Title: La Repubblica partenopea
Author: Guido Pompilj
Release date: July 10, 2013 [eBook #43183]
Most recently updated: October 23, 2024
Language: Italian
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LA
VITA ITALIANA
DURANTE LA
Rivoluzione francese e l'Impero
Conferenze tenute a Firenze nel 1896
DA
Cesare Lombroso, Angelo Mosso, Anton Giulio Barrili, Vittorio Fiorini, Guido Pompilj, Francesco Nitti, E. Melchior de Vogüé, Ferdinando Martini, Ernesto Masi, Giuseppe Chiarini, Giovanni Pascoli, Adolfo Venturi, Enrico Panzacchi.
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1897.
PROPRIETÀ LETTERARIA
Riservati tutti i diritti.
Tip. Fratelli Treves.
Signore e Signori,
La rivoluzione francese, attraverso dieci anni di ruinose vicende, alternanti tra efferata anarchia e gloriosi eroismi, andò a finire, come tutte le rivoluzioni, che mai potranno essere istituzioni permanenti, in balia di un dittatore vittorioso e imperioso.
Ma la nuova bandiera, sempre grondante sangue, o che facesse il giro del patibolo, o che dal Manzanare al Reno volasse trionfale per la terra, o che precedesse fatidica Carnot o che seguisse vindice Napoleone, ai popoli (perocchè ai re, e non a loro, secondo la sentenza di Danton, annunziava la guerra) doveva, con aperto contrasto, simboleggiare la libertà, la fraternità, l'eguaglianza.
Questi erano i principî della filosofia o, come [196] nel gergo di allora chiamavasi, della filantropia, predicata poi autentica genitrice di un commovimento sopra ogni altro di qualunque tempo procelloso e memorabile. Moto che, impetuosamente scoppiando, parve inopinato e impreparato, mentre era lentamente cresciuto e rimasto latente per tutto un secolo, che Carlyle chiamò paralitico, ma fu il secolo delle idee e della gestazione della democrazia. Moto che non poteva essere così subitaneo e accidentale se, cominciato allora, non è ancora finito; se non solo nelle istituzioni e nel pensiero se ne ritrovano tuttavia le reliquie non incenerite e la scintilla non spenta, ma si agitano altresì intorno ad esso giudizi e sentimenti così pugnacemente contrari, come, non i figli della rivoluzione, ma fossimo quasi i suoi contemporanei; e se celebrandone cento anni dopo, tra un misto di orgoglio e di rimpianto, di riconoscenza e di ribrezzo, di baldanza e di sconforto, il gran parentale, sentiamo la verità della superba profezia di Barère, a cui sul campo di Valmy faceva eco il sommo Goethe, che da quel giorno ricominciava la storia del mondo.
“En fait d'histoire il vaut mieux continuer que recommencer„, dice Taine, ma questa volta ciò che si andava disfacendo in un corrompimento senile era tutto un organismo civile e [197] politico, il quale non poteva più reggersi senza correggersi, doveva o trasformarsi dalle viscere o sprofondare.
E sebbene alcuni scrittori timidi e pacifici, fra gli altri il nostro Manzoni, sostengano che quel rivolgimento, mosso e alimentato da uno spirito riformatore, avrebbe non solo potuto, ma dovuto, non tralignare in rivoluzionario per incarnare veramente la pienezza del suo ideale, pure non può disconoscersi la profonda avvertenza dell'acutissimo Tocqueville, che, intrecciato com'era quell'organismo con quasi tutte le leggi politiche e religiose di Europa, abbarbicati come erano ad esso, quale edera serpeggiante a tronco annoso e tarlato, con infinite ramificazioni, pensieri, sentimenti, costumi, interessi, solo un colpo violento e reciso poteva schiantarlo ed abbatterlo.
Era una febbre di crescenza, era un fato della storia, a cui non manca certo lo spirito inventivo, che ha le sue vie e le sue mire arcane non soggette ai riposati calcoli sulla lavagna, e come è giustiziera e ultrice infallibile, così è mirabile e inesausta creatrice.
Quando si raccolsero gli Stati Generali il giorno per sempre memorabile del 5 maggio 1789, a cui doveva fare amaro riscontro un altro 5 maggio, nessuno forse di quei mille deputati dei tre ordini voleva la rivoluzione; nessuno dei Cahiers [198] (che, come disse Mounier, chiedevano distruggere gli abusi e non rovesciare un trono) l'invocava; nessuno la presagiva almeno così vicina e terribile. Chi avesse in quei giorni annunziato il Terrore o predetto Napoleone, sarebbe passato per un burlone o un mentecatto.
Ma la rivoluzione era nell'aria, e il turbine scoppiò in fulmini e tuoni e pioggia di sangue, mettendo a soqquadro l'Europa, conquassando una società secolare. Ammonimento a chi non sa preparare a tempo i parafulmini! a chi vaneggia che simili procelle mandino sempre innanzi araldi visibili per dar agio agli ignavi di aprir gli occhi o di mettersi in salvo! Il centenario della rivoluzione era bene di celebrarlo, ma piuttosto che a panegirici sperticati o sterili invettive, a paragoni parlanti e a fruttuose meditazioni.
Non si tratta di architettare demolizioni simmetriche e di sana pianta; ma di capire e sentire, per dir così, i tempi; meditare coi pensatori e palpitare col popolo; accompagnare, affrontando e regolando le trasformazioni, il cammino lacrimoso e pur luminoso del genere umano.
Ma perchè la rivoluzione era nell'aria e perchè divampò da ogni parte?
Essa fu il mare ove andarono a confondersi, come rivi e torrenti, tutte le rivoluzioni passate; [199] e le cause che la suscitarono furono quelle che, più o meno, sogliono istigarle tutte: cioè il dissidio fra le dottrine, gl'istituti, i privilegi, i costumi, avanzi di un'epoca volta alla sera, e il pensiero nuovo, i bisogni, le aspirazioni, i conati, preludio a un'altra che albeggia. E in pari tempo il conflitto dei particolari interessi tenacemente difesi da ciascuna classe, che non sa chiedere il temperamento armonico negli angustiosi trapassi allo spirito di sacrifizio; che non sa gittare a tempo una parte del carico per ritrovare il salutare equilibrio, e salvarsi, all'ingrossar dei marosi, col senso storico per bussola e l'amore umano per vela.
Ma forse nessuna filosofia, come questa della rivoluzione, fu talmente fertile e anche, spesso, talmente vacua e fallace.
Raramente a indagar le cause di un avvenimento fu messo tanto ingegno reso cieco da tanta passione, o tanto studio armato di sì forte pazienza e avvalorato da sì erudita e sottile critica.
Dai contemporanei ambasciatori veneti e Vincenzo Coco, passando per Thiers, Carlyle, Michelet, Quinet, Manzoni, a Gervinus, Sorel, Sybel e Taine, c'è da scegliere e da stordirsi.
Ma, perciò appunto, oramai chi sappia spogliarsi, o anche meglio non siasi mai vestito, di [200] passioni che sono la ruggine di ogni sincerità, e molto più di quella della storia, ha guide bastevolmente sicure per penetrare l'oracolo di questa.
Una massima intanto possiamo stabilire, conforme in tutto al principio, che ogni evento storico, specialmente se è di quelli destinati a rimescolare il mondo moderno, è cosa infinitamente complessa, e tale da non ammettere che se ne alambicchi colla storta qualche causa ideologicamente una e semplice: la massima, cioè, che fu errore, dimenticando molti altri moventi politici, attribuire quasi intieramente a Rousseau e agli enciclopedisti il merito o la colpa tanto della comparsa della rivoluzione in Francia quanto della sua diffusione e azione al di fuori.
Filosofia, scienza, letteratura, sono certo un gran fomite di rinnovamento, e gli scrittori che divinano insieme ed eccitano gl'impulsi popolari, che Manzoni chiamava le anime della folla, sono mirabile strumento di apostolato. Ma i rivolgimenti hanno sempre in fondo natura sociale e politica, appunto perchè sono fatti dal popolo, che non è spinto se non dai bisogni e dai sentimenti. Le idee, come non pagano dazio, così, per essere troppo alte, a guisa delle stelle, e troppo fredde a guisa del sole d'inverno, non abbagliano e non infiammano.
La rivoluzione ebbe il suo focolare spontaneo [201] in Francia, perchè, nazione composta da secoli a bronzea unità di stato che ne avea fatto la grandezza e la preponderanza, i nodi politici dovevano ivi prima che altrove arrivare al pettine; perchè l'indole della sua gente la fa proclive alle novità e irrompente ai partiti estremi; e perchè la sua lingua universale era il naturale strumento a quella specie di civiltà comune che s'era andata formando, a quella comune patria intellettuale, come l'ha chiamata il Tocqueville, che aveva abolito tutti i vetusti confini, facendo talora nemici i concittadini e fratelli gli stranieri; una patria fatta apposta per collocarvi a dimora l'uomo di natura rievocato da Gian Giacomo Rousseau, l'uomo astratto che nessuno ha mai conosciuto e a cui poi, per una delle tante contradizioni che sono l'ironica vendetta delle cose, doveva darsi per antonomasia il nome di cittadino.
Ma i germi sotterranei della rivoluzione, tanto nel campo filosofico quanto nel campo politico, andavansi maturando, più o meno vivamente e rapidamente, in ogni parte d'Europa, onde mentre quel novello accomunamento degli spiriti creava in Germania con Lessing, Schiller e Goethe la nuova letteratura, apriva alla Russia la finestra sull'occidente, risvegliava in Italia il pensiero speculativo e virile affratellando i popoli [202] in una maniera di pensare europea, secondo la dissero Pietro Verri e Madame De Staël; i principi e i ministri, molti dei quali allora dimostrarono una avvedutezza profetica, qualche volta inascoltata, come accadde al Bogino in Piemonte, entravano con nobile gara nella via delle riforme.
Al che contribuiva un diffuso istinto di aspirazioni sociali, un moto sentimentale che integrava l'intellettuale, quando vent'anni prima di Robespierre tout le monde aimait tout le monde, perocchè mai risveglio più terribile fu precorso da sonno più dolce e sogni più soavi. E anche questo derivava dalla scuola di Rousseau che alla fede nella potenza della ragione dell'uomo accoppiava quella nella bontà della sua natura; onde alle svenevolezze della nuova Eloisa facevano eco i madrigali e l'egloghe del Trianon, e in una società di cortigiani e di favorite, di cipria e di minuetti, veniva di moda l'idillio, e la filosofia, come dissi, si struggeva in filantropia.
Ma la storia che su questa terra, chiamata da Dante
L'aiuola che ci fa tanto feroci,
non è nè l'una cosa nè l'altra, a tale arcadia politica dava, col suo fato ironico, per epilogo proprio il Terrore, quando l'idillio di Andrea Chenier era troncato a mezzo dalla scure che, recidendo una testa, insanguinava un alloro.
[203] La filosofia non basta a cambiare le condizioni sociali che, con tutta quella comunanza intellettuale, rimanevano differenti; come i cittadini veri e non nominali (non quelli variopinti che il tedesco Anacarsi Clootz, oratore del genere umano, menò al cospetto dell'assemblea) rimasero cittadini, e ciascuno della loro patria e del loro clima, coll'indole della propria razza, colle tradizioni della propria storia, colle necessità del proprio governo. Onde diversi furono così gli stimoli e i fini dei rivolgimenti dei vari popoli, come gli affetti e i propositi suscitati in essi dal grande incendio francese.
Diversi furono in America, dove pure la dichiarazione dei diritti dell'uomo precorse di 13 anni il giuramento della Pallacorda. Diversi furono in Inghilterra, tuttochè fosse la patria non solo della famosa filosofia volgarizzata in Francia di seconda mano, ma eziandio di quel governo libero e rappresentativo che s'invocava ad esempio; e dalla quale pertanto sarebbe parso ragionevole, a stregua di filosofia, attendere aiuto e favore, mentre invece da Pitt a Burke, da Nelson a Wellington ivi si trovarono i più arrabbiati nemici, coloro che dettero l'alto là, e riuscirono a fiaccare una forza che per un momento era parsa indomabile. Diversi infine furono, come noi dobbiamo vedere, a Napoli nel '99, [204] sebbene di laggiù Tanucci desse la mano a Necker, Galiani a Voltaire, Filangeri e Giannone a Montesquieu e a D'Alembert.
Ma se non poteva farsi a meno di accennare in iscorcio le ragioni della distinzione tra quello che fu la rivoluzione in Francia, e quello che poteva essere nei varî luoghi dove, non già scoppiò, ma venne portata, certo è che intanto di fuori uscì, e, rotte le dighe, effetti universali ne ebbe, dovuti appunto e alla parentela delle dottrine, e alla analogia qua e là delle condizioni civili, morali e politiche, e forse più di tutto ai suoi stessi nemici.
Perocchè la sua azione europea, e specialmente italiana, fu determinata, più che dalle speranze e le simpatie degli oppressi, dai timori e dalle viltà degli oppressori, i quali, collo sfidarla, la cambiarono di guerra civile in guerra nazionale, e, in luogo di abbassarla, l'ingrandirono. E, assai più che i libri e i bandi altisonanti, strumento per essa di apostolato, come compresero i Girondini, erano le armi, che, sempre per una delle notate contradizioni, mentre dicevansi imbrandite per quella civiltà cosmopolita, furono rese invitte e onnipotenti dall'amor passionato della patria e dal sentimento della sua salvezza e grandezza; furono sacrate alle più prodigiose vittorie dalle più stolte e folli provocazioni.
[205] Finchè, quando le parti della salvezza e della provocazione vennero invertite, s'invertì anche il successo. Ma intanto i popoli dei due campi avversi avevano una cosa nuova imparato: a combattere, non per i re, ma per le patrie. E questo, il sentimento nazionale di un solo riscatto e d'una incoercibile indipendenza, fu forse il più prezioso e più incontroverso retaggio della rivoluzione, al quale non sarebbe bastata, come all'eguaglianza civile e alla libertà politica, la evoluzione pacifica e riformatrice.
L'Italia perciò non ha da lamentare, ma da benedire quei tempi fortunosi. L'Italia che sapea le tempeste fin dalle sue gloriose repubbliche, che dava nel rinascimento al mondo la cultura moderna, che avea nelle tradizioni domestiche la signoria universale dell'Impero e della Chiesa, ma, per non essersi mai potuta comporre a salda unità, era stata costretta
A servir sempre o vincitrice o vinta.
Ludibrio a ogni voglia rea degli stranieri, bersaglio alle ambizioni dei loro potentati, arena perpetua ai conflitti dei loro eserciti, teatro agli abusi e alla corruzione più sfacciata dei loro proconsoli, mercato aperto alle più svergognate cupidigie dei loro diplomatici, se c'era contrada che avesse sovra tutte patito le oppressioni e le [206] angherie di ogni fatta, sofferto della burbanza e della tracotanza dei privilegiati, preda lacerata, spogliata, conculcata, mentre più che qualunque altra doveva sentir fremere, pur soffocata e dormente in fondo all'anima, l'ansia e l'agonia della libertà, questa certo era la patria di Dandolo, di Ferruccio, di Micca.
E la sua debolezza e divisione da un lato, le sue condizioni politiche e sociali dall'altro, facevano sì che sovr'essa principalmente si riversasse il nembo di Francia, e in essa trovasse il terreno più propizio quel seme celeste e fecondo che vi cadde, mescolato alla grandine fosca e sterminatrice.
E, poichè in questi geniali e gentili ritrovi, geniali e gentili come tutto ciò che è fiorentino, dovevasi quest'anno dare una corsa alla vita italiana nel secolo XVIII, che sarà in eterno chiamato il gran secolo della rivoluzione, mi parve che sarebbe mancata qualche cosa, se non si fosse toccato affatto dell'eco e del contraccolpo che ebbe in Italia, di quei sollevamenti che ne uscirono e furono, come a dire, il proemio delle tante rivoluzioni che finalmente, attraverso una iliade di sciagure e un poema di olocausti e di ardimenti, ci hanno ridato una patria.
Anche da noi ribollì tutto, e quasi da per tutto, i popoli, per molti dei quali la repubblica [207] era o un vanto avito, o un rimpianto mesto, o un'invidia acerba, poterono levarsi il gusto di vederla risorta, ribattezzata alla francese, per qualche giorno.
Le repubblichette di allora, effimere, ebbero la vita fuggevole di chi non nasce vitale; durarono tutte pochi mesi, mesi peraltro pieni di eventi e di passioni, di scelleraggini abbominande e di virtù sublimi, memorie sacre che ancora parlano all'animo dei cittadini.
E a narrarne qualcuna il più chiaramente e compiutamente possibile, anche a costo di abusare della pazienza di un così eletto uditorio al quale chiedo indulgenza, tutto portava a prescegliere quella che ebbe i casi più infelici e più rei, che, unica, dette prova di virtù civile e di morale grandezza, quella sprigionata laggiù a piè di un vulcano, nel paradiso dove fiorisce l'arancio, e dove allora, inaffiata dal sangue dei generosi, germogliò una palma immortale.
Episodio insieme lugubre e radioso, dove la storia s'intreccia al romanzo, il dramma epico sospira nella tragedia piena di lacrime e insieme di ammaestramenti solenni e di conforto virile a noi, che, in un'ora infausta e triste, sentiamo più che mai il bisogno di richiedere al vaticinio cruento dei padri nostri, alla lezione dei loro errori e all'esempio delle loro sventure, qualche [208] anelito di concordia e di sacrifizio, qualche palpito di carità della patria, qualche raggio del morente ideale.
Se, per le idee e la conquista intellettuale, la rivoluzione poteva dirsi, al pari che in Francia, nata negli animi di lunga mano anche in Italia; per i fatti, da noi non prese piede se non nel terzo periodo. Quando, cioè, scaturito dalle lotte interne, ultimo e triste portato, il trionfo dei giacobini, salito sul palco il re, proclamata dalla convenzione la repubblica, questa, mentre colla diplomazia e ogni maniera di propaganda cercava di adescare popoli e governi, colle armi provocate prima a difesa, e cogli eserciti resi invincibili dal genio allora sorgente di Bonaparte, andava incarnando la missione quasi ideale attribuitasi con un solenne decreto, che alla sua volta era provocazione e sfida a tutti i governi, dove ingiungevasi ai generali francesi di proteggere i popoli che insorgessero e i cittadini che per la causa repubblicana patissero; la missione, dicevo, che sarebbe stata magnanima se non avesse covato nessun pensiero egemonico, sublime se in tutto sincera, ma in ogni modo storicamente impossibile, di comporre una sola famiglia umana sotto l'egida della libertà.
Belli propositi generati dalla filosofia del secolo, da quello spirito di democrazia cosmopolita [209] per il quale Bourget crede che l'Europa morrà, e destinati a seminare molte illusioni. Ma forse allora, negli albori, la rivoluzione illudeva sè medesima, mentre poco di poi, trascinata, al pari dei monarchi, dalla sete di dominio e di conquista, dall'amor patrio e dallo stesso fanatismo, doveva cercare qualche utile materiale, qualche accrescimento di potenza dai suoi trionfi, che finirono ad imporre una nuova dominazione, non sempre più giusta nè meno spogliatrice. Onde Alfieri che aveva detto di voler per la libertà spiemontizzarsi e disvassallarsi, salutava il giorno della restaurazione in Toscana come il giorno della purificazione.
La rivoluzione non poteva essere subito compresa, misurata nella sua importanza; se tutti dovevano esserne stupiti o sgomenti, per l'inopinata audacia e violenza, pochi erano tali in alto e in basso da impensierirsene e da sperarne sul serio. In fondo, non ci si credeva. Non si credeva dai re che non potesse venir domata o sopita in casa sua, molto meno che dovesse entrare a forza in casa loro; non si sperava dai popoli di scuotere il giogo, o si temeva di cambiarlo e non altro.
Era l'alterius spectare labores dalla riva tranquilla; era uno spettacolo nuovo e gigantesco da seguire da lontano con curiosità mista, sia pure, a voti trepidi o ansie inquiete, ma da non [210] considerarsi se non un elemento di più nei calcoli, nei disegni, e nei consigli della diplomazia europea, a cui se ne accrescevano le cupidigie, le contese, e le insidie reciproche. A scuoter l'abbandono venne il fatto più atroce e più colpevole di quella storia epicamente miseranda, il supplizio di Luigi XVI e lo scatenarsi della belva umana, che pure ai confini sapeva ruggire la sfida leonina di un popolo che si leva alla conquista dell'avvenire.
Mai forse come in quei giorni la reazione potè addurre tanto a propria scusa il significato del proprio nome divenuto più tardi giustamente esecrato e obbrobrioso, quando le vendette cieche e furibonde, le persecuzioni spietate, il delirio di stragi, la sete di sangue innocente, mostrarono che quella belva è anche più feroce e più insana quando trovasi ai piedi o sopra di un trono.
Fino allora perfino le due sovrane che, dalla neve perpetua alla perpetua primavera, fra tanta diversità d'intelletto e di facoltà mostrarono tanta somiglianza di passioni, e finirono ad annegare le altre libidini in quella del sangue, Caterina II di Russia e Maria Carolina di Napoli liberaleggiavano, bruciavano incenso alla gaia filosofia del secolo, e stettero a un pelo di entrare in quella setta dei franchi muratori che in quel [211] torno aveva fini alti e nobili di virtù, di fratellanza e di emancipazione.
Fino allora si seguitava a scherzare col fuoco, come ci aveva scherzato Luigi XVI inviando perfino agli antipodi i propri ufficiali a propugnare la ribellione dei sudditi americani contro al proprio re, e imparare i benefizi e le lotte gloriose della libertà. Seguitavano i principi nello zelo delle riforme, pericoloso dacchè non pensavano a riformare sè stessi; generoso solo in apparenza, dacchè il più delle volte non disinteressato e leale. Quelle riforme, come fu bene avvertito dal Balbo e da altri, erano in gran parte egoistiche, liberali solo dell'altrui, perchè consistevano nel prendere e non nel dare, nell'abolire quei privilegi che sminuivano l'onnipotente accentramento regio, mantenendo, se non accrescendo, gli altri.
Dalla convenzione e dal terrore, da Hoche e Bonaparte in poi, non si pensò più ad altro. Salvo la repubblica di San Marino che poteva rimanere, e rimase, indifferente, ben sapendo i cardinali Alberoni non nascere ogni giorno, l'Europa fu tutta divisa in due campi: o colla rivoluzione o contro di essa; e attorno ad essa si consumarono tutto le energie indomite, tutti gli istinti generosi, tutte le passioni selvagge, tutto lo sforzo di vita del secolo morente.
[212] All'imperatore Giuseppe II che, durante il dilatarsi della rivoluzione, guardava da un'altra parte, seguitando a imbastire con Caterina II un audace disegno di smembramento della Turchia, era succeduto Leopoldo, fratello insieme dell'infelice Maria Antonietta e di Maria Carolina, passato a Vienna dalla Toscana, dove aveva fatto scuola immortale di benefico esempio a qualunque principato assoluto, e dove, per le larghe riforme compiute in ogni ramo della pubblica cosa, salvo che trascurò, e fu errore, la milizia stanziale, la sua memoria ancora dura cinta di ammirazione e di gratitudine.
Egli, anche sul trono imperiale, non cambiò natura, tanto che la sorella di Napoli, già fremente contro le nuovità, diceva di lui a scherno che, se non fosse imperatore, sarebbe Barnave.
Ma, perchè la filosofia è una cosa e la politica un'altra, pur destreggiandosi a evitare la guerra che gli riuscì di lasciare solo in eredità a suo figlio, dovette mettersi contro alla fiumana straripante, e strinse colla Prussia il primo nucleo di lega antifrancese col famoso patto di Pilnitz, dove si consumò lo smembramento della Polonia, l'Italia del Nord, e il cui testo alla sua morte, per prova che in lui la sottigliezza politica non aveva smorzato la immedicabile scostumatezza, gran malattia di famiglia (che forse [213] non fu del tutto estranea ai casi di Francia, e in ogni modo ebbe tanta parte nelle traversie di Napoli), fu ritrovato in un cassetto fra rose secche e lettere d'amore.
La lega di Pilnitz, a poco a poco fece valanga; e, vedendo oramai coalizzarsi contro di sè tutte le monarchie, nelle quali alla noncuranza era sottentrato l'odio e lo spavento, la Francia, a cui, come all'antica Roma, era divenuta necessaria la guerra, dovè risolversi a mutarla di difensiva in offensiva e conquistatrice.
E la conquista fu rapida e tremenda; e, come al solito per fato antico, ebbe per primo campo l'Italia, e fu opera di un predestinato italiano.
Tutto ciò che ha fatto il giro del mondo, ha preso le mosse dall'Italia. E oltre che questa era l'agone naturale della lite secolare coll'Austria a cui aveano dato mano i più grandi ingegni che vanti la Francia: Richelieu, Mazzarino, Condé, Turenna, Villars; e le sue coste e le sue isole erano il nido naturale dell'egemonia del Mediterraneo, pegno di una contesa eterna che si perde alla memoria nella notte del passato e si dilegua alla previsione in quella dell'avvenire; oltre che quivi si colpivano, se non al cuore, nelle membra forse più valide e gelose, le potenze rivali che, o per dominio diretto, o per patto di famiglia, o per vincolo di protezione, tenevano [214] soggetti la maggior parte degli stati italiani; oltre che, abbandonato oramai dalla repubblica il disegno di democratizzazione universale possibile solo in un momento d'entusiasmo, ed entrata oramai in lei l'avidità della conquista, non v'era più bella e più grassa preda, onde dagli agenti segreti di Robespierre e dai rappresentanti diplomatici fioccavano le proposte per quella che, con abile eufemismo, chiamavano la liberazione dell'Italia; oltre tuttociò, dico, il fomite più vivo di avversione dei governi e di favore nei popoli era qua. Di qua, da Torino e da Napoli, senza contare il Papa, era partita la prima e più provocante opposizione.
Lo stato della coscienza politica nazionale, le condizioni dei popoli e dei governi italiani durante la rivoluzione, esaminò e ritrasse in una serie di studi dotti e magistrali un vostro valoroso concittadino, Augusto Franchetti. E possono compendiarsi così: che gli uni e gli altri mancavano delle due grandi virtù, sapienza civile e valore soldatesco; erano fiacchi, insufficienti. E nei popoli era un dissidio tra la mente dei pensatori, i cui voti s'ispiravano alla filosofia ardita e dolce del secolo XVIII, e il sentimento delle moltitudini e delle plebi avvilite e inselvatichite dalla lunga oppressione, snervate dalla pace torbida, incallite oramai e rassegnate supinamente [215] al giogo e agli abusi. Sicchè, per concorde testimonianza, i governi della penisola non avevano da temere una rivoluzione spontanea e popolare come in Francia, e la rivoluzione se la portarono in casa essi per l'inettezza dei capi, per la mancanza di un barlume di amor patrio e di unione nazionale, per le loro insidie e cupidigie, per gli sperperi e l'inettitudine dei ministri e dei capitani, pei pessimi ordinamenti militari.
Onde nessuno degli stati italiani osò dichiarar la guerra esso per primo. Lo stesso Piemonte dovè temporeggiare e tergiversare. Venezia, già emula e arbitra dei più potenti e regina dei mari, immemore della passata grandezza, fatta molle e imbelle e maestra all'Europa di perpetuo carnevale, oramai ombra di sè medesima, ondeggiò fra la neutralità armata e la neutralità disarmata, prostrandosi in una politica infelice, di cui doveva raccogliere l'infelice guiderdone a Campoformio. Toscana, Genova, Lucca, Modena, Parma, pure inchinevoli a rimaner neutrali, dovevano, per la loro impotenza, subire gli ordini alteri e minacciosi dell'Inghilterra. E il Papa, più debole di tutti e più di tutti naturalmente ostile all'andazzo francese, era incapace a frenare quegli ammutinamenti di plebe fanatica e sobillata, dove perì Hugon (di cognome e non [216] Ugo di nome) De Basseville, debitore presso noi di celebrità a quel Vincenzo Monti, che si presumè più tardi, con diverso umore e metro, che a quei tempi cambiò più spesso della camicia, di aggiungere fama anche a Napoleone, non accorgendosi e non curando di sminuirla e offuscarla a sè medesimo.
Solo Napoli, entrato oramai con foga nella politica contraria ai suoi interessi, i quali avrebbe potuto invece, approfittando con lealtà degli avvenimenti, migliorare, e alla sua quiete, che avrebbe potuto mantenere non turbata, dichiarò per primo a cuor leggero e spavaldamente la guerra. E contro ai francesi inviò quel famigerato esercito o armento capitanato dall'austriaco Mack, che lo destinava, mi si passi lo scherzo, a tutti gli smacchi, e, spulezzato via da Championnet, dietro al re che, senz'essere Achille, era piè veloce e fuggiva come vento, attrasse la conquista anche nel mezzogiorno.
E coll'entrata di Championnet a Napoli, che il re aveva codardamente abbandonata in faccia alla invasione straniera da lui con temeraria follia provocata, fuggendo di nuovo in furia sui vascelli di Nelson, carichi degli ori, dei gioielli, dei capolavori dei musei, di 73 milioni di ducati munti al suo popolo, si aprì laggiù un'êra delle più incredibili e commoventi vicende, da far [217] sentire, più che forse altre mai, quanto sia erroneo l'andare a cercare emozioni e avventure nei romanzi, quando tutte sono comprese nel romanzo per eccellenza che è la storia.
Tanto vero che Alessandro Dumas nel 1860, venuto a Napoli al seguito di Garibaldi, fece di quella storia, credendo di colorirla, un cattivo romanzo. Ma i nomi di Re Nasone, di Carolina, di Acton, di Lord Hamilton, di Emma Liona, di Nelson, di Speciale, di Guidobaldi, di Fra Diavolo, di Pronio, di Rodio, di Sciarpa, di Mammone, del cardinale Ruffo, del prete Toscani, di Mario Pagano, di Domenico Cirillo, di Manthoné, dell'ammiraglio Caracciolo, del conte di Ruvo, di Eleonora Fonseca-Pimentel, della duchessa San Felice, sono rimasti nella storia, e molti anche nella leggenda popolare, come ricordo di un'epoca straordinariamente avventurosa e sventurata, con un'impronta di grandezza mostruosa o misteriosa nel male e nel bene.
Un'êra che, sebbene consolata anche da esempi di aurea lealtà e di virtù antica, è piena peraltro di tradimenti nefandi, di dolori e supplizi ineffabili, che avranno sedici anni dopo il ferale epilogo giù al Pizzo, nel cuore venale e vipereo di Barbarà e Trentacapilli, nel cuore generoso e ambizioso di Gioachino Murat, rotto, sul fior degli anni, dal piombo borbonico.
[218] Questo, o un altro di quei portentosi generali napoleonici, che cavalcavano superbi e impavidi al fuoco alla testa della vittoria, Michelet chiamò con frase michelangiolesca: Un grand drapeau vivant.
Come si potrebbe invertire la frase per quel re Ferdinando fuggiasco di professione, che scappa sempre, scappa da Roma, scappa e riscapperà da Napoli, sfumerà da per tutto dove fischiano le palle e sventola una fulminata bandiera?
Fosse stato almeno soldato, poichè re di fatto non era lui, ma sua moglie, cui Napoleone, ripetendo un detto di Mirabeau a proposito della sorella Maria Antonietta, chiamò l'unico uomo della corte di Napoli. Invero tra le due figlie di Maria Teresa, come tra i due loro mariti, correvano parecchie somiglianze, e tanto l'imperiosa inframmettenza delle une quanto la debolezza frolla degli altri ebbero non ultima parte nei casi funesti che contristarono i rispettivi regni.
Bensì tra le somiglianze v'erano molte differenze a vantaggio della coppia francese, se non altro quella che dà l'aureola sacra della sventura. E mentre Maria Antonietta scontò le colpe sul patibolo, l'altra, vera e principal causa degli errori e dei pericoli dello Stato, della infelicità della sua casa e del suo popolo, attraverso le fughe fatte a tempo e più caute di quella di Varennes, [219] attraverso gli spergiuri sfrontati e le persecuzioni tiberiane, seppe morir vecchia presso Vienna sopra una poltrona dove la trovarono spenta, colla bocca contorta e gli occhi sbarrati, come se per la prima volta leggessero nel libro del rimorso. E Ferdinando, dal gran dolore che ne provò, poco più di un mese dopo si sposava la principessa di Partanna, che gli aveva consolato l'asilo della Conca d'oro.
Ma la politica di Maria Carolina ebbe a strumenti e suggeritori, complici e indettatori nel tempo stesso, stante la potenza che, per cagioni varie, alcune delle quali non confessabili, esercitarono sull'animo suo, tre personaggi, tutti e tre inglesi, due dei quali in ciò trovarono la loro non invidiabile celebrità, e l'altro appannò la sua, la più fulgida e bella di tutte, perchè eroicamente acquistata a prezzo della vita e in servizio della patria.
Essi furono Acton, Nelson ed Emma Liona divenuta Lady Hamilton, che fu la vera anima dannata della regina, e anche dopo morta non le ha reso un buon servizio. Perocchè si è appunto il carteggio tra loro, conservato nel Museo britannico, che ha distrutto i tentativi di apologia e riabilitazione fatti nel passato da varii scrittori borbonici e più recentemente dall'Ulloa e dal Barone di Helfert, dei cui libri del resto [220] fece ragione da par suo un mio amico, pieno d'ingegno operoso, che ha cercato il ricovero tranquillo agli studi, il secessum scribentis qui a Firenze, voglio dire Giovanni Boglietti.
E poichè di questi personaggi che, colla politica sbagliata, fecero nascere infelicemente una repubblica infelice, e, colla politica insensata e feroce, le dettero modo di divenire gloriosa cadendo, e fatidico esempio alla succedente generazione, è impossibile non tratteggiare in succinto l'indole e la figura, non ho bisogno di dire che in un discorso viene meno la prova dei giudizi e la critica dei documenti. S'intende quelli essere improntati a questi che abbondano e, vagliati a dovere fra attestazioni spesso discordi e partigiane, danno la verità serena e imparziale, che oramai c'è facile di professare. Imperocchè abbiamo almeno dalla libertà ricevuto questo precetto e questo benefizio, di dovere e potere essere imparziali anche con quelli che tentarono strozzarla sul nascere col capestro del manigoldo.
E, insieme ai caratteri dei personaggi, non è possibile non toccare, anche di sfuggita, gli eventi politici che precorsero la repubblica, e che ne coloriscono il significato intimo e i destini.
Coi trattati di Utrekt, di Rastadt, di Vienna e di Acquisgrana, che chiusero il cinquantenne [221] periodo delle guerre di successione, venne meno dopo circa due secoli e mezzo, al nord e al sud la dominazione spagnola; al nord sottentrò l'austriaca, al sud la borbonica.
Carlo Borbone aveva conquistato il trono, non per patti o contratti, ma per vittorie, dovute al valore del suo esercito e dell'eccellente capo, il Duca di Castropignano. I napoletani, dopo secoli di servitù straniera, per la prima volta avevano sparso il sangue per un re che loro promise dinastia domestica, indipendenza dello Stato, conservazione dei privilegi, giustizia, prosperità.
E la promessa fu abbastanza mantenuta. Nei venticinque anni del suo regno lo Stato che più progredì fu appunto il napoletano, cui apparecchiò civiltà nuova il marchese Tanucci casentinese di Stia, venuto al seguito di Carlo dalla Toscana, che aveva dato a Napoli anche Bartolomeo Interi, primo fondatore dell'insegnamento dell'economia pubblica.
Tanucci diventato primo ministro, mentre negli otto lustri di pace fiorivano gl'ingegni, volti così agli studi severi, come alle savie e moderate riforme, secondò queste, salvo che ebbe il torto anch'egli di trascurare la milizia stanziale giusta il suo aforisma: principoni, soldati e cannoni; principini, ville e casini. Ma più che altro mirò a consolidare il potere regio infrenando gli [222] altri due rivali: il feudalismo e la teocrazia. E qui fu la sua gloria e di re Carlo, che gli prestò le orecchie, e di Giannone, Genovesi, Filangeri, Pagano che l'ispirarono e lo sostennero colla potenza dell'ingegno e il vigore degli argomenti e della dottrina.
Una profonda mutazione era incominciata nell'opinione pubblica dal dì che Pietro Giannone diè alla luce la storia civile del regno di Napoli che, se gli ha valso la lode eterna dai posteri, gli tirò addosso allora al solito la furia del popolo aizzato, il rischio della vita, e l'esilio.
Ma, abbandonando la patria, vi lasciava il germe fecondo che doveva fruttificare.
Nello stesso tempo l'abbate Genovesi, uno dei pochi che vagheggiassero l'unione italiana, svegliava le aspirazioni democratiche e precorreva gli enciclopedisti. E Filangeri e Pagano compivano l'opera; il primo celebrando l'antichità ed esaltando le gesta di Grecia e di Roma, e il secondo traendone argomento a pennelleggiare i benefizi e i diritti della libertà politica e personale. Onde anche quivi, colle diversità storiche e nazionali, si andava elaborando la coscienza giacobina delle classi colte mercè i due ingredienti, così argutamente scrutati dal Taine, il progresso scientifico e lo spirito classico.
E intanto i figli della plebe, che gli Spagnuoli [223] avevano, con viva immagine, chiamato loz Lazzaros, i lazzaroni, perchè allampanati e digiuni come lazzari quatriduani, languivano sempre più nella superstizione paziente e nella inedia selvatica. Erano materia da anarchia regia e non da jacquerie come in Francia, erano semenzaio di Fra Diavoli e non di Desmoulins.
Mancando un vero e proprio ceto medio, lo rappresentavano i curiali che, nella depressione dei nobili, acquistavano ingerenza e potenza lamentata dal Colletta e dal Balbo, e, mentre in Francia come suole s'impadronivano delle assemblee colle frasi, qui almeno si gittarono a operare, e seppero morire.
Ma l'analogia con la Francia ricominciava in una cosa che fu sempre cagione precipua e irresistibile delle rivoluzioni (e lo ricordino bene certi odierni spensierati saccomanni del bilancio), voglio dire le condizioni della finanza, la penuria del pubblico erario.
Della quale pur comuni erano le intime cause nella cattiva amministrazione e negli sperperi della Corte.
Carlo I abbellì molto il regno, creando quei monumenti che, se ancora splendono come ricordo di fasto e munificenza per le arti, salvo quelli caduti tra le unghie al Demanio come la Favorita e la reggia di Portici, pure potevano [224] anch'essi dirsi, secondo un famoso epigramma, opere di qualche splendido Segato, essendo sangue di poveri pietrificato.
Mentre le provincie lontane rimanevano senza strade, e poche di queste erano per il pubblico, se ne facevano magnifiche attorno a Napoli per le caccie del re, che al tempo di Ferdinando divennero caccie alle forosette più che ai fagiani o ai cinghiali.
In mezzo a tali condizioni diveniva maggiorenne e assumeva lo scettro Ferdinando che allora si intitolò IV, e nel 1814 in Sicilia III, e nel 1816 quando, spergiurando, lacerò la costituzione, I, sicchè i Napoletani ebbero a dire che, andando di quel passo, tra poco avrebbero avuto sul trono Ferdinando Zero.
Rimasto a nove anni senza genitori passati in Spagna, confidato a una reggenza e all'aio principe di San Nicandro, si mostrava fisicamente e moralmente proprio il contrario di quello che fu più tardi: gracile e cagionevole, mentre poi divenne un toro; bonario e mantenitore della parola, mentre appresso fu barbaro e spergiuro per eccellenza, inaugurando quei metodi, pei quali fino al '60 rimasero tristamente celebri i Borboni di Napoli.
All'uno e all'altro effetto deve aver condotto l'educazione che uccise l'anima a pro' del corpo, [225] ai cui faticosi e piacevoli esercizi fu tutto dedicato. La mente non affatto chiusa e sonnolenta, ma non dirozzata nè coltivata, gli faceva schivare i libri pei quali ebbe sempre un santo orrore, e fuggire la compagnia degli uomini di scienza e di governo, mentre il gusto smanioso dei giuochi allegri e dei ludi e l'impeto di passioni non ingentilite e non imbrigliate, lo traevano a quella di giovani di gusti bassi e di abitudini prave.
Compagno assiduo gli era un fratello di latte, Gennaro Ribelli, futuro bandito della Sila bruzia; da cui apprese a spennare piccioni vivi, e a bastonare il germano primogenito dichiarato, alla partenza del padre, ebete e impotente a regnare.
Grossolano e sensuale, non conobbe gentilezza di affetti nè di costumi. Essenzialmente, fu volgare; proprio la negazione del re in tutto: non soldato, non gentiluomo. Un vero tipo di lazzarone nato per isbaglio e cresciuto nella reggia di Federico II e di Manfredi. Un altro dei re di quei tempi, rampollo alquanto degenere di quella gran stirpe sabauda nell'aspetto e nel contegno de' cui figli, gentiluomini e galantuomini di razza, si è sempre invece sentito il re, Ernesto Masi chiamò parrucca coronata. Questi fu una coppola coronata; il suo diadema, un berretto da cuoco.
Il quale infatti si poneva in testa nel campo [226] di Portici facendo da oste, da pescivendolo, e da pagliaccio tra lazzari e soldati di nome come lui, che perciò lo amavano e lo beffeggiavano insieme; andando in visibilio a far di sua mano frittelle, le zeppole, come diceva, gravide di alici e caciocavallo. Quelle della cucina furono le sole batterie al cui fuoco rimanesse intrepido; e quei cacicavalli gli erano così fissi nella mente e nel cuore (ossia.... non parliamo di cuore!) che gli servirono più tardi, per la loro forma ben nota, a una similitudine, a cui forse non sarebbe arrivato Falaride o Nerone, quando annunziava alla moglie le infami impiccagioni dei patriotti delle isole flegree con questo motto anche più infame: oggi si sono fatti molti cacicavalli!
E a questo triviale e fatuo Sardanapalo, che arrivò ad avere un istante una fantasia di riformatore socialista, nella quale pure anche il Sardanapalo entrava per qualche cosa, fondando la famosa colonia di San Leucio di trenta famiglie di setaiuole cantata dai poeti adulanti e discussa sul serio dagli economisti, fu data in moglie una donna superba e scaltra, sexu fœmina, ingenio vir, un raggio di bellezza dalle chiome bionde, dalla gola di cigno, dagli occhi sfavillanti, dalla sembianza greca o fiamminga.
Maria Carolina aveva ricevuto dalla madre Maria Teresa, per la quale gli Ungheresi tuonarono [227] il famoso giuramento: moriamur pro rege nostro Maria Theresia, insieme a fermezza di propositi e ingegno perspicace, le passioni smodate d'intrigo politico e di esclusiva dominazione. E, oltre a ciò, l'esempio di annullare l'autorità del marito, l'imperatore Francesco pur teneramente amato da lei sposa e madre esemplare, ma ridotto a proletario nel vero senso della parola, perchè le dette sedici figlie, per far qualche cosa d'altro, a fabbricante di panni che vendeva perfino agli eserciti nemici.
Qual meraviglia che Ferdinando divenisse un automa docile e obbediente nelle braccia di una Circe che aveva per dominarlo la duplice magìa della grazia e dell'astuzia, il duplice impero dell'ingegno e della beltà?
Inoltre, operosissima, mentre il marito non scriveva neppure la firma degli atti ufficiali pei quali adoperava una stampiglia, essa fu uno scriba instancabile, e buon per lei che avesse scritto meno, che allora meno e meglio si sarebbe scritto e si scriverebbe di lei. La volontà ebbe dura, l'indole virile, nello stesso tempo che divampava nelle più bollenti e femminili passioni. Ma queste non erano gentili e generose. Si è detto che le passioni hanno ali e non piedi: o strisciano o volano. Lo sue strisciavano! Non erano di quelle che, anche stimolate dai sensi, rapiscono in un [228] oblio soave, addolciscono e incelano l'anima. Questa ella aveva arida; aveva il cervello anche qui dentro! Onde la religione, delle cui pratiche fu osservantissima, prese in lei la forma della superstizione spigolistra; e l'ordine e la tradizione, della pedanteria. Ministri del re dovevano essere i favoriti della regina, ma i suoi disegni dovevano essere i favoriti dei favoriti, pena la disgrazia. E se uno di essi seppe mantenersi a galla, fu perchè con lui il giuoco era da pirata a marinaro.
Quanto ai costumi, si sa che le gettarono in faccia e sopra la lapide tutti gli obbrobri. Napoleone in un famoso proclama, molto imperiale ma poco cavalleresco, la bollò col nome di Fredegonda. Michelet e cento altri le dettero peggior nome, la chiamarono Messalina. E questo è troppo, perchè nessun Giovenale ha potuto narrarla ebbra, sfidando lo scandalo, di brutale lussuria.
Ma è certo che, quando lo stesso Sir Paget, inviato dell'alleata Inghilterra, in un rapporto al governo, la dice donna piena di vizi innumerevoli, e quando parlano tanti irrefutabili fatti e documenti, non si può dipingere come immune da ogni labe. Ma, dato l'esempio quasi generale delle corti di quel secolo che, se fu il secolo delle idee, fu anche il secolo della corruzione e [229] della licenza; la natura fragile e sensibilissima; l'educazione falsa; e sopratutto il sangue viziato della famiglia, tanto che anche l'imperatore Leopoldo, il grande riformatore toscano, morì in due anni di stravizi, rimpetto ai quali erano nulla quelli di Luigi XV e del Parc-au-cerfs, si sarebbe potuta perdonare, e, in ogni modo, dovuta rispettare e risparmiare la donna, se le sue incomposte passioni non avessero inquinata la politica italiana e precipitate le sorti di un popolo sventurato.
Sulle quali invece le donne, appunto per pravi istinti, ebbero tanta e sì sciagurata parte!
Cherchez la femme è, checchè si dica, un gran canone di critica storica e politica. E perciò le donne elevate, pietose, che, invece di avere il cervello qui, abbiano il cuore quassù, sono la più sicura malleveria di bontà per gli uomini e il più prezioso e celeste dono per i popoli.
Ma quella torbida regina almeno non era volgare come suo marito, del quale parlò sempre con affetto e rispetto che, anche come marito, non meritava. E anzi pur l'apparenza dello scandalo e del libertinaggio l'offendeva. Salda e costante negli affetti di madre, ai figli e alle figlie diede un'educazione rigorosamente pura ed onesta.
Da principio erasi anche mostrata giudiziosa, caritatevole, umana, e, come dissi, liberaleggiante. [230] Sorella di sovrani riformatori e filosofi, mostrava di caldeggiare il progresso, di proteggere le scienze e le arti. Onde, mentre Nicolini declamava versi alla sua corte, le dedicavano incenso e poesie quel Luigi Serio che doveva morire in difesa della repubblica al ponte della Maddalena, e quell'Eleonora Fonseca che per la stessa causa doveva pendere dalla forca ignominiosa. Ciò che scavò un abisso fra lei e il suo popolo, che ne fece una tigre sotto l'aspetto di bianca colomba, fu il terrore di Francia e lo scempio della famiglia reale. E questo, in parte, attenua le sue colpe.
Una donna nervosa, a cui l'applicazione al lavoro, la foga degli intrighi e dei piaceri avevano turbata la mente e scossa la salute, che, amantissima della famiglia, sente caduto sotto la mannaia il capo diletto della propria sorella, e perfino straziato un innocente fanciullo; una regina superba, che vede insultati e trascinati al macello i monarchi, merita qualche scusa se concepisce orrore e odio atroce per la rivolta e i suoi complici. Ma non è scusabile che quell'odio sia cieco e ferino, che a sfogare la vendetta adopri il tradimento, quando altri sovrani seppero almeno nella reazione mantener la fede e astenersi dal sangue.
E, in ogni modo, gli errori della sua politica [231] cominciarono prima. Cominciò prima la sostituzione dell'influenza austriaca a quella spagnola, e de' legami artificiali di famiglia a quelli veri e storici degl'interessi dello Stato. Cominciò prima l'abdicazione, nel ritorno da Vienna ove ordì un triplice matrimonio di tre suoi figli con tre figli del fratello imperatore, l'abdicazione ai piedi del Papa della politica del Tanucci che, per sua opera, a malgrado i lunghi e intemerati servigi, era stato levato di seggio, e che ebbe il solo torto, comune ad altri strenui ministri anche recenti, di mostrarsi da principio querulo e scontento della disgrazia. I grandi uomini, quantunque dicano di no, devono trovare molto gusto al potere, se il perderlo li fa dimentichi della propria grandezza in faccia alla storia! Cominciò prima infine il suo favore per il cavaliere Acton, un bell'uomo e una brutta anima, ignobile per private ingordigie e frenetica ambizione, che a poco a poco, da lei spalleggiato, da ministro della marina divenne ministro della guerra, maresciallo di campo, senza avere, come il sovrano, mai visto il fuoco sul campo, e infine una specie di gran cancelliere onnipotente.
Egli era nato a Besançon di famiglia oriunda inglese, ma stabilita in Olanda. Dalla Francia, dove aveva preso servizio nella marina, per dissapori rimasti sempre misteriosi, passò in quella [232] ducale toscana e servì vittoriosamente Carlo III, nel purgare il Mediterraneo dai corsari d'Algeri.
Per questa fama nel '77 fu chiamato a riordinare la marina napoletana, la quale, sebbene il regno fosse bagnato da tre mari, era in condizioni miserevoli. Operoso e avido, vi fece buone riforme con grandi sprechi. Ma, sottile e volonteroso, entrò pian piano nelle grazie della regina, apprezzandone i vezzi, agevolandone col denaro del suo dicastero le prodigalità, e sopratutto secondandone la politica austriaca.
Vero è che questa, come bene osservò uno scrittore che tutto quel periodo ha studiato con grande amore, il Conforti, nel ventennio precedente al 1790, quando l'Austria era riuscita a farsi la Francia alleata e poco meno che soggetta, e la Spagna ridotta impotente, era quasi imposta dalle circostanze. Bisognava solleticare l'Austria per sfuggire alle sue mire sull'Italia.
Le quali peraltro non scemarono per questo, tanto che l'Austria, mostrando di temere più che la rivoluzione francese l'unione italiana, impedì, anche dopo l'arresto di quei monarchi, l'ardito disegno di vigile confederazione a difesa che il Napione aveva suggerito al re di Sardegna, e che fu ripreso, contro alle solite tergiversazioni della decrepita Venezia, dall'Acton, unico atto politicamente elevato della sua dittatura.
[233] La Francia se ne insospettì temendo che Napoli volesse uscire dalla neutralità; che non fu mai sincera, fu una commedia rappresentata per interesse, paura, e impotenza, ma mordendo il freno e aspettando l'occasione. “Neutrales de nom et jamais de sentiment,„ scriveva la regina. La perfidia e la doppiezza furono allora e poi la politica tanto riprovevole quanto vile e stolta di quella corte.
Agli utopisti di tutto il mondo, come Carlo Botta, che era dei loro, chiamava quelli che aspettavano dalla Francia la nuova êra di libertà, apparteneva la parte più dotta e migliore di Napoli, dove nel 700, come in genere in ogni tempo, erasi raccolto, da Vico a Pagano, il fiore dei pensatori, l'avanguardia del progresso intellettuale italiano.
Onde il governo cominciò a sospettare e dimostrarsi cupo e vigile, qualche volta in modo ridicolo, come quando, alcuni giovani nobili facendo le corse dei cavalli da Chiaia ai Bagnoli, Giovanni Acton, che non era un Pindaro, li fece ammonire, perchè, diceva egli, imitavano le corse olimpiche!
Fu istituito un magistrato di polizia con a capo, col nome antico di reggente della Vicaria, Luigi Medici dei principi di Ottaiano, anch'egli oriundo per famiglia di Toscana e discendente [234] da quel Bernardetto dei Medici cugino di Cosimo e di Giulio. Era giovane ardito, scaltro, ambizioso, di maniere attraenti, di bella persona, e perciò assai gradito alla regina, e perciò anche sacrato a sventura, quando l'Acton, che non pativa rivali, ordì più tardi contro lui una iniqua calunnia di tradimento, che lo perdè.
Il reggente, col qual nome il Medici passò nella storia di quel tempo, esercitava anche la polizia politica, ma in seconda riga e sotto l'ingerenza minuta dell'Acton, che pendeva dai cenni della regina; la quale inaugurò l'età dell'oro della spia, di cui diceva essere a torto il nome infame, mentre essa l'inalzò a ordigno precipuo di governo e colonna dello Stato. Le sue dame di palazzo, i suoi amici tutti dovevano essere delatori per lei, e quindi fu giusto compenso se un governo alleato le mise la spia in casa. Questo fu l'inglese che, quando il ministro Pitt levò il vessillo di una generale coalizione contro la Francia, seppe attrarre e annodare indissolubilmente la Corte di Napoli nelle spire della sua politica.
Tale politica potea parere assurda fatta da una nazione libera contro un'altra che levava la bandiera della libertà, per imitare appunto, diceva, le sue istituzioni. Balbo anzi assegna alla rivoluzione francese questo significato, di ripristinamento [235] delle istituzioni rappresentative. Perciò che abbiamo detto da principio, questo suo troppo angusto concetto non può accettarsi, ma comunque l'Inghilterra sapeva che le teoriche astratte senza contenuto storico e le forme parlamentari senza le relative istituzioni civili sono proprio la negazione della libertà inglese, come ne sarebbe stata la negazione una politica non consentanea agli interessi nazionali e nelle colonie e nel Mediterraneo.
Alla regina e ad Acton non parve vero veder partecipato da una sì grande potenza il loro odio, e inoltre, a renderli proni strumenti della politica inglese, ebbero gran parte due personaggi che l'avranno grandissima sullo scioglimento finale del dramma, l'ambasciatore inglese Sir Guglielmo Hamilton e sua moglie.
Egli era un ricco signore d'antica stirpe scozzese e fratello di latte del re Giorgio IV. Artista e studioso, epicureo e dotto, (due cose che non fanno a pugni, tutt'altro!) contemplava la bellezza morta negli ipogei, di fresco risuscitati al sole, di Pompei e di Ercolano, e non era insensibile a quella viva e palpitante. A Napoli, ove rimase 26 anni, ora assai stimato e ben voluto. Ebbe gran dispiacere quando seppe che un suo nipote, Carlo Grewille del Foreign-Office, discendente del gran Warwick le faiseur de rois, aveva [236] dato fondo al patrimonio paterno per una donna di malaffare, Emma Lyon, nata da poveri lavoratori di campagna, poi a volta a volta bambinaia, cameriera, donna di servizio in una taverna, modella, che aveva già rovinato alcuni altri e che egli aveva ricevuto dalle braccia del ciarlatano dottor Graham. Questo Cagliostro inglese, che si diceva inventore della Megalantropogenesia ossia dell'arte di procreare grandi uomini, faceva conferenze magiche al teatro Adelfo di Londra sulla salute e sulla bellezza, valendosi a dimostrazione viva e parlante di Emma, con un metodo che Frine sperimentò buono e valevole anche coi giudici dell'antica Grecia.
Grewille voleva sposarla, e lo zio si opponeva per orgoglio di razza e sentimento di onore, finchè, quando l'ebbe veduta, ne fu talmente arso e soggiogato, che pensò bene di sposarla per sè, pagando in cambio al nipote i debiti, che non erano pochi. E così, a prezzo di un vergognoso mercato, nell'autunno del 1791 Emma Liona, di appena trent'anni, divenne moglie dell'ambasciatore che ne aveva 68. Lady Hamilton, non ricevuta dalla corte di Londra, potè farsi presentare a quella di Napoli per interposizione di Pitt che ne fece la propria spia, una spia di cartello, per la quale potè perfino avere le lettere originali del re di Spagna al fratello Ferdinando [237] contro l'imperatore, onde nacque il bombardamento di Cadice e la battaglia del Capo San Vincenzo. In breve tra lei e la regina si strinse una estrema confidente intimità, che la fe' divenire il più abile e sicuro strumento di influenza e comunicazione tra la corte e l'ambasciatore prima, tra la corte e l'ammiraglio Nelson poi.
Questi approdò a Napoli la prima volta nel settembre del '93, poco dopo pattuita l'alleanza coll'Inghilterra, a recar notizia della presa di Tolone, e a chiedere, per tenerla, pronto rinforzo di soldati napoletani. Non era ancora ammiraglio ma semplice capitano della nave Agamennone; aveva uno splendido stato di servizio attestato da un occhio perduto e da molte cicatrici; e nutriva per la Francia un odio punico ereditato, egli diceva, dalla madre. Giovane di 35 anni, marito ad una creola vedova con un figlio, piccolo, smilzo, dall'aria di un ragazzo goffo, giallo di febbre coloniale, ma tempra indomita, squisitamente sensibile, occhi ardenti, cuore avvampante ai due amori che scaldano tutte le anime grandi: la donna e la gloria. Ospite di Lord Hamilton fu subito preso di Emma, ammaliante ognuno, non solo per la divina figura che il primo colorista del tempo, il pittore Romney, diceva “la cosa più bella uscita dalle mani della natura,„ e la celebre pittrice [238] Brun “figura staccata dal sarcofago del Belvedere,„ ma non meno per il tono della voce soave nel canto, per le maniere eleganti e seducenti che le aveva procurato a forza di lunga educazione e di grandi spese il povero Grewille. Il fascino della nuova Cleopatra, della sirena del golfo, il cui incanto era stato tante volte messo all'incanto, non abbandonerà più il dominatore dei mari, e per lei sarà l'ultima parola del suo testamento, dove la raccomanderà come sacro legato all'Inghilterra; per lei l'ultimo pensiero sulla tolda della nave vittoriosa a Trafalgar!
Ma ora il dovere lo chiamava altrove, al Capo San Vincenzo, a Teneriffa dove perderà il braccio destro, e infine a dar la caccia pel disputato Mediterraneo a Bonaparte. E intanto la Francia, che non avrebbe avuto nè volontà nè interesse di attaccare Napoli, stanca dalle mene e finzioni di una corte che non sapeva nè far la guerra nè vender la pace, inviava il naviglio del Truguet a imporre la rottura delle relazioni coll'Inghilterra e la neutralità. Tutto fu promesso in fretta e furia per viltà, e i rappresentanti francesi Mackau e Latouche colsero l'occasione dello sbarco per accontarsi col partito liberale che cominciava arditamente a organizzarsi e manifestarsi.
Quel partito, il cui vessillo onorato era tenuto [239] in alto da Mario Pagano, si faceva adulto specialmente per l'esosa persecuzione, e cominciava a pensare alla rivoluzione e alla repubblica, senza badare all'abbrutimento in cui giaceva il popolo. Nei clubs e nell'accademia dei Filomati, che raccoglievano il fiore dei patriotti, come allora presero a chiamarsi, per la prima volta si palesarono fra gli altri Eleonora Fonseca Pimentel, e Ettore Carafa conte di Ruvo. La massoneria lavorava segretamente. Nel '700 si ebbe un ricorso dello spirito di misticismo, e fu il secolo dei Weishaupt, dei Mesmer, dei Cagliostro, degli Svedemborg. Così nei primi anni surse in Inghilterra la massoneria e di là penetrò in Francia, Germania, Italia. Parecchi sovrani vi appartennero. Il governo napoletano da principio la sbandì, ma poi nelle lotte con Roma ne affievolì la persecuzione. Da ultimo ne avea rinverdito il culto un abbate (oggi parrebbe impossibile!), l'abbate Jerocades che fu in pari tempo una specie di Metastasio, di poeta cesareo, poichè la regina, iniziata ai misteri massonici per trarne profitto, l'invitò a corte. Ma più tardi lo mandò a gemere nelle segrete dei Granili, dove lo trovò lo storico Colletta.
Avvenuta la morte di Luigi XVI, fu risoluta apertamente all'estero la guerra e all'interno il terrore regio colla terribile classificazione [240] di fedeli e di reprobi, e colla creazione d'una nefanda e sanguinosa giunta di Stato. E per la prima volta si mormorarono a spavento e ribrezzo i nomi di Castelcicala, di Vanni, di Guidobaldi, di Giaquinto, e a orrore e pietà quello di un povero pazzo attanagliato, Tommaso Amato, e di tre innocenti, colpevoli solo di speranze e d'opinioni, Vincenzo Giuliani, Vincenzo Vitaliani, Emanuele Dedeo, la cui memoria non morrà sopra quella terra che uno di essi baciò prima di salire il patibolo.
Dal giorno dello sfratto dato al Mackau e della rottura colla Francia cominciò un periodo che sempre più confermò la cecità e la brutalità della corte. Mentre pur la milizia faceva buona prova di sè a Tolone, dove per la prima volta si rivelò Bonaparte, che indi a poco doveva rendere in eterno memorabile l'anno 1796 per i suoi incomparabili prodigi; mentre la marina teneva alta la bandiera della patria allato alla flotta inglese principalmente per virtù di quel Caracciolo che tra non molto doveva pendere dall'albero di una delle proprie navi, vittima augusta; e mentre più onore di tutti si faceva la diplomazia napoletana specialmente per opera del principe di Belmonte e del marchese di Gallo, ministro a Vienna, che dette tali prove di sagacia e abilità da meritargli un posto cospicuo [241] nella storia invidiata degli ambasciatori italiani. A prova della sua sapienza civile, che pareggiava l'abilità diplomatica, valga questo aneddoto. Quando ebbe letto l'elenco dei prigionieri per cospirazione, ridendone, disse al Re: “se sono giacobini, mandateli a viaggiare in Francia, torneranno realisti.„
Se l'avessero ascoltato, i suoi avvertimenti avrebbero dato sicurezza al regno in mezzo a quell'imperversare di eventi. Ma il governo era sordo, fremeva sempre la guerra pur giocando, secondo le occasioni e le necessità, d'astuzia e di malafede, e pur avendo colla pace del '96 ripromesso la neutralità. Abbandonò perfino l'Austria dopo le disfatte di Wurmser, e tradì il Papa che dovè subire il trattato di Tolentino.
Questi si era affidato all'Austria e a Napoli, ma l'una voleva Ferrara, l'altro qualche cos'altro; e così i due governi che dal 1792 al 1796 s'erano intitolati i difensori della Santa Sede, non miravano che alle proprie ambizioni e ai propri interessi. Non è da tutti e non era certo da loro combattere per un'idea o una bandiera!
Avvenuto il fatto di Basseville a Roma, da un lato il popolo napoletano faceva un manifesto di fedeltà al re e di guerra ai francesi (strano all'indomani di pace e di fermata neutralità), e dall'altro Mackau, ministro di Francia a Napoli, [242] proponeva al re una spedizione contro lo Stato romano da compensarsi con parte del territorio pontificio.
E invero doveva sorridere alla repubblica di debellare il trono papale colle armi di un borbone, e trascinare la sorella di Maria Antonietta e suocera dell'imperatore d'Austria in una alleanza colla Francia.
E il re, se avesse potuto prendere parte alle spoglie del Papa, si sarebbe accomodato anche alla spedizione, ma i maneggi dell'ambasciatore Giuseppe Bonaparte e l'uccisione del generale Duphot precipitarono gli eventi, e poco dopo Berthier proclamò in Campidoglio la Repubblica romana. Tanto poco occorse a distruggere un vecchio governo teocratico tra l'indifferenza generale, che era forse il maggior sintomo della rivoluzione compiutasi negli animi!
Questa repubblica alle porte del regno e la presa di Malta inasprirono all'ultimo grado la regina che a sua volta, in offesa della neutralità, concesse a Lady Hamilton di far rifornire a Siracusa i vascelli di Nelson, rendendo così possibile la strepitosa vittoria di Abukir.
La corte ne andò in visibilio, richiamò a sè con tutti i lenocini di Emma il trionfatore. Questi, ringraziando Lady Hamilton di aver messo a sua disposizione la fonte d'Aretusa, le aveva scritto [243] di voler tornare o coronato d'alloro o coperto di cipresso. O l'alloro o il cipresso, in questo dilemma è il segreto non solo dei trionfi militari, ma di ogni vittoria morale. Ora esitava; un chiaroveggente presentimento lo tratteneva; ma le parole della sirena furono tali che non seppe resistere, e il vincitore d'Abukir venne a Napoli a essere vinto da una donna, la quale del prode
Che tronca fe' la trionfata nave
Del maggior pino e si scavò la bara
fece un carnefice erotico, sempre senza paura, ma non più senza macchia.
Quando la regina fu oramai sicura di avere incatenato Nelson al suo carro, credè giunta l'occasione, gettò la maschera, e fece partire il ministro di Francia, il regicida Garat, stringendo alleanza anche colla Russia, e volendo assolutamente la guerra, che fu decisa in un consiglio da cui venne escluso il marchese di Gallo che seguitava nella sua politica onesta, seria e accorta, e leggeva nel futuro.
Il 24 novembre 1798 Mack si mosse alla testa di un esercito raccogliticcio dove eransi arruolati anche i forzati, e obbligato Championnet, che comandava Roma, per la sproporzione delle forze a momentaneamente ritirarsi, Ferdinando v'entrò suscitando da una parte e dall'altra vendette [244] e rappresaglie feroci. Pare che la presenza di quel re plebeo bastasse a eccitare dovunque la plebe. Del resto anche quella che aveva lasciato dietro a Napoli, sobbillata in ogni modo, sempre più ribolliva contro i patriotti, che a loro volta s'invelenivano e s'accendevano di speranza all'udire a mano a mano il sorgere delle repubbliche Cispadana, Cisalpina, Ligure, Romana, all'udire i miracoli di Bonaparte e l'appressarsi delle armi, che oramai per loro erano davvero, non in senso filosofico, ma in senso politico e materiale, liberatrici.
Le province giacenti in preda al brigantaggio; la miseria e la penuria dovunque resa più acerba dalle continue imposizioni a scopo di guerra e dallo sfrontato sfarzo della corte, arrivato al colmo nelle feste pel matrimonio dell'erede del trono con un vago giglio del nord, che doveva in breve tra le procelle di quegli anni infelici sfiorire laggiù all'ombra dei palmizi palermitani; tutti i posti lucrosi accaparrati da avventurieri d'oltre alpe senza fede e senza ingegno; il merito nazionale disprezzato sempre, spesso perseguitato. E quando era rimandato il sotto ufficiale istruttore Augerau più tardi maresciallo di Francia, si metteva a capo dell'esercito Mack, il Mack del tradimento di Dumourier e della capitolazione d'Ulma, uno di quei [245] secentisti della guerra, come il Balbo li chiama, condannati a perder sempre dinanzi alla nuova tattica scoperta dal genio di Bonaparte, e attuata dal cuore dei suoi generali e soldati.
E il Mack perdè, e dopo quella campagna che fece ridere tutta l'Europa, perchè il re di Napoli in poco più di un mese trovò modo di conquistare un nuovo regno e di riperderlo aggiungendovi il suo, i Francesi non incontrarono più alcun ostacolo al dominio pieno della penisola.
Appena due settimane erano trascorse da che Carlo Emanuele IV aveva abbandonato la reggia di Torino per la Sardegna, quando Ferdinando IV sul Vanguard, nave ammiraglia di Nelson, morso durante la traversata tempestosissima d'invidia per Caracciolo che lo scortava con grande bravura, fuggiva da Napoli per la Sicilia perdendo nel viaggio il figlio terzogenito. Pari ambedue i sovrani nella sventura e nell'inettitudine, ma troppo diversi di tempra morale.
Così, per singolar congiuntura, i due maggiori principi d'Italia, cacciati quasi contemporaneamente dai loro stati di terraferma per l'invasione delle armi francesi e delle teoriche democratiche, trovavano rifugio sicuro nelle due isole che sole avevano serbato le ultime reliquie delle assemblee politiche medioevali.
I Siciliani, malgrado avessero gravi ragioni di [246] malumore contro il governo napoletano violatore delle vetuste franchigie, quando videro nel loro seno il re affranto e la regina piangente, si commossero, e riebbero le franchigie che la viltà allora ridiede e l'impenitente e ingrata perfidia tornò più tardi a violare.
Ferdinando a Palermo tornò subito alla vita allegra a malgrado il proclama da lui lanciato come freccia del parto, che aveva bandito un nuovo genere di anarchia, forse laggiù solo possibile e solo colle condizioni di quel regno spiegabile, al cui appello si sollevavano le bande degli Abruzzi cominciando una lotta feroce contro gli invasori, lotta che durerà per tutto il tempo della repubblica con spaventevoli esempi da una parte e dall'altra, che dal sacco di Isernia a quello di Andria e di Altamura gelano l'anima di raccapriccio.
Il brigantaggio politico è un sistema borbonico inventato allora e che ha costato sangue fino ai tempi nostri.
Alle gesta inaudite delle bande nelle province, rispondeva il sollevamento dei lazzaroni dentro la città, onde la venuta dei Francesi oramai era desiderata da tutti i buoni, non per il concetto giacobino o repubblicano ma per salvezza dallo sbrigliato furore della plebe. E malgrado che i patriotti si fossero impadroniti di Sant'Elmo, d'onde [247] fuggì il vicario generale Pignatelli, Championnet dovè lottare corpo a corpo in due giornate terribili, dove essi e i soldati si comportarono da eroi.
Questo prova maggiormente quanto fosse stolta, non necessaria, e codarda la fuga del re, che fu davvero il primo inconscio repubblicano, perchè, come dice Coco, fece egli nascere la libertà quando meno si sperava.
Il 23 gennaio 1799, un decreto reso a nome della Repubblica francese dichiarava lo Stato di Napoli eretto in repubblica indipendente chiamata Partenopea, come un manifesto di Championnet prometteva chiamare l'esercito armata di Napoli, e altre cose che i fatti posteriori crudelmente smentirono. Intanto una taglia da lui messa per spese di guerra fu il primo segno del malumore, stillato in mezzo alle feste e attorno l'albero della libertà! Mario Pagano dal governo provvisorio ebbe ufficio di fare la costituzione, non arrivata, come nelle altre brevi repubbliche d'allora, ad essere attuata, altro essendo scrivere una costituzione come un bel componimento, altro fondare sul serio e durevolmente un nuovo ordine politico. Vincenzo Monti gonfiò per la repubblica Partenopea l'inno “chi è quel vile che vinto s'invola?„ musicato da Paisiello. Eleonora Fonseca Pimentel, letterata, [248] poetessa, e con attitudini di giornalista nel senso moderno della parola, fondò il Monitore, il primo giornale che abbia avuto Napoli, rimasto anche oggi curioso e precipuo documento di quei tempi travagliati. Uscì la prima volta il 2 febbraio e l'ultima il 13 giugno quando cadeva la sorte dell'infelice repubblica che, inaugurata con tali auspici, ebbe nobili propositi, brevi vicende, e, dopo aspra lotta, fine eroica e fatidica.
Il passaggio dal governo dispotico al governo libero fu l'opera di un giorno, e i governi non s'improvvisano; onde, malgrado il nuovo entusiasmo ufficiale, le moltitudini rimanevano incredule e diffidenti. I 25 cittadini scelti avvedutamente da Championnet a governare, erano, per intelletto e virtù, il fiore della nazione. Ma imbevuti delle massime delle repubbliche antiche non avevano pratica di affari nè sentimento della realtà moderna.
Innamorati del loro ideale, credevano in buona fede di poterlo trasfondere colle belle parole e la bontà dei propositi nel popolo abbrutito, e fondare una specie di repubblica platonica in mezzo ai selvaggi.
Ma inchiniamoci riverenti innanzi a questo partito degli arcadi, perchè fu anche il partito dei morti!
Carlo Colletta nel 1863 pubblicò la raccolta [249] degli atti ufficiali della repubblica datati col nuovo calendario francese, compiuta recentemente dal Conforti, e quivi appare l'opera legislativa e amministrativa del Direttorio napoletano, improntata certo a sollecitudine del pubblico bene, a larghi concetti di riforme che vissero e morirono sulla carta.
Le province rimasero sorde agli emissari del governo provvisorio, sicchè la repubblica potè dirsi ristretta alla sola capitale mentre, per opera principalmente del clero e della plebe, di fuori imperversava per ogni dove la controrivoluzione al grido di guerra ai nobili e ai ricchi, nei quali soli la regina vedeva i giacobini. Una strana guerra sociale dei poveri contro i signori in nome del re e della fede!
La santa fede fu oramai il segnacolo in vessillo e il nome del partito regio che, calunniando d'ateismo la repubblica, accaparrò a sè la gran forza delle credenze popolari e del fanatismo religioso.
Da ciò si scorge quale peculiare indole, ben diversa da quella di Francia, avesse quivi la improvvisata e importata repubblica, sogno di poeti idealisti virtuosi contro uno sterminato numero di pervertiti. E il pervertimento venuto a galla nudo, come suole in quei sobbollimenti, sorpassa e sgomenta qualunque immaginazione.
[250] Nelle Puglie l'insurrezione (parola che, invece che alla rivoluzione, qui si addice al suo contrario) ebbe per capi quattro traditori corsi, De Cesare, Boccheciampe, Corbara, Colonna, che, per meglio trascinare la gente, si finsero uno principe ereditario e gli altri aiutanti e cortigiani; e l'episodio è un gustoso romanzetto, a cui prese parte anche una sorella della regina di Francia che passava per Sicilia. La Terra di Lavoro era occupata da Michele Pezza detto Fra Diavolo, un brigante feroce, le cui avventure strane, dal convento alla selva e al campo di battaglia, furono al solito alterate nel romanzo di Dumas e nel dramma di Scribe.
Vera belva era il mugnaio Gaetano Mammone che beveva il sangue delle vittime in un cranio, mentre negli Abruzzi gli altri due capi banda Pronio e marchese Rodio, antropofagi, ne mangiavano la carne.
E a tali mostri re Ferdinando scriveva: mio generale, mio colonnello e mio amico!
A domarli la repubblica, dopo un sonoro proclama naturalmente rimasto inascoltato, spedì, ma invano, generali ed armati. Sopra la Puglia marciarono i legionari di Ettore Carafa conte di Ruvo che con altrettanta crudeltà (perchè parve un'epoca di rinascimento della barbarie!) fe' dare un sacco spietato alla propria patria Andria, e [251] ridurre il proprio feudo coll'incendio un mucchio di cenere.
Tale gesta naturalmente ha dato luogo e tuttavia dà ai giudizi più disparati, chi esaltando nel conte di Ruvo un uomo di Plutarco, un Bruto novello, chi vedendo in lui una furia da libidine e da preda, il Fra Diavolo e il Mammone della repubblica.
La critica ha stabilito oramai che egli non fu nè l'una cosa nè l'altra, che fu un repubblicano fanatico e un soldato d'istinti generosi ma fieri, che trascese per domare un'accanita resistenza.
E mentre nelle province ferveva la spietata guerra civile, il Direttorio aveva da guardarsi in città dalle cospirazioni messe in luce dall'episodio non meno drammatico della San Felice e dei Baccher. Questi erano d'origine svizzera, banchieri accaniti sanfedisti, ed erano entrati in una congiura d'intesa colla squadra britannica per la quale dovevano contrassegnarsi le case da colpire dando ai fedeli una carta di riconoscimento. Uno di essi, innamorato della duchessa San Felice, la fe' consapevole della congiura che essa a sua volta rivelò a un repubblicano che a lei stava più sul cuore, e questi la fe' palese al governo, producendo la prigionia dei Baccher.
Ogni episodio, può dirsi, di quella breve epoca ha dato luogo a studi, libri, polemiche infinite. Figuriamoci [252] questo! Dumas, della San Felice, semplice comparsa nel gran dramma, fa l'eroina principale della rivoluzione napoletana; mentre invece, tutto considerato, può dirsi che la sua memoria non andrebbe scevra da ogni macchia, se non l'avesse lavata il sangue che anche da lei volle uno spietato carnefice del suo sesso.
E intanto la Francia, in luogo di aiutare la repubblica sua creatura, mandava a spogliarla meglio l'intendente Faipoult. Championnet, che era insieme uomo onesto e generale e statista avveduto, mentre stracciava i decreti che rendevano la libertà un'arpia, proponeva una spedizione contro la Sicilia per colpire al cuore la monarchia e troncarne le mene. Per tutta risposta, il Direttorio di Parigi, il cui ministro degli affari esteri, si badi bene, chiamavasi Talleyrand, gli ordinò di cedere il comando a Macdonald. E poco dopo, la Francia, declinando alquanto le sue fortune in Europa, si ritirava del tutto, aggiungendo nel proclama di congedo la spudorata ironia, che i popoli liberi non devono aver bisogno dell'appoggio delle armi straniere!
Partiti i Francesi, la repubblica fu davvero indipendente, ed i suoi capi non si smarrirono, fecero appello alla concordia generale, mitigarono i pesi, composero alla meglio un esercito [253] di difesa, affidandone il comando al generale Gabriele Manthoné.
Ma intanto ben diverso e strano esercito la regina aveva da Palermo spedito alla riconquista di Napoli, capitanato, in qualità di Vicario generale del regno, da un cardinale vestito di porpora, che aveva per colonnelli quei feroci capi banda che a lui si rannodavano da ogni parte. Chi avesse detto che, poco più di mezzo secolo dopo, quelle medesime spiaggie Calabre avrebbero veduto ugualmente sbarcare da Palermo un ben altro fatato capitano, vestito anch'egli di rosso, ugualmente volto alla conquista di Napoli, ma seguìto dal fiore della gioventù italiana dietro al vessillo tricolore, in nome del più leale dei re, del primo re d'Italia, che dovea passar per sempre la spugna sui vizi e gli spergiuri borbonici?
Il cardinale Ruffo, a cui l'Acton aveva fatto affidare la scabrosissima impresa per la solita rivalità, credendo di perderlo, era invece carattere indomito e animo pronto, un misto anch'egli di male e di bene. E se a Napoli fu forse l'unico dei borbonici che fece prova di mitezza e di lealtà, la sua marcia per arrivarvi è bruttata da indelebili macchie di sangue. Checchè anche qui abbiano voluto commentare i critici e gli apologisti, le stragi e i saccheggi di Cotrone, di Tito, [254] di Altamura, specialmente per un cardinale, gridano vendetta al cospetto di Dio.
Vero è che questo non c'entrava, perchè dopo la carneficina, Ruffo assolveva i peccati, e tirava innanzi.
In mare l'ammiraglio Caracciolo, che mal corrisposto a Palermo dal re, e avutane volontaria licenza, s'era forzatamente ascritto al servizio della repubblica, cercava di guardarla il meglio possibile. Ma mentre Suwarow, il famoso generale dello tzar Paolo I, dava a Nelson, obliatosi nelle lascivie di Palermo, la famosa staffilata: Palermo non è Citera; questi, per provare al burbero russo di non aver bisogno di lui, aveva fatto prendere le isole di Ischia e di Procida dal capitano Toubrig; feroce anch'egli (perchè la ferocia dovè aleggiare forse in quell'anno nell'aria imbalsamata!) e a cui poi la regina avea mandato per degno strumento il giudice Speciale che scrisse, nelle isole Flegree, la prima pagina del santo martirologio.
Ma intanto, superati col ferro e fuoco tutti gli ostacoli, il cardinale arrivava, e risolveva di dar l'assalto alla città il giorno del suo patrono Sant'Antonio, il 13 giugno.
Giornata gloriosa! La resa al ponte della Maddalena fu illustrata dal celebre episodio di Vigliena, tanto anch'esso discusso, ma, per la critica [255] specialmente del Turiello e del Pometti, chiarito ormai abbastanza, dove un prete, Toscani, imitando le gesta eroiche di Micca, fece sì che 300 calabresi si seppellissero, sotto le rovine, piuttosto che arrendersi.
Anche i cattolici si dividevano in due campi, e tra il cardinale Zurlo arcivescovo di Napoli ed il cardinale Ruffo vi fu uno scambio di scomuniche. E mentre la spada della Francia avrebbe potuto e dovuto far traboccar la bilancia, l'ultimo avanzo dei Francesi rimasto, il Mejean comandante di Sant'Elmo, si vendè proditoriamente al nemico. Altro fatto in mille modi controverso, ma dai documenti posto fuori di discussione.
Il cardinale, divenuto a un tratto mite, o per umanità o per scaltrezza, credendo doversi rifondare il trono stabilmente sulla clemenza e sul perdono, propose egli per primo una onorevole capitolazione. I repubblicani, che consideravano la loro causa come perduta, salvo Manthoné, entrarono in trattative che approdarono alla resa dei castelli Nuovo e dell'Uovo, pattuita onorevolmente la salvezza delle vite e delle sostanze dei repubblicani. Tali patti furono sottoscritti da tutti i rappresentanti stranieri, compreso il comandante inglese.
Ma la regina, dal suo covo di Palermo, spiava e vegliava. Le trattative del cardinale Ruffo la [256] misero fuori di sè e mulinò subito d'impedirle o rinnegarle. La politica di Maria Carolina domina in tutte le fasi di quest'epoca: prima contro Tanucci, poi contro Gallo, ora contro Ruffo. Essa pensava la monarchia francese essere caduta per debolezza; non voleva pattuire ma debellare, non perdono ma vendetta; i repubblicani seppelliti colla repubblica.
Nelson assunse sopra di sè l'impresa e corse a Napoli avendo a bordo la sua trista egeria Lady Hamilton, a cui la regina avea dato le segrete istruzioni spietate per i ribelli.
All'alba del 24 giugno la flotta di Nelson apparve all'altezza di Capri. Il cardinale che era al ponte della Maddalena offrì ai patriotti, chiusa oramai la via di mare, di scampare dalla parte di terra. Essi stettero fermi al loro posto, fedeli alla parola data, confidenti nella parola ricevuta. Esempio eroico! Il modo comodo e tutelare dello spergiuro e della fuga non era il loro! Basterebbe questa eterna lezione di confronto che, a repentaglio della vita, ponevano ai posteri, per render non inutile ai destini d'Italia quell'êra breve e sciagurata.
E se in quei sei mesi saranno stati platonici, ora furono plutarchiani, se avranno commesso errori, non commisero colpe, salvo forse la fucilazione (colpa perchè crudeltà inutile) dei Baccher [257] fatta a Castelnuovo al momento che le ore della Repubblica erano contate.
Furono vane tutte le preghiere, le ragioni, le ammonizioni del cardinale Ruffo, i cui colloqui con Nelson vennero da Lady Hamilton, che serviva da interprete, e li falsava ai suoi fini, bruscamente troncati. L'eroe di Abukir si era smarrito sventuratamente a Citera! Solo accettò di mandare alla regina la capitolazione. La risposta, che non si fece attendere, diretta a Lady Hamilton, riboccante di frasi affettuose e carezzevoli per lei e per Nelson e di fremiti da sciacallo per i miseri e ingenui repubblicani, fa ribrezzo e raccapriccio. Era accompagnata da una copia di decreto del re che cassava la capitolazione, istituiva una Giunta di Stato che condannasse a morte i capi del moto, i subalterni alla prigione e all'esilio, tutti alla confisca dei beni. La procedura doveva essere segreta e rapida; ristabilita la tortura; soppressa la difesa; accettati come testimoni le spie. Le istruzioni erano di condannare a morte chiunque avesse accettato la repubblica od opinato per lei. Il che significava far morire almeno 40 mila napoletani! La regina vi aggiunse la sua lista di proscrizione impinguata de' suoi nemici personali, e per la Giunta di Stato, in luogo di uomini proposti con accorgimento e probità dal Ruffo, e [258] che si dichiararono pel rispetto della pace convenuta, impose i suoi tutti siciliani scelti fra coloro che avevano fatto miglior prova di lasciva crudeltà come Speciale, o d'imperturbabile ferocia come Damiani e Guidobaldi. E non dimenticò il carnefice, che per ironia si chiamava Paradiso!
Qui naturalmente tra gli storici e i polemisti la disputa delle dispute; la violazione della capitolazione ebbe luogo per ordine della regina e del re o per spontanea volontà di Nelson? Storcendo i racconti e stiracchiando le date si è da Ulloa, dallo Helfert e da altri, tentato fare invalere questa seconda opinione. Ma i documenti del museo britannico, il carteggio della regina con Emma che, ripeto, è nefando, e pare impossibile sia corso fra due donne, ha tolto ogni dubbio su questo punto. E, in ogni modo, bisognava sempre considerare due cose: prima, Nelson non era padrone della sua volontà e del suo animo, altrimenti la voce dell'onore e l'immagine della patria e della posterità gli avrebbero impedito di sputar sangue così sopra la sua gloria! Sicchè, anche quando l'azione sua fosse parsa spontanea, in fondo sarebbe stata sempre d'altri, di quella orribile coppia femminile che gl'infondeva l'inconscia suggestione.
In secondo luogo, mentre il cardinale Ruffo, [259] il riconquistatore del regno, cadde in disgrazia solo per la capitolazione e i consigli, Nelson fu creato Duca di Bronte con 75 mila ducati annui trasmissibili agli eredi, che per altro nè egli nè gli eredi videro mai.
Vuol dire che egli avrebbe potuto non secondare e secondò, non obbedire e obbedì, superando nell'obbedienza la slealtà e l'inumanità del comando.
Ai martiri delle isole Flegree andò per primo a far compagnia il vecchio ammiraglio Caracciolo penzolante dall'albero della Minerva, spettacolo a Lady Hamilton che girava attorno in una lancia, e poi gettato in mare.
In breve seguirono tutti. La storia della Giunta di Stato è rimasta oscura perchè tutti quei processi vennero più tardi distrutti per ordine del re che pare cominciasse a sentire, non la paura del cielo, non il rimorso della coscienza, ma il timore della storia.
Alla gran vendetta, di cui la regina mostra nelle sue lettere un'ansietà quasi delirante, il re, chiamato da Nelson, che voleva colla sua presenza dividere almeno l'obbrobrio, venne ad assistere da vicino; mentre Maria Carolina, che si sapeva odiata come unica cagione della politica funesta che aveva condotto il regno a tali estremi e tali miserie, rimase a Palermo. Dove [260] il re stesso non tardò a raggiungerla per la nostalgia della vita allegra che non potea fare a bordo, e per uno spavento che gli successe. Un giorno, stando in coperta, scorse una figura umana quasi dritta sull'onde, come fantasma galleggiante venire al suo vascello, e riconobbe l'ammiraglio Caracciolo. “Che vuole questo morto?„ esclamò con voce fremente nella strozza rabbrividendo di sgomento e di orrore. Uno degli astanti rispose, “credo che chieda sepoltura cristiana„ “L'avrà!„ E così al povero Caracciolo, gittato in mare con 250 libbre di peso ai piedi, e che aveva implorato a Nelson sepoltura nelle viscere del suolo natale, la rivendicarono le forze della natura, creatrici di questo aneddoto pietoso che pare un racconto di fate, mentre testimoni oculari lo propagarono, documenti sicuri l'hanno confermato.
A malgrado la distruzione dei processi, l'ecatombe, dove fu reciso il fiore dell'intelligenza e della virtù napoletana, venne ricostruita per documenti amorosamente ricercati da molti e specialmente dal D'Ayala e da ultimo, perfino negli archivi della confraternita dei Bianchi della giustizia, dal mio caro amico e collega Giustino Fortunato.
L'elenco di quei traditi, primi martiri del risorgimento italiano, che la libertà per cui combatterono [261] onorarono anche in morte; non ribelli, perchè il re era fuggito; non vinti, perchè guarentiti dalla capitolazione e dalla pace, comprende novantanove nomi per i capi, migliaia essendo stati gli assassinati nelle prigioni e nei forti senz'ombra di processo. Diciotto principi o duchi; due dame, Eleonora Fonseca Pimentel, e Luigia Molines San Felice, a cui il dubbio della gestazione non risparmiò, anzi rese più dolorosa, la morte procrastinata per lungo tempo in mezzo a traversie e sevizie inaudite; quindici ricchi possidenti; quattordici generali; tre vescovi; undici preti; undici avvocati; otto letterati e professori; due magistrati; due studenti; un notaio. Morirono tutti intrepidamente; e il mondo conosce l'eroismo antico degli ultimi momenti di Manthoné, di Velasco, del conte di Ruvo, di Domenico Cirillo, di Mario Pagano.
Colla repubblica erano seppelliti anche i repubblicani; e delle loro sostanze si premiarono con pensioni, titoli, gradi di maresciallo e di barone i Toubridg, i De Cesare, gli Sciarpa, i Panedigrano, i Fra Diavoli!
Ma l'espiazione, specialmente per la nefasta Hamilton, doveva venir presto! Tornata in Inghilterra con Nelson, che le chiese e ne ebbe (felice degnazione) licenza di rispondere all'appello della patria, per la quale morì a Trafalgar, [262] annientando la potenza navale della Francia; diseredata nel testamento da Lord Hamilton; respinta dall'Inghilterra come legato troppo vergognoso del testamento di Nelson; destituita di soccorsi invano implorati perfino da quella ingrata regina, che pur le aveva scritto di dovere a lei il ricupero del regno, e di cui, dopo amicizia sì intima, si vendicò con infami libelli; attraversò varie scandalose vicende, in tutto simili a quelle del principio della sua carriera; morì all'Havre, arrabbiata e miserabile, da tanti maledetta, e da nessuno compianta.
Nè la restaurazione de' vecchi governi fu per allora meno effimera delle repubbliche cadute. La spada di Napoleone imperatore in breve ne fece giustizia.
Ferdinando e Maria Carolina, riprendendo le loro ignobili fughe, videro sul loro trono assisi i re parvenus, l'ultimo dei quali ebbe almeno per un istante l'epica e generosa ambizione dell'unità d'Italia.
Quei moti del 1799, che in apparenza non fruttarono nulla se non ribadimento di catene, in effetto apparecchiarono i più fortunati eventi a una nazione stata sempre infelice, ridestando quelle virtù che, spesso, come certe piante, nascono solo sulle ruine.
Da quel giorno cominciò a comunicarsi, osò [263] venire in luce il sospiro dell'indipendenza e dell'unità, palpito segreto di tutta la nostra storia, dono divino che sarebbe meglio apprezzato dagli Italiani se un poco più la leggessero e la studiassero. Da quel giorno si fece comune il sentimento e bisogno di libertà, di cui oggi, per merito di quegli eroi, godiamo, e pur troppo talora, per colpa nostra, abusiamo.
L'età plutonica e scettica, poichè il mondo, come disse Carlyle, ha cessato di essere spirituale e s'è fatto meccanico, nelle logomachie degli ignoranti erigentisi a giudici dei pochi che si sanno ancora affinare nel crogiuolo del pensiero, nelle batrocomiomachie dei rettili gorgoglianti nel pantano dell'indecenza, del ricatto gioviale (gioviale nel doppio senso, perchè fu Paolo Giovio a dire che aveva una penna d'oro per chi lo pagava, e per gli altri una di ferro), smarrisce lo spirito della storia divenuto, secondo la frase di Goethe, l'esprit de ces messieurs.
Eppure l'unità, la libertà hanno tanto costato ai padri nostri che, come i Napoletani del 1799, morirono sorridendo, perchè, affacciati alla visione della seconda vita, divinarono che il loro esempio sarebbe stato eterna fiaccola ai buoni, eterna remora ai tristi, eterna malleveria di grandezza alla patria.
Sarebbero invece morti piangendo, se avessero [264] potuto credere che, un secolo dopo, Italiani, all'Italia fatta libera, una e indipendente, rimprovererebbero l'ambizione di parer grande!
Ma ella deve essere grande! Qualche cosa dobbiamo pur restituire a coloro che per lei e per noi s'immolarono. Avendo la patria in cima di ogni nostro pensiero, per essa lavorando con tenace perseveranza, e con candida e cavalleresca lealtà combattendo, potremo riscattarci da una nuova servitù morale che ci travaglia; e creare la vera repubblica, la repubblica degli animi onesti, liberi e sinceri, dove verranno ad abitare con noi, recandoci ammonimento di memorie meste, conforto di speranze liete, coloro che l'ideale consociato della libertà e della virtù suggellarono col sangue proprio, e non d'altrui, nel nome santo d'Italia.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (vari/varî e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
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