The Project Gutenberg eBook of Vincenzo Monti (1754-1828)

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Title: Vincenzo Monti (1754-1828)

Author: Ernesto Masi

Release date: July 10, 2013 [eBook #43180]
Most recently updated: October 23, 2024

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK VINCENZO MONTI (1754-1828) ***

LA

VITA ITALIANA

DURANTE LA

Rivoluzione francese e l'Impero


Conferenze tenute a Firenze nel 1896

DA

Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.


PROPRIETÀ LETTERARIA


Riservati tutti i diritti.

Tip. Fratelli Treves.


[365]

VINCENZO MONTI
(1754-1828)


CONFERENZA

DI

Ernesto Masi.

[367]

Per discorrere di Vincenzo Monti mi par necessario prendere le mosse da alcuni fatti e da alcune considerazioni di ordine generale.

La letteratura italiana, non dirò moderna (perchè a costruir questa stiamo affaticandoci ancora, sempre un po' a tastoni, come in tutto il resto) ma dirò, la letteratura italiana contemporanea procede dal Parini e dall'Alfieri.

Sono due novatori il Parini e l'Alfieri? E chi lo sarebbe, se non lo sono essi, che si crearono di nuovo l'inspirazione, la materia, lo stile, persino il pubblico, a cui rivolgersi?

Ma l'uno e l'altro sono altresì essenzialmente classici, e generatori di quel neoclassicismo nazionale, in cui consiste tutta la letteratura nostra, che vien dietro a loro e sino al Manzoni. Questa considerazione ne richiama un'altra, che rientra nella prima, slargandola, ed è che in tutta [368] la letteratura italiana contemporanea v'ha due fatti di suprema importanza, da una parte il Manzoni (non dico il romanticismo del Manzoni, ma il Manzoni), dall'altra la tradizione classica, che permane, rammodernandosi bensì, ma sempre costante, e non come reminiscenza di scuola, d'accademia o di biblioteca, ma come forma viva, vivissima, e va dal Parini e dall'Alfieri al Monti, al Leopardi, al Giordani, al Botta, al Colletta, al Niccolini e sino al Carducci.

O io m'inganno, o questa è la nota fondamentale della nostra letteratura dal 1750 a tutt'oggi, nota caratteristica e tutta sua. Nelle letterature straniere contemporanee, dopo breve contrasto, tutto è assorbito dalla corrente nuova, romantica o moderna, ed ora realista, positivista, simbolista, estetica o decadente, che vogliate chiamarla, sicchè non trovate un poeta o un prosatore di gran levatura, che non le si abbandoni intieramente. In Italia invece ogni regione ha il suo cenacolo letterario od artistico, più o meno sensibile via via alle esigenze dei tempi, che mutano, e che più o meno consente ad esse o, come spesso accade, se ne infatua e le esagera, ma la tradizione classica resiste e mai cede il campo del tutto. È un bene, è un male? Il problema si può porre, ma non credo si possa ancora risolvere. Questo in quanto alla storia letteraria.

[369] Quanto alle relazioni di essa colla storia civile e politica, l'austera moralità del Parini riformista mira a rinnovare l'individuo in Italia; la passionata idealità dell'Alfieri rivoluzionario mira a rinnovare il cittadino; l'una e l'altra coll'individuo e col cittadino rinnovati a rifare un popolo e ridargli una coscienza nazionale.

Ridargli? Ma l'avea esso mai avuta? È dubbio, signore, se una vera coscienza nazionale sia mai esistita in Italia, prima che incominci colla Rivoluzione francese quella che chiamasi storia contemporanea. È dubbio, se a crearla sarebbe bastato il cosmopolitismo vago della letteratura filosofica francese del secolo XVIII, che pure avea varcato le Alpi prima di Napoleone Bonaparte e si sovrapponeva, come ha acutamente notato Augusto Franchetti, al concetto medievale e dantesco della monarchia, per cui l'Italia non poteva disgiungersi dall'Impero, e quindi al moto intellettuale del Rinascimento, che avea esso pure un carattere d'universalità e cronologicamente poi era connesso con la fine dell'indipendenza italiana.

Certo è che in Italia i primi segni del farsi o rifarsi una coscienza nazionale si hanno subito tra quel tumulto, tra quelle angoscie, tra quelle incertezze dell'invasione francese, guidata dal Bonaparte nel 1796.

[370] Lazzaro Papi, il futuro storico e giudice severo della Rivoluzione francese, chiude un suo sonetto così:

Tu che dell'avvenir nel grembo oscuro

Spinger sai l'occhio dell'acuta mente

E ciò che è dubbio altrui, vedi sicuro,

Dimmi: quel che dall'Alpi ora discende

D'armi e d'armati inondator torrente,

Ceppi a noi reca, o libertà ci rende?

Non avevano invece dubbi di sorta quei cittadini, che, quattro mesi appena dopo l'invasione ed invocando i ricordi della Lega Lombarda contro Barbarossa, fondavano già in Reggio d'Emilia la Federazione Cispadana, da cui come dai parlamenti della Cisalpina e dalla Costituente di Lione esce per la prima volta dopo tanti secoli uno stato di nome italiano, il quale, se non altro, a traverso le vicende seguenti della Repubblica e del Regno, rinnova lo spirito militare e civile del popolo, ed è la prima mossa della nostra rivoluzione.

Ma se Lazzaro Papi sta in forse, se i cittadini della Cispadana, della Cisalpina e dei Comizi di Lione (quel medio ceto, rialzato dalla moralità del Parini e dall'idealità dell'Alfieri) si abbandonano all'impulso ricevuto con cieca fede, molti altri invece, gli stessi Parini ed Alfieri, danno indietro; le plebi di Lugo, d'Arezzo, di Siena, [371] di Roma, di Verona, di Napoli, di Calabria, del Piemonte, risentono invece, come dice il Carducci, un vero “accesso medievale di ire guelfe e ghibelline contro i nemici della Chiesa e dell'Impero„; e chi esprime da cima a fondo tutti questi contrasti, e strappi e trapassi dolorosi, eppure fecondi, e le prime speranze, le prime avversioni, i pentimenti subitanei, le confidenze illimitate, poi i ciechi entusiasmi della gloria militare, la fede estrema nell'uomo che la rappresenta, e finalmente le disperazioni, i terrori, le viltà, che tengono dietro all'immane ruina di tanta grandezza, chi esprime, dico, da cima a fondo tutto ciò nei versi più splendidi, che si fossero sentiti da secoli, è Vincenzo Monti.

Sotto l'aspetto di tale espressione potente, immediata, soggettiva e oggettiva ad un tempo dei fatti contemporanei, non saprei dire che cosa importi di più, se la sua vita o la sua poesia, ond'è, che, comunque si giudichi il carattere del Monti, m'è sempre sembrata sommamente baggèa quella critica, che lo ha dipinto come non altro che un vacuo e felice accozzatore di frasi sonore ed ha voluto a forza applicare a lui il famoso

Sdegno il verso che suona e che non crea

di Ugo Foscolo (detto a proposito delle statue del Canova e non già della poesia del Monti), [372] falsa e sciocchissima applicazione, la quale, se fatta al Monti, significa una confusione completa d'ogni criterio d'arte e di storia e un rinunziar di proposito a intender nulla della nostra storia letteraria.

Ma critica e politica hanno sempre in Italia proceduto a un dipresso così. V'ha i beniamini della fortuna, ai quali si perdona tutto e pei quali la gente arguta e disinvolta ha sempre in pronto una qualche spiegazione, e v'ha le vittime, alle quali non si perdona nulla, neppur l'ingegno, se l'hanno, e per le quali nessuno si dà briga neppur di cercare una spiegazione, che non sia un obbrobrio di più, e di tali vittime è il Monti.

Voi vedete quindi la difficoltà grande, che s'incontra a parlar di lui, senza inciampare nell'apologia o nella diatriba, come hanno fatto del resto quasi tutti quelli, che poco o molto hanno scritto del Monti fino al Carducci, il quale, dando all'Italia la più compiuta e meglio ordinata edizione delle sue poesie, la richiamò, se non altro, circa trent'anni sono, all'ammirazione del poeta, “i cui versi, dice il Carducci, corsero il bello italo regno, abbaglianti d'empito e di splendore, come gli squadroni di cavalleria del re Murat„ e promettendo un ampio studio sul Monti, che poi purtroppo non ha fatto, soggiungeva queste memorande parole: “Nella storia letteraria del [373] gran secolo, che corse per l'Italia dal 1750 al 1850, quando sarà scritta con serenità oggettiva e senza preoccupazioni di parte, Vincenzo Monti riprenderà il luogo che gli spetta, come a principe dell'arte d'un'intiera e ingegnosissima generazione, come a prosecutore ed allargatore dell'antica tradizione italiana, come a ravvivatore del sentimento classico nella sua migliore espressione.„

Difficile dir meglio e più vero di così. Ma come soggetto di conferenza il Monti ci si presenta di necessità non quale è, e dev'essere, come soggetto di studio esclusivamente letterario. Sotto quest'ultimo aspetto la sua massima importanza deriva dallo svolgimento del neoclassicismo del Parini e dell'Alfieri, ch'egli perfeziona, varia, adatta con inarrivabile potenza e facilità ed ammoderna sempre più col realismo storico e colle intonazioni preromantiche, che già si sentono in lui e fanno già presentire altri trapassi ed altre novità future e imminenti dell'arte. Ma come soggetto di conferenza, dico, l'uomo, la vita, le relazioni della sua poesia col suo tempo sembrano avere importanza o attrazione anche maggiore, se chi ne parla sapesse e potesse dir tutto di quei diversi e opposti ambienti e momenti letterari, morali, civili e politici, a traverso i quali toccò al Monti di passare, seguendo gli impulsi [374] della sua indole nativa, violenta come ogni indole debole, e debole come ogni indole violenta, con scatti improvvisi e cascaggini non meno improvvise ancor esse, con alternative continue di abnegazione e di egoismo, di audacie e di paure, di collere e di intenerimenti, di generosità e di bassezze, per le quali ora domina le circostanze, ora è dominato da esse, ed a vicenda ora le circostanze del tempo ci spiegano la sua vita, ora la sua vita è documento, che meglio d'ogni altro spiega e caratterizza le circostanze del suo tempo.

Che bel tema di psicologia storica, e come opportuno anche oggi!

Ma vorrebb'essere nelle mani del Sainte-Beuve, del Taine o di Carlo Hillebrand! In quella vece non l'hanno trattato in pieno (il grand'emporio Montiano di Leone Vicchi sta da sè e poi si ferma al 1799) non l'hanno trattato in pieno, che il Cantù e Achille Monti, un pronipote del poeta: il primo con tutta quella salmeria di pregiudizi e di rancori romantici, ultracattolici e politici, che si strascinava sempre dietro, e con cui rimestava la farragine di notizie grandi e piccine, che avea sempre a sua disposizione su ogni argomento, il secondo con sì sviscerata idolatria di quella sua gloria gentilizia, che quantunque fosse (me ne ricordo per [375] averlo conosciuto a Roma) la più mite, buona e serena natura di vecchio classicista e liberale alla Romana, che si potesse immaginare, una volta messo su questo terreno, montava su tutte le furie; sul Cantù e su ogni avversario o tiepido ammiratore del Monti menava giù botte da orbi, e di Vincenzo Monti difendeva tutto, assolveva tutto, persino quello, di cui il poeta stesso s'era con tanta fretta e sovrabbondanza di contrizione accusato da sè.

Voi lo vedete, signore; non s'era così sulla strada d'uno studio psicologico condotto con serenità oggettiva e con buon metodo d'osservazione e di critica; nè ora ho di certo alcuna pretensione di percorrerla io quella strada sul fragile veicolo, sul traballante velocipede d'una conferenza. Mi contenterei di non esserne fuori del tutto.

Leggendo le poesie del Monti si può temere di non veder giusto sotto l'impero d'una specie di seduzione estetica e perciò appunto vi dico: “oltre alle sue poesie, leggete il suo epistolario.„ Se c'è uomo, di cui l'epistolario privato dica di più ed a cui l'epistolario privato nuoccia di più, quest'uomo è il Monti di certo. Ma se c'è uomo altresì, verso il quale, più lo si conosce da vicino, e più si senta il dovere di non giudicarlo da pochi tratti e staccati, bensì nell'insieme e [376] bilanciando il bene ed il male con quella mesta carità e misericordia, a cui danno pure qualche diritto il genio, il lavoro, la sfortuna, la gloria, questo è pure il Monti di certo.

Apologisti e detrattori con lui hanno torto del pari. Le sue mancanze di carattere dispiacciono e sono antipatiche. Tanto più dispiacciono, quanto più s'ama la concordanza d'una forte virtù con l'ingegno grande e la sapienza. Ma è innegabile altresì quella fondamentale bontà dell'animo del Monti, su cui il Giordani, da psicologo acuto, anzichè da rétore, ha poggiato tutta la difesa che ha fatta di lui, quella fondamentale bontà, che pur congiunta a impressionabilità quasi morbose, a maggior vivezza che profondità di sentimento, alla mobilità della fantasia, alla muliebrità dell'indole “tanto più notabile in corpo quasi d'atleta e nella poetica baldanza dell'ingegno„ fu, direbbe il Taine, la faculté maîtresse del suo spirito, e lo preservò sempre, in mezzo a tutti i suoi errori, dal divenire un briccone, come lo furono invece quasi tutti i suoi più accaniti avversari, i quali tuttavia in tante particolarità non d'ingegno, ma di carattere, somigliano a lui.

Per uno studio, come il nostro, bisognerebbe dunque tener sempre riuniti, potendo, sullo stesso piano del quadro, l'uomo, il tempo, il poeta, più [377] importanti assai, tutti insieme, della pura tecnica letteraria dell'arte sua, più importanti assai dei colpi d'ala e dei voli della sua lirica, della continua eleganza della sua frase poetica, della profusione della sua vena, di quella sua potenza di dir tutto con una precisione e insieme con una facilità e un'armonia insuperabili, di quegli scoppi e di quei crescendo quasi di sinfonia rossiniana, che si incontrano ne' suoi versi, e infine di quella sua mirabile e organica struttura d'artista sovrano, che, pur alterando forse qua e là la semplicità divinamente classica di Omero, ha permesso a un poeta, che sta fra l'Arcadia del secolo XVIII ed il romanticismo del secolo XIX, ha permesso a lui, che poco o nulla sapeva di greco, d'essere l'interprete più felice di quel patriarca della poesia umana.

La Roma del 1778, in cui a ventiquattr'anni si rotolò per cercar fortuna Vincenzo Monti dalle native paludi delle Alfonsine presso Fusignano e dalle erbose solitudini di Ferrara, era ancora quella che videro il Mengs, il Winckelmann, il Gœthe, “i tre giganti dell'estetica tedesca, applicata alla pittura, all'antiquaria e alla poesia.„

Regnava Papa Braschi (Pio VI), un nobiluccio di provincia, a cui gli ordini d'elezione, sempre democratici, della Chiesa avevano dischiusa la via del trono, forse appunto perchè fra i vari candidati possibili era il più oscuro. Poco versato [378] in lettere umane e divine, era un dilettante di belle arti e ahimè! anche di politica e di finanze. Ahimè, dico, sapendo noi quel che costa tal sorta di dilettanti! — Non era bigotto. — L'avventuriere Gorani sparla de' suoi costumi, ma lo calunnia di certo. Era unicamente vano e fastoso; vano della sua bellezza e della sua eleganza, fastoso nell'aggiunger l'aquila di Casa d'Austria e i gigli di Francia al suo stemma, nel metter mano a grandi opere pubbliche e nell'arricchire e illustrar la sua casa, rappresentata in Roma dal nipote Luigi Braschi Onesti, un bestione, a cui diè in moglie una graziosissima ragazza romana, con un par d'occhi neri, cerchiati e fulminei, un corpo di Venere canoviana, Costanza Falconieri, e di tutti e due fece i maggiori e più splendidi personaggi della corte e del regno.

Così, e proteggendo un po' di lettere e d'arti, Pio VI potea figurarsi di rinnovare Pericle, Augusto e Leon X, e lasciarselo dire dai suoi poeti, i giornalisti d'allora; ma già i tempi mutavano; novità minacciose di scoperte scientifiche e di dottrine filosofiche solcavano l'aria; il laicato, in persona dei principi riformisti, batteva già in breccia le vecchie pretensioni di supremazia civile della Chiesa Cattolica; i giurisdizionalisti precorrevano già i rivoluzionari di pochi anni [379] dopo, e dovette accorgersene lo stesso Pio VI, quando per calmare le furie novatrici dell'Imperatore Giuseppe II pellegrinò a Vienna nel 1782, senz'altro risultamento notevole che di far morire di raffreddore il vecchio Metastasio, affacciatosi a una finestra per vederlo passare, e peggio ancora, quando dopo il 1789 incominciarono le prime agitazioni della Rivoluzione Francese.

Che cos'era il Monti in questi primi anni del suo soggiorno in Roma? Nelle apparenze un bel giovine, con titolo d'abate (gli abati erano i lions di Roma) con molto ingegno e pochissimi quattrini, un Pastor Arcade, che avea sempre in pronto un sonetto per ogni lietezza o sventura, specie dei pezzi grossi, e dopo le illustri nozze Braschi-Falconieri, da lui celebrate con un canto di stupenda fattura, la Bellezza dell'Universo, rimeritato coll'impiego di segretario del Duca Luigi Braschi, il magnifico nipote del Papa.

Vi figurate, signore, quello che avranno pensato i buoni villici delle Alfonsine e i solitari condiscepoli di Ferrara d'un così promettente esordio di fortuna? E quando poi lo avranno saputo Bussolante del Papa e Segretario degli Avvocati Concistoriali? Per lo meno si saranno aspettati di vederlo da un'ora all'altra Cardinale!

E certo, dato l'ambiente della Roma d'allora e colla forza d'ingegno di Vincenzo Monti, aver [380] voce in Arcadia, aver un piede in corte, un altro nelle anticamere di Casa Braschi, sarebbe come nella Roma d'adesso aver.... Ma non divaghiamo!... Le apparenze erano belle; la sostanza poco o niente, e l'aspettata fortuna pel Monti non venne mai.

Due cose l'attraversarono sempre, ora ed in avvenire, l'invidia degli emuli, che non gli diede mai tregua e contro la quale egli non ebbe mai nè la dignità della noncuranza e del disprezzo, nè la giusta misura della risposta; e l'indipendente superiorità, l'indocilità critica, starei per dire, della sua mente, che non gli consentì mai l'intiera sommissione, l'intiera dedizione di sè e la rinuncia incondizionata ad ogni discussione e ad ogni ribellione, quali bisognano agli uomini, che non hanno altra regola di vita che la propria fortuna.

Sta in ciò il bene ed il male del Monti, e colla subitaneità delle sue impressioni, de' suoi entusiasmi, de' suoi sdegni, delle sue audacie inconsiderate e de' suoi sgomenti quasi puerili, sta in ciò per gran parte il segreto delle sue mutazioni e dell'apparente leggerezza delle sue convinzioni, donde s'è formata per lui la leggenda dell'abate, del cittadino e del cavaliere, quasi a significare le sue calcolate e successive voltate di casacca, da clericale in Roma a repubblicano [381] nella Cisalpina e a cortigiano di Napoleone e poi della Ristaurazione.

In quella vece chi guardi bene e consideri spassionatamente la sua vita e la sua poesia, vedrà che per disgrazia sua egli è in disaccordo con tutte le vicende storiche, a traverso le quali gli è toccato passare. Nella Roma di Pio VI, prima di sentirsi rivoluzionario come l'Alfieri, egli s'è sentito riformista e filosofo, come il Parini, il Verri, il Beccaria, il Filangeri; poi ha idoleggiato, come tutti i giovani del suo tempo, nelle agitazioni sotterranee delle Logge Massoniche i primi e più puri ideali della Rivoluzione Francese, che parvero, ed erano, l'aurora della libertà sorgente sul vecchio mondo; poi ha inorridito degli eccessi del Terrore e ha dato indietro, e finalmente ha sperato la liberazione d'Italia dalle armi francesi ed è passato da Roma papale a Milano repubblicana. Qui, tra le violenze degli invasori e le scapestrerie stupide, ladre ed anarchiche dei neogiacobini italiani, il Monti, per organica dirittura di mente, si trova ad essere un liberale moderato: disgraziatissima disposizione di spirito in certi momenti politici, per la quale non si fa paura a nessuno e non vi vuole nè Dio nè il diavolo. Or bene, in chi fissar l'animo e gli occhi fra tutto quel pandemonio? Qual'è la forza unica, che sembra poter dominare e dar sesto ed [382] ordine a quel caos? Napoleone! Ed il Monti, come il Melzi, come l'Aldini, come tutti i ragionevoli e gli onesti, si volge a lui. Ma Napoleone alla sua volta s'ubbriaca di potenza e di gloria e strascina l'Italia dietro il carro della sua sfrenata ambizione, ed ecco il Monti non disposto a seguirlo. “Costui fa cose (così scriv'egli al Lampredi) da raffreddare un vulcano. Precipiterà sè e noi, quanti siamo a lui devoti. Una sola buona cosa ha fatto, l'organizzazione di questo regno: ma poi come tratta noi Italiani? Si rende nemici tutti i re d'Europa, che alla fine trionferanno. E noi cadremo con lui.„ Che ne dite? Il conte di Cavour, buon'anima, non potrebbe preveder meglio e ragionar più dritto di questo poeta!

E forsechè fu egli solo, il Monti, nell'immane catastrofe Europea dell'impero napoleonico, fu egli solo, il Monti, a confidare nei benefici della pace e nella moderazione degli alleati liberatori? No, signore! Era un'intiera generazione, che, sentendosi soccombere fra tante speranze deluse e gli strazi di vent'anni di guerre incessanti, acclamava fra le accumulate ruine alla pace ed a chi pareva portarla e con parole ingannatrici la prometteva.

Fu un errore, fu una colpa di tutti, ed al Monti, che canta il Ritorno d'Astrea, certamente preferisco [383] il Foscolo, che va in esilio, ma non dimentichiamo che fra quegli acclamanti era persino Federico Confalonieri, il glorioso martire del '21. Il Confalonieri scontò la sua illusione giovanile collo Spielberg; il Monti, vecchio e malato, coll'abbandono e la povertà. Non è lo stesso, ma è pur qualche cosa, e sarebbe anche di più, s'egli non se ne fosse lagnato, nella stessa guisa che sarebbe più bello l'esiglio del Foscolo, se avesse pagato i suoi debiti o saputo contrastare colla fame, come Giuseppe Mazzini. Ma io non v'ho detto che il Monti fosse un eroe; v'ho detto che oltre ad essere un gran poeta, era un uomo buono, migliore di certo di tutti i suoi avversari e detrattori, e questa (piaccia o non piaccia a tutti i Cantù vivi e morti) è la verità.

E poeta grande è pur anco per chi ha il senso vero dell'arte e la intende e ne giudica con criteri d'arte e di storia e non colle preferenze del giorno per giorno e dei gusti, che cambiano e rivengono, come le fogge del vestire.

Non lo cercate in quei primi vaneggiamenti d'amori giovanili, sfogati all'italiana in sonetti ed anacreontiche, nè in quei temi da seminario e da sagrestia, ch'erano d'obbligo nell'Arcadia di Roma, anticamera del Vaticano, nè in quei profluvi di lodi, di auguri e di pronostici strampalati, ai quali non potea ricusarsi l'abate novellino, [384] andato a Roma per far carriera, il segretario del duca Braschi e il bussolante di Sua Santità.

Cercatelo bensì dove un gran soggetto lo inspira, come nella Bellezza dell'Universo, o una convinzione sincera lo esalta, come quando celebra i trionfi della ragione e della scienza nell'ode a Montgolfier, o quando la passione lo trasporta, come nei versi sciolti a Sigismondo Chigi, nei Pensieri d'Amore e nelle Elegie, o quando la straordinarietà e la grandezza dei fatti contemporanei lo solleva alla concezione dantesca della Bassvilliana. Qui è il vero Monti, il Monti fantasista e coloritore insuperabile e pel suo tempo originalissimo, e con quella sua eloquenza, agilità e musicalità di verso, che prorompe a guisa di torrente e si prova e riesce a dir tutto, con una genialità, una vaghezza, una varietà, una potenza di forme, che prima di lui non hanno riscontro se non in Dante ed in Ariosto.

E se volete persuadervi di che cosa è capace come artista, vedetelo quando si rituffa in piena mitologia, come nella Musugonia e nella Feroniade (che il semi-romantico Zanella nella sua Storia non gli può perdonare) e non solo v'apparirà tutto il massimo svolgimento, ch'egli seppe dare al neoclassicismo, dominante dal Parini e dall'Alfieri sino al Manzoni, ma assisterete al [385] prodigio d'un arte, continuata e approfondita poi sempre più dal Foscolo e dal Leopardi, d'un arte, dico, che galvanizza cadaveri, e con sentimento moderno rimanifesta la giovinezza immortale del genio greco e romano e lo fa rivivere in pieno tra la fine del secolo XVIII e il principio del secolo presente.

Sotto tale aspetto il Monti fu paragonato giustamente al Canova, ma la Roma di Pio VI, che perdonerà allo scultore la bellezza pagana delle sue Dee e Semidee e persino la procace nudità di Paolina Bonaparte, sorgente in sembianza di Venere molto terrena dal piccolo sofà-empire di Villa Borghese, la Roma di Pio VI, dove si lascia morir di veleno o di crepacuore lo Spedalieri, perchè ha osata una timida conciliazione fra il dogma e il Contratto Sociale del Rousseau, non perdonerà al poeta d'avere, ripigliando la tesi degli Enciclopedisti, ricongiunto il suo pensiero a quello del Parini, dell'Alfieri e di tutti i contemporanei riformisti, Lombardi e Napoletani, d'aver intuonato, lì, appiè della cattedra infallibile di San Pietro, il peana trionfale della ragione e della scienza con quei versi:

Umano ardir, pacifica

Filosofia sicura,

Qual forza mai, qual limite

Il tuo poter misura?

[386] e, celebratene le continue vittorie, d'aver concluso con vaticinio superbo, che sa d'eresia:

Che più ti resta? Infrangere

Anche alla morte il telo

E della vita il nèttare

Libar con Giove in cielo.

La Roma di Pio VI non perdonerà al Monti queste audacie, e se poscia se ne impaura egli stesso, se vacilla, se piega ai terrori, che inspira un governo di preti implacabili, alle lusinghe, che la fortuna non gli mantenne mai, ai dolci errori, cui possono trascinare un giovine caldo di cuore, di sensi e di fantasia l'opulenta bellezza e il lampo dello sguardo, tra devoto e profano, delle donne Romane, e più inebbriante d'ogni altro quello, che lanciò sul poeta Costanza Braschi, ripeterò che il Monti non è un Catone, ma ripeterò altresì che non è meno gran poeta per questo, e poeta grande appunto, perchè somiglia al suo tempo, ed il tempo a lui.

Quando, a guisa di onde incalzantisi le une sulle altre, incominciarono a ripercuotersi anche in Italia gli echi della Rivoluzione Francese, gli animi pro o contro s'agitarono profondamente, ed in Roma assai più contro che pro.

S'immagini ora l'ambiente di Roma, allorchè fu tutta piena d'emigrati francesi, fra i quali le zie del Re, ospitate dal cardinale De Bernis, il [387] destituito ambasciatore di Francia, e mentre a Parigi si bruciava il Papa in effigie per rappresaglia al bruciamento in Roma dei libri massonici del Cagliostro.

L'avversione alle novità francesi andava crescendo in Roma ogni giorno. Le più strane novelle correvano e trovavano fede, ora del Re scampato e già rifugiato in Germania, ora degli alleati entrati trionfanti in Parigi, ed il popolo, se vedea allora passare il vecchio De Bernis, gli staccava i cavalli dal carrozzone e lo tirava a braccia, poi si precipitava a prosternarsi appiè di santi e madonne, che stillavano sangue, stralunavano gli occhi, e versavano lagrime, come persone vive.

Peggio fu, quando si riseppero le sanguinose scene della Rivoluzione, la ghigliottina in permanenza, il Re con la famiglia in carcere, la Repubblica proclamata, i Giacobini prevalenti con la Convenzione, e quando nel novembre del 1792 si vide capitare in Roma Niccola Giuseppe Hugou de Bassville, segretario della Legazione francese di Napoli, quel medesimo, che poi pel poema del Monti restò noto al mondo col nome più poetico di Ugo Bassville, e che prima fu spedito quasi di nascosto per tastar terreno, poi s'atteggiò a diplomatico, e d'intesa con pochi amici e colle Logge Massoniche accese, insieme ad un [388] La Flotte, ufficial di marina pure francese, una briga internazionale per surrogare sul palazzo del Consolato e dell'Accademia di Francia all'antico stemma Borbonico quello della Repubblica.

Il Papa resistette, lo sdegno universale divampò, e provocato con iattanza francese dal Bassville e dal La Flotte finì il 13 gennaio 1793 nell'assassinio, a furor di popolo, del Bassville.

Si disse allora e si ripetè poi, che il governo ci avesse mano, ma non è provato, e le circostanze di fatto, diligentemente vagliate dal Vicchi, sembrano anzi escludere tale complicità.

Comunque, la reazione popolare giunse a tale, che ad imbrigliarla bisognò tutto il vigore e la sollecitudine, che prima adopravansi solo contro i sospettati aderenti della Rivoluzione, fra i quali era certamente anche il Monti, framassone, amico al Bassville, e che avea lasciate in mano di lui carte compromettenti.

Seguirono in Francia la decapitazione del re e della regina, il Terrore, le stragi, la guerra universale, e a tali eccessi anche i più caldi in Italia ristettero e ripugnarono. Così pure accadde al Monti, che oltre a trescare in cospirazioni avea già dovuto a questo tempo cercar di deviare la maldicenza e l'invidia, suscitate dalla sua gloria e dal misterioso romanzo dei suoi [389] amori colla duchessa Braschi, mercè un matrimonio improvviso con Teresa Pickler, bellissima giovinetta romana, tutta gloriosa d'aver conquistato il cuore dell'acclamato autore dell'Aristodemo e del Galeotto Manfredi e certo ignara di servire da parafulmine alle sue politiche e galanti marachelle. Ma che bel parafulmine era allora Teresa Pickler! Ed il Monti se ne innamorò per davvero, e forse la duchessa Braschi avrà detto fra sè: “troppa grazia!„

Fra tali intimi e segreti contrasti di terrori personali, di passioni colpevoli, di affetti legittimi, di illusioni e disinganni patriottici è nata la Bassvilliana, il vero poema storico della controrivoluzione italiana.

Esso è troppo noto da doverne a lungo parlare.

Anche oggi (e vi è corso sopra più d'un secolo) esso è uno dei capolavori più popolari della poesia italiana. Ma vedete destino di persecuzione, signore! Quando alla lunga scemò d'interesse e venne a noia l'eterna inquisizione sulla versatilità politica del Monti, ad un'altra croce fu messo, la ricerca di tutte le sue imitazioni e assimilazioni come poeta, specie dalle letterature straniere. E si comincia dalla Bellezza dell'Universo, di cui il meglio sarebbe levato dal Milton, dai sonetti sulla Morte di Giuda, nei quali il Monti avrebbe accattato dal Klopstock persino [390] l'immagine della Divina Giustizia, che pigliò pel collo il traditore

E lo piombò sdegnosa in Acheronte.

(dimando io, se c'è bisogno di farsi imprestar questa roba!) e via di questo passo, il Monti non avrebbe mai fatto altro che un cibreo d'imitazioni felici, belle, armoniose, ma composto a un dipresso, come lo speziale, pigliando da tutti i barattoli, compone le ricette del medico.

L'idea madre della stessa Bassvilliana (che non è il meglio di certo di quel poema) si vuole tolta dal Klopstock. E ammettiamo pure che la Messiade sia il modello della Bassvilliana. Che cosa significa ciò? La macchina poetica, su cui adattare un soggetto particolare e contemporaneo, qual'è la morte del Bassville, un soggetto cioè, la piena realtà del quale è presente e a tutti nota, non ha la stessa importanza, che in una vasta creazione epica, com'è la Messiade, in cui deve rispecchiarsi qualche punto prominente della storia del genere umano, qualche punto vecchissimo di data, con pochi o molti fatti, la verità dei quali si perde o svanisce nel vago della tradizione e della leggenda e quindi lascia al poeta ogni libertà d'immaginare e di ricomporre.

V'ha qui uno stadio di premeditazione e di lunga gestazione organica, che non ha rapporto [391] coll'improvvisazione, coll'estemporaneità d'una poesia d'occasione, com'è in sostanza la Bassvilliana del Monti.

D'altra parte qual è il poeta, anche fra i sommi, che nella scelta della sua macchina poetica non abbia attinto da quel fondo comune, che l'arte, la storia, gli ingegni colti e la fantasia popolare vengono tutti insieme accumulando e che in ogni tempo appresta, si direbbe, lo stampo, in cui il poeta getta le bellezze originali del proprio estro e dell'arte propria? A questa legge, benchè di tanto scemata di forza, di quanta n'ha acquistata nel tempo moderno l'individualità dell'ingegno, a questa legge s'è conformato anche il Monti.

V'ha anche al suo tempo col ravvivato studio di Dante, colla sazietà degli ideali arcadici, colla voga del preromanticismo fantastico del falso Ossian e sepolcrale del Gray e del Young un materiale poetico molto diffuso e forme molto comuni, nelle quali tutti incappano: il Bertola, Alessandro Verri, il Varano, non meno dell'Alfieri, del Monti e del Foscolo, e da qui procede in parte il meraviglioso anche delle più consuete macchine poetiche del Monti, quella sua quasi continua evocazione spiritica, quella sua folla di ombre, quel suo collocarsi fra cielo e terra, fra la morte e il misterioso al di là, quando non [392] preferisce inforcare il vecchio Pegasèo e sparire in pieno olimpo mitologico.

Per ora gli toccherà fra poco di sparire soltanto da Roma. L'enfasi e le invettive della Bassvilliana contro gli eccessi della Rivoluzione francese non bastarono a smorzare i sospetti del Governo Pontificio. Ed ecco il Monti, il poeta di Bassville, che la notte del 3 marzo 1797 fugge nascostamente da Roma nella carrozza d'un aiutante di campo del generale Bonaparte, venutovi apportatore del trattato di Tolentino, e piomba prima a Bologna, indi a Milano in mezzo a tutto il bailamme delle repubbliche improvvisate dai Francesi.

Quando la Bassvilliana fu ideata e composta, essa rispondeva al sentimento più diffuso e comune allora in Italia. Ma gli avvenimenti successivi dal '93 al '97, l'anno in cui il Monti fuggì da Roma, lasciando interrotta la Bassvilliana, siccome interruppe sempre tutte le sue creazioni maggiori (altro segno grandemente caratteristico e dei tempi e di lui), ma gli avvenimenti successivi, dico, aveano mutata la faccia delle cose; aveano dato tutt'altro corso ai pensieri e alle speranze dei molti, che pur ripugnando agli eccessi, favorivano in cuore i principii della Rivoluzione francese; e il Monti, con quel bel senso di prudenza e di opportunità, che avea sortito [393] da natura, e il Monti giù, a precipizio, per questa china, senza pensare un momento, se vi coglierà allori o legnate, se vi troverà in fondo un Campidoglio o una Rupe Tarpea. Ma egli nella sua testa dovea a un dipresso ragionare così: “non sono stati ben accolti nella Cispadana e nella Cisalpina tanti altri profughi di Roma? non vi sono il Gianni, il Lattanzi, stati ben più di me servili alla Curia Romana e per di più canaglie di tre cotte e tanto inferiori a me d'ingegno e di gloria? E il Cicognara, che ieri recitava in Arcadia il necrologio di Luigi XVI, non è ora Presidente del Comitato di difesa nella Cispadana? e il Salfi, che fino a ieri ha piaggiato i Borboni di Napoli, non è ora a Milano il giornalista più temuto e il portavoce del giacobinismo più puro? perchè dunque dovrebbero pigliarsela solo con me, non reo che d'aver detto in versi magnifici quello, che quasi tutti gli Italiani migliori pensavano e sentivano, allorchè composi la Bassvilliana?„

Ah, signore, era un gran furbo quel buon Monti e val proprio la pena d'esser uomo di genio per conoscere così bene il mondo, gli uomini, la vita, e ragionare a questo modo, dimenticando per di più che quei Gianni, quei Lattanzi erano suoi nemici giurati, da lui in Roma mille volte aizzati, scorbacchiati, flagellati, e che [394] ora non avrebbero mancato di ripagarlo a misura di carbone! Ma non basta. Il Monti è anche più imbecille di così. Salta il fosso del tutto, anzi va a ruzzoloni al di là dell'altra sponda, e in un'ignobile lettera al Salfi sconfessa la Bassvilliana e nelle nuove sue cantiche: il Fanatismo, la Superstizione, il Pericolo e nell'inno per l'anniversario della decapitazione di Luigi XVI, traveste addirittura la nobile Musa della Bassvilliana in scapigliata e discinta tricoteuse de la guillotine; sfoghi sinceri forse, per quanto eccessivi, di sentimenti dovuti celare e comprimere troppo a lungo, ma che ad ogni modo sono la più brutta e dissennata pagina della vita del Monti.

Ne pagò il fio, non dubitate! E quantunque egli appartenesse in realtà alla parte più onesta, più saggia, più nobilmente liberale della Cisalpina, e forse anzi appunto per questo, non ebbe mai tregua nè mercè e più d'una volta parla in certe sue lettere disperate della tentazione di farsi saltare in aria le cervella.

La Cisalpina, già agonizzante (mentre il Bonaparte era in Egitto) per le violenze, le corruzioni, i ladronecci, le frenesie d'ogni guisa, sprofondò del tutto sotto la vittoriosa reazione Austro-Russa, ed il Monti esulò in Francia, fino a che la vittoria di Marengo non gli consentì d'intuonare [395] lo splendido inno del ritorno e della redenzione sua e dell'Italia:

Bell'Italia, amate sponde,

Pur vi torno a riveder!

Trema in petto e si confonde

L'alma oppressa dal piacer.

Egli ricupera la patria e sè stesso e nella Mascheroniana vendica sublimemente la patria e sè stesso. “Molti, diceva, ne rimarranno scottati, ma è giunto il tempo di un'onorata vendetta e perdio me la voglio prendere, per istruzione della mia patria, lacerata da tanti birbanti.„ Sentitelo come descrive il leggiadro vivere della Cisalpina con quella potenza tremenda d'invettiva, per cui la poesia si eleva a storica e umana ad un tempo, è specchio cioè del presente e vaticinio e ammonimento solenne per altri tempi, che con quel presente avessero mai, per caso, qualche rassomiglianza:

Altri stolti, altri vili, altri perversi,

Tiranni molti, cittadini pochi

E i pochi o muti, o insidïati, o spersi.

Inique leggi e per crearle rochi

Sulla tribuna i gorgozzuli e in giro

La discordia co' mantici e co' fochi,

E l'orgoglio con lei, l'odio, il deliro,

L'ignoranza, l'error, mentre alla sbarra

Sta del popolo il pianto ed il sospiro.

Tal s'allaccia in senato la zimarra,

Che d'elleboro ha d'uopo e d'esorcismo;

Tal vi tuona, che il callo ha della marra;

[396]

Tal vi trama, che tutto è parossismo

Di delfica mania, vate più destro

La calunnia a filar che il sillogismo;

Vile! tal altro del rubar maestro

A Caton si pareggia e monta i rostri

Scappato al remo e al tiberin capestro.

Oh iniqui! E tutti in arroganti inchiostri

Parlar virtude e sè dir Bruto e Gracco

Genuzi essendo, Saturnini e mostri.

Colmo era insomma de' delitti il sacco;

In pianto il giusto, in gozzoviglia il ladro,

E i Bruti a desco con Ciprigna e Bacco.

. . . . . . . . . . . . . . .

Dal calzato allo scalzo le fortune

Migrar fur viste e libertà divenne

Merce di ladri e furia di tribune.

V'eran leggi; il gran patto era solenne,

Ma fu calpesto....

Vôta il popol per fame avea la vena;

E il viver suo vedea fuso e distrutto

De' suoi pieni tiranni in una cena.

Squallido, macro il buon soldato e brutto

Di polve, di sudor, di cicatrici,

Chiedea plorando di suo sangue il frutto:

Ma l'inghiottono l'arche voratrici

Di onnipossenti....

. . . . . . . . . . . . . . . .

Sai come s'arrabatta esta genìa,

Che ambizïosa, obbliqua entra e penètra

E fora e s'apre ai primi onor la via.

Il poeta, signore, ha sfogato il suo nobile sdegno e si calma, perchè è da sperare che questa tregenda d'infamie sia finita. Sia finita? Oh sì! Quando finirà l'uomo!

[397] E un altro entusiasmo ora trascina il Monti. Ma chi glielo inspira? Napoleone! E chi vuole accusare il Monti pei suoi poemi napoleonici, il Prometeo, il Bardo, la Spada di Federico e la Palingenesi politica, rientri in sè o si guardi attorno e dica se spesso non ha visto gente più spassionata e di più astuto cervello del Monti scalmanarsi per personaggi centomila volte minori! Fossero pure falsi miraggi gli splendori del vice-regno napoleonico, ma certo è che fra quei miraggi la nostra coscienza politica ed un partito nazionale si venivano formando. Si vorrà forse dire che ciò non apparisce nei versi del Monti? Lo dirà chi non gli ha letti, perchè mai il nome sacro d'Italia suonò più alto che nei versi e nelle prose di lui e ad ogni occasione, anche quando allo stesso dominatore francese quel nome cominciava a dar ombra. Nella prolusione alle sue lezioni universitarie di Pavia nel 1803 (prolusione, che si direbbe lo schema del futuro libro del Primato di Vincenzo Gioberti) parlò sì alto e sì libero anche contro i Francesi, che la censura non ne permise la stampa, se non mutilata e mutata.

Riunitosi nel 1815 il Congresso di Vienna, che spartì i popoli come branchi di pecore, il Monti trovò ancora accenti nobili e degni, ma poco dopo cantò per l'Imperatore d'Austria il [398] Ritorno d'Astrea, e questa è senza dubbio, al pari della lettera al Salfi, una delle sue mancanze di carattere più ripugnanti. Non c'è scusa che tenga a tale viltà, ma non mi par giusto, ripeto, in mezzo ad un moto così grande di reazione Europea qual'è quello del '15, e mentre in Italia il regno napoleonico cadeva senza rimpianti e peggio fra vendette nefande e applausi, non di sola plebaglia prezzolata, agli alleati liberatori, non mi par giusto, dico, imprecar solo al Monti, quasi rappresentasse egli solo tanto stolta rapidità d'ingratitudine, d'obblìo e di nuove speranze.

Ben presto esso e gli altri dovettero ricredersi, e quanto al Monti in particolare, esso nel consacrare, alcuni anni dopo, al marchese Trivulzio uno de' suoi ultimi canti chiudeva così:

.... E s'ei dimanda

Come del viver mio si volga il corso,

Di' che ad umil ruscello egli è simìle,

Su le cui rive impetuosa e dura

I fior più cari la tempesta uccise.

Di quel po' che avea raggranellato, durante il regno italico, avea salvato appena qualche briccica. A sentir certuni, si direbbe essersi esso, nei nove anni, che quel regno durò, tuffato sino alla gola in tutte le voluttà sardanapaliche, che aveano ammollito e corrotto i proconsoli e i marescialli napoleonici, legittimi precursori di quelli, [399] che nei disastri francesi del 1870 si consolavano dicendo: “c'est égal! nous nous sommes bien amusés!„ In quella vece che cos'era stato il Monti in realtà? Un segretario senza segreti, un consulente non consultato, un professore senza cattedra, uno storiografo senza storia, un poeta Cesareo con un Cesare troppo affaccendato da badare a' poeti.

Contuttociò, dopo la Restaurazione, la carriera, anche letteraria, del Monti, si può considerare come finita, perchè poetò per piccole occasioni o in difesa della vecchia arte sua, come nell'elegantissimo sermone sulla Mitologia, o s'abbaruffò coi Cruscanti su quell'eterna questione della lingua, che gli Italiani, come se non avessero niente altro di meglio da fare, rinnovano quasi ad ogni età della loro storia. Ma nè a compire i poemi interrotti potea pensare, nè a tentarne di nuovi, e tutt'al più si deliziò, coll'incontentabilità del vecchio artista, d'andar sempre accarezzando e perfezionando le linee della Feroniade, il solo poema, che trascinò dalla gioventù fino ai suoi ultimi anni, senza compir mai neppur questo.

Bisogna dire però che la grande nomea del suo ingegno e la popolarità della sua gloria poetica non fossero stato punto oscurate presso i contemporanei dalle sue metamorfosi politiche, [400] delle quali menarono tanto scalpore critici e biografi posteriori, se il romanticismo lombardo, che era la forma letteraria del liberalismo nascente e dell'opposizione alla letteratura officiale, gli profferiva di diriger esso il Conciliatore, il famoso giornale-programma dell'arte nuova nel 1818; se due giovani, caldissimi d'amor patrio, come Silvio Pellico ed il Berchet, lo stimolavano ad entrar con essi nella setta dei Carbonari; se il Leopardi ed il Manzoni cercavano la sua approvazione ed il suo appoggio; se finalmente la Polizia Austriaca l'avea in sospetto e facea sorvegliare la sua corrispondenza col conte Giulio Perticari, suo genero, anch'esso in voce d'aderente alle cospirazioni marchigiane e romagnole.

Ma ormai il povero Monti non era più che l'ombra di sè stesso. Ogni speranza, ogni dolcezza, ogni gloria si concentravano per lui nella moglie e nella figlia Costanza, sposata nel '12 al Perticari, e per le cui nozze i poeti d'Italia incomodarono tutti i vecchi Dei dell'Olimpo.

La moglie però, Teresa Pickler, bellezza giunonica, e che il Cantù chiama ironicamente fior di virtù, nelle acerbe polemiche letterarie e politiche, combattute dal Monti, non fu risparmiata, e forse non era senza torti, se è vero che non fu del tutto insensibile alle marziali eleganze degli ufficiali francesi; se è vero che fu [401] l'eroina della prima redazione dell'Jacopo Ortis di Ugo Foscolo, e che l'avarizia e l'avidità di lei furono cagione di più d'una delle debolezze politiche di Vincenzo Monti.

Comunque (e questo è l'importante) esso l'amò sempre tenerissimamente e la immortalò in quei versi soavissimi:

.... La stella

Del viver mio s'appressa

Al suo tramonto: ma sperar ti giovi

Che tutto io non morrò: pensa che un nome

Non oscuro io ti lascio, e tal che un giorno

Fra le italiche donne

Ti fia bel vanto il dire: “io fui l'amore

Del cantor di Bassville,

Del cantor che di care itale note

Vestì l'ira d'Achille.„

I disseppellitori implacabili di carte vecchie, i quali al primo brano di lettera un po' calda, in cui s'imbattono, d'una donna celebre ad un uomo celebre altrettanto, s'esaltano subito d'aver messa la mano su grandi arcani d'amori proibiti (sono i piccoli carnevali dei topi d'archivio e di biblioteca) fantasticarono, fra gli strappi del Monti alla fedeltà coniugale, anche di suoi amori colla baronessa di Staël, da lui conosciuta in Italia nel 1805; ma per poco che si conosca dell'indole e delle abitudini epistolari della famosa autrice di Corinna, si vedrà che non trattasi se non di [402] frasi e della passione consueta di quell'illustre donna di trarsi dietro aggiogati al suo carro trionfale tutti i più notevoli uomini del suo tempo e d'aver dato a tutti inspirazioni, consigli, conforti; specie di mecenatismo femmineo, civettuolo ed inconcludente, che di rado poi valica ne' suoi benefici certi confini.

Basti questo aneddoto. Il Monti e la Staël si scambiarono un giorno il dono d'un libro. Nel giorno stesso il Monti capita in visita dalla contessa Cicognara e ve lo depone, dicendo che sarebbe tornato a riprenderlo. Di lì a poco eccoti la Staël, che, dicendo lo stesso, vi depone il suo; ma tutti e due quei libri rimasero alla contessa Cicognara, e nè la Staël, nè il Monti si ricordarono mai più di ridomandarglieli.

Ben più della moglie del Monti è notevole figura di donna la sua figlia Costanza, che fu veramente il suo idolo. Era ingegnosa assai e un vero miracolo di bellezza, e con questi pregi ereditò anche il destino del padre d'essere fatta segno a molti amori di certo, ma anche ad odii feroci, perocchè alle colpe della mediocrità, che non dà ombra, s'usa misericordia, non a splendori d'ingegno e di bellezza, dai quali troppa gente si sente offuscata. Restò vedova nel 22 e fu accusata persino d'avere avvelenato il marito. Era una calunnia infame, ma fu creduta, e dovettero [403] scolparnela solennemente i suoi amici e vendicarnela il padre ne' suoi ultimi versi.

Il Monti morì nel '28, Costanza nel '40; e di tutte queste vicende del poeta, che ne' suoi versi, nella sua vita e in quella pure della sua famiglia rispecchiò più caratteristicamente d'ogni altro le vicende del suo tempo, il Niccolini faceva, non volendo, l'epilogo in una lettera al Maffei con queste parole: “in breve tempo il Monti, la sua moglie, la sua figlia sono spariti: pochi ne parlano, e i più di questi ne dicono male. Oh vanagloria delle umane grandezze!„

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.