto a politica, nessuna carta di rilievo; che anzi aveva bruciato, o fatto a pezzettini, ogni cosa. Ma, se nulla c'era di ghiotto pel Fisco, essi certamente non lo avevano da sapere, e, secondo ogni più ragionevole presunzione, dovevano frugar dappertutto per trovare, se potevano, il fatto loro. Dico bene?

—Ottimamente! Proseguite!—rispose Aloise, che teneva dietro alle argomentazioni dell'Assereto con molta attenzione.

—Orbene, Michele mi ha detto, e la signorina mi ha ripetuto, che quei tutori dell'ordine pubblico, entrati deliberatamente nella camera di Lorenzo, andarono difilati al canterano, e, dopo aver posto sossopra tutto quanto era nelle cassette, sparpagliate le carte senza leggerle, buttate a rinfusa sul pavimento le camicie, i fazzoletti, e quanto poteva riuscire d'impedimento alle loro ricerche, adunghiarono la cassettina d'ebano, e senza pure fermarsi ad aprirla, se ne andarono via. Michele, vecchio soldato e punto rispettoso verso i rappresentanti dell'ordine, s'era provato a far loro qualche rimostranza; ma il brigadiere gli aveva risposto: «in nome della legge! noi facciamo il nostro dovere» e s'era allontanato, insieme cogli altri, che ridevano a crepapelle.

—E la signorina Maria, chiese il Montalto,—non sapeva nulla di ciò che conteneva la cassettina?

—Sì, lo sapeva; Lorenzo gliene aveva fatto cenno, innanzi di andare al suo posto di combattimento.

—E perchè allora non farsi innanzi, e dire a quei signori: badate, in quella cassettina non son carte per voi, ma cose di famiglia, le quali non hanno alcuna attinenza con ciò che cercate?

—Che volete? La signorina era fortemente commossa; e turbata dalla assenza del fratello, di cui conosceva le cagioni, sto per dire che non pensava nemmeno ai segreti della cassettina d'ebano. La prima e l'unica cosa che mi domandò, a mala pena mi ebbe veduto, fu questa: «e Lorenzo? dov'è Lorenzo?» Io non potei dirle nulla, poichè, come vi ho raccontato, io lo vidi soltanto a notte alta, quando ebbi fatto ritorno a casa. Ella era in un'ansia mortale, la poverina, ed io non venni a capo di racconsolarla. Partii promettendole di cercar Lorenzo, di metterlo in salvo, e di tornare stamane, a ragguagliarla d'ogni cosa che avessi potuto fare per lui. E difatti, Lorenzo è in salvo, a quest'ora. I soldati, carabinieri e sergenti di pubblica sicurezza che vegliano alle porte, per visitare chi entra, non badano ancora molto attentamente a chi esce; e Lorenzo, travestito da contadino, è andato ad uscire tranquillamente dalla porta degli Angeli.

—Questo è già tanto di guadagnato;—notò Aloise di Montalto; ma la signorina…. E si trovasse almeno il servitore!…

—Voi lo vedete! Scomparsi!—soggiunse l'Assereto;—scomparsi, mentre io venivo a portar novelle di ciò che avevo fatto, non senza fatica, tra le quattro e le sei di questa mattina.

—C'è un grave mistero, qui sotto!—disse, crollando il capo, Enrico
Pietrasanta.

—È quello che penso anch'io;—ripigliò l'Assereto;—ma come scoprirlo? Darei, ve lo giuro, metà del mio sangue.—

In quella che così ragionavano, senza conchiuder nulla, si udì il rumore di un catenaccio che scorreva negli anelli, e di un uscio che rimessamente, timidamente, si apriva, alla svolta del pianerottolo.

All'Assereto, che era pratico di quelle scale, venne come un raggio di speranza, nello udire lo strepito di quell'uscio che si apriva. Fu in due salti all'altro capo dell'andito; scese uno scalino, e si parò innanzi a quell'uscio, dalla cui breve apertura compariva, in atto tra curioso e guardingo, una donna attempata, come dimostravano i suoi capegli grigi e un cuffione bianco, ornato di cannoncini, alla foggia delle nostre vecchie massaie.

—Scusi,—disse l'Assereto, mettendo una mano al cappello, e accennando rispettosamente coll'altra alla vecchia signora, che volesse ascoltarlo;—eravamo venuti a chiedere del nostro amico signor Salvani, e nessuno ci risponde.

—Li ho uditi già parecchie volte suonare, in questa mattina;—risponde la vecchia;—e adesso, parendomi di udire un certo bisbiglio sul pianerottolo, era venuta a vedere chi fosse. Ma Lei, mi par di conoscerla….

—Sì sono un amico di casa Salvani, e ci sono stato ancora iersera.
Dovevo tornare questa mattina per certi ragguagli dalla signorina
Maria.

—Oh, poverina!—interruppe la vecchia signora, che, ravvisando un volto amico, aveva spalancato l'uscio e messa in moto la lingua;—se Ella sapesse che notte ha passata, aspettando suo fratello! Veda, quantunque io fossi sola in casa, perchè mio figlio è partito ieri mattina alla volta di Torino donde tornerà posdimani, quando ho sentito tutto quel viavai di carabinieri, non mi sono potuta trattenere dallo andare a chiedere alla povera ragazza se avesse bisogno di qualcosa. Mi ringraziò, dicendomi che non voleva nulla; ma più tardi, verso la mezzanotte, venne il suo servitore da me per dirmi che egli andava in cerca del padrone, e che io volessi tener compagnia alla signorina, che rimaneva sola. Andai, e rimasi presso di lei fino alle due, cercando di consolarla, perchè la era come disperata. Oh, questi giovanotti non ne hanno mai abbastanza, colla loro politica! Se pensassero che hanno una famiglia, a cui non lasciano che gli occhi da piangere….

—Scusi;—interruppe l'Assereto,—ma il servitore, a che ora tornò in casa?

—Oh, così fosse tornato! Ma si perdette anche lui, e la poverina volle ad ogni costo che me ne tornassi in casa, per dormire un pochino. Ma come si fa a dormire, dopo tanto rimescolo? Io non ho potuto chiuder occhio fino all'Avemaria. Ma che crede, che la fosse finita? Appunto allora, odo bussare all'uscio. Che è, che non è? Una donna, che, a quell'ora, in compagnia d'un vecchio, viene a cercare della signorina Salvani. Avevano fatto errore da un uscio all'altro. E difatti, per chi sale quassù al buio, e non vede la svolta del corridoio, sembra che questo sia l'ultimo uscio della casa.

—Chi poteva essere questa donna?—esclamò l'Assereto.—Ella, non è venuta a capo di conoscer chi fosse?

—Io l'ho a mala pena intravveduta dall'uscio che avevo aperto a mezzo, senza levar la catena. Risposi che i Salvani stavano all'altra porta, in fondo al corridoio, e richiusi l'uscio. Tuttavia, rimasi qualche minuto ad origliare, per sincerarmi se entravano dalla signorina Maria. E diffatti, poco dopo, suonavano all'uscio dei Salvani, e la poverina, udendo una voce di donna, aperse e fece entrare quelle due persone in casa. Mezz'ora dopo, udito uno stropiccìo di piedi nell'andito, io, che come lor signori potranno immaginarsi, non avevo più potuto pigliar sonno, venni nell'anticamera, e mi accorsi che scendevano le scale, insieme colla signorina, della quale intesi la voce.

—Chi sa? Forse erano congiunti della famiglia;—disse l'Assereto, tanto per dir qualche cosa.—Ma non abusiamo più oltre della sua cortesia. La prego, se torneranno in casa, a dir loro che Giorgio Assereto, con altri amici del signor Lorenzo, sono venuti due volte, stamane, a chieder notizie.

—Non dubiti; sarà fatta la commissione, appena udrò giungere qualcheduno della famiglia a metter la chiave nella toppa.—

E qui, ricambiate poche altre parole di commiato, i tre amici infilarono le scale per uscire.

—E adesso?…—chiese il Montalto, quando furono sulla strada.

—Adesso,—rispose il Pietrasanta,—ne sappiamo come prima.

—Adagio!—entrò a dire l'Assereto.—Sappiamo che qualcosa di grave è accaduto, e la polizia, che ha avuto mano nella perquisizione, avrà il bandolo del rimanente.

—Lo credete?—dimandò, con aria dubbiosa, il
  Montalto.

—Credo,—rispose l'Assereto,—che sia questo l'unico partito a cui possiamo appigliarci. Che cosa vedete voi di più efficace?

—Nulla, in fede mia! Andiamo dunque al palazzo
  Ducale.—

Si era in gran faccende, quella mattina, nel palazzo Ducale. L'intendente (oggi si direbbe il prefetto) non intendeva niente; e strepitava perchè dovessero intendere gli altri. L'assessore capo pigliava il ranno, e lo rovesciava in capo alla turba minore de' suoi satelliti. Il generale del presidio mandava ordini e contr'ordini. L'avvocato fiscale sguinzagliava tutta la falange dei giudici istruttori. E tutti i campanelli, di qua e di là, di su e di giù, erano in moto, come le gambe dei sergenti, degli uscieri, e, a farla breve, di chiunque avesse qualchedun altro sopra di sè, nella gerarchia degli uffizi. Gran lavoro, troppo lavoro, per un ultimo giorno di trimestre!

Quella mattina, di sicuro, l'assessore capo non dava udienza ad ogni sorta di gente. E già alla dimanda dei tre amici, l'usciere aveva risposto, con breviloquenza spartana: «__occupato__.» Ma essi, tenaci, cavarono fuori i loro biglietti di visita, e dissero all'usciere che avrebbero aspettato risposta. E l'usciere, veduti tre nomi accompagnati da tre stemmi (perchè l'Assereto, quantunque non la pretendesse a marchese, conosceva le prerogative del suo casato), si persuase che quei signori francassero la spesa dell'ambasciata. Nè s'ingannava. Un minuto dopo, tornava frettoloso in anticamera, per sollevare rispettosamente la portiera, e dire ai tre visitatori: «Il signor Cavaliere li prega di entrare.»

Il signor Cavaliere era un uomo di quarantacinque anni, o in quel torno, da' capegli brizzolati, che portava sempre tagliati alla radice, e dal volto affatto ignudo, il quale lasciava scorgere in tutta la loro bellezza le cento grinze di un sorriso, che vi era come stereotipato, ed aiutava alla sua nominanza d'uomo piacevole e di belle maniere. Aveva fama altresì d'uomo avveduto; ma in quei giorni era stato ad un pelo di perderla, e quella mattina ancora egli non era ben certo di non aversela guastata davvero. Però il sorriso stereotipo del suo volto arieggiava la smorfia, e il saluto ch'egli fece ai tre signori era a mala pena quel tanto che occorreva, per istare alle buone creanze. Gli atti, poi, volevano dire assai chiaramente: «Signori, è proprio per le vostre pergamene che vi ho fatto entrare; sbrigatevi!»

—Signor cavaliere,—incominciò Aloise,—la cagione che ci conduce da Lei è molto grave, e forse Ella, ne' momenti in cui siamo, non crederà opportuno di darci le informazioni che siamo venuti per chiederle.

—Dica, ad ogni modo, signor marchese, e dove io possa…. senza nocumento….

—Una perquisizione,—proseguì Aloise,—è stata fatta iersera in casa di Lorenzo Salvani….

—Salvani! La scusi,—interruppe l'assessore,—conosco questo nome.
Non sarebbe, per avventura quello di un signore che ebbe un duello con
Lei?

—Per l'appunto, e di presente amicissimo mio. Ora, nella perquisizione fatta iersera in sua casa….

—Perquisizione!—esclamò il magistrato, stringendosi nelle spalle.—Aspettino, dò un'occhiata ai rapporti, per sincerarmene; ma, se ben ricordo, nessuna perquisizione è stata fatta in casa Salvani.

—È stata fatta dai carabinieri;—entrò a dire l'Assereto;—e forse
Ella non ne avrà avuto ragguaglio.

—Oh, in questi negozi si procede d'accordo,—rispose l'assessore capo, in quella che andava scartabellando alcuni fogli che aveva sulla tavola, di costa allo scannello,—ed io, se la perquisizione è stata fatta, avrei pure a saperne qualcosa. E infatti, qui non trovo nulla di ciò.

—Diamine!—borbottò l'Assereto.—O come va, questa faccenda?—

E guardò in viso agli amici, stupefatti al pari di lui. Quindi, richiesto dall'assessore, raccontò per filo e per segno quello che egli aveva udito da Michele e dalla signorina Maria, non ommettendo neppure la conversazione fatta pur dianzi colla vicina di casa.

—Non ne capisco un ette!—disse l'uffiziale di pubblica sicurezza, quando l'Assereto ebbe finito la sua narrazione.

—L'Autorità non ha ordinato nulla di tutto quanto Ella mi dice.

—Ma, in tal caso,—soggiunse Aloise,—qui si chiarirebbe una bricconata, anzi due, di privati….—

Il signor cavaliere si strinse nelle spalle, giusta il suo costume, quasi volesse dirgli: che ci ho da far io?

—E l'Autorità,—fu pronto a seguitare il Pietrasanta,—certamente si farà debito di scoprire….

—Signori miei,—interruppe il magistrato, increspando la faccia alla solita smorfia,—molte cose abbiamo da scoprire quest'oggi. Lor signori intenderanno che le questioni d'ordine pubblico hanno la precedenza. Del resto, se vogliono, possono raccontare il fatto all'avvocato generale…. non oggi, s'intende, poichè ci avrà molto da fare pur egli, ma domani, o poi….—

Così dicendo, il signor cavaliere si alzò; maniera pulita di dir loro: andatevene, signori, che non ho tempo da perdere.

E i tre amici, intesa la mimica, e veduto come il degno tutore dell'ordine pubblico avesse quel giorno altro in capo che quella bagattella di una perquisizione apocrifa e della scomparsa di una fanciulla, si accomiatarono da lui.

—E adesso, indovinala, grillo!—esclamò il Pietrasanta, come furono nell'atrio del palazzo Ducale.

—In questo imbroglio,—disse Aloise,—c'è sicuramente la mano di qualche matricolato furfante. Ma giuro, per l'anima di mia madre, che ne verrò in chiaro, e guai a lui!

—Ci avrete compagni, Aloise,—soggiunse l'Assereto porgendogli la mano,—compagni nel giuramento e nelle opere. Ora leviamoci di qua, e chiamiamo senza indugio i pensieri a capitolo.—

VII.

Nel quale si racconta chi fossero i Templarii.

I Templarii! chi erano i Templarii?

Oh bella! risponderà l'erudito lettore. Erano i cavalieri di quell'ordine tra religioso e militare, che, fondato nel 1118 da nove cavalieri francesi, ebbe il nome dalla dimora che gli assegnò Baldovino II in Gerusalemme, in un palazzo attiguo al luogo dell'antico tempio di Salomone. I cavalieri del Tempio erano ordinati dapprima a soccorrere, curare e proteggere i pellegrini cristiani in Terra Santa; poscia l'ufficio loro si stese, anzi addirittura si volse, a difendere coll'armi la fede di Cristo e il Santo Sepolcro contro gli assalti degli infedeli. Più tardi, ricaduta Gerusalemme in balìa dei Saraceni, i Templarii si ridussero nell'isola di Cipro, donde proseguirono la guerra giurata, combattendo sul mare, o tentando audacissime imprese sui lidi nemici. Sterminatamente ricchi e possenti, avevano, intorno al 1250, alta e bassa signoria su novemila baliaggi, commende, priorati; la più parte de' quali in Francia, dove la baldanza loro, le mire ambiziose, e i tenebrosi instituti dell'ordine tornarono molesti a Filippo il Bello, per modo che egli pensò di sterminarli, e ne venne a capo, col ferro, col fuoco, e colle scomuniche di Clemente V, suo degno compare.

Il lettore erudito ha ragione; parla come un libro stampato, nè si potrebbe, per questo rispetto, insegnargli nulla di nuovo. Ma noi scriviamo cronache contemporanee, non storie antiche, e qui non si tratta dei Templarii, spenti nel 1314, sul rogo del loro gran maestro Giacomo Bernardo di Molay, bensì d'un altro ordine, assai più moderno, cioè a dire dei Templarii che fiorivano in Genova, nell'anno 1857, e non furono spenti da altri roghi, se non da quelli del matrimonio, da altre tanaglie, se non da quelle della necessità, da altre ruote, se non da quella della mutevole fortuna, da altri __in pace__, se non da quelli della spietata vecchiaia.

Ordine, sodalizio, compagnia, e simiglianti, non sono vocaboli adatti a significarvi che cosa fossero i nostri Templarii di Genova. Essi erano, o, per dire più veramente, formavano un __quid__, che sfugge a tutti gli uncini, a tutte le strette della definizione. Anzitutto, perchè si chiamavano Templarii? Forse perchè erano cavalieri nati d'ogni più arrisicata intrapresa, e nelle loro adunanze non ammettevano donne. Entravano scudieri, e poscia diventavano cavalieri. Tutto ciò si faceva naturalmente, senza bisogno di statuti, e diremmo quasi senza lume di consuetudini. Come erano nati? e fors'anco esistevano come corpo?

Costoro, in principio, non erano i Templarii fuorchè dalle undici di sera alle cinque del mattino; gente racimolata da parecchie classi sociali, diverse di costume e d'intenti; signorotti scioperati, studenti svogliati, artisti chiacchierini, dilettanti di critica, fannulloni per elezione, ai quali scorrevano disutili le ore del giorno, di guisa che potevano impunemente dormirle, spendendo quelle della notte in lieti ragionamenti, in pazze scappate. Si radunarono una volta intorno ad una tavola d'osteria; mangiarono poco, bevvero molto, chiacchierarono moltissimo, e si separarono a notte alta, colle frasi del duetto di Pollione e di Adalgisa. __Qui domani, all'ora istessa,—Verrai tu? Ne fo promessa.__ Un'altra sera, mentr'erano seduti, capitò qualcheduno che aveva dimenticata la chiave dell'uscio di casa, e veduta la luce del gasse illuminare i vetri di una finestra sotto i portici del teatro Carlo Felice (colà per l'appunto era il Tempio dei primi cavalieri) aveva deliberato di entrarvi, e sbocconcellare una fetta di arrosto e far ora sul bicchiere. Occorse poi che qualche sfegatato ammiratore della prima donna, o delle due ballerine __comprimarie__ del teatro vicino, riscaldatosi nella controversia, si fermasse un'ora di più nella trattoria, dov'era venuto col proposito di rimanere appena dieci minuti, e nei nuovi arrivati riconoscendo amici suoi di vecchia data, trovasse l'addentellato per altre due ore di conversazione. Tutti costoro, raunati dal caso, rimasero uniti dalla chiacchiera; e videro che ciò era buono.

La promessa di Adalgisa fu ripetuta, e dopo la promessa il giuramento. In progresso di tempo, non fu più bisogno di tanto; la consuetudine s'era formata, e i nostri primi Templarii, che non si chiamavano ancora con quel nome, furono il centro, il nocciolo, intorno a cui vennero raggruppandosi tutti i capi scarichi ed ameni della città. Molti, che pure, a cagione dei loro negozi, non avrebbero potuto far quella vita notturna, ci andarono perchè la tentazione era più forte della loro virtù. I giornalisti, gente avvezza a lavorar di sera, diedero un largo contingente d'uomini alla lega; gli artisti di teatro, legione avventizia, furono gli ausiliarii che venivano quivi, di stagione in stagione, a darsi la muta. E sempre nuovi erano i commensali, e non c'era bisogno dei capi per convocarli in assemblea. Non c'erano statuti, abbiamo già detto, ed aggiungeremo che non c'erano vincoli. Oggi mancava uno; domani l'altro; i primi tre che si radunavano, facevano manipolo; non passava un'ora, ed erano covone; liberi tutti di andarsene, di sparpagliarsi da capo, ma rattenuti dal sapore di una cena dond'era sbandito il cerimoniale, allettati dalle dolcezze di una fruttuosa comunione di pensieri, che sgocciolavano allegramente dai calici, o vaporavano mollemente, raccomandati a buffi di fumo.

In mezzo a questa mutevole e gaia brigata, v'ebbero, come s'intenderà di leggieri, i più volenterosi, i più assidui. E furono costoro i veri, gli autentici Templarii, in numero di dieci, come i comandamenti di Dio. Ma uno solo fu il comandamento della loro fede: __far di notte giorno__; comandamento facile a tenersi in mente, senza mestieri di tavole, poichè ne bastava una sola, imbandita; più facile a seguirsi, senza bisogno che vigilasse un Mosè, poichè erano dieci, tutti legislatori e profeti ad un modo, e se per avventura non sapevano donde far scaturire l'acqua, con un colpo di verga, sapevano bensì da che botti si spillasse il buon vino.

Tra i nostri lettori (chi sa?) c'è forse taluno che avrà partecipato alla lega. A questo invalido senza pensione noi ci volgiamo, pregandolo a dire se non è verità pretta tutto quello che andiamo narrando. Mai sodalizio, confraternita, consorteria, furono più pronti ad accogliere, più larghi a licenziare. Per entrarvi, occorrevano quattro cose; gioventù e danari da spendere; onestà da tenere in serbo, e ingegno da mettere in comune. Per uscirne, bastava cominciare una sera a mettersi in letto di buon'ora, e alzarsi la mattina per tempo. Così facendo, si era certi di non veder più Templarii, e volendo si poteva anco dimenticare che fossero mai esistiti.

Il Templario, per solito, si alzava da letto alle quattro del pomeriggio, e gli amici e i conoscenti lo vedevano verso le cinque, allorquando, vestito di tutto punto, egli andava a goder la frescura mattutina sulla piazza della Posta. Sorseggiato il suo caffè nero (leggete vermutte) dal Moder, faceva colazione all'ora in cui gli altri volevano pranzare; leggeva i giornali del mattino (altri direbbe della sera), e poscia per ingannare il tempo, andava a sedersi nel suo scanno a teatro, dove ascoltava la musica, o la recita di qualche nuovo dramma, secondo i casi, facendo tutte quell'altre cose che fa, in somigliante postura, ogni semplice mortale. Quasi sarebbe inutile il dire che non era sempre a teatro, e che sapeva alternare questo passatempo colle visite, e coll'attendere a' suoi negozi particolari, molti o pochi, sempre secondo i casi, rilevanti o di niun conto che fossero.

Così giungeva la mezzanotte, ora in cui si metteva a desco e pranzava coi soliti amici e con tutti quegli altri avventizii che vi abbiamo già detto. Questo pranzo, che i semplici mortali chiamerebbero cena, riusciva un vero simposio, in cui regnava la più sciolta allegrezza, la più cara festività di modi, la più bizzarra varietà di discorsi; cose tutte che tiravano in lungo il convito, e facevano schierare in bell'ordine una legione di bottiglie vuote nel mezzo della tavola.

Finalmente, verso le tre del mattino, cedendo alla muta eloquenza del tavoleggiante, che pisolava in un angolo, i compari levavano le tende, per andarsene a passeggio, continuando i ragionamenti incominciati a mensa, fino all'ora in cui gli asinelli dei lattai, le ceste delle cavolaie e delle, fruttivendole, giungevano dal Bisagno, a mutare l'aspetto della piazza di San Domenico. Qui veniva in taglio una visita agli ortaggi, e, secondo la disposizione degli animi, si mercanteggiava mezz'ora intorno ad un canestro di frutta, o ad un mazzo di radici, tanto per dar molestia alle erbivendole e farsi dire che lor signori avevano tempo da perdere.

Ciò fatto, e comperata, per farla finita, qualche libbra di patate, o una dozzina di melarance, per accoccarsele a vicenda più in là, si davano la buona notte e andavano a letto per tempissimo, come solevano dire a chi li riprendeva di andarci troppo tardi.

Questa maniera di vivere parrà sregolata a taluni, e strana, per lo meno, all'universale; non già a noi, i quali la reputiamo soltanto regolata diversamente, non altrimenti strana che in apparenza, a cagione di un mutamento d'orario. E di quel loro orario particolare molto si compiacevano i nostri Templarii, poichè le ore che passavano fuori di casa erano quelle appunto che consentivano loro di trovarsi in fiorita compagnia a teatro, con gente di loro elezione a tavola, e d'essere i veri padroni della città, quando uscivano a passeggio, senza aver molestia da ruote di carri, da scuriade di cocchieri, da gomiti di screanzati, nè nausea dalla vista continua di asini calzati, o di furfanti matricolati.

Nè di ciò solo si lodavano i Templarii, ma ancora, del poco spendere. Uno tra essi, ai predicozzi del babbo, che era venuto dal borgo natale per pagargli i debiti, poteva dir di rimando:

—Di che vi lagnate, padre mio? Domandatene a quanti mi conoscono, e tutti vi diranno che vivo con una lira al giorno.

—Ah sì, con una lira? E il resto va tutto in libri, lezioni e limosine, non è vero?

—No, padre mio; non sono tanto ricco da far limosine; lezioni particolari non ne prendo, e i libri non li pago.

—Sentiamo dunque dove va il tuo denaro.

—Ecco, cinquanta centesimi tra assenzio e caffè…. Voi vedete che non è molto! poi, trenta centesimi di sigari, venti di giornali; tutto sommato, è una lira.

—E il pranzo, manigoldo? E la cena, e le male
  spese?

—Ah! tutto ciò, padre mio, entra nel conto della notte. Io vi dicevo quello che spendo al giorno, e certo non troverete che sia molto.—

Buona pasta di giovani, quei Templarii! Si riscaldavano per una questione di politica, d'arte o di scienza, come tanti e tant'altri per far roba e quattrini; si ficcavano animosi in ogni ginepreto, col medesimo ardore che altri metterebbe a cavarsene. Non c'era forma, non delicatezza d'intelligenza, a cui fossero o volessero rimanersi stranieri; e tutto ciò senza sussiego, senza pedanteria, senza sforzo. In una città mercatante e affaccendata come la loro, essi erano gli ospiti cortesi, i cerimonieri, i ciceroni volenterosi, di quanti giungessero, artisti, letterati, giornalisti, scienziati d'altre parti d'Italia, anzi d'Europa a dirittura, per visitare la regina del Tirreno. Parecchi di questi signori confessarono ai Templarii, dinanzi a un piatto di dàtteri di mare, che avevano molto sbadigliato il mattino, in compagnia di certi incravattati e stecchiti arcifanfani. Qualche gran diplomatico, ristucco delle visite ufficiali e dei pranzi di gala, respirò liberamente in mezzo ai notturni cavalieri, e dichiarò ad alta voce, tra due sorsate di Barbèra (oh, indimenticabile Sir James Hudson!) che gli Italiani valevano assai più dei loro rispettivi governi.

E insieme con questi giramondi, quante lezioni improvvisate di storia, alle tre dopo la mezzanotte, sulla piazza di Sarzano, o sotto la torre del palazzo Ducale! Quanti aneddoti archeologici, quante cronache gentilizie, sul ponte di Carignano, sugli scalini della Malapaga, e giù per lo Stradone di Sant'Agostino! quante cicalate intorno all'architettura bisantina, araba e lombarda, sulla gradinata di San Lorenzo, e in groppa ai leoni del Rubatto!

Nè mancavano le pazzie, che anzi erano frequenti, e non sempre argute. Lo seppero i cartelloni tondi del teatro Carlo Felice, che spesso andarono a far bella mostra di sè, e ad annunziar la serata della Bendazzi, o della Pochini, in luogo della solita __Indulgenza plenaria__, ai divoti di Sant'Ambrogio. Lo seppero i carri della spazzatura, che più volte ruzzolarono, con grande frastuono, giù per la via Carlo Felice, portando in trionfo qualche Pollione, o qualche conte di Luna, costretto la sera di poi ad omettere la sua cavatina. Lo seppe troppe volte il portone della casa al numero 5 in via Carlo Felice, fatto a due battenti, i cui picchiotti, in forma di S, e girevoli, si incrocicchiavano con bel garbo l'uno sull'altro, per modo che le fantesche mattiniere non potevano più uscire di casa, se qualche pietoso viandante non si faceva a rimuover l'ostacolo.

Ne tralasciamo, per amore di brevità, molte e molte altre, che ai Templarii parevano belle invenzioni, ma non garbavano punto, come s'intenderà facilmente, ai cittadini che avevano necessità di dormire. Accenneremo soltanto, a mo' d'esempio, certe prediche strambe, piene zeppe di frasi senza costrutto, di testi latini citati a rovescio, che or l'uno or l'altro degli allegri compagnoni andava facendo all'uditorio, dall'alto del muricciuolo di piazza Giustiniani, facendosi mandare al diavolo da tutto il vicinato. La predica finiva, per solito, in un battibecco tra l'oratore e qualche pacifico cittadino, che si affacciava stizzito alla finestra, esponendo il suo berretto da notte alle omeriche risa della brigata. E guai al pacifico cittadino, se gli avveniva di gridare che la notte è fatta per dormire; perchè l'oratore era pronto a rispondergli coi sacri testi alla mano, che chi dorme non piglia pesci, che quello era tempo di far penitenza e non di starsene in panciolle, che bisognava vegliare e pregare per non essere indotti in tentazione, e via discorrendo.

Non erano belle cose certamente, ma bisogna condonarne qualcuna a una gioventù per tanti altri rispetti nobilmente operosa. Paragoniamo, verbigrazia, i Templarii con la società del Parafulmine, che già i lettori conoscono. Questa era il frutto di una educazione viziata, in mezzo a tempi di servitù politica, a esempi di abbiettezza morale; tristo era l'intendimento e malvagie le opere. I Templarii ci avevano i loro difettucci, come il sole ci ha le sue macchie, come il cielo più sereno ci ha le sue nubi; queste nubi, queste macchie, questi difettucci dei Templarii, non erano altro che sovrabbondanza di vita, impeto di giovanile baldanza. Erano scapati, ma generosi, ma buoni; la consuetudine dei loro ritrovi amichevoli, dove le donne erano proibite come le pistole corte, dove non si ammetteva che alcuno si lasciasse sopraffare dal vino, dove insomma non era nulla che potesse far degenerare in una stupida orgia il geniale simposio, era un continuo ricambio di pensieri, che allargava i cuori, che aguzzava gl'ingegni. Quell'assiduo stropicciamento scambievole d'arte, di letteratura, di scienza, di politica e di cavalleria, era, sotto apparenza di sollazzo, una palestra, una scuola pei congregati, un nobile esempio per tutti. In essi e con essi, sorse una generazione che poco tempo di poi aveva da rappresentare degnamente Genova, la mercatante, la marinara, nel risorgimento politico e intellettuale della nazione. E questo avvenne facilmente, naturalmente, sebbene i Templarii non mirassero in particolar modo a professioni di fede, e non si guastassero il sangue per dimostrare che la libertà, il progresso, eran ristretti in questo o in quel partito, incarnati in questo o in quell'uomo.

Combattevano per la verità; si commovevano per ogni cosa che lor paresse generosa e in tempi non ancora maturi per opere di maggior conto, tenevano acceso il fuoco sacro, custodivano il palladio, portavano nei loro cuori le speranze del futuro. Si venivano, intanto, esercitando in parziali combattimenti, rendendosi utili in isvariate occasioni, partecipando a parecchie di quelle coperte guerricciuole in cui si manifesta la vita di una città, rompendo talvolta le uova nel paniere ai grossi mestatori, dando qualche mazzata ai bricconi, e qualche botta di terza o di quarta ai prepotenti.

E adesso che sappiamo chi fossero, vediamoli all'opera. Ma anzitutto, chiudiamo il capitolo.

VIII.

Nel quale si disputa lungamente intorno all'origine della donna.

Siamo nella sala superiore della trattoria del Teatro. La sala del pian di sopra, che già abbiamo accennato, non troppo grande nè troppo piccola, par fatta a bella posta per quei cenacoli, di cui diamo un saggio al lettore. Arredata pulitamente, senza pretensione, fa buon viso ad ogni maniera di gente, purchè costumata. Vi si giunge per una scaletta, la quale ha due ingressi, l'uno nella sala a pianterreno, e l'altro nel vestibolo del teatro Carlo Felice.

Non è ancora suonata la mezzanotte, ma già i Templarii sono adunati. Una lucerna a gasse scende dal soffitto a illuminare la mensa; dalle tre finestre spalancate, per dar libero corso all'aria, si spande l'acciottolìo de' tondi e de' bicchieri, il suono delle voci e delle risa festevoli dei commensali, che sono tredici in punto (nè l'hanno per malo augurio) intorno ad una tavola, a cui il rinforzo di due tavolini sui lati minori ha dato la forma della più smilza tra le cinque vocali.

I dieci Templarii, gli autentici, non c'erano tutti; ma ai due che mancavano, supplivano cinque ausiliarii. Tra i primi si notava Mauro Dodero, vecchia conoscenza dei nostri lettori, il quale non aveva raccontata ancora la sua famosa storia d'Ocuenacati ai congregati epuloni di Quinto; Mauro Dodero, a cui la gran barba bionda, già largamente frammista di fila d'argento, aveva fatto ottenere più agevolmente il titolo, d'altra parte meritato, di gran maestro dell'ordine. Gli sedeva daccanto Marcello Contini, quell'allegro giovinotto che, nove anni di poi, doveva morire, glorioso uffiziale dei Carabinieri genovesi, sulle contrastate alture di Montesuello, e che allora era noto al sesso debole per la maschia bellezza della persona, agli amici per la smania di cantare senza azzeccarne mai una, a tutti per l'ottimo cuore, per la schietta cortesia dei modi, posta maggiormente in rilievo, anzichè scemata, come in tant'altri avviene, dagl'impeti di una bollente natura.

Marcello, povero amico! Tu eri de' buoni: perciò, come tanti altri buoni, sei morto nel fiore degli anni. La gran mietitrice che «fura i migliori e lascia stare i rei» s'è chiarita anche con te fedele al costume, e ti ha volto sull'ampio torace il piombo sibilante d'un cacciator tirolese, in quella che tu andavi canticchiando a tuo modo, tra il fischio delle palle e il rombo delle artiglierie, la canzoncina inventata poche ore innanzi dai compagni, e incuorando i tuoi a snidare il nemico da una abbattuta di tronchi d'alberi, donde esso traeva liberamente sulle camicie rosse e sui bigi farsetti dei carabinieri genovesi. Marcello, povero amico! I nostri cuori battono più forte, ogni qual volta si rammenta il tuo nome; il tuo elogio funebre ben sopravvive alla cerimonia della sepoltura, se chi ti conobbe, e t'amò, tuttavia lo ripete.

Templario per eccellenza, era nel numero l'avvocato Emanuel, che diceva di far le sue pratiche nello studio dell'Orsini, e in cambio la faceva a letto, dove rimaneva più a lungo di chicchessia. Per contro, era l'ultimo a rientrare a casa, dopo avere accompagnati ai rispettivi usci tutti i suoi notturni colleghi.

C'era poi nella combriccola il Giuliani, quel giornalista universalmente accusato di non scrivere quattro periodi al giorno, poichè lo vedevano girandolar sempre da piazza Carlo Felice all'angolo della libreria Grondona. Il poveraccio aveva un bel lavorare e far miracoli; non c'era un cane che lo credesse. Egli stesso, così soverchiato dalla voce pubblica, aveva finito col credersi il più gran scioperato del mondo. Nè va dimenticato il Savioli, egregio dilettante di musica, che usciva qualche volta colla chitarra ad armacollo; nè il Lorenzini, il più grave dei matti, che Firenze dapprima e poi Roma ha rapito all'aria libera di Genova, per chiuderlo nella cella penitenziaria di un ministero. Peripezie della vita!

«__J'en passe et des meilleurs__» diremo con Ruy Gomez de Silva. Questi, ed altri che non nominiamo per non esercitare la pazienza dei nostri lettori, se ne stavano seduti a desco, incominciando allegramente la cena, intorno ad un maiuscolo piatto d'ostriche: le quali, lasciato il ruvido guscio nei tondi, andavano ad affogare in que' tredici stomachi sotto una pioggia di vin bianco delle Cinque Terre, che non teme confronto di Capri, nè di Sauterne.

—Lorenzini!—gridò il Savioli, che, sporto il braccio sulla tavola per metter mano al piatto, se lo vedeva portar via da quell'altro:—Tu inghiottisci più ostriche colle tue mascelle, che Sansone non uccidesse Filistei…..

—Colla tua!—proseguì il Lorenzini, tra le risa dell'assemblea; e frattanto si trasse nel tondo un'altra dozzina di gusci pieni.

Tra Templarii la celia era permessa, anco se andasse un poco fuori di riga. Il Giuliani aveva messo fuori questa legge, che dopo le undici di sera non fosse più lecito aversela a male per cosa alcuna che altri dicesse. Però il Savioli si lasciò dare tranquillamente dell'asino, e tirò innanzi.

—Colla mia, o colla tua; fatto sta che ti piacciono maledettamente, le ostriche, e le mandi giù senza misericordia…. per noi….

—L'ostrica,—sentenziò il Lorenzini, in quella che ne alzava una all'altezza delle labbra,—è la regina dei molluschi, ed io, quantunque acefala, non dubito di proclamarla superiore all'uomo.

—E alla donna per conseguenza;—notò l'avvocato Emanuel.

—Oh, questo poi, no!

—Sentiamo quest'altra!—disse capitan Dodero.—Il Lorenzini ha ancora più paradossi in corpo, che ostriche.

—La donna,—proseguì il Lorenzini, col suo piglio cattedratico,—è una cosa….

—Una cosa!—sclamò, interrompendolo, in atto di maraviglia, il
Savioli.

—Una cosa, sicuro, una cosa che non patisce confronti, nemmeno col sole e coll'altre stelle, perchè essa è la cosa più divina dell'universo. E te lo provo, come due e due fanno otto.

—«__Io ti dimostrerò con belle prove__»—canticchiò Marcello Contini, dall'altro capo della tavola,—«__Che la terra si bagna allor che piove__.»

—Chètati, Orfeo!—gridò il Lorenzini.—Io dico e sostengo, anche se m'aveste a pigliare per un poeta, che la donna è cosa tutta divina, o poco meno. Ne ho veduta una, quest'oggi, in via Luccoli, per la quale darei, Dio mi perdoni, tutte le ostriche che sono ancora nel piatto.

—Bello sforzo!—esclamò il Giuliani.—Ce n'hai lasciate sette.

—Anzi, mi piglio anche queste, e proseguo. Credete alla Sacra
Scrittura?

—Siamo gente battezzata!—rispose per tutti il gran maestro Dodero.

—Orbene, narra la Sacra Scrittura che Iddio in principio creò il cielo e la terra….

—__Avocat, passez le déluge!__

—Non posso, Giuliani; non posso uscire dalla
  Genesi.

—Tanto meglio, poichè, in tal caso, avrete posto mente che Iddio creò la terra, ogni specie d'animali, e l'uomo medesimo, colla grossa materia, contentandosi, per quest'ultimo, di soffiargli addosso.

—Sta bene; e che cos'è la donna, se non carne della sua carne?

—Adagio Biagio! L'ha detto Adamo, e per dire una corbelleria di quella fatta, poteva fare a meno di svegliarsi. Osso delle sue ossa, meno male, ed anche per una centesima parte.

—Tu stesso lo ammetti;—disse di rimando il Savioli;—la donna è fatta d'una costa dell'uomo.

—Bravissimo, d'una costa. Tu ti danni colle tue ragioni; ti aguzzi il palo sulle ginocchia. Notate bene, o signori; è fatta di una costa, carne od osso che sia, cioè a dire materia già ridotta e trasformata dalla volontà del Creatore. Sappiamo dunque che ella non viene direttamente dalla mota, come l'uomo, suo indegno vicino. Ora, poi, come potrebbe una costa pigliar statura e forma di donna, senza l'aiuto di un nuovo elemento?

—E l'aria?—dimandò il Savioli.

—Ah, tu credi,—proseguì il Lorenzini,—che sia stata gonfiata d'aria, come le bottiglie, o come i palloncini?

—E perchè no?

—Infatti,—disse il Contini, tornando a cantare.

    La donna è mobile
    Qual piuma al vento…

—Sta zitto…. Piave! e poni mente anche tu alle mie parole. La donna non ci ha di umano altro che la quantità di una costa, cioè a dire venti o venticinque grammi; il resto, cinquanta o sessanta chilogrammi, è tutto soffio di Dio. Io lo vedo, il Creatore,—proseguì con ardita ipotipòsi il Lorenzini,—soffiare sopra una mota di fango per far l'uomo, ma soffiar dentro a una costa per foggiarne la donna; l'unica cosa creata che contenga, checchè ne dicano i chimici, maggior parte di Dio.—

La chiusa del Lorenzini fu accolta dalla brigata con una salva di applausi.

—Peccato non ci siano donne ad udirti!—esclamò il giornalista
Giuliani.

—Non siamo Templarii per nulla!—notò il Savioli.—Le donne se ne stiano da banda. Dov'è la donna, non c'è più libertà di parola; sottentra la cerimonia, o la passione; quella mette il bavaglio alla verità, questa soffoca il raziocinio. Ho detto—proseguì con burlesca gravità l'oratore—e non patisco osservazioni, perchè questa è la mia opinione.

—Sia bene o male—entrò a dire Mauro Dodero—poichè non ci sono donne tra noi, farò una variante alla storia del Lorenzini.

—Ne muta il senso?—dimandò questi.

—Press'a poco.

—Mi riserbo la facoltà di combatterla.

—Anzitutto, sentiamola;—disse il Savioli.—Capitano, hai la parola.

—Grazie tante;—soggiunse capitan Dodero;—ecco la variante. Il Signore aveva tolta la costa all'uomo. Fin qui la è storia conosciuta….

—Sicuramente;—interruppe il Giuliani;—«__immisit ergo Dominus Deus soporem in Adam: cumque obdormisset, tulit unam de costis eius, et replevit carnem pro ea__.»

—Tutto benissimo, salvo l'ultima frase!—ripigliò a dire capitan Dodero.—Il Signore aveva tolta la costa di Adamo ed era lì per farle quell'uffizio che ci raccontò il Lorenzini, allorquando fu veduto dalla volpe, che passava a caso da quella parte dell'Eden. Voi sapete meglio di me che gli animali erano già creati, quel giorno, e ciascheduno secondo la specie sua.

—Verissimo!—tornò a dire il Giuliani, che era forte di Sacra Scrittura, come i suoi colleghi del __Cattolico__;—Ed eccovi il testo che lo dice: «__Et fecit Deus bestias terrae juxta species suas, et jumenta, et omne reptile terrae in genere suo. Et vidit Deus quod esset bonum.__»

—Vuoi finirla. Giuliani, col tuo latino?—gridò Marcello Contini.

—Non mio, ma di san Gerolamo; del resto, ho
  finito.

—Meno male; ora, continua tu, Dodero, che parli in genovese, come
Iddio comanda.

—E come difatti parlavano Adamo ed Eva, poichè la genovese è la prima lingua del mondo;—disse gravemente Mauro Dodero, pettinandosi la barba colle dita, come era suo costume.—Ora torno al racconto. La volpe adocchiò la costoletta, e, spiccato un salto, vi pose il dente, come se fosse roba sua, e il Signore non l'avesse tolta all'uomo se non per farne un presente a lei. Fu per tal guisa, come vedete, la prima costoletta mangiata a questo mondo.

—E allora?—dimandò il Lorenzini.

—Allora avvenne che messer Domineddio, volendo riavere la costoletta, sporse la mano per afferrare la volpe; ma siccome la volpe fuggiva, egli non fece in tempo a pigliarla pel collo, e non agguantò altro di lei che la coda. E qui, tira lui per un verso, tira quella per l'altro, accadde che al Signore rimase la coda in mano, e la volpe sguizzò lontana da lui, portandosi la sua preda tra' denti.

—E allora? io torno a dimandartelo, e allora?

—Allora, messer Domineddio, rimasto con quel negozio in mano, sorrise, e poichè di riavere il fatto suo non c'era neanche a pensare, fece in tal guisa i suoi conti:—«Abbiamo già tolta all'uomo una costa, e a levargliene un'altra gli si potrebbe recar troppo danno. Ora, poichè non possiamo fare la donna ad immagine dell'uomo, facciamola ad immagine della volpe». Detto, fatto; il Signore accostò la coda della volpe alle labbra, soffiò, fece la donna….

—__Et vidit Deus quod esset bonum;__—soggiunse l'impenitente latinista Giuliani.

—Questo non so;—proseguì capitan Dodero,—la variante non lo dice. Questo so bene che essa ci chiarisce come e perchè la donna nascesse molto più astuta dell'uomo, e come il serpente trovasse il terreno già preparato, quando le entrò del negozio del pomo.

—È grossa, capitano, è grossa!—esclamò l'avvocato Emanuel.

—Che volete, amici? Non l'ho mica inventata io. Ve la racconteranno tutti i contadini di Quinto, dai quali l'ho raccolta, e che forse l'avranno avuta dal parroco.

—Fortuna per te, che non ci siano donne ad udirti!—gridò il
Lorenzini, copiando a suo modo una frase del Giuliani.

—Che! in fondo in fondo, possiamo esser d'accordo, poichè tutt'e due ammettiamo il soffio di Dio. Quanto alle donne, esse potrebbero risponderci che tra una coda di volpe e una costa d'uomo non c'è poi quella gran differenza, da doversene dar briga.

—L'uomo è un brutto animale; non l'ho sempre detto io?—gridò il giornalista.

—Parla per te, Giuliani!—disse di rimando il
  Contini.

—Ah sì, scusate, dimenticavo…. l'Apollo del Belvedere,—prosegui il Giuliani ridendo.—Ma, in fede mia, non avete notato voi altri che nella specie umana occorre tutto il contrario delle bestie? Tra esse, nessuna eccettuata, il maschio è più bello della femmina; uccello, ha più varietà di colori nelle penne, ciuffo e coda più appariscenti; leone, ha più criniera; tigre, ha più chiazze sul mantello, e va dicendo. Solo nella nostra specie avviene che la femmina è più bella, più graziosa ne' suoi contorni, più bianca nella sua carnagione, più elegante nelle sue movenze, più gradevole insomma a vedersi….

—E a toccarsi;—aggiunse il Contini.

—Sicuro, a toccarsi; e qui, parlo proprio per me!—conchiuse il
Giuliani, tra le risa dell'uditorio.

Il Contini si disponeva a rispondere; ma in quel mentre capitan Dodero, che era seduto in capo alla tavola, colla faccia rivolta all'entrata, alzò la mano, in atto di trinciare una benedizione.

—Ah, ecco un renitente!—gridò l'avvocato Emanuel, volgendo gli occhi all'uscio.

—Il figliuol prodigo!—soggiunse il Lorenzini.—Ammazziamo il vitello grasso.

—Sul tardi mordono i mùggini!—disse il Giuliani, ripetendo un noto proverbio genovese, tolto a prestanza dai pescatori.

—Vieni,—cantò Marcello Contini,

    Vieni all'amplesso estremo
    D'un genitor cadente;
    Il giudice supremo
    Ti mandi….

—Uno stuzzicadente!—interruppe l'Assereto, che era egli appunto il nuovo venuto, accolto con tanta gazzarra, dai radunati.—Il verso cresce, ma tu cali di mezzo tono, e i conti si pareggiano.

—Hai detto la verità, Assereto!—disse il Savioli.—Per te non c'è più altro in tavola. Chi tardi arriva male alloggia.

—Non ho appetito, io! Sono venuto per salutarvi e ragionare di cose gravi…. se si può.—

IX.

Dove si chiarisce la bontà del metodo induttivo.

—Se si può!—ripetè capitan Dodero.—Si può sempre, purchè se n'abbia voglia.

—Anzitutto, bevi!—soggiunse il Contini, mescendogli nel suo bicchiere.

—Le tue bellezze; grazie!—rispose l'Assereto, accostando il bicchiere alle labbra.

—E raccontaci che cos'è avvenuto di te,—entrò a dire il
Lorenzini,—che non t'abbiamo più visto da due giorni.

—Lo saprete insieme colle cose gravi per le quali sono venuto stanotte.

—Ah, gli è vero: parliamone dunque, e subito.

—__Paulo majora canamus!__—disse il Giuliani.—Eccoci ad ascoltarti.—

Ed egli, e gli altri tutti, si raccolsero nel più profondo silenzio per udire le cose gravi dell'amico Assereto. Questi non entrò subito in materia, e, fosse per meglio disporre gli animi a prestargli attenzione, o fosse per non dipartirsi da certe loro consuetudini di conversazione, si trattenne in quella vece a fare alcune dimande, in maniera d'esordio.

—Amici,—diss'egli gravemente,—siamo Templarii?

—Siamo!—risposero parecchi ad una voce.

—E da senno, s'intende, non già per modo di celia?

—Da senno.

—Deliberati,—proseguì l'Assereto,—ad operar di concerto, ogni qualvolta uno di noi abbia bisogno degli altri? Pronti a soccorrere i deboli contro i prepotenti, a sventare i maneggi degli imbroglioni, a romper le trame dei tristi, quando tornino a danno di noi, o degli amici nostri?

—Perdio! e lo dimandi?—gridò il Lorenzini.—Pronti deliberati, col senno e colla mano, in ogni caso, in ogni occorrenza.

—Orbene, qui abbiamo un caso, per l'appunto: il caso di una fanciulla che è sparita da casa sua, non si sa come, ma certo per opera di furfanti matricolati, e assai potenti per giunta, poichè i signori di palazzo Ducale non vogliono darsene briga, certo per tema di scottarsi le dita.

—Questo è pan pe' tuoi denti!—disse capitan Dodero, volgendosi al Giuliani.—Due paroline sul giornale, e poi si provino a star quatti!…

—No!—rispose il giornalista.—L'accusa sul giornale ha da lasciarsi pei casi disperati. Vediamo in cambio se non si potesse far meglio.—

Il consiglio del Giuliani dovette parer buono, perchè i colleghi di lui si fecero a chiedere all'Assereto che volesse raccontar loro per filo e per segno ogni cosa, e stettero ad udirlo con molta attenzione.

L'ottimo Assereto parlò forse mezz'ora, senza essere interrotto, narrando partitamente e minutamente tutto quel che sapeva; come il suo e loro amico Salvani avesse avuto mano nei rimescolamenti politici de' giorni innanzi; come avesse in casa sua una sorella adottiva; come fosse stato custodito fino a quel tempo in una cassettina d'ebano il segreto dei natali di lei; come un'apocrifa perquisizione rapisse la cassettina appunto in quell'ora che il Salvani metteva a repentaglio la vita e la libertà; come egli, fallito il colpo, si mettesse in salvo, e come la fanciulla, in quella notte medesima, abbandonasse la casa, tratta fuori da una dama sconosciuta che era andata a cercarla, in compagnia d'un vecchio, congiunto, amico, o servitore che fosse.

Queste cose i nostri lettori le sanno, e non occorre ripeterle, seguendo il filo del racconto di Giorgio Assereto ai Templari. Egli narrò inoltre del servo Michele; e questo, che i lettori ignorano tuttavia, faremo di spiegar loro in brevi parole.

Il povero servitore, sapendo anch'egli della congiura e della parte che ci aveva il padrone, ma non volendo far contro a' suoi comandi con lasciar sola in casa la giovinetta, segnatamente dopo quel guaio della perquisizione, per un po' aveva roso il freno, misurando un centinaio di volte, con passo irrequieto, lo spazio che correva dalla cucina all'anticamera, e borbottando tra' denti qualche verso delle sue canzoni spagnuole. In tal guisa passarono due ore, che gli parvero due secoli; finalmente, non udendo mai nulla, nè una schioppettata, nè un grido, commosso dalla ansietà della padroncina, ed aggiungendovi la sua, che non era poca nè lieve, pensò di andar fuori a pigliar lingua egli stesso, e uscire una volta da tanta inquietudine. E così fece, consentendolo la signorina Maria, dopo aver pregato una vicina che volesse andare a farle compagnia, per quella mezz'ora ch'egli sarebbe rimasto fuori.

Da casa alla piazza Carlo Felice non erano stati che due salti. Ma giunto in capo al vicolo della Casana, Michele aveva veduto una compagnia di soldati; e rifatta la sua strada, era andato per le scorciatoie fino alla Nunziata, Anche laggiù, soldati, carabinieri e sergenti di polizia; di popolo, niente. Michele ebbe insomma a confermarsi sempre più nella sua prima opinione, che il colpo fosse andato fallito. Ma Lorenzo, dov'era? Il nostro veterano volle averne l'intero; perciò mosse alla volta della Darsena. Ma non era anche giunto nei pressi di Santa Sabina, che s'imbattè in un popolano suo conoscente, appunto di quelli che dovevano menar le mani da quelle parti là, il quale gli diede in poche parole ragguaglio d'ogni cosa; tutto andato a monte; essi fuggiti in tempo e sparpagliatisi per la città; il loro comandante uscito prima di loro per andare al quartier generale; altro più non sapere di lui.

—Per Sant'Antonio!—esclamò Michele, che giurava volentieri nel nome di quel santo, dopo il combattimento che ne portava il nome laggiù in America;—il padrone è in salvo.—

E fattosi alquanto più tranquillo, se ne tornava a casa, pigliando la strada più larga. Passò senza intoppo per via Nuovissima, e giunto al quadrivio di San Francesco, stette perplesso un istante, se dovesse proseguire per via Nuova, o discendere dalle Vigne. Quest'ultimo consiglio la vinse; ma quel momento d'incertezza gli era tornato a danno, perchè due sergenti di polizia, sbucati di là presso, si fecero a domandargli con mal garbo dove andasse a quell'ora.

—Non lo so;—rispose asciutto Michele, a cui la vista di que' due figuri aveva rimescolato nelle vene il suo sangue repubblicano.

—Non lo sapete? Venite con noi!—

Sulle prime, Michele aveva pensato a resistere; anzi, un moto delle braccia che poteva rassomigliare assai bene ad un pugno, aveva cominciato a far testimonianza del suo proposito. Ma in quel mezzo aveva scorto due carabinieri, i quali salivano l'erta, rasentando il palazzo Brignole, e, posto il caso si fosse liberato dai due sergenti, gli avrebbero impedito ogni scampo. Però, trattenendo il pugno a mezza rada, s'era contentato a protestare contro i modi delle guardie, e aveva finito col dire: orbene, poichè vi piace tanto la mia compagnia, vengo con voi.

Ed ecco per che modo il nostro Michele, in vece di andare a casa, era andato a Sant'Andrea, del quale non era punto divoto.

La mattina seguente, il prigioniero era stato interrogato dal giudice. Avendo imparato a sue spese, nella notte, a tener la lingua a segno, rispose modestamente esser egli Michele Garaventa, servitore del signor Salvani, che se ne andava tranquillamente a casa, dopo averne bevuto un bicchiere, non intendendo nulla di tutto quel subbuglio di __uomini d'arme__.

Il nome del Salvani non parve facesse alcuna impressione sul giudice. Le autorità di palazzo Ducale, colte alla sprovveduta in quei giorni, con tanta roba sulle braccia, molta se ne lasciavano cadere a terra, senza pensare neanco a raccattarla. D'altra parte il nome del Salvani, conosciuto per quel che valeva al comando militare, ma salvato dal più grave pericolo mercè l'amichevole sollecitudine del capitano Nelli di Rovereto, non era ancora, quella mattina, sulla lista del potere civile, e non poteva, per conseguenza, esser noto al potere giudiziario, il quale non aveva tra mani più di una trentina di popolani, arrestati la più parte a caso, e tutti intesi a dichiarare che non sapevano nulla.

Tornando a Michele, egli non era uomo da destar sospetto nell'anima timorata del giudice istruttore, il quale s'impuntò solamente, e più per consuetudine d'ufficio che non per altra ragione, a chiedergli il perchè avesse risposto «non lo so» alla domanda delle guardie.

—Mi hanno colto all'impensata;—rispose Michele senza turbarsi;—avevo anche un po' bevuto, come ho già detto a Vostra Eccellenza…. Ella sa bene…. il vino impedisce lo __sviluppo delle sillabe__…. E poi,—proseguì egli, vedendo le labbra del giudice incresparsi, per trattenere il sorriso,—lo sapeva io, dove andassi? Non potevo mica sapere che mi avrebbero portato in catorbia!—

Qui il magistrato aveva riso a dirittura, e, la sera di quel giorno medesimo, il nostro Michele era posto in libertà. Corso a casa, aveva trovato faccia di legno, come il Montalto, il Pietrasanta e l'Assereto; però, dopo essere stato un pezzo a grattarsi la pera, aveva deliberato di andare da quest'ultimo, per chiedergli se sapesse nulla de' suoi amati padroni.

L'Assereto gli aveva narrato a sua volta tutto quel che sapeva di casa Salvani. Non gli era molto, per verità. Ma la sparizione della fanciulla, tanto più notevole in quanto che pareva essere spontanea, messa a riscontro colla perquisizione, chiarita apocrifa, nella camera del signor Lorenzo, fece gridar Michele e strapparsi i capegli come un dannato.

—Sì certo!—andava egli borbottando negli intermezzi delle sue furie.—Erano venuti soltanto per la cassettina d'ebano, quei carabinieri di nuovo conio. Ah maledetta lingua!…—

E alle ripetute domande dell'Assereto che instava presso di lui per avere la spiegazione di quelle parole, il povero servitore aveva risposto un nome, quello del Bello, che era stato il suo Pilade, e poteva dirsi con più ragione il suo Giuda. Ma non sarebbe andato impunito, o non avrebbe avuto il tempo d'impiccarsi da sè, come l'apostolo del fico; perchè egli, Michele, com'era vero Iddio, l'aveva a freddare colle sue mani.

L'Assereto, che aveva durato molta fatica a cavargli i suoi sospetti di bocca, così furente com'era, ne durò un'altra grandissima a chetarlo. Finalmente (così narrava agli amici) gli aveva ingiunto, per l'amore dei suoi padroni, di non muoversi di casa, fino al suo ritorno, aspettando che egli avesse trovato il modo di porsi sulle tracce della signorina Maria. Questo era l'essenziale; quanto alla vendetta, sarebbe venuta poi; che intanto la era, giusta il proverbio de' Côrsi, una vivanda da mangiarsi fredda.

Il racconto dell'Assereto fu ascoltato dagli amici Templarii con una attenzione che mai la maggiore. E invero, quel tenebroso sviluppo di casi, quella filatessa di malanni che s'era andata svolgendo così assiduamente nel breve giro di pochi mesi, e seguendo la legge del __motus in fine velocior__ su quella giovine coppia fraterna, appariva tale da far pensare non poco, e da far credere che una possanza occulta avesse vigilato l'intrigo, condotto lo svolgimento del dramma.

Chi volle andare al fondo di quella evidente macchinazione fu il giornalista Giuliani, avvezzo per lunga e non lieta consuetudine del suo ufficio, a scrutare i cuori e le reni, per ogni atto degli uomini a metter sempre il naso nelle quinte, sul teatro della vita. Se Adamo fosse stato giornalista, scommettiamo che non avrebbe mangiato così alla leggiera il pomo della scienza, vogliam dire senza levargli la buccia, e senza investigarne la polpa, giù giù, fino alle cellette del torsolo. Epperò il Giuliani, mentre gli amici rimanevano come trasognati, fu sollecito a cogliere il primo appiglio, per tentare il suo lavoro a ritroso.

—Il Bello, hai detto? Chi è costui? Sarebbe per avventura un certo
Garasso?

—Sì, il servitore del Salvani me lo ha indicato anche con questo nome. Lo conosci tu?

—Lo conosco. Molta gente conosco io, e di __diversa mena__, come ha scritto Dante, pigliando il vocabolo da noi Genovesi. Amici,—proseguì il Giuliani, voltandosi con piglio solenne ai Templarii,—qui certamente occorre di far qualche cosa; l'Assereto non ci avrà, spero, raccontata la sua storia per nulla.

—Sicuro; ma che fare?—dissero gli altri.

—Non lo so ancora, ma fare bisogna. Andiamo innanzi; troveremo, strada facendo. Conoscete il metodo induttivo?

—Filosofia!—esclamò il Lorenzini.

—Sia pure; l'ha trovato la filosofia, ma è buono dappertutto, come il prezzemolo. Chi lo ha tolto dal limbo, dove lo avevano cacciato i dogmatici, non fu propriamente un filosofo, sibbene un gran pittore, il quale s'intendeva di moltissime cose, Leonardo da Vinci. Un altro, astronomo e filosofo, Galileo, gli diede forma scientifica; un altro ancora, che fu un po' di tutto, anche un tristo, Bacone da Verulamio, ne foggiò una fiaccola, e la portò a rischiarare tutte le ottenebrate sorgenti dello scibile; noi, Templarii, secondo il nostro bisogno, facciamone un'arma di combattimento.

—Parli come il Boccadoro; vediamo il tuo metodo alla prova.

—Eccolo. Mettiamo le fondamenta. Perchè questa guerra al Salvani? Che nemici ha egli, giovine, modesto, quasi oscuro, come è? Lo sai tu, Assereto?

—Credo non ne abbia alcuno, salvo il Collini, che lo tirò dapprima in quel suo garbuglio che sapete, e poi, quando egli se ne cavò valorosamente colle sue mani, gliene volle un mal di morte.

—Il Collini! Non mi basta;—sentenziò il Giuliani.—Costui è un ambizioso; ma non è, non può essere altri che uno stromento in mano di più ragguardevoli bricconi.

—D'altri non so, e non credo;—proseguì l'Assereto.—Il mio amico Lorenzo se ne è vissuto sempre ne' suoi panni, lontano da ogni briga….

—No, no, il Salvani non c'entra, o c'entra soltanto di sbieco. Qui bisogna tener d'occhio il segreto domestico, la nascita della sua sorella adottiva. Non vedete come tutto è riuscito ad un fine? La perquisizione architettata da questo ignoto avversario, non mira ad altro che ad agguantare la cassettina d'ebano. Dopo la perquisizione, viene il tiro alla ragazza. A proposito, come nasce ella?

—Il segreto era appunto nella cassettina, e Lorenzo ne aveva accennato nella sua lettera al marchese di Montalto.

—Perchè al marchese di Montalto?

—Perchè la fanciulla verrebbe ad essergli congiunta di sangue, come figlia ad un zio paterno del signor Aloise, che è morto in esilio, or fanno dodici anni.

—E la madre?

—Non lo so; Lorenzo ne ha letto il nome in un carteggio che era chiuso nella cassettina, ma non ne ha detto nulla a me, nè al signor Aloise.

—Bisognerà vederlo, e saper questo nome.

—Sicuro, e questo è anche il disegno del marchese di Montalto, le cui ricerche si uniranno alle nostre.

—__Viribus unitis!__—disse il Giuliani;—va benissimo. Intanto sappiamo che qui sotto c'è un vecchio peccato aristocratico, di cui forse una madre vuol sottrarre le prove, od altri giovarsi per suoi fini particolari. Questa seconda congettura mi pare anzi la più ragionevole. C'è troppi congegni in questa trappola che hanno tesa, troppo sforzo di molle!

—Hai ragione;—soggiunse il Savioli,—ma chi le ha foggiate, queste molle? e questa trappola, chi l'avrà tesa?

—Oh, pezzi grossi, di certo! Questa gente che invigila una casa e giunge a risapere d'un cofanetto così gelosamente custodito; questa gente che sa di lunga mano i negozi del partito, in cui s'è gittato il Salvani, e conosce così bene il giorno e l'ora di un tentativo politico da cavarne profitto per sè, mandando lo scatto de' suoi congegni di conserva collo scoppio della rivolta; questa gente che ci ha i carabinieri apocrifi a' suoi comandi, e mentre vi maneggia i bari da carte, i ladri notturni, così facilmente com'io questo bicchiere vuoto, fa a fidanza con tutte le autorità costituite; questa gente che ha modo di farvi uscire spontaneamente una virtuosa e severa fanciulla dalla casa che ama; questa gente, dico io, è schiuma di neri, o ch'io ho perduto l'ultima oncia di cervello. E chi sarà poi la dama che ha condotto via la fanciulla?

—Sua madre;—entrò a dire l'avvocato Emanuel.

—Potrebbe darsi, quantunque non lo creda; ad ogni modo, una dama di misericordia. La pietà è un'ottima bandiera per coprire ogni razza di merce.

—E i falsi carabinieri?

—Furfanti di tre cotte; gente avvezza al furto con rottura, vecchie pratiche della eccellentissima Corte, pensionati di Sant'Andrea; cotesto s'intende a bella prima. A me importa piuttosto indagare chi li ha guidati; e questi, già lo sapete dai sospetti del servitore, è quella buona lana del Garasso. E chi conferisce a costui l'ardimento di mettersi a questa impresa difficile? I pezzi grossi, sempre i pezzi grossi. Notate infatti: all'udire di quel doppio tiro, che farebbe rizzar i capegli in testa ad ogni fedel cristiano, la polizia non si commuove, manda tre gentiluomini da Erode a Pilato….

—Ottimamente!—gridò il Savioli, che non aveva ancor detto la sua.—Ma tutto ciò non ci chiarisce dove sarà la ragazza.

—Bravo! e dovrò dirtelo io? Ma dopo tutto, perchè no? In una casa privata, no certo, che sarebbe poco prudente consiglio. E questo mi fa pensare che la madre non c'entra, o soltanto (scusate la ripetizione) di sbieco. La madre, che ha cercato di occultare per oltre diciott'anni il suo peccato, non sarà diventata così audace ad un tratto. Io mi attengo sempre alla dama di misericordia; e la dama di misericordia mi chiama alla mente il monastero. La fanciulla è chiusa in un monastero; metterei la mano sul fuoco. Ho detto.

—E ben detto, Giuliani!—soggiunse capitan
  Dodero.

—Al primo avvocato fiscale che tira le cuoia, ti proporremo candidato a quel ragguardevole uffizio. Ma ora, che si fa?

—Anche questo v'ho a dire? Orbene, mi provo. Due intenti abbiamo; riavere le carte, e per questo occorre sapere chi le ha; riavere la fanciulla, e per questo occorre sapere dov'è.

—Torniamo da capo!—disse il Contini.—Saper questo! sapere quest'altro! Francava la spesa di ragionar tanto!

—Hai finito?—chiese il Giuliani.

—Io sì; e tu hai ancora da cominciare.

—Probabilmente, e tu mi darai una mano, venendo con me alla scoperta di questo segreto.

—Adesso?

—Subito subito; genovese aguzzo, piglialo caldo.

—Possiamo venire anche noi, se c'è da scoprire qualcosa,—entrò a dire l'Assereto.

—No; è un negozio delicato; due bastano, uno di più guasterebbe.

—Ma dove andate?—chiese Mauro Dodero.

—Nell'antro del lupo rapace. Hai fede in me. Contini?—proseguì il Giuliani, volgendosi al compagno che aveva scelto.—Si fa un'impresa da vecchi Templarii.

—Mi piaci più quando operi, che quando ragioni;—rispose romanamente il Contini.

—Ingrato! Io t'amo anche quando canti; chi è il migliore, di noi due?
Ma lasciamo le chiacchiere, e mettiamo alla vela.

—Si potrebbe almeno sapere che cosa hai immaginato?—chiese quell'ostinato di capitan Dodero.

—Ah, gli è il grande arcano; lo saprete tra due ore, se non vi dorrà di aspettarci.

—Aspetteremo sicuramente!—gridò l'Assereto.—Ma dove?

—Sedetevi a consiglio sulle panche delle cavolaie, qui sulla piazza di San Domenico; due ore, e siamo da voi.—

In questi discorsi s'erano alzati da tavola e scendevano, per la scaletta, nella sala a pianterreno. Colaggiù non c'erano più avventori, e il provvido tavoleggiante aveva già spento tre becchi della lucerna a gasse, lasciando a mala pena uno spiraglio nel quarto, per nutrire una scarsa fiammella, alla cui luce azzurrognola si poteva scorgere l'ostessa, che sonnecchiava dietro il suo banco in mezzo alle sue mostre di vivande, come un timoniere alla barra, in una notte di calma.

All'udir scendere quella lieta brigata che la faceva pisolare ogni notte a quel modo, la povera ostessa aperse gli occhi e mise un sospiro.

—Sospira per me?—chiese il Contini, accostandosi al banco.

—Sì, per l'appunto;—rispose l'ostessa,—e penso che non vorrei esser sua moglie per tutto l'oro del mondo.

—E perchè, di grazia?

—Perchè? Ma le par ora, questa, di andare a casa?

—Brava! appunto perchè non ci ho persona ad attendermi sulle celibi piume. Se sapesse com'è triste a vedersi, il letto d'uno scapolo! Vuol forse vederne uno?

—Vada là, vada là, buona lana!

—Non vuole? Ha torto. La cosa meriterebbe d'esser veduta.—

E ridendo a crepapelle, il più matto dei Templarii seguitò l'amico Giuliani, non senza aver stretto la mano agli altri colleghi e ricevuti i loro augurii per la magna impresa fantasticata dal giornalista.

Rimasti in due, tirarono diritto pel vicolo della Casana, e di là fino a Campetto. S'intende che il Giuliani guidava, e il Contini teneva dietro, non sapendo ancor nulla dei disegni dell'amico.

X.

Qui si dimostra che, per far la guerra a modo, ci vogliono alleati.

—E adesso mi spiegherai….—diss'egli, fermandosi alla svolta di
Scurreria.

—Certamente, ogni cosa; ma entriamo in questo andito.—E condotto Marcello nel vano di un portone, il Giuliani si fece a indettarlo sommessamente di ciò che aveva in animo di tentare.

—Sì, perdinci, stupenda pensata! Tu hai buona lingua; io, non fo per dire, ho buone braccia, e se ardisce far l'omo, lo concio come va. Bravo, Giuliani! Ma se lo dicevo io, che mi piaci più quando operi….

—Vuoi sentirti a ripetere che mi piace il tuo canto? Non lo sperare.
Contini! Ma andiamo, che il merlo non ci abbia a sfuggire.—

Abbiamo fede che i lettori discreti non ci chiederanno di condurre la precisione del racconto fino al segno di spiattellar loro il numero dell'uscio dove entrarono i nostri due personaggi. Era uno dei tanti che sono nella via di Scurreria, o di Scutaria, come si diceva cinque o seicent'anni fa, essendo in quella strada le officine degli scudai.

I due Templarii salirono, coll'aiuto di mezza scatoletta di fiammiferi, sino al quarto piano, e colà fecero sosta dinanzi a un uscio di modesta apparenza.

—Ecco il campanello!—disse a mezza voce il Contini, accennando la corda di lana intrecciata che pendeva, colla sua nappa, lunghesso lo stipite.

—No;—rispose il Giuliani;—se ella non ha smesso le antiche consuetudini, questo è il picchio notturno che dovrà farci aprir l'uscio.—

E mandando gli atti compagni alle parole, bussò quattro volte colle nocche delle dita sopra uno dei battenti.

Lo strepito di una porta interna che si apriva e il fruscio d'una veste sul pavimento, annunziarono poco stante che quella maniera di picchio notturno non aveva punto perduto della sua efficacia. Il Giuliani si volse con aria di trionfo a guardare il Contini; ma il Contini non vide quell'atto, perchè appunto allora gittava lungi da sè per le scale un rimasuglio di fiammifero, che gli scottava le dita.

—Chi è?—dimandò una voce di donna, che non doveva esser di donna giovine, nè bella, per conseguenza. Così almeno parve al Giuliani.

—Son io, un amico;—diss'egli.

Ma se la voce di dentro non parve a lui di donna giovine, nè bella, quella di fuori non parve, a chi stava dentro, la voce di persona aspettata, nè altrimenti conosciuta, perchè una nuova dimanda venne in aiuto alla prima.

—Un amico! Ma chi?

—Io, il Giuliani!

—Non la conosco.

—Vedi la fama, com'è traditora!—bisbigliò il Giuliani nell'orecchio al compagno.

Indi proseguì ad alta voce, rivolgendosi all'uscio.

—Non importa; va dalla signora, e dille che c'è il Giuliani, il
Trovatore.

—La padrona è a letto.

—__Ma veglia la sua donna__!—ripigliò il Giuliani con accento melodrammatico.—Va ad ogni modo, e dille che Giuliani, il Trovatore, o Alfredo, se più le torna gradito, è qui, ed ha bisogno di parlarle.—

E siccome la donna borbottava dietro l'uscio, Alfredo, o, se più vi garba, il Trovatore, soggiunse a mo' di perorazione:

—Bada, vecchia, se non fai l'ambasciata, la __regal signora__ ti manderà a spasso. Se la fai, contenti la padrona e ricevi da me dieci lire, in premio «__del celere obbedir__».

—Vado!—disse la voce, rabbonita ad un tratto.

—«__All'idea di quel metallo__»,—canticchiò Marcello tra i denti.—Ma l'ora è già tarda, e la vecchia non aprirà.

—Oh, ci aprirà!—disse il Giuliani.—Se poi non aprisse, non m'importerebbe una saetta. L'esito del picchio ha messo in chiaro che egli non è ancora venuto, e noi potremmo aspettarlo nelle scale. Già, egli, per solito, viene verso le tre, dopo essere stato alla bisca.—

Mentre così ragionavano, tornò la fantesca ed aperse l'uscio.

—Entri;—diss'ella, tirandosi da un lato, colla lucerna in mano;—la mia padrona si veste. Ma quest'altro signore….

—Non temere, è un amico mio, e della signora. Prendi, Gabrina!

—Mi chiamo Rosa, a' suoi comandi!—soggiunse la donna.

—Non importa; io ti chiamo Gabrina. Eccoti il battesimo!—disse il
Giuliani, mettendole in mano un mezzo marengo.

—E questa è la confermazione!—aggiunse il Contini, che aveva stimato opportuno di raddoppiare la dose.

—Grazie! Pregherò il Signore per le loro
  Eccellenze.

—Brava!—esclamò il Giuliani.—E procura di ottenere che non ci mandi in un luogo dove ti s'abbia a trovare.

—Ella ha ragione; son vecchia, e le vecchie non le vuole nemmanco il diavolo.

—Per risparmio di legna, perchè no?—le disse di rimando il Giuliani, in quella che la seguiva dall'anticamera nel salottino.—Vanne, Gabrina, e dormi i tuoi sonni tranquilli.—

La fantesca uscì sorridendo e facendo inchini a quei due gran signori. Intanto, il Giuliani, andato alla volta di un uscio che metteva alla camera della padrona, accostò il viso alla toppa, non già per guardare dal buco, ma per mandar queste parole alla diva del santuario.

—Violetta, ve ne prego, non istate a farvi troppo bella; se no caschiamo in tentazione.

—Pazzo!—rispose una voce argentina.—Ma voi non siete solo, m'è parso di udire….

—E le vostre orecchie piccine non vi hanno ingannato. È con me un amico carissimo, il quale è innamorato cotto di voi. Ha già speso cinquantamila lire per una bionda, e per un'altra getterà il rimanente.

—Bravo, e aiutate i negozi degli altri?

—Che volete? Si diventa vecchi; ma il cuore è sempre giovine, e se vi parrà di averlo a preferire….

—Oh, lo conosco, il vostro cuore! un limone strizzato!—gridò la diva, ridendo liberamente, in quella che la sua mano si accostava alla maniglia del saliscendi, per aprire il santuario.

—Prostrati, Marcello! Ecco la leggiadra Violetta che appare, «__misteriosa, altera, croce e delizia al cor__».—

Mentre così parlava il Giuliani, compariva appunto sul limitare la donna, tutta chiusa in un lungo accappatoio bianco, di cui, per vezzo, veniva stringendosi i capi colle braccia raccolte a mo' di croce sul seno.

Quell'atteggiamento riusciva mirabilmente a disegnare i contorni di una persona svelta e pienotta ad un tempo, mettendo anche in mostra la bellezza delle mani, le cui dita affusolate parevano dire ai riguardanti: non sappiamo che sia fatica; non ci siamo mai punzecchiate coll'ago, nè indurite collo strofinaccio di cucina; per contro, morbide, tiepide e candide come siamo, ci è dimestica l'arte delle carezze, in cui sarà forse chi ci agguagli, non mai chi ci superi.

Costei, che i nostri lettori già conoscono moralmente un tantino, per quattro noterelle che abbiamo tirate giù sulla carta, a proposito del Bello e de' suoi dispendiosi amori, veduta di giorno, mostrava di non esser più giovanissima, perocchè la ci aveva, tra gli occhi e le tempie, le tre rughe accusatrici, e qualche chiazza di pallore le guastava le rosee temperanze della carnagione. Ma di sera, quando l'avessero un tal po' riscaldata le svariate cure d'un giorno allegro, o le sfavillasse negli occhi azzurri la pazza allegria del convito, ella appariva giovine e bellissima su tante altre, al cui paragone non avrebbe potuto reggere innanzi il mezzodì. Che fosse bionda, è già noto; che avesse occhi azzurri l'abbiam detto dianzi; che fosse padrona (e padrona per diritto di nascita) di due file di denti mirabili per candore, si aggiunge adesso, anche per far sapere ai lettori come e perchè ella avesse il riso facile, frequente, non pure quando era contenta, ma anche quando era adirata per qualche cosa, o infastidita dalla presenza di qualcheduno. E facciamola finita col ritratto; ella era quel che si dice volgarmente un bel tòcco di femmina, e se in cambio d'essere quella che era, fosse stata una matrona, ornata d'un marito, vivo o morto, e d'un cencio di stemma, antico o moderno, il suo nome sarebbe volato di bocca in bocca come quello di una Giunone, o d'una Venere ligustica, da adorare il giorno all'Acquasola, la sera al teatro Carlo Felice, e da additare agli ospiti forestieri, colla solita aggiunta, a mo' di leggenda sotto il quadro, «salvo il tal di tale, che è morto dieci anni or sono, non si conosce ch'ella abbia avuto amanti; un po' superbiosa, un po' sciocca, ma bella come una figura del Vandyck!»

Una certa smorfia del viso diceva ai due visitatori che la signora Violetta non era molto contenta d'essere disturbata a quell'ora, sebbene uno dei due fosse il Giuliani, un antico Alfredo, cioè uno di quegli uomini, nei quali una donna riconosce qualche diritto di cittadinanza, e pei quali talvolta si scomoda, tanto per vedere come sopportino la memoria del passato.

—Che gravi cose,—domandò ella,—mi procacciano una vostra visita, a quest'ora?

—È l'ora degli innamorati!—rispose modestamente il Giuliani.

—Ma voi non siete più tale.

—Ah, crudele, me lo rammentate?

—Si può ben rammentarlo a chi lo ha dimenticato da cinque anni?

—Proprio da cinque? Mi pareva di più; e questo vi prova come il tempo mi sia parso lungo. Ma permettete che vi presenti il signor Contini, uno dei più bei giovani di Genova.

—Non gli credete!—soggiunse Marcello Contini con un accento e con un piglio così dolce che «parea Gabriel che dicesse Ave».

—Credo a' miei occhi;—rispose la Violetta, guardandolo in volto colla libertà di certe donne, a cui non sogliono andar angioli per ambasciatori. E, ciò detto, venne a sedersi sul canapè, accanto a Marcello.

—Ah, sono contento!—disse il Giuliani, sedendosi a sua volta su d'una scranna, di costa al canapè, e pigliando familiarmente tra le sue una mano della Violetta.—Se non amate più me, amerete il mio amico, colui che io amo, sto per dire, più de' miei occhi medesimi. Non sarò io il preferito; __tu Marcellus eris__….—

Marcello aveva già aperto la bocca per dire al Giuliani che volesse finirla col suo eterno latino; ma non gliene lasciò il tempo la donna.

—Non vi farò il torto di credere,—diss'ella al Giuliani;—che siate venuto per ciò….

—Vi potrei rispondere: «perchè no?»—interruppe il giornalista.—C'è un amico che si strugge d'amore, e bisogna pure aver compassione di lui, non mettere indugio a contentarlo. Ma io rinunzio a questo argomento, e vi parlo col cuore in mano. Marcello è venuto per conoscervi, accompagnando me, il quale….

—Il quale?—incalzò la donna, vedendo che il Giuliani, rimaneva sospeso.

—Il quale sono venuto,—proseguì il Giuliani, la cui esitanza altro non era che un artifizio oratorio,—per parlare col nostro Garasso.

—La bomba è scoppiata!—disse Marcello tra sè.—Ora vediamo che cosa gli risponde costei.—

Bisogna credere che le donne siano meno sensitive degli uomini, o che un'antica necessità, diventata come una seconda natura, le faccia più forti a dissimulare le commozioni dell'animo. Non un lampo degli occhi, non un moto delle labbra, accennò che la Violetta fosse tocca da quel colpo repentino.

—Garasso!—ripetè ella, spalancando i suoi occhi azzurri in atto di maraviglia.—Chi è questo Garasso?

—Ah, non lo sapete?—ripigliò il Giuliani.—Allora ve lo dirò io. Il
Garasso…. è il Bello.

—Ne so come prima;—disse la Violetta, stringendosi nelle spalle.

—Cioè a dire moltissimo;—soggiunse il Giuliani.—Questo Garasso, detto il Bello, è il personaggio misterioso, il notturno amante, che furtivo ascende….

—Parla come un libretto d'opera!—disse la Violetta, ridendo, e voltandosi a Marcello, che fu pronto a saettarla d'una tenera occhiata.—Ma voi,—proseguì, volgendosi all'altro,—vedete pure che sono sola.

—Sì, ma egli verrà tra un'ora, il crudo!

—In fede mia, Giuliani, ne sapete più di me.

—Oh, qui, poi, ci avete ragione; so molte cose di lui, che non vi andranno a sangue. Or via, biondissima creatura, volete che vi parli da amico, da uomo a cui foste un giorno «__croce e delizia al cor__?» Questo Bello, non è un uomo per voi, elegantissima camelia variegata, degna di ornare la risvolta di un abito tagliato dal Cosci, non fatta per insudiciarvi all'occhiello di un Alfredo da trivio, o di un Armando…. da quadrivio. Siete nata per lacerar cuori, ma soltanto ad illustri vittime, come un nobile uccello di rapina. Questo Bello è un farabutto, e la sua giacca ha odore di bisca. Voi stessa lo indovinate, poichè lo nascondete come si nasconde una vergogna. E qui non è tutto. Questo Bello, che, a dirvela di passata, ha venduto la sua gioventù ad una vecchia peccatrice danarosa che si chiama la signora Momina, ha venduto da un pezzo la sua coscienza, e fa un altro mestieraccio che saprete più tardi, quando avrete fatto il proponimento di levarvelo da' piedi e di aver fede in un vecchio amico, che vi parla per amor vostro, e non senza un suo onestissimo perchè.

—Potevate venire da solo, a dirmele, tutte queste cosacce!—gridò stizzita la donna.

Marcello si avvide che questa era per lui, e da quel destro alleato ch'egli era, afferrò l'occasione per dare un'altra piega al discorso.

—Violetta, perdonate al Giuliani!—diss'egli, stendendo le mani, in atto di chetarla e accostando il viso a mezza spanna dal suo.

La Violetta, che era donna da cogliere i moscerini al volo, rispose a Marcello con un'occhiata da tragedia, che aveva l'aria di volerlo passare fuor fuori; e si sciolse dalle sue strette col piglio di donna che è allo stremo delle sue forze e che invita a tener saldo.

Intanto il Giuliani, che vedeva riuscire il suo disegno a buon porto, proseguì:

—Violetta perdonate. Ve ne ha pregato il mio amico Marcello, che mi pare innamorato cotto di voi. Io, poverino, lo vedete, lavoro umilmente per gli altri.

—Pazzo!

—Ridete? Tanto meglio. Ciò vi aiuta a mostrare trentadue perle orientali. Ora, se io vi facessi toccar con mano che il Garasso è un furfante….

—Non lo riceverei più! Anzi, non occorre che lavoriate più oltre;—disse Violetta, volgendo un'occhiata assassina a Marcello,—dico fin d'ora alla Rosa che non gli apra l'uscio…. se gli saltasse in mente di venire quassù.

—Ah, se gli saltasse in mente? Ma bisognerebbe proprio che gli saltasse, poichè ho un gran desiderio di vederlo.

—È vero, me lo avevate già detto….—notò la Violetta, ricordando le prime parole del Giuliani.

E in quella che così parlava, i suoi occhi si volsero a lui, in atto d'interrogarlo. Ma egli non stimò necessario rispondere a quella muta dimanda.

—E la Rosa,—proseguì egli,—farà molto bene ad aprirgli.

—Ma perchè?

—Perchè ho cose importantissime a dirgli.

—Giuliani, qui c'è qualcosa che io….

—Che?

—Un mistero…. Voi mi sembrate molto desideroso di vedere quest'uomo.

—Fate conto che io n'abbia una gran voglia.

—Ma voi andrete ad aspettarlo fuori.

—In verità, avremmo pur fatto così, se voi non ci aveste aperto. Ora siamo dentro e ci stiamo, con vostra licenza, perchè il luogo è più sicuro, e più acconcio al colloquio che debbo avere col nostro galantuomo.

—Galantuomo! Perchè dite galantuomo?

—Ah sì, scusate, dovevo dire briccone; ma ormai l'abuso del vocabolo è tale che può reputarsi un sinonimo dell'altro. Ricordate, Violetta, che ho promesso di mostrarvi chi sia il Garasso….

—Avete ragione; io già ve l'ho data vinta: ma io temo di qualche guaio…. Giuliani, io non consentirò mai… Ve ne prego, andate ad aspettarlo fuori! Pensate al risico che io dovrei correre per un vostro capriccio. Se nulla nulla alzate la voce…. se odono i casigliani. Povera me! Giuliani, ve ne supplico, andate a tendere le vostre trappole altrove.

—Udite;—notò sorridendo il Giuliani;—non è più tempo; salgono le scale.

—È vero! Vedete? per colpa vostra! Oh, ma io non farò aprire.

—Brava! per riceverlo liberamente e tranquillamente domani, il vostro Alfredo da trivio. Povero Marcello, vedi come già se ne va in fumo l'amore!

—Finitela, co' vostri sarcasmi!—gridò la donna, in quella che rispondeva con una stretta di mano alle tenerezze del Contini.

Marcello, già i lettori lo sanno, era un bel giovine, e un gran signore, agli occhi di Violetta. Il Garasso saliva le scale, e non sapeva ancora, il disgraziato, di scendere, anzi, d'esser già sceso.

Ella di sicuro non lo amava, e neanco lo preferiva ad altri, avendolo tolto per sua àncora di salvezza in una di quelle stagioni difficili che talvolta occorrono a certe bellezze stagionate, e lo teneva saldo, perchè era utile; ma nascosto, perchè avrebbe fatto cattivo servizio alla sua riputazione. Anche queste donne hanno una riputazione; le nobili protezioni ne accrescono il pregio; gli ignobili commerci non pure lo scemano, ma lo tolgono affatto. Che il Garasso fosse un poco di buono, lo aveva indovinato alle prime; ma avrebbe arrossito di sentirselo a dire; pronta del resto a piantarlo, se altri si fosse profferto, o se nel suo concetto il danno di quella tresca avesse superato il benefizio. Ora questo era il caso di Violetta. Il Giuliani aveva scoperto il segreto. Si aggiunga che il Bello le pareva sdanaiato; si poteva, si doveva metter fuori. E tutte queste cose le erano girate per la fantasia in quella mezz'ora di dialogo; nella sua ultima resistenza ai disegni del Giuliani non c'era più altro fuorchè il timore di uno scandalo notturno.

—Io non vorrei che avesse ad accadere una qualche disgrazia!—aveva ella soggiunto.

—Non temete, non accadrà nulla.

—Me lo giurate?

—Ve lo giuro. Conosco il mio uomo; so da che piede egli zoppica.

—Ma che gli dirò io?….

—Non gli direte nulla, perchè ve ne andrete in un'altra camera.

—Udite? È sul pianerottolo….

—Padrona!—disse con voce sommessa la vecchia fantesca, che s'era affacciata sull'uscio del salottino.—Ho da aprire?

—Sì, Gabrina;—entrò a dire il Giuliani;—non senti che suonano? Non è cortesia lasciar la gente sulle scale.—

La vecchia non si muoveva, e ci volle un cenno della padrona perchè obbedisse al comando del giovinotto.

—Presto, dunque!—disse questi;—andate con Marcello; non per di qua, che credo sia la vostra camera da letto…. Dove mette quell'uscio di rimpetto?

—Nella sala da pranzo;—bisbigliò Violetta, che udiva la Rosa esser giunta all'uscio di casa e metter mano al catenaccio.

—Orbene, andate, e non vi muovete; gli dirò che siete fuori di casa.

—Ma…. mi promettete?

—Sì, sì, non perdiamo tempo…. E tu, quel che sai!—disse al
Contini, mentre li spingeva ambedue verso la sala da pranzo.

Marcello gli rispose con un gesto eloquente, ed ambedue disparvero nel buio della camera attigua. Il Giuliani tirò l'uscio per modo che paresse chiuso, e andò a sedersi sul canapè dove rimase, con una gamba cavalcioni sull'altra, in atto di contemplare gli arabeschi del soffitto.

Era tempo; il passo del Bello risuonava sul pavimento dell'anticamera, mentre la vecchia Rosa, o Gabrina, se più vi aggrada, richiudeva l'uscio dietro di lui. Poco stante egli entrò nel salottino, dove aspettava di veder la Violetta, e in quella vece gli si parò davanti agli occhi il profilo del Giuliani.

Se fosse in lui maggiore la meraviglia o la molestia, non sapremmo chiarirvi per bene. L'atteggiamento suo rimase perplesso tra il punto ammirativo e l'interrogativo; segno di grave turbamento. E ce n'è d'avanzo, a dipingervi la figura ch'ei fece.

XI.

"Tra male gatte era venuto il sorco."

Qui il Giuliani badò a lavorar di fine, chè ne andava dell'onor suo; e in quella che un sorriso gli si dipingeva sulle labbra, l'anima chiamò tutte le forze a raccolta.

—Oh! siate il benvenuto, Garasso!—diss'egli, voltando a mezzo la persona sul canapè.

—Signor Giuliani, le son servo;—rispose l'altro, ma col piglio di un uomo che in cuor suo mandasse al diavolo l'importuno.

—Vi pare strano di vedermi qui, non è vero?—ripigliò il Giuliani, che non poteva lasciar passare senza nota quell'aria stupefatta e infastidita del Bello.

—Ma sì, veramente, un pochino…. e se Ella, mi vorrà dire….

—Anzi! Avrete giuocato, m'immagino, qualche volta a' goffi….—

Il Bello accennò col capo di sì, non sapendo dove il giornalista volesse andare a parare.

—Orbene, Garasso,—proseguì il Giuliani,—noi andiamo ambedue del medesimo seme; E non facciamo un buon punto, nè voi, nè io, poichè, a quanto pare, un altro aveva già in mano la donna.

—Che vuol dire Ella con ciò?

—Che la donna non c'è, e non ci resta altro che andare a monte, o aspettarla allo scarto.—

Senza fermarsi a gustare quella metafora continuata del suo interlocutore, il Bello si mosse per andare alla camera letto. Girò la maniglia, aperse l'uscio, e vide la camera vuota.

—Uomo di poca fede!—gli disse il Giuliani.—Perchè avete voi dubitato!

—E dov'è?—chiese il Bello.

—Non ve l'ha detto Gabrina? È uscita. Ma venite qua; possiamo aspettarla. In due sarà meno fatica. Consolatevi, poi, che non vi sono rivale, ed ero venuto a bella posta per voi.

—Per me?

—Sì, per voi, col quale ho da ragionare di cose gravi. Non vi stringete nelle spalle; io so bene che siete uno dei grossi.

—Non la capisco, in fede mia!

—Chi non vi conoscesse! Ma vi conosco ben io, e so che in tutti i segreti del partito ci ha mano il Bello, e non si fa un passo che egli non lo sappia, non si tenta una impresa ch'egli non c'entri. So inoltre che la sera del 29 avete fatto il debito vostro…. Non vi schermite, non infingete con me! Sapete pure che io non son uomo da tradire nessuno.

—Oh, signor Giuliani, non ho detto questo; ma gli è che io….

—Eravate al Diamante?—interruppe il Giuliani.

—No signore.

—In Vallechiara?

—No signore.

—E dove eravate voi dunque?

—Ma, la mi scusi, disse il Bello, a cui quelle interrogazioni tornavano moleste,—se Ella sa tutto, perchè mi domanda?

—Ah, vedete,—rispose il Giuliani con piglio che aveva del beffardo,—io so bene che qualcosa di grosso dovete aver fatto; ma per certe mie ragioni, che vi dirò poi, mi metterebbe conto udirne la narrazione da voi.

—Orbene,—ripigliò il Bello spazientito,—sono stato a letto.

—Baie!

—Se non lo crede, non so che farci. Dica Lei quel che ho fatto d'altro, che mi farà gran servizio a informarmene.

—No, non vi dirò nulla; aiuterò piuttosto la vostra memoria, che zoppica un tratto. Che cosa è avvenuto della fanciulla di casa Salvani?—

Il Bello (già i lettori l'hanno inteso) era da parecchi minuti sulle spine. Appena veduto in quella casa il Giuliani, aveva capito che c'era un pericolo per lui. Di qual sorte? Non poteva indovinarlo, ma lo sentiva imminente; paventava, senza saperne il perchè, e le sue risposte alle vaghe interrogazioni del Giuliani mostravano com'egli sapesse di viaggiare in territorio nemico. Quell'ultima domanda del giornalista era stata come lo smascherarsi d'una batteria; la prima palla gli era fischiata all'orecchio. Avrebbe voluto andar subito all'assalto; ma gli parve più prudente consiglio costringere il nemico a spiegar le sue forze.

—Di casa?…—domandò egli, come trasognato.

—Salvani;—ripetè l'altro;—non conoscete il
  Salvani?

—Lo conosco, sicuro, perchè è uno dei nostri; ma non capisco che cosa
Ella abbia voluto dire.

—Ah no? proprio no? Ve ne avverto, Garasso, io so che lo sapete, ciò che v'ho chiesto; se non me lo dite, me l'avrò a male.

—Ella ha voglia di scherzare;—disse il Bello, guardandolo fisso.

—No, per Iddio, non è il caso!—rispose il Giuliani, alzandosi dal canapè, su cui da parecchi minuti non era già più seduto che a mezzo.—Facciamola finita, Garasso; o voi parlerete, o vi farò parlar io.

—In che modo?

—Pigliandovi pel collo.

—Ah, era una trappola? Ma vedrà Lei come la gira!—Così dicendo diede uno sbalzo indietro, e cavò di tasca una pistola, quella pistola che poche sere innanzi aveva fatto luccicare agli occhi, o, per dire più veramente, all'occhio buono del Guercio.

«Ma saetta previsa vien più lenta» ha scritto l'Allighieri; e il
Giuliani, che aveva preveduto il gesto, ebbe tempo a cansarsi.

—Signor Garasso,—gridò egli, mentre si tirava da un lato,—avete un bel girare la trappola; essa non è arnese pei gatti della nostra specie.

—E senta le unghie che ci hanno!—tuonò un'altra voce all'orecchio del Garasso, in quella che una mano di ferro lo agguantava nel collo.

Tentò di rivoltarsi, il manigoldo; ma non gli venne fatto, tanto quella mano era salda. Un'altra morsa gli afferrò il polso, e gli fe' dare un grido di dolore, mentre le dita prosciolte lasciavano andar la pistola, che il Giuliani con bel garbo gli tolse, innanzi che cadesse sul pavimento.—Lascialo andare, Marcello;—disse il giornalista.—Non vedi? gli è pavonazzo come il collare d'un canonico, o come la faccia d'un impiccato.

—Come ho da vederlo, se son dietro? Ma aspetta un poco!—

E Marcello, con un mezzo giro sollecito, fece passare la morsa delle sue dita robuste dalla nuca alla strozza. Per tal modo egli si pose da fianco al paziente, e potè vedergli il viso in tre quarti, come direbbe un pittore.

Il Bello, che in quel punto non era tale davvero, vide a sua volta la faccia del nuovo nemico; ma non istette a contemplarla, chè la sua attenzione, se così può dirsi di una suprema angoscia, di uno smarrimento d'agonia, era tutta a quella mano che gli stringeva la gola.

—Misericordia!—gridò con voce soffocata.—Per amore di Dio, non mi uccida!

—Va, ribaldo, sei libero!—gli rispose Marcello, lentando la stretta, per contentare il Giuliani.

Il primo atto del Bello fu di respirare largamente; il secondo di voltare istintivamente gli occhi da un lato, e, veduto un coltello sul ripiano d'una cantoniera, di scagliarsi a quella volta per afferrarlo. Ma innanzi che egli avesse mandato il suo disegno ad effetto, un poderoso manrovescio del Contini volò tra la sua persona e l'arma, facendogli ricadere il braccio intormentito sul fianco.

Allora stramazzò su d'una sedia, e vi rimase col capo chino, come istupidito da quella rovina di casi, dal dolore e dalla vergogna.

—Senti, briccone….—incominciò il Giuliani.

—Parla con te; alza il grugno;—soggiunse il Contini, accompagnando l'invito con un golino;—o ch'io ti dò il secondo per il buon peso.—

Il tapinello, tremando a verghe, rimase col mento all'insù, in quella postura che gli aveva dato il colpo di Marcello Contini.

—Senti, briccone;—ripigliò concitato il Giuliani,—o tu parli, o quella finestra sarà l'altezza dalla quale tu volerai sul selciato.

—Ella non vorrà macchiarsi d'un delitto….—balbettò il disgraziato.

—Ah, tu lo intendi, che a noi non metterebbe conto di risicar la galera per un furfante della tua risma? Ci ho gusto, perchè intenderai altresì quello che io sto per dirti. Abbiamo tre vendette a fare su te, e le faremo tutte e tre se pel tuo meglio non ti disponi a parlare. Quella furia di tua moglie saprà le tue marachelle per filo e per segno e ti concerà lei pel dì delle feste. Poi, siccome io non fo il giornalista per nulla, e ci ho il mio ripostiglio di segreti come tu di roba di malo acquisto, metterò, innanzi che tu possa uscire di qui, la polizia sulle orme di certi negozi che sai. Inoltre, racconterò le tue gesta a coloro che tradisci, apostolo del fico, spione ribaldo. E credi che nessuno ti accopperà, quando io abbia parlato, e quando pure, poichè lupo non mangia lupo, tu avessi scampato l'ergastolo?—

Alla progressione delle minacce aveva risposto una progressione di paura. Il Garasso che sotto il peso delle parole del Giuliani si era fatto piccin piccino sulla scranna, si provò infine con accento supplichevole a dirgli:

—Grazia! grazia! Non mi rovini, per carità….—

Il Giuliani stette immobile e muto alcuni istanti a contemplare quel mucchio d'ossa e di colpe; crollò le spalle, fece colle labbra un verso, come di nausea; quindi si rifece da capo all'interrogatorio.

—Dov'è la sorella di Lorenzo Salvani?

—Non lo so.

—Non lo sai? Bada a te!…

—Non lo so, signor Giuliani; come è vero Dio, non
  lo so.

—In bocca tua,—entrò a dire il Contini,—potrebb'esser questa una restrizione mentale.

—Per che cosa ho da giurarlo?—gridò il Bello.—Per tutto quanto c'è di più sacro….

—A te?—ripigliò il Giuliani.—E che cosa puoi avere di sacro, birba matricolata? Io, vedi, non crederei neanche ad un giuramento fatto per la tua viltà. Ma via, stammi alla rimessa; chi ha fatto il colpo della cassettina d'ebano?

—O parla, o ti strozzo come un cane!—gridò il Contini, misurandogli le mani al collo.

Il Garasso sapeva come stringessero quelle tanaglie; però, innanzi d'esser colto, si lasciò andare vigliaccamente in ginocchio.

—Io, io ho tutto preparato, condotto io ogni
  cosa. Misericordia!

—E per conto di chi? Rispondi!

—Del padre Bonaventura.

—Chi è costui?

—Bonaventura Gallegos, quel vecchio Spagnuolo, gesuita sfratato, che sta nel palazzo Vivaldi.

—Ah! il capo dei neri! Lo avrei dovuto indovinare;—disse il
Giuliani, scambiando un'occhiata coll'amico Marcello.

Questi, come il dio Termine, anzi come la immagine della giustizia inflessibile, stava lì presso al reo, ritto come un piuolo, colle braccia incrociate sul petto.

—Benissimo! La pagherà!—soggiunse egli recisamente, senza muoversi da quella postura.

—Ma io mi raccomando, signori, non mi tradiscano!—gridò il Garasso.—Quell'uomo è potente; loro signori non lo temono, ma a me può far male e di molto. Per carità, signor Giuliani, Ella è uomo d'onore…. Non mi rovini!

—Questo vedremo; dipenderà anzitutto dalla tua parlantina. E le carte che erano in quel cofanetto, chi le ha?

—Lui, lui, che era venuto, per maggior cautela, ad aspettare con me l'esito del colpo nella casa del Ceretti.

—Del Ceretti? Chi è costui?

—Il padrone della casa ove abitano i Salvani.

—E come c'entra che il tuo gesuita avesse posto colà il suo quartier generale?—

Messo per tal modo alle strette, il Bello raccontò per filo e per segno ogni cosa. Tanto, poichè aveva cominciato, meglio valeva il finire, e mettersi quanto più poteva in grazia a quei due, non giudici, animali feroci.

Così narrò dell'Arturo Ceretti, di quel Ganimede da dozzina, e delle pretensioni che aveva presso la sorella adottiva di Lorenzo Salvani; come fosse respinto da lei e picchiato dal servo Michele; come questi avesse cantato, ed egli, Garasso, per far servizio al gesuita, gli avesse recato in mano quest'altro filo della sua trama tenebrosa; la quale doveva riuscire al colpo della falsa perquisizione e al furto della cassettina d'ebano.

Ma qui si fermavano le notizie del Bello. Egli non sapeva che diamine di segreto si racchiudesse in quel cofanetto; padre Bonaventura lo aveva preso dalle sue mani, e se n'era andato sollecito. Nè altro sapeva della fanciulla, nè della signora che era andata in quella medesima notte a levarla di casa. Ogni più ragionevole congettura faceva credere che il vecchio suo compagno fosse il gesuita medesimo, o che per lo meno quel secondo colpo fosse una conseguenza del primo; ma questo poteva argomentare facilmente di per sè il Giuliani, senza mestieri delle induzioni del Bello. Questi infine non sapeva altro; lasciato il padre Bonaventura, congedati gli apocrifi carabinieri, se n'era andato pe' fatti suoi, a vedere i suoi __amici politici__, perchè egli in fondo in fondo era un buon patriota (diceva lui) e se per sue strettezze domestiche avea fatto quella azionaccia, della quale si pentiva amaramente, era nondimeno devoto alla buona causa, e voleva fedelmente servirla.

A quest'ultima dichiarazione del Bello, i suoi ascoltatori diedero ambedue in uno scroscio di risa, che lo fece rimanere sconcertato e confuso.

—Basta;—soggiunse il Giuliani, dando sulla voce a lui, che umilmente cercava di scolparsi;—questo non è affar nostro, e ne sappiamo quanto occorre.

—Se mi verrà fatto saper altro….—balbettò allora il Bello.—Se mi verrà fatto….

—Ce lo direte, Garasso, non ne dubito; poichè, a tenervi in nostra balìa, c'è la spada di Damocle. Sapete che cos'è, anzi dirò meglio, che cos'era la spada di Damocle?

Il Bello, confuso com'era, non rispose verbo.

—Ve lo dirò io;—ripigliò il giornalista.—Damocle era un cortigiano di Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa, detto il vecchio perchè fu padre di Dionigi il giovane. Questo Dionigi il vecchio era un tiranno arguto, come potrete sincerarvene dal tiro che fece a Damocle, suo cortigiano, il quale lo andava celebrando per la sua felicità senza pari. E gliela fece provare, la dolcezza del suo vivere; lo mise un'ora al suo posto, sdraiato a mensa su d'un letto magnifico, servito da schiavi attenti ad ogni suo cenno; ma ohimè, con una spada la cui impugnatura era raccomandata per un crine di cavallo alla travatura del soffitto, e la cui punta gli pendeva minacciosa sul capo. Immaginate, Garasso, come stesse d'animo il galantuomo; pur gli convenne tirare innanzi a mangiare, con quelle frutte in aria. Mi avrete capito; la spada di Damocle è sempre sospesa; fatene una, e il crine di cavallo si spezza. Ora andate; io non ho a dirvi più altro.—

In questo mentre, quell'uscio per cui era già venuto Marcello ad afferrare non visto il Garasso, si schiuse da capo, e comparve la Violetta nel vano.

—Era in casa!—esclamò il Bello, turbato da quella veduta improvvisa.

—In casa, sì,—rispose la Violetta,—e ne ho udito di belle!

—Perdonategli!—entrò a dirle sarcasticamente Giuliani,—egli ha fatto il male pel troppo amore che vi porta. Costa così caro, l'amore!

—Oh, io non voglio saperne a nessun prezzo, del suo; non voglio avere a che fare con uomini della sua risma; se ne vada per dove è venuto.

—Virtù, dove diamine sei venuta a ficcarti!—borbottò tra' denti il
Giuliani.

Quindi, volgendosi al Bello, gli disse:

—Sicchè, Garasso, per questa notte potrete riparare all'ombra amica del talamo.

—Sì, vado!—ringhiò, stringendo i pugni,
  quell'altro.—

Il Giuliani, per farla finita, lo condusse sull'uscio dell'anticamera.

—Gabrina,—gridò egli, che non sapeva piegar la lingua al nome di
Rosa,—Gabrina, fategli lume!

—Non occorre, signor Giuliani, non occorre;—disse il Bello, col medesimo accento di prima.—Ella me l'ha fatta da galeotto.

—A marinaro, Garasso; da galeotto a marinaro; non vi lagnate. Sta in voi che non v'incolga peggio. Andate, andate, e, se vi torna, continuate a peccare.—

Ciò detto, e mentre il can bastonato infilava le scale, il Giuliani rientrò nel salotto, dove la donna preparava una scenetta delle sue.

—Ah signori!—gridò ella con piglio da tragedia.—Un uomo di quella fatta!…—

E svenne, o fece le mostre di svenire, nelle braccia di Marcello.

—Io me ne vado;—disse il Giuliani, senza punto
  scomporsi.

—E chi rimarrà,—chiese il Contini,—a farla
  rinvenire?

—__Tu Macellus eris;__—rispose l'amico, ridendo.

—Come vuoi.

—No, come vuoi tu.

—E sia pure, come voglio io; ma tu esci, e quell'altro non potrebbe essere in agguato?…

—Ecco la sua rivoltina; ce n'è per cinque suoi pari. Ma non te ne dar pensiero; questa gente scantona alla lesta. A lei dunque, sor Magnifico: si faccia onore coll'inferma.—

E seguitando a ridere, il Giuliani se ne andò, per ritrovare gli altri Templarii. Gabrina, che aveva la virtù della gratitudine, come la sua padrona quella del pudore, lo accompagnò con mille benedizioni e col chiaro d'una lucerna di ottone, fino all'ultimo gradino delle scale.

XII.

Il quale par fatto a posta per servire d'intramessa.

Come un pizzico di sale o di pepe nelle vivande, così un miccino, un'ombra di prepotenza nelle cose di questo mondo, non guasta mai, quando (ci s'intende) le siano condite di giustizia.

La violenza da sola fa il male, e non altro; la libertà fa il bene, gli è vero, ma da sola non basta; perchè non metterle uno zinzino di forza in aiuto? La forza è il braccio destro della giustizia, il braccio che picchia. Dove il nemico sta fermo in agguato, bisogna combattere. A chi assale, si potrà sempre rispondere: ragioniamo? Persuaderemo il male a morire di morte volontaria, e senza trarre un colpo sulle nostre file? Ogni cosa nel mondo procede per via di azione e riazione; la vita istessa si appalesa in questo modo, per diastole e sistole. Colla ragione ridurremo il nemico in più stretti confini; colla ragione gli toglieremo i suoi alleati; ma colla forza bisognerà dargli il tracollo; la giustizia dovrà far capo alle armi, l'acciaio rispondere all'acciaio.

Nel caso nostro, come avrebbe potuto il Giuliani venire in chiaro di quella trama tenebrosa, senza un miccino di prepotenza? Far capo alle leggi? Ottimamente; ma come, se i custodi della giustizia giravano nel manico? Quello non era tempo da sillogismi; la forza occorreva. E i Templarii ne usarono parcamente, come si è potuto vedere. La rivoltina cadde a tempo dalle mani del briccone; per farlo parlare ci volevano quelle medesime argomentazioni __ad hominem__ che già lo avevano disarmato. Fu grave il modo; ma, lo ha detto il proverbio: a mali estremi, estremi rimedii.

Il cominciamento fu felicissimo, poichè la medesima notte in cui l'Assereto narrava l'accaduto agli amici, eglino avevano in mano il bandolo della matassa, mercè la confessione del Bello. Il resto andò più lentamente, per quelle tali ragioni che governano ogni cosa di questo mondo, e fanno maturar tutto col tempo e colla paglia, come le nespole. La nostra storia è umana, nè può dipartirsi da queste leggi naturali.

I Templarii, che furono nella odierna società genovese un breve ma efficace esempio di ciò che possano dodici volontà associate, messero in moto tutti i congegni della loro operosità, e il segreto lavoro del gesuita fu prontamente scoperto. Scoprire era già un aver vinto a mezzo; doveva fare il resto l'astuzia, opponendo stratagemma a stratagemma, imboscata ad imboscata.

Sventuratamente, tutto ciò non salvava Lorenzo, non valeva a rilevarlo dall'abisso. I segugi di palazzo Ducale l'ormavano, come uno de' congiurati, quantunque nessuna testimonianza fosse contro di lui e tutti gl'imprigionati della famosa notte, richiesti dai giudici intorno a lui, avessero fatto prudentemente lo gnorri. Ma ciò non sapeva egli, e ad ogni modo, poichè in Genova lo avrebbero còlto, egli non doveva tornarci.—Del resto, a che pro? (gli diceva l'Assereto). Nè a torto nè a ragione, non lasciar che ti mettano in prigione.—Così rimaneva fuor di città, nei pressi di Bolzaneto, ma senza uscire di casa; prima, perchè lo stato dell'animo suo non era da andar girelloni, poi perchè era la stagione della villeggiatura, e ad uscir fuori c'era pericolo che la gente chiacchierina lo adocchiasse, e allora non c'era più scampo.

—Non ti fidare dei ciarlieri di buona fede,—gli diceva l'amico, portando sassi al Bisagno e campane a Genova.—I signori di palazzo Ducale ci fanno molto assegnamento, su questa classe di galantuomini. Uno solo di questi linguacciuti fa migliore ufficio che non una dozzina di spie.—

E Lorenzo, tra per arrendevolezza e per naturale desiderio, rimaneva chiuso, non pure in casa, ma in camera; svigorito, scorato, come sarà facile intendere, e col rammarico di vivere alle spese dell'Assereto, il quale, se era ricco di cuore, non era altrimenti ricco di borsa.

Ma egli avvenne che un giorno, essendo andato a visitarlo, e vedutolo così giù dell'animo, Aloise gli profferse, con quella amorosa cortesia che non patisce rifiuti, più sicura e più libera ospitalità nel suo castello di Montalto, che, come i lettori rammentano, era posto in cima ad una di quelle tante gole di monti che fiancheggiano la Polcevera.

—Andatevene alla Montalda!—gli disse.—È una rocca solitaria, una vera bicocca ascosa tra i greppi, ultimo ricordo de' miei maggiori. Colà son nato; colà è sepolta mia madre. Quando son triste me ne vado lassù. Dovrei andarci piuttosto quando son lieto, per temperare la baldanza delle illusioni, e misurare dall'alto il nulla delle umane speranze. Ma che volete? siam fatti così. Perchè non vengo da voi quando son gaio, quando il futuro mi arride pieno di dolci promesse? Perchè, quando son mesto, come oggi, invilito, sento il bisogno di venire a passar due ore con voi? Eppure vi amo, Lorenzo, e so che la vostra amicizia è più schietta, più salda, di tanti rapimenti del cuore…. Ma lasciamo stare le mie malinconie; parliamo delle vostre. Lassù sarete triste a vostro bell'agio. Il luogo non è gaio, di fatto. Ma almeno voi non intisichirete, come in questa clausura; ma almeno potrete correre a vostra posta, al cielo aperto, quando il soverchio dell'amarezza, rompendo dal cuore, vi spingerà le maledizioni sul labbro, vano sfogo della creatura che soffre. Ed anche la forza del maledire vi verrà meno lassù, poichè sarete vicino alla tomba di una donna, la quale è vissuta come una martire, ed è morta come una santa, e voi l'avrete esempio continuo ne' travagli dell'anima, e le direte che suo figlio non è molto più lieto di voi.—

Lorenzo non aveva mai udito il suo amico Aloise parlargli in tal guisa. Il marchese di Montalto era cortese, ma severo di modi, affettuoso ne' suoi discorsi, ma riguardoso ad un tempo. Qual rammarico era il suo, che lo rendeva così subitamente espansivo? Lorenzo non istette a cercarlo; ma in atto di andare incontro a quella mestizia, mentre tacitamente accettava la profferta dell'amico, gli disse:

—Perchè non verreste anche voi, Aloise?—

A quelle parole il giovine trasse un sospiro, chinò il capo e fece scorrere la palma della mano sulla fronte, come un uomo che cerchi di scacciare un pensiero molesto.

—Oh perdonate!—soggiunse tosto il Salvani, che ben si accorgeva di aver toccato una piaga.

—Nulla, nulla!—rispose il Montalto.—Debbo rimanere a Genova, per tante cose e nessuna. La vita di città ci tiene legati per mille fili sottilissimi, che non si possono romper tutti ad un tratto. Ciò mi fa ricordare di quel povero Gulliver, quando capitò nella terra di Lilliput, e, addormentatosi sulla riva deserta, si svegliò così strettamente legato da migliaia di crini, come se avesse avuto i polsi stretti da gomene fermate al terreno. E poi, chi sa? dovrò anche andar fuori, in Francia, o in Germania; ma questo vi posso promettere, che verrò più tardi a farvi compagnia, e sarà una festa per me.—

Quel medesimo giorno, salutato l'Assereto, che era sopraggiunto in quel mezzo e aveva rincalzato de' suoi consigli le profferte di Aloise, il nostro Lorenzo si avviò per le colline fino alla Montalda, chiedendo a sè stesso che cosa potesse aver reso così triste quel giovine, il quale era parso tanto felice, dedito com'era a tutti i fastosi passatempi de' suoi pari, e non d'altro curante che delle sue cavalcate, de' suoi patrizii ritrovi e delle sue superbe fatiche d'automedonte.

—Ognuno ha la sua croce!—pensava Lorenzo in quella che andava lentamente per l'erta su cui era murato il castello.—Niente manca ad Aloise, per esser felice; gioventù, bellezza, nobiltà di sangue, e quella agiatezza in cui risiede l'indipendenza, la bella indipendenza, che solo intende ed apprezza chi l'ha perduta, ma di cui tuttavia gode i benefizi chi l'ha. Ed egli è triste, e si paragona a me nel dolore. Ama egli forse?… Amare, soffrire, navigar per mare in tempesta senza scorgere il porto, naufragare senza una vela all'orizzonte che dia speranza di aiuto!—

E il pensiero di Lorenzo tornava a Maria. Dov'era Maria? Come aveva potuto lasciare la casa che era pur sua? Egli ben sentiva di amarla, quella casta fanciulla, fatta donna dal dolore. Perchè veramente era stato un momento d'angoscia suprema, quello che a lei, innocente creatura, aveva strappato dalle labbra il segreto inavvertito dell'anima, e a lui rischiarati di una luce improvvisa i più riposti penetrali del cuore. La santa tenerezza di due vite non affratellate dalla comunanza del sangue, può rimanere come un abisso invarcabile per esse, fino a tanto che duri, colla calma usata degli eventi, la rispettosa consuetudine. Ma viene il tremuoto a scuotere dal profondo la terra, e l'abisso incontanente si colma; una sventura, tremuoto dell'anima, rompe i vincoli della consuetudine, e l'amore trabocca nell'ossequio, lo copre, lo compenetra nel suo torrente di lava. Tutto ciò era accaduto; la tenerezza aveva ceduto il luogo all'amore. E quel giorno medesimo che doveva schiudere un nuovo orizzonte a quelle due vite, mostrar loro nella unione l'indirizzo a quella felicità di cui erano sì degne, quel giorno medesimo le aveva separate, divelte violentemente l'una dall'altra. Egli ramingo; ella perduta per lui. Povero Salvani! povero gladiatore ferito! egli non si alzava altrimenti sulle ginocchia, che per ricadere da capo.

Questi pensieri lo accompagnarono fino alla meta del suo viaggio, dove gli si parò davanti agli occhi un palazzotto quadrato, sullo stile del cinquecento, colla sua torre da un fianco, e la sua cappella dall'altro, aggiunta del secolo decimo settimo, come era facile argomentare dai fregi barocchi della facciata. Un piazzale partito ad aiuole di giardino, e ornato di spalliere di aranci e limoni, correva sulla fronte dell'edifizio. Tutt'intorno, la collina era coltivata, e i ciglioni delle fruttaglie, coperte di pampini, mostravano che il dilettevole era stato sacrificato all'utile dai signori del luogo. Per compenso a questa usurpazione agricola, un bosco foltissimo di castagni si distendeva alle spalle del palazzotto, a cui serviva di cornice, ed esso medesimo appariva incorniciato, sui lembi lontani della costa, da una doppia selva di pini, roveri, frassini, corbezzoli e di ogni altra maniera di piante, che vivono in facile compagnia sulle nostre montagne ligustiche.

In altri tempi la Montalda doveva essere stata una bella dimora, ma sempre di molto severa apparenza. E assai più severa, quasi selvaggia, appariva allora agli occhi di Lorenzo Salvani, a cagione della lunga trascuranza de' suoi signori, e dello squallore che sempre tien dietro alla solitudine. Le persiane tutte chiuse, mostravano per due ordini il loro verde sbiadito; anche la tinta giallognola della facciata, qua e là macchiata dagli sgoccioli nerastri delle finestre, accusava per molte bianche sfaldature dell'intonaco i suoi lunghi anni di servizio.

Un vecchio dalla pelle rugosa, dall'aspetto severo come e forse più del palazzo, levò il capo, all'avvicinarsi di Lorenzo, dal mezzo d'un'aiuola, e si fece innanzi, col sarchiello in una mano e il cappello nell'altra, ad ossequiare sua Eccellenza. Senonchè, come gli fu dappresso, vedutolo bruno e non biondo, poi meno aitante della persona che non fosse Aloise, ammutolì, chiedendogli col gesto che cosa volesse lassù.

Lorenzo, precorrendo quel gesto, aveva già cavato di tasca una lettera.

—È qui l'Antonio?—diss'egli.

—Antonio son io,—rispose il vecchio.

Il Salvani gli porse allora la lettera, che egli con molto rispetto, ma con altrettanta prontezza, si fece a leggere, non senza meraviglia del giovine, che lo vedeva correre così spedito da un verso all'altro dello scritto, come uno de' più esercitati lettori. Veramente, all'aspetto pareva uno zotico villanzone; ma egli era come le melagrane, le quali non hanno di ruvido che la buccia, e celano a centinaia i rubini nel grembo. Nato alla Montalda, Antonio era il più fidato servitore dei castellani; e quando la marchesa di Montalto, morto il marito, si ritrasse a vivere lassù, egli, vecchio arnese della casa, egli che aveva palleggiato sulle sue braccia Aloise bambino, egli che aveva aiutato a rinchiudere nella sua cassa di piombo il marchese Alessandro, egli era rimasto il servo confidente della marchesa Eugenia, egli aveva assistito al lento struggersi di quella santa vittima di un triste Imeneo.

Letta la lettera, che era, come già s'è indovinato, del marchese di Montalto, il vecchio accennò rispettosamente a Lorenzo di seguirlo; quindi, deposto il sarchiello sul ciglio dell'aiuola, lo precedette nel palazzo, spiccò da un chiodo un mazzo di chiavi e salì al primo piano, dov'era una gran sala, le cui alte pareti erano ornate di vecchi ritratti. Tali almeno parvero a Lorenzo, che poco poteva discernerli in quella scarsa luce vespertina che trapelava delle imposte chiuse.

Sempre taciturno, il vecchio gastaldo andò verso un uscio in capo alla sala, e apertolo, si ritrasse per dare il passo all'ospite. Era colà il quartierino di Aloise, che faceva riscontro a quello di sua madre, posto dall'altro lato della sala. Un'anticamera, uno studio, la camera da letto e lo spogliatoio, formavano quel piccolo appartamento, arredato con una severa semplicità che piacque a Lorenzo, il quale amava molto le vecchie masserizie, e non poteva mandar giù il fasto degli arredi, se non era passato per la trafila di due secoli almeno.

Colà si ridusse Lorenzo; e il giorno di poi la sua tristezza s'era già cosiffattamente accomodata a quella solitudine, come se egli non avesse avuto altra dimora da un anno. Egli si avvezzò ad Antonio, Antonio a lui; l'uno e l'altro senza barattar parole, salvo nei casi di vera necessità.

Il vecchio scendeva di buon mattino sul piazzale per curare i fiori della marchesa. Così era uso di fare quando ella viveva; così seguitava a fare, dopo la morte di lei. Sarchiava, annaffiava, seminava a suo tempo, ma sempre le medesime specie, e coglieva ad ogni stagione i medesimi fiori. In una sola cosa era mutato il costume, poichè Antonio, colti i suoi fiori, in cambio di portarli nella sala da lavoro della marchesa, li portava in cappella, e li disponeva in due vasi di cristallo a' piè della tomba. E tutti i giorni così; un automa non avrebbe fatto meglio il suo periodico uffizio.

Si è mattinieri in campagna; mattiniero tra tutti colui che un'interna cura affatica, rendendogli molesta la tranquillità del riposo. Lorenzo era desto coll'alba; pochi minuti dopo, come un'ombra pallida sul limitare della tomba, si affacciava al portone, dove ancora non giungevano i primi raggi del sole, e donde gli era dato ogni giorno vedere il vecchio, che, più mattiniero di lui, già stava a curare i fiori della morta signora. Quello spettacolo divenne in pochi dì una consuetudine, e la consuetudine portò l'imitazione.

Ciò avvenne senza mestieri d'intesa, dopo uno di quei saluti che l'ospite e il custode della Montalda barattavano tra loro, come due monaci della Trappa. Antonio coglieva ciocche d'elitropio da un lato: Lorenzo si fece a cogliere amorini dall'altro, precorrendo coll'opera sua la fatica che gli aveva veduto fare ogni dì. Antonio, la prima volta che il signor Salvani si adoperò in tal modo a dargli una mano, si volse a lui e stette, tra attonito e scontento, a guardarlo: forse voleva dirgli di smettere, che quello era affar suo, tutto, suo; ma poi, fosse il ricordo che quello era l'ospite del padrone, o il pensiero che cortesia non merita villania, si tenne le parole nel gozzo, e si contentò della sua mezza fatica. Neppure si dolse che Lorenzo lo accompagnasse alla cappella col suo fascio di fiori; ma parve gradire l'atto riguardoso del giovane, che lasciò a lui la cura di mettere i fiori a mazzo e di collocarli in mostra, pago del più umile ufficio di togliere i vizzi e di rinnovar l'acqua ne' due vasi di cristallo.

—Erano i suoi!—disse Antonio, accennando i vasi che lui porgeva il suo nuovo aiutante. In quelle tre parole, che chiamavano in mezzo a loro la memoria della marchesa era la consacrazione di quell'aiuto che a prima giunta gli era parso una usurpazione de' suoi diritti.

D'allora in poi quell'uffizio mattutino fu sempre fatto in comune. Altre ragioni di ravvicinamento e di conversazione non erano tra loro. Buon giorno e buona sera, secondo le ore; la frase sacramentale: «il signore è servito» all'ora della colazione e a quella del desinare; e ogni cosa era detta. Lorenzo non comandava mai nulla; assaggiava a mala pena i cibi ammanniti da una vecchia fante tornata contadina, che pure ricordandosi di aver servito in casa Montalto, la pretendeva a cuoca; e subito a correre pe' monti, come una fiera. Più e più volte occorse che egli dimenticasse il desinare, ritornando con le ombre della notte al palazzo. Allora si metteva a tavola, e mandava giù, senza pure addarsene, il pranzo raffreddato. «Povero signorino!» diceva la cuoca, e almanaccava le disgrazie che avevano potuto ridurlo in quello stato; Antonio lo serviva senza far motto; la mestizia dell'ospite pareva ai custode la cosa più naturale del mondo.

La selvaggia orridezza di que' monti piaceva a Lorenzo; o, per dire più veramente, il suo spirito, non turbato da contrasti di allegra prospettiva, spaziava liberamente, naufragava a sua posta in quella profonda tristezza di natura. Vagava senza proposito qua e là; le membra si muovevano; la mente era altrove, o giaceva offuscata, istupidita da quel rovescio d'immeritate sventure.

Le sue corse quotidiane giungevano fino ad una balza che signoreggiava la valle e le circostanti costiere, e donde il palazzotto dei Montalto appariva come un masso bianchiccio rovinato da una di quelle alpestri sommità e arrestato a mezzo il suo cammino precipitoso da una anfrattuosità del terreno. Lassù rimaneva lunghe ore, inerte, smemorato, colle braccia raccolte sul petto e gli occhi fissi nel lontano orizzonte. Spesso egli era ancora lassù, in quella postura, al cader della notte, e pareva la statua dello stupore; il contadino che avesse veduto da lontano, nel ricondursi al suo casolare, quella immobile figura nereggiante di rincontro alla pallida luce della sera, avrebbe fatto il segno della croce ed affrettato il passo per la via solitaria, come nei pressi d'un camposanto, o d'una casupola diroccata, asilo di folletti e di streghe.

L'Assereto andava qualche volta a vederlo, in que' ritagli di tempo che gli erano lasciati dalle cure della settimana. Anche il Giuliani era stato un giorno alla Montalda, per udire da Lorenzo alcuni particolari intorno al segreto dei natali di Maria, e raccontargli quel che sapeva, e quel che aveva in mente di fare. Ma le notizie che potessero ridonar la vita al solitario erano scarse. Dopo la scoperta dei Templarii non c'era più stato nulla di nuovo, salvo che la fanciulla, come il Giuliani aveva argomentato, era chiusa in un monastero. E questo aveva risaputo Aloise, per un discorso fatto a caso dalla marchesa Ginevra, la quale, come si è detto, aveva una zia a San Silvestro, e andava di tanto in tanto a visitarla. Ma egli non aveva potuto dicevolmente insistere colle domande, nè chiederle il suo patrocinio e la sua intromissione in quel negozio; gli bastava aver saputa la cosa, e la riferiva agli amici.

Un pensiero era balenato alla mente del Giuliani; presentarsi alla dama del carteggio; entrarle della giovinetta rapita; parlare al suo cuore, e la mercè di quella alleanza finir la guerra d'un tratto. Ma il disegno era più che ardito, temerario. Come lo avrebbe accolto la vedova marchesa di Priamar? Dato il caso che, con un pretesto difficile a trovarsi, egli avesse potuto giungere fino a lei, come avrebbe potuto entrare in materia senza farla arrossire, e senza farsi mettere alla porta? Offendeva una donna; non raggiungeva l'intento; lasciava argomentare che il segreto era scoperto, e ciò poteva tornare a maggior danno per la sventurata fanciulla. Il concetto era gramo, e bisognò rinunziarvi.

Ma l'ardito Giuliani non volle darsi per vinto. Egli ne pensò un'altra più strana a gran pezza, che fe' crollar mestamente il capo a Lorenzo. Pareva impossibile, e forse era; comunque fosse, conduceva per le lunghe; ma ci aveva questo di buono, che era l'unica, e non guastava nessun altro disegno migliore che si potesse immaginare in processo di tempo. Con questo spediente, disse il Giuliani, mettiamo un piede nella piazza. Le sacre carte c'insegnano di quanto aiuto tornasse alle armi di Giosuè che Raab dimorasse di costa alle mura di Gerico.

Intanto, due mesi trascorsero. Erano già tre, dopo il 29 di giugno, e non c'era nulla di fatto. Aloise era andato a Parigi, ombra pedissequa della marchesa Ginevra, che aveva fatto quella gita in compagnia del marito. Il Giuliani attendeva al suo disegno, che faceva assai poco cammino, e sebbene si consolasse col proverbio «chi va piano va sano» non poteva ritenersi dal ricordare la giunta «ma va poco lontano» che pur troppo ne tempera l'efficacia.

E in quel mezzo il povero Lorenzo ammalò. La febbre lo ardeva, e fu per morirne. Il delirio gli rappresentava sformati, intrecciati in mille guise, gli eventi della triste sua vita. Scorgeva Maria, l'amata Maria, costretta da una madre snaturata a prendere il velo; il Collini, il gesuita, il Ceretti e tutte le ombre nere del suo passato gli danzavano intorno, chiudendogli l'adito al santuario dove si stava consumando il sacrifizio della sua povera bella, che indarno tendeva le palme a lui ed al cielo. E quelle ombre gli si stringevano intorno, lo soffocavano; nelle loro sghignazzate beffarde s'andavano perdendo le ultime fievoli strida della vittima, che egli non vedeva già più. Sgomentito, si rannicchiava, tentava ritrarsi indietro, facendosi schermo colle mani da que' ceffi ribaldi, il cui alito infuocato gli frizzava sul volto. Rompeva allora, in uno sforzo supremo, quella cerchia di nemici; fuggiva, sentendoli incalzare alle spalle, e cadeva trafelato sulla soglia d'un cimitero, donde suo padre e sua madre, pallidi fantasmi usciti pur mo' dalla tomba, gli stendevano le braccia amorose.—È questi mio figlio?—diceva la morta, stringendolo al seno.—E donde tante ferite, tante lividure, su questo povero corpo? Vieni, figliuol mio, angelo mio, vieni; il letto che tu hai composto a' tuoi genitori è largo abbastanza per tre. Qui, come il dì che sei nato, riposerai sul seno di tua madre.—

Il morbo e la natura lottarono con varia fortuna; finalmente la natura la vinse. Ma la convalescenza fu lunga, e Lorenzo Salvani non tornò altrimenti nella pienezza delle sue facoltà, che per un largo periodo di torpore intellettuale. Il giorno che si svegliò da quel letargo e ravvisò la sua cameretta, vide Aloise seduto al suo capezzale, ma così scombuiato, che a prima giunta credette gli tornassero innanzi i fantasmi del suo lungo delirio.

Aloise si curvò sopra di lui, e lo chiamò soavemente per nome.

—Ah, siete dunque voi, Aloise?—disse
  l'infermo.—Tornato?…

—Sì, da otto giorni, e rimarrò con voi fino a tanto non uscirete a respirare all'aperto.

—Siete mutato, Aloise; non vi riconoscevo più….

—Non parliamo di me!—rispose l'amico.—Già ve lo dissi, Lorenzo; triste come voi; e le mie amarezze, come le vostre, sono di quelle che a rimestarle inaspriscono.—

Due grosse lagrime tremarono sugli occhi dell'infermo, e scesero a rigargli le guance. Aloise chinò la fronte e nascose il volto sulla sponda del letto; anch'egli piangeva.

XIII.

"Se Messenia piange, Sparta non ride."

Ai nostri lettori, i quali non hanno dimenticato Lilla di Priamar, traveduta a mala pena dalle indiscrete pagine di un antico carteggio amoroso, non sarà discaro che li conduciamo ora in via del Campo, nota per la lapide infame di Giulio Cesare Vachero, e che entriamo in un palazzo di severa apparenza, dove abitava nel 1857 la vedova marchesa. Colà, per le necessità del nostro racconto, dobbiamo seguire il padre Bonaventura.

Intorno al quale egli è tempo che diciamo alcun che di più intimo. Due o tre passi del carteggio accennato ci hanno già fatto trapelare una parte della sua giovinezza, e per qual cagione riposta lo Spagnuolo, ferito nel cuore, avesse consacrato l'animo a Dio, ma in quel solo modo che la sua indole consentiva, ascrivendosi alla operosa e battagliera compagnia di Gesù. Il Gallegos aveva amato fieramente la marchesa Lilla, e, cosa strana, l'amava tuttavia a cinquant'anni, con tutta la tenacità del suo gagliardo carattere.

Il salotto della marchesa di Priamar era un luogo assai malinconico, sebbene dagli affreschi della volta sorridessero ai visitatori mortali tutti gli dei dell'Olimpo, raccolti a convito dal pennello del Tavarone, e sulle vaste pareti un'Armida scollacciata trattenesse con isvariate lusinghe il suo Rinaldo nelle sbiadite verdure di quattro magnifici arazzi di Fiandra. In quell'ampio salotto si smarriva la luce, bevuta a larghe fauci da quattro alti finestroni, scarsamente illuminando i più suntuosi arredi che il Secento avesse tramandato alle cure restauratrici degli stipettai d'oggidì. Vi regnava il fasto per entro, pompeggiava nel damasco, splendeva nel bronzo, ma severo come le pieghe di quel superbo tessuto, contegnoso come i fregi di quel ragguardevole metallo. Un'aria grave di nobiltà ingombrava la sala; e tuttavia, all'entrarvi, si era colti come da un senso di freddo, sebbene l'apertura di un alto camino di porfido, alla foggia antica, il cui architrave era sorretto da due Telamoni di lodato scalpello, fosse ben suggellata da un paravento di stoffa. Tutto era sfarzo, come in una chiesa; ma severo e freddo del pari.

Da un lato del salotto e presso uno dei finestroni che abbiamo accennati, l'acconcia postura di un sofà, di un tavolino di lacca giapponese e di alcune scranne svariate di forma e di nome, aveva naturalmente foggiato un più geniale ridotto, dove sedeva la signora del luogo, intenta a leggere le novelle del giorno nell'__Armonia__ di Torino, in quella effemeride che pretendeva accordare la religione colla civiltà, e le pareva d'aver fatto il colpo, affermando la cosa nel titolo.

Anch'essa, la nobil signora, effigiava una armonia, ma più efficace e più vera, l'armonia della maturità colla bellezza. Le membra tondeggiavano, ma senza perdere la grazia dei contorni; e dall'imbusto, sebbene ella fosse seduta e un po' curva sul foglio, poteva argomentarsi che fosse di bella statura. Il suo volto era ammirabile per quella giustezza di lineamenti che si vantaggia ingrassando, e consente a certe donne gli splendori della seconda gioventù. Nè meno bella appariva la mano, che poteva essere lodata come quella di Anna d'Austria, vent'anni dopo che era stata baciata dal duca di Buckingham. L'occhialino cerchiato d'oro e ornato d'un manico di madreperla, che ella teneva accostato agli occhi, dinotava esser ella di vista corta; la qual cosa per le signore donne è un vezzo di più. Non si direbbe che il colmo della bellezza consista per l'appunto in certe imperfezioni? I greci pittori, non è chi nol sappia, per dar l'ultimo tocco alla bellezza di Venere, la dipinsero losca.

Sottili le labbra e naturalmente chiuse, la dimostravano punto cedevole ai sensi, e di carattere imperioso. Due fasci di rughe finissime, che dalle tempie andavano restringendosi verso le occhiaie, erano, insieme coi capegli già largamente brizzolati, i soli indizi della guerra degli anni. Era pur cosa facile cancellare quella ingiuria del tempo! Ma, fosse noncuranza di animo tutto rivolto a cure celesti, o quintessenza di quella civetteria che è innata in tutte le donne, e si ficca perfino nelle pieghe del cappello insaldato d'una suora di carità, o l'una cosa e l'altra ad un tempo, la marchesa Lilla non chiedeva ai trovati dell'arte quel nero lucente d'ebano che la natura, per vendicarsi in qualche modo di quella avvenenza ostinata, le veniva distruggendo a mano a mano colle sue nevicate.

Vestiva infine severamente, di seta a cordelloni, d'un pavonazzo carico; il seno, coperto bensì fino alla radice del collo, ma non dissimulato da pieghe, pareva non aver riconosciuto, oltre i trenta, l'impero degli anni. E la marchesa ne aveva quarantasette, o poco più; certo i quarantotto non erano anche suonati.

Superbo avanzo del passato, che vince soventi volte al paragone le più celebrate maraviglie del presente, ella era tuttavia una di quelle donne a cui tutti offrono il tacito omaggio di un alto stupore. Non è che si dimentichi l'età; ma ognuno dice in cuor suo: o come può durarla così? Per verità ci vergogneremmo di confessarlo, e sogliamo anzi celiare intorno a queste bisarcavole della bellezza; ma dentro di noi sentiamo verissima quella sentenza che il Guerrazzi pose sulle labbra d'un paggio innamorato: «non si fa all'amore col calendario alla mano.» Or dunque, vedendo costei, ognuno diceva: come può ella trionfare in tal guisa degli anni, che pure s'accrescono a tutti e si fanno maledettamente sentire? Pari alla famosa Ninon de Lenclos, ha ella avuto un filtro di giovinezza da un nuovo Fortunio Liceti?

Senonchè, per simili donne il filtro è spesso l'avere poco o punto patito, l'esser vissute senza affanni di cuore, l'aver goduto senza turbamento, considerando ed accogliendo felicemente la vita come una lunga sequela di soddisfazioni. Figlie di Eva, ma più avvedute di lei, dopo l'insegnamento della cacciata, gustarono il pomo della vita, dopo averlo diligentemente mondato; bevvero alla coppa del piacere, ma a sapientissimi sorsi, e cansarono i fumi dell'ebbrezza.

I lettori, rammentando la storia giovanile di Lilla e di Paris Montalto, ci noteranno di contraddizione. Ma aveva ella amato davvero? A noi pare più giusto il dire che era stata amata, che aveva ceduto, ma che subito, poichè non amava da senno, aveva badato a ritrarsi dal giuoco, ripigliandosi la posta. Tutto è lecito alle donne, e i giuocatori che lo sanno, le vedono di mal occhio sedersi al tappeto verde con essi.

E Lilla, che un giorno aveva creduto di amare, ma che non amava da senno, fu amata, adorata fino alla morte, da un povero esule. Bel sacrifizio di un nobile cuore ad un idolo muto! Se egli fosse sopravvissuto al marchese di Priamar se fosse tornato a lei, finalmente libera, chi sa?… Ma, vivi ambedue, il lontano si affacciava alla sua mente come la memoria d'un fallo; e quando il lontano morì, non lo pianse; pregò per lui, e le parve un conto saldato.

Nè vogliano reputarla cattiva i lettori; umana soltanto, nel senso che Terenzio ha dato al vocabolo, nient'altro che umana. Era una donna pentita, nè poteva operare o pensare diverso. Nobilissima com'era, non si rallegrò; ma tacitamente, quasi istintivamente, senza pure formarsi un chiaro concetto di ciò che sentiva, adorò in quella morte i decreti della divina provvidenza, che cancellavano in tal guisa un malaugurato ricordo. S'era data alle pratiche religiose come ad un rifugio dello spirito; vi perdurò senza fatica, ingannandosi anche nell'amor divino, come s'era ingannata nell'amore terreno.

La casa della marchesa di Priamar, come abbiam detto a suo luogo, era un ritrovo di gente posata, magistrati sputasentenze, dame contegnose, nobili parrucconi e simiglianti, tra i quali ella regnava, legittima Aspasia di quel fastoso consorzio. Le smancerie degli abati, le riguardose tenerezze dei vecchi Alcibiadi, le dicevano che era tenuta per bella; il che non guasta mai. Le dame anche più apertamente la decantavano bellissima, poichè non rapiva loro gli amanti, e la sua vanità femminile aveva largo tributo d'incensi, in quella che la sua ambizione si esercitava liberamente ne' suoi caritatevoli patrocinii, ne' suoi misericordiosi maneggi.

Poco dopo il Montalto, anche il marito morì, rendendo alla terra un corpo pieno di acciacchi e alla marchesa la sua libertà. Vedova, ella giunse all'età in cui la passione ridotta agli sgoccioli dà l'ultimo guizzo, e il più vivido, nel cuore della donna più austera per costume, più fredda per indole; vogliam dire a quello scoglio de' quarant'anni, tanto più pericoloso per lei, in quanto che la sua freschezza dimostrava non aver sentito alcun danno dal tempo. Ma il caso le diede di uscirne vincitrice, custodita come era da quel contorno di gente sciocca e cerimoniosa, e più ancora dalla sua medesima vedovanza, stato minaccioso che potrebbe paragonarsi a quelle fortezze abbandonate, dove il nemico non ardisce di entrare, per sospetto di agguati, o di mine pronte a scoppiare. Que' prosecutori di facili conquiste che sono certi zerbinotti, gente che va a cacciare nelle boscaglie di Pafo col biglietto d'andata e ritorno in tasca, non si perigliavano sull'orme di una selvaggina che li avrebbe condotti, Dio sa dove, fors'anco nelle ugne ai guardacaccia dell'Imeneo. Così ella varcò tranquillamente il tratto pericoloso; girò quel capo delle tempeste, oltre il quale l'anima che non vi giunse accompagnata è costretta a rimaner sola per tutto il rimanente del suo viaggio sul mare della vita.

C'era bensì il Gallegos, l'amante spregiato della prima giovinezza, pertinace nell'età matura, tanto più ardente quanto più taciturno e chiuso in sè stesso. Ma lo Spagnuolo, a lei fanciulla increscioso, non si impadronì più mai del cuor della donna. Tra quelle due anime fu sempre un abisso; e se le cime apparivano raccostate, il torrente romoreggiava sempre nel fondo, scavandolo sempre più addentro. I lettori rammenteranno ciò che la marchesa di Priamar scriveva al Montalto fin dal 1843: «Quegli che voi chiamate lo Spagnuolo, è in Genova; sì certamente, ma che importa a me? Egli è qui venuto, ma colla tonaca nera della Compagnia di Gesù, ch'egli ha indossata da ott'anni. Ho avuto a parlargli una volta. Egli non è più l'uomo di prima, nè credo ricordi il passato; ma se ciò pur fosse? Lilla non lo ha amato mai, lo sapete; ed ora ambedue non amiamo, non adoriamo altro che Dio. Questo è, io credo, il primo e l'unico punto di contatto che possano avere le anime nostre.» Ed aveva scritto il vero, e vero rimase pur sempre. Anche rammentando gli antichi amori dello Spagnuolo, fors'anco trapelando che non erano spenti, Lilla accolse il gesuita come un venerabile amico, il quale per tal modo si fece consigliero ed arbitro in casa sua, ed ella riuscì a non iscorgere altro in lui che l'amico, a riverirlo come un padre spirituale, in quella che pur lo temeva, come si temono instintivamente tutti gli uomini di gran levatura, di troppo gagliarda tempra per l'indole nostra più mite.

E Bonaventura, frattanto, col suo segreto chiuso nel cuore, portava la catena ch'egli medesimo s'era imposta votandosi agli ordini ecclesiastici, e corrucciato di quella immobilità volontaria, ma altrettanto pauroso di muovere un passo verso di lei, rimaneva muto, rannuvolato, scontento, sull'orlo dell'abisso.

Triste cosa, facile a dirsi, come il nome scientifico di certe orride malattie, solo che s'abbia dimestichezza colla struttura dei vocaboli greci e latini, ma terribile a sentirsi, chi n'abbia dentro di sè la malnata radice! Vivere, ombra eterna, accanto ad una donna fieramente amata; non poterle dir nulla: non vedere, non sentir nulla che raggi da lei e risponda alla fiamma che vi consuma; ardere e sentir freddo dintorno a voi; la vostra energia sempre viva e gagliarda spandersi da tutti i pori come un fluido magnetico, ma non poter correre una spanna più oltre, aggrumarvisi intorno, come il vostro alito denso in una regione di ghiacci eterni; orribile vita! Forte al cospetto del mondo, anima nata per comandare altrui, Bonaventura era debole innanzi a quella donna, non più giovine, già sparsa di rughe accusatrici e di capelli bianchi alle tempie. Lo spirito del male aveva la sua punizione in sè stesso. Se lo avessero saputo nel campo nemico!

Scriviamo per lettori i quali intendono questi viluppi del cuore umano, e non ci fermeremo a distrigarli con sottigliezze psicologiche. Quell'uomo così fortemente innamorato si struggeva di cogliere in fallo la donna amata. Che cercava egli? che sperava? Forse un istante d'ira feroce che gli desse ardimento a ferire un gran colpo, a farle paura, ad ottenerla colla violenza. Ma quella donna era muta, fredda invincibile, come una sfinge di granito. Però nell'amore di Bonaventura a lungo andare, s'era infiltrato l'odio; quel vino poderoso (ci si consenta il paragone) s'era inacetito nel vaso. Torturato nel profondo, pigliava un aspro diletto a torturare anche lei; mancandogli un fallo recente, almanaccava a rintracciarne un antico. De' suoi amori con Paris Montalto non aveva potuto sincerarsi mai, e la dolcezza di sale dell'aristocratico annotatore del Parafulmine lo faceva talvolta sorridere di compassione, tal altra uscire in maledizioni contro la umana sciocchezza. In quello spicilegio di errori e di colpe, di debolezze e di nequizie, c'era ogni cosa, salvo quel tanto che a lui metteva più conto sapere.

Ma il vecchio geloso aveva tutte le sottigliezze dell'inquisitore. Fiutata la colpa, andò difilato sull'orme; pose a raffronto le date; seguì il tenue filo delle ricordanze; pronunziò accortamente un nome d'estinto; notò gli atti e i sospiri; la parola e il silenzio gli giovarono egualmente. Il ripesco c'era stato; bisognava averne le prove. E i lettori già sanno in che modo il superstite dei Gesuiti genovesi, il vendicatore della espulsa compagnia, il capitano dei neri, tra i segreti dei rossi, tra i lembi scoperti del loro passato indovinò, e nelle battaglie del suo partito combattendo le sue, giunse a leggere il grande arcano, così gelosamente custodito fino a quel giorno nella casa di Lorenzo Salvani.

La sera del 29 giugno, nell'ansia della duplice lotta in cui s'era impegnato, tra le mille necessità di un'azione previdente e sollecita, egli non ebbe tempo ad assaporare i frutti della sua triste vittoria. Ma, per quel tanto che aveva a fare, una scorsa fuggevole al carteggio di Lilla, bastò. E il suo disegno fu pronto; condurre la marchesa, che era dama di misericordia, in casa Salvani, e trarne via la fanciulla.

Il colpo era audace; nella mente di un uffiziale della giustizia sarebbe stato agevole collegarlo con quell'altro dei falsi carabinieri. Ma Bonaventura era e sapeva d'essere onnipossente in certe anticamere, dove la legge è soverchiata dalla opportunità. Chi, degli offesi, avrebbe potuto farsi udire lassù? Chi, dei vendicatori, avrebbe voluto render giustizia, spontanea, a gente nemica dell'ordine? Da un pezzo è stato detto, le leggi esser come le ragnatele, che i moscerini vi restano impigliati, e i mosconi le sfondano.

Condotta da lui, indettata da lui, la dama di misericordia andò in quella notte in casa Salvani. Quel che avvenisse, s'indovina. Maria vide quella donna così austeramente bella, che, senza saperlo, senza formarsene un concetto nell'animo arrossiva dinanzi a lei; la guardò lungamente, mentr'ella le parlava con quell'accento soave e lievemente turbato; nel suo cuore fu un risvegliarsi confuso di sensi ignoti dapprima; sentì la voce del sangue, e spinta da una virtù inconsapevole, riparò sotto l'ala materna, senza pensare se ella avrebbe potuto, se pure avrebbe voluto proteggerla.

Il mattino vegnente, la fanciulla entrava di buon grado nel convento di San Silvestro, dove la superiora delle Clarisse l'accoglieva come una raccomandata della marchesa di Priamar, come una povera orfana, la quale sentisse nell'animo la vocazione di prendere il velo, sotto gli auspicii di santa Chiara. S'intende che una simigliante vocazione non era manifestata da Maria. La marchesa, tra mille soavi esortazioni, le aveva dimostrato il convento come un luogo di rifugio e di aspettazione. La povera fanciulla era affranta da tutto ciò che le era avvenuto il giorno innanzi, dai casi di quella notte, e dal non saper nulla di Lorenzo, dopo il tentativo della sera. Bonaventura aveva parlato, in sua presenza alla marchesa, di una mischia in piena regola, di morti e feriti, della presa e dell'abbandono di un fortino, di prigionieri fatti in gran numero, e la fanciulla aveva sentito un'acerba stretta al suo cuore, già travagliato da un'ansia febbrile. Che era egli mai avvenuto di Lorenzo, dell'unico suo protettore, dell'amico d'infanzia, dell'uomo a cui poche ore innanzi aveva detto il segreto dell'anima sua? Forse morto; forse in carcere, e condannato a tristissima fine! Sì davvero, il convento era un rifugio a tanta ad ineffabile angoscia.

E la marchesa, intanto? Che cosa le aveva detto Bonaventura? Tutto e nulla. Le sue parole avevano fatto intendere alla marchesa com'egli fosse consapevole dei natali dell'orfana. Lilla, che, alla vista di Maria, all'udirne il nome, al considerarne la giovinezza, s'era fieramente turbata, non ardì chiedere di più. E quando il gesuita, lasciando cader lentamente le frasi, toccò di alti natali, d'un segreto domestico di diciott'anni addietro, la nobile dama si fece tutta di fuoco nel viso, e tremò ch'egli proseguisse. Ma quel primo assalto bastava per quella volta al gesuita; si morse il labbro, e non disse più altro.

Quale aspra battaglia combattessero l'amore e lo sdegno nel cuore di Bonaventura, allorquando egli, raccoltosi finalmente nel silenzio della sua cameretta, si recò in mano il carteggio di Lilla, non istaremo a dir noi. Le forti commozioni si accennano, non si dipingono. Lesse e rilesse quelle pagine ingiallite dal tempo, e si abbeverò largamente di fiele. Rivide là dentro sè stesso, giovine, invaghito di quella donna, e posposto al suo nobile rivale. Ma lo aveva ella amato veramente, il Montalto? No; quella fiammata di gioventù s'era spenta al partire di lui, e Lilla era andata sposa al marchese di Priamar senza rimpianto per l'uno, senza amore per l'altro. E poi…. e poi!… Bonaventura avrebbe fatte in pezzi quelle pagine, se insieme avesse potuto distruggere quella ebbrezza di sensi che aveva tratto colei nelle braccia di Paris. Ed ella non lo amava! Ciò che avvenne di poi, lo dimostrava apertamente. Ma allora, perchè un altro amore, un'altra sollecitudine, un'altra agonia, veementi del pari, se non forse di più, non avevano ottenuto uno sguardo da lei, non avevano scaldato un tratto quel simulacro di donna? A Bonaventura il raffronto, anche lontano, cuoceva. Un altro! un altro! Non lo ha amato, lo ha respinto più tardi crudelmente da sè; ma che rileva ciò? Ella è stata sua un giorno, sua, tutta sua!

E l'amarezza s'era accresciuta in cuore al Gallegos, dopo quella lettura. Come avrebbe egli incalzata la sua preda? Pregare, inginocchiarsi, egli, dopo ciò che aveva letto? La odiava troppo, in quel punto. L'arma terribile gli era venuta alle mani, ma il furore ond'era invaso, gli impediva di usarla con frutto. Aspettò, ma fremendo, ruggendo dal profondo del cuore, come un vulcano che stenti ad erompere. E i fremiti, i ruggiti di quel cuore erano tronche frasi, lontane allusioni al passato, le quali facevano tremare ad ogni istante la marchesa di Priamar. La fanciulla che avevano salvata in due gliene offriva argomento ogni giorno. E Lilla taceva, non chiedeva mai nulla, nascondendo la sua ansietà sotto le apparenze d'una pietosa sollecitudine per quella loro protetta, che ella andava a visitar di sovente, ma senza dirle alcuna di quelle parole in cui si manifesta il cuor d'una madre; e anch'essa, come il gesuita, non risolvendo mai nulla.

—Ella si vergogna,—pensava il fiero Spagnuolo;—argomenta ch'io sappia ogni cosa, ma teme ch'io parli; ama sua figlia, ma trema pel suo buon nome nel mondo. Animo, dunque, ella è mia.—

Con questo fermo proposito, il padre Bonaventura, un giorno di settembre, metteva il piede nel salotto della marchesa di Priamar.

XIV.

Intimazione di resa.

—Lilla, buon giorno!—diss'egli alla gentildonna, con quella dimestichezza che gli era derivata da una lunga consuetudine e dal suo venerabile aspetto tra il padre spirituale e il vecchio amico di casa.

—Buon giorno, amico!—rispose la marchesa, con fievole accento, in quella che deponeva sul tavolino il clericale diario torinese.

Bonaventura notò quell'accento, e fu sollecito a chiederle che cosa avesse.

—Un po' di stanchezza;—disse la marchesa.—Sono tornata da pochi minuti in casa.

—Da San Silvestro, forse?

—Sì.

—E come va?—chiese il gesuita, a cui quella breve risposta non poteva bastare.

—La poverina era tanto abbattuta, che non ho ardito parlarle di nulla.—

E dette queste parole in fretta, come per farla finita più presto, la gentildonna trasse un sospiro.

—Eppure,—sentenziò lo Spagnuolo, scandendo le parole con molta lentezza e accompagnando ogni sillaba con un cenno del capo,—bisognerà che ella si rassegni, e che voi la riduciate a quel passo.

—Oh, io non ardirò mai….—proruppe la signora.

—Perchè?

—Perchè….—continuò ella, vedendo di non poter più cansare quell'argomento.—Lo so io, il perchè? Povera fanciulla! Se la vedeste, farebbe tenerezza a voi pure. Che volete, padre? La vocazione non viene a tutti, com'è venuta a voi e a tant'altri eletti del Signore. Il mondo, ch'ella ha a mala pena intravveduto, la chiama troppo fortemente a sè con tutte le sue liete speranze; gli affetti di famiglia, raccolti in un fratello, parlano ancora troppo caramente al suo cuore….

—È troppo più che non si convenga ad una fratellanza d'adozione, io m'avvedo;—interruppe il gesuita.—Ma non le avete voi detto, marchesa, che questo suo fratello, questo mal arnese, è a Londra, dove mena una pessima vita, in mezzo a tutta quella schiuma di fuorusciti?

—Sì, padre, fin dall'altro ieri le ho detto tutto quello che voi mi avete…. raccontato de' fatti suoi; ma temo non lo creda, o non giovi. Ella, anzi, quest'oggi ancora, s'è amaramente lagnata con me del furto commesso nella sua cella, mentr'ella dormiva….

—E non ha sospettato della Madre Maddalena?

—No, perchè alla Madre Maddalena non aveva confidato nulla di quel suo innocente segreto. Ella non sa di esser stata veduta da lei quando svitava la moneta, e crede ancora che le abbiano rovistato i panni e tolti que' pochi spiccioli per timore ch'ella non avesse a tentar di corrompere la suora conversa. Difatti, ella mi diceva stamane, combattendo i supposti timori delle monache: «A che mi servirebbero quelle sette lire? Nè io vorrei darle ad altri, poichè mi ricordano la mia povera casa e le mie modeste fatiche.»

—E dov'è, ora, quella moneta?—chiese Bonaventura, piantando i suoi occhi grifagni in volto alla marchesa.

Lilla si turbò a quella dimanda, e rimase un istante senza rispondere.

—Gliel'avete ridata?—proseguì egli, con piglio sarcastico, mentr'ella balbettava alcune frasi scucite.

—Sì, amico mio;—soggiunse allora la gentildonna.—Forse ho fatto male; ma, in verità, mi doleva troppo di vederla piangere. Le avevo detto, per chetarla, che quel poco denaro era in mie mani, e, cavata la borsa, lo feci vedere a lei, dicendole che lo tenesse pure, a patto di non farne mal uso. Poverina! Erano due monete da due lire, con altre poche di minor prezzo, sette lire in tutto. Ella cercò subito la moneta del segreto, la baciò, e restituendomi le altre, mi disse: «permettetemi, signora, che io tenga questa; è il primo frutto de' miei lavori di ricamo, ai quali avevo posto mano per non esser troppo d'aggravio al mio ottimo fratello.» Io m'ero bensì avveduta, che, innanzi di trascegliere quella moneta, ella aveva considerate attentamente le due consimili….

—Mentiva!—notò Bonaventura, col medesimo accento beffardo.

—No padre! Quando io le chiesi come avesse conosciuta la moneta, tra due che ce n'erano della medesima forma, ella mi guardò con aria di candore, mi baciò le mani, e in cambio di dirmi, come avrebbe potuto, che l'avrebbe conosciuta dall'anno o da altro segno particolare, confessò che era una moneta cavata da due altre, lavorate dentro a guisa di scatola, e commesse insieme la mercè d'una vite che girava internamente lungo la costa. Quelle quattro lire, ridotte a parer due, erano proprio il primo frutto delle sue veglie; ma dentro c'era il ritratto di Lorenzo Salvani, suo fratello, suo protettore. Voi ben vedete, o padre, che la poverina non sapeva mentire.

—L'amate molto! È strano!—saettò il gesuita, facendo sibilar le parole dai denti chiusi e dalla chiostra delle dita, che andavano tormentando irrequiete il campo raso del labbro superiore.

Lilla chinò gli occhi sul pavimento e non disse verbo.

—Queste figlie del peccato,—proseguì egli, dopo una breve pausa, per conficcar lo strale nella ferita,—hanno tutta la caparbietà della loro origine. Eppure, bisognerà ch'ella si disponga a farsi monaca; e voi, marchesa, vi adoprerete domani a vincere la sua ostinatezza.

—Padre!—esclamò la gentildonna, con accento supplichevole.

Bonaventura crollò superbamente le spalle.

—Orbene—diss'egli—sia come volete, e il mondo dica ciò che gli pare.

—Che cosa?—dimandò la signora.

—Che la vostra tenerezza è soverchia, per una semplice protettrice. La vostra assiduità, senza frutto di conversione, sarà notata, e la vostra misericordia sembrerà….

—Sembrerà, voi dite, sembrerà?…

—Che so io?—continuò Bonaventura.—Troppo…. materna!—

A quelle parole che finalmente svelavano il pensiero del gesuita, un lampo di sdegno illuminò il volto della marchesa di Priamar. Si rizzò in piedi, con piglio di regale alterezza; ed egli del pari si alzò dalla scranna, ma calmo e sicuro, guardandola fissamente, come un giudice il reo. Lilla vide allora quel volto severo, vi lesse in un'occhiata tutto il suo passato fatto palese; nè potendo sostenere la lotta, nè reggersi più oltre, ricadde, come sfinita da quello sforzo supremo.

Era stato un baleno; ma in quel baleno si era rischiarata ogni cosa tra i due.

Bonaventura si assise a sua volta. Un silenzio sepolcrale regnava nel salotto, lasciando udire i tocchi ricisi dell'orologio a pendolo, che dall'alto del camino veniva numerando con monotono metro i minuti secondi di quella pausa solenne.

Lo Spagnuolo squadrava Lilla con occhi torvi, che le avrebbero fatto sgomento, se ella avesse levata la fronte a guardarlo. Ma ella teneva il viso rivolto a terra, e le palpebre chiuse; nella sua mente era una confusione d'immagini che il martellare del sangue alle tempie agitava senza posa; le fischiavano gli orecchi; il lieve suono del suo respiro interrotto le giungeva mutato in un sordo rumore. E quando la voce di Bonaventura si fece udire da capo, parve a lei che venisse com'eco da luogo lontano, fors'anche dal passato, che è lontananza di tempo.

—Ricordo—disse dopo una lunga pausa lo Spagnuolo, con un accento solenne da cui trapelava l'amarezza dell'animo—che or fanno trent'anni era in Genova un uomo fieramente innamorato di Lilla Lercari. Quell'uomo era giovane allora, ma d'animo fatto; e in lei, a mala pena uscita d'infanzia, aveva presentito un miracolo di bellezza e di grazia. Lo ricordate, marchesa, quell'uomo? Lilla, quando ebbe la prima volta a vederlo, esclamò con fanciullesca sincerità: «che giovane vecchio!» E diceva il vero, e il giovane vecchio sorrise, scusandola amorevolmente presso i parenti, che la riprendevano di quella scappata infantile. Egli era giovine d'anni, ma vecchio d'esperienza; egli commise in vita sua un errore soltanto; e fu quello d'invaghirsi di Lilla, di credere che ella avrebbe potuto un giorno esser sua, e di darle intanto, consapevolmente e pur ciecamente, tutto sè stesso. Ciò avviene alle anime virili, sperimentate alle battaglie della vita, assai più facilmente ch'altri non creda.—

Così dicendo, trasse un sospiro, se pure non è più acconcio chiamarlo un ringhio; indi proseguì:

—Quando il cuore di Lilla si schiuse all'amore, non fu egli che ne colse le primizie; fu un altro, un altro che l'occasione profferse a' suoi occhi, e che altre cure assai facilmente allontanarono da lei. Questa è sorte di tutti gli affetti veri, che debbano esser turbati da qualche apparizione improvvisa e fugace. Nulla è, nulla giova la cura assidua, l'adorazione costante; al nuovo venuto le promesse, che non ha chieste, i baci, che non ha implorati colla tacita preghiera dello sguardo, specchio della interna agonia. Tacque il povero innamorato, ed attese; il caso, che aveva tratto quel nuovo venuto al fianco di Lilla, il caso lo sbalestrò lontano da lei. Ma mentre il cuore del disgraziato si riapriva alla speranza, mentre egli preparava la sua dignità di gentiluomo alla vergogna d'un rifiuto dei parenti di lei, pure ripromettendosi che il cuore di Lilla non avrebbe confermata la triste sentenza, Lilla Lercari si piegava facilmente ad un disegno improvviso de' suoi; poco stante, sposa ad un altro, si chiamava Lilla di Priamar. Che avvenne allora? Io vi prego di ascoltarmi, marchesa! Dei due amanti, il lontano e il vicino, quale la amava più veramente? Il lontano…. Ma che ne dirò io, del lontano? Questa parola non basta ella per chiarire ogni cosa? L'amore non era stato il gran tutto per lui; bensì un trastullo pei ritagli di tempo che gli erano lasciati dalle sue matte ambizioni politiche. Però durava tranquillo in un esilio ch'egli aveva voluto; pensava ad altro, laggiù, forse sapendo non aver da far altro che presentarsi da capo per vincere. Il vicino, intanto, a patire la più aspra delle battaglie; che inferno fosse nel suo povero cuore, egli solo lo sa, e il ricordarsene tuttavia lo sgomenta. Ma egli rispettò quella donna; imprecò a sè medesimo, non a lei, e riguardoso dinanzi al vincolo che univa per sempre due vite, fece della sua il più gran sacrifizio che un disperato amore inspirasse mai ad un uomo, sul fiore della balda giovinezza; la votò ricisamente, irrimediabilmente, a Dio, a Dio che non accolse il sacrifizio, a Dio che non volle sradicargli dal cuore quelle malaugurata passione. Sì, o signora; ciò ch'egli soffrisse allora, argomentatelo da questo, che trent'anni sono passati ed egli ama ancora Lilla di Priamar, e così fieramente, come in quei giorni di dolore infinito….—

Al prorompere di quella confessione, la marchesa non rispose verbo, non alzò neppur gli occhi. Se li avesse levati fino a lui, avrebbe veduto quel volto come trasfigurato dalla potenza arcana delle ricordanze. E in verità, da quella fronte corrugata nelle battaglie della vita, traspariva alcun che della giovinezza di Bonaventura; la passione, così a lungo rattenuta, lampeggiava dagli occhi, non già col soave baleno della preghiera, nè col torvo bagliore della minaccia, ma sì coll'aperto splendore, in cui si dipingeva l'audace alterezza del comando. Lilla non osava guardarlo, tremando tutta in cuor suo; non come si trema davanti ad un volgar tentatore, che un tocco di campanello può costringere alla temperanza delle parole e degli atti, ma come si trema al cospetto di un vincitore, che detta, superbamente composto, le sue condizioni. Perchè aveva egli tanto aspettato? Lilla lo intendeva assai bene; l'uomo forte aveva frenato gl'impeti del suo cuore, chiusi gli sdegni nel profondo, fino a tanto non avesse raccolte nella sua mano di ferro tutte le ragioni della vittoria. Epperò, indovinando, ella lo aveva sempre temuto; quell'apparenza di calma, a lei memore del passato, era sempre stata argomento di sospetto. Ed ora il sospetto diventava certezza; quelli erano tutti i segni della fiamma antica; l'incendio divampava tanto più forte, quanto più lungamente covato.

Fu un'altra pausa, durante la quale Bonaventura divorò degli occhi quella donna, quasi volesse trasfondere in lei quell'ardore che dal petto gli saliva alle tempie. Ed ella, sempre nel medesimo atteggiamento, pareva la statua dello stupore; solo il respiro affannoso la diceva viva.

—Votato a Dio!—ripigliò amaramente Bonaventura.—Sacrifizio fatto nell'ira colla preghiera sul labbro e la maledizione nel cuore, altro non porta che fumo ingrato lassù. Ho inteso allora perchè i sacrifizi di Caino non tornassero accetti al Signore. Ma che diceva quel sacrifizio, se non a Dio, alla donna? Io non amerò altra che voi; distruggo in un punto tutte le mie speranze; anniento la mia giovinezza; consacro tutta la mia operosità al nulla, tutta la mia vita all'inferno, e per voi, solamente per voi. E quell'altro, intanto, quell'altro? Egli che, amato da lei, non aveva saputo, nè voluto farla sua, egli ben seppe, ben volle insidiarla, quando fu d'altri, e la ottenne. Egli che aveva potuto vivere senza di lei, lontano da lei, volontariamente travolto nel turbine delle umane vicende, egli tornò, fu visto e vinse; poi sparve da capo, col frutto e colla testimonianza durevole del suo trionfo, lasciando a quella donna i dolori d'un tardo rimorso, e quel che è peggio, facendo di ghiaccio un cuore che avrebbe potuto riaprirsi alla compassione, all'amore, e condannando un altr'uomo a vivere obliato, non curato, fino alla tomba….—

In queste parole la voce di Bonaventura aveva trovato un accento malinconico, quasi soave, che commosse il cuore di Lilla.

—Non è egli il mio migliore amico?—diss'ella.—La gioventù e la bellezza passano; l'amore con esse; l'amicizia rimane.

—Lo credete?—diss'egli di rimando.

La marchesa sollevò allora lo sguardo, vide la faccia di Bonaventura, e n'ebbe sgomento.

—Vi amo!—soggiunse egli, alzandosi lentamente in piedi e andando a piantarsi vicino a lei, con una mano aggrappata alla ricurva spalliera del sofà dov'ella rimaneva accasciata.—Non m'inginocchierò a' vostri piedi; non piangerò. Queste sono le armi dei giovani, e la mia gioventù si è consumata in questa vana pugna contro il passato. Ma non vedete che soffro? che la vostra austerità mi ha scemate le forze, m'ha reso vile a' miei occhi medesimi? E quella vostra austerità ha pur ceduto ad un altro!…

—Il mio pentimento sarà eterno!—esclamò la marchesa, nascondendosi il volto nelle palme, come a celare il rossore che le era salito alle guance.

—Il pentimento! Che è ciò? a che serve, se non reca un conforto a chi per cagion vostra ha tanto patito?

—Che dite amico mio?—balbettò la marchesa, cercando, in quello stesso nome affettuoso, uno scampo.

—Dico, Lilla, che ho troppo sofferto, e che voi dovete esser mia.—

Un alito di fuoco sfiorò il capo di Lilla, a quelle parole, sommessamente profferite, e la povera donna ne fu sbigottita.

—I vostri voti….—accennò ella timidamente.

—I miei voti!—ripetè Bonaventura, la cui voce s'era fatta pari al sordo brontolio del tuono lontano.—I miei voti…. pronunciati per cagion vostra, per dimostrarvi che senza l'amore di Lilla il mondo non era nulla per me!… Io ho vissuto giorni d'angoscia ineffabile, patito tormenti, al cui paragone ogni tortura è nulla…. Che mi parlate di voti? Il mio cuore non li ha pronunziati; il mio cuore non ha accettato alcun vincolo oltre quello che lo stringeva a voi, e che stringerà pur voi, foss'anche a vostro mal grado!—

Come chi soggiaccia alle visioni d'un sogno pauroso, e, quasi sapendo di sognare, si sforzi con moto istintivo a liberarsi dalle strette dell'incubo, la marchesa di Priamar tentò sottrarsi a quella foga crescente del suo assalitore, e in uno sforzo supremo balzando in piedi, corse al lato opposto del ridotto, dove rimase, ritta, ansante e lo sguardo smarrito.

—Padre,—diss'ella con voce tremante,—non posso udirvi più a lungo.—

Bonaventura era rimasto fermo al suo posto, chiuso, accigliato, come il simulacro del destino.

—Mutiamo discorso;—rispose egli, asciutto.

—Sarà meglio per ambedue;—soggiunse la marchesa.

Egli fu per dare un sobbalzo a quelle acerbe parole; ma non si mosse, e finse non averle udite. In quella vece si morse il labbro, fino a far sangue; indi proseguì con piglio beffardo:

—Dov'eravamo rimasti, innanzi ch'io saltassi fuori a parlarvi di tutte queste sciocchezze? Ah, ecco! Parlavamo di vostra figlia, che, voglia o non voglia, dovrà farsi monaca. Mi sono pur fatto frate, io, che ero padrone di me, e non avevo da arrossire dei miei natali, come lei!—

Sentendo venir meno quel po' di forza che l'aveva tratta in piedi pur dianzi, la marchesa alzò la fronte al cielo, come implorando soccorso. Ma il cielo era muto: nessuna ispirazione le venne dall'alto, e flagellata in volto dallo scherno di Bonaventura, la povera donna andò ad occhi chiusi contro la vergogna.

—È orribile, orribile, ciò che voi dite!—esclamò.—Mia figlia…. sì! Credete voi che io abbia paura? Mia figlia! Orbene, io non la costringerò a maledirmi! Povera creatura innocente! Io non le farò espiare il mio fallo; ella sarà libera, uscirà dal convento, raccolta dalle braccia di sua madre….

—Adagio…. madre!—interruppe beffardo il Gallegos.—Anzitutto, come uscirà dal convento? Bisognerà parlare, dire come ella non sia una fanciulla orfana, derelitta. Bisognerà dire,—e qui la voce di Bonaventura andava facendosi a mano a mano più alta,—che la marchesa Lilla di Priamar, la severa matrona, la santa dama di misericordia, l'inflessibile giudichessa delle debolezze altrui, ci ha avuto ella pure le sue debolezze, le sue misericordie colpevoli; che Lucrezia rediviva ci ha avuto i suoi amorazzi, che ella non soggiacque alla violenza di Sesto Tarquinio, ma l'ebbe caro, e che quello stolido marchese di Priamar ebbe, senza volerlo, senza saperlo, una figlia….

—Parlate piano!—disse con accento supplichevole la marchesa.

Un lampo di gioia sinistra illuminò lo sguardo del Gallegos. Il suo trionfo cominciava in quel punto.

—Ah, voi temete!—soggiunse egli, con voce più
  rimessa.

—E voi sfidereste lo scherno dell'universale, voi che ora paventate l'orecchio di un servo, che potrebbe passare in questo mentre dall'anticamera? Non avevate paura! Siete balzata contro di me, in atto di minaccia! Eccolo, il vostro coraggio, dove vi ha tratta, e come presto vi manca!—

La marchesa, ridotta allo stremo, s'era lasciata cadere come corpo morto su d'una scranna.

—Bisognerà pure che la fanciulla si faccia monaca!—proseguì spietatamente Bonaventura.—Sua madre non può arrossire per lei, non può dire oggi, manifestare in un giorno, ciò che ha nascosto gelosamente vent'anni, ciò che non può confessare, nè lasciarsi dire, a fronte alta, dall'uomo che, solo al mondo, conosce il suo segreto, dall'uomo che l'ha spiata giorno per giorno, seguita fedelmente come l'ombra il corpo. Il mondo è crudele, colle sue leggi; ma noi gliele abbiamo insegnate, e dobbiamo a nostra volta subirle. Mostrare i suoi falli, brutta cosa! Sono sciocchezze, lo so; l'amore si ride di certi nomi con cui si tenta avvilirlo, e dacchè mondo è mondo la infamia del nome non ha frenato mai gl'impeti dell'affetto prepotente. E tuttavia, voi lo sapete, marchesa di Priamar, si nasconde questo amore come un delitto; peggio ancora, come una vergogna. Si viola la legge, perchè è esorbitante; ma si rispetta, nascondendo la violazione. Non si vuole arrossire. Che direbbe la gente? Sapete la gran novità? Quella fanciulla, di cui non si sapeva l'origine, era sua figlia. Sì, davvero. Narrate; ha da esser sugosa, la storia. Sicuro! c'è di mezzo un amore antico, che nemmeno l'aria aveva a risaperlo; ma il diavolo, che fa le pentole, non sa fare i coperchi. Già, ci vuol pazienza; siam tutti fragili; ogni merce ha il suo calo, e la marchesa di Priamar, la Lilla, ci aveva pure il suo caro segreto. Tutte così, queste gran dame, che dànno la battuta alla plebe; più alte sono, e più cascano! E lei, anche lei come tutte le altre! Questa è ghiotta davvero; la racconterò in conversazione stasera.—

La marchesa si contorceva sotto quella scossa di sarcasmi feroci.

—Oh, la mia povera figlia!—gridò ella, perduta, tendendo le palme al suo flagellatore.—Pietà, Bonaventura, amico mio da tanti anni! Non avete voi cuore? Pietà, ve ne supplico a mani giunte! Debbo io abbracciare le vostre ginocchia!—proseguì ella, spiccandosi con impeto disperato dalla scranna.—Pietà, non per me, per mia figlia! Io l'amo. Alla sua vista ho sentito il mio seno commuoversi tutto, svegliarsi nel mio cuore un affetto ignoto dapprima, un affetto irresistibile, quell'affetto che senton perfino le belve per le loro creature. Perchè non lo sentirei io? Mia figlia! intendete? mia figlia! È stata una colpa; ma l'ho espiata con lunghi dolori; la espio terribilmente adesso, nella vergogna che mi assale e mi ricopre davanti a voi. Ma ella è innocente. Non fate che io la sacrifichi. Lasciate a me il mio buon nome. L'onore è la vita. Abbiate misericordia! Mio Dio! è impossibile che voi siate tanto spietato con me….

—Fanciullaggini!—disse Bonaventura, in quella che la respingeva tranquillamente da sè e la rimetteva a sedere sul sofà, presso cui era rimasto.—Vedrò piuttosto se l'amate davvero, la figlia vostra!

—Oh, dite, parlate!…

—Sì, c'è un mezzo. Ella potrebbe andar moglie a qualcuno che fosse di buon casato, degno di lei, ma che non avesse a domandare dond'ella venga….—

Gli occhi della marchesa pendevano da lui in quel punto; le labbra della povera donna mormoravano interrotte parole in guisa d'assentimento continuo alle parole di lui.

—Tutto ciò potrebbe ottenersi;—proseguì lo Spagnolo.—Voi sareste la sua protettrice, nient'altro, in apparenza, e l'apparenza tornerebbe tutta a vostro vantaggio. Voi che, per l'uffizio vostro di misericordia l'avete raccolta in mezzo alla strada, o quasi, voi potreste esserle madrina, voi darle uno stato. Nessuno ci troverebbe a ridire, anco se le assegnaste una dote. Siete ricca, siete sola, padrona di voi, e n'andreste anzi celebrata per ogni bocca, come esempio di onesta liberalità, di munificenza pietosa. E quella fanciulla, beneficata da voi, fatta felice da voi, vi amerebbe come una seconda madre, anzi come la vera madre, che ella non ha conosciuta. Non è egli ciò che vorreste?

—Sì, sì! ma come? dove trovare?

—È ufficio mio; ho l'uomo da ciò; giovine, costumato, ben avviato, diventerà anche un uomo ragguardevole in mezzo a questa turba di sciocchi.

—Oh, se faceste ciò!—

Bonaventura la interruppe, accostandosi a lei con satanico piglio, e sussurrandole due parole, due sataniche parole, all'orecchio.

Lilla abbassò gli occhi, e due grosse lagrime le scesero per le guance sul petto.

—Orbene?—chiese egli sommesso, ma con piglio
  riciso.

—Che debbo io dirvi?—esclamò ella alzando al cielo le ciglia lagrimose.—Che io possa vedere contenta mia figlia, non farla infelice per tutta la vita….

—E lo giurate?—incalzò Bonaventura.

Lilla si recò una mano sul volto, e singhiozzando gli porse, o per dire più veramente, lasciò ch'egli afferrase l'altra e la stringesse nella sua.

—Marchesa,—disse Bonaventura, pigliando subitamente commiato da lei,—oggi stesso mi adoprerò per questo negozio. Domani, innanzi di andare a San Silvestro, aspettatemi.—

Ed uscì dal salotto, con passo lieve e guardingo, quasi ella dormisse ed egli non volesse turbarla. Lilla rimase ancora un tratto così abbandonata sul sofà, colla testa supina contro la spalliera e le palme raccolte sul viso. Si alzò finalmente, guardandosi intorno con occhi smarriti, e prese barcollando la via della sua camera, dove andò a cadere sulla predellina d'un inginocchiatoio, dando in uno scoppio di pianto a' piedi di un crocifisso che pendeva dalla parete, e col capo chino pareva guardarla e compiangerla.

Povera madre!

XV.

Nel quale è detto perchè la signora Marianna sapesse di tabacco.

Quello era un gran giorno per Bonaventura Gallegos. Ogni cosa gli andava a seconda. Però egli uscì di casa Priamar con occhi fiammanti; scese le scale stropicciandosi le mani, e s'avviò verso il palazzo Vivaldi, dov'era il suo quartierino, col passo spedito d'un giovinotto di ventiquattr'anni.

Perchè se n'andava egli così difilato a risalutare i suoi fidi penati, trascurando le altre visite che ancor gli rimanevano a fare in quel giorno, mentre erano a mala pena le due dopo il meriggio, e alla vecchia governante aveva detto, innanzi di uscire, che sarebbe tornato sulle tre?

Bonaventura sentiva il bisogno di raccapezzarsi. Per la prima volta in sua vita egli era confuso. E veramente, egli non aveva avuto mai nella sua vita un giorno come quello. «__Il n'y a pas de grand homme pour son valet__ __de chambre__» fu detto argutamente da un gentiluomo di Francia; noi potremmo aggiungere non esserci grand'uomini dinanzi all'amore, il quale non è servo, pur troppo, ma signore di tutti. Quella vecchia passione, che abbiamo testè colta sul fatto, era il lato debole di Bonaventura, il punto vulnerabile di quel nuovo Achille, anch'egli, come l'antico, mal tuffato nello Stige. Egli era dunque confuso, inebriato dai fumi della vittoria. Tutto il passato, colle sue combattute speranze, co' suoi desiderii insaziati, colle sue ire profonde, gli ribolliva nel cuore.

Ogni cosa, abbiam detto, gli andava a seconda. Il trionfo della sètta e il suo particolare, venivano appaiati, come i serpenti di Tenedo. Aloise, il giovine ed animoso patrizio che accennava a ribellione, risospinto nell'inerzia, ridotto alla catena sulla soglia d'un ginecèo, e condannato, per la rovina delle sue sostanze, agli sdegni del vecchio nonno; sgominati i disegni dei rivoltosi e assicurata una nuova êra di pace feconda alla nera falange; il Salvani fuggiasco; il segreto della cassettina d'ebano e la giovinetta Maria, inconsapevole strumento di vendetta, in sue mani; tutto ciò era molto, più assai che egli non avesse ardito sperare, allorquando, sulla spiaggia deserta di San Nazaro, col vaticinio delle comuni vittorie, si faceva a racconsolare il suo tristo discepolo. Ma tutto ciò era ben poco, era nulla, innanzi alla gioia del trionfo ottenuto in quel giorno. La cittadella era venuta a patti; gli elementi della vittoria, così faticosamente raccolti, irrompevano alla conquista. E Bonaventura era fuori di sè; un'ora di calma solitaria, per rimettersi da quella commozione, per distrigare i suoi pensieri arruffati, era necessaria davvero.

—Finalmente!—pensava egli, mentre la mano scoteva la corda del campanello di casa.—La lotta è stata accanita; ma ella ha ceduto. Per me, l'essenziale era di rompere il ghiaccio. Come sono stato fanciullo! V'ebbero due momenti nel dialogo, che io quasi non riconobbi me stesso. Una donna m'aveva posto nel sacco. E adesso, a me! A quell'altro non gli parrà vero, aver bella donna e quattrini. Ella, pur di uscir di convento e cansare il velo che la spaventa, si piegherà; posta al bivio, sceglierà il minor male. Il minor male? __Respice finem__;—sentenziò ridendo la coscienza del gesuita.—O ch'io non sono più io, o che ella sposerà un furfante di tre cotte. Quello è un uomo da farla in barba a tutti i suoi, quando non ci sarà più Bonaventura per tenerlo a segno.—

Qui Bonaventura si rammentò di aver suonato pur dianzi inutilmente; epperò, afferrata da capo la nappa, diede una strappata padronale al campanello, che mandò tosto un subbisso di acutissime note.

—Chi è?—dimandò una voce lontana, vogliam dire che non era dall'anticamera.

—Son io, signora Marianna.

—Vengo, vengo…. Son qui col ferro alle mani.—Poco stante la signora Marianna si mosse; e Bonaventura udì il passo frettoloso della sua governante nell'anticamera.

—È lei, Padre?…

—Son io, apra, son io.

—Gli è perchè sono sola in casa;—disse la signora Marianna, con aria impacciata, in quella che faceva girar l'uscio sugli arpioni per lasciar passare il padrone;—e non si sa mai….

—Sta bene, sta bene;—interruppe egli.—Intanto ho dovuto suonare due volte.

—Non ho udito, padre, non ho udito. Ero in cucina a mutare i ferri sul fornello. Poi ci avevo una sua camicia sullo stiratoio….

—Chi è stato qui?—domandò Bonaventura, interrompendola un'altra volta.

—Nessuno, padre. Perchè?

—Credevo ci fosse stato qualcuno. Sento un certo puzzo di fumo….—

Alla parola fumo la signora Marianna si fece di fuoco.

—Fumo?—esclamò ella.—O non sa che io faccio cucina a carbone?

—Che carbone, che cucina? Intendo fumo di tabacco. Anzi, mi pare che ne sappia lei, signora Marianna.

—Gesummaria!—gridò la governante, giungendo le palme.—Ma sì…. ora che ci penso…. Ella ha ragione. Eppure, m'ero così bene risciacquata il viso!

—Che è avvenuto? Le doleva un dente, ed ha fumato un sigaro?

—Oh, grazie al cielo, li ho tutti sani, e poi il puzzo del sigaro non lo posso patire. Se sapesse piuttosto che cosa m'è accaduto stamane….

—Sentiamo; non mi tenga sulla corda.

—Ecco; quand'ella è uscita di casa, ho detto tra me: il padrone non torna prima delle tre; io ho dunque tempo a dar sesto a tutte le faccende di casa, ed anche a sentire la santa messa. Ella saprà che oggi è San Michele, arcangelo benedetto, e mi sarebbe parso peccato non andare in chiesa quest'oggi. Dunque, dicevo, andiamo a messa prima di tutto. E sono uscita per andare alle Vigne. Ma nel traversare la via della Maddalena per scendere dietro il coro delle Vigne, ecco tre marinai, od altro che fossero, perchè non li ho guardati, i quali, tenendosi tutti per braccio, m'impediscono la strada. Mi strinsi al muro per cansarli; ma essi, pareva lo facessero a posta, mi vennero addosso; e uno di loro, che mi era più vicino, e fumava la pipa, mi lasciò andar sulla faccia una boccata di fumo. Che brutta gente, padre, che brutta gente c'è a Genova! Venire a dar molestia alle persone che se ne vanno per la loro strada! E quando ebbero fatta quella bella impresa, e mi sentirono tossire, si fermarono ancora a ridere, a dirmi delle cosacce….

—Povera signora Marianna!—disse Bonaventura, ridendo,—si risciacqui ancora la faccia, e metta nel catino due o tre gocce d'acqua di Colonia.

—Oibò!—rispose la vecchia, con aria di raccapriccio.—Io non ne adopero, di queste diavolerie!

—Diavolerie! perchè mo'! Non è tutta roba creata
  da Dio?

—L'acqua di Colonia?

—Questa, no, ma gli elementi dei quali è composta;—seguitò Bonaventura, che in quel giorno e a quell'ora aveva voglia di scherzare.—E quando la si adoperi con buone intenzioni…. Non si veste Ella, non si mette in fronzoli, per andare alla chiesa? Dico fronzoli così per dire; ma la gala nel cuffiotto….

—È vero, padre!—disse la governante con aria contrita;—non ci avevo pensato. E poi, male non fare….

—Paura non avere;—conchiuse il gesuita.—Vada ora alle sue faccende, signora Marianna, e quando verrà il dottor Collini, che non può star molto a giungere, lo faccia entrare da me.—

Ciò detto, Bonaventura s'avviò alla sua camera da studio. E la signora Marianna, dall'altro lato, prese la via della cucina borbottando, fino a tanto potè argomentare che la udisse il padrone: che brutta gente! dar molestia alle perone che vanno per la loro strada!—

Ma quando ella fu giunta in un'altra camera di là dal corridoio, e si richiuse l'uscio dietro, la timorata governante mutò solfa ad un tratto, dicendo ad un tale, che sbucava allora allora dalla viottola d'un letto, tutto ingombro di biancheria, dietro il quale s'era rimpiattato:—L'ho risicata bella, per voi! Quando smetterete di fumare que' vostri sigaracci?

—O come?—esclamò l'altro, parlando con quell'accento sommesso che era consigliato ad ambedue dalla presenza del padrone in casa;—e non me li avete dati voi, questi sigari? Di che cos'era, forse di ravanelli, quel mazzo che m'avete regalato oggi, pel mio giorno __monastico__?

—Sì, sì!—disse Marianna, dandogli sulla voce.—Fortuna che non mi sono perduta d'animo, e quando m'ha chiesto donde venisse quell'odor di tabacco….

—Che cosa gli avete risposto?

—Ho dovuto raccontargli di un incontro fatto per via…. di certi marinai che erano venuti a darmi la baia….

—E sarebbe vero?—saltò su l'altro, facendo cipiglio.—Badate,
Marianna; se qualcheduno vi ronza attorno, lo concio io come va.

—Sareste geloso?

—Come un Turco!

—Zitto là, omaccione. Non vi vergognate? esser geloso d'una vecchia….—

E dicendo queste parole, la signora Marianna faceva la bocca piccina e l'occhio tenero.

—Vecchia!—ripigliò l'altro, ingrugnato.—Vi fate sempre più vecchie che non siete, voi altre donne, per aver libertà di girandolare a vostro piacimento.

—Ne ho quarantadue sulle spalle, pur troppo, e nessuno me li leva; nemmeno la vostra gelosia;—soggiunse la signora Marianna, crollando la testa, in atto di rassegnazione.—Ma non andate in collera, ora, che non ci mancherebbe più altro. Ho raccontato quella storia al padrone, perchè subito non m'è venuto altro in bocca.

—Non è dunque vero nulla?—disse il geloso.

—Che, vi pare?

—Ah, meno male!—esclamò l'altro; e trasse un lungo sospiro, che fece andare la signora Marianna in brodo di succiole.

—Vedete, ora,—proseguì ella, mentre ripigliava il lavoro interrotto, e abbronzava maledettamente, con un ferro troppo caldo, lo sparato di una camicia del padrone,—quanto era meglio che ve ne andaste, quando io ve lo dissi la prima volta. Adesso vi bisognerà rimanere nascosto fino a tanto egli non torni ad uscire.

—__Alma de mi alma__, si sta così bene presso a voi!

—Parlate piano! E adesso che c'è? Tenete le mani a casa!

—Come si fa, quando si è presso a voi?

—Tiratevi in là!—ripiccò la donna torcendo le labbra.

Lasciamo un tratto bisticciarsi gli amanti, e contentiamo una curiosità a cui, dal fitto di queste righe, vediamo foggiarsi le labbra dei nostri lettori. Che diamine! sembra di udirli a gridare. La signora Marianna, la timorata signora Marianna…. tirarsi un amante in casa! Sicuro, un amante; ma l'ara d'Imeneo non è molto lontana. Questo almeno ella crede, la nostra colomba; e questo le mette l'anima in pace. Ma chi poteva innamorarsi di lei? chiederà un altro e più sofisticoso lettore. Di lei che non contava già più i suoi cinquanta autunni, e ci aveva il naso bitorzoluto e il mento fiorito di peli?

Questo signor lettore (sia detto con sua licenza, e con tutta la più gran venerazione che abbiamo, noi poveri venditori di ciance, per questa eletta classe di cittadini) non sa l'amore che sia; non argomenta come possa andare tentoni e saettare a casaccio, un fanciullo che ha sempre la benda sugli occhi. Ed è grande fortuna che sia così. La cecità dell'amore lascia sperare ad ogni donna la sua parte di felicità in questa valle di lagrime. Se l'amore fosse soltanto per le belle e per le giovani, chi le potrebbe tenere a segno, queste care puppattole? Torniamo alla signora Marianna e al suo damo. Chi era costui? Da uno sproposito che già egli v'ha detto, da una frase spagnuola, e dalla notizia del suo giorno __monastico__, non avete riconosciuto Michele Garaventa, il legionario di Montevideo e di Roma, il servo fidato di casa Salvani? Ma come ciò? Chiedetene ai Templarii e ai loro stratagemmi di guerra; noi ce ne laviamo le mani.

Rispetto al modo come quei due cuoricini giunsero ad intendersi, potremmo sciorinarvi la vecchia teorica delle anime sorelle che si vanno fiutando a vicenda sulla faccia della terra, fino a tanto si raccapezzino e si congiungano; o quell'altra delle mezze noci, maschio e femmina, che Domineddio buttò un giorno per suo diletto su questo globo terracqueo, e che s'agitano sempre, cercandosi l'una coll'altra, si provano e si riprovano guscio a guscio, fino a tanto non paia loro di combaciare per bene; donde occorre che nel rimescolo molti gusci si rompano, molt'altri credano d'aver trovato davvero il compagno, e tanti per conseguenza rimangano vedovati in eterno. Ma di queste invenzioni la prima è una scempiaggine da poeti, l'altra una capestreria da umoristi, e noi bene intendiamo come non vengano a taglio pel nostro assunto di storici. Raccontiamo dunque partitamente, alla buona (e ci assista la Musa pedestre) come l'andò tra que' due, come avvenne che mezzo secolo si invaghisse dell'altro.

Ogni mattina la signora Marianna andava alla messa. Bisogna nutrir l'anima come si nutre il corpo, soleva dire la divota femmina; ora il corpo ha bisogno di nutrirsi ogni giorno, e l'anima non deve rimanere da meno. Però ogni mattina, tra il battere e il ribattere delle nove all'orologio delle Vigne, si vedeva la signora Marianna metter fuori il piede guardingo dal portone del palazzo Vivaldi, col suo sciallo bigio sulle spalle, la sua cuffia a cannoncini insaldati sulla testa, il suo pezzotto bianco pieghettato sul lembo, e raccolto pei capi sul petto, rasentare il muro fino ai quattro canti di San Francesco, scendere per la piazza della Posta vecchia, fino alle Vigne, e infilare la porta della navata __in cornu Evangelii__.

Quella era l'ora che il padrone, sorbito il caffè, non aveva bisogno dell'opera sua. Fino alle undici egli non usciva di casa, dove era solito far ritorno, come sappiamo, alle tre dopo il meriggio. Ma alle dieci in punto la signora Marianna era sempre rientrata, per accudire alle faccende domestiche, e non usciva più, salvo per urgenti negozi.

Ora, egli avvenne che per molti giorni alla fila, nello uscire di casa, sul crocicchio di San Francesco, piantato a mo' di colonnino contro lo spigolo del palazzo Verde, ella scorgesse un tale che la guardava, lei, proprio lei. Un uomo è sempre un gran caso nella vita d'una donna; figuriamoci poi d'una pinzochera. Quell'uomo pareva un pilastrino di rinforzo al muro, anzi un collega dei due robusti Telamoni incaricati di reggere l'architrave del portone.

Ad onore della signora Marianna, bisognerà dire che sulle prime non ci badò, o non se ne avvide; ma l'assiduità dello sconosciuto finì, com'era naturale, col darle nell'occhio; ed ella non teneva tanto le ciglia a terra da non accorgersi che egli stava in sentinella per lei. Nè basta; da due giorni appena ella aveva notata la cosa, e, quasi, a riprova, vide il medesimo uomo, sulla piazza delle Vigne, al suo uscire di chiesa.

D'allora in poi, sempre la stessa canzone; dapprima contro lo spigolo del palazzo Verde, poi dinanzi alla parrocchia, quell'uomo era sempre ad attenderla, con questa sola diversità tra i due momenti, che alla sua uscita di casa egli era fermo, come s'è detto: laddove, alla sua uscita di chiesa, il nostr'uomo, in cambio di prestar l'opera sua a sostegno di qualche cantonata, asolava per la piazza noverando i lastroni.

Non c'era più dubbio; quell'uomo stava a piuolo per lei, asolava per lei. E allora la signora Marianna, sebbene facendosi rossa come una brace, incominciò a sbirciarlo da lontano. Egli era decentemente vestito, a guisa d'un vecchio capitano in ritiro. Indossava un cappotto nero, abbottonato fino alla gola; il suo cappello alto di feltro, non nuovo fiammante, ma senza macchia e senza un pelo arruffato, testimoniava la lindura e l'aggiustezza del suo padrone; la bella statura, il volto severo, ornato di due baffi e d'un pizzo che incominciava a mostrare qualche filo di bianco, lo facevano, come suol dirsi volgarmente, un bell'uomo.

Tutto ciò vide la signora Marianna, e l'esame tornò favorevole allo sconosciuto. Tra l'altre cose che ella vide sbirciando (che cosa non vede una donna in un batter di ciglia?) era notevole un anello d'oro massiccio al pollice della mano destra, che egli teneva superbamente appoggiata al petto, tra un occhiello e l'altro della giubba. Un anello al pollice; che stranezza! E non era il solo gingillo dello sconosciuto; perchè i petti del soprabito non salivano tanto, nè tanto scendevano i peli della sua barba, che non lasciassero scorgere i capi d'un fazzoletto di seta, raffermati da una spilla su cui era incastonato un topazio. Capperi! E forse, anzi senza il forse, sotto quel soprabito c'era il suo bravo orologio, con tanto di catenella d'oro. Insomma, quello era un uomo per la quale, da svegliare la curiosità, non d'uno, ma di cento mezzi secoli in gonnella.

E così rispettoso nel suo farle la corte! La guardava tra severo e malinconico, senza mai bisbigliarle una parola quando ella era costretta a passargli vicino. Una volta, una volta sola, le parve udirlo a sospirare. Com'è garbato! pensava ella. Così va bene! Ecco come dovrebbero essere tutti gli uomini!

Ma un giorno, uscendo all'ora consueta dal palazzo Vivaldi (ella era andata non solo per la messa, ma anche per la solennità delle quarant'ore), la signora Marianna non vide al posto consueto il piuolo. Che vuol dir ciò? Forse sarà ad aspettarmi sulla piazza delle Vigne. Come la ci andasse ansiosa, immaginatelo voi. E neppure laggiù! Che novità era mai quella? Forse infastidito di lei? Forse spazientito dalla sua austerità? Ma perchè non aveva egli cercato di dirle una parola? Doveva dunque esser lei la prima a rompere il ghiaccio? Le donne non fanno di queste cose, e quelle che le fanno, sono…. quel che sono. Che aveva egli dunque? La povera signora Marianna non sapeva capacitarsene.

Così turbata entrò in chiesa; fece sbadatamente il segno della croce, e andò, portata dalla consuetudine, ad inginocchiarsi sulla sua panca. Ogni versetto de' suoi paternostri era un pensiero a quel tale; ogni periodo delle sue avemmarie una dimanda a sè stessa. Di tratto in tratto, colla coda dell'occhio, or da un lato, or dall'altro, andava investigando le navate; degli uomini che stavano, __rari nantes__, nella chiesa, a quell'ora, nessuno era lui. Ma ecco, mentre la signora Marianna era per lasciarsi sfuggire in un sospiro l'ultimo fil di speranza, le venne veduta la nuca brizzolata di un tale che stava genuflesso nella panca dinanzi alla sua. Santa Zita benedetta! Sarebbe egli, per avventura? Il soprabito nero lo aveva; il cappello di feltro, diligentemente spazzolato, gli riposava al fianco. Ma ci sono tanti soprabiti e tanti cappelli consimili, in questa valle di lagrime!

I lettori indovinano che la signora Marianna, accolto il sospetto in cuor suo, non lasciò più degli occhi il suo divoto vicino. Questi, poco stante, come uomo che abbia finita la sua orazione, sollevò un tratto la testa dalla sponda dell'inginocchiatoio, e alla signora Marianna parve riconoscere il portamento del suo corteggiatore modesto. Ma il volto, il volto, bisognava vedere; e qui la beghinella stette spiando, come il micio al buco, donde egli spera che abbia a saltar fuori il topolino. Finalmente, come a Dio piacque, e a santa Zita, protettrice delle fantesche, il divoto si tolse da quella disagiata postura, per sedersi sulla panca; e nel gesto che fece per sincerarsi che non avrebbe ridotto il cappello ad una stiacciata, il suo profilo si offerse all'avido sguardo della zitellona cascante. Noi non potremmo giurarlo, ma quasi vorremmo scommettere che in quel punto la signora Marianna intuonò mentalmente il __Magnificat__.

Lo sconosciuto adoratore non si volse neppure a guardarla. Tutto assorto nelle sue divote meditazioni, rimase un tratto seduto; poi cadde ginocchioni da capo, e stette a fronte china, in atto di fervorosa preghiera, fino all'__Ite missa est__; ascoltò religiosamente la lettura degli ultimi evangelii; quindi si alzò, raccolse il fazzoletto di seta che gli aveva custodito le ginocchia dalle polverose impronte della predellina, fece la sua brava riverenza in mezzo alla navata, e via. Diede egli un'occhiata alla signora Marianna, nel passar rasente alla panca? Non si potrebbe giurarlo; certo, se la diede, fu al lembo della sua veste, e non giunse all'altezza della cintura.

Che anima divota! disse tra sè la governante di Bonaventura. Ma almeno un'occhiata! le sussurrò un demonio nel cuore. E invero, nel cuore più divoto, nella più timorata coscienza, ci sta sempre, non si sa come, forse ad alloggio militare, un piccolo demonio, che soffia le passioncelle inavvertite, che bisbiglia i consigli traditori, che solletica dell'unghia le vanità peritose, stimola i desiderii incerti, e nutre a zuccherini i peccatuzzi innocenti. E via via le passioncelle si scaldano, i consigli fruttano, le vanità crescono, i desiderii ringagliardiscono, i peccatuzzi, impersoniti come tante ragazze da marito, domandano al babbo un più succoso alimento.

La signora Marianna, che aveva finito anch'ella le sue preghiere, si alzò poco stante per uscire di chiesa. Ma quando giunse alla pila dell'acquasanta, non ebbe ad intingervi il sommo delle dita, come soleva fare ogni giorno. Un'altra mano, tratta pur dianzi dalla conca di marmo, le porgeva rispettosamente l'acqua lustrale. Che cuore fu il vostro, o Marianna, a quell'umido tocco di polpastrelli? Certo il sangue scorse più rapido nelle arterie, e i vasi capillari ne bevvero in maggior copia dell'usato, perchè il naso, ultima Tule del vostro mondo conosciuto, s'imporporò subitamente di gioia.

L'acquasanta fu il ritrovo, l'incontro di tutti i giorni. Lo sconosciuto, da quegli atti di silenziosa servitù, venne alla cortesia delle parole. Come avvenne ciò? Fu egli che le disse: ave, o fu ella che gli rese grazie della sua cura gentile? Non si sa; forse eglino stessi, interrogati di ciò, non avrebbero saputo chiarire come fosse andato il negozio. Basti adunque il sapere che per tal modo incominciarono a barattar parole; rotte frasi da principio, poi brevi dialoghetti come due che imprendano a parlare una lingua imparaticcia; da ultimo conversazioni filate, di cui erano confidenti le viottole circostanti, dall'archivolto dell'orologio delle Vigne, fino all'archivolto dei Boccanegra, donde ella, mutata la consuetudine, veniva a passare, per riuscire sulla via Nuova, dove era il palazzo Vivaldi. E quella strada veniva facendosi a mano a mano più lunga, poichè le gambe erano più tarde, e quei due ne avevano sempre più da sgranellare, innanzi di separarsi, come prudenza voleva, dietro il palazzo Brignole rosso.

Così, a lenti passi e sbrendoli di conversazione, ella seppe che il suo adoratore aveva fatto in sua giovinezza il soldato, e corso mari e terre lontane, dove aveva potuto mettere qualcosa di costa, non molto, ma tanto da vivacchiare senza bisogno di aspettar la manna dal cielo, e da fargli desiderare di non morir solo, come aveva fino allora vissuto. Brutta cosa, esser soli; ma è così dolce poter dire ad un uomo: ecco, tu non sei più solo, poichè io sono con te! Ora se egli non fosse stato solo, la signora Marianna non avrebbe potuto consolarlo; questo s'intenderà senza bisogno di prove. Anch'ella era sola; zitella a cinquant'anni e più; ma il cuore era giovine, e l'amore, che va aliando di continuo qua e là per turbare la pace alle donne, non s'era fino a quel giorno avveduto della sua presenza nel mondo. Basta, egli era finalmente venuto, e al proverbio che dice: «dal farle tardi Cristo ti guardi» risponde l'altro più noto e più autorevole: «meglio tardi che mai». E la signora Marianna accolse l'amore che si presentava a lei sotto le spoglie di Michele Garaventa; lo vide solo, e s'intenerì; lo riconobbe costumato, timorato di Dio, e si squagliò tutta per lui, che era per giunta un bell'uomo, e tale da far crepare d'invidia una dozzina di pulzellone sue pari, quando l'avessero a vedere, lei, la signora Marianna, incedere per le vie di Genova, appoggiata con legittimo orgoglio al braccio di lui.

Ed anche lei, con quella foga confidente che tira le anime amanti a compenetrarsi, a confondersi, anche lei s'aperse tutta quanta a Michele. Narrò come ella fosse, non già vile fantesca, ma governante in casa di un vecchio ecclesiastico, il quale era tutto chiuso ne' suoi studi e nelle sue conferenze religiose, asciutto di modi, un po' bisbetico di umore, ma in fondo un sant'uomo, che lasciava alla sua governante qualche ora di libertà, e le dava sempre del Lei. Questo era l'essenziale, e la signora Marianna amava farlo sapere. La vanità è di genere femminile. E così seguitando, la vecchia innamorata raccontò neppur ella esser danarosa, ma in vent'anni, dacchè ella mangiava il pane altrui, otto de' quali a' servigi del Gallegos, aver fatto qualche sparagno. Non le mancavano insomma le sue tremila lire, onestamente guadagnate, e un forziere di bella e buona biancheria, che a lei donna di garbo, era sempre piaciuta, e certamente piaceva anche a lui, che fin dalle prime le era parso un uomo a modo; se no, non si sarebbe sentita così prontamente tirata a volergli bene, lei che fino a quel giorno ci aveva avuto un sacro orrore per gli uomini; gente senza legge, nè fede, che una donna dovrebbe pensarci su tre giorni e tre notti, innanzi di conceder loro certe piccole libertà.

Verissimo, diceva Michele; e intanto se ne pigliava di grandi. Perchè, bisogna sapere, che quest'ultima parte dei discorsi della signora Marianna non erano più fatti passeggiando per via. Egli, che non beveva più dopo quella sbornia malaugurata dond'erano venuti tanti malanni, ebbe l'avvedutezza di non andare in visibilio per le ricchezze della signora Marianna. Egli non vedeva altro che lei, non amava altra donna che lei; l'avrebbe sposata, come suol dirsi, colla sola camicia, e magari senza; intanto gli usasse misericordia, gli concedesse di vederla, di parlarle, senz'altri testimoni che Dio. Era questa una frase che gli aveva insegnata il Giuliani, e voleva dire in buon volgare che Marianna andasse in casa di Michele. Vedersi e parlarsi per via, come facevano da due settimane, era pericoloso; avrebbe potuto scapitarne ella nel suo buon nome; qualche mala lingua rifischiarne al padrone; e queste erano ragioni di peso che alla signora Marianna fecero rizzare i capegli. Così almeno ella disse, la povera colomba spaventata. Ma andare da lui…. Non era pericoloso egualmente? E il vicinato? E lo star fuori oltre l'ora della messa, non sarebbe parso troppo gran novità al padrone, se fosse tornato a casa e avesse trovato faccia di legno?

Bonaventura era un uomo metodico, vogliam dire ordinato nelle cose sue e fermo nelle consuetudini. Usciva di casa alle undici, e non gli era mai avvenuto di tornar prima delle tre. Ma quello che non era accaduto in un anno, poteva accadere in un punto, e la signora Marianna, anche ignorando il verso latino che lo dice, poteva argomentarlo facilmente. Oltre di che, quelle erano le ore in cui ella dava sesto alle faccende di casa e ammanniva il pasto al padrone. Come avrebbe potuto andar fuori? O non era meglio che lui…. Sì certo, e Michele non se lo fece dire due volte, poichè era ciò che voleva. Così la povera colomba spaventata si tirò in casa l'inimico; l'esploratore d'Israello era, mercè sua, non pure nel campo, ma proprio sotto la tenda del duce filisteo.

«__Amicus Plato, sed magis amica veritas__» ha detto saviamente l'antico; ora, se dicessimo che la era tutt'arte di guerra, faremmo oltraggio a Michele, che c'è amico quanto Platone, e alla verità, che c'è amica più d'ambedue. Quella sbertucciata amorosa fu in lui stratagemma da prima, stratagemma immaginato dal Giuliani, e da lui condotto in ogni più minuto particolare; che del Giuliani erano i panni orrevoli (per dir le cose in Crusca), il cappello di feltro, e perfino il topazio. Ma si deve soggiungere che il commediante pose amore alla parte, ed essendo più sincero riuscì anche più efficace. Aveva cominciato per celia a simular la cottura, e rimase, cotto non già, che sarebbe un dir troppo, ma bazzotto di certo. Che volete? L'amore è appiccaticcio come…. Gli antichi l'avevano trovato, il paragone, e non si peritavano a spiattellarlo; noi, costretti a tanti riguardi, dobbiamo cercarne un altro che non faccia torcere il muso. Eccolo: come la fiamma; appiccaticcio come la fiamma. E Michele, come i lettori già sanno, era di legno stagionato fin troppo. Si vide amato con foga, che mai la maggiore; il gusto di farla da sultano, di spadronare in un cuore di donna, gli parve uno zucchero. E a proposito di dolcezze, di leccornie, la governante era sempre in dare; e senza dire che il cuore avesse da pagare i debiti dello stomaco, un po' di gratitudine doveva pure rispondere a tante cure affettuose. Insomma, se a lui, Michele Garaventa, avessero detto: tu sposerai la signora Marianna, avrebbe risposto: perchè no? la donna è ancora in essere; tutta amorevolezza per me, vecchio barbone; in qualche modo bisogna finire: il diavolo, che è il diavolo, quando divenne vecchio, non si fece egli frate?

Egli dunque, sebbene a modo suo, amava la signora Marianna; intanto ambedue tiravano là, aspettando di poter santificare il pateracchio in __facie Ecclesiae__. Per continuare a parlar latino, diremo che non c'erano ancora le __justae nuptiae__, ma soltanto una specie di __contubernium__. Quelle giuste nozze, alla signora Marianna non metteva conto affrettarle. Perchè? Era certezza del fatto suo? O voleva sperimentare l'amante, innanzi di avere il marito? O temeva, coll'annunzio della sua felicità trovata fuori di casa, di far dare il padrone in uno scoppio di risa? Queste cose non è del nostro ufficio indagare; qui cade in acconcio il «__glissez, n'appuyez pas__» dei Francesi, e noi non scorreremo, sorvoleremo a dirittura, anche sul resto della conversazione bisticciosa, che abbiamo lasciata interrotta pur dianzi.

Una scampanellata all'uscio fece star cheto Michele assai più che non facessero i finti sdegni della sua bella ritrosa.

—Chi sarà quest'altro?—diss'egli.

—Certo il dottor Collini;—rispose Marianna.—Lasciatemi andare ad aprirgli; se no il padrone va in bestia.—

Al nome del Collini, Michele aveva dato un sobbalzo. Intanto la donna s'era spiccata di là per correre nell'anticamera. All'aprirsi dell'uscio di casa egli tese l'orecchio, e riconobbe la voce del medico; poco dopo udì aprirsi anche l'uscio dello studio del gesuita, e richiudersi alle spalle del nuovo venuto, la cui voce dava il buon dì al padre Bonaventura.

E in quel mezzo un audace disegno balenò nella mente di Michele.

—Era lui?—chiese a Marianna, appena ella fu ritornata.

—Sì; il dottor Collini per l'appunto.

—E che cosa hanno da fare insieme così spesso?

—Ma!…—disse la signora Marianna, stringendosi nelle spalle, mentre ripigliava il suo ferro da stirare.—Ci avranno delle conferenze di religione.

—E debbono essere molto istruttive!—soggiunse
  Michele.

—Perchè?

—Dico così per dire. Due uomini tanto dotti, ha da essere un gran gusto a sentirli! Dove mette quell'uscio?

—Nell'andito del terrazzo.

—E dall'andito non si va nella sala da pranzo, e di là nello studio?

—Sì; ma badate!—esclamò ella sgomentita.—Se vi sentissero, povera me!

—Che! non temete; dicevo per celia. Certo mi piacerebbe sentirlo un pochino, il vostro padrone, e vedere dal buco della toppa che viso ci abbia; ma poichè avete paura, lasciamola lì, e….—

I puntini rappresentano una stretta che Michele voleva dare alla signora Marianna. Ma ella fu pronta a liberarsene.

—Non vedete?—diss'ella.—Il ferro è già freddo.

—Andate a cambiarlo, crudelaccia!

—Vado certamente. Ci ho ancora un monte di roba, e il pranzo da ammannire.—

Così dicendo, la signora Marianna si mosse alla volta della cucina.

Era ciò che voleva Michele. Appena ci fu tra lei e l'innamorato lo spessore d'un tramezzo, il nostro Michele, lesto come un giuocoliere di piazza, si cavò, anzi fece saltarsi le scarpe da' piedi, e girata delicatamente la maniglia di quell'uscio che aveva poco prima accennato, lo aperse e disparve nel vano.

Argomentate lo stupore della signora Marianna, quando tornò al suo stiratoio, e più non vide Michele. Il ferro caldo fu per uscirle di mano; e certo intervenne un miracolo a trattenerlo fra le dita.

Lo depose in quella vece sulla tavola per mettersi le mani alla fronte; ma nella confusione non badò a collocarlo sul cencio nel quale usava stropicciarlo, e la lastra rovente abbronzò una manica di camicia, che, fresca di salda, si mise a stridere compassionevolmente, a quell'atto di sbadataggine inaudita.

—Gesummaria!—borbottava intanto la donna.—Che cos'è egli andato a fare là entro? E collo scricchiolio delle suola per giunta!…—

In quel punto le vennero vedute sul pavimento le scarpe di Michele. Respirò un tratto; ricordò che le sue pantofole di cimosa non potevano far rumore, e infilò quell'uscio medesimo per dove era sparito Michele. E lo vide, passate due camere, il suo damo ribelle; egli era in fondo alla sala da pranzo, presso l'uscio che metteva allo studio del padrone, curvo sul fianco, l'orecchio alla toppa.

Michele a sua volta la vide colla coda dell'occhio, e colla mano le fe' cenno di tornarsene alle sue faccende. E perchè ella non si muoveva, le mandò un bacio col sommo delle dita, quasi a dirle: ti voglio un gran bene, ma vattene!

Che fare con quel testereccio? La signora Marianna alzò gli occhi e le palme al cielo, e tornò ai suoi ferri, raccomandandosi a tutti i santi del calendario, che non avesse a nascerne un guaio de' grossi.

XVI.

Di una finestra che fece aprire una porta.

Non se ne dolgano i lettori; lasciamo Michele ad origliare il colloquio del padre Bonaventura col suo degno discepolo, Marianna a struggersi tra l'ansietà per quella imprudenza del suo damo e il rammarico della camicia abbronzata; e saltando una settimana, ce n'andiamo a San Silvestro, o per dire più propriamente, al monastero che si fregiava di questo gran nome, sull'altura di Castello, o Sarzano, come più talenta chiamarlo.

Sarzano e Castello, chi ben guardi, è tutt'uno. Sia che allegramente deriviate Sarzano da un pazzesco __Arx Jani__, o da un più ragionevole __fundus Sergianus__, in Sarzano, era la ròcca degli antichi Genoati, e intorno a lei, sulle falde della collina, facevano ceppo le case dell'antico municipio romano; qui, nei secoli barbari, o rimbarbariti d'intorno al Mille, sorgeva il castello dalle tre torri, che lasciò il suo ritratto ad impronta delle prime monete di Genova e le sue vecchie mura ad abitazione del vescovo, per tutto quel tempo che l'episcopato tenne la potestà civile, diventata __res nullius__ nella decadenza dei conti carolingi, fino a che i cittadini non ebbero la buona pensata di ripigliarsi il fatto loro, e di mettere i consoli in luogo dei diaconi.

Rimasto in balìa della mensa vescovile (dacchè il Comune era sceso a far casa da sè) il Castello fu arso nel 1394 dalla fazion ghibellina, perchè colà dentro, secondo narra la storia, si radunavano i Guelfi, per consigliar le cose loro con Giacomo del Fiesco. Lo restaurò nel 1403 il suo successore, Pileo de' Marini, il cui nome, col pastorale e l'altre insegne, così del grado come della sua nobiltà, si vede tuttavia scolpito in pietra nera daccanto al portone del monastero.

Ma i vescovi, poi diventati arcivescovi, che avevano già posto la sede presso il duomo di San Lorenzo, non tornarono al Castello, e nel 1449, l'antica dimora del metropolitano fu venduta a Filippina Doria, genovese, e a Tommasina Gambacurta, pisana, monache ambedue, venute in età quasi decrepita da Pisa, ov'erano vissute in quel monistero di San Domenico. Il nuovo convento s'intitolò dal __Corpus Domini__.

Pochi anni dopo, Nicolò V concedeva loro l'attigua chiesa parrocchiale di San Silvestro, che dovea dare un nome più stabile al convento, mentre le monache, domenicane dapprima, si chiamarono __donne di Pisa__, fino a tanto, riunite ad esse nel 1797 le francescane d'altri conventi soppressi, tutte si posero sotto l'invocazione di santa Chiara, e si chiamarono __Clarisse__.

A questi cenni, veramente, sarebbe luogo più acconcio un libro di storia erudita. Ce ne scusi presso i lettori la divozione paesana a quella sacra altura che serba le più antiche ricordanze di Genova. E adesso mettiamo la storia da banda lasciando ai contemporanei la cura di ricordare che nel 1857, a' tempi del nostro racconto, c'erano ancora le Clarisse nel monastero di San Silvestro. Eglino poi ci consentano di aggiungere che v'era badessa una Madre Maria Concetta, zia della marchesa Ginevra. Della qual cosa, e d'altre non poche, avranno a capacitarsi con noi, se vorranno seguirci oltre la clausura, da noi facilmente violata, senza far contro alle ecclesiastiche discipline.

Passato per tante mani nel corso de' secoli, rabberciato le tante volte, non mai riedificato dalle fondamenta, notevole pe' suoi muri da levante e da mezzogiorno, che sono ancora i vecchi bastioni di mille e più anni addietro, e pe' suoi ripiani più alti che mal dissimulano il mastio della ròcca, il monastero di San Silvestro serba tuttavia l'aspetto d'un antico castello, murato a difesa delle case circostanti, a rifugio de' loro abitatori da una scorreria di Saraceni. E mezzo monastico e mezzo militare, era nel 1857 un assai triste soggiorno, con tutta la sua felice postura, l'ampiezza de' cortili, l'allegria dei loggiati, dei terrazzi e di un orto pensile sorretto dai bastioni anzidetti, sul cui ciglio si mutava in altana, munita, giusta il costume, de' suoi ripari di lavagna traforata. Là dentro era una confusione di tetti alti e bassi, di sporgenze e di vani, di linee spezzate, di archi d'ogni forma e misura; non palazzo, ma catasta di casipole; vera delizia dei pittori di paese, e di que' rigattieri della storia, che sono gli archeologi.

Tutta quella baldoria di calce e mattoni faceva mostra di sè a chi, varcato il vestibolo, o androne che dir si voglia, giungeva nel primo cortile del monastero, tagliato a sghimbescio e attorniato da un ordine (meglio per avventura disordine) di portici, lungo i quali erano cellette, sepolture, oratorii e simiglianti. Quasi in mezzo al piazzale, una piccola tettoia, sorretta da quattro pilastri, serviva a coprire un pozzo; e un rosaio ed un gelsomino dai molteplici tronchi salivano a incoronarla co' rami, lasciando ricader dalle gronde il rigoglio delle lor ciocche frondose. Ma tutto ciò non era gaio a vedersi, neppure allorquando que' mescolati viticci facevano pompa, secondo le stagioni, d'una allegra figliuolanza di gelsomini o di rose. Il luogo tutt'intorno era uggioso; quei fiori odoravan di chiuso, davano a pensare che il cespo fosse innaffiato, anzichè dell'acqua sottostante, di lagrime.

L'orto pensile era dall'altro lato del monastero, verso levante, tra l'antico mastio e il bastione, che si vede di presente aperto ad una interna gradinata per dar l'adito a scuole governative e comunali, poste colassù da pochi anni. Ai tempi delle monache, un'altra scala, ma stretta e segreta, si apriva dal mezzo di quell'orto nelle viscere della terra, e rasentando le cisterne sotto la piazza di Sarzano, scendeva al mare, a' piè delle mura, dove una buia arcata ne dissimulava l'uscita. Quel varco, certamente antichissimo e praticato ad uso di guerra, tornò mai utile ad alcuna di quelle rinchiuse? La leggenda non ha nulla da dirci intorno a ciò; la cronaca sola ci racconta che ne' primi anni del dominio di casa Savoia quella via sotterranea fu chiusa perchè le claustrali non avessero modo di frodar la gabella. Oh secolo decimonono, secolo di prosa!

Nel 1857, l'orto, il cortile, i loggiati, se non lieti, erano puliti; i porticati sapevano di santità, o d'incenso, che torna lo stesso; l'androne, ornato di vecchie lapidi, risuonava soltanto ai passi della suora portinaia e delle rare madri che dovevano in certe ore del giorno passarci, quando erano chiamate in parlatorio; il portone ferrato si apriva soltanto nelle grandi occasioni, verbigrazia per la solennità delle monacazioni, allorquando la povera novizia, scesa sul limitare a dar l'ultimo sguardo e l'ultimo saluto al mondo profano, baciava in fronte i parenti, senza ardire di mettere il piede fuori dello scalino di marmo. E noi, che non abbiamo una di queste solennità da raccontare, lasciamo il portone chiuso, e seguitiamo per l'uscio di servizio un nuovo personaggio del nostro racconto, che è mastro Pasquale, il legnaiuolo delle monache.

Non si scandolezzino i lettori timorati, nè facciano bocca da ridere i maliziosi; qui non c'è nulla che esca di riga. Mastro Pasquale aveva passo libero in monastero (s'intende quando fosse bisogno dell'opera sua) come il muratore ed il medico, quegli curatore delle vecchie pareti, questi delle vecchie abitatrici; e al pari di queste due, c'entrava senza bisogno di tenere il campanello tra mani e sbattagliar di continuo, come si adopera in certi conventi, per dare agio di scampo alle timide spose del Signore, che vanno in volta pei corridoi.

Vi parrà un privilegio; ma per verità a mastro Pasquale non gliene importava nientissimo, e n'avrebbe fatto volentieri un presente a chi gli avesse levato dalla gobba la metà, o almeno un terzo, de' suoi sessant'anni. Del resto, anche a quarant'anni egli entrava in monastero a quel modo; chè, forse pensando di nominarlo a quell'ufficio geloso, Domineddio lo aveva fatto scrignuto e sbilenco, ornandolo per giunta d'un naso cosiffatto, che, a segarne mezzo, gliene sarebbe rimasto ancora abbastanza.

Parlando di lui col confessore (non ci si domandi per carità come ci sia giunto all'orecchio) la madre Badessa era uscita in queste parole: «sia detto senza far torto all'immagine del Creatore, il nostro legnaiuolo è brutto come il peccato mortale.»

Brutto, davvero, brutto di fuori; ma buono di dentro come i tartufi. Nè si argomenti dal paragone che mastro Pasquale ci avesse buon odore; che anzi egli sapeva maledettamente di colla e di segatura, e, come ciò non bastasse, ci metteva di costa il tabacco, ch'egli fiutava di sovente, e non del migliore; il che non vuol già dire ch'egli non fosse buon gustaio, e rifiutasse il buono quando gli era profferto. Il buono piace a tutti, soleva dir lui con un proverbio vernacolo che è certamente d'ogni paese.

Da parecchi giorni alla fila, mastro Pasquale andava al monastero di San Silvestro. C'erano colà parecchi vetri rotti da rimettere; inoltre (e questo era il grosso guaio) una finestra non chiudeva più a modo, nè gli arpioni tenevano. Così stando, cioè a dire, così non istando le cose, mastro Pasquale era stato chiamato al monastero, perchè vedesse e provvedesse lui. Ed egli aveva veduto e sentenziato che, non pure la finestra, ma la intelaiatura voleva essere rinnovata; fradicia questa, e fradice le imposte, non erano più buone ad altro che a far legna da ardere. E già, mentr'egli andava qua e là pei balconi del monastero rimettendo i vetri rotti, il mastro muratore aveva messa a posto la nuova intelaiatura, nè più rimaneva altro a fare che aggiustarvi le nuove imposte, opera accuratissima di mastro Pasquale.

Fin dal giorno innanzi le due imposte erano state portate là dentro; bisognava vedere se combaciavano colla intelaiatura, che non ci fosse nulla a piallare, nè sopra, nè sotto, nè ai lati; quindi dar loro due mani di colore, imperniarle sui gangheri, stuccare i vetri, e via dicendo. Per tutte queste bisogne andava mastro Pasquale, mezz'ora dopo il meriggio, e una conversa delle Clarisse gli apriva la porta di servizio non senza dargli ad intendere che egli giungeva troppo tardi, e troppo presto; troppo tardi, perchè era aspettato fin dal mattino; troppo presto, perchè era l'ora del refettorio, ed ella aveva dovuto scomodarsi a bella posta per lui.

—Ah, Madre, non mi dica altro!—esclamò il legnaiuolo.—Ci ho avuto più a fare stamane che chi muor di notte….

—O come?

—Vossignoria sa bene; mandar pel medico in fretta e in furia; non veder giungere il prete; il campanaro a letto colla chiave del campanile in tasca; o non le pare che ci sia un gran da fare a morir di notte? Or bene, io n'ho avuto altrettanto, colla mia Tecla ammalata.

—Oh, povera donna! Gravemente?

—Questo no, grazie al cielo; ma in letto la c'è tornata. Anche a lei pesano, gli anni! E quando la Tecla è a letto, chi mette al fuoco la pentola? Ci ho due figli che, non fo per dire, sgobbano da mattina a sera, e vorrei che tutti ne avessero di somiglianti; ma l'ora del refettorio non la sgarrano di un minuto, e se la pentola non è giù dal fornello brontolano più della pentola stessa. E Pasquale col ramaiuolo, e Pasquale col pizzico di sale; insomma, la mi capisce, son io che ho da fare ogni cosa. Gran disgrazia non esser nati signori!

—Pazienza, mastro Pasquale, pazienza!—disse la conversa, mentre richiudeva il portone.

—Quella era una gran santa!—soggiunse il vecchio legnaiuolo, a mo' di commento.—Basta; tanto si muore tutti; e chi più ne soffre, più ne racconta.

—A proposito di raccontare, niente di nuovo al secolo?—domandò la conversa.—Che nuove in città?

—Non so proprio nulla; ma ci ho qui i giornali per la madre badessa.
Questi ce n'hanno di tutti i colori, nè so dove le peschino.—

Così dicendo, mastro Pasquale depose il pentolino della tinta a olio che aveva portato con sè, e cavò di tasca alcuni fogli stampati, che la religiosa servente fu sollecita a levargli di mano.

—Benissimo;—diss'ella;—prima di darli alla superiora vo' farmeli leggere dalla madre Scolastica, che legge così corrente, che gli è un gusto a sentirla.

—Non occorre;—ripigliò Pasquale, mettendo ancora una volta la mano in saccoccia;—eccone altri due che ho posti in serbo per Vossignoria.—

La conversa fece un grazioso risolino al presente e al titolo sonoro con cui la salutava il legnaiuolo, scaltro come tutti i gobbi suoi pari. Curiosità e vanità, peccati veniali; se fosse altrimenti (lo ha detto un padre della Chiesa), nessuna donna metterebbe piede in paradiso.

—Grazie;—soggiunse ella;—e adesso andatevene pure al vostro lavoro che v'aspetta, insieme con una bottiglia di quel vecchio, che n'avrete bisogno. La reverenda madre Badessa me lo ha comandato; ma io ho aggiunto mezza dozzina di cantucci, che vi daranno buon bere.

—Non saranno mai così buoni come Vossignoria;—rispose mastro Pasquale;—ma li assaggerò con piacere. E adesso, con sua licenza, se non ha altro da comandarmi….

—Andate, andate, mastro Pasquale.—

Così congedato dalla conversa, il nostro legnaiuolo ripigliò il suo pentolino, e si avviò per le scale che mettevano all'altro piano del monastero.

—La è poi una buona diavola, quella suora Bibiana!—andava egli borbottando tra sè.—Basta chiamarla Madre, e se ne va tutta in brodo di succiole. Se mi fossi aperto a lei, chi sa? Ma il proverbio dice: fidarsi è bene, e non fidarsi è meglio. Pasquale, qui ci vuol giudizio, se no…. Un anno per l'altro, qui si busca un trecento lire; pigione di casa e bottega. Dunque, io dico, un occhio al lesso e l'altro all'arrosto….—

Intanto ch'egli veniva facendo in tal modo i suoi conti, mastro Pasquale giungeva al pian di sopra e metteva piede sul limitare dell'orto pensile che abbiamo già descritto ai lettori, dond'egli aveva a passare per recarsi al lavoro.

Ma innanzi di voltare da quel lato dove la finestra nuova aspettava le sue cure paterne, il nostro legnaiuolo diede una sbirciata al viale che correva tutt'intorno all'orto, tra le aiuole e il murello del bastione.

—Non c'è ancora nessuno; tanto meglio;—disse il gobbo;—così avrò tempo a piantare la batteria.—

Andò allora verso un quartierino, al quale si ascendeva per cinque o sei scalini di pietra di lavagna; cavò fuori da una piccola sala i suoi arnesi, che v'erano riposti dal giorno innanzi; levò dalla parete, dove stavano appoggiate, le imposte di finestra che aveva fabbricate, già debitamente piallate e stuccate, ma non ancora rivestite della loro tinta cenerognola; le adattò sugli arpioni, le raccostò e vide che combaciavano per bene; ed allora, spiccatane una da capo, se la recò a braccia verso il bastione.

Tornò indietro; diè di piglio ad un cavalletto che aveva colà per suo uso, e se lo messe sotto braccio; dall'altra mano prese il pentolino col quale era andato lassù, e si rifece di bel nuovo a quel punto dove già aveva portato quell'altro negozio. Tra il murello del bastione e il cavalletto, l'imposta fu alzata da terra: il pentolino fu collocato sul murello, per modo che mastro Pasquale potesse averlo sempre sotto mano; e così disposta ogni cosa, rimestata la tinta con due tratti di pennello, il nostro legnaiuolo diventato pittore incominciò a dare per lungo le prime zaffardate di cenerognolo sui regoli dell'imposta.

E intanto che dipingeva, andava canticchiando tra i denti una sua frottola, che lo aiutasse ad ingannare il tempo; e intanto che canticchiava, teneva d'occhio il viale, per tutto quel tratto che correva da lui fino all'uscio, pel quale era venuto egli stesso nell'orto.

—Ci siamo!—diss'egli, interrompendo la cantilena, pochi minuti dopo che s'era messo all'opera.—Ecco il naso della Madre Maddalena che spunta.—

E qui mastro Pasquale si fece tutto intento nell'opera sua, mandando una pennellata dopo l'altra, come un manovale che lavorasse a cottimo.

XVII.

Nel quale si dimostra fin dove giungesse la scaltrezza d'un gobbo.

Quella che il nostro legnaiuolo avea battezzata per Madre Maddalena, e che diffatti si chiamava con tal nome, si affacciava per l'appunto sull'uscio. Era una monaca già attempatella; non doveva essere stata brutta in gioventù, e il suo volto era ancora piacente, sebbene sformato un tal poco da una certa pappagorgia che pareva un altro mento, di giunta a quello che aveva avuto dalla nascita. Non istaremo a dipingerla più minutamente, bastandoci pel nostro bisogno di averla accennata in due tratti; solo aggiungeremo che era vestita di scotto, specie di pannolano nero; che un velo nero di seta le copriva la testa e scendeva fino alle spalle, dando spicco maggiore agli orli d'una bianca cuffia insaldata che le nascondeva mezza la fronte, le tempia ed il collo, dove si allargava a mo' di gorgiera sul petto; che infine teneva un libro in mano; segno questo che amava la lettura, o che non aveva altro a far di meglio in quell'ora di svago.

Dietro alla vecchia Madre (bel nome di madre, com'era sprecato in quella casa della sterilità!) si avanzava a lenti passi una giovinetta, ma diversamente vestita. Ella non era una monaca, e nemmeno una novizia. Come andassero vestite le monache s'è detto pur ora; le novizie non differivano da quelle se non pel velo, che era di mussolina bianca, laddove le madri lo portavano di seta nera. Le postulanti poi andavano vestite dei loro panni, fino a tanto non fossero ricevute in noviziato.

Queste postulanti, come s'intenderà di leggieri, erano quelle fanciulle che volevano farsi monache, e dovevano sudar sei mesi ad ottenere quella grazia profumata del velo bianco di mussolina; dopo di che, accolte tra le novizie, rimanevano un anno ad aspettare il velo nero di seta.

Cosiffatti indugi posti alla solenne dichiarazione di un voto indissolubile, eterno, avevano aria di provvido temperamento donde un mutarsi di volontà potesse avere lo scampo. Ma quante delle inesperte o derelitte rinchiuse, ancorchè non sentissero in cuore la vocazione profonda, irresistibile, alla vita del chiostro, poterono uscire all'aperto, e ricuperare la libertà, questo sommo dei beni? Non durava assidua nell'animo la vergogna del mutato proposito? Non le risospingeva più addentro l'acerba memoria del mondo noncurante, della casa ahi poco materna, dei congiunti e degli amici dimentichevoli o beffardi? E d'altra parte non le assaliva un desiderio di annientarsi, di sentirsi e di apparir come morte in quella solitudine di mura? Il sacrificio di sè, non è egli la gran virtù della donna? Quel cuore che trema dinanzi ad una lama sguainata, va con sublime serenità incontro ad una vita di tormenti ineffabili. Così alla povera derelitta, quella bara aperta in mezzo alla chiesa, non appariva soltanto come un simbolo del suo separarsi dal mondo profano, ma come una vera sepoltura, rifugio sperato contro l'amarezza delle ricordanze; ed ella sentiva allora tutta l'acerba voluttà di distruggere i segni d'una bellezza spregiata, di dare a sterili adorazioni, a inani idolatrie, un cuore che la famiglia aveva respinto da sè; pareva una festa, ed era, un funerale; solenni ambedue, questo soventi volte più grato di quella a gran pezza! Il non essere ha i suoi pericolosi allettamenti; il vuoto attira. E in tal modo la fanciulla, fatta postulante per violenza o disamore dei suoi, diventava novizia per irresolutezza o vergogna, monaca per abbattimento di forze, per sacrifizio disperato di sè.

E poi? E poi, chi non sa come la carne si mortifichi, come la passione s'addormenti, e il dolore si strugga nella sua medesima fiamma? Non perdiamo noi bellezza e gioventù? Il sangue non si fa egli più tardo nelle nostre vene? Così gli spiriti bollenti svaporano; la torpida vecchiezza si volge lentamente indietro a rimirare il fatto cammino, e se per avventura non le accade di sorridere all'immagine delle angosce passate, sicuramente si maraviglia di averle così profondamente sentite. Per ciò solo la vecchiezza è saviezza; triste conforto in verità, questa saviezza, che nasce soltanto dal corrompersi della nostra esistenza, e, come il passero solitario, non fa udire il suo verso fuorchè in mezzo alle rovine!

Poi quando la povera donna ha varcato l'età delle pugne, delle pronte ribellioni dei sensi e delle faticose vittorie dello spirito, quando non ha più nelle notturne visioni il gaudio dei celestiali colloquii, che facevano odorare d'arcane fragranze, fiammeggiare di eterei splendori ogni angolo della sua cella solitaria, quando la vita è logora, e il cuore, questa lira dalle sette corde, non manda più suoni, allora ella si avvezza, la povera rinchiusa, a que' luoghi dove ha tanto patito, dove incomincia a posare. I dolori passarono; rimane la placida contentezza dei bisogni soddisfatti, delle consuetudini non turbate. La carne, già tanto combattuta, si adagia tra quelle piccole consolazioni che più non avrebbe nel mondo profano, dove non è chi serva per amor di Dio, dove ogni cosa si paga, ed anco pagando non si ottiene ogni cosa, e dove infine la famiglia, le attinenze, gli usi tutti del vivere, danno obblighi, molestie, tribolazioni, alla meglio coronata delle duchesse.

Qui, al contrario, non più affanni, nè cure moleste; lo spirito tranquillo, non isviato da importuni pensieri, non stimolato da febbrili ansietà, s'incammina chetamente, leggicchiando una meditazione, o biascicando un paternostro, per la dolce salita del paradiso. L'Imitazione di Cristo non ha più spine, o toccano a mala pena la cute; le vigilie, i digiuni, ed ogni altra maniera di mortificazioni, giungono fin dove il medico pietoso sentenzia; la cura necessaria di sè mette il __nec plus ultra__ a quegli esercizi di pietà, che tornavano tanto dolorosi alla carne ribelle di un tempo.

Tutto si rammorbidisce, tutto si spiana. E che sarebbe il mondo alla rinchiusa, se ella uscisse, malaccorta, dal nido? Troverebbe ella la cameretta acconcia, l'oratorio vicino, la mensa imbandita alle sue ore, i loggiati, i giardini, e a farla breve tutte le agiatezze di un palazzo, in uno di que' nostri quartieri cittadineschi, che paiono fatti a posta per starne fuori? E che farebbe ella poi fuor di casa, in un consorzio, del quale per la lunga interruzione del chiostro, nonchè parteciparvi, non intenderebbe neanco le gioie? Quale delle nostre case le darebbe continuati i conforti della vita comune, degli uffici sciocchi ma gravemente accettati, e dei piccoli litigi, dei piccoli cicalamenti claustrali, che riempivano le lacune dell'oziosa giornata?

Guardate quel vecchio colonnello che gode la sua pensione di riposo. La sua anima è sempre al reggimento, in quella famiglia di fuori via, che gli diede tante tribolazioni da giovine, che gli diroccò tanti bei castelli in aria, che gli guastò tante dolcezze; ma dalla quale, tardi divelto, egli pure non sa dipartirsi col pensiero. Laonde, in una casa non sua, o mal sua, egli sta sempre contegnoso, accigliato, come soleva, a capo de' suoi battaglioni. La moglie è buona, ma non ha pur troppo tutti i saldi pregi, l'arrendevole giudizio e la complice severità del suo aiutante in primo; i suoi figli son sani, di bell'aspetto, studiano anche, e sanno più che egli non voglia da essi, ma ci hanno il vizio incurabile di non giungere puntuali al rapporto; il servitore ha da stargli davanti impalato e salutare in tre tempi; la fantesca, guai a lei se non adopera la granata a dovere, perchè egli è tal uomo da metterla al passo, e già glien'ha dato come un cenno in aria, alla lontana, tanto che non esca di riga. Le esercitazioni d'un reggimento in piazza d'armi sono il suo gran passatempo quotidiano; legge alla sfuggita i giornali, per non far la ruggine in politica, ma svolge con memore affetto le pagine dell'annuario militare, che lo fanno rivivere nella famiglia passata, e medita sul regolamento di disciplina, che vorrebbe introdurre, con poche e lievissime varianti, nella famiglia presente.

Se ciò avviene così naturalmente dell'uomo, che non sarà della donna, tanto più mite di spirito, tanto più dolce di tempera? Noi medesimi abbiamo udito, or non è molto, una vecchia monaca pigliarsene una satolla contro i malvagi che s'argomentavano di voler restituire la loro libertà alle spose del Signore. E ci parlava, vecchia sessagenaria, dai vani di due grosse inferriate. Darle la libertà? In fin de' conti, che ne avrebbe ella fatto? Però ci rattristammo in udirla, ma non ardimmo dimostrarle il suo torto. La prigione è prigione a cui sembra.

Ed anco lasciando in disparte tutte le cose dette più su, non si ama egli talvolta di vivere dove s'è più lungamente patito? Quelle conscie pareti hanno le tante volte riflesso la nostra ombra, che ci pare abbiano a ritener sull'intonaco qualche particella di noi; quegli angoli serbano l'eco dei nostri sospiri; su quel pavimento c'è tuttavia l'umidore delle nostre lagrime.

Ma in questa guisa non pensava, nè poteva pensare la giovinetta postulante che seguiva in giardino i passi della Madre Maddalena. In questa giovinetta i nostri lettori hanno già riconosciuto Maria, non postulante, ma rinchiusa a forza nel convento di San Silvestro, Maria coll'anima piena di Lorenzo, Maria fieramente addolorata di non aver sue novelle, Maria tribolata da quella orribile clausura, e vicina ad impazzire al pensiero che forse non avrebbe potuto uscirne mai più, mai più sollevare colle sue deboli braccia la lapide di quel pauroso sepolcro. Che cuor fosse il suo, che negri pensieri le ingombrassero la mente, mal sapremmo descrivere. Argomenti queste ineffabili angosce chi ha fortemente amato, e in un giorno della sua vita ha desiderata, invocata la morte.

E quella mattina, la poveretta, se non più triste (che sarebbe stato impossibile), era turbata più del consueto. Quella gran signora verso la quale ella s'era sentita attrarre da una ignota possanza, per cui consiglio ella s'era ridotta là dentro, quella gran signora era venuta poche ore dianzi, era rimasta sola, lungamente sola, con lei, alla sbarra del parlatorio. Che cosa le aveva detto in quel lungo colloquio la marchesa di Priamar? La povera madre aveva parlato in quel modo che le era comandato dal terribile dilemma di Bonaventura. E i suoi intendimenti erano materni, poichè ella sacrificava sè stessa, per offrire uno scampo alla sua diletta figliuola.

Però, con molti giri e rigiri di frasi, ella aveva cominciato a toccarle del segreto in cui erano involti i suoi natali; delle gravi difficoltà che ne derivavano a lei, innocente creatura, condannata dal reo destino a viver sola nel mondo, senz'altro aiuto che la protezione, ristretta e manchevole pur troppo, di una dama di misericordia. Ella non poteva acconciarsi alla vita monastica; voleva uscir dal convento; ma come, se a lei mancava una stato, una famiglia? Entrare in casa altrui, farsi una famiglia nuova; questo era il punto. Ma chi l'avrebbe condotta in moglie, chi le avrebbe dato il suo nome, poichè ella non ne aveva uno da poter recare con giusta alterezza in quella comunione di beni morali e materiali, ma anzitutto morali, che è il matrimonio?

La giovinetta, che era rimasta fino a quel punto, e senza parole, ad udirla, non ardì profferire il nome di Lorenzo, sebbene il pensiero corresse a lui facilmente; a lui che non aveva avuto bisogno di sapere dond'ella nascesse per amarla e proteggerla come una sorella; a lui che, innanzi di partire per quella impresa disperata nella quale era impegnato il suo nome, le aveva detto una santa parola di amore; a lui che lasciava al mondo le sue viete consuetudini, le sue sottigliezze crudeli, e soleva reputare ognuno figlio delle opere proprie. Non ardì profferire quel nome, perchè ogni nobile affetto ha il suo pudore, nè ama svelarsi ai profani; ma tacendo, vide il mondo come le era dipinto da quella dama, pensò con amarezza al suo misero stato, e rimase in ascolto.

Chi l'avrebbe sposata? proseguiva intanto la marchesa. Innanzi di crederla degna di entrare in una onorata famiglia, non si sarebbe voluto sapere il nome de' suoi genitori? E allorquando Maria timidamente notò che il segreto della sua nascita era chiuso in quella cassettina d'ebano portata via dalla casa Salvani nella sera del 29 giugno, la marchesa Lilla le aveva susurrato alle sbarre del parlatorio queste dolorose parole:

—Figlia mia (consentite che io vi chiami con questo nome poichè siete sola al mondo, e nessuna donna, pur troppo, sorgerà a contrastarmelo), se questo segreto, quando fosse svelato, dovesse coprir di vergogna la vostra povera madre, che forse, che certo vi ama, e non può confessarlo ad alta voce?…—

E la marchesa non aveva soggiunto altro, vedendo Maria reclinare la sua bella fronte tra le palme e dare in un pianto dirotto.

Dopo una lunga pausa, durante la quale fu fatto il più triste soliloquio che penna umana potesse descriver mai, la fanciulla sollevò verso la marchesa Lilla i suoi occhi lagrimosi.

—Si salvi mia madre!—esclamò ella, con accento di sublime tenerezza.—Viva, io non la farò arrossire per me; morta, non infamerò la sua memoria. Mi farò monaca.—

La marchesa di Priamar sentì come uno schianto al cuore. L'affetto di madre palpitava là dentro; e la madre sentì quanta virtù di sacrifizio ci fosse, quanta disperazione, in quelle poche parole, così semplici e schiette. E fu lieta di poter ricusare quell'olocausto; lieta in quel punto di offrirsi ella in sua vece, vittima espiatoria, al feroce gesuita, al comune nemico.

—No!—rispose ella, guardando amorevolmente sua figlia. Fiammeggiarono gli occhi della fanciulla; il suo volto, le mani, la persona tutta si tese verso l'inferriata, come per avvicinarsi vieppiù a quella parte donde le veniva l'inaspettata parola.

—No, voi dite? E come? Ve ne prego, ve ne supplico a mani giunte, o signora; come uscirò io da questo orribile luogo?—

L'esaltazione della giovinetta turbò grandemente la marchesa, che si provò a chetarla con amorevoli parole; ma non ne venne a capo se non col ripeterle che veramente avrebbe potuto uscir dal convento. E allora, vedutala più tranquilla e tutta intenta ad udirla, si fece a parlarle della possibilità di trovare un uomo, giovine e piacente, chiaro per bontà di costumi, che potesse darle il suo nome onorato. Trovato quest'uomo, che non era difficile (anzi ella aveva già posto gli occhi sopra un tale che certamente non avrebbe ricusato). Maria avrebbe avuto una dote, non indegna dell'onorevole parentado, una dote che ella stessa, marchesa di Priamar, avrebbe data del suo, poichè era libera, padrona di sè, senza conforto di prole. Per tal modo Maria sarebbe stata felice tre volte in un punto; felice di uscire dal monastero, felice di avere uno sposo che l'avrebbe adorata, felice di trovare in lei una seconda madre, in luogo di quella che la poverina non aveva mai conosciuta.

Maria si fece smorta in viso a quel ragionamento della signora. La sua allegrezza era durata poco. Un freddo acuto le corse per ogni vena. Ma quell'angoscia le parve soverchia; le parve impossibile che Iddio dovesse dare un così aspro martirio alla sua creatura; e accolse, colla istintiva cura di chi si sente mancare il suolo sotto i suoi piedi, un'ultima speranza, la speranza che quell'uomo, il cui nome non era stato ancor profferito dalla marchesa, potesse esser egli, Lorenzo, il suo adorato Lorenzo.

—Il nome?—chiese ella trepidante.—Il nome di quest'uomo?

—Il dottore Ernesto Collini;—rispose la signora.

—Ah!—proruppe Maria, e si strinse le palme al petto, quasi per tema che il cuore avesse a scoppiarle. L'ultimo fil di speranza a cui s'era aggrappata, le si spezzava tra mani, ed ella si sentiva precipitare nell'abisso.

Lilla ben si avvide del senso doloroso che quel nome aveva fatto sull'animo della fanciulla.

—Ma voi non lo conoscete, figliuola mia!—diss'ella con voce affettuosa.

—Non lo conosco? non lo conosco?—incalzò con veemenza la giovinetta.—Così non avessi io mai udito profferire il suo nome! Per lui, per quest'uomo, ho provato le prime angosce della paura; per lui, Lorenzo, il mio fratello d'adozione, il mio unico sostegno, la mia unica difesa in questa terra di dolore, ha posto a repentaglio la vita. Poteva morire; il marchese di Montalto è un forte schermitore…. Ah, signora! prenderò il velo. Iddio non vuole aiutarmi; morrò.

—Calmatevi, figliuola mia, ve ne prego.

—Sì, sono tranquilla, non vedete?—proseguì la giovinetta, atteggiando con supremo sforzo le labbra al sorriso—Ma permettete, o signora, che io mi ritiri. Ho bisogno di raccogliere i miei pensieri; la mia mente è confusa.—

Così era finito quel doloroso colloquio. La marchesa Lilla se n'era andata, colla tristezza nel cuore, dopo aver raccomandata la giovinetta alle cure della Madre Maddalena, che era ritornata in parlatorio per ricondurla nella sua camera.

Quel dì la povera giovinetta non pose il piede in refettorio, ma stette nella sua piccola cella a considerare le sue speranze perdute, la sua vita distrutta. Già da lunga pezza era sventurata; la miseria regnava nella casa fraterna; ma la libertà, che è sì cara, stendeva l'ali consolatrici sul suo telaio da ricamo, in quella cameretta dov'ella faticava da mane a sera, ma dove le tornava così dolce il lavoro, quando ella ne cavava il frutto, a sollievo delle comuni strettezze. E le sue prime angosce, allorquando indovinò gli amori di Lorenzo per la Cisneri, allorquando il morso della gelosia svelò a lei stessa, fino a quel punto ignara, il segreto del suo cuore, che erano mai, innanzi al martirio che ella durava dalla sera del 29 giugno fino a quel giorno? Quei tre mesi erano stati per lei una spaventosa progressione di mali.

E non poter più piangere! Ella non aveva più lagrime, o le avevano fatto nodo intorno al cuore. Le fauci aride come gli occhi, le braccia e il petto prosteso sul suo letticciuolo, ella non metteva singhiozzi, ma rantoli. Povera Maria, povera vittima di colpe non sue!

In questo mezzo, la Madre Maddalena, a cui era data in custodia la giovinetta, giunse tutta anelante dal refettorio. Aveva fatte due scale, la povera Madre; ella che di consueto, finito il pasto, se ne stava tranquillamente a meriggiare nella strombatura d'una finestra, era salita in fretta (vogliam dire senza por tempo in mezzo, che quanto al correre gli è un altro paio di maniche) fino al pian di sopra, per invigilare sopra sua figlia, come soleva chiamarla per monastico vezzo. Tutti la chiamavano figlia, quella povera fanciulla; e intanto ella non aveva una madre, a cui chiedere aiuto!

La Madre Maddalena era una buona pasta di donna ci pare d'averlo già detto; non poteva patire la gente piagnolosa, a cagione dei nervi, che aveva sensitivi oltremodo, quantunque fasciati per bene dall'adipe; la tristezza altrui le dava il mal di capo. La qual cosa, messa di costa al dover salire lassù, le incresceva non poco; ma tolse in santa pace quella nuova tribolazione, e ne fece anzi un'offerta al Signore, che non sapremmo dire se l'accogliesse, o no. Quel che sappiamo si è che la Madre Maddalena giunse nella cella di Maria, scosse quel corpicino snello, bufonchiò alcune sue esortazioni all'orecchio della fanciulla, e finalmente la consigliò di uscire un tratto in giardino, che un po' d'aria e di luce le avrebbe recato sollievo. Maria le tenne dietro a guisa d'automa. Quella era a un dipresso l'ora della ricreazione, in cui soleva ogni giorno recarsi nel giardino del monastero, che era quasi sempre deserto.

Era una stupenda giornata; il cielo sereno, color di zaffiro; il sole alto illuminava tutto il giardino quant'era largo e lungo, salvo in una lista di terreno su cui disegnava la sua grand'ombra l'antico mastio di quella cittadella ridotta a convento; l'aria non era calda, ma tiepida, come suole in autunno, che il raggio solare ha smesso alquanto della sua forza; e parevano beverla avidamente alcune piante di malve e girasoli, tristi fiori, che si trovavano soletti, come smarriti, in mezzo ad una mescolanza d'ortaglie. Botanica claustrale!

La giovinetta, come fu giunta in capo al viale dalla parte di levante, si sentì spossata, e si lasciò cadere su di un sedile di lavagna, che era appoggiato al murello. Ma la prudente monaca, che non faceva punto a fidanza col sole, proseguì pel viale a mezzogiorno, fino all'altro da ponente, dov'era l'ombra desiderata, e dove si messe a passeggiare con lento metro, leggicchiando di tanto in tanto un versetto del suo libriccino di digestione (altri direbbe di devozione), badando ben bene, quando era ai punti estremi della sua passeggiata, a non uscir fuori dall'ombra anzidetta, che la parte superiore dell'edifizio mandava sul piano dell'orto.

Per tal modo rifacendo ad ogni tratto il suo breve cammino, la Madre Maddalena poteva vedere il profilo di Maria, che se ne stava immobile, collo sguardo fisso, in apparenza tranquilla. A che pensava la giovinetta? Dove guardava? Neppur ella avrebbe saputo dirlo; nella sua mente era una confusione di forme vaghe e mutevoli, come avviene a chi sia travagliato dalle visioni d'un sogno febbrile: e rimaneva così attonita, stordita, senza pensare, senza veder altro dintorno a sè, che le dolorose immagini della sua vita.

Intanto il nostro Pasquale seguitava a mandar su e giù tratti disperati di pennello. La Madre Maddalena gli era passata daccanto, ed egli, tirandosi prontamente da un lato e cavatosi rispettosamente la berretta, s'era sprofondato in un cosiffatto inchino, che la gobba aveva soverchiata la testa, e se avesse avuto occhi avrebbe potuto contargli i peli vani sulla nuca rugosa. Poi, ripigliata quanto più gli venne fatto la postura verticale, lo scaltro legnaiuolo tornò da capo a inzaffardare l'imposta colla sua tinta a olio, facendo tra una pennellata e l'altra l'occhiolino alla fanciulla che gli sedeva di rincontro.

L'occhiolino, sissignori; ma non vi date a credere che mastro Pasquale, co' suoi sessant'anni sulla gobba…. Neanche per sogno! Mastro Pasquale ci aveva le sue brave ragioni, e punto personali, a guardare di quella guisa e fare i suoi versacci a quella bellissima immagine della tristezza. Or come avvenne che gli occhi di Maria cascassero sulla grama persona di mastro Pasquale, non sapremmo dirvi, e forse non metterebbe conto, chi pensi ch'ella era così poco lontana da lui e che quel dimenìo delle braccia del legnaiuolo pittore doveva, po' poi, anco macchinalmente, attrarre lo sguardo. Del resto Maria aveva già veduto il dì innanzi quell'uomo, ed aveva anzi considerato com'egli, vecchio e sgraziato delle membra (segnato da Dio, diceva il popolino) fosse più felice di lei a gran pezza. Forse egli aveva una famiglia; anzi di certo; che l'artigiano ha mestieri di questo conforto, assai più del ricco e del fannullone. Faticava da mane a sera; quelle spalle gliel'aveva fatte curve il lavoro, in quella medesima guisa che a lei il lavoro aveva fatti sovente gli occhi rossi. Ma almeno era libero; libero come lei una volta, e i suoi più santi affetti non pativano contrasto d'altrui volontà.

Questo pensando ancora in quel giorno, le occorse di rimirare più attentamente il legnaiuolo. Si addiede allora delle occhiate e dei versacci eloquenti di lui, e stette tra curiosa e stupefatta a guardarlo. Questo voleva Pasquale, che, seguitando cogli occhi e colle labbra le smorfie, colla destra mano a trar giù pennellate ficcò la manca tra le risvolte del suo giubberello e fe' sbucarne timidamente fuori il corno dell'argomento, vogliam dire d'un foglietto di carta.

Era una lettera, sì certamente; non poteva esserci inganno, e quella lettera era per lei.

Il cuore le palpitò forte. Per la prima volta in sua vita ella usò un artifizio (del resto innocentissimo) volgendo gli occhi con aria sbadata ai monti lontani, poichè aveva veduto la Madre Maddalena dipartirsi dal suo viale ombroso per venire alla sua volta.

Mastro Pasquale capì da quel gesto che l'inimico gli era alle spalle, e lasciata ricader la lettera nel taschino, proseguì alacremente il suo lavoro, senza scomodarsi neanco, allorquando da monaca gli fu presso per andar oltre. Così intento com'era a' suoi negozi, come poteva egli accorgersi dell'avvicinarsi di lei?

—Figlia mia, questo sole vi farà male;—-disse la vecchia custode, in quella che andava verso Maria.—Siete rossa in volto come una brace.

Non era il sole, quello che avea fatto arrossire Maria, sibbene la vergogna del suo atto, e più ancora delle parole che avrebbe dovuto soggiungere, per non aversi a muovere da quel posto.

—No, Madre, non mi fa male;—rispose ella.—Sento anzi che questa luce tiepida mi rinfranca. Ve ne prego, lasciatemi rimanere ancora per pochi minuti, poichè mi sembra che a questo sole mi si sgelino le ossa.—

E così dicendo, prese la mano alla vecchia e la baciò rispettosamente.

La Madre Maddalena aveva una bella mano, e l'atto non le dispiacque.

—Sia come volete, figliuola mia;—ripigliò.—Per me, amo meglio un po' d'ombra, e me ne torno al riparo.—

Ciò detto, rifece la sua strada, non senza ricevere un altro inchino dal legnaiuolo. Il quale, a mala pena l'ebbe lontana due passi, tornò al giuoco di prima, e visto che la giovinetta guardava a lui, cavò rapidamente, il foglietto bianco dal seno, e col pretesto di intingere il pennello nel pentolino, s'accostò al murello, vi depose il foglietto, per modo che uno dei capi restasse trattenuto da quell'arnese fuligginoso, tanto che non cadesse giù, tra il ciglio del murello e le lavagne traforate che correvano tutto intorno, a riparo dagli sguardi profani.

La fanciulla seguiva degli occhi tutti quei maneggi di mastro Pasquale, senza scorgere ancora in qual modo ella avrebbe potuto adoperarsi, per avere quel foglietto tra mani, così lontano com'era.

Ma il gobbo non era uomo da lasciare una impresa a mezzo. Posto il pennello a dormire nel pentolino, allungò le braccia ai due regoli maestri dell'imposta, li abbrancò saldamente, e a nervi tesi sollevò quel suo arnese dalla postura orizzontale. Quindi, fatto un cenno eloquente col mento e cogli occhi alla fanciulla (gli occhi si volgevano a lei, il mento accennava al pentolino), alzò l'imposta a bilico sulla testa, e glorioso come Sansone quando se ne tornò agl'Israeliti colle porte di Gaza sulle spalle, mosse alla volta di quel viale ov'era andata la Madre Maddalena, e dove, se i lettori rammentano, era per l'appunto la scalinata che metteva alla camera de' suoi strumenti, e a quel medesimo balcone pel quale aveva fatta la sua legnosa fatica.

Bravo Pasquale! Quello era un colpo maestro, ma bisognava compir l'opera. E non dubitate; ci aveva di molti ingegnosi trovati nel suo scrigno, il gobbo legnaiuolo.

La vecchia monaca che lo vide giungere, e dovette cansarsi per lasciarlo passare si trattenne a' piè della scalinata per dirgli:

—Avete già finito, maestro?

—Oh no, Madre reverendissima; alla mia età non si corre più tanto. Questa ci ha già la prima mano; ora mi metto attorno all'altra; la seconda mano la darò quando saranno a posto tutte e due, e coll'aiuto di Dio prima di sera ci avranno anco i vetri stuccati.

—Bravo, bravo; lavorate senza posarvi.

—Eh, come si fa? Bisogna pur dargliene, a tre femmine, sia detto con licenza di Vossignoria reverendissima. Quel che i miei due maschi guadagnano, basterebbe a mala pena pel pugno di sale; e il paiuolo brontola, quando non ci si butta nulla.—

La Madre Maddalena sorrise, come chi non ha più nulla a dire; e mise il piede innanzi, per continuare la sua passeggiata. Per tal modo ella avrebbe potuto scorgere la giovinetta dall'altro lato dell'orto. Ora ciò non faceva comodo al nostro Pasquale.

—A proposito, reverendissima,—diss'egli, standosene colle spalle al muro, affinchè la monaca, fermandosi da capo per rispondergli, non avesse a guardare dall'altra banda,—io debbo render grazie a questo santo monastero….

—Di che?

—Oh, Vossignoria fa le viste di non saperlo. Queste sante Madri vogliono sempre darsi molestia per me. Quella bottiglia di vino, que' cantucci che sanno di paradiso…. Oh, non li tocco io….

—E perchè?

—Perchè quella non è pasta pe' miei denti. Il buono piace a tutti, ed anche a me per conseguenza. Ma Vossignoria mi compatirà; ci ho quella povera donna di mia moglie, che non istà troppo bene. E allora ho detto a me stesso: Pasquale, pensa a tua moglie, che non ci ha i buon bocconi, i confortini, i brodetti, come le signore, quando vien loro un po' di male, e non può certo mandar giù la sbroscia che passa il convento.

—Siete un buon marito,—interruppe la monaca,—e san Giuseppe vi aiuterà.

—Gli è il mio santo due volte;—ripigliò il legnaiuolo.—Ora, con licenza di Vossignoria….

—Fate, fate;—e così dicendo, la Madre Maddalena si messe in moto.

Pasquale non aveva più bisogno di lei, perchè aveva veduto colla coda dell'occhio la giovinetta accostarsi al murello, prendere il foglietto e tornarsene con lenti passi al luogo ove era prima seduta.

Ma in quella che la Madre Maddalena si muoveva per un verso lungo il viale e il gobbo legnaiuolo per l'altro verso la scalinata, un grido soffocato, un tonfo, li fecero rimaner sospesi ambedue, quindi pigliar l'abbrivo alla volta della fanciulla.

Che era egli avvenuto?

La giovinetta, come s'è udito, aveva tolto il biglietto, e, rivolgendosi dall'altra banda, s'era fatta a nasconderlo in seno. Ma il cuore le batteva fortemente; la colse un gran desiderio di leggere. Era un foglietto piegato in quattro. Lo aperse, tenendolo vicino al petto e andando oltre a capo chino, in atto di meditazione; lesse i quattro o cinque versi di scritto che c'erano; tosto le si offuscò la vista; si sentì venir meno, e senza aver più la forza nè il tempo di nascondere quel foglio, che le si aggrovigliò tra le dita irrigidite, cadde svenuta sul lastrico del viale.

XVIII.

Come qualmente mastro Pasquale perdesse il pentolino.

Il legnaiuolo, quantunque, per aver già salito due scalini, fosse molto più indietro, non tardò a raggiungere la Madre Maddalena, che correva a passo d'anitra lunghesso il murello. Ma il diavolo volle (fu proprio il diavolo?) che la corsa di mastro Pasquale fosse rattenuta dal cavalletto ch'egli aveva lasciato pur dianzi in mezzo al viale, e il tempo ch'egli pose a mettere quell'arnese da banda, fu guadagnato dalla vecchia monaca, che potè giungere, ad una con esso lui, presso la fanciulla svenuta.

Il primo sguardo del gobbo fu pel biglietto; ma non lo vide, per quanto girasse gli occhi tutto all'intorno. Allora egli si fece a sollevare la giovinetta da terra, mettendole rispettosamente un braccio sotto le spalle, e tentando di ricondurla, senza brancicarla di troppo, al sedile. Tra tutt'e due ne vennero a capo, e già mastro Pasquale incominciava a respirare, pesando che la fanciulla avesse avuto tempo a nascondere in tasca il foglietto, allorquando vide la monaca chinarsi a terra e metter la mano su d'un batuffolo di carta che era uscito in quel punto dalle dita di Maria.

—Che negozio è questo?—esclamò la Madre Maddalena, in quella che spiegava sollecitamente quel foglio tra mani.

Mastro Pasquale fece le viste di non avere udito; ma mentre si adoperava a collocare in miglior modo la fanciulla sul sedile, notò che la monaca leggeva lo scritto, inarcando le sopracciglia e battendo le labbra in segno di corruccio.

—Gesummaria!—gridò la monaca, appena ebbe finito.—Vo a chiamar la madre badessa.

—E le dica che porti dell'acqua!—aggiunse Pasquale, che non sapeva più in che acque si fosse.

La vecchia monaca non gli badò più che tanto, e andò più speditamente che non fosse suo costume verso l'uscio dell'orto, dove si messe a strepitare come un'ossessa, chiamando la superiora, il capitolo, le, converse, la comunità tutta quanta.

Pollione, il malcapitato proconsole delle Gallie, quantunque scombussolato dalle furie di Norma e dalle sue minacce contro la povera Adalgisa, fu molto più saldo ai tre colpi percossi sul sacro disco dalla gran sacerdotessa d'Irminsul, che non fosse mastro Pasquale all'udire quell'altra druidessa che suonava a stormo sul ballatoio.

—Diamine!—borbottò egli tra' denti.—La frittata è fatta, e mi toccherà mandarla giù senza vino. Purchè, quelle befane non mi cavino gli occhi!… Ahi, ahi! eccone già due…. tre…. quattro…. Sbucano dalle quinte come le streghe in teatro.—

In nostro gobbo, chi nol sapesse, aveva speso i suoi cinquanta centesimi per andare tra la gente alta, in un teatro di second'ordine, a vedere il Maccabeo, com'egli diceva, storpiando popolescamente il titolo d'un melodramma verdiano.

Frattanto, insieme collo stuolo delle monache, giunse una conversa (quella ch'egli chiamava riverentemente la madre Bibiana) con una brocca d'acqua tra mani. E qui bisogna dirlo ad onore di mastro Pasquale, non badando al susurro, al tramestio che facevano quelle sante madri intorno a lui, non pensando più che tanto al suo danno imminente, egli si adoperò, stiam per dire colle mani e co' piedi, a far rinvenire la giovinetta, che fino a quel punto non aveva dato segno di vita.

—Povera piccina!—pensava egli, mentre le veniva spruzzando il viso.—Vedete mò, le buone notizie, quando vengono improvvise! Ho forse fatto male. Ma come si poteva fare diverso, con quell'altra alle costole?—

Tutto il sacro capitolo gli si stringeva curiosamente alle spalle. Ce n'erano d'ogni forma e d'ogni età, come diceva Leporello, grasse e magre, alte e basse, vecchie e giovani, belle e brutte; queste a dir vero più numerose dell'altre. Talune, dal mento fiorito di peli e dall'accento mascolino, apparivano, anzichè monache, carabinieri travestiti; talaltre, dal naso imbrattato di tabacco, dagli occhiali inforcati, dalla voce chioccia, si poteva argomentare che fossero consiglieri d'appello; nè ci mancava l'avvocato fiscale, che sotto le spoglie di Madre Maddalena, poteva mettere innanzi il corpo del reato e chiedere la condanna del colpevole ai signori giurati.

La povera Maria, tornata finalmente in sè, fu per comando della superiora portata dalle converse nella sua cella. Pasquale avrebbe voluto far lui quella impresa; ma un no imperioso gli avea fatte cadere le, braccia. Pensò allora di tornarsene ai suo pentolino, e mogio mogio sbiettò dietro un filare di viti.

—Chi mi scampa, adesso da quelle megere?—pensò egli; che, parlando con sè medesimo, non si reputava obbligato a tanti riguardi.—Se potevo giungere all'uscio, infilavo le scale, e buona notte! Ora, invece, eccomi colto come una volpe alla tagliuola….—

Mastro Pasquale aveva una battisoffia in corpo, da non dirsi a parole. Se avesse studiato mitologia, si sarebbe ricordato di Orfeo, e della mala fine che fece tra le Baccanti che ognuna ne volle uno spicchio.

—Dove andate, quell'uomo?—tuonò improvvisamente la voce della badessa.

—Ahi, ahi! Son già diventato quell'uomo!—borbottò il povero gobbo.—Con sua licenza, Madre reverendissima—rispose ad alta voce;—vado a dare una mano di colore; se no, mi secca nel pentolino.

—Non importa; venite qua!—

Mastro Pasquale ci andò come la biscia all'incanto. Teneva gli occhi bassi, ma non tanto che non gli fosse dato vedere il malaugurato biglietto tra le dita della badessa.

—Ho capito;—disse tra sè,—ci siamo!—

E armatosi di coraggio, quanto più gli venne fatto tirarne su dai precordii, sollevò la fronte a guardare l'eccellentissimo tribunale.

—Che cosa significa questo foglio di carta?—

Il legnaiuolo fece l'atto di stringersi nelle spalle, e spinse fuori il labbro inferiore; maniera volgare, ma eloquente, di dirle che egli non ne sapeva un bel nulla.

La madre badessa allora, volgendosi alle monache, e in mezzo alle loro esclamazioni di orrore, di raccapriccio, lesse ad alta voce il biglietto.

«—Non temete, signorina, non vi perdete d'animo; mostrate di accettare ogni cosa che vi si proponga. Lorenzo è in Genova; egli e i suoi amici vegliano su di voi; vi salveranno ad ogni costo, e tra breve.» Questo infame biglietto, che desta un senso di esecrazione in tutte le Madri qui raccolte,—proseguì la badessa, volgendosi da capo a Pasquale,—non può essere stato portato qua dentro se non da voi, confessatelo!

—Non so nulla, io, non so nulla!—gridò il legnaiuolo.

—Ah, nulla? proprio nulla? Bravo, Pasquale! Questo è il modo di governarsi in un sacro luogo? Questo è il modo di corrispondere alla fiducia che s'era posta in voi, nella santità dei vostri costumi? Vergognatevi! Avete già un piè nella fossa, e in cambio di mettervi in grazia al Signore, vi macchiate di sacrilegio, pagate di questa moneta la nostra bontà, il guadagno che fate da tanti anni in questo convento…

—Oh, per questo,—interruppe Pasquale, che vedeva andar la predica per le lunghe, e tanto, o prima, o dopo, bisognava rompere il ghiaccio,—la non si metta sui trampoli. Vossignoria reverendissima. Trecento lire genovesi, da ottanta centesimi l'una, e chiamato quassù tre volte almeno per settimana, ora per una cosa or per l'altra, che più ci ho rimesso di scarpe!

—Sì, neh?—entrò a dire Bibiana, la conversa;—e il bicchier di vino e i cantucci da inzupparvi dentro, che vi si davano ad ogni tanto, non li mettete in conto, bocca mia dolce?

—Mille grazie. Reverendissima!—ribattè l'altro alla conversa, con un piglio ironico che fece increspar le labbra a più d'una di quelle Madri.—Ed Ella non le mette mica in conto, le gazzette che io….

—Basta, basta!—gridò la badessa, dando sulla voce a lui e accennando alla conversa che si tenesse la lingua tra' denti.—Non è da noi il trattenerci qui a garrire con un pari vostro, così indurito nelle male opere.

—Metta che io sia una stiappa di merluzzo;—non potè tenersi dal rispondere il gobbo.

—E bisognerà dare un esempio;—soggiunse la badessa, senza scomporsi.

—Purchè non si tratti d'unghiate, io me la rido;—pensò mastro
Pasquale. E stette imperterrito ad aspettar la sentenza.

—Meritereste di andare a marcire in una prigione;—proseguì la giudichessa;—ma noi non useremo i mezzi della giustizia umana, bastandoci i castighi della divina, che vi attendono, se durate nel vostro peccato. Quella è la porta, e badate! non metterete più piede qua dentro.

—Che io mi possa rompere il nodo del collo se ci torno!—gridò sollevato il legnaiuolo, in quella che sguisciava in mezzo a due file di monache per correre all'uscio.—Se ne cerchino pure un altro, le Signorie loro reverendissime!

—Oh, non ne mancheranno di certo, e più rispettosi di voi;—disse la madre badessa.

—E più timorati di Dio;—aggiunse la madre
  Maddalena.

—E meno gobbi!—chiuse la conversa Bibiana, che aveva, come il lettore argomenta, la sua vendetta da fare contro il manigoldo che le aveva data la baia.

Non l'avesse mai detta! Mastro Pasquale, che era gobbo come un dromedario, e da quella parte lì non pativa la celia, si rivoltò come una vipera a cui sia pestata la coda.

—Gobbo a me? Brutte streghe! gobbo a me? Sono i peccati delle Signorie Loro reverendissime, che mi tocca portar sulle spalle, e tutti i giorni s'accresce la soma. Vedete bel modo di trattare i galantuomini! Gobbo a me! Con questa gobba io ho trovato moglie, e Lei colla sua bazza non ha trovato nemmeno un orbo che la volesse per accompagnatura.

—Bibiana,—tuonò la badessa con piglio severo,—quest'oggi e dimani rimarrete a far penitenza. E voi andate una volta, malcreato!

—Ah sì? anche malcreato?—gridò il legnaiuolo, più inviperito che mai, piantandosi vicino all'uscio, come Aiace sul vallo.—A me gobbo? a me malcreato? Streghe, befane, versiere, biliorse, arcaliffe, che nemmeno il diavolo le vorrebbe in cucina per fargli la zuppa! Ma, l'hanno a pagar cara! Venga chi so dir io al comando, e se n'andranno tutte quante in mezzo alla strada, se n'andranno!

—Scellerato! Lo sentite?—esclamò la badessa, volgendosi con aria stupefatta alle suore.

—Sì, e voglio che mi sentano perfino da Mascherona, e dal pozzo di Sarzano!—incalzò il gobbo.—Sì, l'ho detto e lo ripeto, in mezzo alla strada!

—Sta bene,—soggiunse un'altra delle Madri;—intanto andateci voi.

—E non troveranno un cane che faccia loro la limosina di un osso.

—Santa pazienza!—esclamò la Madre Maddalena.

—Ma andate, suvvia!—gridarono allora, facendoglisi incontro, parecchie delle più robuste.

Orfeo capì allora che non c'era più tempo da perdere, e passò incontanente la porta. Le Madri finalmente respirarono; ma Pasquale non aveva anche finito, poichè, comparso da capo nel vano, alzò il braccio, tese l'indice in atto di maledizione, gridando con quanto fiato aveva in corpo:—se n'andranno; sì, se n'andranno!—

E fu la sua ultima: dopo di che scese le scale brontolando, seguito dalla conversa, che gli aperse la porta di servizio e gliela richiuse tosto sulla gobba.

Egli era già in istrada, allorquando, vedendosi colle braccia penzoloni e le mani inoperose, si sovvenne del suo pentolino, che nella fretta aveva dimenticato lassù.

Tornò indietro, col proposito deliberato di bussare e andarsi a pigliare il fatto suo; ma quando fu per abbrancare la corda del campanello, un'altra cosa gli sovvenne, cioè il voto che avea fatto pur dianzi di rompersi il nodo del collo, se riponeva piede nel monastero. Ora mastro Pasquale era superstizioso, e portava al suo collo quel ragionevole amore che ci hanno, si può dire, tutti i figli d'Adamo.

—Se me lo rompessi davvero?—pensò il legnaiuolo.—No, no, Pasquale; la donna che te l'ha fatto, l'è ita in gloria, e non potrebbe più fabbricartene uno nuovo. Aggiungi, che da questo ginepraio ne sei uscito a buon patto, e la Provvidenza non s'ha a tentarla due volte. Ma adagio un tantino; ne sono io poi uscito tanto a buon patto? Un trecento di lire le buscavo, e dove quelle andavano, non ne occorrevano altre. Ora, chi m'avesse visto e udito poc'anzi, trar calci a quella moneta, non m'avrebbe tolto pel banchiere Parodi? Sicuro, il cognome ce l'ho, e il banco del pari; ma un banco da menarvi la pialla; il cognome, poi, posso andarmelo a spendere!—

In questi discorsi il nostro Pasquale era sceso dall'erta di
Mascherona, per andarsene poco lontano, dove ci aveva casa e bottega.
Ma più s'avvicinava ai dolci penati, e più gli sbollivano le ire.

—L'ho fatta, e adesso mi bisognerà rasciugarla. Del resto, domando io, come potevo uscirne altrimenti? Mi fossi anco buttato ginocchioni e tanto mi mandavano a spasso, dopo quel negozio della lettera. Non avrei dovuto mettermi in quella briga, e ricordarmi il detto de' miei vecchi, che cenci van sempre in aria; ma sì!… Quel Garaventa è un così allegro compagnone, che s'ha da volergli bene per forza, e fare tutto ciò ch'egli vuole. E che buon vino si beve, in sua compagnia! Altro che il vino delle monache! Peccato ch'egli baci a mala pena il bicchiere! Si direbbe che n'abbia paura, lui, un vecchio soldato d'America! Basta, quel che non imbotta Michele imbotta Pasquale, e i conti si pareggiano. L'ho a far rimanere di princisbecche, or ora, quando gli racconterò che il colpo è fatto a dovere. E quell'altro signore, quello della gazzetta, sarà certamente con lui ad aspettarmi, poichè ci ha il diavolo dell'impazienza in corpo. Giovani, giovani! Quand'ero giovine io, ne ho fatte la mia parte, per sposarmi la Tecla!… E adesso anche lei m'è diventata una vecchia brenna, piena di guidaleschi, brontolona, balorda. Chi me l'avesse detto, quando s'era promessi e s'andava a far la nottata fino alla Madonna della Guardia, per trovarci lassù prima dell'alba? Che grazia di Dio! Al primo raggio di sole ci si specchiava tutti nelle nostre facce scialbe e nei nostri occhi lividi; ma lei, la Tecla, era là, colorita e fresca come una mela carla. E ce n'erano di volti a strizzarle l'occhio, ce n'erano, di questi damerini che vanno attorno per le fiere; ma lei dura; volle Pasquale, ed ebbe Pasquale. E l'ha tuttavia, il su' omo, ma con trent'anni di sopraccarico. Povero cavallo bolso, ha finito anche lui di trottare; le spalle poi gli si sono incurvate, come per fargli vedere la fossa. Ma vedete un po' quelle scimunite, quelle teste imbacuccate! Perchè la fatica m'ha concio a questo modo, s'ha a darmi del gobbo?—

XIX.

Come una buona azione ricevesse il suo premio.

Mastro Pasquale era frattanto arrivato in bottega, dove s'aspettava di veder Michele coll'altro «della gazzetta», ma dove non vide altri che il suo fattorino, giovine allocco che se ne stava guastando colla sgorbia un pezzo di legno di tiglio, per farne non sappiam quale balocco.

—E così, non c'è nessuno?—dimandò il legnaiuolo.

—Sì, principale, ci son io.

—Lo vedo, babbaccione, che ci sei tu. Dico se non c'è stato ancora nessuno.

—Sì, c'è stato il Trinca che andava all'osteria a pigliarsi una zuppa, e voleva darvi il buon giorno.

—Va là, bietolone; chi ti domanda del Trinca? Ti domando se è venuto nessuno che avesse bisogno di parlarmi.

—Ah, ho capito; sì, c'è stato uno, ma il nome non
  lo so.

—E se n'è andato?

—Sì, principale.

—Senza lasciar detto nulla?

—Non lo so, perchè è passato di sopra, da vostra moglie.

—Bestia! potevi dirmelo subito, e non avrei perso tanto fiato con te.

—Non me lo avete domandato, principale….

—Uff! Riporrai que' ferri, che poi a raccapezzarli ci metterei tre ore, infingardaccio, buono a nulla, balordo che sei!

—Questo è l'acconto che mi dà sulla settimana!—disse tra sè il garzone, mentre riponeva la sgorbia nel cassetto e appendeva il gattuccio al muro.—E quando gli dico che ho quindici anni e che mi aggiunga qualcosa sul salario, me ne dice altrettanto.—

Il vecchio legnaiuolo s'era avviato a una porticina che dal fondo della bottega metteva nell'andito delle scale, per salire al primo piano della casa, dov'era il suo alloggiamento. Colassù, tutta imbacuccata in un vecchio scialle, accoccolata su d'una vecchia scranna presso la finestra, stava una femmina dal volto giallo, malazzato, che doveva essere appunto quella tal brenna di cui aveva detto nel suo soliloquio il nostro Pasquale.

—Siete voi?—diss'ella, voltandosi all'uscio, mentre egli compariva nel vano.

—Son io, Tecla. Vi siete alzata da letto?

—Non ci stavo troppo bene, e sono venuta a cercare un po' di sole qui presso.

—Chi c'è stato a cercarmi?

—Ah, sì, fate bene a rammentarmelo. C'è stato or fa mezz'ora il garzone del panattiere. Quel lasagnone del vostro fattorino lo ha fatto salire quassù, e io ho dovuto sentire l'antifona. M'ha detto che il suo padrone non vuol più aspettare, e che domani, se non gli saldate il conto, se ne va dove bisogna.

—S'incammini!—brontolò il legnaiuolo.

—Sì, bravo, perchè venga anche l'usciere, e crescano le spese! Io gli ho detto invece che tornasse alle cinque, stasera, che ci sareste stato voi.

—Bella trovata! E che gli dirò io stasera, che voi non poteste già dirgli senza di me?

—Ma….—rispose la donna;—ho pensato che andando oggi dalle monache a finire il vostro lavoro, vi avrebbero pagato il conto, e allora….

—Sì, me l'hanno proprio pagato!—interruppe Pasquale.—Non servo più monache, io; vadano in malora le monache!

—Che diavolo dite, Pasquale?

—Dico,—rispose il legnaiuolo, sedendo a cavalcioni su d'una scranna, coi gomiti puntellati sulla spalliera e il mento puntellato nelle palme,—dico che l'ho mandate a quel paese, e non voglio più saperne. Brutte bertucce! dar del gobbo a me! Dite su, voi, Tecla; m'avete visto gobbo, quando v'ho dato l'anello?

—Che cos'è quest'altra novità? Avevate, sì, le spalle tozze….

—Ma non ero gobbo?

—Questo no; ma perchè mi domandate queste cose?

—Perchè, vedete, quelle scioperatacce di San Silvestro m'hanno dato del gobbo senza tante cerimonie.

—E per questo siete montato in bizza? Ci avreste ancora grilli in capo?

—Che grilli e che cavallette d'Egitto! Statemi a sentire. Ho fatto servizio a un amico. Che male c'era? Chi le ha cercate, loro! Nessuno vuol frodare la gabella per quella brutta merce là. Ma quella povera ragazza….

—E adesso che cosa m'andate voi borbottando, di ragazza, di gabelle e di merci? Parlate chiaro, se volete essere inteso.

—Ho fatto servizio ad un amico;—ripigliò mastro Pasquale.—C'è là dentro una povera ragazza che vogliono far monaca per forza. Orbene, i suoi parenti ed amici, il fratello, l'innamorato, e che so io, quelli insomma che ci hanno le loro ragioni per cavarla di là, com'ella ci ha le sue per uscirne, volevano farle giungere una parola di conforto, perchè stesse di buon animo, che non l'avrebbero abbandonata.

—E voi ve ne siete incaricato!

—To'! sicuro, che me ne sono incaricato; e con che gusto! Ma il diavolo ci ha messa la coda. La fanciulla ha letto il foglio, un foglio aperto (mi capite? aperto) ed è svenuta dalla contentezza. Il foglio è stato veduto; e allora, addio roba!

—Ah, Pasquale, Pasquale!—esclamò la Tecla, crollando il capo in atto di rimprovero.—Perchè andate a mettere il naso dove non ispetta a voi? Sapete, la pentola di terra, quando l'andò a cozzare col paiuolo di rame, che cosa le avvenne?

—Bella scoperta! s'è rotta.

—E anche voi, Pasquale, vi romperete le costole, a volervi mettere co' più forti di voi. Vedete, intanto, avete perduto un pane sicuro, il pane dei vostri figliuoli. Ne aveste a palate! Ma lo sapete meglio di me, che il po' che guadagnate non basta a tenerci ritti. Le due ragazze vanno alla sarta, senza buscare un soldo, ed è già molto che imparino l'arte. I vostri due figli, tanti ne guadagnano, tanti ne spendono, e li vedete appena all'ora del pasto; sanno venire a prendere; ma per portare, aspettateli! E voi, per giunta alla derrata, colla vostra esperienza, vecchio come Matusalemme, ne fate ancora di queste!

—Tecla!

—E in un santo monastero!—proseguì, riscaldandosi, la donna.—In un posto di confidenza come quello! Vi ricordate di quel che vi diceva il Padre parroco di Castello, il mio santo confessore, offrendovi or fanno i quindici anni, quel pane?—«Pasquale, badate a voi; dovete esser cieco, sordo e muto, tutt'insieme; fare il vostro servizio e non impacciarvi d'altro. Or come gli avete voi dato retta? Facendo il procaccino alle novizie.

—Tecla! Tecla! Non mi fate perdere la tramontana! Quel che ho fatto, l'ho fatto a buon fine, e non me ne pento.

—Bravo! Vedo i guadagni che n'abbiam fatti. Vo' che mi compriate uno scialle di tartano con quei denari, poichè l'inverno è vicino, e questo è ragnato così che pare una mestola bucherata.—

Pasquale era lì lì per rispondere a que' sarcasmi con qualche buona sfuriata; quando s'udì la voce del garzone che gridava dal basso:

—Principale! principale!

—Che c'è?—dimandò il legnaiuolo, andando in fretta ad alzare il saliscendi.

—Due signori che vi vogliono quaggiù,—rispose il
  garzone.

—Ma se lo dicevo io, che non avrebbero tardato!—esclamò Pasquale, rasserenandosi a un tratto.—E non sapevano mica che io dovessi spicciarmi così presto lassù. Ero una bestia io, e un pochino anche voi, Tecla, colle vostre intemerate.

—Grazie del complimento!

E qui mastro Pasquale, fattosi tutto zucchero, si avvicinò per farle una carezza. Ma Tecla gli rispose con una alzata di spalle.

—Vedete che grazietta!—disse il vecchio legnaiuolo tra sè, in quella che scendeva le scale.—Se la mi avesse fatto sempre così, non ci sarebbero quattro mangiapani di più, senza contarne altri due, che, poveretti, mangiano quello degli angioli. Basta, pigliamo quello che Domineddio ci ha mandato.—

Con questa chiusa filosofica, mastro Pasquale giunse in bottega, dov'era Michele ad attenderlo, e con Michele quell'altro delle gazzette come lo chiamava il legnaiuolo, e che era (i lettori l'hanno capita da un pezzo) il nostro bravo Giuliani.

—Buon giorno e buona sera, Pasquale!—disse il nostro Michele a mala pena ebbe veduto il legnaiuolo.—Passavamo da queste parti, e siamo entrati a vedere se per caso foste già di ritorno.

—Diffatti eccomi; quest'oggi mi sono sbrigato più presto.

—Orbene?—gli chiese il Giuliani.

—Ho fatto ogni cosa.

—Da Senno?

—Sì;—disse Pasquale;—la ci ha avuto il foglio, e l'ha subito letto.

—Da bravo, raccontateci come.

—Volentieri; ma prima di tutto si accomodi. E tu che fai costì ritto, a bocca aperta, bighellone?—

Quest'ultima frase, già i lettori indovinano, era rivolta al garzone, che vedendo quei personaggi a colloquio col suo principale, si era ficcato dentro anche lui, per esser quarto tra cotanto senno.

—Vedete che bel muso, da volersi mettere in riga colla gente a modo!—prosegui il legnaiuolo.—Vattene!

—Dove?—chiese con aria melensa il garzone.

—Dove ti pare. To', per l'appunto, portami questa cornice all'indoratore.

—In due salti, vado e torno;—disse il ragazzo, afferrando la cornice.

—No, non occorre; vattene a dare una capatina all'Acquasola, e fa anche il giro delle mura, da Santa Chiara alle Grazie; così ti sgranchirai le gambe, mammalucco!

—Che stranezze son queste?—pensò il garzone, mentre, colla sua cornice ad armacollo, saltava fuor di bottega.—Quando sto fuori mezz'ora per giuocare alla lippa, mi sgrida; e adesso che sto in bottega, mi manda a spasso.—

Come furono soli, incominciò il racconto del legnaiuolo. Il Giuliani s'era adagiato sul banco; Michele gli stava di costa; Pasquale chiacchierava e gestiva nel fondo, come un attore in scena. Quello ch'ei raccontò non ripeteremo, che già i lettori lo sanno, e non vi porrebbero certo quell'attenzione con cui il Giuliani e Michele stettero ad udire il buon successo della loro intrapresa.

Lo ascoltarono, diciamo, con grande attenzione, quasi senza, batter palpebra, e sebbene qua e là ci fossero ripieni, fioriture, lungherie (chè il gobbo, come è noto, ci aveva una buona parlantina) non si fecero con parole o con atti ad interromperlo mai. Solo quando egli fu giunto alla fine, Michele, che s'era fortemente commosso all'udire dello svenimento, non potè trattenersi dal gridare: «E come starà ella, adesso, la mia povera padroncina?»

—Che?—disse il legnaiuolo.—Siete il suo servitore?—Pasquale non aveva mai pensato che quell'uomo così lindamente vestito da vecchio militare in ritiro, col suo cappello di feltro e il topazio alla cravatta, potesse essere un servitore; Michele, dal canto suo, non aveva avuto bisogno nè occasione di dirglielo. Neppure si vergognò di averlo a confessare in quel punto; che a' suoi occhi, servire la signorina Maria e il signor Lorenzo, valeva quanto il viver d'entrata. Gli dolse in quella vece d'essersi lasciato sfuggire quelle parole di bocca, perchè da alcuni mesi aveva imparato a sue spese che cosa fruttasse il parlare a vanvera, e raccontare alla distesa i fatti suoi.

A lui che taceva, facendo le mostre di non avere udita la domanda del legnaiuolo, venne in aiuto il Giuliani.

—Servitore no; dite in cambio l'amico, il vecchio arnese, il ser faccenda di casa. Voi siete un galantuomo, Pasquale; per farci servizio vi siete guastato colle sacre vergini di San Silvestro; a voi dunque bisogna dire ogni cosa. La fanciulla è orfana; Michele è il vecchio compagno d'armi del padre di colui che la deve sposare.

—O non è forse Vossignoria, lo sposo?

—No; anch'io non sono altro che un amico di casa.

—To', ed io avrei giurato che fosse Lei!

—Non prendo moglie, io, caro Pasquale;—soggiunse il Giuliani ridendo;—io voglio che si possa mettere sul mio cataletto una corona di candidi fiori; poniamo anche artefatti, ma candidi.

—In fede mia, la pensa bene. Chi piglia donna, piglia una mala gatta a pelare.

—Michele,—disse il Giuliani,—beccatevi questa, voi che meditate un pateracchio __in facie Ecclesiae__. Eh via, non vi fate rosso; che male c'è?

—Son vecchio!—rispose sospirando Michele.

—Baie! Vecchio è chi muore; non è vero, mastro Pasquale? Ma, non ci dilunghiamo in chiacchiere; come la è finita? Per colpa nostra ci avete perduta la clientela?

—Sicuro, e il pentolino per giunta, che ho lasciato nell'orto.

—Lasciare il pentolino in mano al nemico, non fu mai disonore se non pei Giannizzeri, i quali portavano le pentole in luogo di bandiere;—sentenziò il giornalista.—Eccovi da comperarne un altro.—

Il legnaiuolo strabuzzò gli occhi e diede un sobbalzo, alla vista di dieci marenghi che gli metteva dinanzi il Giuliani.

—Prendete, prendete! Questi vi consoleranno un poco della perdita che avete fatta lassù. Notate inoltre che la zecca che gli ha coniati lavora sempre, e ce ne saranno degli altri. L'amico Garaventa vi chiamerà di questi giorni in un certo palazzo, dove troverete una bella vigna da sfruttare, poichè il padrone fa casa nuova con suppellettili fatte venire a bella posta da Parigi, tutte di legno rosa, magaleppo, palissandra, madreperla, e a voi si darà l'incarico di arredar la cucina ed il quartierino della gente di servizio.

—Certo, ha da essere la casa degli sposi?

—L'avete indovinata, Pasquale. Or dunque addio; __jam vale, generose senex__, e grazie tante di ciò che avete fatto. Io non vi innalzerò una statua, come è fama che facessero ad Esopo i Milesii; ma state sicuro che io, col racconto della vostra impresa nobilissima, vi tramanderò all'ammirazione dei posteri.

—Passati, presenti e futuri—aggiunse Michele, stringendo la mano al più allegro dei gobbi.

Mastro Pasquale accompagnò il Giuliani sull'uscio con molti inchini, e ricambiò a Michele un amorevole buffettone che questi gli avea dato sulle spalle, a mo' di commiato.

—Gente allegra, coi soldi in tasca! Ha da guadagnarne molti colle sue gazzette, costui: ma se li merita, in fede mia, perchè gli è buon pagatore. E quest'altra vigna che m'ha accennata? Pasquale, qui bisognerà farsi onore!—

Così, cogli avuti in tasca, e cogli sperati in testa, il gobbo legnaiuolo si sentì leggero come una piuma. E certo assai più leggero del solito, sebbene con cinque marenghi in una mano e cinque nell'altra (tanto per non destar gelosie) pesasse molti grammi di più, risalì la scala che metteva in casa. Spinse l'uscio colle spalle, senza cavare i pugni dalle tasche ed entrato nella sala, con un piglio da trionfatore romano, andò a piantarsi dinanzi alla moglie, che se ne stava ancora rincantucciata presso la finestra, sebbene il sole fosse sparito da un pezzo.

—Tecla,—entrò egli __ex abrupto__,—quanto credete abbia a costare uno sciallo di tartano?

—Lasciatemi in pace. Che storie sono queste?

—Vi domando quanto credete abbia a costare uno scialle di tartano.
Parlo turco, forse?—

Tecla si voltò tra curiosa e stizzita a guardarlo.

—Siete diventato ricco in mezz'ora?—gli chiese ella a sua volta.

Pasquale non rispose, bensì risposero le tasche per lui, nelle quali il legnaiuolo facea saltellare quelle dieci monete. Tecla, a quell'armonico tintinnio, aperse tanto d'occhi e mutò la smorfia in sorriso.

—Che so io, quant'abbia a costare?—-diss'ella.—Dieci, quindici lire…. sono tanti anni che non compro più nulla!

—Eccone venti!—soggiunse superbamente Pasquale. E cavata una mano di tasca, gettò una moneta in grembo alla moglie, che fu pronta a metterci addosso ambe le sue. Egli, allora ridendo, così prese ad ammonirla:

—Tecla, Tecla, donna di poca fede, perchè avete voi dubitato? Vedete, ce n'ho altri nove, di questi confetti; erano dieci, come i comandamenti di Dio.

—Lasciate là i vostri paragoni, ereticaccio! Quella è roba di mal acquisto.

—Di mal acquisto, Tecla? e perchè? Li ho forse rubati in saccoccia a qualcuno? Li ho forse chiesti a patto d'una cattiva azione? M'hanno detto: Pasquale, amicone, c'è una disgraziata figliuola nel monastero dove andate voi a lavorare; bisogna che ci aiutiate a salvarla.—Che! non me ne immischio, io.—E perchè? Non si tratta mica di far cosacce; quella poverina è sola, in mano a gente che le vuol male, e la costringe a farsi monaca, contro la sua volontà.—Oh, per questo, lo credo, che l'ho veduta io, co' miei occhi, a piangere.—Orbene, commetterete un gran peccato, a darle un biglietto?—Un biglietto? Io? Per chi m'avete voi preso?—Ma, sapete? un biglietto aperto; lo potrete leggere e vedrete che non ci sarà nulla di male; non si tratta d'altro che di farle coraggio.—Sì veramente m'è parso che n'avesse bisogno.—Or dunque, da bravo, Pasquale, fatelo per amor mio. Sapete, inoltre; una mano lava l'altra.—E tutt'e due il viso, lo so; ma se perdo il pane?—Che pane? avrete pane e vino ed ogni ben di Dio da coloro che hanno a cuore quella disgraziata; ve ne sto mallevadore io, non vi basta?—Così m'hanno parlato, ed hanno mantenuto più di quanto m'avevano promesso. Roba di mal acquisto! E sia pure; qua l'altro marengo che avete già messo in tasca; io lo metto di costa agli altri nove, e li butterò tutti quanti nella cassetta delle anime, alla parrocchia di Castello. L'ospedale farà limosina alla chiesa. La non v'entra? Neanco a me; ma allora non mi state lì ingrugnata a cantare i paternostri della bertuccia.—

E adesso, per non riuscire stucchevoli ai lettori, lasciamo Tecla e Pasquale a finire il loro battibecco, che già volge all'accordo, per seguire un tratto il Giuliani e Michele.

Il nostro Templario uscì contento come una pasqua dalla bottega del legnaiuolo; non così Michele, a cui era rimasta una spina nel cuore.

—Maledetta lingua!—diss'egli.—Ho fatto male a lasciarmi sfuggire quelle parole.

—Perchè?—dimandò il Giuliani.

—Perchè adesso, se quest'altro ci girasse nel manico…. Non si sa mai….

—E quando pure girasse?

—Ma…. Ella mi capisce. Siccome quei furfanti verranno in cognizione del tiro di Pasquale, andranno da lui, lo sobilleranno, gli caveranno il segreto di corpo verranno a sapere che sono stato io….

—E poi?

—E poi…. Gli è vero! non sapranno niente più di quello che già era scritto in quel foglio.

—Vedete dunque, Michele, che non c'è nulla di guasto. Vi siete fatto sospettoso, da un pezzo in qua, diffidente come una lepre. E non eravate mica così nel passato; che anzi….

—Ah, signor Giuliani! chi è stato scottato dall'acqua calda una volta, ha paura della fredda. E dico questo a mo' di proverbio, che per verità l'acqua m'è venuta a piacere, d'ingrata che m'era, e il vino lo assaggio, ma non ne bevo mai più d'un sorso. Quello è un briccone; ma gli ha finito di giuntarmi, di cavarmi i segreti di bocca. Veda, signor Giuliani, io mi trovo certe volte a non aprire le labbra, per timore che m'esca il fiato e vada negli orecchi di quella brutta gente. Ora, mi scusi, veh! se batto sempre il medesimo chiodo; ho una paura maledetta che vengano a indovinare….

—E che cosa, di grazia? Che la signorina Maria non poteva esser dimenticata da Lorenzo Salvani? Che Lorenzo Salvani ci ha degli amici? Che questi amici lo aiuteranno secondo il poter loro, a render pan per focaccia? Ben sarebbero scemi d'intelletto, se non lo avessero argomentato alle prime! Ora, che cosa potrebbero sapere di più? Il filo che può condurli in questo labirinto s'interrompe qui; essi avranno sentore d'una insidia, ma senza intendere dove ella sia tesa, e in che modo. Questo è l'essenziale; ma questo non sapranno di certo. Noi abbiamo il loro segreto; essi non hanno il nostro. State di buon animo. Michele; fate il vostro dovere, io farò il mio; il nostro __Deus ex machina__ farà il suo. E riderà bene chi riderà l'ultimo.

—Non ho ben capito che cosa Ella si voglia dire, colla sua macchina;—soggiunse Michele;—ma le dico __amen__ dal profondo del cuore.—

XX.

Nel quale si fa la conoscenza d'un nuovo personaggio, che non giungeva altrimenti nuovo al Giuliani.

Per intendere la sicurezza del Giuliani, e come e perchè egli si facesse agevole ogni cosa, egli che aveva dovuto sudar tanto e stillarsi il cervello, solo per iscoprire un filo di quella trama tenebrosa che circondava la casa dei Salvani, bisognerà tornare parecchi giorni indietro, non senza aver prima rammemorato in succinto le cose fatte dall'animoso Templario, e detta la ragione di certe altre che sono passate dianzi sotto gli occhi dei lettori benevoli.

Qual parte avessero avuta i Templarii nel discoprimento di quella macchinazione infernale, è noto. L'ascoso nemico era stato rintracciato e scovato dal Giuliani, posto in sull'avviso dalle confessioni di Michele. Il Garasso, l'anello di congiunzione tra casa Salvani e i suoi coperti assalitori, era stato costretto a parlare, in quel modo che tutti sanno, a spifferare il nome di Bonaventura Gallegos, del fiero gesuita, del degno maestro del dottor Collini. La cassettina d'ebano, innanzi che fosse involata, avea detto per fortuna i suoi segreti a Lorenzo; e se non s'intendeva ancora per bene che importanza potesse avere agli occhi del capitano dei neri, già s'era capito che doveva averne, e non poca. Bonaventura ignorava che quella cassettina fosse stata aperta; che anzi le confidenze fatte al Bello dall'imprudente Michele, gli facevano argomentare che nè Lorenzo, nè altri, ci avesse posto ancor gli occhi. Ora, non pure Lorenzo, ma con esso lui Aloise di Montalto, l'Assereto e il Giuliani, erano a parte del segreto, e poterono cavarne quanto bastava per venire in aiuto alla sventurata Maria.

L'amicizia dell'Assereto e del Giuliani aveva procacciato a Lorenzo e ad Aloise, involti ambedue nelle trame dei neri, l'alleanza dei Templarii. Tutti quei rossi, d'ogni levatura e d'ogni ceto, avevano fatto causa comune; ma il carico delle operazioni molteplici, l'ardua malleveria del combattimento, strategìa, tattica, logistica, stato maggiore, armi dotte, tutto perfino l'intendenza militare, era sulle spalle d'un solo. Il marchese di Montalto, dopo aver detto agli amici quello che aveva risaputo a caso dai Torre Vivaldi intorno alla nuova ospite del monastero di San Silvestro, era stato tratto dai suoi fati sulle orme della marchesa Ginevra; l'aveva seguita da Genova a Parigi, da Parigi a Vienna, a Monaco, in Isvizzera, stazioni tutte d'un viaggio che lo conduceva speditamente in rovina. Questo è come dire ai lettori che l'innamorato Aloise non era un aiuto pe' suoi alleati, e, già presso al naufragio, doveva aver bisogno di aiuto egli stesso. L'Assereto aveva già fatto abbastanza, mettendo ogni cosa in mano ai Templarii; del resto, costretto a guadagnarsi il pane in piazza de' Banchi e sulle calate del porto, poco poteva aiutare gli amici, e rade volte andare alla Montalda, per salutare il Salvani. Nè questi, pel negozio della congiura, poteva muoversi dal suo nascondiglio; lo avesse anche potuto e voluto, la sua infermità non glielo avrebbe più consentito. C'era il Pietrasanta, l'allegro, lo spensierato Pietrasanta, che non s'era mosso da Genova, vogliam dire dai dintorni, poichè la Giulia Monterosso era in villeggiatura; ma che poteva far egli? Volevano i suoi cavalli? Li avrebbe anche fatti crepare, per comodo loro. C'era da dar la scalata al convento? L'impresa, quantunque gravissima, non gli avrebbe fatto paura. Occorreva denaro? Ne avrebbe dato, s'intende nella misura della sua borsa e del suo credito presso la nobilissima classe degli strozzini. Altro aiuto non c'era a sperare da lui; e ben lo intendeva il Giuliani, rimasto solo a far disegni di guerra, quasi solo a mandarli ad effetto, poichè non aveva altri con sè, tranne Michele, suo fidato scudiero.

Ma egli non si sgomentò, il nostro Giuliani: insieme colla malleveria gli crebbe l'ardimento. Domandava consiglio ai notturni colleghi, ma solo quando aveva cominciato a fare, e allora otteneva facilmente quella dispensa che in istile forense è detta sanatoria, e __bill__ d'indennità in istile parlamentare. La sua prima invenzione, dopo quella felicissima impresa col Bello, fece crollar mestamente il capo a Lorenzo, quando egli ne fu ragguagliato, come quella che pareva impossibile, ed anco se fosse stata possibile, menava assai per le lunghe. Ma le vie lunghe sono spesso le più brevi; e l'esito aveva dato ragione al Giuliani. Il suo scudiero, posto fin dagli ultimi giorni di luglio all'assedio, penetrava ai primi di settembre nella piazza, e non visto vi piantava lo stendardo della lega.

Questa vittoria ne chiamò un'altra assai presto. I lettori rammentano come Michele celebrasse il suo giorno onomastico, origliando dal buco d'una toppa il colloquio di Bonaventura col suo degno discepolo. Per tal modo il Giuliani veniva in chiaro dei disegni dell'inimico, un'ora dopo ch'erano stati fatti, e fin da quel punto aveva scorto il bisogno di avvisar la fanciulla della nuova trama che si ordiva contro di lei. Fin dagli ultimi giorni di giugno ella era stata chiusa, in veste di postulante, nel monastero di San Silvestro; ma il postulato durava sei mesi; c'erano adunque ancora tre mesi di tempo, innanzi che ella riuscisse alle strette del noviziato. Di ciò bastava avvisarla; tenesse fermo, non si smarrisse d'animo fino al segno d'accettare la monacazione come un rifugio da quelle orribili nozze che le apprestava il gesuita; fingesse di accettare la profferta; intanto sapesse che non era abbandonata, che Lorenzo e gli amici suoi vigilavano, l'avrebbero ad ogni costo salvata. E questo prometteva il Giuliani con asseveranza; perchè, ove pure altri spedienti gli avessero fallito, egli si sarebbe appigliato all'__ultima ratio__ della stampa, divolgando l'iniquo tentativo, facendo insomma uno scandalo, che avesse costretto la giustizia a mostrarsi degna del suo nome, aprendo alla fanciulla le porte del carcere.

Ma innanzi di metter mano agl'ingegni, il nostro Templario volle indettarsi con Lorenzo Salvani. Quel nuovo tiro di Bonaventura gli parve tale da non lasciarlo ignorare neanche lo spazio d'un giorno all'amico; epperò, non potendo più correre quella medesima sera alla Montalda, fece disegno di andarvi la mattina vegnente. Intanto, memore del detto d'Apelle: __nulla dies sine linea__, non lasciò passar quella sera senza provvedimenti. Fin da quando avea saputo esser la fanciulla nel monastero di San Silvestro, egli s'era industriato a scoprire chi fossero i laici che per ragion d'uffizio entravano colassù, e munito di quelle notizie, avea posto subito gli occhi addosso al gobbo legnaiuolo. Il giorno susseguente. Michele, sotto colore di certi lavori che voleva allogargli, entrava in dimestichezza con mastro Pasquale; una settimana dopo erano già amici, andavano d'accordo come le chiavi e il materozzolo; Michele passava tutti i giorni un'oretta in bottega di Pasquale; la sera, poi, andavano dal tavernaio a far la partita a tarocchi; Michele perdeva spesso, guadagnava di rado; non beveva quasi mai; ma pagava sempre egli il conto; e Pasquale n'aveva abbastanza. Or dunque, in quella medesima sera, il Giuliani ordinò a Michele che tastasse il suo uomo; occorrendo gli promettesse denari a larga mano, ed anco ne snocciolasse, per averlo più arrendevole. Ma non ci fu bisogno di tanto; Pasquale si dispose a fargli servizio, dicendogli che della ricompensa avrebbero parlato a loro agio più tardi.

Questa lieta notizia aveva avuta il Giuliani prima d'andarsene a letto, e la mattina seguente poteva recarla, insieme coll'altre, all'amico Salvani.

Erano già suonate le dieci, quando egli giunse al palazzotto dei Montalto. Affacciatosi appena sul piazzale, che, come i lettori rammentano, era partito ad aiuole di giardino, e dava il suo quotidiano tributo di fiori alla tomba della marchesa, gli venne veduto il vecchio Antonio, intento, secondo il suo costume, a far qualche cosa, per non istarsene colle mani alla cintola. Fattosi allora innanzi, gli chiese del suo amico Salvani e del marchese di Montalto, ch'egli aveva lasciato lassù, l'ultima volta che c'era stato per salutare l'infermo. Aloise era partito da sei giorni, gli rispondeva il vecchio servitore; Lorenzo, uscito di convalescenza, aveva ripigliate le sue consuetudini, ed era per l'appunto da due ore andato a fare la sua passeggiata pei greppi.

—Andrò dunque a rintracciarlo lassù;—disse il Giuliani, nell'atto di tornarsene fuori.

—Non vuol fare colazione prima di andare?—gli chiese Antonio, che conosceva il suo debito di cerimoniere.

—Più tardi, più tardi;—rispose il Giuliani.—Non ho ancora appetito.

—Vuole che l'accompagni?

—No, conosco la strada, se egli è andato al suo solito luogo.

—Oh, il signor Salvani non muta; sempre alla Bricca. Pigli la viottola della costa, poi volti a diritta….

—Lo so, Antonio, lo so; grazie tante, e a
  rivederci.—

Ciò detto e senza aspettare la sberrettata del vecchio gastaldo, il Giuliani scese il poggio della Montalda, e giunto alla stradicciuola campestre, tornò a salire su per la costiera, verso quella balza che era la meta delle gite quotidiane dell'amico. La Bricca era un luogo veramente selvaggio, la cui orridezza piaceva a Lorenzo, se pure può dirsi che cosa alcuna gli piacesse, dacchè era uscito fuggiasco da Genova. Su per quei greppi egli andava in compagnia de' suoi tristi pensieri, senz'altro viatico che un libro, trascelto nei pochi e polverosi volumi della Montalda, un vecchio Cicerone nel quale egli leggeva per la quinta volta le stupende pagine __De Senectute__. Era l'unico intermezzo ch'egli ponesse nelle sue dolorose meditazioni. Quel trattatello di vera e sana filosofia, così serenamente malinconico in quella che era così schiettamente elegante, se per avventura non gli racconsolava lo spirito, certo lo disviava per alcuni istanti dalle sue cure, riusciva una sosta a' suoi struggimenti.

Non era uno svago, di certo; nè sempre accadeva ch'egli spendesse nella lettura quegl'istanti di alpestre riposo. Talvolta gli occhi soli seguivano macchinalmente i periodi armoniosi del gran dicitore romano, mentre lo spirito era altrove. Tal altra il pensiero dominante s'addormentava un tratto nel profondo, ma per rifarsi a punger più forte la sua vittima. E allora il libro si richiudeva, e Lorenzo Salvani rimaneva sopraffatto, istupidito dall'interna amarezza. Sentiva dentro di sè come una grande rovina; non aveva forza da opporre. Questi, che così soffrono, sono gli animi forti, o che si chiamano tali; chè veramente non ce ne sono di autentici, fuorchè in apparenza. L'aspetto è composto, la fronte è serena, solo perchè il cuore si divora le sue lagrime, trangugia le sue maledizioni e s'avvelena del suo fiele.

Quando il Giuliani ebbe afferrate le alture della Bricca, e fu tanto vicino da scorgere fra mezzo ai cespugli se l'amico fosse al suo posto consueto, Lorenzo non leggeva, non meditava, non era neppur solo. Ciò parve strano al nuovo venuto, poichè Antonio non gli aveva detto d'altri che quella mattina fosse giunto prima di lui alla Montalda. Però si trattenne alcuni istanti a guardare, quasi temendo non fosse Lorenzo quel giovanotto che egli vedeva di profilo, seduto a terra, colle spalle appoggiate al ruvido tronco d'un pino gigantesco, intento ad udire i discorsi d'un vecchio signore, che stava ritto in piedi poco distante da lui. Ma era proprio Lorenzo; il Giuliani udì la sua voce, e ne riconobbe l'accento, proprio in quel punto che lo sconosciuto si accorgeva della presenza del nuovo arrivato, e col moto involontario delle ciglia facea voltare da quella parte il Salvani.

—Oh, siete voi?—disse Lorenzo con piglio affettuoso, da cui traspariva una certa ansietà.—Siate il benvenuto su queste alture, che da tanti giorni non vi vedono più.—

Il Giuliani si fece innanzi a stringergli la mano, ma non disse parola. Egli guardava il vecchio signore, che all'apparire di lui era rimasto, se non per avventura turbato, certo scontento, e di molto. Lorenzo proseguì presentando il giovine all'uomo maturo.

—Il signor Giuliani, dottore in leggi, giornalista, ed uno de' miei amici migliori. Nelle mie sventure io ci ho avuta, contro ogni costume, la fortuna di sperimentar saldi i vecchi amici, e di trovarne dei nuovi, schietti ed operosi egualmente; segno che la razza umana non è così perversa come si crede.—

Intanto che Lorenzo parlava, il Giuliani seguitava a guardare, sebbene modestamente, come s'usa tra persone costumate, il vecchio signore. Chi è costui? andava egli pensando tra sè. Non l'ho io già veduto? Ma dove? E non poteva raccapezzarsi. Quel volto non gli era ignoto, e questo gli affermava la sua memoria; ma ella non sapeva dirgli altresì come e quando l'avesse egli veduto.

—Il signor Salvani non mette in conto una cosa,—soggiunse egli, ponendo fine alle sue interrogazioni mentali;—ed è la tempra nobilissima del suo carattere, che ha virtù di attrazione. Uomini come lui, avranno nemici coperti, astuti, implacabili; ma troveranno sempre amici schietti, costanti, e battaglieri, ove occorra.—

Lo sconosciuto, a cui, come era stata fatta la presentazione, era rivolta l'aggiunta del presentato, rispose con un cenno del capo alle prime parole del Giuliani; all'ultime col farglisi incontro.

—È verissimo ciò che voi dite, o signore. La vostra mano, che io la stringa, come l'ha stretta il signor Salvani!

—Cioè a dire da amico?

—Ci s'intende;—rispose lo sconosciuto, stringendo quella destra che il Giuliani non offriva nè ricusava.

—Ci s'intende!—disse il Giuliani tra sè.—Ci s'intende un cavolo! E non mi dice nemmeno il suo nome! Che modi son questi? Io ho la visiera calata; egli la tiene alzata sugli occhi, e porta l'impresa dello scudo coperta. Ma io lo conosco, costui; l'ho veduto, e non deve essere gran tempo. O dove diamine l'ho veduto? Questa è la disgrazia di vedere tante facce nuove ogni giorno, che una fa perdere la memoria dell'altra. Dicono che Napoleone gran capitano, l'avesse così salda, la memoria, da ricordarsi il volto del più oscuro personaggio ch'egli avesse veduto dapprima. Vedete gran caso, ricordarsi dei volti! Ma il nome, il nome bisognerebbe ricordare; questo è il busilli.—

La curiosità del Giuliani e la sua diffidenza erano tanto più ragionevoli in quanto che la figura del vecchio era di quelle tali, che, vedute una volta, non si dimenticano più. Vecchio, a rigor di vocabolo, non si poteva neppur dire, essendo egli appena in quella età fra i cinquanta e i cinquantacinque anni, che segna bensì il riposo delle passioni, ma ancora la maturità del senno per la comune degli uomini. Folta aveva la capigliatura, ma bianca, senza pure un filo di nero, e medesimamente i baffi, che scendevano lunghi ad ombreggiargli le labbra; donde un maggior risalto ad una carnagione che sarebbe apparsa pallidissima, se non fosse stata abbronzata per modo da lasciarlo credere lungamente vissuto sotto la sferza d'un sole equatoriale. Il suo volto era di belle fattezze; i lineamenti larghi e ricisi spiravano un'aria di gran nobiltà; e l'avrebbero anche avuta di somma dolcezza, se i suoi grandi occhi azzurri, affondati nelle orbite, non fossero rimasti di soverchio all'ombra sotto l'arco delle folte sopracciglia, in mezzo alle quali un fascio di rughe profonde poteva raffigurare i fulmini di Giove, in atto di sprigionarsi dalle nubi. Era di giusta statura, e di membra asciutte; le spalle non erano curve, ma tali le faceva sembrare il capo chino per antica consuetudine, e s'intendeva agevolmente che non lo avesse incurvato a quel modo il peso degli anni, bensì quello dei gravi pensieri.

Restringendoci per ora a dipingere l'uomo estrinseco, non diremo che pensieri fossero i suoi. Nè dal volto di lui era dato indovinar l'animo, come pure si argomentano di poter fare taluni. In quel volto, che doveva essere stato bellissimo, era alcun che di concentrato, di buio, che non lasciava trapelare nè arguire nulla di certo. Si sarebbe potuto dire un volto di gran diplomatico, se non si sapesse che l'aria chiusa, il far misterioso di questa gente, anzichè dall'indole loro, deriva dallo ignorare alcune volte gli arcani dei loro governi, e quasi sempre dallo aver sperimentato la mutabilità della ragione di Stato a cui servono. Che avesse patito, si poteva anche credere; ma chi non ha patito a questo mondo? Meglio sarebbe il dire che aveva vissuto, e vivendo aveva imparato come si debba nascondere l'animo suo a quella moltitudine di sciocchi o di malvagi, che sono, giusta i computi più recenti e più accurati, i due terzi del buon genere umano.

Quest'aria di mistero spiacerà, ne siamo certi, alle lettrici impazienti; ma spiacque maggiormente al Giuliani, che ricordava di aver visto quell'uomo, e non sapeva più dove, che lo considerava attentamente e non ne raccapezzava nulla, neanche l'origine. Vestito con quella severa eleganza britannica che è ormai diventata il privilegio dei gran signori d'ogni paese, lo sconosciuto parlava italiano con rara sceltezza di vocaboli e con accento rotondo, armonioso, che arieggiava il romano, senza esser tale a dirittura; ma la costruzione delle frasi sapeva un tantino di forestiero. Certo egli era nato altrove, e vissuto a lungo in Italia; ma di qual parte del mondo civile egli fosse, non era dato al Giuliani d'intendere. E questo aguzzava la curiosità, e colla curiosità la diffidenza del giovine.

—Orbene, Giuliani,—disse Lorenzo, poichè ebbe finita quella bisogna preliminare della presentazione,—c'è egli del nuovo a Genova?

—Del nuovo…. secondo i casi;—rispose il Giuliani con aria di riserbo, che non sfuggì all'attenzione di Lorenzo.

—Potete parlar liberamente;—soggiunse questi.—Il signore non è straniero alle mie sventure, e potete considerarlo come un fratello.—

Lo sconosciuto fece un gesto amorevole, quasi un inchino, alle parole di Lorenzo. Ma nè l'atto di lui, nè la fiducia di Salvani, toccarono il cuore al giornalista.

—Questo poi passa ogni misura!—pensò egli nel più riposto della sua coscienza.—Non lo conosco; non mi si dice neppure il suo nome; ed io dovrò aprirmi con lui? Fossi matto!—

E mentre così pensava, ad alta voce proseguì:

—Lo credo benissimo, ma proprio non ci ho nulla di nuovo per voi. Son venuto per salutarvi, ed anche un po' per vedere il marchese di Montalto.—

A quel nome la faccia dello sconosciuto si fece scura, come se una nube gli passasse sugli occhi. Il Giuliani, che s'era voltato a lui, come per dargli la sua parte dei gran segreti che gli uscivano dalla bocca, colse quella nube al volo, e la messe di costa a tutte l'altre ragioni di diffidenza che ci aveva nell'animo.

—Il nostro amico Aloise è partito, or fanno sei giorni:—disse Lorenzo, che non aveva notato nulla.—Egli voleva rimanere, come mi aveva promesso; ma io lo vedevo così triste, che a mala pena mi son sentito in gambe per uscir fuori di casa, gli ho restituito la sua libertà, e l'ho mandato via. Povero amico! Egli ha certo dei gravi dispiaceri!—

Il Giuliani ne sapeva la sua parte, dei dispiaceri di Aloise; perchè nel colloquio di Bonaventura e del suo degno discepolo se n'era lungamente parlato, e quello che Michele gliene aveva rifischiato era tale da mettere in gran pensiero il Giuliani. Ma anche questo era un discorso da non farsi in presenza d'un terzo, e il Giuliani stette mutolo, come se Lorenzo non avesse parlato con lui.

XXI.

Dove si vede come si possa avere un amico, senza sapere il suo nome.

La conversazione moriva di languore. Posto tra lo sconosciuto che non poteva, e il Giuliani che non voleva dir nulla, Lorenzo deliberò di farla finita.

—Torniamo a casa;—diss'egli;—Voi sarete partito da Genova senza far colazione, e la corsa vi avrà svegliato l'appetito.

—Parlate pure liberamente;—soggiunse il Giuliani, copiando una frase dell'amico;—dite la fame; che questo è il vocabolo __ad hoc__.—

Quelle erano parole da metter fine ad ogni chiacchiera, se pure tra quei tre ci fosse stata voglia di farne. Però Lorenzo, aiutato dal vecchio, si alzò da sedere, e il Giuliani vide allora come fosse ridotto allo stremo. Del povero Salvani non c'era altro che l'ossa e la pelle.

Una tristezza infinita gli entrò nel cuore a quella vista, e si avanzò per offrirgli il braccio; ma quell'altro era stato più pronto di lui, e Lorenzo aveva accettato l'appoggio con un sorriso di gratitudine. Però il Giuliani rimase indietro, a chiuder la marcia.

Si barattarono poche parole in quella discesa, perchè la stradicciuola era sparsa di sassi e bisognava guardarsi a' piedi. Lorenzo come un convalescente che sperimenta le sue forze, badava alla strada; lo sconosciuto, tutto sollecitudine per Lorenzo, lo sorreggeva ne' passi più malagevoli, che non incespicasse, e lo esortava amorevolmente a non volersi affrettare; il Giuliani, che era sciolto d'ogni cura materiale, e poteva lasciare alle sue gambe l'ufficio di portarlo, badava allo sconosciuto, e si stupiva di udirlo a chiamare Lorenzo col nome di figlio, quando gli volgeva il discorso.

—Che novità è questa, da quindici giorni che non sono venuto alla Montalda? O donde è sbucato, questo signor padre? Che ogni dì nascano funghi, lo dice anche il proverbio; ma, padri, in verità, non lo ha mai detto nessuno.—

Così andava il Giuliani ragionando tra sè. E non credano i lettori che lo facesse pensare a quel modo un pochino di quella gelosia che tutti sentiamo al veder gente nuova farsi troppo dimestica coi nostri amici più cari. Gli amici del Giuliani, i prediletti, erano il Contini, il capitan Dodero e gli altri colleghi Templarii. Egli poi, come tutti i gran lavoratori, sentiva bensì forti simpatie, ma non aveva alcuna di quelle strette amicizie che fanno andare due uomini l'uno all'altro indissolubilmente legati, come due galeotti (scusate il paragone) dalla stessa catena. Il tempo e l'agio a far ciò, gli erano sempre mancati; non già le anime che fossero degne della sua, i caratteri che si confacessero al suo. Amava Lorenzo, perchè Lorenzo aveva bisogno di lui; ma più ancora che l'uomo, amava la lotta che per esso doveva sostenere.

Le varie vicende della vita pubblica lo avevano condotto a non vedere negli uomini se non altrettante incarnazioni di principii; però difendendo il tale, e combattendo il tal altro, non sempre amava e non sempre odiava gli uomini che era tratto a difendere o a combattere. E quante volte non gli occorse di dover chiudere le sue simpatie nel profondo del cuore! Quante volte, in cambio di odiare il nemico, non si fermò egli nel bel mezzo della mischia, per lodare un bel colpo che gli rompeva un pezzo dell'armatura! Con quanti non s'avvenne a correre una lancia, che gli erano cari, più cari di taluno de' suoi! E allora il Giuliani avrebbe fatto volentieri come Glauco e Diomede, nel più fitto della pugna tra Greci e Troiani; avrebbe barattato le armi col suo avversario, e giurato di non alzare più il braccio contro di lui.

Bei voti, buoni pei tempi eroici! Chi così fa di presente, ha nota di fiacchezza imperdonabile tra' suoi. Ed anco allora, chi sa, forse i Greci non la perdonarono a Diomede, se non perchè guadagnava nel cambio; poichè le armi del Greco erano di rame, e quelle del Troiano erano d'oro. Basta, torniamo al Giuliani, al Giuliani che combatteva, e da buon capitano vigilava sul suo campo, nè poteva patire l'intrusione di gente straniera, che poteva esser nemica, innanzi che egli l'avesse conosciuta, e passata, stiamo per dire, allo staccio.

I nostri tre viaggiatori giunsero finalmente a un punto della costiera, ove la stradicciuola si partiva in due, l'una che seguitava al basso, l'altra che saliva dolcemente verso il poggio coltivato, su cui torreggiava il palazzotto.

—Ecco la Montalda!—disse Lorenzo, fermandosi.—Un edifizio austero, ma bello.

—Austero fin troppo!—notò il Giuliani, rattenendo il passo egli pure, e alzando gli occhi a quella volta.

—È il più bel luogo che io mi conosca!—sentenziò lo sconosciuto, con un accento malinconico che contraddiceva alla lode.

—Non vorrete venire una volta a vederlo?—chiese amorevolmente il Salvani.—Il marchese di Montalto mi ha lasciato tutti i suoi diritti di padronanza, ed io posso far le sue veci con voi.

—Diritti!—borbottò il Giuliani tra' denti.—Non vogliono durar molto, se quello scorpione del Collini ha detto il vero.—

Intanto lo sconosciuto così rispondeva all'invito di Lorenzo:

—No, grazie; debbo scendere fino al paese per pigliar le mie lettere, e tornerò tra due ore. Se sarete sulla strada vi saluterò, innanzi di ridurmi a casa.—

E quasi a premunirsi contro il pericolo di un secondo invito, il forestiero, stretta la mano a Lorenzo, e fatto un profondo saluto al Giuliani, infilò la stradicciuola che metteva alla valle.

—Sempre così!—disse Lorenzo, appoggiandosi al braccio del Giuliani, per far la salita.—Non ha mai voluto muovere un passo alla Montalda.

—Dove sta egli di casa?—dimandò il giornalista.

—Lassù,—disse Lorenzo, voltandosi indietro;—di là dalla Bricca, un quarto di miglio discosto dal luogo ove eravamo seduti.

—E chi è costui?

—Non lo conosco.—

Al Giuliani cascò l'asino a dirittura. Non cascò egli, per altro; che anzi stette fermo più che mai su due piedi, e voltatosi di sbieco, guardò in volto Lorenzo, come per sincerarsi se parlasse da senno.

—Non lo conoscete?

—Ve l'ho detto; non lo conosco.

—Bravo! Ed egli sa i fatti vostri?

—A un dipresso;—rispose Lorenzo.—Vi sa di strano?

—No; che diamine? Mi sembra anzi la cosa più naturale del mondo;—soggiunse il Giuliani con un piglio che i lettori indovineranno di certo.—Se fosse un vecchio amico, capirei che s'avesse a star sulle guardie; ma un amico recente, anzi un ignoto…. che s'ha a temere da lui?

—Siete ingiusto;—disse Lorenzo, che capiva il latino.—Tutto da un altro, niente da lui. Se sapeste in che modo io l'ho conosciuto!…

—Ditelo, amico Salvani, ditelo, in nome di Dio, che io possa cavarne profitto; sapere verbigrazia se non sia più utile confidare i proprii segreti, anzichè ad un amico provato, al primo che capita, che non s'è mai visto, nè conosciuto.

—Come v'infiammate, Giuliani! Calmatevi!—disse Lorenzo, accompagnando la frase con uno de' suoi mesti sorrisi.—Ho conosciuto quel signore alla Bricca, la prima volta che mi sono provato a inerpicarmi lassù, dopo la partenza del nostro ottimo Aloise. Ero solo; a salire non ho durato gran fatica, poichè andavo adagino; tuttavia, giunto al mio posto consueto, mi avvidi di aver fatto troppo a fidanza colle mie forze convalescenti. Quel signore passava di là, mentre io cascavo dalla stanchezza; mi salutò e tirò dritto. Non so perchè si sia fermato più in là; forse perchè si addiede del mio stato. Io, certo, dovevo parergli un agonizzante. Fatto sta, che egli rifece la strada e mi domandò che cosa avessi, e se mi occorresse aiuto. Lo ringraziai; barattammo alcune parole, e che so io? si sedette vicino a me, parlandomi dell'aria campestre, del cielo, del mare, del libro che avevo tra mani; a farvela breve, due ore erano passate, e stavamo ancora a conversare insieme, senza esser rimasti pur un istante impacciati. Mi ricondusse egli stesso fino al portone della villa, ed io gli dissi: a rivederci. Perchè? Non lo so. Quell'uomo mi piaceva, perchè era mesto, perchè ne' suoi modi, ne' suoi discorsi, non c'era nulla di volgare. Credete che egli operasse in tal guisa con un secondo fine? Poteva egli sapere di trovarmi lassù?

—Continuate, Salvani; il vostro racconto mi tiene attentissimo.

—Il giorno seguente egli stava aspettandomi a mezza strada, fra la Montalda e la Bricca. Seppi che dimorava in una sua palazzina, di là da quel bosco. Mi offerse di condurmi a riposare un tratto nel suo èremo; ci andai, e vidi una casa malinconica come il suo padrone. Colà rimanemmo a lungo, ragionando di mille cose e di nessuna. Non mi chiese nulla de' fatti miei; solo mi parlò di forti dolori dell'animo, i quali distruggono la sanità del corpo: e così, senza sforzo, mi sentii tratto a confessargli che il mio male era nel cuore. Anch'egli mi narrò di aver molto patito; nè mi diceva cosa nuova, perchè l'avevo già indovinata al solo vederlo. C'intendemmo in tal guisa; nè fu bisogno di più minuti particolari. Poco parlammo del presente, assai più del passato; egli mi narrò della sua sconsolata giovinezza, io della morte di mio padre sulla tomba di sua moglie, della mia povera madre. Vi accenno la cosa, perchè ricordo di averlo veduto piangere. Così diventammo amici; così venni a raccontargli una parte di me. Nè egli mi aveva chiesto nulla: egli sapeva a mala pena il mio nome, e lo sapeva per caso; poichè avendomi egli tolto, la prima volta che mi profferse il suo aiuto, pel marchese di Montalto, io gli avevo risposto chiamarmi Salvani, e non esser altro che l'ospite e l'amico di Aloise.

—Segno che non lo conosceva!—notò il Giuliani.

—Di veduta, no certo;—soggiunse Lorenzo;—ma dimorando da queste parti, e dovendo passare ogni giorno per questo sentiero, aveva veduto il palazzo e saputo il nome del padrone.

—Avete ragione; continuate.

—Ho finito. In questi ultimi giorni abbiamo continuato a vederci, e ogni nuovo colloquio non ha potuto che raffermare nell'animo mio il buon concetto che m'ero formato di lui; per modo che mi sapeva mill'anni di veder voi, l'Assereto e Aloise, per farvelo conoscere ed amare. Non amate voi i vecchi, Giuliani? Non vi par egli di starci meno a disagio che coi giovani? La loro compostezza, la severità, poniamo anco soverchia, non vi urtano, non vi opprimono, come la spensierata allegrezza, come lo spirito chiassoso, turbolento, di questi. Ogni simile ama il suo simile, voi lo sapete; e noi siamo vecchi, Giuliani, vecchi, molto vecchi qua dentro.

—Dite pur logori, se parlate per me;—soggiunse il Giuliani.—Il mio cuore ha cinquant'anni; il mio cervello ne ha cento. Tirate la somma; cento cinquanta; o non vi pare ch'io n'abbia da vendere, d'anni e d'esperienza, a moltissimi? Ora, questa m'insegna che chi si fida rimane ingannato. Quel vostro vecchio sarà un brav'uomo; ma non mi capacita. Chi è costui? Non sapete il suo nome, ed egli sa il vostro; non sapete neppure da che parte egli venga….

—Questo lo so;—interruppe il Salvani;—dal Brasile, dove ha vissuto lunghi anni; dall'Asia, che egli ha viaggiata da capo a fondo, innanzi di venire in Italia.

—Ah!—interruppe Giuliani, a cui in quel punto tornava la memoria smarrita.

—Che c'è?—chiese Lorenzo, volgendosi a lui.

—Nulla, nulla!—fu pronto a risponder l'altro.—Questi sassi non mi riconoscono più, e mi hanno quasi storpiato. Per fortuna sto saldo sulle gambe; se no, me ne slogavo una, a dir poco.—

Lorenzo, intento com'era nel suo racconto, non s'addiede del sotterfugio.

—Volete riposarvi?—diss'egli.

—No, no;—rispose il Giuliani.—Già siamo vicini al piazzale; andremo a sederci a tavola. Non ricordate che ho fame?—

E fatte queste parole, proseguì la sua strada, leggermente zoppicando.

—Basta, lasciamo il vecchio da banda,—disse egli, per mutar discorso.—Ho a dirvi di cose importanti…. Ma non mi fate, per carità, quella cera da funerale. C'è del nuovo, ma volgerà in bene; il gesuita e quella birba matricolata del suo scolaro, si saranno aguzzato il palo sulle ginocchia.—

Così preso l'aire, e intanto che salivano in casa, dove egli fu pronto a sedersi dinanzi ad una mezza dozzina di uova a bere, che, consapevole de' suoi gusti, gli aveva preparati il provvido Antonio in una scodella d'acqua bollente, il Giuliani raccontò all'amico tutto ciò che sapeva del colloquio udito da Michele, in casa il Gallegos. Inutile il dire con che attenzione stesse in ascolto il povero Salvani, e come ci volesse fatica a chetarlo, quando udì del nuovo laccio teso a Maria. Per ventura, il Giuliani non aveva anche vuotato il sacco, e quella trovata del legnaiuolo delle monache, il quale s'era assunto di avvisar la fanciulla e recarle insieme una parola di speranza, valse più d'ogni amorevole esortazione a tranquillargli lo spirito.

Nè egli aveva dimenticato (e se pure gli fosse uscito di mente, quell'ultima trovata glielo rammentava più efficacemente che mai) di quanto andasse debitore al Giuliani e a' suoi operosi colleghi. Mercè loro, gli autori di quel tranello, sebbene con ogni maggior cura nascosti, erano stati scoperti: trovato il luogo in cui era stata chiusa la fanciulla; astuzie opposte felicemente ad astuzie; e se Maria stava per esser tolta dall'ugne dei tristi, certo era per l'ingegno e l'ardimento di quegli instancabili amici. Però egli, commosso, stese la mano al Giuliani.

—Se voi non giungevate in mio aiuto,—disse egli,—io non saprei nulla di nulla; forse sarei morto di dolore e di rabbia impossente, al pensiero della mia casa disfatta, dei miei nemici padroni del campo. E come può essere che io, sventurato qual sono, abbia trovato tanti generosi che m'hanno profferta la mano, e si mettono ad ogni sbaraglio per me?

—Già ve l'ho detto lassù, alla Bricca. Questi miracoli, se pure vi paiono tali, dovete ascriverli alla tempra nobilissima del vostro carattere che ha virtù d'attrazione. Nemici ne avrete, implacabili, feroci; ma non vi mancheranno amici costanti e battaglieri all'occorrenza. Ma veniamo ad altro; ora incomincian le dolenti note, ho a parlarvi del marchese Montalto.—

Qui il Giuliani narrò per filo e per segno tutto quanto era stato detto di Aloise in quel colloquio così in buon punto origliato da Michele. Ma a questa parte del giuoco di Bonaventura non si poteva rispondere di trionfo come all'altra, perchè il Giuliani non era milionario, pur troppo. Aloise era agli sgoccioli; le sue sostanze, non molte, come tutti sanno, erano ite per la china delle matte spese, e il famoso banco Cardi Salati e C. le aveva grandemente aiutate a scorrere. E c'era anche di peggio, che racconteremo tra breve, non volendo ora allungar di soverchio il capitolo.

Lorenzo, che molto amava Aloise, ne fu oltremodo turbato. Come rimediarvi? E chi, potendo, l'avrebbe voluto? Povero Aloise! Egli intendeva in quel punto le cagioni della sua profonda mestizia. Ma come mai Aloise, così saldo di mente, così assegnato nello spendere, aveva potuto d'un tratto uscir così fuori delle sue consuetudini, darsi così spensieratamente a sfoggiar da gran signore? E la Montalda, retaggio de' suoi maggiori, dov'era la tomba di sua madre, la cui memoria era tanto venerata da lui!… Questi pensieri si succedevano, turbinavano nell'anima di Lorenzo, che in quelle di Aloise dimenticò le sue medesime sventure. Ed egli non sapeva ancora ogni cosa; non sapeva che il suo povero amico, disfatto nelle sostanze, era mortalmente ferito nel cuore.

In queste malinconie trascorsero due ore. Il Giuliani, che già più volte aveva guardato l'orologio, si alzò finalmente, scusandosi coll'amico di non poter rimanere più oltre. Era molto affaccendato; sarebbe tornato il giorno seguente, per dirgli l'esito del suo stratagemma in monastero, che era del resto certissimo; stesse dunque di buon animo, e intanto non si muovesse di casa per accompagnarlo al portone.

—Voi andate adagio,—diceva egli,—ed io ho bisogno di volare.—

E volò infatti, senza aspettare altre parole dell'amico, dal palazzo alle falde della collina. Ma giunto colà, in cambio di scendere, prese a salire; pochi minuti dopo era alla Bricca, e infilava il sentieruolo che metteva all'èremo dello sconosciuto.

—Non doveva rimaner più di due ore;—pensava il Giuliani, mentre studiava il passo a quella volta.—A quest'ora ha da essere già passato. Ah, eccolo, è lui!—

XXII.

Qui si conta del Giuliani, come sapesse afferrar l'occasione pel ciuffo.

Diffatti era lui; il Giuliani lo scorse tra gli alberi, in una insenatura che faceva il sentiero. Egli se ne andava a passi lenti e misurati, col capo chino sul petto, come se volesse contare i ciottoli della strada, verso la casa che si vedeva biancheggiare nel fondo.

Il Giuliani affrettò il passo, per giungergli alle calcagna. Lo sconosciuto lo udì, poichè si volse indietro; e vedutolo, si fermò ad aspettarlo.

—Ella non s'argomentava di vedermi oggi una seconda volta, signor duca di Feira?—

Così disse il Giuliani con piglio tra cortese ed ironico, in quella che si accostava a lui. Lo sconosciuto, così pigliato __ex abrupto__, non fece alcun atto di maraviglia, e sebbene fosse difficile non addarsi del tono con cui gli aveva parlato il giovinotto, non parve darsene pensiero, poichè gli rispose con nobile serenità.

—Certo, oltrepassato il palazzo, non pensavo di averla più ad incontrare. Ma poichè Ella ha voluto giungere fin qua, tanto meglio, potremo parlar più tranquilli.—

A queste parole dovette maravigliare il Giuliani.

—M'aspettava?—diss'egli tra sè.—Dopo tutto, perchè no? Egli doveva capire che quando c'era un terzo in un segreto, non si può rimanere senza invitarlo a dichiararsi, pro o contro.—

Intanto che così pensava, il Giuliani rispondeva con un mezzo inchino alle parole del duca, e gli si metteva a pari, per andar di conserva.

—Il signor Salvani sa già il mio nome?—chiese il vecchio, entrando anch'egli difilato in argomento.

—Non ancora,—rispose il Giuliani,—ma lo saprà quanto prima.

—È inutile,—sentenziò il vecchio.

—Tanto almeno quanto il non saperlo;—disse di rimando il Giuliani.

—Può darsi,—soggiunse l'altro;—ma Ella sarà tanto cortese da non dirglielo. A che pro' mettere il ghiaccio delle cerimonie nella nostra amicizia fraterna? Questi titoli altisonanti che paiono far l'uomo più grande del vero, non aiutano di certo a mantenere le buone relazioni da pari a pari, così naturalmente nate dal caso, come la nostra. Se gliel avesse detto subito, meno male!

—E perchè non gliel ha detto Lei?—

A quella dimanda, un tal poco impertinente, il duca di Feira si volse a mezzo per dare un'occhiata al Giuliani. Ma fu un'occhiata tranquilla, senz'ombra di sdegno.

—Non me l'ha chiesto;—rispose.—Io poi non ho alcuna ragione a celarmi. Sapevo bene che un dì o l'altro sarebbe giunto da Genova qualche amico del signor Salvani, il quale potesse sapere il nome d'un forestiero, come son io, giunto da due mesi costà, e non rimasto ascoso alla gente. Ma poichè Ella mi dà l'esempio delle dimande, signor Giuliani, ne consenta una anche a me. Perchè non ha detto subito il mio nome al nostro amico, quando io li ho lasciati?

—Ci avevo le mie ragioni….—rispose il giovanotto.

Ma nel profferire quelle parole, si avvide che erano troppo acerbe, e fu sollecito a soggiungere:—le mie ragioni, che Le dirò schiettamente tra breve.

—Io dunque torno a rallegrarmi di non averla incontrata laggiù;—ripigliò il duca, sorridendo cortesemente;—poichè ad una conversazione come la nostra, la tranquillità di quattro pareti è più conveniente d'una pubblica strada. Ma eccoci a casa mia, voglia entrare, e considerarsi il padrone.—

Il Giuliani non rispose altro, ed entrò lestamente, senza pur dare un'occhiata alla palazzina, del resto assai poco notevole per architettura, in cui dimorava il suo ospite. Egli e il duca salirono una scala modesta, scortati da un servitore nero, o quasi, che pareva mutolo. Costui, diffatti, non disse verbo, e a certe dimande che gli fece il padrone in lingua forestiera, e che certamente non era tra le parlate in Europa, ripose a cenni rispettosi del capo.

—Un servitore di poche parole!—notò il Giuliani, mentre salivano.

—Ah sì, povero Sindi!—rispose il Duca.—Egli cincischia tutte le lingue de' paesi, nei quali mi segue da ott'anni, ed io lo compenso parlandogli il suo bengalese, che egli sta ascoltando con venerazione, come un sacro ricordo della patria. Non è egli vero, Sindi?

Il servitore, dall'alto del pianerottolo dov'era giunto, e dove stava raccogliendo colla mano i lembi della portiera, rispose con un breve sorriso.

—Questo signore è amico mio,—soggiunse il duca,—e tu lo avrai come un altro me stesso. Suvvia, di' due parole in italiano.

—Sindi farà come padrone comanda;—rispose il servitore con breviloquenza spartana.

Intanto, nel cuore del Giuliani s'andava operando un gran mutamento. Quella imperturbabile serenità di volto, quella severa dolcezza di modi, se al tutto non lo avevano soggiogato, attiravano già tutta la sua attenzione. Anch'egli incominciava, suo malgrado, a sentire quello che pochi giorni innanzi aveva sentito Lorenzo, e già, mentre si preparava a combattere, andava rimasticando il desiderio di trovare in quel mesto gentiluomo un amico.

—E adesso,—parlò il duca, come furono soli nel salotto,—sedete, signor Giuliani, e ditemi in che posso tornarvi a grado. Lascio, come vedete, il Lei, che è troppo cerimonioso, e vi prego a fare altrettanto.

—Volentieri, signor duca; alla romana,—rispose il Giuliani.—Ed entro subito in materia. Anzitutto non vi sembri disdicevole questo mio venire a mezza spada con voi, che conosco a mala pena di veduta da un mese, e di parole da tre ore. Sono amico di Lorenzo Salvani; non già da anni, da mesi, ma le grandi necessità fanno le grandi amicizie. Lorenzo è sventurato; la sua indole nobilissima lo ha messo in guerra coi tristi; le sue opinioni politiche ugualmente; un segreto di famiglia che il caso aveva posto nelle sue mani, anche più. Egli è tre volte perseguitato, da quella bieca sètta che non perdona a generosità di carattere; che vede nel progresso umano la sua morte; che vuol vivere ad ogni costo, e s'abbarbica dovunque le venga fatto, nè rifugge dalle più nere trame, da più pravi disegni, pur di afferrare un comando che i tempi mutati, lo spirito di libertà che li informa, le hanno strappato di mano.

—Lo so;—disse il duca.

—Orbene,—proseguì il Giuliani,—se Lorenzo è tre volte perseguitato, è anche tre volte difeso; difeso da noi, giovani suoi pari, inesperti se si vuole, ma volenterosi, ma ardenti, e sorretti, se non da soverchio di forze nostre, dalla stessa bontà della causa.

—Lo so;—disse ancora il duca.—Non m'è ancora ben noto tutto quanto questi prodi amici hanno fatto per lui; ma quello che io ne ho in parte udito e in parte indovinato, me li fa grandemente stimare. L'amicizia, a parer mio, dovrebb'essere sconfinata come l'amore, e aver la medesima impresa: «__O tutto, o nulla__».

—Così la penso anch'io;—soggiunse il giovinotto.—Ma così pensando, non vi parrà strano che io venga da voi, e vi dica: signor duca di Feira, che fate quassù, solitario, incognito, per questi greppi? Buon padrone di rimanere dovunque vi piaccia, ma non già di farvi tanto intrinseco di un perseguitato, d'un fuggiasco, da ottenerne l'affetto e la fede.—

A quella sfuriata del Giuliani, il duca non rispose parola. Egli era rimasto sovra pensieri, col gomito puntellato sulla sponda di una tavola presso cui era seduto, e la palma della mano di rincontro agli occhi, in atto di profonda meditazione.

—Ecco,—proseguì il Giuliani, non udendo risposta;—la mia schietta domanda vi annoia.

—No, no, giovinotto!—disse allora il duca, scuotendosi.—Che cosa m'impedirebbe di sviare onestamente la vostra curiosità, e di fare intendere che la vostra dimanda è…. inopportuna? No, non mi annoia la vostra richiesta, nè mi mette in angustia. Io penso in quella vece, e con rammarico, che non posso rispondervi, e che vorrei esserne scusato presso di voi.—

Il Giuliani rimase un tratto senza parlare; ma i suoi occhi non si tolsero un istante dal volto del duca. Egli si sarebbe detto, a vederlo, che il giovine volesse penetrare a forza ne' più segreti recessi di quell'anima così saldamente chiusa ai profani. Ma nulla gli valse lo sguardo scrutatore; e intanto, poichè la battaglia era incominciata, bisognava andar oltre. E come? Il duca di Feira non era un uomo volgare, con cui scendere alle minacce; era un gentiluomo, era un vecchio al paragone di lui; l'incalzarlo ancora, senza l'aiuto di qualche sfumatura, di qualche artifizio oratorio, sarebbe parso atto di scortesia, e il Giuliani ben ne vedeva il pericolo.

—Tolga il cielo,—diss'egli, che aveva finalmente trovata la frase,—che io dimentichi il rispetto dovuto al vostro carattere. Siete voi persuaso, signor duca, che io, proseguendo, non ho in animo di usarvi irriverenza?

—Lo credo fermamente,—rispose il vecchio gentiluomo,—e abbiatene la migliore testimonianza nello avervi io ascoltato fin qui come si ascolta un amico, sebbene voi non vogliate avermi per tale.

—E come potrei, se vi avvolgete nel mistero? Come volete che io mi acquieti alle vostre mezze parole? Di ciò che io abbia a pensare, giudicate voi stesso. Se voi aveste un segreto, se proseguiste un alto disegno, da cui pendesse la salvezza vostra o dei vostri più cari, v'andrebb'egli a sangue che fosse scoperto? Lo lasciereste voi, così ad occhi chiusi, e con animo tranquillo, nelle mani d'un ignoto?

—Glielo strapperei a forza, foss'anco dal cuore!—proruppe il duca di
Feira, scuotendo fieramente il capo, e mettendo lampi dagli occhi.

—Voi stesso, signore,—gridò il Giuliani,—voi stesso lo dite!…

—Sì certo, io stesso;—proseguì il vecchio;—ma uditemi ancora. Se questo segreto fosse in mano di Lorenzo Salvani, o nelle vostre, vivrei sicuro, come se non fosse uscito ancora dal profondo dell'anima. Eppure, da pochi giorni appena conosco il Salvani; voi da quest'oggi! Ma voi giovani egregi, non siete più ignoti, nè recenti amici per me. Credete voi che il volto non abbia la sua eloquenza? che l'onestà, non la volgare, la dozzinale, che serve a far vivere in pace col Codice, ma la profonda, la vera onestà, quella che ispira gli alti sacrifizi, che fa parer tristo un giorno passato senza un'opera virtuosa, senza un generoso pensiero, non si dipinga negli occhi? Di me non saprei dirvi; giudicatemi voi. Da lunga pezza ho smesso di rimirare il mio volto, per rintracciarvi l'immagine di quella bellezza interiore che è il segreto della forza di tante anime elette. Se lo guardassi oggi, chi sa? vi leggerei forse la stanchezza di tante fatiche inutilmente durate, il desiderio di adempiere un voto supremo, e di lasciar quindi una vita che non ebbe mai conforti, che non ha più speranze per me. Son solo al mondo; nè il mio nome, nè le mie ricchezze, troppo tardi venute, quando non potevano più rincalzare i baldi propositi della mia giovinezza, andranno in eredità ad alcuno che sia del mio sangue. Vorrei, per quel poco che mi rimane a vivere, amar qualcheduno, amarlo utilmente, non per me, ma per lui. Amo il vostro Lorenzo Salvani, che voi avete dipinto stamane in poche efficaci parole; lo amo perchè, non conoscendomi punto, e senza pur chiedere il mio nome, ha posto fede in me, com'io, giovine al pari di lui, l'ho posta in altri, candidamente, senza restrizioni, senza secondi fini. Avvicinatomi a lui, ho veduto una sventura, e, debbo dirvi ogni cosa? n'ho avuto piacere, pensando che presso gli sventurati c'è sempre del posto. Signor Giuliani, non siate egoista nel bene; lasciatemi il posto che ho preso. Vorrete in ricambio il mio segreto? Non è mio del tutto. Mi farete ingiuria? Sono gentiluomo e la respingerò colle armi; ma badate, io non ho sete del sangue di alcuno. L'ho avuta un giorno; ho odiato…. forse odio ancora, e bisognerà che lo sprema dal petto, quest'ultimo avanzo di fiele. Il cuore è fatto per l'amore; ognuno di noi si foggia il suo piccolo mondo nella gran scena della vita, si edifica il suo sacrario d'affetti, v'innalza la sua ara, vi colloca il suo nume tutelare, innanzi al quale egli ha da essere senza macchia, come innanzi al mondo profano ha da essere senza paura. E adesso, non vi par egli di conoscermi abbastanza? Non vi ho confessata l'anima mia? È il labbro d'un mentitore, quello che v'ha parlato così?—

Il Giuliani, che era rimasto fino a quel punto silenzioso ad udirlo, ma commosso, trepidante, presso ad erompere, balzò in piedi a quell'ultima dimanda.

—Signor duca,—diss'egli intenerito,—io ripongo tutta la mia fede in voi. Se dopo ciò io mi fossi ingannato, se alcun danno avesse a seguirne, dirò che Dio non esiste.—

La frase era dubitativa, ma l'accento dimostrava la certezza. Il giovane stese ambe le mani per afferrare la destra del duca; ma il vecchio gli aperse le braccia e lo strinse paternamente al suo cuore.

—Non dubitate di Dio!—rispose egli con piglio solenne.—Non ne dubitate, nè ora nè mai. È un vecchio che ve ne prega, un vecchio al quale è stata negata la sua parte di gioia, un vecchio che aspetta ancora ogni cosa da lui. Ed ora io vi dirò quello che chiedevate pur dianzi; chi ha fede in me, è degno della mia fede, e poichè il mio segreto morrà nel vostro cuore….

—No, ve ne supplico;—interruppe il Giuliani.—Non una parola di più! Fallirei alla vostra stima, alla mia, se vi lasciassi proseguire. Chi siete? Lo so: un amico. Donde venite? Dal dolore, poichè v'accostate a chi soffre. Non basta ciò forse?—

Il Giuliani e il duca di Feira rimasero un tratto senza parole; ma il loro silenzio era eloquente, perchè dai loro occhi traspariva la fede scambievole, dai loro atti la commozione, la gioia profonda di quel loro ravvicinamento, di quell'aspra battaglia mutata in alleanza. Parevano due vecchi amici, i quali da lunga pezza non si fossero veduti, nè mai fino a quel giorno, a quell'ora, avessero sperato di trovarsi vicini.

Ripigliata la conversazione, il Giuliani volle che il duca fosse informato minutamente di ogni cosa. E cominciò a dirgli chi fosse il Gallegos, l'anima dei neri, dei quali il marchese Antoniotto Torre Vivaldi era l'insegna; come e per quali ragioni desse la caccia ai milioni del vecchio banchiere Vitali, e come perciò avesse giurata la rovina di Aloise di Montalto.

Narrò, poichè gli cadeva in taglio, del dottor Collini, e della sua scena occorsa nella chiesuola di San Nazaro, dove, per colpa di lui, Aloise e Lorenzo, due uomini nati per amarsi, avevano lavorato alacremente ad uccidersi; il che per buona sorte non avvenne, ed egli aveva potuto involgerli ambedue nel suo odio implacabile.

Di Lorenzo Salvani raccontò come in pochi anni, morti i parenti, precipitasse a rovina, malgrado ogni suo sforzo, malgrado ogni studio di procacciarsi onestamente un pane. Il duca di Feira entrò, condotto dalle parole del Giuliani, nella casa di quei poveri vergognosi, costretti dalla loro condizione a parere signori, e condannati a mille angustie segrete. E donde veniva tutta la guerra, che pareva del destino? Da Bonaventura Gallegos e dal suo aiutante nelle male opere. La casa Salvani possedeva un segreto; per averlo in sue mani, per istrappare una povera fanciulla da quella casa e giovarsene Dio sa con qual fine, il gesuita aveva messi in opera tutti i più sottili accorgimenti, tutte le più audaci invenzioni.

E detto di Maria, e dell'amore purissimo ch'egli argomentava esser nato tra lei e Lorenzo, narrò ancora della cassettina d'ebano e (poichè non si poteva tacerlo) della marchesa di Priamar, de' suoi amori infelici, della colpa nascosta, del pentimento, della vita religiosa a cui s'era data. Sapeva ella che la giovinetta da lei condotta in San Silvestro fosse sua figlia? Lo Spagnuolo di cui parlavano le lettere di Lilla a Paris Montalto, e che in quel carteggio appariva come un amante disprezzato di Lilla, indi si scorgeva ascritto alla compagnia di Gesù, tornato a Genova ed entrato come consigliere in casa Priamar, era forse Bonaventura? Il sospetto era balenato a Lorenzo, ne' suoi dolorosi ozi della Montalda. Ora, se quel sospetto era fondato, molte cose si chiarivano in un punto; in tutta quella trama del Gallegos era da vedersi una tarda vendetta amorosa.

E qui, partitamente esposta ogni cosa, sottilmente indagate le fila di quella gran tela ordita dalla parte nemica, il Giuliani narrò ciò che avevano fatto, lui auspice, i Templarii; come, aiutati dalle confessioni del povero Michele, fossero andati sull'orma dei tristi; come i ricordi e le necessarie rivelazioni di Lorenzo li avessero aiutati a trovare il bandolo della matassa, e con quali artifizi fossero andati oltre, di scoperta in scoperta; come finalmente avessero immaginato di strappar la fanciulla dalla sua prigionia.

Non è a dire con quanta attenzione il duca di Feira ascoltasse il racconto del Giuliani. Molto sapeva dalle confidenze di Lorenzo; ma l'ordito di quella congiura non si era mai svolto in tutta la sua paurosa ampiezza, come allora, sotto gli occhi di lui. E tuttavia non diè segno di maraviglia; nulla pareva giungergli nuovo. A vederlo, mentre seguiva il filo della narrazione, e mentre crollava il capo in atto di conscia sollecitudine, ad ogni nuovo fatto che il narratore accennava, si sarebbe detto ch'egli fosse vissuto da lunga mano a Genova; che i personaggi del triste dramma fossero sue vecchie conoscenze; che avesse in pratica il Gallegos, la marchesa Lilla, il Vitali, i Montalto della vecchia generazione, e non gli fosse ignoto Aloise.

Quest'ultima nota va fatta, perchè, all'udire il nome del giovine Montalto, il suo volto s'era di subito rannuvolato. Chiesto più particolarmente di lui, volle sapere che giovine fosse, quale la tempra dell'animo, quali i diportamenti, e parve molto dubbioso, incredulo quasi, allorquando il Giuliani gliene disse tutto il bene che pensava, e s'impuntò a volerlo netto d'ogni biasimo, quando pure ebbe a parlare della rovina a cui s'era condotto.

—Qui sotto c'è un arcano del cuore;—aveva detto il Giuliani;—nè io m'attento di scrutarlo.

—M'avete narrato ch'egli è sempre dai Torre Vivaldi;—soggiunse il duca.—Il gesuita non dimora egli nel palazzo, e non è egli l'anima di quel partito che è capitanato dal marchese Antoniotto?

—Sì!—rispose il Giuliani, che vedeva andare il duca diritto da quelle premesse alla medesima illazione ch'egli aveva tratta in cuor suo.

—Disgraziato!—esclamò il duca. E non ne disse altro.

Intanto il Giuliani, ripigliato il filo del racconto, venne alle cose sapute dal servo Michele. In quel colloquio che il damo della signora Marianna aveva origliato dalla toppa, il gesuita ed il Collini s'erano aperti del tutto. Bonaventura si faceva forte dell'aiuto della marchesa Lilla perchè Maria accettasse la mano del suo discepolo, se non voleva chiudersi in un monastero per sempre. E qui il duca di Feira vide la necessità di sgominare il disegno presso la marchesa medesima, innanzi di far capo a quell'__ultima ratio__ dello scandalo, che teneva in serbo il Giuliani.

Più grave, e meno rimediabile, era il caso di Aloise. Stretto dai creditori, aveva già dovuto vendere due case, che gli fruttavano la sua modesta agiatezza. Ma quel sacrifizio non era bastato; c'erano fuori altre cambiali per una somma ragguardevole, e le aveva in mano il Collini. Ora, quelle cambiali erano false.

Com'era ciò avvenuto? Il nome di Aloise c'era scritto, accanto ad un altro rispettabile nome; ma quel nome, pur troppo, non era vergato di pugno del suo legittimo possessore. Questo aveva notato con aria di trionfo il Collini, e si capiva che egli, mostrandosi vittima innocente dell'inganno, non avrebbe tralasciato di metter la cosa in mano alla vindice giustizia, quando, all'avvicinarsi della scadenza, avesse riconosciuto che quelle cambiali odoravano di truffa. Intanto lo sapeva egli già, egli che aveva tesa la rete, e per mezzo de' suoi fidati trattovi dentro il mal cauto nemico. E intanto il nonno era già in chiaro d'ogni cosa; gli era stato accortamente dimostrato come Aloise facesse assegnamento sulla sua eredità, e come, mandato allegramente in malora il fatto suo, facesse a fidanza colla morte del nonno. E il vecchio Vitali era andato su tutte le furie; aveva fatto un testamento in cui diseredava il nipote, nominando suo vero ed universale erede il Gallegos.

Quelle ultime notizie turbavano fortemente il duca di Feira. Per fortuna mancavano ancora parecchi giorni alla scadenza delle cambiali; egli era in tempo a scompigliar le fila della congiura. Ringraziò il Giuliani d'avergli palesato ogni cosa; lo ringraziò per fino de' suoi sospetti, perchè da essi era venuto il colloquio.

—A me la cura di tutto!—diss'egli.—Domani sarò di ritorno a Genova, dove la mia gente mi crede partito per un viaggio di venti giorni in Toscana. Mi conoscevate di veduta; saprete dove abito; domani a sera v'aspetto.—

Il Giuliani era fuori di sè per la contentezza, e poco mancò che non si mettesse a batter le palme, come un fanciullo per gioia improvvisa.

—Finalmente,—gridò,—ecco un uomo a cui cedere il comando di questa difficile impresa! Signor duca, io vi consegno il mio bastone di maresciallo.—

Così era finito quel dialogo, che pareva da principio promettere assai poco di buono. Il Giuliani se ne tornò a Genova, dove il colpo di mastro Pasquale ebbe, il giorno dopo, quell'esito che i lettori già sanno.

E adesso è noto altresì perchè il Giuliani fosse così contento de' fatti suoi, e parlasse del futuro con tanta sicurezza, mentre usciva col suo aiutante Michele dalla bottega del gobbo legnaiuolo.

XXIII.

I presentimenti della vigilia.

Quantunque a malincuore (e ce lo crederanno agevolmente i lettori che hanno avuta la pazienza di seguitarci fin qua), dobbiam pur salire una quinta volta all'ultimo piano del palazzo Vivaldi, nel quartierino di Bonaventura Gallegos.

A noi piacciono i lieti casi, le gaie scene, quelle oasi frondose dove l'azione si posa, dove la brezza meridiana, aliando sotto il padiglione degli alberi esotici, accarezza le guance delle donne belle; dove i motti arguti e festevoli hanno l'aria di significar tante cose, e le lievi mussoline ne lasciano indovinare tant'altre; dove la luce, l'aria, le fragranze dei fiori, tutto parla d'amore.

A noi piacciono le veglie, i geniali ritrovi del teatro e del palazzo, dove lo splendore dei doppieri fa sfolgorare di ranciato vivissimo, di verde limpido, di azzurro carico, le gemme preziose che adornano il collo, gli orecchi e i polsi alle belle marchesane; dove lo sguardo saettato e la parola susurrata fanno scintillare occhi più belli dei diamanti a gran pezza; dove musica e poesia, segretarie galanti, dànno a prestanza le note e le sillabe per coniugare cantando il più bel verbo della lingua italiana; dove l'ardor della danza svolge profumi più grati che non le rose di Saron e stille di sudore assai migliori delle perle eritree, e non già da bersi disciolte, come è fama adoperasse Cleopatra, ma da suggersi intiere, innanzi che siano spiccate dalla conchiglia natìa.

Son questi i fiori della vita, queste le oasi del viaggio. Ma per un bel fiore che sbocci solitario al sommo d'un ramo, quanti sudori di tronco nodoso! Per un'oasi, in cui ripararsi un tratto della sferza del sole, quante leghe di monotono deserto! E noi, che nel giardino non siamo neppure i visitatori scioperati, ma i pazienti orticoltori, a cui ogni fioritura costa settimane di fatica, noi che in questo viaggio non siamo i curiosi giramondi, ma i condottieri della carovana, non abbiamo più uno di questi fiori, più una di queste geniali fermate, da offrire ai lettori benevoli; non più corti d'amore, nei boschi di Quinto, non più feste da ballo in via Nuova. Quantunque siamo appena al 14 di ottobre, la villa del tiranno di Quinto è deserta; la bella Ginevra dagli occhi verdi, tornata dal suo viaggio di Francia e Lamagna, ha dovuto rimanere in città per certe faccende del marchese Antoniotto, e la stagione delle veglie, dei teatri, dei balli, è ancora di là da venire.

Noi d'altra parte incalzano le necessità della storia. Non è più tempo di soste; alla Montalda abbiamo, per dir così, bevuto il bicchier della staffa; il nostro racconto galoppa alla catastrofe; __ad eventum festinat__. Armiamoci dunque di coraggio, e poichè gli è necessario, torniamo in casa del gesuita, dove piglieremo due colombi ad una fava (meglio sarebbe il dire corvi ad uno stinco) perchè il padre Bonaventura è nella sua camera da studio in compagnia del Collini. E ben dobbiamo ascoltar noi quello che diranno i due sozii, perchè il fido Michele non è questa volta nella sala da pranzo, per origliare ogni cosa dal buco della toppa. La signora Marianna, oramai, cotta e stracotta com'è, gli lascierebbe far questo ed altro; ma pensa che ci vuol giudizio, e Michele, che n'ha la sua parte, non si mette più a quelle imprese pericolose. Ambedue sono per farne una coi fiocchi; ma, non dubitate, ci vanno col piè dell'oca, e certo non romperanno l'ova in sull'uscio.

Bonaventura non era lieto, quel giorno; e si vedeva. Egli, per solito così chiuso dell'animo, che sapeva comandare al suo volto e foggiarselo a maschera per dissimulare le sue contrarietà, aveva quel giorno una cera da funerale. Sorrideva, ma a stento; parlava, ma distratto; come se, mentre rispondeva al Collini, stesse pure ascoltando ciò che un'interna cura gli bisbigliava nel cuore.

E sì che il fiero lottatore oramai poteva dirsi al termine del suo faticoso lavoro, e presso a raccoglierne i frutti. Il vecchio Vitali, come s'è accennato, aveva alla perfine fatto testamento. Per mettersi in pace con Dio s'era obbligato a dar fuori pel primo di gennaio un milione, che era appunto la somma lasciata in sue mani dai gesuiti fuggiaschi, e della quale, per la morte del Padre Martelli, non si sapeva più dove raccapezzare la ricevuta, che pure doveva esser stata sottoscritta dal banchiere. Questa era una restituzione; ma il signor Giovanni non aveva voluto saperne del vocabolo, e aveva in quella vece accettato una variante suggerita da Bonaventura, snocciolando quella somma a lui, perchè la trasmettesse a Roma, come offerta del pietoso banchiere alla chiesa del Gesù. Ciò fatto, al Vitali sarebbe rimasto ancora un milione e centomila lire; e di questa somma egli parlava per l'appunto nel suo testamento, lasciandola, tranne pochi legati a gente di servizio, in eredità al medesimo Bonaventura, come ricompensa alle sue cure amorevoli di tanti anni.

E perchè il Codice albertino non gli avrebbe concesso di disporre d'oltre i due terzi della sua sostanza in quel modo, e una terza parte sarebbe andata necessariamente ad Aloise, indicò nel testamento, come parte di quella sostanza, le quattrocentomila lire che aveva ricevuto in dote sua figlia, quando egli la sposò al marchese Alessandro Montalto. Per tal modo egli lasciava al nipote quello che non poteva negargli; ma computandovi quello che già i suoi parenti avevano ricevuto.

Ora il conto è presto fatto. La fortuna del banchiere Vitali oltrepassava i due milioni. Ma uno doveva esser dato alla mano, e non occorreva parlarne; rimaneva adunque un milione e poco più, forse centomila lire, secondo s'è detto; insomma un milione e mezzo contando la dote di Eugenia Vitali. La terza parte di Aloise, figlio unico di Eugenia, riusciva di un mezzo milione, sulla carta; in contanti, era appena di centomila lire; in tasca, poi, riusciva a nulla, poichè, se il giovine Montalto non pagava i suoi debiti, com'era da argomentarsi certissimo, alla morte del nonno i creditori avrebbero messo il sequestro sulla parte a lui spettante della eredità del Vitali. Il disegno, come si vede, era bene immaginato, ed Aloise era messo, coll'aiuto della provvida legge, sul lastrico.

Da questo lato adunque tutto volgeva a seconda. Ma il guaio era dall'altro. Dopo l'accaduto del giardino, la fanciulla di casa Salvani era stata trasportata all'infermeria del monastero; le era sopraggiunta la febbre, e colla febbre il delirio. Da alcuni giorni si era alquanto rimessa in salute; ma la poverina era tuttavia così debole, che non poteva scendere in parlatorio, e la marchesa di Priamar non trovava modo di condurre innanzi il negozio. Avrebbe Maria consentito ai suoi disegni? Sì certo. Non le era uscita di bocca la nobilissima promessa, che ella non avrebbe infamata la memoria di sua madre, se morta, nè fatta arrossire quella povera donna, se viva? Egli, adunque, che faceva assegnamento sulla virtù come sul vizio, era sicuro dell'esito; ma vedeva andar la cosa per le lunghe, e ciò lo metteva in pensiero. La marchesa Lilla, saputo lo stato della fanciulla, era in una ansietà che mai la maggiore; tutti i giorni al monastero per chieder novelle; poi chiusa nelle sue stanze a piangere. E quei nemici che avevano trovato il modo di far giungere alla fanciulla il biglietto consolatore, chi erano, e quanti? Che cosa meditavano? Di quali forze potevano disporre? A quali altri spedienti avrebbero posto mano? Egli non ne sapeva nulla; tutta la sua scienza si logorava intorno ad una incognita ribelle, ad una radice irreduttibile. Il gobbo legnaiuolo faceva lo gnorri; non c'era verso d'indurlo a parlare, nè con minacce, nè con profferte. Di quelle, indettato com'era, non aveva timore; di queste non gl'importava affatto. Aveva egli preso l'ingoffo, od era un fior di galantuomo? Altro dubbio, del quale il gesuita non poteva sincerarsi.

Ma quanto era pensieroso Bonaventura, con tutti que' suoi sopraccapi, altrettanto era ilare, contento di sè medesimo, il Collini. L'odio contro Aloise soverchiava ogni altra cura nell'animo di lui. Egli era alla vigilia della vendetta, e già l'assaporava col pensiero; due ore innanzi egli aveva potuto anche palparla, poichè aveva tenuto in mano quattro belle cambiali, di quella forma particolare che più precisamente si chiama «pagherò», ognuna da venticinque mila lire, tutte sottoscritte da un Luciano Marsigli, colla cessione del giratario Aloise di Montalto a favore del banco Cardi Salati e C., di quel banco malamente famoso che già parecchie volte c'è occorso di ricordare ai nostri buoni lettori.

—Dunque, ci siamo?—chiese Bonaventura, proseguendo un dialogo de' cui preliminari facciamo grazia ai lettori sullodati.

—Sì, padre, e non mi sfugge. Ho mandato un'ora fa il Salati in persona, al banco dei fratelli Teirasca a vedere se il Marsigli ha fatto provvigione di fondi per le sue scadenze di domani.

—E perchè non aspettare che venga al vostro banco il Montalto, se già sapete che il Marsigli non pensa nemmeno per sogno di aver questa scadenza sulle spalle?—

Il Collini sorrise, con aria da sopracciò, a quella dimanda del maestro.

—Il banco Cardi Salati,—diss'egli,—non ha da saper nulla di questa ignoranza del Marsigli. Il banco Cardi Salati ha cambiali sue, per centomila lire, pagabili presso il reputatissimo banco Teirasca, come è scritto chiaramente a' piedi delle quattro obbligazioni, girate ad esso da Aloise Montalto. Il banco Cardi Salati sceglie tra i due debitori quello che più gli garba, e gli par più solvibile.

—Capisco;—rispose il gesuita.—Già, voi, in questa ragione di negozi siete laureato come in medicina, se non forse di più. Ma ciò che non intendo bene, si è il corso di tutta questa faccenda. Me l'avete già raccontata due volte, e non mi raccapezzo ancora….

—Voi non avete pratica di cose commerciali;—notò colla sua aria vanitosa il Collini.—Vi spiegherò una terza volta il negozio; ma statemi bene attento, che non ismarriate il filo.

—Non dubitate!—rispose il gesuita, piegando le labbra ad uno di que' stentati sorrisi, dei quali abbiam detto più sopra.

E il discepolo, non parendogli vero di far da maestro una volta, s'allacciò la giornèa, per raccontargli i suoi fasti.

—Cominciamo dal principio. Il Montalto, or fanno due mesi, era da capo a chieder danaro ad imprestito. Doveva andare a Parigi, il signorino, in Germania, in Isvizzera, e che so io, sempre per far l'ombra alla dama de' suoi pensieri; e per questo gli bastava una piccola somma, sessantamila lire; di più, se era possibile, ma non un quattrino di meno. Le chiese ai miei socii; ma essi, com'era naturale, non vollero saperne. Trentamila gliele avevano date fin dai primi di luglio; in agosto gliene occorsero cinquanta; per pagar queste e quelle, un mese dopo vendeva le sue case allo Scandola….

—Vostro prestanome!—notò Bonaventura.

—Un vecchio merlo spennacchiato, che serve a tirar gli altri nella rete;—rispose il Collini ridendo.—Ma che importa? Peggio per lui se lo ha tolto per un capitalista. Il mio uomo gli ha dato il necessario per pagar le cambiali, e più ventimila lire, che andarono subito in tasca ad un mercante di cavalli. Se n'è pigliata una satolla, di grandezze! Ma si sa, chi vuole il dolce, senta l'amaro. Torniamo al fatto; egli aveva urgente bisogno delle sessantamila lire; i miei socii non le volevano dar fuori sopra una firma sola; ed egli, che aveva superbamente toccato della Montalda, la quale, secondo lui, ben valeva tre volte quella somma, dovette sentirsi dire che la terra era una grillaia, che il palazzo era fuori di mano, e che non si poteva dar prezzo ad un fondo il quale non rendeva nulla come podere, e come villeggiatura, poi, avrebbe potuto servire soltanto ad un misantropo, ad un eremita. Si voltò egli allora allo Scandola; ma lo Scandola aveva tutti i suoi denari fuori, e credo dicesse il vero; perchè il galantuomo, dacchè lo conosco, non è mai ritornato nel suo.—

Qui il Collini fece una sapiente fermata, quasi aspettando che il maestro potesse gustare l'arguzia. Ma Bonaventura aveva altro nel capo; ed egli fu costretto a proseguire senza la limosina d'un sorriso.

—Il nostro innamorato non sapeva più a che santo votarsi; e fu allora che lo Scandola, vedendolo disperato, gli entrò a dire di certe cambiali che aveva ricevute in pagamento di mercanzie da un Marsigli, e che avrebbe potuto cedere a lui, marchese di Montalto, perchè ne facesse suo pro' in quel suo bisogno. E il marchesino non se lo fece dire due volte, ben sapendo che i miei socii gliel'avrebbero scontate, e pigliatolo in parola, sottoscrisse una ricevuta in piena regola, e si beccò le cambiali per centomila lire.

—Delle quali n'ebbe appena sessantamila!—notò Bonaventura, che amava di tanto in tanto, da buon maestro, mortificare la superbia del discepolo.

—Poteva non accettare il partito!—rispose il Collini.—Nessuno lo costringeva; e il banco Cardi Salati fu tanto cortese da non mettere fuori un dubbio sulla bontà della firma, da snocciolargli issofatto, l'una sull'altra, sessantamila lire. Ed ora che le ha godute, che ha sfoggiato a sua posta, torna a Genova squattrinato, va dallo Scandola perchè lo aiuti a guadagnar tempo; intanto, se egli vuole, si pigli la Montalda; per centomila lire gliela cede, sebbene sia grave sacrifizio per lui. Ma lo Scandola non è ancora tornato nel suo; ha crediti d'ogni parte, denari pochi, tutt'al più trentamila lire; se il Montalto vuol cedergli la sua grillaia per quella moneta, sta bene; se no, no, e provveda egli come gli pare più acconcio. A farvela breve, Aloise non ha il denaro per la scadenza di domani, e le gazzette racconteranno un suicidio di più.

—Lo credete?—domandò, con aria incredula, il gesuita.

—E come no?—disse il Collini.—Oggi siamo alla vigilia della scadenza. Il Salati, in un negozio così delicato, non si fida neanche del suo fattorino, e se ne va egli, anzi a quest'ora è già andato, al banco dei fratelli Teirasca, per domandare se sia stata fatta provvigione di denaro per quattro cambiali di Luciano Marsigli. I Teirasca non ne sanno nulla, e rispondono di non aver ricevuto incarico di sorta. Allora il Salati va dal Marsigli, e gli chiede se riconosca quelle quattro obbligazioni che ha sottoscritte. Il Marsigli va in bestia, perchè non ha sottoscritto nulla; e tutt'e due se ne vanno difilati a palazzo Ducale, per esporre il caso all'avvocato fiscale. Ora ammettiamo pure che il Montalto, che non sa nulla della firma falsa, e che non ha i denari da pagare il suo debito, aspetti anche il protesto. Egli è perduto egualmente, perchè, riconosciuta la truffa, non gli servirà a nulla aver trovato le centomila lire (dato il caso che le trovi) e dovrà vedere il suo nome infamato da un processo criminale. Non si faccia saltar le cervella, se gli preme conservarle; io non ho bisogno della sua morte; purchè se ne vada in galera!…—

Bonaventura, tuttochè non fosse molto pratico di cose commerciali, intese il negozio appuntino. E intese altresì come colui che gli stava dinanzi non fosse più uno scolaro, e come in certe materie potesse anco insegnargliene a lui, maestro patentato di ribalderie. Certo, se egli non avesse avuto altri pensieri molesti pel capo, lo avrebbe abbracciato, dicendogli: tu sei veramente il mio figlio, del quale io mi compiaccio.

—Avete ragione!—si contentò egli in quella vece a rispondergli, ma non senza un fil d'ironia.—Ed io, povero frate, che cinque mesi fa mi affannavo a consigliarvi di volere cambiali! Sfondavo un uscio aperto, a quanto pare, anzi spalancato!

—Voi ricordate, padre mio, che allora la non m'entrava d'imprestargli denaro, perchè sostenesse più riccamente la sua parte di vagheggino. Ma ho fatto bene a seguire il vostro consiglio. Io m'intendo di commercio; ma voi v'intendete d'uomini, e come!—

Crederemmo di far torto all'acutezza dei lettori, se ci fermassimo a chiarire con molte parole il perchè di quella lode, o per dir meglio, di quella complicità che il Collini voleva mettere in sodo. Bonaventura operava il male con un proposito, non nobile di certo, ma alto, poichè egli serviva una causa, per la quale il fine giustifica i mezzi; e dove pure egli operava per conto suo, obbediva ad una passione che era stata l'incubo di tutta la sua vita. Si poteva odiare quell'uomo; potendo, si sarebbe dovuto punire; disprezzare non mai. Laddove il Collini, rôso dalla vanità, divorato dall'invidia, operava il male pel male; la crudeltà non era in lui pervertimento di gagliarde passioni, ma istinto di rettile. Epperò votati ad una medesima impresa, quei due uomini si sentivano, si sapevano stimolati da diverse cagioni; epperò nella lode di Bonaventura al discepolo c'era un fil d'ironia, e questi, smessa la vanità con cui s'era fatto a narrare le sue gesta, sentiva il bisogno di ricordare che aveva operato per istigazione dell'avveduto maestro.

—Lasciamo da banda i complimenti;—disse questi infastidito.—E lo
Scandola, come se la caverà?

—L'ho mandato ieri in Isvizzera, pel caso che s'avesse da mettere il negozio nelle mani della giustizia. Ma non dubitate; non ci sarà bisogno di giungere a questi estremi, poichè ho fermo in mente che il Montalto non vorrà sopravvivere allo scorno.

—E proprio siete sicuro che non avrà il denaro?

—Sicurissimo.

—In che modo?

—Stamani è andato da lui il Ceretti, quella perla di giovinotto che m'avete messo voi per le mani, ad offrirgli di comperar lui la Montalda. Lo ha accolto come si accoglie il salvatore; ma quando ha udito che il Ceretti non intendeva spender più di quarantamila lire, gli son cadute le braccia. Se avesse venduta la Montalda per centomila, egli non avrebbe fatto quella accoglienza al Ceretti, che non conosce punto. Questi, poi, m'ha narrato che il marchesino aveva l'aspetto abbattuto e gli occhi rossi, come un uomo che ha passata la notte a piangere….

—O a vegliare.

—Torna lo stesso. Se ci avesse i denari, avrebbe dormito saporitamente.

—Capisco,—disse Bonaventura, crollando il capo in atto di assentimento,—che il Montalto riuscirà a fare secondo le vostre speranze. Questa almeno va bene!

—E le altre no?—chiese il Collini.

—Ne dubito;—rispose mestamente il gesuita.

—O come? Io, notate, padre mio, non sento questo gran bisogno di sposar la ragazza, sebbene, a dirvi il vero, la mi vada maledettamente a genio, anche senza il pensiero della grassa dote che m'avete promessa….

—Meno male!—interruppe Bonaventura.—Non siete schizzinoso, voi!

—No, rendo giustizia alla sua bellezza. E tuttavia, ve l'ho detto, non ne ho quella gran voglia. Ma come non s'avrebbe ella a piegare, se voi ci siete, padre mio, e se la faccenda è nelle vostre mani?

—Ho certi presentimenti!…—disse il gesuita.

—Voi?—esclamò stupefatto il discepolo.

—Io, sì, non ne avete mai avuto, voi? Non v'è egli mai accaduto di considerare come ogni cosa ci andasse a seconda, come la fatalità ci aiutasse oltre le nostre speranze, oltre la misura dei nostri apparecchi? Guardate l'opera vostra! In otto mesi avete mandato in malora un uomo…. un ragazzo, sia pure. Non c'è uomo così savio e così avveduto, il quale non trovi chi possa farlo impazzire. Tutto sta nel trovare l'occasione, ed io l'ho trovata, coi fiocchi. Altri (ve lo dico io, e potete credermi) altri avrebbe perduta la ragione, dov'egli perderà soltanto la vita, ad espiazione volontaria d'un conto fallato. Ma non usciamo di strada. Egli non era ricco, lo so; ma una entrata di sette in ottomila lire, l'aveva. Non c'era da spender largo; ma poteva vivere in una modesta agiatezza, aspettando dai decreti della natura i milioni del nonno, che avrebbero fatto di lui, gran gentiluomo, un gran signore. Ed ecco, è bastata la facilità di trovare trentamila lire ad imprestito, e cinquantamila innanzi di aver pagato le trenta, per metterlo a mal partito, per darvelo incatenato in balìa. Lo avete preso all'esca d'una rinnovazione di cambiali, e s'è impantanato sempre più; a voi ha giovato l'astuzia per impadronirvene; a lui non gioverà la sua dignità per salvarsi; l'alterezza del suo carattere non farà altro che accrescere il vostro trionfo. Rovinato in otto mesi, e suicida per giunta! Vi par poco?

—Stiamo a vedere che ho fatto una fatica d'Ercole!—notò beffardo il
Collini.—Ne aveva pochi, e in poco tempo sono iti.

—Ne aveva più di voi,—ripiccò Bonaventura,—e voi ci avete ora i vostri e i suoi. Tutt'e due ci avevate il vostro demonio nel cuore; ma il vostro v'ha arricchito; il suo l'ha mandato in precipizio. E non faccio questo raffronto per umiliarvi, sibbene per condurvi a riconoscere le cagioni singolarissime che l'hanno ridotto agli estremi, per farvi scorgere quanto cammino abbiate in breve ora fornito, e come l'esito abbia oltrepassato i confini delle ragionevoli speranze.

—E voi, padre, col Vitali….

—Sì, anche questo negozio è andato troppo bene. Credete a me, Collini, troppo bene ogni cosa, e troppo presto. Perciò temo. C'è egli un fato? O gli uomini son liberi, per modo che i più avveduti, i più savi, comandino agli eventi? O tra la loro volontà e gli eventi che ella governa, c'è una potenza ignota che invigila il lavoro, e a volte conduce, e a volte scompiglia le fila? Non ne so nulla; ma temo.

—Padre mio!—esclamò il Collini, più maravigliato che mai.—Questi dubbi in una mente così salda come la vostra?…

—Oh, lo so anch'io quel che s'ha a credere!—rispose Bonaventura.—Appartengo ad un sodalizio che ha, si può dire, ereditato il grande arcano dei sacerdoti d'Iside. Altro è quello che s'ha da insegnare alle moltitudini; altro è quello che s'ha da pensare. La dottrina non è pane per tutti i denti; il vero sapiente la tiene per sè. Ma che volete? ognuno, per forte che sia, ritiene un po' del suo tempo. La scienza mi fa negare; la coscienza mi fa dubitare della scienza. So quello che volete rispondermi. La coscienza non è mai venuta sotto il vostro coltello anatomico. Essa è una miscéa, un amargama di tutti gli errori, di tutte le contraddizioni, di tutti i sogni, di tutte le chimere sublimi o ridicole, che l'arte umana ha fatte rampollare per lungo corso di secoli dal vecchio tronco della paura. E tuttavia le anime più salde hanno sempre avuto i loro cattivi momenti, ne' quali hanno sentito come fuggirsi di mano le fila del loro destino, paventato una forza arcana, superiore ed avversa ai loro disegni, e dubitato, sto per dire, del loro medesimo dubbio.

—Questione di temperamenti!—sentenziò il Collini, stringendosi nelle spalle.—Il vostro, padre mio, s'è fatto soverchiamente sanguigno.

—Forse!—assentì Bonaventura, il cui pensiero correva altrove.

—E adesso,—ripigliò il Collini,—io che non ho i vostri presentimenti, me ne andrò difilato al banco, per udire a che punto sia la faccenda. Certo, a quest'ora, il Salati e il povero Marsigli sono già andati a palazzo Ducale.

—Andate, andate, e portatemi buone notizie stasera.

—A che ora sarete in casa?

—Alle dieci.

—A rivederci dunque, e intanto provvedete alle mie nozze.—

Bonaventura gli rispose con un cenno del capo, in quella che si muoveva per accompagnarlo all'uscio.

E crollando il capo se ne tornò nella sua camera, quando il Collini fu uscito.

—Vedremo!—diss'egli tra sè.—L'è andata troppo bene, finora, e non vorrei che cominciasse a cangiare.—

XXIV.

Che potrebbe, in via di metafora, intitolarsi "La prima ai Corinzii".

Sono le quattro dopo il meriggio, ora in cui il ceto dei negozianti suole aver posto fine al lavoro, e i granaiuoli, i sensali, i cambiatori, e simili, chiuso il banco, lo scrittoio, il telonio e via discorrendo, se ne vanno da buoni padri di famiglia ai taglierini domestici. Ma non è chiuso ancora il banco Cardi Salati e C., nè accenna a volersi chiudere così presto, poichè in anticamera c'è ancora il galoppino, che sonnecchia a gomitello sulla sponda d'un tavolino, di rincontro alla finestra, aspettando che qualcheduno lo chiami dalla seconda camera, ove sta un giovine di banco, o dalla terza, che è il __sancta sanctorum__ dei due principali.

Il banco sullodato (passateci l'aggettivo) era al terzo piano d'una casaccia nerastra, posta in una di quelle viuzze che adornano i pressi della via San Luca. Ci si ascendeva per una scala stretta, buia, umidiccia, ogni pianerottolo della quale godeva, la mercè d'una smilza apertura decorata del nome di finestra, non già la luce, perchè la luce è una cosa chiara, ma un'ombra crepuscolare, bastante a lasciar vedere le centinaia di ragnatele polverose che spenzolavano nel vano di una chiostra, la quale, anzi che il pozzo d'aria, poteva dirsi l'immondezzaio dei sette piani della casa. Il che piaceva, e s'intenderà di leggieri, a quattro o cinque galline che razzolavano in fondo, non già alle centinaia di ragni de' piani superiori, che vedevano ad ogni tratto sfondati da bucce e torsi di cavolo i loro sapienti tessuti.

Che cosa aspettavano quei ragni? che frutto si ripromettevano dalle lor reti, che andavano rimendando sollecitamente ad ogni nuovo strappo? Colà non si perigliavano mosche nè moscerini, allegri figli della luce, e tenerissimi della madre loro. Quei poveri ragni tiravano là, per amore dell'arte, aspettando tempi migliori, che non giungevano mai, e senza sapersi risolvere a mutar di paese. Amavano, avevano prole, condannata a vivacchiar di speranza e a morir di inanizione com'essi.

Una bella ragnatela, e largamente fruttuosa, era al terzo piano che abbiam detto. Colà ma non all'aria aperta, prosperavano tre ragni in una medesima buca, due noti e visibili, il Cardi e il Salati, il terzo nascosto all'ombra d'un C., che era il discepolo di Bonaventura. Si davano ad ogni maniera di traffichi, o, per meglio dire, d'intrugli, pei quali ci avevano i loro mezzani, che, all'occorrenza, e per salvare l'onoratezza del banco, il quale apertamente non imprestava denari oltre il sei d'interesse, assumevano apparenza di capitalisti. E da quella triade nascosta uscivano i più sottili accorgimenti che ingegno di strozzino potesse immaginare; quello ad esempio dei nòccioli di pèsche, il quale va raccontato. __Ab uno disce omnes__.

Un giovanotto di buon casato, a cui non potevano un giorno mancare le sue quarantamila lire d'entrata, ma che appunto per la larghezza delle speranze, non poteva rassegnarsi ad attendere in pace (i padri eterni, lo dice il proverbio, fanno i figliuoli crocifissi), aveva bisogno di denaro. Ogni somma gli bastava; seimila lire, diecimila, ventimila; fossero anche state centomila, le avrebbe accettate, sottoscrivendo la sua brava obbligazione a babbo morto.

I sensali, a cui si rivolse, gliene proffersero due mila, s'intende in mercanzie «di sua piena soddisfazione, per rivenderle e farne commercio» come doveva essere scritto in una cambiale a tre mesi. Nè il genere dell'obbligazione, a scadenza troppo breve, nè il fatto delle mercanzie, piacevano al giovanotto; ma la necessità dei __cumquibus__ l'aveva stretto alla gola, e poichè i sensali gli ebbero detto che una cambiale poteva rinnovarsi, e che le mercanzie potevano vendersi il giorno stesso, chinò la testa e passò sotto le forche caudine, pigliando, per una cambiale di due mila lire, venti quintali di nòccioli di pèsche.

—Che roba è questa?—aveva esclamato il giovinotto, innanzi di sottoscrivere.

—Roba eccellente, e la si piglia a stracciamercato!—rispose il sensale.

—O come?

—La mi stia a sentire. Il quintale è cento chilogrammi; venti quintali sono due mila chilogrammi. Ella sottoscrive per duemila lire. Ella ha dunque i nòccioli a una lira per chilogramma.

—E a che prezzo li venderò?

—Non si dia pensiero per questo; domanderemo ad un confettiere.—

E andarono da uno dei più riputati della città, il quale comperava quella derrata a una lira e venti centesimi il chilogramma, ed era pronto a pigliarne anche quattro quintali.

—Ma noi li abbiamo in partita; venti quintali, ce n'abbiamo,—rispose il sensale.—Li comperi tutti e venti, e dia qualche centesimo di meno.

—Son troppi pel mio bisogno;—disse il confettiere.—Ma via, per far piacere, li piglierò a una lira e dieci.

—E quando vuole la mercanzia?

—Anche subito.—

Al giovinotto pareva di sognare. Quella robaccia valer tanto! La sua mente si sentì sollevata d'un tratto alle più alte sfere del traffico; gli parve allora di capire in che modo certuni di sua conoscenza fossero diventati straricchi in breve ora, e gli balenò perfino il vasto concetto d'incettare i nòccioli di tutte le pèsche, duràcine e spartitoie, che si sarebbero mangiate l'anno seguente in città.

—Vede Ella?—gli andava dicendo frattanto il sensale.—È affar fatto. Il confettiere è una birba, che ci guadagna ancora il trenta per cento, perchè i nòccioli si pagano una lira e cinquanta al chilogramma, e a volte anche più caro, laddove noi gli si dànno a una e dieci. Del resto Ella non ci perde, anzi fa un contratto d'oro; chi ci perde è il capitalista, che le dà per uno, ciò che Ella rivende uno e dieci, facendo un guadagno netto di quattrocento lire.

—In verità, me ne duole;—disse il giovinotto,—povero capitalista! non gli si fa forse un mal tiro?

—Che? il commercio è fatto così;—rispose prontamente il sensale:—uno perde, un altro guadagna, e la ruota gira. Del resto il mercante ne ha di grosse partite in magazzino, e bisogna bene che le venda. Siamo a mala pena in settembre, e i nòccioli potrebbero calar di prezzo.—

Per tal modo chetati gli scrupoli del compratore, la cambiale passò nelle mani del capitalista, e la mercanzia fu allogata in un magazzino pigliato a bella posta in affitto dal giovine. Il confettiere vide allora la merce, e guardò in volto quei due, in aria di chiedere se avessero voluto dargli la baia.

—E che debbo io farmene di questa roba?—gridò egli finalmente, vedendo di aver dinanzi non un canzonatore, ma un canzonato.—Si dice nòccioli, ma s'intende anime; questi nòccioli vanno prima stiacciati; poi comprerò le anime, al prezzo che ho detto.—

E se n'andò, brontolando pel tempo che gli avevano fatto perdere; mezz'ora dopo rideva come un matto.

La gherminella dispiacque al nostro giovine, rimasto padrone di venti quintali di nòccioli; ma che farci? Bastonare il sensale? Questa era l'unica vendetta che potesse pigliarsi; e già gli prudevano le mani. Ma il sensale, vista la mala parata, si buttò ginocchioni; giurò d'esser stato ingannato anche lui, e colla promessa di trovar gente che si fosse acconciata a stiacciare i nòccioli perchè si potesse trar profitto dell'anime, cansò le legnate.

I nòccioli furono stacciati; ma, come i lettori facilmente argomentano, la rammendatura fu peggiore dello strappo; e il giovanotto ebbe da aggiungervi la paga delle donne e dei ragazzi che lavorarono, di martello sui nòccioli, e di dente sull'anime.

Di tal fatta erano stati i negozi del banco Cardi Salati e C. ne' primordi della sua esistenza; nè tralasciò mai di farne altri consimili, quando gliene venisse il destro, sempre, s'intende, coll'artifizio dei prestanome, che ne aveva sempre parecchi a prosperargli dattorno. In apparenza praticava l'usura modesta, la urbana rapina, e aspirava a più gloriosi destini. Usciremmo dai confini segnati al nostro racconto, se raccontassimo ciò che ne avvenne di poi; i lettori si contentino di sapere che or non ha guari il signor Cardi è stato fatto cavaliere, e il signor Salati grida che la è una ingiustizia, che il governo ci ha due pesi e due misure, che lavora a mettere a discordia tra i fedelissimi sudditi, e via discorrendo. Ora, anche senza seguire il signor Salati in tutte le sue invettive, e a non dargli che una parte di ragione, ben si può ammettere che ci sia stato un pochino di parzialità, perchè la croce se la meritavano tutt'e due ad un modo.

Per tornare al racconto, il banco era aperto; ma il __sancta sanctorum__ che abbiamo accennato più sopra, era chiuso da dentro; indizio certo che c'era qualcheduno. E questo qualcheduno era il signor Salati, un ometto sui quarantacinque, o in quel torno; grasso, rubicondo, colla faccia liscia come una mela cotogna (il che potrebbe dispensarci dal dire che si faceva radere tutti i peli del viso), calvo sul cocuzzolo del cranio, ma coi capegli ravviati sulle tempie, per modo che parevano venire a cercare le sopracciglia, per dar loro il buon dì; ornato finalmente di due occhietti azzurri e sempre in moto, che dinotavano il candore dell'anima e la contentezza d'una vergine coscienza. Due manichini di tela nera che gli coprivano le braccia, a custodia delle maniche del soprabito, mostravano com'egli avesse cura della sua roba. E così pulito, modesto, rubicondo, levigato e paffuto, il signor Salati ci aveva l'aria d'un cassiere, degno della più ragguardevole casa, e della più ragguardevole cassa del nostro commercio. Andate a credere alle apparenze! Oramai quelle stereotipe figure d'usurai, dagli occhi grifagni, dal naso adunco, dalle dita adunche, e tutto il resto __idem__, come ne' contrassegni d'un passaporto, alle quali ci avevano assuefatti gli antichi romanzieri, vanno lasciate da banda. Siamo nel secolo delle vaporiere e dei telegrafi; le distanze spariscono, anche quelle tra galantuomini e birbe.

Che cosa faceva il signor Salati, chiuso là dentro? Era solo, abbiam detto, ma solo, s'intende, di persone viventi, di nati dalla costa d'Adamo; che del resto egli non era, o per meglio dire non gli pareva d'esser solo, poichè stava facendo i convenevoli ad una numerosa brigata d'amici. Ed erano tutti d'una forma, gli amici suoi, schierati in bell'ordine su d'una scrivania, la cui coperta di tela incerata faceva spiccar meglio la loro candidezza nativa. Dopo questi ragguagli, sarebbe quasi da tacersi che erano biglietti della Banca nazionale, e biglietti da mille.

Come son cari gli amici! E come giungono, quando meno s'aspettavano, altrettanto più grati! E il signor Salati li contemplava da una giusta distanza, li passava contento in rassegna, come Federico il grande i suoi reggimenti; poi s'accostava a palparli amorevolmente, e a guardarli attentamente di rincontro alla luce della finestra, non già per sincerarsi della loro autenticità (che li sapeva venuti di buon luogo) ma per non saper resistere ad una vecchia consuetudine. È li guardava per ogni verso, e li tornava a riporre; dava una giravolta sui tacchi, giungeva in fondo alla camera stropicciandosi le mani, indi tornava a contarli e sorrideva. Uomo felice!

Ma ogni estasi ha il suo fine; se così non fosse, avremmo in terra le beatitudini del paradiso. Al signor Salati fu interrotto quel passatempo dolcissimo da un colpo discretamente battuto sull'uscio. Egli raccolse in fretta gli amici a manipolo, e destro come un giocoliere, li fece scorrere in un cassetto dello scrittoio, che tosto richiuse, in quella che per pigliar tempo, domandava con voce melliflua:

—Chi è?

—Son io, Salati.

—Ah, il nostro dottore!—disse il Salati, aprendo l'uscio al compare
Collini.—Appunto vi aspettavo, per chiudere il banco.

—Orbene?—entrò subito a dimandargli il dottore.

—Tutto fatto a dovere.

—Ah finalmente!—esclamò il Collini, traendo un sospiro di contentezza.—E come l'ha presa l'avvocato fiscale?

—Che avvocato? che fiscale?—strillò il Salati,
  ghignando.

—Credevo ci foste andato subito;—disse l'altro.

—No, no; e neanche m'è bisognato andare in cerca del Marsigli.

—Ma che cosa avete fatto? Suvvia, parlate, non mi tenete sulla corda!—gridò impazientito il Collini.

—Chetatevi! chetatevi! Ora vengo al busilli. Non volevo darvi la nuova così d'un tratto. Io, vedete, sono un uomo flemmatico: e tuttavia sono stato ad un pelo di rotolar dalle scale, per la contentezza, e di sgualcirmi il soprabito. Egli è ben vero che le scale del palazzo Teirasca non sono come le nostre, e ci si potrebbe ruzzolare vestiti di bianco, senza paura d'insudiciarsi!…—

Il Collini, che già si sentiva soffocar dalla stizza, gli volse le spalle e andò a sedersi sopra un divano, dove depose, anzi buttò con piglio sdegnoso il cappello.

—Ma parlate una volta!—gridò egli più forte.—Che importa a me del vostro soprabito? Le cambiali, dove sono?

—Ih, che furia! Eccole qui, le vostre cambiali, anzi qualcosa di meglio che le vostre cambiali.—

E andato alla scrivania, presso cui fu sollecito a seguirlo il Collini, l'ometto giubilante aperse il cassetto, raccolse nelle palme i biglietti che v'erano caduti poco prima alla rinfusa, e li lasciò ricadere sulla tela incerata.

—Eccoli!—diss'egli.—Sono cento; contateli; cento biglietti, bianchi come la neve, biglietti da mille, e puri di macchia, non già col peccato originale della firma falsa, come le vostre cambiali. Cento da mille, fanno centomila, e quel che è più strano, che sa di miracolo, venuti ventiquattr'ore avanti la scadenza. Ma che c'è? che cos'avete, Collini?—

Il Collini, veduti i biglietti, era rimasto come fulminato, e, sentendosi venir meno le forze, s'era lasciato cadere su d'una scranna. Alla dimanda del Salati non rispose parola; forse neppure la udì, tanto era turbato.

V'ebbero alcuni minuti di silenzio, non interrotto che dal respiro affannoso del medico e dallo strofinìo dei biglietti che il Salati andava rimettendo in ordine, da quell'ometto aggiustato ch'egli era. Il Collini che s'era messe le palme alle tempie e stringeva forte quasi per tema che avessero a scoppiargli, finalmente si volse al compagno, e con occhi stralunati, con voce soffocata, gli chiese:

—Ma ditemi, per l'anima mia, com'è ciò avvenuto?

—Vi contento subito, purchè mi lasciate parlare. Al tocco mi son mosso di qui per andare dai fratelli Teirasca, come mi avevate raccomandato di fare. La vuol finir male, dicevo tra me. Il Marsigli non sa nulla; il Montalto non ha quattrini, e que' signori mi rideranno sul muso. Ma lasciamo anche stare la trista figura che io ci farò, di capitalista corbellato; si avranno a far delle spese; bisognerà pigliarsi la noia di andar per giustizia, e i denari, arrivedelli! Metteranno quel giovinastro in gattabuia; bel guadagno! Il nostro Collini ci avrà perso sessanta mila lire.

—Le perdevo del mio!—interruppe il Collini.

—Lo capisco; anzi, a dir vero, non perdevate nulla, poichè l'altro negozio delle case l'avete fatto voi, e ci avete guadagnato ben altro. Comunque sia, poichè il guadagno non conta, ecco sessantamila lire andate al diavolo, dicevo tra me, nel mettere il piede in quel vasto cortile del palazzo Teirasca. Un bel palazzo, Collini! Dicono che sia di Galeazzo Alessi. Uno stupendo edifizio, in fede mia, e può valere cinque volte questa somma che ci è capitata per miracolo. Quando l'avremo noi, un palazzo come quello, da metterci il banco Cardi Salati e compagno? Basta; salgo le scale, entro nell'anticamera del banco Teirasca, e mi affaccio alla cancellata.—In che possiamo servirla? mi domanda un giovinotto di pelo rosso come voi.—Son venuto, rispondo, per vedere se Luciano Marsigli ha fatto provvigione di denaro a questo banco, per pagare quattro obbligazioni che scadono domani, quindici ottobre.—L'altro mi guarda un tratto, con certi occhi che paiono volermi passare fuor fuori. Hanno a ridere de' fatti miei! dico io tra me e me; coraggio, Salati, e passiamo pure per un merlo spennacchiato. Ma ecco che il mio uomo, altrettanto cortese nei modi, quanto m'era parso ironico nelle sue guardate, mi domanda: Ha Ella le cambiali di questi signori? Eccole. E cavato di tasca il portafogli, metto sott'occhi al signorino i quattro pagherò del Marsigli. Me li guarda attentamente, li ripone su d'uno scaffaletto, e accennandomi un altro lato della sala, mi dice colla sua vocina di flauto: I denari ci sono, e si pagano a Vossignoria fin d'oggi, tanto perchè non si pigli la briga di rifar le scale domani.—Argomentate il mio stupore; mi pareva di sognare. Intanto il giovinotto mi addita la cassa, all'altro lato della sala, e ad alta voce comanda al cassiere di consegnarmi cento biglietti da mille, salvo che (aggiunge egli) non mi torni più comodo aver la somma in oro.—Non occorre, rispondo io; la carta fa meno ingombro. E lì, tra i sorrisi del signorino e gl'inchini del cassiere ad ogni biglietto che sfoglia, intasco centomila lire, e me ne vado, non senza correr risico di sfondar l'invetriata, nello andare a ritroso, come le ballerine quando ringraziano il colto e l'inclita.

—Maledizione!—urlò il Collini, che si era contenuto fino a quel punto, per sentire tutti quei particolari.—Tutto ciò è strano, assai strano. Donde l'ha avute, quelle centomila lire? Ma che dico l'ha avute? Donde l'hanno avute i Teirasca? Perchè egli di certo non le ha snocciolate….

—A caval donato non si guarda in bocca,—sentenziò placidamente il Salati.—Abbiamo fatto un negozio stupendo. Di sessantamila abbiamo centomila in due mesi; abbiam messo il nostro denaro, se la memoria non mi gira nel manico, all'interesse del dugenquaranta per cento. L'andasse tutti i mesi così! Ma purtroppo, si dà il più delle volte del naso in certi spiantati, in certi matricolati furfanti, che a far saldo con loro, ci si rimette quel po' di guadagno su cui s'era fatto assegnamento.

—Oh voi non vedete altro che il guadagno!—brontolò il Collini, che andava a passi concitati su e giù per la camera.

—E per che cosa ci siamo noi uniti in ragion di commercio, di grazia?—dimandò candidamente il Salati.

Il Collini gli rispose con una crollata di spalle, e continuò borbottando la sua passeggiata.

—Ma scusatemi, veh!—proseguì l'altro, che non sapeva capacitarsi di quella stizza del compagno.—Poco fa, ho creduto che fosse meraviglia, e mi parve naturale. Anch'io, flemmatico come sono, ce ne ho avuto il mio quarto d'ora. Ma adesso io non v'intendo più. Che cosa sono queste smanie? O che, facevate forse il conto di non essere pagato?

—Sicuramente!—gridò il Collini, piantandosi sui due piedi in faccia al collega, che rimase con tanto d'occhi a guardarlo.—Allorquando voi altri non volevate scontar le cambiali senza aver prima riconosciuta la firma di Luciano Marsigli, non vi avevo io detto….

—Sì, lo ricordo benissimo;—interruppe il Salati.—Ci avete detto che non occorreva; che anzi avevate il dubbio che la firma del Marsigli non fosse autentica, ma che a voi non importava nulla, poichè c'era la firma del marchese di Montalto. E poichè ci vedeste nicchiare, avete aggiunto: scontiamo le cambiali; se ci sarà da perdere, mettete la somma a mio debito. Vedevate più lontano di noi, e il banco vi ha molta gratitudine. Che colpo d'occhio, Collini! Con voi faremo miracoli; ancora due anni di buon incontro come questo, e potremo metterci nell'alte imprese bancarie.

—Ma non intendete voi che io le volevo perdere, quelle sessantamila lire?

—Perderle? e perchè?

—Il perchè lo so io. E adesso, la vendetta m'è sfuggita di mano, e quel burbanzoso ha cansata la galera.

—Capisco,—disse il Salati,—che se le centomila lire non c'erano, egli ci passava rasente. Ma alla fin fine, meglio così; l'amico si è mostrato buon pagatore.

—Non dicevate così, per lo innanzi!

—E mi disdico; l'ho oramai per un uomo a modo. Se càpita un'altra volta a chiedere una somma ad imprestito, poniamo anco diecimila lire, gliele dò di mio capo, al medesimo interesse. Credete a me, Collini,—soggiunse l'ometto rubicondo e paffuto,—la vendetta è una vivanda saporita; ma i denari son più gustosi ancora. Io so bene; ricordo quella vostra rabbia dell'inverno passato; ma, in fede mia, vi credevo più sano di mente. Quando egli ha dato nella ragna, e voi ci avete proposto di sbocconcellarcelo in compagnia, ho detto tra me: il Collini è un filosofo che capisce il suo tempo. Difatti, non si ammazza più nessuno, oggidì; le vendette rumorose non sono più in voga. Questi giovinotti inesperti hanno la spada in pugno; noi le loro cambiali in tasca. Questa è la vera botta dritta, che va al cuore, ma passando per la via della borsa. Credete a me, Collini; il denaro del nemico ha più sapore che non il suo sangue. Pigliate i denari al nemico, ed è un uomo spacciato. Ve lo dice anche il Savio __«Homo sine pecunia est imago mortis»__.

—Siete un asino, voi!—rispose furibondo il
  Collini.

E pigliato il cappello, se n'andò via a precipizio, tirandosi dietro con grande strepito l'uscio del __sancta sanctorum__.

—Asino! asino a me?—fischiò, digrignando i denti, l'ometto paffuto.—Te lo darò io l'asino, tra due mesi, alla stretta dei conti!—

XXV.

Nel quale i lettori più scarsi d'ermeneutica avranno la spiegazione della "Prima dei Corinzii".

Com'era avvenuto tutto ciò?

Per raccontarlo ai lettori, dobbiamo rifarci alcune ore indietro, e cercare Aloise Montalto nel suo quartierino di via Balbi.

In che stato fosse l'animo del giovine, ci è noto dalle parole del Collini, il quale aveva mandato il Ceretti ad esplorare, col pretesto di comperar la Montalda. Ma noi dobbiamo soggiungere che quel negozio delle cambiali non era il solo argomento della tristezza d'Aloise.

Anzitutto, perchè s'era egli gettato in quella rovina? Egli giovine severo, assegnato, perchè s'era dato ad operare da spensierato, da pazzo?

Nella dimanda è già la risposta. Chi giudicherà i diportamenti d'un pazzo? E chi potrà sentenziare per quali vie abbia a scorrere, a qual punto fermarsi la pazzia? Incendio lunga pezza nascosto, infuria d'improvviso per modo che opera umana più non vale a frenarlo. E la fiamma d'Aloise era stata covata sei anni, sei lunghi anni in silenzio. Per tutto quel tempo il suo cuore era stato come un tempio domestico, dove egli custodiva gelosamente una immagine sola, nè occhio profano era giunto mai a trapelarne il mistero. E la dea ch'egli adorava in segreto, ai cui piedi ardeva il migliore degli incensi, il fiore della sua giovinezza, i pensieri tutti dell'anima, regnava là dentro, non pure scolpita, animata da quel Pigmalione eterno che si chiama l'amore. Perchè infatti, siamo noi gli artefici de' nostri idoli; la donna amata è in gran parte opera de' nostri vaneggiamenti. I più soavi contorni del suo volto, le curve più leggiadre della sua persona, non appartengono all'originale. Il ritratto è fedele bensì, ma ogni cosa è raggentilita, levigata, accarezzata da quel medesimo scalpello che ad opera compiuta si converte in pugnale per noi.

La bella Ginevra dagli occhi verdi, per verità, era di tale bellezza, che il suo Pigmalione non avrebbe potuto conferirle una grazia di più. Ma egli, nel ritrarla in sè stesso, le aveva pur dato alcun che di nuovo, d'insolito, il suggello dell'artista. Quella immagine amava Aloise; egli l'aveva foggiata secondo il suo desiderio. E mentre la bella Ginevra non sapeva ancora di lui se non che egli era il solo che sdegnasse, non che ammirarla, guardarla; mentre nessuno s'era pure avveduto ch'egli si struggesse per lei, già la marchesa Ginevra era sua, già l'immagine rispondeva alle agonie dell'artefice. Il miracolo l'aveva operato egli nel suo cuore; era tuttavia un sogno, e già gli pareva realtà. Diremo una cosa strana, ma non parrà tale a chi abbia amato una volta in sua vita; se quella donna, il primo giorno ch'egli si fosse appressato a lei, gli avesse stesa la mano e detto col più soave accento di tenerezza: «vi amo» ei non l'avrebbe avuto in conto di novità; quella stretta di mano, quell'accento, quella parola, gli sarebbero sembrati continuazione d'un colloquio che durava da anni.

Così, allorquando le fu vicino e le parlò per la prima volta, gli parve non aver più nulla a dirle ch'ella già non sapesse, più altro a fare se non che adorarla tacendo. Lo schietto amore è già di per sè stesso poco loquace. La famosa carta del Tenero è una guida a chi viaggia per diporto; Werther e Jacopo Ortis non la conobbero, o, se pur la conobbero, sdegnarono usarne. L'amor vero e profondo non si butta a correre la ventura delle chiacchiere; indovinato e corrisposto si espande, arde ed illumina due vite; __Sigea lata relucent__; anco i naviganti lontani ne traggono indirizzo ed auspicio. Ignorato e negletto si consuma da sè, ma uccidendo chi lo porta nel seno.

Così amava Aloise; così fu tratto facilmente, fatalmente, nell'orbita di quell'astro che egli aveva tanto amato da lontano. Ginevra era troppo gran dama, troppo conscia di sè; le leggi era avvezza a dettarle, non a subirle da alcuno. E senza parlare di lei, non è questo il costume di tutte? L'amore, chi voglia considerarlo un tantino, ha le sue forme storiche anch'esso, come tutte le passioni dell'umanità, o, per pigliare una frase a prestanza dagli economisti, come tutti i fatti sociali. Una storia dell'amore è da farsi tuttavia, e forse non sarà fatta mai. Chi ama non scrive; chi scrive non ama. Egli avviene talvolta che un uomo ferito a morte intinga la penna nel suo sangue, e scritta una pagina del gran libro, la getti in pascolo al suo tempo, che avidamente la raccoglie, avendone un turbamento indicibile. Ma è una pagina sola, non già il libro; un grido di morente, non già una dissertazione di filosofo. Lo scrittore, e poniamo anche il più accorto, che veda e noti le occulte ragioni dell'affetto, che lo consideri nelle sue relazioni colla vita dei popoli, colla loro coltura, collo stato della donna, con tutti insomma i rivolgimenti d'un'epoca, correrà il risico di far opera di soverchio leggera, o di soverchio pesante, improba sempre e sgradita.

Nè abbiamo in animo di farla noi, ci s'intende. Solo pel tempo nostro e pel bisogno del nostro racconto, che oramai volge al suo fine, accenneremo come la donna, essendo nell'odierno consorzio schiava ad un tempo e regina, tenga ne' suoi diportamenti dell'una e dell'altra. Tutte si rassomigliano; ora tremano, ora fanno tremare; cogli uni non ragionano, perchè non possono; cogli altri nemmeno, perchè non vogliono. L'uomo è per esse uno schiavo, quando non è un padrone; in un caso e nell'altro, sempre un nemico. La colpa è un po' nostra; non siamo noi che abbiam fatte le leggi, e vi mettiamo a guardia i nostri pregiudizi, i nostri dirizzoni? Comunque sia, la donna è così, nè vale a mutarla il più profondo degli affetti. E può amarla con frutto chi la ami tanto leggermente da non mettersi già in sua balìa, ma da farne le mostre; chi giuochi coperto e stimoli la curiosità di lei, come è fama adoperasse il serpente colla madre antica dell'uman genere; chi, a farla breve, non ami, e si contenti a desiderare, senza soverchio accompagnamento di sospiri e di lagrime.

Uno scrittore (nè sappiamo più quale, e se non vi sa d'autentico, mettete che siam noi a dirittura) ha detto che le donne sogliono amare nella lor vita in due modi; giovani, inesperte, come l'uom vuole; donne fatte, avvedute, come loro talenta; donde avviene che nel primo caso infastidiscono, nel secondo uccidono. Debolezza e crudeltà! Speriamo nel futuro: auguriamo ai nostri nipoti una nuova e miglior forma storica dell'amore. Le donne saranno più libere e per conseguenza più umane; gli uomini, spogli finalmente de' loro storti concetti, vedranno in esse le eguali, le compagne, le amiche, le consolatrici della vita; non si spartiranno più, come ora, in due classi, di carnefici e di vittime. Lovelace e Werther saranno spariti; rimarrà in vece loro un uomo nuovo, amante ed amato, confidente e felice. Nato dalla libertà, l'amore si nutrirà di stima; la venerazione tornando al suo vecchio significato, farà solenne ciò che ora è brutale o colpevole, doloroso o ridicolo. Questa poesia dei sensi, come l'ha definito il Balzac, diventerà il senso più eletto della poesia che informa l'umanità tutta quanta, e che ha nella donna la sua incarnazione più efficace e più splendida.

Ciò detto, e anzi che no malamente, per non lasciar coll'amaro le nostre graziose lettrici, che già ci avran tolto per calunniatori del bel sesso, torniamo ad Aloise, ad Aloise che errò, e patì i danni dell'error suo, senza muoverne un lagno. Non era forse sua la colpa? Ben poteva egli amar quella donna da lontano, e durar nello inganno; volle avvicinarsi a lei, e si consunse alla fiamma. Poteva egli ritrarsi? Creda ciò chi lo ha fatto, e s'argomenti pure d'avere amato da senno; Aloise, non potè, e ben conobbe alle prime ch'egli era dannato a morire. Farsi innanzi non gli era concesso; dare indietro gli sarebbe parso viltà. Ma quella donna vedeva il suo misero stato? A volte gli parve di sì. Non erano segni di amorosa pietà quegli atti cortesi che lo richiamavano di tanto in tanto al fianco di lei? Il silenzio medesimo che durava tra essi, e che si mutava in improvviso cicaleccio al giungere del più gramo personaggio della corte, non era egli un dire ad Aloise: io so il vostro segreto? Ma erano lampi; uno sprazzo di vivida luce rischiarava lo spazio; poi, d'improvviso, tutto ritornava nell'ombra. E queste tenebre solevano farsi più fitte allorquando gli occhi di Aloise, precursori della parola, incominciavano a dir qualche cosa.

Nè andò guari che egli tutto intese il suo fato. Quella donna da lui così fieramente amata, avrebbe potuto durarla anni ed anni in quel suo riserbo, lasciandolo incerto tuttavia, non pure del futuro, ma dell'istesso presente. Che era egli, qual posto aveva nel cuore di lei? Le tornava egli molesto, o le pareva degno di quella pietà che fu detta sorella d'amore? O, preparandosi senza fretta ad usargli misericordia, pigliava diletto a farlo soffrire? O non le importava nulla, proprio nulla di lui, e lo lasciava fare e dire, perchè si stancasse da sè? Comunque fosse, egli non poteva tra quelle dubbiezze discernere il vero; nè i diportamenti di lei erano tali da lasciargli il conforto degli sciocchi, vogliam dire la speranza di lontane fortune, e la molle costanza dello aspettare tacendo. E allora la sua deliberazione fu presa. Senza l'amore di quella donna, non poteva più vivere; lontano da lei, foss'anco stata dieci volte più fredda, nemmeno. Che rimaneva? Sottrarsi agli spasimi d'una lenta agonia; accorciare la strada, correndola a precipizio; vivere sfolgorando a guisa del fulmine; ardere, consumarsi, morire.

E questo pensiero, nato appena, s'ingigantì nella mente di Aloise, fu arbitro di tutte le opere sue. Egli arse le sue navi, come chi non abbia speranza nè desiderio di ritorno. Quello era il campo ignoto dov'egli voleva vincere o morire. La bella Ginevra, per miracolo da lui non sperato, e quasi diremmo neppure invocato, avrebbe avuto compassione di lui? Egli si sentiva la virtù di rifar la trama della sua vita da capo. O, come gli diceva il cuore indovino, avrebbe durato nel suo riserbo invincibile? Ed egli periva. Il suo rogo era pronto; già v'era appiccata la fiamma. Così, fermo nel fiero proposito col sorriso dello spensierato sulle labbra, coll'aspra voluttà del suicida nel cuore, si gettò ad occhi aperti nel vortice.

Da quel dì, Genova non ebbe più magnifico cavaliere, nè più cortesemente superbo di lui. Già aristocratico per natali e per attinenze, divenne tale anche nelle forme del vivere. Le mute della sua rimessa erano il meglio che uscisse dalle officine di Milano e Parigi; i suoi cavalli da sella e da tiro, ammirati, decantati, dall'universale, come i migliori che fossero in città, volavano via come il vento, portando la sua fortuna; quei generosi cornipedi, imitando la serena baldanza del padrone, galoppavano in pendìo senza badare a pericoli. E coloro che vedevano il marchese di Montalto uscire a quel modo fuori di riga, correvano col pensiero alle ricchezze facilmente esagerate del vecchio Vitali; e i milioni del nonno davano loro la chiave delle larghe spese del nipote.

Questa opinione del volgo, alla quale non aveva pensato Aloise, lo aiutò, senza sua saputa, a cansar l'accusa di pazzo, vanitoso che corresse a rovina. Il marchese Antoniotto, egli stesso, la pensò come il volgo, e quella insolita maniera vivere sfoggiato gli parve naturalissima per conseguenza. Abbiamo già detto a suo luogo che Bonaventura non lo metteva a parte di tutti i suoi segreti. Il tiranno di Quinto era l'insegna di bottega del partito clericale, o, per dirla meno bassamente, il suo gran diplomatico, e tale aspirava a diventare altresì per la monarchia di Savoia, quando essa, come a lui pareva probabile, avesse dato un calcio a tante sciocche fantasticherie liberalesche; intanto leggeva discorsi in Senato, che mandavano in visibilio l'__Armonia__, e facevano dire al __Monde__ di Parigi:—__voilà l'homme d'état qui conviendrait le mieux à ce pauvre roi de Sardaigne__.—Il giovine Aloise di Montalto pareva al nostro uomo di Stato un'ottima preda. Aloise, in materia politica non aveva amori nè odii, non simpatie nè ripugnanze deliberate. La sua gioventù era scorsa in un tempo di sosta, povero di eventi e di lotte, in cui la sua mente avesse per amore o per forza a parteggiare; i suoi studi, le sue consuetudini, i suoi passatempi, lo aveano tenuto fuori (nè intendiamo dir qui se fosse male o bene) dal campo chiuso dove da secoli e secoli vengono a darsi la muta, a combattere con varia fortuna, tutti gli svariati sistemi di reggimento, tutti i grandi e piccoli interessi di popoli e di re, tutti i diritti e tutti i privilegi, tutte le inconsiderate verità e tutte le prudenti menzogne. Perciò il marchese Antoniotto poteva sperare di trarre Aloise dalla sua, contentando quella manìa d'apostolato che aveva, e che l'accorto gesuita gli era andato accarezzando nell'animo.

E perciò egli stesso, nel disporsi colla consorte al suo viaggio autunnale che i lettori conoscono, udito da Aloise che egli pure non sarebbe stato alieno dal muoversi un poco e veder nuovi paesi, gli si profferse volenteroso Mentore nelle sue medesime gite, e introduttore autorevole presso i gran dignitarii, gli archimandriti dell'ordine europeo. Non è a dire se questa paresse fortuna ad Aloise, e come ci andasse di buone gambe. Argomentatelo da questo, che egli non seguì, precedette la nobil coppia a Parigi. Colà, presentato, messo innanzi dal dotto maestro, Aloise conobbe tutti i caporioni del vecchio partito, che spaziava nel sobborgo di San Germano e invadeva anche un tratto delle Tuileries; vecchi legittimisti diventati imperiali; vecchi imperiali diventati legittimisti; repubblicani del 1830 che s'accostavano a San Vincenzo de' Paoli; giudei che veneravano il Papa; grande intriso di vecchie furberie e di giovani vanità; amalgama d'ambizioni e d'interessi che per loro natura avrebbero dovuto cozzare, e che per comune necessità si stringevano insieme; misto di vecchie penitenti, e di giovani peccatrici di chiesa e di caserma, di confessionale e d'alcova, di salotto e di giornale; tutto alla mescolata, oro ed orpello; tutto alla rinfusa, vizio e virtù, per la maggior gloria di Dio e pel maggior bene dei popoli.

A Monaco, a Vienna, altri centri di reazione politica (chiediamo perdonanza di questo barbaro gergo ai lettori) fu per Aloise la medesima storia. In ogni luogo egli era stato come il primo segretario di quell'ambasciatore __in partibus__; e senza far cosa alcuna, parlando poco e non dicendo nulla, aveva sostenuta per bene la sua parte in commedia. A Parigi era stato veduto assai di buon occhio in quel consorzio così pieno di contraddizioni; le vecchie dame avevano lodata la severità del suo contegno, i vecchi barbassori la soavità de' suoi modi; da tutti era stato gridato un nobile del vecchio stampo, pio come Baiardo e valoroso non meno. Un duello ch'egli ebbe e che fece chiasso di molto, perchè il suo avversario era uno dei più eleganti e de' più gloriosi fannulloni di Francia e Navarra, e perchè egli al primo assalto lo aveva disarmato, al secondo gli aveva passato fuor fuori una spalla, non gli fruttò nè ira nè abominazione. Conquistatore di salotti per la gentilezza dei suoi modi, egli aveva suggellata la conquista coll'armi; aveva guadagnati gli sproni, e fu una gara a chi gli dèsse primo la gotata de' nuovi cavalieri. I vecchi mastri di campo si degnarono di ragionare con lui dell'arte della scherma, e lodarono il buon metodo della scuola italiana; le dame, uscite pur mo' dal sermone di Nostra Donna, gli diedero coi sorrisi il premio della sua valentìa. La cagione del duello, per essere stata futilissima, non poteva neanche raccontarsi; orbene, anche il silenzio gli fu ascritto a lode, ed egli andò presso le vecchie penitenti encomiato per cavalleresco riserbo. Tutto gli andava a seconda, salvo quel tanto che gli stava più a cuore. E la tristezza che da ciò gli veniva, accrebbe il suo pregio, facendolo passare agli occhi di tutti per un compito diplomatico.

Di tutti? Sì certamente, ove se ne eccettui la viscontessa di Roche Huart, che già lo conosceva un tantino dalle confidenze epistolari della sua amica di collegio, e che lo trovò molto grazioso, molto pensoso, e molto pericoloso.—__Comment, ma toute-belle? Vous voilà toujours froide, vous, toujours rigoureuse avec ce pauvre garçon?__—aveva ella detto a Ginevra, che mostrava di non pensarla a quel modo.—__Si vous restiez longtemps à Paris, je vous promets qu'on ne vous le laisserait pas plus d'une semaine, et l'usurpatrice ne le ferait soupirer que le temps strictement nécessaire pour sauver les apparences__.—

E perchè Ginevra le aveva risposto, ridendo, facessero pure, poichè ella si tratteneva un mese a Parigi, e il marchese di Montalto, dal canto suo, avrebbe potuto rimanervi a sua posta, la viscontessa aveva detto tra sè: __Toujours la même, cette pauvre Geneviève, belle et froide comme un beau marbre de Paros! Ces Italiennes! Dieu leur donne la beauté: et elles n'en savent que faire__. Come si vede, la viscontessa dal collegio in poi, aveva fatta molta più strada che non la sua __petite madone italienne__.

Quelle erano le dolenti note del cuor di Aloise; nè vogliamo ora tornare su cose già dette, narrando per filo e per segno tutti i patimenti del giovine, le sue angosce d'ogni mese, d'ogni giorno, d'ogni ora. Dei dissesti della sua fortuna è già noto quanto occorre, e i lettori intenderanno agevolmente come le sue pazze spese fossero state tali da dar fondo a ben più ragguardevoli patrimonii e meno sprecati, venduti a stracciamercato del suo.

La scadenza del 15 ottobre si avvicinò, senza che egli avesse trovato il modo di far onore all'impegno. Gli avevano fatto sperare fin da principio una rinnovazione di cambiali, e lo avevano ingannato. Egli si era proposto di vendere la Montalda, e quel negozio, messo accortamente in piazza, trattato apertamente da sensali di mala fama, gli fruttava proposte ridicole. Andare dal nonno a chiedere aiuto? La sua dignità non lo consentiva. Di amici a cui far capo, non aveva altri che il Pietrasanta; ma questi era figlio di famiglia, e il suo credito presso gli usurai non andava fino a quella somma. Così giunse l'antivigilia, senza che egli avesse provveduto a nulla, nè più sperasse di poter provvedere.

—Orbene,—pensò egli,—farò posdimani quello che tanto e tanto avrei fatto qualche giorno dopo. La Montalda pagherà profumatamente il mio creditore. Gli sciocchi diranno che l'ho finita pei debiti…. Dicano pure; che importa a me delle ciance loro? Mi venivano a nausea quando mi davano lode; il biasimo loro non mi farà dormire meno tranquillo il mio ultimo sonno.—

Fatta questa deliberazione, si sentì più libero da quel lato. La sera andò dalla marchesa Ginevra, ma senza aver agio a dirle una sola parola che non fosse di cerimonia. L'imminenza della morte gli avrebbe dato quella sera l'ardimento d'un supremo colloquio; ma c'era conversazione fiorita; il De' Salvi, il Cigàla, Riario, c'erano tutti, perfino il lezioso De' Carli. Egli fu quella sera più cupo del solito, di una tristezza, di una mala grazia senza pari. Ginevra, poi, vedutolo così accigliato, stette anche più del consueto sulla sua, e lo trattò freddamente. Con tutta la loro acutezza, le signore donne, quando le si mettono sul puntiglio, non ne indovinano una.

Quando sentì di non poter più sopportare il martirio, si alzò dalla scranna, e partì, dopo aver toccata a mala pena la mano di lei. Ed era l'ultima stretta di mano. Nè ella lo intese; non mostrò neppure di maravigliarsi della sua partenza; lo salutò tra un motto che le diceva il Cigàla e una risposta che ella stava per dargli. Povero romanzo, come andava egli a finire! Goffredo Rudel si recava in disparte a morire, senza il bacio consolatore della contessa di Tripoli.

—Meglio così!—aveva egli detto, uscendo da quella casa malaugurata.—Meglio così! Oh, come mi pesa la vita!—

Ed era per l'angoscia di quell'ultimo saluto, per la notte travagliata che ne seguì, che Aloise fu visto così abbattuto dell'aspetto ad Arturo Ceretti, a quell'Adone da dozzina, che gli era stato mandato esploratore dal Collini, nella mattina seguente. Aloise pensava alla scadenza delle cambiali come si pensa alla fame, al freddo, quando il corpo sente gli stimoli dell'una e l'impressione dell'altro, cioè a dire per mera necessità del suo stato. Del resto egli non aveva altro pensiero che quello di dar sesto a tutte le sue faccende, di ardere i suoi manoscritti, le sue carte, ogni nonnulla che di lui potesse rimanere ai superstiti, e di andarsene alla Montalda, dove aveva fatto conto di finirsi.

Però, già colto dall'ansia febbrile de' suoi ultimi apparecchi, già invaso da quello spirito feroce che fa considerar la morte come un bene, non diè neppur retta al Pietrasanta, quando questi venne da lui per dirgli che aveva una speranza, che avrebbe fatto capo a qualcheduno per trovare la somma bisognevole, e che più tardi sarebbe tornato a dargliene novelle.

Per la prima volta dacchè erano amici, Aloise fu lieto di vedere il Pietrasanta andarsene via. Libero finalmente d'ogni molestia di discorso, si diede tutto alla sua opera di distruzione; la quale egli non interruppe nemmeno, allorquando venne il servitore a portargli una lettera.—Deponila sul tavolino;—gli disse, e continuò il suo lavoro.

Poco stante, vuotata e rassettata la scrivania, vide la lettera, e la prese tra mani. La rivoltò, e pose gli occhi al suggello; ma lo stemma che vi scorse impresso in ceralacca turchina, non gli ricordò nessuno di sua conoscenza. Allora chiamò il servitore.

—Chi ha portato questa lettera?

—Un servo in mezza livrea; perciò non ho capito di che famiglia fosse.

—Sta bene; vattene.—

E mentre il servitore se ne partiva, aperse la sopraccarta. Ma in quella che ne cavava un foglio di carta inglese vergata, scapparono fuori quattro foglietti più sottili e più brevi sparpagliandosi sul pavimento. Aloise si chinò per raccoglierli; erano quattro cambiali, quelle medesime cambiali che portavano a tergo la sua girata, e che dovevano esser pagate il giorno seguente.

Non istaremo a descrivere la meraviglia, o, per dire più veramente, lo stupore di Aloise. Deposte le cambiali sulla scrivania corse cogli occhi allo scritto; ed ecco ciò che egli lesse:

«Di casa, il 14 ottobre 1857.

«<i>Signor Marchese</i>,

«La S. V. non vorrà, io spero, togliere in mala parte che un ignoto si pigli arbitrio di mandarle queste quattro cambiali. Esse gli vennero in mano mentre egli, udito che la S. V. aveva in animo di vendere un castello che ha nome dalla nobil casata dei Montalto, si disponeva a profferirsi compratore, e a pregarla di accennargli i suoi patti.

«Ora, se la S. V. è davvero in questo proposito, voglia ritenere queste cambiali a conto di quella maggior somma che Le parrà conveniente di indicare, come prezzo della Montalda, e assegnare il giorno e l'ora per firmare il contratto con chi si reca a gran pregio di potersi profferire della S. V. divotissimo

«IL DUCA DI FEIRA.»

Lo stupore di Aloise si accrebbe (e non poteva essere altrimenti) dopo quella lettura. Il duca di Feira! Quel nome gli era noto, perchè da qualche tempo, nelle conversazioni, nelle veglie, in ogni ritrovo della signoril compagnia, era un gran discorrere di quel Portoghese, Americano, o Indiano che fosse, il quale era ricco sfondato come un principe delle __Mille e una notte__, e viveva solitario nella sua opulenza, alieno da ogni maniera di passatempi e da tutto quanto potesse dare alla curiosità universale l'appiglio d'una conoscenza più prossima. Solo il sindaco della città aveva posto piede nel suo salotto, e ciò perchè egli s'era recato a debito di ringraziare il nobile forestiero di uno splendido presente fatto al museo Civico e d'una ragguardevole offerta ad un istituto di carità cittadina. Accolto dallo straniero in quel modo che si conveniva al primo magistrato della città, il sindaco non avea parole per lodarsi di quel magnifico gentiluomo in guisa degna di lui. La visita era stata ricambiata il giorno seguente, e le relazioni estere dello straniero erano rimaste a quel punto. Alcuni giorni dopo, egli era partito da Genova e dicevasi per una gita di parecchie settimane in Toscana. Diffatti, il suo palazzo era rimasto aperto; le mute della sua rimessa uscivano regolamente ogni giorno per tenere in moto i cavalli, e l'intendente faceva le sue corse in carrozza, seduto al posto del duca.

Fino dal primo apparire di quel ricco signore, la gente curiosa s'era fatta a pigliar lingua qua e là, dovunque potesse cavar notizie del misterioso personaggio. E presto aveva dovuto capacitarsi che di misterioso non c'era nulla fuorchè l'apparenza. Il duca di Feira era un duca autentico, padrone di una miniera aurifera nel Brasile, dov'era tenuto in gran conto, ma dove da molti anni si vedeva di rado, essendo egli un gran viaggiatore nel cospetto di Dio. Questo si era saputo dai banchieri, presso i quali il duca di Feira era larghissimamente accreditato. Nè andò molto che fu noto ancora come l'imperator del Brasile avesse profferta al duca la sua ambasciata presso la corte di Torino, od altra che più gli tornasse a grado, e come egli avesse ricusato quell'alto onore per ragioni di salute. Viaggiava l'Italia, dopo aver visitato l'Asia e il settentrione d'Europa; a Genova gli era parso confacente il clima, e faceva conto di rimanervi più a lungo; non amava la compagnia, perciò usciva solitario. Tutto ciò era naturale, e nessuno poteva trovarci a ridire.

Ma non sembrò naturale del pari ad Aloise quella intromissione dello straniero nelle sue cose domestiche. Bene intendeva egli come il duca di Feira avesse voluto fargli servizio; ma perchè, poi? Come era venuto in chiaro delle sue strettezze? E in che modo aveva potuto metter la mano sulle cambiali, il giorno innanzi la scadenza?

A tutte quelle domande, che lo tennero a lungo dubbioso, recò una risposta, o a dire più veramente gli recò il modo di trovarla di per sè, l'amico Pietrasanta, tornato da lui dopo due ore d'assenza. Enrico aveva veduto, due giorni innanzi, il Giuliani; si erano intrattenuti a lungo sul caso di Aloise, e il Giuliani aveva suggerito ad Enrico di tentare la prova presso il duca di Feira, che gli era noto come un compìto gentiluomo, e dispostissimo, per la bontà somma dell'animo, a far servizio altrui. Certo era arditezza grande il presentarsi al duca, senza conoscerlo; ma il Giuliani, che avrebbe parlato volentieri egli stesso al duca se non avesse reputato di correr troppo alla leggera, non essendo col marchese di Montalto in molta dimestichezza, offriva al Pietrasanta di dargli un suo biglietto di visita che lo introducesse presso il duca e gli agevolasse il suo compito. Enrico era rimasto perplesso: ma avendogli detto il Giuliani saper egli di buon luogo che gli strozzini avevano fatto mettere ad Aloise la girata su cambiali false, tanto per condurlo ad un tristo passo, aveva veduto esser quella l'unica via di salvezza, e senza dirne nulla ad Aloise, era andato dal duca; ma non lo aveva trovato in casa, con suo grande rammarico; nè certo avrebbe raccontato di quei suoi infruttuosi negoziati ad Aloise, se non avesse vedute le cambiali e la lettera del duca, la quale gli dimostrava che il Giuliani, dato il consiglio, aveva stimato più acconcio mettere i fatti di costa alle parole, e, più fortunato di lui, aveva potuto parlare col duca.

Un brivido corse per l'ossa ad Aloise, e stille di sudor freddo gli bagnarono la fronte, allorquando dal racconto dell'amico udì il pericolo che aveva corso. Acerbi erano i dolori dell'anima sua, e tali da fargli considerare gran ventura la morte; ma i suoi tormenti non erano stati inaspriti dal pensiero dell'infamia. Certo, una così scellerata trama non era di volgari usurai; ed egli tremò, pensando a quel laccio che era stato teso al suo onore, e dal quale egli si era inconsapevolmente salvato, mercè l'operoso affetto del Giuliani, di un amico recente.

Come si fu riavuto da quel colpo, ringraziò il Pietrasanta, benedisse al Giuliani, e spremuto dal cuore quell'ultimo avanzo di alterigia che pochi istanti prima lo avrebbe forse condotto a ricusare il servigio dello straniero nel modo in cui gli era offerto, prese la penna e scrisse questo biglietto al duca di Feira:

«<i>Signor Duca</i>,

«Grazie! che vi dirò io di più? Grazie, e dal profondo del cuore.

«Abbiatevi la Montalda, della quale io non posso chiedervi più di quello che v'è costato il riscatto delle cambiali. Voi certamente le avete riscattate per farmi servizio, e quello che è giunto or ora al mio orecchio, e mi confonde tuttavia di sgomento e di vergogna, me ne fa testimonianza certissima.

«Oggi stesso, a quell'ora che vi torni più a grado, sarò dal notaio
Marinasco, per sottoscrivere il contratto.

«Vostro per la vita

«ALOISE DI MONTALTO.»

—Non gli prometto molto!—disse Aloise tra sè, in quella che scriveva quel «vostro per la vita».

E suggellata la lettera, la mandò prontamente al duca di Feira.

XXVI.

Come Bonaventura trovasse impedimento tra l'uovo e il sale.

Nel pomeriggio di quel medesimo giorno, 14 ottobre, pochi minuti dopo il desinare, ch'egli aveva a mala pena assaggiato, Bonaventura Gallegos era nella sua camera di studio. Quel dì gli era venuto in uggia il terrazzo, dove soleva recarsi a fare la sua digestione; i tristi pensieri, che gli giravano per la fantasia, richiedevano il raccoglimento della solitudine. Ancora non sapeva di ciò che avesse fatto il Collini, che in quel punto doveva essere tuttavia a colloquio col Salati; non aveva altro sopraccapo che i suoi brutti presentimenti; ma ce n'era d'avanzo per occupargli lo spirito.

Da pochi minuti, come abbiam detto, egli era là chiuso, seduto nel suo seggiolone, assorto nelle sue meditazioni, allorquando venne a rompergliene il filo una scampanellata all'uscio, e poco stante la signora Marianna gli porgeva una lettera, recata da un servo della marchesa di Priamar.

Un foglio di Lilla! Che voleva dir ciò? Quella sera medesima egli aveva fatto conto di andare da lei, ed essa lo aspettava certamente. Perchè quella lettera di lei? di lei, che non gli aveva mai scritto? Bonaventura pigliò la lettera, chiedendo alla governante se il servitore aspettasse risposta; la signora Marianna gli disse di no, perchè il servitore se n'era andato senz'altro aspettare; egli allora congedò la signora Marianna, e ruppe il suggello della sopraccarta.

Nel foglio della marchesa erano pochissimi versi. Lilla desiderava vederlo, per dargli ragguaglio d'alcune cose sue. E ciò gli parve assai poco. In quella vece gli parve soverchio un «Padre reverendissimo» col quale era cominciata la lettera, e il battere le labbra in atto sdegnoso, com'egli fece, avrebbe potuto mostrare come quelle due parole gli dessero maledettamente sui nervi. Al cospetto di quella donna gli pesava il suo stato chiesastico, e gli cuoceva sentirselo ricordare da lei. Perchè dargli quel titolo di rispettosa cerimonia, ella che, conversando con lui, soleva chiamarlo col nome di amico? Sempre la stessa! pensò. E non avrà da mutarsi mai? Non sente ella ancora d'essere in mio potere?

In quel mezzo, l'orologio a pendolo che stava nell'anticamera, suonò le quattro. Allora, pensando che se la marchesa aveva bisogno di vederlo tre o quattr'ore prima del tempo, gli era certo per cosa di rilievo, si mosse per uscire, e vestitosi in fretta, chiuso accuratamente l'armadio dov'erano riposte le opere di sant'Agostino e la famosa cassettina d'ebano, partì, dicendo alla signora Marianna che sarebbe tornato sulle dieci.

Il suo apparire sulla strada fu notato da un tale, che era appostato sulla cantonata del palazzo Verde. Costui, che all'arnese pareva uno spazzaturaio, o alcun che di somigliante, lo seguitò chetamente fino alla via del Campo, e vistolo entrare nel portone di casa Priamar, rifece speditamente i suoi passi, infilò le scale del palazzo Vivaldi e andò a battere all'uscio di Bonaventura tre colpi cabalistici, i quali, come l'«__Apriti, Sesamo__» di Ali Babà, ebbero la virtù di schiudere prontamente la porta, coll'aiuto, s'intende, della signora Marianna che tirava il catenaccio.

—Siete ben certo che non torni indietro?—chiese la femmina al suo niente misterioso visitatore.

—L'ho veduto io stesso entrare in casa Priamar; non abbiate timore! E adesso, non perdiamo tempo, colombella mia; in dieci minuti ha da esser fatta ogni cosa.

—Ah, Michele! La faccio grossa!—esclamò la signora Marianna, alzando gli occhi al cielo.

—Ma non avrete a pentirvene;—soggiunse Michele.—Vedrete che bella casetta; ci staremo da principi. Animo, dunque; non mi fate la scrupolosa; se no, come dice lo stornello, «Se mai v'incontro per la strada a caso,—Sia maledetto se vi guardo in viso».

—Ah sì, omaccione? Così parlate adesso?—gridò con un piglio tra il dolce e l'amaro la signora Marianna.—Tutti d'una pasta, questi uomini! Quando hanno da ottenere qualcosa, pregano, piangono, s'inginocchiano; poi….

—Via, Mariannuccia, via!—disse Michele, dandole sulla voce;—ho detto per celia. Sapete pure che vi voglio un gran bene, e che tra un mese, tra quindici dì, se ci sarà tempo a farci gridare in chiesa, saremo marito e moglie, benedetti come due ceri pasquali. Ma non ci perdiamo in chiacchiere, e lavoriamo di fine, se vogliamo guadagnarci il paradiso.—

Poco prima che questi discorsi, promettitori di pronte opere, si facessero in casa di Bonaventura, questi era già entrato in casa Priamar, e squadrava con occhi da inquisitore la faccia abbronzata di un servo che gli aveva aperta la porta, ben diverso da quello che era solito di vedere in anticamera.

—Chi siete voi?—domandò col suo piglio imperioso il gesuita.

—Il valletto della signora marchesa.

—Da quanto tempo?

—Da stamattina.

—Siete forestiero?—chiese Bonaventura, che aveva notato l'accento esotico del servo.

—Sissignore.

—E in che casa servivate, prima di venir qua?

—In casa di Sua Eccellenza il duca di Feira.—

Bonaventura conosceva di nome quel duca, come tutti lo conoscevano da qualche tempo in città. Ma quel nome non gli diede alcun sospetto; nè certo avrebbe potuto dargliene, nuovo com'era. Il gesuita si fermò in quella vece a chieder tra sè per qual ragione la marchesa Lilla avesse mandato via l'altro servitore, uomo di sua confidenza, che egli stesso aveva collocato presso di lei.

—Annunziate il signor Gallegos!—diss'egli, ponendo fine a quell'inutile interrogatorio.

—Il padre Gallegos! La signora marchesa lo aspetta per l'appunto.—

E così dicendo, il servitore corse sollecito innanzi al gesuita, e spalancò la portiera del salotto, per richiuderla dietro di lui.

Bonaventura s'inoltrò accigliato verso quell'angolo della sala, dov'era il ridotto della signora. La marchesa Lilla era appunto colà, seduta sul suo piccolo sofà; il cuore le palpitò forte nel petto, all'avvicinarsi del gesuita; ma il suo volto, composto ad espressione di calma, se non per avventura di serenità, non tradì l'interno sussulto.

—Lilla, buona sera!—disse il Gallegos, facendosi avanti.

—Buona sera!—rispose ella dolcemente.

—Avete cangiato di servitore, quest'oggi?—chiese Bonaventura, innanzi di sedersi, com'ella gli aveva accennato col gesto.

—Sì.

—Perchè?

—Perchè l'altro non mi serviva a dovere.

—L'avevo collocato io nella vostra casa, e mi pare….—

Bonaventura aveva meditato quella reticenza, facendo assegnamento su d'una pronta risposta. Ma la signora si tacque. Egli la guardò stupefatto; indi, mutato argomento, proseguì:

—Mi avete scritto di venire da voi. Avevate qualcosa a dirmi?

—Sì;—rispose ella con un fil di voce, mentre il suo cuore, sentendo avvicinarsi il gran punto, si gonfiava per la commozione.

—Della fanciulla, forse?—chiese il gesuita.

—Sì.

—Come va ella?

—Oh, molto meglio!

—Ne godo;—disse Bonaventura, col medesimo severo accento con cui avrebbe detto: me ne duole.—E finalmente si sarà piegata ad accettare il partito che le avete profferto.

—No, padre.

—No? è male, assai male!—tuonò Bonaventura.—Ma voi. Lilla, ne son certo….

—Io,—si affrettò a dire la marchesa, che non poteva più sostenere la battaglia a monosillabi,—l'ho tratta ieri dal monastero.—

Un fulmine scoppiato a' suoi piedi non avrebbe fatto più colpo sull'animo del Gallegos, di quello che gli fece la risposta, buttata là a precipizio, della marchesa di Priamar.

—Voi!—esclamò egli, balzando dalla scranna.—Voi avete fatto ciò?

—Io, sì!—proruppe la marchesa;—io, che non potevo resistere più oltre allo strazio di quella povera creatura.

—Siete voi pazza?

—Sono madre!

—Ah sì, lo avevo dimenticato!—ringhiò con accento di profonda amarezza il gesuita.

E senza badare alle buone creanze, si diede a passeggiare concitato nel salotto, collo sguardo basso, i denti stretti e i pugni chiusi sul petto, come un lottatore che si prepari alla riscossa. Ma veramente egli non sapeva come avrebbe potuto rifarsi; mille pensieri gli turbinavano confusi pel capo; il sangue gli gonfiava le vene pel collo toroso, e gli martellava alle tempie.

Passeggiò a lungo in quel modo; indi, come un uomo che abbia preso una deliberazione, mosse impetuoso verso la signora, e si piantò dinanzi a lei con un piglio feroce che la fece dar indietro sbigottita, e con un accento da cui trapelava tutta la rabbia ond'era invaso, le dimandò:

—Dove è ora, la figlia di Paris Montalto?

—In casa mia;—rispose con voce spenta, ma ferma, la marchesa di
Priamar.

Bonaventura stette silenzioso un tratto, squadrandola con occhi fiammanti, quasi volesse incenerirla collo sguardo; quindi proseguì:

—E che cos'avete in animo di fare?

—Nulla.

—Badate a voi, Lilla! Non irritate il leone, poichè esso vi ridurrà in brani. Rispondetemi; che avete in mente di fare di quella fanciulla?

—Tutto ciò che ella vorrà;—gridò la marchesa, togliendo l'ardimento dalle medesime difficoltà di quel dialogo;—credete voi che non sia tempo di finirla? Ho sofferto; ho trangugiato mille amarezze; ho assistito immobile ai pianti di quella povera creatura; ho cercato di soffocare la voce del sangue, ma invano; essa ha gridato dal profondo del cuore. Sono madre; non intendete voi? sono madre!

—Sarete infamata!

—Da chi? chi ardirà infamare una madre?

—Io,—rispose Bonaventura,—io che vi ho amata, stolto, io che sono stato condannato da voi alla più triste vita che uomo possa durare sulla terra, io disdegnato, io deriso da voi.

—Non vi ho disdegnato, non vi derido; l'amor vostro io non l'ho chiesto, non l'ho lusingato mai. Lilla non ha rimorsi; una colpa ha macchiato la sua vita; ma non sta a voi ricercarla.

—La farò palese ad ognuno; diverrete la favola di quanti vi conoscono; vi segneranno a dito i viandanti; vi chiuderanno l'uscio sul viso le vostre pari; vi negheranno il saluto gli amici. Badate, marchesa; io non ho mai fallito alle mie promesse, mai, dacchè vivo. Quanto più siete stata in alto finora, tanto più cadrete in basso; ve ne fo giuramento per l'odio più terribile che sia, per l'odio che nasce dall'amore spregiato.

—E sia;—gridò balzando in piedi la marchesa, al colmo dell'esaltazione,—ma io avrò salvato mia figlia. Perderò il mio buon nome, sacrificherò le consuetudini tutte del mio vivere; ma ella non avrà da morire maledicendo; ma ella, così a lungo sventurata, vivrà giorni più lieti, e finalmente libera, godrà di quei puri gaudii della famiglia, che non arrisero alla sua povera madre. Che m'importa del mondo, innanzi al debito sacro di far felice mia figlia? Voi, ministro di Dio, del Dio che perdona, siete stato l'implacabile sacerdote della vendetta, il beffardo scovatore d'una colpa ignorata ed espiata, per rinfacciarmela, per farmi arrossire, per farmi scendere più in basso che non fossi caduta in un giorno di aberrazione fatale. Voi, ministro del Dio che comanda di passar sopra ad ogni umano rispetto, pur di seguire la sua legge d'amore, voi avete ravvivato nel mio cuore, scaldato, rinvigorito un falso concetto, una falsa vergogna, una falsa dignità; pregiudizio, superbia, egoismo, a danno d'una innocente creatura. Andate, ho aperto gli occhi; ho veduta la mia povera figlia moribonda, prigioniera per me, sepolta per me in una cella di monastero…. E parlate di cuore, voi, che avete potuto consigliarmi in tal guisa? E chiedete gratitudine, chiedete obbedienza, voi che avete potuto chiedermi un delitto? Andate, Bonaventura; sapiente conoscitore d'uomini, voi non avete saputo intendere un cuore di donna, un cuore di madre. Mia figlia è libera; io l'avevo condotta là dentro; io l'ho tratta di là, e nessuno la strapperà più dal mio fianco. Pronta ad ogni sacrifizio di me medesima, non temo l'obbrobrio che mi è minacciato da voi.—

Ciò detto. Lilla come chi si senta liberato da un grave peso, da una penosa oppressura, e ansante, trafelata, ma raggiante di sublime entusiasmo, ricadde sul sofà, in quella che coll'indice teso gli accennava di uscire.

Bonaventura era fuori di sè, tanto più furibondo, quanto ella, così animata e fiammeggiante nel volto, appariva più bella a' suoi sguardi.

—Qualcheduno è stato qui dentro!—sclamò.—Vedo qui la sua traccia. Uomo, o demonio, lo conoscerò; dovessi anco strapparvi il suo nome dal cuore.—

E fece per avventarsi sulla marchesa, che istintivamente si fece schermo delle braccia contro quella belva umana.

Ma in quel punto si sollevarono le pieghe d'una portiera di damasco, e un terzo personaggio comparve nel salotto.

—Non tanta pena, padre Gallegos! Uomo, o demonio, egli è dinanzi a voi; guardatelo a vostro bell'agio.—

A quella voce Bonaventura si volse, e rimase di sasso, come se avesse veduto la testa di Medusa. Egli non conosceva quell'uomo.

—E anzitutto,—proseguì lo sconosciuto, avanzandosi in mezzo alla sala,—rispettate le donne. Non era ella una donna, la madre vostra?—

Il Gallegos non rispose parola. Guardava esterrefatto quell'uomo, e chiedeva a sè stesso chi fosse egli mai, quel vivente simulacro del fato, che veniva così in mal punto a rompere la trama sudata delle sue vendette. Lo sconosciuto era di bell'aspetto, ma severo; tutta la sua persona spirava la dignità e la forza. I capegli aveva bianchi; ma il volto abbronzato, i lineamenti ricisi, le membra poderose, additavano una gagliardia virile; i muscoli delle sopracciglia, contratti sulle orbite dei grand'occhi azzurri che mandavano lampi, accennavano com'egli fosse uomo da metterla in opera. Quell'uomo gli aveva fatto, dicemmo, l'impressione della testa di Medusa; ma, più attentamente guardato, era Giove punitore, col pugno armato di fulmini.

Bonaventura vide in quel punto tutta l'orridezza del suo stato, e l'ignominia degli atti a cui era trascorso. Una vampa gli salì alla fronte; vampa di vergogna insieme e di rabbia; e non sapendo come uscire dal ronco, andò con mentita audacia incontro al nemico.

—Chi siete voi?—dimandò.

—Son tale,—rispose l'altro senza muovere un passo,—che vi potrebbe far misurare l'altezza di quella finestra, senza aiuto di servitori.—

A quella minaccia il Gallegos si rannicchiò contro la parete, pronto a vender cara la vita.

Un sorriso di sprezzo sfiorò le labbra dello sconosciuto:

—Bravo, il mio uomo!—proseguì egli beffardo.—Eravamo dunque in via di far paura ad una donna? E siete spagnuolo? Vergognatevi! La Spagna fu mai sempre nazione di cavalieri, i quali non usarono inferocire se non contro gli uomini, e alle donne consacrarono rispetto, venerazione, come cosa divina. Per esse il Cid Campeador non faceva vituperii, ma prodigi d'alto valore. Onta su voi, tralignato! Ma che? avete forse patria, voi altri, falsi seguaci di quell'Inigo Loyola che condusse tant'oltre la cavalleria da voler essere il cavaliere della Vergine?—

Tutti quei colpi andavano diritti a flagellare il viso del Gallegos. E al cospetto d'una donna! Della donna che egli aveva amata!

—Capisco queste prodezze da eroe di Cervantes,—rispose egli con accento sarcastico,—quando chi parla è l'amante di Dulcinea. Non è egli vero, marchesa del Toboso?—

Queste ultime parole erano rivolte a Lilla, che si nascose il volto tra le palme.

—Vigliacco!—gridò lo sconosciuto.

E avanzandosi minaccioso contro Bonaventura, alzò il braccio sopra di lui. Il gesuita vide la mano in alto, la sentì scendere, rombare nell'aria. Strinse le pugna, ma senza ardire di respingere l'assalto; tutte le sue forze erano intese a sostenere lo sguardo dell'avversario, il cui volto, infiammato dallo sdegno, era una spanna dal suo. E la mano discese, rovinò sulla spalla del gesuita, facendolo vacillar sulle ginocchia, per la forza del colpo.

—Rettile!—aggiunse lo sconosciuto, mentre con quella istessa mano lo spingeva sdegnosamente contro la parete.

Un singhiozzo della marchesa, che era rimasta spettatrice di quella scena, richiamò ad altre cure il suo difensore.

—Perdonate, signora!—diss'egli, volgendosi a lei con voce di repente mutata.—Per cagione di questo signore, dimenticavo di dirvi che vostra figlia ha bisogno di voi. Degnatevi di accettare il mio braccio.—

E aiutata cortesemente la marchesa ad alzarsi dal sofà, sul quale era rimasta accasciata, l'accompagnò, confusa, smarrita, fino a quell'uscio, dal quale gli era comparso pur dianzi nel salotto.

Bonaventura si mosse a sua volta, anzi spiccò un salto verso l'uscio che metteva all'anticamera. E già egli era per girar la maniglia, allorquando l'altro, che stava alzando la portiera per far passare la signora nella Camera attigua, lo fermò con queste parole:

—Badate, padre Gallegos! C'è in anticamera un valletto che ha per costume di lasciar entrare, ma non di lasciare uscire così facilmente, come potreste creder voi ora. Il mio Sindi è fedele come un cane, ma ci ha il vizio di mordere.—

Il gesuita tornò indietro scornato. L'altro, intanto, lasciato ricadere il lembo della portiera, veniva alla sua volta, in mezzo alla sala.

—Ah, il duca di Feira!—mormorò Bonaventura, che ricordava allora le parole del nuovo valletto da lui interrogato in anticamera.

—Sì, padre, egli in persona, capitato a Genova in buon punto per scompigliare i vostri disegni.

—Come c'entrate voi?—chiese il gesuita.

—È un mio segreto, ed io non ho la pretensione d'insegnare a voi che i segreti si custodiscono gelosamente.—

Bonaventura si morse le labbra; egli padrone di tanti segreti, non possedeva questo, che doveva essere dei più rilevanti, poichè aveva condotto quell'uomo tra' suoi piedi, a guastargli un'impresa così bene avviata.

—Son prigioniero qui dentro?—diss'egli, dopo un istante di pausa.

—No, in fede mia;—rispose il duca di Feira.—Che cosa farei d'una vipera come voi? Un farmacista se ne gioverebbe per le sue infusioni; io, che non ho infermi da risanare, ma soltanto amici da custodire contro i vostri morsi avvelenati, non vi terrò oltre il tempo bisognevole per istrapparvi i denti.

—Che cosa intendete di dire?

—Eccovi un altro segreto; ma questo lo indovinerete voi stesso tra breve. Ragioniamo un tratto, e sedete senza timore. Sono più forte di voi; posso stritolarvi con queste mani, ma non abuserò della mia forza.—

Così dicendo il duca di Feira si assise egli stesso, ma in guisa da aver gli occhi verso l'entrata del salotto.

—Avete vinto;—bufonchiò il gesuita.—Che volete ancora da me?

—Una cosa da nulla; che mi diciate che cosa farete quando sarete uscito di qui.—

L'inchiesta sarebbe parsa fanciullesca a Bonaventura, se egli non avesse pensato che chi la faceva era il duca di Feira, il suo fortunato avversario, il suo vincitore. Essa, per verità, gli parve strana; laonde rimase mutolo, guardando il duca co' suoi occhi grifagni, quasi volesse leggergli nell'anima la risposta, cagione di quella dimanda.

—Animo, via;—soggiunse il duca;—che cosa
  farete?

—Io?…—disse Bonaventura.—E voi, così avveduto come siete, non potete argomentarlo?

—Sì, sì, lo capisco: penserete a vendicarvi. Ma come? questo amerei sapere da voi.

—Signor duca,—notò il gesuita;—non avete voi detto poc'anzi di averci i vostri segreti? Anche io n'ho la mia parte.

—Benissimo, e li custodite gelosamente?

—Sicuro.

—Abbiate le mie congratulazioni. Io dunque, poichè non volete dirmeli, sarò costretto a scoprirli da me.

—In che modo?

—Segreto per segreto. Ditemi che cosa farete per vendicarvi; io vi dirò quel che farò per iscoprire i vostri maneggi. E non è una vana promessa, la mia; poichè ne ho scoperti già tanti, laddove voi nulla sapete di me. Non vi torna? Sia come volete. Cercate a vostra posta di vendicarvi, padre Gallegos; mettete in piazza, infamate liberamente la donna che avete amata e desiderata; siate fellone all'onore; ciò vi risguarda. Io intanto, per vostro vantaggio, vi consiglio a sfrattare da questa città, dove non c'è più aria per voi, e a sfrattare oggi stesso. Perchè, badate,—e qui la voce del duca di Feira assunse un tono solenne,—quest'oggi è pei vostri pari il giorno della giustizia di Dio.—

Bonaventura ruppe in un ghigno beffardo. Messo per le parole stesse del duca al sicuro dagli atti maneschi, egli non aveva nulla a temere.

—Ah, ah! queste son frasi da tragedia;—diss'egli;—io sto pei fatti, e vi accerto, signor duca….

—Che siete libero di andarvene, e di vendicarvi come potrete;—interruppe il duca, che aveva veduto aprirsi l'uscio, e apparire nel vano la faccia di Sindi, che si recava rispettosamente la mano sul petto.—Ma accettate il mio consiglio, padre Gallegos; pentitevi de' vostri falli; cangiate costume; imitate il glorioso Sant'Agostino, di cui non vi saranno ignote le Confessioni immortali.—

Sussultò il gesuita; volle parlare, chiedere al duca che cosa volesse egli dire con quelle parole di colore oscuro; ma il duca, dopo avergli accennato l'uscio, gli aveva voltate le spalle, andando verso la nota portiera di damasco.

Agitato, confuso, fuori di sè, Bonaventura si volse all'anticamera, e scortato dal servo, varcò la soglia di quella casa, senza pensare a Lilla di Priamar, senza pur ricordare ch'egli l'aveva veduta per l'ultima volta, quella innocente cagione de' suoi mali, quell'immagine perturbatrice di tutta la sua vita.

XXVII.

Occhio per occhio, dente per dente.

Come giungesse in fondo alle scale, non vide, non seppe, chè il suo pensiero era già oltre il palazzo Priamar, sebbene dinanzi agli occhi della mente gli durassero immagini tormentose, il duca di Feira e quella donna amata ed odiata con tutte le forze dell'anima.

Orribilmente sconvolto, giunse sulla strada; la testa gli ardeva; gli rombavano gli orecchi; non vedeva, non udiva; l'istinto lo guidava da solo, attraverso la folla de' viandanti, i quali certamente lo avrebbero tolto per ubbriaco, o per pazzo, se la notte sopraggiunta non avesse impedito di vederlo nel volto, di notare i suoi occhi stralunati, e l'andar barcolloni a guisa di toro che abbia toccata la mazzata nel mezzo della fronte.

Nella sua mente era una confusione, un turbinio di pensieri; ma uno solo, se per avventura non signoreggiava gli altri tutti, certo era il più spiccato e costante. Il suo segreto scoverto? Ma come? Chi era, donde sbalestrato per suo danno, quel duca di Feira? E perchè era venuto a piantarsi, ostacolo insuperabile, tra lui e la sua vendetta, proprio nel punto che egli stava per coglierne il frutto? Nello scompiglio in cui l'aveva posto quella apparizione improvvisa, Bonaventura giunse perfino a chiedere che cosa avesse egli fatto a quell'uomo, egli che non soleva credere a scrupoli, e, pur di raggiungere la meta, non s'era mai fatto carico degl'innocenti che calpestava nel proseguir la sua strada. Ma così, buoni e tristi, siam tutti, misera progenie di Caino; egoisti, feroci, senz'altro divario che quello del più o del meno, pronti ad ascoltar la ragione, ad invocare il giusto e l'onesto, dove non entri l'appagamento dei nostri desiderii.

Come tutti se ne andavano in fumo i disegni di Bonaventura! Come gli crollava miseramente dintorno il suo edifizio, con tanta cura inalzato! Egli era come il matematico che ha condotto a fine un calcolo complesso, frutto di lunghe meditazioni, di veglie sudate, e s'avvede che il conto, così diligentemente condotto, non torna. Come s'è ficcato per entro, e dove si nasconde l'errore? Ecco intanto, il suo edifizio di numeri e di segni algebrici, pericola; egli non sa, non può indovinare dove manchi, se alla base od al vertice, sui lati o negli angoli. Ei lo aveva pure incominciato con tanta diligenza, tirato innanzi con tanta pazienza di prove e riprove! Rifarsi da capo? Paurosa fatica! E gli sarebbero bastate le forze? V'hanno di tali cadute, dalle quali non è più dato rimettersi.

Bonaventura, quel forte atleta, fino a quel giorno invitto, era affranto, nè intendeva le cagioni di quella grande rovina. Se in quel punto gli avessero detto:—tu ti butterai da una finestra—egli avrebbe risposto: può darsi, purchè sfracellandomi il capo, io possa distruggere la coscienza di me medesimo, la mia rabbia, la vergogna della sconfitta, il dubbio che mi tormenta.

Perchè c'era anche un dubbio, un orribile dubbio che gli avevano soffiato nel cuore le ultime parole del duca di Feira. Questo dubbio non aveva anche preso forma chiara e ricisa nella sua mente; ma c'era, e gli pungeva il cuore aspramente, e lo faceva correre, volare smanioso per le scorciatoie verso il palazzo Vivaldi. Giunse affannato al portone; salì in furia le scale; giunse al pianerottolo del suo quartierino; suonò, bussò, tempestò l'uscio, ma invano. Nessuno rispose; la sua casa era muta.

Che sgomento lo assalisse in quel punto, è più facile argomentare che descrivere. Le parole, che si seguono ordinate sulla carta, non valgono a dipingere i moti, i turbamenti improvvisi dell'animo, il sangue che rifluisce ardente al cervello, la vista che si offusca, il cuore che trema, e tutto quel misto di acute sensazioni che rispondono ad ogni parte più riposta della macchina umana.

Tentò di raccapezzarsi. Dov'era la signora Marianna? Dove poteva essere, a quell'ora? Egli aveva bensì detto alla sua governante che sarebbe tornato sulle dieci; ma lo avea detto a guisa di notizia, perchè ella non avesse a stare in angustie, e non già per darle una libertà, che ella non s'era mai tolta. La signora Marianna non usciva mai di sera; qualche rara volta nel pomeriggio, ma innanzi l'Avemmaria era sempre rientrata.

Scampanellò da capo, tambussò l'uscio, fece un diavoleto; ma nel suo quartierino non udì segno di vita.

Uno strepito d'uscio che si apriva, un passo affrettato, si udì poco stante nelle scale. Era un servitore dei Torre Vivaldi, che a quella tempesta di suoni s'era scosso dalla panca su cui sonnecchiava, e veniva a vedere che diavol fosse che metteva a rumore la casa.

Risovvenendosi allora della porta di comunicazione che c'era tra l'abitazione dei Torre Vivaldi e il suo quartierino, Bonaventura dimandò al servo se Sua Eccellenza fosse in casa, e udito che sì, scese le scale per andare dal marchese Antoniotto.

Il tempo che pose il servo ad annunziarlo al padrone, fu a mala pena bastante al gesuita per rimettersi un tratto dal suo turbamento. Il marchese Antoniotto era seduto davanti alla sua scrivania; ma tosto si alzò per farsi incontro al Gallegos, e per chiedergli con garbo signorile qual buona ventura gli procacciasse di vedere il padre Bonaventura in quel punto. Dal bisticcio è agevole argomentare che il tiranno di Quinto era di buon umore oltre l'usato; per giunta si stropicciava le mani, come il suo avversario in Parlamento, che era (i lettori non l'hanno dimenticato di certo) il conte di Cavour, ovvero il mugnaio di Collegno, com'egli soleva chiamarlo.

Com'ebbe udito da Bonaventura perchè egli fosse sceso da lui, il marchese Antoniotto fu sollecito a mandare il servo a quel pianerottolo cieco, dov'era l'uscio ferrato che separava l'ammezzato della gente di servizio dal quartierino del gesuita, per vedere se a caso, tirando il catenaccio da dentro, si potesse aprire. Ma Bonaventura non lo sperava, ben sapendo che anco dal lato suo quell'uscio soleva star chiuso. Diffatti, pochi minuti dopo, tornò il servitore, per dire a Sua Eccellenza che non aveva potuto aprire, essendoci l'altro catenaccio chiuso di fuori.

—Andate subito pel fabbro ferraio, e non si perda tempo;—disse il marchese Antoniotto al servo, che incontanente si mosse.—E intanto che Ella aspetta, voglio farle vedere un discorsetto che sto preparando pel Senato. Ho scritto tutt'oggi, e non sono scontento de' fatti miei. Sentirà a giorni il Cavour, come lo concio, colle sue dottrine di libero scambio. Eretico in economia politica, come in religione; questo gli dico, e glielo provo. Vuole udir Lei, padre Bonaventura, a che modo finisco?—

Il gesuita balbettò alcune parole di assentimento.

—Sto preparandomi,—soggiunse a mo' di preambolo, il marchese Antoniotto, mentre veniva rassettando sulla scrivania i due o tre ultimi fogli inchiostrati per quella sua fatica oratoria,—sto preparandomi alla nuova sessione, che comincia in dicembre, nella quale ho fatto proposito di adoperarmi più alacremente che non facessi finora. Le ragioni del nostro partito lo vogliono; anche a Parigi mi s'è fatto capire dai nostri amici che io mi tengo troppo lontano dalla cosa pubblica. Ed hanno ragione; chi si tiene in disparte non giova a sè, nè alla sua parte. Ella ricorderà, padre Bonaventura, d'avermelo detto più volte.—

Bonaventura non ricordava nulla, non intendeva nulla, e questo si capiva facilmente. La sua fantasia correva a briglia sciolta, faceva cento leghe al minuto secondo. Così fuori di sè, lasciò che il marchese Antoniotto parlasse a sua posta, spiegandogli il suo discorso, pigliandosi una pregustazione di trionfo oratorio.

Il marchese Antoniotto leggeva a modo, sebbene con enfasi; ma ciò non guastava, perchè egli non portava i quaderni alla tribuna. A furia di leggere, imparava i suoi discorsi a memoria, e poteva dar colore d'improvvisazione allo scritto. Però, quella lettura tornando ad esercizio della sua meditata eloquenza, era naturale che volesse afferrar l'occasione, leggendo caldo caldo il suo discorso all'amico.

Ma gli era proprio un discorso? Più conveniente sarebbe il chiamarlo discorsa. Fatta così in anticipazione di due mesi, la cicalata del nostro senatore non aveva, nè poteva avere attinenza con alcun particolare argomento; sfiorava ogni questione delle tante che bollivano allora; parlava, come suol dirsi, __de omnibus rebus et de quibusdam aliis__, dei concetti economici del conte di Cavour, della politica interna del suo collega Rattazzi, della falsa via che si batteva a volersi inimicare coll'Austria, dei fuorusciti e dei rompicolli che turbavano la ragione di Stato, e dei pochi, ma veri e saldi amici rimasti allo Statuto, che erano (non ridete!) i cattolici. Questo era un colpo maestro, e il marchese Antoniotto se ne teneva. E fu qui che il valentuomo ingrossò la voce, per istrappare l'applauso al suo taciturno uditore.

—«…. Imperocchè, o signori, la nostra vita è consacrata a Dio, al principe, alle leggi, e il biasimo de' tristi ci torna a gloria; imperocchè i popoli hanno inteso non poter esser loro nemici coloro che si oppongono ad una barbarie, la quale minaccia la famiglia e la proprietà, e tenta confondere in una sola jattura le infrante corone, gli statuti violati e le pietre de' santuarii. Non vuol la rovina dello Stato chi vuole la patria fiorente per arti e commerci. Se noi difendiamo la causa della religione, si è perchè in essa risiede il palladio e la forza del Piemonte; perchè ella insegna ai governati il rispetto delle leggi, la coscienza dei diritti, la santità dei doveri. Bando alle recriminazioni di parte; ci prenda pensiero delle gravi necessità della patria, che aspetta di veder rimarginate le sue orride piaghe, alleviati i suoi gravissimi pesi, protette le sue povere industrie. Dietro a noi sta la nazione, che nella fede gloriosa dei suoi padri vede il labaro di salute pe' suoi minacciati destini.»—

Qui finiva il discorso, e l'oratore si volse a Bonaventura per chiedergli il suo parere e pigliarne le lodi. Ma egli s'avvide allora, con sua gran meraviglia, che il gesuita, non pure non era in grado di rispondergli, ma non aveva inteso una parola della sua stupenda orazione.

—Ella è turbata, padre Bonaventura?—esclamò il marchese Antoniotto.—Abbia un po' di pazienza; il fabbro ferraio non tarderà molto a giungere….

—Pazienza!—soggiunse il gesuita, richiamato da quelle parole in sè stesso.—Ella ne parla a suo agio, signor marchese! Ma io, qui sotto, vedo un tranello….

—Che? Non bisogna poi correre per le poste, com'Ella fa!—disse il marchese Antoniotto.—La sua governante sarà uscita per qualche urgente bisogna domestica, e quando tornerà, sarà molto meravigliata di sapere il gran caso che Ella ne ha fatto. Ma ecco il servitore; orbene?

—Il fabbro ferraio è in anticamera, coi suoi ordigni, che aspetta;—rispose il servitore, giunto allora, a cui era rivolta l'ultima parola del marchese Antoniotto.

—Andiamo, dunque, andiamo!—gridò Bonaventura, balzando dalla seggiola e correndo all'uscio, con un piglio da spiritato.

Vedendo in che stato si fosse il suo riveritissimo amico, il marchese Antoniotto si degnò di accompagnarlo, ed ambedue uscirono sulle scale, seguiti dal fabbro ferraio che li aspettava coi ferri del mestiere tra mani, e dal servitore che portava una lucerna per rischiarare la via.

Ma in quella che muovevano i primi passi per salire al a di sopra, un nuovo personaggio comparve sul pianerottolo. Era il Collini.

—Padre,—diss'egli a Bonaventura, mentre faceva un profondo inchino al marchese Antoniotto,—son già venuto due volte a cercarvi.

—Torno adesso;—gli rispose brevemente il
  gesuita.

—Ho a parlarvi di cose gravi;—aggiunse sommesso il Collini.—Un caso strano, inaudito.

—Più tardi, più tardi,—gli aveva già detto Bonaventura; senonchè alle ultime parole del discepolo si fermò, ed aggiunse,—che cosa?

—Le cambiali sono state pagate.

—Ah! che dite voi mai?

—Sì, pagate stamane dal banco Teirasca. La vendetta m'è sfuggita pur troppo!—

Bonaventura fu colto da un capogiro, per modo che dovette aggrapparsi alla ringhiera, e un grido gli sfuggì dalle labbra.

—Che c'è?—dimandò, voltandosi indietro, il marchese Antoniotto, che già li aveva preceduti su per le scale.

—Nulla!—rispose il gesuita, scuotendo il capo, come per liberarsi da quella oppressura.—Presto, presto, signor marchese! apriamo quell'uscio! che io entri in casa mia…. che io m'assicuri!…—

E barcollando a guisa d'ubbriaco, salì le scale, dietro al Torre Vivaldi, al suo servitore e all'artigiano che doveva aprir l'uscio e dargli il passo alla sua camera da studio.

Senza capir nulla di quel tramestìo, il Collini seguì la comitiva su per le scale; ma all'affanno di Bonaventura, all'affaccendarsi del marchese Antoniotto, intese che c'era un guaio de' grossi. Quella era stata per lo scolaro una giornata di disgrazia; ogni cosa anche pel maestro doveva andare alla peggio. Bonaventura, quell'uomo così forte, così padrone di sè, gli appariva stravolto, irrequieto, furente. Egli ben lo vedeva, al chiarore della lucerna, acceso in volto, il collo teso, seguire con gli occhi sbarrati e sanguinanti i moti dell'artigiano, che andava sperimentando l'un dopo l'altro i suoi ferri nella serratura restìa.

Non era facile impresa lo aprire quell'uscio. Toppa indiavolata! aveva detto il fabbro, in quella che cambiava per la seconda volta di grimaldello; e già cominciava a tirar giù qualche santo del paradiso, senza che Bonaventura e il cattolico senatore mostrassero di scandolezzarsene punto.

Finalmente uno di que' ferri fece buona prova; la stanghetta, allo scattar della molla si mosse d'una mandata. Al gesuita grillarono gli occhi.

—Sia lodato il cielo!—esclamò il marchese Antoniotto, intanto che il grimaldello toglieva la seconda mandata.

—Sì, ecco fatto;—soggiunse l'artigiano cavando fuori il ferro ricurvo dal buco, e spalancando l'uscio con un gagliardo spintone.

Bonaventura non disse verbo; si cacciò dentro a precipizio, e senza aspettare l'aiuto del lume, corse nella sua camera da studio, dove, anzi che gli altri lo seguissero, aveva già brancolato alla nota parete, e tentata colle unghie la commessura dei battenti dell'armadio. Quel ripostiglio era chiuso, ed egli respirò un tratto. Uscì allora, e passato in mezzo al marchese Antoniotto e al Collini, che già si affacciavano sulla soglia, infilò il corridoio che metteva alle camere di servizio. La governante non c'era; ma ogni cosa gli parve a suo posto.

—Ella vede che non manca nulla;—disse allora il marchese, che gli aveva tenuto dietro con amorevole cura,—si calmi, adunque; or ora tornerà la sua governante, e ben potremo dire d'esserne usciti colla paura.—

Il gesuita non gli badò più che tanto. Accesa in fretta una bugia, ripigliò la via dello studio.

—Mi lascino solo un tratto, di grazia!—diss'egli, temperando più che gli venne fatto coll'accento la durezza della frase.

I compagni, che erano già per seguirlo, si rattennero. Egli entrò e tirò l'uscio dietro di sè. Lo avrebbe chiuso senz'altro, se un sentimento di onesto riguardo al marchese Antoniotto non lo avesse trattenuto in buon punto.

Il Torre Vivaldi approfittò di quella sosta per licenziare il fabbro ferraio.

—Quanto volete per la vostra fatica?

—La sua buona grazia, illustrissimo.

—Eccovi cinque lire, andate.—

L'artigiano fece un profondo inchino, e se ne andò. Il marchese Antoniotto si volse allora al Collini, che era rimasto pensieroso in mezzo all'anticamera; ma in quella che stava per volgergli la parola, si udì un grido dallo studio, e il tonfo, di un corpo che stramazza sul pavimento.

Che cos'era egli mai accaduto? Chiusosi a mala pena nella camera, Bonaventura era andato sollecitamente all'armadio. Il cuore gli batteva violentemente, per modo che egli stesso le udiva le pulsazioni, confuse con quelle del sangue che gli martellava alle tempie. In quell'orgasmo trasse di tasca una piccola chiave che egli portava sempre con sè; l'introdusse con mano tremante nella serratura, e ansante, affannoso, trambasciato, schiuse i battenti che nascondevano ancora a' suoi occhi il ripostiglio geloso. Maledizione! I due scompartimenti dell'armadio erano vuoti. I ventiquattro volumi delle opere di Santo Agostino non c'erano più; la cassettina d'ebano era sparita.

Rimase un istante immobile, guatando a quella volta con occhi sbarrati e scintillanti. Orribile a vedersi! Sulla fronte livida appariva, smisuratamente ingrossata, una vena nerastra. Anch'esse le vene del collo nereggiavano, ingorgate di sangue, tese a mo' di corde sotto la pelle pavonazza, che pareva sul punto di rompersi. Fremevano le nari dilatate; le labbra, agitate da un moto convulsivo, tremavano. Ruppe in un grido; ma il grido si spense tosto in un rantolo; la lucerna gli sfuggì dalle dita; le mani brancolarono nel vuoto, come cercando un appiglio; e quella mole fulminata stramazzò rovescioni sul pavimento.

Al grido e alla caduta di Bonaventura, il Collini e il Torre Vivaldi erano accorsi nella camera. La vista che si offerse al loro occhi, li colmò di spavento.

—Povero amico! che sarà mai?—gridò il marchese Antoniotto, più morto che vivo, in quella che pur s'industriava a rialzare il caduto.—Presto, qua il lume! Ed Ella, signor dottore…. Il cielo l'aveva proprio mandata a tempo!—

La prima occhiata del Collini, appena il servitore giunse colla lucerna, fu per l'armadio spalancato, dov'egli ben sapeva come il maestro custodisse la cassettina d'ebano ed altre carte di rilievo. Alla vista degli scaffali vuoti si sentì venir meno; gli si offuscarono gli occhi, e rimase come smemorato in mezzo alla camera.

—Che fare, adesso?—proseguì il marchese Antoniotto.—A lei, dottore, questo è affar suo. Non sente che rantolo?—

Queste parole, e la vista di Bonaventura, al cui volto livido il servitore aveva accostata la lucerna, richiamarono il Collini alle cure del suo ministero. Si pose ginocchioni presso il maestro, mentre il marchese Antoniotto gli sosteneva il capo tra le braccia; gli toccò il polso, e battè le labbra in atto di sfiducia; cavò un cerino, lo accese, e ne accostò la fiamma agli occhi di Bonaventura, che erano spalancati, ma vitrei, stravolti. La pupilla rimase immobile, senza dare alcun segno di contrazione.

Il discepolo allora si fece a chiamarlo ad alta voce più volte; ma invano. Il rantolo del moribondo si faceva a mano a mano più fioco; una spuma sanguinolenta gli gorgogliava sulle labbra, che apparivano violentemente contratte da un lato. Il Collini fu pronto a trar fuori la busta chirurgica, e cavatane la lancetta, aperse largamente la vena giugulare, donde spiccarono poche gocce di sangue nerastro, già mezzo rappreso. Volse la lancetta all'arteria temporale; neppure una goccia di sangue ne uscì. Sbottonato in furia il panciotto, strappata la cravatta, fatta la camicia a brandelli, pose l'orecchio alla regione del cuore, ma non gli venne udita la più lieve pulsazione.

—Orbene?—domandò il marchese, che seguiva ansioso degli occhi tutte quelle inutili operazioni.

—Non c'è più rimedio;—rispose il Collini;—il cuore ha cessato di battere.

—Ma questo rantolo….

—È un po' d'aria rimasta nel polmone, che si va sprigionando, e rompe alcune vescichette mucose.

—Ma che cosa sarà mai, che lo uccide?

—Un colpo d'apoplessia. Non vede Ella questa contrazione delle labbra, questi occhi arrovesciati, e questi punti neri sulla faccia? C'è un versamento sanguigno. Se si potesse vedere sotto quel cranio, si scorgerebbe la rottura di un senso venoso del cervello, avvenuta per un afflusso improvviso, impetuoso, irresistibile, di sangue alla testa.

—Ma come? Perchè?—dimandò esterrefatto il marchese.

—Il nostro amico ha patito troppo orgasmo in brev'ora. I vasi portatori della vita hanno condotto una soverchia quantità di umore all'encefalo. Ciò avvenne in un impeto d'ira, o d'angoscia? Chi lo sa? Comunque ciò sia, il colpo è stato così violento, che il rigurgito del sangue dal cervello al cuore non è più stato possibile. Un eccesso di vita lo ha ucciso.—

Diffatti, Bonaventura Gallegos, il forte lottatore, il capitano dei neri, il fiero amante, il persecutore di Lilla di Priamar, non era già più. Il freddo della morte gli irrigidiva le membra.

XXVIII.

Che le signore donne sono pregate a non leggere.

Siamo al 15 di ottobre, che doveva essere per Bonaventura e pel suo tristo discepolo il giorno delle vendette, ed era in quella vece il giorno della espiazione. Il cadavere del gesuita, lasciato in custodia a gente prezzolata, aspettava gli ultimi uffizi del mondo, ne' quali ha maggior parte l'igiene che non la pietà dei superstiti. Il Collini, grandemente turbato per quella rovina di casi, s'era ridotto in casa sua a meditare sul nulla delle umane speranze: e aspettando dalla sua tempra malvagia il ritorno alle antiche consuetudini, si accasciava sgomentito sotto i colpi del fato.

Egli tuttavia, la sera innanzi, non aveva così perduta la testa da cedere ai consigli del Torre Vivaldi, il quale, fatto oramai certo della fuga della governante di Bonaventura, pensava che all'autorità si dovesse dare ragguaglio di tutto.—No, no, per carità, che potrebbe accadere di peggio! aveva gridato il Collini. E poichè il marchese Antoniotto lo aveva incalzato per udire la spiegazione di quelle parole, gli balbettò di certi maneggi del gesuita, i quali, sebbene a pro' della santa causa, non erano fior di farina, e che sarebbero di certo venuti a galla, mettendo a grave risico parecchie persone, e delle più autorevoli nella loro società; la quale, pari alla moglie di Cesare, non doveva essere neanche sospettata. A qual pro', aveva egli soggiunto, andare incontro ad uno scandalo? Non rimestiamo quest'acqua torbida, che manderà fuori il marciume.

In quella sentenza venne anche il Torre Vivaldi, e lasciò che il discepolo di Bonaventura operasse in quel negozio come prudenza voleva. E fatta ne' debiti modi testimonianza della morte repentina, ma naturale, del gesuita, provveduto a quelle poche incombenze che richiedeva lo stato dell'estinto, se ne andarono pe' fatti loro. La mattina del 15 ottobre, come s'è detto, il Collini era chiuso nel suo quartierino; il Torre Vivaldi, per non aversi a contristare di più, se n'andava colla marchesa Ginevra in campagna.

Andiamo ora in traccia d'Aloise, che era scampato pur dianzi dalla ignominia, mercè il provvido aiuto del duca di Feira, ma non aveva smesso il fiero proposito di sottrarsi morendo alle angosce del suo amor desolato.

Egli, siccome è già noto, aveva scritto il giorno innanzi al vecchio gentiluomo d'esser pronto a firmare con lui il contratto che doveva saldare il suo debito, e in quella medesima ora che uno schianto di rabbia impossente uccideva il gesuita, sottoscriveva presso il notaio Marinasco l'atto di vendita della Montalda, dopo aver detto all'intendente del Duca che sarebbe andato il giorno seguente nel palazzo non più suo, per pigliarsi alcuni piccoli ricordi della famiglia e dare un ultimo saluto alla tomba di sua madre.

Un'ora dopo, Aloise riceveva una seconda lettera del duca di Feira. Il vecchio gentiluomo si scusava anzitutto con lui di non essersi recato egli in persona dal notaio, non avendoglielo consentito alcuni urgenti negozi: indi, venendo a toccare del desiderio di Aloise, gli accennava cortesemente che egli era come per lo innanzi padrone di andare e rimanere alla Montalda quanto più gli piacesse. Poter rendere un servizio al marchese di Montalto senza esserne pagato con quella cessione, gli sarebbe stato gratissimo; ma bene aveva inteso che la giusta alterezza del giovine signore non gli avrebbe concesso tanta fortuna. Ma poichè la cosa aveva dovuto finire in quella guisa, gli usasse almeno la cortesia di ricordare che la Montalda rimaneva aperta al suo primo padrone, e che nulla vi sarebbe mutato delle consuetudini antiche. Intorno a ciò, notava il duca che la tomba della marchesa Eugenia era un sacro deposito ch'egli si recava ad onore di custodire, che quanti erano lassù, ed avevano servito in suo vivente la nobilissima dama, vi sarebbero rimasti, ne' loro pietosi uffici di prima.

Quella lettera fu come un po' di balsamo sul cuore esulcerato del giovine. Ma era soltanto una goccia, una misera goccia, sottratta da un mar d'amarezze. L'anima sua s'era inasprita: tutto quanto vedesse dintorno a sè, gli tornava molesto; si chiudeva nel profondo della sua coscienza, e vi trovava le ricordanze del passato, che gli si tramutavano tosto in veleno. Egli avrebbe voluto non vedere, non udire, non pensare, fino a quel momento supremo, nel quale aveva posto ogni sua voluttà. E certo, se egli non avesse considerato come un debito sacro il dire un'affettuosa parola di commiato al vecchio gastaldo, se non avesse reputato ufficio di filiale affetto avvicinarsi nella morte a quella santa gentildonna che, inconsapevole, innocente, lo aveva dato alla luce e alle lagrime, egli avrebbe pur volentieri abbreviato d'un giorno i suoi mali, sfuggita con un colpo sollecito quell'orrida notte d'angoscia che lo aspettava nei silenzi della sua cameretta, sotto quelle azzurre cortine già testimoni di tanti arcani struggimenti, di tante vane querele.

Il Pietrasanta, ottimo amico che aveva sudato freddo in que' giorni per lui, ed assaporava, per Aloise e per sè, i frutti della vittoria ottenuta, giunse nella sera per invitarlo ad uscire, e andare in qualche luogo, in conversazione, al casino, a teatro, foss'anche quello delle marionette, purchè facesse ora e si ammazzasse la noia. Aloise non accettò, perchè si sentiva spossato; bensì accolse la proposta di una cavalcata mattutina a Pegli, per celebrare l'uscita d'Israele dall'Egitto (come il festevole Pietrasanta chiamava l'impresa di quel giorno) e non già con una colazione di manna, sibbene col meglio che avessero in cucina gli ostieri di quel gaio deserto.

La mattina vegnente, alle sette in punto, i cavalli attendevano i due cavalieri sulla piazza dell'Acquaverde. Aloise recava impressi sulle guance e negli occhi i segni della insonnia patita; ma l'aria frizzante del mattino e il riscaldarsi che fece, correndo di buon trotto fino alle porte della Lanterna, gli rifiorirono il volto. Anche il Pietrasanta, che aveva dormito come un ghiro, ma soltanto la metà delle dieci ore che gli occorrevano per inoliar la sua macchina, aveva avuto bisogno di quel moto per isneghittirsi, per isgranchirsi, sgomitolarsi le membra. È collo sgelarsi del corpo (tutti verbi che egli aveva sciorinati l'un dopo l'altro per dipingere il suo misero stato) gli si era anche sciolta, liquefatta, la vena del buon umore, e la parlantina che gli è fida compagna.

Giunsero a Pegli, e comandata la colazione, tanto per non istare all'ozio e annoiarsi aspettando, tirarono oltre fino ai pressi di Voltri; donde, tornati sui loro passi, ripigliarono la via della locanda. Aloise, certo che il suo ultimo giorno era finalmente quello, e già n'aveva spizzicata una parte, fu disinvolto e sereno, se non gaio e festevole come il suo Pilade; e questi, che soleva vederlo contegnoso mai sempre e severo, l'ebbe per ilare a dirittura, e non seppe tenersi che non glielo dicesse, s'intende a guisa d'elogio e ascrivendolo alla sua bella pensata.

—Sicuro! E perchè non sarei lieto? La vita è così mirabilmente bella!—gridò con impeto quasi febbrile Aloise.—Vedi che limpido mattino! Il mare è cheto, azzurro, lucente, come ne' più bei giorni di primavera inoltrata. Il cielo sereno, nitido e terso, splende soavemente incerto tra il cilestrino e il dorato. Quella nube che tu vedi laggiù sull'orizzonte, non è una nube, è una vela aerea che porta i nostri bei sogni, le nostre liete speranze, alle più lontane regioni del vaporoso futuro. Esser giovani; bella cosa! Avere dinanzi a sè l'ignoto, l'incantevole ignoto, largo di dolci promesse, custode d'inesauste lusinghe, di sconfinate delizie! Che ci accadrà egli domani? Non mette conto oggi saperlo. Sperare, rinvenire, desiderare, ottenere; agognare di più, ottenerlo ancora; andare di voluttà in voluttà; questa, non altra, è la vita, chi sappia gustarla. Ti ammali? È una sosta, oltre la quale c'è la guarigione, e il futuro, il futuro che ti attende ancora colle braccia aperte…. dico male, colle braccia chiuse sul petto, per nasconderti un suo dono e fartelo parer più gradito. Sei triste? hai cagione di grave rammarico? È la vigilia d'una nuova allegrezza. Lo stesso uscir di pena non ha egli il suo dolce? Vivere! vivere! vivere! Tutto chiama, tutto conduce, tutto incalza alla vita; essa è mezzo, fine e premio a sè stessa. Ma intendiamoci; non bisogna amare. Quello è uno scoglio dove quella vela che tu vedi laggiù nell'orizzonte, va qualche volta a rompere. Non amare, Enrico, non amare; __experto crede Ruperto__, come dicevano i vecchi.

—Baie!—rispose il Pietrasanta, mentre di rincontro alla luce della finestra (poichè già erano a tavola) egli stava ecclissando la nube di Aloise con un bicchiere di Bordò, di cui considerava il rubino.—L'amore è un'ottima cosa; e, sto per dire, il condimento necessario, il guazzetto, l'intingolo, la salsa __sine qua non__ di tutte le vivande che ci ammannisce il futuro. Scusami se il tuo futuro io lo vedo in sembianza di cuoco; ognuno se lo dipinge come sa. Senza l'amore, vedi, non c'è nulla di buono; tutto è sciocco, scipito, perfino la mostarda dell'ambizione e la senapa dell'orgoglio. Amore! amore! dammi dell'amore, e t'improvviso una mensa nel vuoto, ti slazzero una frittata da una padella (il mio maestro di retorica avrebbe detto __sartagine__) che non sia mai esistita. Amore, ottima cosa, dirò io, copiando la tua giaculatoria; ma s'intende che bisogna usarne in un certo modo.

—Come?—dimandò, sorridendo a fior di labbra,
  Aloise.

—Come ne uso io, amando come io amo. Io amo, prima persona del tempo presente. __Ego amo, j'aime, I love, Ich liebe, yo quiero__, e tutto il rimanente che si riscontra nella grammatica poliglotta. Io amo; non lo credi? amo la Giulia, che è una donna stupenda, e la sua ombretta sdegnosa, che mi aleggia dintorno, non se l'abbia a male se la chiamo soltanto una donna. Ella ci ha del sangue nelle vene, non già dell'ambrosia, come certe dame che so io. Bisogna saper amare, te l'ho già detto; ma anzitutto bisogna saper trovare. Tutta la scienza è lì; __that is the question__. E questa frase d'Amleto, vale il tuo __experto crede Ruperto__, che è errato, poichè tu non sei Roberto, ma Aloise, il mio caro Aloise. Ora, per trovare, occorre cercare, e per cercare a modo, bisogna avere un occhio alla macchia e l'altro al cane, non innamorarsi al primo uscio, non far come hai fatto tu, che l'hai trovata superlativamente bella, ma superlativamente fredda, superlativamente contegnosa, superlativamente…. Scusa, veh! Poichè tu m'hai detto dianzi che non bisogna amare, suppongo….

—Di' pure liberamente;—soggiunse Aloise.—Io non amo più quella donna.—

E il povero giovine chinò gli occhi sul piatto, perchè Enrico non avesse a leggervi la bugìa manifesta.

—Ah, meglio così!—disse Enrico.—Io da un pezzo temevo di te. Che vuoi? La Ginevra è bellissima, non lo nego; che diamine? anzi l'ho gridato or ora; ma io l'ho sempre giudicata senz'anima. Ti ricordi? Dio le fa belle, poi leva loro l'anima perchè si conservino meglio, come gli uccelli impagliati. Ha ingegno, la Ginevra, ha una rara istruzione, ha grazia, e sto per dire giustizia; ma l'interno è un abisso, che ti manda agli esteri difilato; il suo commercio è geniale, assai più dell'agricoltura, che ella ha lasciata, insieme colle finanze, al marito; ma ai culti più divoti risponde colla guerra, e ti fa venire una matta voglia di affogarti nella marina, rinunziando per sempre alla presidenza del consiglio. Insomma, è una divinità da metter sull'altare; ma a star ginocchioni sul marmo, si gela, si….

—Parlami della Monterosso;—interruppe Aloise.

—Ah, quella è una donna!—gridò il Pietrasanta, accompagnando le parole con uno scoppiettìo di lingua contro il palato, che bene non s'intendeva se fosse per la Monterosso o per una sorsata di Bordò mandata giù poco prima.—Un po' leggerina se vuoi, un po' oca; ma che rileva? Non ho mica a imparar da lei algebra, nè trigonometria! Ella, a dirtela di passata, non ci ha angoli da far studiare; è una sequela di ammirabili curve. Tutti quei pregi che fanno gradita una dama nella civil compagnia la Monterosso li ha; l'arguzia, quello spolvero d'ingegno che le manca, lo sa pigliare da chi l'avvicina, e così accortamente, che neppur te ne avvedi. Hai osservata la luna? Dicono che sia opaca; pure essa risplende. A me non fa caso che ciò le avvenga per ragion di riflesso; m'illumina, e basta. Tu l'hai veduta (parlo della Monterosso, e non della luna) in casa della Ginevra! or dimmi, anche senza tanti sfolgoreggiamenti di spirito, non sa ella tenersi a pari di tutte le sottigliezze, di tutte le delicature della superba castellana? Ella ci ha per giunta un po' d'anima, di fuoco, di gasse; ella sente d'esser nata per l'uomo, e questo è l'essenziale…. per l'uomo. Io l'amo, adunque; sono nel tenero, e piacendo ai Numi, navigherò un giorno nel dolce.

—E puoi durarla così placidamente?—chiese ammirato il
Montalto.—L'attesa non ha angosce, non ha agonie per te?

—Dio è grande,—sentenziò il Pietrasanta,—e la donna è la ministressa delle sue misericordie.

—Tu sei felice!

—Certo! Che cosa mi manca? Un po' di giudizio, qualche volta, un po' d'ingegno come il tuo, sempre….

—Eh via!—disse Aloise, dandogli sulla voce.

—No, no, lasciami seguitare. Anch'io mi conosco; è questa la parte d'ingegno ch'io ho. Del resto non me ne accoro; io non ho da inventar nulla, nè la stampa, nè la polvere da cannone. Ho capito che cos'è il mondo, e per dargli a' versi mi basta saper fare il nodo alla cravatta (vedrai che un giorno tornerà l'uso dei nodi belli fatti, e si avrà fama senza fatica), vestire attillato, aver belle pariglie e un bel nome che sappia d'antico. Il mio risale al 1200, ed era allora già celebre. Un Pietrasanta venne da Milano podestà dei Genovesi, e ci si accasò, come i natali del tuo umilissimo servo dimostrano. Ti par poco? Molti c'invidiano queste picciole cose, che io darei tutte a mazzo, qualche volta, per uno di quegli ingegni robusti che fanno operare le grandi. Vorrei esser te, anche senza la memoria de' tuoi dogi; vorrei essere il Salvani, che andrà molto innanzi, se la fortuna, come n'ha debito, darà la mano al valore; ma, queste malinconie me le tengo nel gozzo, per non scemare il mio pregio dinanzi ai profani. Quello che io sono fa gola a molti, ripeto; ce n'è dunque d'avanzo. Ne cerchi un altro, la Giulia; non lo trova, salvo il caso che a te non salti in mente di farle la corte. La qual cosa tu non farai, perchè mi vuoi bene….—

Aloise gli rispose con un gesto di volenteroso diniego.

—Grazie!—proseguì allegramente Enrico.—Io dunque tiro innanzi. Ella mi ama, me ne sono avveduto; anzi lo so, e potrei dirti….

—Di' pure; domani io non me ne ricorderò più;—soggiunse Aloise, con un suo risolino sottile.

—Ah, bada,—ripigliò il Pietrasanta.—Tu mi metterai al punto di raccontarti posdimani ogni cosa da capo. Con te non voglio avere segreti. Non mi hai tu confidate le tue pene, quando eri innamorato della Ginevra? E perchè ti amo tanto io, se non perchè sei un gentiluomo più di noi tutti? A qualcuno bisogna pur dire ciò che si sente, quando si è sventurati; figuriamoci poi quando si è felici!—

Aloise trasse un sospiro; ma il Pietrasanta, tutto nel suo racconto com'era, non gli pose mente.

—L'amo,—diss'egli con enfasi,—l'ho confessato a lei, e s'è messa a ridere, ma mi ha lasciato baciar la sua mano.—

E qui, poichè aveva preso l'aire, il festevole giovinotto raccontò la sua conversazione colla Giulia, ed altre parecchie tenute di poi, che ai lettori non farebbero nè caldo nè freddo, e che le lettrici, non ci domanderanno, poichè, cortesi come sono, avranno esaudita la preghiera posta in fronte a questo capitolo. Enrico Pietrasanta, come è noto fin da principio, e come s'è visto poc'anzi, aveva assai sciolto lo scilinguagnolo; Aloise era l'unico suo confidente, al quale gli tornava grato dir questo, ed altro ancora, se ne avesse avuto; laonde, si può argomentare che se ne pigliasse una vera satolla.

—Ora, aspetto che caschi,—diss'egli conchiudendo,—e cascherà certamente.

—Perchè?—dimandò Aloise.

—Perchè! oh bella! perchè sono forte.

—Forte! forte, con una donna che si ami?

—E dàlli! ma io l'amo in quel tal modo che già t'ho detto, e senza perdere il lume della ragione, come chi so dir io. Non cascherà? Stia ritta a sua posta, e arrivederci nella valle di Giosafat! Ella mi va a genio, lo sai; ma tienti bene in mente che non darò nei gerundii, che non finirò per lei, nè al camposanto, nè all'ospedale de' pazzi.

—Beato te!

—E tu, dimmi, non hai fatto lo stesso, alla perfine? Non ti sei forse consolato?

—Io?…—esclamò Aloise con impeto. E già era per uscire di riga; ma ravvedutosi in tempo, sorrise malinconicamente, e diè ragione all'amico.—Sicuro; anch'io, sebbene mi sia costato una grossa fatica. Sento ancora un po' di bruciore; ma passerà anche questo tra breve.

—Farai bene. Sorridi, Aloise, rallègrati: tu sei nato vestito. La
Usodimare è invaghita di te.

—Eh via!

—Ho detto male; dovevo dir cotta e stracotta. Ella ancor ier l'altro si lagnava di non vederti più spesso; ella giura per te, non sa parlar che di te. Amala, Aloise; amala…. e credila, come dicono tutte le lettere, all'ultimo verso.

—Pazzo!

—Savio, Aloise! Ricòrdati che m'hai paragonato più volte ad uno dei sette Savi della Grecia.—

Con queste chiacchiere era finita la colazione. Pochi minuti dopo, i due amici, tornati in sella, galoppavano alla volta di Genova.

Colà giunti, il Pietrasanta tolse commiato da Aloise, per andare a mutar d'abiti. Aloise, nel dipartirsi da lui, non ebbe cuore di annunziargli che andava quel giorno medesimo alla Montalda, temendo che l'amico avesse a leggergli, tra una parola e l'altra, il suo disperato proposito; ma gli strinse più e più volte la mano, e gli disse:

—Enrico, tu sei un ottimo giovane; ti auguro ogni
  fortuna.

—È una tratta sulla Monterosso, questa!—aveva risposto il
Pietrasanta.—Corro a presentarla oggi stesso al vezzoso banchiere.—

Come Aloise fu solo, le forze che lo avevano sostenuto fino allora lo abbandonarono a un tratto.

—Va, uomo felice;—diss'egli tra sè, in quella che saliva faticosamente le scale del suo quartierino;—segui pur la tua strada! Tu hai ragione; la vita è come ognuno la vede. L'aspetto delle cose, le forme, i colori, non sono essi dentro di noi? Qual meraviglia se Enrico scorge la vita colorata di rose? E in fondo in fondo, non potrebbe ella esser tale davvero? È il cuore, il cuore, questo viscere malnato, che c'intorbida ogni cosa, che ci matura gli affanni, che ci scompiglia lo spirito. Pure, Enrico non è senza cuore; la sua amicizia per me, così divota, così salda, così sollecitamente operosa, ne fa buona testimonianza. Ma egli è fortunato; a lui soccorre un senso arcano, che io non ebbi nascendo, per correre sicuramente questo gran mare. Possa questo senso durargli, condurlo sano e salvo a quella età che più non teme patimenti morali!—

Mutati i panni, poichè quella corsa lo aveva fradicio di sudore e di polvere, Aloise voleva partir subito alla volta della Montalda. Ogni cosa era all'ordine; le sue carte bruciate, i suoi libri riposti, il suo quartierino di via Balbi poteva paragonarsi ad una casa rimessa a nuovo pur dianzi. Solo un rotolo di musica, legato da un nastro nero, stava in mostra su d'un tavolino. Perchè un nastro nero? Aloise lo aveva messo la sera innanzi, senza pure badarvi. Quando gli venne sott'occhi, fu per cambiarlo; ma tosto mutò di proposito. Non è forse giusto? pensò. Ella lo riceverà questa sera.

Quel rotolo intanto aveva attratto la sua attenzione. Rimase un pezzo seduto sopra un divano a guardarlo. Quella era musica della marchesa Ginevra, che egli aveva presa qualche tempo innanzi, per leggerla al cembalo, e che voleva restituirle. Ma, guardando quel rotolo, gli venne in mente che forse era male mandarlo pel servo. Avrebb'egli fatta la commissione quel giorno medesimo? Non l'avrebbe dimenticata, per avventura?

Così pensando, si alzò e prese il rotolo per portarlo egli stesso. Due sere innanzi, se i lettori rammentano, egli era stato dalla marchesa, e aveva fatto giuramento di non rimettere il piede in sua casa. Ma gli parve che la cortesia dimandasse il sacrificio di quella sua prima e troppo asciutta deliberazione. __Noblesse oblige__.

Fortificato contro la sua coscienza, che lo accusava di debolezza, uscì allora di casa. Erano le due dopo il meriggio. Quando fu dinanzi al palazzo Vivaldi, la coscienza parlò un tratto più forte, ed egli ebbe vergogna di sè; la persona aveva già accennato a voltarsi per infilare il portone, ma i piedi lo condussero oltre. Andò fino alla Posta; ma giunto al cominciamento della piazza, gli vennero veduti da lontano il Riario, il Cigàla, ed altri suoi conoscenti, raunati a crocchio in un luogo donde avrebbero potuto scorgerlo, se egli fosse andato più in là. Tornò indietro sollecito; passò di bel nuovo rasente al palazzo Vivaldi, e questa volta poi v'entrò a dirittura. Salì le scale, giunse all'uscio padronale del primo piano, e stese la mano alla nappa del campanello. Ma qui ancora la coscienza gli disse: codardo! Scese da capo, e per andarsene senz'altro. Ma non era anche giunto all'ultimo scalino, che un dubbio lo assalse. Dalle finestre, qualcheduno, affacciatosi a caso, non aveva potuto vederlo ad entrare? Non si sarebbero fatte le meraviglie che non fosse salito? E queste meraviglie non avrebbero condotto a svariate congetture, allorquando si fosse finalmente risaputo quello che era ancora di là da venire?

Scuse, pretesti, e non altro. Diffatti, risalendo, egli sentiva il bisogno di aggiungere: Alla perfine, io debbo vederla ancora una volta; anco se trista, ella è pur stata la stella di questa mia vita.

Suonò finalmente; ma stettero molto, innanzi di aprirgli, di modo che egli ebbe tempo a pentirsi di essersi condotto a quel punto.—Che vado a fare? Ella non si cura di me. La vedrò; patirò mille morti in pochi istanti; dovrò divorare in silenzio altre lagrime…. Oh, se tardassero ancora! potrei tornarmene via.

Mentre egli meditava in tal guisa la fuga, udì un rumore di passi nell'anticamera. Poco stante l'uscio si aperse, e comparve nel vano un valletto della marchesa.

—Illustrissimo!—disse il servo, inchinandosi.—

—È in casa la marchesa?—dimandò Aloise, entrando nell'anticamera.

—No, illustrissimo, e nemmeno Sua Eccellenza il padrone. Sono partiti, or fanno due ore, per alla volta di Quinto.—

Aloise ebbe al cuore un'orribile scossa.

—O come?—chiese egli turbato:—Così all'improvviso?

—Sì, illustrissimo; ier sera è avvenuta una disgrazia. È morto qui sopra un casigliano di Sua Eccellenza; la cosa ha fatto senso al padrone, e la signora marchesa ha voluto andarsene questa mattina per tempo, per levarlo di qua. Son rimasto io nel palazzo, per dar sesto ad alcune faccende.—

Il cuore di Aloise si riempì d'amarezza. Partita! E il consiglio è venuto da lei!

Contenendosi a stento, trasse di tasca il taccuino; ne cavò un biglietto di visita; gli fece, secondo l'usanza, un orecchio nell'angolo, e lo diede, insieme col rotolo di musica al servitore, perchè fosse consegnato alla marchesa Ginevra.

—È il fato che lo vuole!—esclamò, discendendo per la seconda volta le scale, e questa volta da senno.

Un'ora dopo, Aloise partiva per la Montalda. Il cielo gli parve buio; la città era orbata di Ginevra, della sua unica luce.

La carrozza, che lo aspettava al portone della sua casa, era scoperta. Egli fece chiudere i mantici, poichè fortunatamente era un landò, e vi si rannicchiò dentro, tutto tremante di freddo, sebbene uno splendido sole riscaldasse l'aria come in un giorno di estate.

—Comanda altro, Eccellenza?—gli chiese il suo servo, che stava ossequiosamente ritto al predellino.

—No; rimango alcuni giorni in campagna. Bada alla casa, e se verrà il marchese Pietrasanta, obbedisci a lui come ad un altro me stesso. Avanti, cocchiere; ho premura.—

Il cocchiere stimolò i cavalli con uno scoppiettìo di lingua e con un altro di frusta, e la carrozza si mosse rapidamente sul selciato, non tuttavia quanto avrebbe voluto Aloise. Tanto era egli smanioso di finirla!

XXIX.

Nè vivere, nè morire.

Aloise giunse alle falde del monte su cui torreggiava la Montalda, alle cinque dopo il meriggio; mezz'ora dopo, era lassù.

Il vecchio Antonio non parve punto meravigliato del suo arrivo. Egli stava ad aspettarlo sul portone della villa, in atto di godersi la frescura del tramonto, cogliendo al varco la gente del vicinato, per scambiar quattro chiacchiere, secondo la costumanza villereccia, prima di ritirarsi.

Ma se Antonio non parve meravigliato, bene guardò di sotto alle folte sopracciglia il suo giovine padrone, in quella che rispettosamente gli faceva di cappello e si sprofondava in inchini; e quelle sue guardate significavano una cura amorevole, una sollecitudine pietosa, che contraffacevano all'umile stato e alla apparente rozzezza del vecchio gastaldo. Per verità, l'Antonio era grandemente mutato, e coloro che lo avevano in pratica avrebbero potuto avvedersene senza fatica. Il taciturno e malinconico abitatore della Montalda era più sciolto di modi, più sereno nel volto; si sarebbe detto, a guardarlo, che ci aveva meno grinze di prima: a sentirlo respirare più liberamente e dir qualche parola più del consueto, si sarebbe preso per un uomo liberato d'un gran peso che aveva sullo stomaco.

Aloise non badò a tutti questi nonnulla, e chiamando col gesto il gastaldo a venirgli da lato, gli domandò per la prima cosa di Lorenzo Salvani.

Egli da due giorni non aveva più pensato all'amico. Il suo dolore era stato così acerbamente tiranno, che non aveva patito ricordanza d'altri dolenti. Perciò egli aveva venduta la Montalda, aveva fatti i suoi ultimi apparecchi, ed era venuto a morire accanto a sua madre, senza pur rammentarsi dell'amico, dell'ospite che abbandonava a sè stesso. Senonchè, postosi in viaggio, gli era pur sovvenuto di Lorenzo, e gli cuoceva di lasciarlo così, mentre forse il povero fuggiasco aveva più che mai bisogno di amici saldi e operosi. Ma, ripensando alla lettera cortese del duca di Feira, Aloise aveva tosto fatto disegno di scrivergli, raccomandando al vecchio gentiluomo d'essere a Lorenzo, al suo avversario d'un giorno, ciò ch'egli non poteva più essergli, protettore fino a quando occorresse, amico per tutta la vita.

In questi pensieri, domandò di Lorenzo al gastaldo. E fu grande la sua maraviglia, allorquando il vecchio gli ebbe detto, che quella istessa mattina erano venuti in due, l'Assereto e il Giuliani, a cercarlo, e poco dopo erano partiti tutti e tre alla volta di Genova.

—Il signor Salvani era molto contento;—aggiunse il gastaldo.—Per la prima volta dacchè egli era quassù, l'ho veduto ridere. E se n'è pigliato una satolla, il povero giovine! Poi, s'è degnato di abbracciarmi, innanzi di andarsene, e mi ha chiesto se non mandassi a dir nulla a Vostra Eccellenza, che egli sarebbe andato a salutare in giornata. Che si ricordi del suo povero Antonio, gli ho risposto io, e della sua Montalda che non lo vede da un pezzo.

—Grazie, mio buon Antonio; tu lo vedi, sono venuto;—disse Aloise, mettendogli amorevolmente una mano sulla spalla.—Orvia, conducimi nelle mie stanze, e va tosto ad aprirmi la cappella.

—E non vuol prender nulla? Vostra Eccellenza sarà
  stanca.

—No, non ho bisogno di nulla; prima di tutto voglio salutare mia madre.—

Il gastaldo non disse altro di rimando, e lo precedette nel palazzo. Come furono giunti nella camera di Aloise, il vecchio notò che il suo padrone deponeva su d'una mensola una busta che aveva recato sotto la sua spolverina da viaggio.

—Che cos'è questo? armi?

—Sì,—rispose a fior di labbra Aloise,—pei ladri, se vorranno assaggiarne.

—Oh, non vengono ladri quassù, che la farebbero bassa. Antonio dorme da un occhio solo, come ebbe a dirmi una volta il signor Salvani.—

Aloise non aggiunse parola. Il suo pensiero era corso da capo a
Lorenzo, e andava chiedendo come mai il fuggiasco avesse potuto così
di punto in bianco tornare in città, e quali fossero le novelle del
Giuliani e dell'Assereto, che lo avevano racconsolato d'un tratto.

Ora, quello che non sapeva e che non poteva indovinare Aloise, racconteremo noi brevemente, tanto che non gridino al miracolo i nostri lettori. Il miracolo, se miracolo c'era, lo aveva operato il duca di Feira, con una visita all'intendente di Genova e all'avvocato generale. Nulla c'era presso i magistrati che provasse a danno del giovane. Egli era indiziato come uno di coloro che avevano avuto mano nel tentativo; ma dalla istruttoria del processo niente era venuto fuori contro di lui. Certo, se avessero potuto mettergli l'ugne addosso, l'avrebbero fatto; l'avrebbero interrogato minutamente e messo a raffronto cogli altri carcerati. E certo il Salvani, dal canto suo, anche senza il bisogno di quest'ultimo espediente, non avrebbe negato, schietto e generoso com'era, di aver partecipato, e con ogni sua possa, a quella alzata di scudi. Ma poichè non era stato colto, poichè non c'era egli ad accusarsi, nè altri aveva detto nulla di lui, i rappresentanti del governo, i tutori dell'ordine pubblico, non avevano alcuna grave ragione per tener fermo; una in quella vece e fortissima per cedere, vogliam dire la cura che si pigliava di quel giovanotto di nessun conto un uomo di molti milioni, un pezzo grosso, come il signor duca di Feira.

Costava così poco il contentarlo! A farselo amico, un pochino d'arrendevolezza bastava; perchè si sarebbero tenuti sul niego? Siam tutti uomini, dice il proverbio; e anco a non voler dimenticare le sacrosante leggi della giustizia, che non ci hanno a far nulla, gli è posto in sodo fin da' tempi antichissimi che la nostra cortesia si spende assai più facilmente cogli uomini di vaglia, che non coi dappoco. Ora, qui non c'era proprio altro che un atto di cortesia, e il duca di Feira ne francava la spesa. Laonde i gran dignitarii furono solleciti a dirgli che il Salvani poteva liberamente tornare, e il suo nome non essendo per alcun verso venuto fuori, egli non avrebbe avuto altra molestia, da quella infuori che s'era recata di per sè, andando fuori di Genova.

La mattina vegnente Lorenzo Salvani tornava in città, chiamatovi assai più che dall'agevolezza del ritorno, dall'annunzio che Maria, la diletta Maria, non era più in monastero, ma al fianco d'una madre amorosa. Molte cose aveva fatte il duca in un giorno, e collegate per guisa che l'una tirasse l'altra, nè più il nemico avesse tempo al riparo. Egli bene intendeva come fosse pericoloso ferire il primo colpo, senza aver gli altri sicuri; laonde ordinò tutte le parti della sua grande impresa per modo che il giorno della presentazione delle cambiali d'Aloise al banco Teirasca, tutto crollasse ad un tratto il faticoso edifizio dei tristi. La stessa marchesa di Priamar, da lui veduta parecchi giorni innanzi, commossa e vinta dalle argomentazioni semplici, affettuose, di quel gentiluomo a cui la canizie consentiva lo schietto linguaggio del vero, non era andata, per suo consiglio, a trarre la fanciulla dal monastero se non all'ultimo istante, quando fosse per cominciare quella grande rovina che aveva ad involgere il gesuita e il discepolo, già inebbriati dai fumi del vicino trionfo.

Una cosa non aveva fatta; ma qui per l'appunto si chiariva com'egli fosse avveduto capitano, degno di aver raccolte in pugno le fila, già tese dall'animoso Giuliani. Egli non s'era dato pensiero del testamento del nonno d'Aloise; non era andato dal Vitali per guastare quell'altro negozio al Gallegos. E tuttavia egli avrebbe potuto andarvi, e senza mestieri d'introduttori; perchè il vecchio banchiere lo conosceva da lunga mano, ed ei gli sarebbe apparso come un fantasma, tornato dai morti regni a destargli in cuore un antico rimorso. Pure, non lo fece; quello era il lato debole del nemico; ma appunto perchè era il più debole era anche il più vigilato. Già una volta il fiero gesuita era stato colpito da quella banda, ed è noto com'egli avesse saputo pigliarsi la sua brava rivincita sui notturni visitatori pietosi della sua vittima. Il duca però si rattenne da quell'attacco, che era pericoloso ed inutile. Egli non aveva mestieri di stravincere; salvare Aloise dall'infamia, Lorenzo e Maria dalla disperazione; quello era il gran punto; il resto sarebbe venuto da sè; o non sarebbe venuto, e non ci sarebbe stato niente di male.

Aloise, del resto, non avrebbe mai fatto l'onore d'un pensiero alle ricchezze del nonno. Vero cavaliere antico, smarrito in questi bassi tempi distruttori d'ogni alto carattere, l'oro non disprezzava, nè amava. Qual fosse la sua cura, il suo struggimento, sappiamo; ora, se egli avesse avuti in balìa tutti i tesori, i regni tutti della terra, li avrebbe dati di grand'animo tutti per un bacio di quella donna che gli aveva tolta la pace del cuore. Privo di quel bacio, perduta ogni speranza, egli se ne andava tacitamente, e diremmo quasi senza rammarico, per quella china dove sono iti già tanti generosi pagatori d'un conto fallato.

—Povero Lorenzo!—andava egli dicendo tra sè, già insensibile a' suoi dolori, mentre scendeva per andare alla tomba di sua madre.—Egli almeno sarà felice, se io non son tale. Non sono? E perchè? Non me ne vado, io?—Tutto era silenzio e buio nella cappella, quando egli vi scese; ma il luogo gli era noto, ed egli corse, volò senza esitanza verso uno dei lati, dove un occhio avvezzo all'oscurità avrebbe potuto veder biancheggiare una lapide sepolcrale. Antonio, che lo aveva accompagnato fino all'uscio della sagrestia, diè tosto mano ad accendere una lampada che pendeva dall'arco dell'altare. Fornita questa bisogna, alla luce che egli stesso aveva fatta in quel mesto recinto, rimase immobile a contemplare il padrone, che era inginocchiato davanti alla tomba materna, colla fronte appoggiata sul marmo. Aloise, senza pure voltarsi a lui, gli accennò col gesto di andarsene, e il vecchio, sebbene a malincuore, e sospirando, si mosse per obbedirlo.

La cappella dei Montalto era di poca ampiezza e assai scarsa d'ornamenti, come sogliono essere tutti questi edifizi annessi alle villeggiature signorili dei nostri antichi, con un solo altare nel fondo, e due nicchie sui lati. Una di queste era vuota; nell'altra sorgeva un monumento di marmo, sormontato da un angelo in atto di preghiera. Sull'imbasamento, dintornato da semplici riquadrature, si leggeva scolpita questa iscrizione:

QUI DOVE ELLA SI SPENSE IGNOTA AL MONDO NON AL DOLORE IL GIORNO XX DI NOVEMBRE DEL MDCCCLIII RIPOSA NELLA PACE DEL SEPOLCRO LA NOBIL DONNA EUGENIA DI MONTALTO NATA DEI VITALI UNICO AMORE PERENNE MEMORIA DEL SUO POVERO FIGLIO ALOISE.

Unico amore! Aloise, che, come avranno già inteso i lettori, era l'autore dell'epigrafe, aveva proprio scritto così. Ed era vero, diffatti, allorquando la sua angelica madre era scesa nel sepolcro; perchè il giovine era stato bensì colpito dalla sovrumana bellezza di Ginevra, e così fieramente da non poter più accogliere l'immagine di un'altra donna nel cuore, ma certo non pensava allora che il giorno sarebbe venuto, in cui egli, avvicinatosi a quella divina, l'avrebbe fatta arbitra della sua esistenza. Ma se sua madre morta non era più l'unico amore, ben era durata perenne memoria nell'anima sconsolata del figlio, e presso la tomba materna egli veniva a metter l'ultimo lamento del suo cuore ferito.

Ciò ch'egli disse colà in due ore di sommesso colloquio coll'estinta adorata, non ci attenteremo noi di ripetere. I ragionamenti d'un figlio con sua madre, come quelli d'una madre col suo bambino allorchè questi incomincia a balbettare le sue prime sensazioni, hanno alcun che di teneramente infantile, che è sublime nella intimità, ma che perde ogni suo pregio ove si commetta ad orecchi profani.

In quel suo colloquio, Aloise riandava di certo quei giorni che fanciulletto aveva passati daccanto a lei; com'ella in lui solo, nelle sue infantili carezze, paresse trovar conforto ad ascose pene, sollievo a taciuti rammarichi. Sempre accigliato, burbero o noncurante il padre; ella sempre buona, sempre soave, sempre tenera, sempre pari a sè stessa; più soave, più buona, più tenera quando il padre fu morto, quasi paresse amar meglio, darsi più liberamente all'amore del figlio. Povera madre! Ella avvezza a vederlo ogni giorno, a invigilarne con occhio del pari benevolo gli studi e i trastulli, aveva un giorno veduta la necessità di ritrarsi in quella solitudine campestre, perchè il suo vivere ristretto consentisse al marchesino di Montalto una certa agiatezza patrizia. Povera madre! Come s'era ella adoperata, quante amorose e sapienti fatiche (sapienti appunto perchè amorose) aveva ella durate per farlo uomo, veramente uomo, per trasfondere in lui la severa alterezza della sua anima, la sensitiva bontà del suo cuore!

Ah il cuore! triste dono! O non sarebbe meglio averne l'apparenza soltanto? Non basterebbe all'uomo, per vivere lodato, riverito ed amato nel civile consorzio, la benevolenza misurata, la soavità tranquilla, la cortesia riguardosa, e tutto il cortéo delle mezzane virtù, che hanno bensì il nome dal lago del cuore, ma in verità derivano l'origine dalle scarse vene del raziocinio? L'uomo, così privilegiato dalla natura, riuscirebbe amabile senza danno della sua esistenza, godrebbe i frutti della sua forza senza gli smarrimenti d'uno spirito che si va logorando nell'attrito. E di tal fatta son molti, i cui pregi vanno assai facilmente per le bocche di tutti; uomini e donne la cui bontà discende da un sillogismo, la cui gentilezza sgocciola da un sorite, i cui sacrifizi, quando essi ne fanno di tali, si sprigionano, meditati a lungo, dalle corna d'un dilemma. Ma costoro, dirà taluno, non operano le grandi cose nel mondo. Che importa? Per uno, tra cento di quei grandi infelici, che meriterà una statua dai posteri, novantanove spendono vanamente il loro affetto nelle oscure battaglie della vita privata, e muoiono senza compenso di gratitudine. Qui, poi, è da vedersi se la statua sia davvero un compenso, e se l'ammirazione dei superstiti valga la felicità non ottenuta vivendo. Che importa egli chiamarsi Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Giacomo Leopardi, e durare estinti sugli altari della fama, se vivi s'è patito dieci volte più della comune degli uomini? La gloria è come una vetta solitaria che tutti vedono e ammirano da lontano; ma lassù durano eterne le nevi; i fianchi ignudi si sfranano, corrosi dall'acque, flagellati dal fulmine.

Il colloquio d'Aloise con sua madre era finito. Baciò, ribaciò commosso quel marmo che la contendeva a' suoi occhi; tese le palme, quasi implorando una benedizione; mormorò il saluto di chi promette tornare tra breve; scoccò un ultimo bacio in quell'aria che gli pareva tutta piena di lei, e s'involò rapidamente dalla chiesuola.

Giunto a piè della scala interna che metteva al primo piano del palazzo, gli venne veduto Antonio che se ne stava accoccolato sul primo gradino, coi gomiti puntellati sulle ginocchia e la fronte sulle palme, in atto di meditazione.

—Che fai tu qui?—disse Aloise.

—Aspettavo;—rispose il vecchio gastaldo, togliendosi prontamente da quella postura.—Vostra Eccellenza avrà bisogno di qualche cosa….

—Non ho bisogno di nulla; vattene!—

Così disse asciuttamente Aloise; ma ravvedutosi tosto, pose una mano sul braccio del servo, che mogio mogio si muoveva per obbedirlo, e con accento carezzevole soggiunse:

—Va, buon Antonio, va a riposarti. È tuo costume di alzarti sempre per tempo. E poi, domattina, avrò bisogno di te.—

Dicendo queste ultime parole, non si potè trattenere dal porgli le braccia al collo. Il vecchio gastaldo diede in uno scoppio di pianto.

—E adesso, che hai? che cosa sono queste lagrime?

—Nulla, nulla, padrone!—rispose tra i singhiozzi il poveretto.—Sono vecchio, e la tristezza dei giovani mi fa male al cuore.

—Non temere;—disse Aloise, a cui quelle schiette parole facevano tenerezza;—la Montalda mi farà passare ogni cosa.

—Che Iddio ascolti Vostra Eccellenza!—soggiunse Antonio, rasciugandosi gli occhi col dosso delle sue ruvide mani.

Erano le nove di sera, quando il marchese di Montalto potè finalmente essere solo. Ridottosi nel suo quartierino, richiuse l'uscio del salotto dietro di sè, ed entrò nello studio, che precedeva la sua camera da letto. Il povero giovane era travagliato dalla febbre, a lui derivata dalle ansietà, dalle cure svariate, dai contrasti di quella negra giornata. Dal mattino egli non aveva preso alcun ristoro, e si sentiva riardere le fauci. Tracannò un bicchier d'acqua, e gli parve di sentirsi meglio; passeggiò un tratto nella camera, ventilò sottilmente il pro e il contro di ciò che stava per fare, e una serenità solenne gli si dipinse sul volto.

Andò allora alla mensola su cui era posata la busta che aveva eccitata l'attenzione del vecchio gastaldo, e aperto quell'astuccio ne cavò due pistole. Erano due armi stupende, uscite dalla riputata officina del Lepage, e da lui comperate nella sua gita a Parigi. Sorrise amaramente nell'atto di recarsele in mano e di sperimentarne il grilletto. La marchesa Ginevra si era degnata di ammirare quelle armi, e colle sue dita affusolate ne avea tocchi i congegni.

Caricò le sue armi colla tranquilla accuratezza di un padrino di duellanti, le depose quindi sulla scrivania, dinanzi la quale risedette, per vergare una lettera. Ed ecco ciò che gli uscì dalla penna.

«<i>Mio ottimo Enrico</i>,

«Perdonami il dolore che ti arreco; quando tu riceverai questa lettera, io avrò finito di vivere. Non ho saputo resistere all'affanno, sopportare pazientemente una vita nella quale ogni giorno è un ricordo, ogni ora, uno struggimento delle speranze perdute. È egli bene o mal fatto l'uccidersi? Siamo noi i padroni della nostra esistenza? Io credo di no; se il suicidio non è per avventura un delitto, è sempre una viltà, quando non è una follia. Ma tu non porterai, spero, un così aspro giudizio di me; ho troppo patito, non ne posso più, mi sottraggo ad una pena che supera le mie forze.

«Non mi difendere, se udrai lacerar la mia fama; è questa l'ultima grazia che io domando alla tua schietta e leale amicizia. I soliti cianciatori diranno che io mi sono ucciso pei debiti. L'accusa volgare mi duole; ma meglio così; credano costoro e facciano credere altrui ciò che loro talenta.

«A te, amico del cuore, dovrei dire la verità tutta quanta. Ma tu non hai bisogno di una confessione, tu che hai vissuto tanti anni con me. La carta è infedele. Chi sa dov'ella andrà, sotto quali occhi sarà costretta a cadere, se pure ti giungerà inviolata?

«Addio, mio ottimo Enrico. Qui, sul punto di morire, sento di averti amato come e quanto è possibile amare un fratello d'elezione. Stringi la mano per me a Lorenzo Salvani, a Giorgio Assereto, a Carlo Giuliani, nobili giovani coi quali mi sarà caro che tu parli qualche volta di me. Non mi dimenticate; è dolce il vivere nella memoria dei buoni. Ad altri non dir nulla, io non lascio un ricordo, una parola per altri.

«Ah no; dimenticavo un nome. Brutta cosa l'essere ingrati in un'ora solenne come questa! Mando un saluto al duca di Feira, a quell'uomo di cuore che mi ha stesa la mano, che m'ha sovvenuto generosamente in una trista congiuntura. Digli che muoio benedicendolo, poichè a lui sono debitore di poter morire onorato.

«Addio, fratello; desidero d'esser sepolto vicino a mia madre. Tutte le cose mie (ben poco per verità) al mio vecchio Antonio; a te un bacio e l'ultimo pensiero del tuo povero amico

«ALOISE.»

Ciò scritto, piegò la lettera; la chiuse in una sopraccarta su cui vergò il nome del marchese Pietrasanta; si alzò da sedere, levò gli occhi al cielo, e si fece scorrere la sinistra mano sulla fronte, quasi volesse cacciarne un'immagine, un pensiero molesto; indi stese la destra per impugnar la pistola.

A quell'atto, l'uscio della camera da letto, che era socchiuso, si aperse, ed una voce severa disse ad Aloise, che s'era voltato rapidamente all'improvviso rumore:

—Fermatevi, signor di Montalto; voi non avete il diritto di uccidervi.—

XXX.

Come le armi di Bonaventura servissero al duca di Feira

Si turbò grandemente a quelle parole Aloise, e al turbamento tenne dietro un alto stupore, allorquando vide apparire sulla soglia un uomo dal nobile aspetto e dai capegli bianchi, nel quale riconobbe tosto il duca di Feira.

In qual modo era egli penetrato colà? Ben ricordava Aloise come la sua camera da letto avesse una uscita, che metteva ad altre camere di servizio. Ma come aveva potuto quell'uomo disporre ogni cosa per modo da giungergli addosso improvviso, nel punto che egli stava per abbandonare la vita? Certo il duca di Feira, da quel giorno padrone della Montalda, era venuto prima di lui al castello. Ma perchè Antonio aveva taciuto? Come si era fatto suo complice? E perchè poi quella persecuzione? Come aveva potuto il vecchio gentiluomo trapelare una deliberazione la quale egli, Aloise, non aveva detta ad anima viva?

Tutte queste dimande si affacciarono, si succedettero colla rapidità del lampo, nella sua mente turbata.

Ma il duca di Feira gli aveva detto una grave parola.—«Voi non avete il diritto di uccidervi».

Ora a questo bisognava rispondere. Ed Aloise, trascorsi pochi istanti, ne' quali gli avvenne di pensare tutto ciò che abbiamo tentato di significare a parole, si fece a sostenere l'assalto.

—Perchè?—domandò egli, con piglio tra curioso ed altero.

—Perchè vi amo;—rispose il vecchio gentiluomo, facendo un passo innanzi, e guardando Aloise con espressione di malinconico affetto;—perchè la vostra vita è necessaria alla mia.

—Per qual diritto?—gli disse di rimando il giovine, mentre dava indietro d'un passo, quasi volesse anche col gesto respingere quella dichiarazione amorevole.

—Lo saprete tra poco.—

Così dicendo, il duca di Feira si fece pallido in volto, come chi sia per uscir fuori dei sensi. In pari tempo sentì mancarsi le forze, e s'aggrappò vacillante alla spalliera d'una scranna, su cui venne, con un supremo sforzo, a cadere.

Un senso di alta pietà invase il cuore del giovine.

—Signor duca, che avete?—gridò egli, avvicinandosi, in atto di porgergli aiuto.

—Nulla, nulla!—rispose il gentiluomo, tentando di padroneggiarsi.—Sono vecchio, e ritorno un fanciullo. Ma che volete? Veder giovani baldi come voi, sul fior dell'età, della bellezza, della forza, prepararsi così tranquillamente, freddamente, a morire…. E perchè poi? per una donna che non vi ama.—

Aloise diede un sobbalzo a quel colpo repentino, e guardò il duca di
Feira con piglio sdegnato.

—Perdonate, signor di Montalto, perdonate!—soggiunse prontamente il duca.—I miei capelli bianchi non mi daranno essi alcun diritto presso di voi? Ero forte; son tale ancora per molti; dinanzi a voi mi sento debole. Ne siete stato testimone voi stesso. Io non ho potuto vedervi da vicino, parlarvi, udire la vostra voce, senza sentirmi mancare. Perdonate una schietta parola a chi vi ama, a chi non ama altri che voi! E non vi paia strano. È dei vecchi lo amare i giovani. Che altro ameremmo noi, per quale altra cosa ci terremmo aggrappati alla vita, noi logori, infiacchiti, abbandonati da tante cose care, e perfino dalla speranza, se non ci volgessimo a voi, freschi di giovinezza, ricchi di forza, pieni la mente di tutte le grandi promesse del futuro, del futuro che è vostro, sol che sappiate andargli incontro animosi? In voi, giovani, riviviamo talvolta, in voi vediamo riflessi i nostri antichi dolori, in voi ripetuti i nostri disinganni, le nostre agonie. Perchè non cercheremmo di mettere la nostra esperienza a servizio della vostra spensierata fiducia? Perchè non ci adopreremmo a farvi più lieti, che a noi non sia stato consentito di essere? Voi mi ascoltate; è buon segno. Io ne tolgo argomento a rivolgervi una preghiera qual più vorrete, d'amico, di fratello, o di padre. Date a me quelle armi che sono sulla vostra scrivania.

Il giovine titubò un tratto, scosso com'era da quelle affettuose parole. Ma tornando alla coscienza del suo stato, invece di rispondere alla preghiera del vecchio, così gli parlò con accento tranquillo ma fermo:

—Signor duca, voi avete sorpreso il mio segreto, e questo, consentite che io ve lo dica, è male. V'hanno propositi nella nostra vita, v'hanno atti, dei quali dobbiamo render ragione soltanto a Dio, e gli uomini, poniamo anche i più autorevoli, i più strettamente cari, non hanno da entrarvi. Mi credete voi un fanciullo, che possa mutare consiglio per opera altri, e solo perchè ad un ignoto è venuto in mente di dirgli: tu non farai la tal cosa?

—No, non temete!—rispose solennemente il duca.—Datemi quelle armi; io vi giuro sulla mia fede di gentiluomo che non mi opporrò alla vostra deliberazione, qualunque ella sia, quando m'avrete ascoltato. Vi chiedo assai poco, qualche ora di tempo; e voi dovete concedermela, poichè vi amo. Non mi amate voi pure? In quella lettera che sta suggellata su quella tavola, non c'è egli un ricordo per me?

—Come lo sapete voi?—chiese attonito Aloise.

—L'indovino. Voi avete un'anima nobile. Potevo io credere che avreste abbandonato la vita, senza mandare un saluto all'uomo che ha avuta la fortuna di rendervi un servigio? Oh, non mi dite nulla intorno a ciò; della vostra gratitudine, se pure ciò che ho fatto ne franca la spesa, vorrei ben altra testimonianza che vane parole. Siatene certo, io non v'ho accennato ora quel tanto che ho operato per voi, se non perchè quelle pistole sono ancor là, sebbene io ve le abbia già chieste due volte, e perchè ho bisogno di tutto per trattenervi, per richiamarvi alla vita.—

Aloise crollò lievemente il capo, e un mesto sorriso gli sfiorò le labbra, a quelle parole del duca.

—Eccovi le mie pistole,—diss'egli;—me le restituirete voi, quando vi avrò udito, quando vi avrò detto: amico, non mi sento la forza di vivere?—

Il vecchio gentiluomo gli rispose mettendosi una mano sul cuore, e, tolte le armi dalle mani di Aloise, le ripose nella busta.

—Ora aspettatemi;—soggiunse;—torno subito a
  voi.—

Ciò detto, si allontanò, colla busta tra mani, per quell'uscio medesimo dond'era venuto.

Rimasto solo nello studio, Aloise si lasciò cadere sfinito sulla scranna, coi gomiti sull'orlo della scrivania, la fronte nelle palme, in atto di profondo abbattimento. La novità improvvisa di quella apparizione, la stranezza di quel colloquio, la vergogna dell'essere stato còlto in quel punto, come un colpevole sull'atto di commettere un fallo, lo avevano fieramente inasprito. Le parole amorevoli dello straniero, le sue preghiere, quella sua aria misteriosa che gli prometteva inaspettate rivelazioni, avevano mutato quella irritazione in un turbamento indicibile. Nella sua mente era un tumulto di pensieri, un agitarsi confuso di dubbi, tra cui la sua ragione si smarriva. Chi è costui? Che vuole da me? Per qual modo, con quale disegno, viene egli a piantarsi tra me e il mio destino? Tutte queste dimande di già le avea volte e rivolte nell'animo, a mala pena quell'uomo gli era apparso dinanzi. E le ripeteva tuttavia, irato contro sè medesimo di non aver saputo metterle fuori, per flagellarne quel turbatore de' suoi momenti supremi. Diffatti, in quel lungo dialogo, così aspramente teso dal canto suo, non s'era detto ancor nulla; Aloise non aveva nulla capito. Il duca di Feira aveva signoreggiata la conversazione, l'aveva avviata, condotta, rigirata a suo modo. E adesso quali novità gli preparava? Qual era, e di qual fatta, l'arcano che doveva venir fuori, e da cui lo straniero si riprometteva pur tanto sull'animo suo?

Poco stante, siccome aveva promesso, tornò il duca di Feira. Egli aveva lasciata la busta delle pistole, e, in cambio di quella, teneva tra le mani un libro, che andò a deporre sulla scrivania, sotto gli occhi di Aloise.

Era un grosso volume, legato in cartapecora. La legatura non doveva essere antica, poichè la coperta era rigida e tesa; ma il colore giallastro, la superficie levigata, oleosa, lucente, dimostravano l'uso assiduo che doveva aver fatto di quel libro il suo possessore.

Aloise guardò trasognato il volume, e dal volume alzò gli occhi a guardare il duca di Feira, in atto d'interrogazione. A prima giunta aveva pensato che il duca volesse pigliarsi giuoco di lui; ma il volto del vecchio gentiluomo era così severo, i suoi sguardi si volgevano con tanta sicurezza ne' suoi, che il sospetto gli uscì tosto di mente.

—Che è ciò?—si fece egli allora a domandargli.

—Leggete, signor di Montalto; vedrete qui dentro tal cosa che non aspettavate di certo.—

Così disse il duca di Feira con accento malinconico. Una nube passò dinanzi agli occhi del giovane, e il cuore gli si strinse sgomentito. Là dentro, era dunque alcun che di grave per lui? Il suo destino riposava in quelle pagine chiuse? Quali angosce inattese gli serbava ancora la vita?

Stette alcuni istanti perplesso, guardando il libro e non osando porvi mano. Quel giovine animoso che poco dianzi stava per afferrare una pistola e voltarne la canna omicida alle tempie, era investito da un arcano terrore alla vista di quel libro chiuso. Ardimentoso al cospetto della morte che aveva meditata, che egli cercava, si sentiva debole, inerme, contro l'ignoto, che inatteso era venuto a cercarlo.

Finalmente, con mano peritosa, sollevò la coperta, e nell'alto del foglio di guardia lesse queste parole manoscritte: «__Ex libris P. Bonaventurae Gallegos, e Societate Jesu__.» Il nome del fiero gesuita, che aveva avuta tanta parte nella sua vita dolorosa, lo scosse. Voltò rapidamente la guardia, e corse cogli occhi al frontispizio. __S. Augustini Episcopi Hipponensis, Opera omnia__. Così era stampato, in caratteri rossi e neri, giusta il costume di tre secoli addietro. Il numero d'ordine del tomo era il sedicesimo, ma scritto a mano, in lettere romane, accanto al numero stampato, che si vedeva cancellato con alcuni tratti penna.

Aloise si fece da capo ad interrogare collo sguardo il duca di Feira. Il volto del vecchio gentiluomo era dipinto di mestizia; gli occhi suoi si posavano malinconicamente sul giovine, in atto di compassione profonda. Diffatti, il duca di Feira pensava in quel punto alle acerbe trafitture che quel libro avrebbe recato al cuore d'Aloise. Ma egli era costretto ad operare in quel modo; il rimedio era amaro, mia era il solo da cui potesse ripromettersi ancora la salvezza del suo giovine amico.

—Andate innanzi, figliuol mio!—gli disse soavemente il duca.—Là dentro è la verità, dolorosa ma schietta, nutrimento delle anime forti.—

Più turbato che mai da quelle arcane parole del vecchio, Aloise si diede a svolgere alcune carte del libro. Egli si avvide allora che il volume era interfogliato, cioè a dire che ad ogni pagina di stampa rispondeva una pagina bianca. Ma non bianca del tutto; in alcuni luoghi per metà, altrove tutta quanta coperta di caratteri manoscritti.

—È questo,—proseguì il duca di Feira, mentre Aloise svolgeva le pagine,—uno dei ventiquattro volumi delle Opere di sant'Agostino. Ieri ancora erano in casa di un uomo che voi conoscete, di un uomo che ha fatto molto male a voi e agli amici vostri, e che oggi non può più farne ad alcuno. Il vescovo d'Ippona serve qui di copertoio; tra le sue pagine innocenti si nasconde la storia di molti e molti, non esclusa la vostra. È lavoro sudato di lunghi anni, scritto di giorno in giorno, accresciuto di ora in ora con ogni maniera d'artifizi. La pazienza del compilatore non è superata da altro, fuorchè dalla sua malvagità. Questo è, difatti, un serbatoio dei più sottili veleni che una scienza ribalda abbia saputi stillare a danno altrui. Ma anco i veleni, e i più possenti, si adoperano a guisa di farmachi; ed io ho una gagliarda cura da compiere. Iddio m'è testimone che io volgo questi infami stromenti ad un'opera buona. Troppo male essi hanno già operato; egli è giusto che, dopo aver perduto tanti uomini, ne salvino uno, innanzi d'esser dati alle fiamme. A voi, signor di Montalto, questo volume, per ordine numerico, è il decimonono; per ordine alfabetico è la lettera T. Andate innanzi; troverete un nome…. un doppio casato….—

Un grido interruppe le parole del duca. Aloise, seguendo il discorso del vecchio, avea svolte le pagine del libro fino al nome dei Torre Vivaldi.

Alla vista di quel nome, che gli scorse dinanzi a guisa d'un lampo, gli occhi di Aloise si ottenebrarono. A quel pauroso sprazzo di luce, teneva dietro un gran buio.

—Coraggio! Leggete;—disse il duca di Feira, voltando egli stesso un'altra pagina, e indicandogli un punto del manoscritto;—questa è la vita di Ginevra.—

Il giovine tremò tutto, a quell'invito del duca; volse lo sguardo dove questi accennava col dito, e rimase immobile a lungo, cogli occhi sbarrati, ma senza leggere, quasi senza vedere lo scritto. Quelle linee di caratteri fitti si schieravano bensì dinanzi a lui, ma in quelle forme strane, bizzarre, ad ogni tratto mutevoli, che sono proprie del sogno, e da quelle linee, che parevano muoversi sotto i suoi occhi, alzarsi e discendere, urtarsi, incrociarsi e scomporsi senza posa, sorgevano, come vapori notturni dalla superficie d'un lago, immagini dolorose ad ingombrargli lo spirito. Sei anni, sei lunghi anni di martirio, gli scorrevano per tal guisa dinanzi agli occhi della mente.

Quella donna era apparsa un giorno, come Venere vittoriosa, e aveva col solo aspetto soggiogata la moltitudine dei riguardanti. Egli solo, Aloise di Montalto, mentre tutti gli occhi erano volti su lei, egli solo non l'aveva guardata neppure un istante; egli solo, a malgrado degli inviti amichevoli, aveva avuta la costanza di rimanersi tutta una sera colle spalle rivolte a quella sovrumana bellezza. Era egli un presentimento, un'arcana paura?

Finalmente una sera, fosse caso o destino, egli l'aveva veduta; e vederla e amarla era stato tutt'uno. Questi amori veloci, irresistibili, fatali, sono una malattia tutta italiana. E contro quella rovina di un sol momento egli aveva lottato sei anni; fermo, sereno in apparenza, ma piagato nel profondo del cuore, era vissuto sei anni senza tentare, senza ardire, quasi senza desiderare di avvicinarsi a lei, ond'era ripiena tutta l'anima sua. Perchè egli s'era dato a lei, s'era posto in sua balìa, senza pompa di sacrifizio, senza patti, senza speranza di mercede. La vittoriosa non ne sapeva nulla, ed era già il pensiero dei suoi giorni, il sogno delle sue notti. Ognuno regalava al biondo Aloise le più liete avventure; il suo far riguardoso, il suo vivere chiuso, insieme colla sua eleganza e coll'alterezza d'un bel nome nobilmente portato, lo rendevano in singolar modo accetto alla più graziosa, alla sola graziosa, metà del genere umano; le sue lodi andavano per tutte quelle labbra di cui sono più desiderabili i baci; laonde, egli non avveniva che il giovane si avvicinasse, per debito di cortesia, a una di quelle regine del salotto e del palco, senza che gli amici, i conoscenti, e tutta quella moltitudine di cortigiani che farfalleggiano intorno alle belle, non bisbigliassero tosto: egli è amato. Ed egli frattanto non ci pensava nè punto, nè poco. Invaghito come era di quella divina a cui non ardiva accostarsi, egli non sapeva nulla di quella virtù d'attrazione che esercitava su tante altre. È una vecchia storia, codesta, e se la memoria non c'inganna, è un epigramma greco che la racconta: «Clori amava Dafni, che amava Glicera; la quale non amava nessuno».

Il caso, come dicemmo, o, per dire più veramente (che oramai non è più mestieri di accorgimenti da narratore), la mano del Gallegos, aveva tratto Aloise dinanzi a quella donna, così amata ad un tempo e temuta. Ignaro, aveva veduto nelle cortesie del Torre Vivaldi il __volentem ducit nolentem trahit__ della fatalità, e s'era acconciato ai voleri di quell'arcana possanza. E avvicinato a quella donna, tratto nell'orbita luminosa dell'astro, aveva sperato. Amando smisuratamente, non aveva egli diritto a sperare?

Ma giunsero ben presto i disinganni; alla infermità tenne dietro l'agonia. Quella donna s'era avveduta dell'amor d'Aloise; ma da quel giorno appunto che ella se ne avvide, incominciò il vero martirio del giovine. Sicuramente c'era una ragione che la conduceva ad essere tiranna con lui; ma egli non sapeva indovinarla. Quale innamorato ha mai letto nel cuore della donna amata? Sono così sottili, e così lievi, le fila che muovono il cuore! Ginevra si lasciava adorare; accettava senza aggradire; argomentate ora se fosse disposta a ricambiare. __L'amor che a nullo amato amar perdona__, quella sublime divinazione del cantor di Francesca, era una frase vuota di senso per l'amata di Aloise. Cortese ella era con tutti, e cortese anche con lui, null'altro che cortese. Egli talvolta si sentiva il cuore inondato di gioia, ad una frase, ad un atto amorevole di lei, che pareva consapevolezza del suo martirio, pietà sorella e messaggera di amore; ma, quel giorno medesimo, una frase, un atto simigliante per altri, o un accrescersi improvviso di rigore per lui, toglievano ogni senso arcano a quel primo e bugiardo lampo d'affetto, intristivano sul primo germoglio il fiore della speranza nel suo povero cuore.

Il giovine innamorato non aveva faticato molto ad intendere che quella donna gli avrebbe fatto scorrere tutti i gradi del patimento. L'amore non era più una allegrezza, poichè non era più una speranza; era un dolore, uno spasimo, un'agonia prolungata. Pari all'infelice che trascinato dinanzi ai giudici del Sant'Uffizio vede tutto intorno minacciosamente disposti i più svariati strumenti di tortura, e il risolino asciutto dell'inquisitore sembra promettergli che neppure uno di quegli arnesi sarà dimenticato per lui, egli, nel contemplare quella donna sorridente e tranquilla, andava dicendo in cuor suo: ecco, io avrò tutti i tormenti; fin dove alle forze umane è dato di giungere, io sarò tratto, angustiato da lei.

Ed Aloise aveva accettato la sua morte, preparato a soffrire, deliberato a morire, quando la piena dell'angoscia avesse soverchiato le sue forze. Voluttà del morire, voluttà che non fallisce, una tra tante, a chi è stato tradito da tutte l'altre impromesse voluttà della vita!

Quel triste corteo di speranze e di disinganni, di gioie fugaci e di assidui dolori, di sogni ridenti e di torbide vigilie, passò dinanzi alla mente di Aloise, in quella che guardava la pagina posta sotto i suoi occhi, come un fiero rimedio, dalla pietà del duca di Feira.

Si tolse di là, poichè ancora non gli dava l'animo di leggere. La fronte gli ardeva; tante dolorose cure, d'improvviso svegliate, tumultuavano nella sua mente, che egli era sul punto di smarrire la coscienza di sè medesimo. Andò, mal reggendosi in piedi, fino alla finestra, e aperte le imposte, rimase un tratto al davanzale, per chiedere un po' di ristoro all'aria frizzante della campagna. I fremiti sommessi della notte, il soave scintillar delle stelle nello spazio azzurro, valsero a chetargli alquanto quella battaglia dello spirito.

Rinfrancato, non rasserenato, ritornò allora nel mezzo della camera. Il duca di Feira era seduto al suo posto, immobile, muto, senza togliere lo sguardo da lui.

—Perdonate;—disse il giovane;—tutto ciò è così nuovo per me!…

—V'intendo, Aloise;—soggiunse il vecchio gentiluomo;—ora fatevi animo, e leggete.—

Aloise obbedì, e sedutosi alla scrivania incominciò a leggere da dove era scritto, a caratteri più spiccati, il nome di Ginevra Torre Vivaldi; a precipizio dapprima, come uomo che volesse prontamente finirla, indi a mano a mano più lentamente, e spesso tornando indietro, per raccapezzarsi in quel nuovo mondo che si schiudeva davanti ai suoi occhi.

XXXI.

Donna senza cuore, rosa senza odore.

Incominciava la pagina con una breve notizia genealogica, della casata Vivaldi, del ramo di Valcalda, che veniva ad estinguersi nella persona della marchesa Ginevra. Seguivano alcuni cenni intorno a costei, nata nel 1834, educata presso le Dame del Sacro Cuore, a Lione, e maritata di sedici anni al marchese Antoniotto Della Torre, il cui nome leggevasi ornato d'una chiamata alla pagina precedente, ov'erano le notizie risguardanti quell'orrevole personaggio. Era un diligente annotatore, il Gallegos, e soleva fare ogni cosa a puntino.

Messe sulla carta queste poche cose, a mo' di preambolo, il padre Bonaventura veniva difilato a toccare della amicizia di Ginevra colla viscontessa Onorina Roche Huart, nata de Kérouèc, amicizia nata tra le mura del monastero e tenuta viva da un lungo ed abbondante carteggio. E qui, senza dire in che modo gli cadessero in mano, il gesuita era venuto trascrivendo le lettere di Ginevra all'amica lontana.

Queste lettere non erano poche, nè brevi, e sebbene il carattere di Bonaventura fosse tondo e fitto, vero carattere da prete, il carteggio teneva lo spazio di molte pagine inchiostrate, s'intende, sopra ambedue le facce. I nostri lettori, che già sanno in qual modo quelle lettere, giunte al loro destino, tornassero copiate in balìa del gesuita; i nostri lettori, che ne hanno già avute le primizie, allorquando noi, pel bisogno del nostro racconto, abbiamo dovuto dir come e perchè la marchesa Ginevra si facesse a chieder la storia di Goffredo Rudel e di Percivalle Doria ai suoi convitati della Corte d'amore; i nostri lettori non avranno discaro di vedere un po' più addentro in questo carteggio, e, dopo aver già sollevato un lembo del velo, scoprire finalmente del tutto quest'Iside misteriosa del racconto che hanno seguito con tanta pazienza fin qua.

Leggano adunque, si facciano in compagnia d'Aloise a scrutare il vero, ma senza averne il capogiro, senza abbeverarsi di fiele, come a lui avvenne pur troppo in quella triste lettura. Per verità, il primo senso era stato d'alto stupore, cagionato dalla novità di quel carteggio così stranamente raccolto; ma, proseguendo, allo stupore sottentrò l'amarezza, non temperata da altro fuor che dall'aspra curiosità del sapere, del correre innanzi, sempre più innanzi, sulla via delle dolorose scoperte.

Il carteggio della Ginevra risaliva all'aprile del 1850, cioè a dire pochi mesi dopo il suo matrimonio col marchese Antoniotto e il viaggio di nozze che gli sposi avevano fatto in Francia, in Inghilterra e in Germania. Nella prima sua lettera la giovine sposa incominciava a raccontare i suoi pensieri, le sue sensazioni, e tutte le particolarità, le minuzie, i nonnulla della sua vita. Quella lettera accennava ad un patto fermato tra le due amiche di convento. La signorina di Kérouèc era andata a marito pochi mesi prima di Ginevra; ambedue s'erano vedute a Parigi, e la viscontessa di Roche Huart aveva fatto, come suol dirsi, gli onori di casa alla marchesa Torre Vivaldi in quella Babilonia moderna che è la capitale di Francia. E innanzi di separarsi da capo, le due spose avevano fatto voto di scriversi spesso e a dilungo, di dirsi liberamente ogni più lieve cosa che loro accadesse di fare o pensare, e di seguire appuntino l'esempio di quella gran chiacchierina della Sévigné, di cui avevano lette, chiosate ed imparate le lettere in collegio, come esempi mirabili di stile epistolare.

Ma usava ella dire ogni cosa, la Sévigné? Con tutto il rispetto dovuto alle dame, vive e morte, ci sia lecito di dubitarne un tantino. E del pari le nostre due scrittrici non dicevano tutto. Non parlavano, verbigrazia, dei loro mariti, nè l'una nè l'altra; quando pure occorreva loro di accennarli, lo facevano così alla sfuggita, dicendone in poche parole un gran bene, e passavano ad altro.

La viscontessa (le cui lettere del resto non erano trascritte nei libri di Bonaventura, come quelle che non avevano alcuna attinenza a' suoi fini) narrava poco di sè e dei pensieri che le giravano per la fantasia; si dimostrava in quella vece molto curiosa dei pensieri, delle opere e perfino delle omissioni di Ginevra; pel rimanente, aveva a parlarle molto di teatri, di veglie, e di nuove fogge parigine. Ma non dubitate, tra i nomi degli eleganti cavalieri che cadevano sotto la penna della francese, Ginevra indovinava subito quello che all'amica premesse di più, quantunque buttato là a caso, mescolato tra tanti. E questo è naturale; nella signoril compagnia non si dice: io amo il tal di tale, come s'usa dal volgo delle figlie d'Eva; si dice in cambio: il tale è un gentil cavaliere, __un homme comme il faut__. Nella qual cosa c'è più prudenza, e, diciamolo anche, più verità. Diffatti, amano esse davvero, queste gran dame? Giuocano all'amore, ecco tutto; il damo è un passatempo, un'appendice ai merletti, alle trine, ed altre simili frascherie.

Ginevra, in quella vece, che viveva una vita meno svariata, più raccolta, più provinciale, non aveva di gran novità a mettere in mostra. Però le sue lettere, data la debita parte ai pochi sollazzi della città, anzi della cerchia ristretta delle sue attinenze nobilesche, tutte passate allo staccio, riuscivano assai più astratte, assai più soggettive; la qual cosa significa che parlava di sè, ed abbondava nelle dipinture dell'animo suo, anzi che nel racconto de' fatti. La marchesa Torre Vivaldi era d'ingegno colto e vivace, che, come si vedeva nel suo conversare, si riscontrava ne' suoi scritti. Non dissimilmente dai valenti parlatori, che spesso amano stare ad udirsi, in quella che vengono arrotondando a fior di labbra i loro aggraziati periodi, Ginevra aveva caro lo scrivere, per ammirare le belle cose che le sgocciolavano dalla penna. I suoi giudizi intorno alle dame e ai cavalieri della sua città erano per consueto assai giusti, ma sempre un po' troppo ricisi; la moglie del tiranno di Quinto tiranneggiava a sua volta, e faceva giustizia sommaria.

Ecco ad esempio, voltata in italiano (poichè il carteggio era tutto in francese), una sua lettera, la seconda che lèsse Aloise, nella quale era minutamente narrata quella che la giovine marchesa Torre Vivaldi chiamava la sua prima comparsa di donna in quella società genovese, dalla quale aveva ad essere acclamata regina per diritto di conquista.

«Il tuo silenzio mi punisce troppo gravemente del non averti io scritto da un pezzo. Non mi tenere il broncio, te ne prego, e pensa che la tua Ginevra ha passato due mesi orrendi, per occupazioni, molestie, seccature senza fine.

«Ho avuto uno sbalordimento così grande, e soprattutto così lungo, che n'ho ancora le orecchie intronate. Ho finalmente capito come si possa affogare in un bicchier d'acqua. Genova è un bicchier d'acqua al paragone di Parigi; ora la tua povera amica, che ha galleggiato passabilmente, tra bene e male, a Parigi, ha fatto naufragio a Genova. Costì, grazie alla tua cortese sollecitudine, tutto mi procedeva ordinato e tranquillo; le nostre cure quotidiane, i nostri passatempi, erano meditati, scelti da noi, condotti secondo la nostra volontà. Qui nulla di ciò, tutto in balìa del caso, o della volontà degli altri, il che è tutt'uno; qui gite su gite, supplizi di costa a supplizi; qui visite da fare e visite da rendere; parenti stretti e lontani, che si vedono la prima volta; nessun amico, e conoscenti a dozzine, un subisso d'uomini che vengono ad ossequiarti, di dame che vengono a riconoscerti; e dover essere sempre affabile, cortese, sorridente, avere un pensiero, uno sguardo, una parola per tutti; che te ne pare? Nè basta ancora; alle cure, alle brighe, alle noie d'una città che ti vien nuova, o quasi, aggiungi il governo d'una casa, nuova del pari, alla quale tu devi avvezzarti, nella quale hai da far leggi e costumi, e durar fatica a raccapezzarti, a fare, come suol dirsi, il tuo nido; aggiungi le necessità dell'acconciatura, del pensare alla sarta, alla modista, a tutte insomma queste indispensabili aiutanti della bellezza (vorrei dirla assente, nel caso mio, ma tu, mia bellissima, mi accuseresti d'ipocrisia), e poi pensa a scrivere, se ti dà l'animo; trova un ritaglio di tempo, se ti vien fatto!

«E così, come io t'ho detto, giungo all'ora del pranzo, stanca, infastidita, prostrata. E il supplizio non è anche finito: s'ha da andare a teatro, o c'è conversazione. Qui si va molto a teatro, e tutte le sere nello stesso; e dove quasi tutte le nostre famiglie patrizie hanno il loro palchetto, dove tutti i nostri eleganti si dànno la posta, e dove finalmente si può andare senza trovarsi in troppo cattiva compagnia. Ma ogni diritto ha il suo rovescio; e qui le noie della giornata ti seguono. Se hai molti conoscenti (e il numero di giorno in giorno s'accresce) è necessario che ogni sera essi vengano a darsi la muta al tuo fianco, per dirti e chiederti tutti quanti la medesima cosa. Questa è prammatica, e non si muta. La signora A non potrebbe perdonare al signor B, che egli andasse nel palchetto della signora C senza passare anche nel suo; e quando egli c'è stato, ha ancora a passare dalle signore D, E, F, G, e via discorrendo da tutte le lettere dell'alfabeto, s'egli ha l'onore di averle in pratica. Chi ha fatto questa legge? I cavalieri, o le dame? Questo si perde nella notte dei tempi, come diceva la nostra maestra di storia. Intanto la legge c'è, e il mio signor marito suol dire che bisogna rispettare le leggi.

«A proposito di teatro, sai? la tua amica ci ha avuto gli onori del trionfo alla sua prima comparsa. A te che vuoi sapere ogni cosa, dirò di passata ch'ella era azzimata per bene, tutta in azzurro, coi capegli pettinati alla foggia greca, e sormontati da una luna falcata che la rassomigliava a Diana. Consenti un tantino di vanità alla dea; ella non era scontenta della sarta, nè del parrucchiere, nè di sè stessa. Giunta a mala pena in teatro, da ogni parte, gli occhi si volsero a lei, e alle sue orecchie giunse quel sussurro che è segno d'ammirazione, e a noi, povere mortali, è più grato che non l'incenso agli Dei.

«Il nostro palchetto è in prima fila, dei più lontani dalla scena, ottimo per vedere, e più ancora per essere veduti. Figurati dunque come fosse facile guardare la tua amica da ogni punto del teatro, e come tutti i cannocchiali fossero in moto. Questo era preveduto; alcune nostre dame, nelle loro visite del mattino, le avevano bisbigliato così a fior di labbra, tra il complimento e la stizza, ch'ella era aspettata. Aspettata, sì certo, e assai più ch'esse non argomentassero nel dirlo. Il piano e le alture circostanti avevano l'aria d'un parco d'artiglieria; tutti gli occhi e gli occhialini erano rivolti su lei; fulminata da cinque ordini di batterie, fulminata dagli scanni, fulminata dalle panche, fulminata dal rimanente dell'emiciclo.

«Fuori di celia, pare che tutti quei signori non la trovassero brutta, e si degnassero di mostrare il loro gradimento. Dovunque ella volgesse lo sguardo, incontrava sguardi fissi su lei; e questo cominciò ad infastidirla non poco. Vedendosi, o, per dir meglio, sentendosi guardata in tal guisa, ella non sapeva più da qual banda voltarsi; il suo collo, gli omeri e le braccia nude arrossivano. Immagina la sua confusione, quale e quanta doveva essere, la prima volta che si vedeva in mostra a quel modo. Metter soverchia attenzione allo spettacolo, era forse disdicevole; starsene troppo colla persona rivolta nell'interno del palchetto, le pareva scortese; insomma, ella era sulle spine, e potè dire in cuor suo, come quel re da tragedia: oh, quanto pesa la gloria!

«Tu ridi? Dovevi essere al mio posto, e ti sarebbe accaduto peggio, bellissima tra le belle! Che ti dirò adesso? La tua buona amica avrebbe voluto trovare un punto, un punto solo di quell'ampio recinto, su cui poter posare gli sguardi. Presso a lei c'era conversazione animata tra suo marito e tre signori venuti a farle visita. Sai che Antoniotto parla bene, e, come tutti coloro che parlano bene, non è avaro della sua eloquenza. I tre visitatori erano tutti nella discussione; io non avevo niente da fare, e volgevo gli occhi qua e là, con aria che voleva parere sbadata. Ed ecco che mentre guardavo a quel modo (tu vedi che ho finalmente abbandonata la terza persona del singolare) m'addiedi in una testa, tra le cento che vedevo lì presso tutte rivolte al mio palchetto, la quale era in quella vece rivolta alla scena. Ti confesserò candidamente che la cosa mi parve singolare, tanto più che si trattava d'un signore, il quale era in un crocchio dei più noti eleganti del nostro patriziato, e che i suoi compagni, parlando a lui senza togliere gli sguardi dal palchetto, parevano invitarlo a volgersi indietro e guardare, com'essi facevano, la tua povera amica.

«La curiosità è un nostro peccato; confessiamolo pure, poichè siamo tra noi, __en petit, tout petit comité__. Ora alla tua amica venne il desiderio di stare a vedere se il signorino avrebbe ceduto all'invito dei compagni. Alzai il cannocchiale in atto di guardare la scena; ma gli occhi, di soppiatto, guardavano il cavaliere restio. Si volterà o non si volterà? Ecco, si volta. No, m'ero ingannata; infastidito dalle istanze dei compagni, il signorino aveva fatto un gesto; ma quel gesto (inorridisci!) era stato di crollar le spalle, come chi volesse dire: guardate voi altri, se vi garba; io non mi muovo.

«Ecco un uomo! dissi tra me. E per tutta la sera, di tanto in tanto, i miei occhi corsero a lui. Egli era sempre fermo al suo posto. Lo vidi qualche volta di profilo, mentre si voltava a ragionare cogli amici; ma non ci fu verso che si volgesse indietro una volta. Ecco un uomo che non somiglia agli altri! Questi signori, giovani e maturi, si argomentano tutti di espugnarci coll'assiduità delle occhiate; credono di avere nelle pupille quelle lenti ustorie che Archimede inventò per incenerire le navi romane nel porto di Siracusa. Ma egli, no; egli non crede, perchè una donna è giovane, e non brutta, di doversi mettere a darle la molestia delle sue adorazioni. Meno male!

«Quella sera me ne andai da teatro un pochettino umiliata nel mio orgoglio femminile; a mio malgrado, e proprio in quella prima occasione che mi s'era offerta di veder gli uomini in tutta la loro vanagloriosa pochezza, ero costretta a stimarne uno.

«Ti vo raccontando delle sciocchezze; ma non ho proprio nulla di più rilevante. Del resto, il caso m'è sembrato così strano, che ho voluto accennartelo, anche per farti sapere che il trionfo della tua amica è stato completo. Sai quello che ci raccontavano in collegio dei trionfatori romani, che avevano sempre dietro al loro cocchio uno della plebe, il quale diceva loro ingiurie senza fine, come per rammentar loro che erano mortali, e fallibili. Per noi donne sarebbe troppo; i nostri trionfi sono in quella vece temperati dalla noncuranza di qualcheduno che sta nella folla. Il non esser curate da uno, mentre tutti ci ossequiano, non è forse la massima delle ingiurie? Quegli occhi rivolti altrove, quel crollar disdegnoso di spalle, non dicono apertamente alla trionfatrice: «io non la penso come la moltitudine che vi acclama; vi gridino tutti bellissima, ma voi non siete tale per me?»

«Sarà innamorato, dissi tra me, pensando a quella noncuranza, a quella ribellione. Ma come? Egli solo tra tanti? O non è vero piuttosto che i signori uomini non si fanno scrupolo di ammirare tutte le donne, anche quando dicono di amarne una sola, e di chiedere a tutte un ricambio di sguardi? Non sono essi maestri in quella civetteria che il mondo ingiusto ascrive a noi donne? Comunque sia, innamorato, o no, egli è un uomo dissimile dagli altri; dunque migliore degli altri.

«E infatti, non m'ero ingannata. L'ho veduto altre volte in teatro, sempre contegnoso, sempre severo. Egli è di buon lignaggio e novera tra' suoi antenati dogi e senatori della vecchia repubblica. Non è ricco, ma è l'unico erede di suo nonno, i cui milioni potranno indorargli a nuovo il blasone. Ho saputo queste cose dal mio gran ciambellano. Imperocchè tu devi sapere che sono regina e che ho un ciambellano, il De Salvi, un vecchio asciutto e giallo come una pergamena, il quale mi fa la corte a suo modo, venendo ogni giorno da me, per raccontarmi tutte le novelle e le voci che corrono, e s'argomenta d'aiutarmi a fare gli onori di casa mia. È un bell'originale, costui; ha sessant'anni suonati, e passa la sua vita intorno alle dame, aliando da questa a quella, e dandosi aria di farfalla, essendo, a fargli grazia, un moscone. Ma il suo ronzìo non m'incresce; io vedo in lui come finiscono tutti questi pavoni, che in gioventù fanno superbamente la ruota dinanzi alle belle; mi adatto ad ascoltarlo, quando mi schicchera i suoi gravi consigli, ed ho in lui un'eco fedele di tutto quanto accade in città.

«Lo adopero insomma come un giornale, di cui si legge sbadatamente, quando non si salta addirittura, la prima pagina e la seconda, per correr cogli occhi alla cronaca, all'ultime notizie e agli avvisi teatrali.

«Povero De Salvi! Se sapesse come lo concio, romperebbe i suoi occhiali d'oro sulla soglia di casa mia, in atto di maledizione. Egli è in fondo in fondo un buon diavolo; si crede, e fino ad un certo segno è necessario. Gli uomini come lui sono indispensabili ne' nostri ritrovi; sono essi, così in apparenza noiosi, che tengono viva una conversazione, la quale, senza costoro, o andrebbe troppo nel tenero, o languirebbe affatto; sono essi, questi Alcibiadi giubilati, che noi tiriamo gravemente in disparte, per dar loro un ridicolo incarico, per ragionar di cose da nulla, con molta loro allegrezza, e dannazione degli Alcibiadi in attività di servizio, di speranze e di pretensioni; sono essi….

«Ma che diamine, non la finisco più? Vo' finirla sicuro; tanto, senza pure avvedermene, son giunta in fondo all'ottava pagina, e mi rimane appena un mezzo dito di spazio per dirti che aspetto tue lettere, per mandarti un milione di baci, e per scrivere il nome della tua amantissima

«GINEVRA».

Un'altra lettera d'un mese dopo, tra molte cose di minor conto, diceva:

«…. Mi chiedi il nome del cavaliere ribelle. Che te ne importa? Se credi che egli mi prema più degli altri, t'inganni. La sua persona è entrata nel mio racconto, perchè volevo narrarti in tutti i suoi particolari quel piccolo trionfo della mia vanità. Il fatto del ribelle (poichè il vocabolo va) era l'unico episodio della serata, e la sua novità m'ha persuasa a fartene un cenno; ma tienti in mente che non mi sta a cuore nè punto nè poco.

«Nota, in cambio, una cosa più strana, la quale, del resto, col paragone del bicchier d'acqua si spiega; qui si parla sempre del signore di cui tu mi domandi il nome, quasi mostrando di credere una reticenza meditata, ciò che non era e non poteva essere altro che una dimenticanza. Tutti coloro che vengono in casa mia lo hanno in grandissima considerazione; il suo nome rispettabilissimo viene in campo ogni giorno; le nostre dame parlano di lui come di un eroe da romanzo, d'uno di quei principi da leggenda che non si potevano vedere senza amarli ad un tratto. Il bello si è che delle sue avventure galanti non si sa nulla: non c'è qui una signora di cui si possa dire: egli l'ha guardata più attentamente d'un'altra. Che le abbia tutte in uggia? Potremmo in questo caso farci riscontro; egli disprezzando le donne, ed io gli uomini.

«__Ah, te voilà donc, avec ta vieille marotte!__ dirai tu sorridendo. Sì certo, come in collegio, come sempre. Dal nostro confessore lezioso che faceva il bocchino ed ogni sorta di smancerie alle più belle e alle più nobili delle sue giovani penitenti, fino all'ultimo vagheggino che ha trovato modo di farsi presentare in casa mia e s'è fatto un debito di strombolarmi subito un complimento, io li conosco tutti, questi uomini; son tutti di una pasta. Non ho veduto altro che la superficie, dirai tu; ma non è questa la parte migliore dell'uomo? Orbene, la loro superficie è sgradevole. Io ringrazio il cielo che m'ha fatta meno brutta di tante e tante altre, poichè di tal guisa ho potuto vederli meglio e d'un tratto. Non credi tu che la bellezza sia per noi donne una seconda vista? Non siamo noi più in grado di custodirci contro gli assalti di questi rubacuori? Dall'alto d'una rocca ben munita non si specola meglio all'intorno, non si notano più facilmente i difetti del nemico, e non si finisce il più delle volte a ridere delle sue mostre spavalde e de' suoi miseri sforzi?

«Vengo al tuo protetto, che correvo risico di dimenticare da capo. Egli si chiama Aloise di Montalto, marchese come son tutti i patrizi genovesi, e nobile d'antica data come non tutti sono. Credo che se ne tenga, e in questo fa bene. È in apparenza uno de' più modesti, ma nel fatto uno de' più altieri; studia leggi per suo capriccio, e dicono che abbia ingegno, che faccia versi e musica come gli antichi trovatori, ma niente ne è venuto fuori ad affrontare il giudizio dell'universale; solo è noto che i letterati e i musicisti l'hanno in gran conto, sebbene assai giovine, e poco più che ventenne. Gli sfaccendati eleganti, poi, lo imitano in ogni cosa; s'industriano a vestir come lui, vanno scimmiottando i suoi modi, il suo portamento, perfino la sua andatura, e lo citano ad ogni tratto come un esempio di cavalleria. E qui debbo aggiungere che è uno schermidore valente, che ha già avuto più d'un duello, ed è forte in sella come Chirone, il maestro d'Achille. Essergli amici è un vanto; ma non a tutti è dato, poichè egli si concede soltanto a pochi. Pochissime case hanno l'onore delle sue visite, ma tutte di trentadue quarti, come i Pedralbes, gli Usodimare e i Pietrasanta. È biondo, è bello e di gentile aspetto, come il re Manfredi che il nostro Dante ha cantato, e che il vostro Carlo d'Angiò ha sconfitto e morto a Benevento. Ti basta? Io credo che ce ne sia d'avanzo. Sta a vedere che con questi cenni biografici io t'ho innamorata del nostro genovese! Sarebbe graziosa davvero, così da lontano, e colla catena delle Alpi per lo mezzo!…»

A questa lettera tenevano dietro altre parecchie, dal 1851 al 1855, nelle quali si parlava poco o punto di Aloise. Qua e là si narrava in quella vece di alcune persecuzioni mascoline, corteggiamenti spietati, e molestie di quella fatta, a cui una donna giovine e bella è sempre esposta nell'umano consorzio. Ginevra s'indispettiva; ma in fondo in fondo aveva gusto a raccontarle. E questo s'intende; che l'incenso, sia pur del peggiore, dà sempre buon fumo agli altari. A noi, che raccontiamo, venne udita una gentildonna, egregia per bellezza e per senno, la quale non sapeva dolersi d'una frase di troppo libera ammirazione che l'aveva, non salutata, flagellata, mentr'ella passava per via. «Certo, gli è un villano; ma in fine, che cosa mi ha detto? O non sarebbe peggio, se m'avesse trovata spiacente?»

Tratto tratto, nell'epistolario della bella Ginevra si riscontrava il nome di Aloise. La poca varietà delle consuetudini genovesi, il doversi raggirare mai sempre nella cerchia ristretta della vita patrizia, tiravano in campo necessariamente quel nome; ma egli ci era ricordato, bisogna pur dirlo, a testimonianza d'onore.

Tutti pregiavano il Montalto, siccome abbiam detto, uomini e donne, sciocchi e saputi; che più? lo stesso Antoniotto, il senatore, il gran diplomatico dei neri, lo aveva per un giovane di vaglia, del quale si sarebbe potuto far molto. E le sue parole, ci s'intende, si ficcavano anch'esse nell'epistolario della bella marchesa.

Una nota del copista, sotto la data del dicembre 1856, rincalzava il giudizio del nostro senatore. Lo stesso Bonaventura vedeva l'utilità di tirare quel giovinotto dalla parte loro, anche per la ragione della eredità del Vitali. Ma come venirne a capo? L'arguto occhio del gesuita aveva còlto, indovinato, attraverso i nonnulla di quel carteggio donnesco, un affetto profondo del giovine; la sua penna aveva tosto affermata, con una frase asciutta ed imperiosa, la necessità di cavarne profitto.

«Avvicinare Aloise di Montalto a Ginevra Torre Vivaldi; egli è una forza che bisognerà far nostra, o distruggere.»

Un brivido corse per l'ossa ad Aloise; quelle parole balenarono a' suoi occhi come un solco di fuoco per una notte tempestosa, e in quella luce improvvisa gli si rischiarò il suo passato. Colà, dove egli aveva creduto di vedere la mano del destino, era in quella vece la mano di Bonaventura Gallegos, che annodava le fila.

Divorò, più che non leggesse, le pagine susseguenti. Certamente doveva esserci una lettera intorno alla festa da ballo, in cui per la prima volta egli s'era avvicinato a Ginevra; gli la sentiva vicina, e con essa un nugolo di dolorose rivelazioni. Vide a mala pena un cenno dei teatri; sorvolò alcune minuzie di conversazione; notò un breve racconto del suo duello con Lorenzo Salvani, e giunse finalmente a quella pagina desiderata e temuta.

La lettera era lunga, assai lunga, tutta piacevolezze, tutta particolari intorno alle dame, ai cavalieri, alle abbigliature, ai casi svariati, ai cento nonnulla, graziosi o ridicoli, di quella splendida festa che aveva chiusa nel palazzo Vivaldi la stagione invernale. Costretta dalla sua condizione di padrona di casa, Ginevra aveva saputo, veduto ogni cosa più lieve, e ciò che aveva veduto e saputo raccontava partitamente all'amica, non dimenticando nulla, nemmeno il tacco del piccolo Riario, che s'era staccato nel fervor delle danze. Tutta la lettera era un chiacchierìo, un cinguettìo, uno scoppio di risa. L'amaro, quel che Aloise cercava, era in fondo.

«…. Anche il Montalto, il contegnoso, l'altero Montalto, è venuto alla nostra festa. Egli era assai pallido, forse a cagione della ferita che ha toccata di recente in duello. Ma debbo io dirtelo? Egli m'è parso da meno della sua gran fama; impacciato, non disinvolto; più timido a gran pezza che altero. Se gli altri tutti, come sembra, lo vedono diverso, tanto meglio per lui; a me, forse per la ragione che l'hanno troppo vantato, non ha fatto gran senso. Del resto, un compito cavaliere, quantunque balli maluccio….»

Seguiva, scritta nel giugno del 1857, la lettera dalla campagna, che i nostri lettori conoscono da capo a fondo, avendola noi riferita, come una primizia del carteggio, allorquando ci occorse di chiarire come e perchè la marchesa Ginevra domandasse ai suoi ospiti un cenno di Goffredo Rudel e di Percivalle Doria. Se l'hanno letta, ricorderanno che, dopo una delle sue solite sfuriate contro i signori uomini, la bella Ginevra dagli occhi verdi narrava all'amica di Francia come il Montalto, tornato parecchie volte in casa sua, amorevolmente accolto, festeggiato, accarezzato dal marchese Antoniotto, seguitasse a fare il malinconico, e come ella avesse finalmente scoperto il suo segreto, vogliamo dire la fiamma che egli nutriva per lei. Quell'amore non l'aveva commossa. La lettera, come è noto, finiva con queste parole: «Scriva a suo talento il signorino, egli pure, ed affoghi nella consuetudine di tutti gli uomini suoi pari. Ahimè, mia bellissima! non ci sono creature perfette quaggiù; salvo te, s'intende, salvo la prediletta, la lontana dagli occhi, ma non dal cuor di Ginevra.»

Pervenuto a questo punto della lettura, Aloise si fermò, chè gli si offuscava la vista. Il povero giovine sentì come uno schianto al cuore, e le ciglia gli si inondarono di lagrime.

Il duca di Feira, che stava immobile al suo posto cogli occhi intenti su lui, si alzò per recargli conforto; ma egli, udendo il vecchio gentiluomo accostarsi, con un gesto concitato lo trattenne.

—Perdonate,—gli disse, in quella che si tergeva le lagrime,—perdonate un atto di debolezza a chi legge la sua sentenza. Vedete?—soggiunse poscia, svolgendo un'altra pagina del volume.—Ci sono ancora due lettere, e sarà tutto finito.—

Il vecchio gentiluomo non disse parola; ma rimase in piedi, poco distante da Aloise, ben vedendo che la crisi era vicina.

Intanto il giovine, con un pugno stretto, puntellato sulla scrivania, una mano aggrappata al seno, quasi volesse lacerarlo, e mormorando rotte parole di amarezza ineffabile, ripigliò la lettura.

La prima delle due lettere con cui si chiudeva il carteggio, era breve. In que' pochi versi era annunziato il viaggio imminente dei Torre Vivaldi a Parigi. «Volevo farti una improvvisata (diceva la marchesa) ma non mi riesce, poichè il signor di Montalto giungerà a Parigi di questi giorni, e Antoniotto ha voluto dargli una commendatizia per tuo marito. Or dunque, sappilo da me, innanzi che venga a dirtelo il marchese di Montalto; tra quindici giorni, a Dio piacendo, verrò a salutarti. Rimarrò un mese sulle rive della Senna, come si dice poeticamente, e vicino a te, il che è più poetico ancora e più grato. Eccotelo dunque, mentre starai aspettando il mio arrivo, eccotelo dunque, il Montalto, che ti premeva pur tanto. Vedrai questo __lion__ genovese dalla criniera arruffata, e son certa che colle tue grazie verrai a capo d'ammansarlo, e lo renderai più piacevole; che in verità non è tale gran fatto, almeno per me. E tu stessa, chi sa? potresti anche far come tanti, come quasi tutti qui in Genova, trovarlo grazioso ed amabile….»

Ora, qual sembrasse Aloise alla graziosa viscontessa di Roche Huart, i nostri lettori già sanno. A lei che d'uomini intendeva un tantino, era parso perfetto. Ciò forse era troppo; la Ginevra, dal canto suo, non aveva voluto ammetterne la minima parte. Ed era naturale; che ad intendere un cuore occorre aver cuore; non troppo, s'intende, nè aperto a troppi; ma tanto almeno da sentire nei proprii i dolori altrui, e da riconoscere per via di somiglianza le più arcane sottigliezze dell'affetto.

La bella Ginevra dagli occhi verdi non aveva dunque un briciolino di cuore? Al suo nascere, come a quello d'una principessa da leggenda, aveva assistito una fata benigna, che le aveva dato la bellezza, l'ingegno, la ricchezza, la nobiltà, tutte le grazie, insomma, e tutti i pregi che adornano la creatura; ma, fosse dimenticanza, o deliberato proposito, non le aveva altrimenti dato quel misto di sensi soavi che la nostra lingua ha così bene compendiato in quella sola parola? Ardua questione! In ogni cosa umana è da badare alla fine. Per intanto veniamo allo scritto. Ecco l'ultima lettera, che recava la data del 30 settembre, cioè a dire di quindici giorni innanzi.

«Sono finalmente a casa mia, dopo due mesi d'assenza, e ti confesso che ci sto bene. Come dopo una notte di festa si sente il piacere di rannicchiarsi sotto le coltri, io provo ora la dolcezza del riposo. Ti parrà ingratitudine, questa; ma togliti questo pensiero dal capo, mia bella Onorina, che io ho trovata più bella, più cara, più gentile, che mai; non sono ingrata alla tua amicizia, sono stanca degli ultimi trabalzamenti da Parigi a Berlino, da Berlino a Monaco, da Monaco a Venezia. Se quei due mesi li avessi passati tutti e due presso a te, se almeno si fosse potuto variar l'ordine loro, così che io avessi avuto il dolce alla fine!… Ma no, s'è finito colla Germania, e co' suoi uomini di Stato, tutta gente cerimoniosa e stecchita che solo a vederli ti mettono i brividi.

«Ad Antoniotto, come puoi immaginarti, piacquero, e se li ha goduti per due. Ma, tu lo sai, io non amo la politica, nè la diplomazia che le fa il sordino. Tutt'al più, mi rassegnerei ad essere ambasciatrice di Sardegna alla corte delle Tuileries, ma lasciando a mio marito la cura di leggere i dispacci e di farli leggere, di tener d'occhio il corso degli eventi e di ragguagliarne i ministri. Gran bella cosa, questa ragione di Stato! I nostri mariti dicono che noi donne non ne intendiamo un ette; figùrati! Dire una cosa e pensarne un'altra, poi farne o lasciarne fare un'altra ancora, che non s'era detta nè pensata; questo è il grande arcano della nuova scienza cabalistica!

«Basta, veniamo all'essenziale. Sono a Genova, e in villeggiatura per ora non fo conto di tornare. Antoniotto ha da sbrigar qui certe sue faccende; io ci ho le mie compere di Parigi da mettere in ordine; insomma, si rimane in città. A Quinto andremo forse per due o tre settimane, prima che finisca l'ottobre. Intanto ho ripigliato le mie consuetudini, e ricevo le mie solite visite, cioè a dire quelle dei pochi che non sono in campagna, o fuori paese. Il De Salvi, gran ciambellano, il De Carli, grande oratore, anzi Demostene, innanzi la cura dei sassolini, mi sono rimasti fedeli. Io li chiamo i Propilei della mia Acropoli: un po' sciupati dal tempo, sgretolati, non belli a vedersi, ma saldi. Dei giovani, ho spesso il Riario, e il Cigàla; il Pietrasanta viene pur qualche volta, quando non è dai Monterosso, miei vicini di villeggiatura, come sai. Anche il Montalto è di sovente da noi, sempre lo stesso…. Ma già, che farci? Un nostro proverbio dice: chi l'ha nell'ossa lo porta nella fossa.

«A dirtela schietta, egli mi diventa insoffribile, con quella sua aria sempre rannuvolata, con quelle sue torbide occhiate, con que' suoi tenebrosi silenzi. Che s'argomenta egli di fare? Mi ama…. Roba vecchia. E sia, mi ami a sua posta; ma io non vedo il bisogno di far tante bambinerie. Tu lo hai veduto, e non te ne dico altro. Certo, egli in cuor suo m'incolpa. Dio sa di quanti misfatti; io sarò una ingrata, una tiranna, una girandola, una civettuola. Nota che non gli ho mai detto parola che gli desse diritto di accusarmi. L'ho tollerato, ecco il male; per un po' non lo nego, m'ha anche ricreata con quella sua cera da moribondo, e mi son pigliato un po' di spasso; ma me ne sono pentita, e non ci torno più, no davvero; che non vorrei s'avesse a mettere in capo che io so del suo amore e gli concedo di proseguire. Che te ne sembra delle sue pretensioni? Avrei dovuto io dimenticare a tal segno me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome? Ed anco se questo pensiero avesse potuto girarmi un'ora per la fantasia, i modi del signorino me ne avrebbero liberata di subito. L'amore si nutre di libertà; e così lo rammentassero tante povere belle, che si comprano, come suol dirsi, la schiavitù col loro denaro.

«Ne francano davvero la spesa, questi signori! Sciocchi come un Riario; leggeri come un Pietrasanta; burbanzosi come un Nelli di Rovereto; stravaganti come un Montalto! Dei tanti che la nostra città può mettere in mostra, ne ho appena conosciuto uno, che valga un tantino più degli altri; il Cigàla. È cortese, senza aspettar mai nulla in ricambio; arguto senza malo animo; di bei modi, d'umore sereno, dovunque si trovi è sempre ornamento, non un peso. Ha fama di esser freddo, insensibile. Io penso che tutti lo credano, solo perchè egli lo dice; ma se ad una donna saltasse in mente di metterlo alla prova, lo vedremmo accendersi come il primo che capita.

«Ma già, a conti fatti, si rassomigliano tutti; ben veduti e considerati, non valgono il sacrifizio della pace del cuore, de' nostri allegri ed innocenti trionfi, della bella serenità dei nostri passatempi, nei quali essi non hanno, nè debbono avere altro ufficio che quello di comparse, come per farci il contorno….»

XXXII.

Veteris vestigia flammae.

Aloise non lesse più oltre; richiuse il libro, si rannicchiò rabbrividendo contro la scranna, e si fece scorrere lentamente le palme sugli occhi, come chi si desti a mala pena, e tenti cacciare le immagini tuttavia presenti d'un orrido sogno.

Il duca di Feira si avvicinò.

—Orbene, figliuol mio;—diss'egli con accento di tenerezza paterna,—avete letto?

Aloise sollevò la fronte a guardarlo. Il povero giovine era come istupidito dal dolore, e durò fatica a riaversi. Scosse il capo più volte, trasse a stento un sospiro dal petto, e stese finalmente la mano all'amico, in quella che le sue labbra mormoravano un grazie, in cui parve mettere il fil di vita che ancora gli rimaneva.

—Vivrete?—gli domandò il duca, stringendo quella mano tra le sue.

—No;—rispose il giovine, a cui la dimanda svegliò un subito incendio nel sangue;—ora, più che mai, sono deliberato di finirla.

—Per una donna che non vi ama!—notò, crollando mestamente il capo, il vecchio gentiluomo.

—E che perciò?—proruppe impetuoso Aloise.—Non m'ama, e sia. Non lo sapevo io già? Non ero io venuto a morire per questo? Le pagine che voi, signor duca, mi avete poste pietosamente dinanzi, comunque doloroso, sono a mala pena un compendio delle amarezze che hanno abbeverato il mio cuore. Non m'ama! Dovevo prevederlo fin da quel giorno che la vidi per la prima volta; dovevo ricordarlo innanzi di avvicinarmi a lei, e di accogliere in seno una bugiarda speranza. Ma, che volete? ero un fanciullo. L'ho amata; come si vive, come si respira, per arcana necessità, senza darmene ragione, senza pure averne coscienza. Fui pazzo, a credere che un giorno ella avrebbe potuto aver compassione di me; pazzo, tre volte pazzo! L'amore è il pane degl'infelici. Bisogna aver patito, per intendere che sia, come faccia dimenticare il mondo, i suoi dolori, le sue fallite promesse, una dolce parola, un sorriso, un bacio della creatura che soffre con noi. Essa ebbe assai miglior sorte. Chi più di lei felice nel mondo? Quali venture le mancarono, quali promesse della sua gioventù le vennero meno? La sua vanità ebbe un trono, un altare; e colassù giungono i profumi: ma la nube vaporosa non consente di scorgere il volto; l'altezza non consente di udire la preghiera degli adoratori modesti. E sta bene: il mondo è vanità. A che l'amore? Questo affetto malnato, a cui non è un tormento, è una nausea. Dovevo capirla, tener chiuso il mio segreto nel profondo del cuore, affogarlo nella mia rabbia, non darlo, come ho fatto, in balìa dello scherno.

—Aloise, suvvia, siate uomo; poichè così bene conoscete il dolore, abbiate l'ardire di guardarlo in faccia. Siete giovine e forte; l'insegnamento vi giovi. Rifate la vostra vita. Aloise; provate la voluttà, amara ma nobile, dello aver vinto voi stesso. Lo avete ieri veduto; pur dianzi, in quelle tristi pagine, si sono offerte ai vostri occhi le fila sottili e lontane che vi dovevano involgere. Stringerete voi, colle vostre mani, il nodo che già stava per rompersi? Darete voi la vittoria ai vostri nemici? Vivete, Aloise, i dolori come il vostro, non devono distruggere, ma ritemprare la vita: l'uomo antico sparisce, e in noi sottentra un altr'uomo, più forte, più animoso, più sperimentato alle pugne.

—No, vi adoperate invano;—rispose il giovine,—io non valgo più a nulla; io sono mortalmente ferito. Amo, amo fieramente, disperatamente amo; non lo avete voi inteso? Questo male non ritempra le forze; di questo male si muore. Non lo credete? Ah, voi non avete amato mai al pari di me, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione soffocata nel cuore!…

—Ingiusto! disse il vecchio, con accento di arcana mestizia.

—Perchè?—dimandò Aloise, che lo vide impallidire ad un tratto.

Ma il duca di Feira non rispose alla sua dimanda, e dopo una breve pausa, durante la quale stette cogli occhi chiusi, come chi raccolga tutte le virtù dell'animo e dei sensi ad uno sforzo supremo, proseguì concitato:

—Ah credete voi, giovinotto, che chi di tanti anni v'ha preceduto nella vita non v'abbia preceduto ancora nel soffrire? Credete che i vostri affanni siano i soli, e i più forti che uomo provasse mai? Che basti il dire, ecco io muoio, e rompersi le tempia con un colpo di pistola, per dimostrare al mondo, a sè stessi, di avere amato davvero? Sappiatelo da un vecchio, che ne' suoi dolori ha imparato a compatire gli altrui; non ama sempre più fortemente chi muore, chi si sottragge all'angoscia. V'ha chi vive, ed è peggio. Voi avete amato fieramente, da lunghi anni, senza speranza, colla maledizione nel cuore; or che direste voi della disperazione di un uomo che, giovine, avesse amato e sperato; che fosse stato sul punto di raggiungere la felicità, e questa d'improvviso gli fosse ghermita, ed egli avesse chinato la testa, e si fosse rassegnato a rispettare il diritto di un altro; che amando fortemente, amando a tal segno da non accogliere più altro affetto nel cuore, si fosse pur tuttavia sacrificato a vivere, ad avere mai sempre davanti agli occhi della mente la felicità di un altr'uomo, a noverare i giorni colle angosce, gli istanti tutti colle trafitture del cuore, a vivere insomma di continuo nelle tenebre, dopo aver veduto il sole, desiderandolo sempre, e senza speranza di salutarlo mai più?

—Orribile martirio!—esclamò dolente Aloise.

—Ed è stato, ed è il mio!—soggiunse il duca di Feira con un accento che andò diritto al cuore del giovine.—E in nome di questo martirio, Aloise, io ve ne prego; vivete per me, se non volete per voi. Voi lo dovete, poichè ho molto patito. Siete fermo nel vostro fiero proposito? E sia; non morrete già solo; le vostre armi basteranno per due.—

A quelle inaspettate parole, il cui senso era così chiaro e riciso, il giovine balzò in piedi turbato.

—Signor duca,—diss'egli lentamente, quasi volesse scolpire le sue parole nella mente del vecchio,—questo mi fa tornare al principio del nostro dialogo. Se voi non giungevate in mio soccorso ier l'altro, io sarei morto infamato, e, sebbene senza mia colpa, come vi è noto, una brutta macchia sarebbe rimasta sul mio nome, sull'unica parte di me che dovrà soppravvivermi. Mercè vostra, io posso morire tranquillo, portare con me il mio onore nella tomba. È un ottimo guanciale,—aggiunse Aloise con funebre arguzia,—e franca la spesa di ringraziare chi ce l'ha offerto, in quella che noi eravamo sul punto di perderlo. Vedete che io vi son grato; vedete che io intendo il pregio di ciò che avete fatto per me. Ora, perchè mi vietereste voi il riposo che la mia stanca anima invoca? Perchè, dopo essermi stato cortese, mi vi fareste nemico? Chi siete voi? Qual diritto avete di porvi in tal guisa come un ostacolo, tra me e il mio destino? Qual vincolo ci unisce, perchè vogliate morire con me?

—Un vincolo, sì, l'avete detto;—rispose il duca con accento solenne,—un vincolo sacro; vostra madre!—

Vostra madre! All'urto improvviso, che tale poteva dirsi veramente la frase del duca, Aloise si scosse, diè un passo indietro, e un fremito gli corse per le vene. Il viso attonito, lo sguardo perplesso, quasi sgomentito, che volse in quel punto al vecchio gentiluomo, lasciavano indovinare che un abisso di fosche immagini, di pensieri informi, di arcane paure, s'era schiuso nella sua mente. Ma fu un lampo; Aloise si padroneggiò, risospinse nel nulla tutte le larve che quella frase aveva tratte dal nulla, e con voce tremante per commozione, ma altiera, saettò con queste parole il duca di Feira:

—Signore, io sono il figlio di Alessandro di
  Montalto.—

Il vecchio fu colpito a sua volta, e più fieramente che non credesse Aloise. Quante amarissime ricordanze ridestava, quante acerbe trafitture gli rinnovava in petto quel nome! Stette saldo tuttavia, e rispose con uno sguardo soave a colui che lo aveva percosso.

—Sì, figliuol suo!—si fece egli a dir poscia.—Voi potete portare altieramente il suo nome, e ricordar vostra madre come la più pura, la più santa delle creature che siano al mondo vissute. Vostra madre, Aloise,—e qui la voce del vecchio si fece tutta tremante,—vostra madre fu cosa di cielo venuta in terra perchè gli uomini non dicessero la virtù un nome vano; vostra madre…. Ma venite, Aloise; qui non è luogo da ragionare di lei. Là, in quelle stanze dove ella ha udito i vostri primi vagiti, dov'ella ha vegliato su voi, bambino innocente, ignaro degli alti dolori della vita, dov'ella ha passato i suoi ultimi anni, dov'ella è morta benedicendovi, là, in quel santo luogo dove io non potrei mentire, se pure volessi, vi parlerò di lei, vi dirò chi io sia, perchè venuto a gettarmi tra voi e la morte, a dirvi: vivete, Aloise, vivete per me!—

Le lagrime brillavano sugli occhi, tremavano nella voce del duca di Feira. Aloise si lasciò pigliare per mano, e trasognato, commosso, smarrito, lo seguì verso l'uscio.

Varcarono silenziosi il salotto e la vasta anticamera, in capo alla quale, di rimpetto al quartierino d'Aloise, erano le stanze di sua madre. L'uscio era aperto, e si scorgeva lume per entro. La mano di Antonio si ravvisava colà; ma il giovine, confuso come era, non pose mente a ciò. Egli non aveva coscienza di nulla: seguiva il duca di Feira colla istintiva cura d'un fanciullo che muove i piccoli passi sull'orme di chi lo conduce.

Giunse per tal modo nel pensatoio di sua madre, e si affacciò sulla soglia della camera da letto, che era rischiarata dal fioco lume d'una lampada notturna, come se la marchesa fosse stata colà, dormente sotto il suo padiglione di damasco violetto. Il duca di Feira, che lo precedeva, come fu in mezzo alla camera, barcollò a guisa d'uomo che abbia toccata una ferita improvvisa; ma, innanzi che Aloise accorresse a sorreggerlo, come difatti colle braccia tese accennava di voler fare, raccolto quel tanto di forza che ancora gli rimaneva, giunse fino alla sponda del letto, dove cadde ginocchioni, e diede in uno scoppio di pianto.

Aloise stette tacito, ma profondamente commosso a guardarlo. Sua madre era un angelo; e quell'antico, inginocchiato, piangente, adorava sua madre. In quella vivente immagine dell'amore che vince la morte, era alcun che di così santo, di così schiettamente sublime, che il figlio di Alessandro Montalto, il superbo Aloise, sentì sciogliersi il gelo del cuore, e corrergli mutato in ardenti lagrime alle ciglia. Ma il piangere gli parve poco, al cospetto di un così alto dolore; però avvicinatosi al duca, gli pose affettuosamente le braccia al collo, e col più tenero accento che mai figlio adoprasse per parlare a un padre, gli disse:

—Voi soffrite!

—No, sono lagrime soavi, le mie;—rispose volgendosi il duca, mentre, da lui sostenuto, veniva sollevandosi a mezzo.—Da gran tempo io non ne avevo più sparse di tali. Grazie, Aloise, grazie della vostra amorevolezza! Vedete? Sono tranquillo. Oh, Dio santo,—proseguì, traendo il giovine presso la lampada.—Aloise, figliol mio d'adozione, ultimo affetto del mio cuore, come somigli a tua madre!—

Inspirato da un senso, da una voce arcana di pietà, il giovine reclinò la sua bionda testa sul petto del vecchio gentiluomo, ed un bacio, un lungo bacio frammisto di lacrime, scese a bagnargli la fronte. In quel bacio si confondeano tre spiriti.

XXXIII.

Una sola, e per sempre.

—Qui, Aloise, qui; presso di me, che io vi veda in volto, che io non vi perda un istante!

—Eccomi, ai vostri piedi, mio secondo padre!—Così dicendo, Aloise si lasciò cadere su di uno sgabello presso il canapè, su cui il duca di Feira era venuto a sedersi spossato. Su quel canapè usava sedersi, su quello sgabello posare i piedi sua madre. E la madre era là, presente in tutte quelle cose che aveva toccate, presente in quell'aria che aveva respirata; ed il suo spirito congiungeva quei due, il vecchio seduto, e il giovane che gli posava daccanto, con le braccia appoggiate sulle sue ginocchia, lo sguardo fisso nel suo.

—Questo colloquio è triste, assai triste;—ripigliò poco stante il vecchio gentiluomo;—ma in esso è tuttavia il primo lampo di gioia che illumini un tratto le tenebre della mia sconsolata esistenza. Non fate che mi sparisca sì tosto; consentite che questo po' di luce rischiari i miei ultimi giorni. È vostra madre che ve lo chiede per le mie labbra, ella che mi ha comandato di vivere per voi. Non sentite l'anima sua immortale che ci aleggia dintorno? Non pensate che ella ci ascolta, librata su noi, in atto di aspettare da suo figlio una parola che la raffidi? Io ne ho fede, io la sento, in questo punto la vedo. Vi racconterò una cosa strana, incredibile, ma vera. Un giorno, or fanno a mala pena quattro anni, io varcavo la catena delle Ande, eccelsa, paurosa sede di vulcani e di nevi. Perchè? non lo so; andavo innanzi come l'Assuero della leggenda, sospinto qua là senza posa dal suo fato, pur sempre tentando di sfuggirgli, ma invano. Così son vissuto io, Aloise, e gli anni, lungi dal mitigare l'angoscia, l'accrebbero. E così travagliato da un aspro desiderio, da una operosità febbrile, che a volte mi diè la stanchezza, senza mai lasciarmi gustare la calma, io viaggiavo quel giorno. Gli uomini della mia scorta, affranti da molte ore di cammino, avevano fatto una sosta; io non posavo, io avevo bisogno di muovermi, io correvo speditamente innanzi, procacciandomi la voluttà di sentir rompere sul mio volto i buffi dell'aria gelata che scendeva dalle gole dei monti. E fu allora, in mezzo a quella rigidezza dell'aria, che un alito soave, tiepido, sommesso, venne a sfiorarmi la guancia.—«Ah! ella è morta!» gridai, e caddi privo di sensi. Un'ora dopo, i miei uomini mi raggiungevano, e mi richiamavano, malamente pietosi, alla vita. Oh foss'io morto in quel giorno! Era il 20 novembre del 1853….

—Mia madre è morta quel giorno!—esclamò esterrefatto Aloise.

—Sì, l'ho saputo più tardi, molto più tardi, al mio ritorno in Europa; e bene ebbi a convincermi che non era stata un'illusione la mia, che l'anima della vostra santa madre era venuta a salutare chi aveva tanto patito per essa. Quel giorno rimasi istupidito, e molt'altri ancora; a Valparaiso, per dove ero avviato, giunsi tre settimane dopo, senza aver coscienza alcuna di me, delle ragioni del mio viaggio, di ciò che avrei fatto colà, della nuova via che avrei presa. Più tardi mi risovvenni; ascrissi il fatto ad un inganno dei sensi turbati, alla impressione del freddo, alla fatica soverchia; cionondimeno io non ero tranquillo, un dubbio atroce mi stava fitto nell'anima. M'ero proposto di toccare l'Australia e di tornare nell'India dove già avevo passati due anni; ma non mi diè l'animo di mettermi in mare; rifeci la strada, rividi il Brasile; il solo mio ricapito che fosse noto ad un vecchio amico di Genova, confidente de' miei giovanili dolori, il solo paese dove io potessi ripromettermi di ricever sue lettere. Vana speranza! Egli non mi aveva più scritto da oltre due anni, o le sue lettere erano andate smarrite; quella volta ancora, non c'era nulla per me. Lo credetti immemore, accusai i mutamenti del cuore; ero ingiusto; il mio povero amico da due anni era morto. Anche questo seppi solamente più tardi, al mio ritorno in patria. Allora, ignaro di tutto, io mi struggevo di ansietà, di timore, di rabbia impossente. Aspettai tre mesi, ma invano; indi ripartii pel viaggio disegnato dell'India. Perchè non venni in Italia, a cercar le novelle che mi erano da tanto tempo mancate? Perchè avevo giurato, giurato a vostra madre, Aloise, di non riporre più mai il piede in Europa.

—A mia madre?

—A lei. Ma io debbo narrarvi ordinatamente ogni cosa. Il cuore mi sanguina, ma non importa; il figlio di Eugenia Vitali udrà la mia confessione, e mi compiangerà; il figlio di Alessandro Montalto vedrà se io meriti il dolce nome che egli m'ha dato pur dianzi. Oh, non mi dite nulla; già so quel che vorreste rispondermi; voi siete di quella eletta di nobili cuori, i quali, o non si dànno, o si dànno intieri; in voi vostra madre non ha solo lasciato l'impronta del suo volto. Ma uditemi; io ho pur bisogno di raccontarvi tutto me stesso. Il mio vecchio nome importerebbe poco: la mia terra natale, dov'io ero già solo, lo ha da molti anni dimenticato; qui non è più anima viva che sotto il nome sonante del duca di Feira, degnamente acquistato, ardisco dirlo, e degnamente portato, possa ricercare Cosimo Donati, e annettere a questo nome una ricordanza di tempi lontani. Cosimo era giovine, assai più giovane che voi ora non siate, allorquando lasciò la sua cara Liguria, per andare lontano, a cercare alle fonti istesse del traffico genovese una ricchezza che gli era necessaria, per ottener la mano della donna del suo cuore. Il Vitali non era allora il ricchissimo banchiere che egli diventò in processo di tempo; ma era già tale da poter negare la mano di sua figlia ad un giovane di modeste sostanze qual era il Donati. Perchè, debbo dirlo, questi ardì chiederla, e gli fu risposto: siate così ricco da poterle profferire del vostro quanto io le darò in dote del mio, e se altri non l'abbia chiesta ed io non l'abbia accordata, non sarò uomo da negarvela un'altra volta, come oggi mi costringe di fare il mio debito di padre. Era un cortese rifiuto; ma io amavo, ero giovane, credevo d'essere amato, e non disperai. Partito da Genova, confinato dall'ansia febbrile del lavoro sul lembo estremo della Bessarabia, ebbi cosiffattamente amica la fortuna, che ad arricchire, siccome avevo promesso, non mi bisognarono i cinque anni che avevo accennati al Vitali e a sua figlia, come il termine assegnato alla mia operosità affannosa, allo adempimento delle mie alte promesse. Tornai, dopo un'assenza di tre anni; Eugenia Vitali era moglie ad un altro, era già vostra madre….—

L'amarezza delle ricordanze soffocò in questo punto la voce del vecchio, a cui fu mestieri d'un po' di sosta, per ricomporsi e proseguire il racconto. Nè ruppe il silenzio Aloise, che, rispettando quell'alto dolore, stava colla fronte china e le palpebre chiuse, in atto di profonda meditazione.

—Scherno atroce della fortuna!—ripigliò il duca di—Feira.—Ella non m'aveva sorriso se non per farmi sentire più forte il disinganno. Come io rimanessi allora, solo il mio povero cuore lo sa. Non vi dirò in qual modo mi presentassi a vostra madre, Aloise, che bene nol rammento più ora, tanto ero fuor di me pel soverchio dolore. Ella certamente si avvide del mio misero stato, poichè, sebbene i suoi atti non m'accennassero di rimanere, non mi dissero nemmeno di uscire. Fu severa, non sdegnata, e le sue parole, che in quel punto mi parvero crudeli, ebbi a riconoscere di poi santamente pietose. Ben vi dirò come io partissi da lei. Ero stato un leale amante; non potevo ridurmi ad essere un volgar tentatore. Non avevo posto il piede in quella casa per turbare la sua pace; ero andato colà come un forsennato, sapendo la mia sentenza, non volendo credervi ancora, desideroso di udirla dalle sue labbra. Perchè? Lo so io il perchè? La mia ferita sanguinava; sentivo forse il bisogno che la sua mano vi ripiantasse il coltello. Udite le sue parole; esse mi sono rimaste scolpite nell'anima. «Cosimo, mio padre l'ha voluto, io non potevo resistere ai voleri di mio padre. Non mi compiangete come una vittima; io sono contenta; io amo mio marito; amo il padre del mio Aloise. Volete voi entrare in quella camera? È là dentro, il mio angioletto, che dorme». Ricusai. Ella parve non intender bene il mio gesto; io lessi ne' suoi occhi il sospetto, la tema d'insidie future. E allora giurai; giurai sulla mia fede di gentiluomo, giurai sul suo capo, giurai per la memoria dei miei cari estinti, che sarei partito, che, lui vivo, non sarei più tornato in Europa.—«Il voto è indegno di voi e della donna che vi ascolta, interruppe ella, scrutandomi co' suoi grandi occhi il profondo dell'anima; me viva, dovete dire, me viva. Siete gentiluomo, mostratevi tale. Io amo un uomo solo in terra; potrò, mercè vostra, stimarne due, senza fallire al mio debito di moglie e di madre».—Oh, se voi l'aveste veduta in quel punto, Aloise, com'era tutta radiante di quella interna bellezza che accresce e fa risplendere a mille doppi la bellezza esteriore! Giurai, commosso, soggiogato, tremante, tutto ciò che ella volle; voi viva, lo giuro per quanto è caro e sacro in terra, non riporrò il piede in Europa. «Grazie, mi rispose ella con un angelico sorriso; eccovi ora la mia mano, in segno di schietta amicizia; andate, Cosimo, voi meritate ogni bene; amate, e siate felice, come son io, nelle gioie serene della famiglia».—

—Oh madre mia; madre mia!—proruppe lagrimando Aloise.

—Venerate la sua memoria; per essa il vostro petto sia un tempio, il vostro cuore un altare; ella era cosa di cielo;—soggiunse il duca, con quella sua immaginosa breviloquenza.—Ed io, vedete, avrei pur potuto risponderle: «no, è impossibile; perduta voi, il mio cuore si spezza;» lo avrei potuto, perchè lo pensavo allora, e così fu veramente. Ma non lo feci; una frase come quella sarebbe stata una inutile crudeltà, una codarda vendetta, la frecciata del Parto fuggente. Non lo feci, dico; tacqui e partii; quel giorno io l'avevo veduta per l'ultima volta, quella luce dell'anima mia. Salutai nuovi cieli; le tenebre mi seguirono dappertutto.

—Nobile cuore!—esclamò Aloise, stringendogli affettuosamente le mani.—E mio pa…. (voleva dire mio padre, ma si rattenne) e il marchese di Montalto non seppe di quel dialogo?

—Lo seppe da vostra madre, che non aveva segreti per lui. Egli cercò sdegnato di me. Non conoscendomi, egli aveva ragione; io m'ero introdotto, straniero, non chiesto, in sua casa. Il prode gentiluomo volle lavar l'ingiuria nel sangue, e mi seguì in Isvizzera, dove tranquillamente fu meditata e condotta tra noi due una sciocca contesa, che ci offrisse un ragionevole pretesto di scendere sul terreno. Io finsi, per non dar sospetti ai testimoni, di aggiustar la mira su lui; ma il colpo, come volevo, andò in alto. Egli a sua volta appuntò la pistola; io gli offrivo il petto scoperto; la palla mi penetrò qui—(ed accennava il sommo del petto)—ed uscì fuori dall'omero. Caddi, nè più lo vidi, o seppi di lui. Stetti un mese tra morte e vita, ma risanai; la morte non mi voleva…. Morire allora per le mie mani?… Il pensiero m'era balenato alla mente, ma non mi diè l'animo di mandarlo ad effetto. Come avrei io potuto dipartirmi al tutto da lei, abbandonare la terra che l'accoglieva vivente? Che avrebbe fatto il mio spirito, lontano da lei? C'era egli, non pure allegrezza di beati, ma riposo, ma sonno, dove ella non fosse? Queste parranno sottigliezze a voi, ma non sono, e certo non mi parvero tali. Parlavate d'amore disperato, Aloise!… Eccovi il mio. Soffrir mille morti e non morire, nutrirmi d'ira, di gelosia, com'altri di felicità, e vivere in apparenza tranquillo, coll'inferno nell'anima; avermi fatte, in mezzo alla moltitudine, le usanze, le consuetudini del deserto; sentirmi il cuore riboccante d'affetti, e condannarmi ad una eterna vedovanza; desiderare ardentemente una vana immagine di donna, e rifuggire infastidito da quante, vive e palpitanti, si profferivano a me; sospirare il cielo e struggermi alla sua vista come la Peri sulla soglia vietata del paradiso; questa fu la mia vita. E sono venticinque anni oramai, m'intendete voi. Aloise? ch'io vivo di questa agonìa. Questo amore, che io ho chiuso, suggellato qui dentro, è oggi così gagliardo come il dì che io partii alla volta di Russia per tentare la sorte, così disperato come il giorno che io, risanato a mala pena della ferita, mi avviai alla volta del Portogallo, donde più tardi avevo ad imbarcarmi per l'America. Ero ricco, già ve lo dissi; cercai di soffocare l'affanno nella operosità irrequieta. Audace come il giuocatore che raddoppia ad ogni trar di carte la posta, e vede, come per incanto, ammonticchiarsi l'oro davanti a sè, io guadagnavo senza desiderio, guadagnavo sempre, qualunque cosa tentassi. L'avete voi mai notato? L'uomo ottiene sempre tutto ciò che meno desidera. Pare che un mal genio presieda alle nostre pugne, e consapevole dei voti del cuore, pigli diletto a contrastarceli, e sia largo con noi di tutto quanto ci è inutile, o molesto, mentre ci nega inesorabilmente le gioie con più ardore agognate.—

Aloise crollò mestamente il capo. Egli vedeva in quelle parole sè stesso.

—Vincevo,—continuò, con accento d'amarezza, il duca di Feira,—superavo sempre, senza volerlo, senza pure averne coscienza, ogni ostacolo. Quante intraprese io tentassi, tutte mi volgevano a seconda. Pari al re Mida, qualunque cosa io toccassi, mi si mutava in oro tra le dita. Fui in breve ora straricco, e l'opulenza mi fruttò facilmente rinomanza e potere. Mi diedi alla guerra, nel cuore dell'India, ed ebbi trionfi, non da altro interrotti fuorchè dal proposito di non vincolarmi a donna veruna, foss'anco stata sul trono e me l'avesse profferto. Ma lasciamo di ciò; anch'io apparvi ingrato, anch'io crudele a mia volta. Tentai le arti della diplomazia, ed ogni mio detto fu scaltrezza, ogni mio atto vittoria. Resi servigi, che parvero di grande rilievo, a paesi che non m'erano nulla, e il mio titolo di nobiltà, vecchia ciarpa che dà sempre negli occhi, in una società la quale risente ancora del Medio Evo, può farvene testimonianza. Ben presto mi venne a noia la ragion degli Stati; mi diedi a correre per diporto da un capo all'altro della terra, ed ebbi fama di viaggiatore arditissimo. Passavo, passavo, veloce e splendido come il baleno, segno di invidia ad ogni maniera di volgo; e mentre le genti ammirate dicevano: «quegli è il duca di Feira, il più ricco signore del Brasile, il gran diplomatico, il nababbo indiano, l'uomo che poteva nella porpora squarciata di Aureng-Zeb tagliarsi ancor tanto da farne un manto reale» qui dentro, Aloise, era una solitudine paurosa, qui dentro l'anacoreta si struggeva in silenzio, qui dentro il povero Cosimo divorava le sue lagrime, qui dentro il leone imbelle ruggiva disperato. E fu la mia vita; e più venni innanzi negli anni, più crebbe la mia angoscia. Ora argomentate qual cuore fosse il mio, allorquando, privo da due anni di lettere, aspettai vanamente quella che doveva recarmi una orrenda certezza, o tranquillarmi lo spirito, così fieramente turbato dal doloroso presagio. L'amico aveva sempre usato scrivermi rarissimo e breve; nelle sue lettere non era mai cenno della madre vostra. Ma egli sapeva il passato; però il suo silenzio mi accennava: ella vive, ella è felice con lui. Vi ho detto che queste lettere giungevano a Rio Janeiro. Dovunque io fossi, un mio fidato partiva a quella volta, varcava terre e mari per andare in cerca d'un foglio di carta, che di sovente non c'era. Sindi, il mio fedele indiano, ha di questa guisa viaggiato più volte. Il silenzio dell'amico, che da tre anni durava, e voi già sapete il perchè, mi tolse di sapere ciò che avvenne nel 1850, vo' dire la morte del padre vostro. Il destino volle così, e forse fu provvidenza; perchè, io ve lo giuro, Aloise, avrei fallito alla mia promessa, sarei corso, volato in Italia. Ma tutto congiurò a mio danno, perfino la morte del pietoso amico, quando più mi sarebbe tornato necessario il sapere. Pensate voi che ella non mi avrebbe perdonato il ritorno? Qual colpa sarebbe stata in noi di rivederci, se il lutto avvenuto in sua casa, e che non era dato nè a me nè a lei di far che non fosse, giungeva tristamente inaspettato a lei, non chiesto, non desiderato da me? Ah, io ne ho fede, ella mi avrebbe perdonato, ella che, morta appena, venne a susurrarmi un saluto, ella che innanzi di morire mi aveva invocato, a custodia, a tutela del suo diletto Aloise.

—Ah!—interruppe il giovane.—Ben ravviso la mia santa madre, memore del vostro sacrifizio, certa di avere in voi un amico.

—Sì;—disse sospirando il duca di Feira,—e quella lettera che mi fu tanto dolorosa, mi ricompensò pur largamente di tante amarezze patite. Ma uditemi. Dopo avere aspettato senza frutto una lettera del lontano amico e, ingiustamente accusandolo, avevo rifatta la strada e valicate di bel nuovo le Ande, ero andato a imbarcarmi per l'Australia. Rimasi assai poco laggiù; visitai la Cina, ricorsi l'India, viaggiai, senza quasi far sosta, la Persia e l'Asia Minore, donde scesi in Egitto. Un'aspra cura mi stimolava; volevo andare, volevo esser più vicino che mi venisse fatto alle regioni vietate dov'ella era. Di là il mio Sindi partì un'altra volta, già indovinate per dove. Avevo sei mesi da attendere; li passai nell'interno dell'Africa, risalendo verso le fonti inesplorate del Nilo, ridiscendendo in Egitto, viaggiando alle rovine di Cartagine, sempre con quell'acerbo dubbio nell'anima, inquieto, iracondo, fastidioso a me stesso. Sindi tornò finalmente. Egli non aveva trovato lettere per Cosimo Donati, ma bensì pel duca di Feira. Il solo aspetto di quella lettera, la cui soprascritta recava i fini caratteri di una mano di donna, mi turbò fortemente. Era sua, la prima ch'io ricevessi da lei. Come aveva ella saputo il mio nome? Eccovi quella lettera; essa da quel giorno ha sempre posato sul mio cuore; è essa che mi ha tenuto vivo fin qui.—

Così dicendo, il vecchio gentiluomo porse ad Aloise un foglio che aveva tolto dal seno. Il giovine lo afferrò sollecito, lo aperse con mano tremante, lo baciò divotamente e lesse:

«13 novembre, 1853.

«Vivete voi, Cosimo? Io mi sento morire. Appena questa lettera vi giunga (e ne ho certezza, poichè Dio vorrà appagare il voto d'una madre) venite a Genova, chiedete della vedova di Alessandro Montalto. Vi diranno che è morta e sepolta nel suo castello, lontano dalla città, dai congiunti, dal consorzio in cui ella ha vissuto. Antonio, un vecchio gastaldo, l'unico servitore del quale io possa fidarmi, vi consegnerà alcune carte che io non ardisco distruggere. In esse è la mia vita di questi ultimi anni, scritta giorno per giorno, ora per ora: esse vi parleranno di una donna che ebbe la triste ventura di esservi cara un giorno e di costarvi immeritati dolori; vi diranno quali fossero i suoi pensieri, com'ella amasse la sua casa e suo figlio.

«Lo amerete voi, il mio Aloise? Il cuore, che non inganna, mi dice di sì. Ricusaste di vederlo bambino, e fu una gran pena per me. Speravo quel giorno che l'aspetto della madre cancellasse nell'animo vostro l'aspetto della fanciulla, e che voi poteste uscire come un amico dalla mia casa. Non intenderete forse mai più quanto mi accorasse il vostro rifiuto, e quale io vi giudicassi in quel punto. Vi ho meglio conosciuto poi, e amando il padre di mio figlio, ho potuto stimar voi, lasciarvi, senza offesa per lui, un posto onorato nelle mie ricordanze. Sia caso, o pietoso disegno del cielo, ho potuto molti anni più tardi ravvisar Cosimo Donati sotto il nome del duca di Feira, seguire da lontano il famoso uomo di Stato, l'audace viaggiatore d'inesplorate regioni, il liberale dispensatore di benefizi, e vedere ed intendere come si vendicasse nobilmente della fortuna. E non avete data la vostra mano ad una donna; nessuno del vostro sangue erediterà il vostro gran nome! Fu male, assai male; io m'aspettavo ben altro da voi. Ma così avete voluto, e sia; la vedova di Alessandro Montalto può perdonarvelo; la madre d'Aloise può esserne quasi lieta, oggi ch'ella sta per morire, lasciando suo figlio solo, in balìa di sè stesso.

«Il mio Aloise, quanto è bello, altrettanto è savio e costumato, e così d'alto sentire, da parere financo orgoglioso; che non è, ve lo giuro. Per la sua anima, nobilmente temprata, io dunque non temo, bensì pel suo cuore, che è debole, non preparato alle battaglie della vita. Che ciò non gli torni a sciagura! La mia mente è piena di tristi presagi. Tornate, Cosimo; udite la voce d'una morente; accorrete, fate sì che il mio spirito, nel dipartirsi da questa terra, vi possa scorgere pietosamente inteso al ritorno….»

Qui Aloise si fermò; che gli si annebbiarono gli occhi; ripose lo scritto prezioso tra le mani del duca, e gridò tra i singhiozzi:—mia madre! mia povera madre!—

Il duca di Feira non si provò a confortarlo, non disse parola; anch'egli era commosso, e due grosse lagrime gli rigavano le guance.

—Questa lettera giunse troppo tardi al ricapito;—proseguì egli, dopo alcuni istanti di pausa;—si era smarrita, non so come, e pervenne a Rio Janeiro quando io ero già partito d'America. L'ebbi, in quel modo che v'ho detto, due anni dopo; ma l'avessi pur ricevuta a tempo, io non avrei più veduta vostra madre vivente. Ella aveva con arcana previsione noverato i suoi giorni.

—Sì, lo ricordo;—soggiunse Aloise.—Otto giorni innanzi che ella morisse, i medici avevano notato un miglioramento. Fu il miglioramento della morte. Ella se ne giovò per scendere dal letto, e passò due ore a scrivere; indi, poichè la giornata era tiepidissima come di primo autunno, uscì a respirare un po' d'aria sana in giardino. Io ed Antonio le eravamo a' fianchi per aiutarla a scender le scale. Ma ella, come fu al pian terreno, si sciolse dolcemente da noi, e volle da sola innoltrarsi all'aperto.—«Non temete, diceva sorridendo, io sono forte oggi, posso correre un tratto da me…. potrei anche volare». Ella aveva veduto in quel punto passar roteando dinanzi a' suoi occhi una famiglia di rondini, tarde ospiti della Montalda, che ancora non avevano saputo risolversi a mutare di clima.—«Poverine! continuò; voleranno anche esse a dilungo, valicheranno i mari tra poco, in cerca d'un cielo più clemente del nostro». Io stavo silenzioso a guardarla. Era bianca in volto, disfatta, quasi diafana, e in quel punto mi parve davvero che ella avesse a sollevarsi da terra e librarsi a volo, come gli angioli, di cui possedeva la bellezza delicata e soave. Si avvide che la guardavo malinconicamente, e un lieve color di rosa le tinse le guance.—«Qui, Aloise; disse ella; siedi daccanto a me; guarda l'orizzonte, come è bello, fiammante di vivi colori! È lo spettacolo più grato, più attraente che io mi conosca. Io l'ho sempre contemplato con piacere ineffabile, anche da bambina, quel velo misterioso, tutto soavi splendori, tutto arcane promesse, che ci nasconde, lasciandole indovinare, le terre lontane, e, dovunque noi siamo, ci mostra esser noi abbracciati dal cielo.»

—Oh, come io la ravviso!—gridò Cosimo in un impeto di adorazione che lo trasfigurò agli occhi del giovine.—Come ella si mostra a me nelle vostre parole, qual era fanciulla, quale rimase mai sempre, quale la dipingono alla mia mente le pagine ch'ella mi ha lasciate a testimonianza de' suoi pensamenti! Voi leggerete il suo diario, Aloise, e vedrete specchiarsi in esso, come sereno di cielo in un terso cristallo, la sua anima pura. In quelle pagine non si parla d'altro che di voi; ogni giorno ella si dava pensiero del suo diletto Aloise, del quale ella voleva fare un uomo superiore a' suoi simili, utile alla sua patria, degno in tutto del suo nome, e della impresa gentilizia della sua casa. __Altius!__ Non lo ricordate voi il motto, Aloise? Non udrete voi la voce di lei, che vi dice di salire, di salir sempre più in alto, e non prostrarvi a mezzo il cammino? Non darete a me, povero pellegrino, diseredato di tutte le gioie umane, il conforto di avere ottenuto ciò che ella aspettava da me?

—Oh padre mio!—proruppe soggiogato Aloise. E s'abbandonò sul petto di lui, che lo strinse amorosamente tra le sue braccia.

—Vivrete, non è egli vero? vivrete per lei?

—E per voi!—; gridò! il giovine, con accento di tenerezza sublime.

L'alba, che imbiancava allora le vette dei monti vide quei due generosi abbracciati. E li vide ed esultò un'anima innamorata, che per essi dimenticava il suo cielo.

XXXIV.

Post nubila Phoebus.

E adesso i lettori benevoli, che siamo dolenti di non aver più a trattenere se non per pochi capitoli, ci usino la cortesia profumata di chiuder gli occhi, affinchè noi, mal destri giuocatori di mano, facciamo sparire un sei settimane, e presentiamo loro un fatto compiuto, che, piaccia o non piaccia, dovranno pur riconoscere.

Ci torna a mente che quando eravamo bambini, una vecchia fante, la quale era stata in sua giovinezza ai servigi d'un papa (ma intendiamoci, d'un papa prigioniero, il quale non aveva potestà di scegliere i suoi servitori secondo i sacri cànoni), ci raccontava certe sue favole di principi e principesse che, dopo grandi travagli, incantesimi di maghi gelosi ed altri consimili diavolerie, finivano sempre col diventar marito e moglie, come la nostra santa madre Chiesa comanda; di guisa che, dopo essere andati i fatti loro per un pezzo alla peggio, tutto volgeva a bene, perfino le salse del cuoco, il quale ammanniva un pranzo grande e grosso ai felici amanti e ai felicissimi cortigiani. E noi, scimuniti, sempre a chiedere come fosse questo pranzo di nozze. Ma qui ci voleva, la buona Paolina Monetti, per darci sempre la medesima baia. Ella era stata invitata alle nozze, ma sotto la tavola, s'intende, che non era persona da impancarsi in quella fiorita compagnia. E di là sotto, la poverina andava tirando il lembo della gonna alla principessa, perchè si ricordasse di lei e le facesse la limosina di qualche buon boccone. Ma la fortuna fa gli uomini insolenti; ora la principessa, dimenticando i sofferti travagli, s'era fatta una superbiona, ma di quelle! e gran mercè, se, tolto un osso spolpato dal piatto, lo buttava, insieme con un colpettino del suo piede, alla povera affamata. La qual cosa a noi non piaceva nè punto nè poco, tanto più che non avevamo ancora in que' tempi acquistato quel sesto senso, che ora ci fa piacere un bel piede, ancorchè irrequieto, e un pochettino dispettoso.

Signore, non vi sgomentate, che non si fa un corso di estetica. Volevamo, con questo accenno d'infanzia, significarvi che abbiamo a nostre spese imparato a non mettere il naso ne' banchetti di nozze, e che, da uditori diventati narratori, vi facciamo grazia del convito finale. Già, nel caso presente, non se n'è neppur fatto; e se un pranzo ci è stato, diciamo che fu otto settimane dopo gli avvenimenti narrati; ma non pranzo di nozze, quantunque gli sposi ci fossero. Infatti non si trattava d'altro che del duca di Feira, il quale, alla vigilia di partire per un lungo viaggio col suo giovine amico Aloise, voleva pigliar commiato dalle poche persone a cui s'era avvicinato, con cui, o per cui, s'era adoperato, così felicemente come tutti sanno, nella sua breve dimora in Genova.

Si potrebbe dunque chiamare un pranzo di addio, uno di que' pranzi che noi daremo di certo ai nostri benevoli, quando saremo trenta o quaranta volta milionarii come il duca di Feira, o in quel torno, e potremo cantare il __nunc dimittis__ all'ingrata arte del novelliere. Non potendo finora offrirlo del nostro alla cortese brigata, neppure la faremo assistere a quello del duca. Solo diremo che fu splendido, e che gli onori di casa eran fatti da una bellissima sposa, con quella grazia eletta, con quella squisitezza di modi, che in lei potevano dirsi natura.

Maria Salvani era bella, e tanto più bella appariva in quanto che aveva patito, e i patimenti avevano conferito più soavità alle sue fattezze, più efficacia allo sguardo. Maria non era più la giovinetta paurosa ed ignara; in lei si mostrava la donna educata alla severa scuola del dolore; la donna colla sua bellezza riposata ed altera, co' suoi grandi occhi sereni ad un tempo e pensosi, specchio fedele alla maturità del pensiero. Non dissimilmente il mare, dov'è più profondo e più vigilato da rupi scoscese, apparisce, sotto i raggi di un bel sole d'estate, più azzurro insieme e più limpido.

Gli affanni della gentil creatura, erano cessati; Lorenzo era salvo; Lorenzo l'amava; Lorenzo era suo; che più? Sua madre s'era intenerita, era ridiventata sua madre. Ed ella era felice, tutta compresa della gioia profonda e tranquilla di chi è scampato da un alto pericolo e nel pensiero della insperata salvezza si conforta delle angosce durate.

La marchesa di Priamar, grave ma sfavillante anch'essa di tenera gioia, era presso di lei, in apparenza di protettrice e di amica; perchè Maria, felice d'aver ricuperata la madre, non avrebbe voluto per cosa alcuna al mondo far vergognare, arrossire la donna. Il segreto era noto a Lorenzo come al duca di Feira, e bastava; lo avevano trapelato Aloise, l'Assereto e il Giuliani: ma essi, da quei compìti cavalieri che erano, fingevano di non saper nulla; il Pietrasanta e il dottor Mattei lo ignoravano affatto.

Così, senza volerlo, abbiamo passati in rassegna i commensali del duca. Era, come si vede, un'assai ristretta brigata. Le più ristrette, ogni persona di garbo può farne testimonianza, sono anche le più liete. Eppure, quello non era stato un gaio banchetto; il pensiero della vicina partenza di Aloise e del duca di Feira, non era tale per verità da sciogliere in serena allegrezza l'amichevole confidenza dell'ora.

Il nostro Aloise, pallido anzi che no e smunto a guisa di chi esca di malattia, era composto dei modi, affabile nei discorsi, quale i lettori l'hanno veduto nella cavalcata di Pegli; ma bene era agevole ad un conoscitore d'affetti lo scorgere che un'arcana cura gli siedeva nell'animo. Più avvezzo a padroneggiarsi, il duca di Feira, se non si mostrava ilare (che tale non era mai stato in sua vita) appariva disinvolto, bello di quella schietta cortesia signorile, che sa, dissimulando lo sforzo, sacrificare agli ospiti ogni interna afflizione, ogni più grave molestia. Più giovine, e meno esercitato all'affanno, Aloise si lasciava a volte andar giù dello spirito; ma bastava che il suo sguardo incontrasse quello del duca, perchè egli si rimettesse tosto; e allora a sentirlo! Ma la sua loquacità irrequieta, il suo riso stentato, non persuadevano il vecchio gentiluomo, nè Lorenzo Salvani, nè Enrico Pietrasanta, che meglio l'avevano in pratica.

Più lieto a gran pezza era il tinello, mezz'ora dopo levate le mense padronali. Colà, non pure allegria, c'era baldoria a dirittura. La gente del duca aveva convitato anch'essa due sposi novelli, non già novellini, intendiamoci; che erano, s'indovina, il nostro Michele Garaventa, e quella badalona della signora Marianna.

Michele, a dir vero, non era più un servitore. Il legionario di Montevideo, il veterano di Roma, viveva, come suol dirsi, d'entrata. Un certo poderetto, che i nostri lettori conoscono, là nei pressi della Montalda, a un trar di schioppo dall'alture della Bricca, era stato assegnato in dote dal Feira alla governante del padre Bonaventura. Quella aveva ad essere la capanna di Filemone e di Bauci; da quei vigneti a solatìo, da quei seminati, da quei castagneti, avevano i due felici da cavare il vivere senza molta fatica, poichè c'era luogo per due famiglie di coloni. Michele, come tutti gli omini trabalzati a lungo qua e là dalle vicende della vita, aveva sempre vagheggiato nei suoi sogni un èremo come quello, ornato di buon letto, di buona tavola e di buona cantina. Iddio misericordioso aveva finalmente esaudito i suoi voti.

I signori erano già da un pezzo raccolti a conversare sotto un elegante loggiato, e i nostri più umili commensali erano ancora e accennavano di voler stare a lungo sul gotto. Michele, che non aveva più segreti da custodire, aveva fatta e suggellata la pace coll'inimico, e ben lo dimostravano i suoi occhi lustri, e il suo naso fiammeggiante più del consueto. A fargli perder le staffe aveva anche contribuito non poco una calda discussione con Sindi. Figuratevi; Michele voleva fare il saputo, parlare de' suoi viaggi, delle sue guerre, delle costumanze dei __gauchos__, della selvaggia bellezza delle __Pampas__; e Sindi, un Indiano di Bènares, conosceva più America di lui, di lui Michele Garaventa, di lui legionario di Montevideo, avanzo di Rio Grande e della __tapèra__ di Don Venanzio!

Come se ciò non bastasse. Sindi voleva far l'uomo anche in materia di lingua, e riprenderlo, lui Michele Garaventa, quando diceva che le Cordigliere delle Ande erano state testimoni di grandi __catechismi__, e che da Montevideo a Buenos Aires correvano di molte miglia __quadrate__. Scontento dell'America, e udito che il suo contradittore non era mai stato a Roma, Michele si pigliò una satolla dell'eterna città, che egli conosceva a menadito; parlò a suo bell'agio del Foro antico, che doveva al certo essere stato turato, poichè non si vedeva più; di San Giovanni __Luterano__, delle __Ecatombe__, dove si radunavano i primi Cristiani, e del __Circolo__, a cui s'era tolto il nome, poichè in parte era diroccato, e il popolo usava in quella vece chiamarlo __Colosseo__, forse perchè molti, nei tempi andati, ci s'erano fiaccato l'osso del collo.

Così preso l'aire, il buon Michele veniva ciaramellando allegramente da un pezzo, tra le risate dei commensali, allorquando uno di essi, che già da un'ora era tornato alle cure del suo uffizio, venne a dirgli che la sua presenza era desiderata da Sua Eccellenza il duca di Feira. Lui nel salotto? Lui dal duca e dai suoi nobilissimi ospiti? La cosa gli parve strana, inaudita, impossibile, e fu mestieri che il collega gliela ripetesse coll'aria più grave del mondo, perchè egli non l'avesse in conto d'una celia.

Ecco ora il come e il perchè di quella chiamata, che faceva tanto senso a Michele. Erano già suonate le nove di sera, e la marchesa Lilla accennava di volersi ridurre a casa per le dieci. Però il duca di Feira invitò cortesemente i suoi ospiti a passare dal loggiato nel salotto, ove li attendevano i rinfreschi d'uso. E colà il nostro Giuliani, che aveva il suo Foscolo in mente, volle propinare al buon viaggio del duca e di Aloise, invocando loro propizi i genii del ritorno. In quel suo brindisi l'allegro giovinotto aveva anche destramente accennato come tutti i convenuti fossero stretti da un vincolo che egli chiamò di parentela morale.—Qual Nume, diceva il Giuliani, qual Nume ci raccostò, ci trasse l'un verso l'altro, perchè avessimo a darci la mano? Qual ragione, per dirla più umanamente, condusse noi, venuti da tante parti diverse, tolti da così diversi ordini di cose e di pensieri, a far manipolo, a chiamarci col santo nome d'amici? La ragion della guerra. Il posto del soldato è là dove romba il cannone. Noi tutti abbiamo udito l'appello, siamo accorsi, e __viribus unitis, agmine facto__, anzi __testudine densa__, ci siamo precipitati all'assalto. Abbiamo combattuta, non fo per dire, un'aspra battaglia, contro un nemico ben munito e coperto. È lecito vantarsi un tantino, la sera della vittoria. Perchè tale è stata la nostra, la Dio mercè, mercè l'assistenza delle donne e mercè il gran capitano, il duca di Feira, che oggi si accomiata da noi, portandoci via uno dei più strenui, de' più cari ufficiali dello stato maggiore. __Ho detto, ho detto, e adesso prendo fiato.__—

S'intende che per prender fiato il Giuliani vuotava il suo calice. L'oratore ebbe il plauso universale; i cavalieri lo acclamarono principe dell'eloquenza; le dame lo salutarono coi loro più amabili sorrisi.

—Grazie, signor Giuliani,—disse di rimando il duca, a cui s'erano rivolti gli occhi di tutti;—ma consentite che io propini in quella vece a voi, alla vostra ricchezza di partiti, alla efficacia dei vostri spedienti. Non siete voi che, insieme coi vostri amici, coi Templarii, come usate chiamarli, avete ordinato ogni cosa? Io ero giunto tardi per ingaggiare il combattimento; voi eravate già in campo, e a tutto avevate provveduto. Io non ho fatto altro che seguire il filo de' vostri disegni, mettendo a' vostri servigi la mia vecchia esperienza.

—Ed altro ancora, signor duca, ed altro ancora!

—Sia pure, ma mi è grato di poter mettere in chiaro che senza di voi non avrei fatto nulla, e non potremmo oggi trovarci raccolti in questa sala, stretti, come avete detto voi così veramente, da un vincolo di parentela morale.

—A questi patti, signor duca, noi dovremmo in quella vece fare un brindisi al servo di casa Salvani. È il buon Michele che s'è messo a sbaraglio per noi, che è penetrato sotto mentite spoglie nella piazza nemica, ha inchiodati i cannoni che traevano a scaglia su noi, e finalmente ci ha schiuse le porte. Modesto al pari dei veri eroi, egli ha compiuta senza sussiego la più grave bisogna. Chi ha fatto entrare una parola di conforto in monastero? Chi ha origliato i disegni dei tristi, dando per tal guisa il bandolo a voi, e il modo di sgominarli? Chi finalmente ha posto le mani… Ma che dirò io di più?—soggiunse, con bella e soprattutto accorta reticenza, il Giuliani.—Questi è Michele Garaventa, un povero servitore, che, fatta un'impresa degna d'Ulisse, o d'altro eroe dell'antichità, se n'è tornato modestamente nell'ombra, senza chiedere ricompensa delle sue prodezze, riportandone anzi una punizione. Perdonate, bella signora,—diss'egli, volgendosi a Maria Salvani,—io parlo sempre da scapolo impenitente.

—Ottimo Michele!—soggiunse Maria, poi che ebbe con un sorriso mostrato al Giuliani che intendeva l'allusione a quel castigo di Dio della signora Marianna.—Egli è stato, non già un servo, un fratello per noi.

—Queste parole egli deve udirle,—notò il duca di Feira,—e saranno la più bella ricompensa delle opere sue. Se voi lo permettete, gentili signore, lo faremo chiamare. Questo è fuori delle consuetudini, in verità; ma non ne siamo stati fuori un po' tutti, in questa guerra mal nata? Ed egli, poi, il valentuomo, per amore de' suoi padroni, non n'era uscito prima di noi, dalle sue? non s'era levato a tale altezza di sacrifizi, che non si può richieder da tutti?—

In questa guisa era stato chiamato Michele Garaventa al cospetto della gentile brigata. Il poveretto era confuso, fuori di sè; quando si vide in mezzo a quei signori, sentì mancarsi qualcosa di sotto, che ben non sapeva se fosse la terra, o le gambe. Accettò, senza profferire parola, il bicchiere che gli porgeva Maria, e bevve mutamente, istintivamente, come uomo che non avesse mai fatto altro in sua vita. Del resto, come a tutti è noto, egli sapeva farlo per bene. Ma allorquando egli udì che si beveva alla sua salute, che quella gran dama della Priamar aveva cortesemente alzato il bicchiere ad onor suo, che Sua Eccellenza si degnava di toccare con lui, che sguardi e parole amorevoli lo sfrombolavano d'ogni parte, fu un altro paio di maniche. Bisognava parlare, egli lo vedeva. Parlare! Ma che cosa avrebbe egli—detto? Le gambe gli facevano giacomo giacomo; gli zufolavano le orecchie; la lingua gli s'impacciava nella chiostra dei denti. Basta; Michele non era stato soldato per nulla; s'appigliò ad uno stratagemma di guerra; pensò che quando il generale Garibaldi passava dinanzi alle file, egli, Michele, soleva guardarlo in faccia, e interrogato rispondergli; che di fronte al nemico egli non aveva tremato mai, nè chiuso gli occhi davanti ad un pericolo. Dopo tutto, non mi mangeranno mica! diss'egli. E fatta questa filosofica considerazione, si sentì tornare il sangue nelle vene; guardò tutti in giro i convitati, e ripulitasi graziosamente la bocca col dosso della mano, uscì in questo discorso:

—Le Signorie Loro mi compatiranno. Io non ho pratica di galateo. La signorina…. cioè no, dico male, la signora Maria può far testimonianza che io sono sempre stato meglio all'accampamento…. Ma che diavolo dico? Ella non c'era mica a vedermi! Insomma, volevo dire che ella mi conosce sa che io sono uno zotico, un ignorantaccio….

—Siete un ottimo cuore, Michele!—interruppe sorridendo Maria
Salvani.

—Ah, non dico di no; ma la testa val poco. Già la testa, con licenza delle Signorie Loro, è sempre il peggio della bestia. In fondo, sono un buon diavolo; amo il figlio del mio povero colonnello, e venero la signorina Maria. Che diamine? La lingua non vuol mai piegarsi a dire signora. Ma che vogliono? l'ho veduta così piccina! Si figurino che la si metteva ritta sui miei piedi; ed io, tenendola per le mani, le servivo d'altalena. E ciò le faceva piacere, e ne faceva anche a me, malgrado i miei dolori __aromatici__, che ho buscati laggiù nell'America, e che non m'hanno ancora voluto lasciare. Ma ora, se piace a Dio, andrò in Acqui, a far la cura dei fanghi. I miei padroni non hanno più bisogno di me; sono contenti…. E anch'io, perbacco, sono contento come una vecchia granata messa a riposo, che ci ha il gusto di veder pulita la casa e di starsene a dormire in un angolo Ma chi me l'avesse mai detto, che tutti questi malanni sarebbero finiti così presto e così bene!… No, per tutti i diavoli, non l'avrei mai creduto. Il mondo è pieno di stranezze oggi in un mar di guai, domani all'__adige__ della contentezza Ecco lì…. Mi scusino della libertà! parlo come vien viene, alla dozzinale, da vecchio soldato che non sa d'arte __aratoria__. Io vedo starsene lì come pane e cacio due bravi signori che otto mesi fa li ho visti barattar stoccate da mettere i brividi. Il signor Assereto e il signor Pietrasanta ne sanno la parte loro, essi che erano della festa. Ci ha fatto caldo a San Nazaro, quel giorno, sebbene non ci fosse il sole! Ma finita la zuffa, tutti amici meglio di prima!

—Le mani dei galantuomini,—disse il Giuliani,—son fatte per stringersi, non già per farsi la guerra.

—Ben detto!—seguitò Michele.—E io, con licenza delle Signorie Loro, bevo alla salute di tutti i veri amici.

—Cominciando da Oreste e Pilade;—entrò a dire il Mattei.

—No, quelli là!—fu pronto Michele a rispondere.—Piuttosto, vede
Ella? berrei alla salute di Erode e Pilato.

—Perchè?

—Perchè quei due nomi, Oreste e…. l'altro, mi fanno ricordare d'una cattiva notte, che io mi son lasciato cavare i calcetti da un certo mascalzone, e poi n'è venuto un subbisso di malanni. Ho presa la mia rivincita, sta bene; per altro, non mi bastava ancora, e se quel tristo mi capitava sotto le unghie!… Ma la giustizia di Dio ci ha avuto più buone gambe di me. Il furfante è in gattabuia, e se non me lo schiaffano in galera, certo me lo spediscono, franco di porto, a rifare un po' meglio i suoi studi ad Oneglia.

—Parlate del Garasso?—chiese Lorenzo.

—Di lui per l'appunto. Lo cercavo da un pezzo, per cavarmi una certa voglia dalle dita; ma sì, piglialo! Il mio uomo doveva fiutarmi da lontano. Per sua disgrazia, mentre sfuggiva da me, inciampò nei birri, che avevano un altro conticino da aggiustare con lui. Si figurino che costui teneva il sacco ai ladri; i suoi compari, caduti nelle mani della giustizia, hanno cantato, e l'amico ciliegia ha dovuto andarli a raggiungere. Vedano un po' con che razza di gente io m'ero imbarcato! Sono un asino, sì, un asino, sì, un asino calzato e vestito; e quando penso a tanti guasti cagionati dalla mia balordaggine….

—Eh via, Michele, non vi buttate a' cani in questo modo!—interruppe il Giuliani.—Io vi ho veduto alla prova, rimediare strenuamente al mal fatto, e mi vien voglia di paragonarvi alla lancia d'Achille.

—Che, mi burla? Una lancia, io? Sdruscita, sì, forse; ma se il personaggio ch'Ella dice ne aveva una simile, giuro che non s'è mosso da riva.—-

Questo era un bisticcio, e fu salutato da una risata universale. Ma il buon Michele non l'aveva fatto a posta, chè non era forte di studi, e ci aveva per giunta l'inimico in corpo, che, come i lettori già sanno, gliele faceva dire più grosse del solito.

Poco stante, il nostro Michele ebbe licenza di tornarsene ai dolci vincoli dell'Imeneo. Anche il Pietrasanta, l'Assereto, il Giuliani e il Mattei, allegro quartetto di scapoli, pigliarono il largo, dopo aver promesso ad Aloise che sarebbero andati il giorno seguente ad accompagnarlo allo scalo della ferrovia. A sua volta, la marchesa di Priamar, stretti al seno quei due, che ella poteva, innanzi al duca e ad Aloise, chiamar liberamente suoi figli, uscì da quella casa in cui aveva passato il primo giorno veramente lieto della sua vita. Il duca di Feira, da quel compito cavaliere che era, volle accompagnarla fino al suo palazzo; della qual cortesia non è a dire com'ella gli fosse grata. La povera madre sentiva il bisogno di essere sola con lui, per ringraziarlo, per aprire il suo cuore a quell'angiolo salvatore di sua figlia e di lei, a quell'autore di tutte le sue contentezze.

—Ella è felice. Povera madre! Era tempo;—andava egli dicendo tra sè, nel ricondursi a casa.—Felici tutti, per me. Ed io?…—

Il pensiero del mesto gentiluomo corse alla Montalda, presso quella tomba solitaria in cui riposava la salma della donna adorata.

—Salvar tuo figlio, Eugenia, e poi ricongiungermi a te nella morte; questa sarà la ricompensa di Cosimo.—

Intanto Aloise, rimasto solo con Lorenzo e Maria nel salotto del duca, s'era lasciato cadere sfinito su d'una scranna.

—Ah, finalmente!—esclamò egli.—Non ne potevo
  più.

—Voi siete triste, Aloise?—gli disse Lorenzo, avvicinandosi a lui, e posandogli una mano sulla spalla.

—Perdonate, amici, fratelli miei, perdonate!—rispose il marchese di Montalto, congiungendo la mano di Lorenzo e quella di Maria nelle sue.—Io sono felice, come si può essere, quando si è stati testimoni della gioia d'una madre che vi ama, e che nel contemplarvi, si lasciava sfuggire con nobile audacia il suo segreto dagli occhi; quando infine s'è stretta la destra ad amici schietti e operosi come coloro che ci hanno lasciato poc'anzi. No, la virtù non è un nome vano; no, tutto non è abbiettezza, codardia, bruttura nel mondo. Ma perchè non sono io lieto? Perchè in mezzo a tutta questa gioia io mi sento morire? Da due mesi, vedete, da due mesi io vivo come uno smemorato. Ho come un vuoto qui dentro, e non ardisco addentrarmi nella mia coscienza, considerare questa grande rovina di tutte le mie speranze, di tutti i miei sogni, di tutto ciò che mi faceva cara la vita.

—Voi amate, Aloise….—disse Maria con accento compassionevole.

—Sì, e senza speranza. Non è il segreto di alcuno; è il mio segreto; posso adunque trarlo fuori dal profondo, e flagellarmene il petto. Sì, amo fieramente, e fieramente odio…. me stesso. Sì, vorrei strapparmi il cuore, questo cuore malnato, che accoglie confidente un affetto, e lo serba a mio malgrado, e lo difende contro la mia stessa ragione; questo vil traditore che mi dà in balìa d'un beffardo nemico, e dopo avermi offuscato l'intelletto, scemata ogni virtù di propositi, congiura a togliermi perfino la dignità del soffrire. Ah Lorenzo, amico, fratello mio! Se non avessimo di tali spine qui dentro, come saremmo noi forti! Quale avversa possanza resisterebbe alla tenace operosità dell'uomo, tutta rivolta ad un fine? Noi giovani, noi animosi, noi senza macchia e senza paura, potremmo dar opera a grandi cose, far manipolo contro il male che invade d'ogni banda, portar la spada e la fiaccola, combattere e illuminare, essere esempio ai buoni e flagello ai malvagi, ordinare l'aristocrazia dell'ingegno e della onestà, la sola vera, la sola efficace, non già a salvare un vecchio edifizio che minaccia d'ogni parte rovina, sibbene a rinnovare la faccia del mondo infiacchito nel tiepido amore del bello, del vero e del buono, fatto teatro ai contrasti ridicoli di vizi piccini e di piccine virtù. Ma no; forti e non ignari della nostra forza, rinunziamo alle nobili voluttà che ella può darci; abbiamo qui dentro il tarlo roditore delle nostre passioni; disperdiamo in vani scintillamenti una luce preziosa; consapevoli dissennati, sprechiamo tutta la possanza nostra a' piedi d'un idolo di creta.—

Così parlava esacerbato Aloise. Lorenzo volse lo sguardo a Maria, che avvicinatasi chetamente già era per reclinare la bruna testa sull'omero dell'amato, ma si trattenne, e parve dirgli col gesto: rispettiamo il suo dolore.

Aloise, o si avvedesse del gesto, o indovinasse il pensiero, levò la fronte verso i due pietosi, e soggiunse:

—Voi, Lorenzo vi siete imbattuto in un angelo. Io, in quella vece, ho fallita la strada, e debbo portarne la pena. Che volete, fratelli miei? Nessuno può sottrarsi al suo fato.—

XXXV.

Dal campo dell'Iliade alla patria di Omero.

Ha ragione il signor di Montalto con la sua triste sentenza? Sì, e no; è questione d'intenderci. Che cosa è il fato? Se davvero una forza prepotente, fuori e sopra di noi, conseguenza logica di atti sconsiderati, frutto amaro d'incaute passioni, potremmo dire di no; perchè agli atti nostri c'è qualche volta rimedio, e alle nostre passioni può sempre comandare lo spirito. Ma, d'altra parte, come fare a sceverar noi medesimi dalle cose, che premono d'ogni lato, confondendosi troppo spesso con noi? Come esser padroni di mutar l'indirizzo del vivere, quando il verso è preso, ed altre forze, soverchiando la volontà, ci travolgono? L'istesso Cosimo Donati, il nobilissimo duca di Feira, che ebbe la rara virtù di sopravvivere al suo dolore, facendosi della propria sventura una religione, una norma di vita, poteva dirsi libero in tutto dagli eventi? Diciamo dunque, temperando l'orgoglio della nostra filosofia, che in un certo punto, i casi nostri prendono un corso violento, su cui non ha più potere la nostra ragione; e il fato riacquista allora quei diritti, che il nostro libero arbitrio non ha fatto in tempo a contendergli.

Contro il fato di Aloise combatteva ad ogni modo il duca di Feira. A quanti atti, che parevano irrevocabili, non aveva gli rimediato? Ed anche al resto si sarebbe provveduto, che era certamente il meno, come quello che dipendeva soltanto da uno sforzo di volontà. Partire, a buon conto; levarsi di lì; condurre Aloise per tutte le vicende, per tutte le distrazioni forzate di un lungo viaggio! In quel muoversi irrequieto, variando sensazioni, soggiacendo a nuove necessità, portate lì per lì dalla diversità dei luoghi e dei costumi, non aveva egli, il povero Cosimo, ingannata la sua pena, trovate le ragioni del vivere? Perchè non le avrebbe trovate il suo Aloise, che finalmente non doveva serbarsi fedele a nessuna immagine celeste, a nessun sacro ricordo? Così fu impreso il viaggio, così fu continuato; capricciosamente, in apparenza, ma con accorta progressione di varietà, per tutte le capitali d'Europa, non isfuggendo neppur quelle dove Aloise era già stato, e dove anche aveva sofferto.

Muovere incontro ai dolorosi ricordi, col proposito di lasciarsi soverchiare da essi, è atto di poca prudenza, certamente; passarci accanto, irritandoli un poco, quasi mostrando di non temerli, è buona arte di guerra, specie di ricognizione offensiva in cui si provano le nostre forze, e si addestrano a più grosse giornate. Erano perciò andati a Parigi, ma proseguendo assai presto per Madrid, per Lisbona, per Londra; erano stati a Brusselle, a Monaco, a Vienna, a Berlino, ma spingendosi tosto a Stoccolma, a Pietroburgo, a Mosca. La Grecia, divina nelle sue memorie, vero balsamo a tutti i mali dell'anima, aveva poi la miglior parte del tempo loro. Così meglio disposti, erano passati da Atene per Costantinopoli; sempre in moto i corpi, sempre in agitazione gli spiriti, qualche vantaggio doveva pure venire.

Già più e più volte in Grecia il duca di Feira aveva veduto Aloise infiammarsi; triste a Misitra, ma per la scomparsa delle istesse rovine di Sparta; accigliato in Maratona e al passo delle Termopili, ma per la troppo lunga carestia di Milziadi e di Leonida ai tempi moderni; accigliato ancora e triste in Atene, ma più spesso esaltato per ciò che rimaneva dell'antica grandezza, dell'antica bellezza, dell'antica idealità degli Elleni.—Chi può pensare,—aveva egli detto un giorno,—chi può pensare ai propri dolori, salendo all'Acropoli? Quanta storia, quant'arte, e quanto pensiero, tra l'Erettèo e il Partenone! E il mondo ne vive ancora!—

Da Costantinopoli, ultimo lembo d'Europa, il salto alla costa d'Asia era naturale, come a dire indicato. Aloise gradì molto l'occasione di visitare la Troade. Laggiù, da occidente e da settentrione, s'era mostrato sollecito di vedere molte cose, pensando di far cosa grata al duca di Feira; ma in quelle terre orientali diventava particolarmente sollecito, singolarmente curioso per sè. Da un libraio della via di Ermete, in Atene, aveva comprati parecchi volumi, e tra questi l'Iliade; poteva dunque viaggiare la Troade con Omero alla mano.—Questo è un Baedeker!—diceva egli sorridendo al duca di Feira.—È certamente il primo della serie!—

La celia e il sorriso dicevano molto al suo Mèntore, che si lodava in cuor suo di aver condotto in quella forma il viaggio.

A quel tempo il signor Enrico Schliemann, gran milionario e gran pellegrino d'amore per la storia e per l'arte, non era anche disceso laggiù con la sua bella fede e con le sue buone squadre di manovali, per ritrovare e disseppellire i sacri avanzi di Troia. Intorno alla situazione dell'antichissimo Ilio, «raso due volte, e due risorto», si era tuttavia fra i dubbi, le incertezze e le tenebre, aggravate sempre più dalle dispute degli eruditi tedeschi. Hissarlic, o Burnabachi? Aloise si dichiarò volentieri per l'eminenza meno distante dal mare. I campi delle quotidiane battaglie tra Greci e Troiani erano lì, ragionevole distesa di terreno, su cui dall'alto delle mura potesse spaziare lo sguardo trepidante di Priamo; erano lì i sacri fiumi, Simoenta e Scamandro, anche ammettendo che essi, da quegli irrequieti vagabondi che sono sempre stati i fiumi, avessero cangiato più volte di letto.

Al nostro giovine amico, che con tanta divozione classica percorreva quei luoghi, facendo sostare ad ogni tratto la scorta, parve di riconoscere un po' sopra a certe fontane il luogo delle porte Scee, donde Ettore aveva preso dalla sua Andromaca e dal figliuoletto Astianatte i patetici congedi cantati divinamente da Omero; e lì presso, il luogo del muro alto, dalla cui sommità la bellissima Elena aveva additati al suo buon suocero provvisorio i più famosi e i più temibili condottieri di Grecia. Elena, la cagione dell'eccidio d'un regno! Elena, la grande bellezza fatale! Che fascino era in lei? Aloise non si fermò neanche a pensare se ella avesse gli occhi verdi, o turchini; che tanta serenità di spirito non si poteva pretendere ancora da lui. Ma intanto egli filosofò la parte sua sulle rovine cagionate da Elena, e sui pericoli che una soverchia bellezza può far correre agli uomini, povera materia infiammabile, come la stipa e il capecchio.

Filosofava, adunque. Ora, quando l'uomo può filosofare, è segno che può ragionare. Quando può ragionare, è segno che ha la testa sgombra e libero il cuore. Così pensava il duca di Feira, ascoltando il suo compagno di viaggio. Egli aveva già potuto osservare come il suo Aloise si ritrovasse più franco e più ilare in quelle terre orientali, che non laggiù, da occidente e da settentrione, in quelle sontuose capitali europee. Non ferrovia, non cavalli di posta, non alberghi, non comodità della vita; strade malagevoli, sentieri da capre, rompicolli, guadi da raccomandarcisi l'anima, rovine, desolazioni; che importa? Tra quelle desolazioni non si è solamente lontani nello spazio; si è lontani ancora nel tempo. Anche laggiù nella Troade era già una distanza enorme da Genova, e da Quinto, il ritrovarsi a tu per tu con Elena Argiva.

—Se fosse qui il Giuliani!—aveva esclamato Aloise.—Quanto latino metterebbe fuori, vedendo il tumulo di Achille, __et solum quo Troia fuit__. Hai notato, babbo,—(da qualche tempo Aloise dava del tu al duca di Feira, chiamandolo ancora col dolce nome di padre)—hai notato come il dottor Giuliani parli spesso e volentieri in latino? Può forse annoiare tanti altri, non me. Mi pare, sentendolo infiorare i suoi discorsi di tante citazioni, buttate anche là con un tono di celia, che le cose della vita moderna, della vita comune, prendano colore e sapore d'antico, quasi di eroico, e insieme di universale. Quel po' di celia che v'aggiunge, come un pizzico di sale, tempera tutto; e di ciò che potrebbe parere un difetto a qualcuno, te ne fa una qualità; che so io? una cosa gradevole. Io gli invidio quest'arte. Perchè, infine, ci è data la parola? Per dire soltanto delle volgarità e delle sciocchezze, lasciando che un po' di dottrina si spenda soltanto nelle conversazioni noiose dei pedanti? Ah, vorrei qui il Giuliani; e che ci parlasse di Elena! Ne sentiremmo di belle!

—M'immagino che la difenderebbe;—disse il duca di Feira.—È tanto cavaliere quanto è originale.

—Eh, credo bene che avremmo un panegirico;—ripigliò Aloise, fermandosi volentieri su quel tema.—Una buona ragione per farlo, la troverebbe di certo. La cagione di tanti guai non fa più nessun male ad anima viva, mentre l'immagine sua può ancora alimentare molte fantasie di poeti e di artisti. Le morte bellezze non fan più soffrire nessuno; possono consolare, artisticamente evocate, in un poema, in una statua, in un quadro. Che follìa, del resto, il soffrire per quelle nobili matte! Non val meglio ammirarle, per ciò che in esse è stato, ed è tuttavia, di veramente divino? Per restar tra le antiche, Frine era un mostro di corruttela, senza dubbio; il suo nome istesso, che era poi un soprannome, datole quasi per marchio d'infamia dai suoi contemporanei, lo dice. Frine, rospo! Ma che importa ciò? Frine è un miracolo di bellezza; e Prassitele copia appuntino quella perfezione di forme; e quei di Gnido la mettono sull'altare, per rappresentarvi Afrodite. La bellezza, quando è sovrana, va trattata così; adorata, come usarono i Greci, ma facendone un marmo. Sapienti, i Greci; e noi sciocchi, non ti pare?—

Il duca di Feira assentiva, sorridendo.

—Ed anche cattivi;—soggiunse Aloise,—perchè troppo spesso consideriamo le belle col criterio della nostra passione, del nostro egoismo, che è così spesso un insulto alla legge morale.

—Ah, qui ti sento anche più volentieri;—disse il duca, esultante.

—Ma sì;—proseguiva infervorato Aloise.—Vediamo una stupenda creatura, per caso; il nostro cuore s'infiamma; la nostra ragione, che dovrebbe trattenerci, non protesta, acconsente, si associa, come si farebbe in parlamento, per disciplina di partito. La donna per cui ci siamo infiammati, vedendola a caso, ha da corrispondere ai nostri ardori, sotto pena di esser dichiarata senza cuore e senz'anima. Ma se non è libera? Se ha data già la sua fede ad un altro? Oh, non dubitare; ho meditato anche su ciò, e lungamente, correndo il mondo con te. Ma come va che nell'ardore delle nostre passioni, quando sono ancora sul nascere e permettono di ragionare, non pensiamo noi a queste cose? Ci ha guastati, io credo, il veder tante e tante graziose creature, che il nostro costume ha ridotte così male, condannandole a non veder altro nel matrimonio, fuorchè il principio della loro libertà, e il passaporto della loro galanteria. Ma infine, anche sotto certe apparenze che gli usi della conversazione hanno giustificate, le graziose creature non sono tutte così sciolte d'ogni vincolo e d'ogni legge. Ci sono poi gli alti caratteri, che vanno rispettati; in ognuna quel carattere ci può essere, e noi non essercene in tempo avveduti; e se una di queste ci mette sdegnosamente fuori dell'uscio, o, con più grazia, fuor di speranze, fa bene.—

Il duca era fuori di sè dalla gioia.

—Ma bravo, il mio Aloise!—gridò, accostandosi a lui e con atto amorevole battendogli della palma sul braccio.—Tu mi maravigli, quest'oggi. Ci voleva proprio il ricordo di Elena Argiva, per farti render giustizia…. ad Andromaca!

—Oh, le donne antiche non c'entrano affatto,—rispose il giovane, crollando la testa, e quasi porgendola alle carezze della mano patema.—Non sento queste cose da oggi, sotto le porte Scee. Il corso delle mie meditazioni è più antico, ed è opera tua. Prima di tutto, non mi hai tu fatto leggere quel brutto libro, lassù, alla Montalda, dove lo avevi portato per me? Amaro libro;—soggiunse Aloise, rabbrividendo un pochino;—amaro come quello che fu dato dall'angelo per cibo al veggente dell'Apocalisse, ma che lasciò succhi vitali nell'anima mia. Tra molte parole un po' dure pel mio amor proprio, ce n'erano alcune, in una lettera di donna, che mi son parse giuste, e che mi stanno sempre davanti agli occhi: «Avrei dovuto io dimenticare me stessa, e ciò che debbo al mio buon nome?» Aveva ragione, la bella orgogliosa; e su questo punto poteva dire assai più, che sarebbe stato per mio bene, e fino da quella triste sera della Montalda m'avrebbe guarito, facendomi vergognare della mia tracotanza colpevole. Se me ne sono vergognato poi, se oggi mi sento guarito, non ti maravigliare, te ne prego. In tua compagnia son diventato un altr'uomo. Il tuo esempio era buono. Hai amato, e più fortemente di me. Non ti era possibile non amare, dov'erano bellezza e virtù. Anche per questo hai amato più nobilmente; e dei tuoi dolori puoi darti gloria. Non io, pur troppo, dei miei!

—Se ti sei vinto, puoi darti gloria di questo;—disse il duca di
Feira.—Saper vincere sè stesso è il sommo della forza morale.

—Ma io non potrò farmene un merito!—esclamò Aloise, sorridendo.—Non son io che ho vinto; sei tu che m'hai fatto riconoscere come io fossi un dappoco. Che stoltezza la mia! e di tanti miei pari! Crediamo le donne angeli, così alla rinfusa, senza far distinzione. Angeli! E come finalmente potrebbero esser tali, in mezzo a tanta moltitudine di sciocchi e di scioperati che le circondano?—

La burrasca girava, verso un altro quadrante. Tra sciocchi e scioperati c'era da scegliere; ed Aloise ne passò molti in rassegna, tutti della società elegante in cui era vissuto. Di questi uno ebbe più lunga sentenza; e fu per caso il Cigàla.

—M'hai detto che è una testa quadra e un cuor libero;—notò il duca di Feira;—una specie di filosofo in guanti.

—E in fondo, m'annoiano, i filosofi in guanti;—rispose Aloise.—Hanno il cuor libero, e sta bene; ma ancora amano far pompa della loro libertà, come le case vuote del loro «appigionasi». Non promettono niente, non s'impegnano a niente; sorridono e passano. A questi, poi, si fa volentieri la parte del leone. Ricordi la lettera, di cui parlavamo poc'anzi? Il Cigàla (vi si leggeva) il Cigàla è quello che vale un tantino più degli altri; cortese, senza aspettar nulla in ricambio; arguto, senza cattiveria; bei modi, umor sereno; ornamento in un salotto, non peso; si vuol far credere insensibile; ma bisognerebbe che ad una donna saltasse il ticchio di metterlo alla prova, e si vedrebbe.—

Il duca di Feira pensò che il suo Aloise possedeva una memoria di ferro. Anche leggendo rapidamente, il giovine aveva molto ritenuto del libro amaro. Amaro al palato, del resto; ma buono e nutritivo allo stomaco. Anche questo pensava il saggio duca; e l'animo suo, finalmente aperto a liete speranze, si compiaceva di stimolare, temperandoli all'uopo, i giudizi del suo figliuolo d'adozione.

—Capisco, sì;—concesse il duca;—la gioventù è capace di adattarsi a molte cose, ch'ella stessa non prevede e non pensa. Ma quel tuo Cigàla è sincero nel suo modo di sentire; leale, me lo dicevi soprattutto.

—E non mi voglio già disdire sul conto suo; leale per quel che fa la piazza;—soggiunse Aloise.—In fine, è il tanto che basta, e di cui possiamo contentarci nelle relazioni sociali. Io, del resto, lo avrai già notato, ho un debole per Enrico Pietrasanta; un cuor d'oro, quello, che non si cela, che non fa il tenebroso; un carattere aperto; e modesto, poi, tanto modesto da adattarsi alle seconde parti, senza lasciarti scorgere che potrebbe aspirare alle prime. Se non fosse per lui, che con tante amabili sue qualità mi offusca un tantino il giudizio, direi volentieri che il Cigàla è una perla. Ma adagio;—soggiunse Aloise, ridendo della propria liberalità;—teniamo qualche cosa in serbo per altri amici, che abbiamo veduti alla prova, e che meritano i primissimi onori. Come definiremmo il Giuliani, così caldo, ardito, sincero, e così ameno per giunta? Che cosa diremo poi di Lorenzo Salvani? Quello è un uomo! Gli si leggono negli occhi tutte le virtù, cardinali e teologali; non ti pare? Sarà felice, la mia bella cuginetta, con quel fior di cavaliere. Ah,—conchiuse il giovine, con un razzo finale di ammirazione e di affetto,—se dopo morti sotto un aspetto, dovessimo tornare in vita sotto un altro, ti giuro, padre mio, che vorrei rinascer Salvani!—

Era gaio, Aloise; e fu gaia la giornata della Troade, col pasto improvvisato dagli uomini della scorta, sotto le mura iliache, di cui non si vedeva più traccia, accanto alle fontane cantate da Omero, che sussurravano ancora. Distrutta è la città di Priamo;—potevano dire i due nobili viaggiatori;—disperse le sue reliquie, con le bellezze lusinghiere di Elena Argiva; tu sola vivi eterna, o natura.

Il più vecchio dei due poteva anche pensare dell'altro; e di quell'altro che pensava gli si dipingeva una gran contentezza sul volto. In quella giornata della Troade, fra le scarse reliquie di una città e di una vita estinta, nasceva un mondo di speranze per lui. Aloise risanato, Aloise riconciliato coll'esistenza; quale vittoria! E il pensiero di Cosimo volava lontano, fino alla Montalda, presso la tomba di Eugenia.

—È salvo! è salvo!—diceva a sè stesso il duca di Feira, lasciando quella medesima sera le rive dello Scamandro.—Ed ora, per compir l'opera, bisognerà avviarne lo spirito a qualche utile occupazione.—

Due giorni dopo quella gita archeologica, i due viaggiatori riprendevano il mare, costeggiando la punta settentrionale dell'Asia Minore, dallo stretto dei Dardanelli al golfo di Smirne. Andavano, dalla terra che Omero aveva celebrata col canto, alla terra dove era nato il divino cantore. C'era poi nato davvero? Lo asseriva Erodoto, antichissimo tra i biografi; ma altre sei città greche, continentali ed insulari, contendevano a Smirne quell'altissimo vanto. Un famoso distico latino, traduzione di un altro e non meno famoso distico greco, aveva raccolte a mazzo le sette rivali. Che peccato non ricordarlo! Se ci fosse stato il Giuliani, come l'avrebbe recitato a volo, e con quell'ardore che metteva in tutte le cose ch'egli facesse o dicesse! E ancora, che buon compagno di viaggio sarebbe egli stato, con tante cose da vedere, da ammirare, da commentare, e laggiù ed altrove, anzi, com'egli avrebbe certamente detto, nell'universo mondo! La terra, a buon conto,—notava Aloise,—è più vasta che non si pensi. Un giorno era tutto, quando vedevamo in essa il centro del creato; oggi le grandi scoperte e i grandi numeri dell'astronomia ce la riducono ad una miseria, da far sorridere di compassione. Niente di male, dopo tutto; essa può ridere con tanto gusto di noi!

A Smirne, città orientale e insieme tanto europea nell'aspetto come negli usi del vivere, era naturale il pensare a due mondi, l'uno sull'altro innestati, e lo intravvedere alla bella prima quanto il mondo occidentale avrebbe da fare nell'orientale; soprattutto da rifare, poichè il prodigio era già stato operato una volta. Il duca di Feira accarezzava queste idee di Aloise, che già davanti a Lemno, a Mitilene, ad Ipsara, a Scio, immaginando sempre d'essere in vista di Rodi, si era gittato con tutto l'ardore dei ricordi universitarii sulle famose leggi Rodie, esemplari di giurisprudenza commerciale e marittima ai Romani, conquistatori e civilizzatori del mondo. E dai commerci antichi era sceso con facile trapasso ai moderni, considerando quanto ci fosse da tentare, con nobile e fruttuosa audacia, per istrappar l'Oriente, il vicino e il lontano, dalla sua fatale inerzia, dalla sua supina ignoranza, per tirarlo nella vasta corrente della vita moderna.

—Ecco un bel programma, Aloise;—diceva il duca di Feira, cogliendo la palla al balzo, mentre sul terrazzino del primo albergo di Smirne il giovine Montalto dava gli ultimi tocchi al suo disegno di rinnovamento orientale;—ed è qui la tua vocazione. Vedendo così largo e così lontano, tu non vorrai già ridurti a vivere ancora la vita ristretta e disutile in cui ti ho ritrovato. Sei ricco per me, poichè mi accetti per padre, ed io non ho creatura al mondo ch'io debba amare e favorire, dopo di te. Ma non sarai un fannullone, non essendo mai stato un gaudente. Ti sorride l'idea di esser utile alla patria…. fuor della patria? Io, disgraziato, non ho potuto, con tanto desiderio che ne avevo nell'anima, e ad un'altra patria ho dovuto consacrare l'opera mia. Tu, fortunato, senti che la tua sarà grande; mi par d'intendere che l'ora del destino è imminente. Comunque sia, dove sei nato, dove si tiene alta la bandiera dei tre colori, ivi è l'Italia, presente e futura: servendo il piccolo Stato dove sei cittadino, servi già il grande, che verrà poi.

—Ho inteso, babbo: mi vuoi mettere in diplomazia.

—Per l'appunto; è l'unica condizione in cui ti sarà dato di colorire i disegni che da parecchi giorni mi esponi. Quello che si vuol fare, si faccia presto; è massima antica. Ritorneremo a Genova, per aggiustare le cose tue, e quelle dei nostri amici. La Montalda…. il santuario…. può rimanere in custodia ai Salvani. E subito manderemo ad effetto la tua felicissima idea; non è vero? Servire la patria…. fuor della patria, ti ho detto; ingrandire la sfera della sua legittima azione, dar luce ed aria, aprire quanto più sia possibile il mondo ai nostri commerci, alle nostre arti, al nostro pensiero, alla nostra lingua; ecco l'opera varia e mirabile a cui deve lavorare chi può, innamorandosi, vivaddio, di qualche cosa che ne franchi la spesa.

—Giusto!—disse Aloise.—Ma saran poi tutte rose?

—Eh, t'intendo;—rispose il duca, tentennando la testa.—La mia esperienza, tra tante imprese fortunate, ricorda ancora parecchie disillusioni. C'è qualche volta il tuo governo in mano a gente dappoco, che non t'intende e ti guasta il lavoro. Ma più spesso, trattandosi di un lavoro lontano, egli non prevede nulla che meriti l'intromissione di un guastamestieri, e ti lascia fare a tuo modo. Così, ciò che tu accortamente disponi in questa o in quella parte del mondo, è sempre utile preparazione ad atti che tu solo avevi veduto opportuni, e che tu solo hai lavorato a render possibili. Così, finalmente, si gettano i semi della grandezza futura d'un popolo.

—Giustissimo!—gridò il giovine Montalto, persuaso da quella argomentazione del duca di Feira.—Ed io vedrò volentieri di tentar qualche cosa in questo povero Oriente.

—Scegli bene il tuo campo;—riprese il duca.—Si era cominciato così, con Marco Polo; ma poi, povera gente, abbiamo smarrita la strada. Sei dunque risoluto?

—Sì, padre mio. Tanto, la vita oziosa non m'è andata mai. Mettiamoci di buon animo a servire la patria…. fuor della patria. Ma bada, con una restrizione.

—Quale?

—Siamo forse alla vigilia di grandi cose. L'hai detto anche tu. Si sente odor di polvere nell'aria. Se scoppiasse una guerra?…

—Ora?

—Non ora, che entriamo nell'inverno; ma nella prossima primavera, perchè no? E ti pare che io debba mettermi al tirocinio della diplomazia, mentre gli amici farebbero ben altro uso del tempo loro? il Salvani, ad esempio, ripigliando la spada, come capitano di Garibaldi, e il Pietrasanta entrando volontario in un reggimento di cavalleria? Son genovese, diceva egli per l'appunto, un giorno che si parlava di guerra possibile; cadrà dunque su Genova Cavalleria la mia scelta.—

Il duca di Feira stette pensoso un istante; poi, disse, con accento solenne:

—A questo sacrifizio il mio cuore si adatta. Tanto più,—soggiunse egli, rizzando la testa,—che son forte abbastanza per fare qualche cosa ancor io.

—E allora, qua la mano, camerata,—osò dire Aloise. Ma non osò stender la mano; bensì, con atto di devozione filiale, chinò la fronte sul petto del duca.

XXXVI.

Come fosse guarito Aloise di Montalto della sua pena di cuore.

Il ritorno del duca di Feira e del giovine Aloise in patria, segna il termine, o quasi, del nostro racconto. Laonde, per non avere ad indugiarci poi con taluni personaggi minori, intorno ai quali il lettore vorrà essere debitamente informato, diciamone fin d'ora quel tanto che può essere necessario.

Vive ancora il banchiere Vitali? Sì, vive, ma della vita «di chi doman morrà»; il che significa, ridotto in povera prosa, che il vecchio peccatore è sulle ventitrè ore e tre quarti. Lo assiste il Collini, tenendolo su a forza di espedienti. E non già perchè speri di far mettere il suo nome in luogo di quello del morto Bonaventura, nel testamento dell'infermo. Il nuovo testamento e già fatto, e pel Collini c'è soltanto un legato; cospicuo, sì, ma che non eccede i limiti della onesta riconoscenza. Dunque, direte, il vecchio si è pentito, e salvo il diritto di una certa Compagnia che aveva lasciato al Vitali un milione in deposito, ha nominato erede universale il marchese di Montalto? No, niente di ciò: ben voleva il Vitali fare ammenda onorevole con lui di tanti suoi torti; ma Aloise, pur visitandolo ed augurandogli ogni bene, era stato fermo nel ricusare le sue liberalità, e perfino quel tanto che gli sarebbe spettato per legge.

—Lasciate le vostre ricchezze a chi può averne bisogno più di me;—diceva Aloise.—Ai poveri, per esempio; e parecchie generazioni di cittadini benediranno la vostra memoria. Questa è anche l'opinione d'un mio vecchio amico, il duca di Feira, nel quale potreste ravvisare, vedendolo, una vostra antica conoscenza…. Cosimo Donati.—Era un gran colpo, pel vecchio Vitali, il sentir proferito quel nome. Ma egli lo sopportò validamente, come sanno sopportare i vecchi, fatti insensibili, o poco meno, a certe commozioni morali. Egli si adattò perfino a rivedere l'antico pretendente alla mano di Eugenia, più che quell'altro non si adattasse a rivedere il padre di lei, l'artefice di tutti i suoi mali. Cosimo fu in quella circostanza misurato e cortese; sorvolò sul passato, venendo tosto a rincalzare con le sue argomentazioni i propositi di Aloise. Ed egli, che per la condizione poteva parlare più liberamente del suo giovine amico, che ormai considerava come figlio ed erede, costrinse il vecchio a fare un testamento da galantuomo. Andasse un milione a cui spettava, e a quel milione s'aggiungessero i frutti, computati ad interesse composto. Dieci anni erano corsi oramai dall'asserto deposito del Padre Martelli; si oltrepassava dunque il milione e mezzo; e fu ricupero superiore ad ogni speranza della sacra Compagnia, ad ogni immaginazione degli aderenti di quella. Primo a farne le meraviglie fu il confessore del Vitali, che tosto ne sparse la nuova, fruttando al duca di Feira l'omaggio reverente di tutto il partito dei neri. Lo stesso marchese Antoniotto, come bandieraio di quell'esercito, stimò conveniente di mandare al generoso consigliere un suo biglietto di visita, con alcune righe di prosa robusta, sommamente laudatoria; cortesia che bisognò ricambiare, incappando ancora nella noia di un incontro sulle scale, e di una accoglienza festosa in salotto.

Stranezze del caso, il quale avvicina coloro che potrebbero star bene lontani, ed allontana coloro che starebbero tanto meglio vicini! E l'incontro col signor senatore e la conseguente presentazione alla marchesa, furono il solo segreto che il duca di Feira dovesse custodire, tacendone riguardosamente col suo Aloise. Frattanto, a parlar solamente degli uomini, dovevano esser belli quei due personaggi accostati dal caso; l'uno che lodava l'altro come un benemerito della sua parte; l'altro che ricusava la lode, poichè solamente aveva fatto il debito suo di onesto consigliere, n'avesse anche profitto una gente nemica. Bello, due anni più tardi, il banchiere Vitali, tutto bianco di latte in marmo di Carrara, per trecentomila lire lasciate ad un istituto di carità, che gli eresse la statua; e Dio perdoni al povero letterato, che fu richiesto di dettar l'iscrizione, e non seppe schermirsene!

Del Collini si è già detto, che ebbe un cospicuo legato, bastante a farlo vivacchiare. O non era già ricco? direte. Sì, era; ma quel banco Cardi, Salati e Compagno, nel quale egli, il compagno, teneva impegnati tutti i suoi capitali, sapete pure che fece una mala fine. Già ogni anno, alla stretta dei conti, tra Cardi e Salati si salassava ben bene il compagno: poi, un bel giorno, il Salati era sparito colla cassa; e il Cardi, atteggiandosi a vittima, spandeva torrenti di lagrime, disposto a dare una parte del suo al compagno scottato. Magra consolazione, un cinque o sei mila lire di partecipazione, a chi ne perdeva dugentomila: pure, gli bisognò contentarsene. Poi, anche il Cardi sparì, per vergogna, forse, e per andare a cercar fortuna altrove; più probabilmente per ricongiungersi al Salati, e rifare con lui una nuova ragion di commercio. Speriamo che abbiano azzeccato un altro compagno; quanto a quello di Genova, non ebbe più modo di risorgere! corto a quattrini, si ritrovò politicamente spacciato; il partito ch'egli sperava di capitanare dopo la morte del Gallegos, gli antepose un altro, che non valeva (diss'egli) i legacci delle sue scarpe. Ma così va il mondo; e il nostro grand'uomo dal pelo rossigno, che aveva nutrite in cuor suo tutte le ambizioni, della eleganza, della ricchezza, dell'autorità, si trovò in un giorno deluso di tutte, messo fuori bel bello dalle nobili case, costretto a chinare la fronte orgogliosa, battendo per disperato la povera via delle visite a un franco l'una. Triste destarsi da un sogno di onnipotenza, che lo aveva lusingato, gonfiato, levato al settimo cielo!

Il suo fortunato rivale e successore nella condotta del partito, non ebbe da stare molto più allegro di lui. Quello era un momento critico per la parte nera. Speranze nuove allargavano i cuori; molto si aspettava dal terzo Napoleone, e nel Parlamento italiano, per prepararsi ai felici eventi, si facevano alleanze fin allora insperate, tra liberali temperati e liberali più caldi, come fuori del Parlamento tra repubblicani e monarchici. Che cosa poteva fare l'esercito della reazione, davanti a una così larga sollevazione di coscienze infiammate, frementi patria, indipendenza, unità? Sparpagliarsi, aspettando tempi migliori; anzi, in quel crescere di speranze liberali, non isperandoli nemmeno. Quella non era più la fiammata del Quarantotto, da potersene prevedere la fine con l'ultima tracciata di paglia. Del resto, quel povero esercito incominciava a sentir carestia di teste quadre, molte delle quali eran passate, o preparavano il passaggio, nel campo nemico. Soprattutto mancavano i gran nomi, da attrarre col lustro della nobiltà, e da comandar coll'esempio.

Lo stesso marchese Antoniotto, a mezzo il dicembre del '58, si tirava in disparte. Scontento, non andava neanche più a Torino, per rompere le sue lance in Senato contro i mulini…. di Collegno; nè più si faceva vedere a Genova, essendosi chiuso nella sua villa di Quinto, come Scipione nella sua di Linterno. Scontento! e di che? A sentir lui, della poca saldezza e del nessuno ardimento del partito dell'ordine, a sentir gli altri, per ragioni più intime, più delicate, che la sua prosopopea di grand'uomo avevano spruzzata un tantino di ridicolo; onde egli si era ritirato a Quinto, più tiranno che mai, mentre la marchesa, con quei freschi incominciati, e senza pensar più che tanto alla festa da ballo con cui casa Vivaldi soleva aprire la stagione invernale, aveva creduto opportuno di andarsene a stare da sola in un suo castello delle Langhe.

Ragioni di salute, si diceva per lei, ammiccando, tra caritatevoli amiche. Infatti da un po' di tempo si lagnava dell'aria marina, e già più volte il suo medico le aveva consigliato di passar l'Appennino. Ragioni di studio, si diceva per lui, ridendo un pochino, tra i buontemponi del suo ceto. Infatti, doveva scrivere un'opera sulla ragione di Stato nei tempi moderni; l'aveva annunziata da un pezzo; non voleva farla aspettare più a lungo; e lo scrivere un'opera di quella fatta non poteva riuscirgli bene fuorchè nella sua villa di Quinto, dove erano meno centinaia di quadri, e più migliaia di volumi, ad ingombrar le pareti.

Il marchese Antoniotto Torre Vivaldi non scrisse l'opera promessa alle genti. Finì il '58 senza che egli l'avesse pur cominciata; passò il '59, anno di tali novità politiche da confondere ogni ragione di Stato che s'ispirasse ai trattati del '15; venne il '60, e fu peggio che mai. Dicono che il povero senatore se ne accorasse tanto, da farci una malattia; quella malattia che in capo a tre mesi lo condusse alla tomba. E della grand'opera promessa, neanche un capitolo; il che non tolse che l'__Armonia__ di Torino, levando a cielo i meriti dell'estinto, raccomandasse alla vedova di voler dare alle stampe ogni cosa che fosse rimasta di lui; tra l'altro la «Ragion di Stato dei tempi moderni». Anche in alcune parti incompiuta, e in altre non condotte a quella finitezza di stile che era uno tra i pregi del marchese Torre Vivaldi come scrittore, non si poteva defraudarne il mondo, per cui benefizio era stata pensata.

Dal castello di Valcalda nelle Langhe non venne risposta all'invito. La castellana non leggeva l'__Armonia__; ed anche aveva altro da pensare. Ma basti di ciò; noi ci siamo spinti un po' troppo innanzi nel tempo, e dobbiamo ritornare sui nostri passi; se non vi spiace, fino al 4 dicembre del 1858.

Siamo a Genova; entriamo in un buio portone della via Sauli, presso Canneto il Lungo; saliamo due scale anche più buie, ed eccoci in una stamperia, che è l'officina, anzi la fucina della __Nazione__, di quel giornale quotidiano, che era nato da pochi mesi, che doveva morire un anno dopo, ma che morendo potè dire il suo __vixi__, senza esser notato di vanagloria.

Era quello il diario che rappresentava, nel concerto della pubblica opinione, il concorso leale d'una parte dei repubblicani d'allora alla monarchia di Savoia, a patto che si muovesse guerra allo straniero, e si facesse l'Italia. La guerra venne, e l'Italia fu fatta, non importa dir come; nè pensiamo che ciò debba entrare nel nostro racconto. C'entra bensì l'amico Giuliani, uno dei molti giovani che si stringevano intorno al vessillo della __Nazione__; il quale Giuliani, aspettando la guerra per averci la sua parte, aiutava ad attizzare il fuoco nelle pagine del bellicoso giornale.

Abbiamo detto con ciò che egli era uno dei compilatori; aggiungiamo che la mattina del 4 dicembre egli stava nel bugigattolo che la pretendeva a segreteria del giornale, e che seduto vicino a lui stava Enrico Pietrasanta; ambedue infervorati in un discorso, che, come i lettori vedranno, non aveva da far niente colla politica.

—Che cosa mi dite, Enrico? Ma è proprio vero?

—Che volete?—soggiunse il Pietrasanta.—Non ho potuto impedire, non ho potuto mutar nulla, e mi bisogna esclamare come Mosca Lamberti: __Cosa fatta capo ha__. Ora non si tratta d'altro che di far presto. Accettate?

—Sono in un brutto impiccio;—rispose il Giuliani con aria perplessa.—Vorrei compiacere al nostro amico, e rispondere alla fiducia ch'egli ripone in me; ma sono anche amico del Cigàla, che è uno dei nostri, e non vorrei….

—Non ve ne date pensiero!—interruppe il Pietrasanta. Accettando, farete cosa grata anche a lui. Questo è un malaugurato negozio, nel quale devono entrare soltanto amici, persone le quali non si impuntino a voler sapere le cagioni dello scontro. Lo stesso Cigàla me ne ha mostrato il desiderio, dicendomi che insieme con me, dalla parte di Aloise, avrebbe veduto volentieri il Salvani, o voi. Ma il nostro Lorenzo è ammogliato; la sua luna di miele è tuttavia nel primo quarto….

—E fo voto che duri;—disse il Giuliani.—Or dunque, poichè la è così, accetterò; e siccome capisco che bisognerà anche far presto….

—Vogliono farla finita quest'oggi stesso. Siamo a mezzodì, e non c'è tempo da perdere.

—Che furia! Basta; così vogliono, e sia. Ma le
  armi?

—Non c'è nulla da fare; si sono già intesi tra di loro; ed hanno scelta la spada.

—Di bene in meglio!—esclamò il Giuliani.—Ma che farnetico li ha colti, di mandare innanzi le cose a questo modo, non lasciando niente da fare ai padrini? Io non ci vedo molto chiaro; e voi?

—Io sì, ci vedo!—rispose Enrico sospirando.

—Ma come? Aloise, tornato a mala pena da un mese, si guasta di punto in bianco col Cigàla, con un amico, con un giovanotto che non farebbe male, sto per dire, ad un mosca?…

—Sì, avete ragione,—soggiunse Enrico;—ma c'è di mezzo una ruggine antica. Parlo ad un amico mio e di Aloise, e neppur l'aria ha da risapere….

—Non dubitate, son mutolo.

—Orbene,—proseguì il Pietrasanta,—vi dirò tutto quel ch'io ne penso. Prima di tutto, sapete voi la cagione della partenza di Aloise un anno fa?

—Credo di averla indovinata; un amore sventurato. E il suo ritorno, mi sembra di averlo capito, un risanamento felice.

—No, qui non sono della vostra opinione. Giuliani. Aloise non è risanato. Non lo avete visto, che cera da funerale? Egli è tornato quello di prima, ed è tornato, m'immagino, perchè non gli dava più l'animo di viver lontano…. da lei. Destino! Ieri l'ha veduta per via. Ella passava, sulla piazza delle Fontane Amorose, in compagnia del Cigàla, che a dirvela di passata, salvo il debito della cortesia, non si cura di lei nè punto nè poco. Ma Aloise non la pensa così. M'ero già accorto, fin dagli ultimi giorni che egli rimase a Genova, innanzi di partire col duca di Feira, che la sua amicizia pel Cigàla s'era di molto raffreddata. Egli lo salutava a mala pena per via, e a qualche domanda che io gli feci, rispose con certe frasi scucite, da cui trapelava la stizza. Per farvela breve, Aloise s'era ingelosito del Cigàla; s'era fitto in mente che la dama non lo vedesse di mal occhio. Intorno a questo, non dico di no; ma che lo ami!… Quella donna non ama nessuno, non ha mai amato altro che sè medesima; la qual cosa, come voi ben potete argomentare, non darà troppo gravi apprensioni al tiranno di Quinto. Insomma, ieri Aloise ha veduto la dama, e il Cigàla che le veniva a fianco, ciaramellando allegramente, com'è suo costume; ed ella rideva, e non vide neppur noi, che stavamo a piuolo dieci passi discosto, sotto la base del palazzo Spinola. Ella del resto ci aveva le sue buone ragioni per non vedere, poichè Aloise, tornato dal suo viaggio, non è andato a salutarla, non ha portato neanche un biglietto da visita al palazzo Vivaldi. Il Cigàla, in quella vece, che non ci aveva le stesse ragioni, ci vide e salutò; ma Aloise lo guardò arcigno, e non rispose il saluto.—Perchè, gli dissi, non saluti il Cigàla?—Io? e che bisogno c'è egli di salutarlo, quello sciocco vanitoso?—Non aggiunsi parola, ed egli neppure; ma vidi, e non c'era bisogno di molta acutezza per vederlo, ch'egli era fortemente agitato. Questa mattina egli venne da me.—Ho parlato col Cigàla; mi disse, e ci siamo intesi.—Oh, meno male! risposi. E la nube si sarà dileguata?—Sì, disse Aloise, prega il Giuliani che voglia unirsi a te, per farmi ambedue da padrini. Noi ci batteremo oggi stesso, alle due…. alle tre…. insomma, prima che tramonti il sole, nella villa del Riario, in Polcevera; l'arma è la spada; tu porta le tue; il Riario ne porterà un altro paio.—E adesso avete capito. Giuliani? Che ve ne pare? Danno dello sventato, del pazzo a me; ma i più savi mi vincon la mano.—

Il Giuliani rimase un tratto sopra pensiero. Avvezzo a vederne di tutti i colori sulle scene della vita, non sapeva pure capacitarsi di questa. Ma che farci? Mosca Lamberti aveva ragione; cosa fatta capo ha.

—E il Cigàla lo avete veduto?—disse egli, dopo alcuni istanti di pausa.

—Sì, a caso, per via, mentre ancora io duravo fatica a riavermi dal colpo. Voi capite, Giuliani, che avevo tentato di smuovere Aloise, di fargli capire…. Ma sì, le furon novelle!—Tutto è inteso tra noi, mi rispose asciutto: l'essenziale è di farla presto finita, perchè stasera vorrei ritornare col duca alla Montalda; se mi ami come sempre, dammi una mano; se no….—Questo furono le sue ultime parole. Ed io, lo vedete, accettai. Tornando al Cigàla, eccovi ciò che egli mi disse:—Son lieto, in questa brutta congiuntura, di saperti dalla parte di Aloise, ed amerei che tu avessi a compagno un altro amico, o molto prudente, o molto ignaro delle cose nostre. Io ho scelto il Riario, che non sa nulla di nulla, e il Morandi, uomo serio, di poche parole e di nessuna curiosità, ai quali ho dato a credere che si tratti d'una questione politica, mutatasi sventuratamente in alterco. Aloise ha torto marcio. Io era andato stamane da amico, da fratello, a chiedergli perchè mi si mostrasse così sostenuto; mi dicesse in che avessi potuto dispiacergli, chè, senza ancora saperne nulla, io gliene dimandavo scusa. Egli mi rispose acerbo, e l'abbiamo finita come sai. Ha torto, lo ripeto; io non gli ho fatto nulla, non ho nulla a rimproverarmi che faccia contro ad una schietta e leale amicizia. Ho un sospetto, sai?… E qui, se pure ho indovinato, egli è fuori di strada. Ma egli m'ha offeso, e perdio! s'egli è valente schermidore, io non sono una sbercia, neanche al suo giuoco!

—Io vedo,—disse il Giuliani, il quale aveva attentamente ascoltato il racconto di Enrico,—che qui non c'è altro da fare che contentarli. Ma il duca di Feira, non ne sa nulla?

—Mah!—rispose Enrico, stringendosi nelle spalle.—Certo, Aloise non gli ha detto nulla: mi è parso così impaziente, così frettoloso, appunto per timore che il duca venga a sapere questa sua scappata. Povero duca! L'ho veduto poc'anzi in via Nuova; e m'ha salutato appena; forse aveva fretta egli pure. Non si riconosce più, quell'ottimo tra i gentiluomini: pare invecchiato di vent'anni. Anch'egli deve essersi avveduto che la piaga di Aloise, tutt'altro che rimarginata, si è inciprignita, ritornando all'aria di Genova.

—Basta;—notò il Giuliani, alzandosi da sedere;—purchè le cose vadano bene oggi, al resto si penserà; e il duca, che ama Aloise, non è uomo da starsene colle mani in mano, aspettando il rimedio dal cielo, come la manna gli Ebrei. Andiamo ora, coll'aiuto di Dio. Che ore sono?

—Il tocco, Giuliani; andando subito, potremo essere in carrozza alle due.—

Scambiate queste parole, uscirono, per correre dal Montalto, e far gli apparecchi della partenza. Aloise aveva già pensato e provveduto ad ogni cosa; le armi erano già nella carrozza del Pietrasanta, e il dottor Mattei, con tutto il bisognevole dell'arte sua, era agli ordini loro.

Un'ora dopo, debitamente avvisata la parte avversaria, che li precedette di parecchi minuti, i quattro amici, lieti nell'aspetto come se andassero a sollazzarsi in campagna, uscivano di città; giunti a Sampierdarena prendevano lo stradone della Polcevera.

Aloise era sparuto anzi che no, ma di buon animo, ilare, quasi festevole; e questo gli aveva fatto tornar sulle guance i bei colori della giovinezza. La giornata era bella, non fredda, e il sole mandava coi tiepidi raggi alla nuda campagna quasi un postumo saluto dell'autunno. L'immagine era di Aloise, che, come tutti sanno, era poeta nel profondo dell'anima, e in quel tragitto appariva tale due volte di più. Fu egli, per tal modo, che tenne desta la conversazione. Ringraziò il Giuliani del tempo che quasi perdeva per lui, togliendolo ad altre cure più gravi e più utili; ragionò della felicità del loro amico Lorenzo, di ciò che avrebbe potuto operare per la sua patria quel giovine generoso, ove lo consentissero i casi, e d'altre cose consimili, con facile eloquio, con mente serena. Tranne le speculazioni filosofiche, che non ci furono, pareva Socrate, innanzi di ber la cicuta.

Giunti che furono a Rivarolo, la carrozza s'avviò al ponte che mette alla destra riva del fiume, e per quella nuova strada, costeggiando le falde della collina di Coronata e Fegino, li condusse in pochi minuti al cancello della villa Riario. Colà smontarono, fra le riverenze di due contadini che li aspettavano per additar loro il sentiero: poco stante, alla svolta d'un viale che conduceva al palazzo, trovarono il Riario, il Morandi, il Cigàla, che insieme col loro medico salivano a lenti passi per l'erta.

Si salutarono tutti con molta cordialità; lo stesso Aloise si fece con atto grazioso incontro al Cigàla, e incominciò a ragionare con lui, come se eglino fossero i padrini, anzi che i combattenti. E questo s'intenderà di leggieri; quel duello, a cui si disponevano, era stato concertato da essi; le armi scelte da essi; era dunque naturale che provvedessero al resto.

—Ci batteremo su questa spianata;—disse Aloise, poichè furono giunti di costa al palazzo, dove, nell'ombra gettata dall'edificio, era un largo lembo di suolo al coperto del sole;—il terreno è battuto e liscio come un'aia; la luce uguale per ambedue.

—Ottimamente;—rispose il Cigàla;—non si potrebbe trovare un luogo più adatto.—

I padrini furono del medesimo avviso, poichè tosto si diedero a tutti i minuti uffizi della geodesia duellaria. E in quella che essi misuravano il campo e segnavano i punti per le mòsse dei combattenti, Aloise, preso pel braccio il Mattei, lo condusse passeggiando fino all'angolo del palazzo, donde si vedeva il cielo aperto, sereno in alto, e stipato al basso di nuvolette, che si dipingevano di vaghi colori ai raggi del sole.

—Guardate l'orizzonte, Mattei; quant'è mirabile per varietà di colori, per magnificenza di luce! Il sole è davvero un monarca, in tutto lo splendor del suo trono! Passerà un'ora, e questa sua pompa sarà finita, per ricominciare domani; e così via via fino alla consumazione dei secoli. Ma noi per fortuna non abbiamo bisogno di tanto; basterà quest'ora per sforacchiarci a dovere.

—E per una controversia ridicola!—sentenziò con accento di rimprovero il Mattei.

—Sicuro, ridicola, come tutte le controversie del mondo. Ve n'ha di serie, per avventura? E in tutte non siamo noi pronti a giuocare ugualmente la vita? Badate a me, Mattei;—proseguì con amaro scherno Aloise;—se ella valesse davvero qualcosa, non la porremmo a repentaglio per alcuna ragione; ed io certamente non la metterei a così vil prezzo come ora.

—E il duca?…—chiese il Mattei, come per richiamare l'amico a più teneri pensieri.

—Ah, non mi parlate del duca!—gridò il giovine
  sgomentito.

E rimase un tratto in silenzio. Indi, quasi volgesse la parola a sè medesimo, continuò:

—Ma, Dio santo, dovrò io dunque prolungare ancora questo martirio? Ed egli, vive forse più lieto, perchè io vivo e gli dò il quotidiano spettacolo de' miei patimenti?—

Il dialogo fu interrotto in quel mentre dai padrini, che annunziavano essere ogni cosa all'ordine. Aloise fu sollecito a mettersi in assetto di combattimento. La tempesta svegliata nell'animo suo dalle parole del Mattei, si dileguò in un attimo; ilare in volto si piantò di rincontro al Cigàla, e lo salutò col più gaio sorriso. Il Cigàla lo ricambiò cortese…. ma triste.

—All'armi, dunque!—esclamò Aloise, con quella serenità della quale aveva già fatto prova;—peccato che due gentiluomini come noi non siano qui venuti a combattere pei begli occhi d'una dama!

—Così pur fosse!—soggiunse il Cigàla, tenendo bordone al prudente artifizio o allo scherno dell'avversario, che ben poteva esserci dell'una cosa e dell'altra.—Io terrei la giostra con più di baldanza!

—Fate conto, Cigàla!—disse di rimando Aloise.—Figuriamoci ambedue che ella sia qui, questa sognata castellana, e che dall'alto di quel verone ella assista al torneo, per gittare col sommo delle dita un bacio a quella spada che uscirà tinta del sangue di uno di noi.—

Il Cigàla si morse le labbra, e non rispose più altro. Enrico intanto s'era fatto innanzi per offrir loro le spade. Le tolsero, salutarono alla svelta i padrini, ed impegnarono le lame.

XXXVII.

Tardi, ma in tempo….

Ambedue fecero bella mostra di loro prodezze; chè il Montalto, come è noto, era una lama gagliarda, e il Cigàla, come aveva detto con acconcia frase egli stesso, non era una sbercia. Ma più andavano innanzi, e più era facile il vedere che Aloise superava di gran lunga il suo avversario. Non schermiva, egli, scherzava col ferro; or senza muovere passo e quasi senza sforzo di mano, scompigliava un assalto; or minacciava a sua volta, incalzava, facendo luccicare la punta della spada sugli occhi del nemico, o rigirandola in rapidissimi cerchi sul petto di lui, nè mai sferrava la botta. Il Cigàla, così paziente come era animoso, assaliva senza fiacchezza, ma altresì senza stizza, e parando come meglio poteva, lasciando al fato la cura del resto. Ma il giuoco durava, e un dubbio gli balenò nella mente, e tremò d'essersi apposto. I suoi padrini, intanto, ammiravano il suo coraggio, ma tremavano forte per lui.

Essi ad un tratto respirarono, e il Giuliani e il Pietrasanta del pari. Stanco di quelle schermaglie, Aloise aveva voluto compir l'opera con un colpo maestro. In un batter d'occhio il Cigàla era stato disarmato; la spada, trattagli a forza dal pugno, balzava tre passi discosto sul terreno.

—Ah, lode al cielo!—esclamò il Morandi.—Per un meschino battibecco di politica, io spero che basti.

—Se già non ce n'è d'avanzo!—aggiunse, in atto d'assentimento, il
Giuliani.

E tutt'e due si movevano, per frapporsi e farla finita. Ma ciò che videro allora, li fece rimaner sospesi.

Aloise guardava il suo avversario, additandogli con piglio imperioso la spada, che giaceva sul terreno. Il Cigàla era rimasto perplesso, e con occhio mesto interrogava l'animo di Aloise. Questi allora, come ravvedendosi, fece un passo innanzi, porse la sua spada al Cigàla, che l'accettò silenzioso, e raccolta quell'altra, si rimise in guardia, temperando l'atto con una parola cortese.

—Da leali cavalieri! Io fo voto che la mia vi
  porti fortuna.

—Ma non basta, signori?—si provò a dire il
  Morandi.

—Pare di no:—disse il Cigàla, con accento malinconico.—Non ci badate, amici; abbiamo concertato noi ogni cosa.—

E si rimise in guardia a sua volta. Aloise, lo ringraziò con un cenno del capo, e il duello ricominciò.

—Soltanto, non mi risparmiate, come avete fatto finora;—soggiunse il
Cigàla;—ch'io farò il mio potere.

—__Allah kerim!__—rispose il Montalto, coll'accento e col piglio dell'arabo fatalista.

Ma tosto, per tema d'esser capito, ingaggiò un assalto vigoroso. Le lame si cercavano, si seguivano in giri traditori, si allacciavano, si sbrigavano con celerità meravigliosa. Il Cigàla faceva tutto il poter suo, ma sempre rompendo la misura, che non bastava a tanto incalzar di proposte. E tuttavia, egli ben lo vedeva, la lama di Aloise non giungeva mai al suo petto. Affascinato dal suo sguardo, indietreggiava parando, e minacciando vanamente; i suoi occhi già più non badavano alla lama; solo il pugno, istintivamente, seguiva il ferro avversario. E v'ebbe un istante che egli, così stretto da vicino, e non toccato mai, diede un'occhiata mestissima al suo avversario, e le sue labbra mormorarono, tra lo sgrigiolar delle spade, il nome di Aloise. Ma il suo avversario, proprio in quel mezzo, aveva conseguito l'intento; sollevata la punta della sua lama per modo che non offendesse il Cigàla, s'era spinto sotto la misura, precipitato contro il ferro nemico; indi balenava un tratto colla spada in alto, e stramazzava al suolo.

L'orribile scena era durata due minuti, non più. All'improvvisa catastrofe, accorsero i padrini per rialzare il ferito. Il Cigàla era rimasto attonito, esterrefatto; guardava il caduto con aria smarrita, e guardava la punta della sua spada, senza intendere per qual modo fosse tinta di sangue.

—Un suicidio!—esclamò sommesso il Mattei, mentre, inginocchiato al fianco di Aloise si disponeva a visitar la ferita.

—No;—rispose sollecitamente il giovine;—avevo troppo spinta l'azione, e mi sono infilzato. Cigàla,—aggiunse poscia stendendo la mano a quell'altro, che s'accostò a lui più morto che vivo,—senza rancore!

—Oh, Aloise!—gridò quegli, dando in uno scoppio di pianto,—dimmi che non sono stato io!

Aloise gli strinse la mano.

—Io te lo giuro,—proseguì l'altro, prostrato daccanto a lui,—te lo giuro per l'anima di mia madre, tu ti sei ingannato! Sentimi, Aloise, tu risanerai; il cielo ci concederà questa grazia. Vedrai allora il tuo povero amico, se meritasse un sospetto. Oh, io attendo ora, invoco una guerra sollecita, e una palla d'Austriaco, che mi tolga il rimorso.—

Fu un vaticinio; cinque mesi dopo, il Cigàla, valoroso cavaliere, dava la vita nell'ultima carica di Montebello.

—Chiedo un po' di silenzio!—disse il Mattei, che stava continuando la sua esplorazione chirurgica.

Ed aggiunse anco un'occhiata eloquente al Morandi e al Riario. Questi si avvicinarono al Cigàla, e lo trassero, sebbene riluttante, fuori del campo.

Rimasto solo coi medici e co' suoi padrini, Aloise rivolse la parola al Mattei.

—Orbene;—diss'egli a mezza voce,—e quel filosofo greco?

—Che dite voi?—chiese il medico.

—Sì,—continuò il ferito,—l'enfisema!

Il Mattei stette mutolo, ma non gli venne fatto reprimere un sospiro. L'uomo dell'arte aveva riconosciuto come la ferita fosse profonda pur troppo, e come il ferro del Cigàla avesse dovuto penetrare obliquamente fino al pericardio e all'orecchietta destra del cuore. Questo gli dicevano le sue esplorazioni, questo gli era confermato dal pallore estremo del volto, dal respiro che cominciava a farsi affannoso.

—Tanto meglio!—disse allora Aloise.—Debbo dir due parole al Pietrasanta, al Giuliani. Amici miei, vi ho fatto un tristo regalo. Perdonate! A che gioverebbe l'amicizia, se non potessimo fare assegnamento sovr'essa pel nostro bisogno? Ora io vi prego di un'ultima grazia…. Portatemi stasera alla Montalda….

—Sarà impossibile…. per molti giorni ancora….—balbettò il
Giuliani.

—Vedrete che si potrà…. senza pericolo!—rispose con un mesto sorriso il ferito.—Vorrei essere sepolto accanto a mia madre, e accanto a lui…. che non sarà tardo a seguirmi. Anch'egli è ferito nel cuore. Ditegli che mi perdoni…. di non averlo aspettato…. e che il mio ultimo pensiero è stato per lui….—

Il Giuliani e il Pietrasanta si stempravano in lagrime. Il Mattei, col suo triste silenzio, diceva assai chiaramente che non c'era speranza.

Il ferito aveva chiuse le palpebre. Il suo volto s'era fatto smorto; solo il respiro affannoso lo diceva ancor vivo, e mal vivo.

—Ho freddo!—mormorò egli poco stante.—Vorrei essere al sole.—

Il Pietrasanta e il Giuliani volsero gli occhi al Mattei. Questi assentì con un cenno del capo, ed anzi fu pronto, insieme coll'altro medico ad aiutarli, per trasportare il morente oltre l'angolo del palazzo. Tanto e tanto, di là si dova passare per condurlo dentro.

Il sole era presso al tramonto. I suoi raggi rossastri apparivano ancora dal ciglio dei colli, che nascondevano bensì l'orizzonte, ma non il vasto padiglione di porpora sotto il quale veniva morendo la luce dell'astro.

—Bel sole! bel sole!—disse Aloise, riaprendo le palpebre, e volgendo una languida occhiata a quello splendore di cielo.—Come è bello il tuo morire…. ed il mio! Grazie, Mattei! Giuliani, grazie! Sarei morto volentieri in guerra, per la mia patria. Non ho potuto aspettare! E tu, Enrico….—

Il Pietrasanta chinò il viso su quello del giacente, quasi per coglierne le ultime voci.

—Non amare, Enrico…. non amare!… Ci si lascia….—Un grido del
Pietrasanta gli tolse di finire la frase.

—Che cosa?—domandò il morente.—Che cosa hai veduto?… Lui?

—E lei;—rispose il Pietrasanta, sollevandolo amorevolmente tra le sue braccia.—Coraggio, Aloise, coraggio!—

Ma prima ch'egli avesse finita la sua esortazione, una donna smarrita all'aspetto, come fuori di sè, veniva tutta lagrimosa a buttarsi ginocchioni a' piedi del ferito.

—Ah!—mormorò Aloise, riconoscendola, e stendendo le braccia verso di lei.

Il duca di Feira, che l'aveva accompagnata fin là, rimaneva alcuni passi discosto, pallido, ansante, anch'egli più morto che vivo.

—Come qui?—gli chiedeva il Mattei.—Fosse almeno arrivato dieci minuti prima.

—Ahimè!—rispose il vecchio gentiluomo.—Fu già molto per noi aver saputo il luogo e l'ora dello scontro. Il cocchiere, sventuratamente, non conosceva bene la strada. Così abbiamo perduto mezz'ora. E anch'io speravo tanto che la signora potesse giungere in tempo! Ella aveva così bene disposto ogni cosa!—

Era ella, infatti, la marchesa Ginevra, che il giorno innanzi, dopo il malaugurato incontro col signor di Montalto, aveva capito da un improvviso rannuvolarsi del suo cavaliere, per solito di umor così gaio, che qualche cosa dovesse succedere. Non gli aveva chiesto nulla; ma quella sera stessa, chiamando a sè con qualche pretesto gli amici comuni dei due gentiluomini, era venuta a capo di stabilire un buon servizio di esplorazione. Quella mattina stessa aveva saputo che la sfida era corsa, e dove fosse e per qual ora il ritrovo. Lo stesso Riario si era lasciato cavare il segreto di bocca. E allora, senza por tempo in mezzo, aveva mandato a chiamare il duca di Feira, chiedendogli di accompagnarla al luogo dello scontro. Non sentiva ragioni; non vedeva difficoltà, non curava pericoli, non temeva di ciò che potesse parerne in casa sua, e molto meno di ciò che potesse dirne la gente. Non voleva quel duello, il cui esito poteva esser fatale a qualcheduno. Ma infine, il signor di Montalto era un fortissimo schermidore, ed anche un cavaliere generoso; tratto sul terreno il suo avversario, si sarebbe mostrato anche umano, risparmiando il Cigàla. Era questo il pensiero del duca. Ma il duca non l'aveva capita. Che importava a lei del Cigàla? Appunto perchè il signor di Montalto era un cavaliere generoso, ella temeva per lui. E non voleva essere abbandonata in quel tristissimo frangente dal duca; alle due del pomeriggio l'aspettasse sulla piazza dell'Annunziata; avrebbero presa una vettura di piazza, e via, poichè sapevano dove fosse il ritrovo, ed erano sicuri di giungere in tempo. E il duca aveva acconsentito. Come fare altrimenti, del resto? Anch'egli incominciava ad impensierirsi, per gli stessi timori di lei. Ed erano corsi sull'orma dei combattenti; ma giungevano tardi; colpa del cocchiere, che non conosceva bene dove fosse la villa Riario; più che colpa del cocchiere, ironia del destino!

Intanto la bella Ginevra era già tutta prostrata al fianco del morente. Si erano ritirati gli amici, intendendo la gravità del momento: solo era rimasto, perchè avvicinatosi allora, il Mattei. Lo vide Aloise, e stendendogli la mano con atto supplichevole gli disse:

—Ah, dottore, ancora pochi istanti di vita!

—Sì, sì e speriamo di uscirne ancora;—rispose il Mattei;—ma siate calmo, Aloise.—

Un lieve sorriso increspò le labbra del giovine.

—Son calmo, sì, calmo…. e contento;—diss'egli.—O Dio, che momento è questo? Siete dunque voi, madonna Ginevra?—soggiunse, volgendosi alla bellissima creatura, che stava sempre prostrata, inclinando il volto su lui.

—Io, sì,—rispose ella, avvicinandosi ancora;—io, che vi ho sempre amato, Aloise.—

Sussultò alle inattese parole il morente, e aperse gli occhi, quanto più gli venne fatto, contemplandola estatico.

—Non Aloise;—mormorò egli poscia.—Goffredo…. Goffredo Rudel! La contessa di Tripoli, pietosa, è venuta a consolare gli ultimi momenti del suo servo fedele.

—Fedele, sì, ma senza fede in lei!—diss'ella, con accento di dolce rimprovero.—Che idea, questo duello!

—Dica questo suicidio!—esclamò il Mattei, traendosi indietro, con le palme alla fronte.

—Ah, il cuore me lo diceva, pur troppo!—gridò la marchesa, impallidendo.—Come tutto ha concorso ad ingannarlo! Ed anche io, conoscendoti male, mi ero tanto ingannata! Aloise, dimmi che mi hai perdonato!

—Vi adoro;—rispose il giovine, con un filo di voce, in cui si raccoglieva tutta l'anima sua.

E le sue labbra, già fatte smorte, si muovevano implorando. E sovr'esse intendendo la muta eloquenza dell'atto vennero ardenti a posarsi le labbra di lei.

—Sono felice;—diss'egli.—Come è più dolce, ora, il morire! Sia ringraziato il Signore della misericordia, ed accolga l'anima mia!—

Il doloroso momento si avvicinava. Una spuma rossastra apparve sulle labbra del giacente; al sommo del petto un tremito violento e continuo indicava gli sbalzi del cuore, così rapidi e pazzi, sul punto di ridursi all'inerzia finale. Ancora una volta il morente tentò di aprir gli occhi; ma non gli venne fatto che a mezzo, e le sue mani si irrigidirono in una stretta suprema su quelle di Ginevra. Era l'addio della partenza. L'ultimo raggio del sole si nascondeva dietro il colle di Coronata, e l'anima di Aloise di Montalto fuggiva da quelle labbra smorte che il bacio di madonna Ginevra aveva poc'anzi allegrate, premiando l'amor più profondo e più forte che mai sentisse il cuore di un uomo.

La povera Ginevra fu tratta a forza di là dal Mattei, e ricondotta in città dal duca di Feira, che seppe dominare il suo profondo dolore per confortare l'altrui. Il vecchio gentiluomo era avvezzo oramai a soffrire. Andò dunque al suo ufficio di pietà e di cavalleria: lo aspettassero i dolenti amici alla villa Riario, dove sarebbe ritornato sollecitamente all'obbligo suo.

Di ciò ch'era venuto, dopo lo scontro fatale, fu giurato da tutti i presenti il segreto: anche per qualche tempo fu mantenuto, e quel tanto che ne sfuggì poi alla discretezza di alcuni, fu piuttosto vagamente accennato che detto. Ma qualcheduno, e in quella medesima sera, dovette pur chiedere perchè la marchesa non fosse in casa per l'ora del pranzo, e perchè, tardi arrivata, si chiudesse nelle sue camere, non volendo veder nessuno, negando di dar ragguagli, sdegnando di scendere a giustificazioni.

Il marchese Antoniotto aveva un suo modo particolare di manifestare la sua scontentezza; ma quel modo non si poteva usare con la marchesa Ginevra, come con la gente di servizio, o con altra classe dei suoi dipendenti. Perciò il tiranno di Quinto si chiuse in un mutismo, che non era senza una cert'aria di dignità, e diciamo pure di grandezza. Ma il giorno seguente, essendosi sparsa la voce del duello e della morte del signor di Montalto, il marchese Antoniotto non ebbe bisogno di sapere più altro; e stette più duro che mai.

La spiegazione domestica, per altro, non poteva farsi troppo aspettare; e venne infatti, dopo una diecina di giorni. Più lente a venire furono le conseguenze di quella spiegazione. Anche più lente le avrebbe volute il marchese Antoniotto; per togliere ogni appiglio a sospetti, a ciarle di scioperati, consigliava di non chiuder l'uscio ai piccoli ricevimenti, e di far buona cera alle visite. Ma sarebbero state ipocrisie; la marchesa Ginevra non ne volle sapere. Così venne la necessità di una risoluzione ardita: lei, per ragioni di salute, all'aria delle Langhe, nel suo castello di Valcalda; egli, per ragioni di studio, nella villa di Quinto.

Ciò che avvenne di lui s'è già visto; di lei si può aggiungere che dal suo castello, diventato convento, non uscì più fin che visse, tranne due volte l'anno, per giungere alla stazione di Pontedecimo, e salire di là fino alla Montalda. Per il primo anno ebbe il duca di Feira, ospite cavalleresco, e compagno premuroso nella visita alle tombe dei Montalto: lui morto indi a poco, ebbe ospiti cortesi i Salvani, che l'accompagnavano fino all'ingresso della chiesina di famiglia, lasciandola sola lunghe ore davanti alla tomba di Aloise.

E così fu per quindici anni ancora. Poi, ella non apparve più. La bella Ginevra dagli occhi verdi, la più ammirata tra le belle di cui Genova andò sempre meritamente superba, era morta. Felice anche lei! Tardi, ma in tempo per elevarne lo spirito, si era animato il suo cuore.

FINE DEL SECONDO ED ULTIMO VOLUME.

INDICE DEL SECONDO VOLUME.

  I. Di ciò che avvenne e di ciò che non avvenne la
  notte del 29 giugno Pag. 3

  II. Dove si legge come andasse a finire l'impresa
  di Lorenzo Salvani » 10

  III. Di una corte d'amore, la quale fu tenuta nel secolo
  decimonono » 21

  IV. Qui si racconta di Goffredo Rudel, come per
  amor si morisse » 34

V. L'uomo propone e la donna dispone » 45

VI. Dove si legge di tre naviganti che avevano perduta la bussola » 54

VII. Nel quale si racconta chi fossero i Templarii » 63

VIII. Nel quale si disputa lungamente intorno all'origine della donna » 70

IX. Dove si chiarisce la bontà del metodo induttivo » 77

X. Qui si dimostra che, per far la guerra a modo, ci vogliono alleati » 86

XI. "Tra male gatte era venuto il sorco." » 95

XII. Il quale par fatto a posta per servire d'intramessa » 102

XIII. "Se Messenia piange, Sparta non ride." » 112

XIV. Intimazione di resa » 120

XV. Nel quale è detto perchè la signora Marianna sapesse di tabacco » 130

XVI. Di una finestra che fece aprire una porta » 144

  XVII. Nel quale si dimostra fin dove giungesse la scaltrezza
  d'un gobbo » 151

  XVIII. Come qualmente mastro Pasquale perdesse il
  pentolino » 163

XIX. Come una buona azione ricevesse il suo premio » 170

XX. Nel quale si fa la conoscenza d'un nuovo personaggio, che non giungeva altrimenti nuovo al Giuliani » 178

  XXI. Dove si vede come si possa avere un amico, senza
  sapere il suo nome » 186

  XXII. Qui si conta del Giuliani, come sapesse afferrar
  l'occasione pel ciuffo » 193

XXIII. I presentimenti della vigilia » 202

  XXIV. Che potrebbe, in via di metafora, intitolarsi "La
  prima ai Corinzii" » 212

  XXV. Nel quale i lettori più scarsi d'ermeneutica avranno
  la spiegazione della "Prima dei Corinzii" Pag. 221

  XXVI. Come Bonaventura trovasse impedimento tra l'uovo
  e il sale » 233

XXVII. Occhio per occhio, dente per dente » 242

XXVIII. Che le signore donne sono pregate a non leggere » 251

XXIX. Nè vivere, nè morire » 261

XXX. Come le armi di Bonaventura servissero al duca di Feira » 269

XXXI. Donna senza cuore, rosa senza odore » 278

XXXII. Veteris vestigia flammae » 292

XXXIII. Una sola, e per sempre » 297

XXXIV. Post nubila Phoebus » 307

XXXV. Dal campo dell'Iliade alla patria di Omero » 317

XXXVI. Come fosse guarito Aloise di Montalto della sua pena di cuore » 326

XXXVII. Tardi ma in tempo…. » 336

End of Project Gutenberg's I rossi e i neri, vol. 2, by Anton Giulio Barrili