Title: La plebe, parte IV
Author: Vittorio Bersezio
Release date: August 29, 2014 [eBook #46726]
Language: Italian
Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara
Magni and the Online Distributed Proofreading Team at
http://www.pgdp.net (This file was produced from images
generously made available by The Internet Archive/Canadian
Libraries)
ROMANZO SOCIALE
DI
VITTORIO BERSEZIO
PARTE QUARTA
PROPRIETÀ LETTERARIA
TORINO,
PRESSO CARLO FAVALE E COMP., EDITORI
1869.
[3]
La Catastrofe.
Secondo era inteso fra il marchese di Baldissero, Don Venanzio e Maurilio, quest'ultimo, la mattina dopo il colloquio che aveva avuto luogo fra i tre ora nominati personaggi, erasi recato al palazzo del marchese per fissarvi senz'altro la sua dimora in qualità di segretario.
Dal marchese erano stati dati gli ordini opportuni. Appena si presentò, Maurilio fu condotto dal mastro di casa che lo ricevette come individuo specialmente raccomandato dal padrone.
— Signore, dissegli, tutto è pronto ad accoglierla, e nella sua camera troverà un assortimento d'abiti fra cui potrà scegliere quelli che meglio le piacciano e meglio le si attaglino.
Maurilio arrossì fino alle orecchie e nascose la sua confusione in un inchino, balbettando inintelligibili parole di ringraziamento.
La camera destinatagli era pulita, allegra, appetto a tutte le altre abitazioni ch'egli aveva avute sino allora, elegante. Il sarto e gli abiti, come aveva detto il mastro di casa, lo stavano aspettando. Scelse panni scuri, senza esagerazione di forme alla moda; e quando vestito di nuovo da capo a piedi, e' si guardò nello specchio che stava sopra il canterale, quasi non riconobbe se stesso: fece al suo pallido volto riflesso dalla lastra un sorriso in cui c'era più vergogna che compiacenza, e disse mentalmente a se stesso:
— Tu se' un altro Maurilio.... I panni ti faranno oramai giudicare dal mondo un uomo ammodo.... Ma sei vestito di roba altrui!...
Il sarto, secondo le abitudini del più di questi mercatanti, cianciò egli la parte sua e quella del giovane a cui la confusione dell'animo e della mente non lasciava aver parole fatte; rifornitolo per allora d'ogni parte d'abbigliamento, gli prese misura per altri abiti da farglisi di ricambio, che tali erano gli ordini di S. E., e partissi accompagnato dal domestico che era stato testimonio a codesta vestizione, e la cui presenza non aveva conferito poco a vergognare ed imbarazzare il timido Maurilio.
Questi rimase solo in mezzo alla modesta suntuosità di quella stanza che gli era destinata. E' guardò allora tutt'intorno a sè, come per conoscer bene quegli oggetti che lo circondavano, cui non aveva ancora osato esaminare e prenderne, come dire, possesso: un lettino in ferro, una tavola da lavabo, un cassettone con sopravi lo specchio incorniciato di legno su cui una vernice di color naturale, un caminetto alla Franklin, un seggiolone appiè del letto, una mezza dozzina di seggiole impagliate, di quelle leggerissime di Chiavari, un armadio in un angolo, un tavolino da scriverci, un acquasantino d'alabastro a capoletto, quattro incisioni che rappresentavano le imprese di Cortez al Messico, in cornici di [4] legno appese alla parete tappezzata di carta colore di foglia secca, bianchissime cortine alla finestra, tendoline ai cristalli della medesima, sullo spazzo di quadrelli immasticati, una lista di tappeto innanzi al letto, per mettervi su i piedi scendendone, ed ecco tutto. Ma tutto respirava la pulizia, il buon gusto e l'agiatezza. Maurilio si piantò innanzi allo specchio e vi si mirò con una specie di fissità inquisitoriale, mezzo dispettosa, quasi maligna.
— Che fai tu qui? s'interpellò egli con quel suo sogghigno: sei tu fatto per questi ambienti? è egli tuo posto questo? Povero buttero di campagna, misero figliolo del fangoso rigagnolo della strada, sangue di plebe, come osi tu mettere il piede su questo terreno? E che ci vieni a far tu? a viverci da parassita?
I suoi lineamenti si contrassero con una dolorosa espressione.
— Parassita io?
Scosse il suo grosso capo arruffato e gettò uno sguardo che pareva di sfida e di minaccia alla sua immagine rimandatagli dallo specchio.
— No, no, e poi no.... Sarà il mio lavoro che mi guadagnerà questo pane, che mi guadagnerà questi abiti, che pagherà questa dimora. Non ho io vissuto press'a poco in tal guisa quand'ero agli stipendi del signor Defasi?... E perchè questo non avrebbe ad essere mio posto?
Ricordò le parole della vecchia Gattona, che Selva e Don Venanzio gli avevano riferite, e le quali potevano far argomentare d'una sua non plebea origine, sentì risollevarsi più vive in cuore le speranze, vissute in lui sempre, ora rinfocolate cotanto, di giungere a penetrare il mistero della sua nascita e trovare in fondo di esso un onorevole, forse illustre destino.
— Ah! esclamò egli ad un tratto passandosi la mano sulla vasta, pallida fronte: sento che da questo dì comincia per me una sorte novella. Più trista delle varie che ho subite non può essere; sarà dunque più lieta?...
Sentì, cominciando dal cervelletto giù giù pel midollo spinale scorrere e diramarsi per tutti i nervi, passare in tutte le vene quel certo fluido, dargli una lieve scossa quel brivido cui produce una intima emozione, e che a lui pareva un vincolo d'unione, il mezzo di rapporto fra sè ed il sognato suo spirito protettore. Levò gli occhi verso il cielo, impallidì ancora nelle guancie incavate, e giungendo le mani come si fa per pregare esclamò:
— Oh angiolo mio benigno! oh madre mia! Sei tu che qui mi hai tratto? Sei tu che mi vuoi ospite in questa casa?...
Un novello pensiero a tali parole s'impadronì di ogni facoltà del suo animo: un pensiero che era immanente in lui, ma che ora altre momentanee sensazioni parevano avere assopito: il pensiero di lei!
— Questa casa è la sua! Soggiunse egli, interrompendo il suo primo discorso, e cambiando di tono: essa abita qui, a poca distanza da me, sotto il medesimo tetto; e la potrò vedere, e la vedrò tutti i giorni.
Schiuse le labbra ad un sorriso di beatitudine e corse alla finestra. Lì sotto era la strada cui egli aveva passeggiato tante volte, là in faccia era la cantonata, a cui tante volte s'era fermo a contemplare quel palazzo, dov'egli ora si trovava. La stanza assegnatagli era al secondo piano e Maurilio riconobbe con una strana sensazione che poteva dirsi di gioia, come la fosse quasi al di sopra di quella in cui aveva indovinato dormire Virginia.
Questo nome ripetè egli come se la invocasse.
— Virginia! Virginia!
All'udire la sua voce far suonare quella parola fra quelle pareti, si riscosse, tremò, si soffuse di rossore, si volse rattamente a guardar indietro e dintorno, come pauroso alcuno l'avesse potuto udire. Si rassicurò vedendosi compiutamente solo; non ci aveva altra compagnia, non s'udiva colà altro rumore che quello del foco che schioppettiva nel caminetto.
— La vedrò ogni giorno: ripetè quasi avesse bisogno di dirselo più volte, affine di credere egli medesimo; la vedrò oggi stesso, fra poco!...
Un legger colpo battuto all'uscio della sua stanza lo fece sussultare.
— Avanti: diss'egli volgendosi alla porta, curioso e quasi inquieto di vedere chi fosse.
S'apri un battente e comparve la faccia bonaria di Don Venanzio, più lieta, più sorridente, più benigna del solito.
— Cospetto! esclamò il buon vecchio, come sei bene alloggiato, e come vestito! Mi sembri un medico o un avvocato.
Si fregò le mani con espressione di viva contentezza:
— Dio sia lodato che mi ha voluto far la grazia di soddisfarmi uno dei maggiori desiderii che avesse ancora la mia vecchiaia: quello di vedere il tuo destino assicurato, Maurilio, mio buon figliuolo.
Il giovane, preso da un vivo intenerimento, sentì inumidirsi le ciglia e non seppe fare altra risposta che gettarsi al collo del sacerdote ed abbracciarlo. E Don Venanzio, tenendolo così stretto al suo seno in un affettuosissimo amplesso, continuava:
— Sì il tuo destino assicurato, perchè qualunque cosa venga o non venga a scoprirsi intorno alla tua nascita, la protezione di questo generosissimo uomo, che è il marchese, non ti può mancar più, e tu non sei tale da rendertene indegno mai....
Maurilio nascose la fronte sulla spalla di quel vecchio che aveva saputo amarlo d'un amore paterno.
— Ma le triste vicende del mio passato... balbettò egli.
[5] — Il marchese sa tutto, e d'or innanzi non correrai più il pericolo che la rivelazione di quelle tue sciagure possa farti perdere l'impiego... Nega ora, se il puoi, col tuo orgoglio di razionalista, l'azione e la bontà della Provvidenza che mi ha tratto qui dal mio villaggio, giusto appuntino per poterti allogare come si conviene, e forse forse per trovarti eziandio la tua famiglia: e quest'ultima cosa dopo dimani spero che la sapremo.
— Ah! se mai fosse! esclamò cogli sguardi sfavillanti Maurilio, il quale sentiva nel capo suscitarsi e tumultuare la follia di mille assurde speranze.
— Sì, sì, sarà... sarà anche questo. Io confido nel Signore; e non è per nulla di certo che la sua bontà ci ha messo sulla traccia ora soltanto, dopo tanto tempo... Ma questo non è momento di parlare di ciò... nè di ciò nè di altro, perchè la è l'ora dell'asciolvere, e siamo attesi tuttedue.
Maurilio guardò Don Venanzio con aria esterrefatta. Questo asciolvere, voleva egli domandare, si farà con tutta la famiglia? Era dunque giunto il momento desiderato e temuto, felice e pur penoso, di comparire innanzi egli all'amata fanciulla?
Il buon vecchio prete che nello sguardo e nella mossa del giovine vide soltanto una maraviglia, credette rispondere a quest'essa spiegando come andasse la cosa.
— Sì, continuò egli, ci siamo attesi tuttedue. Il marchese ha voluto ad ogni patto che fin tanto che io rimango a Torino, venga a farti compagnia... Se ti dico che con tutta la sua dignitosa fierezza è il migliore dei bravi uomini! Ha capito che ciò farebbe un immenso piacere a me e nel medesimo tempo gioverebbe a levar te di suggezione, ti sarebbe d'aiuto nell'affarti all'ambiente della casa... Dunque poc'anzi sono venuto, come egli me ne aveva detto, e discorso un poco insieme del più e del meno, vennero ad annunziare che se S. E. voleva si sarebbe servito in tavola per l'asciolvere. Il marchese mi disse: «Ella non ha ancora visto la camera del sig. Nulla?» — «No, signor marchese:» io gli risposi. «Ebbene se vuole andare a chiamarlo Ella medesima per l'asciolvere, avrà tempo a dargli un buon giorno ed un abbraccio: e così potrà interrogarlo se gli manca e se desideri alcuna cosa cui forse non oserebbe domandare al mastro di casa.» Ve' che bontà!... Io accettai l'incarico ed eccomi... Già son persuaso che non ti manca nulla.
— No certo.
— Dunque non c'è altro che discendere nella sala da pranzo.
— Andiamo: disse Maurilio il quale si sforzò a dominar la emozione che nacque subitamente e vivissima in lui.
Ma al punto di varcare la soglia di quella stanza dovette fermarsi e reggersi allo stipite, tanto il cuore gli batteva e glie ne tremavan le gambe.
— Coraggio! gli disse Don Venanzio che credette questa soltanto emozione di timidità; e' son tutti in fine uomini come siam noi, per quanti titoli abbiano al proprio nome.
Maurilio si fece forza e discese in compagnia del parroco. Quando entrarono nella sala da pranzo non c'erano ancora che due domestici in piccola livrea, immobili come statue presso un'alta credenza di legno d'ebano scolpita, nella quale brillavano nitidissimi cristalli, porcellane ed argenti, e il servo di confidenza del marchese, in abito nero e cravatta bianca, dritto dietro l'alta spalliera della seggiola su cui soleva sedere il capocasa.
Non tardarono a sopraggiungere il marchese che dava il braccio alla marchesa, e dietro essi Virginia. Maurilio sentì la presenza di lei, ma non osò alzare il capo nè gli occhi a guardarla: se ciò avesse fatto, avrebbe trovato così pallido il viso della fanciulla, così chiare in esso le traccie della insonnia e d'una pena morale che ne sarebbe stato più di commosso.
Don Venanzio fu amichevolmente salutato da tutti, anche dalla superba marchesa; la sua qualità di sacerdote gli valeva siffatta distinzione dalla fierezza aristocratica di quella donna, più per principio politico che non per devota osservanza al sacro di lui carattere. Virginia con un sorriso di tutta amorevolezza andò a porger la mano al vecchio prete dicendogli parole piene di grazia e di dolcezza.
— Il signor Nulla, il nuovo segretario di cui vi ho parlato: disse il marchese facendo un cenno colla mano per presentare Maurilio, che s'inchinò, alla marchesa ed a Virginia. — Mia moglie e mia nipote: soggiunse poi additandole a loro volta al giovane.
La marchesa aveva fatto un legger cenno colla testa pieno di superbia, e certo avrebbe prestato più attenzione e regalato uno sguardo più cortese ad un cagnolino che le fosse condotto dinanzi; Virginia aveva fatto un piccol saluto sbadato nella evidente preoccupazione onde aveva presa l'anima, e stava per voltar via la testa, senz'altro, quando i suoi occhi cadendo sopra il volto dell'uomo che le veniva presentato, un sovvenire ed un'idea sorsero di subito nella sua mente. Il suo sguardo si fermò su quelle fattezze che le parve avesse già viste altre volte; e da quegli occhi color del mare balenò una fiamma viva cui Maurilio, benchè timido e vergognoso tenesse volti a terra gli sguardi impacciati e la faccia arrossita, sentì arrivarlo, circondarlo, penetrarne entro il cervello il calore. Sollevò allora le pupille ancor egli; lo sguardo della fanciulla era come un'investigazione. «Dove vi ho io visto? pareva domandare: chi siete? che cosa venite a far qui?» Negli occhi di lui c'era tanta ammirazione, tanta devozione, tanta ardenza di affetto che impossibile una donna nulla ne scorgesse; Virginia non vide, non sognò nemmanco che ci fosse, che [6] ci potesse essere dell'amore; scorse, avvertì, sentì che in quel giovane timido e modesto avrebbe potuto avere in un caso un aiuto; glie ne diede un tacito ringraziamento, e prese quasi atto come d'una muta promessa con una mossa gentile e andò a sedersi al solito suo luogo fra lo zio e la zia.
— E mio figlio? domandò il marchese nell'atto di spiegare il suo tovagliolo.
— È uscito or ora, appena levato: rispose uno dei domestici: ed ha lasciato detto che pel déjeuner non sarebbe venuto.
Il marchesino, che contro il divieto del padre voleva battersi quel giorno medesimo con Benda (e già sappiamo come il duello avesse luogo alle tre di quel pomeriggio) aveva pensato miglior consiglio fuggire la presenza del genitore.
Il padre e la madre di Ettore scambiarono un ratto sguardo in cui c'erano un medesimo timore ed un medesimo sospetto; una nube passò sulla fronte del marchese, il quale non fece altre osservazioni nè domande, e di suo figlio non parlò più. Anche sul volto di Virginia apparve, ma dominata e repressa tosto, una espressione di ansietà.
Durante la colazione si fu piuttosto silenziosi. Il marchese parlò talvolta con Don Venanzio ed anche con Maurilio; ma poi, vedendo che quest'ultimo aveva dal suo impiccio la maggior pena del mondo a rispondere, lo lasciò tranquillo; la marchesa rivolse alcune fiate il discorso al prete intorno ad argomenti indifferentissimi e ne ascoltò le risposte come si ascoltano le cose di che non c'importa niente affatto; Maurilio fu per lei come se non esistesse.
Al nostro giovane amico il tempo di quell'asciolvere parve lungo, eterno, e insieme fuggito come un istante. Egli si trovava quasi di fronte a Virginia. Avrebbe voluto guardarla sempre, bearsi nella desiata contemplazione di quel volto leggiadro; e il timore d'incontrare lo sguardo di lei, gli faceva tenere gli occhi fissi inchiodati sul tondo che aveva dinanzi. Ma pure due o tre volte ardì sollevarli, e di nuovo essi incontrarono quello sguardo scrutatore di lei; anzi ad un punto parve al confuso giovane che un'espressione di lieta sorpresa, d'una inesplicabile speranza fosse nell'occhieggiare dell'adorata fanciulla. Ei si disse che ciò era impossibile, che questo era un inganno, che egli non aveva da essere altro per lei fuori d'un estraneo indifferente, ch'ella non poteva in lui ravvisare una conosciuta persona, a meno che riconoscesse il miseruzzo di giovane di libraio che le recò un giorno dei libri, e cui ella non aveva pur degnato d'uno sguardo, o il vagabondo che s'era introdotto un dì nel parco della villeggiatura in cui ella si trovava, e ch'essa medesima aveva visto punire e scacciare come ladruncolo di frutta; ma questo riconoscimento egli aveva sperato e tutto gli faceva credere non potrebbe avvenire, e non sarebbe per esso che gli sguardi di lei avrebbero preso quella che gli pareva ombra d'interesse e di favore. Era dunque una compiuta illusione la sua.
E invece la era una realtà. Virginia non aveva riconosciuto in Maurilio il giovane di libraio, nè il creduto ladroncello del parco, sibbene quell'individuo che poche sere prima, nell'occasione del ballo dell'Accademia filarmonica, ella, nel vestibolo del palazzo dove aveva luogo la festa, aveva veduto in compagnia di Francesco Benda. La nostra memoria ha di queste stranezze: ella, senza che ce ne accorgiamo, riceve delle impressioni e le alloga, per così dire, in qualche suo riposto cantuccio, indipendentemente dal concorso della nostra volontà; ad un dato momento, quando appunto ci diventa più utile il poterci servire di quell'impressione, il trarre in campo il ricordo di quel fatto, di quella circostanza, ella ce lo trae fuori per mettercelo dinanzi fresco, preciso ed efficace.
Virginia, dopo la nuova provocazione avvenuta al ballo la sera prima fra suo cugino Ettore e l'avvocato Benda, non s'illudeva punto sulle conseguenze di quel fatto. Nell'insonnia onde aveva avute turbate le ore di riposo che trammezzarono tra la partenza dal ballo e l'asciolvere, ella posseduta da una indescrivibile ansietà, s'era con sommo dolore convinta, che nulla poteva fare affine d'impedire uno scontro, ed aveva dovuto limitarsi ad ardenti preghiere e ad invocare che almeno le fosse concesso di sapere tosto e tutta la verità. Inviare a domandarne a casa dei Benda per un domestico, e non osava, e temeva non le sarebbe concesso per la sorveglianza della zia; altro modo di ottenere il suo intento non sapeva immaginare. Al primo vedere il nuovo segretario dello zio, un confuso sovvenire d'averlo già visto e una più confusa idea che quell'uomo la potrebbe servire le nacquero in una. Quando il suo ricordo chiaro e spiccato le ebbe posto innanzi la vicenda e il modo ne' quali quel giovane era stato da lei incontrato, ella non dubitò più che un pietoso riguardo della sorte glie l'avesse mandato pur farla soddisfatta nel suo ansioso desiderio: la lo guardò coll'occhio benigno con cui si guarda l'opportuno stromento della nostra salvezza: il povero Maurilio dovette a codesto la infida gioia — invano voluta da lui medesimo cacciare e soffocare — d'un momento di ventura ch'egli stesso dichiarava impossibile: la ventura d'uno sguardo affettuoso!
Nel recarsi dalla stanza da pranzo al vicino salotto da prendervi il caffè, Virginia seppe far così bene che rimase indietro da venire a costa di Maurilio, il quale nel vedersela vicino, tremava verga a verga.
— Signore, diss'ella con quel coraggio che le dava l'amor suo e con quella franchezza che le permetteva la superiorità della sua condizione sociale sopra quella del giovane; mi pare che la non sia questa la prima volta che noi c'incontriamo.
[7] Il povero Maurilio impallidì ed arrossì in una. Ella aveva dunque notata la presenza di lui? Ma dove, e come, e quando? Si accrebbe il tremore de' suoi nervi e il palpito del suo cuore: siccome non poteva spiccicar parola dalle labbra, e' si contentò d'inchinarsi in segno di rispettosa affermazione.
La nobile fanciulla continuava:
— La ho veduta, se non erro, l'altra sera insieme coll'avvocato Benda.
Pronunziò essa quel nome senza la menoma esitazione, senza deviar lo sguardo, senza punto arrossire, ma abbassando la voce così che il suono di tal parola non potesse giungere a svegliare in alcun modo l'attenzione dello zio e della zia che precedevano.
Ma a questi detti parve al misero Maurilio che una mano di gelo venisse a serrargli il cuore che si dilatava ad accogliere sempre meglio quella ineffabil gioia di assurda speranza. La nebbia rosata ond'era avvolto il suo spirito si ruppe, e traverso la fatale illusione che cominciava a dileguarsi, travide il principio d'una realtà dolorosa.
— Sì, sì signora, balbettò egli, osando pur finalmente guardarla nel volto. Ero insieme a Benda, mentr'ella passava su per la scala dell'Accademia Filarmonica.
La ragazza chinò gli occhi innanzi a lui.
— Ella è molto amico di quel signore?
— Signora sì.
Virginia non fu padrona di contenere la vivacità dell'interesse con cui affrettatamente soggiunse la domanda:
— Ne sa Ella qualche notizia di lui da questa mattina?
— No: rispose Maurilio con tanto appena di voce da farsi sentire.
E la ragazza più frettolosamente e più infervorata di prima:
— Deve essersi battuto... con mio cugino. Sono ansiosissima di saper novelle dello scontro prima di mia zia... Sarei molto riconoscente a chi me ne recasse il più presto possibile.
S'era giunti al salotto. Virginia s'allontanò dal giovane senz'altro, e non vide per fortuna la nuova espressione che avevano presa i lineamenti di lui.
A Maurilio s'era svelata tutta la verità. Quella sera in cui primamente gli era avvenuto di vedere insieme Francesco e Virginia aveva indovinato che Benda amava ancor egli l'oggetto dell'amor suo; ora e' si faceva per lui chiaro come la luce del giorno che ancor essa, Virginia, riamava Francesco. Quell'odio che già aveva sentito per quest'ultimo e cui aveva confidato a Giovanni Selva, assalì con nuova vampa e con nuovo impeto l'anima di Maurilio: desiderò ogni danno al suo fortunato rivale, non inorridì, a tutta prima, allo scellerato pensiero, il quale si faceva per lui una infame speranza: che cioè quel duello di cui le aveva fatto cenno Virginia medesima, potesse, forse in quel momento medesimo, togliere di mezzo quel fortunato per cui s'era aperto il cuore della donna ch'esso era condannato ad amare inutilmente. Ma non tardò ad aver vergogna e rabbia e disprezzo di se medesimo: aspettò poterlo fare senza violare nessuna convenienza, e come il marchese gli ebbe detto che per allora non abbisognava dell'opera sua, Maurilio corse a rinchiudersi nella sua stanza, rifiutando anche la compagnia di Don Venanzio, bisognoso come era d'esser solo e di affondarsi nel turbatissimo caos de' suoi pensieri. Si gettò boccone sul letto e cacciandosi le mani contratte entro le chiome arruffate, stette colà immobile a sentire, quasi come si fa per una voluttà, l'interno spasimo che lo travagliava. Che cosa era venuto a far egli in quella casa? tornava a domandare a se stesso: non era meglio morir anzi mille volte di fame che venire a farsi corrodere il cuore da simili angoscie? Qual delirio lo aveva preso, qual odio di se medesimo quando aveva consentito a entrare in quella famiglia? Come era mutato ora l'aspetto d'ogni cosa! Poc'anzi gli pareva che fosse quello il fine delle triste venture, adesso invece sentiva essere il cominciamento di nuovi e forse ancor più aspri dolori.
Le poche parole dettegli da Virginia seguitavano a suonargli nella mente, come se un'eco incessante fosse lì a ripetergliele. Ella evidentemente sperava in lui, ci aveva contato su per sapere tosto quelle nuove di cui aveva schiettamente confessato essere ansiosa: e perchè mancherebbe egli alla fiducia che in lui aveva ella riposta? Se alcuno gli avesse detto un tempo: — «Tu puoi risparmiare un minuto di dolore a quella che ami:» non avrebb'egli lietamente offerto se stesso ad ogni tormento per quest'effetto: ed ora?...
Si levò di sopra il letto con nuova risoluzione; uscì della sua stanza, scese precipitoso le scale del palazzo e prese correndo la strada per alla dimora di Francesco Benda.
Mentre Maurilio recavasi a casa dei Benda, nel palazzo del marchese di Baldissero avveniva una scena che non è inutile conoscere per la prosecuzione del nostro racconto.
Presentavasi nell'anticamera una sordida vecchia che, invocando il nome di Dio, della Madonna e di tutti i santi, protestava avere gravissime cose da comunicare a S. E. il marchese, proprio a lui in persona, ed insisteva perchè andassero a dirglielo affine di esserne ricevuta. I lacchè, ai quali questa donna era già ben conosciuta, la ricevettero con tutto il superbo disprezzo di cui questi valorosi sono capaci verso la povera gente, e per quanto ella non iscoraggiata ed audace instasse, non acconsentirono a darle retta.
— Oh sentite, Gattona, finirono per dirle, smettetela chè omai ci avete fradici, e sono tutte inutili [8] le vostre parole. Il marchese ha ordinato, espressamente ordinato, capite, di mandarvi ai cento mila diavoli ogni quel volta vi presentiate, ch'egli, per cantarvela in musica, non vuol più avervi tra' piedi in nessun modo. Se gli è per ispillargli qualche soccorso, venite nei giorni e nelle ore solite, quando fa distribuire elemosine dal suo segretario, che al vostro turno alcuna cosa vi potrete buscare, altrimenti, a star qui ed insistere, voi seccate inutilmente noi, e ci perdete il vostro tempo.
La Gattona pensò che, parlando al segretario, un'autorità superiore nella schiera dei dipendenti dal marchese, avrebbe forse avuta maggior probabilità di fare arrivare sino all'orecchio di S. E. l'ambasciata che voleva, e per cui ella era persuasa di essere dal marchese ricevuta. Domandò adunque di potere almanco vedere questo sor segretario; e n'ebbe in risposta che egli era uscito, e che non sapevasi dirle l'ora nella quale avrebbe potuto vederlo di quella giornata, perchè era nuovo affatto in ufficio, entratovi soltanto quella mattina medesima, e non aveva ancora assunto regolare servizio.
La Gattona si partì finalmente, e borbottando fra sè come persona che ha gravi preoccupazioni pel capo ed è più incerta che mai del partito cui prendere, s'avviò verso la sporca viuzza dove ci aveva la dimora. Sotto le volte che dalla strada di Dora Grossa mettono nella piazza del Palazzo municipale trovò essa Gognino, il quale, abbandonata in un angolo la sua cassetta dai fiammiferi, faceva chiasso con altri sbarazzini della sua risma, tirando addosso a sè ed anco alla gente che passava pallottole di neve. Gognino vide bensì ad un punto la nonna che veniva, e corse alla sua cassetta; ma era troppo tardi, l'occhio grifagno della vecchia lo aveva colto in flagranti; e di più, come se ciò non bastasse ad irritare la già indispettita, maligna femmina, ecco una di quelle palle di neve tirata dalla mano d'uno fra i compagni del nipote, venirla a colpire nella cuffia, mandargliela per traverso e scomporle tutto il poco elegante edifizio della sua capigliatura grigia ed arruffata.
La Gattona piombò sopra il nipote, proprio come uno di quegli animali che avevano avuto l'onore di darle il nomignolo sopra un povero topo, lo ghermì e fece le vendette della sua autorità sconosciuta, dei suoi comandi disubbiditi, della sua cuffia oltraggiata, della sua dignità offesa dalle sghignazzate dei biricchini sulle orecchie di Gognino, cui tirò senza misericordia, non ostante gli strilli del povero ragazzo.
Ma l'incontro di Gognino le fece pure venire in mente una buona idea. Quell'uomo cui la sorte le aveva condotto innanzi così inaspettatamente poche sere prima, ed al quale ora ella credeva essere in grado di rendere un nome ed una famiglia, e studiava appunto di far ciò nel modo che più le fruttasse; quell'uomo avevale promesso dieci soldi al giorno a patto gli conducesse il nipote ad imparare da lui lettura e scrittura. Ora di quel giorno ella aveva trascurato di menargli il bambino e di esigerne le promesse monete; e non ci vedeva nessuna buona ragione di perdere quel tanto. Amministrata adunque la severa correzione alle orecchie di Gognino, la vecchia lo prese ad un braccio, se con buona grazia ve lo lascio pensare, e fattogli deporre la cassetta di fiammiferi sotto il banco d'una rivendugliola sua comare, lo trasse con sè verso la casa dove dimorava il pittore Vanardi coi suoi amici.
Salita su fino all'alto quarto piano ed entrata in quel quartiere che ben conosciamo, la Gattona ci trovò sola sora Rosina la moglie del pittore, la miglior donna del mondo, come sappiamo, ma non delle meno ciarliere. In breve la vecchia che cercava di Maurilio, ebbe appreso tutte le novità che lo riguardavano; e la venuta del vecchio prete di campagna, e l'intromettersi di quest'esso per trovare a Maurilio un impiego, e l'avergli trovato il posto di segretario presso il marchese di Baldissero, e l'essere già Maurilio fin da quella mattina allogato in tal qualità da quella famiglia.
All'udire siffatta novella, la Gattona parve cadesse dal quarto cielo, tanto rimase sbalordita dalla meraviglia. Maurilio in casa dei Baldissero! Se lo fece ripetere parecchie volte, come se la fosse cosa a cui non potesse prestar fede così di piano; ed alla fine, levando le scarne mani verso il cielo, esclamò con un'espressione che faceva pensare a chi sa qual mistero la volesse adombrare:
— Oh Provvidenza! oh Provvidenza!
Sora Rosina non mancò al suo dovere di curiosa stuzzicando con varie domande la vecchia popolana a parlare; ma la Gattona, cosa d'ogni altra più meravigliosa, si rinchiuse nella discrezione d'un assoluto silenzio, da cui fu impossibile farla uscire; anzi troncò senz'altro il colloquio e se ne andò frettolosa dicendo che avrebbe cercato del signor Nulla nel palazzo del marchese: ma non fu colà ch'ella diresse i suoi passi, bensì al convento dei Gesuiti presso la chiesa del Carmine, dove domandò di padre Bonaventura, e dove, non essendoci egli, si fermò fino a tanto che rientrasse, cosa che non avvenne fino al cader del giorno.
Fra il frate gesuita e la pitocca venditrice d'abitini ebbe luogo un altro segreto colloquio lungo ed animato, che si conchiuse colla risoluzione, il frate medesimo avrebbe parlato al marchese ed avrebbe da lui ottenuta udienza a Modestina Luponi chiamata la Gattona.
Ma di quel giorno fu impossibile a chicchessia vedere il marchese di Baldissero, perchè gli avvenimenti capitati presero al vecchio gentiluomo tutto il tempo, e quando, compito quello che credette il debito suo, si ridusse in casa, non volle che nessuno [9] più di estranei, qualunque si fosse, venisse introdotto presso di lui.
Ecco intanto quel che era capitato.
Verso le quattro Ettore di Baldissero rientrava nel palazzo paterno. Virginia, che stava ansiosamente attendendo ed a cui niuna nuova da nessuna parte era ancora pervenuta, appena udì rientrato il cugino, senza badare a verun'altra considerazione più, ma mossa soltanto dall'impulso della sua ansietà, fece pregare Ettore di passare tosto da lei. Il marchesino era troppo galante per tardare ad obbedire a un simil cenno della sua bella cugina.
La ragazza gli venne incontro fin verso la soglia, che Ettore aveva appena varcata; e guardandolo fiso in mezzo agli occhi come chi vuol leggere altrui nell'animo, gli disse con tono di asseveranza come se già sapesse tutto:
— Tu ti sei battuto quest'oggi coll'avvocato Benda.
Fra le tante cose meno degne d'un gentiluomo che Ettore di Baldissero aveva imparate pur troppo, non c'era almanco quella di saper mentire. Chinò il capo in segno affermativo.
Virginia continuava con aspetto pieno di coraggio, benchè fosse pallida ed avesse alquanto affannoso il rifiato:
— Un duello quale deve aver avuto luogo fra voi non si conchiude senza morte o ferita di alcuna delle parti. Tu sei compiutamente illeso.....
— Ti rincresce? interruppe con un sogghigno pieno di malignità il marchesino.
La giovane parve non badar neppure alla interruzione.
— È dunque l'avvocato Benda che rimase colpito.
— Tu la ragioni meravigliosamente giusto: rispose Ettore colla medesima ironia.
Virginia impallidì ancora di più e le sue palpebre tremarono un pochino; fu il solo segno di debolezza che apparisse in lei.
— Morto? domandò ella con voce più sommessa.
— No.
— Ah! — Ella fece una breve pausa e mandò più grosso il respiro. — La ferita è grave?
— Non è delle più leggiere: rispose con serietà il marchesino, che a questo punto non ebbe il coraggio più di essere ironico nè impertinente: ma la spero neppure delle più gravi.
Virginia tornò ad affondare i suoi occhi più brillanti che mai negli occhi del cugino, e domandò con una franchezza che svelava in una la forza e la nobiltà del suo amore:
— Vivrà?
— Spero di sì: rispose il marchesino.
Il colloquio fra i due cugini non aveva più ragione di continuare: stettero un istante l'uno in faccia dell'altra, senza saper più che cosa dirsi, finchè egli, tornando a far sentire nel suo accento quel tanto d'ironia, ruppe il silenzio:
— Mi pare che tu non abbia più nulla da dirmi, Virginia?
Ella scosse la segno negativo la testa. Ettore si inchinò leggermente ed uscì con aria disinvolta e quasi ilare, ma con un vivissimo dispetto in cuore. Non gli rimaneva più dubbio alcuno sull'amore di sua cugina per quel borghesuccio, ed egli, colla ferita che a quest'ultimo aveva procacciata, non aveva fatto altro che renderlo più interessante.
Appena sola, Virginia chiamò a sè la sua cameriera.
— Fa di sapere, dissele, se il segretario di mio zio è rientrato; e se sì, digli che venga a parlarmi.
La cameriera guardò stupita la padroncina.
— Va e fa come ti dico.
Aveva un aspetto di tal risoluzione e di comando, mai più visto in lei, che la fante si mosse ad obbedire senza fare pure una di quelle osservazioni che le erano venute in folla sulla punta della lingua.
Ettore, rientrato nelle sue stanze, trovò il domestico che gli trasmise l'ordine del marchese di presentarsi subito innanzi a lui.
— Andiamo da mio padre: disse il giovane fra i denti con un soffocato sospiro che manifestava la malavoglia e il disagio ispiratigli da questo abboccamento.
E ci fu sollecito. Alle interrogazioni del padre egli rispose con franchezza tutta la verità.
— Voi avete disobbedito in una al vostro genitore ed al vostro re; gli disse con severissimo accento il marchese. Nè l'uno nè l'altro non vi possono così agevolmente perdonare: mi recherò da S. M. ad intendere quale punizione voglia infliggere alla vostra pervicacia. Voi aspetterete in casa il mio ritorno.
Il figliuolo s'inchinò in atto di rassegnazione, e il marchese si recò senza indugio a Corte per riferirne al re. Mezz'ora dopo egli rientrava coll'ordine reale: Ettore di Baldissero si recasse incontanente agli arresti in cittadella.
Ma entrando nella vasta sala dell'anticamera, il marchese s'incontrava colla nipote che, apparecchiata per uscire, s'avviava in compagnia della cameriera verso lo scalone. Era già scuro per le strade della città.
— Dove vai, Virginia, a quest'ora? le domandò.
Ella si confuse, arrossì, balbettò, ed insistendo lo zio nella richiesta, rispose:
— Vado a consolare una mia amica e compagna di collegio a cui è capitata una grande sventura.
— Chi?
Virginia si confuse e arrossì vieppiù.
— Chi? ripetè il marchese osservando attentamente la ragazza.
— Maria Benda.
[10] — La sorella dell'avvocato?
— Sì.
— Ah! — Stette un istante guardando la nipote con fissità osservatrice, ma non ostile, nè severa; — questa grande amicizia è nata da ben poco tempo, che prima d'ora mai non vi fu fra voi attinenza di sorta.
Virginia chinò il capo e non disse parola. Lo zio la prese per mano con un'autorevolezza piena di affettuoso interessamento.
— Vieni, vieni meco, Virginia, soggiunse. Conviene che ci parliamo noi due. — Andate ai fatti vostri, voi: disse alla fante, e trasse con sè la nipote in quel suo studiolo in cui siamo già penetrati parecchie volte.
Maurilio, più veniva accostandosi alla casa di Francesco e più sentiva in cuor suo diminuire quel tristo sentimento d'odio che gli era sorto verso l'amico. Anzi la riazione che avveniva nella sua natura fondatamente buona, lo faceva a poco a poco ancora più sollecito, ansioso e dolente del pensiero che a Benda avesse potuto accadere disgrazia. Ciò lo mosse ad affrettare il passo così che giunse al portone della casa, quasi correndo. Entrò egli nel casotto del portinaio e interrogò Bastiano che stava seduto con un gran braciere in mezzo alle gambe, fumando la sua pipa.
Apprese che Francesco non era ancora rientrato, e che in famiglia non si aveva sospetto nessuno del pericolo del giovane. Si fermò alquanto nel camerino del portinaio ad aspettare, poi non potendo più stare alle mosse, uscì ed andò a scalpitare con impazienza la neve dei viali. Avrebbe voluto camminare incontro alla novella per apprenderla più presto, ma non sapeva da qual parte Francesco e i suoi compagni fossero per giungere; pensava all'ansietà che, maggiore certo della sua, provava a quel medesimo tempo Virginia, e in parte se ne arrabbiava con invida gelosia, in parte se ne accorava come quegli che a lei avrebbe voluto risparmiare ogni affanno.
E intanto il giorno se ne andava e in quell'annuvolato aere scendeva assai presto il primo scuriccio della sera. Maurilio, intirizzito ornai dalla brezza invernale che spirava gagliarda, vide finalmente una carrozza che veniva a quella volta al trotto serrato d'un cavallo di prezzo. Questa carrozza si fermò innanzi al portone, un giovane signore ne discese frettoloso con aria visibilmente preoccupata ed entrò nella casa. Maurilio indovinò che con quel signore era giunta la novella, e dal volto del messaggiero capì che la non era lieta. Era diffatti il conte San-Luca che veniva a preparare la famiglia alla luttuosa vista del figliuolo ferito. Il sangue diede un rimescolo al nostro giovane; avrebbe voluto entrare colà e domandarne, e non osò; vide il conte venir fuori della casa, la faccia ancora più conturbata di prima, salir nel legnetto e questo ripartire, senza ch'egli avesse la risoluzione di spiccarsi dal luogo, di fare checchessiasi.
E di qual misura era la disgrazia che ormai non dubitava più fosse capitata a Francesco? Stette lì ad aspettare ancora senza sapere al giusto che cosa. Mezz'ora dopo giungeva a lento passo la carrozza che portava il ferito. Nelle tenebre della sera, Maurilio si cacciò innanzi di guisa da scorgere il meglio possibile, s'appiattò dietro il tronco di un albero là dove la carrozza doveva voltare per entrar nel portone, e mentre questa gli passava a un metro appena di distanza, gettò in essa avidamente lo sguardo. Travide la faccia pallida di Francesco appoggiata alla spalla di Giovanni Selva; negli occhi sbarrati del ferito che fissavano la casa paterna, scorse l'ansia ed il dolore fisico e morale. Maurilio non fu visto da nessuno; e' si ritrasse indietro quasi con ispavento e con orrore di sè medesimo. L'empio desiderio che nell'accesso del suo geloso furore aveva poco prima formolato, gli tornò in memoria come un rimorso, e gli parve poco meno che d'esser egli eziandio colpevole di quel sangue.
Dal suo nascondiglio vide sotto il portone, di cui Bastiano aveva spalancato le imposte, le dolorose accoglienze cui padre, madre e sorella facevano al povero ferito, che con riguardosa cura fu tratto fuor di carrozza e condotto al piano superiore; vide traverso i vetri delle finestre dell'abitazione il correre di qua e di là di lumi per l'affaccendarsi a provvedere le cose occorrenti al misero giovane; voleva entrare e domandarne e non osò: sperava che uno di quelli che accompagnavano Francesco uscisse ed egli potesse da lui informarsi e nessuno veniva. Finalmente il pensiero di Virginia, la quale stava sempre attendendo, che in lui s'era affidata, ed alla cui fiducia non voleva fallire, lo decise; entrò, chiese di Selva, lo ebbe a sè, apprese come stessero le cose, e addoloratissimo prese correndo la via del ritorno al palazzo Baldissero.
Virginia aveva giustamente mandato in cerca di lui. Maurilio le comparve innanzi ancora tutto affannato della sua corsa.
— So che il suo amico è stato ferito, le diss'ella con una specie di brusca vivacità che era irrequietezza dell'animo commosso e sgomento; ma se e quanto sia pericoloso il suo stato, lo ignoro. Può Ella apprendermi il vero?
Maurilio mestamente le ripetè quanto a lui medesimo aveva detto poc'anzi Giovanni.
La ragazza lo ascoltò fredda, immota, si sarebbe detto quasi indifferente. Quand'egli ebbe finito, essa fece un moto della testa che significava insieme ringraziamento e congedo, e disse semplicemente, ma la sua voce tremava un pochino:
— La ringrazio.
Il giovane uscì, e Virginia abbigliatasi e comandato alla fante si abbigliasse per accompagnarla, voleva accorrere presso di Francesco a vederlo, [11] confortarlo, apprendere co' suoi occhi medesimi la fatal verità.
— S'egli morisse, pensava, ed io non potessi manco più dargli un addio!
Era per uscire, come vedemmo, quando s'incontrò collo zio che ne la impedì, conducendola seco nello studiolo.
— Aspettami qui un istante, le disse: devo dare pochi ordini e poi sono da te.
Ebbe a sè il figliuolo, e comunicatogli la sovrana decisione, comandò che immediatamente si recasse nella cittadella, dove già erano trasmessi gli ordini opportuni per riceverlo. Ettore non rispose una parola: s'inchinò e fu sollecito a recarsi in fortezza. Eravi diffatti già aspettato, ed a lui — vedete gioco del caso! — toccò appunto quella camera nella quale due giorni prima era stato rinchiuso come prigioniero politico il suo rivale ed avversario Francesco Benda.
— Virginia: cominciò così a parlare alla nipote il marchese di Baldissero, poichè fu rientrato nello studiolo, dove la ragazza stava attendendolo. Hai tu confidenza in me? Ti pare che io la meriti intiera e compiuta la tua fiducia?
La giovane stava dritta presso il camino e guardava fisamente la fiamma che volteggiava sulle legna nel focolare. Anche sulle sue guancie, precisamente come una fiamma, andava e veniva a volta a volta una vampa di rossore, un'onda di sangue che coloriva la sua pallidezza un istante, e spariva. Ella era levatasi dalle spalle il mantello e gettatolo comecchessiasi sopra una seggiola, s'era tolto del paro il cappellino e lanciatolo a quel modo. Le sue chiome abbondanti color d'oro, coi ricci cascanti sul niveo collo chinato, splendevano alla luce della lampada che era stata accesa sulla caminiera. Al di sopra della lampada pareva chinarsi sopra di lei il grande crocifisso d'avorio dalle braccia tese, e il riflesso rosato del lume dava a quel volto mite e sofferente scolpito dall'artista un'espressione che sembrava pietà.
Alle parole dello zio, Virginia alzò il capo reclinato, e guardando con franchezza e intenerimento insieme la bella figura del vecchio gentiluomo, rispose con voce vibrante d'emozione:
— Oh zio! Ella è l'unica persona al mondo in cui io possa aver fiducia e debba. E non vi ha alcuno che più la meriti di Lei.
Il marchese le pigliò una mano.
— Io ho fatto sinora tutto il mio possibile, perchè meno aspra e funesta ti fosse la tremenda sciagura a cui ti volle condannare il Signore: quella di non aver più nè padre, nè madre.
Virginia alzò gli occhi al soffitto, come se volesse lanciare uno sguardo fino al cielo a cercarvi cari perduti.
— Mia madre! esclamò essa coll'affetto di chi invoca in supremo bisogno un aiuto. Baldissero lasciò andare la mano della nipote, si passò la propria destra sulla fronte, e continuò con accento più sordo:
— Tua madre io l'ho amata cotanto!.... Eppure!....
S'interruppe come chi ha pronunziata parola che non doveva, e s'affrettò a riprendere:
— Ella aveva ogni fiducia in me... fin ch'io rimasi al suo fianco.... Ah! s'io non mi fossi allontanato, i miei consigli, il mio amore le avrebbero risparmiato indicibili affanni. Or bene, Virginia, in nome di tua madre medesima io ti prego a non voler mai tener celato a me quello di cui ti sentiresti obbligo di rendere istrutta tua madre.
Virginia tornò a chinare la testa in aria più perplessa che confusa.
— Ed ora, continuava lo zio, mettendo nelle sue parole maggiore caldezza d'affetto: ora se tua madre fosse qui, non avresti tu nulla da confidarle?
La ragazza parve il sul punto di parlare; poi si rattenne; mandò un'esclamazione e volse in là il viso arrossito.
— Tu hai dunque un segreto? seguitava il marchese coll'accento il più paterno: e questo segreto la tua determinazione di poc'anzi abbastanza lo rivela. Che cosa c'è di comune fra te e quel signore?
Virginia sollevò di nuovo la faccia con un'espressione piena di coraggio: guardò fermamente lo zio e disse colla franchezza d'una purissima coscienza e d'un nobile sentimento:
— Ci amiamo! Egli me lo svelò, io non glie lo nascosi.
— Sventurata! esclamò il marchese con accento in cui non c'era collera ma piuttosto dolore. E che speri tu?
— Nulla.... Glie lo dissi.... Egli, forse appunto per disperazione di ciò, volle morire.... Non debbo io prima che scenda nella tomba consolarlo d'un addio?
Negli occhi le spuntarono due lagrime, ma la voce e l'aspetto non manifestarono la menoma debolezza.
— Sventurata! Sventurata! ripetè lo zio. È dunque destino che anche tu?...
S'interruppe di nuovo; parve recarsi sopra sè, e per un istante regnò in quel salotto il più assoluto silenzio. Virginia guardava lo zio con una specie di curiosa ansietà che le parole e i contegni di lui le suscitavano. Dopo un poco egli soggiunse:
— Tu sai che nella vita di tua madre fu un gran dolore, ma quale esso sia stato ignori tuttavia. Fu desiderio di quella povera donna che tu l'apprendessi un giorno, e me lasciò giudice del momento opportuno. Oh forse ho avuto torto a indugiare cotanto: e il racconto delle sciagure di lei avrebbe potuto servirti d'ammaestramento! Ma così mal volentieri, e ne intenderai il perchè, accosto quel discorso!... Ora però non debbo più nulla tacerti. Siedi costì, Virginia, ed ascoltami. Udrai finalmente la storia di tua madre.
[12] Virginia mandò un gridolino di desiderio, di soddisfazione insieme e di preghiera e di ringraziamento.
— Ah sì! esclamò giungendo le mani: ch'io l'oda finalmente!
Il marchese si raccolse, e cominciò poscia a narrare coll'accento di chi esponendo le più dolorose vicende della sua vita, sente riaprirsi le mal rimarginate piaghe del cuore.
Ma poichè non tutte le circostanze di quel funesto avvenimento poteva egli e doveva raccontare alla nipote, noi esporremo da parte nostra in termini più compiuti quel dramma, come già può essere narrato, senza pregiudicar l'interesse dei fatti avvenire, al punto in cui si trova lo svolgimento del nostro racconto.
Si era verso la fine dell'anno 1820. Che si avesse a vedere qualche novità in Piemonte molti dicevano, parecchi speravano, pochi affatto credevano. Carlo Alberto principe di Carignano continuava ad essere il centro di quel movimento liberale che aveva preso proporzioni abbastanza considerevoli nell'aristocrazia piemontese, la quale aveva sognato un momento poter giungere a sostenere presso la monarchia sabauda e presso il popolo subalpino quella parte moderativa e di dominatrice influenza che da secoli è tenuta dalla nobiltà del sangue, del merito e del denaro nell'isola inglese. S'era visto i medesimi Borboni di Francia accettare una costituzione; perchè non l'avrebbero accettata anco i Savoia? Alcuni spiriti aristocratici, mossi senza saperlo dalla forza impellente del progresso, vagheggiavano la distinzione e l'autorità di una parìa ereditaria nella loro famiglia colla guarentigia d'una libera tribuna. Credevano con questo modo risuscitare sotto forme novelle contro il trono, il feudalismo schiacciato dalla monarchia assoluta, e non s'accorgevano che aprivano la strada ad un più forte, nuovo, invasore potere, quello della libertà che non poteva a meno di far capo alla sovranità popolare. Ma ciò scorgevano bensì alcuni dei più generosi e dei più ardenti patrioti; i quali, oltre alle libertà interne miravano ancora ad un altro sacrosanto scopo; quello dell'indipendenza della comune patria dallo straniero.
La costituzione in Piemonte, speravano, sapevano, volevano che fosse la guerra all'Austria; guerra che non si aveva da conchiudere se non colla cacciata degl'imperiali al di là delle Alpi, ed ardenti giovani ufficiali, anche di aristocratico sangue, affrettavano coi voti e volevano affrettare coll'opera questo grandissimo fatto. Santorre Santarosa, nobile recente, ingegno non comune, degno d'andare fra i primi in qualunque tempo e presso qualunque popolo per cuore e per forza di volontà; Santorre Santarosa sapeva e voleva precisamente lo scopo necessario, legittimo, ultimo di quell'agitazione liberalesca, e spingeva verso di esso con ogni suo potere.
Ma i più dei nobili ritornati, colla ristaurazione dei Principi, a riprendere i loro privilegi, le loro cariche, le loro ricchezze, l'autorità, non capivano come fra i proprii compagni di casta ci fossero dei matti che, per una, secondo essi, poco illuminata ambizione, cercassero di cambiare ciò che era il meglio nella migliore delle monarchie assolute aristocratico-militari, e volessero porre a repentaglio i vantaggi attualmente posseduti per diritti e politiche guarentigie, di cui si poteva benissimo fare senza. Codestoro avversavano accanitamente cotali novatori; e tra essi era de' più accesi il vecchio marchese di Baldissero, padre di quello che abbiam conosciuto per capo della famiglia al tempo del nostro racconto. Egli era stato uno dei più fieri odiatori della rivoluzione di Francia, dell'impero e di Napoleone; ed odiava ogni novità, come un fanatico inquisitore sapeva odiare le eresie; aveva seguito il suo re in Sardegna, aveva trovato crudelissimo quell'esilio e ne aveva accresciuto il rancore ai giacobini (sotto il qual nome egli comprendeva tutti quanti non la pensassero esattamente come lui nella strettezza delle sue idee cattoliche, monarchiche, assolutiste); tornato nel continente con Vittorio Emanuele, era stato uno dei più caldi ed insistenti a dare quello sciocco, funestissimo consiglio che fu pur troppo messo in pratica, di ritenere come non avvenuti gli anni d'interruzione nel regno di Casa Savoia, di cancellare con un frego tutta la storia della dominazione repubblicana ed imperiale, e distrutta ogni innovazione, riprendere e rifare le cose come si trovavano a quel medesimo punto in cui il Re dovette fuggire innanzi allo spirito rivoluzionario rappresentato dalle baionette francesi. Ogni progresso legislativo, politico, sociale, civile fu tolto di mezzo: si volle rievocare la società del secolo scorso morta e sotterrata: e l'ultimo Palmaverde (annuario di Corte e degl'impieghi) fu preso per norma di distribuzione delle cariche di cui si spogliarono i titolari per rivestirne gli antichi, e se morti, i figli loro.
Codesto intrattabile ed accanitissimo nemico di ogni liberalismo odiava più ancora degli altri quei nobili che accennavano piegare alle idee moderne. A lui parevano codestoro come apostati e traditori; onde immaginatevi voi quali non dovessero essere il suo dispiacere e la sua collera, quando gli parve scorgere che suo figlio, il suo unico figlio medesimo si intingesse di questa pece.
Era da parecchi mesi a Torino un giovane signor milanese: Maurilio Valpetrosa. Era bello, geniale, elegante, pieno di brio e di piacevolezza nella parola, [13] di grazia e di avvenenza nei modi, di buon gusto nel vestire e in ogni diportamento; ardito e destro ad ogni esercizio corporeo, cavalcare, schermeggiare, al nuoto, alla danza, al pallamaglio, allora di moda; generosissimo nello spendere; non inferiore a nessuno, facilmente superiore ai più in ogni cosa onde possa comporsi eletta educazione signorile, Venuto nella capitale del Piemonte con autorevoli ed efficaci commendatizie era stato fin dalle prime intromesso nella più scelta e titolata società e non aveva tardato a diventare assiduo frequentatore di quel gruppo di giovani ufficiali, letterati ed artisti che si raccoglievano nel palazzo Carignano intorno al giovane principe che doveva fare ammenda del fallo al Trocadero.
L'aristocrazia torinese, difficilissima e assai cauta in quel tempo ad ammetter ne' suoi salotti in condizioni di famigliarità e d'uguaglianza chi fra i suoi concittadini non contasse il numero voluto dei quarti, era assai più larga e benigna verso i forestieri; e quando uno venuto di fuori avesse maniere acconcie, ricchezze all'avvenante, lo accettava come invitato alle sue feste, e visitatore nelle sue conversazioni, senza domandargli di più. Codesto non poteva aver tratto di conseguenza; il forestiero sarebbe partito, recando seco la memoria della forbitezza di quella società, che quando voleva, sapeva essere veramente squisita, ed ecco tutto.
Maurilio Valpetrosa venne accolto di questo modo e per queste ragioni. I denari gli colavano di mano come ad un milionario, aveva una figura da principe di conte de fées, nel suo nome c'era anche un certo profumo, direi quasi, d'aristocrazia, un titolo non disdiceva nè stonava con quella sonora riunione di lettere d'alfabeto; s'avvezzarono a chiamarlo di Valpetrosa, e gli uomini per mangiare le sue cene, fumare i suoi sigari, averlo allegro compagno nelle loro pazzie, le donne per sorridere alla maschia di lui bellezza, per lasciarsi incantare dalle seduttrici parole dette con ispirito dalla sua voce insinuante, non gli domandarono se potesse provare che i suoi maggiori erano stati alle crociate.
Con costui il padre di Ettore Baldissero aveva stretto una più intima attinenza, che quasi poteva dirsi amicizia. Si erano conosciuti precisamente nelle sale del Palazzo Carignano, e dapprincipio e per alcuni mesi fra di loro non fu altra attinenza che quella di persone ammodo fra cui non v'è ragione alcuna di intrinsichezza. Ma ad un tratto il giovane milanese si pose con tanta insistenza e con tanta gentilezza a voler acquistare l'affetto e la confidenza del marchese di Baldissero che impossibile resistergli. E' diventarono gli Oreste e Pilade di quella nobile società torinese, e i maligni non tardarono a scoprire e susurrare la causa di questo premuroso zelo d'amicizia nell'elegante e leggiadro forestiero, quella cioè di accostarsi così vieppiù alla signorina Aurora di Baldissero, della quale cupidamente bramasse la beltà eccezionale e la dote vistosamente ricca.
Per quest'ultima parte si calunniava quel giovane, il quale in realtà era una delle più generose e valenti anime d'uomo che esser possano; ma quanto all'affetto che in lui avevano acceso la beltà, le grazie, l'ingegno della nobile fanciulla ch'egli aveva avuto campo di conoscere e di apprezzare in molti di quei salotti a cui era ammesso; quanto all'amore che egli ad Aurora aveva consecrato, caldo, insuperabile, eterno, tutto quello che diceva la gente, e parevano già cose esagerate, era un nulla appetto al vero.
Valpetrosa amò Aurora con tutto l'impeto di quella sua natura vivace ed ardentissima; l'amò di quell'amore che, come si esprime Dante: «a nullo amato amar perdona,» di quell'amore così assoluto, così vasto, così dominante che di esso non può a meno qualunque donna che assuperbirsi; e la natura gli aveva concesso, oltre il valore dell'interno, anche quei fisici pregi esteriori per cui cotale affetto si può a meraviglia esprimere, eloquentemente significare e con efficacia comunicare. Egli non aveva ancora parlato alla fanciulla che delle più indifferenti cose onde si possa occupare il discorso di due che conversino colle stampite delle cerimonie, e già la giovane sapeva d'essere amata con infinito ardore, e già quel leggiadro garzone amava ancor essa, senza averlo voluto, come spintavi da una forza superiore.
Il male si fu che di codesto ebbero ben presto ad accorgersene, come dissi, anche gli altri. Gli uomini non erano disposti a perdonare che questo intruso venisse loro a portar via il cuore della più bella fanciulla del loro ceto e della città; le donne perdonavano anche meno, che l'adorato loro vincitore abbandonasse il campo della galanteria, dove si piacevano assai affrontare le audaci di lui aggressioni e rimanerne vittime. Prima d'allora, passando egli da avventura in avventura, da questo a quell'intrighetto, messa in giuoco la vanità, non occupato il cuore, aveva saputo così bene governarsi con quei capricciosi esseri che sono le donne civette, da sciogliere ed annodare intime relazioni coll'una e coll'altra, senza offenderne veruna mai, senza farsi una nemica dell'oggi dell'amante di ieri; ma ora la passione vera e soverchia non gli lasciava più agio e prudenza da ciò. Abbandonò i sentieri fioriti della galanteria, dove prodigava madrigali e dichiarazioni piene di brio ad ogni incontro, lasciò vedere che tutto il resto gli era diventato indifferente e che chi non voleva accomodarsi a questa poco lusinghiera condizione a riguardo di lui, gli diventava uggioso.
Ora le donne di quello stampo perdonano assai poco altrui che le abbiano per indifferenti, meno ancora che le si trovino uggiose. Gli amori di Valpetrosa e di Aurora ebbero quindi intorno una schiera di nemici congiurati a loro danno.
[14] Un bel giorno il vecchio marchese ricevette in mezzo agli scherzi agrodolci d'una leggiadra signora la rivelazione delle pretese sopra la figliuola dei Baldissero di quel forestiere che non si sapeva come fosse nato e che sentiva orribilmente di liberale le mille miglia lontano. Il marchese era amico dei mezzi spicci ed assolutisti, ordinò che Aurora non sarebbe uscita più in quelle occasioni nè andata in quei luoghi, dove e quando ci era probabilità potesse incontrare quel cotale: ebbe a sè suo figlio e senza scendere a spiegargliene il motivo, gli comandò rompesse ogni attinenza con quel Valpetrosa e sopratutto si guardasse bene dall'accoglierlo ancora una volta in casa. Il figliuolo rispettosamente volle opporre a questo comando, non resistenza, sibbene qualche considerazione soltanto; ma a' suoi cenni il vecchio marchese non ammetteva pure un indugio nell'ubbidienza: e siccome gli parve che il figliuolo non avesse troncato secondo suo ordine ogni relazione con colui e continuasse eziandio a frequentare quel circolo di liberali che a lui erano cari come il fumo negli occhi, domandò al re ed ottenne che l'erede del suo nome e del suo titolo fosse mandato sollecitamente a Madrid, come addetto a quell'ambascieria.
Il fratello d'Aurora partì e sventuratamente, senza aver nulla appreso nè nulla scoperto del reciproco amore di Valpetrosa e di sua sorella; e intanto fra questi, come sempre avviene, gli ostacoli frapposti ne accrescevano l'impeto e la fiamma della passione. Col denaro che il giovane milanese spendeva così liberalmente, gli fu facile acquistare degli alleati, dei complici nella casa stessa del marchese di Baldissero, intorno alla fanciulla da lui amata, e questi furono una cameriera specialmente addetta al servizio della marchesina Aurora e lo stesso intendente che aveva tutta la fiducia del marchese, il signor Nariccia. Questi non aveva tanto preso il suo tempo dagli affari della nobil casa che lo pagava, da non poter pensare tuttavia a mandare innanzi per suo conto certi traffichi con cui preludiava a quella sua condotta d'usuraio ch'egli impudentemente chiamava professione di banchiere. Valpetrosa che era venuto a Torino con molte lettere di credito per somme assai vistose, aveva pensato accorto partito il rivolgersi a questo cotale per lo sconto e la conversione in denari di quegli effetti, e Nariccia il quale aveva visto in ciò un buon guadagno, vi si era prestato con una certa premura, con una facilità, con uno zelo, che pel forestiero riescirono come una fiorita gentilezza ed avviarono fra di loro una certa fiduciosa attinenza che ben poteva dirsi amichevole.
Nariccia era diventato proprio il banchiere di Valpetrosa; egli teneva di costui in deposito le somme tutte in conto corrente, e veniva rifornendolo tratto tratto di denaro, mentr'egli per le tratte stategli rimesse era al di là di guarentito lucrandovi ancora interessi e sconto e diritto di commissione, e va dicendo.
Di questa guisa era capitato che al giovane venisse un giorno la infelice idea di confidare il suo amore a quest'uomo e cercare da lui consiglio ed aiuto. Nariccia per sapere il segreto di Valpetrosa, non aveva bisogno di questa confidenza, perchè era troppo accorto osservatore egli stesso e la cosa erasi fatta troppo oramai palese a troppi perchè la ignorasse, ma fece tuttavia come se la gli giungesse la più nuova del mondo. Al giovane, il quale, credendolo molto addentro nelle grazie e nei segreti del marchese, lo interrogava se dovesse mai avventurarsi a fare al marchese la domanda della mano di Aurora, egli rispose, ciò che era pure la giustissima verità, come il vecchio, superbissimo nobile, non avrebbe altrimenti accolto che quale un oltraggio siffatta richiesta da chi non potesse vantare tutti i voluti quarti di nobiltà, pensasse che direbbe a Valpetrosa quando questi avesse dovuto confessare di essere figliuolo d'un fabbricante di pannilana! Il giovane amante d'Aurora che era di umore vivacissimo e di spiriti più che audaci, decise in conseguenza non esporsi alla superba ripulsa, a cui non egli sarebbe stato capace di rispondere con calma, e giurò pur tuttavia che la fanciulla, a dispetto di tutto e di tutti, gli avrebbe appartenuto.
Nariccia medesimo, divenuto suo confidente e consigliere, fu quello che lo aiutò ad entrare in intimi rapporti con Modestina Luponi, la cameriera di Aurora, e seppe in questo modo tutto quello che avvenne fra i due giovani amanti. Tre mesi dopo la partenza del fratello di Aurora per la Spagna, la nobile figliuola dei Baldissero, posseduta da una irrifrenabile passione, aveva fatto padrone di sè, del suo avvenire, dell'onor suo il seducente giovane, il quale coll'intensità e la sincerità dell'amor suo meritava pure un tanto di lei sacrifizio.
La rivoluzione intanto era prossima a scoppiare. Valpetrosa doveva, secondo gli accordi presi coi congiurati, recarsi alla sua città natale e spingerla ad insorgere contro lo straniero per concorrere alla gran causa della libertà e dell'indipendenza della patria. Per lui separarsi da Aurora, e per quest'essa l'essere lontana dal suo amante era insopportabile pure al solo pensiero: egli parlò di fuga; la fanciulla resistette alcun tempo, esitò di molto, ma cedè finalmente. Stava per diventar madre, e questa sua condizione non poteva più celarsi a lungo oramai. La vergogna, il timore della tremenda collera paterna, la mancanza assoluta di persone affezionate in cui confidare e da cui prendere consiglio non le lasciarono campo a pure veder possibili altri partiti, acconsentì, ed una notte usciva ella furtivamente dal palazzo di Baldissero colla Modestina sua cameriera, complice e mezzana, e salita in una carrozza ferma ad una cantonata vicina, nella quale Valpetrosa stava aspettandola, partivasi con lui alla volta di Milano.
[15] Ella dalla casa paterna non recava con sè nulla, nè gioielli, nè denari (ed era stato il suo amante eziandio a voler così), fuor quelle poche robe che vestiva ed alcuni oggetti suoi particolari che le erano preziosi, fra cui un rosario d'agata, memoria di sua madre morta.
Prima cura di Valpetrosa, appena furono i fuggitivi fuori di ogni pericolo di venir raggiunti, innanzi di condurre Aurora in presenza di sua madre, fu quella di sposar la sua amante, di far consecrare dalla benedizione del sacerdote, ai piedi dell'altare di Dio, quell'unione che tra di loro già avevano giurato eterna; così che entrando nella casa della genitrice potesse dire a quest'essa senza punto menzogna:
— Ecco mia moglie. Abbila qual figliuola.
La madre di Valpetrosa era donna di senno, di prudente carattere, d'indole un po' asciutta, cui le molte traversie della vita che aveva dovuto sopportare avevano resa taciturna, cupa anzi che no, aspra talvolta eziandio. Amava ella immensamente suo figlio senza fallo; e inoltre in lui riconosceva il capo della famiglia, il proprietario delle domestiche sostanze, e il padrone di soddisfare come gli piacesse i suoi onesti desiderii; ma quest'autorità del suo Maurilio ella per prudenza e per affetto voleva temperata da' suoi richiami, dalle sue obbiezioni; e siccome il giovane, di carattere alquanto svagato e leggero, non soleva dare alle parole di lei tutto il rilievo che ella avrebbe voluto e che si meritavano, soleva la madre punirnelo con un broncio che si dileguava poi, ad ogni momento che il figliuolo volesse, sotto le carezze e le dolci parole di lui.
E sarebbe stato invero un gran bene per tutti che sul giovane la madre avesse avuto più impero ed autorevolezza da impedirgli col positivo cenno e non soltanto coi consigli, ascoltati scherzando il più sovente e dimenticati poi tosto, lo sciupio delle famigliari fortune. Ma questa autorità la buona madre non credeva d'averla, non seppe e non pensava neppure poterla acquistare. Le condizioni in cui era quando il matrimonio col padre di Maurilio la fece entrare in quella casa; le condizioni cioè d'una povera operaia che non aveva di ricchezze che la sua avvenenza e la sua virtù, congiunte alla sua indole un po' timida, un po' permalosa, l'avevano fin da principio messa in un certo stato di sommessione e di dipendenza riguardo al marito, uomo operoso e procacciante, volontà ferma ed imperiosa, natura audace e piuttosto inchinevole a piegare e guidare e dirigere a suo senno le individualità altrui, che più deboli lo avvicinassero. La moglie di fatti, di lui, delle cose e degli interessi domestici seppe quello soltanto che a lui piaceva comunicarle, ed egli aveva sempre trovato superfluo il comunicarle gran che. La fabbricazione e il commercio dei pannilana da lui esercitati parevano prosperare il meglio possibile e mercè i grossi guadagni venir formando alla famiglia un enorme patrimonio. Era credenza comune in tutta Milano; ed era anco quella della madre di Maurilio che non vedeva, non pensava, non prendeva manco la fatica di immaginare diverso e più in là.
Si viveva da milionarii; non già essa, la moglie del fabbricante, la quale allevata fra le privazioni in una povera famiglia, non aveva disposizioni nessune, nè gusto nemmanco a comparire e scialarla da gran signora; viveva essa modestissima, rinchiusa fra le eleganti pareti del suo suntuosissimo quartiere, non vedendo alcuno mai; ma il marito non si rifiutava nulla di quanto potesse la ricchezza procacciare di sfarzo e di spassi, e l'unico loro figliuolo adoratissimo era tenuto ed allevato come l'erede di principesche fortune.
Ma, sventuratamente, ad un tratto il padre mancò. Dovendo venir appurata l'eredità del figliuolo, ancora in età minore, ne venne a risultare che cospicuo era bensì l'attivo della medesima, molti però eziandio i carichi e le passività in tal grado da ridurre di più che metà le rendite patrimoniali, quando mancassero quell'operoso spirito industriale, quell'intelligente intraprendenza che valevano al defunto fabbricante sì vistosi guadagni de' suoi capitali. Un'accorta amministrazione di quel patrimonio in mezzo a tutti quei viluppi ed imbrogli avrebbe saputo salvare all'erede una ricchezza più che considerevole; ma la vedova di Valpetrosa, donna di timidi spiriti, vissuta sempre ritratta, senza la menoma idea, senza la menoma disposizione per nessuna sorta di affari, non ne capiva nulla, non n'ebbe altra impressione che d'una gran confusione nella testa e d'un grande sgomento nell'animo. Di una cosa sola ella scongiurò gli onesti uomini che presero cura degl'interessi di lei e del pupillo, che cioè si sceverasse da ogni debito, da ogni traffico, da ogni complicazione quel tanto di più che si potesse delle fortune del marito, lo s'investisse in sicuri impieghi di capitale, da averne un reddito certo, fisso, immanchevole, in cui misurare le sue spese e la condotta e l'educazione del figliuolo.
La fabbrica fu venduta, fu ceduta ogni ragione che il defunto aveva sul principalissimo fondaco di panni che allora esistesse in Milano, e pagato ogni creditore, si ebbe tuttavia il risultamento d'un patrimonio di duecento e più mila lire austriache, cui la madre (suo marito essendo morto senza testamento) volle investire nel nome del figliuolo, come unico ed assoluto proprietario.
Questa buona e savia donna, cresciuta in mezzo agli stenti, anco fra le grandigie nel tempo della prosperità del marito, alle quali ella così poco aveva voluto partecipare, aveva sempre conservato spirito ed abitudini parsimoniose. Ora, spaventata da quel crollo che avevano subitamente sofferto le fortune dei Valpetrosa; crollo che da principio sembrava anche maggiore, e le aveva fatto temere [16] poco meno che d'essere ridotti alla miseria, quelle sue tendenze a scemare le spese, a restringerle nel necessario, si aumentarono grandemente, ed esagerandosi benanco andarono fino alla grettezza ed all'avarizia.
Maurilio, per disgrazia, era perfettamente d'umore e di tendenze opposti. Il gusto dello scialo, l'amor dello spendere, l'ambizione dello sfarzo, e' doveva averlo recato seco fin dalla nascita; glie l'avevano radicato ed accresciuto i modi ed abitudini di vita della sua famiglia, vivente il padre; così bene che i diportamenti e le delicature dell'esistenza signorile eransi fatti per esso quasi una necessità. Un ridurlo a più modesti costumi, accompagnato da validi ragionamenti che gli ponessero in chiaro le sue condizioni, avrebbegli certo giovato e sarebbe riuscito a modificarne le propensioni; ma la madre esagerando e privandolo del tutto d'ogni suo precedente diletto, recando in tutto ciò che a lei sembrava superfluo una falce così spietata che a pochissimo invero trovavasi ridotto quel necessario che gli era concesso, ottenne anzi l'effetto contrario, suscitò quel sentimento di riazione che sta in ogni spirito umano contro ciò che gli si vuole imporre, destò più vivi ed irritò quei desiderii di godimento che acquistavano ancora, oltre tutte le altre, la seduzione del frutto proibito. La madre gli aveva pariate di povertà, ed egli era pure stato in caso di apprendere che una certa parte delle fortune paterne era salva: ignaro del vero valore del denaro, parevagli che duecento mila lire austriache fossero un gran che; si persuase quindi agevolmente che le continue ammonizioni di non ispendere, i continui lamenti sull'eccessività dei costi della roba, i continui consigli di risparmiare fossero esagerazioni cagionate da una specie di mania di sua madre, cui non bisognava contraddire, ma a cui si poteva e si doveva non dar retta. La gente in mezzo a cui soleva passare il suo tempo, non era acconcia a fargli nascere altra persuasione, nè ad inculcargli la virtù del risparmio. Mentre sua madre con infiniti risparmi riusciva in capo d'ogni anno ad aumentare d'una piccola somma il capitale, Maurilio coi debiti, che di soppiatto veniva facendo, lo intaccava senza misericordia, così che ne avrebbe dovuto fondere una gran parte quel dì che, arrivando alla maggior età, egli sarebbe stato costretto a pagare.
Quando quest'epoca dell'età maggiore del figlio fu arrivata, la madre si spogliò senza indugio dell'amministrazione del patrimonio che era proprietà assoluta di Maurilio, e cui pure ella mercè l'economia ed i risparmi aveva di qualche poco accresciuto; e il giovane trovatosi di poter disporre di una somma che a lui in quei primi momenti pareva inesauribile, la diede per mezzo ai dispendi, senza che servissero di valevol freno gli ammonimenti prima, e poi, visto inutile ogni parola, i bronci della madre. Di siffatta guisa non andò gran tempo che Valpetrosa ebbe consumata una gran parte di quelle sostanze salvate alla liquidazione dell'avere paterno. Ardente di carattere, generoso dell'animo, aperto e inchinevole ad ogni nobile impulso, Maurilio era entrato nella congiura dei patrioti che volevano francare dallo straniero l'Italia e sognavano nella monarchia, nell'esercito e nel popolo piemontesi un aiuto alla santa difficilissima impresa.
Trattandosi di fermare più stretti gli accordi fra i congiurati dell'una e dell'altra parie del Ticino, si pensò mandare in Piemonte uno dei lombardi che seguisse attentamente lo svolgersi dei fatti, si mettesse in giorno d'ogni processo della congiura, e di là comunicasse notizie, cenni, istruzioni; e niuno fu pensato poter meglio adempire questo ufficio di Maurilio Valpetrosa di scelte maniere, di vivacissimo ingegno, di simpatiche sembianze e di animo sicurissimamente incrollabile. Da ciò quelle tante ed efficaci lettere di favore dell'aristocrazia milanese che l'avevano introdotto nell'intimità della superba aristocrazia di Torino; per ciò quelle sue lettere di credito per somme vistose, di cui egli usava così largamente, cui egli aveva ritenute assolutamente indispensabili alla riuscita del suo compito e per ottenere le quali egli aveva impegnato tutto o quasi tutto il restante suo patrimonio.
Le cose gli erano andate perfettamente a seconda. Aveva egli mandato innanzi con uguale buon esito e di pari passo gl'interessi della patria causa e quelli del suo amore; aveva udito dalla bocca di Carlo Alberto parole che erano più d'una speranza, che potevano dirsi promesse; coi capi della cospirazione mezzo civile, mezzo militare, che si rannodava intorno al palazzo Carignano, aveva inteso i modi d'esecuzione del vasto disegno; aveva ottenuto da Aurora le massime prove d'amore. Ogni causa di suo soggiorno a Torino era cessata; partì come vedemmo e rapì alla sua famiglia la sedotta figliuola del marchese di Baldissero.
La madre di Valpetrosa non accolse Aurora come una figlia, sibbene con e una straniera intrusa nel loro domestico affetto. La sua timidità, l'amore misto ad una soggezione che aveva per suo figlio, non le lasciarono manifestare in modi aperti e positivi questo suo sentimento verso la nuora; ma esso apparve continuatamente nella freddezza poco meno che ostile, nell'impaccioso silenzio, nella costante musoneria che teneva con Aurora. Dopo alcun tempo, venutole un maggiore coraggio, si mostrò eziandio in certe indirette rampogne, in velate lamentazioni che ella faceva ad alta voce seco stessa in presenza della nuora, senza volgere a lei la parola, ma perchè andassero a ferirla. Aurora non aveva mezzo alcuno, nè credeva manco sua dignità, di rispondere; curvava il capo e taceva, come se quello non fosse fatto suo; ma sentiva intanto invaderla un'immensa amarezza.
[17] Per la nobile figliuola dei Baldissero già cominciava la crudele epoca delle delusioni; dalle serene regioni dell'ideale dove s'inebriava di vaghe chimere l'anima sua, veniva ella precipitando nell'aspro mondo della realtà, e per affarsi a questo nuovo ambiente ond'era avvolta conveniva le si strappassero dintorno le antiche abitudini, dalla mente le antiche idee e le si venissero facendo a poco a poco, quasi direi, una nuova carne, un nuovo spirito. Bene l'aveva il suo amante chiarita dapprima delle proprie condizioni, ed adombratole il destino ch'egli poteva offrirle; ma come avrebbe potuto dipingerle con esatti colori la verità, mentre egli medesimo non era tuttavia ben conscio di questa stessa verità? Inoltre cosiffatti discorsi tenuti di fuggita in ratti colloquii, fra due proteste d'amore, usciti dall'appassionato labbro dell'uomo che vi ama, come potrebbero agli occhi d'una innamorata fanciulla, inesperta del mondo, vestire le giuste sembianze della realtà? Aurora, dietro i detti di Valpetrosa, aveva si pensato ad un'esistenza modesta, ritirata, anche povera; ma rallegrata pur sempre dalla divina luce di quel loro amore, ma vista traverso quell'immenso desiderio comune di unire le loro sorti, codesta esistenza si lumeggiava di certe poetiche tinte, si ornava del pregio d'un sacrifizio nobilmente sostenuto, onde si compiacevano lo spirito romanzesco e il generoso istinto di quella eletta e leggiadra creatura. Ella non aveva menomamente pensato, perchè non poteva in nessun modo supporle, alle piccole volgari contrarietà d'una vita domestica in ristrette condizioni, alle fastidiose tribolazioni d'una lotta intestina, alle punture di spillo d'una suocera inasprita; e quando la si trovò in mezzo a tutto ciò, ebbe in fondo all'anima una pena ed uno scoraggiamento, cui, volendo nascondere, sentì più forti, e che, se non furono un pentimento, s'accostarono di molto ad un rimorso.
Durava tuttavia, e nelle stesse proporzioni, l'amor suo per l'uomo a cui aveva sacrificato ogni cosa; ed egli si mostrava e mantenevasi degno pur sempre di tanto affetto. Se Valpetrosa avesse potuto dare tutto il suo tempo, o la maggior parte almeno, al dolcissimo compito di circondare dell'amor suo l'anima e l'esistenza della sua giovane sposa, qual traversìa, qual contrarietà avrebbe ancora avuta tanta forza da penetrare sino al cuore di lei, difeso da sì cara e potente armatura? Ma le bisogne della congiura esigevano imperiosamente il tempo, le cure, la mente tutta di Maurilio Valpetrosa, che nella rischiosa intrapresa aveva impegnati la sua più dominatrice idea, le sue più forti aspirazioni, il più solenne suo giuramento. Aurora, per forza trascurata, rimaneva sola, in casa, senza trammezzo nessuno, alla presenza della suocera ostile, al contatto delle uggiose volgarità, all'inevitabile paragone del suo presente col passato.
Si ritraeva ella nella camera coniugale, così infaustamente disertata dal marito, e si affondava nelle più dolorose meditazioni dei suoi casi. La sua colpa, della quale il trasporto dell'amore le aveva dapprima velata la gravità, allora le appariva d'una inesprimibile enormezza. Vedeva la faccia sdegnata di suo padre improntata d'una severità che non perdona; le pareva d'udire suonare da quel labbro superbo la maledizione sul suo capo; pensava eziandio a sua madre morta, e si figurava con ispavento vederla ella stessa, che pure l'aveva amata cotanto, sorgere dal suo sepolcro e lanciarle un'inesorabil condanna. Correva allora a prendere quel rosario d'agata che aveva portato seco, unico ricordo della spenta genitrice, e lo baciava implorando perdono, e, gettatasi in ginocchio, pregava. Poi piangeva, e correva il suo pensiero all'amoroso fratello colaggiù nella Spagna. Che cosa avrà detto del fallo di sua sorella? pensava la misera. Certo si sarà unito ancor egli a tutti gli altri a condannarla e maledirla. Sentiva coll'immaginativa il coro di riprovazione che aveva dovuto levarsi nella nobile società torinese, in tutta la cittadinanza, allo spargersi della scandalosa novella della sua fuga; arrossiva e tremava, tutto sola, a questo pensiero, e si copriva colle mani la faccia e si diceva con infinito tormento: — «Nessuno, nè anche mio fratello, non ha diritto di impor silenzio a quelle voci che affermano il mio disonore.»
Ma pure il fratello, ella sperava, sapeva che non si sarebbe congiunto cogli altri ad imprecare su di lei. Egli l'amava tanto! Se c'era anima al mondo in cui potesse entrare un sentimento di compassione per essa, insinuarsi un generoso impulso di perdono, era quella. Dov'essa Io avesse pregato intercessore fra lei e suo padre, non egli si sarebbe rifiutato all'opera pietosa. E se a lui scrivesse?... Ah! no; era inutile. Intercessione veruna non avrebbe giovato mai a placare la giusta collera paterna, ch'ella immaginava seco stessa tremando. Quando erasi partita aveva pure pensato un istante di lasciare pel padre un motto che umilmente supplicasse perdono; e non aveva nemmanco osato vergarlo. Ora gli parve che pur tuttavia al fratello potesse e dovesse assolutamente dirigere una parola; scrisse a Madrid e stette ansiosamente aspettando risposta.
Infelice! Ella non prevedeva quanto crudeli e fatali avrebbero avuto ad essere le conseguenze di questa sua lettera.
Pel superbo marchese era stata la fuga della figliuola una ferita crudele e profonda; non tanto per l'amore ch'egli avesse ad Aurora, il quale in verità era temperatissimo, e veniva dopo altri affetti e sentimenti parecchi, quanto per l'orgoglio che giudicò l'onore della stirpe gravemente offeso. Suo primo impulso era stato correr dietro egli stesso ai fuggitivi, strappare dalle braccia del rapitore la figliuola e gettarla in un monastero, lui ammazzare [18] come si fa del ladro che si coglie nell'atto di rubare; ma la riflessione lo trattenne. La sua condizione sociale, il suo grado, la età non gli consentivano di questi partiti spicciativi; non a lui sì apparteneva raggiungere e punire i colpevoli; egli, supremo capo della famiglia, doveva avvisare e decidere ciò che occorresse per vendicarne l'offesa e lavarne la macchia, ma un altro doveva essere di quella il braccio vendicatore, l'individualità esecutrice. Si diresse alla Polizia per avere esatti ragguagli sull'essere di quel Maurilio Valpetrosa e sul luogo dove si sarebbe potuto afferrarlo, e scrisse a suo figlio in Ispagna. Gli apprese ogni cosa e comandò venisse in patria tosto: quel che gli toccasse di far poi, non disse nemmanco, sicuro che il figliuolo avrebbelo ben saputo discernere da sè.
Il fratello d'Aurora, appena ricevuta la lettera paterna, non mise tempo in mezzo, e benchè sua moglie l'avesse reso da pochi giorni padre d'un figliuolo (che fu quell'Ettore, uno dei principali personaggi del nostro racconto) partissi alla volta del Piemonte, risoluto a vendicar l'onore della famiglia, punire il rapitore e tornare poi tosto presso la moglie.
Ma frattanto, appena divulgatasi per Torino la notizia del ratto d'Aurora, un altro erasi presentato al marchese padre, per assumere questa parte di vendicatore. Era un giovane gentiluomo, il conte di Castelletto, amico del fratello d'Aurora, che non aveva nascosto un rispettoso amore per quest'essa, che fra i nemici di Valpetrosa contava quindi per primo, cui tutte le condizioni di famiglia, di fortuna, d'età facevano degno sposo della fanciulla, e che quindi nella società aristocratica era già da tempo considerato come il futuro marito di madamigella di Baldissero. Chiesto un colloquio da solo a solo col marchese, ed intromesso alla superba presenza di costui nel suo riposto gabinetto, il giovane, senza preamboli, colla franchezza di un carattere schietto ed impetuoso, coll'accento di chi ha preparate e studiate le precise parole da dirsi, così parlò:
— Signor marchese, io amava immensamente — l'amo tuttavia — madamigella Aurora; non posso permettere che l'infame suo rapitore goda del suo delitto, respiri ancora in questo mondo. Ella può — deve contentarsi di punirlo colla sua maledizione e col suo disprezzo; non io: nè s'acqueterebbe pure suo figlio se qui fosse. Ho la superbia di credere che nessun altro ne può prender le veci, può aspirare a sostituirlo, meglio di me. Sono dunque venuto a pregarla, per l'amicizia che mi lega a suo figlio, per l'amore che nutro verso quella infelice, di volermi permettere che io mi consideri come della famiglia e prenda il desiderato incarico della sua vendetta.
Il marchese lo guardò un poco in silenzio con quel suo superbo cipiglio quasi ostile; poi rispianò le rughe della fronte, ed abbozzato un suo cotal sorriso pieno di orgoglio, rispose tendendo al conte di Castelletto la mano:
— La ringrazio; ma la famiglia di Baldissero non ha ancora, grazie a Dio, bisogno alcuno che uno a lei estraneo ne pigli le difese e ne compia i doveri. Ho scritto a mio figlio e senza aspettare altra risposta, confido che verrà, partitosi di Madrid a volta di corriere. Se mio figlio mancasse, cosa che io credo impossibile, gli anni non hanno tuttavia così logorato il mio corpo da non poter io stesso compiere quel che si deve.
E siccome Castelletto s'inchinava con una certa penosa mortificazione, il marchese soggiunse con maggiore e quasi domestici espansione:
— Terrò tuttavia conto della sua offerta. Mio figlio avrà bisogno di compagni nella sua impresa; ed Ella, conte, sarà senza fallo uno di questi.
Pochi giorni dopo, viaggiando in posta, senza riposo, e facendo premura ai postiglioni con ogni fatta sollecitazioni e generose mancie, giunse a Torino il fratello d'Aurora, afflitto, sdegnato, pieno di cordoglio verso la sorella, di odio e di furore verso l'antico amico Valpetrosa.
I discorsi col padre non furono molto lunghi nè molto precisi; ma si capirono ciò nulla meno i due Baldissero. Non si aspettava più, perchè il figliuolo corresse a raggiungere il seduttore, se non le esatte informazioni dalla Polizia del luogo dove quell'infame, secondo essi lo appellavano, si fosse rimpiattato. Ma già fin d'allora era cosa usuale che la Polizia non riuscisse a saper bene cosa nessuna che importasse davvero.
Valpetrosa aveva le mille ragioni per nascondersi, fra cui era eziandio, se non la principale, non delle ultime nemmanco, quella del ratto della nobile ragazza torinese. Principalissima poi fra codeste ragioni era la congiura politica, di cui egli era uno dei capi. Avvisato da quei personaggi autorevoli, da cui egli aveva avute le efficaci commendatizie per Torino, che il Governo austriaco era in sospetto della cospirazione e stava per mettere la mano su alcuni fra i più compromessi di cui gli era uno; Valpetrosa, consigliato a fuggirsi e non volendo ciò fare e per non essere lontano al momento dell'insurrezione ch'egli sperava possibile e prossima, e perchè sua moglie in uno stato già inoltrato di gravidanza non avrebbe potuto sostenere il viaggio, ed egli non voleva separarsene; Valpetrosa, dico, fece correr voce della sua partenza e nascose il suo domestico focolare e sè stesso in un rimoto quartiere, presso fidatissimi amici, dove nessuno mai sarebbe riuscito a scoprirlo.
La Polizia adunque fece sapere ai Baldissero che quel cotal individuo, nominato Maurilio Valpetrosa, stato a Milano un po' di tempo, erasi poscia partito di là e fuggito in Isvizzera, dove non si sapeva bene in qual città avesse riparato.
Il figliuolo del marchese stava per partire in [19] compagnia del suo amico il conte di Castelletto per la Svizzera coll'animo di girarne tutte le città e borghi e casolari finchè vi avesse trovato i fuggitivi, quando la fatalità volle che sopraggiungesse a Torino la lettera che Aurora aveva scritto al suo fratello a Madrid, la quale, arrivata colà quando egli erane già partito, gli veniva rinviata. In questa lettera la infelice pregava suo fratello perchè non la volesse condannare severamente egli stesso, perchè si facesse intercessore di pietà e perdono eziandio verso il padre così che non proseguisse col suo odio e colla sua maledizione lei e l'uomo che essa amava: queste supplicazioni le faceva non tanto in nome suo, ella di cui certo la colpa meritava ogni pena, ma in nome dell'innocente creatura che stava per nascere. Pensasse egli e chiamasse al pensiero del padre che quella creatura era pure sangue loro e che il proteggerla, l'amarla era in essi ad ogni modo un debito. Sè affermava piena di tristi presentimenti, aver paura della morte, sentire tremenda pesar sul suo capo la collera paterna, tremare, piangere, abbrividire al solo pensiero che quando avrebbe dato la luce al frutto già dilettissimo delle sue viscere, potrebbe per lei dischiudersi la tomba; affronterebbe con animo più calmo il fatale momento, non si spaventerebbe più dell'avvenire quando sapesse che almanco suo figlio non sarebbe fatto reo di quella colpa ch'ei non aveva, avrebbe trovato malgrado tutto nella famiglia di sua madre una famiglia eziandio. Da quanto aveva potuto scorgere e capire delle condizioni del suo sposo, avrebbe potuto nascere agevolmente il caso in cui l'innocente nascituro sarebbe stato esposto anco alle strette del bisogno: oh il diletto fratello di sua madre, quegli che aveva tanto amato la infelice Aurora, non l'abbandonasse, non lasciasse che a quel misero si chiudesse affatto come ad un estraneo il cuore e la casa dell'avo. Se sciolta da queste paure ella sarebbe lieta pur anco morendo. Affinchè suo fratello potesse farle risposta, l'imprudente scriveva il preciso indirizzo del luogo in cui Valpetrosa nascondeva la donna dell'amor suo e se stesso.
Il marchese figlio non lesse quella lettera, che avreste detto scritta con inchiostro di lagrime, senza grande commozione. Il suo tanto affetto per Aurora non era spento, ed a quelle umili e calde preghiere gli si era tutto risuscitato in cuore insieme con una immensa pietà. Si recò incontanente dal padre a dargli comunicazione di quello scritto ed a prenderne gli ordini ulteriori.
Mentre nel rileggere forte a suo padre le parole della sorella la voce tremava al giovane marchese, ed alla fine non erano senza lagrime i suoi occhi, il fiero capo di quella famiglia ascoltò ogni cosa con aspetto freddo, maligno, quasi ironico, e poichè il figliuolo si fu taciuto, un baleno di feroce soddisfacimento passò ne' suoi sguardi.
— Ah ah! esclamò egli con un sogghigno. Ella stessa ci rivela il covo della mala bestia. Non avrete dunque da sciupar tempo e fatica per andarla a schiacciare.
Il figliuolo sentì nel suo cuore generoso tutto aperto in quel momento alla pietà, entrare una profonda amarezza ed un raccapriccio, che erano una dolorosissima pena. Ripiegò lentamente la lettera di sua sorella e disse con voce sommessa ed accento d'un gelato rispetto e d'una malvogliosa sommessione a suo padre:
— Che cosa mi ordina Ella adunque di fare? Nel volto del marchese apparve più spiccata quell'espressione d'una fierezza mista a crudeltà, che guastava la bellezza scultoria di quei lineamenti.
— Avete bisogno degli ordini miei? disse con superba severità. Non vi dicono abbastanza quali sieno la coscienza del vostro dovere e il sentimento dell'onore?....
Il figliuolo interruppe con qualche vivacità:
— Sì padre, per quanto riguarda lui.... ma essa? Aurora? (e pronunziò questo nome quasi esitando); ma il figlio che ne nascerà?
Il marchese padre corrugò la fronte molto minacciosamente:
— Quello non è sangue nostro: proruppe; invano vorrebb'essa, quella perduta, impietosirmi su quel figliuolo d'ignobil padre, d'un perfido e abbominato e disprezzevol lignaggio. Nulla possono aver di comune i Baldissero con quella schiatta di volgo... Ma cominciamo a punir lui. Tolto di mezzo quel vile, penseremo alla disgraziata ed al frutto della sua colpa.
Il fratello d'Aurora accennò voler insistere, e il padre, come per torsi di subito ogni ulteriore fastidio in proposito, soggiunse, non lasciandolo parlare:
— Ad ogni modo non dimenticherò mai che quella è mia figlia.
Il giovane marchese sapeva anche troppo che nessuna sollecitazione avrebbe mai potuto ottenere di più e di meglio da suo padre a questo riguardo: s'inchinò in segno di riverente acquiescenza, e si tacque.
Quel giorno medesimo partirono alla volta di Milano il fratello d'Aurora, il conte di Castelletto ed un capitano delle Guardie, amico dei due precedenti, il quale venticinque anni dopo, all'epoca del nostro racconto, abbiamo trovato governatore della città di Torino. Insieme con loro partiva eziandio l'intendente del marchese, messer Nariccia, con particolari e segrete istruzioni del suo padrone.
Per far conoscere quali fossero queste istruzioni, ci convien qui riferire un segreto colloquio che poche ore prima della partenza aveva avuto luogo fra il marchese padre, l'intendente e Padre Bonaventura, in quel tempo giovane gesuita d'una trentina [20] d'anni, molto operoso e inframmettente, frequentatore assiduissimo e graditissimo di tutte le case dei nobili.
Il marchese padre aveva raccontato al gesuita la scoperta avvenuta del luogo in cui si nascondevano i fuggitivi e la partenza che stava per avvenire del figliuolo affine di coglierli alla posta; poscia, guardando fisso il frate con quella sua aria imperiosa che voleva dire: le mie parole hanno da accettarsi senza discussione, e parlando con una certa simulata deferenza, nella quale pure si faceva sentire il tono orgoglioso della superiorità, soggiunse:
— Ella, quantunque viva all'infuori delle esigenze e delle passioni del mondo, pur sa, reverendo, quali siano gli obblighi che a noi, gentiluomini, impone l'onore della famiglia, e a quelli nè io nè mio figlio non saremo per mancare giammai.
Padre Bonaventura incrocicchiò le mani, le serrò al petto che teneva ricurvo, levò un momentino gli occhi al soffitto e poi li abbassò tutto compunto, mandando un profondo sospiro che voleva significare:
— Eh! pur troppo conosco le crudeli esigenze dell'onore mondano: le deploro, ma sono disposto a dar loro passata.
Il marchese continuava:
— Ciò riguardo a quello scellerato; ma riguardo a mia figlia ed al frutto della sua colpa, sento il bisogno di consultarmi con un buon religioso qual è Lei, padre Bonaventura.
Il gesuita s'inchinò.
— Di udire dalle sue labbra se le mie decisioni possono approvarsi da Quel di lassù, come sento che le approva e stima necessarie la mia coscienza.
Queste parole erano dette con una maschera di umiltà sì mal messa che di sotto appariva agevolmente e più effettivo ancora il vero intendimento del favellante, che suonava: «Voglio che mi diate la ragione, e coll'autorità del vostro carattere religioso consecriate come opera irriprovevole lo sfogo della mia passione.»
Bonaventura prese il contegno di chi si mette ad ascoltare con profonda, vivacissima attenzione.
— Disgiunta dal suo vile seduttore, mia figlia sarà tenuta in luogo dove nessuno la veda nè pur la sappia finchè siasi liberata... Dopo, appena guarita, entrerà in un monastero, dove rimarrà finchè... finchè decideremo noi che basti... Lei, padre Bonaventura, mi farà il favore di cercarmi un monastero acconcio, in cui possa ravvedersi quella povera anima, espiare colle preghiere e colle macerazioni della carne il proprio fallo, e dove nello stesso tempo non si dimentichi che quella è figliuola del marchese di Baldissero.
Il gesuita tornò ad inchinarsi.
— Mi farò una premura d'obbedirla, Eccellenza, diss'egli, e spero che riuscirò a soddisfarla compiutamente.
Successe un istante di silenzio; il marchese pareva non voler più dir nulla; il frate, chinato un poco verso il suo interlocutore, stava nella mossa di chi aspetta il principale del discorso; Nariccia, rimasto sempre a bocca chiusa, seduto un po' discosto, guardava di sottecchi colle sue pupille bircie ora l'uno ora l'altro.
— E?... e?... disse poi il frate.
— Che cosa? interrogò il marchese superbamente.
— E il fanciullo? susurrò con voce sommessa che quasi non s'udiva, padre Bonaventura.
Nella faccia del marchese apparì quella feroce espressione che già gli conosciamo.
— Quel fanciullo, diss'egli a voce bassa, ma fremente, è l'onta della mia famiglia personificata: e come questa onta si de' cancellare, così egli ha da scomparire.
Padre Bonaventura si trasse indietro colla seggiola; Nariccia fece un leggier trasalto sulla sua.
— Scomparire! esclamò il frate; come la intende, signor marchese?
Questi si piegò verso il gesuita.
— Che privilegio può aver egli ad una sorte diversa da quella degli altri frutti di simili colpe? La famiglia di suo padre andrà dispersa, nella nostra non può entrare: non gli resta che il destino del trovatello. Sarà posto come tale in un ospizio.
I due che udivano queste parole erano troppo soggetti al potente personaggio che parlava, per manifestare in alcun modo, anche il più lieve, la menoma riprovazione, e fors'anco non sentivano neppure entro sè veruno sentimento siffatto; ma tuttavia a que' detti del marchese tenne dietro un silenzio che tornò per tutti impaccioso e che nessuno sapeva rompere.
Fu il signor di Baldissero che dopo un poco riprese a dire come complemento del precedente discorso:
— A quell'ospizio, nello stesso tempo che sarà presentato il bambino, arriverà una vistosa somma d'elemosina, così che tutti i compagni di sventura di quel frutto della colpa avranno dalla sua venuta alcun giovamento; e nello stesso tempo, a propiziare la divina pietà all'anima medesima di quell'empio che mi rapì la figliuola, alla nostra così crudelmente provata famiglia ed alla sorte del neonato, intendo presentare alcuna offerta alle chiese dei Ss. Martiri e della Madonna del Carmine, che sarà di due lampade d'argento, e pregare la loro carità, reverendi padri, a voler dire un centinaio di messe a mia intenzione.
Padre Bonaventura s'inchinò più basso di quello che non avesse ancora fatto per l'innanzi, e disse col suo tono mellifluo, colla sua voce untuosa, coi suoi occhi bassi e colle sue mani incrociate:
— S. E. invero è sempre un esemplare di sentimenti religiosi e di generosità. Iddio saprà darle compenso, e dileguate queste poche nubi, vedrà [21] che le manderà più splendido il sereno di quella felicità anche terrena che la si merita.
Fece una pausa, mandò un sospiro, strabuzzì degli occhi e poi riprese con maggior compunzione:
— Ah! certo Ella ora si trova in una penosa condizione. La nostra divina religione inculca il perdono delle offese, ed io che conosco il suo bel cuore so quanto sarebbe pur dolce a Lei il perdonare.
Il marchese fece una smorfia, che smentiva ricisamente l'allegazione del frate.
— Ma, continuava questi, pur troppo noi non possiamo aggiustare il mondo e le cose come vogliamo, e ci conviene accettare quali sono le circostanze in cui ci volle mettere la Provvidenza. Ella, pel grado che occupa, pel lignaggio a cui appartiene, per le condizioni sociali in cui si trova ha certi obblighi, certe necessità su cui non può transigere, ed è volontà divina che ciascuno compia suoi doveri varii secondo il diverso stato. Considerata adunque bene ogni cosa, io credo che V. E, fu bene ispirata nelle sue decisioni, e che a Lei, nel metterle in atto, non sarà per mancare il divino aiuto.
Il marchese si alzò; e gli altri ne seguirono lo esempio.
— Non dubitavo punto che avrei trovato anche questa volta in Lei, padre Bonaventura, quel religioso prudente e di buon consiglio che sempre mi si mostrò. Ecco dunque ciò che rimane da farsi. Voi Nariccia partirete con mio figlio per essere colà sopra luogo a provvedere a tutto ciò che possa occorrere. A voi l'incarico di condurre Aurora nel più rimoto ritiro che sappiate trovare; a voi quello di togliere, quando sia tempo, dal fianco di lei il neonato... A Lei, padre Bonaventura, l'accorrere presso la infelice a farle udire la voce di Dio e condurla al convento... Io, quella disgraziata, non la vo' manco vedere... Non ho bisogno di dirvi, Nariccia, che tutto quanto occorrerà, potrete spendere.
Il gesuita e l'Intendente uscirono insieme, e il secondo accompagnò il primo per un tratto di strada verso il suo convento.
Non si parlarono per un po': sembrava che evitassero perfino di guardarsi. Ad un punto fu il frate che, chinatosi vivamente verso il suo compagno, gli disse all'orecchio:
— Credo che fareste bene a mettere un segno a quel bambino nell'esporlo, affinchè in un caso qualunque lo si potesse riavere... Non si sa mai quel che possa arrivare!...
Nariccia fissò entro gli occhi il gesuita e gli sguardi di quei due maliziosi s'affondarono l'un nell'altro.
— Ci ho già pensato: disse poi l'intendente. E continuarono la loro strada in silenzio.
E di molte cose ne aveva pensato il tristo Nariccia. Egli aveva continuato a mantenersi in relazione col rapitore d'Aurora; quando Valpetrosa stava per partire, aveva scritto all'intendente dei Baldissero quella lettera di cui il medichino aveva letta una parte salvata dalla fiamma, allorchè Graffigna, che se n'era impadronito in casa dell'assassinato Nariccia, aveva voluto porgergli fuoco da accendere il sigaro.
Ritirate da Valpetrosa le quindici mila lire che aveva creduto necessarie per la sua fuga con Aurora, un altrettanto e più di spettanza del giovane milanese rimaneva tuttavia presso Nariccia; e questi, posseduto fin dalla sua prima giovinezza da una smania feroce di arricchire, dalla passione dell'avaro e da quel rabbioso amore dell'oro onde cotanto si degrada l'anima umana, all'apprendere la venuta del fratello d'Aurora e il suo disegno di vendetta su Valpetrosa, aveva pensato che quando questi nello scontro con Baldissero morisse, quella somma rimarrebbe sua senz'altro.
Quando arrivarono in Milano Baldissero coi suoi due padrini e Nariccia, quest'ultimo, mentre gli altri per l'ora troppo tarda decidevano di non presentarsi a Valpetrosa che il domattina, di soppiatto e sollecitamente recavasi dallo sposo d'Aurora ad avvisarlo di quel che lo minacciava. Il giovane ebbe una forte emozione che non cercò nemmeno dissimulare: ah! non era timore per sè, che dotato egli era d'ogni valore; ma era paura, viva paura del dolore e della sorte che sarebbero toccati a sua moglie ed al figliuolo suo nascituro. Macchiarsi egli del sangue del fratello di lei era grave al suo pensiero, ed era più grave ancora il pensare ch'egli stesso potesse nello scontro soccombere. Per intanto ciò che premeva era fare in modo che Aurora non avesse a concepire pure un sospetto della minacciata sventura, da avanzarle almanco delle ore penosissime di spasimi e paure. Decise a quest'effetto che il mattino vegnente si sarebbe appostato fin di buon'ora sulla strada ad aspettare la venuta dei padrini di Baldissero, perchè non avessero da entrargli in casa ed esser visti dalla sposa, la quale, riconoscendoli, avrebbe potuto agevolmente indovinare il motivo della loro presenza. Già di molto erasi turbata Aurora del vedere l'intendente di suo padre, e benchè le avessero detto che cagione di questa venuta erano gli affari d'interesse tuttavia pendenti fra quell'uomo e suo marito, tuttavia una specie d'istinto la teneva in un'ansietà piena di sospetti.
La seconda e rilevantissima cosa a cui volle provvedere Valpetrosa fu il destino della moglie e del figliuolo da nascere. E per ciò a cui aveva egli da affidarsi se non a Nariccia, al quale la sua fama di religioso dava aria di onesto, e che, nelle attinenze sino allora avute, all'inesperto e confidente giovane era apparso fedele e leale? Lo pregò volesse egli assumere codesta opera pietosissima; salvasse Aurora e il suo bambino dall'ira e dalle vendette [22] della famiglia di lei; gli consigliò la moglie e la madre da cui la morte lui disgiungesse, Nariccia facesse riparare in qualche oscuro, rimotissimo luogo della Svizzera, e là sovvenisse di quanto abbisognavano quelle infelici; egli, Valpetrosa, con una ultima lettera da consegnarsi loro in caso di sua morte, avrebbe alle medesime manifestato come in tutto e per tutto dovessero in lui rimettersi ed a lui affidarsi.
Quanto ai mezzi di vivere, quanto alle fortune di quelle poverette, ohi come si dolse allora Valpetrosa d'avere così sconsideratamente sciupata tanta parte dell'aver suo! Ma quel che rimaneva, come fare perchè rimanesse e bastasse al sostentamento della famigliuola, e s'aumentasse da fornir poi al figlio che doveva nascere se non un'agiatezza, quanto meno una sicurezza del pane? Qui si trovarono a fronte la facile fiducia e la leale natura del giovane da una parte e dall'altra la frodolenta accortezza dell'antico servo dei Gesuiti, il quale non era stato tardo ad architettare per queste circostanze sopra le proposizioni del giovane un suo perfido disegno. E si decise: che Valpetrosa facesse un atto solenne di cessione d'ogni aver suo a Nariccia medesimo, perchè da costui si potesse esigere ogni capitale di spettanza del primo ed insieme colle somme che ancora rimanevano presso di lui in deposito, trafficarlo nelle sue speculazioni ch'e' chiamava bancarie; che di tutto questo avere il depositario pagherebbe un annuo interesse del cinque per cento non che una data parte degli utili ricavati dall'uso di tali somme, le quali annualità sarebbero pagate a Valpetrosa medesimo finchè e' vivesse, alla madre ed alla moglie venendo egli a mancare; che Nariccia pagherebbe a semplice richiesta di Valpetrosa di chi per lui, tutto o quella parte di tal capitale che si volesse poi ritirare; e che per impedire gli effetti giuridici di quell'atto di cessione, Nariccia avrebbe rilasciato a Maurilio una privata dichiarazione, con cui si certificasse come quella cessione fosse una finta soltanto e si determinassero i veri patti fra loro intravvenuti.
Valpetrosa prese di poi le mani dell'ipocrita Nariccia, e stringendogliele con forza, guardandolo con occhi umidi, con atto e voce che erano tutta una supplicazione, soggiunse:
— Vi raccomando ancora una volta Aurora e mia madre... e mio figlio! (Nel dire quest'ultima parola, tremò la sua voce.) Oh mio figlio! Se il mio sangue avesse da farlo felice, con qual gioia lo darei tutto!... Egli porterà il mio nome... Aurora lo desidera... lo desidero anch'io... ricordatevene! ch'ei sia battezzato sotto il nome di Maurilio..... Ma più di tutto egli e sua madre sieno sottratti alla famiglia di Baldissero... Appena lo scontro avvenuto, s'io muoio, accorrete a torli di qua, perchè il marchese non li trovi... Ch'e' fuggano, per amor di Dio!... Voi me lo promettete? Voi me lo giurate?
Nariccia diede tutte le promesse e tutti i giuramenti che piacquero a Valpetrosa, e questi ebbe il coraggio di rientrare colà dove aspettavalo sua moglie, con una fronte serena così che Aurora se ne sentì rassicurare la povera anima conturbata.
Era una fredda mattinata invernale, e Maurilio Valpetrosa tutto avvolto nel suo mantello stava passeggiando da un po' di tempo nella strada innanzi alla sua abitazione, quando, visto da lontano due persone bene imbacuccate ancor esse venire a quella volta, e' si piantò sulla soglia del portone che metteva nella casa ove dimorava; e trattasi giù dal viso la falda del mantello, lasciò scorgere le sue leggiadre fattezze. E' non s'era ingannato nella sua previsione; que' due si fermarono a quella porta, lui guardarono bene, si ammiccarono, scambiarono sommesso e ratto due parole, ed avvicinandoglisi uno si scoprì la faccia del pari e gli disse con un accento in cui sotto una finta cortesia nascondevasi un'ostilità superba:
— Giusto Lei, signor Valpetrosa, è la persona di cui venivamo in traccia.... La mi riconosce?
Valpetrosa fece un lieve inchino ed un gentile sorriso:
— Perfettamente, rispose, signor conte di Castelletto.
Il compagno di costui s'era pur egli scoperta la faccia, e il conte lo presentava dicendone il nome.
— Ed ora, riprese Valpetrosa con elegante scioltezza, a che cosa debbo attribuire l'onore che mi fanno cercandomi?
Rispose il conte di Castelletto:
— È cosa che richiede per dirsi altro luogo più acconcio che la strada; ma spero ch'Ella indovinerà agevolmente la qualità della nostra ambasciata, sapendo che ci manda il marchese di Baldissero figlio, il quale è qui, a Milano, venuto apposta da Madrid.
— Capisco senza bisogno d'altra parola: disse Valpetrosa con una serena tranquillità, ma benchè mi rincresca assaissimo il non poter aver l'onore di accoglierli nella mia umile casa, capiranno, spero, senza difficoltà anche loro le ragioni che mi tolgono di invitarli a salire nel mio quartiere.
I due padrini di Baldissero fecero un moto di assenso.
— D'altronde, continuava lo sposo d'Aurora, quello che si ha da trattare fra chi li manda e me, esige anche da parte mia l'intravvento di intermediarii. Faccianmi il favore di stabilire un luogo di ritrovo e fissare un'ora, ed io manderò colà i miei rappresentanti.
— È giusto: rispose di Castelletto. Ella non vorrà [23] stupirsi se questo ritrovo lo fisseremo ad un'ora piuttosto vicina. Per le ragioni ch'Ella può facilmente immaginare, il marchese brama ardentemente che ogni cosa sia presto, assai presto finita.
Valpetrosa sorrise con mesta ironia.
— Capisco la sollecitudine del signor marchese, diss'egli, e non la condanno; anzi la partecipo ancor io. Ma lor signori capiranno pure come, per quanta volontà io abbia di accondiscendere alle brame del signor marchese, mi ci vuole un certo tempo a trovare due fidati amici a cui commettere il mio mandato, e come io, dovendomi preparare a quello che è scopo della loro venuta con provvedere ad infinite cose, non posso altrimenti che differire a domani l'onore di trovarmi a fronte del loro principale.
I padrini di Baldissero mossero di subito alcuna obiezione, da cui non si lasciò smuovere Valpetrosa, il quale dichiarò fermamente che nulla lo avrebbe fatto cambiare di proposito a tal riguardo. Si stabilirono il luogo e l'ora de! convegno fra i padrini, e poi sì separarono. Lo sposo d'Aurora non tardò a trovare due amici che acconsentirono a rendergli quel funesto servizio, e si decise che il duello all'ultimo sangue avrebbe avuto luogo il domattina per tempissimo, arma la spada.
Tutto quel giorno Valpetrosa ebbe lo straordinario coraggio di comparire in presenza di sua moglie e di sua madre più lieto, sereno e tranquillo che mai; se vi fu un cambiamento in lui non si mostrò che nella tenerezza dell'affetto che si sarebbe detta più espansiva e maggiore; potè avere la forza d'animo di parlare con Aurora dell'avvenire, di confortarla colle più lusinghiere speranze d'un destino migliore, di parlare delle gioie che la nascita del loro bambino avrebbe arrecato a far più prezioso e più santo ancora il diviso amor loro. E in cuore il misero aveva pur troppo i più funesti presentimenti; e la sua natura abitualmente risoluta era tutto ondeggiante fra le più opposte contraddizioni. Ora non voleva difendersi, voleva disarmare il suo avversario colla mitezza del suo contegno, presentandogli il petto indifeso, chi sa che alcun resto dell'antico affetto non fosse ancora per lui nell'animo di Baldissero, ed al vederlo così non si ridestasse tornando quale al tempo della loro amicizia? pensò perfino un momento — ma fu un solo momento — ad umiliarsi innanzi all'avversario, a tentare di vincerne colle parole e colle supplicazioni la collera, a dirgli come di loro l'uno a niun modo potesse uccider l'altro, perchè egli non doveva tornare dalla sua sposa lordo del sangue del fratello di lei, e questi non poteva presentarsi alla sorella, omicida dell'uomo a cui ella aveva dato l'amore, la sua sorte, tutto di sè. Ora invece egli pensava a difendersi con ogni vigore, a combattere con accanimento, ad offendere con feroce ardimento. I vincoli del sangue, le memorie dell'antico affetto non dovevano aver più ragione alcuna di farlo riguardoso verso i giorni di Baldissero: non s'aveva da veder più in costui che un fiero nemico il quale veniva per distruggere la sua felicità. Era suo diritto, era suo dovere, anche per Aurora, il ripulsarne, fosse pur colla sua morte, la minaccia e l'offesa.
Ed era egli tuttavia colla tenzone di questi varii pensieri in capo quando il mattino di poi Valpetrosa vide giunta l'ora di recarsi al fatale convegno. A Nariccia, col quale il giorno innanzi aveva terminato ogni cosa che occorresse per quel certo aggiustamento che ho detto; a Nariccia, cui aveva pregato di un ultimo abboccamento prima dello scontro, Valpetrosa diede la lettera per la moglie e per la madre e tutte le più minute istruzioni sul modo di governarsi, ed ottenuto anco una volta i più solenni giuramenti di fedeltà da quell'ipocrita, partissi accompagnato da' suoi padrini pel luogo del ritrovo, mentre Aurora, ignara affatto d'ogni cosa, dormiva tuttavia tranquillamente.
Quale fosse l'esito del duello fra il marchese di Baldissero e Maurilio Valpetrosa, lo sappiamo già dalle parole che dal primo di costoro sorprendemmo pronunziate a se stesso in un momento d'angoscia nell'attesa del figlio e poscia nel suo colloquio col Governatore.
Non vi narrerò la desolante scena che avvenne quando in casa di Maurilio Valpetrosa fu quest'ultimo recato in aspetto di cadavere, innanzi alla povera Aurora che di nulla sapeva, ma che pur tuttavia era turbata da un'indefinibile inquietudine che era un presentimento di sventura. Il marchese di Baldissero non volle, non osò presentarsi innanzi alla sorella per annunziarle cotanta disgrazia; e nessuno l'osò di quelli che avevano assistito al duello fatale, da Nariccia in fuori, a cui si diede e il quale accettò l'incarico di correre a preparare, per quanto fosse possibile, al brutto colpo l'anima sensitiva dell'infelice amante. Ma Nariccia, fosse insufficienza in lui al dilicato ufficio, fosse anche (e di quel tristo ben può pensarsi cotanto orribile disegno) uno scellerato proposito di ferire mortalmente al cuore la misera donna, annunziò la cosa in modo che Aurora svenne e parve dovesse morire di quel colpo ancor essa. La madre di Valpetrosa non aveva guari maggior forza e coraggio della sposa di lui. Il trafitto recato con ogni precauzione a casa, non potè parlar più, non potè più esprimere che cogli sguardi i suoi ultimi addii alle dilette persone del suo cuore, e raccomandarle ancora a Nariccia, e morì fra le braccia delle sconsolatissime donne.
Fu allora che primamente Baldissero ardì entrare in quella casa in cui egli aveva recato il dolore. Aurora giaceva priva di sensi abbandonata sul corpo di suo marito che abbracciava strettamente: la vecchia madre, in un accesso di dolore furibondo, malediva colei che aveva portato al suo figliuolo la barbara morte immatura.
[24] Baldissero sentì stringersi il cuore, e fino da quel momento gli penetrò nell'animo quel dubbio crudele che gli abbiamo udito manifestare tanti anni dopo all'epoca del nostro racconto, quando si domandava, s'egli aveva avuto il diritto di troncare colla spada dell'omicida il nodo di quelle due esistenze, se Dio aveva da perdonargli l'aver versato quel sangue.
Mentre il marchese rimaneva colà fermo, immobile, sovraccolto, la faccia pallida, i lineamenti contratti, stretto il cuore da un'emozione impossibile a dirsi, Nariccia gli si appressò rispettosamente, e gli parlò piano:
— Che ordina Ella si faccia?
Il fratello d'Aurora volse su di lui uno sguardo torbido e semispento.
— Lasciamo quell'infelice al suo dolore. L'intendente s'appressò ancora di più al figliuolo del suo padrone e soggiunse con voce ancora più bassa:
— Mi rincresce, ma ho altri ordini da S. E. il marchese suo padre.
Baldissero levò la testa con qualche vivacità:
— Ah! quali?
— Trar subito fuori di questa casa l'illustrissima signora marchesina Aurora.
— Per condurla dove?
— Ho già preso a pigione una comoda casetta fuori di città dove è intenzione di S. E. che nascostamente da tutti la stia finchè siasi sgravata... E mi pare opportuno profittare di questo suo stato medesimo per togliere la signora marchesina di qua.
Il marchese stette un momento sopra pensiero e poi rispose asciuttamente:
— Fate quel che vi ha comandato mio padre.
Quando Aurora tornò in sè la si trovò in letto entro una stanza che non aveva visto mai, con intorno un medico sconosciuto, la sua cameriera Modestina e dietro le cortine del letto l'ombra d'un uomo ch'ella non poteva scorgere chi fosse.
Dapprincipio non la si ricordò di nulla; non sentiva che un indolorimento generale, e per raccogliere il suo pensiero aveva bisogno d'uno sforzo penosissimo che gli tornava come una viva trafittura al cervello. Ma poi venne la funesta memoria: gittò un grido e volle gettarsi giù dal letto: ve la trattennero con amorosa violenza.
— Lasciatemi, lasciatemi.... Il mio Maurilio!.... Il mio Maurilio!.... Dov'è?... Voglio vederlo ancora.... Siate pietosi.... Vo' morire con lui.
L'ombra d'uomo dietro le tende s'agitò, si mosse e come tratto da una forza esteriore, venne fuori con passo lento, quasi riluttante fino all'arrivo degli sguardi della giacente.
Questa mandò un'esclamazione soffocata che pareva di sorpresa: si lasciò andare sul letto senza più sforzi per togliersene, guardò fiso fiso un istante la faccia di quell'uomo che pareva non poter riconoscere. Dopo un poco allargò le pupille, come sotto l'impressione d'un insuperabile orrore, si trasse indietro sui cuscini più che potè, allungando innanzi le braccia come per respingere un'orribile visione ed esclamò con accento pieno di ribrezzo, di sdegno, d'odio:
— Via, via, via!.... Tu qui!.... Tu osi venir qui!...
Il fratello d'Aurora si ritrasse; uscì di quella stanza con infinita oppressura dell'anima.
La misera diede nuovamente in ismanie: ma il medico che le stava al fianco trovò pure le magiche parole con cui ricondurla alla calma, infonderle forza e coraggio.
— Se la fa di questa guisa, le disse, la si uccide.
Aurora lo guardò con una certa espressione che significava chiaramente: — E che m'importa? Se gli è questo appunto ch'io voglio!
Ma il medico lesto a soggiungere:
— E la sua morte sarà quella eziandio della innocente creaturina che porta nel suo seno. Ella ha l'obbligo, il sacrosanto obbligo di conservarsi per suo figlio.
Aurora non rispose parola: ma si calmò di presente; stette lungo tempo sopra pensiero, muta, immobile, appena se con sembianza di viva, tanto era pallida, solo che tratto tratto due grosse lagrime le colavano giù delle guancie. Quando il medico tornò a vederla, ella gli disse piano:
— Ha ragione. Debbo vivere per mio figlio: e lo voglio... Mi faccia guarire.
Il medico si pose con tutta la sua scienza e con tutto il suo zelo a lottare contro la morte che pareva aver già posto il suo artiglio su quella infelice; e la lotta fu varia, lunga, dolorosa.
Mai non fu che il marchese fratello d'Aurora le comparisse dinanzi: il medico lo aveva assolutamente proibito: ma Baldissero seguiva con ansia e sollecitudine l'andamento della malattia di lei, nè si sarebbe mosso di colà se notizie arrivate di Madrid non avessero costrettolo ad una ratta partenza. Suo figlio nato da poco, Ettore, era stato assalito da una di quelle malattie infantili che tante vite mietono nella prima età e temevasi pei giorni suoi. Il marchese raccomandò la sorella a Nariccia, e partì.
Ed era proprio in buone mani, la povera Aurora, affidata alle cure di quel tristo uomo di Nariccia, il quale veniva dicendosi fra sè con cinica e scellerata speranza:
— Se questa donna morisse, portando seco nel mondo di là il frutto del suo amore, chi vi sarebbe ancora a cui dovrei dar conto dei capitali di Valpetrosa?
Legalmente egli s'era già governato di modo da non avere ostacolo nessuno alla sua ruba, poichè aveva fra le carte dell'ucciso Valpetrosa frugato, trovato quella sua dichiara che certificava simulata la cessione, presala e distruttala: ma se la vedova e [25] il figliuolo del derubato sparissero, tanto di meglio: alla madre di Maurilio contava dare una piccola somma per azzittirla.
Ma dopo alcuni giorni intorno all'ammalata venne da Torino un'altra persona, mandata dal padre medesimo di lei: il frate Bonaventura, il quale Aurora guarita e liberata, doveva poi condurre al scelto monastero: e la misera vedova di Valpetrosa fu dunque in piena balìa di queste tre persone: Nariccia, il gesuita e la fante Modestina Luponi. Quella che per si poco tempo era stata sua suocera non sapeva dove Aurora fosse riparata, nè ancorchè lo avesse saputo avrebbe cercato vederla: ned Aurora chiese mai menomamente di lei.
Non andò gran tempo che una quarta persona si aggiunse a prestare le sue cure alla giacente, e queste furono le cure veramente amorevoli ch'ella ebbe. La cameriera, Modestina, si lagnava che da sola erale troppo faticoso e poco meno che impossibile il bastare ai moltissimi ed incessanti uffizi da rendersi all'ammalata, e siccome se a quella piccola schiera in mezzo a cui viveva Aurora era da aggiungersi una persona, questa volevasi delle più fidate, Modestina, che tutta oramai s'era posta ai servigi di Nariccia e di Padre Bonaventura uniti in una comune e strettissima lega d'interessi, suggerì ella stessa una donna che secondo lei poteva ed era dispostissima ad aiutarla nell'accudire l'inferma, senza pericolo di ciarle o d'indiscrezioni qualsiasi: ed era questa insieme una buona opera che la Modestina, in quel tempo non ancora trista del tutto, come quando la conoscemmo noi sotto il nome di Gattona, invecchiata e pezzente, faceva in vantaggio d'una povera vittima, che era sua cognata, la moglie di suo fratello Michele, soprannominato più tardi Stracciaferro.
E qui ci occorre fare una nuova digressione per narrare brevemente la storia di questa infelice.
Si chiamava Eugenia ed era figliuola di un armaiuolo; questi che un tempo se la ricavava per benino, aveva fatto dare alla figliuola un po' d'educazione di cui essa, dotata d'un ingegno non comune, d'una buona volontà eccezionale e di una rarissima disposizione ad apprendere, aveva tratto un tal profitto che si sarebbe giudicato impossibile. Bellissima e virtuosissima, aveva intorno una nuvola di galanti, da cui era la sua saviezza sola a difenderla, perchè sua madre era morta, e suo padre, sempre inclinato al vizio, s'era ora buttato sulla mala strada addirittura e crescevano in lui lo sciupo del danaro, la smania dei bagordi nella proporzione diretta con cui diminuivano il lavoro ed i guadagni.
Michele era allora maestro di scherma; era di umore irascibile, di carattere impetuoso, d'abitudini manesche, conscio della sua forza e facilmente tracotante, ma non aveva commesso ancora atto che si potesse dir disonesto. La sua abilità nel mestiere gli dava sufficienti guadagni, e il marchese di Baldissero dietro la raccomandazione della cameriera di sua figlia (sorella di Michele) lo aveva fatto nominare eziandio maestro all'Accademia militare. Per ragione del suo mestiere. Michele aveva dapprima conosciuto l'armaiuolo padre di Eugenia, e veduto poscia quest'essa se n'era fieramente innamorato. Aveva cercato ogni maniera per diventare intrinseco dell'armaiuolo; e siccome la più facile era quella di farglisi compagno nella vita disordinata ch'ei menava, Michele, il quale aveva pur esso le medesime tendenze, non trascurò questo mezzo e divenne il compagno assiduo delle orgie e dei bagordi di quello sciagurato, il quale in breve tempo ebbe la maggiore ammirazione e della robustezza di stomaco del maestro di scherma che ingollava vino a bizzeffe senza manco darsene per inteso e della forza straordinaria dei muscoli di lui che lo facevano temuto e rispettato da tutti e la miglior salvaguardia per quelli che fossero dalla sua in ogni baruffa che potesse nascere, tanto che non poteva più passarsela senza l'amico Michele.
Quando adunque quest'ultimo ebbe fatto appena un cenno del suo amore per Eugenia e del suo desiderio d'ottenerla, il padre di lei glie la gettò, come si suol dire, fra le braccia, lieto e di far cosa grata al suo amicone, e per dir tutto il vero, di sbarazzarsi d'un imbarazzo e d'una spesa.
Eugenia non amava nessuno, ma l'ideale dell'uomo a cui avrebbe voluto dare il suo bel cuore ed il suo animo eletto era ben diverso da quello che suo padre le presentava in isposo. La grossolanità fisica, morale ed intellettiva di quell'omaccione facevano il più spiccato contrapposto colla delicatezza di lei: tutto in essa si ribellava a codesta che in fatti era una mostruosa unione, e più che un presentimento la certezza d'un'infelicissima sorte le si affacciava alla mente. Volle contrastare, ma essa era debole, mite, timida; ed ai primi peritosissimi detti che ardì pronunziare di opposizione e diniego, il padre la rimbeccò con tale violenza ch'ella non ebbe altro scampo che curvare il capo e tacersi.
Sposò adunque Michele, ma senza farsi la menoma illusione sul conto di lui, sulla possibilità di trarlo a miglior condotta, sul destino che l'aspettava: andò realmente come vittima rassegnata all'altare, e le sue previsioni e le sue paure avevano pur troppo ad essere tutte effettuate!
La condotta di Michele non si mutò pel matrimonio e non accennò neppure volersi mutare; ma tuttavia da principio l'amore che aveva per Eugenia, se con questo nobil nome può pure chiamarsi il sentimento affatto materiale di desiderio che gli ispirava la bellezza di quella giovane, la mite dolcezza di lei e quell'influsso inesplicabile che in certa misura esercita anche sull'animo più rozzo la grazia d'una donna gentile, poterono ottenere che almanco verso la moglie quello sciagurato usasse alcun riguardo e mostrasse qualche rispetto: così che quando [26] tornava a casa concitato dai bevuti liquori, coll'anima sconvolta e l'umore inasprito dalla perdita nel giuoco, dalle liti che sempre finivano male pei suoi avversari grazie alla sua forza erculea, e cui sempre era il suo spirito tracotante a provocare, Michele cercava di nascondere il suo stato alla giovane moglie e si faceva uno studio di non dirigerle pure la parola. Ma questa specie di suggezione non volle durar lungo tempo. Non tardò guari ad accorgersi il marito, che la sua presenza, i suoi modi, le grossolane manifestazioni de' suoi ardori non cagionavano in Eugenia che una ripugnanza invano voluta dissimulare; sotto l'azione del dispetto ch'e' ne sentì, scomparve anche quella suggezione che prima si prendeva di lei; cominciò dalle rampogne e da quelle ond'era capace la sua anima bassa e volgare, ne venne alle minaccie, senza più riguardo nessuno si mostrò in tutta la bruttezza della sua indole; la qual cosa se fosse atta a scemare quel sentimento di ripulsione che era in lei giudicatelo voi.
Frattanto, come sempre accade, anche le condizioni materiali di quella famigliuola andavano peggiorando. Il padre d'Eugenia aveva fatto capo ad un fallimento in conseguenza del quale aveva dovuto smettere il fondaco e vivere oramai di varii, incerti e non sempre onorevoli spedienti, a cercare e mettere in atto i quali concorreva massimamente Michele. Questi da parte sua, per la mala condotta, aveva perduto il posto da maestro all'Accademia militare, e vedeva ogni dì più dimagrarsi di accorrenti e di allievi la sua sala di scherma. Se malesuada, secondo il poeta latino, è la fame, più mal consigliero ancora è il vizio che non ha più mezzi di soddisfare le sue accanite ed empie voglie: un dì Michele e lo suocero furono implicati in un certo processo di truffa, ed andarono tuttidue a far conoscenza la prima volta col pane di prigione. Furono condannati a più anni di carcere: il padre d'Eugenia dopo non molto tempo ci morì; lo sciagurato di lei marito fu onninamente perduto, perchè colà strinse conoscenza e lega coi più scellerati fra i delinquenti, primo dei quali quel Graffigna che, conosciuto ben tosto il giunto della corazza in quel robusto colosso, seppe colla sua felina accortezza insinuarvisi nell'animo e governarlo a suo talento.
La povera moglie di Michele rimase adunque sola, senza mezzi di fortuna, con una salute resa cagionevole dai sofferti affanni, coll'onta d'avere padre e marito colpevoli, e per maggior sventura portando nel seno un frutto del materiale amore di Michele. Gli era in queste condizioni che l'aveva lasciata la Modestina, quando insieme colla padroncina erasi fuggita per alla volta di Milano. Siccome Eugenia erasi venuta raccomandando più volte alla cognata, e questa non poteva a meno che sentire alcuna pietà per lo stato veramente compassionevole in cui quell'infelice era ridotta, trattandosi poscia di avere qualcheduna a compagna nelle cure da prestarsi alla marchesina Aurora, la sorella di Michele propose e riuscì a fare aggradire da Padre Bonaventura e da Nariccia che a questo ufficio fosse chiamata Eugenia, della segretezza della quale essa si rendeva compiutamente garante. Aveva inoltre la Modestina in codesto un'altra idea ed un'altra speranza: ed era che Eugenia essendo per diventar madre ancor essa, quantunque la liberazione di lei dovesse venire qualche mese dopo quella di Aurora, potesse tuttavia combinarsi che la medesima diventasse poi nutrice, custode ed allevatrice del figliuolo della marchesina, la qual cosa all'immaginativa non infeconda della Modestina si presentava come sorgente e cagione di prosperità e di vantaggi, non che per sua cognata, ma eziandio per sè.
Padre Bonaventura, incaricato di arruolare a quella piccola schiera l'Eugenia, di darle le sue istruzioni e di condurla seco, riuscì compiutamente nella sua missione; e come già dissi, Aurora ebbe quindi delle cure veramente amorevoli, poichè l'anima pietosa della nuova attendente a' suoi bisogni non tardò a porre in lei e nelle sue condizioni il maggior interesse possibile ed un verace, sincero affetto.
Venne finalmente il giorno fatale. Aurora diede alla luce un bambino, di cui, fino da quel primo stadio di vita, non potevano essere più dilicate le forme, nè più avvenente l'aspetto. Nel trasporto ineffabile di quella divina gioia della maternità, la misera dimenticò tutti i suoi passati dolori, tutto il buio dell'avvenire che le si minacciava. Coprì quella piccola, bellissima creaturina di baci e di lacrime, in cui si stemperò la infinita tenerezza dell'anima sua; le parve fosse ricomparsa in quelle deboli forme di neonato per accompagnarla ancora nella vita, l'anima amorosa di quell'uomo che essa aveva supremamente amato: tutto il suo mondo, l'esistenza, ogni affetto sentì concentrati per sempre in quel debole bambinello, che già pareva sorriderle. Si ricordò di botto del voto tante volte manifestato dal suo sposo, che il nascituro, se maschio, portasse il medesimo nome di lui; volle che presso al suo letto senza ritardo Padre Bonaventura battezzasse il neonato e gl'imponesse tosto quel nome adorato: Maurilio; dopo tanti e tanti giorni di spasimi, di affanni, di atrocissimi tormenti, la misera sentì finalmente un istante di celestiale beatitudine quando, stringendosi al suo seno suo figlio, cadde in un lieve sopore, di cui sentiva il riposo, e nel quale pure si sentiva vivere, e sentiva fra le sue braccia il dolce carco del figlio, sopore di cui non è descrivibile, appena immaginabile, se non da una madre, la profonda dolcezza.
E intanto l'intendente di suo padre ed il gesuita pensavano a darle un nuovo e massimo dolore, congiuravano per decidere il come toglierle quel bambino condannato all'obblio, alla miseria morale e materiale del trovatello, dall'odio implacabile di colui che era pure suo avolo.
[27] Ben sapevano che farla acconsentire a separarsi dal suo figliuolo era cosa impossibile; erano più che certi, quand'ella avesse avuto sentore dello scellerato loro disegno, che Aurora avrebbe difeso il bambino colla forza indomabile di quell'amore materno che non ha pari sulla terra; decisero pertanto ricorrere all'astuzia, e levarle di letto il piccino quando la fosse addormentata.
Vedete meraviglia di quel sovrumano affetto di madre! Mentre i due tristi nella camera vicina complottavano a bassa voce, proprio come si fa per combinare un delitto, Aurora dormiva chetamente nel più soave de' riposi che si possa gustar mai: pareva dunque affatto propizio quel momento medesimo ad eseguire l'empio rapimento, e i due malvagi non vollero perder tempo; entrarono dunque con infinita precauzione in quella stanza dove presso il letto della dormiente stavano sedute le due cognate Modestina ed Eugenia. Ma non avevano appena varcata quella soglia con passo guardingo, che la puerpera si svegliava in sussulto e fissava su di loro uno sguardo inquieto, scrutatore, sospettoso, sgomento. Un inesplicabile istinto l'aveva di subito riscossa ed ammonita del pericolo; strinse fra le braccia il neonato e chiese a que' due con accento in cui c'era alquanto dell'orgogliosa supremazia della famiglia Baldissero:
— Che cosa vogliono? Perchè entrano nella mia camera senza farsi annunziare mentr'io riposo?
L'imbarazzo ch'ella scorse sul volto dell'uno e dell'altro, accrebbe i suoi sospetti. Nariccia si confuse in umili proteste e domande di perdono; il frate parlò dell'interesse che aveva per la salute temporale e spirituale di lei e dei debiti del suo ministero che lo chiamavano intorno a chi soffrisse sì dell'anima che del corpo. Aurora giurò a se stessa che non avrebbe smesso nè dì nè notte della più attenta vigilanza sul suo bambino.
Rimasti un poco, Nariccia tolse licenza pel primo e passando innanzi alla Modestina le fece un piccol cenno che le comandava lo seguisse nelle altre stanze; la cameriera comprese e si affrettò ad obbedire; dopo alcuni minuti anche fra Bonaventura s'alzò e partì. Aurora, per una affatto nuova finezza d'intuizione e d'indovinamento, comprese press'a poco ciò che si voleva: si rivolse con accalorato accento all'Eugenia che era rimasta sola:
— Tu, le disse, mostri all'aspetto di avere un'anima bella e pietosa; stai per diventar madre tu pure e proverai, e già senti per certo che stretto, indissolubil legame ci avvince alla creatura delle nostre viscere; per la pietà che l'ispirano i casi miei, per l'amor di Dio, per quell'essere che avrà vita da te, Eugenia, ti scongiuro, tu non tradirmi, tu non unirti a chi vuole i miei danni, tu aiutami a difender me e mio figlio dalle insidie altrui.
La povera donna aveva gli occhi e la voce pieni di pianto. Eugenia commossa promise tutto ciò che volle l'inferma.
— Vogliono disgiungermi da mio figlio, continuava quest'essa, lo sento, lo so. Mio figlio che è l'unico bene che mi rimane!
Prese il bambino, lo sollevò all'altezza della sua faccia e lo baciò con passione.
— Povero piccino! Nato appena, hai già nemici così accaniti che ti vogliono togliere tutta la ventura che ti ha concesso Iddio, l'amor di tua madre. Eugenia, se tu vuoi che la Provvidenza conceda fortuna a tuo figlio, sta dalla mia parte e concorri meco a salvarmelo.... Dio! Puniscimi de' miei falli nella più crudel guisa che tu vuoi, ma non in questa, non togliendomi questo povero innocente. Lo raccomando alla tua pietà, Vergine Santa, che conoscesti l'amore di madre; mi raccomando anche a te, anima di mia madre, che non devi volere tanto strazio della tua figliuola.
Un'idea le venne, quasi un'ispirazione, staccò dal capoletto il rosario d'agata di sua madre, cui aveva portato seco e lo passò al collo del neonato, come volendo porlo con ciò sotto l'immediata protezione di quell'anima benedetta.
— Questo rosario, soggiunse, ti sia, o Maurilio, come un sacrosanto talismano. Tu non avrai a lasciarlo più nella tua vita.... Ricordatene anche tu, Eugenia, e s'io morissi, lo dirai tu a mio figlio: «quella è la memoria di tua madre, serbala cara come un pegno dell'amor suo.»
In questo frattempo, nella camera vicina Nariccia e Padre Bonaventura riuscivano senza troppi sforzi, colla promessa d'una somma in di più di quelle già stipulate, a trarre complice al loro proposito la Modestina. Bene pareva dapprima a costei troppo crudel cosa quella che le veniva proposta a danno della sua padrona; ella aveva sì immaginato che quel figliuolo d'un matrimonio odiato e disprezzato dal marchese sarebbe tenuto lontano dalla nobile famiglia ed aveva anzi contato che ella stessa potrebbe fare dei buoni guadagni in proposito, dando come nutrice al bambino l'Eugenia che fra pochi mesi sarebbe stata madre ancor essa e facendosi accettare lei medesima come allevatrice e custode di esso: mai più non avrebbe creduto che quell'innocente bambino fosse gettato fra i trovatelli e che essa a codesto avesse da por mano; ma quella certa somma che ho detto vinse ogni scrupolo.
La sorte volle favorire essa medesima gli empi disegni orditi a danno del figliuolo di Valpetrosa: una violentissima febbre sopravvenuta ad Aurora, pose e tenne in grave pericolo parecchi giorni la vita di lei e la trasse per una settimana affatto fuor di senno. Nariccia pensò opportunissima l'occasione di fare sparire il bambino. Modestina essa medesima lo prese dal letto della madre assalita dal delirio; ma Eugenia, che aveva data pochi giorni prima alla infelice madre la promessa che noi sappiamo, tentò con ogni suo mezzo opporsi all'iniquo ratto. Ebbe essa tutti contro di sè, anche la cognata, e finì per [28] cedere più che all'autorità di Padre Bonaventura, che impiegò tutti i mezzi della sua eloquenza gesuitica a persuaderla, alla promessa d'una somma che le assicurava un boccone di pane per quel tempo in cui la nascita e le prime cure da darsi a quella creatura ch'ella portava nel suo seno le avrebbero impedito di poter lavorare tanto da guadagnarsene.
Nariccia avrebbe egli medesimo recato seco l'infante e dispostone a suo grado, senza che nessun degli altri complici sapesse il come. Eugenia pregò che almanco al collo del bambino si lasciasse il rosario che la madre gli aveva messo, come vedemmo, e che alcun altro segno gli si ponesse per cui poterlo riconoscere poi in quell'ospizio od in quell'altro luogo qualunque in cui l'infelice venisse abbandonato. Modestina entrò facilmente nelle ragioni della cognata; una specie di sentimento superstizioso la persuase che s'ella a quel misero, cui concorreva a rigettar dal seno della famiglia, dèsse alcun mezzo per cui gli fosse possibile poi il rinvenire ancora questa famiglia medesima, diminuirebbe la gravità del suo fallo; pose in un sacchetto fatto appositamente il rosario d'agata, un bottone di livrea che aveva appartenuto a suo marito, domestico un tempo della casa de Meyrand, ed un biglietto, che scrisse ella medesima, per dire a coloro, chiunque si fossero, nelle cui mani capitasse il neonato, qual nome fosse il suo e per raccomandarlo alla loro pietà, e quel sacchetto unì alle fascie onde il bambino era avvolto. Nariccia lo prese con sè tal quale una notte e partissi solo con esso in un legnetto che guidava egli stesso, senza che alcuno mai sapesse a qual parte si dirigesse. Stette assente parecchi giorni e poi tornò presso di Aurora; ma il giorno prima erasi egli presentato al marchese padre ed avevagli detto:
— Tutto è aggiustato.
— Aurora? Aveva domandato il marchese fissando lo sguardo interrogativo sul suo intendente.
— Le nacque un figliuolo.
— E?...
— E questi è sparito.
— Morto?
— No: ma finchè Ella vorrà sarà come se sia tale.
— Lo vorrò sempre: disse con voce secca il marchese.
Nariccia s'inchinò.
— E sarà secondo il suo volere.
— Voi sapete dove egli si trova?
L'intendente fece un cenno affermativo.
— E se voleste rinvenirlo ancora, lo potreste?
— Signor sì.
— Gli avete lasciati mezzi di riconoscerlo?
— Glie li ho lasciati.
— Ed alcun altro li conosce?
— Signor no. Fuori di me nessuno potrebbe riaverlo.
— Sarà il meglio che questo modo lo dimentichiate anche voi.
Nariccia tornò ad inchinarsi senza rispondere.
Il marchese si alzò, prese da uno stipo un forte sacchetto di denari e lo pose in mano all'intendente.
— Eccovi trenta mila lire: disse: ne darete venti mila a quell'ospizio che voi sapete perchè sieno conservate a quell'esposto consegnato nel giorno e nell'ora e coi connotati che voi indicherete: il resto vi risarcirà delle spese che avete dovuto incontrare in quest'occasione.
Nariccia prese i denari, s'inchinò profondamente ed uscì senza aggiungere parola. Nessuno degli ospizi di trovatelli che esistevano allora in Italia ebbe pure un soldo di quella somma. Che cosa il trist'uomo avesse poi fatto del figliuolo di quel Valpetrosa che tanto si era in lui affidato, non è ancora giunto il momento di saperlo, ma lo apprenderemo poi.
Dopo quel colloquio col marchese padre, l'intendente ripartiva per la Lombardia e giungeva nella riposta casa dove era ricoverata Aurora, trovandola ancora nel medesimo stato di delirante e nel medesimo pencolo di vita. Ma pure quell'infelice donna (e fu questa per lei una ventura?), contro ogni previsione, potè resistere a quel male e vincerlo. Un bel dì la si svegliò come da un lungo sonno, colla mente intorpidita, rotta tutta la persona, confuse tutte le sensazioni, ma presente la volontà, riviva la coscienza, tornata la memoria. Non si poteva movere, ma fece uno sforzo per cui riuscì a staccare da sè la mano e tenderla nel letto a sè vicino al luogo dove stava suo figlio; non trovò nulla; radunò ogni suo vigore per volger la testa e con grande stento lo potè fare; non vide nulla. Volle mandare un grido e fece un sobbalzo nel letto per levarsi a sedere: ricadde sui guanciali e la voce le spirò come un gemito di dolore sulle labbra. Modestina che era in quel tempo sola nella camera le fu accosto sollecitamente.
— Che ha, signora marchesa? disse ella; e vedendo lo sguardo intelligente con cui la padrona la fissava, soggiunse: Dio sia lodato! Ella è pur finalmente tornata in sè.
Aurora diceva mille cose col suo sguardo acceso; ma le labbra non poterono che sommessamente balbettare:
— Mio figlio?
Era stato deciso che alla infelice madre, se e quando risensasse, si sarebbe detto che il bambino, durante il terribile periodo trascorso della infermità di lei, era morto; ma ora, vedendone tanto spasimo, giudicando che tal novella sarebbe stato un precipitarla di nuovo in quello stato da cui appena era venuta fuori, sarebbe anzi molto più facilmente un ucciderla addirittura, Modestina non ebbe il coraggio di darle un colpo così crudele. Rispose adunque esitando che il piccino si era dovuto per [29] forza allontanarlo per dargliene una nutrice, ma che Aurora intanto non istesso in pena per lui, al quale in ogni modo era accuratamente provvisto.
L'inferma trovò per prima cosa che si sarebbe dovuto far venire questa nutrice presso di lei, piuttosto che allontanare da lei il figliuolo; volle sapere se il luogo dove egli era a balia fosse lontano, se lo si sarebbe potuto aver di frequente colà dove essa giaceva inferma, che già star lungo tempo senza vederlo, non la voleva a niun patto; se la famiglia presso cui s'era allogato il bambino fosse tale da ispirare tranquillità e fiducia per le cure che si avessero di lui: alle quali cose tutte, Modestina, non preparata, rispose impacciatamente e con affatto nessuna soddisfazione di Aurora.
Ed era già costei piena di dubbi parecchi e di ansie indefinite, quando sopravvenne Padre Bonaventura, al quale con più ardore, con più sollecita insistenza ella rivolse le interrogazioni medesime.
Il gesuita sedette presso al letto dell'inferma, cogli occhi bassi, le mani incrociate sul ventre, la mossa d'uomo in sè raccolto, scambiò due o tre occhiate colla Modestina che gli ammiccava di soppiatto per significargli come la pietà le avesse consigliato di parlare alla padrona un po' diversamente da quel che era stato inteso fra di loro, e quando Aurora ebbe finito le sue domande e stava attendendo ansiosamente risposta, il frate diede alle sue sembianze l'espressione d'un intimo, profondo cordoglio, d'un rassegnato dolore, mandò un sospiro, levò gli occhi al cielo, e tutto compunto incominciò un sermoncino di melliflua rettorica per esporre che questa terra è una valle di lagrime, che Dio non vuole si metta nella creatura tutto il nostro affetto, che dobbiamo prepararci alle grandi prove e sostenerle con fermo animo, quando le ci arrivano, eccetera, eccetera.
La povera madre che aveva notalo l'impaccio della cameriera, gli sguardi scambiati fra costei ed il gesuita, interruppe ad un punto quella predica con un grido straziante che partiva dal profondo dell'anima.
— Gran Dio! Mio figlio non è più!
Le rispose troppo eloquentemente il silenzio della cameriera e di Padre Bonaventura. L'infelice arrovesciò il capo sui guanciali, divenne più pallida che un cadavere, chiuse gli occhi e mandò un fievol gemito: era svenuta.
— Misericordia! esclamò la Modestina: ella è morta.
Il gesuita si curvò sulla giacente ad esaminarne l'aspetto, e le pose una mano sul cuore.
— No, diss'egli; la Provvidenza non le vuole far questa grazia.
Si dovette ricominciare la lotta colla morte, ed anco questa volta vinsero la gioventù e la natura.
Ma una persona era intorno all'inferma che aveva di lei la massima pietà e sentiva nel cuore un cocente rimorso dei fatti suoi: la povera Eugenia. Ella si diceva di aver empiamente mancato alla solenne promessa da lei data ad Aurora di fare ogni possibil cosa affine di salvarle il figliuolo; degli spasimi che soffriva la madre orbata ella accusava sè stessa che se avesse mantenuto fede, avrebbe potuto conservarle allato il bambino. Qual modo avrebbe potuto avere per ciò non sapeva bene; ed anzi talvolta per iscusarsi innanzi a sè stessa dicevasi che nessuno affatto era in poter suo e lo avesse anche tentato, ella ad altro non sarebbe riuscita che a farsi cacciare di colà; ma pur tuttavia non poteva tranquillare la sua coscienza. Non aveva ella accettato un compenso pel suo silenzio? Lo aveva fatto per suo figlio: ma doveva ella per un vantaggio al suo sacrificare il figliuolo della donna che in lei s'era affidata? Un pauroso presentimento, allora invadeva il suo animo. Codesto le avrebbe recato disgrazia; Dio ne l'avrebbe punita, dicevasi; ma purchè non la volesse punir poi nel figliuol suo! Raccapricciava a questo pensiero. Se la sorte l'avesse voluta colpir poi colla pena del taglione? Se anco a lei una mano crudele venisse a rapir poi quel frutto delle sue viscere che già amava cotanto? Sentiva allora che togliere un figlio a sua madre era il più iniquo delitto che si potesse compire: ed ella di questo infame delitto s'era fatta complice! Infelice! I suoi paurosi presentimenti dovevano aver ragione; ed ella stessa un anno dopo doveva provare, prima di morire, lo spasimo atroce di vedersi rapito il figliuolo.
Codesto faceva che amorosissime, incessanti, piene d'uno zelo impareggiabile fossero le cure che Eugenia prodigava all'inferma. Avrebbe dato tutto di sè per restituirle la salute e il figliuolo; la sua vita non fosse stata necessaria per un altro essere, avrebbe offerta anche quella in benefizio d'Aurora.
A questa intanto ritornando a poco a poco la salute e la possibilità, non certo la voglia di vivere, era più forte rinato il desiderio di conoscere ogni particolarità della morte del suo bambino. Voleva le si dicesse ogni menoma cosa che riguardasse quel luttuoso avvenimento; domandava dove fosse stato il corpicciuolo sepolto, voleva che colà sorgesse un modesto tumulo a segnarne il luogo che sarebbe stato in avvenire meta a frequenti e pietosi di lei pellegrinaggi, moveva un'infinità di interrogazioni che mettevano in imbarazzo le due donne e sopratutto l'Eugenia, alla quale sentendo per lei più simpatia, Aurora volgeva con più amorevole insistenza, con più pressante supplicazione le sue domande.
Eugenia non sapeva mentire. Oltre ciò, col pensare e ripensare a quel crudele atto a cui ella aveva partecipato in danno della povera Aurora, aveva finito per giungere alla conclusione che il male cagionato non era irrimediabile; ella sapeva quali contrassegni fossero stati posti al bambino, mercè cui poterlo riconoscere; svelando tutta la verità alla [30] giovane madre, questa poteva ottenere da Nariccia le dicesse il luogo dove il fanciullo era stato abbandonato e, per via di que' certi indizi, riaverlo: stava adunque discutendo seco stessa intorno all'opportunità di tutto rivelare ad Aurora. Questa, da parte sua, guidata da una specie di segreto istinto, aveva maturamente riflettuto seco stessa sull'imbarazzo, sulle incertezze, sulle contraddizioni che aveva dovuto notare nelle risposte fatte alle sue domande intorno la morte del bambino, ed una vaga, inesplicabile speranza le era nata in cuore che la si fosse voluta ingannare, che il suo figliuolo non fosse morto. Le pareva impossibile che ella potesse rimanere ancora sulla terra quando ne fossero partiti lo sposo ed anco il bambino; Dio avrebbe avuto tanta pietà almeno da farla morire, lei pure; se la aveva conservata malgrado tutto a questa vita, gli era dunque ch'ella ci aveva da fare ancora qualche cosa, e qual altro dovere poteva incomberle oramai fuor quello di madre?
Da queste mutue disposizioni dei loro animi avvenne che una volta finalmente che Aurora ed Eugenia eran rimaste sole, si fu molto presso a venir fuori la verità. La figliuola del marchese aveva riprese le sue dimande e le ripeteva con maggiori l'insistenza e la pressa; la cognata di Modestina rispondeva più impacciata che mai. Aurora la guardava con occhi penetranti che parea le volessero leggere nell'anima, e nella sua voce si mise a palpitare, per così dire, un'emozione che era l'effetto di un'incantevole speranza.
Ad un punto ella afferrò vivamente la mano della giovane, che teneva gli occhi bassi ed era presa ancor essa da un notevolissimo turbamento.
— Eugenia, le disse con ineffabile passione, oh! ditemi il vero voi, oh non vogliate ingannarmi voi pure!... È un sogno illusore che nacque nella mia fantasia? è la voce del cielo che mi parla segretamente all'anima? Una folle speranza mi è entrata in cuore.... Io non sono tanto infelice come mi si vorrebbe far credere.... Mio figlio non è compiutamente perduto per me, come sarebbe se lo possedesse la tomba....
La cognata di Modestina non ci resse; sollevò i suoi occhi in cui in mezzo alle lagrime di commozione brillava la gioia di poter dare a quell'afflita madre un conforto: con una famigliarità che non s'era mai permesso e che ora pareva concederle la solennità del momento, ella afferrò le mani della marchesina e le strinse forte.
Aurora indovinò la buona risposta che stava per uscire dalle labbra tremolanti di quella donna; gittò un grido di giubilo e disse affannosamente:
— Ah! Mio figlio vive?
Eugenia non aveva che un monosillabo da pronunciare per dar la risposta; ma non lo potè profferire. Suonarono ad impedirglielo un passo e poi tosto una voce d'uomo.
— Ritiratevi Eugenia: disse questa voce: debbo parlare alla signora marchesa.
Le due donne si volsero in sussulto, Aurora contrariata, Eugenia esterrefatta; era loro dinanzi la faccia scialba, falsa ed antipatica di messer Nariccia.
— Che mi volete? domandò asciuttamente Aurora, appena Eugenia fu uscita della stanza.
— Esporle gli ordini che ho ricevuti or ora da S. E. il marchese suo padre.
— Quali sono?
— S. E., stomacata delle gazzarre rivoluzionarie che succedono in Piemonte, se n'è partito e trovasi a Modena: mi ordina di andarvelo a raggiungere.
— Ed io?
— Ella sarà condotta in pari tempo da Padre Bonaventura a quel monastero che egli medesimo ha scelto.
Aurora si drizzò in piedi con vivacità.
— Io! Ad un monastero!
— Il marchese lo ha ordinato.
— Mostratemi la sua lettera.
— Eccola.
La giovane la lesse, e poi rimase un poco immobile, assorta in profonda riflessione. Che cosa doveva ella fare? e che cosa avrebbe potuto se non obbedire? Curvò la testa e disse con voce appena intelligibile:
— Sta bene: farò quel che vuole mio padre. Nariccia si dispose ad uscire senz'altro: ma quando fu alla soglia, colla mano già sulla gruccia della serratura, Aurora si riscosse e fece vivamente alcuni passi verso di lui.
— Udite: diss'ella con accento quasi di supplicazione.
L'intendente si fermò e stette in attitudine di chi aspetta gli ordini d'un suo superiore. La marchesina gli parlò con tutta la più soave dolcezza della sua voce.
— Voi non avete alcuna ragione di volere il mio male. Che cosa vi ho io fatto perchè abbiate da essermi nemico?
— Io sono il più fedele de' suoi servitori: rispose Nariccia colla sua più ipocrita sembianza.
— Ho una voce in cuore che mi dice mio figlio non essere morto.... Ah! io avrei per voi la maggiore riconoscenza del mondo, se voi foste così pietoso da restituirmelo.
Nariccia alzò dalla punta de' suoi scarponi lo sguardo de' suoi occhi birci, e lo fece guizzare un momento sulla faccia d'Aurora.
— Suo figlio? diss'egli poi colla voce flebile di chi con pena si decide a parlare di cosa altrui dolorosa. Perchè la vuole tornar sempre su questo per lei crudelissimo argomento? Oh! se io potessi restituirglielo! Che cosa non farei per ciò? Ma la terra non rende più la sua preda.
Aurora, dimentica un momento di quel suo riserbo [31] di maniere con cui aveva sempre trattato Nariccia, lo prese ad un braccio e glie lo strinse forte.
— Mi giurate voi che il mio bambino è morto davvero? Me lo giurate sull'anima vostra?
Nariccia, che conosceva perfettamente la teoria gesuitica delle restrizioni mentali, rispose senza punto esitare:
— Glie lo giuro.
La giovane lasciò andare il braccio di lui, e le mani le caddero abbandonatamente lungo il corpo con desolata rassegnazione.
— Partirò quando si voglia: diss'ella dopo un poco, facendo un atto che indicava preferire a quel momento rimaner sola, e Nariccia s'affrettò a levarsi dalla presenza di lei.
— Che cosa avete detto? Domandò l'intendente con feroce cipiglio ad Eugenia, avutala sola tosto dopo quel colloquio con Aurora. Che cosa avete lasciato capire alla marchesina?
Eugenia, allibita, non seppe che cosa rispondere.
— Traditrice: riprese più niquitoso che mai il tristo. Voi ora, tosto, senza un minuto d'indugio, prendete le vostre robe ed uscite di questa casa.
La misera, senza il menomo cenno di resistenza, si dispose ad obbedire. Avrebbe voluto vedere ancora la padrona cui stava per abbandonare per sempre, ma non le fu concesso. Nariccia per punirnela avrebbe anche voluto privarla affatto di quella somma che le era stata promessa per comprarne il complice silenzio, ma in ciò Modestina si intromise efficacemente, ed aiutata da Padre Bonaventura ottenne che ciò nulla meno Eugenia non fusse priva del pattuito compenso. Usci essa di quella casa nè le si diminuì il rimorso del suo passivo concorso a quell'empio delitto che ogni giorno le sembrava maggiore, di avere derubato ad una madre il figliuolo; e molte volte anco di poi fu sul punto di rinviare a chi l'aveva pagata i mal guadagnati denari, per riprendere il diritto di dar compiutamente ascolto alla sua coscienza e rivelar tutta la verità in una lettera alla marchesina Aurora.
Ma com'avrebb'ella fatto poscia per vivere? Tornare a Torino le ripugnava profondamente: preferiva rimanere dove non si sapesse che suo padre e suo marito erano condannati in carcere per truffa; pose la sua dimora a Milano e cercò lavoro per guadagnarsi la vita. Presto conobbe che non era così facile il trovare questo lavoro, principalmente a lei nello stato di gravidanza inoltrata in cui si trovava. Se non avesse avuto la somma pagatale da Nariccia avrebbe dovuto morire di fame essa stessa, altro che poter bastare alle provviste necessarie pel nascituro, ai bisogni di quest'esso quando fosse venuto al mondo. Ritenne con pena il male acquistato denaro e si tacque.
Aurora frattanto era stata condotta al monastero scelto da Padre Bonaventura. Aveva ella domandato di Eugenia e meravigliatasi assai dell'improvvisa di lei sparizione, ed erale stato risposto da tutti d'accordo che, venuta prima che si credesse a maturanza la gestazione di lei, aveva essa dovuto allontanarsi sollecitamente per disporsi al parto che in quella casa non si doveva, nè si voleva avesse luogo. La spiegazione era affatto naturale, ma tuttavia sembrava ad Aurora che un momento avrebbe pur potuto averlo Eugenia a venirle dare il saluto d'addio, e un intimo sospetto ch'ella si guardò bene dal manifestare ad alcuno, l'avvertiva che par null'altro erasi impedito fra lei e quella donna un ultimo colloquio che pel timore si ripigliasse fra loro quel discorso cui la venuta di Nariccia aveva in sì mal punto interrotto. La speranza convien dire che sia un'edera tenace e vivacissima quando s'attacca al cuore d'una madre e per poco favorevoli che trovi le circostanze pur vive, poichè un vago sentimento di essa, una specie di lusinga continuò ad esistere nel fondo dell'anima di Aurora, cui ella nascose quasi come un tesoro che temesse le venisse rapito, e ad appurare la verità del quale sentimento ella si riprometteva di impiegare ogni mezzo che le si presentasse ed appena potesse.
Modestina Luponi, pagata de' suoi servigi, fu congedata colle più serie minaccie s'ella parlasse, e fra Bonaventura e Nariccia s'incaricarono di vegliare sul suo silenzio. Ella, datasi in preda alla più sregolata vita, non istette gran tempo che cadde nella miseria, vide, come udimmo da lei medesima narrato, volgere a male sua figlia, e visse finalmente di elemosine col raccattato nipotino di cui traeva, come sappiamo, profitto, elemosine alle quali concorreva dapprima la famiglia Baldissero e poi, quando l'attuale marchese, stomacato di lei, proibì la si lasciasse ancora entrare nel suo palazzo, che la aiutava a guadagnare Padre Bonaventura, rimasto sempre con lei in abbastanza intime attinenze.
Aurora stette un anno circa nel monastero. Passato questo tempo, suo fratello tornò di Spagna. La sua anima buona e generosa era tormentata dal rimorso di tutto il male che aveva fatto a quella sorella, cui aveva amato ed amava tuttavia pur tanto. Si adoperò presso il padre affinchè Aurora fosse ripresa come prima in famiglia, posto compiutamente in oblio, come se non fosse avvenuto mai, tutto il passato. Ma il marchese padre disse che non altrimenti sua figlia avrebbe potuto degnamente tornare e non sarebbe tornata alla società che al braccio d'uno sposo, il quale coll'onorevolezza del suo nome coprisse tutto il disdoro dell'episodio trascorso; Aurora da canto suo si mostrò riluttante ad ogni modo a entrare di bel nuovo nel seno della famiglia, in quel luogo pieno di memorie ora tanto dolorose per lei, in mezzo a persone che avevano cagionato la sua irrimediabile sventura. Si rifiutò ella persino a tutta prima a rivedere suo fratello che supplicava caldamente di poterle andare a chieder perdono; e acconsentì finalmente a riceverlo, perchè un nuovo [32] disegno era nato in lei, attinente sempre a quella incerta, irragionevole speranza che pur durava nel suo cuore.
Con qual animo si trovassero a fronte dopo tanto tempo e dopo le cose intravvenute, fratello e sorella, è più facile immaginare che descrivere. Il cuore palpitava ad entrambi, a lui di tenerezza soltanto; a lei parte di commozione nel trovarsi a fronte il compagno della sua infanzia, l'amico più caro della sua giovinezza, parte d'odio nel pensare che quello era pur l'uccisore del suo Maurilio.
I primi minuti del colloquio furono penosamente impacciati. Fu Aurora medesima che dominata dal concepito disegno, diede per prima più animata andatura al discorso. Disse al fratello le sue vaghe speranze, aggiunse che allora avrebbe perdonato a chi le aveva tolto il marito, quando egli le avesse restituito il figliuolo. Il marchese non potè a meno che trovare destituiti d'ogni buon fondamento quei dubbi onde si lusingava l'amore materno d'Aurora: ma pure promise a lei ed a se stesso che tutto avrebbe fatto per venire in chiaro della verità e se la cosa era possibile, egli ad ogni costo avrebbe ritornato fra le braccia della misera madre il bambino.
Per saper qualche cosa in proposito non gli si presentava che un mezzo: quello d'interrogare la persona che da suo padre era stata incaricata di accudire ad Aurora, l'intendente Nariccia; ed il marchese, benchè senza la menoma credenza che i sospetti della sorella avessero ragione, si recò da lui. Nariccia a quel tempo aveva già abbandonato il servizio della casa di Baldissero e si era dato esclusivamente a quel bel traffico d'usuraio che doveva gonfiare sino ai milioni la già rotonda cifra dell'aver suo.
Non occorre dire come alle prime parole che il marchese figliuolo diresse a quel tristo a tal riguardo, egli giurasse, e spergiurasse che il bambino era morto per davvero, positivamente morto, e non c'era più da discorrerne. Il fratello d'Aurora stava per partirsene, quando una subita ispirazione suscitata in lui dal desiderio di non lasciar nulla d'intentato per soddisfare all'assuntosi debito, lo fece arrestarsi e ricorrere ad un argomento che, per la conoscenza cui già aveva del suo interlocutore, sapeva potentissimo sull'animo di lui; promise che se mai questo bambino non fosse morto e venisse ritrovato, si sarebbe disposti a ricompensare chi lo recasse alla madre con una vistosa somma che si lascierebbe fissare a quel fortunato medesimo a cui si dovrebbe il suo rinvenimento.
Nariccia non fu tanto padrone di sè da non manifestare una certa emozione onde fu sovraccolto, e il marchese che se ne accorse, cominciò a sentire alquanto scossa la sua incredulità nei dubbi e nei presentimenti della sorella. Ripetè le sue parole, insistette con calore, fece ad ogni modo perchè quella emozione momentanea di Nariccia si traducesse in qualche precisa parola, in qualche ulterior segno soltanto onde un più sicuro concetto egli potesse farsi del fondamento o della insussistenza di quella speranza; ma l'accorto impostore aveva saputo metter tosto la maschera al suo volto impassibile e si rinchiuse nelle precedenti negative espresse gli è vero con meno vigore di prima. Il marchese uscì di colà coll'animo combattuto; stette parecchi giorni infra due e si decise finalmente ad un grande ed audacissimo passo: quello di aprirsene a suo padre.
Nel marchese padre, da qualche tempo veniva declinando assai la salute, ed avreste detto sfuggirgli a poco a poco la vita. Il suo carattere, divenuto taciturno e melanconico, era pur tuttavia rimasto fiero ed orgoglioso del pari. Usciva di rado fuor del palazzo, spessi giorni non abbandonava il suo appartamento, di frequente non discendeva manco di letto: non si lamentava mai di nessun male, non faceva nulla, non voleva medico intorno a sè, amava rimaner solo, passavano dei giorni intieri senza ch'ei disserrasse le labbra a dir pure una parola. Chi avesse conosciuto l'intima storia degli ultimi anni passati, avrebbe potuto dire che un interno rimorso con travaglio continuo ne consumava l'esistenza, se il suo aspetto, l'espressione della sua fisionomia non avessero fatto troppo aperto contrasto a tale supposizione. In lui non c'era nulla dell'uomo che si pente o soltanto rimpiange quel che ha fatto: nè una parola, nè pur la fugace mostra d'una sensazione. Padre Bonaventura che il più delle volte era solo ammesso alla presenza di lui, ed al quale non si rifiutava mai l'ingresso e il marchese pareva tenere aperto il più riposto sacrario dell'anima sua, non udì mai parola, non sorprese mai atto nè cenno qualsiasi da cui altra cosa si potesse indurre se non questa: che il marchese ciò che aveva fatto sarebbe disposto a ripeterlo di tutto punto, dove ne fosse il caso.
Eppure egli veniva morendosi a poco a poco. Tutti lo scorgevano intorno a lui, e lo scorgeva e mostrava saperlo egli pure. Quando gli si parlava di cose avvenire, aveva un certo sorriso sulle sue labbra tirate che mostrava com'egli non avesse più illusione di sorta sul suo destino. L'orizzonte del suo futuro, nel pensiero come nelle parole, egli lo limitava alla data di pochi mesi: allo scultore aveva dato egli stesso la commissione del bassorilievo che nel sepolcro di famiglia avrebbe segnato la sua fossa e fissatogli il tempo in cui avrebbe dovuto essere compito; nelle mani del Re aveva rassegnato tutte le sue cariche di Corte, e la solitudine di cui [33] voleva essere circondato oramai era per lui la preparazione a morire.
E che così fosse era persuaso quant'altri mai anche Nariccia. La morte del marchese avrebbe potuto mutare le condizioni e le convenienze del già intendente verso la famiglia, rapporto all'episodio doloroso che riguardava la marchesina Aurora. Le parole del fratello di costei aprirono allo scellerato un nuovo campo di speculazioni in proposito. Certo egli era già che la povera madre avrebbe pagato vistosamente per riavere il figliuolo creduto morto; ora le s'aggiungeva il fratello: destramente maneggiandosi egli avrebbe potuto ricavare e dall'uno e dall'altra i migliori guadagni del mondo, se la paura del vecchio marchese non ne lo avesse ad ogni modo trattenuto. Ma questa paura poteva dileguarsi: pochi mesi ancora, e chi la ispirava facilmente non sarebbe stato più. Che cosa avrebb'egli ottenuto dai figliuoli suoi quando egli si fosse presentato loro col bambino ricuperato, adducendo incontrovertibili prove dell'identità del medesimo? E giustamente il giorno dopo quello in cui era venuto da Nariccia il fratello d'Aurora a fargliene le aperture che sappiamo, il marchese padre, assalito da nuova debolezza, si sentiva nell'impossibilità di levarsi di letto e confessava esser preso da una tale languidezza che gli pareva quasi sciolto il legame che tiene l'anima incatenata al corpo. Alcuni giorni passarono in cui quel malore venne via via crescendo; parve all'infermo stesso fosse opportuno farsi amministrare i sacramenti onde la religione conforta la morte dei cristiani, e fra' Bonaventura a cui glie ne disse, pensò a tutt'altro che a dissentire.
Codesto spinse vieppiù Nariccia alla determinazione di adoprarsi in guisa da potere, morto il marchese, presentare ad Aurora il bambino fatto rivivere; vedremo più tardi come e che cosa egli facesse per ciò; ma intanto si può dire fin d'ora che in breve tutto fu da lui immaginato e preparato, perchè dopo la morte del vecchio marchese fossero soddisfatti i voti e le speranze d'Aurora.
E di costei che cosa ne avveniva? La cresciuta infermità del padre e l'avvicinatosi pericolo avevano consigliato al fratello d'Aurora di tentare una riconciliazione fra il moribondo e la figliuola. Al primo fece, per mezzo di fra' Bonaventura, inculcare la virtù del perdono, alla seconda scrisse egli medesimo dicendo esser obbligo de' figli innanzi all'agonia de' genitori obliar tutto e cancellar dall'animo anche i più giusti risentimenti. Riuscì ad ottenere che il padre consentisse ad accogliere la figliuola, e questa non si rifiutasse ad entrare di nuovo nella casa paterna. Tra padre e figlia nel ritrovarsi in presenza di nuovo dopo tali e tanti avvenimenti, non si scambiò una parola d'affetto, nè un cenno pure qualsiasi che alludesse a quanto era passato. Fu peggio che freddo il loro contegno: il dovere solo riuniva ora quelle due persone fra esse, non più la menoma corrente di benevolenza; nel contegno del vecchio, anzi, un'irritazione quasi un accanimento d'ostilità, frenato, ma non punto sminuito da quello che aveva voluto la morte di Valpetrosa e le lagrime amarissime d'Aurora.
Questa si pose a dare al padre tutte quelle cure che lo stato di lui richiedeva, che il suo dovere di figlia imponevale; ma il vecchio mostrò che quelle attenzioni e la presenza medesima di lei tornavangli fastidiose, ed Aurora si tenne, per quanto le convenienze permettevano, lontana dal letto e dalla camera paterna.
In questo stato di cose il marchese figliuolo ebbe l'infelicissima ispirazione di credere che il vecchio padre non avrebbe voluto scendere nella tomba senza riparare, quando ciò si potesse, al soverchio dolore dato alla figliuola, alla barbara ingiustizia usata verso l'innocente di lei creaturina, se pur era vero che il bambino vivo fosse stato strappato alle braccia della madre, e condannato al disonore ed alle miserie del trovatello. Aspettò un di in cui parve tornato qualche poco più di forza all'infermo, e chiamando in aiuto tutto il coraggio ond'era capace, entrò risolutamente nel discorso, e disse a suo padre dei sospetti di Aurora, del passo ch'egli aveva fatto presso Nariccia, dell'ambiguo contegno di costui onde ancor egli aveva sentito qualche dubbio cui prima non avrebbe accolto mai, e finì colle più calde suppliche e deprecazioni affinchè, se tanta crudeltà era stata veramente commessa, non si tardasse oltre a rimediarvi, non volesse il malato tenere sotto il peso di sì grave risponsabilità la sua vecchiaia. Il marchese padre al discorso del figliuolo rimase in apparenza perfettamente insensibile, da un vivo lampeggiar d'occhi all'infuori che alle prime parole udite gli accese lo sguardo e poi tosto si spense. Quando il fratello d'Aurora si fu taciuto, il vecchio volse verso di lui un sogghigno ironico ed una faccia beffarda.
— E tu credi a codeste fandonie? diss'egli. Un diplomatico tuo pari, un uomo d'ingegno, come ti ho sempre creduto!... Va, lasciami tranquillo, e non venire altrimenti a turbare la mia quiete con simili fiabe.
Ma rimasto solo, il vecchio marchese fece venire a sè il suo servo di confidenza e gli comandò senza indugio, andasse in cerca della Modestina e glie la menasse il più sollecitamente possibile, facendola passare per la segreta scaletta del palazzo e in ora tale che i figliuoli di lui non potessero non che vederla, ma neppure avere il menomo sentore della sua venuta. Fu egli prontamente obbedito, e poche ore dopo, quella che doveva poi essere sopranominata la Gattona, trovavasi presso al letto del vecchio marchese. Questo esigeva da lei gli raccontasse la verità, ma proprio e tutta la verità di quello che era accaduto alla nascita di quel bambino, cui egli aveva voluto e voleva per l'affatto smarrito; e [34] lo esigeva in quel modo con cui sapeva imporre a chiunque l'ubbidienza ed a cui non c'era caso di resistere. Modestina disse tutto dal principio alla fine; e il marchese ascoltò colla massima attenzione.
— Come segni di riconoscimento: disse il vecchio di poi, come per confermare viemmeglio nella sua memoria la cosa; egli ha seco il rosario d'agata della mia defunta, un bottone di livrea di vostro marito e la carta scritta dalla vostra mano?
— Sì, signor marchese.
— Sta bene. Andate e non parlate con anima viva di quanto avete detto, e sia per tutti, anco per voi, come se qui non foste oggi venuta, come se questo colloquio non avesse avuto luogo mai.
Modestina giurò il più assoluto silenzio e se ne fu a' fatti suoi. Il marchese meditò tutto quel giorno profondamente e non volle veder nessuno nè della famiglia nè dei conoscenti tranne il fidatissimo suo servitore. Alla sera diede a quest'esso il comando di andar a prendere e condur seco al palazzo messer Nariccia. Con costui, del quale erasi fatto ora mai un giusto concetto, per riuscire sicuramente nel suo disegno, il vecchio marchese aveva pensato usare un inganno. Gli disse che vedendosi avvicinare ogni di più il fine della sua vita, il rimorso lo aveva assalito di aver tolto alla figliuola il suo bambino ed un gran desiderio gli era nato di restituire a quella poveretta suo figlio, parendogli che dopo ciò più tranquillamente avrebbe potuto avviarsi verso la tomba; aver udito con molta soddisfazione che al bambino erano stati posti certi contrassegni per cui riconoscerlo e poter riaverlo, Nariccia saper egli dove questo bambino si trovasse, glie io dicesse perchè si fosse in grado senza ritardo, di provvedere pel ricupero del medesimo.
Nariccia, con tutta la sua accortezza, cadde compiutamente nella rete. La cosa era troppo naturale perchè non si avesse da crederla, chi non sapesse qual provvista d'odio avesse continuato a rammontarsi, invece che diminuire, nell'anima fiera e crudele del marchese contro il morto Valpetrosa e il rampollo del sangue di lui. Attonito che il marchese sapesse così bene ogni particolare della cosa, l'ex-intendente non osò negar nulla; ma quando il suo antico padrone volle svelasse il luogo dove il bambino era stato posto, fu egli l'uomo più impacciato del mondo, e per torsi d'imbarazzo fini per dire:
— A S. E. non importerà gran che il sapere ch'e' si trovi in questo o in quell'ospizio, purchè la conclusione sia ch'Ella riabbia il bambino. Di qualcheduno Ella avrà pur sempre bisogno il quale vada a prenderlo; chi può far ciò meglio di me che conosco appuntino i contrassegni, e so il giorno e l'ora precisi in cui venne il neonato deposto? Affidi dunque a me siffatto còmpito, ed io fra quindici giorni le prometto di presentarle il bimbo con tutti quegli oggetti che, come S. E. conosce, ne stabiliscono l'identità.
Il marchese guardò ben fisso un istante il suo interlocutore, e poi disse:
— Sia pure.... fra quindici giorni la cosa deve esser fatta, e conto aver nelle mani il bambino ed i contrassegni.... Se ci mancate, guai a voi!... Non comparitemi più dinanzi che per annunziarmi il giorno e il momento in cui potrete farmi la consegna di quel che voglio. E di tutto questo sopratutto, assoluto silenzio con mio figlio e con Aurora.... Siamo intesi!
Nariccia si curvò in un profondo inchino.
— Andate.
I quindici giorni non erano ancora trascorsi quando Nariccia introdotto furtivamente presso il marchese dicevagli a bassa voce:
— Eccellenza ho nelle mie mani il bimbo.
Uno strano lampo passò negli occhi del vecchio, il quale, con impeto che pareva indicare tornato in lui tutto il primitivo vigore, si levò a sedere sul letto.
— Dove ce l'avete?
— A casa mia.
— Proprio desso?
— Signor sì.
— E i contrassegni?
— Ancora nel sacchetto che cucì e gli appese al collo l'Eugenia.
— Sta bene.
Successe un momento di silenzio.
— Ho da portarglielo qui io stesso quel bambino; domandò poscia Nariccia: o che cosa ne debbo fare?
— Stassera, a mezzanotte, siate sveglio in casa vostra e pronto ad accogliervi chi si presenterà. Verrà alcuno, a cui consegnerete ogni cosa.
— Come si farà egli riconoscere per inviato da V. E.?
— Lo riconoscerete.
L'antico intendente non aggiunse più verbo.
Un anno o poco più era allora trascorso dalla morte di Maurilio; anche allora si era in una fredda notte invernale come quella in cui vedemmo cominciare il nostro racconto, e Nariccia, mentre battevano le dodici ore al non lontano campanile della parrocchia, andava e veniva nella fredda stanzuccia da lui abitata a quel tempo, fermandosi di quando in quando innanzi ad una tavola sovra cui, avvolto in povere ma pulite fascie, stava un bimbo di pochi mesi d'età, il quale dalla pallidezza del piccolo viso, dagli occhi chiusi, dai guaiti di dolore che mandava tratto tratto, pareva più presso a morire che non altro. L'antico intendente non era per nulla contento dei fatti suoi, e volgendo lo sguardo a quel fanciullo, i suoi occhi avevano un'espressione di rincrescimento, di dispetto, di disappunto che impossibile il descriverla. Dalla presenza di lui, Nariccia [35] aveva sperato un momento nuovi guadagni, maggiori di quelli che glie ne avrebbe dati il vecchio marchese il quale non aveva promesso nulla. Dalla marchesina Aurora e da suo fratello avrebbe egli osato domandare quel più che gli piacesse e le sue esigenze sarebbero state subìte: dal marchese padre non poteva pretendere nulla. Andava egli mulinando seco stesso con rabbia di questa sua disavventura e pensando se non avrebbe potuto trovar modo per cui raggirare il mandatario dell'antico suo padrone (e ancora non sapeva egli tampoco chi sarebbe), quando un picchio nell'uscio lo avvertì che la persona aspettata era giunta.
Nariccia aprì e vide entrare due uomini imbaccuccati nei mantelli, uno, che pareva camminare a stento, sorreggendosi all'altro. Nel secondo riconobbe tosto il servo fidatissimo del marchese, e nel primo, quando abbassò la falda onde si copriva la faccia, dovette ravvisare con infinita meraviglia il marchese medesimo, a cui una specie di febbre che gli faceva lucicchiare gli occhi, unita ad una energica volontà, aveva data la forza di sorgere e di venirsene segretamente fin là egli stesso.
— Lei Eccellenza: esclamò inchinandosi Nariccia che vide ogni possibilità di ulteriore inganno affatto svanita.
Il marchese non rispose; andò dritto, diviato alla tavola su cui stava il bambino e lo guardò — la similitudine è vecchissima, ma è l'unica che si attagli — come falco che guarda la preda cui ha da ghermire. Serrò al petto le braccia e stette un istante immobile; tutta la sua vitalità, avreste detto, raccolta nello sguardo. Intorno a lui regnava un silenzio di morte.
Volse di poi la faccia verso Nariccia e domandò bruscamente:
— È desso?
La sua voce aveva una vibrazione metallica che le dava un carattere più imperioso ancora e più aspro.
Nariccia s'inchinò profondamente in segno di affermazione.
— Le prove? Ridomandò col medesimo accento il marchese.
L'antico intendente si accostò al bimbo, levò di intorno a lui un sacchettino di tela che, appiccatogli per un legaccio al collo, stava nascosto in un risvolto delle fascie e lo porse al marchese senza aprir bocca.
Il padre d'Aurora aprì quella tasca e ne trasse fuori gli oggetti che vi si contenevano; erano quelli che sappiamo: il rosario, il bottone e la cartolina scritta dalla Luponi. Esaminò ben bene ogni cosa; poi come se quegli oggetti gli bruciassero le mani li depose sulla tavola. Si accostò vieppiù al fantolino, gli passò intorno al collo il cordone del sacchetto che allora era vuoto, e si chinò su di esso a fisarlo ancora di meglio. Cercava con avido sguardo una rassomiglianza che non riusciva a trovare.
— È strano, disse poi, quasi parlando a se stesso: nulla vi ha in questi tratti che ricordi quelli di colui... nè quelli pur di mia figlia.... Ed e' mi par molto piccino....
Si volse al servo che era sempre rimasto in un angolo con riserbatissima discrezione:
— Venite un po' qua: gli disse. Guardate questo bambino. Vi par egli che abbia un anno di età?
Il domestico s'appressò e guardò.
— Veramente è assai piccolo: disse.
Il marchese teneva gli occhi fissi su Nariccia, il quale stava impassibile.
— Ma, soggiunse il servitore, di bambini a quel tempo è difficilissimo poter giudicare a vista i mesi che hanno.
— Egli è deboluccio, a quanto pare, disse allora Nariccia, è da un po' di giorni ch'è separato dalla nutrice, ha sofferto.
Il marchese tornò a prendere in mano e ad esaminare l'un dopo l'altro gli oggetti che dovevano certificare la identità del figliuolo di Maurilio. Non v'era cosa da opporvi, erano proprio dessi: il rosario che il marchese ricordava aver appartenuto a sua moglie, il bottone collo stemma a lui ben noto dei de Meyrand, la scritta col carattere di Modestina. Stette ancora un poco in silenzio: non una fibra del suo cuore palpitò di tenerezza, nè di compassione per quel povero infante, che seguitava di quando in quando a gemicolare; poi si volse in là, come se gli fosse uggioso il vederlo e disse a Nariccia:
— Rimettetegli addosso quella roba.
Fu caso o fu volere della Provvidenza? Mentre il marchese intendeva che quegli oggetti fossero riposti entro la piccola tasca cui egli stesso aveva rimessa al collo del bambino, Nariccia non fece altro che ficcarli in mezzo ai risvolti della fascia che lo cingeva, lasciando pendere vuoto il sacchetto al collo di lui.
— Nariccia, disse poscia il marchese con quel suo accento che era da incutere timore a chicchessiasi: voi mi avete disubbidito, e ciò non dimenticherò mai più. Quel bambino non aveva da trovarsi mai, e voi stesso dovevate smarrirne le traccie: eccovelo invece innanzi agli occhi... Ora me ne impadronisco e ne dispongo io stesso.... Stolto voi se poteste credere ch'io mi lasciassi vincere da debolezza d'animo fiacco e rimpiangere e voler mutare quello che ho fatto. Il figliuolo di quel miserabile ho condannato alla sorte che gli spetta, e non ne avrà altra nel mondo.... Voi, voi non mi comparirete più dinanzi, eccetto che un mio ordine espresso vi richiami.
L'antico intendente non trovò parole da rispondere: era furibondo nel suo intimo contro se stesso per esser caduto nella pania; s'inchinò profondamente innanzi al marchese che passava più fiero che mai dirigendosi all'uscio per partire.
[36] — Prendete quell'involto: comandò il padre d'Aurora al servo, accennandogli con un moto della testa il bambino: e seguitemi.
Se ne uscirono così tuttedue. Il vecchio, come se gli fosse tornata tutta la vigoria della salute, camminava diritto della persona, colla sua mossa superba e l'aspetto pieno d'autorità; il domestico lo seguiva in silenzio. Si avviarono verso una delle strade le peggio rinomate della vecchia città; e quando furono alquanto inoltrati per essa, il marchese si fermò; il suo fidato servitore s'arrestò del pari, interrogando collo sguardo, colla parola non osava, il padrone su ciò che si dovesse fare.
Non v'era anima viva in quella fredda oscurità della notte; una brezza sottile e ghiaccia soffiava alle cantonate. Il marchese additò il mezzo dell'acciottolato della strada, dove un rigagnolo fangoso tutto congelato rendeva ronchioso il terreno.
— Deponetelo colà: comandò al servitore.
Questi, fosse pietà che lo assalisse, o non potesse credere a tanta barbarie nel suo padrone, esitò.
— Avete capito? disse il marchese con quell'accento che non permetteva indugio all'obbedire.
Il servo si chinò a terra e depose pianamente su quella fanghiglia gelata il suo fardello.
— Poverino! pensava egli: domattina lo troveranno tutto un ghiacciuolo.
Mentre stava per rialzarsi, la voce del padrone gli diede un altro comando:
— Toglietegli quel sacchetto che gli pende dal collo e riponetelo nelle vostre tasche.
Il domestico ubbidì; poi si volse al padrone per vedere se altro ancora avesse da fare; ma in quella nel marchese parve venir meno ad un tratto tutta quell'energia che fino allora lo aveva sostenuto: egli si appoggiò alla muraglia della casa presso cui si trovava, e disse con voce appena se intelligibile:
— Ah! mi sento mancare.
D'un balzo il servitore gli fu presso e lo sorresse nelle sue braccia.
— Glie l'avevo detto io, Eccellenza, che non si avventurasse a tanto sforzo.
— Conducetemi a casa: mormorò il vecchio, abbandonandosi nelle braccia del servo, il quale recandoselo quasi in braccio, s'affrettò verso il palazzo, vi penetrò per la porticina e la scaletta, e senza che alcuno avesse pur sentore della loro uscita, lo guidò nel suo appartamento e lo coricò, mentre i denti del vecchio battevano dalla febbre.
Due ore dopo, il marchese alquanto riconfortato, disse al servo che non s'era mosso dal suo fianco:
— Datemi qui quel sacchetto.
Il domestico se lo trasse di saccoccia e lo porse al giacente; ma questi lo ebbe appena tocco colla sua mano che mandò un'esclamazione di rabbia e disappunto: il sacchetto era vuoto.
Il marchese credette ad un inganno di Nariccia e mandò tosto da costui quel suo servo fidatissimo perchè ne tornasse ad ogni modo con quegli oggetti che aver voleva in poter suo. Il domestico fu di corsa in casa l'usuraio, ma non potè ottenerne che le più vive proteste, aver egli rimesso addosso al bambino quei contrassegni: e il mandatario del marchese s'affrettò allora verso quel luogo dove il fanciullo era stato abbandonato. Era presso l'alba e un pallidissimo chiarore già spuntava sopra la collina all'orizzonte: qualche passo di cittadino mattiniere incominciava a suonare per le strade ancora oscure, in cui venivano spegnendosi i lampioni municipali; alcuni carri di ortolano e di lattaio dei dintorni facevano saltare le loro ceste e le loro bigoncie correndo sull'acciottolato al trotto dei loro ronzini sollecitati dal chioccare importuno della frusta. Giunto a quel luogo dove il fanciullo era stato deposto, il servo non vide più nulla; invano percorse tutta quella straducola, il fantolino era scomparso. Dovette ritornare con queste novelle al suo padrone, che ne rimase assai poco soddisfatto. Pareva al marchese che il suo proposito di volere affatto smarrita quella creaturina, corresse così pericolo di non venire ottenuto, e un giorno o l'altro potesse ripresentarsi innanzi alla nobile sua famiglia quell'essere che a suo vedere ne incarnava una disgraziata vergogna.
Ma, tra le emozioni di quella notte, la rabbia del non compiuto successo, lo strapazzo fisico che la sua volontà aveva imposto al corpo affaticato ed infermo, avvenne che la malattia del marchese il giorno dopo s'aggravò notevolmente, ed una settimana non era ancora trascorsa che un mesto corteo accompagnava a Baldissero, per seppellirla nel fastoso sepolcro de' suoi maggiori, la salma del padre di Aurora.
Questa un anno dopo acconsentiva a sposare il conte di Castelletto, il quale l'amava tuttavia, e del quale essa ignorava compiutamente la parte avuta in quel funesto duello che le aveva tolto il primo marito. Che ogni ulteriore ricerca del figliuolo fosse inutil cosa, le nuove asseveranze di Nariccia congiunte colle parole del defunto marchese avevano finito per mandare persuasi tanto Aurora medesima quanto il fratello di lei. Da questo maritaggio nasceva poscia Virginia; ed era questa giunta appena ai due anni, che un fatalissimo destino la orbava del padre e della madre, e questa, morendo, la raccomandava al fratello, a cui finalmente aveva perdonato di tutto l'animo.
Di questa lugubre storia narrava il marchese a Virginia quelle cose soltanto ch'egli sapeva e che potevano conferire all'assunto ch'egli s'era proposto: di far vedere alla fanciulla come un amore per uomo che non appartenesse alla sua classe non potesse avere altro risultamento che di dolori e sventure. Quali fossero le impressioni di Virginia sarebbe stato difficilissimo giudicare dal suo aspetto: tanto ella aveva ascoltato e tanto rimase anco di [37] poi immota, senza un accento, senza uno sguardo, senza un atto che ne rivelasse l'intimo sentire. E se avesse dovuto dire quali fossero queste sue impressioni, non avrebbe manco saputo ella stessa, poichè le si affollavano intralciate, confuse, poco meno che inestricabili.
Superiore ad ogni altra era una grande compassione per la povera sua madre. Dapprima però la sua era stata come una delusione: la madre, di cui ella non ricordava nulla, di cui non conosceva che la mite fisionomia dall'aria dolorosamente rassegnata, la quale le volgeva un mesto sorriso dal ritratto ch'ella teneva appeso a capoletto come un quadro di Madonna, la madre era per lei qualche cosa di sopraterreno, di superiore a tutte le cose e le passioni del mondo, ed udire parlare di cosa che poteva dirsi fallo di lei, tornava a Virginia quasi una profanazione. Poi tosto la somiglianza del suo coll'affetto di sua madre le destò un più ardente trasporto di simpatia verso la memoria di quell'estinta che tanto aveva sofferto; sentì un subito moto di repulsione verso lo zio che aveva tal dolore inflitto alla povera donna, verso quello zio che pure era stato così buono per lei sempre, e ch'ella s'era avvezza ad amare e venerare come padre. La barriera fra sè ed il giovane ch'essa amava, già sapeva quasi insuperabile, il racconto dello zio le dimostrava che era tale senza rimedio: non aveva ella mai nutrito lusinga di speranze, ma ora più chiaro di prima le appariva l'assoluta impossibilità d'ogni ventura.
Quand'ebbe finito il suo racconto, lo zio le prese fra le sue tuttedue le mani e le disse con accento di amorevolezza infinita:
— Se io non fossi stato assente, Aurora, mi avrebbe confidato l'amor suo, come tu hai fatto or ora del tuo; e sai tu quello che io le avrei detto? «L'amor tuo è una follia: se tu vi resisti potrà esserti un dolore, ma se ti abbandoni ad esso, sarà una colpa. Sul dolore il tempo sparge a poco a poco pur sempre il suo balsamo infallibile, la colpa non si cancella mai più. Tutti nella vita possono trovarsi nella cruda lotta del dovere e della passione: per noi, classe privilegiata, questa lotta può aver luogo più facilmente, in più frequenti occasioni, perchè sono molti più i nostri doveri; e dobbiamo trovare nell'animo nostro tanta forza che basti a tutti i doveri, anche quelli speciali della nostra casta. Una fanciulla del nostro sangue non può sposare un plebeo, non deve dunque amarlo, deve soffocare ad ogni costo l'amore che per esso abbia imprudentemente lasciato nascersi in cuore...»
Virginia interruppe con un'esclamazione, e si levò pallida in volto, risoluta nell'aspetto.
— Come io non isperi nulla di codesto amore, già glie lo affermai, zio; già lo dissi al signor Benda medesimo. Viva o muoia quell'infelice, noi siamo separati per sempre, lo so, non mi ribello a questo decreto del nostro destino, non ripeterò l'errore della mia povera madre.... S'egli vive non le prometto di cancellarmelo dal cuore. Non amerò altri più sulla terra. Ma non lo rivedrò mai. S'egli muore, voglio, zio, vederlo un'ultima volta, dargli un ultimo addio; ed Ella non deve negarmelo.
Il marchese fece un atto che pareva d'assentimento: e la nobil fanciulla con mossa dignitosa e severa partissi; allora osò entrare nello studio del padrone il cameriere, che recava: Padre Bonaventura essere venuto lungo la giornata per parlare al signor marchese che trovavasi assente dal palazzo, essere tornato la sera, ed averlo rinviato i domestici dietro il preciso ordine di S. E. di nemmanco annunziarle chiunque si fosse di persone estranee alla famiglia, aver quindi il gesuita mandato testè una letterina pel marchese che si veniva a presentargli.
Baldissero prese quella lettera e la lesse. Era concepita ne' seguenti termini:
«Eccellenza.
«Un gravissimo motivo mi spinge a domandarle l'onore d'una conferenza con Lei, quanto più presto Ella voglia degnarsi d'accordarmela.
«Si tratta d'un importante scoperta, d'un avvenimento da non credersi, se non ci fossero le prove materiali e palpabili, d'un vero miracolo della divina Provvidenza.
«Esso riguarda un fatto doloroso, pur troppo, della sua famiglia, al quale Iddio volle che ancor io avessi una parte; e per quanto io senta pena e ripugnanza a venirla ad intrattenere di quel funesto argomento, a rievocare fatalissimi ricordi, in presenza della gravità della cosa, sento il debito di farlo.
«Quando V. E. mi abbia inteso, mi perdonerà, e sarà persuasa che altro non mi muove che l'interesse, l'affetto e la reverenza che ho sempre avuta e che ho per la nobile di Lei casa e con cui mi protesto
«Suo Umil.mo e Devot.mo Servo
«Padre Bonaventura
della Compagnia di Gesù.»
Il marchese, nel leggere queste parole, provò una dolorosa scossa. Qual poteva essere il fatto della sua famiglia a cui aveva partecipato il gesuita, se non quello appunto del quale aveva fino allora discorso alla nipote, e con quanta pena dell'anima, Dio vel dica! E che cosa poteva essere il nuovo avvenimento di cui faceva cenno il frate, il miracolo della Provvidenza ch'egli diceva riguardo a quella funesta storia? Invero doveva pur confessare egli a se stesso che da due giorni tutto in lui e intorno a lui pareva cospirare a far rivivere quelle sanguinose memorie che dopo tanti anni dovevano essere e pensava egli stesso obliterate e sepolte: [38] tutto, il suo pensiero, il suo rinascente rimorso, gli eventi che parevano voler riprodurre per la nipote le tristi vicende avvenute alla sorella. Era dunque veramente la Provvidenza che veniva preparando le cose allo scoppio di qualche nuovo episodio di quel dramma non ancora finito? Ma quale?... Una viva impazienza, un'ansiosa curiosità lo assalse di saper tosto che cosa fosse questo mistero adombratogli dalle parole del frate. Fu sul punto di uscire egli stesso e recarsi senza indugio al convento dei Gesuiti al Carmine; ma si trattenne. Scrisse e mandò a Padre Bonaventura la seguente risposta:
«Il marchese di Baldissero aspetta a casa sua il Reverendo Padre Bonaventura domani alle ore nove della mattina.»
Quella medesima sera, in cui successero i tristi fatti che abbiamo narrati alla fabbrica dei Benda, Maurilio, ignaro di quelle funeste vicende, avendo sfuggito ogni compagnia, perchè desideroso di rimaner solo col tumulto de' suoi pensieri, col cumulo de' suoi affetti e delle sue passioni, se ne tornava verso il palazzo Baldissero, ora sua dimora, a lento passo, dopo un lungo giro fatto nella parte più solitaria della città, insensibile all'aria frizzante della sera, quando alla cantonata proprio del palazzo medesimo, vide un piccolo essere spiccarsi dalla parete, e ponendoglisi dinanzi dirgli colla voce rauca d'un bambino assiderato dal freddo:
— Giusto Lei che aspettavo; ho una commissione da farle.
Maurilio riconobbe la vocina, la faccia patita ma intelligente, l'occhio vivo e la testa arruffata di Gognino il nipote della Gattona.
— Tu qui? diss'egli assalito di subito da una specie di rincrescimento d'aver perfettamente obliato il suo piccolo protetto. E m'aspettavi?
— Gnor sì. È la nonna che mi ci ha mandato e guai se me ne andavo prima di averla vista e parlatole.
— E come sapevi tu che io sarei venuto qui in questa strada?
— Lo si seppe andando a cercare di Lei al suo antico quartiere, là, dove l'altro dì la mi disse di tante belle cose, quando poi son venuti ad arrestarla.
Maurilio sentì una specie di tenerezza a queste parole del fanciullo.
— Tu non le hai dimenticate le cose ch'io ti dissi? domandò ponendogli con atto affettuoso la mano sul capo.
— Oh no.... non ancora: rispose ingenuamente Gognino.
— È dunque la tua nonna che ti manda in cerca di me a quest'ora?
— Non è mica lei che la vuole: gli è Padre Bonaventura.
— Padre Bonaventura! esclamò Maurilio stupito: che può aver meco da spartire costui?
Il frate era conosciuto in tutta Torino come uno dei più influenti, operosi ed intriganti fra i gesuiti che allora tenevano nella cosa pubblica un'autorità incontestata, a cui nessuno osava pure opporsi: il nostro giovane amico poi conosceva ancora più particolarmente i meriti e le gesta di quel cotale, perchè di lui gli aveva discorso a dovere Giovanni Selva, il quale all'influsso di quel tristo doveva la sua esclusione dalla casa di suo padre.
Alla domanda di Maurilio, Gognino non sapeva far alcuna risposta, e non ne fece, contentandosi a stringersi nelle spalle.
— E dunque, riprese Maurilio, che hai tu da dirmi a nome di codesto Padre Bonaventura?
— Che le ha da parlare di cose d'importanza e di premura che la riguardano.
— Me?
— Gnor sì. E che perciò la aspetta questa sera medesima colaggiù al convento; ed io ci ho ordine dalla nonna di accompagnarla fino dal fra' laico portinaio e non lasciarla finchè non abbia acconsentito a venire.
Il primo impulso di Maurilio fu una viva curiosità di conoscere la ragione di questo appello, cui, per quanto immaginasse non sapeva indovinare: e già era per avviarsi, quando una quasi istintiva diffidenza lo trattenne.
— E s'io non ci volessi andare a trovare quel gesuita? diss'egli al fanciullo, che stava osservandolo con un'aspettazione che pareva quasi ansietà.
— Ah! disse vivamente Gognino con una fiduciosa ingenuità da ragazzo: ci venga per far piacere a me soltanto. Se io non la conduco almanco fino alla portieria del Carmine, dove la mi sta aspettando, la nonna crederà che invece di fare secondo il suo comando, io sono andato a baloccarmi, e me ne dà una famosa strigliatina.
Maurilio sorrise mestamente, e non disse altro più che questa parola:
— Andiamo.
Gognino si mosse camminando zoppo e rattratto pel dolor dei geloni e per l'intirizzimento delle sue piccole membra, e Maurilio gli tenne dietro.
Erano aspettati. La Gattona nel vedersi dinanzi quel giovane, sentì entro il suo inaridito cuore di vecchia ipocrita un certo non so che da potersi quasi dire una emozione; qualche cosa di più che una curiosità la punse di vedere, di esaminare ben bene quell'individuo, e piantandosegli in faccia lo squadrò ben bene coi suoi piccoli occhietti infossati nel suo vecchio ceffo da uccello di rapina coperto di pergamena, mentre con voce lentamente trascinata [39] e più aspra e fessa del solito gli veniva dicendo:
— Sia lodato Dio e la Madonna ch'Ella sia venuta. Avevo paura che la non volesse dar retta alle parole di Gognino. E sarei pure andata io ad aspettarla per la strada; ma una povera vecchia mia pari a questa fredda brezza di notte star ferma impiantata c'è da lasciar subito le sue quattro miserabili ossa. Ho pregato tanto il mio santo protettore e la santissima Vergine che....
A Maurilio lo sguardo fisso, scrutatore della vecchia dava un inesplicabile fastidio, quasi un'irritazione; le parole di lei gli producevano un'impazienza uggiosa; sentiva una più spiccata ripugnanza per quell'essere degradato.
— Eccomi qua: interrupp'egli bruscamente. Se son venuto gli è, perchè non credeste che Luchino avesse mancato di ubbidirvi, chè altrimenti non avrei visto ragione alcuna di rendermi all'invito di Padre Bonaventura, che non mi conosce, ch'io non conosco, e col quale non ho attinenza di sorta.
— Ah! esclamò la vecchia con un'espressione di zelo e d'interesse che ognuno avrebbe detta esagerata: la non si penta d'esser venuta, sa!... Ella volle farmi del bene, a me ed al mio nipotino, e mai non fu carità nessuna così presto e così largamente ricompensata dal Cielo.... Ringrazio la bontà divina che mi volle così presto esaudita nelle mie preghiere.... Questa povera e umile vecchia, questa abbietta creatura volle Iddio fosse stromento de' suoi decreti; e per cagion mia Ella potesse finalmente....
Maurilio ricordò le parole che gli avevan detto Don Venanzio e Giovanni Selva del colloquio avuto da costoro colla vecchia, nel quale essa aveva preso l'impegno di fare fra due giorni importanti rivelazioni sulla nascita di lui; non dubitò punto che gli ambigui detti della Gattona non avessero rapporto a codesto, e impallidito per subita forte emozione si accostò a lei d'un passo e disse con voce tremante:
— Parlerete voi dunque? Potete voi dunque squarciare il mistero, e volete farlo?
— Si calmi: rispose la Gattona indietrandosi: io, come da un pezzo la direzione della mia coscienza, ho posto questo delicato affare nelle mani di quel sant'uomo, di quel perfetto religioso che è Padre Bonaventura. Questi ha desiderato appunto parlarle in proposito, e saprà dirle quello che conviene....
— E dov'è questo Padre Bonaventura? proruppe con impazienza Maurilio. Conducetemi adunque da lui.
Il frate laico si fece innanzi.
— Abbia la bontà di seguirmi, disse, ch'io ho l'ordine di condurla alla cella di lui.
Maurilio non rispose che con un gesto impaziente e vibrato che significava: — Andate, vi seguo.
Il portinaio prese in mano un lanternino acceso e s'avviò seguito dal giovane; la Gattona tenne dietro collo sguardo a quest'ultimo, finchè l'uscio richiudendosi glie ne tolse la vista.
— Non lo avrei mai più immaginato di quella fatta, diss'ella fra sè; chi lo direbbe mai, a vederlo, figliuolo d'una marchesina, com'era quella creatura là che pareva un angioletto, e di un sì bel giovane, chè gli era proprio bellissimo daddovero. Non ci ha punto di rassomiglianza nè coll'uno nè coll'altra, eccetto gli occhi.... Ah sì, quegli occhi son quelli della povera marchesina Aurora, i medesimi che ha eziandio madamigella Virginia. Ora ch'e' mi guardava fiso, ci fu un momento che mi parve proprio di vedere gli occhi di quella buon'anima là quando mi raccomandava appunto il suo bambino....
Diede uno scossone come se assalita da un subito brivido.
— E se restituisco il suo figliuolo alla condizione che gli conviene, la non avrà più da volermene quella benedett'anima là.... E questo figliuolo dovrebbe pure essermi riconoscente della bella maniera.... Ah se avessi potuto menare da me tutto questo affare senza intromissione di Padre Bonaventura, sarebbe pure stato meglio pel mio interesse; ma come farla? Il marchese non mi avrebbe manco dato retta; se avessi minacciato uno scandalo mi avrebbe fors'anco mandato a finire in una casa di custodia questi quattro dì che mi restano, e questo diavolo d'un frate ha in mano tutti i fili della matassa. Lasciamo dunque far da lui; e son certa che qualche cosa in mio vantaggio lo vorrà pur fare.... Andiamo a casa.
Prese Gognino per un braccio e tirandolo seco di mala grazia uscì del portone, che richiuse cautamente dietro di sè.
Intanto Maurilio seguendo i passi della sua guida attraversava un lungo andito appena se illuminato dalla fioca luce d'una lanterna, saliva quattro branche d'una vasta e comoda scala, ed arrivava quasi a capo d'un corridoio all'uscio d'una cella nel quale il frate laico picchiava discretamente colla nocca delle dita.
— Avanti: diceva dall'interno una voce tanto piena di benevolenza che l'avreste detta un'ostentazione.
Il portinaio aprì a mezzo il battente e cacciò dentro la testa.
— Gli è quel giovane ch'Ella aspetta, Reverendo: disse.
— Dio sia lodato! rispose quella voce ancora più compunta. Ch'egli venga.
Il laico si trasse in disparte, con una mano aprì di meglio l'uscio, coll'altra fece invito al giovane di passare e lo confermò colle parole:
— Entri: quello è Padre Bonaventura.
Maurilio entrò, e dietro di lui la porta fu richiusa dal frate portinaio che se ne andò ai fatti suoi. La cella era abbastanza vasta: le pareti, scialbate [40] a calce, bianchissime, senz'altro ornamento; un lettuccio basso in un angolo, sopra di esso appiccati al muro un quadro rappresentante San Luigi Gonzaga, un acquasantino di cristallo, una palma; in faccia al letto un sofà semplicemente impagliato, seggiole compagne intorno, appoggiate alle pareti; presso la finestra, che faceva quasi riscontro alla porta, una tavola coperta d'un tappeto verde, la quale serviva di scrivania; sopra di essa delle carte, un calamaio, una croce piuttosto alta di legno nero inverniciato che si drizzava sopra la base di due scalini, dietro questa croce uno specchietto accortamente posto così che vi si riflettesse la figura di chiunque entrasse nella cella da poterla vedere ed esaminare chi si trovasse seduto alla tavola; presso a questo una piccola scancìa piena di libri.
Padre Bonaventura stava appunto seduto a codesta sua tavola su cui era posta una lampada con una ventola che ne rifletteva giù la luce; così che Maurilio entrando non vide che le spalle larghe del frate e la grossa persona avvolte d'una vestaccia di lana nera. Ma il gesuita diede colla mano un piccol colpo alla ventola della lampada e rialzandola fece correre i raggi della luce, da una parte sulla faccia di chi entrava, dall'altra sullo specchietto appostato dietro la croce. Il nostro giovane che s'avanzava guardando non senza molta curiosità verso il famoso gesuita ancora immobile al suo posto, potè vedere riflesso nello specchietto lo sguardo acuto, investigatore, penetrante che fra' Bonaventura fissava sui lineamenti di lui che gli si dipingevano innanzi. Maurilio fece un sorriso; la ventola s'abbassò di nuovo sulla fiamma della lampada, e il volto del giovane rimase all'oscuro; il frate s'alzò e volse verso il nuovo venuto una faccia piena di benevolenza, di cordialità, di interesse e di bonaria semplicità, espressione di sembianze che era evidentemente preparata e sincera come il complimento di un adulatore.
Tese a Maurilio tuttedue le sue mani bianche, grassotte, morbide e carezzevoli, e disse con quel suo accento di sdolcinata gentilezza:
— Sia Ella il benvenuto nella umil cella del povero frate. Avrei dovuto io stesso recarmi da Lei; ma non sapendo come e dove trovarla per un colloquio segretissimo, quale dev'essere il nostro.... E poi un monaco non può uscire a gironzare la sera. (Mostrò le sue due file di denti a dispetto dell'età ancora bianchissimi e tutti presenti in un sorriso tutto ameno, e soggiunse:) E d'altra parte la cosa premeva e bisognava proprio che di stassera avessi l'onore di avere con esso Lei una conferenza.
Siccome colle sue aveva afferrato le mani grosse e ruvide del giovane, lo trasse per queste sino al sofà e ve lo fece sedere.
— Benchè noi non ci conosciamo affatto, riprese egli a dire, sedendogli presso, noi dobbiamo parlare come due amici, due vecchi amici. La mi permetta di usare con Lei d'una famigliarità che la mia età, il mio carattere, ed anche, come vedrà, le circostanze possono permettermi, e m'ascolti con pazienza ed attenzione.
L'idea di questo colloquio con Maurilio in Padre Bonaventura, ecco di che modo era nata.
Abbiamo visto, come Gognino, tornato presso la nonna dopo l'arresto di Maurilio che aveva interrotto la prima di quelle lezioni che il giovane s'era assunto di dare al povero orfanello, avesse narrato alla vecchia che lo interrogava tutto quello che era successo: le parole dettegli, e che nel bambino erano state meravigliosamente impresse, la seguita invasione degli agenti polizieschi, la perquisizione e l'arresto, coll'episodio del bottone uguale a quello che possedeva la vecchia; ed abbiamo visto che la Gattona aveva creduto di dover tosto affrettarsi a riferir tutto ciò a Padre Bonaventura, dal quale quella mattina medesima, nelle prime ore del giorno, erasi già recata a raccontare l'avventura della sera precedente, l'incontro cioè fatto da Gognino d'un cotale che voleva pagar lei perchè lo lasciasse far da maestro al bambino.
Padre Bonaventura era già stato punto da curiosità molta di sapere chi e che cosa fosse quell'originale di cui s'era fatto lasciare la polizza, da lui stesso data alla Gattona, con sopravi scritto il suo nome e l'indirizzo della sua abitazione. Quando la vecchia venne più tardi a narrargli le cose sopravvenute, il gesuita che non aveva ancora avuto tempo ad occuparsi di quello sconosciuto, vide anzi tutto che egli non aveva giudicato male mettendo quell'individuo in ischiera coi fautori ed apostoli delle novità politiche e sociali, dei liberali amatori e credenti del progresso, amici e patrocinatori dei cosidetti diritti dei popoli e va dicendo: i discorsi tenuti a Gognino e il successivo arresto, col sequestro delle carte, di certo per motivi politici, ne lo chiarivano abbastanza, e il buon Padre Bonaventura si riprometteva di raccomandare egli stesso quel dabbene a cui si dovesse, così bene da farlo torre per un po' di tempo alla propaganda attiva de' suoi detestabili principii avversi (è la formola solita) al trono ed all'altare. Ma quello che soggiunse di poi la Gattona lo interessò ben altrimenti, e senza ch'egli concepisse di botto un definitivo progetto da attuare, intravide però senza indugio, che se fondati fossero i sospetti dalla vecchia manifestatigli alcuna cosa poteva da lui combinarsi che riuscir potesse in vantaggio suo proprio dapprima (cosa che non era da obliarsi nè trascurarsi), in vantaggio della buona causa, quella dell'assolutismo e della Compagnia di Gesù.
I sospetti della Gattona si presentavano con una non disprezzabile apparenza di fondamento. Il nome stesso che quel giovane portava, cui la Luponi medesima aveva scritto su quel suo biglietto, perchè chiunque nelle cui mani capitasse il bambino [41] glie lo lasciasse, nome tutt'altro che comune in queste provincie; il cognome di Nulla, che lasciava supporre in chi io portava, e che probabilmente se l'era dato, la condizione di fanciullo senza famiglia, e l'aver egli un oggetto simile ad uno di quei pochi che erano stati posti come segni di riconoscimento al bambino della marchesina Aurora, erano indizi da tenerne conto; e Padre Bonaventura che aveva avuta tanta parte in quegli avvenimenti della famiglia Baldissero, decise di volere il più sollecitamente possibile appurare la cosa.
Congedata la vecchia colla raccomandazione di attendere, di non fare nulla da sè e di venirgli a riferire poi tosto ogni menoma cosa che in proposito capitasse, o cui ella venisse ulteriormente a scoprire, il gesuita, per prima cosa, pensò recarsi da messer Nariccia, il quale in codesto poteva dare gli elementi più sicuri per formarsi un esatto giudizio, come quello che solo sapeva dove e come fosse stato abbandonato il bambino della infelice vedova di Valpetrosa.
L'usuraio fu assai cauto nelle sue risposte, nè, quantunque molto rimanesse meravigliato alle parole del frate, e fosse colto proprio alla sprovveduta, ci fu verso che si lasciasse sfuggire parola alcuna da cui l'accorto suo interlocutore potesse argomentare o indovinare alcun che di quanto era succeduto dopo che Nariccia col bimbo erasi partito dalla casa in cui la puerpera dolorava in lotta colla morte. Nariccia, senza però dirne ragione veruna, si rimase a dire che egli non credeva punto punto che il giovane di cui si trattava fosse il figliuolo di Valpetrosa, che tuttavia la cosa meritava attenzione, e prima di pigliare un partito e di agire in qualunque senso si fosse, conveniva ben bene appurarla. Il frate, incerto come prima, anzi più di prima, perocchè si fosse ora persuaso che quel tristo di Nariccia aveva in suo potere una parte di segreto che a lui era affatto sconosciuta, uscì di là e risolvette informarsi tosto di quanto riguardava quell'individuo misterioso che si faceva chiamare Maurilio Nulla. A lui siffatta cosa era facilissima per le relazioni che aveva nelle alte sfere governative e per l'ascendente cui su tutti i più cospicui e potenti pubblici funzionari avevano la Compagnia a cui il frate apparteneva e personalmente egli medesimo uno dei maggiorenti di quella temuta e intromettentesi società. Non istette perciò guari ad apprendere gran parte dei fatti, dell'indole e delle tendenze di chi lo interessava. Seppe che Maurilio era appunto un trovatello, come egli aveva supposto, che era stato arrestato come nemico del Governo, che presso di lui s'era sequestrato uno scritto incendiario pieno delle massime più sovversive, ma che rivelavano un gran talento, così che dal Commissario di Polizia al generale dei Carabinieri, da questo al Governatore, dal Governatore al marchese di Baldissero, e dalle mani del marchese era pervenuto niente meno che in quelle stesse del Re.
I Gesuiti furono sempre abbastanza accorti per riconoscere la potenza dell'ingegno, e prima di perseguitarlo nemico a loro ed alla loro causa, hanno sempre cercato di acquistarselo, di arruolarlo nelle proprie schiere, a difesa del loro principii, mercè blandizie, in cui sono maestri, e vantaggi personali con cui sanno comprare, o quanto meno avvolgere le coscienze meno salde ed inconcusse. Di questa guisa essi ottengono due guadagni: tolgono ai nemici una forza e ne accrescono la propria parte. Padre Bonaventura era dei più accorti in codesta caccia al paretaio delle giovani coscienze, e maestro insuperabile di blandizie e di sofismi rincalzati dalle promesse; più intelligenze, nella sua lunga carriera di intrigante politico e domestico, era già riuscito ad inretire. Ei non credeva a profondità di convinzioni che le renda incrollabili. Nei giovani considerava che agisse più la fantasia che il ragionamento, e che le idee liberali seducessero le ardenti intelligenze parte per quello sbarbaglio di generosità onde lucicchiano, parte per sentimento fors'anco inconscio d'ambizione in chi non è nulla e vuol pervenire, d'invidia in chi non ha mezzi di potenza verso chi li ha, il qual sentimento trova uno sfogo nei patrocinio delle idee democratiche e spera un appagamento nel trionfo delle medesime. Credeva che per tutti la corazza della coscienza avesse un giunto per cui penetrare nel lato debole e vincerla; la difficoltà era nello scoprire quel giunto, ed egli, senza troppa superbia, che i fatti glie l'avevano provato più e più volte, poteva dirsi abilissimo a codesto.
Non era forse il caso ora di usare di questa abilità verso quel cotal personaggio che andava in cerca per le vie de' figliuoli del popolo, affine di insinuar loro il catechismo sovversivo delle idee liberali? Se si fosse potuto farne un affigliato, un diffonditore de' buoni principii, che trionfo! E se mai stato egli fosse in vero figliuolo della sorella del marchese, val quanto dire appartenente ad una delle prime, più ricche e più potenti famiglie dello Stato, qual vantaggio maggiore! Però, siccome fra le cose apprese del passato di Maurilio aveva saputo eziandio che egli era rimasto alcun tempo presso il libraio Defasi, col quale egli era in relazione, e cui conosceva il primo onest'uomo del mondo, fra' Bonaventura decise di andare a chiederne a costui, per farsi di quel giovane e del suo valore un più esatto concetto.
Il signor Defasi, se vi ricorda, nel giovane derelitto, cui la Provvidenza gli aveva un giorno menato innanzi privo d'ogni mezzo di sussistenza, aveva posto dapprima la maggiore delle affezioni, e, conosciutone lo straordinario ingegno, una speciale stima eziandio, che di tanto aveva rafforzata la sua benevolenza per lui, da fargli concepire il disegno di dare a quell'orfano senza nome la mano di sua figlia; e Maurilio fino ad un certo tempo aveva corrisposto [42] alla generosità ed all'affetto del suo benefattore con tutto lo zelo e la riconoscenza ond'era capace. Ma di poi, per sua disavventura, era piombato addosso al povero giovane quel suo matto amore per la nobile fanciulla Virginia di Castelletto, e il dominio di questa infelice passione lo aveva mandato ad una stranezza di condotta che il suo buon principale aveva cominciato per compiangere soltanto e per tentare di voler guarire, credendola effetto d'infermità. La sorte che perseguitava il povero trovatello aveva voluto che Nariccia, sapendo Maurilio allogato presso del libraio, si credesse in obbligo di avvertire costui come quel giovane fosse stato per mesi e mesi in carcere sotto l'accusa di un orrendo misfatto, come egli stesso, che aveva avuta la dabbenaggine di prenderlo poi al suo servizio, l'avesse dovuto scacciare di casa sua, perchè aveva avute le prove che quello sciagurato sfacciatamente lo derubava.
Il signor Defasi provò a queste rivelazioni tutta la amarezza d'un disinganno, e non potè fare che il sospetto e la diffidenza non entrassero in lui verso quel giovane che gli era stato ed ancora gli era sì caro, e del quale gli strani contegni da qualche tempo assunti davano ampia ragione ad una poco benevola interpretazione e ad una prudente sorveglianza de' fatti suoi. Avvenne, come udimmo narrato da Maurilio medesimo, che un giorno il libraio trovasse sparito un rotolo di monete d'oro del valore di cinquecento lire ch'egli aveva riposto nel cassetto del suo banco. Interrogatine tutti della famiglia, e niuno sapendone dar ragguaglio di sorta, era inevitabile lo accusare di questa scomparsa colui che tanto era venuto in sospetto, e il quale, per una strana coincidenza, di tutto il giorno, obliando il dover suo, non s'era lasciato vedere a bottega. Maurilio quindi era stato scacciato da quella casa e da quell'impiego, come udimmo narrare da lui medesimo a Giovanni Selva. Ma qual fu la sorpresa, la pena e il rimorso del buon Defasi, quando parecchi mesi di poi, avendo non so per qual guasto da far aggiustare il suo banco, il rotolino delle monete d'oro si trovò in uno stretto spazio fra la rivestitura esteriore e il cassettino che non correva sino al fondo, sdrucciolato colà chi sa per che caso! L'onesto libraio avrebbe dato qualunque cosa per riparare l'avvenuto errore, più ancora per non averlo fatto. Cercò istantemente del giovane; ma egli ne aveva perdute affatto le traccie, e Maurilio, pieno di vergogna, si guardava bene dal farsi vivo per quella famiglia e studiosamente evitava perfino di passare per la strada in cui erano l'abitazione e il fondaco dei Defasi. Il suo antico principale dovette rimanersi ad un inutile rimorso, ma nell'anima di lui generosa, avvenne una tal riazione in favore dell'innocente calunniato ch'egli cessò di prestar fede a tutto quanto riguardo a lui avevagli detto di male messer Nariccia (l'accusa ch'egli stesso gli aveva mossa era effetto d'un deplorabile errore; perchè non sarebbe stato la stessa cosa delle accuse precedenti?); e rinacquero più forti e più vivi l'affetto per quell'infelice, la stima e l'ammirazione per quell'intelligenza superiore di molto a quante intorno a sè Defasi avesse mai conosciute.
Da ciò avvenne che quando Padre Bonaventura fu da lui a chiedere di Maurilio, il libraio ne intessè tale un elogio della mente, del cuore, della volontà, della dottrina, che il gesuita si confermò ancora di meglio nel suo proposito di guadagnare alla buona causa quella valente individualità. Non fosse anche quegli che si sospettava, sarebbe sempre stato per la Compagnia un buon acquisto. La riuscita del tentativo di seduzione il gesuita la vedeva facile, tanto più trattandosi d'un povero abbandonato, senza famiglia, senza sostanze, senza punto avvenire. Chi sa che non lo si potesse indurre a vestire l'abito nero della Compagnia! Egli, conosciuto quel giovane e tastatolo, avrebbe giudicate se conveniva spingere innanzi le indagini intorno alla sua origine, o pur lasciarle nel buio, e si riserbava d'agire a seconda, anche riguardo alle possibilità del contegno che avrebbe assunto il marchese; ma gli avvenimenti camminavano più rapidi e decisi che al gesuita non piacesse, e la Gallona veniva ad informarlo di quanto era occorso fra lei e Don Venanzio e Giovanni Selva, e del meraviglioso fatto che quel giovane già trovavasi in qualità di segretario, introdotto ed albergato nel palazzo medesimo dei Baldissero.
Conveniva prendere sollecita risoluzione. L'intromettersi del virtuoso parroco vivamente rincresceva al frate intrigante. Quegli avrebbe spinto la sua azione sino al compiuto conseguimento della verità; era utile affrettarsi a farsene egli stesso merito ed entrando innanzi a quegli altri agire presso il marchese per cercare di volgere le cose secondo il proprio interesse. Incaricava quindi la Gattona di menargli ad ogni costo innanzi quella sera stessa il giovane, ed egli domandava pel domani udienza al marchese il quale di quel giorno aveva chiusa a tutti la porta del suo studio. Secondo il risultamento del suo colloquio con Maurilio, fra' Bonaventura avrebbe determinato il modo di regolarsi col marchese, i consigli da dargli e la direzione per cui avviare i propositi del medesimo.
Maurilio e il gesuita si trovavano dunque seduti l'uno accosto dell'altro, sul piano impagliato del sofà, nella modesta cella del frate, al dubbio chiarore d'una lampada, i cui raggi erano impediti di espandersi all'intorno da un coprilume. Si osservavano attentamente, quasi cercando cogliersi l'un dell'altro nel volto il segreto pensiero e le intenzioni: di fra' Bonaventura la conoscenza del mondo e degli uomini, l'abilità accresciuta dall'uso continuo, facevano un osservatore acutissimo, il cui sguardo penetrava molto agevolmente entro l'anima di chi [43] gli stava innanzi; Maurilio, dalla diffidenza cui la specialità delle sue condizioni aveva fatta in lui naturale, dal sospetto che gli nasceva spontaneo per la nota volpina falsità del gesuita, dall'altezza medesima del suo ingegno, il quale, quando veramente esista, prova in ogni cosa a cui si applichi, aveva tutti i mezzi onde passare fuor fuori i raggiri e gli inganni del suo interlocutore. Era dunque una lotta fra due capaci e degni campioni; ma sul principio il vantaggio stette da parte del monaco, perchè il pensiero che in quel colloquio egli avrebbe appreso alcuna cosa del suo destino diede al giovane un'emozione, che congiunta a quella cui soleva sempre da principio destargli la sua timidezza in ogni nuovo contatto con altre personalità, arrivò quasi alle proporzioni d'un turbamento.
A Padre Bonaventura la vista di Maurilio fece la medesima impressione che aveva fatta alla vecchia Modestina Luponi.
— Che? disse fra sè. Questi sarebbe il figliuolo della bella marchesina Aurora? Fidatevi ai contrassegni della schiatta! Ecco il discendente di due leggiadre creature dalle più fini forme aristocratiche, al quale una misera vita in mezzo all'ambiente plebeo ha dato tutte le sembianze d'un figliuolo della plebe.
La sua attenzione fu però chiamata dall'intelligente ampiezza della fronte e dalla misteriosa potenza di quegli occhi color del mare e come il mare profondi.
— Oh oh! costà in quel cranio non c'è davvero un cervello di pan bollito e in codesta non bella scatola ossea sta un'anima che non è volgare... Ed a Volontà come stiamo?
Osservò le protuberanze ben disegnate e spiccanti dell'alto della fronte, la quale si drizzava sul viso perpendicolare come il frontone d'un tempio.
— Uhm! soggiunse, non sarà facile fargli cambiar di convinzioni.... Ma avrà egli vere convinzioni?... Speriamo di no.
E mentre lo conduceva, come ho detto, a sedersi presso di lui sul sofà, con aspetto, alti e voce benevolissimi e carezzevoli, il gesuita veniva pensando:
— Egli ha sofferto di molto; se ne vedono le traccie sul volto travagliato e nel corpo che ci ha patito. Deve avere una rabbia maledetta contro il destino che gli è toccato, e una più maledetta smania di ricattarsi coi godimenti.... Se noi gli apriamo il passo alle gioie ed alle soddisfazioni mondane, e gli diciamo: son tue se ci vieni con noi; egli ci si precipiterà senza punto curarsi più qual sia la bandiera che gli faremo sventolare sul capo.... Se non ne faremo un gesuita, potremo farne un gesuitante.... Forse!
Maurilio aveva il respiro impacciato, come preso da un lieve affanno, e più impacciato il labbro che non sapeva trovare parola; il gesuita gli prese di nuovo una mano fra le sue e dissegli più amorevolmente che mai:
— Mio caro amico, caro figliuolo.... La mi permette ch'io la chiami così?... S'immagina Ella qualche poco il motivo che mi ha fatto mandarla a pregare di venire qui?
Maurilio esitò un momento a rispondere: trasse un grosso respiro, come chiamando in suo soccorso il fiato che l'emozione gli impediva di venir liberamente alla gola, tolse dalle mani del gesuita la sua destra fredda come un pezzo di ghiaccio e incrociando le dita delle mani che premeva forte sulle sue ginocchia, rispose poscia con quella sua voce ordinariamente sorda e contenuta, che non aveva vibrazione ed armonia se non quando la potenza di un'idea o di un affetto scuoteva l'intimo esser suo:
— Le parole della nonna di Luchino me ne diedero un sospetto.... Ella vuole parlarmi della famiglia che fu mia e che mi ha rigettato.
— Adagio, disse il gesuita con quel suo accento dolcereccio che gli era abituale, accompagnato da un pari sorriso. Secondo il benedetto uso di tutta la gioventù, Ella galoppa colla fantasia, e le sue supposizioni vanno al di là del vero.
Maurilio diede in un leggero trasalto e volse al frate la sua faccia più turbata e più impallidita di prima.
— Che? interrogò egli: non ha da esser questo l'argomento del nostro colloquio? Non sono io dunque ancora al punto fatale in cui metterò finalmente la mano sul motto dell'enimma che è la mia vita?
— La mi fa due interrogazioni a cui non posso fare la medesima risposta. Alla prima posso dare un'affermativa: sì, noi siamo qui appunto per discorrere amichevolmente di alcune cose, di qualche circostanza che possono influire sulle ulteriori determinazioni da prendersi per parte di certuni cui tale argomento interessa massimamente. Quanto alla seconda interrogazione, se cioè ora Ella possa scoprir tutto ciò che la riguarda, debbo, con mio gran rincrescimento, rispondere che io non ho nè qualità, nè mandato per rivelarle dei segreti che posso conoscere, ma che non m'appartengono....
Maurilio s'alzò di scatto da sedere e girò tutt'intorno alla stanza uno sguardo fra sospettoso e investigatore.
— Che cosa sono dunque venuto a fare qui? Che cose, che circostanze son quelle intorno a cui mi si vuole discorrere, e forse scrutare? Se Ella non può aprirmi il vero, perchè sciupare tuttedue il tempo in inutili parole, che nulla hanno da conchiudere?
Padre Bonaventura tornò a prendere per la mano il giovane, sorridendo più benignamente che mai, lo trasse con dolce violenza a sedere di nuovo presso di lui, e con accento di amorevolezza paterna passando dal Lei a dargli del più domestico Voi, gli disse:
— Oh impazienza giovenile! Le nostre parole hanno tutt'altro che da essere inutili e non conchiudere [44] nulla. E se da loro al contrario avesse da dipendere più questa, o più quella vicenda della vostra sorte?
Maurilio fissò il suo occhio, che in questo momento era oscuro come un cielo abbuiato, e in cui dal fondo delle occhiaie balenavano lampi annunziatori di un'interna tempesta.
Il frate gesuita riprese:
— Voi sapete di già, per le parole sfuggite alla Gattona, che la famiglia a cui forse voi potreste avere alcun diritto di appartenere è una illustre e nobile famiglia.
Il giovane non potè frenare una mossa di soddisfazione, di superbia.
— Ah ah! egli è ambizioso: disse a se stesso Padre Bonaventura, che non cessava di tener il suo sguardo felino fisso sul lineamenti del suo interlocutore. Buono! è questa una presa da poterlo afferrare.
— Or bene, continuava il frate, questa famiglia, troverete ragionevole anche voi, che voglia conoscere qual sia e che cosa pensi quell'individuo il quale si presenta ora fatto e cresciuto per appartenerle.
Maurilio, che era oramai tornato in tutta la calma del suo spirito, chiese con una velata ironia:
— È questo dunque un esame che mi si è chiamato a subire?
— È una conversazione amichevole, come vi ho già detto, in cui, spero che andremo d'accordo.
— E di ciò ha Ella ricevuto incarico da codesta mia famiglia?
— Non vi dico che sia così: rispose gesuiticamente fra' Bonaventura; ma fate come se così fosse.
Il giovane incrociò le braccia al petto in una mossa di superba aspettazione.
— Parli dunque Lei primo, Padre reverendo. Esponga il credo che io dovrei avere, perchè i miei congiunti si risolvessero a fare il loro dovere: quello di riparare ad un infame delitto onde mi fecero vittima. Io le dirò di poi se potrò giurare in quelle verba magistri.
— Ahi! pensò il gesuita: egli è orgoglioso al par di Satana.
Assunse il contegno più umile e più benigno che e' potesse, congiunse le mani, levò gli occhi al soffitto, come per cercare ispirazione dal Cielo e cominciò:
— Quantunque sia la prima volta che noi ci troviamo fronte a fronte, io è già da qualche tempo che ho imparato a conoscervi ed apprezzarvi.
Era una piccola bugia; ma secondo la morale gesuitica l'onestà del fine giustificava agli occhi del frate la lieve colpa del mezzo.
— Che! esclamò Maurilio stupito. Ella mi conosceva?
Padre Bonaventura confermò con un cenno e con un sorriso il suo detto, e continuò:
— Vi conosco, e noi, che c'interessiamo per tutti quelli che hanno un vero valore, che li amiamo più degli altri fratelli nostri in Gesù Cristo, vi seguitiamo con isguardo pieno di cura e di sollecitudine, deplorando le vostre tendenze e pregando Iddio perchè vi guidi sopra sentiero migliore. Voi siete generoso e volete il bene, lo so; ma alla vostra età, colla vita che avete vissuto, non si può scerner ancora con fondamento, quale sia il bene reale del genere umano; non si conoscono tuttavia gli uomini, non si è abbracciato con vista complessiva tutto l'organismo degli ordini sociali, per giudicare che cosa al governo di questi uomini convenga; si va più facilmente dietro a smaglianti chimere che alla meno splendida, ma soda realtà, solo efficace. Anzi per provvidenziale decreto di Dio che vuole l'intelligenza umana riconosca la sua debolezza, quando abbandonata a sè, l'audacia, la temerità giovanile fa scorgere il bene ed il vero nelle strade che nuove sembrano aprirsi allo spirito umano. Si crede un generoso impulso il disconoscere ciò che è insegnato dall'esperienza del passato, dall'autorità della tradizione, ciò che posa sulla base inconcussa della divina rivelazione. Ma voi, da quanto io ho potuto apprendere, avete troppo talento per ostinarvi a chiudere gli occhi alla luce, quando questa vi sia fatta splendere dinanzi....
Maurilio schiuse la bocca ad un suo sorriso pieno di sì fina ironia, che il frate s'interruppe, e mettendo con mossa affettuosa una mano sulle ginocchia del giovane, soggiunse con paterna bonarietà:
— Vedo sulle vostre labbra la punta d'un'obbiezione. Parlate, parlate pure liberamente, chè qui siamo per leggerci a vicenda l'uno dell'altro nell'anima.
— Vuole sapere la ragione del mio sorriso? Eccola. Ella vuole farmi brillare dinanzi la luce: ma che luce è dessa quella che il suo partito e la sua scuola sono disposti a concedere ai miseri mortali? Poichè Ella stessa m'invita alla franchezza, dirò che credo loro intendimento e loro compito la luce del vero misurarla con tanta parsimonia all'uomo che egli trovisi nelle tenebre, costretto a seguire ciecamente per guida i loro consigli e voleri....
— Se questi voleri e consigli lo hanno da guidare al bene ed alla maggior possibile felicità, interruppe con qualche calore il gesuita, non vi pare opera buona e doverosa il fare che primeggino ed ottengano? Io non contesto quanto voi avete detto, e non vi accuso di attribuirci concetti che non sono i nostri. Vi ho detto che fra di noi doveva esserci un'assoluta franchezza. Sì, noi vogliamo misurare la luce: ma quando una pupilla non è capace di sostenere che una data quantità di chiarore, è prudenza, è carità, è dovere il non dargliene appunto che a quel grado....
— E chi li fa giudici di questa misura?
— Il nostro santo ministero medesimo.
[45] — No: l'interesse d'una casta, che da quello scuriccio ottiene l'opportunità e la sicurezza di dominare.
— Sia; ma dominando spinge al vero bene l'umanità.
— La coscienza umana ha acquistato un altro concetto del suo bene, vuole un altro mezzo di arrivarlo: la libertà.
— Parola ingannatrice! È lo scisma, è l'eresia. In essa appiattasi la facoltà di fare il male.... Nel mondo, facciasi checchè si voglia, vi saranno sempre due classi d'uomini: quelli che sanno, che pensano, che hanno il talento e i mezzi d'istruirsi e di conoscere, e quelli che sono condannati a vivere nell'ignoranza: i primi sono i pochi, i secondi sono i molti. Chi può negare che a quelli non appartenga il diritto, anzi il dovere di guidare gli altri, precisamente come ai genitori quello di dirigere i loro figliuoli bambini?
Maurilio scosse il capo ed accennò parlare.
— Dite, dite pure: s'affrettò a sclamare il frate interrompendosi.
— Sì è vero, così parlò Maurilio, l'umanità fu divisa, è divisa ancora in due parti: dei pochi che sanno e che possedono, dei molti che non hanno ed ignorano. Ai primi tutte le distinzioni, tutti i gaudii sociali; ai secondi nulla. Ah! loro non suppongono neppure quali sieno le sofferenze di questa immensa turba di diseredati nella civiltà, quanta sia e dolorosa la cancrena della miseria e dell'ignoranza nella plebe. Io lo so che ho vissuto in mezzo ad essa; io lo so che quelle sofferenze ho provate. E se là in mezzo cadde un'anima più sensitiva, una intelligenza più sveglia, me lo creda, Padre, i tormenti morali saranno peggiori e più crudeli ancora dei materiali.
— Voi mi cercate delle eccezioni; disse il gesuita colla medesima benignità di sorriso e di voce, ma tuttavia con un accento in cui faceva capolino una lieve impazienza della contraddizione. Sui cento mila ve ne sarà uno capace di sentire quei tormenti morali che voi dite. E poi non è vero che ad una eletta intelligenza, caduta per azzardo nelle basse sfere sociali, sia assolutamente chiuso il cammino. La società è abbastanza bene organata perchè sappia e possa giovarsi di tutte le potenti individualità che Iddio mandi al genere umano, in qualunque classe piaccia al suo alto senno farla nascere. La monarchia, dalla quale abbiamo la fortuna e l'onore d'esser retti, non sa ella cercare e scegliere i suoi zelanti servitori anche tra le più infime famiglie per innalzarli ai primi gradi e favorirli di titoli, di ricchezze e di onori? E la Chiesa? Non è dessa una madre amorosa che, senza riguardo ai privilegi di nascita, innalza tutti coloro che se lo meritano, ai più eminenti seggi della sua gerarchia? Quanti dalle più umili condizioni non salirono essi fino al più allo fastigio, ad una grandezza «ch'era follia sperar?» Voi sapete troppo le storie perchè io perda il tempo a citarvene degli esempi.
— Queste si ch'Ella mi cita: interruppe Maurilio con vivacità; queste sono eccezioni. Ma la cosa non va riguardata dal lato dell'individualità, sibbene dal lato delle masse. Poco importa che di quando in quando, uno della plebe rompa il cerchio fatale che costringe nella miseria e nell'ignoranza tutti i suoi compagni, e si spinga anco fino alle splendide aure del potere. Gli è tutta quella classe infelice che dev'essere redenta dalla fame, dalla superstizione, dall'errore. Il progresso umano sta tutto in ciò, che anche ai molti s'acquisti una sempre maggior quantità di beni intellettuali ed economici...
Fu con decisa impazienza, questa volta, che Padre Bonaventura esclamò:
— Il progresso! il progresso!... Davvero che me l'aspettavo questa parola.... La è sempre in bocca dei moderni novatori.... È un'assurda teoria che prende l'uomo alla rovescia. Voi vedete nell'avvenire quello stato di perfezione che fu nel passato prima della caduta dell'uomo; e sperate superbamente arrivarlo, colle vostre misere e spesso empie pseudo-conquiste della scienza. Tutto il progresso umano è contenuto nella rivelazione. Fuori di li sono illusioni superbe e tenebre.
— Scusi. Il progresso è la legge che comanda a tutte le cose dell'universo. Tutto progredisce, perchè tutto si muove, e muovendosi si muta, e mutandosi sarebbe fare un oltraggio alla sapienza di Dio il dire che non migliori. Guardi la storia medesima della terra, le successive creazioni delle successive epoche cui ha percorso la vita del nostro globo, e vedrà un continuo sforzo evidente della natura a raggiungere ed estrinsecare sempre più perfette e più nobili forme e più intelligenti creature, finchè arriva all'uomo.
Il gesuita, con quel suo atto di affettuosa domestichezza, pose di nuovo la mano sul ginocchio del giovane.
— Non perdiamoci in così vasto ambito di considerazioni: diss'egli col suo solito sorriso; e restringiamoci al nostro caso particolare. Comprendo che voi, caro figliuolo, appartenendo finora di fatto a quella classe che voi chiamate dei diseredati, voleste e vi proponeste di tentare — usando sempre le vostre espressioni — la redenzione della medesima, per ottenere con quella la vostra esaltazione...
Maurilio scosse il capo, come per protestare che quello non era stato mai suo proposito; ma fra' Bonaventura, o non vide, o fe' mostra di non vedere, e continuò:
— Avevate torto, perchè, sentendo ed apprezzando il valor vostro, dovevate dirvi che eravate della razza degli uccelli dall'alto volo e non di quella destinata a chiocciare nel fangoso suolo del pollaio; e quindi, senza cercare di levare ad un volo impossibile i vostri compagni senz'ali, dovevate [46] pensare ad imbrancarvi voi alla schiera de' pennuti e slanciarvi nelle serene aure del cielo....
— Oh come poterlo? Non seppe tanto frenarsi Maurilio che non interrompesse. Ma tutto intorno abbiamo una fitta grata che ce lo contende.
— Per chi non sa scegliere l'acconcio modo d'uscita: ribattè lesto il frate. Se voi aveste saputo cercare validi protettori: se foste venuto, per esempio, a picchiare alle porte di questo convento. L'umile tonaca che mi vedete addosso avrebbe potuto aprirvi meglio d'ogni vostra audacia di pensiero e d'azioni, il cammino. La predicazione, l'insegnamento, la composizione di buoni libri, la paterna protezione della nostra Compagnia vi avrebbero scorto anche ad una cattedra vescovile. Ma, come dicevo, comprendo che per l'addietro queste idee non sieno nate in voi; ora però, se voi uscite da quella sfera in cui foste relegato finora, se voi arrivate in più felice lido e ponete il piede in più splendida regione, spero che troverete anche voi opportuno, che sentirete anzi il bisogno di cambiare opinioni e parere, che vedrete con diverso aspetto le cose del mondo, appunto perchè le esaminerete da un altro punto di mira, che riconoscerete in voi l'obbligo di difendere quegli ordini religiosi, politici e sociali che volevate, ed avevate anzi già cominciato assalire; che vi giudicherete della parte dei pochi illuminati a cui è affidata la guida del gregge umano, e invece di osteggiare e rendere difficile l'opera loro, vorrete aiutarla.
Padre Bonaventura tacque un momento, come per lasciar agio al giovane di manifestare il suo pensiero; ma il nostro eroe, immobile, colle braccia incrociate sul petto, non aprì bocca e stette aspettando la conclusione con uno sguardo che sfavillava vivissimo nel fondo delle occhiaie, dalle sue pupille color del mare.
Il gesuita s'ingannò sulla significazione di quello sguardo: credette scorgervi la cupidigia dell'ambizione, e riprese a dire con più calore:
— A quali destini possiate arrivare, lo lascio pensare a voi. Colla protezione d'una famiglia potente, col favore dell'aristocrazia, coll'appoggio di noi, lo strenuo, eloquente, ispirato difensore dei buoni principii otterrà quello che vuole.
Gli strinse come prima, ma più forte, il ginocchio, e tendendogli l'altra mano dinanzi, come per mostrargli nella penombra della stanza le cose che stava per evocare all'immaginazione del giovane, soggiunse col tono di perorazione d'un buon predicatore:
— Nella vita secolare le prime cariche dello Stato, tutte le distinzioni, tutti gli onori, tutto il potere; e nel clericato, se mai Dio vi fosse così benigno da ispirarvi a vestire l'abito del nostro ordine, i primi gradi, le infule vescovili e forse forse....
Abbassò la voce:
— Anche la tiara!... Sisto V era meno di te, figliuol mio!
Maurilio aveva sulle labbra un sogghigno pieno di tanta ironia, che fra' Bonaventura, vedendolo, agghiacciò di subito. Levò vivamente la sua mano dal ginocchio del giovane, spense il suo rettorico entusiasmo, e si tirò indietro sul sofà, quasi con moto di sgomento improvviso.
Il giovane sorse in piedi con tutta freddezza, e disse lentamente:
— Io non sono punto ambizioso. Nelle mie sofferenze ho sentito le sofferenze di tutta una classe: non aspiro al mio solo vantaggio: voglio lavorare per quello di tutti gl'infelici, per quello in conseguenza di tutto l'umano consorzio, della civiltà. O che ha ella creduto la famiglia — ch'io non so se giungerò mai a chiamare mia — ha creduto potermi imporre una condizione per compir essa il dovere che le incombe di riconoscermi? Ed una scellerata condizione, qual è quella di rinnegare le mie opinioni, di mutare dall'oggi al domani convinzioni e credenze, cui non il particolare interesse, glie lo giuro, ma l'apprezzamento del vero, ma la matura riflessione del mio intelletto mi ha ispirate? La s'è ingannata; la s'inganna ancor Ella, Padre, nel credermi capace di ciò. Fosse anche una madre che mi tendesse le braccia a questi patti, io sarei disposto a farle la nobile risposta di D'Alembert.
Il gesuita s'alzò egli pure. La sua faccia smise ad un tratto ogni espressione di benignità per assumerne una di riserbata freddezza: aveva capito che ogni ulteriore insistenza sarebbe stata inutile, che quella volontà non si smoveva nè per blandizie, nè per offerte; pensò un momento ricorrere alle minaccie e ne fece un lieve tentativo.
— Ella dunque, disse tornando a più cerimoniose forme di discorso, è un nemico sfidato della Chiesa e del Trono, e vorrebbe combattere queste due istituzioni sacrosante in qualunque condizione si trovasse?
— No: rispose con forza Maurilio protestando. Non penso che la Chiesa e il Trono sieno ostacoli assoluti al progresso che vagheggio; spero quindi che anche con essi possa il vantaggio delle plebi ottenersi. Sono forme anche quelle istituzioni, e col moto del tempo ancor esse debbono modificarsi. Credo che le si salveranno appunto modificandosi, secondo il progresso sociale.
— Niente affatto. Chi le vuol toccare, vuol farle perire. Le sono come la nostra benemerita Compagnia: e il motto che si disse di noi, deve applicarsi anche a quelle istituzioni che noi colle nostre deboli forze difendiamo: sint ut sunt aut non sint.... E saranno! Portae inferi non praevalebunt. Crede Ella che le si lasceranno assalire dalle temerità dei novatori moderni, senza difendersi e senza riagire? Hanno dalla parte loro il comando, l'autorità, la forza sociale, la parola di Dio, val quanto dire la verità e la potenza. Le temerarie idee e i loro più temerarii profeti rimarranno schiacciati.
Maurilio sollevò la sua vasta fronte intelligente.
[47] — I profeti, sia; può essere: esclamò egli, e questa volta la sua voce vibrava coll'emozione ond'è dominato l'uomo il quale bandisce una coraggiosa verità contrastata: ma le idee no. Soffocate per qualche tempo soltanto, esse non muoiono, per dolori e tormenti di coloro che le patrocinano non rinunziano, nel sangue anche dei loro proclamatori non si spengono. Aspettano: si nascondono forse, ripostamente serpeggiano fuor dell'arrivo delle polizie e delle predicazioni e della propaganda del clero; e un bel dì sorgono in uno scoppio che è un trionfo, padrone del campo, dominatrici del mondo. Guardi nella storia del passato, e vedrà sempre essere avvenuto così, cominciando dalla più grande delle idee, dall'idea cristiana....
— Ah! Ella bestemmia! Oserebbe paragonare le temerità delle malvagie passioni demagogiche alle sacrosante cose della divina nostra religione?
— Anche le idee del Cristo erano temerità demagogiche pei gaudenti del mondo pagano.... Io sono un nulla nel mondo; ma tutte le mie poche forze ho consecrato al servizio di certi principii a cui ho dato irrevocabilmente l'acquiescenza dell'animo mio e il consentimento del mio pensiero; e quali che sieno le seduzioni onde mi si voglia allettare, qualunque le minaccie che mi si facciano trasparire, non muterò, se Dio mi assiste, per tutta la vita. Ho pensato sempre a quel momento che mi pareva pure impossibile, in cui la mia famiglia potrebbe riaprirsi per me, che ne fui, non so per qual cagione, spietatamente reietto, ed ho sperato parecchie volte eziandio, glie lo confesso, che questa famiglia potrebbe non essere nè spregevole, nè disonorata, avrei dato qualunque cosa per giungere a questo risultamento; mi dicevo che non la menoma recriminazione, non il menomo lamento avrei mosso contro quella barbarie che mi ha condannato al supplizio di tanti anni di miserabil vita, di disprezzata condizione; ma non avrei creduto mai che questa famiglia volesse ancora impormi un sacrifizio cui non posso e non debbo sopportare: quello della coscienza, quello di ciò che l'uomo ha di più sacro, le proprie convinzioni. Se codesto pretende da me, le dica, signore, che preferisco rimanermi nell'oscurità del mio nulla.
S'avviò per andarsene; il gesuita non lo trattenne; prese anzi la lampada e gli fece lume fino al cominciar delle scale, dove, appena chiamato, venne il frate laico per guidar fuor del convento il visitatore.
— Addio: gli disse Padre Bonaventura. Non dispero che veniale a migliori pensamenti. Se mai crederete d'aver qualche cosa da dirmi poi, se vi sentirete in migliori disposizioni, venite a trovarmi....
Maurilio fece risolutamente un segno negativo, come per dire che non sarebbe venuto mai. Il gesuita mandò un sospiro.
— Dio vi guidi ed illumini! Colla vostra famiglia, se pur sono veri i sospetti che se ne hanno, se la Provvidenza vuole porvi in presenza di lei, tratterete voi medesimo senza intermezzo; io ho fatto quello che ho creduto bene per tutti, e mio dovere.
Rientrò nella sua cella, e intanto pensava:
— Se non ci fosse immischiato quello stupido di un onest'uomo che è Don Venanzio, il meglio sarebbe lasciar tutto ignorare al marchese e trovar modo di fare sparire ogni traccia.... Ciò non potendo più oramai, è meglio svelare io stesso la verità al marchese e disporlo in guisa che stimi dover suo non riconoscere il figliuolo di sua sorella.
Battevano appena le nove quando il padre gesuita presentavasi al palazzo Baldissero e veniva tosto introdotto presso il marchese, il quale, dopo una notte insonne, stava ansiosamente aspettandolo. Invitato a parlare sollecitamente, fra' Bonaventura incominciò, con aria compunta e mani al petto intrecciate, un lungo esordio sulle vie imperscrutabili della Provvidenza, cui il marchese finì per interrompere:
— Scusi.... Il fatto, a cui Ella fece allusione nella sua lettera di ier sera, è desso la trista avventura della fu mia povera sorella?
— Eccellenza sì: rispose il frate inchinandosi.
— Le confesso che molto mi punge la sollecitudine di sapere qual cosa mai, dopo tanto tempo, possa avvenire che abbia ancora attinenza a quelle disgraziate vicende. La prego dirmi senza ambagi, senza indugi e senza circonlocuzioni ciò di che si tratta.
Il gesuita fece col capo un segno di umile assentimento, ed abbassando la voce ed accostando vieppiù la sua seggiola alla poltrona in cui stava il marchese, come se avesse voluto che manco l'aria potesse cogliere le parole che stava per pronunziare, disse:
— Il figliuolo, frutto di quel condannato matrimonio, fu creduto dalla marchesina Aurora, e da Lei medesima, signor marchese, morisse pochi giorni dopo la sua nascita.
Baldissero si riscosse in violento, ma tosto frenato sussulto; il suo sguardo s'affondò negli occhi del gesuita che teneva la placida faccia tonda a pochi centimetri dalle orecchie del marchese.
— Così affermarono, e con giuramento, diss'egli pesando sulle parole, coloro che assistettero in quella circostanza mia sorella: Nariccia, la cameriera Modestina... e Lei stessa, Padre Bonaventura.
Questi fece comparire sulle sue labbra rubiconde un sorriso tutto amenità, levò la destra bianca e grassotta in un atto di mite protesta e scotendo negativamente il capo, soggiunse con una cortese vivacità d'accento:
[48] — Perdoni, perdoni.... Io no!... Io non contraddissi le parole degli altri.... Ecco tutto!
— Le confermò col suo silenzio.
— La permetta.... Il silenzio non conferma nulla.
Il marchese, con moto vivace, rivolse la poltrona e se stesso verso il suo interlocutore così da rimanere con lui proprio faccia a faccia.
— Quel bambino non morì dunque allora, in fascie?
Bonaventura scosse gravemente la testa.
— No, signor marchese.
— E perchè fu detto morisse?
— Perchè tale fu la volontà, tale il comando di S. E. il marchese, padre di V. E.
Baldissero si trasse indietro nella sua poltrona, impallidì leggermente, e mandando un'esclamazione, interruppe con tono quasi di minacciosa ammonizione:
— Badi bene!...
Ma il gesuita riprendendo con qualche calore:
— Di tutto quel che dico ho sempre buone prove per dimostrarne la verità. Tengo delle lettere che scrisse a me stesso su tal proposito S. E.; esistono testimonii Nariccia e la Gattona, e quando a Lei non sembrino guarentigia sufficiente di sincerità, il mio carattere, la mia parola....
Il marchese fece bruscamente un atto che voleva significare la sua piena fiducia nelle parole del gesuita.
— E di quel fanciullo adunque, domandò impazientemente, che cosa avvenne?
Padre Bonaventura narrò ciò che noi già sappiamo: Nariccia specialmente incaricato di ciò dal vecchio marchese averlo seco portato un giorno, nè alcun altro di quelli che stavano intorno alla vedova di Maurilio aver saputo mai che cosa ne avesse fatto.
Sulla nobil faccia del marchese si dipinse l'espressione di un acuto dolore, d'una penosa vergogna. Che cosa non avrebb'egli dato, perchè non si fosse potuto accagionar mai di simil fatto suo padre! Pose la fronte sulla palma della sua mano e stette un istante impensierito, poi vivamente impugnò la nappa in cui finiva il cordone del campanello che pendeva presso al luogo dov'egli sedeva e diede una forte tirata: un lacchè si presentò sollecito all'uscio.
— Si corra tosto in casa di Nariccia: comandò egli: e gli si dica di venir qui, subito, senza il menomo indugio.
Il domestico sparì con una premura che era indizio di quella colla quale avrebbe eseguita la commissione.
Baldissero si volse di nuovo al gesuita.
— E come, dissegli con accento di rampogna, potè Ella prender parte a questo crudele inganno?
— Io non vi ho preso parte diretta, rispose colla sua melliflua parlantina padre Bonaventura: mi sono rimasto a non dissentire. Ho considerato d'altronde la specialità delle circostanze che permetteva, che consigliava una specialità di propositi. L'interesse e la pace di una nobile stirpe come la sua, signor marchese, sono cose di tal rilievo che ad ottenerle si può e si deve anco ammettere delle eccezioni a qualche regola generale. Io sapeva d'altronde che la generosità del fu signor marchese non avrebbe mancato di provvedere alla sorte futura di quel bambino, e credo infatti che così abbia egli voluto fare e le circostanze soltanto abbiano impedito che le sue intenzioni avessero effetto....
Il marchese, che ascoltava non senza qualche impazienza i gesuiteschi avvolgimenti di parole del frate, interruppe bruscamente a questo punto, venendo la sua attenzione richiamata all'argomento principale e più interessante.
— Ella dunque sa qualche cosa dell'ulteriore destino di quell'infelice?
— Allora io non ne seppi più nulla, nè di poi cercai mai di saperne, o cosa alcuna venne a mia conoscenza a questo riguardo.... Ma ora finalmente....
— Finalmente? interruppe con accento d'ansiosa interrogazione il fratello della povera defunta Aurora: quel fanciullo vive?
Padre Bonaventura fece un cenno affermativo.
— Ella lo conosce?
— Signor sì.
— Dov'è?
Il gesuita si curvò ancora di più verso il marchese, abbassò ancora più la voce e rispose:
— Qui nello stesso suo palazzo.
Il marchese afferrò una delle mani del frate e gliela strinse forte.
— Si spieghi, la prego: disse con voce vibrata, in cui più che una preghiera era un comando.
Padre Bonaventura narrò quanto aveva appreso dalla Gattona, la circostanza de' contrassegni, l'intromissione di Don Venanzio e va dicendo quello che noi sappiamo già.
Il marchese ascoltò tutto ciò con un'agitazione ed un turbamento cui non cercò in modo nessuno di dissimulare: quando il frate ebbe finito, rimase un istante immobile, il capo chino, come senza volontà e senza consiglio. Ancor egli vedeva in questo succedersi e combinarsi d'avvenimenti la mano della Provvidenza, che voleva riparato un tale delitto, e si veniva chiedendo che cosa gli toccasse di fare in presenza di cotali circostanze. Il gesuita che indovinava ciò che si passava nell'animo di lui, disse col suo accento e co' suoi modi insinuanti:
— Sì, qui è innegabile il Dito di Dio che ha voluto trarle innanzi a Lei quel disgraziato giovane, perchè Ella lo salvasse.
— Qui!... qui stesso!... esclamò allora il marchese rompendo il silenzio. Come un estraneo, come un poveretto sono io stesso che l'ho introdotto nella casa di sua madre! Oh poichè Iddio lo volle fare in questo modo rientrare sotto questo [49] tetto, gli è perchè ci rimanesse come a suo posto....
Era la naturale generosità del marchese che si manifestava nel suo primo impulso; ma l'interruppe l'accortezza delle convenienze che parlò colla voce melliflua del gesuita.
— Guardiamoci di non interpretare malamente i disegni di Quel di lassù. Certo a riguardo di questo giovane qualche cosa ha da farsi, ma che sia questo qualche cosa, converrà deciderlo con matura e ponderata riflessione.
— Gli furon tolti famiglia e nome: disse con vivacità il marchese: bisogna rendergli e il nome e la famiglia.
— Sta bene; ma prima bisogna chiarirsi di quale condizione egli sia degno. V. E. sa meglio di me che se alcuno vien messo in posto a cui non sia acconcio, ad altro non riesce che a far male per sè e per altrui. Ella di certo ha qualche obbligo verso quel giovane, quantunque cotali obblighi non sia un fatto suo ad averglieli dati: ma doveri ben maggiori e più importanti V. E. ha eziandio verso la dignità della sua famiglia, verso la causa del bene, verso la patria, verso la società. Ora l'alto suo senno deve accordare così l'adempimento di questi doveri, che soddisfacendo agli uni non riesca a ledere gli altri. Badi bene, signor marchese, che volendo restituire alla sua famiglia un rampollo il quale in realtà non le appartiene che per indiretto legame, Ella non faccia poi capo ad altro che a dare al suo lignaggio il disdoro d'un nemico dell'ordine, della religione e della monarchia, ed a porre questo nemico in condizioni appunto da poter di meglio nuocere a quelle sacrosante cose cui osteggia.
— Che sa Ella del come questo giovane pensa e ragiona? domandò il marchese non senza qualche meraviglia.
— Ho creduto dovermi informare appuntino dell'essere morale e intellettivo di quell'individuo, prima di fare il menomo passo presso V. E. a questo proposito. Ho sentito che tale era il dovere di me che avevo avuta la parte ch'Ella sa in quei funesti avvenimenti, dovere accresciutomi ancora dal mio lungo ossequio devotissimo alla sua illustre famiglia, dal mio stesso sacro carattere di sacerdote. Ho dunque voluto appurare da me stesso chi e che cosa fosse quel giovane; trovai modo d'averlo a me, lo scrutai con attento esame e ne conchiusi che in esso vi era un demagogo incorreggibile, un invasato senza più rimedio dall'iniquissimo spirito rivoluzionario che è lo spirito del male.
— Ha tanto talento! esclamò quasi involontariamente il marchese.
— Sì; soggiunse con calore Padre Bonaventura, ed è perciò tanto più pericoloso. A questa capacità volta al male, vorrebbe Ella dare i mezzi di far più male?
— Tornato nelle condizioni normali della sua vera esistenza; riparata la grande ingiustizia che fu commessa a suo riguardo, si calmerà l'irritazione dell'anima sua e quella mente acuta potrà scorgere il vero.
— Non lo speri: interruppe con maggior vivacità il gesuita. Se la mia esperienza m'abbia posto in grado di conoscere gli uomini, e se grazie al Signore io possedo una certa abilità nel penetrare a prima veduta entro l'animo di chi mi parla, e leggerne l'indole sulle sembianze e sui cambiamenti della fisionomia, Ella lo sa.
Il marchese fece un sorriso ed un cenno del capo ad accennare che era affatto conscio di tale prerogativa del frate.
— Ebbene, questi continuava, io ho parlato per un'ora con quel cotale, più che non mi occorra a scoprire l'intimo pensiero, anche di chi voglia celarmelo — e le assicuro che quel giovane non vuole per nulla nè sarebbe capace ad infingersi — e l'ho definitivamente giudicato. È una di quelle nature ferme e tenaci che s'abbrancano ad un'idea come l'ostrica allo scoglio, che vivono di essa, che non vogliono e non possono separarsene, e piuttosto morrebbero. Di quel legno si fanno i fanatici d'ogni razza ed i martiri. Guidato sulla buona via, sarebbe stato un valente campione per noi. Ora è troppo tardi: l'albero si è già malamente piegato e più non si drizza; piuttosto si rompe.
Il marchese fissò in volto il gesuita con quel suo sguardo nobile e dignitoso e disse lentamente:
— In conclusione, che cosa crede Ella, Padre, che si debba fare?
— Lasciargli ignorare quello che ignorò fin adesso.... e ch'egli, se noi vogliamo, non avrà nessun mezzo di scoprir mai, fargli offrire un'acconcia somma che gli costituisca una discreta ricchezza perchè si allontani e corra in quelle terre laggiù oltre l'Atlantico, dove pare si siano dato ritrovo tutte le pazzie umane, e dove gli è proprio anche per lui il suo posto.
La coscienza del marchese si ribellò di botto a quest'iniqua proposta.
— Come! esclamò egli. Io lo defrauderei un'altra volta del suo diritto, dell'esser suo? Egli è figliuolo legittimo d'un legittimo matrimonio: questa è la sacrosanta verità che si ha l'obbligo di riconoscere.
Padre Bonaventura, colla mossa che gli era solita, levò in alto la sua mano bianca come quella d'una signora.
— Conviene distinguere: disse colla maggiore unzione del suo accento dolcereccio. Se si trattasse di caso vergine, non ancora pregiudicato in nissun modo, V. E. avrebbe forse compiuta ragione. Io non voglio con ciò muovere il menomo rimprovero alla venerata memoria di suo padre, l'illustre signor marchese; egli a prendere la determinazione che fu la sua ebbe valevoli e imperiosi motivi che debbono tenerci ben ben lontani dal condannarlo....
Baldissero fece vivamente un atto, con cui voleva [50] significare ch'egli si guardava dal condannare suo padre.
— Ma però ammetto, continuava il gesuita, che Ella, trovandosi in quelle medesime circostanze potesse, e credesse anzi suo dovere, adottare altra risoluzione. Ora noi siamo dinanzi ad una condizione di cose affatto diversa. L'ingiustizia — chiamiamola pure con questo nome severo — fu commessa: sono venticinque anni oramai che la è cosa compiuta, e quell'individuo si è adattato alle condizioni in cui fu posto, venne su colla natura informata a quell'ambiente, coll'essere costituito di quegli elementi. Ho già avuto l'onore di dirle qual egli sia pur troppo; e le ripeto che torlo ad un tratto a quelle sue condizioni per trabalzarlo in altre a cui non è acconcio per nulla, riesce evidentemente un far male a lui, un creare un pericolo alla società. Che gli si migliori la sorte: questo sì, a ciò credo egli abbia qualche diritto, ma pretendere di più non lo può neppure quel giovane il quale, in fin dei conti, non ha nessun mezzo sicuro e legale di venire alla scoperta mai de' suoi parenti, cui basta il silenzio della Gattona, la quale non ha ancora parlato, e di Nariccia che non parlerà se non si vuole, per lasciar sempre nelle più dense tenebre intorno alla sua origine, il quale ci viene innanzi con indizi fortissimi di essere quello che pensammo finora perduto per sempre, ma non ce ne porge però delle prove sicure ed irrefragabili. Chi o qual cosa ne può togliere il dubbio che quegli oggetti, per un caso qualunque, e mille ce ne possono essere stati, non sieno caduti in potere d'un altro? Come rimaner proprio certi che il bambino trovato in mezzo di una strada a Torino sia proprio quello nato in una villa presso Milano? E non deve metterci in sospetto la differenza delle epoche fra la nascita e il rinvenimento, che sarebbe accaduto un anno dopo? Sono tutte questioni, pare a me, che ci debbono fare riguardosi e di molto. Come vorrebbe Ella risuscitare tutto quel tristo passato, richiamare l'attenzione del mondo sopra un sì doloroso episodio della sua famiglia ora compiutamente posto in oblìo per chiamare a condizione di cui non è degno un cotale cui nulla mai potrà provare sia davvero l'individuo supposto?
Il marchese stette alquanto pensoso, evidentemente impressionato da queste parole.
— Prima di decidere se questi dubbi ch'Ella accenna con giusto criterio sieno risolubili o no, converrà parlare con messer Nariccia. Egli ci potrà chiarire di molte cose, e forse dalle sue rivelazioni sorgerà alla nostra mente l'evidenza.... Ma, appunto; nessuno ancora ritorna a darmi conto della imbasciata fatta a Nariccia.
Tese la mano per afferrare il cordone del campanello, ma in quel punto medesimo l'uscio s'aprì vivamente e il cameriere del marchese, così concitato che aveva perfino trascurato di chieder licenza d'entrare, si precipitò nella camera con aspetto turbatissimo e quasi sgomento.
— Volevo suonare, appunto per voi: disse il marchese prima che il servo aprisse bocca. Si fu da Nariccia?
— Sì.... sì signore: rispose l'altro con voce che tremava. Ci fui io stesso.... Ah! Eccellenza, se sapesse!...
Il marchese notò allora il turbamento del domestico.
— Ebbene?... Che avvenne?... Ce l'avete trovato?
— Il povero signor Nariccia questa notte fu barbaramente assassinato.
Baldissero e fra' Bonaventura sorsero di scatto da sedere. — Assassinato! esclamarono essi. Morto?
— No.... Pare ch'e' non sia morto del tutto, per ora, ma gli è poco meno. Non ha cognizione, non può più parlare, ed ho udito che i medici lo danno per bello e spacciato.... gli assassini gli hanno quasi tagliata la testa. Un rubalizio dei più audaci e dei più barbari che sia stato compito mai.... La povera vecchia fante fu sgozzata come un pollastro: quella è morta per davvero.... Scassinarono il forziere e portarono via tutto il denaro che c'era, si dice delle somme enormi.... E dovevano aver delle chiavi che aprivano dapertutto, perchè non ci fu la menoma effrazione, ned alcuno dei casigliani ebbe ad udire il menomo rumore.... La cosa fu scoperta stamattina che andò, secondo il solito, a recar loro il latte la rivendugliola della cantonata, e trovato l'uscio aperto s'introdusse nel quartiere e mirò l'orrendo spettacolo. Ella mise in un momento a rumore tutta la casa e non tardarono ad accorrere la giustizia e la forza pubblica.... Adesso colà c'è un mondo di gente.... Già si dice che gli assassini sono i soliti di quella famosa cocca che non si sa mai cogliere e che sono il terrore di tutta la città.
Il marchese fece un atto colla mano che il servo prese per un ordine di silenzio e un cenno di congedo: si tacque, e camminando all'indietro come i gamberi si avviò verso l'uscita.
— Si attacchino i miei cavalli.... subito: comandò il marchese.
E il domestico dopo un ultimo inchino uscì sollecito.
— È una fatalità che il filo ci si debba spezzare tra mano? Soggiunse il marchese. Nariccia che potrebbe dileguare i dubbi, ci viene ora tolto. Voglio vederlo: Padre, venite anche voi meco.
— Molto volentieri: rispose untuosamente il gesuita, tanto più che se quell'infelice non è ancora morto, può essergli utile il mio santo ministero.
L'audacia e la misteriosità di quell'assassinio così ferocemente compito avevano sdegnato e quasi direi spaventato, non che la popolazione, ma le pubbliche autorità medesime; e tanto la giudiziaria quanto [51] la politica erano disposte a mettere tutto il possibile impegno per rintracciare i colpevoli. Sventuratamente d'indizi non se ne avevano, fuor due: nella destra contratta di Nariccia (il quale da principio era stato creduto cadavere ancor esso) stava stretto uno squarcio di panno, che probabilmente aveva appartenuto agli abiti del suo assassino; sopra un mobile vicino al posto in cui era caduta sgozzata la povera Dorotea, si vedeva l'impronta sanguinosa d'una mano grossa, a dita tozze e robuste, la mano d'un uomo di forme colossali e di forza non comune. Era di certo l'uccisore della vecchia fante, il quale colla mano intrisa del sangue di quell'infelice, erasi appoggiato a quel mobile. Il commissario Tofi, accorso egli stesso in persona ad esaminare le cose, alla prima sguardata di quell'impronta, disse col suo accento secco e burbero:
— Qui c'è entrato quel brigante di Stracciaferro; ecco il suo bollo. Stracciaferro non va senza Graffigna: son essi che han fatto il colpo.... Conviene snidarli dal covo in cui queste belve si nascondono, ad ogni costo.
Affine di procedere con ordine ed attenzione all'esame d'ogni menoma cosa nel quartiere abitato da Nariccia, Tofi ordinò si facesse sgombrare il locale da tutti i curiosi, e le guardie intanto, mentre non avrebbero più lasciato entrare alcuno fuor quelli di cui era bisogno, custodissero a vista i vicini e coloro fra gli accorsi che parevano poter fornire all'uopo qualche utile testimonianza. Mentre il Giudice ed il Commissario di Polizia procedevano ad una minutissima investigazione, l'ufficiale sanitario, fatto venire in tutta fretta, verificava che la fante era morta senza più rimedio pel taglio della gola che quasi le aveva separato la testa dal busto, ma che invece il padrone viveva tuttavia, che la ferita di lui non era mortale, che la minaccia alla vita glie ne veniva non dalla pugnalata ricevuta al collo, ma dall'apoplessia che lo aveva assalito e la quale anzi molto probabilmente l'avrebbe già ucciso se lo scolo del sangue per la trafittura del pugnale, facendo funzione d'un abbondante salasso, non avesse d'alcun poco diminuito la forza dell'accesso.
Il medico giudicò che altre cavate di sangue erano ancora necessarie, e l'assassinato fu posto sopra il letto, dove gli si aprì la vena a quel braccio medesimo la cui mano teneva tuttavia stretto il pezzo di panno. Al signor Tofi non era sfuggita la importanza di quel piccolo squarcio di pannilana, e fin dal primo istante aveva cercato impadronirsene; ma le dita contratte dell'assassinato erano strette come una morsa di ferro, talmente che per quanta forza il Commissario ci mettesse, non ne potè venire a capo: ma dopo i due salassi che a breve intervallo, il medico stimò bene si facessero all'assassinato, le irrigidite membra si rammollirono un poco, e fu possibile finalmente lo impadronirsi di quell'importante oggetto, che poteva diventare utilissimo stromento a rintracciare gli scellerati.
Si capiva facilmente che quello era un pezzo di bavero d'un vestito maschile: era di panno fine di color marrone, e circostanza che diede un sussulto di soddisfazione al Commissario, nella parte inferiore aveva trapunte in filo di seta due lettere dell'alfabeto — F.B.
— Ecco un prezioso documento: disse Tofi al giudice, riponendo accuratamente lo squarcio di panno. Lasci in mio potere per qualche poco quest'oggetto, ed io saprò bene trovare fra i sarti di Torino e d'altrove se occorre quell'informazione che ci servirà da buon capo a dipanar la matassa.
Benchè vi fosse ordine di non lasciar entrare nessuno, quando alla casa di Nariccia si presentò il marchese di Baldissero, tutte le porte gli si aprirono; e con esso penetrò eziandio fino al letto dell'usuraio Padre Bonaventura.
Nariccia poteva dirsi trattenuto sulla soglia del buio regno della morte, ma non che vivesse; l'irrigidimento delle membra aveva sminuito alquanto, ma la immobilità la più compiuta le toglieva all'ubbidienza della sua volontà, se pur era che la volontà fosse tornata in quell'essere: la paralisi, una compiuta paralisi di tutto il corpo lo teneva inchiodato sul letto senza voce, senza possibilità nessuna di manifestare se e che cosa sentisse, se e che cosa volesse. La speranza d'udire dalla sua bocca la esposizione dell'atroce caso era delusa, nè il medico lasciava lusinga che ciò potesse in avvenire aver luogo. Di vivo non aveva più che i suoi occhi piccoli e più balusanti di prima, i quali non avevano più espressione di fatta sotto ad una velatura che li appannava e che già pareva l'ombra della morte che li invadesse.
Se quell'anima, racchiusa in un corpo quasi morto del tutto, con nessun altro spiraglio sulla vita che gli occhi, di cui non si poteva manco valere a manifestare le proprie sensazioni e volontà; se quell'anima, dico, era conscia di sè, giudichi il lettore quale dovesse essere il suo supplizio!
Il marchese ed il frate s'accostarono al letto del giacente, mentre gli altri con rispetto se ne scartavano.
— Nariccia, disse Baldissero, a cui parve uno degli occhi dell'assassinato si fissasse sopra di lui; mi riconoscete?
Non un moto, non il menomo cenno, non un batter di ciglio che indicasse l'infermo avesse udito; ma quella pupilla velata, dal fondo dell'occhiaia, continuò a restar fissa sul volto del marchese.
Padre Bonaventura insinuò dolcemente sotto le coltri la sua mano e prese la destra dell'assassinato.
— Ci riconoscete? diss'egli a sua volta, curvandosi verso il giacente, e colla sua voce dolcereccia e l'accento d'ostentata benevolenza.
Nariccia stette immobile, e il suo sguardo non si deviò nemmanco menomamente dalla direzione che [52] aveva prima. La mano che fra' Bonaventura aveva presa non rispondeva in alcun modo alla stretta, ma era dura, ghiacciata come quella d'un cadavere. Il gesuita la abbandonò con un certo ribrezzo e si trasse in là; anche il marchese provò una specie di fastidio per quello sguardo atono, semispento, vitreo che si ostinava a star fiso su di lui: vide che non c'era nulla da fare e s'allontanò di alcuni passi.
— Avete voi qualche sospetto intorno agli assassini; credete voi di poterne scoprire le traccie? domandò egli al Commissario.
— Sono persuaso che già li conosco, almeno i principali: rispose il signor Tofi; quanto al trovarne io traccie, questo pezzo d'abito signorile, che viene a confermarmi nell'idea essere fra loro e dei principali alcuni che vestono panni fini, questo servirà di prova accusatrice irrepugnabile, perchè si troverà senza fallo il sarto che ha cucito e trapunto queste lettere e saprà dirci per cui.
Affondò le due mani nelle grandi tasche del suo soprabito, appoggiò il suo mento quadrato sul duro cravattone e stette innanzi a S. E. nella mossa del soldato senz'armi in presenza del suo superiore.
Il marchese fece un allo di licenza e di saluto che significava non avergli più nulla da domandare, e badasse pure ai fatti suoi, e si mosse per uscire; ma Padre Bonaventura domandava in quella al medico che ancora non era dipartitosi dal fianco del giacente:
— Crede Ella che questo sventurato possa sopravvivere, o che almeno in lui la vita possa durare ancora alcun poco?
Il medico si strinse nelle spalle e rispose:
— Sopravvivere, no certo; sarebbe un vero miracolo, e non ci credo; ma però questo suo stato, e fors'anche con qualche miglioria potrebbe prolungarsi per alcuni giorni, come pure potrebbe avvenire fra pochi minuti eziandio la morte.
Messer Tofi, che non trascurava nulla, che per le cose del suo mestiere aveva una fortunata feracità d'idee, erasi andato a piantare in faccia al ferito, appiè del letto, e ne guardava con tanta intentività la faccia terrea e immota che pareva una maschera di creta, da far credere volesse co' suoi occhi penetrare entro quella testa e leggergli il segreto del delitto di cui era vittima nelle pieghe del cervello. Gli parve che alle parole del medico qualche cosa avvenisse in quell'occhietto appannato che guardava senza espressione dal fondo dell'occhiaia, una lieve modificazione si facesse, una specie di turbamento vi si manifestasse. Tofi s'abbrancò alla sbarra del letto e si curvò verso il giacente con un evidente interesse, guardandolo con più attenzione.
— Se così è, diceva fra' Bonaventura, continuando il suo colloquio col medico, sarebbe forse opportuno dire su questo infelice le orazioni dei moribondi.
— Sì, sì: esclamò vivamente il Commissario di Polizia; glie le dica, Reverendo. La carità le impone di non lasciar partire quest'anima poveretta senza i supremi conforti della religione.
Non era del tutto un trasporto di zelo cattolico che movesse il signor Tofi a parlare così: ma era il desiderio di assicurarsi meglio se quella sembianza d'emozione ch'egli aveva creduto di scorgere nel paralitico era vera, se l'anima racchiusa in quel cadavere aveva tuttavia coscienza di sè e delle cose circostanti e poteva in qualche pur lievissima guisa manifestare esteriormente le sue sensazioni.
Padre Bonaventura cominciò la recitazione di quelle tristi preci: il medico si ritrasse in là come colui del quale non è necessaria la presenza, e si ridusse col giudice nel vano d'una finestra a discorrere sottovoce; il marchese invece non solo si fermò, ma venne riavvicinandosi al giacente, per associarsi ancor egli a quell'atto pietoso: il Commissario stette al suo posto, curvando sopra il letto verso la faccia di Nariccia la sua lunga persona.
Egli non aveva travisto, sotto quell'appannatura onde quei loschi occhietti erano velati, un osservatore, qual era il Commissario, potè scorgere una emozione di spavento, di cordoglio disperato, la quale cercava, penosamente direi quasi, manifestarsi, e non ci riusciva che a stento. Si sarebbe detto che quelle pupille volevano rotare sgomentite e non erano capaci che a girar lentamente, che volevano domandar pietà e nol potevano, che volevano piangere e non trovavan lagrime. Il volto di messer Tofi veniva esprimendo una strana soddisfazione che pareva quasi un sorriso. Appena fu se lasciò finire le preghiere sul labbro del gesuita.
— Egli ci ode, egli ci vede, egli capisce e può farsi intendere: esclamò il Commissario. Dottore, venga un po' qua e presti attenzione. Credo aver trovato il modo di far parlare questo morto.
Il medico ed il giudice s'accostarono vivamente: anche il marchese ed il gesuita s'aggrupparono intorno al letto non senza un po' d'emozione.
Tofi spiegò quello che aveva osservato.
— Ed ora: soggiunse: stieno attenti tutti che riusciremo a metterci in rapporto con quell'anima chiusa in quel corpo intormentito.
Si pose vicino al capezzale di Nariccia, e curvandosi verso di lui, gli disse:
— Per prima cosa rassicuratevi sulla vostra sorte. Il vostro male è grave, ma non è disperato; se anzi vi mettete con buon coraggio nel vostro interno a volere riagire contro questo intorpidimento che vi allaccia, riuscirete a superarlo più presto. Potrete guarire ed avrete ancora lunghi anni da vivere.
Gli astanti intorno al letto, dominati da un pungente interesse, tenevano gli sguardi fissi su quella faccia di morto con occhi semivivi: non un moto, non un cenno, nulla che potesse fare arguire il giacente avesse udito.
[53] Tofi continuava:
— E più presto vincerete questo vostro torpore, più presto potrete darci i ragguagli perchè noi possiamo cogliere gli scellerati. Sarete vendicato (si curvò ancora più sul capo di lui) e potrete riavere tutto ciò che vi fu tolto.
Un fugace bagliore, come un piccolo guizzo, spento poi tosto, animò l'occhio destro dell'assassinato.
— Hanno visto? esclamò il Commissario. Per me non v'è più dubbio: egli comprende.
Il medico dichiarò che quel menomissimo accenno poteva essere puramente automatico.
— Non è vero che voi ci comprendete? soggiunse Tofi, curvandosi di nuovo sul giacente. Date retta, messer Nariccia: vegliamo fare una prova: metteteci da parte vostra ogni sforzo, tutta la buona volontà, perchè ciò vi deve interessare più di tutti noi. Se voi mi udite, se voi comprendete quel che dico, volgete il vostro sguardo verso di me.
Tutti si chinarono ansiosi a vedere se questa prova riuscisse. Le pupille di Nariccia stettero un momentino immote; poi lentamente, come con fatica, si mossero e la destra si volse verso Tofi, mentre la sinistra si volgeva appiè del letto, il qual modo era quello di guardare pe' suoi occhi loschi. Una lieve esclamazione uscì dal petto dei testimoni di quell'atto che prendeva una strana importanza.
— Vedete s'egli ci comprende! esclamò Tofi con trionfo. Oh noi lo faremo parlare, e la verità verrà fuori anche da quelle labbra morte. Fate attenzione, signor Nariccia, continuò indirizzandosi di nuovo al paralitico; potete voi chiuder le palpebre a volontà? Provatevici un po', vi prego.
Gli occhi del giacente manifestarono dapprima la stessa esitazione, la stessa difficoltà di poc'anzi, come restii ad ubbidire all'intimo volere; poi le ciglia si abbassarono lentamente e le pupille furono coperte.
— Bene, benissimo: esclamò il Commissario sempre più soddisfatto. Or dunque — fate bene attenzione, da bravo! — quando voi avreste da accennare di sì potreste chiudere gli occhi. Sarebbe come una precisa affermativa alle nostre interrogazioni, pronunziata dalla vostra bocca. Avete capito?
Le palpebre floscie e giallognole di Nariccia che si erano rialzate tornarono ad abbassarsi sulle losche pupille.
— A meraviglia! Vedono lor signori che noi ci comprendiamo perfettamente... E credo che non si voglia perder tempo — chi sa che cosa può sopravvenire anche nello stato di questo povero diavolo, che c'impedisca di poi l'approfittare del lume d'intelligenza che gli rimane? — e sia spediente il venir subito all'argomento che più preme.
Il giudice fece vivamente un cenno di assentimento, e tutti s'accostarono ancora di più al letto, presi da nuovo e maggiore interesse.
— Avete voi conosciuto i vostri assassini? Se sì, fate come vi dissi, chiudete gli occhi, se no, rimanete colle pupille immote.
Più presto di quello che avessero fatto per l'innanzi, le palpebre di Nariccia s'abbassarono.
Tofi continuò il suo interrogatorio.
— Tutti? Se li avete riconosciuti tutti, chiudete come prima gli occhi; se alcuni soltanto, volgete le pupille alla destra.
Nariccia chiuse compiutamente gli occhi.
— Potreste dirne i nomi?
L'assassinato fece di nuovo il segno affermativo.
— Troveremo il modo di aiutarvi a dirlo questo nome. Frattanto vediamo un po' in quanti erano. Io pronunzierò i numeri, facendo una pausa fra l'uno e l'altro; quando avrò detto il numero che si vuole, voi accennerete di sì. State attento. Uno!
Aspettò un istante: le pupille del giacente stettero fisse sul volto del Commissario.
— Due....
Gli occhi rimasero immoti.
— Tre.
Le palpebre si chiusero.
— È giusto. L'avrei detto anch'io che dovevano essere in tre, solamente a vedere le traccie del delitto. Uno, il più nerboruto, dovette spacciare la fante, mentre gli altri due erano intorno a voi.
Nariccia fe' segno di sì; ma i suoi occhi, fino allora semispenti e quasi atoni, cominciavano a prendere un'espressione di sgomento e di terrore, troppo vivo essendo forse nell'interno l'effetto di questo richiamargli alla mente l'orribile scena.
— Di questi tre assassini io sono persuaso di sapervi dire il nome di due: sono due galeotti scappati, di cui uno vien chiamato Stracciaferro, e l'altro Graffigna.
Cenno affermativo nel giacente.
— Rimane il terzo, e questo sono persuaso che è il più importante.
Nelle pupille di Nariccia corse come un lampo; era una fiamma fugace di quel desiderio di vendetta che stava in lui, e con più vivezza che non avessero ancora avuta, gli occhi si chiusero ad accennar di sì.
— Il pezzo di vestito che voi avevate tra le mani è suo?
Segno affermativo di Nariccia.
— Quello squarcio di abito indica ch'egli vestiva panni signorili. È così?
Il paralitico rispose affermativamente.
— Sotto quel bavero ci sono trapunte due lettere dell'alfabeto, F. B. Sono esse le iniziali del nome di quell'individuo?
Le pupille dell'assassinato rimasero immobili.
— No? Eh! volevo dirlo ancor io. Ma con un po' di pazienza voi potrete farci conoscere subito quel nome. Porgete attenzione. Come abbiamo fatto pei numeri faremo per le lettere dell'alfabeto: io [54] le pronunzierò adagio, ad una ad una, e voi mi segnerete via via quelle che entrano a comporre cotal nome. Cominciamo dalla prima.
Si mise a recitare lento e spiccato le lettere dell'alfabeto; gli occhi dell'assassinato stavano intentivamente fissi su quelle labbra come per cogliere a volo il suono delle lettere fatali che avevano da notare, quasi volendo affrettare la pronuncia di quelle che occorrevano. Ma dopo pochissimi istanti quelle pupille tornarono ad appannarsi e la fiamma d'intelligenza che vi balenava venne via via spegnendosi e quando il Commissario era giunto alla lettera H gli occhi di Nariccia si chiusero.
— Acca! esclamò il signor Tofi meravigliato. Un nome che comincia per acca? Diavolo! Non me lo sarei mai aspettato.
Si curvò di più sul giacente.
— Ehi! messer Nariccia, date retta: è proprio l'acca che avete voluto segnare? Riaprite gli occhi da bravo e ripeteteci il segno, se gli è proprio vostra intenzione di notare questa lettera.
Ma gli occhi di Nariccia non si riaprirono. Il medico s'accostò, lo esaminò, e disse che era inutile insistere, poichè la soverchia interna emozione lo aveva tolto della cognizione.
Tofi fece un atto di disappunto.
— Peccato! diss'egli. La cosa era sì bene avviata. Chi sa se quest'infelice potrà tornare in condizione da riprendere siffatto interrogatorio!
— Converrà usare dei riguardi: soggiunse il medico, e non ricominciare troppo presto. La emozione è troppo forte ancora e troppo recente, perchè facendo rivolgere su quel fatto la sua mente indebolita non succedano tristi effetti a danno della sua salute.
Il Commissario diede bruscamente una crollatina di spalle che significava con molta evidenza: «quando ne avessi tratto fuori quel che voglio, crepi o non crepi costui, che cosa m'importa?» ma non disse verbo.
Il marchese che non aveva più ragione alcuna d'indugiarsi in quella casa, se ne partì col gesuita. Il suo animo era stranamente commosso, la mente turbata. L'intreccio de' casi, la combinazione di quelle strane, inaspettate, imprevedibili circostanze gli facevano scorgere in tutto codesto un certo che di fatale, come un disegno della Provvidenza che volesse, ora, dopo tanti anni, metterlo al cimento di nuovo e dargli occasione a riparare a quel suo fatto per cui gli durava ancora potente nell'animo il rimorso. S'egli non avesse ucciso Valpetrosa (andava seco stesso pensando), il figlio di lui non sarebbe caduto in sì misera sorte!...
Giunti alla carrozza, che aspettava nella strada, Baldissero e fra' Bonaventura, questi, mentre il valletto, col cappello in mano, teneva lo sportello aperto perchè ci salissero, disse:
— Eccellenza, io la saluto. Ella se ne torna forse a casa, ed io rientro nel mio convento.
Il marchese pose una mano sotto l'ascella del frate a fargli invito a salire nel legno.
— Venga, venga meco, gli disse, l'accompagnerò fino al Carmine e la deporrò alla porta.
Salirono ambidue, e la carrozza si diresse di trotto verso il luogo indicato.
Per un po' rimasero in silenzio tuttedue: fu poscia Padre Bonaventura il primo che incominciò a parlare col suo tono più insinuante che mai.
— È una dolorosa contrarietà, un fatale contrattempo questa orrenda disgrazia capitata al povero Nariccia. Temo pur troppo ch'egli non tornerà mai più in istato da potersi spiegare chiaramente e farsi intendere con sicurezza; e senza la sua testimonianza è affatto impossibile dileguare quei dubbi che ci si affacciano intorno all'essere di quel giovane.
Il marchese lo interruppe con un gesto che indicava desiderare che per allora non gli si parlasse più di codesto.
— Penserò di meglio quello che mi tocchi di fare, disse: pregherò Dio, e preghi anche Lei per me, di grazia, perchè m'illumini.
S'era giunti al convento del Carmine, il gesuita discese con ringraziamenti, rispettose salutazioni ed umili proteste di devozione, e il marchese continuò la strada per al suo palazzo. Diverse idee gli tenzonavano nella mente, diversi affetti gli agitavano l'animo. I pregiudizi, l'orgoglio, la bontà del suo cuore, il rimorso lottavano in lui, mandandolo a volta a volta ai più opposti partiti. Aveva bisogno di guida e di consiglio, e non sapeva a cui rivolgersi, e non voleva aprirsene a nessuno. Ad un tratto si presentò alla sua mente l'immagine sorridente e bonaria dell'umile parroco di villaggio. Là era il buon senso, là l'onestà la più pura, là una vera religione, la virtù più generosa, il più esatto e preciso sentimento del dovere, là l'ispirazione della carità veramente cristiana.
Salì di fretta nel suo quartiere e fece venire a sè il domestico.
— Cercate subito di Don Venanzio, e pregatelo di venir da me al più presto.
Il lacchè s'inchinò in segno d'ubbidienza, ma non uscì della stanza.
— Che cosa avete da dirmi? domandò il marchese.
— Durante la sua assenza venne uno scudiere di Corte, pregandola di recarsi a Palazzo chè S. M. desidera parlarle.
Il marchese represse un lievissimo atto di contrarietà, e disse sollecito:
— Non si stacchino dunque i cavalli. Ci vado tosto: e frattanto si cerchi di Don Venanzio. Vorrei trovarlo qua al mio ritorno.
E messosi di nuovo in carrozza, fu in pochi minuti nel palazzo reale alla presenza di Carlo Alberto che lo aspettava e lo accolse tosto.
[55]
Il commissario Tofi, fattasi inutile ogni insistenza presso lo svenuto Nariccia, passò in altra camera e si diede ad interrogare coloro fra i casigliani che aveva fatto trattenere, nella lusinga potessero fornire qualche testimonianza utile al suo còmpito. Apprese egli di questo modo il fatto della crudele cacciata sul lastrico della strada della famiglia del povero Andrea, e quindi il furore e i propositi di vendetta di quest'esso. Nel passato del misero operaio non c'era nulla che potesse farlo stimar capace d'un delitto, e sopratutto d'una ruberia; ma la passione di vendicarsi e la miseria in cui si sapeva caduto il disgraziato sono così cattive consigliatrici! Gli stravizi a cui s'era dato in preda, le triste compagnie cui da tempo frequentava erano argomenti da far credere in Andrea offese e smussate quella moralità e quell'onoratezza onde poteva un tempo vantarsi; per poter penetrare in quel modo nel quartiere dell'avaro, senza effrazione, gli assassini dovevano avere in loro mano delle chiavi ben fatte all'uopo; ora sapevasi che Andrea era un abilissimo fabbro ferraio. Quella mattina era stato visto in quella strada medesima ed aveva mostrato assai turbamento. Tutto ciò parve al signor Tofi altro che bastevole per legittimare i sospetti sul conto di Andrea e la sua cattura: diede ordine senz'altro che il marito di Paolina venisse arrestato.
Ma dove trovarlo questo vagabondo che non aveva più domicilio? Tofi, che conosceva i suoi polli, mandò gli sgherri prima all'osteria, e poi, se Andrea non fosse colà, all'ospedale dove giaceva inferma la moglie dell'operaio.
Povera Paolina! Pareva ch'ella fosse già precipitata al colmo delle disgrazie, eppure una nuova le incombeva sul capo ed un nuovo massimo dolore stava per colpirla. Rimasta fuor de' sensi quasi ventiquattr'ore (ah! perchè non aveva Iddio concessole di continuare in questo stato, nel quale almeno le era tolta la coscienza della sua sventura?) era finalmente tornata in sè per conoscersi in un lettuccio sotto la trista vôlta d'un camerone d'ospedale. La prima idea che le era venuta era stata quella dei suoi cari.
— I miei figli! mio marito! esclamò essa.
Le rispose la voce dolce d'una pietosa suora di carità che per ventura le stava presso in quel punto.
— I vostri figliuoli sono ricoverati nell'Ospizio di *** e non mancano di nulla; vostro marito è già venuto due volte a vedervi, e credo che tornerà di quest'oggi medesimo.
La inferma volse uno sguardo tra attonito e riconoscente alla mite fisionomia di quella monaca, e stette un poco a guardarla, come se non avesse parole fatte da risponderle; poi ad un tratto un'idea spaventosa l'assalse, ed ella ruppe in un singhiozzo.
— Mio marito, disse, può venire a vedermi; ma i miei figli?.... Oh! non verranno essi pure?.... Io non potrò uscir più di qua per vederli loro... Dovrò io dunque morire senza più abbracciarli?
La suora tentò calmare lo spasimo della poveretta con buone parole, e infonderle il coraggio di qualche speranza; ma tutto fu inutile.
— No, no: diceva ella scotendo sul guanciale la testa con mossa desolata: lo sento bene; io morrò qui... qui, separata dai miei!...
Povera donna! Ella doveva aver pur troppo ragione!
Poco dopo Andrea si trovava presso il letto di sua moglie.
Non ebbero cuore a parlarsi i due infelici. Essa lo fissava cogli occhi velati da lagrime; egli non osava quasi arrestare il suo sguardo sul viso di lei, aimè! quanto cambiato, che già pareva il viso di una morta. Nell'aspetto di lui c'era una confusione, una vergogna, un rimorso: tutto esprimeva il pentimento ed il dolore; il suo contegno era un'accusa di se stesso ed un implorare perdono: in lei non un'ombra di rampogna, non la menoma amarezza; una rassegnata mestizia, una virtuosa mitezza nella irrimediabile desolazione. Andrea balbettò alcune voci che non avevano senso; si curvò sulla giacente; ne prese il capo fra le sue nere, callose mani che tremavano, e baciandole la fronte, ruppe in un pianto angoscioso, con singhiozzi che parevano squarciargli il petto. Piangeva eziandio Paolina, ma piangeva chetamente e lasciava colar giù del volto immagrito e color della cera le lagrime cocenti senza asciugarle.
Stettero così un poco; e la dolorosa amaritudine di quelle anime in tale istante, chi la potrebbe dire? Fu la Paolina che, con quel filo di voce che le rimaneva, cominciò a parlare.
— Calmati, Andrea, e fa coraggio, te ne prego.
Era essa, la santa donna, che riconfortava il marito; essa che andava persuasa di morire, di dover abbandonare nel mondo, in quelle sì triste condizioni in cui erano, i figli suoi; essa che da ciò aveva all'anima il più grande dolore che anima di madre abbia provato mai!
— Non pianger più..... Tu sei un uomo... Conviene che tu abbia forza... Senti, Andrea: ti voglio domandare un piacere, un gran piacere, sai, che mi farà bene, ma tanto, tanto bene.
— Oh parla: esclamò vivamente il marito: e qualunque cosa sia, ti giuro che io lo farò.
— Ho bisogno di vedere i nostri figliuoli... Conducimili qui... Non dev'essere proibito di condurre de' figliuoli a vedere la madre ammalata... Se fosse proibito anche questo, per noi povera gente, va a domandare la grazia da chi occorre, anche dal Re se fa bisogno... te ne supplico, ma conducimi qui i miei bambini... Tutti, sai! Anche l'ultimo... Povero piccino!... Ah! poveri tutti!...
[56] Si tacque chè la commozione le faceva groppo alla gola, e si voltò in là perchè il pianto le riempiva di nuovo gli occhi.
— Sta tranquilla, rispose Andrea, dovessi mettere sottosopra il mondo, ti contenterò.....
— Quando? quando? chiese con ansia e sollecitudine l'inferma.
— Per oggi mi è impossibile, che già è troppo tardi, e prima che io sia andato e venuto, è di là di trascorsa l'ora in cui qui ci si lascia entrare; ma domattina, sta sicura che verrò qui coi nostri figliuoli per mano.
— Grazie! disse Paolina con tanta tenerezza di accento che impossibile farsene un'idea: ah! rivedrò i figli miei!...
Successe una pausa; poi la inferma, non senza qualche imbarazzo, si fece a domandare:
— E tu, Andrea, ora, che fai? che conti di fare? come vivi? Hai cercato, cerchi lavoro? ne hai trovato?
Andrea rispose con impaccio maggiore di quello con cui sua moglie lo interrogava:
— No, di lavoro fin adesso non ne ho trovato... è così scarso!... ma ne cerco.
— E intanto come vivi?
— Ho qualche amico che mi aiuta...
— Ah! i tuoi amici
— Ho reso servizio ad un cotale che può qualche cosa e che ci torrà tutti dalle pene... Quando tu sarai guarita, e sarà guarito ancor egli... perchè si trova malato di molto anche lui, tutto si aggiusterà.....
Paolina guardò fiso in volto suo marito.
— Non c'è nulla in codesto, di cui un uomo onesto come sei tu debba arrossir mai?
Andrea chinò gli occhi innanzi a quelli della maglie: ricordò la false chiavi fatte la sera innanzi, ed una profonda vergogna de' fatti suoi lo prese.
— No, no, rispose tuttavia con sufficiente franchezza; anzi ho fatto per quel cotale una che si può dire opera buona. Ti conterò poi tutto un'altra volta.
Il domani, come aveva promesso alla moglie di fare, Andrea uscì dal segreto riparo in cui si nascondeva così bene, che da quella sera in cui era stato condotto in Cafarnao nè Marcaccio ned altri non lo avevano visto più, e s'avviò verso l'ospizio ov'erano ricoverati i suoi figli. Per giungere a questo ospizio, la strada più corta era quella in cui si trovava la casa di messer Nariccia, ed Andrea ci passò, e come tutti quelli che in quella mattina la percorrevano, fu arrestato dal capannello di curiosi che impediva il passo all'altezza appunto della casa dell'usuraio. Il marito di Paolina dalle vive ciarle che udì intorno a sè, apprese tosto quel che era avvenuto al suo già padrone di casa, e fu grave e profondo l'effetto ch'egli ne provò. Pensò di botto a quelle chiavi da lui fabbricate, e non ebbe dubbio nessuno che esse avessero servito a commettere quell'orribile delitto; egli dunque ne aveva pure la sua parte di colpa, a lui si doveva il compimento di quella strage, su di lui la giustizia divina e l'umana avrebbero potuto e dovuto far ricadere quel sangue. Il povero Andrea seppe così poco nascondere il suo turbamento che i presenti lo notarono tutti, e parlandone poscia al Commissario, rafforzarono in lui i sospetti che complice dell'assassinio fosse Andrea, e che, mandato appunto da quelli che avevano fatto il colpo, fosse venuto lì quella mattina ad esplorare come si mettessero le cose.
Intanto il marito di Paolina, allontanatosi da quel luogo di buon passo, desideroso di fuggire quella strada e quelle voci, arrivava ancora tutto sossopra dell'animo all'ospizio in cui erano ricoverati i suoi figliuoli. Colà domandava gli fosse concesso prender seco i bambini e condurli al letto della madre poco meno che moribonda; e la passione dell'animo ond'era afflitto, diede alle sue preghiere tanta efficacia, che le monache sotto la cui direzione era quel pio istituto, acconsentirono senza difficoltà nessuna a lasciar andare col misero padre i bambini; i quali, di vero, appena vistolo, s'erano gettati addosso a lui e pregavano piangendo li togliesse con sè, li conducesse dalla mamma, tornassero tutti nella loro soffitta a vivere come prima.
Andrea li abbracciò e baciò con tanta tenerezza, quanta forse non aveva provata mai; ringraziò le monache alle quali promise avrebbe fra due ore al più tardi ricondotti i piccini, cui loro raccomandava colla più commovente effusione, e toltosi in braccio il più piccolo, mandandosi innanzi gli altri, si diresse verso l'ospedale in cui giaceva la moglie.
Quest'infelice aspettava con ansioso desiderio che le faceva parere lentissimo il tempo. Ad ogni minuto domandava alla monaca, che aveva più specialmente cura di lei, qual ora fosse, e udendo sempre che trammezzavano ancora parecchi minuti al punto in cui avrebbero cominciato ad essere ammessi i visitatori, sospirava dolorosamente.
Ma quel momento giunse pure alla fine: vide Andrea comparire in fondo al camerone col piccino in braccio che girava attorno attoniti i suoi occhioni tondi come se volesse cercare la mamma che il babbo gli aveva detto eran venuti a vedere; scorse gli altri suoi figliuoli che camminavano tenendosi per mano colle mostre dello stupore ancor essi sulle loro faccine a quei nuovi oggetti che si trovavan dintorno; Paolina provò una tale emozione che ne attinse la forza di drizzarsi alquanto della persona sul letto, di levar fuori dalle coltri le braccia e tenderle a quei suoi cari che s'avanzavano verso di lei, mentre le sue bianche labbra tremanti esclamavano:
— Figli... oh figli miei!
In un momento, fra quelle braccia mosse da tanta tenerezza si trovò stretto con amoroso trasporto [57] l'ultimo de' bimbi che il padre ci aveva messo. La povera madre lo baciava piangendo, dicendogli mille incoerenti, inintelligibili parole; il bambino guardava sempre con que' suoi medesimi occhi attoniti, pareva non riconoscer più sua madre: quelle due lunghe file di letti, con entrovi tanti volti quasi cadaverici e tanti occhi riarsi dal fuoco della febbre, parevano spaventarlo, faceva greppo e se non avesse avuto soggezione, molto facilmente sarebbe prorotto in pianto. Il padre lo riprese, recandoselo al petto, ed egli si serrò colle piccole braccia al collo di lui, guardando la madre quasi sgomento: la infelice donna rispondeva a quello sguardo con un mesto sorriso tutto bontà e con una dolorosa rassegnazione entro gli occhi. Gli altri figliuoli furono dalla giacente abbracciati del pari; poscia il marito sedutosi vicino al capezzale, i bambini sulle ginocchia di lui, e l'ultimo nato, accoccolato sulla sponda del letto, passarono un po' di tempo dicendo parole pochissime, ma guardandosi, ma pensando di molto i due miseri genitori al loro passato, alle miserie presenti, alle paurose minaccie dell'oscuro avvenire. Il più piccino dei bimbi, superata oramai quella prima impressione di timoroso disagio, riconosciuta compiutamente la mamma, s'era accostato vicino vicino al capo materno ch'essa aveva dovuto abbandonare di nuovo sul guanciale, e colla manina ne accarezzava le pallide gote.
Così rimasero forse un'ora, non felici di certo, ma con una dolce e preziosa tregua nel loro reciproco soffrire. Ed ecco che il momento doloroso di separarsi era giunto. La monaca pietosa colle più umane forme e col più mite accento venne ad avvertirneli. Andrea si levò a malincuore, con un evidente sforzo, quasi avesse da sollevare con sè un grave peso che lo tenesse piantato a quel posto; Paolina fissò il volto de' suoi figli con un'espressione di spasimo, di rimpianto, quasi di terrore. Oh com'era passato presto quel tempo! Come! già separarsi da que' suoi dilettissimi! Rimaner di nuovo sola, ripiombare così presto nella privazione della vista di quei visini, nella lontananza da ogni suo affetto! E li avrebbe essa potuto rivedere ancora? Era quello forse l'ultimo addio che loro dava!..... Le sue labbra fatte tenaci, parevano non potere staccarsi dalla fronte dei figli in quel bacio d'addio. Non potè dir molte parole; balbettò confuse frasi soltanto; non potè piangere nemmeno; due lagrime sole ma cocenti le colarono giù dal volto; e la espressione dello sguardo con cui seguitò marito e figli che partivano, finchè non furono usciti dal camerone; quell'espressione disperatamente dolorosa, chi la potrebbe dire?
Quando e' furono fuori della soglia la misera nascose il capo sotto le coltri, e fu udita allora dolorosamente singhiozzare.
Andrea veniva fuori dell'ospedale, quando due uomini gli si slanciarono contro e prima ancora d'aver pronunziata una parola lo afferrarono alle braccia e lo disgiunsero da' suoi bambini che furono in là respinti.
— Venite con noi: gli dissero col tono poco gentile che è usuale a tutti gli sgherri del mondo.
Andrea diede una strappata affine di sciogliersi da quelle manaccie; ma i birri travestiti, coll'abilità e prestezza che hanno acquistate coll'uso in codesta bisogna, gli ebbero messo di subito i cantini ai polsi e dando una giratina colle mani glie li fecero entrare nelle carni, con un dolore che obbligò l'infelice a mandare un grido. La tremenda verità balenò innanzi al povero Andrea, a cui come uno spavento si presentò l'idea della carcere.
— Dove volete condurmi? domandò egli con un'ombra ancora di speranza che quello fosse un errore oppure d'altra cosa si trattasse. Chi siete?
— Siamo agenti della forza pubblica: risposero: ed abbiamo da condurvi dritto dritto al correzionale.
Molta gente usciva in quel punto dall'ospedale: presso alla porta stavano venditori e venditrici di arancie, cui sogliono comprare i visitatori per recare agl'infermi; tutti costoro e chi per caso passava in quel momento per la strada, si raccolsero in un gruppo curioso, abbastanza fitto, che si serrò intorno ai birri ed all'arrestato. I fanciulli che non capirono che cosa avvenisse, ma videro che si voleva separarli dal padre loro, colle manine intirizzite dal freddo, e gonfie dai geloni, afferrarono i panni del babbo e si diedero a strillare. Andrea volse tutt'intorno, su quelle faccie curiose che lo guardavano, un occhio smarrito, e gli parve che quelle faccie avessero centinaia e centinaia di pupille larghe, brillanti, che lo saettavano di schernitrici occhiate: il sangue gli salì prima alla testa, poi gli si aggruppò al cuore, sentì possedersi da un'immensa vergogna, si fece rosso come una fiamma, poi pallido come un morto e balbettando disse:
— È impossibile... Si sbagliano... Io non ho fatto nulla.
— Non ci sbagliamo: risposero col solito accento e coi soliti improperii gli sgherri. E se non avete fatto nulla, lo direte a chi conviene, a suo tempo.
E diedero una nuova strappata ai polsi per farlo camminare con loro. Andrea sentì trarsi i panni dai bambini che vi si tenevano afferrati.
— I miei figli: disse egli, piantandosi a resistere alla tirata; io non posso abbandonare i miei figli... Mi lascino almanco ricondurre all'ospizio i figliuoli miei.
— Eh! le sono storie: risposero i birri; che sì che noi abbiamo tempo da passeggiare per la città a lasciarvi fare le vostre commissioni; o che credereste che noi vi lasciassimo andare a fare voi da solo una piccola corsa, colla fiducia che voi veniate di poi a consegnarvi nelle nostre mani?
— Io sì, lo farò, lo giuro: esclamò Andrea.
— Niente affatto; non c'è da farvi di queste lusinghe; [58] già troppe parole abbiamo scambiate; suvvia in marcia, e non fatevi tirare.
— Babbo, babbo, seguitavano a gridare i bambini: non lasciarci..... Ci conducano anche noi col babbo.
I popolani presenti incominciavano a intenerirsi: i birri la vollero far finita, e senza tante cerimonie trascinarono il meschinello facendogli entrare nelle braccia le cordicelle delle manette. I bimbi correvan dietro a quel gruppo strillando; il povero padre volgevasi verso di loro, avvicendando le preghiere alle minaccie ed agli improperii e tutto col medesimo effetto sui poliziotti che lo traevan prigione: era uno spettacolo dolorosissimo a vedersi.
Ad un punto Andrea si buttò in terra disperatamente.
— No, urlò egli in un accesso di rabbia avvoltolandosi sul fango ghiacciato della via; no, non faccio un passo di più, non mi movo..... mi battano, mi uccidano se vogliono, ma io non abbandonerò i miei figli.
Gli sgherri si diedero in fatto a percotere il pover'uomo accompagnando le busse d'ogni fatta villanie; ma l'infelice padre seguitava a gridare:
— Oh che giustizia è questa? Che ho da lasciare sul lastrico i miei bimbi crepar di freddo e di fame? La loro madre è allo spedale... Me mi gettano in carcere che sono innocente... Vogliono dunque farci morir di miseria noi poveri e i nostri figliuoli..... Me li lascino guidare all'ospizio, non domando altro.
Un signore vestito da buon borghese, d'età inoltrata, d'aspetto pieno di bontà, che passava per caso colà, si fece innanzi e disse ai birri con un accento tra di autorità, tra di preghiera:
— Via, non maltrattate così questo pover'uomo.
Gli sgherri gli si volsero inveleniti:
— Chi è Lei?.... Che cosa viene a ficcare il suo naso qui in mezzo, Lei?
— Io posso darvi di me il ricapito che vi piace. Sono Defasi, libraio di S. A. R. il Principe di Carignano.
Queste parole fecero effetto sui birri, come non poteva mancare di avvenire in quei tempi, quando in presenza d'un agente qualunque del Governo si invocasse il nome di qualcheduno appartenente alla Corte.
— Signore, risposero con meno burbanza, noi abbiamo ordine preciso di condurre quest'uomo in prigione, e capisce anche Lei che bisogna pure facciamo il dover nostro.
— Sta bene; ma non entra nel vostro dovere il regolarvi in tal barbaro modo. Lasciate ch'io dica due parole a quest'uomo.... Oh non dubitate che le udrete anche voi, e credo che dopo di esse egli camminerà senza contrasto.
I poliziotti annuirono tacitamente con una stretta di spalle.
— E' bisogna rassegnarvi: disse ad Andrea il signor Defasi, il resistere non vi serve di nulla, ed anzi non può riuscire che a far peggiori le vostre condizioni.... Quanto ai vostri figli, s'io ho udito bene, voi li vorreste accompagnati a qualche ospizio, dove hanno ricovero; ebbene dite a me quale sia quest'ospizio, e in parola di galantuomo vi prometto che ve li accompagnerò io stesso.
Andrea fissò in volto il Defasi cogli occhi suoi ancora smarriti. Erano nel suo sguardo prima una diffidenza ed un sospetto che non la letizia di aver trovato un aiuto; ma la figura aperta e leale del libraio non tardò ad inspirare al misero padre tutta quella confidenza che la si meritava.
— Ebben sì, esclamò Andrea con voce subitamente commossa a tenerezza. La è padre di certo anco Lei?
Defasi fece sorridendo un cenno affermativo.
— Affido dunque a Lei i miei figli. Faccia la carità di accompagnarli all'ospizio ***; il mio nome è questo (e glielo disse), e soggiunga ch'e' son que' piccini che ieri ci vennero ricoverati dietro le istanze e le raccomandazioni del dottor Quercia.
— Siate tranquillo che farò appuntino: rispose il libraio con quella sua voce da galantuomo: e troverò modo, se altri non ne avete, di farvi sapere alcuna volta notizie di loro, ed eziandio di vostra moglie che ho udito essere a quest'ospedale.
Gli occhi di Andrea s'inumidirono.
— Oh grazie! esclamò egli. Iddio le renderà un tanto bene ch'Ella fa e farà ad una povera famiglia... Ah se mia moglie potesse ignorare quel che mi accade!... Per carità, signore, Lei che è sì buono e generoso, se volesse almanco adoprarsi a prevenirla quella povera donna, ad apprenderle la mia sventura con qualche riguardo, ad assicurarla che gli è soltanto un errore, ch'io sono innocente, che presto sarò di nuovo libero per andarla a vedere. Oh sì lo spero, ne sono certo... Oh disgraziata mia Paolina! Che colpo avrà da esser questo per lei!
Il signor Defasi promise anche questo: che, accompagnati i bimbi all'ospizio, sarebbe venuto al letto della madre loro ammalata, e con quei modi che avrebbe potuto migliori, sarebbe venuto informandola a grado a grado del disavventuroso avvenimento. Ma, pur troppo, la buona volontà e i caritatevoli uffici del signor Defasi dovevano essere inutili a questo riguardo, perchè mentre Andrea staccavasi a gran fatica dai suoi figliuoli baciandoli ed abbracciandoli con trasporto, cui gli sgherri posero fine ruvidamente, e camminava tutto pieno di vergogna verso la prigione; mentre il libraio recavasi coi bimbi all'ospizio e ve li faceva accogliere, la brutta nuova dell'accaduto penetrava nell'ospedale, e nel modo più crudo giungeva sino al letto della povera inferma.
La sorella d'un'ammalata, il cui letto era il più vicino a quello di Paolina, giungeva all'ospedale ritardata per alcune sue faccende, quando stava per [59] finire l'ora di ammissione alle visite, quando appunto già ne usciva coi fanciulli Andrea, e rimaneva testimone di quanto avveniva a quest'ultimo. Di poi, benchè già fosse proibita l'entrata, questa donna che era conosciuta di molto da tutti gli attendenti alle cure dell'ospedale, e la quale aveva realmente bisogno di parlare colla sorella inferma, otteneva dalla monaca direttrice la grazia di potere ciò nulla meno entrare nel camerone e stare alcuni pochi minuti coll'ammalata ch'era venuta a visitare. Fra le prime cose che questa donna disse fu la narrazione di quanto aveva veduto testè nella strada: ed una narrazione fatta coi colori accesi che presta una fantasia vivamente eccitata da fresca e profonda impressione. Descrisse con colori esagerati (e il fatto per essere pietoso non ne aveva punto bisogno) il dolore e la resistenza del padre, i pianti dei bambini, le sevizie degli sgherri; e Paolina udì tutto. Non poteva esserci sbaglio: un uomo che usciva in quel punto dall'ospedale, con bimbi così e così, vestiti a quel modo — ed ella con uno sforzo sollevatasi alquanto sul letto, interrogò ansiosamente la donna intorno a tutto codesto — non poteva essere altri che il su' uomo. Paolina mandò un grido che pareva quello d'una persona ferita a morte e si drizzò di scatto a sedere sul letto: prese a due pugna le coperte e le rigettò, fece la mossa di slanciarsi giù dal letto, e fu a stento trattenuta dalla suora di carità che fu lesta ad accorrere.
— Mio marito!... I miei figli! Ella gridava, e non poteva, e non sapeva gridar altro; e gli occhi le giravano orribilmente smarriti, e i denti le battevano in una contrazione spaventosa. Ma le forze di resistere alle braccia della monaca e d'un'altra infermiera venuta in soccorso, le mancarono ben presto: ricadde supina, facendo moti incomposti colle mani, pronunziando parole senza senso, e quando un quarto d'ora più tardi, venne sollecito, secondo la fatta promessa, il sig. Defasi, la trovò in un pieno parosismo di febbre e di delirio.
E di Andrea intanto che cosa era avvenuto?
La lurida stanzaccia di prigione in cui fu cacciato il marito di Paolina, era piena zeppa di gente, essendo in essa stati posti molti degli arrestati la notte scorsa nella riotta all'officina Benda, e fra questi una nostra antica conoscenza, quel tristo arnese di Marcaccio. Mancava il Tanasio, perchè la spaccatura della testa ch'egli doveva al braccio robusto di Bastiano, lo aveva fatto trasportare nella infermeria. Era la prima volta, per Andrea, ch'ei si trovava in quello fisicamente e moralmente sconcio ambiente che è la prigione; e codesto non avviene di certo senza un grande sconvolgimento di tutto l'essere; aggiungetevi le condizioni in cui si trovava egli personalmente, in cui era l'animo suo per le sofferte vicende, e facilmente potrete immaginare come l'infelice non avesse quasi in quel punto la coscienza di sè e di ciò che gli accadeva dintorno.
Di quanti erano colà dentro egli non riconobbe nessuno; non vide altro che una turba di uomini, la quale gli parve assai più numerosa di quel che fosse in realtà; e rimase poco meno che spaventato nel vedere tutta questa turba serrarglisi dintorno con una curiosità che a lui parve quasi una ressa minacciosa. Dell'udirsi interpellare da varie parti, da varie voci, chiamandolo per nome, dandogli in isconci termini uno sconcio benvenuto. Erano la più parte operai suoi antichi compagni all'opificio e suoi più recenti alla bettola, i quali tutti mostravano od ostentavano per la loro condizione presente e per le minaccie della sorte che li aspettava una spensierata noncuranza od una riagente allegria, alcuni perchè già avvezzi alla cosa avevano smussato l'animo così ad ogni rispetto di sè come ad ogni vergogna, alcuni per bravata, non volendo mostrarsi da meno d'altrui nello sciagurato merito di quell'infame cinismo.
Marcaccio in quel primo istante non si fece innanzi; e invece si sottrasse agli sguardi ed all'attenzione di Andrea, che da parte sua era troppo stordito nella testa per discernere alcun che. Il marito di Paolina essendo troppo afflitto e desolato per rispondere a quell'accoglimento sciaguratamente festoso che gli fecero i suoi compagni di carcere, esso ebbe fine ben presto: Andrea fu lasciato stare non senza qualche epiteto oltraggioso; e il misero, ritrattosi in un angolo, buttatosi a sedere sopra un saccone, puntando alle ginocchia i gomiti e stringendosi colle mani la testa, rimase assorto nel caos turbinoso dei suoi vari pensieri, dolorosi e paurosi tutti.
Perchè lo avevano arrestato? Era uno dei primi e de' più precisi che gli si aggirassero nella mente confusa. Una voce segreta gli diceva in fondo del cuore: «per cagione di quelle false chiavi che tu hai fabbricate.» Se fosse così, e quando ne lo avrebbero interrogato, che cosa avrebb'egli dovuto rispondere? Negar tutto: chi poteva provare quella sua colpa? Non c'era che quell'omiciattolo presente, e poi più tardi era sopravvenuto Stracciaferro; ma e l'uno e l'altro non avrebbero parlato mai. Sì, ma se nelle sue risposte s'imbrogliasse, egli che non aveva tanto ingegno da saper mentire? Confessare la verità? Codesto avrebbe anzi disposto a favor suo l'animo dei giudici. Ma così la colpa era chiarita assolutamente e certa la punizione. Egli non sapeva di leggi e non conosceva qual pena gli avesse da toccare, ma forse per mesi ed anco per anni l'avrebbero tenuto in carcere. A questa idea sentiva batter tumultuoso il sangue nei polsi della testa. Anni? mesi? Ma egli non poteva star lì nemmanco una settimana. Aveva sua moglie da andare a vedere; voleva e doveva non lasciarla morire. Quella sua colpa non l'aveva egli bastantemente espiata con tutto quello che aveva sofferto? Gli pareva di sì; ma poi quella medesima voce interna accresceva di forza per [60] gridargli che a lui si doveva l'assassinio di Nariccia. Ebbene? e con ciò? diceva nel suo intimo la parte di lui che la faceva da avvocato difensore: non era egli che avesse preso parte a quel delitto. Ben gli stava a quell'avaraccio disumano e crudele. Chi lo rimpiangeva? A cui recava danno la sua morte? Era questa anzi a molti un vantaggio. Egli se l'era voluta: era di certo una giustizia di Dio; ma poi di colpo, tutto cambiavasi nell'animo d'Andrea. Sentiva più grave pesar su di lui la responsabilità di quell'omicidio, parevagli scorgere sulle sue mani medesime, le macchie di quel sangue che s'era versato.
Si ricordò in quel punto di Marcaccio. Era stato egli il suo demone tentatore; egli a cui cagione Andrea aveva fallito: oh come giustamente la pensava Paolina mettendo in guardia suo marito contro le seduzioni di quel tristo amico, volendolo da quello allontanare! Probabilmente, anzi sicuramente, a credere d'Andrea, Marcaccio era stato uno degli assassini: egli, egli onest'uomo fino allora, era dunque amico d'un ladro e d'un omicida: sentì un tale orrore di sè che tutto si riscosse, come assalito dal ribrezzo, e mandò tra le palme onde si copriva la faccia un'esclamazione soffocata che pareva un singhiozzo.
In quella una mano gli si posò leggermente sulla spalla ed una voce ben nota lo chiamò sommessamente per nome. Andrea levò la testa con un sussulto e mandò un'esclamazione di terrore. Quel Marcaccio, di cui stava pensando, gli era davanti accoccolato sul pavimento, la faccia pochi centimetri lontana dalla sua. Pareva succeduta come una evocazione. Andrea aveva pensato al suo cattivo genio, e questo eccolo presentarglisi di botto. Si trasse in là con uno sgomento che non isfuggì al suo tristo compagno, e s'affrettò soprattutto a levare la sua spalla dal contatto di quella mano che egli immaginava rea dell'omicidio.
— Tu! tu qui! esclamò egli con istupore e paura. Che mi vuoi?.... Vuoi tu ancora trascinarmi a peggiori malanni?
Marcaccio per prima cosa ruppe in un'alta risata, che coprì le ultime parole di Andrea, poi gli disse:
— Ve' che bell'accoglimento da amico e che faccia che tu mi fai!.... Poverino! Tu sei tanto sbalordito che non sai proprio più quello che ti peschi... Sì, c'è da far le meraviglie di trovarci in questo luogo, noi galantuomini che siamo innocenti come l'acqua; ma e' capita sempre così, i birboni vanno a spasso e fumano il sigaro sotto i portici, e i poveri diavoli d'onesti vengono qui ad ammuffire su questi miserabili sacconi.
Poi si fe' ancora più presso all'orecchio d'Andrea e gli disse sotto voce frettolosamente:
— Qui bisogna badar bene alle nostre parole, sai! Abbiamo da parlarci, ma conviene farlo così piano che nessuno oda pure un soffio, e forte non ci scappi un solo detto che dia appiglio a qualche supposizione. Qui dentro sono almeno tre o quattro le spie.
Andrea lo guardò colla faccia d'uomo che non capisce; Marcaccio ripigliava a più alta voce:
— Se' tu stato pescato eziandio per la gazzarra di ieri sera? Non ti ci ho visto alla fabbrica. Vedi giustizia! Io mi sono contentato di andarci a gridare che è tempo di dare un po' meglio di pane al povero popolo, togliendone ai ricchi che ne han di troppo, e sono ingabbiato come un merlo, mentre taluni che fecero il diavolo e peggio, se la sgabellarono tranquillamente. Ah! non ci ho fortuna!
Andrea volse uno sguardo invelenito contro il suo compagno e rispose che non sapeva il motivo per cui era stato arrestato, ma che supponeva esserlo per quel fatto a cui lo aveva determinato Marcaccio medesimo due sere prima. Egli parlava sommesso, non aveva pur nominato di che cosa si trattasse, e nessuno pareva fare la menoma attenzione ai loro discorsi, ma pure ciò non bastò a rassicurare il complice d'Andrea.
— Zitto! diss'egli. Queste sono quelle cose di cui t'ho detto non bisogna discorrere che con infinite precauzioni. Dà retta. Io occupo il saccone vicino al tuo: stanotte, quando tutti dormiranno, ci faremo vicini vicini e ci insinueremo pian piano nel tubo dell'orecchio quello che abbiamo da dirci a vicenda. Per ora basta, e non parliamoci più.
Il marito di Paolina ricadde nelle sue tristi meditazioni. La notte! Egli era dunque il vero che avrebbe dovuto passare la notte in quell'orribil luogo? Oh! non sarebbe stato possibile che prima del cader del giorno qualche cosa avvenisse per cui egli fosse liberato? Dei momenti ciò sperava, gli pareva quasi una cosa sicura; si diceva che chi comanda non doveva volere che un uomo, il quale non era mai stato incarcerato, sul conto del quale non s'era mai trovato nulla da ridire, stesse pure un minuto di più del bisognevole frammezzo a quelle muraglie, in quella scellerata compagnia; si lusingava che della sua colpa nessuno potesse avere, non che prova, un indizio, che lo si sarebbe quindi ritenuto tosto per affatto innocente, e mandato a liberare, di quel giorno medesimo, fra poche ore, forse a momenti. Ma l'illusione era troppo vanamente fondata per poter reggere a lungo. S'accorgeva di accarezzare una chimera; gli nasceva il sospetto, il presentimento di quello che era la verità: che cioè quando un povero diavolo viene incarcerato, lo si dimentica, fino a che il giuoco dell'ordigno sociale della giustizia non lo riporti a galla, che di lui quindi nessuno per allora più non si occupava, come se non esistesse al mondo.
— Sì, dovrò passar qui la notte: diceva egli allora a se stesso, con cupa rassegnazione. E quante notti!... E se fossi poi condannato?... Oh a che cosa mai potrebbero condannarmi? Bisognerà ch'io consulti un avvocato... E Paolina intanto?
[61] Venne la notte. Quando tutti giacevano immersi nel più alto sonno e suonavano per lo stanzone i fragorosi russamenti de' suoi compagni, Andrea che non poteva chiuder occhio, vide Marcaccio porre la testa presso presso alla sua, ed udì come un soffio nell'orecchio che gli diceva:
— Ora parliamo. Qual è il motivo del tuo arresto?
— Io non ho che un atto solo nella mia vita che mi possa meritare questa sciagura: quello che mi hai fatto eseguir tu.
— Vuoi dire le chiavi false della casa di Nariccia?
— Sì.
— Oh che credi tu che siavi alcun sospetto di qualche cosa?
— Dopo il colpo di cui fu vittima stanotte messer Nariccia.
— Colpo! Vittima! esclamò con infinito interesse Marcaccio. Oh che, è successo qualche cosa?
Andrea lo guardò con istupore.
— Non lo sai, o fingi di non saperlo?
— Non so niente.
— Io ho creduto che tu ci avessi parte.
— Niente affatto. Non mi si disse manco che la cosa doveva farsi la notte scorsa: quel sornione di Graffigna fa sempre così. Ed io fui arrestato alla fabbrica Benda.
— Tanto meglio: disse Andrea, cui tornò una specie di sollievo sapere che quell'uomo con cui discorreva non s'era macchiato dell'atroce delitto, e sentì alquanto scemarsi la ripulsione che aveva a parlargli.
Raccontò a Marcaccio tutto quello che aveva appreso intorno alla sorte di Nariccia: e ciò che sul mariuolo fece maggior effetto fu l'idea del vistosissimo bottino che gli assassini dovevano aver fatto.
— Alla croce di Dio! de' bei sacchetti e' li avranno portati via di colà..... Mi par mill'anni di esser fuori di qui per averne la mia parte..... chè una buona porzione ce ne viene a noi due..... anche a te che li hai messi dentro quella casa..... Senza di noi non ci sarebbero riusciti.
Andrea tornò a provare tutto il ribrezzo ed il rimorso di poc'anzi.
— E tu dunque, riprese a dire Marcaccio, poichè il suo compagno si taceva; tu temi che per tal cagione t'abbiano arrestato. Or dunque dimmi un po': all'interrogatorio che cosa conti tu di rispondere?
— Ah non so davvero. Ho paura che leggano subito nel mio turbamento tutta la verità.
— Bubbole! Ci vuole franchezza e coraggio. Dà retta a me e ringrazia il tuo santo protettore che ti ha fatto incontrar qui con un amico par mio: altrimenti tu mi avresti fatta una solenne frittata, rovinato te e compromesso altrui. Bisogna negare fermo, forte e tutto. Non c'è alcuno che possa tradirti, perchè nè io nè altri con cui tu avesti da fare puoi esser certo che aprirà bocca. Non si è tanto gonzi. Tu non hai visto nulla, tu non sai di nulla, tu non hai sentito di nulla. Non si esce di lì. Ti terranno un par di settimane a mangiar gratis il pan dello Stato e la minestra della Misericordia e poi ti daranno il largo....
— Un par di settimane! esclamò spaventato Andrea: oh che io avrei da rimaner qui cotanto?
L'emozione gli fece dimenticare la prudenza inculcatagli da Marcaccio, e queste parole furono pronunziate con voce quasi alta.
— Zitto, per amor di Dio! disse il suo compagno serrandogli forte un braccio. T'ho detto che bisognava parlar tanto piano che neppure le mosche, se ci fossero, non ci avessero da sentire.... Ora s'è discorso abbastanza: mettiam berta in sacco e dormiamo.
Marcaccio non tardò in fatti a prendere una parte distinta nel concerto di russamenti che eseguivano con una specie di foga accanita i carcerati; ma pel marito di Paolina non ci fu possibilità di chiuder occhio. Troppo nuove e troppo dolorose erano le impressioni che egli aveva ricevute, perchè si potesse tanto presto acquetar l'anima sua. La notte gli parve eterna; ed egli salutò quasi come un amico il primo fioco barlume di luce che s'insinuò in quel lurido camerone traverso le inferriate e i ragnateli polverosi dell'alto finestrino.
Comparve poi finalmente Andrea innanzi al giudice istruttore. Gl'indizi a carico dell'accusato si erano fatalmente accresciuti e fatti gravi. S'era raccolto da testimonianze che Andrea aveva espresse assai fiere minaccie prima contro il suo antico principale, il signor Giacomo Benda, perchè non aveva più voluto accettarlo nella sua officina, e siccome l'assalto, il saccheggio e l'incendio di quell'opificio conoscevasi essere il risultamento d'un complotto, era naturalissimo il credere che questo operaio, amico e compagno indivisibile d'altronde d'uno dei caporioni della riotta, arrestati in flagranti, avesse preso parte principale ancor esso al complotto medesimo, ed anzi, alla esecuzione di esso; quanto all'assassinio di Nariccia, Andrea aveva contro di lui la sua abilità conosciuta di fabbro, e le minaccie ancora più terribili che nell'osteria di Pelone egli s'era lasciato scappare a più riprese contro il padrone di casa che gli aveva gettata la famiglia sul lastrico della strada.
Andrea alle pressanti, accorte, pericolose interrogazioni del giudice non rispose altrimenti, seguendo il consiglio di Marcaccio, che con decise negative; ma egli spinse questo metodo ad un eccesso che lo compromise maggiormente. Timoroso delle conseguenze che da principio aveva veduto trarre dalle circostanze le più lievi coll'arte induttiva dell'interrogatore, non essendo abbastanza accorto, nè abbastanza libero di mente per indovinare o presentire [62] soltanto a qual meta mirassero le fattegli domande anche le più semplici, egli credette miglior partito negar sempre e negar tutto. Ma queste sue negazioni non sapevano essere tanto risolute che non lasciassero scorgere lo sforzo della menzogna; ma elleno, poco accortamente, volevano escludere anche delle cose e circostanze che erano provate evidentemente, così che l'impressione del giudice fu quella affatto di avere innanzi a sè un reo ancora novizio, ma reo assolutamente dei due gravi delitti che gli si imputavano.
Andrea s'accorse dell'impressione che produceva sul suo interrogatore, e perdette ancora più la bussola, tanto che, non sapendo oramai più che farsi, nè che dire, quasi avesse speranza di intenerire quell'uomo e da lui dipendesse la sua salute, proruppe in confuse supplicazioni quasi con voce di pianto. Giurò ch'egli ned era andato ad assalire la fabbrica Benda, nè aveva saputo dell'assassinio di messer Nariccia fuorchè al mattino; sì, era pur vero, disse, che inconsiderate parole gli erano sfuggite contro il fabbricante ed il padrone di casa, ma in quel momento, coll'animo vivamente esagitato, egli aveva detto cose a cui non pensava, che non aveva per nulla l'intenzione di eseguire; lo lasciassero andare ch'egli ne aveva gran bisogno: parlò della moglie moribonda all'ospedale, dei figliuoli all'ospizio, che non per lui, ma per quei poveretti gli usassero pietà.
Il giudice lo lasciò dire con molta pazienza, ascoltandolo freddamente; poscia tornando egli a parlare:
— Sentite, gli disse, non vi nascondo che le apparenze sono molto contro di voi, e che le vostre risposte furono ben lontane dal scemare i sospetti a vostro riguardo: ma pure ci avete un modo tuttavia da escludere ogni vostra colpabilità, da far dileguare ogni dubbio, e sarebbe quello di provar l'alibi.
Andrea guardò il giudice con tanto d'occhi.
— L'alibi? ripetè egli con tono che significava non saper egli che animale si fosse codesto.
— Sì, riprese l'uomo della legge coll'impazienza di chi, avendo famigliare un'espressione, non può persuadersi che altri non la capisca: sì l'alibi, vuol dire che proviate come durante il tempo in cui si commisero quei reati, voi foste altrove, alibi, e quindi sia impossibile che voi prendeste parte ai reati medesimi.
La faccia di Andrea si rasserenò tutta.
— Sì? esclamò egli con accento di somma gioia: ma in tal caso io sono salvo. Ho passato fin dalla prima sera, tutta la notte in un luogo, oso dire, a fare un'opera buona.
Il fiscale crollò con mossa alquanto incredula il capo. Per lui uno de' rei era già trovato: era lieto del suo successo, e gli rincresceva aver da rinunziare alla sua convinzione ed alla soddisfazione di amor proprio d'aver già appurata la colpevolezza di uno di quei terribili assassini.
— Uhm! diss'egli con un certo risolino; codesto non basta il dirlo. Converrebbe, come vi ho già espresso, provarlo.
— E lo posso provare.
— Ci avete dei testimoni?
— Sì.
— Ammessibili?
— Affatto... L'uomo stesso al cui letto io ho vegliato.
— Ebbene chi è costui? E dove lo si trova?
Andrea aprì le labbra per rispondere, ma poi un nuovo sentimento sopravvenne a trattenerlo.
— Ah no, non posso: esclamò egli con dolore e rabbia; ho promesso solennemente di tacerlo.
Sulla faccia del giudice tornò quel certo risolino di poc'anzi: ed egli s'alzò come per dinotare che l'interrogatorio era finito.
— È molto spiacevole per voi che non possiate parlare. Codesto vi avrebbe tratto assai facilmente d'imbarazzo: ma poichè una tal promessa vi chiude la bocca, è inutile insistere, non abbiamo più nulla da dirci, e potete tornare nella vostra carcere.
Chiamò i secondini perchè Andrea fosse ricondotto al suo stanzone, ed egli medesimo, ripiegate le sue carte, s'accinse ad uscire col segretario: ma il prigioniero, quando fu alla soglia, si fermò ed esclamò con forza:
— Un momento!... Ah! per salvarsi, un padre di famiglia può anche violare una tal promessa. Sono disposto a dir tutto. Ecco l'indirizzo del luogo ov'io passai tuttedue le notti di sabato e di domenica; vadano colà e troveranno l'uomo che forse deve a me se ancora trovasi in vita.
Il giudice fece scrivere dal segretario l'indirizzo che Andrea gli disse; domandò che nome avesse quell'uomo di cui l'inquisito parlava, ed Andrea rispose che l'ignorava.
— Si prenderanno informazioni: disse asciuttamente e di mala voglia il fiscale; e ricordatevi bene che le frottole non vi serviranno di nulla.
Il marito di Paolina fu ricondotto in carcere.
Quel giorno medesimo il signor Tofi ebbe una viva soddisfazione. Egli in questo succedersi di gravi avvenimenti sentiva di molto la mancanza di Barnaba, cui non aveva più visto dopo quel colloquio avvenuto fra di loro, nel quale egli all'agente caduto in disgrazia aveva manifestato i voleri e gli ordini dei superiori; e per riaverlo al suo fianco avrebbe dato non so che cosa. Aveva fatto cercare di lui, ma Barnaba, oltre il palese, aveva un domicilio nascosto, sconosciuto anche dal suo capo, e non era stato possibile averne notizia. Quel dì dopo l'interrogatorio di Andrea, l'ufficio di polizia ricevette da quello fiscale una comunicazione, in cui dicevasi uno degli imputati aver cercato di stabilire l'alibi allegando d'essere rimasto tutta notte in via [63] tale, casa tale, al tal piano, senza voler dire il nome della persona che in quel quartiere abitava; si prendessero informazioni di che luogo fosse quello e chi vi abitasse, ma con molta cautela per non dare la sveglia, se per caso vi fosse colà dei complici.
Era una missione delicata; e poi una specie di ispirazione d'istinto lo mosse: il Commissario decise di andare in quel luogo esploratore egli medesimo. Assunse l'aspetto d'un buon borghese ed andò a picchiare (che non c'era campanello) alla porta dell'indicatogli quartiere. Venne ad aprirgli la faccia melensa di Meo, che rimase ancor più melensa nel vedersi innanzi una persona che non conosceva.
— Oh! disse lo stupido. Credevo che fosse il medico!
— Son ben il medico per l'appunto: rispose il Commissario cacciandosi innanzi.
— Ma!... E quell'altro?
— Quell'altro non ha potuto venire, ed ha mandato me in sua vece.
Traversò senz'altro con tutta sicurezza quella prima cameretta che serviva d'entrata, e s'intromise nella seconda stanza, nella quale vide un letto su cui giaceva un uomo. Mandò un'esclamazione e in un salto fu presso il giacente. In costui aveva riconosciuto Barnaba.
Torniamo indietro di due giorni, a quella sera ed a quel momento in cui Barnaba cadeva sulla neve della strada, trafitto alle reni dall'affilato pugnale di Graffigna. Abbiamo visto che nell'ombra della notte due persone accostantisi al luogo del commesso delitto, apparivano agli occhi spaventati di Marcaccio, il quale gettando l'allarme come se fosse loro addosso la forza pubblica, fuggiva e faceva fuggire il suo complice.
Que' due uomini erano invece, come già fu detto, Macobaro l'ebreo, e il marito di Paolina, che ultimi erano usciti dalla bettolaccia di Pelone. Il vecchio rigattiere che giunse primo sopra il caduto, lo schivò col suo passo barcollante per l'età, e mormorò fra i denti:
— Un ubriaco fradicio. Be', ch'e' dorma costì sulla neve; ciò gli vorrà far passare i vapori.
Barnaba era caduto, ma non aveva perso menomamente la cognizione. Aveva sentito la fredda lama penetrar nelle viscere; gli era stato impedito il pur mandare un grido dallo spasimo e dal sangue che si era precipitato alla gola, ma egli non s'era tuttavia smarrito dell'animo. Quando vide che i due uomini da cui era stato assalito fuggivano ratti, Barnaba aveva creduto davvero ancor egli che una pattuglia od alcune guardie di polizia di servizio sopraggiungessero, e fatto uno sforzo per levarsi, puntando la mano al suolo, riuscì a tirar su il capo e guardare verso il nuovo sopravvenuto; riconobbe Macobaro, e fu sul punto di lasciarsi ricadere senza cercarne aiuto ned altro, perchè troppo sospettava delle attinenze di quel vecchio con coloro che lo avevano trafitto: ma il rigattiere non aveva ancora fatto il giro intorno al corpo del caduto, per continuare il suo cammino, quando giungeva a quel punto anche Andrea, il quale se nei fumi del vino aveva ammortito alquanto il rimorso della mala opera commessa, non ci aveva però attutiti quell'istinto pietoso e quel sentimento d'umanità che erano nella sua natura.
— Un povero diavolo che ha male: diss'egli curvandosi sopra Barnaba che stava ancora col capo eretto a guardare.
La fisionomia dell'operaio ispirò fiducia nel ferito.
— Sì, diss'egli colla poca voce che aveva, ho male, ho molto male; mi fareste una fiorita carità ad aiutarmi a levar su, ed accompagnarmi a casa, che non è lontano; e ne avreste buon compenso, ve ne assicuro.
Alla parola di compenso la cupidigia fece drizzar le orecchie e fermare il passo a Macobaro.
— Oh, oh! diss'egli accostandosi, e' mi pare di conoscere questa voce.
Andrea passò un braccio sotto il corpo del caduto per sollevarlo, ma ritirò con ribrezzo la mano, sentendosela bagnata d'un tepido umore attaccaticcio.
— Santa Madonna! Questo è sangue!...
— Sì, sono ferito: ma non sarà nulla..... Ch'io possa soltanto giunger presto a casa mia.
— Qui conviene correre a chiamare soccorso, ad avvisare la giustizia....
Barnaba trattenne pei panni Andrea che pareva voler prendere le mosse.
— No, no; diss'egli con istraordinaria energia. Non voglio nessuno; la giustizia non ha da saperne nulla... Me la farò da me, la giustizia.... se scampo.
Jacob aveva riconosciuto pienamente il segreto agente della polizia, sulla cui condizione, da lungo tempo egli aveva più che sospetti.
— Egli è l'Eterno medesimo che me lo manda a stromento della mia vendetta: diss'egli fra sè. Quand'io salvi dalla morte costui, potrò per suo mezzo perdere quell'altro senza rovinar me.
Si chinò ancor egli con tutta premura verso il ferito.
— State di buon animo, gli susurrò, noi vi trarremo fuori d'ogni rischio. Solo ch'io possa esaminare la vostra ferita, e vedrete. Nella mia famiglia, da tempo immemoriale ci abbiamo conoscenza d'ogni fatta ferite e segreti infallibili per guarirle. [64] Andiamo adunque a casa vostra e non dubitate di nulla.
Andrea prese fra le braccia il ferito, e recandoselo come se fosse un fantolino, s'affrettarono verso quella strada, entrarono in quella casa e salirono quelle scale cui Barnaba loro indicò, di guisa che pochi minuti dopo, il trafitto era disteso sopra il suo letto, e Macobaro visitatolo e fattagli una fasciatura a suo modo, lo rassicurava affermando che nessun organo essenziale era stato offeso dalla lama, la quale s'era miracolosamente insinuata fra le viscere, e che perciò non solamente sicura, ma sollecita sarebbe stata la guarigione.
Andrea aveva acceso il fuoco ed aiutato l'ebreo in tutto ciò che aveva potuto; e in codeste cure prodigate al ferito, era passata oramai la notte. Barnaba, ringraziati i due suoi soccorritori, aveva voluto rinviarli alle case loro ed alle loro bisogna, ma Andrea aveva risposto non aver egli più casa ove ricoverarsi, nè famiglia che avesse da inquietarsi de' fatti suoi, e quindi poter benissimo rimanere a custodia del malato, come grande n'era pure il bisogno. Macobaro ancor egli protestò che a casa sua non ci aveva da andare, nè voleva, e che anzi se non si fosse trattato d'una sì rincrescevole disgrazia, sarebbe stato lieto fosse nata occasione da dovere star lontano dalla sua dimora; e così avvenne che Ester, rimasta sola in casa, potesse di là fuggire, come vedemmo.
Ma prima che il vecchio ebreo, la mattina di poi, abbandonasse il letto dell'infermo per tornare a casa sua, fra quei due aveva luogo un breve colloquio a parole interrotte, il quale era però importantissimo, essendosi gettate, per così dire, le basi d'un'alleanza fra loro, della quale dovevano riuscire terribili gli effetti.
Fu Macobaro che incominciò:
— Scusi, diss'egli, se entro in discorso che forse la infastidisce o le spiace, ma vi sono costretto per la mia stessa tranquillità e per quella di quel bravo uomo.
Ed accennò con una mossa del capo ad Andrea, che sonnecchiava sopra una seggiola presso il fuoco.
Barnaba fece un moto degli occhi, che voleva dire:
— Parlate pure:
— Ella non volle che si andasse ad avvertire l'autorità....
Il ferito interruppe con un gesto negativo del capo, pieno di energia.
— Non vorrei poi che io e quel buon operaio rimanessimo compromessi.
— Siate tranquillo: rispose allora Barnaba fissando ben bene entro gli occhi il padre di Ester e pesando sulle parole, che pronunciava lentamente: non avete nulla da temere. Se io guarisco... e voi mi assicurate che guarirò...
Jacob ripetè quest'affermativa con accento pieno di convinzione.
— Non solamente non avrete disturbi, ma dall'avermi soccorso potrete avere vantaggio. Debile ed umile, com'io vi sembro, io potrei pure molto far obbliare, e molto perdonare per chi avesse bisogno dell'una e dell'altra cosa.
Macobaro chinò gli occhi, prese un'aria modesta e disse:
— Potrei invocare poi la sua protezione in questo senso... non per me, ma per alcuni alla cui sorte m'interessassi?
— Sicuramente.
— Ma ciò vuol dire, s'io non erro, che s'Ella ha sufficiente autorità da far mettere certe cose nel dimenticatoio, l'avrà pure per far volgere il rigore delle Autorità sopra questo o quel fatto, questo o quell'individuo?
Barnaba affondò i suoi occhi in quelli dell'ebreo che si levarono un momento su di lui. Ciò bastò perchè il poliziotto travedesse nell'anima del vecchio rigattiere.
— La ho: rispose con quell'accento significativo di prima. Anzi per far male ad alcuno — che se lo meriti — la ho tanto di più.
Qualunque fosse l'impressione che queste parole facessero su Macobaro, questi la dissimulò compiutamente in una perfetta immobilità della persona, tenendo chini a terra il volto e gli occhi; ma dopo un breve istante riprese a parlare.
— Se dunque Ella non vuole sia ora avvisata la giustizia del delitto compito su di Lei, non è perchè la rinunci alla vendetta.....
Pronunciò egli questa parola con una vibrazione speciale, e nel pronunziarla le sue fosche pupille dal fondo delle occhiaie tornarono a volgersi sul volto di Barnaba.
— Alla vendetta! esclamò questi di cui gli sguardi balenarono alla pari. Rinunciarvi? Mai più! Gli è perchè voglio compirnela io..... che ho i mezzi ed il potere di regalarmela da me questa vendetta, che non mi piace nessun altro venga ad intromettersi prima. I due sciagurati che mi ferirono furono stromenti soltanto: io voglio salire più su, voglio afferrare la mente che ha guidato quelle mani, e per giungervi farei non so che cosa.
— Ah sì! esclamava con forza il vecchio Arom, Ella ha ragione..... Gli è colà che bisogna percuotere.
Barnaba tese vivamente una mano fuori delle coltri ed afferrò lo scarno braccio dell'ebreo.
— E voi mi ci aiuterete: disse con vece bassa ma vibrata. Avete voi pure una vendetta da compiere? I nostri odii si uniscano e quell'uomo è perduto.
— Basta! basta! disse, Macobaro levando il suo braccio dalla stretta della mano del ferito. Abbiamo già troppo discorso, e non bisogna che Ella si agiti il sangue. Stia calmo ed in riposo, la mente ed il corpo.
[65] Si curvò su di lui e soggiunse piano piano che appena il giacente l'udì:
— Di ciò parleremo ancora di poi.
— Ah vendetta, vendetta! pensava Barnaba seguendo collo sguardo il vecchio oramai sull'orlo della fossa che col suo passo cadente s'allontanava dal letto; tu sei la passione maggiore dell'anima umana, tu sei la susta più potente della nostra volontà: chi sa servirsi di te e sfruttare le tue ispirazioni e la tua forza, ha in pugno l'orgogliosa umanità.
Verso le dieci del mattino, Meo, secondo che gli era stato ordinato da Barnaba, venne a casa di quest'ultimo, e vi fu trattenuto ad ogni modo, senza lasciarlo uscir più, premendo di molto al poliziotto che il servo di Pelone più non tornasse nella bettola, nè fosse visto da alcuno dei frequentatori di essa, non avendo Meo medesimo volontà nessuna di tornarci, e giungendo inoltre opportuno per aiutare Andrea nelle cure da darsi al ferito.
Barnaba, frattanto, condannato ad una forzata inerzia corporale, lavorava di molto colla testa: veniva rifacendo nella fantasia tutto il dramma avvenire che avrebbe avuto per conclusione una sua molteplice vendetta verso quell'uomo il quale finora avea saputo a lui così bene sottrarsi e nella coperta lotta vincerlo. Un istante solo aveva egli pensato di mandare pel signor Commissario e svelargli quando venisse ogni cosa, perchè s'affrettasse ad agire, nella paura che gli scellerati potessero trovar modo da scivolare anche una volta fuor delle loro mani; ma troppo era il suo desiderio di far egli tutto da sè, d'esser egli a condurre a fine l'impresa e mostrare a' suoi superiori quale errore avessero commesso condannandolo: ci teneva come un inventore alla sua scoperta, il quale non può soffrire che un altro la metta in atto e se ne faccia merito. Gli assassini credendolo spacciato, non avrebbero stimato opportuna altra precauzione per guarentire il loro segreto e la loro sicurezza; ed egli d'altronde ora colla cooperazione di Macobaro poteva dirsi penetrato nel campo nemico. Si trattava solamente di guarir presto, e poi egli avrebbe fatto meravigliare il signor Tofi e quanti altri mai coi risultamenti che otterrebbe.
Egli era appunto in cosiffatti pensieri, quando in seguito alle vicende che abbiamo visto, il signor Tofi medesimo entrava precipitoso nella stanza del ferito e con lieta sorpresa riconosceva in lui il suo più fido e più abile agente segreto.
Il signor Tofi era troppo accorto per far vedere che solamente al caso egli dovesse la scoperta del covo in cui stava ritratto, come Achille sotto la tenda, il suo subordinato; si avanzò verso il letto col suo passo militare accelerato, il mento levato sopra il suo cravattone duro, con aspetto più severo che soddisfatto, non ostante la compiacenza che provava internamente per l'avvenutagli buona ventura di trovar lì chi più desiderava.
— Ecchè, diss'egli col suo accento solito, mezzo di rampogna e mezzo di comando; la ci vuol proprio tutta a stanarvi fuori. E mentre si fa più forte il bisogno dei vostri servizi e si presenta più favorevole l'occasione per farvi onore, voi state qui a poltrire in letto sotto il pretesto di non so qual malattia? Forse che abbiamo il tempo di diventar malati, noi? Forse che possiamo tener broncio e rifiutarci al nostro dovere? Niente affatto. Ci conviene star sempre sulla breccia, il corpo e lo spirito pronti. Animo su, fuori da quelle coltri che una grande campagna incomincia, è già incominciata.
L'emozione della sorpresa vedendo entrare così inaspettato il signor Commissario, aveva cagionato a Barnaba a tutta prima un certo rimescolìo di sangue, per cui s'erano d'alquanto arrossate le sue guancie; ma poi, dato giù quell'accorrere degli umori al capo, era tornata in lui la pallidezza che lo dimostrava in preda ad una vera e non lieve sofferenza di malattia. Tofi ciò vide e con alquanto più interesse che non avesse fino allora manifestato, curvando un poco sopra il letto la sua alta e rigida persona, soggiunse:
— Ma in realtà voi mi siete più bianco d'un cencio lavato. State dunque male davvero?
Barnaba fece un segno affermativo.
— Sono andato fino alla porta della tomba, disse con un mesto sorriso, e poco mancò, proprio assai poco, che non avessi più il bene di vederla, signor Commissario.....
Questi volle saper tutto che era avvenuto al suo agente; e Barnaba fattogli promettere che non avrebbe fatto nulla per iscoprire e cogliere i colpevoli, gli raccontò in brevi termini l'aggressione di cui era stato vittima.
Tofi stette un poco pensieroso, gli occhi fissi sul volto del giacente; poi disse:
— Ed a chi ed a qual motivo credete voi dover attribuire questa succhiellata?
Gli occhi di Barnaba si animarono un pochino.
— A chi? diss'egli. V'è una grande, orribile congrèga, di cui son presso a scoprire le fila, v'è una scellerata e potente persona de' cui delitti ho già quasi in mano le prove.... Si aveva tutto il possibile interesse a farmi scomparire.
Questa volta il Commissario non fece più il sorriso d'incredulità che era solito a fare quando Barnaba accennava a que' suoi sospetti intorno ad un misterioso capo di un'orda di briganti.
— E perchè, domandò egli ancora, non volete ch'io cerchi de' vostri assassini?
— Per più ragioni: rispose Barnaba. La prima è la mia sicurezza medesima. Bisogna che si facciano l'idea ch'io sono sparito affatto, e che del loro delitto non esiste traccia nè sospetto nessuno: per ciò volli tenermi così nascosto e feci giurare ai pietosi che mi soccorsero il più assoluto silenzio. Se altrimenti avvenisse, quell'associazione, potente [66] e così bene guidata com'è, avrebbe tosto mezzo di scoprirmi ed una seconda volta mandare a buon fine il loro poco amorevol disegno a mio riguardo. Poi è necessario ancora codesto perchè credendo tolto di mezzo per sempre chi li minacciava, si rassicurino e non facciano disperdere gl'indizi e le prove, di cui ho già tutti in mano gli elementi. Per ultimo (e qui i suoi occhi brillarono vieppiù), perchè voglio avere io il gusto ed il merito di fare le mie vendette.
Tofi fece un legger cenno d'acconsentimento.
— Sta bene, disse poi; ma frattanto l'audacia e il numero dei delitti crescono ogni giorno, e preme porvi riparo il più presto. La notte di là assassinarono l'usuraio Nariccia e la sua vecchia fante.
Barnaba si fece contare tutte le circostanze appurate di quel fatto.
— Ed Ella sospetta dei colpevoli? domandò poi.
— Sono certo: rispose vivamente Tofi. Gli assassini erano tre; due furono i famosi Stracciaferro e Graffigna.
E narrò il modo con cui di ciò erasi assicurato interrogando nella guisa che abbiamo visto il paralitico Nariccia.
— Vi è il terzo ancora da scoprire: soggiunse poi.
— Eh! so ben io chi fu questo terzo: disse Barnaba con accento pieno di convinzione.
Tofi si curvò su di lui.
— Sempre la vostra idea? interrogò abbassando la voce.
Il giacente fece un segno affermativo.
— Quel signorino elegante?
— Sì.
— Il dottor Quercia?
— Lui!... Non altri che lui! esclamò con forza Barnaba.
Il Commissario affondò le sue mani nelle lunghe tasche del suo soprabito, posò il mento sul cravattone e fece due giri per la stanza, assorto in profonda riflessione. Poi tornò a piantarsi alla sponda del letto del suo subordinato.
— I vostri sospetti non li accuso più d'impossibili, diss'egli; ma l'affare è molto delicato e conviene trattare con prudenza molta.
Esitò un momentino e poi con brusco accento, come se l'avesse amara seco per dover pronunziare quelle parole:
— Che cosa penserete voi dover fare? domandò.
— Poco o nulla rispose Barnaba. Raccogliere tutti gli indizi possibili, ma quasi di soppiatto, sorvegliare attentamente, ma senza che appaia. Sarebbe buon partito mostrare d'aver preso uno svarione e mettersi apparentemente in una falsa strada; oppure far vedere che, disperati di venirne a capo di nulla, si rinuncia alla ricerca..... Intanto io, grazie a Dio guarirò e se non si dà imprudentemente la sveglia, farò cogliere al covo tutta la masnada.
— Guarite dunque presto: conchiuse il Commissario. Verrò a tenervi informato d'ogni cosa che avvenga, e consulteremo assieme.
Barnaba fece un piccolo moto.
— Non temete, s'affrettò a dire il signor Tofi, userò ogni fatta precauzione, perchè non mi si veda.
— Va bene... la ringrazio: soggiunse il ferito: ma perdoni ad una mia domanda, di cui Ella comprenderà per me l'importanza. Come giunse Ella a scoprire la mia dimora?
Tofi stette un momento a pensare, poi non vedendo inconveniente nessuno nel dir la verità, raccontò tutto quello che era successo al povero Andrea. Barnaba confermò che questo disgraziato era stato tutta quella notte con lui e pregò vivamente perchè il Commissario s'adoperasse a farlo liberare. Il signor Tofi ciò promise e mantenne la parola. Quattro giorni dopo il suo arresto, Andrea era restituito alla libertà. L'infelice appena fuori della porta del carcere, corse come un indemoniato all'ospedale dove aveva lasciato sua moglie, che gli pareva mille anni non aver più vista... Aimè! Era troppo tardi!
Andrea andò quasi correndo fino al letto in cui aveva lasciato sua moglie.
— Paolina, Paolina, voleva gridare, finalmente sono qua di nuovo.... e non ti lascierò più.... e verrò tutti i giorni; ma l'emozione lo serrava talmente alla strozza che non altro potè uscirne fuori, che una specie di rantolo.
Il pover'uomo benedisse questa emozione che gli impediva il parlare, poichè vide la donna che giaceva in quel letto così immobile e tranquilla che ben pareva immersa in placido sonno. Volta sopra un fianco, ella si copriva colle lenzuola la faccia, sì che non se ne potevano scorgere i lineamenti. Andrea volendo rispettare quel sonno prezioso, si accostò pian piano e sedette sopra lo scanno che si trovava appiè del letto, fissando quella testa che mezzo si nascondeva sotto le coltri.
— Il dormire le fa del bene: diceva frattanto fra sè: poverina! che sorpresa l'aspetta ora che si svegli!... La mi domanderà dove sono stato e che cosa ho fatto... Come ho da risponderle?... La verità, no: troppo le sarebbe crudele; se v'è caso in cui debba essere perdonata una bugia, si è questo... Le dirò che sono stato a lavorare... sì, che ho trovato dove allogarmi ed assai bene... Ciò invece le gioverà... E poi la mi domanderà dei bimbi... E le dirò che stanno bene; e che glie li condurrò domani... Quel buon signore che li ha condotti all'ospizio e che venne a darmene delle nuove mi assicurò che son sani e vispi... Ho ancor io tanto bisogno di vederli!... Ma la mia prima visita non poteva essere che per te, mia buona Paolina, mia cara Paolina... Ah come mi sono accorto che ti voglio bene, sai!... Ad esser lontano ho sentito che tu mi sei necessaria alla vita; vedendoti a soffrire ho capito [67] che ti volevo ancora il gran bene d'una volta, perchè darei mille delle mie vite per allungarti e far lieta la tua... E son io che ti ho fatto soffrire... Oh me scellerato!... Ma d'ora innanzi...
Gli parve che l'inferma avesse fatto un moto, ed egli si levò di scatto per essere pronto a gettarsi su di lei e baciarla. La giacente aveva sì cambiato un poco la mossa, ma non s'era sveglia. Però la faccia rimaneva ora un pochino più scoperta, ed Andrea, mirando quella piccola lista di fronte che si presentava ai suoi sguardi, ricevette una strana impressione.
— La non mi par lei: disse facendo un passo indietro quasi con isgomento.
Guardò dintorno e riconobbe che quello era proprio il letto in cui aveva lasciata Paolina, mirò il numero, ch'egli sapeva discernere, e vide che non s'era sbagliato; ma pure più e meglio guardava quella testa, lo stare di quel corpo abbandonato e più gli sembrava che la donna giacente in quel letto non era la sua Paolina. Una vaga inquietudine lo prese. Che cosa non avrebbe dato per saper leggere ed appurare qual nome fosse scritto sul cartellino che pendeva a capoletto? Mentre si guardava ansioso dintorno come per cercare mezzo alcuno di sincerarsi, ecco accostarsi a quella volta la suora di carità ch'egli aveva veduta dare le sue cure a Paolina. Andrea le mosse all'incontro con un'esclamazione quasi di gioia:
— Ah! mi dica Lei come sta la mia Paolina... È ben sempre in questo letto, è ben essa quella che vedo? Sono qui da cinque minuti; ma la dorme sempre... Ciò le farà del bene, non è vero?... E che cosa dicono i dottori?
La faccia della monaca si turbò talmente che Andrea ne rimase spaventato.
— O Dio! soggiunse, la trovano forse peggiorata? Era essa molto male alla visita di questa mattina?
La monaca scosse mestamente la testa.
— No: rispos'ella con voce ed accento pieni di compassione: questa mattina ella non era male.
Andrea mandò un sospiro di sollievo: in quel momento la donna che era nel letto si svegliò e volgendosi supina, scoprì affatto il suo volto. Il marito di Paolina si precipitò verso di lei; ma tosto si ritrasse indietro allato alla suora che per trattenerlo gli aveva posto sul braccio una mano.
— Ma quella non è mia moglie! esclamò egli.
— No: disse la suora volgendo in là lo sguardo, vostra moglie da ieri non è più qui.
Una folle speranza balenò all'anima del povero uomo.
— Uscita forse? domandò egli: Dio ci avrebbe già fatta la grazia di guarirla?
Vide dall'espressione della faccia di quella monaca quanto fosse fallace una simile speranza.
— Ah no, soggiunse, codesto non è possibile. L'hanno dunque traslocata in qualche altro ospizio?... oppure solamente in qualche altra sala?... Forse in una stanza particolare... Oimè! forse appunto perchè il suo male era aggravato?...
Un barlume di quella che era pur troppo la tremenda verità cominciava ad apparire alla sua mente; ma egli non voleva lasciarsene illuminare.
— Per carità, la mi dica dov'è mia moglie? scongiurò egli giungendo le mani.
La monaca che stimò la terribile rivelazione fosse meglio non farla in quel luogo, dove lo scoppio del dolore di quell'infelice avrebbe potuto nuocere alla ammalate che stavano tutt'intorno, prese Andrea per mano e gli disse:
— Venite meco e saprete ogni cosa.
L'uomo si lasciò guidare come un fanciullo.
— Andiamo a vederla? domandò. Mi conduce dov'è Paolina?
La monaca non rispose. Lo introdusse nelle camere della Direzione, e colà fattolo sedere, incominciò a dire:
— Voi siete padre di famiglia, non è vero?
Andrea guardava intorno come per iscoprire dove fosse la sua moglie.
— Sì signora, rispose: ho una nidiata di bambini in piccola età.
— Bisogna dunque aver forza e coraggio per loro. A voi tocca adesso l'amarli per due.
Andrea divenne pallido pallido; allargò tanto di occhi e fissò la monaca tutto sgomento: le sue mani agitate spiegazzavano il suo berrettaccio, e colle labbra che tremavano balbettò:
— Amarli per due?.... Non capisco.
Il vero era che egli cominciava a capire pur troppo.
— Sì, disse gravemente la monaca mettendogli una mano sulla spalla. Sulla terra siete ora voi solo ad amarli i vostri bimbi; la madre loro li ama e li protegge dal cielo.
Si sarebbe potuto credere ad uno scoppio di dolore nel povero Andrea; invece egli rimase mutolo, gli occhi e la bocca larghi, quasi attonito; avreste detto che non avesse capito. Stette in silenzio così alcuni minuti fissando con pupille smarrite la monaca, la quale gli teneva sempre, con atto pietoso, la mano sulla spalla.
— Paolina adunque? diss'egli poi con un soffio di voce, e le ciglia gli si misero a tremolare leggermente.
La suora di carità non rispose che con una mossa mestissima, additando il cielo.
— Morta!? esclamò l'infelice con voce serrata nella strozza. Ah! non è possibile.... Morta senza ch'io più la vedessi?... Morta senza che mi perdonasse.... Ah no, no, non deve esser vero.... Per carità mi dica che non è vero.
— Vi ripeterò invece che bisogna abbiate forza e coraggio, rassegnarvi alla volontà di Dio e mettervi in grado d'adempire giustamente a tutti i doveri [68] che partendosi da questa terra ella vi ha lasciato.
Andrea si cacciò le due mani convulse nella chioma arruffata, cui parve volersi strappare; la monaca, paurosa ch'egli incrudelisse contro se stesso, volle prendergli una mano, ma il misero la respinse da sè bruscamente, senza profferire pure una parola: poi piantati i due gomiti sulle ginocchia, nascose fra le mani nere ed incallite la faccia e stette così alquanto tempo, immobile, senza dar segno nessuno di sentimento nè di vita. La suora di carità avvisò che il meglio era lasciarlo tranquillo nel suo dolore, e stette alcuni passi in là, guardandolo pietosamente.
Dopo un poco un singhiozzo eruppe dalla gola del pover'uomo, un singhiozzo penoso come un vero grido di strazio; le mani gli si contrassero sulla faccia che coprivano, come se colle unghie la volessero disfare, e una sequela di singulti che gli scuotevano tutta la persona, parevano rompergli il petto.
— Coraggio! disse la suora di carità accostandoglisi di nuovo.
Andrea trasse giù dal viso le mani e mostrò delle sembianze che il dolore aveva così sconvolte da non parere più quelle di prima.
— Mi dica quando e come ella sia morta.... La mi avrà chiamato..... mi avrà accusato di non venire..... Povera donna!.... Morta senza una mano amica a chiuderle gli occhi!... Mi dica tutto.
— No: essa non potè accusarvi, essa non soffrì, perchè Iddio pietoso non volle che dopo quel colpo fatale la infelice tornasse più in senno.
L'uomo drizzò vivamente la testa.
— Colpo fatale! esclamò con una vivace sorpresa che pareva quasi una violenza: che colpo?
— Quello di sapervi arrestato...
Andrea si drizzò di scatto, mandando più un urlo che un grido.
— La lo seppe!... Chi fu lo sciagurato che gliel disse?
La monaca raccontò come la cosa fosse passata e quindi la colpa non era di nessuno.
Andrea si percosse coi due pugni chiusi la fronte.
— Infame, scellerato, gridò, sono dunque io, son io che l'ho uccisa..... Ah perchè non sono morto io prima, nel tempo che ero un onest'uomo, e ch'ella mi amava!... Ma la mi faccia ancora sta carità, sora madre, la mi dica quando è morta la poverina.
— Ieri sera alle otto.
— Ma allora non è ancora sotterrata, esclamò con una specie di soddisfazione e di speranza il miser uomo. Posso ancora vederla... voglio vederla....
Congiunse le mani in atto supplichevole, spiegazzando fra esse il suo berrettaccio.
— Ho bisogno di vederla, soggiunse, mi accordi questo favore, la prego... Vuole che io la lasci portare in terra per sempre, senza darle un ultimo addio?... La mi conduca presso di lei, la faccia sta carità, la supplico in nome di quella povera morta. Debbo domandarle almanco perdono innanzi al suo cadavere.
La monaca fu commossa ed impacciata. Ella non sapeva se quel cadavere trovavasi ancora nel deposito dell'ospedale: in ogni caso ciò dipendeva dalla direzione, e temeva che un simile permesso non venisse mai accordato.
— Proviamo: insisteva con passione il pover'uomo: andiamo da chi comanda, io li pregherò tanto che mi vorranno usare questa grazia.
La suora di carità cedette, la grazia fu concessa ad Andrea, e questi, accompagnato da un uomo di servizio s'avviò tremando verso la camera di deposito dei morti dell'ospedale. Il custode ne aprì la bassa porticina, e l'operaio entrò in una stanza bassa, oscura, in cui sopra un lungo tavolato stava, coperta da un lurido panno, la forma stecchita di un cadavere.
Andrea si sentì mancare il cuore e le gambe; si appoggiò alla fredda parete umidiccia per non cadere. Ogni suo coraggio era ito. Avrebbe voluto fuggire, se ne avesse avute le forze; la testa gli tenzonava in modo strano, doloroso; quasi gli sfuggiva la coscienza di sè; la mente, come dire, gli si svaporava e parevagli non essere nella realtà delle cose, ma in un sogno d'incubo. Guardava quella striscia di poca luce livida che penetrava dal finestròlo, lambiva passando le pieghe di quello sporco sudario e andava a perdersi nel fondo grigiastro. L'immobile rigidità di quel cadavere attirava i suoi occhi e gli destava insieme una ripulsione di ribrezzo. Che? Era la sua Paolina che stava là, di quella guisa, insensibile, senza che più potesse vederlo, sentirlo, muoversi alla sua voce?
Il custode, cui quegl'indugi impazientavano, guardò con aria interrogativa Andrea, come per domandargliene:
— Ebbene? e che si fa ora?
Andrea fece un cenno col capo e colla mano, che l'uomo comprese di subito e cui si affrettò ad ubbidire: prese per un lembo il lenzuolo che copriva il cadavere e lo trasse via bruscamente. Andrea, come se in quel punto fosse rotto il fascino che lo teneva avvinto, si precipitò innanzi le braccia tese verso quelle forme d'essere umano che gli apparivano nella loro nudità; ma retrocesse di botto, come respinto da una mano al petto. Era il cadavere d'un uomo.
Si volse al custode domandandogli quasi con rabbia:
— Ma mia moglie?... Cerco di mia moglie, io... dov'è?
Il custode si strinse nelle spalle.
— Questo, rispose, è l'unico cadavere che abbiamo per il momento; un povero diavolo morto questa mattina.
[69] — Mia moglie morì ieri sera alle otto.
— Ah! ho capito. Fu trasportata questa mattina all'alba.
— Dove?.... già al cimitero?
— No: rispose il custode scotendo con una certa grave mestizia il capo.
Un'inquietudine, ch'egli stesso non avrebbe saputo spiegare, s'impadronì del povero Andrea.
— Dove l'hanno portata adunque?
— All'anfiteatro: rispose il custode abbassando la voce.
Andrea non capiva questa parola, ma ne sentì una tremenda paura. Aveva udito dir mille volte che i corpi dei poveri morti all'ospedale erano mandati in un certo luogo, dove si tagliuzzavano in presenza di una frotta di giovani. Un orribile sospetto del vero gli fece spuntare un sudor freddo alle radici dei capelli.
— Anfiteatro! ripetè egli. Che volete dire?
— Sì, all'anfiteatro anatomico.
Andrea si ricordò allora che quel luogo esecrato si chiamava appunto così. Come! La sua Paolina esposta a tale onta, a tale insulto, a tale profanazione! Afferrò per le braccia il custode e gli gridò con furore:
— Non voglio, non voglio... Andatemela a riprendere..... subito..... ve lo comando ve ne prego.
Il custode gli fece capire ch'egli non ci poteva nulla.
— Ma che debbo fare io adunque? Ditemelo voi, consigliatemi voi... Per Dio! non voglio che mi si tratti così la mia Paolina: voglio salvarla ad ogni costo, dovessi cacciar fuoco all'intiera città.
Il custode che non era malcontento di liberarsi al più presto di codestui, gli disse:
— Andate voi stesso colà, e potrete forse ottener che vi restituiscano il cadavere... Ma correteci tosto, se volete arrivare a tempo.
— È vero! esclamò Andrea, battendosi la fronte, ed uscito precipitoso di là, corse come un indemoniato verso l'anfiteatro anatomico.
Il portinaio dello stabilimento arrestò quest'uomo fuori di sè che entrava con tanto impeto, e gli domandò che cercasse.
— Mia moglie, rispose Andrea che pareva non aver più fiato in corpo.
— Vostra moglie! esclamò il portinaio, allargando tanto d'occhi. Oh che la vi gira? Qui non vi sono donne....
L'operaio a cui la ragione era presso a smarrirsi davvero, prese pei panni al petto il portinaio e scotendolo con aria di minaccia, gridò:
— Sì, che la c'è.... È fra i morti che si vogliono squartare.... Ma io non permetterò tale scelleraggine. Voglio che la mi si restituisca.... Non andrò via finchè non me l'abbiate restituita... Voglio portarmela via io colle mia braccia, adesso, subito, e guai a voi, guai a tutti!...
Il custode ebbe paura: chiamò in suo soccorso alcuni inservienti, ed Andrea fu cacciato nella strada, se con buona grazia, pensatelo voi. Il pover'uomo smaniò, gridò, bestemmiò; ma ad un puntò si calmò di botto, perchè capì che in quel modo non avrebbe ottenuto nulla, che intanto il tempo passava, e che ogni minuto trascorso poteva recare alla sua Paolina quel supremo orribile sfregio, ch'egli voleva evitarle. L'esser povero è una debolezza, è un'impotenza assoluta; capì che senza intravvento, senza protezione di nessuno egli non avrebbe mai potuto riuscire nel suo intento; ma a chi rivolgersi? chi pregare? chi c'era a cui egli potesse con sicurezza e con efficacia ricorrere? Si ricordò in buon punto di quel pietoso signore che la Provvidenza aveva mandato in suo aiuto quel momento in cui era stato arrestato alla porta dell'ospedale, e si disse che non c'era altri a cui potesse indirizzarsi. Ne sapeva il nome e conosceva il luogo dov'egli aveva il suo fondaco, e corse con tutte le forze che gli rimanevano dal libraio signor Defasi.
Noi sappiamo già qual cuore pietoso avesse questo galantuomo, e quindi non ci stupiremo s'egli sentisse con molto interesse la scucita narrazione del povero Andrea smarrito dal dolore e si proponesse senza indugio di efficacemente aiutarlo. Ma gli era il modo che non sapeva trovare; egli non conosceva nessuno che avesse attinenza con quello stabilimento, e capiva che non conveniva andare per vie indirette, ma far presto per la più breve strada se volevasi arrivare a tempo. Di soccorrere ad Andrea in tutte le spese che necessariamente sarebbero occorse per far trasportare il cadavere al Campo Santo e farnelo seppellire, già aveva deciso seco stesso; ma il principale era di giungere ad impadronirsi di questo minacciato cadavere. Pensò rivolgersi al professore incaricato dell'insegnamento anatomico: ma egli non lo conosceva personalmente, e quel tale aveva una fama di burbero che non incoraggiava di molto a fare un tentativo presso di lui. Anche al signor Defasi venne ad un tratto l'ispirazione d'un'idea. Si ricordò che i bambini di quell'operaio erano stati ricoverati nell'ospizio dietro l'opera del dottor Quercia; questo signore che tanto faceva parlare di sè, nella sua qualità di medico, doveva avere conoscenza e forse autorità in quella sfera, e non si sarebbe certamente rifiutato d'adoperarsi in favore di quel pover'uomo. Per fortuna egli sapeva l'indirizzo del Quercia, e presa una carrozza da nolo, in pochi minuti ebbe condotto al quartiere di Gian-Luigi il disperato Andrea.
Colà una gran sorpresa attendeva il sig. Defasi. Insieme col dottor Quercia, il quale aveva subito fatto introdurre i due sopravvenuti appena annunziatigli, stava un uomo, un giovane dalle strane sembianze, vestito in panni eleganti, che parevano impacciarlo, con un'espressione sulla pallida faccia [70] tra di soddisfacimento e di dolore, che male avreste saputo spiegare. All'ingresso del signor Defasi questo tale si alzò e si trasse alquanto in là come se avesse tentato sottrarsi alla vista del nuovo venuto, ed un leggiero rossore salì alle sue guancie pallide ed incavate. Defasi, infervorato nel còmpito che si era assunto, prese ad esporre il caso di Andrea e la ragione della loro venuta, senza fare troppa attenzione a quell'individuo che stava in compagnia di Quercia; Andrea rimaneva presso l'uscio rotolando fra le sue mani convulse il berretto e guardando con occhi lucidi d'un ardore febbrile, che supplicavano più di tutte le possibili parole.
Il dottor Quercia, appena ebbe udito il racconto di Defasi, senza porre tempo in mezzo, esclamò con tutta la vivacità d'un buon cuore commosso:
— L'aggiusterò io, stieno tranquilli..... Io conosco appunto chi conviene per ciò..... Corriamo senza perder tempo: fo attaccare la mia carrozza... anzi mando a prenderne una che faremo più presto.....
Defasi disse ch'egli ne aveva impegnata una, la quale stava appunto attendendo nella strada.
— Benissimo: soggiunse Luigi. Allora non domando che un mezzo minuto di tempo, tanto da calzare un pastrano, e prendere il cappello, e sono con loro.
Passò prestamente nella camera vicina, e Defasi allora si volse verso quell'altro personaggio, a cui non aveva ancor badato; ma quegli, benchè senza affettazione, volse in là il capo, come se desiderasse non appiccar discorso. Pur tuttavia al libraio parve riconoscerlo: quella vasta fronte, quegli occhi profondi, quel petto ricurvo gli ricordavano un individuo, di cui pochi giorni prima aveva tenuto discorso, di cui da tanto tempo desiderava sapere e non sapeva più notizia. Fece un mezzo passo verso di lui, aprì la bocca come per interrogarlo: ma poi pel contegno del giovane non n'ebbe il coraggio; si rimase a guardarlo con una certa emozione che non cercava manco nascondere.
— Eccomi pronto: disse Luigi, entrando in quella col pastrano indosso ed il cappello in testa. Andiamo.
Poi si rivolse al giovane cui il signor Defasi aveva creduto riconoscere.
— Addio Maurilio, soggiunse tendendogli tuttedue le mani. Quanto volentieri t'accompagnerei al villaggio... al nostro villaggio, lasciami dire ancora!... Mi rallegro delle tue fortune e ne godo come se fossero mie... Possa tu essere davvero felice!
E mandò un sospiro che sarebbe stato assai difficile interpretare.
All'udire il nome di Maurilio, il signor Defasi erasi riscosso: si slanciò verso quel giovane e con accento pieno di calore esclamò:
— Ma dunque voi siete davvero Maurilio?...
Il giovane lo guardò con freddezza e il libraio si riprese:
— Ella è Maurilio Nulla?
Il nostro eroe s'inchinò leggermente e con un indefinibile sorriso in cui c'era della fierezza ed insieme una mesta amaritudine, rispose:
— Non più Nulla; Maurilio Valpetrosa, nipote del marchese di Baldissero.
Defasi spalancò tanto d'occhi.
— Davvero!..... Ne godo..... mi rallegro..... Ma chiunque Ella si fosse, io ho un'ammenda da fare verso di Lei, io ho delle vivissime scuse da chiederle, e voglio ad ogni modo conquistare il suo perdono e riottenere la sua amicizia..... Ora non ho tempo, ma la mi faccia il favore di dirmi dove, come e quando potrei avere con Lei un colloquio, ed io mi farò premura...
Maurilio l'interruppe.
— Sto per partire. Vo alcuni giorni al villaggio dove passai la mia infanzia. Sono venuto appunto a manifestare le mie nuove condizioni ed a dare l'addio a questo mio amico e compagno (ed additò Gian-Luigi). Al mio ritorno sarò io stesso che passerò da Lei per avere quel colloquio che preme anche a me.
Come fosse avvenuto il riconoscimento di Maurilio per parte del marchese, vedremo fra poco: ora mi preme seguire l'infelice Andrea nella dolorosa ricerca del cadavere di sua moglie.
Mezz'ora non era trascorsa da che era uscito di casa con Defasi ed Andrea che Quercia aveva ottenuto tutto quello che si desiderava: entrare nel deposito dei cadaveri al Gabinetto anatomico, ritirarne quello di Paolina e farlo trasportare al Campo Santo.
Quando entrarono in codesto lugubre luogo che è il deposito de' morti, gli inservienti stavano appunto prendendo dalla gran tavola di marmo uno dei due cadaveri che c'erano per portarlo nell'anfiteatro: l'avevano preso uno per le spalle, l'altro per i piedi e se ne andavano con quel povero cadavere tutto nudo, Andrea gettò un urlo e si slanciò verso di loro colle mani tese. Non avea vista la faccia di quel corpo dimagrato, allividito, ma il cuore glie l'avea fatto riconoscere, ma ne aveva vista la bionda capigliatura cadente. Era la sua Paolina.
— Fermatevi, disse agli inservienti Quercia che accompagnava il misero Andrea: questo cadavere abbiamo l'autorizzazione di ritirarlo.
Ne li persuase in breve, sopratutto con una mancia. Il corpo fu rimesso sopra il freddo marmo della gran tavola, e invece di quello, per portare nell'anfiteatro, fu preso quell'altro che giaceva pure colà. Andrea fece un moto, come per gittarsi addosso al cadavere della sua donna; ma la nudità di quelle membra parvero fargliene ad un tratto ribrezzo e vergogna: mandò intorno uno sguardo quasi selvaggio, e con atto pronto, istantaneo, quasi violento, trattasi dalle spalle la sua carniera, la stese su quelle povere membra livide ed irrigidite.
— Avrete freddo, disse il buon signor Defasi, e vi piglierete un malanno.
[71] Andrea scosse il capo senza rispondere altrimenti.
— Io corro tosto a casa, riprese Defasi, e manderò qui lenzuola e quanto occorre.
— Volete voi rimaner qui? domandò Quercia al marito di Paolina, il quale fece un atto energico di affermazione. Bene. Noi vi ci lascieremo. Tutto sarà disposto intanto per la sepoltura di questa poveretta, e verso sera la faremo trasportare al Campo Santo.
Andrea andò verso quei due suoi benefattori e prese loro le mani.
— Loro mi fanno una carità delle maggiori: disse egli con voce gutturale che pareva uscirgli a stento dalle fauci (ed erano queste le prime parole che pronunciava dopo che aveva narrato al signor Defasi la crudeltà della sua avventura). Io non so e non saprò mai come rimeritarneli; ma nasca il caso in cui abbiano bisogno di un uomo..... e son io qua.
Gian-Luigi corrispose colla sua alla stretta di mano dell'operaio, e guardandolo bene entro gli occhi, rispose lentamente:
— E per me può nascere questo caso. Se venissi dunque un giorno a ricordarvi le parole che avete ora pronunziate?.....
— La mi troverà pronto a mantenerle.
— Sta bene.
Quercia e Defasi partirono. Andrea si lasciò andare sopra uno scanno che c'era colà e tutto intirizzito dal freddo stette immobile, il capo nelle mani, posseduto da un generale indolorimento in cui tutti erano confusi i suoi pensieri, le sue sensazioni, il sentimento del presente, il ricordo del passato. Non gli pareva manco di vivere, non gli sembrava vero d'essere lui in quelle condizioni, e che a lui proprio erano capitate tutte quelle vicende. Non guardava il corpo della sua Paolina; non ne aveva il coraggio; era ben dessa che giaceva là immobile, insensibile innanzi a lui? Ne temeva la vista ora ch'essa era fatta muta per sempre, più che non ne avesse temuto mai dapprima gli amorosi rimproveri. Come essa lo aveva amato! Ed egli pure aveva amato lei! Un tempo lei prima di tutto al mondo. Quale un raggio di sole che per uno squarcio di nubi venga a brillare un istante in un oscuro orizzonte, vide ad un tratto presentarsi alla sua memoria le gioie soavi dei giorni in cui s'erano sposati. Quanto era bella la sua Paolina! e quanto glie la invidiavano i compagni, e quanto egli n'era fiero!... Alzò la testa con ratta vivacità. Aveva bisogno di vederla. Sperava quasi doversela trovare innanzi allo sguardo, qual era in quel tempo già remoto pur troppo; una folle lusinga di mente vacillante gli faceva quasi sperare il miracolo che Iddio glie l'avrebbe restituita nelle forme e nelle sembianze che ora gli si erano affacciate al pensiero.
Aimè! Il corpo giaceva stecchito, stremato dai patimenti, dalle privazioni di tanto tempo, dal male che l'aveva da ultimo tratta alla tomba; in quel viso diventato color della cenere, smagrito, tirato, quasi non erano più da riconoscersi i tratti della fiorente giovinetta ch'egli aveva condotta all'altare; dalle palpebre semichiuse appariva un occhio spento, senza colore, che nulla più ricordava della gaia, vivace pupilla della giovane sposa. Andrea, intirizzito dal freddo, stretto il cuore da un'emozione che mal gli lasciava circolare il sangue, sentì invadersi come da un intorpidimento mortale; gli parve che se non si riscuotesse egli sarebbe caduto cadavere ancor egli a' piedi di quella tavola su cui giaceva cadavere la sua Paolina. Quelle sembianze di morta su cui si fissavano e da cui non erano più capaci di spiccarsi i suoi occhi smarriti, sembravano esercitare su di lui un fascino per attirarlo nel paese delle ombre; gli pareva una voluttà il cedere a quel fascino. Fosse egli pur morto! Sarebbe cessato ogni dolore anche per lui! Ma allora gli sembrò che la bocca semiaperta della morta pronunziasse colle labbra livide e sottili una parola, di cui orecchio umano non avrebbe potuto udire il suono ma ch'egli intese col cuore: — «I figli!»
Oh! i figli suoi! Questo pensiero gli diede la forza di sottrarsi a quel fatale intorpidimento. Sorse in piedi e si pose a passeggiare con passo affrettato per la stanza. Quel moto violento, ridonando il calore e la vita alle membra, pareva disperdere il turbinio di pensieri che gli toglieva la testa. Passava e ripassava innanzi al cadavere, e ad ogni volta vi gettava uno sguardo: ma questi sguardi via via venivano cambiando espressione. Dapprima erano quasi paurosi, poi manifestarono un rispetto, quasi una venerazione; da ultimo presero un'amorosa tenerezza. Allora il pover'uomo s'accostò di nuovo al cadavere e si fermò presso di lui.
— Paolina! Paolina! chiamò egli con voce piena d'immenso affetto: e si curvò su quella testa abbandonata e cominciò a baciarne il fronte, e poi gli occhi, e poi le labbra — ed allora pianse! Pianse a lungo e fu sollevato: il dolore non si sminuì, ma si fece meno amaro, meno disperato: gli sembrò sentire vicino a sè l'anima della sua donna, gli pareva udire nell'aura le parole ch'ella soleva dirgli pur sempre, di affettuoso perdono.
Perdono? Lo meritava egli? Chi l'aveva tratta dalla felice esistenza dei primi anni a quella morte dei derelitti nell'ospedale, a quell'ultima suprema miseria, di non aver nè anco sacro dopo morte il proprio cadavere? Dall'altare in cui s'erano sposati a quella tavola di marmo, qual cammino di delusioni, di stenti, di dolori, aveva percorso quella povera donna! E tutta la colpa era di lui!
Cadde in ginocchio presso la tavola e tendendo le mani congiunte sopra la fredda pietra, esclamò con accento di spasimo inesprimibile:
[72] — Perdonami! Perdonami!...
Paolina fu seppellita in un angoluccio del cimitero comune: ma per cura del signor Defasi una modesta croce ne segnò la fossa su cui potessero venire a piangere e pregare il vedovo marito e gli orfani figli.
Il marchese di Baldissero trovò il Re, che lo aveva mandato a chiamare, molto accigliato. I fatti della sera innanzi gli erano forte dispiaciuti, e innanzi al suo sguardo severo chinavano gli occhi mortificati tutti i ministri che gli facevan corona. Era come un solenne Consiglio ch'egli aveva radunato per consultare sul da farsi, ed al quale, oltre i ministri, aveva voluto prendessero parte i più fidi e devoti servitori della monarchia, fra cui il marchese.
In presenza d'un nuovo e tanto pericolo che subitamente era sorto per l'edifizio politico e per l'organismo sociale, qual era l'insurrezione della plebe, il Re volava si cercassero, si scegliessero e senz'indugio si ponessero in pratica i mezzi più opportuni per cessare quel rischio non solamente nel presente, ma eziandio per l'avvenire. La fantasia di quegli uomini di Stato colà raccolti non era molto feconda nel trovar fuori di cotali mezzi che paressero di sicuro, od anzi soltanto di probabile effetto alla mente acuta del Re. I più non credevano si dovesse dare a quel fatto tanta importanza, quanta glie ne metteva il capo supremo dello Stato, nulla più che ad un accidente volgare, che ad un turbamento momentaneo, il quale si raggiusta col mettere a segno i tumultuanti e si passa; quasi tutti erano d'avviso che non c'era da far altro che reprimere e severamente reprimere per impedire colla esemplarità del grave castigo ogni simile tentativo ulteriore.
Non infastidirò le mie gentili lettrici, facendole assistere alle gravi discussioni di quel poco fruttuoso Consiglio. Carlo Alberto ascoltò freddamente tutte le parole che furono dette, non manifestando in nessun modo la sua interna impressione sulla sua impassibile faccia pallida; acconsentì tacendo alle varie proposte che furono messe innanzi dai varii ministri: che quelli fra gli arrestati nella riotta della sera innanzi che fossero noti come oziosi, vagabondi e proni a delinquere fossero per misura economica, come allora si soleva dire, trasportati nell'isola di Sardegna a dirsela colla malaria e colle palle degli schioppi di quegl'isolani; che si dèsse una gran retata nei bassi fondi sociali delle bettole e dei postriboli per coglierne la maggior quantità possibile di altri fra quegl'indiziati che sono esca al disordine, e si mandassero a tener compagnia a que' primi; che si procedesse severamente contro tutti coloro a cui poteva applicarsi condanna criminale pei fatti della sera precedente, e il Ministro di grazia e giustizia eccitasse il potere giudiziario a volerli colpire col maximum delle pene.
— Signori, disse finalmente il Re, levando il suo capo che teneva reclinato sul petto, come troppo greve a portarsi. Non sarebbe per avventura più vasta la questione di quello che noi ci figuriamo? Nell'Inghilterra, nel Belgio e nella vicina Francia, le classi lavoratrici si agitano e dànno seriamente da pensare agli uomini di governo. Non sarebb'egli un accenno di quel moto che si fa strada nel nostro paese?
I ministri e gli altri consiglieri si guardarono in faccia per sapere a chi toccasse rispondere. Il Ministro dell'interno fece un piccol gesto della mano per indicare ch'egli avrebbe risposto: e fatto un inchino col capo verso il Re, così prese a parlare:
— Oserei credere, Sire, oserei anche affermare, Maestà, che nei felicissimi Stali retti dal suo scettro non sono punto penetrate quelle empie massime che sommuovono le plebi nei miseri paesi da V. M. nominati. Noi abbiamo fatto buona guardia, e l'iniquo fiotto, se così posso esprimermi, si è arrestato alla frontiera. In quelle parti là l'artigiano, il povero, il pezzente, legge, pretende a discutere, si crede di ragionare. Noi, grazie a Dio, siamo liberi ancora da siffatta malsania. Non abbiamo lasciato nè lasciamo stampare o penetrare libri e giornali perniciosi; e la nostra plebe, per fortuna, è troppo ignorante per leggere checchesiasi.
Il Re mosse le labbra per parlare, e il ministro si tacque di botto, rimanendo a bocca larga a dare ascolto.
— Oggi è così: disse Carlo Alberto, ma domani può essere tutto diverso. Non ostante la buona guardia di cui Ella si vanta, quelle idee di cui si discorre hanno pur penetrato nel nostro paese, ed io ne ho delle prove, e n'è una lo sciopero avvenuto e poi la rivolta degli operai. Noi non possiamo vivere tanto isolati dal resto del mondo che le passioni, le idee, anco le pazzie del genere umano non ci tocchino e non si partecipino eziandio da noi; le comunicazioni più rapide che si stabiliscono, aiuteranno ancora codesta diffusione, e massime quelle vie ferrate di cui abbiamo già adottato parecchi disegni pel nostro Stato e della principale delle quali già è così ben avviata l'esecuzione.
Profittando d'una di quelle pause che il Re faceva frequentemente nel suo parlare lento ed impedito, il ministro degli esteri esclamò con qualche vivacità:
— Ed è per ciò ch'io ebbi il coraggio di oppormi quanto potei alla costruzione di queste diaboliche strade.
Carlo Alberto volse verso quel ministro il suo sguardo semispento e fece il suo enimmatico sorriso.
— L'esecuzione della rete ferroviaria, diss'egli, [73] se Dio mi dà grazia di poterla compire, la ritengo per una delle opere onde meglio sarà illustrato il mio regno. Ai popoli si deve non solamente la sicurezza ma la prosperità materiale eziandio; e quando un nuovo mezzo di accrescere siffatta prosperità si presenta nel mondo ed è dalle altre nazioni adottato, grave fallo sarebbe il lasciarne mancare il proprio paese. Per più ragioni adunque è da credersi che anche le nostre classi inferiori già sono, o in breve saranno corse ed agitate dalle medesime idee e pretese da cui vediamo commosse le plebi degli altri paesi. La loro condizione è misera, senza dubbio, e degna del massimo riguardo: le passioni sovversive trovano nel disagio e nelle sofferenze di quelle turbe malaugurato alimento. Non sarebbe egli dunque il caso di avvisare, se le condizioni di questa povera gente, anche mercè la legislazione, potessero venir mutate in meglio, se ai diritti di proprietà si potesse fare qualche modificazione per cui più retribuito, meglio assicurato potesse riuscire il lavoro manuale?
Tacque, e i ministri si guardarono esterrefatti, come se per la bocca del loro sovrano avessero udito parlare lo spirito di Fourier.
Il ministro di grazia e giustizia s'inchinò e disse in tono magistrale:
— Non si può toccar più l'arca santa delle leggi senza danno evidente, quasi direi senza una vera profanazione; V. M. ha compito il più gran monumento legislativo che un sovrano abbia fatto mai. Il codice civile da V. M. sancito posa su principii de' più liberali, e pone la proprietà su solide basi, cui sarebbe il maggior pericolo del mondo il voler mutare.
— Il popolaccio sta abbastanza bene; disse il conte Barranchi, capo supremo della Polizia; sta bene anche troppo. Per me credo che più è misera ed ignorante una popolazione, e meglio la si governa.
Carlo Alberto si rivolse al Riformatore degli studi, che era una specie di ministro della pubblica istruzione:
— L'ignoranza dei popoli fu pel passato una guarentigia; non potrebbe divenire d'or innanzi un pericolo? Poichè vi ha questa tendenza universale all'istruirsi, non potrebbero la Chiesa e lo Stato di accordo prendere l'iniziativa dell'istruzione popolare ed istillare così nelle masse dei buoni principii, invece di lasciarle esposte alle seduzioni dei novatori?
L'Arcivescovo di Torino, che era presente eziandio, e pareva sonnecchiare tranquillamente, all'udir nominare la Chiesa arricciò il suo naso rubicondo ed aprì i suoi occhietti vivaci.
— Sire: diss'egli, senza lasciar tempo di rispondere al Riformatore degli studi; l'istruzione la si dia tutta, e popolare e non, in mano della Chiesa; ed anche lo Stato se ne troverà bene. Noi faremo di tutti dei buoni cristiani e dei sudditi fedeli.
Il Re fece un cenno grazioso col capo verso l'Arcivescovo, che poteva significare un assentire, un ringraziamento od un semplice atto di cortesia, e poi si levò in piedi. Tutti s'alzarono: il Consiglio era finito.
Tolsero commiato e se ne partirono tutti; ma Carlo Alberto parlando a Baldissero gli disse:
— Marchese si fermi.
Il marchese, che già s'inchinava presso la porta per partirsi, tornò indietro lentamente verso il Re, il quale, secondo suo costume, s'intromise nella strombatura della finestra che guardava nella piazza.
Baldissero stette aspettando: Carlo Alberto per un poco rimase in silenzio. Con una mossa che gli era abituale, sulla mano del braccio sinistro che teneva ripiegato al petto aveva appoggiato il gomito dell'altro braccio e sosteneva alla mano destra la sua fronte vasta e scialba come quella d'un cadavere.
— Nessuno di quegli uomini mi comprende; mormorava il Re, in modo che parevano sfuggirgli inavvertite siffatte parole. Nessuno ha la intelligenza delle grandi cose, niuno vede al di là dell'oggi, niuno saprebbe indovinare le mie idee ed incarnarle.
Le sue dita si contrassero sopra la fronte, liscia come la lapide d'un sepolcro.
— Ah! se potessi da me! soggiunse, ma così piano che non l'avrebbe pur udito chi avesse potuto mettere il suo orecchio sulle pallide di lui labbra. Se potessi io stesso dar forme concrete al mio pensiero, trovarne il modo d'eseguimento ed aver la forza di porlo in atto!...
Nella sua anima successe in quell'istante fugace, ratto ma vivo, uno di quegli scombuiamenti che la turbavano di frequente: una specie di lotta fra la volontà e l'insufficienza dei mezzi, fra l'ardore dello spirito e la debolezza dell'intelligenza, quando la idea si travede e non si può afferrare, quando s'indovina, s'intuisce confusamente, in nube, il vero, il bene, il bello, e la mente non ha forza di definirselo innanzi in maniera efficace e precisa, così bene che dopo un poco d'inutili sforzi la si accascia sfiduciata e stanca per cadere in balìa d'un'altra mente fors'anche meno elevata, ma più pratica e più operosa.
Il marchese stava osservando rispettosamente il Re, due passi da lui lontano. Carlo Alberto si riscosse e rivolse verso il suo fedele la faccia melanconica e severa.
— La ho pregata di fermarsi, marchese, gli disse, per parlarle di quel cotale, autore del manoscritto da Lei comunicatomi, e che, arrestato come cospiratore, fu, dietro le raccomandazioni di Lei, per mio ordine espresso liberato senza ritardo.
Baldissero fece una lieve mossa per accennare ch'egli era pronto a rispondere ad ogni richiesta. Il Re sviò lo sguardo dalla faccia del marchese e [74] lo fissò vago ed incerto nell'orizzonte traverso i cristalli della finestra: rimase in silenzio e parve aver subitamente volto il pensiero a tutt'altro. Nel suo intimo frattanto meditava, se facesse bene a parlare, se miglior consiglio non sarebbe stato il rinunziare affatto a tutte quelle idee non ancora ben determinate, a tutti quei disegni tuttavia in nube cui aveva desti in lui la lettura delle pagine scritte dal trovatello.
Egli tutte le aveva attentamente lette, molte aveva rilette più volte, e assai meditatovi sopra. Uno strano effetto sulla sua natura facilmente esaltabile, benchè sotto apparenze contegnose e fredde, sulla sua anima tra cavalleresca ed ascetica, inviluppata d'un altissimo orgoglio per la dignità del grado, aveva prodotto quella lettura che rispondeva a certe velleità di audaci pensamenti, a certe aspirazioni di novatore e di messia che brulicavano segretamente in fondo al suo essere di sovrano, innamorato della gloria e che vorrebbe stampare profonda e luminosa l'orma del suo regno. Il fatalismo cattolico del suo spirito alquanto superstizioso, per poco non lo aveva persuaso che era stato Iddio medesimo a mandargli sott'occhi quello scritto in cui erano trattate tante di quelle questioni sociali che preoccupavano la sua mente di re che avrebbe voluto essere riformatore, ed alcune v'erano sciolte. Gli parve che da quelle carte sgualcite su cui una mano febbrile aveva scritto un tanto mondo di pensieri, uscisse come la voce del popolo medesimo il quale avesse acquistato coscienza e sapienza de' suoi destini e de' suoi bisogni e quindi formolasse, ad ammaestrarlo, in linguaggio tra di poeta, tra di statista, le necessità economiche, morali e sociali della nuova vita civile, sentite non avvertite dalla massa comune, e i rimedi acconci alle medesime; la voce, direi, della Sfinge, di cui egli voleva essere l'Edipo e dominarla. L'autore di quelle pagine non era egli l'uomo che invano andava cautamente cercando intorno a sè, e cui gli aveva mandato la Provvidenza? Pensò a quel suo antecessore (e fu pure un glorioso principe quello!), il quale dal nulla aveva innalzato alle prime cariche il Bogino, che fu uno dei più valenti ministri del Piemonte. Se nelle file della plebe trovavasi un ingegno superiore, il quale potesse rendere eminenti servigi alla monarchia e al paese, perchè non l'avrebbe egli tratto di là e postolo in condizione da poter compiere la sua missione? Era suo dovere il farlo; sarebbe stata sua gloria l'averlo fatto. La conseguenza di tutti questi pensieri si fu che egli decise informarsi meglio dell'essere di quel cotale presso il marchese di Baldissero. Ma ora, come già accennai, le solite dubbiezze, che al punto dell'azione assalivano sempre la sua anima esitante, lo facevano restio e come peritoso al parlare.
Il marchese attendeva tuttavia le interrogazioni del Re. Questi ruppe finalmente il silenzio, senza volgere gli occhi su colui che l'ascoltava, guardando sempre con pupille vaghe nel grigio del cielo annuvolato.
— Credono che la plebe non pensi, diss'egli, credono che ignori ancora come un tempo. La rivoluzione francese ha inoculato il veleno nel sangue delle generazioni di questo secolo di qualunque classe; esso serpeggia e si diffonde. Ci vorrebbe sangue e fuoco ad estirparlo. E chi oserebbe fare da Torquemada nel secolo XIX?... Ed ancora! Si riuscirebbe egli forse? Le plebi pensano più che non si creda. Quel zibaldone di temerità, di matte idee, di potenti concetti n'è una prova. Se viene un giorno un'intelligenza superiore che mostri loro la terra promessa d'una riforma sociale? Se acquistano un giorno la coscienza della loro forza? Bisognerebbe fare qualche cosa per le plebi... Ma che cosa? Qual pericolo toccare all'edifizio della società! Come prendersela, dove incominciare, a qual punto arrestarsi? Questo è da definirsi; ed ecco dov'è necessaria l'opera d'un ingegno superiore.
Si voltò allora verso il marchese.
— Lo scrittore di quelle pagine, domandò, Ella lo conosce, lo ha visto, gli ha parlato?
— Sì, Maestà, rispose Baldissero, e l'ho anzi preso per mio segretario.
Il Re lo guardò con espressione di alquanto sospetto.
— Ah! gli è suo segretario?
Ma dinanzi alla nobile fisionomia del marchese ogni ombra di sospetto s'affrettò a sparire dalla fronte di Carlo Alberto.
— Ha fatto benissimo: soggiunse vivamente: e l'aspetto di colui, la parola, come sono?
— Ha l'aspetto d'un uomo che ha sofferto: rispose mestamente il marchese, il quale abbassò gli occhi pensando con rimorso seco stesso di chi fosse la colpa di quelle sofferenze. A prima vista le sue sembianze possono tornare poco o punto piacevoli; ma la sua fisionomia non è quella d'un indifferente. Interessa di botto e la sua fronte fa pensare. Quando parla è in sulle prime peritoso ed impacciato; ma poscia la lingua gli si snoda e l'eloquenza del labbro asseconda assai bene la vivacità dell'idea.
Carlo Alberto atteggiò la bocca a quel suo indefinibile sorriso melanconico e stentato, che pareva insieme timido e falso.
— M'è venuta una curiosità da Califfo di Bagdad. Voglio vedere quest'uomo e discorrere con lui. Ma il Re in questo colloquio non ha da comparire. Lo lascieremo alla porta. Vuol Ella rendermi un servizio, marchese?
— Comandi, Maestà.
— Questa sera conduca da me il suo segretario... non qua, nella palazzina che ho recentemente acquistata sotto il giardino. Alle nove una persona fidata aprirà loro il cancello e li introdurrà in una camera terrena, dov'io sarò ad aspettarli. Quel giovane non deve in alcun modo sapere a chi dovrà parlare.
[75] Il marchese s'inchinò in segno d'ubbidienza.
— Farò secondo gli ordini di V. M., ma le faccio osservare che sarà molto difficile che quel cotale non riconosca l'interlocutore con cui avrà l'alto onore di trovarsi.
— Non credo, disse il Re sorridendo, che le mie sembianze possano essergli tanto famigliari: mi acconcerò di modo e farò che vi sia una luce che giovino a trarlo in inganno....
S'interruppe, esitò un momentino e poi riprese con voce più bassa:
— Se però Ella crede che in ciò possa essere qualche inconveniente.....
— Oh no, s'affrettò a rispondere il marchese. Spero che quel giovane sia degno d'ogni fiducia...
Il marchese era sul punto di svelare al Re il segreto della nascita di Maurilio: ma Carlo Alberto pose fine al colloquio.
— Allora siamo intesi: diss'egli tendendo la mano a Baldissero. Questa sera alle nove.
Il marchese s'inchinò colla dignità d'un gentiluomo: toccò rispettosamente quella mano che gli veniva pôrta, e rispose:
— Alle nove senza fallo.
Carlo Alberto guardò fisamente per un poco la portiera che era ricaduta dietro le spalle del marchese partitosi: e poi disse fra sè, curvando il capo:
— Ho fatto bene? ho fatto male?... Al postutto son sempre in tempo di mandare dire al marchese che non se ne fa nulla.
Il marchese nella sua carrozza, tornando al suo palazzo, era occupato da molti e varii pensieri. Nell'apprezzamento delle cose egli subiva pure l'influsso del suo grado, della sua qualità, della sua educazione. Non si è impunemente nobili, nati ed allevati in corte, servitori devoti di monarchi, senza acquistare una certa dipendenza d'animo verso chi occupa quel supremo dei gradi sociali; anche pel vecchio, valoroso gentiluomo, una parola del Re formava un'autorità indiscutibile. Dei talenti di Maurilio ben aveva egli potuto persuadersi e dalla lettura di quello scritto e dai discorsi dal giovane tenutigli; capace com'egli era d'apprezzar giustamente il vero merito, il marchese non aveva tardato a riconoscere la superiorità di quell'intelligenza; ma pur tuttavia, dopo le parole intorno a quel cotale dettegli dal Re, dopo il desiderio manifestato dal Re di avere con questo sconosciuto un colloquio, s'accrebbe ancora in lui il concetto ammirativo che si era formato del trovatello, e nacque in esso un nuovo sentimento che ancora non s'era fatto vivo verso quell'infelice che gli era venuto innanzi, raccattato, per così dire, nel fango della strada: un sentimento d'orgoglio ch'egli avesse di suo sangue nelle vene, che fosse nato di sua sorella.
— Coi suoi talenti, col mio appoggio e colle aderenze della nostra famiglia, colla stima del Re (e potesse anco acquistarne la benevolenza!) dove non può egli giungere?
Così pensava non senza compiacenza il marchese; ma di colpo venne a turbarlo il ricordo delle parole dettegli da fra' Bonaventura: e se Maurilio fosse davvero quell'incorreggibile rivoluzionario, reo di sovversivi intendimenti da far inorridire? Che farne? Come gloriarsi d'averlo tralcio del proprio tronco? Il Re se ne sarebbe sgomentato ben presto, poi sdegnato: egli stesso, il marchese, quando manifestasse i legami di parentela che a lui annodavano quel temerario, correrebbe pericolo di scadere nella estimazione e nella benevolenza del Re.
Giunse a palazzo e scese di carrozza con animo perplesso. Il suo cameriere gli venne incontro e gli disse coi soliti accento e modi pieni di rispetto:
— Il parroco Don Venanzio attende gli ordini di V. E. nello studio.
Il marchese mandò un lieve sospiro di soddisfazione; avrebbe udito sulle labbra del vecchio prete i consigli della vera religione e la vera voce del dovere.
— Solo? domandò egli.
— Signor no: vi è pure il segretario.
Baldissero sostò un momento; parve esitare; si domandò a sè stesso se dovesse o no vedere in quel momento il giovane della cui sorte trattavasi, se e quale effetto la vista di lui avrebbe prodotto sulla definitiva risoluzione ch'egli doveva prendere. L'esitazione fu corta: si disse che era appunto il meglio lo studiare ancora, subito, in tal punto, la fisionomia di quel giovane; entrò risolutamente nel gabinetto di studio. I due che stavano colà seduti si alzarono con rispetto; e il vecchio sacerdote fece un passo verso il marchese, come si fa per la persona che giunge desiosamente aspettata; ma Baldissero aveva rivolto lo sguardo e l'attenzione esclusivamente sopra Maurilio. In quel momento la sua impressione tornò ad essere quella poco favorevole che ne aveva avuta la prima volta in cui il giovane era comparso ai suoi occhi. Quella testa grossa, ispida, direi quasi, e quelle sembianze tormentate; quell'occhio affondato e quella bocca larga a labbra pallide e sottili; quel corpo ricurvo e quelle manaccie grossolane gli presentavano un complesso così lontano dal tipo aristocratico di eleganza e di leggiadria che era quello della sua famiglia, e il quale così egregiamente era incarnato nella infelice sua sorella, che il marchese non potè a meno di dirsi: «È impossibile che costui sia mio nipote.»
Don Venanzio cominciò egli a parlare.
— Signor marchese, eccoci ancora ad implorare la sua protezione per un altro massimo favore.
— È cosa che riguarda Lei? domandò Baldissero sviando finalmente gli occhi dalla faccia di Maurilio, il quale sotto a quello sguardo, freddamente scrutatore e quasi ostile, sentiva, per la naturale sua timidità, confondersi e smarrirsi. Il tono poi [76] con cui era fatta la domanda del marchese diceva chiaramente: «Badate che se si tratta d'un interesse vostro, Don Venanzio, sono dispostissimo a soddisfarvi, non così se si tratta d'altri.»
— No, signore, rispose il parroco, riguarda anche ciò questo mio figliolo d'adozione.
Il marchese non diè risposta alcuna; sedette e fe' cenno agli altri due sedessero anche loro; la sua mossa era quella d'un uomo disposto ad ascoltare.
Don Venanzio, senz'attendere altra licenza, prese ad esporre ciò che per essi volevasi. Disse della misteriosità della nascita di Maurilio, dei segni di riconoscimento trovati appo lui, del caso meraviglioso che pochi giorni prima li aveva posti a contatto colla Gattona, della certezza che ci aveva costei conoscere la famiglia a cui apparteneva il giovane, dell'obbligo che quella vecchia mendicante si era assunto di svelare la verità dopo due giorni. Soggiunse come fosse allora intravvenuto un nuovo fatto, l'intromettersi cioè del gesuita, fra' Bonaventura, di cui narrò il colloquio cercato ed avuto la sera innanzi con Maurilio. Stupito e messo in sospetto da ciò, egli stesso, Don Venanzio, era tornato dalla Gattona ad interrogarnela, e non aveva potuto trarne fuori se non che la chiave del segreto era davvero in mano di quel gesuita di lei confessore, e ch'ella non altrimenti avrebbe parlato che se il frate glie ne avesse dato licenza. Don Venanzio aveva capito che quella vecchia, o direttamente o per mezzo del gesuita, aveva fatto conoscere alla famiglia, forse potente, di cui Maurilio aveva diritto di portare il nome, che il fanciullo voluto smarrito era lì, pronto a rivendicare i suoi diritti; e quella famiglia aveva forse empiamente deciso di respingerlo. In tale emergenza egli aveva pensato ricorrere eziandio alla efficace protezione del marchese. Era un'opera di giustizia e di carità che doveva tentare il generoso animo d'un tant'uomo. Come se già sapesse appuntino i dubbi e le obbiezioni che voleva sottoporgli e intorno a cui voleva consultarlo il marchese, tutte combattè e distrusse le sofistiche ragioni che si vorrebbero accampare per esimersi dal sacrosanto dovere di riconoscere quell'abbandonato fanciullo, e lo fece con quell'eloquenza bonaria e semplice del cuore che è la più efficace su persona d'animo eletto, e ci mise tanto calore che non so chi non ne sarebbe stato vinto.
Il marchese ascoltò immobile, curva sul petto la testa, nascondendosi colla palma la faccia sotto il pretesto di sostenervi la fronte: quando il sacerdote ebbe finito, stette un momento ancora in silenzio e senza fare atto di sorta: poi trasse giù dal viso la mano, e rivolse a Maurilio uno sguardo che non era più quello quasi ripugnante di prima.
— Signor.... Maurilio. (Esitò un momento a pronunziare questo nome, quasi avessero difficoltà le sue labbra a spiccarnelo, ma poi lo disse con una certa emozione poco meno che affettuosa). Signor Maurilio, così parlò con voce lenta e sommessa, Ella ha dunque alcuni contrassegni. Desidererei vederli. Vorrebbe favorire di mostrarmeli?
Maurilio, che li aveva presso di sè, fu lesto a porgerli al marchese. Questi riconobbe al primo colpo d'occhio il rosario di sua sorella, e lo prese affrettatamente, con mano tremante. Sentì una subita tenerezza ineffabile invadergli l'anima. Avrebbe voluto portarselo alle labbra e baciarlo: ma non osò. Ogni suo dubbio a quella vista era dileguato: gli parve scorgere Aurora medesima uscita dal suo sepolcro e venutagli innanzi a dirgli: «questo è mio figlio.» Quante preghiere non aveva ella innalzato al cielo, tenendo quel rosario tra mano! Di quante lagrime non l'aveva essa bagnato! Sotto la protezione di quel pietoso amuleto, di quella preziosa reliquia famigliare, aveva ella voluto porre il suo figliuolo, raccomandandolo alla Divina Consolatrice di tutti gli umani dolori; ed ecco che quella reliquia appunto riconduceva alla famiglia di lei quel figliolo cui una barbara malignità aveva voluto sbandire. Si domandò s'egli non dovesse di subito aprirgli le braccia e dirgli: «tu se' mio sangue.» Guardò ancora la faccia strana del giovane. Non ostante la sua emozione, durava nel suo animo verso Maurilio un segreto sentimento, quasi un istinto, di ripulsione. Si disse che non conveniva lasciarsi guidare ad un passo irrevocabile dalla commozione d'un momento, che occorreva prendere una decisione definitiva a sangue più raffreddo: desiderò parlare ancora e più specialmente di ciò con Don Venanzio.
— Mi lasci questi oggetti, la prego, diss'egli a Maurilio. Nessuno più di me, le assicuro, s'interessa nè può interessarsi per Lei e per questi suoi casi... E di ciò appunto, e di quel che sia da farsi, desidero ora stesso parlare con Don Venanzio.
Maurilio s'alzò e tolse commiato. Era uscito appena dallo studio del marchese, che un domestico venne a dirgli come la contessina Virginia desiderasse parlargli. Il giovane ebbe in pensiero per prima cosa rifiutarsi d'andare da lei, ma non l'osò: si compresse con una mano il cuore e seguì il domestico che lo conduceva nel quartiere della nobile donzella.
Il marchese teneva sempre in mano il rosario di Aurora, e lo guardava con occhi umidi di pianto; quando Maurilio fu fuor della stanza, egli non resse più alla piena del suo affetto e baciò quel rosario con passione.
Don Venanzio sorse di scatto in piedi, tutto commosso.
— Che? esclamò egli. Ella dunque, signor marchese, riconosce questo contrassegno? Ella forse sa?...
— Tutto. La famiglia del suo protetto è la mia: sua madre fu mia sorella.
Il vecchio prete alzò le mani tremanti verso il cielo, e con voce piena d'esultanza, di riconoscenza, di ammirazione, esclamò:
[77] — Divina Provvidenza! Come sono profondi i tuoi disegni! come imperscrutabili le tue vie!... Tu il figliuolo scacciato l'hai ricondotto al focolare domestico, oltre l'arrivo del senno umano, e me hai voluto stromento della tua grazia al miserello. Posso io dunque cantare il nunc dimictis?
— La sua parte non è finita, Don Venanzio, disse il marchese. Le tocca ancora rassicurare la mia coscienza, dileguare i miei dubbi, illuminare la mia mente.
Senz'altro più, espose francamente, cordialmente, interamente il più segreto dei suoi pensieri a questo riguardo e confessò tutte le sue esitazioni e ripugnanze. Il vecchio sacerdote combattè ogni cosa ad una ad una: affermò che non ostante i varii errori che riconosceva egli stesso nei giudizi e nelle opinioni di Maurilio, la mente di costui elettissima e l'animo nobilissimo lo facevano tuttavia degno della miglior sorte e del miglior nome del mondo; soggiunse che quand'anche non fosse così, il dovere della famiglia ond'egli era nato rimaneva pur sempre il medesimo e bisognava compirlo; certo era meno piacevole lo aver da accogliere un cotale che aveva sempre vissuto in isfera diversa da quella che si avrebbe voluto, con idee e costumi affatto diversi, colla disgrazia d'aver dovuto assaggiare della carcere per delittuosa imputazione; ma di tutto ciò a chi la colpa? alla famiglia medesima che lo aveva rigettato e posto in quelle condizioni; e parte dell'ammenda che ella doveva farne, sarebbe stato eziandio il passar sopra a codesto, il superare quelle antipatie e quelle ripugnanze. Il marchese era troppo uno spirito superiore per non comprendere codesto, per volere ad un individuo fare pagare il fio di risultamenti dovuti alle circostanze ed al fatto altrui: d'altronde Maurilio, ingiustamente accusato, aveva visto solennemente proclamata la sua innocenza ed aveva da quella bolgia infernale dove era stato precipitato, della miseria, della carcere, della malvagia compagnia, portata fuori un'anima sempre onesta, la qual cosa era merito maggiore di molto che non quello di chi, favorito da ogni condizione, non fallì mai.
Un'ora durò il colloquio fra Don Venanzio ed il marchese. Questi che aveva ad un tratto affacciate in corpo tutte le sue obbiezioni, non le venne più ripetendo a seconda che il buono ed umile prete di campagna, coll'impeto della sua eloquenza naturale, rozza anzi, ma efficace, col calore d'un'anima sempre giovanile ed ardente pel bene, il quale si crede compire un'opera di apostolato, le andava distruggendo ad una ad una. Ascoltava e li, il marchese, con mossa che dinotava tutta l'attenzione prestata al suo interlocutore e la potenza riflessiva impiegata dalla sua mente; sorreggeva secondo il solito la testa alla sua mano bianca ed affilata, mentre lo sguardo stava fiso sulla fiamma che volteggiava nel focolare; di quando in quando frammischiava alle argomentazioni del parroco un dubbio, un'osservazione, una richiesta, che erano come un nuovo incentivo al fuoco del discorso del protettore di Maurilio.
Quando fu trascorsa quell'ora che ho detto, il marchese finalmente si mosse, tirò giù dal capo la destra e lasciò scorgere la sua nobile fisionomia colle traccia di alquanta commozione, si alzò in piedi, drizzando la sua alta e distinta persona e mandò un sospiro che avreste potuto interpretare come di rassegnazione o come di sollievo.
— Sia fatta la sua volontà, Don Venanzio....
Questi fece un atto come volendo protestare; il marchese s'affrettò a soggiungere:
— Che credo sia pure quella di Dio. Il figliuolo di mia sorella sarà accolto in casa mia..... come il figliuolo di mia sorella.
Pose mano al fiocco del cordone che pendeva presso il camino, ed una scampanellata ferma, risoluta, imperiosa avvisò il cameriere che S. E. aveva bisogno di lui.
— Dite al segretario si compiaccia di venir qui subito; comandò il marchese al servo presentatosi sollecito alla porta.
Il cameriere notò l'uso del verbo compiacersi, acquistò una maggiore stima che non avesse per l'innanzi ad un segretario, in favore de! quale S. E. si serviva di tali termini, e si affrettò verso il quartiere di Maurilio più rispettoso che non avrebbe mai creduto di dover essere verso un cotale che egli aveva visto entrare in quella casa in sì poveri arnesi.
Don Venanzio ed il marchese attendevano con una certa emozione d'ansietà. Dieci minuti passarono e nessuno venne; il marchese, impaziente, lasciò trascorrere ancora altri cinque minuti e poi diede con forza un'altra tirata al cordone del campanello.
Si vide poco dopo fra la portiera dell'uscio la faccia del solito cameriere; ma questa faccia aveva un'espressione di contrarietà mortificata, di disappunto, d'imbarazzo che dinotava essere avvenuta qualche novità che lo turbava.
— E così? domandò asciuttamente il marchese.
— Il segretario non c'è: rispose il cameriere con quell'impaccio nella parola che aveva nell'espressione del volto.
— Perchè non venire ad avvisarmene subito?
— Volli far cercare più accuratamente di lui e sapere che cosa ne fosse.....
— Avete fatto male: interruppe con severo accento il padrone; ciò ch'egli faccia o non faccia non ha da chiamare in nessun modo la vostra attenzione.
Il cameriere mandò giù il rimprovero con un inchino.
— Appena torni il signor Maurilio, lo si mandi da me.
[78] Il servo non si mosse e fece un atto come chi ha qualche cosa da dire e non osa.
— Che avete da soggiungere? domandò il marchese, il quale di ciò si accorse.
— Vorrei dire a S. E. che dubito molto che il signor segretario torni a palazzo.
Baldissero e Don Venanzio si riscossero e si guardarono in viso meravigliati.
— Perchè dite voi questo? domandò il primo.
— Perchè il signor Maurilio è partito svestendo gli abiti che qui gli erano stati dati e riprendendo i suoi logori che aveva deposti, ed il custode, al quale diede una lettera, mi disse che egli aveva un'aria talmente stralunata che da lui ad un pazzo ci correva poco.
Nuova e dolorosa meraviglia nel marchese e nel sacerdote.
— Ma gli è forse successo qualche cosa? domandò Baldissero: nessuno saprebbe dire alcuna cosa che ci guidasse a scoprire la ragione di questo fatto?
Il cameriere si strinse nelle spalle come uno che non sa niente.
— Voi avete detto che ha lasciato una lettera al custode: disse Don Venanzio.
— Sì signore.
— E questa lettera?
— L'ho qui. Il signor Maurilio aveva pur detto al custode di non consegnarla che fra un'ora; ma io ho creduto bene di farmela tuttavia rimetter subito. È appunto diretta a Lei.
— A me! esclamò Don Venanzio, date, date qui.
La prese con mano premurosa dal domestico che gliela porse, e ne guardò con sollecitudine la soprascritta; era di mano di Maurilio, ma nel tracciare i caratteri dell'indirizzo quella mano era così fattamente agitata che tutta sconvolta era riuscita la scrittura.
— Andate, disse il marchese al servitore che si affrettò ad ubbidire. Legga, Don Venanzio, soggiunse quando furono soli, e se quello che si contiene colà dentro crede potermelo comunicare, mi leverà dall'ansiosa curiosità onde son preso.
Don Venanzio ruppe il suggello, spiegò il foglio con mano che tremava un pochino, inforcò gli occhiali, e lesse.
«Parto. Dove me ne vada non so. Forse al villaggio dove imparai primamente a soffrire. Potessi chiudere questa vita nel luogo in cui la sentii cominciare a pesare su me colla gravezza del dolore!... La mia sorte, la mia famiglia, il mistero della mia nascita, che m'importa più? Cessi da indagini che a nulla mi possono giovare. Quando anche fossi figlio d'un re, che me ne verrebbe oramai?... Mi sento circondato dappertutto da una tenebra fitta. Vorrei che fossero le ombre della morte. Le mando un saluto dal cuore... Forse l'ultimo... In questa casa non posso rimaner più, non debbo... Ho la testa che minaccia di rompersi... il cuore mi sembra che voglia saltarmi fuori dal petto..... Non mi stupirei che l'uno e l'altra scoppiassero... Addio.»
— O mio Dio! esclamò il buon sacerdote quando ebbe letto, tutto sgomento: ma che cosa può essere avvenuto? A quel poverino ha dato di sicuro volta il cervello.
Ricordò che pochi anni prima una forte scossa morale aveva già ridotto Maurilio al punto che la sua smarrita ragione lo aveva spinto al suicidio da cui lo aveva salvo Giovanni Selva; ricordò la grave pericolosa infermità che di poi lo aveva travagliato, temette anche questa volta una simile vicenda e pari effetti: senz'altra spiegazione, come uomo che non ha tempo nessuno d'indugiarsi, prese sollecitamente il suo cappello a tre punte che aveva posto sopra una seggiola dritto contro la spalliera, e si mosse per uscire.
— Ma che fu dunque? domandò il marchese con inquieta premura. Non posso io saper nulla?
Don Venanzio s'arrestò sui due piedi e porse al marchese la dissennata lettera di Maurilio.
— Legga, legga pure.
Baldissero la prese e lesse avidamente.
— Or dunque, che conta Ella di fare?
— Vado a cercare di quel disgraziato...
— Dove?
— A casa dei suoi amici, dove abitò finora: ma chi sa se ce lo troverò.... Ah!
Una buona idea eragli venuta. Maurilio aveva scritto che forse si sarebbe recato al villaggio, correndo giù per la strada che vi conduceva, chi sa che non si sarebbe potuto raggiungere. Ne disse al marchese, il quale trovò molto giusta l'idea, e per attuarla meglio pose a disposizione del buon vecchio prete una sua carrozza. Dieci minuti dopo Don Venanzio partiva al trotto serrato di due buoni cavalli per correr dietro al fuggitivo.
Ma che cosa aveva dunque tratto il povero Maurilio a sì subita e pazza risoluzione?
Che la nobile fanciulla da lui amata gli avrebbe parlato di Francesco Benda, egli n'era sicuro. Non esisteva altro punto d'attinenza fra lei e lui, e abbastanza ne lo preveniva l'istinto del proprio cuore. Il suo amore senza speranza pur si ribellava furibondo al pensiero dell'amore di quella donna per un altro. Senza speranza! Sì, tale era stato l'affetto suo fin allora, tale ed anche più doveva essere al presente, avendo egli acquistato certezza che Francesco Benda aveva ottenuto quel sommo bene a cui egli non aveva osato pur mai aspirare. Eppure, vedete stranezza della sua natura, in lui non era così. Ciò che gli accadeva da due giorni era tanto straordinario che pareva avergli ispirato una insensata fiducia anche nell'impossibile. In que' sogni matti e sragionevoli che il bollore della gioventù presenta alla fantasia di ciascheduno, creando un [79] avvenire meravigliosamente eccezionale che non si potrà effettuare giammai, ancor egli aveva avute a questo proposito le sue pazze chimere, di cui poscia amaramente sorrideva e si riprendeva egli stesso. Aveva sognato poter diventare illustre, grande, celebre, potente colla forza sola del suo ingegno e del suo valore, e raccolta una somma ingente di gloria venire a metterla a' piedi dell'adorata fanciulla, che non avrebbe più potuto stimarlo da meno e respingerlo con disprezzo. Ma ora ad avvicinarlo a lei, più sollecitamente e più naturalmente e con maggiore ancora la desiderata efficacia, sembrava volere adoperarsi la sorte. Tutto quello che gli era capitato, induceva in lui la certezza di appartenere egli ad una nobile e potente famiglia. Avrebbe dunque avuto un nome, un grado, un titolo pari a quelli di lei: essa avrebbe potuto e dovuto trattarlo come eguale, ed egli starle dinanzi senza umiltà e vergogna di soggezione e d'inferiorità. Nel suo animo di plebeo che aveva sino allora lottato colla miseria e s'era trovato oppresso dall'abbiezione del suo stato, entrò ad un tratto un sentimento d'orgoglio aristocratico, di cui si vergognò poco stante, ma che pure, anche passando solamente, lasciò in lui una certa traccia, un effetto inavvertito. Si disse che Virginia di sì nobile casato, di sì aristocratico sangue, non avrebbe potuto sposare un borghese come Francesco Benda. Quel pregiudizio delle vane distinzioni di classi sociali per nascita, che allora era così potente nella nostra società, quel pregiudizio ch'egli aveva trovato stolto e condannato sempre per lo addietro, parve a tal punto una verità al suo spirito momentaneamente traviato. Una fanciulla come Virginia poteva ella amare un uomo a cui non avrebbe dato la mano? Contraddisse, contestò l'evidenza delle prove che il suo dolore aveva scorte dell'amore di lei per Francesco: le interpretò con un quasi volontario errore nella più falsa guisa del mondo: ed anche quando, riavutosi da quella febbre, potè più giustamente apprezzare le cose, pure a sua insaputa, alcun che glie ne rimase al fondo dell'animo di quelle pazze speranze.
Pur tuttavia quando Maurilio, fatto chiamare da Virginia, entrò nel salottino in cui essa lo attendeva, vi fu con una timidità palpitante che pareva quasi una ripugnanza. Era un salottino tappezzato di seta cilestrina, e in mezzo, come un angelo nell'azzurro del cielo, cinta la fronte d'un'aureola, spiccava la bella figura della ragazza, ornato il capo del ricco volume dei suoi fulvi capelli. La splendeva come una visione di paradiso. Maurilio la guardò ratto ed atterrò gli occhi con paurosa confusione e si sentì tremare nelle più intime fibre. Stette egli immobile presso la porta e non seppe trovare una parola.
Essa gli si accostò con qualche sollecitudine, colla sicurezza di persona che non ha la menoma esitanza nè vergogna intorno a ciò che sta per dire o per fare. Era pallida più dell'usato, gli occhi splendevano d'una fiamma speciale, v'era un'inquietudine contenuta, una supplicazione involontaria nella mossa.
— Signore; diss'ella con espressione di non dissimulato, vivissimo interesse. Che notizie ha Ella del suo amico l'avvocato Benda?
Era la domanda che appunto s'aspettava Maurilio: eppure ad udirla egli diede in un trasalto come se ad un tratto avesse sentito una punta figgerglisi in cuore; sollevò ratto le palpebre, e le sue pupille color del mare incontrarono lo sguardo delle pupille color del mare di lei. Fu come un urto di due elettricità; e se ne sprigionò una potente scintilla che variamente li scosse ambidue. Virginia travide un segreto nella profondità di quell'anima che le aveva balenato dinanzi; le parve di botto che quella persona non era nuova per essa, nè indifferente al suo destino; dove l'avesse già vista e quando, quella fronte tormentata, non sapeva, ma sentì che una qualche indefinibile attinenza correva fra quello sconosciuto e lei. La sua fierezza avrebbe voluto sdegnarsi dell'audacia di quello sguardo che sembrava volerle entrare nell'anima, della temerità di quell'essere a lei di tanto inferiore, che pareva aversi ad intromettere nella sua vita; ma negli occhi di quell'uomo eravi pure tanto dolore che non potè a meno di sentirne compassione la sua generosa anima di donna. Non fu una simpatia, fu una pietà. Il suo sguardo mostrò ad un punto il risentimento ed il perdono; aveva appena lampeggiato lo sdegno che già risplendeva caramente in quella leggiadra pupilla una mitezza divina.
Quello che passava nell'interno del giovane chi lo potrebbe esprimere? Il suo sguardo acceso avvolgeva, abbracciava con audace potenza la bellezza fisica di quella nobil fanciulla, e si sforzava di penetrarle nell'anima, ad abbracciarla del pari; nello stesso tempo supplicava con ardenza e commozione infinita. Egli sentiva, in presenza di quella adorata beltà, adergersi la passione, invaderlo, farsi più potente della sua timidità, d'ogni riserbo, d'ogni riguardo, d'ogni suggerimento della ragione, d'ogni dettame di convenienza, padroneggiarlo, torgli le redini della volontà, stimolargli il cervello come una trionfante pazzia. Le più spropositate idee gli tenzonavano nella testa, le più audaci parole gli gorgogliavano nella gola; un lieve impulso ancora ed avrebbe traboccato ed avrebbe prorotto il torrente della sua passione.
Fece uno sforzo supremo per frenarsi. Conveniva parlare. Virginia aveva sviato da lui lo sguardo e rimaneva immobile attendendo risposta alla sua domanda. Il povero Maurilio riuscì a pronunziare con voce sorda e affaticata, le seguenti parole:
— Di Benda non ho notizia alcuna.
Virginia, da quel nome richiamata per intero all'argomento [80] che le premeva più di tutto al mondo, lo guardò con un'espressione di mite rimprovero.
— Come! esclamò essa, mentre sì gravi avvenimenti successero e tanto pericolo minacciò l'esistenza del suo amico e della famiglia di lui, Ella non ebbe premura di saperne questa mattina le novelle?
La innamorata fanciulla che aveva vegliato in pena tutta la notte, che aveva con ispavento appreso della rivolta degli operai e de' gravi fatti che l'avevano accompagnata, che null'altro pensiero più aveva in mente fuor quello dell'amor suo, considerava quasi per impossibile che in altri avesse ad essere tanta indifferenza a tal riguardo. Maurilio, alle ultime parole di lei, ebbe sulle labbra un sorriso amarissimo, onde la fanciulla provò sdegno insieme, e pena e sgomento. Quel sorriso diceva che il giovane aveva avuto ben altro a cui pensare, che del ferito e delle sue sorti poco si curava ed anche peggio, che la ragazza sperando in lui un aiuto erasi ingannata, che piuttosto avrebbe trovato in esso un alleato ai nemici del suo amore. Ella si pentì subitamente della fiducia che aveva creduto poter riporre in quell'essere; si rimutò nelle sembianze compiutamente, s'allontanò da lui di qualche passo, e riprendendo tutta la naturale fierezza del suo contegno, disse con accento severo:
— Mi sono dunque ingannata a crederla un amico del signor Benda?
Per Maurilio quel mutamento fu come se gli si spegnesse subitamente agli occhi la luce del sole. Tese le mani supplichevole ed esclamò:
— No, no; la non s'è ingannata. Sono un amico, un amico a tutta prova..... Mi comandi e farò quanto so, quanto posso.....
S'interruppe perchè l'emozione gli faceva gruppo alla gola e non lasciava più varco alle parole. Virginia stette un momento in silenzio, come riflettendo, e pareva che il suo spirito fosse corso lontano da quel luogo, ed ella non badasse più a chi gli stava dinanzi. Dopo un poco scosse la sua leggiadra testa, s'avvicinò ad un mobile e prese in mano una lettera che vi stava sopra: si rivolse di nuovo a Maurilio e parlò con una semplicità affatto naturale.
— Io m'interesso di molto a quella famiglia. La signorina Maria figliuola del signor Giacomo, fu mia compagna di collegio ed abbiamo rinnovato pochi giorni fa un'intrinsichezza da amiche.....
Si tacque ad un tratto; si domandò perchè la diceva tutto ciò a codestui: che aveva ella bisogno di scusare o di spiegare soltanto la sua condotta? Arrossì alquanto: e dopo un istante riprese con accento più altero che non fosse prima:
— Ho da mandare questa lettera di condoglianza e di conforto alla mia amica..... Avevo pensato, poichè credevo ch'Ella si recasse colà, pregar Lei di recargliela a nome mio.
Maurilio delle parole di Virginia aveva capito poco o nulla; il suo capo confuso sempre peggio gli tenzonava con maggiore intensità, per poco non aveva smarrita la giusta percezione delle cose e la coscienza di sè; viveva come in un sogno, anzi meglio come in un parosismo di febbre, quando ogni cosa piglia forme e proporzioni diverse e strane, ed ogni impressione non più governata dalla ragione, si risolve in fantasima di delirio. Vide una bianca carta nella bianca ed esile mano della fanciulla; capì che quella carta era pôrta a lui, che egli la doveva prendere; per che farne non sapeva, non aveva inteso, non voleva pure intendere. Una ondata di quelle matte speranze che ho detto gli venne al cervello malato. Pensò ad esclamare in risposta ai detti di lei che non aveva compresi:
— Virginia, io ho nelle vene un sangue nobile al pari del tuo..... Io, io sono degno di te.
Si trattenne; di tanto vegliava ancora nel fondo del suo cervello la ragione da fargli comprendere la sua follia: si disse che non avrebbe parlato più, perchè aprendo la bocca non era sicuro di frenare la sua lingua. Tutta la sua timidità sentiva svanire sotto l'influsso d'una specie d'alito infuocato che gli correva dal petto alla testa; ma mentre il cervello sobbolliva e il cuore palpitava tremendamente, le membra gli erano impacciate, irrigidite, come avvinte.
Per prendere quella lettera dalle mani di Virginia, che s'era allontanata, bisognava varcare lo spazio di poco più d'un metro; erano due passi, e Maurilio non si sentiva il coraggio e la forza di farli; parevagli fosse quello un abisso da sorpassare. Esitò, fece uno sforzo e riuscì ad accostarsi alla fanciulla con piede pesante.
La bellezza della donna ha certi momenti di fascino che, irresistibile, impossibile ad esprimersi, n'è l'effetto sull'animo dell'uomo. Certe mosse della donna che amate, senza che ne sappiate il perchè, vi fanno bollire il sangue; uno sguardo vi caccia il fuoco in tutto l'essere; un sorriso vi apre il cielo. L'uomo innamorato darebbe la vita, darebbe tutto al mondo, darebbe l'onore, per potere in que' momenti stringere fra le sue braccia quella creatura che tanto tumulto eccita in lui, e soffocarla di baci. I sensi e lo spirito sono in quel punto eccitati ad un trasporto supremo, ineffabile, divino; tutte le forze dell'essere, tutte le potenze della mente, tutte le aspirazioni dell'animo si concentrano in un solo desiderio, che è una sete, che è una rabbia, che è un delirio. La passione rende l'uomo capace di qualunque eccesso: la donna che sa il suo potere può in quel punto ottenere dall'uomo tanto un'opera sublime d'eroismo, quanto il più infernale dei delitti.
Quando Maurilio si trovò ad un passo di distanza dalla bellezza divina di quella fanciulla, subì uno di quegli influssi, si sentì trasportare da uno di quei parossismi. Com'era bella davvero quella spigliata, [81] gentile persona di vergine con tanta grazia nobilmente atteggiata! Com'erano soavi allo sguardo le pure ed artistiche linee di quella mossa avvenente che si disegnavano nette sul fondo cilestrino della parete! Com'era leggiadro quel viso dilicato sul cui pallore un'emozione del momento aveva chiamato un lieve rossore alle guancie! La bocca semiaperta pareva respirare con lieve affanno prodotto dalla intensità d'un affetto; il seno, così voluttuoso nella sua casta bellezza, si alzava ed abbassava soavemente come l'onda quieta d'un mare benigno; fra le labbra di sì gentile color rosato spiccava con un effetto cui niuna parola può riprodurre la candidezza dei denti e pareva uno splendor di sorriso.
Maurilio le stette innanzi tremante, commosso, agitato, fremente fin nell'intime fibre dell'esser suo. La sua casta gioventù, le contenute forze de' suoi sensi gli desiarono con impeto irrefrenabile una tempesta tremenda nel petto. Tante volte ne' suoi sogni egli aveva quella fanciulla vagheggiata appunto tal quale! Ed ora se la trovava realmente dinanzi come l'aveva desiderata, come invocata con tanto trasporto. Era un sogno anche questo? od era stata una realtà anche quelle altre volte? Il tumulto e la confusione de' suoi pensieri s'accrescevano; audacie mai più immaginate gli sommovevano l'animo, desiderii che non sapeva pur formolare gli salivano su dal cuore in subbuglio e lo soffocavano alla gola. Perchè non le avrebbe detto ora quelle parole che tante volte aveva detto all'immagine di lei? Perchè non avvintala alle ginocchia colle sue braccia e trascinatosi a' suoi piedi come aveva sognato di fare? La fronte del giovane era circondata d'una fiamma, gli occhi di lui mandavano lampi; la sua faccia s'era trasfigurata; vi era da ammirarlo e da averne paura.
Virginia aveva sempre la lettera in mano, la porse quasi con atto meccanico, e il giovane volle afferrare quella destra. Le loro mani s'incontrarono: l'urto de' fluidi fu maggiore di quello fosse stato per mezzo degli sguardi; sussultarono ambedue, ritrassero le destre come se le avessero abbruciate; Virginia gettò uno sguardo ratto sulla testa di lui e fu meravigliata ed atterrita di quel fuoco che vi raggirava cupo e profondo negli occhi. La lettera cadde a terra in mezzo a loro, e Maurilio si gettò a raccoglierla: rimase così in ginocchio innanzi a lei, e i suoi panni toccavano lo svolazzo degli abiti ond'era la bella persona vestita. Passò un minuto secondo in cui s'affollarono nella mente di lui tutt'a un tratto i pensieri d'amore, i sogni, i delirii di tanti anni, di tante notti, di tante ore febbrili. Non potè parlare, ma non era più la timidezza che facesse ostacolo alle parole, era la piena soverchia dell'affetto, la troppa abbondanza delle cose. Si curvò a terra come un credente innanzi al suo idolo, abbandona il suo capo sui piedi della fanciulla e ruppe in singhiozzi, in esclamazioni che parevano di dolore, in parole soffocate che non avevano senso.
— Che è ciò? domandò Virginia ritraendosi atterrita. Che fa Ella? che vuole?..... Si alzi.
Maurilio udiva quella voce soave, ma non capiva le parole; la sua ragione gli sfuggiva sempre più; aveva un tal tumulto nel cervello, che pareva la pazzia vi combattesse un'aspra battaglia cui fosse per vincere. Sollevò la faccia tutta bagnata di pianto e guardò la bellezza di lei con occhio smarrito, splendente d'una luce febbrile. Dove fosse non sapeva più. I più strani propositi s'affacciavano alla sua mente, ed egli non li trovava assurdi e indegni di lui medesimo; ma se non li attuava era solo perchè glie ne mancavano le forze. Levarsi e prendere fra le sue braccia quella forma adorata di donna e stringerla da soffocarla; aprire quella finestra da cui veniva la luce grigiastra del giorno nebbioso, e con lei sul suo cuore precipitarsi e morire insieme; portarsela come un bambino sul seno e fuggire da quel palazzo, fuggire dalla città, fuggire, fuggire fin dove occhio d'altr'uomo non la potesse veder più; dirle: «io t'amo, dammi un bacio» ed uccidersi ai suoi piedi.
Virginia fu spaventata per davvero; pensò suonare per chiamar gente, ma era lontana dal cordone del campanello; le mani convulse del giovane l'avevano afferrata ai panni; ella se ne sciolse, e ratta, come una visione che si dilegua, fuggì della stanza. Maurilio, quando fu solo, riebbe un po' di calma e gli tornò un po' di ragione. Stette immoto alcun tempo, inginocchiata come si trovava, facendo girare lentamente intorno a sè il suo torbido sguardo; fissò per un poco il punto del tappeto su cui posavano poc'anzi i piedi di lei e parve che ve ne scorgesse le traccie. Si gettò bocconi a quel luogo e con bocca quasi rabbiosa baciò, ribaciò, tentò di mordere quella stoffa che a lui pareva ritenesse l'impronta delle piante dell'adorata fanciulla. Ad un tratto sollevò il torso e si cacciò le mani entro i capelli con mossa furibonda di disperazione.
— Che ho fatto? esclamò. Che osai? Che le dissi? Che avrà ella giudicato di me? Come venirle ancora innanzi agli occhi? La mi farà scacciare dal suo cospetto pei suoi lacchè..... O mio Dio! O mio Dio!
Si strinse fra le due mani la fronte con tanta forza da farsene male.
— Ella ne ama un altro... Ella mi disprezza.... Ed io stoltamente le lasciai scorgere nel mio cuore.... Oh fossi morto prima!...
La riazione contro quelle troppo false e troppo audaci speranze che gli aveva fatte nascere in un momento di follia la sua immaginativa, venne potente, terribile, da superare ogni altro sentimento, ogni altro affetto. Delle cose del mondo e di sè nulla più glie ne importava. Che cosa era ancora per lui [82] il problema del suo destino che stava per essere sciolto? A che cosa gli avrebbe giovato oramai qualunque più venturosa ed invidiabile sorte? Era stato un malaccorto ad entrare ospite in quel palazzo. La prima cosa a farsi ora, era di fuggire; di fuggire prima che ignominiosamente ne lo scacciassero. Si drizzò in piedi sollecito, guardando attorno quasi spaventato, come se temesse veder entrare i servi che dovevano spazzarlo via da quel luogo ch'egli aveva profanato. Corse nella sua stanza, riprese i suoi poveri vecchi panni, scrisse, per Don Venanzio la lettera che abbiamo visto, e partì.
Corse per un po' giù della strada, urtando nella gente, urtato da chi aveva fretta, senza direzione, da null'altro guidato che da un prepotente bisogno d'allontanarsi, di fuggire. Nel suo cervello continuava ad agitarsi confusamente un tumulto di pensieri indescrivibile; il governo delle sue idee, delle sue fantasie sfuggiva sempre più alla sua volontà. In mezzo a tutto quel subbuglio di sentimenti e di affetti, non sapeva più districarsi, per così dire, la sua ragione affievolita. Correva, correva, il cappello in mano, il suo logoro mantello pendente dalle spalle, la fronte che gli ardeva esposta alla fredda aria invernale. Tutto ad un tratto si fermò su due piedi e si guardò attorno con aria attonita, come uomo che si sia smarrito e non riconosca il luogo ove si trovi. L'impulso che lo cacciava innanzi pareva cessato di colpo, ed egli si ritrovava senza forza, senza decisione, senza energia. Nel suo interno quel tumulto tempestoso di passione che lo tormentava era dato giù improvviso e gli aveva lasciato un vuoto in cui non sentiva altro più che un indolorimento ed una stanchezza. Pareva, come accade in qualche furioso temporale alla state, che il vento, dopo aver soffiato gagliardo e sollevato nembi turbinosi di polvere ed atterrato alberi e devastate le messi, cessa di botto e lascia succedere un momento di calma; ma una calma spaventosa in cui l'aria pesante non lascia avere il rifiato, in cui le nubi nere nere pare che vi opprimano, ed a cui sapete che fra poco dovrà tener dietro uno scoppio tremendo della bufera.
Maurilio portò la destra alla fronte e la passò sopra le ossa sporgenti di essa con lento moto, e si palpò la testa, quasi ad accertarsi ch'egli la teneva ancora al suo posto. Gli pareva d'esser scemo di cervello, che tutto fosse svaporato in un attimo e che l'organo del pensiero gli si fosse distrutto per sempre. Gli venne insieme una matta voglia di ridere e di piangere su se medesimo; accennò un sogghigno colle labbra e si rasciugò una lagrima che colava a stento giù delle guancie. Guardava intorno e vedeva; ma non aveva coscienza esatta di quel che vedesse. Passava uno di quei Lucchesi che girano il mondo a vendere le figurine di gesso; gli nacque un gran desiderio di saltargli addosso e romper tutti i busti e le statuette ch'egli portava sull'asse in equilibrio sul capo; un piccolo spazzacamino se ne veniva rasente il muro, mandando il suo monotono e melanconico grido: Maurilio fece un passo per venirgli a tiro ed afferrarlo alla gola; fu preso dalla tentazione di andare a strappare una legna accesa dal fuoco del caldarrostaio alla cantonata e cacciarla in mezzo ai truccioli nella bottega del vicino legnaiuolo per dilettarsi della vista dell'incendio che ne sarebbe nato. Ma la ragione, ridotta per così dire all'ultimo confine del suo impero, e prossima ad essere bandita del tutto, riagì un momento.
— Sciagurato! diss'egli a se medesimo a voce alla, percotendosi quella fronte sotto cui lottava la sua intelligenza contro le chimere del delirio: ma sono io dunque per diventar pazzo?
Pazzo! Questa parola, pronunciata da lui medesimo, lo spaventò. Tornò a suscitarsi subitamente la tempesta nel suo spirito. Riprese la sua corsa senza meta volontaria; in un attimo si trovò fuori della città sopra una strada ronchiosa pel fango gelato, la quale si allungava tra i campi e si perdeva nel nebbioso orizzonte. Corse giù per essa come l'ebreo errante della leggenda cacciato da una mano misteriosa. Era per fortuna la strada che conduceva al villaggio di cui era parroco Don Venanzio.
Questi nella carrozza del marchese veniva appunto giù della medesima in traccia del giovane. Guardava a dritta ed a sinistra il buon vecchio prete, con ansietà di padre, pregando colla fiducia della sua anima religiosa, il suo Dio. Ad un tratto si sporse fuori del finestrolo dello sportello che non ostante il freddo aveva tenuto sempre aperto, e gridò al cocchiere:
— Fermate, fermate.
Sul ciglio del fosso della strada aveva veduto accoccolato, i gomiti sulle ginocchia, il capo tra le mani il suo giovane amico. Scese precipitosamente di carrozza e corse presso quell'individuo che gli era davvero il povero Maurilio. Lo toccò sopra una spalla e con voce amorevolissima lo chiamò per nome.
Il giovane alzò il capo e guardò innanzi a sè con aria così smarrita che Don Venanzio se ne sgomentò di più che se avesse visto su quella faccia le mostre della maggior disperazione.
— Maurilio, gli disse prendendogli le mani e traendolo a sè per farlo levare, che fai tu qui? Perchè questa tua fuga? Perchè questo abbattimento? Ora che il destino ti si volge propizio, vuoi tu mancare a te stesso, vuoi tu esser da meno della tua novella sorte?
L'infelice seguitò a guardare come uomo che non capisce, che non ha idee, che non ha volontà; ma si lasciò tirar su dritto in piedi, e cedette facilmente alla mano che lo traeva verso la carrozza ferma in mezzo la strada.
— Vieni, vieni meco, gli diceva il vecchio sacerdote, pensando che il principale era in quel momento [83] scuoterlo dal torpore di quella specie di letargo e condurselo seco.
Accostò le sue labbra all'orecchio di Maurilio e soggiunse piano, ma con forza:
— Vieni, la tua famiglia è trovata, e ti aspetta.
Il giovane diede in una scossa, guardò con indefinibile espressione il volto del parroco ed una luce viva gli lampeggiò negli occhi rianimatisi ad un tratto. Ma fu un lampo soltanto: curvò nuovamente il capo e mormorò con accento di rassegnata desolazione:
— È troppo tardi.
Però si lasciò guidare docilmente alla carrozza; ubbidì senza contrasto alla mano che dolcemente lo spingeva a salire, ed affondatosi in uno degli angoli lasciò che il cocchio, i cui cavalli erano stati voltati di nuovo verso la città, lo trasportasse di trotto dove altri voleva.
Don Venanzio, a cui questa strana apatia dava assai pena, cercò di riscuoternelo.
— Ecchè? diss'egli dopo un poco, tu sei fatto di un subito così indifferente a quello che fu sinora l'oggetto maggiore de' tuoi pensieri? Tu non mi chiedi nemmeno chi sia questa famiglia che ti dico avere scoperto essere la tua e trovarsi pronta ad accoglierti?
Maurilio crollò il capo con quella sua mossa abbandonata, e non rispose.
— Che avvenne egli adunque da rimutarti così compiutamente e ad un tratto? Perchè mi scrivesti non poter più, non dover più rimanere nella casa del marchese di Baldissero? — Fece una pausa: e poi soggiunse lentamente: — In quella casa dove anzi dovresti rimaner sempre?
Il giovane non fece attenzione a queste parole; non le capì e non si mosse.
— Che mistero è quella tua lettera inaspettata? Che mistero è questo tuo contegno? Spiegamelo, te ne prego.
Maurilio tornò a crollar la testa, come per indicare che non voleva rispondere; e si tacque.
La carrozza era già arrivata alle prime case della città. Don Venanzio avvisò che bisognava affrettarsi a rendere consapevole della verità il giovane, perchè a momenti si sarebbe giunti a palazzo.
— Or dunque, riprese, che vuoi tu ch'io dica, che posso io dire al marchese, il quale ti attende per accoglierti come suo sangue?
Questa volta l'effetto fu maggiore di quello che il buon prete si aspettasse, Maurilio sussultò come se ad un tratto una potente macchina elettrica lo avesse colpito collo scoppio della sua scintilla.
— Suo sangue! esclamò egli curvandosi verso il prete con occhi che sprizzavan fiamme e parlando con labbra convulse e con tremula voce. Sangue del marchese, io!... Forse suo figlio?
Don Venanzio pose amorevolmente la sua destra tepida e morbida sulle mani ruvide e ghiacciate del giovane.
— Suo figlio no, disse egli lentamente, ma figliuolo di sua sorella.
Maurilio guardò il sacerdote con espressione di spavento.
— Sua sorella?... Che sorella?
— Quella che fu poi la contessa di Castelletto, e in prime nozze fu moglie di Maurilio Valpetrosa, da Milano, tuo padre.
— Valpetrosa!... Mio padre! ripetè il giovane proprio coll'accento d'un uomo di cui la ragione vacilla. Si cacciò le mani in capo e stette un istante raccolto in se stesso come per isforzarsi a dominare le sue idee.
— Contessa di Castelletto: riprese egli poi dopo un poco, e la sua voce era sorda, il respiro affannato, stentata la parola: la madre di.... di Virginia?
Pronunziò questo nome con voce ancora più bassa e ratto come se gli abbrucciasse le labbra.
— Sì: rispose semplicemente Don Venanzio, che non poteva pure immaginare le cagioni di tanto turbamento nel suo giovane amico.
— Ed io, domandò Maurilio con maggiore ancora l'emozione, io sono dunque suo fratello?
— Sicuro!
Il volto dell'infelice divenne in un subito scarlatto, le vene del collo gli si gonfiarono tanto che parvero prossime a scoppiare; poi di presente successe un pallore cadaverico su quelle guancie, che apparirono più immagrite ed incavate di prima; la fiamma degli sguardi si spense, e mandando un gemito che pareva un rantolo, l'infelice cadde di nuovo abbandonatamente nell'angolo della carrozza, da cui s'era staccato in sussulto un momento prima.
Don Venanzio si chinò premurosamente su di lui; Maurilio era svenuto. Il buon parroco voleva gridare al cocchiere affrettasse la corsa verso il palazzo; ma vide che allora appunto la carrozza voltava sotto il portone. Si era giunti.
Quando Maurilio tornò in se stesso, si trovò in quella camera del palazzo di Baldissero, ch'egli credeva aver abbandonato per sempre, disteso su quel letto dove la notte precedente tante chimere di sogni erano venute a tormentare il suo spirito. Sentì di subito ch'egli pigliava intiero il possesso di sè medesimo, che tutta e non lesa gli tornava la ragione. Si ricordò di subito, per prima cosa, della tremenda novella che lo aveva mandato fuor dei sensi. Avrebbe voluto poter continuare nello svenimento: quello era almeno l'oblio: avrebbe voluto ricacciare quella ragione che gli tornava, fosse pur anche ricoverandosi nel buio e nell'insensibilità del sonno eterno.
[84] La camera era semioscura; in quella dubbia luce Maurilio vide al suo capezzale seduta una persona le cui chiome candidissime gli dissero essere Don Venanzio, in fondo al letto un uomo di alta statura, dritto, immobile che lo guardava. Gli parve che quello fosse il marchese, sentì anzi come cosa sicura che era lui; ma gli piacque indugiare a riconoscerlo, volle allontanare il momento in cui si sarebbe venuto alle spiegazioni; come volendo tornare nel torpore dello svenimento, richiuse gli occhi e stette immobile, volgendo in sè tutta l'attenzione e quasi direi lo sguardo interno della sua mente.
La vita fisica non pareva in lui ancora tornata; non si sentiva battere i polsi e le membra gli erano così lasse, così sottratte all'azione della volontà che gli pareva, per qualunque sforzo avesse fatto, non sarebbe riuscito a muovere un dito. La sua anima pareva incatenata in un corpo morto. Ma ad un punto il suo cuore si mise a palpitare frequente, quasi con dolorosa violenza. Benchè seguitasse a tener gli occhi serrati, i presenti s'avvidero che la vita era tornata in lui, perchè un lieve rossore era salito ai pomelli delle sue guancie, e il petto gli si sollevava ed abbassava in un respiro alquanto affannoso. A suscitarne gli spiriti a quel modo era stato un pensiero che improvviso erasi affacciato alla sua mente.
— E Virginia verrà essa a vedermi? Lo sa ella già ch'io sono suo fratello? E che dirà, e che le dirò io, vedendola?... Io suo fratello!... E l'amo!... E l'amo ancora!... E forse l'amerò sempre!... Oh sciagura!
Sussultò sul letto, aprì gli occhi e si sollevò alquanto della persona sopra i cuscini. Don Venanzio si drizzò in piedi e gli pose una mano sul capo a toccargli la fronte; l'uomo dall'alta statura si curvò sopra il letto a fissare nel giacente uno sguardo pieno di compassione e d'interesse.
— La crisi è passata, ne sono sicuro, disse il parroco; da parecchi giorni la sorte non volle risparmiare le emozioni a questo poveretto, ma ora, coll'aiuto di Dio, spero che tutto sia finito... Non è vero, Maurilio?
Il giovane ringraziò con uno sguardo l'amorevolezza del suo primo, vecchio amico, poi volse que' suoi occhi ancora appannati verso l'uomo dall'alta statura il quale, toltosi da quel luogo, venne lentamente accostandosi ancor egli al capezzale dall'altra parte del letto. Era proprio il marchese.
— Sì, Maurilio, diss'egli con voce piena, calma, quasi solenne, tutto è finito; sono finite le vostre traversie e le vostre disgrazie. Tutto sarà riparato; ed avrete una sorte degna di voi. Quando saprete ogni cosa vedrete che a noi il debito della riparazione, a voi quello del perdono. Don Venanzio vi conterà tutto appena sarete in caso d'ascoltare la verità.
Il giovane attese un momento, come se esitasse a manifestare il suo pensiero, o questo pensiero medesimo fosse incerto tuttavia ed oscillante.
— Signore, diss'egli poi, la verità sono in caso di ascoltarla fin da questo momento. Da tanto tempo ne vo in traccia e la invoco che desidero, ora che la mi si affaccia, apprenderla più senza indugio.
Il marchese fece un atto d'acquiescenza.
— Vi lascio liberamente discorrere con Don Venanzio: diss'egli. Voi potete liberamente interrogare, io posi in grado il nostro buon amico di liberamente a tutto rispondere. Più tardi verrò io stesso a favellare con voi, e faremo allora più ampia conoscenza reciproca.
Uscì di stanza dopo queste parole, lasciando soli Don Venanzio e Maurilio. Il primo che poche ore prima aveva appreso dal marchese la storia d'Aurora, la ripetè al giovane quale a lui era stata narrata. Maurilio l'ascoltò con raccolta e profonda attenzione, senza interromper mai col menomo cenno, colla menoma osservazione, con una domanda qualunque di spiegazione, senza fare neppure il menomo atto. Lo spirito del giovane era in una strana ed affatto nuova condizione. Parevagli, dopo quel momentaneo offuscamento, avere acquistato una lucidità ed una forza maggiori del solito: e nello stesso tempo, tratto tratto, esso gli sfuggiva, si sperdeva, sembrava, per così dire, svaporargli e le idee gli si confondevano, come si facevano incerte le sensazioni e le stesse impressioni esterne. Egli aveva un'esatta cognizione delle cose, si rendeva un esatto conto di sè, degli avvenimenti che gli erano successi e di quelli che gli venivano narrati. Si vedeva colà dov'era, in quella stanza, disteso su quel letto, e conchiusa l'odissea delle sue disgrazie; nel pensiero, prendeva, con una facilità onde si meravigliava egli stesso, il posto che gli spettava, e che ora soltanto scopriva dovutogli; poi ad un tratto tutto gli pareva pigliare l'incertezza, il vago, l'inapprensibilità d'un sogno. Era egli bene sveglio, era affatto in sè mentre udiva svolgersi quel romanzo: ed era egli proprio cui esso riguardava? E Virginia era sua sorella?.... Qui si scombuiavano di nuovo tutti i suoi pensieri e sentimenti, e temeva gli sfuggisse nuovamente la ragione. Don Venanzio aveva finito di raccontare e taceva spiando attentamente sul volto pallido del giovane le impressioni che in lui quel racconto aveva deste. Ma tal silenzio ecco riuscir penoso, quasi sgomentatore per Maurilio, il quale volse per ciò gli occhi verso il vecchio sacerdote, e gli disse con accento quasi di preghiera:
— Oh parli, mi parli ancora!
Che aveva egli da dire ancora Don Venanzio, il quale aveva tulle divisatamente ripetute le cose udite dal marchese? Pensò opportuno di fare al suo protetto un piccolo sermoncino di morale sui nuovi e maggiori doveri che il suo nuovo stato era per accodargli verso i suoi simili, verso la [85] società e verso Dio. Se questi aveva dati al giovane talenti non comuni, gli era perchè se ne servisse a maggior gloria di Lui da cui tutto dipende, ed a maggior vantaggio dei suoi fratelli; se aveva voluto che la sua infanzia e parte della giovinezza trascorressero nella miseria e nell'umiliazione d'un povero stato, era per levargli ogni superbia di grado, di titoli e di sangue, per renderlo ai mali del miserabile compassionevole; se ora lo voleva elevato a cospicue condizioni nella società, glie ne accollava tanti più obblighi di virtù, di opere, di nobili esempi al mondo.
Maurilio meditava da parte sua, e le parole dell'onesto vecchio entrandogli nella mente, senza che egli pur l'avvertisse s'intrecciavano colle riflessioni di lui, e andavano ad allogarsi nel suo cervello. Quando il sacerdote ebbe finito, il giovane gli tese una mano.
— Grazie, mio buon amico, gli disse con un sorriso pieno d'affetto; grazie, mio padre..... Sì, Ella sarà pur sempre per me come un amorevol padre... Se Iddio mi lascia vivere, non sarò indegno della mia sorte. Vedrà.
La destra di Maurilio ora era divenuta ardente; gli sguardi sfavillavano stranamente nelle incavate occhiaie.
— Maurilio, figliuol mio: disse con premura Don Venanzio. Ora tu hai bisogno di calma e di riposo.....
— Sì: interruppe il giovane. Ho bisogno d'esser solo e di meditare..... Solo colla memoria del mio passato, colle strane venture del presente, colle lusinghe dell'avvenire; solo colla mia coscienza e Dio... Mi perdoni se la prego lasciarmi.
Il buon prete accondiscese al desiderio del giovane, lo baciò paternamente sulla fronte, e s'allontanò raccomandandolo con mentale preghiera all'Angelo Custode, ispiratore delle sante risoluzioni.
Il primo pensiero di Maurilio, quando fu solo, fu Virginia. Ella era dunque unita a lui da così stretto vincolo di carne: il medesimo sangue correva nelle loro vene. Quell'amor suo che prima era una follia, ora si faceva un empio delitto. Era esso questo amore uno sciagurato traviamento dell'istinto, di quello che suol chiamarsi la voce del sangue, che gli additava in quella una persona a lui da natura così strettamente avvinta? O cielo! Ma egli sentiva che anche ora, conoscendo la verità, anche in quel momento, la sua fatale passione ruggiva più forte, più impetuosa, più tremenda che mai nell'animo suo. L'immagine di quella tanta bellezza stava innanzi alla sua fantasia, più seducente, più eccitante che non l'avesse ancora vista: e il sangue gli pulsava nel cuore e nelle tempia.
— Potrei baciarla: si disse, e immaginò non un bacio fraterno, ma un caldo bacio d'amore al cui pensiero sentì una fiamma di voluttà dolce ed insieme penosa corrergli per tutte le fibre.
Inorridì.
— Sciagurato! sciagurato! esclamò egli. È figliuola di mia madre.
Secondo suo uso, quando di troppo gli tumultuavano nel cervello le idee, si serrò colle mani la testa, e temette un istante smarrir di nuovo la ragione ed i sensi. Ma egli, senza pensarvi, aveva pronunziato un nome che era quasi un talismano; fu come una involontaria invocazione della sua anima in angoscia.
— Mia madre! ripetè; ed un desiderio infinito, un'aspirazione ineffabile, un trasporto di fiducia in tutto l'esser suo venne a sollevarne lo spirito. Pensò alle apparizioni che nei momenti più difficili e più solenni della sua vita erano venute a dargli coraggio. Quella forma aerea che sì benigna veniva a consolarlo, a guidarlo, egli ne aveva ferma convinzione, era la madre sua; il momento in cui si trovava non era esso dei più gravi e fatali della sua vita? Perchè non sarebbe venuta anche ora quella creatura celeste a confortarlo? Egli serrò le mani in atto di preghiera, con indicibile ardore di desiderio, con inesprimibile passione, con supremo impulso di fede.
— Spirito mio benigno! disse. Madre mia, non abbandonarmi!
L'apparizione così ardentemente invocata, con tanto desiderio attesa, non ebbe luogo; ma pure, come se, anche invisibile, quello spirito amoroso esercitasse un benigno influsso sull'animo travagliato del giovane, questi sentì una certa calma succedere alla tumultuosa agitazione di poc'anzi. Le savie parole del parroco che erano penetrate nella sua mente inavvertite, cominciarono allora a staccarsi, per così dire, dal ripostiglio cerebrale ove s'erano poste ed a sfilargli innanzi all'intelletto coll'autorevolezza d'un'ammonizione e colla efficacia d'un consiglio amichevole. Egli credeva in una intelligenza superiore ordinatrice degli umani eventi; credeva nella ragionevolezza del destino, tanto di quello dell'umanità, quanto del proprio. Se in lui erano state poste quelle forze di volontà e d'ingegno non era perchè inutilmente le si consumassero in isterili tormenti d'una passione impossibile. Quella potenza che lo aveva voluto plasmato a quel modo, dominato da quegli affetti, afflitto da quelle sciagure, aveva di certo voluto che ad alcuna cosa approdasse tutto questo, che alcun risultamento da ciò ne riuscisse. Quella stessa infelice ed ora empia passione, appigliandosi al suo cuore non era destinata forse che a distruggere in lui per sempre ogni tendenza di femmineo amore, perchè tutte e soltanto le sue capacità si volgessero a quel còmpito che gli era assegnato in pro dell'umanità. Una nobile superbia, una generosa ambizione si levarono allora nell'anima sua. Gli parve sentire nell'intimo della coscienza una voce che lo assicurasse chiamato all'importanza d'una efficacissima parte [86] in pro del progresso umano. La sventura del suo affetto, e la scoperta delle sue nuove condizioni lo sacravano apostolo operatore di quelle nuove idee che fino allora aveva solamente vagheggiato nella solitudine delle sue meditazioni. Sursum corda, credette sentirsi a gridare nell'anima da una voce discesa dal cielo. Il divino entusiasmo del sacrificio gli si accese nel cuore, e gli salì, per servirmi dell'espressione biblica, come fumo di vin nuovo, al cervello. Ricordò quello che avevagli detto poc'anzi il marchese, che avrebbegli procurato una sorte degna di lui. Quale sarebbe stata questa sorte? Ebbe una subita smania di determinare senza ritardo il suo destino, di fissare le linee di quella parte ch'egli voleva ed avrebbe dovuto sostenere. Aveva bisogno di occupare in questa fatta pensieri la mente perchè non vi si cacciasse di nuovo e dominatrice l'immagine di Virginia. Saltò giù del letto: era debole e le gambe lo reggevano a stento: ma la volontà gli tenne luogo di forze. Si vestì e con passo oscillante scese le scale e venne a presentarsi nell'anticamera dell'appartamento di suo zio il marchese.
— Annunziate al signor marchese che domando di parlargli senza indugio: disse al cameriere con accento autorevole ma senza superbia.
Il marchese lo fece introdurre tosto e gli venne incontro sino alla soglia del suo studio.
— Che imprudenza è questa! gli disse con accento che tentava e riusciva pure d'esser amorevole, ma in cui però non suonava ancora la vera nota dell'affetto. Avete già voluto levarvi e scender giù voi medesimo? Dovevate farmi avvertito e sarei venuto io al capezzale del vostro letto.
Maurilio non rispose che con un sorriso; pose con discreta freddezza la sua mano nella destra che gli tendeva il marchese con fredda cortesia, e se ne lasciò trarre per essa fino presso al focolare, dove sedette sul seggiolone che il marchese gli additò in prospetto a quello su cui si pose egli stesso.
Si guardarono un poco senza parlare. La situazione era strana e difficile per ambedue le parti. Stranieri fino a quel momento di esistenza, di abitudini, d'opinioni, di tutto; di presente le loro vite venivano ad intrecciarsi e stavano dinanzi nelle condizioni d'una intimità necessaria. Erano un problema l'uno all'altro. Qual effetto nelle vicende della loro vita reciproca avrebbe avuto quel nuovo elemento che veniva improvviso ad imporsi loro sotto le sembianze di quel personaggio che ciascuno dei due aveva innanzi a sè? Quella testa scarmigliata, quelle forme grossolane, quell'aspetto tra timido e selvaggio, che il marchese esaminava con poca simpatia, erano dunque di suo nipote? Era dunque verso quell'individuo ch'egli aveva il debito di riparare tutti i torti della sua famiglia e che da quel punto doveva incominciare l'opera sua? Non lo avrebbe mai immaginato sotto quella sembianza; avrebbe più volentieri impreso il suo còmpito, se fosse stato diverso il suo aspetto. Ma queste le erano puerilità: se lo disse il marchese a sè medesimo con segreta rampogna ed impazienza de' fatti suoi.
— Voi avete appreso tutto da Don Venanzio, Maurilio? domandò egli con voce che pareva fare un leggero sforzo a parlare.
— Signor sì: rispose il giovane levando quel suo capo grosso, così originale e caratteristico: e vengo a vedere che cosa Ella intende fare di me.
Le parole e il modo con cui furono pronunziate non piacquero al marchese. Frenò una mossa superba e quasi disdegnosa che glie ne venne; e rispose con pacatezza, ma con accento di superiorità:
— Intendo fare di voi un uomo degno della vostra nascita e di noi. E spero che in quest'opera voi mi ci vorrete con tutte le vostre forze aiutare.
— Vorrei diventare un utile cittadino al mio paese: disse Maurilio con quella sua voce sorda e l'accento peritoso che gli erano abituali quando un sentimento od una passione non lo commovessero.
Baldissero stette alquanto in silenzio guardando sempre il nuovamente acquistato nipote più con curiosità che con interesse, con una specie di diffidenza più che con affetto. Ricordò le opinioni democratiche e rivoluzionarie del giovane, e si domandò se non fosse spediente fargli capir tosto che le avrebbe dovuto modificare; ma si rispose che il momento per una simile discussione non era opportuno, che conveniva lasciare che le condizioni della nuova esistenza, il veder le cose del mondo da altro punto di mira e sotto altro rispetto, l'influsso del mutato ambiente in cui si sarebbe trovato, avessero cominciato ad agire sull'animo suo, come non dubitava che avverrebbe, così che le parole impiegate a convertirlo di poi trovassero quindi un terreno già preparato e molto più favorevole. In conseguenza rispose semplicemente di questa fatta:
— E voi potete diventar tale e lo diverrete di sicuro se l'ingegno che Dio vi ha dato impiegherete con zelo a conoscere la verità delle cose, le giuste leggi che reggono le società ben ordinate, i doverosi rapporti fra chi deve comandare e chi deve obbedire.
Maurilio sollevò la sua ampia fronte, ed un'espressione più risoluta apparve sui suoi lineamenti e suonò nella sua voce:
— Comandare, diss'egli, deve la legge in cui si incarnino la giustizia e la verità; ubbidire devono tutti.
Il marchese fece un atto che significava non volere a niun modo in quel momento entrare in discussione; e successe un'altra pausa di pochi minuti.
In questo frattempo Baldissero ricordò la promessa che aveva fatto al Re di condurgli la sera l'autore di quelle pagine che avevano prodotta una [87] viva impressione in S. M. Si volse di nuovo con una certa vivezza verso Maurilio.
— Questa sera io dovrei condurvi ad un colloquio, da cui molto può dipendere il vostro avvenire. Potreste subitamente acquistarvi un'invidiabile posizione. Si tratta d'un personaggio importante e molto potente nello Stato, il quale ha letto quel vostro manoscritto sequestratovi dalla Polizia e concepì desiderio di parlare a viva voce con voi intorno a qualche argomento che in quelle pagine avete accennato.
All'udir far parola di quel suo scartafaccio, in cui erano depositati tutti i segreti non che del suo pensiero e dell'anima, ma dell'esistenza e del cuore, all'idea che quelle sue espansioni, quelle rivelazioni erano venute in mano d'estranei, passate da questo a quello, un subito rossore salì alle guancie del giovane; il marchese che lo vide e s'accorse come quello fosse segno di viva contrarietà e quasi di sdegno e vergogna, s'affrettò a soggiungere:
— Ci terrei molto, vi dico in vero, ad attenere la promessa che feci a quel cospicuo personaggio di presentarvi a lui questa sera medesima; però il male che vi è sopravvenuto è una valevol ragione a scusarmi se ci manco. Se dunque la vostra salute non vi consente di rendervi a questo convegno, ditelo pure ed io ne renderò avvertito quel personaggio.
Maurilio esitò un momento.
— Scusi, diss'egli poi: non potrei sapere di questo personaggio il nome od almeno il grado?
Il marchese scosse la testa.
— Va tra' primi dello Stato, rispose: non posso per ora dirvi altro.
Il giovane stette di nuovo un momento sopra sè. Il suo primo pensiero fu quello di giovarsi appunto del pretesto della sua salute per sottrarsi a quel misterioso colloquio coll'incognito personaggio; ma poi come una subita ispirazione lo ammonì ch'ei faceva male, che in codesto era forse una fase del suo destino che gli si presentava, e che quindi gli conveniva meglio risolutamente affrontarla.
— Ci andrò: disse con una certa vivacità Maurilio.
— Sta bene; ricordatevi che a quell'uomo innanzi a cui vi troverete dovete più che rispetto riverenza. Non vi dico di mentire alle vostre convinzioni, ma discutendo con quel personaggio, sostenendo anche le vostre idee che da quelle di lui certo dissentiranno, vi raccomando la moderazione e non solo nelle forme, ma direi eziandio nella sostanza.
Maurilio non rispose; ma fra se stesso andava pensando con molta curiosità chi sarebbe mai stato quell'uomo. Il marchese continuò:
— Potreste, vi ripeto, guadagnarvi di botto un posto onorifico e rilevante..... Ad ogni modo, consultate anche le vostre attitudini e le vostre propensioni, vi troveremo poi un impiego negli uffizi del Governo.
— Perdoni: interruppe il giovane: ma io non intendo assumere verun impiego governativo.
Baldissero lo guardò con istupore.
— Non volete voi servire il vostro paese?
— Sì; ma non è l'unico modo di servirlo quello d'imbrancarsi alla schiera burocratica, e non credo neppure che quel modo sia il migliore. Voglio rendermi utile più ch'io possa al mio paese, ma rimanendo libero cittadino.
— Gl'impiegati sono essi schiavi? disse asciuttamente il marchese.
— Hanno un vincolo di più che gli altri. Hanno limitato e definito in certi limiti, troppo stretti per me, il loro campo d'azione; hanno esaurita e consumata ogni iniziativa individuale, prima che possano manifestarla. Sono ruote d'una macchina, necessarie sì quando non eccedono, ingombratrici e dannose quando ve ne ha troppe, non sono mai fecondi inventori nè propagatori di verità onde la coltura umana e il benessere generale s'accrescano.
Il marchese tornò a guardare il giovane con meraviglia.
— Ma che cosa vorreste voi dunque fare? che cosa essere?
— Vo' farmi banditore indipendente di verità al popolo ed al Governo; voglio promuovere la diffusione del vero e del giusto negli ordini politici, economici e sociali.
— Maurilio: interruppe il marchese con quella sua voce grave di una incontestabile imponenza; voi siete giovane e le cose del mondo avete visto finora traverso una lente sformatrice degli oggetti, quali sono le proprie sventure. Prima di conchiudere dai vostri studi, prima di farvi ammaestratore altrui, compite que' primi, allargate la cerchia delle vostre osservazioni, fate maggior messe di più seria esperienza, e lasciate maturare ancora meglio il giudizio.
Maurilio s'inchinò leggermente.
— Ella ha ragione: disse con ossequio, ma con una fredda fermezza insieme che indicava non egli esser mai per lasciarsi smuovere dalle sue idee. Questo appunto, e non altro desidero ancor io.
Successe un momento di silenzio. Il giovane aveva reclinata la testa, s'era di nuovo incurvato del corpo secondo la sua abitudine, e teneva gli occhi fissi sui fiorami del tappeto; il marchese lo guardava con una curiosità come diffidente, quasi ostile. Cercava egli discernere nel suo interno quali sentimenti gli ispirasse quell'individuo, e non sapeva riuscirci. Era insieme un interesse ed un sospetto, quasi una paura; un'attrazione ed una ripugnanza. Avrebbe voluto poter levare al riacquistato nipote almeno dieci anni affine di esser in grado di ridurlo quale egli lo avrebbe desiderato; pensava, anche senza volerlo, al consiglio di fra' Bonaventura, di dare a quell'individuo una buona somma e mandarlo nelle più lontane regioni.
[88] — Maurilio, dopo un poco riprese a dire lo zio, converrà che vi faccia conoscere tutta la vostra famiglia. Quando volete voi essere presentato ai vostri congiunti?
Maurilio vide passarsi dinanzi la splendida aureola delle chiome d'oro di Virginia. Sussultò, arrossì, impallidì, ed esclamò con tono che pareva di sgomento:
— No, no.... non ancora.
Il marchese lo guardò stupito; egli dominò la sua emozione, e soggiunse più freddamente:
— La mia famiglia sa ella già tutti i miei casi e l'esser mio?
— No: rispose il marchese; ma è mia intenzione apprenderli tosto a chi si deve.
— Or bene, riprese il giovane con accento di preghiera; se Ella non dissente, io desidererei, prima di entrare in questa nuova esistenza, andarmene al villaggio dove fui allevato, passare alcuni giorni di raccoglimento, di pace, di sovvenire e d'addio al passato. Don Venanzio parte domani: con suo permesso, io ve lo accompagnerei. Al mio ritorno prenderei nella famiglia quel posto ch'Ella mi vuole restituito.
Lo zio accondiscese sollecito, e quasi soddisfatto. Avrebbe avuto alcuni giorni da preparare allo strano avvenimento la moglie, i figliuoli e la nipote; avrebbe potuto riflettere di meglio sul da farsi, riguardo al giovane medesimo.
Maurilio non volle quella sera sedersi pel pranzo alla tavola della famiglia. Salì nella sua camera, dove chiese ed ottenne dallo zio permesso di rimanervi, finchè lo si sarebbe fatto chiamare per recarsi a quel misterioso convegno di cui il marchese gli aveva parlato. Non potè mangiare neppur un boccone; l'eccitamento de' suoi spiriti e de' suoi nervi era tale che non poteva star fermo, nè arrestar la mente sopra un'idea. Don Venanzio venne più tardi a fargli compagnia; ma furono impotenti a calmarlo anche le dolci esortazioni di quel brav'uomo. Quando un lacchè venne ad avvertirlo che il marchese lo attendeva per salire in carrozza, Maurilio era in uno stato quasi d'orgasmo che avrebbe potuto del pari, nel colloquio a cui si recava, produrre questi due effetti: o togliergli del tutto la libertà della mente e la capacità di spiegarsi, o dargli un'audacia ed un'eloquenza non ordinaria di parola.
Zio e nipote salirono in carrozza senza parlare; e in breve furono alla loro meta; Maurilio scendendo vide che si trovavano sul principio di quel viale medesimo che conduceva alla fabbrica dei Benda. Entrarono per un cancello di ferro che loro venne aperto da un uomo avvolto in un ferraiuolo, e preceduti da quest'uomo, che evidentemente li stava aspettando, furono introdotti in una camera a pian terreno d'una palazzina posta al di sotto di uno dei bastioni del giardino reale, palazzina che Maurilio sapeva essere stata comprata da poco tempo dal Re.
Furono lasciati soli in quella stanza modestamente arredata, parcamente illuminata da una lampada colla ventola, ma acconciamente riscaldata. Vi era tanto silenzio tutt'intorno che pareva proprio d'essere all'infuori della vita chiassosa d'una gran città. Il solo rumore che s'udiva era il tic tac d'un grande orologio posto sulla caminiera.
Pochi momenti passarono, e nessuno dei due venuti pensò pure a rompere quell'alto silenzio. Poi una tenda di panno verde che pendeva ad una porta si sollevò da una parte, e comparve un uomo che, quantunque vestito da borghese, aveva l'aspetto soldatesco.
— Marchese, disse costui parlando piano come per rispettare ancor egli quel silenzio; si compiaccia venir qua un momento.
— Attendetemi qui: disse il marchese a Maurilio, e passando sotto la tenda, entrò nella stanza vicina coll'uomo che era venuto a chiamarlo.
— Dove son io? Pensò Maurilio rimasto solo e guardandosi intorno come per cercare alcuna cosa che rispondesse alla fattagli domanda. Chi è che mi vuol parlare? Innanzi a cui mi troverò io fra poco?
Una idea che gli parve matta venne ad affacciarsi alla sua mente. Quella casa era proprietà del Re; se questo medesimo fosse l'alto personaggio che voleva interrogarlo? Sentì una specie di brivido corrergli per le vene, tremò, ebbe paura, e pensò un momento cercar di fuggire: ma poi tosto dopo un sentimento di riazione ebbe luogo in lui. Oh! se pur fosse! Se in faccia all'incarnazione più spiccata dell'ordine politico e sociale, alla rappresentazione più valida e suprema del potere e dell'autorità umana egli si trovasse e potesse parlare a tu per tu e dire la verità delle cose, i sentimenti delle masse, i bisogni della plebe!..... Ma egli ci avrebbe valuto? Sentì un impulso d'orgoglio e di temerità in quel sovreccitamento che non l'aveva ancora abbandonato, e si affermò che, se non la capacità di fare presso Carlo Alberto la parte del marchese di Posa di Schiller, il coraggio egli l'avrebbe avuto di certo.
Scosse ad un punto le spalle e sorrise di se medesimo. Gli parevano queste chimere assurde. Si accostò senza volerlo a quella tenda verde dietro a cui era sparito il marchese: udì appena il susurro di voci che parlavan sommesso. Passeggiò in lungo ed in largo sopra il morbido tappeto che ammortiva il suono de' suoi passi. Andò poscia a sedersi presso il camino dove fiammeggiava un gran fuoco, si prese colle mani la testa e stette ad aspettare con una specie d'ansietà che gli faceva battere il cuore e sembrar lunghi i minuti.
Un quarto d'ora o poco più era passato, quando la tenda si sollevò di nuovo e tornò in quella camera il marchese.
— Passate di là, diss'egli a Maurilio. Il signore che vuol parlarvi vi aspetta. Rispondete alle sue interrogazioni [89] con franchezza, ma pesate bene le vostre parole. Quando vi si darà il congedo, mi ritroverete in questa sala.
Maurilio sentì più forte il batter del cuore, camminò quasi barcollando verso la porta, e spinto dal marchese entrò nella camera vicina; l'uscio si richiuse dietro di lui.
Era una camera vasta quanto la precedente, riscaldata del pari, ma ancora più modesta a giudicarne da quel poco che si vedeva, perchè la era ancora più scura. In fondo era una tavola abbastanza grande, coperta da un tappeto verde di panno finissimo e sopravi una lampada colla ventola ancor essa sul globo di cristallo. Questa lampada era stata calata giù dal suo piedistallo perchè il cerchio di luce che mandava all'intorno fosse meno ampio e tutto si contenesse sulla superficie della tavola. Sopra il tappeto di questa vedevansi alcune carte ripiegate per lo lungo e un gran portafogli su cui impresso in oro uno stemma reale.
Seduto colà, con un gomito appoggiato alla tavola e il mento nel concavo della mano, stava un uomo che appariva di alta statura. Aveva la faccia nell'ombra e i lineamenti non si potevano discernere; ma scorgevasi una vasta fronte e un viso lungo e pallidissimo. I raggi della lampada cadevano di pieno sulla mano sinistra ch'egli teneva chiusa a pugno sul tappeto e la facevano vedere magra, color di cera, ossea, eppure elegante.
Maurilio s'era fermato sulla soglia, esitante, con un impaccio timoroso.
— S'avanzi: disse una voce sorda ma con accento gentile ed incoraggiativo: s'avanzi e sieda costì.
Quella mano chiusa a pugno che posava sulla tavola, si aprì, e con mossa piena di garbo accennò ad una seggiola posta a due passi da quella su cui stava chi aveva parlato.
Il giovane s'avanzò lentamente fino a mettere la destra sulla spalliera della seggiola che gli era stata additata, e il suo sguardo cercava intanto penetrare nell'ombra a discernere i lineamenti di quello per lui sconosciuto personaggio. Da quello scuriccio vedeva egli due occhi fissi, con certa espressione d'autorevolezza venire indagando eziandio il volto di lui che s'avanzava; e siccome anche questo volto trovavasi nell'ombra, ecco la mano, che aveva fatto invito a Maurilio di sedere, urtare nella ventola e farla piegare così che un fascio di raggi, di colpo, battesse sulla figura del nuovo venuto. Il giovane chiuse gli occhi come abbacinato, e sentendo sopra sè lo sguardo scrutatore di quell'incognito, arrossì. Fu un momento, il coprilume tornò a posto e quella voce grave e sommessa che aveva già parlato, disse di nuovo:
— Sieda, signor Valpetrosa.
Maurilio sussultò. Era la prima volta che gli veniva dato quel nome: e senza sapere chi fosse che ora l'aveva pronunziato, parvegli che dall'autorevolezza di quell'accento le sue nuove condizioni ricevessero una più decisa ricognizione, una specie di consecrazione.
— Ella dunque sa il mio vero nome? diss'egli sedendo ed affondando sempre in quell'ombra, oltre il cerchio di luce, il suo sguardo curiosamente intentivo.
— Il marchese mi disse tutto testè: rispose con dignitosa semplicità lo sconosciuto. Ciò le provi quanta fiducia abbia in me il suo zio e mi faccia ritenere non indegno anche della sua.
Gli occhi di Maurilio cominciavano a penetrare la oscurità in cui le fattezze di quel personaggio si riparavano; vide a queste ultime parole sulle labbra di chi le aveva dette un sorriso che gli parve enimmatico: potè discernere due guancie pallide e scarne con pomelli sporgenti sotto le occhiaie affondate, due folti baffi nerissimi sopra una bocca larga, sottile, d'una fredda e mesta espressione. L'idea, il sospetto, la paura che gli si erano affacciati poco prima nella stanza vicina tornarono in lui più forti. Quella figura non era essa quella del Re, cui pochi giorni prima, la sera del ballo all'Accademia Filarmonica, egli aveva visto sullo scalone di quel palazzo passargli a pochi passi di distanza in tutta la pompa del suo grado? Volle rispondere alcune parole, e non ne trovò punto; non seppe che inchinarsi, e frattanto pensava: «che mi dirà egli? e che gli dirò io?»
Il Re da parte sua aveva ravvisato in quel giovane una figura che già gli era venuta dinanzi altra volta. Egli vedeva passare sotto ai suoi occhi tanti e tanti de' suoi sudditi, che il dove e il come avesse visto costui non seppe trovare di subito nella sua memoria: ma quell'incontro era stato così speciale e nella sua semplicità così inaspettato e straordinario che non tardò a venirgli a mente. Rivide lo scalone adorno ed illuminato, i fiori, le piante e fra queste la faccia curiosa, esaminatrice, quasi interrogativa di quel giovane popolano. Alla sua indole molto inchinevole alle mistiche ubbie, parve questa, più che un'opera del caso, quasi un incontro preparatogli dalla Provvidenza, forse per dargliene appunto aiuti al compimento della sua missione di re.
Successe un silenzio. Carlo Alberto si passava lentamente sulla fronte quella mano con cui prima sosteneva il suo volto; Maurilio, convinto sempre più che quello fosse il suo Re innanzi a cui si trovava, sentiva accrescersi l'interno suo turbamento, ma in mezzo al medesimo l'eccitazione de' suoi nervi, aiutata dalla volontà, faceva spuntare ed afforzava l'ardimento.
Carlo Alberto s'era ritratto alquanto dalla tavola, appoggiando il dorso alla spalliera, e la sua faccia trovavasi quindi ancora più nell'ombra: seguitava a tacere e i suoi occhi scrutavano sempre la fisionomia [90] di quell'individuo ch'egli stesso aveva voluto gli fosse condotto dinanzi. Quel volto solcato da rughe troppo precoci, quella fronte intelligente, ma per così dire tormentata, quello sguardo timoroso ed audace, sommesso insieme e pure potente non gli piacevano, ma tuttavia gl'ispiravano una certa curiosità benevola. Aveva tante volte immaginato potersi trovare a tu per tu col suo popolo senza intermediari e sentirne la voce vera; ed ora che gli pareva questo popolo gli stesse appunto davanti incarnato in quell'individuo che aveva sofferto colla parte più misera di esso, non sapeva come prendersela, quali interrogazioni muovergli, che cosa volerne. Era come una fattucchiera novizia che ha evocato la prima volta uno spirito e non sa più che farsene quando esso è comparso: egli aveva evocato il genio delle nuove idee liberali, lo spirito delle teorie democratiche le quali venivano ad accamparsi contro la monarchia quale il passato l'aveva fatta, ed egli, il rappresentante di questa monarchia, che pure in uno slancio di ambizione e diciamo anche di generosità giovanile, aveva combattuta, egli si peritava a domandare il motto di quella sfinge popolare di cui avrebbe pur voluto essere l'Edipo.
— La sua vita sinora fu molto fortunosa: così cominciò il Re a parlare dopo un poco; e la Provvidenza le darà certamente compenso in avvenire dei travagli passati, i quali mi pare avranno a riuscire non infruttuosi nè per Lei medesima, nè per la società, se quelle traversie hanno volto il suo intelletto allo studio di gravi quistioni, ed hanno arricchito d'esperienza la sua mente.
Carlo Alberto si tacque; Maurilio non aprì labbro nè fece pure una mossa.
— Ho letto alcune pagine di quel suo scritto in cui con molto.... (esitò come per cercare una parola acconcia che non gli veniva alle labbra) con molto ardimento Ella affronta i più ponderosi quesiti ch'io creda esistere intorno alle sorti delle società umane.
Allungò la destra e, preso il portafogli, ne trasse fuori lo scartafaccio di Maurilio, il quale, nel vederlo, arrossì fino alle orecchie.
Il Re continuava:
— Ma crede Ella che le soluzioni da Lei proposte, i rimedi da Lei messi innanzi sieno valevoli a far cessare il male? La sua formola suprema, s'io l'ho ben capita è la seguente: migliorare lo stato morale e materiale dei poveri.
Maurilio chinò il capo per esprimere che quello precisamente era il suo concetto.
— Ma questo è l'intendimento e il desiderio di tutti: ed è l'opera che proseguono, con prudenza e secondo le circostanze consentono, i legittimi governi. La democrazia a cui Ella fa appello col suo ingannevole motto di libertà, parola elastica, mal definita sempre e non definibile, appunto perchè traduce un concetto non esatto o non acconcio alla natura umana; la democrazia, dalle leggi agrarie dei Gracchi all'infame terrore della rivoluzione di Francia, non ha mai potuto far nulla in pro appunto di quelle classi che più sono degne d'interessamento e più hanno bisogno di soccorso. Il male pur troppo è una fatalità della esistenza terrena tanto nell'individuo come nelle agglomerazioni sociali, e per queste si traduce nella miseria di parte dei loro componenti. Rimedio assoluto non c'è e non ci può essere; qualche temperamento possono arrecarlo soltanto due virtù che c'insegna la nostra santa fede; la carità e la rassegnazione.
Il Re s'interruppe di nuovo. Tornò ad appoggiare la fronte alla mano e stette colle pupille immobili che con isguardo vago si fissavano nell'ombra, come se vi cercasse ancora idee e parole che più non gli si presentavano.
Maurilio aspettò un istante; ma poi capì che a lui ora toccava parlare. Chiamò a rassegna i suoi pensieri e sentì con ispavento che invece di accorrere fuggivano dalla sua chiama: sentì vuoto, come arido il cervello, si turbò forte, maledisse la sua timidezza, fece uno sforzo violento di volontà che gli raccolse il sangue nel capo e gli suscitò nel cervello un turbinio vertiginoso, aprì le labbra e non ne uscì suono veruno, volle cominciare a parlare e non sapeva che cosa avesse da dire, non riuscì che a balbettare con voce tremola e soffocata:
— Maestà....
Carlo Alberto si riscosse vivamente; si tirò indietro della persona con rapida mossa, come se un subito pericolo gli fosse sorto dinanzi ed egli volesse ripararsene nell'ombra; i suoi occhi dalla luce semispenta e dallo sguardo vago, acquistarono di botto una vivacità concentrata ed una fissità imponente; la sua destra si posò sul bracciuolo del seggiolone ov'egli sedeva, con atto di superba autorevolezza.
— Ella dunque mi ha riconosciuto?
Maurilio aveva chinato gli occhi, quasi pauroso d'essere abbacinato dai raggi di quel Giove che rivelava la sua divinità; ma in quella voce che gli aveva ora parlato c'era tale un sentimento affatto umano di stupore senza sdegno, di contrarietà senza minaccia, ch'egli risollevò lo sguardo su quel volto pallido che gli traspariva nell'ombra mandata intorno dal coprilume. Il nume terreno non era nè abbagliante, nè terribile: sulla fronte portava le rughe incavate dai dolori dell'uomo; negli angoli della bocca stavano le pieghe che vi disegnano i dubbii, i sospetti, i timori d'un'anima travagliata.
— Toltogli il manto e la corona di re, pensò Maurilio, è un uomo al pari di me. Posso, devo parlargli come uomo ad uomo.
— Sire, diss'egli allora, senza cortigianeria, ma con rispettoso ossequio: crede Ella che gli sguardi di tutto un popolo non si volgano desiosi verso colui che rappresenta ai suoi occhi tutta l'autorità [91] della legge, tutto il potere di fare il suo bene e il suo male? Quando egli passa in mezzo alle turbe frequenti nella pompa del suo corteo, come una visione di splendore, come un Nume che traversa la terra all'infuori e al di sopra delle miserie comuni, tutti gli animi come tutti gli sguardi si volgono a lui con muta invocazione. Sono migliaia e migliaia di petti che domandano, che sperano, che anelano da quell'essere superiore e dominante la felicità od almanco il sollievo delle loro sventure.
— E domandano l'impossibile: proruppe con qualche vivezza il Re. Che possiamo far noi? In quanti ostacoli non s'urtano le nostre migliori volontà!... Aimè! Più facilmente si può fare il male che il bene.
— Sì, è vero, domandano l'impossibile: riprese Maurilio, a cui l'ardimento e le parole venivano; perchè non è e non può essere nel potere arbitrario d'un uomo cambiare ad un tratto le condizioni onde chi si lamenta riesce infelice: questo è il fatto delle istituzioni, delle leggi e de' costumi..... Ma quell'uomo che Iddio ha posto al di sopra degli altri ha molto maggiore influsso nella sua azione per modificare quegli elementi. Quindi l'istinto popolare, aiutato dalle tradizioni monarchiche del nostro paese, il quale venne composto, plasmato, direi quasi, dall'operosità e dalla forza di volere dei duchi della Casa di V. M., non ha torto a rivolgersi con sì accese speranze e con sì sollecita aspettazione a quella Reggia onde tutto finora si mosse il progresso civile nel paese. Io stesso, quante aspirazioni e quanti voti non rivolsi al monarcato ed al monarca! E benedico la fortuna che me, umile e nullo fra i cittadini, volle porre in presenza di chi tiene in pugno la parte maggiore dei nostri destini.
Carlo Alberto guardò per un momento in silenzio quell'individuo che ad un tratto aveva acquistato tanta audacia di parola.
— Ella dunque, disse poi, è disposta a dire al monarcato ed al monarca tutto il suo pensiero?
Maurilio s'inchinò in segno d'assentimento.
— A svolgere il commento delle idee che ha espresso in queste pagine: continuò il Re battendo una mano sul manoscritto di Maurilio; ad adombrare la pratica attuazione delle sue teorie?
— Sì Maestà, se così vuole.
— Voglio.... E desidero anzi ch'Ella parlando al monarcato oblii il monarca e non veda che un uomo desioso di conoscere esattamente il pensiero di quella democrazia di cui Ella ha abbracciata la causa.
Maurilio si raccolse un momento. Quel tumulto che aveva nel capo si convertiva in un sobbollimento di idee che gli si accalcavano ad un tratto e facevano ressa nel suo cervello: colla contenzione della volontà mise ordine a quella confusione, e dopo un poco, sentita con suo gran piacere diventare lucida la mente, cominciò a parlare, e si espresse con un'eleganza, con un'eloquenza, con una chiarezza dalle quali questa povera prosa è ben lungi pur troppo.
— Sì, il male è la condizione inesorabile della esistenza umana, ma non così che sia fatalmente irrimediabile. Dal male l'umanità deve camminare e cammina verso il bene: e l'opera più santa dell'ingegno, della volontà, della potenza dell'uomo è quella che concorre a redimere da siffatta tirannia del male la nostra grande famiglia. È questo il gran lavoro della democrazia; anzi la democrazia bene intesa non è che il risultamento, l'effettuarsi negli ordini politici, sociali e civili di quella successiva miglioria delle umane condizioni, come la libertà è l'ambiente necessario, senza cui quest'opera non può approdare. Nè la democrazia va confusa colle temerità comunistiche o cogli eccessi rivoluzionari, chè questi e quelle non sono di lei essenza, anzi il più spesso ne sono la negazione, e saltan fuori sempre per riagire contro la soverchia compressione di quegli interessi che, avendo il potere e vivendo dell'uso ed abuso delle istituzioni del passato, impediscono con tenace resistenza ogni rinnovamento, ogni miglioria. Il male terreno — come tutte le cose umane — ha in sè una gran parte di relativo. Perfino nella morale, intorno a qualche punto che forse s'impone assolutamente allo spirito dell'uomo, ondeggia una quantità di precetti e di principii che noi, a seconda del minore o maggiore sviluppo acquistato dal senso morale, o vediamo, o travediamo o non vediamo. Peggio è nelle istituzioni politiche e sociali. Il meno male di ieri è il male d'oggi, quello che è un vantaggio pel presente sarà un danno o un inciampo da torsi nell'avvenire. Codeste istituzioni sono alla società come gli abiti ad una persona che cresce: a misura che il suo corpo si ingrandisce le vesti diventano impacciose e non gli si adattan più, e se si continua a portarle si strappano, e conviene assolutamente rimutarle. Ora l'umanità è una gran persona che intellettualmente e moralmente cresce sempre e si sviluppa all'indefinito. Ecco il perchè di questa continua irriquietudine dei popoli che non possono lungamente stare immobili, costretti in una forma, la quale da principio loro si confaceva, e poi a poco a poco è divenuta e diviene loro sempre più disadatta.
— Il lavoro dell'umanità, disse allora il Re col suo indefinibile sorriso, è adunque nient'altro che un'interminabile tela di Penelope.
— No: riprese con vivacità Maurilio a cui la tensione della mente aveva tolto oramai ogni timidezza: no, perchè l'umanità non cessa mai, è vero, dal suo lavoro, ma pure non distrugge nè rende inutile quello del passato, nè se la prende da capo per rifarlo. Qualche cosa rimane sempre di acquistato al patrimonio umano, e sulle costruzioni delle epoche trascorse ogni epoca nuova viene ad aggiungere la [92] sua per innalzare l'edificio della civiltà. È nè più nè meno che un'imitazione dell'opera della natura, è un necessario uniformarsi ad una legge universale di progresso che regola tutto l'universo. Anche la natura sembra aggirarsi in una vana e inconcludente ripetizione de' suoi fenomeni: la notte succede al giorno e il giorno succede alla notte, come la state al verno; ma frattanto con progresso, che a noi meschine creature limitatissime nel tempo torna d'incalcolabile lentezza, ma che forse in realtà è più rapido che non possiamo immaginare, viene scambiando la sua veste esteriore, la forma estrinseca del mondo, o, dirò meglio, dei mondi, di epoca geologica in epoca geologica, attuando un sempre diverso, e forse non è sacrilegio il dire un sempre più perfetto pensiero del Creatore. V. M. non ha bisogno ch'io le citi a rincalzo del mio argomento la storia per quanto riguarda le istituzioni umane. Dalla caduta dell'Impero romano soltanto, per quante forme non è passato il vivere civile dei popoli! Il feudalismo, poi i Comuni, poi i principati, poi le grandi monarchie di cui l'ultima espressione fu il temerario sogno di dominazione universale del Buonaparte. Sotto di lui cadde definitivamente l'antico diritto della forza ch'egli aveva voluto ristaurare valendosi della democrazia, la quale s'intromise nel mondo colla rivoluzione francese. Questa democrazia era pure già apparsa alle menti più acute di alcuni grandi uomini nei secoli precedenti: inavvertita in gran parte e non conosciuta, aveva ispirato gli scritti dei filosofi del secolo XVIII; ed anzi già aveva parlato colle utopie di qualche ingegno bizzarro che antiveniva i tempi, coll'audace spirito d'esame di Descartes, colle speculazioni di Leibnitz; aveva preparatosi il terreno colle tenebrose, in gran parte folli, ma in parte pur generose mene delle sêtte degl'illuminati e dei frammassoni; ma il suo primo penetrare nella realtà della vita, il suo passaggio nell'ordine dei fatti avvenne colla iperbolica e forse anco puerile dichiarazione dei diritti dell'uomo nella rivoluzione francese, si vestì di formola concreta nella sublime iscrizione di quella fatale repubblica: libertà, fraternità, uguaglianza. Questa formola è il riassunto fatto dal secolo progredito dello spirito del Vangelo: è la legge ed i profeti della democrazia.
«Ora l'attuarsi di questa democrazia, l'applicazione di questa formola ai fatti è l'opera che prepara il nostro secolo e che vedrà compiuta il venturo. Benemerito e benedetto da Dio e dagli uomini chi ci concorre e l'aiuta!...
S'interruppe come per prender fiato. Carlo Alberto, dall'ombra che gettava sulla sua fronte il coprilume, guardava fisamente la faccia che s'era animata, gli occhi che erano diventati brillanti del giovane plebeo. Era esso affatto nuovo cotal linguaggio a quelle orecchie di re? Certo che sì; ma forse non erano affatto nuove le idee che esprimeva. Forse nelle sue taciturne e solitarie meditazioni, vaghe forme di simili pensieri s'erano presentate alla sua mente curiosa ed inquieta, alla sua anima avida di fama, al suo spirito non salvo dall'influsso delle idee moderne. Egli era nato in quell'epoca appunto che simili principii facevano una sì violenta irruzione nel mondo antico della monarchia del privilegio e lo mandavano a catafascio; sua madre l'aveva portato in collo in mezzo alle turbe del popolo che si scuoteva al suono di quei tre motti meravigliosi ora ricordati da Maurilio: libertà, fraternità, uguaglianza, e li leggeva ad occhi larghi sulle cantonate senza pur capirli; non solamente un'ambizione di trono l'aveva spinto nel 1821 a farsi fautore d'un movimento che chiedeva al trono franchigie di vita politica e indipendenza dallo straniero. Le convinzioni leali e profonde d'un'anima generosa hanno pur sempre, quando si manifestano, un'efficacia, un fascino su chi le ode; e l'animo del re, non alieno alla nobile passione d'una fede, di una calda adesione ad un principio, non era avvezzo a sentire intorno a sè l'eloquente linguaggio d'uno spirito convinto, d'una strenua credenza. Provò per quell'audacia di parola che gli spiegava dinanzi i sogni d'una giovanile esaltazione, una strana simpatia. Fece un lieve atto che indicava avrebbe egli parlato e disse con voce contenuta, quasi sorda, ma che pur non mancava d'una certa armonia:
— Ma come avrebbe ella da tradursi in atto questa democrazia, di cui Ella mi vanta le glorie, la giustizia e la necessità? Colla libertà dei popoli; ma l'uomo è egli abbastanza progredito — ammettendo l'idea del progresso — per poter godere di questa libertà senza abusarne? Date libertà ai tristi, e se ne serviranno per far male. Ora, volendo pur anco credere con Lei che il male viene via scemando, siamo noi già in tal buona condizione che la maggioranza degli uomini non sia di tristi e di ignoranti facili a traviarsi? Diamo libertà a codestoro, e quali ne saranno gli effetti? Per venire all'applicazione d'un caso concreto, supponiamo che la Monarchia del Regno di Sardegna voglia modificare, o temperare il suo potere assoluto che ricevette dai secoli precedenti, crede Ella che i nostri popoli sieno abbastanza maturi per godere con vantaggio di politiche franchigie, di una diretta intromissione nella pubblica bisogna?
Maurilio interruppe con una vivezza che un cortigiano avrebbe trovata supremamente contraria all'etichetta.
— Maturi! maturi! Ma come si farà a decidere che un popolo è oramai maturo alle pubbliche libertà, se mai non gli si concede di fruirne. È lo esercizio delle medesime che deve maturarlo. D'altronde questo è un diritto sacrosanto dei popoli cui nulla può sospendere, e meno ancora togliere.
Il Re fece un movimento, ma il giovane non se ne accorse.
[93] — La società, sotto il rispetto degl'interessi politici, deve ai suoi membri, non solamente l'indipendenza all'estero e la sicurezza all'interno, ma deve loro i mezzi di esplicazione d'ogni loro sentimento e capacità, deve permettere lo sviluppo in tutti i sensi della personalità individuale. Ora la parte politica è ella così poca cosa perchè si possa impunemente tagliar via dall'esistenza d'un individuo che ha diritto e dovere d'essere un cittadino nella sua patria? Per sapere amar questa a dovere, bisogna prendere una parte diretta agli affari del proprio paese. Interdire al popolo la vita politica, è un chiuderlo nella stretta cerchia dei bassi godimenti e delle preoccupazioni materiali; è un corromperlo e degradarlo.
— Che dice Ella mai? esclamò il Re con qualche maggior vibrazione d'accento. Il mio Governo sarebbe corruttore e degradatore?
— Si sforza a tutto potere di non esser tale, e si trova in una contraddizione che lo fa cader nell'assurdo. Più logica l'Austria, manifestamente favorisce la mollezza e direi anzi la scostumatezza dei suoi soggetti.
— Far partecipare al Governo il popolo! ma la è una utopia. Dove si vogliono impiantare delle Costituzioni liberali si crea una finzione: si costituisce quello che si chiama un paese legale, una strana oligarchia di elettori che col vero paese ha meno rapporti e meno compartecipazione d'interessi e di pensieri di quello che non abbia la monarchia qual è ora costituita.
— Vostra Maestà ha ragione; ma quelle forme costituzionali, anche come finzione, sono una guarentigia. E codesto che cosa prova? Che le libertà politiche devono essere le più ampie possibili; e inoltre che anche essendo tali non bastano ancora per se stesse a far felice e prospero un popolo, non contengono in sè compiutamente tutta l'attuazione del pensiero della democrazia. La politica corrisponde ad una parte — una gran parte, è vero, ma che pure non basta per sè sola a formare il tutto — dei bisogni, delle aspirazioni, dell'esplicamento dell'umana natura. No, tutta la vita d'un popolo non è costretta nel cerchio di quel preteso paese legale cui costituiscono gli abbienti, aggiungiamovi pur anche gl'istrutti; no, le classi cosidette liberali non hanno in alcun modo autorità di considerarsi come la rappresentanza legittima di tutto il corpo sociale. Ci sono altri interessi diversi ed anche in opposizione ai loro, che hanno diritto di aver la propria voce e il soddisfacimento. Tutti i cittadini hanno un diritto uguale ad intervenire, sotto l'una o l'altra forma, nell'amministrazione della cosa pubblica che tutti li riguarda: e se le masse popolari trovansi momentaneamente ridotte per ignoranza ad una sorta d'incapacità politica, è obbligo di tirarle al più presto possibile fuori di quello stato d'inferiorità e metterle in grado di esercitare i loro diritti con discernimento, in luogo di confiscarglieli ingiustamente. La democrazia non vuole la libertà solamente per una o più classi, ma per tutte.
Carlo Alberto si chinò verso il suo audace interlocutore.
— Ella vuole adunque il suffragio universale? E per far capace di esercitare questi suoi diritti la plebe ignorante, Ella vorrebbe — l'ho letto nelle sue pagine — l'istruzione obbligatoria?
— Sì: rispose quasi fieramente Maurilio. Voglio tutte le libertà, salvo quella dell'ignoranza. Perchè un uomo possa essere libero bisogna che sappia quel che si voglia. La plebe deve avere coscienza di se stessa e dei suoi diritti e dei suoi bisogni, mercè l'istruzione. Ella non può accettare la tutela delle classi colte se non in quanto queste si mostrano zelanti a fare il bene di lei: non può amare un governo se non riconosce in esso la volontà e la capacità di migliorare le condizioni in cui la si trova; bisogna che ella stessa sia posta in grado di concorrere, massimamente da sè, a redimere e migliorare se medesima.
Carlo Alberto tese una mano sul tappeto verde come a richiamare maggiormente l'attenzione del suo uditore.
— Se un re, disse lentamente, si decidesse a concedere al suo popolo una costituzione rappresentativa nella quale la proprietà e l'intelligenza fossero chiamate a concorrere alla legislazione del paese, secondo il suo parere, non sarebbe neppure abbastanza per rispondere alle esigenze della democrazia?
— No: rispose arditamente il giovane plebeo.
Il Re fece un moto tra di meraviglia, tra di scontento e ritrasse indietro la persona che aveva chinata verso la tavola.
Maurilio riprese con più modesto accento:
— Quel sovrano compirebbe certo un progresso, un evidente progresso, ma non soddisfarebbe a tutti i postulati del problema, non incarnerebbe tutto il concetto della democrazia. La libertà politica è una gran cosa, ma non è la sola, e limitata a certe classi di persone lascia all'infuori una turba di scontenti che si prepara esca al fuoco della rivoluzione. Si ha bisogno di libertà di credenze eziandio, di libertà commerciale, di libertà amministrativa. È necessario effettuare anche gli altri due termini: fraternità ed uguaglianza, e per ciò occorrono modificazioni nell'assetto sociale.
— La fraternità ce l'insegna la nostra santa religione e si traduce nei fatti colle opere della beneficenza. L'uguaglianza è una cosa impossibile, perchè sarà impossibile sempre che non vi sieno ricchi e poveri, virtuosi e disonesti, laboriosi e faciniente.
— La carità, virtù sublime, non è che un rimedio empirico ai mali sociali: deve di tanto scambiarsi [94] a poco a poco il mondo che non vi sia bisogno più che uno ne abbia d'uopo e che altri l'eserciti. L'uguaglianza che vuole la democrazia non è un'uguaglianza, veramente impossibile, di condizioni materiali, ma l'uguaglianza di diritti, uguaglianza di libertà nello sviluppo di ciascuna personalità, uguaglianza d'istruzione fondamentale. Non vi ha inuguaglianza sociale perchè uno sia ricco e l'altro povero, ma perchè questo è ignorante e quello istrutto; e qualunque rivoluzione si faccia se non si comincia da questa base fondamentale, vi sarà sempre disparità fra gli uomini ed ingiustizia nei rapporti sociali, perchè colui che non sa nulla non potrà esser mai l'uguale di chi sa qualche cosa. Dare a ciascuno cognizioni sufficienti perchè possa trar profitto delle sue facoltà, regolare le proprie faccende e comprendere i veri interessi della patria, ecco la vera uguaglianza. Fra uomini condotti a tal punto la ricchezza non importa: sono tutti pari.
— Ella farebbe dunque dello Stato un insegnante universale che desse a forza l'istruzione a tutti i suoi cittadini?
— No. Lo Stato io vorrei anzi che facesse il meno possibile in ogni cosa. Lo scopo dell'ordine sociale è lo sviluppo il più completo delle facoltà dell'individuo, quindi il potere dello Stato deve necessariamente essere ristretto in limiti definiti: e quanto più cesserà l'azione di questo, tanto meglio avrà luogo l'azione dell'individuo. La formola del mondo politico antico era falsa e va compiutamente rovesciata. Non è l'individuo che sia fatto per lo Stato, ma è lo Stato che esiste per la maggiore felicità dell'individuo. Assicurare a ciascuno dei membri della società il più alto perfezionamento morale, intellettuale e fisico che permetta la sua natura, ecco la funzione dello Stato, ecco la cagione per cui gli uomini si associano. In questa bisogna dell'istruzione lo Stato, per dir meglio la legge, dovrebbe volere ad ogni modo che i cittadini fossero istrutti, ma dovrebbe in pari tempo lasciare che insegnasse chiunque volesse...
— E se s'insegna il male?
— I padri di famiglia sono essi tali da volere che i loro figli sieno allevati nel male?
— Ma sono essi giudici capaci di discernerlo questo male?
— Meglio che lo Stato. Saranno pochi fors'anco al presente gli uomini illuminati che conoscano il vero, ma saranno sempre più illuminati che gli agenti del Governo, e sopratutto sono più vicini al luogo in cui l'insegnamento s'impartisce, ai maestri ed ai discepoli, che non il governo centrale. Il giudizio di costoro aiutato dalla libertà di parola e di stampa sarà la migliore delle guarentigie.
— Le innovazioni sono sempre pericolose, qualche volta tremende; quanto meno vanno fatte poco a poco chi non voglia mettere a soqquadro tutta la società. Il passato ha pure piantato nella compage sociale le sue radici e se vogliasi svellerlo improvvisamente qual turbamento non ne accade!... Nelle innovazioni ch'Ella vagheggia, io veggo la morte dell'ordine vigente e successore il caos.
— Questo mondo non è un luogo di riposo in cui la società si possa addormentar nella quietudine. La vita è una lotta; l'umanità sta compiendo senza interruzioni un dramma indefinito. Impedite, indugiate, cercate di soffocare il moto; l'atto si conchiuderà con una catastrofe. Certo è sovente pericoloso l'innovare, ma noi siamo in tempi in cui è più pericoloso ancora il volere star fermi alle forme antiche. Il passato non ha più abbarbicato le sue radici che alla superficie; nell'intimo della compage sociale le sono tutte assecchite. Esso ebbe certo i suoi momenti di gloria e di grandezza, ma il più spesso fu cagione ai popoli di crudeli patimenti, e i popoli hanno deliberatamente fatto divorzio da lui. Sarebbe vano sperare che si possano ancora quietare in quelle viete forme. Bisogna adunque necessariamente innovare. La riforma politica non basta, ci vuole la riforma sociale o dirò meglio economica. Nella sommossa d'operai che ebbe luogo qui stesso, nella quieta e, diciamolo pure, indietrata Torino, la politica non ci entrava per nulla. Non fu nè lo spirito di nazionalità, nè l'aspirazione a franchigie costituzionali che non capiscono, a movere quella turba, fu il disagio materiale, una sofferenza economica, fu la fame. Sia pure che alcuni abbiano approfittato per altri fini dello sdegno di quegl'ignoranti, ma le cagioni di quello sdegno esistono e non saranno i cannoni nè le carceri che le toglieranno.
Qui il giovane s'interruppe, quasi dubbioso finalmente di dir troppo e di parlare con audacia soverchia: ma il Re gli fece un cenno benevolo perchè continuasse.
— Avanti, avanti: disse. Siamo appunto a quell'argomento che più mi premeva udir trattare da Lei colle sue idee.
Maurilio si passò la destra sulla fronte come per condensarvi ancora meglio i pensieri che vi pullulavano, e dopo un istante seguitò il suo discorso.
— La nuova direzione che hanno preso gli spiriti moderni, cui col loro meraviglioso istinto travedono inconsciamente anche le masse, è contraddistinta da due speciali caratteri. Uno è la soppressione di ogni privilegio, val quanto dire quella uguaglianza di cui parlavo testè, la quale nella sua formola più elevata non riconosce altra differenza fra gli uomini che quella derivante dalle virtù personali e dalla capacità provata coi servizi resi alla civile comunanza; l'altro è la libertà, val quanto dire il diritto riconosciuto a ciascuno di svolgere le proprie facoltà e di farne quell'uso che crede migliore pel vantaggio delle società e pel suo particolare. La libertà ha quindi tante forme quanti vi [95] hanno modi diversi nella capacità dell'uomo, quanti vi hanno ordini di facoltà. Havvi dunque la libertà religiosa la prima di tutte, perchè è la suprema consecrazione dell'affrancamento del pensiero; la libertà politica che si esercita sia coll'intervento de' popoli nel loro proprio governo per mezzo de' loro rappresentanti che determinino l'imposta, misurino le pubbliche spese e facciano le leggi, sia per mezzo della facoltà di esprimere e pubblicare le proprie opinioni; vi ha la libertà del Comune, per cui ciascuna delle piccole agglomerazioni d'individui che costituiscono questo primo e più naturale nucleo sociale del municipio possa provvedere a se stessa, ai proprii interessi, di cui è giudice meglio acconcia dello Stato; havvi infine la libertà del lavoro, libertà naturale, cui pur tuttavia i Governi hanno poco saggiamente impedita con regolamenti, paralizzata con monopolii e schiacciata sotto il peso delle tasse. La libertà del lavoro implica necessariamente la libertà dell'associazione industriale; questa di associarsi essendo l'uso che l'uomo è più facilmente spinto a fare della sua libertà.
«L'associazione è una forma non dirò novella, ma rinnovellata dall'attività dello spirito moderno. È una leva taumaturga in mano ai santi principii della democrazia, che muterà faccia al mondo. Associazione industriale di capitali per giungere a forza maggiore di produttività; associazione fraterna, quasi direi cristiana, di salarii per dare all'operaio la sicurezza dell'avvenire e la dignità della vita presente, il pane della vecchiaia e il miglioramento materiale delle sue condizioni; associazione del capitale e del lavoro, i due gran fattori della ricchezza nazionale, per ottenere il comune accordo, il comune vantaggio, cessando un fatale ed illogico antagonismo.
«L'associazione permette ad un'accolta d'individui, isolatamente deboli, di avere una grande potenza. L'idea di associarsi è un'idea sana, perchè proviene da uno dei sentimenti più profondi e più speciali nell'uomo; è il principio della solidarietà, principio essenzialmente umano, essenzialmente cristiano, fruttuosamente applicato e sancito. Per questo mezzo gli operai possono unirsi affine di produrre essi stessi, esercitare un'industria, una manifattura, possono provvedere al mantenimento loro con meno costo di spesa, procurarsi alloggi, vitto, istruzione a miglior mercato, possono cambiare i loro risparmi in capitali che loro dieno sempre crescente interesse. L'associazione fra capitale e lavoro, quella che fa partecipare ai benefizi del principale l'operaio, sorride al mio pensiero come la più acconcia a metter pace fra il possidente ed il proletario, a far sparire quest'ultimo, ad accrescere il benessere del lavoratore. Il povero e l'ignorante cesserebbero d'esistere, e con essi molti dei delitti cui procurano l'abbiezione dello spirito e la miseria. Quel sovrano che procurasse al suo popolo cotal pacifico rivolgimento, sarebbe più grande di Cesare e di Alessandro, meriterebbe l'entusiasmo dei presenti e dei posteri più che la sanguinosa gloria di Napoleone.
Carlo Alberto guardava sempre fiso il giovane democratico che parlava con calda eloquenza cui la nostra fredda e povera prosa non valse menomamente a ritrarre, mentre dagli occhi, quasi direi dalla fronte eziandio, uscivano fiamme. La faccia del Re rimaneva impassibile; ma in fondo in fondo alle pupille, dietro la velatura abituale del suo sguardo, si sarebbe pur detto che alcuna favilla si rifletteva di quel fuoco che divampava nell'anima e nelle parole del giovane. Alla intelligenza nobilmente ambiziosa di quel discendente di monarchi, appariva come una terra promessa di splendore e di gloria rivelatagli dall'entusiastico discorso del giovane plebeo. Egli vi si affacciava e rimaneva affascinato e spaventato in una dalla splendida visione, e sentiva un impulso di effettuare quell'apparsagli chimera, e gli pareva pregustare la dolcezza di applausi infiniti di tutto un popolo fatto felice, di tutta una società rinnovellata.
Ma dopo un poco il Re scosse la testa e disse colla sua voce senza vibrazione e col suo accento quasi melanconico:
— Ma queste sono idee generali, vaghe come le fantasie d'un sognatore che non si trovò mai alla pratica delle cose. Come farebbe Ella se avesse da tradurre in atto cotali suoi principii?
— È il fatto di poche leggi. Una che renda più libera e più mobile e quindi più accessibile che si possa la proprietà. V. M. ha già fatto molto a questo riguardo nel suo Codice civile: bisognerebbe spingersi più in là, e forse non di un solo passo. Un'altra legge che rendesse obbligatoria l'istruzione affidandola ai Comuni; e compagna a questa la legge che desse la più ampia libertà ai Comuni medesimi ed alle Provincie. La legge quindi che permettesse le associazioni; e per ultimo una politica costituzione rappresentativa.
— E se il popolo abusasse di tutte queste cose? domandò il Re fissando sempre il suo sguardo sul volto del giovane.
— Ne abuserà di certo: rispose questi francamente: finchè dall'abuso abbia appunto imparato il modo di servirsene a dovere. Si tenga un uomo per anni ed anni legato sopra una seggiola senza lasciarlo muovere, e poi lo si liberi: è certo che nei primi passi che farà camminando, egli traballerà....
— Gli sarà dunque mestieri d'un sostegno.
— Sostegno al popolo saranno l'autorità della legge e l'azione del governo che colle nostre abitudini sarà per molto tempo fin troppa.
Carlo Alberto sviò gli occhi da quelli di Maurilio, chinò la fronte nell'ombra e si tacque. Rimasero ambidue per alcuni minuti in silenzio: poscia il giovane si appoggiò con audace famigliarità alla tavola [96] ed abbassando alquanto la voce, riprese a parlare.
— E di questa guisa si redimerebbe eziandio da ogni influsso straniero l'Italia.
Il Re si scosse leggermente, sollevò un istante le palpebre, ma tornò ad abbassarle senza far motto.
— Simili riforme, continuava Maurilio, compite da V. M. nei proprii Stati, richiederebbero di necessità le uguali nelle altre regioni italiane. Per quanto si faccia a tenerle divise, le parti della Penisola sono oramai, più che materialmente, moralmente unite da un comune concetto che è un comune bisogno. Un progresso in una italica provincia si ripercote in tutte le altre, crea la necessità d'imitarlo in tutti i governi. V. M. facendo del Piemonte un modello di Stato libero e colto alla moderna, trarrà a forza con sè, dietro sè, tutti i Principi e i popoli d'Italia. E allora l'Italia avrà una forza reale e superiore ad opporre all'Austria.
A questo nome Carlo Alberto fece un moto come se volesse interrompere; ma quel moto lasciò a metà e permise il giovane continuasse.
— Non è coll'armi, almeno per ora, e se un miracoloso caso non intravviene, che l'Italia possa mai combattere il suo eterno nemico: bisogna vincerlo colla civiltà. Più delle baionette valgono in questa lotta le idee, e bisogna colla istruzione spargere e fecondare le migliori e più sane idee nel popolo italiano, affine di prepararlo e guidarlo ad una supremazia morale ed intellettuale, la quale si convertirà necessariamente anche in politica ed economica. Conviene che non c'illudiamo sulla vera condizione delle cose. Una nazione non soggiace ad un'altra, se non perchè questa seconda val più della prima intellettualmente e moralmente: e ciò sopratutto nell'evo moderno. Una volta era la sola forza materiale che dava il primato; ora la forza materiale non ha valore se non si rincalza con quella del sapere. Noi Italiani abbiamo il coraggio di dircela questa verità, soggiaciamo a dominio straniero, perchè la razza germanica, un governo rappresentante della quale ci tiene soggetti, è più innanzi di noi nella via del progresso, nell'istruzione, nel lavoro, nel sentimento del dovere, nella moralità. Facciamo di passarle innanzi noi, prepariamo delle generazioni più colte ed oneste, ed avremo procacciata, se non la nostra, la redenzione dei nostri figliuoli. Sarà forse necessaria anche allora una lotta materiale; ma avvenendo questa quando la gara nella coltura sia già vinta, sarà più facile e più sicura la vittoria.
Carlo Alberto rialzò il capo e fece vedere quel suo misterioso sorriso.
— Le sue sono idee generose, ma quanto sieno attuabili conoscerà fra qualche anno, allorchè l'età abbia di meglio maturata la sua mente. Ella è molto giovane, e del quesito così complesso non abbraccia tutte le parti, e della libertà e de' suoi effetti ha concetto non esatto e cui smentiscono le storie. La consiglio a riflettere e studiare, e valersi dei lumi e della molta esperienza di colui che la sua fortuna le volle dare per zio, l'egregio marchese di Baldissero, nostro fedele e benemerito ministro.
Maurilio avrebbe avuto mille cose da rispondere ancora: il suo concetto della libertà avrebbe voluto spiegare e confermare coll'esempio degli Stati Uniti d'America; ma l'accento del Re mostrava che il colloquio doveva finire; si alzò e stette in piedi presso la tavola in mossa rispettosa di attesa. Carlo Alberto prese lo scartafaccio del giovane che gli stava innanzi e glie lo porse.
— Eccole il suo scritto. Lo rinchiuda nel suo scrigno ed aspetti a leggerlo fra cinque o sei anni. Vedrà allora che ben diversi giudizi porterà sulle cose e sugli uomini.
Fece un cenno di capo che era un congedo; e Maurilio, preso con mano sollecita il suo quaderno, s'inchinò ed uscì, il capo confuso e il passo barcollante. Nella camera vicina ritrovò il marchese che lo attendeva. S'avviarono senza dirsi una parola, salirono nella carrozza che stava sul viale, e furono ricondotti al palazzo. Maurilio si teneva il viso nelle mani e respirava con alito affannoso. Il marchese ad un punto discretamente volle mettere il discorso sul colloquio avuto col Re.
— Non so, non so più nulla: rispose con impeto il giovane. Credo che nella mia mente s'è dileguata per un'istante la nebbia. Ora è tornata più cupa ed opaca di prima.
Il Re aveva seguìto col suo sguardo il giovane liberale che partivasi da lui. Ne' suoi occhi c'era un interessamento benevolo. Quando fu solo, s'alzò e si mise a passeggiare lentamente, con passo che pareva quasi guardingo, sul tappeto della camera.
— Gioventù, gioventù! mormorava egli fra se stesso. Credono poter da un giorno all'altro cambiar faccia al mondo. Quelle riforme sarebbero la negazione del Governo: sarebbero il suicidio della monarchia. Riforme!... E l'Austria me ne lascierebbe compire?... Ha ragione. Bisogna rendersi superiori d'animo e di mente ai Tedeschi: ed è appunto quello che Vienna non permetterà mai.
S'accostò al camino, posò il gomito alla tavola di marmo e chinando la sua alta persona, guardò il fuoco, come se in quella fiamma ed in quelle braci gli apparissero chi sa quali visioni.
E strane visioni gli si spiegavano veramente dinanzi. Vide campi biondi per messi abbondanti, e lieti villici lavorare allegramente cantando; vide officine piene del gaio tumulto del lavoro, e magazzini riboccanti di merci, e battelli a vapore sul mare, e treni di ferrovie per terra spargere in ogni dove prodotti e ricchezza; vide città e villaggi puliti, ordinati, tranquilli, e scuole piene di giovani e di bambini, e chiese piene di fedeli; vide un popolo, onesto, laborioso, agiato e in mezzo un uomo dalle sembianze modeste passare con un sorriso paterno, accompagnato dalle benedizioni di tutti: [97] ed una voce gli pronunziava all'orecchio le seguenti parole: «la gloria di Washington.»
Poi un'altra visione succedeva. Erano campi di guerra in cui dominava la strage. Tutto un popolo che sorgeva infiammato da patrio fervore ed accorreva in armi sotto una bandiera in cui splendeva una bianca croce, quella di Savoia; schiere di prodi che si precipitavano impetuosi contro le fitte falangi, contro i baluardi del nemico oppressore; una pioggia di palle, una tempesta di fuoco, un orribile avvolgimento di morte, e in mezzo a questo turbinio spaventoso un uomo più alto di tutti, a capo di tutti, che, la spada imbrandita, il coraggio negli sguardi, si slanciava dove più forte il pericolo a strappar la vittoria; e un lungo, sonorissimo plauso d'esercito e di popoli, e un'eco imperitura nelle pagine degli annali umani.
— O l'una o l'altra di queste glorie; si disse con un'interna concitazione cui non nascondeva compiutamente la freddezza abituale delle sue sembianze.
Alla sua fantasia di re guerriero, discendente da principi guerrieri, sorrideva maggiormente la gloria del guerriero. Un altro pensiero venne a farlo sorridere a quel suo modo misterioso. Oh vedere umiliata dalla sconfitta l'Austria, che lui aveva umiliato coll'oltraggio ed umiliava tuttavia col sospetto!
— O l'una o l'altra di tali glorie, ripetè; e perchè non tuttedue?
Sollevò il capo. Nell'alto specchio vide la sua pallida fronte e la sua scarna faccia, che sembravano, nell'ombra mandata dalla ventola, la faccia e la fronte d'uno spettro. Si trasse per moto istintivo indietro d'un passo, vide ad un tratto tutti gli orrori della guerra: morti e morenti, e saccheggi ed incendi e rovine. Si passò la mano sulla fronte, deviò lo sguardo dallo specchio e disse curvando il capo:
— Sia quello che vuole il nostro Signore Iddio!
Una strana notte fu quella che passò Maurilio. Non dormì e non fu sveglio; non ebbe sogni e le più matte immagini di chimere danzarono nella sua turbata fantasia. Il povero villaggio in cui era stato allevato e le sontuosità cittadine, il fienile in cui bambino aveva tremato del freddo e la camera in cui aveva parlato al Re, la modesta pulita stanzina in cui gli faceva scuola il parroco e lo studio severo del marchese, Menico e la Giovanna, Nariccia e il signor Defasi, Don Venanzio e il marchese, Francesco Benda e gli altri amici suoi, e Carlo Alberto, e il Commissario di Polizia, e Stracciaferro e Graffigna suoi antichi compagni di carcere passavano e ripassavano innanzi alla sua mente in una confusione di scene senza senso e senza nesso che s'avvicendavano, sparivano, tornavano, si interrompevano, si ripigliavano con un tormentoso brulichio del cervello.
In quel disordine predominavano, affacciandosi di quando in quando, due figure: una quella della splendida bellezza di Virginia che gettava su quel caosse il raggio d'un suo sorriso provocatore; l'altra quella di Gian-Luigi che appariva tratto tratto con un aspetto mefistofelico a far suonare in quel tumulto un ghigno di scherno. Virginia, nè pure il più pazzamente audace de' suoi sogni avuti fino allora non glie l'aveva mostrata mai di quella guisa. La gli veniva dinanzi disciolte le chiome d'oro, sparse sull'eburneo seno trasparente fra il velo di seta che le facevano quegli abbandonati capelli; la si chinava verso di lui dal piedistallo di nubi rosate sopra cui s'ergeva oltre la comune altezza dei mortali: gli lanciava nel volto, negli occhi, nel cervello, nel cuore un sorriso d'indefinibile procacia, un sorriso di seduttrice, un sorriso di donna tocca dal dito impuro d'Asmodeo, ed una voce vibrante come un acuto stromento metallico gli diceva: «Amami, amami, fammi tua.» E la vaga forma gli protendeva le braccia e coll'influsso del suo sguardo non umano lo attraeva a sè così che a lui pareva esser levato nell'aria, ed accostarsi, accostarsi la sua bocca desiosa a quella bocca di sì desiato riso: ma quando già erano per toccarsi le labbra frementi, quando già si fondevano l'una nell'altra le fiamme dei vividi sguardi, ecco una voce di rampogna tremenda gridargli all'orecchio: «Empio! è tua sorella.» Ed egli ricadeva di botto con dolorosa scossa sul suo letto, come un Titano fulminato dalla soglia dell'Olimpo alle rupi della terra; e tutto gli si scombuiava dinanzi, e perdeva ogni coscienza di pensiero per non conservar più che un senso indefinito, vago, ma profondo, d'inenarrabile dolore.
Poi nella notte tenebrosa della sua mente ricominciavano da capo a disegnarsi incertamente delle forme che via via, man mano prendevano più corpo e venivano a sfilargli dinanzi in una processione che gli rappresentava frammisti, intralciati i fatti del suo passato, le vicende mirabili del presente, e le possibili avventure del futuro. Allora veniva poco a poco architettandosi un romanzo impossibile di successi della sua vita ambiziosamente lieti; gli si veniva disegnando dinanzi un quadro di grandi e nobili venture delle quali egli era il benemerito eroe, finchè di dietro in quella tela dava del capo e la sfondava apparendo con uno scroscio di cachinno una figura ironica e beffarda, quella di Gian-Luigi, che gli gridava con accento fra la collera, la compassione e il disprezzo:
— Imbecille! Non t'accorgi tu che tutto questo è un sogno? Tu saresti un discendente di nobile prosapia, ed io sempre un miserabile bastardo d'ignoti [98] genitori? Eh via! È impossibile. Metti l'animo in pace, e torna a nasconderti nella tua nullità.
L'alba tardiva della giornata invernale rompeva le tenebre della notte, e la mente di Maurilio, stanca di questa sequela di febbrili visioni, era caduta in un torpore che non era riposo, ma che era pure una sospensione da quello strano e doloroso travaglio. Giacque inerte per alcun tempo, senza più idee, senza propositi, senza pensieri. Pur due immagini vegliavano ancora, per così dire, benchè non avvertite, in fondo a quella nebbia dell'intelligenza; e quando il giovane aprì gli occhi alla luce del giorno, che s'era fatto pieno, e tornò nella precisa cognizione di sè, le trovò ambedue chiare e spiccate, ma ora nell'essere loro naturale presentarglisi come due doveri da compiere. Bisognava fuggire Virginia, almeno per alcun tempo, finchè la forza della volontà fortemente impiegata avesse sostituito l'affetto fraterno a quella ora scellerata passione d'amore; conveniva apprendere al suo compagno d'infanzia e di sorte la ventura del suo destino. Ad ottenere il primo scopo già aveva deciso partire quella stessa mattina con Don Venanzio, e presane licenza dallo zio; per la seconda cosa da farsi determinò andare senza indugio a narrare ogni cosa a Gian-Luigi.
Questi riposava ancora nel suo letto sontuoso nella camera elegantissima del suo ricco quartiere. Maurilio insistette presso il servitore così che ottenne il suo nome fosse annunziato tuttavia al padrone, il quale diede ordine il mattiniero visitatore fosse tosto introdotto.
Marullo aprì le imposte della finestra, fece passare il giovane e si ritirò.
Gian-Luigi si sollevò alquanto della persona in mezzo al candore delle sue finissime lenzuola, puntando il gomito sui cuscini, e collo sguardo curioso più che colla parola interrogò il compagno.
— Tu a quest'ora? disse. C'è egli qualche cosa di nuovo?
Maurilio, senza parlare, fece col capo un grave cenno di sì.
— Oh, oh! esclamò Quercia, balzando sul letto, il tuo viso mi annunzia che non le sono bazzecole. Da coricato non sono capace d'ascoltar cose gravi. Aspetta un momento che salto giù e in un attimo sono preparato a darti udienza. Siedi costì presso al fuoco e prendi un sigaro, se ti piace fumare.
Il visitatore rifiutò con atto cortese, s'accostò al camino e volgendo al fuoco le spalle stette in piedi ad aspettare, mentre il suo sguardo esaminava non senza curiosità le signorili suppellettili di quella stanza. Il letto era incortinato di seta, di velluto finissimo eran ricoperte le seggiole, di Persia era il tappeto sul pavimento, di legno d'India erano i mobili intarsiati con belli ornamenti ed adorni di fregi di metallo indorato: l'orologio a pendolo era un amorino d'oro che faceva all'altalena sopra un cespuglio di rose smaltate: sopra la pietra di marmo del comodino stavano due pistole di bella fattura ricchissimamente adorne d'argento niellato.
Gian-Luigi che si aggiustava il goletto della camicia innanzi all'alta spera fino a terra dell'armadio d'un bel lavoro di scorniciature e d'intaglio, vide entro lo specchio lo sguardo che Maurilio posò e tenne fermo su quell'armi. Si volse indietro e gli disse:
— Ah ah! tu guardi que' gingilli eh? Prendili in mano ed esaminali, se ti piace questa fatta lavori. E' sono un certo arnese che diventano ormai indispensabili, chi vuol pararsi contro ogni pericolo.
— È vero: rispose sbadatamente Maurilio che poco metteva attenzione a questi discorsi indifferenti; e l'assassinio di quel povero Nariccia è cosa da mettere in apprensione qualunque.
Quercia si volse subitamente in là, e non parlò più. In pochi minuti però ebbe finito di vestirsi, e serrandosi ai lombi i cordoni di seta d'una veste da camera di lana finissima foderata di raso celeste, venne a sedersi presso il fuoco in una poltrona a sdraio.
— Eccomi a te, disse allora. Siedi o sta ritto, come ti piace, e parla... Ma forse ch'io indovino la cagione della tua venuta. Tu hai pensato di meglio alle parole ch'io ti dissi pochi giorni sono, e sei venuto a modificare la risposta che allora tu mi hai data.
Maurilio scosse lentamente la testa.
— No: rispose. Sono venuto ad apprenderti una grande e strana fortuna che mi tocca: sì grande e sì strana che non posso crederci ancora.
Si chinò verso il suo uditore e colle più brevi parole che gli fu possibile, concitatamente gli raccontò tutto quello che gli era avvenuto.
Gian-Luigi, al primo annunzio di quel fatto, aveva mandato un'esclamazione e dato un trabalzo. Poi la sua faccia aveva presa un'aria d'incredulità che assai si accostava a quella beffa ironica, cui nelle fantasie della sua notte Maurilio aveva visto all'immagine di lui; quindi, mentre l'espositore più e più veniva narrando ed adducendo le prove e certificando l'avvenuto riconoscimento, quell'espressione s'era scambiata a poco a poco in un'altra ancora meno benevola e niente soddisfatta. Lo sguardo nero di Gian-Luigi stava fisso con niquitosa intentività sulla faccia del parlatore: v'erano lampi d'odio e d'invidia, vi appariva una voglia intensa e sterminata che tutto ciò non fosse vero: ad un punto quello sguardo divenne quello con cui un derubato perseguita e rampogna il rapitore del suo bene: esso pareva voler dire: «Sciagurato! quello era mio destino, quella avrebbe dovuta essere mia ventura, e tu me l'hai rapita.»
Vedevasi che i suoi sentimenti erano sì forti che egli non pensava nemmeno più a nasconderli. Maurilio se ne sentì una pena, un'amarezza, quasi uno [99] spavento entrargli nell'anima. Finì precipitosamente il suo discorso, quasi impacciato, quasi vergognoso di sè, e chinò gli occhi poco meno che un reo dopo aver confessato la sua colpa. Gian-Luigi anche lui aveva chinato gli occhi; era divenuto pallido e ombre indefinibili venivano e andavano sulla sua bella fronte. A un tratto, senza pure una parola, s'alzò, incrociò le braccia al petto e fece due o tre giri per la stanza a capo chino. Poscia si fermò improvviso; allentò il nodo delle braccia e le lasciò cadere lungo la persona, sollevò la testa e si riscosse come per farsi cadere di dosso il peso d'un uggioso pensiero; illuminò la sua leggiadra faccia d'uno dei più graziosi suoi sorrisi.
Venne presso a Maurilio e con mossa cordialissima gli tese la destra.
— La tua felice ventura, diss'egli, lo confesso, per primo ha trovato in me un invidioso. Tutti abbiamo più o meno un demone interno che alla felicità del nostro fratello si adonta perchè la non è toccata a noi. A te dunque l'effettuazione delle più care speranze... a me nulla. Io non mi potrò dunque trar mai dall'ignobile condizione di trovatello che nascondo come una vergogna. Non verrà la fortuna ad aprirmi a due battenti la porta del mondo legale, nè varrà mai la mia attività e la mia ambizione a sfondarle con prepotente successo..... Condannato a perire, peggio che nell'oscurità, nell'ignominia.
Maurilio protestò con un'esclamazione contro la verità di queste ultime desolate parole; Luigi atteggiò le labbra ad un misterioso, amarissimo sorriso.
— Sarà così: riprese. Sii tu almeno felice! Tu hai cervello e polsi da stare in mezzo ai leoni; poichè la sorte vi ti caccia, sappiti farvi il tuo luogo e la tua parte.
Si passò la destra, che aveva tolta più fredda che un pezzo di marmo da quella di Maurilio, sulla fronte come per iscacciarne l'ultima ombra di turbamento e di mestizia.
— Che pensi tu di fare?
— Non so: rispose con voce appena da udirsi Maurilio, la cui mente pareva ad un tratto sviata a tutt'altri pensieri.
— Non sai? esclamò Gian-Luigi. Ecco sempre i soliti giuochi di quel demone dell'azzardo! I suoi favori cascano su quelli che sono impreparati a riceverli... Ah! se io fossi a luogo tuo!...
S'interruppe e tornò a fare alcuni giri per la stanza; poi venne in faccia a Maurilio che stava sempre in piedi presso il camino e gli pose le due mani sulle spalle.
— Ho sperato anch'io potere un dì rivendicare come miei un nome ed una famiglia... Pochi giorni sono mi venne in mano quasi un bandolo della matassa.....
— Come! in che modo? chiese con interesse Maurilio richiamato dagli atti del compagno a fare attenzione alle parole di lui.
Ma un ratto annuvolamento ebbe luogo sul volto di Quercia.
— Eh! appena colto il bandolo mi si è strappato di mano.... Oh chi potesse trovar modo d'andare a chiamare il suo segreto ad un cadavere!...
Maurilio che conosceva l'esistenza dello squarcio di lettera stato trovato su Gian-Luigi quando raccolto nella ruota degli esposti, gli domandò se quella fugace speranza si era annodata a quel pezzo di carta.
— Sì, rispose Quercia: ma non ti posso dire di più.
— Lasciami ancora vedere quel foglio: disse Maurilio come per una subita ispirazione.
Gian-Luigi esitò un momento, e poi andò ad uno stipo dicendo:
— Sì, vo' mostrartelo.
Gian-Luigi non trasse fuor dello stipo un solo fogliolino, ma due: e tornando presso Maurilio cominciò a porgergliene uno. Era quello trovatogli nelle fascie: la metà d'una lettera di poche righe stracciata per lo lungo. Le parole che vi si leggevano non presentavano senso veruno, nè contenevano alcun nome od altra indicazione che valesse a far congetturare in modo anche lontano d'onde e da chi provenisse quello scritto: si vedeva che appositamente era stato scelto quel biglietto indifferentissimo perchè chi lo avesse in mano di quanti non ne conoscessero la calligrafia, non potesse ricavarne il menomo indizio di chi avesse potuto esserne l'autore. Però parecchi squarci di frase avevano colpito Gian-Luigi, ora che aveva riletto e riesaminato le cento volte quel pezzo di carta dopo che gli era capitato in mano quell'altra letterina della medesima scrittura che trovavasi nello scrigno di Nariccia. Capivasi che quel bigliettino lacerato era stato scritto per dar commissioni frettolose e concise a qualcheduno; ed a quelle parole che prima non avevano significato, tenendo presente quell'altro bigliettino, se ne poteva ora facilmente attribuir uno.
Nella carta lacerata che era la metà di destra del fogliolino si leggeva:
-all'ora che v'ho già indi-
-zione perchè nulla trapeli
-il mio indirizzo e voi tosto
-qui dopo la nostra partenza.
-Quanto alle somme deposita-
-scritto, rimangano presso di voi
-cisione.
Nel biglietto trovato appo Nariccia, leggevasi:
«Essa si è finalmente decisa. Lo stato in cui si trova non ammetteva più indugi. Partiremo domani. Preparatemi una quindicina di mila lire; per ora mi bastano; il resto delle somme lascio ancora presso di voi, e vi prego di ritenerle alle medesime condizioni: chè per l'avvenire poi...»
E qui era interrotto, perchè la fiamma aveva divorato il resto.
[100] Era evidente una correlazione fra quei due biglietti, e il cenno di somme depositate presso colui al quale erano scritti e l'uno e l'altro, indicava che erano indirizzati alla medesima persona. Ora questa persona non poteva essere altri, a senno di Gian-Luigi, che Nariccia, presso il quale la seconda di tali lettere era stata ritrovata. Nariccia adunque era in grado di sapere il segreto della nascita di quel bambino al quale, esponendolo, era stata posta come contrassegno di riconoscimento la lettera stracciata: ed egli stesso, Gian-Luigi, quel labbro che poteva rivelargli il suo destino aveva reso mutolo per sempre; imperocchè, informatosi per vie indirette, ma con molta premura, dello stato della sua vittima, l'assassino aveva appreso che perduta aveva con ogni movibilità la facoltà di parlare, e che il medico aveva dichiarato impossibile potesse riacquistarla durante que' pochi giorni che sarebbero rimasti da vivere all'assassinato. Il medichino trovavasi quindi in una strana condizione. Suo interesse immediato era che l'usuraio morisse mutolo e presto: ma il pensare che seco egli portasse il mistero del suo essere eragli pure tormentoso pensiero. Oh! s'egli avesse potuto entrare solo in quella camera dove il vecchio giaceva, richiamarlo un istante alla pienezza delle sue facoltà, strappargli il suo segreto, le prove che forse egli ne aveva, e poi ripiombarlo nell'ombre della morte in cui s'affondava a poco a poco!...
Maurilio esaminò attentamente quel foglio lacero che più volte aveva già visto ancor egli e lo confrontò con quel secondo che Gian-Luigi gli porse eziandio di poi, ed egli pure ne conchiuse ciò che già aveva conchiuso Gian-Luigi medesimo: che quelle due scritture erano state vergate dalla stessa mano e che le erano indirizzate alla medesima persona.
— Io dunque non mi sbaglio? domandò Gian-Luigi, che desiderava ardentemente vedere le sue indicazioni confermate da un osservatore indifferente alla questione, e non facile perciò ad essere illuso dal desiderio: questi scritti sono d'un medesimo autore, ed hanno relazione alla medesima bisogna...
— Certo che sì.... Dove hai tu preso questa seconda lettera?
Quercia tolse vivamente di mano al compagno l'uno e l'altro foglio e rispose asciuttamente:
— Questo non te lo posso dire.... È una trovata che ad ogni modo mi ha da essere inutile.... Si socchiuse un momento l'uscio del mistero, e poi mi fu serrato sul muso inesorabilmente e spietatamente per sempre.
Andò a riporre i due fogli nello stipo, che chiuse accuratamente, e tornò presso Maurilio.
— Tu dunque abiti ora come casa tua il palazzo dei Baldissero?
Accompagnò queste parole con un sospiro, che, se non era d'invidia, era l'espressione d'un intenso desiderio.
Maurilio rispose con un altro sospiro, che era quasi un soffocato gemito di dolore.
— Non ancora... Parto oggi stesso pel nostro villaggio con Don Venanzio, e starò colà non so quanto, forse pochi giorni, forse mesi.
Gian-Luigi guardò Maurilio negli occhi di una strana maniera, come se volesse penetrargli nell'anima.
— Sei un essere originale tu!... Che vuoi andare a fare colaggiù?... Mentre ti si apre a larghi battenti la porta del palazzo incantato dove t'aspettano gli splendori della vita, tu scappi a rintanarti nello squallido tugurio che non ti ricorda se non privazioni, stenti e miseria. Tu hai conservato amore a quello sciagurato paese in cui vivono più sciagurati esseri in sciaguratissime condizioni! È un mistero psicologico che non arrivo a spiegarmi. Per me quella terra, quelle miserabili casipole, quelle desolate campagne non rappresentano che una somma di rabbie, di vergogne, d'affanni. Odio tutto questo, come odio le mie condizioni.
Pose di nuovo una mano sulla spalla del suo compagno.
— Ma tu hai pure un'ambizione che cova sotto quel tuo vasto cranio bernoccoluto... Quale? Avrai tu penetrato nell'intimo della mia anima, senza che io abbia potuto leggere pur una parola nel libro chiuso della tua? Che cerchi tu nella vita? Che pensi? Che tenti? Ora che la sorte mette a tua disposizione mezzi efficaci e potenti, che opera ti vuoi tu imporre, a qual fine usarli, verso qual meta intendi camminare?
Maurilio si sottrasse al tocco della mano di Gian-Luigi, se ne discostò di alcuni passi ed affondando nelle sue manaccie grossolane la sua testa dalle irte chiome, esclamò con una specie di sgomento:
— Non so..... non so nulla di me..... Sono ore tremende queste mie, in cui mi affanno a cercar me stesso... e non mi trovo.
In questa il colloquio dei due giovani fu interrotto dall'arrivo, come già abbiam visto, del signor Defasi e di Andrea, e pochi minuti dopo Gian-Luigi, acconsentendo alla preghiera fattagli dai due nuovi venuti, usciva con loro per tentar di ricuperare il cadavere di Paolina, mentre Maurilio rientrava nel palazzo Baldissero, donde poco dopo, senza aver rivisto altri che il marchese, partivasi con Don Venanzio alla volta del villaggio. Andremo a raggiungervelo fra poco: per ora teniam dietro, se vi piace, allo sciagurato Gian-Luigi, la cui buona stella sta per tramontare, e di cui vengono a precipitare la sorte fatali circostanze ed inattesi avvenimenti.
Parlando egli a chi si doveva per ottenere facoltà di ritirare dal gabinetto anatomico il corpo della Paolina, Quercia udì da quel medico esclamare, poichè la chiesta licenza fu accordata:
[101] — Ah! v'è da ier sera nella griglia[1] un bellissimo soggetto, che potrebbe vantaggiosamente rimpiazzare questo che le abbandoniamo.
Gian-Luigi, senza pur saperne il perchè, provò una scossa, e domandò con istrano interesse:
— Una disgrazia? Una morte accidentale?
— Pare un suicidio. Un'annegata che fu ieri pescata nel Po.
— Una donna?
— Sì, giovane... e direi fanciulla, se non la si trovasse in istato interessante.
Per quanto poco facile il medichino fosse a commuoversi, il sangue gli diede un rimescolo: ma aveva su di sè tanta forza da non lasciar nulla apparire.
— E non fu conosciuta? domandò egli sbadatamente.
— No... Almeno finora, a quanto io sappia.
— Bella? chiese ancora Gian-Luigi senza guardare il suo interlocutore.
— Bellissima. Delle chiome d'ebano, delle fattezze scultorie, un corpo fatto a meraviglia... Fui chiamato io ad esaminarla per farne l'accertamento legale della morte; ne ho già vedute di molte io donne, e morte e vive, ma le dico in verità che di così ben fatte m'avvenne raro o non mai di trovarne.
— E la fu trovata nel Po?
— Sì, impigliata nella diga del canale Michelotti. Eh uno dei soliti romanzi a tristo fine: una povera giovane sedotta di certo e abbandonata dal suo seduttore. Questa razza di birboni, in simili casi, dovrebbero essi portar la pena dell'omicidio e dell'infanticidio.
Quercia voltò il discorso, e poco stante tolse congedo; ma quando ebbe tutto provveduto quello che occorreva per l'interesse di Andrea, una tremenda curiosità, che lo aveva preso di botto alle parole del medico e non lo aveva lasciato più, lo trasse suo malgrado verso quel luogo funesto ove si vedeva esposto il cadavere dell'infelice. Voleva vedere quell'annegata e temeva. Entrò nel vasto cortile del palazzo municipale, che allora chiamavasi Corte del burro, e dove in quel tempo aveva luogo quel tristo spettacolo, con una lentezza prodotta dal contrasto di due forze che in lui si combattevano: un'attrazione ed una ripugnanza, penose ambedue; si venne accostando adagio al folto capannello di gente che si serrava innanzi al cancello di ferro, dietro il quale, in una specie di strombatura profonda circa un metro, sopra una tavola di costruzione laterizia giaceva lungo e disteso il cadavere.
Da principio non potè veder nulla, chè la ressa della gente affollata impediva di penetrare al suo sguardo: ma udì con un'amara irritazione i commenti dei curiosi che gli stavano davanti.
— Che bel tôcco di ragazza! Guarda che sopracciglia!
— E che aria fiera pur da morta!
— Altro che fiera! La par che minacci.
— Ha dovuto morire mandando mille accidenti a qualcheduno.
— La conosci tu?
— Io no.
— Neppur io.
— A me la non mi pare una figura affatto nuova, ma non saprei dire dove l'abbia vista.
— Madonna Santa della Consolata! Così giovane e così bella, e fare una simil fine. Che cos'è di noi se il Signore ci toglie di capo la sua santa mano!
Qualcheduno finalmente di quelli che erano in prima fila si mosse e partì: avvenne un movimento generale di tutta quella piccola massa di gente, e Gian-Luigi potè profittarne per ispingersi avanti. Giunse quasi a toccare il cancello di ferro, fra il capo di due altri curiosi potè insinuarsi il suo sguardo. Era assai tempo che una emozione come quella che sentì in quel punto non aveva scossi i suoi nervi d'acciaio. Vide il cadavere giacente della donna. La riconobbe di subito, e non c'era da esitare, tanto n'erano poco alterati i tratti. Era Ester.
Ella giaceva come persona addormentata, il capo volto un poco dalla parte degli spettatori. Le sue treccie disciolte, gravi per l'acqua ond'erano ancora impregnate, le cadevano sul petto: giallognolo era il pallore della sua carnagione bruna, sì che l'avreste detta una statua d'avorio ingiallita dal tempo. I suoi lineamenti avevano in realtà una severa espressione che non era di collera ma di potente rampogna, d'inesorabile accusa. Era contro il destino, era contro la malvagità degli uomini ond'era stata tratta a quel passo crudele, che s'era ribellato, adontato l'ultimo pensiero della morente sì da imprimere sul volto di lei un tal segno d'implacabile rancore? Gian-Luigi sapeva che cosa crederne; e in faccia a quel cadavere provò un turbamento, qual forse non aveva ancora provato mai, egli che aveva soggiogata al suo perfido volere ogni sensibilità dell'anima. Sentì quasi un'emozione di paura, gli parve che quelle palpebre abbassate e circondate da un livido cerchio dovessero sollevarsi e lanciargli di mezzo alle lunghe ciglia uno sguardo di tremendo sdegno; gli parve che, alla sua presenza, al suo accostarsi, quel cadavere avrebbe dovuto riscuotersi e da quelle labbra violacee uscire una terribil parola.
Qual è mai questo strano effetto della morte che sopra ogni individuo pone un suggello di solenne autorità onde l'animo anche dei più arditi riman sovraccolto? Se quell'audace giovane si fosse trovato innanzi alla persona viva di quella infelice, ch'egli [102] aveva empiamente sacrificata alla sua scellerata passione, non la menoma soggezione, non il menomo turbamento avrebbe pur tocco il suo animo; avrebbe egli freddamente ascoltato ogni rimprovero, sarebbe rimasto incommosso ad ogni lamento, ad ogni lagrima, ad ogni più disperata parola, ad ogni più disperata esplosione di dolore, di furore, di minaccia, avrebbe risposto col silenzio, o colla collera, o collo scherno fors'anco. Invece, innanzi a quel cadavere la sua anima quasi tremava, e il suo sguardo rifuggiva da quella vista, poco meno che timoroso. Non era quello un implicito riconoscimento che oltre quella materia ora inanimata sopravviveva pure ancora alcuna cosa di quella Ester che lo aveva amato, che s'era sacrificata per lui, che in causa di lui era stata tratta a quel fine fatale? E questo non so che d'immateriale, di cui il seduttore non aveva avuto la menoma soggezione durante la sua vita corporea, ora, sciolto dalla sua servitù al corpo, aveva acquistato un'autorità, una maggioranza che ne imponeva a colui che aveva perduto quell'anima, colui che il destino, una giustizia superiore forse aveva tratto innanzi a quel cadavere. Gian-Luigi subiva questa influenza per istinto, senza rendersene conto; egli il quale non credeva che alla materia, egli che, allevato da un ateo materialista, non vedeva nell'universo che leggi materiali, eterne, allo infuori d'ogni volontà e d'ogni intelligenza di qualsiasi ente superiore, non vedeva nell'uomo che un organismo cui scioglie e distrugge per sempre la morte.
Un popolano che stava in prima fila de' curiosi, presso il cancello di ferro, sentì il fremito d'una delle persone che il premer della folla di dietro gli pigiava addosso; si volse, vide la faccia autorevole, le sopracciglia aggrottate, lo sguardo imponente di un uomo signorilmente vestito, e per quella deferenza che è insita in chi si sa umile, povero e nullo, e subisce l'influsso delle apparenze del potere e della ricchezza, si trasse in là e lasciò rispettosamente luogo. Il medichino si trovò egli a contatto del cancello di ferro, e ne abbrancò colla sua mano elegantemente inguantata una sbarra.
— È dessa, è proprio dessa: si diceva egli con una contrarietà quasi rabbiosa della propria impotenza. La è morta e non c'è rimedio... Non v'è Dio nè diavolo che potrebbe far rivivere quelle forme, che potrebbe riaggiustare quella macchina infranta... Disgraziata!... Io avrei pur trovato modo di salvarla!
Egli l'avrebbe fatta sottrarsi in qualche riposto luogo all'ira del padre, al disprezzo della gente; colà quella passione che nell'infelice non era ancora estinta per lui avrebbe conservato ai desiderii della sua ardente natura quella giovanile bellezza pur tanta. Qualche cosa come un desiderio, che era un'empietà innanzi alla rigidezza di quel cadavere, sorse nel pensiero scellerato di quell'uomo reo di ogni colpa. La memoria nella sua fantasia venne a dare alle forme di quella povera morta le sembianze della vita rigogliosa, con tutta l'ardenza del sangue giovanile che aveva conosciuta in lei. Rivide quelle braccia, ora abbandonate, levarsi e con nodo tenace e soavissimo avvincergli il collo; rivide quel candido petto anelante premersi contro il suo da fargliene sentire il palpito; rivide lo sguardo pieno di fiamme; quasi risentì sulla bocca il bacio ardente di quelle labbra ora allividite e contratte dall'agonia suprema della morte.
In quel momento, per rifare di quella morta l'Ester che era stata poco tempo innanzi, Gian-Luigi avrebbe dato non so che. Strinse quasi convulsamente colle mani le barre di ferro a cui si appoggiava, e chinò il capo verso il cadavere, quasi volesse, quasi sperasse potere, col suo, soffiare in esso di nuovo l'alito della vita; ma ad un tratto, come un ghigno mefistofelico, guizzò tra i suoi pensieri.
— Stolto: si disse; mi sarei sopraccaricato d'un imbarazzo che mi avrebbe impacciato nelle mie faccende fin troppo, e che non avrebbe tardato a non darmi più che fastidii e noia: la poverina, per mio vantaggio, fu bene ispirata. I morti non tornano più, non imbarazzano più nessuno, non fan più male di sorta.
Egli si sbagliava: la morte d'Ester doveva concorrere ancor essa alla perdita di lui, oramai decisa dalla giustizia di Dio.
Mentre Gian-Luigi, tornato in tutta l'empia freddezza del suo spirito, fattosi quel ragionamento per cui conchiudeva che la morte di Ester era una sua ventura, stava per ritirarsi di là, avvenne un movimento nella folla, che gl'impedì di aprirvisi il passo.
Un povero vecchio, vestito di miserissimi panni, faceva ogni sforzo per ispingersi innanzi verso la cancellata, e siccome deboli aveva le forze, e un tremito ne scuoteva le membra, così da non poter avanzare in nessun modo in mezzo alla folla, egli si era messo a supplicare con voce piagnucolosa e rotta dall'affanno:
— Per carità, mi lascino passare... Mi dicono che la è una giovane... Io ho perduta mia figlia... Mi lascino vedere se la è mia figlia.
Il medichino riconobbe la voce fioca e l'accento nasale di Macobaro. Tanto più avrebbe voluto affrettarsi a partire; ma il movimento fatto dagli astanti per dar passo al vecchio, e poi quello di curioso interesse che li faceva restringersi intorno al padre della morta, per assistere alla scena che stava per aver luogo, impedirono affatto a Gian-Luigi di allontanarsi. Il rigattiere ebreo giunse alla cancellata, e s'aggrappò ancor egli colle scarne mani tremanti alle sbarre di ferro. I suoi luridi panni frusti e sporchi toccavano l'elegante pastrano di Gian-Luigi; ma egli non vedeva nessuno, non poteva [103] veder null'altro che quel cadavere di donna che gli stava disteso dinanzi.
Lo guardò per un poco, fiso, in silenzio, immobile, senza trarre quasi neppure il fiato. Pareva che stentasse a riconoscerlo, che non volesse prestar fede all'evidenza, che credesse quella non altro che un'illusione ed aspettasse vedersela dileguata. Ma ad un tratto mandò un grido che si poteva dire un urlo.
— Mia figlia! Mia figlia! esclamò egli tendendo le braccia traverso le sbarre, come se la volesse afferrare, e prendersela e seco portarsela: è mia figlia.
Ogni traccia di quell'odio che ultimamente aveva improvviso concepito per la colpevole, ogni sdegno contro di lei, sparì di botto nel misero padre, per lasciar rivivere in tutta la sua forza quel primitivo amore ch'egli sentiva per essa, quasi uguale a quello che aveva pel suo tesoro. Ricordò ancor egli di colpo, e tutto ad un tratto, il passato di quella infelice: quando era bambina, quando accoglieva con un sì bel sorriso il padre al suo ritorno in casa, quando gli dava il bacio della sera ed il saluto del mattino; quando vivevano sì lietamente in quell'oscuro quartieretto che la bellezza di lei illuminava. E tutto ciò era cambiato poichè un infame era venuto a cacciarsi in mezzo a loro. Ricordò la mestizia sopraggiunta in Ester; poi tutte le scene tremende che erano succedute; per ultimo la tremenda maledizione con cui egli aveva flagellata la figliuola, quando il caso glie l'aveva fatta ritrovare fuggitiva nell'oscurità vespertina della strada. Si percotè coi pugni chiusi la fronte; si strappò i capelli grigiastri che gli pendevano alle tempia.
— Eterno Iddio! esclamò: perchè hai tu dato ascolto alla maledizione d'un padre?... Disgraziato! Disgraziato!... Sono io che l'ho uccisa... Io, ed un altro!... Un altro! soggiunse con accento d'odio infinito levando al cielo i pugni stretti e gli sguardi infiammati.
Un istinto parve avvertirlo in quella che l'altro di cui parlava era lì, al suo fianco, sì da toccarsi, e che Dio li aveva voluti appunto raccogliere insieme innanzi al cadavere della loro vittima. Si volse di scatto e i suoi occhi che brillavano ferocemente in fondo alle sue occhiaie infossate, s'incontrarono nelle pupille fieramente corrusche di Gian-Luigi.
Macobaro mandò un'esclamazione gutturale che pareva un grido belluino, e sulla sua faccia cinerina e macilenta corse un lampo come di gioia feroce. Afferrò con una delle sue mani fatte ad artigli, dalle dita lunghe, scarne, nere, unghiate, il braccio di Quercia e disse:
— Ah sei qui tu?... Vedi, vedi che hai fatto di mia figlia... Rendimi la mia figliuola, scellerato!
Una subita e viva emozione corse il cerchio degli spettatori. Gian-Luigi non si scompose: con un moto ratto e violento del suo braccio robusto rigettò da sè il vecchio ebreo, e prese una mossa come di difesa. Intorno a lui si fece un po' di largo e tutti gli occhi erano conversi su questi due personaggi che accennavano rappresentare una scena interessante di dramma innanzi a quel cadavere di donna.
Quercia girò intorno i suoi occhi che facevano chinare innanzi a sè tutti gli altri.
— Quest'uomo, disse pacatamente, od è pazzo, tratto fuor di senno dal dolore, od è illuso da una strana rassomiglianza... Io non lo conosco.
Macobaro diede un balzo, come se volesse lanciarsi addosso al giovane elegante: ma questi lo prevenne, gli pose una mano sulla spalla, e guardandolo in certo modo speciale, come il domatore di fiere guarda il tigre che vuol ribellarglisi, soggiunse lentamente:
— Io non vi conosco brav'uomo. Guardatemi bene, e vedrete che siete vittima d'un errore.
Mai gli occhi neri del medichino non avevano avuta tanta efficacia, tanta imponenza, tanta autorità. Il vecchio avrebbe voluto resistere a quell'influsso, ma non potè: la forza di quella individualità più potente, l'abitudine di cedere ad essa, la soggezione di quell'autorità che il medichino aveva saputo acquistarsi e sapeva difendere e mantenere, ebbero ancora la loro efficacia in Macobaro; curvò il capo innanzi al suo superiore e sottrasse le sue pupille dallo sguardo di quelle di lui.
— Mi conoscete voi dunque? domandò Quercia.
— No, no, balbettò il padre di Ester, guardando sempre per terra. Perdoni ad un povero vecchio che non sa più quel che si faccia.
Gian-Luigi fece un gesto da eroe che mostra la sua clemenza, e s'allontanò lentamente. Jacob non rivolse più verso di lui nemmeno uno sguardo; si voltò verso il cadavere della figlia, e tendendo le due braccia traverso le sbarre, le disse piano piano che niuno potesse udire:
— Sta, sta tranquilla che ti vendicherò... Ci vendicherò tuttedue.
Poscia si levò di là ed allontanossi con passo barcollante. Pochi minuti dopo egli era in istretto colloquio con Barnaba, la cui ferita era in via di guarigione così bene che già poteva egli sedersi sul letto.
Gian-Luigi s'allontanava, pieno l'animo d'una malavoglia, d'un malessere, d'un'irritazione da non dirsi. Sentiva, per così dire, sfuggirgli sempre più di pugno il filo guidatore della sua sorte; sentiva accrescersi quella stanchezza dell'iniqua lotta, quel fastidio de' casi suoi che ho già accennato venire assalendo a volta a volta l'animo suo. Ebbe egli appena attraversata la piazza municipale e fatto pochi passi per la via che mena a piazza Castello, quando gli si fece innanzi domandando l'elemosina [104] un pezzente tutto rattrappito delle membra. Il primo atto del giovane, assorto ne' suoi poco piacevoli pensieri, fu un atto d'impazienza; ma il mendicante fece rapidamente un certo gesto che destò l'attenzione del medichino. Questi si fermò, lo guardò bene, rispose ratto con un certo ammicco degli occhi, e tratta fuor di tasca la borsa ne prese una moneta e la fece scivolare nella mano del povero. In questo medesimo atto il mendico fece passare nella mano che gli porgeva il denaro un piccolo fogliolino di carta finissima, ripiegato e compresso da tenere il meno spazio possibile.
Quercia serrò in pugno quella carta, senza fare il menomo cenno, come se nulla fosse, e continuò la sua strada; ma dopo un poco affrettò maggiormente il passo per giungere a casa sua e leggere il bigliettino portogli in quella guisa, che ben poteva presumere trattare di cose di molta premura ed interesse e cui non voleva neppur guardare nella pubblica strada.
Quando fu chiuso nella sua camera, Gian-Luigi aprì con sollecitudine che quasi era inquieta il finissimo fogliolino. V'erano scritte poche parole e con carattere contraffatto: ma un certo segno convenzionale avvertì subito Gian-Luigi da chi fosse scritto e mandato. La cocca aveva affigliati, più o meno addentro ne' suoi segreti, in ogni parte; e chi scriveva era impiegato, e non degli ultimi, negli uffici medesimi della Polizia. Il biglietto diceva:
«Guardatevi! Si comincia aver sospetti. Prendete ogni precauzione. Si parla di certi diamanti. Nel bavero trovato in mano a N. v'è una cifra. Voi sapete che cosa ciò voglia dire, e che importanza darci.»
Gian-Luigi lesse due e tre volte queste incoerenti parole e se le stampò nella memoria; poi stracciò a minutissimi pezzi quel foglietto, e come se non bastasse, lo gettò nel fuoco: stette a guardarlo mentre in un attimo la fiamma lo distruggeva, e quindi incrociate le braccia al petto, si mise ad andare su e giù per la stanza.
— Una cifra nel bavero?... Qual contrarietà!... Chi avrebbe mai pensato a codesto?... Quel mantello era di Benda: il mantello è sparito e non lo troveranno mai... Ma si può appurare che quella cifra è la sua, che quello squarcio appartiene ad un suo mantello, e che questo fu imprestato a me, il quale non l'ho più restituito... Bisogna rimediare a ciò.
Stette un poco meditabondo; poi sollevò il capo con risoluzione.
— Non c'è che un modo di aggiustarla. Quel mantello è stato derubato a me stesso quella notte medesima sul viale... E il rapitore, che io descriverò a meraviglia, sarà Stracciaferro... a lui poi il non lasciarsi pigliare. Ciò quanto al mantello. Ma e i diamanti? Che cosa vuol significare il cenno intorno ai diamanti? «Si parla di certi diamanti.» Quali? Quelli che ho trovati nello scrigno sono così bene riposti che l'occhio della giustizia non li potrà veder mai; quelli di Candida sono a lei restituiti, e nissuno de' sapere che essi furono un momento nelle mani di quell'usuraio...
S'interruppe, assalito dal ricordo di un fatto che eragli sfuggito compiutamente dalla memoria: Nariccia quando si trattò dell'imprestito su pegno di quei gioielli, aveva questi recati un momento di là per farneli forse esaminare, come Gian-Luigi medesimo aveva supposto, da alcun intelligente della materia che ci avesse. Che questo tale avesse conosciuto quali e di chi erano quei diamanti? La cosa prima di tutto pareva a lui assai improbabile, e poi ancorchè fosse, quali conseguenze a suo danno se ne potrebbero tirare? Come provare che egli fosse stato a recare dall'usuraio quei diamanti? e se dati in pegno, non si erano potuti riscattar poi pagando il debito? Ad ogni modo sarebbe forse stato meglio parlarne subito colla contessa, combinare con lei, farle credere ciò che occorreva, e consigliarle in ogni caso le risposte che convenivano. Egli era sul punto di uscire per recarsi subito da lei, quando i suoi occhi caddero sopra un bigliettino che stava sulla tavola di marmo del cassettone, e cui gli aveva impedito di vedere a tutta prima il turbamento col quale era entrato nella stanza. Lo prese sollecitamente, e conobbe di botto dalla scrittura, dalla carta, dal suggello, dal profumo speciale, da qual mano venisse. Era appunto di Candida; e Gian-Luigi lo lesse in tutta fretta.
«Ho bisogno urgente di parlarvi» gli scriveva essa secondo il solito, in francese; «all'una aspettatemi nella vostra casetta sul viale.»
Siccome non mancava di molto all'ora posta dalla contessa, Gian-Luigi s'avviò tosto verso quel suo misterioso ridotto, in cui siamo già penetrati con lui altra volta.
La contessa non si fece lungamente aspettare. Levando il fitto velo che gli copriva la faccia mostrò al suo amante un aspetto turbato in cui apparivano insieme contrarietà, collera, amarezza.
— Che è ciò? signore? cominciò ella senz'altro con voce vibrante. A chi andate voi confidando le cose più arcane che debbono rimanere tra di noi?
— Contessa! interruppe il giovane coll'accento risentito di persona fieramente calunniata da tale cui non vuole rispondere oltraggio per oltraggio. Voi mi fate un'iniqua accusa che non avreste mai dovuto pure accennare.
— Voi non avreste dovuto meritarvela.
— Non perdiamo il tempo in garriti di parole. A che proposito mi rivolgete voi quest'accusa? quali prove credete di averne?
— Mio marito seppe — sa — che i miei diamanti furono in pegno presso l'usuraio che venne l'altro dì assassinato e sa che a portarglieli siete stato voi.
[105] Quercia non potè reprimere un contrarsi dei lineamenti che esprimeva quanto questa novella gli dispiacesse.
— Ne siete voi certa?
— Certissima. Me lo disse egli stesso testè... Ah! vedete anche voi che non potete negare....
Gian-Luigi prese le due mani della contessa, e stringendole con dolce pressione, quasi supplichevole, soggiunse:
— No, Candida, io non ci ho colpa: è una maledetta fatalità che mi perseguita, che ci perseguita tuttedue, e che può avere le più tristi conseguenze, se non ci andiamo tosto al riparo.... Ti spiegherò tutto di poi, caro amor mio; ma essenzialmente gli è per la tua tranquillità, per te, che mi preoccupo.... Contami tutto quello che avvenne fra te e tuo marito a questo proposito.
La contessa raccontò quel che erale capitato a tal riguardo, ma noi prendendo da più alto le mosse esporremo assai più di quanto ella sapesse e potesse apprendere al suo amante.
Ed ecco di che modo s'eran passate le cose.
Il signor X, gioielliere, uno dei principali, per non dire il principale, di Torino in quel tempo, aveva recato, se ben vi ricorda, a Nariccia, pochi giorni prima che succedesse l'assassinio di costui, una certa quantità di preziosi oggetti del suo commercio, ed ottenutone ancor egli una somma in prestito lasciandoli in pegno all'usuraio. Figuratevi dunque come egli rimanesse allorquando quella mattina che si sparse per la città la novella dell'orrendo delitto, ebbe udito che tutta era stata svaligiata d'ogni cosa di valore la casa dell'assassinato! Corse immantinente dal Commissario di Polizia a far la sua denunzia e la sua deposizione, dando la lista distinta e divisata un per uno di tutti gli oggetti ch'egli aveva consegnati a Nariccia e che erano caduti nel furto. Il valore complessivo di quei gioielli saliva a qualche diecina di mille lire: e il signor Tofi, quando ebbe udito l'orafo specificare siffatto valore, esclamò con quella sua ruvidezza che pareva sempre un accento collerico:
— I mariuoli hanno fatto un bel colpo!... L'altro dì hanno arraffato i capitali del banchiere Bancone, ieri il tesoro dell'usuraio Nariccia: c'è da farsi ricchi in più a queste due sole imprese.... Sarebbe un bel mestiere.... se non ci fossimo noi a coglierli.... E li coglieremo, glie lo prometto io!... Nel furto Nariccia gli scellerati avranno portato via più di cento mila lire.
— Che la dice? esclamò il signor X, a cui le parole sfuggirono senza pensarci, e che, pur pensandoci, le avrebbe fors'anche dette lo stesso. Ma se Nariccia aveva tuttavia in suo potere i diamanti di casa Langosco, e tutto mi induce a credere di sì, questi solamente furono pei ladri un bottino di centinaia di mila lire.
Il signor Tofi volse tutto d'un pezzo la sua faccia aggrottata sul cravattone duro verso il gioielliere:
— Come! I diamanti di casa Langosco erano in potere di quell'usuraio?
— Sì, signor Commissario; ce li vidi io stesso ch'egli me li diede ad esaminare, consultandomi sul valore. E ciò accadeva solamente tre giorni fa.
— Oh, oh! Questo sarebbe elemento da tenerne calcolo. Gli assassini avrebbero saputo che quei diamanti erano colà... Ma come colà?... In pegno forse?... Eh, eh! non è impossibile.... Bisognerà vedere.... Ad ogni modo finora la Casa di Staffarda non fece richiamo nessuno, non porse denunzia di sorta; e trattandosi di somma di tanto valore, non mi pare che si vorrebbe star zitti.
Il Commissario congedò il gioielliere, ed occupato com'era in quel dì da un subbisso di faccende, per la rivolta sopratutto degli operai avvenuta la sera innanzi, dimenticò, o per dir meglio, trascurò di dare l'importanza che avrebbe data altre volte a quelle parole dell'orafo riguardo i diamanti della nobil famiglia Langosco. Tutta la giornata passò senza che denuncia alcuna venisse; dalle informazioni che fece prendere, il Commissario seppe che nel palazzo di Staffarda nulla era avvenuto onde si potesse supporre che tal danno era capitato a quella casa; la sera inoltre gli fu presto notificato che la contessa Candida al ballo di Corte, sfolgorava il capo, il seno, le braccia di tutti i suoi diamanti. Tofi non ci pensò più. Se il gioielliere non si era sbagliato, e uno sbaglio di questa fatta in lui era difficilissimo, i signori Langosco avevano per loro fortuna ritirato a tempo il pegno preziosissimo dalle mani dell'usuraio.
Il signor X, a cui il ricupero della sua roba premeva infinitamente, era già tornato parecchie volte nei due giorni che erano seguìti dal Commissario a domandargliene novelle, finchè questi, che non aveva nulla da apprendergli, che era occupatissimo e di peggio umore che mai, perdè la pazienza, e con quelle sue maniere da burbero e parole da prepotente gli ebbe fatto capire non venisse più a seccarlo, e quando si avesse qualche cosa da dirgli, o da farsene dire, lo si sarebbe mandato a chiamare. Il gioielliere se ne partì mortificato, e domandando a se stesso che razza di giustizia la fosse questa che il derubato colà dove si doveva prendere tutto l'impegno per fargli riavere la sua roba, veniva accolto e trattato peggio che al ladro non si farebbe.
Ma il domani gli venne dalla Polizia un messaggio che gli fece nascere in cuore qualche buona speranza. Il signor Commissario con un ordine laconicamente espresso lo chiamava subito innanzi a sè, per comunicazioni urgenti. Il gioielliere volò al Palazzo Madama colla dolce speranza d'udirsi a dire per prima cosa che i ladri erano stati presi e i suoi gioielli ricuperati. Fu una delusione. Introdotto in quel certo gabinetto del Commissario che già [106] conosciamo, e chiusane alle spalle di lui la porta, il signor X rimase solo con quel terribile rappresentante della pubblica autorità, il quale pareva assai sopra pensiero e più burbero che mai.
Il signor X fu minutissimamente interrogato su quella circostanza ch'egli aveva incidentalmente allegata nel primo colloquio da lui avuto col Commissario, la presenza cioè in casa di Nariccia dei diamanti Langosco. Il gioielliere dovette dir tutto: e come egli si trovasse quella tal mattina in casa dell'usuraio, e come fossero sopravvenuti a disturbarlo nel colloquio ch'egli aveva con Nariccia prima un frate gesuita, poscia un cotale, di cui egli non aveva vista la persona, ma uditane la voce e creduto di riconoscerla per quella del dottor Quercia; come poco dopo Nariccia era tornato da lui portandogli ad esaminare, perchè glie ne dicesse il valore, certe buste di diamanti ch'egli aveva tosto riconosciuti per quelli della contessa di Staffarda, cui egli aveva l'onore di contare fra le sue pratiche; come più tardi fossero andati nel suo fondaco il conte Langosco e il dottor Quercia, il primo a chiedergli della ripulitura di quei diamanti che a lui non erano stati consegnati, il secondo a pregarlo in nome della contessa a far sì che il conte credesse che i diamanti fossero presso di lui.
Il Commissario ascoltò attentissimamente, fece ripetere parecchie cose, domandò varie minute spiegazioni: non iscrisse le parole pronunziate dal signor X, ma prese diversi appunti di date, di ore, di motti sopra una cartolina che chiuse poi accuratamente in un suo portafogli che teneva allato; e finì per congedare l'orafo, più burbero che mai, intimandogli che di quanto aveva narrato allor'allora non si lasciasse intanto sfuggire parola con anima viva. Poscia diede subito ordine a varii segreti agenti (e fu così che alcuna cosa venne a subodorare anche di ciò quello affigliato alla cocca) si scrutasse se i diamanti portati dalla contessa di Staffarda al ballo di Corte erano veri, se il dottor Quercia di que' giorni fosse stato visto in alcun modo in possesso di oggetti di valore od avesse speso eccezionalmente delle vistose somme.
Come mai il signor Tofi s'era posto a dare ora tanta importanza a questo fatto che da principio aveva destato mediocremente soltanto la sua attenzione? Gli è che nel frattempo egli aveva ritrovato Barnaba.
Sul modo di agire però, il signor Tofi si trovava molto perplesso. La faccenda era assai delicata. La famiglia Langosco era troppo autorevole e potente per non riguardarsi bene dal comprometterla leggermente. D'altronde quello pareva pure un filo da non doversi trascurare per guidarsi in quel labirinto finora indistricabile. Pensatovi su ben bene il Commissario decise di parlarne francamente al conte medesimo; scrisse una letterina, la più garbata ed umile ch'egli sapesse, al marito di Candida, pregandolo a volergli assegnare un'ora in cui si potesse presentare al suo palazzo, avendo egli urgente bisogno di parlargli.
Il conte di Staffarda, quando vide chi fosse che gli scriveva, tenne quel foglio colla punta delle dita, in quel modo schifiltoso con cui il marchese de la Seiglière nella bella commedia di Sandeau tiene la carta bollata.
— Il Commissario di Polizia parlare a me? Oh che può avermi a dire un simile personaggio?...... Entrare qui nel mio palazzo questa razza di gente!... Mai più!.... Andiamo dal mio amico il generale Barranchi.
Ci si recò sul momento.
— Guardate, mio caro, diss'egli al generale, porgendogli il biglietto ricevuto, che cosa mi scrive il vostro Commissario; mandatelo un po' a chiamare quel maroufle, ch'e' venga qui a spiegarsi in presenza vostra, se non vi disaggrada.
Il comandante dei carabinieri tirò su le sopracciglia sulla sua fronte piccola e stretta, lesse e rilesse, tossì con aria d'importanza, s'impettì nella montura, specchiò il suo naso nei bottoni lucentissimi del suo petto e mandò ordine al Commissario venisse immantinente.
Quindici minuti dopo il signor Tofi si presentava, secondo il solito, duro, impalato, le braccia lungo il corpo, in mano il suo cappello a larga tesa, il suo lungo soprabitone cascante sulle gambe nervose, i suoi piedi larghi e piatti ben piantati, il mento appoggiato alle stecche del cravattone, lo sguardo dritto levato innanzi a sè, nella impostatura del soldato senz'armi.
Il conte di Staffarda stava indolentemente sdraiato in una poltrona, giocherellando con uno de' guanti che s'era levato dalla bella, fine ed aristocratica destra, e pareva che quello non fosse punto fatto suo. Però, guardando la faccia burbera e severa del Commissario di Polizia, piantatosi a pochi passi di distanza, alla qual faccia l'aria di sommissione che aveva assunta in quel momento, pareva accrescere ancora la scontrosità, il marito di Candida provò uno strano e nuovo effetto, come se gli fosse apparso in quell'alto e grosso corpo un messo del destino ad annunziargli sventura. Il generale Barranchi fece un cenno al Commissario perchè s'avvicinasse, e quando questi ebbe obbedito, gli disse in tono di comando militare, porgendo verso di lui, a mostrarglielo, il biglietto ricevuto da Langosco.
— Voi avete scritto questo biglietto?
Tofi diede un'occhiata al foglio, un'altra a chi lo interrogava, e rispose:
— Sì, Eccellenza.
— Or bene, che cos'è che avete a dire al mio amico il conte di Staffarda? Egli è qui pronto ad ascoltarvi; parlate.
Il Commissario fece scorrere lo sguardo di quelle sue pupille feline sul volto di Langosco, poi lo ricondusse [107] sulla faccia scioccamente superba del generale.
— Mi perdonerà S. E., mi perdonerà anche il signor conte di Staffarda; ma quello che devo dire, non lo posso dire che al solo conte medesimo.
Langosco staccò le spalle dalla poltrona con moto piuttosto vivace.
— Parlate, parlate pure in presenza del generale: è mio amico e non ci ho nulla, ch'io sappia, che possa volere a' miei amici nascosto.
Tofi s'inchinò leggermente ed insistette.
— Non mi è assolutamente permesso di accondiscendere al desiderio di vostra signoria. Credo mio debito parlare a Lei sola; e quando la mi avrà ascoltato sono persuaso che mi darà ragione.
Il conte fece un atto d'impazienza.
Barranchi entrò in mezzo.
— Mio caro, disse, conosco questo bravo Tofi; è il più ostinato degli uomini, e se non vuole non ci sarà verso di farlo parlare. Cedo io il campo. Parlatevi qui stesso quanto fa bisogno; e voglio sperare che il signor Tofi non avrà disturbato voi, nè vorrà disturbar me per bazzecole che non abbiano importanza.
Gettò queste parole accompagnate da uno sguardo imponente e da una mossa autorevole contro il Commissario come un'intimata. Tofi non si scompose.
— Ebbene, disse Langosco quando il generale fu uscito, parlate ora liberamente e fate presto.
Aveva egli appoggiato un gomito alla tavola che gli era vicina, s'era così appressato un poco della persona al suo interlocutore, ed aveva parlato con accento di sollecita benchè dissimulata curiosità.
Tofi depose il suo largo cappello sulla seggiola che trovò più vicina, s'aggiustò sotto il mento quadrato l'alta e dura cravatta, affondò secondo sua abitudine le manaccie entro le grandi tasche del suo soprabitone, e cominciò col tono di un interrogatorio:
— Il signor conte ebbe qualche rapporto d'interesse col fu Nariccia, assassinato la settimana scorsa?
Langosco arrossì leggermente sui pomelli delle sue magre e pallide guancie; si trasse indietro della persona con mossa d'inesprimibile fierezza, e mettendo nella sua voce un disdegnoso risentimento, disse guardando corrucciato la faccia del Commissario:
— Che è ciò? Obliate voi con chi parlate? Non son tale a cui dobbiate osare volgere le vostre interrogazioni — voi!
Innanzi a questo disprezzo il Commissario si morse il labbro inferiore e fece un atto colle mascelle come se mandasse giù un grosso boccone; in fondo alle sue occhiaie, le grigie pupille ebbero un lampo fugace che pareva voler accennare ad un riscuotersi di quella natura plebea contro lo staffile di quel disprezzo aristocratico; ma la soggezione rispettosa al grado, al titolo, alla casta non venne meno in quell'uomo pagato per difendere con zelo l'ordine di cose esistente; s'inchinò a suo modo, e soggiunse con un accento d'umiltà che stornava maladettamente coll'espressione della faccia, coll'aspetto di tutta la persona, colla rauca ruvidezza della voce:
— La mi perdoni. Si tratta della giustizia di S. M., e noi abbiamo il dovere per servirla di non arrestarci innanzi a nulla. Ella sa l'orrendo delitto che fu commesso, e certe circostanze che per mezzo della S. V. si possono assicurare, son forse tali da metterci sulle traccie della verità.
— Siete matto! esclamò il conte mezzo stupito e mezzo indignato. Che cosa ci posso entrar io in codesto?
— Se Ella mi permettesse appunto di continuare a rivolgerle alcune domande e volesse degnarsi rispondere...
Langosco interruppe con superba impazienza:
— Ditemi queste vostre circostanze cui accennate, e quando io le abbia udite saprò e vedrò che cosa vi debba rispondere o no.
Il Commissario trasse di tasca il suo portafogli, prese in mezzo a molte carte quella su cui aveva notati gli appunti della narrazione fatta dal gioielliere X, e questa ripetè per intiero, con un'esattezza che poteva dirsi crudele, e che ben vendicava il Commissario della sprezzosa impertinenza con cui il conte lo trattava. Avreste detto, chi superficialmente l'osservasse, che il marito di Candida stava ascoltando le più indifferenti cose del mondo. Aveva appoggiato di nuovo il gomito sul tavolo, teneva il mento nel concavo della mano e guardava fiso, immobile il Commissario che lo fissava entro gli occhi egli pure. Ma scrutando ben bene quella fisionomia si sarebbe visto che una maggior pallidezza dell'usato s'era stesa su quel volto logoro più dalle passioni che dagli anni, che quel sorriso ironico e superbo ond'erano abitualmente mosse le sue labbra, ora copriva una nuova emozione che tremolava, per dir così, ai due sottili angoli della bocca, che dalle ciglia ravvicinate fuggiva a sprazzi una luce d'immensa ira compressa, che sulla lucida, giallognola pelle del cranio denudato spuntavano, come punte di spilla, alcune goccioline di sudore.
Quando Tofi ebbe finito di parlare, successe in quel salotto un assoluto silenzio di parecchi minuti: s'udiva solamente il soffio un po' pesante del rifiato del conte. Que' due uomini stettero alquanto così, immobili, di fronte, l'uno seduto e l'altro in piedi, guardandosi con fissità poco meno che ostile; il Commissario voleva leggere nell'interno del conte, questi avrebbe voluto strappare dalla memoria di colui che gli aveva parlato il fatto che ne aveva appreso. Pensava frattanto con indicibile sforzo di mente che cosa fosse da farsi, qual risoluzione da prendersi. Passò la mano sul suo cranio pelato ad asciugarsi quel po' di sudore; e disse poi lentamente con voce bassa e stentata:
[108] — Non vedo ch'io sia obbligato a nulla rispondere... Potrei limitarmi a dirvi che in queste circostanze da voi narrate non c'è nulla, assolutamente nulla che possa mettervi sulle traccie di quella tal verità che cercate.
Si fermò come a prender fiato, chinò gli occhi egli innanzi a quelli del Commissario, ma li rialzò tosto di nuovo e continuò:
— Ma voi siete come i confessori, e vi si può confidare un segreto di famiglia.... È vero che mia moglie, per certi suoi bisogni, mandò, a mia insaputa, ad impegnare i diamanti, e per nascondermelo volle farmi credere fossero presso il gioielliere. Ma io non fui lungamente sa dupe. La indussi a dirmene la verità; e quando la seppi non volli che i gioielli di mia moglie stessero più a lungo nelle mani di un usuraio — e li riscattai.
Nulla era più penoso a quell'uomo che mentire; sul suo cranio si raddoppiavano le goccie di sudore.
Il Commissario si chinò un poco verso il conte e disse con accento che non era interrogativo, ma che poco mancava ad esserlo:
— L'assassinio di Nariccia ebbe luogo nella notte dalla domenica al lunedì. Ella ha certamente riscattati quei diamanti nella giornata stessa di domenica, forse anche in quella di sabato.
Langosco trasalì.
— Sì, sì, diss'egli, sabato, sabato stesso.
S'alzò per indicare che l'udienza, secondo suo volere, doveva essere finita; andò alla porta del gabinetto vicino in cui s'era ritirato il generale e l'aprì.
— Venite pure, Barranchi.
Il generale si presentò con un'aria scioccamente curiosa sulla sua stupida faccia superba.
Langosco non aspettò interrogazione veruna.
— Potete fare con giustizia i complimenti al vostro Commissario di Polizia: disse. Egli sa anche ciò che non importerebbe sapere, e che le famiglie vorrebbero molto bene nascosto a tutti. Ma ditegli anche voi che un uomo suo pari dev'essere una tomba dei segreti.
Il generale tirò avanti colla sua solita mossa il petto lucente di bottoni e di decorazioni e disse, come se comandasse il maneggio d'armi ad un pelottone di carabinieri:
— Voi sarete una tomba dei segreti.
Tofi, congedato di questa guisa, si partì.
— Caro generale: disse Langosco rimasto solo con Barranchi: a voi non voglio tener nulla nascosto. Mia moglie aveva impegnato i suoi diamanti presso quell'usuraio che fu assassinato. Tofi lo seppe e voleva conoscere il modo col quale la contessa li aveva riavuti. Sono io che appena ho appreso tal cosa, mi affrettai a riscattarli. Non fareste male d'inculcare a quel Commissario troppo zelante, che quando trattasi di certa gente come noi, di certe famiglie come la mia, come le nostre, non gli conviene avere tanta curiosità.
Barranchi prese la sua aria d'importanza e disse dall'alto del suo colletto ricamato in argento:
— Glie l'inculcherò.
Il conte di Staffarda si recò sollecitamente dal gioielliere X. Ripetè a lui quello che aveva narrato al Commissario ed a Barranchi, e con preghiera che aveva tutto il tono d'un comando, lo invitò a non parlar più con nessuno e in nessuna guisa di questa faccenda. Quindi si recò nel suo palazzo.
— La contessa è nelle sue stanze? domandò ai domestici.
E come gli fu risposto di sì, s'avviò d'un passo lento e pesante verso l'appartamento della moglie, dove entrò senza voler essere annunziato.
La contessa, che da qualche tempo veniva ricevendo alcune di cotali improvvise visite del marito, a cui egli dapprima non l'aveva avvezza mai; la contessa si volse a guardare il conte con aria meravigliata, curiosa e risentita nello stesso tempo. L'espressione del suo bel volto significava apertamente, senza che avesse bisogno delle parole per dirlo: «Che altra novità c'è ella ora? Non vi ricordate i patti e la mia volontà? Non volete più lasciarmi tranquilla?»
— Vedo che siete occupata: cominciò il conte, parlando francese, in presenza della cameriera che finiva di aggiustare sul capo della contessa le nere, abbondanti, fulgide di lei chiome: e mi rincresce disturbarvi; ma vi è proprio necessità ch'io vi dica a quattr'occhi due parole, e vi prego a congedare il più presto che si possa la vostra donna.
L'aspetto del conte era affatto gentile, e sulle labbra stavagli un sorriso che riusciva ad essere grazioso; ma entro gli occhi era un certo cupo sbarbaglio e nella voce una vibrazione che rivelavano una qualche profonda emozione contenuta a forza.
Candida s'affrettò a liberarsi della cameriera, e quando essa e il marito rimasero soli nella stanza, drizzatasi in piedi ed avvoltasi nel suo accappatoio come nell'ampio velo una statua romana, le braccia conserte al petto, la faccia audacemente levata e gli occhi fissi sul conte, dimandò asciuttamente:
— Che cosa dunque avete da dirmi? Sbrigatevi.
Langosco che s'era messo a passeggiar su e giù, si piantò in faccia alla moglie, e incrociando collo sguardo di lei il suo collerico, invelenito, viperino, disse con voce bassa ma che sibilava fra le labbra contratte:
— Quanto vi ha spillato il vostro amante, obbligandovi a mettere in pegno le vostre gioie?
Un lieve rossore salì alle guancie della contessa. La sua prima impressione fu lo stupore e la confusione: le sue pupille si chinarono un istante; ma non tardò a riprendere la sua sicurezza.
— Vi fo i complimenti, signor conte, diss'ella, del nuovo dizionario dove andate a pescare i vostri termini.
[109] — È quello che ci conviene ad ambedue: rispose il conte con sogghigno di fiera ironia. J'appelle chat un chat, et Rollin un fripon: disse quel birbo di Voltaire. Nel caso nostro il fripon sapete chi sia...
Candida fece un gesto colla mano ad imporgli silenzio.
— Basta: diss'ella con tutta l'imponenza d'una gentildonna offesa.
Ma Langosco, più animato nello sguardo, nell'aspetto e nella voce, le si accostò ancora d'un passo e proruppe con forza:
— No, non basta, signora contessa. Que' diamanti che voi avete fatto servire ad un uso così.... Ah! non dirò l'epiteto che si conviene per un resto di riguardi che forse non meritate..... que' diamanti appartennero a mia madre, e non voglio che sieno...
Essa lo interruppe.
— Ma quelle gioie, lo avete ben visto, sono tutte in poter mio....
— Non cercate di mentire: voglio sperare che non ci siate abile tuttavia: ad ogni modo non arrivereste a darmi lo scambio perchè io so tutto.
E qui ripetè in brevi parole quello che sapeva, senza dirle il come avesse ciò appreso.
Candida rimase atterrata.
— Or via, qual somma ritrasse quello sciagurato da tale imprestito?
La contessa glie la disse.
— E voi?
Candida fece un gesto di denegazione pieno di verità.
— Io? Nulla.
— E le cinquanta mila lire (e ciò dicendo il conte pronunziò più lentamente e pesando sulle parole) per riavere i diamanti furono restituite all'usuraio?
— Sì: rispose debolmente la donna.
— Ne siete certa? insistè il marito con forza.
— Credo..... mi pare..... non può essere altrimenti.
Una scura nube passò sulla fronte di Langosco.
— Ah! esclamò, potrebbe pur anco essere altrimenti.
La contessa non comprese o non sospettò neppure il significato di quell'esclamazione.
Langosco, memore d'una interrogazione che gli aveva fatta il Commissario ed avendone apprezzata e meditata tutta l'importanza, la ripetè ora a sua moglie:
— E quando vi furono essi restituiti que' diamanti? La domenica o il lunedì?
— Il lunedì.
Un piccol fremito contrasse i muscoli della faccia del conte, e le sua guancie impallidirono leggermente.
— Ah! fece egli: il lunedì.
Tacque un istante: guardava la donna con espressione indefinibile di compassione insieme e di dispetto, di rampogna e di dolore: pareva che a significare i suoi pensieri, i suoi dubbi, le sue paure non trovasse parole, e non osasse neppure avventurarsi a cercarle. Candida si sentiva afferrare da una soggezione affatto nuova, quasi da una timidezza e da una vergogna.
Dopo un poco il conte parlò e con accento di gravità, quale non gli aveva mai sentito la moglie.
— Forse a farvi dei rimproveri ci ho poco diritto, e nei vostri errori ci ho la mia buona parte di torti. Alle prime osservazioni ch'io tentassi di porvi innanzi intorno alla vostra condotta, voi potreste rinfacciarmi il mio passato e la mia, ed invocare quel patto mezzo tacito e mezzo espresso, per cui avete ricompra la vostra assoluta libertà col sacrifizio delle vostre sostanze. Mi merito questa poco bella condizione in cui mi trovo a vostro riguardo, e non cercherò più di uscirne; è troppo tardi; quindi non una parola vi dirò delle vostre galanterie, nulla neppure se avete anche l'assurdità di sciupare da parte vostra i vostri capitali; ma finchè avete l'onore di portare il nome della mia famiglia, finchè vivrò, m'incombe l'obbligo di vegliare a che questo nome non venga compromesso e macchiato. La vostra relazione con colui ch'io non voglio nominare, minaccia trascinarvi, minaccia trascinare il nostro nome in funeste — dirò la parola — in infami pubblicità. Ciò non posso tollerare, ciò dovete evitare ad ogni modo voi stessa. Non credo per ora dovermi spiegare più chiaramente. Le cose che dovrei dire mi brucierebbero le labbra. Ma pensateci voi medesima. Domandatevi come e di che viva quel.... quell'individuo, e conchiudete se possa dirsi onorevole la sorgente di quei denari che spende. Non vi do ordini, non v'impongo sollecite determinazioni; mi prendo solamente la libertà di rivolgervi un consiglio: sarebbe assai bene che quel cotale cessaste addirittura di vederlo. Quanto a questo palazzo, siccome qui sono io il padrone, e ci ho il diritto di escluderne chi voglio, do ordine immantinente che quando si presenti gli si dica chiaro che queste soglie non sono più fatte per lui, e se vuol saperne la ragione, gli farò l'onore d'ammetterlo un momento alla mia presenza per dirgliela sulla faccia io stesso.
Il conte uscì senz'aspettare risposta. Candida rimase atterrata, confusa e perplessa. Sentiva, anche suo malgrado, una certa vergogna dei fatti suoi: non aveva di certo capito tutto il significato delle parole del marito, la sua mente non era andata fino a quel punto estremo a cui pure esse direttamente miravano, ma pure sentiva che in quella sua disgraziata passione c'era oramai più che una colpa un degradamento. E tuttavia essa non aveva il coraggio di strapparsela dall'anima: e il solo pensiero che potesse avvenire ciò che le aveva consigliato il conte, di non veder più il suo amante, erale dolorosissimo. [110] In mezzo a questo suo turbamento sorgeva e veniva via aumentando una irritazione collerica, un vivace risentimento contro il marito che le aveva dette quelle parole, contro l'amante che se le meritava, contro se stessa. Bisognava risolversi a qualche cosa. Scrisse il bigliettino che sappiamo a Luigi, perchè si trovasse al convegno; ed all'ora posta fu con lui.
Le parole dettele dal marito ella non seppe ripetere esattamente all'amante, ned avrebbe pur voluto; e dalla narrazione da lei fatta risultò solamente che il conte aveva appreso l'oppignorazione fatta dei diamanti a benefizio di Gian-Luigi, la decisa volontà nel conte medesimo di voler impedire il rinnovamento di simili fatti, e la determinazione da lui presa di mettere alla porta di sua casa il signor Quercia e di dirglielo egli stesso sul muso.
Gian-Luigi stette un poco in silenzio, le mascelle contratte morsicchiando i suoi baffetti neri che le dita quasi tremanti avevano abbassati fra i denti, scolpita in mezzo della fronte con solco profondo la sua ruga caratteristica.
Tutto questo era per lui molto spiacente. Non solamente il suo orgoglio si trovava leso nel sentire che il conte lo voleva cacciare di casa sua, ma il suo interesse eziandio che era di mantenersi in assai buona attinenza con quella potente famiglia, come guarentigia contro certe indiscrete curiosità.
— Di codesto, diss'egli poi, la colpa è certo al signor X e me ne farò sentire (e qui narrò come sospettasse alcuno avesse visto i diamanti in quel poco di momenti in cui Nariccia li aveva recati nell'altra stanza, e questo qualcuno li aveva riconosciuti per quelli di lei, la qual cosa non poteva fare che il gioielliere); ma frattanto, Candida, che pensi tu di fare? abbandonarmi?
Le prese di nuovo le mani come aveva fatto poc'anzi, le accostò il suo viso più bello che mai per un'espressione d'ardenza e d'amore, le saettò negli occhi uno sguardo pieno di fuoco e di passione.
Candida sentì un caldo fremito soave correrle tutte le fibre; le sue guancie arrossirono, le sue labbra si dischiusero tremanti, i suoi occhi lampeggiarono.
— Abbandonarti? Io?... Mai!
Luigi colse con un bacio questa parola che ancora vibrava sulle coralline labbra di lei.
— Quanto al signor conte, soggiunse egli, aggrottando di nuovo le sopracciglia, non gli farò aspettare di molto l'occasione di dirmi ciò che gli frulla, e stassera dopo pranzo mi recherò io stesso da lui.....
La contessa lo abbracciò con amplesso vigoroso e tenace, come chi colla propria persona voglia difendere un suo caro da pericolo che lo minacci.
— Non vo' che ti batta con lui, esclamò ella con forza. Non voglio, non voglio... Egli è perito nell'arte di ammazzare.
Quercia la rassicurò con un sorriso che pareva significare, quando avvenisse una lotta, non per lui esservi da temere, e soggiunse coll'accento con cui si calmano le paure d'un diletto bambino:
— Non pensarci neppure. Vedrai che tutto si conchiuderà più amichevolmente che tu non creda.
Quando la contessa l'ebbe lasciato solo, Gian-Luigi stette ancora un poco riflettendo seco stesso, poscia, determinazione che veniva conseguenza delle sue meditazioni, uscì, e si diresse di buon passo verso la casa dei Benda.
Francesco Benda aveva passato una notte cattiva. Un gagliardo accesso di febbre aveva spaventato non solo gli amorosi suoi congiunti, ma i medici eziandio. Il mattino colse quella disgraziata famiglia senza che pur uno, nè padre nè madre nè sorella dell'infermo, avesse chiuso quegli occhi che tutti avevano rossi dal pianto, avesse riposato quelle membra che ciascuno aveva, e non sentiva tuttavia, affrante dalla fatica e dall'angoscia. Nè la venuta del giorno arrecò alcun sollievo al giacente, alcun conforto di speranza a chi lo assisteva. Il ferito passava avvicendatamente da un sopor plumbeo ad un delirio non furibondo, nel quale, fra mille incoerenti parole che uscivano susurrate dalle sue labbra, spiccava pronunziato con più affetto, con ardenza di trasporto, un nome: quello di Virginia.
E questa, da parte sua (era esso un misterioso istinto, era una meravigliosa corrispondenza delle anime nei due amanti?), Virginia da parte sua, tutta notte era stata occupata più che non ancora mai da un'inquietudine affannosa, che le faceva immaginare, che le faceva indovinare più pericolose e crudeli le condizioni del ferito. Era di poco inoltrata la mattina, quando la nobil fanciulla, senza punto lotta cedette alle ispirazioni del suo amore ed all'impulso della sua pietà. Scrisse una letterina a Maria, come ad antica compagna ed a nuova amica, pregandola di volerle comunicare le notizie del fratello, e la mandò tosto per un lacchè, a cui fu vivamente raccomandata la sollecitudine.
Maria, che in que' momenti ne' quali la lettera di Virginia le giunse, non avrebbe voluto nè veder persona, nè ricevere biglietti di sorta, pure ad udire il nome di chi mandava quel foglio lo prese e lesse con premura. Il delirio del fratello aveva alla fanciulla rivelato il segreto dell'amore di lui; e se anima pietosa di fanciulla è pur sempre inchinevole a intenerirsi per siffatti affetti, da alcuni giorni la buona Maria era pur troppo, in mezzo ad un nuovo turbamento del suo cuore, più facile che mai ad esser [111] commossa dalla vista, dalla parola, dal pensiero di quella passione. Nelle poche righe di Virginia laconicamente gentili, la sua dilicata percezione sentì un interesse più caldo e più vivo di quel che non volesse apparire, avvertì la vibrazione d'un affetto che invano cercasse nascondersi. Maria ebbe una ispirazione da semplice ed innocente fanciulla inesperta delle cose del mondo; sedette a tavolino e rispose alla nobile amica col biglietto seguente:
«Il povero Francesco sta male pur troppo.
«Se il giorno passasse come passò la brutta notte che è finita, non oso nemmeno pensare a quel che ne potrebbe avvenire.
«Ho pregato tanto la Madonna, e mi pare che la dovrebbe pur farci la grazia di salvarcelo.
«Sento una voce in cuore che mi dice esservi una persona al mondo che potrebbe richiamarlo alla vita.
«Questa persona è Lei, cui Francesco, nel suo delirio, ha invocata tutta la notte.
«Oh! s'Ella venisse a farci questo miracolo! Dio la benedirebbe per tutta la vita.»
Maria, scritte rapidamente queste parole, non riflettè, piegò la carta, la suggellò e la fece rimettere nelle mani del domestico di Virginia che aspettava. Se avesse riflettuto alquanto non l'avrebbe mandata: se ne pentì appena il lacchè fu partito, ma era troppo tardi e stette aspettando con ansia l'effetto delle sue parole.
Quest'effetto fu il migliore ch'essa potesse desiderare. Abbiamo visto come il primo impulso di Virginia nell'apprendere la disgrazia avvenuta a Francesco, fosse stato quello di accorrere essa stessa di persona a casa di lui; trattenuta dallo zio e da costui posta in guardia contro le imprudenze e i trasporti della passione, mercè il racconto delle funeste avventure di sua madre, Virginia aveva momentaneamente ceduto, ma non aveva in modo assoluto determinato che mai non avrebbe più tentato quel passo, ch'ella in cuor suo dicevasi potere diventare per certe circostanze, quasi un dovere in lei. Il racconto delle sventure di sua madre, se aveva potuto contribuire a scemar in essa le speranze che avrebbe potuto concepire intorno all'amor suo, ed abbiam visto com'ella poca o nessuna ne avesse, se aveva potuto ispirarle più riguardosa prudenza, non era fatto per isminuirle quella passione d'amore che già troppo oramai era in lei radicata e cresciuta.
Oh come ella aveva ripensato tra sè, e ricontatosi quel doloroso romanzo che aveva avuto per eroina sua madre, e di cui lo zio le aveva ora tracciate le linee principali! Come la sua fantasia eccitata aveva alacremente lavorato intorno a questi tratti precipui e compitone il disegno e menativi i colori e terminato il quadro! La sua tenerezza per la madre aveva sempre avuto qualche cosa di speciale, quasi potrebbe dirsi di misterioso, come se il suo istinto di figliuola avesse sentito nell'esistenza di quella cara e veneranda creatura un profondo dolore da consolare. Ora questa tenerezza, ch'ella sempre serbava all'anima della morta, s'era accresciuta vieppiù; ora era essa penetrata nel mistero di quel dolore e ne trovava ancora più pietosa la causa; ora comprendeva il significato di quello sguardo mesto, lungo, quasi imploratore, ch'ella ricordava aver visto tante volte nei begli occhi della madre. Virginia s'era recata innanzi al ritratto di questa che pendeva alle pareti nella sua camera da letto, ed era stata lungamente contemplandolo. Quante cose le diceva ora quel pallido viso leggiadro, che mai non aveva ella dapprima avvertite! Non era una colpa l'amor suo, ben lo aveva ella sentito; era una sventura: ma sapendo che a tale sventura aveva partecipato sua madre, le pareva che più nobile, più degna quella disgrazia si fosse, e se la aveva più cara.
Ad accrescere la passione dell'animo di Virginia venne la notizia dei fatti compiutisi alla fabbrica Benda e dei pericoli che quella famiglia avevano minacciato. Aveva sperato la nobil fanciulla di poter per mezzo di Maurilio sapere tutta e particolareggiata, e man mano la verità, ma fallitale, come abbiam visto, questa speranza, maggiori n'erano diventati il suo timore, la sua inquietudine, l'affanno dell'anima sua. La letterina di Maria giunse in buon punto per deciderla affatto a quello che già pensava seco stessa, a quel partito cui fino da principio aveva voluto effettuare, ed a cui non aveva rinunziato mai. Si coprì d'un fitto velo, si avvolse in un modesto mantello, si fece seguire dalla sua governante, uscì ratta a piedi, come quando recavasi modestamente in chiesa, e salita in una carrozza da nolo si fece condurre alla casa dei Benda.
Maria sedeva appiè del letto di suo fratello, il quale era di nuovo caduto in quel sopore che lo faceva rassomigliare poco meno che ad un cadavere. Quando alla fanciulla vennero ad annunziare che una giovane e bella signorina domandava di lei, una subita speranza le nacque in cuore che la potesse esser quella di cui essa aveva invocata la presenza, ma non osò accoglierla questa speranza; già s'era pentita, come dissi, d'aver scritto quel biglietto, e pensando all'orgoglio aristocratico che certamente doveva avere quella giovane, venivasi persuadendo che quel foglio la lo avrebbe disdegnosamente gettato e non altro. Corse di là con sollecitudine e mandò un'esclamazione di gioia e di riconoscenza nel vedersi davanti, ritta in mezzo la stanza, il velo sollevato dalla faccia leggiadra, la contessina di Castelletto.
— Dio la benedica! disse Maria, e le prese ambedue le mani, e si curvò come se glie le volesse baciare.
Ma Virginia la trasse su, le gettò le braccia intorno alla vita e l'abbracciò come una sorella.
[112] Le due fanciulle si guardarono entro gli occhi, e si compresero più che per qualunque lungo discorso; si sentirono per affetto e per tempera d'anima congiunte; a dispetto d'ogni distinzione sociale si avvertirono pari.
— Posso io vederlo? domandò Virginia con una virtuosa franchezza, senz'ambagi come senza falsa vergogna.
Maria la prese per la piccola mano affilata e rispose con una sola parola:
— Venga.
La introdusse nella camera dove il ferito giaceva. Siccome le imposte della finestra erano rabbattute, Virginia da principio non vide che confusamente in quella oscurità. Al rossigno chiarore che mandava il fuoco del caminetto scorse una donna attempata, la quale, vedendo entrare una ignota, s'alzava da sedere. Maria le correva presso, le bisbigliava poche parole all'orecchio e quella donna faceva alla nuova venuta una profonda riverenza. Era essa la madre di Francesco.
Virginia camminò lentamente verso il bianco cortinaggio del letto che spiccava nel buiccio di quella stanza. I suoi occhi, cominciando ad avvezzarsi alla poca luce, videro sui cuscini abbandonata la testa simpatica del giovane. Le palpebre erano richiuse e le lunghe ciglia si disegnavano finemente sul pallore delle guancie. Le labbra scolorate erano semiaperte, ma pareva che di mezzo a loro non uscisse soffio nessuno di respiro. Solamente di quando in quando un gemito esile, ma penoso, saliva su dal petto e passava lento, trascinato per quella bocca socchiusa. Qual differenza fra quel misero giacente che soffriva e il robusto ed aitante garzone che Virginia aveva visto pochi giorni prima alla festa da ballo, che le aveva allora appunto con tanta ardenza svelato il suo amore!
Ella si fermò a pochi passi dal letto. Sentì nel suo cuore una pena che era quasi un rimorso; una ineffabile tenerezza le mandò agli occhi due lagrimette ch'ella non pensò neppure di asciugarsi.
— Gli è per me, a cagion mia, pensò, ch'egli è ridotto in tale stato.
Lo sguardo di Virginia parve esercitare alcun influsso sull'infermo: certo per uno di quegl'inesplicabili istinti d'innamorato, egli, anche inconsciamente, sentì alcun effetto della presenza di lei. Gli occhi rimanevano chiusi tuttavia, ma un lieve color rosato saliva su alle guancie, ed il respiro si faceva più sensibile. Ella fece ancora un passo verso il letto: gli occhi di lui si spalancarono e stettero immobili, fissi su quella bellissima figura di donna che avevan dinanzi e ch'egli credeva una felice visione del suo delirio. Tutta la notte il caro fantasma di quelle sembianze era passato e ripassato nei torbidi sogni della sua malata fantasia; ma egli non aveva potuto fermarselo mai innanzi alla mente per tanto tempo e in sì precise forme quanto desiderava: credette che ora fosse questa un'apparizione come le precedenti, ma più simile alla realtà, più netta di forme e più duratura. Lo sguardo semispento de' suoi occhi affondati prese una ineffabile espressione di tenerezza, di gioia e di preghiera; e le sue labbra mormorarono con appena sensibil soffio di voce:
— Oh! non fuggirmi così presto, diletta immagine dell'amor mio!
Virginia superò d'un tratto con piè leggiero la poca distanza che ancora la separava dal giacente e si curvò su di lui come per raccoglierne le pronunziate parole. Negli occhi del ferito apparve una sorpresa, una commozione, quasi un timore. Richiuse le palpebre come per vedere se quell'apparizione era nella sua mente soltanto, o proprio nella realtà, all'infuori di lui: e in quella sentì, come un soffio soave di paradiso, un alito profumato passargli sulla fronte, e una celeste melodia di voce femminile pronunziare teneramente il suo nome:
— Francesco!
Il giacente mandò un grido — un vero grido — di gioia. Teresa e Maria accorsero sollecite, quasi spaventate. Ma non c'era onde spaventarsi. Gli occhi del giovane riapertisi brillavano di tutta la luce della salute e della ragione: l'anima fatta beata raggiava la sua letizia da tutte le sembianze della leggiadra faccia.
— Virginia! Virginia! esclamò egli con voce più forte di quello che altri avrebbe mai potuto credere.
Non avevano fatto che pronunziare a vicenda l'un dell'altro il nome; ma quante cose con quella sola parola e' s'eran dette! ma come s'erano reciprocamente compresi! come si sentivano l'un dell'altro penetrar l'anima nell'anima!
Virginia tornò a curvarsi sopra il giacente, e fece sommessamente di nuovo suonare la melodia della sua voce.
— Non parli, glielo proibisco. Sono venuta a pregarla di guarir presto, e la mi deve obbedire. A questo patto soltanto le perdonerò il troppo dolore ch'Ella ha dato a sua madre, a tutta la sua famiglia.....
Stette un breve momento, e poi soggiunse a voce più bassa:
— Ed a me.
Francesco beveva cogli occhi lo sguardo, colle orecchie la voce dell'amata fanciulla. Sentiva nelle vene, in tutto l'esser suo rifluire di subito nuova e più potente la vita; gli pareva di colpo fugato ogni male, e quasi effettuato in lui il miracolo del Nazareno, che aveva detto all'infermo di levarsi, prendersi il suo letto in ispalla e camminare. Le parole gli mancavano alle idee, le idee stesse gli mancavano all'espressione della sua felicità.
Non passarono più che dieci minuti. Fu un attimo [113] pel loro desiderio, ma vi fu abbastanza di tempo perchè le più svariate e numerose sensazioni di tenerezza e d'amore si avvicendassero nelle loro anime. Le labbra non promisero nulla, gli occhi si scambiarono mille giuramenti. Virginia, allontanandosi dal giacente per partirsi, lasciava nel cuore di lui un balsamo taumaturgo da risanarlo assai più presto e meglio d'ogni farmaco di medico.
Mentre la fanciulla stava per uscire di quella stanza, vi entrò un uomo. Era il padre di Francesco, che veniva inquieto a vedere suo figlio. In presenza delle donne Virginia non aveva avuto pure un istante di turbamento o di confusione; la vista d'un uomo la fece arrossire fino alla radice dei capelli. Prese ella vivamente per mano Maria, come se volesse con quell'atto significare che all'interesse ed all'affetto per la compagna dovevasi la sua presenza in quel luogo, e s'affrettò ad uscire dalla stanza, passando innanzi a Giacomo, il quale, riconosciutala, salutava con profondissimo inchino.
Giunte nella camera che precedeva quella di Francesco, Maria e Virginia trovarono Gian-Luigi che sopraggiungeva, preceduto da un domestico. Maria arrossì leggermente nel rispondere al saluto del giovane i cui sguardi e la cui attenzione furono attirati dalla superba bellezza della titolata fanciulla. L'aspetto di Quercia era tale ancor esso da non passare inosservato a qualunque lo vedesse, e Virginia, senza pur darsene conto, fissò quasi con curiosità i suoi limpidi occhi sulle sembianze virilmente belle di quel nuovo venuto, e rispose con una cortesia che era presso che famigliare e benevola al saluto di quel giovane che non ricordava aver veduto ancora mai. Avviene molte volte che al bel primo incontrarci con una persona, questa non ci pare affatto estranea; o sia una somiglianza con altre persone, o sia una certa misteriosa affinità fra i nostri esseri che si rivela con una specie d'istinto inavvertito, o sia un effetto travelato di attinenze anteriori avute in una vita precedente, il fatto è che certuni appena ci vengono innanzi ci sembrano conoscenze d'antica data, e siamo disposti di subito a conceder loro più domestichezza ed interesse che non ad altri da molto tempo già conosciuti. Fu un poco di quest'effetto che Virginia provò alla vista di Gian-Luigi, e quasi uguale fu quello che sentì il giovane a trovarsi faccia a faccia colla nobil ragazza cui aveva vista da lontano parecchie volte, ma non aveva mai accostata. E, cosa strana, in questa sua sensazione, non entrava menomamente quel suo ardore di voluttà che gli faceva desiderare ogni bellezza di donna, ma eravi come una tinta di rispetto, come un'ombra di affettuosa deferenza, come un istintivo impulso ad inchinar riverente quelle belle sembianze.
Maria vide l'ammirativa fissità dello sguardo di Gian-Luigi su Virginia, e sentì una dolorosa fitta nel cuore. Anche la gelosia doveva nascere in quella povera, innocente fanciulla a confermarle e ribadirle nell'anima l'infausta passione che vi si era insinuata. Non disse che poche parole a Quercia, invitandolo a passare nella camera di Francesco, e seguitò ad accompagnare la bella visitatrice che si partiva, fino all'anticamera.
Nel momento di prender commiato, Virginia, stringendo amichevolmente la mano a Maria, le disse:
— Scriverò a Lei per avere ulteriormente le nuove di suo fratello; la sia compiacente di darmene senza troppa parsimonia.... E spero che ci rivedremo.
Quando la nobil fanciulla fu partita, Maria pensò un istante, invece di tornare presso suo fratello, di andarsi a rinchiudere nella sua camera e non uscirne più finchè Quercia si fosse partito; e s'avviò realmente per porre in atto questa risoluzione, ma non n'ebbe la forza. Quando fu nel salotto che precedeva la camera di Francesco, vide che Gian-Luigi non era passato di là, ma stava lì tuttavia, come aspettando. Si turbò molto nel trovarsi sola con lui, non osò guardarlo e stette impacciata, a pochi passi da lui, senza parlare.
Egli le faceva piombare addosso quel suo sguardo caldo, luminoso, efficace, che penetrava nell'anima; e la giovanetta, pur colle palpebre abbassate, lo sentiva posarsi con infinita soavità, come una carezza amorosa, sulla fronte, sul volto, sulla persona, avvolgerla come d'un fluido voluttuoso, e vincerle ogni volontà. Quercia s'accostò alla fanciulla, e le prese una mano; ella si mise a tremar leggermente, e volle liberar la sua destra, ma egli ne la trattenne con dolce violenza.
— Maria! susurrò egli chinando la sua bocca sulle chiome di seta che ornavano la testolina curva della ragazza: e la sua voce era sì espressiva ed insinuante! e l'accento era pieno di tanto amore e di sì cara espansione che una dolcezza ineffabile invase ed occupò tutto l'essere della innamorata fanciulla.
I suoi occhi si levarono quasi tratti a forza verso gli occhi di lui, e la luce brillò in essi ripercossa da due lagrimette.
— Maria! ripetè egli col medesimo accento, premendosi al petto quella mano che seguitava a tener fra le sue.
Dal labbro della giovane fuggì, saettato per così dire dall'emozione, il segreto del suo cordoglio.
— Ah! com'Ella ha guardato la contessina di Castelletto! disse con amarezza in cui non c'era rimprovero, ma dolore.
Quercia cominciò per rispondere con un sorriso soltanto, ma con uno di quei suoi sorrisi ammaliatori che erano più eloquenti d'ogni parola, e che bastò a rassicurare ed a rallietare l'animo di Maria; poi disse:
— Sì, la ho guardata, perchè io ammiro la pietà [114] dovunque si manifesti, e trovo degno di lode il sentimento che condusse presso il letto del giacente la figliuola d'una superbissima schiatta. La ho guardata, ma l'ho io veduta? Come donna, no. Di donne ve n'è una sola al mondo ch'io veda oramai, una sola che esista per me...
S'interruppe, sollevò lentamente alle sue labbra la mano che teneva e vi posò un lungo e caldissimo bacio; poi soggiunse con voce più bassa, ma con accento ancor più espressivo:
— E quest'unica donna — Maria — sei tu!
La fanciulla si riscosse come subitaneamente colpita da una potente scintilla elettrica, arrossì, impallidì, tremò, accennò cadere, si aggrappò al braccio di lui per sostenersi.
— Sì, Maria, sei tu. Benedico questo momento che Dio mi concede da poterti parlare in libertà. T'amo e voglio che tu sia la donna compagna del mio destino; ma non mi piace ottenere questa felicità da altri che dall'amor tuo. Ti senti tu di amarmi? Ti senti tu d'esser mia, tutta mia, sempre mia?
Ella appoggiò la sua fronte al petto di lui per nascondere il dolce rossore del suo viso e mormorò sommessamente:
— Sì... Oh sarò felice!
Allora egli la staccò dolcemente da sè, e con gentile riverenza inchinandosi innanzi, disse:
— Mi permette dunque, madamigella, ch'io domandi la mano di Lei ai suoi genitori?
Maria gli porse la destra.
— Ed io glie la do senz'altro. Babbo e mamma non avranno altra volontà che la mia.
Quando Quercia ebbe baciata quella mano, ella si fuggì ratta, e questa volta andò proprio a serrarsi nella sua camera, dove sentiva il bisogno di essere sola.
Il medichino la seguitò con uno sguardo in cui brillava una bassa cupidigia sensuale.
— Oltre i suoi denari, disse fra sè con cinismo, avrò anche una donnetta che mi piace... finchè ne sia poi stufo.
Ricompose la sua faccia ad espressione onesta, ed entrò nella camera di Francesco.
Il miglioramento dell'infermo era evidente anche agli occhi d'un profano all'arte medica; e il padre e la madre di lui lo avevano subito avvertito, pensatevi se con lieto animo. Quercia certificò questo prospero mutamento e crebbe la consolazione dei parenti, il buonumore del malato. Per la prima volta, dopo parecchi giorni, in quella famiglia così crudelmente provata, entrò di nuovo la tranquillità dello spirito e trovò luogo il sorriso.
Si parlò con mente più libera di cose varie e indifferenti; e Francesco domandò che cosa succedesse per la città, come si fossero passati gli ultimi giorni di carnovale e quali novità occupassero le ciarle dei cittadini. Il sor Giacomo, fra altre cose, disse della principale di codeste novità, che era quella dell'assassinio di Nariccia, di cui non sapeva bene però tutti i particolari, essendo vissuto in quei giorni così segregato dal mondo, e quindi chiedendone al dottore: ma questi non parlò a lungo di tale argomento; ripetè spiccio le voci principali che correvano, e poi tosto consigliò a fare in modo che l'infermo non avesse tanto da parlare, e quindi troncare per allora il discorso.
Ma il ricordare quel delitto aveva richiamato qualche cosa alla mente del padre di Francesco. Quercia, che era osservatore acutissimo e sempre in sull'avviso, s'accorse che a questo proposito alcun che era intravvenuto che più da vicino toccava quella famiglia o il sor Giacomo solo, perchè quest'ultimo aveva preso un aspetto alquanto preoccupato, e guardava il dottore con una certa espressione fra di curiosità e di dubbio, di esitanza e di imbarazzo che pareva significare aver egli qualche cosa da dire ed essere incerto se e come dirla.
Gian-Luigi decise tosto tagliar netto il nodo; si chinò verso il signor Benda, e gli disse sotto voce:
— Avrei bisogno di parlarle. La mi vuole concedere due minuti di colloquio nel suo studio?
— Volentieri. Ho giusto ancor io una strana circostanza da comunicarle.
Quando furono di là il giovane invitò il padre di Francesco a parlare per primo: ma il signor Giacomo non volle.
— No, no, parli Lei: il suo contegno mi dice che le sono cose gravi quelle che la mi ha da dire, ed io, avvezzo oramai a nuovi colpi della sventura, sono ansioso di sentire se qualche nuovo malanno ci minaccia.
Luigi fece sorridendo un atto rassicuratore.
— No. Debbo trattenerla di due cose: la prima è una bazzecola che la mia poca memoria mi ha tolto di dirle prima, come già avrei dovuto fare; l'altra è una proposta, importantissima per me, pel quale si tratta della felicità della vita.
Il signor Giacomo, la cui curiosità fu vivamente desta da tali parole, fe' cenno al suo interlocutore parlasse liberamente.
— Cominciamo dalla cosa indifferente. Il parlare ora del delitto commesso la notte dell'ultima domenica di carnovale, mi ha fatto ricordare che io, quella notte medesima, quando mi sono partito di qua, su questo stesso viale che qui conduce, fui vittima d'un'aggressione.
— Lei?
— Sì, signore. Due uomini mi assalirono, dei quali uno era un colosso. Non pensai mi convenisse opporre resistenza; mi spogliarono di quanti denari avevo, e, quel che più mi dolse, mi presero anche il mantello che qui mi era stato imprestato: ed ecco la cagione per cui non l'ho potuto ancora, nè lo potrò mai restituire.
Giacomo fece un atto ed un'esclamazione che significavano: «Ora capisco tutto.»
[115] — Egli è appunto cosa che riguarda quel benedetto mantello che io le ho da dire. In causa di esso io ebbi una chiamata dal giudice istruttore.
— Davvero? esclamò Quercia, che nascose il suo malessere sotto le mostre dello stupore.
— Sicuro; e ci fui questa mattina medesima.
— E che le si disse adunque? Il mio aggressore sarebbe stato arrestato?
— No, ma il suo aggressore dev'essere niente meno che l'assassino di quell'usuraio.
— Possibile! Oh come? oh come?
— Nelle mani dell'assassinato si trovò un pezzo di bavero, sotto cui trapunte due lettere iniziali. La Polizia ebbe a sè tutti i sarti della città per vedere se alcuno riconoscesse in quello un suo lavoro, e il sarto mio e di mio figlio disse che quello era il colletto d'un mantello da lui fatto pochi mesi sono per Francesco, del cui nome infatti sono iniziali le lettere che vi si trovano trapunte. (E il nostro sarto ha appunto l'uso di ricamare tali cifre per distinguere i panni miei da quelli di mio figlio). Mi si mostrò quello squarcio e mi si domandò se lo riconoscevo: io risposi che quelle erano invero le iniziali del nome di mio figlio, che ben mi pareva quello il pezzo d'un suo vestito, ma che non potevo esserne sicuro. Si volle sapere se un mantello od altro oggetto di vestiario qualunque mancasse alla guardaroba di Francesco, e per che cagione la ci mancasse, ed io dovetti contare come quella sera fatale avessimo dovuto imprestare a Lei, a cui abbiamo tanto debito di riconoscenza, un mantello per tornarsene la notte a casa sua.
Gian-Luigi ebbe tanta padronanza di sè da nascondere la sua contrarietà, la fiera rabbia ond'era assalito.
— Ho avuto torto, diss'egli, a non dare importanza a quell'aggressione. Se fossi andato subito a denunziare il fatto, dando io i connotati dei malandrini, e li posso dare esattissimi, avrei forse conferito allo scoprimento de' rei; ma pensai allora che non valesse manco la pena di scomodarsi. Però si è ancora certamente in tempo, e conto recarmi tosto dal Commissario di Polizia.
— Farà bene. Di sicuro non è su Lei che possano cadere sospetti di tal fatta; ma un altro da questo viluppo di circostanze potrebbe venir compromesso. È meglio affrettarsi a dilucidare le cose.
Quercia, con atto di cordiale franchezza, tese la mano al signor Giacomo.
— Lei, signore, mi dice superiore a questi sospetti, e sono persuaso che tale mi crede; ma in realtà Ella conosce poco di me e nulla delle cose mie. Avrà udito di me varii giudizi nel mondo, e forse malevoli i più: ma il vero è che nessuno sa nulla dell'esser mio, del mio passato, delle mie reali condizioni. Ebbene ora voglio che Ella mi conosca compiutamente; devo farmene compiutamente conoscere, prima di avventurare una domanda, da cui, come già accennai, dipende la felicità di tutta la mia vita.
Si raccolse un momento, e poi raccontò il seguente romanzetto della sua vita ch'egli si era preparato per simile occasione.
— Lungo tempo io vissi come trovatello. La mia nascita toglieva un vistoso patrimonio a certi collaterali della mia famiglia, i quali mi fecero pertanto sparire e mi relegarono in un ospizio. Un po' di rimorso in que' sciagurati che così mi sacrificavano, li indusse a farmi levare di là ed affidarmi alle cure d'una donna che mi fosse nutrice e madre, incaricando di vigilare su di me un medico del villaggio in cui questa donna abitava. Quando fui cresciuto, questo medico, sempre per mandato di que' tali, mi fece studiare, mi mandò all'Università, e poichè fu giunto all'estremo di vita mi ebbe a sè e mi rivelò il segreto. I miei nemici avevano così bene prese le loro precauzioni che nessun documento più, nessuna prova sopravanzava da farmi restituire il mio nome e l'esser mio; d'altronde trattavasi dell'onore di certi autorevolissimi personaggi che si voleva salvo ad ogni modo, così che se io, istrutto di qualche cosa, avessi tentato il ricupero del mio vero stato, mi sarei esposto anche al pericolo di vedere minacciata, non che la libertà, la mia vita. Per rimediare in alcun modo al torto che mi era fatto, quei medesimi avevano mandato al medico circa cento cinquanta mila lire da darmi brevi manu, capitale che per poco mi sapessi industriare avrebbe bastato a farmi vivere agiatamente. Il medico medesimo, commosso dalla pietà del mio caso, mi lasciava parte delle sue sostanze. Che doveva io fare? che mezzi mi restavano da ribellarmi contro il mio destino? Accettai e mi tacqui. Quel capitale, che fu da principio di poco meno che duecento mila lire, per mezzo di certe speculazioni industriali... fatte in Francia... ho più che accresciuto; ed ecco l'origine di quella ricchezza che la gente trova forse misteriosa, e di cui non curo, anzi disdegno di porgere al volgare la menoma spiegazione. A Lei, prima di fare la domanda che sto per volgerle, dovevo dare questa spiegazione; ed anzi, siccome la non è obbligata a credermi soltanto sulla parola, le darò per prova della verità del mio asserto uno scritto tutto di pugno di quel medico, — e la sua firma si può riscontrare e fare autenticare per vera quandochessia — nel quale ogni cosa è narrata per disteso, scritto lasciatomi da lui, appunto perchè in qualunque caso io potessi trionfalmente rispondere ad ogni sospetto che potesse sorgere, ad ogni accusa che mi si potesse affacciare intorno alle fonti di quelle mie sostanze.
— Io non ho bisogno di questo — si credette in obbligo di dire il signor Giacomo, il quale non sapeva ancora a che volesse parare il giovane con siffatti discorsi — per prestar fede alle sue parole.
E Gian-Luigi con maggiore la vivacità:
[116] — Crede Ella dunque che un uomo in queste circostanze, con mezzo milione di patrimonio, possa aspirare senza troppa audacia alla mano della fanciulla d'un'onesta famiglia, d'una fanciulla ch'egli ama più d'ogni cosa al mondo?
Giacomo comprese finalmente; ma la cosa gli giunse così inaspettata che non ebbe parole fatte e non seppe dimostrare il suo stupore altrimenti che coll'espressione della sua faccia; il giovane inchinandosegli dinanzi con cerimonia, come aveva fatto testè dinanzi a Maria, gli disse con accento solenne:
— Ho l'onore di domandarle la mano di sua figlia, madamigella Maria.
Il signor Benda, tanto meravigliato ancora che non sapeva bene tuttavia se questa domanda gli faceva piacere o no, rispose come rispondono tutti i padri in simili occasioni: esser questo un onore, ma prima di prendere una decisione aver bisogno di consultare la famiglia, e la figliuola sopratutto, eccetera, eccetera, e soggiunse che in quelle tristi circostanze in cui si trovavano, troppo non era acconcio il tempo a pensare e parlare di cose siffatte.
Quercia si credette allora in obbligo di spiegare la ragione per cui non ostante la poco propizia occasione, chè riconosceva ancor egli quella essere tale, avesse pur tuttavia affrettato di avventurare la sua domanda. Disse che il suo amore per Maria era nato ben dapprima ch'egli si fosse introdotto in quella casa (il mentire non gli costava nulla) che ora avvicinandola erasi quell'affetto accresciuto a dismisura, e che, dovendo egli partire fra poco tempo per recarsi in Francia, appunto per quelle sue certe speculazioni che aveva detto averci colà intraprese, e fermarcisi forse un anno ed anco più, non poteva acquietarsi all'idea di partire senza aver deciso il destino del suo amore. Questo era il motivo per cui aveva così bruscamente dichiarato le sue intenzioni, e pregava in conseguenza che non gli si facesse di tanto ritardare, qualunque si fosse, la risposta che invocava.
Il signor Giacomo fissò il dopo dimani per una risposta definitiva, e i due si separarono con una stretta di mano che era più che d'amico, quasi già di congiunto.
Gian-Luigi, uscendo da quella casa, s'affrettò verso il Palazzo Madama, dove domandò di parlare al signor Commissario.
Quando il signor Tofi udì annunziare che il dottor Quercia domandava di parlargli, provò una viva sorpresa che si manifestò in un leggier trasalto ed in un vivace lampeggiar degli occhi sotto le folte sopracciglia. La preda veniva da se stessa all'arrivo del cacciatore: vero era che questa preda aveva unghie ed artigli, ma com'era bene armato altresì il cacciatore a combatterla! Primo impulso del Commissario fu quello di far sollecitamente introdurre questo inaspettato visitatore: ma poi stimò meglio per varie ragioni non mostrare e non aver premura. Quercia, venendo da se stesso ad offrirsi al combattimento, ci veniva di sicuro preparato, munito di buone difese, avendo studiato i colpi e le mosse; conveniva di meglio all'avversario meditare un momento anche lui sul modo di condursi. Non voleva porre piede in fallo; le protezioni che sapeva al giovane acquistate dalle sue attinenze con una certa sfera sociale che aveva ogni autorità ed ogni privilegio, lo impacciavano non poco, non voleva movere un passo più in là di quello che si dovesse, per paura di aversi a ritirar indietro, la qual cosa sarebbe stata sua vergogna e suo danno. Ad ogni buon conto disse alla guardia che gli aveva annunziata quella visita:
— In quanti uomini siete costì?
— Siamo sette.
— Bene: quando quel signore sia introdotto da me, quattro vengano nella stanza vicina, pronti ad ogni cenno.... Quel signore poi lo farete passare solamente quando avrò suonato.
Partita la guardia, il Commissario andò al forzierino che stava presso al caminetto, lo aprì colla chiavetta che portava sotto panni appesa al collo per un cordoncino, e ne trasse quel grosso libro legato in pelle nera, che gli abbiam già visto consultare quando volle sapere alcun che del pittore Vanardi. Questa volta aprì il libro al punto in cui sul margine della pagina era impressa per rubrica la lettera Q e lesse attentamente tutto ciò che stava scritto sotto il nome di Quercia, sul quale si posò il suo dito lungo, grosso, nero, villoso ed unghiato. Poi richiuse il libro, lo ripose là donde l'avea tolto, serrò accuratamente il forziere e le mani affondate nelle lunghe tasche del suo soprabitone, il mento quadrato sostenuto al duro cravattino, passeggiò per lo stanzino profondamente meditabondo.
Intanto Gian-Luigi s'impazientava d'aspettare. Per quanto fosse pieno di risoluzione e scevro di timore il suo animo, non era certo senza una specie di apprensione ch'egli era entrato in quel luogo. Affrontava audacemente un pericolo che aveva visto sorgergli innanzi, ma non sapeva bene quali forme precise e quali forze potesse prendere poi questo pericolo, dal quale fors'anco non avrebbe potuto scampar vittorioso. La sua natura era avida di simili temerità ed era avvezza ad ottenere, mercè appunto l'audacia, l'aiuto della fortuna; ma gli piaceva per ciò averne di subito dalla sorte la risoluzione del problema che affrontava, il premio dell'ardimento che dispiegava. L'indugio che pose il Commissario a riceverlo cominciò per essergli fastidioso, [117] poi divenne grave e quasi insopportabile. Anche la sua superbia, anche il suo amor proprio n'erano offesi. Pensò inoltre che una troppo umile tolleranza da parte sua avrebbe potuto essere indizio di qualche peritarsi, di alquanto timore, e ciò non voleva assolutamente che si credesse. Si staccò dalla finestra, dove superbamente atteggiato, il cappello in testa, stava guardando nei fossi del castello, e indirizzandosi al capo delle guardie che erano in quella stanza, disse con accento imperioso di superiore:
— Olà! E' mi par soverchio questo farmi aspettare. Crede egli il signor Commissario che io non abbia mezzo migliore di passare il tempo che star qui a guardare traverso questi vetri affumicati il volo dei colombi? Andate e ditegli che se le sue occupazioni non gli permettono di ricevermi ora, me lo faccia saper subito, ed io tornerò in momento più opportuno.
La guardia esitò un momento; ma il tono di comando e l'aria di disprezzo agiscono sempre con una certa forza sull'animo di quella gente, avvezza ad essere disprezzata da chi li comanda; e Gian-Luigi era tale a cui nessuno andava innanzi nell'imponenza dell'aspetto e nell'autorevolezza della parola. Sotto lo sguardo imperioso del giovane elegante il poliziotto finì per cedere e si recò dal Commissario a fare timorosamente l'ambasciata.
Il signor Tofi cominciò per istrapazzare di santa ragione il mal capitato, e poi soggiunse più burbero che mai:
— Dite a quel signorino che di voglia o di necessità avrà la pazienza d'aspettare; chè se volesse partirsene, avete l'ordine, come vi do espressamente, capite, di trattenerlo ad ogni modo.
Quercia, all'udire questa risposta, sbuffò, disse ad alta voce con tono concitato che avrebbe mostrato al sor Commissario il modo di trattare coi pari suoi, e fece persuasi tutti quelli che l'udivano, esser egli un gran personaggio.
Cinque minuti dopo il campanello del Commissario suonato con mano robusta avvisò che il visitatore poteva essere introdotto.
Quercia entrò nel gabinetto senza levarsi il cappello, l'occhio incollerito, la mossa superba, come avrebbe potuto fare il conte San Luca o il marchesino di Baldissero.
— Sor Commissario, diss'egli colla sua voce vibrante e l'accento fiero d'un padrone sdegnato, la sa che non mi tocca fare anticamera nemmeno dal Governatore, nemmeno dal signor Ministro?
Tofi alzò gli occhi sul giovane e lo saettò d'uno sguardo acuto, incisivo, penetrante di sotto l'arco sporgente delle sue folte sopracciglia. Luigi sentì da quell'occhiata come un urto nel cervello e nel petto: gli fu necessario usare tutta la sua forza, tutta la padronanza che aveva su se stesso per frenare un sussulto; ma le sembianze non ne lasciarono scorger nulla. Conobbe di botto che aveva un fiero lottatore di fronte; ma non si sentì impari allo scontro. Rispose con uno sguardo più superbamente sdegnoso che mai.
Il Commissario se ne intendeva di forza d'animo e d'espressione di fisionomia.
— Ecco una stupenda figura, pensò, tenendo fisi sul volto del giovane i suoi occhi, che però cessarono di avere l'aggressività di prima. Questo individuo non deve far nulla di mediocre. Se ha posto il piede nella via della scelleratezza ci andrà — ci sarà andato — più innanzi d'ogni altro.
Sentì una specie, non dirò di rispetto, ma di riguardo verso quella forza di tempra che vide rivelarglisi, che indovinò ancora più. Avvezzo a rispettare ogni superiorità sociale, riconobbe e quasi accettò quella superiorità di volere e di pensiero che aveva dinanzi. Laonde nella sua risposta non ci fu tutta quella insolente asprezza che altri si sarebbe potuto aspettare. Sedeva egli alla sua scrivania, al piano della quale appoggiava il gomito sostenendo colla mano la sua faccia pelata di color ulivigno, che teneva rivolta verso il giovane in piedi pochi passi da lui distante, e senza punto muoversi, disse lentamente:
— Se S. E. il governatore e S. E. il ministro non le fanno fare anticamera, gli è perchè andrà da loro in momenti in cui non ci hanno nulla da fare. Io, che non ne ho punto di questi momenti, non posso trascurare il servizio del Re per far piacere a questo ed a quello. Ha capito?
Sulla faccia di Quercia parvero lottare un sentimento d'irritazione e un altro di cedevolezza (ed era questa in lui tutta arte sopraffine da comico): dopo un poco la diede vinta a quest'ultimo, fece uno de' suoi incantevoli sorrisi che significava apertamente: «Siete un originale, e conviene prendervi come siete;» e disse con accento scherzoso:
— Ho capito benissimo.
Siccome lo sguardo acuto di Tofi si levava al cappello che il giovane teneva ancora in testa, ed essendo in casa altrui era dovere levarselo, Gian-Luigi se lo tolse sbadatamente; come compiendo un atto abituale, senza darci importanza, e lo gettò sul forzierino lì presso: poi senza aspettare l'invito di sedere che il Commissario non pareva disposto a fargli, prese una seggiola e venne ad assettarsi ad un passo di distanza dalla scrivania.
— Posso sapere che cosa mi vale questa sua visita? domandò allora con accento burbero il signor Tofi che non aveva mai tolto il suo sguardo dal giovane.
Questi rispose con quell'accento scherzosamente leggiero che pareva aver adottato per tono della conversazione:
— La lo può sapere di sicuro, perchè son venuto apposta per dirglielo.
Raccontò la favola dell'aggressione notturna, quale [118] l'aveva narrata al padre di Francesco, e diede dei suoi aggressori i connotati che corrispondevano precisamente a quelli di Graffigna e Stracciaferro. Tofi lo aveva ascoltato, guardandolo sempre con quella fissità che era fatta per turbare anche un innocente; e Quercia non se n'era menomamente lasciato turbare.
— Bene: disse il Commissario con ironia; Ella mi ha dipinto a meraviglia due malfattori che dovettero prender parte all'assassinio dell'usuraio Nariccia; ce ne manca soltanto uno, poichè abbiamo la certezza che a compire quell'orrendo delitto erano in tre. Saprebbe dirmi qualche cosa anche del terzo?
Gian-Luigi lo guardò come uomo che non comprende, e che non si cura dare importanza agli indovinelli cui piaccia al suo interlocutore affacciargli.
— Credo, rispose con disdegnosa leggerezza, che non sia mio còmpito, ma il suo, quello di rintracciare questa razza di gente.
— E lo rintracceremo, e lo troveremo: disse lento e spiccatamente il Commissario chinandosi alquanto verso Gian-Luigi e guardandolo più fiso ancora di prima.
Quercia non ebbe la menoma contrazione dei muscoli della faccia, nè il menomo batter di ciglia.
— Lei è medico? domandò bruscamente a un tratto il signor Tofi.
Gian-Luigi s'inchinò con una ironica ma elegante cortesia.
— Per servirla; rispose.
— Sarei curioso di sapere in quale Università ha presa la sua laurea di medicina.
— La curiosità è una dote del suo mestiere, ma non credo che sia un obbligo dei cittadini il soddisfarla.
— È un obbligo molte volte cui impone la giustizia. Parecchi anni sono c'era nell'Università di Torino uno studente di medicina che aveva molta rassomiglianza con Lei; ma frequentava più le bische, i bigliardi, i convegni di certe donne, eccetera, che non le lezioni dei professori; e non avvenne mai che questo cotale prendesse la laurea. Sparì un bel dì carico di debiti, e si ha forti dubbi che poi ricomparisse con altro nome, dandosi addirittura per medico e sfoggiando una ricchezza che nessuno sa com'egli si fosse guadagnata — o si guadagni.
Gian-Luigi appressò la sua seggiola alla scrivania ed a questa appoggiò il gomito con mossa piena di grazia e di eleganza; poi, battendo una marcia sul mobile colle dita bianchissime della destra che aveva sguantata, prendendo un tono di libera domestichezza, ma non scevro d'una certa superiorità, domandò:
— Parli chiaro, sor Commissario. È questa una specie d'interrogatorio che la mi dirige?
— E se lo fosse, signor dottore, che la risponderebbe?
— Risponderei la verità. Quello studente ed io siamo una persona sola. S'io non ho la laurea di medico, non n'esercito neppure la professione, ed è innocente inganno quello di prendere un titolo vano che l'uso suol dare di subito a chi intraprende una di simili carriere. Lo studente di leggi è salutato fin dal primo anno col titolo di avvocato, e lo studente di medicina con quello di dottore. Quanto alle mie ricchezze, dove mi se ne chiedesse l'origine, ad uno qualunque, direi che gli è un impertinente, e saprei dargliene anche la meritata lezione; ad un'autorità, come sarebbe Ella, quando credesse per una ragione qualunque di suo ufficio dover entrare in questi che sono individuali segreti, avrei buono in mano da provare la legittimità della provenienza di tutto ciò che possedo.
— Ebbene, signor dottore o non dottore; proruppe con una specie d'impazienza il Commissario; quell'autorità le sta dinanzi, e il momento di dar questa prova è venuto.
Quercia si trasse indietro levando il capo e drizzando il collo in una mossa piena di superbia.
— Si oserebbe sospettare alcuna cosa?...
Tofi lo interruppe ruvidamente.
— Noi osiamo sospettare di tutto e di tutti.
Il giovane gli gettò un'occhiata fiera di minaccia e disdegno.
— La dovrebbe pur sapere chi io mi sia e di quali attinenze mi vanti. Badi che questa troppo spiccia maniera di procedere, se conviene coi miserabili coi quali è solita Ella a trattare, non si affà colle persone ammodo...
— Io sono come sono e fo come mi aggrada, purchè faccia il dover mio: interruppe Tofi diventando sempre più ruvido. Poichè Ella stessa è venuta a me, prima ch'io la mandassi a cercare, la si acconci a darmi in questa conversazione quelle nozioni di fatto che mi abbisognano, altrimenti la conversazione potrebbe prendere un nome più severo, quello che disse Ella stessa un momento fa, e diventare un interrogatorio.
Quercia fece colla mano un cenno di superba condiscendenza accompagnandolo con un sogghigno che significava: «vedremo chi l'avrà vinta alla fine;» e disse con tutta freddezza:
— Bene! Interroghi pure.
Alle domande di Tofi rispose colla storiella che gli abbiamo già sentita narrare al sor Giacomo, e promise presentare come documento lo scritto del suo protettore, il medico del villaggio, il quale scritto già aveva eziandio accennato al padre di Maria.
Tofi scrisse man mano le sue noterelle nel portafogli che soleva portare nella tasca del petto, e non mostrò in modo alcuno sulla sua faccia scura che impressione, buona o cattiva, gli facessero le parole del giovane. Questi, finita la sua narrazione, si levò.
[119] — Parmi che non le occorra più nulla da parte mia e che posso andarmene.
Il Commissario lo guardò un momento senza rispondere. Gian-Luigi sentì un brivido corrergli per le vene: gli parve che dalle labbra grosse di quella bocca squarciata dovessero uscire le tremende parole: — «Ella è arrestata;» ma neanco di lui la fisionomia non espresse nulla dell'interno sentimento.
— Un istante: disse con accento che pareva minaccioso la voce rauca e burbera del Commissario.
Gian-Luigi fece correre tutt'intorno uno sguardo ratto e fugace come chi cerca se vi è modo di scampo.
— Che la vuole ancora? domandò egli sorridendo leggermente.
— La non è venuta qui per dar querela di quell'assalto notturno, di cui dice essere stato vittima?
— Precisamente.
— Dunque aspetti che sia scritta la sua deposizione e ch'Ella l'abbia firmata, perchè si possa poi trasmetterla all'autorità giudiziaria.
Fece venire l'impiegato che sedeva nella camera precedente, e dettò rapidamente il verbale della denunzia fatta da Quercia.
— Va bene così? gli domandò poi col suo tono aspro e burbero.
Gian-Luigi chinò leggermente il capo.
— Allora firmi.
Quercia prese la penna e scrisse con mano sicura, nella più bella calligrafia di cui fosse capace, il nome ch'egli soleva portare. Poi prese il cappello che aveva posto sul forziere e a mo' di commiato disse:
— Per qualunque cosa che occorresse ulteriormente in proposito, Ella sa dove mi si può trovare.
Il Commissario rispose con un accento in cui c'era dell'ironia e della minaccia:
— Sì signore: saprò appuntino dove trovarla.
Gian-Luigi, fece un legger cenno del capo che poteva sembrare un saluto, ed uscì da quel gabinetto, da quel locale, dal Palazzo Madama col passo tranquillo, sicuro e superbo con cui era entrato.
Tofi gli guardò dietro alla guisa con cui il gatto guarda un topo che gli scappa.
— Ah! se non fosse amico del conte di Staffarda e il ganzo della contessa: disse fra sè con un sospiro di rincrescimento: non me lo lascierei sfuggir di mano.
Quando fu al largo nella vasta Piazza Castello, in piena luce e in piena aria libera, Gian-Luigi mandò un grosso rifiato, come uomo fatto libero da un'oppressura, e senza pur accorgersene affrettò il passo per allontanarsi di là. Fu sotto i portici e fece un tratto di cammino senza saper bene dove volesse andare e che cosa fare; salutò i conoscenti con cui s'incontrò in quell'universale ritrovo dei Torinesi, coll'aspetto e coi modi «d'uomo, cui altra cura stringa e morda che quella di colui che gli è davante.»
— Bisognerebbe tagliar corto e presto a siffatte velleità curiose del sor Commissario, pensava egli. Come governarsi per ciò?... Ah! non c'è altri che mi possa meglio aiutare di quella brava Zoe.
Volse indietro ratto i suoi passi, e, frettolosamente camminando, fu in breve alla dimora della famosa Leggiera. Trovò un gran disordine nel quartiere di quella donna, e lei medesima in una somma desolazione. Nel salotto e nella camera da letto tutto era sottosopra, gli specchi spezzati, le porcellane infrante, gli orologi e i candelabri dorati fatti a pezzi e giacenti in terra, le tende e le cortine strappate, tutti i ninnoli e le minuterie eleganti ond'erano adorne quelle stanze sparsi a frantumi sul pavimento. In mezzo a questo tramestio, le chiome scarmigliate, pendenti sulle spalle, contratta la faccia, le mani serrate, come Mario sulle rovine di Cartagine, sedeva la Leggera.
— Che è egli avvenuto? domandò Gian-Luigi guardandosi attorno stupito. Si direbbe che v'è stata un'invasione di barbari.
Zoe sollevò il suo volto abbuiato e volse al suo complice gli occhi, in cui si vedeva un implacabile risentimento.
— Che cosa è avvenuto? diss'ella con labbra strette e con voce che sibilava fra i denti. Gli è avvenuto che il prince charmant è un cane, ed anche un peggior animale. L'invasione dei barbari fu uno scoppio della sua collera bestiale. Quello scimmiotto andò in furore e parve un orso scatenato. Ma me l'avrà da pagare...... oh se l'avrà da pagare!
E tese verso un punto dell'orizzonte, con atto pieno di minaccia, il suo braccio colla mano chiusa a pugno.
Gian-Luigi diede un calcio ad un coccio di preziosa porcellana che si trovò tra' piedi.
— Ed avrà da pagare eziandio tutto questo.
La Leggera fece un perfido sogghigno.
— E come! Voglio una mobilia tutto nuova e dieci volte più bella.
— Benissimo! E così il sor Principe imparerà a far le bizze. Ma come avvenne?
— Avvenne per causa tua.
— Mia! Oh, in che modo?
Per dirla in breve, al signor Principe era stato detto, affermato e provato che la Zoe era in istrettissime e non innocenti attinenze col famoso dottor Quercia, e S. A. arrabbiatissima aveva voluto con modi da prepotente ottenere che la donna gli promettesse di non ricevere più quel cotale. La domanda e la forma con cui era espressa spiacquero immensamente alla Leggera che non era d'umor dolce nè tollerante. Rispose in pari tono, cioè con insolenza uguale all'imperiosità dell'altro; la discussione divenne in breve più che vivace, e il Principe si obliò al punto da levar la mazza sopra la [120] mantenuta; ma essa, accampandosi fieramente in faccia a lui, le braccia serrate al petto, l'aria imponente di risoluzione, le nari frementi, lo sguardo acceso, gli disse con forza:
— Suvvia! Abbia l'immenso valore di percuotere una donna! Bella principesca impresa!
Il Principe s'era allontanato da lei come un animale domato; ma in qualche modo aveva pur bisogno di sfogare l'irrefrenabil ira che lo rodeva. Con quella mazza che si trovava in mano si diede a percuotere di qua e di là sui mobili, sui quadri, sugli specchi, su tutto, atterrando, rompendo, scaldandosi nella sua opera di distruzione, menando colpi alla cieca come un paladino gettatosi in mezzo ad uno stuolo di nemici; e quando tutto fu infranto, fuggì, perseguitato da uno stridente scoppio di risa della Leggiera.
— Diavolo! Diavolo! mormorò Quercia vivamente contrariato: questa la non ci andava.
Disse alla Zoe com'egli fosse venuto a domandarle di ottenere per mezzo appunto del Principe che il Commissario di Polizia non si occupasse altrimenti dei fatti suoi, ed ambedue riconobbero che l'occasione non era niente affatto opportuna per parlare a S. A. di Quercia, e per chiedergliene in pro di lui un favore.
Zoe giurò e spergiurò ch'ella non avrebbe fatto pure un passo verso il suo principesco amante, e che a costui toccava venirsene umilmente ad implorare ed ottenere il perdono; ma si mostrò sicura in pari tempo che ciò non avrebbe egli tardato di molto a fare. Ella non avrebbe commesso l'imprudenza di entrare subito con S. A. in quei discorsi che Luigi desiderava, ma prometteva che con accortezza, dopo alcuni giorni, avrebbe saputo affrontare destramente l'argomento ed ottenere lo scopo.
Bisognava aspettare alcuni giorni, e Quercia sentiva che i fati premevano ed era urgente il pararne i colpi. Ma come fare? Uscì di casa la Zoe, domandandosi se il meglio non era fuggire di presente, recando seco tutto quel bottino che poteva. Ma l'idea di fuggire gli era ostica, voleva ancora lottare; e poi gli passò innanzi alla mente la immagine di Maria, la cui innocente giovinezza avevagli destato un ardente, scellerato desiderio, decise aspettare.
— Per ogni occorrenza, pensò frattanto, bisogna ch'io vada a far imparare alla Margherita il romanzetto che ho immaginato intorno alla mia origine. E sarà bene ch'io induca eziandio Maurilio a non contraddirlo almeno. Bisogna adunque ch'io vada colassù... Dopo tanto tempo!... E sarà forse l'ultima volta.
Avrebbe voluto partire di subito pel villaggio, dove sappiamo essersi eziandio recato Maurilio in compagnia di Don Venanzio; ma ricordò che doveva, che voleva avere quel giorno medesimo una spiegazione col conte Langosco, e differì la sua partenza al domani.
All'ora solita, colla solita fisionomia, come se di nulla sapesse, Quercia si presentò al palazzo Langosco. Non mostrò il menomo stupore, quando il lacchè gli ebbe detto che il signor conte desiderava parlargli e lo attendeva nel suo gabinetto. Fece segno lo vi si guidasse, e seguì il domestico che fu ad annunziarlo. Entrò colà dentro la fronte alta, l'aspetto sicuro, un grazioso sorriso sulle labbra. Il conte stava in piedi, accigliato, severo, con un sogghigno più amaro che mai sulla sua bocca tirata; e non tese la mano verso il nuovo venuto. L'accoglimento era così apertamente ostile che Luigi, il quale dapprima aveva l'intenzione di non accorgersene, capì che sarebbe stato un errore il non mostrarne risentimento. Spense di botto l'amichevole sorriso sulle sue labbra, diede alla sua faccia un'espressione che in alterigia era pari affatto a quella del conte, ed incrociò bravamente i suoi sguardi arditi coi fissi sguardi di Langosco. Pensò che meglio gli convenisse, senz'aspettare l'assalto, cominciar egli e vivamente l'attacco.
— Eccomi qua, disse con accento d'una sicurezza quasi impertinente. Ella vuol parlarmi. Sta bene. Spero che non sarà cosa da durar lungo tempo, perchè in verità, per mia disgrazia, non ho che pochi minuti da concederle.
A queste parole ed al tono con cui erano dette, il conte sentì una subita, vivissima ira salirgli alla testa, ridrizzò alquanto il curvo petto e lanciò dagli occhi uno sguardo di fuoco, mentre una lieve tinta rosata gli veniva ai pomelli delle guancie macilente. La sua mano si tese verso il cordone del campanello, e Gian-Luigi comprese che proposito di lui era suonare pei lacchè, e farlo da loro scacciare da quella casa senz'altro. Quercia non lo avrebbe tollerato così di piano: mosse un passo verso il conte e fece un alto risoluto, come per trattenere quella mano; la sua faccia aveva preso l'aspetto terribile delle risoluzioni violente, la fronte gli era solcata da quella sua ruga caratteristica; gli sguardi accesi di quei due uomini si scontrarono di nuovo pieni d'odio e di minaccie. Capirono che stava per avvenire uno scandalo e gravissimo; questo non conveniva punto a Gian-Luigi, e meno ancora al conte. La mano di costui s'arrestò e venne a posarsi tranquillamente sulla pietra del camino: il lieve rossore sparì dalle sue guancie; gli occhi perdettero alquanto dell'espressione di minaccia e di collera per prenderne una di profondo disprezzo: stettero ancora un poco di quella guisa, guardandosi senza parlare: ma in quello scambio di sguardi e' si dicevan più e meglio, e' si rivelavano a vicenda l'animo ed il pensiero più che non avrebbero fatto coi discorsi.
— Non ho nessun desiderio di trattenerla lungamente; disse poi il conte con accento che mirabilmente s'accompagnava a quella nuova espressione [121] del suo sguardo. In due parole mi sbrigo e la sbrigo. Voglio anzi porla così bene in libertà che non abbia da darci mai più neppure un momento del suo tempo prezioso.
Gian-Luigi tese innanzi la testa come fa chi non ha capito bene e vuole afferrar meglio il suono delle parole.
— La vuol dire? domandò con un certo piglio che aveva dell'ironia e dell'impertinente.
— Non mi capisce? disse il conte coll'accento altezzoso d'un aristocratico inuzzolito.
— Ne accusi pure la mia intelligenza. Desidero che si mettano i punti sugl'i.
Il conte lo guardò fiso negli occhi con intendimento malizioso.
— Ah! Ella non dovrebbe avere di tali desiderii. La mi pare in condizioni da dover capire a mezze parole.
Quercia non battè ciglio.
— L'indovinar le sciarade è la prova d'ingegno di chi non ha spirito: disse accostandosi vieppiù al conte ed appoggiando famigliarmente un gomito alla pietra del camino su cui il marito di Candida aveva posta la mano. Le dispiace che ci parliamo in buon piemontese?
Langosco, quasi per moto istintivo, si trasse in là, come per allontanarsi dall'interlocutore.
— Non v'è ragione per cui a me abbia da dispiacere; rispose con tono più asciutto e più superbo di prima. Le voglio significare adunque che Ella non abbia più da mettere piede in mia casa, mai.
Luigi accolse queste parole colla massima freddezza ed indifferenza.
— Perchè? domandò egli semplicemente.
— Perchè? ripetè il conte, cui quel contegno del suo avversario parve presso a far uscire dai gangheri. Il perchè lo chieda al gioielliere X.
Quercia non si mosse: Langosco aspettò un momentino e poi soggiunse con voce più bassa, affondando lo sguardo negli occhi neri e profondi del giovane:
— Lo chieda all'assassinato Nariccia.
Luigi non ebbe il più leggiero sintomo della menoma emozione. Gli occhi di Langosco non poterono cogliere nulla nella oscurità profonda di quegli occhi immoti in cui ficcavan lo sguardo.
— Nariccia, rispos'egli freddamente, non mi potrebbe dir nulla, poichè ho udito che da quella bocca non uscirà parola mai più; il gioielliere non dovrebbe sapermi dir nulla, poichè non credo che Lei abbia voluto porre a parte di cose intime domestiche delle persone estranee.
All'impudente franchezza di quell'individuo, lo stupore del conte superò l'indignazione: stette lì quasi a bocca aperta a guardarlo meravigliato.
Quercia continuò:
— Una rottura fra di noi, creda, signor conte, non conviene a nessuno dei due; poco a me, assai meno a Lei. Io non son tale da lasciare che il mondo sappia aver io ricevuto un affronto quale è quello ch'Ella vuol farmi, ed io avermelo ingoiato con santa pazienza. Vuol Ella che fra noi si venga ad un duello?
Il conte fece vivamente un atto che indicava con chi gli stava dinanzi non si sarebbe battuto mai.
— Ella sa, continuava Luigi con uno speciale sorriso, che un uomo della mia fatta ha mille mezzi per far battere con sè un gentiluomo come Lei. Ma in uno scandalo chi ci ha da guadagnare? Ho bisogno che per una settimana tutt'al più, le cose continuino ad andare come per lo passato. Le propongo quindi, non un trattato di pace, ma una convenzione di tregua. Fra una settimana io parto per l'estero; glie ne do la mia parola; e la sarà libera per sempre dei fatti miei. Durante questo poco di tempo Ella ignori la mia presenza in questa casa ed altrove, le prometto che non le verrò innanzi io a ricordargliela.
Langosco ebbe un movimento di sdegnoso dispetto: gli venne più forte di prima la tentazione di far gettar fuori dai lacchè quell'impudente.
— Se Ella, seguitava lo scellerato pesando sulle parole, si lascia trasportare dall'impazienza, ciò che ora è segreto diventerà pascolo delle perfide ciarle del pubblico.
Il conte non rispose, non si mosse: aveva chinato lo sguardo, incurvata di nuovo l'esile, infiacchita persona e pareva esser egli cui la coscienza rimordesse. Aveva capito che in quelle parole era anche una minaccia e questa gli faceva paura. Quercia attese un momento e poi riprese con accento più sciolto che mai:
— Non voglio trattenerla più a lungo: le ho detto che anch'io non aveva molto tempo da concederle. Questo colloquio non avrà il suo secondo, mai. Non le domando risposta, ma l'attendo dai fatti. Ella già deve conoscermi che io non temo di nulla e non m'arretro innanzi a nulla.
S'inchinò leggermente ed uscì, senza che il conte facesse il menomo cenno, il menomo movimento, mandasse la menoma voce.
— Oh avere il proprio onore in mano di quello scellerato! disse poi fra se stesso raccapricciando. E' vuol partire.... La è di certo la fuga del colpevole... Ed io dovrò azzittire?
Quercia da canto suo faceva il seguente monologo:
— In una settimana avrò sbrigato tutto e partirò. Potrò io sostenere ancora per una settimana questo edificio che si disfà e minaccia crollarmi addosso? Certo che sì. L'audacia e l'accortezza mi aiuteranno.
Il domani a mattina partì ancor egli pel villaggio dov'era stato allevato.
[122]
Don Venanzio e Maurilio erano giunti al villaggio al cader della notte. Un freddo vento aveva sollevato alquanto sopra delle montagne la scura cappa di nubi che incombeva sul cielo, e una riga rossigna, color di sangue, mandava un fantastico chiarore dall'ultimo lembo di quel mantello nero disteso sull'orizzonte. Al rivedere que' luoghi testimoni della sua infanzia e della prima adolescenza, Maurilio, ora così mutato di condizioni, provava una strana sensazione, quasi un rimpianto ch'egli neppure non sapeva spiegare a se stesso.
La carrozza del marchese di Baldissero che ne li aveva condotti, si fermò alla porta della canonica, dove il parroco ed il giovane smontarono. Il rumore dei ferri de' cavalli che scalpitavano e delle quattro ruote che trabalzavano girando sul grossolano e disuguale acciottolato del villaggio, aveva tratto sul passo delle porticine le comari che preparavano il pasto della sera ai mariti ed ai figli, i quali appunto allora tornavano dal lavoro. Don Venanzio le salutava passando, con un sorriso, ed esse rispondevano con un inchino: gli uomini si levavano la berretta od il cappello con una famigliarità rispettosa: i bambini, scappati dalle falde materne, correvan dietro alla carrozza vociando come uno sciame di passerotti.
La chiesa era ancora aperta e ne veniva fuori un velato ronzìo di voci femminili: erano delle buone donne che dicevano il Rosario. Il vecchio moretto, tanto vecchio che oramai poteva appena trascinarsi, colla sua affettuosità di cane fedele, venne fino sulla soglia a dare la buona venuta al padrone collo scodingolare e con un suo mugolìo. Il campanaro dall'alto del campanile mandava per le ombre della sera, che ad ogni momento crescevano, i mesti rintocchi dell'Avemmaria.
La carrozza ripartì di trotto verso Torino, Don Venanzio e Maurilio entrarono nella modesta casetta. In essa tutto era ancora esattamente tal quale il giovane lo aveva visto nella sua infanzia, tal quale lo aveva visto quella sera che, scacciato da Nariccia, era venuto, senza pur saperne il perchè, a confortarsi l'animo nell'aspetto di quei luoghi. Tutto il medesimo e tutto al medesimo luogo. Nulla neppure pareva invecchiato. La paglia delle seggiole era sempre nel medesimo stato, sempre sbiaditi quel medesimo, nè più nè meno, i colori del tappeto a fiorami che stava sulla tavola nel tinello. In mezzo a quella roba sempre uguale non pareva invecchiato nemmeno il buon sacerdote che vi faceva raggiare il sempre medesimo sorriso di bontà, di cui le bianchissime chiome parevano un'aureola di santo ad una fronte piena di candore.
— Mio caro, disse il parroco a Maurilio, poichè si fu tolto il vecchio mantello, l'ebbe accuratamente ripiegato e consegnatolo alla vecchia fantesca perchè lo riponesse: hai tu bisogno di riposarti?
Il giovane fece un cenno negativo. Era commosso nell'intimo così che non poteva parlare: guardava intorno con occhi rimbamboliti, e tutte le ore della sua infanzia passate colà facevano ressa nella sua memoria per affacciarsegli una prima dell'altra, come una frotta di ragazzi che si vogliono cacciar dentro ad una porta alla rinfusa.
Don Venanzio si levò il cappello a becchi, lo lisciò bene colla manica e consegnandolo ancor esso alla serva, soggiunse:
— Ci preparerai un boccone di cena. Poca roba. Il nostro Maurilio non mangia di più di quello che mangiasse un tempo, e benchè sia ora un signore, non ha ancora imparato ad averne le abitudini. Una buona frittata coll'erbe e due capellini al brodo, e ne abbiamo d'avanzo. Non è vero?
Maurilio sorrise. La vecchia fante, che in compagnia di quel sant'uomo di prete aveva imparato la bontà, se ne andò via senza brontolare.
Don Venanzio si pose in capo la sua berretta da prete, nera col fiocco nero, e poi disse:
— Tu fai quello che vuoi. Io non torno mai da una gita qualunque senz'andar tosto a ringraziar la Madonna e il mio Santo protettore d'avermi scampato da ogni malanno. Senzachè questa è l'ora solita in cui mi unisco alle preghiere della sera di una buona parte de' miei parrocchiani. Vado dunque in chiesa; se vuoi attendermi qui...
Il giovane fece segno che l'avrebbe accompagnato.
— Sì? esclamò il parroco tutto lieto. Va bene. Vieni, vieni nella casa del Signore; chi sa ch'esso finalmente non ti faccia la grazia di toccarti il cuore.
Maurilio sorrise e seguì il vecchio sacerdote. Per un corridoio entrarono nella piccola, modesta sagrestia, non ancora rischiarata altrimenti che dal fievol raggio del crepuscolo che andava sempre più spegnendosi: e da questa penetrarono nella chiesa.
Essa era quasi oscura affatto. Una lampada sola ardeva dinanzi ad una statua di Madonna che stava in una nicchia d'uno dei pilastri: la fiamma oscillante di quella lampada mandava poca luce intorno e pareva meglio che altro una macchia rossiccia nel nero di quell'ombra. A' piè di quel pilastro, innanzi a quell'immagine, un gruppo di donne inginocchiate borbottava il Rosario. La poca luce che pioveva dalla lampada accesa, vacillando al di sopra di quelle teste chinate e di quelle spalle curve, coloriva d'una striscia fugace ora i panni di questa, ora il volto di quella donna; poveri panni e pallidi volti. Nessun rumore esterno giungeva fin là, e il brontolìo di quella preghiera saliva su dal freddo spazzo di quadrelli su cui le donne erano prostrate, come un gorgoglio d'onda nel silenzio d'un deserto.
Il parroco non andò a frammischiarsi al gruppo [123] di quelle preganti: si recò all'altar maggiore, s'inginocchiò sui gradini che lo separavano dal resto della chiesa, posò sulla balaustra di marmo bianco la sua berretta, appoggiò le braccia alla balaustra medesima, pose sopra le mani la sua testa ricurva e rimase immobile, assorto nella sua preghiera.
Separata dalle altre, una donna eziandio stava inginocchiata nell'angolo più oscuro della chiesa e pregava ferventemente in mezzo a lagrime e sospiri.
Maurilio si appoggiò alla parete, nell'ombra più scura d'una cappella dalla parte opposta a quella dove sotto l'immagine della Vergine pregavano le donne, ed incrociate al petto le braccia, immobile al par d'una statua, stette prestando l'orecchio, come ad una musica, al monotono accento di quella preghiera, facendo scorrere il suo sguardo dal parroco i cui panni neri spiccavano sul bianchiccio della balaustra, al gruppo delle donne sotto il fioco raggio della lampada, alla creatura isolata, le cui povere vesti scure si confondevano colle tenebre del luogo nell'angolo estremo della navata.
A che pensava egli in tal momento? A nulla ed a tutto. Gli si agitava confuso nella mente il tenebroso problema dei destini umani. Dimenticava un istante il suo io; o per meglio dire questo si assorbiva nel gran complesso della umana famiglia; il suo essere individuale era diventato il tipo, il modello di tutti gli esseri umani, per provarne in quel punto le aspirazioni e gli stimoli superiori alla materia; in lui s'era incarnato, come dire, lo spirito dell'umanità. Ammirava la fede cieca di quella povera gente e la invidiava come rimedio a porre in tacere le angoscie, le ansie, le audacie dell'intelletto investigatore, avido del vero; e la detestava nello stesso tempo come figliuola dell'ignoranza e negatrice della ragione. Avrebbe voluto credere come quelle ignare donnicciuole, pregare com'esse, lasciarsi avvolgere l'anima dalla superstizione, acchetarsi nella stupidità dell'idolatria, bendarsi gli occhi alla luce del vero col velo teocratico del passato: e si sarebbe disprezzato di farlo. Aveva per quelle anime ignoranti che ritraevano ancora, in mezzo alla civiltà moderna, del feticismo del selvaggio, ma nobilitato da una divina speranza, uno sguardo di compiacenza ed un sorriso di compassione. Sentiva entro sè la scienza riagire contro l'influsso del sentimento, contro le impressioni del luogo, delle memorie e dell'ora, e far suonare nel suo cervello le obbiezioni della verità materiale e il riso amaro di Mefistofele.
Quando il Rosario fu finito, le donne si levarono e stavano per partirsene; ma videro sorgere presso la balaustra l'ombra nera e le chiome canute del parroco, videro volgersi verso di loro la faccia soavemente veneranda del vecchio loro pastore, e si fermarono.
Don Venanzio venne presso di loro sotto la fievole ed oscillante luce della lampada, e tutte le furono intorno salutevoli e festanti; — tutte fuor che una: quella che, appartata dalle altre, pregava sempre con fervore nella più remota ed oscura parte della chiesa. Il parroco rispose amorevolmente e lietamente ai saluti ed alle amorevoli interrogazioni delle donne; poi levando la mano destra per chiamarne di meglio l'attenzione, disse:
— Voi avete pregato sinora per voi; è opera di carità e dovere di cristiano pregare eziandio pei nostri fratelli: e tutti gli uomini, lo sapete, sono nostri fratelli. Preghiamo adunque per quelli che soffrono, di qualunque sorta sieno i loro dolori, a qualunque classe o nazione appartengano, qualunque religione professino.
Sostò un momento e poi riprese con voce che vibrava d'una frenata emozione:
— Unitevi a me per pregare soprattutto in favore di coloro che non hanno il conforto ed il merito della fede.
A Maurilio parve che lo sguardo del buon prete andasse fugacemente a cercarlo nell'ombra.
— Preghiamo perchè Iddio apra loro gli occhi e coi santi misteri della religione parli al loro cuore.
Cominciò una preghiera cui le donne, inginocchiatesi di nuovo intorno a lui, ripeterono con tenera compunzione. Era un commovente spettacolo vedere quel vecchio sacerdote dritto innanzi all'immagine di quella che fu madre del Salvatore degli uomini, del creatore del mondo novello, le sue bianche chiome illuminate dal raggio della lampada, le mani giunte, gli occhi sereni e puri, specchio di un'anima senza rimorso, levati con espressione di ardente, angelico desiderio, di fede e d'amore; e intorno a lui chinate a terra quelle meschine, povere di ricchezza e d'intelletto, ma che con tanta fiducia s'associavano a quell'atto sublime di carità spirituale. Maurilio se ne sentì intenerire. Volse a quella rozza statua, che rappresentava la Vergine indiata, il suo sguardo sfavillante e mormorò fra sè con profonda riverenza d'affetto:
— Sì, parlami al cuore o eterno femineo divinizzato dalla religione del Cristo. Tu se' la bellezza, ma non solo delle forme come la greca, sì dell'anima; tu se' la pietà, tu se' l'amore nel suo più alto significato; tu se' insieme colla purezza la maternità, le due più sublimi cose dell'universo. La fede! Sì, dammi la fede che è forza e salvezza; ma non quella fede che distrugge il più prezioso dono di Dio allo spirito umano: la ragione; che nega il vero e vi scema in dignità ed in sapere, piegandovi all'assurdo. Aiuti l'influsso benigno di quella virtù di amore che in Te si rappresenta, ad affermarsi ed afforzarsi in me quella fede che vince ogni errore, perchè va unita coll'altra figliuola di Dio: la scienza.
Quando Maurilio ebbe terminato questa specie d'invocazione, il parroco e le donne avevano terminata la loro preghiera. Le contadine se ne partirono; il sacrestano le seguitò per chiudere alle [124] loro spalle la porta, e Don Venanzio venne verso il giovane, commosso ancora nel sembiante, nel sorriso, direi quasi, per la forza e la vivacità dell'affetto ond'era stata improntata la preghiera che aveva fatto.
— Ed ora, diss'egli con sincera giovialità, andiamo a cena.
Ma un'ombra si staccò dall'oscuro della navata e venne innanzi timidamente verso il cerchio di luce che mandava la lampada della Madonna. Era la pregante stata sempre in disparte e che non aveva abbandonata colle altre la chiesa.
— Signor Prevosto: diss'ella con voce affranta, timorosa, quasi tremante.
Il Prevosto la riconobbe di subito.
— Ah! siete voi, Margherita. Venite, venite meco che ho da parlarvi.
— Sì? disse la povera donna giungendo le mani ed affannata per desiderio, per isperanza, per ansietà. Da parte di lui? Lo ha visto?
— L'ho visto, rispose sorridendo Don Venanzio: ed è proprio di lui e per lui che ho da parlarvi. Seguitemi in casa.
Mentre il sacrestano abbarrava ben bene la porta della chiesa, il parroco, Maurilio e la povera Margherita passarono nella canonica.
Nel tinello schioppettava allegramente una fascina di sarmenti sugli alari del caminetto; sulla tavola, a coprire il famoso tappeto era steso un mantile di tela operata grossolana ma candidissima; due coperti erano posti allato l'un dell'altro, e in mezzo una bottiglia di vino ed una caraffa d'acqua e un bel pezzo di pan bruno. Una lucerna d'ottone a olio, de' cui tre becchi due erano accesi, illuminava la piccola stanza, aiutatavi dal gaio chiarore che mandava il fiammar della fascina. Moretto accoccolato presso il camino, il muso sulle zampe, stava nell'attitudine beata di chi gode tranquillamente il suo benessere. La vecchia fantesca finiva di mettere sul desco le posate di ferro che lucevano come se fossero d'argento, e, colla cesta in cui le si tenevano, se ne andava in cucina. Don Venanzio fece segno di sedere ad un lato del caminetto, a Maurilio, il quale obbedì: sedette anch'egli dall'altra parte sul suo seggiolone a bracciuoli col piano semplicemente impagliato, tirò fuor di tasca il moccichino di tela a quadretti bianchi ed azzurri, se lo pose ripiegato sopra un ginocchio e si volse verso la povera donna che avea fatto venire fin là.
Margherita s'era fermata in sulla soglia dell'uscio, e stava timidamente, ma desiosamente aspettando. I suoi abiti erano quelli della miseria; una veste tutto rappezzata di pannocotone che non avea più colore le si serrava intorno al corpo macilento; un fazzoletto scuro aveva sulle spalle, il quale, incrociandosele innanzi al petto incurvato, veniva ad annodarsele sulle reni; portava in testa un fazzoletto compagno che tanto le veniva innanzi sulla faccia da nasconderne i lineamenti; teneva congiunte le mani che parevano quelle d'uno scheletro ricoperte d'una pergamena color di tabacco e tutto raggrinzita.
— Venite avanti. Margherita: disse Don Venanzio con accento d'amorevolezza incoraggiativa: avete freddo, venite a scaldarvi.
La vecchia mosse due passi innanzi; i suoi zoccoli di legno fecero rumore sopra i quadrelli del pavimento; ella sembrò vergognarsene e si fermò.
— Avanti, avanti, vi dico: riprese il parroco; prendete una seggiola e sedete qui vicino a me dinanzi al fuoco; vi scalderete un poco a questa fiammata i piedi che ci scommetto son ghiacci.
— Oh! sor Prevosto: disse la donna vergognandosi più di prima.
— Animo, animo; sapete che non mi piacciono le cerimonie. Fate come vi dico e non mi impazientate.
Margherita prese una seggiola e venne sedere al luogo che le indicava il parroco.
— Marta, disse questi alla serva che era tornata per portar qualche cosa da mettere sulla tavola, tu porterai una scodella di brodo ben caldo per questa povera donna.
— Sì, signore, rispose la fante che tornò sollecita in cucina per ubbidire all'ordine ricevuto.
— Oh! sor Prevosto, ripeteva la vecchia agitandosi un poco sulla sua seggiola, troppa bontà..... non occorre... la prego.
— Levatevi quel fazzoletto di testa, disse Don Venanzio: ve lo rimetterete uscendo e così non vi avverrà di sentir tanto il freddo andando a casa.
La donna ubbidì. Si vide allora una testa arruffata di capelli grigi, una faccia magra, corsa per ogni senso, per ogni dove da rughe infinite e finissime che facevano come una rete fitta della sua pelle abbronzata e riarsa dal sole, dall'intemperie, dagli anni. Se fosse stata bella chi lo avrebbe potuto dire? Non sembrava pur vero che quello avesse dovuto essere un giorno volto di giovane. Si sarebbe potuto dire un cumulo di rovine che non lasciavano scorger più le forme del primitivo edificio. Niuna vivacità era più nè in quelle fattezze distrutte, nè in quello sguardo spento; nessuna espressione, fuorchè quella d'una profonda, inalterabile, rassegnata mestizia.
Maurilio, che ad ogni volta la rivedeva, trovava nella povera donna cresciuta la tristezza e più fiacca la persona, sentì una viva pietà nel mirarne ora il sembiante così afflitto, benchè in fondo a' suoi occhielli grigi infossati brillasse in questo momento una lieve luce che pareva una speranza, che pareva un pallido raggio di gioia.
— O Margherita, disse il giovane, come la vi va? Non mi riconoscete voi più?
— Che? esclamò ella volgendo verso di lui la sua piccola faccia aggrinzita; tu se' Maurilio?... No davvero [125] non ti avevo riconosciuto... Pensavo così poco doverti vedere!... Gli è pur vero che tu non hai mai obliato il villaggio, tu!...
Mandò un sospiro che diceva di molte cose; ma in quella pose mente alla maggior eleganza dei panni di Maurilio che era vestito com'ella non l'aveva visto mai, proprio da signore, e si vergognò d'averlo trattato con quella famigliarità onde s'era avvezza a parlargli fin da bambino, quando lo vedeva ruzzare col suo.
— Oh! la mi scusi: diss'ella. Io le parlo ancora come se fosse il naccherino d'un tempo, e invece...
Maurilio la interruppe con calore:
— Vi prego a non cambiar nulla dei vostri modi a mio riguardo. Mi avete trattato sempre come compagno di vostro figlio, e come tale voglio che seguitiate a trattarmi.
A quelle parole «vostro figlio» una tinta di colore più scuro era venuta alle guancie abbronzate della vecchia. Era un rossore di piacere e di emozione.
— Il mio Giannino! esclamò essa (non osava ripetere quella espressione «mio figlio» quantunque se ne struggesse dal desiderio). Anch'egli è diventato un signore, mi dicono. Se lo vedessi, non oserei pure guardarlo in faccia.... E tu.... e Lei lo vede sempre? Sono sempre amici?
In quella entrava la serva colla scodella piena di brodo fumante.
— Di tutto ciò parleremo dopo: disse allora Don Venanzio; ora bevete questa roba calda; ciò vi scalderà e vi rifocillerà lo stomaco.
Margherita, in mezzo a mille ringraziamenti e benedizioni, bevve, e se ne sentì veramente riconfortata.
— Or dunque, diss'ella volgendosi poi al parroco, tutto sollecita. Ella ha da parlarmi da parte di lui, del mio Giannino?
— Sì, mia cara; l'abbiamo veduto...
— Sta bene? interrogò la vecchia, a cui il parroco pareva troppo lento a parlare.
— Sta benissimo...
— E si ricorda di me?
— Sì, se ne ricorda.....
— O Dio! Madonna santa! potessi vederlo! Dica, dica, potrò io vederlo ancora prima di morire?
— Sì, sì, lo vedrete...
— Quando? Come?... Che mi tocca di fare?... Oh son pronta a qualunque cosa per provare questo piacere. Non dico bugia, sa!... Devo andarmene a cercarlo colaggiù a Torino?... Sono vecchia e debole, ma per vedere il mio Giannino andrei in capo al mondo, finchè avessi consumato, non che i zoccoli, ma i piedi. Quante volte non ci sarei già andata se non avessi avuto paura di perdermi in mezzo alla folla della città e non poter arrivare fino a lui, e più ancora se non avessi avuto paura di fargli dispiacere... Ma ora finalmente lo rivedrò!... Ella me lo dice..... — Ve lo dirò di meglio, se mi lasciate parlare; interruppe col suo sorriso pieno di bontà Don Venanzio, il quale aveva per commozione umidi gli occhi.
— Oh parli! parli!
— Io dunque ho veduto Gian-Luigi in casa di Maurilio dov'egli venne.
La povera vecchia, il collo teso verso il prete come per esser più presso alle labbra di lui per coglierne a volo le parole, la bocca e gli occhi larghi quasi volesse assorbire anche colle labbra, anche colle pupille il suono di que' detti, faceva col capo de' vivi segni d'affermazione, come per dire che aveva capito, che si sollecitasse a dirle quelle buone novelle ond'essa attingeva tanto bene, tanto elemento di vita.
— Mi chiese di voi, continuava il parroco: e la donna stringendo le mani colle dita incrociate le alzava all'altezza della sua bocca in atto misto di ineffabil gioia, di ringraziamento a Dio, di suprema riconoscenza.
Il buon Don Venanzio non credette fosse peccato rasentare un pochino la menzogna per dare a quella pover'anima di vecchia un momento di beatitudine.
— Mostrò per voi un'amorevole sollecitudine. Disse che non vi aveva mai dimenticata, e che soltanto la forza delle circostanze gl'impedì sinora di venirvi a vedere e di venirvi in aiuto...
— Oh lo credo: interruppe Margherita, asciugandosi col dosso della sua mano una lagrima che scendeva per le grinze della sua guancia. Lo credo. È così buono! Non l'ho mai accusato io, no mai... La gente diceva questo, diceva quello... Volevano farmi della pena... Io non credeva nulla: e pregavo il Signore per lui... e per poterlo ancora vedere... Ecco quel di che ho bisogno: vederlo... Il resto non m'importa. Io sono vecchia, tanto poco mi basta per vivere!
Il parroco avvisò che per procedere a gradi e preparare quell'anima alla gioia maggiore, conveniva serbar per ultimo l'annunzio della probabile venuta di Gian-Luigi al villaggio.
— Egli vuole che d'ora innanzi quel poco almeno non vi manchi più: riprese a dire: e perciò mi ha consegnato una somma da darvi da parte sua, che tengo qui e che ho piacere di rimettervi all'istante.
— Una somma! per me! esclamò la vecchia. Lo ho sempre detto io che aveva un gran cuore... Oh che cuore è il suo!
Don Venanzio trasse dal taschino del panciotto il rotolo di marenghi avviluppato nella carta, quale gli aveva dato Gian-Luigi; e tenendolo fra il pollice e l'indice lo porse alla Margherita.
— Ecco qua, disse, mille lire.
La vecchia si fece indietro sulla seggiola quasi spaventata; battè le mani insieme e poi levò le palme in atto di indicibile stupore.
[126] — Mille lire! esclamò; proprio mille lire!
— Sì, in altrettanti napoleoni d'oro.
— E tutto questo per me? soggiunse la donna ritraendo le mani dal rotolo che il parroco le porgeva, come se avesse paura a toccarlo. Non è possibile. Che cosa debbo io fare di tanto denaro?
— Dovete usarne a seconda dell'intenzione del vostro figliuolo: rispose Don Venanzio col suo sorriso amorevolmente paterno; val quanto dire procurarvi con esso quelle cose necessarie di cui maggiormente abbisognate. Avete addosso appena di che coprirvi non che ripararvi dal freddo; non vedete che i vostri piedi nudi s'intirizziscono e irrigidiscono ne' zoccoli umidi dalla neve? Nel vostro stambugio appena se ci avete, raccolto stentatamente su pei greppi, tanto di legna da potervi cuocere una magra minestra. Potrete adunque comperarvi panni caldi, e calze di lana, e legna da ardere per iscaldarvi; potrete procurarvi un cibo migliore e più sostanzioso di quello che ora vi fornisce l'andare elemosinando.
E quasi di forza mise il rotolo di monete nella mano della vecchia che ne rifuggiva, poco meno che paurosa di toccarlo. Quando però l'ebbe tra le magre, ossee dita, essa lo palpò quasi con amore, lo soppesò, lo strinse forte in pugno, e poi se lo recò alle labbra e v'impresse su un grosso bacio.
— E' mi viene dal mi' figliuolo: disse come per ispiegare la ragione di quell'atto: dal mi' figliuolo: ripetè trovando una cara dolcezza nel pronunziare quelle parole che fino allora non aveva osato adoperare.... Ah lo vorrò custodire come una sacra reliquia.... Spenderlo, mai più!... Forse che ho bisogno di nulla io?... Sono sempre vissuta in mezzo alle privazioni, io.... La gente è buona per me e non mi lascia mancare un tozzo di pane.... E andrei ora a farmi carezze a questo vecchio carcame per quattro giorni che gli rimangono da vivere? Che! che!
Il parroco la volle persuadere che per soddisfare al desiderio di chi glie li mandava ed anche al dovere che ha ciascuno verso di se stesso, la doveva impiegare quei denari nella guisa che le aveva detto; ma la vecchia, pur non osando contrastare alle parole di lui, ben mostrava coll'aria del suo sembiante che quelle ragioni non la scuotevano per nulla dal suo proposito, e ch'ella avrebbe fatto a suo senno.
Margherita approfittò d'una pausa che fece Don Venanzio nel suo discorso per entrare a parlare di quello che più le premeva. Il rotolo di monete seguitava ella a stringere nel pugno e questo aveva nascosto nella tasca della sua misera vestaccia.
— Lei mi disse, interruppe adunque, che io il mio Giannino l'avrei visto... Per carità la mi dica in che modo e quando!... Se la sapesse quanto lo desidero!... Ed io non ho gran tempo da aspettare. Non converrebbe che tardasse di troppo a darmi questa consolazione, se vuol trovare ancora insieme queste grame quattr'ossa.
— No, no, rispose il parroco, non tarderà molto tempo. Forse la settimana ventura, forse sul finire di questa medesima, a quanto egli ha detto, verrà qui per vedervi.
— Verrà qui? Per veder me? esclamò la poveretta giungendo le mani e sollevandole verso il cielo con atto d'inesprimibile gratitudine e soddisfazione. Oh! sia lodato Iddio! Sia ringraziata la Madonna dei dolori!..... È Lei che mi fa questa bella grazia! L'ho pregata tanto, tanto, tanto!.... Ancora questa sera io la pregavo che mi concedesse questa grazia e poi mi togliesse pure dal mondo. E vuole che glie la dica, sor Prevosto? Questa sera medesima, là in chiesa quando ho visto entrar Lei e andarsi inginocchiare alla balaustra, io ho sentito una voce in cuore che mi diceva: «Ecco là di ritorno quel sant'uomo del parroco che ti ha da dir di sicuro qualche buona novella.» Era la Santissima Vergine che mi faceva avvertita avermi accordata la grazia che domandavo... Oh! voglio mostrargliene la mia gratitudine a quella pietosa Madonna... Ecco a che mi serviranno i denari mandatimi dal mio Giannino... Comprerò due bei cuori d'oro, proprio d'oro, da offrire alla sua immagine...
Don Venanzio fece un moto d'impazienza, ma essa non se ne accorse e continuava tutta infervorata:
— E il resto vo' darlo a Lei, perchè la mi dica o faccia dire tante messe...
Qui il parroco la interruppe non senza qualche vivacità:
— Ma no, ma no, che così non istà bene, e siete matta a credere che ciò voglia la Madonna o le faccia piacere... Non è l'offerta d'una cosa di valore che possa contentare Quei di lassù... Che credete che loro importi dei vostri cuori d'oro e d'argento?... È il cuor vero che vogliono, quello che abbiamo nel nostro petto e che dobbiamo presentar loro pieno di bontà, di carità, di adorazione e di fede... Ecco!... Non dico mica che chi può, chi è in caso d'aver da spendere senza torne ai suoi bisogni nè alla beneficenza, che deve esercitare, piuttosto che gettar via altrimenti il superfluo, non faccia bene ad ornare la casa del Signore; ma voi siete in questo caso, poveretta? Non sapete che uno dei primi doveri che ci sono imposti è quello di conservarci noi stessi? E se pecca chi ha troppi riguardi, e troppo amore per la sua persona, pecca eziandio chi ne ha troppo poco?.... Quanto alle messe, di certo la è una buona cosa.... Ma io vi contemplerò nelle mie preghiere in tutte le messe che sarò per dire ancora, senza che vi abbia da costare un centesimo.
— Ella è un santo.... l'ho sempre saputo.... Io la ringrazio; ma mi sembra pure che le messe dette apposta devono piacere di più colassù e farci [127] più favorevoli quelli di cui domandiamo la protezione e l'offerta di qualche cosa....
Il parroco interruppe con più impazienza di prima:
— Eh! voi misurate i Celesti alla nostra povera misura umana. Credete ch'e' sieno come i potenti della terra, che si rendono propizii coi regali?
Se fossero stati soli, il parroco e la vecchia contadina, forse il primo non avrebbe parlato con tanta vivacità; ma in presenza dell'incredulo Maurilio (che tale era il giovane nel concetto del buon sacerdote) questi provò una certa irritazione, che non seppe dominare, nel vedere una sua parrocchiana dare una così patente prova di erroneo concetto nel suo sentimento religioso.
La vecchia, meravigliata e un po' intimorita del tono con cui le parlava il parroco, in lui affatto nuovo, disse umilmente:
— La scusi... Credevo far bene... Ma Lei la sa più lunga di me... E se Lei dice di no, è segno che gli è no... E io sono pronta a far tutto a suo senno.
— Bene, bene: riprese il parroco tornando di subito al suo bonario sorriso ed al suo benigno accento. L'intenzione è quella che dà il carattere ad ogni atto; e la vostra intenzione è la migliore del mondo, lo so. Ma credete a me, e spendete quei denari a sollievo de' vostri bisogni... Ora andate, e Dio vi mandi una buona notte.
La vecchia si levò di fretta.
— Oh! la sarà buona di sicuro: disse. La si figuri se dopo una novella simile!... Già non potrò dormire: ma che importa? Sono la più felice donna del mondo... La buona notte anche a loro... ed a Lei, sor Prevosto, tutte le benedizioni di Dio!...
Uscì. Don Venanzio e Maurilio la seguitarono collo sguardo. Quando rimasero soli i due uomini, successe un silenzio, i loro pensieri giravano intorno ad una grave quistione; ma l'uno e l'altro pareva che si peritassero ad affrontarla. Fu Don Venanzio il primo che francamente l'abbordò. Immaginava egli le ragioni e gli argomenti che la incredulità di Maurilio dovesse agitare seco stesso contro la religione di cui egli era ministro, suscitati da quell'occasione in cui la donnicciuola ignorante aveva manifestato la natura della sua fede: e parvegli che non andare incontro egli stesso a quelle obiezioni e distrurle, non isfidare la disputa, fosse una specie di viltà, fosse un mancare al proprio dovere. Levò arditamente la sua bella fronte canuta, come un valente guerriero che si prepara a combattere, e disse al giovane che gli sedava muto e pensoso dinanzi:
— Quella donna ha seco una forza... Per questa potè reggere ai travagli della sua vita infelice; per essa resiste ora ai mali della vecchiaia e della miseria. Ha la fede! È una fede da semplice, da ignorante, offuscata, se vuoi, da nebbie superstiziose; ma è pure una fede — ed è la vera.
Maurilio volse lentamente la sua grossa testa verso il parroco; lo guardò con una indicibile espressione di calma riflessiva, di convinzione profonda, di fermezza di proposito, e rispose colla sua voce affranta e posata:
— Anch'io ho una fede!... E nelle linee principali, generalissime, s'assomiglia, s'accosta, è forse anco la medesima di quella della povera Margherita; ma nel suo complesso, nel modo di formularsi all'intelligenza, di estrinsecarsi ed attuarsi, è diversissima. Ma Ella afferma che quella della donna ignorante è la vera; e quindi la mia, quella di chi la pensa come me, dev'essere falsa. Qui sta il punto.....
Fu interrotto dalla fantesca che recando in tavola una terrina fumante, disse:
— Eccoli serviti.
— Bene: esclamò Maurilio sorridendo; cominciamo per cenare, e dopo, se la vuole, discuteremo.
Don Venanzio fece un atto di acquiescenza sorridendo del pari, ed ambedue si accostarono al desco. Il parroco stette un momento in piedi colla sua berretta in mano, pronunziando a mezza voce il Benedicite. Maurilio rimase dritto ancor egli con aria di rispetto, ma non disserrò le labbra: finita la preghiera, sedettero, spiegarono le serviette che sentivano un buon odore di bucato, e si posero allegramente a mangiare.
Quando ebbero finito, e la tavola fu sparecchiata, i nostri due amici, le gomita appoggiate sul tappeto, l'uno in faccia dell'altro, avviarono animosamente la discussione che aveano lasciata in sospeso.
Non ripeterò che sommariamente le cose che furono dette dall'una parte e dall'altra, e risparmierei affatto questa noia al lettore, se non credessi opportuno far conoscere anche da questo lato lo spirito del mio protagonista, il quale rappresenta meglio che altri le audacie e le ispirazioni del pensiero moderno; epperciò con alquanto maggior estensione, benchè in sunto, riferirò le ragioni da lui addotte nella disputa.
Don Venanzio si appigliò senza ritardo alla, secondo lui, indiscutibile autorità della rivelazione e della ininterrotta tradizione. La Chiesa cattolica ebbe direttamente da Dio la cognizione della verità e la capacità e la facoltà di diffonderla, spiegarla, affermarla. La mente umana è troppo debole per affrontare colle sole sue forze la terribilità del quesito religioso, di cui pure è necessario uno scioglimento al bisogno intimo che Iddio medesimo ha voluto porre nella natura dell'uomo. Senza un appoggio solido e potente la nostra ragione si smarrisce nella ricerca di questo vero che è di tanto superiore [128] alla sua sfera d'azione, alla sua efficacia. La rivelazione è venuta a porgere questo punto di appoggio, a dare il caposaldo alle aspirazioni religiose dell'anima. Della verità della rivelazione poi non è da dubitarsi, perchè la tradizione medesima, la incontestabile autorità dei testi sacri la stabiliscono, anche sotto il rispetto storico, in modo definitivo, ed è empio proposito e più empio attentato il volerla rivocare in dubbio soltanto. Vi sono in quel complesso di credenze che costituisce la fede a cui Don Venanzio apparteneva, alcune cose che l'infausto e diabolico orgoglio della povera ragione umana, aiutata e spinta dall'arte e dall'influsso dell'eterno nemico, vuol trovare assurde, impossibili ed anche puerili. Ma vi è pure una quistione principale e, come si suol dire, pregiudiziale, che tronca affatto e rimove del tutto ogni simile obiezione. Come volere la ragione nostra giudice della possibilità di cose che di tanto stanno al di là del debole arrivo delle sue forze? Anzi tutto quello che può servire di buon argomento nel campo della sua azione, cessa di aver effetto e si converte in argomento a contrario per la ragione umana, quando la vuol recare i suoi metodi logici e le sue deduzioni là dove ella non ci ha più nulla da vedere, perchè non vi basta la cortezza della sua vista. In questo senso fu detto il motto sublime: Credo quia absurdum! E ad ogni modo con che fronte, con che speranza di vittoria può la ragione umana cimentarsi colla rivelazione? Questa è la parola diretta di Dio: quando ella ha suonato chi non vede che si ha l'elemento supremo della verità? E per promessa di Dio medesimo, non è una continua rivelazione la parola della Chiesa legittimamente costituita, pronunziata da' suoi legittimi rappresentanti? Una delle prove più perspicue della verità di quella fede che egli professava, secondo il buon prete, era la dolcezza, la tranquillità che ne sente chi in essa acquieta l'anima sua; era il gran conforto che glie ne viene, anche nei maggiori travagli a chi, appoggiato alla medesima, s'erge al Cielo sull'ali della preghiera: speciali grazie e ricompense queste che Iddio concede appunto ai veri credenti.
Maurilio la prese da quest'ultimo argomento, ritorcendolo di questa guisa:
— Ma allora perchè tanti e tanti, allevati appuntino nella più stretta e rigorosa ortodossia, sentono ad un tratto levarsi nell'animo loro le più crude incertezze, i più ansiosi dubbi su quelle credenze, contro alcuna delle quali protesta la loro ragione venuta a maturanza? E costoro son quelli d'ordinario cui più volle favorire la Provvidenza di forza d'intelletto. Perchè i tormenti di questi dubbi che sono quasi il risvegliarsi della ragione? perchè questo ribellarsi e ripugnare dell'intelligenza sviluppatasi contro le credenze insinuate fin dalla prima età nell'animo nostro, così da essersi fatte per tutti come cosa sacra da non isfiorarsi neppure coll'audacia dello spirito d'esame? Se quella è la verità assoluta od anche solo quale è acconcia al nostro intelletto, questo in tutti, e tanto più in quelli che l'hanno maggiore, dovrebbe aderirvi tenacemente pago e soddisfatto. L'acquiescenza poi dei credenti alle cose insegnate come verità indiscutibili, e la pace e la beatitudine che l'anima loro ne risente, non sono un privilegio dei fedeli della sua Chiesa; lo si ritrovano presso tutti quelli che hanno una forte e profonda credenza radicata nell'animo, sieno essi protestanti, giudei, maomettani, anche idolatri. È questo un effetto mirabile certo, ma non esclusivo d'una sola religione; è effetto della fede in genere, della sostanza di questo attributo dell'uomo, la facoltà di credere nel mondo sovrumano, non della forma in cui questo attributo si esplica e manifesta.
«Sì, caro padre mio, anche in ciò si ha da distinguere la sostanza e la forma, e da tenerne conto. Quella è immutabile, e consta in realtà di poche verità generali, cui la forma poi interpreta, spiega, applica od offusca a seconda. Quella eterna come il vero assoluto, sta al di sopra, all'infuori d'ogni azione dell'umano intelletto, delle circostanze di condizioni morali e civili in cui l'umanità si trovi; questa, la forma, come cosa puramente umana che ella è, partecipa della sorte di tutte le cose umane, si viene scambiando, migliorando, purificando, elevandosi a sempre più perfetto grado, a misura appunto che lo spirito umano si migliora, si perfeziona, vede ingrandirsi innanzi a sè il campo del vero ed acquista forza e capacità maggiore a contemplarlo. Questa forma è adunque, più d'ogni altra cosa ancora, l'espressione del grado di coltura, di sapere, di civiltà a cui gli uomini sono arrivati, e riflette eziandio i caratteri delle nazioni e delle razze. Gli è per ciò che il mondo moderno è cristiano, che i selvaggi sono idolatri, che i latini sono cattolici.
«Quindi si fa che non è solo un errore, ma è cosa empia quella che tutte le religioni positive commettono, di confondere la forma variabile e la sostanza eterna, di voler dare alla prima le qualità e l'autorità della seconda, d'imputar così alla religiosa essenza le colpe e gli errori degli uomini che di quella si profittano. Da ciò avviene eziandio che in certi momenti la forma invecchiata non si adatta più convenientemente allo stato presente degli spiriti; e la sostanza medesima della fede, per non essere intaccata essa stessa, per non correr rischio di perire nel naufragio della forma diventata insufficiente e ripugnante alla ragione progredita, lavora ella medesima a distrurla. Allora si accusano di empietà e d'incredulità coloro che rifuggono da certi dogmi e da un culto che non soddisfano più la loro coscienza religiosa divenuta più delicata e più illuminata, e i quali, fors'anco inconsciamente, lavorano a preparare la modificazione della forma in una fase novella.
[129] «La sua Chiesa medesima, Don Venanzio, benchè riluttante ad ogni cambiamento, benchè acremente tenace d'ogni sua parte, non segue ella questa legge naturale e necessaria dell'umano progresso? Quanto non si è ella venuta modificando nel corso dei secoli? Quanto non ha ella cambiato insegnamento, disciplina e i dogmi perfino? Dalla Chiesa primitiva alla presente, chi le paragonasse, quale immenso divario! Senza volerlo, senza confessarlo, ha pur dovuto camminare coi secoli.
«Ma la ragione umana che ha sempre camminato più di lei, l'ha lasciata indietro di molto, ed ora, mentr'essa non solo vuole immobilitarsi, ma anzi regredire, la ragione invece ha preso slancio maggiore e più ardita foga verso il vero. Di qua il quasi necessario divorzio e l'irrimediabile contrasto fra l'una e l'altra.
«La ragione voi la negate; la volete, se non altro, sottomessa ad un'autorità indiscutibile di cui non si hanno da esaminare il valore e le prove. Contro la coscienza della ragione moderna voi urtate pel metodo, per la dottrina, per la morale e pel culto; non proponete, imponete, insegnate il sopranaturale e lo sostenete col mistero appoggiato al miracolo, spiegate l'incomprensibile coll'inammessibile; ordinate per morale un'obbedienza interessata agli ordini d'una volontà estrinseca; ponete negli atti esteriori del culto, in certi mezzi meccanici, in simboli, in operazioni materiali la condizione della vita religiosa delle anime.
«Il vostro insegnamento dottrinale si fonda in gran parte sopra un concetto dell'Universo, del principio dell'Universo, di un rapporto fra questo e quello, cui la scienza ha dimostrato erronei...
— Ma la rivelazione: interruppe Don Venanzio.
— La rivelazione cui voi affermate sempre ma di cui non date prove che possa la severa critica disaminare, ma cui non volete sottoposta a questa disamina; la rivelazione da questo lato affermerebbe come vere, cose che una certezza positiva ha dimostrate assolutamente false. La scienza ha distrutto i miracoli, e la ragione, più robusta, ripugna ai misteri. Il mondo è pieno di fatti inesplicati, fors'anco per noi inesplicabili, ma non di fatti essenzialmente inintelligibili: volendo fondarvi sull'assurdo e sull'impossibile non potete trovare un punto d'appoggio saldo e valevole: il vostro edificio traballa al primo urto del dubbio. Perciò siete costretti a proibire addirittura il pensiero. I misteri che voi m'imponete, sono soltanto superiori alla ragione senza contraddirla, oppure la contraddicono? Sono essi assolutamente inintelligibili? Ma ciò che è inintelligibile non è: ciò che la nostra intelligenza non può apprendere non è fatto per noi. Quello a cui contraddice la ragione, dono di Dio, non può essere del pari; a meno che la ragione ci sia data per vedere il falso. Empietà questa maggiore d'ogni eresia.
«La vostra morale ci comanda non di fare il bene, ma di obbedire ad una allegata volontà superiore manifestataci per certi intermediari: voi mettete fuori di noi il nostro salvamento. La giustizia per voi è quel che vuole l'Ente supremo quale voi ce lo presentate: ma invece la giustizia è per se stessa.....
— Disgraziato: interruppe qui il buon vecchio, sgomento, afflitto, disperato, direi quasi, di udire una tal filza di parole che per lui erano tutte empietà. Oh come hai tu imparato tante orrende dottrine? Come hai tu fatto ad aprir l'animo a questi diabolici sofismi? E tu dicevi di aver pure una fede! Ma no; non è punto vero: tu sei un ateo.
— No: esclamò Maurilio con forza, levando la fronte. Credo e credo fermamente: veggo nell'opera il creatore, sento Dio nell'universo. Glie lo dissi e lo ripeto: Ho una fede ancor io.
— Ma quale?
— Mi ascolti.
Si raccolse un momento, e poi riprese il discorso.
— Ho detto che la forma estrinseca del sentimento religioso si scambia a seconda collo scambiarsi del grado intellettuale a cui è giunto lo spirito dell'uomo. Ecco le varie e principali fasi per cui ella passa e deve passare.
«A tutta prima l'uomo, rozzo affatto e selvaggio, adora la natura. Ha già fatto un passo immenso dallo stato assolutamente primitivo a quello in cui si crea una religione qualsiasi, per quanto grossolana e puerile ella sia, e nella storia dell'umanità chi sa quante sequele di secoli dovettero passare, innanzi a che si giungesse a questo primissimo grado dello sviluppo religioso dell'anima umana. Ma pure allora l'uomo è tuttavia incapace di elevarsi al concetto della natura universale: egli non rimane colpito che dagli oggetti che gli son prossimi e non va al di là dei limiti del suo ristretto orizzonte. Gli oggetti del suo culto per ciò si fanno quelli di cui si serve, che gli sono utili, che ama, di cui ha timore: un albero, un masso, una montagna, un fiume, una belva, un animale qualunque. La speranza ed il timore ispirano sopratutto il suo culto grossolano. Siamo in pieno feticismo.
«Nel secondo grado l'uomo levandosi col pensiero al di sopra dei bisogni e dei ristretti limiti della sua vita giornaliera, onora certi oggetti maggiori, più belli, più brillanti: la luna, il sole, gli astri, la vôlta celeste in cui si movono. Questi oggetti gli sembrano contenere un grado di perfezione superiore a quanto trovasi sulla terra. È il sabeismo; e l'intelligenza umana in esso possiede già una vaga nozione dell'universo.
«Più tardi quest'intelligenza, progredita d'alquanto, giunge a concepire sotto gli oggetti che mostra la natura, le forze che l'animano, che si agitano nel seno della medesima natura, che danno ad ogni cosa il movimento e la vita. Dietro gli elementi indovina le leggi alle quali essi obbediscono [130] e ne fa delle potenze dotate d'una esistenza personale e indipendente; è costituito il politeismo. Poco a poco arriva in seguito a comprendere l'ordine morale e lo fa entrare a sua volta nel concetto delle sue divinità, attribuendo loro tutte le qualità che trova nell'uomo stesso e tutte le perfezioni di cui può concepire l'idea. Di questa guisa il politeismo già si trasforma e veste un carattere filosofico. La religione comincia a passare dal tempio alla scuola; si fa a studiare i problemi della nostra natura, del nostro fine, del nostro destino. L'umanità è pronta per una religione metafisica, che è il quarto grado del suo sviluppo.
«Questa religione metafisica, lascia in disparte la natura, non cura più il mondo fisico, fissa i suoi sguardi sull'essere divino medesimo, studia i suoi attributi e li vuole determinare e definire nel dogma. Ma nel dogma s'incatena la ragione; si cristallizza, per dir così, il progresso mentale dei tempi precedenti e si vuole immobilitare lo svolgimento dell'umano pensiero. È la servitù: l'uomo è dichiarato incompetente a nulla cambiare a simboli comunicati direttamente dal cielo. A guardia di codesti simboli si pone un sacerdozio gerarchico che per sua natura ed istituto e necessità logica delle premesse dovrà sempre più isolarsi dal laicato. Questa casta si perpetuerà man mano con delle reclute che si formerà ella medesima: costituirà un'associazione potente con interessi proprii, stranieri e talvolta contrari a quelli degli altri uomini; lavorerà tenacemente nel proposito di vantaggiar sempre se medesima, senza tener conto dei voti e dei bisogni della società cui vorrà anzi tutto dominare, e in conseguenza impedirà ogni progresso, respingerà ogni innovazione, timorosa sempre la sua potenza non ne venga a scapitare.
«La sua divinità, qual essa la presenterà all'uomo, sarà inaccessibile all'intelligenza terrena; sarà tale da doversi ignorare dalla ragione quali disegni abbia essa sugli uomini e ciò che da essi esiga. Quindi per servirla a dovere, questa divinità, converrà affidarsi del tutto alla casta che si propone e s'impone intermediaria fra essa e l'uomo, che si spaccia sola interprete della volontà divina, ed accettare senza esame i suoi decreti. La casta sacerdotale diventerà così l'arbitra assoluta del pensiero umano. Mercè quella oscurità impenetrabile in cui avvolgeranno il loro Dio invisibile, essa comanderà sacrifici ed offerte, spaventerà gli animi e le immaginazioni, fulminerà coll'anatema i suoi avversari, punirà i nemici colla maledizione tradotta anche nei supplizi materiali.
«Ma questa è schiavitù, e l'anima umana e l'intelligenza umana non possono durare a lungo in questo stato di violenza il quale le condurrebbe addirittura alla distruzione. Per quanto si faccia, la ragione comincia a protestare. Invano si moltiplicano le persecuzioni, il grido della libertà del pensiero scoppia qua e là. L'umanità, stanca, che si sente sminuita nella sua parte più essenziale, vuole rigettare la cappa di piombo che l'opprime. Anche presso coloro che non avventurano di cimentare le credenze autoritativamente loro imposte alla corte della ragione, la materialità degli atti esteriori perde il suo significato; il pensiero che si adombrava nei simboli se n'è staccato perchè questi non valevano più ad esprimerlo e rimangono come vuote spoglie prive di corpo e d'anima. La coscienza si risveglia: opinioni indipendenti, pensieri di libertà s'infiltrano da ogni parte e corrodono le basi dell'edificio da cui il vero spirito divino si viene man mano ritirando: un giorno sopraggiunge, in cui le pareti crollano da ogni parte e rimane su quelle rovine la coscienza dell'uomo levata e potente nella sua libertà. Si è arrivati allora al grado più perfetto dell'evoluzione religiosa che mente d'uomo possa ora concepire: il regno della libera coscienza.
«Allora la fede non è più l'accettazione dell'assurdo, che è un'abdicazione ingenerosa della propria ragione, ma diventa il rationabile obsequium di San Paolo; allora si verifica la parola del Cristo, che si deve adorare Iddio in ispirito e verità; allora sarà compiuto il ciclo della contrastata missione del Nazzareno, e l'uomo sarà posto senza intermediario in relazione coll'Eterno, e sarà, secondo la promessa di Cristo, in comunicazione col Padre di tutti.
«L'umanità trovasi sparsa su per la via del progresso, in tutti questi gradi della manifestazione religiosa, dai selvaggi che sono ancora nelle tenebre del feticismo (e forse ve ne ha tuttavia di quelli in cui il sentimento religioso non è neppure nato) ai più avanzati delle classi colte presso le nazioni incivilite, i quali già hanno posto il piede su quell'ultimo gradino della libera coscienza.
«Io mi vanto d'essere fra costoro.
«Credo all'infinito, credo all'assoluto, credo all'eterno, credo alla intelligenza regolatrice delle forze del creato, credo ad una evoluzione del destino umano che non si compie nella breve vita su questo miserabile globo, credo alla giustizia ed alla responsabilità d'ogni libero volere; ma credo a ciò, perchè la mia ragione me ne persuade, non perchè altri voglia impormene la fede con un'autorità che non vuole dar le prove di sè stessa, o con una violenza morale o materiale. E non penso che sieno empii, maledetti, da condannarsi, da disprezzarsi, da infamarsi coloro a cui la ragione persuase altre credenze....»
Maurilio avrebbe continuato chi sa per quanto tempo ancora; Don Venanzio avrebbe ribattuto, chè già mulinava nella testa una filza d'argomenti ed una dozzina di citazioni da confondere il miscredente, e la disputa si sarebbe protratta chi sa fin quando, se la fantesca, per quell'interesse che aveva al padrone, con quella un po' brusca ma affettuosa [131] domestichezza che le davano i tanti anni passati in quella casa ed in compagnia del vecchio parroco, non fosse venuta ad interrompere.
— Scusino, ella disse, ma per questa sera m'è avviso che s'è abbastanza taroccato. Oh non sanno che ora è? Presto la mezzanotte. E dunque gli è gran tempo di andare a dormire, Lei, sor Prevosto, sopratutto che la mattina vuol sempre alzarsi al canto del gallo ed aver detta la sua brava messa prima che sia giorno chiaro.
I due disputatori si guardarono sorridendo. Don Venanzio s'alzò primo e tese la mano al suo giovane avversario che ne aveva imitato l'esempio.
— Neppur io, disse, non odio, non disprezzo quelli che la pensano diverso da quel che vuole la Santa Madre Chiesa.... ma li compiango. Un giorno o l'altro — io seguito sempre a sperarlo e prego tanto per ciò! — un giorno verrà che anche tu ti accosterai e riparerai al più sicuro porto della nostra fede e rimpiangerai allora le eresie e peggio che ora ti stanno in mente.
Maurilio non rispose che col sorriso: e tutti due andarono a dormire.
Il nostro protagonista non dormì molto, ma passò quiete più che non si pensasse le poche ore della notte nella modesta cameretta della canonica. Le memorie del suo passato, evocate più vive dal trovarsi in quel luogo, s'intrecciavano colle condizioni del suo presente ad occupare in un lavoro di meditazione e di fantasticheria la sua mente: ma ora quell'amarezza, quel tormento che i suoi pensieri avevano prima, erano sminuiti. Perfino la immagine di Virginia, persino il ricordo che la era sua sorella, affacciandoglisi alla fantasia, gli parevano in quel punto meno dolorosi, gli eccitavano men crudo turbamento: ma egli però si affrettava a scacciarli, e riparava sollecito l'animo nelle memorie della età della fanciullezza.
Secondo quanto aveva detto la fante, il gallo aveva appena fatto risuonare per la prima volta il suo canto mattiniero, che Maurilio udì, da un lieve e riguardoso muoversi per la casa, che il parroco era già alzato. Si levò sollecito ancor egli, e sceso a tentoni nel tinello, chè l'oscurità era compiuta ancora, trovò Don Venanzio che, un candelotto in mano, stava per passare nella chiesa a dire la sua messa. Dopo i reciproci saluti uscirono ambidue, ma il parroco per l'andito che metteva nella sacristia, Maurilio per la porta che aprivasi sulla piazzetta.
Era notte chiusa a dispetto del canto del gallo; non una riga d'albore nel cielo nuvoloso; la campanella della chiesa dava i rintocchi della messa che stava per essere detta, in mezzo ad un alto silenzio degli uomini e della natura. Solamente qualche raro lumicino vedevasi spuntare dietro alcune invetrate di finestre: alcuni passi s'udivano venir per la piazzetta, ammortiti dalla neve che copriva il suolo, alcune voci che bisbigliavano sommesse, come paurose di rompere quel silenzio; e la brezza fredda del mattino, di quando in quando metteva un leggier sibilo alle cantonate delle case ed un fruscìo secco nei rami nudi dell'olmo che stava in metà della piazza.
I passi e le voci che s'udivano erano di donnicciuole che accorrevano alla messa del parroco; avvolte il capo, il collo e le spalle di fazzòli e vestimenta messe a bardosso, per difendersi dall'aria ghiaccia di quell'ora, le mani nascoste sotto a' panni, alcune col veggio in mano dove avevan messe le poche ceneri calde rimaste dal fuoco della sera, trottinavano a piccoli passi affrettati, ad una ad una, a due, a piccoli gruppi, poi scorgendosi nell'ombra, s'aspettavano l'una l'altra alla porta della chiesa ed entravano insieme bisbigliando. La schiera fu presto compiuta; e non era che di dieci o dodici. Una delle prime era passata, e Maurilio l'aveva tosto riconosciuta, la povera Margherita. Di certo la buona donna non aveva dormito neppur essa quella notte, e veniva a quell'ora mattutina a ringraziare il Signore di quella gioia che le aveva mandata, di quella maggiore che le aveva promessa.
— Oh sublime cosa è la preghiera: disse Maurilio, quando ebbe visto entrate in chiesa quelle donne. Ancor io ho bisogno di pregare. Andrò a pregare in faccia alla natura, nel vero tempio del Dio vivente.
E s'avviò verso quel luogo solitario, dove fanciullo soleva condurre al pascolo le vaccherelle di Menico.
Tutta la campagna era coperta di neve, e questo strato bianco, uniforme, che faceva scomparire allo sguardo le lievi protuberanze e depressioni del terreno, aiutato dalle ombre ancora fitte della notte, toglieva ai varii luoghi che si succedevano il loro particolare carattere ordinario, tutti confondendoli in una monotona rassomiglianza. Appena se facevano varietà alcuna fra questa e quella parte, fra questo e quel campo, fra l'una e l'altra landa i gruppi o le file degli alberi che piegavano sotto il peso della neve i loro rami assecchiti e parevano contorcere sotto quella gravezza i loro tronchi bassi e bernoccoluti.
Ma il nostro giovane pur tuttavia riconosceva ad uno ad uno que' luoghi, quelle variazioni di terreno, tanto gli era impressa ogni cosa nella memoria, e più ancora, direi, nel cuore. Avrebbe potuto riconoscere un per uno ogni albero se tanta luce vi fosse stata, da discernere pienamente gli oggetti; avrebbe potuto dire: qui ne manca uno che vi sorgeva negli antichi tempi, questo crebbe dacchè io non son più venuto qua. Salì lentamente il lene declivio della collina, su cui si stendevano le aride brughiere che erano i pascoli comunali. Sedici e più anni prima egli faceva due volte al giorno quel cammino i piedi scalzi, una verga [132] tra mano, cacciandosi innanzi le magre vaccherelle di Menico, macilento egli più ancora delle bestie che aveva in custodia, obbligato a star colà in ozio delle ore, sicuro di trovare, al suo ritorno all'abituro, poco e povero cibo, molti rimbrotti e spietate percosse. Colà, ancora affatto fanciullo, la sua mente era stata assalita dal misterioso quesito degli umani destini, colà aveva sentito parlargli all'anima la gran voce della natura, aveva sentito parlargli allo spirito la voce dei morti. Aveva provato una specie di maravigliosa iniziazione, per cui la sua vita aveva scorto il nesso che la congiungeva alla vita dell'Universo, s'era cacciato, e non s'era smarrito, nel vortice dell'esistenza universale, aveva avvertiti i vincoli divini che uniscono le manifestazioni della vita su per tutta la scala degli esseri in tutto il creato, e formatosene entro la mente un primo concetto: aveva meditato, imparato, cominciato ad aver coscienza del dolore, dell'intelletto e insieme della volontà. Quella brulla costiera gli era cara oltre modo. La rivide alla poca, incerta luce del crepuscolo che cominciava appena, con una commozione di tenerezza da non dirsi; ebbe nel cuore i palpiti che desta il prossimo, aspettato rivedere, dopo lungo tempo, d'una persona che si ama.
Giunse a quel punto preciso in cui soleva sostare da fanciullo, quando l'alba appena disegnava al lembo estremo dell'orizzonte, fra la cresta delle montagne e le nubi del cielo, una riga bianchiccia. Le sue gambe affondavano nella neve fin sopra il nodello; un vento freddo gli faceva svolazzare le falde degli abiti; non un grido d'augello, non una voce umana, non un rumore d'esser vivo; regnava un silenzio di morte. Gli ontani, spogli di frondi, inchinavano i loro rami carichi di neve sopra il rigagnolo muto ancor esso, perchè rapprese dal ghiaccio erano le sue onde. La brezzolina gelata che soffiava ad intervalli, ora era un sibilo, ora era un gemito. Quel cantuccio della terra, pur così vicino ad abitazioni umane, pareva in quel momento ignorare la esistenza dell'uomo.
Maurilio si fermò là dove soleva sdraiarsi, là dove ragazzo settenne aveva sentito la prima volta passar ne' suoi capelli l'alito del fantasma, scorrer nelle vene il fremito solenne che desta l'apparizione de' morti. Aveva in petto un gran desiderio, una viva aspirazione e insieme una potente e quasi direi commossa fiducia. Era venuto per pregare; ma l'intimo anelito gli diceva che la preghiera poteva essere mezzo valevole di evocazione a quello spirito che da tanto tempo non era più venuto ad aleggiargli innanzi apprensibile da' suoi sensi umani. Il dramma della sua vita era giunto ad una fase suprema; e quest'essere oltreterreno che lo aveva scorto nell'aspro cammino fin'allora percorso, confortandolo, ispirandolo, ammonendolo, poteva esso mancare di venirgli a dire la sua parola? Non aveva egli anche ora e forse più di prima, bisogno d'aiuto, di conforto, di consolazione? Là dove primamente eragli apparito ed avevagli favellato, doveva la sovrumana creatura apparirgli ora e favellargli. La voce vaga e inafferrabile dell'immensa natura doveva condensarsi e farsi concreta nello spiro, che gli parlava all'anima, di quel benigno fantasima. Egli lo credeva, egli lo voleva: egli venne colà a bella posta e stette aspettando.
Volse la faccia verso quel punto del cielo in cui la riga sottile della luce crepuscolare fra la terra e la vôlta nubilosa dell'orizzonte cominciava da bianca a farsi rancia, e pregò.
— Ente supremo ed infinito, Intelligenza assoluta ed eterna, Causa ultima e prima, Anima dell'Universo, a te s'innalza questa creatura finita, a te si volge questa misera intelligenza in sì angusti limiti ristretta, verso te aspira quest'essere contingente, ma che ha pure nel suo intimo una particella dell'eterno, te anela comprendere quest'anima schiava d'una bassa materia, ma che pure è membro di quella grande schiera fraterna d'intelligenze che dal primo manifestarsi della vita sale per tutti i mondi sino all'inconcepibile altezza dell'assoluto, ove tu siedi.
«O natura! Nudrice comune; culla e tomba indefinita della vita terrena; fieramente avversa all'uomo, e colle tue crudeltà fatalmente benigna al suo sviluppo; problema immenso alla mente umana che sempre sei sciolto e sempre rimani; mistero cui la scienza persegue e svela, e sempre ti sottraggi dietro nuovi veli, ritraendoti man mano nel campo dell'infinito; natura che mi afferri e mi tieni, ma non mi possiedi; tu, benchè immensa, non sei l'ambito in cui deve rimaner rinserrato il pensiero, lo spirito, il destino dell'uomo. Tu non sei la madre, tu non sei che l'alimentatrice temporanea di questo spirito che passa traverso a te. Tu non sei causa, nè un complesso di cause; tu sei effetto e complesso di effetti; tu sei un intermediario; per chi ti sa cogliere e dominare tu sei uno sgabello per salire a Dio.
«Iside splendida e superba, le tue braccia potenti m'accolgano, ma non mi soffochino; è la tua vita che si agita in me, circoscritta in questo corpo morituro; ma questo non è tutto l'io che in me pensa e vuole; quando tu decreterai la distruzione di questo corpo che tu mi hai dato, non assorbirai eziandio nel serbatoio eterno della materia questa parte immortale che può sola concepire l'eternità a cui appartiene. Non velarmi tu coll'ebbrezza della tua beltà lo spirito che oltre te siede e te stessa governa, non offuscarmi collo spettacolo della fatalità delle tue leggi il concetto della libertà del volere, della giustizia, della verità della potenza creativa. Io non posso tutta abbracciarti e comprenderti, o natura, colla forza del mio pensiero; ma pur sento che questo mio pensiero si spinge oltre te, che oltrepassa i limiti del tuo regno, tuttochè [133] immenso; sento che il mio pensiero è chiamato ineffabilmente da altezze ineffabili, sento che si sprofonda negli abissi dell'infinito.
«Dio! Dio! Dio! Noi aneliamo ardentemente verso Te, perchè l'uomo ha bisogno della verità, e Tu sei la verità! A Te per una innumera sequela di secoli, per tratto di tempo incalcolabile, là dove cessa il tempo, traverso innumere esistenze, noi verremo accostandosi, senza raggiungerti mai, ma conquistando a volta a volta, mano a mano una parte maggiore di vero. Oh! l'anima mia ha fretta di gettarmi in questo pelago dove splende la tua luce. È un ardore di desiderio che non ha riscontro in nulla di terreno. Dio, chiamami sollecito al mio destino ulteriore: Natura, affrettati a riprender possesso di questi elementi che mi costituiscono un corpo. Ho io ancora una ragione di vivere qui entro questa creta sciagurata? Non ho pagato a sufficienza il mio tributo di prove e di dolori? Fammi passare, Eterno Iddio, per le ombre del sepolcro, onde gli occhi dello spirito si possano riaprire alla maggior luce della vita avvenire.»
Si scoperse la fronte e la espose al soffio del vento gelato che gemeva sommessamente fra i rami degli alberi. Sentiva il sangue salito al capo tintinnargli nelle orecchie e produrgli suoni inapprensibili, che parevano parole d'un misterioso linguaggio.
— Morire, morire, mormorava egli, voglio morire per vivere!
Ad un tratto si riscosse; aveva sentito sulla fronte un soffio diverso da quello del vento: provò per tutte le fibre un fremito soave, come quello che vi desta il giungere improvviso della più diletta persona. L'alito che era passato sulle sue chiome pareva lo sfiorar leggiero d'un bacio. Il cuore gli si mise a palpitare, come in attesa d'un grave avvenimento. Tutte queste cose aveva egli già provate altre volte, e da lungo tempo ora non aveva sentite più: le gli annunziavano il presentarsi dell'apparizione; era come il tocco dello spirito oltreterreno che gli significava: «Son qua.» Quest'apparizione era egli venuto colà con immenso desiderio e con viva speranza avvenisse. Ora ne fu certo. Levò la testa e gli occhi, e guardò.
La cappa nuvolosa del cielo s'era abbassata ancor più sulle montagne e toglieva ogni adito al libero passaggio del chiarore crepuscolare: traverso a quelle nubi di un grigio plumbeo si stacciava, per così dire, un po' di luce che riusciva livida e sfumava i contorni degli oggetti in una strana incertezza di disegno: a pochi passi lontano tutto si confondeva in un buio che pareva quello del vuoto.
Maurilio vide, palpitando, una nebbia, un vapore comparire, coagularsi, direi, in mezzo ai tronchi degli ontani, prender forma e sembianza di donna avvolta in bianco paludamento, ma una forma aerea e diafana, e da questa forma, da quest'ombra, raggiare il benigno sguardo, il mesto sorriso che già conosceva. Il diletto fantasima evocato gli stava pur finalmente dinanzi. Il giovane fece un passo verso lo spirito, come per afferrarlo, per giungerlo colle sue mani tremanti, ma si fermò tosto, non osando più, mancandogliene le forze; cadde in ginocchio sulla neve e tese verso quell'essere non umano le braccia.
— Sei tu, sei pur tu ancora una volta, alla fine! mormorò egli. Che tu sii benedetta! Io ho tanto, tanto bisogno di te.
Tacque ansioso, aspettando. La benignità di quel sembiante lampeggiò più viva; e Maurilio udì nella sua anima, nel suo cervello, nell'intimo dell'esser suo la voce melodiosa, d'una melodia inesprimibile, di cui nulla in terra può dar paragone, che gli parlava soave.
— Tu vuoi morire! Credi tu che l'anima tua sia già di tanto matura nella crisalide terrena, da potere spiegar l'ali, farfalla, nel regno degli spiriti? Non sai che ogni giorno di terreno dolore che passa, la prepara a più eletta sorte, la fa degna di maggior grado nell'avvenire? No, infelice, no, le tue prove non sono finite. Apparecchiati a sostenere le nuove che ti aspettano, con quella forza che ti servì per le passate. Macerato dalla sventura, tu giungerai alla soglia della vita umana, più disposto alla vita superiore che t'attende.
«Non maledire il dolor che ti percuote! Nulla è senza ragione nel creato; e la volontà divina non è il capriccio dell'arbitrio. «Il vaso — ricordalo — non ha diritto di dire al vasellaio: perchè mi hai tu fatto e perchè in questa piuttosto che in quella forma, a questo meglio che a quell'uso[2]?» Ma la ragione il vasellaio ce l'ebbe. Un giorno verrà forse — per gli spiriti che hanno vissuto quaggiù dove tu vivi — in cui potranno alcun poco penetrare dei misteri di Dio. Ciò potrà avvenire anche di te, e capirai la tua sorte e benedirai il flagello onde fosti colpito. Abbi intanto fin d'ora l'istintiva coscienza che non inutili sono le tue pene, e soffri longanime.
«Soffri ed ama: soffri e perdona: soffri e confida nel dì futuro!»
La voce che pareva parlare non all'orecchio, ma direttamente nell'animo, si tacque, e tutto l'essere di Maurilio vibrò ancora per un poco di quel suono, come le corde dell'arpa vibrano tuttavia quando la mano ha cessato appena di scuoterle. E il concetto e le parole che lo vestivano erano appunto nel cervello di lui come l'armonia suscitata sulle corde da una mano estranea: il suono è dello stromento, ma la melode è ad esso estrinseca. A Maurilio quelle cose non erano state dette con voce di suono: parevagli, per così esprimermi, che un altro le avesse pensate nel suo pensiero.
[134] — Soffrire! soffrire! gemette il giovane, inginocchiato sempre nella neve. Ma non ho io sofferto abbastanza? Non ho io il diritto di esclamare che s'allontani da me pur finalmente il calice delle amarezze? Oh! mi si strappi almeno dal petto questo amore fatale che ancora mi strugge e che la crudeltà del destino vuole empiamente mostruoso. Ah! tu non sai, spirito benedetto, quanto questo amore mi tormenti e mi affatichi col suo tormento! Quella immagine io non posso scacciare dal mio pensiero, e col mite affetto d'un fratello non posso pensarla! Mi squarcerei a brani a brani il cuore per tormi questa indomita passione. Debbo io fuggire la mia famiglia ora che la Provvidenza mi ha ad essa ricondotto? Mi fu ella mostrata la tenerezza dei domestici affetti e concessami la possibilità di goderne, solo perchè una maledizione venisse a piantarsi fra loro e me e rigettarmene lontano? Dovrò io esecrare il momento in cui ripresi il possesso del nome e delle condizioni che mi spettano?
Maurilio guardava il fantasima, e gli occhi non umani del fantasima guardavano lui. Da questi occhi partì una fiamma, un raggio, una scintilla, un qualche cosa d'inesprimibile che penetrò e si confisse nel cervello del giovane, e gli suscitò di colpo un'idea che mai non gli si era nemmeno adombrata. Era un dubbio strano che prese forma in una domanda.
— Poichè, continuò egli, quello è bene il mio nome, quella è ben la mia famiglia? Non è egli vero?
Stette aspettando ansiosamente la risposta. Il fantasima non la diede: ma una indicibile espressione di mestizia insieme e di pietà apparve sulle sue sembianze. Maurilio con infinita supplicazione protese le mani verso lo spirito.
— Qual è questo mistero che mi si annunzia? che il mio pensiero intuisce nel lampo de' sguardi tuoi?... tu sai la verità di certo... Oh dimmi tutto il vero, qualunque sia...
Si tacque di nuovo in attesa d'una parola, di un cenno. L'aerea forma di donna lo guardava sempre più mesta e più pietosa; ma non parlò, non mosse. Il cuore a Maurilio batteva, batteva.
— Sono io figliuolo di Maurilio Valpetrosa? domandò egli con un'ansia piena d'angoscia. Sono io figliuolo della contessa Aurora?
La neve in quella si mise a cadere; il vento si ridestò più vivo e faceva turbinare le bianche falde intorno ai rami degli alberi. Il bianco fantasima si confuse col bianco della neve fioccante. Parve che quel turbinio avvolgesse, assorbisse, sciogliesse quel vapore condensato in forma di persona; il sorriso del labbro e dello sguardo si fece più lieve, si dileguò, sparì in mezzo alla danza dei fiocchi nevosi per l'aria; ma a Maurilio che guardava intento con pupille fise, parve che nel punto di dileguarsi quella apparizione scuotesse in segno negativo il capo, e quella voce non umana che gli aveva parlato nell'anima, gli susurrasse, ma fievolmente come un'eco lontana, lontana:
— No! no! no!
Il giovane sorse con impeto.
— No?... gridò egli. Io non sono dunque il fratello di Virginia?
Il primo pensiero che gli si presentava era quello dell'amor suo e gli faceva accogliere quasi con gioia l'ispiratogli sospetto.
— Ma dunque io posso amarla? continuava con trasporto inesprimibile. Oh parlami! Dimmelo ancora e più chiaramente... Rispondi, rispondi in nome di Dio! È mia sorella Virginia?
Si avanzò d'un passo verso quel luogo dove gli era apparsa l'ombra. Tutto era svanito e non si trovò in faccia che il cader lento e turbinante della neve aggirata dalla brezza.
Sentì una gran confusione nel suo spirito. Aveva egli visto bene in quel dileguarsi del fantasima? Era davvero un segno negativo quello che gli era stato fatto ed una parola negativa quella che aveva creduto udir pronunziata. E se anche ciò fosse, doveva egli credere fosse quella la verità? E se tutto questo non fosse che illusione? Che fare? Come sincerarsi della realtà delle cose? Se lo spirito aveva dettogli veramente così, e certo non aveva mentito, vorrebb'egli usurpare un posto che non gli toccava, mentre colui che ci aveva diritto viveva chi sa dove, e chi sa come?
Discese lentamente al villaggio. Camminava assorto, il capo chino, le braccia incrociate al petto, non vedendo nessuno, non sentendo nulla, fuori affatto del mondo circostante. Ad un punto sentì una voce che lo chiamava per nome. Gli pareva di conoscer quella voce, ma il suo spirito era così lontano ancora dal mondo presente, che non seppe dirsi di chi fosse; non le badò e continuò il suo cammino; un passo affrettato gli corse dietro e lo raggiunse; una mano si posò sulla sua spalla e la voce che già lo aveva chiamato gli disse:
— Eh Maurilio! sei tu sordo?
Egli si riscosse in sussulto; si volse e si vide dinanzi Gian-Luigi.
La vista del suo compagno d'infanzia fu a Maurilio in quel momento poco piacevole, quasi molesta. Forse perchè veniva a sturbarlo da' suoi pensieri; forse perchè l'irrequietezza dell'anima e l'irritazione dello spirito confuso inasprivano ogni ricevuta impressione.
— Tu qui! esclamò egli con voce ed accento di burbera impazienza. Che vieni tu a farci?
Quercia lo guardò stupito e parve nel suo occhio nero fosse per lampeggiare il risentimento: ma di colpo si atteggiò alla più serena ilarità la mobile espressione della sua bella faccia; ed egli ruppe in una franca risata.
[135] — Affè mia che non lo so io stesso. Avevo detto di venirci come prima avrei potuto, e promissio boni viri.... con quel che segue. Mi sono detto: poichè ho da mantenerla questa promessa, il meglio è che me ne sbrighi il più presto. Siccome son io che meno gli avvenimenti della mia vita, e non gli avvenimenti che menano me, mi sono procurato un giorno di libertà e son volato... coi cavalli dell'omnibus. Sissignore son venuto prosaicamente in quell'orribile baracca rompitrice di ossa umane, per non sciupare il mio bravo cavallo; ed eccomi qua pronto a cogliere sulla mia faccia i baci e le lagrime di tenerezza della povera Margherita... E sei tu che mi facevi rimprovero del non venirci, il quale ora hai da domandarmi con quell'aria di superiore corrucciato che cosa son qui per fare?
Maurilio evidentemente non prestava attenzione alle parole del compagno e non aveva capito nulla. Gian-Luigi con atto di amichevole domestichezza volle passare il braccio in quello di lui, ma egli si riscosse a quel tocco e ritrasse in là la persona guardando l'amico con sì torbida cera che Quercia si fermò su due piedi.
— Orsù, diss'egli con accento e con isguardo superbamente risentiti; che novelle son queste? che ti frulla pel capo, e con chi pensi tu ora di aver da trattare? I fumi del tuo nuovo stato ti sono eglino già saliti così stupidamente alla testa da metterti — e verso di me! — in una stolida superbia?... Senti tu già il gorgoglio del sangue patrizio ignorato pur ieri?
Maurilio parve allora destarsi da un sogno penoso.
— Io superbia? esclamò. Sangue patrizio, io?
Gli sembrò vedere ancora, in mezzo al bianchiccio della neve cadente, la leggera forma del fantasma scuotere il capo in segno di negazione.
— No, no..... Non ho superbia, non ho sangue patrizio.... Sono plebeo, tutto plebeo, non altro che plebeo.
Gian-Luigi lo guardò attentamente con occhio acuto, penetrativo, profondo; subodorò un segreto.
— Perchè parli tu così? diss'egli lentamente. È il tuo animo che senti fallire alla nuova condizione, o questa che ti fallisce?
Maurilio fu sul punto di narrar tutto; ma guardando il suo compagno gli vide nel volto e nella pupilla soprattutto una intentività quasi maligna che respinse in lui la fiduciosa espansione; crollò il capo, fece un atto colla mano per significare: gli è nulla; e si tacque.
Camminarono alquanto in silenzio l'uno accosto all'altro per la via deserta del villaggio; quando apparve loro dinanzi la modesta facciata della chiesa in fondo alla piazza, il medichino domandò bruscamente:
— Dove sei tu avviato?
— Rientro in casa di Don Venanzio.
— Ed io vo dalla Margherita. Annunzia la mia visita al parroco; fra dieci minuti sarò a salutarlo e domandargli un boccon d'asciolvere.
Maurilio, colla mente ancora preoccupata, disse sbadatamente:
— Se ti accompagnassi dalla Margherita....
— No: interruppe con vivacità Gian-Luigi: queste scene di riabbracciamenti non vogliono testimonii.
— Hai ragione. A rivederci dunque fra poco nella canonica.
— A rivederci.
Si separarono. In breve Gian-Luigi fu alla porta del tugurio, dove, ad un'estremità del villaggio, abitava la povera donna che gli aveva fatto da madre. Picchiò a quel povero uscio di assi tarlati e poco ben connessi, senza che la menoma emozione gli turbasse il regolare battito de' polsi. Un passo lento e trascinantesi si udì accostarsi nell'interno della capanna; l'imposta fu aperta e si presentò sulla soglia la persona ricurva della vecchia Margherita, il capo avvolto nel suo grossolano fazzoletto, la sua conocchia piantata al fianco nel legaccio del grembiule e il fuso tra mano. La si aspettava così poco di trovarsi innanzi il suo figliuolo adottivo in quel momento che guardò meravigliata quel signore elegantemente vestito che era venuto a picchiare il suo uscio e non riconobbe in esso colui che da tanti anni non aveva più riveduto ed aveva desiderato rivedere pur sempre.
Però, senza sapersene dire essa stessa una ragione, la sua voce fiacca e velata tremava più dell'ordinario quando gli chiese con parole confuse che parevano un balbettìo che cosa volesse, di chi cercasse.
— Ah! voi non mi riconoscete più, mamma Margherita? Disse il giovane con un piacevole e schietto sorriso.
La vecchia lasciò cadersi il fuso e strapparsi il filo, alzò le scarne mani abbronzate, all'altezza della testa, e battè palma a palma, gettando un grido cui la soverchia intensità dell'emozione soffocò a mezzo.
— Sei tu! Sei il mio Giannino! esclamò: oh Santa Vergine dei dolori!...
E quelle mani secche, inaridite, color di rame, tremanti per gli anni e pel tanto turbamento di quell'istante, allungò verso il giovane per istringerlo al collo, per afferrare quel capo diletto e tirarselo a sè a baciarlo ed abbracciarlo e stringerlo ai miserabili panni che le coprivano quel seno che lo aveva alimentato. Ma Gian-Luigi — fu egli un istintivo impulso di vergogna che lo spingesse a sottrarre la vista di quell'amplesso della pezzente agli sguardi di chi poteva passare per la strada, fu il pensiero amorevole di levar via più presto dall'aria ghiaccia che soffiava sul villaggio il debil corpo della vecchia? — Gian-Luigi afferrò quelle braccia che si stendevano con tanto amore verso di lui e [136] per esse trasse indietro la donna finchè ambedue furono entrati nel tugurio e la porta potè richiudersi dietro di loro.
— Ed ora, diss'egli poi ripigliando quel suo leggiadro sorriso, mamma Margherita, abbracciatemi pure.
La donna lo guardava con occhi che per miracolo avevano ritrovata una parte dell'antica vivacità della loro giovinezza. Quel sorriso del suo Giannino, com'ella, per antica abitudine, lo chiamava pur sempre, le illuminava lo squallido suo abituro come un raggio di sole primaverile entratovi ad un tratto a dispetto della stagione e della neve. La voce di lui suonavale come la più gradita melodia del mondo.
— Sei tu! sei tu! sei il mio Giannino! Oh Santa Vergine dei dolori! ripetè essa come se la non sapesse trovare altre parole; e gettategli le braccia al collo lo baciò e lo ribaciò sopra una guancia e poi sull'altra, e poi sulla fronte, e poi sulle labbra, e finì per rompere in un pianto dirotto con forti singhiozzi.
L'impressione del tristo giovane non fu di tenerezza. Le malvagie passioni troppo avevangli guasto il cuore e smussata la sensibilità, perchè egli comprendesse la profonda e santa emozione di quella povera vecchia, la partecipasse e vi si compiacesse. In quell'amplesso, a contatto di quelle vesti fruste e rappezzate, di quelle membra magre e sfiacchite, sentì come un odore disgustoso di miseria e d'angustie; gli parve quasi che il bisogno e l'abbiezione e la vergognosa umiltà di quel miserabile ceto plebeo da cui egli aveva tanto fatto per uscire, incarnati nella persona di quella squallida vecchia, gli gettassero le braccia al collo per riprenderlo in loro possesso, per trarlo a precipitar di nuovo nell'oscuro abisso. Si sciolse dall'abbraccio e disse non senza qualche impazienza:
— Via, via; non piangete così. Affè che non ci vedo nulla da piangere!
Margherita si asciugò in fretta le lagrime.
— Hai ragione..... Non so nemmeno io perchè piango..... dovrei essere così allegra..... Lo sono, sai..... Vorrei farti tanta festa e non so.....
Non vi starò a ripetere tutte le parole di quella povera donna, che avrebbe voluto poter cambiare in un tratto la sua capanna in una reggia con ogni abbondanza di ben di Dio per accogliere degnamente il suo diletto figliuolo. Non vi dirò i suoi ringraziamenti per l'invio delle mille lire, le proteste ch'ella fece quando udì che Gian-Luigi di quella stessa giornata sarebbe ripartito, e le preghiere per farnelo fermare almeno un giorno ancora. Il giovane che tutti questi discorsi tollerava con appena velata impazienza, li troncò per farsi egli a dire quello che più gl'importava e che era stato la vera cagione della sua venuta.
— Date retta, Margherita, cominciò egli mettendole una mano sulla spalla e guardandola ben fiso affine di richiamare alle sue parole tutta l'attenzione di lei: se un gran pericolo mi pendesse sul capo e voi poteste stornarlo, non è vero che lo fareste?
La vecchia strinse le mani in atto di quasi offesa meraviglia.
— Dio buono! Santa Vergine dei dolori! E me lo puoi domandare?... Farei ogni possibil cosa... darei questa grama di vita... e più ancora... per venirti in aiuto... Ma pur troppo, che potrò io mai fare per te, io, povera vecchia?...
— Voi potrete assai. Un pericolo può minacciarmi da un momento all'altro; e voi, non con fatti, ma con sole parole, potete concorrere a salvarmene.
— Parla, parla. Che debbo fare? che debbo dire?
— Voi potreste essere chiamata da qualche autorità a dare informazioni del mio passato, a narrare la storia della mia infanzia: così disse Gian-Luigi con voce bassa e pronunzia spiccata, parlando lentamente e tenendo sempre una mano sulla spalla a Margherita e gli occhi entro gli occhi perchè le cose ch'ei diceva le si imprimessero ben bene.
La vecchia non moveva un dito, non batteva palpebra: aveva concentrata tutta la sua vitalità negli occhi che fissavano il giovane e nelle orecchie che assorbivano avidamente le parole di lui; ad ogni motto quasi ch'egli pronunziava la faceva un leggier cenno del capo, come per dire: «ho capito, questo non mi scappa più.»
— In tal caso, continuava il medichino, voi ripeterete parola per parola ciò che ora verrò dicendovi.
Espose in quel modo lento e con quel tono spiccato la favola della sua sorte che aveva narrata al signor Giacomo Benda ed al commissario Tofi; appena la ebbe finita, la ricominciò da capo e tornò a dirla tutta perchè di subito la si fermasse con tutti i suoi particolari nella memoria di Margherita; e poi come ricapitolando soggiunse:
— Voi dunque affermerete che fu il dottore il quale vi mandò all'ospizio a prendere non un trovatello qualunque, ma uno particolarmente designato, quello cioè a cui per contrassegno, nell'esporlo era stata messa tra le fascie la metà d'una lettera lacerata per lo lungo, nella quale si leggevano le tali e tali parole, voi direte che fino dai primissimi tempi, il dottore medesimo, benchè di nascosto così che nessuno potesse accorgersene, pigliava interesse di me e veniva di quando in quando segretissimamente a visitarmi; aggiungerete ch'egli vi pagava eziandio in segreto, e che dalle sue parole avevate potuto capire che agiva dietro mandato di qualche lontana persona; e infine — e qui non avrete più che da dire la verità — che più tardi egli mi prese seco e fu lui a farmi studiare, e quando morì mi lasciò una parte della sua eredità.
Margherita aveva sempre ascoltato a bocca ed occhi larghi, immobile come una statua.
[137] — Avete capito? le domandò il giovane.
Ella accennò di sì.
— Sareste capace di ripetermi questa storiella? Su via, provatevici.
La vecchia ripetè dal principio alla fine, senza sbagliare d'un punto.
— Benissimo! Ma converrà che la riteniate ben bene a memoria, e che ogni qualvolta possa occorrere, voi siate in grado di dirla come adesso, senza imbrogliarvi e confondervi.
— Me la ripeterò fra me stessa, mattina e sera, tutti i giorni.
— Brava! E se vi domanderanno come avvenne che il medico pagandovi secondo quello che dite, voi siate pur sempre rimasta nella miseria, risponderete che spendevate ogni vostro danaro a giuocare in segreto al lotto.
Margherita espresse per la prima volta un po' di scontentezza.
— Ah! questa è una ben grossa bugia.
— Non più grossa delle altre: rispose asciuttamente Gian-Luigi guardandola con quel piglio che ne imponeva a qualunque: e conviene dirla se il bisogno lo vuole.
La vecchia curvò il capo.
— E se, continuava il giovane, vi domandano eziandio perchè non avete detto nulla mai a nessuno di codesto, risponderete che avevate giurato di conservare su ciò il più assoluto silenzio, ma che ora, avendo prestato un altro giuramento: quello di dire la verità a chi v'interroga, siete costretta a svelare quello che non avete mai detto.
Margherita sollevò di nuovo in volto al figliuolo gli occhi che aveva chinati a terra.
— Come! diss'ella: un altro giuramento? Non capisco.
— Sì: rispose Gian-Luigi con qualche impazienza. Molto facilmente se ciò avviene — e potrebbe anche darsi che nulla di ciò avvenisse — prima di interrogarvi vi faranno giurare di dire la verità...
— Ed io, interruppe la donna spaventata: dopo aver giurato di dire il vero, non direi che bugie?... Un giuramento falso... Oh mai!
Un lampo passò negli occhi di Gian-Luigi.
— È questo dunque l'amore che diceste avere per me? diss'egli frenando il subito moto della sua ira: è questo quello zelo che vantavate di voler fare qualunque cosa per util mio?
— Qualunque cosa, sì... son pronta... Ma perdere l'anima poi!...
Quercia stette un momento a riflettere se gli convenisse meglio ricorrere ai mezzi violenti per rompere quell'inaspettata opposizione della vecchia, oppure agli amorevoli. Si decise per questi ultimi. Prese ambedue le mani di Margherita, le strinse nelle sue, e disse con quello sguardo ammaliatore e con quella sua voce soave che erano tutta una seduzione:
— Sentite, mia buona e cara madre. Si tratta per me di tutto il mio destino, di onore o disonore, di vita o morte. Ho confidato in voi: vorreste ora mancarmi? Quando mi vedeste assolutamente perduto, che rimorso non sarebbe il vostro, dicendovi: «io poteva con una mia parola salvarlo, e nol feci!» L'anima si salva facendo opere buone: e qual opera migliore, quale più doverosa per una madre — e voi siete una vera madre per me — che quella di togliere alla rovina, all'onta, alla disperazione suo figlio?
La donna vacillava; non era la forza degli argomenti usati da Gian-Luigi che la sommovesse: ella era in quel momento così turbata, che appena se capiva le parole di lui; era la voce, era lo sguardo del giovane che le penetravano così dolcemente e potentemente nell'anima: era il suo sterminato affetto che la dominava e stava per superare ogni contraria ragione.
— Mi consulterò con Don Venanzio: diss'ella timidamente.
— No; proruppe con vivacità il giovane. Con nessuno conviene che vi consultiate, e meno con lui che con altri. Ah! non avrei aspettato in voi tanta esitazione, sì poco amore!....
La misera a questo rimprovero crudelmente ingiusto non rispose che con un gemito e con uno sguardo; ma e lo sguardo e il gemito dicevano di molte cose, per cui Gian-Luigi avrebbe avuto da arrossire e gettarsele in ginocchio dinanzi a domandarle perdono. Egli mostrò non aver pure avvertito quella muta, eloquente protesta, e continuò nel suo dire, e tanto seppe colle melate parole e colle preghiere circonvenire l'animo di quella povera donna che ne ebbe ottenuta solenne promessa, ella farebbe tutto a senno di lui, non si ritrarrebbe innanzi al falso giuramento, non farebbe parola di nulla al parroco.
Gian-Luigi uscì per recarsi da Don Venanzio: Margherita disse che sarebbe andata a ritrovarlo colà fra poco tempo per vederlo ancora, per rimanere ancora un po' di tempo prima ch'egli ripartisse; ora la infelice aveva bisogno di esser sola. Il giovane nell'abbandonar la capanna le fece la grazia di abbracciarla; e poi si allontanò col suo passo franco, l'aspetto allegro e sicuro, lo sguardo vivace e dominatore; e nessuno avrebbe detto che gravi cure lo travagliavano e più grave pericolo incombeva sul suo capo.
Margherita, appena fu uscito il figliuolo, cadde in ginocchio sul freddo pavimento della sua miserabile capanna, e serrando le mani in atto di fervente preghiera, esclamò:
— Dio mio! Dio mio! Ho fatto tanti sacrifizi per quel ragazzo; ed avessi anche da far questo? Risparmiatemi voi, Santa Vergine dei dolori; risparmiatemi questo peccataccio mortale..... Che se sarà necessario, dopo avergli sacrificato la mia vita terrena..... ebbene, gli sacrificherò anche l'anima.
[138] Gian-Luigi con Don Venanzio e Maurilio fu del più libero e lieto umore del mondo, tanto che riuscì perfino a dissipare alquanto le nubi che erano raccolte sulla fronte del suo compagno d'infanzia: disse che per quella volta non aveva potuto procurarsi il piacere d'una più lunga dimora al villaggio, ma che sarebbe tornato prossimamente e per rimanervi alcuni giorni. Fu ameno, amorevole, piacevolissimo come sapeva essere quando volesse. Margherita sopraggiunse: ma una mestizia di cui Don Venanzio non sapeva darsi ragione offuscava in lei la gioia di rivedere il figliuolo: essa lo guardava fiso, fiso, in silenzio, alcuna volta le lagrime venivanle agli occhi. Quando però il giovane partì, ella seppe rattenere il pianto.
— Ricordatevi: le susurrò Gian-Luigi all'orecchio, dandole l'ultimo abbraccio.
Ella rispose con un cenno affermativo del capo.
— Che cosa avete? domandò il parroco alla vecchia, quando il giovane fu partito. Mi par di scorgere in voi la mostra d'un nuovo dolore.
— Nulla, nulla: rispose sollecitamente la poveretta, e s'affrettò ad allontanarsi.
Gian-Luigi, tornato a Torino, trovò a casa sua un altro bigliettino di quel suo anonimo avvisatore; non v'erano scritte che queste parole:
«Affrettatevi. I sospetti crescono. Si tende una rete intorno a voi. Il conte L. fu pregato di un abboccamento dal Direttore generale della Polizia.»
Quercia stette un istante con questo biglietto in mano, le sopracciglia aggrottate, la sua ruga caratteristica incavata sulla fronte; poi si riscosse, e stracciando a minuti pezzi la carta che poi gettò ancora sul fuoco, disse fra sè:
— Mi affretterò... Il conte poi, ne sono sicuro, non dirà nulla che mi possa pregiudicare.
Era il vero che il conte Langosco di Staffarda aveva ricevuto dal generale Barranchi un biglietto con cui lo pregava a recarsi da lui in quell'ora e in quel momento che gli fosse più comodo.
La determinazione di scrivere questo biglietto il Comandante dei Carabinieri l'aveva presa dopo un colloquio avuto col signor commissario Tofi; e per esporre tutto per ordine ciò che avvenne e le cagioni di questi abboccamenti, torniamo indietro un momento, a quel punto, in cui partitisi ambedue da quel funesto luogo in cui si esponevano i cadaveri degli sconosciuti e dove s'erano incontrati innanzi alla salma di Ester annegatasi, il medichino e Macobaro s'erano recati, il primo a casa sua, il secondo nel riposto quartierino dove Barnaba stava guarendo dalla ferita avuta dallo stile di Graffigna.
Entriamo anche noi in quella piccola, modesta e oscura stanza, dove giaceva il poliziotto.
Come già fu accennato, il miglioramento della sua salute era tale ch'egli già poteva starsene seduto sul letto, le spalle appoggiate ai cuscini. Più che l'arte del medico, più che i farmaci dello speziale, ad affrettare la guarigione del ferito erano la forza, la tenacità, il meraviglioso vigore del suo volere costante e fisso in un pensiero solo. Le guancie aveva pallidissime, e il volto, già magro abitualmente, in quei pochi giorni di malattia eragli diventato così scarno e macilento che più non potrebbe un tisico nell'ultimo periodo del suo male; ma gli occhi, che dapprima aveva sempre per ordinario come velati da una nube, ora brillavano di un nuovo splendore che pareva ed era in vero il riflesso del fuoco interiore d'una passione che vegliava continua, e cui nulla avrebbe deviata dal camminare verso il suo appagamento.
Accanto al letto, quasi accoccolato sopra un basso sgabello, i gomiti puntati sulle grosse ginocchia e la testaccia arruffata nascosta nelle mani che parevano quelle di un gigante, stava Meo, il quale era mutato ancor egli d'assai da quello che appariva nella taverna di mastro Pelone, ed avreste detto esser malato eziandio. E lo era diffatti; aveva un male che si poteva paragonare a quello della nostalgia; e n'era cagione il non aver più visto da parecchi giorni, che a lui parevano tantissimi, la faccia grassotta, rubiconda, rubesta, e gli occhi assassini della Maddalena.
Meditavano tuttedue; Meo ad un punto avea rotto il silenzio facendo questa domanda:
— Se io andassi a vederla solamente un minuto, che male ci sarebbe?
Barnaba era così affondato ne' proprii pensamenti che non gli diede retta.
Meo ripetè la sua interrogazione. Il giacente udì, ma non comprese, e vedendo la grossa faccia del giovinastro volta verso di lui con ansiosa aspettazione gli domandò che cosa avesse detto.
— Dico che non ci potrebbe esser punto male s'io andassi a vederla un minuto. Proprio solamente tanto da vederla. Ho bisogno di vederla io quella donna.
Barnaba ebbe un lieve fremito nelle sue fibre. In mezzo alle tante, varie, molteplici, aggrovigliate fantasticherie della sua mente compariva anche per lui un'immagine di donna: degli occhi ora chiari e sereni, ora scuri e torbidi, delle labbra carnose color di sangue, delle chiome fulve, una persona di forme voluttuosamente procaci.
— Vederla! esclamò egli, il quale sentiva nel suo intimo vivissimo pure il desiderio di avere innanzi reale quella bellezza che vagheggiava colla immaginazione. Chi vedere? Di che donna parli tu?
— Di Maddalena.
Barnaba fece un atto d'impazienza.
[139] — Ci sarebbe male e di molto: rispos'egli. All'osteria ti si tratterrebbe, ti si interrogherebbe, tu non sapresti dissimulare.... e la nostra vendetta ci sfuggirebbe di mano.... Non vuoi tu più giungere a far tua quella donna?
La sciocca faccia di Meo divenne rossa, e le pallottole di vetro che aveva nelle occhiaie ebbero un bagliore, che pareva lume d'intelligenza.
— Oh sì! diss'egli con forza.
— Non vuoi tu più vendicarti di quell'altro?
— Oh sì: ripetè egli con più forza e con più vivo luccicar degli occhi.
— Abbi dunque pazienza alcuni giorni ancora, ed avrai l'una e l'altra soddisfazione..... Sì pochi giorni soltanto, e poi potrò agire: lo sento, lo voglio.
In quella entrava il vecchio rigattiere ebreo, la faccia terribilmente sconvolta; stampata entro la mente l'immagine del volto di sua figlia annegata che aveva visto poc'anzi.
Barnaba comprese tosto che il momento era venuto di apprendere tutto quello che desiderava.
— Jacob, diss'egli, ora mi sento abbastanza forte per cominciare l'impresa che deve procurarci a tuttedue una desiderata vendetta. È tempo che favelliate.
— Sì, rispose il padre di Ester, guardando torbidamente intorno. Sono venuto apposta.
Meo fu mandato nell'altra stanza, e Macobaro fece a voce bassa al poliziotto un lungo racconto, che durò quasi un'ora.
Quando il vecchio ebbe finito successe un lungo silenzio; ambedue stavano meditando. Fu Arom che ricominciò a parlare:
— Ella mi salverà, non è vero?
— Sì: rispose Barnaba che tutto aveva già fissato in mente il modo di agire. Vi farò assicurare, come a propalatore, la impunità.
Un'altra idea s'affacciò in quella alla mente del vecchio usuraio pel quale la passion del denaro era sempre la prima.
— Ah! esclamò egli: non vorrei perderci in codesto i miei poveri denari che ho dati a quello scellerato dietro una cambiale coll'avallo della contessa di Staffarda.
Queste parole fecero nascere un nuovo pensiero in Barnaba. Avvisò che anche di codesto poteva trar profitto pel conseguimento del suo scopo. Gli influenti personaggi con cui il medichino aveva attinenza e che lo proteggevano, avrebbero forse pensato a sottrarlo, anche per riguardo a se stessi, alla giustizia; sarebbe stato opportuno far nascere in quei medesimi il desiderio eziandio di vederlo perduto, e forse quella cambiale gli porgeva il destro da ciò.
— Quel titolo, diss'egli a Macobaro, vorreste voi affidarlo a me?
Il vecchio fece una smorfia che dinotava chiaramente come questo partito poco gli piacesse.
— Voi siete nelle mie mani, e potrei imporvelo con assoluto comando; vi consiglio però a farlo di buon grado, assicurandovi che non sarete defraudato dell'aver vostro.
Jacob capì che bisognava rassegnarsi; e di quel giorno medesimo consegnava sospirando nelle mani di Barnaba la cambiale in quistione.
Ora, il giorno dopo, capitava giusto nella stanza del ferito il commissario Tofi, il quale veniva a narrargli tutto ciò che era avvenuto a proposito del dottor Quercia e che abbiamo visto nei capitoli precedenti.
Barnaba ascoltò silenziosamente a suo modo, e poi disse:
— Ciò che vi ha di pregiudizievole in codesto si è che così venne data a quel briccone la sveglia, e ch'ei penserà a porsi in salvo. Conviene farlo custodire ben bene perchè non fugga.
— Ho già dato gli ordini opportuni per ciò..... Ah! l'avrei fatto arrestare senz'altro. Ma il conte Langosco, che a dispetto di tutto lo protegge sempre, sarebbe andato dal generale Barranchi, e mi si sarebbe fatto un rabbuffo.
— Il conte Langosco non lo proteggerà più. Se l'affare dei diamanti non ha bastato, ce n'è qui un altro che lo indegnerà vivamente contro quel cotale e gli farà nascere una maledetta voglia di vederselo torre per sempre dai piedi. Agendo con prudenza si può ottenere d'avere il conte dalla nostra.
Diede la cambiale che sappiamo al Commissario e gli espose quello che a suo avviso doveva farsi, e come. Il signor Tofi approvò tutto e tolse commiato per andar tosto a mettere in pratica i datigli suggerimenti.
— Fra cinque o sei giorni potrò stare in piedi: disse a mo' di conclusione Barnaba, i cui occhi brillavano fieramente: potrò procedere io stesso all'arresto ed alla perquisizione di chi so io e dove so io.
Delle rivelazioni fattegli da Macobaro intorno alla cocca ed al suo capo, non aveva ancora voluto dir nulla al Commissario perchè a sè desiderava serbato l'onore e la soddisfazione dell'importante cattura.
Il signor Tofi si recò dal conte Barranchi, e fu dietro il colloquio avuto insieme che il generale domandò al marito di Candida quell'abboccamento che abbiamo detto.
Barranchi, quando Langosco fu da lui, non fece che ripetergli le parole che destramente gli aveva suggerito il Commissario e che da costui erano state combinate con Barnaba.
— Vengo a darvi un'altra prova, conte, del come la mia polizia si faccia: disse con importanza il generale. Noi sappiamo tutto! E sappiamo qualche cosa che vi riguarda, che forse non sapete nemmeno voi.
[140] — Che cosa? domandò torbidamente il conte che da qualche giorno, per le buone ragioni che conosciamo, non era di umore nè ciarliero nè tollerante.
— Fra noi, amici da lungo tempo, della stessa classe, delle medesime idee, possiamo parlarci francamente, non è vero? D'altronde voi lo sapete che io non ci ho mai valuto niente nelle diplomaticherie. Sono un militare, tutto d'un pezzo, e basta. Ecco dunque di che si tratta. Vostra moglie si è lasciata abbindolare così da mettere la sua firma per avallo ad una cambiale del valore di 52 mila lire.
Il conte sussultò, ma non disse nulla.
— Chi le ha carpita questa firma, continuò Barranchi, forse voi potrete indovinarlo.....
— Lo indovino: interruppe con accento cupo Langosco, alle cui guancie saliva un lieve rossore. Ebbene? e con ciò?
— Noi non si vuole che una famiglia come la vostra sia esposta a certe pubblicità, a certi commenti.....
Il marito di Candida fece un atto che significava nello stesso tempo un ringraziamento e il desiderio di veder troncate quelle parole.
— La disgraziata cambiale abbiamo trovato modo di averla in poter nostro.
— Sì? proruppe vivamente il conte di Staffarda. Lasciatemela vedere, vi prego.
Barranchi la prese da uno dei cassettini della scrivania e glie la porse. Langosco esaminò attentamente la firma della moglie, e più amaro del solito gli sfiorò le labbra il suo ghigno.
— Ebbene, diss'egli al generale porgendogli il foglio, non vedo qui che ci sia nulla da fare. All'epoca della scadenza la contessa farà onore alla sua firma.
— Legalmente ella non poteva obbligarsi....
— La contessa ha firmato: disse con vibrato accento Langosco; e la contessa pagherà.
— Ma quell'uomo a cui favore diede il suo nome è uno sciagurato, indegno d'ogni riguardo.
Il conte scosse la testa come per dire che ciò non ci aveva nulla da fare nella quistione.
— Voi non lo conoscete ancora bene, continuava Barranchi. Abbiamo dati positivi per credere che quel cotale è capace di tutto.... Si hanno i più gravi sospetti sul conto di lui.... Volete che ve lo dica?... E guardate quanto bisogni davvero andar guardingo nello stringere attinenze fuori della nostra classe... Si dubita che quell'individuo sia complice degli assassini dell'usuraio Nariccia.
Langosco, a cui questo brutto sospetto si era già presentato eziandio, impallidì, ma non disse verbo.
— Sapete, continuava Barranchi, che il nostro diligente commissario Tofi aveva già pensato farlo arrestare e perquisire la sua abitazione?
— Ciò non dev'essere, disse vivamente il conte di Staffarda, il quale mise una mano sul braccio del generale come per chiamarne vieppiù l'attenzione sulle sue parole. Siamo amici, generale, ed io per rendervi un servizio che salvasse il decoro della vostra famiglia farei tutto quello che fosse in mio potere. Conviene che ci sosteniamo e ci aiutiamo a vicenda noi che lo spirito rivoluzionario moderno minaccia.... Quel cotale non conviene sia arrestato e gli si faccia un processo.
Abbassò la voce e disse lentamente:
— Fra una settimana sarà fuori di Stato, ve ne do la mia parola.... Aspettate una settimana a farlo arrestare.
Barranchi fece gravemente un segno negativo e Langosco aggrottò le sopracciglia.
— Mi neghereste ciò, anche s'io ve lo chiedessi come un favore?
— Ve lo negherei, perchè così vuole il vantaggio del pubblico.
Il conte di Staffarda fece un brusco movimento cui tosto però represse: il generale continuava:
— Perchè così vuole eziandio il vostro medesimo interesse.
— Oh come?
— Nella stessa guisa che quel mariuolo ottenne questa cambiale, può avere ottenuto altre carte, altri documenti, lettere... o che so io, per cui possa rimanere compromessa qualche persona.... qualche persona, voi mi capite.... che non da me certo, e nemmeno da voi, si vorrebbe potesse venire in ballo. Ora siffatte carte in una perquisizione cadrebbero in potere degli agenti della polizia...
— Ed è ciò che vuolsi evitare: proruppe vivamente Langosco.
— No: disse il generale sorridendo furbescamente, e tenendosene d'un'accortezza che non era sua: no, perchè — (e qui abbassò ancor egli la voce) — quelle carte, qualunque siensi, venute nelle mani d'un uomo acconcio, a cui si daranno le opportune istruzioni, del medesimo commissario Tofi, per esempio, fidatissimo e intelligentissimo, potranno passare senza ritardo qui nel mio studio, e di qua a voi medesimo che ne potrete fare ciò che più vi aggradirà.
Il marito di Candida prese vivamente la mano del Comandante dei Carabinieri e glie la strinse forte per muto attestato di riconoscenza.
— E ciò, seguitava il generale trionfante, varrà sempre meglio che lasciare in potere di quello sciagurato, ancorchè se ne vada in altri paesi, un'arma che potrà rivolgere a vostro danno quando che sia.
— Avete ragione: disse con voce soffocata il conte di Staffarda.
— E pensate che se gl'indizi non c'ingannano, e son tali da poter essere omai sicuri di ciò, colla cattura di costui avremo in mano le fila di quella iniqua setta di malandrini, cui si devono i tanti [141] misteriosi delitti che ebbero luogo ultimamente. Quanto a quella cambiale poi...
— Quella sarà pagata: interruppe con una certa alterigia Langosco, e prese quindi commiato dal generale.
— Contessa; disse poscia con severità quasi sprezzosa il conte a sua moglie, appena fu solo con lei: conviene che vi procuriate al più presto le cinquantadue mila lire da pagare quella cambiale che avete firmata.
Candida levò la testa e gli occhi verso il marito; e senza parlare lo guardò coll'aria smemorata ed offesa di chi non capisce ciò che gli vien detto, e crede d'esser fatto mira d'uno stupido ed insolente scherzo.
Il conte seguitava:
— A me è assolutamente impossibile procurarmele; ma con tutto ciò esigo e pretendo che in pochi giorni quella somma sia pagata. Se non ci avete altro modo, ricorrete a vostro padre, il quale per l'onore della sua figliuola non vorrà, spero, far la menoma difficoltà a venirvi in aiuto.
La contessa guardava sempre il marito di quella guisa, se non che nei suoi occhi scuri si accresceva ogni minuto più la fiamma dello sdegno.
— Vorrete voi avere la compiacenza di por termine a questo che io non so come chiamare, se sciocco scherzo, o temeraria menzogna? Proruppe ella con accento pieno d'ira contenuta e con voce che vibrava profondamente agitata. Siete voi che avete bisogno ancora di tal somma ed avete inventato questo bel metodo per estorcerla alla mia condiscendenza stata troppa finora?
Langosco mandò un'esclamazione soffocata in cui c'erano collera, dolore, vergogna, e si trasse indietro d'un passo come se dal colpo d'una mano robusta al petto fosse stato respinto.
— Ah voi mi calunniate ed insultate! diss'egli con una specie di ruggito.
Candida, che fin allora era rimasta a sedere, si drizzò in piedi, e la faccia dritta levata, fulminando il marito con uno sguardo superbo esclamò:
— E voi che state facendo verso di me? Insulti e calunnie sono le vostre parole, ed io sono una donna, signor conte.
Il marito represse quell'ira che sentiva nel suo petto presso a prorompere. Sapeva quella donna troppo fiera per abbassarsi a mentire ed abbastanza audace per non isconfessare qualunque sua azione. Un sospetto che ancora non gli era balenato alla mente glie ne nacque di botto. Quell'uomo di cui egli aveva creduto scoprire pochi giorni prima che giuocava di baro, che era ritenuto complice d'un assassinio, non era egli capace di tutto? Il conte tornò accostarsi a sua moglie, e guardandola ben bene entro gli occhi, la sua faccia magra e giallognola a un palmo appena di distanza dal viso di lei, di qualche tempo patito e pallido, le disse con parola lenta e spiccata:
— Voi dunque non avete firmata a favore di quell'uomo una cambiale di 52 mila lire?
— Nessuna: rispose seccamente la contessa.
— Ebbene: disse con feroce crudeltà il marito: quella cambiale col vostro nome, l'ho veduta io stesso poc'anzi; e ciò vuol dire che il vostro amante, signora contessa, è tutt'insieme un baro, un assassino ed un falsario.
Le guancie di Candida si fecero d'un rosso cupo e impallidirono poi tosto; gli occhi lampeggiarono e ratto si spensero; le labbra frementi s'aprirono e s'agitarono come sotto la pressione di fiere parole che stessero per prorompere, ma non una voce ne uscì. Da parecchi giorni troppe e troppo fiere erano le emozioni onde quella misera donna era colpita: a quest'ultima non resse. Credette ella o non credette la terribile accusa? Non ebbe campo a sceverare ella stessa nella confusione della sua mente le proprie impressioni. Sentì uno sdegno indicibile e insieme, in fondo all'anima, una segreta, tremenda paura. Il cuore cessò di batterle, il cervello fu oppresso dall'èmpito del sangue che vi salì vorticoso: agitò le braccia, mandò un rantolo, e su quella poltrona da cui s'era drizzata poc'anzi ricadde pallida come un cadavere.
Il conte le fu presso senza premura, senza interesse, senza pietà nessuna, e la esaminò attentamente.
— Animo! diss'egli coi denti stretti: non è tempo di svenimenti; fatevi coraggio ed udite tutto il vero.
Le prese una mano e la trovò inerte e fredda poco meno che quella d'una morta; la lasciò ricadere, e guardò un istante la donna svenuta con più amaro che mai sulle labbra il suo ghigno; poi diede una forte tirata al cordone del campanello.
— La vostra padrona è svenuta: disse alla cameriera che si presentò: soccorretela, mettetela a letto, e si mandi tosto per un medico.
E lento e tranquillo rientrò nelle proprie stanze.
Dopo uno svenimento di mezz'ora, Candida risensava e in mezzo alla confusione delle idee in cui si trovava tuttavia e all'indolorimento generale del corpo, il suo primo pensiero era quello della orrenda novella appresa dal marito. Che questi era incapace di mentire e calunniare troppo ella sapeva. La cambiale falsa era dunque un fatto reale. Delle altre accuse in quel momento non si ricordava, non si preoccupava. Non aveva tempo nè spirito da indegnarsi, da soffermarsi a considerare l'infamia e la scelleraggine della cosa; al suo animo di donna fatalmente posseduto da una tenace, indomabile passione, un solo oggetto premeva, un solo si presentava: quello di salvare il suo amante. Per ciò non v'era che un modo solo, e il conte medesimo glie lo aveva additato: ricorrere a suo padre, farsene dare la somma occorrente, pagar tutto, ottenere coll'influsso del barone La Cappa che in [142] ogni modo l'affare rimanesse soffocato, a Quercia non si desse molestia. La cosa premeva, bisognava correre senza indugio, Candida volle scendere di letto e non potè; le parve d'essere inchiodata in mezzo alle coltri; fece uno sforzo, e tutte le idee le si smarrirono di nuovo, l'intelligenza le si offuscò e tornò a perdere la cognizione, non in uno svenimento, ma nel parosismo d'una febbre gagliarda sopraggiuntale.
Il conte, avvertitone, corse al capezzale di Candida, e siccome rotte e tronche parole uscivano dalle livide, aride labbra della giacente, timoroso ella nel delirio parlasse, allontanò dal letto ogni altro, per rimanerci egli solo, oggetto di meraviglia ai servi che non lo avrebbero creduto mai così tenero della moglie.
Il medico, fatto venire, annunziò che quella era una grave malattia, e che per allora non poteva predire quali ne sarebbero state le conseguenze.
La cameriera della contessa, che sappiamo avere intime relazioni con Gian-Luigi, si affrettò di quella sera medesima a recargli l'annunzio di quel caso.
— Anche questa è per me un'avversa circostanza: disse il medichino dopo congedata la fante con larga rimunerazione. Questa malattia toglie di agire a costei che in certe contingenze, guidata da me, avrebbe potuto essermi d'un aiuto efficace. Conviene davvero che io m'affretti il più che si possa e me ne vada sotto altro cielo.
Maurilio rimase al villaggio tutta una settimana. I suoi dubbi continuarono ad agitarlo, ma non un barlume più venne a rischiarargli la tenebra in cui era caduta a questo riguardo la sua mente. Invano erasi recato di nuovo a quel luogo in cui lo aveva visitato l'apparizione: invano questa, e colà e altrove, aveva invocata con trasporto d'anima ineffabile, con vera frenesia di desiderio: nulla, nulla più era venuto a confermargli o distruggergli quello strano sospetto che così inopinato e così stranamente gli era stato saettato nell'anima. Col trascorrere dei giorni, per ciò, anche questo dubbio aveva scemato di forza: la ragione aveva riagito contro l'immaginativa, e debolmente dapprima, con più forza di poi, aveva mostrato la insussistenza di quel sospetto che non era forse altro se non un portato dell'inferma fantasia. Ad ogni modo, appena di ritorno a Torino, ei si proponeva di raccogliere con religiosa cura tutte quelle informazioni e que' documenti che si poteva sul conto del padre e della madre, tanto da formare colla menoma interruzione di anella quella catena di fatti che dall'amore della nobile donzella di Baldissero pel giovane patriota milanese, doveva condurre fino al ricevimento di lui come rampollo di quell'unione nella illustre famiglia di Aurora.
Al settimo giorno dopo la sua partenza da Torino, Maurilio ricevette una lettera dal marchese di Baldissero, nella quale gli si diceva: essere tempo ch'egli ritornasse, S. M. con immensa degnazione, di cui Maurilio avrebbe dovuto esserle riconoscente tutta la vita, non averlo dimenticato, ma aver fatto benignamente sapere a lui, marchese, che suo nipote sarebbe impiegato nel gabinetto particolare di S. M. medesima: convenire ch'egli senza ritardo si recasse ai piedi dell'Augusto personaggio ad esprimergli quella gratitudine che era più di un dovere: per ciò si tenesse preparato a partir di colà il giorno vegnente, che la carrozza sarebbe venuta a prenderlo al villaggio.
Maurilio lesse e rilesse quella lettera, domandandosi che cosa doveva fare. L'idea glie ne venne un momento di rispondere al marchese, rinunziar egli alle nuove grandezze che gli offriva la sorte, voler fermare la sua dimora al villaggio e viverci ignorato; ma non tardò a riconoscere che questo sarebbe stato «per viltate un gran rifiuto,» che se il destino gli porgeva in quella guisa alcuna possibilità di fare un po' di bene, era suo dovere non fallire all'opera, che il dar corpo ed importanza a quei vaghi, aerei dubbi, senza fondamento di sorta, era peggio che una follia. Annunziò adunque a Don Venanzio il suo ritorno in città pel giorno dopo; e diffatti verso il cader della notte dell'ottavo dì dacchè erasi di là partito, egli, nella carrozza collo stemma della famiglia di Baldissero, rientrava sotto il portone del superbo palazzo, dov'egli, quasi ragazzo ancora, coi panni e nelle condizioni di povero figlio del popolo era entrato primamente di straforo per ammirare la bellezza di Virginia, ond'era stato ammaliato.
Il maggiordomo era ad accoglierlo in alto dello scalone.
— Signore, gli disse con un rispetto che si vedeva chiaramente ispirato dagli ordini espressi del padrone, S. E. il marchese la prega, quando Ella siasi riposata, ristorata e rassettata, di voler passare nel salone, dove troverà riunita tutta la famiglia.
Maurilio fece un muto segno di assentimento.
Il maggiordomo, camminandogli innanzi per quei locali, tutti già rischiarati, lo condusse alla camera assegnatagli, che era un'altra da quella che gli era stata data come a segretario, al primo piano ancor essa come quella degli altri componenti della famiglia, più elegante per mobili, per arazzi e per tappeto.
Il servo, che seguiva, depose sulla pietra di marmo d'una mensola i due candelabri d'argento dalle candele accese che aveva tra mano; e il maggiordomo inchinandosi innanzi al giovane gli disse:
— È pronta una refezione per Vossignoria. Desidera Ella esser subito servita?
[143] Maurilio che pareva aver perduto la parola mettendo piede sul limitare di quel palazzo, fece un cenno che voleva dire, non aver egli bisogno nè desiderio di nulla; il maggiordomo lo interpretò invece per un assentimento anche questo e dopo un altro profondo inchino si ritirò annunziando che colà stesso sarebbe tosto recata la refezione. Il giovane non aveva in quel momento per la testa altro che un pensiero: avrebbe visto fra poco tutta la famiglia, le sarebbe comparso dinanzi egli a prendere ufficialmente il suo posto in mezzo a lei: quest'idea lo turbava e lo spaventava. Sollevò gli occhi e incontrò la sua pallida figura riflessa nello specchio che stava sopra alla mensola su cui il lacchè aveva deposto i lumi, e diede in una scossa come se quella fosse la vista inaspettata d'un ignoto che venisse a guastargli la solitudine che desiderava: dietro la sua, vide pure la figura del valletto che lo guardava con un'impertinente curiosità ammantata di rispetto, degna affatto di un servo di nobil casa. Si rivolse vivamente.
— Che fate costì? domandò con tono abbastanza superbo da padrone che gli valse di botto una maggior stima da parte del domestico.
— Aspetto gli ordini di Vossignoria, in caso volesse cambiarsi d'abiti.
Ma il nostro giovane, cresciuto fra gl'infimi, allevato in mezzo la plebe, non aveva nè indole, nè abitudine da mantenersi in quello sprezzoso contegno d'uomo che si ritien di razza superiore e che non vede nel suo simile che un passivo stromento delle sue volontà; sentì una soggezione e quasi una specie di vergogna de' fatti suoi in presenza di quel cotale, più alto, più grosso, più forte di lui, dalle braccia che avrebbero potuto fare tanto lavoro utile, il quale gli stava dinanzi nella sua livrea gallonata per prestargli dei servizi che non gli erano necessarii e di cui aveva sempre fatto senza. Chinò gli occhi con una nuova umiltà che di colpo fece sparire tutto quel po' di stima che il domestico aveva sentito per lui, e rispose impacciatamente:
— No.... non ho bisogno di nulla: ritiratevi pure.
Mentre il domestico apriva la porta per uscire, entrarono due altri portando un deschetto apparecchiato, che posero poco distante dal camino: uno di essi tirò presso al tavolino un seggiolone e disse al giovane:
— Se Vossignoria vuole accomodarsi, eccola servita.
E i due nuovi valletti venuti stettero come due cariatidi, uno di qua, l'altro di là del deschetto su cui fumava mandando un profumo appetitoso una zuppiera d'argento.
Maurilio sempre immobile, sempre dritto a quel punto da cui vedeva riflesso nello specchio in mezzo alle vacillanti fiammelle dei candelabri, il suo pallido viso che spiccava nella penombra del fondo della stanza; Maurilio guardava con occhio attonito il luccicare degli argenti e dei cristalli sulla tavola dove ripercotevansi e rimbalzavano i raggi di due altri candelabri d'argento, la candidezza della finissima tovaglia, la forma spigliata della bottiglia di vino di Bordeaux, i galloni delle livree e le braccia imbottite della soffice poltrona che parevano tendersi verso di lui per invitarlo.
Dopo un silenzio di pochi minuti, il giovane capì che doveva dire o fare qualche cosa. Fece un evidente sforzo per sciogliere la lingua che gli pareva annodatasi; ed ebbe mestieri d'un atto di coraggio per pronunziare le seguenti parole:
— Andate..... Desidero rimaner solo.
I domestici salutarono e partirono. Allora egli, quando ebbe visto l'uscio richiudersi dietro le loro spalle, si mise a passeggiare su e giù per la camera a capo chino, sostenendo colla mano destra il mento e colla sinistra il gomito del braccio destro. Non pensava a nulla di preciso, ma sentiva un gran disagio di sè, una strana malavoglia. Ora che l'orizzonte della vita pareva esserglisi aperto dinanzi, egli non iscorgeva che buio, peggio di prima, buio in sè ed intorno a sè. La sua mente vagava, vagava in un indefinito chimerizzare, che non aveva neppure una lontana somiglianza di forme, che niuna parola, che nemmeno l'incerto, ondeggiante, generico linguaggio della musica varrebbe ad esprimere.
Ma passando e ripassando egli innanzi alla tavola apparecchiata, gli effluvii di quella succosa zuppa, che profumava l'aria della stanza, finirono per solleticare e destare i suoi sensi: si fermò, si raccostò al desco, cedette all'invito della poltrona, si lasciò cadere fra quelle braccia così benignamente allargate. Quando ebbe mangiato un buon tondo di minestra al consommé, una buona fetta di pâté e bevuto un buon bicchiere di Bordeaux, le cose apparvero sotto ai suoi occhi con aspetto un po' diverso da quel di prima. Si fece coraggio, l'idea di affrontare la presenza e gli sguardi della sua nuova famiglia gli fece battere il cuore, ma non lo spaventò più: si guardò nello specchio con meno spregio e ripugnanza di se stesso; camminò con passo più sicuro per la stanza, si raggiustò la cravatta al collo e i panni addosso, e s'avviò abbastanza risolutamente verso il salone.
Un domestico glie ne aprì l'uscio ed alzò la portiera: Maurilio vide innanzi a sè, aggruppate presso il grande camino, quattro persone che volsero verso di lui il loro volto su cui si dipingeva una curiosità in tutti diversa: quelle quattro persone erano il marchese e sua moglie, la loro nipote Virginia ed il loro figliuolo Ettore, uscito il giorno prima soltanto dagli arresti di rigore in cittadella.
Ma prima di entrar testimonii a questa scena che sta per aver luogo, è conveniente assistere ad un'altra che in quell'ora medesima succede nel piccolo e remoto quartiere di Barnaba, l'agente segreto della polizia. [144] Già dal giorno prima il ferito s'era provato a scendere di letto; ma la debolezza non gli aveva consentito che di far pochi passi per la stanza.
— Eppure voglio esser guarito: aveva mormorato fra sè con fermezza tenace; voglio fra pochi giorni, fra tre, fra quattro al più, poter uscire, poter io recarmi all'importante impresa. Lo voglio! Questo mio corpo non me l'hanno avvezzo fin da piccino a piegarsi ad ogni maggiore sforzo secondo le volontà altrui? Non ho io conservato sempre colla mia volontà un predominio assoluto sopra di lui? Or dunque voglio esser guarito, e lo sarò....
E ripeteva a mezza voce coi denti stretti, come per fermar meglio, dar maggior forza alla sua risoluzione ed imprimersela più profonda nel pensiero, la parola: voglio!
Quel giorno in cui Maurilio faceva ritorno a Torino, Barnaba due volte volle calare dal suo giaciglio, vestirsi e provare a camminare. La seconda di queste volte era appunto alla sera. Una piccola lucerna illuminava di poca luce quella stanza; il viso del poliziotto, pallido ed affilato, pareva una maschera di cera a quel fioco lume gialliccio; Meo colla grossa faccia più melensa, e le chiome più scarmigliate del solito dava il braccio al convalescente che mutava adagio adagio i passi, appoggiato da una parte al non corrisposto amante di Maddalena, dall'altra ad un bastone. Macobaro seduto in un angolo col suo aspetto d'arpia seguiva degli occhi que' due che gli passavano innanzi lentamente andando e venendo.
— Sì, sì, disse Barnaba ad un tratto fermandosi in mezzo la stanza, coll'aiuto di qualcheduno potrò uscire dopo dimani, e se non a piedi, in carrozza, recarmi là dove occorre. Che ne dite Jacob?
— Dico che gli è possibilissimo: rispose il vecchio rigattiere che aveva sul suo volto le mostre di una profonda preoccupazione: ma non conviene che per esercitarsi al camminare la si stanchi di troppo, chè allora poi sarebbe peggio.
— No, no: disse il ferito con una specie d'impazienza: so io bene come devo fare..... Bisogna esercitarlo questo miserabile d'un nostro corpo di nervi e di muscoli per ottenerne quello che si vuole.
E riprese il suo lento passeggiare. Arom sostenne il mento ai suoi due pugni chiusi e si diede tutto alle sue meditazioni che parevano tutt'altro che liete. Successe un silenzio di parecchi minuti, finchè Barnaba andò a sedersi in faccia al vecchio ebreo, e guardatolo attentamente un poco, gli disse poi con vibrato e quasi crudo accento:
— Voi pensate a vostra figlia, alla vostra Ester, non è vero? State tranquillo che fra poco ne avrete piena vendetta.
Jacob sollevò un momento quei suoi occhi piccini, affondati nell'occhiaia, che avevano il guizzo di quelli d'un serpente.
— Penso anche ad un'altra cosa: disse con voce sommessa; penso se mai potrò riavere quelle cinquanta mila lire che ho dato al medichino.
Barnaba fece un atto di dispettoso disappunto.
— Le avrai, vecchio avaro, esclamò impaziente, se ci servirai a dovere.
In quella fu picchiato con mano risoluta all'uscio d'ingresso, e Meo andò a dimandare chi fosse.
— Apri, son io: rispose la voce forte e burbera del commissario Tofi.
— Già levato! esclamò questi entrando nella camera in cui era Barnaba, col suo passo sonante e il portamento da militare: molto bene! È necessario affrettarsi ad agire.
— Perchè? È succeduto qualche cosa di nuovo? domandò Barnaba con molto interesse.
— È succeduto che quel mariuolo sta per isposare una infelice di ragazza di buona famiglia, e gli sponsali avranno luogo domani sera.
Il convalescente pregò il suo superiore gli narrasse tutti i particolari ch'e' sapeva intorno a questa novella; e quando gli ebbe intesi colla più seria e fissa attenzione di cui fosse capace, egli che aveva penetrato le intenzioni del medichino, disse:
— Lei ha ragione, non conviene più indugiare. Quello sciagurato vuole sposare, intascar la dote e fuggire... Di domani bisogna che sia arrestato.
— Ciò non è tutto: riprese il Commissario che non aveva voluto neppure sedersi e stava col suo largo cappellaccio in capo, le mani affondate nelle gran tasche laterali del soprabito. Ci è ancora un'altra novità più strepitosa ed importantissima. Ecco una lettera che ho ricevuto testè dal giudice istruttore.
Trasse da una di quelle sue tasche un foglio che spiegò e porse così aperto a Barnaba: questi lesse il seguente corto bigliettino:
«Il medico che cura il signor Nariccia mi fa avvertito adess'adesso che quest'infelice vittima di quell'orribile assassinio, per un caso provvidenziale, ch'egli non osava nemmeno sperare, ha riacquistato in parte l'uso della favella. Siccome c'è timore che questo non sia che un temporaneo e fuggitivo miglioramento, così è bene non perder tempo ad approfittarne; ho perciò determinato di recarmi questa sera medesima a tentare un interrogatorio dell'assassinato e la pregherei a volerci intervenire Ella pure per recarmi il soccorso della sua pratica e della sua intelligenza.
«L'aspetto dunque senz'altro al domicilio del signor Nariccia medesimo alle ore otto di questa sera, che prima mi sarebbe impossibile di recarmici, ed ho l'onore, ecc.»
— Sono le sette e tre quarti: disse il Commissario quando Barnaba ebbe finito di leggere, e trasse dal taschino un grosso orologio d'argento tenuto ad un occhiello del panciotto per una catena d'acciaio: ci ho giusto il tempo di recarmivi.
Il convalescente restituì la lettera al signor Tofi, poi con qualche sforzo, ma senza l'aiuto di nessuno, [145] sorse in piedi e stette, sorreggendosi alla spalliera della seggiola.
— Signor Commissario: disse con voce impressa di tanto desiderio, che tremava come per emozione; mi conceda che io l'accompagni colà....
— Siete matto..... Potete appena camminare.
— Manderò Meo a prendere una carrozza.
— E le scale?...
— Non tenterò neppure di farle..... e forse ne sarei anche capace..... ma per essere più sicuro e avanzar tempo Meo mi porterà.
Tofi non ci pensò che un minuto secondo.
— Bene: diss'egli colla sua solita ruvidezza: mi potete fors'anco essere utile. Venite.
Si fece come Barnaba aveva detto, e un quarto d'ora non era passato che il Commissario e Barnaba entravano nella camera dove giaceva Nariccia e dove non tardava a raggiungerli il giudice istruttore.
L'usuraio era sempre immobile stecchito e pareva un cadavere mummificato, in cui per miracolo fossero rimasti vivi gli occhi: questi in quella faccia gialla di morto, al fondo di quelle occhiaie incavate e d'un brutto lividore, nella loro irrequietezza avevano una pena, uno spasimo, uno spavento che ti stringeva l'animo, che era una cosa orribile a vedersi. Quegli occhi agitati che vivevano soli in quel corpo morto parevano suppliziati che cercassero fuga, scampo, pietà dalla loro tortura: pareva che le più tremende visioni passassero innanzi a quelle pupille in cui ardeva la febbre; come certo innanzi alla mente passavano tremendi i ricordi di un colpevole passato, le azioni d'una vita scellerata. Le labbra erano livide, e l'inferiore contorto da una parte penzolava dando a quel viso di pergamena una smorfia immobilitata come quella d'una maschera, che faceva paura e ribrezzo a mirarsi. Fra quelle labbra la lingua impacciata, grossa, pendente riusciva a balbettare a stento alcune parole.
Barnaba, a cui la fatica d'esser venuto fin lì, benchè portato per le scale da Meo e per la strada dalla carrozza, aveva tolta ogni forza, si lasciò cader seduto sopra una seggiola al fondo del letto in cui giaceva Nariccia, e quelle due faccie cadaveriche e quei quattro occhi febbrilmente vividi in mezzo il gialliccio pallore da morto si guardarono fisamente, curiosamente, con avida reciproca investigazione. Erano due vittime del medesimo individuo che dovevano assembrare le volontà in un intento comune: quello della vendetta.
Nariccia, sviato lo sguardo dal volto macilento di Barnaba, lo fece scorrere con istupore interrogativo sopra le persone che in gruppo vide accostarglisi e stargli dintorno; le sue labbra contorte si mossero penosamente, la lingua penzolante si agitò e una voce gutturale, stentata, che pareva quella d'un ventriloquo, pronunziò stentatamente alcune parole, che non furono comprese.
— Che cosa avete detto? domandò il medico, il quale, dietro espressa volontà del giudice istruttore, doveva assistere all'interrogatorio. Abbiate la compiacenza di ripetere.
— Confessarmi, confessarmi: balbettò il paralitico colla medesima voce stentata e sommessa, ma con terribile espressione d'angoscia nell'accento: voglio confessarmi prima di morire.
Il medico, il giudice ed il Commissario s'erano curvati sopra il letto a cogliere il debole suono della voce di quel meschino.
— Che cosa disse? domandò Barnaba il quale dal posto ov'egli si trovava non aveva potuto udire.
— Domanda di confessarsi: rispose il medico.
— E' non fa altro dacchè ha riacquistato l'uso della parola: disse l'infermiere che era stato posto a vegliare sul giacente: di queste poche ore l'avrà già domandato un migliaio di volte.
— Sì, vi confesserete e potrete adempiere ai vostri doveri di cristiano: ma prima è necessario che voi adempiate a quelli che avete verso la giustizia umana, che noi qui rappresentiamo. Fate dunque coraggio, raccoglietevi e preparatevi a rispondere alle nostre interrogazioni.
— Mi resterà ancora tempo abbastanza da confessarmi poi? domandò la voce soffocata e penosa del moribondo.
— Sì, disse il medico; stia di buon animo che vi è di meglio ancora per lei: la speranza della guarigione.
Gli occhi di Nariccia espressero un dubbio desolante in risposta a queste confortevoli parole del medico.
Il giudice cominciò senz'altro l'interrogatorio. L'infermiere era stato mandato nelle altre stanze; un segretario s'era seduto ad un tavolino stato posto più presso al letto che fosse possibile, e teneva innanzi a sè la carta su cui era preparato a scrivere le risposte; non altra luce rischiarava l'oscurità di quella stanza, fuor quella della lampada sormontata da una ventola opaca che stava sul tavolino dove s'accingeva a scrivere il segretario; così alto silenzio regnava che si udiva il rumore della respirazione affannosa del giacente, e che le parole da lui pronunziate in risposta alle fattegli domande, quantunque dette a voce più che sommessa, erano intese da tutti.
— Voi siete nel pieno possesso della vostra ragione? cominciò il giudice, parlando piano ancor egli, e curvo sopra il letto.
— Sì.
— Da quando siete rientrato nella vostra cognizione?
— Da parecchi giorni.... non so bene.... quando mi vidi attorno tanta gente....
— Vi ricordate (questa domanda fu fatta dietro suggerimento di Tofi) che vi furono rivolte già [146] altra fiata varie interrogazioni circa il delitto di cui foste vittima?
— Mi ricordo.
— Eravate allora in voi come ora?
— Sì.
— E non potevate parlare?
— No.
— Dacchè siete rinvenuto, avete sempre avuto la cognizione, tuttochè immobile e senza parola?
— Sì.
— Vi ricordate delle risposte che avete espresso allora con segni fatti degli occhi alle domande mossevi?
— Sì.
— Quelle vostre risposte erano la verità?
— Sì.
— Sareste pronto a riconfermarle?
— Sì.
Le domande che sappiamo essergli state fatte in quell'occasione gli furono nuovamente dirette una per una, ed egli colla voce diede la medesima risposta che aveva dato cogli occhi.
— Avete conosciuto i vostri assassini?
— Sì.
— Di due avete annuito al nome che se ne disse: vorreste ripetere questi nomi?
— Sono Graffigna e Stracciaferro.
— E il terzo? Sapete il nome del terzo?
— Sì.
La respirazione del giacente si fece più affannosa e gli occhi si turbarono.
Il medico diede il consiglio di lasciarlo un poco riposare.
Dopo cinque minuti il giudice istruttore riprese:
— Questo nome siete disposto a dircelo?
— Sì.
— Voi capite tutta l'importanza delle parole che state per pronunziare!
— Sì.
— E siete sicuro della verità di esse?
— Sicurissimo.
— Allora diteci questo nome.
— Quercia.
Barnaba che pure si aspettava quel nome, che era sicuro non altro sarebbe uscito da quella bocca convulsa, tuttavia diede in una leggiera scossa e mandò una soffocata esclamazione: gli altri si guardarono in faccia e per un minuto secondo nessuno parlò; non s'udì che il rifiato grave del giacente e lo scricchiolar della penna del segretario che scriveva nel processo verbale incancellabilmente quel nome.
— Ma qual Quercia? susurrò poscia la voce fiacca di Barnaba; ve ne possono essere parecchi, conviene farglielo specificare.
E Nariccia, interrogato in proposito dal giudice, diede tutte le più precise informazioni che si desideravano.
— Signore, disse il giudice al Commissario, quando l'interrogatorio fu finito, della giornata di domani sarà spiccato un ordine di arresto contro quel tale, e sarà sua cura farlo eseguire.
Tofi chinò bruscamente il capo in segno affermativo.
— Sarà eseguito: diss'egli; e frattanto lo farò codiare dai miei agenti. So che col pretesto d'un viaggio di nozze e' si è già procurato un passaporto per l'estero; se appena un timore che si sospetti di lui gli entra nell'animo, può partirne improvviso. Al menomo cenno ch'egli faccia di abbandonar Torino, ordine o non ordine, lo agguantiamo.
— Signor Commissario, disse una voce tremante, quasi supplichevole, all'orecchia di Tofi, mi conceda il favore di affidare a me l'impresa di questa cattura... sotto la sua direzione s'intende.
Il Commissario guardò la faccia patita di Barnaba entro la quale gli occhi ardevano più febbrilmente che mai.
— Ve ne sentirete già capace?
— Oh sì! esclamò il poliziotto. La vedrà! E sarà questa una grazia che mi darà mezzo di rientrare nel favore dei superiori e nell'impiego.
— Va bene..... Di quello che avrete fatto e di quello che farete informerò chi si deve.
Frattanto il giacente, stanco e spossato dallo sforzo mentale che aveva dovuto fare per raccogliere le sue idee, da quello fisico stesso per ispiccar la parola colla sua lingua inretita, dalla passione che glie ne dava necessariamente all'animo il ricordare quei brutti, orribili momenti in cui aveva visto la morte incombere sul suo capo, l'aveva sentita piombare su di lui; Nariccia, dico, aveva chiuso gli occhi e sarebbe sembrato affatto un cadavere se non avesse rivelato in lui un resto di vita la respirazione tronca, affannosa e sibilante.
Quando dal silenzio fattosi intorno a lui, il misero capì che tutte quelle persone eransi partite, egli riaprì nuovamente gli occhi e guardò di qua e di là con una specie di terrore; dalla sua gola uscì una voce che pareva un rantolo e le labbra gli si agitarono con penoso sforzo.
L'infermiere, che era tornato presso di lui, si curvò sul letto con quella indifferente tranquillità che hanno per cotali spettacoli questa gente avvezza a veder soffrire e morire.
— Eh? che cosa la dice? domandò.
— Confessarmi, confessarmi: balbettò Nariccia.
— Ah! gli è vero; ma ora non posso lasciarla sola per andare in cerca d'un confessore: dimani mattina, appena mi si venga a sostituire, glie ne andrò a chiamar uno; Padre Bonaventura del Carmine, che è già venuto tante volte a prendere di sue notizie.
Il moribondo avrebbe voluto esclamare: — No, non quello; — ma le forze glie ne mancarono affatto. [147] Richiuse gli occhi e parve fuor dei sensi od assopito.
L'infermiere, guardatolo un poco, disse fra sè:
— Domattina! Chi sa se avrà ancora bisogno del confessore domattina, e non sia già precipitato a casa del diavolo. Sarebbe poco male un pelacristiani di questa fatta.
E s'adagiò tranquillamente sopra un sofà per passare con più agio possibile la notte. Se Nariccia fosse morto in quella notte senza confessione, avrebbe portato seco un gran segreto.
Ora è tempo che ritorniamo nel palazzo Baldissero dove Maurilio viene ufficialmente presentato alla nobile famiglia.
Entrando nel gran salone splendidamente illuminato, Maurilio s'era fermato appena fatti pochi passi sul morbido tappeto, come preso da abbacinamento. Sul volto superbo della marchesa e del suo figliuolo Ettore stava una scontentezza che si frenava, domata, soggiogata, direi quasi, dalla espressa volontà del capo della famiglia alla cui autorità essi piegavano la fronte; Virginia, ella, mostrava una sincera emozione che la straordinaria e commovente circostanza ben era fatta per suscitare in un'anima eletta ed amorevole come la sua. Lo strano contegno tenuto da Maurilio con essa in quell'occasione che abbiamo narrato, quando ella ebbe appreso dallo zio l'essere del giovane, aveva avuto da lei la seguente spiegazione: egli conoscendo il segreto della sua nascita era stato mosso allora a manifestarlesi, e l'emozione dell'affetto, la timidità, il brusco e quasi sdegnoso fuggire di lei glie lo avevano impedito. Ella si era fatta viva rampogna d'essersi allora in quel modo diportata. Una parte di quell'affetto, di quel trasporto dell'anima che aveva per la memoria della madre, di cui appena era se ricordava una vaga immagine, aveva sentito rivolgersi verso colui che ora le si additava fratello. Le parve come se qualche cosa di quella madre tanto desiderata, rivivesse; ella che, tranne quello dello zio, non aveva affetti vivaci e teneri intorno a sè, benedisse Iddio di concederle a compagno, di condurle innanzi chi aveva nelle vene il medesimo suo sangue materno. Perciò all'entrare di Maurilio fu con sollecita premura che Virginia fece alcuni passi verso di lui ad incontrarlo. Il marchese però la prevenne ed accostatosi egli primo al giovane, lo prese per mano.
— Eccovi qui i vostri più prossimi congiunti dal lato materno: diss'egli. Questa è vostra zia, la marchesa di Baldissero, questi è vostro cugino, mio figlio Ettore, due altri miei figliuoli che sono nell'Accademia Militare conoscerete poi, e questa è vostra sorella Virginia.
Maurilio fece un inchino alla marchesa che si degnò appena corrispondergli con un altezzoso cenno del capo; scambiò con Ettore un'occhiata ed un saluto in cui c'era nulla d'affettuoso nè manco di cortese; ma tremò da capo a piedi innanzi allo splendido sguardo della fanciulla che si accostò a lui, tendendogli ambedue le mani.
— Mio fratello! esclamò essa con una voce piena d'emozione ed un accento che a queste sole due parole dava la significazione di tanti sentimenti e sensazioni.
Egli prese nelle sue larghe, grosse, volgari manaccie quelle piccole, esili, bianche, dalla pelle finissima che Virginia gli porgeva, non osò stringerle, ma le tenne alquanto, sempre più tremante, e invano tentando di balbettare una parola che esprimesse il suo pensiero.
La scena fu fredda, impacciosa: la presenza della marchesa e del marchesino versava un gelo che impediva ogni espansione. Maurilio medesimo era troppo commosso per parlare; nel suo petto non abbastanza soffocato ancora era quell'amore che tutta aveva dominata la sua giovinezza, perchè egli osasse, per dir così, andare in fondo al proprio cuore, perchè osasse aprire il varco a quei sentimenti che gli sobbollivano con tramestìo confuso nell'anima. Virginia medesima dal contegno di questo rinvenuto fratello, dal suo aspetto ebbe come una specie di delusione; sentì quel suo trasporto d'affetto, quasi risospinto, venirle a ripiombare sull'animo e ritorlo alla dolce espansione di prima; nello sguardo profondo del giovane il quale pure aveva qualche cosa di quello che avevano i bellissimi occhi suoi, Virginia travide alcun che di misterioso, ond'ebbe pressochè paura e sospetto. Scambiate poche parole di convenevoli quali l'occasione li suggeriva, nessuno più seppe che cosa dire, e fu il marchesino Ettore che più impaziente tolse primo il commiato.
— Io sono stato troppo tempo condannato alla immobilità forzata dentro una camera, diss'egli con amaro sorriso facendo allusione alla sua appena finita prigionia in Cittadella, perchè ora mi rassegni a star lungo tempo inchiodato in casa.
Baciò la mano di sua madre, s'inchinò con un rispetto, in cui non c'era mostra d'affezione, al genitore, strinse la destra a Virginia e fermatosi un momento innanzi a Maurilio gli disse con un accento di finissima, velata ironia:
— Mio cugino, puisque cousin il y a, a rivederci. Faremo più ampia conoscenza più tardi: e se potremo andare d'accordo... tanto meglio!
Maurilio non rispose, guardò fiso, seriamente, quasi severamente il marchesino che girava sui suoi talloni con una sprezzosa leggerezza, e non gli fece manco un cenno di saluto.
— Signora, disse poi Maurilio accostandosi alla [148] fanciulla più commosso e tremebondo di prima, non osando levare le pupille sul volto di lei: signora... mia sorella... Virginia... Vorrei domandarvi un favore.
La donzella vide la commozione del giovane e ne fu commossa ella pure.
— Parlate: disse con un interesse, con una specie di tenerezza che fece battere il cuore di Maurilio.
— Voi avete bene un ritratto di nostra madre?
— Sì.
— Conducetemi innanzi ad esso, ve ne prego.
Virginia parve esitare un momento. Quel ritratto era appeso nella sua camera, in faccia al suo letto; le ripugnava a tutta prima introdurre colà un individuo che appena se aveva cessato d'essere per lei un estraneo. Un estraneo? Ah no, non doveva esserlo più. Che cosa avrebbe detto la madre se avesse visto la freddezza diffidente con cui essa accoglieva il fratello, la madre che con tanta espansione avrebbe aperte al figliuolo le braccia, la madre che lieta sarebbe stata se di subito fosse nato fra di loro vivace l'affetto fraterno? Prese ella per mano Maurilio e gli disse:
— Venite.
Si arrestarono tuttedue, tenendosi per mano, innanzi al quadro in cui la contessa Aurora era stata rappresentata quando, già colpita dal dolore, portava nell'anima una ferita insanabile e ne lasciava scorgere le traccie nel pallore del volto e nella mestizia desolata dello sguardo. Tuttedue levarono gli occhi, che si rassomigliavano, verso quegli occhi dipinti, che rassomigliavano ai loro; tuttidue sentirono invadersi da una tenerezza d'affetto più viva, più cara, più calda. A Maurilio nello sguardo mite, triste, nobilmente rassegnato, profondamente pensoso del ritratto, parve scorgere alcun che di quell'inesplicabile, mesta soavità della sua visione: Virginia pensò alla gioia suprema che avrebbe avuta sua madre, se ancora viva avesse visto restituirsi al suo amore quel figliuolo che aveva pianto estinto, e credette vedere nella tela dipinta medesima, rallegrarsi e balenare soavemente quegli occhi color del mare. Il giovane giurò a sè stesso che su quella fanciulla, orfana al par di lui, in cui tante rivivevano delle sembianze materne, avrebbe volto gran parte di quell'affetto che più non poteva consecrare alla persona viva della madre, avrebbe per lei ogni cosa tentato, tutto sacrificato, se occorreva, ogni cosa sofferto per conferire in ogni modo a lui possibile a renderla felice: la donzella da parte sua promise a sè stessa, e ne sentì come il dovere, di compensare ella col suo di sorella quell'amore di madre che questa non aveva potuto mai, non poteva più rivolgere su di lui, di fargli provare quell'affetto dolcissimo di famiglia onde il derelitto era stato sin allora per tutta la vita affatto scevro. Le loro mani, che ancora erano unite, si strinsero, quasi a scambiarsi la mutua interna promessa fatta dal loro cuore, gli occhi s'incontrarono, ed ella porgendo la sua fronte china alle labbra di Maurilio, gli disse:
— Fratello mio, potrò finalmente parlare con alcuno di mia madre, ne parleremo sovente insieme, e ci ameremo com'ella ci avrebbe amati.
Maurilio depose un lieve bacio su quella candida fronte che gli veniva offerta: era un puro bacio di amor fraterno, era un castissimo bacio nell'atto e nel pensiero: ma appena le sue labbra ebbero tocco la pelle finissima di quella fronte leggiadra, uno strano, terribile sobbollimento si fece nelle vene del giovane. La passione d'amore, che egli credeva soffocata nel suo cuore, s'aderse di subito, impetuosa, congiunta con un tumultuoso trasporto di sensi, quale il misero, vissuto purissimo d'ogni voluttà, non aveva provato mai: una fiamma gli passò dinanzi agli occhi, quasi accecandolo, la mente sotto l'impulso del sangue gli si confuse: al suo giovanile ardore, tremendamente infuocatosi ad un tratto, sorrise procace la bellezza divina che aveva dinanzi; una temerità sciagurata s'aggiunse ad un avido desiderio: oh stringere al suo petto quelle mirabili forme, oh baciare con furore quelle labbra coralline! Le sue braccia frementi si piegarono per afferrare, serrare in un amplesso tenace quel corpo leggiadramente elegante. Ma appena sentì il tocco di quelle membra, delle vesti che le cingevano, la ragione si ridestò e riprese in lui il suo impero: volse al ritratto uno sguardo confuso, pentito, pieno di vergogna e supplicante perdono.
— Sono un infame, pensò rattamente fra sè. Oh mi estirperò dal cuore questo scellerato amore, dovessi strapparne insieme la vita.
Si allontanò da Virginia, impallidito di subito, tremante, affannoso il respiro, quasi vacillando.
La fanciulla lo guardò con istupore, e con affettuoso interesse gli domandò:
— Che cos'hai? Tu stai male.
Era la prima volta che Maurilio udiva rivolgersi da lei la dolce parola tu.
— Nulla, rispose, tenendo volti a terra gli occhi. L'emozione di questi momenti è tanta per la mia anima che mal vi può reggere. Lasciatemi..... lasciami ritrarre ad esser solo.
Corse a chiudersi nella sua stanza, inorridito di se stesso, maledicendosi, accusandosi, pensando ogni fatta pazzie, ora piangendo, ora sdegnandosi, pregando a volta a volta e bestemmiando.
— O madre mia, soccorretemi voi, esclamava dal profondo dell'anima, aiutatemi, salvatemi, proteggetemi voi!
Ad un tratto un nuovo pensiero glie ne venne che lo fece riscuotersi in mezzo alla sua dolorosa meditazione. Aveva sempre rivolto l'animo e la mente a sua madre; e il genitore, perchè lo aveva egli dimenticato, o meglio trascurato? Nobile di cuore e d'ingegno era egli, a quanto udito ne aveva, di [149] generoso animo e di virtuosi fatti. Della madre aveva egli almeno una memoria, una reliquia, quel rosario con cui tante volte certo aveva ella pregato, ne aveva ora viste le ritratte sembianze, ma del padre non gli restava nulla, nulla affatto, nè aveva pure alcuno che glie ne potesse parlare. Ardentissimo desiderio gli nacque di sapere qualche cosa di più sul conto di lui; domandò se il marchese era tuttavia in casa e se a lui poteva presentarsi, e venuto in presenza dello zio espose le sue legittime brame a questo riguardo.
— Avete ragione: rispose il marchese; tutto quello che appartenne a vostro padre dev'essere prezioso per voi ed è vostra proprietà. Ci ho un involto delle lettere che egli scrisse a mia sorella, e che questa teneva carissime: un momento volli distrurle, ma poi me ne trattenni pensando che avrei amareggiato l'anima di quell'infelice. Quelle carte debbono essere vostre, e senza indugio ve le rimetto.
Prese da un cassettino del suo stipo un pacco di carte suggellato con quattro grandi impronte di cera lacca nera e lo consegnò a Maurilio, il quale lo prese con religioso rispetto e strettolo al seno come se vi tenesse un tesoro, corse a rinchiudersi di nuovo nella sua camera.
Pose quell'involto di carte sulla tavola innanzi a sè e stette a contemplarlo a lungo come una cosa sacra, a cui non osasse, credesse una profanazione accostar la mano. Ecco tutto quanto gli rimaneva di suo padre! ecco quanto avrebbe potuto aver mai di lui! Di aprire quel plico e leggere i fogli contenutivi, aveva egli il diritto? Certo che sì. Da quelle carte doveva sorgere innanzi a lui e prendere forme più precise quella persona di suo padre, che vagamente soltanto gli si era adombrata nel racconto statogli fatto delle avventure della madre sua. Una nobile figura era quella che già aveva intravvista; quanta più venerazione avrebb'egli avuto per essa, quando più precisamente le si fosse palesata! Tutto l'amor suo figliale, sinora egli aveva concentrato nel pensiero della madre soltanto; avrebbe d'or innanzi volto quest'affetto alla memoria del padre eziandio, nè quell'immenso che sentiva per la donna a cui doveva la vita se ne sarebbe perciò sminuito pure d'un punto.
Ruppe finalmente i suggelli ed aprì il plico: una ineffabile commozione gli faceva tremar la mano. Era la raccolta di tutte le lettere d'amore che Maurilio Valpetrosa aveva scritte alla marchesina Aurora, dalla prima in cui le svelava con ardentissime parole l'affetto suo a quell'ultima che prima di recarsi al duello aveva egli affidata al tristo Nariccia, e nella quale, dicendo alla moglie d'aver confidenza nell'ipocrita scellerato che tanto bene aveva saputo fino all'ultimo ingannarlo, dava alla donna dell'amor suo con parole di tenerezza infinita l'estremo addio, la benedizione del moribondo.
Nel primo gettar gli occhi su quegli scritti, Maurilio provò una strana sensazione: non glie ne parve ignota la calligrafia, ma non seppe dirsi di subito nè come, nè dove, nè quando l'avesse vista mai. Forse non era che una vaga rassomiglianza: e in quel momento l'emozione del suo animo fu tanta, che non ebbe agio a considerare freddamente questa circostanza. Cominciò a leggere quelle lettere con avida curiosità insieme e con riverente affetto, e l'interesse di quella lettura non gli lasciò più per allora pensare ad altro. Palpitò alle affocate espressioni d'una passione che per tanti versi riproduceva quella ch'egli aveva giurato soffocare nel cuor suo; arrossì ed impallidì a volta a volta pel tumultuar del sangue; pianse su quell'ultima lettera dell'amante e marito ucciso in duello, sulla quale rimanevano le traccie delle amare lagrime versate leggendola dalla vedovata donna.
Gran parte della notte passò egli leggendo e rileggendo quelle carte, passeggiando per la stanza, la mente confusa per troppo accavallarsi di pensieri, rifacendo colla sua fantasia quel passato di cui aveva ora primamente innanzi a sè le traccie, ricostruendo quel doloroso dramma del quale gli si presentavano ora le linee principali. La figura di Maurilio Valpetrosa non aveva certo perduto nel concetto del giovane per quella lettura: aveva preso un aspetto di amorevolezza generosa, di franca e soave bontà, quale possono avere soltanto le anime elette. Di tutto quello che veniva apprendendo de' genitori suoi, Maurilio era fiero, era superbamente lieto.
— Oh padre mio! oh madre! chè non posso io coll'amor mio compensarvi in parte di quello che avete dovuto soffrire! esclamava egli con dolci lagrime negli occhi. Ma farò ogni mio possibile sforzo — lo giuro per la vostra memoria — affine di rendermi in tutto degno di voi!
Una dolce stanchezza ora lo occupava: dall'anima erano partite tutte le torbide sensazioni, le dolorose e pugnaci emozioni. Un assopimento, ristoratore tanto della mente e dell'animo, quanto delle membra e dei sensi, lo invadeva pian piano, come il dolce influsso d'un tepido ambiente che lo avvolgesse. Egli sedeva al suo scrittoio colle lettere aperte davanti; prese in mano quell'ultima così mesta e rassegnata e dignitosa e forte nel suo dolore, la guardò ancora cogli occhi già imbambolati dal sonno che cadeva, come se volesse imprimersene i caratteri nel cervello per averli presenti anche nel sogno, la baciò e poi reclinato il capo sulle braccia e le braccia su quelle carte preziose, tranquillamente si addormentò.
Fu senza sogni e placido il suo sonno; ma ad un punto, chi l'avesse mirato dormire, avrebbe visto la fronte corrugarglisi come per dolorosa subita impressione ricevuta: il suo corpo si riscosse, ed egli svegliato di botto rizzò il capo e la persona in [150] sussulto. Quanto avesse dormito non sapeva; ma la candela era di molto consumata. Maurilio si prese il capo fra le mani e stette un momento come per riconoscersi, come chi ha ricevuto sul cranio un colpo poderoso e ne rimane per un poco intronato. Che cosa era successo? Nel più profondo del suo sonno, come se alcuno avesse potuto susurrarglielo direttamente al cervello, eraglisi presentato un sospetto circa quella somiglianza di scrittura che fin dalle prime aveva creduto notare nelle lettere di Valpetrosa. Parve che quei caratteri, cui egli aveva prima d'addormentarsi così intensamente osservati, nella quiete della mente prodotta dal sonno, trovassero pure alla fine quell'angoluccio in cui era riposto il sovvenire di quei simili già visti dal giovane, e lo tirassero innanzi a presentarglielo ad un tratto chiaro e preciso.
— Possibile! esclamò egli liberando poi la testa dalla stretta delle sue mani, ed afferrata una di quelle lettere l'accostò vivamente alla candela a farci piovere su la luce gialliccia di quella fiammella. Non c'era da aver dubbio. Come aveva egli fatto a non riconoscer subito una cosa sì evidente? Quella scrittura era affatto identica a quella della lettera strappata che a Gian-Luigi era stata posta nelle fascie quando abbandonato nel pubblico ospizio dei trovatelli, a quella di quell'altro biglietto che da poco tempo Gian-Luigi aveva acquistato e non aveva detto dove, lettera e biglietto che pochi giorni prima soltanto Maurilio aveva potuto minutamente ed attentamente esaminare.
Che voleva dir ciò? Come uno scritto di Valpetrosa era stato messo per contrassegno di riconoscimento a Gian-Luigi infante? Chi era dunque colui? Ed egli, Maurilio, chi era? Gli tornò in mente l'apparizione che aveva avuta al villaggio: ricordò quel segno negativo che aveva creduto intravvedere. Ma allora?... La conclusione lo spaventò. Che si doveva fare? Una paura ed una smania nello stesso tempo lo afferrarono, di venire in chiaro della verità. Decise cercare di Gian-Luigi, rivedere quegli scritti, confrontarli colle lettere di colui che già non osava più dire suo padre, ed appurata meglio la cosa risolver poi.
Appena fu venuto il mattino uscì del palazzo e corse all'abitazione di Quercia: questi dormiva ancora e il domestico non lasciò entrare Maurilio: gli disse tornasse fra due ore. E giusto due ore o poco più dopo che il giovane era uscito dal palazzo Baldissero, si presentava nell'anticamera di questo Padre Bonaventura, chiedendo urgentemente di parlare al marchese. Il frate veniva senza indugio introdotto e un lungo colloquio aveva luogo fra il fratello della marchesa Aurora e il confessore di Nariccia, imperocchè Padre Bonaventura veniva allora allora dall'aver udito in confessione il vecchio usuraio moribondo.
Quando Maurilio tornò alla casa di Gian-Luigi ebbe ancora in risposta dal mariuolo che faceva da domestico, il dottor Quercia non esserci e di tutto quel giorno non potersi vedere perchè gli era giorno troppo solenne, in cui aveva troppo da fare per accogliere chicchessia. Così dicendo il servitore esaminava Maurilio con ostile diffidenza di cui il giovane s'accorse. Il medichino che si sapeva circondato dalla sorveglianza e dallo spionaggio della Polizia aveva raccomandata la massima cautela a tutti i suoi seguaci e dipendenti; quella mattina, quando il domestico avevagli detto che un giovane in ora così mattutina era venuto per parlargli, Gian-Luigi, a cui la descrizione fatta dal servo non aveva fatto pur nascere in mente che quell'individuo dalle guancie pallide, dall'aria cupa e dagli sguardi tenebrosi di cui gli si diceva fosse Maurilio; Gian-Luigi aveva dato ordine lo si mandasse a quel paese s'e' fosse ritornato.
Ma il nostro protagonista insistette cotanto, disse con sì franca e calda asseveranza importantissime ed urgentissime essere le cose che aveva da rivelare a Gian-Luigi, che il finto servo, scosso alquanto dal timore che quello sconosciuto venisse invece a recare qualche avvertimento che potesse giovare, finì per dire:
— Ella afferma che, se il dottor Quercia intendesse il suo nome la vorrebbe ricever subito?
— Sì....
— E che si tratta di cosa onde dipende la sorte del dottore medesimo?
— Sì.
— Or bene, qui non è bugia che di tutto il giorno sarà impossibile rinvenire il dottore, ma le indicherò il luogo dov'Ella lo possa rintracciare; ed è nella casa del signor Benda, di cui egli sposa la figliuola.
— Benda! esclamò Maurilio meravigliato. Il fabbricante di ferro?
— Sì signore, quello presso cui successe pochi giorni sono quel maledetto buscherio.
— E il vostro padrone ne sposa la figliuola?
— Si fa il contratto degli sponsali questa sera medesima.
Maurilio partissi di là perplesso assai, con una nuova cura nell'animo. Era egli amico di molto a Francesco Benda, del quale il generoso animo, le buone qualità, i meriti singolari non gli faceva disconoscere la invida gelosia natagli da poco per la rivalità in amore. Sapeva egli quale onesta e buona famiglia, degna di stima, d'amore e di felicità fosse quella: e conosceva abbastanza delle vicende e delle condizioni di Gian-Luigi per arguire che se da parte dei Benda erasi acconsentito a dargli in isposa la ragazza del loro sangue, era certo per effetto di [151] un inganno in cui il tristo li aveva indotti. Che doveva far egli in presenza di questo avvenimento? Lasciar correre le cose e compire il sacrificio di quella innocente fanciulla e il danno, forse e senza forse, di tutta la famiglia? Glie ne rimordeva la retta coscienza, rampognandolo che avrebbe mancato al dovere di amico e di onest'uomo. Farsi denunciatore del suo compagno d'infanzia? Sentiva in sè qualche cosa eziandio che a ciò ripugnava, come se fosse un tradimento. Si aggirò lungo tempo incerto, travagliato da dubbio tormentosissimo; col sì e col no che nel capo gli tenzonavano. Ora voleva accorrere dai Benda e dir tutto quello che sapeva di Gian-Luigi: ora voleva in ogni modo adoperarsi per avere a tu per tu quest'ultimo e intimargli rinunziasse egli a quel maritaggio, minacciandolo di far conoscere la verità; ora si diceva che quello in fin dei conti non doveva essere il fatto suo, e che il meglio sarebbe stato tacere di tutto, a Gian-Luigi della per sè fatale scoperta circa i due frammenti di lettera da lui posseduti, ai Benda delle cose di colui al quale avevano accordato la mano della fanciulla.
Aveva bisogno d'un consiglio, d'un aiuto, d'una direzione in tanta perplessità, e non sapeva a cui rivolgersi, quando ad un punto in una delle principali strade per la quale andava girelloni, assorto ne' suoi pensieri, senza vedere cosa alcuna nè persona, il fondaco d'un libraio si aprì vivamente, un uomo di età matura, dalle sembianze oneste e schiette ne uscì ratto, e preso per un braccio Maurilio, gli disse con accento di cordialità, d'affetto e insieme di supplicazione:
— La vedo finalmente! La mi avrà da scusare, ma io non la lascio più finchè non m'abbia fatto il favore d'essere venuto nella mia casa, ripresentato alla mia famiglia e aver ricevuto in presenza di questa quelle scuse che ci tengo assaissimo a rinnovarle.
Era il signor Defasi, innanzi alla cui bottega Maurilio era passato senza accorgersi, e il quale però avendo scorto il giovane erasi slanciato sulla strada ad arrestarlo.
Maurilio, così richiamato dalle sue meditazioni alle cose circostanti, guardò il libraio con un'aria smemorata che parve al signor Defasi un'espressione di mala voglia e di rancore.
— Ella me lo ha promesso: riprese con calore il libraio. Si ricorda di quel dì che l'ho incontrata in casa del dottor Quercia? Io le ho domandato il favore d'un abboccamento in cui potessi far ammenda e riparazione del mio grande, del mio grandissimo fallo verso di Lei: ed Ella fu tanto generosa da promettermelo non solo, ma da dirmi che sarebbe venuta Ella medesima a casa mia. Or dunque la prego non mi neghi la grazia di mantenere quella sua promessa. Se la sapesse con che ardore di desiderio l'ho attesa tutti questi giorni passati! come l'attendono con vivezza pari di sentimento, con ansietà d'impazienza i miei figli, tutti i miei, che si sentono in colpa come me verso di Lei, e che ci tengono supremamente a farsene perdonare! Oh! la non sia tanto inesorabile da rifiutarci questa grazia di perdono.
Maurilio avrebbe ceduto ad ogni modo alla richiesta del signor Defasi; non era senza precisa volontà di attenere la promessa ch'egli aveva detto al suo antico principale sarebbesi recato a casa sua appena ritornato dal villaggio; ancor egli ci teneva a ricomparire purgato da ogni accusa e da ogni sospetto in quella casa da cui era stato scacciato come un malfattore; ma a deciderlo più presto ancora concorse il cenno che il libraio fece di passata della circostanza per cui si erano trovati pochi giorni prima in casa di Quercia. Questo nome gli rappresentava appunto tutte quelle perplessità in mezzo a cui s'agitava l'anima sua, riguardo a ciò ch'egli dovesse fare e per sè, e per Gian-Luigi, e pei Benda. Aveva sentito il bisogno d'un onesto consiglio, e nella lontananza di Don Venanzio, dove avrebbe potuto trovare uomo più acconcio di quello che la Provvidenza gli conduceva ora dinanzi, la rettitudine della cui anima traspariva dalla sincerità delle sembianze, del quale egli, per abbastanza lunga consuetudine domestica, conosceva positivamente il cuore generoso, la mente illuminata e la delicata coscienza? Maurilio fece un cenno affermativo del capo senza parlare, ma sorridendo amorevolmente e non senza commozione, e passando innanzi al signor Defasi, entrò nella bottega.
In quel fondaco Maurilio non era entrato più da quel brutto momento in cui ne era stato scacciato come lo udimmo narrare da lui medesimo a Giovanni Selva. Appena entratovi, guardò egli intorno a sè con una curiosità quasi desiosa: parevagli che il trovarsi di nuovo colà potesse far rivivere per lui que' primi tempi di sua dimora in quell'onesta famiglia, che furono i più tranquilli e più felici giorni della sua esistenza, parevagli che tutto avesse da cancellarsi come se non avvenuto quell'avvicendamento di sventure e dolori che aveva dovuto sopportar poi. Che non avrebbe egli dato per tornare davvero a quei momenti colà vissuti allora, i soli di pace che avesse provati mai? Tutto era nel medesimo stato in quel fondaco, tutto al medesimo posto, se non che vi si vedeva di subito un'attività anche maggiore, appariva accresciuta la prosperità dello spaccio.
I figliuoli del signor Defasi, il commesso che già era colà al tempo di Maurilio, ai quali il padre e il principale aveva narrato l'incontro del giovane e le parole fra loro scambiatesi, riconobbero tosto l'antico loro compagno nell'individuo signorilmente vestito cui ora il libraio era corso ad arrestare nella strada e introduceva nella bottega; s'alzarono tutti e gli vennero incontro coll'aspetto raumiliato e pentito di chi ha un grave fallo verso altrui ed [152] è disposto a far di tutto che gli spetti onestamente per farselo perdonare.
Il signor Defasi prese il giovane per mano e presentandolo così agli altri che facevan cerchio, disse con una certa solennità in cui c'era molta commozione eziandio:
— Eccovi qui il signor Maurilio Valpetrosa che noi conoscemmo sotto il nome di Maurilio Nulla; noi abbiamo da riparare verso di lui e da farcene perdonare la maggiore delle colpe che altri possa avere verso un onest'uomo; la peggiore delle offese che gli si possa fare, quella d'una falsa accusa, di una calunnia. Dichiaro io qui in presenza di tutti voi altri che mi ascoltale, e vorrei dichiararlo in presenza di tutto il mondo che, raggirato da ostili relazioni fattemi intorno a lui, ingannato da fallaci apparenze, ho osato sospettare la onestà d'un giovane che in tutto il tempo durante cui rimase presso di me aveva dato prove della maggior rettitudine. La Provvidenza volle molto tempo dopo chiarire il mio sciagurato errore, perchè, facendo poi aggiustare il banco, fu trovata in fondo, scivolatavi non si sa come, quella miserabile somma la cui mancanza dal cassetto aveva originato il dubbio. Io glie ne domando perdono, signor Maurilio, e qui meco glie lo domandano i figli miei: e se il gettarmi in ginocchio innanzi a Lei, e se ogni altra maggior mostra di pentimento e d'umiliazione potesse bastare...
Fece una mossa come se volesse davvero inginocchiarsi; ma il giovane intenerito, l'anima dolcemente sollevata, fu lesto a trattenerlo abbracciandolo; e con ineffabile commozione si lasciò cadere sul seno di lui, mentre due lagrime gli colavano giù per le guancie.
— Grazie, grazie: diss'egli con voce per emozione tremante. La perdono, li perdono tutti; li avevo già perdonati... Avevo io il diritto pure di lamentarmi di questo errore a mio carico? Tutto congiurava contro di me. Io a luogo loro non avrei fatto forse ancora più temerario giudizio e non sarei stato più crudele di quello ch'essi furono per me? Dimentichiamo tutto e perdoniamo.
Si strinsero la mano quanti erano, si abbracciarono con cordiale effusione. Maurilio da quelle mostre d'affetto, da quel puro ambiente d'onestà che lo circondava, sentì l'animo confortato, quasi rallegrato; girò intorno lo sguardo, annasò voluttuosamente quell'odore di stampati in mezzo a cui era vissuto così volonteroso parecchi anni e disse lentamente pronunziando le parole come chi desidera non le sieno leggermente accolte da chi le ascolta:
— E forse avverrà, signor Defasi, ch'io venga fra non molto a domandarle un gran favore; e voglia Ella, come riparazione a quella disgraziata vicenda, essere disposto ad accordarmelo: questo favore sarebbe quello di venire accettato di nuovo qui nella qualità in cui già ci fui un tempo, come se il tempo, aimè poco lieto, che trammezzò non fosse avvenuto.
Il libraio lo guardò con istupore.
— Come! diss'egli; ora ch'Ella ha trovato la sua nobile famiglia...
— A questo riguardo, se la mi consente, devo parlarle ed invocare i suoi consigli. Quando avrà udito la capirà la ragione delle mie parole.
Il signor Defasi, che voleva appunto ripresentare il giovane eziandio alle donne della sua famiglia, si affrettò a condurlo di sopra nella sua domestica dimora. Ci trovarono la madre e la figliuola modestamente ma con graziosa pulitezza vestite, in un modesto salotto da cui però non erano esclusi i comodi della vita, alacremente occupate ai loro donneschi lavori. Maggiore ancora che altrove era in quel salotto l'ambiente di pace, di amorevolezza, di onestà: tutto il pregio della cara vita domestica, le delizie degli affetti famigliari che ha seco per prezioso corteo la donna virtuosa, madre, sposa, figliuola, si trovava colà raccolto, rappresentato in quelle modeste e benigne figure femminili, attempata una, fanciulla l'altra.
Maurilio, ricevuto con molta gentilezza, con quella cara espansività di grazia muliebre a cui nulla può paragonarsi, rammentò in quel punto come vi fosse stato un tempo in cui il signor Defasi, così generosamente affettuoso per lui, non avrebbe fors'anco negato di dargli nella sua una famiglia, di regalargli con quella mite giovanetta la felicità della vita. Pensò quanto diverso, quanto lieto sarebbe stato il suo destino; quanto migliore fors'anco sarebbe diventato egli stesso... Ma ora era troppo tardi! Soffocò un sospiro e ridomandò al signor Defasi quel colloquio che già gli aveva accennato.
Invaso, per così dire, da quell'atmosfera d'onestà in cui si respirava il sentimento del dovere, nella quale viveva quell'ammirabile famiglia, il nostro giovane s'era sempre più risoluto a svelar ogni cosa al suo antico principale e seguirne i consigli, nè aveva il menomo dubbio su quello che il galantuomo gli avrebbe consigliato.
Narrò dunque da capo a fondo quello che riguardava la scoperta della sua creduta famiglia e le lettere del supposto suo genitore, narrò ciò che sapeva di Gian-Luigi e quel di più che aveva potuto argomentare dai fatti di lui dal momento che, dopo lungo intervallo, l'aveva rivisto quella sera nella taverna di Pelone, e conchiuse che questo tale stava per isposare la ragazza d'un'onoratissima famiglia, sorella d'un amico suo.
Nel signor Defasi non ci fu la menoma esitazione ad esprimere colle parole che dettava il buon senso que' consigli che gl'ispirava la rettitudine dell'animo. Erano quali Maurilio aveva pensati e quali era ormai risoluto di porre in atto senza fallo. Uscì di là colla determinazione di svelare al marchese la circostanza delle lettere di Gian-Luigi, di correre da [153] Francesco Benda a fargli conoscere qual fosse l'uomo che stava per isposare sua sorella.
Siccome quest'ultima bisogna premeva di più, fu la prima che imprese, e con sollecito passo s'avviò verso lo stabilimento del fabbricante di ferro.
Quei locali, che solevano essere così rumorosi sempre per la quotidiana attività del lavoro, erano ora silenziosi come un cimitero. Le traccie dell'incendio nel fabbricato in fondo al cortile davano a quella solitudine l'aspetto della desolazione. Maurilio venne sino al portone di cui lo sportello aperto lasciava scorgere la vista dell'interno e non ebbe il coraggio di entrare. La timidità della sua natura l'aveva tutto ripreso ed era il più impacciato del mondo. Come si sarebb'egli presentato in quella casa? domandavasi: quali parole usate? con che faccia abbordato il difficile argomento? Fece due o tre giri innanzi alla porta: ma conveniva pur decidersi alla fine: dopo le parole del signor Defasi, meglio ancora di prima e' vedeva in quell'atto un dovere cui gli bisognava compiere assolutamente. Si fece forza ed entrò. La voce burbera di Bastiano, che aveva ancora la testa fasciata ed in corpo un umore terribile, lo venne arrestare ai primi passi colla domanda fatta in tono feroce:
— Che la vuole? di chi cerca?
Maurilio diede in una scossa quasi di paura.
— Cerco, rispose con esitazione e quasi balbettando..., vorrei.... se ci fosse il dottor Quercia....
Bastiano diede un'occhiata sospettosa a quel personaggio così impacciato nelle parole. Se avesse avuto panni da povero, l'avrebbe creduto un cercator d'elemosina e l'avrebbe rinviato senza tanti discorsi. Vistolo riccamente vestito, il portinaio si contentò di bruscamente rispondere:
— Il dottore in questo momento non c'è.
Maurilio rimase lì stecchito, senza muoversi, senza saper più che dire, senza consiglio.
— Ha capito? gli disse dopo un poco Bastiano alzando la sua grossa voce, come se avesse da parlare ad un sordo: il dottore non c'è, nè so quando sia per venire, nè qui è luogo da stare ad aspettarlo.
— Allora vorrei parlare con Francesco: disse finalmente Maurilio che sentiva l'obbligo di non uscir più senza tutto aver tentato per compire il suo ufficio.
— Francesco! esclamò più ruvidamente ancora il portinaio offeso di tanta famigliarità pel suo padroncino in uno sconosciuto. Il sor avvocatino la vuol dire?
— Sì... appunto... l'avvocato Benda.
— E' gli è a letto... La lo dovrebbe sapere, chè se n'è parlato abbastanza per tutta Torino da empirne le orecchie di tutti... E non riceve nessuno.
— Lo so che gli è a letto, ma ho pure inteso che sta meglio di molto, ed è gran mestieri ch'io gli parli per cose che importano gravemente. Sono molto suo amico io e sono certo che appena udito il mio nome mi vorrebbe ricevere.
— Sì? domandò il bravo Bastiano di subito un po' rabbonito, ma guardando con cera attenta e scrutativa quel cotale, per vedere se gli era un impostore. Se la è così me lo dica a me il suo nome, ed io lo faccio passare al sor avvocatino che deciderà quello che vuol fare.
— Sarà meglio anzi ch'io scriva due righe per chiedergliene udienza: disse Maurilio, ed avuto dal portinaio l'occorrente vergò poche parole che furono tosto fatte ricapitare nelle mani di Francesco.
Questi nel leggere il biglietto di Maurilio provò un senso che per poco non era di ripugnanza e disgusto. Per quel trovatello, se Francesco aveva partecipato ai generosi sentimenti di compassione che avevano verso di lui i comuni amici, non aveva però mai sentita nissuna vivacità di simpatia nè vera tenerezza d'affetto: ultimamente, quando, arrestato, fu introdotto in presenza del Commissario, Benda, se vi ricorda, aveva udito da quest'ultimo, come quel giovane fosse stato accusato d'un orribile delitto e sostenuto molto tempo in carcere. Egli non aveva punto creduto che di quel delitto Maurilio fosse veramente colpevole, l'umana giustizia stessa aveva dovuto riconoscerlo innocente, se lo aveva rilasciato libero; ma pure l'apprendere allora una simile circostanza sempre ignorata, non era concorsa a sminuire quel certo allontanamento fra il suo e l'animo del trovatello, allontanamento, il quale, senza ch'essi lo volessero, e fors'anco se ne accorgessero, da qualche tempo si faceva maggiore per effetto del loro istinto di rivali in amore. Tuttavia ricevendo ora la preghiera di un colloquio per cose importanti, e temendo potessero queste cose avere attinenza colla loro fallita congiura politica e colla sorte dei comuni amici, non credette poter fare altrimenti che ordinare lo s'introducesse.
Maurilio entrò più timido ed impacciato che mai. Appena dentro a quella stanza, in presenza di quel giovane pallido e nel suo pallore più leggiadro, lo assalse il pensiero ch'egli amava Virginia e n'era riamato, e questo pensiero accrebbe il suo turbamento; gettò uno sguardo sul giacente, e negli occhi di lui vide una diffidenza ed un sospetto che lo offesero senza dargliene coraggio. Annaspò le parole per ispiegare la ragione della sua venuta e cominciare il suo discorso e non seppe trovar cosa che valesse.
Il suo contegno era dunque tale da ispirar poca fiducia anche in chi non fosse mal prevenuto a suo riguardo. Il sor Giacomo, che si trovava presso suo figlio, credendo alla sua presenza doversi attribuire la difficoltà di parlare in Maurilio, volle partirsi; ma il giovane lo pregò anzi rimanesse perchè le cose che aveva da dire era opportunissimo le udisse egli pure. Allora chiamò in aiuto tutto il suo coraggio e saltò a pie' pari in mezzo dell'argomento. [154] Narrò dell'infanzia sua e di Gian-Luigi: chi fossero ambedue, d'onde venissero, come allevati; disse dei veri rapporti del suo compagno col medico che l'aveva fatto allevare, dell'ingratitudine di lui verso la donna che lo aveva nutrito, della misteriosa sorgente di quei denari che ora il sedicente dottore spendeva e spandeva, delle attinenze ch'egli stesso, Maurilio, aveva scoperto avere Gian-Luigi colla feccia della plebe, quando era entrato per caso nella taverna di Pelone, ripetè le proposte che l'antico suo camerata era venuto a fargliene, svelò a Francesco che quello era il misterioso personaggio il quale, come aveva rivelato Mario Tiburzio, nella progettata insurrezione doveva recare il soccorso della sommossa plebea, il quale poteva perciò dirsi il promotore ed il risponsabile di quella medesima riotta di cui essi, i Benda, erano rimasti vittime.
Padre e figlio si guardavano meravigliati, incerti, più increduli che altro; nè sapevano ancora qual risposta dare, qual risoluzione prendere, quando nella camera vicina venne udito il passo affrettato e deciso d'un uomo, poi la porta s'aprì vivamente e comparve sulla soglia Luigi Quercia medesimo, con una fiamma terribile di sdegno e di minaccia nell'occhio nero, con un fremito di furore che ben dominava egli tuttavia, ma che stava per prorompere.
Gian-Luigi aveva, si può dire, ammaliato tutta la famiglia Benda; mercè i falsi documenti aveva provato al padre di Maria tutto quello che aveva voluto, mercè l'appassionato amore che aveva desto nell'animo della fanciulla era riuscito ad aver questa efficace aiutrice al suo disegno: sposarla e partire, aveva i congiunti indotti a consentirvi. Quella mattina in cui Maurilio s'era risoluto a quel dilicato e difficil passo, Quercia recavasi ad ora più presta del solito dalla sua sposa, quando nel passare innanzi alla loggia del portiere venne da questo avvertito che un cotale con sembianza di questo e quel modo, chiesto prima di lui, aveva poscia ottenuto d'essere accolto dall'avvocatino, a cui affermava aver cose importantissime da dire, mercè un biglietto scrittogli nello stesso camerino del portinaio.
Quercia, che sospettoso era e sempre in sulle guardie già per natura, e che tanto più era divenuto cauteloso e diffidente in quegli ultimi giorni in cui stava giocando col suo destino l'ultima posta, temette di subito in quel visitatore un nemico, un accusatore, un rivelatore di verità che troppo a lui interessava rimanessero ignote. Dalle risposte che Bastiano diede alle sue numerose, pressanti, rapide interrogazioni, venne egli a concepire il sospetto che quello fosse Maurilio, e l'intromettersi di costui egli non dubitava il meno del mondo non volesse essere in suo favore. Salì affrettatamente, entrò improvviso nella camera di Francesco dove aveva inteso essere quel cotale. Veduto Maurilio e l'espressione della faccia di lui, veduto con un sol colpo d'occhio il contegno dei Benda, badato al silenzio pieno d'impaccio che successe alla sua venuta, Quercia capì che tutti i suoi sospetti avevano ragione, che in Maurilio eragli ora sortogli innanzi un ostacolo cui bisognava levare e tosto, a prezzo anche di schiacciarlo. Il furore che aveva cominciato a sobbollire nella sua fiera anima impetuosa al primo dubbio di quel pericolo, si levò potente ed efferato, ma la sua volontà più forte d'ogni cosa riesciva a dominarlo tuttavia e, per dir così, regolarlo. Incrociò le braccia al petto e camminò lentamente verso Maurilio guardandolo fiso con occhio feroce, di cui la significazione ben era chiara al giovane commosso.
— Sconsigliato, diceva, osi tu venirti a porre inciampo sul mio cammino? Sai pure che vo' giungere alla meta che mi assegno, e chi mi si oppone infrango.
Maurilio chinò innanzi a quelli di Gian-Luigi i suoi occhi, e dal rispettivo contegno di que' due parve nel primo fosse il colpevole, nel secondo l'autorevole accusatore.
— Che cosa è che succede qui? domandò poscia Gian-Luigi levando lo sguardo dal suo compagno d'infanzia e facendolo scorrere sicuro, investigatore, un po' stupito e quasi offeso sopra i Benda padre e figlio. Se bado al vostro contegno, o signori, se argomento dalla presenza e dall'imbarazzo di costui devo credere che son giunto a tempo per udir cose che mi riguardano.
Il tono con cui egli pronunziò la parola costui accennando con un moto disdegnoso del capo a Maurilio era così pieno di superbo disprezzo, che Maurilio si sentì come una sferzata traverso la faccia; arrossì egli, impallidì, levò lo sguardo col proposito di cimentarlo contro lo sguardo di Gian-Luigi, ma non potè reggere allo scontro e riabbassò le pupille sentendosi nell'anima un'angoscia, nel petto un affanno che era pena, che era sgomento e che gli faceva temere fosse per assalirlo uno svenimento.
Quercia continuava con più fierezza:
— E poichè gli è questo cotale che vien qui a parlare di me, ben posso già indovinare fin da prima di che fatta discorsi egli ha osato tenere ed a che scopo egli mira. Or bene, parla in mia presenza, miserabile, se l'ardisci, e ripeti, continua e compi le calunnie che ti sei determinato a vomitare a mio carico.
Maurilio sussultò sotto il fiero oltraggio. La soverchia offesa per effetto di reazione gli diede un po' di coraggio: levò risoluto la testa, un lieve rossore salì alle sue guancie macilente che s'erano fatte color della cenere, ardì volgere e tener fisso [155] lo sguardo sul volto leggiadro ed ora spaventosamente feroce di Gian-Luigi, sulla cui fronte era incavata quella ruga caratteristica, fatale contrassegno del suo furore. Il medichino, egli, guardava il suo avversario con quel modo con cui il domatore di belve guarda la tigre che accenna rivoltarglisi, con quel modo con cui aveva fissato Stracciaferro, prima di domarlo colla forza delle membra, quando l'assassino aveva voluto resistergli. E forse Maurilio ora dallo sdegno del vivo affronto ricevuto avrebbe attinto abbastanza coraggio per reggere a quell'urto, se in quel momento, per sua sventura, una nuova impressione non gli fosse stata prodotta dalla vista delle sembianze di Gian-Luigi. Benchè animata allora da quel profondo sentimento d'odio e di furore, la beltà scultoria delle fattezze di lui non ne veniva punto alterata, e quella beltà nella memoria di Maurilio trovava riscontro in altri stupendi lineamenti di viso umano visti, contemplati, vagheggiati con attenzione, con espansività d'affetto da poco tempo, la sera precedente soltanto: i lineamenti dipinti nel ritratto della contessa Aurora di Castelletto, ch'egli aveva ammirato, innanzi a cui era rimasto con profonda emozione stampandosene i tratti nell'anima perchè credeva stamparvisi i tratti del volto della propria madre. Era innegabile, evidente a chiunque vi ponesse attenzione, la rassomiglianza fra le sembianze di Gian-Luigi e quelle del ritratto. Egli rassomigliava assai più alla defunta contessa di quello che le rassomigliasse Virginia; e nella rassomiglianza alla madre era un punto di contatto fra le sembianze della contessina e quelle del sedicente dottore, punto di contatto che sfuggiva a chi non paragonasse i loro volti a quel terzo termine di confronto. Maurilio non dubitò menomamente più che gli stesse dinanzi il vero figliuolo della sorella del marchese di Baldissero e di Maurilio Valpetrosa, e ciò lo rese turbatissimo, più che non fosse ancora stato fino allora in quella scena difficile e penosa.
Con qual fronte resistere egli a colui, venirsi a fare accusatore e procurare l'infamia e il danno di colui al quale egli, innocentemente è vero, era venuto a togliere il grado, il nome, la fortuna? In presenza di questo strano avvenimento qual era ancora il suo dovere? Le idee gli si abbuiavano a questo riguardo, e la commozione, la meraviglia, il dispiacere non gli consentivano prontezza nessuna d'avviso. E lo turbava quel rapporto di lontana somiglianza che gli appariva fra i tratti di Gian-Luigi e quelli di Virginia; in mezzo a quei tanti sentimenti che gli tumultuavano nell'anima, egli si sorprendeva a raccogliere tutta la sua attenzione nell'investigare in che consistesse la parità e la differenza fra quei due volti a così diverso titolo cotanto impressi nella sua mente, a cercare sotto i tratti di lui quelli adorati della fanciulla.
Ogni parola venne meno alle labbra tremanti di Maurilio, ogni voce mancò alla sua gola serrata.
Giacomo Benda credette allora ufficio suo ricapitolare in breve quanto il giovane era venuto sino allora esponendo. Quercia, che dominava sempre più il suo furore, benchè questo punto non scemasse, ascoltava con un sogghigno di fiero disprezzo, qual può avere innanzi alla più vile calunnia l'innocenza superba e superiore ad ogni arrivo d'oltraggio.
— Mirabile ed accorto tessuto d'infamie! esclamò egli poi con vece fremente, che, quantunque contenuta, vibrava come il suono chiaro e squillante d'una tromba. La calunnia vi è tanto meglio architettata che si prende a base una parte della verità. Che io sia stato allevato al villaggio e con costui, ve lo dissi io stesso; che la donna la quale mi fu nutrice viva colà modestamente della vita che sempre fece e le piacque fare, è pur vero, perchè le sorti in cui ella è nata e in cui visse pur sempre non le piacque mutar mai per quante istanze glie ne facessi; ma costui medesimo, che ora mi accusa, videmi, non son passati che pochi giorni, recarmi io stesso colà a riabbracciar quella donna, a recarle un migliaio di lire, a fare per lei tutti quegli atti che verso una madre ad un figlio amoroso s'addicono: e sfido l'impudenza di questo sciagurato a darmi una smentita.
Fece una pausa; Maurilio avrebbe voluto parlare, ma la lingua gli aderiva al palato, le labbra gli parevano irrigidite, non un soffio di voce glie ne venne alla gola.
Gian-Luigi riprendeva:
— Sì, io ho partecipato ai folli sogni della redenzione della patria di quell'animo intemerato che è Mario Tiburzio; come voi pure, Francesco, vi avete partecipato; sì, io offrii a quella santa causa il concorso della plebe, perchè mi feci l'illusione che per mezzo di parecchi fra essa che mi sono devoti per affetto di gratitudine, avrei potuto guidarla a mio talento, ma coll'empie passioni demagogiche del proletario io non ebbi nulla mai che fare; fui visto, è vero, da codestui in una miserabile stamberga di bettola, vestito da popolano, e fu ventura che arrivassi a tempo a salvare chi ora si fa mio calunniatore, dall'ira di operai ch'egli aveva, non so come, provocata; ma s'io m'immischio colla povera gente e talvolta vestito de' loro abiti per non dar loro nè soggezione, nè antipatia, nè sospetto, penetro nei luoghi dei loro ritrovi, come nelle miserabili loro abitazioni, si è perchè ricco e disoccupato com'io sono, volli a me stesso imporre un còmpito: quello di soccorrere i miei fratelli nella miseria, in quella miseria che sarebbe pure stata mio destino se l'intravvento di quel mio protettore, se il rimorso de' miei nemici non avesse poscia in parte riparato al male che fu fatto al povero fanciullo. Io vado recando agli infelici che soffrono di fame, di malattia, di disperazione, non poco dell'oro della mia borsa, il contributo della mia [156] scienza, il conforto d'un'amica parola. Ecco il modo onde acquistai attinenza e sperai aver acquistato influsso in quel mondo tenebroso ed agitato che sobbolle come una minaccia sotto i piedi delle classi agiate — di noi. Quando a costui favellai de' miei intendimenti a tal proposito, non dissi altro che questo. Ancora una parola e finisco, sdegnoso e vergognato d'avermi avuto a difendere da tali accuse e da tale accusatore. Questi fu sempre mio nemico, perchè l'invidia lo rose pur sempre dei successi dovuti in parte ad una fortuna — lo confesso — che forse è compenso datomi dalla Provvidenza, ma in parte eziandio alla mia attività ed intelligenza. Quelle passioni di cui egli accagiona me, fremono nel suo animo inasprito, feroce insieme e codardo. Ora mi ha visto presso a metter la mano sulla più cara felicità che uom possa desiderare. Ha voluto venir cacciare frammezzo l'arte sua di malevolo. Ma di quanto io dissi sul conto mio, di quanto vi affermai di essere, io diedi prove di documenti; or dica egli se pur di una delle sue accuse può dare una sembianza di prova.
Tacque come aspettando risposta: Maurilio, diventato sempre più pallido, non parlò.
— Credereste voi dunque più che alla mia parola, più che alle mie prove, alle semplici ciancie d'un tale individuo?
In quella l'uscio si aprì, ed entrò sollecita Maria che aveva notata la venuta dello sposo ed accostandosi alla camera di suo fratello aveva udito il suono alto e l'accento accalorato della voce di lui.
— Luigi, esclamò ella, che c'è?
Quercia le andò incontro e la prese per mano.
— Maria, disse con quella famigliarità cui già legittimava l'intimità dei rapporti in cui erano: ecco un uomo che viene ad accusarmi di sleale, di mentitore, di baro, e di nemico della vostra famiglia; guardateci ambedue, e dite chi si ha da credere fra lui e me che mi affermo innocente.
Nissuno sarebbe stato perplesso nella risposta, così era sicuro, animato, trionfante l'aspetto di Gian-Luigi, tanto era smarrito, confuso, disfatto quello di Maurilio; ed una donna può ella mai esitare nel riconoscere l'innocenza dell'uomo che ama?
Maria si gettò al collo di Quercia.
— O mio Luigi, esclamò con passione, tu sei l'angelo mio.
Maurilio, nella dolorosa confusione in cui era la sua mente, capì pure che tutto era detto, che la sua causa era perduta, che gli rimaneva solamente di partirsene scornato, colla vergognosa nota d'un calunniatore impotente. Come fece egli per torsi di là? Non avrebbe saputo dirlo. Il vero è che si trovò fuor della casa, sul viale, intronato, quasi barcollante, sentendosi ancora alle orecchie come suono di sferzate, il suono delle parole di Gian-Luigi.
Quella sera medesima avevano luogo, come se nulla fosse intravvenuto, gli sponsali di Luigi Quercia e di Maria Benda.
Era stato desiderio espresso di Quercia che nessuna festosa solennità, nessun fasto accompagnasse la firma del contratto degli sponsali: desiderio a cui s'affrettarono di aderire i parenti della sposa e la sposa medesima, siccome quello che stava pure nell'animo loro, e veniva consigliato dalle circostanze medesime in cui si trovavano, le conseguenze cioè del tumulto degli operai e l'infermità di Francesco. Nella camera di quest'ultimo la sera avevano luogo gli sponsali e, fuori de' più prossimi congiunti di cui non poteva evitarsi la presenza, una mezza dozzina di persone, non vi assisteva alcun invitato.
Lo sposo, Luigi Quercia, qualificatosi per dottore in medicina e in chirurgia, aveva recato seco e presentato all'atto delle promesse la somma di cento mila lire in biglietti di banco francesi che dichiarava voler costituire in aumento dotale alla sua dilettissima sposa e lasciava al suo futuro suocero perchè, celebrato il matrimonio, investisse in altrettante cedole del debito pubblico piemontese (allora in grandissimo pregio) nominativamente intestate alla sposa medesima: questa, Maria Benda, portava in dote al marito ottanta mila lire in oro ch'egli ritirava all'atto medesimo. Le due somme, i biglietti di banco a fasci di dieci da lire 50 ciascuno, e i napoleoni d'oro a torricelle di venticinque ognuna, stavano sopra la tavola a cui sedeva il notaio che rogava il contratto, fra due massicci candelabri d'argento.
Vario era il contegno dei diversi personaggi che partecipavano a quella scena; Maria, essa, posseduta da un'intima letizia che non si scompagnava dall'agitazione, passava da un caro pallor delle guancie ad un rossore più caro ancora, i suoi occhi si tenevano più volentieri chinati a terra, ma talvolta però si levavano verso il suo sposo e lampeggiavano d'una viva luce soave; egli, lo sposo, aveva l'orgoglio temperato e l'allegria di buon gusto d'un trionfatore modesto; in ogni sua mossa, come in ogni parola appariva l'uomo di squisito sentire, di carattere delicato e di perfetta educazione; solamente chi avesse conosciuto a fondo la variabilità d'espressioni di quella fisionomia così soggetta alla volontà, avrebbe potuto notare una lieve mostra come d'inquietudine, nella vivacità di certi sguardi, quasi un'impazienza che quelle formalità durassero cotanto, un desiderio che tutto fosse finito al più presto. La madre di Maria, come tutte le madri in simili circostanze, era dominata da una commozione cui mal poteva frenare, e spesso le si riempivano di lagrime gli occhi che teneva rivolti con immenso affetto sulla figliuola. Il sor Giacomo aveva nell'animo qualche cosa ancor egli che non lo lasciava del tutto contento. Aveva liberamente e lietamente acconsentito a quel maritaggio con tanta ardenza desiderato dalla figliuola, che doveva procurarne la felicità, e cui credeva sotto ogni rispetto convenevole; sedotto ancor egli dalle brillanti qualità dello [157] sposo, persuaso per prova di fatto della generosità dell'animo di lui, gratissimo verso di esso per quanto aveva fatto in pro della famiglia, aveva pur sentito nascergli in cuore per quel giovane una simpatia che già era quasi un affetto, e tuttavia a questo momento, fosse inesplicabile istinto, fosse inavvertito effetto delle accuse udite da Maurilio, non credute ma che, ciò nulla meno, come quasi sempre d'ogni accusa suole accadere, avessero lasciata traccia, il vero era che egli sentiva una specie d'agitazione, una mala voglia che non si sapeva spiegare. Francesco, debole ancora, propenso per indole e per la propria condizione a desiderare ed allietarsi nel veder soddisfatto un reciproco amore, non provava che una affettuosa tenerezza per la gioia della sorella.
Il notaio leggeva lentamente, con quel tono di voce e quell'accento speciale di questi pubblici ufficiali che tutti conoscono, le clausole del contratto. Gli sposi il domattina dovevano celebrare il matrimonio alla parrocchia e partire immediatamente alla volta della Francia.
La lettura era finita: si procedette alle firme. Vi appose prima la sua, non senza un legger tremito, Maria; poscia lo sposo. Nel passare la penna alla suocera, Quercia drizzò l'orecchio e, senza che alcun altro nulla udisse ed a questo suo atto badasse, stette intentissimo ad ascoltare. Il finissimo suo senso dell'udito era stato percosso da un lontano susurrio, da un penetrar di gente sotto il portone, da uno scambio di parole. Egli, a buona ragione sospettoso di tutto, si ritrasse indietro con moto naturalissimo e s'accostò lentamente alla finestra. Maria, che non aveva occhi, che non aveva anima, che non aveva vita che per lui, gli venne presso; egli, vivamente preoccupato com'era, tutte le sue facoltà concentrate, per dir così, nell'intentività dell'udito, ebbe pure l'arte e la forza di sorriderle e di prenderla per mano.
— Cara, le disse traendola verso la finestra come volendo isolarsi con lei dal resto delle persone presenti: cara, tu sei mia finalmente, e il primo sacro vincolo ci ha avvinti di quella dolce catena che deve tenerci uniti per tutta la vita.
Ella non sapeva che dire, non poteva parlare, tremava in tutte le fibre d'un tremito soave; lo guardava e sorrideva.
Gian-Luigi aprì le imposte di legno della finestra e guardò fuori traverso le invetrate. Quella finestra s'apriva dalla parte del cortile in una delle due ale che si stendevano verso la fabbrica incendiata. Il tempo s'era rimesso al bello e batteva la luna. Sulla neve del cortile Quercia vide stendersi l'ombra di parecchi uomini.
— Che siano dessi? pensò; mi sembrano in pochi, tre o quattro tutt'al più: ne avrei facilmente ragione.
Misurò l'altezza del ripiano a cui si trovava.
— In caso di bisogno, soggiunse, sono capace di far salti anche maggiori di questo.
Tastò nelle saccoccie dove teneva due pistole corte e ne accarezzò il calcio colla destra che si era sguantata per firmare, e frattanto sorrideva sempre alla fanciulla innamorata.
Ma le sue orecchie non l'avevano ingannato; un rumore di passi e di voci venne diffatti accostandosi vieppiù fino a che giunse nella camera che precedeva, dove parve risolversi in un contrasto. L'ultima delle persone presenti aveva appunto allora finito di sottoscrivere; chè tutti, secondo l'uso, avevano voluto apporre a quell'atto la loro firma; Giacomo Benda, stupito come gli altri di questo incidente, si tolse di mezzo alle congratulazioni ed ai complimenti dei congiunti, ed andò verso la porta dicendo:
— Vo a vedere che cos'è questo rumore.
Gian-Luigi parlava sempre con Maria nella strombatura della finestra, e frattanto aveva pian piano alzato il palettino di sotto e fatto girare il gancio di sopra che tenevano chiuse le invetrate; Maria non s'accorgeva di nulla di quanto avveniva intorno a lei, non vedeva nulla fuori delle pupille nere del suo sposo che seguitavano ad affisarla con una fiamma che le sembrava di vivo amore.
Mentre il sor Giacomo stava per metter mano alla gruccia della serratura dell'uscio, questo si aprì spinto dal di fuori, ed apparve Bastiano tutto conturbato.
— Che cos'è? gli chiese quasi severamente il padrone.
Il gigantesco portinaio chinò la sua alta persona verso l'orecchio di sor Giacomo e gli disse con un certo piglio d'ansietà, di disgusto e di timore:
— V'è un cotale che vuole ad ogni costo entrare.....
— Gli è matto: interruppe parlando forte il signor Benda. Entrare! Qui, a quest'ora? Perchè? E che pretende?
Tutti gl'invitati, la cui curiosità era solleticata ed in cui era nata un'inesplicabile aspettazione, si avvicinarono al padron di casa e fecero gruppo dietro di lui.
Bastiano, parlando sempre più sommesso rispose:
— Non è un matto; gli è un agente di polizia, con una mano d'arcieri.
Queste parole furono pronunciate pianissimo, ma pure, tanto era il silenzio che s'era fatto, che furono udite da un capo all'altro della stanza; da tutti, fuorchè da Maria. Il sor Giacomo aggrottò le sopracciglia; Francesco sul suo letto si tirò su a vedere con moto più vivace che non avrebbe ancora dovuto; la signora Teresa levò le mani verso il cielo spaventata: gl'invitati allibirono, e più d'uno, temendo d'essere compromesso, si pentì d'esser venuto.
— Ancora la Polizia! esclamò indignato il padron di casa. Che cosa mi si vuole, per Dio?
— Falli entrare, padre mio, gridò Francesco dal suo letto, falli entrare e vedremo tosto con che [158] pretesto si viene a turbare nei momenti più solenni la pace d'una famiglia, a violarne il domicilio.
Queste parole parvero molto audaci alla maggioranza dei presenti che furono sempre più pentiti di trovarsi in quel luogo.
— Ebbene, vengano: disse bruscamente il signor Benda.
Bastiano non ebbe che ad aprire un battente. Sulla soglia si presentò la faccia scialba d'un uomo, cui Gian-Luigi, dalla finestra ove si trovava, riconobbe subito con dispetto per quella di Barnaba.
— Sciagurato d'un Graffigna: diss'egli fra sè: gli è proprio diventato buono da nulla. Ora sì che son perduto. Chi sa?...
Aprì pian piano l'invetrata e il suo occhio corse rapidamente su due punti: all'uscio per cui entravano gli uomini della Polizia ed al tavolino sul quale erano le torricelle lucenti dei napoleoni d'oro.
Barnaba s'avanzò nella stanza, e dietro di lui si schierarono in fila quattro brutti ceffi che non mentivano colle sembianze il loro essere di arcieri travestiti.
— Non si sgomentino, disse il poliziotto che camminava ancora a stento, appoggiandosi ad un bastone: non siamo venuti che per arrestare il sedicente dottore Luigi Quercia.
La vecchia similitudine dell'effetto che produce un fulmine precipitato a ciel sereno, non può menomamente esprimere lo stupore di quell'adunanza alle parole dell'agente di Polizia.
Stettero lì, intenti tutti quanti, guardandosi, mentre Barnaba con una rapida occhiata mandata in giro si rendeva conto della situazione materiale delle cose per decidere del modo più opportuno di agire. Vide Quercia nel vano della finestra e fra sè e lui frammezzare il gruppo degl'invitati, il tavolino su cui era stato rogato il contratto e il notaio che si levava allora esterrefatto, e per ultimo Maria che all'udire le parole del poliziotto s'era gettata al petto dello sposo, come per fargli scudo della sua persona.
Il medichino ancor egli guardava codesto e pesava le circostanze di tal disposizione di persone e di luoghi per servire al suo scampo. Non aveva menomamente perduto del suo sangue freddo, nè aveva smesso il suo superbo sorriso. E pensava:
— Fortuna traditrice! Nel migliore la mi manca. Due giorni avesse tardato i suoi colpi!... Qualcheduno mi ha tradito.... chi?... Lo saprò, e allora!... Intanto sfuggiamo alle loro unghie... Potessi almeno arraffare eziandio parte di quel denaro!...
Barnaba aveva visto le invetrate aprirsi cautamente sotto la mano di Quercia. Se le forze glie lo avessero concesso, si sarebbe slanciato egli medesimo addosso all'uomo da arrestarsi: ma egli appena si reggeva in piedi.
— Eccolo, gridò additandolo ai quattro seguaci, eccolo là alla finestra: presto, afferratelo, ch'ei non ci sfugga.
Ma gli uomini avevano da passare in mezzo al gruppo degl'invitati che avevano assistito al contratto, i quali senza punto volerlo, ma per l'attonitaggine in cui erano, stavano piantati a fare ostacolo; e quindi avevano da schivare il tavolino che si trovava nella linea retta da loro al medichino.
— Sì, sono qua, gridò questi con una temeraria ironia; ma non mi ci avete ancora preso, signori miei.
Erasi accorto che doveva rinunziare a far bottino di quei bei napoleoni d'oro che splendevano sulla tavola, e n'aveva un dispetto da non dirsi; appena appena se gli era possibile la fuga per la finestra. Si sciolse dall'amplesso di Maria che stava palpitante sul suo seno; la rigettò bruscamente contro i quattro uomini che si slanciavano su di lui; colla rapidità del lampo fu sul parapetto della finestra e di là nel cortile.
Maria strammazzò nelle gambe degli arcieri, mandando un grido, e colla sua caduta li arrestò un istante.
Barnaba, fatto più pallido, le labbra contratte dall'ira, gridava:
— Su, su, animali, buoni da nulla: fategli fuoco addosso; ch'e' non ci sfugga, alla croce di Dio!
Quando gli arcieri giunsero ad affacciarsi alla finestra, videro un uomo che si dibatteva in mezzo a quattro altri ond'era circondato; si udirono due colpi di fuoco, due dei quattro caddero e quello che era stato aggredito fu visto fuggire con una rapidità straordinaria verso le macerie della fabbrica incendiata.
— E' ci scappa, e' ci scappa: gridava furibondo Barnaba, giunto ancor egli alla finestra. Fuoco, fuoco, su di lui.
Fu salutato dallo sparo di parecchie pistole, ma inutilmente: egli era sparito.
Giacomo e Teresa erano accorsi a sollevare la figliuola; indicibile era l'emozione in tutti.
— Signore, disse poscia il signor Benda con voce tremante dal turbamento e dallo sdegno; si può almeno sapere a che titolo si voglia procedere all'arresto del dottor Quercia?
Barnaba rispose con feroce crudità:
— Perchè gli è un ladro, un falsario ed un assassino. È il capo di quella tremenda banda che chiamasi la cocca, ed è il soprannominato medichino.
Maria non ebbe pur la forza più di mandare un grido; appoggiata com'era alla spalla del padre si lasciò andare smarrita nelle braccia di lui, ed egli l'adagiò sopra il sofà, priva affatto di sensi.
L'occhio del poliziotto era caduto sulle polizze di banca francese che stavano sopra il tavolino.
— Ed ecco appunto, diss'egli, dei falsi biglietti [159] di cui quell'associazione di malfattori aveva la fabbrica.
E li sequestrò. Diede ordine tosto s'inseguisse da ogni parte il fuggitivo.
— Oh! lo piglierò, diss'egli fra i denti, lo piglierò ad ogni modo.
Il padre e la madre di Maria erano intorno a lei desolati; i testimoni di quella scena non rinvenivano dall'attonitaggine in cui erano caduti, non sapevano che farsi nè che dirsi; alcuni, quelli che avevano meno perduto il cervello, eransi partiti di cheto.
Barnaba si affrettò ad andarsene. Scendendo trovò i poliziotti che aveva lasciati a guardia nel cortile, scornati, timorosi, mortificati; avevano levati di terra e posti sotto l'atrio i cadaveri dei loro due compagni stati uccisi dal medichino. L'agente della Polizia non fece loro il menomo rimprovero; solamente li guardò con un occhio che parve loro più severo d'ogni parola. Fu ad un giovinastro tarchiato e tozzo, dall'aria scema, che Barnaba diresse una rampogna.
— E tu, imbecille, non sei stato da tanto di aggrapparti a lui e non lasciarlo muover più? Ora egli ci scapperà per sempre, conducendo seco la tua Maddalena.
Gli era Meo, che Barnaba aveva voluto condur seco, nella speranza che gli sarebbe stato utile.
Lo stupido rispose con voce quasi piagnolosa:
— E' fu così lesto ch'io appena ebbi tempo a vederlo; quando accorsi egli era già via; ma se mai lo trovo ancora a tiro della mia mano, le giuro per la Madonna della Consolata, che non mi scappa più.
— Ah sì: mormorò Barnaba: ma il difficile ora sta appunto nel ritrovarlo. Andiamo.
Camminando verso la città, il poliziotto pensava:
— Dove può egli ricoverarsi pel momento? Nella sua dimora abituale, mai più. Nella palazzina del viale, difficilmente. Però or ora le passeremo dinanzi ed osserveremo... Più probabilmente dalla Zoe.
In breve giunsero alla casina dei segreti ritrovi; Barnaba s'arrestò, fece arrestare in perfetto silenzio la sua scorta e si pose ad osservare attentamente. L'abitazione era muta e scura per l'affatto, nè si aveva un menomo indizio che vi fosse anima viva. La neve caduta i giorni addietro era stata spazzata via per una stretta striscia, dal cancello all'uscio d'ingresso, quindi non vi poteva esser traccia di pedate; però l'occhio acuto del poliziotto, in uno degli orli della neve in mezzo a cui erasi aperto il sentiero, vide una lieve impronta; aprì il cancello con un grimaldello e s'avanzò a contemplar davvicino quel segno. Era l'impronta recente d'un piede ben fatto ed elegantemente calzato d'uomo. Certo nel turbamento con cui camminava, il fuggente non aveva dovuto badare che il suo passo, andato un po' di traverso, aveva lasciato una piccola orma.
— Gli è qui: esclamò a bassa voce Barnaba, drizzando la sua faccia illuminata da una fiera gioia. Il sorcio è in trappola, e questa volta non ci può scappar più a niun modo.
Aveva seco sei guardie e Meo, che faceva sette. Non volendo tralasciare cosa alcuna cui la previdenza consigliasse, egli trascelse due dei più intelligenti fra i suoi uomini e diede loro l'ordine di recarsi sotto le finestre dell'abitazione della Zoe a invigilare. Se mai per caso non fosse Quercia quegli che era entrato nella palazzina, o già ne fosse uscito, si tenesse d'occhio la dimora della cortigiana dov'egli poteva riparare: tutti gli altri luoghi in cui era presumibile si recasse già erano custoditi.
Partiti i due uomini, Barnaba fu all'uscio della casina, e senza molti sforzi coi suoi grimaldelli lo aperse. Tutto era scuro là dentro: uno degli arcieri accese una lanterna, e cautamente, le pistole in mano, s'introdussero tutti.
— Meo, disse Barnaba mettendo una mano sulla spalla del garzonaccio: gli è ora che conto su di te.
Gian-Luigi, appena si fu colla sua rapida corsa di tanto allontanato pe' campi da non temer più pel momento d'essere raggiunto, si fermò ansimante a pensare quel che meglio gli convenisse. Fuggire addirittura la città e il paese, tentar di giungere ad estere contrade era certo la prima idea che gli doveva venire, e fu quella che gli venne: ma non tardò a crollare il capo con uno scoraggiato sorriso.
— E che farò io, disse amaramente a se medesimo, senza mezzi nessuni, senza punto denari? Aver tanto raccolto e veder tutto sfumarsi dinanzi! Aver con tanti sforzi costrutto un edifizio e vederselo tutto crollare!.. Espormi alla vita della miseria in altri paesi, ricominciare da capo la vita del baro e dell'assassino per vivacchiare.... oh no! non io discenderò sì basso.... Piuttosto morire.... Poichè tutto mi ha fallito ad un tratto, che mi cale gettar via questa vita che ha mancato a tutte le sue promesse?
Trasse fuori un pugnaletto acuto e sottile e ne guardò stranamente il luccicar della lama al raggio della luna.
— Su via: diss'egli con quel suo sogghigno in quella solitudine, a quel momento, più amaro, più superbo, più temerario che mai.
Ma la mano già levatasi per ferire, si arrestò e poi si chinò lentamente.
— Non è una viltà fuggire innanzi al pericolo perchè si è fatto gravissimo? Vo' lottare fino all'ultimo con questa società matrigna che suscita tutti [160] i desiderii e nega all'onestà ogni soddisfazione di essi, e che ora mi minaccia colla forca... Vivo non cadrò nelle loro mani a niun patto... Dunque tanto vale tentare ancora. Se potessi fuggire con parte almeno de' miei tesori, sarebbe tuttavia una vittoria.
La sua decisione era presa, ringuainò il pugnale e si diresse verso la palazzina. Camminava prudentemente celandosi dietro i tronchi degli alberi, poco diverso dal cauteloso procedere che descrivono i romanzieri americani dei selvaggi che vogliono sorprendere il nemico. Intorno alla casina del viale tutto era quieto: Quercia spiò attentamente e non vide indizio d'anima viva. Si fece ardito tanto da entrare nel cancello ed introdursi nell'abitazione. Una lieve speranza gli venne che il segreto nascondiglio detto Cafarnao non fosse ancora conosciuto dalla Polizia e colà potesse non solo penetrare sano e salvo a prendere il denaro che vi aveva, ma rimanervi alcuni giorni nascosto a sviare la vigilanza e le ricerche della Polizia. E certo se nessuno avesse tradito, quel rifugio avrebbe dovuto essere compiutamente ignorato; ma che vi fosse stato un traditore fra i servi era pure la prima idea che gli si era affacciata, quando aveva visto comparirgli Barnaba per arrestarlo.
Pel segreto passaggio dalla palazzina passò nell'andito sotterraneo che conduceva al grande stanzone centrale. Camminava lento, gli occhi e le orecchie tese con ogni sua possibile intentività; la mano destra teneva sull'elsa del pugnaletto, colla sinistra veniva tastando la parete per guidarsi, essendo che quella sera non fossero accese le lampade lungo il corridoio, ed egli avesse pensato meglio non recar seco lume nessuno. Ad un punto udì innanzi a sè un suono, che gli fece spavento, se pure può questa parola usarsi per l'intrepida tempra di quella natura. Era un rumore di lotta: alcune voci d'ira e di minaccia, alcuni gemiti che parevano di feriti, colpi e percosse. Il medichino ristette. Era questa una rissa fra i soliti abitatori del Cafarnao, oppure una lotta con nemici invasori? Il dubbio non durò a lungo. Si udì una voce che Quercia riconobbe per quella dal commissario Tofi.
— Non fate fuoco, gridava la voce, e' si vogliono prender vivi; che diamine! siete in tanti e non ci valete ad opprimere due uomini soli, di cui uno ancora non è che la metà d'un uomo?
Al punto in cui era giunto Gian-Luigi, poteva scorgere una luce rossiccia in fondo al corridoio. Erano delle lanterne che tenevano in mano vari uomini che non tardò a riconoscere per guardie di polizia. Sui gradini che conducevano a Cafarnao stavano ritti Stracciaferro e Graffigna che si difendevano bravamente, il primo con un palo di ferro, il secondo col suo coltello affilato, contro l'assalto d'una schiera di poliziotti: alcuni di questi già erano distesi per terra malconci; dietro degli assalitori appariva l'alta persona del Commissario, il quale, nel suo solito contegno, le mani affondate nelle sue grandi tasche del soprabitone, incoraggiava i suoi uomini all'assalto. Allo sbocco dell'andito che conduceva alla bottega di Baciccia apparivano altri poliziotti appostati.
Il primo impulso di Gian-Luigi fu quello di gettarsi là in mezzo a soccorso de' suoi; ma fu lesto a cambiar d'avviso, egli si perdeva inutilmente senza salvare gli altri. Sola cosa da farsi era tornare il più presto sui suoi passi, prendere in fretta tutto quello che si poteva di valore che era nella palazzina, e fuggire se pure s'era tuttavia in tempo. Retrocesse adunque affrettato; giunto dietro all'uscio segreto che metteva nel salotto della casina sostò ed applicò l'orecchio alla commessura per ascoltare; non udì rumore di sorta; colà non era dunque ancora penetrato nessuno. Toccò la molla nascosta; l'uscio si aprì; egli passò ratto e lo richiuse: ma aveva fatto appena pochi passi che udì nell'andito a pian terreno gente che entrava, che si accostava alla scala, che saliva. Si morse le labbra fino al sangue, gettò un'occhiata disperata intorno a sè, come per cercare una via di scampo: non ce n'era nessuna: tornare nel sotterraneo era peggio: gli occhi gli balenarono orrendamente: si vide compiutamente perduto e si disse con una bestemmia che la sua ultima ora era venuta; si piantò sulla soglia di quella stanza, impugnò con mano convulsa il pugnale e stette ad aspettare.
Non aspettò a lungo; l'uscio della camera che precedeva si aprì e comparvero agli occhi suoi quattro uomini — quei medesimi che già lo avevano assalito nella casa dei Benda — e in mezzo a loro, come duce, Barnaba. Nessuna parola fu scambiata: nè i poliziotti minacciarono, nè il medichino aprì labbro; gli arcieri ad un cenno di chi li capitanava fecero un moto per islanciarsi addosso a Quercia: questi brandì il pugnale, solidamente piantato sulle sue gambe, in una mossa robusta ed elegante da gladiatore antico. Era sì fiero l'aspetto di lui, sì ferocemente lampeggiavano i suoi occhi neri, la profonda ruga incavatasi nella sua fronte dava una tale sembianza di forza, di risoluzione disperata, di volontà e di ferocia indomabili a quel suo volto fatto per imporne altrui e per comandare alle turbe, che gli arcieri, come intimoriti, s'arrestarono. Ciascun di loro sapeva che il primo fosse arrivato a tiro di quella sottil lama, che brillava nel pugno piccolo e nervoso del medichino, sarebbe stato un uomo morto; e per quanto si sia sicuri che la nostra morte verrà vendicata, non è questo pensiero abbastanza consolante per deciderci a farci accoppare così di piano senza punto oscitanze.
Barnaba, il quale voleva finirla presto, si volse indietro e chiamò a sè un uomo che era rimasto nell'altra stanza in coda degli altri.
[161] — A te, gli disse, vieni qua e guardalo. È egli quel desso?
Gian-Luigi vide, dietro le spalle dei quattro arcieri, comparire la faccia scema e gli occhi vitrei di Meo, il garzone di mastro Pelone.
— Ah! sei tu il traditore: mormorò fra i denti il medichino: che sì ch'io ti darò qui stesso la tua paga... Ma tu non sei già il solo, perchè il segreto di Cafarnao non t'era noto.
Lo sguardo di Meo, fissandosi nel volto di Gian-Luigi, s'animò per quanto quello sguardo poteva animarsi.
— È lui, esclamò, gli è proprio lui: lo riconosco, quantunque e' sia vestito da signore.
Barnaba aveva giudicato egli pure che alcuno dei presenti doveva sacrificare la vita per la cattura di quell'importantissimo personaggio; ed avvisò che, fra quante aveva in quel momento a sua disposizione, l'esistenza di quel poveraccio era la più sacrificabile, come quella che, arrestato il famoso medichino, diventavagli affatto inutile.
— Or bene, gli disse piano all'orecchio, saltagli addosso ed afferralo tu, se non vuoi che più ci scappi e ti porti via per sempre la Maddalena.
Meo allungò il collo fra le spalle dei poliziotti che erano dinanzi e misurò collo sguardo lo spazio che gli restava da percorrere per arrivare al medichino.
— Animo! gli susurrò all'orecchio Barnaba: l'hai giurato che non te lo lascieresti scappar più; e così ti vendicherai di lui e di lei.
Il garzonaccio diede in una specie di grugnito: fece come il cane che, animato dalla voce del cacciatore, esita a slanciarsi addosso al cinghiale attergatosi ad una pianta, e poi ad un tratto ei si decide e corre addosso alle mortifere zanne: colle due mani trasse indietro due degli arcieri per farsi lasciare il passo, e coll'impeto d'una catapulta, piombò addosso al medichino di tutto il peso della sua persona.
Gian-Luigi piegò un istante a quell'urto; ma le sue gambe s'irrigidirono tosto ed egli riprese di subito la sua impostatura di difesa; però l'assalitore l'aveva afferrato alla gola e gli stava ingombro sul petto, facendo sforzi ad abbatterlo in terra. Si vide al lume rossiccio della lanterna balenare per aria la lama sottile, ed una riga di sangue colare ad un tratto e per più luoghi dalle reni di Meo. Questi tuttavia non lasciò la presa: muggiva e rantolava in orribil guisa, ma le sue braccia si stringevano convulse al collo del medichino, così che tutto pavonazzo ne diventava il viso di costui; e negli squassi dell'agonia, cadendo a terra come sacco buttato, Meo traeva seco, sempre stretto dalla morsa feroce delle sue braccia contratte, Gian-Luigi a mezzo soffocato. Ma quando aveva toccato il pavimento, il povero Meo già era cadavere.
— Su, su, gridò Barnaba: saltategli addosso ora ed impedite ch'ei possa uccidersi, e disarmatelo.
Gli arcieri tutti quattro piombarono su di Quercia nell'atto che stava per divincolarsi dall'amplesso orrendo di quel cadavere e volgere su di sè l'arma omicida; non senza sforzi riescirono a torgli di mano il pugnale e legarne le braccia e le gambe, e finirono per lasciarlo disteso in terra ansimante, sanguinoso, pesto e allividito dai colpi ricevuti, ma terribile ancora a mirarsi. Il pittore che avesse voluto rappresentare il Satana fulminato, non avrebbe potuto trovare modello più acconcio e più efficace di quell'uomo pallido, dalle chiome nere irte sul capo come serpenti, dagli sguardi feroci e rabbiosi d'una ferocia impotente, il quale si mordeva il labbro inferiore da far spicciar il sangue che gli colava lungo il mento, sulla cui fronte la ruga profonda che vi si incavava fra le sopracciglia, pareva l'impronta della maledizione di Dio.
Barnaba, che aveva assistito con trepidante interesse alla breve ed aspra lotta, ora che si vide disteso ai piedi, vinto ma non domato, quell'uomo; come se soltanto per questo fine gli avessero bastato le forze che aveva raccolte mercè il conato perseverante della sua volontà, si lasciò cader seduto sovra una scranna, mandando un lungo sospiro, e parve presso a svenire.
Gli occhi neri del medichino caduto lo saettavano con isguardi pieni d'un odio feroce.
Dopo un istante in cui gli arcieri medesimi parvero riposarsi ancor essi, stupiti insieme e della forza che loro aveva opposto quel giovane dalle forme eleganti e quasi della loro vittoria, e' si volsero al caduto a vomitargli mille improperii, urtandolo co' piedi. Il medichino rimase impassibile, muto ed immobile, nè i suoi occhi degnarono pure volgersi sopra i suoi insultatori, ma continuarono a restar fissi con quella espressione sopra di Barnaba.
Questi, appena gli fu tornato tanto di vigore da poter alzare la voce, gridò ai suoi subalterni:
— Silenzio olà, e fermi!... Lasciate in pace il prigioniero.
Obbedirono colla prontezza e colla sommessione della disciplina militare: e messisi nell'impostatura del rispettoso aspettar gli ordini dal superiore, uno di essi, il brigadiere, domandò:
— Che ci comanda ora?
— Procederemo alla più minuta perquisizione in tutta la casa. Chiamate gli altri uomini che abbiamo lasciato abbasso: due rimarranno qui a custodia del prigioniero, gli altri romperanno tutti gli scrigni, apriranno tutti i mobili, così ch'io possa rifrugar tutto e dappertutto.
Fu fatto secondo questi ordini. Ogni carta fu attentamente esaminata da Barnaba, quelle sopratutto che avevano apparenza di lettere di donna. Di queste se ne trovò di molte, ma non quelle che cercava l'agente della Polizia; altre carte che avessero importanza non se ne rinvennero.
[162] — Ed ora, disse Barnaba quando la perquisizione fu finita e lo disse in modo che il medichino potesse udire: ora non ci resta che penetrare nel sotterraneo.
Gli occhi di Gian-Luigi che rimanevano sempre fissi sull'agente della Polizia, diedero un leggier guizzo.
Barnaba si accostò al giacente e, curvatosi verso di lui, gli disse:
— Vedete che sono informato di tutto. So che per quella grande specchiera laggiù si penetra nel sotterraneo covo della vostra cocca, e so che la si può aprire mediante una molla segreta che si preme. Fareste assai bene ad indicarci questo segreto per avanzarci la fatica e il tempo di rompere ed abbattere quell'uscio così ben dissimulato, senza contare che gli è un peccato mandar a male un sì bel cristallo.
Il medichino seguitò a guardar fieramente chi gli parlava, ma non disserrò le labbra.
— Rompete quello specchio, comandò Barnaba accennandolo colla mano, e sfondate l'uscio che esso nasconde.
L'ordine fu tosto eseguito. Dieci minuti dopo appariva il vano nel muro e il tenebroso pozzo della scala che s'affondava. Allora il prigioniero fece un movimento ed accennò colle pupille a Barnaba che gli stava seduto dappresso.
— Sentite: diss'egli.
Il poliziotto, aspettandosi qualche rivelazione, si curvò su di lui con sollecita premura.
— Che ragioni personali d'animosità avete voi contro di me? gli domandò Quercia, facendogli penetrare negli occhi il suo sguardo acuto.
Per un ratto istante le pupille, abitualmente velate, di Barnaba ebbero un improvviso bagliore; ma le si spensero tosto.
— Nessuna: rispose egli freddamente.
— Voi mi avete data la caccia con ispeciale accanimento; foste voi che veniste a suscitare fra i miei seguaci un traditore.
— Era dovere del mio ufficio.
Gian-Luigi fece quel suo scettico amaro sogghigno che ora su quelle labbra sanguinose era più penoso a vedersi.
— Troppo zelo: diss'egli ironicamente.
Barnaba si drizzò della persona ed accennò avviarsi verso l'uscio atterrato.
— Aspettate: disse vivamente il medichino con un accento che pareva di comando.
Il poliziotto si fermò.
— Curvatevi di più verso di me. Quello che voglio dirvi dev'essere udito da voi solo.
Barnaba si chinò più che poteva.
— Per fare codesto mestiere voi dovete non esser ricco.
— Sono poverissimo.
— Chi mi lasciasse scappare potrebbe avere venti mila lire.
— Bah! dove le prendereste? Tutto quello che avevate qui sotto già vi fu sequestrato.
La risposta del poliziotto accese un po' di speranza nel cuore di Gian-Luigi. Chi si preoccupa del modo onde gli può essere pagato il compenso ad un atto che gli si domandi, è presso ad accettare di compire quest'atto.
— Ho in serbo altrove delle somme: disse con vivacità il medichino. Sono presso una persona, dalla quale potreste avere subito, questa sera medesima, la mercede che vi dico.
— Chi è questa persona? domandò Barnaba i cui occhi tornarono ad animarsi alquanto.
— Vi condurrò io stesso da lei, appena ci saremo tratti di qua.
— Forse la Zoe? disse l'agente poliziesco con voce che sibilava fra i denti.
Quercia era troppo osservatore per non por mente alla fiamma che aveva lampeggiato nelle pupille di Barnaba, al tremare dell'accento con cui aveva pronunziato quel nome di donna: sollevò alquanto il torso dal suolo, puntando il gomito d'uno de' suoi bracci insieme strettissimamente legati, ed affondò i suoi negli occhi dell'interlocutore.
— La Zoe!... Voi la conoscete?
Barnaba aveva chinato sulle pupille le ciglia, e volto il capo dall'altra parte.
— No: rispose freddamente. Non la conosco..... Ma mi offriste anche un milione non consentirei nemmeno a chiudere un occhio perchè voi poteste riacquistare la libertà.
— Va bene: disse con tutta indifferenza il medichino, lasciandosi ricadere lungo e disteso per terra: siete l'eroe della Polizia.
E non pronunziò più una parola.
— Scendiamo giù: disse Barnaba ai suoi uomini: due di voi rimangano qui; gli altri vengano meco. Credo che a quest'ora il Commissario avrà finito con quegli altri, e se no arriveremo appunto in suo aiuto.
E l'agente cogli arcieri, tolti i due che rimasero presso il medichino, sparirono nell'oscuro della scaletta che scendeva al corridoio sotterraneo.
Per l'arresto dei malfattori della cocca, tre squadre poliziesche eransi partite ad un tempo dal Palazzo Madama, la prima capitanata da Barnaba si era diretta alla casa Benda dove sapevasi doversi cogliere alla posta il capo della banda, e già abbiam visto quello che a questa squadra era intravvenuto; la seconda erasi recata all'abitazione ordinaria del cosidetto medichino sotto la guida di un altro agente che godeva ancor egli la speciale confidenza del signor Commissario, e colà aveva [163] arrestato i servi del sedicente dottor Quercia ed in una minutissima perquisizione sequestrato tutte le carte che vi ci aveva trovate, cui l'agente doveva consegnare nelle mani medesime del signor Tofi: quest'ultimo poi, a capo della terza squadra, più numerosa delle altre e rinforzata dall'aiuto di una mezza dozzina di carabinieri, s'era assegnato il compito di penetrare nel covo sotterraneo e misterioso di quella tremenda associazione di assassini. Giunta a poca distanza dalla strada in cui s'apriva la taverna di Pelone, questa schiera si divise in due, e chetamente le due frazioni s'avviarono, l'una verso la bettola, l'altra verso la bottega di Baciccia.
Il bravo Pelone, che già da qualche giorno aveva inquietudini e di molte, restò di stucco al vedere aprirsi l'uscio a vetri della bottega e in mezzo al fumo denso delle pipe, delle vivande, dei lumi a olio, presentarsi la faccia del Commissario, faccia che ispirava apprensione a tutti e che in quel punto alla coscienza sporca di mastro Pelone fu spaventosa come la testa della Medusa nei poeti classici. Ad accrescere spavento questa faccia tremenda era incorniciata in un fondo di ceffi arcigni di guardie poliziesche e di cappelli a becchi di carabinieri. Al fondo dello stanzone, dal suo banco a cui sedeva secondo il solito, il tavernaio, facendo una splendida eccezione alla ordinaria lentezza di moti del suo lungo corpo dinoccolato, sorse di scatto sulle sue zattere di piedi, assalito da un parosismo maligno della sua tosse profonda e dal fondo delle occhiaie incavate girando attorno uno sguardo sgomento:
— Il Commissario in persona! si disse egli in fretta in fretta con un ansioso monologo mentale. Caspita! Gli è dunque qualche cattura importante che qui si vuol fare.
Ma lo sguardo che aveva mandato in giro gli aveva fatto conoscere che presenti nell'osteria a quel momento, non c'era che una minutaglia di birbanti, pesciolini senz'importanza, per cui non occorreva tanta forza di reti nè tanta abilità di pescatore: e ciò lo spaventò ancora più.
— Ahi, ahi! Pelone, continuò egli nel suo monologo; codesto mi ha l'aria molto brutta per te; tutto ciò temo voglia avviarsi molto male. Qualcheduno avrà commesso delle imprudenze; già lo sapevo che sono una manica d'imbecilli; lo dovevo prevedere ed avrei fatto bene a contar tutto al Commissario. Ora temo d'essere nella ragna pur troppo, che il diavolo li porti tutti quanti, e me con essi.
L'alto rumore che facevasi nella bettola, e vociare nel giuoco della morra, e sbraitare di canzonaccie, e parole concitate che erano grida e sghignazzamenti e imprecazioni e bestemmie, all'entrare della forza pubblica, era cessato tutto ad un tratto, come per incanto. Tutte le faccie s'erano rivolte alla porta, tutte le bocche erano rimaste spalancate e gli occhi fissi nell'espressione d'una paurosa sorpresa, nel cuore di tutti s'era messa l'ansia, perchè fra tutti quegli avventori non ce n'era forse uno cui quella vista non dovesse dare a riflettere ai casi suoi.
La Maddalena, che trovavasi nella cucina al pian di sotto, stupita grandemente pel subito succedere senza transizione di quell'alto silenzio al baccano di prima, venne su a vedere che mai fosse capitato, e mostrò la sua faccia impertinente e rubiconda al di sopra della botola.
— Figliuola di mala femmina, sgualdrina, sfacciata che Dio ti dia bene! le disse mozzicando le parole fra le sue gengive il bettoliere che s'era levato premurosamente di dietro il banco per muover all'incontro del Commissario. Ecco qui la sbirraglia: siamo tutti perduti, che Satanasso ti abbranchi!
Maddalena per prima cosa pensò alla più diletta persona, alla sola diletta che avesse al mondo, al medichino, cui quel pericolo poteva minacciare; guardò alla porta e veggendo entrare cinque o sei sgherri e con essi tre carabinieri, ed una riserva di poliziotti rimanere ancora al di fuori sulla strada, capì con molto dispetto che il fuggire di là era impossibile. Suo proposito era correre in cerca di Luigi e tanto aggirarsi finchè l'avesse trovato per avvisarlo di quel che avveniva nella bettola, di guisa ch'egli potesse provvedere ai casi suoi. Qualunque altro non avrebbe più avuta speranza nessuna di riuscire in questo intento; ma la Maddalena era tenace nelle sue volontà, era audacissima, accorta, ed era donna; si disse che un'occasione di sgattaiolarsela sarebbe nata ed ella avrebbe saputo approfittarne, ed anche l'avrebbe saputa far nascere, e salita del tutto fuor della botola, si venne accostando lentamente al gruppo degli agenti della forza pubblica, come spinta soltanto da una curiosità naturale, ma affatto disinteressata.
Chi s'accostò non lentamente ma con zelante premura al sor Commissario fu mastro Pelone, il quale, trattosi fuori di dietro il banco, levatosi dal cranio lucido di avorio giallo la berrettaccia unta e bisunta, veniva all'incontro del signor Tofi, lungo la corsìa in mezzo ai due ordini di tavole, facendo passi da gigante colle sue lunghe gambaccie stecchite e trinciando inchini da toccare colla punta del suo naso da uccello di rapina le rotelle piatte de' suoi ginocchi.
— Oh signor Commissario, illustrissimo signor Commissario! gridava egli colla sua voce rauca, punteggiata dagli sbruffi della tosse: in che cosa posso servirla, signor Commissario? Mi metto a sua disposizione, signor Commissario.... Fatevi in là voi altri: si diede a gridare a parecchi degli avventori che ingombravano il passaggio, e li urtava nella schiena per farneli ritrarre: toglietevi di qua, mascalzoni, fate largo, date luogo al signor Commissario.
Questi dall'alto del suo cravattone guardò con [164] occhio severo l'oste tutto confuso, che credette, a quell'occhiata, sentir aprirsi il terreno sotto i piedi, e non rispose pure una parola; poi volto al brigadiere dei carabinieri ed a quello delle guardie di polizia, disse:
— Nessuno esca di qua sino a nuovo ordine. Prendete nome, cognome e condizioni di tutti e quelli che sono in nota sieno ammanettati senz'altro.
Carabinieri ed arcieri si posero tosto all'opera. Della maggior parte di quegl'individui non avevano pure da domandare il nome; chè erano antiche loro conoscenze e non nuovi inquilini della carcere. Tutti protestavano che gli era uno sbaglio, che erano innocenti come neonati, ma le proteste non indugiavano d'un punto il ratto procedere degli agenti della forza pubblica.
— Voi, Pelone, disse il signor Tofi con quel suo brusco accento, che gelava il sangue nelle vene a chiunque: venite meco di là in quello stanzino.
Il Commissario fe' cenno al brigadiere dei carabinieri, a quello degli sgherri e passò primo; Pelone entrò dopo di lui abbrancato ad un braccio dal caporale arciere, e le sue lunghe gambe gli si piegavano sotto: l'uscio a vetri colle tendine rosse fu chiuso dietro di loro.
— Pelone; cominciò il signor Tofi con quel tono che toglieva ogni volontà di resistenza; apriteci subito l'uscio segreto che c'è in quella impiallacciatura di legno, pel quale si comunica col sotterraneo ricovero della cocca.
L'oste sentì un brivido come mai l'uguale corrergli per tutte le vene e gli venne un nodo alla gola che, secondo si espresse egli medesimo di poi, gli parve una carezza della corda di mastro Impicca.
— Signor Commissario, balbettò egli, verde in viso e oscillando come briaco sulle sue pertiche di gambe, non so..... non capisco..... in parola di Pelone.....
Si ricordò che quel passaggio, per fortuna, ultimamente era stato murato, che quindi non lo si sarebbe rinvenuto, e povero di consiglio com'era in quel momento, preso alla sprovveduta, si figurò che il miglior mezzo era di negare risolutamente.
— Non so che cosa Vossignoria voglia dire..... che il diavolo mi porti.
Tofi lo guardò con aria feroce, e senz'aggiunger verbo andò a quel punto dove Barnaba gli aveva detto esistere il passaggio; toccò nel luogo dove, per le rivelazioni di Arom, sapevasi esistere la molla, ma nulla si mosse.
— Aprite, sarà meglio per voi: disse il Commissario furibondo a Pelone.
— La mi scusi, signor Commissario, ma per la salute dell'anima mia, per la Madonna delle grazie e quella della Consolata, pel mio Santo protettore, protesto.....
Il Commissario non lo lasciò finire: aprì l'uscio a vetri che metteva nel primo stanzone e disse con accento di comando:
— Due uomini qua con ascie e picconi.
Gli uomini vennero solleciti.
— Abbattete quel tavolato lungo tutta questa parete: comandò il signor Tofi.
In dieci minuti la bisogna fu compiuta. Non vi era passaggio di sorta nella muraglia, ma ad un punto, ed era facile accorgersene, la muratura era fresca.
Tofi si rivolse al bettoliere, più furibondo di prima.
— Brigante! Avete murato l'apertura, eh? E credete scappolarla? Miserabili! siete tutti nei miei artigli ad ogni modo, ed avrete dal boia quel che vi meritate... Distruggete quella muratura.
Gli uomini si posero a dar coi picconi in quella parte che si vedeva costruita di recente.
Ma ecco che in quella giunge correndo un arciere della squadra che erasi recata alla bottega del Baciccia, e viene a recare un'ambasciata al sor Commissario.
A questa squadra ecco che cosa era avvenuto.
Giunti alla bottega del rigattiere e trovatala chiusa, se l'erano fatta aprire ed irrompendo avevano senza perder tempo legato ben bene il Baciccia e la sua famiglia, poi recatisi diviati al nascosto passaggio che comunicava col sotterraneo, vi si erano introdotti, camminando pian piano, con ogni cautela, colle loro lanterne accese.
In Cafarnao erano i soliti inquilini, che non avevano altro soggiorno più sicuro di quello: i due galeotti evasi dal bagno, Stracciaferro e Graffigna. Dormivano ambedue; ma l'ultimo, in qualunque luogo si trovasse, non dormiva che di quel sonno che il volgo suole attribuire alla lepre, la quale non chiude che un occhio e coll'altro sta sempre spiando ciò che le succede dintorno. Graffigna adunque udì fra il sonno e la veglia il rumor lontano e soffocato dei passi guardinghi di più persone suonare per la volta rimbombante del sotterraneo e si drizzò in sussulto a sedere sul suo strammazzo. Era un sogno frequente ch'ei faceva quello di essere perseguitato dai giandarmi, e credette anche questa volta essere stato disturbato da un sogno; ma ora e' si sentiva bene sveglio, e quel rumore non che dileguarsi veniva sempre più accostandosi; balzò dal giaciglio e corse alla porta che usciva su quella specie di vestibolo che precedeva lo stanzone, onde entrava colaggiù un poco d'aria e di luce, vide dal corridoio che veniva alla bottega del Baciccia, unica strada che ora ci fosse oltre quella della casina del medichino, appressarsi uno splendore rossiccio che giudicò prodotto da più lanterne portate a mano, e udì un tintinnare d'armi che al suo orecchio esercitato rivelò di che razza fossero i sopravenienti. D'un salto egli fu presso Stracciaferro a scuoterlo vigorosamente. Suo disegno era correre in tutta [165] fretta su per l'andito che menava alla palazzina di Quercia, il quale aveva visto ancor libero, e di là fuggire, se ancora possibile, alla aperta campagna. Ma quanto era leggiero il sonno di Graffigna, altrettanto era sodo e pesante quello di Stracciaferro onde alle scosse ed agli urtoni che il suo compagno gli dava, quell'omaccione, senza punto destarsi, non faceva che rispondere con un grugnito e con certi atti impazienti e collerici che provavano essere il mal capitato chi venisse a disturbarne il riposo. Vedendo che la cosa premeva oltre ogni dire, Graffigna pensò ricorrere ad un mezzo che ritenne infallibile: punzecchiò forte colla punta del suo pugnale nelle carni dell'addormentato e nello stesso tempo gli gridò nel padiglione dell'orecchia:
— Su, su, Stracciaferro; sono qui gli sbirri ad arrestarci.
L'omaccione mostrò che era sveglio pur finalmente sparando insieme una grossa bestemmia e un tremendo pugno che guai per Graffigna se n'era colto.
— Possa tu venir appiccato, traditore d'un birbone da forca: esclamò Stracciaferro: mi lascierai tu dormire in pace?
— Il tuo augurio sta per essere avverato: di rimando Graffigna, martuffo del boia, mio caro amico, che ti venga un accidente; e sta per avverarsi anche per te, giacchè stiamo per essere presi come due sorci in trappola.... Ti dico che è qui la Polizia.
Questa volta Stracciaferro fu desto del tutto.
— Possibile! esclamò egli levandosi.
— Senti! disse Graffigna.
L'omaccione udì ancor egli il passo in cadenza della squadra che s'avanzava lentamente. Al suo spirito ottuso non balenò neppure il pensiero d'un possibile scampo; non pensò che a vender cara la sua vita; girò intorno lo sguardo degli occhi sanguigni e borbottò fra i denti:
— Ah cani maledetti! Or ora ne spedisco io una frolla all'altro mondo a farmi da battistrada.
Aveva visto in un angolo un palo di ferro di quelli onde si servivano ad abbattere imposte e sgangherar usci, e fu ad afferrarlo, maneggiandolo con tanta facilità, come altri farebbe d'un semplice bastone.
Graffigna gli spiegò in fretta in fretta la possibilità che forse eravi ancora di fuggire per la casetta del medichino; ed egli allora consentì a tentar questo passo, armato del suo palo di ferro; ma era troppo tardi, ed appena usciti dallo stanzone, i due banditi si videro saltare addosso gli agenti della forza pubblica. Si ritirarono essi sulla soglia del Cafarnao, in alto dei pochi gradini che vi conducevano, e disperati del tutto della vita, si prepararono ad una strenua difesa. Non racconterò le vicende di questa lotta resa più orribile dal luogo, dalle tenebre appena se rotte da quella luce rossiccia che pareva anch'essa macchiata di sangue, dalla forza erculea di Stracciaferro, dall'agilità di Graffigna che balzava come una pantera addosso ai nemici e riparava poscia sotto la protezione della tremenda mazza del suo compagno, riportando ad ogni volta bagnata di sangue novello la lama sottile del suo pugnale. Il fatto è che già troppo durava questo combattimento, senza che si fosse potuto venire a capo di opprimere i due assassini, e parecchi degli assalitori giacevano malconci; speravano gli agenti della Polizia veder giungere da un momento all'altro il rinforzo del Commissario co' suoi uomini, che secondo le intese dovevano riunirsi colà appunto al resto della squadra, ma non vedendo nulla arrivar mai, chi comandava quella frazione aveva pensato miglior consiglio mandare alcuno ad istruire il signor Tofi di quello che avveniva ed invocarne sollecito il soccorso. Codesto era venuto a fare l'uomo che abbiamo visto soprarrivare sollecito alla taverna di Pelone, e il Commissario appena inteso com'erano le cose, lasciato nella bettola appena quanti uomini bastassero a tenere in freno gli arrestati che già erano a due a due avvinti dalle manette, con tutto il resto delle sue forze accorse sul luogo del conflitto.
La Maddalena, visto partire il Commissario e la maggior parte dei birri, sentì accrescersi la sua mai perduta speranza di fuggire. Se ne venne tranquillamente verso la porta d'uscita, e saettò un'occhiata assassina all'arciere che stava là appostato. Quell'arciere, per fortuna di Maddalena e per sua sfortuna, praticava non di rado nella bettola, e le attrattive petulanti della giovane lo tentavano maledettamente; a quell'occhiata ch'egli credette gli dicesse tante cose, non potè a meno che rispondere con un fatuo sorriso di compiacenza.
Maddalena, con atto di affettuosa domestichezza, gli pose una delle sue mani paffutelle sul petto.
— Ho da dirvi una cosa: gli susurrò sotto voce, ponendogli bene innanzi le sue pupille smaglianti, la sua faccia fresca e il suo sorriso provocatore.
— Che cosa? disse il babbuino aitandosi ed andando tutto in brodo di giuggiole.
— Non qui: soggiunse la briccona sempre più sommesso, guardandosi dattorno con diffidenza: venite fuori un momento; è una cosa che vi farà piacere.
E senza attender altro, lesta pose la mano sulla gruccia della serratura, socchiuse l'uscio e sgusciò fuori: ma l'arciere fu sollecito ad allungar il braccio, afferrò la ragazza pei panni e le tenne dietro nella strada.
— Or bene, parlate ora, mia cara...
Non ebbe tempo a finire queste parole che la Maddalena, la quale forzuta era e coraggiosa più che a donna s'addica, gli scaraventava un pugno sul naso con tanta violenza che il povero arciere vedeva a un tratto cento mila fiammelle, e recandosi le mani alla parte offesa non pensava più a trattenere [166] la donna, che non perdeva tempo a darsela a gambe e spariva ratta nell'oscurità di quelle viuzze contorte.
Dove la si recasse vedremo poi, ora torniamo con Barnaba che dalla camera ove giaceva il medichino legato, si calava per la scala segreta nel sotterraneo della cocca.
Quando Barnaba discese in Cafarnao la lotta era finita, il sopraggiungere del Commissario con nuovo rinforzo di poliziotti, aveva dato più animo agli assalitori ed era riuscito a superare ben tosto colla prepotenza del numero la difesa degli assassini. Questi, disarmati e strettamente legati, stavano in quella specie d'atrio circolare dove facevano capo le varie strade coperte, posti in mezzo ad una mezza dozzina de' più robusti e risoluti sgherri, i quali li custodivano tenendo gli occhi fissi su di loro e le mani sui calci delle pistole. Il signor Tofi, penetrato nello stanzone sotterraneo, tutto lieto delle infinite cose che vi scopriva, onde di gran lunga era superata la sua aspettazione, ne faceva una ricognizione sommaria; riserbandosi, a cose più calme, un minuto esame ed un esatto inventario. Intanto aveva già riconosciuto che colà stavano le prove materiali di parecchi reati di cui fino allora non si erano potuti trovare i colpevoli: quelli che in linguaggio criminale si chiamano corpi del delitto. Là era la cassa di ferro portata via al signor Bancone; là il mantello di Francesco Benda, di cui uno squarcio era rimasto in mano all'assassinato Nariccia; là varii e molteplici oggetti caduti nei più audaci furti ed assassinii commessi. Adocchiato finalmente l'uscio che metteva nel gabinetto particolare del medichino, il Commissario lo faceva atterrare, e penetrato in quel recesso, rotte le serrature dei forzieri e della scrivania, giungeva ad impadronirsi pur finalmente di tutti i segreti della tremenda associazione, di tutti i fili di quella permanente congiura di malfattori contro la proprietà e la società.
Barnaba arrivava appunto nel migliore dell'opera di sommario esame e di separazione dei documenti sequestrati.
— Signor Commissario; cominciò egli, per richiamare su di sè l'attenzione del suo superiore.
Il signor Tofi levò il viso vivamente e di sotto la larga tesa del suo cappello che teneva piantato in capo, mandò uno sguardo pieno di soddisfazione e brillante di trionfo verso il suo subordinato che gli stava ritto dinanzi. Parve persino che le sue labbra severe si atteggiassero ad una sembianza di sorriso; cosa che da anni ed anni avevano affatto disimparato.
— Ah siete qui voi!... Spero che non vi sarete mica lasciato scappare il merlotto.
Mai, a memoria di birro, il signor Commissario Tofi non aveva usato parole e tono così scherzosi.
— No, signore, rispose Barnaba, che, sfinito del tutto di forze, si appoggiò alla scrivania per sorreggersi; egli è colassù legato come un salame.
— Bene, benissimo: esclamò Tofi fregandosi le mani. Ma come colassù? Dove volete dire?
— Nella palazzina del viale.
— Ah sì! E come ce l'avete costì, perchè ce l'avete portato?
— L'abbiamo preso colà.
— Oh bella! Raccontatemi come andò la cosa.
Ma in questa il Commissario degnò accorgersi che il suo subalterno non poteva proprio più stare in piedi.
— Sedete: gli disse con accento più benigno di quello che da lui si potesse aspettare; avete bisogno di riposo; lo si vede.
Barnaba si lasciò andare sopra una scranna e raccontò le peripezie dell'arresto.
— Che minchione! esclamò il Commissario: poichè vi era sfuggito dalle branche, venirsi a porre da sè in trappola. Ma e' son tutti così: ce la fanno, ce la fanno per un pezzo, e nissuno mai, conviene dirlo, ce l'ha fatta così bene e per tanto tempo come questo scellerato, e poi ad un bel punto perdono la scrima. Ora, grazie a Dio, ce l'abbiamo ed è affar finito; non ci scappa più. Metteremo in pratica tutta la possibile sorveglianza.
— L'affidi a me, sor Commissario: esclamò con un certo ardore Barnaba, rianimandosi nonostante la sua sfinitezza. Lo vorrò sorvegliare anche quando sia nelle carceri, perchè quell'associazione di cui il medichino è capo, ha tali diramazioni ed è sì potente che ci sarà impossibile, anche con questo colpo, schiacciarla del tutto, e perchè vi hanno troppe persone ed influenti che seguiteranno ad interessarsi per la sorte di quel miserabile. Dobbiamo aspettarci a molti ed accorti tentativi d'evasione.
— È giusto. Voi avete tanto merito in questa faccenda che a voi si spetta appunto il badare che la si conduca a buon termine. Del resto avete reso un sì gran servigio e ci avete posto tanto zelo che saprò raccomandarvi a chi si conviene perchè ne abbiate degno compenso. Intanto aiutatemi a frugare qui in mezzo se si trovano quelle certe lettere di quella tale signora che vi ho detto..... O forse le avete voi trovate nella palazzina?
Barnaba rispose di no: nemmeno fra le carte di quel gabinetto segreto non si trovarono le lettere che si cercavano, e che il lettore ha già indovinato esser quelle della contessa Candida Langosco di Staffarda. Si sperò allora che le si sarebbero rinvenute fra le carte che agenti speciali avevano sequestrate al domicilio abituale di Quercia e in quelle altre camere che egli teneva qua e là per la città, e di cui Arom aveva del pari rivelato l'indirizzo.
Presi seco i documenti più importanti; assicurata ben bene la custodia dei locali e d'ogni cosa; dato [167] ordine si traducessero in carcere il bettoliere Pelone che invano invocava tutte le Madonne e tutti i Santi del Calendario a protesta della sua innocenza, e quegli altri che erano stati arrestati nell'osteria, il Commissario e Barnaba salirono nella palazzina del medichino, traendosi dietro ammanettati Stracciaferro e Graffigna.
Gian-Luigi giaceva sempre sul pavimento, legato braccia e gambe, immobile, muto, l'occhio nero fisso innanzi a sè, la fronte corrugata a suo modo, un'espressione d'indomabile energia nel volto. Quando vide entrare i due agenti della polizia, que' suoi occhi ardenti li saettarono con uno sguardo d'ira feroce; visto dietro di loro i galeotti, suoi complici, trascinati dai carabinieri e dalle guardie, le sue pupille presero fugacemente un'espressione di disappunto rabbioso, di rampogna, di comando, poi divennero profondamente indifferenti.
Il Commissario si accostò al medichino con passo piuttosto sollecito, come spinto dalla vivace curiosità; gli si fermò a' piedi, guardandolo attentamente, incrociando le sue braccia sul petto sporgente ed abbottonato fino al collo del suo soprabito, il mento sostenuto al solito alle stecche dure del cravattone, gli occhi felini, sfavillanti al fondo della larga tesa del cappello abbassato sul fronte da coprir le ispide e folte sopracciglia grigiastre. Il medichino concentrò tutta l'attenzione delle sue pupille su quel volto burbero che gli si piantava dinanzi in alto di quella lunga, impalata, impettita persona. Non c'era nel suo sguardo e non nella sembianza la menoma vergogna nè la menoma paura: una sicurezza che poteva dirsi impudenza; quasi una sfida a quel potere che l'aveva vinto, a quella autorità che lo teneva ora in sua balìa.
Si sarebbe potuto credere che il signor Tofi dicesse qualche aspra parola di vanto dell'ottenuta vittoria, od uscisse fuori con qualche ironico cenno intorno al colloquio che avevano avuto insieme pochi giorni prima; forse il giacente medesimo se l'aspettava, e nel contegno aveva già posta per ciò tutta quella disdegnosa audacia con cui si preparava a rispondere; ma invece il Commissario non disse pure una parola; stato alquanto a contemplarlo con osservatrice e non niquitosa attenzione, si volse poscia a Barnaba, e disse a mezza voce, come risultamento del suo esame e del suo meditare:
— Un'anima da demonio, una volontà di ferro, ed un corpo da Adone..... Sicuro che c'era da far girar le teste di tutte le donne di questo mondo.
Gian-Luigi fece uno sprezzoso sogghigno e volse gli occhi ad altra parte.
— Accostatevi: disse Tofi a Stracciaferro ed a Graffigna, tornando a tutta la brusca e fiera imperiosità del suo accento.
I due assassini, spinti alle spalle dai carabinieri, fecero pochi passi innanzi verso il luogo dove giaceva il loro capo.
— Conoscete quest'uomo? domandò loro il Commissario, additando il medichino.
Stracciaferro e Graffigna abbassarono gli occhi sul volto del giacente; il primo con quel suo piglio stupido d'uomo fatto mezzo scemo dall'abuso dei liquori, il secondo con tutta la penetrazione maliziosa del suo sguardo intelligente. Gian-Luigi li guardò egli con perfetta indifferenza, come per dire: «Rispondete un po' come vi pare, che per me gli è affatto uguale.» Graffigna pensò che in ogni caso il silenzio val sempre meglio di qualunque parola, e deliberò tacersi; Stracciaferro che non aveva consiglio proprio, guardò Graffigna, e vistolo tener chiusa ermeticamente la bocca, stè zitto ancor egli.
— Conoscete costui? ripetè il signor Tofi con più ruvido e minaccioso accento; ma nè anche questa seconda interrogazione non ebbe l'onore d'una risposta.
— Bene! esclamò egli: razza di cani, parlerete più tardi; oh ve lo assicuro io che parlerete... Ora conduceteli in prigione.
I due galeotti furono menati via.
— Slegate le gambe a quell'uomo: comandò il Commissario accennando al medichino con una mossa del capo.
L'ordine fu tosto eseguito.
— Potete camminare? domandò allora il signor Tofi.
— Desidero una carrozza; rispose il medichino con tono di orgogliosa superiorità: me la volete concedere?
— Potete camminare? ripetè ruvidamente il Commissario.
Gian-Luigi lo guardò con inesprimibile disdegno e gli volse le spalle.
— Sono con voi: disse al brigadiere dei carabinieri. Dove avete da condurmi?
Il brigadiere interrogò collo sguardo il Commissario.
— Al palazzo Madama: comandò questi; e poi rivolgendosi al prigioniero, soggiunse: fra un quarto d'ora ci troveremo colà di nuovo faccia a faccia, signore.
Il medichino, le braccia così legate come aveva che le cordicelle gli entravano nella carne intorno ai polsi e gli facevano gonfiare le vene da parere dovessero scoppiare, andò a porsi in mezzo ai carabinieri che lo dovevano accompagnare e disse loro semplicemente:
— Andiamo pure, signori.
Le gambe, per la stretta legatura che avevano sofferto sino a quel momento, gli dolevano così che sembravagli da principio non poter mutare pure un passo; ma la sua fisionomia non rivelò nemmeno con una smorfia il tormento ch'egli soffriva: impose al suo corpo d'obbedire alla volontà, alla sua mente di non sentire il dolore, e con passo franco si partì scortato dai carabinieri.
[168] Il Commissario e Barnaba si avviarono da parte loro verso il Palazzo Madama: e la debolezza del secondo rese necessaria una carrozza. Tofi fece passare quest'essa nella strada ove abitava il generale Barranchi e fermarsi alla porta del palazzo. Per fortuna il capo supremo della Polizia era appunto in casa e, fatto introdurre senza ritardo il Commissario, ne apprendeva tosto le importanti novelle delle catture e della scoperta avvenuta quella sera.
Il bravo sor Generale lodava con moderazione e sussiego il buon successo del Commissario, e poi tosto soggiungeva:
— Spero che quelle tali lettere di cui vi ho parlato saranno già in poter vostro.
— No, Eccellenza, non ancora: rispose Tofi, e disse come nei luoghi da esso perquisiti non le si fossero rinvenute.
Barranchi corrugò la sua piccola fronte superba.
— Diavolo! Codesto ve lo avevo tanto raccomandato!
— La non dubiti, s'affrettò a soggiungere il Commissario: le si saranno trovate alla casa di quel mariuolo od in qualcuna di quelle altre camere mobiliate ch'e' teneva a pigione.
— Va bene: e ricordatevi che appena le abbiate me le recate voi stesso.
— Sì signore.
Tofi discese, tornò nella carrozza dove Barnaba era stato aspettandolo, e fu dopo pochi minuti nel suo bugigattolo al Palazzo Madama. Gli agenti che avevano fatto la perquisizione al domicilio del medichino e nei varii suoi altri ricoveri, traendone in arresto i servi e taluni di coloro che gli affittavano le camere, già stavano colà per fare la relazione del loro operato. Il Commissario li interrogò sollecitamente e se ne fece rimettere le carte che avevan preso: ve n'era di molte, ed alcune abbastanza importanti, ma quelle benedette lettere tanto cercate non v'erano. Tofi fu preso dalla stizza: mandò via con mal garbo tutti que' suoi subordinati, e rimase solo con Barnaba, il quale in questo affare era naturalmente elevato al grado di suo confidente e consigliere.
— Che quello scellerato le abbia distrutte? disse il Commissario: non posso crederlo. Mi vien voglia d'interrogarlo e cercare di strappargliene la verità.
Barnaba fece un moto che indicava come alla riuscita di questo tentativo credesse poco, ma disse che era forse spediente interrogare l'arrestato in quel primo sbalordimento che certo gli aveva prodotto il suo arresto.
Tofi diede ordine il medichino gli fosse condotto dinanzi.
Gian-Luigi era arrivato pur allora e stato rinchiuso in una delle segrete delle torri. Fino a che era stato in presenza di gente, la sua faccia aveva conservata una tranquillità quasi sprezzante, una fierezza quasi minacciosa: ma quando fu rimasto solo, al buio in quella piccola cella, di cui udì chiudersi con infausto rumore le serrature e tirarsi i catenacci alla porta, dritto in mezzo alla carcere, la sua fisionomia ebbe un'espressione di spasimo, di disperata rabbia, di selvaggia ferocia che avrebbe fatto paura e pietà a chi l'avesse potuto vedere. Sollevò verso la volta le sue mani ancora strettamente legate ai polsi e ruppe in orribili bestemmie.
— Ecco: si disse: tutto è finito. Stolto ch'io fui! Non ho saputo evitarla questa sorte che superbamente mi dicevo non sarebbe mai stata la mia. Qui fanno capo tutte le mie audacie e tutti i miei sogni!... E non ho nemmeno saputo uccidermi!...
Pensò scaraventarsi col capo contro la muraglia ed infrangervisi la cervice: ma era tanto buio là dentro che non si vedeva abbastanza per misurare il colpo e l'aire. In quella udì riaprirsi le varie serrature e i chiavistelli dell'uscio, una luce rossiccia penetrò nel carcere, e gli si disse che doveva comparire innanzi al Commissario. Egli aveva ricomposto il suo volto alla superba calma di prima.
— Il vostro nome? gli domandò Tofi squadrandolo col suo burbero sembiante.
— Lo sapete: rispose brusco Quercia stando innanzi all'interrogatore colla mossa di un principe.
Il Commissario proruppe coll'accento che intimoriva qualunque:
— Ah! non vi crediate di fare il bell'umore con me, chè sono capace di ridurre alla ragione anche voi.
Gian-Luigi levò le sue mani legate all'altezza dei suoi occhi e si mise a guardare le profonde incavature livide e sanguigne che gli facevano nella carne le cordicelle.
Tofi vide quell'atto; diè una volta per lo stanzino, e chiamò dalla prossima camera una guardia con voce minacciosa e tonante.
— Slegate il prigioniero: disse bruscamente alla guardia che accorse.
L'ordine fu obbedito. Il medichino non disse nulla, non ringraziò nemmeno con uno sguardo, non mandò neppure un sospiro di sollievo: alzò le braccia in su ed agitò lievemente le mani per farne discendere il sangue agglomeratovisi tanto da renderne turgide le vene e gonfie le carni.
— Risponderete? disse allora il Commissario.
— No: rispose asciutto il prigioniero.
— Alla croce di Dio!
— Non bestemmiate, sor Commissario. Non ho nulla da dire, non voglio dir nulla. Rimandatemi nella carcere, risparmierete a voi l'irritazione e la collera, a me il fastidio di queste scene.
Tofi stette un istante in silenzio a guardare il suo prigioniero; poi gli si accostò lentamente.
— Lascierò il carico d'interrogarvi ai signori giudici; ve la caverete con essi come vi parrà; io vo' farvi una sola domanda che ha tratto ad un vostro interesse particolare, e rispondendo alla quale potrete averne giovamento.
[169] Accostò le labbra all'orecchio del medichino e susurrò:
— Dove sono le lettere della contessa?
Un lampo sfavillò negli occhi di Gian-Luigi.
— Ah, ah! diss'egli scherzosamente: vi ha gente che s'interessa di molto a quella prosa?... Or bene, prima di rispondere, ditemi un po', sor Commissario, quale sarà il giovamento che m'avete annunciato io ne avrei?
— Sareste trattato con più riguardi.
— Eh che cosa m'importa dei vostri riguardi? Esclamò con superbo disdegno il medichino. Avreste dovuto vedere ormai s'io sono una femminetta..... Quelle lettere sono in luogo sicuro, e dite a chi se ne interessa, ch'io non isvelerò questo segreto fuorchè ad una persona sola: alla contessa medesima che si degni venire a fare un'opera di carità, visitandomi carcerato.
Non fu possibile cavarne altro. Quercia fu ricondotto alla sua prigione, e il Commissario per disperato, esclamò avrebbe fatto qualunque cosa per venire a capo di spuntarla e metter la mano su quelle carte. Barnaba che aveva taciuto sino allora, accasciato com'era e mezzo disteso in un angolo, si levò e venne dire al Commissario:
— Credo avere indovinato chi è il depositario di quelle lettere.
— Chi? domandò Tofi con tutto l'interesse che meritava una simile circostanza.
— Una donna che fu la confidente di quest'uomo, che forse ne è complice e che si farebbe molto bene ad arrestare eziandio: Zoe, detta la Leggera.
Il Commissario strabiliò.
— La mantenuta del Duca!... Siete matto? Volete perderci tuttidue?
— Se si facesse una perquisizione colà, son certo che si troverebbero quelle lettere che vogliamo avere.
Tofi pensò un momento.
— Converrebbe che a far ciò ci fosse un agente dei più sicuri...
Barnaba si fece ancora più pallido di quello che era, disse mettendo una mano sul braccio del Commissario:
— Ci andrò io stesso.
— Voi! Se non potete più reggervi in piedi!
— Avrò forza bastante anche per ciò... Lo desidero, la prego di concedermelo.
— Ebbene sia.
Era presso la mezzanotte quando Barnaba con sufficiente scorta s'introduceva nella casa abitata dalla Zoe e suonava all'uscio della celebre cortigiana.
La Maddalena, sferratasi a quel modo che abbiamo visto, dalle mani dell'arciere, si diede a correre per le viuzze scure e tortuose di quella antica parte della città, senz'altra direzione e senz'altro scopo fuor quelli d'allontanarsi dalla bettola e il più presto possibile. Si temeva inseguita, e non cessò dal correre, finchè non la si trovò fuori della città, sopra uno dei viali che circondavano allora Torino, in una perfetta oscurità ed in un più perfetto silenzio. Allora la si fermò alquanto, e per riposare, e per riavere un po' di respiro affatto impeditole dall'affanno, e per pensare che cosa dovesse fare.
La prima cosa che voleva era sapere del medichino. S'accorse che le gambe l'avevano portata su quel viale dove era la casetta isolata dei misteriosi ritrovi, e per prima cosa pensò accostarsi cautamente a quella palazzina, per tentare di scoprirvi alcun che. S'accorse di subito, appena l'ebbe vista, che la casa era occupata, e non dubitò punto che non ci fossero gli agenti della Polizia. Indugiatasi in quelle vicinanze un po' di tempo, ora venendo presso al muro nella speranza di scorgere cosa che le svelasse il vero, ora allontanandosene per timore d'esser vista da qualche poliziotto messo a guardia ed in agguato, avvenne che ad un punto ella vedesse uscire di là un gruppo di più persone, fra le quali non tardò a conoscere Graffigna e Stracciaferro, posti in mezzo e legati alle mani.
Suo primo impulso fu spingersi innanzi, mostrarsi ai due mariuoli, interrogarli con uno sguardo che essi avrebbero capito ed a cui avrebbero saputo rispondere per apprenderle la sorte di Gian-Luigi. Ma se ne trattenne, con più prudente consiglio, che mostrandosi correva rischio, anzi era certa di essere arrestata anch'essa, ed allora non avrebbe più nulla potuto per lui, al quale, senza sapere ancora il come, era suo proposito, sua speranza, suo unico pensiero il giovare.
Vide allontanarsi il gruppo de' prigionieri, ed ella rimase colà, nascosta nell'ombra, dietro il tronco d'un grosso albero, i piedi nella neve, la testa scoperta, le spalle non difese, all'aria frizzante di quella notte d'inverno, che la era quale al momento dell'invasione de' poliziotti trovavasi nella calda atmosfera della bettola, incerta l'animo, palpitante, tremante.
Che cosa era successo in quella palazzina? Che cosa in Cafarnao? Era egli finito colà l'atto della tragedia in cui era in giuoco ciò ch'ella aveva di più caro sulla terra? Pareva di no, perchè nella casetta continuavano ad esser lumi e vedersi moto di ombre traverso i cristalli. Maddalena era nella più ansiosa dubbiezza del mondo. Mentre la non si poteva staccar di lì, perchè una voce segreta pareva avvertirla che in quel luogo si decideva la sorte di lui, la quale era la sua sorte; una quasi rampognante riflessione le diceva che forse avrebbe potuto altrove spender meglio quel tempo che lì consumava inutilmente in sì febbrile ma sì inerte aspettazione, che avrebbe dovuto esser già corsa all'abitazione [170] di lui, dove avrebbe sentito di certo, senza pur interrogare, dalle ciarle della strada, se il medichino colà fosse stato colto, o no, che avrebbe potuto già far qualche cosa per adoperarsi in favore di lui, per salvarlo.
L'istinto che la teneva inchiodata a quel luogo ebbe ragione. Dopo una lunga attesa, che a lei parve eterna, udì nuovo rumore di gente che si moveva dalla palazzina, vide un altro gruppo di persone uscire da quell'uscio, scendere lo scalino, venir lentamente traverso il cortile, accostarsi al cancello di ferro. Non ebbe mestieri che d'un'occhiata sola per conoscere al chiaror della luna, chi fosse quell'uomo che più legato ancora dei due che erano usciti precedentemente, veniva fuori in mezzo ai carabinieri, camminando con uno stento che si sforzava a dissimulare.
Era lui! Maddalena sentì il sangue darle un rimescolo: ebbe appena tanto di prudenza e di forza da trattenere nella gola il grido di dolorosa sorpresa, di spasimo e di rabbia che voleva scoppiare; si tenne al tronco dell'albero dietro cui si riparava, e nella rugosa corteccia dell'olmo piantò le sue unghie, tra per sorreggersi in piedi chè le gambe le mancavan sotto, tra per dare un subito sfogo alla tanta passione tormentosa che l'invase.
Come le apparve bello al pallido chiaror della luna! Più pallido di quel raggio, che illuminandole, pareva accarezzarne le sembianze, ma fermo, ma tranquillo, ma con una leggera amarezza d'ironia che pareva una nota di superiorità a quelli che lo circondavano, all'umana schiatta, alla sua sorte, egli rappresentava una sfera di gentilezza, un ideale di distinzione a quella giovane plebea dal sangue ardente, in cui tumultuava la passione, cui spingeva un'aspirazione d'istinto verso il bello e l'eletto, come spinge anche la farfalla notturna una ignota possa verso la lucentezza della fiamma.
Avrebbe voluto slanciarsi addosso a lui ad abbracciarlo; avrebbe voluto aver le forze di Sansone per atterrare quei rappresentanti della tirannia sociale e liberarlo; non voleva a niun conto lasciarlo passare senza fargli sentire che ella era lì, che il cuore di lei non si mutava e traboccava di passione per esso, che a costo anche della vita avrebbe ella tentato giovargli. Ma non dimenticò la prudenza, camminando pian piano, con accorta cautela, venne a portarsi innanzi ad uno dei rari lampioni che avevano ufficio, e non lo adempivano, di rischiarare il viale, e si pose in modo che ella, stando nell'ombra, vedesse chi passava nel ristretto cerchio di luce rossastra, mandata dal lampione. Quando Gian-Luigi fu a quell'altezza, ed ella ne potè ancora mirare le dilette sembianze, Maddalena levò la voce in quel silenzio della notte, che non era turbato fuorchè dal passo in cadenza dei carabinieri, gridò una sola parola:
— Spera!
I carabinieri si riscossero e gettarono acuti sguardi nell'oscurità da quella parte ond'era venuta la voce; ma nulla scorsero. Gian-Luigi quella voce la riconobbe: volse a quel punto un sorriso di ringraziamento, di gratitudine, d'affetto e continuò tranquillamente la strada.
Maddalena era sparita.
Prendendo la corsa lungo il viale nella direzione opposta a quella che avevano i carabinieri col loro prigione, nell'intento di rientrare in città per un'altra parte, Maddalena non sapeva bene ancora che cosa avrebbe potuto fare, che cosa avrebbe fatto in pro del suo amante. Agire, la doveva, la voleva; sentiva una interna agitazione che non la lasciava stare alle mosse. Ma che fare? che fare, ella povera fanciulla della plebe, senz'altre attinenze che coi miserabili perduti nelle più basse regioni della infima classe, nel fango sociale della povertà, dei vizi e del delitto? Avrebbe dato tutta la sua vita, la sua bellezza fin anco, la sua parte di paradiso (se pur osava sperar d'avere possibilità d'entrarci) per arrivare un momento, un solo momento, a possedere forza e potenza, l'autorità del grado, del nome, della ricchezza, la balìa delle cose del mondo. Un'idea spuntò finalmente nel suo cervello affaticato a immaginare spedienti dalla sua volontà incitata dalla passione. Si ricordò che quel Barnaba medesimo, che era stato messo di certo alla caccia del medichino, parlandole di costui appunto, le aveva rivelato come Quercia fosse l'amante della Zoe, cortigiana sfarzosamente elegante, mantenuta d'un Principe, della contessa di Staffarda, nobilissima fra le nobili dame della città. Queste donne dovevano avere quello che a lei mancava, l'influenza; ed esse al pari di lei dovevano desiderare ardentemente di adoperarsi in pro del giovane, poichè lo amavano. Non c'era altro adunque per allora da fare che correre da una di queste, da tuttedue, raccontare il fatto e spingerle subitamente all'opera. A quale doveva ella dare la precedenza? Editò alquanto, e poi si decise per Zoe. Quantunque in altro ambiente, in altro grado, direi quasi, quest'ultima era pure una cortigiana; e Maddalena sentiva quindi con essa maggiori i punti di contatto, e per ciò glie ne pareva più facile l'abbordo e che le sarebbe meno impacciato, quando si trovasse in faccia a lei, il discorso. Da Barnaba essa s'era fatto dire l'indirizzo dell'abitazione dell'una e dell'altra dalle sue rivali: senza perder più tempo, corse dalla Leggera.
Costei, ancora in iscrezio col suo principesco amante, si faceva consolare dell'abbandono di lui dalle galanterie del signor Bancone, il re di denari nel mondo bancario d'allora; galanterie quotate alla borsa del cuore della celebre cortigiana, e presentemente in rialzo. Quando la confidente megera, che le serviva anche da mezzana sotto il pretesto di farle da fante, venne a susurrarle nel padiglione di [171] un'orecchia che una povera popolana, giovane, belloccia, agitata, ansante era colà che chiedeva parlarle di cosa gravissima e che premeva assai, la Zoe non ebbe altro miglior pensiero fuor quello di mandarla ai cento mila diavoli e risparmiarsene il fastidio d'una visita e d'un colloquio che non poteva e non sapeva attribuire a cosa che lei potesse riguardare. Fra la schiera immorale e tuttodì crescente con sempre più audace spudoratezza delle venditrici d'amore, la Leggera teneva un poco invidiabile e pur da molte e da molte invidiato primato; invidiato non che dalle compagne di vergogna cui la bellezza o la fortuna non favorivano di tanto, ma, e questo è doloroso a pensarsi, dalle ragazze di povere famiglie che stentavano la vita e si frustavano la non sorrisa giovinezza ad un povero lavoro, e cui la mancanza d'attrattive, il caso solamente, la sorveglianza de' genitori soltanto, non più un'onestà che era sparita nelle dure prove della miseria, impediva di avere con sì facile infamia vesti di seta ed ebbrezza di vizi. Per ciò all'antica saltatrice di corda e danzatrice sul dorso di cavalli, avveniva sovente quello che suole avvenire ad artisti da teatro di gran fama, a cui, cioè, molti, o spinti dalla vocazione, o dalla molla d'una vita che appare al pubblico piena di soddisfazioni e di gaudii, o dalla mattana, o dall'irrequietezza dell'indole, ricorrono per aver consigli, avviamento ed aiuti per intraprendere quella carriera in cui il consultato è giunto già a sì elevata meta. Dalla Zoe ricorrevano povere fanciulle abbandonate dall'amante, perseguitate dalla tirannia d'un padrigno, od anche d'un padre ubriacone, perseguitate dalla miseria, solleticate dalla smania dei piaceri mondani, dall'infingardaggine e dalla voluttà, per imparare come si doveva fare a vendere utilmente quel poco d'onore che loro ancora rimaneva. La Zoe, o loro rispondeva con disprezzosa ironia, o le respingeva con indegnazione, o si commoveva alle narratele miserie e veniva largamente in soccorso della sventura: imperocchè per un'anomalia, che trovasi frequente in questa fatta di donne, ella, spietatissima a pelare i giovani che le cadevano sotto le unghie, non dandosi il menomo pensiero pur mai de' guai, delle dissensioni o de' danni che recava in oneste famiglie, era poi a volta a volta pietosissima per le sofferenze dei poveri, per quelle strette della miseria traverso le quali ricordava pure esser passata la sua infanzia, e di cui non esente la sua adolescenza.
Quando adunque la cameriera osò violare la soglia del gabinetto in cui la padrona e il banchiere milionario stavano fronte a fronte nell'intimità d'un petit-souper inaffiato del vino spumeggiante di Sciampagna, la Zoe credette che la fanciulla presentatasi a domandare un colloquio con lei fosse una di quelle sventurate, a cui l'urgenza del pericolo o della miseria facesse impaziente di gettar via al più presto quel poco fardelletto di virtù e incaricò la fante della risposta che accennai poc'anzi: ma quando la cameriera medesima tornò a riferire che quella giovane con aria della maggior disperazione insisteva per vedere subito la signora, affermando trattarsi di vita o di morte d'una persona che a lei pure era carissima, la cortigiana non fu mossa da nessuna inquietudine, sibbene da una certa curiosità che le fece sperare nel domandato colloquio, uno spasso, un'occupazione d'un quarto d'ora — tanto di rubato alla fastidiosa compagnia del Giove della banca che l'aveva visitata in Anfitrione.
— Che cosa c'è? domandò appunto questi veggendo i sommessi parlari della cameriera colla padrona.
Zoe guardò la faccia melensamente vanitosa del banchiere ringalluzzito dal vino di Francia, i ciondoli d'oro che oscillavano e tintinnivano sul madornale di lui ventre, e sentì viemmaggiore il desiderio di un diversivo.
— È una povera giovane che dice avermi da parlare di cose di rilievo... La vogliamo far venire?... Chi sa che le sue ciancie non ci divertano!.... La è anche bellina.
Bancone ebbe un sorriso, in cui erano armoniosamente fusi quello d'un Satiro e quello di Sileno.
— Ah ah! la è bella? domandò egli alla fante, facendo saltare i gingilli dell'orologio.
— Signor sì.
Il banchiere si sdraiò di meglio sulla poltrona cui occupava col suo corpo da elefante, ponendo in vista maggiormente la potenza della sua pancia da Epulone; prese in mano un bicchier da Sciampagna e guardò con occhio ammiccante il rifrangersi della luce traverso il liquore rosato.
— Va bene, va benissimo. Fate pure entrare quella ragazza.
Nell'entrare in quel luminoso e caldo camerino pieno di tanti profumi che salivano impetuosamente al cervello: fiori, acque nanfe, vapori di vivande e di vini, Maddalena rimase come abbagliata e sbalordita. La veniva dal freddo e dall'oscurità della notte, e trovavasi di botto, come per un colpo di verga magica, trasportata in mezzo ad uno splendore di Eden sensuale. Stanca ed ansimante per la corsa che aveva fatta, la si arrestò un momento sulla soglia e gettò nel gabinetto uno sguardo di stupore, di curiosità quasi selvaggia. Gli occhi accesi dalla passione del cuore e dall'animazione del sangue, le guancie infiammate per la violenza del moto, pel flagellare dell'aria ghiaccia notturna, pel rapido passaggio dal freddo intenso della strada al calore pieno di effluvii di quello stanzino, la bellezza proterva della popolana aveva una tale espressione di temerità, di sfacciataggine direi, che il vizio intelligente del vecchio libertino ne fu sovraccolto.
— Oh oh! esclamò egli posando il suo bicchier da Sciampagna sul candidissimo mantile: ecco una [172] mariuola che deve sapere l'affar suo. Venite avanti, venite avanti, ragazza.
La Zoe aveva piantato i suoi occhi smaglianti e a fior di pelle in volto alla nuova venuta, e col tatto che è dote naturale delle donne, in lei fatto più fine per codesto uso dall'esperienza, aveva subitamente giudicata la strana visitatrice; la non era di quelle solite che vengono a chiedere consigli di corruzione o soccorsi; ella non aveva bisogno di andare a prendere da nessuno lezioni d'audacia o d'arte per torsi d'impaccio. Ma per che cosa veniva ella dunque? Vi era nella sua risolutezza qualche cosa di amaramente doloroso, nell'attenzione con cui guardava quella innanzi a cui aveva domandato essere introdotta, v'era alcun che d'ostile e insieme di espansivo. Zoe guardò con non celata curiosità quel mistero in gonnella cui non sapeva spiegarsi. Maddalena, nel medesimo tempo, esaminava con un sentimento assai complesso la famosa cortigiana. Ne scrutava con occhio critico di rivale la bellezza, ne studiava nell'espressione dei tratti l'indole, per indovinare che cosa potesse sperarne. Quei due esseri simili, in quel mutuo raffronto, non ostante un certo elemento di ripulsione che sentivano fra loro, si riconobbero un'anima compagna, un'origine comune, una sorte medesima ed un inesplicabile legame che le avvinceva.
Zoe fece un gesto invitativo colla mano e disse a sua volta:
— Venite avanti.
Maddalena venne fin presso alla tavola su cui specchieggiavano i cristalli e gli argenti, appoggiò una mano al tessuto finissimo di quel mantile di tela di Fiandra candido come la neve appena caduta, e disse con voce che l'affanno della corsa e l'emozione del momento rendevano saltellante e velata:
— Scusi se vengo a disturbarla, ma si tratta di cosa che preme cotanto!...
— La è un pezzo di consistenza: disse col cinismo del ricco corrotto e corruttore, Bancone, che guardava con occhio cupido le forme procaci della giovane plebea. Avete freddo, eh carina? Sedetevi qui presso me, innanzi a questa bella fiammata. Ve' la non può manco trarre il fiato. Aspettate: bevete questo bicchiere e ne sarete rinfrancata.
Riempì sino all'orlo di vino di Sciampagna un bicchiere fatto a calice e glie lo porse. Maddalena lo prese, guardò chi glie lo stendeva con una malvogliosa indifferenza, come si fa d'un fastidioso che secca incontrare, e bevve d'un fiato.
— Da brava: esclamò Bancone, tornando ad arrovesciarsi sulla sua poltrona e scoppiando in un riso grossolano e sgangherato che gli era solito. Che ne dite eh, cara la mia giovane?
Allungò un braccio per prenderla alla vita; Maddalena si trasse in là e lo guardò con dispettosa impazienza.
— Tacete: disse severamente Zoe all'Anfitrione, e state fermo.
Poi volta alla giovane:
— E voi, che cosa avete da dirmi di tanta premura?
Maddalena accennò con moto del capo al grosso banchiere.
— Ho bisogno di parlare a Lei sola.
La Leggera si levò e disse alla giovane:
— Venite meco.
— Ecchè? Voi mi piantate in questo bel modo? Esclamò Bancone volendo dare al suo aspetto ed alla voce l'espressione del corruccio d'un uomo che paga per essere divertito.
Zoe, che già era avviata all'altra stanza, non volse che la testa verso il milionario.
— Se volete aspettarmi, siete padrone: diss'ella: se vi rincresce l'indugio, siete padrone eziandio di andarvene.
Il banchiere borbottò una filza di rimproveri al battente dell'uscio che si rinchiuse dietro le spalle delle due donne, e sfogò la sua bizza sulla bottiglia di Sciampagna che aveva a tiro della mano.
— Ebbene? domandò la Leggera, piantandosi in faccia alla popolana. Ora siamo sole e potete parlare.
Maddalena avvicinò il suo al capo della interrogatrice, le affondò, per così dire, gli occhi negli occhi e disse con voce sommessa, ma vibrata:
— Gian-Luigi fu arrestato.
Zoe ebbe un sussulto di tutta la persona e una fiamma le balenò nello sguardo; ma raffrenatasi tosto, disse freddamente:
— Chi? Quale Gian-Luigi?
— Quercia: rispose sempre a voce bassa ma con una veemenza quasi indignata la Maddalena: il medichino, il vostro amante... ed il mio!
— Chi siete voi? domandò allora la cortigiana, serrando al suo petto le braccia. Come mi conoscete? Perchè siete venuta da me? Ditemi tutto, e siate schietta e veritiera.
La giovane contò ogni cosa, dalla prima conoscenza da lei fatta di Gian-Luigi che aveva visto con abiti da popolano, frammisto a popolani, introdursi nella taverna di Pelone, alla compiuta fiducia che presso di lui le aveva acquistato la sua devozione amorosa, agli avvenimenti di quella sera che avevano finito coll'incarceramento del medichino.
— Ed ora che cosa bisogna fare? disse la Leggera, quasi interrogando se stessa, quando Maddalena ebbe finito.
— Bisogna salvarlo: esclamò la popolana con forza e calore. Bisogna che lo salviamo noi, donne che lo amiamo. Io, sventurata, non ci posso nulla che metterci la mia vita. E son pronta a dare tutto il mio sangue. Ma Lei e la contessa di Staffarda che sono potenti: loro possono e debbono toglierlo dal mal passo... Io imparai l'indirizzo di casa sua, con ben altri intendimenti che di venire ad un amichevole colloquio, sa!... Fui gelosa di Lei con una rabbia [173] feroce, e mi sarei sentito il cuore e la forza di sbranarla. Ma ora ch'egli è colpito dalla sventura, ho pensato che non avremmo più che una volontà sola, che uno scopo... Lo salvi, ed io le sarò riconoscente più che se me avesse tolta alla morte...
Zoe meditava. Recarsi dal Principe non le pareva in quel momento il mezzo migliore; per riafferrare tutta la sua influenza su di lui era necessario lasciare che S. A. fosse la prima a venirsi umiliare alla bassezza della cortigiana: ed andarlo a cercare essa per supplicarlo in favore appunto di colui che era stato la cagione del suo principesco furore, era un'imprudenza e non altro. Il cenno che Maddalena fece della contessa di Staffarda le richiamò alla mente una circostanza che in quel punto non ricordava, e la pose sulla vera strada.
— La contessa di Staffarda! diss'ella. Sì! Ecco il filo che si ha da tirare. — Ella per amore e per paura... e suo marito... sì, anche suo marito ci ha da concorrere — il marito colla minaccia della pubblicità. — A ciò pensava Luigi dandomi quelle lettere... Le sono un vero talismano.
Si volse a Maddalena e disse ratto:
— Aspettatemi un momento, ed usciamo insieme.
Suonò con forza il campanello.
— Si attacchi subito subito e in tutta fretta: disse alla fante che accorse. A me un cappellino, una mantiglia, una cosa qualunque da mettermi sulle spalle...
La non era vestita che di una stupenda veste da camera di cachemir foderata di seta; e nelle biancherie del collo e nella chioma aveva un disordine, effetto di quella orgia a due che la Maddalena era venuta ad interrompere. La cameriera domandò qual abito avesse da recare, per indossarle.
— Nessuno: disse con impazienza la Zoe. Dove vo non avranno campo nè voglia da guardarmi l'acconciatura.
Si avviluppò in un mantello e passò nel gabinetto dove Bancone combatteva la noia dell'attesa con gli avanzi del banchetto.
— Mi capita una delle maggiori sciagure che mi potessero mai capitare: disse affrettatamente la cortigiana a Bancone sbalordito. Bisogna ch'io corra subito a tentar di rimediarvi. Non vi dico più di aspettarmi e perchè non so quando potrò essere di ritorno, e perchè tornata, non avrò tale umore da esservi di piacevole compagnia.
E senza aspettar risposta, fatto cenno alla Maddalena di seguirla, uscì. La carrozza era pronta, le due donne vi salirono, e pochi minuti dopo arrivavano alla porta del palazzo di Langosco.
— State qui dentro ed aspettatemi: disse Zoe alla sua compagna, ed aperto l'usciòlo saltò leggermente a terra, corse per l'andito, su delle scale, e si presentò nell'anticamera degli appartamenti, dove parecchi domestici stavano sbadigliando.
— Vorrei parlare alla contessa: disse vibratamente la Leggera e con tono di comando.
— Non si può: rispose uno dei domestici: la signora contessa è a letto malata e non riceve nessuno.
La cortigiana guardò con aria di superba superiorità i domestici, e soggiunse fieramente:
— Andate dire alla vostra padrona che sono la Zoe, detta la Leggera, che ho da dirle cose che la riguardano molto da vicino, e che non mi parto di qua senza averle parlato.
Candida che sapeva pur troppo qual unico punto d'attinenza esistesse fra sè e quella donna, indovinò riguardo a che ed a chi le si voleva parlare: e benchè una grande ripugnanza fosse in lei a mettersi a contatto con simile rivale, la curiosità, l'ansia, il pensiero di apprendere qualche importante circostanza, la paura d'uno scandalo fecero ch'essa tal ripugnanza superasse, e la Zoe venne introdotta nella camera da letto della contessa di Staffarda.
Quelle due donne di sì diversa classe, educazione e qualità, che ora si trovavano a fronte per sì strano giuoco di caso, già si conoscevano di veduta, già, senza che paresse, incontratesi parecchie volte per istrada ed a teatro, s'erano esaminate con occhio di rivali, non ostante la immensa distanza che ne separava la condizione, ed avevano recato l'una dell'altra reciproco, dispettoso e sprezzante giudizio della bellezza. S'erano odiate: la Zoe perchè nella nobile dama invidiava quella superiorità sociale contro cui, anche in lei, si ribellava il sangue plebeo; la contessa perchè con vergogna sapeva che la vil cortigiana le disputava l'amante. Si disprezzavano eziandio: e in un contrasto fra loro, Candida aveva da riuscir meno forte e risoluta, perchè non aveva più nemmeno di se medesima la stima, e l'autorità del grado e del nome ch'essa aveva coscienza d'avere macchiato, non bastava a tener luogo di quella della virtù che aveva perduta, contro la sfacciataggine della donna, che del disonore faceva il suo mestiere. Si guardarono un poco senza parlare, anche quando, per ordine della contessa, furono lasciate sole; e l'imbarazzo e l'onta apparvero sulla fronte della padrona di casa che accoglieva una tal visitatrice, e non su quella di costei.
Povera Candida! Com'era ella mutata in poco tempo! Il pallore ordinario delle sue guancie — una delle sue bellezze — che le dava un'espressione di sentimento e rivelava l'essere della sua anima appassionata, era diventato un pallore morboso, segno di sofferenza; il viso dimagrato, le labbra scolorate, le occhiaie infossate ed allividite, gli occhi brillanti d'una luce febbrile colle palpebre rosse rivelavano le ansietà e i patemi dell'animo suo, le mal celate lagrime dolorose. Sollevandosi alquanto della persona, col gomito puntato ai cuscini, ella stava aspettando, come si aspetta l'annunzio d'una sventura, le parole che erano per uscire dalle labbra della cortigiana; ma questa, come se godesse di quell'ansietà e di quell'imbarazzo, si teneva immobile, in silenzio, innanzi a lei, le braccia [174] incrociate al petto, con mossa d'una insolente famigliarità, con un certo piglio di ostile osservazione, di ironia e di minaccia.
La contessa si decise a provocare con una richiesta le parole della Zoe. Esitò un momentino se avesse ad usare il voi od il lei parlandole; e per allontanare la difficoltà, disse nel modo seguente, non senza sforzo e con voce non del tutto sicura:
— Siamo sole; si può parlare liberamente e credo non vi sia ragione d'indugiare. Sono qui ad ascoltare tutto quello che mi si vuol dire.
La Leggera fece ancora un passo per avvicinarsi di più al letto, si curvò alquanto della persona, come per diriger meglio le sue parole sulla faccia della contessa, e guardandola sempre a quel modo impertinente e minaccioso, disse con voce sommessa, ma vibrata:
— Luigi..... il nostro Luigi fu arrestato questa sera..... E se non lo salviamo noi, egli dovrà salire sulla forca!...
Per Candida fu, come se ricevesse nella faccia e nel petto l'urto d'un colpo materiale: si lasciò andare indietro sui cuscini impallidita come una morta, gli occhi sbarrati da uno sgomento indicibile; ma la riazione fu lesta a venire. Quella che le tornava un'esagerazione, le apparve con tutti gl'indizi della falsità. L'azione, le parole, l'aria del volto della cortigiana non furono più per lei che un sanguinoso oltraggio, cui quella donna perduta aveva avuto la temerità di venirle ad infliggere nella sua casa medesima. Il sangue le salì di bel nuovo alla faccia a ricolorarle più vivacemente le guancie, a ridonare più fuoco allo sguardo. Fulminò d'un'occhiata imponente la sciagurata che le stava dinanzi, e il disprezzo non consentendo al suo sdegno di pronunziare pure una parola, non fece altro che allungare il braccio verso il cordone del campanello. La Zoe, con un balzo da tigre a ghermir la preda, le fu sopra, le afferrò quel braccio e stringendolo colla sua mano nervosa, da lasciarvi sulla pelle liscia e finissima l'impronta delle sue piccole dita, disse piano, con un fiero sogghigno:
— La badi, non faccia imprudenze. Cacciarmi per mezzo de' suoi domestici di casa sua, è presto detto, ma non può farsi così presto e così piano che non ne nasca uno scandalo. Il darmi retta è non solo nell'interesse di Luigi, che deve starle a cuore a Lei, come sta a me, ma nell'interesse suo: la lo dovrebbe capire, senza ch'io mi sfiati a dirglielo.
Candida fu quasi dominata da quella violenza; non pensò a riluttare; il suo braccio rimase inerte; il suo capo si trasse in là, e gli occhi si sottrassero allo sguardo ardente di quelli della cortigiana. Successe un momento di silenzio.
— Lasciatemi: disse poi la contessa con accento di comando e di superba impazienza, movendo il braccio per isvincolarlo dalla stretta di quella mano il cui contatto le era più doloroso d'un'offesa.
Zoe lasciò andare la mano della contessa e incrociò nuovamente le braccia al seno.
— Che cosa volete da me? Che siete venuta a pretendere qui colle vostre menzogne?
— Menzogne! ripetè la cortigiana col suo sogghigno. Ah Lei ricorre al comodo spediente di non credere. Le ripeto che Luigi Quercia fu arrestato e che lo aspetta la forca, perchè gli è accusato di parecchi assassinii e depredazioni...
Abbassò ancora la voce e soggiunse:
— E l'accusa è vera. Quercia è il famoso medichino capo della cocca.
Candida non ebbe altra forza che quella di mandare un fievol grido.
— Che cosa voglio e pretendo? continuava la Zoe: che voi sua amante... al pari di me... più di me... mi aiutiate a salvarlo; che non lo lasciate passare dalle vostre braccia a quelle della morte la più ignominiosa.
La contessa chiamò a raccolta tutta la dignità e tutto il coraggio che ancora le rimanevano.
— Strano modo di venire ad implorare la mia protezione pel vostro amante, assalendomi con calunnie e minaccie, non so se più assurde o ridicole... Uscite; io non posso e non voglio far nulla per voi nè per quel cotale... E s'egli è quello sciagurato che voi dite, ben lo colpisca la vendetta delle leggi.
La Leggera guardava con profondo stupore la donna che così le parlava; ad un punto proruppe con un'esclamazione che pareva un ruggito:
— Ah sì?.... Ah gli è così che la prendete?..... Implorare io?..... Dove avete visto, da che avete capito che io venga ad implorarvi?... vengo a comandare.... Voi non volete far nulla per quel cotale?... Vi dico io che farete.... Potevate addirittura affermare che voi non l'avete mai visto, nè conosciuto... Ecco come sono queste gran dame che si chiamano oneste, e che non hanno per noi che disprezzo. Ci vengono a rapire i nostri amanti, a rubare il mestiere, e quando si sono saziate dei loro vergognosi capricci, con fronte spudorata vi negan tutto, coprono la loro infamia del loro blasone; fanno cacciare alla porta quella ch'esse chiamano una donna perduta, abbandonano nella disgrazia colui che pur ieri onoravano dei loro amplessi.... Infamia ed ipocrisia!.... Voi valete assai meno di noi, signora.... Ma vi dico che io — la quale non abbandono chi amo — io non permetterò che sia così. Ho in mano il mezzo di farmi obbedire, e mi obbedirete.... Conveniva essere più prudente per prepararvi il comodo spediente del diniego.... Ho in mano io le lettere d'amore che avete scritte a Quercia l'assassino.
Candida, senza più forza, non seppe dare altra risposta che mandare una voce di disperazione; ma di botto la sua fisionomia espresse ancora maggiore l'angoscia, la vergogna e lo spavento, [175] mentre gli occhi fissavano atterriti appiè del letto. La Zoe si volse a guardare, e vide colà apparire il cranio giallo e gli occhi viperini del conte Langosco.
— Voi insultate mia moglie, credo: disse il marito di Candida con espressione di supremo disprezzo ed autorità: v'impongo di rispettarla.
La cortigiana, come domata da quell'aspetto, dallo sguardo e dall'accento, fece un passo indietro e non ribattè parola. Langosco si avanzò così da mettersi in mezzo fra Zoe e sua moglie, e senza pur volgere un'occhiata a quest'ultima, ripigliò a dire:
— Ho udito nominare certe lettere..... che possono essere interessanti per noi..... Ho io inteso bene?
— Sì, signor conte: rispose la Leggera.
— E le sono in poter vostro?
— Sì signore.
— Bene!... Gli è dunque un affare.... Si tratta di compra e vendita... Non è alla moglie che dovevate indirizzarvi, ma al marito... Venite meco di là.
Zoe parve esitare un momento: guardò la contessa che si sarebbe detta svenuta, se non avesse avuto larghi e spaventati i suoi grandi occhi neri, guardò il conte che nascondeva il suo furore sotto il solito ghigno sardonico delle labbra sottili, ed alla moglie prestava tanta attenzione, come se non esistesse, e rispose con una insolente crollatina di spalle:
— La moglie o il marito fa il medesimo: fra loro se l'aggiusteranno come lor piace; in faccia al mondo è una causa sola ed un medesimo interesse.
Passarono nell'appartamento del conte. Questi, appena entrato nello stanzino che avrebbe potuto chiamarsi il suo studio, se mai fosse stato presumibile ch'egli studiasse, piantato a mezzo la stanza, fermò que' suoi occhi grifagni in volto alla cortigiana e le disse con accento in cui il disprezzo e la minaccia non erano temperati che da quel certo riguardo che la sua galanteria serbava pur sempre per qualunque giovin donna in qualsiasi grado e condiamone la fosse:
— Gli è dunque un ricatto, un chantage, quello che vieni ad esercitare qui da noi, la mia bella giovane?..... Bene! Non perdiamo tempo. Quanto ne vuoi di quelle lettere?
— La libertà di Luigi.
Langosco crollò le spalle con impazienza.
— Non dire e non farmi dire delle parole inutili. Due mila lire ti bastano?
Zoe tentennò il capo.
— Tre?... Cinque?... Otto mila lire, via.
— Nè anco venti... Le ripeto, signor conte, che voglio la libertà di Luigi. Non è per altro che son venuta.
— Non ti capisco: spiegati.
— Quelle lettere darò a Lei od a sua moglie quel dì, in cui Luigi sarà uscito di carcere.
— Sei matta... Bisogna domandare alla gente cosa che si possa fare.
— E questo, Lei, se vuole, lo può fare.
— Come?
— Con quel denaro ch'Ella è disposta a spendere per riavere quelle lettere, si può comprare qualche guardiano; coll'autorità e le protezioni di cui Ella dispone si può ottenere che qualche occhio si chiuda..... Quercia può di questa guisa trovare aperta la sua prigione, pronta una carrozza ed un passaporto e....
Il conte l'interruppe.
— È questo il solo partito che tu venga a propormi, il solo che tu voglia accettare?
— Il solo.
— Olà! Che interesse ci hai tu cotanto a salvar la pelle di quello sciagurato?
Gli occhi della cortigiana brillarono stranamente, ed ella rispose con accento di voce più sommesso, quasi cupo:
— L'amo.
— Oh oh, tu!... Esclamò il conte; ma l'espressione scettica e sardonica del suo sorriso mefistofelico si dileguò in presenza della risolutezza e della serietà che erano impresse sulla faccia della Zoe; egli riconobbe lo stampo della passione, e meravigliato di quel miracolo che aveva creduto impossibile nell'animo di quella venduta, s'inchinò leggermente:
— E tu fuggiresti con lui?
— Forse!
— Per andare a vivere da tortorelle in una solitudine: une chaumière et son cœur. Che strana razza di gente che siete!... Senti, Zoe. Tu mi domandi una cosa che non si deve fare. Capirai che non si può rispondere lì su due piedi un sì, e neppure un no, quando tanto interesse è in giuoco. Lasciami pensare. Promettimi intanto una cosa: che di quelle tali lettere non farai uso nessuno, finchè tu non abbia perduta ogni speranza di salvare... colui.
— Glie lo prometto.
— Io ti farò sapere la mia decisione fra pochi giorni.
Zoe si mosse per partire; ma fatti pochi passi, s'arrestò, e venendosi a piantare di nuovo in faccia a Langosco, disse con forza quasi feroce:
— Badi che vane promesse non mi potranno ingannare; e che saprò ricorrere a tali cautele da premunirmi contro ogni tradimento.
Il conte non rispose; lasciò partire la cortigiana, poscia avvoltosi ben bene entro la sua pelliccia, senza servirsi della carrozza, a piedi s'avviò di buon passo verso l'abitazione del generale Barranchi.
Questi aveva ricevute le relazioni compiute ed esatte delle importanti operazioni eseguite quella sera dalla sua Polizia: stupito, egli stesso, lieto e superbo dei risultamenti ottenuti, si fregava le mani per un trionfo di cui egli non aveva il menomo merito.
[176] La comparsa di Langosco lo fece ricordarsi che a quel successo mancava una sola circostanza per essere compiuto: ed era che non si aveva potuto trovare quelle lettere di cui aveva promesso il ricupero al suo buon amico. Ma quando appena ebbe incominciato a dire tale non affatto lieta novella al marito di Candida, questi lo interruppe.
— So che non le avete rintracciate, diss'egli: ma so eziandio dove le sono e dove si possono pigliare.
— Ah sì? esclamò il generale con aria tra meravigliata ed incredula. Sentiamo un po'.
— Le ha in suo potere Zoe, la mantenuta del Principe.
Barranchi guardò Langosco con un certo stupore, ma nello stesso tempo si rimpettì, ed atteggiò la sua persona ad una mossa di orgoglioso soddisfacimento.
— Ah ah! voi credete, caro conte, di venirci ad apprendere una novella mai più sospettata... Udite, ed ammirate come la mia Polizia è ben fatta. In questo stesso momento uno de' nostri più fidi, più segreti, più sicuri agenti, quello a cui molto si deve nello scoprimento di questa rete infernale, trovasi in casa la Leggera a farvi una minuta perquisizione, appunto per trovarvi quello che voi desiderate. Domani mattina prima che siate levato, riceverete il plico che conterrà tutte quelle carte; potete dormir tranquillo con questa certezza.
Ma il domattina, invece del plico che Barranchi gli aveva promesso, il conte di Staffarda ricevette il bigliettino seguente:
«Conviene che le relazioni avute da voi e quelle che a me pervennero fossero false, o che quel demonio d'una Zoe sia stata avvisata in qualche modo; il fatto è che per quanto minutamente siasi perquisita tutta la sua abitazione, nulla si rinvenne, nè quelle tali lettere, nè altro che la potesse compromettere. Ho dato tuttavia ordine che la si arrestasse; e vedremo se la prigione la farà parlare.»
Langosco sgualcì con mano rabbiosa quel pezzo di carta, stette un poco a meditare, e poi rispose al comandante della Polizia:
«Credo inutile sostenerla in carcere; quella donna non parlerà. Libera, potrò trattare con essa ed ottenere la consegna di quei fogli, che voglio avere a qualunque costo; e poichè nessuna prova ci avete contro di colei, io vi consiglio e vi prego di metterla in libertà. Eviterete così anche la collera del Duca.»
Mandò sollecitamente il biglietto al suo indirizzo.
— Purchè, disse fra sè, quella sciagurata nello sdegno di vedersi presa, non pensi di subito a vendicarsi con quell'armi che ha tra mano.
Ma la Zoe, in grazia del maggior interesse che aveva in vista, represse il furore onde in fatto era occupata. Ecco il bigliettino che a sua volta, appena libera, scrisse al conte Langosco:
«Ella aveva promesso di non ricorrere a tradimenti. Ho imparato che valore hanno le sue promesse. Ecco ora l'ultimo patto che le vengo a dettare: se fra una settimana L. non è libero, quelle lettere faranno il giro di tutta Torino. Nè creda impedire in altro modo qualsiasi questo fatto. Dovessi anch'io sparire dalla faccia della terra, quei documenti sono in luogo sicuro ed in mano di tale che eseguirà ad ogni costo la mia volontà.»
Or ecco di che guisa l'accorta Zoe aveva sottratto le lettere di Candida alla ricerca della Polizia.
Uscendo dal palazzo di Staffarda, dopo i colloquii avuti colla contessa e col conte, la cortigiana era salita nella carrozza, dove stava attendendola palpitante la Maddalena.
— Ebbene? Aveva domandato costei colla sollecitudine della maggiore ansietà.
— Ebbene: aveva risposto la Leggera, tutto ancora agitata dalla passione che l'aveva mossa in que' narrati abboccamenti: ebbene li tengo per i capelli e li farò marciare a mio talento.... Vi è tutto da sperare.
Maddalena in uno slancio di gioia riconoscente, prese la mano della Zoe e la baciò con calore.
— Oh oh! esclamò la elegante mantenuta del Principe con un accento strano in cui c'era ironia, commozione, sdegno e simpatia nello stesso tempo: cara la mia ragazza, tu ami dunque molto quel birbone di Luigi?
— Tanto, tanto! rispose la giovane col più sincero espandersi della passione.
— Dovremmo essere nemiche ed odiarci, poichè l'amo anch'io. Ma tu non sei come quella superba impostora di contessa. Tu lo ami per lui e non per te. Possiamo intenderci, noi due. Ah! due donne che amano sono una gran potenza, sai; e lascia fare che fra noi due lo salveremo. Di poi, per contrastarcelo, ci caveremo anche gli occhi....
— Ah no! proruppe Maddalena, cui la bellezza, la risoluzione, la vivacità, la passione della cortigiana soggiogavano. Io sento di non esser nulla, di non poter nulla. La mi adopri come vuole, prenda la mia vita se occorre: lo salvi solamente, ed io sparirò nell'ombra per lasciarla felice con lui.
— Povera fanciulla! disse Zoe, passandole un braccio intorno al collo. Sei tu forse quella che merita più d'essere amata.... E gli uomini son essi degni di un simile amore?... Bah! Forse che si ama per merito e ragione?... Quello che avverrà fra noi non so; per ora sento che ti voglio bene e t'ammiro.
E tratta a sè la faccia animata della ragazza del volgo, le diede un bacio di sorella.
— Di te, dunque: continuava: mi fido come di me stessa. Dà ben retta. Per obbligare ad agire secondo le nostre voglie il conte e la contessa ho un [177] talismano che solo fa tutta la mia forza, e di cui per ciò essi hanno massimo interesse a spogliarmi. Questo talismano sarà più sicuro nelle tue mani che nelle mie. Conviene che tu mi prometta di non mostrarlo a nessuno, di non farne cenno con anima viva, di nasconderti con esso e di non restituirlo poscia che a me, nelle mie mani, quand'io te lo ridomandi.
Maddalena promise.
— Or bene, vieni meco nella mia casa ed io te lo consegnerò di presente, perchè temo qualche tentativo per privarmene.
Entrando in casa, Zoe apprese che vi era tuttavia Bancone; senza preoccuparsene il meno del mondo, ella condusse Maddalena nel suo elegante camerino da toelette, e chiuse là dentro le consegnò il pacco delle lettere della contessa di Staffarda.
— Ed ora dove pensi tu andarti a rimpiattare?
— Ci ho la mia camera; ma colà non oso riparare per paura ci vengano gli arcieri.
— Hai ragione. Bisogna assolutamente trovare altro ricovero. Aspetta un poco. Te lo procurerò io.
Passò di là nel salotto da pranzo, dove trovò il banchiere milionario, sbottonato il panciotto, disfatto il nodo della cravatta, arrovesciata la testa sulla spalliera della poltrona, russare con voce sonora, saporitamente addormentato.
La Leggera inzuppò nell'acqua l'angolo d'una servietta, e bagnò al dormiente la fronte e le tempia. Bancone si svegliò senza sussulto e, vistasi innanzi la bellezza sorridente della cortigiana, fece un beato sorriso ancor esso.
— Tò, m'ero addormentato... Tanto meglio! Così il tempo della tua assenza mi è passato più presto... Sognavo di te, sai, sognavo che tu mi facevi sul ventre i passi di danza che ballavi con tanta grazia sul dorso nudo del cavallo al galoppo... Sei stata lungo tempo fuor di casa?... Hai finito i tuoi misteriosi affari?... Sei tornata definitivamente e possiamo stare allegri insieme senza che nessun più venga a disturbarci?
— Quante domande! rispose Zoe con tutta la grazia seducente di cui era capace. Vi risponderò pregandovi di farmi un piacere... che sarà un piacere anche per voi.
— Che cosa? domandò Bancone stirandosi.
— Non ci avete mica nessun'abitatrice nel vostro appartamentino, dove, di nascosto dalla moglie, andate a fare delle orgie da scapolo, viziosone che siete?
Il banchiere fece saltare la sua pancia enorme in una grassa risata di soddisfazione.
— Eh eh! Bisogna bene darsi un po' di buon tempo. La bellezza virtuosa di mia moglie m'annoia come una quaresima; vado a fare di quando in quando un po' di carnovale.
— Sentite. Si tratta di ricoverare e nascondere in quel vostro così ben riposto quartieretto una bella ragazza.
Il vecchio satiro drizzò le orecchie e si levò sulle anche.
— Oh oh! esclamò egli, guardando incredulo la cortigiana: una bella ragazza! Davvero?
— Sicuro: quella medesima che avete visto qui poco fa, e che non vi dispiacque, io me ne sono accorta, vecchio peccatore.
— Sì, la è un discreto tocco di grazia di Dio. Ma perchè ricoverarla, perchè nasconderla?
— Vi rincresce fare a me ed a lei questo piacere, procurare a voi medesimo questo vantaggio?..... Lasciate stare: ricorrerò ad un altro.
— No, no. Sono disposto ad obbedirti.
— Quella giovane è perseguitata da qualcheduno, è venuta a raccomandarsi a me; voglio salvarla, ed ho pensato il meglio fosse di affidarla alla vostra generosa protezione.
— Affidala pure: disse il vecchio libertino, nei cui occhi brillavano le fiamme d'una oscena cupidigia: la sarà in buone mani.
— Va bene... Vengo a consegnarvi tosto la giovane... La mia carrozza è ancora bella ed allestita sotto il portone. Voi salite in essa colla ragazza e... e buona notte.
— Come! Come! esclamò il banchiere meravigliato: così subito?
Ma la Leggera già era sparita dietro le cortine dell'uscio.
Bancone si mescette un bicchiere di Sciampagna e lo bevette d'un fiato per rischiararsi le idee. Cinque minuti dopo vide ricomparire la Zoe che si traeva per mano la Maddalena. Si levò in piedi e sorresse alla tavola il suo corpo oscillante.
— Dunque, diss'egli, aitandosi della persona colla grazia d'un orso che si dimena entro la gabbia di un serraglio, mia bella giovane tu hai da essere la mia ospite?
Maddalena lo guardò colla sua petulante figura e fece un sorriso poco rispettoso; la Leggera le si chinò all'orecchio e le susurrò alcune parole, alle quali ella non rispose che con una crollatina di spalle chiaramente significante: «Bah! ciò poco m'importa.»
— Non perdete più tempo: disse Zoe: sono le undici e mezzo, e più. Andate.
Il vecchio libertino osò abbandonare l'appoggio della tavola e fece due passi barellando verso la cortigiana.
— Crudele! mormorò con occhi che volevano essere espressivi d'un amoroso rimprovero ed erano in realtà imbamboliti dall'ebbrezza: hai il coraggio di scacciarmi di casa tua...
Zoe lo afferrò ad un braccio per aiutarlo a rimettersi in equilibrio sulle gambe podagrose, e gli accennò Maddalena che aspettava presso l'uscio con una certa impazienza.
— Avrete un fortunato compenso... nella buona opera che state per fare.
[178] — Ah birbona!... susurrò il Creso della banca con quel suo certo sorrisaccio; poi, parlando a Maddalena: vieni qua, soggiunse, vienmi presso, biricchina... Così; dàmmi il braccio... Perbrio! che braccio sodo... Dunque, buona notte, Zoe. Andiamo.
Appena furono usciti, la Leggera chiamò a sè i servi.
— Chiunque v'interroghi, non direte che qui venne una giovane e che la è partita con Bancone.
Ottenutane questa promessa, ordinò si spegnessero tutti i lumi, si ridusse nella sua camera, e in pochi minuti fu spogliata ed a letto. Eravi essa appena coricata, quando si udirono forti colpi al portone da via. Il portinaio svegliato si recò a vedere che fosse: successe un breve e vivace parlamentare fra quelli che picchiavano di fuori e il portiere all'interno, quindi il portone s'aprì e i passi pesanti di molte persone suonarono su per le scale. La Zoe stava ascoltando questi rumori con interesse, quasi con ansia, dubitosa che quest'incidente la dovesse riguardare, quando a levarle ogni dubbio sentì una violenta scampanellata all'uscio del quartiere.
— È una visita della Polizia, ci scommetto: disse ella fra sè con un sorriso di trionfo. La Maddalena è partita a tempo.
La sua fante le si precipitava in istanza, mezzo spoglia, assai sgomenta.
— Ah signora, esclamava con voce tremante, è la forza, è l'autorità, vogliono entrare ad ogni costo... Domandano di Lei... o mio Dio! o mio Dio!
La Leggera si sollevò un poco in mezzo alla candida neve delle sue lenzuola, puntando il gomito ai guanciali ornati di ricche balze di mussolina ricamata, incrociò al petto il suo giaco da notte ricco di trine stupende e con atto superbo ed imponente da regina esclamò imperiosamente:
— Qui non ha da entrare nessuno... Non lasciate entrare nessuno.
— Siamo già entrati: rispose una voce fiacca, affranta, ma in cui suonava una certa maligna ironia, e in mezzo alle cortine dell'uscio Zoe vide la faccia pallida ed infermiccia di Barnaba, e dietro lei i ceffi caratteristici degli arcieri da cui s'era fatto accompagnare.
La Zoe riconobbe di subito nell'uomo che le si affacciava, quel cotale che da assai tempo si aggirava intorno all'abitazione di lei, gli occhi rivolti alle finestre della medesima, e che la sua vanità femminile aveva preso per un timido amatore. Luigi aveva avuto ragione: egli era invece una spia. Essa lo fulminò con un'occhiata di sdegnoso disprezzo e con un accento degno compagno di quello sguardo, domandò:
— Chi siete? Che volete? Che modo è questo d'introdursi nella casa d'una donna?
Barnaba parve esitante; si sarebbe detto che su quella soglia trovava un inciampo che stentava a superare; nella sua faccia scialba e sempre impassibile eravi pure come un'ombra di misteriosa emozione; i suoi occhi al fondo delle incavate occhiaie, velati quasi sempre, avevano ora uno strano bagliore, mentre, trascurato ogni altro oggetto, si fissavano sulle forme giovanili, leggiadre, procaci della cortigiana a mezzo seduta sul suo letto.
Era davvero un'originale, irritante, potente bellezza quella che splendeva dagli occhi, dal volto, da tutte le membra della giovine donna. Le sue chiome abbondanti di color fulvo, slacciate, le pendevano in ciocche ondulate che avevano i riflessi dell'oro, intorno al collo candidissimo ed a perfezione tornito, sulle spalle, venivano a battere come una carezza su quel turgido seno, il cui candore appariva traverso le trine, come l'argenteo chiaror della luna traverso le squarciate nubi. Sacerdotessa della voluttà, la sua espressione suprema, quella in cui tutte s'appuntavano le espressioni delle sue sembianze, de' suoi atti, d'ogni sua mossa, era l'espressione della voluttà. Anche nello sdegno di quel momento c'era una grazia, un fascino malvagiamente provocatore delle sensuali passioni dell'uomo.
Dopo un istante ella ripetè, ancora più sdegnosa di prima, le sue richieste a Barnaba, il quale gli occhi fissi su di lei, il respiro leggermente affannoso, nè parlava, nè si moveva. Allora l'agente della Polizia si riscosse, vinse la sua emozione, ricoprì nuovamente la faccia della maschera d'una gelata indifferenza, e con voce sorda ed affaticata rispose:
— Siamo la Polizia; e veniamo a perquisire la vostra casa. Nessuno si mova e nessuno fiati. Dobbiamo frugare scrupolosamente cose e persone. Credo che ad alcuno non verrà in mente la pazzia d'una resistenza.
La donna con un sobbalzo si drizzò del busto sui cuscini ricamati del suo letto.
— Cose e persone avete detto? Domandò ella con inesprimibile accento di fiero disdegno:
— Sì: disse freddamente Barnaba: e per togliervi più presto a questa seccatura e lasciarvi tosto libera e tranquilla comincieremo da voi.
Fece alcuni passi verso il letto della cortigiana, ma più incerta che mai era la sua andatura e le mani gli tremavano.
Le pupille di Zoe mandarono fiamme: con un moto rapido e violento si torse della persona verso il comodino, ne aprì il cassetto e toltone uno stile damaschinato, di bella fattura, lo impugnò risolutamente colla piccola destra nervosa. L'avreste detta una Lucrezia romana.
— Guai chi mi tocca! gridò essa fremendo.
Il poliziotto ebbe sulle pallide labbra un sogghigno indefinibile d'ironia insieme e di compassione e di profonda mestizia.
— Tanto sforzo di coraggio starebbe bene, diss'egli, se si volesse attentare alla vostra virtù, ma questo non è ora il caso. Dovreste sapere che contro la [179] forza non vale la ribellione dello sdegno. Se voi... od altri per voi... tentò un giorno salvare la vostra innocenza dalla brutalità d'un prepotente, che valse?
Queste parole che le ricordavano un tristo episodio della sua prima adolescenza, quasi della sua infanzia infamemente corrotta da uno scellerato, sovraccolsero potentemente e stranamente la donna. Quella disgraziata ventura ella non aveva raccontata mai; il miserabile che l'aveva fatta sua vittima era morto; il suo compagno di stenti che era stato testimonio inorridito ed impotente era scomparso. Come poteva sapere alcuna cosa di quel dramma quest'ignoto? E sapeva egli veramente, od era il caso soltanto che gli aveva posto in bocca quelle parole che sembravano fare allusione alla sventurata vicenda? Non ebbe campo per allora a meditare su codesto, perchè l'agente di Polizia, assumendo un tono imperioso e solenne continuava:
— E noi siamo la legge, signora, noi siamo l'autorità, ed a noi non si resiste.
Si volse agli arcieri che dietro di lui s'erano inoltrati nella stanza.
— Disarmate quella donna: comandò.
In un attimo due uomini furono allato della Zoe, le ebbero afferrate le braccia e toltole di pugno il ferro. Allora ella vide avanzarsi su di lei e starle sopra la faccia terrea di Barnaba; allora sentì sulla sua persona il contatto di due mani che parevano frementi. Trasalì, come corse le vene da un brivido di ribrezzo, mandò un gridolino di rabbia repressa, slanciò uno sguardo di ferocia impotente su quel volto pallido, macilento, incavato, che incombeva sul suo. I loro sguardi s'urtarono come due saette che s'incontrino per aria volando, parve se ne sprigionassero scintille. Nessuno dei due cedette e si abbassò innanzi all'altro; ma nelle pupille di quell'uomo che le parvero in fondo alle occhiaie come belve appiattate in fondo ad una caverna, Zoe travide un fuoco profondo, cupo, terribile, credette travedere un pauroso mistero.
— Chi è quest'uomo? domandò a sè stessa. Che vuol egli da me? Perchè mi pare che costui debba entrare nella mia vita?
La perquisizione, come già sappiamo, non ebbe risultamento di sorta. Zoe arrestata venne il giorno dopo messa nuovamente in libertà. Verso sera di quel giorno medesimo, ella riceveva da mano ignota un bigliettino scritto col lapis che riconobbe tosto di pugno del medichino.
Esso non conteneva che queste poche righe:
«Sono nelle carceri senatorie. Confido in te. Oro e protezioni ci vuole. Verrà a tempo opportuno un uomo a mettersi teco in rapporto. Per ora agisci con prudenza. Quell'uomo che ci ha spiato, che mi ha arrestato, Barnaba, ha qualche ragione personale contro me o contro te. Cerca d'accostarlo, studialo, tenta di sedurlo. Non mi pare impossibile.»
Erano due giorni che la Zoe non poteva scacciare di mente il pensiero di quell'uomo cui anche Luigi veniva ora a ricordarle. Per quanto avesse frugato e rifrugato nelle sue memorie, non aveva trovato nulla che le rammentasse aver avuta con lui relazione.
— Lo cercherò; si disse; voglio penetrare questo mistero.
Come il medichino fosse riuscito a far pervenire quel biglietto alla Leggera, vedremo di poi. Ora torniamo indietro d'alquanto e rechiamoci al letto di morte dell'usuraio Nariccia.
La mattina del giorno che successe all'interrogatorio di Nariccia, Padre Bonaventura, chiamatovi dall'infermiere, accorreva al letto dell'usuraio moribondo. Questi, che avrebbe desiderato un altro per confessore, esitò un momento fra la ripugnanza che allora gl'ispirava il suo antico complice e lo spavento di morire senz'assoluzione, portando seco nella tomba il fatale segreto del suo orribil peccato. Lo spavento la vinse, e sentendo in se stesso che non gli rimaneva tempo abbastanza, nè vigoria d'animo e di volontà da mandar via il gesuita ed aspettare la venuta d'un altro confessore, si rassegnò a far manifesta la brutta storia del suo passato in una confessione che fu lunga, penosa, interrotta da debolezze e da spasimi, fatta con voce soffocata, il più spesso appena se intelligibile, a coglier la quale il frate doveva star curvo sopra il letto e tener l'orecchio proprio sulla bocca del giacente.
Trascurando tutto il resto che non ha rapporto colla nostra storia, diremo ciò che da siffatta confessione il gesuita apprendeva riguardo al figliuolo di Maurilio Valpetrosa e di Aurora di Baldissero.
Nariccia, incaricatosi, come sappiamo, di fare scomparire quel bambino, erasi partito solo dalla casa in cui dolorava la povera madre, recando seco il neonato. Di molte cose, e scellerate tutte, pensava egli, strada facendo, e ne conchiudeva che a lui avrebbe giovato forse che quel bambino fosse perduto di guisa che altri non arrivasse a rintracciarlo mai più, ma egli pur lo potesse tuttavia, quando di ciò glie ne nascesse convenienza. Per prima cosa, a questo fine, pensò togliergli d'intorno i contrassegni di riconoscimento che gli aveva posti la Modestina e che da costei e da Padre Bonaventura erano conosciuti; e quei contrassegni ritenerli presso di sè. Così nè la donna, nè il frate non avrebbero più avuto nessun bandolo da servirsene essi stessi o da dare altrui per venire in chiaro di ciò che fosse diventato il bambino. Egli poi avrebbe messogli un altro contrassegno particolare, per mezzo del quale potesse all'uopo ricuperare [180] l'abbandonato fanciullo e sarebbe stato egli solo padrone del suo segreto.
Con siffatti pensamenti pel capo, e già risolutosi a porre in atto questo proposito, egli era giunto alla frontiera di Lombardia, cioè al Ticino, s'era liberato con una mancia dalle seccature degli agenti austriaci mezzo addormentati, e penetrava sul ponte, a capo il quale i doganieri e carabinieri piemontesi dovevano fermarlo per dar conto di sè e delle sue robe. Aveva viaggiato di notte, e rompeva appena l'alba. Tutto era deserto e silenzioso sulla riva piemontese, e la sola cosa che ci fosse di vivo era il lumicino della lanterna attaccata al casotto dei doganieri, che però era presso a spegnersi. Nariccia arrestò il cavallo a mezzo il ponte, guardò ben bene se anima viva lo potesse vedere e sentire, e rassicurato compiutamente, scese dal legno, prese il bambino, e pian piano, in punta di piedi, venne a deporlo per terra a capo del ponte dalla parte del territorio piemontese. Come contrassegno egli, trascelta fra le lettere di Valpetrosa che aveva nel suo portafogli quella che meno contenesse parole onde si potesse avere indizio della provenienza, l'aveva stracciata per lo lungo e una delle due metà del foglio insinuato in mezzo alle fasce del bambino.
Quando ebbe deposto per terra il poveretto, Nariccia tornò dello stesso modo al suo legno e facendo chioccar la frusta se ne venne di trotto verso la uscita del ponte, dove un agente della dogana ed uno della pubblica sicurezza, levatisi al rumore e mezzo sonnacchiosi, lo fermarono al solito per le solite formalità. Mentre Nariccia, senza scendere neppure dal carrozzino, esibiva il suo passaporto e mostrava che nella piccola valigia che era suo solo bagaglio, non v'era oggetto alcuno che dovesse pagar dazio d'entrata, ecco un vagito di bambino suonare lì presso.
Il viaggiatore si sporse in fuori del suo legno, e il carabiniere e il doganiere si volsero verso il luogo da cui quel lamento era venuto. Videro il fagottino per terra: il doganiere lo prese ed esclamò:
— Tò: qualche scellerato che abbandonò qui questa piccola creatura.
Il carabiniere guardò con sospetto il viaggiatore; ma questi aveva un'aria così innocente e meravigliata; l'avevano veduto giungere pur allora e non scendere nemmeno: come dubitare di lui?
— E che cosa ne facciamo di questo bel regalo? domandò il doganiere, il quale per ventura era trovatello anche lui, aveva un cuore eccellente, e s'intenerì di botto alla vista di quel poveretto.
— Lo prenda Lei, disse il carabiniere a Nariccia, lo reca seco sino a Novara, e là lo mette all'ospizio.
— Io no certo: rispose Nariccia. Non vo' compromettermi. D'altronde può essere che alcuno venga ancora qui da voi altri a farne ricerca.
Partì di buon trotto, lasciando il bambino fra le mani di quella gente.
— In un caso, si disse, potrò sempre sapere che cosa costoro ne avranno fatto.
Naturalmente, dopo ciò, Nariccia non si diede più il menomo pensiero di quel fanciullo; ma un anno e mezzo dopo cominciò a credere che l'occasione di rifarlo vivo era presso a presentarsi con grande suo giovamento. Se vi ricorda, Aurora aveva sempre in fondo al cuore la speranza che suo figlio non fosse morto, di questa sua speranza aveva parlato col fratello quando, tornato egli di Spagna, era successo fra loro la riconciliazione, e il fratello, la cui anima generosa era lacerata dal rimorso pel tanto male che aveva fatto ad Aurora, aveva accettato, qual mezzo di compensarnela e di riparare, la missione di tentare, se fosse possibile, il ricupero del bambino.
Nariccia, al quale, come abbiam visto, il marchese erasi rivolto, aveva subito capito di quali guadagni potesse essergli sorgente il rinvenimento del figliuolo di Valpetrosa, quando il marchese padre fosse per mancare ai vivi, cosa che pareva non dover tardare di molto, tanto era egli già male avviato di salute. Incominciò egli adunque le sue ricerche per potere quando che si fosse metter la mano sul bambino; ed apprese, recandosi egli stesso sui luoghi, che il doganiere il quale trovavasi di servizio quella tal mattina del tal giorno, ed aveva raccattato il trovatello, non aveva voluto metterlo all'ospizio di Novara, ma recatolo con sè, lo stesso giorno in cui gli era stato dato un congedo, l'aveva allogato presso qualche famiglia di villici, non si sapeva quale, nè dove. Nariccia volle sapere dove fosse questo doganiere per andarlo interrogare ed apprendere da lui medesimo la intera verità; ma gli fu risposto che questo era impossibile, perchè mandato poco dopo sul Lago Maggiore verso la frontiera svizzera, in uno scontro avutovi coi contrabbandieri, era stato colto da una palla di schioppo nella testa e mandato all'altro mondo col suo segreto.
L'antico intendente dei Baldissero non si perse d'animo per tutto questo. Se il vero bambino era impossibile trovarlo, ben se ne poteva avere un altro da sostituirgli; e non erano presso di lui quei contrassegni che dovevano farlo riconoscere come figliuolo d'Aurora? Ad affrettare in lui la maturazione e l'esecuzione di quest'empio disegno venne il marchese padre, il quale esigette che in quindici giorni il bambino della sua figliuola fosse dato in poter suo. Nariccia ebbe a sè Graffigna, che ben conosceva capace di qualunque cosa, e gli commise lo provvedesse d'un bambino maschio, andandolo a prendere così lontano e con tali precauzioni che mai più non potesse venire scoperto qual fosse, donde venisse, come preso. Graffigna comunicò la cosa al suo fido amico e complice Michele Luponi, fratello di Modestina e marito di Eugenia, il quale allora già erasi fatto noto nella cronaca criminosa col soprannome di Stracciaferro.
[181] Lo scellerato Graffigna, il quale sapeva come la moglie di Michele fosse madre di un bambino e vivesse a Milano donde non voleva venir via più per non ricongiungersi col marito, propose a quest'esso senz'altro di andare ad impadronirsi di suo figlio e presentarnelo all'usuraio. Michele riluttò assai, ma l'influsso che già aveva preso su di lui l'omiciattolo più tristo del demonio, qualche ubbriacatura accortamente saputagli dare dal suo compagno, la seduzione della promessa di una buona somma, finirono per deciderlo. Quello che avvenisse udimmo narrato da Maurilio medesimo a Giovanni Selva, quando gli ripeteva i delirii e le visioni che il rimorso cagionava a Stracciaferro, lui presente nel carcere.
Questo bambino così acquistato, coll'uccisione della povera madre, il figliuolo di Michele e di Eugenia, veniva consegnato al marchese padre, il quale lo faceva spietatamente abbandonare in mezzo alla strada.
Terminando la sua confessione Nariccia additava al frate dove fosse custodita la metà della lettera di Valpetrosa, di cui s'era servito per dare un segno di riconoscimento al vero figliuolo della marchesina Aurora e dove fossero tutte le carte che riguardavano le sue attinenze con Valpetrosa, e il gesuita se ne impadroniva. Data l'assoluzione al moribondo, Padre Bonaventura l'abbandonava a morir solo senza altri conforti, e correva in tutta fretta al palazzo di Baldissero.
Dello strano fatto che il moribondo gli rivelava, Padre Bonaventura fu più lieto ancora che stupito. Il falso Maurilio, ch'egli aveva tentato trarre nelle sue reti, erasi ad ogni sua seduzione sottratto, e avea mostrato, nel suo liberalismo, l'animo d'un nemico a quella parte a cui il gesuita apparteneva, a quei principii in servizio dei quali l'ordine monastico, e non degli ultimi in esso il Bonaventura, mettevano tutta la loro accortezza e l'influsso. Se nel giovane cui si trattava di restituire il grado e il posto nella nobile famiglia, il frate avesse trovato un possibile affiliato della congrega, un acconcio stromento, avrebbe anche potuto avvenire che egli tenesse per sè il suo segreto, e di questo anzi facesse un legame più forte e più stretto per avvincere all'interesse del partito e far più obbediente e sottomesso quel giovane: ma Bonaventura, conoscitore degli uomini e sollecito apprezzatore dei caratteri di coloro in cui s'incontrava, aveva subitamente riconosciuto che dal nostro Maurilio non avrebbe mai potuto nulla ottenere a suo pro, e quindi che ogni tentativo eziandio di tenerlo soggetto colla minaccia di farlo respingere da quel luogo a cui era appena arrivato, sarebbe stato inefficace. Non c'era nulla di meglio adunque che svelar tutto al marchese e ricacciare il falsamente creduto figliuolo d'Aurora in quell'abbiezione e in quell'oscurità da cui si era andati ora a levarlo.
Il marchese di Baldissero, udita la narrazione del gesuita, rimase il più attonito, perplesso ed amareggiato uomo del mondo. Che cosa doveva egli fare? Abbandonare di nuovo alla miseria quel giovane a cui aveva aperti, come a suo sangue, il cuore e la casa, non voleva di certo; ma conservarlo in quella condizione di congiunto non doveva, nè gli piaceva. Decise esporre tutta la verità al giovane medesimo e lasciarlo giudice lui medesimo della condotta da tenersi reciprocamente: ad ogni modo egli non avrebbe abbandonato più l'infelice ai rigori della sorte.
Maurilio rientrava al palazzo Baldissero, l'anima sconvolta. In casa Benda aveva avuto luogo quella scena che abbiamo narrato, in cui Gian-Luigi lo aveva cotanto avvilito. Quando il domestico gli disse che il marchese desiderava parlargli, Maurilio fu sul punto di rispondere che non poteva recarsi da lui, che stava male, che aveva assoluto bisogno di solitudine e di silenzio. Ma non osò: obbedì sollecito alla chiamata, e camminando lentamente verso lo studio del marchese, domandava a se stesso se doveva o no esporre allo zio di Virginia tutti i suoi dubbi e le ragioni dei medesimi. Non ebbe mestieri di decidersi in questa tenzone del suo spirito: il caso colla forza dei fatti decise per lui. Il marchese sapeva più di quanto egli era riuscito a scoprire, e ripetendogli le confidenze di Padre Bonaventura, gli poneva innanzi la certezza di quel ch'egli aveva argomentato dovesse essere. Non egli era il figliuolo smarrito di Aurora, e questi, se fosse da trovarsi mai, cosa che al marchese pareva impossibile, era da conoscersi per la metà del foglio stracciato in cui era scritta la lettera di Valpetrosa.
Il nostro giovane protagonista, a questa comunicazione, chinò il capo e parve non avesse capito, o fosse indifferente, tanto era priva d'espressione la sua immobilità e tranquillo il suo pallido volto. Ma dentro di lui c'era un tumulto che nessuna parola potrebbe dipingere. Stette un momento in silenzio, poi domandò al marchese gli mostrasse quella metà di lettera che era rimasta presso Nariccia. Il marchese glie la porse. Appena vi ebbe posti sopra gli occhi, Maurilio la riconobbe tosto pel carattere, per la carta, per la forma, per la lunghezza, come il complemento di quella che aveva in suo potere Gian-Luigi. Tuttavia la esaminò attentamente. Le parole che si leggevano in quel foglio di carta ingiallita erano le seguenti:
«La carrozza sia pronta-
cata. Prendete ogni precau-
«Da Milano vi farò conoscere-
m'informerete di ciò che avverrà-
Se fossi inseguito mi difenderò.-
te, ripeto quello che vi ho già-
fino a nuova mia ulteriore deci-
Maurilio lesse e rilesse queste linee interrotte. Egli che aveva visto più volte lo squarcio del foglio [182] posseduto dal suo compagno d'infanzia e che ultimamente, una settimana innanzi aveva rivedutolo e rilettolo, l'aveva in quel punto così presente alla memoria che se tuttedue le parti della lettera gli fossero state poste raccostate dinnanzi non avrebbe potuto farne più precisa lettura di quello che faceva la sua mente, completando le presenti colle parole che mancavano.
Era un bigliettino che il seduttore d'Aurora aveva scritto a Nariccia per dargli le ultime istruzioni e gli ultimi ordini riguardo alla sua fuga con Aurora, per cui l'intendente della famiglia Baldissero compro a denari s'era impegnato a procurare i mezzi; ed intero questo corto biglietto diceva così:
«La carrozza sia pronta all'ora che v'ho già indicata. Prendete ogni precauzione perchè nulla trapeli.
«Da Milano vi farò conoscere il mio indirizzo, e voi tosto m'informerete di ciò che avverrà qui dopo la nostra partenza. Se fossi inseguito mi difenderò. Quanto alle somme depositate, ripeto quello che vi ho già scritto: rimangano presso di voi fino a nuova mia ulteriore decisione.»
Il giovane, che seguiteremo a chiamar Maurilio, perchè nessuno fin allora poteva conoscergli altro nome, restituì al marchese quel pezzo di carta, e disse con placida amarezza:
— Il mio non sarà stato che un sogno... un sogno che ha durato ben poco..... ma che sarebbe anche meglio non avesse neppur cominciato..... Il colpo non mi giunge inatteso... Chi son io dunque? Nessuno e sempre nessuno: preso nelle tenebre, vivrò nelle tenebre, e non saprò mai mettere un nome a quella individualità a cui debbo il tristo dono della vita.
Il marchese, che credette scorgere in queste parole l'accento d'una profonda desolazione, lo interruppe con amorevolezza.
— Non perdete ogni speranza. Nariccia, a quanto mi ripetè Padre Bonaventura, incaricò dell'empia commissione due scellerati, di uno dei quali forse c'è ancora possibile aver notizie da poterlo rintracciare; egli è appunto il fratello di quella sciagurata che fu cameriera della mia infelice sorella, e per mezzo di lei se ne potrà probabilmente saper qualche cosa. Il suo nome è Michele Luponi e venne sopranominato Stracciaferro.
Innanzi agli occhi di Maurilio passò come un lampo di color sanguigno, il suo cervello sentì come la puntura di un ferro arroventato.
— L'altro di quei scellerati che derubarono il bambino chiamavasi Graffigna? domandò vivamente il giovane.
— Sì.
Egli sapeva oramai l'esser suo. L'azzardo gli aveva squadernata dinanzi la pagina del suo destino. Si rivide nell'orrido aere fetente della carcere dove aveva udito l'orribile racconto di Stracciaferro; rivide la faccia bestiale di quell'uomo ubriaco tormentata dai graffi del rimorso; riudì le orribili parole di Graffigna che tutto lo avean fatto raccapricciare; riudì sulle labbra di Stracciaferro il grido ch'egli confessava riudire nelle sue notti, il grido della donna assassinata che domandava le si rendesse il suo sangue, riudì il grido supremo di toro ferito con cui l'assassino aveva conchiuso quella spaventosa narrazione: «quel bambino era mio figlio!» e sentì insieme assalirgli le intime sedi della vita un gelo di morte ed una vampa di fuoco. Quella donna assassinata era sua madre; il bambino derubatole era egli stesso; suo padre era un galeotto, ladro ed omicida!
Il delirio e la follia gli si slanciarono al capo insieme coll'èmpito del sangue: sentì che a stento poteva tenere il freno della ragione al suo intelletto scombuiato.
— Orrore ed infamia! esclamò egli coll'aspetto d'un dissensato che è assalito dal parosismo della follia. Infamia ed orrore!... Ecco la mia ricchezza; ecco la mia parte di bene sulla terra.
Ruppe in una risata ad udirsi penosissima, e si slanciò fuori dello studio.
— Maurilio! Maurilio! gridò il marchese con voce in cui si temperavano il rimprovero, il comando autorevole ed un affettuoso interesse; ma il giovane non l'udì, e corse via, come Caino dopo l'orrendo suo delitto.
Il marchese fu d'un balzo al cordone del campanello e gli diede una violenta tirata.
L'infelice figliuolo di Stracciaferro, correndo incontrò nella sala precedente il gabinetto onde fuggiva, la contessina Virginia, che veniva appunto in cerca di lui, e non tanto per desiderio di rivedere il rinvenuto fratello, quanto per avere da esso novelle di altra persona a lei cara.
— Mio fratello! disse la fanciulla colla melodia soave della sua voce argentina.
Il fuggente si fermò sui due piedi e spaventò la donzella per l'alterazione profonda delle sembianze con cui le si accostò.
— Fratello! Fratello! esclamò egli con un sogghigno indescrivibile sulle labbra agitate da un tremore convulso. Io non sono vostro fratello, no, non lo sono.
Incontrò collo sguardo de' suoi occhi turbati quello limpido e dolcissimo delle serene papille di lei.
— Ah! quegli occhi! soggiunse. Sono gli occhi di vostra madre.... La mia, servendo la vostra, glie li ha rubati per darli a me, che portava nel suo seno.
S'interruppe mandando un grido rauco da selvaggio.
— Nella nostra famiglia si ruba! gridò quindi con disperata energia, percotendosi coi due pugni chiusi la fronte.
Virginia impietosita, commossa, gli si appressò vieppiù e gli pose sopra un braccio la sua destra dilicata e gentile.
[183] — Calmatevi, Maurilio; gli disse mitemente.
Il giovane non lasciò che altrimenti continuasse. Vide innanzi a sè quella tanta bellezza illuminata da un divino raggio di pietà; sentì sul suo braccio il tocco di quella mano come una ineffabil carezza. Il suo delirio dimenticò tutto il resto per non esser più che un delirio d'amore.
— Non sono tuo fratello: diss'egli: dunque posso amarti, angelo del mio cuore... Ho sangue di plebe. Che importa? Mi sento tanta grandezza de esser primo fra gli uomini. Son figlio d'assassino. Che monta? L'energia delittuosa dell'eredità paterna sarà in me l'energia delle grandi cose... T'amo da tanto tempo con amor furibondo.
L'afferrò colle sue grosse mani: ella si dibattè spaventata mandando un grido. In quel punto dall'una delle porte di quella sala entrava il domestico chiamato dalla scampanellata del marchese, e questi si presentava sulla soglia del suo studio, chiamato dal grido di Virginia.
Maurilio, alla vista dei sopraggiunti, abbandonò la ragazza, gettò un urlo e riprese la sua fuga disperata.
— Tenete dietro al signor Maurilio; comandò il marchese, presso cui Virginia era venuta a rifugiarsi tutto sgomenta: vegliate su di lui e frattanto qualcuno corra subito per un medico.
Maurilio era corso nella sua camera e ne aveva chiuso a chiave l'uscio, entrandovi, prima che il domestico giungesse a quella soglia. Al battere nella porta, alle parole del servitore egli non rispose nemmeno; tanto che il domestico, stancatosi dopo replicati tentativi, venne dal padrone a dirgli quel ch'era avvenuto e riceverne nuovi ordini.
— Andate pel medico, frattanto; e quando e' sia giunto, penseremo al da farsi.
Il giovane, disperato, s'era buttato traverso il letto colla faccia affondata nelle coltri ed aveva prorotto in penosissimi singhiozzi.
— Figlio d'un assassino, ripeteva, figlio d'un assassino. E mia madre una serva!.. E l'amo tanto Virginia!... E nel mio capo c'è l'intelligenza d'un uomo superiore!... Sono nato dal fango sociale: nelle mie vene corre il germe fatale del delitto: lo sento alla ferocia d'un istinto che mi si fa gigante nel petto.... È un retaggio fatale.... Si trasmette come la tisi, il rachitismo e la pazzia.... La pazzia, la sento che viene.... Oh sia la benvenuta!... Mia madre fu assassinata da mio padre.... Mio padre assassino.... Ed io che cosa sarò?...
Una vertiginosa fantasmagoria di strane immagini orribili, spaventose, in mezzo ad una nebbia color di sangue, gl'invase il cervello. Vide in un tramestio orrendo assassini e vittime, suppliziati e carnefici, antri di prigione e ferri di catene, e dominante su tutto la schifosa ombra dello stromento del supremo supplizio. Si levò irte le chiome, smarriti gli occhi, sconvolte le sembianze, contratti i muscoli, tutti in un tremito i nervi. Gli spettri della pazzia e dell'infamia gli danzavano innanzi. Tutti gli oggetti vedeva di color rosso affuocato; sentiva con dolore inesprimibile battergli forte i polsi nella testa. Si recò barcollando come un ebbro, le mani tese innanzi al par d'un cieco, al lavamano, e immerse a più riprese la faccia e la testa nel catino pieno d'acqua fredda; ciò non gli bastava: prese una tovaglia, la inzuppò nell'acqua e se ne cinse la fronte che gli ardeva. Tutto ciò fece con atti macchinali, senza aver coscienza di sè. Ne provò alcun giovamento. L'orribile ridda che gli movevano nel cervello le immagini provocate dal delirio si calmò; le visioni spaventose si dileguarono in quella nebbia dello spirito che da rossa color sangue si sfumava in un color rosato con dei guizzi più vivi che parevano baleni. Guardò intorno a sè, come attonito, smemorato, e si riconobbe. Trovò nella sua mente, dritto, per così dire, in mezzo al rovinio di quelle visioni della febbre, un pensiero:
— Non ho detto al marchese chi e dov'era il suo vero nipote; e convien bene ch'e' lo sappia.
Si strappò dalla fronte la servietta fumante onde s'era cinto le tempia e si slanciò verso la porta. Ma ecco tosto la mano adunca della pazzia acciuffarlo di nuovo. La febbre cerebrale, che sempre incombeva, minaccia immanente sugli organi sovreccitati della sua intelligenza, gli piombò addosso come falco sulla preda. Stralunò gli occhi, rise orribilmente, battè l'aria colle braccia come fa delle ali uccello ferito che non può più levarsi a volo, mandò un grido soffocato, un gemito, un rantolo; e cadde lungo e disteso sul pavimento.
Al sopraggiungere del medico fu aperta di forza la porta, il giovane fu raccolto di terra e posto a letto, e il male fu sollecitamente ed energicamente combattuto coi salassi, colle mignatte, colle ventose.
— Temo che nulla non possa più salvarlo: disse al terzo giorno il medico al marchese che mostrava molto interesse per quell'infelice.
Egli non era ancora tornato neppure un momento in cognizione di sè, e ad ogni parosismo di quella febbre cui nulla ancora aveva potuto vincere, tornava più fiero, più penoso, più dissensato il delirio.
Giovanni Selva, Romualdo, Vanardi, saputo dello stato del loro amico, chiesero ed ottennero di venirgli prestar le loro cure, come avevano già fatto nella precedente identica malattia, quando essi l'avevano primamente ospitato.
Più tardi ci furono eziandio Don Venanzio e la vecchia Margherita, la nutrice di Gian-Luigi. Il parroco era corso a Torino, tutto stravolto e sconsolato dalle due bruttissime novelle: l'arresto di Gian-Luigi e la malattia mortale di Maurilio; la Margherita, udito con indicibile angoscia quello che era avvenuto a colui ch'essa aveva nutrito col suo latte, [184] cui amava più d'un figliuolo, aveva voluto accorrere alla capitale, come se la sua presenza lo potesse difendere, lo potesse aiutare; e seco aveva recate ancora intatte le mille lire statele date poco tempo prima dal medichino. Tanto a lei, quanto al parroco, l'autorità giudiziaria aveva intimato comparir come testimoni nel processo che con sollecitudine straordinaria si veniva istruendo contro di Quercia.
La mattina del giorno che successe a quello in cui il medichino venne arrestato, il conte Langosco entrò senza farsi annunziare nella camera da letto di sua moglie alle ore dieci, che sono per quella gente, in tale stagione, come l'ora dell'alba pei poveri operai.
Candida aveva passata una notte infernale, in cui lo spasimo dell'anima aveva mantenuta vigorosa la febbre del corpo; sulla sua bellezza e sulla sua gioventù erano passati nel giro di dodici ore due lustri ed avevano stampata la loro impronta nell'incavamento delle occhiaie, nella carnagione che aveva perduta la freschezza ed era diventata floscia, nelle finissime rughe che le si erano disegnate come raggi divergenti dall'angolo esterno degli occhi alle tempia. Certo mai colpa di donna violatrice del suo giuramento di fedeltà coniugale non fu punita con più crudeli tormenti, coll'angoscia di più vive paure, di più profonda vergogna; ned ella poteva dirsi aver già tutto pagato il suo fio, essere andata al fondo della coppa di dolore, e non poterle piombar più sull'anima spasimi e sgomenti ed ansietà ed onta maggiori. Nell'orribile insonnia di quella notte, la sua anima era passata per tutti gli stadi della disperazione, dalla violenza dissensata al torpido abbandono dell'abbattimento; ne aveva pensato ogni fatta spedienti, dal coraggio della dissimulazione alla fuga, dal pentimento in un chiostro al suicidio. E ciò che era un aggravamento delle sue triste condizioni morali si è che quell'empio amore appiccatosele a tutto l'essere, come alle membra di Alcide la camicia di Nesso; quell'empio amore continuava in lei torbido, fiero, violento, scellerato, a dispetto della vergogna, del rimorso, d'un sentimento inesprimibile di rabbia impotente e selvaggia. Tutto le inaspriva la sanguinante piaga; e quello che aveva nel pensiero e quello che aveva intorno a sè. Ogni oggetto che vedeva in quella camera le ricordava un momento della presenza, una mossa, una parola di colui che era penetrato profanatore in quel santuario della fede coniugale: la cameriera che era rimasta l'ultima a disporre il lumicino per la notte, cui essa aveva comandato testè d'allontanarsi, le stava come un'incarnazione vivente di certi ricordi per cui la doveva arrossire; l'aspetto e la parola di Zoe le rimanevano presenti come la mitologica persecuzione d'una furia vendicatrice; aveva infisso nel cervello lo sguardo freddamente implacabile del marito. Al pensiero di rivedere costui raccapricciava: le pareva che meno tremendo le sarebbe stato sopportare lo sguardo del Giudice Supremo: in questo almeno colla giustizia avrebbe trovato pietà; nell'anima del conte, devastata come il suo cranio ingiallito, come il suo volto scarnato, sapeva che di pietà non ne avrebbe potuto trovare. E in mezzo a tutto ciò l'assalivano di quando in quando con un'aspra voluttà inenarrabile soavi rimembranze di certi momenti, di certe parole di lui, di certi delirii, di acuti diletti della passione e della colpa.
Quando vide entrare il marito nella sua camera, chiuse gli occhi come per allontanare un momento almeno l'urto penoso dello sguardo di lui: il suo respiro affannato diceva quanto il cuore le battesse. Il conte le si avvicinò lentamente, fissandola fino dalla porta col suo vivace occhio da vipera. La fante, che era presente, ebbe compassione della sua padrona, e mettendosi innanzi al conte, gli disse con voce sommessa:
— La riposa un momentino....
Langosco non la lasciò continuare: la fece ammutolire con un freddo sguardo, che fu più eloquente d'ogni parola, e colla destra la trasse in là per passare.
— Vedo con piacere, diss'egli quando fu alla sponda del letto, che voi state molto meglio.
Candida aprì gli occhi, ma non li volse verso il marito, sibbene al soffitto, come per protestare tacitamente contro quell'affermazione. Ella si sentiva tanto male che le pareva dover morire.
— Sì, voi dovete star meglio: continuava il conte: lo giudico dal vostro aspetto.
Si voltò verso la cameriera e le disse tranquillamente:
— Andate.
La donna non si fece ripetere il comando.
— Vi ho detto che dovete star meglio: riprese il marito quando fu solo colla contessa: avete capito? Tanto meglio, che questa sera si deve assolutamente andare al concerto a Corte... Si deve assolutamente!... Non vi vedrò più fino a questa sera. Siate pronta alle nove; avrò l'onore di accompagnarvi... E voglio che sia così.
Pronunziò queste parole lentamente, senza minaccia, ma con espressione d'irremovibile fermezza.
Candida non pensò neppure a ribellarsi; capì che il marito voleva opporre alle ciarle della gente la presenza di sua moglie; pensò con sommo desiderio fra sè: «Ah! se prima di questa sera potessi esser morta!»
— Non fa bisogno ch'io vi dica, soggiunse il marito, che conto sul vostro solito buon gusto nello sfarzo dell'acconciatura, e che mostrerete alla malignità [185] delle vostre amiche e dei miei nemici una fronte serena ed un allegro sorriso. Noblesse oblige, madama!
La contessa non parlò: il marito prese quel silenzio come un consentimento, qual era. Stette un istante, e poi disse col medesimo accento di freddezza, quasi d'apatia:
— Quanto alle ulteriori determinazioni da prendersi fra di noi, non è ancora il caso di parlarne. Quando saranno ricuperate quelle lettere e rimediata così in parte la vostra imprudenza, vi farò conoscere i miei propositi. Per ora, innanzi al mondo, dobbiamo essere più intimi e più d'accordo che mai. Domando la vostra cooperazione per questa commedia. Io saprò difendervi da ogni apparenza di oltraggio; sappiate voi aiutarmi a sostenere la parte di marito che non ha nulla da inquietarsi..... Entrando nel salone di Corte al mio braccio, questa sera avrete una mossa di confidente abbandono e di tranquilla sicurezza..... Tutte le donne sono abbastanza buone commedianti per fingere: voi dovete essere più commediante di tutte le altre.
Uscì dopo questo sanguinoso oltraggio, com'era entrato, lento, calmo, con un sogghigno d'insopportabile ironia.
La giornata fu lunga e corta per la infelice contessa. Si fece forza e si alzò, affranta com'era e colla febbre nelle ossa. Stette quasi sempre sdraiata sur una poltrona, affondata l'anima nel buio abisso d'una disperazione muta e senza risoluzione. I soli momenti di pace che la ebbe furono certi fugaci intorpidimenti dell'anima, in cui questa, stanca di soffrire, era invasa da una specie d'oblio che tutto le cancellava dalla mente: viveva così un minuto, quasi senza coscienza, e in quel breve riposo dello spasimo la prendeva nuove forze per soffrir di nuovo.
Alle sette ore si alzò e venne alla teletta a farsi adornare, ad applicarsi sul volto la maschera, a studiare come far mentire gli occhi, la fronte, il sorriso.
Alle nove in punto la cameriera venne a dirle:
— Il signor conte le fa sapere che l'aspetta nel salone.
In que' tempi, finito il carnevale cessava il grandioso spettacolo di opera e ballo al teatro Regio; anzi di quaresima nissun teatro era licenziato a stare aperto e chiamare il pubblico a divertimenti profani. Regnavano assolutamente sulla noia dei cittadini i predicatori, di cui uno per ogni chiesa chiamava tutti i giorni a pentirsi una folla di donne eleganti che ci andavano per esser viste, e di giovani galanti che ci accorrevano per vedere; e facevano solamente concorrenza a questo magro spasso le marionette e i burattini e qualche privato concerto. La Corte in tutta la quaresima soleva darne due di concerti, ed era ad uno di essi che, dietro il comando maritale, interveniva la contessa Langosco di Staffarda quella tal sera, entrando, secondo il programma stabilito, appoggiata al braccio del conte, nel gran salone delle colonne al palazzo reale, dieci minuti prima che vi facessero la loro apparizione i sovrani e la loro famiglia.
L'entrata del conte e della contessa fece una viva impressione generale: tutti gli occhi si volsero verso di loro; le parole si fermarono sul labbro dei conversanti; successe uno strano silenzio significante, seguìto tosto da un susurro più significante ancora: erano in ciò tutta la curiosità, tutto il maligno talento, tutta la malizia delle induzioni di quel mostro gentilmente feroce che è il mondo elegante. Per Torino in quel giorno non s'era parlato d'altro, in quelle stesse sontuosissime sale, quella sera, non si parlava d'altro che della scoperta di quel covo d'assassini, dell'arresto dei principali capi di quella banda, che il pubblico era già avvezzo a temere sotto il nome della cocca, della cattura, in qualità di comandante supremo di tale scellerata schiera, di quel giovane elegante conosciuto da tutta la società più scelta col nome di dottor Quercia. La meraviglia, lo sdegno, l'orrore, lo sgomento di questa società che aveva accolto nel suo seno sì tremendo nemico erano al colmo: si vendicava dell'inganno sofferto, dei corsi pericoli, della temerità di quel miserabile coll'improperio e con voti sanguinarii degni d'una paura non bene rassicurata. Si conoscevano da tutti le intime attinenze della contessa di Staffarda coll'assassino mascherato da zerbinotto seduttore, e il nome di lei entrava con quasi ugual proporzione di quello di lui nella vivacità dei discorsi su questo argomento. Lo sgomento comune e la vergogna della sofferta frode se la pigliavano anche colla contessa, cui pure avrebbe bastato a non far risparmiare la sola malignità della natura umana, acuita dallo sfregamento sociale e rincalzata dall'invidia muliebre. Dal suo sesso la misera aveva un'assoluta condanna inesorabile, senza beneficio di circostanze attenuanti; e gli uomini non osavano neppure prenderne le difese innanzi all'accanimento delle mogli e delle amanti. Langosco, pratico della scena del mondo, aveva capito che c'era un mezzo solo, non dico per trionfare di questa valanga di ciarle, ma porle freno e costringerla a mettere la sordina al suo crescendo: e questo mezzo era l'audacia. Ritirarsi innanzi ad essa era un volersi perdere: il nome non sostenuto dalla presenza della persona in quella gara di pettegolezzi era sicuro di rimanervi schiacciato; però aveva forzato la moglie a comparire in quella guisa, ed aveva aspettato per esporsi al fuoco incrociato degli sguardi e delle parole di quell'assemblea, il momento più tardo che si potesse, quando il loro ingresso doveva produrre maggior effetto.
Il conte Amedeo Filiberto Langosco di Staffarda in quel momento era un bello ed interessante spettacolo a mirarsi da un pittore, da un poeta, da un osservatore di costumi, da uno scrutatore di [186] caratteri e studioso della natura umana, poichè questi soltanto potevano capire la superba grandezza del suo contegno, penetrare il potente significato dell'espressione che aveva saputo dare al suo aspetto. Levato il capo, eretto il collo, egli camminava più dritto che da lungo tempo non avesse fatto mai; sotto il suo cranio d'avorio giallo, sulla cui lucida superficie si rifletteva la luce dei doppieri, brillavano fieramente gli occhi che giravano intorno con uno sguardo di calma disfida, pronti ad accendersi al menomo urto d'un atto men rispettoso, d'un sogghigno; le labbra aveva atteggiate a più serietà che non gli fosse abituale; e la guisa con cui dava il braccio a sua moglie, era espressiva d'una deferenza protettrice che indicava chiaramente una lieve mancanza di riguardo a lei essere da lui considerata come un fattogli oltraggio, e ne avrebbe a qualcheduno fatto scontare il fio. Il marchese di Baldissero, che s'intendeva d'ogni nobiltà d'animo e d'ogni valore, lasciò scorgere sulla sua bella fisionomia imponente quanto quel contegno gli andasse a grado, e fu egli il primo a fare un cenno cortese di saluto al conte, appena gli occhi di costui vennero ad incontrare i suoi.
E la povera Candida? Chi le avesse visto nel cuore avrebbe giudicato che il coraggio con cui ella s'avanzava, gaia e sorridente sotto il fuoco di tutti quegli sguardi, portando la morte nell'anima, era assai maggiore del coraggio di cui ha bisogno il guerriero che s'avanza contro il fuoco nemico in battaglia. Per lei quella era diffatti una grande e decisiva battaglia, nella quale un momento di esitazione, di debolezza, di tremore le avrebbe dato una sconfitta da non ricattarsene mai più. Quando ella s'era presentata nel salone dove stava aspettandola il marito, questi, senza dirle una parola, le aveva rivolto un ratto sguardo con cui l'aveva esaminata da capo a piedi, e vistala qual egli la voleva, elegante, senza lagrime negli occhi, il belletto sulla faccia, lo sbarbaglio de' diamanti sul capo, intorno al collo, sul seno, fece un legger cenno approvatore ed additò l'uscio che conduceva alle anticamere, come invitandola a passar prima. Traversarono l'appartamento, scesero le scale, salirono in carrozza, percorsero la strada senza che una parola nè uno sguardo più fosse fra loro scambiato. Nel palazzo reale, al momento di varcare la soglia del gran salone detto degli Svizzeri, la contessa si fermò come se le mancassero allora le forze. Le gambe le tremavano, e la sentiva nelle orecchie un ronzìo penoso. Il conte la guardò e le porse il braccio senza parlare; sotto quell'occhiata tutto il corpo di lei ebbe un legger fremito; ma dopo l'esitazione d'un attimo, ella passò la sua mano nella piegatura del braccio del marito, e riprese il cammino. Entrando nelle sale, percorrendo sotto una piova abbagliante di luce i reali appartamenti, in mezzo ad una siepe di decorazioni, di uniformi civili e militari, di ricami e spallini, di sciabole e spadine, Candida rimase calma in apparenza e tranquilla, col suo sorriso che s'era stampato a forza sul labbro; ma nell'affacciarsi al salone principale, dove non più la sola curiosità degli uomini era da incontrarsi ma la malignità delle donne, ricevendo di pieno nel petto e nella fronte la scarica di tutti quegli sguardi, accolta da quel significativo silenzio e da quel susurro che tosto gli tenne dietro, alla contessa vennero meno ad un tratto la risolutezza ed il coraggio; il suo braccio si contrasse su quello del conte, e vi pesò come per tenersi e sorreggersi, mentre fino allora, appena era se l'aveva lievemente toccato; il ronzìo delle sue orecchie s'accrebbe infinitamente, innanzi ai suoi occhi, che pure erano levati e lucenti, passò una nebbia che le confuse alla vista tutte quelle faccie, tutti quegli oggetti, tutto quello sbarbaglio. Langosco non le volse una parola nè uno sguardo; il suo capo continuò a star dritto levato incontro alle faccie dell'assemblea, i suoi occhi continuarono ad incrociarsi cogli occhi di tutta quella turba elegante; ma strinse alla persona il braccio della moglie con una pressione lenta e forte nello stesso tempo che era un incoraggiamento, un conforto ed una promessa. «Fate animo, diceva, son qui io a proteggervi, e non avete da intimorirvi di nulla e di nessuno.»
Il cerimoniere di Corte venne a dividere moglie e marito, per allogarli al posto che loro competeva rispettivamente secondo il loro grado nella gerarchia cortigianesca; Candida si trovò in mezzo ad una schiera di spalle nude e di gioielli preziosi di donne che avevano più quarti nel blasone che bellezza sul volto e gioventù. Il suo sorriso si contrasse un momento in sogghigno al vedere il freddo saluto con cui fu accolta; una vecchia, che a saputa di tutti, aveva impiegata la giovinezza ad esser l'amante di più alti personaggi, si volse con una certa affettazione dall'altra parte, mormorando con piglio disdegnoso parole che Candida non potè intendere, ma di cui era troppo facile capire il significato. Ciò nulla meno la contessa tenne un fermo contegno: rispose ai freddi ed orgogliosi saluti con saluti più freddi ancora e più orgogliosi; stette colla sua bella testa eretta, come se sulla sua fronte, insieme a quello de' diamanti, non avesse da portare il peso di nessuna vergogna. Il conte trovò negli uomini, in mezzo ai quali era penetrato, le medesime strette di mano che ci trovava tutte le altre volte. Erano troppo ben educati que' semidei dal sangue azzurro; il conte era troppo conosciuto come uomo da sapersi far portar rispetto, perchè il menomo cambiamento apparisse nel loro trattare verso di lui: nessuno non ebbe neppure il cattivo gusto di dimostrargli una compassione od un interessamento ch'egli avrebbe trovato un'offesa.
Non si era ancora affatto calmata la leggera agitazione che in quelle onde stagnanti di cortigiani [187] aveva suscitato il sopraggiungere dei coniugi Langosco, quando il batter de' piedi per terra del mastro di cerimonie alla soglia dell'uscio che conduceva agli appartamenti della famiglia reale, annunziò l'arrivo della Corte. Si fece un alto silenzio, e l'attenzione di tutti fu rivolta a quella porta, da cui entravano gli augusti personaggi, al suono della fanfara reale che echeggiò ad un tratto dalla tribuna dell'orchestra.
Si ascoltarono con un raccoglimento che si sarebbe potuto dir religioso varii pezzi di musica strumentale e vocale eccellentemente eseguiti e di eccellenti maestri. Ogni cortigiano guardando verso il trono dove sedeva la pallida figura di re Carlo Alberto, aveva l'aspetto beato d'un Joghi indiano che, a forza di contemplarsi la punta del naso, è giunto a vedersi dischiuso innanzi l'infinito. In un intervallo, il Re sorse, e dietro il suo esempio tutti, e come solea, Carlo Alberto percorse lentamente il salone, facendo orgogliosa e felice ora questa ora quella delle dame, or questo or quello dei petti ornati di croci, col dire poche parole, regalare uno de' suoi gelati sorrisi e passare. Fu notato che il Re non favorì nè d'una parola nè d'uno sguardo la contessa di Staffarda, quantunque fosse una delle più belle e delle più eleganti, e quindi chiamasse meglio delle altre l'attenzione. Il contegno delle dame a lei vicine, il quale fino allora era stato freddo, divenne decisamente ostile. Ma questo sotto un certo rispetto riuscì a giovamento di Candida, perchè l'irritazione dello sdegno che in lei ne nacque, valse a ridarle quelle forze che venivano scemando e per la passione dell'animo e pel malessere fisico, cui le cagionava la febbre ogni minuto crescente.
— Hai udito, marchesa: disse dietro Candida una baronessa, magra come un'acciuga, che faceva uscire spudoratamente dalla scollacciatura della veste le ossa di due spalle da scheletro: quel famoso Quercia che era capo di una banda di assassini, si vuole che fosse nelle buone grazie d'una signora comme-il-faut.
— Comme-il-faut, no certo: rispose la marchesa con una voce che rassomigliava a un sibilo di serpe. Una donna ammodo non avrebbe mai ricevuto un simile individuo.
La contessa Langosco si voltò e guardò bene in faccia l'una e l'altra di quelle due donne.
— Io l'ho ricevuto: disse fermamente: e le assicuro, signora marchesa, che quel tale aveva portamento e maniere da ingannare qualunque, anche lei; ed anche lei, signora baronessa, soggiunse volgendosi a quest'ultima che smorfiva altezzosamente. Chicchessia l'avrebbe scambiato per un addetto di ambasciata o per un ufficiale di dragoni... in borghese.
Tutti sapevano che quella marchesa aveva una tresca con un addetto dell'ambasciata austriaca, e che quella baronessa osteologica pagava i debiti ad un giovane ufficiale di cavalleria, che ne approfittava per farne a rotta di collo.
Se gli sguardi fossero lame di pugnale, la contessa Langosco sarebbe caduta all'istante al suolo trafitta da parte a parte, sì niquitose furono le occhiate che quelle dame le slanciarono; ma le labbra però continuavano a sorridere.
— Eh via! disse la baronessa: la nascita e il sangue non si possono simulare, e bisogna noi stessi ne pas avoir de naissance, ed essere di sangue roturier per lasciarcisi ingannare.
Candida tacque; aveva una smania feroce di gettare sul magro volto impiastricciato di quella Venere anatomica una parola oltraggiosa come uno schiaffo; ma lo spavento delle conseguenze che avrebbe potuto avere uno scandalo riuscì a frenarla. Strinse siffattamente colle mani convulse il suo ventaglio di madreperla che lo ruppe; seguitò a sorridere colle labbra, a cui la cosmetica pomata di carminio dava il colore della salute e della gioia; rispose con un'occhiata civettesca ai ditirambi che le indirizzavano gli sguardi dell'ufficialetto della baronessa, il quale col pretesto di vagheggiare la pagatrice dei suoi debiti, ammirava con espressione di vivo desiderio la bellezza della contessa Candida.
Ma in mezzo a tutta quella folla c'era una persona, che indovinava in parte le strette dell'anima di questa povera donna, che sotto il belletto delle guancie di lei scorgevane la pallidezza morbosa, che dietro il sorriso avvertiva lo spasimo soffocato: e questa persona era il padre di Candida, il barone La Cappa. Approfittò egli di quel rompersi degli ordini che produsse il moversi del Re, e si accostò alla figliuola.
— Tu hai qualche cosa, Candida: le disse sotto voce.
La contessa si attaccò al braccio paterno come un naufrago s'appiglia al remo, che gli venga porto.
— Dàmmi il tuo braccio, papà: diss'ella; e conducimi fuori da questo salone. Ci ho troppo caldo, soffoco, ho bisogno d'un po' d'aria.
Si allontanò sorreggendosi a suo padre, seguìta dagli sguardi e dagli ammicchi delle dame che le eran vicino; trasse il barone fino in un angolo di una sala in cui era minore la gente, e buttatasi sopra un divano, si fece sedervi presso il suo compagno.
— Che ho? diss'ella allora rispondendo alla domanda che le aveva fatta nel salone suo padre. Ho che sono la più sventurata donna del mondo e che vorrei esser morta.
Queste parole furono pronunciate con accento disperato e con voce piena di pianto; ma in quella, Candida vide parecchi sguardi fissi sopra di lei ad osservarla, ed ebbe la forza di piegar di nuovo i muscoli della sua faccia a quel sorriso che l'aveva stanca sino allora più che non qualsiasi fatica di corpo.
[188] — Misericordia! esclamò il barone spaventato, giungendo le mani con atto d'infinito dolore.
Ma la figliuola, sempre con quella maschera di letizia sul volto, gli pose una mano sul braccio e gli disse sotto voce:
— Piano, frenati, abbi l'aria tranquilla e contenta. Qui dentro bisogna nasconder tutto e finger tutto. Sorridi come vedi sorrider me. Guarda come ci osservano con avida curiosità!
Il barone girò intorno lo sguardo stupito di uomo che non capisce, e ripetè la sua interrogazione:
— Ma che cosa dunque succede, in nome di Dio?
E la contessa, curvandosi sulla spalla di lui e parlandogli all'orecchio:
— Tu hai voluto farmi felice, padre mio; mi hai data la ricchezza; mi hai dato col marito un illustre blasone (sorrise amaramente nel dire queste ultime parole); ebbene tutto questo non basta. Non sai tu che di questi giorni ho invidiato la sorte di tutte le altre donne, ho desiderato cambiare la mia in quella d'una povera operaia?
Il degno barone guardava la sua figliuola come si guarda uno che ad un tratto si metta a spacciare le maggiori follie del mondo, e non sapeva che risposta fare. La figliuola continuava dopo una brevissima pausa ed abbassando ancora di più la voce:
— Non hai tu udito questa sera, qui stesso, in questi crocchi eleganti, infamare la tua figliuola?
Anatolio La Cappa si atteggiò della persona con tutta l'imponenza degna d'un Intendente generale, della qual carica, insieme colla pensione di ritiro, aveva titolo e grado, e fece colla sua superba mossa tintinnire fieramente i ciondoli e i gingilli delle decorazioni che gli coprivano il petto del suo abito a spada, ricamato d'oro al goletto e ai paramani.
— Corbleu! esclamò egli con tutta la bravura che potrebbe avere il discendente da un eroe delle crociate. Avrei voluto vedere anche questa! Infamare la mia figliuola? Ma a chi fosse tanto temerario la farei ben io pagare cara e salata..... con un buon processo.
— No, padre mio: disse scoraggiatamente Candida scuotendo la testa. Un processo sarebbe peggio.
— Hai ragione. Che processo? Contro siffatta canaglia... perchè chi si permettesse una cosa simile, non potrebbe essere che canaglia... contro codesta gente c'è di meglio da fare che non un processo. Ho ancora abbastanza aderenti in alti luoghi... che? Ricorrerei, se bisognasse, a S. M. medesima che non ha obliato il suo antico, fedel servitore, e me ne ha dato una prova testè ancora col modo onde mi ha salutato... e quel miserabile lo farei ricoverare a Fenestrelle o mandare in Sardegna, perchè meditasse à loisir sui pericoli di perdere il rispetto a chi va rispettato.
— Nè anche questo non si può fare: riprese la contessa, scuotendo nuovamente la testa. Chi si compiace di straziare la mia fama è più potente di noi, ha più aderenze di noi, è più presso a S. M. di noi...
— Tu scherzi: interruppe il barone scandolezzato. I Langosco di Staffarda accompagnarono il conte Verde nella sua spedizione in Oriente....
— Ma noi non siamo che La Cappa.
— Palsambleu! Tuo marito non sarebbe capace di far rispettare sua moglie?
— Sì: è pronto a battersi contro chicchessiasi gli lasci pervenire all'orecchio una di quelle infamie che si susurrano dietro il ventaglio; ma lo scandalo d'un duello non rimedierebbe nulla; e quelle infamie sono troppo codarde per osare venirci assalire di fronte.... Ah padre mio, non c'è riparo: io sono perduta.
L'accento con cui l'infelice diceva tali parole era straziante, e pur tuttavia il suo sorriso non cessava di rallegrare le sue labbra, e le sue sembianze continuavano a mostrare la maschera d'una lieta tranquillità. In siffatto contrasto eravi qualche cosa di più penoso e di più commovente che non nelle ordinarie manifestazioni del dolore e della disperazione.
— Ma corpo del diavolo!... (L'animo del degno barone Intendente generale era così turbato che invece delle solite eleganti parole esclamative in francese, si lasciò scappare questa plebea imprecazione.) Posso io sapere finalmente che cosa sia succeduto?
Candida, con infinita passione dell'animo, ma in mezzo a due risatine, come se contasse a suo padre in un allegro colloquio il più piacevole aneddoto, disse con voce che appena fa udita dal barone, il quale curvò verso di lei l'orecchia:
— Hai tu sentito parlare dell'arresto del dottor Quercia?
— Giusto! esclamò il padre. Volevo dirtene un motto. Ce drôle-là, mi pare che tu lo conoscevi.
Candida pose di nuovo una mano sul braccio di suo padre e fissò negli occhi di lui uno sguardo che diceva un'infinità di cose: ma questa volta non ebbe più la forza di ridere nè pur di sorridere.
— Il mondo, susurrò ella, lo dice mio amico.
La Cappa sussultò sul divano.
— Ah diable!
— E da un momento all'altro possono saltar fuori delle carte che dieno ragione a quella voce.
— Possibile!... che carte?
— Delle lettere: disse la contessa così piano che la parola fu, più che intesa, indovinata dal barone.
— L'imprudente!... Sì, cospetto che questo è un affare disgustoso assai... E tuo marito?
— Sa tutto.
— Misericordia!... E che vuol fare?
[189] — Ricuperarle... Ma io vorrei ottenere ciò d'altra parte e senza il suo concorso.
— Hai ragione.
— Sei tu pronto ad aiutarmi, padre mio?
— Prontissimo... Che s'avrebbe da fare?
— Ci vorrà di certo una somma... piuttosto vistosa... e qualche passo presso alcuni personaggi...
Il barone all'udire fatta menzione d'un sacrifizio di denaro, non potè dissimulare una smorfia di poco aggradimento. Glie ne venne subito l'ispirazione di fare un buon predicozzo di morale alla sua figliuola; ma il luogo in cui erano e la presenza di tanti osservatori, non erano acconci a codesto. La figliuola lo interruppe di subito per farglielo notare.
— Ho bisogno di conoscere un po' meglio i particolari della cosa: disse allora con tono che si accostava al burbero, il padre spaventato dalla minaccia alla sua cassaforte.
— Sì; e siccome ora e qui non posso dirti tutto, e volli solamente dartene un cenno, perchè avevo bisogno di sfogo e mi premeva aver la consolazione di trovare in te un sostegno; così riserberò il resto da dirti per domani. Mi permetti tu ch'io vada da te a versarci tutta l'anima mia?
La Cappa che adorava la sua figliuola, non potè vedere senza intenerimento l'aria di supplicazione che spirava dalle sembianze e dagli occhi di lei.
— Vieni pure, gioia mia: rispose: ti darò tutta la mattinata a te sola, e non avremo fastidio di disturbatori.
La lotta fra l'amore del suo danaro e quello per la sua figliuola era finita in lui col trionfo di quest'ultimo.
— E di qualunque cosa tu abbia bisogno, soggiunse, e che tuo padre possa fare..... (fece ancora una piccola pausa) ebbene, conta pure su di lui.
Candida gli strinse la mano in manifestazione di muta, ma vivissima riconoscenza.
— Ora, torniamo nel salone: diss'ella alzandosi. Tu mi hai ridonato coraggio.... E tutto già me lo sentivo mancare... Ah, padre mio, mi hai fatto un gran bene, e che tu sia benedetto!... Sto meglio e sono ora capace di affrontare di nuovo e sguardi e parole di queste maligne ipocrite.
Quasi in quel medesimo frattempo in cui la contessa parlava con suo padre, avevano luogo intorno alla cattura ed alla sorte di Quercia, due altri colloquii: uno fra il Re ed il marchese di Baldissero, l'altro fra il marito di Candida e il generale Barranchi.
Riferiamoli ambedue, cominciando da quest'ultimo.
— Avete qualche cosa da apprendermi, Langosco, intorno a quella vostra faccenda? cominciò il generale Barranchi, parlando piano e ritraendosi d'alquanto dalla folla circostante.
Il marito di Candida rise con quel suo legger ghigno da scettico di buona società.
— Oh oh! il capo della Polizia che ha bisogno d'informazioni da un semplice privato: diss'egli con tono forzatamente scherzoso. No, non ho nulla da apprendervi; perchè quello che vi ho da dire e che vi voglio dire, voi, gentiluomo qual siete, lo sapete prima e meglio di me: ed è che non si dovrebbe tollerare che il nome e l'onore d'una famiglia patrizia, sia alla merci d'un tristo qualunque il quale può colle sue parole comprometterla, e che quel nome e quell'onore vengano trascinati nel fango della pubblicità d'un processo. È una orribil cosa solo a pensarci.
— Voi avete ragione, rispose gravemente il generale con tutta la solennità della sua montura di parata il cui petto era una pleiade di costellazioni. Ma che cosa volete? Ci sono le leggi, c'è un codice....
Langosco fece un atto d'impazienza assai poco rispettoso per la maestà della patria legislazione.
— Bel guadagno di codice! Bel tesoro di leggi! esclamò, avvicinando però ancora più la bocca all'orecchio del suo uditore. Leggi rivoluzionarie che sanciscono l'uguaglianza nelle cose civili come nelle criminali fra il figliuolo del ministro e il figliuolo del portagerle. Sono un'assurdità. Quella di voler fare il legislatore liberale, il riformatore in preteso vantaggio del popolo, è una manìa di Carlo Alberto....
Queste parole erano pronunciate a voce tanto bassa che niun altro orecchio le poteva cogliere, fuor quello a cui erano susurrate, pur tuttavia il comandante de' carabinieri si guardò dintorno con qualche turbamento, e credette suo obbligo di servo fedele del Re e di cortigiano, protestare con un'esclamazione:
— Oh oh! non parlate a questo modo, conte. Il torto non vogliamo darglielo all'augusto Sovrano; ma se c'è qualche cosa da rimproverare, ascrivetelo a quella mano di avvocatuzzi e di legulei, onde pur troppo il buon re si lascia aggirare, tutta gente bacata dalle massime empie e sovversive della perfida rivoluzione francese.
— E di questa guisa si rovina lo Stato e la Monarchia. Togliete a questa ed a quello la base solida e il sostegno continuo e robusto d'una nobiltà rispettata e potente, e per forza li vedrete cascare in balìa delle passioni popolari e, come si suol dire oggidì, della democrazia.
— Giusto!
— E come volete avere un'aristocrazia costituita potente, che continui di generazione in generazione l'opera tradizionale, se coll'abolizione dei maggioraschi le togliete i mezzi di vivere; se con una fatale uguaglianza vous la ravalez al livello della plebe?
— Giustissimo!
[190] — Nei tempi antichi della nostra monarchia, quando si aveva un buon governo e si applicavano le buone massime...
— Prima degli orrori della empia rivoluzione francese: soggiunse Barranchi, il quale contro quella rivoluzione aveva l'odio più accanito che possa albergare nell'animo d'un generale.
— Ebbene, se si fosse presentato un caso simile all'attuale, non si sarebbe messo a repentaglio nessuna di quelle cose per cui il popolo deve avere venerazione, e la giustizia medesima ci avrebbe guadagnato.
— Sicuro! Prima di tutto non c'era quell'imprudente invenzione della pubblicità dei processi.
— Ma che processo? Non se ne sarebbe fatto. Un individuo della fatta di quel Quercia lo si sarebbe preso, e senza che nessuno ne sapesse e ci avesse a mettere il becco lo si sarebbe mandato a lavorare sotto lo staffile in qualche luogo remoto della Sardegna, dei più malsani, dove non avrebbe potuto menar la lingua con nessuno, e dove non avrebbe tardato a liberare del tutto il mondo e la società della sua scellerata persona.
Il conte Barranchi mandò un sospiro di rincrescimento.
— È vero: diss'egli; ma ora codesto non si può far più.
— Si potrebbe fare qualche cosa d'equivalente.
— Oh come?
Langosco abbassò ancora più la voce.
— Se quell'uomo scomparisse portando seco tutti i suoi segreti?
Barranchi s'inalberò.
— Oh! esclamò scotendo il capo: farlo.... (esitò un momento).... sparire?
— Colla fuga: s'affrettò a soggiungere il marito di Candida. Lo scellerato va in America, e non se ne intende mai più a parlare. Questa razza di gente mantiene siffatte promesse.... tanto più che ci ha tutta la sua convenienza. Una buona somma, un guardiano di carceri comperato, un capo-guardiano che chiuda gli occhi, e l'affare è fatto.... senza che nessuno sia compromesso.
Barranchi seguitava a scuotere la piccola testa colla stretta fronte corrugata e l'aria pensierosa. Il conte di Staffarda parlò ancora per un poco non senza calore; e il colloquio finì di poi con una stretta di mano.
Carlo Alberto aggirandosi, come fu detto, pel salone, venne presso al luogo dov'era il marchese di Baldissero e gli fece un cenno di saluto improntato di speciale benevolenza. Il marchese s'affrettò ad accostarsegli.
— La vedo con piacere, marchese; disse il Re. Ho desiderio di parlarle.
Queste parole fecero intorno a S. M. un cerchio di spazio vuoto, i cortigiani indietrando tutti le loro persone ricurve alla distanza di due metri: entro questo cerchio stette il marchese in mossa dignitosamente rispettosa, aspettando le parole reali.
Il Re cominciò a domandare di quel giovane che egli credeva ancora figliuolo del Valpetrosa, da lui conosciuto ed apprezzato nel fatal tempo della cospirazione del 1821; ed apprese così dallo zio di Virginia e la scoperta dell'errore che aveva fatto ritener per tale quel trovatello, e la malattia sopravvenuta a quest'infelice.
— Tutto ciò è molto strano; disse il Re. Ed ora che conta Ella di fare riguardo quel giovane?
— La sua intelligenza e il suo carattere non sono mutati per questo; e siccome io l'aveva scelto a mio segretario prima di supporlo mio congiunto...
Carlo Alberto lo interruppe con un gentile sorriso d'approvazione.
— Così conta tenerselo anche adesso. Ha ragione. Ma ce lo disputeremo, marchese; e se quel giovane ha un merito reale, può dirsi che la sua fortuna è fatta. Casa di Savoia ha creati i Caissotti e i Bogini...
Tacque ad un tratto, e il suo sguardo vago e velato si diede ad errare intorno con certa esitanza. Pareva che la sua mente fosse passata improvviso ad altre idee, che volesse parlar d'altri argomenti, ma non trovasse di subito le parole. Il marchese stette silenzioso aspettando.
— A proposito di cose strane: disse poi dopo una breve pausa: sa, marchese, che me ne avviene una abbastanza curiosa? Ha inteso parlare dell'arresto di quella banda di malfattori e del suo capo, certo Quercia, che si spacciava per medico e viveva da elegante?
— Sì, Maestà.
— Ebbene, ricevetti una lettera anonima, la quale pretende che personaggi alto locati e di molto influsso nelle cose pubbliche intendono salvare quel cotale e mi prega a nome della giustizia di non voler permettere una simil cosa. Ne ho parlato col Ministro dell'interno e col Guardasigilli: ed ho inteso come sembri in verità che quel miserabile abbia avute intime relazioni con una signora di nobilissimo casato, e che in pubblico dibattimento possano venire a galla certe circostanze da suscitare scandalo gravissimo e recare disdoro soverchio ad una delle più antiche ed illustri famiglie del nostro Regno e delle più benemerite del nostro Trono. In tali emergenze alcuni penserebbero che ragioni di alta politica, dovrebbero far passar sopra allo stretto rigore della privata giustizia, e che quindi sarebbe opportuno impedire lo scandalo.....
S'interruppe ancora, come aveva fatto poco prima, quasi le parole gli fossero mancate; ma questa volta il suo sguardo stette fisso con una certa vivacità sulla nobile fisionomia del marchese. Questi era troppo diplomatico e d'ingegno troppo penetrativo per non comprendere subito che il Re desiderava sapere il suo parere in proposito, e non voleva in pari tempo esplicitamente domandarglielo; e siccome avvisò [191] di presente, onesto e coscienzioso com'era, essere suo dovere esporre ciò che credeva il giusto ed il vero, senz'altro indugio rispose con un certo calore:
— Costoro, a mio debole parere, s'ingannano. Lasciamo il diritto costituendo, dove si potrebbe discutere, se in una monarchia come questa la nobiltà che più strettamente circonda e difende il trono, e deve accrescergli splendore, non s'abbia a guarentire di privilegi, ed anche nell'esercizio della giustizia non debba avere sostegno di giudici speciali, di procedure apposite ed eziandio di provvedimenti eccezionali. Ma innanzi all'attuale legislazione non è più permesso il dubbio. Le leggi emanate da V. M. vogliono che tutti sieno uguali: e le leggi quando ci sono bisogna osservarle, e tanto più chi è a capo dei popoli, se si vuole che i popoli medesimi le rispettino. In qualunque modo sia impegnata nel processo la nobil famiglia cui V. M. fece allusione, — ed io lo rimpiango profondamente — qualunque scandalo ne debba avvenire, io credo che bisogna assolutamente che giustizia si faccia.
Il Re aveva spenta la vivacità del suo sguardo, e stava in contegno attento, riflessivo, quasi melanconico. Stette un poco prima di parlare e poi disse sorridendo freddamente:
— Ella ha espresso precisamente la mia opinione. Godo di essere così bene d'accordo con Lei, di cui il senno, l'esperienza e lo zelo per la pubblica cosa dànno al parere tanto valore.
Fece di nuovo una piccola pausa, poi soggiunse con fermezza:
— Giustizia sarà fatta, e nessuno vi si potrà sottrarre.
Chi avesse detto al marchese di Baldissero che colle sue parole confermando in quella risoluzione lo spirito prima esitante del Re, egli condannava a salire sul patibolo il figliuolo di sua sorella! S'egli avesse saputo codesto, certo, per quanta passione ne avrebbe avuto, non sarebbe stato diverso il suo consiglio; ma sicuramente se avesse conosciuta la brutta verità, quella sera non si sarebbe recato a Corte, e probabilmente Gian-Luigi avrebbe potuto esser salvo. Ma il destino aveva voluto che Maurilio non avesse ancora potuto parlare.
Il Re, continuando il suo giro, vide il conte Barranchi, il quale, separatosi da Langosco, veniva accostandosi, pianeta o meglio satellite di Corte, al centro di attrazione. Ad un legger cenno fattogli da S. M., il generale s'affrettò ad accorrere e stare innanzi alla faccia pallida di Carlo Alberto, come il caporale che si presenta a ricevere un ordine dal capitano.
— Generale, gli disse il Re in modo che nessun altro potesse udire: ho una raccomandazione da farle.
Barranchi s'inchinò con una mossa delle braccia sollecita e vibrata che voleva dire:
— Comandi e conti su di me.
— Mi è riferito che si tenti sottrarre alla giustizia dei nostri tribunali quell'elegante capo di assassini, il cui arresto fa molto onore alla sua Polizia.
Barranchi tornò ad inchinarsi in atto di ringraziare, ma in realtà per nascondere il turbamento che quelle parole avevano in lui prodotto.
— Ordinerò al ministro degl'interni, continuava il Re, che procuri intorno a quel tristo una sorveglianza speciale, e prego anche Lei di voler coadiuvare colla sua Polizia ad impedire ogni evasione. Se l'accusato fuggisse sarebbe un disdoro per l'autorità del Governo e della legge; ed io ne proverei un particolare rammarico.
Il generale non trovò altro mezzo di rispondere che quello di fare un terzo inchino. Il Re passò.
— Sacrebleu! esclamò fra sè il conte Barranchi, quando rimpettì di nuovo il suo corpo serrato nella montura, drizzandolo dal profondo inchino cortigianesco. Che cosa dirà ora quel povero Langosco?
Si pose subito in cerca di costui, e non tardò a ritrovarlo.
La faccia del marito di Candida, poichè il generale ebbe parlato, si fece scura come una mattinata nebbiosa d'inverno.
— Sentite: diss'egli poi, mettendo proprio le labbra sul padiglione dell'orecchia dell'amico; si tratta di qualche cosa più che la vita o la morte. Può sempre tornar di giovamento l'aver un uomo a noi obbligato da gratitudine eterna e capace di qualunque cosa per noi. Sapete la favola: anche il sorcio tornò utile al leone; ed io sono qualche cosa più che un sorcio.... Non avreste che da lasciar fare.
La lettera anonima che era pervenuta nelle mani del Re, denunziatrice delle intenzioni di potenti personaggi di salvar Quercia, era stata scritta da Barnaba.
Due giorni dopo, alla mattina, verso le otto e mezzo, che in quella stagione invernale è affatto di buon'ora, una donna modestamente vestita di scuro, con un fitto velo sulla faccia che ne celava compiutamente le sembianze, presentavasi all'uscio della Zoe e domandava con voce tremola ed esitante di parlare alla celebre cortigiana. A costei tale visita era stata annunziata la sera precedente da un bigliettino di carta finissima, delicatamente profumato, il quale diceva:
«Una donna, che facilmente indovinerete chi sia, ha bisogno di parlarvi nell'interesse di quella persona che più vi sta a cuore. Siate sola domattina dalle otto alle nove, e si verrà da voi.»
La Leggera non aveva menomamente esitato a riconoscere [192] la calligrafia della contessa Candida; ed aveva dato ordine che quando la mattiniera visitatrice si presentasse, venisse subito introdotta.
Candida entrò tremante, che appena se poteva reggersi sulle gambe, nella camera da letto sontuosa e disordinata della cortigiana. Essa, la donna titolata, la superba signora, la fiera dama di Corte, presentavasi poco diverso che imploratrice, nella casa d'una disprezzata femmina, cui avrebbe un tempo, incontrandola, coperta delle più manifeste mostre del suo disdegno! Zoe giaceva ancora sotto l'elegante cortinaggio, mezzo seduta sui cuscini candidissimi, ornata il capo, il petto, le mani di ricchissime trine sulla fina biancheria della sua cuffia e del suo giaco da notte; teneva il gomito del braccio destro affondato nel cedevole guanciale, più candido che neve, a cui si puntava, e sorreggeva alla mano la testa: di sotto alla cuffia scappavano ribelli le ciocche ricche e pesanti delle sue fulve chiome, e parevano matasse d'oro filato che le cascassero sul seno e sulle spalle; lo sguardo vivo, ardente, quasi selvaggio, stava intento nel volto d'una persona che sedeva presso alla sponda del letto. Questa persona era una giovine donna, la quale, vedendo entrare la contessa, si alzò, si trasse in là d'un passo e saettò la nuova venuta con uno sguardo curioso, sollecito, avido, quasi feroce. Candida non s'era inoltrata che di poco nella stanza; le forze glie ne mancavano; si appoggiò ad un mobile, e stette un momento prima di riaver tanto di respiro da poter pronunciare una parola. Di sotto il velo intanto ella guardava, quasi sgomenta, un po' corrucciata, turbatissima per mille contrarie sensazioni, quelle due donne, le quali con aria presso che ostile fissavano lei.
Fu la Zoe a rompere quello strano ed impaccioso silenzio.
— La si avanzi e s'accomodi: disse asciuttamente accennando colla mano il seggiolone da cui s'era levata pur allora la giovane che le stava in compagnia.
— Vi avevo pregata d'esser sola: disse una voce fioca ed agitata di dietro il fitto velo che copriva le sembianze della contessa.
— Maddalena non è di troppo: rispose la Zoe che prendeva evidente piacere della confusione e del turbamento di quella nobil donna: anzi ci è necessaria... È una nostra compagna: soggiunse dopo un poco, pesando con intenzione sulle parole: è una nostra complice.
Candida si riscosse e rabbrividì: un vivo rossore le salì alla faccia, cui per fortuna non lasciò scorgere l'abbassato velo: un'acre vergogna l'assalse per quella complicità; sentì d'essersi abbassata al grado di quelle disgraziate. Non aggiunse parola su ciò e venne a sedere sulla poltrona che Zoe le aveva additata.
Maddalena, che non aveva cessato di squadrare con avida curiosità la velata contessa, e che ora trovavasi alle spalle di lei, fece il giro della poltrona, e venne a piantarsi in faccia a Candida seduta, le braccia incrociate al petto, e il suo sguardo più impertinente che mai. Ella cui l'amore comune per Quercia aveva piegata a subita simpatia verso la cortigiana, sentiva ora contro quella nobile dama, che si avventurava ad amare il medesimo uomo, un impulso d'odio, una gelosia rabbiosa, una smania crudele di umiliarla e mortificarla. Per la prima era forse la comunanza d'origine, la somiglianza delle condizioni che le ispiravano una specie di fraterna benevolenza; e la decisione di carattere, la risolutezza delle maniere, la violenza dei sentimenti e la forza della volontà che contraddistinguevano la cortigiana valsero ad imporne a quella natura aspra, selvaggia e rubesta del pari. Per quella signora invece, che apparteneva ad altra classe sociale, che godeva di tanti beni a lei povera negati assolutamente, e tanto più grandi nella sua fantasia e desiderabili, l'istinto di proletario, l'odio naturale del povero verso il ricco, che erano in Maddalena, non potevano altro sentimento ispirare fuor che la gelosia e l'invidia. La Maddalena adunque si piantò in faccia alla sua nobile rivale in quella mossa che ho detto, e con accento che accompagnava perfettamente l'insolenza del contegno, disse:
— Or be', questa signora la non vorrà degnarsi di mostrarci le sue bellezze?
Candida trasaltò sul suo seggiolone e fece un atto come per alzarsi e partirsene. Zoe represse in fretta un sorriso che le era venuto alle labbra carnose e procaci, fece un atto verso la contessa per pregarla di non muoversi, e disse, colla severità d'una compagna e non di una superiore, alla giovane plebea:
— Taci, Maddalena.
Poi volgendosi a tutte due con un tono di compagnevole dimestichezza, di cui la misera Candida sentì tutta l'onta e lo sdegno, ma cui dovette reprimere, e non fu questa lieve pena per lei, la cortigiana soggiunse:
— Siamo qui e dobbiamo starci come tre buone amiche le quali vogliono tutte tre ed ardentemente una cosa sola. Parliamoci adunque come tali. Signora contessa, dal suo bigliettino ho capito che Ella aveva qualche cosa da apprenderci o da suggerirci per la salute del nostro caro Luigi. Parli dunque Ella prima, e ci rallegri, se è possibile, con delle buone nuove, che in noi è uguale al suo, se non maggiore, l'interesse per quella diletta persona. Dopo di Lei avrò io qualche cosa da comunicarle eziandio, che forse non sarà meno interessante di quanto Ella sta per dirci.
La contessa ringoiò lo sdegno, l'onta e tutta la fierezza che si sollevava in lei, e fattasi forza parlò. Per capire il colloquio che ebbe luogo fra quelle [193] tre donne, diciamo brevemente ciò che era a ciascuna di esse avvenuto il giorno innanzi.
Candida, secondo l'accordo preso con suo padre al concerto di Corte, erasi da lui recata nella mattina, ed avevagli esposta a suo modo la difficile, pericolosa e fatale condizione in cui ella si trovava, e la necessità da questa nascente della fuga del medichino. Il barone La Cappa, sbalordito da tutto ciò, non sapeva trovar fuori un modo qualunque di effettuare questa fuga. Fu Candida che glie lo suggerì: una somma di certa entità per comprare qualcheduno, una mezza parola di qualche persona autorevole che inducesse taluni a chiudere gli occhi. Il padre della contessa, animato dal suo amore per la figliuola, si lasciò indurre a promettere la somma che sarebbe occorsa; e si pose senza indugio in giro per trovare quel certo affidamento di cecità nella complice tolleranza di qualche potente. Si rivolse addirittura al Ministro e spiegò tutta l'arte diplomatica di cui era capace per arrivare all'argomento senza accostarlo pericolosamente di fronte: ma fu appena nei paraggi dell'isola di sì difficile approdo, che il Ministro (a cui il Re già aveva fatto quell'intimata che la sera innanzi era piovuta sul Comandante della Polizia), gli rese inutile ogni bordeggiare, dichiarandogli seccamente che essendo nati sospetti che si volessero far tentativi per una evasione di quel famoso assassino, s'erano dati ordini opportuni affine non solo di impedire ogni riuscita di siffatti progetti, ma di levare ad ognuno qualsiasi velleità di tentarli. Il barone si partì mortificato, senz'aggiunger parola, e si recò dal Direttore generale delle carceri.
Il povero barone ebbe a toccar con mano in questa circostanza la differenza che passa nelle aure burocratiche fra un uomo in carica ed uno cascato nel limbo della giubilazione. Quando egli era capo d'ufficio, in tutto lo splendore della sua carriera, non si poteva immaginare mostre di deferenza e di zelo rispettoso che il barone non ricevesse da costui, nella anticamera del cui ufficio si presentava. Credeva egli per ciò, lo riteneva come una cosa certa ed un suo vero diritto, che a lui non sarebbe stato riserbato l'accoglimento d'un postulante qualunque, ma che ogni uscio gli si aprirebbe dinanzi come a padrone, in mezzo agli inchini degli uscieri, e il suo antico subalterno si sarebbe affrettato a venirgli incontro come si fa per reverenza ad un superiore. Non tardò ad accorgersi con grande sua mortificazione e dispetto che quella era una falsa lusinga: e ad eccezione degl'inchini degli uscieri, i quali erano troppo poca cosa per avere il coraggio e credersi il diritto dell'impertinenza contro un titolato, un decorato e tale che poco tempo prima li poteva far cacciare dall'impiego, in tutto il resto la sua aspettazione fu pienamente delusa. Il Direttore generale lo fece aspettare un quarto d'ora che all'orgoglio offeso del barone parve un tempo infinito; e quando lo ammise nel suo gabinetto, siccome l'argomento da affrontarsi era di così difficile e delicata natura che occorrevano circonlocuzioni, preparazioni oratorie e volteggiamenti di discorsi, il Direttore generale fece con garbo capire al suo visitatore che aveva molte occupazioni da sbrigare e pochi momenti da concedere. Il padre di Candida s'affrettò a toglier commiato, non senza lasciar vedere qualche po' di quel risentimento che aveva molto nell'animo; ma dalle fasi del discorso riportò, se non altro, per vantaggio, quello di apprendere che era Ispettore delle carceri, ov'era custodito Quercia, un cotale ch'egli nella sua lunga carriera amministrativa aveva potuto conoscer per bene, povero di sostanze e di moralità, ricco soltanto di famiglia e di bisogni. Avvisò tosto che questi era l'uomo di cui s'era fatto il Diogene cercatore, e con molte precauzioni perchè non fosse conosciuto il suo passo, si recò a trovarlo a casa sua.
Nel colloquio che ebbero, il corruttore ed il corruttibile, parlarono il meno chiaro che si potesse, menarono, come si suol dire, il can per l'aia, e si intesero perfettamente. L'Ispettore tenne alta la mercanzia, il barone lasciò capire che si sapeva valutarla al prezzo che si meritava: quegli accennò ai pericoli della sua condizione, alla facilità d'essere compromesso, questi fe' cenno della prudenza dei procedimenti, della guarentigia di cautele necessarie per tutti, eccetera, eccetera. Venutosi a mezzo ferro, il barone parlò della felicità di farsi proprietario e di comprar, per esempio, nel proprio paese un po' di terra, una casetta; ma l'altro lo interruppe nell'esposizione di quell'idillio, dicendo che il diventar proprietario gli avrebbe chiamato addosso l'attenzione e la malignità degl'invidiosi, e che perciò avrebbe preferito, quando gli piovesse dal cielo un capitale, impiegarselo in altro modo e farselo valere in segreto come ben avrebbe saputo. Il barone domandò per curiosità a qual somma si elevavano desiderii del suo interlocutore circa quel capitale: e l'altro, che stimò esser meglio domandare un'esagerazione, parlò di venti mila lire; La Cappa protestò che il signor Ispettore non avrebbe mai potuto trovare una tal somma, ma che invece la metà sarebbe stato probabile lo averla. L'Ispettore fece lo schizzinoso, e il padre di Candida simulò non voler più dir altro a questo proposito, cambiò discorso, e dopo un poco accennò andarsene; il tentato accompagnò il tentatore fino alla soglia, e là, ad un tratto, per dir così, a bruciapelo, con voce sommessa e parola ratta, disse:
— Dieci mila lire, sia: lascierò fare; ma ce ne vogliono cinque mila subito.
La Cappa tornò indietro e chiuse l'uscio della stanza in cui entrarono di nuovo.
— Le avrete stassera, disse; ma non basta lasciar fare; conviene anche suggerirci come fare.
— Bisogna rivolgersi al capoguardiano. So che [194] cederà. Ma la capisce che non io posso trattare con lui. Abbia a questo oggetto qualche mandatario fidato.... Io avrò una malattia che m'impedirà di esercitare la maggiore sorveglianza comandata. Il capoguardiano ne prenderà fiducia per agire secondo che si vuole.... Ma conviene far presto.
Il barone di quella sera fece avere le cinque mila lire all'Ispettore e informò di tutto la figliuola. Per trattare poi con questo capoguardiano ci voleva qualcun altro: egli non voleva commettersi in sì bassa impresa. La contessa pensò che quell'ufficio lo potrebbe fare la Zoe e scrisse alla medesima il bigliettino che abbiamo visto.
Di più importanza ancora e meravigliosamente accordantisi per fare sperare un lieto successo coi fatti che conosceva la contessa erano quelli avvenuti a questo proposito alla cortigiana. Eccoli in breve.
La sera precedente si presentava al quartiere di Zoe uno sconosciuto, tutto accuratamente camuffato nel mantello, e chiedeva essere ammesso alla presenza della donna, alla quale, a lei sola, in proprie mani doveva rimettere certa carta. La cortigiana, senza la menoma esitazione lo faceva introdurre presso di sè, e sola con lui nel suo gabinetto lo invitava a spiegarsi sollecito, già sperando e indovinando che quel misterioso individuo le dovesse parlare di cose attinenti a Luigi.
E così era diffatti. Scioltosi dalle falde del mantello, quell'uomo lasciò vedere una faccia volgare e rozza, che era quella d'un guardiano delle carceri. Fu già detto come quella potente associazione di malfattori che chiamossi la cocca, e della quale forse vive ancora qualche rimessiticcio, avesse affigliati ed aderenti in varie parti ed in diverse condizioni sociali, così bene che anche negli uffici della pubblica sicurezza ed in grado non tanto inferiore eravene alcuno da cui partirono que' certi avvertimenti di cui il medichino non seppe approfittare. Ora la fortuna di Quercia volle che fra i guardiani a cui era affidata la custodia di un sì importante prigioniero fossevi, chiamato da poco tempo a prestar servizio in quelle carceri, uno di quei subalterni soci della trista setta, e quell'altro in superior grado costituito lo sapesse. È facile capire come, grazie a loro particolari segni di riconoscimento e mezzi particolari di corrispondersi e d'intendersi, anche senza parola viva, fra i componenti della cocca, il medichino e quel cotal guardiano si mettessero in rapporto, e il secondo si decidesse e promettesse di servire ciecamente il primo. Era dunque per mezzo di costui che già una prima volta Quercia aveva scritto poche righe alla Zoe, ed era questo medesimo ch'egli ora le mandava con una lettera in cui spiegava tutto il disegno da lui immaginato nella solitudine della sua carcere per riconquistare colla fuga la libertà.
Anche Gian-Luigi sapeva che il capoguardiano avrebbe acconsentito a favorire il loro intento dove se ne fosse compra con una buona somma la fedeltà al Governo che lo pagava poco. Quando la cosa fosse intesa con costui, bisognava procacciarsi delle false chiavi che aprissero la carcere del medichino, il cancello in ferro del pianerottolo, quello al fondo della scala. Nel corridoio a pian terreno esisteva una porticina che non si apriva mai, ora stata murata, la quale metteva nel cortile verso la Corte d'Appello, che allora si chiamava Senato; anche di questa porticina bisognava fabbricare le false chiavi, poi una data notte, ad una certa ora verso il mattino, quando è più silenziosa la terra e più pesante il sonno degli uomini, il capoguardiano avrebbe disposto le cose in guisa che i più zelanti e i più da temersi de' custodi fossero allontanati e il vegliare incombesse a quello che era addetto alla cocca. Questi avrebbe aperto pian piano la carcere di Quercia, i cancelli e la porticina del cortile, e per questa il medichino, vestito come un guardiano ancor egli, con abiti che il capo medesimo dei custodi gli avrebbe procurati, sarebbe venuto sotto l'atrio del palazzo della Curia maxima, dov'era facile aprire dall'interno il portone. Per scender le scale bisognava bene passare nella stanza del capoguardiano, ma questi avrebbe dormito d'un sonno di piombo. Una carrozza sarebbe stata aspettando nella vicina piazza Susina, ora di Savoia, e, appena salitovi il fuggitivo, di galoppo via fino a qualche sicuro ricovero lontano di città, dove si sarebbe fatto trovare armi, vestiti e mezzi di mascherare le proprie fattezze a Gian-Luigi, il quale giurava che una volta fuori dalle unghie della giustizia non avrebbe più lasciato che lo riafferrassero vivo a niun patto. Per ottenere le false chiavi, Quercia scriveva si cercasse di un certo Andrea, cui Maddalena, la serva di Pelone, conosceva per bene, come frequentatore di quella bettola, il quale non si sarebbe rifiutato di certo, mentre non era gran tempo, per un servizio che Gian-Luigi gli aveva reso, s'era protestato disposto a fare per lui qualunque cosa.
Il custode affiliato alla cocca già aveva preso le impronte di cera necessarie all'uopo e insieme colla lettera le recava alla Zoe, la quale lo congedava stimolandone con larga rimunerazione lo zelo. Non si trattava più che di procurarsi i denari occorrenti, e la cortigiana già pensava far capo per ciò al conte ed alla contessa Langosco, quando ricevette la letterina di quest'ultima, che preveniva i desiderii e le intenzioni della Leggera.
Giunto il mattino, Maddalena, che era necessario mettere a parte del segreto e mandare in traccia di quell'Andrea, fu mandata chiamare dalla Zoe; ed ecco di qual guisa avvenisse che quelle tre donne si trovarono riunite nella stanza da letto della cortigiana.
La contessa e la cortigiana non si dissero mica [195] tutti questi particolari che son venuto esponendo; ma quella disse essere a sua cognizione in modo positivo che l'Ispettore avrebbe lasciato fare, il capoguardiano avrebbe potuto fare se qualcuno sapesse in bella maniera offrire a quest'ultimo un certo numero di migliaia di franchi: ella avrebbe provvisto il denaro, delle trattative con quell'uomo s'incaricasse la Zoe: questa a sua volta confessò i tentativi già avviati, narrò che essa tosto, di quel giorno medesimo, avrebbe cominciato l'assalto contro il capo dei custodi, la Maddalena lì presente si sarebbe posta alla ricerca di tale che era alla riuscita dell'impresa necessario, conchiuse, tutto raggiante in volto d'una lieta speranza, che fra una settimana sperava libero il loro caro e finite per tutte le angoscie.
— Ed Ella, signora contessa, soggiunse tendendo una mano a Candida, sarà in possesso di quelle carte che tanto le premono.
La contessa esitò, poi non osò rifiutarsi a toccar quella mano, vi pose dentro appena la punta delle sue dita inguantate e sentì a quel lieve contatto serpersi nelle vene un brivido: le parve affermata la vergogna della sua fratellanza con quella donna venduta.
In sul punto d'accomiatarsi, ella, per un atto quasi macchinale, alzò il velo e mostrò la sua faccia impallidita e dimagrata in que' pochi giorni, i suoi begli occhi ardenti di febbre in fondo alle occhiaie contornate da un livido cerchio, la sua tanta bellezza fatta ora mesta, severa, quasi direi solenne dalla espressione del dolore e dall'impronta della sventura. Maddalena, che non aveva parlato più, e che stava sempre osservando con occhi ostilmente avidi la contessa, frenata soltanto ne' suoi nimichevoli sentimenti e propositi dalla presenza della Zoe, come un animale selvaggio dalla tema del suo domatore, al vedere finalmente scoperte quelle sembianze che tanto anelava esaminare e trovandovi tanta bellezza, mandò un'esclamazione in cui c'erano insieme rabbia, stupore ed una involontaria ammirazione, e si cacciò innanzi verso la nobile sua rivale come un nemico che assale un nemico. Candida sorse in piedi e si trasse in là con mossa di imponente fierezza, ma non scevra di inquietudine.
— Maddalena! gridò in tono di comando la Zoe, e la giovane plebea si arrestò; ma i suoi occhi mandavano lampi di odio da far paura.
— La riverisco: seguitò la Zoe, parlando alla contessa. Se la avrà alcuna cosa da comunicarmi, non iscriva, la prego, ma mi mandi chiamare o si degni disturbarsi per venire da me; io farò il medesimo quando abbia notizie da apprenderle.
Candida fece un lieve cenno del capo che poteva passare insieme per un'espressione di consentimento e per un saluto, abbassò di nuovo e rattamente il velo sulla faccia ed uscì.
Maddalena fece un balzo dietro di lei, come se le volesse piombare addosso e ghermirla.
— Ebbene? che cosa fai? Le domandò la Zoe con un certo sorriso sulle labbra di porpora.
— Non vorrei lasciarla partire senza piantarle su quella bella faccia lo stampo delle mie unghie.... Esclamò con accento pieno di ferocia la Maddalena. Ah! la è bella davvero la superba!... Avrei voluto levargliene e bellezza e superbia.
— Sta, sta: disse con quel suo sorriso la cortigiana. Quella bellezza è già di molto danneggiata, e quella superbia non hai visto come si contorceva spasimando sotto l'umiliazione?
Di quel giorno medesimo, come Zoe aveva annunziato avrebber fatto, le due donne si misero all'opera. Il destino parve volerle favorire. La seduzione del capoguardiano non fu difficile; e Maddalena, guidata proprio da una felice ispirazione, non tardò ad incontrare Andrea. Ella aveva udito raccontare come al tempo della catastrofe ond'era stato colpito il povero operaio, i bimbi di costui fossero stati ricoverati nell'Asilo infantile, e con accortissimo consiglio la si pose a gironzare intorno a questo stabilimento, sicura che il misero padre ci sarebbe capitato. E diffatti nella mattinata medesima lo vide. L'infelice appena era riconoscibile. Il dolore lo aveva invecchiato di dieci anni, e gli stenti della miseria, che continuavano per lui più crudeli che mai, gli venivano inaridendo le fonti della vita. Maddalena con molto acume aspettò ad accostarlo e parlargli quando egli uscisse dall'asilo, dopo aver visti i figli. La capì che prima egli non sarebbe stato molto disposto ad ascoltarla, ed avrebbe accolto con impazienza una compagnia ed un discorso che gli avrebbero ritardato la gioia — l'unica sua gioia oramai — di vedere ed abbracciare i bambini.
Quando adunque Andrea se ne venne fuori (e la sua faccia era più lieta, meno velati i suoi occhi) Maddalena gli si appressò, e fece come se l'incontrasse per caso, interrogandolo di lui e delle cose sue, compiangendolo forte, e con quelle parole di pietà che ogni donna sa trovare, delle avvenutegli disgrazie.
— Ed ora, gli domandò poi, avete trovato lavoro?
— No: rispose mestamente l'operaio; non ho potuto ancora allogarmi presso nessuna fabbrica. Manca il lavoro; i principali mandano via i buoni operai, altro che prenderne un tristo, come oramai ho il nome d'esser io... come sono: soggiunse con un amaro scoraggiamento. Ho vissuto sinora aiutando qualche mio amico facchino a portar legna... E tutto ieri non ho potuto fare neppur questo... Ma che importa? (schiuse le labbra ad un doloroso sorriso). Per me non me ne fa più nulla, e i miei bambini hanno pane, vesti e ricovero.
— Pover'uomo! disse la Maddalena veramente impietosita. Vuol dire che non avete mangiato...
Andrea curvò il capo e levò le spalle con atto che voleva dire:
[196] — La è proprio così, ma ci sono avvezzo oramai.
— Siete avviato in qualche luogo dove abbiate da recarvi? domandò la giovane.
— No: rispose l'operaio con quella sua tranquillità rassegnata che pareva apatia. Non ho da andare in nessun luogo, non ho nulla da fare.
— Ebbene, venite meco; ho certe cose da far trasportare, e voi siete appunto l'uomo che ci vuole. Intanto avrete da colazione.
Andrea nè ringraziò, nè disse pure una parola, ma seguì passivamente la Maddalena, che lo condusse dove aveva ora la sua dimora, cioè nel misterioso quartieretto di Bancone.
— Che cosa debbo fare? domandò l'operaio introdotto colà dentro.
— Prima di tutto colazione: disse la Maddalena, facendo sedere Andrea ad una tavola e mettendogli innanzi cibo e bevanda.
Quando Andrea ebbe mangiato e bevuto come un affamato che da ventiquattro ore non ha più avuto un boccon di pane sotto i denti, come un beone che da molti giorni non ebbe più un fiasco di vino in sua balìa, si alzò e disse con voce più sicura e più forte di quella che avesse prima:
— Or bene, che cosa volete ch'io faccia?... Ora mi sento ritornate le mie forze e capace di sollevare quanti rubbi volete.
Guardò intorno ed esaminò l'eleganza del quartiere in cui si trovava.
— Cospetto! Siamo a casa di qualche principe, qui.... E che cosa ci fate voi, Maddalena? Siete venuta a servire dei ricconi....
Maddalena fece un superbo sorriso, e non resistette alla vanità di dire:
— Io qui non sono serva, ma padrona....
Andrea allargò tanto d'occhi, e la guardò con una meraviglia che toccava al sospetto.
— Davvero!... Mi rallegro con voi.... Or dunque, serva o padrona che siate, qual cosa posso io fare per voi?
La giovane, istrutta dalla Zoe che aveva ricevute le comunicazioni di Quercia, prese Andrea ad un braccio e gli disse:
— Vi ricordate voi di chi vi salvò la vostra Paolina dal coltello di quei cannibali e ve la fece sotterrare da cristiana?
Le guancie d'Andrea, colorite dall'abbondoso pasto che aveva fatto pur allora, impallidirono; gli occhi si velarono di nuovo, e la voce tornò profonda ed affiocata.
— Che venite voi a rammentarmi? disse recandosi la mano alle ciglia come se volesse ripararsi dalla vista del cadavere di sua moglie sulla tavola di marmo cui le parole di Maddalena gli rievocavano dinanzi. Pur troppo che ricordo tutto.
— Ricorderete adunque eziandio la promessa che avete fatto: «Se alcuno di voi ha bisogno d'un uomo...»
— Ebbene? domandò Andrea interrompendo: v'è uno di quei due che abbia bisogno di me?
— Sì... Non sapete che il dottor Quercia fu arrestato?
— Ah! è vero: esclamò l'operaio, battendosi la fronte, e con tono di rampogna verso se stesso per non averci pensato.
— Bisogna salvarlo.
— E ci posso io qualche cosa?
— Tutto.
— Che debbo fare?
Maddalena gli pose innanzi le impronte di cera.
— Fabbricar le chiavi che devono aprirne la prigione.
Il ferraio indietrò come se vedesse uno spettro, e le sue chiome scarmigliate gli si drizzarono sulla fronte.
— No, gridò egli, non questo... Domandatemi il mio sangue, ma non ciò.
Egli si era riveduto di botto nel sotterraneo a fabbricar le chiavi che avevano servito per l'assassinio di Nariccia; gli pareva veder sulle sue mani spuntare a chiazze un sudore di sangue — di quel sangue che senza di lui non si sarebbe versato.
— Perchè non questo? domandò la Maddalena.
— Perchè ho giurato che mai più non avrei fatto opera simile.
— Avete pure giurato di far qualunque cosa per la salute del vostro benefattore. Dura così poco in voi la riconoscenza?
Andrea non riluttò più a lungo. Si credeva realmente obbligato da quella sua promessa. Di quel giorno si provvide di tutto il necessario, e nella notte susseguente le chiavi furono fatte nella cucina del quartieretto medesimo cambiata in laboratorio.
Al mattino Maddalena le portò trionfante alla Zoe che l'abbracciò e la baciò con trasporto.
— È salvo: esclamò brandendo quelle grosse chiavi la cortigiana.
E le cose in fatti s'avviavano il meglio che si poteva desiderare in favore di Gian-Luigi. Il capo-guardiano era stato il più arrendevole uomo: e sollecitato anche dal conte Langosco, il quale aveva pensato del pari dirigersi a lui, vendeva a costui ed alla cortigiana, all'insaputa l'un dell'altra, l'opera sua. S'era già cercato il luogo di rifugio, la Zoe aveva indotto Bancone a mettere a disposizione di lei una sua carrozza con due cavalli, quella notte ch'ella avrebbe voluto, per andare dove a lei piaceva e guidata da un uomo di tutta fiducia della cortigiana: le tre donne credevano fermamente al successo, e nella loro febbrile aspettazione cominciavano a rallietarsi. Ma per loro sventura e per quella del medichino, la Zoe s'era dimenticata della raccomandazione fattagli da Gian-Luigi nel primo bigliettino scrittole dalla carcere, di tener d'occhio Barnaba e studiarlo per iscoprire il movente della sua [197] condotta. Ella, il poliziotto, non l'aveva visto più, e l'aveva dimenticato: ma non avevala dimenticata egli, che, dopo le fatiche di quella sera dell'arresto, rimasto due giorni nuovamente a letto per rimettersene, erasi poi dato colle maggiori cautele del mondo a spiare i passi e la casa della cortigiana. Vide così un uomo con troppa cura celato il viso introdursi alcune volte nella casa di Zoe, la sera: non lo riconobbe punto per un guardiano delle carceri, ma dubitò che gli era qualche messo segreto per intrighi a vantaggio del medichino: un'altra volta vide la Maddalena sgusciar lesta sotto il portone della abitazione della Leggera: indovinò subito che all'antica serva di Pelone la cortigiana aveva affidate le lettere tanto cercate, e che importava quindi massimamente apprendere dove la ragazza si nascondesse e là poi pigliarla al covo. Ma per quella volta non gli venne fatto, perchè le due donne uscirono insieme in carrozza, ed egli che aveva aspettato per codiarle, dovette rinunziare al proposito di seguitarle. Una più importante scoperta ancora gli venne fatta: e fu una mattina che vide per tempo uscire, assai modestamente vestita, la Zoe con un fitto velo sulla testa da coprirsene le sembianze, sola, a piedi e con certa aria di premura e di mistero da destare sospetti non che nel furbo poliziotto, ma in ognuno che di quella donna conoscesse le abitudini ed il modo di vita.
Barnaba la seguì e la vide entrare in una delle più vicine chiese, e colà recarsi difilata nell'angolo più scuro d'una delle più riposte cappelle. Non era impossibile che un impulso di divozione la menasse colà — cotali donne ne hanno pur tante di stranezze! — ma il poliziotto ci credeva poco. S'accostò pian piano, nascondendosi bene dietro i fusti delle colonne e stette a sorvegliare, atteggiato in guisa che ognuno l'avrebbe preso per un ascetico credente che non pensa se non alla salute dell'anima sua.
Non dovette rimanere lungo tempo in attesa. Un uomo, guardandosi attorno con molla cautela, si venne accostando alla Zoe velata; e inginocchiatosele presso, ebbe con lei un colloquio bisbigliato, breve, ma in apparenza vivace. Barnaba stette col viso affondato nelle mani, come assorto nella più ardente preghiera, ma d'infra le dita il suo sguardo non si staccava dai due colloquenti. Quando uscirono, la donna prima e per una porta, l'uomo dopo e per un'altra parte, Barnaba lasciò andare la Zoe e tenne dietro al maschio; lo vide entrare nelle carceri, e riconobbe il capoguardiano. Senza perdere un minuto, egli corse dal signor Commissario Tofi e gli parlò vivamente per un quarto d'ora. Il Commissario, dopo uditolo, si recò in fretta dal Ministro degl'interni.
Era fissata la notte e l'ora della fuga: tutto pareva andar sempre a seconda. L'ispettore, da qualche giorno malato, non s'era più fatto vedere: il capo dei custodi aveva disposto le cose nel modo che s'era voluto; le chiavi erano in mano al custode affiliato alla cocca, ed erano già state provate nelle serrature.
Giunto il momento, la Zoe era nella carrozza ferma in piazza Susina, dove sedeva a cassetta uno degli uomini scampati all'arresto dei malfattori; la Maddalena che ce l'aveva accompagnata, era discesa e venuta, impaziente, fino alla piazzetta davanti alla Corte d'Appello, aspettando da un momento all'altro vedersi aprire il portone e venirne fuori Gian-Luigi. I minuti sembravano ore, ed ore di tormento. Alla fine credette udire nell'interno un lieve rumore di passi, un bisbiglio soffocato di voci. Si curvò alla toppa, vi pose avidamente l'occhio, ma per l'oscurità non vide nulla: vi appoggiò l'orecchio, e udì in modo affatto distinto i passi di due uomini che camminavano pianamente e venivano accostandosi; le parve di riconoscere, riconobbe di certo il passo di Gian-Luigi. Il cuore le balzava in petto da farle male: ma sull'ansietà oramai prepoteva l'emozione della gioia, più che la speranza, la sicurezza della salute di lui. Tutta intenta a ciò che succedeva sotto l'atrio del palazzo di giustizia, Maddalena non badava ad altro più, non avvertiva ciò che aveva luogo sulla piazzetta in cui ella si trovava: ed era che sei uomini in montura di carabinieri sbucavano fuori dalle cantonate e s'accostavano con passo sospeso essi pure verso il portone a cui la giovane stava origliando, preceduti da un uomo in abiti borghesi che pareva guidarli.
Ad un punto Maddalena fu riscossa da un grido di donna, che scoppiò sull'angolo della strada che va nella vicina piazza Susina.
— Salvati! — fu il grido — siamo perduti!
Era la Zoe, che non potendo più reggere alle mosse, era discesa di carrozza, e veniva a vedere essa pure; e sopraggiungendo vedeva gli agenti della forza pubblica stringersi intorno alla sua complice innanzi al portone.
Maddalena sussultò, si volse, vide gli uomini e il luccicar delle armi, fu per mandare un grido ancor essa; ma l'uomo in panni da borghese d'un balzo le fu sopra, e senza dir pure una parola le pose violentemente una mano sulla bocca, mentre due carabinieri prendevano la donna alle braccia, ed a forza la tenevano ferma.
La Leggera vide quell'uomo senza uniforme volgere verso di lei una faccia scialba ed uno sguardo di fredda ed ironica minaccia, e gli parve riconoscerlo.
— Sempre colui! si disse quasi spaventata. Ma chi è egli?... che vuole da me?
Fuggì presa da un terrore strano, si gettò nella carrozza e la fece partire di galoppo senza aspettare altro. Ogni speranza di poter salvare Luigi, per allora, era perduta.
E Maddalena frattanto udiva — ora con angoscia — gli [198] sforzi che facevano quei di dentro per aprire il portone, e non poteva in niun modo avvisarli.
Il portone finalmente si aprì e comparvero due uomini: quattro carabinieri e Barnaba (poichè Zoe aveva veduto bene, e l'uomo in abiti borghesi era lui) si precipitarono addosso al più giovane, che, disarmato e preso all'improvviso, non potè far resistenza.
Egli riconobbe altresì Barnaba.
— È dunque fra noi una partita a morte? disse col suo disdegnoso sorriso.
Barnaba fece un cenno affermativo col capo.
— La prima giuocata l'avete vinta voi, soggiunse, grazie al pugnale di Graffigna: ma non l'avete vinta abbastanza bene. Ora la rivincita e la decisiva a me.
Gian-Luigi salutò, come in un assalto cortese, un campione toccato dal fioretto dell'avversario.
La Maddalena, libera la bocca dall'imbavaglio, gli occhi umidi di pianto fissi con immenso desiderio e amore e rimpianto sul viso alquanto impallidito del suo diletto, mandò una voce ed un singhiozzo:
— Oh mio Luigi! gemette ella.
Il medichino le si volse con espressione di molta pietà e di molta amorevolezza.
— Povera Maddalena! esclamò. Ora eccoti in trappola anche te.
Gettò uno sguardo pieno di rincrescimento nello scuro della notte traverso il portone, là dove nella strada si stendevano i giallognoli raggi d'un lampione, e represse un sospiro. Là era la libertà; ed egli era venuto proprio fino alla soglia a contemplarla, Tantalo della medesima.
— Ah di me non importa: disse con vivacità di sentimento che poteva dirsi sublime la giovane plebea. Potessi aver salvato te, ed a me poi accadesse qualunque peggior cosa del mondo.
Gian-Luigi non la ringraziò che con uno sguardo, ma era uno sguardo d'ineffabile tenerezza, onde tutta ella si sentì commuovere.
— Costui, comandò Barnaba accennando il medichino, sia per ora ricondotto nella sua prigione; ma stia sulla sua porta un uomo di guardia fino a nuovo avviso; questo traditore (ed era il custode che additava) sia subito messo ai ferri e nella stanza di deposito; così pure si faccia al capoguardiano. Quanto a voi, bella giovane, prima di trovar domicilio alle Torri[3] vi darete l'incomodo di condurci alla casa dove ora avete dimora.
Maddalena incrociò le braccia al petto con atto pieno di risoluzione, e disse fieramente:
— Dov'io dimori da me non lo saprete mai.
Barnaba sorrise con espressione d'ironica superiorità.
— Non abbiamo più bisogno d'apprenderlo, carina, disse con ischerno, e son io medesimo che avrò l'onore di guidarvici, caso che aveste disimparata la strada.
Così Gian-Luigi, furibondo, ma nascondendo, per la forza della volontà, il furore sotto le mostre della maggiore indifferenza, fu ricondotto nella carcere e custodito con una sentinella alla porta; e Maddalena venne da Barnaba fatta camminare sino al segreto quartierino di Bancone, dove il poliziotto da due giorni sapeva che la giovane si rimpiattava. Colà dopo un'accurata perquisizione nel locale e sulla persona medesima della giovane arrestata vennero scoperte le lettere e prese da Barnaba lieto e trionfante.
Maddalena fu condotta poscia in prigione ancor essa. La Zoe non s'era ridotta a casa sua, ma per misura di prudenza erasi ricoverata presso l'A. R. che concorreva in parte principale a mantenerne lo sfarzo, e con cui una lite recente, come abbiam visto, aveva da parecchi giorni interrotti i rapporti. Sapremo poscia se la cortigiana placasse e come l'ira principesca.
Il domani, di buon mattino, il conte Langosco riceveva un invito di recarsi dal generale Barranchi, e andatovi sollecito gli venivano rimesse le lettere tanto desiderate. Il marito di Candida tornò frettoloso a casa, e si ridusse nel salottino di sua moglie, solo con lei. Chiusi ben bene gli usci, trasse fuori l'involto, e lo gettò con mossa piena di supremo disprezzo alla moglie.
— Guardate se le ci son tutte: disse con voce piena di fiera ironia.
La contessa sciolse l'involto con mani tremanti, ed un vivo rossore la colorì sino alla radice dei capelli.
— Ci sono? ripetè il marito, guardandola con occhi da far abbassare qualunque più audace pupilla.
— Sì: rispose fiocamente la misera.
— Bene! Che cosa volete farne?... Conservarle come un oggetto prezioso? Gettatele sul fuoco, madama, per Dio!
Candida allargò le mani e le lasciò cadere nel focolare.
— Ammirate la mia discrezione, madama, soggiunse il conte con ghigno insopportabile a vedersi, mentre guardava le fiamme consumare quei fogli. Non mi sono dato nemmeno il gusto di ammirare un solo di questi vostri periodi d'una prosa certo eloquentissima.
La donna curvò il capo e si tacque.
— Spero che la lezione vi basterà, continuava il conte, e che andrete più guardinga altra fiata nell'espansione letteraria de' vostri sentimenti.
Colla punta dello stivale ond'era stupendamente calzato il suo piede piccolo e sottile di forma aristocratica, spinse in là verso il fuoco un foglio che era caduto sulle ceneri.
— Le lettere sono state restituite da quella donna: [199] disse con fievol voce la contessa, non osando levar gli occhi. È dunque riuscito a fuggire quell'..... infelice?
— Ah ah! E' vi sta bene a cuore tuttavia: esclamò Langosco scaldandosi le mani alla fiammata.
Non rispose altro; ma dopo un breve silenzio, smesso il ghigno e l'accento ironico, disse con piglio e voce severi:
— Per questo scorcio d'inverno, signora, vivremo qui, come per lo passato. Giunta appena la primavera, io avrò bisogno di fare un viaggio, poi nella state di prendere i bagni: e l'inverno venturo, se Dio mi dà tanta vita, conto andarlo passare a Parigi. Voi, al primo sbocciar delle foglie, andrete nel nostro castello, e di là — me vivo — non vi muoverete più..... Le ragioni d'interesse sono già belle ed aggiustate mercè quelle carte a cui voi non è molto metteste la vostra firma.
Candida non disse una parola, non fece un movimento. Il conte, poichè tutte consumate dal fuoco erano le carte, s'avviò lentamente all'uscio per partirsi; quando fu alla soglia, già colla mano alla gruccia della serratura, si volse e disse; con crudele freddezza:
— No, quell'assassino non ha potuto fuggire. Ei fu rimesso in carcere e sarà impiccato... Che è ciò che gli spetta per ogni verso.
Ed uscì.
Quel giorno medesimo in cui Barnaba, mercè l'attenta sua sorveglianza, capiva che il tentativo di fuga doveva farsi nella notte e riusciva a sventarlo; quel giorno per la prima volta Maurilio si levava a sedere sul suo letto, e smesso il parlare interrotto del delirio, e i moti scomposti, domandava di parlare al marchese, al quale aveva un'importante rivelazione da fare.
Pensatevi qual rimanesse il marchese di Baldissero quando Maurilio gli ebbe rivelato che il possessore dell'altra metà di quella lettera che Nariccia aveva stracciato per servirsi a dare un contrassegno di riconoscimento dell'abbandonato figliuolo della contessina Aurora, era il giovane conosciuto in Torino sotto il nome di dottor Quercia; che quindi quest'esso era il fanciullo smarrito che le circostanze avevano fatto supporre un istante fosse egli stesso, Maurilio.
Il marchese ben sapeva ciò che ignorava l'infermo, tenuto segregato dal mondo fino allora, mercè il delirio, cioè l'arresto degli assassini della cocca e di Quercia come capo dei medesimi. Sperò che un errore eziandio fosse quello che facesse credere e dire al malato sì fatale novella; ricorse ad autorevoli informazioni sul conto del giovane arrestato e ne riportò la certezza della verità delle cose dettegli da Maurilio, ed ebbe tra mano anzi quello squarcio di carta che combaciava compiutamente col mezzo foglio trovato presso Nariccia e ne costituiva la lettera integrale: squarcio che insieme con tutte le altre carte era stato sequestrato presso Gian-Luigi.
In una perplessità straordinaria d'animo e di mente, il marchese non sapeva a che partito appigliarsi, e l'idea glie n'era venuta di aprirsi con Don Venanzio e consultare le ispirazioni di quell'anima santa di vecchio prete, quando egli medesimo, il buon parroco, fece domandare a S. E. il favore di un colloquio.
Egli era entrato nel palazzo già da un quarto d'ora ed era stato nella stanza del giovane infermo dove un vivace discorso aveva avuto luogo fra loro soli. Quella mattina la sua bella fisionomia piena di candore e di benevolenza era turbata da una pena, da una dolorosa mostra di contrarietà. La cagione si era ch'egli era stato testimonio d'un triste fatto che molto lo aveva amareggiato: ed ecco quale.
Già sappiamo come la povera Margherita, la vecchia nutrice di Gian-Luigi che lo amava più della pupilla degli occhi suoi, udito al villaggio l'arresto del suo diletto, e saputo che il parroco ne veniva in città chiamatovi dalla circostanza del male violento ond'era stato assalito Maurilio, aveva voluto ad ogni modo venirne alla capitale ancor essa, e qui la si era citata a comparire innanzi al giudice istruttore come testimonio e subirne gl'interrogatorii.
Questi parevano una gran cosa alla povera vecchia campagnuola, e presentandosi innanzi alla faccia burbera del giudice, la tremava tutta. Avrebbe tremato in ogni modo ed in ogni occasione; ma tremava tanto più ora che trattavasi della sorte del suo caro, e che a quest'esso poco tempo prima aveva dato promessa di fare quello che non aveva mai fatto in vita sua, quello che non avrebbe creduto mai di pur pensare di fare: dire il falso. Le varie circostanze della favola fattale imparare da Gian-Luigi le si ingarbugliavano nella testa con indicibile confusione; e fu assai peggio, quando il giudice le ebbe fatto prestare il solenne giuramento di dire la verità. La s'imbrogliò talmente, parlò con tanto tremore, la si lasciò tirare in tante contraddizioni che il giudice inquirente concepì su di lei i maggiori sospetti. Pure per quella prima volta essa la passò liscia ed uscì da quella stanza di tribunale più morta che viva, ma sciolta.
Ma frattanto avvenne che di tutte le informazioni prese d'altra parte sul conto dell'infanzia di Gian-Luigi nessuna concordasse con quelle della vecchia, la quale tutti asserivano essere andata a prendere all'ospizio il bambino senz'altro amminicolo. Ben poteva la donna aver tenute celate a tutti quelle circostanze che ora rivelava al tribunale intorno all'origine del fanciullo, ma era poco credibile che [200] codesto avesse taciuto eziandio al suo parroco e confessore Don Venanzio, e questi aveva affermato saper nulla di nulla del romanzo raccontato dalla vecchia, ed anzi, interrogato se lo credesse possibile, aveva ingenuamente confessato di no, e che egli aveva la persuasione che il medico del villaggio non aveva mai avuto attinenza di sorta col bambino dell'ospizio, finchè vistolo intelligente e piacevole, quando grandicello, avevalo preso a ben volere e proteggere, che una fiaba credeva pure la novella della vistosa somma che il medico avrebbe ricevuto dall'incognita famiglia e passata a Gian-Luigi, il quale aveva avuto sì nell'eredità del medico un lascito ch'egli si era affrettato a consumare.
Aggiungasi che la Margherita, struggendosi dal desiderio di vedere il suo figliuolo, chiesto inutilmente di poterlo visitare, s'aggirava presso che tutto il giorno nei dintorni della carcere dove lo sapeva rinchiuso, guardando attentamente ogni finestra, ogni sbarra, ogni buco, ogni mattone della muraglia di quel cupo edificio, quasi sperando la faccia di lui le avesse da comparire ad ogni momento o qua o colà, o dovess'ella vedere una via di passaggio da giungere sino a lui, provando se non altro una certa dolcezza a guardare il luogo dov'egli si trovava, ad essergli così il più vicino che le fosse possibile. Ora Barnaba, che di persona e per mezzo di agenti fidati vigilava con tanta cura intorno al prigioniero, ebbe presto contezza di tali diportamenti di questa vecchia, e dell'esser suo, e quando avvenne il tentativo di fuga da lui mandato a vuoto, egli la denunziò al Tribunale come complice. Il giudice istruttore determinò assicurarsi di lei, confonderla come per ispergiura mercè un confronto con Don Venanzio, e procedere contro di lei per falsa testimonianza e per complicità nel tentativo d'evasione del medichino. E così avvenne che la mattina dopo la sventata fuga, mentre Don Venanzio riceveva invito di recarsi fra un'ora al Tribunale, la vecchia, senza tanti complimenti, era mandata a prendere e condurre in sala di custodia da due arcieri.
Il confronto con Don Venanzio fu per la misera donna il peggior tormento che avesse ancora provato mai. Mentire, e mentire innanzi al suo parroco!... Il suo aspetto, la sua voce, il contegno dicevano ch'ella si faceva uno sforzo a sostenere le menzogne precedentemente fatte. Se Gian-Luigi avesse potuto avere comunicazione con lei, ben le avrebbe risparmiato questa colpa e questo supplizio che a lui diventavano inutili. Egli s'era preparato quel mezzo di difesa soltanto contro i sospetti che cominciavano a sorgere sulle fonti ond'egli si procacciava denaro, e per illudere la famiglia Benda che avesse cercato informazioni fin nel villaggio dov'egli era stato allevato; ma ora in faccia all'evidenza delle prove dei suoi delitti, ond'egli era schiacciato, a che cosa serviva tutto questo? A un bel nulla; tanto che egli, l'accusato, non aveva detto pur una parola di ciò, e rinchiusosi in un assoluto silenzio, non aveva voluto rispondere pur una parola alle mossegli interrogazioni, per quante minaccie o lusinghe glie ne venisser fatte.
Ma la povera Margherita, che ne sapeva ella di tutto ciò? Aveva promesso al suo Giannino di dir così. Credeva salvarlo così facendo, e lo faceva anche colla paura, anche colla certezza di dannarsi l'anima per lo spergiuro.
Ad un punto il buon Don Venanzio, che ebbe pietà delle angoscie di quella infelice, disse:
— Può esser benissimo che tutto ciò ch'essa dice sia vero, ed io non ne abbia mai saputo nulla..... Io ho sempre stimato questa donna incapace di affermare, e tanto più con giuramento, una cosa che non sia.
— Bene! disse il giudice istruttore: avete già giurato che quello che dite voi è la verità. Non dovete avere difficoltà di sorta a ripetere questo giuramento adesso in presenza del vostro parroco.
La vecchia tentò schermirsene. Tremava tutta. Guardava intorno spaventata, come per cercare un buco dove nascondersi, o meglio, come timorosa di vedere saltar fuori Satanasso in persona ad acciuffarla. Pronunziare un falso giuramento in faccia al suo pastore! in faccia a quel sant'uomo!... Ma pure si trattava del suo figliuolo!... Si fece forza: provò a stento di levar la mano per metterla sul Vangelo, ma non ci valse: il braccio le cadde, un gemito che pareva un singhiozzo uscì dal suo petto dove parve si rompesse qualche cosa, ed ella si lasciò cascare in ginocchio per terra mezzo svenuta, balbettando:
— Non posso, non posso... Mio Dio! non posso.
Il giudice si drizzò con mossa solenne, e con voce e parola più solenni ancora, fece alla meschina prostrata a terra una filippica violenta, in cui, oltre la vendetta divina, minacciò la collera di quella umana da tradursi in manette, carcere, processo e galera.
La infelice gemeva miseramente, la faccia contro terra, annientata, schiacciata sotto il peso della propria colpa e sotto quello più grave ancora del pensiero ch'ella perdeva Gian-Luigi.
Don Venanzio le si fece presso per sollevarla e confortarla di alcune parole.
— La lasci stare: disse severamente il giudice. Questa mostra di pentimento possa essere sincera e disporne l'animo alla rivelazione di tutta la verità. Ella se ne vada, signor parroco; è libero: questa donna dovrà essere trattenuta in carcere.
Il vecchio sacerdote, commosso, addoloratissimo, disse non molte parole in difesa della disgraziata: ma le disse con tanto sentimento e calore, ma la sua canizie, l'aria sua di solenne virtù loro davano tanta efficacia, che il giudice ne fu tocco, e con accento molto più umano e cortese soggiunse:
[201] — Credo a quanto Ella mi dice, reverendo; credo che c'è più ignoranza che malizia in questa poveretta... ed userò per lei i maggiori possibili riguardi. Ma bisogna assolutamente ch'io la esamini ancora di meglio, e la prego a volersi ritirare.
Don Venanzio uscì, non senza inquietudine sulla sorte della Margherita e si pose a passeggiare nella strada innanzi alla porta del tribunale, attendendo il risultamento dell'interrogatorio.
— Alzatevi: disse il giudice alla vecchia.
Margherita gemeva e singhiozzava sempre nella medesima postura; e, sia che non udisse o non avesse forza da ubbidire, non si mosse.
— Fate il piacere, soggiunse il giudice, parlando al segretario che era lì per iscrivere il verbale: alzatela voi.
Il segretario venne di mala voglia presso ella giacente, e come quegli a cui non garbava di molto toccare e brancicare i luridi e stracciati panni onde ella era vestita, la scosse bruscamente ad una spalla, dicendole con voce graziosa come era l'atto:
— Or via, alzatevi, su, e non ci fate perder la pazienza.
La vecchia parve non darsene per intesa.
Allora il segretario la prese sotto le ascelle, e con quel garbo che vi potete immaginare, la tirò su, e siccome ella vacillava sulle gambe mal ferme, la gittò a sedere sur una seggiola che era lì presso.
In questo movimento un oggetto pesante cadde per terra, mandando un suono metallico; il segretario lo raccolse e lo porse al giudice: era un rotolo di napoleoni da far la somma di mille lire: quello che Gian-Luigi aveva mandato alla povera donna per mezzo di Don Venanzio. Margherita, da quando lo aveva ricevuto, lo aveva sempre portato con sè, come una memoria del suo diletto: venuta ora a Torino, tanto più lo aveva seco recato nella speranza di potere spendere quella somma in benefizio del suo diletto.
Nel suo precipitare a terra, nell'essere scrollata dal segretario, il rotolino le era uscito del seno ed era caduto sul pavimento.
Ma la vista di quell'oro cambiò del tutto le disposizioni d'animo del giudice cui le parole di Don Venanzio avevano reso piuttosto benigno alla misera vecchierella. Come spiegare il possesso di tal somma presso quella povera donna così stracciata negli abiti e che si sapeva vivere al villaggio elemosinando? Ella, interrogata, non tacque che quell'oro le veniva da Gian-Luigi e fu creduto il prezzo pagatole per la sua falsa testimonianza e per cooperare all'evasione. Margherita fu condotta alle carceri.
Quando ciò seppe Don Venanzio pensò subito ricorrere alla valida protezione del marchese di Baldissero, e giunto al palazzo avrebbe tosto domandato d'essere ammesso alla presenza dell'autorevole personaggio, se un domestico non lo avesse avvisato che Maurilio era molto impaziente di vederlo e già aveva mandato due volte a cercare di lui.
Il parroco, prima di recarsi dal marchese, volle sapere che cosa avesse il giovane malato che dal giorno prima soltanto era tornato in cognizione di sè.
Maurilio quella mattina, come ogni altra dacchè giaceva infermo, era stato visitato dai suoi amici, Romualdo, Selva e Vanardi, i quali molto si rallegrarono trovandolo di nuovo conscio di se stesso, e colla mente non meno vivace, pronta, potente di quello che fosse prima. Benchè il poveretto avesse avuto questo deplorabile miglioramento di tornare alla coscienza di sè, dei suoi dolori, delle sue sciagure, aveva però tuttavia un ardor febbrile negli occhi, un'irrequieta agitazione nelle membra stanche da parergliene rotte e peste, onde bene appariva che per essere cessato il delirio, non era punto sminuito di gran cosa il male. I suoi amici vollero rimanersi in silenzio presso di lui, e gli dissero tacesse egli pure perchè non si stancasse ad udire e parlare; ma egli aveva troppo desiderio di interrogare e di sapere di tal cosa, intorno a cui tutta notte s'era aggirato con tormentosa insistenza il suo pensiero. Voleva che gli amici suoi cercassero di Gian-Luigi, lo conducessero al suo letto quanto più presto fosse possibile; voleva che dalle sue labbra il suo compagno d'infanzia apprendesse la ventura che gli capitava, ventura ch'egli aveva quasi rimorso d'avergli per un poco momentaneamente rubato, e che si assegnava come una specie d'espiazione di tosto comunicargli.
Quando udirono espresso da Maurilio questo desiderio di vedere il dottor Quercia, gli amici si guardarono in viso alquanto imbarazzati, non sapendo se convenisse dire all'infermo la verità o tacerla; ma insistendo egli, nè conoscendo essi quali attinenze corressero fra il loro compagno e il capo della cocca, non credettero ci fosse pericolo, nè inconveniente alcuno a dirgli come stessero le cose in realtà. Narrarono dunque sommariamente e la scoperta del segreto covo di quella banda, che da più tempo era il terrore della città, e l'arresto di Quercia come capo della medesima, e di tutti i principali componenti della scellerata congrega.
Queste novelle, com'è facile immaginarsi, fecero una grandissima impressione in Maurilio. La sua pena, il suo rammarico, il dolersene furono tutti per Gian-Luigi; pensò che se prima fosse stato scoperto il segreto della nascita di lui, avrebbe egli evitato quell'infelice e vergognoso destino; pensò al cordoglio che doveva provarne il marchese, pensò eziandio a Virginia che non avrebbe forse potuto ignorare quello essere suo fratello. Ma poi il pensiero d'una sventura più personale e quindi una più tormentosa ansia lo assalsero. Gli era stato detto che fra i soci di quella banda si contavano ed erano [202] stati presi i più noti e tremendi malfattori; si volse a Selva e domandò se di questo novero era un certo Michele Luponi detto Stracciaferro.
— Sicuro! gli fu risposto: una specie d'animalaccio bruto, forte come un toro, crudele come una tigre. È uno dei più scellerati e dei più terribili. Prima di poter essere preso accoppò una mezza dozzina di guardie. La forca, quel mostro l'ha meritata non una, ma un centinaio di volte.
Maurilio abbandonò la testa sul cuscino e chiuse gli occhi. Se avesse potuto diventar più scialba la sua faccia di color cadaverico, avrebbe impallidito. Non disse una parola, non fece un atto, ma nei muscoli del viso, intorno alla bocca, avvenne una lieve contrazione che era l'effetto d'uno spasimo interno inesprimibile. Quel mostro era suo padre! Pensò tosto di contar tutto a Don Venanzio, di cercare nelle confidenze a quel sant'uomo un sollievo, nelle ispirazioni di quell'anima onesta un consiglio; epperò, aspettatolo con impazienza, quando il vecchio sacerdote fu venuto, lo accolse colla vivacità d'un desiderio soddisfatto che pareva una speranza, che pareva quasi una gioia, e volle tosto esser solo con lui.
Gli disse ogni cosa. Don Venanzio, esterrefatto, meravigliato, sgomentito da questo fatale garbuglio di casi, impallidito e tremante per emozione, levò le palme al cielo ed esclamò col fervore del credente:
— Oh divina Provvidenza! Oh imperscrutabili vie del Signore! Riconosco la tua mano potente, supremo Iddio! Dio della pietà, ma Dio pure della giustizia! Dio che perdona chi si pente, ma che colpiste cogli effetti della stessa sua opera scellerata il reo. Nariccia abbandonando il fanciullo, creò col suo delitto un assassino, e quest'assassino fu a dargli morte. Un orribil delitto punì un delitto infame. Curviamoci ed adoriamo!...
— Che cosa si deve fare? domandò Maurilio palpitando.
Il vecchio prete nascose fra le mani la sua faccia turbata, e stette un istante in silenzio.
— Pregare che Iddio ci ispiri: disse poi levando al cielo i suoi occhi umidi di pianto. Pregare che Iddio si plachi!... La giustizia umana è uno stromento anch'essa di quella divina... uno stromento molte volte inefficace od anche fallace, ma conviene rispettarlo e sottoporvisi. Dietro lei c'è la mano onnipossente del Signore dei mondi.
Gli occhi febbrili di Maurilio lampeggiarono più vivamente.
— Mio padre, io voglio vederlo: disse. Voglio conoscere quell'organismo umano imbestialito, in fondo al quale è soffocata o sonnecchia l'anima, soggiogata dagl'istinti della materia. Chi sa che da quello sciagurato letargo io non la possa tuttavia destare! Chi sa che da quella rupe, io non possa, percotendo, sprigionare ancora una scintilla! Da tanti anni ladro ed assassino!... O cielo! o cielo!... Ed ebbe pure un'infanzia! Ed ebbe forse desiderio e bisogno di miti affetti e impulsi generosi, ed aspirazioni al bene!.... Li ho pur io, che sono suo figlio.... E la sventura gli ha col dolore e coll'ira offuscata la mente; e la società l'ha colle sue crudeli ingiustizie corrotto. Lo so ben io che sono passato per la trafila della miseria!.... Quanti scellerati questa non crea!.... La va a cercarli nelle schiere della plebe e di complicità coll'ignoranza li getta in braccio al vizio, li educa con infame amore al delitto. Miseria! Miseria... Una società che non combatte questo umano flagello con tutti i mezzi che le si possono parare è risponsabile essa stessa del male che nel suo seno si compie..... Che cosa ha pei poveri questa moderna accozzaglia d'uomini che noi crediamo regolata da leggi civili? La Chiesa da una parte che loro addita un tardo compenso alle miserie della vita presente in una indefinita felicità quasi impossibile ad arrivarsi in una vita avvenire, il carnefice e il codice penale dall'altra parte che colpiscono troppo spesso alla cieca. Punire! Va benissimo. È forse un diritto che ha la società; ma perchè non si pensa al dovere sacrosanto che le incombe di prevenire? E noi questa la chiamiamo civiltà?.... Verrà un tempo, ed io voglio sperarlo, in cui questa nostra epoca sembrerà ai posteri progrediti altrettanto barbara quanto sembra a noi quella feudale, quella del predominio della forza bruta.
Don Venanzio vedendo l'esaltazione assalire il malato e crescere via via, lo volle interrompere e indurre alla calma: il giovane gli si rivolse con maggiori l'impeto ed il calore.
— E la vostra religione che fa ella in proposito? Nulla che valga, od ascetica inculca un rinunciamento ai beni del mondo, impossibile alla natura umana, fuori che a qualche morbosa eccezione, e che se si propagasse, sarebbe distruttore d'ogni coltura, d'ogni progresso, d'ogni ricchezza, val quanto dire d'ogni società; o complice, benedice ai ricchi e li esime dai loro doveri verso i miseri; o timida, inintelligente soccorritrice di questi ultimi, non sa trovar rimedio che nell'antieconomica virtù dell'elemosina che umilia e fa sottomesso chi la riceve, che si converte in fin dei conti in premio dell'ozio e in incoraggiamento all'impostura.....
— Tranquillizzati, non ti affaticare con questi, per ora troppo gravi pensieri, la mente: disse con pietoso accento il parroco. Più tardi potrei teco discorrere anche di ciò, dirizzare colle deboli forze della mia intelligenza le storte idee che tu hai in proposito, mostrarti quanto conferirebbe al miglioramento sociale la nostra santa religione, se fosse ben intesa ed applicata da tutti..... Ma ora non è occasione opportuna da ciò. Sta in quiete.....
— In quiete! disse l'infelice sobbalzando in letto sotto un evidente ripigliare della sua febbre. Com'è [203] possibile? Mio padre è un assassino..... E sta per essere condannato a morte..... Ha ucciso e lo uccideranno, lui..... Sempre la legge del taglione!... Il sangue ch'egli ha sparso ed il suo che spargeranno devono ricadere su di me... Già lo sento... Già mi piomba addosso l'eredità del delitto e dell'infamia.
Si diede ad agitarsi nel letto con moti convulsi; il prete spaventato corse alla porta per domandare i domestici venissero in suo soccorso a contenere lo spasimante; ma una gentile, pietosa apparizione si mostrò ai suoi occhi. Era Virginia che veniva ella medesima a saper novelle del malato. Aveva appreso che questi non era suo fratello, ma la pietà del suo cuore non consentiva ch'ella per ciò di botto cessasse dall'interessarsi e sentì compassione per lui. L'amore medesimo, quasi complemento delle egregie facoltà di quell'anima eletta, l'amore che la fanciulla aveva in cuore la rendeva ancora più facile ed inchinevole ai generosi sentimenti, alle pietose ispirazioni, al desiderio di recar bene a chi più potesse. Le disordinate parole dal misero a lei dette parecchi giorni prima, quando la sua infermità lo aveva assalito, ella aveva perdonate, aveva attribuite al delirio soltanto, aveva quasi del tutto obliate. Udito la buona novella che dalla sera innanzi Maurilio era tornato in possesso della sua cognizione, ella veniva a rallegrarsene, a fargliene coraggio con una sua parola, colla sua presenza, prova irrefragabile d'un generoso interessamento. Quella stessa mattina inoltre ella aveva compita l'opera pietosa di visitarlo, verso un altro infermo, Francesco Benda, e riferirò fra poco i modi, e le circostanze, e gli effetti di quella sua visita alla disgraziata famiglia, della quale sarà questa appunto un'occasione per dire le novelle; ed all'anima sua così squisitamente dilicata parve un dovere quella medesima pietà che l'amore l'aveva spinta ad usare verso Francesco, usarla eziandio verso l'infelice che dolorava sotto il medesimo tetto da lei abitato, le sembrò che così legittimasse quasi quella sua visita all'officina Benda, alla quale aveva dato per pretesto soltanto il desiderio di vedere e confortare l'amica compagna d'educandato e la novella amica, l'infelice Maria.
Quando il vecchio parroco si vide dinanzi la bella persona della nobile donzella, giunse le mani come per pregare, in atto che gli era abituale ogni qual volta una profonda commozione lo possedesse, ed esclamò:
— Misericordia! Ho paura che sia da capo col delirio, questo poveretto, e che ci siamo rallegrati troppo presto.
La fanciulla entrò più ratta, come sollecitata da queste parole, e venne risoluta presso il giacente.
All'intelligenza di Maurilio avveniva come al sole in quelle giornate di primavera, in cui le nubi grosse e scure, ma interrotte, passeggiano pel cielo e ad intervalli passano davanti all'astro di splendore e ne offuscano i raggi, spandendo una mesta e cupa oscurità su tutta la natura; e ad un tratto poi ne lasciano giunger libera alla terra la luce, che pare ancor più viva, più brillante, più calda. Egli sentiva a quando a quando salirgli al cervello una vera nube, come un ammasso di vapori sanguigni, che tutta gli ottenebrava la mente; in mezzo a questi vapori scorgeva immagini inesprimibili di cose tanto strane che erano impossibili, forme e sembianze che non appartenevano alla creazione terrena, e gli pareva come se dal fondo di quella tenebra uscisse una granfia che afferrasse la sua ragione nel suo cervello e la tirasse a sè facendola distendersi come un filo sempre più sottile, che non tenesse più che per un picciol capo alle meningi della sua cavità cerebrale, e l'avvolgesse, questo filo, nel labirinto di quelle forme mostruose della notte tanto da perdercelo; poi ad un tratto, la nebbia vaporosa spariva, il filo sfuggiva alla mano misteriosa, che si affondava nell'ombra, e per gioco di elasticità ritornava a raggomitolarsi tutto nella sostanza grigia del suo cervello; la intelligenza lucida, potente, maggiore che nelle condizioni ordinarie della sua vita, brillava al di sopra della pienamente riacquistata coscienza.
La vista della fanciulla parve fare più splendida che mai in Maurilio questa luce d'intelletto. Vide più chiaro, più lontano e più giusto; comprese con ambito più vasto le varie manifestazioni del vero, conobbe meglio in sè e fuori di sè; dietro gli adombramenti delle forme discernè la sostanza; capì la ragione e l'idea degli uomini e dei fatti; giudicò e seppe.
Il suo volto, in cui le grossolane sembianze dell'uomo inferiore della plebe erano pure animate dal tocco divino del Prometeo che è l'ingegno, s'illuminò d'un barlume ineffabile, come brulla montagna del carezzevole raggio rosato dell'aurora; nel suo pallore di cadavere, il fronte parve divenuto fosforescente come diamante impregnato di luce solare, gli occhi ebbero lo sguardo d'aquila del genio, le labbra il sorriso dei beati; la sua bruttezza si trasfigurò in un'espressione di sovrumano idealismo.
Virginia! esclamò egli con voce che aveva essa pure una nuova e straordinaria melodia, che era un grido dell'anima, che pareva la suprema aspirazione d'un morente: con quella voce con cui Goethe all'agonia domandava la luce; poi chiuse gli occhi, volendo sottrarsi alla troppa e troppo acuta dolcezza di quella visione di bellezza divina, volendo fare che dalla retina degli occhi s'imprimesse nell'intima compage del cervello l'immagine di quella testa angelica dall'aureola delle chiome d'oro, tutto leggiadria, benignità e splendore.
— Gran Dio! esclamò la donzella curvandosi sul giacente: egli è svenuto.
[204] Maurilio bevve colle orecchie l'armonia di queste parole, rialzò le ciglia a berne cogli occhi assetati la dolcezza dello sguardo pietoso che cadeva su di lui, come si berrebbe una manna celeste.
— No, diss'egli: ben vorrei esser morto in quest'istante, ma è troppo lieta fortuna perchè mi sia concessa.
Fece scorrere il suo sguardo animato da Virginia a Don Venanzio che lo stavan mirando con interesse.
— Non temete di nulla... Sento, so che ho ancora da compire qualche cosa su questa terra, prima d'abbandonarla... Qualche cosa di ignorato, che non troverà eco nessuna nei rumori del mondo; ma che pure, non sarà forse men grande delle opere famose di glorificati eroi... Far felice alcuno, fare che risplenda a menti offuscate il vero, non è forse opera di missione divina?... Ed io farò felice voi, o Virginia; ed io devo scioglier dai ceppi delle passioni della materia due anime... Non morirò dunque ancora... Mi rialzerò di qua, non dubitate, per abbandonare questo miserabile ed odiato involucro, allora soltanto, quando avrò compito il mio ufficio... Ah! non sarà questo la superba missione che ho sognato un istante, quando parve il destino volermi porre in mano la potenza... Che importa? Nessuno ha diritto di lamentarsi della sua sorte; perchè, come saprebbe egli a quali precedenti di vite anteriori e d'altri mondi corrisponde la sua attuale esistenza?... Se io non sarò passato disutile affatto; se le mie sofferenze avranno portato per frutto una sola ombra di vantaggio, un sol momento di bene ad un mio simile, sarò pago abbastanza, sarà spiegata abbastanza anche alla corta vista del mio scontento egoismo, la ragione di questa breve vicenda nella mia vita immortale.
Parlava calmo, pacato, lento; ma con una vibrazione contenuta di voce che rivelava un'energia interiore, con una certa solennità che imponeva, quasi come un'autorevolezza. Virginia sentiva la sua compassione far luogo ad un sentimento poco meno che di deferenza e di rispetto; Don Venanzio insieme alla tenerezza ed all'ammirazione che gl'ispiravano i concetti del suo pupillo, provava un sentimento di dolore, perchè comprendeva che in quella superiorità morale ed intellettiva più chiaramente manifestantesi, in quella profetica rassegnazione, era l'effetto della mano della morte che già aveva tocco quell'organismo, che lasciava penetrare a quello spirito incarnato un guizzo della luce stessa dell'infinito.
Maurilio si rivolse al domestico, che stava appiè del letto ad aspettare gli ordini, e gli disse con accento di dolce preghiera:
— Fatemi il piacere, tiratemi un pocolino più in su.
Il servitore lo prese sotto alle braccia e lo sollevò alquanto; in questo movimento uno dei guanciali andò per traverso, e quando il giacente fece per abbandonar di nuovo sovr'esso il suo capo fu la mano di Virginia che sollecita e lieve raddrizzò il cuscino; e in quell'atto cortese la fine, liscia, profumata pelle della mano di lei incontrò e toccò la fronte ardente del giovane. Un lieve sussulto scosse a lui le membra, uno sguardo d'ineffabile dolcezza, di supremo diletto ringraziò la pietosa fanciulla.
— Don Venanzio, diss'egli poi, il marchese può aver bisogno di lei, ed ella ha pur bisogno di parlare al marchese.
— È vero, rispose il parroco, che in quel momento si ricordò eziandio della povera Margherita.
— Non indugi adunque di più.
Il prete si mosse per uscire, Virginia accennò volerlo seguitare.
— Un istante: disse vivacemente Maurilio e con accento di caldissima preghiera. Vorrei dirle due parole, Virginia.
Ella si fermò senza esitazione, non esprimendo nè cogli atti, nè cogli sguardi, nè in modo nessuno il menomo dubbio o diffidenza.
— Eccomi: disse con semplicità, tornando ad accostarsi all'infermo.
Il domestico s'era ritirato in fondo alla camera e stava colà come se quello non fosse fatto suo. Maurilio, abbassando la voce in modo che il suono delle parole giungesse solamente all'orecchio della donzella, così prese a dire:
— Ella mi ha da perdonare gli atti e le parole che ora mi ricordo aver usati con lei, l'altro dì quando primamente mi fu tolta la volontà dalla mano della follia.
— Le ho tutto perdonato: disse dolcemente Virginia a cui quel discorso rincresceva, e che stimava doverlo interrompere anche in vantaggio del malato. Non se ne preoccupi dell'altro, e non parliamone più.
Ma il giovane, facendo cenno col capo lo lasciasse continuare chè tutto aveva bisogno d'esprimere il suo pensiero, riprese dopo un poco:
— Potrei scusare il mio trascorso coll'alterazione mentale che mi assalse; ma non voglio, perchè ho il debito e m'incombe aver il coraggio di dirle la verità. Quello che mi sfuggì dalle labbra a quel punto, usciva proprio fuor dell'anima mia, è il segreto della mia esistenza. Sono anni ed anni, o Virginia, ch'io v'amo d'un amore impossibile ad esprimersi.
Virginia fece un movimento.
— Non mi sfugga, soggiunse ratto il giacente; non m'imponga tacere. È un uomo che deve morire fra poco quello che vi parla. Lo stampo della morte consacra solennemente ogni affetto, e questo è santo come santa è l'anima vostra. La confessione d'un moribondo si deve ascoltare con animo pacato e pietoso; l'orgoglio umano, i pregiudizi terreni [205] devono tacere innanzi ad un amore che sta per nascondersi dietro una tomba. Uditemi, Virginia, in nome del cielo! Sarà l'unica volta che vi avrò fatto penetrare nell'anima mia. Avrò così aggiustata definitivamente questa partita de' miei affetti terreni, e non ve ne parlerò più mai. Io vi parlerò come se ad ascoltarmi qui fossero la vostra madre che voi perdeste — e la mia, che non conobbi mai! — E forse i loro spiriti qui sono e ci assistono. La vostra fierezza e la vostra purità non avranno da essere turbate pur da un'ombra di corruccio.
La donzella appoggiò, come per sorreggersi, la sua destra bianca, sottile, dalle dita affusolate sopra la spalliera d'una seggiola vicina, e con dignitosa semplicità, con nobile fiducia, disse benignamente:
— Parlate!
E il giovane, con un fuoco che l'interna passione ispirava pure alla sua debolezza, con un impeto di parola, che era come un residuo del suo delirio, ma temperato dalla soavità dell'affetto, così parlò:
— Vi ho amata quando ero appena al limite dell'infanzia, sulla soglia della turbolenta adolescenza della creta e del pensiero. Vi ho amata, non perchè foste bella soltanto, ma perchè la vostra bellezza mi incarnava dinanzi la più alta espressione di quell'ideale a cui, inconsciamente ancora a quel tempo, ma pure con ardentissimo anelito già aspirava l'anima mia. Ho amato il vero, quella parte del divino concessa alla nostra natura nelle sue manifestazioni più pure, più splendide, nella poesia, bellezza intellettuale, nella virtù, bellezza morale, in voi, bellezza di forme che le altre due vestiva ed incarnava..... Non arrossite, non vi corrucciate: vi parlo come parlerei all'angelo mio custode; non c'è ombra di intendimento interessato in me, non voglio commovervi nè lusingarvi; vo' dirvi quel che foste per me, quel che siete, quel che potete essere nel mondo... Era naturale, era fatale ch'io così vi amassi. Voi rappresentate tutto ciò che vi ha di bello e di superiore nell'umana famiglia, circondato dallo splendore delle distinzioni, dell'eleganza, dell'autorità e delle grandezze sociali: voi siete il risultamento più completo e più perfetto dello stato attuale della coltura e del progresso dell'umanità, fisico, morale, intellettivo, estetico, economico. Il pensiero, il lavoro, i travagli dell'uomo di tutti i secoli trascorsi hanno cospirato per crear voi e disporvi intorno l'ambiente opportuno. Siete il frutto dell'intelligenza applicata a tutti i rami dell'attività umana; la civiltà vi ha fatto un piedestallo e voi raggiate sovr'esso, personificazione di quanto di buono e di bello seppe arrivare e conseguire il secolo. Io sono la plebe, la povera plebe che guarda da lontano il banchetto imbandito ai ricchi, e muor di fame invidiando: banchetto non di cibi materiali soltanto, ma di amore e di pace, di sapere e di fama, di potenza e di virtù. La plebe che col suo lavoro e co' suoi stenti concorre all'opera del progresso e non ne fruisce che poco o nulla, che ha, nell'oscurità delle sue grandi masse ignorate, dato sforzi, sudori e vite per ottenere il tesoro di agi sociali del secolo XIX, e vive tuttavia nella barbarie di due secoli addietro; la plebe che contenuta, domata, ignorante, con un barlume soltanto o con false idee de' suoi diritti, sta accalcata, premuta alla base della società, ma s'agita talvolta e tiene il collo levato verso lo splendore della luce, essa fitta nelle tenebre!... Io son la plebe; ma soffrii più di essa, perchè fui conscio delle mie condizioni e potei scrutare la ragione de' miei dolori. Seppi quel che volevo e capii sempre l'impossibilità di ottenerlo. Conobbi dove era la beatitudine e mi seppi sempre condannato a non arrivarla... Avverrà egli un giorno che la plebe possa giungere alla conquista dell'Eden sociale? Certo che sì, in un tardo, ma immancabile avvenire; e sarà quando il figliuolo di nessuno — come io — coll'ingegno, col valore, col lavoro, potrà ottenere l'amore della più bella, della più nobile donzella — come voi — e gli usi e i pregiudizi sociali non grideranno allo scandalo, non ne faranno alla fanciulla una vergogna.
Tacque un istante per riposarsi. Virginia disse, commossa, con quella sua voce d'oro:
— Ah! gli usi e i pregiudizi sociali sono una tirannia a cui nessuno può sottrarsi: e non è la volontà d'una debole fanciulla che possa rompere queste catene di ferro.
La poveretta pensava al suo amore per Francesco, contrastato, ed ella pur troppo temeva senza rimedio nessuno, dalla boria aristocratica della sua famiglia.
Maurilio la indovinò, la comprese e con un mesto sorriso ripigliò a parlare:
— La sorte volle che fra noi, così lontani — voi al fastigio, io all'ultimo gradino della piramide sociale — si stabilisse in breve un'attinenza di domestico affetto.... Oh la deve cessare, lo so: si affrettò a soggiungere vedendo un lieve moto nelle fattezze della fanciulla, al quale egli attribuì più superbo significato che non avesse: ma frattanto, permettetemi ch'io me ne profitti per parlarvi in vostro vantaggio.... in vantaggio d'un'altra persona che vi sta a cuore.... per parlarvi come un fratello, quale un istante fui creduto essere per voi.
Gli sguardi del malato erano così supplichevoli, la sua voce era improntata d'un affetto che aveva qualche cosa di materno, per guisa che Virginia represse la volontà d'imporgli silenzio cui le suggeriva l'orgoglio, e credette far opera di pietà verso quel misero, cedendo alla curiosità ond'era punta eziandio di ascoltare le parole che Maurilio sarebbe per dirle, e col silenzio annuì che il giovane continuasse.
— Io sono la plebe; Francesco Benda è la borghesia....
[206] Al nome di colui ch'essa amava, le guancie di Virginia si suffusero d'un lieve rossore e gli occhi si chinarono lentamente.
— La borghesia è plebe incivilita mercè l'agiatezza e l'educazione; è parte di quel gran serbatoio comune del popolo, venuta su, trattasi fuori dalla bolgia dell'ignoranza e della miseria grazie la fortuna, l'intelligenza, l'operosità maggiore, arrivata a spartire colla classe superiore una gran quantità dei beni sociali, se non tutti, a godere i precipui vantaggi della civiltà. Ma tuttavia anch'essa, la borghesia, anela ad ascendere pur sempre: lo splendore dell'idealismo sociale incarnato nella grandezza e nell'autorità, la attrae sempre più su: aspira ad un'uguaglianza assoluta cogli eredi delle grandezze antiche, col capitale di educazione e di tradizioni raccolto dagli antenati.... Francesco Benda, il figliuolo degl'industriali arricchiti, ama Virginia di Castelletto discendente d'una illustre prosapia di prodi. È la legge del progresso: e l'effettuarsi di questo vuole che cotal maritaggio si compia. Bisogna che l'aura, il profumo, il raggio della poesia aristocratica si unisca alla prosa dell'attività, dell'audacia, della scienza positiva del ceto medio. Ne verrà un miglioramento morale, sociale, e fisico eziandio della razza umana. Plebe e nobiltà sono troppo ancora distanti: il loro maritaggio è tuttavia mostruoso: ma fra l'aristocrazia e il mezzo ceto, se gli è difficile sempre, non è più impossibile. Le anime elette di questo e di quella, hanno oramai dall'educazione e dalle condizioni economiche, ricevuto la patente d'uguaglianza. Voi, Virginia, e Francesco rappresenterete questo fatto colla vostra unione; le difficoltà della quale io conferirò ad appianare. Come? Non so ancora: ma ho la coscienza che il mio concorso aiuterà il conseguimento della vostra felicità. Fra voi, il povero plebeo, cadendo, colmerà lo spazio che ancora vi disgiunge. La vostra felicità sarà passata sul mio cadavere.
— Signore: interruppe qui Virginia: è un tristo augurio che voi mi fate. Le circostanze straordinarie che avvennero tra noi vi hanno messo in grado di parlarmi e mi hanno consigliata ad ascoltare da voi cose che non avrei dovuto, che non avrei tollerato da nessuno, fuori da chi avesse legittima autorità su di me. Avete voluto con soverchia audacia penetrare nel segreto del mio cuore: volete ora disporre del mio destino e far pesare su di me la risponsabilità di avvenimenti che spero non si effettueranno, ma che in ogni modo non dipendono dal mio arbitrio. Qualunque sieno i casi, quali che esser possano i miei sentimenti ed affetti, una cosa sola potete ritener per sicura, ed è che la mia condotta sarà ispirata sempre dalla coscienza dei miei doveri, della mia dignità, dalla sommissione ai voleri di coloro cui debbo obbedire, ed alle leggi della convenienza.
Maurilio rispose con un mesto sorriso:
— Non è un uomo che ora vi parla, è un'idea. Attribuite pure l'audacia dei miei discorsi al residuo del delirio, ed ascoltatemi, pietosa come siete, con generosa tolleranza, per compassione della mia follia; ma le cose ch'io vi dico serbatele nella vostra memoria e richiamatevele alla mente il dì che avrete bisogno di conformare a quei principii gli atti della vostra vita. No, non è vero ch'io voglia addossare a voi la responsabilità di fatti che sono un effetto necessario di quello svolgersi del dramma umano nella esistenza particolare dei singoli individui e nella complessiva della massa, del quale non possiamo abbracciare le forme generali e lo scopo finale. Chiamatelo caso, chiamatelo destino, chiamatelo piuttosto Provvidenza, noi siamo attori che traduciamo in atto, ciascuno per la sua parte maggiore o minore, il concetto di quell'autore. Il nostro dovere, l'importante è di rappresentarla questa parte il meglio che ci sia possibile: l'esserne conscii e il travagliarvisi intorno deliberatamente, è il privilegio degli esseri eletti. Voi siete tra questi; voi siete un tipo; voi sentite, forse ancora in confuso, la vostra missione: io, dall'orlo della tomba, illuminata la mente da lampi di luce eterea che già mi guizzano tra la materia che si scioglie, io vengo a definirvi colla mia parola, a farvi concrete le forme vaghe della vostra ispirazione. Ponete mente, voi siete la grazia, la bellezza, l'ultimo portato dell'educazione civile, l'arte, la poesia, l'ideale; Francesco è la ricchezza economica, il progresso materiale, la tendenza all'egoismo del benessere, l'attività meccanica che nella lotta colle difficoltà affacciate dalla natura sempre ribelle, anche soggiogata, dimentica agevolmente la luce superiore, diventa sorda alla voce di doveri più vasti che non son quelli avvertiti dalla comune, d'impulsi più sublimi che non quelli delle pedisseque virtù delle anime volgari. Voi avete da essere nella sua vita quella luce; voi avete da far risuonare al suo cuore quella voce. L'uomo che avrà l'immensa felicità di possedervi deve pagarla alla Provvidenza, deve farsene degno coll'essere un'anima superiore. Francesco è un'anima generosa, ma debole: voi l'avete da temperare col vostro amore alla forza delle grandi idee, alla sublimità dei grandi sacrifizi, alla potenza delle grandi volontà. Di quel ferro fatene acciaio. Fategli guardare in alto: sempre più su, sempre più su, excelsior, coll'animo, coll'intelletto; ma fategli tendere la mano al basso. Voi siete la beneficenza; siate di più ancora: siate il genio del mondo novello; e l'uomo che ha l'amor vostro bandisca il vangelo della nuova redenzione, lavori per l'effettuamento della nuova civiltà.
Si sollevò sui cuscini con più forza di quello che si sarebbe creduto, e la vasta fronte parve corsa da una lieve fiamma fugace, mentre gli occhi parevano riflettere un raggio di sole.
— Guardatevi dintorno in questa società, che si [207] travaglia nella gestazione dolorosa dell'avvenire. Quante cose da fare! Tutto vacilla: la fede, l'autorità, la coscienza umana. Una casta, a nome dello spirito, ha troppo disprezzata e maltrattata la materia: questa s'insorge e dà la battaglia della negazione allo spirito, in nome della libertà. Gli errori cozzano innanzi alla verità sbalordita. Gl'infimi, dal ghiacciato fango dove giacciono oppressi levano in su la testa, si drizzano in punta di piedi e vogliono arrampicarsi alle più tepenti aure della ricchezza. I derelitti gettano in faccia alla civiltà del secolo la tremenda questione; «Perchè abbiamo sofferto sinora? Perchè soffriamo?» La risposta autoritativa delle religioni dommatiche non basta più ad acquetarli. Un miasma di materialismo inasprisce le piaghe sociali e manda al parosismo la febbre della miseria.... Convien provvedere, convien provvedere.... La quistione politica non è che vicenda di transizione. È la tendenza del predominio della borghesia; ma l'avvenimento di questa non sarà che una sosta nella lotta sociale, dove essa non pensi alla redenzione della plebe e non l'effettui.
Si strinse colle mani la fronte e tacque un istante; le carni gli ardevano ed affannoso aveva il respiro. Virginia fece un atto come per venirgli pietosamente in aiuto; ma egli lasciò cadersi le braccia e mostrò spento nelle pupille il raggio, svanita la fosforescenza della fronte diventata color della morte.
— Oh meschinità ed impotenza della parola! disse egli con voce sorda, soffocata, in cui ogni vibrazione era spenta. S'io potessi tradurre in linguaggio umano le mie idee! S'io potessi dar forma alle mie visioni!... Mi avete voi potuto comprendere? Potrete voi completare nella vostra intelligenza il concetto da me appena accennato?... Ah perchè non posso trasmettere in altrui quello che s'agita dentro il mio cervello? Perchè non son io Francesco?..... Perchè sono condannato a morire?...
Ricascò sui guanciali e chiuse gli occhi così che parve già fatto cadavere.
La nobile fanciulla si curvò su di lui, impietosita, palpitante; e gli fece scendere sull'anima la rugiada di dolci parole di speranza e di conforto. Egli sorrise mestamente a quella melodia soave.
— Addio bellezze dell'esistenza terrena; susurrò colle tremole labbra sfiorate da un sorriso: addio poesia della mia vita!... Sì, sono condannato a morire..... Bere sino alla feccia il calice delle amarezze, e morire.
Il misero pensava all'ignominia di suo padre, il quale pure ei voleva conoscere.
— Perdonatemi, Virginia, e compatitemi... E non dimenticate le mie parole!... Forse non vi parlerò più..... Ma son lieto d'aver potuto manifestarvi un cantuccio dell'anima mia..... E siate benedetta voi che avete per pietà inchinato il vostro orgoglio alla pazienza di ascoltarmi. Ora sento offuscarsi di nuovo la mia mente turbata: addio; lasciatemi alle tenebre che m'invadono..... e siate felice!
Virginia s'allontanò pensosa, commossa, a passo lento. La rozza figura del giovane plebeo aveva preso ai suoi occhi proporzioni mai più credute di grandezza. Essa lo aveva indovinato; traverso le confuse parole aveva capito il pensiero, aveva travisto la luce dell'idea. Si fermò innanzi al ritratto di sua madre e stette assai tempo contemplandolo, assorta in profonda riflessione. Quando si riscosse si passò le piccole mani sulla fronte: gli occhi mandavan faville.
— Esser la luce, la coscienza, l'ideale dell'uomo che si ama! esclamò. Essere il genio del mondo novello!... Oh! il mio Francesco sarà un grand'uomo!
Don Venanzio vide sul volto del marchese le traccie d'una tal desolazione e d'un tale abbattimento, che avventurandosi ad una maggiore famigliarità di quella che mai avesse ardito usare coll'illustre personaggio, gli si avvicinò con premura, gli prese una mano e disse con tono di amichevole conforto:
— Coraggio, signor marchese.
— Ah! se sapesse!..... mormorò lo zio di Virginia.
— So tutto; disse affrettatamente il parroco; e narrò che veniva dalla stanza di Maurilio, da cui aveva appreso la fatale novella, e come quello sciagurato che da pochi dì andava per le bocche di tutti col nome di medichino egli avesse conosciuto bambino ed istrutto in compagnia di Maurilio.
Il marchese si nascose nelle mani la faccia.
— Ah! come Iddio ha punita la mia famiglia e me stesso: disse gemendo. Togliere ad una moglie il suo sposo, rubare ad una madre il frutto delle sue viscere, condannare alla miseria ed alla vergogna un innocente bambino furono orribili colpe... ma orribile pure è il castigo del cielo!... Ed ora che fare, mio Dio! che fare?
Don Venanzio parlò col buonsenso della sua anima religiosa ed onesta.
— Bisogna rendere omaggio al vero; bisogna obbedire alla manifesta volontà di Dio che per suoi imperscrutabili fini ha voluto appunto che in questa occasione si scoprisse il segreto: bisogna che quello sciagurato sappia tutto.
— Come! La pensa a quello che dice? disse il marchese levando in sussulto la testa, vorrebbe che l'onore della famiglia fosse posto in balìa di quel cotale?...
— La verità ha un diritto maggiore di quello dell'onor d'una casa; quell'infelice medesimo non può ulteriormente lasciarsi nell'ignoranza dell'esser suo. Chi le dice non sia uno de' maggiori e de' principali castighi che gli abbia riserbato la Provvidenza pel suo traviamento, quello di apprendere, quando caduto al fondo dell'infamia, che avrebbe [208] potuto essere ricco, glorioso, felice, dove avesse camminato sempre senza inciampare nel cammino della virtù?
Il marchese curvò il capo e tacque alcun tempo, assorto in una profonda e dolorosa meditazione.
— Forse Ella ha ragione, Don Venanzio: disse poi con accento di scoraggiato abbandono; ma io sono in mezzo ad impulsi diversi, a sentimenti contrarii, a doveri contraddittorii, e non so bene qual seguire, qual condotta trascegliere. Quel miserabile può egli dirsi che abbia ancora qualche diritto verso la mia famiglia? Non gli ha egli persi tutti coll'infamia della sua vita?
— Ma di chi la colpa s'ei precipitò a quel modo?
— È vero, è vero.... Ma non ho io il dovere di conservare inviolato l'onore del nome che devo trasmettere a' miei figli? Poichè tutto s'ignorò finora, poichè tutto si può seppellire.... non ho io il diritto di fare che si continui ad ignorare?
Il buon prete stette un momento, perplesso ancor egli: il marchese incalzò:
— Se quell'infelice medesimo conoscesse le condizioni in cui mi trovo, vedendo dall'una parte un inutile lustro gettato sulla sua ignominia a dispendio del decoro d'un glorioso casato, dall'altra il silenzio e l'oscurità continuati intorno alla sua origine, oh certo vorrebbe darmi ragione di appigliarmi a questo secondo partito...
S'interruppe come sovraccolto da una nuova idea.
— Don Venanzio, soggiunse egli poi affrettatamente e senza guardare in faccia il vecchio sacerdote: quel disgraziato è ben padrone della sua sorte, in lui sta bene il diritto di rinunziare ad un nome e ad un grado?
— Oh sì.
Il marchese tacque di nuovo un poco meditando.
— Ella mi ha detto avere stupito di trovare uno scellerato in quell'uomo ch'Ella aveva giudicato capace dei più alti destini.
— Sì.
— Non è dunque spenta nella sua anima ogni generosità, ogni nobile sentire?
— Non credo.
Altra pausa; poi con voce più bassa e testa più china, il marchese soggiunse:
— Voglio andare io stesso ad apprendere la verità a quello sventurato.... Ella mi vi accompagnerà, Don Venanzio.... Farò giudice colui medesimo di quel che si debba.
Il parroco parlò allora della povera Margherita; il marchese promise l'avrebbe raccomandata, e nello stesso tempo, quando avrebbe chiesto di poter avere un colloquio senza testimoni col medichino, avrebbe ottenuto facoltà a Don Venanzio di visitare la vecchia incarcerata.
All'influenza del marchese non fu difficile il conseguire per lo stesso giorno successivo la permissione di quell'abboccamento coll'imputato Gian-Luigi Quercia.
Ma di quella sera frattanto, una dolorosa scena aveva luogo nella famiglia Baldissero.
Si era al finir del pranzo. Durante questo non si era quasi parlato mai: il marchese era cupo, Virginia era triste e preoccupata, la marchesa superbamente fastidiosa, il marchesino ancora in broncio con tutti. Appena se poche parole erano state pronunziate in grazia a Don Venanzio che in mezzo a quelle cere imbrunite mostrava afflitta eziandio la sua bella fisionomia di uomo senza peccato. All'ultimo bicchierino di Bordeaux, Ettore, come per protestare contro la comune musoneria, sciolse il scilinguagnolo ed entrò di pieno nell'argomento che era sulle bocche di tutti, ma che allora, per diversa cagione, suscitava particolarmente l'interesse di Virginia, che quel giorno medesimo era stata a vedere Maria, del marchese e di Don Venanzio, che avevano avuto il colloquio or ora riferito; parlò del medichino.
— E' pare veramente, disse, che vi sieno in giuoco delle suste potenti per sottrarlo alla sorte che si merita. Ieri sera ebbe luogo un tentativo d'evasione che fu per un filo se non riuscì. (Contò le cose com'erano andate). L'agente di Polizia che venne in momento tanto opportuno ad arrestarlo, fu nominato sott'ispettore delle carceri e specialmente incaricato della custodia di quel mariuolo: il capoguardiano e il custode che fuggiva con lui sono ai ferri: l'ispettore medesimo, caduto in sospetto, è per intanto sospeso dall'impiego. È sperabile che quello sciagurato non isfugga al suo destino: e ci ho gusto. L'infame supplizio il miserabile lo ha meritato mille volte più d'ogni altro. Pensare che osava comparire nelle società di garbo...
— Non nella nostra: disse con tono secco la marchesa.
— Ma pur tuttavia oggi che la società è così mêlée ci avvenne di costeggiarlo le tantissime volte. Pensare che ci tendeva inguantata quella mano la quale giuocava di baro, rubava ed assassinava!... Pensare che l'ho avuto io di fronte in una quistione d'onore e che l'ho trattato come uomo onorevole! Esso merita cento morti.
— E la sua condotta verso la povera Maria Benda? esclamò con indignazione Virginia. Quello è uno dei peggiori suoi assassinii, se non è il pessimo. Chi può vedere quella vittima infelice e non sentirsi schiantar l'anima?... No, non v'è punizione di leggi terrene, non v'è maledizione di Dio che basti per tanta scelleraggine.
Il marchese era divenuto pallido pallido e guardava con occhi sbarrati ora la nipote, ora Don Venanzio.
— Ah! la misericordia di Dio è grande: disse questi colla sua voce mite e commossa: e dove noi non veggiamo che ragione di maledire, il Supremo Giudice sa le cause di compatire e di perdonare. Non anticipiamo i giudizi del Signore!
— Lasciamo stare la giustizia di Dio: disse Ettore [209] con quel suo fare fra l'impazienza e la leggerezza, in cui un impertinente sussiego era appena temperato dall'urbanità delle maniere. Quanto alla giustizia umana, se havvi caso in cui la debba essere implacabile, è certo questo. Uno scellerato che ruba la considerazione della gente, che non è spinto al delitto dall'urgenza del bisogno, ma da empie passioni, che si trafora nelle famiglie a rubarvi onore e denaro... Ma la morte è troppo poco... Ha torto a mio avviso la nostra filantropia moderna che abolì le tenaglie roventi e il supplizio della ruota...
Il padre di Ettore si drizzò di scatto più pallido ancora, e si levò di tavola. Tutti ne imitarono lo esempio e lo seguirono nel vicino salotto. Colà il marchesino che non s'accorse dell'emozione di suo padre, e che ad ogni modo non ne avrebbe capita la ragione, continuò come se di nulla fosse il suo discorso.
— Bisogna farli soffrire quella gente: la morte sì, ma dopo buoni tormenti...
— Siete voi senza cuore, Ettore? esclamò il marchese con accento di rimprovero doloroso.
— Per quella canaglia, sì: rispose col medesimo tono Ettore: e tanto più per quel cotale. E' mi ha sempre sovranamente spiaciuto.... Se fosse stato mio pari, gli è da tempo che avrei voluto dare anche a lui una buona lezione.... Ma io sentiva per istinto che quello era degli uomini che sono indegni anche del nostro odio, un vil verme che si disprezza e si calpesta.
Il marchese fece un passo verso suo figlio con mossa così vibrata e con aspetto così turbato che tutti gli si voltarono a guardarlo, ansiosi di botto delle parole che stavano per uscire dalle sue labbra. Le porte del salotto erano chiuse, e niun altro orecchio estraneo alla famiglia poteva udire, fuor quello di Don Venanzio.
— Sapete chi è quel vil verme? disse il marchese con voce bassa, ma tremola; sapete chi è quello scellerato, ladro, assassino, falsario, che voi volete attenagliare ed arrotare?..... Egli è vostro cugino, Ettore, è il figliuolo di mia sorella, è il tuo fratello, Virginia....
Virginia aveva detto il vero. Spettacolo da schiantar l'anima era vedere la povera Maria, dopo la sera fatale dell'arresto di Gian-Luigi, quella che esser doveva per lei la sera lietissima de' suoi sponsali. Chi avrebbe ancora riconosciuta in essa la vispa, allegra, spensierata fanciulla che abbiamo presentata al lettore nel secondo capitolo della seconda parte? I pochi giorni che erano trascorsi dal momento in cui ella aveva gittato quel suo grido di spasimo all'udire nominare il suo diletto, ladro ed assassino, avevano tratta via dalle sembianze, dalla persona, dal cuore della infelice ogni traccia di giovinezza, distruttane ogni letizia, uccisa ogni speranza. La era diventata pallida come una vittima della clorosi, magra come una malata d'etisia nell'ultimo stadio; gli occhi infossati nelle livide occhiaie avevano le palpebre rosse per le cocenti lagrime, per le veglie delle notti non più visitate dal sonno, e come tormentose! i muscoli delle guancie cascavano inerti dando alla fisionomia un'espressione di abbandono disperato che si poteva dire morte dell'anima; cascavano gli angoli della bocca da cui era sparito il color abituale di carminio, cascavano tutte le membra, come dinoccolate, come prive della forza interiore che le reggesse; avevano, la faccia sgomenta, e le pupille velate ed atone, e la mossa, quell'apparenza di stupidità penosa a vedersi che dà un solo, incessante, tormentoso pensiero onde sia punta la mente. La non parlava quasi mai, non si lamentava, in presenza degli altri si guardava bene dal piangere, non sospirava neppure: alle richieste che le si facessero, alle parole con cui si tentava scuoterla da quel mortale letargo rispondeva con pochi tronchi accenti, pronunciati a voce bassa, con paziente mitezza, il più spesso con soli monosillabi, o con cenni del capo. Alla capitata disgrazia non faceva mai neppure la menoma allusione; e siccome ogni altro guardavasi bene eziandio di toccar quel tasto, l'argomento di cui si parlasse meno, di cui non si parlasse mai in quella famiglia, era quello appunto che era sempre fisso nella mente di tutti.
Maria veniva chetamente a sedersi presso al letto di suo fratello ancora giacente, e stava lì senza guardarlo, l'occhio piantato sopra un rosone del tappeto: prendeva un suo lavoro tra mano e per un poco faceva andare in fretta la destra a trarre i punti, ma ad un tratto, come se ci avesse trovato un intoppo, l'ago si fermava nella stoffa, la cruna appoggiata all'anello da cucire diventato immobile, il filo aggrovigliato fra le pieghe del panno.
— Maria! le diceva allora dolcemente Francesco.
Ella si riscuoteva in sussulto.
— Che?
E il fratello fingeva aver bisogno d'un piccolo servizio, desiderava alcuna cosa, tanto per levarla un istante da quella meditazione che le consumava l'anima. Talvolta Francesco le prendeva una mano glie la serrava con muto affetto; ella non corrispondeva a quella stretta, vi si prestava per un poco, poi pianamente se ne liberava ed allontanavasi. Tutta la famiglia la circondava d'una compassione vigilante, sempre in sull'avviso, piena di silenziosa tenerezza e di cure: cercavano di rimuoverne dall'intorno le spine che potevano pungere ancora quel cuore trafitto, gli urti che potevano ferire quell'anima indolorita: ma aimè! la piaga era interna [210] ed irrimediabile, e tutti si sentivano feriti in lei, in quella parte di loro che avevan sì cara. Ella, quelle cure, quelle amorevolezze tollerava, il più delle volte pareva non accorgersene, raro ne ringraziava con un sorriso che era dolorosissimo a mirarsi, più raro ancora alcuna mostra le sfuggiva d'impazienza e d'irritazione.
Ad ogni volta che rientrasse nella sua camera scoppiava in singhiozzi ed in lagrime: talora, sentendo presso a traboccar la piena dello spasimo che le si gonfiava nel petto, fuggiva alla sua stanza, si buttava traverso il letto e soffocava i suoi gemiti nelle coltri che mordeva e bagnava di pianto.
Appena saputa la dolorosa catastrofe, Virginia di Castelletto aveva mandato alla sua antica compagna Maria l'espressione del suo cordoglio, il conforto della sua simpatia, in un biglietto quale la squisitezza del suo sentire e la sua forbitezza di maniere erano capaci di concepire e di scrivere; poscia aveva tutti i giorni mandato per le notizie, e finalmente, quel dì in cui Maurilio le doveva aprire in parte l'anima sua ed il pensiero, era venuta ella medesima a vedere di persona la sconsolata fanciulla.
Maria ad udire annunciata la nobil donzella, fece un atto di contrarietà. Ella s'era avvezza a stare fronte a fronte col suo dolore, a sentirsene rodere l'intimo essere, e glie ne piaceva così, e dispettava ciò che venisse, non dico ad interrompere, ma a disturbare quel suo supplizio. La madre di lei invece, che accoglieva come una ventura tutto quello che in alcun modo facesse sperare di poter distrarre la sua figliuola, fu sollecita a levarsi, e disse:
— Passa in sala, Maria; io vado ad incontrare la signora contessina, e te la conduco.
E sparì dietro la portiera dell'uscio, verso l'anticamera.
Maria, che sedeva al suo solito luogo presso il letto di Francesco, depose lentamente, con aria svogliata e quasi uggiosa, il suo lavoro; ma in quella il suo mesto sguardo incontrò il volto di suo fratello che all'udir quel nome s'era lievemente colorito.
— La saluterò per te, diss'ella facendo quel suo desolato sorriso: e s'avviò lentamente verso la sala.
— Ah! Dio la rimeriti della sua carità! aveva esclamato la signora Teresa correndo incontro a Virginia e pigliandole una mano che volle baciare. Possa la sua vista, possano le sue parole recare un po' di bene alla mia povera figliuola, che ne ha tanto, tanto bisogno.
Virginia con molto garbo, stringendo le mani della donna, impedì che le venisse baciata la destra; e in risposta disse con quella sua voce che si sarebbe detta il suono d'un'arpa d'oro:
— A prezzo di qualunque mio dolore vorrei darle conforto. Povera Maria! Come sostiene essa la sua sventura?
La madre, alla quale il sol parlare di Maria aveva chiamato agli occhi le lagrime, ora scoppiò in singhiozzi ed in pianto.
— Oimè! Oimè! esclamò ella: Maria se ne muore.
Virginia strinse forte le mani della signora Teresa che ancora teneva fra le sue.
— Coraggio! disse con un accento di pietà e di affetto che era una soave carezza. Non bisogna disperare. È venuto per la sua famiglia un tempo di prove; ma tornerà di poi certamente quello della felicità.
Teresa si rasciugò in fretta in fretta gli occhi, e soggiunse:
— La venga avanti, contessina, la favorisca qui, la prego.
E la trasse nella stanza di ricevimento.
Maria era già colà, venutavi dalla camera di Francesco. Stava in piedi presso al camino, sorreggendosi con una mano alla spalliera d'un seggiolone, nella mossa d'una prefica o d'una statua del Dolore sopra una tomba. Virginia fu quasi spaventata dall'abbandono desolato di quel contegno, dalla pallidezza mortale di quell'aspetto, dalla disperazione rassegnata dello sguardo semispento, del doloroso sorriso. Si avanzò rattamente verso di lei, ed esclamò con voce impressa d'immenso affetto:
— Maria!
Non era che una parola; ma in essa l'intonazione, l'accento, la vibrazione del suono ponevano un'infinità di cose: pietà, amore, offerta di sè, benevolenza generosa spinta fino all'entusiasmo.
Maria sentì coll'anima delicata tutte queste cose contenute in un sol motto, e ne fu tocca un istante; sollevò da terra i suoi occhi velati e li affisò fugacemente in volto alla donzella, che le si avvicinava, si staccò dalla poltrona a cui s'appoggiava e fece un passo verso Virginia, tendendole, con atto che pareva pieno di lassitudine, la mano.
— Questa è un'opera di carità ch'Ella fa, madamigella, venendo qui: disse Maria con voce debole, fiacca, quasi direi senza vita, onde molto si accrebbero la commozione e la pena di Virginia.
— Ho obbedito all'impulso del mio cuore: disse questa prendendo la mano di Maria, e mettendo nella voce tutta la dolcezza dell'anima sua. Sono venuta a rivendicare un diritto che pretendo di avere: il diritto dell'amicizia, e spero che Ella..... che tu non me lo vorrai negare.
Il modo con cui s'era interrotta ed aveva ripreso, con cui aveva pronunziata quella dolce parola tu, era pieno di grazia infinita, di tenerezza ineffabile, attalchè a Maria se ne inumidirono gli occhi.
Virginia si volse e fece un legger cenno alla signora Teresa, la quale, commossa, stringeva le mani e levava lo sguardo al cielo, nella speranza [211] che la venuta di quell'angelo in forma di donna recasse pur finalmente alcun conforto alla sua Maria. La buona madre comprese di botto la mesta preghiera della donzella, e s'affrettò a partirsi chetamente.
Per quella mano ch'essa teneva tuttavia, la contessina trasse a sè la sorella di Francesco, e se ne fece appoggiare al seno il capo doloroso.
— Povera Maria! diss'ella, baciandole con calde labbra la gelida fronte. Vuoi tu considerarmi come una tua sorella?
La disgraziata fanciulla, vinta da quell'affettuosa violenza di tenerezza, gettò le braccia al collo della contessina, e prorompendo in lagrime, pianse per un poco, senza poter dire pure una parola. Virginia la strinse amorosamente fra le sue braccia, le fece quei dolci atti, le susurrò quelle dolci parole, le prodigò quelle dolci carezze che usa una madre ad acquetare i pianti del suo bambino; poi, quando si calmò quello sfogo che fu in sostanza benefico all'animo oppresso della sventurata, ella ricercò sulle labbra di Maria un bacio che fu da tuttedue le parti pieno d'espansione e d'affetto; e così in quell'amplesso fu consecrata, come dire, la loro nuova fraternità.
— Ah madamigella!... cominciò quindi Maria, rasciugandosi gli occhi: ma Virginia, lesta ad interromperla:
— Chiamami Virginia, com'io te chiamo Maria. Mi hai accettata per sorella: trattami come tale, e concedimi i privilegi di sorella..... E il primo sarà quello di sgridarti. Il tuo aspetto mi dice che tu hai mancato di forza d'animo, che tu non hai neppure tentato opporre la menoma resistenza al dolore.
Maria scosse lievemente il capo.
— No, disse: gli ho aperto tutto il mio cuore; ne sentii con fiera voluttà l'invasione. — Ah! vorrei che esso fosse ancora maggiore e mi distruggesse più presto.
— Questa è una colpa! esclamò Virginia con una specie di severità, in cui però non era sminuito l'accento dell'amorevolezza. Sei tu sola nel mondo? Non hai legami di famiglia che ti avvincono? Non hai doveri che ti obbligano?
La sventurata levò le spalle coll'ingenuo egoismo del dolore.
— Non sento più nulla che la mia sciagura; disse francamente; poi, come volendo addurre una scusa, soggiunse: Francesco è oramai guarito e presto non avrà più bisogno di me... E poi egli ha in cuore altro affetto che deve occuparlo, che deve farlo felice più che non possa il mio...
Virginia arrossì leggermente e chinò gli occhi.
— Mio padre è uomo forte e robusto, che sa lottare contro il dolore, come contro il destino, e vincerli...
— E tua madre? domandò con forza la contessina, stringendo le mani di Maria.
— Mia madre ama più suo figlio di me...
— Ah Maria, tu se' ingiusta...
Questo grido di Virginia richiamò in sè la sviata mente della disperata giovane.
— È vero, è vero: esclamò con voce di profondo pentimento e di sdegno contro se medesima. Hai ragione..... Sono diventata trista..... Ma soffro tanto, sai!... Non so più quello che mi dica, nè quello che mi faccia, nè che mi pensi...
Tacque un istante, e poi curvandosi all'orecchio della sua compagna, le soggiunse piano, come il motto che doveva farle capire tutta la sua condotta:
— L'amavo tanto!... L'amo ancora tanto!
E chinò il capo sulla spalla di Virginia, per nascondere il rossore onde subitamente si soffuse il suo volto.
— Tu non devi più amarlo: disse con forza la contessina. Tu non devi a quell'iniquo sacrificare il tuo avvenire, la tua vita, la tua famiglia. Tu quel cotale, com'egli è, non l'hai amato mai. Hai amato un uomo d'onestà e valore; quell'uomo è scomparso; a colui che è rimasto non devi che odio e disprezzo.
Maria levò il capo, guardò bene in viso la nobile amica, e le disse lentamente:
— Tu avresti potuto strapparti dal cuore l'amore e gettarlo via come si fa d'un abito?... Tu non l'ameresti più?
— No, disse Virginia con forza, l'uomo che si rivelasse indegno della mia stima, non avrebbe più il mio amore. Colui che avesse empiamente ingannata la mia fiducia, che avesse mentito l'onore come la passione, io lo abborrirei disprezzandolo.
Gli occhi della donzella, così dicendo, brillavano d'una fiera luce; la bella di lei fisionomia aveva una imponente espressione di forza e di superiorità.
— Gran Dio! esclamò Maria, allontanandosi alquanto da Virginia per contemplarla meglio, e giungendo le mani in atto di meraviglia: nel tuo volto c'è in questo momento una strana rassomiglianza col suo, quando mi beava colle sue calde parole... Oh vedi s'io l'amo!
— Povera! Povera Maria!
— Ma io non lo credo colpevole: proruppe con impeto la sorella di Francesco. Non lo può essere, non deve. Crederesti tu se ti venissero a contare un'infamia dell'uomo che ami?... Io non darei fede neppure all'evidenza. Il nostro amore è un'istinto divino, superiore ad ogni umano argomento; e se un uomo ci inspira amore, è prova evidente che egli è superiore altrui.
Virginia ammirò la sublime fede di quell'amore.
— Ma ora, diss'ella, abbracciandola di nuovo: che vuoi tu fare? Vuoi tu abbandonarti fiaccamente all'azione del tuo dolore? lasciartene travolgere senza opporre la resistenza d'una volontà vincitrice?
Maria ebbe allora negli occhi un maggior lampo di vita.
[212] — Vorrei rivederlo ancora, una volta sola, e morire!
— Cattiva! disse Virginia dandole un bacio sulla fronte.
— Ho pensato al suicidio, sai: continuava la fanciulla con una semplicità d'espressione che era veramente desolante; ma non ci ho avuto coraggio. Nel mondo di là potrei ancora pensare a lui? Non ne sono sicura: ed il tormento di pensarci — di pensarci sempre — mi è caro. Ma c'è una fatta di suicidio per noi donne che mi sorride: un suicidio che togliendoci al mondo ci lascia tutte alla esclusività d'un solo pensiero... Ti ricordi, nel monastero del Sacro Cuore, di suor Clara, sì pallida, sì mesta, sì taciturna? Quando passava col suo passo lento e il suo sguardo di morta, noi sospendevamo i nostri giuochi e non osavamo parlare. Quella era un'anima estinta, e il monastero era la sua tomba. In questi dì quell'immagine, quell'ombra, quello spettro è venuto a farmi cenno ed invitarmi. Là è la soluzione del mio destino.
— Che? Tu vorresti?
— Quella è la morte che sogno e che mi preparo.
Virginia combattè con calore, con vivaci ragioni e con insistente zelo quel proponimento; Maria sembrava ascoltarla con sulle labbra quel suo penoso sorriso, ma in realtà il suo pensiero era altrove. Ad un punto interruppe l'amica e disse con accento di nuova risoluzione:
— Ho esitato finora ad aprirmene alla mia famiglia, ho tremato innanzi all'idea di manifestare tal mia volontà a mia madre. Ora la tua presenza mi darà coraggio. Vieni e sii tu testimone all'annunzio della mia irrevocabile determinazione.
La prese per mano e la trasse vivamente con sè. Virginia, che non ebbe neppur campo a contrastare, si trovò nella stanza di Francesco.
Là era in quel momento tutta la famiglia raccolta. Il sor Giacomo era venuto allor allora, e teneva ancora fra le sue la mano di Francesco, cui aveva interrogato della sua salute. Quell'uomo tanto forte e robusto si vedeva che sotto i colpi così fieri e così repentinamente replicati della sventura aveva vacillato, ma non era caduto disfatto. Le chiome in que' pochi giorni gli si erano incanutite, dimagrata la faccia, fatte più profonde e più numerose le rughe della fronte; smarrita affatto quella vivacità alacre ed allegra che era l'espressione dell'operosità instancabile della sua natura; ma l'occhio pur nella sua mestizia serbava una luce, le labbra serrate avevano una rigidità di linee che ben rivelavano un'anima pronta a lottar tuttavia colla sorte e cogli uomini. Il suo cordoglio, la passione, la pietà per la figliuola e il dolore per la ferita del figlio, pareva ch'egli cercasse distrarre mercè una febbrile attività con cui s'era dato a riparare i danni dell'incendio e del saccheggio, ristaurare la fabbrica e ravviare il corso interrotto dei lavori. In casa, presso la famiglia, veniva di frequente, ma ci stava assai poco; appena se ci compariva, gettava sopra Maria uno sguardo pieno di tenerezza, interrogava il figliuolo, faceva come atto d'incoraggiamento una mesta carezza alla moglie, e via di nuovo. Pareva che rimaner lontano dai suoi non potesse, timoroso ad ogni momento che una nuova sciagura precipitasse su di loro, e starne in compagnia troppo gli fosse doloroso. Delle vicende passate nè anche egli non faceva mai cenno veruno. Era una tacita intesa di tutti quegl'infelici di non parlarne mai. Solo una volta che l'occasione inevitabilmente ne venne, il sor Giacomo, la cui natura era impetuosamente franca, lasciò scorgere tutto l'odio che implacabilmente aveva concepito per quello scellerato ingannatore della loro fiducia, per quel traditore assassino della sua figliuola; ma questa udendo le invettive e le imprecazioni del padre contro l'uomo ch'ella amava pur sempre, s'era levata in piedi pallida ed angosciata, aveva fatto barcollando i pochi passi che la disgiungevano da suo padre, un'ineffabile espressione di preghiera nel volto doloroso, nella mossa delle mani tese, e venutale presso gli aveva dolcemente posta la destra sulle labbra, senza dire una parola, ma con un gemito che significava ed era tale da intenerire più d'ogni discorso. Giacomo da quel momento s'era imposto di vegliare più attentamente su se stesso e di non lasciarsi più sfuggire un detto mai su quell'argomento.
Vedendo entrare, tratta per mano da Maria, la contessina Virginia, Giacomo si volse meravigliato e s'inchinò rispettoso, Francesco arrossì ed ebbe un guizzo di gioia negli occhi, Teresa si levò in piedi, ed accortasi di una certa animazione nella fisionomia e nella mossa di Maria, cosa che non era avvenuta più dopo l'orribile sventura, sperò che Dio l'avesse allora esaudita e la presenza e le parole della nobile donzella avessero potuto recar conforto, dar consolazione ed ispirar coraggio all'afflitta figliuola.
Ma la sua illusione, pur troppo, non potè essere di lunga durata. La fanciulla s'avanzò con passo risoluto fin presso ai genitori ed al letto del fratello, e là, prima che niun altro avesse tempo ad aprir labbro, parlò di questa guisa:
— Padre, madre mia; sono venuta a manifestarvi, in presenze di questa recente ma nobile e generosa amica, la quale fu la sola che nella mia sventura non mi abbia abbandonata, ma ne prese anzi occasione a mostrarmi tutta la bellezza dell'anima sua e la squisitezza del suo affetto: sono venuta a manifestarvi la irrevocabile determinazione che Dio mi ha ispirata, che ho presa, che credo mio dovere seguire nelle dolorose circostanze in cui mi trovo. Se finora non ve ne ho parlato benchè fin dal primo giorno fosse balenata [213] alla mia mente e l'avessi in massima accettata, si è perchè ho voluto prima discuterla meco stessa e farmi tutte le obbiezioni che vi si possono affacciare per vedere se la si poteva efficacemente combattere, e cimentarla coll'amore che ho per voi, col concetto che mi rimane de' miei doveri di figlia a vostro riguardo. Essa ha resistito a tutto; la voce che mi chiama si è fatta anzi sempre più forte; l'impulso che mi spinge diventa più potente ogni giorno. Parlando con Virginia, testè, una forza superiore mi trasse a svelare il mio segreto proponimento; sentii subito allora come, poichè quel mio disegno era uscito una volta dalla chiostra della mia coscienza, diventava mio debito di farne partecipi tosto, voi, padre e madre miei.
Il sor Giacomo la interruppe con un'impazienza che il suo carattere non gli consentiva più di frenare, ma a cui l'affetto levava ogni asprezza.
— Qual è dunque questo tuo proponimento?..... Parla, e pensa che i tuoi genitori, che la tua famiglia ebbe in questi giorni già troppi dolori, perchè tu venga volontariamente ora a recargliene altri.
— Perdonami, padre mio; perdonami anche tu, mamma; ma questo dolore io sono proprio costretta a recarvelo. Non posso più appartenere al mondo, e non voglio; non posso e non voglio esser più di nessuno fuor che di Dio: entrerò in un monastero e mi farò monaca.
La madre non rispose che con un gemito, e lasciandosi cadere seduta si nascose nelle mani la faccia; Giacomo fece un atto di sdegnosa sorpresa e ruppe in parole cui la presenza soltanto della contessina valse a temperare.
— Crudele figliuola! È questo l'amore che hai per noi? questa la corrispondenza e la gratitudine al nostro affetto? Perchè vuoi punirci, noi innocenti, che soffriamo al pari di te? Noi, che se mai ci abbiamo una colpa, è quella di aver troppo facilmente accondisceso ai tuoi desiderii? La voce che chiama, l'impulso segreto, l'ispirazione del cielo le sono storie; tu vuoi ritirarti nella solitudine, fuori d'ogni affetto umano, fuor d'ogni legame di dovere domestico per istare faccia a faccia unicamente e sempre col tuo dolore, affondarti in esso e fartene consumare. È questo un egoismo bello e buono, che Dio non può volere, che Dio riprova di certo....
S'interruppe bruscamente per additare con una eloquenza inesprimibile di gesto la povera Teresa, che, abbandonata sulla seggiola, il volto nascosto, piangeva e singhiozzava; e soggiunse con voce nella cui burbera asprezza si sentiva pure far capolino la emozione delle lagrime:
— Guai, vedi, Maria, guai alla figliuola che fa piangere così sua madre!
Maria fu d'un balzo presso la madre, le prese le mani e glie le trasse giù dal viso, le asciugò coi suoi baci le lagrime che le gocciavano giù dalle guancie.
— Mamma mia, mia cara mamma, disse, il babbo ha ragione: è vero, io sono crudele; è vero, io sono egoista; ma tu mi vuoi tanto bene col tuo amore materno, che mi comprenderai e perdonerai, che capirai com'io non posso vivere altrimenti. Oh! non ti sarebbe maggior dolore vedermi qui estinguermi a poco a poco sotto i tuoi occhi, e perdermi irrimediabilmente?... E ti giuro che avverrà così. In ciò la volontà non può nulla; per quanto desiderio avessi di rimanere con voi, di vivere per voi, la morte sarebbe più potente di me, e verrebbe a togliermi di mezzo alle vostre braccia.
Teresa respinse dolcemente le carezze della figliuola.
— Ah! esclamò ella piangendo, non ho più figlia.
— Non dir così, mamma. Tua figlia pregherà per te, per tutti voi; chi sa ch'ella, partendo, non tragga seco di questa casa la fatalità di sventura che vi piombò sopra!..... No, tu non perderai tua figlia; nel suo cuore tu sarai sempre, com'ella sarà nel tuo. Anche a te sarà di conforto venire nella pace di quelle mura, dov'essa pregherà fuor d'ogni agitazione del mondo, a sentire l'influsso della divina misericordia. E il Cielo anzi ti compenserà del sacrificio che avrai fatto pel mio bene: ti sarà concessa in luogo mio un'altra figliuola che ti amerà, se non alla pari, forse meglio di me.
S'interruppe, esitò un istante, poi con mossa piena di grazia, di franchezza, d'ingenua fiducia, andò presso Virginia e la prese per mano.
— Tu, le disse, hai affermato poc'anzi volermi essere sorella. Siilo in nome di Dio, siilo in nome della pietà! L'esser sorella a me, non è egli essere figliuola a mia madre?
Virginia arrossì leggermente, e il suo sguardo per moto involontario affatto corse a Francesco, il quale arrossì alquanto egli pure; ma di là gli occhi di Virginia si levarono ratto e si volsero alla sora Teresa con un'espressione di somma pietà.
— Vorrei valere a questo còmpito, diss'ella dolcemente; ed accetterei con gioia il mandato.
Teresa prese colla sinistra una mano della contessina; colla destra stringeva quella della sua figliuola; e recatasi quelle due mani al volto le baciò commossa, seguitando a piangere chetamente.
Venuta in possesso delle sue lettere a Luigi, e distruttele, pareva che la contessa di Staffarda non dovesse conservar più inquietudine veruna, nè avere altre ragioni di timore. Eppure non era così; invano sforzavasi essa medesima di farsi tranquilla e rimuovere ogni sollecitudine in proposito; un'ansietà indefinita le incombeva sull'anima come una minaccia continua di pericolo, e ad ogni momento [214] era in angustia di vedere presentarlesi e più fiero il disastro. Ad ogni volta che la vedesse entrarle in camera la fante, ad ogni lettera o bigliettino che le venisse recato, allo scricchiolar delle scarpe del marito che s'avanzava nella sala o veniva a raggiungerla nella stanza da pranzo, ella rabbrividiva dicendosi: «è qui la catastrofe.»
Il suo presentimento aveva ragione: e fu appunto una letterina che, il giorno dopo quella scena in cui il marito le aveva fatte bruciare le carte, venne a darle il colpo d'una nuova minaccia. Era una lettera violenta della Zoe furibonda.
«Aveva ragione il mio istinto di popolana nel diffidare della vostra perfidia, vipera della nobiltà. Siete una traditrice più infame di tutte le donne infami del mondo; e vostro marito è un miserabile schifoso come una spia. Sì, con tutti i suoi titoli, con tutti i suoi avi, con tutta la superbia del suo sangue azzurro è un miserabile: ed insieme voi due fate una degnissima coppia.
«M'avete vigliaccamente ingannata e credete aver trionfato! Il povero Luigi lo credete irrevocabilmente perduto, e voi siete padrona delle vostre lettere. Avete fatto l'opera di Giuda e vi pensate poter dormire fra due guanciali! Vi sbagliate. Avreste dovuto fare sparire anche me; ma ciò non potrete: so guardarmi, e so difendermi occorrendo. Non ho più i documenti in mano, ma ho la conoscenza di tutto! So appuntino tutto quello che passò fra voi e lui; e parlerò. Sarò creduta, non dubitate; e se non potrò con ciò giovar più a Luigi, sfogherò almeno il mio sdegno e vendicherò lui e me.
«Aspettatevi a sentire quanto prima qualche risultato della mia vendetta.»
Alla lettura di queste parole, Candida fu presa da un assalto di febbre nervosa. L'anima sua troppo in que' giorni percossa, non aveva più vigore di sorta. Lesse e rilesse quel biglietto in una specie di stupidità dolorosa, non sapendo che risolvere, sentendo in tutte le sue fibre scorrere un fuoco che sembrava dissolverle gli elementi della vita. Pensò mostrare al conte quella lettera; e non osò; le venne in capo correre dalla cortigiana, provarle, giurarle ch'ella era innocente della fattale accusa, e se ne trattenne, non perchè la sua dignità a ciò si ribellasse, ma perchè non osò neppure. Stette inerte, tremante, sotto un'angoscia impossibile a dirsi, che durando parecchi giorni l'avrebbe uccisa. Ma parve che il Cielo avesse finalmente pietà di quell'infelice, e che la sua punizione fosse omai sufficiente alla colpa, senza accrescerne ancora la gravezza. Fu un'altra lettera della Leggera che venne a rassicurarla, due giorni di poi.
«Egli mi comanda espressamente di lasciarla in pace. Io ho giurato di obbedire a lui in tutto, e gli obbedisco anche in ciò. Ringrazi le circostanze che m'impedirono finora di cominciare l'effettuazione della mia vendetta; sia riconoscente alla generosità di quell'uomo che le perdona, e viva tranquilla riguardo a me: abbandono la cura della nostra vendetta alla sua coscienza.»
A cagionare questo cambiamento nelle determinazioni della Zoe, ecco che cosa era successo.
Fuggita, come abbiam visto, alle granfie di Barnaba e de' suoi, la Leggera aveva riparato niente meno che al Palazzo Reale, nell'appartamento datovi da Carlo Alberto a quel principotto scapato venutovi sotto colore di educarsi all'arte di regno del re Savoino, e che doveva profittarne così bene da presentar poi al mondo lo spettacolo strano, all'infelice popolazione del suo ducato il brutto regalo d'un Caracalla in sedicesimo nel pieno secolo XIX, finchè non l'avesse mandato ad aggiustare i conti con Dio il coltello vendicatore d'un ignoto assassino.
Libertino, beone, giuocatore, soleva egli sottrarsi alle regole di severa condotta che Carlo Alberto voleva imposte alla sua famiglia (e il principotto era tenuto come della famiglia), al vivere di Corte. La scapataggine, il libertinaggio, la corruttela si complicavano e pigliavano più acre sapore d'un zinzino d'ipocrisia. La mattina in chiesa, a messa, col libro delle orazioni in mano; la sera, fuggito di soppiatto, al lupanare. Aveva taciti complici delle sue fughe notturne il custode d'una porticina e i servi a lui più specialmente addetti. Sgattaiolava fuori delle solenni pareti del Palazzo silenzioso, severo, scuro in mezzo all'oscurità della notte, come un foriere di compagnia riesce a scappolar di caserma, dopo fatta la chiama, e in compagnia di abbietti campioni blasonati, cortigiani del vizio e del grado, corrazzava per la città mostrando la vivacità del suo ingegno in chiassose impertinenze a danno dei pacifici abitanti, de' buoni bottegai, per le quali chiudeva gli occhi la Polizia così permalosa verso i semplici cittadini.
La Zoe che conosceva le abitudini di quell'Altezza così bassa, bene aveva immaginato che quella tal porticina le si sarebbe aperta e che, nota come essa era ai ministri di quel principesco libertinaggio, le si sarebbe concesso il passo verso l'abbominevole santuario di quella grandezza politica e sociale, che era una morale abbiettezza. E così fu. Il Principe non era ancora tornato a casa da una delle sue corse notturne; ma la Zoe, la cui meretricia bellezza si sapeva pagata dal denaro dei contribuenti che passava per le tasche del duchino, ebbe a dire solamente che S. A. R. le aveva detto venisse da lui, perchè il custode di sotto e i servi di sopra la lasciassero penetrare nelle più intime stanze del padrone. Lasciata sola, Zoe si rallegrò della circostanza che le concedeva un po' di tempo per pensare al modo di regolarsi prima di affrontare l'avversario. Era la prima volta che dopo una contesa col suo regio amante, veniva essa a fare il primo [215] passo verso una riconciliazione; e non ignorava che questo, coll'umore e col carattere del Principe, non era buon metodo a tenerlo avvinto. Egli, istintivamente, aveva un concetto abbastanza giusto di sè, da disprezzare chi mostrasse per lui premura ed interesse: per farsene correr dietro, una donna bisognava non se ne curasse, e ne pungesse il capriccio col disdegno. Ma ora le condizioni delle cose erano state tali che non concedevano alla Leggera di seguire sino alla fine, come aveva fatto le altre volte, quella regola di condotta. La lite era stata più viva ed accanita delle precedenti; il rancore principesco era durato più che non avesse fatto mai per l'addietro, e l'urgenza del bisogno in cui era la cortigiana della protezione di lui per sè e pel suo damo l'avevano spinta contro ogni consiglio di prudenza a venire. Bisognava riparare a questa debolezza, coll'arte; e non c'era altro mezzo per lei che di rendersi più bella, più procace, più provocante che mai, per dettar poi la legge al desiderio di S. A. inuzzolito.
La si pose innanzi allo specchio, e preparò agli sguardi del principe un accorto disordine di acconciatura che la faceva irresistibile: mezzo sciolte le chiome che cadevano sulle spalle e sul seno in ciocche voluminose il cui fulvo colore luceva d'uno splendore metallico ai raggi de' candelabri accesi; discinte le vesti con tanta maestria che lasciasse trasparire e pur celasse le bellezze delle forme, e più facesse indovinare, ed acremente acuisse il desiderio di più vedere; uno strano e piacevolmente irritante contrasto fra la fronte severa e corrucciata e lo sguardo vivo come una fiamma e la bocca voluttuosa; un abbandono delle membra pieno di grazia felina e d'impertinente noncuranza. Quando il Duca entrò vide sopra una poltrona presso il camino lo splendore di quella bellezza, la fiamma di quegli sguardi, il candore di quelle carni, il fulvo dorato di quelle chiome, il carminio di quelle labbra, tutto uno sbarbaglio, e stette sovraccolto, come ammirato. Ella fu appena se volse il capo verso di lui, e lo guardò alla sfuggita.
— Buon giorno, principe: disse con fredda leggerezza: son io.
Il principe aveva lo sguardo, l'andatura e le idee d'un uomo mezzo briaco, qual egli era. I fumi del Bordeaux gli bollivano nel cervello insieme coi vapori della libidine; non aveva il pieno dominio della insolenza che gli teneva luogo di volontà; barcollava fisicamente e intellettivamente sotto il peso dell'ebbrezza, oppresso, non sazio dello stravizzo.
— Tu qui: esclamò egli: oh brava! oh la bella sorpresa!
E s'avanzò per abbracciarla; ma essa lo respinse e lo guardò con atto di severa dignità offesa.
— Piano! disse. La stia in là; e le mani a casa... Oh che crede Ella io sia venuta a fare?
Il principe ruppe in una risata.
— Sì, bene, rispose: oh che cosa sei venuta a far qui? A dire il rosario eh?
— La senta; i suoi scherzi saranno bellissimi, ma ora non hanno il dono di farmi sorridere... Ah che cosa son venuta a fare?... E se mentre l'aspettavo mi fosse piaciuto renderle la pariglia di quello che Ella ha fatto a casa mia e fracassar tutto qui dentro?
S. A. si lasciò cascare sopra una poltrona in faccia a quella della Zoe e raddoppiò le sue risa.
— Questa sarebbe stata una bella idea..... Vi ti riconosco, mia bella tigre... addomesticata.
— Ma io, almeno, se mi abbandonassi a questi sciocchi furori in casa d'altri, non mi dimenticherei del proverbio.
— Che proverbio?
— Chi rompe paga.
— Ma, gioia mia, la casa tua non è affatto d'altri per me, ma un pocolino anche mia..... Prima di rompere mi pare che avevo cominciato per pagare... Ma al postutto tu hai ragione. Se non c'è che questa causa di screzio, la è subito levata. Oggi ho tutte le fortune. Ho guadagnato al giuoco, e ricevo una tua visita così inaspettata: sono il beniamino della sorte, e voglio che abbia a rallegrartene anche tu.
Si alzò, venne presso alla cortigiana, e vuotando le sue tasche, fece cascare una piova di napoleoni sul seno, in grembo della cortigiana; nuovo Giove che si stemperava in oro per quella Danae di Pafo. A tutta prima gli occhi della Zoe brillarono di quella brutta gioia che è l'espressione d'una bassa cupidigia soddisfatta; ma poi tosto smorzò quel guizzo, e si levò fremente in una falsa indignazione che la rendeva bellissima a vedersi. Prese una manata di quei dischi d'oro e la gettò ai piedi del principe sbalordito; scosse da' suoi panni, come si fa del sudiciume della polvere, le monete che suonarono cadendo e sparpagliandosi sul tappeto, ed esclamò con una superba fierezza la cui simulazione le avrebbe invidiata la migliore delle commedianti:
— Si tenga il suo denaro, signor duca: che crede Ella io faccia una quistione d'interesse? Come la mi conosce poco! È quistione di dignità, dei più nobili sentimenti dell'animo mio.... Son venuta a darle un addio, e per sempre. Vo' partire da questa città, forse dall'Italia, e non tornarci mai più.
Agli occhi imbambolati del Principe mezzo brillo quella donna apparve ora in quell'atto più bella che non le fosse apparsa mai; la desiderò con più potenza che non avesse fatto; gli sembrò che il perderla, che il non vederla più sarebbe stata per lui una vera sventura. Cominciò per voler provare coi ragionamenti alla Zoe, che non doveva far così: i suoi argomenti vacillavano nella logica, come avrebbero vacillato le principesche gambe nel passo, se S. A. avesse voluto camminare; la cortigiana li mandava le gambe in aria coll'urto dei più matti paradossi e delle più impossibili affermazioni che [216] al Duca parevano verità incontrastate; finì egli per umiliarsi, pregare e domandare l'elemosina del perdono. Era a questo punto ch'essa lo voleva trarre. Parve voler cedere; e quando lo vide tutto invaso dal suo influsso, ella si sciolse violentemente dalle braccia di lui, lo rigettò con vigore e gli disse sulla faccia con freddezza brutale:
— Sapete che io ho determinato di non appartenervi mai più, se voi non mi giurate di salvare Luigi Quercia?
Il colpo fu duro al principe colpito nel massimo calore della sua foga da quest'acqua ghiacciata in viso. S'inalberò, volle ribellarsi; ma la domatrice della fiera teneva nella sua mano nervosa attorcigliata la giubba di quell'animale, lo aveva avvinto pei bassi vincoli della sensualità.
— Quell'uomo!.... Ma che cosa t'importa di lui?... che cosa è quell'uomo per te?
— Ebbene! esclamò con impudente franchezza la cortigiana: e s'io l'amassi?
La faccia del Duchino si contrasse come il muso d'una jena che sta per mordere.
— No, non l'amo niente affatto: s'affrettò a soggiungere la Zoe. Tutto il mio amore è per te, mio principe, mio padrone, mio tutto; ma ho di molti debiti a quell'uomo; gli è lui che mi ha fatta quella che sono: fra noi corrono strane e misteriose attinenze che non ti posso spiegare ma che sono indissolubili; è una fraternità delle anime e della sorte; e sarei un'infame se la tradissi. Chiedimi qualunque cosa, ma non di abbandonare nel pericolo quell'uomo. Tu puoi salvarlo: salvalo ed io sarò per te più umile, più devota d'un cane. Lui non lo vedrò più nemmeno; lo farai partire per lontani paesi, per dove ti piacerà meglio; io starò sempre teco finchè mi vorrai; che m'importerà ancora di quell'uomo, quando abbia compito verso di esso il mio dovere?... Io ti amerò tanto, sai, che ti compenserò a dovizia di quanto avrai fatto...
Ne disse mille di parole, di promesse, di sollecitazioni, di preghiere ardenti, accompagnate da mosse che suscitavano le più vive fiamme del desiderio, con voce che vibrava, palpitava, accarezzava, con isguardi che avrebbero turbato uno stoico.
— Ebbene, sia: disse il principe più inebriato che mai, sedotto, allucinato, raggirato: lo salveremo e lo manderemo in Australia.
Zoe prese il Duca alle braccia, glie le strinse da lasciarci impresse le sue piccole dita, e guardandolo bene in faccia soggiunse:
— Davvero? Oh non è una parola inconsiderata, leggermente concessa, che mi basti. Tu codesto me lo hai da giurare, e lo farai per l'anima tua.
— Ma sì.
— Giuralo.
— Lo giuro.
— E se tu ci mancherai, guai a te... saprò punirtene e vendicarmi.
— Diamine! quando prometto una cosa, quando la giuro, è come se fosse già fatta... Or via, smetti quell'aria da eroina, e torna meco la Zoe di un tempo.
Le passò un braccio intorno alla persona, ed ella si abbandonò su di lui... Il predestinato principe non sapeva che in quel punto con tal giuramento ch'egli non aveva menomamente l'intenzione di mantenere, aveva mosso il primo passo verso la tragica sua morte.
La Zoe non uscì del quartiere del principe che assai tardi nella giornata di poi: venuta a casa sua, fatta sicura d'ogni molestia per la protezione del Duca, dovette prima di tutto pensare all'opera importante di restaurare le sue forze, accudire alle sue bellezze e rendere il culto della toilette alla sua persona. Bene cercò sapere di Maddalena, la cui sorte assai la preoccupava, e la quale troppo aveva ragion di temere caduta in mano della giustizia essa pure: ma nessuno de' suoi ne la seppe informare di nulla al riguardo. Quando appena lo potè, ed era oramai la sera, corse all'appartamentino di Bancone dove aveva fatta ricoverare la giovane, e trovò tutto chiuso, scuro e taciturno, come là dove regna la solitudine. I casigliani ella non voleva interrogarli, e riteneva inoltre che non avrebbero saputo dirle cosa nessuna, perchè su quel pianerottolo non c'era altro uscio e di sopra non ci stava che povera gente, la quale stava fuor di casa tutto il giorno al lavoro, e di notte dormiva della grossa. La Leggera non rimase molto tempo in forse, ma si affrettò verso il palazzo di Bancone, ed introdottasi nel salottino dove il ricco banchiere riceveva chi veniva a parlargli di affari, gli mandò una sua polizza di visita con due parole scritte a matita che dicevano venisse subito, avere urgente bisogno di parlargli.
E Bancone, interrompendo il suo lauto pranzo ch'egli gustava da vero Epulone qual era, venne sollecito, ma di cattivo umore e impazientemente collerico. Non lasciò parlare la donna, e incominciò egli senz'altro con una sfuriata:
— Brava! Belle cose che mi fai! Bei servigi che mi rendi!... Ed anche questo di venirmi ora qui in casa è proprio un bel piacere che mi vuoi dare... Ma saccorotto! non te l'ho detto le centinaia di volte che non voglio mi veniate qui a trovare, tu e le pari tue?... Sono ben buono io a non farvi mandar via e serrar l'uscio in faccia..... Ti preme parlarmi?... Hai di nuovo qualche favore da chiedermi, qualche buon soggetto da raccomandarmi come quella tua Maddalena?.... Un bell'acquisto, affè di Dio, che mi hai fatto fare!... Io che mi piace vivere tranquillo e che nessuno ficchi il becco nei miei negozi!... Sai che cosa è capitato a quella tua sviata tortorella?.... E' me l'han presa su i birri e tratta in prigione. Ed io aveva messo in mia casa una simile eroina!... Ho avuto un bel spavento oggi [217] quando sono entrato colà.... Tutto era sottosopra; i mobili aperti, i cassetti tirati. «Buono! pensai, quella tortorella mi ha fatto un repulisti ed alzato i tacchi; te lo meriti, animale.» Corsi alla Polizia senz'altro; ed appresi che quella giovane era niente meno che un'addetta alla famosa cocca, la quale mi ha già vuotato, è poco tempo, la cassaforte, e che tutto quel disordine e quel rifrugamento in casa mia l'aveva fatto l'Autorità per cercare non so che prove, non so che documenti, di cui la birbona era in possesso. Cospetto! Compromettermi colla Polizia, me! Questa è troppo e non me la sarei mai aspettata.
Zoe aveva udito questo diluvio di parole colle braccia incrociate, e pensatevi se con interesse. Ora la sapeva tutto quello che voleva apprendere, e non le restava più nulla da fare in quel luogo: girò sui suoi talloni e s'avviò per partirsi, senza manco aver aperto bocca.
— Ebbene? gridò Bancone meravigliato. Te ne vai di questa guisa? Gli è tutto ciò che avevi tanta urgenza di dirmi?
— Voi avete risposto a tutte le domande che volevo farvi; non ho più nulla da chiedervi. Buona sera.
— Fermati, ascolta, spiegami almeno...
La Leggera non volle fermarsi, nè ascoltare, nè spiegar nulla; partì con una rapidità che legittimava il suo nomignolo, e Bancone di peggior umore di prima, senza capirne niente, tornò a finire il suo pranzo.
Per la Zoe fu evidente che presso la Maddalena erano state trovate e prese le lettere della contessa; credette un tradimento di questa e del marito; ne provò tanto furore che in quei primi momenti pensò ogni più orribil cosa per vendicarsene, e sarebbe stata capace di qualunque eccesso; ma poi la solenne promessa ottenuta dal principe, mercè la quale ella nutriva certezza che Luigi sarebbe salvo ad ogni modo, valse a calmarla. Avvisò che non doveva scegliere tal vendetta del conte e della contessa, che compromettendola, facendola forse incarcerare eziandio o cacciare dal regno, la ponesse in condizione da non poter più vegliare all'esecuzione del giuramento principesco, da non poter più giovare al prigioniero; tutta notte lavorò colla fantasia per trovare un mezzo che soddisfacesse a tutte le esigenze e scelse finalmente quello che abbiam veduto minacciato dal suo oltraggioso biglietto alla contessa.
Ella non pose immediatamente in atto il suo perfido disegno, perchè voleva preparare i suoi colpi di modo che fossero i più efficaci, e due giorni passò meditando e combinando un piano infernale contro di Candida; e quando lo aveva tutto perfettamente immaginato e stava per cominciarne l'attuazione, le venne l'ordine espresso ed energico di lasciar in pace la contessa, in un biglietto di Gian-Luigi.
Quel giorno il marchese di Baldissero e Don Venanzio si erano presentati alle carceri con un ordine in buona forma dell'autorità competente, perchè il detenuto Gian-Luigi Quercia fosse posto in comunicazione con S. E. il marchese e colla persona che lo accompagnava e lasciato solo con essi per quanto tempo l'Eccellenza medesima avesse voluto. Il nuovo capoguardiano, succeduto a quello stato destituito e imprigionato, esaminò ben bene quell'ordine, s'inchinò profondamente innanzi al vecchio che aveva titolo e grado di ministro di Stato; ma invece di ubbidire prontamente, disse con una umiltà che intercedeva perdono per l'indugio:
— Scusi, Eccellenza..... l'ordine è in piena regola,... io vorrei affrettarmi a servirla... Ma ci è il Sott'Ispettore che ha sotto la sua speciale osservanza quel prigioniero; ed abbiamo ordine di dipendere in tutto e per tutto da lui rispetto a quell'individuo.....
— Fate quel che dovete fare: disse tranquillamente il marchese: e il capoguardiano sparì portando seco la carta.
Due minuti dopo entrò con passo sollecito Barnaba, il quale esaminava, camminando, con occhio attentissimo quel foglio che a lui aveva rimesso il capoguardiano. Giunto a due passi di distanza dal marchese, levò lo sguardo e lo diresse sul volto del vecchio gentiluomo che stava attendendo con calma, seria e quasi mesta dignità; lo riconobbe di botto e fece un riverente saluto.
— Mille perdoni, Eccellenza: diss'egli. L'importanza del prigioniero, l'audacia de' suoi fautori che tutto son capaci di tentare per liberarlo, ci obbligano alle maggiori precauzioni.....
Il marchese l'interruppe con un gesto che significava: «Va benissimo, e siete compiutamente assoluto: ma ora non fatemi indugiare altrimenti.»
Barnaba, che lo comprese, si rivolse al capoguardiano:
— Introducete questi signori nel parlatorio e sia condotto presso di loro il prigioniero. Li lascierete soli; ma due secondini staranno a ciascuna delle porte.
Il capoguardiano precedette i visitatori in una stanzaccia vicina, e ve li lasciò per andar a prendere il medichino. Le pareti di quella stanza erano nude, imbiancate a calce; delle due finestre che si aprivano verso il cortile, una era murata e l'altra munita d'una grossa inferriata piena di ragnateli, lasciava passare poca luce pel riparo della tramoggia che la difendeva esteriormente; questo poco di luce era ancora impedito nel suo filtrar nella camera dal denso strato di polvere e di indefinibile sudiciume che s'era disteso sui piccoli vetri impiombati. Colà dentro, per effetto di ciò, pareva regnar sempre un crepuscolo grigiastro, di giornata invernale nuvolosa. Per mobili eranvi solamente [218] una tavola di legno non verniciato, una panca, quattro seggiole impagliate; non vi era fuoco e il freddo faceva densamente vaporoso il fiato delle persone. Il marchese e il parroco ebbero ad aspettare pochissimo tempo che udirono un rumore di chiavi che aprivano dei chiavistelli che si tiravano, poi una cadenza di passi numerosi e pesanti che si accostavano giù d'un corridoio, e quindi videro aprirsi un uscio e circondato da quattro ceffi di secondini, presentarsi il fiero viso di Gian-Luigi Quercia.
Una mano spinse alle spalle il prigioniero, e poichè fu entrato, la porta pesante gli si chiuse dietro. I tre personaggi che rimasero così in presenza si guardarono in faccia.
Quando il capoguardiano aveva aperto la porta della segreta in cui stava rinchiuso il medichino, questi era dritto a metà del piccolo stanzino, forse passeggiandovi su e giù come soleva quasi sempre e per iscaldarsi alquanto e per occupare e divertire con quel moto l'attività febbrile della sua mente. All'udire aprir la sua prigione in un'ora affatto insolita, in cui non si usava fare interrogatorii, nè era tempo da recargli cibo, Gian-Luigi guardò tutto meravigliato verso il capoguardiano dietro il quale vide la scorta di quattro uomini.
— Che cosa c'è? domandò egli con un accento di lievissima curiosità.
— Siete domandato in parlatorio.
— Dal giudice istruttore?
— No.
— Da chi dunque!
— Da un signore e da un prete.
Quercia fece un sogghigno.
— Oh oh! Mi si manda già il prete.... E che cosa mi vogliono?
Il capoguardiano si strinse nelle spalle.
— Sentite, continuò il medichino: se gli è qualche altro tentativo per farmi parlare, è tutto inutile. Io amo che oramai mi si lasci tranquillo, e non più veder nessuno. Sarebb'egli possibile risparmiarmi la noia di questo colloquio?
— No: è ordine preciso di mettervi in comunicazione con quei signori.
Gian-Luigi represse un sospiro, si passò le mani sulla faccia, quasi volesse con quell'atto fermarsi la maschera d'indifferenza superba che imponeva alle sue sembianze e disse:
— Allora andiamo pure.
E tenne dietro al guardiano accompagnato dai quattro secondini, che tosto gli si misero alle coste.
Al primo presentarsi, Gian-Luigi apparve a Don Venanzio un po' più pallido del solito e dimagrato, ma sempre colla medesima aria d'imponenza, di superiorità e di sicurezza. Il marchese, che non ricordava aver visto mai il sedicente dottor Quercia, fissò non senza una certa emozione il suo sguardo sul giovane che, mossi pochi passi, s'era fermato dinanzi a loro, e fu colpito dalla nobile figura di lui, dalla fiera espressione de' suoi tratti, più di tutto da una abbastanza spiccata rassomiglianza colla defunta sua sorella, prova questa non meno delle altre efficace, della discendenza di quel reo, della consanguinità che a lui, marchese, consigliere della Corona, ministro di Stato, confidente del Re, avvinceva quel miserabile.
Gian-Luigi riconobbe di botto il vecchio sacerdote e l'autorevole gentiluomo ch'egli aveva visto più volte e in sociali convegni e nel corteo del Re; e fosse la vergogna di comparire innanzi a que' due in tale stato e condizione, fosse una subita emozione di sorpresa, un lieve rossore gli soffuse le guancie mentre i suoi occhi si chinavano a terra. Ma fu un istante e nulla più. Le pupille si rialzarono di nuovo con tutta l'usata sicurezza, il volto riprese l'impassibilità abituale coperta dalla vernice della cortesia; ed egli si avanzò verso i due visitatori, col garbo e coll'eleganza di un gentiluomo che riceve personaggi degni del maggior rispetto nel suo salotto.
— Loro signori, diss'egli, a visitare il povero carcerato!... Non mi stupisce di Lei, Don Venanzio; questa è opera di carità, ed Ella è stata posta al mondo per dar l'esempio di tutte le carità: e poi Ella mi conosce e mi fa il generoso regalo di volermi bene. La sua venuta mi prova che questo suo affetto la non me l'ha ritolto, ora ch'io son caduto nella disgrazia; e le accerto che non m'aspettavo punto che fosse altrimenti; ma qual ragione mai può valermi l'onore d'una visita di S. E.?
E' parlava con tanta libertà di spirito ed agiatezza di maniere che il marchese, il quale si sentiva impacciato a dispetto dell'autorità del suo grado, del suo frequente trattare coi più alti personaggi, non potè a meno di pensare quella essere una prova o del soverchio indurimento nel male di quel giovane, o della sua innocenza: osò sperare un istante quest'ultima, e i suoi occhi espressero un desiderio, un'emozione cui notò Gian-Luigi e, non comprendendone il perchè, si affaticò colla mente ad interpretare. Ma per quanto pensasse, non una supposizione glie ne veniva che gli sembrasse avere il senso comune, e tanto si struggeva della curiosità che riusciva a mala pena a frenarla.
Nessuno dei due vecchi aveva ancora risposto, impediti e l'uno e l'altro da diverso turbamento. Quercia, come se fosse nel suo quartiere a far gli onori del sontuoso salotto, accennò con gesto pieno di grazia le seggiole e disse, argutamente sorridendo:
— Facciano il favore d'accomodarsi. Mi rincresce che non ci ho poltrone da offrir loro nè un allegro foco nel camino, che sarebbe troppo necessario in quest'atmosfera da ghiacciaia; ma il generoso padron di casa, che ora mi alberga, non mi concede altre sontuosità da queste.
[219] Siffatta scherzosità dispiacque al marchese: la non gli parve più la sicurezza dell'innocente, ma l'impudenza dell'uomo compiutamente pervertito; la sua nobile fisionomia espresse il disgusto, e la sua fronte si rannuvolò. Gian-Luigi era troppo furbo e pratico osservatore, per non accorgersene subito: smise il suo sogghigno: stese sui suoi lineamenti un velo di mestizia e di dignitoso riserbo, e si volse verso Don Venanzio. Intanto pensava, sempre più intricata in impossibili supposizioni la mente, qual cosa mai menasse da lui quello de' primi fra i potenti personaggi dello Stato.
Don Venanzio aveva gli occhi pieni di lagrime, il petto di sospiri, e guardando il suo antico discepolo, aveva una tale aria di rammarico, di dolore e di tenerezza insieme, che commoveva a vederlo. Dapprima aveva sembrato esitare se dovesse o no stringere ancora quella mano che veniva accusata di opere sì ree; ma la generosa mitezza della sua anima cristiana non lo aveva lasciato lungamente in forse: prese la destra di Gian-Luigi, la serrò con significativa pressione e disse, commossa la voce:
— Crudele figliuolo!... È così, in queste condizioni, in questo luogo ch'io doveva vederti un giorno!.... Te nato per le grandi cose!.... Ah! se tu avessi ascoltato le istruzioni e i consigli del povero vecchio prete!
Quercia lo interruppe con accento in cui l'impazienza era pur vestita di una certa deferente amorevolezza.
— Ella ha tutte le ragioni del mondo, mio caro Don Venanzio; ma pur tuttavia le sue osservazioni entrano nell'ordine di quella scienza del poi, che fu sempre inutile a tutto ed a tutti. Ella sa la massima principale della mia filosofia pratica della vita: quando una cosa è irrimediabile, da folle il disperarsene, e bisogna portarne allegramente la risponsabilità.
— Ma, sventurato! esclamò il buon prete tremando; tu dunque ammetti essere reo de' falli onde ti si accusa?
— Nè ammetto nè nego... Qui non sono a confessione: soggiunse con quel suo mefistofelico sogghigno: d'altronde Ella sa che io e la confessione non ce la diciamo troppo... Sono in mano della giustizia umana, a lei l'adoperarsi coi mezzi che le spettano a scoprire la verità; io lascio fare: e mi darò la soddisfazione di ridere o di maledirla se la sbaglia... Ma questi non sono i discorsi che debbono interessare S. E. il marchese di Baldissero, perchè non credo un sì autorevole personaggio siasi di tanto scomodato per venire a darmi il gusto di una conversazione da avvocato fiscale con un povero inquisito.
Le impressioni che provava il marchese erano molteplici e contrarie: ora badando solo alla voce di chi parlava, alle aggraziate movenze di quel giovane leggiadro, alle fattezze del viso, a certe arie, al complesso esteriore di quell'avvenente persona, egli si sentiva grado grado intenerire dalla dolcezza d'una cara memoria lontana, gli pareva scorgere in quelle le arie, le mosse, le intonazioni di voce di sua sorella, si lasciava vincere da un interessamento che era come la forza della consanguinità che lo spingesse; ora ponendo mente al significato delle parole cui pronunciava quella voce tanto simpatica, provava una ripugnanza contro lo spirito che le dettava, ed una specie di riazione, cancellando ogni ombra di tenerezza, gli rendeva poco meno che odioso quel disgraziato nel quale non vedeva più che un diabolico cinismo.
Alle ultime parole di Gian-Luigi, il marchese lo saettò d'uno sguardo di rampogna, e sedendo, aprì per la prima volta la bocca, parlando con una severa freddezza:
— La verità è quella precisamente che voi non credete. Per ragioni che saprete fra poco, m'importa di molto conoscere se voi siete e potete provarvi innocente. Don Venanzio fa tuttavia tanta stima di voi che afferma, se colpevole, avrete la franchezza di dirlo a chi lealmente v'interrogasse... e non nell'interesse dell'umana giustizia.
— In qual interesse adunque? domandò il medichino sedendo ancor egli, sempre colla medesima elegante agiatezza.
— Nel vostro: rispose asciutto il marchese.
— Ed anche nel suo, Eccellenza: soggiunse ratto Gian-Luigi: se io so bene argomentare, poichè la mi ha detto or ora che certe ragioni le rendono importante la conoscenza di questa verità.
Il marchese annuì col capo.
— Sì, anche nel mio.
Gian-Luigi fece un grazioso inchino verso il parroco.
— Ringrazio Don Venanzio della buona opinione che conserva di me. Io son pronto a dargli ragione; perchè Dio mi guardi dal vedere in codesto un tranello teso alla mia buona fede!...
Baldissero fece un atto d'indignata protesta.
— Le giuro che una cosa simile non la crederei mai: continuò il medichino; ma per aprire la mia coscienza così di piano a lor signori, a Lei specialmente signor marchese, col quale non vi fu sinora la menoma attinenza che possa condurre ad un simile risultamento, bramerei conoscere quelle ragioni che rendono questo fatto così interessante per V. E.
Il marchese parve esitare.
— Non si tratterebbe che di anticiparmene la comunicazione: soggiunse vivamente Gian-Luigi; poichè Ella stessa mi disse che le avrei sapute fra poco.
Baldissero si raccolse un momento; poi fece un gesto colla mano che significava avrebbe accondisceso al desiderio del giovane. Questi con moto [220] vivace di curiosità, trasse innanzi la sua seggiola e, i gomiti appoggiati alle ginocchia, si curvò verso il marchese ad ascoltare.
Dopo un istante, lo zio di Virginia, disse lentamente con voce sommessa e quasi stentata:
— Voi non avete famiglia?
— No: rispose Gian-Luigi riscuotendosi tutto e impallidendo per una subita, violenta emozione che lo assalse.
— Foste abbandonato nell'ospizio...
— Lo fui!...
— Ed avevate per segno di riconoscimento...
— Una lettera stracciata per metà.
Il marchese trasse di tasca un portafogli, lo aprì, ne levò due pezzi di carta sgualcita ed ingiallita dal tempo, e li tese verso il giovane.
— Ecco la lettera intiera.
Quercia sorse in piedi di scatto. La mano del marchese nel porgere la lettera tremava; la mano di Gian-Luigi nel prenderla tremava del pari. Afferrò quei due squarci, li scorse, li esaminò, ne lesse lo scritto. Quei caratteri gli danzavano innanzi agli occhi; la vista gli si abbuiava; una folata di supposizioni faceva ressa nel suo cervello; che si trattasse della sua origine in quel misterioso colloquio glie n'era già, fra i mille altri impossibili, balenato il pensiero. Ora non esisteva più dubbio: aveva quella lettera in mano; la sua famiglia era trovata. Si recò alla fronte i pugni chiusi e premendoveli come per contenere il cervello che era in bollore:
— Chi son io?... Chi son io dunque? esclamò; poi gettò uno sguardo inesprimibile sulla fisionomia mesta e severa del vecchio gentiluomo, tese verso di lui le mani che stringevano ancora e convulsamente quei pezzi di lettera, fece un passo a quella volta con mossa d'ineffabile trasporto e gridò, proprio dal fondo dell'anima:
— Ah! siete voi mio padre!
Il marchese si trasse vivamente all'indietro sulla sua seggiola, come se avesse ricevuto un urto nella fronte e mandò un'esclamazione soffocata. Sostenne un momento col suo lo sguardo vivo, fiammante del giovane che palpitava innanzi a lui, poscia chinò gli occhi con un'espressione che avrebbe potuto dirsi ripugnanza e si coprì colle mani il volto, come se assalito da un accesso di vergogna.
— No, non son io vostro padre: susurrò con voce appena intelligibile. Don Venanzio, mi faccia grazia, racconti Lei a questo infelice tutta la verità.
Il medichino fece un cenno al parroco, perchè indugiasse alquanto a cominciar la sua narrazione. Giunto al momento tanto desiderato di apprendere la verità, sentiva, per così dire, tremar l'anima ed aveva bisogno di prepararsi per accogliere con calma il vero qualunque egli si fosse. Si premette colla destra la fronte, coprendosi gli occhi; poi incrociò le braccia e si recò lentamente alla finestra, dove rivolse lo sguardo in su e stette contemplando pochi minuti secondi quella esigua luce grigiastra che pioveva dalla tramoggia; finalmente venne presso il sacerdote; sedette in faccia a lui, appoggiò i gomiti sulle ginocchia, affondò il volto nelle palme delle mani e disse:
— Parli pure, Don Venanzio.
Ascoltò immobile in quella postura tutto il racconto del parroco. Non un atto manifestò in lui le impressioni ch'e' dovette provarne; il viso, sempre nascosto, non lasciava scorgere nulla di quanto sentisse l'anima sua. Quando il vecchio prete ebbe finito, tutti si tacquero per un poco; solamente si sentiva il rumore di due respirazioni affannate: quella del marchese e quella di Gian-Luigi.
Fu quest'ultimo che ruppe finalmente il silenzio. Levò dalle mani la faccia che era pallida, pallida, ma con nessun'altra traccia d'emozione, e volse il capo verso il marchese, però senza levare gli occhi su di lui.
— Or bene: disse sommesso e quasi penosamente: or bene, quali intenzioni ha Ella a mio riguardo?
Baldissero non rispose subito; rifletteva profondamente e con visibile amarezza; con voce bassa e stentata egli pure, disse poi:
— Ora capite voi perchè m'importi sapere se voi siete innocente?
Quercia mandò un'esclamazione; volle parlare, ma di subito se ne trattenne; alla pallidezza successe sulle sue guancie un cupo rossore, l'immobilità tenuta fin allora diede luogo per riazione ad un'agitazione irrefrenabile; egli sorse e si mise ad andar su e giù con passo concitato, lasciandosi sfuggir dalle labbra interiezioni, rotti accenti e gridi a mala pena soffocati. La punizione crudelissima a' suoi delitti, di cui aveva fatto cenno Don Venanzio, era piombata in tutta la sua gravezza sull'anima ambiziosa di Gian-Luigi: quel grado a cui egli aspirava, quell'altezza a cui aveva voluto giungere erano suo diritto, li avrebbe potuto arrivare naturalmente ed onestamente; ed egli col suo fatto ora se li era resi impossibili... Impossibili? No, egli non voleva ammettere questa orrenda verità; egli non poteva rassegnarsi a questa troppo fiera condanna. Come! Gli Orti Esperidi della ricchezza e della potenza verrebbero ad aprirglisi ed egli sarebbe impotente ad entrarvi? Avere dinanzi le onorificenze, la grandezza e la gloria, e precipitare nell'ignominia!..... Doveva esserci un mezzo di salvarlo. La famiglia a cui egli apparteneva rappresentava la potenza sociale: e questa poteva creare a sua convenienza il giusto e l'ingiusto: la sua vita anteriore doveva cancellarsi, non esister più, non aver mai esistito. S'era trascinato miserabil bruco nel letame sociale: ora aveva da svegliarsi farfalla al sole della prosperità. Chi alla splendida bellezza della farfalla domanda conto della sua vile esistenza anteriore di [221] verme? A questa sua riabilitazione l'autorità monarchica, la società, la natura medesima parevagli dovessero concorrere. Egli si sentiva rinnovato, risorto per una meravigliosa palingenesi in un essere degno della sua ventura: perchè gli altri non lo avrebbero voluto accettare come tale? Il miserabile trovatello, senza legami nel mondo, poteva essere condannato e giustiziato come un assassino, ma il nipote d'un ministro di Stato, d'un discendente degli eroi delle crociate, d'un consigliere, quasi d'un amico del Re, non doveva aver nulla di comune con quella sorte ignominiosa: sognava la trasmutazione dell'Ernani di Vittor Hugo, ieri bandito, oggi grande di Spagna.
Si fermò innanzi al marchese e ripetè con voce balzellante per èmpito d'emozione la sua prima richiesta:
— Or bene, quali sono ora le sue intenzioni a mio riguardo?... Io sono sangue suo; io sono sangue d'una delle più nobili prosapie del regno... Lo sento bene in me!... L'ho sempre pensato; l'ho sempre saputo! Vedrà zio mio che in me non è tralignata quella pianta.
(All'udirsi chiamare con quel titolo di parentela da tali labbra, il marchese di Baldissero diede in una leggera scossa).
— Il passato che importa? Continuava il giovane. Non esiste più, non ha mai esistito. Quella è la notte, ed ora mi si leva innanzi il giorno. Tutto sarà sepolto nel buio: io sorgerò raggiante nella mia nuova carriera di grandezza.... Signor marchese, glie lo giuro sulla sacra febbre della mia ambizione: io mi sento la potenza di soggiogare il mondo.
Don Venanzio gemette innanzi a quell'audace svelarsi d'un feroce egoismo: il marchese mandò un sospiro.
— Ma voi, disse quest'ultimo con solenne mestizia, non avete ancora risposto a quello che vi ho domandato. Siete voi innocente?
Il medichino si trasse indietro d'un passo e si percosse coi pugni chiusi la fronte.
— Innocente! Innocente! esclamò. Ma le dico che ciò non monta.... Mi tragga di qua.... Gian-Luigi Quercia sarà morto: fra pochi anni sarà perfettamente obliato, fuorchè, come una leggenda, nella memoria dei miserabili... Maurilio di Valpetrosa, poichè quello è il mio vero nome, comparirà essere novello sulla scena più elevata del mondo.... Non sono che al principio della mia giovinezza.... Posso bene sottrarmi per un lustro, a prepararmi, oscura crisalide, alla mia grandezza avvenire... Mi mandi in Francia: andrò soldato in Algeria; mi sacrerò cavaliere al fuoco delle battaglie: sento nelle mie vene il sangue dei prodi nostri avi, signor marchese: cimenterò il mio nuovo nome al battesimo del valore; tornerò coll'illustrazione della gloria, glie lo prometto.
Baldissero levò il suo viso improntato di severità e disse con accento solenne:
— Ma se voi siete colpevole, ciò tutto non toglierà che alla nostra famiglia abbia appartenuto un.....
Non disse la parola, ma Luigi la lesse nell'espressione inorridita dello sguardo, nella piegatura dolorosa delle labbra. Il medichino non osò più sostenere l'incontro degli occhi del marchese.
Questi, dopo un poco, ripigliava con crescente imponenza e gravità:
— E la giustizia, a cui dovete pagare il fio? Perchè credete voi potervi ad essa sottrarre?
— La giustizia è il ragnatelo. Debole moscerino vi sarò impigliato; mi si aiuti a valermi delle mie ali di falco e vi passerò trammezzo.....
Il marchese scosse gravemente la testa.
— Al Re medesimo dissi non è guari che nessuna considerazione avrebbe dovuto sottrarvi alla azione delle leggi: e quello che dissi allora penso anche adesso.
Gian-Luigi scoppiò in queste orribili parole:
— Ella dunque lascierà suo nipote, il figliuolo di sua sorella salire il patibolo?...
A questa cruda confessione di colpevolezza, Baldissero impallidì ancora di più, ma stette come il Farinata di Dante nell'inferno; Don Venanzio mandò un gemito e levò le mani congiunte al cielo.
— Sì, continuava con impeto Gian-Luigi, cui la emozione di quel gravissimo momento aveva tolto il possesso ch'egli soleva avere della sua volontà e della sua anima; sì, sono un miserabile, perchè ho impegnato la lotta contro la vostra società che mi aveva scacciato dal suo seno e me ne lasciai vincere. Ma di chi la colpa? Perchè m'avete respinto? M'avete cacciato nel fango e mi condannate perchè ne vengo fuori imbrattato!.... Fin dalla nascita io ho recato meco le aspirazioni verso quel mondo a cui dovevo appartenere, e che mi fu barbaramente precluso. Sentivo che era mio diritto il penetrarvi, e quando mi vi affacciai conobbi che ogni sforzo sarebbe stato inutile al trovatello per farvisi luogo, e che soli mezzi gli rimanevano da ciò l'inganno e il delitto.... Credete voi ch'io mi vi sia deciso senza strazianti dolori e senza lotte? Quando un bel giorno io mi trovai colle passioni, coi vizi, colle vanità eccitati, irritati, non soddisfatti, senza più un centesimo, in faccia ad una società che schernisce il povero ed il debole; anche a me per prima si affacciò l'idea volgare del suicidio. La somma lasciatami dal medico del villaggio aveva bastato appena a farmi delibare la coppa de' piaceri mondani: la sete se n'era accresciuta e non avevo più mezzi da accostarvi le labbra desiose. Il lavoro era mezzo troppo lento e di troppo miseri effetti. Mi cacciai, come in una voragine, in una casa di giuoco. Perdevo: l'oro esercitava su di me il suo fascino infame ed irresistibile; e vedevo [222] passarmi dinanzi le orde sonore delle monete e sfuggirmi. Avrei dato l'anima al demonio: un arrolatore dell'esercito del male, uno dei capi della segreta congrega dei ribelli sociali mi lesse nel cuore, mi trasse in disparte, mi tastò l'animo indolorito ed infierito, mi espose bruscamente in termini grossolani la teoria delle vicende terrene che incominciava ad essere la mia. Vi è una lotta universale nella creazione organica: tutto quello che vive s'alimenta e si vantaggia di organismi più deboli del suo. L'uomo sfrutta tutto il resto della creazione, appunto perchè si trova al fastigio della medesima: col medesimo diritto l'uomo che è più forte, più accorto, più audace può vantaggiarsi del più debole, più stupido e più timido. Il tentatore cominciò a propormi ed a mostrarmi a giuocare di baro. Divenni maestro nell'arte in breve, e dividemmo i guadagni. Una sera, uscendo dal giuoco, carico appunto d'oro, venni assalito da un assassino, che mi fece luccicare innanzi agli occhi la lama d'un pugnale. Colla destra afferrai la mano che stringeva l'arma, colla sinistra il collo di quell'uomo, e l'ebbi in un attimo messo a terra presso a basire strangolato. Sopraggiunse in quella, per sua fortuna, il mio complice, e lo riconobbe.
« — Graffigna, gli disse, ti sei male indirizzato; costui è dei nostri e tu vedi che polso è il suo.
«Lasciai andare il mio assalitore che si scosse come un cane che vien fuor dall'acqua.
« — Signore: mi disse umilmente, raccattando per terra il suo pugnale: vedo proprio che ho sbagliato e glie ne domando mille perdoni. Ella d'or innanzi ha la mia ammirazione e può contare sulla mia servitù.
«Que' due appartenevano ad una vasta associazione di malfattori che stavasi appunto riordinando e cercava un capo autorevole, coraggioso, intelligente. Non vi dirò tutte le fasi per le quali sono passato prima di diventar io quel capo. Il male, il delitto è una macchina tremenda di ruote e di rocchetti, i cui denti imboccano, e guai chi se ne lascia pigliare pur per un solo lembo del vestito! La forza cieca, meccanica lo trae, lo trae finchè tutto lo ha preso e maciullato. E poi m'ero fatto un concetto più grandioso di quella guerra che avevo bandito agli ordini sociali e degli effetti della medesima..... Mi allontanai per due anni da questa città... Quando vi fui di ritorno ero il capo supremo della cocca. Quell'attività, quell'intelligenza che ho impiegato nell'opera del delitto, che cosa non avrebbero ottenuto se, rincalzate dall'autorità di potenti aderenze, dall'influenza d'un grado, le avessi rivolte in aiuto della società esistente?... Che cosa non potrei ancora ottenere se mi si accetta, non ostante il mio passato, nel campo degli onesti?
— E ciò è impossibile: interruppe severamente il marchese. Nessuno può fare che il passato non sia. L'avete detto voi stesso testè: ogni uomo deve portare la responsabilità de' suoi fatti. Io qui non sono per giudicarvi: ma vi giudica la coscienza civile rappresentata dalla giustizia umana. Avete violate le leggi della società, questa vi bandisce dal suo seno; nulla si può mutare; quello che deve compirsi si compia.
L'esaltazione a cui era stato in preda fin allora Gian-Luigi sparì ad un tratto; egli si lasciò cadere sopra una seggiola, ed esclamò coprendosi colle mani la faccia:
— E dunque mi si lascierà morire? Dunque non si vuol dare i mezzi ad un'anima come la mia di rigenerarsi e compensare il male? E Lei, marchese, lascierà che la mia ignominia sprizzi fino sul suo blasone?
Successe un istante di penoso silenzio, cui poscia fu Don Venanzio a rompere.
— L'anima umana si rigenera col pentimento, il male si espia colla punizione: disse il buon vecchio prete. Subir questa con rassegnazione, curvandosi ai voleri di Dio, è indizio ed effetto di quello. Pentimento ed espiazione conducono al perdono. Siamo deboli pur troppo noi uomini e le arti dell'eterno nostro nemico sono potenti: ma dall'altra parte immensurabile è la misericordia di Dio, e nessuno di noi può dire dov'ella si arresti e che pure abbia limiti. Se dunque vi è la speranza, anzi la certezza del perdono per tutti, vi è pure la necessità di subire la pena per tutti quelli che fallirono; o sarebbe lesa la giustizia.
— Voi avete dichiarato alla società costituita una guerra, come diceste voi medesimo: così parlò a sua volta il marchese: e rimaneste vinto. Ma voi meglio d'ogni altro, voi di più vivido ingegno, di maggiore istruzione del volgo, sapevate a quali rischi andavate incontro, qual posta mettevate al giuoco, quali conseguenze affrontavate. Avete perduto....
Il medichino levò il capo e interruppe vivacemente con un fiero sorriso:
— Bisogna pagare. Ella ha ragione.
Guardò bene in volto il vecchio gentiluomo e soggiunse, parlando lentamente:
— E dunque che sarà di me verso la famiglia, e della famiglia verso di me?
— Quello che vorrete voi medesimo. La famiglia non rifiuterà di affermare pubblicamente il vero, quando voi lo esigiate, quando a voi piaccia si gravi su di lei una parte di disdoro con nessuna utilità vostra....
Negli occhi di Gian-Luigi corse un lampo.
— La comprendo: diss'egli vivamente; ed affondato di nuovo il volto nelle palme delle mani, stette un poco meditando.
La cristiana santità di quel vecchio povero prete vero seguace del Vangelo, la rigida onestà e la severa onoratezza del vecchio gentiluomo facevano intorno al giovane un ambiente, per così dire, di [223] tanto pura e sana e morale influenza, che tutto quello che v'era ancora di generoso nella traviata e sedotta di lui natura si ridestò, fu suscitato ed ebbe in quel punto nuova e maggior forza che mai.
— Ebbene: soggiunse egli poi levando il capo e sorridendo amaramente: che importa egli al mondo che il figliuolo della marchesa Aurora sia ritrovato o no? che importerà a me medesimo si sappia, se ciò non avrà da mutar per nulla la mia sorte?.... Ch'io scompaia ignoto ed ignorato, portando meco nel sepolcro il mio segreto e l'onore soltanto d'un miserabile plebeo che non ha nome... Hanno essi un onore quella razza di gente?... Avrò fatto alla famiglia che mi ha rigettato ancora questo sacrificio... Io non sono che il misero trovatello, signor marchese, si rassicuri: e morrò come tale.
Spiegò bene i due squarci di lettera che aveva ancora tra mano; li raccostò e li tenne innanzi agli occhi alcuni minuti quasi leggendo e rileggendo lo scritto parecchie fiate, poi disse scuotendo mestamente il capo:
— Ecco tutto ciò che mi rimane del padre mio; ecco tutta la mia eredità nel mondo... Povero mio padre!... Se tu avessi vissuto che cosa avresti fatto di me?
Baldissero che aveva versato il sangue di Valpetrosa, a queste parole che gli ricordavano efficacemente la risponsabilità ond'era aggravato, sentì più viva la fitta del rimorso.
Gian-Luigi accostò quei due pezzi di carta ingiallita alle labbra e ve li premette con passione.
— Addio! Addio memoria di mio padre. Oh potessi credere che tu esisti ancora, essere che fosti qui in terra l'autore della mia vita, e che un giorno ti potrò vedere e conoscere!... Addio tu pure, pensiero della madre mia; addio per sempre: voi non esistete più; tutto ha da essere precipitato nella notte dell'oblio.
Colle mani convulse stracciò in minutissime parti quella lettera e ne sparse al suolo i pezzetti; una lagrima, una lagrima sola colò lentamente sulle sue guancie pallidissime che parean di marmo.
Il marchese si alzò e disse con accento commosso e molto nobilmente:
— Vi ringrazio.
Parve che volesse tendere al prigioniero la mano; ma se ne trattenne.
— Or dunque tutto è finito per me: esclamò con voce tremante quel misero: ogni mio legame con questo mondo è sciolto...
In quel punto, per effetto d'una di quelle complesse visioni della mente che abbracciano un mondo indefinito, passarono innanzi a lui le immagini del suo passato sin dall'infanzia, e l'immagine di quello che avrebbero potuto essere la sua vita e il suo avvenire.
— Oh giovinezza! soggiunse: oh mie sciupate forze di volontà e d'ingegno!... Meglio non avessi abbandonato mai Lei, Don Venanzio, e il villaggio e la povera vecchia Margherita..... Ma l'istinto del sangue mi spingeva. Mi sentivo della razza dei leoni.....
Scosse le spalle con superba mossa da angelo fulminato.
— Ma il rimpiangere che giova?... Fu il destino che così volle..... No, io non rimpiango nulla...... Sono vinto, non sono soggiogato..... Guarderò in faccia la mia sorte fino alla fine col sogghigno che merita questa irrisione di casi che è la vita.
S'interruppe e cambiò tono.
— Sì, v'è pure alcuna cosa che rimpiango. Alcune anime generose mi hanno amato, ed io fui empio e scellerato per esse. Povera Ester! (e represse un sospiro). Povera Maria!..... Povera Candida!..... Le ho odiosamente ingannate e tradite..... Vorrei potere a ciò rimediare... e non ce n'è mezzo nessuno.....
In quella si ricordò delle lettere della contessa di Staffarda, che possedute, com'egli credeva ancora, dalla Zoe, erano per la misera donna una minaccia continua.
— Ah sì, soggiunse, alcuna cosa posso pur fare in favore di una di esse.
Domandò di scrivere poche parole; e il marchese potè dargli un fogliolino di carta ed una matita; Gian-Luigi scrisse alla Zoe l'ordine, la preghiera di restituire alla contessa le lettere, e di non tormentarla altrimenti. Don Venanzio accettò l'incarico di portar egli stesso in persona alla Leggera quella carta che doveva por fine agli spasimi ed agli sgomenti d'una povera anima: e già vedemmo quali ne fossero gli effetti.
— Ed ora: disse finalmente Gian-Luigi; prego che mi si lasci solo.
Il marchese ed il parroco partirono, quest'ultimo promettendo di tornare a visitare il prigioniero quante più volte gli fosse concesso; e il medichino venne ricondotto nella sua segreta.
Quel che passasse nell'anima sua chi lo potrebbe descriver mai? Certo furono spasimi che dovettero contare come parte migliore della dovuta espiazione innanzi alla clemenza di Dio: ma il segreto di quella tormentosa meditazione fu tra lui, tra l'anima sua e Colui che tutto vede.
Quando i secondini entrarono, parecchie ore più tardi, a portargli il cibo giornaliero, lo trovarono steso sul giaciglio bocconi, la faccia premuta contro la coperta di lana ravvoltolata. All'invito che il secondino gli fece di mangiare, non si mosse punto.
— La è malata? domandò il carceriere.
Il medichino agitò la testa con un atto impaziente che indicava egli non desiderar altro che di essere lasciato stare.
Alla visita della sera, ed ore parecchie erano trascorse, fu trovato ancora nella medesima postura, immobile come un cadavere; e i cibi erano intatti. [224] Il guardiano gli si accostò alquanto sbigottito e lo toccò sovra una spalla: Gian-Luigi sussultò come se fosse stato bruciato da un ferro rovente, e volse verso il carceriere una faccia in cui tanta era l'ira, e tanto insieme il tormento che pareva il sembiante di Satana fulminato. Il secondino s'arretrò intimorito e s'avviò senz'altro per uscire; ma quando fu all'uscio si ricordò che aveva una comunicazione da fargli.
— Debbo avvertirla che domani cominceranno i pubblici dibattimenti del suo processo.
Gian-Luigi si drizzò di scatto.
— Domani? domandò con emozione.
— Sì.
— Va bene.
Il guardiano uscì e il prigioniero stette ad ascoltare con una specie d'interesse il rumore delle serrature che si chiudevano, dei paletti che scorrevano; poi si mise a passeggiare nella sua oscura celletta su e giù, proprio come una belva in gabbia. Comparire al pubblico dibattimento, agli occhi curiosi di tanta gente, spettacolo miserando a quel mondo ch'egli aveva voluto dominare e cui abborriva e disprezzava! Gli era un primo supplizio, quello della gogna; gli era un'anticipazione di quell'ultima ignominiosa scena che aveva da conchiudere la sua vita, sull'infame legno del patibolo. Egli fremeva e rabbrividiva; aveva delle fiamme e dei geli che s'avvicendavano lungo i suoi nervi, entro le sue vene; sentiva la passione morale tradursi in dolori fisici che cominciando dal cervello si propagavano per tutto il suo organismo. Pensò a morire; ma come? Misurò la sua cella; non c'era spazio bastante da prendere un aire di tanta forza da fracassarsi il capo alle pareti: ed egli non voleva a niun conto il ridicolo d'un suicidio non riuscito, il quale poi avrebbe ancora preclusagli la via ad altri tentativi: e nel suicidio oramai era la sola sua speranza.
— Sosterrò anche questa prova: si disse: affronterò gli sguardi di tutta quella canèa di curiosi, la cui onestà non è che codardia; a quelle virtù bacate, a quelle infamie nascoste che si atteggiano a gente onorata, farò abbassare gli occhi sotto il fuoco de' miei e li atterrirò ancora colla mia audacia.
Al mattino volle fare un'elegante acconciatura quale d'un giovane di garbo e di buona società che si reca a far visite di rispetto; e quando lo si venne a prendere nella carcere per condurlo alla sala del pubblico dibattimento, aveva la figura tranquilla e il calmo sorriso d'un uomo sicuro di sè, che non ha rimorsi, nè timori, nè manco soggezioni.
Traversando i corridoi, i suoi occhi incontrarono ad uno svolto quelli affondati del Sott'Ispettore Barnaba.
— Signore, disse Gian-Luigi, accostandosegli. Potrei io avere un colloquio con voi?
Barnaba s'inchinò in segno d'assenso.
— Quando?
— Quando avrete avuta la vostra condanna di morte.
Il medichino fece un superbo sorriso, mosse leggermente il capo, come per dire «sta bene;» e passò.
Se la sala dell'udienza nella Corte d'appello (che allora aveva in Piemonte nome di Senato) fosse zeppa di spettatori, lascio pensare ai lettori che sanno quale morbosa curiosità sia nelle cittadinanze pei processi criminali di siffatta specie. Quella banda di malfattori aveva per tanto tempo incusso timore alla città intiera; la frequenza e la gravità dei delitti commessi erano tali da far rabbrividire; la circostanza straordinaria che il capo di quella orrenda sêtta fosse un giovane elegante, accolto con favore nelle migliori società, accresceva l'interesse della cosa. Dal giorno dell'arresto dei malandrini poteva dirsi che nei crocchi cittadineschi, in tutti i convegni, nelle conversazioni delle famiglie, non erasi parlato d'altro più fuor che di ciò; in quel tempo di calma e di servitù, non essendoci concorso di novità politiche a far diversione. Tutti volevano vedere le faccie orribili di quegli assassini; e principalmente quella del loro capo, che dicevasi, e molti di veduta conoscevano, non essere niente affatto orribile, ma anzi bellissima. Le donne sopratutto avevano questo curioso desiderio, il quale, in quelle creature così facilmente eccessive, spingevasi per alcune fino all'ardore della passione. I biglietti di ingresso alle tribune riservate erano quindi stati ricercatissimi; e quel primo giorno in cui cominciavano i dibattimenti molti e molti banchi erano occupati da rappresentanti del sesso gentile di tutte le età, venute in grande eleganza d'acconciatura a cercare poco gentili emozioni in quel dramma di sangue di processo criminale. Fra queste spiccava, ned ella cercava pure nascondersi, la Zoe, la quale nel tempo di attesa, prima che entrassero gli accusati a prendere il loro posto, era il punto di mira di tutti gli sguardi e l'argomento di tutti i discorsi. Era essa giunta delle prime — in una tribuna riservata s'intende — epperò s'era impadronita del miglior posto che si potesse avere di faccia e più vicino che era possibile all'ordine dei banchi preparati pei prigionieri. Le prime signore che erano giunte dopo di lei, avevano schivato il contatto e la vicinanza della cortigiana, prendendo posto più in là che potessero dalla sontuosa di lei veste di seta; ma quelle che erano sopravvenute più tardi non avevano avuto il coraggio di andarsene piuttosto che occupare i posti che rimanevano a fianco [225] della cortigiana, e vi si erano sedute, ostentando però di tener le spalle volte alla loro vicina, e di non lasciar posare mai su di lei gli occhi che pure la sbirciavano di soppiatto con viva curiosità. La Leggera, in una mossa quasi abbandonata, pareva non accorgersi di nulla, e la sua attenzione era tutta fissa sui seggioloni dove sarebbe venuta a sedere la Corte, sui banchi destinati ai rei. Nello scompartimento lasciato al pubblico volgare senza privilegio di polizza d'ingresso, fin dal primo momento in cui s'erano aperte le porte della sala, si agitava una massa variegata di popolo cencioso, che ora ronzava come uno sciame di tafani, ora muggiva come un maroso di burrasca, ora rompeva in esclamazioni d'impazienza, in bestemmie contro chi urtava di dietro per ispingersi nella sala, in motti sconci, impertinenti, tenuta in freno dai cappelli a becchi, dalle faccie burbere e dalle baionette dei carabinieri.
Stante il gran numero degl'inquisiti, per questi, come ho già detto, erasi preparato un ordine di banchi, un dietro l'altro, che venivano salendo sino alla parete della sala, in ciascuno dei quali potevano stare quattro individui. Innanzi a questi banchi era uno spazio in mezzo della sala, dove un tavolo a cui sedeva il segretario coi suoi aiuti; e di là una delle pubbliche tribune, quella in cui c'erano più donne, e in prima fila la Zoe: dal primo banco dei rei a quello della tribuna correvano appena sei passi. In quello spazio centrale, precisamente di prospetto alla gran tavola de' giudici, erano i banchi dei testimoni, che si trovavano alla sinistra di quelli degli accusati. Dietro di questi banchi dei testimoni era il locale destinato al pubblico plebeo. Fra i banchi degli accusati e la tavola della Corte, che s'elevava sopra un tavolato a cui si ascendeva per due gradini, stavano i difensori: di faccia, dalla parte opposta, i rappresentanti del Pubblico Ministero. Questa disposizione de' luoghi occorre tenere a mente per comprendere poi l'orrenda tragica scena con cui si chiusero in quella sala i dibattimenti di tal memorabile processo.
Si discorreva vivamente in tutte le tribune; il maroso del pubblico straccione muggiva più che mai: ad un tratto si fece un gran silenzio e gli occhi di tutti si volsero ad un punto: entravano i prigionieri, a due a due, in mezzo a due file di carabinieri armati. Primi venivano Stracciaferro e Graffigna, poi Pelone, Marcaccio e la turba dei satelliti minori; fra questi v'era una faccia onesta, disfatta dal turbamento e dalla vergogna: quella del povero Andrea. Il suo arresto dovevasi a Marcaccio; il quale, parte per le minaccie, parte per le promesse di pena minore, s'era lasciato indurre a confessare qualche cosa della verità e non aveva taciuto della fabbricazione delle chiavi per mano del suo amico il ferraio senza lavoro. Di poi, pentitosi delle sue rivelazioni, le aveva contraddette, aveva voluto ritrattare, s'era posto di nuovo al niego più fermamente che mai; ma un secondo arresto di Andrea era stato deciso ed eseguito, e il vedovo di Paolina, alle fattegliene interrogazioni aveva risposto tutta la verità. Oh! Dio era stato pietoso di togliere anche colla morte la onesta moglie di quell'infelice allo spettacolo di tanta vergogna!
Mancava ancora il principale: il famoso medichino. Come se anche in codesto si volesse riconoscere la superiorità di lui, il capo non era stato condotto a mazzo cogli altri, ma gli si concedeva la distinzione d'una entrata speciale in scena.
Il silenzio fattosi all'entrare dei prigionieri non durò gran fatto. Tosto dopo cominciarono i discorsi, le osservazioni, i commenti, le interpretazioni, gli indovinari intorno a quelle faccie risolute, la maggior parte malvagie, feroci, fra cui dominavano la robusta, imbestialita figura di Stracciaferro, l'allampanata, alta persona di Pelone e la diabolica faccia sottile di Graffigna. Un movimento di curiosità destarono due donne che in coda a tutti gli altri imputati vennero in mezzo a' carabinieri ancor esse e furono fatte allogarsi nei banchi de' rei. Erano Maddalena e la povera vecchia Margherita. Quella conservava la sua aria sicura e petulante: appena dentro il salone aveva mandato in giro i suoi occhi ardimentosi, e, vista di subito la Zoe, aveva con essa scambiato un fuggevole ma significante ammicco. La misera Margherita invece era tanto confusa e tremante che appena se poteva reggersi e trascinarsi. Sotto l'abbronzato della sua pelle rugosa v'era un pallore che sembrava di morte: i suoi poveri vecchi occhi erano rossi dal pianto; già magrissima prima, il suo soggiorno in carcere e la pena morale l'avevano ridotta a non aver più che la sua pelle color d'alluda sulle ossa.
Nel primo banco furono posti Stracciaferro, Graffigna e Marcaccio; quest'ultimo era al capo del banco verso quello dei testimoni. Un posto fu lasciato vacante, il primo dalla parte dove sedevano gli avvocati, serbato di certo pel medichino. Nel banco di dietro erano le due donne. In mezzo agli altri accusati Andrea, che pareva lo spettro dell'uomo d'un tempo, aveva posto i gomiti sulle ginocchia e s'era nascosto il volto nelle mani.
Il susurro cessò di nuovo, quando in mezzo a due carabinieri comparve il fiero e leggiadro aspetto del sedicente Gian-Luigi Quercia. Era egli un po' pallido, ma calmo e tranquillo. Dalla soglia gittò egli pure uno sguardo su tutte quelle faccie intente verso di lui che lo divoravano cogli occhi e schiuse le labbra ad un superbo, ironico sorriso; vide la Zoe e non fe' cenno nessuno, ma nel guardarla le sue pupille nere brillarono fugacemente d'una fiamma viva. La cortigiana sorrise in un certo modo ed occhieggiò essa pure con una speciale significazione che Gian-Luigi comprese.
— Sono qua, voleva essa dire, lavoro tuttavia [226] per salvarti, ogni speranza non è ancora perduta.
Egli s'avanzò con passo tranquillo, senza braveria, fino al suo posto, fece un piccol cenno di saluto e d'incoraggiamento cogli occhi a Maddalena, il cui volto alla vista di lui s'era tutto illuminato, e tese una mano alla sua vecchia nutrice chiamandola affettuosamente per nome.
Margherita appena aveva visto entrare il suo diletto figliuolo, aveva mandato un'esclamazione soffocata ed era stata assalita da un tremito universale. Sarebbe corsa incontro a lui a gettarglisi nelle braccia, se avesse osato e se glie ne fossero bastate le forze. Lo guardava, lo guardava e gli occhi le si empivan di lagrime, e tremava sempre più. Quando egli le fu dinanzi e le tese la mano, ella ruppe in singhiozzi, e presa quella destra la baciò con trasporto.
— Oh mio Giannino!... oh mio Giannino! balbettò fra i singulti.
— Coraggio, madre! le disse amorevolmente Gian-Luigi.
Sentirsi dare questo nome di madre dal suo caro era sempre per la poveretta una gioia ineffabile. In tal punto ciò pose il colmo alla sua commozione.
— Ah! se questi signori lo permettessero, disse ella accennando i carabinieri, e se tu non te ne vergognassi, vorrei pure abbracciarti.
Quercia le regalò il più amorevole de' suoi gentili sorrisi; poi si curvò su di lei, le prese il capo fra le mani e le stampò un bacio sulla fronte; essa, la povera vecchia, gittò le sue magre braccia al collo del giovane e lo baciò replicatamente, piangendo. Questa scena destò un'universale commozione.
E questa non era ancora dileguata del tutto, quando un'altra circostanza avvenne che suscitò una impressione di ben diverso genere. In mezzo a due carabinieri anche lui, fu introdotto e condotto a sedere al banco dei testimoni un vecchio, piccolo, curvo, d'aspetto miserabile e sporco, di andatura esitante ed obliqua; era il complice propalatore, al quale (secondo l'uso di que' tempi) in premio delle sue rivelazioni era stata concessa l'impunità: Jacob Arom il rigattiere.
Entrò egli cogli occhi bassi, timoroso ed incerto; solo un istante sollevò le ciglia e saettò una guardata viperina al posto dov'era il medichino. Questi s'era seduto tranquillamente, senza fare la menoma attenzione agli altri coaccusati che si trovavano su quei medesimi banchi, precisamente come se non esistessero, nè questi avevano mostrato di badare a lui in alcuna maniera, fuori di Graffigna che essendo più vicino al posto dove aveva da sedere il medichino, s'era, quasi per omaggio di rispetto, tirato più in là per lasciargliene maggior luogo; per il che Quercia, in mezzo agl'imputati, stava, come per una nuova distinzione, con una certa distanza isolato dagli altri, a cui non fu mai ch'egli volgesse una parola, un cenno, uno sguardo soltanto.
Al passargli di Macobaro dinanzi, Gian-Luigi, senz'affettazione, ma con evidentissima espressione di profondo disprezzo e di schifo, volse il capo dall'altra parte per non vederlo; ma saettarono il vecchio rigattiere di sguardi micidialissimi gli altri imputati, e principalmente Graffigna, il quale fece colla mano un cenno pieno di minaccia. Anche nel pubblico, e specialmente in quella parte dove entrava chi volesse, si levò un susurro che poteva dirsi di riprovazione. Macobaro si confuse ancora di più, e parve rannicchiarsi all'estremità di quel banco dove egli fu condotto; ma poco stante ogni rumore cessò, perchè gli uscieri imposero silenzio, ed entrarono a prender seggio i magistrati.
Io non istarò ad annoiare i lettori coll'esposizione di tutto il dibattimento del processo, delle requisitorie del fisco, e delle difese degli avvocati. Sono cose oramai che si conoscono da tutti; e i fatti che importano al nostro racconto e che vennero in quel dibattito appurati, si videro man mano avvenire. Solo dirò che la quantità dei testimoni, il numero degl'incidenti, la rilevanza delle quistioni sollevate e dibattute fra il fisco e la difesa, fecero prolungare il processo oltre le quindici sedute; che le due prime furono tutte spese nella lettura del lunghissimo atto d'accusa, in cui erano consegnati tutti i risultamenti ottenuti dalle propalazioni di Arom, dalle rivelazioni poi disconfessate di Marcaccio, dalle ingenue confessioni di Andrea, dalle indagini della Polizia; che tutte le volte fu grandissimo il numero degli spettatori e fra questi delle donne, prima sempre la Zoe; che fra i testimoni comparvero di nostra conoscenza Barnaba, Bancone, Fra Bonaventura e Giacomo Benda. La giustizia, che non ha pietà, aveva citato anche la povera Maria: e farla comparire alla vergogna di tal pubblicità sarebbe stato un'ucciderla addirittura, la infelice ragazza; ma Virginia avevale risparmiato questa prova mercè l'autorevole intervento dello zio il marchese. Anche quest'ultimo era stato sentito per ciò che era accaduto al letto di Nariccia; ma non si era all'autorevolissimo personaggio dato il carico ed il disturbo d'una comparsa in pubblico.
Solamente di quel processo riferirò l'interrogatorio del medichino, e la tragedia che seguì la lettura della sentenza.
Il medichino, come il più importante degli accusati, fu fatto levare in piedi pel primo, e il Presidente cominciò ad interrogarlo così:
— Il vostro nome?
Un gran silenzio s'era fatto nella sala, non si sentiva una mosca a volare, e tutti gli sguardi erano intenti sulla bella figura del giovane inquisito: questi con quel suo contegno di sicurezza, con quell'aria di superiorità piena di degnazione che gli erano abituali, rispose colla sua voce limpida e chiara [227] tre parole che suonarono, in quel silenzio come un accordo musicale:
— Non ho nome.
— Voi foste registrato nei libri dell'Ospizio con quello di Giovanni Venturino, e con esso dato ad allevare alla donna Margherita Coppa; ora vi facevate chiamare in società Luigi Quercia.
L'accusato guardò fiso il Presidente, come per dire: «non ci ho nulla da contestare:» e si tacque.
— Perchè vi siete voi fabbricato un nuovo nome?
— Perchè così mi piacque.
— Credevate voi avere il diritto di cambiarvi nome ed attribuirvi qualità a vostro capriccio?
— Lo credo sicuro. Gli uomini s'erano arrogato quello di stamparmi col nome che mi avevano imposto una nota di vergogna per tutta la vita: io me ne volli liberare. Il nome di Luigi era quello del mio benefattore, medico al villaggio dove fui allevato, e lo presi in memoria di lui: quello di Quercia lo scelsi come impresa del mio avvenire, come programma di resistenza della mia volontà, ai colpi del destino nella lotta della vita.
— Riconoscete voi dunque che avete affermato il falso alla famiglia Benda, quando vi siete vantato d'una origine misteriosa, di segreta parentela con famiglie di riguardo, e che sono falsi i documenti che presentaste in sostegno delle vostre parole e che abbiamo qui dinanzi?
L'accusato levò la fronte e guardò intorno con dignitosa fierezza.
— Che io abbia detto il falso, la misera logica degli argomenti umani sembra provarlo, che poi sia così realmente è un'altra cosa.
Il suo aspetto era cotanto nobile che nell'uditorio non vi fu forse una persona in quel momento che non gli attribuisse quelle illustri, misteriose origini, ond'egli s'era vantato.
— E la sua età? domandò dopo un istante il Presidente, passando senza accorgersene a trattarlo col Lei.
— So di avere venticinque anni; ma non ho documento nessuno di fede di nascita.
— Perchè si spacciava Ella per medico?
— Per omaggio eziandio al mio protettore che fu tale e desiderò ch'io pure lo divenissi: perchè ho studiato la scienza della medicina, e senza aver ottenuto diplomi di laurea credo saperne più di tanti che acquistarono dall'Università il diritto di ammazzare il loro prossimo impunemente.
Un'ilarità generale scoppiò nell'uditorio, e i giudici medesimi sorrisero.
Il Presidente riprese dopo un poco:
— Ella conosceva da molto tempo il signor Nariccia?
L'accusato non rispose subito: tutti gli occhi erano con più intentività che mai fissi sul volto di lui, il quale non ebbe pure il menomo cenno d'una anche lievissima emozione.
— Mi permetta, signor Presidente, alcune parole ancora intorno al mio nome ed all'esser mio, disse l'inquisito: e il Magistrato avendo fatto un cenno di consenso, egli continuò. La povera donna che mi fu nutrice trovasi accusata di falsa testimonianza per avere dato di me quelle informazioni che ho ammesso poc'anzi trovarsi false innanzi alle apparenze de' fatti. Dichiaro solennemente che la misera vecchia non può essere tenuta imputabile di ciò. Ella mi ama d'un amore maggiore di quello d'una madre; ella per me farebbe qualunque cosa; qualsiasi maggior sacrifizio le domandassi, la vi si acconcerebbe; la sua volontà è una molle cera in mano della mia. Ora io le avevo imposto, se interrogata sul mio conto, di rispondere quel ch'ella disse. Coll'anima padroneggiata dal tanto affetto, colla mente indebolita dalla vecchiaia e dai patimenti d'una vita di miseria, ignara affatto delle cose del mondo e delle leggi, come ritenerla in colpa di questo suo fatto? Dichiaro poi altamente che nel mio tentativo d'evasione la buona Margherita non vi ebbe parte di sorta e non n'ebbe pure sentore nessuno...
Il Presidente lo interruppe.
— Ciò verrà più opportuno quando saremo a quel punto del processo; e riguardo all'inquisita Margherita Coppa, il magistrato apprezzerà questa dichiarazione ora da Lei fatta. Veniamo a noi..... e risponda alla domanda che le ho diretta: s'Ella conoscesse da molto tempo il signor Nariccia.
— Risponderò con un'altra dichiarazione, la quale penso non torni nuova al Magistrato, essendo la medesima ch'io feci nell'istruttoria segreta, dove assunsi il contegno da cui non intendo ora dipartirmi.
Nell'uditorio vi fu un movimento che indicava accresciuta ancora la tanta attenzione con cui si ascoltavano le parole dell'imputato.
Questi pronunciò lentamente, con parola chiara e spiccata:
— Non dirò pure una parola che riguardi il processo e i tanti capi d'accusa che si affacciano contro di me e i miei coimputati. Per rispondere converrebbe ch'io volessi o difendere la mia innocenza e la mia vita, o coadiuvare la giustizia nella ricerca della verità; ora io non voglio nè l'una cosa, nè l'altra. Della mia sorte non mi curo e l'abbandono al caso; nella ricerca del vero vo' lasciare che la giustizia se la districhi da sè colla facilità dell'errore.
Il Presidente lo interruppe con tono di rampogna, riprendendo, nel parlargli, il voi.
— Questa è una nuova colpa. Avete il dovere di rischiarare nelle sue indagini la giustizia.
— Cotal dovere io non me lo sento per nulla.
— Lo avete pei vostri complici.....
— Non ammetto d'aver complici.
— Vuol dire che negate.
— Nè nego, nè affermo: mi taccio.
[228] Il Presidente gli fece una severa ammonizione che l'inquisito ascoltò freddamente.
— Signore, diss'egli poi, quando il Magistrato ebbe finito, le sue parole non mi faranno uscire dalla determinazione che ho presa. Se fossimo ancora ai beati tempi della tortura, non varrebbero a farmi parlare neanche i più fieri tormenti.
Non ci fu verso a smuoverne il fatto proposito; Stracciaferro e Graffigna ne imitarono l'esempio; gli altri si confusero nelle loro risposte; Pelone riprese per suo conto quelle confessioni che Marcaccio aveva ritrattate; Maddalena pose una strana audacia a compromettersi pel medichino; Andrea, come già aveva fatto nell'istruttoria segreta, disse tutta la verità di quanto lo riguardava. Così esplicite poi furono le deposizioni testimoniali, così eloquenti i corpi del delitto sequestrati che provavano un'infinita quantità di furti e di assassinii, così precise le rivelazioni di Macobaro che niuno poteva conservare il menomo dubbio sull'esito che la sentenza avrebbe dato al processo.
Contro Macobaro non avevano cessato gl'inquisiti di saettare sguardi feroci d'odio e di minaccia. Certo le lunghe ore di seduta di quei dibattimenti dovettero essere per quel vecchio una sequela di tormenti indicibili; ma il pensiero della vendetta lo sosteneva, e poi messosi una volta per quella strada, bisognava bene andarne fino al termine.
Si chiusero alla fine i dibattimenti. Il Pubblico Ministero tuonò contro i rei e ricordando lo spavento generato nella cittadinanza da quell'audacissima schiera d'assassini, l'empietà e la barbarie di tanti e sì frequenti reati, invocò tutto il rigor delle leggi e chiamò la pena di morte pel medichino, per Stracciaferro, per Graffigna, per Marcaccio e per altri due accusati di cui il nome non rileva; per gli altri inquisiti varii gradi di pena dai lavori forzati a vita fino ai cinque anni di reclusione. Gli avvocati difensori s'industriarono se non a purgare d'ogni taccia i loro clienti (chè la cosa era impossibile) di mostrarne almeno minore di quel che volesse il fisco la colpabilità.
Udito tutti, il Presidente fece il riassunto di tutti i dibattimenti avvenuti, e poi, levando la seduta, annunziò che nell'udienza del giorno di poi sarebbe stata letta la sentenza che nell'intervallo il Magistrato avrebbe pronunziata.
L'assemblea si sciolse con quel mormorio speciale che è indizio di commozione delle masse: il domani una folla più fitta che mai si stipava nella sala dell'udienza, nel vestibolo precedente, nella gradinata, nell'atrio, fino nella strada. Un maggiore susurro regnava nella sala, sintomo d'agitazione promossa dalla curiosità d'impazienza ansiosa nell'aspettazione. Il rumore non cessò, anzi s'accrebbe quando furono visti entrare gli accusati. Alcuni notarono che il medichino era un po' più pallido del solito; ma la sua fisionomia era calma e l'aspetto sicuro come sempre. Avreste detto ch'egli veniva spettatore di cosa che riguardava tutt'altri da lui. Gli altri delinquenti avevano tutti l'aspetto turbato ed ansioso, eccetto Stracciaferro che conservava la solita aria ferocemente stupida e Graffigna la sua maliziosa figura di volpe. Il bettoliere Pelone era di color verde, il suo cranio giallognolo luceva di sudore che vi spuntava a goccioline, e i suoi occhi infossati si giravano intorno con uno sbigottimento profondo; Andrea era abbattuto e privo di ogni vigore; Marcaccio per contro ostentava un'animazione, una specie di gaiezza che era troppa per apparir naturale e che si vedeva effetto della inquietudine la più viva; egli non poteva star fermo, le mani sue brancicavano sull'assicella superiore della barriera che aveva dinanzi a sè, volgeva atti e sguardi e sorrisi a' suoi compagni, e il carabiniere che gli stava presso non cessava dall'ammonirlo a tenersi tranquillo. Un osservatore avrebbe fatto attenzione a certi sguardi che a questo carabiniere che gli era allato gettava Marcaccio: erano sguardi che parevano misurarne la forza, esaminarne la risoluzione e il coraggio; e ad ogni volta lo squadrasse a quel modo, vedendo la robusta complessione e l'aspetto ardimentoso di quel difensore della legge, Marcaccio non poteva nascondere certi segni di contrarietà e di disappunto.
Jacob Arom, condotto anche lui ad udire la lettura della sentenza, poichè ancor egli era fra gli inquisiti e solo aveva da esser salvo per le fatte propalazioni, era più pallido, più confuso, più tremante che mai e si sarebbe detto ch'egli, il quale aveva l'impunità assicurata, era quello che più di ogni altro era occupato dallo spavento. Più feroci che mai lo saettavano gli sguardi dei suoi complici, cui egli non osava affrontare, tenendo gli occhi continuamente fissi al suolo; e più d'uno tendendo verso di lui il pugno chiuso, gli faceva atti di minaccia e gli lanciava imprecazioni e bestemmie.
Un gran silenzio si fece quando la Corte entrò e prese posto, quando il segretario si levò in piedi e cominciò con la voce grave e monotona la lettura della sentenza. Questa dopo le relative considerazioni per cui venivano poste in sodo le risultanze del processo e le varie colpabilità degli imputati, passando alla parte dispositiva, condannava, dei personaggi del nostro dramma, tre alla pena di morte: Giovanni Venturino sedicentesi Luigi Quercia e sopranominato il medichino; Michele Luponi detto Stracciaferro; e Giocondo Graffigna. Marcaccio era condannato alla galera in vita; Pelone a dieci anni di lavori forzati; Andrea a dieci anni di reclusione; Maddalena a cinque anni; Margherita era assolta.
I condannati all'estremo supplizio non fecero il menomo movimento; Quercia solamente sorrise col suo modo superbo e slanciò uno sguardo alla Zoe, la quale era là, innanzi a lui, al suo solito posto. Con quello sguardo egli le diceva: «Bada che ora [229] mi occorre un ultimo servizio e conto su di te.» La Leggera gli rispose con uno che significava: «Non ismarrirti. Tutto può ancora rimediarsi: io non ti mancherò, e sarai salvo.»
La vecchia Margherita a sentire quella tremenda parola di morte mandò un gemito e tendendo le braccia verso il suo Giannino che le stava dinanzi:
— Oh figliuol mio! esclamò.
Il medichino le si volse mestamente sorridente e con tono di pietà e d'autorità insieme le disse:
— Calmati; taci; non isgomentarti.
Passato il fremito della prima impressione prodotta nell'affollato uditorio da quella sentenza di cui pure già s'aspettavano quali erano le disposizioni, il Presidente si volse ai condannati e disse loro se avevano qualche cosa da dire.
Il medichino fece come se nulla avesse udito; ma Stracciaferro, Graffigna e Marcaccio si drizzarono tutti tre di scatto.
— Abbiamo da dire, gridò Marcaccio con voce stentorea, ma che un pochino tremava, che qualcheduno l'ha da pagare..... e subito!
Ciò dicendo si slanciò sul carabiniere che aveva presso e lo afferrò alla gola: nel medesimo tempo Graffigna e Stracciaferro scavalcavano la barriera, quest'ultimo si gettava addosso al secondo carabiniere che trovavasi all'altro capo del banco; e Graffigna sgusciava, agile e pronto com'era, verso Macobaro.
Successe un momento di confusione indescrivibile. L'uditorio spaventato credette vedere tutta quella massa di malfattori precipitarsi sopra di esso per aprirsi fra di lui un passaggio alla fuga: gli uomini si levarono, le donne strillarono e minacciarono svenire: si fece ressa alla porta per iscappare. I carabinieri così aggrediti, frattanto, non potevano far uso delle armi, perchè stretti corpo a corpo dai loro robusti avversari, e i loro compagni non potevano venire in loro aiuto, perchè, allogati nelle corsie de' banchi, avevano il passo impedito dalla persona medesima di chi si trattava di soccorrere, ed inoltre avevano da tener d'occhio gli altri condannati cui temevano veder levarsi ancor essi ed assalirli.
Ma non era tanto la libertà che volevano ottenere i tre assassini insortisi a quel modo, quanto la vendetta contro il complice traditore. Non ostante la sorveglianza dei carabinieri, che dovevano impedire ogni comunicazione fra gl'inquisiti, essi, mercè sguardi, cenni, ammicchi e qualche mezza parola, avevano ordita la congiura, ed era stato Graffigna ad immaginarla, per vendicarsi di Macobaro il giorno e il momento medesimo in cui sarebbe loro stata letta la sentenza. Stracciaferro e Marcaccio, poderosi di membra com'erano, dovevano contenere i due carabinieri più prossimi, e Graffigna lesto saltare sul traditore e strozzarlo. Il programma fu eseguito alla lettera. In mezzo a quel tumulto che ne nacque fu udito ad un punto un grido di spavento indicibile, poi un rantolo: Graffigna aveva preso alla gola il vecchio rigattiere e colle sue mani nervose, piantandogli le unghie entro la carne, lo stringeva con una forza che l'odio accresceva a più doppi. Livida diventava la faccia del miserabile, gli occhi fattisi pieni di sangue gli uscivano dalle orbite, le vene della fronte si gonfiavano e parevano corde tese prossime a rompersi, un'espressione orribile di sbigottimento, di dolore, di agonia contraeva quei lineamenti convulsi, le mani adunche si agitavano nel vuoto, come per domandare aiuto, come quelle del naufrago che cercano abbrancarsi a qualche cosa. Un carabiniere potè finalmente arrivare in soccorso di Arom e fece a trarre in là l'assassino che si abbandonava con tutto il suo peso sopra la vittima, e non riuscendovi per quanto forti strappate gli desse, si pose a percuoterlo sulla testa col calcio della pistola; in quel frattempo s'udì un colpo di arma da fuoco, ed un corpo sanguinoso fu visto strammazzare nello spazio vuoto a metà della sala. Era Marcaccio. Il carabiniere da lui afferrato alla gola, vedendo non poter aver ragione del suo assalitore, e già sentendosi mancare il fiato, aveva lasciato andare la carabina di cui non poteva servirsi in quel serra serra, e toltasi di dietro le falde della montura una delle pistole che vi portava appese, ne aveva appoggiata la bocca alla nuca del condannato colla direzione volta in su, ed aveva sparato; la palla, traversato il cervello ed il cranio di Marcaccio, era andata ad allogarsi su in un trave del soffitto. Stracciaferro, più forte, aveva impedito al carabiniere su cui egli s'era gettato, di far uso delle armi, ed avendolo steso a terra mezzo soffocato, erasi impadronito della carabina e si levava su terribile colla baionetta inarcata contro gli altri carabinieri, che riusciti a districarsi dagl'impacci, stavano per lanciarsi contro di lui.
Tutto accennava ad una sanguinosa, orribil lotta. Ad un tratto suonò là in mezzo una voce sonora, chiara, imperiosa, potente:
— Alto là!... Abbasso quell'arma, Stracciaferro!... Fermi tutti, per Dio!
Era il medichino. Egli era rimasto sino allora tranquillamente seduto al suo posto, guardando con una specie di meraviglia curiosa il fatto dei suoi complici, delle cui intenzioni non era stato istruito. La tentazione gli venne un momento di cacciarsi ancor egli in quello sbaraglio.
— Bene! Aveva pensato. Strappiamo le armi a codestoro, e riconquistiamo la libertà, o facciamoci uccidere.
Ma quando si levò guardando coll'occhio freddo dell'uomo che sa dominare il pericolo, quella specie di campo di battaglia, vide due cose che gli fecero cambiar di presente la sua determinazione. Vide le donne spaventate in mezzo all'uditorio, [230] e la Zoe medesima, che, nonostante tutta la sua risolutezza, pareva prossima a svenire: questa vista, che un tempo non l'avrebbe trattenuto di certo da nulla ch'egli avesse deciso di fare, ora bastò a produrgli una riazione nei suoi propositi. Sentiva l'obbligo di essere più nobile e più generoso che per l'innanzi; ascoltava con più cedevolezza i subiti impulsi del suo sangue illustre, di cui voleva esser degno oramai innanzi a sè medesimo.
— Morire io, si disse, e morire questi scellerati miei compagni, sta bene; ma perchè la nostra morte avrebbe da costare quella di onesti e di innocenti?
In quella vide altresì la faccia sconvolta del padre della povera Ester, e gli parve che uno sguardo di quegli occhi, i quali parevano sul punto di schizzar fuori delle orbite, si rivolgesse e posasse su di lui, pieno di mortale rancore, di implacabile accusa e rampogna. Si sentì una commozione che non aveva provato mai; credette vedere i lineamenti del vecchio rigattiere, contratti dallo spasimo dell'agonia, cambiarsi in quelli di sua figlia annegata ch'egli aveva visti irrigiditi dalla morte. Un qualche cosa di nuovo che pareva un rimorso, che si accostava ad un pentimento della sua condotta ne assalì l'animo. Credette suo massimo dovere impedire che Graffigna potesse consumare su quel vecchio il suo orribil proposito di vendetta. Si gettò dunque in mezzo la sala, gettando colla sua voce fatta per dominare il tumulto come le volontà umane quel cenno di comando.
Stracciaferro, richiamato da quella voce all'ubbidienza passiva che il suo capo aveva saputo imporgli coll'autorità morale ed anche colla superiorità fisica del coraggio e della forza accompagnata dall'agilità, come ci avvenne di vedere, guardò senza nemmanco stupore nessuno il suo capo come per discernere se quello era proprio il suo comando, vide un gesto risoluto che confermava le parole, e senz'altro lasciò cader l'arma e s'incrociò le braccia, lasciandosi afferrare e legare dai quattro carabinieri che gli furono addosso; Marcaccio era caduto morto; gli altri condannati, non preavvisati, all'inatteso fatto erano rimasti incerti e quando parvero decidersi a secondare la mossa dei tre primi, gli agenti della pubblica forza erano già in contegno ed in numero da tostamente opprimerli; Graffigna percosso sul capo non abbandonò pur tuttavia il collo di Macobaro finchè non sentì l'ultimo rantolo uscire da quella gola ch'ei serrava, finchè non vide spento l'ultimo raggio da quegli occhi che venivan fuori della testa, finchè non s'accorse di sostenere, colle sue mani omicide, un cadavere; allora lo abbandonò, e il misero strangolato cadde strammazzoni per terra come un sacco di cenci.
— Ora egli ha avuto il fatto suo: disse con maligno trionfo la voce sottile dell'omiciattolo, della quale appena se ora rimaneva un filo: ora nè anco il diavolo può più tornarlo in vita.
E barcollando sotto il dolore delle percosse ricevute sul capo, venne tranquillamente presso il medichino, al cui comando pareva così obbedire ancor egli, e là si lasciò, senza il menomo contrasto, ammanettare.
Tutti i condannati furono legati, eccetto Gian-Luigi. Quando gli si accostarono per mettere le manette anche a lui, quell'individuo straordinario li guardò in un certo modo, che, senza pur dire una parola, gli agenti della forza pubblica se ne rimasero e si contentarono di dirgli, quasi con rispetto:
— La venga.
Il medichino, colla sua solita aria di superiorità imponente, prima di muoversi volse uno sguardo verso i due caduti.
— Quegli uomini? domandò egli.
— Morti tuttedue: gli fu risposto.
Egli guardò un momento il cadavere di Jacob Arom, la cui figura, contratta dallo spasimo di quella morte tormentosa e violenta, era orribile a vedersi, e mandò un sospiro che pareva un rincrescimento, una pena, un rimpianto.
— La è finita anche per lui... Mormorò: forse gli è meglio.
— Giannino! Giannino! esclamò in quella debolmente ma con infinita passione una voce soffocata e piena di lagrime.
Il medichino si volse e vide tese verso di sè le secche mani tremolanti della povera vecchia Margherita, cui trattenevano dal gettarsi addosso al suo diletto.
Gian-Luigi le si accostò.
— Mia buona Margherita! diss'egli: madre mia!
Ed usò in queste parole il più melodioso e dolce suono di quella sua voce incantatrice. Poscia volgendosi ai carabinieri:
— Permettete, disse, che questa buona donna mi abbracci.
I carabinieri la lasciarono, e Margherita gettò al collo del giovane con mossa piena di passione le sue braccia magre e stecchite.
— Oh mio figlio!... Mio povero figlio... Oh figliuol mio!
Non seppe dire altre parole; ma quanto affetto, quanto dolore, quanto trasporto contenevansi in questi pochi accenti!
— Addio madre mia! le disse il condannato, rispondendo con alcuni suoi ai tanti baci ond'ella copriva la fronte, le guancie, gli occhi del giovane. Noi non ci vedremo forse più... Abbi coraggio: la vita, vedi, non è per nessuno, e fu meno ancora per me tal cosa che si debba rimpiangere. Sii tu benedetta ad ogni modo per le tante cure che avesti di me, e pel tanto amore che mi porti. Anche quando sarò passato da questa miserabile scena del mondo, tu ti ricorderai di me, ed è questo l'unico modo con cui possa un uomo sopravvivere alla morte.
[231] Quest'ultima parola colpì la povera donna che di tutto il resto non pareva comprender nulla.
— La morte! la morte! esclamò ella. Questo è impossibile..... Tu non puoi morire, tu non devi morire..... Hanno bisogno d'una vita? Prendano la mia..... Io sono vecchia..... Ma tu che sei sì giovane, sì robusto..... sì bello..... No, no, non è possibile..... È una cosa che grida vendetta.
Qui i carabinieri s'intromisero.
— Or via, è tempo di finirla. Voi, buona donna, siete libera; e il condannato ha da venire con noi.
— Calmati, Margherita: disse allora Gian-Luigi. Torna nel tuo villaggio e consolati colla religione... tu che così puoi. La speranza è tutto ciò che ha di più felice l'uomo; e tu vivi nella speranza che ci rivedremo un giorno.
Accompagnò queste parole con un sorriso che indicava quanto fosse lontana da lui una simile speranza, ma cui fortunatamente la vecchia non comprese; poi si sciolse con dolcezza dall'abbraccio della donna e si voltò ad un'altra che faceva per avvicinarglisi ancor essa con viva mostra d'immenso desiderio.
— Addio anche a te, Maddalena: le disse: t'ho tratta meco nel precipizio; ma tu mi perdoni.
— Ti amo! rispose con una specie d'entusiasmo la popolana. Ti ho giurato tante volte che avrei data la vita per te..... Oh potessi darla mille volte per salvarti!...
Il medichino ringraziò con un amoroso sorriso e s'avviò con passo fermo verso l'uscita. Quando fu per varcar la soglia di quella, si fermò un istante e voltandosi indietro gettò uno sguardo sulla scena che stava per abbandonare.
Somma era tuttavia la confusione. Gli spettatori non si partivano, ma dritti in piedi, agitati, raccolti a gruppi tumultuanti discorrevano, gestivano, pascevano cogli occhi desiosi la curiosità di quello spettacolo di sangue: i giudici s'erano ritratti; intorno ai cadaveri di Marcaccio e di Macobaro si curvavano uomini dell'arte medica, chiamati lì per lì ad esaminarli; i condannati, chi colle sembianze abbattute, chi indifferente, chi feroce, stavano serrati in un cerchio di ferro in mezzo alle baionette dei carabinieri, che li circondavano. Gian-Luigi scorse collo sguardo tutto ciò, e poi fissò un momento i suoi occhi in un punto, e le sue pupille brillarono con più viva e speciale significazione. Guardò la Zoe, che stava china sul suo banco, intenta tutta a lui a seguirne ogni mossa, parlandogli coll'anima traverso gli occhi.
— Conto su di te: disse quella suprema occhiata di Gian-Luigi.
— Non dubitare: rispose la nera pupilla della cortigiana: io non ti mancherò.
Il medichino fu ricondotto in carcere; e un quarto d'ora dopo udì egli aprirsi i catenacci della sua porta, e vide entrargli nella segreta un uomo.
Era Barnaba.
Que' due uomini stettero un poco a fronte l'un dell'altro, guardandosi senza parlare.
Fu il medichino che ruppe di poi il silenzio.
— Siete stato di parola: diss'egli con accento in cui suonavano insieme una specie di superiorità indifferente, d'ironia e di superbia. Sono condannato, e voi siete venuto.
Il poliziotto rispose con voce sorda:
— Sono sempre di parola. Quando prometto a me stesso o ad altrui di ottenere una cosa, ci arrivo, o soccombo.
Ebbe luogo di nuovo un istante di silenzio.
Que' due evidentemente si studiavano, come fanno due lottatori, prima di venire alle mani.
— Voi dunque avete vinto, e compiutamente vinto: riprese a dire il condannato. Su di me fu pronunziata la sentenza di morte. E voi siete venuto qui per null'altro che per godere della dolcezza feroce del vostro trionfo.
— Forse! disse Barnaba con un ghiacciato sorriso. E voi, desiderando vedermi, qual è la vostra intenzione?
Gian-Luigi affondò i suoi occhi penetranti in quelli del suo interlocutore e rispose lentamente:
— Quello di cercare un perchè.
— Quale?
— Il perchè del vostro accanimento a mio riguardo.
Barnaba continuò a sorridere di quel suo modo.
— È facilissimo a capirsi: voi siete la lepre, io sono il segugio.
— Una lepre! proruppe il medichino, e la sua voce vibrò: vi pare?... Ma accettando anche l'infelicità di questo paragone, fra il lepre ed il cane v'è antipatia di razza; e fra noi c'è comunanza di origine. D'onde uscite voi? Di certo da quella plebe ch'io mi sdegnai di veder preda senza rimedio alla miseria.
Il volto del poliziotto, che di solito non aveva mai espressione veruna e sapeva nascondere ogni sensazione dell'animo sotto una maschera immutabile d'apatia, per caso straordinario, si rimbrunì e lasciò scorgere una traccia di amarezza come di un antico dolore.
— Sì: diss'egli: voi avete detto il vero. Io esco proprio dalla più infima plebe, dal fango della piazza pubblica. Da chi nasco? Non lo so. Non so nemmanco se son frutto d'un legittimo matrimonio o d'una fortuita unione prodotta dall'amore o dal vizio. Mi ricordo vagamente d'un tempo lontano lontano, nei miei primi anni, che vivevo con un uomo e con una donna che si battevano fra di loro e battevano me. Erano mio padre e mia madre?... Forse!... Conobbi il benefizio del loro amore dalle percosse e dalla fame. Un bel giorno mi abbandonarono sopra una strada. Fui raccattato piangente ed affamato da un saltimbanco. Orrori d'ogni fatta [232] videro la mia adolescenza e la mia giovinezza. Non avevo nulla di mio, nè anco una fede di battesimo. Mi si addestrò colle percosse a far ridere il pubblico; per molti e molti anni, non fui più che Pagliaccio. Ecco la mia origine, ecco la mia vita, ecco ciò che mi diede, ciò che fece per me questa società ch'io ora difendo, e non senza merito mi pare.
Amarissima era, nel dir queste parole, l'ironia del suo accento e del suo sogghigno.
Gian-Luigi stette un istante considerandolo in silenzio.
— Strano! Strano! Pensava egli frattanto. Costui, nato di miserabili, doveva mettersi a difendere quell'ordine sociale, dal cui sovvertimento i pari suoi non hanno che da guadagnare; mentre io doveva assalire e minacciare quelle istituzioni che fanno la grandezza e la superiorità del ceto da cui ho avuto origine. È un gran burlone il caso!
— E dunque, diss'egli poscia ad alta voce, siete soddisfatto della vostra parte, e dei risultamenti dell'opera vostra? Non vi è mai venuto in mente il pensiero che avreste fatto meglio per vostro interesse e per la verità delle cose a prender posto nel campo nemico, e recare la vostra attività, la vostra accortezza e il vostro coraggio a quelli che ora combattete come avversarii? Supponete che le nostre due abilità si fossero incontrate, poste d'accordo ed unitesi in uno scopo comune. Oh! non vi pare che di grandi cose avremmo potuto ottenere?
Barnaba scosse il capo.
— Prendendo una falsa strada, dove volete che si arrivi se non ad un precipizio?..... E per quella strada della ribellione sociale ho cominciato ancor io... Anch'io fui un giorno un eslege, posto al bando dal Codice Penale... Ed io pure pensai allora di gittarmi a capofitto nella demoniaca baraonda dei ribelli sociali. Sapete che cosa me ne trattenne? Fu l'odio che avevo contro il mio carnefice il saltimbanco. Quell'uomo mi aveva non solamente torturato e guasto il corpo, ma insudiciata, invelenita, adulterata, deturpata l'anima. Ogni fiore di soave e dilicato affetto che vi spuntasse, egli l'ha inesorabilmente schiacciato e calpesto. L'uomo in generale ed il povero, il plebeo in particolare, mi apparve in lui la più trista creatura, un mostro da' più turpi istinti, dalle più infami tendenze, una belva feroce che doveva esser domata. L'onestà in me naturale si suscitò nell'orrore che provai per quell'abbiezione in cui non la mia volontà, ma le circostanze mi avevano precipitato, per quella scellerata corruzione del volgo che s'incarnava per me nella persona di quel miserabile. Preferii passare nella schiera dei domatori che rimanere in quella delle belve. Mi parve che in ogni scellerato ch'io concorressi a far punire vendicassi ancora la mia innocenza, la mia infanzia, la mia debolezza conculcate da quell'iniquo. Non mi sfuggì nessuna delle ingiustizie dell'attuale società: ma mi domandai spaventato che sarebbe dell'umanità, che sarebbe del mondo, se un giorno prevalessero mai contro l'ordine stabilito le scellerate passioni, le rozze nature e i brutali impulsi della plebe. Mi posi per convinzione e a poco andare per diletto a quell'opera cui avevo intrapresa dapprima per necessità. L'ardore della lotta e il soddisfacimento del trionfo si aggiunsero a determinare viemmeglio la mia vocazione... E chi meglio di voi rappresentò mai il genio del mal sociale che noi siamo chiamati a combattere?
Il medichino crollò il capo con sulle labbra un sorriso da incredulo.
— Gli è dunque per solo amore del vostro mestiere che voi foste così implacabile mio cacciatore. È un bel zelo. Ed ora godete del vostro pieno trionfo. Io sono condannato a morte; e voi siete venuto a gioire della dolcezza di mirare in volto un uomo che avete tratto fino ai piedi del patibolo. Non avete più nulla da desiderare nè da operare...
— No: interruppe Barnaba: l'opera mia a vostro riguardo non è ancora finita. Io sono risponsabile della vostra persona fino all'ultimo. Ho da consegnarvi vivo alle mani del boia.
Gian-Luigi ebbe un lieve sussulto e lanciò al suo interlocutore uno sguardo che era una saetta di fuoco; Barnaba lo sostenne immoto.
— Questo pensate che eziandio vi riuscirà; e veramente gli è ora il più facile.
— Penso che voi tenterete ogni cosa per sottrarvi a quell'onta; ma io veglierò....
Gian-Luigi ebbe nello sguardo un'espressione di ferocia da sbigottire chiunque, e nella fronte gli si disegnò la ruga caratteristica del suo furore.
— Non avete immaginato ch'io vi potrei strozzare qui stesso in questo momento? diss'egli coi denti stretti.
Barnaba d'un balzo fu all'uscio a cui non si erano tirati i paletti, e socchiudendolo lasciò vedere che quattro uomini stavano là appostati.
— Vedete se non ci ho pensato! diss'egli rabbattendo di nuovo l'imposta.
— Sta bene! Tutte le carte buone sono nel vostro giuoco. La società è ben felice d'avere in voi un così previdente ed appassionato difensore. Vi si darà una gratificazione.
Ciò detto il medichino volse le spalle a Barnaba, come per significare che non aveva nulla più da chiedergli nè da dirgli e che non desiderava più nulla a lui si chiedesse o si dicesse.
Barnaba tuttavia non si partì; sembrava che alcuna cosa ancora gli rimanesse da dire, ma fosse di un argomento cui ripugnasse dall'abbordare.
Gian-Luigi di colpo fu preso da un'idea, che si può dire un indovinamento. Si ricordò delle lunghe fermate di questo cotale sotto alle finestre della casa abitata dalla Zoe, e dell'impressione che in lui [233] aveva creduto notare una volta al nome di quella donna. Gli si voltò di bel nuovo ad un tratto e gli disse osservandolo bene:
— Voi dunque avete incominciato coll'abbandono dei vostri parenti, per esser vittima d'un malvagio saltimbanco? È una strana rassomiglianza dei vostri casi con quelli della celebre cortigiana, la Zoe.
A questo nome un lieve scotimento, un batter di ciglia manifestarono un'interna impressione; fu mossa lievissima, ma Gian-Luigi la scorse.
— Voi la conoscete? domandò egli.
Barnaba esitò un momento.
— No: rispose poi con voce dimessa.
Stettero in silenzio per un poco ambedue, guardandosi come prima entro gli occhi: ma questa volta Barnaba dopo alquanto chinò i suoi.
— Quella donna vi ama di molto: diss'egli quindi con una falsa indifferenza nell'accento.
— Sì: rispose con alquanto d'enfasi il medichino.
— So che ha tentato di tutto per salvarvi; e la si lusinga vanamente che la protezione del suo Principe valga a qualche cosa.
— Per giovarmi quella donna darebbe ogni cosa che possiede, e se stessa....
Gian-Luigi s'accorse d'un nuovo sussulto di Barnaba tostamente represso.
— Ella s'è rivolta a demoni ed a santi di sicuro.... Mi stupisco che la non sia venuta a cercare anche di voi.
L'emozione sempre validamente contenuta di Barnaba divenne tuttavia ancora più visibile.
— No: diss'egli colla voce sorda: da me non è venuta.
— E se ci venisse?
— Ascolterei quello che la mi domanderebbe.
— E fareste?
— Ciò che mi permette il mio dovere.
— Ella desidererà certo vedermi e parlarmi....
— È impossibile.
— Forse la eloquenza di lei, se l'ascoltaste, saprebbe convincervi che un uomo come voi può eseguire quest'impossibilità senza violare nessuno dei suoi doveri.
Barnaba non aggiunse verbo, ed accennò ritirarsi.
— E la conclusione del nostro colloquio? gli domandò ironicamente Gian-Luigi quando era già sulla soglia.
— Nessuna: rispose con tono di trionfo il poliziotto: oppure se vi piace meglio, che voi siete un'altra volta sconfitto, ed io esco di qua con una nuova vittoria. Io vi ho letto nell'anima; voi volevate penetrare nel mio segreto, ed io parto di qua ancora un enimma per voi.
Uscì dopo queste parole.
— Un enimma! mormorò il medichino, guardando l'uscio che si era chiuso dietro di Barnaba. Ne ho ben travisto il motto, ma lasciamogli credere di no... Ah perchè Zoe ha obliato di rivolgersi a costui?..... Egli era forse l'uomo da salvarmi.
E la Leggera allora appunto pensava precisamente a riparare quell'oblio.
Gian-Luigi aveva perfettamente indovinato il pensiero della Zoe: ella, uscita appena dalla sala in cui aveva udito condannato a morte il suo amante, s'era messa tosto all'opera per ottenere licenza di poter parlare col medichino. Per prima cosa, come facilmente si può indovinare, erasi recata dal Principe. Questi, a cui ella di frequente ricordava la fattale promessa, la qual cosa cominciava ad essergli uggiosa, l'accolse e le rispose colle mostre dell'impazienza e del fastidio; al che la non troppo mite natura della cortigiana contrappose lo sdegno e la minaccia. Badasse bene S. A. R. a non dimenticare il giuramento che a lei aveva fatto, imperocchè se fosse per mancarci mai, ella era tal donna da farne pagare al traditore, tuttochè principe, il fio. Il Duchino sorrise, e volendosene liberare le diede tutte le assicurazioni ch'essa volle e la congedò. Ella attese tutto il giorno e tutta la sera il permesso di visitare il condannato, e non vedendolo arrivare ed essendo corsa a palazzo per sollecitare, per richiamare ancora il Principe all'esecuzione della fatta promessa, trovò che S. A. aveva dato ordine non la si lasciasse più penetrare sino a lui.
Allora si ricordò di Barnaba, e volò alla carcere, domandando di potergli parlare. Il sotto-ispettore la fece aspettare un quarto d'ora e poi ordinò la s'introducesse in sua presenza.
La camera in cui la Zoe fu condotta non era illuminata che da una lucernetta, i cui raggi erano ripercossi in giro da un coprilume. Barnaba nascondeva la pallidezza della sua faccia nell'ombra che stendevasi tutt'intorno a quel cerchio di luce riflesso dal cappelletto della lampada.
— Signore, disse la cortigiana senza esitare, senza preamboli, senza preparazione veruna, voglio vedere Luigi, e Lei può concedermi questo favore... Non mi dica di no: lo so: e di ciò la prego, come chi crede prega Iddio e la Madonna..... Bisogna ch'io lo veda stassera medesima..... Ci sono mille incombenti da fare per ottenerne regolarmente licenza... Non ho tempo..... Sono venuta da Lei..... Ella ci ha fatto tanto male; ci faccia questo po' di bene... Le giuro ch'Ella non sarà compromessa per nulla..... Nessuno ciò saprà mai..... si tratta di un condannato a morte... d'un infelice che non ha più che un giorno da vivere..... Lasci che un'amica, forse la sola che gli è rimasta, possa recargli alcun conforto... Io glie ne sarò grata eternamente... Nella mia debolezza di donna ho forse più influsso e potenza che altri non creda; farò di tutto per esserle utile; qualunque cosa la mi chiedesse io sarei pronta a fare per Lei.
[234] La Leggera pronunziò tutte queste parole colla foga della passione, e con una certa impazienza della risposta; quando si tacque, attendendo la decisione di quell'uomo, ella vide nell'ombra luccicare stranamente gli occhi di lui ed udì una voce soffocata dirle con un tremore d'emozione:
— Qualunque cosa?..... Ella farebbe qualunque cosa per me?
Zoe era troppo esperta degli uomini per non comprendere tutta la significazione di quello sguardo e di quell'accento: si trasse indietro d'un passo, e parve sulla sua fisionomia accennarsi un sentimento d'indignazione: ma fu un momento fugacissimo soltanto; si riaccostò a quell'uomo, e levando verso di lui il suo fronte senza pudore, guardandolo co' suoi occhi di cortigiana, gli disse con impudente franchezza:
— Faccia Ella quel ch'io voglio; ed io farò quel che vuol Lei.
Barnaba si coprì colla mano gli occhi, come se quello sguardo della donna gli fosse penoso, e stette un istante in silenzio; quando poi abbassò la destra disse alla Zoe, schivandone la vista come se avesse paura di guardarla:
— La sa che l'avvocato difensore è ricorso alla grazia sovrana, e il medichino avrà forse ancora due giorni di vita?
— Voglio vederlo stassera, subito: esclamò la Leggera.
Venne presso presso a lui, gli pose una mano sul braccio, e lo fulminò colle fiamme più accese del suo sguardo promettitore di voluttà.
— E voglio parlargli da sola a solo: soggiunse abbassando la voce ed assumendo un tono carezzevole come si farebbe per una confidenza amorosa.
Un brivido corse per tutte le fibre di Barnaba. Tolse il suo braccio dal contatto della mano di lei, e si fece in là; atterrò gli occhi e stette immobile e muto nell'atto di una profonda meditazione.
— Quanto lo ama! pensava egli. Ebbene voglio udire una volta che accenti ha sulle labbra d'una donna un amore come questo; vo' darmi questo spasimo, io che non fui, che non sono, che non sarò amato mai!...
— Che cosa mi rispondete? domandò Zoe impaziente.
— Comincierò ad attenere i patti da parte mia: farò quel che volete voi, e voi vi ricorderete la vostra promessa..... Parlerete da sola col condannato.
Due minuti dopo, il medichino veniva introdotto in quella stanza dove la Leggera era rimasta sola; ma Barnaba trovavasi appostato in un segreto stanzino fatto a bella posta ed in modo che tutto quanto poteva udirsi di quello che si dicesse nella camera del colloquio anche a bassissima voce, e tutto pure poteva scorgersi di quanto vi avvenisse per certi bucherelli con arte nascosti.
Ed ecco ciò che Barnaba vide ed udì.
Il medichino entrò colla sua solita aria di superba indifferenza; ma appena lasciato solo colla donna, questa gli si gettò al collo con indicibile espansione d'amore, rompendo in lagrime ed altro non potendo dire che chiamarlo per nome; e la faccia di lui espresse allora una riconoscente e commossa tenerezza, mentre con qualche calore rispondeva agli abbracci di lei.
— Calmati, calmati: diss'egli poi; qui conviene por tosto a profitto il tempo che ci viene lasciato e che temo pur troppo non sarà lungo. Lo sapevo che tu avresti compreso il mio sguardo e saresti venuta: lo sapevo che avresti saputo superare ogni ostacolo.... Tu hai sedotto il misterioso poliziotto....
— Venni a pregarlo, ed egli accondiscese....
— In esso avevamo uno strumento in nostro vantaggio, e non l'abbiamo saputo adoperare...... Quell'uomo ha per te una passione tanto più forte, quanto più è nascosta.
Barnaba nel suo ripostiglio trasalì, strinse i pugni da piantarsi le unghie nella carne delle palme e si morse le labbra.
— Parliamo di noi, Luigi, parliamo di te.
— Sì: è quello appunto ch'io voglio.... L'hai udita la fatale parola...... Per me la è finita... Ma ad ogni costo io non vo' salire l'infame scala dell'infame patibolo, e tu mi ci hai da sottrarre..... Tu sola lo puoi oramai, e confido in te sola.
— Hai ragione, ed io ti salverò: son venuta apposta per dirtelo.... No, non credere che tu abbia da morire.... È impossibile. Piuttosto darei fuoco alla città..... Quel Barnaba mi ama; ebbene me gli venderò a prezzo della tua fuga.... Il Principe è un infame..... ma pure mi ha giurato che t'avrebbe salvo..... Andrò a ricordargli il suo giuramento in mezzo a tutta la Corte.... Andrò a gettarmi ai piedi del Re, ed esso ti accorderà la grazia....
Il medichino scuoteva tristamente il capo.
— No, diss'egli, la fuga è impossibile, la grazia non la voglio: questa mia vita è giunta proprio al suo termine, così dev'essere, e così mi piace che sia. Prima ancora della sentenza dei giudici io mi era condannato da me medesimo alla morte; ma questa non ha da essere lo spettacolo d'un volgo feroce, che accorra a bearsi, come ad una festa, della mia ignominiosa agonia; l'ultimo mio sguardo non ha da fermarsi sopra una fitta di faccie avidamente tese da una curiosità infame. Vo' liberarmi da onta siffatta, e sei tu che devi recarmi questa libertà.
Pose le sue labbra sull'orecchio della Zoe, e timoroso che altri potesse udir mai, le parlò così sommesso che a Barnaba non giunse più che un bisbiglio confuso: le parlò a lungo, ed ella mostrò orrore, ripugnanza, parve riluttare, scongiurare; ma all'insistenza calorosa di lui finì per cedere.
[235] — Ebbene, si lasciò ella sfuggire di poi a voce abbastanza alta da essere intesa. Se non ti potrò recare la salvezza, farò quello che vuoi.
— Ricordati che di grazia non ne voglio!.... Ti attendo adunque all'estremo momento... Tu me lo prometti sull'anima tua?
— Te lo giuro.
— Ed io ti benedirò per quell'ultimo bacio.
Zoe gettò le braccia al collo di lui, ed appoggiando il viso al petto ruppe in pianto, e pianse a lungo disperatamente, mentr'egli con amorose parole cercava confortarla. Non era più la vile cortigiana, era la donna che ama. Egli chinò il volto sul capo di lei e le susurrò colla sua voce incantevole dolcissime parole d'amore. Quella loro mutua, tenera effusione fu interrotta ad un punto dallo scalpito d'un passo: si voltarono e videro la scialba figura di Barnaba dritta sulla soglia.
Luigi si sciolse dall'amplesso di Zoe, e disse freddamente:
— Il nostro colloquio ha da esser finito.... Addio e coraggio: è tempo di separarci.
— Di già? esclamò la donna addolorata; e volgendosi verso Barnaba, gli domandò: è egli vero? Voi venite a disgiungerci?
Il poliziotto fece gravemente cenno di sì.
— Ma vi lascierete tuttavia impietosire dalle mie preghiere, e ci concederete ancora un po' di tempo, una mezz'ora solamente, un quarto d'ora?
Barnaba scosse la testa in segno inesorabilmente negativo.
La Leggera avrebbe forse pregato ancora: ma il medichino non gliel permise.
— È superfluo insistere: diss'egli vivamente: separiamoci.... E tu, Zoe, ricorda le mie parole!... Conto assolutamente su di te per l'ultimo addio, per l'ultimo amplesso!
Pronunziò queste parole con ispeciale espressione, e senza volgere a Barnaba uno sguardo, nè un cenno, camminò verso l'uscio, dove comparvero i soliti quattro secondini.
— Sia ricondotto alla sua carcere, comandò il sott'ispettore.
Zoe e Gian-Luigi scambiarono ancora uno sguardo in cui mille cose si contenevano, e il prigioniero scomparve nell'oscurità del corridoio, in cui metteva l'uscio di quella stanza. S'udirono per un poco i passi di lui e de' suoi accompagnatori suonare cupamente sotto le vôlte, poi tutto ridivenne silenzioso come la tomba.
Barnaba e la Zoe erano di nuovo faccia a faccia e soli in quel silenzio notturno.
Ambedue avevano ancora qualche cosa da dirsi e capivano che una maggiore spiegazione era necessaria fra di loro, e provavano una difficoltà grandissima a trovar le parole.
Fu Barnaba che incominciò. Venne presso alla donna e le disse con voce sommessa, come se avesse vergogna egli stesso d'udire le sue parole:
— Io feci quel che voleste; a voi ora il mantenere la vostra promessa.
La cortigiana lo guardò con un superbo disdegno.
— Voi volete per un picciol merito un troppo ghiotto compenso.
Ad un tratto cambiò espressione di fisonomia e d'accento, prese vivamente le mani di Barnaba, le strinse forte, ed accostando a quella di lui la sua faccia illuminata dal più vivo riflesso d'una fiamma che parea quella dell'amor sensuale, le sue pupille brillanti d'una luce diabolicamente affascinante, gli susurrò con tono di violenta passione:
— Salvatemelo..... fatelo fuggire..... ed io vi darò tutte le voluttà del paradiso... e dell'inferno...
Barnaba chiuse gli occhi per sottrarsi all'ardenza di quella vampa seduttrice; tutto l'esser suo fu riscosso fino nell'intimo; le guancie gl'impallidirono per la soverchia emozione. Liberò quasi con isgomento le sue mani da quelle di lei, e se ne allontanò palpitante senza avere per un poco fiato e forza a rispondere. Ella accennò voler muovere un altro assalto e rinnovare la sua tentazione; ed allora egli con un gesto le comandò si ristesse e con voce commossa, senza guardare verso la donna, così parlò:
— Codesto è inutile mi domandiate... Non posso acconsentirvi..... e non voglio..... E voi sarete mia pur nullameno.
Zoe fece un risoluto segno di diniego: ed egli con forza:
— Sì, sarete mia, ripetè, se pur non volete vedere salire sul patibolo infame l'uomo che amate, se pur volete mantenere il solenne giuramento che a lui avete fatto qui stesso testè.
Quell'uomo in dire queste parole s'era tutto trasmutato: l'incertezza, quell'esitazione che pareva una timidità, quella specie di contegnoso riserbo che aveva avuto sino allora, erano affatto spariti; la maschera di umiltà, di sommessione e di apatia che soleva tenere sul volto eragli caduta, e nei lineamenti, che direi commossi e frementi, appariva pur finalmente la violenza della passione tanto tempo contenuta e soffocata.
La Leggera fu sovraccolta, quasi sbigottita da questo cambiamento, da questa rivelazione d'un uomo nuovo in colui, d'un uomo, quale ella non aveva ancora mai sospettato sotto quelle fredde apparenze.
— Qual giuramento? balbettò ella, quasi non sapendo che dirsi nella sua attonitaggine.
— Avete giurato di recargli la morte per sottrarlo alle mani del boia... E s'io voglio che queste mani infami si prendano la vita di quell'avvenente che voi amate, nulla lo potrà sottrarre a tal destino..... Che voi possiate penetrare ancora presso di lui dipende in tutto e per tutto da me.
— Voi ci avete spiati! esclamò la donna, che si [236] sentiva dominare da quella nuova forza che le si rivelava.
Barnaba contrasse la faccia turbata in un amarissimo sogghigno.
— Sì: rispose crudamente: è il mio mestiere..... E voi gli è da anni che seguita cautamente il mio spionaggio... Dacchè, tornato in paese, mi avvenne di vedervi... bella, più bella e desiderabile che mai... brillante, famosa, corteggiata da tutti, comperata dai più ricchi.....
— Signore!
— Oh quante volte volli presentarmi a voi, e mai non n'ebbi ardimento: quante volte volli venirvi a dire come vi amassi e vi odiassi, quanto vi desiderassi e vi disprezzassi, e nol feci, sapendo mi avreste fatto scacciare come un miserabile... Allora sognai meco stesso di far giungere un momento, in cui voi avreste avuto bisogno di me, avreste dovuto supplicarmi, dipendere dal mio volere.... E questo momento è venuto.
Zoe guardava quell'uomo con uno stupore che toccava alla paura.
— Ma chi siete voi? domandò. Che cosa vi ha di comune fra noi? Che pretendete da me?
— Chi son io? esclamò l'uomo. Guardatemi bene!
Diede un colpo al coprilume e lo fece cadere per terra: tutta la luce della lampada percosse la faccia tormentata di quell'individuo, a cui sarebbe stato impossibile assegnare un'età precisa.
— Mi riconoscete? domandò egli, avanzando il suo volto verso di lei.
— No: rispose la cortigiana, che lo guardava con occhi sbarrati e con un segreto turbamento che non sapeva spiegare a se stessa.
Barnaba sorrise amaramente.
— È giusto... Che cos'è un uomo che per voi ha commesso un delitto, che ha affrontato la forca per voi, che si è condannato ad un'intera vita d'abiezione per voi?... Egli non merita pure un posticino di memoria nella vostra anima di donna.... Non è vero, Martuccia?
All'udire questo suo antico nome, da lei medesima quasi obliato, fu un vero spavento che assalse la cortigiana, come se vedesse innanzi a sè sorgere uno spettro: ed era in vero lo spettro del suo lontano passato che le compariva in quell'enimma di uomo.
— Voi conoscete quel mio nome!... Ma chi siete dunque?
— Mi domandaste che cosa vi ha di comune fra di noi? C'è un orribile vincolo che ci lega: un delitto, il sangue d'un uomo ucciso per vendicar voi e me...
Allora essa lo riconobbe finalmente; gettò un grido e chinandosi verso di lui a guardarlo meglio, esclamò:
— Gran Dio! Voi siete Pagliaccio?
— Son quello... Sono il compagno della vostra infanzia, il compartecipe dei vostri tormenti d'allora; il testimonio all'assassinio della vostra innocenza.
Quella donna indurita al vizio, incallita oramai alla corruzione, al rievocare di tal memoria si coprì colle mani la faccia.
L'antico pagliaccio continuava:
— Che cosa pretendo da voi?... Voglio della vostra beltà che fino dalla prima giovinezza, fino dall'adolescenza ha posto nel mio sangue un ardore insensato di desiderio... Voi non sapete, non potete pure immaginare quanto io vi amassi fin d'allora, quanto io vi abbia sempre amata di poi, quanto vi ami tuttora!..... Nelle taciturne meditazioni a cui m'abbandonava durante la nostra miserabile vita nomade di saltimbanco, quai sogni di felicità io faceva con un destino che ci fosse comune, in cui tutte avrei impiegate le forze dell'anima mia a procurarvi una tranquilla esistenza!... Quando lo scellerato nostro padrone vi fece quell'empio oltraggio, l'amor mio non isminuì di forza, ma cambiò natura: diventò men puro e forse anche più violento... Avrei voluto dapprima che voi foste morta di dolore e di vergogna per quell'orribile attentato... Vi avrei seguita ancor io nel mondo dei morti, ve lo giuro..... Poi venni a desiderarvi con furore, con frenesia.... Quante volte non pensai ricorrere ancor io alla violenza, e poi uccidervi ed uccidere me sul vostro corpo palpitante!.... Il pensiero dell'omicidio era entrato nell'anima mia, e mi possedeva come uno spirito maligno: non potevo sottrarmegli.... Quel che avvenisse spero non avrete obliato..... Quando vidi precipitare a terra morto quell'uomo, non un rimorso, non un rincrescimento mi nacque nell'anima; non pensai che a te! Fu allora soltanto che il tumulto della passione che mi fremeva nell'anima ebbe un primo, solo e fuggitivo sfogo: corsi da te, ti afferrai, ti strinsi in un amplesso fremente, ti baciai sulle labbra. Tu non te lo rammenti più quel bacio!.... Io l'ho portato meco come una sacra reliquia, come l'unico dolce tesoro della mia vita... Se tu allora fosti venuta meco, com'io ti dissi, che sarebbe stato di me, di noi? Chi lo sa? Forse ora tu non avresti l'infamia della cortigiana, ed io quella della spia..... Ah! non ti accuso, nè mi lamento, nè rimpiango nulla.... Se più non t'avessi rivista, sarei forse vissuto tranquillo nella ignominia del mio mestiere..... Ma la fatalità volle mettermi di nuovo fronte a fronte con te.
Tacque un istante, come oppresso dal peso di queste memorie: essa, la Zoe, nella quale un'ardente curiosità, un vivo interesse s'erano desti, afferrò il braccio di lui e dissegli con calda sollecitazione:
— Dove? dove? dove e quando mi hai tu riveduta? E nel frattempo che era egli avvenuto di te?.... Oh dimmi tutto..... Non è vero ch'io ti [237] abbia obliato, povero mio Pagliaccio: tu fosti l'amico della mia infanzia, un fratello per me, fosti l'unico amico ch'io abbia avuto nella vita.... Quante volte t'ho ricordato, sai, e desiderato rivederti, od almeno sapere di te!
— Ebbene sì, ti dirò tutto: rispose Barnaba dopo un istante di silenzio in cui parve occupato a domare la sua emozione e concentrare le sue memorie. Questo mio passato l'ho tenuto chiuso finora sempre nell'anima mia, senza lasciarne scorgere pure un segno, pure una traccia ad occhio altrui. Ora in tua presenza, insieme colla passione, lo sento traboccare. Ascoltami e impara a conoscermi.
«Fuggii senza saper dove.... Non recavo impresso nel mio cervello il grido soffocato dalla morte dell'assassinato padrone, ma quello di stupore uscito dalle tue labbra rosse quando t'afferrai ad un tratto nell'amplesso violento: non avevo nella mente e nell'anima il ricordo del mio delitto, ma quello del bacio ardente che ti aveva stampato sulla bocca.... L'istinto non la ragione mi faceva nascondere la mia persona e i miei passi ad ogni vista d'uomo. La ragione in me era compiutamente smarrita in quel tempo: vivevo come in un delirio continuo. Mi nascondevo il giorno, viaggiavo la notte: i miei alimenti li rubavo con miracoli indicibili di audacia e di destrezza. Venni giù lungo il Po, seguitandone il corso, ignaro de' luoghi, senza scopo altro che quello di fuggire. Alla fame che mi toccava sopportare, ero già da tempo avvezzo. Giunsi finalmente presso Ferrara, e là fui arrestato. La polizia pontificia nelle cui mani caddi, sfinito, affamato, presso a terminare i miei guai colla vita, mi tenne parecchi mesi in carcere senza curarsi altro di me; un giorno il carceriere annunziò ai suoi superiori ch'io stava per morire, e in un momento di pietosa ispirazione di qualche direttore fui trasportato all'ospedale.
«Ad un prete che mi venne intorno per farmi pensare all'anima, dissi tutto. Questo tale che aveva ingerenza nella Polizia vide in me una certa tenacia di propositi, una forza di volontà, onde avrebbe potuto vantaggiarsi il Governo papale; ne parlò al cardinale legato, e quando la robustezza della gioventù e la mia cattiva sorte mi trassero a risanare, venne dalla parte dell'autorità a farmi la proposta seguente: «mi mettessi al servizio della Polizia pontificia e sarebbesi ignorato sempre il mio passato e datomi i mezzi di vivere agiatamente; se rifiutassi sarei cacciato di là della frontiera e consegnato, come micidiale che ero, al Governo Sardo.»
«Non mi venne pure in mente di rifiutare: ed anzi mi parve quella una ventura. La mia vita anteriore non era tale da darmi scrupolosità nessuna circa i mezzi di guadagnarmi la vita. Il nostro padrone m'avea ispirato un tal odio contro gli scellerati miserabili, che mi sorrideva in pensiero di dar loro la caccia, parendomi che col perseguitare altri sciagurati uguali al saltimbanco, avrei continuato ancora la mia vendetta. Fui accanito nemico di ladri, assassini e liberali; fui tutt'insieme spia, sgherro, agente provocatore....
Zoe fece un moto quasi di ribrezzo.
— Ah! non inorridire.... e non meravigliare se io ti dico ciò senza la menoma vergogna.... Abbandonati a noi, coll'infanzia che avevamo passata, che cosa si poteva diventare se non quello che siamo?... Tu una meretrice, io.... quel che dissi.... E di me non ho vergogna, e te non accuso. Siamo un effetto fatale delle circostanze.
«Ebbi la fortuna di rendere importanti servigi e progredii nella intrapresa carriera. Fui chiamato a Roma a quell'uffizio centrale, e colà sarei rimasto assai facilmente per sempre, se tu non ci fossi venuta, se non ti avessi rivista.
«Entrai un giorno nell'anfiteatro dove avevano luogo le rappresentazioni d'una compagnia equestre venuta dall'Alta Italia. Avevo udito parlare come di una vera meraviglia dell'agilità, della grazia e insieme della forza e del coraggio d'una saltatrice, fra le attrattive della quale non era ultima e meno efficace quella d'un'originale e potente bellezza. Tutta Roma se ne occupava: dicevano le male lingue che parecchi monsignori facevano omaggio del loro cuore e dei loro denari a quella figliuola d'Erodiade mandata dall'inferno per la loro perdizione. Io di donne non mi davo punto pensiero. Era questa anzi una delle mie forze: su di me venivano a spuntarsi le seduzioni delle Sirene, come le vere lagrime delle oneste fanciulle. Era il tuo pensiero che mi premuniva. I sensi e l'anima, tutto avevo assorto nella memoria dell'esser tuo; nessuna mi aveva riprodotto, che? adombrato nemmeno dinanzi quel tipo di cui mi rimanevi nella mente la più perfetta espressione. Entrai in quell'anfiteatro affollatissimo di gente ansiosamente aspettante senza il menomo stimolo di curiosità; quella sorta di spettacoli anzi mi ripugnava; ogni qual volta trovavo di quei saltimbanchi ambulanti, de' quali ero stato uno ancor io, me ne allontanavo con ripulsione; essi mi ricordavano le mie sofferenze infantili e il mio delitto; se non ci fossi stato tratto per ragion di servizio, forse nemmeno in quel circo di Roma non ci sarei entrato mai.
«Il popolo della città eterna è ancora quello dell'antico tempo, appassionatissimo per siffatti spettacoli. Una fitta immensa di teste coronava a varii ordini l'arena su cui piovevano torrenti di luce, e dove, per divertir quella plebe censita e non censita delle povere creature si esponevano a rompersi il collo ogni momento nei più arrischiati salti e giuochi di equilibrio sul dorso di cavalli correnti. Ne li compensava un entusiasmo strepitante che si manifestava in applausi clamorosissimi e senza fine. Io mi sentiva all'infuori di quell'ardore comune che possedeva tutto quel pubblico; mi trovavo isolato in [238] mezzo a quella folla, ed anzi un velo di mestizia veniva a stendersi sulla mia mente e sull'anima mia. Ad un tratto a quel fragoroso pandemonio di voci, di grida, di battimani, di urla, successe un profondo silenzio, un silenzio quasi religioso. Era stata condotta nell'arena una cavalla bianca a dorso nudo, ornate le briglie di mappe e nastri svolazzanti color di rosa.
« — È la Leggera, vien la Leggera: udii mormorare intorno a me, e tutte le faccie si tesero verso il circo, e corse per tutta l'assemblea un fremito di piacere, come in anticipazione di quello cui ognuno si riprometteva.
«La tenda che pendeva alla porta per cui entravano nel circo gli artisti fu vivamente scartata: la musica fragorosa di stromenti d'ottone intuonò una marcia vivace, e con un salto prodigiosamente leggiero e grazioso si slanciò e fu in mezzo all'arena una donna. Ebbi lo sbarbaglio negli occhi, credetti sognare, mi dissi che quella forma che m'ero vista volare dinanzi nello scintillio dei lustrini del suo abito elegante da rappresentazione era una chimera della mia fantasia, era una visione del cervello malato sempre fisso nel pensiero d'una persona. In quella silfide avevo riconosciuto te, Zoe.
«Tutto il teatro era scoppiato in un tuono tale d'applausi, che chiamarli furibondi è dir poco. Tu t'inchinavi sorridente con grazia un po' superba, facendo cenni di ringraziamento col pome d'argento del tuo frustino; poi d'un balzo, senz'aiuto, fosti seduta sul dorso del tuo cavallo che s'impennava impaziente, contenuto al morso da uno scudiere, raccogliesti nella tua piccola mano nervosa le briglie bianche, e colla tua voce chiara, argentina, che giunse fino a me distinta ed armoniosa in mezzo a tutto quel baccano, gridando: «hop! hop! lasciate andare» ti slanciasti di botto al galoppo per l'arena.
«Avevo riconosciuto la tua persona, avevo riconosciuto la tua voce: eri tu, ma come diversa, essendo pur sempre la medesima! Eri tu, ma completa nella tua bellezza, perfetta nella potenza delle tue attrattive, cinta di quell'aureola di splendore che conveniva all'esser tuo, superba dello sfoggio della tua luce. Facesti due giri seduta sul dorso del cavallo, poscia, senza che ti si vedesse pure fare il balzo, tanto fu leggero il tuo movimento, fosti dritta in piedi sul destriero sempre al galoppo. Le tue forme così perfettamente belle si disegnavano in modo spiccato e preciso nella luminosa infuocata atmosfera di quell'ambiente; le tue chiome d'oro, in cui erano frammisti fiori di color di fuoco, svolazzavano all'aria come raggi di sole intorno al tuo capo; il seno anelante pareva pieno di desiderii e li eccitava rabbiosamente in altrui; le labbra rosse, i denti bianchissimi erano tutta una voluttà nel tuo sorriso; gli occhi saettavano scintille. Ogni atto, ogni mossa era una grazia, una bellezza artistica, un incanto. Tu affrontavi ogni più rischioso passo e lo superavi sorridendo: parevi aver domato il pericolo ed averlo fatto tuo schiavo. Si trepidava, si palpitava, si gioiva acremente a vederti. Tutte quelle migliaia d'occhi maschili ti divoravano, migliaia e migliaia d'ardori ti possedevano colla fantasia.
«Ed io?..... Tu mi turbinavi dinanzi come una visione. Il cuore mi doleva nel petto pel battere disordinato e violento. Tutto l'esser mio aspirava a te. Mi pareva impossibile che tu non dovessi sentire in mezzo a tutta quella folla l'effluvio della mia volontà, il trasporto verso te dell'anima mia... Che ti dirò di più? Uscii di là ebbro, la mente sconvolta, pazzo..... Quante follie non immaginai!..... Presentarmi a te, farmiti conoscere, e rapirti, tornare al mio antico mestiere ed arruolarmi in quella compagnia ancor io... In quel troppo tumulto della passione così vivamente ridestatasi avrei certo commesso qualche follia; ma giusto allora per ragioni di servizio fui allontanato da Roma. Non ebbi la temerità di disubbidire; e quando fui di ritorno la compagnia equestre aveva abbandonata la città, e tu eri partita con essa.
«Rimasi lungo tempo sconclusionato, triste come una giornata senza sole. Avevo bisogno di sapere almeno di te, e ti seguii accuratamente nella tua carriera su per le novelle dei giornali. Sentii allora come una specie di nostalgia: era il bisogno non delle aure, del sole, della vista del mio paese, ma il bisogno di te. Sapevo che tu eri in Piemonte; un giorno la passione fu più forte d'ogni ragionamento: fuggii e venni di nuovo in questa terra da cui ero stato lontano tanti anni.
«La Polizia di Roma aveva già informata quella di Torino di ogni cosa che mi riguardava. Appena qui giunto fui preso e tratto innanzi al Commissario Tofi. Egli mi pose innanzi il medesimo dilemma che già il prete poliziotto di Ferrara: od essere giudicato come omicida, o farmi suo cieco stromento. Tu eri qui, mi piaceva fermar qui la mia dimora: mi diedi al signor Tofi.
«Cercai la tua presenza, ti ammirai da lunge, ma venirti innanzi non ardii mai. Lasciasti l'arte tua e sfavillasti nel mondo delle cortigiane, stella errante e più splendente delle altre: non cessai di amarti, di desiderarti, di volerti. Compresi che presentandomi a te, io umile, povero, oscuro, disprezzato agente di polizia, mi avresti scacciato. La fortuna mi condusse tali circostanze, e il mio presentimento me le aveva fatte indovinare, ed io fui accorto cooperatore alla fortuna; tali circostanze, dico, per cui tu hai da curvarti al mio volere — e di queste circostanze intendo trarre compiuto vantaggio in pro della mia passione.
— E sia: esclamò con una impudente franchezza la cortigiana: questa tua passione non offende il mio amor proprio. Ma poichè questo premio che [239] tu cerchi l'hai desiderato cotanto e ci dài tanta importanza — e non sarò io di certo che te ne darò torto — lascia che almanco io ci metta un prezzo un po' meglio adeguato. Tu ora l'avresti comperato con nulla.
— Nulla: interruppe Barnaba: e il delitto che ho commesso per te? e gli spasimi di tanti anni?...
La Zoe gli si accostò col sorriso procace del suo mestiere e lo afferrò ad un braccio.
— Avrai compenso di tutto, gli susurrò ponendo le sue labbra presso all'orecchio di lui, quasi da toccarlo. Ti farò lieto e felice così che non troverai troppo pagata la tua ventura colle disgrazie del passato... Io voglio darti più assai che non domandi. Un'ora di voluttà, una notte di trasporti e poi abbandonarci? No. Ciò ti basterebbe a te?..... Ma se io ti consacrassi tutta l'esistenza? Se io volessi esser tutta per te e sempre? Non sono una venditrice di piaceri soltanto, quale tu mi credi, sai! Ho nell'anima tesori d'amore che non ho ancora aperti a nessuno. A nessuno, intendi! Fu il destino che volle li riserbassi per te. Credi tu che io abbia amato alcuno a questo mondo? Eh via! Ho conosciuto troppo gli uomini e quindi li ho disprezzati. Io non fui per loro che un giocattolo, che uno stromento di voluttà e di vanità la più stolta, essi non furono per me che mezzi di guadagno... Ma tu meriti ben di meglio. Il tuo amore così vivo, conservato a dispetto di tutto; la tua costanza, la foga della tua passione che ora ho visto traboccarti dall'anima, mi hanno tocca. Una donna non resiste a queste prove. Tu mi hai meritata, mi hai guadagnata e m'hai vinta... Senti: effettuiamo quei sogni che già fin da giovinetto tu facevi sul nostro destino; partiamo noi due soli, per andarci a nascondere lontano lontano, fuor degli occhi di tutti a vivere beati, per amarci soltanto. Tu benedirai la sorte e questa mia ispirazione, te ne assicuro, saprò animarti quella solitudine, e variarti la medesimezza de' nostri diletti. Io possedo in mobili ed ori e gemme una ricchezza; venderò tutto, avremo da vivere agiati e sicuri.
Lo sguardo, l'accento della Zoe, il contatto delle sue mani che gli stringevano il braccio, il caldo fiato delle labbra di lei che gli percuoteva sulle guancie spiravano nel sangue di Barnaba un febbrile calore che gli faceva pulsare il cuore e tumultuare il cervello. Prese la donna alle spalle, la tenne innanzi a sè, facendole piombare negli occhi il suo sguardo più penetrativo; e con una cupa fiamma di rossore sulla pallidezza morbosa del suo volto, le disse:
— Tu faresti ciò per me?
— Sì: rispos'ella francamente.
— Senza patti?
— Ah no.
— A qual condizione adunque?
La Leggera abbassò la voce.
— Fa fuggire Luigi.
Barnaba divenne più pallido di quel che fosse prima, le sue mani si contrassero sulle spalle della donna, come per convulsione di spasimo, le sue pupille saettarono uno sguardo feroce. Respinse da sè la cortigiana e con voce sorda, ma risoluta, espressione d'una volontà irremovibile, disse seccamente:
— No.
Poi si pose a passeggiare per la stanza, le braccia incrociate, il capo chino, sulla fronte e sul viso l'ombra d'una fiera amarezza.
Zoe stette un istante in silenzio, guardandolo attentamente. Siccome egli in quel punto non la vedeva, la fisonomia di lei aveva deposta quella sembianza di tenerezza che aveva ritenuta sino allora, e vi si scorgeva invece un'impazienza, un'irritazione, quasi una rabbia. Dopo un poco ella riprese la maschera dell'affetto, e domandò con voce la più soave che potesse:
— Perchè?
L'uomo si fermò di presente e si riscosse come colpito inaspettatamente da una botta. Levò la faccia e mostrò lo sguardo malvagio ed il sogghigno d'una spietata ironia.
— Perchè? diss'egli riavvicinandosi con passo lento alla Zoe; ah! tu mi credi dunque tanto novellino da lasciarmi ancora invischiare in queste panie?
Mutò ad un tratto espressione di viso e d'accento, e soggiunse con iscoppio d'odio feroce:
— Il tuo Luigi vo' che muoia infamemente sulla forca.
La Leggera mandò un'esclamazione di vero spavento.
— Ti leggo nell'anima, vedi: continuava l'antico pagliaccio. Tu mi faresti traditore al mio dovere, e poi mi pianteresti per ricongiungerti a colui: useresti di me come di un vile strumento, che quando ha servito si getta o s'infrange. Non mi ci lascio cogliere, disgraziata!... Quell'uomo che tanto ti sta a cuore, sappi che è forse l'unico al mondo ch'io odii. Ad ogni altro ti sei venduta, non l'hai amato: il vizio aveva preso di te tutta la materia, mi figuravo che nel fondo del tuo essere vi fosse ancora un'anima che sonnecchiasse e potesse ridestarsi ed espandersi ad un amore completo qual era il mio: venne costui, e tu gli desti anche l'anima. Egli ti ha posseduta tutta, ti ha corrotto anche lo spirito. L'odio, e morrà.
Zoe volle ribellarsi a quella feroce pressione, che tentava dominarla.
— No, esclamò con forza: io lo salverò, dovessi ricorrere a qualunque mezzo.
— Non lo salverai, perchè di mezzi non ce n'è alcuno. Il tuo Principe non muoverà un dito.....
La cortigiana fece un gesto di minaccia, che era una promessa di vendetta.
[240] — Nè alcun altro — alcun altro, capisci — troverai pronto ad aiutarti.... Avessi tu anche un milione da gettare, non riusciresti nell'impresa, perchè son io qui a vegliare, e non è possibile nè ingannarmi, nè farmi cambiare di proposito.
La Leggera saettò Barnaba d'un'occhiata piena di collera, tanto più feroce, quanto più impotente.
— Tu vuoi dunque ch'io ti detesti?
— Detestami, ma piegati al mio volere.
— E tu vuoi?
— Il medichino salirà sul patibolo, se io non lascio penetrare presso di lui la morte che tu hai promesso recargli.... Or bene, la notte ultima sua, ch'egli passerà in confortatorio, sarà quella delle nostre nozze; il mattino, uscendo dalle mie braccia, ti lascierò entrare, un momento prima del carnefice, nella cella del tuo Luigi.....
Zoe respinse inorridita quell'uomo che si era piegato verso di lei per susurrarle queste parole all'orecchia.
— Mostro! esclamò essa; e fuggì sbigottita da quella stanza.
— Pensaci! le gridò dietro Barnaba: non ci hai più che un giorno. Domani probabilmente la domanda di grazia sarà respinta, e i condannati saranno messi in confortatorio; domani sera attendo un tuo cenno.....
La donna era uscita e correva raccapricciando per gli oscuri e freddi corridoi della carcere, e il guardiano che le doveva aprire poteva a mala pena tenerle dietro.
Ma l'odio di Barnaba aveva calcolato giusto: nissuna possibilità di salute era oramai pel medichino; invano Zoe tentò ogni via; dovette convincersi che altro ella non poteva far più per lui che procurargli l'invocato mezzo di sottrarsi all'infamia del supplizio. Prese tutto l'oro che possedeva e corse da un farmacista di cui aveva da tempo speciale conoscenza. Ebbero insieme un lungo e segreto colloquio; poi il chimico si ridusse solo nel suo laboratorio e la donna partì; ma verso sera questa tornò e si ridussero di nuovo a segreto abboccamento la cortigiana e lo speziale. Quando uscì dalla bottega, la Zoe aveva la faccia pallida, gli occhi turbati e le mani tremanti.
Il ricorso per la grazia era stato respinto: i condannati alle dieci del mattino erano stati introdotti in confortatorio: la sentenza di morte doveva essere eseguita il giorno di poi all'alba.
A sera già chiusa, Barnaba ricevette un bigliettino in cui era scritta una sola parola: «Venite.»
Era di pugno della Zoe.
Alle dieci del mattino adunque ciascuno dei condannati aveva visto aprirsi la porta della sua carcere ed uditosi annunziare che la domanda di grazia per commutazione di pena era stata respinta, e che dovevano quindi prepararsi alla morte per la mattina ventura. Furono condotti, come si suol dire, in confortatorio, ciascuno in una stanza separata, e posti in mano ai confratelli della Compagnia della Misericordia, ai quali i miseri dovevano essere affidati fino alla loro inumazione.
Le celle in cui furono posti i condannati erano carceri come le altre, nelle quali presso una parete s'era drizzato una specie di altare con sopravi un crocifisso e quattro candele accese; siccome le porte di queste celle avevano da rimanere aperte, e la custodia dei miseri, senza intromissione di agenti della forza pubblica, era tutta lasciata ai fratelli della Misericordia, ed anco perchè gl'infelici non potessero attentare alla propria vita, si era fatto vestire ai condannati la così detta camicia di forza, e per una catena che si univa ad un anello piantato nel muro, catena abbastanza lunga da permetter loro di passeggiare su e giù della cella, furono avvinti ad una gamba.
Il venire ad annunziare ad un uomo che è pieno di vita: «tu domani morrai,» è una tremenda novella. La natura, l'istinto si ribellano contro questa sentenza: tutte le forze della vitalità insorgono e s'inalberano: il vuoto orrendamente nero del sepolcro spaventa le aspirazioni della vita in pieno vigore dell'organismo; la cosa dapprima non sembra possibile; si crede ad un giuoco feroce, ad un orribile inganno che cesserà ad un punto, si spera follemente un miracolo che vi salvi, si aspetta anche una catastrofe; l'io, avvezzo a far centro se stesso all'universo, come può persuadersi che impreparato, senza transizione, ad un tratto, abbia da venir tolto di mezzo, e quella natura che crede fatta per lui, in mezzo alla quale vive, cui egli per sè riempie della sua personalità, stiasi indifferente ed immota? Esso argomenta contro l'evidenza; come una mosca dentro una chiusa invetrata, gli pare che debba trovare ad ogni momento il passo per fuggire da quella orribile realtà e si urta il capo vanamente contro l'impervia necessità inesorabile. Ad un punto la certezza di questa impossibilità lo assale, lo afferra, direi quasi, alla gola, e l'uomo sente invaso dal sangue in tumulto il cervello indebolito. Entra allora in furore: bestemmia, minaccia, freme, ruggisce; vorrebbe infierire contro sè, contro tutta l'umanità, contro il mondo; si scaglia colla temerità di Satana contro Dio. Più tardi succede la spossatezza; il parosismo della febbre suscitatasi lascia l'abbattimento; la stessa fatica materiale della prima esaltazione, conferisce a domare quel sussulto di nervi; l'incessante crudele pensiero: «fra poche ore morrò» è un potente interno corrosivo che consuma l'energia e le forze. Nell'inoltrarsi della notte cresce questa prostrazione: è quello il tempo che i preti accorti sanno più propizio a rendere efficaci le loro esortazioni religiose. Respinta [241] d'ordinario nelle prime ore in cui il condannato è in confortatorio, nella notte la parola religiosa è accolta con tolleranza dapprima, poi il più spesso, con fervore. Visto inutile ogni lusinga nelle cose umane, il morituro si getta disperatamente nelle braccia della religione e cerca in essa quella forza che sente da ogni altra parte mancargli. Verso il mattino, di regola generale, una certa pace, e per parecchi una vera e positiva pace, è entrata nell'anima del condannato, e il misero s'addormenta di un sonno quasi sempre calmo e tranquillo.
Le impressioni provate, o per dir meglio manifestate dai nostri tre personaggi all'annunzio fatale furono diverse. Stracciaferro colla sua aria sempre più stupidita parve non aver nemmeno compreso; guardò col suo occhio semispento le persone che lo attorniavano; e siccome il secondino lo aveva fatto levare dritto in piedi per ascoltare quella terribile comunicazione, si dispose a sdraiarsi di nuovo sul suo giaciglio. Ne lo impedirono dicendogli che bisognava cambiar di cella ed entrare nel confortatorio. Si lasciò passivamente indossare la camicia di forza, trascinare alla stanza destinatagli, e guardò con una certa curiosità da scemo il carceriere che gli attaccava alla gamba la catena di ferro. I due fratelli della Misericordia che stavano a fargli compagnia (e due dovevano rimanere sempre di guardia intorno a ciascuno dei condannati) vollero cominciare a dirgli qualche parola di conforto; ma egli li guardò con aria così ferocemente imbestialita, ch'essi pensarono essere miglior consiglio per allora non toccare quel tasto. Ch'egli però capisse la sua condizione diede prova poco stante facendo la seguente domanda:
— In confortatorio si dà al condannato tutto quello che desidera, non è vero?
— È una pia usanza della nostra compagnia della Misericordia, gli fu risposto, di cercar di soddisfare ai desiderii di quegl'infelici, per quanto lo consentono le nostre facoltà; e se voi desiderate qualche cosa....
— Ebbene sì; proruppe quell'omaccione in cui fino all'ultimo avevano da predominare gl'istinti materiali: desidero fare una buona corpacciata. Voglio provare il gusto dei ricchi, mangiare come un signore, almeno l'ultimo giorno della mia vita... Mi si dia una pernice... e tutto quello che vi ha di più fino e costoso... e buon vino, barbera suggellato, e una caraffa di cognac.
Graffigna, d'ordinario così calmo, così cauto e prudente, perdette la padronanza di sè, e salì subitamente in un furore senza misura all'udire il brutto annunzio. Si dovette ricorrere alla forza per contenerlo; due uomini robusti furono necessari a vestirgli la camicia di forza, e bestemmiante, urlante, gli occhi piccoli fuori della testa, la schiuma alla bocca, bisognò trasportarlo a braccia nella cella a lui assegnata. Seguitò per un poco a strepitare, maledire, imprecare, minacciare, contorcersi, agitarsi: ma poi abbattuto, non domo, si accovacciò presso il muro dov'era infisso il capo della sua catena e stette rotando intorno occhi spauriti e insieme feroci, che lo facevano rassomigliare in vero ad una volpe presa al laccio che s'aspetta da un momento all'altro il colpo mortale.
Il medichino, egli, com'è facile aspettarsi, aveva mostrato un più nobile e più fiero contegno.
Udito che quello era l'ultimo giorno della sua vita, Gian-Luigi s'era vezzosamente inchinato come per ringraziare chi glie ne aveva data la novella, come per salutare la morte che vedesse comparirgli sulla soglia della sua carcere. Nessun altro segno d'emozione fu da notarsi in lui, fuorchè un lievissimo tremar delle ciglia; non impallidì il suo viso, non diede il menomo sussulto pur uno de' suoi membri: sorrise. Quando seppe che gli bisognava calzare la camicia di forza ed essere incatenato per il nodello ad una gamba, domandò se questo non poteva essergli risparmiato; rispostogli che no assolutamente, mandò un sospiro, e vi si acconciò senz'altra osservazione. Messo nella cella a lui destinata, guardò con empia ironia l'altare preparatovi, il crocifisso e l'inginocchiatoio postovi dinanzi; girò intorno alle pareti per quanto gli concedeva la lunghezza della catena, e lesse con apparente interessamento parecchie iscrizioni che vi erano scombiccherate su. Ad un punto vi era una filza di nomi accompagnati da qualche parola di preghiera e di rimpianto: erano i nomi di coloro che da più anni erano passati in quel confortatorio per andarne a morire: ciascuno vi aveva scritto il suo nome, la sua età, la data della sua dimora nel luogo funesto ed un'invocazione alla pietà ed alla compassione di chi leggesse. Il medichino si volse ad uno dei fratelli della Misericordia che stavano guardandolo con un interesse di curiosità che ben gli valevano la sua trista rinomanza e gli strani casi della sua vita:
— Avrebbe Lei un toccalapis da imprestarmi?
Il confratello della Misericordia s'affrettò a soddisfare alla sua richiesta. Gian-Luigi scrisse poche parole e si allontanò: i due suoi assistenti si accostarono a leggere avidamente. L'ultima di quelle lamentanze diceva: «Ah! come crudele morire a trent'anni, sano e robusto da viverne ancora altri cinquanta!» Il medichino aveva scritto con mano ferma al di sotto di tutti que' rimpianti: «Imbecilli tutti! si muore e si tace!»
I due fratelli della Misericordia si guardarono in volto stupiti, non comprendendo il significato di quella disperata rassegnazione.
— Ella non ha voluto fare come gli altri e metterci il suo nome: disse il più audace de' due.
Il medichino, pure in quella estrema condizione in cui si trovava, aveva conservato tanta apparenza di superiorità che il buon popolano sotto la cappa della confraternita non osava trattarlo altrimenti che col Lei.
[242] — A me non piace fare come gli altri: rispose superbamente il condannato. Il mio nome!... Perchè metterci costì su quella ignominiosa parete, vicino a que' nomi infami anche il mio? Per farmi ricordare? Ho più caro essere obliato. E chi lo leggerebbe? Qualche altro miserabile che passerà angosciato per quest'anticamera del patibolo.
Si piantò innanzi alla parete dov'erano scritti que' nomi e li lesse forte con accento d'una sprezzosa ironia.
— Ne ricordo alcuni di questi buoni arnesi. Costui che ha scritto la massima la più affettuosa e più tenera del Vangelo, cui certo gli aveva allor allora soffiata nell'orecchio il confessore, aveva ucciso una vecchia a colpi di sasso per pigliarle quaranta franchi; quest'altro ammazzò suo padre, perchè non voleva dargli dieci lire da pagare una meretrice.... E tutti costoro si sono purgati con una buona confessione, s'illustrarono con un pentimento esemplare, sono partiti dal mondo «puri e disposti a salire alle stelle» ed ora godono nelle beatitudini del paradiso il premio delle loro buone azioni.
I due della Compagnia della Misericordia, senza capire tutta l'empietà dell'ironia che era nelle parole del condannato, pure se ne sentivano ghiacciare il sangue; lo guardavano quasi esterrefatti, e non sapevano trovare parola.
Il medichino riprese dopo un poco:
— Loro ne hanno assistito qualcheduno di questa brava gente nelle sue ultime ore?
— Signor sì: rispose quello de' due che aveva lo scilinguagnolo più sciolto. Feci quest'opera di carità per tre di codestoro; e li accompagnai, sostenendoli, proprio sino ai piedi.....
Si trattenne dal dire l'ultima parola.
— Della forca: suggerì il condannato con un sorriso pieno d'innocenza.
— Sì, signore.
— Bravo! È uno zelante Lei!
— Eh eh! fece il confratello insaccando modestamente il capo fra le spalle.
— Ne la felicito. Che professione è la sua?
— Sono barbiere.
— E la trascura la sua bottega per passar qui la giornata nella compagnia poco gradevole di uomini che stanno per dar calci all'aria. Ci prova dunque una soddisfazione?
— Quella di fare un'opera buona.
— E ne spera compenso?
— Da Quel di lassù.
— Benone! La sarà chiamata a far la barba nel regno dei cieli.
E voltò le spalle ai due confratelli, a cui quello scherno ispirò più terrore che risentimento. Passeggiò per un poco su e giù, poi andò a sedersi sul gradino dell'inginocchiatoio. I due assistenti si dissero che loro debito era quello di confortare il condannato, e che per confortarlo bisognava parlargli; si consultarono quindi a bassa voce fra di loro, si fecero reciprocamente coraggio, s'avvicinarono al paziente uno dall'una parte, l'altro dall'altra, e cominciarono colla maggior convinzione del mondo a snocciolare la filza delle consolazioni e degli ammonimenti volgari che erano del caso. Gian-Luigi sollevò il capo e guardò stupito questo poi quello, come avrebbe guardato due automi di Vaucanson, così perfezionati da favellare; poi ad un punto li interruppe.
— Signori, la loro eloquenza a duetto senz'accompagnamento è tale da disgradare quella del Segneri, dello Scarpa, di tutti i predicatori gesuiti e del professore Paravia; ne faccio loro i miei complimenti, ma io non amo l'eloquenza — fuor quella dei fatti — detesto i sermonanti e gli avvocati; e il susurro delle loro parole mi riesce molesto come il ronzio di due tafani. Li prego di credere che ho abbastanza fantasia per immaginarmi tutte le belle cose che trovano da dirmi, e di lasciarmi quindi tranquillo. Ho piacere di meditare: è l'ultimo giorno che mi servo di questo strano stromento che è il cervello, e mi piace, come si suol dire, darmene una satolla. Le loro buone intenzioni che apprezzo, tradotte in discorsi, non riescono che a disturbarmi.
I confratelli s'allontanarono da lui mortificati, e lasciandolo immerso ne' suoi pensieri, non gli rivolsero più la parola.
Erano passate parecchie ore, quando il condannato, uscito dalla sua meditazione, s'accorse che i due soci della pietosa confraternita stavan sull'uscio della cella discorrendo vivamente, a bassa voce, con qualcheduno.
— Che cosa c'è? domandò egli uscendo per la prima volta dalla sua apatia e lasciando apparire una certa inquietudine.
I confratelli si volsero verso di lui a rispondergli. Il tempo di guardia dei due primi era trascorso, ed altri due si erano a quelli sostituiti, senza che il condannato pur se ne avvedesse. Uno di questi nuovi assistenti rispose adunque:
— È un buon religioso, il bravo Padre Bonaventura de' frati gesuiti che vorrebbe parlarle.
Gian-Luigi corrugò leggermente le sopracciglia.
— A me? domandò egli con accento d'uomo che non capisce il perchè d'una cosa: Padre Bonaventura? E che può egli aver da dirmi?
Il frate non lasciò rispondere da altri: cominciò per allungare il collo e mostrare il suo cappellone da gesuita e la sua faccia pienotta nel vano della porta, poi si fece innanzi e introdusse la sua grassa persona vestita di cotta nera.
— Caro mio figliuolo: disse con voce d'un'affettata dolcezza, che riuscì al paziente oltremodo antipatica: ti dispiace ch'io venga a fare un poco di conversazione con te?
Era una delle specialità di quel gesuita il confortare i condannati a morte, ed aveva fama di [243] saper toccare il cuore ai più riottosi e convertire i più ricalcitranti. Si narrava di scellerati dal cuore induritissimo, che, avendo resistito alle esortazioni dei più eloquenti confessori, avevano poi finito per cedere alla insinuantesi, melliflua voce del gesuita. I casi più serii ed i birboni più matricolati erano riservati a lui; era questo uno dei suoi vanti eziandio, e soleva accorrere come divisione invincibile di riserva nella battaglia contro il demonio, per istrappare dagli artigli di quest'ultimo l'anima scellerata che si stava per lanciare nell'eternità. Il contegno del medichino coi due primi confratelli della Misericordia aveva già provato chiaro come quest'infelice appartenesse alla schiera dei pervicaci, e s'era pensato senz'attender altro, di far venire subito all'assalto le poderose forze dialettiche e teologiche dell'eloquenza del gesuita.
Questi poi era da se stesso offertosi sollecitamente ed andato incontro all'ufficio, perchè una gran curiosità gli era nata in corpo di veder chiaro in certi misteri cui frequentando assiduamente la casa Baldissero aveva colla sua solita accortezza notato in quella famiglia da alcuni giorni, misteri nei quali aveva subodorato aver parte il famoso medichino, condannato a morire. Come abbiam visto aveva egli appreso dalla confessione del moribondo Nariccia che il creduto Maurilio non era altrimenti il figliuolo della marchesina Aurora, ma che questi era da trovarsi in altro individuo possessore della metà di quella certa lettera di cui egli s'era reso padrone e che per suo mezzo era passata nelle mani del marchese. A lui non si era detto nulla più intorno a quell'affare: ma col suo acume il gesuita non tardò a concepire il sospetto che quel vero figliuolo fosse stato trovato, e da certi sguardi scambiati, da certi pallori e silenzi impacciosi subitamente avvenuti fra i componenti della famiglia Baldissero, quando nel loro salotto il discorso cadeva, come in que' giorni era troppo facile succedesse, sul così detto medichino, il frate era venuto ad argomentare che quel tale smarrito fanciullo potesse benissimo esser costui. Sdegnato che a lui non se ne fosse fatta la confidenza, e pensando che in qualche modo nell'avvenire la scoperta di questo segreto di famiglia aggiunto a quegli altri ch'egli conosceva già, avrebbe forse potuto giovargli, Padre Bonaventura decise impiegare tutta la sua arte nell'apprendere il vero, ed avvisò che metodo buonissimo da ciò fosse il sentire il condannato a morte nell'ultima sua confessione. Ed ecco perchè con tanto maggior zelo si affrettava a venir disputare quell'anima al demonio.
Ma al pari della voce falsamente amorevole, fu antipatica al condannato la figura ancora più falsa di quel frate. Il sorriso piacentiere di quelle labbra carnose da ghiottone gli dispiacque estremamente: quel sentirsi a dar del tu (usanza che il gesuita aveva con tutti i suoi penitenti) fece inalberare l'orgoglio permaloso di Gian-Luigi. Questi si levò in piedi, guardò il gesuita dalla cera ipocritamente umile, come un principe avrebbe guardato un pezzente, e rispose con superbo piglio:
— Che cosa vuoi tu ch'io me ne faccia della tua conversazione?
Padre Bonaventura, offeso, arrossì alquanto nelle sue guancie paffute, e nello sforzo di voler dominare la sua bizza, fece una smorfia che pareva di chi inghiottisca qualche amara medicina.
— Oh oh! disse fra sè: che tono.... Ma gli è tutto l'orgoglio dei Baldissero.... Cospetto! E' rassomiglia di molto alla marchesa Aurora.... Non ci è più dubbio: questo è il figliuolo di Valpetrosa.
— Mio caro, riprese di poi con un forzato sorriso: chi sa che la mia conversazione non possa esservi utile più che non crediate. E se d'altronde, a voi non interessa, fate conto che la vostra interessi me, e concedetemi un momento di colloquio per farmi piacere.
Gian-Luigi sorrise più superbo che mai; e passando ancor egli a dargli del voi, rispose:
— Sia come volete. Inoltratevi; sedete... o state in piedi, come vi piace meglio; e dite quello che vi pare.
Padre Bonaventura s'introdusse col suo solito sorriso e il suo passo discreto che non faceva rumore, sedette, si levò il cappellone e se lo pose sulle ginocchia, vi pose su le mani incrociate e guardò col suo occhio esaminatore il condannato; il quale, dopo averlo fissato un poco con aria di non dissimulato disprezzo, si era dato a passeggiare in su e in giù per quanto gli permettesse la sua catena.
Il frate non tardò a farsi certo che le sue usate sdolcinerie gesuitiche e le carezzevoli forme per cui soleva insinuarsi nell'animo altrui, non avrebbero approdato con questo cotale; ed avvisò che a scuotere quella superba avversione onde il giovane lo aveva accolto, a farne oscillar l'anima fiera, e poter trovare un giunto, se pur vi era, di quella corazza di incredulità e d'orgoglio cui vestiva quella robusta volontà, occorreva percuotere un gran colpo. Stette un buon quarto d'ora senza parlare, seguitando sempre collo sguardo de' suoi furbi occhi penetrativi l'andare e le mosse del condannato: voleva eccitarne alquanto con quel silenzio la curiosità; il giovane non avrebbe di certo potuto a meno di pensare: «che mai ha in animo di dirmi costui? come se la vuol prendere per convertirmi? e perchè non parla?» voleva suscitarne coll'attesa l'impazienza e così provocarne di meglio l'attenzione. Di fatti il medichino, che andando e venendo gettava sempre uno sguardo sul gesuita e ne vedeva le pupille fisse su di lui con espressione di pietà, di cordoglio, di rammarico, finì per impazientirsi di quella taciturnità e di quelle guardate.
— Ebbene, diss'egli piantandosi innanzi al frate, la è questa la conversazione che volete fare?
— Sapete pure, rispose Padre Bonaventura, che [244] quando si hanno le tante cose da dire, gli è appunto allora che non si trovano le parole. Stavo pensando.
— Quando siete venuto qui, disse Gian-Luigi con fine ironia, dovevate già aver pensato. Alle corte, voi siete venuto per salvare l'anima mia. (Fece un satanico sogghigno nel dir ciò). Non è egli vero?
Il gesuita alzò gli occhi al soffitto in una mossa da estatico, come si dipingono i santi che si adorano sugli altari.
— Ho pregato vivamente, rispos'egli con voce che pareva piagnolosa, ho pregato la Madonna del Carmine mia santa patrona, perchè mi rendesse degno di questa grazia.
— Or bene, continuava il condannato colla medesima empia ironia, se la vostra Madonna vuol farvi questa grazia, deve già avervi ispirato i mezzi di pervenire al vostro santo fine, gli argomenti da convincere la mia incredulità (perchè io sono un incredulo, signor mio), l'eloquenza da penetrarmi in cuore. Parlate adunque sollecito e saremo più presto liberi tuttedue, voi dell'obbligo del vostro mestiere, io....
Si arrestò, perchè la sua natìa gentilezza gli fece sentire in quella tutta la brutale grossolanità della espressione che stava per usare.
— Della mia compagnia: soggiunse il gesuita terminando la frase, con accento di mite umiltà e faccia di rassegnata tolleranza. Ditelo pure. Oh! non crediate d'offendermi. Me, come uomo, voi potete ferire come e peggio che vi piaccia; non mi lamenterò, vi benedirò anzi. Vorrei esser fatto segno non solo della vostra ironia, del vostro scherno e del vostro disprezzo, ma dei più fieri insulti eziandio e dei mali trattamenti. Ricordate ch'io son servo e ministro di Colui che venne in terra per tutto soffrire dagli uomini in beneficio degli uomini, di Colui che disse: «se vi percotono la guancia destra, e voi porgete la sinistra.»
Queste parole pronunciate con un tono dolciato ed untuoso che sapeva d'ipocrita lontano le mille miglia, irritarono vieppiù il paziente: una matta voglia glie ne venne di percuotere una di quelle guancie paffute del frate, per porlo tosto in condizione d'applicare la massima del Vangelo; si tolse di là per resistere alla tentazione, e prese di nuovo a passeggiare.
Padre Bonaventura, che s'accorse dell'effetto delle sue parole, continuava:
— Vedo tutta l'irritazione dell'animo vostro, e la capisco. La è naturale, è necessaria, e vorrei benissimo che la potesse avere uno sfogo, sicuro che di poi la cederebbe per lasciarvi luogo a penetrare alla parola di Dio. Deh! (e levò più che mai gli occhi al soffitto) potess'io essere occasione e vittima anche di questo sfogo: io vi direi come Temistocle: «batti ed ascolta»; ma per carità, per l'amore di voi medesimo, per l'anima vostra, rispettate quello che v'ha di più rispettabile e di più venerando: la nostra santa religione....
Il medichino lo interruppe con impazienza:
— Voi, quantunque gesuita, mancate di quell'arte rettorica che mostrate a vostro uso alle generazioni crescenti. Mi scongiurate a nome di cose che non hanno, che non possono avere su di me nessuna efficacia. La carità? Come volete che ci creda un uomo che gli altri uomini mandano a morire? L'amore di me medesimo? Fra dodici ore non esisterò più. L'anima mia? Non credo a questa invenzione dei pusilli che i furbi di tutte le epoche col nome di sacerdoti, hanno sfruttata per tenere a sè soggetto il genere umano. Noi siamo un organismo come quello dei bruti, più perfetto, e che quindi è arrivato al fenomeno del pensiero: distrutto quest'organismo, tutto è distrutto. La vostra anima l'ho cercata collo scalpello dell'anatomico, e non l'ho trovata; ho trovato bensì la materia e le leggi necessarie che la reggono da cui tutto mi viene spiegato senza bisogno d'altra ipotesi. Come volete voi ch'io rispetti la religione? La vostra, al par di tutte le altre, non è che un insigne inganno a cui si pigliano i semplici: l'uomo, stupito egli medesimo d'avere una ragione, vi ha rinunciato per credere alle assurdità dei dogmi.
Padre Bonaventura tolse dalla coppa del suo cappello le sue mani bianche e grassotte, e le levò in alto inorridite. Allora pensò che non bisognava più indugiare a dar quel certo gran colpo che aveva meditato.
— Sapete una cosa, signor incredulo? diss'egli con maggior forza nell'accento: io son quello che assistè fino alla morte l'agonia del povero Nariccia, e ne udì l'ultima confessione.
La botta fu veramente efficace; le guancie già pallide del condannato impallidirono ancora; un tremito, tosto frenato, gli agitò le membra; negli occhi corse come uno sgomento; ma il vigoroso atleta si riebbe tosto; i muscoli della faccia si fermarono in una espressione di feroce impudenza, lo sguardo sfavillò d'una luce infernale.
— Ebbene? domandò egli freddamente. Che cosa ne volete inferire da ciò?
— Che in questo dovreste riconoscere la mano di quel Dio che negate, l'opera di quella Provvidenza cui bestemmiate.
Gian-Luigi crollò le spalle.
— Non ci vedo che il fatto naturalissimo di un caso volgare. È vostro mestiere udire confessioni ed assistere moribondi.
Il gesuita piantò in faccia al condannato i suoi occhi fissi, acuti, penetrativi.
— Gli è da lungo tempo che io conosceva messer Nariccia: diss'egli lentamente: fin dal tempo ch'egli era ragioniere del fu marchese di Baldissero, padre dell'attuale.
Il lieve movimento con cui si rivelarono l'interesse [245] e la sorpresa di Gian-Luigi, non isfuggì allo sguardo attento del frate.
— Io sapeva già molto di lui e della sua vita: continuò questi con la medesima lentezza: ma non sapevo tutto..... Di un uomo qual era quel povero Nariccia (Dio gli voglia usare misericordia!) è impossibile saper mai tutti i segreti; ma in faccia al sepolcro, al momento di comparire innanzi al giudice eterno, anche le anime più nere e più false sentono la pressione della verità e provano il bisogno di riconoscere la giustizia divina.
Quercia protestò con un sorriso.
— Eh! esclamò egli. Ho conosciuto anch'io e per bene quello sciagurato. Era un impostore.....
— Innanzi alla morte ed alla paura della dannazione eterna non vi hanno più ipocrisie. Quell'uomo disse tutta la verità, così che io potei riparare ad un grave errore in cui per sua colpa stava per cadere un'illustre famiglia, adottando come suo membro un estraneo che non le apparteneva.
Il medichino non pensò neppure a dissimulare la sua meraviglia.
— Ah! siete voi che avete appreso al marchese la verità?... Voi dunque sapete tutto?
— Vi ho già detto che così era.
Padre Bonaventura non ebbe più dubbio nessuno sull'essere del giovane. S'e' non fosse stato lo smarrito fanciullo, come avrebb'egli avuto cognizione di codeste cose?
— Or bene: disse dopo una brevissima pausa il condannato: per qual motivo venite voi a ricordarmi codesto? Poichè siete così appuntino informato a tal riguardo, saprete pure che tutto ciò gli è, dev'essere come se non fosse stato mai, che quindi non se ne ha pur da discorrere.
— Vengo a ricordarvelo, disse il frate, appunto perchè nella sequela di questi avvenimenti riconosciate qualche cosa di più che l'opera del caso, la mano di quell'Essere supremo che tutto muove.
Volse uno sguardo verso i due confratelli della Misericordia, che fino dal principio del colloquio si erano ritratti il più lontano che si potesse, ed abbassò tuttavia la voce perchè neppure il suono di una parola giungesse sino a loro.
— Quel bambino cui Nariccia derubò dell'aver suo e volle smarrito fu quello che venne ad assassinarlo, spogliarlo e trarlo a morte...
Questa vicenda di casi era veramente così speciale che già n'era stato colpito, meditandovi sopra, l'assassino medesimo; nel rimettergliela ora innanzi la mente, fra' Bonaventura, che aveva di botto determinato giovarsi di quella circostanza per influire sull'animo del giovane, ridestò in costui tutta l'emozione, tutto il turbamento che già pensandovi da solo, egli ne aveva provato. Fece vivamente un atto colla mano come per dirgli, per imporgli tacesse, ed allontanatosi da lui, stette un istante immobile, muto, colla faccia nascosta nelle palme delle mani. Ma fu breve l'istante della sua commozione; la fiera natura non tardò a riagire in lui: rialzò la faccia in cui brillava da agghiacciare il sangue a chi lo mirasse in tutta la sua potenza malefica un sogghigno mefistofelico e disse con acre ironia:
— Io non sono dunque stato, a vostro senno, che lo stromento della Provvidenza, per punire la colpa di quell'....
Trattenne l'epiteto oltraggioso che stava per uscire dalle sue labbra a carico di quell'individuo da lui ucciso.
— Di quell'uomo: soggiunse ripigliando. Non c'è dunque imputabilità in me. E che s'immischia la giustizia umana a voler sindacare gli atti e gli stromenti di quella divina?... Se la voleva concedersi gusto di fare un processo, non è a me che lo doveva rivolgere, ma a Domineddio.
— Sì, rispose il gesuita, voi foste stromento della Provvidenza, come lo siamo tutti quanti siamo, effettuando ognuno il disegno di Dio; ma ciò non toglie che ciascuno debba portare la risponsabilità dei suoi atti.
— Signore, interruppe Gian-Luigi, queste le sono teorie filosofiche da spacciarsi ai babbei che adottano lo stupido assioma: credo quia absurdum. Se io nei miei fatti sono l'agente d'una volontà superiore che mi domina, non posso io essere accagionato di quel che faccio; non ho più la libertà del mio arbitrio, e senza questa libertà come aver merito o colpa?
Stimo troppo fastidioso pei miei lettori il riferir qui le ragioni addotte dal gesuita a difendere le grandi teorie dell'esistenza di Dio e dell'anima umana immortale, non che la guisa con cui esprime questi principii ne' suoi dogmi, nel suo culto e nella sua disciplina (tutte cose che si tengono) la religione cattolica. La sostanza fondamentale di tutti quegli argomenti era quella medesima che abbiamo visto nelle parole di Don Venanzio, allorchè ebbe luogo tra lui e Maurilio la discussione religiosa che fu riferita per sommi capi; con questa differenza però, che dalla parte del parroco di villaggio v'era maggior bonarietà e vi si sentiva più profonda convinzione e più sincerità di buona fede; in Padre Bonaventura erano invece maggior quantità di arzigogoli d'argomentazione scolastica da teologia di seminario, ed abbondosi quegli ornamenti (che nel discorso dell'umil prete mancavano affatto) dell'eloquenza gesuitica carezzevole, untuosa e sdolcinata.
Gian-Luigi oppose con acerbo disdegno tutte le difficoltà che suole affacciare il materialismo alle idee spiritualiste da Lucrezio in poi, rincalzate dall'aiuto potente che gli vennero a dare le scoperte della scienza moderna; ma il gesuita non solo condannava, sì ancora negava la scienza, non si contentava di cercare ai progressi positivi della medesima un'interpretazione che si potesse accordare coi principii da lui sostenuti, ma que' progressi contestava [246] addirittura coll'ignoranza superba di chi nei quattro cujus della sua teologia vede racchiuso tutto lo scibile umano, e pretendeva disfare ogni argomento avversario, scombussolare la dialettica delle deduzioni oppostegli colla indiscutibile autorità della rivelazione. Que' due individui rappresentavano due estremi opposti dell'umana ragione uscita dalla strada normale della sua vera capacità; il gesuita era di quelli che la volevan trarre all'eccesso dell'abdicazione, Gian-Luigi apparteneva allo stuolo temerario di coloro che per troppo orgoglio della medesima, per volerla fare troppo assoluta sovrana sono costretti a degradarla sino alla compiuta dipendenza di lei dalla materia. Era impossibile che s'intendessero.
— Oh sentite: disse ad un punto il giovane impazientito: mi è avviso che voi sciupate il vostro tempo, e che a me, quel poco che mi rimane, non me lo lasciate così piacevolmente occupare come si potrebbe. Io non credo a nulla, nè a Dio, nè a diavolo, nè alla mia anima, nè alla vostra, e non credo neppure al vostro zelo, nè alla vostra buona fede. Quello che voi volete si è conseguire il vanto di aver ottenuta la meravigliosa conversione del famoso scellerato di cui parla tutta la città. Bene, facciamo un patto. Tutto a questo mondo è finzione; ed ogni uomo sostiene una parte mostrandosi diverso da quello che è: io non ho fatto altro nella mia vita che rappresentare la commedia, posso bene terminarla acconciandomi ad un'ultima finzione in un ultimo episodio. Gli uomini che tutti non vogliono altro che ingannare altrui, non meritano altro che di essere ingannati. Lasciatemi tranquillo ed io farò da convertito, e domattina mi adatterò a tutte le scioccherie che voi vorrete. Il mondo sarà edificato, e la brava ignoranza del volgo popolerà il paradiso d'un beato di più.
Il gesuita non rispose; pareva che pensasse ad altro; quando verso l'uscio fu udito uno scalpiccio ed un bisbiglio; i due personaggi di questa scena rivolsero a quella parte un'occhiata e videro due persone che volevano entrare, ed a cui i fratelli della misericordia impedivano il passo, dicendo:
— Pel momento non si può; sta col confessore.
Padre Bonaventura vide una di quelle persone vestita de' panni neri del prete, e parlò ad alta voce, tanto da essere udito anche da chi stava sulla porta:
— Diletto figliuolo, oh come benedico Iddio di aver data alle mie povere parole tanta forza da avervi tocco il cuore, sgombrata la nebbia dalla mente, e fattavi scorgere la luce sublime della nostra santa religione!...
Gian-Luigi represse una risatina, scambiò col frate uno sguardo profondo in cui quelle due anime si penetrarono, e disse sottovoce:
— Ad impostore, impostore e mezzo.... Il patto è dunque accettato.
— Volete ch'io dica qualche cosa al marchese di Baldissero?
— Ditegli che ho tenuto parola....
Ma in quella il condannato riconobbe quali erano le persone cui i confratelli della misericordia impedivano dall'entrare, e si slanciò vivamente verso di essi.
— Lasciate, lasciate passare.... Madre mia! Mio buon Don Venanzio, venite, venite.
Entrarono la vecchia contadina ed il vecchio parroco del villaggio. Il gesuita, dritto in piedi, si trasse un poco da un canto, e rimase lì ad osservare.
Margherita non pronunziò parola: il suo non fu che un gemito: si gettò al collo del giovane e scoppiò in pianto dirotto, quantunque a vederne le ciglia rosse, le occhiaie infossate, le pupille spente si sarebbe detto che quella donna aveva già pianto tante lagrime da esaurirne la fonte.
Il condannato la guardava e l'accarezzava con aria di profonda e tenera compassione.
— Via, via: diss'egli poi con voce commossa: fa cuore, povera donna!... Dovresti tu piangermi così? Dovresti tu ancora amarmi cotanto?..... No certo. Io sono stato per te il più sconoscente dei figliuoli: mi avresti dovuto cancellare dalla tua memoria e dal tuo cuore. Gli è dunque che tu sei organicamente costituita per amare, come la pianta per fiorire e l'ape per raccogliere miele.
La povera vecchia non capiva nulla, non dava retta a nulla, non faceva che piangere e stringere a sè il giovane, come se temesse venissero allora a strapparglielo dalle braccia, ed essa lo volesse difendere contro tutti e contro tutto.
— Oh quanto ora mi duole, soggiunse Gian-Luigi, di non averti rimeritata come avrei dovuto.
Don Venanzio, che aveva udito entrando le parole di frà Bonaventura ed aveva sentito allietarsi il cuore nella credenza della conversione religiosa del giovane, prese le ultime parole di costui come un'espressione parziale di quel pentimento che la nuova fede riacquistata aveva suscitato nell'anima del reo, e si confermò nella lusinghiera opinione da lui concepita del ravvedimento di Gian-Luigi e della sua acquiescenza alle verità della fede.
— Giovanni: disse il buon vecchio commosso; riconoscere i proprii falli è il primo atto di chi si pente e sta per purgarne l'anima sua. Quella medesima ingratitudine che ora confessi verso la donna che ti fu amorosissima madre di adozione, l'hai avuta verso la Provvidenza che ti fu larga di tanti doni.....
— E sopratutto d'una così bella sorte: soggiunse amaramente Gian-Luigi.
— Ella volle colla medesima porre al cimento l'anima tua: riprese vivamente il parroco, a cui le parole del giovane tornarono di botto il timore che la conversione di lui non fosse così certa come [247] s'era lusingato. Ma il medichino, che non bramava ricadere in quei discorsi, si affrettò ad esclamare con tono d'ipocrisia che la sua abitudine di fingere faceva naturalissimo:
— Lo so, lo so; e benedico appunto quella buona Provvidenza, che traverso tanto succedersi di vicende mi ha menato a questo punto. La si rallegri anco Lei, caro Don Venanzio, che ha la bontà d'interessarsi alla salvezza della miserabile anima mia: io ho aperto gli occhi alla luce della verità, ed ecco il benemerito che colla sua dialettica, colla sua eloquenza veramente ispirata da lassù, ha eseguito su di me questa operazione di cataratta morale.
Accennava ciò dicendo a Padre Bonaventura, il quale nell'angolo dove s'era ritirato e stava ad osservare ogni cosa, prendeva una mossa tutto modesta, avvolgendo in un'ostentata umiltà di cristiano e di frate il merito e il vanto dell'allegata sua vittoria sull'errore. Nelle parole del condannato c'era una finissima beffa, e nell'accento una velata ironia, cui ben sentì lo spirito arguto del gesuita, ma di cui non s'accorse menomamente la bonaria semplicità e la buona fede della candida anima di Don Venanzio.
Questi si rivolse adunque verso il frate, e con vera espansione di affetto ammirativo, quasi di riconoscenza, gli disse:
— Permetta che anch'io, il più umile dei servi del Signor nostro che è ne' cieli, la ringrazi e la benedica per questa sua così bella e felice opera di carità. Io veniva qui piegando sotto il grave carico che credevo Dio mi avesse imposto: quello di condurre alla verità quest'anima miseramente traviata, e sentendo impari al còmpito le deboli mie forze. Ecco che pietoso Padre di lassù ha suscitato a tempo Lei per ottenere questa difficile vittoria, ch'io avrei forse invano cercata. Sia lodato e benedetto il Nome dell'Altissimo, e lasci ch'io nell'opera sua, reverendo, riconosca ed adori la clemenza e l'onnipotenza divina.
Tese una mano al frate, il quale pose in essa la punta delle sue dita.
— Sì: disse poi Padre Bonaventura con maggiori le mostre della sua ipocrita umiltà, torcendo il collo, serrando le labbra, alzando di traverso gli occhi al soffitto: io non sono che un misero stromento di cui piacque servirsi al Signore. Io non riconosco altro merito in me, ed innalzo al trono del Creatore i più fervidi rendimenti di grazie.
Il medichino ebbe di nuovo sulle labbra il più perfido sogghigno mefistofelico: ma per fortuna Don Venanzio non lo vide.
— Ella ha forse già udito in confessione questo infelice? domandò il parroco al gesuita.
— Sì: rispose quest'ultimo scambiando uno sguardo d'intelligenza col condannato: e domani prima dell'alba tornerò per recargli il santo viatico ed accompagnarlo fino all'ultimo passo tremendo.
A questo ricordo dell'orribile fatto che attendeva Gian-Luigi, Don Venanzio ebbe un brivido in tutta la persona, Margherita mandò un gemito, il condannato solo stette impassibile, ma un sospetto gli attraversò la mente.
— Che costui sia mandato dal marchese per custodire sulle mie labbra il suggello affinchè non ne sfugga il segreto della mia nascita? Pensò egli, e un vivo interno dispetto diede uno speciale bagliore allo sguardo con cui ricevette l'addio affettatamente affettuoso con cui lo salutava il gesuita; il quale saputo ciò che lo interessava, si sentiva ora disagiato a star lì fra l'ironia diabolica del condannato, e l'angelica buona fede del parroco del villaggio.
— Questo taumaturgo convertitore: disse il medichino, senza più dissimulare la sua malvagia beffa, quando il frate fu partito: è dunque molto famigliare del marchese di Baldissero?
— Sì: rispose il buon prete che non capì la ragione di questa domanda: aveva già molta attinenza con quella famiglia fin dal tempo del fu marchese padre dell'attuale.
— Gli è perciò che questi volle affidata a lui sì nobile missione..... Lei, Don Venanzio, è troppo buono e troppo onesto perchè l'accettasse e fosse capace di compirla.
Il parroco allargò tanto d'occhi.
— Che missione? domandò egli: quella di convertirti?... Ah! gli è lungo tempo che pregavo il Signore me ne rendesse degno e mi accordasse la forza e l'abilità di sostenerla....
— No: disse bruscamente Gian-Luigi: si tratta d'una missione meno nobile a cui la sua delicatezza avrebbe disdegnato, caro Don Venanzio; il marchese non si fida della mia parola e mi ha mandato intorno quell'ipocrita d'un frate a sorvegliarmi, perchè io non racconti a nessuno il segreto dell'esser mio.
— Che di' tu mai? esclamò il parroco in una meraviglia che pareva quasi spavento. Il marchese, sappilo, è incapace di un simile tratto, e quel santo religioso non si assumerebbe mai una tal parte.
— Quel santo religioso! interruppe con un ghigno il condannato a cui scappò la pazienza. Quel birbo d'un gesuita, mio caro Don Venanzio, è il più matricolato impostore che sia stato mai sotto la cappa del cielo.
E raccontò in breve con parola vivace e risentiti colori ciò che poc'anzi era intravvenuto fra lui e il frate.
A Don Venanzio, cui questa cosa tornava incredibile, parve di fare un brutto sogno.
— È impossibile! andava egli esclamando, le mani levate in alto nell'espressione dell'orrore da lui provato a siffatta rivelazione: non può un ministro di Dio scendere sì basso, tradire così il suo dovere, mentire nella più sacra cosa ch'egli abbia!
E poichè Gian-Luigi ebbe confermato con solenne [248] asseveranza il suo dire, il vecchio sacerdote, dolorosamente sbigottito, uscì a domandare:
— Ma dunque non è punto vera la tua conversione? Non è punto vero il tuo pentimento?
— Conversione! Pentimento! disse il condannato con amarissima ironia. Mi lasci esser sincero, Don Venanzio: è nel mio carattere, e mi è debito in queste ore supreme il dire audacemente la verità. S'io fossi riuscito nell'opera che avevo intrapresa — opera assai più vasta e terribile di quanto il pubblico crede e i giudici hanno appurato; — mi sarei io pentito? avrei avuto rammarico dei mezzi adoperati? No certo! Ho comune con quella setta di cui veste la tonaca ed ha i pensieri ed usa gli accorgimenti quell'ipocrita che è testè uscito di qua, ho comune coi gesuiti, dico, il principio che qualunque sieno i mezzi, poco importa, purchè si arrivi alla meta... Mezzi buoni e mezzi cattivi... Ma nulla è di assoluto per l'uomo, e il male non è che un particolar modo di vedere e di sentire secondo le epoche, l'educazione, le diverse qualità di razza, di temperamento, d'intelligenza. Quando la maggior parte degli uomini si accorda a dir male una cosa, ha il diritto colla forza che dà il numero di imporre la sua credenza altrui. Sia: tutto è dominio della forza quaggiù e finchè un'altra forza non la vince, governi il mondo morale quell'opinione e punisca i violatori della sua ortodossia: ma il vinto, il punito, ha pur diritto nel suo foro interiore di protestare, di serbare la sua credenza, di pensare come vuole. Me colpisca pure la dominante prepotenza sociale, ma la non può farmi da me rinnegare me stesso, condannare il mio fatto, smentire la mia individualità. Io non mi converto e non mi pento.
Don Venanzio levò al cielo le palme con mossa d'uomo inorridito.
— Oh sofismi orgogliosi dell'errore! esclamò egli. Ma sventurato che tu sei!... Ciò che è male non ti accusa e denunzia la tua stessa coscienza?
— Che cos'è che chiamano coscienza gli uomini? Per molti — per quasi tutti — è un'intima, inconscia viltà; è il residuo di vane credenze e paure istillate nell'animo umano dalla presente educazione infantile e delle quali, tanta è l'impronta, rimane pur sempre in ognuno, checchè si faccia, un ricordo. La coscienza del cristiano è diversa da quella del musulmano, questa da quella del buddista, e diversa da tutte è quella del selvaggio che non ha punto, od appena se un adombramento d'idee religiose. È dunque la nostra coscienza l'arbitro per ciascuno del bene o del male? E se la mia coscienza mi lascia tranquillo, egli è segno quindi che non è male quel ch'io ho fatto?
— Perchè tu l'hai pervertita dall'influsso delle inique passioni, dai sofismi del tuo intelletto, ribelle al suo Creatore.
— E perchè le passioni non sarebbero esse una scorta verso il vero fine dell'esser nostro?
— Lo sono, quando contenute nei limiti dal timor di Dio e dall'amor del prossimo.... L'idea del bene non è una chimera, perchè trovasi in tutto il genere umano, a qualunque grado di coltura sia giunto. Anche il selvaggio che tu citavi poc'anzi, ha in fondo in fondo alle poche sue idee una nozione confusa, incerta, ma pure essenziale, del bene e del male. A seconda che l'uomo progredisce, quest'idea si fa più netta, più complessa insieme e più giusta; finchè la nostra santa religione ce ne dà la più compiuta e perfetta, perchè l'ultima espressione del vero, perchè rivelata da Dio.
— E chi non ci crede è dannato! esclamò con diabolico sogghigno il medichino.
Margherita non aveva parlato più, non s'era nemmeno mossa più sino allora; la teneva fra le sue una mano del giovane, e cogli occhi umidi lo stava contemplando, mentre il suo povero vecchio capo tremolava sul suo collo magro e in giù chinato dal peso degli anni. Ella non capiva molto le cose che dicevansi fra il parroco e il suo figliuolo d'adozione: la sua mente era troppo oppressa perchè potesse afferrare quelle idee, che in realtà eccedevano eziandio l'arrivo della sua intelligenza, e l'unico pensiero immanente, incessante che la possedeva era quello della morte incombente sul capo del suo caro. Ma a quella esclamazione di Gian-Luigi un raggio le penetrò di botto nel cervello abbuiato, e le fece scorgere la sostanza dei discorsi cui non aveva capito. Si trattava della salvezza del suo Giannino, e di una salvezza ben più importante di quella della vita, della salute eterna. L'idea che il dilettissimo giovane avrebbe potuto essere colpito da un'irrimediabile eternità di pene la colse allora per la prima volta, e spaventò a dismisura la sua cieca e fervente fede di cattolica.
— No, dannato: gridò ella con indicibile sbigottimento: no, Giannino, tu non hai da essere dannato! Non voglio saperti nel fuoco dell'inferno.... Pazienza io!... Darò piuttosto la mia anima al demonio, in cambio della tua.... Ho già meritato la collera di Dio con un falso giuramento per giovarti: Don Venanzio mi disse che il Signore, mercè un buon pentimento, mi avrebbe perdonata.... Perdonerà anche te, figliuol mio: è così buono e clemente il Signore!... Domandane al nostro parroco: dà retta a quel che ti dice: pentiti e Dio ti accoglierà, anche te, nel suo regno.... Pentiti, te ne prego, pentiti per amor mio, se non vuoi farmi dannata anche me.... Io già nel paradiso non ci vo' stare, se non vieni anche tu.... Vuoi tu farmi precipitar nell'inferno?
E stringeva le mani del giovane, e pregava oltre che colle parole, collo sguardo, e singhiozzando, agitava più che mai nel suo tremolìo della vecchiaia il povero capo canuto.
Il condannato le fece una carezza.
— Sta tranquilla, povera donna! Nel mondo di [249] là, non avrai niun dispiacere da me per questa — nè per altra cagione, te ne assicuro io. E tu ed io, non dubitare, saremo tutti salvi ad un modo.
Poi si rivolse al prete.
— Una buona confessione adunque, l'assoluzione datami da un uomo mio pari scancellano agli occhi di Dio ogni colpa e mi farebbe degno della beatitudine eterna. E così quello che fu uno scellerato tutta la sua vita — Nariccia per esempio — con dieci minuti di pentimento, quando sente la vita sfuggirgli, e con qualche cerimonia, ricompra tutto il suo passato, compensa tutto il male che ha fatto e va dritto a prender posto in mezzo ai santi, mentre l'uomo che per tutta la vita fu saggio ed onesto, anche secondo quei dettami di morale di cui la maggioranza dell'umanità ha idea, se muore negando fede, oppur serbando un dubbio soltanto a qualcheduna di quelle assurdità che il sacerdozio vuole imporre alla sua ragione come dommi indiscutibili, si trova eternamente dannato.
— Questo chi lo può assicurare? disse il parroco tanto mite d'indole e d'anima sì generosamente pietosa che sentiva non dover metter limiti alla clemenza di Dio. Quel di lassù vede meglio di noi lo stato dell'anima che si presenta al suo giudizio e sa adattare ai meriti di essa la sorte che le conviene. Infinita inoltre è la sua bontà.....
— Ah non dica: interruppe il medichino uscendo da quella ironica freddezza con cui aveva parlato sino allora, e dando al suo accento una vivacità che toccava all'indegnazione: infinita bontà la sua, mentre è articolo di fede la eternità delle pene! È una crudele contraddizione. Come! Per gli errori di una vita che è un soffio, che è un nulla al cospetto del tempo senza fine, la mia anima immortale sarà perduta eternamente, senza più rimedio, senza possibilità nessuna di riabilitarsi; il destino della mia immortalità sarà deciso dal breve esperimento d'un attimo ed irrevocabilmente. Dopo un passaggio nella volgare esistenza terrena, le anime piomberanno nell'inerzia eterna, queste — le poche — felici sempre, quelle — le moltissime — sempre tormentate? Un istante d'operosità senza causa in mezzo al nulla da una parte, all'ozio infinito dall'altra. E sopra i dannati a cui si rinnovano sempre più crudeli i dolori, Dio immutabile e compiacentesi, autore del male. E questa è per loro la suprema bontà?
Il buon parroco, a questo punto, tacque un poco, non senza qualche imbarazzo. Era questo un argomento che agiva di molto, non tanto sulla capacità del suo intelletto, quanto sulla bontà del suo cuore.
— Vogliamo noi, misere, deboli, insipientissime creature che siamo, comprendere, giudicare, misurare alle povere idee che possiamo aver noi l'Ente supremo, infinito, assoluto, il Creatore di tutto, e le sue qualità, e, mi perdoni l'Altissimo, i suoi doveri?
Troppo lungo e fastidioso sarebbe riferir tutte le parole che intorno a questo argomento si scambiarono tra il prete e il perverso spirito impenitente dell'assassino, in mezzo a' quali frappose le sue lamentazioni anche la povera Margherita. Ma nè le ragioni e le esortazioni del sacerdote, nè le preghiere della vecchia contadina valsero a smuovere pur di un punto la pertinace incredulità di Gian-Luigi, quando, verso sera, un altro personaggio entrò nella cella che serviva di confortatorio al medichino: Maurilio.
Era un moribondo che camminava: le sue membra tremavano, e il passo vacillava come quello di un ebbro. Era la forza della volontà, avreste detto anzi che era una potenza superiore, estrinseca all'individuo, che reggeva quel corpo sfibrato, che conteneva e faceva funzionare quell'organismo. Aveva dei movimenti automatici, ora bruschi, ora incerti come se determinati da molle e da suste di un meccanismo guastatosi. Recava seco nel color delle guancie, nella macilenza del viso qualche cosa di sepolcrale, quasi avreste detto un odore di fossa; il dito della morte era chiaramente impresso su quella fronte che pareva diventata più ampia, su cui parevano drizzarsi più irti e stecchiti i neri capelli. Eppure dal fondo di quelle occhiaie più infossate, raggiava una luce d'intelligenza che era maggiore di quanta possa brillare in occhio umano; e sulla grossolana volgarità di quelle sembianze plebee era sparsa come una fosforescenza, quasi pareva distesavi intorno un'aureola.
Chi lo aveva avvisato di ciò che succedeva, e che quello era l'ultimo giorno dei condannati? Non una voce umana di certo. Tutti gli amici che lo visitavano avevano cura grandissima di non parlargliene, credendo con ciò aggravare e la passione dell'animo suo, e quindi il suo male; ned egli aveva interrogato nessuno: ma ad un punto, dopo circa mezz'ora d'uno di quei sopori in cui cadeva di quando in quando, Maurilio s'era ridesto con una scossa e senza dire pure una parola, disceso stentatamente dal letto, aveva cominciato a vestirsi. A chi ne lo volle impedire e gli fece presente la sua debolezza che non lo avrebbe lasciato reggersi in piedi, il danno maggiore cui questo sforzo avrebbe recato alla sua salute, egli aveva risposto con una fermezza che in lui non era molto abituale:
— Debbo far così — e lo voglio. Ho un gran dovere da compiere. Lo spirito mio protettore mi vi spinge e mi guida e mi sorregge. Esso mi darà la forza. Lasciatemi andare.
Nulla valse a rimuoverlo dalla sua volontà, e il marchese, che dovette acconsentirvi ancor egli, ottenutagli quella licenza, ch'ei desiderava, di visitare i condannati a morte, lo faceva condurre in carrozza fino alla porta della carcere. Per primo domandò vedere Stracciaferro. L'assassino, riempitosi a spavento di cibo e di bevanda, erasi addormentato e russava fragorosamente in una impostatura, con tutte le apparenze d'un uomo briaco morto.
[250] Maurilio si fermò innanzi a lui a contemplarlo, ed una indicibile amarezza gli occupò con forza maggiore di prima l'animo addolorato. Che cosa c'era ancora d'umano, d'intelligente in quella massa di carne abbandonata soltanto agli istinti brutali, alle leggi della materia? Che faceva lo spirito immortale dentro quell'organismo degradato? E quello era suo padre! La fiamma di vita che ardeva in lui s'era accesa a quel focolare; da quel sangue era stato originato il germe ond'egli era prodotto, era carne di quella carne il corpo che ospitava la sua intelligenza, il suo pensiero. Se l'opera educativa di Don Venanzio non avesse cominciato dapprima a far entrare qualche po' di luce superiore nelle tenebre del suo cervello; se la fortuna non gli avesse messo a disposizione i libri del signor Defasi dove il suo spirito s'era affinato, afforzato, innalzato, avrebb'egli resistito alle infami seduzioni del carcere in cui l'avevano fatto precipitare, alle scellerate lusinghe di Graffigna, ai più scellerati consigli della miseria? Figlio di quell'assassino, sarebbe diventato come suo padre: ecco quello che la società avrebbe avuto di lui, se il destino alla tutela di lei soltanto l'avesse affidato.
Uno dei fratelli della misericordia che assistevano il condannato, non sapendo quali attinenze corressero fra questo giovane e l'assassino, attribuì a sola curiosità lo sguardo cui Maurilio fissava sull'addormentato prigioniero, e gli disse:
— Questa è proprio una bestiaccia senza lume di ragione: non ha fatto che mangiare a quattro ganascie, ingoiar vino e grugnire: non si è stati capaci nessuno di fargli pronunziare due parole che avessero senso.
Maurilio volse verso colui che gli aveva parlato la sua faccia di cadavere, e rispose mestamente:
— Egli è mio padre.
Il fratello della misericordia fu tanto confuso e mortificato che non seppe aggiunger sillaba: mandò un'esclamazione, e ritraendosi quasi nella sua gran cappa bianca, come se tutto volesse nascondervisi al par della lumaca nella sua conchiglia, si ridusse nell'angolo il più lontano che potè.
Maurilio contemplò ancora un istante suo padre addormentato. Su quella faccia ebriosa, color del mattone troppo cotto, non un'espressione, non un movimento che accennasse soltanto ad una morale sensibilità qualunque: i lineamenti fattisi vieppiù grossolani, che parevan gonfi, che si sarebbero potuti dire turgidi di vino, avevano una placidità stupida da animale bovino che sta ruminando: un respiro grave e romoroso, ma tranquillo e regolare, dinotava in quel quasi mostruoso ammasso di carne una straordinaria potenza di vita organica, materiale. Il nostro giovane guardava quella faccia, ascoltava quel respiro con cuore palpitante, con una ansia angosciosa: ardeva dal desiderio, e raccapricciava per paura d'interrogare quella sfinge imbestialita e di sentirla rispondere; di cercare in mezzo a quella corruzione, a quell'orrore, a quell'ignobile lezzo l'anima d'un padre. Allungò la mano per iscuoterlo ad una spalla, ma se ne trattenne.
— Perchè svegliarlo? si disse. Egli ora è tranquillo e non ha un pensiero che lo crucci: gode già tutti i benefizi della morte senza i dolori dell'agonia. Ch'io aspetti che la natura medesima o la necessità lo richiami al sentimento della sua condizione.
Abbandonò quella cella e domandò di essere introdotto presso Gian-Luigi.
Il medichino s'era trovato a fronte all'ipocrisia gesuitica, colla fede sincera ma cieca e condannante la ragione; ora si trovava innanzi una credenza che si appoggiava del pari sopra le aspirazioni più nobili dell'anima umana e sopra le deduzioni del ragionamento, sostenuta dai misteriosi impulsi della natura e dalle verità scoperte dalla scienza moderna. Il grande intelletto di Maurilio, tutto questo aveva raccolto in una sintesi potente, e creatone l'edificio monumentale d'una grandiosa percezione dell'universo. Mai l'ingegno del figliuolo della plebe non era stato così eccitato nella forza della sua comprensione: mai la parola non aveva nel suo linguaggio così giusto e così vivamente tradotto il suo pensiero. Senza indugio, senza preamboli egli aveva affrontato il ponderoso argomento.
— Tu, non è guari, disse al condannato, sei venuto da me, per iniziarmi a certi tuoi concetti affine di conquistare insieme questo povero mondo terreno: io vengo da te in questi supremi istanti, per farti brillare quella luce dell'intelletto onde tu puoi conquistare il mondo dell'idea, del vero e dell'eterno.
Svolse senz'altro quelle sue teorie di cosmogonia del mondo invisibile, compagno ed anima del mondo materiale, quell'indefinito e forse infinito progresso dalla materia alla sensazione, dalla sensazione alla intelligenza, dall'intelligenza al sapere che forse non si arriverà mai, quel grandioso quadro dell'universo in cui la vita umana non è centro, non è principale, non è prova unica, nè definitiva, nè ultima, sibbene un lieve e fugace episodio, un passo, un grado, una fase di svolgimento, come il globo che ci sostiene è nel mondo astronomico non altro che un granello della sabbia infinita de' mondi seminati traverso lo spazio senza limite; svolse tutte quelle idee, insomma, che lo udimmo già adombrare nella prigione del Palazzo Madama al suo amico e compagno, Giovanni Selva, e che qui non si ripetono per evitare accrescimento di fastidio ai buoni lettori. Era tanto felice che poteva dirsi ispirato; le [251] sue idee e il modo ond'erano espresse si presentavano di tal guisa da afferrare l'attenzione di qualunque, da vincergli la mente e scuotergli l'animo. La sua era in quel momento una vera eloquenza, dal cui fascino ogni intelligente doveva restar preso; parlava nello stesso tempo al cervello ed al cuore, trascinava la parte effettiva e convinceva la ragione dell'uomo. Le sue stesse sembianze, la sublime dignità che alla sua faccia volgare dava l'impronta della morte, cui già vi aveva impresso il morbo, quasi una preoccupazione del mondo superiore a cui era chiamato, il fulgore dell'anima traverso gli occhi, la voce cavernosa e pur vibrante con inesplicabile efficacia, tutto concorreva a dare alla sua intraducibile eloquenza una quasi irresistibil forza. Il sentimento della superiorità di quello spirito sopra il suo, sentimento che Gian-Luigi aveva pur sempre avuto in fondo all'animo, senza confessarlo a se stesso si spiccò più netto e più potente nel condannato e represse quella empia ironia onde aveva egli accolte le precedenti esortazioni religiose. In fra' Bonaventura era a parlargli l'interesse di dominazione umana che s'ammanta di religione e non fa capo che ad una superstizione che si vuole imposta allo spirito dell'uomo come freno e impedimento; in Don Venanzio era una sublime ignoranza affermativa alla quale ei credeva sovrastare per intelletto e per dignità l'audace negazione del suo orgoglio; ma qui era il genio con tutto l'ardore del suo intimo fuoco, con tutta l'azione e il prestigio della sua potenza, con tutto il peso e l'efficacia d'una vera scienza acquistata mercè lo studio e la meditazione. Gian-Luigi rimase sovraccolto, fu come sbalordito; gli parve che qualche cosa più che una ragione umana gli parlasse; ebbe primamente sentore d'una intelligenza superiore a quella onde si vantaggia l'uomo in questa vita. Quando Maurilio si tacque affranto dallo sforzo fatto pel lungo parlare, tornato nella sua primiera debolezza, anzi accresciutasi, accasciato come se la forza interiore che lo aveva sostenuto sino allora si fosse esaurita, o da lui dipartitasi, Gian-Luigi stette un istante immoto, in silenzio, gli occhi volti alla terra, pallido, le ciglia aggrottate, le guancie contratte dalla forza con cui l'intentività della sua meditazione gli faceva serrar le mascelle.
— Ebbene? diss'egli poi levando con moto brusco il capo, stringendo forte al petto le sue braccia incrociate, e saettando sul suo compagno d'infanzia uno sguardo in cui c'era un raggio quale forse non vi era mai brillalo per l'innanzi: che cosa conchiuderne a mio riguardo? che devo fare? che deve esser di me?
Maurilio così rispose:
— L'esistenza del nostro spirito immortale è un avvicendamento di vita organica quando unito colla densa materia, e di condizione immateriale, quando traverso la morte del corpo passa ad uno stadio di essere appena forse se cinto di fluidi imponderabili. Ogni vita organica ha da essere un travaglio in cui lo spirto si affina, ogni morte un salire nella scala del progresso indefinito. Chi manca alla sua missione, chi tradisce il suo debito rifarà forse e con più travagli il cammino. Nel periodo di esistenza oltre umana a cui stai presso, tu avrai da far provvista di forza morale per ricominciare forse con ancora più difficili condizioni la prova. Questa forza alla tua intelligenza già avanzata nel suo svolgimento te l'ha da concedere la luce della scienza dell'infinito a cui durante questo stadio che stai per finire, hai chiuso ostinatamente gli occhi. Sarà quello un lavorìo di perfezionamento a cui dovrai la capacità di riconoscere ed amare la virtù nella vita terrena avvenire; quel lavorìo cominciato fin d'ora sul limite di questa esistenza, e ne avrai tanto di guadagno nell'anima tua. Riconosci la legge suprema dell'universo; confessa l'intelligenza ultima verso cui camminano vacillando ed inciampando le deboli nostre; e credi in Dio.
Che fu? Qual raggio di fiamma divina come saetta penetrò nell'intimo di quel petto, squarciandolo? Il condannato era seduto, immobil sempre; a quelle ultime parole si riscosse come crollato da una mano potente, una ondata di rossore gli corse alle guancie ed un calore inesplicabile, subitaneo, invadendolo tutto, gli fece spuntare a goccioline sulla fronte il sudore; mandò un grido che pareva di dolore come uomo trafitto; sorse in piedi come per rispondere ad un subito appello a cui non si resiste.
— Dio! Dio! esclamò egli, cacciandosi le mani entro i capelli come un pazzo. L'infinito, l'assoluto, il vero, la realtà! Mistero, mistero che ho odiato, perchè non ti ho potuto stringere coll'audacia del mio pensiero, possedere coll'ansia desiosa dell'anima mia!.... Parlami nella mia debolezza, parlami nella mia impotenza, parlami nella morte.... Rivelami questa sostanza che non so capire nelle manifestazioni delle sue parvenze. Se il velo della carne mi offusca l'intelletto, mi fa ostacolo ai raggi del vero, sono lieto che tu me lo strappi. — Voglio contemplar la luce, dovessi consumare a quella fiamma il mio spirito, e distrurlo.... Dio! Dio! ti sento, e vo' comprenderti.
Ricadde come spossato. Maurilio rispettò col silenzio la stanchezza di quella crisi. Dopo un poco Gian-Luigi tese una mano al suo compagno d'infanzia, e disse modestamente:
— Credo alle tue parole, e ti ringrazio.
Stettero un pezzo seduti vicino, tenendosi per mano, discorrendo sotto voce soavemente. Quando la notte era già di molto inoltrata, Maurilio s'alzò per recarsi presso suo padre.
Gian-Luigi lo abbracciò strettamente.
— Non ci rivedremo dunque più: diss'egli con una emozione contenuta, ma quale non aveva forse avuta ancora per l'addietro: forse mai più!
[252] — Con questo corpo, rispose Maurilio, sotto questa forma, di certo no.... La forma?... Chi può immaginare quella che vestiremo nelle esistenze avvenire; qual sia quella che corrisponde allo spirito nostro? Ma quanto a trovarci ancora nel mondo illimitato degli spiriti e nella infinitezza del tempo, ciò avverrà, lo spero, ne sono anzi sicuro, e forse fra non molto. (Sorrise mestamente, soggiungendo:) Picchio ancor io alla porta del sepolcro, e tu mi precederai di poco nel regno dei morti. Sta pur certo, che vi ci riconosceremo, e forse ci riconosceremo avvinti l'uno all'altro dalle memorie di chi sa quali vite anteriori in questo od in altri mondi; memorie che si ridesteranno al nostro spirito ora offuscato, al cadergli intorno della carne che gli fa velo.
— Tal sia di noi! esclamò Gian-Luigi, abbracciando un'altra volta Maurilio. Perchè mi sono io disgiunto da te nella vita? Le tue parole mi avrebbero salvo. In questi momenti che l'approssimarsi della morte fa solenni, vedo con più chiaro sguardo in me stesso; una gran qualità è mancata al complesso delle mie forze: quella dell'amore. Sento ora tutta la pochezza e l'impotenza dell'egoismo.... Sì; nel mio intimo c'è una energia che non si può consumare colla morte di questo corpo; bisogna che ci sieno altre vite in cui impiegarla e svolgerla, farla servire a qualche cosa, in cui riparare agli errori della presente. Avrò in esse la facoltà che qui mi è mancata; lo voglio, ed alla possa dell'intelletto, congiungerò l'intelletto d'amore. Ora vanne; addio! Ed a rivederci nell'eternità!
Si separarono con occhi asciutti e con un sorriso pieno di speranza sul labbro; Maurilio entrò nella cella in cui russava ancora Stracciaferro.
L'alba fatale non era lontana che di poche ore; ed un sacerdote che era accorso a confortare il condannato, volendo approfittare di quel po' di tempo che ancora rimaneva, svegliava il misero su cui così imminente incombeva la vendetta sociale. Stracciaferro girava intorno stupidamente il suo sguardo avvinazzato, e per prima cosa diceva:
— Da bere..... Quell'acquarzente era buonissima.... To' la caraffa è finita..... La era troppo piccolina..... Me se ne porti un'altra.
Il sacerdote incominciava le sue esortazioni religiose; ma l'assassino, guardatolo alquanto di quella guisa con cui un lupo preso in trappola deve guardare il cacciatore che lo viene a spacciare, lo interruppe con mal piglio.
— Che storia la mi viene a contare Lei? La sappia che a me non piace quella musica, e che non intendo di quell'orecchia..... Invece di tante fanfaluche, se la è un brav'uomo, mi faccia dar da bere.... Non mi occorre altro.
Avendo quell'altro voluto insistere, il condannato entrava in una specie di furor bestiale.
— Da bere, da bere: gridava egli strepitando. Voglio dell'acquavita..... Me se ne dia.... Ci ho diritto..... La voglio, dico.
E con un'orrenda bestemmia, poichè aveva afferrata la caraffa, che già era vuota, la scaraventò con tanto impeto sul pavimento, a dispetto della camicia di forza onde aveva impacciati i movimenti, che la mandò in mille frantumi. Il prete si allontanò da lui spaventato: i due fratelli della misericordia si accostarono per tentar di capacitare quel forsennato; ma egli strepitava sempre più forte. Ad un punto il prete, che s'era avvicinato e stava recitando esorcismi in presenza del parosismo di quel miserabile, sentì un respiro affannoso dietro le sue spalle ed una voce, che gli disse:
— Mi lascino solo con quest'uomo, li prego.... Me gli è Dio che mi manda in questo momento presso di lui.
L'aspetto di Maurilio aveva tale imponenza d'autorità che tutti si ritrassero senza domandargliene altra spiegazione. Egli si avvicinò al condannato che urlava tuttavia, gridando colla schiuma alla bocca:
— Da bere! da bere!
Gli pose tutte due le mani sulle spalle e si chinò verso di lui, facendogli piombare addosso uno sguardo da domatore.
— Tacete ed ascoltatemi: gli disse con un accento di comando insieme e di esortazione.
Stracciaferro lo guardò un istante, stupito, quasi non comprendendo tanta audacia, nè sapendo immaginarsi ciò che quello sconosciuto gli volesse; poi una fiamma selvaggia si accese in que' suoi occhi intorbidati, ed egli parve raccoglier le forze per iscuotere da sè quell'importuno, come fa il toro de' cani da presa che gli si attaccano alle tozze membra coi denti nelle così dette corse in Ispagna. Ma prima che avesse tempo a compir l'atto, il giovane si era chinato vieppiù verso la faccia bestiale e gli aveva detto con forza:
— Michele Luponi: io son vostro figlio.
La fiamma si spense nelle pupille del condannato, che diventarono attonite. Stette un poco immobile, evidentemente senza aver compreso il senso delle parole, ma pur tuttavia colpitone, forse dall'accento con cui erano state pronunciate.
— Sono vostro figlio: ripetè il giovane: e vengo a voi guidato dallo spirito di mia madre.
Il miserabile crollò le spalle ed ebbe una ferina occhiata che annunziava prossimo uno scoppio d'ira.
— Figlio! disse. Che figlio d'Egitto?... Io non ho figli... Non mi rompere le tasche... Voglio da bere.
— Ricordatevi una notte tremenda a Milano..... la notte dei morti... Sono ventiquattro anni... Una povera madre vegliava sulla culla del suo bambino... Due uomini entrarono e fecero a strapparle il nato delle sue viscere... Ella volle difenderlo, e s'afferrò colla forza disperata d'una madre che non ha soccorso ad uno dei rapitori: e quell'uomo per liberarsene le piantò un coltello nel seno.
[253] Gli occhi di Stracciaferro sbarrati avevano presa l'espressione del più alto spavento.
— Che sapete voi?... Che volete voi?... gridava egli: e pareva che l'ebbrezza, sotto l'azione del commovimento destato da quel ricordo, sparisse dal suo ottuso cervello.
— Quell'omicida eravate voi, e il bambino era vostro figlio.
— No, no, non è vero: urlò il condannato cui le chiome arruffate si drizzarono in capo. Chi ha parlato mai di ciò? Nel processo non se n'è trattato... Nessuno lo sa, nessuno l'ha da sapere. È forse Graffigna che mi ha tradito?... Io lo ammazzerò come egli ha ammazzato Macobaro... Sono già condannato a morte: che cosa mi si vuole di più?... Lasciatemi stare; lasciatemi stare; ch'io passi almeno in pace questi pochi momenti che mi rimangono. Datemi da bere, che il diavolo vi porti!...
Le nebbie dell'ebrietà tornavano ad invadere quella già mezzo estinta intelligenza; egli era ricaduto nel suo imbestiamento peggio di prima.
— Da bere! da bere! ripeteva coll'accento, collo sguardo, colla mossa d'uno scemo.
Maurilio lo scosse con una emozione che pareva di rabbia.
— Ma quel bambino che avete rubato, cui la povera madre ha difeso inutilmente a prezzo del suo sangue, quel bambino che avete venduto ed era vostro figlio — quel bambino sono io. — Io sono vostro figlio e vengo in queste vostre ore d'agonia a recarvi il mio perdono, il perdono di mia madre.
E il miserabile ormai dissensato del tutto:
— Figlio: balbettava con lingua grossa: non ho figli, io..... Non mi si venga a seccare..... Vo' da bere..... In confortatorio ci si deve dar tutto quello che domandiamo..... Io domando dell'acquavita..... Od almeno mi si lasci dormire... Ho un sonno che non posso tener gli occhi aperti... Ho una sete che mi divora la gola... Ah! se non avessi le braccia in queste maniche d'inferno, vorrei ben io mettervi alla ragione tutti.
— Io non v'abbandonerò, padre mio: disse con mestizia, ma con risoluzione Maurilio: è mia madre che mi ha mandato presso di voi; lo sento, lo so; non vi abbandonerò più fino all'ultimo fatale momento... Questo momento si appressa: e come ci siete voi preparato?... Dite, dite: non vi ricordate voi che qualcuno vi parlasse un giorno della vita futura, e di Dio?..... Di certo nella vostra infanzia ve ne ha parlato vostra madre, perchè voi non foste tolto all'amor suo... Oh richiamatevi alla memoria quegli anni. La madre vi ha fatto inginocchiare, stringer le mani e pronunziar parole che avevano una misteriosa virtù di confortarvi... Ricordatevi! Ricordatevi!... Quel qualche cosa che allora si rasserenava, si calmava, si consolava in voi, non era questo corpo che il cibo satolla ed il liquore assonna; quegli intimi, ineffabili diletti toccavano ben altra parte di voi che quella cui solletica il vizio... V'è alcun che in voi diverso da quelle membra dallo stravizzo intorpidite: questo che fu assopito in voi dalla sciagurata vita materiale, ma non è estinto, perchè non può estinguersi, perchè è immortale. Cercatelo in voi con uno sforzo di volontà e ce lo troverete, e potrete ridestarlo. È immortale, vi dico, è quello che chiamiamo l'anima; e che la distruzione del corpo non distrugge. Voi dovete morire... perchè lo sapete bene che dovete morire, non è vero?... non dimenticatelo... Dovete morire tra poco: ma dovete morire voi, uomo qual siete adesso, voi Michele Luponi, voi Stracciaferro; ma quella parte intima di voi non morrà... quella parte che si commoveva alle dolci parole materne, alle preghiere infantili,..... quella parte vivrà ancora, vivrà sempre, vivrà secondo la sorte di cui si è fatta degna.
Parlò a lungo in cosiffatta maniera; parlò della virtù del pentimento; parlò del riscatto possibile di ogni colpa coll'espiazione e colla volontà; cercò tutte le fibre del cuore umano per farne vibrar una in quello del condannato; si commosse fino alle lagrime, fino a quel trasporto onde pare che un'anima effonda il più intimo di sè nell'anima d'un altro; aspettò con quell'intensità di desiderio che è tanta da farci credere impossibile venga delusa, che un cenno, un cenno solo si manifestasse del ridestarsi dello spirito in quella massa di carne caduta al di sotto dell'umanità.
Stracciaferro aveva appoggiato un braccio all'inginocchiatoio presso cui stava seduto e sul braccio aveva reclinata la testa; poteva la sua mossa esser creduta quella d'un uomo cui le cose udite fanno profondamente meditare. Maurilio si chinò palpitante su di lui. Il miserabile, al suono delle parole di suo figlio, cui non aveva riconosciuto, cui non avrebbe riconosciuto, s'era riaddormentato. Anche questo massimo dolore era riserbato a Maurilio: percuotere su quel masso e non poterne sprigionare pur una scintilla della divina fiaccola; cercare in quella corrotta macerie d'uomo l'anima e non trovarla; e quello era suo padre! Provò uno spasimo così acuto che minore certo giudicò dover essere quello della morte; strinse le mani con atto convulso, torcendosi le dita da rompersele, e levò verso il cielo gli occhi ardenti di febbre con uno sguardo disperato che pareva un'accusa.
— Madre mia! Madre mia! Esclamò egli come un'invocazione, come un rimprovero, come uno sfogo.
— Da bere! ripetè l'ebbro, facendo un movimento per cui ebbe a destarsi.
Maurilio voleva parlare ancora; ma erano tornati nella cella e stavano sulla soglia i fratelli della misericordia, il sacerdote ed un uomo dalla faccia pallida e mesta che teneva in mano una corda a nodo scorsoio.
[254] Maurilio sentì agghiacciarsi il sangue. Il condannato vide que' nuovi personaggi e si riscosse; fermò la sua attenzione su quell'uomo pallido, dalla faccia mesta, che teneva la corda in mano, e conobbe chi fosse ed a quale scopo venuto, perchè lo saettò di uno sguardo che pareva quello d'un infelice che tutto è invaso dal veleno della rabbia canina, e si drizzò di scatto, come per fuggire, o per opporre resistenza al fero atto che veniva a compiere presso di lui quel ministro della umana giustizia.
Il primo di quegli uomini che giungesse accosto al condannato fu il sacerdote.
— Coraggio! gli disse. Il momento fatale si appressa. Nulla più di bene o d'aiuto avete da sperare nella terra: rivolgetevi a Quel di lassù che accoglie ogni sincero pentimento, che perdona a qualunque peccatore a Lui di cuore si raccomandi.
Stracciaferro guardò il prete che gli parlava, mandò un grugnito soffocato, e dall'espressione di ferocia la sua faccia e il suo sguardo passarono a quella d'una stupidità bestiale che non capisce. Il fugace baleno d'intelligenza, che era corso nella sua mente ottusa, erasi già dileguato, ed egli ricaduto nella tenebra. L'uomo dalla corda gli si era accostato e dicevagli con voce sommessa e priva affatto d'ogni sonorità:
— Perdonatemi, fratello mio, se io vengo a compiere questo doloroso uffizio presso di voi; ma il mio dovere me lo comanda.
Ed alzò le mani e le braccia per fargli passare dal capo intorno al collo il laccio fatale.
Maurilio a quella vista mandò un gemito e fece un passo innanzi, senza sapere pur egli che si volesse fare.
— Lasciateci: gli disse il sacerdote arrestandolo: ora non tocca più che a me lo star presso a quell'infelice a compire il debito del mio ministero.
Maurilio si nascose la faccia tra le palme delle mani, e fu preso da un tremito universale. Il condannato aveva tentato levar le mani per allontanare da sè la corda che gli si alzava sul capo; ma la camicia di forza gli aveva impedito tal mossa; allora, come affranto di colpo, s'era lasciato ricader seduto colà dove stava dapprima, e non aveva mostro più che una completa apatia. Suo figlio, sollevando dalle mani il viso, lo vide colla ignominiosa corda pendente dal collo, il corpo accasciato in uno svigorito abbandono, e vicino a lui il prete che gli susurrava parole cui il misero non pareva udire nemmanco. Non resse a quella vista: uscì barcollando di quella cella, e sorreggendosi alla fredda parete umidiccia, venne lungo quei cupi corridoi in cui densa era la tenebra entro la quale appena parevan macchie rossigne i fumosi lucignoli di rade lanterne che stavano per ispegnersi. Aveva egli tracannato sino alla feccia del suo calice; aveva tutta consumata la sì gran parte dei dolori assegnati all'anima sua nella vita terrena; aveva il cuore infranto; sentiva esser compita la sua infelice giornata: camminava come il gladiatore antico che aveva ricevuto il colpo mortale e andava cercarsi un angolo nella sanguinosa arena, in cui sdraiarsi e morire.
Ad un tratto udì a pochi passi innanzi a sè un accorrer di gente, un susurro di persone, un agitato scambiarsi di domande, di risposte e d'interiezioni; vide un venire, un aggrupparsi, un muoversi irrequieto di lumi. Era giunto presso la cella in cui era stato posto a passare le ventiquattr'ore d'agonia il medichino. Maurilio non ebbe bisogno di chiedere che fosse avvenuto: le parole che udiva incrociarsi nel capannello raccoltosi sulla soglia di quella cella ebbero pure la forza di penetrare sino alla sua mente, richiamarne l'attenzione ed apprenderle la causa di quella emozione: il medichino era caduto a un tratto come colpito da un fulmine; la subita, misteriosa morte lo aveva salvato dal patibolo.
Il figliuolo di Stracciaferro si spinse innanzi entro la carcere che era divenuta la camera mortuaria del suo compagno d'infanzia, e contemplò tremando lo spettacolo che gli si offerse alla vista. Gian-Luigi giaceva lungo e disteso per terra, le braccia larghe, le mani mollemente ripiegate, la testa un po' tirata all'indietro e quindi la faccia volta verso il soffitto: nei suoi lineamenti v'era una placidità, a cui però faceva contrasto la ruga caratteristica della fronte che era disegnata nettamente nella pallidezza d'avorio, ma che andava via via spianandosi, come se a poco a poco scancellata dalla mano della morte. Era forse la traccia dell'ultima lotta di quell'organismo contro la volontà, e forse meglio, di quell'anima contro l'idea; dell'ultimo cozzo dei pensieri, in mezzo a cui quello spirito inquieto e superbo, si era violentemente sottratto ai dubbi della vita per fuggire l'ignominia, per precipitarsi avidamente nel mistero della tomba, ansioso di trovarci il motto dell'enimma.
Maurilio stette mirandolo alquanto. Ad ogni momento cresceva la calma nelle sembianze del cadavere: e con questa calma veniva fuori agli occhi del giovane che lo contemplava una rassomiglianza di quei lineamenti con altri che gli erano impressi da lungo tempo nell'animo: il dolce viso leggiadro di Virginia. S'inginocchiò presso di lui, e depose un bacio su quella fronte che già era diventata ghiaccia.
— Addio per sempre, corpo che hai chiuso quella misera anima combattuta; ritorna i tuoi elementi al gran serbatoio della natura, e possa fin la memoria distrursi della tua vita. Tu spirito, che ora te ne sei sciolto, possa arrivare nella nuova esistenza immateriale a tanto progresso da essere poi, in altra prova terrena, oltre che un intelligente, un onesto.
Quanto più s'avvicinava l'alba e tanto più cresceva [255] nel medichino l'agitazione ch'egli aveva dapprima dissimulata, ma cui ora non poteva nascondere più. Se la Zoe mancasse all'assunto impegno e fosse in qualunque modo impedita di recargli, come aveva promesso, la morte! Gli toccherebbe percorrere le strade della città sull'infame carro, coll'infame accompagnatura, in mezzo all'infame curiosità del volgo; gli toccherebbe salire gl'infami scalini del patibolo e pendere dal legno infame, ignominioso spettacolo ad una vil turba che ne prenderebbe codardo diletto. Questo pensiero tanto lo tormentava da toglierlo quasi di senno, sentiva sfuggirgli il dominio che aveva conservato sino allora su sè stesso; la volontà pareva sul punto di cedere travolta dall'impeto della passione e dell'istinto. Guardava intorno a sè con occhio smarrito, come per cercare un mezzo di morte, poichè quello invocato e sperato non gli giungeva; aveva già entro sè maledetta e sacrata al demone della vendetta la cortigiana da cui si credeva ora abbandonato. Quando udì all'orologio d'una chiesa vicina suonare le cinque ore, ogni speranza fuggì da lui: digrignò i denti, si morse le mani, e guatò intorno con tanta ferocia che i fratelli della misericordia se ne allontanarono impauriti. Due ore appena lo separavano dal supplizio; anche presentandosi tuttavia la Zoe, egli temeva che non le sarebbe più stato concesso giungere sino a lui. Ma allora appunto ch'egli si riteneva perduto, la salvezza arrivava. Un uomo dalla faccia scialba, con una strana espressione di stanchezza nelle sembianze, che parevano d'infermo, si presentò, accompagnato da una donna velata, alla porta del confortatorio e disse con accento di comando:
— Lasciate penetrare questa signora presso il condannato.
Si ubbidì al sotto-ispettore delle carceri; e quella donna entrò dove stava il moribondo. Questi udì il fruscio delle vesti e sollevò il capo; benchè velata la riconobbe; sorse di scatto con un'esclamazione di gioia e le mosse vivamente all'incontro.
— Sei tu, Zoe? Sei tu pur finalmente?
La cortigiana levò il velo dalla faccia.
— Sono io! rispose con voce cupa, sorda, stentata.
Ah! quanto era ella diversa dalla Leggiera che vedemmo lieta e procace nel palchetto del teatro! Come l'aveva cambiata quella notte trascorsa, stendendo sulla sua bellezza il pallore dell'angoscia, incavandovi le rughe della vergogna! Il medichino medesimo ne fu sovraccolto.
— Che hai tu? le chiese prendendola per le mani che strinse forte fra le sue.
— Ho comperato il diritto di venirti a recare la morte; rispose sommessamente la Zoe: e l'ho pagato molto caro.
Gian-Luigi non domandò pure spiegazione di queste parole.
— Tu hai dunque teco la mia libertà? disse con vivace èmpito di gioia.
— Sì: rispose essa tremando tutta ed atterrando quasi impaurita gli sguardi.
— Quale io te la chiesi?
— Sì: ripetè la donna.
— Che tu sii dunque benedetta! L'ultimo favore e l'ultima gioia mi verranno da te..... Solleva la fronte, Zoe, e guardami bene entro gli occhi.
Ella tremava sempre più forte e le sue pupille non potevano staccarsi dal suolo.
— No, no: disse; non son degna di guardarti.
Ma egli, stringendo nuovamente quelle mani che teneva ancora fra le sue:
— Noi siam degni l'un dell'altra, oh va!... E tu almanco avrai amato!... Mi vai innanzi per ciò..... Guardami, Zoe, perchè tu possa leggere ne' miei occhi la mia riconoscenza, perchè ti possa stampare un'ultima volta nella mente le mie sembianze. Fu una vita scellerata la mia, di cui devo desiderare si disperda presso tutti ogni memoria; ma è una strana passione dell'uomo che, a dispetto di tutto, lo attacca a questa miserabile esistenza terrena. Mi è di una folle dolcezza, anche in questi momenti, il pensiero che, morto, vivrà ancora nell'anima tua lo sparito esser mio, mercè il ricordo. Guardami adunque!... Presso te sola vo' riviver così; da tutti gli altri non domando che oblìo: presso te sola!... Per quanto tempo?...
— Sempre, sempre, per tutta la vita: esclamò la Zoe che affondava i suoi negli occhi di lui, e gli pendeva palpitante dal labbro.
Gian-Luigi sorrise mestamente.
— Non ti domando l'impossibile: riprese a dire. Finchè nuove impressioni abbastanza forti e vaste per occupar tutto il tuo animo non me ne avranno scacciato. Non voglio che tu faccia il menomo sforzo per ritenere la mia immagine quando accenni a dileguarsi. Obliato dai viventi in questo mondo, chi sa che non abbia anch'io allora tutte dimenticate le cose terrene!... E ciò avvenisse pure sollecitamente!..... Zoe, noi abbiamo sbagliato la vita..... Auguro anche a te di morir presto, prima che la vecchiaia t'abbia raggiunta, prima che anche quel piccolo carbone acceso d'amore che ti rimane nell'anima si sia spento... Ora addio!... Bisogna che io m'apra le porte del sepolcro... Sento un palpito in me che rivela le riluttanze della natura; ma la mia volontà è impaziente; l'anima anela di slanciarsi nell'incognito mare. Prendi fra le tue labbra la morte, e porgimela nel tuo ultimo bacio. Questo sacro bacio mortale cancellerà l'onta dei baci menzogneri e brutali che abbiamo dato, che ci siamo scambiati.
Zoe si torse le mani con disperazione.
— No, no; disse: darti io la morte, non posso... Vederti cadere innanzi a me!...
— Non mi vedrai. Aspetterò a rompere l'involto [256] in cui è rinchiuso il veleno quando tu sarai partita di qui.
Uno di quegli impeti di generoso affetto, a cui sono aperte le impressionabili anime delle donne, anche le men nobili, assalse allora la cortigiana.
— Piuttosto, esclamò ella, moriamo insieme: rompi la fragil crosta, mentre le nostre labbra si toccano, e beviamo tuttedue la morte.
— No, Zoe: perchè vuoi tu accrescere il mio delitto? Lasciami morir solo.
Un'ombra nera comparve in mezzo ai fratelli della misericordia che s'erano ritirati presso la porta: era fra' Bonaventura che, secondo i presi accordi, veniva per essere compagno in quelle ultime ore al condannato.
— Il tempo preme: soggiunse Gian-Luigi che vide il gesuita, e gli fece colla mano cenno di aspettare un momento: coraggio, Zoe.
Questa si recò la mano alla bocca e vi pose una pillola grossa come una piccola nocciuola. Gian-Luigi afferrò la donna con un impeto che pareva di passione; la strinse al petto con abbraccio furibondo; ne cercò avidamente colle sue le labbra e le tenne suggellate in un bacio lungo, tenace. Nel silenzio di quella stanza e di quell'ora, si sentiva il palpito del cuore della Zoe; tanto era forte. Quando il medichino la sciolse dal suo amplesso, ella indietrò per alcuni passi vacillando, come se stesse per cadere: la pillola mortale dalla sua bocca era passata in quella di Gian-Luigi.
Successe un istante di silenzio.
— Addio! addio! gridò poi il medichino. Ora va... Tutto è finito.
Padre Bonaventura s'avanzava colla sua faccia ipocritamente dolcereccia. La Leggera parve voler parlare, ma la voce non uscì dalle sue labbra allividite, due lagrime le colavano giù delle guancie; agitò le mani, poi si premette il cuore, un penoso singhiozzo eruppe dalla sua gola, ed abbassato il velo, uscì vacillando. Gian-Luigi l'accompagnò con un ineffabile sguardo di compassione.
— Figliuol mio: disse il gesuita al condannato: in questa notte che oramai è trascorsa, Dio ha egli parlato al vostro cuore?
Gian-Luigi guardò il frate con una occhiata fissa, da cui era sbandita ogni espressione della primitiva ironia.
— Sì: diss'egli seriamente: e di quella sua parola me ne odo ancora entro l'anima l'eco che risuona.
Fra' Bonaventura credette opportuno il momento di spacciare un'edizione delle sue solite esortazioni che teneva in pronto per queste circostanze: Gian-Luigi pareva ascoltarlo, ma in realtà non faceva al sermonante ned alle sue parole la menoma attenzione. Egli ravvolgeva nella sua bocca la mortifera pallottolina; era di gomma con entrovi una goccia di acido prussico; e intanto pensava:
— Appena morto io, se il mio spirito non muore, come mi sono indotto a credere, in quale condizione si troverà? Con quali attinenze ancora con questo mondo, colla materia, colla luce, collo spazio, col tempo?... Sì, questo è uno spaventevole abisso. Questa è tale curiosità che pure sgomenta... Esito forse?... Ho io forse paura?... No.... Perchè dunque mi trattengo innanzi a quell'attimo che deve tutto decidere, che deve lanciarmi nell'eternità?
Guardò la faccia grassa e rubiconda del gesuita, il quale, gli occhi a mezzo socchiusi, dipanava con una certa voluttà i periodi della sua eloquenza da predicatore.
— Appena costui interrompa la sua onda di parole per prender fiato, disse a se stesso sorridendo, morderò in questo chicco di morte.
Il sermonante non tardò a fare una piccola pausa necessaria ai suoi polmoni; e Gian-Luigi si tenne parola. S'udì un lieve rumore: quello della crosta di gomma rotta dai denti; e di botto la vita cessò come per incanto in quel corpo giovane, robusto, nella più ricca e piena espansione della sua vitalità. Non diede un grido, nè un gemito, nè nulla: cadde improvviso quant'era lungo; nè la menoma convulsione gli agitò le membra, gli contrasse i lineamenti. Padre Bonaventura, stupito, spaventato, si chinò sopra un cadavere.
— Ah! questa è l'opera del marchese: pensò egli, e da buon gesuita stimò opportuno consiglio tacere ed allontanarsi senz'altro.
La Zoe presso all'uscir della carcere vide appoggiato alla parete un uomo che pareva un'ombra; suo primo impulso fu passar ratta senza badargli; ma poi ravvisatasi gli si avvicinò. Stettero tuttedue l'uno innanzi all'altra, senza parlarsi, senza guardarsi, tremando. Fu la donna finalmente che ruppe il silenzio.
— Quello che tu hai fatto è infame; quello che mi hai obbligato a fare è infame. Questa infamia che per altri sarebbe cagione di odio e innalzerebbe fra loro una insuperabil barriera, noi invece accomuna. Ora ci siamo ritrovati e ci apparteniamo; tu hai da essere strumento per le mie passioni, come io fui per la tua. Ti servirò ancora, ma tu mi servirai... La mia passione ora è una vendetta... Mi aiuterai a compirla[4].
Barnaba non rispose parola; ma promise con uno sguardo. La cortigiana partì. Lungo le strade che ella percorse trovò già frequenti i gruppi de' curiosi che s'affrettavano prima di giorno a recarsi sul luogo dove avevano da essere giustiziati i rei. Senza sapere di avere questo voto scellerato comune con Nerone, la cortigiana desiderò poter tenere in una testa sola tutte le teste di quella folla crudele [257] per ischiaffeggiarla e sputarle sul viso. Giunse sino in Piazza Castello che quasi non sapeva quale strada avesse percorsa e perchè fosse colà venuta. In fondo si drizzava in una massa scura l'imponente Palazzo reale. Zoe tutta la sua ira, tutto il suo odio, tutta la ferocia del suo dolore concentrò in un punto e volse ad una persona sola. Tese la destra stretta a pugno verso il Palazzo reale e disse coi denti serrati:
— Principe! Principe! Tu me la pagherai!
Sino al luogo in cui ella si trovava, pel queto aere della notte cui non rompeva ancora il menomo raggio dell'alba, venivano i lenti e gravi rintocchi della campana che suonava l'agonia degl'infelici che stavano per morire per mano del boia.
Maurilio sta sul suo letto di morte. La ragione della vita è cessata per lui. Ogni forza di vitalità in quegli ultimi così crudeli tormenti s'è affatto consunta. Egli non ha dimenticato Virginia. Domandò un colloquio al marchese, e perorò la causa dell'amore di lei. Alla forza de' suoi argomenti, al calore della sua eloquenza aggiungeva efficacia e solennità la sua morte che tutti vedevano vicina. Parlò della parte dell'aristocrazia nella nuova fase della civiltà che s'annunziava: quella che era stata sostenuta un giorno era irrimediabilmente finita: una nuova parte doveva la nobiltà assumersi, o perire come inutile, peggio che inutile, come inciampo. Bisognava quindi chiamasse a sè nuovi elementi, si risanguasse coll'operosità del ceto medio, si avvicinasse mercè l'intrammezzo della borghesia al gran serbatoio popolare. Il marchese, già proclive a siffatte idee, subì l'influsso dei ragionamenti e delle esortazioni del moribondo; diede la promessa, che, appena opportune le circostanze, non avrebbe contrastato al matrimonio di Virginia di Castelletto con Francesco Benda. Maurilio sapeva che una promessa del marchese era una immanchevole verità nell'avvenire.
Si ricordò di Gognino, del povero fanciullo da lui trovato una sera, piangente ed affamato, nel fango della strada, cui la sorte gli aveva menato innanzi per aggruppare e sciogliere il più rilevante episodio del dramma della sua vita, e col quale aveva comune non che il destino, ma il sangue. Abbandonato a sè, coll'educazione ch'ei poteva ricevere dalla sua nonna, la sorella di Stracciaferro, non era egli da temersi per sicuro che quel bambino sarebbe riuscito quale era stato Stracciaferro medesimo?
Maurilio lo raccomandò al marchese, il quale disse avrebbe tolto quell'infelice dalle unghie della vecchia, infame venditrice di abitini e di rosarii, e fattolo allevare un onest'uomo.
Tutti coloro che avevano avuto attinenza con lui, che in qualche modo gli erano stati cari o che lui avevano avuto caro, Maurilio volle ancora vedere: anche il signor Defasi, cui volle far noto non esser egli altrimenti il figliuolo della nobil dama, quale si era creduto un istante, ma quello dell'assassino, morto sul patibolo, quasi a togliere con ciò, o scemare almeno il rammarico che il buon libraio aveva tuttavia di averlo sospettato reo d'un delitto.
Pregò Don Venanzio gli conducesse eziandio la povera Margherita. La vecchia contadina, quando uscita dalla carcere in cui il suo diletto Giannino aspettava l'ora della morte, era vissuta in una specie di stupidimento che pareva insensibilità, ed era invece eccesso di spasimo, fino al mattino vegnente, pochi minuti prima che cominciasse i suoi rintocchi la campana dell'agonia. Allora s'era riscossa ed aveva tormentate colle mani convulse le sue chiome canute, come persona che risensi ad un tratto e si ricordi subitamente di cosa che prema oltre misura. Erasi sferrata dal luogo ove si trovava, ed era corsa alla carcere, appostatasi alla parete proprio dirimpetto alla porta e rimasta lì cogli occhi fissi su quella soglia fatale, immobile che forza nessuna sarebbe stata capace di trarla viva di là. Voleva vederlo ancora una volta, gettargli ancora un saluto ed un bacio mentre passava, fare che in mezzo ai ceffi ostili e curiosi che lo avrebbero con crudele avidità contemplato, trovasse almeno uno sguardo amoroso, una faccia benigna, un labbro che lo benediceva.
Quando le pesanti imposte s'aprirono, ed al dubbio lume d'un crepuscolo invernale appena incominciato, cominciarono ad uscirne gli sgherri di scorta, Margherita si aggrappò colle mani macilente alla parete della casa contro cui s'appoggiava, per non cadere, tanto fu il commovimento di tutto l'esser suo, vedendo due carri pesanti venir fuori dalla cupa vôlta del portone e scantonar nella strada. Oh con quale ardore fisse le sue pupille inaridite dal pianto sulle faccie di quegli sciagurati che, le braccia legate dietro le reni, stavano seduti in mezzo ai preti su quei carri sobbalzanti!... Ma nel primo il suo Giannino non c'era. Sarà dunque nell'altro. Drizzò, per dirla con Dante, tutto il nerbo della sua facoltà visiva su quel secondo carro che ad una certa distanza del primo veniva fuori dall'oscurità del portone alla luce grigiastra del mattino; — e neppure in esso non iscorse la bella figura del suo diletto. Stette attonita da principio, e non seppe neppur rallegrarsi. Non le venne idea nessuna a spiegare questo fatto. Credette non aver visto bene; quantunque sentisse impossibile che suo figlio essendoci, gli occhi suoi non l'avessero di presente trovato. Volle correre dietro i carri che s'allontanavano lentamente nello scuriccio della strada, per vederli anche una volta; ma la folla raccolta per vedere quello spettacolo ne la impedì. Ebbe dalle [258] ciarle di quella folla, le quali si fecero alte e vive di subito, la conferma, ch'ella non s'era sbagliata, che aveva veduto bene, che il suo Giannino colà non era.
— E perchè non c'è il medichino? diceva la gente. Oh che non aveva da essere giustiziato anch'egli cogli altri questa mattina?
In un attimo corsero pel popolo colà raccolto le più varie novelle, venute fuori, come sempre avviene, non si sapeva d'onde nè come: — che il capo della cocca lo si serbava per un altro giorno: — che gli era stata fatta grazia: — che gli era fuggito; corse anche la voce della verità: — che gli era morto: — ma questa nessuno volle crederla.
Margherita, agitata, presa da una viva speranza, si slanciò verso la carcere a domandare di Gian-Luigi, a pregare glie lo si lasciasse vedere; ma, com'è facile immaginarsi, fu bruscamente respinta. Ben le fu detto anche colà che il capo della cocca era morto, ma ella ciò non credette meglio di quel che lo credesse il popolo. Ella ben lo aveva detto, non esser possibile che egli salisse il patibolo, che egli così giovane e bello dovesse morire. La ragione del salvamento di lui, ella non se la spiegava, non la cercava neppure: fosse anche intravvenuto un miracolo visibile ad effettuare la sua speranza, ella non si sarebbe menomamente stupita. Il fatto verificava il suo istintivo indovinamento: ecco tutto. E siccome le più assurde dicerie correvano per la plebe sul conto della scomparsa del medichino, e sulla mancanza di lui alla orribil festa che la giustizia umana aveva preparata alla sua crudeltà, Margherita accettava tutte per vere quelle che conchiudevano alla salute di quel personaggio diventato di botto misterioso e leggendario.
Anche presso l'infimo volgo erasi sparso delle relazioni che il medichino aveva con nobili e potenti famiglie; qualche cosa era trapelato eziandio, e chi potrebbe dirne mai il come? circa la origine di lui, che si attribuiva ad un alto e potente casato; volevasi ad ogni costo che misteriosi ed illustri protettori lo avessero sottratto e per nasconder meglio la cosa si facesse spargere la notizia della morte di lui. Il popolo che, vedendolo menare al supplizio, avrebbe forse manifestato per quello strano individuo la più viva simpatia, ora vedendoselo mancare alla sua sanguinaria voluttà di feroci emozioni, tumultuò di guisa che fu necessario l'accorrere dei soldati a disperdere la riotta intorno alla carcere. Ma questa per lei felice illusione salvò la povera Margherita dal morir disperata.
Quando fu introdotta presso il letto dove moriva Maurilio, la vecchia contadina, senza voler parlar d'altro, si chinò all'orecchio del giacente, e con un sorriso mezzo da scemo, gli disse piano all'orecchio:
— So che vive... Zitto!... Non si de' sapere..... Non lo dirò a nessuno, sta certo; ma fra noi ce lo possiam dire... Andrà lontano, lontano, neh?... Forse ci è già ito... Io non lo vedrò più sulla terra. (Si asciugò una lagrima). Capisco che dev'esser così... e pazienza!... Tu lo vedrai ancora, non è vero?... Digli che si ricordi di me... E poi quando verrai al villaggio alcuna volta..... Guarirai, e ci verrai certo... mi recherai le sue novelle... Intanto dàgli ancora un bacio per parte mia.
Baciò il moribondo colle sue labbra secche ed avvizzite.
— Ecco, io non ho più nulla da dirti: soggiunse poi con aria ed accento vieppiù da dissensato; posso andarmene, e me ne vado al mio paese. Non ho più nulla da far qui, in mezzo a questo rumore che mi toglie la povera mia vecchia testa..... Vado al villaggio... Ma ch'ei non si dimentichi la vecchia Margherita che lo ha allattato... La sua vera madre, l'unica sua madre sono stata io.
Tornata al villaggio, il marchese provvide ad ogni suo bisogno; ma ella non visse a lungo. Si trascinò due anni, senza quasi parlare altrui, dalla sua misera casipola alla chiesa, e morì ancora con quella illusione sul conto del suo Giannino; illusione cui lo stesso Don Venanzio non ebbe coraggio di distrurre, credendola una pietà della Provvidenza verso quell'infelice.
Maurilio era caduto in un assopimento che già pareva la morte: il medico aveva detto che da quello non si sarebbe ridesto più, ma insensibilmente passato nel sonno eterno. Intorno a lui stavano mesti e raccolti e lo contemplavano con amore gli amici suoi: Giovanni Selva, Antonio Vanardi, Romualdo, anche Mario Tiburzio, del quale il morente aveva chiesto eziandio: il marchese si teneva dritto, nella sua mossa nobilmente severa, da un lato del letto, e sulla sua bella fisionomia dignitosa di vecchio, era una mestizia forse uguale a quella dei giovani amici del morente. Maggiore d'ogni altro era il dolore che appariva sulla faccia di Don Venanzio, il quale sedeva dall'altra parte del letto e teneva fra le sue una delle mani abbandonate del moribondo. Gli occhi sempre così miti e sereni del vecchio sacerdote erano pieni di lagrime, ed oltre quelle lagrime avevano una desolazione, quale non vi era apparsa ancora mai, in tutte le traversie che pure aveva egli passate nella vita.
Quei due giovani egli aveva amati come figli; si era tanto tempo compiaciuto in essi, svolgendone la rara intelligenza; aveva deplorato i traviamenti del loro pensiero, ma sperato sempre che li avrebbe un giorno ricondotti sulla retta via segnata dalla Chiesa di cui egli era membro e stromento, dalla religione di cui era ministro. Ora ambedue, sul fiore dell'età, gli venivano tolti e crudelmente tanto! e lasciando in lui tanto terrore della sorte loro futura, che appena se giungeva a calmarlo l'immensa idea ch'egli aveva della clemenza di Dio.
[259] Maurilio giaceva supino, gli occhi e le labbra chiusi. I suoi nerissimi capelli, dritti e scarmigliati sul guanciale candidissimo, gli facevano una corona che pareva di spine alla fronte vasta, dalle ossa protuberanti, che sembrava imbiancatasi, che avreste detto lucente d'una misteriosa fosforescenza. In quei supremi istanti i suoi lineamenti grossolani avevano presa un'espressione di nobiltà di cui li avreste creduti incapaci dapprima; la sua fisionomia trasformata aveva assunta una nuova, una strana, inesplicabile, inesprimibile bellezza che non era quella della misera forma umana, che anche uno scettico avrebbe detta superiore alla terrena.
La predizione del medico ebbe torto. Il morente ad un punto aprì gli occhi e girò intorno le pupille, conscio di sè e delle cose che lo circondavano: salutò con un'occhiata di gratitudine e di compiacenza coloro che lo attorniavano con mostre di dolce affetto e si dolevano del suo destino; fermò più a lungo e più commosso lo sguardo sulla bella testa canuta di Don Venanzio, che piangeva chetamente a lui vicino; volle stringere colla sua la mano del vecchio prete, ma non n'ebbe la forza; accennò lo sollevassero sopra i cuscini, e poichè fu soddisfatto al suo desiderio, parlò pianamente a colui che era stato il suo primo e vero e si può dire unico benefattore, che gli aveva fatto intellettualmente ed anche per affetto da padre.
— Non pianga, Don Venanzio; io sto per giungere là dove un po' meglio si vede la gloria di Dio. Non tema della salute dell'anima mia, non tema del mio avvenire oltre tomba. Ai moribondi avviene qualche volta che si conceda avere un sentore del mondo degli spiriti a cui stanno per approdare. Dio mi fu largo di tanta ventura. Nel mio assopimento ed anche ora mi stanno dinanzi le auree forme d'una sublime visione. Non gli occhi del corpo la contemplano, ma quelli dello spirito già apertisi, benchè tuttavia nel carcere della carne. Ella si spaventò per me, che abbandonai le forme della fede da Lei apprese alla mia infanzia. La si rassicuri: non è la forma, è la sostanza della fede che salva. Io credo al buono, al bello ed a Dio. Credo ed amo! Ecco i profeti e la legge.... Veggo nell'infinità dello spazio l'infinità dei mondi, e in questi, traverso a questi, l'infinità delle vite degli spiriti, da incarnazione ad incarnazione, da grado a grado; immenso elevarsi di anime verso l'inarrivabile. Nel cammino chi s'arresta, chi travia, chi cade: — ma niuno è perduto. Il male non ha l'autorità dell'assoluto; è una contingenza; è l'ombra; privazione, non corpo; negazione, non sussistenza; è il divenire del bene. La grande fraternità degli spiriti che si sviluppano nella materia, cominciando dalle prime manifestazioni della vita sino all'intelligenza che si accresce e si accresce vestendo sempre meno di materia: questa grande fraternità scrive la sua storia e la imprime per mezzo dell'eterea luce nell'infinità dello spazio che i raggi percorsero, percorrono e percorreranno sempre, sempre, senza principio, senza interruzione, senza fine. Questa luce, latrice delle immagini d'ogni avvenimento cosmico, cammina, cammina nelle profondità dello spazio: correte alla distanza che occorre e troverete rappresentate le fasi geologiche dell'esistenza primitiva della nostra terra. In queste pagine immortali mi lasciò un momento scorgere la clemenza di Dio. Tosto che sarà spirito disumanato, le potrò leggere con occhio sicuro. Tutto il passato è così sempre presente, e tutto coesiste nell'attimo. La luce delle lontane stelle che giunge a noi dopo due mila anni di viaggio è per noi il presente, e per loro è il tempo forse già sepolto nell'oblio.
I presenti credevano ch'ei vaneggiasse; Don Venanzio lo pregò a non istancarsi cotanto nella fatica di parlare che era molta e sempre maggiore per lui, al quale il fiato ad ogni minuto diventava più oppresso e più debole. Ma il moribondo scosse lievemente la testa, facendo un mesto sorriso.
— Lasciatemi dire: rispose: pochi minuti soltanto mi rimangono, ed ho desiderio di comunicarvi ancora tante cose!
Si rivolse ai giovani amici suoi, Selva, Romualdo, Vanardi e Tiburzio.
— Seguitate ad amare la patria. L'amore tanto è più nobile, quanto più si stacca dall'individuo ed allarga la cerchia della sua azione. Chi si sente di amare la patria, come altri ama la sua amante, è una delle anime più generose del mondo. Cristo amò così l'umanità e fu l'essere il più sublime e il più divino che abbia visto la terra. La patria avrà bisogno di voi; possiate dare esempio agl'Italiani di sacrificio, non solo della vita, ma dell'interesse, delle passioni, dei pregiudizi personali: di questi sacrificii hanno bisogno le nazioni per risorgere e farsi grandi: e di questi sacrificii temo gl'Italiani non troppo capaci. Virtù ci vuole, ed amore!.... Amatevi tutti. Amate que' poveri vostri fratelli costituiti nella perenne minor età dell'ignoranza, che formano la plebe. Amateli ed educateli — e date alle loro famiglie il pane e la sicurezza della vita....
Il respiro a questo punto gli mancò affatto. Fe' cenno che soffocava, e Giovanni Selva fu lesto a sollevarlo nelle sue braccia.
— Quanto a me: soggiunse con voce che appena si poteva udire: non obliatemi affatto... ed amatemi un pochino, anche morto.... Io ho perdonato tutti e tutto... Domando che tutto e tutti mi perdonino.... Ho sofferto molto, ed ho amato tanto!... E non ebbi un'ora di gioia.... L'avrò nell'avvenire... (Fece un ineffabile sorriso). Oh! se l'avrò!... Vorrei parlare ancora... e non posso più... Sento un'onda di poesia divina che m'invade... Se la potessi esprimere!.... Voi bacierete la mia fronte, [260] quando sarò cadavere..... Essa albergò un'intelligenza.... Date quest'addio ad una miserabil forma che si distrurrà per sempre... Addio! addio! addio!
Levò verso il cielo le sue pupille larghe, in cui correvano tratto tratto guizzi di luce simili a quelli d'una lampada che sta per ispegnersi, ed una inesprimibile aura di beatitudine gl'illuminò la faccia: egli vedeva innanzi a sè lo spirito protettore della sua vita.
— Sei tu, madre mia: esclamò con immenso affetto: tu che pur da morta, non abbandonasti il figliuol tuo nel mondo!... Tu che ora mi chiami ed inviti!... Vengo, vengo, vengo!... Ecco la luce!... Ecco l'etere!... Ecco l'infinito!
Gettò un grido e ricadde di tutto il suo peso sulle braccia di Selva. Con quell'ultimo grido l'anima era fuggita da quell'infelice corpo tormentato.
Il domani una piccola, mesta schiera accompagnava al cimitero le spoglie di colui che fu nella vita terrena chiamato Maurilio. Quando la fossa in cui venne calata la cassa mortuaria fu ricolma di terra, Don Venanzio pronunziò sovr'essa le ultime preghiere, e gli amici del morto, credenti e non credenti nelle forme cattoliche, udirono con religioso rispetto, a capo scoperto, le solenni parole che colla voce tremolante del vecchio sacerdote acquistavano efficacia maggiore; poi, quando con una ultima benedizione, con un ultimo addio si staccarono da quella tomba, Mario Tiburzio, disse ai giovani traendoli in disparte:
— Ora conviene recarci colà, ad altri, ma men tristi addii. È giunta l'ora: venite.
Lasciarono tornar solo in città Don Venanzio, nella carrozza che il marchese di Baldissero aveva fatta allestire per lui; ed essi, passando traverso i campi, si recarono sulla strada che, passata la Dora sul ponte Mosca, si dirige verso la pianura di Lombardia. Si posero alla distanza di un centinaio di metri dall'ultima casa che si trovava al di là del ponte; e stettero aspettando, silenziosi, mesti e raccolti, dominati dalla solennità della scena di morte a cui avevano allora allora assistito, da quella eziandio del convegno a cui erano venuti. Dopo un poco, sulla strada deserta si udì il rumore di ruote correnti, e si vide venir da Torino una carrozza in posta al trotto serrato di due cavalli. Appena vide i giovani sulla strada, chi era dentro il legno, diè ordine al postiglione di fermare: ed aperto l'usciòlo, ne discese un uomo di alta statura, di nobile portamento, di faccia serena ed intelligente, di aspetto da militare insieme e da cavaliere; era Massimo d'Azeglio, verso cui i giovani s'affrettarono circondandolo con mostre d'affettuosa riverenza.
— Ho voluto darvi qui l'addio: disse il valente scrittore e patriota; per evitare ogni sospetto ed ogni sorveglianza della Polizia. Ci tenevo a stringervi le mani, bravi giovani, ed a lasciarvi per addio e per memoria di me alcuni consigli.... no, dirò meglio, alcune preghiere. Credete a me: l'epoca delle congiure è passata: bisogna oggidì cospirare al bene della patria ed al progresso dell'umanità alla chiara luce del sole. Non si tratta d'uccidere il tiranno, ma di educare il popolo, ed anco i principi, e di elevare le masse. Per questo ci vuole la coraggiosa propaganda della pubblicità.
« — Carlo Alberto fa da senno, io ne sono persuaso; egli è con noi, è obbligato ad essere con noi; non attraversiamogli il cammino, e mettiamoci noi con esso lui.
Mario Tiburzio interruppe.
— Ella ha ragione, sor Massimo. Questi giorni ci ho pensato di molto a codeste cose, e mi sono convinto che per ora miglior mezzo per giovare all'Italia è farsi soldato di Carlo Alberto. Ho rinunciato al mio repubblicanismo (mandò un sospiro) e domani stesso vestirò l'assisa di soldato nell'esercito piemontese.
Massimo d'Azeglio gli strinse la mano.
— Ve ne lodo.... Spero che ci troveremo un giorno nei campi lombardi a combattere, fianco a fianco.
— Vi ci troveremo tutti: esclamarono in coro gli altri con entusiasmo.
— Dio vi ascolti! Io ripiglio la mia giornata di messo della nuova rivoluzione. Possa trovar io per tutta Italia anime come le vostre.
Dopo i più cordiali salutari ed augurii, d'Azeglio risalì nella carrozza e continuò il viaggio verso Milano; i giovani stettero fermi guardando dietro quel legno che s'allontanava, finchè non lo videro più.
Quando giunse il 1848 Mario Tiburzio non fu il solo che prendesse parte alla guerra: si arruolarono eziandio Giovanni Selva, Romualdo e Francesco Benda. Povera sora Teresa! Anche questo dolore le doveva toccare: veder partire per la guerra il suo figlio dilettissimo, che solo erale rimasto in casa. Il padre di Francesco soffrì molto ancor egli, ma nell'attività del suo lavoro industriale a cui si diede con più alacrità di prima, nella robustezza maggiore della sua tempra aveva gli elementi da resistere meglio al dolore. La infelice Teresa, durante l'assenza del figliuolo, andava a calmare l'ansietà dei suoi timori ed a confortarsi colla preghiera, presso sua figlia, nel convento di Santa Chiara, dove ad ogni costo Maria aveva voluto vestire il velo, e consumare la sua giovinezza in una rassegnazione piena di speranza nella vita futura.
Ma giorni di gioia erano pur tuttavia serbati ancora alla famiglia dei Benda. Francesco, divenuto in breve capitano di cavalleria, decorato di due medaglie al valor militare, otteneva finalmente nel 1850 la mano di Virginia di Castelletto. La marchesa di Baldissero, che forse non avrebbe consentito mai a [261] queste nozze, era morta: il marchesino Ettore viveva separato da suo padre, il quale, conosciutolo indegno del suo affetto, come del grado in cui il destino l'aveva fatto nascere, l'aveva scancellato dal suo cuore: il marchese padre si ricordava della promessa fatta a Maurilio moribondo.
Povero marchese! Ancor egli aveva dovuto pagare altro e crudelissimo tributo al dolore. Il secondogenito de' suoi figli, sul quale aveva concentrato la maggior parte del suo affetto paterno, morì a Goito di palla nemica; ed egli andando a prenderne il corpo per venirlo a seppellire negli avelli di famiglia, condusse seco il terzo ed ultimo dei suoi figli, perchè prendesse tostamente il luogo del morto nelle file dell'esercito al servizio del suo Re. Il primogenito intanto si occupava con zelo eroico di cavalli, di cani, di cortigiane e di giuoco.
Il conte e la contessa di Staffarda sparirono dall'orizzonte cittadino. Sparì la Zoe: nella tempesta rivoluzionaria fuggì il principotto suo mantenitore; Andrea morì in carcere; la vecchia Debora fu trovata nel sotterraneo di Macobaro, morta di fame; Barnaba fu nominato nel nuovo ordinamento della Polizia assessore di pubblica sicurezza in una città verso la frontiera orientale; Tofi fuggì innanzi alla luce della libertà, e corse a rimpiattarsi nel suo paesucolo, mangiando la sua giubilazione, sempre cupo, burbero, nemico dei liberali, segretamente ostile ai ricchi, devoto al Re.
Don Venanzio morì qual visse: da santo, e lo pianse tutta la popolazione del villaggio. Ora la sua modesta tomba è già coperta dalle erbe ed obliata.
Obliato del tutto non è ancora Maurilio. Alcuni di quelli che lo conobbero vivono tuttavia, e Giovanni Selva legge di quando in quando qualche pagina di quello scartafaccio in cui egli aveva effusa parte dell'anima sua: e il più spesso dopo quella lettura conchiude:
— Le sono pazzie di paradossi che domani forse diventeranno realtà.
FINE
1. Chiamavasi e chiamasi ancora la griglia il luogo a Torino in cui si espongono alla vista del pubblico i cadaveri degli sconosciuti.
2. Parole di San Paolo.
3. Carcere per donne.
4. Vedrassi in un altro romanzo in cui ricompariranno parecchi dei personaggi di questo, qual fosse questa vendetta, e come coll'aiuto di Barnaba la Zoe l'ottenesse.
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, così come le grafie alternative (fruscio/fruscìo e simili), correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.