The Project Gutenberg eBook of Esilio

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Title: Esilio

Author: Ada Negri

Release date: June 19, 2011 [eBook #36792]
Most recently updated: July 19, 2011

Language: Italian

Credits: Produced by Maria Grazia Gentili and the online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net

*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK ESILIO ***
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ADA NEGRI

ESILIO
MILANO
Fratelli Treves, Editori
1914

Terzo migliaio.
PROPRIETÀ LETTERARIA.
 
I diritti di riproduzione e di traduzione sono
riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la
Norvegia e l'Olanda.

Tip. Fratelli Treves.—1914

Indice

SOLITUDINI

SORELLA ANNA

Chiama chiama—ed alcun non le risponde—
la Donna prigioniera nella Trappa:
dello spiraglio ai ferri ella s'aggrappa,
livida tra le sparse ciocche bionde:
 
notte e giorno, alba e vespro, estate e inverno,
chiama ed attende, chiama e spera, chiama
e piange:—taglia l'aria come lama
lo stridor vano del singhiozzo eterno.

*

«Sorella Anna, tu che insonne vegli
sulla torre più alta, e conti gli astri
e le nuvole in cielo, e i vïolastri
veli dell'alba cingi a' tuoi capegli:
 
se è ver che la Speranza t'assomiglia
e che il tuo sguardo scorge oltre il mistero,
mira se lungi appaia un cavaliero
lanciato a corsa su disciolta briglia.
 
Forse or non è che un punto all'orizzonte,
solo un punto: e convien, sì, ch'ei galoppi!...
Ma è lui: verrà: l'attendo ormai da troppi
anni: verrà dal mare, o pur dal monte.
 
La prigion che mi serra ha sette porte,
ognuna è chiusa a sette catenacci:
Sorella Anna che lassù t'affacci,
prima ch'ei venga, ahimè, verrà la morte!
 
Se tu mi chiami, forse io non ti sento,
sì concitato è il rombo delle vene.
Polsi pieni di battiti, più lene
segnate, in grazia, il ritmo del tormento!
 
S'io mi conficco l'unghie dentro il palmo,
mi placo.... Come, là in un canto, il viscido
e cauto ragno a sè tessendo i lisci
cerchi della sua tela appar sì calmo,
 
io la mia tesserò, con passïone
tenace, con fibrille del mio cuore,
con sogni e sogni: e per eluder l'ore
io farò del mio pianto una canzone....
 
Ma ten prego, se avvien che alcun tu scorga,
agita il velo, gridagli che sproni
la corsa a volo, pria ch'io m'abbandoni,
soffocata dal sangue che s'ingorga!...»

*

.... Il tempo stilla, in fredde gocce.—È morta
l'Anima, o sul suo spasmo si rannicchia,
muta ascoltando se una nocca picchi
nel muro, o un pugno scardini una porta?...
 
Il tempo stilla.—Un anno? o dieci? o un'ora?...
Non chiave nelle ferree toppe stride.
Dall'alta torre che nel ciel s'incide
Sorella Anna si protende ancora.

XXXI DICEMBRE

Trentun dicembre, mille e novecento
undici, mezzanotte.—Taci e pensa,
anima.—Nella vigile ed intensa
tua fiamma, vivi; ma il Destino è spento.
 
Più non si specchia innanzi a te il domani.
Nulla aspetti, nè chiedi. La speranza
sparve, col sogno. Il tempo che t'avanza
sarà come la sabbia fra le mani.
 
Troncato è il laccio che alle creature
t'avvinse, pel tormento e per l'ebbrezza.
—Lontanissima, e sola.—Hai l'aridezza
della rinunzia sulle labbra dure.
 
Nella rigida notte, aspre le stelle,
simili a chiodi per martirio infissi
nelle vôlte dei cieli, entro i tuoi fissi
occhi incrociano l'iridi sorelle.
 
Fuor del tempo, del peso e dello spazio,
da te sôrta, in te chiusa, in te bastante,
stai. Si consunse il corpo palpitante
nelle stimmate stesse del suo strazio.
 
Quel che ti scosse, amore, odio, rimorso,
quand'eri carne appassionata e cuore
schiavo, e fece di te tutto un dolore
vile, in ansia di tregua o di soccorso,
 
or cadde: è cencio a terra, è coccio a mare.
Nuda or tu sei fra veli d'aria: forte
di te soltanto: e ignori se sia morte
o vita la tua nova alba stellare.
 
Vegli fra due voragini, in oblìo.
.... Vuoto di solitudini senz'orme,
rombar sordo di fiumi, alito enorme
di venti, ombre di nubi....
 
Ascolta.—È Dio.—

PAROLE NON DETTE

Parole che la bocca mai non disse,
per pietà, per orgoglio o per paura,
che ai labbri spinse una demenza oscura,
che un più forte volere ivi confisse:
 
parole non di suono ma di palpito,
miste al sangue pulsante, alla saliva
di che il tacer s'abbevera, alla viva
carne che soffre, al cuor che batte a scalpito:
 
han, nel profondo ove s'accolgon bieche,
(e chi dir non le volle in sè le udrà
sempre) un'allucinante fissità
di facce spente, di pupille cieche.
 
O creatura dalle chiuse labbra,
sulla parte di te che fu soppressa
il tuo silenzio è pari a una compressa
gelida su ferita che si slabbra.
 
O creatura che disìo non chiama
più, che amor più non sveglia!... Un'ora sola
a te segnava Iddio per la parola
che non dicesti: ed or dentro ti clama.
 
Rannìcchiati in disparte, ingoia il pianto,
avvilùppati d'ombra. È tardi adesso
per la tua verità. Tu sei già presso
la soglia eterna, ove il silenzio è santo.

LA CASA DEL SILENZIO

Casa ch'io sogno, le tue basse mura
soffoca, a spire, l'edera malvagia.
D'intorno, ove la piana ampia s'adagia,
una quiete millenaria dura.
 
La passïon dell'edera t'allaccia
tutta, dalle radici alla cimasa.
Tu quasi il sol più non iscorgi, o casa
bruna, nascosta in boschi senza traccia.
 
Attinge l'acqua con antica corda
al pozzo, e coglie l'erbe, e l'acciarino
batte, per suscitar dentro il camino
la fiamma, una schiavetta muta e sorda.
 
Nel focolare ardono ceppi enormi,
e le mobili lingue azzurre e gialle
s'inseguono, s'intrecciano, farfalle
e serpi, in guizzi, in fughe, in nodi informi:
 
l'allegrezza selvaggia della vampa
sibila, rugge, splende, s'invermiglia
d'odio e di sangue, e snoda ed attorciglia
tentacoli.—E m'esalto, io, della vampa.—
 
D'essa mi nutro, e del mio chiuso cuore.
Ho, per la sete, qualche frutto, e il secchio.
Ricopersi d'un vel ciascuno specchio
per non tremar davanti al mio pallore.
 
Ch'io non ricordi!... Che il passato in torbide
acque sprofondi come bestia morta
scagliata a fiume lungi dalla porta
di casa, a che il suo lezzo non ammorbi!...
 
Ch'io non ti porti più così ferita
pel mondo, camminando su rasoi
taglienti, anima ignuda, che non vuoi
morire, e tanto sprezzo hai per la vita!...
 
.... Giardin ch'io sogno, i tuoi cancelli spranga.
Bizzarri e inestricabili viluppi
di tronchi e fronde, e rose e rose a gruppi
sorgon dal suolo che non sa la vanga.
 
In te il silenzio è cosa viva, ch'io
stringo a me come un mazzo di corolle.
D'esso mi nutro, e del mio sogno folle.
D'esso mi fascio, e son simile a Dio.
 
Che è che romba per gli androni, ed empie
di sè la casa, e palpita e volteggia
nell'aria?... È il cuore, è il cuor che mi vaneggia,
è il sangue che mi batte entro le tempie.
 
Che è che balza su la brage, e nella
cappa rugge una sua rossa parola?...
.... Anima, tu, che esulti d'esser sola,
e ardi, e dal tuo rogo esci più bella.

LA SOGLIA

La soglia è grigia, di corroso sasso.
L'erba s'inciuffa tra le fenditure.
Offese il tempo un «salve» inciso in pure
linee di grazia sul gradino basso.
 
La gran porta di quercia non ha chiave
per aprir, non anello sul battente.
Immota, nulla vede e nulla sente
dalla prim'alba al palpitar dell'ave.
 
—Pietra, e silenzio.—Investe a vampe il sole
il travertino antico, e lo schiaffeggia
la pioggia, e in gelidi aliti volteggia
la neve ad esso intorno, e le viole
 
spuntano tra gli spacchi, e fruga il vento
dove può, come può, strisciando al muro:
muta la porta sta, quale su duro
volto un serrato labbro vïolento.
 
Dietro di sè con spranghe e con uncini
di ferro asserragliandola, gli Amanti
stanchi del mondo e de' suoi vani incanti
la sbarrarono un dì contro i destini.
 
Stanchi del mondo e sol di sè beati,
l'un sul labbro dell'altra, il verde assenzio
bevvero dell'esilio e del silenzio,
ne l'immemore gaudio avviticchiati.
 
Che fu di loro?... In essi ancor non langue
la febbre che li fa con torvo acrore
cercar coi baci entro la carne il cuore,
ed agli amplessi dà sapor di sangue?...
 
O pur la sazietà così li torse
che l'un nell'altra incastrò l'ugne a scempio,
sibilando, accanendosi nell'empio
strazio, che in arma il pazzo amor ritorse?...
 
O pur, per vie segrete, per recessi
opposti, al sol tornarono, alla vasta
luce, alla libertà che amor sovrasta,
in cerca d'aria, in cerca di se stessi?...
 
.... Pietra, e silenzio.—Sulla soglia l'erba
cresce, e s'affolta, solo umile accento
di vita; e par che plachi in cento e cento
piccoli baci una follia superba.
 
Dice: Perchè?...—Con un aulir selvaggio
e dolce, dice: Si trasforma amore.
Casa che soffri come un chiuso cuore,
perchè non t'apri, ora che torna maggio?...

LE DUE SIEPI

Sale a fatica—e come il piè la regga
ignora, e come a sè dischiuda il varco—
fra i rovi aguzzi di due siepi ad arco
la Donna che non ha chi la sorregga.
 
Dalla diritta tunica vermiglia
emerge, quale fiamma dalla face,
il volto, che un'insonne e pertinace
cura protende, solca ed assottiglia.
 
Non più di carne: d'anima è quel volto
senza bellezza, senza gioventù.
E pur nessuna donna al mondo più
superba apparve, nel suo crin disciolto.
 
Chiude, è vero, le pàlpebre sugli occhi
talvolta, stanca; con la floscia piega
sui labbri di chi sè da sè rinnega,
mal raffrenando il pianto che trabocchi.
 
Si domanda: Perchè?...—Se una parola
le alitasse, or, sul collo, e fosse bacio
più che parola!... se, improvviso, un laccio
umano le cingesse, ora, la gola!...
 
Ma a un sasso inciampa, a un pruno irto le mani
punge. Sovvienle allor del suo destino.
Non ha che sè, per compiere il cammino.
Non ha che sè, per l'oggi e pel domani.
 
Beve alle pozze d'acqua, strappa more
alle due siepi, e cupida le addenta.
Sol di questo, e d'un sogno, ella alimenta
il soffio della vita interïore.
 
Ella sa d'un giardino ove i rosai
l'attendono, dai calici di fuoco
l'anima vaporando a poco a poco
verso l'Ignota che non giunge mai.
 
Là, fluir d'acque, murmuri di brezza
densa d'essenze, letti d'erba, aurore
sacre: là, quella in cui non osa il cuore
cullarsi, insostenibile dolcezza....
 
Sorgerà un giorno, per magia, per gioia,
nel suo gran verde, a sommo della strada.
Purchè l'orme non sien false; e non cada
ella contro le siepi, e non vi muoia!...
 
.... Giunge.—Ma innanzi al devastato campo,
ai mozzi tronchi, ai rami ignudi, serra
l'unghie nel palmo: poi s'accoscia a terra,
come la fiera che non ha più scampo.

SERVIRE

Poi che ogni donna è al mondo per servire
con la carne caduca e l'immortale
spirito acceso, docile fra il male
e il ben, soggetta in piangere e in gioire:
 
poi che ogni donna è ancella a chi le prenda
per vïolenza il palpitante cuore,
io riconosco, o Dèspota Dolore,
su me la tua sovranità tremenda.
 
Amo il tuo bacio, ch'è morsicatura
perversa, e n'ho sul petto e in faccia i lividi.
Tu ti diverti a torturarmi, e i brividi
misuri e godi della mia paura.
 
Ti nascondi, talvolta: e allor m'avvedo,
ecco, ch'è maggio, e che nel ciel le stelle
son come i fiori sulla terra; e delle
stelle e dei fiori uguale, ecco, mi credo.
 
Ma tu, ch'eri in agguato, a un tratto l'ugna
m'affondi in collo, e sì mi scuoti, e a sangue
baci e maltratti: ed io m'affloscio, esangue,
fra le tue braccia molle come spugna.
 
Mi sei buono, talvolta, e suggi lieve
le mie lacrime calde dalle ciglia;
ma io sorrido senza maraviglia,
chè troppo so come la sosta è breve.
 
Terribili silenzi son fra noi,
talvolta. Immoto, tu somigli a un morto,
ma vegli. Immota, perso in te lo smorto
viso, nel cuore io medito de' tuoi
 
celati artigli l'azzannar protervo,
repente.—Se tu vuoi, potrò domani
morire. Mi sarà, dalle tue mani,
dolce. T'amo così. Così ti servo.

PÀNICO

Paura della vita, a tradimento
or su me piombi, e il tuo nodo scorsoio
mi getti al collo; ed in me stessa io muoio
senza morire, diaccia di spavento.
 
Ed i giorni e le notti che verranno
m'appaion come maschere impenetra-
-bili; e con peso di massiccia pietra
l'ieri e l'oggi sul cuor lividi stanno.
 
Da coloro che un dì chiamai fratelli
sì lontana mi sento, che a soccorso
non grido: non udrebbero: ahimè!... corso
troppo ho dinanzi a lor, con piè ribelli.
 
Ciò che fu non è più—ciò ch'è presente
non vale—sul futuro c'è una porta
chiusa, di bronzo.—Io son fra quella porta
e il mio terrore.—Io son quasi demente.
 
Pure conviene attender l'alba, attendere
con piè fermo, con fisso occhio, il ritorno
del sole. E il sol guardare, e il chiaro giorno
godere, come un fior—senza comprendere.

COMPRENDERE

No!... Comprenderti voglio, o vita, o vita
che m'attanagli con sì dure branche,
e a prova nelle mie viscere stanche
prima scavi poi baci la ferita.
 
Io non ho membro che non porti il segno
della tua vïolenza—e il sanguinante
mio cor t'ha in sè confitta, rutilante
scure che strappa alla radice il legno.
 
Quando comprenderò, forse il tuo gioco
barbaro diverrà per la mia mente
un nulla, un fior che sboccia, una vanente
nube, vermiglia del tramonto al fuoco.
 
Quando comprenderò, ti sarò grata
forse del vario strazio che m'infliggi,
torturatrice, che unghia e dente figgi
dove la carne più ti par malata.
 
Dimmi il perchè, se un perchè esiste. Io voglio
saperlo, per gioirne; e del dolore
far delizia pei sensi, urlo d'amore
per l'anima, corona per l'orgoglio.

LA COPPIA

Passa una coppia, ove non è la luna.
Risa sommesse. Aneliti. Carezze
senza pietà, come vendette. Asprezze
di baci folli. Poi, silenzio. È l'una.
 
Si smemora la notte, in un'insania
dolce. È il languor dei grappoli d'acacia.
È quella coppia in ombra, che si bacia.
È l'aroma del filtro di Brangania.—
 
.... Tu che fai qui?... Rasenta i muri, e asconditi
il viso coi tuo vel, tu che sei sola!...
No.—Resti.... Non v'ha lacrima o parola
di rimpianto nei calmi occhi profondi.
 
Sola sei, con la nera ombra difforme
tua, che t'insegue sul pallor sidereo
del marciapiede. E fredda, nel cinereo
volto di sfinge e dentro il cuor che dorme.
 
Pur ieri ardevi sino alle midolla
del fuoco per cui sol bella è la vita.
Chi ti strappò l'anello dalle dita?...
Chi a te del sogno inaridì la polla?...
 
.... Vedesti il teschio nello specchio, tu.
Quei felici che passano, non sanno,
ma sapranno.—Oh, il gran ghigno dell'inganno
in quella lastra!...—Ora non soffri più.—

A UN SUICIDA

Stolto!... Ed eccoti lì, come uno straccio.
Che anima di crusca avevi tu
mai, che al primo fendente, a mucchio, giù
t'è sfuggita?... Sei vuoto, ora. Sei diaccio.
 
Sei una cosa inutile, che il piede
getta da un lato, e terra copre, e croce
non vuole. Non più bocca hai per la voce,
nè mano per carezza, e cuor per fede.
 
Ah, sol per questo, vivere era bello,
sia pur soffrendo!... Piangere o godere,
abbrividir di strazio o di piacere,
che importa, pur di esistere, o fratello?...
 
Io non voglio il tuo sonno. Io d'una cosa
sola ho il ribrezzo: della morte.—Il resto
è gioco, anche il dolor più orrendo, questo
dolor, che tutta m'ha pesta e corrosa:
 
e più esso m'affanna, e più vibranti
fiamme attizzo al mio fuoco d'energia:
e poi che andar bisogna, e tu la via
mi sbarri, ti scavalco,—e passo avanti.

IL POZZO ABBANDONATO

In fondo al pozzo abbandonato è notte.
Muffe rampanti, viscidi licheni
bacian, con bocche gonfie di veleni,
la scabra pietra e l'ime acque corrotte.
 
Non stridìo di carrucola, non rostro
gaio, reggente a grossa corda il secchio
che, grondando, risalga, a glauco specchio
del sole. L'acqua, in fondo, è come inchiostro.
 
Vive di sè, della tenace polla
che, dal concavo sasso in sue perenni
forze fluendo, il sonno dei millenni
rompe con qualche pullular di bolla.
 
Più non ricorda che una bocca umana
di lei godette, in lei languì, rinacque
dal refrigerio limpido dell'acque
quale un bel frutto rosso.—Oh, gioia vana
 
ormai, sgorgar da chiara tazza agli avidi
aperti labbri, all'arse fauci, ai vivi
moti del cuore, in schietti sorsi, in rivi
di freschezza, in rigurgiti soavi!...
 
Sol ritrova sua vita e sua fortuna
se, cinta d'astri come d'una rete
di gemme, il volto pallido per sete
specchi entro il pozzo, alta nel ciel, la luna.
 
Allor ne l'acqua è un'ansia, un brividìo
trepido, un riso d'èstasi, un gorgoglio
appassionato, un impeto d'orgoglio
che la solleva dal malvagio oblìo:
 
fino alle scaturigini traluce
di perle in danza, al magico fulgore:
in ogni guizzo, in ogni goccia amore
palpita; ed acqua più non è; ma luce.
 
.... Così, così, dal pozzo che scavasti
tu stessa, anima mia, per esser morta
pria di morire, e dove stagni, assorta
nella rinunzia d'ogni ben che amasti,
 
ti svegli, tutta in fremito, di schianto,
nell'inganno d'un sogno; e in quel bagliore
sommersa, torni luce e torni amore,
trasfigurata dal sereno incanto.

RIVO FRA PIETRE

CONTRASTO

Figlia, i rami di pesco e biancospino
di che s'adorna il tuo bel marzo acerbo,
cangia il soffio del tempo in un superbo
sfiorir di rose lungo il mio cammino.
 
Già un poco sfatte, e del color del sangue
che si raggruma a fior d'una ferita,
l'inebriante aroma han della vita
che per eccesso di pienezza langue.
 
Figlia, e tu non lo sai. Tu bevi i venti
del largo, in quell'incerta mattinale
ora, che, ancor fasciata d'ombra, sale,
carico il grembo di promesse ardenti.
 
Non vedi ch'io mi fo sempre più smorta
fra il sitibondo aulir di passïone
delle mie rose; e ch'io ne fo corone
per appenderle in voto alla tua porta.

IL CANTO

Tu canti sempre. Canti come ridi,
come parli. Hai nel canto una ragione
di vita. Ondeggi e splendi in un alone
di note. In te v'è un pispigliar di nidi,
 
uno stormir di foglie al vento mosse.
Ma non ti disser pagine o maestri
le tue canzoni. Al fluttuar degli estri
pieghi, e all'ultima gioia che ti scosse.
 
Parole e ritmo sgorgan per incanto
dall'anima cangiante come prisma
al sole. Iddio con questo alato crisma
benedisse in te, figlia, il riso e il pianto.
 
E tu basti alla tua serenità,
o creatura d'armonia: vivente
melòde, ti disseti alla sorgente
che su dal cuore zampillando va.

FRESCHEZZA

La tua freschezza, o creatura, è simile
al brusir della pioggia sulle foglie
di giugno, quando scoppian le magnolie
carnee sul ramo, e i gigli sembran calici
 
pieni d'acqua; o al crosciare della pioggia
d'autunno, quando l'olea-fràgrans pènetra
del suo profondo aroma anche le gocciole
lucenti, e chi il respira ha la vertigine;
 
o al sùbito mutar di luci e d'ombre
se passino le nuvole di marzo
con repentine acquate, e sprazzi vividi
di sol fra pianto e pianto, e un turbinìo
 
di pòllini nell'impeto del vento.

IL VOLTO

Talor,—quando ti credi sola, e ignori
che nell'ombra gelosa in cui t'interni
ti spìano i miei seguaci occhi materni,—
in un pensiero il volto trascolori.
 
Cinte le braccia ad arco sui ginocchi,
tesi il mento e la bocca in un superbo
gesto di volontà, pensi. Niun verbo
può dire quel che dicono i tuoi occhi.
 
Ardor di sangue, ardor di fede, vampo
represso.—Ma è ben tuo, figlia, quel viso?...
Ove io lo scôrsi, un giorno?... e avea quel riso
interïore, e quel selvaggio stampo
 
d'adolescenza conscia d'esser viva
per esser forte!... Ove lo scôrsi?... Forse
nell'altra vita. O, forse, in sogno. O, forse,
in uno specchio. Ah, mi ricordo!... Empiva
 
del suo denso pallor la fredda lastra
appesa al muro. E mi guardava, fisso.
Era il mio volto, sôrto da un abisso
d'ombra, e riflesso in torba acqua verdastra:
 
nuovo a me, dal grande arco delle ciglia
al labbro acceso: cerchio inebriante
d'enigmi, ove affondavo il cuor tremante:
ed ora è tuo perchè il trasmetta, o figlia.

LA MORTE

Se necessario è il male, e necessaria
la morte,—anche tu dunque, o Luminosa,
morrai?... tu, che letizia da ogni cosa
suggi, come ogni bocca sugge l'aria?...
 
Io t'avrò fatta, io con insonne e fida
ansia t'avrò cresciuta, per saperti
mortale, e spenta, forse, in braccio averti?...
Dunque ogni madre al mondo è un'omicida?...
 
Dunque la vita mia, che a te coi cento
e cento suoi lacerti s'aggroviglia,
nulla potrebbe in tua difesa, o figlia
nata per la mia gioia e il mio tormento?...
 
Cingerti non potrebbe un'invisibile
veste, d'amore e amor tutta intessuta,
che contro gli anni e la ferocia muta
della morte ti renda incorruttibile?...
 
Nella miseria mia solo il patire
per te m'è dato, e in esso consumarmi:
perchè tu possa, o figlia, perdonarmi
d'averti messa al mondo per morire.

IL SOGNO

Non ti basto, lo so. Già i tuoi grandi occhi
guardano a un sogno ov'io non oso entrare.
Già sulla soglia sei, fra rose chiare
che sbocciando ti splendono ai ginocchi.
 
Già tu ascolti—e un po' piangi, e un po' sorridi—
musiche dolci ch'io non odo più.
Piccola mia, fragile amore, tu
sei dunque come i passeri dei nidi?...
 
.... Vento di primavera, erbe novelle,
gemme sui rami, nuvole nei cieli,
cantar di fonti, verdeggiar di steli
promessi al caldo oro del grano, stelle
 
fulgide come sguardi, novità
di tutto, ansia di spremer da ogni foglia
il succo, da ogni affetto che germoglia
il suo mistero d'immortalità!...
 
Non io ti mostrerò le cicatrici
del cuor, le rosse stimmate, sì a fondo
incise, che la vita è nel profondo
attossicata sino alle radici.
 
E quand'anche il facessi, i passi snelli
non fermeresti tu sulla tua strada,
tu, che infili cristalli di rugiada
per farne serto ai morbidi capelli.
 
No!... Vivi l'ora tua, che una sol volta
si vive!... Piangerai dopo. È il tributo
sacro. Ma da timor gelido e muto
l'ora divina a te non venga tolta.

IL MISTERO

O generata per mirar la gioia
negli occhi, e far ghirlande di giunchiglie,
passando in danza fra le maraviglie
dolcissime d'un maggio che non muoia:
 
o tu che porti in te la giovinezza
di tutti i rivi, e pur ti godi a bere
ad ogni fonte che ti dia piacere,
ad ogni raggio che ti dia bellezza:
 
stupefatta io ti guardo, e mi domando
chi sei: nè più ricordo il mio supplizio
nel procrearti, e il lungo sacrifizio
de' miei begli anni, in te sola vibrando.
 
Nulla ricordo. Ora potrei nel gorgo
sparire: nulla più t'è necessario
da me: nel getto pieno e statuario
del tuo fiorire il tuo destino io scorgo.
 
Ah, potess'io pensar che da una scorza
d'albero, gaia boschereccia ninfa,
balzata fossi, e avessi in te la linfa
di quel tronco, e la sua virginea forza!...
 
Balzata fossi dagli oceani immensi,
vestita d'alghe, satura di sale!...
Ma il peccato d'origine, il mortale
peso del sangue incarcera i tuoi sensi.
 
Sei nuova, e pure in te fremono i mondi:
vita io ti diedi, e pur mi sei straniera:
penetrarti vorrei, ma tu di fiera
semplice grazia il tuo mister circondi.
 
E vai,—nè io ti seguo, poi che l'ombra
mi tiene.—Ma se il mal, belva in agguato,
t'abbrancasse, ben io saprei d'un fiato
farmi, per te salvar, la strada sgombra:
 
non sarei che un istinto, un cieco istinto
carnale, armato a tua sola difesa:
nè cederei, nè lascerei la presa
selvaggia, fino a quando avessi vinto.

ALBA

Un sogno risvegliò l'adolescente.
Oh, dolce!... Uno sfogliarsi di corolle
sulla sua bocca e sul suo cuore, folle
per la delizia d'essere vivente.
 
E balzò a terra, bianca in quel divino
languir dell'ombra e delle stelle,—quando
nell'aria che pare èsiti tremando
non è più notte e non è ancor mattino.
 
A piedi ignudi sul balcon, soave
e ardente, a sè chiamò l'alba virginea:
l'assaporò fino all'estrema linea
del cielo, ove il sol nasce al suon dell'ave.
 
Pensò i giardini prossimi a fiorire,
l'attender calmo delle forze intatte,
le gemme dei roveti entro le fratte,
l'acerba novità del divenire.
 
—Buon dì, primo stormir d'ali e di foglie.
Buon dì, nuvole rosa e peschi rosa.
Ho quindici anni. È troppo dolce cosa
vivere, quando il cuore è sulle soglie.
 
Chi è colei che vien dall'alto, ed ha
ancor fra i veli qualche stella spersa,
mentre la faccia è già tutta sommersa
nella luce?... sei tu, Felicità?...—

«C'ERA UNA VOLTA....»

—Mamma, narrami ancor: «C'era una volta....»
come quand'ero piccola bambina.
Sai, mi dicono tutti «signorina»....
Ma non è vero. Ho ancor la treccia sciolta.
 
Quanta neve nell'aria!... Par che scenda
il cielo a terra, in turbini di fiocchi,
e pur non sembra che la terra tocchi....
Mamma!... Lo vedi: è un tempo da leggenda.
 
Così soave è la tua voce, se
conti di fate, d'astri, di fortuna!...—
—.... Dunque, c'era una volta, nella luna,
Re....—«No, non voglio le fiabe dei re...»
 
—La Principessa allor dirò, che accoglie
ad ìnfula i capelli intorno al viso,
e col volger degli occhi e del sorriso
al suo passaggio fa tremar le foglie....
 
Ma non la tentan gracili vïole
che gelosia di folta erba nasconda:
di più liberi campi è sitibonda
ov'ella possa respirar nel sole.
 
Tutta s'immerge nella vampa d'oro
che di baci ardentissimi l'investe:
ride:—Fratello Sol, guarda: la veste
del tuo più lieto raggio io mi coloro.
 
Canta:—Fratello Sole, ove mi porti
oggi, che nostra gioia è così pura?...—
E sembra una celeste creatura
che un'occulta potenza in terra scorti.
 
Tutto move con lei, nell'indicibile
festa del ritmo che il suo passo scande,
verso la soglia ove l'attende un grande
Iddio, dal viso pallido e terribile....—
 
—Mamma, chi è?...—Non so. Forse l'Amore.
Ma mi si ruppe il fil nella memoria.
È una storia sì logora!... È la storia
d'ognuna.... Anche la tua, mio dolce Cuore.
 
Ah, non potere averti ancor raccolta
nel grembo, contro cento, contro mille!...
.... Non tremare. Un racconto delle Mille
e una Notte or dirò: «C'era una volta....»—

TRASMIGRAZIONE

Penso a quel che v'ha in me, ch'io in te trasfusi
senza volerlo, o figlia, nell'oscuro
travaglio della specie, ove il futuro
s'incarna e pur s'ignora, ove son chiusi
 
i germi che la vita romperà:
al segreto del sangue, all'energie
latenti, alle ancor buie occulte vie,
alle tremende possibilità.
 
Penso all'ignota donna che s'appiatta
or, nel fascio di nervi agile al balzo,
e nella grazia del tuo piede scalzo
se t'aggiri con mosse di cerbiatta;
 
e nel rapido battere di ciglia
che vela e svela....—Ah, basta.—Ah, ch'io non so
chi sii, se pur ti feci, se pur t'ho
nelle viscere ancor compressa, o figlia!...
 
Ma che tu sii da me diversa, è giusto.
Per questa tua diversità, t'ammiro.
Se il mio commisi al fresco tuo respiro,
s'io m'innestai nel tronco tuo robusto,
 
fu per passar con più perfetta forma
in coscïenza, in gaudio, in giovinezza
nuova: inutili son forza e bellezza
se potenza d'amor non le trasforma.
 
Tu seguirai la sempiterna legge.
Viva, entrerai nel sangue de' tuoi figli.
Arde nel trasmigrar di quei vermigli
rivi la volontà che il mondo regge.
 
Da te soltanto il cuor caduco avrà
la certezza del fato in van promesso
a me dal verso sulla carne impresso
come un cilicio: l'Immortalità.

LÈVATI, E CAMMINA

LÈVATI, E CAMMINA

Tanto indugiasti!... Non t'accorgi dunque
che si fa tardi?... Lèvati, e cammina.
Sia per mar, sia per erta o sia per china,
fuor che qui dentro la tua strada è ovunque.
 
Strozza il singulto, e non voltarti indietro.
Nulla qui dentro è tuo, nemmeno l'aria,
nemmeno quella smorta cineraria
che agonizza nel carcere di vetro.
 
Di tuo non hai che l'anima, confissa
nel corpo come nuclëo nel tronco,
una tunica nera, un sogno monco,
e l'affanno pesante che t'asfissia.
 
Pur sarai ricca, ricca senza fondo,
se riesci a varcar senza tremare
la soglia: se riesci, ecco, a svoltare
quell'angolo.—Vedrai, mutato, il mondo.
 
Perchè piangi nell'anima?... Si è forti
sol quando tutto si strappò dal nostro
cuore, anche il pianto; e solo, e solo il nostro
orgoglio in plenitudine ci scorti.
 
Che stringi in mano?... una piccola ciocca
di capelli?... Ma gettala, che muoia
nel fango della via, se pur tu vuoi
la calma che il ricordo più non tocca!...
 
Nella selvaggia adolescenza, quando
davano i tuoi magnetici capelli
scintille al tocco delle dita, e snelli
i piedi in gaudio erravano, danzando
 
ritmi di libertà, Dio t'avea posto
nel cuore un Dono. Ed era più che l'oro
terreno, ed era più d'ogni tesoro
mortale. Fosti in colpa. E s'è nascosto.
 
E vivesti anni ed anni come sorda
e cieca. Or parti. Cercalo. Ma andare
andar tu devi senza mai sostare,
nella tonaca tua cinta di corda.
 
Bàgnati ai fiumi, asciùgati nel sole,
dormi sull'erba, prega con le stelle.
Avrai da quelle tue caste sorelle
maraviglia di candide parole.
 
Cerca tra i sassi, in mezzo al fango, in fondo
ai vicoli, alle soglie delle case
di povertà, per strade e piazze invase
di folla. Cerca te, nel vasto mondo!...
 
E ingoia libertà sino a formarne
fibre di nervi e succo di midolla:
sia essa, in te, fecondo hùmus di zolla,
sia qual rete di vene entro la carne!...
 
Allor soltanto sentirai la grazia
rifolgorarti nelle viscere ebbre.
Nella divinità della tua febbre
allor soltanto potrai dirti sazia.
 
E rivedrai del Dono intatto impressa
l'effige in cuore, come in polla viva;
ma più non tornerai dall'altra riva,
Pellegrina Crociata di te stessa.

LA SERA STRANIERA

Sboccian le stelle elettriche e le stelle
del cielo, argentee, sulle vie che ignori
e non ti sanno. In cerchi di splendori
t'immergi, e mai ti fûr l'ore sì belle.
 
Nome scordasti, e culla, e la menzogna
lunga e lo strazio dell'inutil pianto:
qui, se tu parli nel natio tuo canto,
niuno t'intende.—Passa: taci: sogna.
 
Novella pare l'anima in esiglio
a sè, come nell'impeto del fresco
fiorir di marzo a sè par nuovo il pesco
roseo-chiomato, e di se stesso il figlio.
 
D'ogni basso livor tu l'hai detersa
fuggendo: ed or memoria più non hai:
sfiori, monda e leggera, il sempre e il mai,
in pura infanzia dal lavacro emersa.
 
Il liberato spirito si snuda
pel battesimo sacro. Ardono gli astri
al rito. E tu ti fai simile agli astri
senza tempo, o mia vita, o vita ignuda.

COLLOQUIO CON L'ANIMA

Sole, di fronte. Non c'è più nessuno.
Chi odiammo, è lunge. Anche chi amammo, è lunge.
Voce amica o nemica a noi non giunge
più. Laggiù in patria, non ci attende alcuno.
 
Per nostra ferma volontà compiemmo
questo distacco. E lacerammo il nodo.
Ma il membro donde si sconfisse il chiodo
dà sangue. Anima mia, che mai facemmo?...
 
Tu mi rispondi:—Quel ch'è necessario.
Lascia che sgorghi il sangue ch'è corrotto.
Poter di rinnovarsi in puro fiotto
lascia al torrente impetuoso e vario.
 
La vita è bella in quanto è forza, calda
entro il tuo pugno: d'altri, che t'importa?...
Se non sai dominarti, ed a te scorta
essere, qual virtù ti sarà salda?...
 
Io voglio che tu giunga a tale eroica
cima, che il nulla pel tuo cor sia tutto,
e il tutto nulla; e quel che fu distrutto
seme prepari ad altre messi, o stoica.—

*

E ancor mi dici: (e tal silenzio è intorno
che il battito dei polsi nell'orecchio
mi suona)—Guarda a me come a uno specchio
terso, nella tua notte e nel tuo giorno.
 
Io sono eterna. Il mondo è in me riflesso.
Nella mia voce udrai tutte le voci
che vuoi, canore, tenere, feroci,
false, sublimi. Io ti sarò da presso
 
e da lontano, come tu vorrai:
penetrerò per te la vôlta cava
dei cieli, e sarò in te, simile a schiava
accosciata nell'ombra. E mi amerai
 
d'amore. Ah, nessun mai suddito e donno
tu avuto avrai come la mia presenza
compatta ed invisibil, coscïenza
e senso, in te vivente anche nel sonno!...
 
Tanto, che della morte avrai paura
sol perchè allora io ti sarò divulsa
dal corpo: e me ne andrò, tragica espulsa,
te dai cieli implorando, o creatura.

MEDITAZIONE

Considera che nuova è la tua via,
o magnifica anima vagabonda.
La nave che si stacca dalla sponda
più libera non è che tu non sia.
 
Considera che basta un pane, e un poco
di sale, e un sorso d'acqua al tuo bisogno.
Mangia la rossa carne del tuo sogno,
bevi del tuo pensiero il vin di fuoco.
 
Se turbi a volte oscura disianza
d'amor le vene all'aspra giovinezza
che non è morta, in taciturna ebbrezza
bacia ed abbraccia in te la tua sostanza.
 
Ella, ella sola t'è fedele: abissi
d'ombra, immense voragini di luce
ti scopre: a regni d'èstasi t'adduce
per mano, e, s'ella vuole, il sol tu fissi.

*

Considera che il sasso ove tu inciampi
è parte del tuo Io, come la mano
estranea che ti tocca, ed il lontano
cielo, e le spiche, e l'alte erbe de' campi.
 
Considera le linee sinuose
del corpo, vive del tuo sangue ardente,
qual limite non già, ma qual fluente
legame a tutte le terrestri cose.
 
Aderisci con ogni atto all'essenza
cosmica. Dilatarsi della vita
il nucleo sentirai, fin che smarrita
t'immerga nella Universal Presenza.
 
Piccola donna in così grande spazio,
oltre il peso, oltre il numero e il confine
vivrai: del tuo principio e del tuo fine
dèspota: il cuore, ora e in eterno, sazio.

*

Considera che tu fosti in peccato
mortale: che strisciasti, curva e stracca,
per tortuoso error, con la vigliacca
tua debolezza e la menzogna a lato.
 
Considera che eccelsa è la tua sorte,
se puoi, dal pozzo ove la coscïenza
affogava, aggrapparti alla potenza
originaria e vincere la morte:
 
e che improvviso sfolgorar di stelle
dà più folle vertigine a colui
che dall'intrico di meandri bui
con pertinace volontà si svelle.
 
Sorpassata la colpa ed il martirio,
ondeggiando or disperditi in lucenti
vie di silenzio e d'estasi.—Mi senti
ora?... chi sei?... Boote, forse: o Sirio.

LA SOSTA

M'appoggio a un tronco, scivolo a ginocchi,
confondo anima e corpo alle contorte
radici.—E tu credevi d'esser forte,
povera donna!...—Or sosto un poco. Ho gli occhi
 
stanchi di sole: anche il cervello. Ho questi
densi effluvî nel sangue, come un tossico
inebriante ed omicida. Ho gli ossi
che mi dolgono, come in chi si desti
 
da lunga febbre. E il combattuto orrore
ch'io credetti d'aver pur ieri ucciso,
eccolo, è qui, m'abbranca il petto, il viso
mi schiaffeggia, mi sputa, ecco, sul cuore.
 
Dio che mi vedi, a questo m'hai condotta
tu, perch'io tocchi un segno eterno. E lunga
ed aspra è l'erta ancor, fin che il raggiunga,
e già m'accascio come cosa rotta....
 
Fa almen ch'io non mi volga indietro, ch'io
non dubiti, non tremi, non mi penta
del già compiuto; e dentro me ti senta,
sola fiamma inesausta, ardere, o Dio.

L'ARSURA

Ritta nel sole, colle man sul fronte
a schermo, guardi se un ruscello appaia,
se qualche roccia della rea petraia
pianga per una sua cerula fonte.
 
Nulla: non trovi nulla, fuor che sassi,
polvere, ortiche, calcinacci. E rabbia
d'arsura, quasi che rovente sabbia
colle contratte fauci respirassi.
 
Dio mio che sete!... Asciugheresti i fiumi.
Ma non v'è nube in ciel, ma non v'è filo
d'acqua fra pietre. Avessi tu uno stilo
per ferirti, e succhiare il sangue a grumi!...
 
Dio mio che angoscia!... E niuno, e niuno accanto,
che ti dica:—Coraggio!...—che la strada
ti accenni, che ti mormori:—No, bada,
caschi!...—Se hai sete, ingoialo, il tuo pianto.
 
E sien per te le assaporate lacrime
amara voluttà di beveraggio
nuovo, che nuovo renda il tuo coraggio,
esasperando i sensi aridi ed acri.
 
Se ancor parla viltà, con mani a morsa
strozzala, e getta il cencio dietro un folto
di rovi.—Fin che avrai te stessa, molto
avrai: tutto.—E prosegui la tua corsa.
 
E impara a non fidar che ne' tuoi occhi
e nel tuo piede: a non attender niente
dagli uomini, e in te una e onnipossente
creder,—se aver non vuoi rotti i ginocchi.
 
In te sola trovare acqua di vena
per sete, campo per raccolto, foglia
per ombra....—allora, e sol se tu lo voglia,
comincerà per te la vita piena.

PIÙ IN ALTO

Hai tu coraggio di salir più in alto
ancor, sino alle rocce irte del culmine?
Bada! Quei tronchi li ha schiantati il fulmine,
che dentellò quei picchi di basalto.
 
Hai tu sìstole e diàstole sì forti
che non abbian, là, presso il ciel, paura
d'asfissia?... Bada! L'aria è così pura
la sù, che uccide chi il suo cor vi porti.
 
Gettasti, veramente, nella fogna
la pupazza di cenci, incoronata
di carta d'oro e a gonna impastoiata,
che fosti fino a ier, per tua vergogna?...
 
Sai tu bene ohe sia la solitudine
lapidaria, che sta fra terra e cielo
senza speranza?... e puoi, tu, di quel gelo
farti una veste di beatitudine?...
 
Sei ben certa d'aver gettato ai sassi,
dietro le spalle, tutto, proprio tutto,
tanto che il mondo di te porti il lutto
come se fossi, diaccia, fra quattr'assi?...
 
Padre e madre non più, nè creatura
nata da te, nè alcuno che ti tocchi
da presso, nè rimpianto che i ginocchi
ti spezzi, nè desio di cosa impura?...
 
Allora va. Sul vertice più eccelso
della montagna, che somiglia un grido
pietrificato verso Iddio, tu il grido
ritroverai del tuo soffrir più eccelso.
 
Ma antico quanto il mondo, e vano, o cuore
selvaggio, o monte intrepido, sarà
quel grido. E l'eco lo rimbalzerà
di picco in picco, in van:—Perchè, Signore?...—

I GIARDINI

Giardini oscuri, simili a foreste
vergini, carchi d'èlitre ronzanti
entro socchiusi calici, formanti
a quete ville una gelosa veste:
 
giardini oscuri, ove il colloquio delli
alberi varia a ritmo d'acqua e d'aria,
date una fronda anche alla solitaria
che si sofferma, pallida, ai cancelli.
 
Ella è colei che non trovò la pace
mai, nè pur quando l'ebbe faccia a faccia,
e il suo dolore amò, sol d'esso in traccia
correndo, e solo in quel disìo tenace.
 
Ella è colei che nacque per andare
andar, fin che le manchi il soffio e il passo,
e morte eterna uguagli il corpo al sasso
sotto l'eterna fissità stellare.
 
Adesso è stanca. Il sole, a piombo, è spada
arroventata, è ardor che in mille e mille
roghi conflagra. Dolce alle pupille
goccia d'acqua sarebbe, o di rugiada:
 
dolce, alla bocca, ritrovar nel calice
d'un àrum bianco un sorso per la sete:
e poi dormir, supina, in una rete
di frasche, sotto il murmure d'un salice.
 
Ma dormire non può.—Sonno s'è tolto
e tregua: poi che un attimo d'oblio
basterebbe a nasconderle del Dio
che va cercando il sospirato volto.
 
Nè ombra può goder: poi ch'essa vuole
ardere, sino a non formar che un puro
getto di fiamme, alto così nel puro
cielo, che in sè lo riassorba il sole.

L'OASI

Chi ti condusse alle incantate soglie?...
Non sai. Lasciasti l'ombra nel cortile
diaccio, di pietra. Ora nel dolce aprile
un aroma di mammole t'accoglie.
 
Ma forse sogni. Oh, non destarti, o squallido
cuore infermo!... A capriccio, piove e spiove:
sotto le rade lacrime non move
pure una foglia, e il cielo è tutto pallido.
 
E le gemme sui bronchi sono bionde
d'infanzia; e i peschi e i mandorli ed i meli,
entro le aeree nuvole dei veli
caduchi, attendon l'ora delle fronde.
 
Chiare ombrelle di salici s'affacciano
ai cancelli ove a spire il biancospino
s'ingiglia. A tratti, nel languor divino,
qualche petalo muor su la tua traccia.
 
Tutto è sì lieve che par fatto d'ale
e d'aria: anche il tuo passo e la tua forma
terrena: e il senso par che in te s'addorma
sotto l'incanto che non è mortale.
 
Giardini ignoti sotto cieli ignoti
benedicenti!... Or tu rinasci, infante
gaia, con pura bocca ancor fragrante
di mistero, con puri occhi ancor vuoti
 
di visïoni: occhi di maraviglia
innocente, pel prato ch'è sì verde,
pel cielo ove la nuvola si perde
e il pesco che tremando s'invermiglia.
 
Niuno ancora sul labbro ti baciò.
Niuno ancora sul cuor ti camminò,
le vesti con le carni ti stracciò,
sotto suola di ferro ti pestò.
 
Sàlvati!... Spranga della tua memoria
tutte le porte!...—Sei bambina.—Hai viso
di fiore, carne che non duole, riso
senza doppiezza, cuore senza storia.
 
Scrive ora sulla tua pagina bianca
i primi segni di bellezza il petalo
aerëo, che in tacita e quieta
discesa, dal sognante albero, manca.
 
T'appare, per la prima volta, Iddio.
Ne hai, sommo, per la prima volta, il senso.
Te adori in Lui, Lui stringi in te. L'immenso
Volto si assorbe nel tuo volto pio.
 
In fiore in frasca in nube in acqua in pianta
l'anima inesauribile ritrova
la sua gioia d'origine. Oh, la piova
d'april ti lavi, o Rinverdita!...
E canta.

LIBERTÀ

—Il tuo nome?...—mi chiese il vagabondo,
camminando con me lungo un fossato.
—Lo lasciai sui registri dello stato
civile, in un grigio angolo del mondo.
 
Mi schiaffeggiò di me cruda vergogna
fra l'uom, belva di cauta zanna losca
che per meglio colpir meglio s'imbosca,
e la femminea serica menzogna.
 
Se uomo e donna tali sono, io voglio
esser altro. Esser altro!... E pur m'è tolto
strapparmi questo corpo e questo volto
umani a strazio del mio duro orgoglio.
 
Buffa e tragica cosa, essere inscritto
nello stato civile, a chi il suo crisma
chiede all'eterno, a chi nel vasto prisma
dell'anima rifrange anche il delitto!...
 
Buffa e tragica cosa, avere un nome
che ognun dice, bestemmia, ama, ricorda!...
È il doppio nodo, al collo, della corda
che un dì ti strozzerà, nè saprai come.
 
Così fuggire, è pazzo ed è sinistro,
lo so,—soli col nostro aspro coraggio.
Ci arresteranno per vagabondaggio,
fratello!... E v'è anche in carcere un registro.
 
Lì ben dovranno imprimere le scarne
dita il suggel di riconoscimento,
il nome: tatuaggio che l'armento
umano porta sulla viva carne....
 
Ma noi—tendi l'orecchio, a bassa voce
parlo, che non ci ascoltino i roveti—
ma noi ci fingeremo analfabeti,
fratello!... E traccerem, nuda, una croce.

*

Croce di vita!.... L'ombra delle braccia
nere, tese all'amplesso senza scampo,
per monte e valle, per foresta e campo
ingigantisce sulla nostra traccia.
 
Liberi?... Hai tu la tunica del vento,
forse?... Puoi star senz'acqua e senza fuoco?...
Illudimi, se puoi. Sol per un poco
calmalo, questo mio vano tormento.
 
Chiamami Alba quando l'alba è in cielo,
chiamami Sera quando il ciel s'addorme.
Non separar le mie terrene forme
dall'albero, dal musco, dallo stelo.
 
Io non fui d'altri e non sarò mai tua,
io son di me: pur m'è tremendo il giogo
del lento corpo: se il sol fosse un rogo,
dentro m'avventerei, per esser sua.
 
Fra gli uomini che odio e il Dio che agogno
sta la vita: ed ucciderla non posso:
ella, ella sola è il tramite che, rosso
di sangue, tutta mi congiunge al sogno.

L'EVASIONE

Segar, con una nostra aguzza e lenta
lima, cauti, nel buio, con trabalzi
muti per un pestìo di piedi scalzi,
per un rauco sospir di sonnolenta
 
bocca, una sbarra di spiraglio: il varco
aprir fra spranga e spranga: annodar corda
di lenzuola, premendo in cor la sorda
paura: al nodo avviticchiarsi ad arco,
 
e giù:—toccar l'asfalto, il fresco incanto
della notte stellata a un tratto bere,
con tale ebrïetudin di piacere
che la dolcezza si tramuti in pianto:
 
poi, via: colla rapidità d'un topo
selvatico guizzar fra siepe e muro,
mettersi in salvo, finalmente, il duro
terren baciando per delizia....
E dopo?...

ROSE

Rose, rose, fragranti rose belle,
color d'ambra, di fuoco, d'arse bocche
già flaccide, di nevi ancor non tocche,
sul ramo a due a due come sorelle:
 
rose in bocciòlo, rose in giovinezza
piena, rose disfatte per eccesso
di godimento, rose che l'amplesso
del sol spaccò per meglio averne ebbrezza:
 
rose a cespuglio, a siepe, a serti, a densi
grappoli traboccanti da muraglie
basse, chiudenti il vïator fra maglie
d'aromi, a frenesia di tutti i sensi!...
 
Ora soltanto la caduca e folle
vostra grazia m'attira, or che non posso
cogliervi più, nè mordere con rosso
riso al dolcior di vostra carne molle:
 
or che in terra non mia, gioia e certezza
d'altri, dietro cancelli a me serrati,
offrire al sol vi scorgo i vellutati
petali, per un giorno di bellezza.

LA SUORA

Voglio al mio letto d'ospedale, in hora
mortis, perchè mi chiuda in atto muto
gli occhi stanchi d'aver tutto veduto,
bianca in azzurra tonaca, una suora.
 
Ella non sappia altro di me che il tristo
male, segnato su tabella, in gesso,
a capoletto: altro io non senta, presso
a me, che il suo respiro al mio commisto.
 
Tanto ella stessa abbia sofferto e amato
che nulla la ributti: e l'assassino
pianga per lei col pianto d'un bambino
che s'appresti a morir senza peccato.
 
Alla sua carità basti l'orrore
della misera carne che inabissa
entro il mistero, senza nome, scissa
dall'anima, e vestita di dolore.
 
Della mia bocca l'ultima parola
oda, senza capirla: le mie braccia
componga in croce: e alla gran calma diaccia
mi lasci,—come fui nel mondo,—sola.

LA FONTE

Fonte che sola il mio dolor guarire
sai, fonte eterna di silenzio cinta,
quella che in me credei più forte ho vinta
per poter, di te degna, a te salire.
 
Casa e terra lasciai che agli altri mia
parve, e non era: poi che nulla al mondo
è mio, fuor che l'anelito profondo
del cuor, che si trasforma in melodia.
 
Lasciai le passïoni, che con succhio
di tentacoli, ingorde, irte, contratte,
vuotavano le mie vene scarlatte
per gettarmi dei morti al sozzo mucchio:
 
ma mi seguono esse, in false vesti,
guardinghe, pronte per colpirmi al fianco,
s'io vacilli, s'io dubiti, se stanco
il capo in pianto io curvi, o il piede arresti.
 
Dio m'aiuti!... Blandizia di ricordi
non mi tenti, viltà non m'imbavagli,
peso di carne non m'abbatta, e fra gli
spini de l'aspre fratte àpriti, o fior di
 
salvezza!...—La boscaglia ove il piè sale
lancia i suoi archi al ciel, tempio vivente:
veglia e prega uno spirito veggente
in ogni tronco della cattedrale.
 
Mi saluta ogni tronco, e sembra fremere
d'allegrezza in sua scorza ed in sue rame.
Io salgo—e da un viluppo di frascame
mi giunge, o Fonte, il tuo sommesso gemere!...
 
Sì diaccia sei, ch'io sento il brusco brivido
del sasso a fior de lo zampillo;—e casca
l'acqua ove il terren molle forma vasca
fra i muschi. L'acqua, in ombra, ha un color livido.
 
Fonte d'oblio che ti nascondi ai raggi
del sol, tu vedi le mie mani in croce.
Ti riconosco. Sola ormai la voce
tua vince i vasti cantici selvaggi.
 
Prendimi!... Ansando io fino al cuor m'immergo,
che si contrae nel subitaneo spasmo,
ma resiste. In te nasco, in te mi plasmo,
del battesimo tuo la fronte aspergo.
 
E l'acqua si fa rossa del mio bello
e terribile sangue, che non dorme
mai, che m'assorda col suo rombo enorme,
indomito al cilicio ed al flagello.
 
E l'acqua bolle come lava, a un tratto.
Ecco, e s'è spento ciò che fu perverso:
amor simile all'odio, e cozzo avverso
di vïolenze, e striscïante patto
 
di menzogne, e desìo folle d'uccidere
o pur d'essere uccisa!...—O vita, o vita,
come sei dolce!... O carne rifiorita,
come giovine in te l'anima ride!...
 
Chi tramutò sul margine i calzari
di corda in freschi sandali, e la bruna
tonaca in veste dal candor di luna,
forse caduta dalle vie stellari?...
 
Chi a me concesse levità sì grande
ch'ora cammino come se volassi,
e le primule d'ôr sotto i miei passi
sbocciano a mazzi per le mio ghirlande?...
 
.... Uomo, qual che tu sii, col tuo peccato
più non mi tocchi. Io, sì, potrò, se vuoi,
salvarti: sol ch'io fissi dentro i tuoi
occhi i miei occhi. E tu sarai placato.
 
E s'io t'incontri mai col tuo misfatto
pronto nel cuore e nella mano, e quello
cadrà: sol ch'io ti mormori: Fratello!
in pacata umiltà d'accento e d'atto.
 
Udremo, nel silenzio pieno d'aria,
battere il nostro cuor; ma già lontano
da noi, sperduto, non più nostro, vano
palpito d'ala che nell'alto svaria.
 
E il corpo sarà senza consistenza.
E l'anima sarà senza confine.
Io vedrò in te, tu in me, per le divine
luci d'una celeste trasparenza.
 
E sopra e intorno e dentro a noi sarà
la pace. Uno stupor sarà, d'oblio.
E tu pel tuo sentiero ed io pel mio
andremo, eterni nell'eternità.

COMPAGNI DI STRADA

EMIGRANTI

Sul gelido registro del Notturno
Asilo, trema la tua mano grossa,
tracciando il nome:—Paolo Gibilrossa,
muratore, lombardo.—E taciturno
 
mi guardi, con quegli occhi così amari
nella faccia di bronzo; e attendi.—Anch'io
scrivo, se vuoi, sotto il tuo nome il mio:
—Ada Negri, poeta.—Ecco. Siam pari.
 
E questa casa, ch'è d'ognun,—mi senti,
compagno?...—è nostra.—Hai sonno. Hai freddo. È lunge
la patria. Per l'angoscia che ti punge
più che pel freddo, forse, batti i denti.
 
La vecchia storia sempre nuova io tutta
leggo nei solchi e solchi che ti scavano
il volto, e nella dura orbita cava
degli occhi, ove ogni luce par distrutta.
 
Porti, nel sacco a spalla, ogni tuo bene;
ma raccolto sul petto aver vorresti
il tuo bambino, e dargli, se si desti
e pianga, un bacio, e il sangue delle vene!...
 
In sua culla di legno il bimbo dorme
laggiù, nella casuccia in riva al fiume:
la madre agucchia agucchia sotto il lume,
ma in cuor cammina sulle tue tristi orme.
 
Pòsati, adesso!... Getta il sacco a terra.
C'è un po' d'Italia, qui. Spezza il mio pane.
Io parlerò con te delle lontane
messi che splendon sulla nostra Terra.
 
Esule al par di te, che di calcina
t'imbratti a cementar le case altrui,
e pietra a pietra ammucchi in squadra, sui
palchi eretto ore morte è più vicina;
 
strofa su strofa io costruisco i palchi
eretti contro il ciel, del mio pensiero:
tutte le imbevo del mio sangue nero
perchè ben l'una contro l'altra calchi.
 
E nulla vale a me, nulla a te vale
il pazïente sforzo dïuturno:
oggi, stranieri, in questo Asil Notturno:
doman, forse, stranieri, all'ospedale.
 
Ma poi che nostro fato è andar pel mondo,
tu con la tua cazzuola e col secchiello
di calce, io col pensier che m'è coltello
infisso ove lo spasmo è più profondo:
 
andare andar, fin che la morte a schianto
ci abbatta colla faccia sulla pietra,
per consolar la tua tristezza tetra
ti tesserò col canto un dolce incanto.
 
.... Non vedi?... Dalla porta spalancata
entrano, a gruppi, taciti fratelli.
Hanno donne per mano, hanno fardelli
sul dorso, hanno la fronte umilïata.
 
Dalle basse finestre, anche: dai muri
fenduti a un tratto, e poi richiusi, un dietro
l'altro, irrompono: in quegli occhi di vetro
ti riconosci, ed in quei volti duri.
 
Tutti di qualche patria esuli figli
sono, e in cuore ne portan crocifisso
il rimpianto; e di notte, a buio fisso,
i lor fardelli sono i lor giacigli.
 
E tutti vanno e vanno; e dopo giorno
è sera, e dopo notte è l'alba, e lunge
la casa è sempre più: sol la raggiunge
il cuor, che sa la strada del ritorno.
 
Strada del sogno, strada, ah, così corta
che in un attimo è vinta; ed ecco, il tetto
dei padri spunta, e in esso il benedetto
capo dell'ava che non è ancor morta!...
 
Tu, che firmasti Paolo Gibilrossa
da Lombardia,—fratello in Cristo:—noi
il nostro pane romperem, se vuoi,
con questa gente squallida e commossa.
 
Poco, tu dici?... Guarda: amor lo spezza
in cento parti e cento; e il bianco sale
vi asperge, e l'acqua versa nel boccale
che a cento bocche dà la sua freschezza.
 
Nella pace dell'àgape fraterna
ritroverem la patria; e nell'amore
che il tuo pallor fa uguale al mio pallore,
celebrerem la sua bellezza eterna.
 
Poscia, ravvolto nel mantello, al suolo
con essi, in fascio, dormirai.—Non io.—
Io poeta, a colloquio col mio Dio
sol visibile a me, veglierò solo:
 
chinata in atto d'umiltà la macra
faccia verso i dormenti, infin che sgombra
l'alba apparisca, reggerò nell'ombra
sul lor riposo la mia torcia sacra.

L'OMICIDA

Orme di sangue scorgo sulla ghiaia.
Seguo, in silenzio, la sinistra pèsta.
L'aria è pesante. Il ciel cova tempesta,
basso così che tocca la petraia.
 
Sotto l'immota ansia del ciel, le chiazze
conto, ancor calde, ancor dolenti, e spio.
Nessuno.—È tutto morto, forse.—Ed io
unica resto sulle spente razze.
 
Ma di pietrame dietro un grigio ammasso
terminan l'orme—e un uomo s'accovaccia.—
Uomo, chi sei?... Perchè celi la faccia?...
Ben fu il tuo sangue a far vermiglio il sasso?...
 
T'hanno ferito?... ov'è il tuo male?... Lascia
ch'io ti lavi la piaga, ch'io t'assista.
Guardami....—ah!... mai non vidi su più trista
faccia l'orror di più feroce ambascia.
 
Comprendo. Non è tuo quel sangue. L'hai
versato in altri. Oh, meglio assai se fosse
tuo!... Non farebbe di sè tanto rosse
la terra e l'aria, adesso, e ovunque andrai.
 
Ma non temere della mia presenza.
Io sono fuori della legge. Accanto
stanno, e si guardan, sole, ignude, in pianto,
la tua coscienza con la mia coscienza.

*

Uomo, io so come il germe d'un delitto
s'abbarbichi, per odio, in fondo al cuore.
Forse, un giorno, il corrusco odio fu amore:
fiamma più accesa, arma più aguzza. È scritto.
 
Uomo, io so come cresca e s'aggrovigli
nel mistero dell'anima il malvagio
istinto, e vi serpeggi a spire, adagio,
celando in ombra il tossico e gli artigli.
 
Io so l'indeprecabile, funesto
sogno che mostra l'avversario, intriso
di sangue, a terra.—Ognun, nel sogno, ha ucciso.—
Ma il braccio non potè compiere il gesto.
 
V'è tra pensiero ed atto un divïeto
supremo. Dimmi, o ignoto—se ti basti
la forza—come e quando tu varcasti
nella tua rabbia il limite secreto.
 
Dimmi il lampo e lo stridere e il gioire
fra costa e costa, del coltello. E il getto
purpureo, da quel petto sul tuo petto
allora e sempre, e il vano tuo fuggire:
 
e il subito cader dell'odio, a piombo
sul corpo offeso: e il dopo: stupefatto
vuoto silenzio, ove il terror dell'atto
compiuto fremo come un sordo rombo.

*

Ma tu non parli; e un tremito convulso
dalla radice dei capelli ai piedi
ti scrolla; e guardi tu, ma non mi vedi,
o dai fratelli, per tua mano, espulso.
 
Colpa e castigo impressi io vedo a un punto
sulla tua faccia disperata: e l'uno
l'altro divora, e poi rigetta: e niuno
scorger da essi ti potrà disgiunto.
 
E s'anco non ti fulmini del mondo
la vendetta, l'Ucciso è in te: qual sasso
nel ventre il porti, infin che al peso il passo
non ceda, e tu con lui non piombi al fondo.
 
Io, randagia indomabile, che il giogo
degli uomini gettai, che ne respinsi
la legge, e dell'orgoglio mio mi cinsi
come Brunilde del divino rogo,
 
io sol padrona a me, solo a me schiava,
non ti condanno, nè ti assolvo. Penso
che soffri. E accolgo il tuo soffrire immenso
in me, qual getto di bollente lava:
 
di me lo impronto, in me il trasmuto, al cuore
tuo lo ridono in pura insonne fiamma
converso. Or parti, col tuo chiuso dramma
assunto a luce—e ti conduca amore.—

IL FANALE NEL VICOLO

Esso vide stanotte Anna Malpenga,
chiamata in basso gergo la Cerbiatta,
stringersi al muro, sospettosa e piatta,
come attendendo in ansia un che non venga.
 
L'uomo uscir dalle tenebre, in berretto
a visïera sul volto a triangolo,
vide; e gettarle, ambiguo, un pacco, e all'angolo
sparire. Ella tornò, le braccia al petto.
 
Tornò, guardinga, l'occhio a spia, fondendo
il corpo all'ombra, stretta nel suo scialle,
tratto tratto guardandosi alle spalle,
tutta nel suo terror rabbrividendo.
 
E quando entrò nell'orbita rossigna,
la denunziò il fanale:—Porti sangue,
Anna.—Ma il guizzo tortile d'un angue
ebbe, fuggendo, la donna serpigna.
 
Ed esso attese, in vana guardia, l'alba
che, fredda, sporca, sulla roggia lebbra
dei muri vacillando al par d'un'ebbra,
pose, presso alla sua, la faccia scialba.

*

Un'altra notte vide Irma la Rossa,
—che mostra sullo zigomo sinistro
due sfregi in croce, e due sbaffi di bistro
sotto le occhiaie che l'insonnia infossa,—
 
paurosa accosciarsi sui ginocchi
a una soglia di bettola, se alcuno
uscisse e la chiamasse....—ma nessuno
si volse al ploro dei terribili occhi.
 
E a poco a poco ella s'addormentò,
col viso in grembo. E lungo e lunge, muto
e scalzo, fra le braccia di velluto
sorreggendola, il Sonno la portò.
 
Dove?... Un villaggio, un campo, un ciglio verde
di canale, una bimba a lavar panni,
e silenzio, silenzio. Ed anni ed anni
persi nel tempo, ed ella anche si perde....
 
.... Ma sussulta. Il fanale è presso a morte
nel primo sole. Trepida, la nottola
urta al muro, e dilegua senza motto,
mentre al giorno la vita apre le porte.

*

Udì pure il fanale (quattro tocchi
battevano alla torre di Maria)
una voce cantar; ma così pia,
così dolce, da mettersi a ginocchi.
 
E riconobbe il canto di Fiorella,
che fu tant'anni in carcere. Serena
e fioca,—«Ave,—diceva—o Gratia Plena,
che poggi il piè sulla più alta stella.»
 
Il bimbo delle sue carni corrose
dal vizio altrui, così, sur un saccone,
cullava; e la materna passïone
trasfigurava le parole in rose.
 
L'ascoltavano gli usci acchiavacciati,
le cieche imposte, il lastrico. E il fanale
fiamma divenne, accesa a un immortale
altar, ritto fra l'ombre dei peccati.
 
Tacque la voce e ritornò il mattino,
tutto bianco di neve ancor del cielo,
ancora intatta. Ed il fanal fu stelo
di giglio in un albór quasi divino.

IL VIOLINISTA

Monos e Una.
Ti strappasti tu l'anima, per farne
corda che vibri al tocco dell'archetto?...
Da qual paese ignoto e maledetto
fin qui portasti le tue gambe scarne?...
 
Curvo, e quasi incorporëo nel tinto
frac slabbrato alle falde, coi capegli
lungo-spioventi intorno al bianco degli
zigomi aguzzi, hai l'umiltà d'un vinto.
 
Par che ti sia d'orrore esser fra gli uomini.
Ne' tuoi occhi—acqua verde fra le ciglia—
sta la perenne triste maraviglia
d'essere vivo. Ma, se suoni, domini.
 
Nel caffè di sobborgo, ove Arlecchino
s'ammorba, in casco, in giacca, colle stanche
donne a lato, davanti a coppe bianche
di tossici o purpurëe di vino,
 
tutti i gesti s'impietrano, la massa
ha un volto solo, pallido, contratto:
ogni favella si fermò di scatto,
poi che la tua gigante anima passa.
 
Donde la porti?... dal delitto, forse?...
Questo non è Chopin, non è Beethoven.
Sei tu, con la follia che dentro move
a turbine, e ti schiaccia fra due morse
 
talora, e strappa l'urlo; e in un singulto
lo spezza; e poi lo sgrana in razzi, in trilli
salenti in frenesia, come zampilli
di sangue, verso un paradiso occulto.

*

Io che t'ascolto, piccola, celata
fra Georg il minatore e Willy il fabbro,
pur tengo, dietro questo chiuso labbro,
una pulsante forza imbavagliata.
 
Forza di melodia, che da un tormento
intimo viene, e che talor mi strozza
dentro così, che n'ho la gola mozza,
ma non la posso liberar nel vento.
 
Manca l'arco che il mio ritmo selvaggio
accompagni con l'ebbra ala d'un'eco.
Quell'arco è il tuo. Forse tu pure un'eco
cerchi nel mondo, o nòmade selvaggio.
 
O rapsòdo, se tu Mònos ti chiami,
io son Una, son quella che tu vai
fra terra e cielo in van cercando; e mai
sinora ebbe pietà de' tuoi richiami.
 
Ah, ch'io possa cantar fino a sentire
in un gorgo di sangue il cor spaccarsi,
e per delizia l'anima restarsi
smemorata fra il vivere e il morire:
 
sospesa al tremolar delle tue corde
la voce, come su un azzurro abisso
di cieli:—e in religiosa èstasi fisso
l'uomo al prodigio, od acclamante a orde!...
 
.... Ma non per l'uomo.—Per la nostra gioia
titanica, soltanto:—per esprimere
il sogno, e in lui la verità sublime
che nulla muor, se pur la carne muoia.

LA FOLLA

Fluttuo con te, nel tuo sordo tumulto
perduta; e tu mi porti e tu mi spingi
e mi rigetti, e d'ignorarmi fingi,
ma ben m'abbranca il tuo potere occulto.
 
Sai di sudore umano, e di sporcizia
mascherata d'aromi, e del sentore
d'ogni travaglio: ogni odio ed ogni amore
per oscuro fermento in te s'inizia.
 
Mi piaci per l'enorme onda vitale
che tutta mi ravvoltola, muggente
e rischiumante, carne e cuore e mente
impregnando del tuo libero sale.
 
Ogni volto che a lampi appare e spare
forse è il mio: chè mio corpo non è questo
solo ch'io sento e curo e movo e vesto:
chi vi noma e vi scinde, onde del mare?...
 
D'essere innumerevole è mia gloria
e mia superbia; e multiforme, come
te, folla; e in preda a tutti i venti, come
te, che a folate scardini la storia;
 
e, se fremito passi di sommossa,
ingigantir con te, con te disvellere
i sassi e i cuori, ed oscurar le stelle
col divampar della mia furia rossa.

LA PORTA SOCCHIUSA

Poi che socchiusa ritrovai la porta,
—affaticata per la lunga via—
entro.—Accogliete, o buona gente pia,
colei che in volto è bianca come morta.
 
Ecco il capoccia dall'imperatoria
testa, asciutto qual zolla che dissecchi
al sole. Ecco la madre dai cernecchi
grigi, in umile aspetto umile storia.
 
Ecco i robusti giovani e le nuore,
e grappoli di bimbi fior-di-pesco.
Fra i rudi attrezzi del mestiere, il desco
è pronto, con la fede e con l'amore.
 
Prima ch'io sieda accanto al patriarca
niveo-barbuto,—ed a' miei piedi il cane
guarderà calmo, con pupille umane—
benedirò la vostra mensa parca.
 
Uscirà tutta,—vinta dall'incanto,—
l'anima vostra dal viluppo oscuro,
tacita accompagnando il segno puro
nell'aria, e il filo tremulo del canto.
 
Tutta la stanza splenderà nei volti
estatici, nei vetri, nei metalli,
nei fasci d'armi avvezze, per le valli
fertili, a smover terra, a falciar côlti,
 
a mutilar boschi e filari, a incidere
solchi. A fiore dei rustici balconi
verran le azzurre costellazïoni
col raggio dei sereni occhi a sorridere.
 
E più dolce parrà la scabra vita
a chi m'ascolterà con mani giunte:
e la fatica amore, e le consunte
pietre dell'erta un'immortal fiorita.
 
E i bimbi chioma-d'oro, intenti al mio
saio vermiglio ed al mio scalzo piede,
adoreranno con ingenua fede
in me la vagabonda ombra di Dio.

LA FALCE

Vecchio capoccia, domattina all'alba
mi darai una falce per falciare.
Ancor dai cieli penderà, sul mare
dei campi, l'arco della luna falba.
 
Sarà l'ora in cui lutto a pena schiude
occhi e sensi novelli al novel giorno;
e tutto fresco e tutto puro intorno
si maraviglia di sue forme ignude.
 
Io falcerò coi figli del tuo letto
e coi nipoti del tuo forte nome,
fino a che il sol non sia sovra le chiome
raggera, e vino incendiario in petto.
 
A cento a cento cresceran le biche
dietro i miei passi: a me dinanzi il suolo,
frante le siepi, non sarà che un solo,
per la mia falce, mareggiar di spiche.
 
E poi ch'io venni in terra per mostrare
miracolo, e il miracolo avverrà.
La mozza arista si rinnoverà.
Noi falceremo per moltiplicare.
 
Landa, sterpaglia, cavo, anfratto e roccia
sfolgoreranno in un gran vello biondo.
Non per te, non per noi, ma per il mondo
strideran le lunate armi, capoccia!...
 
Nè donde venga il rutilante abbaglio
saprem, se dal meriggio ardente in gloria,
o dalle messi offerte alla vittoria
nostra, e piombanti a fascio al secco taglio.
 
E ogni figlio dell'uomo i suoi mannelli
—cantando in libertà lungo le strade
candide fra il corrusco delle biade—
in alto reggerà come flabelli.
 
E quando il sol s'avvolgerà di veli
insanguinati per la dïuturna
morte divina, noi con taciturna
bocca la pace implorerem dai cieli:
 
noi, militi e custodi del tesoro
di tutti, accesi nel tramonto gli occhi
e gli spiriti in Dio, curvi a ginocchi,
solleveremo a Lui le falci d'oro.

PLENILUNIO

Vecchio capoccia, ormai dentro la casa
dorme la tua tribù, queta e serena.
La casa è bianca nella luna piena
dalla soglia di pietra alla cimasa.
 
Anche l'aia ha un immobile pallore
estatico, un candor di nevicata.
Lasciami presso il cane, accovacciata
col viso a terra. Ho stanco il corpo e il cuore.
 
Lasciami presso il cane, sulla soglia
di pietra. Non cacciò dal suo felice
campo Boòz la pia spigolatrice
che venne a lui così sperduta e spoglia.
 
Io sono Ruth dai morbidi capelli
color di notte, che d'un manto regio
superbamente coprono lo sfregio
brutale della tunica a brandelli.
 
Ma Ruth rimase. Io partirò coll'alba.
Io sempre vado e vado, e mai non resto.
Sol mi trattien, rete di perle, questo
plenilunio che magico s'inalba.
 
Voglio dormire in un lenzuol di luna
come una principessa di leggenda;
e della Lattea Via farmi una benda
maravigliosa alla gran chioma bruna.
 
.... Trame d'argento. Ragnatele d'astri.
Silenzio. E tutto bianco, tutto bianco....
.... Ma poi la luna piegherà su un fianco,
gonfia, inferma, grottesca, fra giallastri
 
vapori.—E mentre la sua faccia tragica
d'assassinata affonderà nel nulla,
io pur riprenderò, verso il mio nulla
che salvezza non ha, la fuga tragica.

LA MADRE

Sciara-Sciat.
23 ottobre 1911.
Non piango, no.—So ben che tu non vuoi,
figlio. Il cuore impietrò sotto le bende
nere, il tacito cuor che non t'attende
più. Non si piange sui caduti eroi.
 
Un nome s'incavò nella memoria:
Sciara-Sciat.—Là piombasti, in una pozza
di sangue; e ti fu poi la testa mozza,
figlio!...—Non piango, no.—Questa è la gloria.
 
Tante madri a quest'ora hanno il mio cuore
di pietra, e la mia faccia d'agonia!....
.... Tacciono. Così volle,—e così sia,—
la Patria, amor che vince ogni altro amore.
 
O figlio, io ti creai colla mia carne
giovine, io ti nutrìi colle mie rosse
vene, e la forza che per te mi mosse
unica or regge le mie membra scarne.
 
Arde in te la sostanza di mia vita,
e tu con fibra e fibra ancor t'aggrappi
a me, come nell'ora in cui gli strappi
del tuo corpo al mio corpo eran ferita.
 
Porto, grondanti sotto la gramaglia,
le piaghe tue: pur io la testa mozza
rotolare mi sento nella sozza
terra, ed il sangue fino a Dio si scaglia.
 
Muoio due morti, in me agonizzo e in te.
Ma lacrime non ho. Tu non le vuoi.
Passa la guerra, e i giovinetti eroi
nella ràffica invola, ed il perchè
 
non dice a noi, pallide madri. Passa
e prende. A rullo di tamburo, a squillo
di tromba, all'ombra ardente del vessillo,
a ritmo d'inni e di mitraglia, ammassa
 
e lancia a torme i figli nostri, i figli
nostri, ove un sol fulgore han vita e morte:
fide vegliammo noi per questa sorte
le culle d'oro e gli umili giacigli.
 
Fàsciati di silenzio, o bocca pia,
crocifìggiti in petto, o cuor demente:
non invocare Iddio, chè Iddio non sente:
così volle la Patria.—E così sia.—
 
Che altro io potrei darti, o Patria grande?...
vuota è la casa, spento il focolare:
la cenere io raccolsi sull'alare
e con essa formai le mie ghirlande.
 
Irrigidìi per te la fronte stanca
nella bellezza dell'orgoglio sacro.
Madre d'eroe non piange.—A volte il macro
volto, per aria che al respir le manca,
 
tende, ed il labbro; e il sangue a goccia a goccia
sgorga dalla ferita che s'incava
nelle profonde viscere, e ne scava
la vita, come fa stilla da roccia;
 
ma singhiozzar con disperata voce
sul figlio morto, non sarà chi l'oda:
sta, di fronte alla gloria, che l'inchioda
al suo materno amor come a una croce.

IL DONO

Nella notte un selvaggio urlo, senz'eco.
—Urlo di vita, o pur di morte?...—Quella
che in esso lacerò la bocca bella
or s'è composta in un silenzio cieco.
 
Dorme il suo nato a lei daccanto: informe
nodo di carne inconscia e bruta.—L'atto
del generarlo la scagliò d'un tratto
nel buio di voragini senz'orme.
 
Sprofondò; sprofondò vertiginosa-
-mente; e più nulla seppe; e il suo vermiglio
sangue ancor vivo zampillò nel figlio,
s'accese in lui, ne imporporò la rosa
 
sacra del cuore.—Così tu passasti,
o Donatrice, nella discendenza
tua: tal fu del donar la vïolenza
che te stessa al novello Esser lasciasti.
 
.... Crescerà il figlio d'anno in anno, schivo
ma saldo, in sè nutrendo, quale in scorza
d'albero scabra, una compatta forza
di vita, un fresco e rifluente rivo
 
d'amore, un'inquieta ansia di germi:
ei che non ebbe canti su la culla
sentirà in petto l'anima fanciulla
sola armata, fra tante anime inermi.
 
Si chiederà talvolta:—Ho io due cuori,
che, se l'un manca, l'altro rinnovella
nel corpo il sano impeto rosso, e nella
lotta ritempra i palpiti e gli ardori?...
 
Ho io due vite in me, che l'una preme
l'altra, e l'invigorisce con midolla
occulte, ed è per essa al par di zolla
che vegli o incalzi il maturar del seme?...
 
.... Per lui verrà compiuto ad esultanza
il divino miracolo del Dono.
La madre rivivrà nel figlio buono,
perfetta incorruttibile sostanza:
 
il cuor nel cuore in ritmo pulserà
concorde: senza volto e senza nome
e senza voce, e pur presente come
Dio, più grande sarai, Maternità.

LA VERGINE E IL FALCO

Vide ella il Falco fendere il sereno.
Nel suo rombo pulsava il suo coraggio.
Con l'impeto feriva il vento e il raggio.
Cielo e terra, di lui tutto era pieno.
 
Il balenare avea d'una saetta,
la maestà superba avea d'un nume.
Il mostro senza artigli e senza piume
librarsi ella mirò del sole in vetta:
 
e s'abbattè come s'abbatte un ramo
a terra, e rise con riversa gola,
e pianse: a lui gettando la parola
ancor non detta ad uom vivente:—Io t'amo.—

*

E prega, umìle, il Falco che non l'ode:
—Io non ti chieggo, o domator di vento,
con qual poter foggiasti lo strumento
che ti solleva a le celesti prode.
 
Ma esso è te. Se or tu, con teso rostro,
su me piombassi per ghermirmi, e via
mi rapinassi a volo, e per magia
d'ali e d'amore il cielo fosse nostro,
 
ecco, io son pronta: io ti sarò la bianca
preda che tutta s'abbandona, e al vampo
del vorticoso ardor non cerca scampo,
se pur, fragile, in petto il cor le manca:
 
come sien fresche le mie labbra, e snelli
i fianchi e dolce la mia nuca ai baci
sapresti, o Falco, che con colpi audaci
nuvole ed astri afferri pei capelli.
 
Purità m'è compagna; ed assomiglio
nel mio candore a un'erma d'alabastro:
niuno ancora disciolse il roseo nastro
che al mattin fra le trecce m'attorciglio.
 
Ho l'aroma del fieno, che la falce
divelse a pena, e il sol penètra; e diaccio
specchio m'è la sorgente a cui m'affaccio,
piccola rama pendula di salce.
 
Uomini adusti dall'odor ferino
mi soffiaron sul volto, avidi, folli,
il desiderio a vampe. Ed io non volli:
ma commisi a me stessa il mio destino.
 
Non io, non io de' lor traffici oscuri
viver soffersi, leggiadretta serva,
con basse ciglia ed anima proterva
filando il lino entro i lor vecchi muri:
 
non io le grigie e tortuose scale
di lor case salìi, dove s'affloscia
gioventù, senza gaudio e senza angoscia,
su spessa coltre e torpido guanciale.
 
Io voglio te, che armi la tua sorte
per guerra, e il sole di sfidar sei degno:
voglio te, per seguirti all'alto segno,
o, se tu cada, ne la bella morte.
 
E questa sia precipitosa, come
il fiammeggiar d'un bolide notturno;
e tu dorma in eterno il taciturno
tuo riposo d'eroe fra le mie chiome....—

*

Prega; e non l'ode il domator di vento,
sempre più alto nel rapace volo.
.... Donna, fragile carne!... Il Forte è solo
nel suo libero assalto al firmamento.
 
Adora, e taci. E lo vedrai sparire
nel superato caos della vertigine
azzurra: invitto re sui due prodigi
dell'universo: il vivere e il morire.

A COLUI CHE NON È VENUTO

Io t'aspettavo, fin dal giorno in cui
di fiorire m'accorsi all'improvviso,
primula in marzo. E venne uno, con viso
dolce. Ma io mi dissi: Non è lui.
 
Pioggia e sol, spine e rose, fieno e paglia
m'apportarono gli anni. Anche l'amore.
Non te!... Qualcun ti assomigliò, che il cuore
aggrovigliar mi seppe in gemmea maglia:
 
ed io mi persi a capofitto, giù,
col desiderio folle d'annientarmi
tra forti braccia che potean spezzarmi
come la creta.—Ma non eri tu.—
 
Così, polvere e cenere divenne
ciò ch'io toccai. Seccarono le polle.
Avvizzirono i tralci e le corolle,
e morte, in vita, in suo poter mi tenne.
 
Tu, nato troppo presto o troppo tardi,
per me creato ed a me occulto, solo
perch'io son sola, indifferente al volo
degli anni, se nel tuo deserto guardi!...
 
Tu, che m'avresti avuta come il mare
ha l'onda, uguale a te ma in te perduta,
e nel dominio avvolgitor veduta
a somiglianza tua trasfigurare!...
 
Non venisti, non vieni, non t'attendo
più. Domani morrò. La vita ha fretta,
non vedi?.... Appena schiusa, appena detta
una parola, fugge, impallidendo,
 
quasi colpita da terror....—Ma forse
di là, nell'ombra ove uno spirto tocca
l'altro in silenzio, io troverò la bocca
che solo in sogno la mia bocca morse.

PONTE DI LODI

Ponte di Lodi, i tuoi plumbei pilastri
abbracciati dall'impeto del fiume
rivedo, e i freschi spruzzi delle schiume
candide a fior dei vortici verdastri.
 
Come una volta ancor vorrei poggiarmi
alle tue sbarre, e riaver quel vento
in faccia; e mirar nuvole d'argento
specchiate in acqua, e d'esse sazïarmi.
 
Ma esser quella d'allora, con quel volto
e quell'anima, scarna adolescente
livida di superbia, impazïente
di vivere, con sensi aspri in ascolto:
 
e tutto innanzi a me: lo spumeggiante
fiume e la vita!...—Ma su via trascorsa
non si ritorna. Il tempo spinge, in corsa:
altri fiumi, altri ponti, altri miraggi.
 
E vado e vado. Finchè, un giorno.—Addio—
dirà l'anima al corpo. E sarà il fiume
natal, che, in sogno, sotto il ponte, a lume
d'astri, mi condurrà verso l'oblio.

L'INFERMO

Della stanza d'esilio—che m'è schermo
al mondo e nel mio spasmo m'asserraglia—
dietro il muro sottile odo, ferraglia
rimossa, un tossir querulo d'infermo.
 
Chi è?... Non so. Ma soffre. E il suo lamento
di cencio umano ove la morte ringhia,
con nuove corde aspre di punte avvinghia
il mio bisogno eterno di tormento.
 
Vorrei, nè posso, consolar l'affanno
di quei bronchi inguaribili.—Di fianco
l'una all'altra, ma cieche; a fil d'un bianco
muro, ma estranee, due miserie stanno:
 
la mala bestia che t'asfissia in gola,
o ignoto, e il cancro che mi mangia il cuore.
Ma passeranno, sole, nell'orrore
del vuoto, senza dirsi una parola.

PASSIONE

Due pupille più nere della notte,
cinte di bistro su rossetto e biacca,
mi chiedono, ammiccando con bislacca
beffa: «Salvation-Army, o Don Chisciotte?...»
 
Raschia con sega di sarcasmo il sazio
riso d'un glabro adolescente impuro:
—«Non amo, frate-femmina, lo scuro
saio. Santo Francesco, o Sant'Ignazio?...»
 
E il popolo in cravatta rossa:—A quando,
profeta, il paradiso che hai promesso
alla nostra miseria?...—E a me dappresso
corre per gioco, urlando, fischiettando.
 
Io guardo, fisso innanzi a me, fantasmi
che sola io vedo.—E affronto il mio supplizio.
L'amor che mi guidò, fatto cilizio,
mi si tramuta in voluttà di spasmi.
 
Camminare su filo di coltello,
bersaglio a crudeltà di bocche triste,
anche se il fragil corpo non resiste
bello è, se il sogno che tu insegui è bello.
 
Ma troppo ormai la sozza umana rete
sul mio respiro le sue maglie serra.
—Fuori il tuo cielo, figlia della terra,
se lo possiedi!...—Io sono stanca. Ho sete.
 
Dammi un po' d'acqua, o uomo, se pur t'abbia
io tutto dato di me stessa!...—Ed ecco:
all'implorante anelito del secco
labbro un sorso di fiele offre Barabba.

L'INCANTESIMO DEI FIORI

Tu batti con la tua timida nocca
all'uscio, ed entri; e strisci alla parete,
incerta.—Ma chi sei?... Porti una rete
d'oro sui fianchi, e una giunchiglia in bocca.
 
Vidi altre volte il viso tuo sottile
di faunetta silvestre, fra due rami
spuntare. Ma piacer d'altri richiami
mi spinse—e non sentìi ch'era d'aprile.
 
Solo or m'accorgo che hai un occhio verde
ed uno azzurro, e sai di terra e d'erba.
Ah, s'io ti bacio sulla bocca acerba,
forse l'anima mia più non ti perde!...
 
Non oso. Ma con denti di pantera,
aguzzi, tu sorridi: e t'è caduto
il fior di bocca, e col leggiadro e muto
gesto a me ti riveli, o Primavera:
 
e fiori e fiori dalle dita snelle
sbocciano, in fasci, in grappoli, in germogli:
per la mia gioia al nudo suol tu sciogli
la tua dovizia di terrene stelle.
 
Tanto mi doni?... Vi son dunque tanti
fiori nel mondo?... ed io le avverse ciglia
chiuse tenevo sulla maraviglia
ch'ora, per te, mi folgora?... per quanti
 
anni fui cieca?...—Ecco le genzïane
cilestri, e il fior di menta, e il fior di maggio-
-rana, e il timo e il ranuncolo selvaggio,
e le viole dalle facce umane:
 
ecco i fiori di frutto, ah, sì leggeri
che a un soffio cadono, e già gonfio è il seme
di sotto; e l'eliotropo aureo, che teme
la notte, e volge al sole occhi e pensieri:
 
e le rose di carne, di dolcissima
e tenue carne, che, a mangiarla, in succhi
d'amore si trasforma; e nivei mucchi
di tuberose, e grappe di narcissi:
 
e il cupo verde delle felci, e i pallidi
grigi de le betulle, e le incorporee
trine del capelvenere, e le arboree
glicinie, e le palustri emerocallidi....
 
.... Sorreggimi, Occhiglauca!... Ho la vertigine.
Or mi trasmuto, come Dafne, in tronco.
Lo spirto, in forma umana avvinto e monco,
torna, d'un balzo, alla silvestre origine!...
 
Boccadifiori, baciami!... Parole
divine odo, calor di linfe suggo.
E dalla vita e dalla morte fuggo,
per annientarmi nel fulgor del sole.

I GIACIGLI

Non per dormire—poi che il sonno è tolto
a quest'occhi che ardor di conoscenza
aperti tiene anche nell'ombra, senza
riposo, accese lampade nel volto:
 
non per dormir, ma per sapere, in ogni
letto io volli accostar la belva umana:
a lei dappresso ma da lei lontana
come il fantasma che compar nei sogni.
 
E vidi, in lari che si chiaman sacri,
la quiete non già, ma il dramma oscuro
dell'odio sibilar fra letto e muro,
e pianger figli a quegli spasimi acri.
 
Tra porta e porta ascoltai scoppi secchi
di voce, come palle di pistola
dritte al segno del cuore o della gola,
o aguzze pietre a fionda contro specchi:
 
parole unghiute, uguali a uncin che artiglia,
singhiozzi, uguali a strider di catene
scosse—e in vano implorai su quelle pene
esasperate un pio chiuder di ciglia.

*

Ma, anche, io vidi il volto di chi dorme
dopo l'amplesso, cuore contro cuore.
Stanco, livido, assente, nel flosciore
delle labbra, allentate in smorfia informe.
 
Spento il baglior dell'attimo che illude
l'anima di sfuggire al suo sgomento
d'esser sola, tornar, cieco, il tormento
io vidi, a gogna delle membra ignude.
 
Ed era chiuso senza perdonanza
l'un volto all'altro: e torbido, ed avverso:
l'uomo non ha che sè nell'universo,
sol per pietà gli mente la speranza.
 
E chi conta nel sonno il suo danaro,
e chi in sogno combatte un suo rimorso,
e chi con suggellate iridi un corso
segue di fiume susurrante e chiaro:
 
e l'amico e il nemico e il vile e il forte
guardai nell'ora in cui l'orgoglio oblia
la maschera: e mal fu: per chi lo spia
il sonno è più tremendo della morte.
 
Rantoli e incùbi di morenti in fila
negli ospedali; tenebre di celle
ove colui che non vedrà le stelle
più mai, memorie, vaneggiando, infila!...
 
Spasimoso ansimar sulle cuccette
degli asili notturni, aliti densi
di vino, naufragar di tutti i sensi
nel gorgo delle mescolanze infette!...
 
Destituita dalla somiglianza
con Dio,—da sè diversa umana faccia
che della luce e del pensier la traccia
smarrisci,—e ti deturpi in oblianza!...
 
Due creature io solo scôrsi, belle
nel sonno: ah, così belle, che i giardini
del cielo, dai silenzïi turchini,
sfogliavano su lor fiori di stelle.
 
L'uno era un bimbo, in un candor soave
di trine, e lo cullava un pio cantare:
l'altro era un marinaio in mezzo al mare,
e lo cullava il ponte della nave.

L'UOMO SEPOLTO

Miniera di Senghenydd.
Ottobre 1913.
Georg, biondo atleta: non udisti un rombo
sovra il tuo capo?... uno sparar di cento
cannoni, a un tratto?...—Ora, silenzio.—È spento
il tempo. L'aria è come fuso piombo.
 
Pietre su pietre franano alle bocche
degli anditi. Ove sono i tuoi fratelli?...
Non ti vale dell'unghie far coltelli,
nè, ruggendo, divellerti le ciocche
 
scomposte, nè cozzar con sanguinanti
membra contro la notte che t'acceca.
Di là, nella stessa ombra sorda e cieca,
son mille e più di mille agonizzanti.
 
Scagliansi in mucchio verso l'orifizio
distrutto, con feroci granfie il dorso
l'uno all'altro raspando, a pugno e morso
fuggir primi tentando al gran supplizio:
 
ma fumo e fiamma indietro li ricaccia,
non v'è più strada, non vi son più porte:
solo, e despota, il caos....—Ma tu sei forte,
Georg.—Taci.—Guarda la tua fine in faccia.

*

Ricordi tu come sia fatto il cielo?...
.... Grigio ora, e curvo sui sinistri pozzi
della miniera; e un getto di singhiozzi
immenso, fino a quel livor di gelo.
 
E donne e donne coi bambini in collo
e al fianco, con irti aridi cernecchi
di furie al vento; e infermi e storpi e vecchi
guatanti il mostro non ancor satollo....
 
E invocano, che il mostro dal suo fondo
vomiti all'aria le ingoiate squadre:
e v'è fra essi la tua bianca madre,
Georg!... V'è tuo padre. Hanno te solo al mondo.
 
Le ossature dei pozzi han somiglianza
di scheletri: il silenzio fa spavento
più dell'urlo: nel livido sgomento
della folla ancor trema una speranza:
 
ma non rende la bocca maledetta
quel che inghiottì....—Con gesto di flagello
leva la folla come un sol coltello
le braccia, a testimonio di vendetta.

*

.... Georg, il corpo tuo grande si fa pietra
fra pietre: e luna e l'altre uguali stanno
ormai nel tempo; e ciò che fu l'affanno
d'un'ora, è calma immota in ombra tetra.
 
Ma non è morte, e non è tomba. Esiste
sol la materia, che caduche imagini
di carne transustanzia entro compagini
sacre, irridendo alle querele triste.
 
Tenebra di caverne, fulvo dorso
di monte, erbosa immensità di piano,
tutto non è che sedimento umano,
nè s'arresta Re Atomo in suo corso.
 
E chi calchi l'orecchio sul fecondo
solco, o lungo le vertebre del masso,
sente il respir dei morti, che il trapasso
sciolse in vene d'occulto hùmus pel mondo.
 
Georg, biondo atleta, umile eroe sommerso
nell'ombra, a giorni effimeri perduto,
a giorni eterni assunto,—io ti saluto:—
prima eri un corpo; ed or sei l'universo.

SPERANZA

Forse il lume ch'io cerco è quel che splende
là in fondo. No. S'è spento. Era un mio vano
miraggio. Ma, più in alto e più lontano,
un altro lume e un altro, ecco, s'accende.
 
Forse il tetto ch'io cerco è quel che fuma
dietro quei pioppi; e alcun v'attizza il fuoco
per riscaldarmi....—No. Sparve. Era un gioco
di nuvole.... Ma un altro è fra la bruma.
 
Forse il fratel ch'io cerco è quel che il viso
ora mi tende, e il cuor nel viso, emerso
sopra la folla. Ed ecco, mi s'è sperso....
Ma un altro volto scorgo, e un altro riso.
 
Come se dal mio alvo fosse espresso
il mondo è mio, sol perchè il vedo in sogno:
quel che ho non curo, e quel ch'è incerto agogno,
e mangio e bevo del mio sangue istesso.
 
Delizia del cadere, e poi delizia
del drizzarsi d'un balzo, senza chiedere
aiuto: e non guardar che la mia fede,
e portar dentro me la mia milizia!...
 
E vado. Ad ogni membro ho qualche benda
su qualche vecchia o giovine ferita.
Pur, così come a me t'abbranchi, o vita,
troppo bella sei tu perch'io t'offenda.
 
Ti benedico, o vita, per l'amore
che mi negasti, per le chiare strade
che mi chiudesti, per le sette spade
con cui mi tormentasti carne e cuore:
 
perchè altro amor più bello, altro sentiero
più largo io sognar posso: e col fantasma
che la speranza al desiderio plasma
vincer la nuda aridità del vero.

NOSTALGIA

V'è alcun che canta: «O sole mio......» su l'acque
verdastre della Lìmmat.—Chi?...—S'affonda,
o voce, il cuor nella tua scìa profonda,
il triste cuore ove ogni voce tacque.
 
Freddo, pioggia, crepuscolo. Beffarde
sbucan le lune elettriche, fra aloni
di nebbia. Oscure ombre mi radon, suoni
rauchi movendo dalle lingue tarde.
 
«Ja, yes.» Ma «O sole mio....» dall'altra riva
chiama il canto che forse non ha bocca,
ch'è di fantasma; e l'anima mi tocca
con la carezza d'una mano viva.
 
Batto i denti, alla pioggia. E più il mantello
su me ravvolgo, e più mi sento ignuda:
mi sferza il dorso la ferocia cruda
del croscïante gelido flagello.
 
Bene risponde, col suo scampanare
a stormo, il sangue entro le arterie folli:
—Esilio, tu sei mio perch'io ti volli,
perchè mi piacque le tue vie calcare.—
 
Esilio?... Ma qual'è dunque, o tremenda
anima, la tua vera patria?... In quale
angol di terra addormirai tu il male
tuo, che piangere sempre io non t'intenda?...
 
S'io mi buttassi a fiume, tu faresti
forse silenzio, anima disperata.
Andrei, colla corrente. Andrei, placata
all'improvviso, fin che il Sol si desti,
 
il Sole mio, sì bello e sì lontano
ch'io non lo vidi con quest'occhi ancora:
e con l'incendio de' suoi raggi indora
sol chi per lui gettò l'ingombro umano.

LA CERCATRICE D'ORO

E scavo e scavo, nella pietra, a prova
di picca.—Vena d'Oro, vena d'Oro!...—
Aspre occultan le rocce il lor tesoro,
ma v'è chi a ben perseverar lo trova.
 
Io più non so da quanti anni le braccia
mi stronco nell'indomita battaglia.
Il macigno m'irride, scaglia a scaglia
balzando agli occhi. E falsa è ancor la traccia.
 
Se un balenar m'illude, altri mi scosta,
brutale, sibilando:—Questo è mio:—
.... ma non è oro, è talco.—Ed altri ed io
torniamo, insonni, alla superba posta.
 
Intorno e innanzi a me scorgo perversi
volti, quadre e selvatiche mascelle
di animali da preda; e le favelle
incrocian sfavillìi di stocchi avversi.
 
E il furor della lotta e l'ingordigia
tende ed ingrossa i muscoli, scolpisce
forza odio frode sopra i volti; e strisce
di sangue irrigan la petraia grigia.
 
.... Scòpriti finalmente, Oro, bell'Oro,
ragion di vita, fonte della grazia.
Il polso e il braccio sul piccon si strazia,
cedon le fibre all'ìmprobo lavoro.
 
Quando il terren sarà vana maceria,
scaverò nella carne sino all'osso.
Quando la carne non sarà che un rosso
brandello, spaccherò del cuor l'arteria.
 
Ah, forse allor, piombando sul basalto
arido, io penserò che a possederti,
o Verità, basta fissar gli aperti
occhi negli astri fiammeggianti in alto.

CONFESSIONE

Or che la notte grava sul supplizio
di chi non dorme, e tu sei sola in faccia
a te, sola nel vuoto che t'agghiaccia,
e non vestita che del tuo cilizio:
 
come fossi sul punto di morire
confèssati, chè l'anima t'ascolta:
dolce ti sia, non fosse che una volta,
quel che da te mai non fu detto, dire.
 
Confessa che la tua ribellïone
non è che l'urlo della creatura
debole, che mancò la sua ventura
per non aver trovato il suo padrone.
 
Confessa che tu vai con fiammeggiante
torcia sanguigna contro leggi ed uomini,
solo perchè la forza che ti domini
tutta, ancor non t'assalse il cor tremante.
 
Ed altro tu non sei che una fanciulla
fragile, torturata dall'angoscia
d'essere sola, e che talor s'accoscia
rabbrividendo di tutto e di nulla:
 
e—se il dirlo t'è colpo di staffile
bene assestato alla superbia prava,
che importa?...—non saresti che una schiava
d'amor, contenta del suo posto vile,
 
se pur domani, verso te, dal rogo
ove chi arde più a sè prega ardore,
venisse a tese braccia il tuo signore,
per cui delizia ti sarebbe il giogo.

*

Senza misericordia e senza tema
prendi ed indaga, or che nessun ti guarda,
questa povera tua vita bugiarda
che inconsolabilmente in man ti trema.
 
Dilaniala, se vuoi: non ha difesa
contro la tua curiosità feroce:
puoi con tre chiodi conficcarla in croce,
per vendicarti della lunga offesa.
 
È un cencio rosso, con lacerti monchi,
con fibrille pendenti: è un feto morto:
più non attende ormai, sotto il tuo smorto
sguardo, che il colpo che da te la tronchi.
 
Ma tu non osi. Ma tu l'ami, frusta
così: la scuoti, con furor selvaggio:
giovine ancora, e intrepido, è il coraggio
che ti sospinge con schioccar di frusta.
 
Giovine ancor tu sei, per la dovizia
che in fiori intatti dentro ti germoglia,
e più t'adorna quanto più sei spoglia,
e, se soccombi, a nuove vie t'inizia.
 
E doman come ieri, sotto panni
superbi il cuore in umiltà raccolto,
null'altro al mondo cercherai, che il volto
invisibil che cerchi da tant'anni:
 
e se lungo la strada che t'avanza
no 'l troverai, forzando anche le porte
del silenzio, nei regni della morte
seppellirai con te la tua speranza.

LIBERAZIONE

I.
Croce Rossa.
Carità!... Veste bianca come benda,
croce al petto vermiglia come piaga:
tra fumo e fuoco e sangue che dilaga
ala e riparo di pietosa tenda:
 
quando ancor l'aria palpita del rombo
della mitraglia, ed all'incendio in groppa
Morte per campo e per trincea galoppa
sugli eroi cui trafisse il ferro e il piombo,
 
piccola suora che non teme agguato
di palle sperse, e dei feriti il carco
segue e protegge per sinistro varco,
della pietà, che l'arma. Eroe-Soldato!...
 
Chi m'è fratello ignoro e chi nemico,
colui che a me si affida è tutto mio;
e più egli soffre e più ritrovo Iddio
nella miseria sua che benedico.
 
Come un leone ha combattuto, ed ora
—«Mamma!.....—implora, con l'ansia d'un bambino
Ch'io ti menta per lui, bacio divino:
ch'io sia la madre della tragica ora!...
 
E il marcio e il lezzo delle piaghe, e i grumi
di sanie, ed i troncati arti, ed i ciechi
occhi divelti e i cavi petti e i biechi
labbri ruggenti e il sangue sparso a fiumi
 
liberin me da me, mi rendan pura
d'ogni memoria mia: così perduta
nel pianto altrui, che dentro il cor sia muta
la bestemmia dell'intima tortura.
II.
Salvation Army.
Salvation-Army!...—Senza nome e senza
patria, per tutti i lastrici del mondo
e le case perdute e il trivio immondo,
gettare, in gaudio, la mia pia semenza:
 
essere una, ed esser mille e più di
mille: nei bassi vicoli e nei covi
discendere, ove ingurgitan, da nuovi
e vecchi sbocchi, delinquenti, drudi,
 
vittime stanche, femmine da conio,
Barabba e Alfonso, Maddalena e Taide,
e turbe vaporanti dalle laide
carni dell'alcoöl l'arso demonio:
 
dove, figlia dell'ombra, la miseria
s'accoppia al vizio e genera il delitto,
tutta avventarmi, col vibrar diritto
della siringa in una guasta arteria!...
 
Essere una, e mille, e più di mille.
Esser piccola e pallida, e risplendere
quale una torcia, e alla mia fiamma accendere
umane innumerevoli scintille:
 
e sentir che, da esse, opache turbe
potrebber forse divampare in roghi
devastatori del mal seme, in roghi
d'anime, illuminanti i campi e l'urbe:
 
per la carne che soffre e per l'anelo
amor che l'arde, pel sottil sarmento
e il magnifico incendio, essere il vento
che sospinge le fiamme insino al cielo.
III.
«Libera me da me.»
Infilar presso a te punto su punto
nel tugurio ove ignori e sonno e pace,
o dolorosa, che, se il labbro tace,
riveli il tuo patir nel volto smunto:
 
dell'aratro con te tirar la stanga
per fender solchi che ci diano il pane,
uomo, che tutte le scïenze umane
sai, poi che in pugno sai stringer la vanga:
 
santificar con libero e fraterno
gesto il tuo maglio, o fabbro, il tuo piccone,
o minatore, la tua passïone
umile, o schiavo del travaglio eterno!...
 
Libera me da me, nell'oceanico
tumulto travolgendo il mio rottame
naufrago, umanità, che hai sete e fame
di cuori, a pasto del tuo cuor titanico!...
 
Forse la triste femmina in gramaglie
pesanti, la reclusa che mi mugola
dentro, con tal convulso arrancar d'ugola
che par l'anima schizzi fra tanaglie,
 
tacerà.—Sarò un'altra. Sarò quella
che dona. Sarò l'ombra della vita.
Coglierò fiori con le bianche dita
per alcun che dirà:—Grazie, sorella....—
 
E udrò l'onda del sangue gorgogliare
non solo in me, ma in ogni calda polla
della terra; e fluir, placida, colla
calma d'un fiume che discende al mare.

I SOPRAVVISSUTI

I.
Fu, prima, ferocissima, la guerra.
Poscia, il saccheggio con la pestilenza.
E siccità distrusse ogni semenza.
E il terremoto devastò la terra.
 
Mostruosi grovigli d'insepolte
vittime scavalcando con demente
rabbia, i vivi, fra lunghe urla sgomente,
abbandonaron le crollate vôlte.
 
E ad uno ad uno caddero per via.
E per giorni e per notti la tormenta
divina imperversò, fin che fu spenta
ogni voce nel mondo in agonia.
 
Di cerchia in cerchia ruinò sperduto
del sole in traccia, come pazzo, il mondo;
nel suo terrore d'astro moribondo
all'altre stelle in van chiedendo aiuto.
 
Ma la celeste rutilante aurora,
per volontà di Dio dal caos balzando,
disse: Pace!...—e le arrise il miserando
regno dei morti e del silenzio, ancora.
 
E pace fu, sopra la terra. Il solco,
sazio di sangue e di midollo umano,
in opulento biondeggiar di grano
risfolgorò, senz'opra di bifolco.
 
E ancor le piante misero le fronde.
E qualche uccello ancor vi pose il nido.
Tutto tornò com'era, a monte e a lido,
al bosco e al prato, in cielo e sovra l'onde.
 
Sol fu distrutto quel che l'uom creò,
la casa, il libro, il quadro, il circo, il tempio,
la macchina: e distrutto egli, con l'empio
suo cuore.—Ma un manipolo restò.—
 
Restò, padrone, in faccia al cataclisma.
Restò, più forte della cieca morte.
—Compagni!... Nostre ormai sono le porte
del tempo!... Assunti dal vermiglio crisma
 
al gran destino, di gladïatoria
possanza i maschi, di superba grazia
le donne,—avanti!...—Il nuovo impero spazia
da nord a sud. Al nuovo impero, gloria!...—
II.
Ultimi d'una stirpe di titani,
progenitori di più eccelsi eroi,
or che faremo?... Quale, ora, da noi
prova attende, alba vergine, il domani?...
 
Sparvero i lari, i codici, i messali,
i crocifissi dalle tese braccia
consolatrici: inabissò ogni traccia
di civiltà negl'ìnferi letali.
 
O mio compagno atletico, rammenti
tu il tuo nome?... e tu, fiore di dolcezza,
femmina bella come la bellezza,
che smarrita mi guardi e non mi senti?...
 
E tu, che ascondi dietro il fronte enorme
la scïenza dei secoli;—e de' tuoi
volumi, ove scrutasti il prima e il poi,
l'ammasso in gora senza scampo dorme?...—
 
E tu, che sulle storte gambe reggi
ligneo torso nodoso, uso al travaglio
di leva?... e tu, che corda di bavaglio
tessevi un dì, tessendo all'uom le leggi?...
 
E tu, donna, che porti sulle labra
impresso il bacio d'una moltitudine?...
Tu, ch'eri ladro?... tu, che in solitudine
scandagliavi l'insonne anima scabra?...
 
Novello nome per virtù novella
venga a ciascun dal limpido lavacro
donde ei, fanciullo primigenio, il sacro
cammino imprenda verso nova stella!...
 
Sia rimesso a ciascuno il suo peccato
s'egli peccò secondo la scomparsa
legge:—maravigliosa anima, apparsa
dal caos, prima di te nulla era nato!...
 
Parli e agisca ciascun secondo il detto
della sua verità, nuda ed eterna
come quella che i sommi astri governa
e un perchè impone all'albero e all'insetto:
 
ciascun discopra, invïolato, il volto
della sua verità dall'ombra trista:
per la bellezza che non fu ancor vista,
per l'amore che ancor non fu raccolto.
III.
Fiorirà dal novissimo pensiero
la novissima lingua; ai puri infanti
coi colloquî degli alberi e coi pianti
dell'acque intatto offrendo il suo mistero.
 
Maravigliosa anima nostra, figlia
del caos, sì presso alla lucente origine
che tocchi, col respiro, la vertigine
degli astri, e chiudi il sole entro le ciglia!...
 
Nella tua nudità senza vergogna,
nella tua forza che a se stessa è braccio,
e, perchè sciolta d'ogni falso laccio,
innocente di frode e di menzogna!...
 
Da oggi a sempre, o tu che nel tuo viso
sol ti rifletti, va per vie d'amore,
lieve ondeggiando in cerchi di splendore
cosmico, e ardendo in ogni atomo un riso!...
 
.... Ma già tramonta, o miei fratelli, il Dio
di questo giorno: già, sanguinolente
nubi e spade di fiamma ad occidente
guardano a noi come per dirci addio.
 
Mai non vedemmo, o miei fratelli, il sole
con tristezza sì grande naufragare:
sparve: è una pioggia ormai, su terra e mare,
di tacite impalpabili viole.
 
Dove sono, o fratelli, le campane
che suonavano un dì l'Ave Maria,
accompagnando il pellegrin per via,
dolci di tutte le dolcezze umane?...
 
Dove le umìli tremule fiammelle
dei lari, guida al vagabondo e scorta?...
O memoria, tu dunque non sei morta!...
uomo, ugual tu sei sotto le stelle!...
 
Chi piange?... Il cuor s'accosti all'altro cuore,
se ha freddo. E dentro soffochi il singulto.
Se rivelato essere a noi l'Occulto
deve, e vinto da noi tempo e dolore,
 
dal più profondo anelito dell'Io
sorga e s'adori,—come nella culla
di strame il Cristo,—innanzi al tutto e al nulla,
l'immortale Unità dell'Uomo-Dio.
FINE.

Nota dei trascrittori

Le grafie alternative sono state mantenute (vïole/viole, oblìo/oblio). I minimi errori tipografici sono stati corretti senza annotazione.

*** END OF THIS PROJECT GUTENBERG EBOOK ESILIO ***