Title: Origine della lingua italiana: dissertazione
Author: Luigi Morandi
Release date: October 21, 2014 [eBook #47163]
Most recently updated: June 28, 2020
Language: Italian
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NOTE DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori di stampa e di punteggiatura.
—Il sommario nell’opera originale è costituito da un unico paragrafo; è stato mantenuto in questa forma.
—Le note sono state raccolte alla fine del libro; una di queste presenta a sua volta delle postille. Queste sono state indicate con numeri romani e collocati con un rientro subito dopo la nota a cui si riferiscono.
—La copertina è stata creata dal trascrittore utilizzando il frontespizio dell’opera originale. L’immagine è posta in pubblico dominio.
DISSERTAZIONE
DI LUIGI MORANDI
QUINTA EDIZIONE
CITTÀ DI CASTELLO
S. LAPI TIPOGRAFO–EDITORE
1891
Si avranno per contraffatti
tutti gli esemplari senza la mia firma.
PROPRIETÀ LETTERARIA DELL’AUTORE.
AL SENATORE
GASPARE FINALI
CHE IN MEZZO ALLE CURE DI STATO
NON DIMENTICA I BUONI STUDI
I. Si combatte il titolo: Origine della Lingua italiana. Perchè dunque lo abbiamo adottato. Quale dovrebbe essere il titolo vero. Quante siano le lingue romanze. Il ladino e il franco–provenzale. II. Breve storia delle principali opinioni sull’origine delle lingue romanze. III. Perchè una lingua non può, a rigor di termini, dirsi figlia d’un’altra. La parola, piuttosto che un fatto, è un continuo farsi. Germi poco avvertiti delle lingue romanze nel latino. IV. Cause estrinseche che influirono sull’intimo e naturale svolgimento del latino. Gl’idiomi indigeni a cui il latino si sovrappose. Loro origine. Caratteri fondamentali comuni delle lingue neolatine. Condizione speciale del rumeno. Le lingue barbariche; varie opinioni intorno alla loro influenza sul latino (Diez, Ascoli, Max Müller, Littré, Caix, ecc.); e a che si riduca realmente codesta influenza. V. Latino scritto e latino parlato; opinioni esagerate sulla loro differenza. Che cosa veramente intendesse Cicerone per sermo plebejus. VI. Con molti argomenti si dimostra inesatta l’opinione più comune, che le lingue romanze derivino del latino rustico. VII. Vocaboli di formazione popolare e di formazione non popolare. Perchè i Francesi possono, meglio di noi, distinguer bene gli uni dagli altri. Questa distinzione però non prova[2] nulla in favore del latino rustico. Statistica di tutti gli elementi del francese moderno. VIII. Più torniamo indietro, e più le lingue romanze si somigliano tra loro, e più somigliano anche al latino. Prove di fatto di questa verità (il Giuramento di Luigi il Germanico, il Cantico di S. Eulalia, ecc.). Metodo moderno nelle indagini etimologiche: esempi. IX. Svolgimento dei volgari italiani. Saggi di voci e locuzioni volgari in documenti di ogni regione d’Italia, dal iv al x secolo. Il primo intero periodetto in volgare dell’anno 960. Notizie e saggi di altri documenti de’ secoli xi e xii (una Carta sarda, una Formula di Confessione, la Carta rossanese dell’Ughelli, una Carta picena, l’Iscrizione del Duomo di Ferrara, i Quattro versi bellunesi, il Contrasto bilingue e il Discordo poliglotto di Rambaldo di Vaqueiras, la Poesia di messer lo Re Giovanni, ecc.). Documenti falsi o sospetti. Perchè in Francia i nuovi idiomi si scrissero prima che in Italia. Lotta tra il latino e i nostri volgari. Babilonia linguistica in Italia ne’ secoli xii, xiii, e parte del xiv. X. Dante. Conclusione.
Non paia strano ch’io cominci il mio ragionamento col combattere il titolo, che io stesso gli ho dato.
Le parole: Origine della Lingua italiana, presentano la questione nel modo come è concepita dai più, e sono anche il titolo più comune, col quale viene trattata. Io quindi le ho messe nel frontespizio, per non rendermi singolare, ma insieme per aver subito occasione di dimostrare, che esse non rispondono bene a una trattazione rigorosa della materia, e conducono necessariamente fuori di strada chi le accetta per guida.
Infatti, è o non è lingua italiana quella usata da monsignor Giovanni della Casa nel suo famoso Galateo? Sicuro, è lingua italiana; e così bisogna[4] chiamarla, non foss’altro, perchè non si saprebbe chiamare diversamente.
Eppure, io trovo che la prima parola di codesto libro è un conciossiacosachè, parola che di certo non fu mai usata parlando; e trovo che il cavalier Lionardo Salviati, volendo fare il maggiore degli elogi al medesimo libro, dice che in «cosa che appena par da credere, l’Autore la moderna legatura delle parole, ed il moderno suono, mentre continuo l’aveva nell’orecchie, si potette dimenticare.»[1]
Quindi, accanto a quella usata dal Casa, e da essa più o meno diversa per vocaboli e per costrutti, c’era un’altra lingua italiana, cioè la parlata. Di quale, dunque, di queste due lingue dovrò io raccontare l’origine?
Della parlata, soprattutto,—mi par di sentirmi rispondere. E sta bene.
Ma, parlata, dove? È chiaro che la lingua parlata, a cui il Salviati contrappone la scritta del Casa, è la fiorentina, o tutt’al più la toscana. Ma perchè dovrei io restringermi a discorrere della sola parlata fiorentina o toscana, se quelle di Torino, di Venezia, di Genova, di Bologna, di Roma, di Napoli, di Palermo, e via dicendo, hanno tutte in fondo la medesima origine? Non sarebbe questo un piantar male la questione, di maniera che tutto il ragionamento ne rimarrebbe poi, più o meno, viziato?
Perciò io dico che tratterò dell’Origine degl’idiomi italiani.
E non basta. Questi idiomi, per comune consenso oramai, son derivati dal latino. Ma dal latino son derivati ugualmente (salvo il basco e il neoceltico, che conservano ancora gran parte del loro antico fondo originale, e dei quali faremo un cenno più innanzi) tutti i cento o mille idiomi parlati in Portogallo, in Spagna, in Francia, in tutto il sud–est del Belgio e in più parti della Svizzera e della Penisola Balcanica. Dunque, sarò più esatto, se dico che tratterò dell’Origine degl’idiomi neolatini in generale, e particolarmente degl’italiani, giacche è quasi impossibile parlar della specie, senza toccare un poco anche del genere.
Il seguito del mio discorso proverà, spero, che questi preliminari erano tutt’altro che oziosi. Qui intanto basterà aggiungere, che comunemente però, e per delle buone e anche delle cattive ragioni, s’usa dire che le lingue neolatine, o romane, o romanze, son sei: italiano,[2]—francese,—provenzale,[3]—spagnolo,—portoghese,—rumeno o valacco.
Ho già accennato che tutti, cioè i dotti e le persone ragionevoli, si trovano ormai d’accordo nel ritenere che gl’idiomi romanzi hanno la loro prima e principale origine dal latino. Ma a quante strane opinioni si dovette dare lo sfratto, innanzi di poter arrivare a quest’accordo! Basti ricordarne qualcuna.
Nel secolo XVI, mentre Gioacchino Périon faceva derivare il francese dal greco,[4] il Giambullari (nel Gello) sosteneva che la nostra lingua derivasse principalmente dall’etrusca, la quale, secondo lui, era figlia dell’aramea e sorella della caldea e dell’ebraica. E poichè egli aveva avuto la rara fortuna di conoscere un prete armeno, «grande, magro, bruno e di lunga capellatura, il quale affermava che l’arca di Noè era ancora nei monti loro, non intera già, ma conquassata e rovinata in gran parte da alberi grossissimi che vi eran nati:» gli pareva evidente che il Janus dei Romani provenisse, come aveva già detto il suo amico Gelli, da jain, «voce aramea ed ebrea, che significa vino, e da no, che vuol dire famoso, cioè famoso e celebre per il vino;» e che perciò fosse tutt’uno con Noè, il piantatore della vite, venuto nell’Enotria, la terra del vino, a diffondervi l’arameo, e poi «gloriosamente sotterrato nel monte Janicolo.»
Nel 1606, Stefano Guichart pubblicò a Parigi un libro, intitolato così: Harmonie étymologique des langues, où se démontre que toutes les langues sont descendues de l’hébraique, che per lui, come per tanti altri, era la lingua stessa parlata da Adamo nel paradiso terrestre. E finalmente, nel secolo passato, il nostro Quadrio scriveva che «ad un parto con la Lingua Latina, e sorella di essa, nacque l’Italiana odierna Favella dalla Pelasga, dall’Osca, dalla Greca e forse ancor dall’Ebraica.... Anzi, siccome le cose imperfette esistono prima, che le perfette; così non andrebbe lungi dal vero chi opinasse, che l’odierna Lingua Italiana fosse prima, che la cólta Latina.»[5] Argomentazione, la quale potrebbe benissimo mutarsi in quest’altra: siccome le cose imperfette esistono prima che le perfette, così non andrebbe lungi dal vero chi opinasse, che il cervello del Quadrio fosse un cervello antidiluviano.
Rallegriamoci dunque, della presente concordia sul punto principale della questione; e prima di vedere le varie opinioni sui punti secondari, per attenerci a quelle che ci paiono più fondate, sbarazziamo il terreno da un altro ingombro, che potrebbe impedirci il cammino.
Tutti, ordinariamente, quando vogliamo dire che una lingua è derivata da un’altra, diciamo che[9] ne è figlia. Ma questo è uno di que’ tanti traslati traditori, i quali ci fanno spesso perder di vista la realtà delle cose.
I concetti, infatti, di madre e di figlia implicano necessariamente l’esistenza di due individui separati e distinti; mentre in realtà una lingua derivata da un’altra, nel fondo è sempre più o meno la stessa lingua.
Il nostro Lanzi, nel secolo passato, disse giustamente che «ogni anno si fa un passo verso un nuovo linguaggio.» E Guglielmo Humboldt, dopo di lui, disse che «la parola, piuttosto che un fatto, è un continuo farsi.»
Augusto Fuchs asserisce, e con ragione, che perfino «quelle parti in cui le lingue romanze sembrano essenzialmente diversificarsi dal latino, già si contenevano in esso, quantunque soltanto in germe.»[6] Per esempio, in Plauto si legge: unus servus violentissimus; in Cicerone: cum uno gladiatore nequissimo; e in Curzio Rufo: Alexander unum animal est: frasi che contengono il germe dell’articolo indeterminato, che è in tutto le nuove lingue, e che il latino, per regola generale, non aveva.
Ovidio, per dire che starà forte a cavallo, dice: insistam forti mente, invece di insistam fortiter. E un obstinata mente perfer s’incontra in Catullo, un jucunda mente respondit in Apuleio. Ecco qui dunque il germe de’ mille avverbi neolatini[10] (fortemente, ostinatamente, giocondamente, ecc.), nati dall’accoppiamento dell’ablativo mente con l’aggettivo, e nell’uso de’ quali non si tiene più nessun conto del loro valore etimologico, poichè diciamo benissimo mangiare avida–mente, quantunque si mangi con la bocca, e non con la mente; appunto come Ovidio diceva che sarebbe stato forti mente a cavallo, quantunque in realtà ci stesse con le gambe.
In tutti gli scrittori latini s’incontrano spesso le forme accorciate amasti per amavisti, amastis per amavistis, amarunt per amaverunt, corrispondenti, come ognun vede, alle forme italiane amasti, amaste, amarono, alle francesi aimas, aimâtes, aimèrent, alle spagnole amaste, amásteis, amaron, ecc.
Di regola, il verbo habere non era ausiliare. Ma chi non lo sente già usato come tale in alcuni passi, per esempio, di Cicerone?—Ad meam fidem, quam habent spectatam jam et cognitam, confugiunt (Div. Caec., § 11);—Nec scriptum habeo (Verr., act. II, lib. IV, § 36);—Eum autem emptum habebat (Tull., 16);—De Caesare.... satis dictum habebo (Phil., V, § 52).
In Varrone, in Lucrezio e in Virgilio, s’incontra già il pronome mihi (a me), accorciato in mi. E perfino certe particolari maniere di dire, che a noi paiono tutte nostre, si trovano già tali e quali in latino. In Plauto, per esempio, troviamo: Ossa atque pellis sum (son pelle e ossa—Capt. I, 2);—Quod si sciret, esset alia oratio (se lo sapesse, sarebbe un altro discorso—Merc.,[11] II, 3);—Non is sum, qui sum, nisi.... (non son chi sono, se non....—Men., III, 2);—Oleo tranquilliorem (più cheto dell’olio—Poen., V, 4).—E in Cicerone: Digito caelum attingere (toccare il ciel col dito—Ep. ad Att., II, 1, 7).—E in Petronio: Lacte gallinaceum, si quaesieris, invenies (ci troveresti, se lo cercassi, anche il latte di gallina—Satir., XXXVIII);—Nondum recepit ultimam manum (non ha ancora avuto l’ultima mano—Ibid., CXVIII).
Noi quindi dobbiamo riguardare le lingue romanze come una continuazione del latino parlato; come tanti rami germogliati sullo stesso tronco, e non già come tante piante, derivate sì, ma separate da esso.
Il che però non vuoi dire che queste lingue derivassero dal latino con quel lento processo di trasformazione, che sarebbe seguito in tempi normali. Già, prima di tutto, nella lotta stessa che sostenne con gl’idiomi a cui si sovrappose, il latino, benchè vincitore, dovette cedere in qualche parte, specialmente in quanto s’attiene alla pronunzia.[7] E poi, la sua naturale trasformazione fu,[12] dove più dove meno, affrettata e anche in parte alterata dallo sconvolgimento politico, religioso e sociale. Se così non fosse, è chiaro che tutta l’Europa latina avrebbe finito col parlare una lingua sola. Dunque, la sentenza del nostro Lanzi, perchè possa adattarsi alla storia del latino e degl’idiomi derivati da esso, va modificata così: «Ogni anno si fa un passo, più o meno lungo, secondo le circostanze, verso un nuovo linguaggio.»
Eccoci quindi condotti a studiare un poco le cause estrinseche, accennate qui sopra, che influirono sull’intimo e naturale svolgimento del latino.
La lotta, che il latino sostenne con gl’idiomi a cui si sovrappose, dovette essere molto lunga per tutto, ma specialmente là dove l’influenza di Roma si fece sentir meno, o dove fu meno aiutata dall’antica parentela, che legava l’idioma dei vincitori con quasi tutti gl’idiomi de’ vinti;[8] giacchè[13] è naturale che la parola indigena opponesse minor resistenza, quando somigliava ancora alla corrispondente latina, che la veniva opprimendo.
Ma là pure dove la resistenza degl’idiomi indigeni dovette esser maggiore, e la lotta più lunga e ostinata, la vittoria finale del latino, se si guarda al corpo e all’organismo della lingua, più che alle particolarità della pronunzia, non poteva esser più intera; giacchè, per esempio, è vero che da un passo di Aulo Gellio possiamo ragionevolmente argomentare che nel secondo secolo dell’era nostra, nelle Gallie e in Etruria, vivessero ancora più o meno gl’idiomi indigeni;[9] ma è vero altresì che questi idiomi furono alla fine sopraffatti dal latino in tal modo, che nel francese moderno le parole di accertata origine celtica non son più d’una ventina, e negl’idiomi toscani è scomparso ogni vestigio perfino di voci etrusche comunissime, di quelle cioè che il popolo men facilmente dimentica, come clan (figlio), verse (fuoco), gapos (carro), damnos (cavallo), ecc. E si noti che nel francese moderno non restano ormai altro che un secentocinquanta vocaboli d’origine ignota; sicchè, se anche parecchi di essi appartennero, come è probabile, al celtico, le tracce lasciate da questo nel Vocabolario della nuova lingua sarebbero sempre ben povera cosa.[10]
Nè di gran conseguenza possono dirsi anche gli effetti delle altre cause estrinseche.
Pietro Bembo sostenne che l’italiano nascesse, durante le invasioni, da una specie d’ibrido connubio della lingua latina con gl’idiomi de’ barbari.[11] Ma a combattere quest’opinione (seguìta già più o meno risolutamente, anche dal Varchi, dal Muratori, dal Tiraboschi, dal Perticari e da molti altri), basterebbe un confronto, anche superficialissimo, tra le leggi fonetiche del gruppo latino e quelle del gruppo teutonico. Basterebbe, cioè, osservare che gl’idiomi teutonici abbondano di aspirazioni, accentano la sillaba della radice, preferiscono le consonanti forti, e offrono molte combinazioni di suoni che mancano affatto alle lingue romanze. Invano si cercherebbe in queste lingue[16] qualcuna di quelle alterazioni che la parola latina pativa in bocca di genti, le quali pronunziavano Muntus fuld tezibi, invece di Mundus vult decipi. Invano vi si cercherebbe quel miscuglio di suoni disformi, che, per esempio, attesta nell’inglese la duplice origine anglosassone e normanna; o quella promiscuità di forme, che attesta nel persiano la prolungata influenza dell’arabo.[12]
D’altra parte, molti caratteri organici fondamentali delle nuove lingue (se si eccettuano alcune anomalie, specialmente del valacco) essendo[17] in tutte gli stessi, ne viene di conseguenza che la loro vera ed intima sorgente non potè essere che una sola.
Tutte, infatti, conservarono scrupolosamente, salvo poche eccezioni, l’accento tonico sulla medesima sillaba che l’aveva in latino, e che è come l’anima o il perno della parola.
Tutte, per l’indebolimento fonetico e la conseguente trasformazione o caduta delle desinenze, perdettero, prima o poi, i casi della declinazione latina; e vi sostituirono un più speciale uso delle preposizioni, del quale però, al solito, si trovano tracce anche ne’ classici (ad carnificem dabo, invece di carnifici dabo, in Plauto; de duro ferro aetas, invece di ex duro ferro aetas, in Ovidio, e molte altre simili).[13]
Tutte abbandonarono quasi interamente il genere neutro, che già non differiva dal maschile altro che nel nominativo e nell’accusativo, e che anche ne’ classici si comincia a confonder con esso (commentarium e commentarius, nuntium e nuntius, calamistrum e calamister, ecc). Tutte dagli aggettivi e pronomi unus e ille cavarono un nuovo elemento, cioè l’articolo indeterminato e determinato, de’ quali, al solito, si vedono i primi germi anche negli scrittori.[14] Tutte si trovarono d’accordo nel far crescere un altro germe, che pure abbiamo già visto apparire in qualche scrittore, e che dando al nome mens il senso di modo, maniera, e aggiungendolo all’aggettivo (sana–mente, forte–mente), generò gli avverbi da sostituire ai terminanti in e e in ter (sane, fortiter), poichè queste terminazioni, piegandosi alla nuova eufonia,[19] si confondevano con quelle de’ nomi e degli aggettivi.[15]
Tutte, per evitare altre confusioni, conseguenza anch’esse dello scadimento fonetico, e insieme per distinguer meglio certi momenti dell’azione, fecero i medesimi cambiamenti nel verbo: estesero, cioè, l’uso di habere per ausiliare; abbandonarono la forma passiva amor (sono amato), che, caduto l’r, si confondeva con l’attivo amo, e vi sostituirono l’ausiliare essere col participio passato;[16] arricchirono la coniugazione col passato prossimo e col trapassato remoto, che in latino si confondevano col passato remoto, giacchè amavi, per esempio, poteva significare tanto amai, che ho amato ed ebbi amato; aggiunsero un nuovo modo, il condizionale, che in latino era incluso nel congiuntivo; e poichè le terminazioni del futuro, amabo, tacebo, dicam, venivano confondendosi con l’imperfetto amabam, tacebam, e col presente[20] congiuntivo dicam, le nuove lingue crearono una nova forma, fondendo l’ausiliare avere con l’infinito. Ma anche questa fusione procedette per gradi: prima di tutto, per evitare amavo (derivante da amabo, amerò, come fava da faba, lavorare da laborare), che si sarebbe confuso con l’imperfetto amava o amavo (da amabam), si ricorse a una perifrasi, già usata in certi casi, e si disse: habeo amare o amare habeo, cioè ho da amare; e poi da amare habeo si fece amar hao, amar ho, amarò,[17] e infine amerò;—spagn. amaré = amar–he; portogh. amarei = amar–hei; provenz. amarai = amar–ai; franc. aimerai = aimer–ai.[18]
Tutte, finalmente, perduto che fu dall’orecchio delle popolazioni romane il sentimento della quantità, ossia delle lunghe e delle brevi, crearono una metrica nova, fondata non più sull’estensione, ma sullo sforzo (ictus) e sull’elevazione della voce, cioè sopra un certo numero di accenti, collocati in un dato numero di sillabe. E si badi, che anche di questa trasformazione ormai non può più dubitarsi che i germi esistessero già nel latino. Infatti, lasciando anche stare[21] l’opinione sostenuta tuttora da molti che il verso saturnio, usato dai Romani prima che applicassero alla loro poesia la metrica greca, non fosse a quantità, ma ad accenti;[19] certo è che racconto ebbe poi sempre gran parte ne’ metri specialmente de’ comici; ed è certo del pari che l’esistenza di una ritmica popolare romana ben distinta dalla metrica classica, ci viene attestata come cosa nota e comune, e quindi sicuramente non recente, nientemeno che alla metà circa del quarto secolo, da un passo attribuito a Mario Vittorino: «Metro quid videtur esse consimile?—Rhythmus.—Rhythmus quid est?—Verborum modulata compositio, non metrica ratione, sed numerosa scansione ad judicium aurium examinata, ut puta veluti sunt cantica poetarum vulgarium.»[20] Che poi anche il verso principale delle nuove lingue, il nostro endecasillabo,[21] provenga dal latino, è un’altra questione; giacchè l’origine di ciascun verso in particolare può esser differente da quella de’ dati fondamentali del sistema ritmico a cui è congiunto. E gli argomenti[22] addotti dal Rajna[22] contro codesta provenienza dell’endecasillabo, presi nel loro complesso, hanno in verità molto peso: ma pure, da una parte la ragionevole induzione che tutto ciò che v’ha d’importante nelle lingue romanze debba esser latino; dall’altra la strettissima somiglianza dell’endecasillabo col saffico minore:
Saeculum Pyrrhae nova monstra questae;
col trimetro giambico catalettico:
Ignotus heres regiam occupavi;
col falecio:
Disertissime Romuli nepotum,
e con qualche altro di tali versi, saranno sempre una gran tentazione per chiuder le orecchie a qualunque argomento in contrario, che non abbia una piena e assoluta certezza.
Anche la rima s’incontra qualche volta nei classici greci e latini; e s’incontra non solo usata per caso, ma intenzionalmente come mezzo stilistico, quale è di certo, se non nel primo, nel secondo di questi due esempi:
Non satis est pulcra esse poëmata; dulcia sunto,
Et quocumque volent animum auditoris agunto.
Hor. Epist., II, 3, 99–100.
Quot caelum stellas, tot habet tua Roma puellas.
Ovid. Ars am. I, 59.
Insomma, il linguaggio, come tutti gli organismi viventi, mutando le condizioni di vita, manifesta e svolge energie o facoltà prima nascoste o non avvertite. E le lingue romanze, specialmente[23] se si considerano nel loro organismo, non sono altro che il latino adulto. Il cristianesimo, le invasioni, i commerci non poterono alterare la loro intima essenza, o, come vedremo tra poco, l’alterarono solo in piccolissima parte; quantunque dessero, per dir così, una spinta al loro sviluppo, e ne alterassero alquanto il Vocabolario.
Per esempio, i due nomi latini domus (casa) e verbum (parola), quando la nuova religione chiamò duomo la casa di Dio e verbo Dio stesso o la sua parola, scomparvero quasi affatto dall’uso comune nel loro primo significato.[23]
Per effetto poi delle invasioni e de’ commerci, le lingue nuove si arricchirono di voci germaniche, arabe e greche. Ma anche queste voci sono, relativamente, un numero assai ristretto.
Il valacco e alcuni dialetti del mezzogiorno d’Italia sono, com’è naturale, i più ricchi di voci greche; lo spagnolo e il portoghese di voci arabe;[24] e molte di queste ultime divennero poi comuni a tutte le altre lingue romanze. Comuni del pari[24] sono, secondo il Diez,[25] circa 300 voci germaniche.[26] Il francese, inoltre, ne possiede in proprio circa[25] 450, l’italiano 140, lo spagnolo e il portoghese 50, e il valacco anche meno. Sicchè, in complesso, tra vive e morte, tra certe e incerte, sommano a un 930 le voci germaniche che il Diez trova nelle nuove lingue, esclusi i dialetti e senza contarci, già s’intende, nè i derivati, nè i nomi propri. E con queste voci divennero pure d’uso comune i suffissi aldo, ardo, lingo (ingo, engo), che si applicarono anche a voci latine (testardo, casalingo, Martinengo, ecc.); come, del resto, accadde anche de’ tre suffissi, derivati dal greco, essa, ismo, ista (leonessa, giudaismo, umanista, ecc.).
Le cifre del filologo tedesco devono essersi alquanto alterate con gli studi posteriori. Ma mettiamo pure che le voci germaniche, introdottesi nelle lingue romanze, siano più d’un migliaio: saranno sempre poca cosa in confronto di tutto il corpo di codeste lingue; e, nella loro pochezza, resteranno come un’eloquentissima testimonianza della inferiorità morale de’ conquistatori, i quali si lasciarono imporre la lingua dai vinti, anzichè imporre ad essi la propria.
Voci italiane, derivate direttamente, e non per mezzo del latino, dal greco, sono, per esempio: agognare, borsa, colla, falò, fase, golfo, magari, zio, ecc. (S’intende che non ci si devono comprendere que’ grecismi, spesso inutili, de’ letterati e degli scienziati, che vivono solo nell’uso di pochi.)
Portate dagli Arabi, sono le seguenti, e ci si sente, più che altro, l’industria e il commercio: alcool, alcova, algebra, ammiraglio, ambra, arancio,[26] arsenale, caffè, canfora, carato, cremisino, catrame, carruba, cifra, cotone, gelsomino, lambicco, limone, liuto, mummia, ricamare, sofà, tamarindo, talismano, tamburo, tariffa, zafferano, zero, ecc.
Germaniche sono: araldo, briglia, bosco, bruno, forbire, gonfalone, guerra, guancia, schiena (da skina, romanesco schina), stinco, sperone, strale, ecc.; e ci si sente, più che altro, la guerra.
A proposito degli elementi germanici, il Diez così conclude: «La famiglia delle lingue romanze, appropriandosi alcuni di questi elementi, non patì nessuna essenziale alterazione nel suo organismo; giacchè si sottrasse quasi del tutto all’influenza della grammatica tedesca. Certo, nella formazione delle parole, alcune derivazioni e composizioni germaniche ci sono; e qualche traccia della stessa origine si trova anche nella sintassi; ma siffatti particolari vanno perduti all’occhio di chi guardi tutto il corpo di codeste lingue.»[27]
Alcuni però credono necessario di attribuire una parte maggiore all’influenza germanica, per ispiegare la diversità che passa tra le lingue romanze e il latino, e che, senza dubbio, è più notevole di quella che, per esempio, passa tra il greco moderno e il greco antico. Ma ad altri pare, e con più ragione, che la causa principale di questa maggiore diversità debba piuttosto cercarsi nell’influenza degli antichi idiomi a cui il latino si sovrappose. Certo è poi, che l’opinione messa fuori[27] molti anni fa da Max Müller,[28] che cioè le lingue romanze non ci presentino il latino quale si sarebbe naturalmente trasformato in bocca a’ Romani dell’Italia e delle provincie, ma quale i popoli germanici poterono apprenderlo e appropriarselo, era addirittura esageratissima; e il Littré, per solito così temperato, la respingeva «de toutes ses forces.»
Se l’influenza germanica, diceva in sostanza il Littré, avesse avuto il sopravvento che le attribuisce il Müller, più i testi sono antichi, e più ce ne presenterebbero le tracce. Invece, il vero è, che più i testi sono antichi, e più portano impresso il carattere della latinità: vale a dire, più è facile calcare una frase latina sulla frase romanza. Nè mai vi si scorge il momento, il punto, in cui un altro popolo, sostituendosi a quelli delle Gallie, dell’Italia e della Spagna, si sia impossessato dell’idioma de’ vinti e l’abbia parlato secondo una grammatica sua propria. Il centro delle lingue romanze non può dunque spostarsi dal lessico e dalla grammatica latina.[29]
Il Müller poi, dal canto suo, nelle Nuove Letture sulla Scienza del Linguaggio (VI), temperava di molto la sua prima opinione, dolendosi anzi (ma a torto, ci pare) che, per qualche difetto d’espressione, fosse stata esagerata o frantesa dal suo illustre contradittore, col quale, in fondo, dichiarava[28] di consentire. Ora, dunque, di questa polemica restano in piedi solo alcune giuste osservazioni parziali del Müller; ed eccone un piccolo saggio.
Di due o più voci latine, esprimenti sostanzialmente la stessa idea, è naturale che gl’invasori preferissero quella, che nel suono ricordava meglio la corrispondente germanica; ed è quindi anche naturale che la voce preferita da loro finisse spesso col prevalere. Per esempio, i Romani, per dir fuoco, dicevano ora focus, ora ignis; ma focus fu preferito nelle nuove lingue, perche più vicino al tedesco feuer (fuoco) e funkeln (scintillìo, scintillare).[30] Per dir grande, i Romani dicevano ora grandis, ora magnus: grandis fu preferito, perchè più affine a gross, il quale ci diede inoltre anche la forma grosso. Per dir lasciare, i Romani dicevano laxare o sinere; ma laxare fu preferito, perchè più simile all’antico alto–tedesco làzan, gotico letan, che è poi il moderno tedesco lassen.[31]
Tutti i filologi inoltre si trovano d’accordo col Müller nel riconoscere (cosa, del resto, riconosciuta anche prima da altri) una certa influenza germanica sull’aggiunta dell’aspirazione in alcune parole francesi. Haut, per esempio, e hurler (antico francese huller) vengono dal latino altus e ululare, ma devono l’aspirazione alle loro corrispondenti germaniche hoch e heulen.
Il nostro Caix,[32] pur ammettendo dentro certi limiti l’influenza germanica sul lessico latino, come è sostenuta dal Müller, trova però ben più evidente e naturale il fatto contrario, cioè l’influenza[30] latina sulla fortuna di molte voci germaniche. In questo fatto sta, secondo lui, la spiegazione del gran numero di voci germaniche che poterono conservarsi nelle lingue romanze, benchè non si riferissero nè alla guerra, nè allo Stato, nè ai commerci, ma alle ordinarie relazioni della vita o ad oggetti comuni, pei quali parrebbe avesse dovuto prevalere l’appellativo romano. In questo fatto, a suo avviso, sono da ricercare le prove di quel raccostamento che, pur limitato al lessico, dovette compirsi a poco a poco tra la lingua dei vincitori e quella dei vinti, e che, alterando la forma di molte voci, spiega la difficoltà di ricondurle ora con le ordinarie leggi fonetiche alla loro forma originaria. E qui, sempre secondo l’opinione del Caix, sono da considerarsi tre casi.
Primo: la forma latina assorbì interamente la teutonica. In questo caso, che è di gran lunga il più frequente, le voci gotiche che, come sada (sazio), haban (avere), raihta (retto), arjan (arare), avevano una ben discernibile affinità con le corrispondenti voci latine, si confusero interamente con queste, e così i Goti dissero sazio o satollo, avere, retto, arare, ecc.
Secondo caso, molto meno frequente, ma non raro: la voce latina si modificò, conforme al suono della voce germanica, per esempio: il toscano sdraiarsi e l’umbro strajàsse derivano da un ravvicinamento del latino sternere al gotico straujan; l’italiano sparagnare e il lombardo sparà derivano da un ravvicinamento del latino parcere all’antico[31] alto–tedesco sparôn; l’ital. leccare deriva dal latino lingere e ligurire e dall’antico alto–tedesco lecchôn; rubare, dal lat. rapere e dall’antico alto–tedesco roubôn; senno, dal latino sensus e dall’antico alto–tedesco sin.
Terzo caso, più raro, ma insieme più curioso di tutti: le due forme si confusero in una terza, che le riassume entrambe. Per esempio, guiderdone è certo derivato dall’antico alto–tedesco widarlôn (ricompensa); ma la seconda parte lôn (moderno ted. Lohn, mercede) fu scambiata col lat. donum (basso lat. widerdonum); e così ne nacque una parola anfibia, mezzo tedesca e mezzo italiana, widar (contro), che è il moderno wider, e dono: widar–dono (guider–done), controdono, ricompensa.
Possiamo dunque concludere, che l’opinione del Bembo contiene solo una piccola parte di vero. E possiamo anche, di passaggio, osservare, che chi riguardava le lingue romanze come un imbastardimento del latino, è naturale che inclinasse altresì a crederle meno perfette di esso. E questa credenza, così funesta alla nostra letteratura e comune tuttora a molti, trova facili conferme in superficiali e parziali confronti; giacchè, per esempio, è di certo un danno l’aver perduto quasi tutti i participi in rus, ra, rum (venturo, futuro, ma non letturo, amaturo, ecc.), e quindi non poter dire spicciamente e comunemente, senza ricorrere è un latinismo: «Evviva, o Cesare: i morituri ti salutano!» Ma, in compenso, quanta maggior precisione e chiarezza non hanno aggiunto[32] al discorso l’articolo determinato e indeterminato e que’ tempi del verbo, che mancavano al latino? Chi volesse continuare il confronto, troverebbe venti di guadagno per ogni dieci di perdita. Nè la perfezione d’alcuni autori antichi, dato anche e non concesso che non avesse riscontro in autori moderni, proverebbe nulla a svantaggio delle lingue di questi: come la perfezione di Raffaello non prova che i colori, in sè stessi, fossero migliori al suo tempo, che al nostro. «L’ultimo fine della parola,» ha detto egregiamente il Lignana, «è di essere organo dello spirito. Ora, dire che le lingue moderne sono inferiori alle antiche, equivale a dire che lo spirito moderno è inferiore all’antico. Il che non credo abbia bisogno di confutazione.»[33]
Ma dicendo che le lingue romanze sono, in sostanza, una continuazione e un perfezionamento del latino, che cosa s’intende qui per latino? E chiaro che s’intende il latino parlato, giacchè le sole lingue parlate possono moversi e trasformarsi.
Siccome però i Romani, che parlavano il latino duemila anni fa, sono, per nostra disgrazia, morti tutti, e noi non possiamo conoscere la loro[33] lingua se non per quel tanto che ce n’è stato tramandato dai libri e dalle iscrizioni; perciò si è cercato di stabilire se il latino scritto e il latino parlato fossero una stessa cosa, o se ci corressero più o men notevoli differenze.
Leonardo Bruni d’Arezzo (1369–1444) e Celso Cittadini di Roma (non di Siena, come comunemente si crede—1553?–1627), il secondo dei quali ebbe lampi d’intuizione filologica maravigliosi per il suo tempo, sostennero che la lingua della plebe romana fosse quasi del tutto diversa da quella delle classi cólte e specialmente degli scrittori.[34]
Trovando nel latino arcaico voci come aurom (oro), consol (console), ecc., le quali somigliano all’italiano, più che non gli somiglino le corrispondenti del latino classico (aurum, consul), il Cittadini capitombola quasi nell’opinione che fu poi, come abbiamo visto, sostenuta dal Quadrio, e che il Muratori giustamente chiamò un sogno, indegno persino d’essere confutato.[35]
Il Bruni, dal canto suo, arrivò a dire che i Romani non cólti intendessero il linguaggio degli[34] oratori, non più di quel che oggi la plebe nostra intende la messa;[36] e come se questo fosse poco, aggiungeva, che essi andassero al teatro, non già per intendere i versi del poeta, ma per godere dello spettacolo scenico; e perciò, secondo lui, si chiamavano spettatori e non uditori:[37] speciosa ragione, a distrugger la quale basterebbe osservare, che spettatori si chiamavano anche le persone cólte, le quali andavano anch’esse al teatro.
Egli inoltre non sapeva capacitarsi come mai le donnicciole di Roma sarebbero potute riuscire a imparare le declinazioni de’ nomi e le coniugazioni de’ verbi, e specialmente de’ verbi irregolari: cose, diceva, che fanno sudar sangue anche noialtri dotti. Come mai volete, domandava il brav’uomo, come mai volete che quelle povere ignoranti potessero servirsi del verbo ferre (portare), che nel presente fa fero (porto), e nel passato fa tuli (portai), e nel supino muta ancora, e fa latum?—Qui, l’ottimo messer Leonardo somiglia proprio a quel tale che, andato in Francia, si maravigliava che là anche i bambini sapessero parlare il francese. Dio buono! anche la donnicciola fiorentina, senza aver studiato grammatica, tira fuori bravamente dall’infinito essere il presente sono, l’imperfetto[35] ero, il passato fui, eccetera; nè c’è pericolo che dica io ando invece di io vado, nè io dovo invece di io devo, nè oma invece di donna, nè femmino invece di maschio; quantunque queste anomalie non siano punto men difficili di fero, tuli, latum.
Ma segue forse da ciò che la lingua delle orazioni di Cicerone fosse precisamente la stessa che parlava la sua lavandaia, o quella che in tutto e sempre parlava egli medesimo? No davvero!
In questa questione, gli equivoci a me pare che siano nati e nascano ancora da un errore fondamentale, e cioè dal non considerare la lingua nel suo complesso, ma in questa o quella parte soltanto, in questo o quel libro, in questo o quel parlante. Con tal metodo, per quanto la lingua sia potentemente unificata, come era appunto quella di Roma e come è ora quella di Parigi, deve per necessità apparire una specie di Proteo multiforme.
Chi può negare, per esempio, che la lingua di cui si serviva in parlamento il signor Thiers, non fosse la lingua che si parla a Parigi? Eppure, chi oserebbe dire che fosse addirittura quella medesima di cui si serviva il suo portinaio?
Con l’aiuto de’ miei scolari, io son riuscito a mettere insieme un centottanta sinonimi italiani del verbo morire, e tutti, si noti bene, d’uso comune;[38] mentre, sia detto per incidenza, il Tommasèo ne dà solo cinque o sei. Son dunque centottanta modi usati e usabili per esprimere una sola[36] idea in italiano, e potrei anche dire, più esattamente, in fiorentino, perchè quattro quinti di essi son vivi a Firenze, e i rimanenti son creazioni di prosatori e di poeti, fatte però tutte con voci vive fiorentine o foggiate alla fiorentina, ed entrate poi nell’uso comune letterario.
Eppure, quale italiano o qual fiorentino potrebbe dire, preso così all’improvviso, di saperli tutti e centottanta? E chi oserebbe affermare che il plebeismo: andare a rincalzare i cavoli, o l’altro: crepare, siano soltanto della lingua plebea? Domani potrete sentirli in bocca a una persona civile, che l’userà per ischerzo o in un momento di collera; mentre la povera donnicciola, trafitta dal dolore, vi dirà poeticamente che il suo bambino è stato ripreso da Dio, o che è andato in paradiso. E persona civile e donnicciola si troveranno inconsapevolmente, ma sicurissimamente, d’accordo nel non dirvi mai che quell’omaccione grasso e grosso, morto ier l’altro, sia volato al cielo, perchè sanno che vi farebbero ridere.
Certo, il fatale divorzio della lingua scritta dalla parlata è stato possibile in Italia, dove nessuna parlata ha mai definitivamente prevalso; ma non era possibile in Roma, con quell’acutissimo senso pratico de’ suoi cittadini, con quel bisogno ch’essi avevano d’intendersi tra di loro più speditamente che potessero, con quella, insomma, potente e compatta unità di linguaggio; quantunque ogni romano, in fondo, avesse in testa una lingua, che non era precisamente quella di nessun altro romano, e lo stesso scrittore usasse voci e maniere[37] diverse, secondo il soggetto e il genere del componimento.
Nè crediate che il fatale divorzio succeduto in Italia abbia contribuito e contribuisca ancor poco a far inclinare molti Italiani a supporre che altrettanto fosse accaduto anche a Roma. Mal comune, mezzo gaudio; e certo, quando altri lamenta che tante e tante prose italiane, pregevolissime di sostanza, siano però pochissimo lette, perche scritte in una lingua mezzo morta, fa molto comodo il poter rispondere: cosa volete farci? anche nella letteratura latina è stato così.
Questo, dico, può far molto comodo; ma a me non pare che sia la verità. E alle ragioni già addotte per dimostrarlo, ne aggiungerò un’altra di fatto, e che, credo, dovrebbe bastar da sola a risolver la questione.
Papirio Peto, in una lettera a Cicerone, aveva applicato a sè stesso un luogo di Trabea, chiamando pazzia il suo sforzarsi d’imitare l’eloquenza dell’amico. E Cicerone gli rispondeva: «Dici davvero? Ti pare una pazzia lo imitare quelli che tu chiami fulmini del mio stile? Certo, sarebbe pazzia, se la cosa non ti riuscisse; ma poichè ti riesce anche meglio che a me, de’ fatti miei devi ridere, e non de’ tuoi; e lascia star Trabea, dacchè il fiasco è piuttosto mio. Ma pure, delle mie lettere che te ne pare? Non sono esse scritte alla buona?[39] Già si sa: non conviene mica usar sempre[38] lo stesso tono. Altro è una lettera, altro un’orazione politica, o un’orazione forense. Persino davanti ai giudici, si varia tono secondo le cause; perchè le private e di poca importanza non richiedono quegli ornamenti, che adoperiamo quando siano in gioco la vita o l’onore. Le lettere poi, sogliamo scriverle con le parole di tutti i giorni.»[40]
Dunque, le lettere del grande oratore sono scritte, per sua stessa e incontrastabile testimonianza, in plebejo sermone e con quotidianis verbis. Ma, di grazia, chi è che avendo sott’occhio una di quelle lettere e un’orazione dello stesso autore, non s’accorga che sono scritte nella medesima lingua, salvo, s’intende, le differenze derivanti dal diverso genere di componimento? Ciò che nella lettera sarà detto con la frase familiare: andare all’altro mondo, o con altra anche plebea, nell’orazione sarà detto con frase sostenuta: render l’anima a Dio. Ma queste non sono due lingue: son gradazioni, tinte, sfumature diverse d’una stessa, stessissima lingua; e chi volesse prendersi il gusto di esaminare le prime cento voci o maniere d’una lettera di Cicerone, si può scommettere che ce ne[39] troverebbe almeno novanta usate da lui anche nelle orazioni o nelle altre sue opere. Insomma, a dir tutto in poco, la diversità che egli accenna a Papirio Peto non è di lingua, ma di stile; e la frase plebejo sermone, addotta così spesso per provare l’esistenza di quella specie di muraglia della Cina tra il latino scritto e il parlato, o tra il latino nobile e il popolare, prova invece per l’appunto il contrario![41]
Coloro che seguendo il Diez anche in questa parte non buona del suo magistrale lavoro, si ostinano ancora a fare del latino due lingue o quasi due lingue, una letteraria o nobile, e l’altra popolare, volgare o, peggio, rustica, dicono che da quest’ultima son derivate le lingue romanze.[42]
Il principe de’ loro argomenti è un fatto che si trova più o meno in tutte le lingue: la coesistenza, cioè, delle doppie forme, ossia di vocaboli e modi significanti ora sfumature diverse d’una stessa idea (sinonimi, come uscio e porta, bianco e candido, salvare e preservare), ora invece la stessa idea, senza nessuna differenza di significato, e solo, ma non sempre, con qualche differenza di stile, essendo alcuni più o meno particolari alle classi incolte e altri alle civili; alcuni mezzo invecchiati e altri vivissimi; alcuni più propri della poesia, altri della prosa (doppioni, come scriminatura, discriminatura, scrima e dirizzatura, badessa e abbadessa, escire e uscire, gragnuola e grandine, morir di sonno e morir dal sonno, farsi alla finestra e affacciarsi alla finestra; con un eccetera pur troppo lungo, poichè in italiano, per nostra disgrazia, questa quasi sempre falsa ricchezza è addirittura strabocchevole).
Naturalmente anche in latino c’erano moltissimi sinonimi (janua e porta, equus e caballus, torus e lectus, amare e diligere, ecc.); e anche non pochi doppioni (volgus e vulgus, adjutare e adjuvare, bucca e os, minaciae e minae, putus e puer, maledicere aliquem e maledicere alicui, ecc.); e di questi doppioni alcuni saranno stati usati indifferentemente l’uno e l’altro da tutte le classi sociali, come oggi a Firenze ditale e anello, portantina e bussola, spartizione (de’ capelli) e divisa; altri invece saranno stati i preferiti, più o meno esclusivamente, dalle classi inferiori, al modo stesso che un popolano fiorentino dirà forse più volentieri dota e dolsuto, che dote e doluto, e sempre poi doventare invece di diventare, mentre un fiorentino educato dice sempre dote e doluto, e ora doventare, ora diventare, secondo con chi e dove e di che parla. Rispetto poi ai sinonimi, come il popolano della moderna Roma chiama sempre porta anche l’uscio, così è probabile che il popolano della Roma antica dicesse porta anche quando doveva dir janua, e caballus anche quando doveva dire equus.
Or bene, siccome qualche centinaio di questi sinonimi o doppioni latini, che si credono i preferiti dalla plebe, sono i genitori legittimi dei corrispondenti vocaboli neolatini, giacchè noi Italiani, per esempio, non diciamo giana o gianva o jana da janua, ma porta da porta, non eguo o ieguo o ecquo, ecc. da equus, ma cavallo da caballus; perciò cavando da questo fatto una troppa larga conseguenza, si è detto e si dice che le lingue romanze[42] derivino dal latino rustico, o volgare o plebeo. Ma, oltrechè alle poche centinaia di parole romanze d’origine latina rustica si può contrapporne molte migliaia d’origine latina nobile, o nobile e rustica insieme; non bisogna mai dimenticare che l’organismo di dette lingue poggia quasi interamente sulla comune grammatica latina. Il tronco, dunque, da cui son germogliati i rami che si chiamano italiano, francese, spagnolo, ecc., è, in sostanza, il latino di Virgilio e di Plauto, di Cicerone e di Vitruvio; il latino togato e quello tunicato; insomma, il latino di tutti, quello che parlava omnis populus, come dice Varrone.
Una curiosa riprova di questa verità l’abbiamo nel fatto comunissimo, che de’ due sinonimi o doppioni latini, il volgare cioè e il civile, se uno attecchì in una delle nuove lingue, l’altro attecchì in un’altra. Ebriacus, per esempio, che forse era la forma popolare usata invece di ebrius, diede il toscano ubbriaco, il romanesco imbriaco, l’antico spagnolo embriágo, il provenzale ebriac, ecc.; ma l’ivre francese deriva direttamente da ebrius (come il nostro ebbro, del solo uso letterario); sicchè bisognerebbe concluderne che i Romani andati nella Francia settentrionale, quando si ubbriacavano o parlavano dell’ubbriachezza, fossero tutte persone civili. E così, se il volgare canutus diede l’italiano canuto, il provenzale canut e il francese chenu; dal civile canus è però derivato lo spagnolo cano. Se dall’allaudare o adlaudare di Plauto derivarono il provenzale alauzar, e lo spagnolo e portoghese alabar; dal comune laudare[43] derivarono l’italiano lodare e il francese louer. Se il volgare salisicia (salis insicia) o salsitia diede il toscano salsiccia, il siciliano sosizza, il francese saucisse, lo spagnuolo salchicha, ecc.; a Milano, a Venezia e altrove dicono ancora lugànega, dal latino lucanica, usato da Marziale e da Cicerone.[43] Se noi Italiani e i Francesi non ci contentammo di derivare cavallo e cheval da caballus e diciamo anche cavalla e cavale (da caballa); gli Spagnoli e i Rumeni dicono, sì, cavallo e callu pel maschio, ma dicono yegua e épa (da equa) per la femmina; ed ebba dicono i Sardi, egua i Portoghesi; ed egua s’incontra anche nel provenzale, iegue nell’antico francese.[44] E se il latino volgare porta prevalse generalmente su janua, questa vive ancora nel sardo settentrionale gianna e nel meridionale ennia, e vive nel napoletano votajanne (volta–janne), grimaldello.
Frequentissimo poi è il caso, che le due forme latine ne abbiano addirittura generato due (più o meno necessarie) anche nelle nuove lingue, come è accaduto in italiano da caecus e orbus, mutare e cambiare, dolor e cordolium, caput e testa, vulgus e volgus, ecc.
Del resto, chi facesse uno studio diligente sopra ciascuno di que’ vocaboli, che dal Diez[45] e da tutti coloro che hanno ricopiato il suo elenco, vengono relegati nella categoria dei rustica, vulgaria, sordida, troverebbe, io credo, da redimerne un bel numero. Perchè mai, per esempio, dirci che mamma (per mater) era voce volgare, se Varrone presso Nonio attesta che apparteneva al linguaggio de’ bambini? O che i patrizi non avevan bambini? E Marziale non si servì di questa voce, per l’appunto come ce ne serviremmo noi Italiani, in qualunque scrittura familiare, ma niente affatto volgare?
Mammas atque tatas habet Afra; sed ipsa tatarum
Dici et mammarum maxima mamma potest.[46]
E, peggio ancora, perchè dirci che cludere era la forma volgare di claudere, se per quanto si volesse stiracchiare questo o quel testo, è certo certissimo che fu adoperata innumerevoli volte, e in tutti gli stili, e da scrittori d’ogni tempo?[47] E perchè, finalmente, mettere in fascio voci e maniere usate da Plauto e Terenzio, con altre usate da autori di cinque, o sei, o sette secoli[45] dopo? Che ci si mettano quelle poche, le quali, come adjutare e cordolium, s’incontrano tanto nel latino arcaico, quanto nel latino della decadenza, sta bene; perchè è molto probabile che codeste forme, confinate ne’ bassi strati sociali durante il periodo classico, ritornassero poi a galla col prevalere di essi; ma quelle che troviamo usate per la prima volta da san Girolamo, da sant’Agostino, da Prisciano e da altri autori, vissuti nel quarto, quinto o sesto secolo dopo Cristo, con qual diritto volete bollarle per volgari, quando invece non sono altro che neologismi? Tanto varrebbe chiamar volgari tutte le parole italiane che non si trovano nei Trecentisti, essendo venute in uso dopo il Trecento!
Il Littrè, che combatte alla sfuggita quest’ipotesi della derivazione delle lingue romanze da «un certo latino rustico,» fa un’osservazione molto giusta. «Se si crede,» egli dice, «che il vernacolo (patois) latino, che senza dubbio si parlava nelle campagne al tempo d’Augusto e dei suoi successori, sia più specialmente l’origine delle lingue romanze; vale a dire che le voci del basso latino, come cupiditare, hominaticum, coraticum, appartenessero ai vernacoli; io stimo che si sbagli. In generale, queste forme del basso latino son lunghe; e perciò indicano che le popolazioni da cui erano state create e venivano usate, avevano perduto il senso delle forme più corte e più analogiche, proprie della latinità. Ora, il vernacolo (basta osservare i nostri) non ha punto questo carattere; il vernacolo ritiene più che altro[46] dell’arcaismo, mentre invece le forme allungate sono neologiche, nascendo esse dalla necessità di assicurare il senso delle parole che va oscurandosi.»[48]
Si badi però, che con tutto questo non vogliamo dire che nell’opinione di coloro, i quali fan derivare le lingue romanze dal latino rustico, non ci sia nulla di vero. Già, dicendo che codeste lingue derivano dal latino parlato da tutti (il quale, s’intende, quattro o cinque secoli dopo, non poteva esser più quello del tempo d’Augusto; nè mai, in Francia o in Spagna, potè essere lo stesso che in Italia), nel tutti, naturalmente, noi ci comprendiamo anche i rustici. E poi, bisogna anche aggiungere che l’elemento rustico, allo sfasciarsi dell’Impero, al decadere di quella splendida civiltà, ai primi albori della civiltà nova e cristiana, fu di certo in prevalenza sull’elemento nobile. Questo però, oltrechè non fu mai spento del tutto, andò riprendendo a poco a poco il suo posto, col risorgere graduale della coltura. E se, per esempio, in Italia, non si potè più sbandire le voci del latino rustico putus e catus («putto» e «gatto»), e risostituirvi dal latino civile puer e felis; si potè bene però conservare dallo stesso latino civile le voci pueritia, puerilis, puerilitas e felinus, le quali, nelle forme corrispondenti italiane, e con l’avverbio puerilmente per giunta, vivono ancora nell’uso di tutte le persone educate.
Qui, dunque, gli equivoci nacquero principalmente[47] dal riguardare le lingue neolatine da un solo lato della loro formazione; dal lato, cioè, in cui, per le condizioni sociali, prevalse l’elemento volgare.
Ma, dirà qualcuno, puerizia, puerile, puerilità, felino, e tanti altri vocaboli di questo genere, poterono esser desunti dal latino per opera de’ letterati, quand’esso era già morto, e poi dai libri entrare nell’uso delle persone civili; giacchè se, per esempio, pueritia fosse passato per il crogiuolo della fonetica popolare, molto probabilmente ci avrebbe dato puerezza, o poverezza, o qualcosa di simile.
Ecco: che nelle lingue romanze, e specialmente nella nostra, ci sia un gran numero di vocaboli, non derivati dal latino per formazione popolare, è un fatto indubitabile; e in francese si hanno anche norme generali e sicure per riconoscerli subito.
Il francese (l’abbiamo già accennato) conservò non meno delle lingue sorelle, l’accento tonico sulla medesima sillaba che l’aveva in latino; quantunque, per una forte contrazione della parola, creasse un sistema d’accentuazione assai differente, nel quale l’accento, invece di posare come in latino sulla penultima o sull’antipenultima, posa sull’ultima o sulla penultima: amáre (aimér), judicáre[48] (jugér), rotúndus (rónd, ant. franc. roónd), pórticus (pórche), témplum (témple), ecc. Or bene, tutte le parole francesi che violano la regola dell’accento latino, o che, pur non violando questa, non hanno subìto certe normali trasformazioni, sono infallantemente di origine non popolare. Tale è, per esempio, fragile, derivato, come il popolare frêle dal lat. fràgilis. Tale è innocent, perchè, secondo la fonetica popolare, il lat. innocentem avrebbe dato ennuisant, come infantem e inimicus diedero enfant e ennemi, e nocentem diede nuisant.
L’italiano, all’opposto, conserva di regola l’accento latino a suo luogo, tanto nei vocaboli di origine popolare, quanto in quelli di origine non popolare; e, per di più, non altera molto la loro forma; sicchè per distinguere gli uni dagli altri noi non abbiamo norme generali così chiare e pronte come le hanno i Francesi. Potremo quindi ben dire che siano di formazione civile flato da flatus, flebile da flebilis, flutto da fluctus, perchè il nesso fl, secondo la fonetica popolare, avrebbe dovuto mutarsi in fi, come appunto accadde in fiato, fievole, fiotto (che derivano ugualmente da flatus, flebilis, fluctus), e in fiume da flumen, fiore da florem, e simili; potremo anche arrischiarci a dire che sia un’esumazione letteraria il verbo procombere, giacchè, a quanto ne sappiamo, il primo a usarlo fu Giacomo Leopardi; ma chi oserebbe affermare che siano d’origine non popolare innocente e felino, come lo sono di certo i loro corrispondenti francesi; una volta che in italiano, fonetica popolare e fonetica civile, per[49] regola generale, vanno in questo caso pienamente d’accordo? E poi, se pure si riuscisse anche noi a distinguere tutte le voci di formazione non popolare; con ciò non si sarebbe provato nulla in favor dell’assunto che l’italiano e gli altri idiomi romanzi derivino dal latino rustico: come non prova nulla l’averle distinte in francese; giacchè, per esempio, Dio solo ormai potrebbe fornirci le prove che in Francia gli aggettivi latini innocens e felinus siano affatto scomparsi per un certo tempo dall’uso, e poi siano risuscitati per opera esclusivamente letteraria. L’unica cosa che si può dire con sicurezza è che per innocent e félin in francese, come forse per puerizia in italiano, le classi civili non si piegarono alla fonetica popolare; anzi imposero al popolo la fonetica propria. Ma tutto induce a credere che, anche quando il latino era, per dir così, in agonia, la maggior parte di simili voci si trovassero, nell’uso vivo delle persone civili, allora incomparabilmente più ristretto che ora, ma vivo. E se non s’incontrassero mai nelle scritture latine o nelle semivolgari di que’ tempi, nè in quelle addirittura volgari di tempi posteriori, non sarebbe certo una buona ragione per dichiararle allora morte, e risuscitate soltanto più tardi per opera dei letterati. Nè a dichiarar tali alcune di esse, basta l’altra ragione del vederle oggi usate dai soli scrittori, o anche esclusivamente dai soli poeti; giacchè, a questa stregua, chi non giudicherebbe d’origine letteraria le voci cetra, alma, léce (da licet), e rio (da reus), le quali invece son tutte di schiettissima formazione[50] popolare?[49] Se poi lo si considera bene, rafforza tutti questi argomenti anche il curioso fenomeno de’ vocaboli di origine mista, come per esempio il francese chapitre, che è di certo civile nella sillaba di mezzo, e popolare nelle altre due.[50] È quindi chiaro che alle frasi comuni: formazione o origine letteraria, e simili, sarebbe da sostituire l’altra molto più esatta di formazione civile; poichè le vere e proprie e accertate esumazioni letterarie, come appunto parrebbe il nostro procombere, sono in tutte le lingue neolatine un numero relativamente assai ristretto.[51]
I documenti che ci rimangono del francese dell’undecimo secolo (e siamo costretti a parlar del francese, perchè, insieme col provenzale, ne[51]’ primi secoli è appunto il più ricco di documenti), ci permettono di affermare con sicurezza che verso quel tempo il periodo della formazione della nuova lingua è terminato, ossia che il latino è morto in Francia definitivamente, e il francese ha finito di nascere; purchè non si perdano mai di vista quei[52] due canoni filologici:—Ogni anno si fa un passo verso un nuovo linguaggio;—La parola, piuttosto che un fatto, è un continuo farsi;—e purchè alle metafore di morte e di nascita non si dia maggior valore di quello che hanno realmente, e s’intenda solo che il linguaggio della Francia settentrionale, nell’undecimo secolo, non aveva più tutti que’ principali caratteri che lo facevano chiamar latino, e ne aveva invece acquistati altri, che gli fecero mutar nome, rimanendo pur sempre latino nel fondo.
Se dall’undecimo secolo torniamo indietro, naturalmente i nuovi caratteri vanno scemando, e crescono invece gli antichi. Nel Cantico di Sant’Eulalia, del nono secolo, s’incontrano ancora certe forme derivate dal più che perfetto latino (auret da habuerat, pouret da potuerat, furet da fuerat, ecc.),[52] e versi come questi:
E por o fut presentede Maximiien,
Chi rex eret à cels dis sovre pagiens.[53]
Il giuramento che nello stesso secolo, e precisamente nell’anno 842, Luigi il Germanico prestò, in romana lingua, a suo fratello Carlo il Calvo, e Carlo poi, in teudisca, a lui, dice così: Pro Deo amur et pro christian poblo et nostro commun salvament,[53] d’ist di [de isto die] in avant, in quant Deus savir et podir me dunat, si salvarai eo cist meon fradre Karlo, et in aiudha et in cadhuna cosa, si cum om per dreit son fradra salvar dift, in o [in eo] quid il mi altresi fazet [faciat], et ab[54] Ludher nul plaid [placitum] nunquam prindrai, qui, meon vol, cist meon fradre Karle in damno sit.[55]
Che razza di lingua è questa? Vi si scorgono, sì, alcuni speciali caratteri dell’antico francese;[56][54] ma pare quasi un miscuglio di tutte le nuove lingue; pare che non sia ancora risolutamente nessuna di esse, quantunque non sia più neppure il latino:
Come procede innanzi dall’ardore
Per lo papiro suso un color bruno,
Che non è nero ancora, e ’l bianco muore.[57]
Il fatto però non recherà maraviglia a chi ripensi che più i rami sono vicini al tronco, e più si somigliano tra loro, e più somigliano anche al tronco stesso. Più invece se ne staccano, e più vanno acquistando ognuno caratteri propri. Già il gran Muratori, a proposito di questo medesimo documento, notava che la lingua francese era di certo molto più somigliante allora che adesso alla nostra italiana;[58] e, bisogna aggiungere, tutt’e due somigliavano, assai più che non ora, alle altre lingue sorelle, e tutte quante poi somigliavano più anche al latino. Perciò il Littré potè tradurre assai poeticamente, benchè quasi alla lettera e con lo stesso numero di versi e molto spesso anche con le stesse rime, tutto l’Inferno di Dante in francese antico.[59]
Su questo punto, dunque, sarebbe inutile recare altre prove, se non ci giovassero a dimostrare anche altre verità.
Pare strano, per esempio, che il moderno francese autel derivi dal latino altare. Ma chi sappia che nel francese dell’undecimo secolo si trova alter e più tardi altel; chi sappia che in questa lingua l’al latino (altare), quando sia seguito da altra consonante, finisce di regola col cambiarsi in au (autel—alba = aube, alter = autre, malva = mauve, palma = paume, ecc.); e che l’a latino accentato (altare), quando non è in posizione, vi si muta in e (autel—sal = sel, amarus = amer, nasus = nez, clavis = clef, ecc.); chi sappia che l’r (altare) mutato in l (autel) vi s’incontra anche in altre parole (peregrinus = pèlerin, cribrum = crible, ecc.), e che l’e latina atona, quand’è al termine della parola (altare), vi scomparisce sempre (autel—mare = mer, amare = aimer, ecc.); chi finalmente sappia che anche in provenzale s’incontrano[56] le forme altar e autar, e che altar si dice a Venezia e a Milano, e altêr in Romagna e altrove; troverà naturale e logico che in francese si siano avute successivamente le tre forme: alter, altel, autel; e insieme avrà non solo una prova del fatto che le lingue romanze somigliano più tra loro e al latino, quanto più si risale il corso dei secoli; ma avrà altresì un’idea del metodo che oggi si segue nelle indagini etimologiche, e del posto importantissimo che in tali indagini tengono i dialetti.
Prima di questo metodo, non sapendosi spiegare come il francese âme potesse derivare dal latino anima, si diceva derivato dal gotico ahma (soffio, anima). Oggi invece, essendosi accertato che nel nono secolo i Francesi scrivevano anima,[60] nel decimo anime, nell’undecimo aneme, e nel decimoterzo anme e amme, si trova naturalissimo che poi passassero ad âme; nè c’è punto bisogno di ricorrere alla parola gotica. Il provenzale anma e arma, e l’italiano anima, che in alcuni scrittori e ne’ dialetti è anema, alma, arma, compiono[57] e illustrano la storia di âme. E così è (per citare un ultimo esempio) dell’italiano topo, il quale è derivato dal lat. talpa: primo, per lo scambio di al in aul au (talpa=taupa), come in «autre» per «altro;» secondo, di au in o (taupa=topa), come in «lode» da «laude;» terzo, col mutamento di genere (topa=topo), come in uccello da avicella=aucella.
Con questo metodo, dunque, si scoprono molto spesso etimologie inaspettate; ma non è più possibile cadere in quelle aberrazioni, per cui, ad esempio, il Menagio (1613–1692), con una serie di mutamenti cervellotici, faceva derivare alfana da equus: derivazione che gli fruttò il grazioso epigramma del cavalier d’Aceilly:
Alfana vient d’equus sans doute;
Mais il faut convenir aussi
Qu’à venir de là jusqu’ici,
Il a bien changé sur la route.
Mentre però in Francia, dal IX secolo in poi, si hanno documenti sicuri e via via più copiosi per seguire passo per passo lo svolgimento di quegli idiomi, in Italia, invece, fino alla prima metà del sec. XIII, i documenti scarseggiano. Questa differenza proviene soprattutto dal fatto, che Provenzali e Francesi, essendo meno di noi affezionati al latino, cominciarono prima di noi a usare i loro volgari anche in opere letterarie, le quali,[58] com’è naturale, si conservano più facilmente. Ma se è certo che le due letterature di Francia sono più antiche della nostra, non è men certo che gl’idiomi italiani si svolsero, per dir così, parallelamente ai francesi, di guisa che la storia di questi è anche, in sostanza, la storia dei nostri, come di tutti gli altri neolatini. Del resto, anche gli scarsi documenti che abbiamo, se sono insufficienti a risolvere molte questioni filologiche parziali, sono però più che sufficienti per la questione storica generale, potendosi applicar loro il noto detto: ex ungue leonem.
Nelle Inscriptiones Christianae urbis Romae, pubblicate dal De Rossi, come anche in altre simili, s’incontrano forme volgari o semivolgari perfino nel IV secolo. Per esempio, un mesis per mensibus, s’incontra nell’anno 310 (pag. 31); un mesis nobe (nove) nell’anno 350 (pag. 67); un Pitzinnina (Pizzinina, Piccinina, nome o soprannome d’una giovine) nell’anno 392 (pag. 177); un septe per septem nell’anno 394 (pag. 183). Importante e curiosa mi pare poi sotto questo rispetto un’iscrizione dell’anno 404 (pag. 226), che dice così:
lepusclus leo
qui vixit anum et mensis undeci
et dies deceetnove
perit septimu calendas agustas etc.
Qui, oltre le forme undeci e septimu, tuttora venti[59] in alcuni dialetti, e oltre l’agu di agustas, vivente anch’esso nell’Agusto (Augusto) del romanesco e d’altri dialetti e nell’italiano agosto; abbiamo quelle tre correzioni sovrapposte a Lepusclu, mesis e decenove, le quali mi paiono attestar chiaramente, che lo scolpitore dell’epigrafe si era fatto rubar la mano dalla sua parlata, e poi si corresse o fu corretto.
Un visse per vixit s’incontra in un’iscrizione dell’anno 564 (pag. 501); un con per cum, in un’altra dell’anno 565 o 550 (pag. 503).
Certo, forme consimili, più vicine cioè ai volgari italiani, che al latino classico, spesseggiano anche nel latino arcaico, come nelle altre antiche lingue italiche;[61] e appariscono perfino nel secolo d’Augusto. Ma nel quinto e sesto secolo dell’era cristiana cominciano a diventare un vero diluvio. Scorrendo la citata raccolta del De Rossi, si vede chiaramente che in que’ tempi il buon latino è già un’eccezione. E se così era nella culla stessa della latinità, figuriamoci che cosa dovesse essere altrove. L’arcaismo, prima relegato e quasi nascosto negl’infimi strati sociali, rialzava il capo arditamente col prevalere di questi; e data la mano al neologismo, che nasceva spontaneo dalle mutate condizioni materiali e morali, cospirava con esso a precipitare la trasformazione del linguaggio.
De’ successivi progressi di tale trasformazione ci fanno sufficiente testimonianza gli atti notarili e cancellereschi, che per usanza e per legge dovevano essere scritti in latino, o almeno in una forma che ne avesse l’apparenza.
Nella massima parte di codeste scritture, che specialmente dall’VIII secolo in poi ci son rimaste in gran copia, il capriccio individuale è per solito così sfrenato, e la mancanza d’ogni norma grammaticale così assoluta, da non lasciare ombra di dubbio, che i loro autori non scrivevano nessuna vera lingua, nè viva nè morta; ma storpiavano alla peggio, ognuno a suo modo, la propria parlata, su quello stampo informe di latino che ognun d’essi aveva in capo, o meglio che gli veniva in capo mentre scriveva. E quindi era possibile che, per esempio, un notaro e un prete di Lucca e un altro notaro della vicina Sovana usassero nello stesso tempo (a. 736–740) tre formule orribilmente sgrammaticate rispetto al latino, ma con spropositi del tutto diversi, sicchè ognuna, per di così, costituisce una lingua a sè. Il notaro lucchese, infatti, scriveva: Regnante piissimi dn. nostro Liutprand et Hilprand vir excellentissimis regibus....[62] Il prete, invece: Regnante Domnos noster Liutprand et Helprand, Domino juvante, regibus....[63] E il notaro sovanese: Regnante Domni nostri Liutprand et Hilprand viri[61] excellentissimi rigis....[64] Basterebbero, dunque, questi tre soli esempi tra mille, a provare che nel principio del sec. VIII gl’idiomi parlati in Italia non erano più il latino.
Ma i notari e i cancellieri, e in parte anche i cronisti, i biografi e simili, ci offrono prove ben più dirette e lampanti; poichè, alle volte per maggior chiarezza, ma più spesso per ignoranza, incastrano qua e là ne’ loro scritti forme semivolgari o prettamente volgari. Eccone qui pochi saggi, desunti da documenti d’ogni regione d’Italia.
A. 539. In un papiro ravennate, contenente un istrumento di vendita: Eundemque comparatorem [compratore] Pelegrino Vaistrini [sic], heredesque ejus causa hujus venditionis in ss [supra–scriptam] rem inremittere, ingredi, possidereque permiserunt. (Maffei, Istoria Diplomatica; Mantova, 1727; pag. 151.)—Nomero centum decem ... nomero. (Ibid., pag. 152).—Vindetrice (ripetuto due volte, invece del genitivo venditricis.—Ibid., pag. 153).
A. 557. In un papiro reatino: Aetatis invicillitatem. (Ibid., pag. 161 bis.) Invicille e invecille, per imbecille, vivono ancora in alcuni de’ nostri vernacoli.
A. 602 o 603. In valle que nominatur Bobio. (Historiae patriae Monumenta, edita jussu regis Caroli Alberti. Chartar. tom. I, pag. 3.)
A. 685. Orare diveatis ... tam movile quam[62] imovile ... scrivendam ... stavilitum. (Docum. Lucch., tom. IV, pag. 63–64.)
A. 713. Ego Fortunato.... Et posi hanc completa cartula, rememoravimus particellula nostra de oliveto in Vaccule, ego Fortonato et Bunuald parte nostra in integrum offerimus Deo et beati S. Petri, quem novis heredem constituemus. (Ibid., tom. V, par. II, pag. 4–5.)
A. 730. De uno latere corre via publica. (Carta pisana, nel Muratori, Diss. cit., col. 480–81.)
A. 746. De uno latum decorre via publica ... nomero quindeci. (Docum. Lucch., tom. V, par. II, pag. 23.)
A. 747. In loco qui dicitur Castellone. (Ibid., pag. 24.)
A. 748. Una libra cera ... perexolvant. (Ibid., pag. 26.)
A. 759. Reddere debeamus uno soldo bono expendibile. (Ibid., pag. 39–40.)
A. 765. Rissolfo prete dona tutti i suoi beni a due Chiese del territorio di Lucca, a condizione però, che con una parte delle rendite si dia da pranzo per tre giorni d’ogni settimana a ventiquattro poveri; e fissa egli stesso il menu del pasto: Prandium eorum tali sit per omnem septimana: scaphilo grano pane cocto, et duo congia vino, et duo congia de pulmentario faba et panico mixto, bene spisso, et condito de uncto aut oleo. (Ibid., pag. 55.)
A. 776. Reddere promettimus una anfora vino ... et uno porcello. (Ibid., pag. 90.)
A. 777. Signum † manus Garibaldi, filio quondam[63] Placito da Porta Argenta, testis. (Carta milanese, nel Muratori, Diss. cit., 479.)
A. 788. Constat me Arimundi filio bone memorie Desiderio de Civitate astense accepisse et accepi ad te Augustino Clericus dinarios argenteos nomeri trigenta, fenido [finito, intero?] precio pro pecia una de campo, quam avere viso sum inter consortis et germanos meos ex integrum mea porcione de ipso campo et cum antecessura de pradello. (Hist. patr. Mon., vol. cit., pag. 23.)
A. 792. Un contadino prende a coltivare un podere da Giovanni, vescovo di Lacca, e si obbliga a dargli ogni anno, tra l’altre cose, mediatate vino puro. (Docum. Lucch., tom. cit., pag. 138.)
A. 799. Alia pettia de terra in ipsu locum abentes fine de duas parti fine bia. (Carta salernitana, nel Codex Diplomatica Cavensis; tom. I, pag. 4.)
Da documenti di questi stessi tempi risulta che a Roma si diceva Porta Majore nel nominativo;[65] e nel Liber Pontificalis di Agnello Ravennate,[66] scritto nella prima metà del IX secolo, abbiamo un curiosissimo fatto. Quando Carlo Magno passò per Ravenna, l’arcivescovo Grazioso e altri lo invitarono a pranzo; e i maggiorenti del clero, conoscendo il loro arcivescovo per uomo di gran semplicità, lo ammonirono in buoni termini, perchè alla presenza del sovrano non se ne lasciasse scappare qualcuna delle sue.—Domine, retine simplicitatem tuam, et cave ne aliqua loquaris quae[64] apta non sint.—No, figlioli, no; mi turerò la bocca (Non, filii, non, sed oppilo os), rispose l’arcivescovo. Ma quando furono a tavola, il brav’omo, vedendo forse che Carlo mangiava poco, saltò su a dirgli: Pappa, Domine mi Rex, pappa! Carlo, com’è naturale, si maravigliò (admiratus est) di quel pappa; e allora gli altri preti (figuriamoci con che premura!) gli spiegarono che l’arcivescovo, nella sua gran semplicità, con quelle parole non aveva punto inteso nè ingiuriarlo, nè beffarlo, ma solamente esortarlo a mangiare, come una madre fa col bambino. Ecce vere Israelita, in quo dolus non est, esclamò il Re; e divenne così benigno verso Grazioso, che gli concesse poi tutto ciò che volle. È dunque evidente che il verbo pappare aveva già nell’uso vivo il significato ingiurioso o burlesco (injuriae aut illusionis) di mangiare ingordamente, mentre invece in latino pare che si dicesse de’ soli bambini, quando chiedono il cibo, o quando mangian la pappa.
A. 816. Avent in longo pertigas quatordice in transverso, de uno capo pedes dece, de alio nove in traverso.... de uno capo duas pedis, cinque de alio capo. (Carta pisana, nel Muratori, Diss. cit., 481.)
A. 818. Ghisalperga, badessa di S. Lucia in Lucca, nomina rettore della chiesa di S. Pietro di Nocchi un prete Romualdo, il quale dal canto suo si obbliga a bene lavorare i terreni di detta chiesa, e a dare ogn’anno alla badessa medietatem vinum purum.... et medietatem castanie, et[65] medietatem fica sicche. (Docum. Lucch., Suppl. al tom. IV, pag. 23.)
A. 846. Finchè Ambrogio vescovo di Lucca conserverà badessa di S. Pietro Ildicunda, e la lascerà padrona di tutti i beni del monastero, un tal Ghisolfo, probabilmente parente di lei, si obbliga a reddere per singulos annos al vescovo uno vestito caprino testo in sirico, et uno tappite. (Ibid., pag. 40.)
A. 850. Per longu passi sidici et gubita trea et pede unu. (Carta nocerina, nel Cod. Dipl. Cav., tom. I, pag. 40.)
A. 857. In locu nominato casamavile. (Ibid., pag. 63.)—Ut dare in cambio.... ipsa terra sua, qui dicitur ad casa amabele. (Pag. 65.)
Frequenti son pure i soprannomi volgari. In una carta modenese dell’anno 918, incontriamo un Lampertus, qui supernominatur Cavinsacco (capo–in–sacco). In una lucchese, del 941, facciamo conoscenza, poco gradita in verità, con Johannes clericus, qui Rabia vocatur; e, nel 905, re Berengario donava a un monastero i beni di un altro Giovanni, qui alio nomine Bracca curta, [braca–corta] vocitabatur. (Muratori, Diss. cit., 491.)
In un documento lucchese del 980 (Suppl. al tom. IV, pag. 101–2), sono espressamente nominate in volgare una quarantina di ville, come Valiano, Ferugnano, Monte alto, Perglone, Valle, Aliga, Appiano, Casale Lapidi, Vivaja, Marciano, Collecarelli, Carbona in Cercino, ecc. Ma quasi non ce n’è più bisogno; perchè in una carta originale dell’archivio di Montecassino, scritta nel[66] 960, troviamo finalmente un intero periodetto quasi tutto volgare. Questa preziosissima carta, pubblicata prima dal Gattola e poi anche dal Tosti,[67] è un placito di Arechiso, giudice capuano, per una lite di confini tra il Monastero cassinese e un tal Rudelgrimo di Aquino. Ognuno de’ testimoni, tenendo con una mano l’abbreviatura delle carte processuali, e toccandola con l’altra mano, dice: Sao ko [come] kelle terre per kelle fini, que ki contene,[68] trenta anni le passette [possedette] parte Sancti Benedicti. E queste parole son ripetute nel placito ben quattro volte, con lievissime differenze, più grafiche, che di sostanza, e dal cui confronto risulta la nostra lezione.
Sulla data e autenticità di questo vero cimelio, il quale basterebbe da solo a provare che verso il mille il latino doveva già esser morto e sepolto da un pezzo, non c’è, nè ci può essere, ombra di dubbio.[69] E la sua importanza si accresce grandemente,[67] considerando che esso si trova, per dir così, solitario; poichè, dimostrata ormai ad esuberanza la falsità delle pretese Carte d’Arborèa;[70] dimostrato che non è del 1000, ma del 1606, la iscrizione volgare di Monte San Giuliano in Sicilia;[71] passa ancora un secolo, prima che si trovi un altro documento autentico e di data certa, che sia degno di stargli vicino. Le singole forme volgari, che potremmo ancora spigolare qua e là abbondantemente, farebbero al suo confronto una ben magra figura; e solo nella seconda metà del secolo XI abbiamo una carta sarda, la quale, tenuto conto della stretta somiglianza che gl’idiomi di Sardegna hanno anche oggi col latino,[72] può quasi considerarsi come del tutto volgare. Eccone,[68] per saggio, le prime righe: In nomine Domini. Amen. Ego judice Mariano de Lacon fazo ista carta ad honore de omnes homines de Pisas, per xu toloneu ci [ki] mi pecterunt [per il dazio che mi domandarono], e ego donolislu [donoglielo], per ca li sso ego [perchè gli sono io] amica caru, e itsos a mimi [ed essi a me].[73]
Secondo il compianto Löwe, appartiene al sec. XI anche una Formula di Confessione, contenuta in un codice proveniente dall’antico monastero benedettino di S. Eutizio presso Norcia, e ora nella Vallicelliana di Roma.[74] È una specie[69] di guida o promemoria per la confessione. Il supposto penitente, dopo aver detto tre volte: Domine, mea culpa, dichiara con frasi latine o semilatine di confessarsi, davanti a Dio, alla Madonna e a tutti i Santi e le Sante, d’ogni peccato commesso, da lu battismu suo, usque in ista hora; e quindi prosegue, specificandone alcuni più grossi: Me accuso de lu corpus Dei, k’io indignamente lu accepi. Me accuso de li mei adpatrini [confessori], et de quelle penitentie k’illi me pusero e nnoll’observai. Me accuso de lu genitore meu et de la genitrice mia et de li proximi mei, ke ce non abbi quella dilectione ke me senior Dominideu commandao. Me accuso de li mei sanctuli [padrini, compari] e de lu sanctu baptismu, ke promiseru pro me et noll’obsevai. Me accuso de la decema et de la primitia et de offertione, ke nno la dei siccomo far dibbi. Me accuso de le sancte quadragessime et de le vigilie de l’apostoli et de le jejunia .IIII.or tempora, k’io noll’observai. Me accuso de la sancta treva [tregua], k’io noll’observai siccomo promisi, eccetera, eccetera, finchè s’arriva all’assoluzione.
Del principio del sec. XII, e precisamente dell’anno 1104 o 1122, abbiamo la nota carta rossanese, di cui sarebbe desiderabile che qualcuno ritrovasse l’originale e ce ne desse un’edizione migliore di quella dell’Ughelli,[75] la quale, come già[70] avvertiva il Muratori (Diss. cit., 512), deve avere parecchie inesattezze di trascrizione. Comunque sia, eccone qui uno de’ passi più ricchi di forme prettamente volgari:..... et cala allo vallone de donna Leo, et lo vallone Apendino ferit a la via che vene ad Santo Jorio, et volta supra l’ara de li maracini [Maracini?].....
Dell’anno 1193 abbiamo una carta, scritta nel territorio di Fermo, e nella quale, tra l’altre, s’incontrano queste locuzioni: unu mese poi—non volese redere li denari—se questo avere se [si] perdesse—fose palese per la terra—ke la mitade se ne fose ad resicu de Johanni de tuctu.[76]
Ognun vede però, che questi documenti appartengono tutti alla storia della lingua, e non alla letteratura propriamente detta. Ma nel sec. XII ne abbiamo anche tre altri, che possono considerarsi come letterari.
Il primo è la notissima iscrizione del Duomo di Ferrara, che nella sua forma più antica diceva così:
Li mile cento trenta cenqe nato,
Fo questo tempio a S. Gogio donato
Da Glelmo ciptadin per so amore,
E mea fo l’opra Nicolao Scolptore.
I dubbi sollevati sull’autenticità di questo documento furono strenuamente combattuti[71] dall’Affò,[77] e li crede addirittura infondati anche il Monaci.[78]
Il secondo son quattro versi, che alludono all’impresa di Casteldardo, assalito e distrutto dai Bellunesi nel 1193:
De Casteldart havi li nostri bona part;
I lo zettò tutto intro lo fiume d’Art;
E sex cavalier di Tarvis li plui fer
Con sè duse i nostri presoner.[79]
Il terzo, letterariamente più importante di tutti, è però opera di un trovatore provenzale, Rambaldo di Vaqueiras, che in una canzone o[73] contrasto bilingue, scritto senza alcun dubbio pochi anni prima della fine del secolo, fa parlare per ben quattro strofe in genovese una donna, la quale, per la buona ragione che è già maritata, non vuoi corrispondere alle proteste di amore che egli le vien facendo in provenzale. Eccone per saggio una strofa, secondo la lezione del conte Galvani:
Jujar,[80] to provenzalesco,
[74]Si ben s’engauza de mi,[81]
Non lo prezo un genoì,[82]
Nè t’entend chiù d’un Toesco
O Sardesco o Barbari,[83]
Ni non ho cura de ti:
Vo’ ti cavillar con mego?
Se lo sa lo meo marì,
Malo piato avrai con sego.
Bel Messer, vero ve di’:
Non vollio questo latì;[84]
Frare, zo aia una fi;[85]
Provenzal, va, mal vestì,
Lagame star.[86]
A questi tre documenti potrebbe anche aggiungersi la poesia che va sotto il nome di[75] messer lo Re Giovanni;[87] perchè, se realmente ne fu autore il suocero di Federigo II, Giovanni di Brienne; essendo egli nato nel 1158, e codesta poesia avendo un carattere erotico molto vivace, deve probabilmente averla scritta prima della fine del secolo, quando cioè il sangue gli bolliva ancora. E potrebbe altresì aggiungervisi il così detto Ritmo Cassinese, essendo probabile che, tra quelli che lo vogliono del sec. XI e quelli che lo vogliono del XIII, abbiano ragione coloro i quali, come il Monaci, lo ritengono del XII.[88] Al qual tempo è forse da assegnare anche[76] il Ritmo della Laurenziana, pubblicato dal Bandita,[89] e i ventidue Sermoni Gallo–italici, pubblicati dal Foerster[90] e scritti in un linguaggio che ha qua e là forme francesi, ma il cui fondo appartiene all’Italia settentrionale.[91]
Potremmo tuttavia non tener conto di questi quattro ultimi documenti, e anche del contrasto del trovatore provenzale; poichè basterebbero l’iscrizione di Ferrara e i versi bellunesi, per affermare che fin dal sec. XII i nostri volgari cominciarono, scarsamente, rozzamente quanto si[78] vuole, ma cominciarono, ad essere usati in componimenti letterati.
Intanto però che qui si movevano appena i primissimi passi (e in parte si movevano, come abbiamo veduto, per opera di un provenzale e d’un francese), la letteratura francese e la provenzale erano già in pieno fiore; anzi, la seconda già cominciava a decadere.
Le ragioni di questa differenza tra l’Italia e la Francia possono esser parecchie, ma la principale è quella che abbiamo già accennata: gl’Italiani, considerando l’impero e la lingua di Roma come cosa e gloria propria, si ostinavano a scrivere in latino, o almeno in un volgare latinizzato. Latino e volgare furono sempre in lotta tra noi; si può anzi dire che questa lotta forma il carattere più spiccato della lingua e della letteratura italiana, e non è ancora interamente cessata.
Al cadere del VI secolo, san Gregorio Magno, papa, faceva una solenne lavata di capo a Desiderio vescovo di Vienna in Francia, perche dava lezioni di grammatica latina. «Ci si riferisce un fatto,» gli scriveva, «che non possiamo ripetere, senza arrossirne. Dicono che tu, o fratello, dài lezioni di grammatica. Noi ne siamo vivissimamente afflitti e sdegnati......., perche le lodi di Giove non possono stare in una medesima bocca insieme con quelle di Cristo.»[92]
In quanto a sè, poi, il pontefice, benchè dottissimo,[79] diceva di non curarsi a d’evitare la confusione del barbarismo, e di disprezzare l’esatta collocazione delle preposizioni, e l’osservanza dei casi da esse richiesti; poichè gli pareva «una vera profanazione (quia indignum vehementer existimo) il restringere la parola del celeste oracolo sotto le regole del grammatico Donato.»[93]
Verso la metà del sec. VIII, un prete della diocesi di Magonza, avendo forse seguìto alla lettera gli ammonimenti già dati da Gregorio Magno, battezzò un bambino con queste parole: Ego te baptiso in nomine Patria et Filia et Spiritus Sancti; onde nacque il dubbio che il battesimo, amministrato così, potesse non esser valido, e la questione fu portata davanti a papa Zaccaria.[94] Nello stesso secolo, a Roma, perfino le lettere de’ papi non rispettavano più nè le leggi della grammatica, nè quelle della logica.[95]
Ma, in generale, il fervore cristiano contro la latinità classica produsse i suoi effetti più di là dalle Alpi, che in Italia, dove, anche ne’ tempi più tenebrosi, la coltura non fu mai esclusivo patrimonio de’ chierici; e dove anzi, specialmente fuori di Roma, i chierici stessi coltivavano spesso con ardore e con intenti artistici le letterature antiche; sicchè, mentre presso le altre nazioni fiorivano, e assai più che tra noi, i soli studi[80] teologici, qui invece erano in maggior onore i profani; e mentre sorgeva poi nell’Università parigina la più celebre scuola di teologia, nelle Università italiane venivano massimamente in fiore la giurisprudenza e la medicina.[96]
Carlo Magno, che aveva avuto per maestro di latino un italiano, Pietro da Pisa; e che dalla nostra Parma aveva condotto con sè alla sua corte il dotto anglosassone Alcuino; e che aveva potuto vedere come in Lombardia, perfino ne’ villaggi, ci fossero scuole pubbliche, dove i parrochi insegnavano i primi rudimenti letterali;[97] tentò di ridestare di là dalle Alpi il culto de’ buoni studi, raccomandandolo ai chierici con l’Encyclica de Litteris colendis dell’anno 787, e ordinando loro, col capitolare del 789 (§ 71), d’aprire in tutti i monasteri e gli episcòpi scuole di grammatica, di calcolo, di musica.[98] Volendo poi dare, egli per primo, il buon esempio, fondò nel suo palazzo in Aquisgrana la così detta Scuola palatina, cioè una specie d’accademia, della quale faceva parte egli stesso, i suoi maestri, i suoi favoriti, i suoi figli e perfino le sue figlie. Ma il nobile tentativo, rispetto al laicato, attecchì in generale così poco, che nell’813 il Concilio di Magonza, convocato per ordine del medesimo Carlo Magno, nel canone XLV ordinava, che[81] ognuno dovesse, se non poteva in latino, imparare almeno in sua lingua l’orazione domenicale.[99] E, venti o trent’anni dopo, Lupo Servato, abate di Ferrières, scrivendo al celebre Eginardo, già allievo della Scuola palatina, e ministro, amico e biografo del grande Imperatore, si doleva che, morto questo, gli studi si fossero quasi spenti di nuovo, e che fosse veduto di mal occhio chiunque desiderava d’imparar qualche cosa.[100] Nè va dimenticato, che la coltura classica in Francia trovava anche un formidabile ostacolo nella penuria de’ codici, la quale era incomparabilmente maggiore che tra noi; giacchè non pare che i nostri vicini avessero allora l’abitudine di portarceli via: tutt’al più, ce li chiedevano in prestito. Difatti, lo stesso Lupo di Ferrières, verso l’anno 855, si raccomandava a mani giunte a papa Benedetto III, perchè gli mandasse da Roma alcuni libri: tra gli altri, un De Oratore di Cicerone e un Quintiliano, de’ quali i suoi frati possedevano solo qualche pezzo; e lo assicurava che, appena trascritti, glieli avrebbe scrupolosamente restituiti.[101]
Avendo dunque i laici in Francia trascurato il latino, e i chierici essendosene serviti quasi esclusivamente per le materie religiose, è naturale[82] che là si principiasse a scrivere i nuovi idiomi prima che qui da noi, dove il latino pesava come una cappa di piombo sui disprezzati volgari. I quali poi, dopo il mille, cominciarono a trovarsi addosso anche il provenzale e il francese, che a poco a poco invasero con due nuove e attraenti letterature l’Italia.
Sicchè la patria nostra, ne’ secoli XII, XIII e parte del XIV, presenta un fenomeno letterario, unico, io credo, nella storia. Il più de’ dotti scrivono il latino; altri scrivono il provenzale; altri il francese; altri, i loro particolari idiomi nativi; altri sono in grado di scrivere due, tre, quattro di queste lingue; altri infine ne fanno un miscuglio, che non si sa bene cosa sia; e il popolo nostro, specialmente quello della media e dell’alta Italia, le capisce tutte, salvo in parte il latino; e s’affolla su per le piazze a sentire i canti dei trovieri e dei giullari, finchè, come accadde nel 1288 a Bologna, un decreto del Senato non prescriva che i Cantatores Franciginorum in plateis Communis ad cantandum.... omnino morari non possint nec debeant, sotto pena, nientemeno, della fustigazione in pubblico, e altre maggiori per i recidivi.[102]
Per uscire da questa nova Babilonia, ci voleva uno sforzo supremo, una specie di miracolo. Ci voleva un uomo, il quale, servendosi di uno degl’idiomi centrali della penisola, e perciò meglio accetto agli altri Italiani, fondesse insieme, con mirabile armonia, in una grand’opera d’arte, tutti gli svariati elementi, che cozzavano, confusi, tra loro: la gentilezza cavalieresca de’ Francesi e de’ cortigiani di Sicilia; i sospiri d’amore e le invettive anticlericali de’ Provenzali; il misticismo di san Francesco e di Iacopone; la naturalezza e la verità del sentimento popolare; la speculazione teologica e scientifica.
Quest’uomo venne, nè c’è bisogno ch’io lo nomini; ed a ragione potè dire che, col suo poema, avrebbe cacciato di nido i suoi predecessori, togliendo loro «la gloria della lingua.»[103] E con la solita fierezza, egli si sdegnava contro i «malvagi uomini d’Italia, che commendano lo Volgare altrui, e lo propio dispregiano;» e profetizzava che il Volgare sarebbe stato «luce nuova, sole nuovo, il quale surgerà ove l’usato,» cioè il latino, «tramonterà.»[104]
Ma il latino, anzichè tramontare, non pago[84] di averci, con Guittone, col Boccaccio e co’ loro seguaci, snaturato una parte non piccola del lessico e della sintassi, risorse, come la fenice della favola, dalle sue ceneri, e per tutto il Quattrocento tenne in iscacco la lingua gloriosa con cui Dante aveva potuto
Descriver fondo a tutto l’Universo.
Ciò che san Gregorio Magno, otto secoli innanzi, aveva temuto e voleva scongiurare, avvenne di fatto: l’Italia cólta e il Papato stesso ridiventaron pagani nella forma e nel pensiero, e il latinismo, risuscitato per opera nostra, invase una seconda volta anche la lingua e la letteratura francese.
Fu un bene? Fu un male?
C’è di certo chi sarebbe disposto a lapidarmi, se io osassi solamente dubitare che il Risorgimento, in tutte le sue cause e in tutti i suoi effetti, non fosse addirittura un gran bene. Io quindi sono lietissimo, che il mio assunto mi dispensi dall’entrare in così pericolosa questione.
Per il mio assunto, basta l’aver notato il fatto in quanto concerne la lingua; e basta che inviti il lettore a rifletterci sopra un momento.
Il linguaggio de’ barbari invasori d’Italia lascia appena, come abbiamo veduto, meschinissime tracce nella lingua de’ vinti, la quale anzi s’impone ai vincitori. Il latino invece, dopo aver sradicato cento idiomi, allora già in gran parte così diversi tra loro, che i popoli che li parlavano avevano perfino dimenticato la comune origine;[85] dopo aver generato nuove lingue e nuove e fiorenti letterature; dopo che la sua gloriosa culla era stata messa e rimessa a soqquadro; dopo tanti secoli che più non si parlava e solo lo si scriveva scorretto e imbarbarito, torna durante il Risorgimento a risonare nelle opere del Petrarca, del Poliziano, del Pontano, del Fracastoro e di tanti altri, come già aveva risonato sulle labbra di Virgilio e di Orazio; corre di nuovo trionfalmente tutto il mondo civile, mettendo persino in forse l’esistenza letteraria della sua stessa primogenita.
Da questo fatto, meglio assai che dalle strepitose vittorie, si può avere un’idea del miracolo di forza, d’arte e di sapienza, che dovette essere il popolo che parlò una tal lingua.
Antologia della nostra Critica letteraria moderna, compilata per uso delle persone cólte e delle scuole da Luigi Morandi, già precettore di S. A. R. il Principe di Napoli.—Quinta edizione, sulla quarta assai migliorata e accresciuta di ventidue scritti.—Lapi editore, 1890.—Un bel volume di pag. XII–756.—Lire 4.
«Nous recommandons ce livre a tous égards et à tout le monde, en émettant le vœu qu’il soit, non seulement étudié, mais imité chez–nous. Cette Anthologie de la Critique moderne en Italie réponde, en effet, a un besoin que les gens d’étude, jeunes ou vieux, éprouvent un peu partout, celui de savoir ce que les maîtres pensent des maîtres. En recueillant ainsi des jugemens tout a fait supérieurs, et en les mettant en ordre, avec méthode, comme fait M. Morandi, on finit par constituer une histoire littéraire autrement intéressante que celles où un seul homme exhibe son érudition et sa sagacité.... Le pian de ce livre.... nous paraît fort bien composé.» Marc Monnier, nel Journal des Débats del 31 marzo 1885.
«Il Morandi, nel compilare questa Antologia, non s’è lasciato dirigere da programmi presenti o passati. Ha avuto un concetto suo, e in verità buono: educare a pensare di letteratura la mente dei lettori, o maturi o giovani, alla scuola o fuori di scuola, mostrando loro come sugli scritti di altri o sulla teorica dell’arte hanno pensato scrittori moderni, che a lui son parsi degni e capaci di compiere l’ufficio di risvegliatori del pensiero altrui.... La scelta è fatta, com’egli suole, con diligenza e bene.» Ruggero Bonghi, nella Cultura del 1o aprile 1885.
«L’idea di questa Antologia è tanto nuova, quanto degna di lode.» Literarisches Centralblatt di Lipsia, del 15 agosto 1885.
«....Per costoro che rinnegano il mondo moderno, un libro come questo del Morandi, che contiene tante novità e non apre ma spalanca addirittura le porte e le finestre della scuola, deve essere senz’altro messo all’Indice, e magari bruciato. Ma noi ... consideriamo quest’Antologia come un utilissimo supplemento e un complemento necessario ai testi in uso. Complemento necessario alla coltura letteraria de’ giovani delle nostre scuole mezzane è la prima parte; tutto il resto supplisce alla brevità de’ quadri storici, e corregge un poco le forme convenzionali delle rettoriche. Le pure notizie biografiche e bibliografiche, che non nutriscono gl’intelletti mentre son pure necessario, acquistano in queste pagine organismo e vita. Le norme intorno ai principali generi di componimento avranno lume e valore dalla loro storia.... E se è vero che i nostri giovani difettano non tanto nello scrivere, quanto nel comporre, con queste letture alquanto difficili si abitueranno appunto a pensare e a riflettere, che è il comporre.» Giuseppe Piergili, nella Nuova Antologia del 1o ottobre 1885.
[1] Salviati, Degli avvertimenti della lingua sopra il Decamerone; Venezia, 1584; vol. I, lib. II, pag. 94.
[2] Dopo gli studi dell’Ascoli (Archivio Glottologico, vol. I), il ladino è definitivamente considerato, non più come un dialetto italiano, ma come un sistema dialettale a sè, con caratteri suoi speciali; e comprende tre gruppi distinti: all’est, il friulano, parlato da più di quattrocentocinquantamila persone, dalle rive del Tagliamento in Italia fino a Gorizia in Austria. Al centro, il ladino, parlato da più di novantamila persone, in due punti del Tirolo, a qualche distanza dalle due rive dell’Adige. All’ovest, il romancio, che si stende trasversalmente sulla maggior parte del Canton de’ Grigioni, ed è parlato da circa quarantamila persone.
[3] Molti separano il catalano dai dialetti provenzali, ma i suoi caratteri specifici non paiono sufficienti per rendere obbligatoria questa separazione. Sufficienti invece sono certamente quelli che l’Ascoli ha scoperto in un altro tipo idiomatico, che tramezza tra il francese e il provenzale, e che da lui perciò è stato chiamato franco–provenzale. Ecco le parole con cui l’insigne glottologo cominciava il suo saggio: «Chiamo franco–provenzale un tipo idiomatico, il quale insieme riunisce, con alcuni suoi caratteri specifici, più altri caratteri, che parte son comuni al francese, parte lo sono al provenzale, e non proviene già da una tarda confluenza di elementi diversi, ma bensì attesta la sua propria indipendenza istorica, non guari dissimile da quella per cui fra di loro si distinguono gli altri principali tipi neolatini. L’ampia distesa di dialetti, in cui è ancora e per ora dato riconoscere il tipo franco–provenzale, ammette e richiede, come ogni altro complesso neo–latino, suddistinzioni parecchie; ma costituisce, anche nell’ordine geografico, un tutto continuo. La cura di determinare rigorosamente gli estremi confini del complesso franco–provenzale, dev’essere riservata a studj ulteriori. Qui intanto si mostrerà, come questa serie di vernacoli si stenda, nella Francia, per la sezion settentrionale del Delfinato (dipartimento dell’Isera); indi passi il Rodano in doppia direzione: verso ponente, per occupare una parte, e forse la maggior parte del Lionese; e verso tramontana, per far sua la sezion meridionale della Borgogna (dipartimento dell’Ain); onde poi, come in colonna longitudinale, appar che s’incunei, non senza patire molti danni, tra il francese a ponente ed a levante, tanto da attraversare l’intiera Franca–Contea e metter capo ben dentro al territorio lorenese (sezioni dei dipartimenti del Jura, del Doubs, dell’Alta Saona—si raggiunge anche l’Alsazia con la varietà di Giromagny, distretto di Belfort—e dei Vogesi). Ma Francia è oggidì anche la Savoja, tutta franco–provenzale; e son franco–provenzali, nella Svizzera, i dialetti proprj dei cantoni di Ginevra, del Vaud, di Neufchâtel con un piccolo tratto di quel di Berna (tra il Jura e il lago di Bienne, ma son francesi, all’incontro, i vernacoli del Jura bernese), della maggior parte del cantone di Friburgo, e della sezione occidentale del canton Vallese. Di qua dall’Alpi, finalmente, spettano a questo sistema i dialetti romanzi che sono proprj della Valle d’Aosta, e quello della Val Soana.» (Arch. Glott., vol III, pag. 61–62.)
[4] De origine linguae gallicae et ejus cum graeca cognatione dialogorum libri IV (Parigi, 1555).
[5] Della Storia e della Ragione d’ogni poesia; Bologna, 1739; vol. I, pag. 42.
[6] Die romanischen Sprachen in ihrem Verhältnisse zum Lateinischen (Le lingue romanze nel loro rapporto col latino); Halle, 1819; pag. 53.
[7] Fin dal secolo passato, Scipione Maffei avvertiva che «i nostri odierni dialetti non altronde si formarono, che dal diverso modo di pronunziare negli antichi tempi, e di parlar popolarmente il Latino; la qual diversità non altronde nasceva, che dal genio delle varie lingue che avanti la Latina correvano.» (Verona Illustrata; Milano, 1825–26; vol. I, pag. 27.—Cfr. anche vol. II, pag. 540–41.)—«Può dirsi che il francese, in fondo, sia un latino pronunziato da Celti.» (Littré, Histoire de la Langue française; sixième édition; Paris, 1873; vol. I, pag. 263.)—Intorno alle corrispondenze tra l’umbro antico e i moderni dialetti umbro—romani, in alcune proprietà del vocalismo, e specialmente nella preferenza per e atona, soprattutto finale, sull’i, si vedano le Osservazioni del Caix sul Vocalismo italiano (Firenze, 1876).
[8] Ormai è definitivamente dimostrato, che quasi tutti questi idiomi erano d’origine ariana: derivavano, cioè, al pari del latino stesso, del sanscrito, dell’antico persiano, del greco, del gotico, ecc., da una lingua, parlata forse ben più di cinquanta secoli fa dal popolo degli Arii, i quali, sia che originariamente dimorassero in Asia, sia che dimorassero in Europa, certo è che poi si diffusero, spazzando via o assimilandosi le popolazioni indigene, per tutta l’immensa regione che corre dall’Himalaia al Capo Nord, dalle foci del Gange a quelle del Tago. Di questa antichissima lingua non ci rimangono documenti scritti; ma si è già potuto determinarne i caratteri generali, e tentare anche in parte di ricostruirla, per mezzo degli elementi comuni delle lingue derivate da essa; come appunto, se mancasse ogni documento del latino, si potrebbe fino a un certo segno ricostruirne la grammatica e il vocabolario, per mezzo degli elementi comuni delle lingue romanze. Da tali elementi delle lingue indoeuropee si deduce altresì il grado approssimativo di civiltà a cui gli Arii dovevano essere pervenuti; poichè, per citare pochi esempi tra mille, il giogo non si chiamerebbe yuga in sanscrito, jugum in latino, juk (jukuzi) in gotico, ecc.; nè l’antico persiano nâvi avrebbe riscontro nel latino navis, ecc.; nè per indicare la casa si troverebbe dama in sanscrito, dohm in armeno, dómos in greco, domus in latino, domŭ in antico slavo e in russo, ecc.; se prima della separazione la stirpe ariana non avesse già avuto nella sua lingua tre vocaboli più o meno corrispondenti a questi, e se per conseguenza non avesse già conosciuto il giogo, la barca, la casa: che è poi quanto dire, in un senso più o meno largo, l’agricoltura, il navigare, il fabbricare. (Cfr. Pictet, Les Origines indo–européennes. Deuxième édition. Paris, 1877.)—Tornando dunque alle lingue vinte da quella di Roma, oggi è dimostrato che d’origine ariana, e formanti uno stesso gruppo col latino, erano l’umbro e l’osco coi loro dialetti o idiomi affini (volsco, sabino, ecc.). Ariani del pari, secondo l’opinione di reputati filologi, erano anche l’etrusco e il messapico. Ariani, finalmente, erano tutti gl’idiomi celtici, che si parlavano nell’Italia settentrionale, nella Gallia, e, dopo l’invasione de’ Celti, anche in una parte della Spagna. Non ariano invece era il linguaggio degl’Iberi, una parte dei quali, rimasta indipendente dai Celti, cedette poi ai Romani. A giudizio anzi d’alcuni, l’iberico sarebbe il progenitore del basco, che nelle sue varietà è ancora parlato da circa mezzo milione d’uomini, nel nord–est della Spagna e in un piccolo angolo del sud–ovest della Francia, e che forma la disperazione de’ filologi, poichè ha più somiglianze organiche con alcune lingue indigene d’America, che con le altre europee; ma, naturalmente, tende anch’esso a romanizzarsi sempre più, incalzato com’è dallo spagnolo e dal francese. (Cfr. Whitney, La vita e lo sviluppo del linguaggio: traduzione di F. D’Ovidio. Milano, 1876.—Hovelaque, La Linguistique. Deuxième édition. Paris, 1877.)
[9] Noctes Atticae, lib. XI, cap. 7.
[10] Il celtico però resistette e resiste ancora in tutto il dipartimento di Finistère, meno le città; in una metà circa dei dipartimenti delle Côtes–du–Nord e del Morbihan, e in un piccolo angolo della Loire–Inférieure. Ma bisogna ricordarsi che in questi luoghi esso ci è rimasto non tanto per continuata tradizione storica, quanto perchè ci ritornò nel quinto secolo co’ Britanni scampati dal ferro degli Anglo–Sassoni. Nell’Europa non latina poi, si parlano ancora idiomi di fondo celtico, all’estremità nord–ovest della gran Brettagna (Scozia occidentale); in alcune parti dell’Irlanda, all’ovest e al sud; in certe isole secondarie di que’ paraggi, e finalmente nell’intera Contea di Galles. Sicchè, in complesso, le lingue neoceltiche sono oggi parlate da circa tre milioni, o tre milioni e mezzo d’Europei. (Cfr. H. d’Arbois de Jubainville, Introduction à l’étude de la Littérature celtique; Paris, 1883; pag. 17–18.)
[11] Ecco le sue precise parole: «Del come [nascesse la nostra Volgar lingua] non si può errare a dire, che essendo la Romana lingua, e quelle de’ Barbari tra sè lontanissime; essi a poco a poco della nostra ora une ora altre voci, e queste troncamente e imperfettamente pigliando; e noi apprendendo similmente delle loro, se ne formasse in processo di tempo, e nascessene una nuova, la quale alcuno odore e dell’una e dell’altre ritenesse, che questa Volgare è, che ora usiamo.» (Le Prose, lib. I, pag. 33 dell’ediz. di Napoli, 1714.)
[12] Cfr. Caix, Saggio sulla Storia della lingua e dei dialetti d’Italia; Parma, 1872; Introduz., pag. xlix e l.—«Una sola delle lingue uscite dal latino fa alterata nell’intimo suo svolgimento dai contatti con altre lingue, la valacca. Ma questa lingua crebbe e si formò in condizioni affatto diverse dalle altre. Quel paese fu degli ultimi a ricevere la lingua latina, e i coloni mandativi da Traiano erano presi non dal solo Lazio e dall’Italia, ma, secondo l’espressione di Eutropio, da tutte le parti dell’Impero (ex toto orbe romano). Un secolo dopo o poco più, cominciavano quelle continue invasioni e devastazioni che non ebbero termine che al XV secolo. Fin dal 270 infatti, Aureliano era stato costretto a trasferire al di là del Danubio la sede del governo e le legioni, spaventato dai progressi dei barbari; e da quel tempo tace la lista dei governatori romani della Dacia, compilata dal Borghesi colle medaglie e colle iscrizioni raccolte nella provincia. Qui dunque il latino, benchè costituisca sempre il fondo principale della lingua, non potè non soffrire della prevalenza degli elementi barbarici. Non solo una metà del lessico valacco è di parole albanesi, turche, magiare, tedesche, greche e soprattutto slave; che, mentre nelle altre lingue romane.... gli elementi stranieri si modificarono secondo le leggi e le analogie delle voci latine; qui le parole slave passarono nell’uso non assimilate nè modificato, e la grammatica diè luogo a costrutti e forme straniere, alterando così profondamente lo svolgimento e il carattere dell’idioma.» (Id., ibid., pag. lxiv.)
[13] Del resto, e com’è naturale, la stessa declinazione latina non era stata sempre quella del secolo d’Augusto e delle comuni grammatiche. Per esempio, il dativo e ablativo singolare populo era stato nel latino arcaico populo–i e populo–d, forme più vicine alla declinazione protoariana, che oggi si tenta di ricostruire, e che sicuramente aveva un dativo singolare in ai e un ablativo singolare in at o in t.—Il caso locativo del protoariano, terminante in i, e conservatosi nell’osco (moíníkeí tereí, nella comune terra) e in altre lingue sorelle, nel latino andò invece perduto, perchè si confuse foneticamente col genitivo o col dativo; e vi fu sostituito l’ablativo con la preposizione in. Ma pure, un vestigio ne rimase in que’ complementi di stato in luogo (Cypri, domi, humi, ecc.), che la grammatica classica ci dà senza ragione per genitivi.—Nel passaggio poi dal latino alle lingue romanze, i casi non potevano andar perduti tutti in un giorno: infatti, il provenzale e l’antico francese conservarono fino al cadere del secolo XIV, due desinenze diverse, una per il soggetto o nominativo, l’altra per i complementi (Cfr. Littré, Op. cit., passim); e alle sorgenti del Reno (ladino di Sopraselva) vive anche oggi, con la sua propria funzione, l’antica s del nominativo latino. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott. vol. VII, pag. 407, e 426 e seg.) Avanzi di flession nominale, senza dir della differenza tra i due numeri, s’hanno pure specialmente nel pronome: io, me, mi,—tu, te, ti—egli, eglino, loro, cui, ecc. In tutti gl’idiomi romanzi occorrono poi esempi di due o più forme d’uno stesso nome, le quali dipendono dalla diversità de’ casi latini, ma più non serbano alcuna diversità di funzione. Così in italiano: ladro e ladrone (latro–latronem), moglie e mogliera (mulier–mulierem), sarto e sartore (sartor–sartorem), ecc. (Cfr. Diez, Gramm. delle Lingue romanze, traduz. franc., vol. II, lib. II;—Ascoli, Arch. Glott., vol. II, pag. 416–38, ecc.)
[14] Il catalano delle Baleari convertì in articolo determinato ipse invece di ille; e altrettanto fece il sardo, nel quale perciò abbiamo su e sa per il singolare, sos e sas per il plurale. Il valacco poi incorpora l’articolo determinato dietro il nome, a guisa di suffisso: omul, l’uomo.
[15] Ma in valacco, secondo il Diez (Op. e vol. cit., pag. 428), c’è un solo avverbio in mente: altmintrea, che però nel vocabolario del Laurianu e del Massimu è registrato in forma diversa: altramente, altamentre, ecc. L’esemplare altra–mente, o meglio altre–menti (altrimenti, cfr. parimenti) è forse il più antico della serie, e certo uno dei più antichi e anche un po’ sui generis. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. VII, pag. 585.)
[16] Anche di quest’uso si può vedere un principio ne’ buoni autori, quando adoperano col verbo esse il participio in forza d’aggettivo, come in Cesare: Gallia est omnis divisa in partes tres, invece di dividitur.—In rumeno, la forma più comune del passivo è questa: eu me laud, che significa tanto io mi lodo, quanto io sono lodato. Può tuttavia formarsi anche con l’ausiliare essere; allora però il participio conserva l’idea del passato, è quindi frate meu este leudat non vuol dire mio fratello è lodato, ma è stato lodato, come il latino laudatus est. (Cfr. Diez, Op. e vol. cit., pag. 243–44.)
[17] Amarò, come del resto, anche amaraggio, amarajo, ecc., s’incontra ne’ nostri antichi scrittori e vive tuttora in alcuni dialetti.
[18] I Sardi formano ancora il futuro con la perifrasi allo stato sciolto; onde nel Logudoro dicono happ’a ccantare, e nel Campidano happ’a ccantai (ho a cantare = canter–ò). E in perifrasi sciolte s’incontrano il futuro stesso e il condizionale in antichi saggi vernacolari d’altre contrade d’Italia. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. III, pag. 110.) I Rumeni poi lo formano col verbo volere: voiu cuntà, voglio cantare, canterò.
[19] Cfr. Zambaldi, Metrica greca e latina; Torino, 1882; pag. 843–44.
[20] Cfr. Rajna, Le Origini dell’Epopea francese; Firenze, 1884, pag. 513–14.
[21] Poichè nella pronunzia tutte le parole francesi finiscono con una sillaba accentata, il verso eroico francese è riuscito un endecasillabo tronco (decasillabo), e perciò la sua somiglianza col verso corrispondente delle lingue sorelle si avverte meglio, appunto quando anche questo è tronco:
Un sol nouveau remplace le premier. (Parny.)
E com’albero in nave si levò. (Dante.)
Sus rayos lanza moribundo el sol. (De Espronceda.)
Que todo se desfaz em puro amor. (Camoens.)
[22] Op. cit., pag. 506–28.
[23] In alcuni luoghi di Sardegna si dice ancora domu e domo per casa; e in Toscana e altrove si usa nel suo primo significato anche verbo, ma solo in certe speciali locuzioni (non disse verbo, non rispose verbo, ecc.); le quali però, benchè vivissime anche tra ’l volgo, tuttavia è possibile che siano meri latinismi, salvo il caso di evidente elaborazione popolare, come nel ladino vierf (verbum), verva (verba). (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. I, pag. 127 e 172.)
[24] Cfr. Dozy et Engelmann, Glossaire des mots espagnols et Portugais dérivés de l’arabe. Seconde édition. Leyde, 1869.—Tra queste parole non ce n’è una, che indichi un sentimento o un legame di parentela o d’affezione. È però arabica una formula esclamativa con cui lo spagnolo invoca Dio: ojalá.
[25] Op. cit., vol. I, pag. 59–60.
[26] Intorno alle quali però si devono tener presenti queste acute considerazioni dell’Ascoli: «Se ci fosse ancora bisogno di aggiungere argomenti contro le ipotesi delle profonde modificazioni, e variamente profonde secondo le diverse regioni romane, che l’organismo latino abbia sofferto per l’immissione germanica, se ne potrebbe ricavare uno di più, e tutt’altro che lieve, dal fatto che una così cospicua porzione degli elementi lessicali germanici, entrati a far parte degl’idiomi latini, occorra ugualmente in tutte codeste favelle. Poichè il fatto di questa comproprietà generale, che giustamente eccitava la meraviglia del Diez (gr. I3 67), dovrà senz’altro ripetersi, nella maggiore e più importante sua parte, dalla molta antichità dell’immissione, e l’innesto perciò risalire a un’età in cui tanta era ancora la vitalità propriamente romana, da non potervi di certo il linguaggio latino andar modificato, e anche variamente secondo le varie contrade, per virtù di un’infiltrazione che era esigua per sè, ed era poi la stessa dappertutto. La comunanza di codesti elementi germanici riesce anzi affatto inconcepibile se non le si trova una ragione storica la quale si connetta, o addirittura s’indentifichi, con quella dell’estendersi della parola latina al di là dei confini dell’Italia, e sia perciò anteriore alle invasioni germaniche. Ora una tal ragione storica, bastevole e congrua per ogni lato, io la vedo, molto semplicemente, nel legionario di Roma, o sotto le insegne o fatto colono; la vedo, in altri termini, nel linguaggio castrense, al quale l’elemento germanico delle truppe ausiliari e le «guardie» teutoniche dovevano aver dato una gran parte delle trecento voci tedesche che si trovan comuni alle diverse favelle neolatine. Vegezio, nella seconda metà del quarto secolo, adducendoci burgus quasi termine tecnico per «castellum parvulum» (quem burgum vocant), ci dà un bell’esempio di codesta serie esotica che già a’ suoi tempi dovea parer di patrimonio latino, anzichè roba estranea e d’importazione recente. I criterj fonologici suffragheranno poi alla lor volta il raziocinio storico; e così è bello vedere il t– dello stadio gotico (non lo z– dello stadio alto–tedesco) in tirare toccare torba taccagno, che son tra codeste voci comuni, o i nessi –rd– –ld– dello stesso stadio gotico (non rt lt dell’alto–tedesco) in ardito falda, ed altri, che pur sono della categoria medesima.» (Arch. Glott., vol. II, pag. 413.)
[27] Op. cit., vol. I, pag. 65.
[28] Ueber deutsche Schattirung romanischer Worte (Sopra la tinta germanica di alcune parole romanze), nella Zeitschrift del Kuhn, V, 11.
[29] Littré, Op. cit, vol. I, pag. 96 e seguenti.
[30] Il fatto che focus fu preferito anche in luoghi dove la ragione delle invasioni non può farsi valere (a Venezia, per esempio, e in Sicilia: fogo, focu), indebolisce, sì, ma non distrugge l’osservazione del Müller; perchè nessuno è in grado di dimostrare che, senza l’aiuto di feuer e funkeln, focus sarebbe prevalso ugualmente anche altrove, una volta che di queste doppie voci è comunissimo il caso che una ne attecchisse in un luogo, una in un altro.
[31] Dovendo ancora citare altre parole de’ vari idiomi germanici, sarà bene ch’io metta qui le quattro principali divisioni di questo gran ramo della famiglia indoeuropea, come son date dal Whitney (Op. cit, pag. 220–22): «1. Il meso–gotico, o dialetto dei Goti della Mesia, conservato solo da parti di una traduzione della Bibbia, fatta dal loro vescovo Ulfila, nel quarto secolo dell’èra volgare; dialetto estinto da lungo tempo in quanto lingua parlata. 2. Gl’idiomi basso–tedeschi, ancora parlati nel settentrione della Germania, dall’Holstein alle Fiandre, e, dall’altra parte, nella prossima Inghilterra: v’entrano due importanti lingue colte, l’olandese e l’inglese. I monumenti letterali inglesi rimontano al settimo secolo, gli olandesi al tredicesimo; e vi è un poema «sassone–antico,» l’Heliand, o «Salvatore,» del secolo nono; e la letteratura frisone del decimoquarto. 3. Il corpo dei dialetti alto–tedeschi, rappresentato presentemente da un’unica lingua letteraria, il così detto tedesco, la cui letteratura comincia con la Riforma, nel secolo decimosesto: dietro a questo, che è il nuovo alto–tedesco, stanno un periodo medio ed uno antico alto–tedesco, con le loro letterature in vari alquanto discordi dialetti, e rimontanti all’ottavo secolo. 4. La sezione scandinava, scritta nelle forme del danese, dello svedese, del norvego e dell’islandese. I monumenti islandesi rimontano al decimosecondo e decimoterzo secolo, e sono, in punto a stile e a contenuto, più arcaici (non diciamo più antichi) di tutto ciò che v’è di alto e basso tedesco: l’Edda è la fonte più pura e copiosa della conoscenza che abbiamo delle primitive condizioni linguistiche germaniche. L’islandese è pure, specialmente nel suo stato fonetico, il più arcaico dei viventi dialetti germanici. Oltre ai detti residui letterali, vi sono brevi iscrizioni runiche, generalmente di una o due parole, rimontanti, si crede, perfino al terzo o al secondo secolo.»
[32] Saggio cit., pag. lvi e seguenti.
[33] Le trasformazioni delle specie e le tre epoche delle lingue e letterature indoeuropee: Roma, 1871; pag.29
[34] Leonardi Bruni Arretini Epistolarum libri VIII; Florentiae, 1741; lib. VI, epist. X (Leonardus Flavio Foroliviensi).—Celso Cittadini, Trattato della vera origine e del processo e nome della nostra lingua; Venezia, Ciotti, 1601.—Le origini della toscana favella; Siena, Marchetti, 1604.—Furono ripubblicati nelle Opere edite ed inedite del Cittadini, per cura di Girolamo Gigli, Roma 1721. Ma, a detta dello Zeno (Annotaz. al Fontanini), per il secondo trattato il Gigli seguì l’ediz. Marchetti, invece d’un’altra riformata dall’autore e tanto migliore, uscita in Siena per Ercole Gori nel 1628.
[35] «Somnium....... nulla confutazione dignum.» (Antiq. Ital. Diss. XXXII; tom. VI, col. 455 dell’ediz. d’Arezzo, 1775.)
[36] «Pistores vero, et lanistae, et hujusmodi turba sic intelligebant Oratoris verba, ut nunc intelligunt Missarum solemnia.» (Pag. 63 della cit. ediz.)
[37] «Tu enim turbam convenisse putas ad carmina poëtae intelligenda, ego autem convenisse puto ad ludos scenicos spectandos. Itaque non auditores qui aderant, sed spectatores dicebantur.» (Pag. 64.)
[38] In quanti modi si possa morire in Italia. Seconda edizione. Torino, Paravia, 1883.
[39] Plebejo sermone dice il testo. Ma è chiaro che, qui, plebejus non corrisponde punto, come parecchi hanno creduto, al nostro plebeo.
[40] «Ain tandem? insanire tibi videris, quod imitare verborum meorum, ut scribis, fulmina? Tum insanires, si consequi non posses: quum vero etiam vincas, me prius irrideas, quam te, oportet. Quare nihil tibi opus est illud a Trabea; sed potius ᾶπότευγμα meum. Verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? nonne plebejo sermone agere tecum? Nec enim semper eodem modo. Quid enim simile habet epistola aut judicio aut concioni? Quin ipsa judicia non solemus omnia tractare uno modo. Privatas causas, et eas tenues, agimus subtilius; capitis aut famae scilicet ornatius: epistolas vero quotidianis verbis texere solemus.» (Ad Familiares, IX, 21.)
[41] «Così, le parole tante volte citate di Quintiliano: nam mihi aliam quondam videtur habere naturam sermo vulgaris, aliam viri eloquentis oratio (Inst. Orator., XII), non pongono e non esprimono una differenza tra una lingua letteraria e una lingua volgare o comune, ma tra il parlare d’un uomo eloquente e il parlar d’un idiota. Possono avere in bocca la stessa lingua e maneggiarla in modo molto diverso.» (Zendrini, Della Lingua italiana; Palermo, 1877; pag. 65.)
[42] E, s’intende, che alcuni hanno anche esagerato il pensiero del maestro, del quale ecco qui le precise parole nella fedelissima traduzione francese: «Toutes (les langues romanes) ont dans le latin leur première et principale source; mais ce n’est pas du latin classique employé par les auteurs qu’elles sont sorties, c’est, comme on l’a déjà dit souvent et avec raison, du dialecte populaire des Romains, qui était usité a côté du latin classique [aus der römischen Volkssprache oder Volksmundart, welche neben dem classischen Latein im Gebrauche war].... Seulement il faut se garder d’entendre par langue populaire autre chose que ce qu’on entend toujours par là, l’usage dans les basses classes de la langue commune, usage dont les caractères sont une prononciation plus négligée, la tendance à s’affranchir des règles grammaticales, l’emploi de nombreuses expressions évitées par les écrivains, et certaines phrases, certaines constructions particulières. Voilà les seules conséquences que permettent de tirer les témoignages et les exemples qu’on trouve dans les auteurs anciens; on peut tout au plus admettre que l’opposition entre la langue populaire et la langue écrite se marqua avec une énergie peu commune lors de la complète pétrification de cette dernière, peu de temps avant la chute de l’empire d’Occident.» (Op. cit., vol. I, pag. 1–2.)
[43] Rucanica, in alcune parlate calabresi. Il Caix (Saggio cit., pag. 62) derivava lugànega dal lat. longano (spagn. longaniza); ma bisogna dire che non avesse presente il lat. lucanica.
[44] Il francese antico (giova ricordarlo) aveva anche tante e tante altre parole, oggi cadute in disuso, derivate dal latino civile (clamer, chiamare, da clamare; pesme, da pessimus assentir da assentire, selve da silva, ecc.); e molte di esse vivono ancora ne’ suoi dialetti (crémer, bruciar leggermente, da cremare; nore da nurus, vime da vimen, ecc.—Cfr. Littré, Op. cit., vol. II, pag. 119).
[45] Op, cit., vol I, pag. 4–23.
[46] Epigramm., I, 101.
[47] Si veda il gran Dizionario del Freund, tradotto in francese e accresciuto dal Theil, o il Forcellini rifatto dal De–Vit.—Del resto, coloro che fanno assegnamento su questa pretesa forma volgare, dimenticano, al solito, che se l’italiano chiudere risale a cludere, il francese clore risale invece diritto diritto a claudere.
[48] Op. cit., vol. I, pag. 86.
[49] Cfr. Canello, Lingua e Dialetto (Giornale di Filologia romanza, gennaio 1878).
[50] Cfr. un altro scritto dello stesso Canello, Arch. Glott., vol. III, pag. 294–95, nota.
[51] Il Brachet, nel Dictionnaire étimologique de la Langue française (Parigi, 13a ediz.), ha distinto uno per uno i vocaboli d’origine popolare da quelli d’origine non popolare, stampandoli con due differenti caratteri; e la cosa, in complesso (e salvo quel presentarci addirittura come esumazione letteraria tutta la formazione civile), gli è riuscita assai bene. Nella nostra lingua, invece, una tal distinzione riuscirebbe troppo spesso difficilissima, o affatto impossibile. Ma, in fondo, per lo scopo pratico del Dizionario etimologico, importa poco o nulla. L’importante davvero sarebbe che qualcuno dei nostri filologi, ripigliando il disegno che la morte interruppe al povero Caix, e compiendo i lavori del Diez, del Caix stesso e d’altri, ci desse finalmente questo Dizionario. E il Ministero della pubblica istruzione, il quale una volta aprì un concorso con più migliaia di lire di premio per il miglior sillabario (che poi non fu trovato), dovrebbe, ci pare, fare almeno lo stesso per un lavoro, la cui mancanza è sentita e lamentata ogni momento da ogni cólta persona. Intanto, poichè può riuscire utile anche a noi, ecco qui la statistica approssimativa, che il Brachet, prendendo per fondamento il Dizionario dell’Accademia, ci ha dato del francese moderno (Introduction, pag. lxx):
I. | Vocaboli d’origine ignota | 650 |
II. | Vocaboli d’origine popolare (4260): | |
a). Elemento latino (vocaboli primitivi) | 3800 | |
b). Elemento germanico | 420 | |
c). Elemento greco | 20 | |
d). Elemento celtico | 20 | |
III. | Vocaboli d’origine straniera (922): | |
a). Italiani | 450 | |
b). Provenzali | 50 | |
c). Spagnoli | 100 | |
d). Tedeschi | 60 | |
e). Inglesi | 100 | |
f). Slavi (16), semitici (110), orientali (16) americani (20) | 162 | |
IV. | Vocaboli d’origine storica (115), onomatopeici (40). | 155 |
——— | ||
In tutti: | 5987. |
Se dal Dizionario dell’Accademia (conclude il Brachet), che contiene circa 27000 vocaboli, si sottraggono i 5987 primitivi citati qui sopra, ne restano 21000, o creati dal popolo svolgendo con la composizione e con la derivazione codesti primitivi, o desunti direttamente dal greco e dal latino per opera degli scrittori (e delle classi civili, direi io).—Altrove poi (pag. xxxviii), egli avverte, che se ai 420 o 450 germanismi del francese moderno si aggiungessero quelli dei francese antico, si arriverebbe senza fatica a raddoppiare la cifra. La quale, dunque, supererebbe di poco quella data dal Diez e qui riportata a pag. 23–25.
[52] Uno studio di queste forme può vedersi nel Littrè (Op. cit., vol. II, pag. 299 e seg.), di cui tuttavia nessuno accoglie più l’opinione che il Cantico appartenga al decimo secolo.—Forme analoghe a queste dell’antico francese vivono ancora nel franco–provenzale, in molti vernacoli italiani, ecc. (Cfr. Ascoli, Arch. Glott., vol. VIII, pag. 100.)
[53] E però (per hoc) fa presentata a Massimiano, Che re era a que’ di sopra i pagani.
[54] Ab=ap, dal lat. apud, che dal significato di presso passò a quello di con, e si ritrova anche nel moderno francese avec, il quale deriva appunto da apud hoc (con ciò), trasformatosi successivamente in abhoc, aboc, avoc, aveuc, avec.
[55] Nithardi, Historiarum libri IIII; Hannoverae, 1870 (edizione curata dal Pertz); pag. 38–39.—Tentiamone una traduzione letterale: «Per amor di Dio e per comun salvamento del popolo cristiano e nostro» (dalla traduzione tedesca si vede che christian poblo rappresenta un genitivo), «da questo dì in avanti, in quanto Dio sapere e potere mi dona, sì salverò io questo mio fratello Carlo, e in aiuto e in ciascuna cosa» (cioè: lo salverò, gli gioverò, con l’aiuto e in qualunque altramaniera). Ma forse ha ragione il signor Clédat, il quale crede che l’et che segue aiudha sia un errore del manoscritto, e che originariamente dovesse dire er, prima persona singolare del futuro di estre. Cfr. Revue des Langues romanes, octobre–décembre 1885, «sì come uomo per dritto suo fratello salvar deve, in ciò che egli a me altresì faccia» (in tutto ciò che egli faccia anche a me, che è poi quanto dire: a patto che egli mi faccia altrettanto); «e con Lotario» (loro fratello) «nullo accordo mai prenderò, che, per mio volere, a questo mio fratello Carlo in danno sia.—Di questo giuramento, come dell’altro, prestato del pari in romanzo e in tedesco dalle milizie, può vedersi il facsimile nella raccolta intitolata: Les plus anciens monuments de la langue française (Didot edit., 1875), dove fu riprodotto dal prezioso codice della fine del decimo o del principio dell’undecimo secolo, appartenuto già alla Vaticana e poi emigrato a Parigi. Col detto facsimile è stata collazionata dal prof. E. Monaci la nostra lezione, che è un po’ diversa da quella del Pertz e d’altri.
[56] Per esempio, l’o da au in cosa (lat. causa), l’u da o lungo accentato in dunat, il t di terza persona del presente conservato nello stesso dunat, in fazet, ecc.
[57] Dante, Inf., XXV.
[58] Diss. cit., col. 457.
[59] Eccone un piccolo saggio:
Per me si va nella città dolente,
Per me si va nell’eterno dolore,
Per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto Fattore;
Fecemi la divina Potestate,
La somma Sapïenza e il primo Amore.
Par moi se va dans la cité dolente,
Par moi se va dans l’éternel dolor,
Par moi se va parmi la gent pullente (vile).
Justice mut mon souverain Faitor;
Et si me firent devine Poestés
Raisons hautisme (altissima) et premeraine Amor.
Ed ecco le medesime terzine, tradotte in provenzale dal Raynouard:
Per me si va en la ciuta dolent,
Per me si va en l’eternal dolor,
Per me si va tras la perduta gent.
Justizia moguet el mieu alt Fachor;
Fez mi la divina Potestat,
La summa Sapienza e ’l prim’Amor.
[60] È nel secondo verso del Cantico di Sant’Eulalia:
Buona pulcella fut Eulalia,
Bel auret corps, bellezour (più bella) anima.
Si badi ch’io dico: scrivevano. Come poi pronunziassero è un’altra questione, la quale s’intreccia con quella della qualità del verso. Il Meyer, per esempio, crede che anche in questo luogo si pronunziasse âme. (Cfr. Littré, Op. cit., vol. II, pag. 305–07.) Altri invece credono che il vocabolo anima sia qui usato come un mero latinismo, con la pronunzia e l’accentuazione propria del latino. Comunque sia, quest’esempio del nono secolo, trascurato fin qui nella storia di âme, è utile e legittimo non meno degli esempi successivi.
[61] Per esempio, il con, per com=cum, si trova anche una volta nella famosa iscrizione osca di Banzia: con preivatvd vrvst=cum privato–erit. Cfr. Fabretti, Glossarium Italicum, sotto Con e Com.
[62] Memorie e Documenti per servire all’istoria del Ducato di Lucca; tom. V, par. II, pag. 15.
[63] Ibid., tom., IV, pag. 76.
[64] Ibid., tom. V, par. II, pag. 14.
[65] Gregorovius, Storia della città di Roma; lib. IV, cap. V, § 3.
[66] Muratori, Rer. Ital. Script., tom. II, pag. 179–80.
[67] Gattola, Ad Historiam Abbatiae Cassinensis Accessiones; pars prima; Venetiis, 1734; pag. 68–69.—Tosti, Storia della Badia di Montecassino; Napoli, 1842; tom. I, pag. 220–22.
[68] Forse, che qui (cioè l’abbreviatura) contiene; preso il qui per soggetto, come quando diciamo, toccando un libro o una carta: Qui parla chiaro; Qui non ammette dubbi, e simili.
[69] Si badi però, che nelle edizioni del Gattola e del Tosti c’è un errore, che renderebbe impossibile accertare la data. Infatti, nell’una e nell’altra, il placito comincia così: «In nomine Domini nostri Jesu Christi, bigesimo primo anno princip. domni nostri Pandolfi gloriosi princ., et septimo decimo Landolfi, et secundo anno princ. domni Landolfi, excellentissimis Principibus ejus filiis, mense martio, tertia indictione.» E questi dati cronologici fanno a pugni tra loro; giacchè, per non dirne altro, il ventesimoprimo anno del principato di Pandolfo Capo di Ferro non corrisponde punto al decimosettimo e al secondo del principato de’ suoi figlioli. Mettendo invece (come ingegnosamente proponeva il mio egregio amico dottor Ignazio Giorgi) Landolfo al posto di Pandolfo, e Pandolfo al posto del primo Landolfo, tutte le indicazioni vanno d’accordo benissimo con la genealogia di que’ principi e con la cronologia, e se ne ricava la data precisa del 960. Pregato da me il dotto padre Piscicelli Taeggi, prefetto dell’Archivio Cassinese, di riscontrare l’originale del documento, egli m’ha risposto che la cosa sta precisamente come aveva congetturato il Giorgi.
[70] Su questa celebre falsificazione può, tra gli altri, vedersi il Bartoli, Storia della Letterat. ital.; vol. II (Firenze, 1879), pag. 389–416.
[71] V. lo scritto del Salinas nell’Arch. Stor. Sicil.; nuova serie, anno VII, pag. 166–69.
[72] È noto che Dante, con una di quelle sentenze nelle quali all’arguzia è sacrificato il buon senso, diceva che i soli Sardi, al suo tempo, non avevano volgare proprio [!], e che imitavano il latino, come le scimmie imitano gli uomini. (De Vulgari Eloquentia, lib. I, cap. XI.) Ed è del pari noto, che ne’ vari idiomi dell’isola s’è potuto scrivere lunghi componimenti, che sono al tempo stesso anche latini: per esempio, nel volgare logudorese, la poesia del Madau (1778), in lode dell’arcivescovo Melano:
Melani nomen celebro
Cantet superba Calaris,
Et sarda terra applaudat
Cum jucunda memoria.
Ipse venit de nobile
Et illustre prosapia,
Et veras etiam glorias
Occultat pro modestia, etc.
[73] L’originale di questa carta, pubblicata nell’Archivio Storico Italiano (Ser. III, vol. XIII, pag. 363), è a Firenze nel R. Archivio di Stato; e la sua data risulta dall’esservi nominato come vivente il vescovo di Pisa Gerardo, che mori nel 1086 o nel 1089.
[74] Fu pubblicata dal Flechia nell’Archiv. Glottol. (vol. VII, pag. 121–29), e poi dal Monaci nella sua bella raccolta: Facsimili d’antichi manoscritti, num. 19–29. I passi, che qui se ne riferiscono, sono stati collazionati coll’originale dallo stesso Monaci.—«Anche la lingua» di questo documento, dice il Flechia, «mostra di appartenere al tempo in cui il volgare cominciava ad usarsi nelle scritture ancor peritosamente e più o men misto con latino, morto da un pezzo come lingua popolare, e per conseguenza ad epoca che non dovrebbe discostarsi molto dal 1000. Le peculiarità dialettali del volgare, se non accennano risolutamente ad una speciale regione d’Italia, possono tuttavia, se non c’illudiamo, tenersi per verisimilissimamente proprie dell’Italia centrale, con esclusione delle provincie napolitano e della Toscana.»
[75] Italia Sacra, tom. IX, pag. 385 dell’ediz. di Roma, 291 dell’ediz. di Venezia.
[76] Guido Levi, Una carta volgare picena del sec. XII (Giornale di Filologia romanza, luglio 1878).
[77] Dizionario precettivo, critico ed istorico della Poesia volgare; Parma, 1777; pag.29–41.—L’iscrizione è in caratteri romani intrecciati, e l’Affò legge erroneamente: Il mile, invece di Li mile; Et ne a fo l’opra, invece di E mea fo l’opra, o fors’anche opera.
[78] Questo egregio uomo, di cui io non so se si debba più ammirare la profonda dottrina o la rara bontà, lavora da molti anni per darci una Crestomazia italiana de’ primi secoli; e io ho già potuto profittarne non poco per il presente lavoro.
[79] Questi versi erano noti finora con la data del 1196, indizione XII, come si trovano in una particola d’una scrittura antica latina, riportata dal Piloni nella sua Historia (Venezia, 1607, pag. 100 v.–101). E con questa data erano stati ripubblicati dal Cantù, dall’Ascoli, e anche nelle due prime edizioni del presente libretto. Ora però, essendomi rivolto per qualche maggiore notizia al dotto e cortese abate F. Pellegrini di Belluno, ho potuto assegnar loro la data molto più probabile del 1193; ed ecco in che modo. Prima che dal Piloni, la particola era stata copiata, tra il 1530 e il 1544, o poco più o poco meno, da Giovanni Antonio Egregis, e innanzi al 1558 da Giulio Doglioni, ne’ loro cataloghi dei Vescovi di Belluno: e in tutt’e due questi cataloghi, che si conservano manoscritti nella biblioteca del Museo Civico di quella città, e che, essendo molto diversi, non possono credersi copia l’uno dell’altro, la detta particola comincia appunto con la data del 1193 in tutte lettere, indizione XI; mentre il 1196 del Piloni è in cifre, e non va d’accordo con l’indizione XII. È quindi verisimile che il Piloni, o chi a sua insaputa pubblicò la sua storia, abbia confuso un 1196, che è la data dell’ultimo fatto raccontato in quel branicello di cronaca, col 1193 del principio, al quale i quattro versi si riferiscono. In tutto il resto però, come può vedersi dal confronto che ne stampo qui sotto, le tre trascrizioni vanno pienamente d’accordo, salvo alcune diversità facilmente spiegabili: e vanno d’accordo, quantunque sia certo che, come il Doglioni non copiò dall’Egregis, così il Piloni non copiò nè dall’uno nè dall’altro, perchè, se li avesse conosciuti, avrebbe evitato parecchi errori che s’incontrano nella sua storia. Chi poi dubitasse che questi versi non siano stati composti nel 1193 o appena qualche anno dopo, osservi prima d’ogni altra cosa che essi hanno tutti i caratteri d’una poesia d’occasione; e osservi altresì che la particola, raccontando le vittorie dei Bellunesi e de’ loro alleati Feltrini in quel tempo, contiene dati di fatto, specialmente numerici, cosi minuti, che solo uno scrittore sincrono poteva saperli e prendersi la briga di registrarli. Sicchè, se non si dimostra che il documento sia stato inventato (e niente davvero fa sospettare che ciò possa essere), bisogna proprio crederlo di quelli tempi, come lo crede il Piloni. Se poi si osserva che l’autore della particola mette i quattro versi nel punto dove per ordine cronologico avrebbe dovuto raccontare l’impresa di Casteldardo, e, senza aggiungerci una sola parola di suo, fa fare ad essi le veci del racconto, si deve anche credere che fossero allora popolarissimi; e quindi anche di un tempo più o meno anteriore a quello in cui egli scriveva. Nè è improbabile che facessero parte d’un canto su tutte le imprese guerresche (che furono parecchie), compiute dai Bellunesi nel 1193. Ecco ora la lezione della particola secondo l’Egregis (pag. 2 v.):
«Anno Domini nostri Jesu Christi millesimo centesimo nonagesimo tertio, indictione xi, viiij[i] intrante mense aprilis. Prudentissimi milites et pedites Bellunenses et Feltrenses castrum Mirabeli[ii] maxima vi occupaverunt, illud vero infra octo dies combuxerunt atque in omnibus edificijs ipsum destruxerunt. Item eodem mense clusas Queri ceperunt et destruxerunt, et sexaginta sex inter milites et pedites atque[iii] arceatores secum in vinclis duxerunt,[iv] et predam valentem duo[v] millia librarum habuerunt, alios interfecerunt et alios vero graviter vulnerarunt.[vi] Item eo anno castrum Landredi ceperunt, ibi vero plures homines interfecerunt, et xxvj inter milites et pedites atque arceatores[vii] secum in vinculis duxerunt, et totum castrum combuxerunt et funditus destruxerunt. De Casteldard[viii] Have[ix] li nostri bona part, I lo zetta[x] tutto intro lo flumo[xi] d’Ard,[xii] E sex Cavaler[xiii] De[xiv] Tarvis di[xv] plui fer Con se duse li[xvi] nostri[xvii] Cavaler.[xviii] Preterea domum Bance[xix] vi occupaverunt, et eam destruxerunt, et xviij Latrones inde secum duxerunt. Postea anno 1198 indictione xiiij, die vi[xx] exeunte mense junij, dicti milites et pedites Bellunenses et Feltrenses ad castrum Giumelarum[xxi] iverunt, illud autem magna vi in xvij[xxii] die ceperunt et combuxerunt, atque cum[xxiii] omnibus edificijs destruxerunt, et cum maxima letitia domibus[xxiv] redierunt:[xxv] et hoc totum factum fuit fere sub nobilissimo et prudentissimo D. Gerardo Bellunensi Episcopo, anima cuius sit locata in paradiso.[xxvi] Amen.»
[i] Piloni: «1196. Indictione xij. die octavo.»
[ii] Doglioni e Piloni: «Mirabelli»
[iii] P. «ac pedites et.»
[iv] P. «in vinculis deduxerunt.»
[v] P. «iij.»
[vi] P. «interfecerunt, alios vero graviter vulneraverunt.»
[vii] P. «et quadraginta sex inter milites pedites, ac arceatores.»
[viii] P. «Casteldart.»
[ix] D. «havj.»—P.«havì.»
[x] P. «zetto.»
[xi] P. «flume.»
[xii] P. «D’Art.»—D. «dard.»
[xiii] P. «Cavalier.»
[xiv] P. «di.»
[xv] D. e P. «li»
[xvi] P. «i.»
[xvii] D. «nostre.»
[xviii] P. «presoner.»
[xix] D. «Banche.»
[xx] P. «Postea die sexto.»
[xxi] D. «Gumellarum.»—P. «Zumellarum.» Cioè: di Zumelle.
[xxii] D. «vii.»
[xxiii] P. «in.»
[xxiv] P. «domum.»
[xxv] P. Omette il resto.
[xxvi] Il Vescovo Gerardo, che aveva guidato i Bellunesi in tante imprese guerresche, fu ucciso nel 1197, combattendo di nuovo contro i Trivigiani. Quest’ultimo periodo dunque, se non tutto il branicello di cronaca, fu di certo scritto dopo codesta morto.
[80] Giullare.
[81] Sebben s’ingaudisca di me, ossia parli di me con gaudio, con gioia.
[82] Piccola moneta, principio di computo in Genova, come il bolognino a Bologna.
[83] Non t’intendo più d’un Tedesco, o Sardo, o nativo di Barberia.
[84] Non voglio questo latino, cioè questo linguaggio.
[85] Fratello, ciò abbia una fine: facciamola unita.
[86] Lasciami stare. (Galvani, Un Monumento linguistico genovese dell’anno 1191, nella Strenna filologica modenese per l’anno 1863; pag. 84–94.)—All’ultimo decennio del sec. XII, o al principio del XIII, appartiene anche il discordo poliglotto dello stesso Rambaldo; perchè essendo diretto al Belhs Cavaliers, cioè alla sua amante Beatrice di Monferrato, dovette di certo scriverlo dopo la sua venuta in Italia (1186–89), di dove partì per seguire nella quarta crociata il marchese Bonifazio, fratello o, più probabilmente, padre di Beatrice, col quale morì combattendo in Oriente nel 1207. Ma la seconda strofa del discordo, e il terzo e quarto verso dell’ultima, che dovrebbero essere scritti in alcuno de’ nostri idiomi, ci son pervenuti, come tutto il resto del componimento, in tale stato, che, anche dopo l’edizione critica del Meyer, non si riesce a determinare qual sia codesto idioma. Contengono bensì parecchie forme schiettamente toscane; anzi schiettamente toscano è tutto il quarto verso dell’ultima strofa:
Ieu so quel que ben non aio.
Ni encora non l’averò
Per abrilo ni per maio.
Si per ma dona no l’ho;
E s’entendo son lengaio,
Sa gran beutat dir non so:
Plus fresqu’es que flor de glaio [ghiaggiuolo],
E ja no m’en partirò.
..........
............
Que cada jorno m’esglaio.
Oimè! lasso, que farò...?
(Cfr. Meyer, Recueil d’anciens textes etc.; Paris, 1874 pag. 89–91.—Galvani, Osservazioni sulla Poesia de’ Trovatori; Modena, 1829; pag. 105–114.—Cerrato, Il «Bel Cavaliere» di Rambaldo di Vaqueiras, nel Giorn. Stor. della Lett. ital.; vol. IV; Torino, 1884; pag. 81–115.)
[87] Trucchi, Poesie italiane inedite di dugento Autori; Prato, 1846; vol. I, pag. 18.—D’Ancona e Comparetti, Le antiche Rime volgari; Bologna, 1875; vol. I, pag. 61–65.
[88] Non ha però certo ragione il Cantù di farne due componimenti, desumendone prima alcuni versi dal Federici, e poi, senza avvedersi che si tratta della stessa cosa, un altro brano dal Tosti. (Cantù, Vicende dei Parlari d’Italia; Torino, 1877; pag. 126 e 135.—II facsimile del Ritmo può vedersi nella Rivista di Filologia romanza, vol. II, pag. 90–110» pubblicato e illustrato dal Giorgi e dal Navone. Sulle sue interpetrazioni è poi da vedere uno studio del Novati, che ne propone una nuova, nella Miscellanea di Filologia e Linguistica; Firenze, 1886; pag. 375–91.) Nè hanno, mi pare, maggior ragione coloro che dopo i buoni argomenti dell’Affò (Op. cit., pag. 41–50) e di Sebastiano Ciampi (Prefaz. ai Trattati morali di Albergano; Firenze, 1832; pag. 13–19), non si risolvono a tenere per falsa la celebre iscrizione degli Ubaldini di Firenze, che pretenderebbe appartenere all’anno 1184. Del secolo XVI, e non del 1153, è pure quell’atto di permuta in siciliano, ripubblicato nella citata operetta (pag. 154) dallo stesso Cantù, insieme con tanta altra roba, a cui oramai nessuno presta più fede.
[89] Catalogus Codicum latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae; tom. IV (Florentiae, 1777), col. 468–69.
[90] Nei Romanische Studien del Boehmer, vol. IV, fasc. 1 (Bonn, 1879).
[91] Della fine del secolo XII o del principio del XIII, è certamente anche l’iscrizione di un sarcofago del Camposanto di Pisa, pubblicata dal Ciampi (Op. cit., pag. 12–13), e che, secondo il confronto fattone per me con l’originale dal mio amico Alessandro D’Ancona, dice così: † Hore [ora] vai per via, pregando dell’anima mia: sicome tu se’, ego fui; sicus [sicum?] ego sum, tu dei essere. La data approssimativa si rileva da un’altra iscrizione che è sullo stesso sarcofago: † Biduinus maister fecit hanc tumbam m.......nm Giratium; poichè, per altri documenti certi, si sa che questo maestro Biduino nel 1180 lavorò nella Chiesa di San Cassiano presso Pisa, e pare anche nel 1166 a Lucca. (Ciampi, loc. cit., e Notizie inedite della Sagrestia pistoiese ecc., Firenze, 1810, pag. 52.)—Il frammento invece, di ventotto versi, pubblicato nel 1758 dal Panelli, del carme che sarebbe stato scritto nel 1187, per l’entrata in Ascoli di Arrigo VI, da quel marchigiano, che poi col nome di frate Pacifico seguì san Francesco, a me non pare altro che una rozza falsificazione, cominciando dal titolo, il quale dice così: «In laude de Augusto Sennor Henrico Sexto Rege de Romane, filio de Domene..... Friderico Imperatore, qui sta in ista Civitate de Esculo con multo suo piacere, et con multa gloria et triunpho de Civitate.» Falso lo giudica anche il prof. Nazzareno Angeletti, nella sua tesi di laurea, che si conserva manoscritta nell’Archivio dell’Università romana. L’Angeletti tuttavia resta in dubbio sull’autenticità d’un altro frammento, che contiene i soli primi quattro versi del medesimo carme, e che fu pubblicato dall’abate F. A. Marcucci (Abate Ascolano, Saggio delle cose ascolane ecc.; Teramo, 1766; pag. 229), il quale dice di averlo ricavato dalla cronaca di Lino della Rocca. Ma lasciando anche stare che questa cronaca nessuno l’ha più veduta, e considerando solamente che il Panelli ebbe dallo stesso Marcucci, come tolto da un’opera inedita d’un altro Marcucci (Niccolò), il primo frammento; io inclino a creder falso anche il secondo, che forse fu inventato per correggere o avvalorare il primo. Più che sospette mi paiono anche le parole con cui l’Abate Ascolano accompagna questo preteso frammento: «Lino accenna la Recita, che da’ nostri Poeti nel dì 22 Luglio fu fatta in Presenza del Monarca, e come il nostro Poeta Guglielmino di anni 29 venne grandemente plaudito da Errigo per la cantata di un nuovo Carme italico di cento versi ad onore del Re.... Ecco la prima volta, che nell’Italia incominciò a balbettare la Poesia Italiana, allor nata dal nostro Guglielmino; il quale la trapiantò poi in Sicilia, come vedrassi. Di questo Carme o sia Canzone furono dispensate molte copie, come Lino attesta. Restò tuttavia molto variato. La copia che riporta il Marcucci, cioè Niccolò, è differente sin ne’ primi versi.... In rimunerazione fu Guglielmino dichiarato Nobile Palatino dal Re, e suo Poeta.» Ecco a buon conto que’ quattro versi, nella prima lezione, che è notissima, e nella seconda, che è quasi ignota:
Tu es illo valente Imperatore,
Qui porte ad Esculan gloria et triumpho:
Renove Tu, Señor, illu splennore,
Qui come tanti sole......
Tu si’ chillo valente Re et Sennure,
Qui porte ad Esculan gloria et triumpho:
Non Febo alluma tanto el nostro Trunto,
Quanto Henrico dave a noi luce et splennure.
[92] Gregorii Magni Opera omnia; Parisiis, 1705; tom. II, col. 1139–40.
[93] Ibid., tom. I, pag. 6.
[94] Demogeot, Histoire de la Littérature française; Paris, 1864; pag. 54.
[95] Gregorovius, Op. e loc. cit.
[96] Cfr. Giesebrecht, De litterarum studiis apud Italos primis medii aevi saeculis. Berolini, 1845.
[97] Ibid., pag. 7–8.
[98] Pertz, Monumenta Germaniae historica; Legum tom. I (Hannoverae, 1835); pag. 52–53 e 64–65.
[99] Sacrosancta Concilia etc.; tom. IX (Venetiis, 1729); colonna 338.
[100] Lupi Ferrariensis Epistolae, ap. Du Chesne, Historiae Francorum Scriptores; tom. II, pag. 727.
[101] Ibid., pag. 778–79; e Muratori, Diss. XLIII, ediz. cit., tom. VIII, col. 528–29.
[102] Ghirardacci, Historia di Bologna; parte prima (Bologna, 1596); pag. 279.
[103] Purgat., XI, 97–99.
[104] Convito, Tratt. I, cap. XI e XIII, ediz. Barbera (1857), curata dal Fraticelli.