Title: Brandelli
Author: Olindo Guerrini
Release date: July 11, 2015 [eBook #49420]
Language: Italian
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OLINDO GUERRINI
(Lorenzo Stecchetti)
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BRANDELLI
A. Gorlini e C. Via Moscova, 39 Milano.
OLINDO GUERRINI
(LORENZO STECCHETTI)
Nuova edizione su quella di A. Sommaruga
MILANO
CASA EDITRICE LIBRARIA MODERNISSIMA
«FLOREAL LIBERTY»
di ROSSI ARTURO, Via Pontaccio, 19
—
1911
Ecco come andò la cosa.
Nell’inverno del 1868 io davo ad intendere alla mia famiglia di studiar legge; anzi per confermarla vie più nell’errore, alla fine di quell’anno mi laureai.
(Parentesi. Mi ricordo che ci chiusero nell’Aula Magna dell’Università. Eravamo otto o dieci candidati, di quelli allegri come non se ne trovano più. Venne il professore di Diritto Canonico, munito di una borsa gigantesca che conteneva la bellezza di sessanta palle. Ognuno di noi immerse la mano nel venerando borsone ed estrasse una palla sola, il cui numero corrispondeva a quello di una tesi da svolgere in iscritto. Mi toccò una tesi laconica: Del Comune; una tesi che non conoscevo nemmeno di saluto. Il professore se ne andò e noi ordinammo la colazione. Ci parve che il vino, che era buono dovesse rischiararci le idee, e ne bevemmo... si sa... ne bevemmo... con molto piacere. Mi ricordo anche, un po’ confusamente, di aver ballato con molta energia, insieme ai colleghi, intorno ad un mappamondo in mezzo all’aula, e di aver riscossi unanimi applausi per l’esecuzione brillante dell’esercizio ginnastico detto l’albero forcuto. Sul tardi ci decidemmo a lavorare, ed io comunicai i miei bollenti spiriti all’opera della mia sapienza giuridica. Cominciai coprendo di vituperii il cranio di Clemente VII perchè distrusse la repubblica fiorentina, e finii rimproverando il ministro Menabrea perchè dopo Mentana non era andato a Roma. Domando io che cosa c’entrava questa roba in una tesi di diritto amministrativo? E tra il principio e la fine ci era una tempesta di punti ammirativi, di apostrofi, di sarcasmi, d’esclamazioni; c’erano dentro tutte le più calde[6] figure rettoriche possibili. Era insomma una tesi un poco brilla. Cinque o sei giorni dopo, la mattina a digiuno, coll’abito a coda di rondine e la cravatta bianca, dovetti recarmi all’Università per leggere e sostenere pubblicamente la mia tesi davanti alla Facoltà ed agli ascoltatori. Lessi, ma in parola d’onore, avrei preferito di non leggere. Mi vergognavo. Tutto quel lirismo bacchico recitato a bassa voce da un giovine a digiuno, in soggezione e colla voce spaurita, doveva fare un bell’effetto. Alle interrogazioni dei professori, m’impaperai, dissi degli spropositi cavallini, feci una figura scellerata, e forse mossa da un delicato senso di compassione la Facoltà mi approvò a pieni voti. Vorrei esprimere la mia gratitudine ai benefattori, ma credo che sia tempo di chiudere la parentesi).
Dunque, nell’inverno del 1868, invece di leggere il codice leggevo dei versi. Ma leggevo per lo più dei versi francesi, non trovando niente in italiano che finisse di piacermi. Giudicavo tutti i nostri poeti recentissimi colla avventatezza dello studente che procede per simpatie ed antipatie e tutta la nostra lirica contemporanea mi pareva vuota, affettata, frigida. L’eterno Iddio Manzoni era l’oggetto del mio odio accanito; e tutto quel cristianesimo nè carne nè pesce degli scrittori che adorano san Pietro e dicono male del suo successore, mi dava delle ore di bile felice. Il mio vangelo filosofico era la Filosofia della rivoluzione del povero e grande Ferrari; e in questo forse ho cambiato poco. Potete dunque immaginare il gusto che mi dettero poi le lodi prodigate all’abate Zanella! Badate bene! Se l’amor di Dio messo in versi mi fa sempre presso a poco lo stesso effetto, non giudico più così sfacciatamente in cose d’arte. Voglio solo dire che allora l’odio al romanticismo cristiano e cattolico mi accecava e mi faceva giudicare colla ferocia di un antropofago.
La sera, prima di andare a letto, facevo dei versi.
Li facevo in pantofole e ci si sentiva. In quelle crudelissime poesie ingiuriavo atrocemente la Trinità ed il resto. Traducevo La Guerra degli Dei del Parny, Voltaire mi pareva fiacco e, quando trovavo qualche cosa che non mi andava a verso, picchiavo coi pugni sul tavolino e insolentivo l’autore e i suoi ascendenti in linea mascolina e femminina in perpetuo. Non mi consigliava nessuno e da nessuno avrei accettato consigli. Avrei scaraventato subito il volume dell’Aleardi in faccia a Mentore stesso. Non si è giovani per niente.
In quell’anno venne fuori il Levia Gravia del Carducci. Non conoscevo l’autore di persona, e quando lo conobbi, mi diede sempre tanta soggezione, che si sono voluti dieci[7] anni di amichevoli relazioni prima di decidermi al tu confidenziale. Anzi è stato lui che ha cominciato col tu, ed anche ora, quando si parla sul serio di letteratura o di storia, mi scappa quel lei benedetto. Allora insomma non lo conoscevo e si può anche dire che egli era conosciuto da pochi. Il Levia Gravia non levò gran rumore, un po’ perchè allora non si credeva possibile di far buoni versi dopo il Manzoni ed anzi pareva sfacciataggine provarcisi; poi, perchè in quel libro non c’era politica. Ma io lo lessi; e stucco e ristucco di tutta quella devozione rimata che stagnava in Italia, rimasi ammirato di non trovarci dentro i soliti angioli e le solite madonne. Trovai finalmente il poeta mondo dalla lebbra del sentimentalismo ipocrita che odiavo, trovai finalmente qualche cosa di nuovo, di originale, e non le solite rifritture manzoniane. Fino i metri non erano più quelli del sempiternale—Ei fu! Siccome immobile—e gli affannosi decasillabi, noiosi nel loro isocronismo come il pendolo dell’orologio. Ma qui non faccio l’autopsia critica del Carducci; dico solo per dire che mi colpì subito e, presa la penna, scrissi due o tre colonnini di roba entusiastica certo, ma sconclusionata parecchio.
Si sa: quando si è scritto qualche cosa adversus genies, viene la voglia di stamparla. Ricopiai la mia sconciatura in magnifica calligrafia e la portai ad un giornale che si chiamava l’Amico del popolo.
Era un giornale repubblicano: lo dice il titolo preso dal giornale di Marat. Scritto da brave persone, aveva però il difetto di quasi tutti i giornali repubblicani, quello di parlare sui trampoli come i proclami. Aveva degli articoli di fondo scapigliati, infocati e sbraculati, e se non si fosse saputo che gli scrittori erano brava gente incapace di torcere un capello a nessuno per cattiveria, si sarebbe potuto credere che l’ufficio dell’Amico del Popolo fosse una tana, di cannibali infermi mezzo d’idrofobia e mezzo di delirium tremens. E il Governo (i Governi, come i mariti, non sanno mai le cose bene) credeva proprio che in quelle innocenti camere terrene della Siliciata di Strada Maggiore accampasse una masnada di settembrizzatori assetati di sangue umano, perchè periodicamente faceva cercare e arrestare qualcuno dei collaboratori. Che tempi erano quelli, dopo Mentana! I repubblicani confessi erano sempre aspettati nelle carceri di S. Giovanni in Monte e, tenuti pericolosi, erano però le persone più sicure della città, poichè la sera andavano a casa scortati dalle guardie di sicurezza vestite da uomini. Ma lasciamo andare.
Piano piano, con un po’ di tremarella, mi diressi all’antro dell’Amico del Popolo. Entrato sotto al portone, vidi[8] un uscio con un cartello dov’era scritto Direzione, e dietro l’uscio si sentiva un rumore di voci, un pandemonic che ricordava una scuola di ragazzi in rivoluzione. Bussai, due o tre voci mi dissero avanti, spinsi, l’uscio, ma non vidi nulla.
Non vidi nulla perchè dentro c’era un fumo tanto denso che si sarebbe tagliato col coltello. Dieci o dodici pipe mantenevano quel nebbione nell’antro. Si capiva che c’era molta gente e si sentiva una voce misteriosa uscir dalla nube come la voce di Dio sul Sinai. Rimasi ritto presso l’uscio e sentii la voce declamare un articolo di fuoco e di fiamme. E’ passato tanto tempo, che non lo ricordo più; ma c’entravano il sangue, le fogne, la spada di Damocle, il toro di Falaride, eppur si muove, la cuffia del silenzio, Dionigi il tiranno, Torquemada, Polignac, i fulmini e le saette. Io rimasi un poco sconcertato in principio, perchè non pareva che dicesse sul serio: ma quando sentii uscire dalla nube alcune voci d’approvazione, la presi sul serio anch’io e, tirato fuori un sigaro, collaborai col mio fumo a quello della comunità.
Dopo un po’ di tempo finì la declamazione dell’articolo di fondo, finirono le approvazioni, e i personaggi uscirono ad uno ad uno, involti sempre nella fitta nebbia di fumo di pipa. Mi avvicinai ad un monumento nero che travedevo in fondo alla camera e che giudicai uno scrittoio. M’immaginavo che dietro ci fosse il direttore del giornale un buon diavolo che andò a finire, credo, nelle ferrovie e che in quei tempi scoccava acutissime quadrella alle borse dei conoscenti. Offersi l’articolo, lo misi sul monumento che il senso del tatto mi assicurò essere uno scrittoio, e non ebbi altra risposta che una serie infinita di grugniti che non sapevo se approvativi o improbativi. Quando ebbi finito di parlare, non sentendo di là del monumento nessun segno di vita umana, tornai indietro, e trovata la porta a tentoni, uscii all’aria aperta. Oh, come respirai largamente! Era ancor freddo, ed il vapore del mio alito mi pareva il residuo del fumo aspirato nell’antro.
Per alcuni giorni lessi assiduamente l’Amico del Popolo sperando di vedermi stampato, ed ogni giorno mi portava una disillusione di più. Finalmente l’articolo apparve in appendice!
Così stampato mi faceva un altro effetto, mi pareva più bello, e l’avrò letto dieci o dodici volte in fila. Non descrivo l’emozione e i palpiti dello sciagurato che ha peccato la prima volta in tipografia. Ferdinando Martini ha descritto tutto con un verismo così preciso, che mi rimetto a lui.
Pareva anche a me che tutti in quel giorno dovessero[9] guardarmi. Ero superbo come uno Scià di Persia e guardavo d’alto in basso l’intera umanità. Però, passeggiando fuori di porta, in un vicolo dove bisogna camminare con precauzione, vidi l’Amico del Popolo tagliato a pezzi e steso a terra come vittima di una faticosa battaglia. Torsi il viso e le nari con dispetto, quasi fossi stato personalmente offeso. Ahimè! Da che altezza precipitai!...
Questa è la vera e precisa relazione del mio primo passo nella via della pubblicità.
Compiangetemi.
La signora Giovanna spalancò la porta e poco mancò che me la sbattesse in faccia. Le scappò un atto d’impazienza e mi disse:
—Senta: faccia a mio modo. Lei vada a letto.
—Dunque—risposi—c’è ancora molto tempo?
—Lei non ci può far nulla. Anzi ci rompe la testa, ci imbarazza... l’abbiamo sempre tra i piedi... Vada a letto. Che cosa vuol farci lei?
E mi voltò le spalle avviandosi verso la cucina che dalla porta aperta fiammeggiava come una fornace accesa.
Io avevo sulla punta della lingua una domanda sciocca.
Volevo domandarle se il nascituro sarebbe maschio o femmina; ma capii che non era il momento di fare domande sciocche. Perchè s’impazientisse la signora Giovanna, di solito così cerimoniosa, bisognava proprio che avesse altro per la testa; e piano piano ritornai a chiudermi nello studio.
Il fuoco era acceso e la poltrona mi tendeva le braccia. Come sono lunghe le ore dell’aspettazione!
Di fuori nevicava e i fiocchi di neve gelati della notte e cacciati dal vento battevano sui vetri, fitti, fitti, con un fremito sommesso, quasi timido e doloroso. Il vento di quando in quando mandava un lamento, poi si chetava, e il silenzio non era rotto che dal rumore strano e velato delle poche e lontane carrozze sulla neve, e dal passo cadenzato e lento delle guardie che passavano sul marciapiede allontanandosi a poco a poco. Il silenzio della notte è sempre solenne e misterioso, ma quando si hanno i nervi tesi dalle veglie e dal caffè, quel silenzio diventa come vivo e pare che qualcuno o qualche cosa vegli in[11] una aspettazione muta e paurosa nelle tenebre profonde. Si attende non si sa che, quasi come il silenzio dovesse essere squarciato dalla rivelazione improvvisa e rumorosa di un mistero. Si aspetta, si tende l’orecchio inconsciamente come per interrogare il grande enigma delle tenebre silenti, finchè la tensione si rallenta e l’incubo dell’aspettazione si risolve nei vaneggiamenti del sogno.
Che libro leggessi non lo so e non lo sapevo neppur quella sera. Ma ricordo bene che presto mi cadde di mano e cominciai a fantasticare così tra la veglia e il sonno. Mi ritornavano in mente i bei giorni trascorsi in villa colla mia povera bimba e sentiva ancora le sue parole come se l’avessi lasciata poco prima. La rivedevo bionda, rosea; sorridente attraversare con me i campi dove le spiche mature erano alte come lei, dove i passeri spaventati dalle nostre risa volavano via cinguettando. Mi ricordavo il giorno in cui andammo assieme a pescare ed io la portavo sulle spalle per attraversar l’acqua e stavamo tutti e due nascosti nell’erba fresca ed alta delle rive, in silenzio, aspettando. Sentivo il suo grido di trionfo quando una lasca minuscola finalmente penzigliò dall’amo, e la vedevo ritta, coi ricci per le spalle e la felicità negli occhi, batter le mani e gridare. Oh quegli occhi, azzurri come foglie di mammole, grandi come occhi di donna, io li vedevo e li vedrò sempre che mi guardano come nell’agonia sua, imploranti un aiuto che io non poteva dare, nuotanti già nelle nebbie della morte, ma sempre grandi, sempre azzurri, belli sempre ed ora per sempre chiusi. Si può soffrire al mondo quanto soffrii adagiandola colle mie mani nella cassa e chiudendole gli occhi, i dolci occhi che non posso ricordare senza sentire qualche cosa che si straccia nelle mie viscere?
Per questo desiderava che mi nascesse una bambina, e tremavo pensando che i presagi eran poco favorevoli al mio desiderio. Fino nel sogno mi inseguivano i pensieri angosciosi del giorno e li divideva certo la povera martire che sul suo letto di dolore aveva troppi altri strazi che la laceravano. E così sognavo, quando il silenzio notturno fu rotto da un grido acutissimo, da un vagito lungo che mi rimescolò tutto il sangue dentro e mi fece saltare in piedi desto ed ansante.
Accorsi, ma sull’uscio la signora Giovanna che entrava affacendata mi fermò col suo non si può rigido ed alle mie domande non rispose che con una alzata di spalle chiudendo l’uscio. Non potevo star fermo, mi mordevo le labbra, mi tiravo i capelli ed avevo caldo. Aprii la finestra, dalla quale irruppe nella camera la luce chiara e diffusa del mattino fatta più viva dal riflesso bianco della[12] neve. Di fuori non c’era altri che la guardia del gas che spense correndo gli ultimi lampioni; poi più nessuno. Il silenzio ridivenne profondo e cupo. Mi pareva, non so perchè, che stesse per accadere una disgrazia.
Quando Iddio e la signora Giovanna vollero, potei entrare. Mi chinai sul letto e chiesi a mia moglie:
—Come va?
—È rinata la Lina—rispose sorridendo.
Nella culla bianca, affondata tra i veli ed i pizzi, giaceva la nuova venuta riposandosi della fatica fatta nel venire al mondo. Quando allontanai il copertoio per vederla, la neonata aprì gli occhi e mi guardò.
Era lei! Erano i suoi occhi, i suoi dolci occhi, azzurri come le mammole! Era la povera morta che mi guardava ancora cogli occhi della sorella!
Come non diventano matti i babbi in certe occasioni?
Oh, Santo natale della bimba mia, che tu sia benedetto!
C’è la neve?
Vi pare una domanda sciocca, non è vero? Eppure in casa mia ha una grave importanza, poichè in un momento di tenerezza paterna ho avuto la imprudenza di prometterla al mio bambino che non ricorda più quella dell’anno passato. Io gli ho promesso la neve per il giorno di Natale io che l’ho avvezzato a credere ciecamente alle mie parole! La stagione si manteneva sempre eccellente e cominciavo a fare il diplomatico col signorino, cercando di preparare delle scappatoie alla paterna autorità. Ho insinuato così alla larga certi dubbi impertinenti sulla infallibilità dei lunari, e prendendola da lontano, ho fatto per incidente certe subdole supposizioni che implicavano la perfetta serenità del giorno di Natale; ma non c’è stato verso di proteggere decentemente la mia ritirata. Questa sera stessa dipingevo con colori vivacissimi (non faccio per lodarmi) e con eloquenza meravigliosa, le delizie di una passeggiata da farsi nel santo giorno, con un sole splendido ed un cielo sereno, sino ai giardini pubblici, dove al caffè vendono i dolci tanto buoni. Il signorino mi ascoltava serio serio, colle mani dietro la schiena napoleonica, e pareva soddisfatto della magnifica prospettiva di vedere i pesci rossi nel laghetto e di mangiare i pasticcini al caffè, quando ad un tratto mi ha chiesto a bruciapelo se ci sarà anche la neve!
La mia autorità è in pericolo! Come potrò io godere la confidenza del primogenito che ho ingannato così? Mi domando spaventato con quali doni potrò asciugare le lacrime della sua prima disillusione. C’è in una bottega un tramway di latta che gli deve aver ferito la fantasia; ma basterà[14] a fargli dimenticare la neve promessa? Io domando a che cosa serve l’Ufficio meteorologico centrale che manda tanti curiosi telegrammi ai giornali? A che cosa serve leggere nel foglio della sera che oggi è stato bel tempo? C’è bisogno di telegrafarlo da Roma, quando già io sono uscito senza pastrano? Quanto più utile sarebbe quell’Ufficio se sapesse dire in tempo ai poveri padri di famiglia:—Badate di non promettere la neve pel giorno di Natale ai vostri bimbi perchè quel giorno sarà sereno!—Allora si capirebbe il perchè di tanti impiegati e di tanti telegrammi. Ma a mezzanotte non sanno dire che tempo farà al tocco. Oh la scienza! Meglio il lunario, che almeno qualche volta ci coglie.
⁂
Iddio misericordioso mi tenga le sue sante mani sul capo e non permetta mai ch’io faccia di questo periodico una cattedra di irreligione, specialmente in questi giorni benedetti. Ma però mi sia permesso di dolermi che la tradizione cristiana, e specialmente cattolica, abbia incorniciata la nascita del suo Messia con tutti gli orrori della stagione invernale. Anche a me sono noti, press’a poco, i risultati della moderna esegesi che tendono a stabilire Nazareth e non Betlemme come luogo di nascita di Cristo, secondo il Vangelo di Giovanni. So benissimo che il censimento di Quirino, che la leggenda ritiene causa del viaggio a Betlemme, è almeno di dieci anni posteriore all’anno della Natività secondo Luca e Matteo, poichè i due evangelisti fanno nascere Gesù sotto il regno di Erode e il censimento non fu fatto che dopo la deposizione di Archelao e che ad ogni modo questa operazione amministrativa dovette aver luogo solo nelle provincie romane e non nelle tetrarchie. Ma non è il caso di sfoggiare una erudizione troppo facile per tacciare di inverosomiglianza tante pie leggende, e ripeto che non voglio tener cattedra di irreligione. Solo mi preme di protestare contro la tradizione della neve natalizia, cui debbo il mio paterno imbarazzo.
Che a Nazareth l’inverno sia rigido, lo credo, benchè io non ci sia mai stato nè d’inverno nè d’estate. Benchè Nazareth sia ad una latitudine anche più meridionale di quella di Tunisi e le linee isochimene notino per quella regione una temperatura invernale di + 10 centig. in media, so che la patria del falegname Giuseppe è sul monte e quindi soggetta a squilibri forti di clima. Ma poichè la tradizione pia fa nascere Gesù a Betlemme, molto più al[15] sud, in latitudine più meridionale di Tripoli, in luogo montuoso ma aperto ad oriente e riparato a settentrione dai monti che limitano la riva sinistra del Cedron, dubito che la neve fosse molto alta la notte del 25 dicembre dell’anno 1.
Sant’Epifane (vedete come la so lunga!) mette il Natale ai 6 di gennaio, e San Clemente Alessandrino dice che ai suoi tempi chi lo celebrava nel 19 o 20 d’aprile, chi al 20 maggio. Nel passato secolo vi fu chi sostenne che il Natale doveva cadere in settembre, ma il calendario del Bucherius mette la festa ai 25 di dicembre, e la Chiesa la celebra in quel giorno.
Certo in dicembre è freddo; almeno per lo più l’inverno è già inoltrato verso la fine dell’anno. Ma se badassimo alle tradizioni ed ai quadri dei pittori, tra i gradi 31 e 32 di latitudine dovrebbe esistere la Siberia e non la Giudea. Ci dipingono certe nevicate da fare invidia alla Groenlandia, mentre anche ora gli ulivi prosperano a Betlemme senza paura di morire gelati. Giacomo de Vitry narra che l’esercito dei crociati, giunto sulle rive del Giordano a metà di Novembre, prese un bagno con molto piacere. E se al 6 di gennaio è solennizzato il battesimo di Gesù che fu dal Battista immerso nel fiume, certo il Giordano non doveva essere gelato anche secondo l’idea della Chiesa. Quanto al bue ed all’asinello, non hanno che una dubbia frase del profeta Abacucco per giustificare la loro presenza nel presepio; e ad Abacucco ne lasceremo tutta la responsabilità.
Dunque il Vangelo non ci dice che nel giorno di Natale, a Betlemme, nevicasse. La geografia fisica lo nega. Perchè dunque dovrà esserci la neve quel giorno? Perchè queste belle ed erudite riflessioni non mi vennero in mente quando promisi la neve al mio bambino? Chi lo persuade ora? Se gli cito Abacucco, ho paura che non lo prenda sul serio. Specchiatevi, padri imprudenti, e vedete dove vi può trascinare una promessa fatta leggermente!
⁂
Il profeta Daniele dice Benediciamo i ghiacci e le nevi del Signore, e questo invito mi ricorda l’egoismo de’ miei desiderii. C’è troppa gente al mondo per la quale la neve è una tribolazione: desiderarla è dunque male. Lasciamo che il profeta la benedica e speriamo che i poveri possano farne a meno oggi. Comprerò il tramway al mio[16] erede, che dimenticherà le promesse paterne, ed i bimbi dei poveri saranno contenti perchè oggi avranno meno freddo. Tutto quindi anderà pel meglio.
Ma io l’ho tuttavia colla scienza che non mi ha saputo guidare nelle promesse.
Sono oggi dugentotrentanove anni che il signor Ovidio Montalbani, il Rugiadoso Accademico della Notte e fra gl’Indomiti lo Stellato, pubblicava la sua Chiologia, cioè Discorso sulla Neve, e press’a poco sapeva quel che sa l’Ufficio meteorologico centrale. Sapete come si scriveva nel seicento? Ebbene, il Montalbani dedica il suo libro ad un conte Riario cominciando così: «La neve che io tratto nel presente discorso non sa intiepidire: ella ha riscaldato gagliardamente quel riverente affetto con che gran tempo fa vivo ambitioso della gratia di V. S.» Nientemeno! Egli ci dice più avanti che la neve «coll’inertia d’una quiete stagnante fabrica veloci le ali agli odori, et la medesima si dichiara per indivisa compagna della Mestitia et della Giovialità». Proprio quello che dicevo! Mentre la neve pel mio bimbo sarebbe compagna della Giovialità, per altri bimbi lo sarebbe della Mestitia. E andate poi a parlare di progresso mentre l’Accademico Rugiadoso, due secoli e mezzo addietro, diceva quel che dico io!
Nel 1644 l’Accademico Stellato affermava che l’oroscopo «trigonocratore dell’uno cielo ed oriocratore del proprio luogo» lo induceva a credere che «le feste natalitie non saranno tanto rigorose nel freddo quanto i giorni adietro, overo che riusciranno serene». Non so se l’indovinasse per quell’anno; so che l’indovina per questo. Provino un po’ i meteorologi odierni, che non usano termini meno difficili, ad indovinare che tempo farà per le feste di Natale del 2122? Vedremo se ci colgono. Sì, lo vedremo!
Facciamo pure senza la neve poichè tutti ci guadagnano e tanto il tramway l’avrei dovuto comprare lo stesso; e in questo giorno in cui gli angeli hanno cantato pace in terra agli uomini di buona volontà perdoniamo anche ai meteorologi, che in fatto di buona volontà e di buone intenzioni (l’inferno ne è lastricato) non sono secondi a nessun’altra classe di scienziati. Pace dunque al padre Denza e al Ministero della Marina.
Lo Sterne nel Tristam Shandy sostiene che ogni uomo a questo mondo ha il suo dadà, il suo cavalluccio; e da noi si dice che ognuno ha il suo ramo di pazzia, anzi Alfredo de Musset scrisse in versi che in Italia questo grain de folie lo abbiamo proprio tutti. (Tra parentesi, era un verista lo Sterne? Non si direbbe, ma chi seguisse le teorie di certi ipercritici, dovrebbe ammetterlo. Infatti se per quei signori il verismo sta tutto nel parlar di grasso, lo zio Toby non parlò di magro.) Ora il mio dadà sono le biblioteche e non me ne vergogno davvero. Sono stato un pezzo in bilico se dovessi ammattire per le biblioteche o pel giuoco del tresette, quando finalmente mi sono deciso per le biblioteche. Il tresette mi avrebbe dato minori disillusioni; ma la pazzia che ho scelto mi porge almeno il destro di scrivere nei giornali; il che lusinga molto l’amor proprio del mio portinaio che non sa leggere.
L’argomento del resto è appunto arrivato, direbbe Bismark, al momento psicologico. Noi diciamo che è maturo, e la figura rettorica così è più giusta, poichè il frutto maturo o si coglie o marcisce e cade. E poichè l’argomento delle biblioteche marcirà negli archivi del ministero e cadrà in dimenticanza, se già non c’è caduto, è proprio il caso di una locuzione figurata da porgere ad esempio agli sventurati sì, ma infelicissimi studenti dei licei.
Ad una domanda del deputato Martini, il solo, fra cinquecento deputati che si suppone sappiano leggere, il quale si sia fermato a dare un’occhiata a quel capitolo del bilancio, ci è toccato di sentire il ministro per la pubblica[18] istruzione confessare non aver potuto leggere il rapporto della Commissione d’inchiesta sulla Vittorio Emanuele senza arrossire. Quella biblioteca, per norma dei lettori, non è nell’isola di Pantelleria, ma a due passi dalla Minerva.
Vien dunque fatto di ricorrere a quell’aritmetica che par diventata privilegio dell’onorevole Bernardino Grimaldi, e ricordando la regola del tre, brontolare spaventati: «Se tanto mi dà tanto!...»
Come sorveglia il Ministero le biblioteche dello Stato? È una innocente domanda alla quale non so che risposta si possa dare. Il Ministero infatti si contenta dei rapporti, dei conti e delle statistiche che gli mandano i bibliotecari, onestissima gente, incapace di usare nemmeno in sogno de’ quattrini e delle cose pubbliche, ma soggetta come tutti gli uomini di questo mondo a sbagliare. Onestissima gente, piena di buona fede, ma esposta a tutti i pericoli cui la buona fede espone: almeno così si è visto nella biblioteca Vittorio Emanuele. Come dunque sorveglia il governo, come si guarda da questi pericoli? Con un semplicissimo sistema che ho visto nel 1870 applicato alla nettezza pubblica in Subiaco: aspettando cioè che la divina provvidenza mandi un temporale a spazzar via tutto, il buono e il cattivo, le immondizie ed il bucato disteso, aspettando un qualche pasticcio troppo grosso per nominare una commissione d’inchiesta che faccia piazza pulita alle immondizie dell’avvenire. Questo sistema sublacese è economico, ma via, non è igienico.
E pensare che l’Italia, giardino del mondo è un portento di fecondità meravigliosa in tutto, anche e specialmente in commissioni ed in ispettorati! Pensare che non si può mettere il naso fuor della finestra senza veder passare una serqua di commendatori ispettori de omni re scibili et quibusdam aliis: pensare che i ministri si sono limati il cervello alla penultima cellula per trovare nuove cose da ispezionare, come l’industria e il commercio; pensare che dagli ispettori di pubblica sicurezza fino a quelli di finanza ce n’è tanti che oramai sono più loro che i contribuenti, e pensar poi che a queste povere disgraziate di biblioteche non hanno concesso nemmeno un cencio d’ispettorato nemmeno un commendatore, nemmeno un cavaliere spicciolo, tanto per dire che ce n’è almeno uno! Proprio è difficile spiegarlo, a meno che non si voglia dire, con qualche apparenza di vero, che gli ispettori delle biblioteche non ci sono, appunto perchè ce n’è bisogno.
Ma qui può darsi che questa millesima istituzione di ispettori sollevi qualche opposizione. Delle sinecure ce ne[19] sono tante, che fare una diecina di canonicati di più non torna conto.
È verissimo. Io davvero non so se nel meccanismo della istruzione ci sia qualche ruota, qualche molla che abbia per ufficio questa sorveglianza delle biblioteche; passatemi la figura. Ma se questa ruota c’è, deve essere arruginita da un pezzo; se c’è una molla, non scatta più. Io ho vissuto molto in una biblioteca, dove ad onor del vero non c’era bisogno di sorveglianza o di controllo, ma dove anche ad onor del vero non s’è mai visto nessuno a ispezionare o a controllare. Tutte le relazioni col governo centrale si riducevano a spedire parecchi chilogrammi di statistiche all’anno e a domandare inutilmente i quattrini della dotazione. Mai un cristiano si è presentato a chiedere come andavano le cose, ad informarsi de visu, a toccare colle proprie mani per conto del governo... Sbaglio. Ci venne il re col ministro della istruzione pubblica, con quello degli esteri e con quello dei lavori pubblici; ma era buio e poi ci stettero tre minuti precisi.
Debbo dunque credere che nel meccanismo del ministero manchino le parti necessarie al controllo di cui parliamo: e se, per tema di istituire dei canonicati, non si vuol mettere assieme un congegno fisso, se ne può combinare benissimo uno staccato, intermittente, volante. Voglio dire che si possono mandare delle persone pratiche ora al nord ora al sud, per dare un’occhiata ai libri, ai cataloghi, ai servizi. S’intende che non bisognerebbe avvisare una settimana prima che il commendator tal de’ tali arriva alla tal’ora per fare un’ispezione, e s’intende che non bisognerebbe mandare un bibliotecario a riveder le bucce al collega. Dato che nelle biblioteche avvengano degli inconvenienti, mi pare che il cercare di conoscerli a tempo non sia mal fatto; ma anche qui s’intende che al Ministero dovrebbero leggere i rapporti e non dare ragione a quella tradizione burocratica secondo la quale un ispettore mise una sardella tra le pagine del suo rapporto, e tutte le volte che torna a Roma a domandare un avanzamento, si reca agli archivi dove ha la soddisfazione di constatare che la sua sardella è religiosamente conservata. Il che davvero consola, poichè prova che almeno gli archivisti fanno buona e fedele guardia.
In tutto questo non c’è nulla che possa offendere i bibliotecari. Non c’è un colonnello che si creda offeso quando il generale viene a fare l’ispezione; una misura generale non può offendere le suscettibilità degli individui. La Leda del capitano Salvi era una buona cavalla senza dubbio; ma se il capitano non l’avesse tenuta tra le gambe, credete che sarebbe arrivata a Napoli in tempo per vincere[20] la scommessa? Era una buona cavalla, ma se il capitano si fosse addormentato, credete voi che non si sarebbe fermata un pochino a pascere un po’ d’erba sui margini della strada Non si fa torto alla buona cavalla dicendo che fu aiutata molto dallo stimolo del cavaliere.
Insomma, ispettori o no, pare oramai che a questa faccenda delle biblioteche sia da pensarci sul serio. I nostri nonni avevano l’abitudine di imprimere sul frontespizio dei libri certi bolli madornali che tra l’inchiostro e le frittelle d’olio coprivano ogni cosa. Ebbene, si deve a questa bestiale abitudine, a queste frittelle indelebili, se molti libri non hanno emigrato; e se nella biblioteca Vittorio Emanuele ci fosse stato un frittellume come dico io, l’emigrazione sarebbe stata minore. Parecchie biblioteche non hanno altro riparo contro le ugne dei bibliofili, letterati o no, che il bollo, in mancanza di cataloghi e d’inventarii. E notate che i bibliotecari non ne hanno colpa, poichè a fare un catalogo ci vogliono delle braccia e dei quattrini che il governo non dà, e che i bibliotecari, con ragione, non vogliono metter del loro. Se dunque questa proprietà dello Stato, questa ricchezza della nazione fosse un po’ meglio curata, sorvegliata, difesa, che male ci sarebbe? Almeno il ministro si risparmierebbe di dover confessare i suoi rossori e noi italiani non faremmo la bella figura che facciamo. Dico bene?
Carissimo signor Martini,
Poichè Ella mi tira in ballo citando la mia frase, in Italia non possono studiare che i ricchi, e poichè siamo in carnevale, mi lasci ballare.
Ella sa bene come diavolo vadano le biblioteche italiane e lo sanno tutti gli altri infelici che hanno la disgrazia di studiare. Ma il pubblico che paga e il Parlamento che fa pagare non sembra che lo sappiano. Le nostre biblioteche, meno una o due onorevoli eccezioni, vanno avanti così alla carlona, per forza d’inerzia e nient’altro. Lasciamo che hanno per lo più certe doti (i bibliotecari chiamano così gli assegni annui), certe doti colle quali oggi un povero babbo non troverebbe un cane che gli portasse via una ragazza, fosse anche più bella della bella Elena Lasciamo che la dote del 1879 si paga nel 1880 e che il pagamento per ironia lo chiamano anticipo. Questo di pende dalle condizioni finanziarie dello Stato, e nessuno, o tutti, ci abbiamo colpa. Si potrebbe domandare però, perchè con pochi quattrini si vogliono mantenere molte biblioteche e per giunta scrivere nei regolamenti che esse debbono tener dietro alla coltura generale, speciale, ecc. Se per tener dietro bastasse correre! Ma Fanfulla disse bene a Barletta: I denari sono pochi! e mentre le sullodate colture corrono come locomotive, le povere biblioteche spedate sono rimaste quasi tutte al secolo passato; nè gli articoli dei regolamenti, per quanto pomposi, faranno comprare un libro di più o bestemmiare uno studioso di meno.
Si potrebbe anche domandare perchè certe biblioteche siano figlie e certe altre figliastre, tanto che a pari grado[22] c’è chi nel bilancio segna dieci e chi cinque. Ma la più bella cosa da domandare sarebbe la fotografia grande al vero di quel grande uomo che immaginò di far pagare la ricchezza mobile alla dote delle biblioteche. Costui tradì certo la sua vocazione, che doveva esser quella di scriver farse per far sbellicare dalle risa il pubblico e la guarnigione. E’ buffa l’idea? Le biblioteche sono dello Stato. Ora che lo Stato faccia pagare la ricchezza mobile al bibliotecario, è una riduzione di stipendio bella e buona, ma in fondo chi paga è il bibliotecario perchè lo stipendio se lo gode lui. Ma che lo Stato faccia pagare la ricchezza mobile a sè medesimo è l’ideale della farsa tutta da ridere. Non le pare? E’vero però, che se si dicesse francamente che le doti e gli stipendi sono diminuiti di quel tanto e non tassati, l’amministrazione si semplificherebbe di troppo e non ci sarebbe più bisogno di tanti giri e rigiri, registri e posizioni quanti ne occorrono ora a tessere i conti di questa razza di ricchezze. O che gli impiegati debbono mangiare il pane a ufo?
E i bibliotecari? Ella ne cerchi i nomi nell’annuario della Istruzione pubblica e troverà nomi sempre rispettabili, spesso illustri; ma illustri in tutto fuor che per la loro opera di bibliotecari e di bibliografi.
Come avviene questo?
Avviene perchè fino ad oggi il posto di bibliotecario era riputato dal Governo un canonicato da far godere a persone di merito, fossero o non fossero mai entrate in una biblioteca in vita loro. E i bibliotecari, meno s’intende poche eccezioni, hanno preso in parola il Governo e si sono occupati delle biblioteche quel tanto che occorre perchè tirino innanzi nello statu quo ante. Il Governo poi, quando s’è accorto che nelle biblioteche c’era di tutto fuor che dei bibliotecari, ha pensato che il criterio del merito era errato per quei posti, ed ha accettato nudo e crudo quello dell’anzianità, come ai tempi di Carlo Felice. Di più ha ridotto l’ufficio del bibliotecario, a forza di articoli di regolamento, in modo che di bibliotecario non resta che il nome; sotto al quale non ci sono che le attribuzioni di un impiegatucolo qualunque, anche d’ordine. Quando si nominano e si pagano dei bibliotecari che non possono comprare una canzonetta da un soldo senza il permesso chi una Commissione, l’ufficio loro si riduce a tenere i registri. Ora per questo basta un diurnista. Ma il Governo non ha riflettuto che le biblioteche tutte le hanno fatte i bibliotecari sul serio, e non gli impiegati che sanno tenere bene i conti ed hanno una bella calligrafia.
I regolamenti, altra invenzione prelibata per semplificare le cose, i regolamenti vogliono ora che per diventare[23] bibliotecario si sia stato prima vice-bibliotecario; al qual posto non si può aspirare se non si è prima stato assistente di primo grado, e così giù fino agli assistenti di quarto grado, ai distributori e magari all’usciere. Si sa che questi regolamenti li hanno fatti quelli cui tornava conto, ma lasciamo andare. Resta che la carriera è chiusa a chi non percorra grado a grado tutta la scala. Se tornasse al mondo Ludovico Muratori, dovrebbe cominciare la sua carriera da fantaccino, anzi forse non la potrebbe nemmeno cominciare perchè non avrebbe sostenuto l’esame di licenza liceale. Io conosco un signore, signore per sua fortuna, che è riputato per uno dei primi, il primo forse dei nostri bibliografi. Egli mise alla posizione il povero Panizzi che era pur qualche cosa, egli è domandato di consigli da tutti i bibliografi d’Italia e di fuori, a lui ricorrono tutti quelli che hanno bisogno di sapere quello che nessun bibliotecario nostro s’è sognato mai di sapere. E’un signore, beato lui, e fa il bibliotecario della biblioteca sua; ma se domani, che Dio lo scampi e liberi, gli venisse la bizzarra idea di diventar bibliotecario del Governo, si sentirebbe rispondere a furia di articoli di regolamento che non può essere bibliotecario chi prima non è stato ecc. Insomma, all’età di circa sessanta anni, stimato e rispettato per uno de’ migliori bibliografi viventi, si sentirebbe offrire il posto di alunno. I regolamenti non ci sono per niente ed hanno chiusa la porta in faccia anche a me che scrivo, dopo tre anni di tirocinio. Nessun ministro e nessun regolamento mi ha creduto capace di saper leggere e scrivere, e non lo dico già coll’amaro in bocca. Figurarsi!
Dato per unico criterio l’inesorabile anzianità, a voler provvedere bene, sarebbe necessario un buon sistema di reclutamento. Invece, se ci fu mai cosa che suscitasse l’ilarità generale, fu appunto il regolamento per gli esami ai posti delle biblioteche. Chi non lo ricorda? Si chiedeva al candidato un po’ di tutto, storia, letteratura, legge, medicina, matematica, lingue antiche e moderne... ci fu chi disse che s’era dimenticato un esame pratico di ostetricia. Ebbene, che risultato se n’è avuto? Questo, che i posti secondari nelle biblioteche se li tengono avvocati che non trovarono cause, medici senza clienti, ingegneri in ozio, professori senza scolari, insomma tutti gli spostati che hanno avuto la fortuna di passare all’esame per l’indulgenza degli esaminatori atterriti dall’enciclopedico programma. Ci sono le sue eccezioni, lo so! ma nella massa siamo lì, e da questa massa verranno i futuri bibliotecari del regno d’Italia; quod Deus averta!
Lo strano è che con questo bel sistema di reclutamento si siano avuti fin ora degli impiegati onesti. Ella notava alcuni furti accaduti nelle biblioteche del regno e specialmente nella Vittorio Emanuele di Roma. Non sarebbe difficile farne una lista lunghissima, ed è noto che molte delle cose nostre rarissime od uniche bisogna cercarle ora nelle biblioteche inglesi. Con tutto ciò io dico e sostengo che gli impiegati sono onesti, poichè colla facilità del furto e colla paga derisoria che hanno, avrebbero a quest’ora dovuto vendere anche le scansie.
L’anno passato, mentre facevo il mio tirocinio in biblioteca per il bel sfogo di prenderci cappello, capitarono due tedeschi. Non parlavano nè francese, nè inglese, nè italiano. Io di tedesco ne masticavo allora meno che ora e non c’era modo di intenderci. Finalmente uno di loro, grande e cogli occhiali d’oro, disse: Marcus Tullius Cicero. Oh, il latino! Fu una idea luminosa, e cominciai a parlare la lingua di Cicerone con una eloquenza da fare arrossire il Vallauri. E la dicono una lingua morta! S’intende che in biblioteca non si porta l’abito di società. Il regolamento vuole che in un dato mese dell’anno si spolverino tutti i libri; operazione che richiederebbe parecchi mesi a farla bene, un personale numeroso e sopratutto il trasporto dei libri giù nel cortile, se no la polvere rimane in biblioteca. Il regolamento è furbo! Si fa dunque come si può, e la polvere, si sa, non manca mai nelle biblioteche, che sono chiamate appunto polverose. Ma la polvere dei libri sporca i panni, ed ecco perchè si va vestiti alla meglio. Io poi andavo tanto alla meglio, che molti visitatori, ai quali facevo da cicerone, allungavano la mano per regalarmi mezza lira; rifiutata, s’intende, con un gesto di pudicizia offesa, degno d’esser fuso in bronzo.
I miei due tedeschi parlavano tra di loro in tedesco, e allor chi li capisce? S’entra nella sala dei manoscritti e domandano di vedere quel che c’è delle Epistole di Cicerone. Ne reco parecchi codici preziosi, quando quello dagli occhiali mi strizza l’occhio e mostrandomi un codicetto in pergamena mi dice nella più pura lingua del Lazio se glielo voglio vendere. Mehercule! dissi io: an te pudet, Germane... Chi sa che bella pagina di latino ha perduto la moderna letteratura! S’intende che i due tedeschi se ne andarono scornati e il codice è ancora là, nel suo scaffale. Ma faccia conto che al mio posto ci fosse stato un povero diavolo carico di famiglia e di fame! Non c’è che stracciare una scheda e stender la mano ai marenghi. Dunque? Dunque, cosa strana, gli impiegati delle biblioteche non sono forse al loro posto, ma sono onesti.
Conclusione:
1. L’Italia è il paese che ha più biblioteche e meno bibliotecari.
2. Se ci sono ancora biblioteche in Italia, si deve alla fenomenale onestà degli impiegati retribuiti come tutti sanno.
3. Se si tira avanti così, verrà il giorno che essendo le biblioteche italiane in Germania o in Inghilterra, il bilancio risparmierà le paghe del personale.
4. Il Governo fa il suo dovere; nomina delle Commissioni.
Luoghi più belli non ne avevo mai visti.
Sul giogo dell’Appennino centrale, dove la strada, raggiunto il valico tra la valle romagnola del Montone ed il Mugello dall’Alpe di San Benedetto scende a San Godenzo, sono alcune case bige, misere ed aggrondate. Il vento lassù imperversa con furia d’inferno e le case hanno certe finestruole dove, non che il vento, non passa nemmeno l’ossigeno. Ivi, lungo la strada e pel tratto di parecchi metri, sta un muraglione massiccio e gigantesco, ornato di una iscrizione che narra come l’ultimo Granduca facesse costruire quel riparo perchè il vento non travolgesse più le carrozze, i cavalli e di viandanti nei borri lì sotto.
Dante salì a questo valico. Egli vide il Montone alle sorgenti, come ci fa intendere nel XVI dell’Inferno:
Come quel fiume, c’ha proprio cammino
Prima da monte Veso in ver levante
Da la sinistra costa d’Appennino,
Che si chiama Acquacheta suso, avante
Che si divalli giù nel basso letto,
Ed a Forlì di quel nome è vacante,
Rimbomba là sovran San Benedetto
Da l’Alpe, per cadere ad una scesa
Ove dovria per mille esser ricetto;
Così ecc.
e forse fu quando si recò a San Godenzo con altri illustri fuorusciti per indurre gli Ubaldini a quei tentativi su Ganghereto e Gaville che, come gli altri, riuscirono vani. Il Del Lungo fa risalire al 1302 il documento actuu, in choro Sancti Gaudentii de pede Alpium che Dante firmò;[27] ed erano quindi passati 578 anni allorchè noi seguivamo la stessa via.
L’ultima delle casupole che stanno sul valico è l’osteria della Mea, dove giungemmo sull’imbrunire. Ai Poggi, poco lontano, c’era stata in quel giorno una fiera celebre nei dintorni, e la strada davanti all’osteria, era affollata. Eravamo appena giunti, che tutti quei montanari, come presi da una convulsione fulminea, cominciarono a gridare ed a regalarsi reciprocamente certi pugni che parevano catapulte. La nipote della Mea con un coraggio da amazzone si ficcò a testa bassa nella mischia per difendere il fratello Marco che stava facendo una splendida collezione di quei pugni montanari, e noi dietro per strapparla dalla mischia, prendendola a traverso, tirandola e brancicandola senza riguardo. Se non fossero stati quei benedetti pugni che grandinavano fitti e saporiti, la nostra missione di difensori delle dame sarebbe stata invidiabile, perchè l’Agatina è una bella ragazza in parola d’onore; ma avevamo troppe distrazioni per pensarci bene in quel momento.
Il nostro intervento calmò un poco la burrasca, ed era tempo, perchè de’ miei buoni compatrioti che abitano il versante adriatico c’è poco da fidarsi in quelle baruffe. Allora volemmo saperne la cagione per toglierla di mezzo ed impedire che si rinnovasse: ma fu inutile. Nessuno, nemmeno i più accaniti combattenti, seppe mai dire il perchè della faccenda; tutti, nessuno eccettuato, protestarono di aver cominciato a picchiare perchè avevano visto gli altri fare lo stesso, e non rimase che dar la colpa al vino. Allora, per curare i mali secondo il metodo omeopatico similia similibus, consigliammo di far portare nuovi fiaschi, ed a maggior gloria del dotto Hahnemann la ricetta operò bene. Non tardò Marco, il più pericoloso dei pugillatori, ruzzolò in un fosso e cominciò a russare come una locomotiva.
Ma per rendere più solida la riconciliazione, pensammo di ricorrere alle delizie della coreografia. C’era un suonatore d’organetto che per salvare il suo istrumento dalla battaglia aveva preso tanti pugni quanti ne poteva portare. Lo consolammo a contanti e la Mea portò via la tavola della camera più grande, accese quattro candele di sego e diede all’Agatina il grazioso permesso d’aprire il ballo coi pacieri. E si ballò.
Infelicissima idea! Non c’erano donne e i buoni montanari cominciarono a ballare tra loro. Noi, che avevamo in corpo qualche diecina di chilometri di strada montana, dovevamo alzarci alle due dopo mezzanotte per salire la Falterona e scendere a Stia in Casentino; ma quando ci[28] recammo ai nostri canili per riposare, ci accorgemmo con terrore che la sala da ballo era proprio sulla nostra testa. Il palco di tavole, sorretto da un trave lungo ed elastico, salvata fragorosamente sotto le scarpe ferrate dei danzatori montanini, e l’organetto cigolava lamentandosi come una ruota mal’unta, e la casa intera vibrava dalle intime viscere come se le passasse attraverso un reggimento di artiglieria al galoppo. Andate a far del bene!
Non ci fu verso di chiuder occhio. Prima cominciammo a prender la disgrazia con rassegnazione e, distesi sui pagliericci, raccontammo le storielle più allegre, le avventure più galanti del nostro repertorio: poi ci seccammo, ci impazientimmo, ci tornammo a seccare, finchè verso un’ora impresi l’autentica narrazione del mio primo amore ed i miei compagni s’addormentarono.
Ma avevamo appena socchiusi gli occhi, che la guida venne a bussare disperatamente all’uscio urlando che era tempo di partire, e a malincuore lasciammo i pagliericci inospitali. Nell’oscurità, nell’aria viva della notte che ci intirizziva la midolla delle ossa era un silenzio perfetto, quasi di aspettazione o di agguato, allorchè la guida, brontolando ancora per la nostra flemma nell’alzarci, cominciò ad inerpicarsi per le coste sassose del monte dei Tramiti ed a raggiungere in fretta la schiena dell’Alpe di San Benedetto. Mal desti, ci pareva di sentire ancora la frenetica ridda dei ballerini sulla nostra testa; ed i riflessi rossi delle carbonaie accese che rompevano qua e là il buio con un bagliore fantastico e misterioso avevano molto dei sogni cupi che si fanno spesso quando lo stomaco pesa troppo. Queste sono le miglia più antipatiche in una escursione, quando le membra intorpidite chieggono ancora ristoro di sonno e servono per forza. Vengono allora delle vigliacche tentazioni di tornare addietro, che sono ribellioni della pigrizia contro la volontà, vengono certe irritazioni nervose che paiono figlie dell’energia e lo sono invece dello scoraggiamento, e non c’è che un rimedio: il cognac generoso a dose alta.
Camminare la notte nei monti deserti per sentieri da capre e non conosciuti, fa sempre una profonda impressione. Si cammina nell’oscurità e nell’ignoto. Qualche volta la guida vi fa fare un salto nel buio, ma non metaforicamente; fisicamente e sul serio. Si va senza sapere quel che ci sia a destra e da sinistra, o tutt’al più sapendo che sotto quei monti c’è il borro del Forcone, il fosso del San Godenzo, nei quali si può precipitare dall’altezza di qualche diecina di metri; e qualche volta si ha una improvvisa sensazione del vuoto che vi fa allargare le braccia o mettere le mani avanti come se in verità cadeste. Le[29] scarpe ferrate risuonano sulle rocce nude e nel silenzio; poi si cammina sull’erba soffice, sui muschi che paiono velluto, senza alcun timore. V’accorgete di voltare, di salire, di scendere, e qualche volta sentite di passare vicino ad un albero o ad uno scoglio, senza vederlo. Il mistero non vi abbandona mai, vi sforza all’attenzione, vi pesa addosso come quando si aspetta qualche cosa e non si sa che.
All’alba giungemmo ad una casa di pastori, proprio sotto al giogo della Falterona. Una donna non ancora vecchia, ma deturpata dagli stenti della vita nomade, chiamò col fischio certe capre e ci munse il latte caldo e spumante. Il monte ci stava innanzi gigantesco, colle sue coste chiazzate di prati verdi o di abetìe quasi nere, alto alto, tanto che a vederne la cima dovevamo alzare la testa e torcere il collo. Salire dritti alla cima non è facile per le dense fratte di faggi cedui inestricabili come siepi. C’è caso di non poter salire che tagliando i rami fitti e pestando le vipere velenosissime che brulicano nell’ombra umidiccia. Avevamo l’ammoniaca con noi, ma nessuna voglia di usarla, e volgemmo quindi verso levante per avvicinarci alla punta di Modina e dal Pian delle Fontanelle dirigerci alla vetta.
Oh, il magnifico bosco! Gli alberi qui non sono tisici e mortificati come nei nostri civili giardini pubblici, ma alzano superbamente al cielo i fusti rigogliosi e le braccia robuste, si aggavignano alla madre terra con certe possenti radici di cui i primi serpeggiamenti sono scoperti, rugosi, immani. Là bisogna andare per sentire il
Mormoreggiar di selve brune ai venti
Con susurrio di fredde acque cadenti
Giù per li verdi tramiti dei monti:
là bisogna andare per sentire quanto sia meravigliosa la natura e misera la parola che vorrebbe dipingerla; per capire come si possa odiare il consorzio umano e farsi eremita ad adorare il bello... almeno un giorno. Andate là, cercate un pilastro in rovina dove è scritto:
QUESTA MAESTÀ
FECE FARE
LUCA DI LOTTO
PER VOTO
A. D. 1588:
sedete e fate colazione. Se non vi sentite poeti almeno per un quarto d’ora, state certi che non lo sarete mai, campaste più di Matusalemme: se non capite la sublimità di quella viva e giovane bellezza che si desta col giorno ai canti degli uccelli, allo sbocciare dei mughetti, al vibrare dell’aria serena e pura, girate il mondo come commessi di commercio per vendere acciughe e candele di sego, ma non mai colla pretesa di capire che cosa sia la bellezza.
A 1280 metri sul mare mangiammo eccellenti lamponi cogliendoli sul margine nel sentiero come nei prati si colgono le margheritine: a 1650 perdemmo la parola davanti a uno spettacolo immenso. Eravamo sull’ultima vetta della Falterona, e sotto di noi, per quanto l’occhio poteva, non vedevamo che un mare, proprio un mare di monti! La nostra ammirazione non potè manifestarsi che per via d’interiezioni irragionevoli e di gesti illogici. Possibile che il mondo sia così bello?
Tutto l’Appennino centrale dal sasso della Verna al Cimone di Fanano era sotto i nostri piedi, e più lontano, sfumate nell’azzurro, facevano capolino vette più alte. L’Adriatico luccicava a levante, e a mezzogiorno, verde ridente quasi ci tendesse le braccia, si apriva il bel Casentino fino ad Arezzo. Si può campare mille anni, ma quel momento non si può dimenticare. Viene un momento, nel silenzio solenne della montagna, che il sublime vi sgomenta e vi sentite costretti a chiuder gli occhi per la vertigine dell’immenso. La vita ha poche ore così piene, così grandi. Scendere è un dolore.
Eppure, ahimè ci toccò discendere. Sedemmo intorno alla sorgente dell’Arno bevendo l’acqua limpida e gelata del fiumicel che nasce in Falterona, e rovinammo giù a valle per le chine sassose, tra le ginestre dai fiori gialli, sui sentieri arsi e bianchi che menano a Stia.
Entrati nella patria del Tanucci, la gente ci guardava con molta curiosità, quando un giovane ci venne incontro chiedendoci se fossimo soci del Club Alpino.
—Indegnamente,—rispondemmo.
Era socio anch’egli e ci fece un mondo di utili gentilezze. Volle che io dormissi a casa sua, ed il mattino ci accompagnò per un buon tratto di via nella nostra salita per Segaticci verso Camaldoli all’Eremo. Andavamo alle sorgenti del Tevere. Un anno dopo, l’avv. Carlo Beni, il mio gentile ospite di Stia, mi scrisse per annunciarmi che aveva fatto la Guida del suo Casentino e desiderava una mia prefazione. La lettera mi giunse mentre ero afflitto da domestiche disgrazie, e, lo confesso, alle sue cortesie risposi con una villania: non risposi.
Ora la Guida è stampata a Firenze dal Niccolai ed è certo una delle migliori e più pratiche Guide che siano uscite in questi anni ad illustrare una regione bella, industriosa, invidiabile. Colgo dunque questa occasione per fare ammenda onorevole della involontaria scortesia, e per chiedere perdono ai lettori della seccatura.
Ma se capitano in Casentino mi perdoneranno di certo.
Molti trattati di geografia approvati, lodati e adottati nelle scuole, fanno nascere il Tevere e l’Arno dallo stesso monte, uno di qua l’altro di là, colla fraterna armonia di due gemelli. Non è giovato che Dante, buon conoscitore dell’Appennino, mettesse «il crudo sasso in tra Tevere ed Arno,» proprio quella Verna che, tanto dalla Falterona dove nasce l’Arno, quanto dal Fumaiolo dove nasce il Tevere, si vede azzurra e sfumata nella profondità dell’orizzonte. Non giovarono le parecchie diecine di miglia che sono tra le due sorgenti e le interposte cime di Camaldoli, dell’Alpe di Serra o del Bastione, per convertire i geografi che si copiano a vicenda. Il Governo, le commissioni, i provveditori, gl’ispettori, i maestri, approvano e benedicono le geografie sbagliate, e il Tevere e l’Arno nascono per gli scolari sempre dallo stesso monte. Potete credere, come noi, l’estate scorsa, benedicessimo cordialmente i geografi e le geografie di testo!
Da tre giorni infatti camminavamo in media sedici orette salendo e scendendo l’Appennino. La Falterona da un giorno non là vedevamo più, quando da Camaldoli, per Cotozzo, scendemmo a Badia Prataglia. Gli operai della strada tosco-romagnola, che valica l’Alpe di Serra a Mandrioli, riempivano l’unica osteria, e ci convenne dormire sui banchi e sulle tavole, di dove ci levammo alle tre del mattino indolenziti e pesti. Avevamo bevuto alla sorgente dell’Arno e volevamo bere ad ogni costo a quelle del Tevere.
Un giovinotto, che aveva a cottimo alcune opere lungo la via, ci fu guida sino al valico di Mandrioli. Chiuso e freddo come un vero montanaro, camminava tranquillamente[33] nel buio senza dir parola, senza nemmeno animarsi ai dolorosi ricordi di Custoza dove era stato granatiere. Camminavamo silenziosi dietro di lui, senza sapere dove, ora sui ciottoli, ora sull’erba, ora tra i faggi che indovinavamo ritti ed immobili nell’oscurità. Salire i monti a notte alta, sotto i boschi che paiono addormentati, nel silenzio profondo, pei sentieri da capre ignoti e ripidi, è un piacere da non potersi dire. L’aria viva stimola il sangue, l’attenzione aguzza i sensi. Sentite lo scricchiolare sotto i piedi della foglia morta, il fruscìo delle frondi che strisciate, il respiro di chi vi precede. Vi sentite vicino, tra le frasche, certi movimenti misteriosi come se qualcuno ci fosse nascosto, e più lontano certi tonfi sordi come di un sasso che cada nella terra molle. E sopra questi tenui rumori sta il silenzio, il silenzio immane della montagna, il silenzio che sembra vegliare aspettando. E si cammina nel buio umido della macchia per sboccare qualche volta all’aperto in un chiarore grigio e diffuso che non lascia discernere nulla di preciso, ma sfuma in alto i profili dei monti come in una nebbia densa. Di tratto in tratto passa tra i rami immobili come un fremito leggero che si desta: poi si chetano e il cielo che appare tra le frasche diviene più bianco e si travedono come dietro a un vetro appannato i tronchi neri e le striscie chiare de’ torrentelli. Salimmo così fino al culmine dell’Alpe di Serra, e fino all’alba: poichè affacciati finalmente al valico di Mandrioli e ficcato l’occhio giù per l’aperta valle del Savio, una striscia quasi rosea ci segnò all’orizzonte l’aurora vicina e ci indicò il mare lontano, spiagge di Rimini e di Cattolica.
Ivi, proprio sulla spina dell’Appennino, proprio dove le acque si dividono per scendere all’oriente nell’Adriatico, all’occidente nel Mediterraneo, intirizziti dal venticello dell’alba, attendemmo la nuova guida, un operaio di Verghereto, che ci doveva condurre a Monte Coronaro. A poco a poco ci si vedeva meglio e nel versante toscano discernevamo il verde cupo dell’abetìo, mentre giù, nel romagnolo, la vallata più aperta e più nuda si colorava di toni grigiastri e freddi. Il monte Coronaro ed il monte Fumaiolo si disegnavano nettamente nel cielo di un bianco azzurrognolo, e lungo i loro fianchi si distinguevano le larghe chiazze bige impressevi dalla sterilità.
E lungo il crine dell’Alpe di Serra, volgendo colla nuova guida al sud-est-sud, ripigliammo il viaggio. Il mattino era desto, e guardando giù tra i faggi, vedevamo le pecore nei prati verdi salire al pascolo e ci pareva d’essere[34] in Arcadia. L’ecloga era dappertutto e l’idillio cantava dentro di noi. Quanto era lontana la città colle sue vie roventi, colle sue botteghe che soffiano l’afa, co’ bugigattoli dove s’arrostisce vivi! Quant’erano lontani i caffè asfissianti, i teatri ribollenti, gli uffici, le mosche, i telegrammi Stefani! Arcadia! Arcadia! E ci tornavano in mente versi di Virgilio e di Iacopo Sannazzaro, strofe di Andrea Chènier che non sapevamo di ricordare. E laggiù, dall’orizzonte rosso, prorompevano fasci di luce gialla e le cime si coloravano e i monti, gli alberi, i prati si destavano in un inno di gioia e di resurrezione. Il sole! Il sole!
Ma l’idillio finì. In faccia al casale detto Gualchereti lasciammo la schiena dell’Alpe di Serra che segue salendo sino al poggio del Bastione, e scendemmo giù nella valle del Savio, giù sino a Folcente, per risalir poi verso Montioni e Monte Coronaro. La discesa fu terribile e terribilmente lunga. Per coste impervie, aride, sassose, ripidissime, ci convenne ruinare a valle, chiedendo difficili sforzi alle povere gambe già strapazzate da tre giorni di viaggio faticoso. Il sole cominciava a scottare ed i faggetti li avevamo lasciati più in alto. I ciottoli smossi dai nostri piedi rotolavano giù saltando e si perdevano e come loro ci bisognava scendere, scendere sempre, ansando e sudando. Addio l’idillio! Se il breve fiato ce lo avesse permesso, avremmo recitato i più terribili versi della discesa dantesca in Malebolge, tutto di pietra e di color ferrigno.
A mezza costa, in un pianerottolo dove per ironia c’era un po’ d’erba e un po’ d’acqua, sedemmo a mangiare un boccone, e poi giù di nuovo, col sole in faccia e il cielo che pareva uno speccio d’acciaio. E, come piacque al destino, dopo un’ora di questa terribile via, ci trovammo giù in fondo, sotto Folcente, accanto ad una croce di pietra, in un poco d’ombra. Ci buttammo tutti sull’erba a respirare; anche la guida. La voluttà di un quarto d’ora di riposo ce la eravamo guadagnata.
Poi su di nuovo, verso Montioni, sudando sempre, ansando sempre. Non più alberi, non più erba, non un segno di vegetazione. Il terreno duro, friabile, cenerognolo, non consente la vita nemmeno alla gramigna e tutto porta il marchio di una desolazione squallida, di una aridità grigia da non invidiare il deserto. Ci pareva di camminare sulle ceneri semispente di un focolare, e nell’aria secca ed infocata il riflesso del sole accecava e le ombre si disegnavano dure, taglienti, nerissime. A sinistra, negli sbattimenti bianchi della luce meridiana, strizzando gli occhi si discerneva Verghereto, povero comunello perduto su questi monti ingrati cui gli Annali Camaldolesi tentarono indarno di acquistar fama col supposto castello di Uguccione[35] della Faggiola. E via via, per questa cenere maledetta che le acque pioventi trasformano in lisciva e portano al Savio, per questi declivi calcinati che franano ad ogni stagione, giungemmo alle falde del Monte Fumaiolo, nel povero villaggio di monte Coronaro.
Ci parve di entrare in un racconto di Edgardo Poe, in una delle fantasticherie malate dell’Hoffmann. Nelle case cadenti, nelle mura rugginose e sconnesse si spalancavano i vani neri delle finestre ai quali non si affacciava anima viva. Le stradicciole scoscese, arroventate sino al color bianco, erano deserte. Di quando in quanto certe figure lacere o giallastre attraversavano i viottoli senza far rumore, a capo chino, come se pensassero a qualche mistero profondo, e incontrandosi non movevano nemmeno gli occhi, quasi non vedessero, non sentissero, assorte in una paurosa contemplazione. Altrove i fanciulli ci correvano incontro, i villaggi andavano a rumore per l’arrivo dei viaggiatori dai cappelli stravaganti, dalle uose bianche, dai bastoni spettacolosi: qui, niente. Pareva d’essere nel mondo dei sogni, in un mondo di forme senza densità, di spettri pensosi, lenti, muti, che passavano senza vederci e ci lasciavano come una strana impressione d’impassibilità, una penosa sensazione di fatalità indefinita.
Tutte le mosche, delle quali all’aria aperta avevamo osservata e benedetta l’assenza, tutte le mosche erano convenute nell’ampia cameraccia dell’osteria, forse a celebrare un centenario od eleggere un deputato. C’erano tutte e ronzavano lente, solenni, in chiave di contrabbasso attorno all’ostessa, donnona un po’ flaccida che faceva gli occhi di triglia cotta ad un giovinastro fra il giallo e il livido. Presso la cappa del cammino, sopra un alto seggiolone sedeva un povero diavolo, giovane ancora ma curvo e disfatto, con due occhi che parevano buchi con una scintilla in fondo.
Serrava tra le ginocchia le mani stecchite e chinava sul petto la barba nerissima. Era il marito dell’ostessa e la gelosia non lo rodeva, ma la febbre maremmana. Nel pieno vigore dell’età e della forza si sentiva ardere e consumare il sangue dentro e con un accento di cupa malinconia ci contava gli stenti della maremma dove scendeva l’inverno a fare il guardiano per non so qual principe. Di quando in quando un tremito ed una contrazione spasmodica delle mascelle gli strozzavano il discorso nelle fauci e allora fissava gli occhi profondi nei carboni accesi come se ci vedesse qualcuno. L’ostessa intanto, piena di una mobilità nervosa, ammanniva il nostro desinare scherzando ed occhieggiando il cicisbeo, mentre in un angolo la sua figliastra, piuttosto belloccia, filava tutta pensierosa e seguiva[36] ostinatamente cogli occhi le evoluzioni degli innamorati, senza aprir bocca mai, senza scomporre la seria immobilità del volto. Così ci fu spiegato come si possa vegetare su questi monti di cenere arida. I maschi scendono ad avvelenarsi in maremma, e le femmine, prima che siano morti, passano a seconde nozze.
Dopo il pasto frugale gli amici miei si buttarono su certi eculei che a Monte Coronaro chiamano letti. Io che di giorno non posso dormire, volli sedermi sullo scalino dell’uscio, ma le mosche, le quali fin dal pranzo ci avevano intimata una guerra feroce, o fosse per un odio particolare verso di me che non le posso soffrire, o perchè vedendomi solo stimassero più facile la vittoria, mi furono tutte addosso come ad una... no, come ad un vaso di miele. Io poi che non mi lascio posar mosche sul naso, reagii vigorosamente; ma stavo per soccombere al numero, quando un’ombra nera mi intercettò la luce. Alzai gli occhi come Diogene, ma invece di Alessandro vidi il piovano.
Mi parve un buon diavolo, modesto, premuroso, ma un po’ duro di orecchio; e mi pregò, quando i compagni fossero levati, di condurli a bere il caffè da lui. Ringraziai e se ne andò contento. Interrogai gli indigeni per sapere, così senza parere, se facevamo bene o male andando, e le informazioni furono favorevoli. Del resto egli era in paese da pochi giorni. Il suo predecessore, buon diavolo anche lui, aveva avuto una gran debolezza pel fiasco, e i buoni parocchiani mi raccontarono che in una notte oscura dovendo portare i sacramenti ad un infermo lontano qualche miglio, un po’ pel buio, un po’ per l’estratto d’uva, rotolò malamente in un burrone co’ sacramenti addosso e si fiaccò la noce del collo. Del resto i poveri sacerdoti perduti quassù e le briglie della gerarchia senza della disciplina, cascano spesso in qualche vizietto che i parocchiani e la curia sanno compatire. Mi raccontavano di un piovano, là verso Corniolo, che una volta per miracolo fu visitato dal vescovo. L’ottimo prete fece quel che potè per alloggiare bene il superiore e specialmente in cucina si vedeva la solennità. Perpetua faceva prodigi, e un bel bimbo seduto accanto agli alari girava assiduamente lo spiedo. Bisognava attraversare la cucina, e fu proprio vicino agli alari ed all’arrosto che il vescovo chiese al piovano come diavolo facesse a passarsela lassù nei lunghi mesi d’inverno.—Monsignore—rispose il piovano—mi occupo. Faccio dei girarrosti.
Il vescovo guardò, ma finse di non capire.
Ma il piovano di Monte Coronaro non ci parve capace di fare uno sdrucio così largo nei sacri canoni. Ci mostri[37] la chiesa, vasta cameraccia cadente che per fienile sarebbe stata brutta. La pietra di un altare è fatta con una iscrizione cristiana e qui si conservava una croce proveniente dalla scomparsa Abbazia di Trivio. Ma ci colpi più di tutto il confessionale, che consiste in un solo asse mal disgrossato interposto fra il penitente e il prete. Qui dunque la confessione è pubblica, vista da tutti per colpa del confessionale e sentita da tutti per l’udito sordo del piovano.
O come fa a confessarsi l’ostessa?
Ma non è proprio sacrilegio, scherzare su questo povero prete. Quando nell’inverno imperversano certi venti da scornare i bovi e certe burrasche da portar via il monte, quando la neve è per aria e per terra, e i poggi franano, e ad ogni passo si rischia di cascare all’altro mondo, il povero piovano si alza di notte male avvolto nel suo gabbanello e ruzzola giù pei borri a portare l’olio santo a qualche villanzone che non ci crede. Intanto i canonici, che hanno cenato bene, dormono caldo nei loro letti cittadini a maggior gloria della prebenda grassa, e il pievano di Monte Coronaro per campare ha in tutto 38, dico trentotto, lire al mese. Giustizia distributiva! Non hanno ragione questi poveri piovani di montagna se qualche volta cadono in tentazione? Sono preti, è vero; ma sono poi anche uomini, e il canonico che è senza peccato scagli la prima pietra. Così meravigliati e scandalizzati ripigliammo la strada per salire a quelle sorgenti del Tevere che le geografie approvate e adottate fanno nascere coll’Arno. Per via componemmo un abbozzo di petizione al Parlamento, chiedendo per certi geografi un anno di domicilio coatto a Monte Coronaro.
Signor Lettore, io sono un modesto editore tipografo, sconosciuto forse a Lei ed a parecchi suoi amici, ma non a tutti coloro che in queste campagne (o rus, quando te aspiciam!) si occupano dei presagi del tempo, dell’epoca migliore per seminare, mietere, vendemmiare, concimare e simili atti ragionevoli che in fondo sono, oso dirlo con legittimo orgoglio, la vera ricchezza della nazione. Qui, in Casalecchio di Reno, florido comune a sei chilometri da Bologna, io solo esercito la nobile professione dell’editore tipografo, io solo ed i miei due compositori possiamo vantarci eredi e continuatori di Aldo Manuzio; io solo e me ne tengo, stampo gli avvisi del municipio in caratteri elzeviriani.
Ma il vanto della mia antica e celebre officina non è solo questo. Video meliora; faccio di meglio. E infatti qui, a Casalecchio di Reno e non altrove, dalla mia tipografia editrice esce alla luce quell’opera lodata, quella illustre fatica d’ingegno e di sapere che è il lunario intitolato il Barbaverde. Ed è il celebre Barbaverde che predice con matematica sicurezza il freddo in gennaio e il caldo in luglio. Al Barbaverde bisogna ricorrere per sapere a puntino le morti de’ principi, le eclissi, i movimenti di truppe; le feste mobili e la vera cabala del lotto. Nessun lunario, nemmeno il Casamia nelle indicazioni relative all’alea del lotto (alea jacta est!) può farla in barba al Barbaverde, che costa soltanto venti centesimi.
Dodici anni di vita onorata ha il mio Barbaverde. Nessuna delle sue predizioni, e ne vado altamente superbo, nessuna fu oggetto di richiamo per parte de’ compratori, il che dice a troppo chiare note come le abbiano viste[39] verificarsi. Ed io lieto, orgoglioso dell’opera mia, anche in quest’anno (il tredicesimo!) coll’illuminato concorso del brigadiere dei reali carabinieri avevo fatto gemere i torchi, avevo gettato nel burrascoso mare della pubblicità il mio lunario pieno zeppo di saggi consigli e di utili predizioni. Quand’ecco un’infausta voce giunse al mio orecchio. La tipografia editrice del dottor Balanzoni in San Lazzaro di Savena presso Bologna, con insigne spreco di ogni elementare regola di educazione e di proprietà, riproduceva parola per parola il mio tredicenne lunario, cambiando solamente il suo antico ed onorato titolo in quello volgare ed osceno di Barbagialla! Malesuada fames!
Raccapricciai! Così a Bologna dal mio avvocato, che mi consigliò di munirmi della Proprietà letteraria.
Per questo, stia a sentire, comprai due fogli di carta bollata da una lira e venti centesimi l’uno. Ci stesi, in doppio originale firmato, la mia brava domanda al signor prefetto della provincia, a norma dell’articolo 1 del regolamento per l’applicazione delle leggi 25 giugno 1865, n. 2337, e 10 agosto 1875, n. 2652, approvato con R. Decreto pure 10 agosto 1875, n. 2680. S’intende che le due domande erano scrupolosamente stese secondo il modulo A, e portavano in seno due esemplari del mio Barbaverde, che costa venti centesimi. E s’intende pure che, prima di portare le domande in prefettura, portai la mia persona dal signor ricevitore del registro, in mano del quale pagai dieci italiane lire di tassa a norma dell’articolo 2 del citato regolamento. E colla ricevuta, le domande e un po’ d’asma, salii le interminabili scale del palazzo del governo.
L’impiegato che mi ricevette fu gentilissimo. Si cavò e si rimise la pipa in bocca in segno di saluto, come noi facciamo col cappello, e mi permise di accostarmi al caminetto. Quando gli ebbi contato il mio affare, pipò alquanto ironicamente, prese con delicatezza le mie domande e ci scrisse sopra un certificato secondo il modulo C., da esser poi trascritto sopra apposito registro a norma del noto regolamento. Ed Ella crede senza dubbio che la cosa finisse qui, ma sbaglia! errando discitur, e l’impiegato mi raccomandò di tornare dopo tre giorni.
In questo frattempo (rebus sic stantibus) l’impiegato ordinò ad un suo subalterno di prendere un bel foglio di carta e di scarabocchiarci sopra la minuta di una lettera al rettor magnifico della R. Università di Bologna, nella quale fosse detto che in esecuzione dell’articolo 6 del regolamento 10 agosti 1875, n. 2680, per l’applicazione delle leggi 25 giugno 1865, n. 2337, e 10 agosto 1865, n. 2652, si trasmetteva un esemplare del Barbaverde agli effetti[40] di tutelare la proprietà letteraria ecc. ecc. Il subalterno scrisse la minuta, che fu corretta, copiata in bella calligrafia, firmata dal prefetto, protocollata e spedita al suddetto rettore, in unione al citato esemplare del Barbaverde che costa venti centesimi.
Il rettore, ricevuto il messaggio prefettizio, lo consegnò al suo segretario, il quale ordinò al suo subalterno di prendere un bel foglio di carta e di scarabocchiarci sopra la minuta di una lettera al bibliotecario, dove fosse detto che in esecuzione dell’articolo 6 del regolamento 10 agosto 1875 ecc. ecc., gli si mandava un esemplare del Barbaverde agli effetti di tutelare la proprietà letteraria ecc. e che si domandava ricevuta del deposito. Il subalterno scrisse la minuta, che fu corretta, protocollata e spedita al bibliotecario coll’esemplare del mio Barbaverde.
Ella crede che qui sia finita? Sbaglia anche questa volta non bis in idem! Il bibliotecario infatti, ricevuta la missiva del rettore, chiamò un suo assistente e gli ordinò di prendere un bel foglio di carta e di scarabocchiarci sopra una minuta di lettera al rettore, nella quale si accusasse ricevuta dell’esemplare della proprietà letteraria a norma dell’articolo 6 del regolamento 20 agosto ecc. ecc. L’assistente scrisse la minuta, che fu corretta, copiata in bella calligrafia, firmata dal bibliotecario, protocollata e spedita al rettore.
Il quale così rassicurato sulla sorte del mio Barbaverde che costa venti centesimi, consegnò la ricevuta al suo segretario, che ordinò ad un suo subalterno di prendere un bel foglio di carta e di scarabocchiarci sopra la minuta di una lettera al prefetto, nella quale si accusasse ricevuta del mio Barbaverde depositato in biblioteca per gli effetti della proprietà letteraria a norma dell’articolo 6 del regolamento ecc. ecc. Il subalterno scrisse la minuta, che fu corretta, copiata in bella calligrafia, firmata dal rettore, protocollata e spedita al prefetto.
È lunga la camicia di Meo! Longum est indusium meum! Eppure anche il prefetto ordinò ad un suo subalterno di prendere un bel foglio di carta e di scarabocchiarci sopra la minuta di una lettera a S. E. il signor Ministro di agricoltura e commercio, nella quale si trasmettesse la ricevuta del rettore insieme ad una delle mie dichiarazioni in carta bollata col relativo certificato, e ciò per gli effetti della proprietà letteraria a norma dell’art. 6 ecc. Il subalterno scrisse la minuta, che fu corretta, copiata in bella calligrafia, firmata dal prefetto, protocollata e spedita al ministero.
Innalzo alla Divinità ardentissime preci perchè mi sia[41] risparmiato il sapere quello che poi sia successo al ministero, quante minute siano state scritte, quanti registri siano stati incomodati, quanti numeri di protocollo occupati, quanta carta, quante firme e quanto tempo sciupati in forza dell’art 6. Mi contristerebbe il saperlo (tristis est anima mea), e del resto gl’impiegati non hanno a mangiare il pane a ufo. Intanto, dopo tre giorno e dopo aver rifatto coll’asma i sei chilometri di via e gli scaloni della prefettura, riebbi una delle mie famose dichiarazioni in carta bollata, corredata finalmente da un certificato del deposito fatto, e me ne ritornai a Casalecchio allegro come un fringuello.
Ebbene, lo crederebbe Ella? Credat Judaeus Apella? Tornato a Casalecchio, ritrovai sul mio scrittoio un esemplare dello scellerato, dell’empio Barbagialla; e questa oscena contraffazione mi era stata spedita dalla stessa tipografia Balanzoni, con tanto (pro pudor!) con tanto di proprietà letteraria stampato sulla copertina!
La mia indignazione fu gigantesca. Non posi tempo in mezzo, rifeci la strada volando e capitai come una saetta addosso al mio avvocato. Costui, annusando una causa, mi fece bere un bicchierino di vermutte e volle sapere per filo e per segno tutta l’odissea del mio povero lunario. Gli contai tutto, gli consegnai il certificato della prefettura, mi lasciai dire che bisognava far causa, che ero sicuro del fatto mio e che i birbanti l’avrebbero pagata. Intanto gli lasciai mandato di procura e duecento lire di deposito per le spese.
Signor Lettore, la causa fu discussa oggi e il tipografo Balanzoni mi aveva dato contro querela. Egli provò con documenti alla mano che aveva eseguito il deposito del suo ignobilissimo Barbagialla a norma dell’art. 6, non solo, ma che l’aveva depositato un giorno prima del mio Barbaverde! Naturalmente il suo avvocato provò senza fatica che il contraffattore, il birbone, il ladro era io. Me ne dissero di tutti i colori, ed il mio avvocato vedendo inevitabile la condanna volle alleggerirla provando chiaramente che sono uno stupido, un imbecille, un cretino. Nessun vituperio fu risparmiato alla mia onorata calvizie, e la fama del Barbaverde e del suo editore è rovinata per sempre. Per fortuna il tribunale, mosso dalle ragioni giustissime del mio avvocato, si piegò all’indulgenza e fui condannato soltanto a duecento lire di multa, più le spese ed i danni da liquidarsi in separata sede. E il Barbaverde costa soltanto venti centesimi!
Signor Lettore, favete linguis, mi ascolti? Valeva la pena di spender tanti quattrini, di far tante miglia e tante scale, d’incomodare tanta gente, di sporcar tanta carta[42] di perder tanto tempo e di sopportare tante seccature e impertinenze, per sentirmi poi condannare come un birbante? Sono questi i risultati di tutti quei regolamenti arruffati che non ci lasciano più nè mangiare nè dormire in pace, tanto spesso cambiano, ricambiano e tornano a cambiare che sembrano le vedute della lanterna magica? È questa la legge sui diritti di autore (dura lex, sed lex) più complicata di un orologio e più elastica di un paio di calze a macchina? Ah, io da oggi, profondamente amareggiato e disgustato, negherò alla società ingrata i lumi del mio lunario; come Achille mi ritiro sotto la tenda; come Scipione grido: Ingrata patria, tu non avrai il Barbaverde!
Questa mia virile protesta serva di meritata lezione ai legislatori ed ai cittadini. Io non cercherò più la proprietà letteraria per omnia sæcula sæculorum. Amen.
Eran già i versi ai poeti rubati,
Com’or si ruban le cose tra noi...
A me quei d’altri son per forza dati,
E dicon tu gli arai, vuoi o non vuoi.
Così diceva il Berni alcuni secoli addietro, quando la proprietà letteraria era ancora nella mente del Signore Iddio, o tutt’al più era rappresentata dai privilegi che i sovrani concedevano agli editori per un numero di anni limitato; e così ci tocca sentire anche oggi da Edmondo De Amicis, non solo derubato del suo, ma caricato per forza di quel d’altri. Dopo tanto gridare intorno alla proprietà letteraria, dopo tante chiacchiere di progresso, di civiltà, di leggi e di diritti; siamo al punto in cui si trovava Berni: che anzi i tempi suoi possono invocare come attenuante l’assenza dei codici, dei procuratori del re, e delle guardie di pubblica sicurezza. E poi andate a negare il progresso!
In questa settimana stessa, la Corte d’Assise di Bologna condannò a due anni di prigione un tale che rubò dieci galline: che anzi i giurati, teneri di cuore come sono, ammisero le circostanze attenuanti; se no il ladro di galline avrebbe avuto forse un anno di carcere per ogni gallina rubata. Questa severità, non solo fa onore alla giustizia del nostro paese, ma è un titolo di gloria per la nostra polizia. Le galline rubate sono soggette ad esser mangiate; il che rende difficilissimo il seguire le tracce della refurtiva. Ma nulla sfugge alla sagacia della nostra polizia, che sa fiutare le tracce delle galline digerito colla stessa acutezza d’olfato con cui il bracco annuncia[44] la pastura delle starne o delle quaglie. E facendo questo dovuto elogio alla polizia del mio paese, voglio mostrare d’esser giusto con lei, dovendo poi biasimarla per l’ottusità d’odorato che l’affligge quando si tratta di altre materie.
I procuratori del re spiegano giustamente tutto il rigore di un animo onesto, offeso dalla scelleraggine dei ladri di galline: e dal loro gabinetto firmano ordini severi per assicurare l’inviolabilità dei volatili domestici, istruiscono importanti processi contro i perturbatori della sicurezza dei pollai, e in faccia ai giurati spiegano tutte lo forze della dialettica, tutte le furberie degli esordi ex abrupto e delle perorazioni fondate sulla commozione degli affetti, per ottenere il sì che condanna, per liberare la società dei galantuomini dal pericoloso contatto dei ladri da polli. Nè crediate ch’io scherzi.
Anch’io posseggo dieci galline, tre delle quali fanno l’ovo; e rendo grazie alla polizia che le protegge ed alla magistratura che ne fa trionfare i sacrosanti diritti. Ma oltre alla galline posseggo qualche altra cosa, e vedrei volentieri l’abilità della polizia e la severità del procuratore del re occuparsi anche di questa qualche altra cosa che mi preme almeno quanto i bipedi interessantissimi che fanno la gloria del mio pollaio. E sono certo che l’egregio De Amicis sarà della mia opinione.
Il caso del De Amicis è noto ai lettori. Un libraio che aveva parecchi esemplari invenduti di due romanzi, fa stampare tanti frontispizi nuovi quanti sono gli esemplari: o per facilitare la vendita, invece del nome del vero autore mette quello del De Amicis, simpatico al pubblico italiano e garanzia di esito certo. Il De Amicis protesta, il vero autore del libro protesta anch’egli, tutti protestano, ma... in fondo chi ha avuto, ha avuto.
Il caso del povero Lorenzo Stecchetti ve lo dirò io. Quel disgraziato mise al mondo un libro di versi col titolo di Postuma al prezzo di lire tre italiane, e il libro, indegnamente, fece fortuna. Un editore pensò allora di contraffare l’edizione e di venderla a miglior mercato. Esaurita la prima falsificazione, ne fece una seconda, e i librai girovaghi la portano in giro e la vendono a buon mercato alle guardie di pubblica sicurezza che hanno istinti letterari. (Sono pochine, ma ce ne sono).
Il caso di Giosuè Carducci è lo stesso. Le Odi Barbare facevano meritamente fortuna e furono falsificate e vendute a buon mercato.
Il caso di.... Lasciamo andare, poichè i casi sono infiniti.
Per tornare a quel povero Lorenzo Stecchetti, cui voglio[45] un bene grandissimo, vi dirò che appena se ne accorse s’informò, e seppe nome, cognome, patria, età, insomma le generalità del suo ladro. Ma siccome le seppe, come accade sempre, sotto il sigillo di confessione, non potè citare testimoni. Egli si ricordava benissimo che in Italia c’era una polizia astuta che aveva sorvegliato attentamente la sua porta invece di quella d’un vicino che si querelava di tentativi di furto con chiavi false. Egli si ricordava che chiamato come testimonio in un processo, aveva sentito il Pubblico Ministero leggere preti per poeti in un’ode della Polemica, e gli era toccato di confessare le proprie opinioni politiche e sociali davanti ai giurati come se fosse lui l’accusato. Indusse non ostante l’editore delle cose sue a ricorrere ai magistrati.
Non solo tutto questo è vero come il vangelo e forse più, ma dopo gli accadde quel ch’è narrato nel vangelo Anna lo mandò a Caifa, Caifa ad Erode, Erode a Pilato e così via. La Questura, la Procura e il resto si rimandarono l’una coll’altra il povero editore, al quale furono fatte stendere querele, istanze, ecc. Chi sa sa quanti quintali di carta furono scarabocchiati!
Uno di questi procuratori del re, in una città lontana di qui quanto Roma, pregato, invitato, spinto anche da pezzi grossi che l’autore e l’editore avevano persuaso, mostrò la buona voglia di far qualche cosa, ma disse chiaro che se l’editore non indicava chi era il contraffattore e chi vendeva le edizioni contraffatte, sarebbe stato tempo perso. E infatti, se non si sa contro chi procedere, come si fa a procedere? Il desiderio dall’egregio magistrato era giusto: ma pel ladro di dieci galline non si chiese ai derubati altrettanto. L’applicazione di questo nuovo canone di procedura condurrebbe a questo, che se l’assassinato non rivela il nome dell’assassino, non si potrà fare il processo: e in certi casi gli assassinati hanno delle forti ragioni per non rispondere.
La quistione sta qui: che mentre pel furto di dieci galline si procede d’ufficio, si mette in moto la pubblica sicurezza, s’incomodano i giurati con orazioni ciceronianissime; nel furto invece di diecimila lire fatto ad uno che il difetto di scriver versi (pare che i pennaruoli siano amati come li amava il re Bomba) bisogna che il derubato sporga querela e denunzi da sè stesso i rei, altrimenti i magistrati hanno diritto di sorridere e di scherzare. Ora, non vorrei parere adirato, ma con tutta la freddezza possibile debbo dire che questa è una vergogna, non solo per quelli che sorridono e scherzano, i quali hanno tutti i diritti di non prendere sul serio altro che il ventisette del mese, ma pel nostro paese tutto che si vanta[46] d’esser colto e lascia che simili delitti si compiano impunemente.
Non crediate che il dispetto mi faccia uscire dai gangheri. Parlo tranquillamente e noto che il De Amicis ha protestato energicamente in molti giornali, che il Carducci e lo Stecchetti sporsero querela, presentarono esemplari delle falsificazioni commesse a loro danno, fecero insomma più di quel che si domandi per fare capire ai magistrati che fu commesso un reato... Ebbene, mentre i querelanti offrivano come saggio ai magistrati gli esemplari delle falsificazioni, i magistrati, con tutti i mezzi di azione di cui dispongono, non sono riusciti a sequestrarne uno; dico uno solo. Ma dunque le guardie di sicurezza pubblica debbono servire soltanto a votare pei candidati del governo?
Vedete dunque che non è il dispetto che mi fa parlare: oltre all’interesse privato offeso, mi pare che ci sia in ballo anche un poco l’interesse pubblico. Il pubblico infatti ama e stima le istituzioni a seconda dell’utile che gli fruttano, ed il contribuente in particolare venera la giustizia, rispetta la Questura e le salaria tutte e due solo perchè gli danno la sicurezza del viver sociale. Ma quando la Questura ha troppo da fare per elezioni e la giustizia pei ladri da polli, tanto che il resto va come va, è ben naturale che la magistratura non sia presa sul serio e le guardie di sicurezza pubblica siano bastonate come bistecche; il che in Romagna accade troppo spesso.
Visto che la polizia era inutile per noi, cercammo di supplirla e molte volte abbiamo detto ai magistrati: badate; nella tal città un venditore ambulante vende pubblicamente edizioni contraffatte.—I magistrati erano subito infiammati dal santo zelo della loro professione e pareva che rispondessero:—Ah! c’è un venditore ambulante, mettiamo a Viterbo, che si permette questo sfregio alle vigenti leggi! Ora vedrà! ora l’avrà da fare con noi!—E qui carta, penna, calamaio, numeri di protocollo, firme, controfirme, lettere di un procuratore del re all’altro, di un questore all’altro; e dopo quindici giorni di tempo, dopo un quintale di carta sporcata e un litro d’inchiostro sparso, si arrivava a constatare colla massima serietà che il venditore ambulante di cui nella nota a margine segnata era già partito da Viterbo. Un’altra volta fu comprato un esemplare falsificato nella bottega di un libraio. Si ricorse subito al magistrato, il quale prese la cosa a petto e ci si mise con tanta energia che i preliminari furono finiti in una settimana e si riuscì a risparmiare una dozzina di chilogrammi di carta. Intanto però la cosa era diventata così nota ai lippi ed ai tonsori, che quando la bottega del libraio fu finalmente perquisita si trovò che il libro meno[47] innocente che ci fosse era il catechismo. Il magistrato si adirò giustamente perchè gli avevano fatto scomodare un innocuo libraio. Amen: il torto era diventato nostro!
Così tutto è stato inutile e si è dovuto venire al punto di far concorrenza ai ladri vendendo la roba a un prezzo derisorio. E poichè oramai l’edizione a buon mercato è tutta smaltita, ne farò un’altra a miglior mercato ancora con una prefazione davanti, ornata dei nomi, cognomi e connotati di tutti quegli egregi uomini che si sono degnati di scriver tante lettere d’ufficio a proposito di un reato che non poterono scoprire benchè fosse consumato e si consumi ancora sulle pubbliche piazze. Noterò come in Italia si spendano più di ottanta milioni all’anno tra il Ministero di grazia e giustizia e quello dell’interno, e che quando un autore è leso ne’ suoi interessi, come il De Amicis, trova più naturale ricorrere all’associazione della stampa che alle autorità che costano ottanta milioni: e finirò notando che se quel che si chiama il prestigio dell’autorità scade tutti i giorni in Italia, la colpa non è tutta di quelli che mettono l’autorità in burletta, ma anche dell’autorità stessa che si diverte a farcisi mettere.
Poichè alcuni fatti audaci hanno attirato l’attenzione del pubblico sopra le falsificazioni che si commettono impunemente in Italia e poichè i giornali hanno gridato all’autorità che bisogna provvedere, vi dirò io quel che accadrà. Il Ministero, scriverà una circolare ai Procuratori generali perchè veggano, ecc. ecc. Questi alla loro volta..... Insomma tra carta scritta e carta stampata si consumerà qualche centinaio di lire, e tutti pari. A far molto, qualche venditore minchione le farà tanto grosse che per forza bisognerà sequestrargli la mercanzia e farlo condannare a due lire di multa con una requisitoria, dove sarà constatato che la vigile giustizia protegge i diritti di tutti e che non è poi vero che di certe cose non si occupi affatto.
Mi pare dunque che il De Amicis abbia mostrato troppa ingenuità protestando con tanta energia. Egli fa vedere di conservare ancora troppe illusioni per un uomo che ha viaggiato e conosciuto il mondo come lui. Crede dunque ancora a tutte quelle frasi fatte che si leggono nei giornali, che si sentono nelle Camere e nei Tribunali, come «la santità, l’inesorabilità, la severità della giustizia, l’oculatezza, la perspicacia della polizia giudiziaria» ed altre belle cose? Sono cose che si dicono così per dire e tutti sappiamo oramai quel che valgono. Io ho giocato al tresette quasi tutte le sere per un anno intero con un Sostituto Procurator Generale, e quando nell’aula della giustizia lo vedevo in toga con tanto di fascia e di berrettone e sentivo che gli davano del rappresentante della legge e[48] qualche volta dell’Eccellenza, non potevo dimenticarmi che al tresette era una sbercia di prima qualità. Così quando sento dire tutte queste bellissime cose a proposito della giustizia e della polizia, mi ricordo che tutte le cose umane, anche le guardie di pubblica sicurezza, sono imperfette e che io non ho potuto ottenere che i miei diritti siano tutelati e che siano puniti coloro che li offesero.
Faccia come me l’egregio De Amicis. Si consenta che la Questura gli fa la guardia al pollaio e che, in caso, i giudici, i giurati, il Pubblico Ministero e il resto, puniscono chi gli rubò le galline. Non sia indiscreto e non chiegga alla magistratura più di quel che possa dare. Io, per cacciare il malumore che qualche volta m’invade, in faccia a certe enormità, mi distraggo raccogliendo molti casi che illustrano «la santità, l’inesorabilità, la severità ecc. della giustizia». Da quella Antologia si vede chiaro come noi ci contentiamo spesso delle parole e poco dei fatti. Vuole il De Amicis collaborare con me a questi Fasti? Se il procuratore del re ce li lascerà stampare, gli assicuro che saranno un bel libro.
Non c’era più nessuno in biblioteca, ed il bibliotecario, appollaiato sulla scaletta a pioli, sfogliava rabbiosamente un volume.
Sappiate che l’età sviluppa l’intelligenza ne’ libri come negli uomini. L’esperienza ammaestra i libri a temere l’uomo e difendersi da lui come possono, e se aprite un volume antico, sentirete come scricchiolano dolorosamente i cartoni, come geme il dorso, come si lamentano le giunture. Le carte si ostinano a rimanere appiccicate colla tenacità dell’ostrica che serra le valve al pericolo, ed annebbiano l’aria colla polvere, proprio come la seppia intorbida l’acqua coll’inchiostro per sfuggire al nemico. Si possono anzi notare certi fenomeni che confortano le teorie darwiniane e provano vera la sentenza che gli organi si modificano per adattarsi all’ambiente in cui debbono operare. Infatti la seppia allevata nell’acquario secerne meno inchiostro che quando è libera, e il volume nella domesticità della libreria privata secerne meno polvere che allo stato selvaggio, ossia nelle biblioteche del governo. Quanta sapienza c’è nei libri!
Il bibliotecario, sulla scaletta, leggeva brontolando con certi gesti d’impazienza che stimolavano nel volume la secrezione della polvere. Dall’alto della scansia il busto di Giustiniano guardava in giù e sorrideva con una certa malinconia rassegnata da far credere che pensasse piuttosto all’imperatrice Teodora che alle Pandette. In biblioteca non c’era di vivo che il bibliotecario, poichè l’Anobium pertinax e l’Anobium stratium, non desti ancora[50] dal letargo invernale, dormivano nelle Bibbie e nelle pubblicazioni del Ministero. Ma dai finestroni spalancati un fiume di luce allegra prorompeva nella sala, ed i raggi del sole primaverile, pieni di pulviscolo d’oro, strisciavano sulle scansie cercando inutilmente il lucido delle cornici. E col sole entrava l’eco di una battaglia di passeri sulle grondaie, il rombo lontano delle carrozze, il rumore delle voci, tutto il fracasso della città, rammorbidito, armonizzato dalla distanza. La vita era tutta fuori, la vita nuova del mondo e degli uomini, la primavera.
Si vede che il bibliotecario aveva bisogno di uno sfogo, perchè chiuse seccamente il volume e dall’alto della scaletta lo buttò giù sulla tavola. (Santi Numi, che polvere!) Discese brontolando e, attirato dalla luce e dal rumore, s’incamminò verso il finestrone; ma a mezza strada si volse tutto d’un pezzo come se lo avessero chiamato, e guardò Giustiniano tra gli occhi come un avversario dicendo:—Dichiaro che l’Heinecken ha torto.—E poichè Giustiniano seguitò a sorridere ma non rispose, riprese con voce più alta:—Sissignore; dichiaro che l’Heinecken ha torto: torto marcio!—E volse dispettosamente le spalle al povero imperatore, incamminandosi al balcone.
Il libro che il bibliotecario aveva scaraventato giù dalla scaletta era appunto: Idea di una collezione di stampe, con una dissertazione sull’origine dell’incisione, stampato a Lipsia nel 1771 in ottavo. Ivi l’Heinecken osserva che il Tolomeo stampato a Roma nel 1478 non contenendo altro che carte geografiche incise in metallo e fuori del testo, il primo libro con rami inseriti è il Dante commentato dal Landino e stampato a Firenze da Nicolò di Lorenzo della Magna nel 1481 in folio. Gli esemplari di questo raro volume che si trovano ancora nelle nostre biblioteche hanno per lo più due sole incisioni ed un’altra ripetuta, rimanendo in capo ad ogni canto vuoto lo spazio delle incisioni assenti: ma la Vaticana deve averne un esemplare con una serie di 18 incisioni incollate al loro posto, ed il catalogo della biblioteca Marchi ne annunciò uno con 19 stampe; il che mostra come le incisioni fossero in gran parte eseguite se non inserite. Siano queste incisioni o no disegnate da Sandro Botticelli ed eseguite da Baccio Baldini, (non pare verosimile che siano di Maso Finiguerra, come vorrebbe una nota manoscritta della Biblioteca nazionale di Parigi), questo libro è creduto il primo che porti incisioni in metallo inserite nel testo, ed è appunto contro questa affermazione dell’Heinecken che il bibliotecario protestava.
Sotto al balcone c’era il prato della scuola veterinaria. Di là dal prato le case, e sopra le case facevano capolino[51] i colli oramai vestiti di verde. Il sole d’aprile certo aveva letto male il lunario, e, saltando un mese, s’era messo a splendere come agli ultimi di maggio, tanto esultava nel cielo turchino, tanto i suoi raggi scaldavano. E giù, nel prato rinverdito, le margherite novelline alzavano curiosamente la testa nelle cuffiette bianche per spiare i fiori candidi dei mandorli, i fiori carnicini de’ peschi primaticci e tutta la nuova festa delle foglie giovani, dei getti freschi, dei ramoscelli gonfi di linfa, delle gemme turgide di succhio. Le finestre delle case circostanti erano spalancate al sole, addobbate di biancheria messa ad asciugare, sonanti di grida fanciullesche, di canti femminili. L’atmosfera limpida non sfumava i colli col solito velo di nebbia ma lasciava distinguere le casine bianche, tra siepi ed i campi verdi. Fino le campagne parevano assorte in questa fulgida ora di rinascimento e rispettavano tacendo la gioia della terra e dei viventi.
Qualche volta a dispetto dei regolamenti, un bibliotecario non è una macchina, ma un uomo. Il nostro aspirò sonoramente l’aria libera, spianò le ciglia corrugate e immerse profondamente le mani nelle tasche. L’ho a dire? Ve lo dirò; purchè non lo ripetiate al ministro Baccelli. Il bibliotecario cavò di tasca una vecchia pipa, la riempì e, dopo averla accesa, puntò i gomiti sul balcone fumando saporitamente! Ma se proprio volete raccontare questa infrazione dei regolamenti al ministro che governa le biblioteche, ecc., raccontategliela pure: tanto lo sanno tutti che, mentre nelle sale di lettura, dove non c’è pericolo d’incendio, è rigorosamente vietato di fumare, nelle altre sale si chiude un occhio, e una fumatina, via, si può fare. O che male c’è? La Regia ci guadagna, gli impiegati ammazzano il tempo, e il fumo del tabacco nuoce solo all’Anobium pertinax e all’Anobium striatum.
Dunque il bibliotecario fumava come un tizzo verde e pensava:—Che bella giornata! Nitida come un Aldo in quarto, splendida come un Bodoni in carta distinta... ma l’Heinecken ha torto. Prima del Dante ci dev’essere un altro libro con incisioni in metallo. Ah, bibliotecario di poca memoria, se lo sapesse il ministro! Quanti passeri! passer, deliciae meae puellae, e sono eccellenti in umido. Il Missale Herbipolense è anche lui del 1400 dunque non è quello; ma come si chiama quell’altro? Come si deve star bene in collina oggi! Ma come si chiama quell’altro libro, come si chiama?
Si spalancò una porticina, due bimbi irruppero nella sala gridando:—Babbo! babbo!—e la signora bibliotecaria in guanti e cappelline, sollevando con garbo la veste per non tuffarla nella dotta polvere, entrò nel regno[52] del marito. Il bibliotecario vuotò la pipa e la rimise in tasca.
I bimbi saltarono in giro schiamazzando, e si fermarono a studiare profondamente ed a far girare sui perni una sfera celeste, dove un frate del seicento aveva dipinto tutti i cancri, i capricorni e gli altri mostri delle costellazioni. La signora raggiunse il bibliotecario, che da buon marito non s’accorse come nella disinvolta cera della moglie un secreto desiderio e una novità d’appetito covassero insidiosi. Già egli pensava all’Heinecken.
—Che bella giornata!—cominciò la signora.
—Bellissima!—rispose il bibliotecario quasi sospirando.—E dove conduci i bimbi?
La bibliotecaria non rispose subito, ma si accomodò il nastro del cappellino che non ne aveva bisogno.—Li conduco fuori—disse poi.—E tu non vieni?
—Vedi, verrei volentieri, ma debbo lavorare. Sappi che l’Heinecken dice...
—Lascialo dire. Oggi si deve star bene fuori. Vieni con noi. Anzi—(il segreto desiderio stava per vedere la luce)—anzi, non si potrebbe trovare un po’ di svago pei bimbi... e per te che stai qui sempre chiuso....
—T’ho pur detto che non posso. Senti; il primo libro con incisioni...
—Perchè non puoi? Ecco, se s’andasse tutti a pranzo fuori di porta, in campagna.... (il segreto! il segreto!) si andrebbe coi bimbi, sai, là nei giardini, sotto il pergolato... Ti ricordi come ci si stette bene l’anno passato? Ti ricordi? Non mi dire di no... sii buono...
Ah, donne seduttrici! Ella aveva posato la manina inguantata sulla spalla del marito e lo guardava di sotto in su, sorridendo colle labbra fresche e con gli occhi pieni di furberie e di tentazioni. Sulle gronde i passeri cinguettavano più che mai e le margheritine bianche parevano tanti occhi curiosi che spiassero il balcone.
—Abbi pazienza—disse il bibliotecario dopo aver superato la tentazione.—Abbi pazienza. L’Heinecken...
La bibliotecaria battè il piedino per terra e ritirò la mano dalla spalla del marito. Era offesa, stizzita della negazione e della mala riuscita del suo disegno.—Caro mio—riprese, sporgendo il labbro inferiore ed aggrottando le ciglia—caro mio, son pur seccanti i tuoi libri! Quando ci avrai rimesso la salute! E a contentar noi non ci pensi mai? Quando ci farai un piacere, nel nome Santo di Dio?
Il bibliotecario diede un guizzo e spalancò le braccia.
L’ho a dire? Scaraventò la papalina di velluto contro Giustiniano, e e.... via, lo dico... baciò sonoramente la bibliotecaria[53] su tutte due le gote. La povera signora che si aspettava un rimprovero, rimase attonita, poi arrossì un pochino e, rassettando il nastro del cappellino che questa volta ne aveva bisogno, rivolse istintivamente la testa. Ma i bimbi studiavano le costellazioni.
—Il Monte Santo di Dio—diceva il bibliotecario, gesticolando allegramente.—Il Monte Santo di Dio di Antonio Bettini da Siena, stampato da Nicolò di Lorenzo della Magna in Firenze il 10 settembre 1477 in quarto grande, caratteri tondi, senza numerazione ma con segnature. È proprio quello, sai, ed è rarissimo! Ce n’è uno nella Casanate; un altro è indicato nel catalogo Jackson di Livorno 1756, ma dev’essere andato nella libreria del Duca della Vallière. E sai dove l’ho visto? Vuoi vederlo anche tu? È nell’Avvertimento del tomo III del catalogo stampato dalla Casanate. Quello è il primo libro con incisioni in metallo inserite nel testo; proprio quello!
Il bibliotecario era raggiante. La bibliotecaria rasserenata non capiva bene l’importanza della notizia, ma capiva che una esclamazione fortunata le aveva fatto vincere la causa. Quel giorno pranzarono coi bimbi sotto la pergola dove erano stati tanto bene l’anno passato.
La sera, la bibliotecaria era già in letto e sorrideva cogli occhi semichiusi. Il bibliotecario in abbigliamento molto leggero... molto beduino, puntò il ginocchio sul letto per saltarvi dentro, ma alla prima non gli riescì.
—Com’è alto il nostro letto—disse.—È un vero monte!
La bibliotecaria aprì gli occhioni birbi, fece una risatina piena di malizia e di carezze e susurrò:—Monte Santo di Dio!
Ah, l’irriverente!
Le Poesie di Angelo Viviani stanno tutte in un fascicoletto di ottanta pagine, compresa la prefazione: sono stampate a Firenze dalla tipografia del Vocabolario, e sono tra le più brutte che siano venute alla luce in questi anni di versi scellerati.
⁂
Nella estate scorsa mi fermai due giorni in una città che non nomino, per ragioni che il lettore vedrà più avanti, se la buona volontà gli dura. Mi fermai solo, alla locanda, per l’amore non corrisposto che porto ai libri vecchi ed alla carta scritta da un pezzo e, conservando l’incognito meglio dei sovrani, avevo il melanconico aspetto di un viaggiatore di commercio, piuttosto che quello di pretendente alle compiacenze delle vergini Muse, da buon cittadino ossequioso alle leggi, avevo dovuto scrivere il mio nome e cognome sui registri dell’albergatore, il cui aspetto poco letterario del resto mi rassicurava.
Dopo essermi lavato dalla dotta polvere, scesi nella sala a pian terreno destinata al pasto degli avventori e alle esercitazioni coreografiche delle mosche. Ivi, contendendo con una costoletta che pretendeva di non lasciarsi mangiare sotto il futile pretesto che nel censimento degli animali regnicoli era stata compresa nella categoria asini, colla coscienza tranquilla di chi si ciba di tenero vitello, guardavo alla strada deserta bruciata dal sole, e pensavo a Fano, di dove ero partito il giorno prima, ed alla felicità di sentirsi due metri d’acqua salata sulla testa.
Leggermente intontito dal lavoro del giorno e quasi assopito dal caldo, non davo altro segno di vita che un movimento isocrono delle mascelle ed un abbondante sudore. L’ora, e la distensione di nervi che succede alla fatica, mi davano una calma stupida ma piacevole. I pensieri mi venivano in mente quasi velati, e le stesse mosche mi trovavano senza dubbio indulgente; quando il cameriere mi si avvicinò colla ciera trasognata ed irresponsabile di un ambasciatore che porta cattive nuove, dicendomi sottovoce:—C’è un sacerdote che le vuol parlare.
⁂
Un sacerdote? Ma io non ho relazioni col presbiterato! Qui non conosco nessuno, tanto meno poi preti! Vi pare l’ora questa di seccare un galantuomo che pranza? E chi è questo sacerdote?
Il cameriere alzava le spalle a maggior confermazione della propria irresponsabilità e non sapeva ripetermi altro che:—Quel sacerdote le vuol parlare.
Forse la costoletta che tentavo di mangiare mi suggerì l’idea della pazienza. Del resto, come ho detto, l’ora persuadeva alla calma. Dalla finestra socchiusa vedevo una striscia di strada bianca, arroventata, popolata soltanto da un cane che accovacciato nel rigagnolo con pazienza esemplare andava a caccia di selvaggina sul proprio individuo. Il silenzio era profondo e il ronzìo incessante delle mosche non lo interrompeva. Tutto disponeva alla tranquillità filosofica, e mi rassegnai a dare udienza al reverendo.
⁂
Era un uomo robusto, bruno di pelle e di capelli, lucido in viso come fosse unto. Si avvicinò mezzo sorridente e mezzo imbarazzato, ed al mio invito di sedersi, rispose con un gesto negativo risoluto e forte come la sua persona. Il collo toroso e le spalle quadrate indicavano che il sacerdote doveva avere dei terribili accessi di tentazione, ed auguro alla chiesa che il suo ministro abbia avuto la forza dell’anima uguale, a quella del corpo: se no, poveri voti!
Così in piedi, davanti alla tavola, il reverendo mi disse che era curato in montagna, che aveva saputo per caso la mia presenza all’albergo, e che aveva voluto procurarsi[56] l’onore ecc., ecc. Aveva un vocione robusto come le spalle, e certi scoppi di voce che facevano vibrare i cristalli. La salute e la vita traboccavano in lui, e non l’avrei certo consigliato per confessore alle damine che soffrono di debolezze. Sicuro di sè dopo due minuti di conversazione, piantato energicamente sulle gambe muscolose e sui piedi da montanaro, gestiva largamente, franco come chi non teme ostacoli e non sa che sia la paura del ridicolo. Sarà un buon curato, non dico, ma a prima vista non ricordava le macerazioni dei perfetti servi di Dio.
⁂
Dopo i primi complimenti tirati a bruciapelo, saltò a parlare di scuole poetiche. Ne parlava ruvidamente con idee vecchiotte, reminiscenze forse del corso di retorica fatto in seminario, ma con una schiettezza cui sono poco usati i critici di mestiere. Ricordava il tipo del bello, la verità eterna e tante altre cose che ora non si ricordano più, e di quando in quando puntava le mani aperte sulla tavola con certi «che ne dice lei?» baritonali e sonori, senza attendere la mia risposta. Poi s’imbarcava di nuovo ne’ suoi ragionamenti antiquati, di dove scoppiettava qua e là qualche idea bizzarra o ingenua, con una foga di uomo convinto e militante che mi meravigliava.
Mi meravigliava e m’imbrogliava. Che diavolo voleva egli da me? Per grande che sia la mia presunzione, non arriva fino ad ammettere che un curato di montagna venga a cercarmi pel solo gusto di fare la mia conoscenza. Un perchè dunque ci doveva essere. Ma quale?
Pensai di offrire da bere al mio reverendo interlocutore, ma egli, senza interrompere il suo discorso, fece il suo solito segno di negazione colla mano, e tirò avanti a parlare di idealismo e di realismo.
Io cominciavo a riflettere seriamente alla digestione.
⁂
Quando Dio volle, cominciai a capire dove andava a cascare tutto questo discorso. Il curato tirò fuori di tasca un mazzo di bozze di stampa e vidi con raccapriccio che erano versi. Sono parecchi anni che passo la mia vita a trovare delle scappatoie per non leggere i versi che mi mandano perchè io dia un parere secondo il mio illuminato[57] giudizio. Ho finito col non rispondere più a nessuno; ma questa volta dovevo pur dir qualche cosa. Un curato di quella robustezza non si può lasciar senza risposta come una lettera. Mi convinsi che la costoletta era decisamente asinina. Come mi pesava sullo stomaco!
⁂
Pensai, così alla prima, che i versi fossero del curato in persona: ma me ne diceva male con troppa convinzione perchè io credessi ad una finta da parte sua. Ne diceva corna; dunque doveva esser roba di un suo amico.
Così difatti era. I versi di Angelo Viviani sono di un suo amico, curato anche lui! Ero proprio cascato nelle braccia della Chiesa.
Il curato poeta ha voluto fare anch’egli la sua gherminella come un tale di mia conoscenza, ed ha fatto precedere ai versi una prefazione firmata Un amico, nella quale si legge come qualmente Angelo Viviani era un giovane pieno di buone qualità, bersagliato dalla fortuna, innamorato senza speranza (hai! ahi!) ed altre belle, ma vecchie cose. Solo che il romanzetto, invece di finire al solito colla morte del protagonista per via della solita tisi, finisce colla emigrazione del Viviani per la libera America. È vero: Ecclesia abhorret a sanguine.
Il curioso poi era che il curato presentatore dei versi del Viviani non aveva abbastanza parole per biasimare la gherminella che gli pareva irriverente pel pubblico, indegna di uno che ha fede nelle cose proprie, e via di questo passo. Non si ricordava forse a chi parlava. La costoletta era dura a digerire, ma il curato peggio.
⁂
E poichè parlo di gherminelle, intendiamoci bene. Protesto che vi racconto la verità senza abbellimento di alcuna sorta, e solo con quelle poche velature che valgono a far perdere la traccia de’ miei due curati ai rispettivi vescovi, se per caso leggessero queste righe. Il fatto è verissimo, dal principio alla fine, e pur troppo mi è capitato. Dio nella sua misericordia perdonerà ai curati peccatori. Io li punisco con questo racconto: ma mi dorrebbe che li punisse il vescovo. Sarebbe un rimorso che mi peserebbe sullo stomaco più della costoletta.
Mentre il curato parlava, io andavo leggendo qua e là i versi che sono davvero bruttini. Ce ne sono di quelli che, se non sono zoppi affatto, sono molto sciancati: ma poichè ormai il notare i versi che non possono camminare la dicono pedanteria, mi fermo a dire che quel libretto mi dà un po’ l’idea d’un magazzino di rigattiere, tante sono le ciarpe vecchie che l’ingombrano, come i sonetti alla luna, alla malinconia e simili. Ci sono poi delle idee curiose, come quelle d’una quercia che crescendo addosso ai morti allevia i loro giacigli, e degli errori curiosi di storia naturale, come quello che fa le gaggìe cerulee. Si vede che il curato poeta non ha molta pratica di fiori e di fioraie.
L’odor di prete si sente dappertutto, poichè ad ogni pagina s’incontrano Dio, il purgatorio, le campane, i mistici fiori, i martiri, gli eletti ed altre sacrosante cose. Ma in mezzo a questo c’è un amore; anzi, a quanto pare, più d’uno.
Voglio credere, per l’onore del sacerdozio, che quegli ardori profani siano una reminiscenza di gioventù, una reminiscenza che ha preceduto la solennità della tonsura. Ma tuttavia il sentire un reverendo curato cantare alla luna i rigori di una Emilia in carne ed ossa, mi fa un certo effetto!...
⁂
Così andavo leggendo, quando mi capitò sotto gli occhi questo sonetto sgangherato, ma strano in bocca a un prete:
20 settembre 1880
Da questa eccelsa vetta abbandonata,
D’alberi monda e sol d’erba vestita
E d’ermi fiori, dove cento han vita
Ruscelli d’acqua limpida e gelata,
O il bel cielo ch’io miro, o quale aurata
Spera di sole, o l’Alpi, o l’infinita
Cerchia di mar e i fertil pian (gradita
Stesa di ville!) o Ausonia mia adorata
Al bel Paese delle Grazie e Amore
Risorto ormai, sì impreco in questo giorno:
L’ira d’Iddio lo distrugga intero
[59]Se de’ suoi figli il senno ed il valore
Nol serberà di libertade adorno,
Uno e temuto in faccia allo straniero.
Tombola! Un curato che parodia i versi di Garibaldi: «Vorrei veder la trepida—Sotto il baston del Vandalo» ecc.; un curato che canta l’Italia libera ed una proprio il 20 settembre, l’anniversario della breccia!...
Questa non me l’aspettavo! Guardai in faccia il mio reverendo interlocutore che tacque un momento e lo interrogai. Caddi di sorpresa in sorpresa! Anche questo curato era liberale, unitario ed ammiratore della breccia! Vi parrà impossibile, ma fu vero pur troppo per me, che dovetti sorbirmi una nuova esposizione di principî. Ne disse di quelle che, se la Curia lo avesse sentito, lo avrebbe sconsacrato lì, proprio nella sala della locanda.
⁂
Ma più di tutto era furibondo contro ai seminari.—Ci prendono bimbi, c’imbottiscono di sciocchezze—(e additava le bozze del suo amico),—ci tengono chiusi come frati in una atmosfera artificiale come i poponi nelle stufe, ed un bel mattino ci ungono come stivali di vacchetta e ci mandano per bosco e per riviera. Arriviamo nel mondo colle nostre idee del seminario e troviamo che non sono altre che buffe. Tentiamo di cambiarle, di studiare, di capire il mondo in cui dobbiamo vivere, ma abbiamo sempre un filo legato al piede, siamo sempre tenuti d’occhio come gli ammoniti. Lo stigma del seminario non si cancella più dalla nostra fronte, ed è vero il detto: Semel abbas semper abbas. Quando la chiesa ha afferrato una volta la sua preda, non la lascia più. Ci destiamo un bel mattino al bivio o di apostatare per essere odiosi a tutti, o di essere ipocriti per essere accetti da tutti. È troppo naturale che la umana debolezza scelga quest’ultima strada, ma perdio—(disse proprio perdio chiaro e tondo)—ci pesa il batterla e la colpa è tutta di quelli là.
Qui il curato tese il dito in direzione nord-ovest, dove suppongo che si trovasse il seminario dell’anima sua ed abbandonò le sereni leggi del linguaggio parlamentare.
Doveva toccare a me anche questa! Il mio curato aveva spiegato le vele a tutti i venti, e bestemmiava le cose più sacre della religione cattolica, come il poter temporale, la prigionia del papa e simili quando io che non ne poteva[60] più gli troncai a mezzo il discorso coll’apostrofe del Carducci:
Cittadino Mastai, bevi un bicchier!
e gli tesi il bicchiere colmo. Rimase col discorso a mezzo, esitò, poi scosse la testa come per dire mi decido! ed afferrò il bicchiere colla sinistra. Intanto alzò il pugno destro in aria, colla fronte corrugata e i denti stretti, brontolando:—Ah! Mastai! Mastai!
Se la Curia avesse visto che pugno nocchieruto era quello!
⁂
Bevve, riprese le bozze, contentissimo che i versi del suo amico non mi fossero piaciuti. Mi alzai in maniera di congedo, mi strinse forte la mano, e se ne andò calcandosi il nicchio sul cranio con un gesto nervoso.
L’altro ieri la posta mi ha portato i versi di Angelo Viviani, e la scena mi è tornata in mente, tanto che non ho potuto resistere al prurito di raccontarla tale e quale.
Fortuna che per l’Appennino dei Viviani ce ne son pochi; se no, il Parnaso e il Vaticano starebbero freschi!
Non mi ricordo più che ufficio avesse nella Pia Opera dei Ciborii, ma so che era bella; bella come non dovrebbe poter essere una signora cattolica e clericale, militante, per giunta. Era di non so quanti comitati di dame cattoliche: aveva subìto imperterrita le fischiate rivoluzionarie uscendo dal congresso cattolico di Bologna (mi ricordo che, aveva un cappello tondo a larga tesa che le stava di incanto!), era stata a Lourdes, alla Salette, a tutti i pellegrinaggi vaticani. Ricamava pianete e tovaglie d’altare firmava le proteste pel riposo domenicale, sottoscriveva a tutti gli oboli, non mancava a nessun triduo; eppure era bella!
Vestiva per lo più nero, non so se pel lutto della chiesa o perchè il nero stava bene ai suoi capelli biondi ed alle sue forme ricche, benchè non milionarie. Però era solita e tener gli occhi bassi, e questo le stava male, perchè due occhioni così profondi e che ricordavano la morbidezza nera e voluttuosa del vellutto avrebbero dovuto mostrarsi di più per dar gloria a Dio nella sua creatura. Pareva che i suoi piedini sdegnassero il selciato volgare delle nostre vie, perchè non la vedevo altro che nella sua carrozza foderata di raso turchino e con tanto storico blasone allo sportello. Ci stava dentro un po’ sdraiata, ma sempre vestita di nero, sempre cogli occhi bassi, sempre sola, perchè suo marito aveva quindici anni più di lei e soffriva di podagra.
Bisogna dire, a sua lode, che una virtù così severa non s’era vista da un pezzo nella nostra aristocrazia un po’ larga di cintura. Le lingue aguzze ed affilate, che nei caffè e nei circoli tagliano e cuciono, avevano risparmiato[62] sempre la sua riputazione. Che cosa avrebbe potuto dire? Non frequentava divertimenti mondani, non aveva amiche intime, non aveva nemmeno un cugino e, cogli occhioni abbassati, andava alla santa messa tutte le mattine.
Ci fu un tempo (guardate che sciocchezza!) nel quale fui innamorato morto della bella cattolica. Che ci fareste voi? Da studenti son cose che càpitano, questi amori petrarcheschi, questi desiderii senza speranza. Si ha bisogno di portare un idolo femmina nel cuore, si desidera una donna sino alla quale non si possa giungere, e per poco che il temperamento si presti ed i romanzi aiutino, si può fare una corbelleria. Molti in quella età beata si compongono un romanzo nella testa, lo covano colla immaginazione, lo accarezzano e ci fantasticano sopra con una voluttà dolorosa, con una evidenza che nei giovani di fantasia feconda di sangue caldo ha l’illusione della verità; come il sogno nel momento del sognare. Chi non può raccontare la storia di un amore portato a lungo e segretamente nel cuore senz’altre consolazioni che quelle del cervello eccitato? Chi, almeno tra la veglia ed il sonno, non lavorò di fantasia e non salvò una donna, che non lo guardò mai, dalle fiamme, dall’annegamento, dalle coltellate, da tutti i modi di morte che lo stato civile annovera tra le morti violente? Ebbene, così m’era capito a proposito della bella segretaria dell’Opera pia dei Ciborii. (Credo proprio che fosse segretaria).
⁂
Fu precisamente quando davo ad intendere ai miei di casa di studiare il secondo corso di giurisprudenza e di consacrare le mie veglie ai misteri del diritto canonico. La vidi in carrozza e domandai chi fosse. Mi dissero titoli nome, cognome, e aggiunsero che da pochi giorni aveva sposato il signor marchese tal dei tali, maturo maturissimo e podagroso; e fu fatta!
Non erano i saggi indovinelli del diritto canonico quelli che mi facevano andare a letto troppo tardi. Avevo aperto tutte le valvole di sicurezza ai vapori giovanili, troppo compressi dalla disciplina del collegio; le avevo spalancate allegramente e tutte, in barba a tutti i diritti. Fumavo come un turco, bevevo come un tedesco, merendavo nei suburbi con vergini eterodasse come un francese; insomma galoppavo come un puledro cui si allenti il morso. Ma tutto questo sfogo era piuttosto fisico che altro, era la fame dell’animale che cerca la sazietà, non la delicatezza. Così[63] quei tesori di sentimento e, se volete anche, di romanticismo, che in quelli anni stanno in cuore a tutti, non li sciupavo; anzi, quasi quasi non li sapevo nemmeno tra i miei capitali attivi. La matta vita dello studente non mi lasciava rughe nel cuore; ed una notte al veglione, non solo non mi dava rimorsi, ma mi faceva dormir meglio il giorno dopo.
Fu in quel tempo che vidi per la prima volta la bella cattolica e che un amore stravagante mi sbocciò nel cuore; amore da collegiale, senza carnalità, senza forme precise. Dio, nella sua infinita misericordia, perdonerà ai sonetti rimati per la mia Laura codina, ai romanzi covati nel dormiveglia, a tutte le stramberie dell’immaginazione sfrenata. Chi le spiega queste allucinazioni degli efebi? Già non si arriva a spiegarle; e poi chi arriverà a capire perchè una notte d’inverno io mi sia levato da letto per andare a baciare la facciata del suo palazzo. Sono sciocchezze: già! Ma come è triste non essere più così sciocchi, com’è doloroso capire che sono sciocchezze!
Sciocchezze; già! Ma sono il meglio dell’amore.
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Erano passati parecchi anni ed avevo dimenticato tante cose, anche il diritto canonico, quando, verso il tocco di un caldissimo giorno d’estate, andai alla stazione e comprai un biglietto di prima classe per Venezia. Volevo vedere un codice alla Marciana e bagnarmi al Lido.
Io ho una bella barba. So bene che questa affermazione avrà dei contradditori e forse, ahimè! delle contraddittrici; ma ho una bella barba. Nulla è perfetto a questo mondo, e la mia barba avrà dei difetti; io però non ce li trovo. Una signora (che lingua hanno le signore!) ha detto che ho la barba rossa. Ma è possibile? Certo, vista sotto alcune incidenze di luce, ha dei riflessi fulvi, dei lampi color di rame; ma una barba così non è rossa. Io sì, potrei dire... ma non sta bene.
Dunque ho una bella barba. Divisa alla nazzarena, folta sotto al mento, mi chiede molte cure amorose, ed io gliele prodigo. In quel tempo avevo un pettine tascabile, munito del suo bravo specchietto, e spesso guardavo come stesse di salute la mia barba diletta, e la pettinavo, la lisciavo, l’accarezzavo con affetto paterno. La dite una debolezza? Meglio questa che un’altra.
Ho già detto che era caldo. La stazione era quasi deserta, e, salito in carrozza, sedetti dallo sportello opposto[64] a quello da cui ero entrato, per non trovarmi poi col sole addosso. Un mio buon amico, impiegato nelle ferrovie, mi chiamò a nome e mi domandò dove andavo, ed io affacciato allo sportello, mi misi a parlare con lui. Mi ricordo, così in nube, che mi parlò di una gratificazione negata, o data a un’altro, o press’a poco. Intanto io col pettine mi ravviavo la barba.
Guardavo nello specchietto, quando, nel vano dello sportello rimasto spalancato dietro me, vidi entrare un braccio maschile, alla vetta del quale era male appiccicata una manaccia nera. La mano teneva una valigietta di cuoio bulgaro con borchie di metallo opaco, e la gettò sul sedile.
Il mio buon amico parlava sempre, ed io pensavo:—Questa manaccia è di un cocchiere o di un cuoco; ma la valigetta di chi sarà?
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Venne la spiegazione dell’enigma. Con un cappello alla sgherra, con un abito ben serrato al corpo, salì in carrozza la mia bella codina.
Benedissi l’amico, le gratificazioni e sopratutto lo specchietto che m’avevano evitato la sorpresa, e così, affacciato allo sportello e parlando sempre, ebbi agio di rimettermi, di dare un’occhiata mentale al mio abbigliamento, un’occhiata speculativa alla barba ed alla cravatta, e di rallegrarmi della felice idea avuta di mettermi i guanti. E pensavo:—Dove va? Che ci sia il marito? E se rimanessimo soli?—Ma non sapevo se avessi piacere o paura di rimaner solo con lei.
La locomotiva fischiò, chiusero gli sportelli con fracasso, e l’amico mi salutò urlando il mio nome e il mio cognome. Vidi nello specchio che la mia compagna, sentendomi nominare, alzò la testa e mi guardò rispettosamente con una certa curiosità. Conosce il mio nome: pensai. Per una codina, non c’è male! Bisogna infatti sapere che in quel tempo alcuni, anche ne’ giornali, si occupavano di me per dire che stampavo delle cosacce immorali.
Quando sedetti, benchè fossi preparato, un certo non so che rassomigliante alla tremarella, l’avevo. Mi sentivo dentro quell’angoscia di sospensione che debbono provare gli autori comici prima che si alzi la tela ad una prima recita. Però fu un momento, teneva sempre gli occhioni chinati, ma ci vedeva lo stesso, poichè sedendomi feci l’atto di un rispettoso saluto ed ella lo contraccambiò sempre[65] senza guardarmi, ma con un impercettibile ghignetto che pareva dire:—Maschera ti conosco!
Uscendo dall’ombra della stazione, un raggio di sole, uno di quei raggi gialli dentro ai quali turbina la polvere, proruppe dallo sportello, e le si stese sulle ginocchia e scese giù sino al tappeto. Seguii coll’occhio le linee scultorie disegnate dal sole intelligente, giù giù, sino ai piedi, ai piedini chiusi in uno scarpino scollato che lasciava vedere la calza di seta azzurra. Ella non mi guardava mai, eppure i piedini, sorpresi in flagrante, si ritirarono subito sotto le gonnelle come ragazze adocchiate che scappano dalla finestra. Benedette donne come fate a vederci senza guardare?
La guardai io, perchè la ritirata dei piedini mi fece supporre in lei qualche cambiamento di fisonomia. Nemmeno per sogno! Era calma e bella come una statua di vestale. Solo, ma fu un lampo, alzò le lunghe ciglia e le riabbassò subito. La mia faccia doveva parere una pagina di lirica seicentista, tanto era piena di ammirazioni, di esclamazioni, di iperboli e di altre meraviglie poetiche dopo l’apparizione dei trionfali piedini. Doveva averci letto l’elogio della sua bellezza, l’elogio appassionato e sincero che ogni gonna, anche di intelligenza corta, capisce subito. Che non se ne fosse avuta a male, lo capivo; nessuna donna si offende se l’ammirano: ma che non ne avesse arrossito, anzi che nemmeno ci si fosse provata. Mi parve strano per una dama dell’Opera pia dei Ciborii. Ad ogni modo, mi levai, abbassai la tendina azzurra, dicendo, come si usa:
—Se incomoda la signora...
Non aspettavo risposta. Invece udii la sua vocina fresca e chiara dirmi:
—Grazie: proprio il sole scotta...
Io era sbalordito: ella aveva alzato gli occhi e il ghiaccio era rotto.
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Si cominciò, s’intende, a parlare del bel tempo e della pioggia, ma presto si cascò nella letteratura. Io passavo di sorpresa in sorpresa e non avrei mai creduto, a dispetto delle calze di seta turchina, che la padrona di due piedini così piccoli potesse avere una coltura letteraria così fine e giudiziosa. Mi recitò tutta quanta l’Aspasia del Leopardi, ed a Ferrara ricordammo ella il Tasso ed[66] io Eleonora. Il sole saettava le sue fiamme nei finestroni del castello degli Este che pareva divorato da un incendio interno, e parlammo poco di Lucrezia Borgia e molto di Ugo e Parisina. Ella non sapeva l’inglese e volle che le recitassi il principio della cantica del Byron; ma quando cominciai:
It is the hour when from the boughs
The nihtingale’s high note is heard,
rise, rise di cuore. Che denti splendidi mi mostrava tra que’ suoi labbruzzi di bambina! S’era appoggiata un po’ indietro e mi guardava in faccia dentro negli occhi, come se fossimo stati amici vecchi.
Al passaggio del Po, sul ponte lunghissimo, sporgemmo tutti e due la testa dallo stesso finestrino. A monte del fiume, sul ponte di barche, si vedevano passare i carri piccini piccini e l’acqua lenta e solenne specchiava il sole il cui riflesso le tremolava sotto i morbidi candori del mento e nei ricciolini d’oro insubordinati. Mi parve che quella prossimità delle persone dovesse stringere meglio i vincoli della cominciata confidenza. Invece da quel punto ella cominciò a perseguitarmi con certi motti pieni di spirito, è vero, ma anche un po’ pungenti.
Combattemmo di arguzie e di piccole malignità. Mi tornavo a sentire studente, e quando alle volte rimanevo ferito nel vivo, mi dicevo:—Che cosa avresti risposto tanti anni fa, quando eri innamorato di lei?—E la risposta veniva, sempre più calzante, sempre più ardita e più piena di una affettuosità contenuta che doveva fare ottimo effetto. Così lottando di impertinenze garbate passammo il Polesine e Rovigo: ma quando ci avvicinammo ai colli Euganei m’accorsi che oramai si dava per vinta e mutai tattica. Mi feci più tenero ed anche più eloquente.
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Cominciai, così alla larga, a narrare il bene che avevo voluto ad una signora che non nominavo. Come parlavo bene! La mia voce era una musica molle, dalle onde languide e carezzevoli, e le parole mi venivano corrette, misurate, ma nella frase si colorivano, si scaldavano, e il discorso, irreprensibile nella forma, aveva preso un’abbondanza ovidiana, una eloquenza fascinatrice tale che qualche volta mi pareva di recitare dei brani della Nuova Eloisa.[67] Ella, stesa nel suo cantuccio, seguiva cogli occhi socchiusi i fili del telegrafo e gli alberi che si rincorrevano. Non si moveva e solo le sue labbra erano rialzate da un impercettibile sorriso e il respiro largo e tranquillo le sollevava e le abbassava lentamente il busto. Io parlavo, parlavo, languidamente, con delle inflessioni di voce che parevano dichiarazioni fatte in ginocchio, con delle frasi morbide che parevano preghiere. Qualche volta i suoi occhioni si fissavano ne’ miei e fuggivano; qualche volta apriva a mezzo il ventaglio come per coprirsene la faccia e ad un tratto chiuse gli occhi come se dormisse. Io seguitai a parlare, sempre più chiaro, sempre più eloquente e chiedendomi sempre quel che avrei fatto, studente, in quella posizione.
Se guardate nelle guide dell’Alta Italia, vedrete che dopo Monselice c’è un tunnel.
⁂
Uscendo dalla stazione a Venezia, il sole ancor alto batteva sull’acqua immobile e verdognola del canale. Ella aveva preso il mio braccio e ci eravamo fermati, un po’ indecisi, fuori dell’atrio, mentre i gondolieri dalla riva ci chiamavano ad alta voce agitando le braccia. Io ruppi finalmente il silenzio impacciato e chiesi:
—Dove smonta ella, signora?
Ella diede un’occhiata giù, lungo l’acqua; si guardò la punta del piedino, poi levando la testa ad un tratto e sorridendo col suo bel sorriso di innocentina, rispose:
—Dove vuoi.
È inutile. Semel abbas, semper abbas, e chi fu diplomatico una volta, conserva sempre il pelo e il vizio del diplomatico. Non è giusto quindi domandare a quel principe di Metternich che diresse la cancelleria austriaca dal 1809 al 1848 e che fu uno dei più perfetti tipi del diplomatico astuto ed impenetrabile, la franchezza intera ed indifferente che G. C. Rousseau usò nelle sue Confessioni. Il furbissimo principe non dice anche in queste sue Memorie d’oltretomba altro che quello che vuol dire e che importa far sapere a maggior gloria dell’imperatore Francesco I e della sua cancelleria. Egli serve fedelmente Sua Maestà Imperiale e Reale anche vent’anni dopo la morte.
Che freddo in queste Memorie! Tutto vi è misurato, calcolato come in un documento ufficiale. Mai una nota d’affetto o di passione, mai nemmeno la sublime follia dell’amor di patria! L’intonazione la dà lo stesso imperatore.
Dopo le vittorie del 1814 egli vuol ringraziare con una lettera autografa il maresciallo di Schwarzenberg, ed al Metternich, che redige la minuta, sfugge due volte la parola patria. Sua Maestà colla sua imperial mano cancella due volte la sacrilega parola e sostituisce una volta i miei popoli, l’altra il mio Impero. I luoghi comuni delle paterne viscere e del paterno affetto sono buoni pei proclami, in cui si chiede qualche cosa, sangue o danaro; ma nel segreto del gabinetto imperiale sarebbe ridicolo ricordarli. Sua Maestà il 17 gennaio 1811 scrive al ministro: «Se per evitare mali maggiori bisognasse venire al cambio della Galizia, si cercherebbe di fare in modo che almeno il cambio avesse luogo senza che la mia Monarchia ci perdesse. Per questo voi avrete cura d’informarvi esattamente,[69] ma in modo discreto, sul valore di questa provincia e di quella che ci tornerebbe conto ottenere in ricambio» Proprio così! Le paterne viscere amano i popoli in ragione di quello che valgono, tanto per cento. I popoli! Tutta retorica, e, se la lingua tedesca lo avesse permesso, probabilmente il monarca e il cancelliere avrebbero scritto a modo di scherno questa maledetta parola con tre p, come i conservatori italiani che vogliono essere spiritosi.
Il cancelliere visse in un mondo che non è il nostro, nè pel tempo, nè pei sentimenti. Aggiungasi che fino dal suo ingresso nella diplomazia si chiuse in quell’ambiente artificiale, freddo e sordo alle voci del di fuori, dove i negoziatori e i ministri delle monarchie, più o meno assolute, filano i loro ragnateli. Nelle novecento pagine dei due primi volumi si parla di Austerlitz, di Jena, di Wagram, della ritirata di Russia, di Dresda, di Waterloo, si parla di carestie, di epidemie, di mille disastri, ma se ne parla sempre dal punto di vista dell’interesse del sovrano. Non sapete mai se qualcuno morì in quelle battaglie, se qualcuno soffrì di quei flagelli. Che importano al sovrano e al cancelliere le sofferenze dei popoli? Che importa loro se c’è chi piange e chi muore? Si salvi, si accresca, si consolidi il dominio; a spese di chi, non importa. Se il popolo non ha pane, mangi pasticcini.
E qual cecità, quale completa mancanza dell’intuizione dell’avvenire in un uomo, cui non mancavano nè l’ingegno nè i mezzi per illuminarsi! Probabilmente il vivere nel mondo artificiale della diplomazia egoistica e fredda, gli tolse il veder bene nel futuro; certo poi la sommessione canina ai dogmi meschini ed interessati del suo principe lo accecò affatto. Nel 1814, a Langres, lo czar Alessandro lo fece chiamare e gli disse che, la Francia essendo ostile ai Borboni, voler ricondurre sul trono per forza quella famiglia sarebbe stato esporre la Francia e l’Europa a nuove rivoluzioni che avrebbero avuto effetti incalcolabili. Quindi bisognava che gli alleati dirigessero ai francesi una dichiarazione, dove si dicesse che nessuno voleva mescolarsi nella ventura forma di governo e nella scelta del sovrano. Si convocassero le assemblee primarie e i deputati, per decidere intorno a simili questioni, come rappresentanti della intera nazione. Metternich si oppone e l’imperatore lo appoggia sino alla minaccia di ritirare il suo esercito, se non s’impone alla Francia Luigi XVIII.—Il re legittimo è là,—disse il cancelliere, e lo czar, cedendo, rispose:—Ho parlato secondo la mia coscienza; il tempo farà il resto. Egli ci dirà chi aveva ragione.—Chi aveva ragione lo sa Enrico V.
Eppure questa fredda esecuzione degli ordini del principe[70] assoluto sente il bisogno di coprirsi di una frase generosa. «Io mi riconosco il diritto ed il dovere d’indicare a coloro, che verranno dopo di me, il mezzo, il solo mezzo per l’uomo coscienzioso di resistere alle burrasche del tempo. Questo mezzo l’ho formulato nel motto che ho scelto come simbolo della mia convinzione, per me e per quelli che mi seguiranno: la vera forza è il diritto. Senza il diritto, tutto è fragile.» Belle parole, ma il diritto di Metternich è il diritto dei re, non quello dei popoli; è il diritto della corona imperiale, unico e solo; è insomma il diritto divino.
Si è voluto contrapporre questa massima, apparentemente generosa, all’altra: la forza vince il diritto, che si suppone detta dal principe Bismarck, quantunque egli neghi di averla mai detta, e coloro che gliela attribuiscono non sappiano dire nè quando, nè dove l’abbia detta. Ebbene, i due cancellieri, come le due massime, vogliono dire lo stesso. La forza dell’uno deve vincere i diritti di tutti. Il diritto divino dell’altro deve vincere le forze e i diritti di tutti.
Sarebbe altresì curioso il conoscere i pensieri del Metternich intorno all’arte. Il cancelliere infatti fu curatore dell’Accademia viennese di Belle Arti, per la stessa ragione probabilmente che Ollivier e il duca d’Aumale ebbero un seggio nell’Accademia francese. Il Metternich almeno aveva la scusa di sonare mediocremente il violino! Tuttavia i documenti ci mancano, non trovando che un discorso insignificante e pieno di ampollose laudi dell’impero, in data 12 febbraio 1812. Ci troviamo però una bizzarra idea. Fidia, Prassitele, Raffaello, Rubens non obbedivano esclusivamente a leggi meccaniche. È dal fondo di un’anima ispirata che attingevano la potenza meravigliosa, animatrice delle opere loro.
Così dice il curatore dell’Accademia e sta bene; quegli artisti avevano una cosa che non tutti hanno, il genio. Ma poichè tra gli artisti di quei giorni il genio non abbondava, era riserbato all’imperatore Francesco «riempire questa lacuna». I nuovi statuti «fondano una cattedra di storia dell’arte». Che bella cosa! Una cattedra dove s’impara il genio, una estetica che vi dà la potenza di Michelangelo! Ma Raffaello a quale cattedra di teoria dell’arte doveva il suo genio? Non lo dice il Metternich e non lo dicono gli accademici pei quali anche oggi fuori della ortodossia della scuola non c’è salute.
Chiudiamo il libro. Il principe di Metternich si presenta al lettore nel suo più corretto contegno di diplomatico emerito. Nulla gli manca, nè le brache corte, nè le decorazioni. Eppure qualche cosa d’intimo sembra sfuggirgli[71] tra le molte parole. Egli ci rivela una aridità di anima, una secchezza di sentimento che fanno paura. Invece del cuore, quell’uomo doveva avere una pietra pomice, e invece del cervello un congegno d’orologeria. Bisogna vedere quel che pensava costui degli affari d’Italia del 21 e del 31; ma vedremo, ne siamo certi, lo stesso uomo, gelido, arido, impassibile davanti ad una sconfitta o ad un trionfo, davanti una festa od un supplizio. Uomini così fatti campano molto e fanno molto male. Speriamo per fortuna nostra che in Italia non ne nascano mai.
È inutile: la fregola dell’applauso pubblica trascina tutti, anche coloro che si drappeggiano nella impopolarità come in una clamide imperatoria. I seicentisti usavano la metafora il teatro del mondo; e noi che abbominiamo il seicento per sentita a dire, senza averlo mai studiato anche superficialmente, abbomineremo anche questa metafora che pure è giustissima, poichè il mondo è proprio un teatro. Il pubblico paga, è stimato una mandra di asini, ma si riserba il grande diritto di fischiare o d’applaudire: gli artisti sprezzano superbamente la platea ma campano di lei e per lei, svengono se fischiati, si gonfiano se applauditi e diventano commendatori. Parlo degli artisti in generale, poichè le esclusioni da fare sono poche o nessuna. Dall’infimo gradino al più alto, dal burattinaio al poeta, dal cavadenti al diplomatico, tutti posano oramai per questo pubblico che inter pocula affettano di spregiare.
Già stampare un libro, esporre un quadro od una statua, far recitare un dramma, concludere un trattato, firmare una legge, non è altro che esporsi ai giudizi della platea che oggi fa gli uomini grandi o contenti: i palchi non contano più e la platea stessa teme che lo scettro della sovranità non passi al loggione.
Guardate i diplomatici, la gente che fa professione di esser fredda come il ghiaccio ed insensibile come l’insensibilità. Anche essi hanno finito col cedere a questa massima delle potenze umane, la platea: hanno capito che la immortalità, la fama, la lode, non vengono più dalle corti, dalle conversazioni, dalle accademie, ma che il pubblico è l’arbitro supremo ed inappellabile. Vi ricordate il[73] processo del conte d’Arnim, le interpellanze pel libro del La Marmora, tutta la fatica che si fa perchè i secreti diplomatici non vengano a galla? Per contentare questo pubblico, cui bisogna finire col rendere i conti, si sono inventati i libri turchini, rossi, verdi e gialli: raccolte di quei documenti che possono esser liberati alle stampe senza pericolo di pettegolezzi. Ma il pubblico non si contenta e i diplomatici capiscono che debbono contentarlo per forza; ed ecco i comunicati ufficiosi, le indiscrezioni volute, le rivelazioni inopportune, le bugie, le verità, le calunnie e le adulazioni che vanno e vengono con onda alterna, lambendo umilmente la spiaggia dove lo spregiato pubblico pianta robustamente i suoi democratici piedi; ecco gli artisti che scrivono opuscoli, autobiografie, invettive, dove s’invoca la platea come giudice dei disprezzi troppo superbi e troppo sterili dell’arte del pubblico che paga: ecco, per dir tutto, che Napoleone cerca di giustificarsi nei manoscritti di Sant’Elena, che Talleyrand lascia un volume o due, ricordi prossimi ad essere pubblicati: e che Metternich il freddissimo, l’insensibilissimo Metternich, solleva il coperchio del sepolcro e cerca d’ingannarci ancora con le sue giustificazioni d’oltretomba e s’inchina, riluttante e ringhioso, al giudizio della platea che odiava. Valeva proprio la pena di fare i trattati del 1815, di trionfare ai Congressi di Carlsbad, di Lubiana, di Verona, perchè i posteri giudicassero poi a modo loro, perchè il figlio d’un povero farmacista si sentisse in diritto di non accogliere le giustificazioni preparate dal Serenissimo Principe, e di metterle in canzonetta sulle pagine di questo libriccino.
Lascio stare la politica. In quel benedetto regno tutti giudicano secondo il partito cui appartengono e sopprimono, incoscienti, le proprie convinzioni personali pel trionfo d’un uomo o d’una bandiera. Ma nei quattro primi volumi delle Memorie di Metternich ci sono parecchi fogli di stampa che non trattano di politica e, senza passione, si può ragionarne. Nel terzo volume specialmente ci sono molte lettere scritte dall’Italia, e per dire fin da principio l’impressione che quelle lettere lasciano in un italiano mediocremente colto, per dirlo anzi in termini garbati e parlamentari, diremo che non si può essere più corto, più volgare, più talpa di Sua Altezza il principe Clemente Venceslao Nepomuceno Lotario di Metternich, Cancelliere di Corte e di Stato dell’Impero d’Austria.
Io credo che se Ferdinando Martini non avesse fatto altro, avrebbe dato già una prova di grande ingegno definendo, come definì, il principe di Metternich un grande impiegato.
Non credo che un viaggiatore possa essere più trivialmente volgare del principe quando scrive le impressioni ricevute dalla natura o dall’arte italiana. La più frigida miss inglese scrive con maggior entusiasmo e con maggiore intelligenza gli scarabocchi del suo giornale di viaggio. Ho il sospetto che il principe copiasse qualche Guida o cresimasse come sue le bestialità di qualche cicerone patentato, e che scrivesse di suo solo le variazioni di temperatura; come quando in faccia alla divina veduta della Toscana non sa dire altro che c’è una finestra dalla quale si vedono quattro mila case e che dalle undici alle cinque fa caldo. E questo sospetto cresce quando sento il principe dire: «Una cosa notevole di questo paese è la qualità di coltura che si trova nel popolo. Non c’è un contadino che non parli la sua lingua con tutta la ricercatezza e l’eleganza di un accademico della Crusca. Parlare con questa brava gente è cosa curiosa, poichè parlano come si parla nelle illustri sale di conversazione, senza dialetto e senza quelle grida e quegli scoppi di voce che si sentono nel resto d’Italia. Un vignaiuolo che aveva l’aspetto quasi di un negro mi fece da cicerone e mi raccontò tutto, mi spiegò tutto, come avrebbe potuto fare un antiquario».
Povero principe! Certo qualcuno gli diede ad intendere queste sciocchezze per canzonarlo, e lasceremo a carico della sua coscienza la ricercatezza e l’eleganza del discorso degli accademici della Crusca, il purgato dire dei vignaiuoli di Fiesole (Dio.... buono!) e la scienza archeologica che si trova così facilmente fuori di porta San Gallo, come le pietre nere su pel Mugnone. E gli lasceremo l’entusiasmo che prova pei vasi di alabastro e tutte le furberie dei negozianti e dei figurinai del Lungo Arno, entusiasmi che mostrano in lui una perfetta assenza d’ogni gusto d’arte, una innata volgarità, una grave atrofia d’ingegno. Il figlio, che pubblicò queste Memorie, scelse la parte di Cam; ma avrebbe fatto meglio, come Sem e Jafet, a coprire le miserie paterne.
Lasciamo pure la politica, benchè, senza offendere le convinzioni di nessuno, si possa meravigliare come un grand’uomo di Stato come il Metternich, da Napoli alla vigilia dei moti del 1821, scriva che il Re è amato da tutti e che le due Sicilie saranno l’ultimo paese in cui la rivoluzione potrà tentare una levata di scudi. Ma ad ogni modo bisognerà pur convenire che, quando un uomo di una certa coltura, giunto ad una altezza dove pochi giungono, che si ritiene quasi infallibile e che scrive confidenzialmente quel che gli esce dal cuore e scrive a quel modo, bisogna che senta ben poco e intenda meno, se, in faccia a spettacoli[75] od a capolavori che commoverebbero un maniscalco, non sa trovare che una frase minchiona, sempre quella: «Non si può veder nulla di più bello.» Davanti alla Venere dei Medici, alla Madonna della Scodella, agli splendidi orizzonti toscani, al verde paradiso dei bagni di Lucca, dove persino l’acredine germanica di Enrico Heine si temperò fino all’atticismo, il povero principe sente di essere obbligato ad entusiasmarsi e si flagella i fianchi per trovar qualche cosa e non sa scrivere alla moglie altro che la frase stereotipa ed eterna: «Non si può veder nulla di più bello». Povera principessa! Giova sperare che sarà stata più forte della Regina di Spagna nel Ruy Blas di Victor Hugo, la quale nell’ora della tentazione riceve dal marito la nota lettera: «Madame, il fait gran vent, et j’ai tué six loups».
Certo il Metternich, in queste parecchie migliaia di pagine, rimane sempre un diplomatico cui non sfugge un segreto. Ma è difficile parlar molto, parlar tanto, senza che l’ascoltatore non capisca anche quello che l’autore cerca di nascondere con ogni studio. Quando, dopo aver navigato sopra questo pelago immenso, si giunge faticosamente alla riva, uno si raccoglie dentro sè stesso, conclude e per forza riassume le diverse impressioni provate. Nessuna onda tradì da sè il gran secreto dello sterminato mare, ma tutte insieme lo hanno tradito. Possiamo bene trovar qua e là dei tentativi di espansione, dei desiderii di pace e d’amore, ma nel complesso immenso dell’opera spariscono per lasciar posto ad una impressione geniale di aridità, di povertà di cuore, di miseria intellettiva, che davvero agghiaccia anche i più benevoli. Questo non è un uomo di carne e d’ossa come noi, ma è un uomo di legno: di quercia se volete; ma sempre di legno. È una macchina da scriver note diplomatiche, caricata di una forte molla, precisa come un cronometro nella inflessibilità logica dei suoi principii: ma sente quello che sente una macchina. Che gli uomini muoiano, che i popoli sudino sangue, non importa: l’orologio prosegue imperturbato il suo moto e peggio per quelli che nel quadrante leggeranno l’ora dell’agonia.
Eppure, se il libro della sua inesorabile freddezza attrista e fa perdere la fede nella bontà umana, eppure ci consola in questo, che ci appare come un’ammenda onorevole che il superbo principe fa davanti a noi, colla corda al collo e i piedi scalzi. Egli è venuto finalmente a rispondere di sè al nostro tribunale, a scolparsi, ad implorare una assoluzione che gli neghiamo. Ecco il principe che fondava una Rivista, e che tuttavia ispirandola la sottoponeva alla censura della polizia, eccolo che approfitta di[76] questa maledetta stampa poichè sente ch’egli deve scolparsi davanti ai posteri. Egli viene a noi per dirci che fu buon figlio, buon marito e buon padre; che agì secondo la sua coscienza gli dettava, che la religione e l’educazione sua gl’imponevano di agire così; e noi, giudici tutti ed oramai dal tempo fatti imparziali, gli rispondiamo che solo la compassione che proviamo per le sue miserie di cuore e d’intelletto ci trattengono dal condannarlo alle gemonie dell’umanità. La sola attenuante sta nella viltà di coloro, piccoli o grandi, che poterono rassegnarsi al dominio di due uomini senza viscere umane come l’imperatore Francesco e il suo cancelliere. Non si può invocare altro che un mezzo di difesa; il noto detto: i popoli hanno il governo che meritano.
Quando gli muore la figlia Maria, quella che amava di più, egli finalmente si sente commosso; ma il suo dolore non è di animo ben fatto. Chi di noi in simili sciagure non ha tentato di salvare almeno una tavola dal naufragio, un ritratto, una ciocca di capelli, un nastro, qualche cosa che tenga viva la memoria dei morti? Coloro poi che sono squisitamente sensibili, provano una specie di voluttà a rimescolare col ferro dentro la piaga, a tormentarsi, a martirizzarsi senza fine, ritornando alle memorie del passato felice, evocando nella fantasia le sembianze dei morti, le dolci parole, le carezze perdute per sempre. Ma questo padre, colpito nel più vivo de’ suoi affetti, non ha che un desiderio solo, quello di disperdere dalla terra ogni cosa che gli rinnovi il dolore. Egli gode sapendo che la casa dell’estinta sarà spianata e che passeggiando per quella via non ci sarà più memoria delle mura dove la figlia sua, la carne della sua carne, soffrì o fu felice. E questa gioia il Metternich non la nasconde; se ne vanta quasi colla serena imbecillità dell’egoista, proprio là dove protesta alla posterità d’esser stato buon padre ed amantissimo della famiglia. Ora in faccia a questo egoismo ingenuamente brutale, davanti a questa macchina da protocolli che non solo è sorda alle grida dei torturati dello Spielberg, ma che respinge come un attentato alle proprie digestioni le strazianti memorie di una figlia perduta, non c’è che un sentimento che possa renderci indulgenti: la compassione.
Sono ingiusti coloro che vituperando le avare virtù e gli avarissimi vizi della borghesia, accusano la società presente di aver partorito questa classe di uomini piccinamente egoisti. Perchè gridare contro ai poveri droghieri se non intendono le squisitezze dell’arte o gli ardimenti della politica? Ecco un principe educato con ogni cura nelle ricchezze e nelle pompe, salito sino dove si può salire, onorato come un sovrano, ricco come un nababbo,[77] temuto come uno czar, ed eccolo più miserabilmente borghese di un Gerolamo Pâturot qualunque, più egoista che non sia il più egoista dei rivenditori di candele e di pepe. Non è dunque una istituzione, non è un ministero, non è una società che dobbiamo incolpare delle idee piccine e maligne di una data classe di persone. Gli egoisti sono di tutti i tempi e di tutti i paesi, e ci sono centomila pizzicagnoli che hanno più cuore ed idee più generose che il cancelliere dell’imperator Francesco.
Dicono che le ire nemiche non debbono sopravvivere alla tomba; ma poichè il principe si appella ai posteri questi possono ben dirgli quel che sentono di lui. Egli non ci appare più che come un mediocre capo sezione che supplisce colla cocciutaggine alla mancanza del giudizio, del cuore, e forse della coscienza.
Il quinto volume delle Memorie del principe di Metternich non so se sia più importante dei precedenti in riga di politica, ma è certo il più curioso di tutti, specialmente per gl’italiani. Infatti, la curiosità generale vi è stuzzicata da frammenti di memorie della principessa Melania, terza moglie del celebre Cancelliere; e la curiosità politica, specialmente per noi, da tutto quello che si riferisce ai moti del 1831.
Lascio stare la politica, anche storica che non è di mia competenza qui, e vi prego di dare un’occhiata ai brani staccati dal Giornale della principessa; staccati, ahimè, con molta, con troppa parsimonia. Anche qui il pubblicatore, troncando e tagliando, fa nascere nei lettori il sospetto che tutta la fisonomia della illustre dama non si trovi nei pochi segni mostrati al pubblico. Che questa pubblicazione sia fatta con un intente, spiegabile, ma poco imparziale, di glorificazione postuma dell’antipatico cancelliere, è già stato detto e provato. Ora è confermato dalla severa misura con cui ci sono date le poche pagine del Diario della principessa. Diario che, secondo la prefazione, consta di trenta volumi in quarto, di scrittura minutissima. Anche qui, dunque, siamo sicuri che non ci è offerto se non ciò che può servire all’apoteosi del principe. A questo intento quelle brevi pagine sono troppe, perchè inutili; per l’interesse generale della biografia e della storia, sono invece poche, e poco sincere perchè amputate.
Ad ogni modo non cessano però d’esser curiose, e senza dubbio sono la parte meno pesante di questi pesantissimi volumi.
La contessa Melania Zichy Fèrraris non era più d’una giovanetta appena pubere, quando il principe di Metternich due volte vedovo, le diede il suo nome ed i suoi sessant’anni. E’ molto difficile che l’amore le abbia fatto accettare la mano grinzosa del vecchio diplomatico, il quale, a buon conto, aveva in casa due figlie da marito. E’ troppo facile capire da quali sentimenti sia stata mossa la gentildonna che era in età di comprendere il passo che faceva.
Certo, a quel tempo, il gusto di sentirsi chiamare principessa di Metternich doveva essere tale da far superare parecchie delicate ripugnanze femminili; ma questa indagine dei perchè, non sarebbe qui al suo posto.
Le nozze avvennero nel 30 gennaio 1831 ed è a quella data che ci è permesso di leggere qualche riga del diario della principessa. «Ho cominciato la mia giornata confessandomi al Padre Schmitt; poi tutti, con mio padre, ci comunicammo nella cappella degli Scozzesi. La mattina, Clemente (il principe) venne a portare i miei diamanti che sono bellissimi e benissimo legati. Alle sei andammo a colazione da Clemente con Adele e Guglielmo Taxis, poi mi misi in gala, veste di pizzo, diamanti, velo e corona di mirto che la zia Lichnowsky m’aveva mandato da Gratz. Era venuta una folla di gente per vedermi. Chiesi ai genitori la loro benedizione, poi andammo in carrozza dal Nunzio, presso al quale era riunita la famiglia intera. C’erano più di novanta persone ed il Nunzio ci unì e ci fece un bel discorso. La cerimonia non durò molto ed insomma tutto fu assai bello e conveniente, eravamo appena in casa che tutta Vienna accorse e le nostre sale rigurgitavano di gente. Feci quel che potevo per far buona impressione a tutti e tutti furono buoni per me. Cenammo in famiglia, poi la mamma mi accompagnò nella mia nuova dimora».
Io domando se queste sono le emozioni ed i sentimenti della fanciulla che si trova finalmente in faccia a quella incognita desiderata e temuta, a quel terribile e dolce mistero del matrimonio? S’intende bene che alla gran dama non si chiede la confidenza degli intimi spaventi del pudore e della delicatezza, ma s’intende anche che in un giorno come quello è per lo meno strano rimaner colpiti soltanto dalle pompe esteriori, dalla corona di mirto, senza badare al loro profondo significato, sarebbe abbastanza strana l’impressione d’un soldato che di una carica sanguinosa non ci ricordasse altro che le stonature della tromba. Io chieggo a tutte le signore che non hanno sposato un principe di sessantanni, se del giorno delle nozze non conservano altre memorie che quelle del vestito e del velo. Io[80] domando a tutti se questa bella dama che pronuncia il sì irrevocabile davanti al suo Dio, ami davvero l’uomo che le porge il simbolico anello. Le signore, e anche le signorine, rispondano.
Più tardi la principessa diventerà ammiratrice fanatica del marito e consegnerà al suo diario le espressioni vivaci del proprio entusiasmo. I figli, la sua rosea Melania che le sorride cogli occhi azzurri, le ispireranno alcune di quelle frasi che non possono esser indovinate che dalle madri: ma pel marito non c’è altro che l’ammirazione. O che i pubblicatori le abbiano soppresse, o che in fatto ne’ diari non ci siano, cerchereste inutilmente quelle parole care che sfuggono alle donne innamorate per quanto cerchino di custodire gelosamente il segreto. Il principe sessagenario può sforzarsi di esser marito quanto gli pare, l’affetto che gli si restituisce è filiale, non coniugale.
Del resto il principe doveva preferire senza dubbio una moglie piena di sentimenti di venerazione ad una ardente di amori giovanili. Egli stesso l’educa al nuovo stato, e si vede chiaro che la spinge a farsi amministratrice della casa e propria intendente. I vecchi sono quasi sempre egoisti; figurarsi poi quel Metternich che aveva altro pel capo che le sensibilità romantiche del suo tempo! La principessa attribuisce a fortezza d’animo i suoi sonni tranquilli nei momenti più gravi, come in quella notte che fu l’ultima per l’imperatore Francesco. Sarà: ma l’aridità dell’egoismo potrebbe entrarci per qualche cosa.
Comunque sia, è evidente che il Metternich, il quale era troppo religioso e troppo prudente per cercare distrazioni passeggere al suo stato vedovile, e che d’altra parte aveva bisogno di una dama che sapesse ricevere degnamente i suoi invitati, scelse la contessa Zichy con tutt’altri criteri che quelli dell’affetto comune. Due settimane dopo le nozze, parla d’affari alla moglie, la quale si sforza a capirli, sapendo bene che diverranno una obbligazione per lei. Si fa leggere da lei i dispacci, le parla di politica, e la principessa racconta ingenuamente ch’egli continua questi discorsi anche quando la sera, dopo la partenza degl’invitati, rimane con lei da solo a sola, nell’intimità. Qualche volta pare che la moglie senta la tristezza di questa vita consacrata tutta ai comodi di un vecchio; ha degli impeti di espansione che non trovano sfogo e tre mesi appena dopo il matrimonio, dice tristamente: «Ah, chi potesse trovare il tempo di parlare con lui!» Intanto il principe ha raggiunto il suo scopo. La principessa presiede ammirabilmente alle sue feste, e nell’intimità è divenuta la sua paziente lettrice. Aveva preso moglie pei suoi comodi e pei suoi incomodi, ed era stato[81] felice nella scelta. I vecchi però non s’illudano. Non è facile essere così fortunati.
Nel primo anno, la principessa è quasi spaventata dell’altezza su cui si trova. Ha il capogiro e tutto le dà i brividi della paura. Il primo anno del suo diario è tutto pieno di questi spaventi, e ad ogni tumulto che accade, anche nelle più lontane plaghe d’Europa, le pare che il mondo debba finire a sconquasso. E’ ben vero che nel 1831 anche il cancelliere aveva paura e scriveva ad Apponyi, ambasciatore austriaco a Parigi, queste parole: «La situazione generale delle cose è delle più pericolose. Sapete che io non sono di quelli che disperano facilmente del buon successo della cosa pubblica, eppure la mia coscienza mi dice che i pericoli sono più grandi delle probabilità di salute». Lo diceva lui che credeva d’aver stritolato Napoleone! E’ naturale dunque che la principessa tremasse più di lui: ma non tardò molto a riprendere l’equilibrio. Il primo gennaio del 1834 si sentiva così padrona di sè e del marito, da gittare un sanguinoso insulto in faccia a Luigi Filippo nella persona del suo ambasciatore.
Ella narra la cosa a questo modo: «Questa sera non si parlava che della risposta che feci al signor di Saint-Aulaire il 1º gennaio. Portavo una specie di corona di diamanti ed egli mi disse: “Ma, principessa, ella ha in testa una corona,” ed io senza commuovermi replicai: “E perchè no? E’ mia, e se non fosse mia non la porterei.” Questa storiella ha fatto rapidamente il giro della società e gli arciduchi me ne hanno parlato; il che ci secca, perchè lo saprà il pubblico e Clemente me ne rimprovererà.» E’ inutile spiegare come in quella risposta impertinente fosse un’allusione troppo chiara alla corona di Luigi Filippo; corona, secondo le conosciute opinioni della principessa, usurpata ai legittimi possessori.
Come si vede, la principessa non era più la timida sposina di tre anni avanti. E più impertinenti sono le risposte date all’ambasciatore che dodici giorni dopo veniva a chiedere spiegazioni. «A mezz’ora dopo mezzodì; entrò da me con aspetto molto serio. Gli dissi che mi pareva che venisse da me con intenzioni ostili e che ero pronta a sostenere una lotta ad oltranza, ed egli rispose molto serio che non veniva a scherzare sopra cose gravi. Suonai per far chiamare mio marito, che venne subito. Allora il signor di Sante-Aulaire, visibilmente irritato, ripetè la risposta che gli avevo fatto il primo dell’anno. Aggiunse ch’egli m’aveva inteso dire parole più o meno convenienti, ma che non avrebbe creduto ch’io le avrei ripetute. Disse[82] che da tutte le parti erano venuti a raccontargli che m’ero vantata di questa risposta offensiva e che anzi aveva aggiunto: «Gliene ho ben detto delle peggio!» Io non mi sconcertai un momento, e gli dissi che non potevo negare di aver dichiarato con intenzione che se la corona che portavo non fosse stata mia, non l’avrei portata; ma che tuttavia non avevo ripetuto quella dichiarazione, sopratutto perchè l’occasione non s’era presentata, e poi perchè anche avendo pochissime simpatie pel suo Governo e tutto quel che lo riguarda, non avevo però mai avuta l’idea di offender lui personalmente e di recar dispiacere a sua moglie ed i suoi figli che ritenevo buoni ed onesti».
La risposta era garbata per la persona, ma offensiva per l’ambasciatore e il suo Governo. Ad ogni modo la faccenda si quietò mettendo ogni cosa sul conto dei mettimale, ed anche forse perchè non conveniva al Governo francese dar troppo importanza alle malignità di una pettegola. E’ però curiosa la versione ufficiale che il Cancelliere ne diede ad Apponyi. «Il primo dell’anno avevo riunito presso di me ad un gran pranzo il corpo diplomatico, ed ecco quel che è successo. Mia moglie aveva un abbigliamento come la circostanza richiedeva ed il signor Sainte-Aulaire le ha detto: “Che bei diamanti Ella ha! Sono superbi! Sono proprio gioie della Corona!” Melania, un po’ impazientita, poichè parecchie persone le avevano parlato del suo abbigliamento, al quale, come sapete, non dà gran peso, rispose: “I miei diamanti sono quelli che sono. Li porto come me li hanno dati e non li ho rubati”». E seguono istruzioni per mettere il resto sul conto delle chiacchiere maligne.
Il Cancelliere mente, poichè la principessa nel suo diario non aveva ragione di mentire. È chiaro lo studio di sostituire diamanti a corona, per togliere l’allusione; ma è anche chiaro che la principessa aveva già la lingua e l’orgoglio che ebbe sempre da poi. Infatti ella divise a Vienna l’impopolarità di suo marito; e il suo salotto, frequentato dai più superbi reazionari dell’impero, pareva il centro delle idee più aristocratiche e retrograde.
Potevano infatti essere diverse le idee d’una donna cui fino dal primo giorno delle nozze mancò l’amore che ingentilisce l’anima? Dicono che sarà perdonato molto a quelli che hanno amato molto, ma io credo che in buona giustizia si debba perdonare di più a quelli che non hanno potuto amare.
Ieri a sera il campanaro mi assicurò di aver trovato il covo della faina nel bosco, ed eccomi qui nascosto nella macchia coll’occorrente per scrivere sulle ginocchia e la doppietta accanto, in atto di sorvegliare attentamente il nemico. Vorrei dire che lo sorveglio colla penna e colla spada, ma la doppietta non è una spada, cavalleresca: ahimè, costa trenta lire, e se domani dovessi fare alle schioppettate, non ci farei una buona figura!
La faina non esce dal covo che a sera per la notturna caccia de’ polli, e il sole sta per cadere dietro monte Donato. L’ora è propizia. Tra le frasche dei quercioli veggo la pianura che sfuma sino all’orizzonte, violacea, azzurrognola e le torri le case di Bologna tinte di quel colore di rosa de’ tramonti che non bisognerebbe rimproverare al Carducci, il quale non ne ha colpa, ma alla natura che lo fa a questo modo. Alla mia destra si profilano nel cielo turchino i colli che sorgono tra l’Idice e il Sillaro; i più vicini colorati del giallo carico delle stoppie o del verde cupo delle macchie cedue, i più lontani, azzurri o violetti velati dalle nebbioline della sera, segnati da qualche striscia aranciata riflessa dal sole che tramonta. Il silenzio solenne dei boschi fa più vive queste sensazioni del colore e della prospettiva aerea, queste gioconde eccitazioni dell’occhio non distratto, questi contatti calmi colla bellezza e colla natura la voluttà della quete si affina e si sublima. Non ha più nulla della materialità sensuale. La fantasia lavora senza forze e senza coscienza. Si sogna quasi, si sogna ad occhi aperti.
Lassù, in alto, lontano lontano, sulla vetta di un monte azzurro si vede distintamente una chiesa rosea che domina[84] la solitudine dalla montagna. È monte Calderaro, tra il Sillaro e la Quaderna. Come si deve star bene lassù a quest’ora col mondo sotto gli occhi eppure tanto lontano! Quel curato là lo invidio: vorrei essere io il curato di monte Calderaro.
Che strano desiderio! Eppure, dopo aver faticato il giorno intero a scarabocchiare la carta, dopo aver turbato il fiele colla lettura dei giornali e scaldato il sangue colle ire politiche o colle gesuitate letterarie, dopo essersi tormentato in una eccitazione faticosa coi nervi tesi come corde di violino che vibrano dolorosamente ad ogni moto vengono questi desideri della calma molle, dell’ozio del cervello, dell’animalità soddisfatta. L’abbazia di Thélème sognata dal Rabelais è anche il sogno segreto di tutti i letterati combattenti, i quali, stanchi della tensione quotidiana, non immaginano di meglio che un ospizio dei poeti invalidi, un convento di frati godenti. Io lascio al giocondo curato di Meudon le torri di marmo, le camere dorate, le vesti di porpora, i conviti delicati; io mi contenterei d’esser fatto curato di monte Calderaro. Ivi riposerei beato e chiuderei gli occhi per sempre in un bel tramonto come questo, guardando al sole, ai monti, al mare lontano, e susurrando soddisfatto: Hoc erat in votis!
Mi vedete? Lassù nel silenzio della montagna, sul praticello che verdeggia davanti alla canonica, c’è un tavolino con alcuni libri ed una bottiglia. Accanto, in un comodo seggiolone, siede il reverendo curato, seggo io, coi capelli bianchi e la gota florida posata sulla palma della mano. Oh, come sono lontani i tempi della mia giovinezza, come sono lontane le donne che mi lacerarono l’anima col pretesto di volermi bene! A quei tempi come si combatteva, come soffriva o per un diritto o per un amore! Il mondo era una battaglia; il vecchio urtava col nuovo, il privilegio col dritto, l’interesse col dovere, l’equivoco colla verità, e si combatteva. Oh le belle pugne, i bei colpi! E gli strazi delle sconfitte e il giubilo delle vittorie sante, delle vittorie degli umili, del trionfo dei deboli, della redenzione degli oppressi! Ci dicevano senza fede, e noi per la fede nostra davamo ogni cosa più caramente diletta, per la fede conducevamo nella mischia anche i nostri figli, la carne della nostra carne, l’anima dell’anima nostra.
Ci dicevano senza amore, e molti di noi per amore sono morti; ci dicevano senza generosità, e non abbiamo vinto per noi. Questa pianura immensa è seminata delle ossa dei caduti; i vincitori e i vinti dormono nello stesso sepolcro e sulla terra immensa regna solo la giustizia. La[85] battaglia è finita: pace, eterna pace ai morti! Il mio cuore la prega e l’invoca. Non sono curato per niente!
Giù, fumano le ville nascoste tra i frutteti; oggi si cibano coloro che digiunavano ieri. Ecco le messi d’oro, le viti opime, la prosperità della pace, ed è pur dolce pensare che per questa pace si è fatto qualche cosa anche noi. Quando starò per addormentarmi nel sonno che non ha fine mai, mi voglio far portare a quella finestra là, voglio dare un’ultima occhiata a questa terra che altri maledisse e noi benedicemmo, a questa patria de’ miei affetti, dove nacquero i figli miei, dove riposano i miei cari.
Con quello sguardo la vedrò tutta, bella, grande, felice, e non mi dorrà di morire in terra di libertà: con quello sguardo voglio darle l’ultima benedizione; ma la benedizione del vecchio che abbandona la vita sereno, senza dolore e senza rimorsi. Poi mi seppelliranno sotto una pietra bianca qui, all’ombra delle querce, ed i fringuelli faranno i nidi a primavera tra i rami, e nelle notti serene canteranno i rosignoli nei cespugli di rose. Quelli che ora sono bimbi, diverranno uomini, e passando di qui, guarderanno la mia pietra coperta di fiori selvaggi e di muschi morbidi e diranno: povero curato! Era un galantuomo e ci ha voluto bene!
Si, vi ho proprio voluto bene, parrocchiani miei. Io non vi ho insegnato ad aver paura di Dio, non vi ho imbrogliato la testa e la coscienza con precetti minuti e con obblighi di pratiche superstizione. Vi ho detto: non fate male a nessuno; amate il vostro paese, la vostra libertà i vostri fratelli; questa era tutta la dottrina del povero curato. Vi ricordate le sere lunghe d’inverno, quando nevicava fitto ed io accanto al fuoco vi narravo la storia del nostro paese? Ebbene, io non v’ho insegnato mai ad odiar nulla, fuori che il male. Io ve la predicavo davvero quella legge d’amore, di tolleranza, di rettitudine di cuore, per la quale da giovane avevo combattuto i sacerdoti che maledicono, che ingannano, che odiano. Questa chiesa non era la chiesa delle scomuniche, ma della carità e della fratellanza, e voi non avevate paura della logora mia vestaccia nera; e quando d’estate io passavo lungo i margini de’ campi leggendo Virgilio, le belle mietitrici si rizzavano sui solchi, sorridenti nel sole splendido, coi capelli dati ai liberi venti delle nostre montagne, e tendendomi le braccia nude, mi gridavano: Buon passeggio, signor curato! Ed io alle vostre belle mietitrici non ho guastato nè la coscienza, nè altro: questo proprio lo posso dire!....
Ehi, dico, signor curato, dove andiamo a finire? Vedete un po’ che razza di sciocchezze mi girano pel cervello a[86] guardare quella chiesina solitaria sulla vetta di monte Calderaro! Sì, davvero sarei un buon curato io, con quell’odore di santità che ho indosso! Bisognerebbe proprio che monsignore arcivescovo fosse matto da legare per sacramentarmi questo! E poi tutto questo non è che un sogno impossibile. Certo sarei un buon curato, meglio di molti e di moltissimi, ma quelle benedette mietitrici dovrei confessarle io, e... basta!
O la faina dov’è? Non s’è vista o m’è passata tra le gambe senza che io me ne avveda. Riportiamo a casa la doppietta... e l’articolo bell’e fatto. La caccia poteva andar peggio, non è vero?
Chi conosce la montagna, sa i curiosi effetti ottici che procura la nebbia. Salite lentamente come in una nube e la vista non va più in là di pochi passi. Questo vapore umido è quasi palpabile e si muove lentamente a fiocchi, a strisce, a globi, come il fumo del sigaro che disegna cento forme bizzarre in un raggio di sole. Il vostro alito diventa visibile come nell’inverno, e tutto, l’erba, i sassi, i tronchi, è infiltrato d’una umidità fredda che vi attornia, vi penetra le vesti, le carni, le ossa. Alla immobilità sonnolenta de’ boschi aggiungete il silenzio solenne della montagna, la coscienza d’esser molto in alto senza che la vista ve lo dica, tutto quel non so che di misterioso che ha la natura quasi selvaggia, deserta, rude, e sentirete che una salita sopra ai mille metri, in mezzo ad una nube grigia e densa, deve fare un certo effetto.
Sull’ultima vetta, là dove l’occhio dovrebbe dominare una immensa stesa di monti e di pianure, quel maledetto velo di nebbia si interpone come un sipario bianco tra lo spettatore e la scena. È già una sensazione curiosa questa che si prova davanti allo sterminato velo che vi toglie una veduta certamente magnifica; ma se la fortuna vi consente un quarto d’ora propizio, se un soffio di vento spazza via sotto ai vostri occhi la nebbia e vi si scopre quasi improvvisamente lo splendido e desiderato spettacolo, la sensazione esce dal novero delle ordinarie ed entra nella categoria di quelle singolari e meravigliose che gli anglosassoni vengono a cercare sulle nostre alpi col pericolo imminente di fiaccarsi la noce del collo.
Io che cerco ed amo la montagna, mi sono trovato parecchie volte a questa festa degli occhi e dell’intelletto,[88] e tutte le volte m’è venuta in testa una matta idea. Anche stamane ho goduto lo spettacolo della nebbia che si leva rapidamente e scopre la pianura illuminata dal sole, ed anche stamane l’idea matta m’è ritornata in capo e c’è rimasta con tanta ostinazione che mi tocca dirvela.
Tutte le volte, dunque, per chi sa quale strana associazione di idee, penso alle sensazioni ed alle impressioni che proverebbe Marco Tullio Cicerone se agli occhi suoi si scoprisse improvvisamente il nostro mondo, se insomma ritornasse a vivere ad un tratto. È una idea stravagante, ma è così.
Ve lo immaginate voi? Capisco che la sorpresa sarebbe tanto grande da far morire di nuovo il povero oratore per una apoplessia fulminante. Ma poichè siamo sull’immaginare, facciamo conto che viva e cercate di mettere insieme colla fantasia tutta la infinità delle sue sorprese. Aveva lasciato il mondo colla toga e lo ritrova bracato come i galli dei tempi suoi. A che servono i cappelli a tuba? E che scopo può avere il colletto inamidato che sega le orecchie? E gli orologi da tasca? E i portafogli pieni di cartaccia unta? E le botti? E i tramways? E i liquoristi? E i frati ecc.
Un oratore che ebbe tanta parte nelle vicende del suo tempo cercherebbe subito il Foro, e ci troverebbe gli scavatori. Se qualche professore di Università arrivasse a capire il latino del povero resuscitato, lo manderebbe a Montecitorio e il presidente Farini lo farebbe assistere alla tornata dalla tribuna dei senatori. Immaginatevi pure l’arpinate che assiste alla discussione, mettiamo di un bilancio, e ascolti attentamente un’orazione dell’onorevole Luporini. Scapperebbe immediatamente dopo le prime frasi, perché... come ho detto, non intenderebbe l’italiano.
E non intenderebbe il telegrafo: la locomotiva lo spaventerebbe, e ad ogni passo proverebbe una sorpresa nuova e stravagante. Come deve rimanere un romano dell’epoca di Cesare vedendo un romano dell’epoca di Umberto accender la pipa con un fiammifero! E come rimarrebbe chi scrisse della natura degli Dei, dando una occhiata alla nostra santa religione?
Che cosa sono, che cosa fanno tutti quei fratacci di mille colori ma tutti lerci ad un modo? E nelle chiese che cosa significano quelle mascherate buffe, che cosa vogliono dire le riverenze, le smorfie, i segni cabalistici di tutti quei preti coperti da pianete, da stole, da mitre asiatiche, da stoffe d’oro? Gli incensi che fumano, gli inni ragliati, i salmi miagolati sorprenderebbero il buon arpinate, che cercherebbe senza dubbio di metter la testa tra le imposte[89] della sagrestia per vedere se gli auguri ridono tra di loro come ai suoi tempi.
E i cannoni? E i fucili? Non è facile capire quel che potrebbe passare pel capo a un legionario di Farsalia che si trovasse alle grandi manovre, o a un capitano di una trireme d’Azio che assistesse agli esercizi del Duilio ed ai tiri del cannone da cento tonnellate.
Il giuoco del lotto colpirebbe la fantasia del resuscitato quasi quanto i palloni aerostatici, per poco che ne intendesse il meccanismo. E se arrivasse a capire le teorie umanitarie che i governanti sviluppano nei discorsi della Corona e nei discorsi dei ministri, non potrebbe mettere insieme la contraddizione patente e volgare tra le parole e i fatti, non potrebbe capire che si parli come Catone e si agisca come Verre.
I telai, la macchina da cucire, la macchinetta da caffè, il cavaturaccioli lo empirebbero di meraviglia. Ma più si meraviglierebbe se potesse entrare in un ministero, e vedesse che per ordinare il restauro di un muro in un edificio del governo, ci vuole un macchinismo più complicato che non ci voglia a fabbricare un orologio di precisione tanta è la moltitudine dei controlli, dei capi divisione, dei capi sezione, protocollisti, ragionieri e copisti che occorrono per ordinare la spesa di cinque lire.
E per finirla con tutte queste sorprese di Marco Tullio Cicerone, che potete moltiplicare a piacere, dategli a leggere lo Statuto del regno d’Italia in un vagone della ferrovia funicolare del Vesuvio; dategli insomma due diverse meraviglie sott’occhio.
Come stupirà il facondo oratore salendo sicuramente un piano inclinato pericoloso, seduto tranquillamente sui cuscini imbottiti, guardando il magico golfo, le rive ridenti dove anch’egli aveva un giorno una splendida villa. Così l’uomo ha trionfato degli ostacoli della natura, ha portato la comodità dove non era che il pericolo, ha fatto prova di un meraviglioso ingegno nel servirsi di tutti i mezzi offertigli dalla natura e nel superare le forze inerti a lui contrarie coi prodigi della meccanica. A quell’altezza, su quel monte infocato, in faccia ad uno dei più splendidi spettacoli che sia dato all’uomo di contemplare, bisogna che il romano prorompa in tutte le interiezioni latine, in tutte le esclamazioni incomposte dettate dall’istinto, non per esprimere, ma per testimoniare il proprio sbalordimento.
Fategli leggere poi lo Statuto, un accozzo di articoli che vogliono essere la legge fondamentale di tutta una nazione, e che tutti i giorni sono cucinati in tutte le salse secondo il partito che governa. Ditegli che questa legge[90] deve essere immutabile, che è delitto di lesa maestà sostenere il contrario, ma che non c’è un articolo al quale o l’arbitrio di un ministro o l’abilità di un curiale non abbia fatto uno strappo. Ditegli che quella legge invecchiata ha degli articoli caduti per forza in desuetudine, altri così bigottamente ridicoli che provocherebbero uno scoppio di indignazione contro chi ne sostenesse soltanto la possibilità, come quello che sottopone al visto del vescovo i libri di argomento religioso che si stampano nella diocesi, e ditegli che a dispetto di questo noi siamo costretti a dire che lo Statuto è ottimo, a venerarlo, o ad aver a che fare col procuratore del re se non lo trattiamo bene; e il buon Marco Tullio non sarà meno sorpreso che della sua salita verticale sul monte.
Accostatevi al romano, come si fa tra coloro che sono rinchiusi nella stessa carrozza, e domandategli in confidenza che cosa pensa di tutto questo. È avvocato, quindi loquace, e ve lo dirà. Vi dirà che mentre i progressi meccanici, positivi, riguardanti le cose necessarie od anche di lusso, lo hanno compreso di meraviglia indicibile, trova però che in tutto il resto siamo forse più indietro di quel che si era ai suoi tempi. Religione, governo, morale, non sono dei primordii dell’impero, ma del basso impero. Oh, la sa lunga Marco Tullio Cicerone.
Vedete un poco che matte idee fa nascere la nebbia in montagna!
Scrivo a cento passi dall’idillio.
A cento passi di qui, sulla schiena del monte, c’è un bosco di querce non molto alto, perchè la scure lo martirizza troppo, ma fitto e frondoso. In molte macchie il sole non entra mai e l’erba rimane sempre verde, di quel verde oscuro che rivela il terreno grasso e fresco. Ma il monte non scende verso il mezzodì col dolce pendìo di un monte dabbene e tranquillo. L’acqua di un torrentello chiassoso röse sotto, ed una frana gigantesca tolse l’uniformità alla sua architettura troppo regolare. Dall’alto si vede tutta la possente rovina e la fuga de’ massi precipitati al fondo, accavallati, squartati. Una valanga di scogli divelti rovinò giù da questo lato del monte, che rimase come un muro scheggiato, dove, tra risalto e risalto, riescono a saltare solo le capre. Chi si affaccia all’orlo della frana vede in giù il precipizio, il vuoto.
Eppure tra le rocce accatastate in fondo, le querce qua e là rinacquero. Scendendo per altra via sino al torrente, sparisce la sensazione dell’orrido che si prova, guardando dall’alto e si gusta una nuova forma dell’idillio, un nuovo aspetto del paesaggio. Anche qui ci sono ombre fresche ed erbe sempre verdi. L’edera, le vitalbe, i muschi si abbarbicano agli scogli e li vestono, i rovi pendono dai crepacci ed i fiori gialli della ginestra si aprono a centinaia per le coste dirute. Il torrente, castigato dall’estate, ha perduto la voce e scivola tra i sassi quasi vergognoso. Chi cerca il silenzio lo trova qui, meglio che tra i certosini. L’idillio è completo per chi bada ai canti dei fringuelli che fanno all’amore nel bosco profondo, od alle note velate dell’usignuolo che sonnecchia ne’ cespugli, cantando in[92] questa tranquillità anche nelle ore meridiane a dispetto della storia naturale. Tutto ispira la tranquilla melanconia dell’egloga virgiliana, anche il grido rauco della ghiandaia, anche lo strillo acuto del falco, anche il chiocciare pettegolo del merlo che si leva e fugge. Trilli, canti, grida che non sembrano rompere il silenzio solenne, il raccoglimento calmo del luogo e dell’ora. Perchè cercate un Dio pauroso e bieco nel silenzio forzato de’ monasteri, nel raccoglimento voluto ed imposto delle chiese senza luce e de’ chiostri senza vita? Qui bisogna venire a cercar Dio vero e vivo, il Dio che non ha bisogno di teologia e di sacerdoti; e così, nella rivelazione della natura, lo cercarono i pagani e lo trovarono. Il nostro Dio è fuori, dove sbocciano i fiori, dove maturano i frutti e sussurrano il suo nome le querce mosse dal vento e cantano le sue lodi gli uccelli nella libertà del bosco. Il nostro Dio è fuori dalle chiese buie, nei cieli azzurri, nei campi ricchi d’oro delle messi, nel mare immenso, nella verità della giustizia, nel giubilo della bellezza. Fuori dalle chiese è la religione.
Conoscete il vecchio racconto? Al tempo di Augusto o di Tiberio, non ricordo bene, un navigatore attraversava l’Egeo e moveva verso l’Italia. Il vento era propizio e la ciurma sonnecchiava nella quiete del meriggio: solo il nocchiere vegliava. Ad un tratto una voce lo chiamò chiaramente per nome; ma il mare era deserto ed il nocchiere credette di esser vittima di una illusione. Tre volte la voce misteriosa che aleggiava sull’onda, tre volte chiamò il navigante, che finalmente rispose. Disse allora la voce:—Va a Roma e reca la gran novella che il gran Pane è morto!—A queste parole seguì un tumulto di grida, uno scoppio di lamenti e di pianti, poi tutto svanì nella profondità dello spazio e nel silenzio meridiano.
Ebbene la voce mentì. Il gran Pane vive ancora sul mare e sulla terra ed esiste al tramonto della gran favola giudea.
Egli non ha che un’arma per vincere e trionfare: la libertà. La libertà che uccide tutte le religioni, o traendole allo scetticismo col libero esame, o resistendo alla tirannia dei dogmi irragionevoli o reagendo contro la compressione del dispotismo canonico: questa libertà del mare e dei boschi, che diviene a poco a poco la libertà de’ consorzi civili. La voce misteriosa mentì. Il gran Pane non è morto.
Di quanti stolti pregiudizi ci avvelenava questa vecchia religione che vive ormai soltanto perchè si è trasformata in partito politico! I polemisti cattolici che infuriano contro il verismo invadente e lo accusano di fare l’apoteosi del brutto, hanno dimenticato troppo presto che nella loro religione la bellezza è il dominio. Hanno dimenticato che[93] S. Ambrogio, uno de’ padri più tolleranti, tratta la donna di janua diaboli, via iniquitatîs, scorpionis percussio, e gli altri non hanno abbastanza vituperi e sporcizie per la bellezza femminile, per l’amore e per la vita. Ogni fiore nasconde un demone, ogni gioia un peccato, ogni minuto di libertà una eternità di dannazione. L’ideale della perfezione è la Tebaide, e Domenico Morelli interpreta fedelmente lo spirito del cristianesimo romano quando ai diavoli che tentano S. Antonio dà le squisite forme della bellezza muliebre. La perfezione cattolica sta nella sporcizia di S. Francesco, nella deformità ulcerosa di S. Rocco, nella macerazione contro natura, nel terrore di Dio, del demonio e del mondo. La bellezza e la gioia sono peccati.
Questi boschi che il paganesimo aveva popolato di liete fantasie, il cattolicismo li ha popolati di tentazioni e di demoni. L’anacoreta non fugge solo il mondo, ma la natura, cercando la sterilità del deserto; e i monaci occidentali che si contentano delle cime sassose della Verna o di Subiaco, sono già troppo lontani dalla perfezione dell’anacoreta; sono soldati della Chiesa accasermati su quelle cime, ma pronti a discendere al combattimento non appena l’obbedienza li chiami. E in quei boschi stessi, dove il paganesimo avrebbe visto animarsi la natura e i fauni uscir dalle macchie e le ninfe dalle fonti e dagli alberi, il fedele non trova più che la tradizione di spaventose lotte dei santi coi diavoli, impressioni miracolose di piedi e di mani nel sasso, reliquie paurose delle pugne antiche tra il cristianesimo e la natura. È legge dunque che la creatura debba amare senza fine il creatore, ma odiare senza misura il creato. La legge di Cristo, che in principio fu di amore e parve un socialismo uguagliatore ed umano, dopo il trionfo divenne legge di odio universale, santificazione di tutte le tirannie più bestiali e feroci.
Ma il mondo si muove. All’esposizione di Torino i soddisfatti hanno visto con terrore i prodromi di quell’arte dagli intenti sociali, che videro già e maledissero nelle lettere. Tutto si agita, e chi tende l’orecchio sente i rumori misteriosi che fremono nella foresta quando il succhio comincia a risalire pei tronchi irrigiditi dall’inverno e le gemme inturgidiscono e nel silenzio si desta la vita. Già si comincia ad amare il mondo ed a cercarvi quel che ci promisero al di là della tomba. Sfumano i vecchi ideali, sogni senza forme precise, aspirazioni indefinite ed oziose ad un bello intangibile, ad un bene impossibile, e comincia la ricerca assidua della verità definita, del bello e del bene che possiamo raggiungere. Non c’è bisogno di una Sibilla Cumea per vaticinare la fine di una età e l’inizio di una nuova; tutti lo sentiamo intimamente, anche[94] quelli che, come i bimbi, si turano le orecchie per tema dello scoppio.
E torneremo ad una poesia dove anche l’idillio sarà ammesso, quell’idillio che si comunica da molti col nome di Arcadia. Già il Carducci, nel Canto dell’amore, ci additava le nuove forme di una poesia della natura, di quella poesia la cui perfezione spaventa nelle Odi barbare. Quello non è l’idillio dell’Arcadia davvero, eppure chi negherà che in quei versi non si trovi una viva ed evidente rappresentazione della natura? Si grida alla poesia pagana! E che per ciò? Al postutto il mondo pagano non si corruppe se non quando abbandonò la via della libertà, di quella libertà che oggi cerchiamo. Perchè non saremo piuttosto pagani che flagellati?
Le querce susurrano parole d’amore e le fronde si cercano, e le cime si chinano leggermente come per accarezzare le cime vicine. Cantano sempre gli uccelli e cantano d’amore. Fino le stridule cicale cantano a modo loro l’inno della vita.
Chiedetelo a questi boschi, che ve lo diranno. La legge vecchia fu legge d’odio: la nuova sarà di amore.
Il Lèouzon Le Duc, stampando la sua traduzione dei canti nazionali svedesi, diceva che mentre il mezzogiorno ci illumina col suo sole, ci culla con la sua armonia, c’inebria co’ suoi profumi, il nord invece non ci appare che attraverso ad una nube lontana, come un fantasma gelido avvolto in tenebre eterne. Il nord ci fa paura.
Ed è vero. Il Baretti, uomo di pochi pregiudizi e che aveva girato il mondo, chiama spaventosa la Norvegia ed orribile la Finlandia. I lapponi che ci descrive il Mantegazza[1] ci fanno proprio paura.
Se dobbiamo credere alla Genesi, poi che Noè «bevve del vino e s’inebriò e si scoperse nel mezzo del suo tabernacolo» il curioso Cam fu maledetto ed i suoi discendenti condannati ad essere i servi de’ suoi fratelli. Bisogna dire che Dio non ratificasse la maledizione dell’enologo patriarca, perchè i cananei sono più fortunati di molti semiti. L’Africa, la terra dove le tradizioni religiose hanno voluto mettere la punizione del peccato di Cam, ad ogni nuovo viaggio di scoperta ci appare più ricca ed invidiabile, mentre la terra della desolazione e dello spavento è toccata in retaggio ai poveri semiti che avevano bene meritato della decenza. Così va il mondo.
Noi, nati nel paese che ispirava il canto nostalgico di Mignon, nel paese «dove fioriscono i limoni, dove tra le brune foglie rosseggiano le arance d’oro, dove un’aura leggera scende dall’azzurro cielo e il mirto cresce modesto e superbo l’alloro,» noi pensiamo con terrore alle lande[96] desolate dove vegetano a stento i licheni che Linneo chiamò «gli ultimi vegetali che coprono l’ultima terra». Quasi tutto l’anno la neve copre il suolo sterile, e qualche volta il termometro segna cinquanta gradi sotto lo zero. Per molti mesi il giorno cede il posto alla notte continuata, incresciosa, e per altrettanto tempo la notte scompare affatto e il sole rimane ventiquattro ore sull’orizzonte, snervando gli uomini colla sua luce ostinata e nemica del sonno, come nascondendosi per giorni lunghi, eterni, pareva aver già spento la vita ingrata, vive un povero popolo di pastori erranti e semibarbari. Quando la stagione lo consente i lapponi scendono verso il mare, dove le acque tepide del Gulfstream mantengono una temperatura meno gelata. Le correnti portano qualche volta tronchi d’alberi cresciuti sotto cielo migliore e semi fino dalle Antille, che sono raccolti e conservati come amuleti. Poi, esauriti i pascoli per le renne, è d’uopo ritornare al triste luogo di partenza. Il Mantegazza dà la traduzione di alcuni canti lapponi: eccone uno tristissimo che ho chiuso nelle strettoie del verso italiano:
Io, povero lappone vagabondo
Io qua giù debbo faticando errar.
Debbo peregrinar per tutto il mondo,
Tutta la vita mia così passar.
Non è bello; si sa, è poesia lappone: ma è ben triste questa sintesi della vita di un popolo intero chiusa in quattro versi dolorosi, mentre a noi, come all’Ermengarda del Manzoni,
...ogni aurora
Cresce la gioia del destarsi!....
Partono cogli armenti di renne, affaticati dalla vita nomade, privi d’ogni conforto, d’ogni comodo, d’ogni speranza di meglio. Il Rèclus ci dice che hanno gli zigomi sporgenti, il naso schiacciato all’estremità, gli occhi piccoli, la faccia triangolare, la barba rasa e la pelle spesso giallastra. Insomma non sono belli. Vivono in buchi scavati in terra e mal coperti da una tenda di lana o di pelle. Tremano tutto i giorni che il lupo non assalga le renne e non privi l’intera famiglia dell’unico mezzo di sussistenza. Di rado sanno leggere, e spesso nella loro nuova religione non possono dimenticare le superstizioni dell’antica idolatria. Tutto manca loro: bellezza, ingegno, sicurezza, coltura,[97] reliquie, tutto. Eppure... eppure queste creature disgraziate, queste caricature d’uomo, amano e soffrono come noi, cantano l’amore meno raffinatamente ma collo stesso cuore del Petrarca, il quale avrebbe espresso certo in versi migliori ma non meno melanconici quei sentimenti del povero lappone che emigra:
Avanti me ne vo peregrinando,
Ma si volgono addietro i miei pensieri:
Dov’è, dov’è la sposa mia? domando...
Ahimè, segue il mio cuore altri sentieri!
Tornati nelle terre più centrali, non cercano per loro le privazioni e gli stenti. Il loro vitto è orribile. Poco latte di renna cagliato e gelato. Carne bollita e tuffata nel sego. Caffè misto di sangue e di grasso, qualche cosa insomma da rivoltare lo stomaco ad una statua di bronzo. Eppure in mezzo agli orrori di quelle notti senza fine, di quelle fatiche senza riposo, di quella vita dolorosa che per metà ci fa compassione e per metà schifo, l’amore rimane in tutte le sue migliori forme e canta gli inni del trionfo o le elegie dell’abbandono, come presso tutti i popoli del mondo. A Roma, per dire quel che hanno visto tutti, il cacciatore che ha ucciso la volpe le recide la coda e la presenta alla nobile dama che prima sopraggiunge. Il lappone canta:
Andai su gli alti monti
De ’l rangifero a caccia.
Uno ne cadde sotto al ferreo strale
E penetrò la punta
Tutta ne ’l caldo cor de ’l animale.
Cadde il renne ad un tratto e su la neve
Immobile si giacque.
Su le spalle lo presi
E a ’l villaggio natìo così discesi,
Gli recisi le zampe e le scagliai
E disdegnoso le gettai ne ’l lago,
Gli recisile zampe e le scagliai
Ne l’onda, e presi il corpo e lo portai
A’ genitori miei ne la capanna.
A lor la carne diedi,
Ed a la donna mia, tutto festante,
Il coricin donai caldo e fumante.
Il Petrarca scrive un canzoniere per la morte di Laura, che egli rassomiglia volentieri al superbo alloro di Mignon. Il lappone non conosce l’alloro e paragona la sua donna alla neve, a quella stessa neve che a noi sembra tanto triste:
Ahi, che il mio cuore di tristezza è greve
Perchè m’han tolto la mia cara neve!
E pure, e pur se a questo mondo gemo,
C’incontreremo in ciel, c’incontreremo.
Vi ricordate la canzone di Desdemona a’ piè d’un mesto salice? E i bei versi di Alfredo di Musset che gli amici inscrissero sulla pietra sepolcrale?
Mes chers amis, quand je mourrai,
Plantez un saule au cimetière,
J’aime son feuillage éploré,
La páleur m’en est douce et chére,
Et son ombre sera légére
A la terre ou je dormirai.
Anche il lappone canta l’albero che è simbolo della melanconia:
Piccolo salice, piccolo salice,
Deh, perchè questa tua confusione?
Ti culla il vento, piccolo salice,
Ti culla il vento de ’l settentrione?
Ti culla il vento, piccolo salice,
O con la piova tormentatrice
Ti sbatte, o scende co’ l’onda gelida,
Co’ l’onda, a carezzar la tua radice?
E vi ricordate la prima favola de La Fontaine: La cigale, ayant chanté tout t’étè, ecc.? Dice il lappone:
Chiese la cavalletta a la zanzara:
—Che cosa fate voi tutta l’estate?
—Canto, rispose. E voi che cosa fate?
—Ballo, mia cara.
Che più? Ci sono delle frasi intere che sono belle in Grecia come in Lapponia. Un canto, che lascio per maggior precisione nella versione in prosa del Mantegazza e[99] che fa parte del ciclo del gemente Kaskias, dice: «Io non ritorno più,—giammai—giammai in questo mondo—ritornerò io a te.» E un frammento di Saffo (diciamolo in latino!):
Virginitas virginitas, quo abis me rèlicta?
(Non amplius, reddam ad te, non amplius!)
Insomma vediamo tra i poveri lapponi e il resto degli europei una diversità radicale di razza, di istinti, di vita, di costumi, di tutto quel che volete, ma troviamo una equivalenza quasi completa nella espressione letteraria dell’amore, almeno per quel che si può capire dai pochi canti amorosi che ci riferisce il Mantegazza. Intendiamoci. Sicuro che la espressione letteraria del Petrarca è meravigliosamente superiore, come raffinatezza di forma e di sentimento, a quella dei poeti lapponi; si capisce. Ma il sentimento, benchè più primitivo e rozzo, il lappone lo ha identico e lo esprime con la stessa intonazione di un poeta incivilito e colto. Si può dire che questa è una affermazione degna del signor De La Palisse, buon’anima sua, perchè l’amore è lo stesso da per tutto; ma io mi permetterò di respingere rispettosamente questa parentela coll’illustre guerriero che seppe esser vivo due ore prima della morte, osservando che c’è proprio una grandissima differenza nella espressione letteraria e facilmente anche nel sentimento dell’amore, tra noi e le razze semitiche. L’amore noi lo sentiamo e non lo cantiamo come il poeta ebreo del Cantico dei Cantici, mi pare Hafiz e il Petrarca furono contemporanei, furono grandi tutti e due nella lirica amorosa; eppure c’è meno differenza tra il poeta italiano e il lappone, che non tra l’italiano e il persiano. Non faccio, s’intende, paragoni irriverenti, ma voglio dire soltanto che il lappone semita sente ed esprime l’amore piuttosto come un indo-europeo che come un asiatico; eppure il lappone è asiatico. Mi spiego?
E questa somiglianza colpisce di più, se si bada che tutto quello che non riguarda l’amore è sentito ed espresso come noi non sappiamo sentire ed esprimere. Il canto i figli del Sole, raccolto dal Fjellner, è lappone, è barbaro, è strano, non ha una frase che possa entrare nelle nostre letterature senza sforzo. Il canto La bellezza della sposa si può invece tradurre benissimo, e mi ci proverei se non fosse troppo lungo e la poesia lappone non fosse ormai troppa. Una stranezza sola c’è in quei trenta versi, ed è là dove l’innamorato si augura i piedi dell’oca ed i piedi della bella anatra, per andare dalla sua bella. Tutto il[100] resto può essere scritto in Italia, in Germania, in Inghilterra, dove volete; e questo perchè è un canto d’amore, mentre l’altro, esclusivamente ed orribilmente barbarico ed intraducibile, è un canto tra l’epico e il drammatico, riflesso di qualche antica leggenda.
Così, ignorato quasi tra le nevi e la notte, vive un popolo che non conosce nessuno di questi sorrisi di cielo, di queste mollezze del clima, dei costumi e dei canti nostri. Chi potrebbe far capire ad un povero lappone come sia azzurro il mare a Sorrento, come sia allegro un giorno di vendemmia, come sublime un quartetto di Beethoven? Noi ci sentiamo mossi a pietà.... eppure il lappone è del parere di Mefistofele e non ha troppo simpatie pel mezzogiorno. Mefistofele non ci poteva soffrire i preti e gli scorpioni, ed il lappone non può soffrire il vento caldo. Egli dice (abbiate pazienza, ho finito):
Di’, quale è il vento che ti par più bello?
Di’, quale è il vento che ti piace più?
Quello de ’l sud, torbido e caldo, o quello
Che da i monti de ’l nord fresco vien giù?
Siamo ben lungi dunque dall’invidiarci a vicenda, come facciamo spesso coi nostri vicini. Possiamo dunque, così da lontano, mantenere una corrente di platoniche simpatie, che non influirà punto sopra i nostri confini o le nostre letterature: e questo mi pare uno dei più invidiabili casi di fratellanza dei popoli. Se si potesse far sempre così!
—Vieni un po’ a vedere.
—Che c’è?
Mi sono affacciato al balcone ed ho visto il mio bimbo giù nel prato, col cappellino alla sgherra, le mani dietro la schiena e la pipa (spenta, meno male,) la mia pipa in bocca. Se vedeste che arie si dà, se vedeste con che gravità, con che sussiego passeggia! Ah, canaglietta! Alto due soldi di cacio, non arriva a tre anni e prova già la fregola della pipa!
Sua madre gli ha domandato:—O bimbo, che fai?
—Faccio tome papà. Vedete un po’ il birbante! Adduce a scusa l’esempio paterno. Ma che gli evoluzionisti abbiano proprio ragione e che l’uomo non sia altro che il perfezionamento di uno di quei bertuccioni che ci rifanno in caricatura tanto volentieri? Che l’ugola della Patti non sia proprio altro che lo sviluppo degli organi vocali di una ghiandola, e l’eloquenza di Marco Tullio un progresso sulle facoltà del pappagallo? Lo si direbbe, a vedere come tutti abbiamo nel sangue la tendenza all’imitazione, alla contraffazione, alla parodia, e come di veri originali a questo mondo ce ne siano tanto pochi. Il pastore Dindenault manca di rispetto a Panurgio e Panurgio compra un montone dal pastore a carissimo prezzo. Sapete, e già lo disse anche Dante, che trattandosi di pecore quel che l’una fa e l’altre fanno; quindi Panurgio spinse in mare il montone comprato e il resto del gregge gli si precipita dietro; esempio memorabile di follia pecorina passato in proverbio.
Ma l’uomo ha egli poi tanti vantaggi sulle pecorelle dantesche o sul gregge del giocondo curato di Meudon?[102] Che cosa è la moda se non una speculazione commerciale sui nostri istinti pecorili? La fama del Brummel, il re del dandismo, vive tuttora e non si spiega che ammettendo una eccitazione morbosa delle nostre facoltà imitative. E in altro modo non si possono spiegare le mode deformatrici delle crinoline, dei puff, delle parrucche gialle, dei cappelli a cilindro, delle lenti incastrate nell’occhiaia, dei colletti che segano le orecchie ed altre fantasie che sembrano sforzi inventivi dei cercatori dell’orrido, dei pittori chinesi e giapponesi che spingono la deformità fino al delirio sulle pance dei vasi di porcellana. E imita anche le imperfezioni fisiche, poichè non solo le donne affettarono di zoppicare al tempo di madamigella De la Vallière, ma gli uomini zoppicarono al tempo di lord Byron. La pipa, la mia pipa stessa, non è un esempio caldo e fumante di una moda diventata consuetudine e poi necessità? Imitiamo proprio come i bertuccioni evolutivi.
E fuori della moda? I popoli malati di politica si rubano le Costituzioni, le Carte e gli Statuti. I filosofi, i gravi e frigidi filosofi, passano da Aristotele a Platone, da Cartesio a Vico, da Kant ad Hegel, da Darwin a Spencer, ora coi greci ed ora cogli arabi, ora cogli scozzesi ed ora coi tedeschi, sempre imitando, sempre copiando, senza posa e senza costrutto. I militari non solo al principio del secolo imitano la tattica e la strategia di Napoleone ed alla fine quella di Moltke, ma cascano sino a copiare i vestiti, come se i prussiani avessero vinto a Sadowa ed a Sedan in grazia dell’elmo col chiodo. I poeti.... oh! i poeti poi sono animali imitatori per eccellenza e basta il Seicento per mostrare sino a che aberrazioni mentali possa far discendere la manìa dell’imitazione e della moda. Insomma i novantanove centesimi delle azioni umane non sono che azioni imitative; il che dovrebbe dare una bella sgonfiata all’orgoglio del re della creazione.
Abbiate pazienza, ma non basta. Non solo imitiamo noi, ma poichè nei bimbi, nei fanciulli e nei giovani è più fresco, più vivo questo istinto di imitazione che ci viene dalla parte men nobile del nostro essere, non ci par vero di coltivarlo e di crescerlo amorevolmente nelle scuole e nelle famiglie ad ogni modo. Se il bimbo mangia o fa peggio colle dita, non gli spieghiamo già il perchè e il per come non stia bene svergognare a quel modo monsignor Della Casa, ma gli diciamo invece che il piccolo Caio mangia colla forchetta e Semproniuccio adopera il fazzoletto. Così l’educazione si fonda in gran parte sull’esempio, e l’istruzione poi non ha altro fondamento dai primissimi esemplari di calligrafia ai più alti precetti di rettorica. Cominciamo[103] dal ricopiare i bastoni, e le aste ed i rampini del maestro, per riuscire a contraffare un brano del misterioso Compagni o l’Italia mia di messer Francesco. La facoltà dell’invenzione, la tendenza al raziocinio sono pur troppo meno coltivate dell’imitazione. La pedagogia va pianino e i principii direttivi del metodo froebeliano paiono troppo rivoluzionari ai discepoli del Pestalozza e dell’Aporti. I giardini d’infanzia sono novità tenute ancora in quarantena da noi, mentre fuori di qui sono vecchi stravecchi.
Non già che l’imitazione sia da scomunicare; tutt’altro. Ne’ primi stadi dell’insegnamento è necessario servirsi dell’istinto per giungere poi a sviluppare le altre facoltà più nobili. Ma se ne abusò e se ne abusa, specialmente negli stadi più alti, là dove è inutile servirsi dell’istinto perchè le altre facoltà possono essere più utilmente usate. Se ne abusa ancora proponendo dei modelli d’invenzione, come se si potesse inventare copiando, come se il maggior pregio del Tasso fosse quello di attenersi fedelmente allo schema del poema virgiliano, come se non si potesse fare un buon romanzo altrimenti che mettendo esattamente il piede nelle gloriose orme di Alessandro Manzoni. Così accade che un giovane il quale voglia scrivere un sonetto (i giovani li hanno pur troppo questi riscaldi di cervello) intinge la penna nel calamaio e rimane sospeso pensando non già a quello che vuol dire, ma se imiterà lo stile di Caio o di Tizio, se sarà verista o idealista, se scriverà in lingua classica o in lingua parlata. Così di mille volumi di versi che sbocciano tutti gli anni in questo giardino del mondo, novecento novantanove appartengono a quel che si dice una scuola vale a dire che gli autori cercano di travestirsi, di sformarsi tanto da rassomigliare alla meglio ad uno di quegli infelici che ebbero la maledizione d’esser unti ed incoronati capi di scuola. In questa faceta repubblica delle lettere ognuno vorrebbe avere la fisonomia del suo vicino, proprio come nel facetissimo regno della moda una volta volevano tutti rassomigliare a Vittorio Emanuele portando i baffi come lui, anche quando sformavano la fisonomia. Ci sono poi certi critici stravaganti che compiono la confusione delle lingue e dei cervelli lodando queste rassomiglianze artificiali. Li sentirete dire: bel bozzetto! potrebbe firmarlo De Amicis! Lodi sbagliate, scelleratamente sbagliate, poichè equivalgono a dire che l’autore contraffece perfettamente De Amicis. Ma secondo questa critica i cento copiatori della Madonna della Seggiola sarebbero artisti squisiti, le imitazioni varrebbero quanto gli originali! Gli artisti finirebbero a fare come gli operai di Norimberga, che dopo aver fatto un bel soldatino di piombo ne fanno centomila compagni.
E’ vero, però, che in fatto di originalità qualche cosa si è guadagnato; almeno dalla parte del pubblico. Infatti la ricerca assidua del nuovo, che molti a torto biasimano, non è che una domanda di originalità, alla quale l’offerta degli autori risponde poco per ora, ma risponderà in seguito. E se si ricerca la smania di travestirsi che infieriva nelle accademie di una volta, si vede che un pochino si è guadagnato anche dalla parte degli autori. Quel che forse l’imitazione una volta, anche pei grandi ingegni, la vera misura dell’errore pedagogico intorno a questa benedetta imitazione, si vede in un lavoro giovanile di Giacomo Leopardi, intitolato: Appressamento della morte. Lavoro atteso da lungo tempo, lodato prima d’esser veduto ed inferiore troppo all’aspettazione che le lodi premature avevano destato in tutti.
Dire che una cosa di Leopardi, anche di Leopardi bambino, sia brutta, non si può senza spiegarsi chiaro e profondo e dell’ammirazione grandissima che si porta all’infelice poeta. Prima di alzare il martello sopra una immagine sacra, bisogna celebrare dei riti espiatorii i quali stabiliscano bene nella coscienza de’ fedeli che non è il santo che si vuoi mettere in pezzi, ma la sua immagine contraffatta e calunniata. Giacomo Leopardi è così grande nella storia letteraria e nella coscienza di tutti, è così in alto nella giusta venerazione degli italiani e dei forestieri, che prima di chiamar brutta questa benedetta cantica, bisogna pensarci tre volte, domandare scusa e parlare con circospezione. Aggiungasi che il poeta recanatese fu così meravigliosamente precoce in tutto, che non si sa bene come giudicare un lavoro compiuto sul finire del quarto lustro, com’egli stesso dice: non si sa davvero se giudicarlo coi criterii applicabili ai giovanetti che tentano i primi canti, o giudicarlo come opera di un grande ingegno maturato già dal lungo studio: dalla sventura e dalla solitudine. Quest’ultimo giudizio però riuscirebbe così giustamente severo che per quanto contrario alla precocità ammessa e provata dell’infelice poeta, bisogna cacciare il dubbio e finire col credere che il Leopardi quasi ventenne fosse su per giù quel che sono gli altri giovani di quella età e di discreto ingegno. Imbroglio, contraddizione se volete, ma davvero non saprei come uscirne. O negare la precocità provata, o dir bello un lavoro brutto. Io scelgo il primo corno del dilemma, e ritengo la cantica opera di un adolescente non superiore alla sua età; il che non fa torto a nessuno.
Il pretonzolo al quale fu affidata l’istruzione dei giovani conti Leopardi doveva aver bene insistito sulla necessità dell’imitare i classici, poichè vediamo l’allievo imitar tanto[105] che qualche colta copia addirittura. La lingua, che non si può inventare, tradisce tuttavia uno studio di arcaicità che nocerebbe senza dubbio alla spontaneità del poema, quando spontaneità ci fosse. La lingua sul finire del Settecento e durante il dominio francese s’era impinzata di tanta roba straniera da muover la nausea e venne necessariamente una reazione. Fu allora che il Cesari, il Puoti, il Perticari, il Giordani e tanti altri predicarono la crociata contro i neologismi forastieri in nome dell’aureo Trecento. Si tornò all’antico, accettando ad occhi chiusi il buono ed il cattivo di una lingua ancora allo stato di formazione, e chi seppe cavare dai Fatti di Enea e dai Fioretti di San Francesco i termini più eterocliti ed antiquati, colui scrisse meglio. Reazione che ebbe la sua utilità, come quella che pulì un poco la lingua e mantenne un certo spirito di italianità nelle lettere, appunto quando ogni speranza di italianità pareva perduta; ma reazione sempre, quindi cieca, intollerante, meticolosa. Il pretonzolo dei Leopardi senza dubbio insegnò questo scrupoloso purismo ai suoi allievi, propose i modelli di moda all’imitazione sconsigliata, e la cantica di quel Giacomo, che scrisse poi l’italiano come nessuno seppe scrivere finora, ribocca di parolacce viete, muffite, quasi umoristiche. Per chi vorrà gettare gli occhi sulla cantica non c’è bisogno di esempi: ogni pagina, presa a caso, dice più che qui non si possa dire. Nella stessa ortografia c’è un’affettazione di arcaismo che non si trova più nei lavori successivi, anche giovanili, del poeta.
E il poema che cosa è in fondo? Una imitazione fredda e servile un po’ del Poema divino, un po’ dei Trionfi del Petrarca. Cominciamo a trovarci nella solita landa, come Dante si trovò nella selva selvaggia. Il poeta sovrano ci dice:
Io non so ben ridir come v’entrai,
tant’era pien di sonno in su quel punto.
e il povero imitatore:
I’ non vedeva u’ fossi ed u’ m’andassi,
Tant’era pien di lutta e di terrore.
Vien la solita tempesta, la solita lusnada del Porta ed appare un angelo che annunzia al poeta la sua prossima fine, l’appressamento della morte. Tuttavia, perchè il poeta non si dolga troppo di abbandonare il mondo in così giovane età, l’angelo mette mano alla solita lanterna magica[106] che dopo la Basvilliana dovrebbe essere lasciata stare, e fa vedere la processione delle vittime dell’amore, dell’avarizia, dell’errore, della guerra, della tirannia, tale quale nei Trionfi del Petrarca. L’anima di Ugo da Este a modo di episodio, un po’ Ugolino, narra la nota tragedia e come dopo il colpo paterno, svolazzò lo spirto sospirando. Si maledice l’eresia anglicana e si sente un po’ d’influsso alfierano nella declamazione contro la tirannia; e insomma imitando un po’ a destra ed un po’ a mancina, finito il corso dei carri, si spalanca il cielo e si vedono Cristo, ’a Madonna, i santi e tutto l’empireo cattolico. Dante, il Petrarca e il Tasso sono del beato coro. Chi sa perchè ne è escluso l’Ariosto?
Dopo questa beatifica visione tutto sparisce, ed il poeta, rimasto solo, si duole di dover morire, ma pure si rassegna e finisce invocando Dio e la Vergine perchè l’assistano nell’ultimo passo. A questo punto ritorna in capo al lettore lo stesso dubbio che lo assalì sino dalle prime terzine e si chiude il libro tentennando il capo e chiedendo: ma è proprio roba del Leopardi?
Si trovano molti riscontri nelle lettere del Leopardi, del Giordani e d’altri, che parlano della cantica: la calligrafia sembra del Leopardi, il quale ordinò per la stampa le prime ventotto terzine riducendole a venticinque molto rivedute e molto corrette. Certo un contraffattore poteva tener conto delle lettere, imitare la calligrafia e lavorare sulle terzine stampate; ma la persona che ritrovò e diede alle stampe la cantica è incapace di fare un tiro simile al buon pubblico. Non resta dunque se non concludere che questa povera roba imitata, messa insieme a pezzetti come un mosaico, sia proprio di Giacomo Leopardi: ma di un Leopardi quasi ventenne, che non conoscevamo ancora, di un Leopardi scolaretto senza esercizio di comporre, senza gusto di lingua, senza lume di poesia. Bisogna rassegnarsi a credere che questo imparaticcio scolastico sia stato messo assieme un anno dopo al Saggio sugli errori popolari degli antichi nell’anno stesso dell’Inno a Nettuno e delle Iscrizioni triopee, un anno o due prima delle più celebri, delle più gloriose poesie della letteratura moderna. È dura, ma è così.
Questa pubblicazione avrà questo almeno di utile, che farà veder chiaro come gli ingegni più forti e più grandi non si riconoscano più quando cadono nel peccato d’imitazione. Certo si dànno delle mostruosità in natura, come il Monti, il quale seppe diventar grande in gran parte imitando; ma simili organismi sono veri capricci della natura, come le mosche bianche e i cigni neri, e non bisogna fidarsene perchè sono fuori della legge comune. Perchè[107] c’è stato un Mozart non tutti i piccoli pianisti arriveranno a scrivere il Don Giovanni, il caso del Leopardi, dovrebbe far riflettere molto coloro che sono fanatici dei modelli di bello scrivere, delle antologie usate altrimenti che come saggi compendiosi e pratici di storia letteraria.
Si potrebbe domandare che necessità c’era di mostrare il povero Leopardi, già abbastanza martirizzato dai pubblicatori di quisquilie scolastiche, nell’atto di fare tome papà; ma a questa domanda si oppone la solita risposta, che dei grandi ingegni è necessario conoscer tutto, anche la balla. Amen. Studiamo dunque le balie dei grandi uomini, che buon pro ci faccia.
Se il Leopardi riaprisse gli occhi!
Già, prima di tutto, se riaprisse gli occhi, quella adorazione meritata che nessuno gli contende nel tempio dell’arte, scemerebbe ingiustamente della metà, poichè egli stesso ha detto Virtù viva sprezziam, lodiamo estinta; verità sacrosanta. E poi se aprisse gli occhi così all’impensata, e se cogli occhi potesse muovere la mano, ne scriverebbe delle belle intorno a noi, al nostro tempo, alla nostra curiosità e forse anche intorno a quel progresso che gli suggerì la epistola al Pepoli. E davvero il povero poeta, disgraziato in vita, fu disgraziatsisimo dopo morto e gliene hanno fatte di quelle col pelo.
Lamentai già il lungo silenzio serbato da Antonio Ranieri; silenzio che indusse i biografi in tanti errori: e dissi che se il generoso napoletano fosse depositario di qualche scritto del Leopardi, dovrebbe oramai vincere gli scrupoli di una delicatissima coscienza e metter fuori tutto. Non mi pento di quel che ho detto, ma la pubblicazione del signor Zanino Volta, l’Appressamento, mi fa morder la lingua.
Il signor Zanino Volta, nipote dell’illustre inventore della pila, come ci dice parecchie volte nella introduzione, e vice-bibliotecario reggente nell’Università di Pavia (che diavolo è un vice-bibliotecario reggente?) il signor Zanino Volta capitò in certe camere del palazzo avito dei Volta dove c’erano per le terre molte cartacce, molta umidità e molti sorci. Trovò, frugando, un quaderno intitolato: Appressamento della morte, e se lo ficcò in tasca. Ora si trova che è un autografo del Leopardi, e lo stampa con cento pagine di prefazione.
È proprio del Leopardi? A questi lumi di luna siamo tanto avvezzi alle gherminelle letterarie paleografiche, che questa è la prima domanda da fare. Chi è oramai quel letterato il quale non abbia commesso qualche marachella di questo genere? Io, per conto mio, oltre quel che è noto al pubblico, ho parecchi altri peccatucci sulla coscienza e se volessi dirlo, c’è qualche poesia del 1300 a questo mondo che io ho visto nascere, crescere, trovar spasimanti ed amanti e peggio.
La calligrafia del Leopardi può essere esattamente imitata dal primo che capita: la carta del tempo si trova dappertutto; l’inchiostro sbiadito o rossastro si fa in cucina, e la cantica è un lavoro tanto giovanile che quasi potrebbe averlo fatto davvero il signor Volta, ma questo non vuol dire, poichè qualunque maestro di retorica può far di meglio.
Il nipote di Alessandro Volta ha preveduto il sospetto di falsificazione e mette le mani avanti. Egli prova che il testo e la sua età probabile vanno d’accordo con quanto ci dicono di questa cantica il Leopardi nell’epistolario, il Giordani ed altri; e che la calligrafia è quella stessa di altri lavori autentici del poeta ch’egli possiede; quindi la cantica è del Leopardi. Le premesse non fanno una piega ma uno scettico potrebbe sorridere della conclusione. Dato il caso di un falsario, è egli supponibile che costui avesse steso la cantica senza studiare prima tutto quel che ne è stato detto da molti e senza imitare o far imitare il carattere grafico? Bisognerebbe supporre che il falsificatore fosse Calandrino. Se la cantica va quindi d’accordo nei caratteri, diremo; storici ed esterni, questo non esclude che altri la possa aver fatta o fatta fare: ed anche questo ragionamento non fa una piega.
La storia del manoscritto, la storia provata, darebbe la vera sicurezza: ma appunto qui non si sa nulla di certo. Il come, il quando ed il perchè il manoscritto sia andato a nascondersi nella topaia dove il nipote del Volta lo trovò non può sapersi. Il nipote del Volta si permette soltanto qualche ipotesi, anzi parecchie ipotesi che possono esser accettate come tali e non altro.
Non voglio già sostenere con questo che la cantica ora stampata sia una falsificazione. Non c’è nulla che lo dica come a negarlo non c’è che l’opinione del nipote dell’inventore della pila. Non c’è nulla di strano che il Leopardi da ragazzo scrivesse a modo d’esercizio scolastico questi poveri canti, queste povere terzine.
Ma il rispetto, la venerazione che tutti abbiamo grande ed io ho grandissima per l’infelice poeta, non ci debbono impedire dal confessare che questa cantica, imitazione[110] d’imitazione, non è altro che un lavoruccio scolastico, retorico, poverissimo sia nel riguardo del concetto che della lingua.
La lingua infatti denota uno studio assiduo dei classici, o anzi meglio de’ trecentisti, non corretto ancora da quello squisito gusto che fece grande il Leopardi. C’è sino l’affettazione dell’arcaismo, c’è sino l’esagerazione ortografica che gli fa dire:
I’ non vedeva u’ fossi ed u’ m’andassi
Tant’era pien di lutta e di terrore.
Non c’è mai un io, ma sono tutti i’; non c’è parola mozzabile in principio che non sia mozzata e ci troviamo lo ’ngegno; ’ncontra; ’ntorno; ’ntelletto e mille anticaglie, roggia per rossa, lutta per lotta, frati, per fratelli, di rampa, approcciare, dischiavacciare, credulitate, rinomo, e il pomo d’Eva è il piagnevol pomo; proprio un glossario, un zibaldone di modi effettati o rancidi. Sarà del Leopardi, ma la lingua potrebbe essere non che del padre Cesari o del Puoti, ma di Fidenzio Glottecrisio Ludimagistro.
Quanto al concetto, è una imitazione d’imitazione. Lo stile è un calco, è un mosaico dove si trovano interi versi di Dante o di altri appena cambiati in una parola. L’episodio di Ugo è una imitazione un po’ della Francesca, un po’ dell’Ugolino, e la chiusa dell’episodio che piace tanto al nipote dell’inventore della pila, confida col comico; dice:
E svolazzò lo spirto sospirando!
Sarà del Leopardi insomma, ma questo non deve influire sulla verità. Sarà del Leopardi, ma è una povera, poverissima cosa. Il Leopardi stesso del resto ha giudicato, accettando poche terzine dopo molte correzioni: dato sempre che il Leopardi abbia scorretto il Leopardi. Se il povero poeta vivesse ancora e il signor Giovannino Volta gli avesse fatto un tiro da galera, non poteva forse fargliene uno peggiore che pubblicando questo imparaticcio che fa a pugni con tutte le convinzioni filosofiche e con tutta l’arte squisita del recanatese.
Per questa sconciatura e per la prefazione, della quale non dico nulla temendo che si possa sospettare qualche impossibile antipatia in me contro l’egregio nipote del l’inventore della pila, fu incomodata una illustre accademia[111] milanese, si fecero suonare le trombe tutte dei giornali ed il monte ha partorito. Dico, e torno a dire sconciatura, l’avesse fatta anche il Padre eterno; poichè in fin dei conti se la critica deve usare delle ipocrisie, può andare al Gesù, ma non caverà un ragno da un buco. So bene che si troveranno anche i giornali di manica larga che loderanno senza aver letto, ma so bene che la coscienza ripugna a lodare quel che appare brutto e sbagliato.
Giacomo Leopardi è troppo grande poeta e troppo in alto perchè questa bambinata possa mai scemargli una dramma della nostra ammirazione. Non guastano il grand’uomo gli schizzi di meconio che la balia gli trovò nelle fascie; noi lo rispettiamo e lo amiamo lo stesso. Altrettanto però non possiamo certo fare pei nipoti dei grandi che fanno tanto fracasso per tante piccinerie. Il nonno può avere inventato la pila, lo riconosciamo; ma non riconosceremo così che il nipote possa aver inventato la polvere.
Io mi doleva già che il Ranieri se ha delle cose inedite del Leopardi non le pubblicasse ma dopo questa profanazione direi quasi che fa bene.
Ma no. È impossibile che il Leopardi abbia lasciato al Ranieri di questa povera roba. Ah, l’amico incomparabile del povero Giacomo dovrebbe parare questo colpo tirato alla fama dell’amico dandoci qualche cosa di meglio!
Egli dovrebbe davvero riparare alla profanazione volgare e piccina mostrandoci tutto il Leopardi della maturità, il Leopardi che conosciamo ed ammiriamo. Dica egli almeno che può dirlo, se il povero infelice non avrebbe protestato altamente contro questa improntitudine scempiata che lo mette alla berlina come scolaretto plagiario.
Rispetto il giudizio degli altri, ma quanto a me lo dico chiaro e tondo: è una vergogna!
Se con parole, con opere o con omissioni un disgraziato fece tanto da vedere la propria fama oltrepassare l’ombra del campanile natio, non gli sarà più possibile nascondere qualche cosa alla curiosità dei concittadini. I Vaperau ed i De Gubernatis gli pubblicheranno la fede di nascita, il certificato di vaccinazione ed i connotati; e gli oziosi nei caffè discuteranno ad alta voce intorno al naso de’ suoi figli ed alle anche di sua moglie. Se poi la sventura lo percosse tanto crudelmente da farlo celebre ed ammirato anche fuori d’Italia, per lui non c’è più requie, nemmeno nella fossa. Si stamperà il numero de’ suoi capelli grigi, il numero dei bottoni della sua camicia e si cercherà avidamente di sapere se preferiva il lesso all’arrosto, o le calze di lana a quelle di cotone. Ogni minimo atto della sua vita sarà commentato, ogni suo biglietto e magari le cambiali ingrosseranno l’epistolario, e il cameriere, la cuoca, la lavandaia del grand’uomo saranno chiamati a testimoniare davanti al tribunale della posterità. La professione di grand’uomo non è tutta di rose.
Tuttavia, siccome c’è anche qualche grande uomo di spirito, s’è finito col trovare un rimedio alla curiosità del pubblico ed alla indiscrezione dei biografi, ed il rimedio sta nello scrivere la propria autobiografia. Non sarà infatti sfuggito all’attenzione degli acuti lettori, che gli scrittori di autobiografie sono in meno perseguitati dai biografi e questa ricetta, unita ad un po’ d’attenzione nello scrivere agli amici in previsione dell’epistolario, la regaliamo volentieri ai grandi uomini viventi che dormono male la notte, pensando ai biografi futuri.
Ma se c’è stato al mondo un povero grand’uomo crudelmente[113] anatomizzato dalla feroce curiosità del pubblico e degli scrittori, certo è stato Giacomo Leopardi. E gli hanno applicato fino il microscopio spiando ogni battito del suo cuore, ogni moto del suo ingegno. Sappiamo il nome e la vita delle donne che gli piacquero, delle umili tessitrici che entrarono nella storia letteraria e nell’immortalità per aver dimorato in faccia al palazzo dei Leopardi. Sappiamo tutti i segreti della sua famiglia, tutti i pettegolezzi dei suoi concittadini, tutte le chiacchiere delle serve di casa. Gli hanno pubblicato i lavoretti di scolaro e le carte gettate nel cestino; gli han fatto il conto dei crediti e dei debiti, la diagnosi de’ suoi mali, la fotografia della sua deformità, ed ogni ora della sua dolorosa vita fu il tema di una dissertazione. Davvero che i più ambiziosi tra i letterati esiterebbero se qualcuno promettesse loro la gloria del Leopardi accompagnata dalle persecuzioni biografiche che crescono tutti i giorni invece di calare!
Badiamo bene che non si nega con questo l’utilità storica e critica delle rivelazioni intime e delle pubblicazioni curiose. Un’opera d’arte non esce dal cervello per generazione spontanea, non viene al mondo per una creazione ex nikilo, ma è il risultato complesso di una educazione, di un ambiente storico, di una miriade di sentimenti e di sensazioni che agirono sul cervello in quel dato modo e la critica non può fare a meno di analizzare minutamente le cause di quei sentimenti e di quelle opere. Il poeta per lo più è un malato d’anima e di corpo, e, come la conchiglia, da una dolorosa puntura mette al mondo una perla. Ora è necessario che le vittime di quella strana malattia che si chiama il genio siano intimamente scrutate dal critico, come è necessario che le vittime di certe strane malattie fisiche siano minutamente disseccate sulla tavola anatomica. E se un caso strano di genio ci fu mai, se un misterioso enigma comparve mai nel mondo dell’arte, quello fu Giacomo Leopardi. Così se si deve compiangerlo come martire delle nostre insaziabili curiosità, bisogna tuttavia riconoscere che queste curiosità nascono da un sentimento di ammirazione e sono di grande utilità alla critica.
Antonio Ranieri, l’amico intimo e sviscerato del Leopardi negli ultimi anni, non pareva però convinto di questa necessità delle rivelazioni private. Egli, depositario di tanti segreti, tacque modestamente e stimò ciarlataneria grossolana tentare l’immortalità facendosi il dimostratore patentato delle debolezze e delle virtù di un uomo immortale,[114] tacque ed assistette sdegnoso a questa fiumana di libri, di opuscoli, di articoli, che contenevano ciascuno un brano del gran segreto. Si diceva che il Leopardi morendo lasciò qualche cosa d’inedito e si incolpò il Ranieri di defraudarne la patria. Le più strane accuse furono susurrate contro una amicizia santa, e la pubblicazione dell’epistolario del Leopardi stesso dava credito alle mormorazioni, poichè il povero malato, scontento di tutto e di tutti, si lasciava andare a disconoscere persino tanta devota amicizia e chiamava odioso il soggiorno di Napoli. E il Ranieri tacque sempre, sicuro di sè e della sua coscienza, e finì anzi col non leggere nemmeno i libri dove si faceva l’autopsia del suo amico e della comune amicizia.
Ma la fiumana dei pettegolezzi ingrossò tanto, che al Ranieri toccò finalmente di parlare. La morte della sua adorata sorella Paolina, quella stessa che sostenne volentieri il santo martirio di esser infermiera del Leopardi, pare che non sia stata la cagione ultima del suo parlare. Infatti fin che vivono anche due testimoni di un grande avvenimento, possono costoro favellarne tra loro e sprezzare i profani; ma se ne sopravvive uno solo, che anzi vegga travisati i grandi fatti ai quali ebbe parte, è necessario, è fatale che egli parli alle turbe, e rettifichi, e racconti.
Così il Ranieri diede fuori il suo libro: Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, libro più che mai necessario alla completa biografia dell’infelice poeta.
Anche il Ranieri fu sforzato alla relazione minuta delle debolezze e delle aberrazioni di un malato, relazione tanto più utile in quanto riguarda il momento più inesplorato della vita del Leopardi, gli anni in cui l’ingegno suo era giunto a quella fredda esaltazione, a quella disperazione scettica da cui scaturirono i Pensieri e la Ginestra. Questo libro diventa così indispensabile a chi vuol parlare del Leopardi.
In quelle minuzie, in quegli aneddoti umili c’è tuttavia quel che oggi si chiama interesse, e quando si giunge all’ultima pagina si trova che il libro è troppo breve. Qualche tensione lirica, qualche esagerazione di sentimentalismo romantico passano inosservate sotto al sentimento profondo dell’amicizia che si sacrifica, accanto alla forte e modesta carità di Paolina Ranieri che sembra aver ispirato tutto il libro. Infine il lettore giunge a dolersi che il Ranieri non sia stato il compagno di tutta la vita del Leopardi e che non ce l’abbia potuta narrar tutta, giorno per giorno, della nascita alla morte.
Il mistero delicatamente accennato nel settimo paragrafo,[115] e che non è ormai più mistero per coloro che hanno sentito parlare del Leopardi da persone che lo conobbero, spiega molte cose oscure, molte debolezze, molti dolori del grand’uomo. Ma se il Ranieri qui ha parlato, ha poi taciuto affatto alla domanda, che, si può dire, l’Italia intera gli rivolge. Esistono presso di lui cose inedite del poeta? Il conte Carlo Leopardi sembrava credere che egli conservasse parte dei Pensieri ed altre cose. È vero?
E se è vero, che cosa più rattiene il Ranieri dal farli di pubblica ragione? Quando oramai nelle pubblicazioni fatte dal Cugnoni a Lipsia vediamo raccolte le minime e più giovanili cose che pure non hanno nociuto alla fama del Leopardi, certo non potrebbero nocer queste, concepite e scritte in età più matura. Ma, è vero?
Questa domanda rimane per ora senza risposta.
Dispiace il dirlo, specialmente perchè c’entra una signora, ma bisogna pur dirlo: lo spettacolo che ci offre la famiglia Leopardi è indecente.
Non bastavano tutti i tormenti cui fu sottoposta la fama di Giacomo, tutte le chiacchere, tutta la malignità, tutta la imbecillità di coloro che conoscendo la propria miseria cercano di passare il Lete arrampicati sulle spalle di un grand’uomo che li porti ai posteri; non bastavano le indiscrezioni che si danno l’aria di rivelazioni importanti allo studio dell’ingegno del Leopardi, per cui abbiamo saputo quante volte al giorno il poeta si soffiava il naso e quante volte alla settimana si cambiava le calze; non bastava l’improntitudine degli scolaretti che eiaculano il loro primo articolo nel giornale letterario della provincia, profanando il nome di Giacomo e ripetendo le balordaggini imparate a scuola; non bastava insomma l’accanimento col quale italiani e forestieri turbarono la pace di quelle povere ossa in nome di un partito, di una scuola o di un[117] pregiudizio; bisognava che la stessa sua famiglia scendesse a pettegolezzi indecenti in faccia al pubblico, contendendosi la privativa di vender oracoli in nome di Giacomo, come contendono tra loro i discendenti del Pagliano pel segreto della ricetta.
Ho detto, a proposito della cantica sull’Appressamento della Morte, edita umoristicamente dal signor Giovannino Volta, che se il Leopardi fu infelice in vita, fu infelicissimo dopo morte. Tanta sventura supera la pietà volgare e quasi quasi atterrisce; certo gli uomini celebri viventi debbono qualche volta provar disgusto per la celebrità, pensando che anche su loro può infierire una simile sventura. Si è giunti a questo, che un celebre autore, ora morto, non scriveva una lettera dove non ricorressero quaà e là alcune parole oscene. I suoi costumi e i suoi discorsi erano corretti e gentili, ma scriveva così perchè dopo morto non gli stampassero l’epistolario.
E, per quel che riguarda l’infelice Leopardi, la cosa comincia a diventare scandalosa. Pare che tra la vedova ed erede di Carlo, ed il figlio o i figli di Pier Francesco, sia una di queste lotte di famiglia cieche e ferocissime, come pur troppo avvengono spesso nelle famiglie italiane delle piccole città. Non importa cercare da che motivi venne questa divisione: intanto tutti i giorni si fa più profonda e più aspra; ha diviso Recanati e oramai gli studiosi delle cose leopardiane. Certo gli eredi legittimi e diretti del Leopardi debbono vedere con rammarico la pingue eredità dell’avarissimo Carlo distratta alla famiglia a vantaggio della vedova e dei figliastri di lui. Certo la signora Teresa Teia, prima vedova Pautas e poi vedova Leopardi, ha molti torti, non fosse altro, quello scusabile di voler fare l’apoteosi del defunto marito per quanto la meriti poco, e quello inescusabile di far servire queste tristissime polemiche alle rabbie clericali e fratesche; ma mentre i primi non dovrebbero dimenticare che al postutto si tratta di una signora, questa non dovrebbe dimenticare che si tratta anche di una famiglia alla quale essa è, si può dire, estranea. Da ambedue le parti sarebbero necessari molti riguardi, e nessuna delle due parti ne usa.
Queste ire poco decenti diedero origine ad un nuovo volume di cose leopardiane, cui il Piergili prepose una lunga prefazione apologetica.
Premetto che, se dovessi scegliere un partito, starei col Piergili e non coll’Aulard. Carlo, la più antipatica e falsa figura di casa Leopardi, che ebbe tutti i difetti e nessun dei meriti del fratello maggiore, deve ispirare simpatia a ben pochi che non abbiano interesse a farlo. Questo Arpagone, senza cuore come un clericale e senza dignità[118] come un prestatore su pegno a grassi frutti, mi è sempre sembrato meno stimabile dello stesso Monaldo, la cui fama è oramai monda dalle brutte macchie d’un tempo. La condotta poi di chi tenne da lui ed abusò del suo nome di famiglia per miserabili intenti di partito e di sagrestia, mi nausea addirittura. Tuttavia ciò non toglie che in fondo sia da disapprovare questo strazio che dalle due parti si fa del povero Giacomo, il quale serve di pretesto alla lotta. Fa pietà vedere i combattenti scaraventarselo l’un l’altro addosso come un cencio sudicio e rimandarselo come una palla a suon d’ingiurie, di improperi e d’insulti. A Recanati si rapprentano gli Hèritiers Rabourdin, e come di solito il pubblico fischia.
Pur troppo è vero che lo studio dell’Aulard intorno a Giacomo Leopardi trovò in Italia un popolo di lodatori. Il nostro amor proprio nazionale era soddisfatto vedendo che dalla Francia, da quella stessa Francia dove le cose nostre sono così profondamente ignorate, ci veniva il riconoscimento cosciente di una delle nostre massime glorie. A chi non legge, o legge superficialmente, bastò il frontispizio per tenersi contento. Chi invece non legge i libri colla leggerezza con cui si leggono i giornali, scosse il capo e tacque. Meno che gli errori, spiegabili se non perdonabili, colpivano in quel lavoro gli intenti partigiani che l’avevano dettato. Il peggio fu quando la vedova di Carlo Leopardi stampò in francese un maligno libro—Leopardi et sa famille—dove, ripetendo notizie vecchie si cerca di tirarle a danno dei parenti avversari e si fanno insinuazioni poco dignitose e poco generose a carico di parecchi. Quel libro, scritto in servigio di odii domestici e di ire clericali, passò in Italia in meritato silenzio: ma in Francia, dove i migliori ignorano la nostra lingua, sarà tenuto per vangelo. Questo bel servigio hanno fatto al povero Giacomo le rabbie de’ suoi!
La prefazione del Piergili è quasi tutta una risposta alle ingiurie dell’opuscolo franco-clericale della vedova Leopardi. Senza dubbio egli era stato offeso da quella maligna pubblicazione e doveva rispondere: egli tuttavia passa un po’ la misura e dimentica che non c’è quanto la calma dignitosa per rendere la risposta all’ingiuria, e condonando molto alla delicatezza offesa, è lecito tuttavia sperare che in avvenire certi metodi ingiuriosi di polemica siano lasciati alla sagrestia dove sono indigeni e coltivati. Lasci che gli altri si abbassino: egli stia più in alto; stia all’altezza della dignità serena che gli dettò l’articolo su Monaldo Leopardi, apparso non è molto nella Nuova Antologia. Quella è roba che resta, non fosse altro,[119] per la sua utilità; i pettegolezzi durano quanto le risa di chi se li gode.
E così, anche in questa prefazione rimane utile come documento storico tutto quel che riguarda le affermazioni del Ranieri. Siamo sempre nell’ambito della polemica, ma qui non si tratta più di ripulsa d’ingiurie o di smentita di calunnie già dirette o allo scrittore della prefazione o ai discendenti legittimi della famiglia Leopardi. Si tratta di fatti che hanno una grande importanza pel giudizio del carattere di Giacomo.
Il poeta morì in braccio ad Antonio Ranieri, il quale rimase in possesso de’ suoi scritti. Una parte di questi furono dal Ranieri ordinati in quella edizione fiorentina che è rimasta l’edizione ne varietur delle migliori cose del recanatese. Ma fino d’allora, prima si sussurrò, poi si disse alto che tutto non era lì, che il Ranieri aveva presso di sè molte cose, anche della maturità del Leopardi, rimaste ostinatamente inedite, sottratte da lui all’ansioso desiderio dell’Italia intera. Vero o no, il Ranieri tacque. Il testimonio degli ultimi anni del poeta, quando l’avida curiosità scrutava ogni frammento, interrogava ogni tradizione, stampava ogni bazzecola giovanile e fanciullesca del grande sventurato, non moveva labbro e stava immobile nel suo Sinai misterioso, come un Dio che sdegni di mostrarsi agli uomini.
Ad un tratto si seppe che il Ranieri avrebbe stampato un libro sugli ultimi anni del Leopardi, dove avrebbe corretto molti errori, dissipati moltissimi equivoci. Si aspettò febbrilmente. Non pareva vero che alfine si potesse sapere qualche cosa di certo sopra gli ultimi giorni del poeta rimasti sempre un po’ in nube, sopra gli ultimi suoi lavori che si credevano sottratti alla legittima e santa curiosità nostra. Il libro uscì, ma fu una delusione.
Il Ranieri faceva la propria apologia come se fosse stato assalito, e la faceva in modo che pareva recare a colpa del defunto amico gli assalti immaginari dei quali si doleva. Il carattere del Leopardi vi era dipinto con colori men che favorevoli, e si dichiarava alto e fieramente che il poeta nelle sue ultime lettere era stato ingrato verso chi lo aveva mantenuto in tutto e per tutto con amichevole disinteresse e non lieve sacrificio. Risultava da quel libro che la moralità del poeta non era completa, che era sudicio, goloso, cattivo, ingrato e, più di tutto, che si era lasciato assolutamente e completamente mantenere senza dir nemmeno grazie.
Il buon pubblico non seppe che dire. Gli si guastava la bella immagine del sublime tribolato che filosofò così melanconicamente sul dolore e incarnò in sè la tendenza pessimista[120] del secolo. Gli si sciupava il poeta migliore di cui potesse forse gloriarsi l’Italia in questo secolo. Gli si buttava alle fogne un ideale quasi santo, una memoria venerata. Traspariva, è vero, dalla tronfiezza apocalittica, dalla evidente artificiosità romantica del libro, un non so che di esagerazione retorica facile a mettere in sospetto se non la veridicità, almeno l’esattezza dello scrittore. Ma come negar fede al Ranieri, all’ultimo amico di Giacomo, al confidente della sua ora estrema? Si chinò il capo sotto ad una disillusione di più.
Ma ecco il libro del Piergili, dove con documenti autentici si convince di errore il Ranieri in una delle sue più gravi affermazioni. Il Leopardi non fu mantenuto, almeno in tutto, dall’amico. Riceveva regolarmente dalla famiglia un assegno, tenue sì, ma non minimo in quei tempi a Napoli dove si viveva con poco. Nell’ultima sua malattia ricevette quaranta scudi, più che dugento lire, il cui valore era, allora e là, il triplo di quel d’ora. E di più le cambiali sono tutte scritte di mano del Ranieri; la sola firma è di Giacomo.
Questo errore in cosa tanto grave toglie fede a tutto il libro, che pareva scritto apposta per farlo credere al pubblico. Se il Ranieri errò in quell’affermazione che si può dire la principale del suo volume, ed invece egli stesso aveva avuto parte così grande negli atti che nega, si dovrà credere al resto?
L’utilità maggiore ed incontestabile del libro del Piergili sta appunto in questo. Un errore così grave, così pregiudizievole alla fama di Giacomo e venuto da persona tanto autorevole, stava per acquistare certezza di verità nella biografia del poeta, e il Piergili ha fatto opera buona e bella provvedendo. Non importano le varianti ortografiche tra due edizioni delle cose del Leopardi, inserite per crescere la mole del volume: importa assaissimo l’acquisto di un vero oramai non più discutibile, e per questo ben venga il libro.
Ma il Ranieri? Egli senza dubbio s’inasprirà ancora, o se conserva qualche cosa del Leopardi si ostinerà tanto più a negarcela. Speriamo almeno che l’amore che egli portò al povero afflitto lo difenda dalla tentazione di un sacrilegio come sarebbe quello di distrugger tutto. Il suo nome, che passerà glorioso alle più lontane generazioni come quello dell’amico fedele e consolatore del poeta, vi passerebbe infamato della fama di Erostrato e di Omar califfo; ed egli deve voler essere ricordato sempre come un onest’uomo, non come un pazzo irritato e maligno.
Se il libro del Piergili giovasse a scuotere il Ranieri[121] dal suo misterioso silenzio, se giovasse a chiarire il dubbio che egli conservi molte e delle migliori cose del poeta, se giovasse a far paga la nostra santa e nobile curiosità che ci rende famelici di tutto quel che viene dal Leopardi, anche dei minimi scarabocchi infantili, benedetto il giorno in cui venne alla luce. Ma per ora, pur troppo, non pare.
Il maestro Pacini narra nelle sue memorie, che quando sentì la Malibran la prima volta al teatro S. Carlo di Napoli nella Gazza Ladra, lo dovettero portar via dal palchetto perchè dava segno di alienazione mentale e disturbava il pubblico colla sua ammirazione frenetica. La stessa Gazzetta di Bologna, foglio ufficiale di Monsignor Legato tra una enciclica e l’altra, inseriva una frase lirica per la divina cantatrice. Il Fètis, che morde spesso e volentieri non può dir male di lei; insomma, intorno alla sublime attrice non si ode che un concerto di elogi, i quali finiscono alle meste ed immortali strofe di Alfredo de Musset.
Ed ora, che cosa resta di questa donna adorata che fece impazzire i nostri nonni, che a Lucca si vedeva staccare i cavalli dalla carrozza, che a Venezia doveva rifugiarsi in San Marco per non essere soffocata dalla folla del popolo plaudente? Che cosa resta di quelle corone, di quegli entusiasmi, di quelle frenesie? La Malibran è diventata un ricordo, a poco a poco il suo nome passerà tra quelli delle attrici illustri note solo agli eruditi. Così il tempo passa e cancella le impronte di coloro che non poterono affidarle a monumenti durevoli. Gli oratori, gli attori, i cantori godono di trionfi momentanei, improvvisi. Spenta la generazione di coloro che udirono, nulla resta di loro. Nessun fonografo renderà la potenza oratoria del Castelar, come non ci potrebbe rendere il fascino della Rachel o della Malibran. L’onda del tempo passa sulle memorie umane e lentamente cancella tutto. Vi ricordate voi il timbro di voce de’ vostri morti?
Si può dire che il mondo, a periodi, è assetato di originalità:[123] si può dire le evoluzioni storielle hanno il loro riscontro nelle evoluzioni dell’arte, e che i periodi fatali del Ferrari, preparazione, rivoluzione, reazione e sosta si riproducono, se non con precisione regolare di misura certo con precisione di evoluzione in tutti i campi della attività umana. Al tempo in cui la Malibran apparve, l’arte si trovava appunto in uno di quei periodi di febbre nei quali ogni novità, purchè porti un certo suggello artistico è bene accetta, cercata. Il classicismo bastardo dell’impero aveva finito il periodo di preparazione, oramai maturo, annunciava la rivoluzione dei romantici. In teatro, per non dir altro, regnava sovrana Giuditta Pasta, attrice grande, ma che posponeva l’ispirazione alla correttezza. La Sonntag, cresimata rivale della Malibran, fredda, quasi meccanica nella esecuzione, senz’anima e senza calore, colpita poi nel cuore e trascinata dalla corrente rivoluzionaria, doveva anch’essa abbandonare la correttezza per l’ispirazione e riscuotere l’applauso sincero della sua stessa rivale. Il segreto dei trionfi della Malibran sta appunto in questa rispondenza delle artiste. La conversione della Sonntag prova i gusti del pubblico, e l’apoteosi della Malibran prova la sua invidiabile adattazione a questi gusti di novità artistica. Ella fu grande perchè il suo organismo di cantante e di attrice rispose perfettamente ai nuovi bisogni dell’arte rispetto alle variate condizioni del gusto negli spettatori. Se avesse imitato la Pasta, sarebbe stata una cantatrice di secondo ordine; ma perchè non imitò, aiutata dallo studio e dalla natura, giunse a quella fama che dura ancora nella tradizione. E questo esempio non dovrebbe esser dimenticato da quelli che nell’arte non vedono che un eterno succedersi di imitazioni, una copia continuata di forme e di tipi antichi, vecchi appunto perchè antichi e disadatti al tempo ed al gusto presente. Tutto questo non risulta già dalle scomunicate riflessioni di qualche maestro rivoluzionario, di qualche apostolo della musica dell’avvenire. Tutt’altro. Risulta dalle confessioni di un illustre uomo che ha sessantaquattro anni, che siede all’Accademia francese da venticinque, e che non è noto certo per indisciplinatezza d’ingegno. Risulta da un opuscolo di Ernesto Legouvé pieno di curiose riflessioni e di quegli antichi aneddoti che oggi hanno più fortuna della storia severa e togata.
Il Legouvé, persuaso di non saper capire e gustare la musica e pure reagendo contro questa persuasione che gli veniva dai discorsi di famiglia più che altro, vegetava, dic’egli, nelle regioni temperate della musica d’opera comica, fino al giorno in cui un incontro improvviso cambiò[124] subitamente il suo gusto in una passione e lo trasportò subito nelle più alte regioni dell’arte. Da queste parole sue si capisce che la pretesa iniziazione spetta per metà all’artista che seppe rispondere all’aspettazione dell’ascoltatore stesso, il quale, stanco di un’arte invecchiata che non poteva più rispondere alla preparazione de’ suoi sentimenti, trovò e seppe capire la beltà del nuovo, la giustezza dell’originalità e la equivalenza della evoluzione dell’arte con la evoluzione del gusto. Questa interpretazione quasi fulminea di un ciclo artistico, avvenuta in una mente inconsciamente preparata, scaturisce con evidenza dal racconto che ci fa il grave accademico.
«Allora si parlava molto a Parigi dell’arrivo di una giovine cantatrice, figlia del celebre tenore Garcia, moglie di un negoziante americano il signor Malibran, e che si annunziava come rivale della Pasta. La mia buona fortuna mi condusse al Conservatorio di musica ad un concerto di carità, il giorno in cui ella cantava a Parigi per la prima volta. La folla era grandissima e l’aspettazione viva. Sul palco, tra le dame patronesse, la nuova arrivata era nulla di straordinario nella sua persona e nella sua fisonomia. Sotto il piccolo cappuccio color di malva, in cui nascondeva mezzo il viso, rassomigliava ad una giovine miss. Venuta la sua volta di cantare, si alzò, si tolse il cappello e andò verso il pianoforte, poichè doveva accompagnarsi da sè. Seduta appena, cominciò la trasformazione. Prima di tutto la sua acconciatura sorprese per la sua semplicità: nessun riccio, nessuna sapiente architettura di capelli; la pettinatura liscia disegnava la forma della testa. Aveva la bocca un po’ grande, il naso un po’ corto, ma un ovale di faccia così bello, un disegno di collo così puro, che la bellezza dei lineamenti era compensata dalla bellezza delle linee, e finalmente certi occhi come non se ne erano visti da Talma in qua: degli occhi che avevano un’atmosfera. Virgilio ha detto natantia lumina somno, occhi che nuotavano nel sonno: ebbene, Maria Malibran aveva, come Talma, certi occhi che nuotavano non so che in qual fluido elettrico, dal quale lo sguardo prorompeva luminoso e insieme velato, come un raggio di sole che traversa una nube. I suoi sguardi parevano pieni di malinconia, di pensiero e di passione.
«Cantò la romanza del salice nell’Otello. Alla ventesima battuta il pubblico era vinto: alla fine della prima strofa era inebbriato; alla fine del pezzo era ammattito. Per me, provai la sensazione di uno che sia nella navicella di un pallone tenuto dalla corda, quando lo lasciano andare. Un momento prima egli dondolava placidamente[125] a pochi metri dal suolo, ed ecco ad un tratto slanciato come una freccia nell’immensità dei cieli. Ella mi appare improvvisamente come la interprete più pura, più patetica della poesia dell’amore e del dolore. Mi si aprì davanti un nuovo mondo, il mondo della grande musica drammatica; e le rappresentazioni della Semiramide, della Gazza Ladra, del Tancredi compirono la mia iniziazione. Il genio di Rossini e il talento della Malibran m’avevano iniziato».
Questo capita a molti. Si era dubbiosi e tediati in certe formule artistiche discutendo a freddo, sofisticando di estetica, senza altre convinzioni che quelle procedute da faticosi ragionamenti, quando ad un tratto ci troviamo innanzi ad un’opera, ad un quadro, ad un volume che ci squarcia i veli del tempio davanti agli occhi, e gridiamo: ecco il mio maestro, il mio pittore, il mio poeta! Quando poi tutta una generazione, stanca dell’antico che non gusta più e che capisce appena, aspetta la buona novella e vede il messia compiere i miracoli, l’entusiasmo prorompe, trasmoda, e fa commettere le pazzie che si commisero per la Malibran. Tutto sta che il messia venga al momento opportuno e che bandisca le dottrine e compia i miracoli necessari e adatti alle aspirazioni del popolo eletto. Siamo sinceri, chi impazzirebbe oggi per la Malibran nel Tancredi? Se fossero giorni di crisi ministeriale, ci sarebbe il caso di trovare il teatro vuoto. Gli entusiasmi, le frenesie romantiche sbollirono, e comincia l’era del positivismo. Ogni cosa a suo tempo, anche le manifestazioni dell’arte.
Maria Malibran, che aveva il canto e l’azione pieni di passione, era l’artista che ci voleva per quella generazione di romantici che portarono la passione nell’arte. Obbediente all’impulso interno, non usava i gesti solennemente tragici che le sue rivali studiavano davanti allo specchio, ma si incarnava profondamente nel personaggio rappresentato, senza calcoli antecedenti, come voleva l’ispirazione del momento. Lì era grande, e i vecchi narrano che veramente atterriva gli spettatori quando nell’ultimo atto dell’Otello percorreva il palcoscenico scapigliata, cercando uno scampo. Questi suoi impeti, queste sue improvvisazioni giuste, ma originali, avevano l’illusione della verità e colpivano profondamente un pubblico avido di originalità e di passione. Il pubblico trovava l’artista delle sue aspirazioni, e l’artista, rispondendo così ai bisogni del pubblico, seguiva l’impulso ricevuto dalla preparazione paterna.
Il tenore Garcia era impetuosissimo. La fanciullezza e l’adolescenza della Malibran furono tormentate dalle violenze[126] paterne, e quando nell’ultimo atto dell’Otello rendeva così bene lo spavento della morte, rendeva le sensazioni provate quando la prima volta cantò col padre l’Otello. Garcia le aveva detto:—Se canti male, all’ultimo atto ti ammazzo davvero.—In scena egli l’afferrò mentre fuggiva e sguainò l’arme; ed ella, piena del suo doppio personaggio di artista e di figlia, quando si vide sopra gli occhi terribili del padre, credette proprio di dover morire, si dibattè e morsicò fino al sangue la mano che la teneva stretta, Garcia gridò di dolore, e il teatro, credendo di udir l’urlo furibondo di Otello, scoppiò in applausi. Così ella era quel che la faceva il teatro, tanto fortemente presa dalla situazione drammatica, che ne era come invasata. Non poteva indicar prima quel che farebbe in scena, perchè nemmeno lei lo sapeva, e diceva ai parecchi tenori che cantarono l’Otello con lei: «Afferratemi dove potete all’ultima scena, perchè in quel momento non posso rispondere de’ miei movimenti.»
A questa subitanea ispirazione d’artista dovette anche la sua riconciliazione col padre. Il Legouvê narra questo episodio, al quale fu presente: «La violenza del padre aveva fatto sorgere troppe tempeste nelle relazioni loro. Erano rotti mortalmente tra loro e divisi da lungo tempo, quando Garcia, vecchio oramai e cupo, arrivò a Parigi. Si mise assieme una rappresentazione al Teatro italiano e si lesse sul cartello: il signor Garcia sosterrà la parte di Otello, e la Malibran quella di Desdemona. C’ero anch’io, quella sera, e non ho mai visto più fremente aspettazione di pubblico. Venne Garcia, venne la Malibran, poi Lablache che faceva da padre. Fosse la presenza della figlia o altro, il vecchio leone ritrovò i sublimi ruggiti della sua voce possente. Ella stessa elettrizzata, commossa da questo ravvicinamento pieno di patetiche amarezze, nel primo atto, nel delizioso duetto colla nutrice, nel finale, trovò accenti di malinconia disperata, come un’eco anticipata della romanza del salice; e la tela cadde tra un uragano di applausi. Dissi cadde... ma aspettate. Nel finale, Otello era alla dritta dello spettatore, vicino alla quinta, e Desdemona alla sinistra vicino anch’essa ad una quinta. Ora, mentre cadeva la tela, anzi quando la tela fu a poca distanza da terra, vidi i piedi di Desdemona rivolgersi improvvisamente e correre verso i piedi di Otello. Scoppiò una formidabile chiamata, la tela si alzò, ricomparvero insieme, solo che erano neri tutti e due. Gettandosi nelle braccia del padre ella s’era tinta il viso nel nero di Otello. La cosa era comica! Ebbene, non rise nessuno. Capirono tutti in teatro quel che c’era di commovente in quello spettacolo, non videro il grottesco, ed applaudirono freneticamente[127] questo padre e questa figlia, riconciliati dall’arte, dal talento, dal trionfo loro. S’erano abbracciati in Rossini.»
Ma basta. Che cosa resta di questa artista che fu tutta del suo tempo, che fu l’idolo adorato di una generazione intera? Restano immortali le sole strofe del Musset:
O Ninette! où sont-ils, belle muse adorée,
Ces accents pleins d’amour, de charme et de terreur,
Qui voltigeaient le soir sur ta lèvre inspirée
Comme un parfum lèger sur l’aubèpine en fleur?
Ou vibre maintenant cette voix éplorée
Cette harpe vivante attachee à ton coeur?
Alle volte ci lamentiamo di vivere in un mondaccio cane, e basta che il camino fumi, l’arrosto sia bruciato o l’agente delle tasse ci mandi un brano della sua prosa, perchè montiamo su tutte le furie e diventiamo pessimisti peggio dello Schopenhauer, del Leopardi o dell’Hartmann. Ebbene siamo ingiusti, siamo incontentabili. Basta ritornare un po’ addietro col pensiero per riconoscere che viviamo in una relativa età dell’oro, in una età tanto piena di sicurezza e di comodità da aver paura di un cataclisma. Dovremmo buttare gli anelli in mare come il felicissimo Policrate.
Infatti, pensate un momento che bel gusto doveva essere il vivere al tempo di Sua Maestà «Attila, figlio di Bendeguz, nipote del grande Nemrod, nutrito in Engaddi, per grazia di Dio re degli Unni, de’ Medi, de’ Goti, de’ Daci paura del mondo, flagello di Dio.» L’intera Europa visse parecchi anni negli spasimi della paura; nelle angoscie dell’agonia. Si aspettava la morte tutti i giorni, la rovina di ogni cosa più caramente diletta, lo scempio della famiglia, la notte eterna ed i tormenti immaginati dalle feroci fantasie degli asceti, ed analizzati dai sillogizzatori di Bisanzio. Si tendeva l’orecchio al lontano rombo della tempesta e dopo il tuono si aspettava senza respirare il fulmine distruttore. All’orizzonte rosseggiavano gli incendi, il vento recava i lamenti delle vittime e gli urli dei carnefici, i fiumi portavano cadaveri, e i sacerdoti dicevano le sinistre parole dell’Apocalisse. Veniva il flagello di Dio.
Dai ghiacci del settentrione scendevano i flagellatori, orridi nell’aspetto, feroci nell’anima: unni, rugi, goti, geloni, borgognomi, bellonoti, basterni, turingi, turcilingi, marcomanni,[129] svevi, quadi, eruli, tutto quanto più barbaro di più sfrenato, di più sanguinario errava dalla Scizia alla Borgogna, dalla China alla Scandinavia. Favelle orribili, urli selvaggi, facce ferine, irsute, tatuate, spaventose. E questa fiumana scellerata e sterminata si rovesciava tutta sull’Europa latina fatta mite di costumi nella sua decadenza, addormentata nella porpora e nei fiori, sfiorata appena dalle scorrerie di Alarico e di Radagasio. No, non si può veramente immaginare fin dove sia arrivato lo strazio delle povere città invase e la paura delle salvate. I barbari distruggevano e passavano, come la lava. Attila era veramente il flagello di Dio ed il martello del mondo, come egli stesso si diceva. Aquileia lo seppe.
Grazie a recenti lavori, le tradizioni sulla morte d’Attila sono divenute notissime, ma nessuno saprà mai quale immenso respiro di sollievo dèsse il povero mondo latino alla notizia di quella misteriosa morte. Permangono le vestigia del terrore come quelle della gioia per lo sfuggito pericolo, e stanno sparse nelle storie e nelle tradizioni municipali di parecchie città dell’alta Italia. Passato il pericolo, o dopo lungo tempo le città che temettero, confusero il pericolo temuto colla realtà e credettero davvero di essere state saccheggiate dalle onde barbariche. Così avvenne che quasi tutte le città dell’alta Italia segnarono nella loro storia un eccidio dovuto al flagello di Dio, mentre in fatto Attila non passò mai il Po.
Queste sparse tradizioni e leggende furono in un sol corpo ed ordinate in uno studio solo dal professor Alessandro d’Ancona, uno dei pochi professori che giunti al maresciallato dell’Università seguitino a lavorare e non dormono come certi altri, i quali non potendo sperare nuove promozioni, si chiudono nel bozzolo dello stipendio, insensibili ed assopiti come i bachi. Il D’Ancona e pochi altri lavorano sempre ed instancabilmente, non per ottenere una promozione impossibile od una croce troppo facile ma per amore profondo e disinteressato alla scienza. Si può non avere le opinioni di questi uomini, si può, come pur troppo fanno certuni, credere inutili le loro fatiche, ma non si può non rispettarli. Così ne avessimo molti di questi professori nelle povere nostre Università!
Anche negli Studi di critica e storia letteraria stampati a Bologna, il professore pisano segue il sistema che diremmo storico a confronto dell’altro che diremmo filosofico. Poichè ci sono due sistemi di critica letteraria oggi in Italia; al di qua del Garigliano, che rendendo conto di un autore studia prima la storia dei tempi, la biografia, l’ambiente[130] morale e sociale, tutto insomma quel che giova a dare un giudizio conclusivo basato su fatti cercati, trovati, esaminati. Vedi ad esempio i lavori del D’Ancona, del Carducci, ecc. L’altro sistema, accettato specialmente di là dal Garigliano, dove le menti inclinano più facilmente alle speculazioni filosofiche, consiste nell’immedesimarsi coll’autore esaminato, cercare di entrargli nella coscienza e spiegare così logicamente le sue opere. Vedi il De Sanctis, lo Zumbini, ecc. Certo che questi sistemi non sono esclusivi ed ammettono ognuno necessariamente qualche invasione del sistema contrario. Ma la caratteristica della critica di questa mezza Italia è una prevalenza della ricerca storica, esterna; mentre il segno distintivo della critica dell’altra mezza Italia è una prevalenza della ricerca filosofica intima. Ottimi sistemi tutti e due quando sono usati da poveri di spirito che riescono a fare una indigesta compilazione o una esposizione di impressioni grottesche. Ma basta di questo.
Firenze è la città che serba nelle sue vecchie cronache le più imbrogliate tradizioni intorno ad Attila. Ricordano Malespini, vera o apocrifa che sia la cronaca attribuitagli, narra le più stravaganti imprese compiute dal flagello di Dio in Firenze, narra le fiabe che senza dubbio le nutrici raccontavano ai bimbi sotto la cappa del camino. Tra le altre il re unno dalla testa calva e dalle orecchie di cane non potendo vincere la città colla forza, la vince coll’astuzia invitando a desinare ad uno ad uno i giovani fiorentini e ammazzandoli poi e gettandoli nel fiume. Ne fa uccidere così duemila, e i fiorentini se ne accorgono vedendo rosse le acque d’Arno e se ne accorgono troppo tardi perchè, stremati così di forza, sono facilmente soggiogati dal tiranno. Il buon Malespini non si accorse della inverosimiglianza di questa fiaba? Per ammazzare duemila uomini uno al giorno ci vogliono tra cinque a sei anni, e i fiorentini eran ben distratti se per accorgersi della mancanza di tanta gente aspettavano di veder rossa l’acqua d’Arno!
Il Malespini tra tante fiabe narra alcuni fatti veri, che sono però da attribuirsi al re goto Totila anzichè all’unno Attila, proprio come il Villani attribuisce invece a Totila quel che spetta ad Attila. È proprio il caso inverso; e il Pucci, nel suo Zibaldone, non sapendo raccapezzarsi, fa di tutto un minestrone, un pasticcio mostruoso, dal quale si capisce solo come le tradizioni sulla invasione unnica, svisate, alterate, imbottite di fiabe puerili, persistessero tuttavia verdi e vivaci.
Anche Roma volle essere stata minacciata, e la prima gloria del papato nel medio evo, la fermata cioè della fiumana[131] barbara per opera di Papa Leone, fu portata dal Mincio sul Tevere. Ravenna, competitrice di Roma in quei tempi, volle appropriarsi la gloria del pontefice romano, e ci narrò che il pontefice ravennate Giovanni compì l’atto che la storia rivendica a papa Leone. In questa leggenda ravennate, emula della romana, è accennato tutto un periodo storico rimastoci poco meno che sconosciuto. Quando la sede dell’impero fu trasportata a Ravenna, la chiesa della nuova capitale assunse una importanza nuova e grande, ed accennò a voler sopraffare l’emula. Gli arcivescovi ravennati si chiamarono pontefici ed i canonici cardinali. Tutta una storia di lotte fra le due chiese, tutta una guerra di raggiri, di tentativi, di scomuniche, di scismi deve essersi svolta tra Ravenna e Roma. Qualche frammento poco studiato ce ne rimane ancora, ma i particolari della contesa, le dottrine, le polemiche, quasi tutta insomma la storia vera di quel periodo furono soppressi o dal tempo o dagli uomini. Perdita dolorosa e forse irreparabile: ma varrebbe la pena che qualcuno riunisse le poche fronde sparse con amore e studio e ci dèsse in un fascio solo quel che ancora ci resta dell’importante episodio. Onesto desiderio che probabilmente non sarà mai soddisfatto.
Ma la leggenda più gloriosa e, se la parola è lecita, più romantica, è quella di Rimini. La leggenda riminese non è, secondo il Thierry, che la riproduzione esatta di quella di Troyes, dove gli invasori, colpiti da subita cecità, attraversano l’abitato senza miracolosamente vederci anima viva; ma a Rimini non si parla di miracolo e lo stesso Attila rimane ucciso. Gli unni assediano la città ed Attila travestito vi penetra. Si reca in piazza, sotto una loggia dove alcuni giuocano agli scacchi, e si ferma a vedere. Ad un tratto, ad un bel colpo, si dimentica d’essere incognito, vuoi dir la sua, e riconosciuto alla voce canina è preso ed appiccato alle finestre del palazzo Tingoli. Gli antichi commentatori di Dante conobbero e ripeterono la leggenda.
Ecco una leggenda, proprio leggenda. Qui non c’è nulla che accenni al proselitismo religioso come nelle tradizioni di Modena, di Roma e di Ravenna. Non c’è il fondamento storico delle tradizioni fiorentine che, confondendo Attila con Totila, fanno morire in maremma il re degli unni come in verità vi morì il re dei goti dopo la battaglia di Tagina. E’ proprio lo spirito municipale che inventa belle e gloriose imprese per la esaltazione propria, senza rispettare e senza ricordare la storia. Le città italiane al tempo delle invasioni barbariche, e specialmente degli ungheri, cominciarono a circondarsi di mura, ad ordinarsi[132] alla resistenza, a combinarsi internamente in quegli organismi che determinarono poi la vita comunale. Questa leggenda è una reliquia dello spirito che, eccitando fortemente il chauvinisme municipale, tenne viva la fiamma sacra della indipendenza e della libertà cittadina; è un esempio rozzo e primitivo di quegli entusiasmi che c’ispira oggi la patria comune. Mentre ora nella glorificazione della patria si procede per amplificazione, allora non si sdegnava anche un altro istrumento retorico, l’invenzione; e si trovava naturale che il flagello di Dio morisse ignominiosamente appiccato alle finestre di un cittadino qualunque.
Questa leggenda riminese si collega con quelle del Veneto. Ivi Attila fu veramente, e colle stragi e gli incendi giustificò il soprannome di martello del mondo. Aquileia, Concordia, Altino furono distrutte, ma non senza che i vinti edificassero una tradizione gloriosa intorno alle loro sventure. Giano, Giglio o Egidio re di Padova è l’eroe principale in queste invenzioni, che furono poi rimaneggiate da mediocri letterati o condite di aromi cavallereschi per stuzzicare il palato del pubblico indotto. Il re padovano prodiga i più bei colpi di lancia e di spada come un eroe dell’Ariosto, ma gli tocca ritirarsi in faccia al nemico che brucia senza misericordia le città ed i castelli dei quali riesce ad impadronirsi. Padova è assediata e sotto alle sue mura accadono battaglie epiche, degne dei canti d’Omero e del sangue troiano che i discendenti di Antenore hanno nelle vene. Attila manda a sfidare il buon re Giano, ed assistiamo ad uno scontro in campo chiuso come tra i cavalieri della Tavola rotonda. I cavalli galoppano, le lance si spezzano, ed Attila, da buon nemico della fede e della cavalleria, cade di sella colle gambe per aria. Giano scende da cavallo e colla spada recide un orecchio all’avversario; ma quando sta per recidergli anche la testa, gli Unni rompono fede alle consuetudini cavalleresche e cinquecento dei loro invadono il campo, salvano il re e fanno prigione il paladino vincitore. Attila però, da buon cavaliere, il giorno dopo libera Giano e fa appiccare i suoi cinquecento salvatori.
E qui la leggenda, che già aveva lasciato il tipo di tradizione municipale per assumere quella del romanzo o del poema cavalleresco, lascia anche le alte regioni d’Italia che Attila, in fatto devastò, per scendere nell’Italia centrale che fu immune dalla unica rabbia. Qui la leggenda veneta si collega colla riminese, poichè il buon re Giano, non potendo più resistere in Padova, fugge di notte tempo e si riduce a Rimini. E qui anche vediamo l’orgoglio delle famiglie feudali prevalersi della leggenda per crescere[133] l’antichità della propria genealogia, e gli Estensi, sino nelle scorcio del secondo XVI, indurre i Barberi a rimescolare e rattoppare la leggenda a maggior gloria della dinastia ferrarese. A Rimini accorrono i cavalieri da ogni parte d’Italia per la difesa del buon re Giano, ed ogni famiglia illustre, ogni libera città vuole averci avuto i suoi rappresentanti. Attila, persuaso di non poter espugnare una città difesa tanto bene, lascia in disparte il codice cavalleresco, e travestito da pellegrino francese, con un coltello avvelenato, entra in città per ammazzare Giano. Il buon re, armato da capo a piedi, stava giocando agli scacchi, ed il flagello di Dio, aspettando il momento propizio, stette a vedere i giocatori. Anche qui l’entusiasmo per un bel colpo tradì l’incognito, e l’orecchio perduto a Padova finì per constatare l’identità. L’Unno s’inginocchia umile a domandar salva la vita, prega, piange, promette persino di farsi cattolico, ma la vendetta dei vinti è inesorabile: la tradizione lo fa morire da vile, e l’anima del terribile flagellatore non abbandona il corpo indignata come quella di Turno o bestemmiando come quella di Rodomonte, bensì piangendo come quella di una imbelle femminetta.
Lasciamo oramai questi racconti. Chi ne è vago può trovarli negli Studi del D’Ancona, confortati da una meravigliosa erudizione e da un acuto esame delle fonti. Notiamo solo che intorno ad Attila c’è stata in Italia una moltitudine di leggende popolarissime che ora non sono conosciute più che dagli eruditi. E lo notiamo per riflettere come nella letteratura nostra si trovi che l’epica nazionale, a differenza di quel che accade in tutte le altre letterature, non ha potuto prender piede mai. Omero, Virgilio, i Nibelunghi, le epopee romanzesche francesi, l’Edda, insomma quasi tutte le epopee straniere od antiche sono calde di entusiasmo nazionale, sono cosa del paese e narrano fatti o immaginari o veri, ma nel paese accaduti. In Italia l’Ariosto ed il Tasso cantarono di cose non italiche, ed il povero Trissino che tentò un poema di argomento patrio riuscì come tutti sanno. Le imprese italiane non ebbero altri canti che gli eroicomici, la nostra storia non ispirò ai poeti che la Secchia rapita, il Torracchione, il Catorcio ed altri poemi che sono belli senza dubbio, ma che sono ben lontani dall’ispirarci i sublimi entusiasmi della Iliade o del poema del Cid.
Quali sono le ragioni di questa mancanza di ispirazione italiana nella nostra epopea? Perchè almeno questo periodo delle invasioni barbariche, che non doveva impaurire i regnatori come quelli dei comuni e di Legnano, non tentò qualcuno alla vera epopea italica?
Ci vorrebbe troppo tempo e troppo spazio a rispondere. Le ragioni sono molte, ma qui mi limito a notare che senza dubbio in noi italiani c’è stato e c’è troppo scetticismo che ci trascina all’ironia comica del Tassoni, troppa indifferenza che ci conduce ai capitoli berneschi, perchè un poema possa far fortuna se condotto sul serio e senza intenzioni polemiche.
L’epopea è morta, la tragedia è morta. Quanti sepolcri!
Con la molto reverenda Accademia della Crusca non ho altro di comune che il pio desiderio di scrivere in lingua italiana; non so dunque chi sia l’arciconsolo, chi tenga il manico del frullone, chi impasti, chi inforni e chi serva in tavola. Così non so se il signor Cesare Guasti appartenga da presso o da lontano al sodalizio che il più bel fior ne coglie, bench’io lo supponga; primo perchè mi pare di averlo sentito ricordare nel processo Cerquetti di stravagante memoria; poi perchè i toscani di una certa coltura son tutti della Crusca. Se poi non lo fosse, peggio per l’Accademia.
Mentre alcuni accademici si contentano di ringhiare e d’abbaiare come i botoli de’ barocciai, e riescono, a forza di pettegolezzi muliebri, alla indecorosa scena del Tribunale di Milano dove il mio buon Cerquetti si sentì condannare a due lire di multa per aver detto all’Accademia quel che non si dice ad una donnaccia, c’è però chi lavora nella bottega dell’arciconsolo, e le buone tradizioni non sono perdute ancora. E quando anche il Guasti, in un momento di bile accademica, avesse peccato in quel ridicolissimo processo Cerquetti, molto gli deve esser perdonato perchè almeno egli lavora, ed a cose più utili che sgusciar parole, bollare avverbi, a notimizzare preposizioni, come parecchi Carneadi del Vocabolario sempiterno.
Dio nella sua infinita misericordia mi libererà dalla tentazione di mettere il naso nel misterioso buratto; così egli mi tenga le sue sante mani sul capo e non permetta ch’io sia mai accademico di nessuna Accademia o cavaliere di nessun ordine. Lascio dunque a chi se ne intende il magro gusto di giudicare della bontà e serietà del Vocabolario[136] e mi fermo a lodare le pubblicazioni curiose ed utili del Guasti, come quella delle lettere di Alessandra Macinghi degli Strozzi e questa dell’epistolario di ser Lapo Mazzei. Sbaglierò perchè, ripeto, sono volgo profano; ma mi pare che simili pubblicazioni dove le parole sono vive, dove si può dire, operano e significano nella continuità di un discorso quasi di uno che parli, siano più utili di quei lessici dove le parole sono morte, ordinate in classi ed esposte al pubblico come le farfalle e i calabroni infilzati negli spilli sotto le vetrine dei musei.
E, in queste lettere di ser Lapo Mazzei, c’è ben altro che parole. C’è una risurrezione meravigliosa di parecchie persone, le quali ci tornano davanti agli occhi dell’intelletto, non già solitarie come statue di monumenti che per miracolo si movessero e parlassero, ma col tempo loro, coi loro congiunti ed amici, colle passioni, le virtù, i difetti di ciascuno e l’azione e la relazione di ciascuno cogli altri. E’ insomma un frammento di società che risuscita col suo ambiente, i suoi colori veri, il suo sangue e la sua carne. E’ la Crusca mi bolli la parola, è la borghesia del Trecento che esce dal sepolcro, getta il sudario e si offre viva agli occhi, quasi al tatto, degli epigoni meravigliati. Davvero a legger quelle lettere del buon notaio si scorda che ora sulla via da Firenze a Prato ci corre il tramway (o Crusca, come si dice?), e par di vedere il buon Lapo trottare tranquillamente sulla sua muletta per salire al poderetto di Grignano a vedere come mettano le vigne.
Francesco di Marco Datini da Prato fu mercante ricchissimo ed ebbe banchi suoi in Firenze, in Avignone, in Pisa, in Genova, in Valenza di Spagna, in Barcellona ed in Maiorca. Venuto su dal nulla, il popolo adattò a lui la storiella del povero giovane arricchito per avere recata una gatta in una isola infestata dai sorci; storiella vecchia e cosmopolita, che la ballata inglese adatta al lord mayor di Londra, Dick Vittington, e dal suo gatto Puss. Buon cristiano quanto buon mercante, non avendo altri figli che una bastarda natagli da una schiavetta che teneva in casa, pensò di spianarsi la via del paradiso lasciando, come fece, tutto il suo ai poveri. Il Ceppo, istituzione del Datini, vive ancora; forse perchè il fondatore e il suo consigliere ser Lapo, con giudizio raro in quei tempi, misero ogni studio ad allontanare in perpetuo ogni pretenzione d’ingerenza ecclesiastica dall’opera pia: e colla istituzione vive ancora benedetta in Prato la memoria del benefico mercante. La buona stella che salvò il Ceppo dalle burrasche per cinque secoli, lo salvi da un prossimo rimaneggiamento delle opere pie.
In un sottoscala abitato dai sorci, dai tarli e qualche volta, pare, visitato dai ladri, gli amministratori dell’opera, più teneri della fortuna de’ poveri, forse, che degli archivi e delle cartacce, tennero ammucchiati fino a pochi anni addietro i documenti vecchi del Ceppo. Questa negligenza di cinque secoli chi sa se venne solo per nuocere? Chi sa se le carte preziose siano state più al sicuro nel sottoscala che negli armadi di qualche biblioteca? Lasciamo andare: basti che un bel giorno gli amministratori, forse presi da vergogna, pensarono a riordinare l’archivio, ed incaricarono della faccenda un tal sacerdote Benelli che, amico del Guasti, gli fece vedere le lettere di ser Lapo al Datini. Il Guasti è di Prato, e il pensiero di erigere al proprio benefico concittadino un monumento aere perennius, lo mosse alla pubblicazione del curioso epistolario. Pare che il Guasti abbia il felice istinto delle pubblicazioni utili sia alla storia che alla lingua, e basti quella delle Commissioni di Rinaldo degli Albizzi per darmi ragione.
Il carattere più curioso e, direi, più trecentista che si trovi in queste lettere, è quello dello stesso ser Lapo. Sembra tolto di peso da una novella del suo contemporaneo Sacchetti e ci si presenta con una tale evidenza che par quasi d’averlo conosciuto.
Ser Lapo era pratese anch’egli, ma fino si può dire dalla giovanezza stava a Firenze a fare il notaio. Ebbe dimestichezza con Coluccio Salutati e più con Guido del Palagio che gli parve il più compiuto tipo di cittadino e di cristiano possibile. Ne parla sempre con una rispettosa amicizia che si avvicina alla venerazione e vuole che anche il Datini lo ami, lo frequenti e gli scriva; e se il Datini non lo fa, lo rimprovera. L’amicizia stessa che porta al suo ricco compatriata è delle più affettuose e profonde. Se questi gli fa un qualche regalo, subito la sua delicatezza si spaura; ma quando può, gli presta i più fedeli ed importanti servigi senza nessun secondo pensiero, per candida e servizievole amicizia. Quando non può dargli la sua opera, gli dà consigli cristiani, gli parla di Dio con ingenuità di core e di fede, con fiamma d’amore, e gli procura la conoscenza di uomini riputati santi, come il beato Giovanni Dalle Celle ed il beato Giovanni Dominici. Si vede uno che, non potendo far altro, cerca di far del bene all’anima dell’amico al quale si è dato tutto, con amicizia sviscerata; e, sicuro della rettitudine propria, non teme di rimproverarlo quando lo crede necessario. Di queste amicizie, direte, non ce n’erano che allora. D’accordo, ma où sont elles les neiges d’antan?
E ser Lapo non era poi il primo mozzorecchi capitato. Anch’egli fu squittinato pel Priorato, fu notaio della Signoria[138] e dei dieci di Balia, ambasciatore a Faenza, e notaio della importante ambasceria che a Genova nel 1381 trattò della pace col Visconti. Ma, come amava i cibi grossi, così non cercava gli onori e rimase contento all’esercizio della sua professione ed all’esser notaio dello Spedale di Santa Maria Nuova che amò più di casa sua. Era uomo di casa, ed amava la famiglia con una certa severità antica della quale ora non si troverebbe traccia che lontano, molto lontano dalle città. Ebbe più di quattordici figli da madonna Tessa (tacete, matti ricordi di Calandrino!) sua moglie, che ricorda di rado, quasi per caso, in queste lettere. Li amava alla sua maniera, facendoli imparare a leggere, scrivere e far di conto, poi avviandoli ad un’arte magari manuale, senza risparmiar nulla per loro ed avvenzzandoli al pensiero ed al bisogno di bastare a sè stessi colla certezza di nessuna eredità paterna. I notai de’ nostri giorni non avrebbero sicuro di queste idee.
«Educatore severo, con un cuore tenerissimo; che i fanciulli ruzzassero (e’ dice sfogar le pazzie) gli piaceva: un figliuoletto che pativa di mal caduco, detto allora mal maestro, teneva a dormire seco. Servitù non aveva. La donna, non sana, cuciva ai figliuoli i calzoni o, come allora dicevano, le calze; e la roba faceva venir da Prato per risparmio. Alla donna confessa che talvolta era amaro, ma dell’amor maritale conosceva la più pura sorgente e albero della nave chiama le madri.
«Amava la villa, e come che a Grignano non avesse che pochi campi (e’ dice un orto) e qualche stanza dove abitava la madre sua vecchiarella, là spesso andava, così a cavallo, per rivedere monna Bartola e far le faccende della ricolta e della vendemmia. Gran pensiero si dava de’ vini; la vigna accomodava di propria mano; un po’ di buon aceto voleva in casa. Cibi grossi preferiva e vestire di poca apparenza: d’essere i suoi venuti dal contado si teneva onorato, e Carmignano gli viene spesso sulle labbra per far capire ch’egli aveva modi villerecci e cervello sottile».
Insomma il nostro buon notaio era il modello di un repubblicano guelfo, di un democratico cristiano, trecentista e toscano.
Ed era anche un modello d’impiegato. Non so come vadono ora le faccende allo Spedale di Santa Maria Nuova. Spero, credo, desidero che vadano a gonfie vele e che i lasciti siano amministrati sempre come quelli del 1348 dei quali disse Matteo Villani: «Questi lasciti si distribuiscono assai bene, perocchè lo Spedale e di grande elemosina e sempre abbonda di molti infermi uomini e femmine i quali son serviti e curati con molta diligenza e abbondanza[139] di buone cose da vivere e da sovvenire ai malati, governandosi per uomini e femmine di santa e buona vita». Ser Lapo era uno di questi uomini di santa e buona vita, e se gli amministratori presenti non aspirano alla canonizzazione, senza dubbio saranno rispettabili e di specchiata onestà come il buon notaio pratese. Ma si può però giurare, se non scommettere, che l’amministrazione sarà più complicata che non fosse al tempo di ser Lapo, che con un solo camarlinguzzo mandava avanti tutta la barca. Tenevano meno libri, c’erano meno moduli e meno controlli che non ci siano adesso. «Egli andava a veder le terre dello Spedale; nei beni lasciati per testamento indagava se fosse magagna di usure, perchè lo Spedale non si caricasse di legna verde; nell’esazione dei crediti regolava in modo le cose che gl’impotenti debitori non s’avessero a lamentare de’ poveri. Cinquanta reditadi amministrare e secondo la volontà dei testatori distribuire l’entrata; e molte limosine che venivano così a mano dispensava; e perchè v’erano mercanti che a fin d’anno, veduto il guadagno dei loro traffici d’una parte facevano limosina, a lui andavano, come ad uomo che aveva il segreto di molte miserie, per far limosina che fosse buona. In tutto questo maneggiare nascoso di carità, gliene andava talvolta del proprio; minuzzoli (come’ e’ dice) del pane ch’io doveva mangiare. Ma per questo era più lieto; e ricevendo come notaro la mercede di dieci fiorini al mese credeva di viver del sudore de’ poveri». Davvero se gli impiegati non chieggono al papa la canonizzazione di ser Lapo Mazzei, hanno il pelo nel cuore.
Una cosa soltanto mi sorprende in questo curioso epistolario. Quelli erano brutti tempi e la repubblica si trovava in uno de’ suoi più pericolosi cimenti: la lotta contro quel Conte di Virtù che Colucci Salutati chiamava Comes vitiorum. Senza dubbio ci furono dei momenti di gioia e di angoscia grande, e spesso lo spavento entrò nelle case e nel cuore dei cittadini. Ma il buon notaio appena parla delle cose pubbliche, se non quando si tratta di lavorare pel Datini e trovargli e fargli trovare raccomandazioni potenti per scansare qualche accrescimento di tasse nei maggiori bisogni della repubblica. Eppure, per quanto ser Lapo fosse distaccato dalle cose di questo mondo, eppure era buon cittadino ed aveva sostenuto cariche importanti. Egli invece nei momenti più critici cerca i buoni tribbiani e a prima vista pare un indifferente; un epicureo alla sua grossa maniera temperato di molta religione. Questo non me lo so spiegar bene. Che allora si parlasse di politica meno che ora, sia pure e tanto meglio ma che nella corrispondenza confidenziale di due amici[140] non vicini, uno dei quali era intrinseco anche dei principali personaggi della repubblica, non se ne facesse mai o quasi mai parola, mi sorprende. O come il Datini, che aveva tanti interessi, non cercava mai informarsi? O come ser Lapo era tanto indifferente alle vicende del paese che amava pure e serviva? Io non mi raccapezzo.
Se l’argomento non fosse troppo delicato, ci sarebbe anche qualche cosa da dire intorno alla religione del nostro notaio. Cristiano più fedele, più umile, più convinto di lui non si potrebbe trovare; e nelle sue lettere qualche volta diventa ascetico come un romito contemplativo. Eppure qua e là gli scappa qualche frase strana, come sulla libertà della mente e su quel che dovrebbe fare il papa per tor via lo scandalo. Sicuro della purezza delle sue intenzioni, giudica sicuro più che oggi non sarebbe tollerato da una stretta ortodossia. Ma di questo lasciamo, prima perchè queste scappate non tolgono nulla alla fisonomia austeramente religiosa del nostro Lapo; poi perchè è ora di finire. Oramai il lettore vegga il resto da sè.
Eccomi di nuovo.
Tra queste righe e le precedenti corsero parecchie settimane, ma la colpa non è mia: è delle crude stelle, direbbe il Metastasio. Il fatto è che le stelle, il sole, la luna e più di tutti il padron di casa, m’hanno costretto a ricorrere all’arcangelo san Michele, la cui festa si celebra agli otto del canoro mese di maggio; ed ho trasportati i penati, le casseruole e tutte le mie masserizie in un altro domicilio. Chi s’è trovato in simili frangenti, capirà che sia impossibile fabbricare pasticci scritti in tanto scompiglio e mi compiangerà. Quanto a me, trovo curioso che i tristi avvenimenti di questi giorni siano posti sotto l’invocazione dell’arcangelo invitto che, nella tradizione cattolica e nel poema del Milton, debellò il demonio. I carri dei bagagli sono caricati e scaricati a suon di bestemmie; i due peccati capitali, ira ed invidia, regnano sovrani senza grave detrimento degli altri cinque; insomma si dannano tante anime nel giorno di san Michele, da far quasi credere che per alcune ore il demonio abbia il disopra. Non so dunque perchè si festeggi un santo, proprio nel giorno meno propizio... Basta: lasciamo andare, per non dire qualche eresia, e lasciamo fare chi se ne intende.
E pur troppo, in quel disgraziato giorno, il diavolo ebbe una fetta anche dell’anima mia; e me ne confesso in pubblico, come facevano i fedeli nei primi tempi del cristianesimo. Anzi n’ebbe due fette: una per via del cambiar casa, e l’altra per la lettura di un libro proibito che feci appunto tra un peccato d’ira ed uno d’impazienza. In verità ch’io sono un gran peccatore, e spero che voi[142] cari lettori, non mi dimenticherete nelle vostre orazioni.
Lessi dunque un libro latino, le Epistolae obscurorum virorum, che altre volte avevo scorso con pochissima attenzione, badando piuttosto alla festività del latino maccheronico che alla ferocia della satira ed alla importanza storica o polemica del contenuto. Letto con attenzione e con maggiore preparazione ad intenderlo, il libro mi fece tutto altro effetto. Mi pare strano che i poveri teologi di Colonia, tanto spietatamente flagellati in quel libro, non si siano impiccati per disperazione come Licambe e Neobulo dopo i giambi di Archiloco. Ma forse dalla teologia loro attinsero la forza di resistere alla tentazione, pensando che il suicidio è peccato.
Il Rinascimento fu splendido in Italia, ma si fermò piuttosto alla parte formale. Appena la stampa fu inventata in Germania, si vide l’Italia profittarne subito, meglio che le altre nazioni. Quando in Germania non si stampavano che Bibbie e libri ascetici, qua Aldo aveva già dato fuori quelle magnifiche edizioni di classici latini e greci che oggi ancora sono cercate assiduamente e pagate riccamente. Ma la cultura non giunse alle radici della pianta italica. Diventammo metà scettici e metà pagani, chiamammo Giove quel Dio che fu già il terribile Jehova degli Ebrei, sorridemmo del papa, dei sacerdoti e della religione, senza procedere oltre, senza che le coscienze provassero la necessità di una fede nuova o di una riforma della vecchia. Il Valla parve deliberato per un momento a combattere la potenza pontificia e ad assalirla nel punto vulnerabile; ma, in fondo, la sua non fu che una ribellione di umanista malcontento, che parla con ornatissimo stile ad un pubblico di umanisti scettici come lui. Nessuna convinzione, nessuna fede spinse i letterati e gli artisti alla discussione dei più delicati problemi della coscienza.
Parve che il Valla scrivesse contro la pretesa donazione di Costantino per far paura od ottener patti più grassi. Certo poi tornò in grazia, scrisse se non la palinodia, almeno una giustificazione; e ad ogni modo contese con Roma non per fede, ma per ira, appunto come inveì con eleganti e maligne invettive contro il Poggio ed il Filelfo, che lo ripagarono a misura di carbone.
Lo stesso Savonarola non dommatizza, non discute le deviazioni del pontificato, le consuetudini, le sentenze dei Padri, la nuova costituzione della Chiesa ed il nuovo aspetto del cattolicismo. Egli si ferma alle applicazioni, e sembra piuttosto un politico che un teologo. Roma oppone il domma ai suoi assalti, ed egli non osa più assalire il nemico dietro quella sacra trincea. Così tutto si adagiava in una accidia di coscienza, in un torpore dell’anima che[143] furono fatali all’avvenire delle nazioni latine; poichè si può bene stimare che le discussioni di religione siano vane ed inutili quanto quelle della filosofia, ma non si può negare che quelle siano appunto le liti che accendono di più gli animi, scaldano i combattenti fino ad invocare il martirio e commuovono le nazioni fino alla intime midolle, trascinando chi veramente crede a imprese gigantesche, ad eroismi che paiono sovrumani.
Basta vedere come lo stesso umile latino maccheronico prenda una importanza diversa, secondo si usa per ridere, come in Italia, o per uccidere, come in Germania. Tifi Odassi e Teofilo Folengo cantano baie dove qua e là scappa fuori qualche impertinenza ai preti o ai frati, ma che sono e restano baie senza proposito. L’Alione tutt’al più sale a qualche invettiva politica; e l’Orsini, il notissimo maestro Stoppino, non fa che tradurre i capitoli degli imitatori del Berni nel latino maccheronico più insulso. In Francia l’Arena, il Germain ed altri non imitano Folengo che per comporre satire politiche di poca importanza. Solo Teodoro di Beza, il dotto calvinista, nella sua Epistola a Benetto Passavanti, si leva più in alto e mira a render popolari gli argomenti religiosi e i sillogismi della dialettica protestante. Ma in Germania, là dove un nuovo mondo morale si formava, giovane e fecondo, sotto gli strati sterili della teologia scolastica che aveva ritardato il Risorgimento, in Germania, quel latino maccheronico che diede a noi le frottole di Baldo o le lodi della bugia o peggio, diventa un’arma terribile e lascia tali ferite ai vecchi pregiudizi, che il sangue ne spiccia ancora e non si chiuderanno più.
Mentre l’invenzione della stampa, fatta in Germania, aiutò possentemente e quasi creò il Rinascimento italiano, questo, dal canto suo, quasi creò la Riforma germanica, la quale comincia appunto quando i pensatori tedeschi abbandonano le strettoie della scolastica per accostarsi alla libertà dell’umanesimo. Erasmo ebbe paura del moto c’egli stesso aveva in gran parte promosso co’ suoi scritti, ma ciò non toglie che dalla sua grande ed elegante coltura non debbano riconoscersi le origini della rinnovazione della coltura e della coscienza tedesca. Quando Reuchlin a vent’anni insegnava il greco in Basilea, era tenuto un prodigio, e dicesi che fosse il primo tedesco che sapesse parlare la lingua d’Omero. Ma pochi anni dopo, molti lo sapevano come lui, e Lutero studiò profondamente il greco e l’ebraico per poter tradurre la Bibbia. Così il rinascere della coltura serviva in Germania allo sviluppo della Riforma. Noi ci fermammo a gustare le bellezze della retorica[144] di Cicerone. I tedeschi la studiarono per liberarsi da Roma, per combattere e vincere. Leone X cercava il piacere nella coltura, appunto quando Martin Lutero vi cercava la libertà.
A Colonia, un ebreo convertito ed un inquisitore chiesero che i libri degli ebrei, eccetto la Bibbia, fossero bruciati. L’imperatore chiese consiglio a Reuchlin, che lo diede contrario. Di qui ire, contumelie, diatribe, libelli infamanti fioccarono da tutte e due le parti; ed appunto in difesa di Reuchlin e contro i teologi di Colonia vennero fuori queste Lettere di uomini oscuri, che mi paiono il sommo dell’atrocità cui possa giungere la satira.
Il volume consta di tre libri di lettere in latino da cucina, dirette ad Ortuino Grozio, uno dei teologi di Colonia, e che si fingono scritte a lui dai suoi colleghi o aderenti. Mi ricordo come la prima volta che scorsi i tre libri delle Lettere non pensai nemmeno che quei nomi potessero esser veri. La satira era tanto sanguinosa, che fino dalla prima pagina fui istintivamente persuaso che quei nomi fossero immaginari, come in una satira o in un epigramma si mettevano e si mettono ancora, da alcuni, nomi d’invenzione, come quelli de’ personaggi delle commedie. Invece i nomi sono veri, e Ortuino Grozio e tutti gli altri nominati nella satira vissero e presero parte alla lotta contro Reuchlin. Le guerre di religione sono le più feroci di tutte, anche quelle che si combattono nei libri.
Le lettere che si fingono dirette a maestro Ortuino dai suoi amici sono piene di scimunitaggini messe a posta in bocca agli avversari di Reuchlin. E quando non ci sono sciocchezze, ci sono ribalderie, brutture, oscenità madornali, raccontate come in confidenza all’amico in un latino ed in uno stile ridicolissimi. Gli è come, mettiamo, chi fingesse un epistolario dei deputati di destra che scrivono al Sella, o di quelli di sinistra che scrivono al Depretis, chiacchierando confidenzialmente di brogli, di frodi, di infamie commesse, raccontando le più turpi birberie possibili fino i più schifosi delitti contro il buon costume. E quando lo stile, benchè messo in caricatura, fosse per ciascuno così ben copiato da indurre per un momento in dubbio i creduli, come accadde per le Lettere degli uomini oscuri, si avrebbe ancora una sbiadita idea della ferocia della satira tedesca, la quale ai suoi tempi fece tal rumore, che Lutero stesso dovette disapprovarne gli autori.
Gli autori delle Lettere, furono Ulrico di Hutten e Groto Rubiano, benchè, secondo il Monike, a loro non spettino che gli ultimi due libri e il primo sia dello stampatore Wolfang. Eppure Ulrico di Hutten, così feroce in queste sanguinose lettere, fu buono e generoso cavaliere. Tra lui[145] e l’inquisitore Hochstraten, quello stesso che voleva bruciare i libri ebrei, che bruciò quelli di Reuchlin e assalì ignobilmente Lutero, c’era odio mortale. Un bel dì s’incontrarono in una strada di campagna e deserta. L’inquisitore si buttò in ginocchio davanti al cavaliere, piangendo e chiedendogli misericordia della vita; e il cavaliere, stomacato da tanta vigliaccheria, gli diede un paio di piattonate, gli volse le spalle e se ne andò sorridendo di compassione.
Ebbene; a leggere quelle polemiche furibonde, quelle satire selvagge, quegli epigrammi cannibaleschi, oggi si rimane sorpresi. Pare impossibile che le ire di religione possano torre a quel modo la misura del giusto ed il lume degli occhi! Oggi gli scismi e le eresie non hanno più ragione di essere; i tentativi di qualche ingenuo e le prediche dei vecchi cattolici e del padre Giacinto non fanno più nè caldo nè freddo. Oggi un nuovo Lutero o finirebbe al manicomio o al domicilio coatto. Ognuno pensa a modo suo, adora Dio come crede o non l’adora affatto; e per questo non c’è bisogno di fabbricare nuove religioni, di scriver biblioteche intere, di mettere in moto eserciti di soldati e di predicatori. Ognuno di noi compie il suo piccolo scisma da sè, o volgendo le spalle al culto antico, o soltanto mangiando una costoletta il venerdì, senza per questo bruciar le bolle del papa in piazza o argomentare, come Lutero, davanti alla Dieta ed all’imperatore. Questa libertà di fatto, la quale riceve appena qualche piccola limitazione nelle manifestazioni esterne del culto che potrebbero ledere i diritti altrui, ci ha avvezzati ad una tranquillità religiosa profonda ed imperturbata che spesso è indifferenza bella e buona, ora leggendo i libri scritti nel secolo XVI pro e contro la Riforma, ci troviamo come in un altro mondo strano e meraviglioso così, leggendo la Bibbia, ci sentiamo fuori e lontanissimi dal mondo dove viviamo. Pare impossibile che si sia sparso tanto sangue e tanto pianto per avere il diritto di far la comunione col calice!
Era a questo modo, riflettendo filosoficamente alle storture dello spirito umano come un monaco consacrato alla vita contemplativa, ch’io seguiva i carri dove la roba mia andava a sconquasso prima di giungere al nuovo domicilio. Era proprio quello il tempo di simili riflessioni! Storture anche queste dello spirito umano, direte voi; e se stesse a me, direi che dite bene.
Il Panzacchi, parlando delle iscrizioni di Teodorico Landoni dice: «Delle iscrizioni parmi che si possa oggi dire come delle statue monumentali; e cioè che al nostro tempo ricorre frequentissima l’occasione di farne, mentre si manifesta assai scarsa l’attitudine nostra a farle bene.» E questa verità parve così terribile al Carducci, il quale pure di epigrafi e bene ne ha fatte parecchie, che giunse sino a disperare dell’attitudine della nostra lingua alla maestà dello stile lapidario; e ricordo ancora una sua sdegnosa lettera contro gli autori di un prontuario di indirizzi, dove egli era notato come epigrafista. Mise gli autori del libercolo e l’epigrafia italiana tutti in un fascio; scomunicandoli tutti, salvo poi a fare il giorno dopo una delle più belle iscrizioni italiche, come quella che commemora gli studenti morti per la patria nell’atrio della Università di Bologna.
Teodorico Landoni non disperò così, che anzi, senza che nella sua modestia osi dirlo, credette di poter competere anche con la epigrafia latina: se non con la vera dei consoli o degli imperatori, almeno con quella degli epigoni, con quella dei moderni che vestirono più degnamente la toga latina: e quanto a me, credo che egli abbia più che raggiunto l’intento suo segreto.
Il nome del Landoni, che potrebbe essere uno dei più conosciuti in Italia, è invece noto soltanto a quella classe di studiosi che non cercano la copia, bensì la sceltezza, a lor nutrimento. E la colpa di questa fama ristretta ai migliori e non scesa in balìa delle scapigliature della piazza, la colpa di questa tranquilla modestia del nome, è tutta propria di colui che lo porta, poichè la ricerca[147] della più scrupolosa correzione, unita a buona dose di accidia, fecero del Landoni uno dei più corretti ma dei meno produttivi autori italiani. Egli non ha saputo peccare, mentre oggi una delle condizioni del trionfo è l’avere peccato.... e molto!
Il padre del Landoni si chiamava Jacopo, e fu uno dei più bizzarri cervelli che producesse mai la Romagna. Pareva che in lui rivivesse uno di quei fiorentini arguti che lasciarono tanti argomenti di novelle al Boccaccio, al Sacchetti ed al Lasca, e le cui beffe rimasero come tipo della festività di tutto un secolo. Le beffe di Jacopo Landoni non erano così feroci come quelle di Maso del Saggio o del Brunelleschi, ma anch’egli cercava i Calandrini e i Grassi legnaiuoli per goderseli. I preti e il governo, che allora erano una cosa sola, erano perseguitati dal bizzarro Jacopo, e a dir vero gli rendevano il cento per uno facendolo tribolare con ogni sorta di angherie. Ma Jacopo Landoni, tuttavia soffrendo, non mancò mai di cavarsi i capricci alle spalle dei Calandrini reverendissimi, e per molto tempo, forse oggi ancora, riuscì a far celebrare un triduo per un miracolo tutto di sua fattura.
Abitava presso San Giovanni Battista in Ravenna, e il cortile di casa sua era appunto sotto al campanile. Sull’imbrunire, Jacopo Landoni riuscì ad entrare nel campanile, e salito sino alle campane, infilò una cordicella nel battaglio della maggiore che era forato da parte a parte. Lasciata scorrere la cordicella per un buon tratto entro al buco, ne gettò i due capi nel cortile e scese. Sul punto di mezzanotte, afferrati i due capi della corda, si diede a suonare alla disperata. Il sacrestano, i preti, il vicinato furono in un momento sossopra, e nessuno osava salire per conoscere l’origine del terribile scampanìo. Si mandò a chiamare la forza armata, cioè quei certi soldati del papa che hanno una leggenda di prudenza confinante con qualche cosa di peggio, e intanto la campana affrettava il suo martellare, e mezza città destata e sorpresa accorreva. I soldati con la baionetta in resta salivano lentamente, urlando certi gran chi va là, soffocati dal rimbombo del bronzo sacro, che pareva infuriare ad ogni nuovo passo della forza; e il Landoni, intanto, nell’oscurità del suo cortile, osservava il lento procedere dei lumi nella chiocciola del campanile e sonava come un indemoniato. Quando i lumi furono quasi giunti in alto, egli lasciò andare un capo della cordicella e tirando sollecitamente per l’altro, sfilò il battaglio come si sfila un ago tirando per un capo filo. La corda non era ancora in terra, che i papalini proruppero nella camera delle campane,[148] puntando avanti le baionette e urlando alt!... Non c’era nessuno! Il battaglio dondolava ancora, la campana vibrava ancora, e non poteva trattarsi di una illusione. Dunque?... La spiegazione la dette Jacopo Landoni, che intanto s’era cacciato nella folla, sostenendo che quello era un miracolo. E per miracolo fu battezzato e cresimato, tanto che credo si faccia ancora un triduo solenne ad perpetuam rei memoriam.
Le facezie i motti e le burle di Jacopo Landoni potrebbero empire uno di quei libri di Ana dove si accolgono le arguzie degli ingegni bizzarri. Ma se alcune di queste facezie sono di genere scatologico ed altre solamente gustabili da chi vive nella patria del Landoni stesso, è fuor di dubbio che abbondano di sale e di spirito. I pochi sonetti in dialetto del vecchio Landoni sono pure modelli di festività inimitabile; eppure in lingua italiana egli fu scrittore grave e solenne forse troppo quando il capriccio lo volse a tradurre le Maccaronee del Folengo. Come tutti gli scrittori suoi contemporanei, ebbe un rispetto tanto grande della lingua, una venerazione così severa, che gli guastò lo scherzo. Lo stesso Maestro Ircone, satira feroce ai puristi, o meglio ad un purista che razzolava tra le scorie del Trecento pensando di raccattar gemme, non esce da quella serietà solenne de’ linguisti d’allora ed è ben lungi dalla brillante festività delle cose in dialetto.
Questo rispetto quasi religioso alla propria lingua, Teodorico Landoni l’ereditò dal padre. Gli uomini dalla correzione squisita, quasi non osano tentare lo scherzo, quasi temono di peccare verso l’onore dell’idioma materno piegandolo ad esprimere concetti meno che serii. E tanto è il rispetto che il Landoni ha dell’italiano, che non lo stima inferiore al latino in qualsivoglia prova più solenne e difficile. Di questo sono testimonio le iscrizioni.
E dal padre ereditò Teodorico Landoni anche la bizzarria!
Più bel tipo di bohème non l’ho mai visto. Non di quella bohème scapigliata che copre spesso sotto le affettazioni e le pose la propria sterilità, ma di quella soltanto delle abitudini esterne, che non influiscono sul genere o sulla qualità degli studi. Il Landoni è nottambulo per eccellenza, bibliofilo insigne e frequentatore assiduo del Caffè dei Cacciatori, dove consuma un caffè solo con molti giornali. In quel caffè vanno a cercarlo molti studiosi e fino professori di Università per domandargli qualche notizia di libri sconosciuti e rari, che egli ha tutti in capo come in una biblioteca e conosce e spesso porta seco nelle sterminate tasche dell’immenso soprabito. Quando sonnecchia sul giornale, basta proferire vicino a lui un nome come[149] quello di Dante, del Bembo od anche del Burchiello, per vederlo desto ad un tratto come un cavallo militare che senta la tromba, e gli occhiali come un padre che senta dir bene de’ suoi figli. Se poi cava fuori qualche edizione principe o qualche volume della sua maravigliosa collezione d’epistolari, ve lo fa vedere come l’orefice vi fa vedere un gioiello, sorride di compiacenza, gli tremano la voce e le mani, e quasi quasi si lecca i baffi come un buongustaio davanti ad uno di quei piatti che sono il trionfo della culinaria.
Gli amici suoi raccontano volentieri una specie di leggenda o di fola intorno alla sua bibliomania. Un giorno, il Morgante Maggiore sarebbe partito dalle case dei Pulci e per Mugello e Val di Savena sarebbe capitato a Bologna. Un viaggio di montagna, quando si vogliono prendere le scorciatoie, stanca anche i giganti; e il Morgante, arrivato in città dopo la mezzanotte, appoggiò il gomito ai merli della torre Asinelli, e prese fiato. Proprio sotto alla torre c’è il Caffè de’ Cacciatori, e mezzanotte è l’ora in cui il Landoni va appunto a leggere ivi i giornali del mattino antecedente. Ed ecco il Morgante, vedendo il Landoni, disse:
—Ohe! Landoni, dove andate?
L’interrogato alzò gli occhi, niente sorpreso, da buon romagnolo che non ha paura di nulla, e rispose con calma:
—To’! Vado al caffè. E voi chi siete?
—Io sono il Morgante Maggiore.
—O di quale edizione? Quella di Luca Veneziano del 1481 o quella di Francesco di Bino del 1482?
Così rimase stabilito che il Landoni, anche in uno di quei momenti nei quali un uomo ha ragione d’esser distratto, pensava invece ai suoi cari libri ed alle edizioni principi o rarissime.
Questi sono scherzi. Quel ch’e però certo è questo, che il Landoni, oltre ad essere uno dei primi bibliografi ed eruditi d’Italia, conosce come pochi la Divina Commedia e vi ha compiuto sopra degli studi profondi, quali potevano aspettarsi da un ingegno severo come il suo e da una conoscenza profonda della lingua e della storia. Gli abbiamo veduto alle volte tra mani certe edizioni a larghi margini del poema sacro, minutamente postillate, corrette e ricorrette, dove un lungo studio, un incessante raffronto di codici, di edizioni e di commentari hanno portato tutto quel lume che si può portare. La sola correzione della punteggiatura, fatta dal Landoni, schiarisce molti significati controversi. Peccato che la pigrizia e quella incontentabilità che è la caratteristica degli ingegni severi[150] e corretti, privino gli studiosi del risultato di fatiche lunghe, pazienti ed intelligenti.
Invece il Landoni ci offre un volume di iscrizioni, quasi sfida a coloro che non reputano adatta la nostra lingua a simil genere di componimenti: iscrizioni che raggiungono spesso la perfezione del genere e che resteranno come modello, a perpetuo scorno degli Scolopi che le fabbricano secondo le ricette purgative del padre Mauro Ricci: ma, ad ogni modo, oggetto di rammarico per chi del Landoni desidera qualche cosa di più importante, come egli saprebbe dare, solo che lo volesse.
Riportarne molte non si può e non conviene; ma eccone una, da porsi sulla porta di un cimitero, dal lato interno:
O VIVENTI CHE USCITE
SOLO IL TEMPO NON MUORE
E L’ORA CHE VOLGE
È A VOI L’ULTIMA
FORSE.
Chi non intende tutta la terribilità racchiusa nel solenne laconismo di questa epigrafe?
Ma dove l’ingegno del Landoni e la profonda conoscenza della lingua fecero gran prova, fu nel tradurre le iscrizioni dello Schiassi e del Boucheron. Finora non si credeva che il nostro idioma potesse stare al pari del latino in questo genere di componimenti. Oggi con sorpresa vediamo che non solo l’italiano può combattere, ma può anche vincere; ed ha vinto.
Nell’additare agli studiosi ed agli intendenti il libro del Landoni, che per di più contiene un bel saggio di traduzione in versi (il Palemone del Gessner), è ben naturale esprimere un voto; questo: che il Landoni produca di più e sia meno pigro e meno modesto. Chi approva, alzi la mano.
Mi preme di stabilire, che c’è a questo mondo della gente, il coraggio della quale non può essere messo in dubbio, e che ha paura di una parola. E ce n’è dell’altra che, conoscendo questa debolezza, ne profitta.
Non parlo dello Sciboleth che fu causa del macello degli efraimiti, o del ceci che nei vespri siciliani, servì a riconoscere i francesi. Queste parole sono storiche, ma non fanno paura nè agli ebrei, nè ai parigini che visitano Palermo.
Dico invece delle parole che fanno paura ai liberali di poco carattere; e sono due: retorica e mangiapreti.
Della parola retorica si può dir molto. Ogni parola che abbia un senso alto, ogni frase che si diriga ai nobili sentimenti di patria o di libertà: ogni discorso che esca dalle solite rotaie della mediocrità soddisfatta e della conservazione sacrosanta, sono bollati e messi alla berlina come retorica. Prima del Settanta era retorica il dire Roma futura capitale d’Italia, e quegli stessi che schizzavano amari frizzi (diseur de bons mots, mauvais caractere) contro gli scapigliati vociatori de’ meetings (si chiamano così in lingua costituzionale, o più brevemente mitingai) dopo essere arrivati a Roma piangendo e spinti a pedate dalla nazione (parola retorica; bisogna dire il paese) inventarono poi l’hic manebimus optime trionfale.
Ma in quei tempi la parola retorica non chiudeva in sè tutto quello scherno conservatore che rinchiude oggi, e pochi ne avevano paura; oggi invece è diventata l’incubo, la bestia nera di tutti coloro che da vicino o da lontano hanno che fare con la politica.
Avete visto un cane con una casseruola alla coda scappare[152] per le vie, tra le fischiate e le pedate? Ebbene, la parola retorica è la casseruola che temono tutti gli uomini politici, dalle alture del Senato alle bassure dei foglietti ebdomadari.
Un oratore accusato di retorica, può fare una orazione meglio di Cicerone, ma i colleghi gli punteggeranno le frasi con quelle sghignazzate villane che i resoconti della Camera battezzano ilarità. Un giornalista può aprire una cronaca di miseri, additare ad una ad una le sciagure, le vergogne, gli spasimi che disonorano una città, un governo, una società intera: ed i colleghi alzeranno le spalle, scherzando sulla retorica repubblicana e tornando alle notizie delle reali rosolie e delle nuove nomine di commendatori tutte belle cose che non sono retorica.
Il suffragio universale? Buffonata. I meetings? Pagliacciata. Le dimostrazioni? Quarantottata... e così via. Del resto, tutta retorica. Mettiamo che un povero calzolaio non trovi un cane da calzare ed abbia fame: vedete che l’ipotesi non è inverosimile. Se tace, prima di tutto non mangia, e poi rinuncia alla speranza di mangiare. Se parla, in genere, di sofferenze dei diseredati, dei proletari, dei poveri, una delle due: o parla a bassa voce, e allora fa della retorica; o parla forte, e allora lo mandano a domicilio coatto. Mettiamo che un avvocato lo difenda. Oh gli avvocati! Peste della società, rovina delle istituzioni, ecc. E poi a che cosa servono gli avvocati? A far della retorica. Non si è conservatori per niente.
Ma questa parola scotterà tra poco a coloro che se ne fecero un’arme contro le aspirazioni al meglio. Se le cose pensabili sono anche possibili, potrebbe darsi che un bel giorno li vedessimo con le mani nei capelli gridare disperatamente: o lo Statuto? o il bene inseparabile? o l’irresponsabilità?—E potrebbe darsi che ci fosse chi sorridendo rispondesse: retorica. La risposta calzerebbe come un guanto. Ora, conoscendo la debolezza di molti, i pochi si servono di questa parola come spauracchio: ne hanno fatto un fantoccio di paglia nel campo grasso delle istituzioni; ma se i passeri si accorgono che è di paglia, addio raccolto.
Un’altra parola da spaventare i passeri timidi è mangiapreti. Tanta ipocrisia si nasconde sotto questa parola che, non v’ha dubbio, nacque al Gesù. I clericali mascherati da costituzionali, e i costituzionali che hanno paura di parer clericali come sono, ne fanno grande uso. Ricordare l’Inquisizione è retorica, questo si sa: ma proporre la soppressione di un campanile è da mangiapreti. Nelle votazioni amministrative si deve votare pei clericali, e se un onest’uomo rifugge dall’imbrattarsi la coscienza con[153] una vigliaccheria verso la patria, è un mangiapreti; e aggiunge che la parola patria è retorica. L’abbiamo visto ieri; gli schernitori dei mangiapreti si sono baciati in faccia coi preti, e questo bacio di fratelli in Cristo ce lo ricorderemo.
Ed è giusto. La religione cattolica non è la religione dello Stato, secondo la Statuto largitoci dal magnanimo Carlo Alberto? Dunque bisogna andar di braccetto coi ministri della religione per essere buon costituzionale, buon osservatore della legge fondamentale. E buon pro’ vi faccia, e tanti saluti al cardinal vicario.
In Belgio il prete ama il suo paese, e tutti sanno quanto il clero abbia contribuito alla fondazione del regno. In Francia è lo stesso, e gli zuavi pontificii combatterono per la patria contro i prussiani. Dappertutto il prete ha le idee retrive che gli vengono dalla religione romana, ma ha una patria, e non consentirebbe l’alienazione di una minima particella di essa. In Italia invece il clero ed i cattolici sono nemici non solo della libertà, ma della esistenza della nazione come corpo indipendente e padrone di voler tutto, anche l’unità. È strano, dunque, che si vogliano far confronti tra noi e le altre nazioni. Per queste, un governo clericale è un regresso, una sventura civile, ma è sempre una questione interna che non tocca in nulla l’essenza della patria. Per noi, un governo clericale sarebbe il ritorno, almeno tentato, ai vecchi regni ed alle vecchie ingerenze. Pare impossibile che ci siano ancora degli ingenui capaci di credere che il governo temporale della Chiesa non rivivrebbe se i clericali prevalessero.
Nei Comuni non vi fanno paura? E le scuole?
Se non viene applicato un radicale rimedio, come si applicherà, vedremo un altro marchese Cavalletti senatore di Roma un’altra volta.
Ho sognato (la retorica non impedisce di sognare) ho sognato che la reazione aveva trionfato in Francia e regnava Enrico V. I nostri soldati, senza scarpe e senza pane, si ripiegavano verso il mezzodì, e Roma era in pericolo. Il generale De Charrette veniva da Civitavecchia; il governo si era trasferito a Napoli.
Il Consiglio municipale si radunò in Campidoglio e deliberò di pregare il comandante del presidio acciocchè rinunciasse alla difesa. Il comandante volle fare il suo dovere e fu trattato da mangiapreti, ma dopo breve resistenza dovette abbandonare le mura, per le forze soverchianti del nemico e per la mala volontà delle autorità clericali.
Il Consiglio, adunato in permanenza, deliberò che il duca Salviati, sindaco di Roma, portasse le chiavi della[154] città al generale De Charrette, che la Giunta si recasse al Vaticano a pregare il papa di far ritorno al Quirinale. Lo stemma di Savoia fu abbassato e qualche bandiera bianca e gialla cominciò a comparire.
Il duca Salviati compì nobilmente la sua missione, e consegnò le chiavi con un bel discorso, dove parlò del trionfo della religione e delle glorie di Roma papale.
Il generale rispose poche parole, dove si congratulava colle autorità romane ed esclamava che il regno dell’inferno era cessato per sempre. La sera, gli zuavi entravano in città, e le finestre dei giornali costituzionali e dei principali moderati erano illuminate.
Il sogno è sciocco come tutti i sogni. A Roma infatti c’è gente capace di rifare la quarantottata della difesa della repubblica, e ci sono abbastanza mangiapreti per rompere i lampioncini bianco-gialli alle finestre dei giornali moderati. Tuttavia come in tutti i sogni, c’è qualche cosa di vero; la possibilità di veder sindaco il duca Salviati. Quando sarà sindaco, sentiremo gridare che gli oppositori fanno della retorica e sono mangiapreti; solo resterà a vedere se tanta gente, come oggi, avrà paura di quelle sciocche parole.
Tra l’esser mangiapreti e l’esser preti, chiamatela retorica, ma scelgo il primo.
Vi ricordate la Guardia Nazionale?
Povero brandello delle nostre sacrosante istituzioni, povero antico dello Statuto, morto e sepolto come tanti altri! Io ne ho una memoria abbastanza chiara, poichè ho assistito ai tre principali momenti della sua vita.
Il primo ricordo ha una trentina d’anni oramai. C’erano i tedeschi in Romagna, e il tener armi in casa voleva dire rischiar la galera o peggio. Sapete che Gerzowsky non scherzava. Pure, in casa mia e in molte altre, si conservava religiosamente, come reliquia delle speranze cadute quel che si poteva nascondere. Il mio povero babbo era stato anch’egli della guardia civica, e la sua sciabola d’ufficiale era nascosta in casa. Io, bambino, lo sapevo, benchè mi fosse tenuto segreto il nascondiglio; e quella sciabola nascosta mi ispirava un misterioso rispetto, come un nume invisibile e presente. Il portare in me qualche cosa di un segreto pericoloso, mi faceva insuperbire: mi pareva di essere a parte di una congiura tenebrosa, di una macchinazione fatale. Ricordo benissimo che mia madre, quando ero buono, mi premiava mostrandomi le spalline dorate del babbo, e non ora certo in casa mia che i colombi avrebbero fatto il nido nell’elmo di Scipio.
Eppure in casa non c’era nessuna tradizione militare. Il mio povero babbo non fu che un ignoto farmacista di villaggio, uno di quei farmacisti militi che hanno poi dato[156] tanta materia alle caricature imbecilli ed ai motti scellerati. Ma in quelle umili case, dove non si convitavano i generali tedeschi come in certe altre, si aspettava sempre la risurrezione, si teneva vivo il fuoco sacro, quel fuoco al quale ora gli anfitrioni dei croati riscaldano il pranzo ed accendono la sigaretta.
Come ghignano, come hanno ghignato i nobili conti e le nobilissime marchese di questi poveri diavoli, che alzarono col suffragio loro questa baracca, all’ombra della quale è lecito oggi sognare le ineffabili felicità di una chiave di ciambellano o di una patente di dama di corte! E sono i poveri farmacisti beffati, i poveri borghesucci messi in ridicolo, che hanno dato denari e braccia, entusiasmo e buona fede per fare una Italia costituzionale. I nobili conti, le nobilissime marchese rideranno tanto, i valletti ed i parassiti faranno tanto ridere, che finalmente i farmacisti ed i borghesucci si stancheranno di far la parte dei bastonati e contenti. E allora?
Così ho visto la guardia nazionale allo stato latente. L’ho vista poi allo stato trionfante.
Nel 1859 ero in collegio. I preti hanno questo di buono, che sanno conciliarsi il rispetto dei loro allievi: infatti, al rumore della battaglia di Magenta, io ed i miei condiscepoli insorgemmo come un collegiale solo; e colle scope, le molle, le sassate ed altre persuasivi argomenti, cacciammo il tiranno aborrito. A cose più quiete, io, come uno dei capi, fui gentilmente pregato a levare l’incomodo, e mio padre, cui non pareva vero, mi condusse a Torino. Là vidi la guardia nazionale all’apogeo della sua fortuna.
A prima vista, però, non mi fece buona impressione. Molti se li ricorderanno ancora, i militi che per Doragrossa andavano a suon di banda al cambio della guardia. Allora a Corte accettavano ancora i servigi dei poveri militi, senza badar troppo alle incongruenze del vestiario. C’erano i calzoni larghi alla francese accanto ai calzoni stretti del quarantotto, le tuniche lunghe fino al ginocchio vicino alle tunichette misere ed arrossite in testimonianza dei molti e leali servigi.
I cheppì erano di cento forme, dallo staio napoleonico al cono tronco degli ufficialetti eleganti; i pennacchi poi erano di tutti i colori dell’iride. Allora la guardia nazionale la chiamavano ancora il Palladio delle istituzioni, le facevano la corte, le davano la destra nelle riviste. Ne avevano bisogno dei poveri farmacisti e dei mercantucci panciuti. Ora che non sanno più che farsene, limoni spremuti, hanno buttato nella spazzatura le bucce.
Ho visto la guardia nazionale nella sua decadenza, a Subiaco dopo il 1870. Già era diventato buon gusto schernire[157] i borghesucci che giocano al soldato. Il Palladio era una canzonatura. Il vero palladio delle istituzioni era diventato l’esercito. E davvero l’esercito, mentre durava ancora l’assedio di Parigi, era guardato come una speranza di sicurezza, ed i generali non si mettevano sulla via dei pronunciamenti negando concordi di aver parte in un ministero di sinistra, e nessuno li spingeva per questa via dolorosa. La guardia nazionale, sfuggita dai borghesucci che temono i frizzi del loro giornale, non era più che una collezione di cambi pagati. A Subiaco, la domenica, girava una pattuglia di omaccioni colle brache corte e senza calze, colla camicia aperta sopra un petto che pareva il vello di un caprone, con certi ceffi che a incontrarli di notte sul monte c’era da fare il voto a Santa Scolastica. Portavano i fucilacci rugginosi a bilancia sulla spalla, sbattendo le baionette per le muraglie dei vicoli, e non rifiutando la foglietta offerta dagli amici sulla porta delle bettole. Di quando in quando un milite si sbandava e si fermava a giuocare una passatella. La guardia nazionale era proprio moribonda.
Ed è morta. Morta ammazzata da coloro che hanno paura di tanti fucili sparsi per la città. Morta ammazzata come tanti articoli dello Statuto, palladio anch’esso, palladio sacro delle nostre istituzioni.
Non difendo la povera ammazzata, nè vorrei predicarne la resurrezione. Solo mi fermo a guardare il cadavere, e ci faccio sopra le mie riflessioni.
E dico. Dunque, anche nella mente e nelle azioni di coloro che giurano fede allo Statuto, lo Statuto non è poi cosa immutabile e sacra. Non è dunque sacrilegio lo strappare un articolo o una pagina, quando lo persuadano il bisogno e l’interesse. A che dunque tante parole altisonanti sull’arca santa delle nostre istituzioni? Perchè processate coloro che attentano con le parole a quelle opere? Ci sono dunque due classi di cittadini: una, cui è lecito fare un buco magari nelle leggi fondamentali; ed un’altra, cui è proibito sino il voto di un cambiamento nelle disposizioni delle leggi stesse? Dunque i poveri farmacisti furono ingannati quando credettero vero il motto che sta scritto nei tribunali? Come si spiega questa faccenda?
Rispondono. Non è un attentato alla santità delle leggi fondamentali, ma è che tutto invecchia a questo mondo, e certe disposizioni che sono buone per un’epoca, sono inutili e cattive per un’altra. Tale era la Guardia Nazionale. È la legge dell’evoluzione. Ci perfezioniamo respingendo quel che non è più buono. È un progresso, non è un sacrilegio.
Grazie. Ma noi chiediamo altro! Voi fate vostra la tesi di quelli che per gli stessi motivi domandano la Costituente.
Di qui non si esce. O lo Statuto deve rimanere intatto in ogni sua parte, e nessuno può abolire di fatto un articolo. O si può toccare quando il bisogno lo vuole, ed allora non è reato il sostenere che le istituzioni vanno a finir tutte a poco a poco come la Guardia Nazionale.
E davvero, perchè cadano nell’apatia e nel ridicolo, non è certo l’estrema sinistra che lavora di più. Su questo non cade dubbio.
Il sepolcro è grande. La povera Guardia Nazionale occupa così poco posto!
Che siano benedette in eterno la metafisica, la ontologia e tutte le altre sciocchezze che hanno per ultimo fine l’astrazione della quinta essenza! E non sono io che mi permetto di appioppare il termine impertinente di sciocchezza alle scienze profonde in cui sono eccellenti il Mamiani ed Augusto Conti. Non sono così sfacciato da erigermi giudice dei sogni dell’uno e delle manie conservatrici e cattoliche dell’altro; e nemmeno sono mie queste brutte parolacce di sogni o di manìe. Posso, rispettando gli uomini, deridere le dottrine solo quando gli studi mi permettono di giudicarle. Ora le speculazioni filosofiche ed ontologiche mi sono sempre sembrate sterili e tristi come gli amori solitari. Sbaglierò, ma non ho mai capito, per durezza di cervice senza dubbio, quel che guadagnino una mente o una società a sillogizzare sull’ente o sull’esistente: non ho mai capito perchè debba essere stimata più utile e decorosa una nuova definizione che un nuovo lucido da scarpe, una ideologia discussa che un cavaturaccioli perfetto. Sarò un asino, lo riconosco, ma preferisco il cavaturaccioli.
Mi consolo però come i dannati ed i mariti traditi, con la buona compagnia, la quale mi ha messo in bocca i termini irriverenti usati qui sopra; e mi rallegro pensando che in riga di metafisica accadrà quel che è accaduto ai sette sapienti della Grecia fino ad oggi, cioè che ogni anno verrà fuori una nuova teoria, distrutta dalle fondamenta l’anno dopo da una teoria nuova, e così fino alla consumazione dei secoli; salvo che il còlto pubblico non si avveda della burletta e non prenda a torsoli di cavolo questi cavadenti, l’ultimo dei quali si spaccia sempre pel[160] più illustre di tutti; salvo che, se non tutta almeno per tre quarti, questa inane filosofia non vada dove sono andate tante scienze sue sorelle, l’alchimia, l’astrologia e tira via.
Se la domanda fosse lecita, io chiederei a che cosa serve la filosofia nei licei del regno? Probabilmente a seccare i ragazzi con un esame di più, mentre ne hanno già tanti. Dicono che è una ginnastica dell’intelligenza e che abitua a pensare: ma allora insegnate ne’ licei anche il giuoco degli scacchi, che Aristotele v’aiuti! Che bisogno c’è di insegnare a quei poveri ragazzi tante corbellerie, come l’esistenza reale delle idee o il bello assoluto? E poi, domando se si può chiamar scienza quella che da mille professori è professata in mille diverse maniere, con sistemi e conclusioni diverse? Tanto fa insegnare la cabala del lotto, per la quale ogni pettegola ha le sue teorie infallibili. È scienza quella? Che compassione!
Anch’io ebbi al liceo un prete spretato che mi insegnò i sillogismi infallibili pei quali si dimostrava anzi si toccava con mano l’esistenza di Dio. Dopo, ho sentito dire che un certo Emanuele Kant con altrettanti sillogismi aveva dimostrato il contrario. A chi credere? Nello stesso liceo m’insegnarono il gran teorema del quadrato dell’ipotenusa, che il professore chiamava il ponte degli asini. Ebbene, non ho mai trovato nessuno che abbia dubitato della dimostrazione, meno astrusa, meno superba di quella dell’esistenza di Dio, ma più certa, ed indegna da un onest’uomo che non era mai stato prete. Il professore di greco mi faceva spiegare quel benedettissimo Senofonte, e dopo ho trovato che tutti lo spiegano alla stessa maniera: ma ho trovato che tutti poi avevano idee diverse da quelle dell’ex prete filosofo. E quando, cresciuto d’anni, mi sono voltato indietro per vedere la strada fatta, ho rimpianto amaramente il tempo sciupato a mettermi in testa delle panzane mamianiste, contiste, vacue e sacerdotali.
Che nelle Università ci siano dei professori di filosofia, pazienza. Vorrei solo che una volta alla settimana fossero obbligati a discutere tra loro sopra un dato punto di filosofia, s’intende, con la camicia di forza, per impedire le vie di fatto. Queste discussioni edificherebbero gli studenti sulla serità di certe dottrine e di certe riputazioni, e sarebbe questo il maggior vantaggio che si potesse trarre dall’insegnamento della filosofia nelle Università. Ma che la filosofia s’insegni anche ne’ licei, e si insegni come s’insegna ora, mi pare che sia cosa che dovrebbe dar da pensare ai ministri della istruzione che si dicono progressisti e democratici.
Ma pur troppo ci sono a questo mondo dei pregiudizi[161] che superano le forze, non che di un ministro, di una intera classe di persone. Andate a dire che la filosofia è un passatempo come il giuoco della briscola, e sentirete che strillo! Sentirete ricordare Platone, Aristotele, San Tommaso, Gioberti, Rosmini, Mamiani, Conti ed una miriade di simili glorie nazionali ed estere, come se tutto il tempo perduto nelle speculazioni metafisiche da questa brava gente avesse cavato un ragno da un buco, come se non avessero imbrattato dei quintali di carta col solo vantaggio degli altri colleghi in filosofia, che non avendo altro da fare sono stati felici di avere una nuova teoria da ridurre in polvere impalpabile. Aggiungete, che tutte queste inutili discussioni che vertono più spesso sopra equivoci che sopra opinioni, sono e saranno sempre chiuse in un campo ristrettissimo di adepti, che sono iniziati al linguaggio cabalistico dei filosofi i quali sotto le pompose e grecizzanti parole nascondono astrazioni tanto sottili, che spesso non le capiscono nemmeno loro. A che cosa servono questi fuochi dell’intelligenza? Si bandiscano pure i poeti dalla repubblica di Platone, ma non ci lasciamo i filosofi: altrimenti la repubblica diventa una gabbia di matti... metafisici.
Non sarebbe ora di vedere un poco che razza di sciocchezze ontologiche, di sciocchezze metafisiche, di teorie codine, di sistemi cattolici e paolotti si insegnano nelle nostre scuole? Non sarebbe ora di fare un po’ di bucato?
Se fosse vero che un ministro ci pensasse qualche volta!
Alessandro Dumas ha commesso uno strano errore alla pagina 231 del suo libro sul divorzio. Egli crede che la legislazione italiana in fatto di matrimonio ci permetta di optare tra il codice e la religione, tra il contratto civile indissolubile e il sacramento cattolico, facile a rendere ragioni di nullità. Invece qui come in Francia, una legge assurda regola questa materia, ed un coniuge può ben esser un ladro, infame, galeotto, che l’altro innocente è incatenato a lui ed alla sua infamia senza speranza d’infrangere mai la catena. Qui, come in Francia, non resta che la separazione civile, uno dei più insufficienti e ridicoli mezzi termini che siano usciti dai cervelli rammolliti dei dottrinari. Per l’adulterio non c’è altra pena che la irrisoria di qualche giorno di carcere pronunciata fra le grasse risa del pubblico, se pure non si ricorra al tuez-la, spicciativo mezzo di divorzio che il pubblico applaude e di giurati assolvono. Il libro del Dumas è quindi buono per noi come pe’ francesi, buono pei legislatori di Parigi e di Roma, inascoltato probabilmente dai conservatori dell’una e dell’altra nazione. Qui, come in Francia, i liberali per ridere applaudiranno benevolmente, salvo poi ad agire come consigliano l’abate Vidieu e l’abate Margotti: poi che questa è la logica pratica dei liberali justemilieu.
Eppure anche questi liberalucci annacquati confessano che la famiglia è malata e tocca nei suoi più intimi organi di vitalità. Non c’è bisogno di credere alla umoristica ironia di Onorato Balzac ed agli ameni calcoli coi quali nella fisiologia del matrimonio cerca il numero delle donne oneste in Francia, per accorgersi che dappertutto[163] in questi poveri paesi latini e cattolici ferve un processo di dissoluzione gravissimo. Bastano le statistiche ufficiali che c’insegnano quanto diminuiscano i matrimoni e quanto cresca il vizio. Ma questo per certi ingegni che vivono in sfere ultramondane e cantano virtuosi ideali, questo non è vero, o almeno è spregevole verismo occuparsene; salvo poi rovesciare tutta la colpa addosso al verismo che se ne occupa, se qualche terribile infiammazione viene a suppurare. La verità fa paura. Veritas odium parit.
Dove l’organismo della famiglia è più tocco, è in Francia. Si grida alla corruzione, e il Trochu, buon’anima sua, aggiungeva corruzione italiana. Può darsi che, non trovando un calmante nella famiglia come ora è costituita gl’istinti brutali che pure bisogna riconoscere, accettare e regolare nell’uomo, cerchino una soddisfazione nella corruttela. Ma accade un altro fato che limita assai questa pretesa corruzione latina. Se le nascite legittime diminuiscono, non crescono nemmeno le illegittime: il che significa chiaramente che sfugge da molti, o dai più, tanto la famiglia che il vizio. È la teoria del Malthus che riceve la sua pratica applicazione, ed era ben naturale che là dove gli effetti di questa sterilità calcolata si fanno sentire più vivamente, appunto sorgessero le grida di spavento e le proposte di rimedio. Così il Naquet intraprese una campagna in favore del divorzio, il più immediato dei presenti rimedi e perorò, scrisse, ed occupò l’Assemblea legislativa. Così il Dumas, brillante e spiritoso polemista, oggi mette alla berlina i luoghi comuni cattolici e conservatori dell’abate Vidieu. Così domani Paolo Fêval già romanziere irreligioso ed ora convertito alle massime dei gesuiti, ci farà inevitabilmente ridere di pietà misurandosi col suo antico collega, se vorrà rispondergli come si dice.
Infatti si può dire che l’unica ragione la quale impedisce ai legislatori di sanzionare il divorzio è il rispetto ipocrita che conservano ancora verso la religione cattolica. Bella ragione in verità, dopo che con tanti pomposi discorsi e con tante leggi ambigue o paurose si volle far credere di aver proclamata e sanzionata la completa separazione dello Stato dalla Chiesa! Intanto al divorzio resistono i solo Stati cattolici, vili ancora in faccia alla Chiesa e imbecilli troppo per saperla vincere nelle coscienze dei volghi. Noi che abbiamo nel diritto pubblico quella strana e vergognosa abdicazione di una parte delle prerogative regie costituzionali e popolari che è la legge delle guarentigie, noi siamo una prova pur troppo evidente della debolezza degli Stati latini come sono costituiti, e della[164] miserabile impotenza delle classi dirigenti, papaline ancora nel midollo delle ossa. E la Chiesa, anche lo sa, resiste a questa agitazione del divorzio, certa che tutti conservatori paurosi saranno con lei. Grida che l’unica salvezza in questo sfacelo del progredire è nel regredire; che bisogna tornare al sacramento e sopprimere il contratto; che bisogna allevare famiglie cristiane, cattoliche, romane, e ritornare con loro alla pia quiete del medio evo, se si vuole che principi e ricchi possano dormire in pace. E principi e ricchi ascoltano volentieri queste parole favorevoli ai loro interessi, senza accorgersi che la Chiesa non è mossa in questo dall’amore dell’umanità, ma dall’ambizione del dominare. I divorzi li vuoi vendere lei sotto aspetto di nullità; la morale non c’entra. A questo modo il divorzio è interdetto alle sole popolazioni latine presso le quali troviamo le più belle chiese del mondo, il maggior numero di preti ricchi e di poveri rassegnati, e il peggior stato delle famiglie o la più tollerata immoralità. Chi alza la voce è o scomunicato o ribelle. Le nazioni protestanti ci assestano di quando in quando fior di legnate, ma noi ce ne consoliamo pensando che siamo latini e cattolici, che Dio li punirà, e che se noi siamo più immorali, la confessione ci assolve, e che la rivincita deve venire perchè è predetta nell’Apocalisse. Anche questa è una consolazione che ci dà la Chiesa. Beati noi!
Ed a questi pregiudizi, a questi errori facili negli animi timidi e superstiziosi, risponde molto bene il Dumas. Pare impossibile, ma certi luoghi comuni che la Chiesa adottò per bisogno di polemica e non sapendo trovar di meglio, sono entrati a far parte del bagaglio sofistico dei nostri conservatori. Gli enciclopedisti, secondo costoro, hanno fatto la rivoluzione francese e Lutero la riforma. Eppure ci voleva e ci vuol poco a capire che gli incolpati non hanno trovato se non la formola nella quale si è espressa la protesta contro tutto un passato di prepotenze, di delitti, di sacrilegi, operati dai re e dalla Chiesa a pregiudizio dei sudditi e dei fedeli. Non è Lutero che ha fatta la riforma, ma tutti i peccati e le nefandezze e le simonie papali. Non è Rousseau che ha fatto la rivoluzione, ma le oppressioni dei Capetingi. Lutero o Rousseau non fecero che trovar la parola da trascinar tutti quelli che soffrivano e non la potevano trovare. Essi gridarono avanti! e trovarono un popolo che li seguì, non per gusto di seguirli, ma perchè i suoi padroni gli avevano fatta una necessità della ribellione. È inutile maledire l’enciclopedia e Lutero. Bisognava maledire Leone X quando vendeva le indulgenze e Luigi XV quando scendeva sino alla Dubarry. Bisognava maledire la Dateria e la Bastiglia[165] e non sperare nella restaurazione e nel Sillabo; e ricorrere agli sgomenti dello spettro rosso è opera perfettamente ridicola se si crede di poter frenare con questo l’irrompere, l’infuriare degli interessi offesi col pretesto di questa paurosa. Non sono i sofismi che muovono o fermano gli avvenimenti, ma le necessità sociali: non sono gli eloquenti discorsi che hanno ragione nei tornei parlamentari, ma i bisogni che rappresentano; e se i parlamenti o le classi dirigenti resistono, allora si infrangono fatalmente le barriere, e gl’interessi dei meno vengono travolti sotto quelli dei più e le riforme s’impongono e dopo pochi anni avviene di meravigliarsi come i legislatori siano stati tanto ciechi da negare il provvedimento, il rimedio, persino la discussione. Così avverrà per molte questioni vivacissime oggi tra le quali il divorzio non è che uno di quei rimedi palliativi che la cecità dei legislatori respinge.
E lo stesso Dumas, per quanto vegga bene, e descriva meglio, quel che c’è d’anormale nella nostra società e l’urgente bisogno di rimedi, se si vuole non già evitare chè non si può, ma rendere meno disastroso lo scoppio necessario, si ferma anch’egli sul limitare del problema, quasi spaventato dalla sua orribilità. Anch’egli spera di arrivare alla conoscenza di Dio per mezzo della scienza, speranza unica e, temiamo, fallace, nella quale si rifugiano coloro che tremano dell’avvenire che intravedono. Spera anch’egli di giungere a conoscer Dio, cioè la nostra ragione di essere, il perchè siamo, il dove andiamo: e il suo Dio lo esaudisca. Ma c’è da temere pur troppo che l’uomo, sbugiardata la rivelazione, si fabbrichi inutilmente un Dio colle sue proprie mani e col proprio cervello. Questo Dio, nè carne nè pesce, dei razionalisti, potrà soddisfare qualche coscienza di poca curiosità e facile calma, ma non corrispondere alle impazienze, alle aspirazioni delle masse di poca intelligenza. Varrà la pena trovare dentro di noi questo semi-Dio della scienza, quando ci sarà sempre chi griderà o tutto o nulla?
Il Dumas lo fa notare. Discutendo del Divorzio si pensa e si parla sempre degli interessi dei coniugi, dell’interesse dei figli, dell’interesse dei terzi; ma chi ricorda mai gli sciagurati che non hanno interessi perchè hanno le sole braccia per vivere, e sono i più? Ora è appunto là che la famiglia è in isfacelo e che si richiedono provvedimenti radicali; è appunto là che sono i pericoli maggiori pei figli, per le donne, pei deboli. Ma i politici sfuggono dal guardare in basso, sorridono a chi parla dell’avvenire. Quando un ministro ha ricordato in pubblico questa prevalente classe di diseredati che ha fame e comincia a dirlo,[166] tutti hanno gridato alla minaccia, alla retorica, al giacobinismo, ed hanno sciolto inni di giubilo alla salvezza del pareggio. Eppure all’immensa maggioranza della nazione, quella che non paga niente perchè stenta a mangiare, del pareggio non importa: essa preferisce che il pane costi meno. Ma a costoro non si bada, altro che per constatare come il paese dorma nella calma più perfetta. Oh, non hanno mai sentito dunque la quiete profonda che precede i temporali?
Per questo stato latente di tensione, per questa evoluzione dissolutiva che si compie negli strati inferiori mentre alla superficie tutto è tranquillo, è da credere che il divorzio non sia che una transazione prossima, ma con una soluzione del problema della famiglia. La rinnovazione deve necessariamente essere più radicale, tanto ne’ rapporti tra i coniugi con una differente legislazione sui diritti della donna ed una educazione relativa, quanto nei rapporti colla prole con profonde alterazioni nel diritto di eredità. Infatti lo stesso Dumas ci avverte che la diminuzione de’ matrimoni e delle nascite dipende dall’applicazione pratica delle teorie malthusiane. La famiglia costa, si stenta a campare; è dunque meglio essere in pochi. Ora, per modificare questo stato di cose, il divorzio basta? No; bisogna essere logici fino in fondo, cercare che la vita sia possibile a tutti e non martirio pei più. Se si potrà campare, se potranno campare i figli, i matrimoni e le nascite cresceranno. È ben naturale che chi vive di rendita, o di lavoro grassamente retribuito, gridi all’utopia. Ma il problema è là, nè giova fingere che non esista. Quelli che trovano troppo rivoluzionario il divorzio sono serbati a veder di peggio, ed allora purtroppo sarà inutile nominare Commissioni.
Leggendo, stampato a Milano dal Rechiedei, il discorso col quale l’illustre alienista prof. A. Verga inaugurò le sue conferenze psichiatriche nell’ospedale maggiore di Milano l’anno passato, discorso intitolato David Lazzaretti e la pazzia sensoria, c’è da fare delle curiose riflessioni. C’è per esempio da domandarsi quel che accadrebbe al figliuolo di Dio se s’incarnasse un’altra volta, mettiamo in Italia.
Prima di tutto si affaccerebbe la difficoltà di trovare una sine labe, non solo di peccato originale, ma di peccato mortale. Le nostre ragazze leggono volentieri gli elzeviri veristi, libri che io sono obbligato a stimare moltissimo ma che non sono indicati certo per la conservazione della innocenza. Pure la misericordia di Dio è tanto grande che potrebbe fare il miracolo di suscitare in qualche Nazareth italiano, in qualche villaggio perduto sui monti, la vergine necessaria. Dopo eseguita dallo Spirito Santo la operazione che occorre al concepimento del Messia, non sarebbe difficile che Giuseppe se la bevesse e stesse zitto; sono casi che si vedono tutti i giorni; ma allo Stato Civile che denunzia farebbero? Potrebbe acconsentire la Vergine, fonte e specchio di verità, che il bimbo fosse attribuito ufficialmente a chi non ci ha colpa alcuna? Non potrebbe fare quella menzognera dichiarazione senza decadere dal suo carattere santo. Eppure l’ufficiale di Stato Civile dovrebbe attribuire il bimbo a Giuseppe, poichè il padre è quel disgraziato che le nozze dimostrano. Per evitare questa falsa iscrizione non sarebbe rimasto altro scampo a Maria santissima che di fare come fanno le serve in questi casi: ficcare il bimbo giù per una latrina.
Allora la terra rimarrebbe irredente come Trieste, e la Beata Vergine andrebbe in Corte d’Assise. Vi pare!
E i re magi, verrebbero, si o no? Avremmo allora tre santi nuovi, forse sant’Orelio re d’Araucania, san Menelik re dello Scioa, e san Cettivaio re dei Zulù. La fuga in Egitto sarebbe facile coi vapori della Peninsular; la strage degli innocenti, se non la fa Erode, la fa pur troppo la miseria; ma la morte di san Giovanni andrebbe a male, perchè anche se i giurati lo condannassero, il re farebbe la grazia.
I miracoli non mancherebbero: tutti i giorni ne vediamo dei magnifici, operati dall’acqua di Lourdes e dalla deliziosa Revalenta arabica; ma qui si fermano le possibilità di una seconda incarnazione. Il nuovo Messia non se la caverebbe più.
Mettetelo infatti a predicare una nuova religione! Ahimè, la professione non è più quella! Chi si mette a predicare il beati qui se castraverunt sulle rive di un Genasareth italiano, per esempio sulle rive del lago di Como, sarebbe sepolto immediatamente sepolto sotto una valanga di torsi di cavolo e di bucce di popone. Accorrerebbe la benemerita arma, domanderebbe le carte al Figlio di Dio, e convintolo di vagabondaggio lo rimetterebbe al pretore per l’ammonizione. Ad una ricaduta, Caifa invierebbe il Messia alla Favignana a domicilio cotto, e il Testamento novissimo correrebbe pericolo di non essere più scritto.
Direte che scherzo; le anime pie diranno, anzi, che questi sono scherzi sacrileghi: eppure non è vero. Il caso del Lazzaretti, studiato dal Verga, giustifica questi che paiono scherzi, e fa vedere che proprio, qui in Italia, è possibile ancora che un nuovo Messia trovi qualche migliaio di fedeli. Il processo dei lazzarettisti fu tenuto a Siena quasi contemporaneamente al processo Fadda, e il rumore di questo volgarissimo assassinio soffocò quello che avrebbe destato il processo senese ben più degno di studio e di meditazione. E poi, quando si dice che il mondo è pieno d’imbecilli, gridano che si calunnia il genere umano!
Il Verga ci fa vedere che David Lazzaretti non fu altro che un allucinato, come altro non furono Cristo, Maometto san Francesco, santa Teresa e tutti gli altri santi in buona fede; poichè ci sono anche i santi di mala fede che si fanno le stimmate col pennello tinto di rosso. Sono numerosissimi i pazzi che credono di sentire voci, di vedere aspetti, di essere ispirati; e la manìa della persecuzione pur troppo così comune, non è forse altro che il resultato di allucinazioni dei sensi.
L’allucinato crede di udire una voce; anzi, il suo senso dell’udito alterato, i suoi nervi guasti, gli fanno veramente[169] provare la sensazione tale quale fosse la verità. I santi hanno veramente visto Iddio, vale a dire hanno provato una sensazione visiva reale, dietro la quale si sono persuasi di aver avuto una visione miracolosa e soprannaturale. Santa Teresa non è la sola che abbia visto nell’estasi il bell’angelo della chiesa della Vittoria, scolpito dal Bernini; non è la sola che abbia avuto allucinazioni nuziali e abbia spasimato sotto le carezze di uno sposo immaginario, come se fosse reale e fisico. Non è tutta impostura quella dei santi e degli apostoli: c’è anche in gran parte il pervertimento patologico dei sensi, l’infermità della sostanza nervosa, insomma l’allucinazione e la pazzia. Dei pazzi sudici come il beato Labre se ne trovano in tutti i manicomi.
Il Lazzaretti, secondo il Verga, non era altro che un allucinato.
Gli argomenti scientifici coi quali egli dimostra la sua affermazione, non sono da portarsi qui; ma bisogna che confessiamo come le sue ragioni danno un famoso scappellotto alle relazioni del Caravaggio e del Berti. La polizia non conosce altri matti che i furiosi; ed il poliziotto, per natura e per abitudine, è tratto a vedere la simulazione e la dissimulazione in tutto quello che si scosta dal comune. Così la furbissima polizia italiana vide nel barocciaio Lazzaretti un grave pericolo per l’attuale ordine di cose, sospettò subito di repubblica, di socialismo, d’internazionale e peggio, dove non c’era che un povero matto. Quando il Lazzaretti scese dal monte Labro colla processione e colle bandiere, l’astuta polizia capì subito che si trattava di una terribile rivoluzione e fece far fuoco ai carabinieri: ci furono dei morti pel cimitero, dove non dovevano essere che dei pazzi pel manicomio. Io però ho sempre avuto un sospetto. Fra quelle bandiere doveva essercene qualcuna col nastro rosso, e si sa che i tori, i poliziotti ed i tacchini entrano in furore quando vedono il rosso. Se no, perchè far fuoco contro una mascherata inerme?
Dopo che la polizia ebbe mostrato così splendidamente le sue belle qualità, toccava alla magistratura a farsi onore, e si mandarono alla Corte d’Assise venti disgraziati sotto le più umoristiche accuse di aver voluto cambiare il sullodato ordine ecc. Dovevano esser ventidue, ma due erano morti in carcere, non so se in seguito di fucilate ricevute o di malattie contratte. I giurati, que’ calunniati giurati, ebbero più giudizio della polizia e della magistratura, e rimandarono a casa gli innocui lazzarettisti. Del resto, già lo potevano fare, poichè oramai la patria era salva: le oche l’avevano salvata a tempo.
Lazzaretti era pazzo, era teomaniaco. Un giorno, prima che si fosse messo in lotta coi preti, si recò a Roma e dopo molte peripezie potè visitare Pio IX, al quale domandò il permesso di ritirarsi sul Gianicolo a far penitenza ed a prepararsi all’opera della Redenzione. Pio IX con uno di quei sorrisi pieni di ironia sacerdotale gli rispose:—Andate pure; sul Gianicolo vi è acqua diaccia e vi farà bene.
Il papa aveva capito quel che non capirono poi la polizia e la magistratura.
Ma è inutile domandare l’impossibile. La polizia e la magistratura sono corpi militanti, incaricati della difesa dell’ordine attuale di cose. Spetta a loro prevenire i pericoli e reprimerli all’occasione, e da zelanti esecutori della loro consegna prevengono colle carceri e reprimono colle fucilate. Che importa se qualche volta i carcerati non sanno il perchè della loro detenzione o i fucilati sono pazzi? Ci vuoi altro a pesare gli uomini, le cose e gli avvenimenti con tanto scrupolo! Chi non sbaglia a questo mondo? E se lo sbaglio viene da troppo zelo, per lo sbaglio si dà una ramanzina, per lo zelo una promozione, e tutti pari. I giurati non sono una istituzione troppo sicura.
Quando sbagliano, lo fanno sempre in meno e mai in più. Sbagliano più volentieri assolvendo che condannando. Ora la conservazione del sullodato ordine di cose richiede che gli sbagli accadano al contrario, che si fucilino magari i matti piuttosto che si vegga un nastro rosso. I giurati li metteremo prima in ridicolo e poi li aboliremo.
Propongo che il ministro che eseguirà questa misura necessaria alla conservazione ecc. ecc. sia nominato fin d’ora duca d’Arcidosso.
Si dice: non è vero che i grandi fatti storici siano nati da piccole cagioni, poichè un complesso di cause diverse concorre sempre a renderli possibili. Le piccole cagioni non sono che la scintilla che accende il barile della polvere: la causa dello scoppio non è la scintilla, ma chi portò la polvere. Non è il foro causale di uno spillo che fa morir di cancrena un pover uomo, ma è che gli umori del suo corpo sono per altre e ben diverse cause già guasti, e il piccolo foro non è che l’occasione fortuita del male. Le cause vere, le cause efficienti bisogna cercarle più in alto.
Non discuteremo. Erano i cornificiani che nel medio evo cercavano con la massima serietà se l’asino condotto al mercato fosse tenuto fermo dalla cavezza o dall’asinaio, ed ammettiamo ben volentieri che non l’impudenza di un soldato fosse causa dei Vespri, e che il sasso di Balilla non avrebbe giovato a nulla senza il cumulo d’odio che si addensava nei petti del popolo genovese. Ma però, guardando indietro, non si può a meno di stupire di certi avvenimenti storici che per poco non avrebbero cambiato l’Italia intera. Un Visconti volle esser Re d’Italia, e per poco non lo fu: ma la peste lo uccise e forse i tempi non erano maturi. Volle essere re d’Italia anche il duca Valentino e, poichè le forze, l’astuzia e il resto bastavano, fu da un pelo di fondare qui la dinastia di Borgia.
Che cosa sarebbe allora avvenuto dell’Italia? In questa speculazione delle possibilità la mente si perde. Certo, la nuova dinastia avrebbe tardato poco a trovarsi in lotta colla Chiesa; e se la compagine del nuovo regno fosse stata solida abbastanza da vincere le inevitabili crisi interne,[172] le crisi provocate dal regionalismo, anzi dal municipalismo troppo vivo allora e vinto da poco, la dinastia avrebbe cercato di vincere la Chiesa nel suo campo stesso, e l’Italia sarebbe forse a quest’ora protestante. Sarebbe pur stata curiosa che una dinastia nata da un papa avesse dato l’Italia a Lutero! Ma il Valentino ed i successori che egli avrebbe allevati pel nuovo regno non sarebbero stati in dubbio. In fatto di coscienza, casa Borgia dava dei punti a molti e, se Parigi vale una messa, l’Italia può valere una apostasia anche pel figlio d’un papa.
La stabilità che acquistarono le dinastie italiane dal secolo XVI in poi, avrebbe fatto forse giungere la dinastia fino ai nostri tempi.
Che razza di alterazioni si sarebbero fatte nella storia delle origini per cancellare la prima labe della dinastia, si vede molto debolmente nell’opera recentissima di un frate Leonetti, il quale in tre volumi fa l’apologia niente meno di Alessandro VI. Quanti ripieghi, quante compiacenti omissioni, quante cortigiane amplificazioni si sarebbero fatte per creare una leggenda gloriosa alla stirpe del Valentino! Avremmo i nomignoli di rito, Cesare il grande, Rodrigo il Bello, Giovanni il Magnanimo, Giufrè il Leale; e se la discendenza di madonna Vannozza avesse avuto l’intelligenza e la elasticità necessaria per capire e per adattarsi ai tempi, ci avrebbe largito graziosamente lo Statuto. Direte che sono sogni, ipotesi strambe, fantasie matte: ma siete in errore. Tutto questo non solo era possibile, ma c’è stato un momento nella storia del nostro povero paese, che la dinastia Borgia era probabile. E poi, i Borboni non sono saliti al trono partendo di molto più basso?
E i Romanoff non vi sono arrivati in tempi recenti? Che cosa c’è d’impossibile? Pareva ben più impossibile, soltanto trent’anni addietro, che alla corona d’Italia potesse arrivare la dinastia di Savoia.
Un altro strano fatto, che per poco non cambiò tutta la nostra storia, fu la proposta del doge Piero Ziani al Maggior Consiglio di Venezia nel 1222, proposta che il Fambri ha ricordata nella Nuova Antologia. Il doge cominciò a dire degli inconvenienti e degli incomodi che aveva pei cittadini e pel governo la residenza in Venezia. Rimise davanti agli occhi dei consiglieri i pericoli d’inondazione, i frequenti terremoti che in quel tempo desolavano la città, le città vicine scomparse. Se il mare cresce, c’è pericolo di morire annegati; se cala troppo e scopre i pantani del fondo, c’è pericolo di morire asfissiati. Quel che si consuma in città è portato tutto dal di fuori: nelle paludi non si raccolgono altre che cappe, granzi ed altri pessetti[173] insufficienti al vivere degli uomini. Invece a Costantinopoli si troverebbe ogni sorriso di natura, ogni ricchezza e fecondità di suolo. A Venezia occorreva lottare tutti i giorni e combattere coi vicini di terraferma, mentre sul Bosforo si troverebbero sudditi e amici, si sarebbe quasi nel centro dei possedimenti orientali, vicini a Candia, alla Morea, a Corfù. Ed enumerando questi ed altri vantaggi, il doge proponeva nientemeno di trasportare la capitale da Venezia a Costantinopoli.
Al doge rispose Angelo Faliero, Procuratore di San Marco e uomo di molta autorità. La sua arringa compendiata dal Temanza è un monumento di quel caldo amor di patria che ora si chiama retorica da tanti. Ricorse agli effetti oratorii che fanno paura ai nostri deputati, e ricordò che tra queste vilipese paludi erano morti e sepolti i vecchi e vivevano i figli e le mogli e stava ogni cosa più caramente diletta. Disse che quella miseria dei luoghi era stata la causa dell’industria e della forza dei veneziani, spingendoli alla navigazione: e terminò rivolgendo una calda preghiera ad un Cristo che pendeva dalla parete. Fu quello, come dice bene il Fambri, il più grande e il più decisivo duello oratorio combattuto nel secondo millennio dell’era volgare. Da una parte il ragionamento dell’utilità, dall’altro la retorica degli affetti: da una parte tutte le seduzioni del piacere e dell’interesse, dall’altra tutti i vecchiumi dell’amor di patria tenace e quasi religioso. Mossa la proposta a partito, il Consiglio per un sol voto decise di rimanere a Venezia. Oggi forse l’arringa del Faliero sarebbe stata schernita come retorica ridicola: certo noi non ci pensiamo tanto a mutar capitale.
Per un solo voto! Qui non direte che siano ipotesi strambe; per un sol voto sopra seicento quarantuno votanti, tutta la storia veneziana continuò a svolgersi in Italia. Per quel voto c’è ora una questione d’oriente; e non è italiana!
Che cosa sarebbe divenuta Venezia trapiantata a Costantinopoli? Non ci vuol molto a credere che l’ambiente bizantino avrebbe corrotto rapidamente i ruvidi marinari; ma tuttavia le resistenze all’invasione ottomana sarebbero state più energiche e Maometto II non avrebbe vinto un doge così facilmente come vinse un imperatore. Quel che è certo si è, che i contatti inevitabili dei veneti emigrati con quelli rimasti sulle lagune e col resto d’Italia, dove avevano commerci avviati, avrebbero portato più presto fra noi quella coltura greca, che recata dai fuggiaschi di Costantinopoli verso la seconda metà del secolo XV diede le mosse al Rinascimento. Ma l’Italia nel 1222 non era certo preparata a ricevere il nuovo seme ed a farlo fruttificare.[174] Per allora, certo, tra i tumulti interni dei comuni e le continue guerre di campanile, a malgrado della coltura cortigiana di Federico II, l’aura nuova sarebbe inutilmente venuta dall’Oriente. Ma la fioritura del Rinascimento avrebbe per questo anticipato o ritardato? Qui bisogna fermarsi, poichè appunto al di là di queste domande stanno le ipotesi strambe.
Basta che si vegga come, contro l’opinione di molti, anche piccoli avvenimenti possano produrre grandi effetti.
L’esempio di quel che accadde a Venezia pare che debba convincere anche i più scettici.
Sia colpa de’ nostri peccati o del signor Mathieu de la Dröme, non c’è più primavera, ma si passa bruscamente dalla temperatura dei gelati a quella del ponce. Per grazia del Barbanera l’autunno c’è ancora e speriamo di vederne parecchi.
Benedetto l’ottobre! Chi non si riposa, chi non si diverte in questo mese nel quale, da un pezzo in qua, sono nato anch’io? I ministri sono in giro (veramente quando il parlamento è chiuso, pei ministri è tutto ottobre), i segretari generali, gli uscieri, tutta la politica se la spassa in ottobrate. Il sole non scotta più e non è ancora freddo. La campagna prende quella tinta calda che precede la caduta delle foglie, passano le allodole e i fringuelli, e sopratutto si vendemmia. La vendemmia davvero è una bella istituzione!
La vite è il simbolo della fortezza. I centurioni romani, i vecchi, non quelli di Gregoriaccio, ne portavano un ceppo in mano come bastone di comando. Per gli stessi cattolici, pei frigidi divoratori di salacche quaresimali, la vite è un vegetale venerabile, poichè la Bibbia ne attribuisce la prima coltura ad un santo patriarca, quel Noè benemerito che ci prese poi la cotta che sapete. E poi il vino è nientemeno che il sangue del nostro Dio. Preghiamo dal profondo del cuore che Gesù e il ministro d’agricoltura ci tengano lontana la filossera, non fosse altro per poter morire come il Duca di Clarenza che, condannato a morte, volle essere affogato in una botte di malvasia.
Ottobre è un mese favorevole all’ingrassamento. So benissimo che in questo mese si raccolgono le ghiande, ma[176] intendo l’ingrassamento umano, non il suino. Oh, i tordi, colla polenta, dopo aver girato la mattinata intera pei campi ad aguzzare l’appetito! Oh, i tordi con la polenta! Si capisce Esaù che fa un sproposito per un piatto di lenticchie, si capisce tutto, Apicio, Trimalcione, Gargantua, magari Saturno che credendo di ingoiare un bimbo ingoiò una pietra. E a digerirla? (Compiangetelo!) Si capisce Lucullo, si spiega l’orco, s’invidia papa Gregorio. Oh, i tordi con la polenta! Onore a Carlo Porta che li ha celebrati in versi immortali, egli che vide
i tordi più di trenta
in superba maestà
a seder sulla polenta
come turchi sul sofà.
E come ci si beve bene dietro ai tordi, come si alza il bicchiere contro la luce per accarezzare cogli occhi le splendide tinte del vino! Dopo un banchetto simile non c’è che da desiderare un sigaro di contrabbando per giungere all’apogeo d’ogni felicità umana. Oh, davvero che ottobre è un mese propizio all’ingrassamento!
Il Breughel, pittore fiammingo, eseguì una serie d’incisioni a proposito dei grassi e anche dei magri. (Anche in ottobre ci sono dei magri: pare impossibile, non è vero?) È, se volete, una amplificazione o una ripetizione dell’antico contrasto tra il carnevale e la quaresima, che si trova un po’ dappertutto, fino nei grassi libri del Rabelais, ma specialmente nelle letterature popolari dal Quattrocento in qua. Me ne ricordo una. I grassi sono a tavola, traboccanti di lardo, co’ lineamenti annegati nella ciccia e le pance monumentali maestosamente appoggiate alla tovaglia. La tavola è ingombra di vivande succolente; i fornelli sono sepolti sotto le pentole; tutto, fino l’aria, sembra impregnato di molecole nutritive, d’unto, di succo. Una donnona mastodontica porge ad un bimbo sferoidale un petto mostruoso. I cani stessi, che leccano un trogolo pieno, sono adiposi e gonfi come vesciche di strutto. Ma sulla porta è comparso un povero magro colla cornamusa sotto l’ascella. Non è che pelle ed ossa, ed i suoi occhi voraci con la sola forza dello sguardo sembrano dimagrire le pollanche polisarciche adagiate nei piatti caldi; i suoi denti aguzzi e lunghi paiono nati nelle mascelle instancabili di un pescecane. I grassi si sono alzati furibondi e scacciano inesorabilmente il povero magro, l’oggetto della loro implacabile inimicizia. La stessa donnona mostruosa ha trovato nella sonnolenza della sua obesità un atto d’impazienza e d’ira contro il malcapitato. Chi gli ha detto, a[177] questo sciagurato figlio della fame, di venire a chiedere gli avanzi della tavola dei grassi? Fuori, fuori il nemico! I grassi vogliono mangiare in pace, e gli avanzi sono pei loro cani!
Ah, davvero, l’ottobre è il mese della vendemmia e dei tordi, ma è anche il mese delle febbri e dei primi freddi. Ma chi ci pensa, poichè nelle ottobrate ci si diverte tanto? Chi lo dice non è altro che un predicatore seccante, un retorico rompiscatole.
Chi si accorge che i bimbi dei poveri camminano scalzi nella rugiada, che i babbi non hanno una camicia sulle carni grondanti dei sudori della febbre? I tordi aspettano, e l’oste ha il vino buono. E quando il povero magro segue con gli avidi la carrozza dove assoporate le voluttà raffinate della buona digestione, voi non vi voltate nemmeno o se vi voltate è per esclamare:—Quell’uomo là ha un brutto sguardo!—Lo credo io! La polenta e la febbre non fanno gli occhi belli.
Prediche, non è vero? Retorica da pulpito, quando il predicatore raccomanda un’abbondante elemosina! Ma via, chi vi dice che questi poveri magari domandino l’elemosina? Quello del Breughel a buon conto veniva a suonare la cornamusa, proprio come sotto alle finestre delle trattorie vengono i sonatori ambulanti a guastarvi il pranzo. Siamo in Italia, ed è di qui che partivano e partono ancora le frotte dei fanciulli venduti dai genitori nei quali più che il dolor potè il digiuno. L’amore ai figli è il sentimento più universale che sia in natura, e lo provano vivissimo tutte le bestie, dalle feroci alle stupide, dalle gigantesche alle microscopiche, dal leone all’oca. L’uomo prova in modo acutissimo questo affetto, che gli è cagione di tante gioie e di tanti dolori; chi non ha figli non può supporre come sia energico l’amor paterno, quanti sacrifizi faccia compiere serenamente, quanti pericoli sfidare con animo sicuro.
Perchè dunque qui in Italia ci sia della gente che vende le proprie creature agli aguzzini, senza morire prima di dolore, bisogna che o la fame abbia vinto e sradicato ogni altro affetto, proprio come in certe bestie che divorano i loro piccini; o che le condizioni di certe nostre provincie siano tali da fare che gli uomini scendano sotto al livello dei bruti. Qualunque sia la soluzione che preferite, resta però sempre che i poveri bimbi lasciano la loro patria che non fu loro madre ma noverca, e vanno per tutto il mondo civile con un’arpa od un organetto ad armacollo a cantare la vergogna, il vituperio del loro paese natale.
Di chi è la colpa? Non ci avete mai pensato, grassi che giubilate divorando i tordi, non ci avete mai pensato che potrebbe venire un giorno in cui si pretendesse che la colpa sia vostra? Oh! si sa! chi lo volesse dire, direbbe un grande sproposito. Come? Accusar voi altri di non far nulla per le popolazioni affamate, per le miserie e le piaghe della patria? Ah, ingratitudine! Eppure il grido di dolore dei poveri affamati è arrivato al vostro ottimo cuore e voi avete provvisto immediatamente... accrescendo i carabinieri!
Non vi lamentate, o grassi, se i magri che trovate seduti sui margini della via hanno un brutto sguardo; anzi contentatevi.
Guai a voi altri, il giorno che li vedrete ridere! L’ottobre non vi sembrerebbe così bello, la vendemmia non vi ricreerebbe più come oggi, e le nostre istituzioni che fanno la gloria ecc. ecc., sarebbero andate dove vanno le più belle cose di questo mondo, in quel biblico paese dove va tanta roba, in Emaus.
Per ora dunque sazieremo i magri crescendo i carabinieri. Domani... domani ci penseremo.
Nella cronaca di Bologna di Frà Bartolomeo dalle Pugliole, che si conserva nella Biblioteca Universitaria di Bologna, mss. 1239, e che dall’anno 1363 va all’anno 1407 si legge:
«Anno Cristi 1383 nel mese d’aprile frà Iacomo rettore de la chiesa di Sasso Negro col suo proprio sangue in sanguinò un’ostia sagrata e diceva che era sangue di Gesù Cristo e guadagnò molti denari dalle molti genti che andavano a vedere tale miracolo; ma li Reggimenti di Bologna volsono che si sapesse la verità, di che essendo ritrovato doloso fu privato dello benefizio e posto in una gabbia e dannato a perpetuo carcere.»
Per chi non sapesse che cosa voleva dire allora essere messo in una gabbia, la stessa Cronaca lo dice all’anno 1386. «A dì 21 di maggio fu messo in gabbia lo priore de’ frati de gli Angioli e fugli messo li ferri ai piedi ed anche fu incatenato e lì stette novantasei dì e non aveva altro che la pelle e le ossa.»
Oh, i miracoli di Lourdes! Oh, la Madonna della Saletta! Non c’è chiesa in Italia dove non si conservi una Madonna miracolosa che ha pianto, sanguinato o sudato, secondo il gusto del reverendo parroco. Da lungo tempo le fraudi furono così evidenti, che le anime pie dovettero farsi scudo delle autorità umane per guarentigia della onnipotenza divina. Qui a Bologna, nella clausura delle monache di S. Elena, esisteva questa splendida iscrizione:
Dell’anno 1630—Questo Signore sudò acqua tre volte—e fu approvato dai Superiori.
Difficilmente si potrà trovare una iscrizione più ingenuamente amena. E pensare che nei giorni di nebbia le[180] colonne di questi portici sudano senza approvazione dei superiori!
Nella chiesa di san Giovanni Evangelista in Ravenna è una tabella sotto un crocifisso, e dice: «Del 1511 alcuni malfattori entrarono nello spedale di S. Gioseffo con sicurezza di non esser veduti, nè ripresi, nè perseguitati da alcuno del suo mal oprare, non essendovi presente se non questo crocefisso muto inchiodato e cieco. Ma ecco miracolosamente il crocefisso aprì gli occhi e tutto si schiodò per spavento a correzione ed emendazione loro.» Il crocefisso è sempre là cogli occhi aperti. Posso però assicurare i fedeli che, sotto una specie di maschera applicata, il crocefisso conserva ancora la faccia vecchia cogli occhi ancora chiusi. Provino.
Il licenzioso Zapata domandava al suo superiore come diavolo accade che Dio abbia fatto una infinità di miracoli incomprensibili in favore degli ebrei e non ne faccia più, da parecchi secoli, per noi che siamo ora il popolo eletto. Zapata era ben malizioso e volterriano quanto Voltaire. Oggi però non parlerebbe più così, poichè Dio ne fa ancora dei miracoli. Il sangue di san Gennaro lo fabbricano, è vero, tutti i droghieri, ma c’è però sempre il miracolo grande di quelli che al sangue di san Gennaro ci credono.
Si fa presto a sogghignare dei miracoli ma finchè al mondo ci sarà della furberia e della ignoranza, dei miracoli ce ne saranno sempre. Andate in certi paesi a dire che il santo protettore non ha fatto mai miracoli, e tornerete colle ossa peste, con gran gusto del parroco. I miracoli sono produttivi ora più che mai. Quando la Madonna di Rimini moveva gli occhi, ci guadagnavano tutti, anche i papalini di guardia, che con un po’ di cera sotto il calcio del fucile raccoglievano i papetti gettati a’ piedi dell’immagine.
Il commercio delle acque che guariscono tutti i mali ha preso uno sviluppo grandissimo e le acque di Lourdes fanno una concorrenza terribile alla deliziosa Revalenta arabica Du Barry.
Non tutti però ci credono. L’estate scorsa, non so se a Lourdes, alla Salette o altrove, si produsse uno stranissimo caso di guarigione in un malato che aveva fatto il bagno nella fonte miracolosa, perchè oggi non appare Madonna che non sia vicina ad una fontana. Il caso fu così straordinario, che si corse subito dal vescovo della diocesi perchè lo vedesse, lo constatasse, dèsse insomma alla Madonna quella approvazione dei superiori che invocavano ingenuamente le monache bolognesi. Ebbene, il vescovo non fu trovato. Era ai bagni.
Qualche impertinente domandò come mai un vescovo[181] che ha nella sua diocesi un’acqua dotata di tanta virtù, vada invece ai bagni di mare? Rispondetegli un po’ voi.
Per le persone che ragionano, i miracoli sono giudicati da un pezzo. Per quelle che credono, il sangue di san Gennaro bolle sempre, l’idroterapia cattolica raddrizza i gobbi, benchè i vescovi preferiscano di andare ad altri stabilimenti balneari. È quindi necessario aprire gli occhi a coloro che li tengono chiusi. Chi farà questa operazione della cateratta?
Il primo articolo dello Statuto, no, sicuramente.
Lasciamo in santa pace i letterati e la letteratura, che sarà meglio per tutti, e parliamo d’altro.
Ha mai provato ella le sorprese e le disillusioni che si provano tornando in una città dopo una lunga assenza? I famosi sette dormienti, quelli che si destarono dopo cento anni di sonno, dovettero provare un effetto consimile rivedendo il mondo. Erano morti parecchi imperatori, le città avevano cambiato aspetto, non correvano più le monete di prima, la lingua stessa aveva subito qualche modificazione. S’immagini un po’ se i poveri dormienti saranno rimasti a bocca aperta!
Io era partito da Torino con la capitale, e ci sono tornato ieri, senza la capitale, s’intende. M’è proprio capitato un risveglio come quello dei sette dormienti! Mi pare che siano passati cento anni di progresso sopra questa città carissima, dove per tanto tempo ho studiato poco e dove per la prima volta ho conosciuto i veglioni e le loro conseguenze. Sono partito quando Massimo d’Azeglio appassionava i buoni torinesi co’ suoi discorsi in Senato intorno al trasporto della capitale, e in ferrovia da Torino ad Alessandria non si parlò d’altro. Ieri, appena fuori dalla stazione, mi sono trovato in faccia il monumento del cavaliere sans reproche. Quanto tempo è passato! Quanti monumenti invece degli uomini!
Dopo un giro a piedi mi son accorto che il mio Torino d’una volta me l’hanno cambiato tutto. I nomi delle insegne che m’erano rimasti nella memoria, non ci sono più. Sapevo che in quell’angolo doveva esserci un tabaccaio, e c’è una modista. I tramways hanno sostituito gli omnibus, quei curiosi omnibus monumentali, dipinti di[183] turchino, dove salivo con tanta disinvoltura e dove oggi non potrei salire che con precauzione, poichè ho cambiato un poco anch’io e non sono più magro e svelto come una volta. Dove sono i barbieri che facevano la barba per un soldo in piazza Castello, e l’orbo dalle canzonette, e la guardia nazionale, e lei? Anche lei se n’è andata chi sa dove! Ho alzato la testa passando sotto la sua finestra (abitudine antica) e in vece sua ho visto un portapanni con un vestito completo di signora in dosso e la barbara scritta: mode e confezioni. I sette dormienti devono aver provato di queste disillusioni.
Oh, i presagi tristi per l’avvenire di Torino che si facevano al tempo del trasporto della capitale! E li facevano i torinesi stessi che per un momento perdettero la fiducia in sè medesimi. Pare invece che il perder la capitale sia stata una fortuna. Almeno questa ricchezza, questa operosità non sono artificiali, non sono dipendenti da uno stato di cose e da una clientela variabili e mal fidi. Le capitali vogliono una ostentazione di lusso improduttivo che non è ricchezza, ma simulacro di opulenza, spreco di capitali, fumo senza arrosto: e Firenze informi. Torino invece, perdendo la capitale, s’è messo a cercare il lavoro produttivo, s’è dato al serio, e invece di perdere ha guadagnato. Non sono i fiorentini che tengono del monte e del macigno, sono questi torinesi che non si sono lasciati scuotere da un temporale, forti proprio come il granito dei loro monti. Non solo, ma quando la capitale era qui, i letterati erano una colonia di forastieri. Li avevano tanto chiamati beoti questi poveri piemontesi, che avevano quasi finito col crederlo e non osavano di far sentire la loro voce nel concerto dei dotti e dei poeti qui convenuti da ogni parte d’Italia. Rimasti soli, si sono provati anche nell’arte, e ci si sono provati tanto bene che stanno più che al pari del resto. Questa loro forza i piemontesi non la conoscevano. Altro che beoti... Bisogna far loro di cappello!
Lasciando stare le lettere, un popolo di beoti non produce tutte quelle opere d’arte che fanno onore al Piemonte nella Esposizione Nazionale. Certo ai piemontesi, si può dire ultimi arrivati in questo campo dove quasi temevamo di scendere, non sono toccati gl’inni e le apoteosi; ma hanno mostrato di saper stare al pari degli altri anche qui, appunto nelle arti, che un pregiudizio sciocco faceva ritenere più ribelli alla loro indole. Benedetti piemontesi, sono davvero destinati a distruggere i pregiudizi; e se qualche imbecille ripetesse le antiche ingiurie, sono capaci di rispondere che anche Pindaro era beota!
Sono ritornato in questa città della giovinezza mia e l’ho trovata ringiovanita, appunto come io ho fatto il contrario. Ai miei tempi si vedevano tanti vecchi vestiti all’antica, coi capelli bianchi e il naso rosso; si vedevano tante donne con la cintura sotto le spalle e il busto senza forma umana. Ora i vecchi se ne sono andati, e i busti ben fatti costano due lire in tutte le botteghe. Non c’è più nulla che ricordi quella peritanza, quella gaucherie dei popolani e dei borghesi un po’ sbalorditi da tanta gente che pioveva qui con costumi e dialetti diversi. Le merciaie sotto i portici del palazzo di città non intendevano l’italiano e così un pochino se ne vergognavano e brontolavano intimidite. Ora parlano l’italiano con una lingua tanto spedita da stordire una merciaia di Mercato Nuovo, la timidezza è scappata e corre ancora, e tocca a noi vergognarci quando non c’intendiamo bene. Tutto insomma mi par che vada meglio, tutto, persino... non so se lo debbo dire, persino le crestaie mi paiono più belle e meglio fatte di quelle che usavano ai miei tempi. Che cosa c’è da ridere? Che bel gusto pensar subito a male ed a malizia! Non potrebbero aver fatto fortuna anche qui i sistemi della evoluzione, della selezione e che so io, ed esser migliorate le razze? Perchè devono essere i miei occhi che vedono tutto in meglio, anche le crestaine che salgono in tramway? Quanta malizia, Dio mio, quanta malizia c’è al mondo!
Giù poi per andare all’Esposizione c’è proprio un mondo nuovo, c’è il quartier gaio, vario, a giardinetti ed a terrazze, che mancava a Torino. Mi ricordo delle profonde melanconie che mi assalivano in ottobre al cominciare delle scuole, girando la domenica nei viali lunghi e monotoni della vecchia piazza d’armi. Le carrozze sfilavano in silenzio sotto agli ippocastani; due file di gente andavano e venivano seriamente come a processione. Di quando in quando le livree reali mettevano una nota rossa e allegra in tutto quel grigio, in tutta quella compostezza fredda dell’aria, delle linee, delle fisonomie. I primi venti gelidi che venivano dalle alpi e attraversavano l’immensa e squallida spianata, mi davano i brividi, mi facevano pensare con doloroso desiderio al mio paese dove c’era meno freddo e meno serietà. In quelle noiose domeniche mi pareva veramente d’essere esiliato, e sentivo la solitudine, sentivo lo sconforto profondo dell’esser lontano da tutti quelli che mi volevano bene. Ora tutto è cambiato, e sullo stesso luogo delle malinconie, ho visto la gaiezza, alle volte troppo chiassosa, delle casine variopinte, dei boschetti fioriti e delle vie bizzarramente costruite. Qui non mi sarebbe sembrato d’essere in esilio, e il vento delle Alpi[185] deve esser meno freddo per coloro che passeggiano per le stesse vie tanti anni dopo di me. Non sono io che vegga con occhi mutati, è proprio Torino che ha fatto pelle nuova e più allegra fisonomia. Strano! Con la capitale se n’è andata anche la noia.
Eppure Torino non ha rinunciato ad essere una delle città più serie, la più pratica forse delle città italiane. Per accorgersene, basta dare un’occhiata alla Esposizione di arte applicata all’industria, che poteva riuscir meglio, ma che così com’è, mostra abbastanza quello che io le volevo far vedere, cioè appunto la serietà pratica di questi bravi piemontesi. Quando s’è vista l’Esposizione di pittura e quella di scoltura, per la prima volta, abbarbagliati dalla forzata fissità degli occhi; e nella testa gonfia come un pallone si confondono in un trescone vertiginoso papi dalla barba bianca, odalische senza sottana, soldati a cavallo, navi a vele spiegate, i turchini del Michetti, il bianco delle statue. Tutti quei sempiterni bimbi che fanno rassomigliare la sala di scoltura ad un asilo infantile, non arrivano a far riposare il disgraziato che vuol veder tutto in una volta, e ci sono dei momenti nei quali sembra di aver nel cranio la fontana centrale che salti, che spumi, che imperversi senza posa e senza fine. Arrivati a questo parossismo di stordimento nervoso, si passa davanti alle sale dell’arte applicata all’industria, senza entrare, o al più si mette la testa dentro per scarico di coscienza e si rimanda la visita ad un altro giorno che non viene mai. Così fa la grande maggioranza dei visitatori e, come quasi tutte le maggioranze, fa malissimo.
Vedrebbe infatti che, mentre dalle altre provincie italiane, specialmente da Venezia, sono venuti alla Esposizione lavori di puro lusso, dal Piemonte sono venute per lo più opere di uso pratico. Quel diavolo e quella diavolessa di legno intagliato per spaventare i bimbi, quei vasi ricchissimi di vetro, di porcellana e di maiolica, quei bassirilievi in legno o in porcellana, e i bronzi e le statue e i candelieri monumentali, sono bei lavori senza dubbio, ma non sono che lavori di ornamento. I piemontesi invece hanno esposto mobili, cancelli di ferro lavorato, porte, pavimenti, libri ed altri oggetti di uso vero e quotidiano e che rispondono veramente al concetto dell’arte applicata all’industria. Questo volevo notare, per farle vedere come il carattere di un popolo, di una provincia, di una città, salti fuori in tutto, lasci in tutto la sua impronta, anche nelle piccole cose. Dica ad un torinese e ad un fiorentino che espongano, mettiamo, un tavolino alla futura Esposizione di Milano. Il fiorentino le farà un lavoro squisito di intagli e d’intarsi, qualche cosa di bello, di degno della[186] eleganza toscana. Il primo pensiero del torinese sarà invece di farle un tavolino, comodo, magari che si componga e possa servire da sedia, da letto, da stipo, insomma un mobile a molti usi. Uno cerca il bello e l’altro l’utile. Uno segue Platone, l’altro Bentham. Uno emulerà gli ateniesi, l’altro gl’inglesi; e questi caratteri così diversi, così opposti, sono tutti qui sotto uno stesso cielo, quasi sulla stessa terra, poichè da Torino si va a Pisa in otto ore. Questa nostra Italia è proprio la terra delle meraviglie.
E infatti, anche il fisico delle due ex-capitali mi ha sempre colpito. A Firenze si trovano le case eleganti col giardino fiorito ed ogni cosa abbellita dall’arte, fino i martelli delle porte. A Torino le case immense, altissime, severe, sembrano tante caserme. Firenze, è vero, prese qualche cosa da Torino, e Torino ha preso molto da Firenze nelle nuove costruzioni di Piazza d’Armi, ma l’intonazione però rimane sempre quella: anzi non c’è che l’intonazione che non mi abbia dolorosamente colpito col suo cambiamento. Non ci mancherebbe altro che mi avessero cambiato il mio Torino fino a questo segno.
Ah, Torino della mia gioventù dove sei andato? Oggi sono stato nel collegio dove passai alcuni anni. Il collegio è sempre quello, ed ho riconosciuto il posto che occupavo a tavola, nel dormitorio, nello studio. Mi sono ricordato di tutto anche delle persone; ma quando ho interrogato la mia guida, mi pareva di esser Renzo che torna dopo la peste. Il tale? Morto. Il tal altro? Morto. Il rettore? Morto. Il cameriere? Morto...
Sono uscito di là pieno di tristi pensieri. Quanti morti, mio Dio! A un certo punto di via Doragrossa ho guardato ad una finestra chiusa, ad una finestra che m’ha visto alzare la testa tante volte. Quanti morti! Quanti morti!... E lei dove sarà?
La tentazione era troppo forte. Avevo un bello stringere le mascelle come uno che subisca un’operazione chirurgica, avevo un bel predicare dentro di me che ci vuoi costanza, che gli impegni presi sono sacrosanti, che dovevo tirare avanti a scrivere. Ma la finestra era aperta, il villino è sul monte e, solo a muover gli occhi, vedevo laggiù Bologna e tutta la pianura azzurra sino all’orizzonte. Inutilmente, per allontanare l’occasione, avevo socchiuso le persiane e m’ero rimesso al lavoro. Un raggio di sole, di questo caro sole d’ottobre, pallido come un convalescente, tentatore come una donnina timida, si ficcò tra gli sportelli e venne giù diritto nel calamaio mentre v’intingevo la penna. Sant’Antonio non ci avrebbe durato, ed io buttai per aria tutto, presi il cappello e, facendo cento transazioni ipocrite con la coscienza, volli darmi ad intendere che l’ottobre essendo mese di vacanze, poteva fare a meno di scrivere, chè anzi i lettori ci avrebbero guadagnato, ed altre piccole verità che sembrano bugie e bugie che sembrano verità. Così uscii all’aperto.
Tranquilla, tranquilla la mia coscienza non era. Tuttavia respirai profondamente, a pieni polmoni, come un prigioniero scappato; diedi un’occhiata di benevola soddisfazione al cielo, al monte, al piano, e preparandomi a goder bene le ore rubate al tavolino, m’incamminai.
Ad un tratto, su per la strada sentii il galoppo di un cavallo. Sapete bene: quadrupedante putrem... più il fracasso di una sciabola in burrasca. M’arrivò sopra un tenente d’artiglieria impolverato come un mugnaio, sudato come una Madonna miracolosa.
—E’ Miserazzano quel villino lassù?
—Sissignore.
—Ci si può andare di qui con l’artiglieria?
—Ci si va benissimo. Se vuole, la condurrò io.
Mentre si parlava, un maggiore di fanteria, giovane, bruno, eccitato, arrivò galoppando sopra un gran cavallo bianco. Mi ripetè l’interrogatorio ed io ripetei le risposte; intanto cominciò a sbucare la fanteria, e più sotto sentivo rumoreggiare i cavalli, i carriaggi ed i cannoni che accorrevano di trotto. M’accorsi di essere in mezzo ad una battaglia e, mentre assicuro ai lettori che voglio loro moltissimo bene, debbo confessare che in quel punto non è proprio a loro che pensavo.
Si trattava di salire a Miserazzano senza essere scoperti giù dalla valle della Savena o dagli avamposti che potevano esser sulla cresta dei colli. Ecco qui in due parole il campo di battaglia.
La Savena va dal sud al nord incassata tra alte colline, e lungo la Savena corre la via reale da Bologna a Firenze. Miserazzano, in cima ad una collina gessosa sulla destra del fiume, domina la valle ed il ponte che sta quasi sotto. Il nemico, presso al ponte o a mezza costa sopra la Pizzigarola, rappresentava la retroguardia di un esercito in ritirata verso Firenze. Noi invece eravamo l’avanguardia di un esercito insecutore e dovevamo tentare di tagliar fuori la retroguardia nemica dal suo supposto esercito. Per questo il nostro maggiore aveva spinto una parte de’ suoi lungo la via maestra fingendo un attacco di fronte, mentre con l’artiglieria e il resto della fanteria correva ad un assalto improvviso sulla destra del nemico. Bisognava adunque arrivare a Miserazzano coperti e presto. Mi spiego bene?
Non si faceva sul serio, lo so. Ma si ha un bell’essere parmigiani del disarmo e della pace universale, nemici sfidati degli eserciti stanziali e magari della pena di morte, che tuttavia nella guerra anche finta c’è sempre qualche cosa che riscalda il cervello. Sarà un istinto brutale, l’istinto della bestia feroce che si ridesta, sarà quel che volete, ma intanto ci sentiamo tutti attirati verso la sciabola (le donne poi!), e quando questa benedetta spada è nuda e scintilla al sole, ci sentiamo caldo dentro e nessuna voglia di ragionare. Capisco benissimo l’inquietudine del maggiore che tentava una sorpresa che poteva fallire per mille casi imprevedibili dalla prudenza umana, e la capivo tanto bene, che ero inquieto, eccitato anch’io come se la responsabilità fosse anche mia, come se dalla nostra vittoria dipendesse qualche cosa di grosso. E’ inutile sorridere. Al giuoco si parteggia e si scommette per un giocatore, al teatro si piange o si ride di un personaggio e[189] de’ suoi casi, e si può bene riscaldarsi per la riuscita di una manovra, come mi riscaldai io che mi misi tutto a disposizione del mio maggiore.
Eccoci adunque al trotto verso Miserazzano, e il vostro devoto servitore avanti a tutti. A un certo punto luccicarono tra gli alberi alcune baionette.—Maggiore,—gridai,—qua c’è dei soldati!—E il maggiore, ritto sulle staffe, aguzzando gli occhi sotto la visiera del pentolino, rispose quasi seccato:—Niente, niente. Sono dei nostri.—O che lo sapevo io che c’erano arrivati per un’altra strada? Un po’ mortificato ripresi il trotto, e così trottando entrammo tutti pel cancello della villa. Il giardiniere sbalordito mi riconobbe e, poichè la guerra non esclude sentimenti generosi, lo avvisai che dicesse alle signore di spalancare tutte le finestre. Con le cannonate in prospettiva, poveri cristalli!
Mettevano i cannoni in batteria, e dal parapetto guardai giù nella valle. Che calma solenne! Proprio il silenzio dell’ora meridiana. Pareva che le case sonnecchiassero, mezzo nascoste dagli alberi, e nella strada bianca che serpeggia lungo il fiume non si vedea muover nulla. L’acqua della Savena a quella distanza sembrava immobile e il sole la faceva risplendere come una lama d’acciaio. I soldati stavano silenziosi coll’arma al piede, e gli artiglieri tacevano, pronti, accanto ai pezzi. Non si moveva una foglia, non si sentiva un respiro; solo dai querceti che stanno sotto al monte veniva su una vocina di donna, raggentilita dalla distanza, e cantava la vecchia canzone:
Ti voglio bene assai,
Ma tu non pensi a me...
Mi riscosse la voce del tenente, che diceva:—Chiudano bene l’otturatore!
Il tenente, che scrutava giù con gli occhi, tese, a un tratto il dito ed esclamò:—Eccoli là!—Nel punto stesso, da una casetta color di rosa, un po’ sotto noi, alla nostra sinistra, si alzò un nuvolo di fumo. Dopo alcuni secondi ci giunse il rimbombo della prima cannonata.
Primo pezzo... fuoco!—Secondo pezzo... fuoco!
Non avevo mai sentito le cannonate così da vicino, e vi assicuro io che sentirsene a sparar un paio a tre metri di distanza fa un curioso effetto! Il corpo riceve come uno scappellotto complessivo equamente distribuito su tutta la sua superficie, e dentro si prova un rimescolamento commotivo ed istantaneo che, come sensazione piacevole, lascia[190] molto a desiderare. Le orecchie poi sembrano una platea burrascosa. Fischiano, figli miei!
Il nemico aveva quattro pezzi, ma noi avevamo il vantaggio della posizione. Ad ogni nostra innocua cannonata diminuiva il senso di scotimento che avevo provato in principio, e mi esaltavo sempre di più, e dicevo bene! come un generale che applaude un bel colpo. Dovevo esser leggermente ridicolo, ma il tenente non mi badava. Le signorine di casa, rassicurate, prendevano parte alla battaglia incruenta dal terrazzo, con gli ombrelli bianchi, ed il tenente soffriva di distrazioni. Mi pareva proprio di camminare in un bozzetto di Edmondo De Amicis.
L’artiglieria nemica dovette ritirarsi e noi la salutammo con le ultime salve: ma la casa di color rosa era ancora fortemente occupata dalla fanteria, e sulla cresta della collina, tra le macchie cedue alla nostra sinistra, cominciarono a levarsi i fiocchi grigi del fumo della polvere ed a crepitare le fucilate. Vidi il maggiore ritto sul suo cavallo bianco che si staccava magnificamente sul turchino cupo del cielo. Aveva il braccio teso, e subito dopo la tromba squillò l’avanti, e mi parve che quello squilla chiamasse anche me. Lasciai l’artiglieria e mi cacciai giù per le fratte a raggiungere i combattenti.
Quel mio maggiore era indiavolato e non c’era modo di arrivarlo. Lo vedevo di quando in quando comparir su, supra una cima, sempre diritto sul cavallo, sempre col braccio teso e poi sparire come una visione. E la tromba squillava sempre l’avanti e il crepitio delle fucilate s’allontanava sempre.
Per fortuna conosco le scorciatoie e raggiunsi il mio corpo: con la lingua fuori, ma lo raggiunsi. Un sergente, nel più canzonatorio dialetto veneto, mi accolse dicendo: ah, la xe qua anca ela? Se i bianchi i la chiapa, la se farà fusilar.—Non ci avevo pensato. Infatti che parte ci faceva io? La spi... No! che brutta parola! Facevo, o piuttosto avevo fatto la guida. In ogni modo il sergente aveva ragione. Ma che bisogno c’era di dirmelo?
Sarà stata una sciocchezza, ma lo scherzo del sergente fu come una doccia fredda sui miei entusiasmi bellicosi. Rimasi alla roda e finii col mettermi a sedere all’ombra, a dispetto della tromba.
—Vadano pure—pensavo—tanto la strada la sanno anche loro. La toga cede alle armi. Lo so che i bianchi non fucileranno nessuno, ma potrei trovare qualche ufficiale dei loro che mi domandasse che cosa c’entro io. Che potrei rispondere? O una sciocchezza o star zitto. Dunque vadano pure.—Ma degli entusiasmi passati m’era però in[191] fondo rimasto almeno il disprezzo della morte, poichè accesi un sigaro della Regia.
Così disteso, colla testa all’ombra ed i piedi al sole, seguivo tuttavia il procedere delle fucilate e, conoscendo bene i luoghi, capivo di dove venivano. Brontolavo:—Eccoli che scendono. Eccoli pel viottolo della Madonna del Bosco. Sono oramai alla casa!—Dopo un poco di silenzio sentii distintamente i fuochi di drappello. Era la catastrofe e tesi l’orecchio per sentire il grido dell’assalto, il Savoia decisivo. Squillarono invece le prime note della fanfara reale: la manovra era finita.
Allora mi agghiacciai affatto, proprio come se fosse calato il sipario. Da attore entusiasta diventai frigidissimo spettatore, borghesuccio indifferente, preso tutt’al più da un po’ di curiosità, ma pieno zeppo di belle idee e di magnifiche declamazioni contro la guerra, gli eserciti e tutto il resto. Avrei dato il genio di Napoleone per quello dell’inventore del cavaturaccioli, ed ora che scrivo mi pare proprio che non avessi torto, poichè il cavaturaccioli è una gran bella istituzione. Con questi sublimi pensieri mi tornò la paura della morte e gettai il sigaro, alzandomi dinoccolato per andare a vedere quel ch’era successo, come si va a vedere la foca o la donna grassa.
I bianchi avevano già abbandonata la casa ed i nostri avevano vinto. L’assalto pare avesse avuto di mira principalmente il pozzo, tanto i soldati ci si affollavano sopra. Un contadino ritto sul parapetto faceva salire e scendere rapidamente la secchia, aspettata da cento braccia levate che la rovesciavano nove volte su dieci, tra le risa e le giaculatorie eterodosse. Una donnaccia sgangherata vendeva una goccia d’acquavite in un bicchier di acqua per un soldo, con gli stessi lazzi e le stesse parolacce con cui mezz’ora prima l’aveva venduta ai bianchi. Già anche i neri erano ormai bianchi, tanto erano coperti di polvere. Parea che avessero aspettato a sudare dopo la vittoria, tanta era l’abbondanza e l’unanimità della loro traspirazione. Gli ufficiali all’ombra bevevano ova fresche ciarlando tra loro come se nulla fosse accaduto, e più sotto alcuni soldati affettavano colla sciabola certi melloni che parevano l’espressione vegetale della colica. Un chiasso allegro, un va e vieni instancabile, un chiamarsi, un rispondere, sghignazzate, canzoni a mezza voce, comandi nitriti, latrati, grugniti, chiocciar di polli spaventati, tutto faceva più viva, più originale la scena. Ad un tratto ecco il maggiore di galoppo. Silenzio perfetto e subito.
Veniva a dar gli ordini della partenza. Nel passarmi vicino mi gridò:—Ha visto come ci siamo riusciti!—E se ne andò senza aspettar la risposta. Io sarei stato capacissimo[192] di rispondergli che avevo visto niente e mi seccava d’aver fatto la... guida... Anche le bugie sono una gran bella invenzione.
Così era finita la battaglia. Mezz’ora dopo, io ritornava indietro tranquillamente, come se tutto il caldo, tutto l’entusiasmo di poco prima non l’avessi mai provato. La quiete era tornata dappertutto. Sulla vetta del colle mi fermai, e mi giunse distintamente all’orecchio la vocina che prima delle cannonate cantava:
Ti voglio bene assai.
I carriaggi ed i cannoni rumoreggiavano rotolando nella valle: un denso polverone indicava la marcia della fanteria. Guardai giù come per salutare tutti, e mi cacciai nel bosco in cerca della voce. E la voce cantava ancora:
Ti voglio bene assai,
Ma tu non pensi a me...
Se fosse arrivata lì una staffetta a portarmi la nomina di generale, non sarei tornato indietro: no, in parola di onore.
Per cominciare proprio da principio, le dirò che alla precoce amatività di Dante, del Leopardi e di tanti altri, io ci credo benissimo. Certo nella puerizia o sul limitare dell’adolescenza non si ama completamente come più tardi: sarebbe impossibile: ma intanto è vero che in molti maschi questo istinto di selezione, per quanto indeciso e senza intensità carnale, si manifesta prestissimo. E’ annebbiato, è incosciente, è immateriale, ma però è amore. Fosforescenza che non è ancor luce, tepore che non è ancor caldo, tutto quel che volete, ma amore bello e buono. Dopo, quando l’esperienza è venuta, quando si lasciarono tanti brandelli di cuore ai rovi della strada percorsa, come le pecore ci lasciano la lana, allora si pensa, si ricorda, si torna indietro col pensiero a far l’analisi del passato, e si arriva a capire che quelle pallide fosforescenze erano l’alba dell’amatività, che quei tepori precorrevano le vampe del primo amore. Si arriva a capire che la nostra storia intima, la storia degli affetti, comincia di là.
Dicono che il primo amore non si dimentica mai. Non voglio sapere quel ch’ella pensi di questo assioma; no, non lo voglio sapere: ma per me lo accetto e ci credo. Io per esempio, per la prima volta ho amato un ritrattino in fotografia: ed ora che tanto tempo è passato, solo a chiuder gli occhi lo rivedo preciso come se lo avessi davanti: proprio come dopo aver fissato il sole per un momento, a chiuder gli occhi ne riveggo il disco che persiste nella retina. Che strano effetto, non è vero? che strano effetto fanno questi ricordi quando ci tornano avanti colla vivacità[194] di una cosa vera, col colorito e la temperatura della realtà! Ha mai girato in montagna? Si sale lentamente, ammirando una scena magnifica. Il cielo è del più bell’azzurro di cobalto, i monti del più bel verde oltremare, e così, procedendo tra queste vive sensazioni di colore, si oltrepassa il punto centrale della scena. Allora bisogna voltarsi indietro per veder tutto cambiato. I monti sotto i quali si passò non hanno più lo stesso aspetto e lo stesso colore, la pianura sfuma giù tra l’azzurro e il violetto, il cielo all’orizzonte è color di rosa, insomma quel ch’era verde diventa turchino, quel ch’era grigio diventa roseo, quel ch’era luce diventa ombra. Così cambia la sensazione visiva degli oggetti secondo l’ora e il punto di vista; e così, guardando con la memoria, le cose passate prendono colori e forme diverse da quelle che vedemmo una volta. E’ per questo che, ricordando qualche avvenimento della vita, ci picchiamo la fronte brontolando:—Bestia ch’io fui!—E’ per questo che, pensando ora a quel ritrattino, mi accorgo che ne ero innamorato. Allora non lo sapevo.
***
Ero in collegio, tra i dieci e gli undici anni, e lasciavo vegetare tranquillamente la mia animalità, soffrendo il freddo nell’inverno e il caldo nell’estate come ogni fedel cristiano. Mangiavo con un appetito formidabile i brodetti spartani e le polpette ripiene di mistero; saltavo come un capriolo, ridevo come un matto e studiavo poco. Credo anzi che non studiassi affatto, poichè la dottrinella del Bellarmino, che era la nostra fatica quotidiana, non me la ricordo più. Dico tutto perchè ella si persuada ch’io non ero un fanciullo portento, ma un povero bimbo come gli altri, amico de’ trastulli, nemico del Bellarmino e martire dei geloni. Vivevo solo fisicamente ed ignoravo il resto. Ignoravo il male, quindi ero innocente, poichè la innocenza tanto vantata non è altro che la santa ignoranza.
Il mio collegio era un antico convento di camaldolesi, un labirinto di corridoi oscuri, di cellette basse, di scale inesplorate, di anditi misteriosi che conducevano a porte murate. Pareva un fabbrica architettata da Anna Radcliffe per qualche personaggio dell’Hoffmann. Il chiostro maggiore, di un disegno pomposo e vicino al barocco, chiudeva un giardino incolto, pieno di umidità, di muschi cresciuti sui viali, di solanacee pelose, di lauri lucidi, quasi metallici. Le pareti erano tigrate da grandi macchie scure,[195] vellutate dalla peluria del salnitro; e un odore di chiuso, di muffa, di terra bagnata, vaporava da ogni angolo, tra le commessure verdastre dei mattoni. In questo carcere malinconico, tra i lunghi silenzi, la semi oscurità, le funzioni religiose, sotto il cipiglio freddo de’ superiori e la ferula degli abatacci mal creati, tutto ci si poteva chiedere fuorchè uno sbocciare anticipato del cuore, un germinare precoce degli affetti e dei sentimenti. In Siberia non fioriscono le rose: si figuri le palme!
Tuttavia il reverendo signor Rettore nei mesi d’estate allargava la manica con noi piccini. Il sabato sera ci faceva venire nella sua cameretta, ci trattava a gelati e ci raccontava innocenti storielle di fate. I gelati ci parevano buoni e le storie bellissime, tanto più che il festino coincideva spesso con le cose di studio. A quel tempo io m’abbandonava con riconoscenza alle untuose carezze del reverendo Rettore; ma quando coi primi peli mi spuntò la malizia, pensai che quelle smorfie dolciastre avessero un perchè, e sospettai che si cercasse l’affezione dei piccini per dominarli da grandi. Povero Rettore, come sbagliò i suoi conti!
Ella deve sapere che il reverendo si dilettava di fisica e mi dicono, con buona riuscita. La sua cameretta era quindi ingombra di macchine d’ogni sorta, mostruosità rigide, problemi d’acciaio e di ottone, enigmi che c’ispiravano una venerazione paurosa. Gli stereoscopi, tuttavia, e le lanterne magiche c’inspiravano migliori sentimenti; preferivamo il caleidoscopio alla pila. Ritta in un angolo buio, con un gran mantello nero addosso, stava sempre la macchina fotografica come uno spettro immobile che ci sorvegliasse. Il Rettore infatti s’ingegnava con quella macchina, che allora, da noi, era una novità, e spesso ci regalava le prove mal riuscite.
Sul camino erano ammucchiate le prove fotografiche con altre fotografie venute di fuori, e noi passavamo spesso in rivista quei fogli e quei cartoni col permesso del Rettore. Una sera mi capitò in mano un ritratto, in formato piccino, e di dietro c’era stampato Venezia e l’indirizzo del fotografo. Non era della fabbrica del reverendo, e rappresentava una giovane in piedi appoggiata ad una colonnina, coi capelli chiari che dovevano esser biondi e con quel sorriso interrotto dalla paura di muoversi che imbruttisce gli uomini ma spesso giova alle donne. Naturalmente allora non sapevo chi fosse, ma in seguito, dopo molto cercare, lo seppi.
Il ritrattino mi piaceva assai e, quando s’andava dal Rettore, lo cercavo subito per tornarlo a vedere. In principio non potrei dire altro che mi piaceva, ma a poco a[196] poco mi abituai a fare quasi astrazione dal ritratto ed a pensare all’originale. Quel sorriso, un po’ stentato ma pur sempre grazioso, mi pareva diretto proprio a me; e se qualche mio compagno guardava anch’egli al ritratto provavo subito un certo senso di dispetto, una stizza che chiudevo dentro solo per sforzo di riflessione. Ho capito poi che quel brutto sentimento era gelosia, perchè me lo sono sentito nel cuore altre volte pur troppo; ed ho capito che dovevo essere già innamorato, perchè, com’ella sa, la gelosia vien dopo all’amore. Infatti, se ella se ne ricorda... ma lasciamo andare.
Ero proprio innamorato, benchè allora non sapessi che nome dare a questi miei nuovi sentimenti, e pensavo tutta la settimana al benedetto sabato in cui avrei visto, come direbbe il Metastasio, il caro oggetto. Cominciavo a lavorare di fantasia, a fabbricare castelli in aria, ultimi atti di commedie alla Scribe, allorchè m’avvidi che tra me ed il caro oggetto era prossima la separazione. I gelati e i racconti di fate stavano per finire, ed io ci pensavo con una amarezza che ricordo benissimo, perchè ho provata poi anche questa altre volte. Non c’era che una via di salute, il ratto. L’ultima sera m’avvicinai al camino con un batticuore terribile, e senza guardarmi attorno, con la risoluzione cieca di chi gioca tutto il suo sopra una carta presi il ritratto e me lo cacciai in tasca. Fu proprio un ratto, perchè, come ella vede, lo rubai.
***
Lo rubai. E’ una brutta parola ma è la verità, e sono persuaso che se il Rettore m’avesse guardato in faccia con attenzione, se ne sarebbe accorto. Certo mi pareva di avere il delitto scritto in fronte, e quel maledetto batticuore non voleva cessare: anzi mi assordava e mi pareva che tutti lo dovessero sentire. Stentai a finire il gelato, e solo quando uscimmo di camera mi parve di respirar meglio. Tenevo la mano ostinatamente in tasca e di quando in quando accarezzavo il cartoncino colle dita come si accarezza una persona viva. Nel tempo dello studio, con mille precauzioni, riuscii a rinvolgere il caro oggetto in un bel foglio di carta, e me lo misi sul petto, sulla carne nuda. La notte, con la testa sotto le lenzuola, lo baciai come un santo e mi addormentai tenendolo colle mani sul cuore. Chi potesse sapere i miei sogni di quella notte! Ma non me li ricordo più.
***
Sì, signora, sono fanciullaggini, lo so. Ma è appunto tra le fanciullaggini che si desta il cuore, e vorrei sapere se il suo, quando si destò, abbia fatto meglio del mio. Tutti a questo mondo incominciano così, o press’a poco. Non c’è che l’agave che fiorisca in un minuto secondo e tutti gli altri fiori sbocciano a poco a poco: e l’agave fiorisce ogni cento anni pur troppo. Così, con queste fanciullaggini ho cominciato ed ho seguitato per molto tempo, e, veda, mi dolgo di non essere più fanciullone a quel modo. Con che intensità d’affetto amavo quel mio ritrattino! Che baci gli davo quando non mi vedeva nessuno! Per le vie guardavo le donne in faccia per vedere se somigliavano alla mia innamorata, ed a scuola, con la testa tra le mani e le dita nei capelli, mi immergevo in contemplazioni paradisiche, la cui dolcezza ineffabile mi mancò quando il senso pretese la sua parte dall’amore. Quelle meditazioni serafiche, pure da ogni contatto di realtà, erano veramente l’ideale dell’ideale, e mi procuravano gioie vive, fantasie inebrianti e castighi durissimi, perchè naturalmente chi li soffriva più di tutti era il povero cardinal Bellarmino. Imaginavo cavalcate, colloqui, viaggi, avventure, e vedevo la mia innamorata in tutte queste fantasmagorie, quasi la vedevo, con gli occhi allucinati, come si vede in sogno. A casa mia avevo compitato il Nicolò de’ Lapi e mi ricordavo il bacio di Lamberto a Laudomia sull’inginocchiatoio, e me lo figuravo dato da me alla mia innamorata che mi sorrideva come nel ritratto. Quel bacio era per allora il limite estremo dell’amore. Oh, beate fanciullaggini! Mi contentavo di un bacio immaginario e non facevo versi! Come si cambia, signora mia!
Intanto io viveva contento in questo amore rudimentale per un ritratto cui la fantasia dava corpo. Diventai rustico, solitario, stravagante. Il mio cambiamento di carattere fu notato, e mi accorsi che l’abataccio villanzone cui la mia educazione era affidata, mi sorvegliava e mi spiava. S’accrebbe quindi la mia salvatichezza, e questo stato di ostilità contro tutti mi piaceva, perchè sostenuto come una prova d’amore. I castighi mi piovvero addosso ed io li accettai come martirio invidiabile, come sacrifici meritorii. Mi irrigidii contro la persecuzione, vissi in uno stato di ribellione muta, passiva, ostinata. L’abataccio disperava già di domare questa cocciuta perversità, quando un giorno, povero me! perdetti il ritratto!
M’ero addormentato con la cara immagine sulle labbra, e la mattina, nel serra serra del vestirmi in fretta sotto gli occhi grifagni dell’abataccio, non potei che nasconderla sotto alle lenzuola. In chiesa, dove s’andava subito dopo alzati, ebbi il rimorso di aver abbandonato così, e per la prima volta, il benedetto ritrattino. Quella mattina me la ricordo come se fossero passate poche ore soltanto. Era freddo, ed io aveva un nodo d’angoscia nel cuore. Nascosi la faccia tra le mani, e li, in ginocchio, piansi disperatamente e pregai Dio, lo pregavo allora! pregai Dio con tutta l’anima di restituirmi il ritratto nascosto, di non permettere che altri lo trovasse. Se fosse vero che le preghiere fatte col cuore e con la fede sforzino le porte del cielo, Dio avrebbe fatto un miracolo per me, tanta fu l’intensità della mia orazione. Ma quando uscimmo di chiesa corsi al mio letto... era rifatto! Lo disfeci... Nulla!
Perdetti l’appetito e il sonno. Feci due larghi pesti sotto gli occhi e diventai più rustico, più chiuso di prima. Piangevo spesso ed aveva sempre come una fitta al cuore. Ebbi la febbre, e scesi all’infermeria, dove le cure e le distrazioni mi calmarono un poco. Il tempo fece il resto, ma la piaga di quel primo amore, lasciò una cicatrice che, a toccarla, si risente. Alle volte, come l’amputato, mi dolgo dove non dovrebbe poter essere più il dolore, e spesso poi quelle prime sensazioni, quei primi calori della mia vita affettiva, mi ritornano alla memoria con una vivacità che mi fa paura. Il mio primo amore, poveretto, non fu sepolto bene; ritorna qui a domandarmi la pace dei morti.
Dico ritorna qui, perchè quel ritratto, signora, era il suo.
Non lo invento io.
Castel Debole non è ora che un povero casale sul Reno, tra Borgo Panigale e Casalecchio, cioè tra la prima e la seconda stazione della ferrovia Bologna-Firenze; ma una volta, quando si chiamava Castel Forte, era una rocca inespugnabile che dominava un guado importante del fiume, pochi chilometri al ponente di Bologna. Ed ecco la sua leggenda, che non ha nulla d’inverosimile.
Verso il mille (le date sono incertissime) Castel Forte era di Maghinardo, o Manardo, figlio di Ugolino da Tizzano. Non so da quanto tempo la famiglia da Tizzano possedesse quel feudo; ma pare che non fosse da molto. A ogni modo, quando Ugolino morì, Manardo era appena ventenne, e la morte del padre, seguita pochi giorni dopo quella della madre e di Bertrada sua zia paterna, lo afflisse per modo che voleva farsi monaco dell’abazia di Labante. La sua vocazione era tenuta viva da un prete, che la leggenda chiama sacerdos Medulanus, senza dirne il nome.
L’affare era più grave di quel che paresse. Bologna era già guelfa, e i feudatari che la circondavano erano ghibellini. Cominciava la gran lotta tra i Comuni e i feudi. I conti di Panico, ghibellini sfidati, dominavano già gran parte della valle del Reno, sbarrando le comunicazioni tra Firenze e Bologna. Ora Castel Forte, che dominava un guado importante, faceva gola alle due parti, e i bolognesi molto probabilmente non erano estranei alle pie esortazione che il sacerdos Medulanus prodigava al giovane[200] Manardo. Stavano per ottenere il castello coll’aiuto di Dio, quando i conti di Panico pensarono di mantenerlo alla loro parte coll’aiuto del diavolo.
Berta, castellana di Malfolle e parente dei conti da Panico, era vedova con una figlia chiamata Ilda nella leggenda; ma il nome è probabilmente sfigurato, essendo più comune allora quello di Elda. Comunque sia, fu dopo un colloquio con Azzo da Panico che ella si decise a recarsi in pellegrinaggio all’abazia di Nonantola presso Modena; e con la figlia e poca gente scese alla pianura. Giunse a Castel Forte il 22 luglio, poichè la leggenda dice che fu il giorno festivo di Santa Maria Maddalena, in die plenilunii.
Quel che segue è detto in poche righe nella leggenda; ma siccome è facile immaginare i particolari, eccoli qui.
La madre era molto astuta e la figlia molto bella. Su questo, come vedrete, non può cader dubbio; ma benchè non sia difficile capire qual fosse il piano combinato tra Azzo da Panico e Berta da Malfolle per far andare a male la vocazione di Manardo, è curioso il modo con cui l’astuta vedova e la sua bella figlia l’eseguirono.
Da Panico a Castel Forte, anche con le stradacce d’allora, si vien presto, e il giorno era ancor alto quando le due donne chiesero ospitalità al pio Manardo. L’ospitalità era esercitata largamente in quei tempi, specialmente tra i castellani che, alla lontana, erano sempre un po’ parenti. Le donne venivano col pretesto di un devoto pellegrinaggio, il giorno era festivo, e naturalmente Manardo le accolse bene.
Furono servite di rinfreschi nella più bella sala del castello.
Tutto il lusso possibile a quell’epoca abbelliva la sala d’onore. La vicinanza della città e le proficue scorrerie del defunto signore contro i castelli guelfi della pianura, avevano fatto di Castel Forte una delle più ricche dimore del Bolognese.
La graziosa figura d’Elda, in cui fioriva tutta la solida e plastica sanità montanina, spiccava superbamente sulle pareti brune, rivestite di quercia scolpita o di cuoio. I suoi grandi occhi, un po’ sorpresi dalla novità delle cose e delle facce, si fissavano negli occhi del pio giovane coll’ardimento ingenuo dell’adolescenza, e le labbra, il cui roseo turgore tradiva il destarsi della sensualità, si aprivano spesso a un sorriso inconsciamente procace. Ogni moto della giovinetta aveva l’eleganza tentatrice, la morbidezza femminea cui la chiesa di quei tempi e il sacerdote Medulano opponevano i più possenti esorcismi; e tutte le promesse della tentazione, tutte le seduzioni del peccato[201] parlavano ai sensi da quegli occhi limpidi e profondi, da quelle forme fiorenti di gioventù e di bellezza.
Quella viva incarnazione d’amore che sorrideva inconscia della sua potenza, turbò profondamente il povero Manardo, i cui doveri dell’ospitalità imponevano di servire con le sue mani le pellegrine. Invano abbassava gli occhi, poichè un piedino meraviglioso, serrato in una fina e appuntata scarpetta di cuoio giallo, si affacciava irrequieto all’orlo della veste come per prendere anch’egli la sua parte nei turbamenti del giovane. Credeva ad una malìa di Satana e tentava inutilmente di non vedere e di non sentire, rannicchiandosi nei suoi divoti pensieri; ma la voce fresca e tranquilla di Elda veniva a distrarlo. Sentiva ogni suo moto senza guardarla ed aveva la coscienza di essere in pericolo senza aver la forza di sottrarvisi.
Berta tentava di tener vivo il discorso, ma si facevano dei lunghi silenzi, durante i quali il giovane moveva le labbra, pregava.
A sera fu peggio.
I caldi tramonti di luglio non sono fatti per le meditazioni ascetiche. Il sole che discende rosso dietro ai piani modenesi, saetta i raggi orizzontali sui colli dalle forme curve, quasi muliebri, li veste di un colore roseo che par di carne. Sembra che la terra intorpidita dall’arsura diurna si risvegli come ad una nuova aurora e frema alla carezza delle fresche aure serali. Le foglie immobili cominciano ad agitarsi lente lente, e il fiume, già fulgido come uno specchio d’acciaio, prende il color verde degli occhi delle ondine tentatrici. Tutto si risveglia; anche il desiderio.
Le prime ore della notte, col tremulo bagliore delle stelle, con le vampe tiepide e profumate che alitano per la valle, con quel mistero della penombra dove s’indovina un fermento di amore e di fecondità, dànno una molle sensazione che pare un principio d’ebbrezza. Ai profondi silenzi succedono larghe vibrazioni di voluttà, e passano le lucciole a sciami sulle stoppie nere, cantano gli usignuoli nelle macchie, e il fiume mormora gli ineffabili epitalami della notte. Nelle tenebre tiepide si compiono nozze misteriose, e l’amore palpita nel grembo della terra come il sangue nelle arterie dell’uomo.
È allora che il pieno disco della luna si leva e sale diffondendo la sua luce fredda sui campi deserti. Le ombre nere si allungano sui piani argentei e il fiume risplende qua e là di pagliuzze d’oro. Tutto a poco a poco si calma e riposa nella immensa solennità della notte.
Il povero Manardo sentiva i fiotti del sangue bollente salirgli alle gote e dal cervello. Ebbe le vertigini di chi si[202] affaccia all’abisso, e chiese di nuovo la pace alla preghiera.
Proprio sull’ultima sponda del fiume, circondata da pochi salici e da una siepe di carpini, era una sottile colonna di pietra che reggeva una madonnina scolpita. Fu là che Manardo s’inginocchiò, chiedendo la calma del sangue alla fresca brezza notturna e la pace dell’anima alla Vergine sua protettrice. E stava chino umilmente, quasi prosteso a terra, allorchè un suon di passi ed un fruscìo di vesti lo scosse. Erano le donne. Lo sentì, e rabbrividì come ad un pericolo mortale, ma subito fu colto da un gran disprezzo di sè medesimo e della sua debolezza. Dunque egli era così poco avanti nella grazia, che una tentazione delle più comuni lo poteva turbare sino alle midolla delle ossa? Gli vennero in mente esempi di santi che avevano resistito a più forti lusinghe, che avevano anzi sfidato il peccato, e per virtù della fede erano usciti vincitori nella lotta da loro stessi cercata. Volle esser forte, volle vincere l’interno nemico a forza di volontà e di fede, volle castigare la propria fiacchezza condannandosi a rimaner lì, inchiodato sulle ginocchia, finchè le donne non fossero partite.
Ma non partivano. Si erano fermate a pochi passi da lui dietro i carpini. Udiva le loro parole, sentiva il fruscìo delle loro vesti su rami bassi e capì... Si spogliavano per scendere nel fiume.
La sua condizione diventava terribile, ma tuttavia si ostinò a non muoversi, come se al di là della siepe non ci fosse nessuno. Si teneva il capo stretto tra le mani invocando il soccorso divino, ma un pensiero attraversava le sue preghiere:—Se guardassi? Lo scacciava inorridendo; ma ritornava, e gli dava la febbre. Appoggiava la fronte alla colonna per sentire il refrigerio di quel freddo, sentiva distintamente coll’orecchio le pulsazioni frettolose del cuore.
Sentiva le donne parlare sottovoce, ed ogni parola rivelatrice era un nuovo assalto. Sentiva sciogliere i cordoni, e le vesti cader sordamente a terra, ed egli si chiamava vile perchè gli veniva l’idea di turarsi le orecchie. La sabbia scricchiolò sotto un piede ignudo che scendeva al fiume, e a un tratto la voce argentina di Elda vibrò nel silenzio, dicendo:—Ah, come è fredda!
La madre dietro ai carpini rispose:—Avanti! avanti!
Il fiume non è profondo, ma dopo alcuni passi fatti con l’acqua sino alla caviglia, si trova improvvisamente uno scalino giù dal quale si da un tuffo alla cintola. Manardo ascoltava suo malgrado il rumore del piedino di Elda nell’acqua, allorchè la giovinetta gittò un grido di[203] spavento. Egli si trovò ritto senza saper come, e...... guardò!
Elda aveva gridato dando il tuffo sino alla cintola nell’acqua fredda. Non era nulla ed ora rideva; ma... era il plenilunio!
A quella fascinatrice rivelazione della bellezza, Manardo rimase con gli occhi sbarrati, coi nervi tesi e il singhiozzo nella gola riarsa. La fanciulla, ignorando di esser vista, concedeva tutto il candore delle forme agli sguardi del giovane. Rideva, e le divine curve del torso emergevano dall’acqua che le aveva abbracciate con una carezza fosforescente. E ritta sulle anche, sotto i baci della bianca luna, levò le braccia e le portò indietro per sciogliersi i capelli, lasciando ingenuamente trionfare tutta la gloria della sua virginea e superba nudità.
Manardo si sentì soffocare. Gli mancò la vista e cadde rovescio con un rantolo disperato.
Rinvenne disteso sull’erba, e le due donne, appena rivestite, lo soccorrevano. Berta sorrise vedendolo aprir gli occhi, mentre Elda si allontanava arrossendo.
Non so se le nozze fossero celebrate dal sacerdote Medulano, che dovette intenderla male. Certo il castello rimase per allora ai Ghibellini, e i Bolognesi, per dispetto, d’allora in poi lo chiamarono Castel Debole.
Quando ci alzammo da tavola, il colonnello era di buon umore.
Un po’ di epicureismo inteso bene spianerebbe le rughe in fronte anche al profeta Geremia, quello delle lamentazioni; figuratevi se non ci sentivamo allegri noi, facendo cerchio intorno al fuoco e aiutando il chilo con un ponce squisito. Fu allora che il colonnello, tra le altre storielle, ci narrò questa.
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Una volta, ho commesso un’azione poco delicata, e siccome le birberie si tirano una coll’altra come le ciliege, fodero l’indelicatezza con una indiscrezione. Capirete però, che almeno i nomi non li dico.
Prima del 1859, e pur troppo anche ora, le nostre famiglie tenevano in casa un prete che faceva da pedagogo e da maestro ai ragazzi. Il prete di casa mia, un tal don Paterniano, non aveva nulla che lo distinguesse da’ suoi colleghi. Era asino come loro, ghiotto e sudicio quanto impongono i canoni e la consuetudine; ma non era cattivo, e quando, nel 1860, scappai di casa per andare in Sicilia, il pensiero di lasciare il mio pedagogo non mi affliggeva certo, ma nemmeno mi rallegrava.
Dal 1860 al 66, accaddero tante cose che non giova raccontare. Basta che tornai capitano e mi trovai solo. Anche lo zio, l’unico parente che portasse il mio nome, era morto proprio il giorno dopo alla battaglia di Sadowa. Tornai con un permesso di sei mesi, per guarire la lussazione che avevo riportato a Custoza, ma in verità la lussazione più grave l’aveva dentro.
Ricorderete tutti i terribili disinganni che ci colpirono[205] allora: i disinganni della guerra e quelli della pace successiva. Ma per noi militari, l’amarezza era più grave. Ci pareva di esser responsabili verso alla nazione dell’accaduto, e a tutti i dolori si aggiungeva un penoso sentimento quasi di vergogna immeritata che ci faceva sospettare un accusatore in ogni conoscente che rivedevamo. Io, poi, che tornavo con una volgare lussazione già mezzo guarita! Altri almeno poteva mostrare con orgoglio le cicatrici del proprio dovere; io ritornavo a casa ingrassato!
E la mia casa era deserta! La custodiva solo il portinaio che non conoscevo, e passando per quelle ampie sale silenziose non sentivo altro che il rumore de’ miei passi, di cui si meravigliavano i ritratti dei vecchi di casa, i quali mi seguivano con gli occhi come se fossi un estraneo. Finii presto le faccende che avevo da mettere in regola col notaio, e mi trovai con la bella prospettiva di cinque mesi di noia futura. Che fare?
Nel rovistare le carte della successione, avevo trovato alcune lettere di don Paterniano, nelle quali comunicava al mio povero zio la sua promozione a superiore del convento di Monte Stella vicino a X***. Infatti il mio antico pedagogo si era fatto frate camaldolese e si chiamava ora padre Romualdo.
A leggere quelle lettere, mi venne la matta idea di farmi frate provvisoriamente e di gustare la pace profonda del monastero.
Ero tanto angustiato di quel ch’era accaduto, ero tanto annoiato di quella solitudine in cui mi trovavo per forza, che pensai a farmi solitario sul serio per qualche mese, sperando di riprendere forze morali e nuova capacità di illusioni e d’entusiasmi.
Scrissi dunque a padre Romualdo chiedendogli se mi accettasse come frate dilettante, obbligandomi a pagare il mio mantenimento e a non turbare per nulla le consuetudini e gli scrupoli dei suoi frati.
Il padre mi rispose lietissimo, dicendomi che mi aspettava a braccia aperte: mi chiedeva quanti metri e centimetri fossi alto, per farmi fare la tonaca subito; mi avvertiva di lasciar crescere la barba, e nella poscritta insinuava che quanto a vitto starei bene, ma quanto a bere avrei agito prudentemente cercando di portar meco qualche bottiglia, poichè la cantina del convento era vuota, imponendo la regola di bere acqua pura.
Questa raccomandazione mi fece ridere, poichè mi ricordai che padre Romualdo, quando era don Paterniano, beveva spesso e volentieri, preferendo il vino buono a qualunque altro liquido.
Il convento di Monte Stella è sopra un colle che domina la città e il mare. A mezzodì si apre larga e verde una valle, dove il fiume di querce e di castagne, digradano in colore fino a divenire azzurri all’orizzonte. È uno di quei luoghi come i frati hanno sempre saputo scegliere, vicino alle città, vale a dire un luogo incantevole.
Il convento, ceduto al municipio dal governo, non è fatto per la vita in comune, ma composto di tante piccole casette, una per ogni frate. Così vuol la regola. Ogni casetta ha tre camere e un piccolo giardino chiuso da un alto muro; ma quella che mi fu assegnata guardava la valle, e da quel lato non era chiusa che da un parapetto, sotto al quale il monte scendeva a picco. Le case fanno corona alla chiesa, dietro cui sta un magnifico bosco. Tutto questo villaggio religioso è circondato da un muro, e non si può entrare se il frate portinaio non apre il cancello.
Padre Romualdo mi accolse proprio come aveva annunciato; a braccia aperte. Giunsi la notte ed egli mi condusse subito alla casetta che m’aveva destinato. Volle che mi vestissi subito da frate, mi pregò di parlar poco con gli altri frati (erano tre in tutto e addetti ai servizi umili umili come la loro intelligenza: il cuore però sapeva profondamente l’arte sua), di farmi servire da loro senza riguardi, e altre raccomandazioni dalle quali credetti di capire che il padre m’avesse fatto passare per un pezzo grosso dell’ordine, venuto in incognito. S’informò dei miei bagagli, che dovevano venire al mattino, e io l’avvertii di far scaricare con giudizio le casse per non rompere le bottiglie. Mi dette la buona notte e io, dopo aver fumato un sigaro nel giardinetto, mi coricai sul lettuccio monastico, che mi concesse un sonno beato.
Al mattino, mi levai di buon umore, e mentre stavo odorando i fiori del giardino e guardando giù l’immensa valle da cui salivano le nebbie mattutine, sentii alcune voci dominate da quella di padre Romualdo. Egli gridava:
—Piano! giudizio con quelle casse di libri!
Le casse di libri furono presto nel mio appartamento, e sapete già che erano delle migliori edizioni di Bordeaux, di Broglio, di Barolo, di Capri e di altre regioni propizie all’enologia.
Mi sentivo benissimo. La stranezza della mia posizione, la cucina eccellente, la tranquillità intima, la stessa voluttà che provavo nelle ore calde, sedendo sotto l’ombre fitte del bosco con la sola camicia e la leggera tonaca di lana bianchissima, che si presta tanto bene alle carezze intime delle brezze montane, tutto insomma contribuiva[207] a far di me un vero frate, insensibile a ogni seccatura del mondo esterno, annichilito nella pace della vita animale. Padre Romualdo mi prodigava le finezze e le attenzioni più delicate, e gli altri frati mi rispettavano silenziosamente, facendomi certi profondi inchini cui corrispondevo con un sorriso di degnazione. Un giorno feci un complimento al cuoco, il quale, commosso, mi baciò la mano.
Dopo una settimana di quella vita beatamente epicurea, cominciai a sentire che c’era pure qualche cosa che non andava. Quando mi alzavo al mattino e nel mio giardinetto fumavo un sigaro contemplando la valle, la città e il mare, avevo dei momenti grigi che tendevano tutti i giorni a farsi più scuri, e provavo un senso di vuoto, di insoddisfazione, che diventava sempre più nervoso e penoso. Mi mancava l’eterno femminino. Quando sentivo un canto di villana salir dalla valle al mio giardinetto, avevo già certi spasimi interni che incominciavano a disgustarmi della vita contemplativa.
Padre Romualdo tutte le sere veniva nella mia casetta. Aveva preso confidenza e fumava e beveva come se la regola glielo imponesse. Mi raccontava alle volte certe storielle grassocce che lo facevano ridere sino alle lagrime, e si rovesciava sul seggiolone tenendosi la pancia e sgangherando le mascelle. Il buon padre si sentiva sovrano e padrone di Monte Stella, e poichè i suoi tre fraticelli lo servivano come un pascià, egli si era liberato sempre più dai lacci monastici, e ho il sospetto che peccasse e si assolvesse da sè. Certo lassù, in quel monastero venerato da tutta una regione, egli solo aveva facoltà di confessare.
Una sera gli contai le mie nuove tribolazioni, che egli accolse con uno scoppio di ilarità. Lascio i commenti aretineschi che vi fece sopra. Egli era oramai giunto in età da non soffrire come soffrivo io; ma mi narrò, con molta evidenza, le sue lotte passate, le sue vittorie contro la tentazione, dove qua e là mi parve di scorgere qualche restrizione e qualche bugia. La confessione era il suo tema prediletto, e mi narrava le marachelle che aveva sentito dalle donne, i casi di coscienza che aveva dovuto sciogliere, le sue soluzioni, e una filza di aneddoti pornografici che lo facevano sussultare dalle risa sopra la scranna, mentre io, senza volere, ogni volta più l’ascoltavo volentieri.
Una sera aveva bevuto più del solito e cominciava a perder l’erre. Bussarono alla porta del giardino, e il padre dalla sua sedia chiese ad alta voce:—Chi è?—Un fraticello rispose:—La contessa Y* che si vuol confessare.—Il[208] padre brontolò sottovoce alcuni spropositi grossi, poi gridò che la introducessero in chiesa a far l’esame di coscienza, che tra poco sarebbe venuto.
Tornò a spropositare. Erano ore quelle da venire a romper le tasche a un povero servo di Dio? Benedette donne, che fanno i peccatacci e seccano la gente a tutte l’ore, per farseli perdonare! E via di questo passo. Io ebbi un’idea luminosa e gli dissi:—Vuoi che vada io?—Prima credette che scherzassi, ma dopo che gli ebbi mesciuto un bicchiere di Capri traditore, cominciò a ridere della burla e finì col consentirmelo, facendomi fare i più terribili giuramenti di segreto. Gli sturai un’altra bottiglia e uscii.
In parola d’onore, ero meno commosso a Milazzo quando sentii a fischiare le palle la prima volta. Si ha un bell’essere capitano di cavalleria, ma l’idea di confessare una signora, che sapevo giovane e bella, fa un certo effetto.
Passai dalla sagrestia e mi misi la cotta e la stola, tirandomi il cappuccio bianco più avanti che mi fosse possibile. Ero sicuro di non trovare in chieda altro che la mia penitente; ero certo di farla, franca, ma insomma un po’ di tremarella l’avevo.
La chiesa era scura scura, poichè i piccoli lumicini che ardevano davanti agli altari non rompevano le tenebre. Un odore d’incenso, d’umidità fresca e di fiori empiva ogni cosa, e nel silenzio profondo e solenne sentivo il rumore dei miei sandali e mi veniva quasi la voglia di camminare in punta di piedi. Tuttavia, curvo e con le mani immerse nelle larghe maniche, mi diressi al confessionale. Vidi un’ombra nera chinata sovra un inginocchiatoio, mi chiusi dentro e tirai la tendina.
Avevo sempre addosso quella benedetta emozione che mi faceva battere il cuore, ma appena, fui seduto mi venne quasi voglia di ridere. A un tratto, al finestrino di sinistra, la parte del cuore, sentii una voce bisbigliare il Confiteor. Per vostra norma, la contessa era una bella bruna di venticinque anni, maritata, alta, ben fatta, in fama d’essere spiritosa, ma severissima in riga di galanteri.
—Figlia mia, siete al tribunale della penitenza. Confessate con sincerità piena e contrita le vostre colpe a Dio che le ascolta, e ricordatevi che quel che deponete a questo santo tribunale rimane un segreto tra voi e Dio soltanto.
—Padre, mi accuso del peccato di superbia. (Cominciamo dal primo dei peccati mortali, dissi tra me. Quando[209] parlava, sentivo il tepore del suo alito passare tra i buchi della graticola).
—Ditemi, figlia mia, le circostanze di questo peccato; perchè possa misurarne la gravità. Siete voi stata vana del vostro nome, delle vostre ricchezze o del vostro corpo?
—Di tutti e tre, padre. (Ahi! ahi!).
—E questa vostra colpa si è tradotta esternamente con atti, con sguardi, o con parole?
—Mi accuso di essermi guardata troppo volentieri nello specchio, e... (titubò un poco) specialmente uscendo dal bagno. (Sacripante! Domando io se sono cose da contare a un capitano di cavalleria, che fa vita monastica e rimpiange terribilmente l’eterno femminino! Cominciavo a spaventarmi).
—Male, figlia mia. Dio non v’ha dato un bel corpo per compiacenze peccaminose, ma perchè serva a sua eterna glorificazione. (La frase era stupida. Cominciavo a impaperarmi. Avevo una gran voglia d’insistere e di domandare particolari più minuti, ma temetti di eccedere. Ci fu un breve silenzio).
—E sopra il secondo peccato, l’avarizia, avete nulla da dire?
—No, padre, non mi pare d’esservi caduta.
—E... e sopra al terzo.... Vediamo: siete sincera. Pensate che quel che affidate al tribunale della penitenza rimane segreto, suggellato con sette suggelli, e riflettete che le domande che vi farò non vengono da curiosità indiscreta, ma dalla necessità in cui si trovano i ministri del Signore di pesar bene tutte le circostanze, per conoscere e giudicare la gravità del peccato.
—Si, padre; mi accuso di aver......
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Angeli e ministri di grazia! La contessa non era severa; no, no: era prudente!
Quando le ebbi dato l’assoluzione e i sette salmi penitenziali da dire, scappai, chè mi pareva d’aver le fiamme nelle ossa. Padre Romualdo russava sul mio letto, e io cominciai a radermi la barba per presentarmi il domani alla contessa.
Stetti in città un mese, radunando con la contessa i materiali di una futura confessione. Padre Romualdo l’avrà assolta, ma a me è sempre rimasto un mezzo rimorso. Mi pare che il sorprendere così i segreti di una signora non sia troppo delicato.
Raccontarveli, poi!
Giosuè Carducci pubblica due volumi ad un tempo: uno di prose ed uno di poesie.
Oramai si possono ancora discutere le opinioni e i tentativi di innovazione tecnica, si può discutere di tutto quel che si vuole parlando del Carducci; ma del posto che gli spetta tra i poeti nostri viventi non si discute più: egli è primo. Gli stessi suoi nemici (chi si alza una spanna sul livello della comune mediocrità, ha dei nemici), sia che lo assaltino in faccia, sia che lo aspettino la notte dietro la cantonata per dargli una coltellata nella schiena, riconoscono la grandezza sua con la bassezza medesima del loro livore. Quando, come il serpe della favola, si sono spezzati i denti a mordere la lima, dicono: io sprezzo! Hanno un bel dirlo! Il pubblico sa che la lima è d’acciaio fino, e ride.
Poichè Enotrio è un terribil nemico. Quando gli pare che in un biasimo a lui diretto, od anche in una lode, ci sia qualche cosa di più importante che la sua persona, per la dignità dell’arte o l’onestà letteraria, si leva subito armato per la battaglia e combatte. Non bada più agli avversari, non bada alla loro potenza, od alla loro indegnità. La santità della causa lo accende, e, come i buoni cavalieri antiqui dell’Ariosto che per la dama rompevano indifferentemente la lancia contro il miglior paladino della Tavola Rotonda o addosso al moro più gaglioffo di tutta l’Etiopia, così egli non si perita di contraddire dignitosamente agli uomini degni di stima o di castigare i mascalzoni ubriachi che vomitano vituperi nei vicolacci di certi giornali letterari clandestini. Egli si è fitto in capo che anche i letterati nella loro letteratura dovrebbero[211] essere onesti come tutti i galantuomini nella via, e fa del suo meglio perchè in arte non siano permesse e lodate le stesse azioni che farebbero vituperare un banchiere, fallire un droghiere, bastonare un facchino. Desiderii e sforzi generosissimi: ma per ora la nostra morale letteraria è fatta così; e se dite un’insolenza mettiamo allo Chauvet si rischia d’andare in prigione, mentre il primo scolaretto di ginnasio o il primo briccone che sa tener la penna può dare dell’asino e dell’ubriacone al Carducci senza che nessuno trovi nulla a ridire. La cosa par naturale e sembrerà tale per un pezzo, pur troppo. Il Carducci ha fatto accettare le Odi Barbare, ma non farà accettare così facilmente a certi critici i canoni della più volgare onestà.
Da queste polemiche per l’arte e per la giustizia venne fuori un libro, Confessioni e battaglie, libro dove il Carducci dà la sua misura come polemista.
Nella battaglia il Carducci non è un velite agile e brillante come per esempio il Cavallotti, è piuttosto il triario catafratto che cammina diritto al nemico, lo sfonda e lo stritola. Le sue polemiche non sono i Numidi di Annibale che sterminano correndo e gridando, ma la falange macedone dalle lunghe picche, ma i principes della legione romana che assaltano serrati, col passo cadenzato, coll’urto irresistibile. Egli non scherza mai, non ride; tutto al più usa l’ironia ed il sarcasmo. Non devia mai, e spesso ripete all’avversario: Non è di questo che si tratta; e torna all’argomento e sforza il nemico a tornarvi, costringendolo a rimanere sul terreno da lui scelto per combattere.
Da questo viene che mentre le polemiche tra gli altri letterati durano senza fine e cessano solo per stanchezza de’ combattenti, le polemiche del Carducci finiscono presto. Una lotta di guerriglie può seguitare molti anni, una battaglia in regola dura poche ore. L’avversario sconquassato può ritornare a casa zoppicando, rimettersi alla meglio in salute, riattaccar zuffa magari di nuovo, ma non più in quel campo e per quella ragione. Può tentare i suo Cento giorni tornando dall’isola d’Elba, ma a Lipsia non vince più.
Oltre però all’efficacia che hanno di per sè, queste cariche di corazzieri diventano irresistibili per l’autorità di chi le comanda. Il Carducci non si contenta di discutere, ma lavora. Egli stampa insieme un volume di polemiche e un volume di poesie, unisce alle parole i fatti, fa seguire la pratica alle teoriche. Egli (non io, come con la sua gentile benevolenza vorrebbe) egli è di quelli che con una mano lavoravano all’opera del tempio e con l’altra[212] tenevano un dardo: «aveano anche ciascuno la sua spada cinta su i fianchi, e così edificavano»; come lasciò scritto Nehemia.
Poichè bisogna pure ch’io lo dica, di una cosa sola mi vanto. Non mi vanto che i libri miei abbiano incontrato il favore pubblico; non mi vanto di vedermi oramai accettato nel coro degli eletti che sanno leggere e scrivere, dopo che per alcuni anni fui sottoposto alla interdizione dell’acqua e del fuoco dalla pudibondaggine scrofolosa degli epigoni romantici; non mi vanto e non mi lodo vedendo che almeno alcune delle idee che difesi sono pure entrate nel dominio universale, e che, pur vituperando il verismo, tutti oramai l’hanno nell’ossa; di una cosa sola mi vanto, mi lodo e mi glorio: di aver capito il Carducci, la sua importanza e il suo avvenire, ornando al di fuori del cerchio di pochi amici e di pochi studiosi egli era incognito agli spaventi politici dei pizzicagnoli, ai furori isterici e prosodiaci dei critichini illetterati.
Me ne vanto. Io era uno studentucolo svogliato che non gustava troppo le arcane bellezze del Diritto canonico, e il Carducci era un modesto professore che lavorava, come lavora, tutto il santo giorno, ed abitava in un vicolo fuor di mano, senza frequentare il mondo e le sue pompe. Gli scolari gli volevano bene, e noi, speranze del foro, davamo spesso una capatina nella sua scuola dove si studiava e si studia. Il Carducci non ha mai avuti nulla di quel cavadentismo per cui molti professori potrebbero dar dei punti alla signorina Sara Bernhardt, e alla scuola del professore girondino non si sente mai e poi mai una parola, nemmeno di allusione, alla politica che altri incastra per sino nei logaritmi e nella flebotomia. Egli stesso dice qual’è la sua scuola: «Un po’ di filologia, un po’ di paleografia, un po’ di critica, qualche po’ più di storia e ricerche, molte e faticose su molti codici, su molti libri». E fatta la parte della modestia che dice un poco dove ce n’è parecchio, è vero che l’ideale del Carducci insegnante è quello, «di alzare col metodo storico più severo la storia letteraria, al grado della storia naturale». È il positivismo, lo sperimentalismo, tutto quel che volete, ma è il metodo scientifico richiesto dal nostro momento storico, è l’abbandono assoluto delle vecchie metafisicherie, dei vecchi filosofemi retorici. Ora per fare una lezione sopra un secolo con le antiche maniere, bastano alcuni luoghi comuni e un po’ di verbosità meridionale: ma per farla come si fa la storia naturale, bisogna avere studiato, studiare, far studiare; ci vuole un fondo di lavoro grande e un ingegno potente per farlo fruttar bene. Poca apparenza e molta sostanza, poche chiacchiere e molti fatti ci vogliono;[213] e il Carducci, lavorando e insegnando così, non attirava a sè le chiassose dimostrazioni di entusiasmo sulle quali pur troppo si fonda la fama di parecchi.
Quando uscì il Levia Gravia, pochi ne parlarono. Il libro si allontanava troppo dalle solite torototelle che allora erano battezzate poesie. C’entrava poca o punta politica, niente Dio, niente luna, niente delle solite ciarpe romantiche ancora in moda. Le strofe non erano manzoniane, e c’era in tutto un non so che di pagano che stonava orribilmente col deismo delle maggioranze amiche ancora dei mezzi morali. Il volume passò tranquillamente, senza togliere o aggiungere fama all’autore. Si noti poi, che allora non era moda il parlare a diritto o a rovescio di letteratura. Oggi ognuno crede sacro dovere di cittadino e di contribuente spropositare intorno alla poesia sette volte al giorno come l’uomo giusto; e l’analfabeta che la sera tra una partita di biliardo e un poncino non giudicasse tutta la nostra letteratura contemporanea, si crederebbe disonorato. Allora non c’era questo bel costume, e tutt’al più degli autori in voga spropositavano i giornali politici nelle appendici inserite per tappare i buchi. Non c’è che dire; chi negherà il progresso?
Ebbene; quando il volume del Carducci passava quasi non visto nella crassa penombra della nostra ignoranza, io, scolaretto imberbe, lo capii e lo ammirai, tanto che ora me ne tengo. Scrissi la mia brava appendice, che fu stampata in un giornaletto ora dimenticato, e naturalmente dissi chi sa che monte di strafalcioni. Ma non fa nulla: ammiravo sinceramente quando gli altri passavano senza voltarsi addietro; ed ora che tutti, volenti o nolenti, chinano il capo davanti a chi fa onore al nostro paese ed all’arte nostra, sono superbo di poter dire: io, bamboccio, ho inteso e applaudito quando voi altri non c’eravate, cari critici nasuti e perspicaci! Avete aspettato che il Satana scombussolasse la testa ai dormienti e levasse rumore, per capire e convertirvi! Io credo che il Carducci voglia poco bene a quell’inno, appunto perchè fu per quello che cominciaste ad accorgervi di lui!
Al rispetto che nutrivo un tempo pel Carducci, ora, nuova cagione de’ miei vanti, è succeduta una buona amicizia; ma il mio entusiasmo per lui e per le cose sue è sempre lo stesso. L’ho seguito con gli occhi lieti nella sua salita gloriosa, l’ho visto con gioia superare gli ostacoli più forti o più maligni, mi par quasi che sia qualche cosa di mio, qualche parte di me che trionfi con lui. Hanno voluto dire che i veristi ebbero torto a rivendicarlo come loro capo, ma i veristi ebbero ragione, come avrà ragione d’invocare il suo nome chiunque, verista o no,[214] penserà col suo cervello, porterà la scure sul vecchio tronco dell’Arcadia e... scriverà senza spropositi.
Il Carducci infatti fu il primo che spezzò la tradizione romantica e manzoniana, fu il primo che ad un’Italia bene o male rinnovata fece intendere che bisognava lasciare la vecchia maniera, i vecchi pregiudizi, e fare di nuovo. Per questo egli è il capo di ogni ribellione contro la disciplina monastica che pesava non ha molto sulla repubblica letteraria. Egli ha ogni ragione di sdegnarsi vedendo come quelli che si gloriano di dirsi suoi discepoli siano così poco degni di sì gran nome; ha diritto di corrucciarsi vedendo come i soldati siano così impari al genio del capitano, e allora protesta e non riconosce i suoi, e si duole che si dicano suoi, e proclama, come il Poeta, di far parte da sè stesso. Ha ragione; ma, voglia o non voglia, dovrà pur tollerare che i piccini facciano di cappello al babbo. Si volti pure disingannato da un’altra parte; noi dobbiamo salutare e salutiamo.
Le Nuove Odi Barbare non sono più una novità se non perchè sono raccolte in volume; ma tuttavia così raccolte fanno tutt’altra impressione che lette ad una ad una, ad intervalli, ne’ giornali. Così riunite, l’orecchio del veterinario o del droghiere, per solito duretto, le dovrebbe capire un po’ meglio che non staccate, isolate tra un bozzetto o una polemica. Non spero molto negli orecchi dei soprascritti signori, ma tutto è possibile, anche che si persuadano che i versi del Carducci sono versi italiani. Chi sa? Dei miracoli se ne vedono ancora... a Lourdes.
Comunque sia, poichè, come ripeto, il Carducci può piacere o no, ma da chi non sia idiota non può più esser discusso come si discute il primo poetucolo venuto, bisogna dunque rallegrarci con lui e con la patria di questa sua balda virilità che gli permette di esser sempre il primo all’assalto, il primo sulla breccia.
Ad multos annos!
È morto Giuseppe Regaldi.
Era un poeta che per forza aveva dovuto vestir la toga di professore. Era l’ultimo forse dei bardi (così si chiamavano tra loro) di un ciclo quasi dimenticato, cui piacquero le sonorità ritmiche e l’abbondanza degli improvvisatori. Negli ultimi suoi tempi si era dato ad una certa maniera di poetare tra la didascalica e la descrittiva, che in fondo era un ritorno alla maniera che gli valse la fama negli esordi suoi, quando cantava l’Armeria di Torino. L’Occhio e l’Acqua sono perfezionamenti di quei suoi tentativi passati: più felici, più scientifici, più meditati, ma tocchi sempre dal malore che ha ammazzato la poesia didascalica.
E ci voleva l’esuberanza dell’estro, la potenza di fiorire col verso anche i più aridi temi, la ricchezza feconda dell’ingegno del Regaldi, per tradurre un catalogo di museo in un poema. In questo era egli veramente mirabile, che dove gli altri stentano a rivestire le idee con le parole e coi versi e lottano faticosamente con la musa per domarla e rapirle l’ambrosia de’ baci concessi soltanto ai forti, egli vinceva senza sforzi, poetava senza stento, come se la poesia fosse il suo linguaggio materno e il verso non potesse avere ribellioni per lui.
Tale facilità veniva forse dal suo passato d’improvvisatore, quando, invidiato per bellezza giovanile, passava di città in città raccogliendo gli applausi degli uomini e i baci delle donne. Nessuna sapeva resistere. Egli vinceva collo sguardo, rimastogli vivo sino agli ultimi giorni; con quello sguardo azzurro, intenso, giovane sempre anche sotto le ciglia bianche. Sapeva vincere e posava. A[216] Napoli, mentre il terribile Bomba era passato per pochi momenti in un’altra sala, vinse una illustre dama di palazzo e le cortine del talamo reale coprirono il suo ardimento.
Anche quando scriveva versi meditati, c’era nelle cose sue un resto della tensione di chi improvvisa. Egli non tocca quasi mai certe corde e mira sempre al sublime. Non scherza mai, non ride mai. La stessa ironia tra le sue mani diventa imprecazione. Chi l’ha conosciuto ricorda la sua bella voce di baritono, robusta e squillante, ed i suoi versi paiono recitati sempre da quella voce più atta a cantar peana che elegie, più facile a muovere al terrore od all’entusiasmo che alla commozione o alle lacrime.
Questa vertigine intellettuale gli vietava di esser poeta lirico. Parrà strano, ma è così. La lirica infatti, e le poetiche lo dicono, cerca appunto l’impeto, l’intensità, e i voli pindarici sono persino diventati un luogo comune. Ma bisogna notare che se l’arte è indispensabile alla parte formale della lirica, altrettanto è indispensabile che l’impeto e l’intensità non siano cosa d’arte, ma siano davvero nell’intimo dell’animo del poeta. È la storia dell’orazione si vis me fiere ecc. Ora il Regaldi, e i parecchi e meritamente lodati poeti della sua maniera, non cantano perchè siano commossi, ma si commovono perchè cantano. Appena seggono sul tripode come la Pizia, sono invasi dal dio e l’onda de’ versi sonanti prorompe dal loro petto agitato. Questa sarà bella poesia, sarà anche lirica quanto alla forma, ma sarà sempre qualche cosa di artefatto, di voluto, che ripugna in fondo all’essenza della lirica. Si sente troppo l’attore, troppo l’eccitazione artificiale, troppo il rullo dei numeri che paion battere sempre la carica e il passo di corsa e fanno sospettare che appunto il rumore si faccia per stordire chi ascolta e chi canta. Allora le strofe ansano, si accavallano, si accaldano sempre più, ma il fragore è di parole, l’entusiasmo di alcool, e il pubblico, riscaldato un momento, finisce con l’accorgersi dell’artificio. Qui non si nota più quel che amore spira, ma si scambiano gli effetti di un afrodisiaco con l’amore, e si canta in conseguenza. L’eccitazione vien dal di fuori e mette in moto le facoltà poetiche dell’artista là dove dovrebbe prorompere dall’interno e stimolare invece le facoltà ad espandere fuori l’intimo fuoco. E la lirica è espansione, non assorbimento.
Per questo il Regaldi non mi par lirico insigne. Non si creda che o voglia sminuire in nulla i suoi meriti, che non furono pochi; solo mi preme di chiarire il concetto mio intorno ad un modo di poetare che ha seguaci ancora[217] e che vive ancora nelle nostre scuole, dove si impone ai discepoli di versificare un tema dato, di sentirlo e di riscaldarsene. Questa invece è piuttosto arte descrittiva, didascalica, che lirica. Così si fanno le georgiche, ma non le odi. Per questo il Regaldi riusciva meglio ad adornare un argomento a lui dato o da lui scelto, che ad esprimere impressioni o sentimenti intimi ed individuali.
La sua stessa prosa lo mostra. Dov’è nelle sue descrizioni e ne’ suoi racconti l’impressione sua, il segno del suo temperamento di scrittore? Egli narra, infiora, abbellisce, incanta, ma non è mai il sentire suo che scalda le pagine, è il sentire di tutti che appena le intiepidisce. Le immagini vive, gli squarci eloquenti vi abbarbagliano, ma dietro loro non c’è mai una persona; c’è soltanto un bravo scrittore. L’impronta personale, il segno dell’ugna possente che incide in un’opera il quia nominar leo, non c’è mai. L’arte ha ucciso l’artista.
Ma l’arte era in lui mirabile. Egli poteva descrivere la fusione di un cannone, i meccanismi complicati di un orologio con la più grande abbondanza di modi e di imagini, senza mai abbassare la tonalità della sua poesia, senza parer mai freddo o stentato.
Uno spettacolo naturale, un fatto meraviglioso, una cascata d’acqua o l’impresa dei Mille, non trovano in lui che le frasi usuali con cui si esprimono e descrivono di solito dalle persone colte, più l’adattamento alla forma poetica e l’impeto del parlare.
Ma le altre difficoltà invece lo eccitano, lo accendono e, conscio della propria forza, quasi le cerca e le vince. Sono tours de force, e il gusto felice dell’artista riesce a mascherare la faticosità dell’impresa. Le frondosità delle immagini e del verso coprono la miseria della sostanza e c’è sempre qualche cosa del teatrale in quei carmi. Le belle vedute sono dipinte magistralmente su carta di straccio, le armature scintillanti sono di cartone dorato, i capelli biondi e le guancie rosate sono parrucche e belletto.
Chi non lo crede abbia la pazienza di leggere se non altro i principii delle sue poesie. Vedrà che i processi più ordinari al Regaldi sono appunto i più teatrali, i più declamatorii: l’apostrofe e l’interrogazione. Salve, o materna terra lombarda ecc.—Salve, o poeta ecc.—Salve, o diletta sede natìa ecc.—E poi: Dove son le corone e gli scettri? ecc. Che mi rechi, errante nuvola? ecc.—Chi è colui che giù scende dal monte?—E poi: Garzoni e donzelle, cantate e sonate—Sorgi, Sesostri, lèvati—O gloriosa Modena, e via quasi sempre così. Aggiungendo che questa intonazione declamatoria non è solo ne’ capiversi,[218] ma dura sempre e per quasi tutte le poesie, così che si può dire l’unico segno della personalità, del temperamento dell’autore. Si batteva i fianchi, si spronava da sè stesso, si stordiva coi propri clamori. Gli stessi metri, decasillabi, quinari e senari accoppiati; le stesse strofe tumultuose ansanti e con lo scoppio del tronco in ultimo crescono questa sonorità artificiata, questa ebreità di furor sacro per cui al lettore par sempre di vedere il bardo sulla scena, sudante, convulso, ruggente davanti ad un pubblico che ha pagato per applaudire un fenomeno che è la great attraction del momento, come annunciano i manifesti.
E questo quarantottare poetico del Regaldi non era in lui barnumismo volgare, ma una seconda natura contratta per abito, come quella dell’adorazione fisica dell’eterno femminino rimastagli quando anche l’adorazione non giovava più a nulla. Egli era così, intendeva l’arte così, e sinceramente manifestava la sua fede. Ne è da credere che con questo si voglia esprimere un biasimo. Se oggi l’arte usa altri mezzi e va per altre vie a commuovere il pubblico, non vuol dire che i mezzi e le vie di prima, considerate nel loro tempo, nel momento storico della loro massima vitalità, fossero biasimevoli. Così a torto il quarantottismo è diventato termine irrisorio, quando io credo almeno che il prorompere di quegli entusiasmi debba essere se non altro invidiato, oggi che l’entusiasmo non lo conosciamo più nemmeno di vista.
E il Regaldi è rimasto sempre un po’ quarantottista ne’ suoi versi, che in cima all’albero genealogico hanno le romanze del Berchet. Il romanticismo si provava in lui di diventar liberale ed a ogni modo diventava unitario. Quei benedetti romantici erano troppo invischiati nelle teorie del Rosmini o del Gioberti per spingere le loro aspirazioni al di là dell’indipendenza dallo straniero, e se hanno dato nomi gloriosi al martirologio nazionale, furono subito oltrepassati negli intenti dalla generazione che li seguì. Rimasero sempre un po’ troppo per aria e quando ne scendevano non sapevano evitare il Salvotti o il Bolza. Comunque sia, il Regaldi, che fu liberale in pubblico, da giovane o da vecchio, che osò dire il nome d’Italia quando il dirlo era delitto, avrà forse, nelle sue peregrinazioni, recapitato qualche lettera pericolosa, ma non cospirò mai. Non c’era in lui la stoffa del martire. C’era però quella del galantuomo e, a questi chiari di luna, non è poco.
Del resto nell’età sua più valida, ebbe gli istinti del nomade e finì con l’essere attratto da quell’Oriente luminoso e sensuale che tornava ad ogni momento nei versi e nei discorsi suoi. Le sue lezioni di storia non trattavano che[219] dell’Egitto. Venerava Sesostri ed amava il kedive Ismail. Il suo temperamento sensuale si era appagato del clima e dei costumi egiziani, ed in questi suoi ultimi e dolorosi giorni aveva degli slanci di desiderio, delle malinconie e dei rimpianti amarissimi quando il suo luminoso Egitto gli porgeva occasione di discorso. L’occhio gli si accendeva delle fiamme giovanili, e la parola gli sgorgava calda e colorita dalle labbra. Tutto quel po’ di fuoco che era rimasto sotto la cenere degli anni e de’ guai, bruciava ancora, e non giurerei che i salmi recitati a’ piedi del suo letto di moribondo non l’abbiano indotto nell’ultima tentazione di poeta e di innamorato. In exitu Israel de Ægypto!
Come professore valeva poco. Non insegnava, ma era sempre in rappresentazione. I colleghi e gli scolari però rispettavano in lui il galantuomo. Non si reggeva più e si faceva trascinare a braccia sulla cattedra, scrupolosissimo com’era nell’adempimento de’ suoi doveri. Non credo che abbia mancato una volta ai suoi obblighi d’insegnante ed è rimasto in casa solo quando la paralisi l’ha fulminato.
Lascia un bel nome, lascia un dolore a quelli che lo conobbero. Morì povero, rispettato, onorato. Pace all’ultimo bardo!
Certo non si può dire che Giovanni Ruffini abbia sopravvissuto alla propria gloria, ma non si può nascondere che da parecchio tempo la memoria delle opere sue s’era un po’ indebolita. Non ricordo che, oltre un bell’articolo di Edmondo De Amicis, stampato cinque o sei anni sono, altri abbia parlato di lui con qualche ampiezza. Nessuno aveva addentato il nome e la fama del glorioso romanziere, ma appunto in questo consenso universale di lodi per l’uomo e per l’opera, la sua gloria s’era quasi addormentata. Una impertinenza, un latrato di qualche cagnuolo l’avrebbe desta, le avrebbe giovato: invece, chi la ridestò fu la morte. L’uomo s’addormì nel sonno che non ha risveglio, ma l’opera sua scosse il glorioso sudario in cui l’aveva avvolta la nostra indifferenza e tornò viva e bella nella memoria nostra.
Tornò viva, ma per pochi giorni. Cessati i compianti funerari, spenta l’eco de’ discorsi detti sulla bara e delle brevi linee necrologiche dei giornali, oramai s’è rifatto il silenzio di prima. I romanzi del Ruffini si leggono ancora, ma il genere dei lettori dà ragione del poco chiasso che si fa intorno al nome dell’autore. Quei libri infatti sono caduti nel dominio delle mamme assennate che pesano ed esaminano le letture concesse alle figlie. Libri politici prima, libri che erano battaglie ed avevano entusiasmato una generazione di combattenti, diventano ora miti e tranquilli romanzi, indicati contro i pericoli dell’adolescenza. Scomunicati prima, divengon ora libri di premio. Vengono in mente Le mie Prigioni del Pellico, che, dopo aver turbato i sonni dell’imperatore Francesco e del Metternich, ora fanno testo nelle scuole clericali.
Le passioni, infatti, le lotte di cinquant’anni addietro, sono entrate nel dominio della storia e non accendono più le discussioni contemporanee. Le persecuzioni di Carlo Felice non ci commuovono più di quelle di Silla, la sciocca e crudele reazione di Gregorio XVI non ci tocca più della ferocia infame di Papa Borgia. La contemporaneità storica per noi si spinge appena al di là del 1848, e i tempi anteriori non possiamo conoscerli più che sui libri, poichè chi ai tempi dell’elezione di Pio X era in età di portare il fucile, oggi ha passato i sessant’anni. Al di là del 1848 ci appare un’epoca eroica di sacrifizi e di persecuzioni che ci stupisce, ci costringe alla venerazione, ma che è fuori della nostra vita e delle nostre passioni. Come i cristiani, svolgiamo ammirati e pii il martirologio della nostra redenzione; ma, poichè la santa epopea è chiusa da un pezzo, sentiamo troppo bene che l’età è mutata, e spesso per intendere ci è forza ricorrere a criteri storici, ad eccitamenti dell’immaginazione. Così i libri polemici di quell’epoca, cessando di esser pericolosi ai persecutori, cessarono di esser ricercati dai perseguitati. Divennero innocui, ma non furon più vivi.
Chi sente oggi più tutta quella straziante poesia dell’esilio che ha fatto piangere una intera generazione di vittime? Chi potrebbe rifare oggi le roventi strofe del Berchet, oggi che non vi sono più esuli? Il poeta, col magistero dell’arte, può commuoverci ancora per le sventure di Praga, ma chi sa dire quali entusiasmi, terribili perchè repressi, dovettero destare que’ versi, ne’ quali oggi cerchiamo l’artista, mentre allora in quelle sventure ognuno trovava le sventure della patria? Noi non possiamo più sentire a quel modo, poichè il clima storico è mutato, ed a quei libri mancò l’ambiente nel quale erano stati concetti. Tanto è vero, che divennero innocue persino le invettive di Clarina, contro Carlo Alberto, precisamente come lo divennero i sofismi reazionari del De Maistre, così pericolosi al tempo della Ristorazione.
Ai romanzi politici del Ruffini mancò dunque molto, quando le idee, da cui derivarono, uscirono dalle catacombe per salire all’onor degli altari. I libri che si fondano sull’opportunità rovinano quando l’opportunità è scomparsa e solo si reggono se in loro v’ha tal potenza di arte o tale evidenza di realtà da renderli superiori alle necessità delle lotte d’un anno a d’un giorno.
Tutti i periodi, tutte le crisi del nostro rinnovamento hanno un’abbondante letteratura, della quale pochissime opere rimangono. Guardate il progressivo oblio in cui cadono le cose del Gioberti. Chi legge il Gesuita moderno, già venduto a ruba e letto con tanta avidità? Chi riapre[222] quei libri che furono pure il vangelo della rivoluzione del 48? Mancò loro l’arte, che è il sale che preserva dalla corruzione, e le teorie del fecondo abate rimangono solo nel cuore dei mille ed un prete mal spretati, che credono d’insegnare filosofia nei disgraziati Licei del Regno.
Ora l’arte del Ruffini, l’arte che il suo temperamento gli consentì, fu appunto quale era necessaria perchè i suoi libri, cessate le battaglie, divenissero appropriati all’adolescenza.
Intendiamoci. Non intendo di esprimere con questo un biasimo; tutt’altro. Rispetto profondamente tutto ciò che viene da una intenzione pura e si dirige alle intelligenze che sbocciano. Si può discutere di sistemi pedagogici ma sarebbe assurdo e ridicolo mettere in canzonella la pedagogia. Che anzi preferisco Fedro a Boezio, il Robinson Svizzero a Clarissa Harlowe, Giulio Verne a Saverio di Montépin. Dicendo dunque che i romanzi del Ruffini sono diventati dominio della letteratura per l’adolescenza, non pretendo di censurare, ma di constatare un fatto.
Il Ruffini, nato in quella gloriosa riviera cui la patria deve Mazzini e Garibaldi, deve aver avuto anch’egli la dolcezza di carattere quasi delicatamente femminea che distinse la vita intima dei due grandi che ho nominato. Una profonda bontà traspare nei suoi scritti, una bontà di cuore che dispone agli affetti miti, alla vita tranquilla e modesta. Si direbbe che la sua parte di cospiratore e di esiliato contrasti profondamente colla calma del suo temperamento, inclinato piuttosto alla sentimentalità che all’eroismo. I suoi libri, dove ora la pace polemica non ci colpisce più sono ben lontani dalle esagerazioni convulsionarie cui andò soggetta la letteratura politica del suo tempo. Chi lesse quei romanzi a quei tempi, di nascosto e col pericolo imminente della polizia e del carcere, dovette trovarvi certo quel che noi non sappiamo più vedervi, una energia, un’audacia grande. Il solo fatto dell’averli scritti era già una prova di forza, e le minime frasi, che a noi appaiono ora scolorite, dovettero a quell’epoca parere proteste sdegnose, colpi che passano da parte a parte. Ma a noi, che leggiamo senza passione, l’energia non appare più.
Basta ricordare il Guerrazzi per accorgersi subito della sentimentalità calma del Ruffini. Il Guerrazzi rugge come i contemporanei suoi. Le proteste, gli sdegni ora eloquenti, ora retorici, ora sublimi, ora affettati, si succedono in quelle pagine infocate, vero specchio dell’anima della gioventù di quel tempo. Ivi l’energia è cercata, spesso raggiunta, qualche volta troppo evidentemente artificiale: ma insomma il Guerrazzi è energico, e quando non lo è,[223] tenta di esserlo. Paragonate ora il Dott. Antonio alla Battaglia di Benevento. Il libro del livornese sì leva spesso più in alto che la forma di romanzo non comporti, diventa lirico, qualche volta anzi frugoniano. Il libro del Ruffini invece comincia calmo come un idillio e finisce sentimentalmente triste come una elegìa. La diversità dei temperamenti non può essere più spiccata. L’uno cerca nella storia i suoi argomenti, poichè la vita quotidiana e la società presente gli paion troppo umili e basse per le sue apostrofi eloquenti, pei suoi sdegni epici. L’altro non cerca e non tenta le altezze sublimi, e il suo tempo, la sua città gli paiono sufficienti all’altre; spesso il romanzo assume l’aspetto dell’autobiografia. Di più non ci vuole per convincersi della modestia, della bontà, della calma che distinguono il carattere artistico del Ruffini.
Senza dubbio, al fondo naturale dell’autore si aggiunge l’influenza inglese. La correttezza, la serietà esteriore, la misura spesso convenzionale che si adopera in tutto, anche nell’ilarità, valsero a calmare ogni effervescenza latina che per avventura fosse rimasta nel sangue dell’esule scrittore. Il Dott. Antonio è scritto sotto l’influenza della moda creata dagli epigoni di Walter Scott, e il romanzo, quantunque si riferisca ad avvenimenti che sarebbero accaduti nel 1840, altro non è in fondo che la riproduzione travestita del vecchio dato romantico: il paggio innamorato della castellana. Al vecchio sedimento di sensiblerie laghista si mesce un elemento più giovane e più caldo, la lotta per la patria: ma il fondo è sempre quello, e il nuovo elemento lo modifica, ma non lo trasforma. Si può seguirne attentamente la trama e si vedranno i personaggi tali e quali, e si troverà il castellano tiranno in sir John, il nemico in Aubrey, insomma tutto quell’ordito bell’e fatto, quella specie di maschere della commedia dell’arte romantica che vegeta ancora nei libretti d’opera, dove il tecnicismo impone la distribuzione delle parti e fissa anticipatamente i caratteri del soprano, del tenore e del basso.
Ammetto che le vibrazioni della corda patriottica coprono spesso il convenzionalismo delle vecchie cabalette. So benissimo che il libro insegna ad amar la patria ed a sagrificarsi per lei senza ostentazioni e ciarlatanerie, ma in riga d’arte ripeto che quel romanzo è più vecchio del suo tempo. Un giovane misterioso e perfetto salva una fanciulla melanconica e perfettissima. S’innamorano inutilmente, e la giovane muore poichè l’innamorato, combattendo per la patria, fu fatto prigioniero. È la vecchia tela, con la sola differenza che un romanziere più scapigliato avrebbe ammazzato tutti senza misericordia.
Confesso il vero che sembrerà eresia; quel che più mi piace nelle cose del Ruffini e tutto ciò che pare od è autobiografia. La parte veramente vissuta de’ suoi romanzi mi sembra la migliore. Per esempio, nella prima metà del Lorenzo Benoni, tutta quella descrizione della vita di collegio che riempie dodici capitoli mi pare ben altrimenti efficace e vera che non siano gli amori incompresi del Dottor Antonio. Chi per sua disgrazia passò l’infanzia sotto la ferula di abbatacci asini e malcreati in un collegio di preti, può attestare la verità di quel che dico. Tutti gli amori sono suscettivi di ridicolo fuori che l’amor materno, e nessun umorista, avesse pure il carattere bilioso e cattivo del Swift, osò mai di metterlo in caricatura. Ed è appunto quest’amore che manca alle povere vittime dei collegi, quest’amore la cui mancanza nell’infanzia si fa dolorosamente sentire poi per tutta la vita. In quei primi capitoli del Benoni si sente il dolore dell’assenza dell’affetto materno, quello strazio che fu narrato con più forza dal Dickens nel Copperfield e meglio ancora dalla Currer Bell in Jane Eyre; è narrato un martirio che vige ancora in Italia, dove le condizioni di molte famiglie possono render necessari i collegi, ma non mai quegli ergastoli del corpo e dell’anima che sono i convitti dei preti e dei frati. Lo dico per esperienza.
Certo a chi ebbe la fortuna di crescere nel nido della famiglia sotto le ali morbide della madre, quelle pagine parranno noiose. A me invece paiono le più belle che il Ruffini abbia scritto. Ne’ suoi libri si volle vedere l’autobiografia un po’ dappertutto, ma qui c’è senza dubbio; anzi tutto il Benoni è vissuto veramente, a differenza del Dottor Antonio, dove l’artificio logoro salta agli occhi. Nel Benoni dunque deve esser cercato non solo il Ruffini uomo, ma il Ruffini artista, poichè ivi soltanto si mostra senza l’artificiosità di una tecnica antiquata. E nel Benoni appunto spicca il suo temperamento artistico quale mi provai di definirlo.
Era dunque troppo naturale che quei romanzi onesti, tranquilli, pieni di bonarietà e di rettitudine, cessata che fosse la scomunica che pesava sulle aspirazioni patriottiche, dovessero diventare adattissimi all’adolescenza. Così, da un pubblico di cospiratori che aveva prima, il buon romanziere, si è trovato improvvisamente ad avere un pubblico di scolaretti. Eppure, il Benoni specialmente, non dovrebbe esser trascurato da quelli che vogliono farsi un idea esatta di quel che fosse la società italiana e piemontese al tempo di Carlo Felice. Il libro ha la sua importanza grande anche come contributo alla storia dei costumi e dei sentimenti di un’epoca e, per questo, verrà[225] il giorno della sua resurrezione. Intanto... habent sua fata libelli.
Il Ruffini è morto onorato e compianto a ragione.
Noi gli dobbiamo di aver fatto rispettare il nome italiano in terra straniera in tempi tristissimi, quando il nome nostro destava in Europa l’idea del pugnale e del tradimento. Egli fece onore alla patria: è giusto che la patria faccia onore anche a lui.
È morto Carlyle, scrittore o profondamente disprezzato o immensamente amato in Inghilterra; ma a ogni modo celeberrimo in patria e fuori, salvo in Italia, dove è forse affatto sconosciuto. Noi disgraziatamente o siamo ignoranti come zucche, o, se sappiamo qualche cosa, un pregiudizio classico ci vieta poi di conoscer bene le cose straniere; tutt’al più leggiamo i romanzi che fanno più rumore a Parigi o applaudiamo le commedie mal tradotte dal francese. E anche questo lo facciamo più per moda che per persuasione.
L’odio allo straniero, che ci condusse all’indipendenza, lo portammo anche nella letteratura. I puristi c’insegnarono a disprezzare quel che viene di fuori; e questo chauvinisme letterario miseramente orgoglioso, se può aver avuto un’azione buona sulle tendenze nazionali ed unitarie, se ebbe forza di salvarci almeno la italianità della lingua, ci lasciò tuttavia parecchi pregiudizi nelle ossa, e ci sono tuttavia moltissimi i quali si credono ancora ai tempi di Augusto quando solo in Italia si sapeva leggere e scrivere, o scherniscono amaramente tutto quello che viene dal settentrional vedovo sito, o, se dal settentrione ci vengono busse o capolavori, si consolano brontolando: «Gino, eravamo grandi—E là non eran nati». Bel gusto!
Intanto, ne’ licei e nelle università, una mandra di preti mal spretati imbottisce la testa dei ragazzi con tutte le vacuità della metafisica e dell’ontologia e scarica una foedissima ventris proluvies di teorie semicattoliche e di sistemi mal digeriti, rubando il tempo ai discepoli e le paghe allo Stato. Di quel che accade al di là de’ confini non si sa nulla in quei ritrovi che pretendono d’esser[227] scuole, o tutt’al più ci s’imparano le confutazioni barocche male imparate dai chiarissimi sulle traduzioni delle traduzioni. E poichè quelli che insegnano scienze meno imbecilli, poichè gli sperimentatori ed i veri scienziati dovettero pure studiare anche quel che fu studiato al di là dell’Alpi, le rozze arpie se ne dolgono e, ferite nella loro ignoranza, strillano ferocemente, vituperano tutto quello che non è italiano, scomunicano quel che non sanno e, non potendo far altro, vogliono che il loro odio ebete alla scienza straniera sembri patriottismo. Così una vergognosa schiera di ciarloni cento volte apostati e mille volte ignoranti si sforzano a mantener vivi i pregiudizi più meschini e dannosi alla coltura nazionale: così i giovani delle nostre scuole conoscono tutti i più cretini filosofastri del bel paese e non conoscono nemmeno per sentita a dire Schopenhauer, Bain od Hartmann: così in Italia pochi conoscono la storia di Federico II del Broglio e nessuno quella del Carlyle.
Oh, se invece di insegnare ai poveri martiri dei licei le teoriche dell’assoluto e, dopo Kant, le dimostrazioni dell’esistenza di Dio, si insegnasse loro a leggere e ad intendere le lingue straniere! Se invece di questi sistemi trascendentali che nascono e rinascono da Talete in qua, per essere confutati e distrutti il giorno dopo; se invece di tante scempiate inanità che entrano da un orecchio per uscire dall’altro, si mettessero i giovani in grado di studiare da loro se ne avranno voglia; se, invece di pretendere di fornire ai ragazzi il lavoro, bell’è fatto, si dessero loro invece gli strumenti per lavorare, non sarebbe meglio? Io mi rivolgo alla coscienza di tutti quelli che studiarono nei nostri licei e chieggo che mi dicano sinceramente a che giovò loro la metafisica imparata con tanta fatica? Dicano se non dimenticarono perfino la prima parola!
Tommaso Carlyle è morto; e quando i giornali hanno annunziato il caso, si può scommettere che quasi tutti coloro che uscirono dai licei e dalle università con diplomi, lodi e premi, si rivolsero la comica domanda di Don Abbondio: «Carneade? Chi era Carneade?»
Eppure in Inghilterra pochi nomi furono celebri come il suo; eppure in Germania e in Francia, egli fu conosciuto più che non siano da noi Ponson du Terrail o Fortunato di Boisgobey. Ma noi conosciamo troupe bene Rocambole o Monsieur Lecoq per conoscere il Sartor resartus e le Letture sugli eroi. Dicono che nel Sartor resartus egli si ricordò molto di Gian Paolo Ritcher; ma chi era costui? Era l’autore del Titan e del Levana; un altro Carneade[228] che fuori di qui è stimato un gigante: ma noi abbiamo studiato troppo la metafisica per saperlo.
Del resto, se Tomaso Carlyle fosse nato in Italia, o sarebbe rimasto sempre nel suo villaggio a far l’agricoltore come il padre, o, se avesse osato di scrivere come scrisse, l’avrebbero stimato matto e magari canzonato come un Tito Livio Cianchettini mal riuscito. Poichè in lui c’era qualche cosa di apocalittico che scattava fuori da uno strano miscuglio di puritanismo scozzese, di democratismo francese, di misticismo tedesco. Se non nella Vita di Federico II, certo nelle altre sue opere lo stile è spesso oscuro, spesso eccitato, quasi isterico, e qualche volta, in interi periodi che mancano del verbo, in parentesi interminabili, tra le apostrofi, le allegorie, le prosopopee, saltano fuori incomprensibili astrazioni miste di truisms volgarissimi ed eloquenti. Guai a lui se fosse stato italiano, colla sua moltitudine di barbarismi, di neologismi e di solecismi! Il suo nome sarebbe rimasto nelle scuole a perpetuo esempio, come alla gogna, insieme ai nomi dell’Achillini e del Preti che sono proposti al vituperio dei discepoli dai maestri che non lesserò mai nè i sonetti dell’uno, nè i madrigali dell’altro. Un Carlyle italiano non si può immaginare.
E perchè? Perchè noi cerchiamo piuttosto la correzione che l’originalità, mentre in Inghilterra an excentric man è sempre il bene arrivato. Rabelais, Swift, Gian Paolo Richter non potrebbero avere scritto qui, dove l’umorismo si ferma ad una parodia letteraria—La Secchia rapita, dove l’imitazione fu sempre il canone più osservato della stilistica, dove dopo il Petrarca vengono centomila petrarchisti che riempiono un secolo intero, dove l’Arcadia può fondare una colonia per ogni città con leggi fisse di poetica e i voti monastici della povertà, della castità e della obbedienza. Non biasimo; constato solo un fatto innegabile; noto solo che, Dante in fuori, gli ingegni profondamente originali da noi si contano sulle dita e che le innovazioni letterarie del Trecento in qua sono piuttosto formali che altro. Galileo, ingegno tanto singolare nella scienza ed innovatore grandissimo, nelle cose letterarie abborre l’originalità e scomunica il Tasso che gli pare troppo rivoluzionario. Il nuovo ci fa sempre paura e, ieri ancora, l’abate Zanella inorridiva nella Nuova Antologia pei tentativi di introdurre nuovi metri nella prosodia italiana, poichè, secondo lui, ne riceverebbe detrimento la nostra lingua poetica. Per chi nol sapesse, questa intangibile lingua poetica è quella degli antichi, o dei moderni che parlano ancora come il Petrarca; consiste nel chiamar lampa una lanterna, salma il corpo e lira la chitarra.[229] Ora, se le piccole novità di forma, se quasi minime differenze verbali mettono in pensiero gli uomini còlti e d’ingegno, immaginiamoci che spavento farebbe l’originalità ardita e sprezzante di uno scrittore come Carlyle. Fuori di qui, perchè l’originalità sia tollerata e applaudita, ci vuole molto ingegno, direi quasi genio; ma da noi forse non basterebbe.
Nel Sartor resartus domina una curiosa figura, quella del dottor Teufelsdreck (la lingua poetica non può aiutarmi, bisogna ricorrere al latino: il nome del dottore significa excrementum diaboli), dipinta con un humor stravagante, ma pieno d’estro nella satira e che si mantiene tale e quale sino in fondo al libro. Si può non convenire col Carlyle, che nel suo puritanismo ha degli slanci di entusiasmo religioso più da sacerdote che da laico. Da giovane era stato tirato su per lo stato ecclesiastico, e poichè il detto Semel abbas semper abbas è una verità sacrosanta, così di quando in quando sotto allo scrittore troviamo il predicatore. Per esempio, il Sartor resartus, che può parere, a chi non bada, una bizzarria satirica senza tesi, non è invece che lo sviluppo della massima di Fichte, che tutte le cose nell’universo visibile, noi stessi e gli uomini tutti, non siamo che una specie di veste sotto la quale si nasconde la realtà assoluta; che l’universo intero non è che una delle forme dell’eterno spirito di Dio; che il tempo e lo spazio sono soltanto modi dei nostri sensi imperfetti, così che il dove e il quando, benchè in apparenza inseparabili dal nostro pensiero, non aderiscono altro che superficialmente al pensiero stesso; che noi dobbiamo concepire Dio come abitante un quid universale, un adesso perpetuo, e considerare la natura come la veste ch’egli porta per rendersi visibile agli occhi nostri. Vedete un po’ che razza di sogni possono sognare questi fuchi dell’intelligenza, i filosofi trascendentali!
Or bene, questo era il sistema filosofico del Carlyle. Secondo lui i fenomeni della nostra vita sociale, gli aspetti esterni, le modalità di questo mondo non sono che vesti dello spirito umano, utili e convenienti fin che servono, ma che si logorano presto e debbono essere gettati. Per un puritano è già un sistema assai libero e che, lasciando intatto l’assoluto, rende possibile nella pratica l’evoluzione delle idee e della morale, staccandosi affatto dall’ortodossia vecchia sulla immobilità eterna delle leggi del bene e del male. Su questo dato filosofico ricamò curiosamente il Carlyle, e gli strani commentari e le riflessioni bizzarre del dottor Teufelsdreck non fanno perdere di vista l’idea fondamentale del libro. Questa inimitabile figura di un solitario filosofo tedesco, dicono i signori Elia Régnault[230] e Ulisse Barot, colla sua immensa erudizione, le sue stravaganti avventure, lo stoicismo sublime che lo fa volare a cento miglia in alto sopra questo mondo, la bontà inalterabile, la pietà, il coraggio, la lingua mezzo mistica e mezzo plebea, è una trovata, uno dei tipi più curiosi che si conoscano. Ed è vero. Benchè il Teufelsdreck ricordi un po’ troppo il dottor Schopp del Titan di Gian Paolo, è una delle figure più bizzarre e indimenticabili della letteratura contemporanea.
«I nostri maestri, dice Teufelsdreck, erano insopportabili pedanti che non conoscevano affatto la natura umana e peggio quella dei bambini; insomma non conoscevano altro che i loro dizionari e i libri dei conti trimestrali.»
«Ci schiacciavano sotto il peso d’innumerevoli parole morte, e questo lo chiamavano sviluppare lo spirito della gioventù. Come mai un mulino da gerundi, inanimato, automatico, il compasso del quale sarà fabbricato di qui ad un secolo a Norimberga con del legno e del cuoio, come mai potrebbe aiutare lo sviluppo di qualche cosa, tanto più dello spirito, che non cresce come una pianta, ma che si sviluppa pel misterioso contatto dello spirito? Come mai potrà dare luce e fiamma colui, l’anima del quale è un focolare spento, pieno di ceneri agghiacciate? I professori d’Hinter-Schalg (me ne duole per la ingua poetica, ma hinterschalg vuol dire sculacciata) conoscevano benissimo la sintassi; e quanto all’anima umana, sapevano solo che c’era in lei una facoltà chiamata memoria che poteva essere sviluppata flagellando con un nerbo i tessuti muscolari e l’epidermide».
Il nervo di bue come stimolo alla memoria non costuma più; ma dei professori d’Hinter-Schlag che conoscono bene la sintassi e poco i loro discepoli, ce ne sono ancora. Anzi ce ne sono di quelli che non conoscono nemmeno il loro tempo, o, se lo conoscono, vorrebbero farlo tornare addietro. Il Carlyle attribuisce al suo Teufelsdreck, apostolo della fede trascendentale, le opinioni più incredibili espresse colla massima gravità, dedotte logicamente dalla sua filosofia della veste, illustrate dagli esempi più grotteschi ed espresse in un linguaggio caricatura di quello dei professori di filosofia tedeschi. Eppure, sotto la scorza dell’eroicomico, circola la linfa della verità. Certe pitture sono ridicole, ma vere oggi come verso il 1830, epoca della apparizione del Sartor resartus. Le amare satire alla società inglese d’allora conservano ancora tutto il loro sale, come quelle di Giovenale e di Persio, e la posterità senza dubbio confermerà il soprannome di great censor of age che i contemporanei decretarono al Carlyle.
Ma il Sartor resartus non può essere tradotto e meno poi inteso in italiano: meglio sarebbe, per dare un’idea dell’ingegno strano e grande del Carlyle, tradurre la Storia della rivoluzione francese, specie di poema epico in prosa che o ripugna o seduce, secondo i gusti, ma che non può essere confuso tra le cose noiose e mediocri. È vero che gli Inglesi, i quali stentano alle volte a capire il Carlyle nell’originale, hanno sentenziato ch’egli è intraducibile; ma se non la fisonomia intera e precisa dello stranissimo scrittore, pure una sua immagine abbastanza viva si potrebbe riprodurre, e ne varrebbe la pena.
Ma, pur troppo, se studiamo ci tocca di studiar metafisica, o se traduciamo ci tocca di tradurre Ponson du Terrail. Pazienza. «Gino, eravamo grandi.—E là non eran nati». Consoliamoci con questo.
Il senatore Giovanni Arrivabene, non ha guari morto e degnamente compianto da tutti gli italiani che amano il loro paese, non ebbe una di quelle parti principali nelle vicende contemporanee che fanno popolare un nome e immortale una fama. Non ebbe la fortuna e forse l’ingegno necessario per essere Cavour, Azeglio o Ricasoli; ma la vita modestamente operosa, l’animo buono, i patimenti sofferti e la venerabile età, lo fecero tuttavia uno de’ personaggi più rispettabili e rispettati del nuovo regno. Con lui si è spento forse l’ultimo testimonio ed attore delle dolorose avventure del 1821; l’ultima vittima del Salvotti.
L’Arrivabene lascia un volume di memorie edite dal Barbèra, e si è detto che alla sua morte il secondo volume era compiuto. La parte che conosciamo è appunto quella che ha maggiore importanza pel tempo e per le cose operate dall’autore. Ma, pur troppo, l’Arrivabene s’indusse tardissimo a scriverle, credo più che novantenne; e per quanto l’età grave gli concedesse salute e chiarezza di mente, pure in quel libro c’è qualche cosa di tardo, di arido e di confuso, che ne rende poco piacevole e poco utile la lettura. Il coro delle lodi intonato all’epoca della pubblicazione fu tanto favorevole, che per poco non parve che assistessimo alla nascita del Messia. Pareva che l’archetipo delle autobiografie fosse venuto al mondo.
La simpatia universale che circondava il venerando autore chiuse gli occhi alla critica. Forse parve crudeltà dire il vero ad un ottimo vegliardo, quasi secolare, ed amareggiarlo con severi giudizi. Ora che la morte sciolse i superstiti dal dovere dei riguardi, nulla può vietare di dire che quelle memorie riescirono troppo inferiori alla[233] aspettazione e non rivelarono nulla di nuovo intorno ad un periodo storico che ha appunto grande ed urgente bisogno di rivelazioni.
Tutta quella matassa arruffata delle cospirazioni italiani del 1821 attende ancora uno storico che la dipani e la completi. Gli archivi di stato aspettano ancora chi li frughi con questo proposito, e non conosciamo ancora bene chi negli strazi della repressione fu forte, debole o traditore. Le Mie Prigioni del Pellico aspettano ben altre Addizioni che quelle di Piero Maroncelli.
L’Arrivabene stesso, che nelle sue memorie fu tanto parco di notizie e sorvolò quasi su quell’importante periodo storico cui assistette e nel quale ebbe gran parte, altre volte, non così abbassato dalla vecchiaia, aveva parlato chiaro e portato un curioso contributo di rivelazioni alla storia dei suoi tempi. Nessuno forse ricorda più un opuscolo da lui fatto stampare presso l’Unione Tipografica di Torino nel 1860 col titolo:—Intorno ad un’epoca della mia vita.—Ivi si trova accennato quel che si desidera invano di vedere sviluppato nelle memorie, e se il giudizio non paresse pretenzioso, si potrebbe dire che quel libretto è forse quel che di più importante ha scritto l’amico di Confalonieri e del Pellico.
Quando Napoleone nel 1805 costituì il regno d’Italia l’Arrivabene aveva diciott’anni. Nove ne durò il regno, ed anche quelli che in quell’epoca avevano atteso più a divertirsi che a lavorare, alla restaurazione si sentirono come colpiti da una immeritata mortificazione e cominciarono a prendere a cuore le faccende italiane. La tradizione unitaria, che si può seguire nella storia delle lettere, come ha fatto il D’Ancona, scende allora nel dominio delle masse e lascia i campi della speculazione e della poesia per entrare in quelli della pratica. Quella larva di regno italico, foggiato alla francese e puntellato dalle baionette straniere, cadde al primo urto appena i puntelli mancarono; ma le masse avevano capito: e da quel giorno i governi, forestieri o indigeni, che dividevano la penisola, non ebbero più bene. Si può pur dire che il regno italico è il babbo vero del presente regno d’Italia.
L’Arrivabene, giovane e spensierato, fu scosso e mortificato anch’egli. Non ci voleva altro che questo per farne un liberale, e l’Arrivabene diventò liberale convinto e deciso, più per forza degli avvenimenti che dei ragionamenti. Così fu tratto all’amicizia del Confalonieri, del Pellico, del Berchet, del Pecchio, degli Ugoni, e di Giovita Scalvini, e di tutti coloro che rappresentavano l’opposizione liberale al governo austriaco. Il Borsieri, il[234] Porro, il Breme, il Mompiani, accrebbero presto il novero degli amici suoi.
Il povero Pellico pagò ben caro il diritto di abiurare, e quanto sono disgraziati i tentativi di riabilitarlo, altrettanto sarebbero ingenerosi quelli di vituperarlo. La giustizia ormai è fatta, e chi l’ha fatta piena e completa è la setta clericale, rivendicando interamente per sè quel che restò del cantore di Francesca dopo il martirio dello Spielberg. Ma ciò non toglie il diritto della storia di riprendere in esame i famosi processi di Stato; ciò non toglie che appunto per una imprudente parola del saluzzese, il povero Arrivabene subisse la prima prigionia. Absit iniuria, ma la verità è questa.
Nel 1820 alla Zaita, villa dell’Arrivabene presso Mantova, erano il Porro coi suoi figli e il loro istitutore, Silvio Pellico. In un giorno d’autunno Porro e i figli erano in giardino, e l’Arrivabene col Pellico, seduti sopra un sofà, parlavano dell’Italia e del modo di rigenerarla. Tutto ad un tratto il Pellico esclamò:—Per rigenerare l’Italia ci vogliono delle società segrete; bisogna farsi carbonaro;—e l’Arrivabene rispose:—Sarebbe pazzia. La legge condanna a morte i carbonari, e poi si può giovare alla Italia senza immischiarsi nelle sette.—Il dialogo fu interrotto e non più ripreso. Il Pellico imprigionato narrò il colloquio, e l’Arrivabene fu subito arrestato e condotto nelle carceri di Murano, dove faticò per sei mesi a difender la testa dal Salvotti. Se in quel colloquio fosse stata detta una parola di più, anche l’Arrivabene sarebbe andato allo Spielberg.
Libero, cominciò a capire dove i discorsi imprudenti potevano condurre. Si ricordò che, poco prima dello scoppio della rivoluzione in Piemonte, aveva parlato col Pecchio, col Borsieri, col Bossi e col Castiglia. Aveva parlato sulle generali, perchè nessuno sapeva niente di preciso. Si disse che sarebbe stato bene preparare i quadri della guardia nazionale. Si misero innanzi nomi per una possibile giunta di governo, si parlò di un possibile proclama da sottoscriversi dal Confalonieri, e nient’altro. Un po’ più tardi prestò mille lire per le faccende del Piemonte, e la sua collaborazione alle congiure ed ai moti del 1821 finì lì; ma, dopo l’esempio avuto, capì d’essere in pericolo. Una sera, in un caffè di Mantova, seppe che Borsieri e Mompiani erano arrestati. Vide il pericolo imminente e deliberò di fuggire.
Questa fuga è diventata leggendaria, tanto che ha preso sino posto tra le evasioni celebri, con quelle del Cellini, del Latude, del barone di Trenck, del Casanova, dell’Orsini e d’altri. L’Arrivabene la narra minutamente e non[235] è qui il caso di ripeterla, per quanto gli episodi curiosi possano tentare. Tutti sanno che i fuggitivi, arrivati di notte ad Edolo, trovarono nella cucina dell’osteria le uniformi dei gendarmi poste ad asciugare; tutti sanno che per poco non furono arrestati al confine di Tirano. Ma alcune pitture, alcuni squarci che riguardano il primo processo sono meno noti ed altrettanto interessanti.
Quando si leggono le Addizioni del Maroncelli o le Memorie dell’Andryane vien fatto d’immaginare il Salvotti come una iena travestita da uomo, bollata dalla natura con quei connotati che Leonardo diede al Giuda della sua cena. Ma il Salvotti, ci dice l’Arrivabene, era bello della persona, aveva occhi nerissimi, nera e folta capigliatura. Andava elegantemente vestito con abito nero e calzoni di seta nera. Lo vedete voi il Salvotti damerino? Che stranissima cosa! Eppure non c’è da dubitare. L’Arrivabene lo vide e lo esaminò più da vicino che non avrebbe voluto.
Di tutto si potrà accusare l’Arrivabene, severo economista e filantropo, fuorchè di peccati di poesia. Eppure nei caldi tramonti della laguna, nella melanconia profonda e silenziosa del carcere, soffrì anch’egli di quella nevrosi di cervello che, chi può, traduce in versi, e che gli antichi attribuivano alle ispirazioni di un Dio. Trentanove anni dopo, raccontando le impressioni di quelle sere, l’economista ritrova parole di verità, dipinge meglio che un letterato di professione: «A sera, dondolandomi sopra una sedia, tenendo gli occhi fissi alla chiesa di Murano, dorata dai raggi del sole cadente, od ai lontani monti o al più lontano cielo, riandavo col pensiero le cose scritte nel giorno e recitavo, non senza qualche lagrima, i passi che il cuore più che la mente aveva dettati. Improvvisavo certi versi sulla mia presente fortuna e li cantavo su vecchie arie o su cantilene inventate da me al momento stesso. Passavano barchette piene di contadini che ritornavano dalla città, i quali tutti, sempre, cantavano una loro monotona ma non disaggradevole canzone:
Che bel cappel, Marianna,
Che bel cappel, Marianna.
Appariva talvolta in lontananza una barca da cui usciva e mi giungeva sull’acqua una mesta ed armonica cantilena: erano cannonieri boemi i quali venivano sulla laguna a cantare le canzoni della patria. Tutto ciò cagionava al mio cuore solitario emozioni ad un tempo melanconiche e care». Non è mal detto, e sopratutto è sentito.[236] Ricorda, senza intenzione, il Sant’Ambrogio del Giusti. Il luogo e l’ora ispiravano poesia al prigioniero.
È inutile; noi non possiamo farci nemmeno una lontana idea di quei tempi dolorosi, nei quali una parola imprudente poteva costare il martirio, nei quali l’Imperatore, che si dava del clementissimo da sè, intendeva soltanto di aver fatti attenti i suoi sudditi sui mali della setta e di averne illuminate le menti colla sovrana notificazione 29 Agosto 1820, nella quale si comminava la pena di morte da eseguirsi colla forca, non solo a coloro che facessero parte della setta, ma anche a quelli che sapendolo non li denunziassero. Gli antichi padri della Chiesa hanno detto che il sangue dei martiri fu la semenza de’ cristiani, e questo è stato vero anche per l’Italia e la sua fede. Ma ciò non toglie che il povero seminarista non rimanga sbalordito conoscendo la costanza dei confessori della fede di Cristo nei tormenti, e che noi, meschini epigoni, non rimaniamo ammirati e compresi di affettuosa venerazione pei confessori d’Italia, per le vittime del Salvotti, per gli straziati delle fortezze boeme.
Giovanni Arrivabene, ricco di censo, c’era dato a buone opere civili. Le scuole lancasteriane, da lui istituite a Mantova, parevano una invenzione del liberalismo, e questa fu la causa dei sospetti che gli si addensarono sopra per risolversi in una malvagia persecuzione al primo pretesto. Queste sue buone intenzioni gli valsero la prigione e quarantacinque anni d’esilio. Davvero, quando egli è mancato, possiamo dire che è mancato l’ultimo di coloro che cominciarono ad affermare la nuova Italia col pericolo del capo e la certezza della persecuzione più crudele.
Sono dunque giusti i compianti della intera nazione alla sua morte; è dovuto il lutto. Si dice che i mantovani innalzeranno un monumento al loro illustre concittadino. L’iscrizione è fatta, e si deve al consigliere aulico Della Porta ed al signor A. De Rosmini, presidente l’uno, segretario l’altro della I. R. Commissione speciale di prima istanza, che sentenziava così in Milano il 21 gennaio 1824:
«Sugli atti dell’inquisizione criminale costrutti dalla Commissione speciale di Milano pel delitto d’alto tradimento: ecc.
«Il Cesareo regio Senato Lombardo-Veneto del supremo tribunale di giustizia residente in Verona ecc., ha dichiarato:
«Essere i detenuti Federico conte Confalonieri ed Alessandro Filippo Andryane, non che i contumaci Giuseppe Pecchio, Giuseppe Vismara, Giacomo Filippo de Meester-Haydel, Costantino Mantovani, Benigno marchese Bossi,[237] Giuseppe marchese Arconati-Visconti, Carlo cavaliere Pisani-Dossi, Filippo nobile Ugoni, Giovanni conte Arrivabene, e gli altri detenuti Pietro Borsieri di Kanifeld, Giorgio marchese Pallavicini, Gaetano Castiglia, Andrea Tonelli e Francesco barone Arese, rei del delitto d’alto tradimento, e li ha condannati alla pena di morte da eseguirsi colla forca.»
Chi non invidierà l’Arrivabene? Chi non gli invidierà più che la lunga ed onorata vita, i patimenti durati e l’onore di una simile lapide sepolcrale?
Il rispetto dovuto ai patimenti sofferti per la patria, e sofferti se non fortemente, almeno dignitosamente, vietò che delle cose di Silvio Pellico si dèsse un giudizio senza passione. Pareva sacrilegio di parlare senza lode delle opere scritte da quella stessa mano che portò le catene dello Spielberg, e finchè i pochi versi all’Italia che si trovano nella Francesca, furono proibiti, parvero sublimi. Nove decimi della fama del Pellico sono dovuti allo stato dell’ambiente in cui le sue opere si produssero, non al valore intrinseco delle opere stesse. Mutata la stagione, le opere apparvero veramente quali erano, povere, fiacche ed insipide. Il silenzio si è fatto, e nel gran fiume dell’oblio soprannuotano appena Le mie prigioni come libro di premio per le scuole cattoliche, e la Francesca, come vittima disgraziata dei centomila filodrammatici italiani.
Una prova palpabile di questo si ha nell’epistolario intimo del Pellico, stampato in due volumi da un tal prete Durando presso il Guigoni di Milano nel 1879. Gli epistolari degli uomini illustri, in Italia specialmente, vanno a ruba. Chi trovasse una lettera nuova del Leopardi si reputerebbe fortunato, e l’anno scorso fu menato grande scalpore persino di quella cantica giovanile sull’Appressamento della morte, cui non valsero a torre buon successo le note bislacche e la comica introduzione. Fino gli epistolari de’ mediocri sono cercati ghiottamente, ed ebbero il loro momento di voga anche le lettere male isteriche dell’Aleardi. Ma dell’epistolario del Pellico chi tenne parola? Ci svela tutto il cuore e tutta l’anima di chi lo scrisse, e il mondo passò, senza degnarlo d’uno sguardo. Tanto il nome di Silvio Pellico è diventato indifferente se non antipatico.
E certo, se questo epistolario fosse stato letto altrove che nei seminari, l’antipatia che desta il Pellico, sia nelle opere che nel carattere, sarebbe cresciuta. Lo stesso prete Durando ce lo presenta come modello ai giovani di pietà e divozione profonda, e davvero c’è da confonderlo con un libro divoto: nè pare che le Filotee godano oggi le simpatie del pubblico che sa leggere. Chi può resistere e vincere la ripugnanza di tutto quel dolciume gesuitico, di quella religiosità smascolinata, giunge ad aver pietà di un povero uomo cui i patimenti troncarono più che i nervi, ma ogni fibra di virilità. È doloroso il vedere uno di quelli che furono santificati da lunga e gloriosa sventura, rinnegar quasi la causa per cui sofferse, adagiarsi nel profondo avvilimento di un cristianesimo superstizioso e cadere in tanta fiacchezza d’animo da rallegrarsi come di un beneficio di Dio per una domesticità concessa come elemosina da una dama caritatevole. Farsi agnelli nell’ovile di Dio, sta bene; lasciarsi tagliar la lana senza belare, passi; ma non bisognerebbe poi lasciarsi tagliare altro!
Così l’epistolario proposto come assai superiore agli altri usciti in questi anni per nobiltà dì sentimenti religiosi, è degno del silenzio che lo accolse. Di quella roba ce n’è della meglio, anche nell’ambito della letteratura da seminari. Che anzi ne’ seminari stessi sarebbe tenuta nel dovuto conto, se i superiori non stimassero inutile il presentare un modello di ravvedimento più che un modello di letteratura. Pare a loro che quello del Pellico sia un grande esempio da proporsi a quelli che per caso si ricordassero di avere una patria, e ripetono le parole di Silvio pentito e contrito che grida: «Ho veduto troppo da vicino il male, per consentire che abbia a chiamarsi bene».
A questo era ridotto quel Silvio che aveva pur tenuto le chiavi dell’anima sdegnosa di Ugo Foscolo. Il santo amore per cui aveva portati i ferri del galeotto, per lui era diventato il male; la fede nuova aveva soffocato la vecchia, ed egli faceva ammenda del suo glorioso passato per tutti i confessionali di Torino.
Non bisogna irritarsene, ma compassionare.
La condanna del Pellico e l’aureola che quindi giustamente meritò (poichè è inutile ripescare a chi egli possa aver nociuto ne’ suoi esami, come traspare dalle Memorie dell’Arrivabene) furono uno dei più strani errori dell’Austria nel suo dominio tra noi. Il direttore di polizia nel suo barbaro italiano scriveva: «Tanto il Pellico quanto il Maroncelli erano marcati per le relazioni loro colle persone notate, per la loro animadversione al sistema dominante in queste provincie, ma nessuno riconobbe mai in[240] essi che due scioli, capaci a sostenere con qualche eloquenza le opinioni loro letterarie, ma giammai atti ad un’impresa qualunque».
Il Pellico, dopo le prime prove del carcere, scriveva al Salvotti: «Sono sette mesi che gemo dolorosamente sul mio fallo... Mi abbandono ai miei giudici». L’uomo era già domato e divenuto innocuo. Egli era maturo per passare dalla domesticità carbonare del Porro a quella gesuitica della marchesa di Barolo. Come l’acuto Salvotti non se ne avvide?
Forse nocque a Silvio l’esser letterato, l’appartenere cioè a quella classe di persone che dal governo d’allora era temutissima; e di più l’esser romantico, poichè lo stesso Pellico aveva scritto al Marchisio: «A Torino come nelle nostre città per dire un liberale si dice un romantico: non si fa più differenza alcuna. E classico è diventato sinonimo d’ultra, di spia e d’inquisitore». Forse così Silvio pagava per tutto il Conciliatore, egli che era il meno solvibile della compagnia. Forse gli pesarono sopra i versi patriottici della Francesca, che al Foscolo parvero da gettare al fuoco: al Foscolo che, all’Italia mia del dolce Silvio, aveva risposto cogli sdegnosi versi della Ricciarda: Amor d’Italia? A basso intento è velo—Spesso ecc. Basso intento non era nel Pellico, poichè tale non può esser detto il desiderio della facile fama; ma l’italianismo classico di Ugo e l’italianismo romantico di Silvio meritano riflessione. Ambedue conducono alla sventura, esilio o carcere; ma se nel Pellico è più grave la sventura, nel Foscolo è più seria la convinzione.
Il Pellico, anima dolce e ingenua, s’era dato al romanticismo ed al carbonarismo sotto la influenza dell’ambiente in cui viveva. Gli uomini del Conciliatore lo ascrissero alla loro chiesa, ed egli, nella foga giovanile, divenne caldissimo credente. Ma, senza dubbio, quando egli si gettò in quell’avventura non misurò le proprie forze per sapere se bastassero ai pericoli. Andò avanti storditamente, ingenuamente: ma quando il Salvotti stese le unghie sopra di lui, fu spaventato e fu vinto subito. La sua imprudenza fu meno pericolosa di quella di Giorgio Pallavicino: eppure capì che non avrebbe potuto indurre il Pellico a disonorevoli confessioni, ma non capì (e questo è strano) che il Pellico era già ravveduto e non più pericoloso.
Dopo pochi mesi di carcere, non solo Silvio non avrebbe più potuto tentare il viaggio di Mantova e la conversione dell’Arrivabene, ma colla mano ancora tremante dallo spavento non avrebbe potuto più riprendere la penna con cui scrisse la Francesca e l’Eufemio. Non avrebbe abiurato[241] in pubblico, ma di dentro l’abiura era già fatta. Egli era già degno della pensione che Carlo Alberto gli largì quando non attendeva ancora il suo astro.
Oramai la fama del Pellico non vive che per le Prigioni. Il suo miglior libro, come quello di tutti gli scrittori, fu il libro vissuto; ma egli certamente quando lo scrisse, non ne conobbe tutta l’importanza. Non voleva mostrare altro che si può essere religioso senza servilità, come egli scrisse al fratello Luigi nel 1832, e non era suo intento l’intenerire l’Europa sulle sciagure degli italiani condannati. Lo strale passò il segno cui egli lo aveva diretto, tanto che l’Austria sembra aver officiato la Curia Romana per la condanna del volume.
Che Le mie prigioni non siano scritte con un intento politico, ma religioso, è troppo chiaro perchè bisogni dimostrarlo. Bastano le disapprovazioni di Silvio alle Addizioni del Maroncelli, e il poetizzamento contrario al vero della povera Zanze. Le Addizioni provano che il Pellico attenuò la verità, specialmente per quel che riguarda i confessori dei condannati allo Spielberg; e l’ultimo volume delle Memorie d’oltre tomba dello Châteaubriand ci mostra la vera Zanze. Lo stesso illustre visconte, parzialissimo del Pellico e unito con lui negli intenti religiosi, dopo aver riportato uno sgrammaticato e furibondo scritto della Zanze che ingiuria Silvio e lo accusa di menzogna, non può tenersi dal dire: «Io ritengo dunque che la Zanze delle Mie prigioni sia la Zanze secondo le Muse, e quella di questa apologia la Zanze secondo la storia». Ora le attenuazioni e gli abbellimenti essendo fatti chiaramente in pro di una tesi devota, si vede che tale era la tesi del libro. Che se invece le Prigioni ebbero un effetto politico, lo ebbero a malgrado dell’autore.
Tutto a quei tempi poteva parere un’arma contro ai dominatori, e quando il portare la barba era un segno di ribellione, ci voleva poco a trovare nel libro del Pellico l’intenzione di descrivere i martirii de’ patrioti ad incitamento e ad esempio. Ma è tanto vero che ciò fu fatto lontanissimo da’ suoi propositi, che il libro, come ripeto, è caduto nel lago gelato della letteratura pei seminari, mentre le strofe del Berchet suo contemporaneo ed amico, strofe dove davvero c’era un intento patrio, non muoiono e non morranno.
La fama del Pellico venne appunto di là dove egli non la voleva. Il libro durò finchè a dispetto dell’autore fu rivoluzionario. Quando divenne quel che Silvio aveva voluto, una dimostrazione dell’efficacia della divozione nell’alleggerire[242] i mali, cominciò a declinare. Una fama così artificiale ha durato più del credibile in causa delle sventure, pur troppo vere, che afflissero il povero Silvio: ma di mano in mano che i tempi eroici delle nostre rivoluzioni si allontanano, quella fama impallidisce e sfuma, poichè le manca il sale dell’arte, quel sale che conserva i libri dalla distruzione e dall’oblio.
Infatti, oramai si può dire senza incorrere nella taccia di presunzione, il Pellico non fu mai poeta, ma appena un triste versificatore; di rado si innalzò fino alla mediocrità. Ebbe un momento di ispirazione a’ tempi del suo carbonarismo annacquato, allorchè il calorico dell’ambiente in cui viveva scaldò il suo frigido ingegno fino all’eretismo retorico della Francesca; ma fu un lampo. Egli non capì nemmeno quale fosse la nota che trascina all’applauso in quella tragedia, e immediatamente dopo si diede alla esagerazione della maniera. I due ultimi atti dell’Eufemio da Messina, pensati e scritti poco dopo alla Francesca, non sono che la esagerazione dell’eretismo artificiale in cui aveva creduto di trovare il segreto del buon successo; non sono che un cumulo di atrocità grottesche e paralitiche, che parvero eccessive alla stessa polizia austriaca che non aveva il cuore tenero in quell’età dell’oro della tragedia, quando Atreo, Medea e Tieste non parevano troppo feroci al pubblico milanese del teatro Re. Il resto delle tragedie di Silvio non mostra che la miseria profonda del suo ingegno, e il povero Maroncelli dovette bene aver la trave dell’amicizia nell’occhio quando lo proclamò il primo drammaturgo d’Italia. Il tempo, del resto, ha fatto giustizia dura ma completa. Non c’è bisogno di prove per capacitarsi della supina mediocrità delle sorelle di Francesca. Chi non sorride a metà del Tommaso Moro? Chi non sonnecchia alla fine?
Che il Pellico non fosse poeta, lo provano ad esuberanza le Cantiche, efflorescenze disgraziate di un romanticismo ridicolo. Il romanticismo, come tutte le cose di questo mondo, ebbe la sua ragione d’essere, così come azione che come reazione. Ma è bravo chi può capire il perchè del romanticismo delle Cantiche! Servirsene come mezzo era giusto; tenerlo come fine è ridicolo. Ad ogni apparire di scucia letteraria, ci sono questi poveri di spirito che cambiano l’istrumento col lavoro da fare, che credono fine della ribellione artistica il cingere la spada per pavoneggiarsene e non per servirsene. Ora il Pellico fu appunto di quelli che nel romanticismo non videro altro che la moda, la superficialità del vestito e del gergo. Cantò trovatori e castelli, perchè prima si cantavano eroi e templi: vestì i suoi cavalieri di elmetti e pose mano al liuto senza saperne[243] il perchè, come prima gli ultimi classici vestivano di clamide i protagonisti e sonavano la lira invocando gli Dei cui non credevano. Fu questo veramente il peccato originale dei romantici italiani, per i quali i libri dello Schlegel rimasero suggellati. Ma nel Carmagnola e nell’Adelchi c’è un po’ più che la moda romantica; e mentre il Manzoni ammazzava il vecchio classicismo convenzionale e bugiardo a profitto di un cristianesimo che non è più il cattolicismo, sapeva almeno quel che faceva e perchè. Ma chi sa dire per qual ragione il Pellico faccia cantare noiosamente i suoi trovatori sulle rovine dei castelli e ci mostri perpetuamente un medio evo inventato e falso, la tradizione letteraria del quale non è ancora scomparsa dalla nostra letteratura, specialmente drammatica? Gli mancò il giudizio per capire la ridicolezza de’ suoi trovatori: gli mancò l’ingegno per farli almeno cantar bene.
E le liriche?... No, non conviene nemmeno ricordarle.
Per mostrare quanto siano al disotto della più meschina mediocrità, basterebbe portar qualche brano di certe ridicole sbrodolature bigotte. Ma solo il trascriverle parrebbe mancanza di rispetto.
Lasciamole nel limbo dove dormono il sonno sempiterno.
Povero Pellico! Chi più sventurato di lui? In vita soffrì il martirio, e dopo la morte gli manca quella stessa fama della quale era vano più che non paresse.
Che terribile giudice, il tempo!
Gli epistolari degli uomini celebri sono sempre stati cercati e letti avidamente, ma le Lettere famigliari del Pellico, pubblicate dal Durando nell’anno scorso a Milano, presso il Guigoni, chi le ha lette? E davvero non è da meravigliare se la pubblicazione fu accolta con qualche lode dai giornali cattolici, senza però riuscire a farsi posto tra le cose importanti o soltanto curiose, venute fuori in questi ultimi tempi. L’epistolario è edificante, ma seccante. Non è in fondo che una collezione di giaculatorie, di pie aspirazioni, di bigotterie piccine piccine da far dormire in piedi. Così doveva finire l’autore della Francesca!
Anche come arma, come libro di predicazione cattolica, vai poco. Vuoto, insipido catalogo di tutte le messe ascoltate e delle indulgenze lucrate, non solo non convertirà nessuno, ma allontanerà qualche animo delicato da una conversione di quel genere. Anche una persona d’ingegno può credere ad un tratto, ma non può cadere in una divozione così volgare, così cretina, sotto pena di non essere più un uomo d’ingegno, ma un’oca. E i catecumeni che conservano appunto un po’ d’ingegno, non possono a meno di vacillare, fosse pure per un momento, davanti ad un esempio così sconfortante. La fede del Châteaubriand può tentare qualcuno, ma la fede del Pellico, la fede gozzuta dei pifferari irragionevoli tenterà pochi. Per questo ci pare che, anche come libro cattolico, l’epistolario del Pellico, sia sbagliato.
A metà d’agosto del 1845, Silvio Pellico parte da Torino per Roma. Arrivato ad Alessandria vuoi mangiare di magro, ma monsignore Arnaldi non glielo permette. A Genova alloggia dai gesuiti, ed arrivando ha la fortuna di trovare una messa pronta e di poter fare le sue divozioni.[245] Ecco le sue prime impressioni di viaggio. A Civitavecchia è ricevuto dal console del suo paese e si loda dell’accoglienza perchè il console è amico devoto dei gesuiti. A Roma è ricevuto a braccia aperte al Gesù, ed egli va in estasi davanti ai riverendi esclamando che gode vedendoli e poi che sono tanto buoni! Il padre generale gli ispira rispetto e simpatia, e non può saziarsi di guardarlo e d’ascoltarlo. È un santo! È così nobilmente afflitto quando parla del Gioberti e degli altri che giudicano i gesuiti con malevolenza! Il cuore del padre generale è tutto carità! Ecco le prime impressioni di un artista, di un poeta a Roma! I padri sono già tutti amici suoi ed al Gesù ci sono molte messe!
Non c’è più nulla che gonfi un cuore avvizzito, inaridito da una religione che insegna ad odiare il mondo ed a rinunciare alla ragione ed alla volontà. Il Pellico si sbriga con due righe della basilica di San Pietro, per narrare poi con grandissima compiacenza la visita alle sette chiese che sta per fare col fratello gesuita, e la squisita bontà del padre generale che mette una carrozza a sua disposizione. Egli sorride di coloro i quali sospettano che sia venuto a Roma per farsi gesuita, ed ha ragione. Perchè si sarebbe fatto egli gesuita? Non lo era già abbastanza? Ai furbi padri bastava di avere l’anima sua; il corpo era troppo debole per servire a qualche cosa e non lo vollero. Avevano spremuto il succo dell’arancia e non sapevano che fare della buccia.
Quel po’ di fregola artistica che aveva scaldato già il mediocre versificatore, si è agghiacciata nella superstizione. Egli scrive alla sorella: «Tu mi credi occupato intorno alle antichità di Roma ed alle rovine. Niente affatto. Ho ammirato all’ingrosso, ho ammirato con piacere, sono contento d’aver visto quel che ho visto, ma dopo aver saziato la curiosità, la sola predilezione che mi sia rimasta è per le chiese. Oh! una chiesa! un altare! la certezza che Dio ama il culto che gli rendiamo! ecco quel che val meglio di tutte le curiosità antiche e moderne!» Ecco, non abbiamo intenzione di mancar di rispetto al povero Pellico, ma questo ci pare proprio un caso di rammollimento cerebrale.
Ma in tutta questa bigotteria miserabile non c’è un momento di lucido intervallo? Proprio il Pellico che soffrì per aver amato l’Italia è morto tutto, e non è sopravvissuto che il gesuita frigido, il torzone di dura cervice? Ahimè sì! Sentite in che modo spicciativo narra da Roma alla sorella i casi di Romagna: «Nella cittaduzza di Rimini c’è stata una rivoluzione passeggera. Alcuni malcontenti si erano impadroniti del governo, de’ quattrini e delle armi.[246] Il papa mandò alcuni soldati e i malcontenti scapparono: ora tutto è tranquillo». L’ordine regna a Varsavia! C’è da credere che l’abbiano messo allo Spielberg per sbaglio.
Ma c’è un momento in cui il pover uomo si sente in vena, ed è quando descrive alla sorella l’udienza accordatagli dal papa: «Non temere per la salute mia, egli esclama, non temere! Ho la benedizione di un venerabile pontefice che ha 81 anni! Oh che degno ed amabile Santo Padre!» Era Gregoriaccio, il beone che passerà alla immortalità nelle satire del Belli! Il Pellico ne rimane incantato! e riceve divotamente le medagliuzze benedette colla superstiziosa fede di un cafone qualunque; e in un giorno di festa, egli che non visita i musei perchè si stanca, e in quello del Vaticano, dove gli tocca di andare per forza, nota solo che di quando in quando potè mettersi a sedere, egli segue divotamente una lunga processione, innamorato del «santo vecchio che seduto sul suo venerabile trono dà continuamente la sua benedizione», e sta attento perchè quella benedizione tocchi anche a lui.
Papa Gregorio solo a Roma ha la virtù di infondergli un po’ d’entusiasmo. Lo cerca, lo segue in San Pietro colla ansiosa ostinatezza di un innamorato e gli pare non essere mai stato benedetto abbastanza. Del suo romanticismo non gli resta che quel tanto che basti a mettere in canzonella i poveri Arcadi che cercavano di fargli buona accoglienza e di onorarlo quanto potevano. In carnevale dai balconi del Corso piange sulla vanità delle cose umane, compiange i poveri cavalli che corrono barbaramente spronati, ma non sa nemmeno se qualche povero diavolo sia cascato e morto sotto la furia dei corridori. In Trastevere la sua carrozza travolge un bambino che fortunatamente non si fa nulla e, poichè il vetturino è arrestato, egli non ha che un sol pensiero che lo turbi, quello di dover tornare a casa alla meglio. Ma trova un altro cocchiere, ed egli ritorna tranquillo, tanto più che il cardinale Lambruschini fa liberare subito l’arrestato, e la marchesa di Barolo fa quello che avrebbe dovuto fare lui, ciò s’informa della salute del bimbo e gli manda qualche denaro. L’amore è esclusivo, e l’amore di papa Gregorio gli empieva il cuore tanto, che non ci restava posto nemmeno per la pietà.
L’ultima lettera del Pellico a Roma finisce cogli entusiasmi delle funzioni della settimana santa; ed appena giunto a Torino alla notizia della elezione di Pio IX al pontificato, si rallegra pensando che il nuovo papa fu soldato, e crede che Gregorio in cielo abbia ottenuto così buona scelta.
A questo stato di cecità, di insensibilità, di debolezza mentale era giunto il povero Silvio. Nulla di generoso e di forte sopravviveva in lui, e la compagnia di Gesù lo aveva accuratamente potato. In questa sua miseria egli non scrisse più un verso che possa rimanere, una riga che possa giovare. La sventura gli velò l’intelligenza, gli corruppe il cuore, gli tolse la ragione. Le sue impressioni romane sono tali e quali le avrebbe potuto provare un cappuccino qualunque, un novizio corto di testa.
Anche questa rovina la dobbiamo ai gesuiti che non ringrazieremo mai abbastanza.
È un libro troppo importante quello che uscì or ora con questo titolo dalla tipografia Barbèra, per passare senza ricordarlo. Importante per la storia italiana, poichè vi si ritrovano lettere di quasi tutti gli uomini principali che presero parte ai moti italiani, e nelle lettere, scritte senza il sospetto della pubblicità, si ritrova nudo e vero il carattere degli scrittori.
Antonio Panizzi, affigliato alla carboneria, dovette esulare dagli stati modenesi dopo i moti del 1821 e nel 1823 fu condannato a morte in contumacia. Rifugiato in Inghilterra, campò in principio insegnando la lingua italiana, quindi, entrato negli impieghi, salì al grado insigne di bibliotecario del museo britannico. Sino dal primo giorno del suo arrivo si diede ad aiutare i compagni di sventura, e quando fu arrivato agli onori e fu in contatto ed amicizia con gli uomini di Stato, diventò l’avvocato influente degli interessi italiani presso il governo inglese. Se fosse rimasto in Italia sarebbe morto all’apice della carriera di bibliotecario con quattromila lire l’anno, lorde dalla ricchezza mobile. In Inghilterra fu pensionato con trentacinquemila; e così s’intende come le Biblioteche ed i bibliotecari siano presso di noi quel che sono.
La prima lettera è di Santorre Santa Rosa, del giorno 5 settembre 1823; e l’ultima di Luigi Crisostomo Ferrucci, nel 1870. In mezzo troviamo Amari, Arrivabene, Azeglio, Berchet, Bertani, Cavour, Farini, Foscolo, Garibaldi, Mazzini, Medici, Minghetti, Orsini, Poerio, Ricasoli, Scialoia, Sclopis, Settembrini, Spaventa, Ugoni ed altri; nomi tutti di capitale importanza nella storia italiana di questo secolo. Troviamo l’uomo d’azione accanto al cospiratore, l’ingenua suffisance del Massari che si dichiara altamente impensierito[249] degli affari dei principati danubiani, accanto all’attività del Bertani che cerca di far scappar Settembrini dall’ergastolo di Santo Stefano. Le lettere del Mazzini stanno accanto a quelle di Massimo d’Azeglio, il quale nella sua corrispondenza col Rendu chiamava addirittura birbante il cospiratore genovese. Par quasi che la sorte abbia voluto fare una satira.
Le lettere di Ugo Foscolo non ci mostrano un aspetto nuovo della sua vita, ma riguardano però quel disgraziato periodo del quale ci restano minori memorie, il periodo delle traversie finanziarie e delle lotte pel pane quotidiano che afflissero gli ultimi anni della sua vita. Giorni angosciosi ne’ quali l’illustre scrittore di tante opere lodate era costretto a combattere co’ librai, cogli editori, coi copisti e cogli invidiosi, nascondendo il proprio domicilio agli uscieri ed ai creditori. Il Panizzi godeva la fiducia del sospettoso poeta, e nelle lettere che riceveva dal Foscolo troviamo un cumulo di confidenze e di sfoghi veramente singolari. L’editore Pickering è trattato da mascalzone, e le lodi che ne fa Carlo di Borbone duchino di Lucca nelle sue lettere sentimentali non gioveranno ad assolverlo. I progetti del povero poeta pullulano in queste lettere, ma disgraziatamente per noi, la grande edizione del Dante, l’Iliade, i tre romanzi, le lettere ai Greci ed altre opere immaginate, non uscirono dallo stato di progetto. Il Foscolo morì nella miseria, non sappiamo quanto godrebbe dell’esser sepolto in Santa Croce per opera di certi uomini, in mezzo ad una nazione tanto diversa da quella che egli sognò.
Bizzarre sono le lettere del conte Linati, uno di quegli esuli avventurosi che combattono e lavorano senza posa, pieni sempre di un ardore giovanile che non conosce ostacoli o scoraggiamenti. Condottiero in Spagna, confinato in Francia, colono al Messico, egli è sempre eguale a sè stesso, ardito, instancabile. Il Pecchio, maligno biografo del Foscolo, ci si mostra pure in queste pagine sempre pieno di buone intenzioni, sempre ostinato a lavorare per la libertà del suo paese. Ed invero queste lettere degli esuli o dei cospiratori fino al 1859 sono le più vive, sono quelle che ci colpiscono, ci interessano di più. Tutta una storia di dolori sparpagliata qua e là per l’Europa, si concentra in queste lettere, e i poveri esuli sembrano essersi dati convegno in queste pagine per dirci l’ultima loro parola. È una generazione estinta che rivive, sono i morti che si levano dai sepolcri lontani per dirci le loro speranze e gli spasimi loro. Val meglio questo libro che le pompose Notti romane del Verri, dove i vecchi quiriti evocati artificiosamente dai sacri colombari parlano un[250] gergo oratorio e filosofico senza sincerità e senza verisimiglianza. Qui i morti gloriosi parlano colla loro voce, senza affettazione alcuna, e ci dicono la verità del cuor loro, e ci danno i loro giudizi giusti ed i falsi proprio come sgorgavano dalla coscienza.
È un libro senza retorica.
Poichè non è retorica quella del Medici che da aiutante di Garibaldi passò poi ad aiutante del re, là dove parlando della dimissione del generale nel 1859 nell’Emilia ci dice che Garibaldi avrebbe fatto un popolo leone ed altri farà un popolo pecora. Ci sembrano curiose rivelazioni le seguenti:
«Garibaldi significa resistenza, Fanti rassegnazione. Il Re fu un momento per darsi a Garibaldi e già aveva scritto a Fanti di dimettersi; ma quarantott’ore dopo era Fanti che doveva fare perchè Garibaldi si dimettesse.
«Ei lo fece in modo meschino, perchè essendo Garibaldi a Rimini colle divisioni Mezzacapo e Rosselli pronto a passare il Rubicone (nota bene, d’accordo con Fanti ed altri) qualora fosse scoppiata insurrezione nelle Marche, si trovò ad un tratto senza comando per aver il Fanti segretamente ordinato a Mezzacapo e Rosselli di non muovere un soldato se prima non ricevevano ordini da lui direttamente. Garibaldi, offeso per il toltogli comando, ma più ancora per il modo subdolo, se ne andò a chiedere spiegazioni al Re, il quale, fattagli la solita amorevole accoglienza e deplorando l’accaduto, le difficoltà in cui si trovava con cinquantamila francesi in casa, coll’esercito in via di lenta riorganizzazione, minacce dell’imperatore se si facesse un sol passo fuori dalle righe ecc., lo consigliava a ritirarsi regalandogli il proprio fucile da caccia ed offrendogli il grado di generale nell’esercito sardo. Garibaldi accettò il fucile e rifiutò il generalato». Ohè, dico! come la mettiamo? Si potrebbe conoscere un po’ più chiaro questo episodio tenebroso dei governi dell’Italia centrale e delle influenze esercitatevi da Cavour e da Rattazzi? C’è il caso che Massimo d’Azeglio avesse ragione quando diceva chiaro e tondo che in tutte le faccende del 1859 e 1860 mancò l’onestà? D’Azeglio fu quel che volete; fu il primo a gridare che Roma era retorica, ma fu almeno galantuomo e non nascose mai nessuno de’ suoi sentimenti. Questo galantuomo giudicò come tutti sanno la politica di Cavour; come va dunque che il biasimatore e il biasimato sono oggi tutti e due sullo stesso altare ed incensati dallo stesso incenso? Non parliamo di quel che riguarda la lettera del Medici, perchè allora Cavour dormiva sotto la tenda; ma il resto?
Le lettere del Bertani e quelle del Settembrini sono un[251] prezioso complemento della biografia di quest’ultimo. Tutta quella parte che riguarda la progettata fuga ha qualche cosa del romanzo, e davvero tutti questi episodi di prigione, di fughe, di condanne e di esilii, che cominciano dalla narrazione di Silvio Pellico per passare da quelle di Felice Orsini sino alle Memorie del Settembrini, sono una parte della letteratura nostra che non ha nulla da invidiare alle più celebri autobiografie straniere, con questo di giunta che i principii pei quali soffrirono sono anche i nostri e quindi ci colpiscono profondamente. Lo stesso libro del quale parliamo rientra in questo ciclo letterario, anzi lo completa e lo illustra.
Veramente è da far voti che simili materiali per la nostra storia crescano, si stampino e si ristampino. A leggerli, ci guadagnano tutti, e ne abbiamo bisogno.
Vorrei andare all’esposizione di Milano; ma poichè per farlo ci vogliono dei quattrini, m’ingegno e traduco per l’editore Zanichelli le lettere del Mérimée al Panizzi; e per fare la debita réclame all’editore, annuncio che il primo volume verrà alla luce nei primi del mese prossimo.
Sono lettere curiosissime. Il Mérimée, che visse nell’intimità della famiglia imperiale ed era in caso di conoscere bene tutti i segreti che il volgo dei cortigiani ignora, scrivendo all’amico suo Panizzi con tutta confidenza, con quell’estro francese che, come certe salse, fa trovar buoni anche i cibi che non lo sono, e parla della storia contemporanea nel modo con cui l’intendevano i pezzi grossi del secondo impero.
Una cosa però mi ha colpito. Il Mérimée era un artista di gusto finissimo, e Colomba, il Teatro di Clara Gazul, le novelle squisite, piccole e preziose come gioielli, ne fanno fede. Ebbene, quando parla e giudica dalle cose che accadono, non è altro che un filisteo e parla come uno di quei droghieri che egli disprezza superbamente. È un droghiere volterriano che motteggia sul papa, sui cardinali e sulla Madonna, ed ha una paura convulsa e biliosa di tutto quello che da vicino o da lontano rassomiglia alla rivoluzione.
Tutto gli fa paura, e Garibaldi lo spaventa orribilmente. Ogni passo del generale eccita i nervi del povero borghese mal diventato artista, che prorompe in ingiurie che il povero traduttore sua malgrado deve pur lasciare tali e quali.
È un buon chauvin ed anche un po’ gascon. L’esercito francese è per lui invincibile come Achille, e l’imperatore[253] il migliore dei generali possibili ed impossibili; ma il più lontano pericolo di guerra gli dà i brividi, come se avesse un negozio di candele esposte ai ribassi della piazza; e mentre fa eccellenti augurii per l’unità, l’indipendenza e la libertà d’Italia, si raccomanda con le mani in croce e per l’amor di Dio, che si stia bonini, che non si faccia rumore, che si lasci stare ogni cosa per paura che la Francia si trovi impegnata in una nuova guerra. Il papa e la Chiesa eccitano i suoi frizzi irriverenti; ma quando egli spera che cessi l’occupazione di Roma, non lo spera tanto per veder crollare la baracca pontificia, quanto perchè cessi un pericolo di complicazioni possibili.
E negli stessi frizzi contro al pontefice c’è un poco quella ostentazione d’irreligiosità, che sembra piuttosto venire da una smania di parere uno spirito forte e bizzarro, che dalla intima convinzione. Il Mérimée morì improvvisamente, ma se fosse morto adagio adagio potrebbe anche darsi che fosse spirato con tutti i conforti della religione e il prete al capezzale.
In fondo non c’è altro che quell’epicureismo piccino e pauroso che distingue gli scrittori imperialisti da quelli dell’opposizione. Anzi, due soli furono gli scrittori del secondo impero che aderirono alla fortuna dei napoleonidi: il Mérimée ed il Sainte-Beuve, senatori ed epicurei tutti e due, irreligiosi e conservatori tutti e due. Il Mérimée, più delicato nei suoi gusti, è anche un po’ più ristretto nelle idee; il Sainte-Beuve, più grossolano nel vivere e nel godere, è più critico invece, e meno nicchio nella vita intellettuale. L’uno ama i piccoli e delicati godimenti, le novelle di poche pagine finissimamente lavorate, il frizzo di poche parole che sfiora la pelle ma non ferisce; l’altro invece si tuffa nei piaceri volgari, in una intera appendice, cercando prove, confronti, testimonianze. Artisti tutti e due, epicurei, borghesi, imperialisti, volterriani, sono le uniche glorie letterarie che il secondo impero possa vantare; e le vanta forse soltanto per questo, che dall’epicureismo al cinismo c’è poca strada, e quando si trovano dei caratteri tali, non ci vuol molto a tirarseli dietro.
Comunque sia, il Mérimée non cessa di essere un artista eccellente, ed uno dei più arguti scrittori di questo tempo, anche in queste lettere, buttate giù spessissimo in tanta fretta che ricordano la scucitura di un discorso famigliare fatto accanto al fuoco con un bicchiere di buon vino accanto. È che il Mérimée, se aveva il carattere da borghese, aveva però l’ingegno d’artista; e l’ingegno molte volte nelle cose scritte riesce a velare il carattere, come talvolta nella vita riesce a modificarlo. S’aggiunga poi,[254] che quel volterianismo tra lo scettico e il cinico, e quella tendenza frondéuse che un po’ più un po’ meno hanno nel sangue tutti i francesi, qualche volta lo muovono a certe aspirazioni di indipendenza, a una specie di opposizione contenuta, curiosissime a notarsi.
Del resto, sotto il governo personale ed assoluto di Napoleone III, questi scatti di opposizione erano inevitabili anche nei più profondamente affezionati alla dinastia. In verità si soffocava: solo quando non si poteva tirare il fiato, si dava la colpa ai ministri, come se essi non fossero altro che gli strumenti ciechi nelle mani di Cesare. Il quale tanto voleva assorbire tutto nella sua volontà, che il congegno stabilito di governo non gli bastava, ed aveva bisogno di un’azione personale e secreta al di fuori dei modi ufficiali, ed aveva una polizia ed una diplomazia fuori del governo. Lo testimoniano queste lettere, che spesso sono dispacci diplomatici di Napoleone a Gladstone passati per gli intermediarii Mérimée e Panizzi. E il Mérimée per amore alla dinastia che lo beneficava, e il Panizzi per amore antico alla causa italiana, si prestavano volentieri a questo ufficio, non dirò di portalettere, ma di portaidee.
Certo non è come un epistolario scritto in senso democratico. Tutt’altro! La democrazia e gli uomini suoi principali vi sono trattati come cani. Ma le ingiurie di un morto non feriscono più, ed il guadagno che fa la storia contemporanea in queste pubblicazioni è tanto grande, che ci sarebbe piuttosto da augurarsi che piovessero fitte più che non facciano i romanzi scimuniti che imbestialiscono i lettori delle appendici de’ giornali.
Chi approva, alzi la mano.
L’epistolario non potrebbe essere più curioso o come si dice, interessante.
Il Mérimée aveva conosciuto intimamente la contessa di Montijo e, si può dire, tenuto sulle ginocchia quella Eugenia di Teba che fu poi l’imperatrice dei francesi. Era rimasta quindi una profonda affezione tra il senatore e la sua sovrana; affezione reverente da parte del senatore, e graziosamente protettrice da parte della sovrana. E il Mérimée era invitato alle feste più pompose come alle più intime, accarezzato, onorato quanto mai si possa essere in Corte.
Se i suoi istinti borghesi lo facevano l’uomo più conservatore e pauroso dell’impero, l’educazione artistica gli dava una certa scioltezza, e tra un accesso di paura e l’altro lo vediamo spettatore freddo e relatore arguto delle piccole tempeste della famiglia imperiale.
L’imperatrice a Biarritz si mette in capo di girare attorno alla Spagna col suo yacht l’Aigle, e il Mérimée è subito preso dalla tremarella pensando che il viaggio può far nascere disordini a Cadice od a Siviglia. La paura gli dà coraggio, ed eccolo tentare di dissuadere la sovrana con tutti gli argomenti più cornuti che sia possibile, discutere e perorare, lo dice egli stesso, con vivacità maggiore che il rispetto non comporti. Passato l’accesso, torna scettico e finissimo osservatore, seccato della Corte e dei cocodés che la compongono, smanioso di libertà e di argutissime barzellette che qualche volta giungono fino al trono. Strana contraddizione tra l’istinto e l’educazione!
E l’importanza di queste relazioni su quel che accadeva dietro le scene del teatro imperiale, cresce se si pone mente[256] ai piccoli pettegolezzi che nascondono spesso un segreto poco bello. Napoleone III, lo dice lo stesso Mérimée, amava troppo le donne e troppo si lasciava guidare da loro. Lasciando quel che a tutti è noto della influenza dell’imperatrice sulle più importanti quistioni del tempo e sulle decisioni più gravi del governo francese, troviamo per esempio in questo epistolario il segreto della fortuna politica del Walewski, fortuna così superiore ai suoi meriti. E il segreto sta nella compiacenza della signora Walewski pel capo dello Stato.
Il velo delle iniziali e dei puntini col quale gli editori vollero coprire le narrazioni del Mérimée, è troppo trasparente; il senatore, l’intimo amico della imperatrice, lascia trapelare il suo odio e il suo disprezzo per simili azioni, e narra con compiacenza un aneddoto sboccato, una insolenza triviale detta da un maresciallo alla compiacente ministressa.
Davvero pare che in Corte si stesse un po’ troppo allegri, poichè quel Mérimée che narra di aver preso parte, nel dì della festa dell’imperatrice, ad una sciarada un po’ troppo scollacciata, si lagna poi che i padroni di casa lascino fare un po’ più di quel che richieda il decoro perchè i giovani si divertano. Ho letto, non so dove, che una signorina d’illustre famiglia, dovendo recitare sul teatrino di Corte, diceva: «La commedia è noiosa, ma noi mostreremo le gambe e si divertiranno». E questa frase dipinge a pennello la Corte del secondo impero, dove l’arbiter elegantiarum era quel duca di Morny eccellentissimo in tutti i vizi e tutte le birberie.
Questo epistolario rincara la dose e chiuderà la bocca ai postumi campioni del vizio elegante e del regno delle sottane troppo corte.
Certo la polemica clandestina di quei tempi esagerò le cose e volle far parere un Tiberio o un Nerone colui che non aveva nè le grandi qualità nè i grandi vizi di quei successori di Cesare.
Il muto imperatore nascondeva spesso, sotto un’apparente concentrazione di pensiero, sotto uno studio di serietà silenziosa, una vacuità di mente che negli ultimi tempi non era più un mistero per nessuno. Lungi dalle robuste galanterie di Vittorio Emanuele che poco più chiedeva all’altro sesso delle soddisfazioni fisiche, l’imperatore nervoso, debole, floscio, cadeva facilmente sotto l’impero delle donne. Gli amori di Vittorio Emanuele avranno fatto, tutt’al più, nominare qualche impiegatuccio o qualche usciere; ma gli amori di Napoleone III facevano nominare i ministri. Quando Luigi XIV cadde sotto il dominio[257] delle donne, il gran regno volse a precipitosa rovina.
Non già che io creda che la donna in genere abbia una triste influenza sulla politica. Credo invece che le donne viziose, che arrivano a dominare appunto in causa dei vizi, siano la rovina delle rovine per gli Stati. Confesso di non essere stitico in simili cose, ma credo fermamente che le bagasce, o siano plebee come la Dubarry, o divote come la Maintenon, o nobili come la Montespan, avrebbero a esser bollate colla loro brava patente. Rivediamo pure le leggi sulla prostituzione, ma anche contro queste eccellentissime signore.
Un punto curioso dell’epistolario è là dove il Mérimée (nel secondo volume) descrive le cordiali accoglienze fatte in corte al Bismarck, le simpatie che ei seppe destare, tanto che tutti e lo stesso Mérimée lo ammiravano e lo amavano. A poco a poco, nelle seguenti lettere, l’entusiasmo si raffredda e finisce coll’odio cieco del 1870. Allora tutte le illusioni del secondo impero spariscono dolorosamente. La dinastia, il governo, l’esercito, tutto quel che brillava il dì prima di tanta luce, si spegne ad un tratto, lasciando un odore non grato come un fuoco artificiale. E artificiale era tutto, fino l’entusiasmo! Proprio quello fu l’impero della bugia.
Venne l’espiazione, poi la redenzione. Quante cose vedemmo noi e quante ne vedranno i nostri figli!
Non è una monografia estesa ed analitica quella che il signor Carlo Cinelli ha stampato in Pesaro presso il Federici, intorno al Collenuccio: ma piuttosto un compendio, dove sono specialmente curate le cose che riguardano la storia cittadina. Tuttavia non mancano le notizie importanti ed i documenti nuovi o rarissimi, che sono oggi indispensabili a chi vuole scrivere di storia. La smania dell’inedito si è impadronita di tutti gli scrittori e, a dir vero, non si saprebbero trovare ragioni per biasimarla, visto i vantaggi grandi che ha fruttato ne’ campi della storia; e per questo il Cinelli rovistò nella biblioteca Oliveriana pesarese, negli archivi bolognesi, estensi, fiorentini e veneti ed altrove: del che gli va tenuto buon conto.
Se c’è un argomento che possa tentare uno dei mille scrittori di monografie moderni, certo è la vita del Collenuccio, che dal 1444 al 1504 fu mescolato alle agitazioni italiane come uomo politico, e fu in contatto cogli illustri del Rinascimento come letterato. Egli appartenne a quella generazione piena di attività febbrile, che un frenologo avrebbe giudicata sviluppatissima nell’organo della combattività. Nel secolo XV tutti combattono, ed i letterati stessi furono dal Nisard battezzati gladiatori letterari. Quel che i condottieri fanno, lo fanno anche gli umanisti; e lo Sforza, Braccio da Montone, Gattamelata e il resto portano per le campagne italiane le violenze, le brutalità che il Valla, il Filelfo, il Poggio portavano nelle dispute letterarie. L’umanista pare che prima di trovare un argomento cercasse un nemico, proprio come il condottiero cercava un paese dove si combattesse.
Eppure quanta vitalità in questa era di battaglia! Sembra che l’energia, compressa nel medio evo dalla religione e dalla barbarie, si sfoghi ad un tratto e scoppi violenta dappertutto. La cerchia del piccolo comune chiusa agli estranei si allarga, ed i signorotti preludono alla formazione di maggiori Stati. La cerchia delle piccole cognizioni scolastiche è infranta, e la sete insaziabile di sapere spinge gli umanisti a tentare nuove vie, a imparare, idiomi nuovi, a cercare in Platone un avversario ad Aristotele, nel paganesimo dei costumi e della coltura una consolazione alle frigidità, alle tirannie di un cattolicismo secco, intollerante, oppressivo. La coltura avidamente cercata minaccia l’ortodossia che regna per l’ignoranza, e non è lontano il tempo che la chiesa dovrà respingerla da sè come velenosa e lasciarla emigrare con Erasmo o maledirla con gli Etienne, per martirizzarla poi in Galileo o bruciarla in Giordano Bruno. Nasce un nuovo ordine di cose.
Ma il Collenuccio se appartiene alla focosa schiera degli eruditi battaglieri e dei collerici polemisti, se si gettò nella mischia colla Defensio Pliniana contro al Leoniceno, fu però distratto da altre cure. Discepolo del celebre giurista Cipolla, se le lettere debbono dargli la fama, la legge deve dargli il pane, e lo vediamo giudice a Bologna, vicario generale di Costanzo Sforza in Pesaro, podestà di Firenze e di Mantova, consigliere ed ambasciatore del duca di Ferrara. A dirla crudamente, egli faceva il mestiere; anzi si mostrava più sollecito del guadagno che ad un filosofo non convenisse. Certo a Firenze dovette compiacersi dell’amicizia degli illustri cortigiani del Magnifico, e ci restano testimonianze della sua intrinsichezza col Poliziano; ma la carica che teneva non gli concesse senza dubbio di darsi tutto a quell’entusiasmo di erudizione e di filosofismo che negli orti Oricellari celebrava i parentali di Platone, odorando un poco di eresia come l’academia romana di Pomponio Leto. Giureconsulto girovago, gli accadeva quel che accade ai nostri giudici inamovibili, i quali, arrivati in una città, nuova per loro, sono accolti festosamente in tutte le riunioni, in tutti i clubs, in tutti i caffè, ma rimangono sempre cittadini di un’altra città, forestieri e fuori dell’intimità famigliare dei giudicabili. Era un prefetto accetto ed accarezzato, ma era sempre un prefetto che non vive la vita degli amministrati.
Il Collenuccio doveva essere punito proprio là dove aveva peccato. Una lite, nella quale egli difendeva con avara tenacità gli interessi suoi, lo trasse a compromettere anche Giovanni Sforza, signore di Pesaro; il quale, abusando[260] della sua autorità, fece mettere il povero giurista in una oscura prigione, dove dopo diciotto mesi, lo venne a cercare l’intercessione di Ercole Bentivoglio che gli valse la libertà. Di qui l’odio tra lo Sforza e il Collenuccio.
Il figlio di papa Alessandro VI, quel duca Valentino nel quale non si può sapere se prevalesse la bollente energia o la fredda malvagità, cominciò la sua impresa di Romagna, preludio, secondo il Machiavelli, all’impresa d’Italia. Per poco le idee unitarie del bastardo del papa non divennero realtà e il Cesare fratricida non divenne il fondatore di una dinastia italiana. Ma i delitti stessi che spianarono la conquista del nuovo ducato al Valentino, allontanarono da noi l’onta di una gloriosa dinastia di Borgia che sarebbe ora lealmente costituzionale, adorata dai cortigiani di mestiere e di vocazione, glorificata dai giornali e dai giornalisti come la salute della nazione, come l’arca dell’alleanza, come l’evangelio vivo del bene inseparabile. Intanto il Valentino procedeva conquistando facilmente le città stanche delle tirannie dei piccoli signori e certe che ogni cambiamento sarebbe sempre stato in meglio. Anche Pesaro sentiva troppo il peso del governo sforzesco, e temeva che le ire del Borgia contro l’antico cognato non si riversassero sulla città innocente. Lo Sforza, marito già di Lucrezia e sciolto per forza dai legami coniugali sotto il pretesto di una impotenza che non gli impedì di aver figli con altre donne (che bell’argomento in favore del divorzio!) minacciato più direttamente e più implacabilmente dall’ira papale, cercò per un momento di difendersi, ma il terreno gli mancò sotto.
L’aristocrazia pesarese, offesa spesso dal signore, il popolo tenuto fermo sotto la sua prepotenza, aspettavano nel Valentino il nuovo dominatore. Il Collenuccio scrisse un memoriale contro il vecchio tiranno, augurando il nuovo, e, senza dimenticare i propri interessi privati, portava all’invasore l’appoggio della sua discreta penna d’umanista e la sua autorità d’ambasciatore del duca di Ferrara. Lo Sforza intanto fuggiva, recando seco un tesoro di odii insoddisfatti, di umiliazioni da vendicare, che un giorno dovevano trovar sfogo, e il Borgia s’impadroniva di Pesaro senza colpo ferire.
Pochi mesi dopo, il ducato di Romagna era costituito in favore del bastardo del papa.
L’Alvisi, in un libro che avrebbe destato gli entusiasmi italiani se fosse stato scritto da uno straniero, ma che ha ottenuto gli elogi dagli stranieri e l’indifferenza nostra perchè scritto da un italiano, ci ha fatto conoscere la storia del governo del nuovo ducato. Il Borgia fu un ottimo[261] sovrano, per quanto i tempi lo comportavano, e gli studi del Cinelli concordano colla esposizione dell’Alvisi. La possibile dinastia Borgia avrebbe avuto forse un peccato originale incancellabile, ma, sino dagli esordi, una tradizione di buon governo da far sdilinquire nella più melliflua ammirazione i giornalisti ufficiali ed i ministri dei Cesari venturi. Ma quella Provvidenza che nelle storie del Massari governa, Deus ex machina, gli eventi italiani, guastò il bel disegno, e il duca di Romagna, alla morte del pontefice padre, perdette il ducato e il resto. I principi spodestati con poca fatica riacquistarono i dominî perduti, ed ebbero agio di vendicarsi.
Tra questi lo Sforza, ma il Collenuccio era al sicuro. Ci volle tutta l’ingenuità del povero giurista e tutta la perfidia del tirannello feroce, perchè lo scrittore del memoriale al Valentino si mettesse fra le ugne dello Sforzesco. Ci volle l’avara avidità dell’umanista per cadere in un tranello troppo facile ad essere evitato. L’antica lite fece tornare il Collenuccio a Pesaro, assicurato dalle promesse del principe, che non appena lo ebbe in mano lo fece strozzare.
Così morì il giureconsulto di ventura, il letterato di occasione che non seppe resistere all’esca della ricchezza e non seppe dubitare della furberia dei tiranni ammaestrati a loro spese dal Valentino. Il suo testamento, scritto alla presenza del carnefice, può commuoverci, ma non può mutare il nostro giudizio. Solo può farci desiderare che il Cinelli rifaccia quel che il Tratt non fece benissimo, e che questo saggio municipale diventi uno studio più ampio e più completo intorno ad un uomo e ad un periodo isterico degni di opera più larga e più profonda.
Quando un edificio minaccia rovina, accorrono i muratori e l’edificio può essere salvato: ma quando rovina uno Stato, pare che non ci sia rimedio alcuno, pare che nessuno uomo possa vincere il fato. Non giovano nè ingegno nè virtù, nè valore, e gli ingenui, i quali credono che gli uomini conducano gli avvenimenti a loro posta, rimangono sorpresi e non possono capire come l’opera di poche virtù non abbia superato l’opera di molti vizi.
Una evidente prova della inutilità degli sforzi isolati per arrestare la comune rovina ce la dà il signor Emilio Morpurgo nella monografia di Marco Foscarini edita dai successori Le Monnier. Il quarto ultimo doge veneziano fu appunto di quegli uomini che nati in un Stato fiorente ne accrescono la gloria e la potenza, ma che nati in uno Stato corrotto non riescono ad arrestarne lo sfacelo di un’ora soltanto. La fiacchezza, ci dice il Morpurgo, l’abbandono di ogni virile proponimento, la impotenza rassegnata di coloro che non osono levare la fronte contro l’avverso destino, furono le sole manifestazioni che il Foscarini potè raccogliere da’ suoi concittadini. Egli sentì e disse che il suo secolo doveva essere terribile ai figli ed ai nipoti, ma la sua fede non vacillò, ma la tempra dell’animo suo non s’indebolì mai. In tutti gli uffici che sostenne si mostrò un veneziano degli antichi tempi e professò il culto delle memorie e pensò e previde forse l’avvenire, mentre tutti attorno a lui non cercavano che l’oblìo delle memorie e sfuggivano di pensare al futuro. È troppo chiaro quindi, benchè il Morpurgo lo chiami un’enimma, è troppo chiaro che il Foscarini non poteva avere nessuna influenza sul tempo suo. Le ombre scappate dalla tomba non[263] possono imprimere sulla terra l’orma del loro passaggio, e la virtù, l’ingegno e la sapienza del Foscarini restano necessariamente inutili. Egli rimane un pensatore che non potrà mai diventare uomo d’azione, e lo stesso glorioso cieco che salì primo le mura di Costantinopoli sarebbe stato impotente ed inutile ai tempi del Foscarini. Nell’ammiraglio Emo c’era la stoffa del vecchio Peloponnesiaco, ma a che cosa servirono le ardite imprese?
Così accadde che questo veneziano arrivò al dogato per mezzo della corruzione degli elettori. Non giovavano più i diversi ed intricati gradi di scrutinio, la complicazione de’ quali teneva quasi della cabala, chè le guarentigie del voto erano scomparse. Invano gli inquisitori cercavano di provvedere minacciando, chè i colpevoli sanno troppo bene che le minacce non saranno seguite da effetti, e continuano il mercato de’ suffragi. La rovina de’ commerci aveva oramai impoverito questa aristocrazia che sola governava, e la povertà, triste consigliera aveva distrutto le virtù antiche, il disinteresse, l’abnegazione, la fierezza. Il Doge, servo una volta dei sospetti de’ nobili e delle promissioni giurate, ora diveniva affatto una finzione costituzionale, una bestia rara conservata in gabbia, come la lupa del Campidoglio. Se il culto delle antiche tradizioni non si fosse opposto, si sarebbe potuto benissimo mutare il dogato di elettivo in ereditario.
Infatti si attribuisce un troppo grave importanza alla diversità di questi due modi di successione. Gl’inglesi, per esempio, che in materia costituzionale se ne intendono, stimano leggera la differenza. Il Bagehot, ch’è entusiasta della forma costituzionale ereditaria, confessa che le moltitudini disadatte in Inghilterra a far funzionare un governo elettivo, sarebbero spaventate se sapessero quanto sono vicine ad una tal forma di successione. La repubblica, egli scrive è già penetrata tra di noi con le apparenze esterne della monarchia. Ed un altro pensatore esce in queste parole, le quali non si potrebbero usare parlando della costituzione italiana che tanto spesso invoca l’esempio della inglese: «Il Parlamento britannico non ha mai ceduto il suo diritto eterno di regolare la successione monarchica a propria volontà. Se si vedesse la necessità di mutare la legge che disciplina ora siffatta successione sarebbe altrettanto agevole di farlo quanto lo fu ai tempi di Sigebert o di Etereld, di Riccardo II o di Enrico VI. Re di diritto divino non ci furono mai. Forse avviene da ciò che i re nostri son tali anche per la grazia di Dio, ma in Italia bisognerebbe ricorrere a ben altri argomenti per modificare quel che ci fosse d’invecchiato o di sbagliato nella carta costituzionale.»
Ma il Doge veneto non saliva alla dignità principale dello Stato per grazia di Dio. Non c’era bisogno di incomodare la divinità per esaltare un principe che in fondo era la prima vittima dello Stato. Nelle carte di promissione gli si faceva giurare di lasciarsi congedare se alla Signoria fosse piaciuto di deporlo, e del potere non gli si lasciava che la pompa. Il Foscarini, che con tutta la sua virtù ed il suo sapere fu piuttosto il difensore che il correttore dello Stato, diventato Doge trovò cresciuti gli ostacoli ad operare il bene. Alla inerzia invincibile del malato si unì la necessaria impotenza del medico. Libero non aveva potuto operare nulla: il prigioniero ora nel sontuoso palazzo ducale, bendato, imbavagliato, incatenato dai sospetti dei grandi e dalla severità della costituzione, passò come tutti gli altri Dogi, senza infamia e senza lode, prova provata che gli avvenimenti o guidano o sopprimono anche gli uomini migliori.
Il libro del Morpurgo, utilissimo ragguaglio di un tempo così vicino a noi e pure così dimenticato, sembrerebbe quasi darragione a quella specie di fatalità che regge i popoli secondo la filosofia di Giuseppe Ferrari, a quella inevitabile legge di preparazione, di rivoluzione, di sosta e di regresso, che, se diventa discutibile spinta alla minuzia del calcolo delle epoche diviene evidente considerata più largamente, fatta più comprensiva. Alla sosta dell’oggi accenna già di voler succedere domani il regresso che darà agio alla preparazione del cambiamento fondamentale. I fati conducono i volenti, trascinano i nolenti, quella legge storica inflessibile che nei discorsi della corona si chiama a sproposito della Divina Provvidenza.
Nella storia dello svolgimento intellettuale dei popoli, non meno che nella storia de’ fatti, s’incontrano uomini che riassumono interamente in sè tutto un momento dell’evoluzione. A questi esseri privilegiati noi diamo ora il nome di geni e speso sogliamo chiamare tutto un periodo di tempo col loro nome. Esso infatti lo riempirono della loro vitalità, gli impressero il loro suggello e si mostrarono il tipo più completo e perfetto di ciò che poteva produrre il clima storico in cui fiorirono.
Torquato Tasso rappresenta evidentemente il tramonto del Rinascimento, la fine di un secolo di gloria e l’avvento di un secolo di pazzia letteraria. Egli è il tipo più squisito di quella maturità di una generazione d’ingegni cui tarda poco a seguire la putrefazione. Fate conto che la fine del secolo XVI sia come un banchetto di allegri gentiluomi sul punto di terminare. I convitati hanno già quell’esaltazione che precede l’ebbrezza, quella facondia elegante e concitata che ingrandisce le minuzie, dispone alla discussione calda ma poco utile, e mostra che l’equilibrio del cervello comincia a pericolare per troppa tensione. La ricca ma vuota eleganza del Cinquecento sta per cadere nelle follie del barocco, appunto come il genio del Tasso sta per cadere nella lipemania.
Bernardo Tasso (n. 1493; m. 1569) padre di Torquato, fu letterato di gran conto, e la sua fama sarebbe forse maggiore se la gloria del figlio non avesse eclissata la sua. Cortigiano nel senso migliore della parola, come allora s’intendevano i gentiluomini e ne scriveva il Castiglione, servì Guido Rangone, Renata d’Este e Ferrante Sanseverino principe di Salerno. Caduto quest’ultimo in[266] disgrazia di Carlo V, Bernardo esulò, fu in Francia e, ritornato, i duchi d’Urbino e di Mantova si servirono di lui. Morì governatore di Ostiglia.
Torquato nacque (1544) in un momento di calma per l’agitata vita di Bernardo; nacque a Sorrento tra le magnifiche più splendide della natura, in primavera, frutto di un amore vivisimo ed invidibile. Tutto gli sorrideva dalla culla e nessuno avrebbe profetato al felice bimbo una delle esistenze più travagliate che si possono trascinare al mondo. Vissuto colla madre sino ai dieci anni non potè comprendere quanto vi fosse di doloroso nell’assenza del padre allora esule: nè certo l’istruzione che riceveva da’ gesuiti doveva turbar molto la serenità di una infanzia fortunata.
Ma a dieci anni gli convenne lasciare il dolce e tranquillo nido di Sorrento per recarsi a Roma presso al padre. Oramai pel povero Torquato non spunterà più una giornata di calma come quelle che gli sorrisero sotto gli aranci fioriti e in faccia alla marina azzurra del suo luogo natìo. Porzia de’ Rossi, la madre amantissima che fino a quel giorno era stata il suo buon angelo, lo salutò piangendo e, presaga in cuor suo di non dover più rivedere nè il marito, nè il figlio, si ritirò in un convento a piangere e ad aspettare la morte. Da quel giorno cominciò la sventura a pesare sopra Torquato. Gli mancò la felicità dal giorno in cui gli mancò il sorriso materno.
Seguì il padre nelle sue peregrinazioni, da Roma a Bergamo, a Urbino, a Pesaro, a Venezia. In questa ultima città, dove allora venivano alla luce i tre quarti dei libri che si stampavano in Italia e dove per questo convenivano gli uomini più colti di tutta la penisola, Bernardo Tasso dava alla luce il suo Amadigi e si faceva aiutare dal figlio a copiare ed a correggere. L’ambiente e le occupazioni svilupparono ben presto in Torquato l’amore alla poesia ma il padre, che dalle Muse non aveva cavato altro frutto che di dolori, contrastò alla vocazione del figlio e lo mandò a Padova a studiare giurisprudenza. Torquato ubbidiente andò, e dopo un anno aveva fatto... un poema epico.
Il padre prima si adirò di questa non rispondenza del figlio ai propri desidèri; poi compiacendosi dell’ingegno che del poema traluceva e sapendo per prova che il mal di poesia una volta contratto non si guarisce più, perdonò e lasciò stampare il Rinaldo.
Da Padova Torquato andò a Bologna, di dove partì ben tosto per dispiaceri avuti in seguito ad una satira che gli fu attribuita. Tornato a Padova, si diede a studi di filosofia e concepì l’idea di cantare le crociate. Il Goffredo,[267] aurora della Gerusalemme, data da quel tempo. Ben presto però il cardinal d’Este, cui egli aveva dedicato il Rinaldo, lo chiamò a Ferrara, gentiluomo della sua Corte.
Giovane di ventun anno, bello d’aspetto, piacevole e veramente gentiluomo negli atti e nel discorso, già in bella fama di poeta, Torquato si trovò in una delle più splendide Corti d’Italia, in un ambiente propizio alle lettere ed alla decorosa calma che si conviene agli studi. Invece egli trovò in quella Corte la sua gloria, se si vuole, ma anche la sua sventura.
Al tempo di Alfonso II la magnificenza della Corte di Ferrara era veramente meravigliosa. Il solo cardinale Luigi aveva un seguito di cinquecento gentiluomini. Le feste succedevano alle feste, gli studi erano incoraggiati dal duca e le poesie e gli amori dalle belle donne. Ferrara conserva ancora, per quanto scaduta, il tipo delle sue belle gentildonne del Cinquecento, dalla opulenta leggiadria veneziana, un po’ molle come in tutte le razze che vivono in climi umidi e tiepidi, ma meno languida. Le splendide gentildonne che portavano meravigliosamente nomi gloriosi e beltà superbe, sorridevano volentieri al poeta gentiluomo anche esso, nè reputavano che un omaggio di poesia macchiasse i blasoni storici o le vesti di broccato d’oro. Del resto i costumi assai facili in quel secolo erano facilissimi in quella Corte, e solo si chiedeva ai fortunati la discrezione. Indarno già in Ferrara Lucrezia Borgia aveva portato la severità della convertita, e Renata la rigidezza ugonotta. Che fare in una Corte ricca, oziosa e raffinata, se non amare?
Le belle gentildonne come Claudia Rangoni, le duchesse di Scandiano, di Sala e di Lodrone, Livia d’Arco, Tarquinia Molza, Leonora Sanvitale e molte altre si contendevano la palma della leggiadria, ed il poeta si trovava come nell’incantato giardino di Armida. Egli filosofava d’amore nell’accademia ferrarese, scriveva per sè e per gli altri sonetti d’amore, viveva insomma in un’atmosfera satura d’amore e propizia alle ebbrezze dei sensi ed alla sovraeccitazione degli affetti. Amò Lucrezia Bendidio, amò Laura Peperara, amò forse anche qualche bella cameriera di Corte (che non disdegno signoria d’ancella), finchè in questa tensione, in questo caldo che lo struggeva, osò levare in alto occhi fino alle sorelle del duca, Lucrezia ed Eleonora. Un mistero copre ancora questi amori, che non si sa quanto fossero o fin dove corrisposti. Pare tuttavia che egli le corteggiasse tutte e due; che la maggiore, Lucrezia, che poi andò sposa al duca d’Urbino, lo amasse; e che la minore, Eleonora, la Sofronia
Vergin... di già matura
Verginità, d’alti pensieri e regi,
D’alta beltà...
si lasciasse corteggiare per sventura del poeta, ma non corrispondesse al suo affetto.
In questo stato d’animo il poeta pose mano al poema immortale, alla Gerusalemme.
Oramai in Italia ogni tentativo di resistenza al cattolicismo romano era scomparso. Renata d’Este non aveva lasciato nessun neofito a Ferrara, e Barbara, la moglie del duca Alfonso, favoreggiava i gesuiti. Il romanesimo aveva vinto, e non c’era più alcuno che non piegasse il collo al giogo del Concilio di Trento. Anzi una specie di entusiasmo religioso effimero in fondo, ma vivissimo sotto l’impressione del pericolo, si era destato dopo la battaglia di Lepanto. Il Tasso era cattolicissimo, che tanto la sua intransigenza religiosa aveva suscitato difficoltà alla missione del cardinale d’Este in Francia, ed era stato costretto a ritornare a Ferrara. «Torquato, dice il Lamartine, era sinceramente e teneramente religioso, e si sentiva spinto verso quel soggetto non solo dalla musa, ma anche dalla pietà. Egli era il crociato del genio poetico che aspirava a raggiungere, colla gloria e la santità dei suoi canti, i crociati della lancia ch’egli voleva celebrare. I nomi di tutte le famiglie nobili e sovrane di occidente dovevano rivivere in questo catalogo epico delle loro prodezze e meritare all’autore la riconoscenza ed il favore dei castelli e delle Corti. Le crociate erano il nobiliario dell’Europa, ed il poeta si faceva l’arbitro ed il dispensatore dell’immortalità ai discendenti delle vecchie famiglie... Finalmente il poeta era nel tempo stesso cavaliere ed un nobile sangue gli scorreva nelle vene. Celebrare gesta guerresche gli pareva unire il nome suo a quello degli eroi che le avevano compite sui campi di battaglia, e la religione, la cavalleria, la poesia, la gloria del cielo, quella della terra e della posterità si univano per consigliargli quell’opera».
Il poema cristiano per eccellenza era ormai condotto al fine quando il Tasso fece l’Aminta. La favola boschereccia, l’idillio un po’ artificioso, ma fresco e tranquillo, nacque accanto alla severa epopea. Molti furono gli imitatori dell’Aminta, ma nessuno raggiunse la splendida serenità dell’originale. Lo stesso Pastor Fido del Guarini, sia composto a competizione coll’Aminta, o sia opera precedente e scevra d’imitazione come pare voglia l’autore, se in molti luoghi vince di forza e di efficacia la favola del[269] Tasso, è però troppo tronfia e barocca per poterle contendere il vanto. Il tempo in cui l’Aminta fu composta e venne alla luce segna il più alto e più felice punto della fortuna del Tasso. Di poi ruinò di sventura in sventura.
Finita la Gerusalemme, prima di stamparla volle sottoporla al giudizio altrui. Cattolico fervente e convinto, benchè lo studio della filosofia gli avesse lasciato addosso un po’ di quel platonismo, male cristiano, in cui vissero e scrissero il Ficino e Pico della Mirandola, era tormentato da dubbi di coscienza, da scrupoli di ortodossia delicatissimi. Ora, in quel tempo di reazione contro la Riforma, quando i gesuiti e l’inquisizione si contendevano il dominio delle coscienze, l’intolleranza de’ giudizi ecclesiastici era cieca e importuna sino al ridicolo. Silvio Antoniano, uno dei giudici invocati dal Tasso, dichiarava che l’autore non doveva mirare a piacere ai cavalieri, ma ai frati. Di qui tormenti intimi e terribili nell’anima del povero poeta, finchè il poema cominciò ad uscire alla luce abusivamente, preso da copie manoscritte che già circolavano. Se ne dolse senza frutto il poeta; protestò il duca colla stessa energia con cui avrebbe protestato se gli avessero invaso gli Stati; ma oramai il poema era di pubblico dominio.
L’irritabilità del poeta si accrebbe e la sua stessa condotta cominciò a dar segni di mutamento. Sensibilissimo alla critica, tanto che pochi come lui hanno perduto tanto tempo nella polemica, soffriva delle contrarietà che l’invidia gli sollevava contro, e appunto allora la malignità dei cortigiani offuscati dal suo splendore lo prese a bersaglio. Sia che gli amori più o meno platonici colle sorelle del duca, sia che un suo tentativo di lasciare la Corte di Ferrara per quella dei Medici gli alienasse l’animo d’Alfonso, il fatto è che s’accorse ben presto d’essere in disgrazia, e i suoi nemici trionfanti glielo facevano amaramente sentire. Il suo carattere si alterò. Divenne cupo e violento. Schiaffeggiò in pubblico un amico infedele, il quale per vendicarsi dell’oltraggio cercò di farlo assassinare. Il saper pubblicato il suo poema senza le correzioni che avrebbe voluto farvi nell’interesse dell’ortodossia, ridestò i suoi scrupoli, e si credette scomunicato e dannato. Insomma la sua ragione diede un crollo, fu preso dal delirio della persecuzione, ed un giorno, nell’appartamento di Lucrezia, s’immaginò che un servo fosse un nemico e trasse il pugnale per ucciderlo. Fu chiuso in un annesso del palazzo ducale in via di precauzione.
Scrisse al duca domandando perdono e fu liberato. Partì per la campagna, tornò, tormentò di nuovo il duca colle sue lettere di lipemaniaco, fu rinchiuso nel convento di San Francesco di dove fuggì di notte senza denaro e quasi[270] senza vesti. Si recò povero, malato, perseguitato, a Sorrento dalla sorella Cornelia, dove guarirono le infermità del corpo, ma non quelle della mente.
Impetrato di nuovo perdono dal duca, tornò a Ferrara; ma poichè gli parve che Alfonso fosse raffreddato verso di lui, fuggì di nuovo ed errò per l’Italia superiore finchè lacero e cadente giunse a Torino. Ivi si fermò alquanto, ma, attratto dalla sua rovina come coloro che affacciandosi a un precipizio si sentono tratti a gettarvisi dentro, tornò a Ferrara.
La prima volta era entrato nella città e nella Corte degli Estensi quando il duca Alfonso sposava Barbara, figlia dell’imperatore Ferdinando. Vi tornava ora l’ultima volta, e vi tornava in mezzo alle feste magnifiche per le seconde nozze del duca con Margherita Gonzaga. Ma quale differenza! Egli non era più il giovane bello, pieno di speranze, d’ingegno, cercato e accarezzato dalle dame e dai gentiluomini.
Tutti invece ora lo sfuggivano come un lebbroso, sorridevano di lui e lo additavano allo scherno pubblico. Il duca, le sue sorelle, tutta la Corte gli fecero sentire che egli non era più il Tasso di una volta. Irruppe in minaccie, in contumelie di delirante, diventò furibondo e fu chiuso nello spedale dei pazzi in Sant’Anna.
In un tempo non molto lontano, in cui la critica si faceva per simpatia e non per criteri positivi e scientifici, pareva eresia il credere che il Tasso fosse veramente maniaco. Si voleva vedere in lui la vittima o de’ suoi amori, o de’ suoi nemici.
La sua prigionia in Sant’Anna era messa a debito della tirannia di Alfonso, ed una pietosa leggenda s’era formata, per la quale il Tasso non era che un martire. Ma queste sentimentalità romantiche sbagliatissime, poichè la fama del poeta non è sminuita in nulla dalla sua malattia, hanno ceduto alle indagini scientifiche, ed i medici lo dichiarano affetto di lipemania. Il Giacomazzi, il Verga, il Cardona, il Corradi convengono in questo e ne desumono le prove dalla vita, dalle opere e specialmente dalle lettere del poeta. Lo stesso Girolami ed il Rothe, benchè cerchino di attenuare l’entità del male, pure convengono nell’ammetterlo: che anzi, oramai è provata anche l’influenza dell’eredità sullo stato morboso di Torquato, poichè è noto che la madre fu oltremodo sensibile ed eccitabile, mentre il padre in varie circostanze della vita offrì accessi ben caratterizzati di melancolia.
Oramai tutti ne convengono, anche i critici, come recentemente il De Sanctis, il D’Ovidio, il Canello; e ad ogni modo è facile vedere nelle sue opere come le grandi qualità[271] della mente siano annebbiate da una forma morbosa, da cui vengono le sue stravaganze, le sue aberrazioni, le sue sventure. Egli stesso chiama la sua vita inesplicabile, e l’epistolario testimonia la contraddizione perpetua, l’eccitazione morbosa del suo pensiero. Tuttavia la leggenda non è spenta, ed Alfonso, che ha ben altri conti da rendere alla storia, è chiamato anche a rispondere dei tormenti fatti subire al poeta. È giusto?
Ma il nome di Torquato era troppo chiaro perchè nessuno si commovesse alle sue sventure. Il papa, i duchi di Toscana, di Urbino e di Mantova intercedettero per lui, e dopo sette anni e due mesi di prigionia fu libero. Alfonso gli rifiutò l’udienza di congedo chiesta e desiderata ardentemente. Leonora era morta, Torquato Tasso usciva da Sant’Anna e da Ferrara, ombra di sè stesso, rovina di un genio immortale.
Fu a Mantova, errò per l’Italia di nuovo e riposò a Napoli nel convento di Monte Oliveto. Gli scrupoli religiosi lo avevano ripreso, e compose la Gerusalemme conquistata quasi ammenda della Liberata. Non cercava più che la compagnia di persone religiose e domandava la pace dell’anima esacerbata ed agitata al silenzio de’ chiostri. Infatti, quando per intercessione del cardinale Cinzio Aldobrandini, cui egli aveva dedicato la seconda Gerusalemme, fu chiamato a Roma dal pontefice per essere incoronato in Campidoglio, ricoverò al convento di Sant’Onofrio sul Gianicolo. Ivi, alla vigilia del suo trionfo, si spense, accettando la morte come una desiderata fine dei suoi lunghi dolori.
Morì il dì 25 aprile 1595. Aveva cinquantun anno. Fu sepolto, nella chiesa stessa di Sant’Onofrio, e l’umile pietra che lo copre è visitata assiduamente. Chi visita il sepolcro di Alfonso II?
Torquato Tasso, ingegno meraviglioso, personifica la seconda metà del secolo XVI, come la prima è personificata dall’Ariosto. La reazione cattolica, la dominazione snervatrice dei gesuiti, l’aria malsana di una Corte bigotta al di fuori e corrotta al di dentro, possono aver molto influito a indebolire in lui la fiamma del genio; ma sarebbe ingiusto giudicare coi criteri dell’oggi una vita così infelice trascinata pei triboli di tre secoli addietro. Ad ogni modo è da tener conto maggiore dell’opera sublime a lui così afflitto dalla sventura e dalla malattia. Egli è pur sempre uno de’ geni che onorano l’umanità, e se in lui qualche cosa è da meno, bisognerà dire con Giacomo Leopardi: «Io credo che il Tasso non per altra ragione sieda piuttosto sotto che a fianco de’ tre sommi nostri poeti, se non perch’egli fu sempre infelicissimo».
Nel giorno 25 del passato luglio, a Tours, fu scoperto il monumento dedicato a Francesco Rabelais. La statua, opera dello scultore Dumaige rappresenta il buon curato di Meudon in piedi con alcuni fogli nella sinistra e la penna nella destra. Sembra che pensi a qualcuno de’ suoi matti personaggi e stia per scriverne qualche cosa, poichè nella faccia energicamente modellata e più nelle labbra grosse, un po’ sensuali, appare come un sorriso incominciato che vuol finire in una allegra risata. Tranne una lontana reminiscenza delle notissime maschere de’ fauni pompeiani che si può sorprendere sui lineamenti della statua, l’opera è riuscita e buona.
Lo zoccolo porta scritti i due versi che stanno avanti al prologo del Gargantua:
Mieulx est de ris que de larmes escripre
Pour ce que rire est propre de l’homme.
Nessun monumento fu meglio meritato in questi tempi così fertili di monumenti. Il Rabelais infatti dotò la Francia di un genere letterario che non ha riscontro in nessuna delle letterature moderne, poichè le fantasie del Swift, che nella parte mitica vi si avvicinano di più mancano affatto poi di quella gaiezza, di quella sana allegria che stanno in fondo a tutti i capitoli del Gargantua e del Pantagruel. Si è voluto, specialmente dal Brunet, fare il Teofilo Folengo il padre legittimo del Rabelais, ma l’originalità di questo si rifiuta alle ipotesi di una paternità troppo discutibile. È ben vero che i due autori erano due frati sfratati per odio della vita claustrale, ma il mantovano cercava nella libertà l’amore di quella donna che troviamo[273] quasi deificata nel Caos del tri per uno, mentre il francese cercava la scienza esclusa da quei chiostri dove studiare il greco era segno d’eresia.
Certo il Rabelais conosceva le opere del Folengo e le cita e ne toglie qualche episodio, come quello notissimo dei moutons de Panurge. Con molti arguti ragionamenti si può supporre che il Fracassus dell’uno sia il prototipo del Gargantua dell’altro e che Panurgio sia figlio putativo di Cingar; ma la condotta generale, l’intento, l’esecuzione delle due opere differiscono tanto, che la pretesa analogia non può esistere altro che per coloro i quali leggono spensieratamente i libri di cui sentenziano. Eppure, solo a badarci, si vede che, mentre l’italiano cerca il ridicolo nella forma, nella parodia classica esteriore, il francese lo cerca invece nella sostanza, nella satira, nell’ironia acuta, affettando appunto una forma facile, quasi famigliare. Quando si trovano a sfogarsi contro i loro nemici i frati, Merlino declama con tutta la solennità retorica degli esametri sonanti, ingiuria, apostrofa, grida: mentre Alcofribas sogghigna raccontando freddamente come se non fosse fatto suo, scherza e ride come se non sapesse che le sue argute barzellette sono avvelenate. Le due satire sono diverse in tutto, come la satira classica e declamatoria di Salvator Rosa è diversa dalla satira moderna e fina di Giuseppe Giusti.
Se il piovano Arlotto ne’ suoi scherzi avesse avuto un perchè, se non si fosse contentato di far la burla per la burla, ma avesse usato utilmente del suo bizzarro ingegno, il curato di Meudon avrebbe trovato un rivale nel curato di San Cresei. Ma la fortuna nostra nol volle, ed invece di un libro che rinchiuda in sè qualche cosa, come l’os médullaire del Rabelais, abbiamo una insulsa raccolta di facezie così così.
Francesco Rabelais visse in un momento critico della storia moderna e fiorì in quella prima metà del secolo XVI che vide compiersi il Rinascimento e principiare la Riforma. Nei giorni del grande sforzo della Chiesa e del concilio Tridentino si elaborava infatti una rivoluzione nello spirito umano ed una crisi generale nel cristianesimo, ma in Italia pochi o nessuno seppero prender parte o profittare della Battaglia. Pur troppo il Rinascimento si arrestò presso di noi alla parte formale, estrinseca. Gli umanisti avevano scossi tanti pregiudizi, sfidate tante scomuniche, per contentarsi, i più audaci, di un platonismo alessandrino, per adagiarsi in uno scetticismo morbido ed indifferente, mascherato di paganesimo. L’Italia[274] mancò allora di forza e cercò negli antichi l’ispirazione e l’educazione del proprio genio artistico, cercò e raggiunse l’eleganza, la correttezza plastica, il gusto squisito: ma per amore della sua tranquillità epicurea non osò abbandonare la ricerca della bellezza per la ricerca della verità. Per questo i pochi italiani, che come eccezione confermano la regola e ardiscono entrare nel campo temuto, odiano questa indifferenza degli umanisti che vuol parere stoica a forza di ingegnosi filosofemi, ma che in fondo rimane spesso cinica; per questo i pensatori italiani di quell’epoca protestano contro un’arte scettica che prodiga i suoi sorrisi al papa e all’imperatore, che offre le proprie carezze a chi la sa meglio lodare e pagare; per questo, frate Girolamo Savonarola brucia pubblicamente come vanità i quadri, le statue ed i libri neo-pagani. Il Rinascimento da noi mancò di virilità, come di morale.
Così l’Italia, che aveva dischiuse le porte di una nuova civiltà al resto del mondo, si fermò sulla soglia. S’era avvicinata all’antichità piuttosto per entusiasmo che per freddo ragionamento, ed era stata guidata da una profonda passione per la bellezza, piuttosto che dalla sete di critica e di scienza. Così aveva prodotto una miriade gloriosa di letterati, d’artisti e di poeti, e molto minor numero di veri eruditi e di filosofi originali. Gli umanisti di Francia, di Germania e dei Paesi Bassi, discepoli dei nostri, proseguirono invece l’opera appena abbozzata da Pico della Mirandola e, seppero conciliare il Rinascimento alla Riforma, almeno fino a che le rigidezze iconoclaste del calvinismo non infransero l’opera loro. Reuchlin, Erasmo, Budè, Melantone, de Bèze, Ramus, gli Stefani, i Froben, Hutten, Lutero stesso, Calvino stesso, provengono direttamente dal Rinascimento italiano, ne traggono la loro forza principale, lo trascinano alla battaglia e vincono nel segno suo. A che giovano i sublimi artisti della corte di Leone X contro i polemisti d’oltralpe? A che giova Raffaello contro Lutero? Se i papi vorranno salvare il cattolicismo dovranno pure accorgersi che l’umanesimo italiano non resce a nulla, fermato com’è alla forma, e dovranno ricorrere all’ultima ragione della guerra od al colpo di Stato del concilio Tridentino. Così le maccheronee del Folengo che hanno toccato forse l’estremo della bizzarria e del ridicolo formale, rimangono ben vuote, bene inani, davanti specialmente agli ultimi libri del Pantagruel.
Se le fantasie dello Swift hanno qualche somiglianza esteriore con quelle del Rabelais, il concetto dell’opera, l’ispirazione, la condotta e la conclusione sono così dissimili, che è forza abbandonare subito ogni tentativo di confronto tra il bilioso denigratore del genere umano e[275] l’allegro difensore del buon senso e del senso comune. Plutarco stesso, maestro di arzigogoli da far parallelismi biografici, non ci potrebbe riuscire. Ma c’è un libro immortale, cui ricorre subito il pensiero in questo genere di fantasie, ed è il Don Chisciotte; altro os médullaire che sotto la scorza delle bizzarrie esterne racchiude la polpa di un intento letterario.
Però, a guardarci bene, l’esame, invece di confermare l’analogia, convince del contrario. Don Chisciotte pare un tipo del Rabelais rovesciato. Pantagruel ed i suoi giocondi compagni sono tante personificazioni del buon senso che compiono un viaggio attraverso le fallacie del mondo esterno e le riducono al loro vero valore giudicandole serenamente o mettendole argutamente in canzone. Nel cavaliere mancego accade invece l’opposto. La menzogna è dentro di lui poichè egli è pazzo, e il buon Sancio glielo dice spesso ed egli medesimo confessa loco soy, loco he da ser. La fallacia qui non è più oggettiva, ma completamente soggettiva, poichè mentre i bravi pantagruelisti, sani di spirito, si muovono in un mondo fantastico, il cavaliere dalla Triste Figura porta a spasso i fantasmi della sua mente nel mondo reale e contemporaneo. Mentre les nobles champions tagliano a pezzi sorridendo giganti ariostei e fecondi indigeni di Utopia, e compiono ironiche prodezze contro vanità che paiono persone, il povero Don Chisciotte trasforma invece nella sua mente malata i mulini a vento in cavalieri, le osterie in castelli e le serve in damigelle. Il punto di partenza è dunque affatto opposto.
E di qui viene anche la grande diversità d’intonazione dell’opera intera, poichè mentre nel romanzo spagnuolo domina una certa malinconia desolata, nel francese ride un’allegria inesausta e piena che vi accompagna dal primo all’ultimo capitolo. Il povero soldato di Lepanto, che aveva vissuto una vita di miserie e disillusioni, che cominciava in carcere il suo capolavoro, assistendo alla decadenza della patria, non poteva abbandonarsi spontaneamente alla ilarità del francese del Rinascimento, che anche nelle traversie proprie e della patria poteva conservare inconcussa la speranza, nell’avvenire e la fede nel trionfo della ragione. Don Chisciotte non ci fa ridere, ma ci fa pietà; appena desta un sorriso che lascia la bocca amara, e ci vogliono quasi persuadere d’aver sott’occhio un libello letterario contro i romanzi cavallereschi, invece di una satira profonda contro l’amore della gloria e l’entusiasmo della generosità. Il povero pazzo cade sotto l’ultimo disinganno, e non può sopravvivere ai fantasmi splendidi che avevano consolato le sue tribolazioni. Egli[276] chiude gli occhi per sempre quando gli vengono meno le due grandi forze della vita, la fede e l’amore; e la sua morte chiude dolorosamente la melanconia odissea, dove il sorriso non è che pianto represso. Pantagruel ci conduce invece allegramente con lui sino all’oracolo della diva bottiglia, il cui bacchico responso conclude il libro come un sonoro scoppio di risa. Così, a dispetto di certe analogie esteriori che condussero il Gervinus fino a metter il Mendoza e Quevedo de Villegas accanto al Rabelais come inventori del romanzo comico, si può concludere che i confronti tentati da molti, dal Montaigne in qua, peccano, non solo di precisione, ma di fondamento, e che il curato di Meudon è solo e grande in un genere letterario non tentato dallo stesso Cervantes.
Certo mancano poi al Rabelais parecchie qualità estrinseche, le quali mancarono a quasi tutti gli umanisti non italiani. Il gusto in lui specialmente non è molto fino, ed i suoi scherzi grassi, le sue allusioni poco pulite peccherebbero mortalmente di volgarità se alla gauloiserie sboccata il tempo non avesse dato quella vernice d’arcaismo che copre molte magagne. I nostri scrittori del Rinascimento, eccettuati gli schiettamente pornografici come l’Aretino e il Franco, quando si trovano in faccia ad una particolarità scabrosa cercano di mascherare la volgarità coll’argutezza, e ci troviamo così ricchissimi di motti, di proverbi, di frasi che paiono scherzi e in fondo sono vere oscenità. Il Rabelais invece, come poi Beroaldo di Verville, il Despériers e gli altri conteurs gaulois, non rifuggono dalla parola propria, dalla frase tecnica, e narrano con tranquilla fronte i loro aneddoti scatologici.
Così il Gargantua ed il Pantagruel, che potrebbero quasi dirsi libri di educazione, debbono esser tenuti lontani dagli adolescenti curiosi. È ben vero che questo turpiloquio sta nel libro come il pepe in certe vivande e ne aguzza il sapore. È vero che adoperando sul Rabelais le forbici dei correttori del Boccaccio si cincischierebbe il libro intero e si ridurrebbe ad un insulso racconto da bimbi: ma è doloroso che sia così, poichè il cant italiano, ben più ipocrita in certe cose di quello degli inglesi, ci ha impedito finora di avere la traduzione di un’opera insigne, come l’hanno altre nazioni europee che non sono per questo nè più immorali nè più sboccate di noi.
L’anno scorso a Certaldo fu inaugurato un monumento al Boccaccio: quest’anno a Tours uno al Rabelais. Lasciamo i rimpianti agli scandalizzati che adotterebbero volentieri le perifrasi britanniche per esprimere i calzoni, e caviamoci il cappello, sperando che queste inaugurazioni siano un sintomo buono.
Pur troppo Francesco Rabelais è quasi sconosciuto in Italia. Gl’Inglesi hanno la traduzione dell’Urchard che è reputato il miglior lavoro possibile in simil genere, ed i lavori lessicografici del Coltgrave valsero a far conoscere l’originale anche a coloro che hanno poca famigliarità colla lingua francese del secolo XVI. I Tedeschi, oltre la fortunata imitazione del Fischart, hanno la traduzione di Gottlob Regis, molto più recente, e ricca di un lavoro pazientissimo di riproduzioni, varianti, confronti e note, che può parer pesante a molti, ma che non cessa di essere curiosissimo. L’Olanda ha la traduzione di quel Claudio Gallitalo che il Graesse, senza dubbio per errore, chiama Gabitalo. L’Italia invece non solo non ha traduzione alcuna, ma con tutto il contatto che ci fu tra la letteratura nostra e la francese, prima ai tempi di Francesco I, poi a quelli di Enrico IV, non ci è dato di rinvenire presso nessun autore il nome del Rabelais, o qualche allusione al suo libro. Sbaglierò, ma fuori di queste parole:—Cominciò a voltare, quando la vita del francese Gargantuasso—che si trovano nelle Piacevoli et ridicolose facetie di M. Poncino della Torre, cremonese (Venezia, Salicalo, 1609, facezia 46), non c’è da trovare altro. E forse questa allusione non è diretta all’opera del Rabelais, ma alle tradizioni popolari sulle quali egli lavorò il primo saggio del Gargantua, pubblicato a Lione nel 1532.
Quali sono le ragioni per le quali il Rabelais non fu e non è conosciuto in Italia? Certo l’Italia in passato ebbe, in argomento di letteratura, piuttosto un commercio di esportazione verso la Francia, che di importazione; commercio che ora è affatto invertito, per quanto l’Italia cominci[278] lentamente a produrre del suo ed a guadagnare il tempo perduto in sterili battaglie di scuole, di lingua, di ipocrisie devote. Pure la prevalente esportazione letteraria al tempo degli ultimi Valois e dei primi Borboni, non può spiegare questa ignoranza italiana intorno al Luciano, all’Apulejo moderno. Quando Enrico Estienne scriveva i suoi dialoghi du nouveau langage françois italianizé ed il Ronsard si compiaceva di quei latinismi ed italianismi messi in caricatura dal Rabelais col suo escolier Limousin qualche anno prima, gli Italiani non esportavano soltanto. Le stesse invasioni francesi portavano in Italia qualche cosa delle letterature d’oltralpe, e più tardi, al tempo di Caterina de’ Medici, gli scambi divennero tanto reciproci da poter dire che Arrigo Caterino Davila ci venne di Francia. Aggiungasi che il Rabelais fu tre volte in Italia e fu in relazione coi signori romani, da quel che che appare nella Cosmografia del viaggiatore Thevet. E certo il bizzarro frate sfratato fece bel altro a Roma che cercar semi d’insalata pel suo amico il vescovo di Mailezais, ed il suo primo pensiero non fu certo quello d’importare in Francia la lattuga romana. Il Vescovo, ci dice il Colletet, gli affidò importanti e delicatissimi affari; e le sue suppliche al Papa per essere assolto dalle censure incorse nell’abbandonare il convento, e la bolla di Paolo III (27 gennaio 1536) che gli accordava il chiesto indulto, dovettero obbligarlo e frequentare illustre persone e colte società. Come dunque, dopo la fama a cui salì dappoi, nessuno a Roma si ricordò di lui, nessuno in Italia seppe il suo nome? Come mai, di uno dei più grandi scrittori di una principalissima lingua neo-latina non si hanno traduzioni che nelle lingue del settentrione, ed è appunto presso i popoli del mezzodì, ai quali il Rabelais appartenne e pei quali scrisse, che il suo nome è poco meno che sconosciuto?
Prima di tutto non è paradosso il sostenere che i contatti del Rabelais coll’Italia furono appunto una delle ragioni che valsero a impedire la mutua simpatia. Il Rabelais non fu della tenera pasta di Abraham giudeo, il quale dai vizi de’ religiosi argomentò la virtù della religione. Egli invece capì subito che cosa era questa ortodossia cattolica fondata sulla magnificenza vana e sulla fede cieca. Capì la scienza secca ed artificiale che il cattolicismo tentava di opporre alle obiezioni della Riforma, e l’arte machiavellica che moveva le corporazioni religiose alla difesa della opulenza pontificia e i sovrani alla difesa dell’arca santa del diritto divino. Vide lo scadimento morale d’Italia e lo scadimento intellettuale che cominciava appunto allora, e sentì fermentarsi dentro quel lievito di ribellione contro tutte le imbecillità degli umili e le bestialità[279] dei grandi, col quale impastò poi la sua opera eterna. Ad ogni pagina del suo libro sentì il disprezzo per la gerarchia ecclesiastica, la satira alla gerarchia civile, l’odio alle istituzioni monastiche, la ribellione che non risparmia nulla, nemmeno i rituali, (Venite aposemus—Gargant., cap. 4), nemmeno le sacre carte (Et germinavit radix Iesse, capitolo 39). Egli, che trovava troppo caphard il Calvino, dovette ricevere ben tristi impressioni in Italia e nella società che gli toccò frequentare, dove la ipocrisia e la doppiezza erano tenute per belle e decorose arti di governo e di fortuna. Quale stima poteva avere l’ironico Rabelais di quella Italia che tollerava che la sua religione servisse per trovare un Ducato a Pier Luigi Farnese, la più oscena figura del suo secolo?
Questa triste opinione che, non a torto, il Rabelais ebbe dell’Italia d’allora, fece sì che le allusioni italiane che si trovano nel suo libro, senza essere maligne, sono spesso o quasi inconsciamente poco benevole. Non parliamo di tutto ciò che riguarda la Chiesa e la sua gerarchia, poichè un terzo del libro si può dire che non riguardi ad altro. Soltanto, sfogliando qua e là il Gargantua, si può capir subito, come la simpatia del Rabelais per le cose italiane non deve essere stata grande. Nelle prime pagine del prologo troviamo la vecchia accusa di plagiario data al Poliziano. Credete voi, egli ci dice, che Omero scrivendo l’Iliade e l’Odissea pensasse mai alle allegorie che da lui hanno burattato Plutarco, Eraclide Pontico, Eustazio, Fornuto et que d’iceux Politian a desrobé? Le cose del Giovio non erano ignote al Rabelais, ed è strano che volendo dir male del Poliziano non abbia riportata la voce che lo storico da Como raccolse dalle labbra di Leone X, che cioè il Poliziano rubasse al Tifernate morente la traduzione di Erodiano. Già il Lascari aveva accusato il Poliziano con mordaci parole per certi pretesi plagi alla vita di Omero attribuita ad Erodoto, e se crediamo alla narrazione del Duareno questa accusa sarebbe stata fatta proprio in scuola, il che mostra che si riferisce alla prelezione e non alle Selve o più specialmente all’Ambra, come sembra credere il Del Lungo. Il Budé invece, il buon amico del Rabelais, parlando nelle sue annotazioni alle Pandette dell’opuscolo de Homero attribuito a Plutarco, ci dice che il Poliziano, bravo uomo per verità, ma non troppo galantuomo, non arrossì di saccheggiare quell’opuscolo e di darlo per suo, mentre non fece che la fatica materiale di copiarlo. Non cadeva in acconcio al Rabelais di ricordare un’altra accusa del Budé al Poliziano, quella cioè di aver saccheggiato i versi di incerto autore che vanno uniti a quelli di Prisciano, e ciò nella lettera a Francesco Ursino.[280] Certo però allude al Panepistemon allorchè lo accusa di aver saccheggiato Eraclide Pontico, Eustazio e Fornuto. Il meglio poi è questo, che uno dei principali personaggi del Rabelais si chiama appunto Epistemon, nome greco che tradisce una reminiscenza del libro del Poliziano.
Non è il caso qui di difendere il Poliziano, che del resto fu troppo ben difeso. Rimandiamo alle gravi parole che il Menekenio disse intorno a queste accuse, chiamandole turpissime ed accolte solo dal pessimo volgo. Vogliamo solo far notare come il Rabelais, buon grecista egli stesso ed in caso di conoscere quanto fondamento avessero simili asserzioni, preferì di accettare ciecamente l’accusa del suo amico Budè, tanto poca stima aveva del Poliziano e delle cose nostre.
E quasi a cagione di scherno nel cap. 9 ricorda il bizzarro ed oscuro libro: Hypnerotomachia Poliphili, del domenicano A. Colonna; libro sul quale si desidera ancora uno studio critico che scopra la verità dei filosofemi sotto i geroglifici male capiti. E nella ridicola dissertazione sul significato dei colori bianco ed azzurro ricorda come autorità l’invettiva del Valla contro Bartolo, diretta al Decembrio. Tra i libri ridicoli che servirono alla istruzione di Gargantua, tra gli Hurtebise, Fasquin, Tropditeux, Gualehaut, Jehan le Veu, de Billonio, Brelingandus et un tas d’autres, c’è anche un Passavantus cum commento che non può essere se non lo Speccio della vera penitenza stampato a Firenze nel 1495 e dopo, non potendo essere la notissima Epistola m. Benedicti Passavantii scritta da Th. de Bèze contro il presidente Lyset, poichè la prima edizione è del 1553, anno della morte del Rabelais. Nè forse meno ironicamente è ricordato nel cap. 24 il dialogo di Nicolò Leoniceno: Samnutus, sive de ludo talario.—Dialogo del resto eruditissimo, che si trova ultimo nella edizione veneta del De Gregorio, 1524 (tra parentesi, nell’Ambrosiana c’è del Leoniceno una traduzione del—de bello Gothorum—di Procopio: è piena d’ioditismi, sotto il nome di Nicolò da Lonigo, e dedicata al duca Ercole di Ferrara. L’Argelati (Bib. de’ Volg., III, 297, nota c) non si accorse che da Lonigo o Leoniceno vuol dire lo stesso). Ingiustissima poi è l’ingiuria scagliata al Pontano nel capitolo 19, dove è battezzato anagrammaticamente Taponnus, forma latinizzata di tapon o tampon, turacciolo, e peggio. Il Rabelais aveva fatto stampare nel 1532 come antichi ed autentici un testamento ed un contratto di vendita. I documenti erano invece apocrifi ed autore ne era il Pontano. Il Rabelais naturalmente ci prese cappello ed ingiuriò il Pontano, al quale diede per di più del poeta secolare, che nel gergo della Sorbona significava[281] eterodosso, e lo citò come autorità nella ridicolissima arringa di Janotus de Bragmardo.
Queste poco benevoli allusioni alle cose italiane, raccolte nel solo Gargantua, suffragano abbastanza l’opinione nostra intorno alla poca simpatia del Rabelais per l’Italia. Ma più che questi colpi di dente e le allusioni ai veleni (il craignoit ly bouconi de Lombard., cap. 3) crediamo che a tener lontano i libri del Rabelais dall’Italia abbia contribuito la loro fama di dubbia cattolicità. Intendiamo dubbia per gli intolleranti e maligni come il Puits-Herbault prima ed il padre Garasse di poi. Inutilmente il Calvino, che aveva cercato di attrarre a sè il Rabelais, lo sconfessò altamente e lo trattò di ateo. L’amicizia del frate sfratato col Dolet, col Despèriers, col Marot e con altri, non giovò alla sua reputazione presso i cattolici militanti. La sua odissea monastica, l’odio contro ai conventi, i libri troppo liberi per le orecchie cattoliche e pieni di scherzi e di allusioni e di equivoci che non rispettano nulla (ad formam nasi etc., Garg. 40), gli mossero contro tutti quei cagots et papelards, la razza de’ quali non è ancora spenta. Basti a provarlo la fiera lotta che dovette sostenere nel 1545 per la stampa del terzo libro del Pantagruel; lotta nella quale la Sorbona non si diè vinta che davanti all’intervento del re. Immaginiamo dunque quel che si doveva pensare del Rabelais in Italia al tempo della furibonda reazione cattolica di Paolo III!
È quindi troppo naturale che le sue bizzarre opere siano state tenute lontane come pregne d’infezione e pericolose alla serenità delle coscienze. Non è infatti il genere delle cose trattate, non è l’arcaismo gramaticale ed ortografico così bhonomme; ma così ostico ai profani, che impedì la diffusione del pantagruelismo in Italia. Vediamo i Contes drolatiques di Onorato Balzac conosciutissimi tra noi, benchè arditi, benchè arcaici, mentre l’Apologie pour Hérodote di Enrico Estienne e l’Arte de parvenir di Beroaldo de Verville che dovrebbero avere lettori a migliaia sono conosciuti da pochissimi. L’Italia, nè allora nè poi, non fu paese dove un Filippo d’Orléans potesse andare a messa con Luigi XIV, recando seco le opere del Rabelais invece del Breviario. La poca fama che ebbe il Rabelais in Italia devesi dunque attribuire in gran parte alle precauzioni prese dai pastori per evitare l’infezione del gregge, fino a che, sotto il dominio spagnuolo, si spense affatto in Italia e nelle lettere quella indipendenza di pensiero che sola avrebbe potuto accettare volentieri le argute fantasie del parroco di Meudon.
Qui si presenta spontanea una domanda. Quello che non fu fatto, si potrebbe fare? Non sapremmo davvero rispondere.[282] Ci pare che una traduzione del Rabelais, dovrebbe esser fatta con una tale spiritosa affettazione di arcaismo nella lingua e maliziosa serietà d’esposizione che richiederebbero molto ingegno e profondissima pratica della lingua e dello stile del Trecento e del Cinquecento. Se le ragioni cattoliche esposte più sopra non lo avessero vietato, una simile traduzione avrebbe potuto esser atta in quel periodo di tempo che cominciò colle minute purità del padre Cesari e finì colle melense pappolate del padre Bresciani. Certo il Rabelais non si potrebbe tradurre come il Giusti si provò a tradurre il Montaigne.
La traduzione però non verrà. Tutti coloro che hanno interesse a conoscere il Rabelais, conoscono la lingua francese. Quelli che non lo conoscono, si contentano dei romanzi di Ponson du Terrail tradotti, e buon pro faccia a tutti quanti.
Nel teatro Tron di San Cassano, l’anno 1705, fu rappresentato un dramma per musica intitolato Ambleto e stampato da Marino Rossetti in Venezia, all’insegna della Pace. Ambleto era il signor Nicolini Grimaldi, cavaliere della Croce di San Marco e virtuoso di S. M. Cattolica. Veremonda (Ofelia) era la signora Maria Domenica Pini, detta la Tilla, virtuosa di S. A. R. il Granduca di Toscana. Fengane (il Re Claudio) era Lorenzo Santorini, virtuoso di S. A. Elettorale Palatina. Gerilde (la Regina Geltrude) era la signora Maria Maddalena Bonavia, virtuosa bolognese. Ildegarde, Valdemaro, Sifrido, personaggi che non sono della tragedia inglese, erano la signora Vittoria Costa bolognese, Pasqualino Betti, virtuoso di S. A. il Duca d’Orléans, e il signor Domenico Fontani, virtuoso del Gran Duca. Il Fétis ricorda solo il Grimaldi, celebre basso ai suoi tempi, e gli attribuisce il merito del libretto. Questo sproposito viene dal Grimaldi stesso, il quale alla stampa dell’Ambleto colla traduzione inglese, fatta dal Tomhson a Londra nel 1712 pel teatro di Haymarket, prepose una dedica al conte di Portland, dove, se non dice di aver fatto il libretto, poco ci manca. Invece l’Ambleto è, quanto alla tessitura, di Apostolo Zeno e, quanto ai versi, del dottor Pietro Pariati di Reggio. Veggasi il tomo nono delle Poesie drammatiche dello Zeno, stampato dal Pasquali a Venezia nel 1744, vivente l’autore. E il Fétis era anche in parecchie delle date che riporta, poichè il Grimaldi cantò in Londra il Lucio Vero, il Clearte ed il Pirro nel 1716 e 17, come si vede nei libretti.
La musica dell’Ambleto nel 1705 era del Gasparini, e Giuseppe Vignola, organista della Real Cappella, l’accomodò[284] a Napoli nel 1711 per l’onomastico di Carlo III. Lo Scarlatti la rifece pel teatro Capranica di Roma nel 1715, e il libretto si vendeva a «Pasquino, nella libreria di Pietro Leone all’insegna di San Giovanni di Dio». Il lettore curioso troverà che il signor Domenico Genovesi rappresentava Veremonda; Innocenze Baldini era Gerilde, e Antonio Natili Ildegarde. E alla pagina 6 stanno gli imprimatur che santificano questa castroneria e vien subito in mente l’avventura del Casanova di Seingalt col finto Bellino.
Non bisogna però credere che la tragedia dello Shakespeare fosse conosciuta ed applaudita sui teatri italiani centosettantott’anni sono, poichè l’opera dello Zeno non ha che fare con quella del tragico inglese. Derivano tutte e due dallo stesso ciclo di leggende, ma se sono dello stesso popolo non sono della stessa famiglia. L’origine prima e comune è la Historia Danica di quel Saxo Grammaticus che morì poco dopo al 1203, e origine dei primi dieci libri di questa storia sono le tradizioni ed i canti degli Scaldi. Lo Shakespeare, che non era forte nel latino, trasse l’argomento e le fioriture dai racconti tragici che il Belleforest cavò dalla Storia di Saxo. Lo Zeno invece salì alla fonte direttamente e vide le compilazioni successive del Meursio, di Giovanni Isacco Fontano e d’altri. Dati dunque i due diversi punti di partenza e dati i due differenti ingegni, si capisce come le due opere siano in fondo assai dissimili.
Non possiamo riferire la tradizione danese di Saxo, prima perchè troppo lunga, poi perchè (povera Ofelia!) troppo sboccata. Ma in fondo è questa: Fengo ha ucciso il suo fratello e re Orvendillo di Gerut e si finge pazzo per fuggire il pericolo di morte, e il re insospettito lo mette a tre prove. La prima è di fargli trovare in un bosco una ragazza vestita della sua sola bellezza, e pare che allora si stimassero i pazzi incapaci di cedere alla tentazione. Amleto, che sa di essere sorvegliato e di dover far quell’incontro, cavalca al rovescio come Bertoldo, e fugge così il pericolo di vedere e di cadere. Per la seconda prova, il re fa nascondere una spia nella camera della regina per sapere ciò che dicono; ed Amleto, che se ne accorge, ammazza la spia, dando così origine all’episodio di Polonio e dalla celebre esclamazione how now! a rat? che lo Shakespeare tolse dal racconto del Belleforest. Finalmente Fengo manda Amleto in Inghilterra per farlo uccidere da quel re, ed Amleto in viaggio ubbriaca i custodi ed alterando le lettere missive le fa uccidere in sua vece. Seguono poi altre avventure che non han che fare col dramma.
La tessitura della tragedia inglese è conosciuta, anche nel primo abbozzo stampato nel 1603, e non ne parliamo. Vediamo la tessitura del dramma italiano, per la quale bisogna sapere che Veremonda principessa fatta prigioniera in guerra da Valdemaro, e Ildegarde principessa danese, sono innamorate di Amleto, mentre Amleto, il re e Valdemaro spasimano per Veremonda. Lasciando i minuti episodi, diremo che nel primo atto il re mette alla prova Amleto facendogli trovar sola (benchè vestita) Veremonda nel bosco. Ma costei scrive con un dardo sulla sabbia: il re ti ascolta, ed Amleto si frena. In questo atto si trova il trionfo di Valdemaro che chiede la liberazione di Veremonda, e una moltitudine di dichiarazioni di amore d’Ildegarde, di Fengone e di tutti. Gerilde fa sapere a Fengone, salvandolo dai sicari di Siffrido, che lo salva perchè moglie sua e non per altro. Nel secondo atto seguono le mutue dichiarazioni. Ildegarde rifiuta Valdemaro per marito e Valdemaro rapisce Veremonda. Amleto uccide la spia nella camera materna, poichè Siffrido lo aveva avvisato del tranello, e corre a salvare Veremonda. Mentre Valdemaro cede alle parole ed alla autorità di Amleto che gli fa vedere di non essere pazzo, sopraggiunge Fengone che dà una gran lavata di capo a tutti e dice che Veremonda deve esser sua. Nell’ultimo atto Fengone fa la corte a Veremonda e ripudia Gerilde. Valdemaro sposa Ildegarde e promette di imprigionare Fengone. In una festa nella quale Fengone vuoi celebrare le nozze con Veremonda, accade fra lui ed Amleto il noto scambio delle tazze, ed il tiranno alloppiato è incatenato da Valdemaro. Fengone canta il suo rondò colle catene e tutto si accomoda pel meglio.
Come si vede da questi pochi cenni, salvo l’uccisione della spia e lo scambio delle tazze, non c’è nulla che ricordi lo Shakespeare, e l’Amleto dello Zeno è uno di quei drammi come ne fece tanti il Metastasio, le cui situazioni consistono tutte in un pasticcio di amori intrecciati e fuori del naturale che arrivano ad accomodarsi alla meglio nelle ultime scene. La Veremonda è centomila miglia dalla candida Ofelia e odora di polvere di cipria che fa spavento. A guardar bene, pare quasi che il matto sia Fengone e non Amleto, e l’unica situazione che si allontani un poco da quelle che allora si trovavano in tutti i drammi è quella in cui Veremonda avvisa Amleto che lo si ascolta. È curioso poi vedere come la stessa, o quasi la stessa situazione abbia inspirato allo Shakespeare il famoso monologo to be, or not to be ed al dottor Pietro Pariati questi versi
Stelle, voi che dei regnanti
Le fortune in ciel reggete,
Proteggete la mia speme, ecc.
e questi altri:
Quando io torni, voi vedrete,
Che il baleno, il lampo, il folgore
Meco in terra io porterò.
Le tempeste, le comete,
Il terror, la strage, il fulmine
E la morte in pugno avrò.
Le famose invettive d’Amleto contro la madre finiscono così nel dramma italiano:
Della vendetta il fulmine
Sopra di te cadrà.
Regina senza regno,
Consorte senza sposo,
Non so se a riso o a sdegno
Ognun t’additerà.
Chi volesse fare uno studio comparativo più largo, badando alle differenze delle sorgenti, dei tempi, degli ingegni e delle tendenze letterarie nazionali, potrebbe trovar molto da lavorare. A noi basti lo avere accennato la bizzarra figura dell’Amleto italiano a coloro che si dilettano di curiosità letterarie.
I dubbi nati sull’autenticità della Cronaca del Compagni misero a rumore pochi anni sono il campo letterario ed erudito. Il povero Fanfani, con un impeto che oltrepassò spesso i giusti confini, fu il campione della contraffazione. Il signor Isidoro Del Lungo, con un riserbo che in lui e nella sua parte parve spesso sfiducia, era ed è il campione dell’autenticità. Da molto tempo era annunciato ed aspettato un grave commento del signor Del Lungo alla Cronaca, commento che avrebbe sciolto ogni dubbio e rischiarato ogni oscurità; ed eccolo, morto appena da pochi mesi il più tenace avversario, eccolo alla luce con un volume di proemio al quale presto farà seguito un secondo.
Sono sciolti ora i dubbi? Per dare una sentenza ci vuole uno studio profondo della lingua e della storia fiorentina ne’ primi anni del secolo decimoquarto, e, quanto a me, confesso candidamente di non essere giudice competente. Lascio quindi la toga e la bilancia a chi per lungo studio e grande amore sia giunto in autorità di sentenziare, ed aspetto almeno le risposte della parte avversa. Però avendo seguito con attenzione curiosa le fasi di questo processo, non posso resistere alla tentazione di esprimere l’effetto che ha prodotto in me il poderoso lavoro del Del Lungo, e lo faccio volentieri, pensando che spesso il parere dei minimi è utile come segno dell’impressione de’ più, e che la leggenda d’ella serva del Molière non è da sprezzare.
Intanto l’autenticità lasciamola da parte. Il Del Lungo in questi due volumi non ne parla, che anzi l’ammette a priori, sino a correggere col Compagni il Villani (p. 35, nota 13 ecc.). La seconda parte del primo volume, che è sotto i torchi, dovendo ragionare delle vicende del testo, credo ne parlerà, benchè l’indice già pubblicato non ne lasci che poca speranza. Che se tacesse, sarebbe peccato, poichè tacere non è il miglior modo di aver ragione. È vero che questa eterna questione fa capolino da per tutto, dal facsimile del codice Ashburnham sino quasi alle minime glosse. È evidente un continuo sforzo di combattere senza averne le apparenze, di confutare fingendo di sprezzare le obbiezioni, tacendone gli autori. Ma poichè al Del Lungo sembra profanazione il dubitare di cosa da lui ammessa con così profonda e sincera convinzione, e poichè non è mia intenzione fare una polemica dove voglio soltanto esporre impressioni; rimanendo tuttavia nel mio scetticismo (non soddisfatto nè pro, nè contro, anche dopo il codice trovato), lascerò da parte, come ho detto, la questione dell’autenticità, e la irrequieta ombra del Fanfani ce lo perdoni.
E a dirla in poche parole, l’impressione è che la Cronaca sia una brutta cosa, vuoi come opera storica, vuoi come lavoro letterario. Basterebbe già a farlo vedere l’enorme puntello di commenti che richiesero i pochi fogli del testo. Tanti non ne richiese Dante che non scrisse una storia. E lo stesso commentatore, versato quant’altri mai in cose di storia fiorentina, e per di più, se non erro, accademico della Crusca, molte volte ha dovuto pentirsi e correggersi e racconciare e disfare e rifare. Le tracce sono palpabili nel libro e l’istinto del bibliografo trova subito le carte soppresse e sostituite, come a pagine 21, 49, 59 ecc. E per mediocre che questo istinto sia, fa subito trovare il mal fatto che sta fra le pagine 50 e 51, dove nella pag. 50, sostituita alla vecchia, la nota 19 finisce a piè di pagina, mentre a pag. 51 seguita una nota vecchia che non potè essere soppressa tutta, non solo, ma che è citata alla nota XII, 4. Questa erculea fatica, spesso inane come le carte confessano, durata da un uomo come il Del Lungo, fa manifestamente vedere che razza di pasticcio sia la Cronaca così leggermente portata al cielo dal Giordani, abbagliato dal falso luccicchìoì delle apostrofi generose e dello stile apocalittico. A che pro, si aggiunga, rafforzare ogni parola del testo con un quaderno di prove tratte dagli archivi o dalle cronache, quando di certe cose nessuno dubita? Perchè la coscienza trae il commentatore a provare, per esempio, che il gonfalone portava la croce rossa in campo bianco, se non[289] fosse che egli stesso sente come le affermazioni del Compagni non hanno valore se non han prova? Direbbe il Fanfani il noto adagio excusatio non petita, con quel che segue. Ma si potrebbe anco dire che quanto più l’abbondanza delle glosse fa notare la precisione dei punti non controversi, tanto più fa risaltare l’errore dove è forza confessarlo. Come scusare, per esempio, l’inesplicabile silenzio intorno alla guerra di Pisa, sulla quale pure Dino fu chiamato a consulta? E non è strano il silenzio circa il tentativo dei Grandi nel luglio 1295, fatto viemeglio risaltare dalla scusa addotta dal commentatore, il quale ci dice che Dino in quel punto aveva fretta di venire al suo argomento, mentre allora appunto si perde a narrare storielle, come quella della lanterna del Pecora? Storielle che parvero al Del Lungo dare una imagine assai più vera che non il Villani dello stato di Firenze dopo cacciato Giano della Bella. Ma i criteri di questa verità relativa non possono desumersi che dalla fede che si ha nell’autore, in quello stesso autore i cui errori debbono esser così spesso confessati. Ed ecco come accade che tutto l’apparato difensivo, allorchè si mostra e si confessa debole qualche punto, fa i leggitori più severi, o almeno più dubitosi e non a torto.
Soltanto a dare un saggio delle osservazioni possibili, dei dubbi non risolti, degli errori confessati, ci vorrebbe troppo più che un volume. Scorrete solo le prime cento pagine, ed ecco alcune delle cose che si potrebbero dire: Pag. 8. Fiume di acqua dolce. Fiumi d’acqua salata non ce n’è, e non suffraga l’esempio addotto dei «Fatti di Cesare», che dice fiumi di dolce acque. Questo è il chiare, fresche e dolci acque del Petrarca, che a trasmutarle in acque dolci si vede subito quello che diventano.—Pag. 14. Dice Dino che il Buondelmonti doveva sposare una Giantruffetti, ed invece era una Amidei. Il commentatore nota che ad ogni modo l’Amidei aveva per zio un Giantruffetti e «la differenza è di poco momento». Da padre a zio ci corre!—Pag. 19. La parentesi che interclude le nozze di m. Forese è correzione del commentatore. Potrebbe essere impugnata, notando che i montò, riguardò, diè ecc., sono passati perfetti tanto quanto i concordarono e gli ordinarono che vengon dopo, nè segnan quindi un tempo speciale pel periodo intercluso.—Pag. 28. La storia del Lucchese Priore di Arezzo morto in una cisterna non resta di esser contraddetta da quel L. Aretino detto alla pagina seguente di maggiore autorità che non il Vilani, come quello che narra fatti della[290] città sua nativa.—Pag. 29. La questione circa il Vescovo di Arezzo, che era degli libertini mentre Dino lo vuoi de’ Pazzi, rimane tal quale. Il Del Lungo confessa l’errore, cercandone la giustificazione nell’errore simile di un cronista più recente e nella parentela fra le due famiglie. Ed errore sia.—Pag. 30. È confessato errore quel che Dino afferma circa il castello di Poggio S. Cecilia, che non era del Vescovo ma dei Sanesi; e sia errore.—È riconosciuta alterata, almeno nelle date, la storia dell’arbitrato fiorentino; e sia.—È confessata errata la data della terza guerra dei fiorentini in Toscana; e sia.—Pagine 38, 39. La famosa descrizione della Battaglia di Campaldino resta sempre buja. Missono i feditori alla frontiera della schiera... e i palesi furono attelati dinanzi. Dinanzi a chi? Alla schiera? Ma c’erano i feditori. Dinanzi ai feditori? Ma come allora questi erano alla fronte della schiera? Annota il Del Lungo: in prima linea... di fianco. Ma Dino dice: dinanzi e non di fianco, che non è lo stesso. E il resto della battaglia lasciamolo stare.—Pag. 50. Ventiquattro arti per ventuna è confessato errore. Grave, poichè al tempo di cui si parla e nel tempo in cui si scrive dallo storico, le arti non furono mai ventiquattro. Un ex-priore e gonfaloniere non lo sapeva? Ma errore sia.—Pag. 52, 53. L’imbroglio dei Galigai! Dice Dino: «Pochi malefici si nascondeano che dagli avversari non fussimo ritrovati; molti ne furono puniti secondo la legge. I primi che vi caddono furono i Galigai, perchè un di costoro ferì un Benivieni in Francia, e io Dino Compagni, ritrovandomi gonfaloniero di giustizia nel 1293, andai alle loro case e de’ loro consorti e quelle feci disfare secondo la legge». È parlar chiaro. Resta solo che il Benivieni fu ucciso da uno dei Galli e che la esecuzione relativa prima in data fu opera di Baldo Ruffoli. Il commentatore ripiega così: Dino non dice di essere stato il primo ad eseguire la legge, ma il primo a punire il maleficio già nascosto, poi dagli avversari scoperto. Il ripiego è ben sottile e veramente Dino dice che molti furono puniti secondo la legge e primi i Galigai, ma lasciamo stare. Resta però che il Galigai sarebbe reo dell’assassinio del Benivieni, secondo Dino, mentre risulta che il reo fu invece uno dei Galli. Ed ecco il commentatore ricorre ad una ipotesi. Il Galigai era complice dei Galli: questi fu scoperto subito e l’esecuzione fu fatta dal Ruffoli; quegli più tardi e l’esecuzione fu opera di Dino. Siamo nel campo delle ipotesi ed è qui che ci sarebbe voluto qualcuno di quei documenti tanto inutili altrove, ed è ben lecito non fidarsi di uno storico che per essere capito ha bisogno di potrebbe essere. Ma come accade poi[291] che Dino continua subito: «Questo principio seguitò ecc.?» Ci pare che questo principio significhi che la esecuzione fu la prima in data. Dino non può aver parlato in generale dei principii di un ordine di fatti riferendosi ad un fatto solo, speciale e determinato. Annota il Del Lungo: «A questi esempi di rigore tenne dietro ecc.». No; il fatto è sol uno e doveva dirsi: «A questo esempio». Dunque? Dunque Dino dice una bugia e la dice apposta. Dunque come fidarci di questo storico?—Pag. 69. Scesono col gonfaloniere in piazza. Non dice così il Villani. Chi ha ragione?—Pag. 74. Non furono ventimila i fiorini pagati allo Chalons. Si confessa l’errore, e sia.—Pag. 81. Molti furono che cercono i malefici si trovassino che ne furono malcontenti per essere colpevoli. Questa curiosa strambezza è così annotata: Molti i quali... si erano creduti di assicurarsi col mostrare zelo e così di ricoprire i loro malefizi, si trovarono a vederseli scoperti. Ma non dice il testo che fingessero a quel modo per coprirsi; dice solamente e sinceramente, cercorno i malefici si trovassino. La spiegazione è ingegnosa, ma rinchiude in sè la affermazione di un fatto del quale non si trova traccia nell’autore, e quando uno storico ha bisogno di puntelli simili può andare a riporsi.—Pag. 90. Guido Cavalcanti era forse gentile verso il 1300, ma non giovane come dice Dino. Dato che avesse almeno vent’anni quando nel 1267 sposò la figlia di Farinata degli Uberti, nel 1300 passava la cinquantina. Dice il Del Lungo che la inimicizia tra Corso Donati e Guido era antica forse, e che agli esordi di quella si riferisce la parola giovane. Ma Dino narra un fatto vicino al 1300. Non sarebbe strano il discorso di chi dicesse: Adolfo Thiers, valente giovane, che s’era occupato di studi storici e politici, fu fatto presidente della repubblica? Thiers si occupò di storia da giovane e Guido può aver odiato Corso da giovane. Ma quello fu fatto presidente da vecchio e questi da vecchio avrebbe lanciato il dardo a Corso, poco giovane anch’egli. Che stranezze dunque dice lo storico? E per finire? sono belli doti di uno scrittore, e specialmente di storia, quelle continue anticipazioni e retrocessioni nel racconto, fatte senza che lo si annunzi, e che in certi luoghi, come nel racconto delle prime divisioni de’ Cerchi e de’ Donati, vogliono una data ad ogni frase? E la storiella dell’Acciajuoli, che venne poi, con che criterio cronologico è incastrata in quella del potestà Monfiorito da Padova, che non era da Padova ma di Treviso? E tutto l’andirivieni di fatti o più recenti o più vecchi che fanno un labirinto intorno alla legazione del Cardinale d’Acquasparta? Ma che storico è questo che ha bisogno di tanto commento dove si dice[292] al lettore ad ogni tratto: bada, questo accade prima, questo poi, qui torna un passo indietro come nelle favole, qui fa un passo avanti come i profeti? Ma fermiamoci a queste prime cento pagine e solo a quello che salta agli occhi ad una prima lettura. Chi vuol seguire troverà di peggio, e se ci si raccapezza in quell’indovinello del terzo libro, anche dopo le note e i rabberciamenti, è bravo. E mi fermo, poichè solo da queste cento pagine sembra giustificata la mia impressione prima, che cioè il Compagni, come scrittore e come storico, non meriti il chiasso che se ne fece. Il commento del Del Lungo è opera grave e magistrale che diverrà una miniera aperta di documenti e di prove storiche, ma non potrà far mai bello quel che non è, e sicuro quel che è provato falso tanto spesso. Questo sembra oramai provato dallo stesso commento. Resta ora, e prenderà nuove forze e nuovi aspetti, la quistione della contraffazione, o almeno dell’alterazione; ma spetta ora la parola ai maestri. Parlino dunque.—
Un italiano ha scoperto l’America, ma resta agli italiani di scoprire la Sardegna.
Se c’è infatti una parte del nostro paese che sia poco conosciuta è questa antica Ichnusa della quale ci ricordiamo solo quando si debbono levare i coscritti o riscuoter le tasse. Dal 1848 in qua udiamo sciogliere inni sonori al patriottismo, alla fermezza del Piemonte; inni meritati senza dubbio, ma ingiusti in quanto dimenticano quella disgraziata Sardegna che pure ebbe comuni col Piemonte i sacrifizi grandi e la tenacità dei propositi. E destino, è triste destino della Sardegna l’essere dimenticata. Sul continente se ne ricordano appena coloro che vi furono a domicilio coatto.
Per molto tempo è stata tenuta come un luogo di punizione, una Nuova Caledonia italiana. Quando non si sapeva dove ficcare un impiegato o un maestro perchè tutti protestavano contro la sua morale o la sua intelligenza, lo mandavano in Sardegna; così che la povera isola serviva di immondezzaio alla spazzatura della burocrazia italiana. I sardi se ne dolevano amaramente e con ragione, ma i loro gridi di dolore non arrivavano di là dal mare, o se ci arrivavano erano inutili. Trattata da figliastra, colla peggior polizia e la peggiore istruzione possibile, la Sardegna aveva poi il gusto di sentirsi rimproverare l’ignoranza de’ suoi montanari e la poca sicurezza delle sue montagne; come se quello stato anormale di cose non fosse appunto colpa di coloro che la trattavano a quel modo.
E, pare impossibile! i viaggiatori che ormai non sanno più trovare un luogo che non sia descritto per lungo e[294] per largo dalle guide del Murray e del Baedeker, che dalle regioni del polo a quelle dell’equatore hanno visto tutto, illustrato ogni sasso, raccontato ogni uso, non pensano a scoprire questa incognita Sardegna; ed i lettori di viaggi e di descrizioni facili ed amene sono ridotti alle leziose imbecillità svesciate dal padre Bresciani in un ridicolissimo zibaldone che passa tuttavia per la migliore delle sue opere. I libri più gravi che pure sono stati scritti intorno all’isola, o per il loro intento scientifico o per qualche altra ragione sono lettera morta pei continentali, e la Sardegna per noi rimane misteriosa come le sorgenti del Nilo.
Eppure se c’è un paese originale è la Sardegna. Originale in tutto, dal dialetto alla flora, dai costumi all’aspetto. Certo, a fermarsi a Cagliari, la nota originale non si trova; ma chi è viaggiatore vero e non volgare visitatore di alberghi, procede, s’interna nei boschi inesplorati e sale ai villaggi annidati sui monti. Là si trova, in seno ad una natura selvaggia, una vita rigogliosa e strana che non ha riscontro in nessuna altra provincia italiana. Lasciamo al padre Bresciani le sue pappolate colle quali vuol mostrare ai gonzi l’identità dei costumi sardi con quelli orientali antichi, ma studiamo un poco queste singolarità degne di studio.
Un libro che ha questo intento è quello di Ottone Bacaredda intitolato Bozzetti Sardi e stampato dal Sommaruga. Sono dieci narrazioni curiose che tutte riguardano qualche singolarità delle costumanze sarde. C’è del patriarcale nella prima, La porchetta del mio figlioccio, che ci mostra l’interno di una brava famiglia popolana e le feste del puerperio un po’ messe in soggezione dall’intervento di un cittadino. Il buon cuore di questo popolo rude, ma migliore della sua fama, è ben dipinto nel secondo bozzetto, Filemone e Bauci, dove due vecchi senza prole adottano una povera creaturina trovatella che rinvengono abbandonata sul loro uscio, e la fanno loro filla de anima e la chiamano Baròra di comune accordo, col nome della prima moglie del buon Filemone. Tranquillità di coscienza, placidità di affetti che ha qualche cosa di antico, della imperturbabile pacatezza della virtù.
Ma il bozzetto che dà più a pensare è il terzo, Silvone.
Silvone in dialetto significa cinghiale. Innamorato e non corrisposto si fa soldato, ma è riformato per ipertrofia di cuore. Torna a casa, e il padre morente gli lascia in eredità Basilio Manca, il sindaco del natìo comune.
In questo lascia in eredità c’è qualche cosa del côrso, anzi in fondo non ci si trova che la celebre bindetta, la vendetta famosa che il Mérimée analizzò così bene nella[295] Colomba; il moribondo insomma legava al figlio quell’omicidio che egli non aveva potuto compiere.
Silvone si reca dalla innamorata antica, trova che il marito le è stato assassinato e la sente offrirgli la mano al prezzo di una vendetta sullo stesso Basilio. Silvone accetta, ma il sindaco, che sta sull’avviso, approfitta del primo furto commesso in paese per accusarne l’uomo dal quale ha tutto da temere e che deve così gettarsi alla macchia, bandito.
La soluzione del dramma è troppo facile ad indovinare. Un bel giorno Silvone ammazza il sindaco, ma cade nelle mani dei carabinieri per passare dalla Corte d’Assise alla galera. L’autore ci dice che il suo eroe espia in un bagno i suoi falli e quelli del destino, ma il destino, molto probabilmente, ci ha minor colpa di coloro che hanno finora tenuto il seggio e battuta la solfa nel governo.
Li sentirete compiangere questi disgraziati paesi dove regnano ancora tanti atroci pregiudizi, ma a chi domandasse loro che cosa abbiano fatto per estirparli, non saprebbero rispondere, o al più risponderebbero che hanno mandato i carabinieri. Bella risposta! E iniquo il paese che imputa l’ignoranza e la ferocia ad una provincia, quando poi ha fatto tutto il possibile per mantenerla nell’ignoranza e nella ferocia.
Il suicidio di Costantino—In procinto di pigliar moglie—Un delegato straordinario, sono calme pitture di costumi, come Funerali e nozze—Il ballotondo, lo sono di usanze singolari. Zio Daniele e Federica appartengono invece ad una maniera più oscura, più drammatica, pur tuttavia non distaccandosi dalla fisonomia generale di questi studi paesani.
Il signor Bacaredda, che dal nome almeno sembra sardo, dovrebbe egli scoprirci il suo paese. Dal continente ci si va qualche volta per qualche inaugurazione, a far dei discorsi e de’ pranzi. Egli che è in casa sua e ne conosce quindi i segreti più intimi che sfuggono ai viaggiatori d’un’ora, egli ha il debito di dirci intera la verità sulla sua patria, anche se scottasse le labbra.
Sarà pur sempre un bene cogliere i governanti in flagrante delitto almeno di negligenza. Impareremo.
Ai tempi d’una volta si facevano i poemi lunghissimi e le novelle corte.
Bernardo Tasso e Luca Pulci non facevano economia di ottave e mettevano in fila, l’uno dietro l’altro, i canti sempiterni, tutti colla loro brava ottava di argomento in principio. Le novelle lunghe invece si contavano sulle dita. Franco Sacchetti le scrisse anche più brevi del Boccaccio, e l’uso si mantenne, salvo qualche rara eccezione, come si mantenne l’uso dei poemi lunghi fino all’arcilunghissimo Cicerone del Passeroni ed al Poeta di Teatro del Pananti.
Ora accade il contrario. Il romanzo ha soffocato la novella, e sapete che i romanzi si fanno lunghi. Walter Scott ne ha fatti di buona misura, Balzac si può quasi dire che ne abbia fatto soltanto uno e lunghissimo col ciclo della Commedia umana. Nel genere narrativo tutti conoscono la serie di racconti che tiene dietro ai Tre moschettieri, poichè appunto è questo genere di romanzi che surroga i poemi cavaliereschi narrativi. I romanzi sentimentali o intimi hanno lasciato le lungaggini di Clarissa Harlowe, ma quelli di avventure sono sempre lunghi e me ne appello all’ombra lunghissima di Ponson du Terrail ed ai suoi discepoli vivi. Si fanno invece delle poesie brevissime, dei lieder di tre strofe che contengono una novella d’amore, dei sonettini in cui si cristallizza tutta una pietosa storia. Longfellow restringe un romanzo di avventure nelle poche strofe dell’Excelsior, Zola invece diluisce una novella intima nei molti volumi dei Rougon-Macquart. Insomma, dove una volta si andava per le lunghe in versi e per le corte in prosa, ora si va[297] per le lunghissime in prosa e per le cortissime in versi.
Pare quasi che col crescere della coltura scemi l’importanza della poesia; il che darebbe ragione a coloro che sostengono essere la poesia un linguaggio primitivo, il segno della prima età letteraria delle nazioni. Tucidide non potrebbe infatti precedere Omero, e le plebi meno colte preferiscono anche oggi i Ruggeri del molo di Napoli ai Promessi Sposi, che restano intelligibili, nella intima bellezza loro, soltanto alle classi più colte. Il che spiegherebbe la ricchezza della poesia popolare e semipopolare, e il diluvio delle canzonette a un soldo che inonda i villaggi e le campagne. E dall’altro lato il crescere del romanzo sarebbe un segno di coltura progredita. Queste conclusioni, che sono logiche una volta ammesso il principio, non mi sembrano però forti in gamba, poichè non è facile ammettere che i romanzi ebeti delle appendici dei giornali segnino un grande progresso di coltura. Certo, fatto il confronto tra la storia di Mastrilli e un romanzo di Boisgobey, è meglio quest’ultimo e segna un passo avanti: ma il progresso è così tenue, da credere proprio che noi ci siamo allontanati molto dalla età letteraria primitiva e preistorica. I Zulù saranno più addietro, ma i lettori di certe appendici non sono molto avanti.
C’è però romanzo e romanzo. C’è quello commerciale e quello letterario; come ci sono le camicie di cotone per coloro nei quali il portar la camicia segna un progresso, e le camicie di tela fina per coloro che sono in grado di gustare la differenza di sensazione che procurano le due stoffe al contatto dell’epidermide ed hanno i mezzi sufficienti per cavarsi questo gusto. Si vendono più camicie di cotone e se ne vendono anzi di quelle che dopo un giorno d’uso diventano frangia. Si smercia più paccotiglia che roba fina, ma questo sta nell’ordine naturale delle cose e ci vuol pazienza. Dico soltanto che il vero segno di un progresso materiale sta nel crescere dello smercio delle camicie di tela, come il segno di un progresso vero di coltura sta nel crescere del consumo dei romanzi letterari, cioè fatti con un intento artistico, trattati con intelletto di arte, pensati, lavorati, finiti. Quando le carte del Pickwick Club avranno più lettori del Rocambole, allora veramente il termometro della coltura generale avrà lasciato le temperature invernali per salire ai gradi più alti della primavera e poi di quella estate che matura i frutti.
Anche in Italia si comincia a vendere romanzi di tela fina. Nella Italia media e meridionale il romanzo era scomunicato, come gli artisti di teatro.
Mi ricordo che il direttore spirituale in collegio, ad ogni predicozzo che ci faceva dall’altare, cascava a parlare dei romanzi, dipingendoceli come la sorgente di tutti i mali e di tutte le immoralità. Secondo lui a leggere romanzi si perdeva l’anima e il corpo, si cascava nelle ugne di Satanasso e si facevano i primi scalini del patibolo. Delle donne di teatro non ce ne parlava mai e doveva avere le sue ragioni; ma, se avesse potuto dircene qualche cosa, non avrebbe certo parlato diversamente.
È vero che queste paterne catilinarie non ci vietavano di legge Paolo de Kock sotto ai banchi, ma l’avversione o la paura che le classi dominanti avevano del romanzo, impediva il suo sviluppo indigeno, si opponeva alla produzione. A questo modo una gran parte d’Italia, fertilissima di ingegni inventivi e raffinata molto in linea di gusto, era condannata ad una sterilità coatta, ed i lettori o si inebetivano sui romanzacci di contrabbando o s’addormentavano sulle minchionerie del padre Bresciani. Il Manzoni sarebbe stato impossibile a Modena e il Guerrazzi impossibilissimo a Roma. La principale produzione dei romanzi è rimasta quindi a quelle regioni d’Italia che più vi si erano potute esercitare e dove le classi dominanti pensavano piuttosto ad impedire le manifestazioni politiche che le discussioni di religione o di morale. I cataloghi de’ librai milanesi o torinesi riboccano di romanzi. A Firenze, a Bologna, a Napoli non se ne stampa quasi nessuno.
Così la novità di questa stagione di bagni e di acque è il romanzo di Enrico Castelnuovo intitolato Nella Lotta e stampato dal Treves in Milano.
Non si tratta di un romanzo commerciale imbottito di assassini, di avvelenatori, di duelli e di processi. Non è uno di quei pasticci che, sotto il nome di romanzi giudiziari, sono avidamente inghiottiti dalle donne isteriche. È un lavoro d’arte, un romanzo letterario che, per coloro i quali vogliono una tesi dappertutto, anche nei brindisi e nelle bosinade, ha il vantaggio di sostenere appunto queste due massime: che la vita senza il lavoro e la lotta non è degna di essere stimata: che non si deve sposare una donna soltanto perchè è bella ed onesta.
Quest’ultima massima pare a prima vista un paradosso, ma non lo è. Non basta che la donna sia bella ed immacolata, bisogna che abbia l’energia e la serietà necessarie per trionfare appunto in quelle lotte senza le quali la vita non ha pregio. Le donnine che non sanno pensare altro che ai nastri e che passano la giornata tra le ciarle con le amiche e le discussioni con le modiste, sono perfettamente spregevoli, e gli uomini deboli che cascano[299] nelle reti loro, imbecilliti dalle moine che vogliono parere educazione squisita, meritano i tormenti che soffrono. Si grida tanto che negli uomini bisogna sviluppare il carattere, e non si parla delle donne che ne hanno bisogno quanto e più dell’uomo! Si capisce che il matrimonio riesca un peso e che il divorzio divenga una triste necessità quando per tante donne l’ideale della vita sta nel parere una bella bambola, ben vestita e ben dipinta. Non importa certo far le cuoche e le lavandaie, ma bisogna saper vivere questa vita com’è, non pretendendo di chiudersi in una morbida scatola di bambagia. Quando il marito non ha in casa altro che una bella donna, fa presto a ricordarsi il racconto di La Fontaine Le pâté d’anguille e il detto volgare toujours perdrix. Ma quando la moglie prende parte anch’essa alla lotta quotidiana, quando è la confidente e la consigliera del marito e sa combattere e vincere anch’essa, ridiventa la nostra costola e non ce la possiamo cavar dal petto senza dolore. Moralizzo forse, ma dico la verità.
Quanto poi all’arte del Castelnuovo, direi che egli mi pare piuttosto disegnatore che coloritore. Il suo romanzo è come un quadro della vecchia scuola toscana, disegnato, composto, delicato, commovente anche, ma non colorito come un quadro veneziano, non luminoso, non plastico. Più che dagli oggetti esterni, più che dalla scena, egli è colpito dalle sensazioni intime che analizza con molta finezza. Non descrive, racconta. Così egli si accosta ai romanzieri della Revue des deux mondes, ai Cherbuliez, ai Theuriet ed altri insigni, e non ha l’arte energica, vigorosa di colorito e di rilievo di quello Zola, che può essere vituperato da molti per ragioni che qui non importa dire, ma che rimane però sempre un artista forte ed originale. Nel Castelnuovo c’è sempre una mitezza, una misura nel tocco, che se non fosse temperata da una certa arguzia mascherata di bonomia, cascherebbe nel freddo e farebbe giudicar male uno scrittore che ha tutti i pregi per riuscire, tranne la lingua.
La lingua!.... Ma a parlarne si prende del pedante.
Silenzio.
È strano come i pregiudizi s’impongano anche a coloro che credono di non averne. Per non dire altro, la questione suscitata da Emilio Zola circa il romanzo sperimentale, ha fatto veder chiaro che molti ingegni, i quali si credono e si proclamano liberi, hanno invece la ferrea palla e la catena attaccata come i galeotti. Stranissimo poi è che certe teorie trovino appunto i nemici più fieri là dove dovrebbero trovare dei naturali alleati; dico nel campo dei repubblicani od almeno tra coloro che senza militare attivamente nelle schiere repubblicana, vanno un po’ più avanti che non sia lecito ad un sostenitore del presente disordine di cose.
Per giustificare la loro avversione alla letteratura che cerca di sostituire lo studio della verità alla fecondità della imaginazione, ripetono quel che hanno ripetuto gli scrittori di teorie politiche ed i seguaci di Nicolò Machiavelli, cioè che la repubblica non può esistere che basata sulla virtù; ed aggiungo che la letteratura sperimentale essendo necessariamente immorale, deve essere respinta da ogni convinto e sincero repubblicano.
La repubblica deve esser basata sulla virtù? Questa affermazione mi è sempre sembrata una di quelle magnifiche sciocchezze che proferiva l’egregio signor Prudhomme, il faceto e maestoso personaggio inventato da Enrico Monnier. Ma quale virtù? Fate solo questa innocente domanda, quale virtù? e la magnifica frase cade in rovina. Delle virtù che ne sono di millanta tipi. C’è per esempio la virtù secondo i cattolici. Vorremo esser virtuosi a quel modo e tendere la guancia sinistra a chi ci schiaffeggiò la destra? Bella repubblica sarà quella che si fonda su quella virtù! Direte che la virtù cattolica non è virtù, e sia.
Ma quale sarà dunque questa benedettissima qualità che deve servire di fondamento a questa benedettissima repubblica? C’è per voi un assoluto, una morale superiore alle evoluzioni civili e sociali? E se c’è, qual’è? Non[301] basta ripetere i due o tre assiomi del diritto romano, del decalogo o della dichiarazione dei diritti dell’uomo. La condotta è qualche cosa di troppo complesso perchè due o tre massime sante possano valere a darci una norma sicura nelle mille contingenze della vita. E stringendo le cose, e venendo alla conclusione, bisogna confessare che questa virtù necessaria alla solidità della repubblica è la virtù repubblicana. La quale, ch’io sappia, non ha mai imposto la esclusione del romanzo sperimentale come pericolosa agli ordini civili, perchè tra le altre cose, ha bisogno ancora di essere messa al mondo, povera virtù, di crescere e di farsi capire. Non lanciamo dunque anatemi in nome di un vangelo che non è stato ancora scritto.
Ma, si dice, il romanzo sperimentale è la stessa cosa della pornografia e quindi ecc. ecc. Adagio! Chi ve l’ha detto? Per me, intanto, in questa affermazione trovo o una ignoranza crassa o una malafede cattolica. Io non capisco e non capirò mai che si dica, per esempio, che la lirica è la laudazione di Madonna Laura perchè il Petrarca nel suo canzoniere ha lodato madonna Laura.
C’è un romanzo realista che rasenta il pornografico? Ammettiamolo, benchè i romanzi dello Zola non siano per me in quel caso. E che per ciò? Direte che le novelle sono di necessità pornografiche perchè il Boccaccio è di manica larga? Eppure ci sono le novelle del padre Cesari che seccherebbero il mare a forza di pudicizia.
Qui si confonde una questione di metodo con una questione di tendenza; qui si giudica tutto il poema cavalleresco dal solo canto di Fiammetta.
Siamo in buona fede, se è possibile. Quando mai i difensori del romanzo sperimentale affermano che si debba esser pornografi? Quando mai fu dimostrato che non si possa fare un romanzo sperimentale, che sia morale?
Perchè dunque queste sentenze a priori che si sentono tutti i giorni schizzar fuori dalle caste bocche dei critici pudibondi contro questo povero sperimentalismo? Eppure qual’è il canone primo degli sperimentalisti nell’arte? Essi vi dicono: fino ad ora per esser buon romanziere bisognava essere uomo di grande fantasia, di immaginazione feconda. Ora queste facoltà sono stimabili, eccellenti, ma non è per mezzo loro che ci avvicineremo alla verità. Le altre arti hanno cominciato da un pezzo a studiare dal vero, e il romanzo non fa parte anch’esso dell’arte rappresentativa? L’immaginazione è una bella qualità, ma l’ideale del romanzo sarà dunque quello di Giulio Verne?
L’immaginazione non deve essere esclusa, s’intende. Dice il chimico che sperimenta: come si comporterà il[302] tale metallo immerso nell’acido tale? E il romanziere: come si comporta il carattere tale quando si trova nella tale circostanza? Come si vede, la fantasia non è esclusa, poichè a lei spetta di cercare l’occasione, di trovare la circostanza nella quale mettere a sperimento un carattere.
Ma il carattere, l’occasione e le relazioni intermedie non spettano più alla fantasia, che deve limitarsi a metterle in presenza tra loro. Devono esser desunti dal vero, e non può essere lecito in questa forma letteraria, d’inventare carattere e modo di condursi di una persona imaginaria in faccia ad avvenimenti inventati. Si tratta insomma di mettere la fantasia al posto che le spetta. Non si faccia la storia nuda e cruda, ma non si facciano nemmeno i racconti delle fate.
Che cosa ci sia di scandaloso e di pornografico in queste massime, davvero non saprei vedere. Ma è necessario, pare, per la letteratura virtuosa che il protagonista sia un eroe, lo donna un angelo, il tiranno un mostro d’iniquità e così via. È il sistema del teatro a soggetto, dove il carattere di Arlecchino, di Pantalone e di Brighella era già fatto e stabilito. Invece, nella verità, non si è che in rarissime eccezioni completamente virtuosi o completamente birbanti. In generale, si vive oscillando tra le azioni indifferenti, e quando arriva qualche avvenimento critico dove bisogna decidersi o per la soluzione retta o per la curva, pochissimi sono quelli che non abbiano un quarto d’ora, un minuto d’esitazione. Perchè dunque gli eroi dovranno sempiternamente essere l’eccezione? Perchè dunque non staremo un poco alla verità, lasciando in pace i tipi imaginari platonicamente perfetti? È pornografia questa?
Chi è senza peccato tiri la prima pietra, diceva quello. Il giusto cade sette volte al giorno, diceva quell’altro. E ci ostineremo a imaginare eroi che non peccano e non cadono mai? In questo caso i romanzi diventano pericolosi come se fossero pornografici.
Una gentile signora, dice il Mérimée, se non sbaglio, visitando lo studio di un illustre scultore, guardava le Veneri e le altre splendide nudità marmoree con occhio poco benigno e disse finalmente che gli uomini fanno male a guardare e tenere in casa simili statue. La loro imaginazione si sregola, si guasta, e pretendono poi dalle povere donne quel che non possono avere, una bellezza che si avvicini alla perfezione. La signora diceva bene. Facciamo un po’ degli eroi meno meravigliosi, perchè le ragazze, queste ragazze che stanno tanto a cuore ai critici virtuosi, non si guastino la testa.
Quanti monumenti! Quanti centenari!
Le nostre piazze sono popolate di statue in toga, in brache corte, qualche volta nude: il bilancio dei municipi ha nelle categorie delle spese ordinarie, quelle per la celebrazione del centenario del paese. Una volta si spendeva per la festa del santo protettore; ora, poichè in Italia sentiamo sempre il bisogno di festeggiare qualche cosa, si spende per la festa del poeta, dello storico, del pittore, qualche volta pur troppo anche dell’uomo politico che nacque all’ombra del campanile. Nessun proprietario è sicuro che l’autorità municipale non venga un bel giorno a incastrargli un epitafio nella facciata della casa col suo bravo qui nacque o qui dimorò o qui morì l’illustre tal de’ tali. Comincia a diventare un incomodo, una servitù da tenere a calcolo nel contratto d’affitto. Vedremo degli avvisi così: Da affittare: appartamento composto di sei camere e cucina. Acqua dell’acquedotto: vista del giardino: non v’è morto alcun uomo illustre. Ma gli appartamenti in condizioni così felici saranno pochi. Qual’è la casa che non abbia oramai la disgrazia di avere ospitato un uomo celebre?
Ora è la volta del Metastasio, del quale a Roma fu celebrato il centenario mercoledì scorso. Sono già in vista molte altre consimili solennità, come il centenario di P. Ovidio Nasone; e coll’aiuto di Dio e dei Santi speriamo di vedere quelli di Orazio, di Ennio, di Pitagora e via via fino al padre Adamo, che, secondo me, ci ha più diritto di tutti. Che voglia di stare allegri fiorisce in Italia!
Sono pochi anni che il Metastasio era vituperato come l’Offenbach italiano. Vi ricordate che dopo la batosta del[304] 1870 la Francia, con un acume straordinario, riconobbe la causa delle proprie disgrazie nelle operette dell’allegro maestro tedesco. Allo stesso modo l’Italia, dai disinganni del 1815 fino alla fortunata aurora del 1859, fu convinta che la sua fiacchezza derivava dai versi del Metastasio. Vittorio Alfieri, lo scrittore di ferro, aveva così duramente calcata la sua forte mano sul mite poeta, sullo scrittore delle dame incipriate! E poi il Metastasio era stato poeta cesareo, e gli si imputava questa qualificazione come se egli avesse apostatato servendo poesia italiana all’imperatore austriaco. Non si badava ai tempi: la repulsione del povero abate era istintiva, patriottica, e forte delle teorie e degli esempi alfieriani. Pareva che il Metastasio dovesse essere cancellato dalla gloriosa nota di ridicolo come il Querno, o d’infamia come l’Aretino. Invece gli fanno il centenario!
Egli è che l’Italia si è ricreduta di molti giudizi che in altri tempi le erano suggeriti dalla passione, santa ma cieca. Allora era necessario, giusto quasi, il declamare contro al poeta che ad ogni modo era stato servitore di chi poi ci oppresse così duramente: oggi non più. Se la Corte Imperiale di Vienna avesse ancora la bizzarra idea di chiamare un poeta italiano ai suoi servigi, molti biasimerebbero chi accettasse, un po’ per quei sentimenti democratici che ci hanno fatto democratizzare perfino la nostra Corte, un po’ pel resto delle vecchie idee, per lo strascico delle vecchie formule retoriche dalle quali i popoli si lasciano trascinare all’entusiasmo ed al martirio e che, esaminate dopo che il tempo ci ha raffreddati, appaiono così meschine. Ma tuttavia disapprovando energicamente chi accettasse, non potremmo a meno di fare delle considerazioni benevole sulla cosa in sè, dalle quali altri potrebbe anche esser tratto ad applaudire chi accettasse.
Infatti, si direbbe, quale onore per la nostr’arte, per la nostra nazione! Hanno bisogno di noi! La Grecia, vinse Roma; noi liberi, vinciamo i Teutoni: ed altre belle e sonanti frasi come queste. Un professore che sia chiamato a insegnare di là dai monti ci par sempre tanto più bravo di quelli che rimangono a casa. Un pittore che stia a Parigi deve essere migliore di un altro che stia a Napoli. I nostri libri non sono accettati come buoni, le nostre poesie non sono degne di attenzione se prima non furono almeno tradotte in tedesco. Un uomo insomma, qualunque sia la sua professione, o medico o commediante, o ministro o cavallerizzo, non ci pare completo se non ha fatto il suo giro all’estero, se non viene di là con la laurea straniera. Mi pare dunque che si finirebbe a[305] gloriarsi di fornir noi i poeti ai Teutoni ed agli Sciti, e che quella carica diverrebbe onesta per chi la tiene ed onorevole alla stessa patria, come nessuno rimproverò mai allo Spontini, al Cherubini, al Rossini, l’aver occupato cariche onorifiche sotto governi e sotto re stranieri.
Non dico se questo sia un male o un bene: dico solo che oggi, a sangue freddo, si può vedere che l’esser poeta cesareo nel 1730, non implicava quella idea di apostasia e di tradimento che si pensava trent’anni addietro: dico che se vediamo ora la perfetta onorabilità di quella posizione in quel tempo, resta distrutta una delle grandi cause di antipatia che l’Italia abbia fin qui avuto verso l’abate Metastasio, e, per quanto oramai i centenari ci abbian rotto le tasche, vada pel centenario.
Ma resta l’accusa alfieriana. La poesia del Metastasio è di latte e rose, molle, corruttrice, sfibratrice. Abbiamo bisogno di uomini forti, non di sdolcinati Licida; di forti madri, non di Fillidi inzuccherate. Ci bisogna Tirteo e non Anacreonte; la tromba e non la zampogna!
Lasciamo andare l’idea proudhoniana dell’arte utile e miglioratrice, poichè oramai le teorie di Bentham, che hanno tanta fortuna, e tanto sèguito altrove, dalla poesia furono volando. Ma chi vi ha mai detto che si voglia rifare il Metastasio? Si tratta di assegnargli il posto che gli spetta tra i nostri poeti, non di proporlo ad esempio agli scolaretti. Ha il suo posto il mollissimo Ovidio accanto al durissimo Tacito; perchè negare il suo al Metastasio. come se si temesse di mancar di rispetto a Vittorio Alfieri?
L’arte del Metastasio è molle e sfibratrice? Ma è l’arte del suo tempo! Quando cesseremo dunque dal giudicare scindendo l’autore dall’età sua, dimenticando l’ambiente dove attingeva le sue ispirazioni, dove una data forma artistica gli si imponeva? Volete voi che l’Alighieri possa vivere e scrivere la Comedia al di fuori del Trecento, in mezzo agli abatini incipriati ed alle dame in guardinfante? Allora si pensava così, si sentiva così, e il Metastasio cantava necessariamente a quel modo. Si può deplorare che l’Italia della prima metà del secolo passato non sia stata la Grecia che debellò Serse, o la Francia rivoluzionaria che vinse l’Europa conservatrice: ma poichè l’Italia era così l’arte sua non poteva essere altro che così. La colpa non è del Metastasio, il quale a buon conto non ha ammollito o sfibrato i generali di Maria Teresa che lo applaudivano, non ha messo il latte e miele nelle vene di Maria Antonietta di Francia o di Carolina[306] di Napoli che furono sue discepole, non ha avuto nè poteva avere alcuna influenza sui contemporanei perchè l’arte non ne ha, e non ne ha mai avuto: egli serviva al suo tempo e da quello era tratto, sforzato, a cantare a quel modo e non in altro. Bisogna giudicare il poeta cesareo, non coi criteri del Quarantotto o del Cinquantanove, ma con quelli del suo tempo. La storia non c’è per nulla? Credete che la causa di Sedan sia nelle Belle Hélène? Via, mettiamo le cose al loro posto.
Arte molle? Certo, dopo quella dell’Alfieri; ma al suo tempo, no. Imaginate voi gli spettatori delle opere del Metastasio? Credete voi che trovassero molle il poeta cesareo quelle dame e quei signori mollissimi che dovevano poi essere inchiodati come in una vetrina di museo nel Giorno del Parini? A loro doveva apparire più che forte il poeta che trascina Catone moribondo sulla scena e che davanti a Cesare gli fa proferire la parola romana,
altrove
Portatemi a morir!...
L’Attilio Regolo ha dei punti in cui c’è forza anche per noi che veniamo dopo all’Alfieri. L’ultima scena vi par molle?
Romani, addio! Siano i congedi estremi
Degni di noi. Lode agli Dei, vi lascio,
E vi lascio Romani. Ah, conservate
Illibato il gran nome e voi sarete
Gli arbitri della terra, e il mondo intero
Roman diventerà. Numi custodi
Di quest’almo terren, Dee protettrici
Della stirpe d’Enea, confido a voi
Questo popol d’eroi. Sian vostra cura
Questo suol, questi tetti e queste mura.
Fate che sempre in esse
La costanza, la fe’, la gloria alberghi,
La giustizia e il valore. E se giammai
Minaccia al Campidoglio
Alcun astro maligno influssi rei,
Ecco Regolo, o Dei! Regolo solo
Sia la vittima vostra, e si consumi
Tutta l’ira del ciel sul capo mio:
Ma Roma illesa... Ah, qui si piange! Addio!
Vi ricordate l’esclamazione del povero Leopardi:
L’armi, qua l’armi! Io solo
Combatterò, procomberò sol io!
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio!
E’ mollezza questa? E ricordate che il Metastasio scriveva, non dei drammi, ma dei libretti d’opera: ricordate che noi, i quali un secolo dopo gli rimproveriamo l’arte sua, gli contendiamo la gloria che gli spetta, tolleriamo il raggio lunar di miele, l’orma dei passi spietati ed altre splendidissime e fortissime minchionerie: ricordate che pubblico avessero lo cose del Metastasio e vedrete che l’accusa alfieriana deve esser molto attenuata. Al suo tempo egli doveva parer troppo forte, ruvido anche, ed è ingiusto considerarlo fuori del suo tempo. Certo non è modello da proporsi; ma lasciando anche che oramai modelli non se ne propongono più, chi proporrebbe da imitare il Petrarca? Eppure la sua grandezza non si discute.
Del resto poi l’arte del Metastasio è arte italiana, arte indigena, e non dobbiamo respingerla come una scomunicata. Sia il giudizio nostro quale si voglia, anche lontanissimo dagli entusiasmi del La Harpe e dello Schlegel, non dobbiamo disconoscere il nostro sangue. Il Metastasio scende in diritta linea dal Guarini: il Pastor Fido recitato alla corte di Ferrara è il babbo dell’Olimpiade recitata alla corte di Vienna. È arte nostra, che si può discutere che si può non amare, ma alla quale non si può negar posto senza esser ingiusti o ignoranti.
Celebrare il centenario del Metastasio mostra la nostra voglia di divertirci; di far dei discorsi per l’inaugurazione dei busti e delle lapidi; di far dei comitati, delle commissioni, dei presidenti, dei parlamentini che finiscono in un pranzo. Ma nello stesso tempo che il vecchio pregiudizio se ne va, che la tesi giacobina tende ad uscire dalla critica e dalla storia letteraria.
Buon viaggio!
L’Italia ridiventa la terra dei carmi.
Per fortuna c’è della gente che abbomina i libri stampati bene e certi critici spiritosi hanno messo alla moda le lamentazioni dolorose contro la fiumana degli elzeviri. Se questo non fosse, il governo avrebbe già inventato una nuova tassa sui volumi di lusso e si può star sicuri che la tassa renderebbe molto.
Perchè poi questi libriccini siano stati battezzati elzeviriani è un mistero. Quei caratteri tondi sono italianissimi ed il formato è cosmopolita. Il Lemerre a Parigi li mise per primo alla moda, e il Casanova di Torino, poi io Zanichelli di Bologna, dopo avere in principio imitato, si misere a gareggiare di perfezione e di gusto. Oramai non c’è villaggio in Italia dove non si possan trovare le simpatiche copertine acqua di mare del Casanova o le aristocratiche guanti gialli dello Zanichelli, e non c’è nessuno di quei critici, che maledicono per abitudine gli elzeviri, che perpetrando una birberia in versi eterodossi, non corra a farsela stampare in versi elzeviriani.
Lasciamo stare quel che c’è dentro agli eleganti libriccini: ma il di fuori non è bello? Non è almeno da preferirsi a quei libracci sgarbati impressi in carta straccia con capocchie di chiodi, dove i nostri babbi deponevano le loro rime? Vedete la serietà dei critici! Perchè le poesie che si stampano ora non hanno la fortuna di contentarli, gridano, piangono, sospirano anche contro il modo di stamparle, che almeno è un progresso bello e buono. Ma di questa serietà dei critici non c’è da aversene a male, poichè è una delle poche gioie degli autori. I critici credono spesso di aver messo un povero autore nel banco degli asini e di avergli inflitto un amarissimo castigo: ma se vedessero molte volte l’ilarità dell’autore punito, e se sentissero i commenti, non del colto pubblico, ma del pubblico colto, alle loro articolesse, qualche volta si accorgerebbero della loro impertinente pedanteria e sempre poi rimarrebbero sorpresi dell’umoristico effetto delle parole loro!
Perchè la critica è una bella e santa cosa, ma fatta come la facciamo ora in Italia, fa pietà davvero. Critichiamo così a orecchio, o, come si dice, a impressioni. Se abbiamo fatto colazione bene, se il sigaro è buono, se nel caffè non c’è troppa cicoria, l’impressione sarà buona ed i giudizi benigni. Se piove, se ci fa male un dente, se dobbiamo saldare il conto del calzolaio, l’impressione sarà pessima e taglieremo a pezzi il povero autore. Si fa la critica come la giustizia in Italia. Se il vento tira di qua, si trovano le circostanze attenuanti per l’omicida e la forza irresistibile pel parricida. Se il vento tira di là, si condanna il Fratti per aver usato i dovuti riguardi ai birri e si promuove il giudice che lo condanna. Così vuole il progresso, e non c’è che dire. Ma intanto c’è chi giudica i critici e i giudici. Certi libri lodati muoiono di anemia e certi parricidi assolti debbono emigrare. Certi libri vituperati si ristampano e i birri rimangono sempre birri nella stima di tutti. Anzi ci si guadagna questo, che qualche volta i giudici si confondono coi birri.
Tutto questo lavoro di arte e di critica è un bene o un male? Non si può negare che fra i volumetti che vengono fuori c’è qualche volta certa roba da fare schifo ad un professore di anatomia patologica. Ma da quando in qua si deve stampare solo la roba bella? Dal Guttenberg allo Zanichelli si stampa la roba buona e la cattiva. Scelgano i lettori secondo il loro gusto; l’editore non ha nessuna missione religiosa, sociale o politica. Il lanificio Sella fabbrica senza dubbio anche i drappi rossi e i turchini, senza che il padrone pensi a tormentarsi la coscienza sull’avvenire de’ suoi drappi; che possono diventare una bandiera repubblicana o una nappina di guardia di pubblica sicurezza. Si pensa solo a produrre: e quando si produce molto è perchè si consuma molto. E questo è buon segno.
È segno che oramai si comincia a capire che la coltura è indispensabile a tutti, anche all’uomo politico. Si capisce che non è più lecito scrivere Italia col g, e che il Massari commette la più gigantesca imprudenza, rivelando che il conte di Cavour non era forte in grammatica e dava a correggere i discorsi della Corona precisamente al Massari! Si può dire che Teodorico re d’Italia era buon politico e non sapeva scrivere; ma si può rispondere che Teodorico regnava la bellezza di mille e quasi quattrocento anni addietro, e regnava sui Goti e su certi italiani che valevano meno dei Goti. Oggi bisogna saper molto per far qualche cosa, e i giovani che ne sono persuasi, studiano. Cascano, è vero, nel peccato di stampar troppo presto, ma ad ogni modo lavorano. Meglio[310] lavorar male che non far nulla. Meglio stampare un volume di versi sbagliati, come si fa ora, che diventar matti per la Essler, come si faceva una volta. Almeno l’arte della stampa ci guadagna. Dunque se la energia della gioventù prorompe in cattivi versi piuttosto che in cattive azioni, tanto meglio.
E la fioritura dei versi continua. Tutti gli stampatori sono occupati intorno a canzonieri nuovi: tutti gli editori mettono in vendita nuovi volumi di versi. La fortuna dei giornali a numero unico che dal gennaio in mia vengono a galla, è un altro sintomo della voglia di cose d’arte che s’è impadronita del pubblico italiano. È vero che i critici piangono sempre, ma è vero altresì che si comincia a legger molto e da molti. Alcuni editori fanno fortuna. Qualche anno fa in Italia c’erano Le Monnier e Barbèra soltanto. Ora quanti sono! Via, lasciamo piangere i critici.
Una parola tira l’altra e chiaccherando si finisce a non trovar più il modo di tornare all’argomento. Tutte queste chiacchere infatti non lasciano più che lo spazio di un annunzio, mentre il titolo faceva sperar meglio. Pazienza. Ecco l’annunzio.
Prima di tutto ecco una nuova edizione e completa dei Juvenilia di Giosuè Carducci. La prefazione fu inserita in questo giornale domenica scorsa. Una prefazione di combattimento trovava il suo posto naturale in un giornale di combattimento, e le sciabolate erano ben dirette e la sciabola taglia troppo bene perchè si debba qui ritornare sui colpi. Chi ha avuto, ha avuto. Pensino gli sciabolati a trovare il rimedio, se pur se ne trova e noi, per quanto possa dolere alla Civiltà Cattolica che da qualche mese l’ha col Carducci, e per quanto dolga agli altri gesuiti in borghese, salutiamo il maestro.
Seguono i Nuovi versi del Betteloni, ai quali il Carducci fece la prefazione; la seconda edizione, quasi raddoppiata, delle Lacrymae del Chiarini; i Miei canti di Corrado Ricci e le Poesie di Enrico Nencioni. Tutto questo ci da un editore solo, lo Zanichelli, tutto ad un tratto.
Tempo fa, tanti versi non si stampavano in un anno. E non si dica che la roba che si stampava allora era meglio di questa, perchè per rispondere basterebbe domandare dove quella roba sia andata a finire. Si scrive dunque e si legge molto più che non si leggesse o stampasse una volta.
Piangano pure i critici dolorosi. Noi speriamo che i ministri dell’avvenire scrivano Italia senza g e non si facciano raddrizzar la grammatica dei discorsi della Corona dall’onorevole Massari.
Avete ragione di dolervi che le donne perdute tengono troppo posto nell’arte moderna; ma avete torto di meravigliarvene. Tengono nell’arte lo stesso posto che nella società. Il loro nome è legione e sono arrivate a diventare una corporazione, una classe retta da leggi speciali, che ha i suoi diritti e sopporta carichi determinati, tra i quali non ultimo la tassa d’esercizio che ingrassa così degnamente il fondo dei rettili.
Qui non è luogo da cercare la causa per cui la Venere vulgivaga ha tanti altari e culto così universale. Si può deplorare il fatto, ma bisogna accettarlo, studiarlo, discuterlo, non metterlo in tacere come fanno le anime timorate e conservatrici. Quando bene vi facciate il segno della croce e diciate le più efficaci giaculatorie passando per certi vicoli, non rimedierete a nessun male, non arresterete un momento la carie che rode l’ossa a tante sciagurate. In Italia però è privilegio soltanto degli scienziati, medici o statisti, l’occuparsi di queste cose. L’ipocrisia cattolica che informa ancora i nostri costumi ci costringe a strillare come oche spennate se capita un poeta od un romanziere che ne parli a voce alta. A tacere, intanto, il male cresce e c’è il caso di trovarsi presto in un bel pasticcio.
Emilio Zola non ha ipocrisie. Potrete discuterlo come artista, preferire le sentimentalità di Paolo e Virginia alle crudezze dell’Assommoir, ma non potrete negare che egli dica quel che vuoi dire, senza circonlocuzioni, senza riguardi. Questa letteratura precisa, che ha le brutalità dell’inventario e le illusioni dello stereoscopio, dovrebbe andare a genio a tutti coloro che fanno professione di[312] odiare e di maledire la retorica. Accade invece il contrario, a maggior gloria ed onore della logica, e pare oramai che sia diventato retorica anche il dire la verità. Si dice che l’uomo sia un animale ragionevole, ma qualche volta non pare.
Al libro dello Zola nocque la sperticata réclame e lo stato di guerra dichiarata che dura fra il suo autore e quasi tutti gli scrittori francesi. La fortuna dell’Assommoir schiaccia anche un poco la fortuna della Nanà per quella strana pretensione del pubblico il quale accusa di monotonia uno scrittore che abbia sempre la stessa impronta e lo accusa di leggerezza se cambia. Le stesse persone che ora sono seccate di trovare anche in questo libro il solito Zola, se egli scrivesse diversamente si dorrebbero domani di non trovar più il solito Zola. Ed anche questo è da aggiungere alla lunga lista degli argomenti che servono a dimostrare come e qualmente l’uomo sia una creatura ragionevole.
Anche quest’ultimo romanzo è un memento della vivisezione che lo Zola ha intrapreso sulle carni ancor calde dell’ultimo impero francese, è un volume del suo gigantesco studio sulla corruzione profonda che invase tutto e dominò la nazione predicando che i vizi dei ricchi fanno guadagnare i poveri. Egli ci fa assistere all’apoteosi della crapula di moda, alla adorazione della beltà cretina. La ragazzaccia che ieri trascinava le ciabatte nei rigagnoli di Parigi accende la foja brutale di tutta una gioventù oziosa e passa dal zerbinotto al banchiere ed al principe per discendere all’istrione e risalire ai trionfi asiatici della corruzione accettata ed incoraggiata. Tutte le vigliaccherie ributtanti di una vecchiaja oscena, tutte le energie sbagliate di una gioventù inutile vi passano davanti agli occhi, e dappertutto la sirena dalle carni belle, dal cervello piccolo e dal cuore capriccioso, dappertutto porta involontariamente la sciagura, la rovina, la vergogna. La superstizione cattolica non resiste al fascino demoniaco; se anzi v’ha chi subisca completamente, ciecamente, questa tirannia del vizio raffinato e della brutalità volgare, è il severo ciambellano allevato dai gesuiti. E così, dal plauso dei teatri e dalle ovazioni del turf, questa bellezza vana, questa stupida sirena che parla il gergaccio delle bettole e dorme nel letto dei principi, passa come la personificazione di un regno intero, come il simbolo del pervertimento di tutta una società.
Ma Nanà, cui nessuna aberrazione dell’istinto, cui nessuna mostruosità del vizio è sconosciuta, conserva un ultimo pudore, quello della letteratura conservatrice. Traduco questo brano che sembra stenografato in un’elegante[313] conversazione italiana: «Allora Nanà chiaccherò coi quattro uomini da padrona di casa piena di fascino. Quel giorno aveva letto un romanzo che faceva gran chiasso, la storia di una donnaccia, e si ribellava e diceva che erano tutte bugie, professando del resto una sdegnosa ripugnanza contro questa letteratura immonda che pretende di copiare dal vero. Come se tutto si potesse mostrare! Come se un romanzo non dovesse essere scritto per passar bene un’ora! In fatto di libri e di drammi, Nanà aveva opinioni molto recise: voleva opere tenere e nobili, pagine che fanno pensare ed innalzano l’anima». Ma Nanà è conservatrice sino in fondo. «Caduta la conversazione sui torbidi che agitavano Parigi, sugli articoli incendiari, i principii di sommossa cagionati dagli eccitamenti a prender l’arma che tutte le sere sonavano nelle pubbliche riunioni, ella si adirava contro i repubblicani. Che cosa volevano dunque questi sudicioni che non si lavavano mai? Forse che non s’era tutti felici, forse l’imperatore non aveva fatto tutto pel suo popolo? Bella sporcizia, il popolo! Ella lo conosceva e poteva parlarne!»
Si capisce ora perchè gli odiatori della retorica abborrano anche lo Zola che parla così chiaro e fa parlare le donnacce come parlano davvero. Si capisce che questa stenografia dei discorsi, questa fotografia delle birbonate, dia sui nervi a tanta gente; ma si capisce altresì la fortuna dei libri di questa sorta. Certe volte, leggendo, trovate la frase che avete udita in una conversazione, riconoscete il tipo che parla con voi dignitosamente tutti i giorni; e questa verità, questa franchezza dell’arte e della fantasia, se scotta a quelli che ci si riconoscono, piace a quelli che riconoscono gli altri. È vero, anzi pur troppo è storico, il Vandeuvres che ruba alle corse, il La Faloise che si inebetisce, l’ufficiale che toglie dalla cassa del reggimento i denari per Nanà, il ciambellano austero che scende di notte in tutte le fogne, il banchiere che fallisce per una gonnella, il principe che cerca l’amore tra le quinte, e via via. Ma perchè, secondo le massime di Nanà, queste cose non si debbono mostrare? Oh, l’ipocrisia dei fotografi!
Sbaglieremo, ma siamo persuasi che questi libri facciano bene più di cento prediche. Essi ci paiono infatti una felice modificazione della gogna. La pena cessa di esser personale, ma non cessa però di essere efficace.
Certi uomini nascono disgraziati, muoiono disgraziati e sono perseguitati dalla disgrazia anche dopo la morte. Di questi fu senza dubbio Alfonso La Marmora. Non pesò tanto la guardia della grave mora sulle ossa di re Manfredi, come sulla tomba dello sventurato generale pesa la biografia scritta dal Massari.
Non c’è quistione di partito. Anzi la gran differenza tra le opinioni politiche del Massari e quelle che professa questo giornale è guarentigia dell’imparzialità di un giudizio espresso qui. Nessuno può sospettare che si voglia combattere nel Massari un avversario incomodo, un nemico pericoloso. Il Massari è tra i vinti, e mentre questo spiega i panegirici accordati al suo libro dai colleghi di sventura, assicura anche i lettori intorno ai giudizi di coloro che non sono nè vinti nè vincitori. Qui non ci può esser passione.
E non si dice critica, ma si dice giudizi; poichè alla critica bisognerebbe un bagaglio di prove non consentito alla capacità delle colonne di un giornale. Se, per esempio, si volesse dire che il libro del Massari è un modello di quella verbosità incolora che riempie le orecchie senza passare il timpano, in riga di buona critica bisognerebbe provarlo riproducendo e commentando quattro quarti del volume; ed i lettori non lo meritano. Almeno gli opuscoli del Chiala, narrando episodi della vita dello sfortunato generale, faranno capire la inflessibilità di un carattere retto le rigidezze stoiche di una coscienza severa, e spiegano come un uomo salito ad altezza pari all’ingegno possa tuttavia rimanere rispettabile. Sta bene che uno scrittore si innamori del suo tema, ma s’intende acqua e non tempesta,[315] s’intende biografia e non elogio, s’intende che la storia non anneghi nella inondazione degli epiteti laudativi.
Intanto il Massari è di quelli che odiano svisceratamente la retorica; e loda Silvio Pellico così puro di retorica, scrivendo un libro dove ad una figura ne succede subito un’altra, dove l’etopeia, l’esortazione, l’enfasi si rincorrono affannosamente senza una pagina di riposo! Al discepolo fedele del Gioberti si possono perdonare i sopravvissuti entusiasmi pel Primato, ma allo storico come si può perdonare la continua tensione lirica del concetto, l’insistente fraseologia elogiastica della forma? Dappertutto il delirio del panegirista turba la serenità dello storico, dappertutto si sente una turgidezza faticosa, una idropisia di ammirazione che spesso muove al sorriso.
E questi voli ammiratorii che tendono alle altezze dell’apoteosi, e precipitano spesso nelle bassure dell’ingenuità. Come non sorridere leggendo che il La Marmora nella campagna del 1848 «diede saggio di molta perizia ed accorgimento e dimostrò con quanta attenzione avessee studiate le campagne napoleoniche. Difatti egli distribuì le truppe nelle identiche posizioni, e perfino nei più minuti avamposti dove Napoleone collocò le truppe francesi?» Dio buono! È egli possibile di esser tanto ingenuo di non avvedersi della puerilità di questa lode? È possibile che il Massari, per quanto profano all’arte militare, non si accorga che la perizia di un generale non sta certo nel mettere le sentinelle nel posto preciso in cui cinquant’anni prima le mise un altro generale?
Nè davvero può parer troppo troppo grave lo storico che mette la Divina Provvidenza tra gli argomenti spiegativi del fatto. Che questo Deus ex machina appaia qualche volta nella scappata finale dei discorsi della Corona o nei proclami dell’imperatore di Germania, sta benissimo, poichè ogni cosa può esser detta sotto l’usbergo della legale irresponsabilità. Ma che uno storico asserisca che per fare l’Italia erano necessari grandi uomini e che la Provvidenza li ha fatti nascere a tempo opportuno; che uno storico ammetta tranquillamente la missione provvidenziale del conte di Cavour, pare così strano caso, da veder bene che non si tratta ormai di sistemi storici, ma preistorici. Così tutti errarono credendo il La Marmora ed il conte di Cavour uomini di carne ed ossa come gli altri. Erano invece essere superiori come gli eoni de’ gnostici, spiriti più vicini al trono di Dio ed incarnati per divina misericordia e provvidenza, senza colpa nè merito de’ genitori e degli eventi. Il caso non è nuovo.[316] A questo modo anche Filostrato Lemnio scrisse la biografia di Apollonio Tianeo.
Solo resta che i lodatori del libro del Massari non sono nè giusti nè leali se non lodano anche il Dio liberale di Quirico Filopanti, accanto al quale affettano di passare sorridendo. Non è lecito approvare questa teoria delle missioni provvidenziali, così cara ai Bonaparte, e metter poi in canzonella un sistema filosofico che per riguardo alla metempsicosi può vantarsi di risalire a Pitagora. E coloro che lodano la provvidenzialità dell’incarnazione del La Marmora dovrebbero lodare tanto più gli avatar degli Emanueli in quanto almeno il sistema del Filopanti spazia nei liberi campi dell’ipotesi filosofica, mentre il Massari crede di stare nella cerchia de’ fatti provati, nella positiva severità della storia.
Che se poi si volesse dire che quelle frasi non includono un sistema, ma sono modi di dire entrati ormai nello stile e nella lingua comune, bisognerebbe rispondere che non c’è retorica più pericolosa di quella degli odiatori feroci della retorica.
Ma deve essere sistema e non abuso di frasi fatte, poichè tutto mostra un sistema in questo libro; il sistema stesso che regna negli Acta Sanctorum. La letteratura cattolica, dai gravi Bollandisti agli ameni scrittori de’ giornali clericali, ha oramai tessuto la biografia di parecchie migliaia di beati, senza far altro mai che lodare. Sarà una necessità per le religioni ed i partiti, che vivono di polemica, ma certo è strano che solo in quelle religioni ed in quei partiti vivano gli uomini assolutamente esenti da ogni peccato, magari veniale. Così almeno pare da queste apologie, le quali procedono, non per prove, ma per sentenze. Così il Massari sentenzia che nel La Marmora il soldato fu il creatore dello statista, e non spetta nemmeno che ci possa essere chi contraddica. Per lui, nel La Marmora non fu alcun difetto. Ma se ci fosse chi stimasse il La Marmora uomo come gli altri e quindi soggetto a difetti, che cosa risponderebbe l’apologista? E i difetti dello statista perchè non potrebbero anche essere attribuiti alla educazione del soldato? L’abitudine della obbedienza passiva e del comando assoluto, la satiriasi della disciplina non potrebbero aver tolto forza all’ingegno dello statista, tanto da farne uno di quegli onesti ma stretti esecutori di regolamenti che perdono una casa per salvare una tegola?
Mancava all’apoteosi del La Marmora che si volesse provare il suo liberalismo di antica data. Il povero generale, che per disgrazia dei suoi apologisti ha scritto parecchi libri, afferma in quello sui Segreti di Stato di[317] non essersi occupato di politica prima del 1818, ed il Chiala nei Ricordi della giovinezza del La Marmora conferma la cosa non solo, ma riferendo un brano di memorie anonime, fa vedere come la pensasse il conservatorissimo colonello di artiglieria. Ma l’apologista lo fa spettatore attento ed illuminato, spettatore che ha la coscienza di diventar presto e necessariamente attore egli pure. Per poco il La Marmora non prende il posto di Mazzini, e come, a quanto pare, ebbe la chiaroveggenza in fatto di cose militari tanto che i disastri del 1848 e 1849 furono da lui predetti e avvennero perchè non vennero seguiti i suoi consigli, così poco mancò che senza di lui l’unità d’Italia dovesse rimanere sempre un sogno di poeta o una utopia di filosofo. Proprio si vede che il La Marmora era l’uomo provvidenziale!
Ma basta. Venire agli anni più vicini non giova, perchè i ricordi sono troppo amaramente vivi e le obiezioni all’apologia, se sono facili, possono però sembrare appassionate. Si desidera solo di sapere che razza di lingua sia quella usata dal Massari. Lingua italiana non sembrerebbe.
Così, scorrendo coll’occhio le prime cinquanta pagine, senza essere molto delicati, si possono trovare alla pagina terza gli eventi grandiosi e si può leggere nella quinta incominciarono la loro vita publica con la carriera militare, e se carriera si vuol prendere per strada, pare che si dovesse cominciare a camminare non con una ma in una carriera. E se questa vi pare troppa pedanteria, dite che cosa è addirsi alla carriera militare (pag. 17).—Mettersi in risalto (pag. 18)—Carlo Alberto pigliava interessamento alle sorti dell’esercito (Id.)—Gli eventi si fazionavano al pensiero (pag. 22)—L’esercito aveva raggiunto un risultamento (pag. 27)—Palle vibrate da mani italiane (pag. 43)—Nel proseguio di tempo (pag. 58), ed altre parole e frasi da far inorridire Attila, flagellum Dei.
Per conchiudere con un sentenza, poichè si parla di un libro di sentenze, bisognerà dire che non si poteva rendere peggior servigio al povero generale La Marmora. Proprio non lo meritava.
Assistiamo proprio ad una fioritura di storia veneta. Questo giornale, che ha la buona abitudine di additare ai suoi lettori le opere più importanti che vengono alla luce, rese già conto del volume del Morpurgo. Ed ecco gli editori Roux e Favale di Torino hanno dato fuori la Storia di Venezia nella vita privata, cioè l’opera di P. G. Molmenti che vinse il premio Querini-Stampalia.
Non c’è niente di perfetto a questo mondo, e anche l’opera del Molmenti ci sembra tutt’altro che scevra di difetti. Lasciamo quel che riguarda i fatti o le riflessioni sui fatti: l’Istituto veneto ha giudicato e a noi non spetta rivedere i giudizi della dottissima Accademia. Ma per finirla subito con quel che ci pare debole in questo libro e bere l’amara pozione ad un tratto, diremo che il peccato più grave lo troviamo nell’arte. Non si dice che il libro sia scritto male, certo però è scritto in fretta. La stessa pagina sembra alle volte scritta da due persone diverse, tanta è la disuguaglianza dello stile. Accanto a certi periodi che paiono dettati col calore della lirica, si trovano strane negligenze, come a pagina 143, dove si fanno ruminare certi animali che non ruminano mai. Ma basta.
Il piano è vasto e pieno di un abbondanza di fatti che potrebbe essere di utilità anche maggiore se l’autore non avesse temuto forse di parere pedante accumulando le note e le citazioni a pie’ di pagina. I costumi veneziani sono cominciati a studiare sino dalle origini della città, con troppa benevolenza, se si vuole, ma certo in conformità di quel che si trova ne’ pochi documenti rimasti. Se di qui a parecchi secoli non si trovassero altri monumenti nostri che i codici delle leggi, i tardi nepoti dovrebbero giudicarci a buon diritto giustissimi. Ma le infrazioni alle leggi, frequenti troppo, e i cavilli degli avvocati e l’ignoranza o la cieca partigianeria de’ giudici non sarebbero giunti sino a loro. Penserebbero che l’esecuzione delle leggi ci assicurasse una relativa felicità, una quiete invidiabile, ed invece... Così forse accade quando noi[319] giudichiamo della sanità morale di un popolo dalle leggi che ci rimasero di lui. Erano eseguite? Erano impunemente violate? Chi lo sa! Lo storico non può in questi casi altro che esporre nudamente quel che si conosce di certo, e per quanto anche il Molmenti, che lascia trasparire gli entusiasmi dell’artista sotto la freddezza dello storico, ha dovuto esser breve nella introduzione del libro che ricerca i costumi dei veneti durante il periodo delle origini.
E breve è anche la parte che riguarda l’età di mezzo. La storia di Venezia prima degli ultimi studi, come ce la presentavano i copiatori degli storici ufficiali, aveva qualche cosa di strano, di impossibile.
Come si poteva ammettere una completa abdicazione del popolo, una perfetta soppressione dei diritti del governo della cosa pubblica nella classe più numerosa della società, senza una protesta, senza una ragione sufficiente? Non giova il dire che il commercio aveva assorbito tutta l’attenzione e la vitalità delle classi popolari.
Commerciavano anche i nobili, ma comandavano, e le altre repubbliche italiane, specialmente le marinare, ci mostrano come il popolo poteva darsi agli affari ed ai guadagni senza rinunciare per questo al governo.
La Serrata del Maggior Consiglio sembra un colpo di Stato, contro una classe inferiore di nobili, o contro pretendenti alla nobiltà, non contro ai diritti legittimi di tutto intero il corpo sociale.
La storia vera di Venezia non cominciò che dal giorno in cui gli archivi poterono esser tratti dal segreto geloso che li custodiva.
Comincia col Darù e non è ancora se non abbozzata. Il libro del Molmenti, così pregevole sotto tanti aspetti, non è che una minima parte delle ricerche che dovrebbero scaturire dall’archivio Veneto e che scaturirebbero più copiosamente se il governo in questo argomento degli archivi non fosse degno dei più gravi biasimi.
Un direttore ottimo, alcuni subalterni volenterosi non possono fare quel che si deve fare in un archivio di tanta importanza. Sommeiller e dieci operai non avrebbero forato così presto il Cenisio; e il Muratori stesso, cacciato ai Frari senza aiuto d’uomini e di danaro, ci farebbe cattiva figura.
Ma in questo libro la parte più attraente, più copiosa di notizie curiose ed importanti è quella che riguarda lo splendore di Venezia. Se ci sembra un po’ troppo l’affermare che Venezia sia stata il centro vero dell’umanesimo, certo ne fu gran parte, e senza dubbio poi fu per lungo tempo officina libraria dell’Italia.
Ma la coltura e l’arte presero in Venezia quell’aspetto di raffinato epicureismo, quella sensualità scevra di ogni grossolana bassezza che resero famose specialmente le feste e la pittura. E forse questo viene dalla politica saggia che seppe tener la Chiesa lontana o frenata.
Non è eresia il dire che le tendenze dell’arte veneta si indovinano già nelle madonne del Gian Bellino così diverse dalle estetiche figure fiorentine. Non ci sono chiese meno religiose delle veneziane, se ne togli forse le principali di Roma. Lo stesso S. Marco è l’inno dell’opulenza, non la prece della umiltà, e i santi del Tiziano non hanno della leggenda cattolica nemmeno il vestito.
La Venezia del Cinquecento è proprio quella che Paolo Veronese dipinse nel soffitto della sala del Gran Consiglio, bella, trionfante, splendida. Non c’è ombra di anemia cattolica in quelle vene turgide di sangue ricco e sano, non c’è floscezza di spiritualismo malato in quelle carni pompose e forti. L’arte vera, l’arte senza secondi fini, l’arte di Paolo che lasciava libero l’ingegno e la mano senza prendere tante cose in considerazione, fa immortale il trionfo della bionda dogaressa. La morale è facile, la religione è imprigionata nelle chiese, eppure la popolosa città non conta che centoottanta poveri! E a Madrid, e a Roma quanti ce n’erano?
Ed è a notarsi, poi, che la decadenza non avvenne per la progressiva corruzione de’ costumi, ma pel disseccamento fatale delle fonti che mantenevano la ricchezza. Quando non ci fu più di lottare con le altre nazioni e di seguire le nuove vie del commercio, allora si cominciò a vivere come il ghiro addormentato nell’inverno, ed i guadagni che non scaturivano più dalla fonte legittima si attinsero poi alla disonesta. Così non la corruzione generò la decadenza, ma la decadenza generò la corruzione, e sembra destino che la storia di questa strana repubblica sorga sempre come un obiezione di fatto contro ai sistemi a priori, contro certe filosofie della storia che non sono se non aberrazioni metafisiche mal vestite di brandelli di cronache.
Ma non è nell’ambito di un breve articolo che si può render conto di un libro denso di fatti come quello del Molmenti. Ci basta l’aver accennato almeno al suo piano, se non con l’idee dell’autore, certo senza sciocche prevenzioni di parte o di scuola. Il Molmenti ha cominciato col fare il critico, ed ha voluto senza dubbio che non si dica di lui quel che si dice di altri, che cioè fanno i critici per distrazione di non saper fare altro. Senza superstizioni d’idoli, senza religione di sètte, gli onesti plaudiranno sempre alle oneste fatiche.
È venuto alla luce il terzo volume delle lettere di Pietro e di Alessandro Verri, e contiene quelle scambiate tra i due fratelli durante il 1768 che cerca i costumi della società d’allora e i piccoli scandali e i piccoli aneddoti, troviamo però, se non notizie nuove e grandi, al meno la pittura vivissima e famigliare dei timori, delle speranze, delle ansietà che accompagnarono e seguirono la cacciata dei gesuiti dagli Stati dei Borboni e specialmente da Parma. Pietro Verri, che nelle lettere si chiama guelfo per ischerzo, aveva tatto ed odorato finissimo. In tutto quello scalpore che pareva minacciare persino l’esistenza del papato egli capì che chi aveva paura non era il papa, ma i Borboni. Pretendevano questi il ritiro della scomunica lanciata per gli affari di Parma e tempestavano che avrebbero ricorso a rappresaglie, come infatti occuparono Benevento ed Avignone: ma pretendendo, con le solite puerili distinzioni usate anche oggi dai liberali per ridere, che lo spirituale non c’entrava nella faccenda e che il solo temporale era in questione, disputavano sulla validità o no della scomunica, cercavano di far paura al papa, mentre da un’altra parte lavoravano per un arbitrato ed un accomodamento, non osavano di romperla col capo della loro religione; e mentre venivano a vie di fatto contro il governo temporale, mantenevano a Roma gli ambasciatori e seguitavano i maneggi e le comunicazioni diplomatiche come se nulla fosse avvenuto. Il papa invece, inflessibile e logico, non si moveva, duro come un Pio IX qualunque, e diceva:—O si crede o non si crede. Se si crede, si faccia a mio modo: se non[322] si crede, si vada all’inferno.—Davanti al non possumus ed alle minacce dell’inferno i cattolici Borboni avevano paura, tergiversavano, cercavano appigli e furberie che non riuscivano contro la testarda immobilità del pontificato. E il Verri con buona ragione trovava più logica la condotta del papa e più che sciocca quella delle corti borboniche; le quali, se veramente sicure del loro diritto e libere di pregiudizi volgari, dovevano risolutamente opporre il diritto secolare all’ecclesiastico, cacciar via gesuiti, cappuccini e nunzi per agire come se Roma non fosse città di questo mondo e il papa non fosse altro che un seccatore qualunque. A quel modo si sarebbe vinta la causa, ma bisognava essere decisi, spregiudicati e risoluti come Venezia al tempo dell’interdetto. Il pana si sarebbe piegato per forza ed i sovrani gli avrebbero messo il piede sul collo ripetendogli per ischerno l’antifona di un suo predecessore, super aspidem et basislicum ambulabo.
Ma i Borboni erano cattolici. Più che cattolici, erano giunti a quella debolezza di cervello e di carattere che oggi si chiamerebbe clericalismo.
S’ha un bell’avere Du Tillot per primo ministro, ma quando si ha paura del fuoco eterno, quando si vuole andare in paradiso assolti dai peccati commessi con le ballerine ripugna il combattere contro la santa Roma, ed ogni atto energicamente logico appare alla coscienza paurosa, come una balossada. E il papa, che conosceva i suoi polli, teneva duro. Piegava il collo davanti al piccolo Portogallo che vedeva deciso, ma si levava con tutta l’alterigia romana davanti all’indecisione dei bigotti Borboni. Faceva quel che fanno i cani, che scappano inseguiti, ma inseguono chi scappa. E di questa abituale condotta del pontificato abbiamo esempi così recenti, che non spiegasi come i nostri politici non l’abbiano ancora capita e non abbiano agito in conseguenza. Che tre o quattro anni indietro i ministri avessero paura dell’inferno, è probabile: ma ci par strano che l’abbiano ora.
Se Pietro Verri aprisse gli occhi, si direbbe ancora guelfo, perchè più disposto a lodare il contegno del papa che il nostro: e il Verri non avrebbe poi tutti i torti.
Ma lasciamo questo discorso, poichè ci vorrebbe un altro volume a dire i pensieri che fa nascere la lettura di queste lettere, è bene venire più giù a dare un’occhiata alla parte esterna di una pubblicazione, forse più curiosa che importante. Questa volta il pubblicatore risponde alle osservazioni critiche fatte agli altri due volumi dal prof. Domenico Gnoli nella Nuova Antologia, in parte accettandole per buone, in parte respingendole. Quanto alla difesa della ortografia gherardiniana, lasciamola lì. Sarà[323] logica, sarà sicura, sarà tutto quel che volete, ma per chi ha scritto e scrive come si è scritto e si scrive abitualmente in Italia, certi rabberciamenti di parole, fatti magari secondo la buona critica, la filosofia, l’etimologia e l’analogia, come dice il dottor Casati, non cessano d’esser molto buffi. Ma anche questa è questione di lana caprina, ed è bene discuterci sopra il meno possibile per non perderci tempo, fiato e giudizio, e restar poi tutti dello stesso parere.
Il dottor Casati ammette che gli errori tipografici siano veramente un po’ troppi, ma non ammette di aver fatto male mettendo dei puntini in luogo dei nomi. Egli dice: «Con mio rincrescimento non posso soddisfar l’altro suo desiderio (del Gnoli), cioè di non fare nelle lettere tanto frequenti lacune di puntini che non nascondono nulla. Per me, invece, quei punti che disturbano tanto la curiosità del signor Gnoli e del lettore, vogliono dir qualche cosa, per il che ragione di delicatezza vuole che io continui l’usanza mia».
Con la delicatezza intima di una persona non si può discutere, ma bisogna rispettarla tale e quale è. Ma oltre che spesso, come dice il Gnoli, i puntini non nascondono nulla, perchè poi metterci in uzzolo di saper qualche cosa e quando ci si arriva lasciarci con un palmo di naso? Sta benissimo il nascondere sotto ai puntini un nome accusato di qualche brutta cosa, quando quel nome è portato anche oggi da qualcheduno. Ma che cosa importava, per esempio a pag. 189, lasciar scrivere a Pietro Verri: Abbiamo avuto un aneddoto assai raro giorni sono; e a questa riga farne seguire quattro di puntini che nascondono l’aneddoto? Se non si poteva dire, era inutile anche annunciarlo.
Ma queste sono piccole cose. Una cosa grossa è questa. Il Casati finisce la sua prefazione così: «Queste reciproche, liberali e schiette avvertenze siano un pegno di amicizia fra chi scrive dalle umili rive dell’Olona, ed il poeta e letterato che nacque su quelle storiche del Tevere». Offerta di amicizia, od almeno tranquille e benevole parole di una persona non offesa e non adirata. E davvero l’esser offeso dalle critiche del Gnoli, ragionate, gravi, e tutt’altro che offensive, sarebbe stato brutto segno di piccolo spirito; e bisogna ritenere sincere e non ironiche le parole del Casati.
Ma a pagina 173, e qui sta il guaio, in una lettera di Pietro Verri ci sono parecchie cose scritte in cifra, ed il Casati annota così: «Mi son provato a decifrare sì lunga filza di cifre, ma non venni a capo di nulla: forse il copista errò nella trascrizione. Ignaro affatto degli intrighi[324] polizieschi, lascio la cura al chiarissimo professore Domenico Gnoli di darne la spiegazione». Dunque, nell’opinione del signor Casati, il Gnoli è pratico d’intrighi polizieschi o, in lingua povera, fa la spia.
Credo che il Casati nello scrivere quella nota non riflettesse alla gravità di quel che diceva. Senza dubbio ha creduto di buttar giù una pungente, ma non velenosa ironia, contro al suo critico, poichè non si spiegherebbero allora le parole che chiudono la prefazione.
Non si può ammettere in nessun modo che le critiche oneste del Gnoli possano aver accecato uno fino al punto di farlo trascendere ad una ingiuria sciocca, villana, sanguinosa. Non si può credere assolutamente che l’amor proprio di editore, di annotare, possa trascinare fino ad azioni che cadono nel dominio del codice penale. Non è quindi il caso di prender parte pel Gnoli, che è troppo superiore ad ogni calunnia anche involontaria e che sorriderà certo a questo sproposito d’ironia. Ma è il caso però di avvertire il Casati di por mente a quello che scrive in libri che rimangono nella nostra storia civile e letteraria. È una svista sicuro, ma una svista tanto grave, che il dottore milanese, siamo certi, la rettificherà subito e volentieri, magari prendendosela con chi l’ha rilevata, il che poco importa.
Sbagliamo tutti; ma così, poi!
Non è più un libro nuovissimo, ma ancora è nuovo.
Non è molto, rendendo conto ai lettori delle Memorie di un deportato, notavamo che il segreto della fortuna di questi libri sta nella ingenuità della narrazione. Quando una autobiografia lascia scorgere un fine polemico, secca il lettore e dura poco. Una prova basta per tutte. Vedete l’autobiografia del Dupré. Tutta la prima metà del volume, dove l’illustre scultore narra ingenuamente le fatiche sostenute per arrivare, si legge con piacere sempre crescente; ma quando egli è arrivato alla fama ed all’agiatezza, quando all’ansia dei tentativi, al caldo delle battaglie, succedono le discussioni estetiche ed i precetti artistici, l’interesse del volume diminuisce. Gli sforzi e la perseveranza del povero intagliatore sono raccontati più pianamente, più bonariamente che non la massima ed i criteri del professore. I precetti artistici, per quanto buoni, nociono al libro. Da Benvenuto Cellini a Massimo d’Azeglio l’arte di parer senz’arte, la furberia di parer senza furberia, furono il segreto del trionfo per gli autobiografi.
Una prova ce l’offre anche il Settembrini in queste sue Ricordanze, che rimarranno nel cuore degli Italiani finchè rimarrà l’Italia. Un libro polemico non avrebbe prodotto un decimo dell’effetto che queste tranquille pagine producono. Il Settembrini non ci fa mai vedere qual merito ci fosse in lui sostenendo il martirio. Un retore vano, un parlamentare militante non avrebbero mancato di mettere in bella vista il sacrificio e di circondarlo di una aureola di apostrofi e di professione di fede, ma il Settembrini non trae mai vanto dalle sue catene.
A leggerlo, pare che l’essere condannati a morte od all’ergastolo fosse la cosa più naturale del mondo, che ogni buon galantuomo a quei tempi dovesse trovarsi nello stesso caso. Non era di quelli che saliti sui rostri mostrano ai comizi i lividi delle catene o le cicatrici delle ferite, chiedendo una ricompensa. Egli narra, senza mostrare di credere che il racconto dei suoi casi sia la testimonianza della sua gloria. Non si vanta mai d’aver durato nella sua fede anche sotto la mannaia. Non ci pensa nemmeno, e mentre il lettore rimane colpito, ammirato di tanta modesta virtù, l’ingenuo autore non se ne accorge, e sembra che dopo tanti anni badi ancora a contendere la sua testa al pubblico accusatore. Egli non si vanta: nella ingenuità sua si difende ancora!
Il Settembrini non soffrì meno di Silvio Pellico. L’educazione e la coltura era tale in tutti e due da rendere più dura la pena, e la pena non fu meno grave per l’uno che per l’altro.
Pure, come la sopportarono diversamente! E come la differenza è tutta in vantaggio del Settembrini!
Il Pellico dalla sventura è fatto cadere nelle debolezze di una religiosità che diventa volentieri bigottismo. La sua ragione si accascia, il suo carattere non trova in sè l’energia necessaria per sopportare il dolore.
Ricorre quindi ad una anestetico, la divozione.
Infatti è fuori di dubbio che l’allucinazione religiosa rende meno sensibili al dolore. Quando le sofferenze vengono dalla misericordia di Dio e si credono esercizio necessario per diventar degni di un premio futuro ed eterno, quando ogni strazio accresce i meriti ed ogni puntura avvicina il paziente al paradiso, la rassegnazione non è più virtù: rimane rimedio contro il dolore, ma è l’egoismo che si maschera da rassegnazione.
L’anacoreta che crede si macera, è un egoista che rinuncia a poche gioie terrene per acquistarne molte e migliori nell’avvenire. Soffrire, certi che un premio seguirà alle sofferenze, non è virtù, come non è virtù digiunare al mattino per mangiar meglio a pranzo.
Così la rassegnazione cattolica del Pellico non è virtù, ed il merito dell’aver sofferto diminuisce in lui sapendo che da quelle sofferenze attendeva una ricompensa. Certo poi la sua conversione non testimonia della fortezza del suo carattere, appunto come non sarebbe forte il cattolico che caduto in mano di Turchi si lasciasse circoncidere.
Ma il Settembrini, tutt’altro che irreligioso, non si accasciò a quel modo. Non credette degno di sè di cercare un cloroformismo nelle pratiche superstiziose di una divozione[327] volgare. Il suo dolore lo portò solo, non cercò Cireneo per la sua croce. Rimase quel che era prima, nessuna delle sue convinzioni politiche e religiose mutò nella sventura; e questa è la costanza, la fortezza, la virtù vera. Non bestemmiò, ma cantò inni; non imprecò, ma nemmeno benedisse. Nelle sozzure della galera non levò superbamente la testa, ma non la inchinò mai; esempio vero di virtù vera e modesta, che non aspetta premi nè in terra nè in cielo, che fa il proprio dovere perchè è dovere e nient’altro. È tanto vero, che, leggendo, le Ricordanze, qualche volta il Settembrini fa invidia e si vorrebbe essere stati al suo posto per fare quel ch’egli fece. Leggendo Le mie prigioni, si può compiangere ma non invidiare.
S’aggiunga poi che certe torture dovettero essere più strazianti al Settembrini che al Pellico. Questi era celibe e la famiglia sua non aveva bisogno di lui: anzi egli la lasciava in una modesta agiatezza ed al sicuro dalle persecuzioni della polizia. Certo il pensiero della famiglia lontana doveva essergli doloroso, ma quanto più doloroso doveva essere al Settembrini, che lasciava, nel bisogno forse, la moglie e due piccoli figliuoli sotto gli artigli della feroce polizia borbonica! Il dolore del figlio che perde il padre non può essere paragonato allo strazio del padre che perde il figlio. L’amor figliale e fraterno sono in natura molto meno vivi dell’amor paterno, che sta forse più in alto nella scala degli affetti umani. Chi per sua disgrazia ha sofferto in tutte e due queste affezioni ne può far fede: ora gli affetti furono più dolorosamente feriti nel Settembrini che nel Pellico.
La semplicità stessa della esposizione, l’arte, insomma, ci sembra migliore nel napoletano che nel saluzzese. A nessuno infatti sarà sfuggito l’intento insegnativo che dirige la narrazione del Pellico. La sua non è una narrazione spassionata e serena, poichè egli si vuoi far vedere come la fede sostenga nella sventura. Ogni episodio doloroso finisce con una consolazione religiosa. Massimo d’Azeglio parla spesso con una certa affettuosa compassione di suo fratello gesuita, eppure quella figura nera non lascia la sua tinta nemmeno sopra un paragrafo di ricordi. Il Pellico, invece, non parla del fratello gesuita e ad ogni pagina che voltiamo ci sembra di doverlo trovare. E c’è qualche cosa della compagnia di Gesù in quelle digressioni dolciastre, in quegli entusiasmi di riflessioni, in quelle aspirazioni da Filotea che interrompono di tratto in tratto la narrazione del Pellico. Si vede uno che narra con un perchè, con una intenzione; e il lettore, che se ne accorge, diffida, perchè sa che gli storici[328] che scrivono per sostenere una tesi debbono esser creduti con cautela. E questo è un difetto d’arte che nuoce all’effetto del libro.
Nel Settembrini, per contro, vediamo da capo a fondo una bonomia, una tale mancanza di malizia, che qualche volta fa sorridere della ingenuità dell’autore, ma che ottiene maggiore effetto in quanto ci è arra di sincerità. Anche quando lascia per poco di raccontare e si allunga in certe digressioni politiche che sono a mille miglia dalle idee di questo giornale, dobbiamo riconoscere e riconosciamo uno che parla come la sente, secondo la sua convinzione, e leggiamo senza diffidenza, perchè ci accorgiamo subito che l’autore non tira a convertirci e che espone le sue idee senza fare un libro di polemica moderata. L’effetto è dunque tanto maggiore in quanto vediamo più chiaro il suggello della sincerità. L’arte del Settembrini è dunque migliore di quella del Pellico.
Or abbiamo visto incitare pubblicamente lo Spaventa, uno dei superstiti di quel martirio glorioso, a completare ed a finire l’opera del Settembrini. Ebbene, anche noi ci uniamo cordialmente agli incitatori. È desiderabile per la gloria del nostro paese che quel racconto sia completo; e sperando che questo desiderio, non nostro, ma di tutti, possa essere soddisfatto, concluderemo esprimendo la speranza che il futuro libro racconti e non discuta, dica i fatti e non combatta per un partito, qualunque sia. Lo speriamo per l’arte, e speriamo che il continuatore del Settembrini sia persuaso che in certi casi convince più una narrazione tranquilla che un ragionamento tirato a fil di logica. I fatti hanno sempre avuto più forza che le parole.
Non è molto, a proposito di un lavoro quasi puerile di Giacomo Leopardi, dato in luce con la certezza che l’autore vivo ricorrerebbe subito subito ai tribunali contro chi l’ha messo alla berlina, così, esprimevo il dubbio che queste pubblicazioni giovassero a far conoscere intimamente gli autori assai meno di quello che la nostra curiosità vorrebbe farci credere per sua scusa. Potevo domandare che cosa abbiano aggiunto di utile alle nostre cognizioni intorno al Sainte-Beuve quelle pettegole pubblicazioni dell’anno passato che ricordiamo tutti. Che importa alla critica se il vecchio senatore francese espiava i peccati di gioventù sotto lo verula di qualche servaccia o tra le ugne delle donnacce più grossolane e più vili di Francia? Le fine cesellature dell’artista di gusto non si risentirono mai della volgarità degli istinti del senatore. C’è un abisso tra l’uomo e il letterato, ed il conoscere tutte le debolezze del primo non ci svela un punto, non ci spiega un atomo del secondo.
Infatti molti, quasi tutti gli artisti d’ingegno e fantasia potente, sembrano avere due anime in un corpo solo, due anime che non hanno nulla di comune tra di loro. Il Machiavelli vecchio e relegato in campagna, s’ingaglioffa, come dice lui, con un beccaio, un mugnaio e due fornaciai, e giuoca con loro combattendo per un quattrino con urli e parolacce da osteria; il Varchi nell’Ercolano ci dice di più, che il Segretario fiorentino all’intelligenza dei governi e delle cose del mondo non seppe aggiungere la gravità della vita. Eppure, quando il relegato sentiva d’essersi incanagliato abbastanza, tornava a casa, rivestiva i panni curiali e la toga d’ambasciatore, e scriveva il Principe e le Deche. Sembra che egli avesse la facoltà[330] di sdoppiarsi, di cambiar l’anima come il vestito. Alfredo de Musset ebbe la stessa facoltà. Da molti anni frequentava un caffè dove cedeva alle tentazioni della sirena verde, l’assenzio; e bevendo lentamente, osservava con interesse le mosse di due giocatori di scacchi. I giocatori si erano abituati da molto tempo a questo osservatore muto, che passava lunghe ore assorto nella contemplazione delle torri e dei cavalli, quando un giorno, ad un colpo contestato, lo presero per giudice e seppero con meraviglia che non conosceva nemmeno le mosse delle pedine; non sapeva giocare, ed imparò soltanto negli ultimi anni della sua vita. Il poeta, avvelenato dall’aria graveolente del caffè e dall’alcool tinto di verde, tornava a casa con la testa pesante, gli occhi torbidi, la lingua impacciata, e faceva accendere tutte le candele nella sua camera, si vestiva come per andare a veglia, e così vestito sentiva anch’egli l’anima che si sdoppiava, sentiva e scriveva quei versi splendidi che sono una delle più belle glorie della Francia.
Ma senza ricorrere a questi e ad altri celebri esempi, chi è lo scrittore che nell’atto di pensare e di tradurre il pensiero in parole, non si senta diverso dal solito, non provi il sentimento della presenza di qualche cosa di nuovo, di strano? Durante questa eccitazione d’ingegno, l’artista si sente un altro uomo, ed i suoi pensieri si ricollegano, non già con quelli più recenti della vita normale, ma con quelli più lontani dell’ultima eccitazione simile. C’è un uomo nell’uomo, una vita nella vita, e le operazioni dell’ingegno e della coscienza nei due differenti stati sono completamente indipendenti per conoscere quindi con precisione quel che ha fatto il Sainte-Beuve la domenica, non serve affatto a spiegare quel che ha scritto il lunedì.
Certo non dico questo in senso assoluto, ma tuttavia si può affermare che la metà delle ricerche biografiche sono inutili e solo buone a contentare la nostra curiosità. Ammetto, anzi invoco la stampa degli epistolari, ma fatta con criterio e non ciecamente; ammetto che si stampino le lettere di qualche importanza, non tutti i brandelli di carta scritta che si trovano nel cestino. Guardate l’ultimo volume della corrispondenza appunto del Sainte-Beuve, stampato dal Lèvy, e dite se non ho ragione. Quattrocento cinquanta pagine potrebbero esser ridotte a cento: e forse cento sarebbero troppe. Che cosa giovano anche alla biografia del celebre critico tutte quelle insulse lettere di ringraziamento per l’invio di libercoli, di articoli e di volumi? Non è carta sciupata a stamparle e tempo perso a leggerle? Ma no; de’ grandi uomini bisogna[331] conoscer tutto, anche quello che non importa; ecco la perpetua scusa dei pubblicatori di inanità e di sgorbi.
Tra le poche lettere importanti sono da leggere le prime, dirette all’abate Barbe. Si è voluto dire che Sainte-Beuve fosse un ateo della più bell’acqua, e tutti ricordano le alte grida, le chiacchere maligne e le bugie dalle gambe corte a proposito dei pranzi del venerdì santo. Si è saputo poi, che mentre a Losanna lo volevano convertire al calvinismo, dal fondo della sua provincia nativa e da carissime persone gli venivano esortazioni vivissime per una conversione al cattolicismo. Il critico si difese con molto spirito dalle accuse e dai tentativi, ma tutte le volte che fu costretto a parlare di queste gravi questioni, disse e non disse, motteggiò, girò alla larga, e nessuno seppe con certezza quali fossero le convinzioni della sua coscienza. Nelle lettere al Barbe troviamo, se non la spiegazione evidente dell’enimma, almeno una luce sufficiente per vedere qualche cosa nel buio di quell’anima chiusa. Il Sainte-Beuve non fu che un epicureo.
Il secondo Impero, che ha avuto tanti nemici letterari e grandissimi, non giunse a metter dalla sua che i tre più noti epicurei dell’epoca, il Sainte-Beuve, il Mérimée e Teofilo Gautier. Tutti gli artisti che si sentivano dentro un po’ di fede, una credenza qualunque, furono di quella opposizione letteraria che cominciò dai Châtiments e finì alla Lanterne, contribuendo non poco alla catastrofe dei Napoleonidi. L’Impero aveva la coscienza di questo suo isolamento letterario e faceva di quando in quando dei tentativi, come la commissione del Songe d’Auguste data ad Alfredo de Musset; ma le feste di Compiègne, se poterono tentare qualche amatore della vita dorata, se poterono far vestire l’abito di Corte a qualche letterato curioso e facile, non riuscirono a fermare nell’orbita imperiale nessun uomo d’ingegno grande, al di fuori dei tre epicurei ricordati. Era proprio una fatalità che perseguitava l’Impero, una labe di peccato originale che non si poteva cancellare, come la macchia nelle mani di lady Macbeth. Inutilmente si sostenevano coll’opra e col consiglio le idee più grandi, le imprese più simpatiche, inutilmente, contro la fiumana della corruzione si cercavano ripari in un cattolicismo stretto, in una protezione pericolosa del Papa, in una rigidità spagnuola di pratiche religiose: tutti diffidavano, e i letterati più di tutti. Così l’Impero non poteva offrire ai suoi se non le soddisfazioni che sono procurate dall’agiatezza, e con i soli epicurei cedevano alla tentazione e varcavano la porta del Senato.
Il Sainte-Beuve, che era passato per la Restaurazione,[332] pel regno degli Orléans e per la repubblica senza commoversi troppo, non ebbe nessuna difficoltà a darsi all’Impero. Non aveva convinzioni profonde e non aveva legami anteriori. Le sue stesse lettere al Barbe, scritte le prime appena uscito dalla piccola città nativa ed in piena Restaurazione, ci mostrano un giovane che di certe cose non si occupa, che sfugge con eguale cura dalla conversazione e dalla apostasia e, quando deve parlare di cose religiose coll’amico sacerdote, si sente manifestamente seccato. Nella seconda lettera narra abbastanza freddamente di trovar qualche conforto nella religione, ma nella terza comincia già a ragionare sulla Rivoluzione. Egli leggeva tutte le memorie contemporanee che narrano quel periodo di storia francese, e sorpreso di trovare tante contraddizioni tra i testimoni oculari di un medesimo fatto, domanda:—Ma se pei fatti pubblici ed ostensibili c’è tanta oscurità, che sarà poi quando si tratta di cause oscure e nascoste? Ed ecco i primi sintomi di quel criticismo che trae a discutere tutto, a ragionare su tutto, e conduce poi alla negazione degli eterodossi. Quando si comincia a discutere, la fede è già scomparsa, e non c’è altro riposo che nella negazione assoluta degli atei o nella indifferenza pigra che i dubbi intimi sono troppo tormentosi e deliberò di non pensarci più. A questo modo, senza negare, e senza credere, fuggendo accuratamente il pericolo di doversi spiegare o cogli altri o colla propria coscienza, attraversò senza scosse e senza seccature uno dei periodi più agitati per le coscienze e navigò fra il Sansimonismo e Montelembert, in vista a tutti due, ma senza toccarli e senza naufragarci sopra. Non c’era bisogno delle ciniche rivelazioni del signor Pons (Sainte-Beuve et ses inconnues) per capire che il carattere dell’illustre critico lasciava molto a desiderare. Anche da quest’ultimo volume di lettere si capisce bene; anche dalle prime lettere al Barbe. La facilità di accomodarsi al carattere degli altri che l’amor proprio fa credere furberia e che nei critici passa come facoltà di immedesimarsi con gli autori dei quali si rende conto, fece già passare al Sainte-Beuve un brutto quarto d’ora quando, a proposito del Ballanche, gli lasciò fare un articolo codino. Egli ha scritto: «Scrivendo questo articolo e per essere più sicuro di intendere come bisognava un autore eminente ma difficile, avevo pensato prima di tutto a mettermi nel punto di vista dell’autore stesso ed a considerarlo, come si dice oggi, nel suo ambiente. Per un momento m’ero trasportato nella sua società, nella regione delle idee e delle opinioni che egli aveva attraversato: m’ero come trasformato in lui. Questo[333] è sempre stato il mio metodo di critica... Ora, facendo così pel Ballanche, avvenne, senza ch’io ci pensassi, di aver violentemente urtato gli uomini che giudicavano il 1815, i Borboni, la Convenzione e il regicidio da un altro punto di vista che il suo e con sentimenti contrari[4]». Ebbene, tra questi che giudicavano la rivoluzione e la reazione da un punto di vista diverso da quello del Ballanche, c’era lo stesso Sainte-Beuve, il quale, per la facilità di accomodarsi ai caratteri altrui e di trasformarsi quindi negli autori di cui parlava, fece, senza avvedersene, come egli stesso confessa, un articolo contrario alle proprie opinioni. Bisogna convenire che questa facoltà di trasformazione intima, la quale fa scrivere così ingenuamente la propria condanna e persuade ad un incredulo di scrivere ad un prete lettere untuose e umide d’acqua santa per accomodarsi alle convinzioni altrui, è una facoltà molto pericolosa e poco invidiabile. Il Sainte-Beuve scrive all’amico Barbe: «Sento spesso un gran vuoto, dei grandi sconforti d’anima, noie e desideri. Senza fallo c’entrano per qualche cosa i dubbi religiosi e, benchè questo stato del mio spirito dipenda da altre cause quasi impossibili ad analizzare, le questioni grandi ed eterne c’entrano spesso». Le altre cause impossibili ad analizzare erano le frequentatrici del Palais-Royal. Non importava certo confessarlo all’amico sacerdote, ma non importava nemmeno adattarsi tanto al suo carattere di canzonarlo a quel modo, dandogli a credere che nelle noie e nei desideri del giovinotto vizioso c’entrassero anche le questioni grandi ed eterne.
È strano che mentre la morte aggiunge sempre alla fama dei grandi scrittori, il Sainte-Beuve, che fu veramente uno de’ principali scrittori di quest’epoca, abbia avuto dalla morte piuttosto detrimento che vantaggio. E il detrimento lo ha avuto appunto da queste pubblicazioni e rivelazioni postume, che lo hanno fatto vedere troppo da vicino ed hanno fatto conoscere a tutti le sue debolezze di carattere, qualche volta odiose. Le aspirazioni malaticce di Joseph Delorme sono apparse sotto un brutto aspetto dopo gli scandali del Livre d’amour, contro il quale alzò giustamente la voce irritata Alfonso Karr. È già delitto insidiare la moglie dell’amico, ma il Sainte-Beuve fece peggio pubblicando un disonore, infamando una donna, senza nessuna ragione, pel solo gusto di stampare un centinaio di sonetti che il Karr battezza[334] mediocri. La qualità della persona offesa e la bruttezza dell’atto peseranno sempre sulla memoria del critico. I rivelatori, i pubblicatori di brandelli di carta strappata hanno appeso alle Gemonie la fama dello scrittore e ci rimarrà finchè il nome di Sainte-Beuve sarà vivo nella storia letteraria.
Ma se le pubblicazioni pettegole hanno nociuto alla fama del Sainte-Beuve, che cosa ci abbiamo guadagnato noi, pei quali si fanno queste pubblicazioni? Che conferma ha avuto l’assioma che si bandisce dai tetti a scusa delle indiscrezioni, che cioè bisogna conoscer gli uomini grandi in tutto, anche nelle minime azioni della vita, anche nelle loro debolezze, per intenderli bene? Il Sainte-Beuve, egoista raffinato, scettico e qualche volta cinico, fa una critica che porta senza dubbio un suggello di originalità, ma nella quale l’io, la personalità superba di chi ha coscienza delle proprie forze, scompare affatto. Lo scettico scrive degli articoli come quello pel Ballanche; e il cinico, che razzola i suoi piaceri giù nelle sozzure del fango, fa l’apoteosi del rigido giansenismo nella storia di Port-Royal, scrive alcuni volumi di versi dove forse la raffinatezza del gusto nuoce alla forza che ha sempre in sè qualche cosa di ruvido. L’epicureo incorreggibile dai gusti volgari scrive il romanzo Volupté, dove la parola più arrischiata è appunto il titolo, dove c’è uno sforzo continuo di sublimare, di vaporizzare la passione tanto che non rimanga più nulla in lei di fisico e di materiale. Il sibarita grossolano, che per non sentire una piega nel letto di rose dormiva in cucina e ruzzolava da Margherita Devaquez alla Manchotte, il pigro che non avrebbe rinunciato ad un’ora d’ozio o ad un quarto d’ora di piacere per la corona di Francia, l’incredulo che non sapeva rispondere ai tentativi di conversione se non con la ironia e con l’equivoco, ci dipinge un eroe delicatissimo: pronto al sacrificio e pieno di fede sino a finir missionario dopo un disinganno. L’autore non è l’uomo, ed ecco un altro caso di anima doppia, dove i fatti della vita esterna non solo non spiegano le opere dell’ingegno, ma le oscurano e le sfigurano. Il Pons cominciava le sue indiscrezioni dicendo: «Per chi vuol conoscere a fondo un uomo, ogni cosa è fonte di errore e di inganno: le apparenze, le abitudini, le opinioni, i discorsi, le azioni stesse che sono spesso in senso inverso del mobile loro. Solo una cosa non inganna, ed è la scienza della passione padrone e dominante, quando si è arrivati ad afferrare la molla segreta che muove ciascuno». Ebbene, che cosa ha spiegato la scienza delle passionacce di Sainte-Beuve? Non è in contraddizione anch’essa con l’opera del critico, come le[335] apparenze, le abitudini e le azioni? Che cosa ha giovato alla conoscenza intima dell’ingegno del critico, alla conoscenza dei modi di agire della sua intelligenza, questa pubblicazione ultima di biglietti senza importanza, scritti per obbligo di educazione, col pensiero altrove e brontolando forse contro la seccatura.
Mi pare quindi che il magnifico assioma che pretende di scusare tante pubblicazioni indiscrete o di giustificarne tante altre inutilissime, sia da guardare un po’ più da vicino. Se questo stato di curiosità morbosa non cessa, i poveri letterati saranno ridotti a scriver lettere come Cicerone e i Ciceroniani, vale a dire pesando i termini e limitando le frasi di un invito a pranzo come le terzine di un sonetto. E se questo accade, chi è da compiangere non sono i letterati, ma il pubblico.
Non mancano romanzi ed appendici di giornali a coloro che nella lettura cercano una distrazione. Pochi sono che non rabbrividiscono alla vista di un volume in quarto, a due colonne in più che cinquecento pagine fitte di documenti. Eccovi uno di quei volumi, ma non rabbrividite. Sono i documenti delle relazioni tra le città toscane e l’Oriente, raccolti da Giuseppe Müller e splendidamente impressi dai Cellini di Firenze.
Le Crociate! Che slancio di fede, che rifioritura della speranza nel martirio! Entrarono in parossismo tutti gli istinti cattolici e cavallereschi del medio evo, e Pietro l’Eremita e Goffredo di Buglione desiderarono morire per la Croce. Le istituzioni feudali trovarono quel che cominciava a mancare, uno sbocco per gli entusiasmi, un dominio pei cadetti. Dio lo vuole! e i cavalieri s’imbarcano sulle galee pisane, venete, genovesi, e la febbre cristiana per la conquista del Sepolcro riceve più tardi la sanzione della poesia. I Pisani recano sulle galee tanto delle terra benedetta da poterci seppellir sotto i loro morti ed edificar sopra il meraviglioso Camposanto. Tutta quell’epoca nella tradizione, e nella storia, secondo il Cantù, sembra una nuova primavera della fede.
Sembra. I documenti toscani sono proprio il rovescio della Gerusalemme liberata.
Certo le repubbliche italiane erano profondamente religiose. Le istituzioni, gli edifici, la storia ce lo attestano. Ma erano religiose all’italiana, con un pizzico di scetticismo di quando in quando, e con molte impertinenze pei preti e pei frati. Si poteva esser cattolici e guelfi come i fiorentini, e metter la briglia ai chierici e domarli se[337] recalcitranti, come nei molti Consigli dal 1281 in poi. Si poteva essere cattolici e ghibellini come Dante, e lodar Dio dicendo corna del Papa. Il Boccaccio mostra più intimo questo miscuglio di religione e d’irriverenza, che nei letterati finì poi in una rinnovazione artificiale del paganesimo. Certo le repubbliche italiane erano religiose, ma erano anche repubbliche di mercanti. Le Crociate erano certo una santa e meritoria impresa, ma se non fosse tornato conto il prestar le galee ai ferventi cavalieri, i repubblicani, religiosi ma furbi, non ne avrebbero prestato nemmeno una. Tutto il contegno di costoro dice che essi veggono come liberando il Sepolcro si possano stabilire fattorie in Siria e sia possibile acquistare il paradiso all’altro mondo facendo masserizie in questo. Così adunano flotte e combattono a Tolemaide, a Tiro, a Giaffa, dappertutto dove c’è un porto da aprire alla religione di Cristo ed alla ragione del commercio loro.
I documenti toscani non potevano far meglio vedere questa doppia direzione delle repubbliche italiane in quei tempi. Nei trattati dei Pisani specialmente, ritroviamo un curioso ed ingenuo miscuglio di cose sacre e profane, una specie di identità tra la religione e l’interesse, da far venire la pelle d’oca a tutti quelli uomini buoni ed a quei poeti romantici che credono alla ideale purità della fede d’una volta. Gli imperatori di Costantinopoli, cristiani della fede loro, cominciarono ad essere seccati da tutti questi paladini della fede che passavano sulle loro terre o navigavano lungo le loro coste. Di qui una serie di battaglie e di piraterie tra i successori di Costantino e i benedetti dai pontefici, che finirono secondo il solito, cioè con la sconfitta di chi ha meno forza, se non meno ragione. Dopo una di queste lotte, i Pisani, nel 1111, fecero un trattato coll’imperatore Alessio Comneno, dove si vede chiaro il pasticcio tra la religione e l’interesse; dove si trovano insieme donazioni alle chiese, esenzioni d’imposte, libertà di trasportare pellegrini o mercanzie, godimenti di posti distinti in S. Sofia o nell’Ippodromo, e simili curiose mescolanze. Chi tiene il primo posto in questi trattati e nella direzione generale della politica repubblicana? Queste città libere sono più religiose che commercianti, o più commercianti che religiose?
Veramente, se si bada ai documenti, pare che la religione non fosse la più favorita. I Crociati, figli di una società feudale, conquistando la Siria vi trapiantarono le istituzioni loro. Ogni città, ogni castello ebbe il suo signore con diritto di alta e bassa giustizia, soggetto soltanto[338] al re in teoria. Qua e là però, qualche barone più forte, qualche re più ambizioso, rompevano l’equilibrio dei piccoli feudi e cercavano di dominare. Naturalmente le colonie repubblicane non trovavano il loro conto in questo concentramento di potere e reagivano con poco gusto della religione. Nel 1197 i Pisani, in una di queste turbolenze, assalgono e feriscono persino i pellegrini. Resistono tenacemente anche i vescovi intinti di rapacità feudale e lottano senza scrupoli contro quello di Accone (Tolomaide) pei privilegi di una loro chiesa. Contro alla potenza guelfa sono sempre ghibellini, contro la prepotenza feudale sono sempre repubblicani. E nello stesso tempo che si dibattono contro la pressione del fisco regio o imperiale e lottano con tutti i mezzi contro ai dazi ed alle tariffe per la conservazione dei loro privilegi sociali, continuano le battaglie per la fede, cedono uomini, armi e navi contro i Saraceni. Sbaglieremo, ma ci sembra quasi di vedere che quei vecchi repubblicani cercassero la loro stessa coscienza e, combattendo pel loro Dio e la loro fede, cercassero quasi di scusare, di legittimare, di assolvere l’avidità commerciale.
Ad ogni modo, se non si vuoi convenire con noi, bisognerà confessare che sono un curioso fenomeno quei crociati che nel 1203 e nel 1204 in nome di Cristo assalgono Costantinopoli e bruciano anche le chiese.
Ma se gli scrupoli religiosi tacevano spesso in faccia al lucro così accadrà di quella religione di partito, vivissima in quei tempi e in quegli uomini, incorruttibile anche in faccia agli aperti tesori della Siria. Questa è la disgraziata fede che ebbe tanti martiri nel medio evo, che fece ogni città nemica alla città vicina, di ogni casa una fortezza contro la casa in faccia. Delle battaglie di Legnano non ce n’è che una nella nostra storia, poichè Fornovo non conta; ed anche quei pochi giorni di concordia italica furono contristati da fratricidi ferocissimi. In Oriente ogni repubblica aveva le sue torri come i baroni, ed i quartieri erano divisi da mura e fortificati l’uno contro l’altro. Non solo per ragioni di traffico si osteggiavano, ma le rivalità avevano ragioni moltissime di antipatie, di odii, di precedenti. Le paci si fanno e si disfanno, ma la tenacità nel partito, rimane contro qualunque disfatta, contro ogni tentazione.
Nel 1228 i Pisani, ghibellini, fedeli, lottano per la fortuna di Federico II e si mantengono fanaticamente svevi contro i Genovesi, anche quando c’era tutto da perdere. E l’ira contro Genova, che doveva poi così dolorosamente smorzarsi nelle acque della Meloria, persiste sempre viva, sempre cieca.
Rovinava il debole regno fondato dai crociati, rovinava sotto gli sforzi dei maomettani; ma i due combattenti dimenticarono tutto, e sotto il tetto che crollava non pensarono che a combattersi. Dopo rovinata la casa, uscirono pesti e malconci dalle macerie e, senza guardarsi attorno, seguitarono la battaglia.
Sono questi i tempi feroci che un romanticismo linfatico ci dipinse come l’età dell’oro, della fede, dell’onore e della giustizia. L’epoca fu gloriosa per l’Italia, ma non fu certamente bella per la società. Questi repubblicani erano buoni cattolici, ma spesso, e forse per questo, erano anche buoni corsari. Predavano indifferentemente greci e saraceni, e sapevano prepotere sui deboli. Tra questi era l’impero di Costantinopoli, caduto nelle mollezze della teologia e dei sofismi precursori della scolastica. Sul finire del secolo XII i corsari pisani spazzano il Bosforo, giungono quasi ad affamare la capitale e spingono la sfrontatezza fino a spedire propri ambasciatori all’imperatore Isacco. E le repubbliche tutte fanno a gara per imporre all’Impero infemminato patti di privilegi e umiliazioni di scuse, proprio come oggi le potenze europee al turco. Così finiva la vana epopea delle crociate. Ci guadagnò la borsa, ma ci perdettero la religione e i costumi.
È noto infatti come i reduci guerrieri della Croce portassero in Europa la luce delle mollezze orientali. E quanto il contatto coll’Oriente fosse pernicioso ad una società non ancora uscita dalla barbarie, lo dice la vergognosa istituzione della schiavitù, propagata anche fra di noi e durata per qualche secolo. Il cristianesimo, dopo le sue vittorie sulla società romana, s’era addormentato nel sonno della barbarie, e nel dormiveglia del ridestarsi non ricordava più i precetti umani e santi che non erano stati ultima causa della sua vittoria. A Firenze, a Lucca, a Siena erano molte schiave, per lo più tartare, e venute dalle colonie genovesi in Crimea. A Venezia era il mercato principale, ma in Ancona anche qualche mercante fiorentino attendeva all’ignobile traffico. Solo nel 1364 in Firenze si sentì il bisogno di regolare questo immorale commercio e di rimediare allo scandalo che ne veniva, ordinando che i figli delle schiave seguissero le condizioni paterne, e fossero liberi. Tutti potevano introdurre e possedere schiavi e schiave. Si poteva venderli, donarli come bestie, e la legge ne guarentiva la proprietà. Tra il 1366 e il 1397 le compre di schiave che si possono constatare in Firenze, sono 389. Dante aveva troppa ragione di inveire contro i costumi della sua patria, e noi non saremo lontani dal vero attribuendo in parte al contatto coll’Oriente la corruttela della madre di poco amore.
Con la caduta di Pisa in mano dei Fiorentini cessano in Oriente le liti sostenute con l’armi in pugno. L’astuzia e la politica accorta si sostituiscono alla rozza prepotenza dei marinai, quasi corsari. Firenze è cattolica e guelfissima, ma i sogni delle crociate la fanno sorridere. Tutto il suo ingegno e la sua furberia si volgono a vivere in pace col Gran Turco ed a spillarne quel più che si può di privilegi e di quattrini. La raccolta dei documenti, così bene illustrata dal Müller, giunge fino al 1531. Se arrivasse fino al 1880 ci sarebbe da rallegrarsi o da vergognarsi pel nostro paese?
Fu, se non erro, nel 1880, che la controversia intorno alla morte del Ferruccio fece capolino e mise a rumore i giornali politici e letterari. Ferdinando Martini nel Fanfulla della Domenica annunziava che Edoardo Alvisi, giovane benemerito per parecchi importanti libri storici, stava compiendo un’opera dove, coi documenti alla mano, avrebbe provato che il Maramaldo non ammazzò il Ferruccio, o che per lo meno la faccenda era assai dubbia. Tutti ricordano lo strepito che ne seguì. Parve pensino che l’onore della patria fosse in pericolo e che il nome italiano dovesse diventare obbrobrioso, solo che si dubitasse dell’infamia del Maramaldo! I grandi amori sono corti di vista, e bisognerà rallegrarsi della grandezza dell’amor patrio che scattò fuori in quei giorni, tanto che alcuni divennero ciechi a dirittura. Andate a dire ad uno, che ami svisceratamente la religione, che Ponzio Pilato non fu poi quel birbante che ci dipinge la tradizione cristiana, e sentirete che risposta e che anatemi vi attirerà sul capo la proposta. Così avvenne quando nacque il dubbio di una possibile riabilitazione di Fabrizio Maramaldo, quel Gano ideale della tradizione italica moderna. Si disse fino esser opera iniqua distruggere la leggenda eroica del Ferruccio a profitto di un avventuriero spagnuolo; e Maramaldo fu italiano. Si gridò, si urlò, e tutti gli oratori che avevan ficcato per forza il Ferruccio nelle loro perorazioni innanzi alle turbe, tutti i poeti che avevano improperato il Maramaldo in versi sciolti o rimati, si sentirono come offesi personalmente, temettero per la immortalità delle loro opere complete, e invocando il santo nome della patria, scomunicarono l’audace che osava discutere simile eresia.
Il Martini, ingegno polemico de’ più arguti, si difese meravigliosamente, ma gli avversari furori così numerosi e la discussione degenerò così rapidamente in garriti politici, c’è egli finì, pare, con infastidirsene e rimettere la sentenza all’epoca della pubblicazione del libro. E il libro oggi è pubblicato[5].
Per me (poichè parlo solo in nome mio e non in nome della patria, come molti fecero e fanno in questa contesa) per me ero dispostissimo a credere erronea la leggenda di Gavinana, quando l’errore mi fosse stato provato. Oltre che l’incredulità, o per lo meno il dubbio, diventarono inquilini ostinati della mia zucca, Gavinana m’aveva spoetizzato la sua leggenda. In quel villaggio di montagna, non c’è di grande che un ricordo. Vorreste far parlare la vostra fantasia, ricostruirvi in capo l’ultima scena delle eroiche tragedie moderne, e finire col vedere il nome e l’imagine del Ferruccio diventati insegna d’un albergo. Mi ricordo che davanti al cimitero è un portico, sotto al quale è dipinta una Annunziata; e sotto all’imagine, una mano irriverente ha scritto col lapis: «Tra nove mesi nascerà il Messia»; uno dei versi più volgari del turpissimo Stecchetti. E tutto, fino l’album dove vi fanno scrivere il nome, è inquinato di questa volgarità buffa che vi toglie le illusioni e vi mozza le ali della fantasia. Se poi, che il Signore ve ne scampi, vi parrà impossibile che la buaggine umana possa far tanta pompa di sè in un luogo dove la patria segnò una delle stazioni sacre della sua Via crucis. Alle Termopili non è difficile, dicono, trovare i ladri; ma io credo che le illusioni resistano meglio alla perdita dell’orologio che alla perdita della serietà.
E più mi dava fiducia il conoscerà l’autore del futuro libro; poichè l’Alvisi è amico mio da un pezzo, fin da quando, circa dodici anni fa, perpetravamo con le forbici un giornale che il Panzacchi dirigeva quando se ne ricordava. So che ingegno criticamente acuto sia il suo e qual coscienza e infaticabilità rechi nelle ricerche. Conoscevo il suo libro intorno al governo di Romagna del duca Valentino, libro un po’ arruffato, ma pieno di fatti nuovi, importanti, e cercati con una assiduità quasi tedesca. Mi fidavo dunque, anzi mi rallegravo in anticipazione della sconfitta di coloro che parevano offesi personalmente quando si diceva che il Ferruccio poteva ben esser morto in un altro modo. Invece, benchè il libro dell’Alvisi mi paia meglio fatto di tutti i suoi precedenti lavori, non mi ha punto convinto; anzi, fino a prova contraria,[343] mi fa credere che la leggenda abbia proprio ragione.
L’Alvisi ragiona così. Tutti gli storici fiorentini che narrano l’eccidio di Gavinana copiarono dal Giovio, il quale ne diede molti particolari nelle Historiae sui temporis, uscite alla luce 22 anni dopo il fatto, cioè nel 1552; o se non copiarono alla lettera, attinsero manifestamente da lui. In Firenze, prima del libro del Giovio non si sa e non si dice altro che il Ferruccio nella battaglia di Gavinana fu morto, senza che dall’uccisione si dia colpa a nessuna persona nominata. Dunque la leggenda viene dal Giovio che primo la racconta. Ma dove l’attinse egli? Da due poemetti: uno di Mambrino Roseo, edito proprio nel 1530, l’anno di Gavinana; e un altro di Donato Callofilo stampato l’anno dopo. L’Alvisi prova queste figliazioni, prova anche che alcuni storici fiorentini risalirono alle fonti stesse alle quali il Giovio aveva attinto; e si domanda:—Come avviene che gli storici fiorentini contemporanei, anzi quasi testimoni del fatto, ne ignorano i termini e quando debbono parlarne sono costretti a copiare uno storico forastiero, il quale alla sua volta copia di qua e di là da due autori senza autorità alcuna, e che spesso si contraddicono?—Di qui, per lo meno, il dubbio sull’esattezza del fatto come è narrato dal Giovio e copiato dagli storici fiorentini.
Mettiamo pure, intanto, che la cosa sia allo stato di dubbio. L’Alvisi aggiunge che un commissario del campo in una memoria scritta pel Varchi narra che il capitano Garaus, spagnolo, fu il primo a colpire il Ferruccio, e il Nerli conferma che appunto i capitani del morto principe d’Orange uccisero il Ferruccio in vendetta della morte del loro duce. E questa è la versione ammessa dall’Alvisi (p. 166). Quanto alle altre relazioni che accusano Maramaldo dell’uccisione, si spiegano pensando che il fatto accadde lontano da Pistoia e da Firenze, di notte, nel tumulto della vittoria e con pochi testimoni. Certo il Ferruccio fu condotto al Maramaldo, dove poi fu ucciso dagli uomini del principe; ma l’esser stato condotto innanzi al Maramaldo, dovette in quella confusione far credere che il Maramaldo stesso fosse l’uccisore; per certo in quel tumulto si disse prima, che il Ferruccio fu ucciso per volontà del Maramaldo, essendo stato ammazzato sotto a’ suoi occhi; poi che il Maramaldo lo fece ammazzare, poi che lo ammazzò: ed ecco la leggenda bell’e fatta, tanto che il Callofilo la mette in ottava rima l’anno dopo, e dopo ventidue anni la copia il Giovio. Così l’Alvisi dal dubbio passa ad una certezza positiva, affatto contraria alla leggenda come finora fu narrata ed ammessa.
Cominciamo al rovescio. Prima di tutto la relazione dello Sperino, quella cioè che parla del capitano Garaus e che nel libro dell’Alvisi è il documento 189 (a pag. 167 per errore di stampa è notata 188) è scritta assai tardi. Ma anche fosse scritta un’ora dopo l’eccidio, non fa che confermarlo. Nel testo bisognava riferire l’intero brano della relazione che dice a chiare lettere (p. 413): «Le fanterie del principe ruppero Ferruccio et le sue genti et lo fecero prigione. Et fu ammazzato, secondo la pubblica fama, da Fabritio Marramaldo colonnello napolitano, ma il vero è ch’egli non fu il primo che gli dette, ma un gentil’huomo spagnolo detto Garaus ecc.» O dunque? Lo Sperino conferma la pubblica fama che attribuiva e attribuisce al Maramaldo l’uccisione; solo aggiunge che Maramaldo non fu il primo a ferire. Ma come l’Alvisi non ha visto che le parole dello Sperino cresimavano vero lo sdegnoso detto: «Tu ammazzi un uomo morto»? Tanto è vero, che il Varchi, pel quale lo Sperino scriveva, accusò Maramaldo e inscrisse la frase del commissario morente nella sua storia. Questa relazione dello Sperino torna dunque contro l’assunto dell’Alvisi: diametralmente contro.
Non resta che il Nerli, della cui veridicità non voglio dire quel che il Giannotti scriveva al Varchi. Certo però a quello storico accanitamente mediceo non si poteva chiedere che accusasse apertamente un amico de’ suoi signori forse ancora vivente. Certo è poi che la frase, sulla quale poggia tutto l’edifizio dell’Alvisi, è vaga e scritta in modo che mostra come il Nerli poco si curasse di mettere in chiaro la cosa. Egli accusa gli uomini del principe, e quanto alla causa dell’uccisione non la sa e non la cerca. Qui sopra vedemmo come lo Sperino chiami fanteria del principe quelle che erano sotto gli ordini del Maramaldo. Costui era infatti un uomo del principe che comandava in capo, e la imprecisa frase del Nerli non esclude la versione comune. Ad ogni modo poi il testo dice chiaro che il Nerli o non seppe o trascurò di dire quel che sapeva. Quando narra che gli uomini del principe ammazzarono il Ferruccio «o pel dispiacere della morte del loro signore o per qualsivoglia altra cagione», dice chiaro che a lui non importa punto cercare o dire la precisa verità del fatto.
Ad ogni modo, stabilito così, che, delle testimonianze recate dall’Alvisi in favore della sua tesi, una la contraddice e l’altra è dubbia, o per lo meno sola e vaga, che cosa resta? Restano le molte, esplicite ed attendibili testimonianze che accusano precisamente il Maramaldo. E intanto l’ipotesi (poichè è una ipotesi) fatta dall’Alvisi[345] sulla formazione della voce che sullo stesso campo di battaglia attribuiva al Maramaldo la morte del Ferruccio, non pare che corra tanto liscia. Il fatto avvenne, è vero, lontano da Pistoia o da Firenze, ma tuttavia in mezzo a parecchie migliaia di combattenti. Non era notte, poichè la conclusione del fatto è messa da testimoni di persona tra le ore 20 e le 24, cioè tra le 3 e e le 7 del pomeriggio, e in agosto in quell’ora ci si vede bene.
Non potevano esser pochi i testimoni presenti, poichè, secondo tutte le versioni, da quella del Giovio a quella dell’Alvisi, l’eccidio accadde in piazza, dove certo possono stare parecchie centinaia di persone.
E secondo la versione comune, il Maramaldo, il capitano vittorioso, non poteva esser là solo, o con pochi; mentre, secondo la versione stessa dell’Alvisi, gli uccisori furono parecchi; ed in ogni modo, conoscendo i luoghi, si vede che tutto doveva gravitare intorno alla piazza. E finalmente la confusione della vittoria, per grande che fosse, non potè fare che dal campo, quindici ore dopo la morte del Ferruccio, un segretario del vicelegato di Bologna scrivesse al suo padrone a chiare lettere che Ferruzzo fu morto per mano del signor Fabrizio, senza esser sicuro di quel che diceva, quando il suo stato l’obbligava invece ad assicurarsene gli porgeva insieme la facile maniera di farlo.
Il fatto è che alla frase dello Sperino che ammette la stoccata del Maramaldo ed all’equivoco periodo del Nerli, si possono aggiungere non una, ma parecchie lettere scritte dal campo stesso, poche ore dopo al fatto, le quali concordano tutte nell’affermazione fondamentale: Fabrizio ha ucciso il Ferruccio. A quella di Martino Agrippa segretario del vicelegato di Bologna or ora citata, possono aggiungersi quella del Torelli ambasciatore del duca di Ferrara, che dice: Fabritio Maramao... lo amazzò: quella degli Anziani di Lucca, che dicono lo stesso, la lettera da Lucca, riportata dall’Alvisi al documento 122, dove si dice: Fabrizio di sua mano schannò il Feruzio: quella del Giovio, scritta sei giorni dopo il fatto, ecc. Non concordano nelle ragioni dell’uccisione, ma questo non infirma punto il fatto fondamentale. Anche oggi dopo un omicidio difficilmente si concorda nel designarne la causa, ma ciò non toglie la verità dell’omicidio e la concordia del designare l’assassino. A che si riducono, in faccia a queste affermazioni esplicite di persone che potevano sapere, e, volendo, vedere la cosa, a che si riducono le vaghe espressioni del Nerli? Ahimè, a nulla!
E, per finire, perchè il Maramaldo disse che il Ferruccio morì in battaglia? (pag. 169). Se non l’aveva ucciso[346] lui, o che bisogno aveva di mentire, poichè quella, secondo tutte le versioni, è menzogna?
Stabene che gli storici fiorentini abbiano copiato dal Giovio; ma costui, sei giorni dopo la battaglia e ventidue anni dopo, con le stampe del Torrentino, disse che il Ferruccio era stato ucciso dal Maramaldo. E se variò nei particolari, nelle cause cui attribuì l’effetto, nelle fonti da cui attinse la parte drammatica e accessoria del fatto, sostenne però sempre che il fatto era accaduto a quel modo. Dal Roseo e dal Callofilo tolse parecchie frasi, ma quelle sole che confacevano al suo assunto, o tutt’al più che lo adornavano. Cambiò, variò, ricamò quanto si vuole, ma l’affermazione fondamentale è sempre quella, dal 1530 al 1552.
Gli storici fiorentini copiarono il Giovio, appunto come fanno gli storici anche oggi, e i più valenti. Udite le varie versioni di un atto, accettano quella che più soddisfa al loro criterio storico, aggiungono quel che sanno di più, ragionano o anche sragionano sulle cause e sulle conseguenze, ma, poichè la storia non s’inventa, dicono quel che dissero i predecessori quando quella parve loro la verità.
Per me dunque il libro dell’Alvisi prova e riprova che il commissario Francesco Ferruccio fu ammazzato dal colonnello Fabrizio Maramaldo sulla piazza di Gavinana.
Questo, quanto alla tesi. Non bisogna però dimenticare le gravi questioni storiche che zampillano da questo libro e che l’Alvisi ha esposte e spesso risolute con singolare acume e felicità. La questione della critica dei testi storici fa un passo in questo libro. Le ragioni per cui il Maramaldo uccise il Ferruccio sono messe di nuovo in discussione, per quanto, almeno per me, rimanga immutabile il fatto. La storiella della figlia di Salvestro Aldobrandini che rifiuta sdegnosamente di ballare col Maramaldo è riconosciuta e provata favola, per quanto si siano dipinti anche di bei quadri in proposito. La serie dei documenti che illustrano un periodo di storia italiana importantissimo e la vita di un capitano di gran nome come il Maramaldo, anche dopo il lavoro del De Blasiis, è ricchissima e felice. Insomma, è un bel libro, al quale, come a tutte le produzioni letterarie, drammatiche, storiche, ecc., nuoce la tesi prefissa.
Non si potrà dire che l’amicizia che porto all’Alvisi mi abbia fatto velo agli occhi parlando del suo libro. Mi pare d’essere stato anzi severo come un procuratore del re. Sarò dunque creduto quando dico che, nonostante la tesi, questa nuova opera del giovane storico è importante, ingegnosa e bella.
L’insegnano anche ai bimbi della scoletta che lo struzzo inseguito nasconde la testa sotto l’ala e crede così d’essere al sicuro. Noi, che Linneo ascrisse alla specie homo sapiens e che abbiamo tutte le superbie di una potenza intellettiva senza confronti colle altre specie d’animali, noi facciamo spesso come lo struzzo, e quando un problema terribile c’insegue e ci sta sopra, poichè la nostra imperfezione fisica ci privò delle ali, provvediamo colla massima di masto Raffaele, quella del non te ne incaricare. Alcuni però, più coraggiosi di tutti, non si ricusano ad esaminare da vicino questi problemi e li esaminano minutamente e ci ragionano sopra con tutte le formole della logica e magari con tutte le meticolosità della classica. Questi sono gli audaci, i filosofi insubordinati, i pensatori avidi di novità, gli artisti turbolenti e nemici sfidati della volgarità borghese. Ma se domandate loro la conclusione di tanti studi e di tanti ragionamenti, i nemici della volgarità rispondono per lo più come un caposezione seccato da una pratica o da un sollecitatore: rispondono—Vedremo!.... ci penseremo!..
Di questi problemi poi ce ne sono alcuni che, oltre a scottare come gli altri, sono tanto delicati che non si sa per che verso prenderli. Parlarne senza offendere qualche convinzione, qualche interesse, qualche verecondia vera o copiata dal vero, è quasi impossibile; e anche questo contribuisce a far tacere la gente quando invece bisognerebbe parlare, intendersi e provvedere. Ci si mette poi di mezzo la caricatura, uno dei peggio spauracchi per gli onesti e[348] tranquilli bottegai che pure, tra le frutta e il caffè, consentirebbero a riformare il mondo, od a lasciarlo riformare piano piano, purchè non si danneggiasse il commercio e calassero le tasse. Li hanno tanto messi in cano nella questi gloriosi avanzi della guardia nazionale, che il solo pensiero di essere caricaturabili ancora, li mette in furia come tanti tori davanti ad un drappo rosso. La paura del ridicolo aiuta il silenzio. Un povero marito che parli del divorzio, una moglie che ne ciarli, fanno strizzar l’occhio e sorridere: così il marito e la moglie stanno zitti, e Dio sa se ci sono persone più competenti di loro a parlare di certe cose!
Ma Alessandro Dumas figlio è uno dei pochissimi (si contano sulle dita) che non abbia paura di parlare di queste certe cose, e quando ne parla, non ha pelo sulla lingua. Da noi a proposito di donne che ammazzano, di donne che vogliono votare, di divorzio, insomma a proposito di quistioni femminili, non si sente nessun rumore; solo qua e là salta fuori qualche voce stonata che si perde nel silenzio universale; e sia che le donne in Italia siano troppo avanti o che siano troppo indietro, a vedere le cose così a fior d’acqua, pare d’esser nell’Eden prima del pomo, salvo la divisa. Sotto l’acqua non direi che tutto vada come nel migliore degli Eden possibili, ma insomma il problema femminile non ci sta così pericolosamente addosso come ai nostri vicini di Francia. Là sono costretti a pensarci sul serio, per quanto in riga di soluzione si mantengono ancora al vedremo e ci penseremo. Il Dumas, poi, che passa per uno dei più profondi conoscitori del cuore, del cervello e del cervelletto de ces dames, dal Monsieur Alphonse, dalla Princesse Georges in qua, sgobba assiduamente sull’eterno problema; e dal tuez-la è passato al divorzio, per venire oggi all’ammissione del suffragio civico femminile. C’è in Francia, anzi sopratutto in Francia dove si ride spesso e volentieri, chi sogghigna e mette in caricatura il divorzio, il voto, Dumas, le donne e tutto. Mi ricordo di uno sgorbio del povero Cham, che rappresentava il signor Prudhomme sorpreso dalla moglie in atto di affiggere un manifesto in favore del divorzio, e la testa dell’illustre allievo di Brard e Saint-Omer faceva ridere di cuore. Ma il riso non è una risposta e tanto meno una soluzione. Ora poi, dopo certi strani fatti, dopo la ripetuta applicazione dell’acido solforico per uso esterno contro i tradimenti amatorii e coniugali, a dispetto delle caricature, ci si comincia a pensare davvero. E badate che non è soltanto l’acido solforico che dia da pensare, ma è la soluzione ormai normale di questi drammi scandalosi e sanguinosi, cioè l’impunità e spesso il trionfo del[349] delitto riconosciuto ed assolto dai giurati, approvato ed applaudito dal pubblico. Perchè si arrivi a far di questi dispetti al codice, bisogna proprio che ci sia qualche bestia più grossa del topo nelle viscere della montagna gravida. La ricetta di masto Raffaele comincia a diventare più che ridicola, criminosa.
La prima parte del libro del Dumas, quella che riguarda le donne che ammazzano, lasciamola stare. L’argomento è scabroso, e di cose di questo genere in Italia non se ne può parlare senza che tutti i calvi protestino che son cose da far drizzare i capelli. Siamo intesi che da noi i casi di Maria Bière, di Virginia Dumaine, della signora de Tilly sono impossibili; anzi la critica ha fatto bene a mettere il barbazzale a certi poledri mal domi, richiamandoli allo studio degli esemplari più puri dell’arte nostra, alla impeccabilità di Francesca da Rimini e di Parisina, alla purezza greca di Mirra, Clitennestra, e così sia. Dunque mettiamoci sopra una pietra, lodiamo il cielo di averci fatto nascere in questa terra privilegiata dove Sant’Orso la centuplicherebbe in un’ora il numero delle sue compagne, e tiriamo dritto.
Bisogna però fermarci a sentire alcune parole che sembrano staccate da un libro italiano, tanto calzano bene alle nostre quistioni letterarie interne. «Quando si dice ad una società—bada! se continui nei tali e tali errori, provocherai la tale e la tal’altra catastrofe—per questa società che non vuol riconoscere i suoi torti, si diventa la stessa causa della catastrofe nel giorno in cui si produce. La Chiesa cattolica seguita a dirci che sono le passioni abbominevoli e i detestabili consigli di Lutero che han fatto tanto male al cattolicismo, e scorda di ricordarsi o di cercare le cause che produssero Lutero e resero necessaria la Riforma. I difensori della monarchia di diritto divino e delle tradizioni feudali ci dicono che lo spirito diabolico di Voltaire o degli Enciclopedisti produsse la rivoluzione e gli eccessi del secolo XVIII, ma si guardano bene di riconoscere e di confessare i fatti che suscitarono gli attacchi di Voltaire e della Enciclopedia. Lo stesso avviene in letteratura. Sono gli scrittori che scrivono contro i costumi scostumati del loro tempo, che demoralizzano il tempo loro. Si comincia dal pretendere che il male di cui parlano non esiste: poi, quando è conosciuto, si dice che l’hanno fatto nascere i loro scritti e finalmente, quando cresce a vista d’occhio, si conclude che è meglio tacere».
E più avanti: «Non ammettiamo, come tutti quelli che se la prendono con gli effetti invece di prenderla con la cause, non ammettiamo dunque che la letteratura abbia il menomo effetto sui costumi. Mentre la corruzione del secolo[350] XVIII è dipinta in Manon Lescaut, il bisogno d’ideali, che domina tutte le società, qualunque sia il numero del secolo, si traduce in Paolo e Virginia. Si piange per Manon, si piange per Virginia, ma non si diventa nè migliori nè peggiori. Si hanno due termini di confronto e due capilavori di più; ecco la verità, ecco il beneficio per l’umanità che pensa. Tuttavia, se la letteratura dei drammi e dei romanzi è incapace di produrre un movimento d’idee o di farle nascere, è capace però, con la maggiore o minore commozione che produce trattando certi soggetti, di far vedere e di constatare dove siano arrivate le idee nel loro movimento naturale, e la via percorsa fin da una data epoca, e l’imminenza di certi pericoli, e la necessità di certe preoccupazioni, di certi studi, di certi sforzi....»—Oh! ben ruggito, leone!
Ma s’è detto di metterci una pietra sopra, e mettiamocela.
La quistione del voto femminile non è nuova. Quattrocento dodici anni prima di Cristo, Lisistrata, Calonice, Mirrina e Lampito, in pieno teatro, nella civile Atene, ed in una scabrosissima commedia d’Aristofane, congiuravano già per strappare le redini dello Stato dalle mani dei mariti. Degli anni ne son passati parecchi, il mondo crede di aver progredito tanto, che la commedia, che allora si recitava in pubblico, si legge ora a porte chiuse; eppure la quistione non ha fatto un passo, le donne non hanno troppa fretta e i giornali che fanno propaganda gridano con Lisistrata disillusi e scontenti: «Ah, se fossero state invece invitate alla festa di Bacco, di Pane, di Venere Coliade o delle genetillidi, le vie sarebbero ingombre!»—E perchè? Il Dumas ce lo dice. Prima di tutto, ci sono le donne felici e soddisfatte del presente organismo sociale e civile, che non hanno nessun desiderio di cambiare. Poi ci sono le astute, che sanno girare gli ostacoli e menar gli uomini pel naso meglio col sorriso che col voto. C’è la massa delle donne abbrutite nel lavoro della campagna o della città, che ha ben altro da pensare che al deputato. Ci sono le donne devote e pie, per le quali tutti questi ingranaggi costituzionali sono invenzioni diaboliche. Ci sono le timide, le scoraggiate, le rassegnate, tutta gente che non cura o sfugge l’agitazione, teme il ridicolo, vive più volentieri all’ombra che al sole. Restano poche donne a far chiasso pel voto, e siccome le donne, anche in poche, sanno far chiasso per molte, paiono un esercito e non sono che un gruppo di tamburi e di trombe. Il che vuol dire che l’invocato voto delle signore è ancora lontano; i deputati brutti possono per ora dormire tranquilli.
Senza dubbio, la legislazione, in quel che riguarda i rapporti della donna coll’uomo e collo Stato, è destinata a molti cambiamenti futuri, prossimi o remoti. Senza dubbio la signora libertina Auclert ha mille ragioni quando protesta che pagando le tasse ha anche il diritto di intervenir per mezzo di rappresentante alla votazione dei bilanci nella quale si dispone del denaro suo. Votano tanti imbecilli; perchè le donne, che possono aver più giudizio, non voteranno e meglio? Tanto gli esempi di illuminata saggezza fornitici dagli elettori non sono tali che le nostre donne non ne possono dare dei migliori!
Ma il ridicolo è là che impedisce all’idea di progredire e di farsi largo tra le interessante. Vedete voi le elettrici accusate di preferire il deputato bruno al biondo, il consigliere magro al grasso, il sindaco bello al sindaco brutto? Le donne, che sanno adoperare tanto bene il ridicolo, ne hanno poi una paura terribile, e gli uomini, che lo sanno, se ne giovano. Quando le donne voteranno, non è da credere che cessino i colpi di revolver o gli spruzzi di acido solforico, ma è da sperar bene di loro, perchè avranno avuto tanta forza d’animo da superare il timore della canzonatura, e di noi, perchè nel votare adopreremo più giudizio. Ma per ora..., via, noi non abbiamo abbastanza serietà e le donne non hanno abbastanza coraggio.
Il peggio è che questa riforma elettorale non si può fare col metodo italiano, così alla chetichella, sotto la cappa e fingendo di chiudere un occhio, come abbiamo fatto in altri imbrogli. Il signor Laveleye, illustre economista belga, era in Italia nel 1878 e 79 a studiare parecchie cose, fra le quali l’ordinamento scolastico. A Bologna vide tre ragazze all’Università e seppe che studiavano medicina o letteratura. Egli chiese allora quali leggi esistessero in proposito, e con meraviglia sentì rispondersi nessuna. Quelle brave ragazze avevano percorso gli altri stadi d’insegnamento prescritti dalla legge per essere ammessi all’Università, erano in regola, e non c’era ragione di respingerle per la sola ragione che portano le gonnelle e non i calzoni.
Il Laveleye stupiva allora dello spirito pratico di noi italiani che senza chiasso e senza leggi nuove avevamo risolto un problema intorno al quale nel Belgio si suda da molto tempo, si chiacchera, si grida e non si risolve niente. A dir vero, il nostro merito non è forse così grande come parve al bravo economista, e la pigrizia a provvedere o la paura di stuzzicare un vespaio possono aver contribuito molto a lasciar fare come se nulla fosse: ma il voto alle donne non si può dare a questo modo, il chiasso[352] ci deve essere, le satire, le caricature, le canzonette, le farse e le commedie non possono mancare; ed è questa paura di scandali che terrà indietro per un buon pezzo il coronamento dei voti dell’onorevole Salvatore Morelli.
Per ora dunque, in questa parte, il libro del Dumas avrà poco effetto, ed il signor Giuseppe Prudhomme, l’illustre allievo di Brard e Saint-Omer, sogghignerà compassionevolmente e dirà:—Oh, i paradossi!—Oh, ben ragliato, Prudhomme!
Qualche tempo fa, chiaccherando intorno alle Memorie del principe di Metternich, accusai Sua Altezza d’esser più miserabilmente borghese di un Gerolamo Pâturot qualunque. Poco dopo, ricevetti da Torino una cartolina postale con questa laconica frase:—Voi non avete mai letto Jerôme Pâturot.—Un vostro ammiratore.
Se gli autori hanno gli ammiratori che si meritano, povero me! I miei hanno una deplorabile abilità di pescar granchi; anzi i miei amici sostengono che senza questa abilità non potrebbero essere miei ammiratori. Vorrei che quest’ultima affermazione potesse essere imputata a quella maligna maldicenza che è uno dei pregi più belli delle intime amicizie; ma purtroppo non si può, e debbo confessare che in gran parte gli amici miei hanno ragione. Così anche questo mio anonimo ammiratore ha pescato il granchio che ci voleva per essere ammesso nel mio tempio ad adorarmi, e sia il benvenuto.
Ho il vago sospetto che sia invece l’ammiratore quello che non conosce le filaccicose storielle di Luigi Reybaud, poichè almeno l’accento circonflesso che corona il cognome del protagonista nella sua cartolina, lascia trapelare una conoscenza non molto intima della lingua francese. Comunque sia, è mio diritto imboccare la tromba della fama ed urlare a iquattro punti cardinali, che non cambieranno di posto per questa importante rivelazione: primo, che non ho purtroppo l’utilissima abitudine di parlar dei libri che non ho letto; secondo, che tanto il Pâturot alla ricerca di una posizione sociale, quanto il Pâturot alla ricerca della migliore delle repubbliche, li lessi fino dal 1864 e li comprai precisamente dal libraio Ryced che stava sotto i portici della Fiera in piazza Castello a Torino. Pagai in contanti e non mi feci rilasciare la ricevuta: del che mi dolgo, perchè la stamperei come documento importantissimo ai futuri storici della letteratura; certo gli storici presenti ne stampano dei più insulsi.
Il peggio è che a mia giustificazione non posso mostrare[354] nemmeno il libro. Fino da quel tempo leggevo molto e compravo quanti libri mi consentiva il modestissimo peculio di studente. Duravo così tutto l’anno a raccogliere una microscopica biblioteca, e la contemplavo con quel matto entusiasmo per la carta stampata che non ho potuto mai cavarmi dalle ossa, e che ha finito col farmi entrare al servizio dello Stato in una pubblica Biblioteca. Ma tutti gli anni, a scadenze determinate, si destava un uragano fierissimo che mi portava via i libri e mi costringeva a tornar da capo. L’uragano si levava sempre negli ultimi giorni di gennaio, o in febbraio; e si levava proprio in via della Zecca e precisamente nel teatro Scribe. Ah, benedetti veglioni di carnovale! È per loro che i miei libri finivano nei panchetti dei rivenditori sotto i portici dell’Università; è per loro che Gerolamo Pâturot contribuì per la sua parte ad una cena da Biffo, dove una pierrette di mia conoscenza mi scucì il vestito nella schiena, dal colletto alle falde, e non me ne accorsi che la mattina dopo dai rabbuffi del professore, alle paterne cure del quale la mia famiglia m’aveva confidato.
Così finì il mio Pâturot, ma l’avevo letto: vi giuro che m’aveva annoiato, ma l’avevo letto. In tempi più calmi, i libri perdettero la brutta abitudine di abbandonarmi in carnovale, e l’edizione del Pâturot che ora ho sott’occhio porta la data del 1875. Dopo l’accusa del mio ammiratore ne ho riletto parecchi capitoli, dei meno soporifici, e non mi pare di aver detto uno sproposito. Il Reybaud ha voluto far la satira della borghesia, mettendo un tipo d’imbecille calzettaio in un mare di borghesissime avventure; e di più ha fatto un libro per provare che i calzettai non debbono occuparsi che di calzette: conclusione questa che oltrepassa i limiti onesti e mediocri del borghesismo per entrare in quelli della più ottusa asinità.
Parlo del Pâturot alla ricerca di una posizione sociale, poichè l’altro alla ricerca della migliore delle repubbliche, non è che un libro di politica, di maligna e disonesta politica, di cui qui non tocca a me il parlare. E dico, e sostengo, e ripeto che tanto l’eroe del libro, quanto l’autore considerato nell’opera sua, sono proprio miserabilmente borghesi, come avevo detto e come dirò sempre, dovessi anche perdere, con mio inestimabile rammarico, gli ammiratori e peggio le ammiratrici.
Il libro fu scritto verso la fine del regno di Luigi Filippo, nel 1843 se non sbaglio: quando cioè erano passati tredici anni dalla prima rappresentazione dell’Ernani e la nuova scuola romantica aveva mostrato, anzi oramai esaurito, la sua possente vitalità. Alfredo di Musset oramai non scriveva più versi ed era prossimo ad essere ammesso[355] nell’Accademia francese, dove già Victor Hugo, il capo dei ribelli, era stato accolto da qualche anno. La Sand scriveva i suoi romanzi per la Revue des deux Mondes, rivista tutt’altro che scapigliata. Teofilo Gautier aveva pubblicata da un pezzo le sue poesie, l’Albertus e Mademoiselle Maupin. Onorato Balzac era già grande, Mürger, Sue, Dumas, Soulié, fino Paolo de Kock, aveva già oramai prodotto tutto, e la faccia della letteratura francese era cambiata affatto. Eppure il Reybaud comincia il libro, mettendo in caricatura i poeti capelluti, rifriggendo le solite barzellette sulla prima rappresentazione dell’Ernani. Questo non solo è borghesismo, ma borghesismo in ritardo, miserabilmente barbogio.
Certo la satira è fatta con moltissimo spirito: anzi le staffilate sono distribuite con tanta generosità, che a prima vista non si capisce bene se l’autore metta in ridicolo il suo calzettaio o la società con la quale si trova a contatto: non si capisce chi dei due sia a preferenza canzonato, tanto sono tutti messi in caricatura. Enrico Monnier aveva già trovato il suo Prudhomme, e il Pâturot gli somiglia un poco ne’ discorsi pretensiosi, benchè abbia il cervello meno rammollito e l’osservazione più acuta; e non può negarsi che sia una caricatura, come tutto è caricatura nel libro. Ora se Pâturot che cerca di uscire dalla borghesia è messo in ridicolo; e se tutto quello ch’ fuori della borghesia, tranne Dio ed il re, è pure messo in ridicolo, che cosa resta? Resta una satira senza scopo, uno sfoggio di barzellette più o meno che proveranno lo spirito dell’autore, ma non ne provano l’ingegno. Chiuso il libro, ci ripetiamo la frase di Figaro: Qui trom-pe-t-on ici? È la borghesia che è ridicola, o coloro che si vogliono sollevare sopra di lei? Si beffa il Pâturot perchè vuol essere romantico, o si beffano i romantici? Chi lo sa!
A scegliere qualche brano, qualche frase qua e là, si può concludere in un modo o in un altro, secondo si vuole: ma il complesso dell’opera sarà sempre questo: che la società, la borghesia, i romantici, i sansimoniani, i giornalisti, i filosofi, le guardie nazionali, i deputati, e finalmente lo stesso Pâturot, sono tutti ridicoli o birboni: tutti senza eccezione, poichè nel libro non v’ha un personaggio che non sia o imbecille o furfante. Ora questo che cosa prova?
Era facile mettere in canzonella la guardia nazionale. Noi italiani che nel 1848 abbiamo fatto una rivoluzione per ottenerla, l’abbiamo poi sepolta sonandole la marcia funebre a scrosci di risa. Ma siamo poi ben sicuri che sia morta bene, e che, dopo esserci rovinati con gli eserciti stanziali, non tocchi ai nostri figli di risuscitare il povero[356] palladio, per sfogare la crescente voglia di bastonate? Ci voleva poco a beffare i sansimoniani e il padre Enfantin e gli involontari digiuni del chiostro di Mênilmontant, ed a scoppiar di risa sopra la massima inscritta nella bandiera dei nuovi credenti: Empêcher l’exploitation de l’homme par l’homme. Ma siamo ben sicuri che la massima sia proprio ridicola? Oramai lo vediamo, e le grasse risa della borghesia accennano a finir male. I sansimoniani furono ammazzati dal ridicolo, ma ecco venuti i nichilisti, e il povero Pâturot ha capito che non è più tempo di ridere.
Non c’è dunque nulla di più meschino che questo perpetuo riso col quale si perseguitano tutte le nuove forme con cui i nuovi bisogni sociali si manifestano. Così i romani debbono aver riso dei cristiani che adoravano un uomo appeso alla croce; così i nobili a Versaglia ridevano vedendo passare i rappresentanti del terzo stato, senza piume e colle scarpe senza fibbie. Così insomma il passato canzona volentieri l’avvenire, salvo poi a pentirsene amaramente. A Milano, fu seppellito il Mefistofele del Boito tra i fischi e le risate; ma risorse a Bologna, trionfò dappertutto ed ora Milano sta per fare ammenda onorevole. Il Reybaud, se allora se ne fosse parlato, non avrebbe mancato di fare del suo Pâturot un campione della musica dell’avvenire, e di riderci sopra saporitamente. Avrebbe così aggiunto una miserabilità borghese di più al suo libro che già ne rigurgita, per giunger poi a capire che a poco a poco l’avvenire diventa il presente. Ed è appunto questo aver la veduta corta d’una spanna, questo adagiarsi nel presente senza guardar più in là della propria bottega o del proprio ufficio, questo egoismo ironico e piccino, che costituiscono il maggior difetto della borghesia; quel difetto che le farà rovinare malamente. Ma il male è che questa povera borghesia ridanciona non viene più combattuta colle sue armi, col ridicolo; si fa ben di peggio!
Tutti li sentiamo i primi buffi di vento che precedono la burrasca: tutti, poichè tutti siamo un po’ borghesi, anche noi letterati che professiamo un odio feroce contro i filistei. Gli abbominiamo infatti, ma scriviamo per loro e siam ben contenti quando ci lasciano dire qualche dura verità. Dal principio del secolo, si può dire, questa borghesia regna e governa, ed allevati nel suo grasso seno, cresciuti nella sua tepida casa, educati ai suoi comodi ammaestramenti, non possiamo a meno di ritrarre sempre da lei qualche cosa. Un po’ borghesi siamo dunque tutti, noi che viviamo in una società e di una società borghese. Solo c’è questo, che noi, sentendo i buffi del vento gelato che viene dal settentrione, leviamo la testa, scrutiamo l’orizzonte,[357] e ci domandiamo se la burrasca porterà una pioggia benefica o diserterà i campi. Gerolamo Pâturot invece, si tappa in casa, sorride e crede d’esser sicuro perchè il tetto è nuovo. Resta a vedere se la burrasca non scoperchierà la casa e se le mura saranno abbastanza forti da resistere all’impeto della tramontana. Noi ci pensiamo, e Gerolamo Pâturot ride di noi; questa è la differenza.
Oh, come è facile ridere quando si ha digerito bene! Io mi ricordo il tempo nel quale a sentir uno dire sono socialista, si udivano scoppi di risa e le grida utopia! utopia! Ora a sentire la stessa confessione non si ride più, parecchi rabbrividiscono ed alcuni corrono alla Questura. Or bene, nel libro del Reybaud simili risate ricorrono ad ogni pagina, grasse, sonore, sincere risate di borghese che ha digerito benissimo: ma io domando al mio ammiratore se oggi si può più ridere a quel modo, se si può aver la vista più corta, e se Metternich non sia stato anche più miope di Gerolamo Pâturot.
Perchè proprio Sua Altezza, per quanto principe e gran cancelliere, è borghese sino nell’intima midolla. Gli manca solo quello spolvero di volterianismo che tanti calzettai affettano oggi, per chiamare poi subito il confessore appena si trovino ad avere un patereccio. Lo stesso egoismo chiuso nel presente, la stessa freddezza di cuore, la stessa mancanza d’ogni facoltà per capire il bello. Così, poichè un principe come lui deve pure affettar qualche senso e qualche intelligenza d’arte, egli guarda nella Guida quel che bisogna ammirare e chiede al cicerone quando si debba commuovere. Egli passeggia pei Musei ruminando note diplomatiche, come un droghiere calcola quanti chilogrammi di olio ci siano voluti per dipingere quella roba. Il suo cuore è incartapecorito nell’egoismo e il suo intelletto chiuso ad ogni impressione che non sia del suo mestiere. Almeno Pâturot aveva la buona ma infelice volontà di tentare; almeno s’era provato a fare un sonetto di monosillabi. Il Metternich no, ed in questo il Pâturot è superiore a Sua Altezza.
Sia dunque come si voglia. O il Pâturot è la caricatura di un borghese spostato, e il mio paragone calza: o l’autore è un borghese per eccellenza, e i conti tornano lo stesso. E se i conti tornano, perchè il mio ammiratore dice che non ho letto il libro? Da che lo deduce?
E con questo lo lascio in pace; pregandolo però, come segno della sua educazione, a non volermi più dare del voi. Per un ammiratore è trattarmi po’ troppo superbamente: tanto più che la cartolina viene da Torino, dove fino le cuoche si danno del madama a vicenda.
Che l’Italia sia un paese democratico l’hanno scritto tante volte ne’ libri e nei giornali, l’hanno detto tanto in Parlamento e fuori, che ormai lo crediamo; e sarà anche vero. Io e Lei poi, che non abbiamo mai avuto fumi aristocratici per la testa, possiamo qui prenderci a braccetto e chiaccherare con tutta la libertà e la democrazia possibile: ma appunto perchè abbiamo tutti e due il certificato di civismo in piena regola, possiamo esser anche sinceri, e confessare che ci deve essere un certo gusto a scrivere le geste della propria famiglia quando si discende da una famiglia antica ed illustre. Siamo tutti democratici, ma in generazione in generazione si trasmettono l’intelligenza, il carattere o la bravura: e in Italia ce ne sono parecchie di queste famiglie. Intendiamo il senso di intima soddisfazione che deve provare lo storico il quale narra fatti gloriosi, dipinge figure eroiche, ragiona di avvenimenti memorabili senza uscire dall’archivio della propria famiglia, senza che la storia generale della patria sembri allontanarsi un momento dalla storia di casa. Siamo tutti democratici, ma scuseremmo più volentieri l’alterigia che viene da un nome antico, illustre e degnamente portato, che l’arroganza venuta da una croce esotica o da una fortuna giocata al ribasso. Tutti preferiremmo di chiamarci Sforza, Colonna, Gonzaga, o Dandolo, invece di Larghi, Stretti, Longhi, Corti; e quando uno è dei Capponi deve scriver di gusto la storia di Firenze.
Così è da invidiare il conte Giovanni Gozzadini, senatore del regno, il quale può scrivere la storia del suo paese senza uscire di casa sua. La sua famiglia, dal mille in qua, è una delle più illustri d’Italia, e pochi sono gli avvenimenti ai quali un Gozzadini non si trovi mescolato. Milano ebbe un Beno de’ Gozzadini a potestà, come un ramo della famiglia trapiantato in Oriente ebbe per tre secoli la signoria di parecchie isole. Guerrieri, giureconsulti, magistrati,[359] diplomatici, banchieri, cardinali, c’è di tutto in questa famiglia; persino la tradizione poetica di Betisia che nel secolo XIII avrebbe insegnato legge nello Studio, col viso velato per non distrarre di scolari con la splendida bellezza. Nello stesso conte Giovanni, ultimo rampollo di una famiglia che ad un tempo contò sino a novantacinque maschi in casa, c’è sempre la energica originalità della sua razza. Ci vuole infatti qualche cosa che non è in tutti per vivere sino ai vent’anni la vita del giovin signore del Parini, e poi ad un tratto chiudersi nello studio ostinato e severo, e diventare senza contrasto uno dei più insigni archeologi storici contemporanei. Queste illustre genealogie non vogliono chiudersi senza aver dato un ultimo sprazzo di luce. I Cavour, i d’Azeglio, i Lamarmora, i Balbo, i Ricasoli, i Capponi, i Gozzadini non lasciano discendenza maschile. Pare che queste gloriose famiglie, sdegnose della mediocrità e della volgarità dominante, si drappeggino un’ultima volta nelle loro toghe senatorie per morir bene come i romani della repubblica, legando il loro esempio come un rimprovero alla età della guardia nazionale, dei bozzetti borghesi e dei quadretti di genere. Siamo democratici, via, ma possiamo ben cavarci il cappello.
Il Conte Gozzadini, dopo alcuni celebri lavori di archeologia, specialmente intorno alle tombe etrusche di Marzabotto nella valle del Reno; dopo alcuni lavori di lunga lena intorno alla storia della sua città, come quello delle Torri gentilizie che nel tempo degli articoli lunghi una spanna ricorda le più pazienti imprese del secolo passato; dopo una lunga serie di memorie e di opere, le quali condotte con rara coscienza ed erudizione resero illustre l’autore oltre monti ed in patria, si è dato ad una serie di lavori che egli modestamente intitola racconti storici, ma che sono vere, proprie e complete monografie di un personaggio o di un periodo. Già sino dagli esordi della sua carriera di storico aveva accennato a queste illustrazioni speciali di fatti e di uomini colle Memorie storiche di Armaciotto de’ Romazzotti (1835) colle Memorie per la vita di Giovanni II Bentivoglio (1839) e colla Cronaca di Ronzano e le memorie intorno al frate gaudente Loderingo degli Andalò (1851). Ora, al sommo della sua via, ha ripreso con miglior lena e con miglior metodo questo sistema delle monografie storiche, nelle quali l’abbondanza delle notizie, la novità delle ricerche, lo studio dei documenti non escludono l’interesse del dramma e il diletto del lettore. Non è necessario per fare un libro di storia fare un libro noioso, e il Giovanni Pepoli e Sisto V stampato l’anno scorso, narrando le imprese del brigantaggio e la cecità della repressione al finire del secolo XVI, ha pagine che[360] paiono di romanzo, se non che i documenti le mostrano consone alla verità. Quest’anno il Nanne Gozzadini e Baldassare Cossa[7] ci mostra con non minore evidenza e sicurezza storica l’agonia delle libertà bolognesi e la fallacia delle carezze clericali; e l’interesse del racconto non vien meno sino all’ultima pagina, dove, se il racconto vi paresse troppo accarezzato, trovate ogni giusticazione in dugento pagine di documenti nuovi e curiosi. Infatti la storia, raccontata bene, non ha minori attrattive del romanzo; e se il Nanne Gozzadini per la vastità del quadro si presta meno alla descrizione minuta dei costumi privati, ci fa però veder benissimo i pubblici, come il Giovanni Pepoli è una pittura viva e vera dello stato interno di una provincia in un anno determinato, è la narrazione completa dei guai di una famiglia processata e condannata a Bologna nel 1585.
Col Nanne Gozzadini ci troviamo invece alla fine del secolo XIV e ne’ primi anni del seguente, in quel periodo che segnò il principio della rovina dei comuni liberi e il principio della potenza dei signori. Ci troviamo proprio in quel tempo curioso nel quale i condottieri passavano da un campo a un altro, imponendosi ai signori ed alle città e cominciavano già a ruminare idee di signoria. I comuni rimasti ancora liberi, non solo erano continuamente minacciati al di fuori, fino al punto che il conte di Virtù per poco non si fece re d’Italia, ma erano più ferocemente lacerati dalle parti interne che rincrudelivano. E in riga di parti Bologna non era da meno delle altre città sorelle: basti il dire che nel 1274 fu combattuta nelle sue strade una guerra fratricida che durò quaranta giorni e quaranta notti senza nemmeno un’ora di tregua per seppellire i morti, e al lume degli incendi notturni le stesse donne, diventate ferocissime combattevano disperatamente. E pensare che ci sono dei fanatici del medio evo!
Già Taddeo Pepoli aveva signoreggiato per qualche tempo la sua città nativa, poi Carlo Zambeccari aveva tentato anch’egli di diventar padrone, come lo divenne poi il primo Giovanni Bentivoglio; e tutte queste signorie effimere, spente nel sangue o nella vergogna, trovarono avversari decisi ed energici ne’ Gozzadini. Quel Nanne che fornisce argomento al libro di cui si parla, era un buon banchiere occupato negli affari suoi, quando ad un tratto, trovatasi la città in pericolo, diventò magistrato e guerriero, sino a contrastare con Jacopo dal Verme, uno de’ più celebri[361] condottieri del tempo, e farlo ritirare dal territorio. Da quel tempo sino alla sua morte gli affari pubblici ebbero il primo posto ed al banco attesero più assiduamente i figli.
In quell’epoca turbolenta le discordie intestine fomentate dalle famiglie potenti per brama di signoria finivano sempre nel sangue. Un partito congiurava di rovesciare l’ordine di cose esistente, si armava ed occupava gli sbocchi della piazza, l’unico luogo di dove potesse venire la repressione. Intanto si correva per la città gridando popolo, si assediavano le case degli avversari, e quando, dopo disperata difesa, si arrivava a prenderle, si scannavano quelli che c’erano dentro e non si lasciava pietra sopra pietra. Gli avversari intanto si armavano, si ordinavano, e, gridando popolo anche loro, correvano alle offese. Così la città diventava un campo di battaglia, e le strade rimbombavano di urli selvaggi, di grida strazianti, e il sangue correva pei rigagnoli, e le case incendiate scrosciavano, e dalle finestre grandinavano proiettili scagliati da donne e da ragazzi: insomma, il finimondo. A poco a poco il rumore chetava. Un partito cominciava a ritirarsi. Decisa la zuffa spesso a notte tarda, per le vie non rimanevano che i cadaveri illuminati sinistramente dagli ultimi riflessi degli incendi e i cani erranti a lambire il sangue. La città riposava nel terrore e il nuovo sole illuminava poi una fila di forche circondate dai berrovieri. I trionfatori facevano giustizia.
Nanne Gozzadini aveva piantato il banco per cacciarsi a capo fitto in questi gorghi di iniquità e di sangue, ma vi si era cacciato con ottime intenzioni. Gli pareva strano che tutti i partiti gridassero popolo e libertà, tumultuando per fare un signore. Egli voleva che il grido esprimesse il vero, e spese tutta l’attività della sua tempra virile nei tentativi di allontanare dalla patria la peste dei tiranni. Ricorse fino a Giangaleazzo Visconti per scacciare da Bologna Giovanni Bentivoglio, e il Duca milanese, che non desiderava di meglio, sotto colore di liberare la città dal tiranno prestò un esercito al Gozzadini; il quale, per venuto al suo intento, si avvide dell’errore commesso. L’esercito liberatore non si mosse più dalla città liberata, anzi, per starci sicuro, si fabbricò una fortezza. Lo storico fa un merito a Nanne dell’aver rifiutata la signoria di Bologna offertagli dal vincitore, rifiutò confermando da tutte le narrazioni contemporanee: ma, a dir vero, non sembra che questo merito sia così grande come appare a prima vista. Nanne era furbo, e non importava essere indovino per capire che il Visconti, una volta in Bologna, non se ne sarebbe andato più. La signoria offerta non poteva[362] essere che una luogotenenza effimera e pericolosa, e Nanne non diede prova di grande e magnanimo disinteresse rifiutandola.
Quando il Gozzadini s’avvide che invece di liberare la patria le aveva imposto un giogo più pesante, tornò ai vecchi pensieri, e colse l’opportunità per strappare Bologna agli eredi del Duca. Ma tornò anche al vecchio errore di chiedere aiuto ai più possenti di lui. L’esempio dell’aiuto visconteo non l’aveva abbastanza ammaestrato e, come uomo di poche lettere, non conosceva la favola del leone che va a caccia con gli altri animali. Baldassare Cossa, allora legato pontificio e poi papa, uomo rotto ad ogni vizio, ad ogni ribalderia, ad ogni delitto, obbrobrio della Chiesa e della umanità, fu l’alleato dell’irrequieto banchiere, e Bologna fu liberata un’altra volta alla solita maniera, cioè proclamandovi la signoria della Chiesa. Però il Cossa, ghermita la signoria, si accorse che il Gozzadini sarebbe sempre stato un pericolo e, o tirasse il banchiere in un tranello, o che veramente costui macchinasse qualche cosa contro il nuovo Stato, prese e fece giustiziare Bonifacio fratello e Gabione figlio di Nanne, esiliò tutti i Gozzadini che aveano più di quattordici anni, ne confiscò le sostanze, ne demolì le case e mise a prezzo la testa di Nanne e di altri suoi congiunti ed amici. Nanne, chiuso nel castello di Cento, resisteva, e lo scellerato cardinale mandò fino sulle porte il povero Gabione prima d’ammazzarlo, cercando d’indurre il padre alla resa per pietà del figlio. Il Gozzadini vinse i propri affetti, si difese fino all’ultimo e, riuscito a mettersi in salvo, morì nella povertà e nell’amarezza dell’esilio.
Questo è l’uomo del quale il conte Giovanni Gozzadini tesse la storia, intimamente connessa, non che con la storia bolognese, con l’italiana. Egli ha studiato con cura e forse un po’ accarezzato la figura di questo suo illustre antenato, stando tuttavia lontano dai facili entusiasmi che nel suo caso sarebbero stati abbastanza sospetti. La raccolta dei documenti, benchè sia piuttosto fatta per gli eruditi che pei comuni lettori, contiene pure alcune curiosissime cose, come, per esempio, l’inventario dell’armamento del Comune in tre diversi anni; dove si vede come l’artiglieria, sino dal finire del XIV, tenesse già un posto tutt’altro che minimo negli arsenali e nei combattimenti. Insomma, lasciando stare il gusto che può dare all’autore un’opera riuscita bene, è da invidiare al Gozzadini la soddisfazione di poter narrare la storia di grandi azioni e di grandi uomini stando nella propria casa, nel proprio archivio, nella propria famiglia. Sicuro: la nostra democrazia ci permette d’invidiarlo!
Vi ricordate tutto il fracasso che fu fatto sette anni sono a proposito del libro di Luigi Zini Dei criteri e dei modi di Governo nel Regno d’Italia? I fatti che lo Zini raccontava non potevano essere smentiti ed erano terribili capi d’accusa per la fazione che da lungo tempo governava o vigilava alla conservazione del presente disordine di cose. La persona che li riferiva e li commentava non poteva essere tocca da nessuna calunnia, e nessun libellista crocesignato avrebbe potuto morderlo, per quanto la cassa del fondo dei rettili avesse spalancato gli sportelli.
Non si potè altro che canzonare lo stile troppo attilato dello scrittore, non si potè che mettere alla berlina il suo modo di scrivere, fingendo di prendere sotto gamba il resto. Ripetendo maliziosamente sino alla sazietà qualche disgraziata frase dello Zini, si destarono le risa grasse dei lettori compiacenti e in mancanza di meglio si dovette star contenti a queste risa.
Ma quasi contemporaneamente alla pubblicazione del libro, la destra cadde sotto il peso dei propri peccati. Allora le risa diventarono amarissime. Anzi, secondo il sofisma post hoc ergo propter hoc, ci fu un momento che il povero Zini fu ritenuto quasi il solo autore del brutto capitombolo del partito. Si volle fino far sospettare con frasi a doppio taglio che lo Zini fosse al servizio dei vincitori, o almeno che il libro fosse quasi un’offerta che lo scrittore facesse ai nuovi governanti, come chi dicesse:—Sarò con voi, e se ne dubitaste per cagione del mio passato, ecco qui un libro che mi compromette e che mi sforza d’ora in avanti ad essere vostro istrumento.—E dietro questa insinuazione venivano i commenti e le qualifiche appena velate di fedifrago, di traditore, di pelle venduta e peggio. Tutto questo maliziosamente e calunniosamente, poichè non ci voleva molto a capire che se appunto la pubblicazione del libro fu sincrona alla caduta della destra, evidentemente il libro doveva essere stato scritto prima, cioè quando la destra imperava onnipossente. Non si scrivono in quarantott’ore[364] duecento pagine di riflessioni gravi e con uno stile che ha appunto il difetto d’esser troppo limato.
Eppure anche a destra dovevano sapere che lo Zini può esser quello che si vuole, ma è anche certo un galantuomo. Eppure l’accettare che egli fece dal nuovo governo un posto di combattimento come quello della prefettura di Palermo, doveva indicare che non si era venduto per un canonicato. Ma nessuno volle pensare a questo, e le satire e le insinuazioni seguitarono ad amareggiare il degno galantuomo, durante quattr’anni.
Quand’ecco Nicola Zanichelli a Bologna stampa un nuovo volume di Luigi Zini, Dei criteri e dei modi di governo della sinistra nel regno d’Italia. Ed ecco la scena mutata.
Lo Zini ridiventa un galantuomo a destra, e a sinistra, se non dubiteranno della sua onestà, metteranno in dubbio senza fallo il suo intelletto. Le barzellette mediocri sopra lo stile dello scrittore passano belle e fatte dai giornali di destra a quelli di sinistra; e i fatti vergognosi ed autentici, raccolti nel primo libro dai sinistri a vituperio dei destri, hanno un esatto riscontro nei fatti che i destri raccolgono nel secondo libro a vituperio dei sinistri. La sinistra col libro dello Zini in mano aveva già provato l’immoralità della destra; ora la destra prova l’immoralità della sinistra. Due fanno il paio. Amen.
E infatti c’è qualche cosa che fa riflettere, in questo bilancio di fatti politicamente immorali e incontestati. Si può riflettere che sono cambiate le persone, che sono saliti al potere uomini sulla moralità dei quali sarebbe sacrilegio il fare la più innocente restrizione, e che tuttavia il putrido c’è sempre in Danimarca, anzi tutti i giorni cresce e rode questo povero corpo anemico della nazione. Ma se non sono gli uomini, che cosa sarà dunque? Le leggi no, poichè sono là scritte e nessuna sancisce le iniquità commesse a destra ed a sinistra. Che cosa è dunque?... Si potrebbe dire il sistema, se prendersela col sistema non fosse ora stimato per retorica.
Certo lo Zini non va fino dove noi potremmo andare; ma egli almeno, quasi risposta alle indegne insinuazioni mosse sul conto suo, ha fatto vedere d’essere critico imparziale così delle magagne dritte che delle mancine: e questa volta è da credere che non lo accuseranno di aver venduto la pelle al trionfatori. E neppure gli si può rimproverare un voltafaccia od una contraddizione, poichè egli non ritira nessuno de’ biasimi fatti alla destra, anzi esplicitamente li conferma. A questo modo i suoi due libri rimangono espressione fedele delle impressioni di un galantuomo entrato suo malgrado dietro le scene del governo. Via, mettete pure in canzonella i periodi togati e le parole antiquate[365] dello Zini, storcetevi pure tutti sotto le scottature, ma confessate che i suoi due libri sono forse di una persona troppo ingenua, ma altrettanto onesta.
Ingenua; poichè lo Zini è rimasto amaramente colpito dall’aspetto del male, ma, visto che non poteva assolutamente indicare le persone colpevoli, perchè in dolo non ce n’è nessuna, non ha saputo più dove batter la testa e quasi incolperebbe di ogni cosa la divina provvidenza. Eppure era facile vedere che c’è una fatalità superiore che trascina certi ordini alla rovina. Fata volentem ducunt, nolentem trahunt, diceva quello; e noi vediamo coi nostri occhi stessi come e dove siano trascinati i nolenti.
Così è. Dall’equivoco dato come base, non può venire il giusto come corollario; e noi brancoliamo nell’equivoco perpetuo e inevitabile, noi che diciamo di avere per diritto primo il diritto plebiscitario e non abbiamo che un suffragio ristretto; noi che abbiamo, nella raccolta delle leggi, decreti firmati da re Carlo Alberto e controfirmati dal Desambrois, che accettano l’annessione della clausola sine qua non della Costituente, e siamo stimati cattivi cittadini e nemici sfidati del presente disordine di cose se parliamo di Costituente.
L’equivoco è dappertutto: nella Camera dei deputati, dove gli eletti si dicono rappresentanti della nazione e non lo sono, nel Senato, dove i senatori, che dovrebbero esser nominati dal re, sono informati dai ministri a seconda del bisogno che c’è d’approvare una legge; nel Consiglio di Stato, dove si sa che i ministri passan sopra i consigli; nella magistratura, dove si protesta il diritto di inamovibilità come garanzia di indipendenza, per tramutare poi il magistrato che non è comodo durante le elezioni; nell’esercito, che viene ogni giorno ammonito a non s’interessare di politica, mentre poi si stimolano i generali a dei piccoli pronunciamenti contro certi ministeri lodandoli se non vi accettano portafogli. Equivoco dappertutto: in alto, in basso, disopra e disotto, fino in questi artificiali terrori dello spettro rosso che servono ottimamente a sviare l’attenzione dallo spettro nero. E in questo regno dell’equivoco, in questa caricatura di machiavellismo, in questo alternarsi di piccoli espedienti contraddittorii, in questo mentire e smentire di tutti i giorni per vent’anni, pur di tenere a galla qualche ora di più la barcaccia che affonda, come volete trovare, o ingenui galantuomini, la immutabilità del diritto, il rispetto profondo alla legge, la rettezza dei modi e dei criteri di governo?
Il male c’è, ma non è nelle persone. Si potrebbe dire dov’è, se il prendersela col sistema non fosse ora stimato retorica.
Il buscherìo elettorale ha impedito senza dubbio ai giornali di accorgersi che il quarto volume del libro di bordo di Alfonso Karr è importante anche come storia politica. L’autore parla della repubblica del 1848 e un po’ del colpo di Stato.
Il Karr è ricco di spirito di buona lega ed è anche quel che gl’Inglesi chiamano an excentric man. Le sue Guêpes, che non ebbero e non potevano avere alcuna grande influenza politica, ottennero però quel che i giornaloni ispirati dagli uomini importanti non cercarono mai di ottenere; cioè l’abolizione di certi abusi grandi e piccini esercitati dai banchieri e dai mercanti a spese del popolo. Valga per tutti l’esempio delle ferrovie. In Francia, una volta, la terza classe era scoperta, e i disgraziati rei di non avere i denari necessari per passare alla classe superiore, soffrivano il sole d’agosto e la neve di gennaio, a maggior gloria dei banchieri della società. Il Karr tanto disse e tanto fece nel suo giornale, che le carrozze di terza classe furono coperte. Non è più meritoria l’influenza esercitata contro un abuso, che in favore di un candidato o di un prefetto?
Il Karr fu ed è buon repubblicano: ma di un repubblicanesimo conservatore mescolato ad opinioni ed antipatie personali che lo staccano affatto dai correligionari e lo conducono a far parte da sè stesso. Il sentimentalismo politico del Lamartine sembra ancora il suo sogno, ed il suo odio contro coloro che non sono repubblicani, anche nei costumi, lo fa uscire in giudizi ed in paragoni giustissimi. Queste parole, che egli scriveva, nel 1848, si possono utilmente rileggere anche oggi.
«Chi è quest’uomo dal viso superbo, dalla parola secca, e che non vi guarda mai in faccia? È un repubblicano.[367] Ma gli si parla facilmente? È egli benigno e conciliante? No! e dobbiamo confessare questo suo difetto; è fiero e non soffre un’opinione opposta alla sua. Almeno ama il povero e l’operaio? Non va con loro e non ha occasione di parlare con nessuno di loro; ma sarebbe ingiustizia rimproverarlo a lui, che nella sua stessa famiglia non permette un’opinione od un pensiero che egli non abbia prescritto. Cerca, ama, aiuta gli uomini più intelligenti e capaci? No, poichè non gli piacciono le superiorità; pensa che basti la sua e gli piacciono meglio la docilità e l’ossequio. Ma perchè queste domande? Perchè m’han detto che è repubblicano.
«Oh, di questo non si può dubitare! Lo è sempre stato; sotto la restaurazione, come sotto Luigi Filippo!
«Ebbene, io vi dico invece, che costui non è repubblicano. Che! Per aver detto dieci, venti, trenta anni addietro.—Io sono repubblicano—e non esserci creduto obbligato a qualche cosa di meglio, uno si crede repubblicano e gli imbecilli gridano: Egli è repubblicano; repubblicano della vecchia razza! Che direste di uno che scrivesse a lettere d’oro sulla sua bottega: Fornaio, e che non avesse pane in bottega, ma balocchi, gingilli e conterìe? E se lì vicino fosse aperta una bottega senza insegna, ma dalla quale uscisse un buon odore di pane fresco e ben cotto, steso sui banchi a profusione, seguitereste voi a correre dal primo? Io vi dico in verità, colui non è repubblicano. La repubblica obbliga. Costui ha trovato i posti occupati nelle altre aristocrazie che non l’avrebbero voluto. Egli è un aristocratico senza impiego che si è fatto repubblicano, e che è aristocratico nella repubblica. Vi basta che un liquido sia rosso per dirlo vino? Allora, peggio per voi: bevetelo, e se non ha nè profumo, nè sapore, se non vi da forza, se è una bevanda insipida e malsana, peggio per voi».
Parole più vere del Vangelo, poichè si può provare che le repubbliche sono quasi sempre perdute dalla aristocrazia prepotente dei triumvirati e dei direttorii. Quando un presidente ha una corte per sè e per la presidentessa, il re è vicino. Enrico V era più vicino alla Francia durante la presidenza Mac-Mahon che durante la presidenza Grévy.
Dopo la rivoluzione del 1848, a detta del Karr, c’erano in Francia molti vecchi repubblicani che di repubblicano non avevano che il nome, mentre molti repubblicani nuovi ne avevano la qualità. Certo gli avvenimenti regolano le opinioni delle maggioranze, e molti che oggi sono convinti unitari e fieri monarchici non cominciarono ad esserlo che nel 1859. Così se domani il popolo italiano si convincesse che la sua salute sta nella repubblica e nella federazione,[368] molti diverrebbero repubblicani convinti e federalisti accaniti. Questo dipende dal non essere le forme di governo cose assolutamente buone o assolutamente cattive, ma più o meno adatte a soddisfare gl’interessi dei più, secondo esigono i bisogni che cambiano spesso. Non v’ha dubbio che in questi casi molte conversioni sono figlie dell’ipocrisia, dell’ambizione o della paura; ma questo non toglie che l’esser repubblicano dalla nascita voglia dire esser buon repubblicano.
Alcune righe del Karr sembrano scritte apposta pei nostri progressisti saliti al potere dopo quella che fu detta rivoluzione parlamentare. «Speriamo che questa non sarà soltanto una rivoluzione politica, ma altresì sociale; cioè che non consista soltanto nel mandare a casa cento impipati grassi per nominare cento di magri che ingrasseranno alla loro volta a nostre spese. Speriamo che abbia una influenza sui costumi e che distruggerà il funesto effetto della massima così profondamente immorale del Guizot: Arricchitevi.» Ma purtroppo è inutile sperare: l’affarismo santificato dal Guizot noi l’abbiamo portato tanto tanto in alto, che presto ci cadrà addosso. Chi morrà sotto le rovine è facile prevederlo.
Il libro del Karr, che non è in fondo che una autobiografia aneddotica, non parla di politica che per incidente. Il più ed il meglio riguarda le relazioni dell’autore coi più illustri letterati francesi contemporanei, e diventerà un giorno una sorgente inesausta di curiosità biografiche. Quel che può interessare noi italiani, in questo volume, sta nelle battaglie tra il Karr e la signora Solms, vedova Rattazzi. La signora c’è dipinta tutta, e nessun pudico scrupolo vola le relazioni della cugina dell’imperatore col Ponsard e col Sue. Un curioso plagio della dama letterata ritorna a galla e, poichè non c’è ragione di dubitare di quel che il Karr afferma di una persona vivente e che può rispondere, bisogna confessare che la signora non ci fa una bella figura.
Il libro non ha nessuna pretensione e non è che una lunga causerie interrotta da parentesi, da chiacchere, da frizzi arguti che tolgono monotonia al racconto. Per tre quarti del volume, l’io, l’inevitabile io di questa sorta di lavori, sa nascondersi tanto nelle disgressioni e negli incidenti, da allontanare quel non so che di antipatico che destano sempre i discorsi ed i libri troppo personali. Non già che questo sia un esempio di autobiografia ben fatta; ma tra la pesantezza dei ricordi del Bufalini, l’aridità di quelli del Pacini, la poca chiarezza di quelli, lodati troppo, dell’Arrivabene, pare che potrebbe, anche tra noi, entrare quel fare spigliato, ameno, piacevole, che Massimo[369] d’Azeglio aveva indovinato. Un libro di ricordi non è un trattato, non è un manuale di storia, ma deve farsi leggere da molti, anche da quelli che leggono per passatempo. Non si leggono questi libri per acquistare cognizioni varie e profonde, ma per conoscere un uomo; ed un uomo si conosce meglio dalle chiacchere in veste da camera, che dalle orazioni in toga.
Ma c’è una difficoltà. Per giudicare senza passione della vita e degli avvenimenti trascorsi, bisogna esser lontani dalle battaglie politiche e letterarie, bisogna insomma esser vecchi e pochi sanno conservare nella vecchiaia quel brio giovanile che si fa leggere volentieri. Il vecchio vuol essere grave, vuol insegnare, diventa pesante e pedante, e sbaglia quindi spesso la propria autobiografia, che, come si vede, non è lavoro per tutti.
Speriamo almeno che i molti uomini saliti in alto in quest’ultimo ventennio e mescolati alle vicende italiane gloriose e dolorose, vogliano e sappiano darci molte di queste curiose storie, di queste utili rivelazioni, di queste narrazioni di ciò che accade tra le quinte, necessario a sapersi quanto ciò che accade sul palcoscenico.
L’Evaso (l’Evadé) è un nuovo romanzo di Enrico Rochefort; di quel Rochefort che anche ieri fece parlare di sè mezza Europa pel suo duello col signor Koechlin.
Il duello ha fatto più rumore del libro. Infatti quello scontro sanguinoso pareva concludere una vita piena di turbolenze, una vita di bohémien politico delle più arrischiate.
Nel Rochefort c’è tutto il carattere del parigino ribelle ad ogni autorità, canzonatore argutissimo e spietato, scettico nella buona fortuna e stoico nella cattiva. Solo la civiltà europea, anzi, latina, può produrre questi strani e magnifici tipi che da loro soli intraprendono una lotta contro un impero e lo uccidono a forza di spirito, di epigrammi, di punture di spillo. E quando l’Impero è a terra e la canea affamata gli irrompe addosso per mordere impunemente e strappare il brandello di carne viva, quando la tromba suona la curée immortale dei giambi del Barbier e i vili si pascono nelle stragi dei forti, il satirico ostinato, l’epigrammista inesauribile volge le spalle ai magri che accorrono ad ingrassare, sdegna di sferrare il calcio del’asino al nemico morto, e cerca un’altra causa da far trionfare coi frizzi, un altro trionfatore da fischiare in pubblico, un altro nemico da esasperare senza misericordia.
Così il Rochefort si trovò dalla parte della Comune, senza per questo risparmiare le frustate agli inetti ed ai birbanti. Ci fu anzi un momento in cui sarebbe stato più sicuro a Versaglia nelle carceri della repubblica conservatrice. Ma, nel giorno della repressione cieca, quando un tenentino uscito allora di collegio faceva fucilare senza opposizione chi gli capitava davanti senza le mani lavate, e le commissioni militari, preparando le rivincite dell’avvenire, mandavano i vinti al palo di Satory, anche Rochefort fu cacciato in una barcaccia ed inviato alla Nuova Caledonia. Egli non potè essere mai co’ vincitori.
Lo memorie del Mayer ci narrano che cosa sia la deportazione alla Nuova Caledonia. Caienna e Lambessa, le due vergogne del secondo impero, furon più miti soggiorni, ed almeno le commissioni militari che designavano e condannavano[371] le vittime del colpo di Stato non si coprivano ironicamente dell’autorità popolare e repubblicana, ma agivano scopertamente in nome di una persona e di un padrone. Erano soldati che condannavano secondo la consegna data dal superiore, non erano repubblicani che infierivano nella reazione in nome della libertà. I famosi interessi conservatori ispirarono ben male i loro neofiti quando il fecero seminare tali odii che vogliono essere soddisfatti, tante oppressioni che vogliono esser vendicate. L’uomo non cambia, e se Blanqui non fu potuto eleggere a Lione, non per questo i vinti d’oggi non saranno i vincitori di domani. Sarà un male o sarà un bene? Qui ciascuno potrà rispondere secondo le proprie convinzioni.
Intanto la repubblica conservatrice, quella repubblica che apertamente spianava la via al ritorno di Enrico V, cacciò il Rochefort a Numea. A traverso di quante avventure romanzesche sia egli passato nella sua fuga, non è qui luogo a narrare, basta che un giorno la repubblica conservatrice, seppe, tutta spaventata, che non Enrico V, ma Enrico Rochefort ritornava. Egli era già in Svizzera e stampava quella Lanterne che aveva scottato tanto i Napoleonidi. Ed eccolo oggi con questo suo romanzo, dove senza dubbio non mancano le osservazioni personali e gli studi dal vero.
Il Rochefort cominciò ad entrare nella letteratura per la porta del teatro, e di lui furono applauditissimi alcuni vaudevilles ricchi di spirito. Ma, strano a dirsi, per uno che ha cominciato coll’essere autore comico, mentre lo spirito abbonda nel suo romanzo, l’invenzione non si alza dal livello del comune. Che anzi lo spirito sembra un po’ inacidito. Non è più l’umore caustico della vecchia Lanterne, che con una goccia levava la pelle, ma qualche cosa che sa di fiele, che sembra bile. C’è in ogni bizzarra frase un fondo di amarezza che non vi lascia bene, e mentre una volta egli si compiaceva di scudisciare i nemici in pubblico con lo scopo ultimo di muovere le grasse risa degli spettatori che perdevano così la venerazione, la paura ed il rispetto ai frustati, ora sembra voler ferire, non frustare; sembra che non si contenti più d’infliggere il ridicolo, ma che voglia eseguire un’opera di giustizia, una repressione quasi fisica e qualche volta brutale.
Ma non per questo cessa il Rochefort d’essere uno dei più spiccati rappresentanti dell’arguzia francese e parigina. Tutto il primo capitolo, tutta la descrizione sarcastica dell’isola di Numea, e la narrazione di quella infame tratta di selvaggi che viene esercitata da svergognati corsari senza repressione del governo, è forse la parte più arguta del libro. Ma la favola, come dicemmo, lascia da[372] desiderare. Si può riassumere in poche parole.
Una fanciulla, che ha il padre deportato, viene a convivere con lui e s’innamora di un giovane anch’egli confinato nella penisola Ducos. Un agente di polizia circuisce la fanciulla e trova occupazione a lei ed al padre per essere informato di quel che si trama dai deportati, ma la giovane se ne accorge e lo inganna con relazioni false, all’insaputa di tutti. Una fuga per mare, alla quale la fanciulla con suo padre debbono rinunciare all’ultimo momento, non riesce, e l’amante dell’eroina è incarcerato. Dal processo risultano le relazioni della fanciulla con la spia, e l’amante sospetta di lei.
Ella non si smarrisce d’animo e macchina per liberarlo di carcere. Entra in relazione coi selvaggi ribellati, e, profittando dei loro tentativi per liberare un capo incarcerato e dell’amore da lei inspirato ad un povero coscritto, riesce nell’intento. La fuga spiega tutto e riconcilia gli amanti, che partono per l’Australia, quindi per l’Europa. Questa è la tela del romanzo.
Come si vede non è gran cosa, tanto più che il Rochefort tende piuttosto alla polemica che all’arte. Emilio Zola ed uno scrittore della scuola sua troverebbero forse questa tela troppo complicata, essi che cercano di dipingere piuttosto che di polemizzare, di scolpire piuttosto che di combattere. Il Rochefort cerca di cattivarsi il lettore col sistema stesso col quale l’autore comico cerca di tener desto il pubblico, cioè tenendolo sospeso agli avvenimenti che si risolvono poi nella catastrofe: sistema, questo, portato fino agli estremi limiti nei romanzi giudizari del Gaboriau, e al di là dei limiti, fino quasi alla parodia, dal Ponson du Terrail. Ma il Rochefort, che ha scritto il romanzo suo con un intento, ha dimenticato egualmenten l’arte squisita dello Zola nel rendere i luoghi, gli ambienti e le persone, e l’ingegnosità degli scrittori di romanzi di avventure, figli fecondi del fecondissimo Dumas padre. Ci sono dei punti nei quali l’autore si compiace della situazione immaginata e trovata, e per un poco ridiventa artista, e cerca o il cuore o la curiosità del lettore. Ma presto la tesi ricompare, e davanti a lei si ecclissa l’artista.
Non si dice con questo che il Rochefort abbia fatto un brutto libro; si vuoi dire soltanto che, tolta l’arguzia, tolta l’ironia, tolto il sale che l’autore sa mettere nelle cosa sue, il romanzo, come tale, non si stacca dalla comune dei romanzi che stampa il Dentu a quattro per volta. Si direbbe un lavoro tirato via, pensato in frotta e scritto in furia per qualche appendice di giornale.
Per questo, il romanzo del celebre agitatore ha fatto meno rumore del duello.
Il primo volume dell’epistolario del Guerrazzi, curato dal Carducci ed edito dal Vigo a Livorno, oltre ad essere uno splendido documento letterario è altresì un interessante libro politico.
Sono calde ancora le ceneri del Ricasoli e non è spenta l’eco delle orazioni elogiastiche declamate sul suo sepolcro. S’era detto che il Ricasoli non era stato un buon cattolico; ed ecco, alla sua morte, i giornali conservatori hanno svelato al mondo, che non se ne importava, gli atti della sua profonda religiosità, ed in Santa Croce i sacerdoti hanno largito al catafalco del fiero barone l’acqua santa e l’incenso benedetto. Nè bastava, poichè l’epistolario del Guerrazzi viene anch’esso a turbare la solennità dell’apoteosi, rimescolando quei fatti poco belli che iniziarono e compirono la restaurazione toscana del 1849 e dei quali il barone fu, più che parte, attore principale. Così, un giorno dopo la morte, cominciano già a prodursi i documenti sui quali la storia giudicherà gli uomini e le azioni loro.
Certo, a giudicare la condotta della Commissione governativa ed a sentenziarla losca, doppia e peggio, non importava questo epistolario. Volevano il loro granduca e i tedeschi, e li fecero tornare in modo da non poter nascondere, come avrebbero voluto, le loro simpatie. L’avvocatuccio livornese inceppava l’opera e d’altra parte offendeva l’amor proprio magnatizio dei nobiloni fiorentini: l’avvocatuccio fu quindi soppresso. Tornato il granduca, bisognava dimostrare che la sua fuga era stata giustificata dal pericolo, e si processò l’avvocatuccio livornese. Ma non si trovò terreno molle. L’avvocato non era tale per nulla, e si difese ed offese e strappò maschere e sbugiardò chi lo accusava. Il conto non fu fatto bene, e chi salì la[374] gogna non fu l’accusato. Regnando il granduca, si poteva far tacere i pettegoli che ciarlavano delle birberie passate e credere che i posteri si potessero accontentare delle biliose menzogne del Gualterio battezzate per storia. Ma venne il giorno in cui si potè parlare, venne il tempo in cui si potè sfondare il muro di ferro e di ghiaccio che i conservatori avevano costruito intorno alla verità, ed oggi oramai ognuno sarà retribuito secondo le sue opere.
Che cosa non è stato detto del Guerrazzi? Segno di amore indomito e d’odio inestinguibile, nessun adulazione nessuna calunnia gli furono risparmiate. Il suo nemico peggiore, il suo detrattore più accanito e crudele fu la setta moderata: non quella d’oggi, non quella italiana che oggi platoneggia nelle associazioni costituzionali, ma quella che provocò le restaurazioni, anzi specialmente quella toscana che mal coprì il clericalismo taccagno con una ostentazione di scetticismo macchiavellico spesso ridicolo e sempre maligno. A che cosa, in linea politica, siano ridotte le classi dirigenti la Toscana e specialmente a Firenze si vede pur troppo; e non ci vuoi molto a capire che quelle morbose condizioni derivano appunto dall’indirizzo dato alla coscienza politica del loro paese da questi moderati dalla coscienza elastica, i quali per un vantaggio finanziario promesso alla loro città mutano partito così facilmente come si muta vestito. Contro quei moderatucoli imbevuti delle comode dottrine degli Scolopi, contro quei machiavellini minuscoli che suscitarono una Vandea piccolina per restaurare i lorenesi, combattè duramente il Guerrazzi e ne ricevè calunnie, persecuzioni, prigionia, processi, esilio. E più tardi, nel 1861, nel proemio alla sua difesa, il Guerrazzi gridava così:
«La setta moderata, senza grandezza, cocciuta e dispettosa, non piegherà se prima gli eventi non l’acciuffino pel collo. Frattanto ella ride, perchè a mente dello Spirito Santo il riso abbonda sulla bocca degli stolti, e sè e la patria conduce al verde. Quando di passo in passo, sua mercè, verrà precipitata alle condizioni in cui si trovò la Francia nel secolo scorso, che farà ella? Come i fanciulli e le femmine strillerà accusando uomini e Dei, sè perfidiosa scolpando, e speculando il tempo per farsi il covo in ogni nuova fortuna.
«La setta, perduta l’Italia e Roma, non fia che reputi perduto nulla dove dalle rovine possa costruirsi un casotto e, ceduti i primi seggi, tenere l’ufficio di zecchiere dove non si coniano più le monete ed i sopracciò agli studi dove non s’insegna nulla. Signore! barattaci la setta moderata colle sette piaghe di Egitto e, se vuoi, mettici per giunta l’ottava, ed esalteremo il tuo santissimo nome. Certo[375] io comprendo che la passione qui vince l’intelletto, ma io mi agito e smanio per la patria che miro ad occhi veggenti trascinata all’abisso. La empia setta rovesciò nelle anime la maledizione della stupidità, nei corpi la peste dell’inerzia: melensa ride e fa ridere melensa, sè ad altri avvelena coll’erba sardoa, donde la morte per riso sardonico.»
Da queste parole e da molte altre che si potrebbero raccattare nelle opere del Guerrazzi tanto da farne un volume, si discerne l’odio che scorreva tra l’illustre livornese e i moderati. Certo il Guerrazzi trascese nel giudizio e nell’invettiva in certi momenti di profonda irritazione, ma non può negarsi che in somma non abbia dette di gran verità.
Assodato così questo cardine dell’esistenza politica del Guerrazzi dopo la restaurazione, colla scorta dell’epistolario si può studiare il periodo d’incubazione di questa rabies contro i moderati. Si può vedere quanto questi odii fossero giustificati e come l’indignazione abbia scaldato l’arte. E se non vi dispiace, un’altra volta lo vedremo assieme.
Uomini e tempi fu il titolo di un opuscolo che il deputato Giovanni Bovio stampò alcuni mesi sono e che ora ristampa riveduto, ampliato e diventato volume presso il Zanichelli di Bologna. Lasciamo a parte la politica, della quale è inteso che chi si occupa di lettere non deve parlar mai. Un ministro, amico mio, tutte le volte che tentavo di mettere il discorso sulla politica m’interrompeva dicendo: Fa’ dei sonetti! Ma che diavolo è dunque questa politica, alla quale non debbono scendere nè le muse belle nè le brutte? È così sozza materia da lordare i loro candidi calzari? Veramente oggi non è difficile persuadersene.
Per fortuna il Bovio parla anche del linguaggio, dell’istruzione e dell’arte. Si può dunque parlare del suo libro.
L’ipocrisia del linguaggio è diventata una buona qualità nell’oratore parlamentare. Non solo certe idee, ma certe parole fanno sorridere a Montecitorio. Si è trovato un nome che bolla tutte le nobili aspirazioni, tutte le frasi calde, tutte le parole proprie, e se un oratore accenna di allontanarsi dalle meschine considerazioni dei gruppi o dalla disciplina imposta dai capi papabili, gli si grida dietro retorica! Parlare dei problemi che fanno paura, ricordarsi che fuori dell’aula c’è qualcheduno o qualche cosa, è retorica. Tutta una storia di generoso patriottismo è derisa coll’elmo di Scipio, forse perchè l’autore dell’elmo di Scipio è morto per la patria e non per i gruppi. Un discorso di Mirabeau, il celebre grido Catilina è alle porte, farebbe ridere gli onorevoli, anche se il cardinale Ruffo, Mammone e Frà Diavolo fossero a porta San Giovanni.
Siamo giunti a questo, che in Parlamento la parola patria provoca l’ilarità. Bisogna dire il paese. Appena la Corona[377] può permettersi la parola popolo. Un deputato che la dicesse, richiamerebbe in mente il popppolo dei giornali umoristici. Perchè la Camera non scrosci di risa, bisogna dire: i contribuenti.
Dolersi dove duole il basto, dire che ci sono degli affamati, è retorica. Predicare la dispensa di minestre, far ballare le donnine scollate a beneficio di qualche Comitato, è filantropia, generosità, ecc. Così il dolore è retorica e lo scherno opera santa.
Questo non dice il Bovio, ma nota benissimo le applicazioni ipocrite che si fecero delle parole repubblicanismo, socialismo, internazionalismo, serietà, piazza, impopolarità, moderazione, ed altre, che potrebbero fare un bel dizionario ad uso dell’oratore parlamentare. E l’istruzione si è informata anch’essa a questa artificiosità, che è il peccato originale delle istituzioni basate sopra l’equivoco; e come prima era compito dei filosofi ufficiali l’annacquare generosamente le teorie giobertiane, tanto che ispirassero ai discepoli una noia ed una ripulsione salutare così poi si annacquò ufficialmente l’hegelianismo, ed ora in tutte le scuole si cerca di infondere nelle dottrine positive quel tanto di chiare, fresche e dolci acque metafisiche che bastino a rendere Littrè e Darwin innocui alle istituzioni ed alla santa religione cattolica. Non per nulla i quattro quinti dei nostri professori di filosofia sono preti spretati, frati sfratati od altri simili esempi di caratteri inflessibili e di convinzioni profonde.
E l’arte? Si vede chiaro che il Bovio deplora quel che oggi si chiama verismo, ma, più tranquillo nella sua fede filosofica che molti nelle loro teologie letterarie, se lo spiega e ne intende la odierna necessità. Pel Bovio non c’è solo una filosofia della storia, ma anche una filosofia della storia letteraria, e nell’una e nell’altra egli vede leggi certe che reggono le evoluzioni del pensiero e delle sue forme artistiche. Più acuto osservatore e ragionatore di molti critici di mestiere, egli ha inteso bene che la fortuna dell’Assomoir è un fatto da tenersi a calcolo e non da giudicare con indifferenza allegando i soliti luoghi comuni della corruzione del gusto, della imbecillità pecorile dei lettori tirati dallo scandalo.
È la critica storica dei clericali, che non sa dire altro che pervertimento e fulminare scomuniche, mentre il mondo va per la sua strada fatale. Dice il Bovio:—Chiaro è dunque che chi resta indietro maledica e chi va innanzi non curi; così muovesi la storia perchè così va il pensiero—e dice benissimo.
L’arte è sempre quale la domanda la società, e se questa[378] è corrotta, lo è anche quella. I popoli hanno l’arte che si meritano: gli artisti non ci hanno colpa.
Certo può accadere, ed accade, che un’anima sdegnosa passi attraverso una folla briaca; ma le sue parole ed i suoi libri non fanno passare l’ubbriachezza a nessuno. La Divina Commedia non ebbe alcun effetto sul suo tempo, come Cassandra non convertì nessuno. Anzi si potrebbe dire che non ci fu anima sdegnosa che si opponesse al male di tutti, che un poco di quel male non guadagnasse anche lei; tanto difficile sottrarsi alle necessità del proprio tempo. Dante potè ben flagellare il cieco partigianismo dei suoi concittadini, ma non potè a meno di essere un caldo partigiano, come molti nemici del verismo finiscono col tingersi nella nostra pece.
Il filosofo giudica e prevede, ma non può ritardare un momento la fatalità che ci trascina tutti.
L’ipocrisia del linguaggio e della istruzione, la veggente forza del verismo avranno la loro catastrofe necessaria; ma non i filosofi, o i poeti, o le leggi potranno dominarla.
Le premesse del sillogismo sono poste, e la conclusione non può essere cambiata da forza o da ingegno umano. Sarà quello che deve essere.
Nel libro del Bovio la soluzione si travede, ma gli uomini che odiano la retorica sorrideranno. Sono uomini troppo pratici per credere quel che loro non torna conto.
Veramente se giornale vien da giorno, sbagliano gli editori che stampano, per esempio, giornale settimanale; e il periodico che esce alla luce una volta all’anno dovrebbe dirsi annuario. Ma oramai annuario ha assunto un significato così determinato di volume dove sono inscritti i fatti accaduti nell’anno, scientifici, statistico, ecc.; e d’altra parte la parola giornale ha preso nell’uso comune un significato tanto largo, che non c’è nulla da dire sopra un giornale che esce una volta all’anno.
Questo, di cui parliamo, è un giornale monarchico-costituzionale che deve uscire alla luce tutti gli anni nel giorno dello Statuto, a maggior gloria ed onore di tutti i suoi articoli, anche del primo; e s’intitola Italia e Casa Savoia. Chi proprio volesse dire che l’editore Zanichelli con quel fascicoletto annuo convertirà molti alla fede ortodossa dello Statuto, direbbe certo uno sproposito. È inutile: la coccarda azzurra che lo Statuto dichiara nazionale, non la porteremo più. E nemmeno da un periodo che porta quel titolo bisogna aspettarsi più di quel che promette, in riga di opinioni. È troppo facile capire che non è suo compito sostenere il suffragio universale.
Eppure, poichè bisogna esser giusti con tutti, ha un merito grande; quello cioè di non cadere, nel disegno se non nella esecuzione, in quelle scimunite cortigianerìe che ad altri avrebbero fatto compilare un fascicolo di liriche alla Corona od un volume di prose intorno al bene inseparabile. Il giornale vuol essere una pubblicazione storica e diplomatica, una raccolta di documenti o inediti, o rarissimi, o riprodotti dall’autografo; quindi è bene che se ne possa trarre una utilità non piccola, e che quelle pagine che potevano servire alla canonizzazione di una Carta male[380] interpretata e peggio eseguita, servono invece ad impinguare l’archivio storico-nazionale.
Questo giornale, dopo gli inevitabili ritratti della famiglia regnante, contiene una serie di autografi, di medaglie e di illustrazioni agli autografi ed alle medaglie, che sono utilissimi e curiosi. Apre la serie una lettera di Luisa di Savoia, madre di Francesco I di Francia, diretta a Carlo V. A dir vero, in costei, se c’era sangue di casa Savoia, non c’era nulla d’italiano, e finì anzi col diventare francese affatto d’anima e di sensi, anche contro l’interesse della famiglia dalla quale era uscita. E nemmeno fu modello di donna, benchè fosse madre affettuosa sino al fanatismo. La dissero, forse non senza ragione, avara, crudele, ambiziosa e lasciva. Certo le apparenze non le sono tanto favorevoli, come da alcuni si volle, nel brutto affare di peculato che mandò il tesoriere di Francia alla forca; e certo poi il tradimento del conestabile di Borbone, così dannoso alla Francia, si deve imputare a lei, e forse alla sua libidine insoddisfatta. L’amore sviscerato che portò piuttosto alla grandezza della stirpe uscita da lei, che alla felicità dei figli, non basta ad assolverla.
Miglior figura è il duca Emanuele Filiberto, del quale abbiamo la firma a’ piedi di una lettera italiana dove si ordina al giudice di Moriana di rilasciare certi vassalli incarcerati contro giustizia. Questa almeno è faccia d’uomo, e d’uomo forte; questo almeno è un carattere. Si sa; il soldato che vinceva a San Quintino come avrebbe vinto un vecchio condottiero, cioè per interesse e non per fede, non poteva essere il modello de’ principi, se pure per costoro c’è modello diverso da quello terribile descritto dal Segretario fiorentino. Ei può dire che da Emanuele Filiberto comincia ad entrare in pratica la nota teorica che, bene applicata, riuscì ad imbandire il carciofo intero alle mense dei duchi di Savoia. Da quel tempo il Piemonte cominciò ad avere influenza sull’Italia e ad agognare quegli ingrandimenti successivi che lo condussero al trionfo. E quel che più vale, almeno la lettera di questo soldato di ventura è umana più di quelle di molti principi che non seppero mai di che colore sia il sangue.
Segue Carlo Emanuele I, soldato e poeta che sognò, a profitto proprio, l’indipendenza e l’unità d’Italia. Ma la santa parola non fu udita in questa terra di sciagure, a quei tempi di flagelli. Le vittime non avevano più orecchie per udire; o se udirono, non si fidarono di un principe. Il duca scagliava soldati e sonetti contro la Spagna, ma l’Italia guardava e taceva senza commoversi. Il medio evo le aveva insegnato la storia di messire Renart e delle sue astuzie, ed ella se ne ricordava troppo bene.
Madama Reale, la figlia di Enrico IV e reggente dello Stato alla morte di Vittorio Amedeo I, fu la personificazione della scostumatezza, della bigotteria, della superbia e di parecchi altri vizi di simil risma. Nessun compiacente biografo l’ha potuta, non che scolpare, scusare. Con lei entrarono nello Stato la guerra civile e gli orrori di una lotta insensata e testarda.
La sua memoria è ancora maledetta in Piemonte ed a Torino dove si conserva l’originale dell’importante lettera riprodotta nel periodico di cui parliamo.
Il principe Tomaso di Carignano, capo del ramo ora regnante, segue con una lettera nella quale si congratula col padre per una vittoria. Vittorio Amedeo III, il primo re di Sardegna, scrisse una lettera di complimento alla fidanzata del figlio, che fu Carlo Emanuele III: del quale pure abbiamo una lettera diretta alla stessa. Ma l’autografo più curioso di tutta la raccolta è forse quello di Eugenio di Savoia.
Costui fu senza dubbio il miglior capitano del suo secolo, ed è peccato che l’ingegno suo fosse al servizio di casa d’Austria. Parve che non avesse patria, tanto che firmava in tre lingue, dicendosi Eugenio von Savoje. Ma basta vedere che razza di carattere ostrogoto, che razza di ortografia vandalica usava, per capire come la penna non fosse il suo forte. Fu uomo di spada, quantunque avesse cominciato coll’essere un povero abatino, magro, brutto ed impacciato; e Luigi XIV, che a Versaglia lo aveva canzonato quando lo sentì chiedere servizio nell’esercito, dovette ben pentirsi della canzonatura quando se lo trovò contro, capitano vittorioso, anzi primo tra i capitani del suo tempo. Non basta avere spirito per canzonare; bisogna averne anche per capire.
Di minore interesse sono le lettere di Maria Luisa regina di Spagna, e di Maria Adelaide duchessa di Borgogna. Queste due povere donne non ebbero influenza grande sulle cose del tempo loro e, tranne la curiosità, null’altro ci soddisfa in quei grandi scarabocchi.
La lettera di Carlo Alberto al Villamarina intorno l’invasione di alcuni croati ubriachi entro i confini, è già conosciuta. L’ufficiale austriaco è accusato di aver commesso una rodomontata, ma davvero non sapremo se un po’ dello stesso peccato non guasti la lettera.
Il dispaccio di Vittorio Emanuele a Cavour, scritto durante la campagna del 1859, ci fa capire come a ragione il Massari si vantasse di rizzare la grammatica degli altissimi scritti. Ce n’era bisogno, a quanto pare.
Chiudono le serie alcuni scarabocchi di Napoleone III a Vittorio Emanuele.
Lasciando a parte tutto quel che va lasciato da parte, la pubblicazione è utile assai per la storia e fatta bene. Di più offre il campo a molte riflessioni curiose. Per esempio, ci sembra trasparire da tutto, quel segreto felice che ha condotto casa Savoia a quell’altezza che era follia sperare: cioè la pieghevolezza pensata e misurata in tutto quel che riguarda la sovranità ed i suoi diritti, purchè giovi alla dinastia. I regnatori di questa Casa sanno cedere o dimenticare a tempo l’autorità suprema che non tengono in alto de’ loro pensieri e che non tengono sacra come sacerdozio; ma sanno far profittare alla Casa quel che perdono nella sovranità.
Così Carlo Alberto, che non era quel gran liberale che vogliono gli storici ufficiali, largisce lo Statuto e passa il Ticino, là dove Pio IX scappa a Gaeta. Così Vittorio Emanuele corre i rischi del 1859 o si ferma a Torre Malimberti, secondo dettano gli interessi della Casa. A questo modo vedremo presto Umberto I firmare il decreto che istituisce il suffragio universale, là dove Luigi XVI, convinto della sua sacra autorità, avrebbe posto il veto e perduta la testa sul palco.
Che queste pieghevolezze siano spontanee, che queste rinuncie siano fatte senza rincrescimento, nessuno lo vorrebbe sostenere. Ma intanto i principi insegnano al popolo come si fa a stare a galla in un mare burrascoso, come si fa a profittare anche di quella evoluzione, alla quale certuni preferiscono l’immobilità ed il domma.
Non si scrivono più epopee, ma per fortuna se ne fanno ancora; e l’impresa dei Mille non ha nulla da invidiare alla conquista del Lazio od al trionfo delle armi pietose.
Il povero Nievo, che doveva narrarci la gloriosa storia, naufragò miseramente, e tra i Mille, se non erro, di veramente artista non c’era che lui. Ma ecco un piccolo libro che sotto il modesto titolo di noterelle ci conduce dalla spiaggia di Quarto alle barricate di Palermo; ecco un documento, personale se volete, ma autentico e ben redatto, di un momento storico intorno al quale i posteri nostri cercheranno avidamente testimonianze che spetta a noi lasciare incontestate, sicure, provate.
Chi scrive, cerca di farlo senza cadere nel sospetto di volgare réclame; ma questa volta non può fare a meno si sospetti quel che si vuole, di raccomandare le Noterelle di uno dei Mille, edite dopo vent’anni da G. C. Abba e stampate a Bologna or ora da Nicola Zanichelli. E’ un bel libro; e la certezza che i lettori saranno tutti dello stesso parere, mette in pace la coscienza di chi raccomanda e loda. Così capitassero spesso le occasioni di lodare senza esser sospettato!
Non è storia, ma un libro di memorie personali, intime, scritte veramente da uno dei Mille. La storia ufficiale, diplomatica o militare, oramai la conosciamo; quel che ci mancava era appunto la storia intima che il Dumas aveva romanticamente gonfiato, il diario del campo, l’impressione del volontario che segue il capitano senza saper dove si vada e galoppa alla carica ignorando se eseguisca un assalto o protegga una ritirata. Volevamo sapere gli affetti ed i pensieri di quella gagliarda gioventù italiana, che pur nata sotto leggi oppressive e corruttrici, si svegliò[384] un bel mattino in piena guerra d’indipendenza e seppe trovare in sè il patriottismo e l’energia necessaria per scuotere il torpore insegnato e incoraggiato, prender l’armi lasciando ogni cosa più caramente diletta, gettarsi nelle battaglie della patria. I fatti li conoscevamo; dobbiamo ora conoscere gli uomini che compirono i fatti.
Partono in diciassette da Parma, di nascosto, come se andassero a commettere un delitto, e vanno forse a morire per una santa idea.
Sembra che il mistero delle congiure sia necessario per dare il sangue alla patria; sembra che la notte non sia abbastanza oscura per compiere un atto di eroica generosità. E quel ch’è peggio, tutti conoscono il segreto della congiura, tutti gli occhi ne parlano, tutti i gesti lo tradiscono; ma la ipocrisia che governa vuol che se non è segreto, almeno paia. Se la cosa va bene, si dirà che non solo il mistero era conosciuto, ma che fu sottomano promosso od aiutato; se la cosa va male, si rinnegheranno i filibustieri, e il capitano dell’impresa andrà in carcere al Varignano un po’ prima del tempo. Poichè i Mille partono sapendo che la loro ricompensa sarà soltanto nella coscienza di un sacrificio tranquillamente compito, è ben giusto che il sacrificio profitti a qualcheduno. Anche questa è la teoria del carciofo.
«Biancheggiava una casina di là da un gran cancello in un bosco oscuro, nella cui profondità, pei viali, si movevano uomini affaccendati. Dinnanzi sulla strada che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Ecco! No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui.
«Attraversò la strada, e per un vano del muricciolo, rimpetto al cancello della villa, seguito da pochi discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati... La barca sulla quale mi toccò montare, dondolava straccarica. I barcaioli, per farci stare che non si capovolgesse, ci pregavano di guardare verso Genova le luci verdi e rosse che splendevano nella notte, come se fossimo bambini. Verso le undici, da una barca già in alto, udimmo una voce limpida e bella chiamare: «La Masa!» e un’altra voce rispondere: «Generale!» Poi non s’udì più nulla.
«Intanto le ore passavano; eravamo cullati dall’onda e mi addormentai. All’alba fui destato e vidi due navi maestose, lì ferme dinnanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle. Mi volsi addietro. Genova e la riviera apparivano laggiù incerte, in un velo vaporoso: ma i miei[385] monti esultavano alti e puri dominando la scena. Una brezzolina increspava le acque: sulle navi si faceva un gran vociare; era una tempesta di chiamate, di apostrofi ed anche di sagrati che lasciavano il segno nell’aria come le saette. Fu una mezz’ora di gran furia a chi facesse più presto ad imbarcarsi, e anch’io potei finalmente agguantare una gomena e salire».
La storia dice tutto questo con una frase sola:—Garibaldi e mille volontari s’imbarcarono a Quarto per la Sicilia nella notte del 5 maggio 1860.—Lo storico più diffuso potrà aggiungere che il 5 maggio è l’anniversario della morte di Napoleone primo e ricordare l’inno del Manzoni; ma in verità non è da dolersi che sopra le aride date della storia vengano a sovrapporsi queste impressioni dal vero, queste testimonianze de visu le quali ci fanno assistere alla scena, solenne, ci dicono tutto il dramma della partenza per l’ignoto, pel martirio forse. Così si comprende meglio il sacrificio eroico di coloro che furono poi compensati con cento lire al mese, lorde dalla ricchezza mobile, in pagamento adeguato dell’aver dato al Re di Sardegna la corona di Italia.
«M’ero fitto in mente che questo capitano del Lombardo fosse un francese. L’aria, gli atti, il tono suo di comandare, lo mostrano uomo che in sè ne ha per dieci. A capo scoperto, scamiciato, iracondo, sta sul castello come se schiacciasse un nemico. L’occhio fulmina da per tutto: si vede che sa far tutto da sè. Fosse in mezzo all’oceano, abbandonato su questa nave, egli solo basterebbe a cavarsela. Il suo profilo taglia, come una sciabola: se aggrotta le ciglia, uno cerca di farsi piccino: visto di fronte, non si regge al suo sguardo. Eppure a tratti gli si esprime in faccia una grande bontà. Che capriccio fu quello di chiamarlo Nino?—Bixio! Ecco il nome che gli sta: almeno rende qualcosa, come un guizzo di folgore...
«Il caporale P... si lasciò sfuggire non so che brutte parole, e Bixio giù, gli scaraventò un piatto in faccia. Ne venne un po’ di subbuglio. Come un razzo Bixio, fu sul castello gridando «tutti a poppa! tutti a poppa!» E tutti ad affollarsi a poppa, rivolti a lui ritto lassù che pareva lì per annientarci. E parlò:—
«Io sono giovane, ho trentasette anni ed ho fatto il giro del mondo. Sono stato naufrago e prigioniero, ma sono qui, e qui comando io! Qui sono tutto io, lo czar, il sultano, il papa, sono Nino Bixio! Dovete obbedirmi tutti; guai a chi osasse un’alzata di spalla, guai a chi pensasse di ammutinarsi! Uscirei colla mia uniforme, colla mia sciabola,[386] con le mie decorazioni e vi ammazzerei tutti! Il generale mi ha lasciato comandandomi di sbarcarvi in Sicilia: vi sbarcherò. Là m’impiccherete al primo albero che troveremo; ma—e misurò collo sguardo lento la calca—ma in Sicilia, ve lo giuro, ci sbarcheremo!—
«Viva Nino Bixio! viva, viva, viva! E mille braccia si alzarono a lui, che stette lassù un po’ fiero; mai poi impallidì, gli balenarono gli occhi e ci volse le spalle...
«Un piccolo legno veniva da terra. Bandiera inglese. Bixio prese un foglio, vi scrisse sopra qualcosa, fece fendere un pane e ci mise il foglio. Quando il legno passò, quasi rasento a noi, gettò il pane che cadde in mare. Allora—gridò, facendo tromba colle mani—dite a Genova che il generale Garibaldi è sbarcato a Marsala, oggi a un’ora pomeridiana!—
«Sul piccolo legno fu un levar di mani, un batte d’applausi, uno sventolare di fazzoletti, evviva, viva, viva!»
Dite il vero, se qui non trovate la biografia di Nino Bixio, non lo vedete però vivo, più vivo che nella Vita del Guerzoni? Anzi, non è storia anche questa, storia colta sul momento dell’azione e parlante?
Così è tutto il libro dell’Abba, fino al 21 giugno, fino all’arrivo del Medici dopo la resa di Palermo. Non è egli degno di esser raccomandato e lodato? Non è egli da desiderare, da pregare l’autore che ci narri il resto della epopea santa, fin dove gli occhi suoi videro? Nessun dubbio che tutti siamo d’accordo. Aspettiamo.
C’è un articolo nella legge Casati, e nelle successive, che dà facoltà al ministro della istruzione pubblica di nominare alle cattedre universitarie vacanti, senza bisogno del sacramentale concorso, gli uomini che siano illustri nella scienza di cui appunto è vacante la cattedra.
Questa è la legge: e, che io mi sappia, la legge non contempla il caso delle opinioni più o meno ortodosse dei professori. Ed alla legge, anche a quella firmata dal Casati, faccio tanto di cappello. Non si dirà che il Casati fosse un gran repubblicano od un ateo pericoloso.
Questa è la legge, ed un ministro del re ne usa in un senso che non piace ad una fazione politica o ad una setta filosofica. Ed ecco gli strilli, le proteste, i vituperi, come se il presente disordine di cose fosse in pericolo! Oh, si grida, con che autorità il ministro a giudicare di cose scientifiche? Il dar la patente d’illustre ad uno, è un ledere la libertà dell’insegnamento, perchè impone quasi ai professori le simpatie filosofiche del ministro. È un abuso, una illegalità, una infamia...
Calmatevi, bollenti teisti! Chi dà questo diritto al ministro è la legge Casati, e questo diritto fu usato cento volte da cento ministri. Solo che, quando si trattò di nominare i seguaci della metafisica del Mamiani, nessuno mosse bocca, e si che le celebrità si potevano discutere. Ma ora che una nomina non va a versi a tutti quei centomila preti male spretati che insegnano la filosofia ufficiale nei Licei e nelle Università italiane, le rane gracidano ed invocano da Giove un re assoluto.
Il ministro ha questo diritto per legge, e se non vi piace, fate mutar la legge. È strano poi che in questo caso si è[388] voluto di una questione di diritto fare una questione personale, obbedendo ad animosità piccine che dovrebbero avere il pudore di nascondersi quando si tratta di cose ben più elevate che una biliosa ira tra ministri vecchi e nuovi. Non ho mai visto il Baccelli, non temo e non spero gli avversari: ma quando la legge gli dà ragione, io sono zero via zero, ma gliela do anch’io.
Dirò poi che lo stato della filosofia in Italia oggi fa vergogna. La scuola più audace è la hegeliana che regna nel mezzogiorno, una scuola che altrove è stata sorpassata e sepolta da lungo tempo. Nel resto d’Italia, specialmente nell’Italia superiore, un nugolo di abati disabatati insegna un giobertismo mal cucinato, un rosminismo messo in passo coll’Indice—insomma una vergogna. Qua e là, qualche ingegno forte studia le cose moderne, si mette in corrente, osa parlare di positivismo, di Comte, di Darwin, di Spencer, di Haeckel, di Hartmann; osa notare la rivoluzione che l’intelligenza delle scienze naturali ha portato nei canoni della filosofia: qualcuno osa ripetere il vecchio grido galileiano: fisica, salvami dalla metafisica! Ebbene, queste sono le pecore segnate. La mafia metafisica imperante sino ad oggi, ha tenuto in briglia questi puledri non castrati, ed ora, che s’è un po’ rotto il chiuso, le strida vanno al cielo.
Dunque chi non insegna la filosofia ortodossa non può esser illustre, anche se ha scritto quel che ha scritto l’Ardigò? Perchè è curioso lo studio degli strilloni: fingono di credere che l’Ardigò sia il primo professorucolo capitato, il cui nome non sia mai uscito dalle pareti della scoletta! Oh, no! Questi professori, più oscuri della notte e più ignoti che Carneade a Don Abbondio, bisogna cercarli tra i metafisici ufficiali dei licei e delle università i più cari alla setta teista. Ora i filosofi veri, quelli soli che possiamo mettere avanti senza arrossire, dobbiamo cercarli nei gabinetti scientifici, non sulle cattedre, disonorate la maggior parte da un cretinismo che non ha riscontro altrove.
Il papa, che la sa più lunga di tutti questi strilloni che aspettano il boccone che chiuda loro la bocca, il papa ha capito dove era il pericolo, e s’è messo con giudizio a riformare l’insegnamento della filosofia nelle scuole ecclesiastiche. Ha capito che al positivismo non si potevano opporre che le argomentazioni del tomismo.
Ha capito che non si poteva far altro che risuscitare la scolastica co’ suoi sillogismi tentatori per imbrogliare un po’ le carte in mano a coloro che traggono deduzioni dai soli fatti. Ma avesse dovuto pensare alla sola Italia, senza dubbio non avrebbe mosso foglia. La filosofia che s’insegna[389] ufficialmente non ha bisogno di confutazione, poichè nelle menti dei discepoli il solo ebetismo dell’insegnamento è prova palmare della imbecillità delle scuole filosofiche. Così, mentre il papa pensa a provvedere ai guai che possono portare le scuole positiviste, da noi si grida all’unissono col papa e si vitupera un ministro perchè a norma di legge ha premiato un filosofo reo d’esser positivista.
Non solo è da passar sopra a questi strilli femminili di una mafia che teme di veder finire la sua potenza fondata sull’asinità generale, ma è da provvedere fin dove si può a questa ridicolezza degli studi filosofici in Italia. E dico ridicolezza per non dir peggio.
Che il Filopanti, che fa scuola a sè, e che è puro di ogni sospetto, e che parla secondo profonde convinzioni, che non divido ma rispetto, dimentichi il diritto del ministro e protesti; lo intendo.
Ma non intenderò che una setta, cresciuta di potenza appunto in forza della legge Casati, gridi contro un ministro che operò secondo la legge stessa; non lo intenderò se non supponendo un basso calcolo ed una vergognosa camorra. Amo quindi supporre che gli strilloni avessero in quel punto dimenticato la legge.
Via, non basta l’esempio dato a proposito dell’Ardigò; ce ne vogliono molti altri. Una filosofia, italiana passi; una filosofia pontificia, mai.
FINE
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Filosofia | » | 387 |
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I cinque volumi riuniti (pag. 400) | » | 10 | ||
VI. migliaio |
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Due ristampe—VII migliaio | ||||
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Due ristampe—VII migliaio | ||||
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V. migliaio | ||||
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V. migliaio | ||||
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[1] «Viaggio in Lapponia coll’amico S. Sommier,» di Paolo Mantegazza. Milano, Gaetano Brigola, 1881.
[2] Queste chiacchere a proposito del libro del Piergili mi valsero cortesi lettere della vedova Leopardi nelle quali si sosteneva che io era in errore. Non seppi che rispondere allora, nè lo so oggi, poichè qui esponevo l’impressione mia di spettatore, null’altro: e non è facile difendere le impressioni coi ragionamenti. Se ho errato, me ne dolgo ed espongo al pubblico il mio peccato in tutta la sua bruttezza, poichè non ho mutato una parola. Se qualche cosa di vero ho detto, chieggo scusa pel modo, che ora, a mente fredda, mi pare un po’ aspro.
[3] Dino Compagni e la sua Cronaca, per Isidoro Del Lungo, vol. I, parte I, vol. II. Firenze, Succ. Le Monnier, 179.
[4] Portraits contemporains. Paris, Lévy, 1870. Tomo II, pag. 46.
[5] La battaglia di Gavinana, di Edoardo Alvisi, Bologna, Zanichelli, 1881.
[6] Les femmes qui tuent et les femmes qui votent; par A. Dumas, Paris, Lèvy, 1880.
[7] Nanne Gozzadini e Baldassare Cossa, racconto storico di Giovanni Gozzadini (Bologna, Romagnoli, 1880).
NOTA DEL TRASCRITTORE:
—Corretti gli ovvii errori tipografici e di stampa.