The Project Gutenberg eBook of Racconti This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Racconti Author: Caterina Percoto Release date: July 23, 2015 [eBook #49510] Language: Italian Credits: Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI *** Produced by Carlo Traverso, Claudio Paganelli, Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images generously made available by The Internet Archive) RACCONTI DI CATERINA PERCOTO. FIRENZE FELICE LE MONNIER. 1858 Proprietà letteraria. NICCOLÒ TOMMASEO A' LETTORI. Quando una forma ci si offre di buono o di bello, giova cercare il come e il perchè la sia nata, non per imporne l'esempio ad altrui come legge tiranna, ma per dedurne un qualche documento a noi stessi. Così, vedendo negli scritti della signora Caterina Percoto lo spirito della poesia spirare dalla schietta prosa senza quasi mai ricerca d'ornamenti poetici; ricevendo dalle semplici sue narrazioni un diletto più vero che da romanzesche avventure intrigate insieme, sorge in me desiderio d'investigare per che via ella sia giunta fin là; e mi fo ardito ad esporre le mie congetture, lasciando a chi conosce più davvicino l'autrice giudicare s'io colga nel vero. Quelli che ad altri parrebbero impedimenti, dico l'essere lei vissuta lontano dalle grandi città, e nel consorzio di povera buona gente, vissuta straniera alle raffinatezze della letteratura accademica e ai solletichi di sempre nuove letture e esperienze degli uomini e delle cose; questi a me paiono appunto i sussidi che meglio la fecero quel ch'ell'è. La educarono i sacri dolori e le gioie schiette della famiglia, nella cara loro uniformità variate, e che però meglio d'ogni rettorica insegnano a conciliare la soavità con la forza, ch'è il pregio e della virtù e dello stile. Amica e sorella alla madre, rimanendole pur sempre figliuola, in quest'affetto continuò ad educarsi, e ad apprendere il segreto difficile dell'educare lo spirito altrui. L'essere lei nata contessa le giovò non tanto alla gentilezza del sentire e de' modi che in altre condizioni può essere non meno delicata e forse più schietta, quanto al culto di certe tradizioni che la nobiltà della stirpe insegna a serbare per secoli, parte per coscienza di dovere, parte per amore d'utile che se ne abbia o se ne speri, parte per orgoglio e per vanità; ma laddove non hanno luogo le cagioni vili, quel culto partecipa della religione, ed è alla verace nobiltà de' pensieri incessante alimento. E molto più quando, come qui, la persona collocata un po' più in alto, e per il mutare de' tempi, e meglio per virtuosa e liberale volontà, e per bisogno dell'animo e della mente si volga, benevola ancor più che benigna, ai minori, non per tingerli de' propri difetti o farli servire alle proprie debolezze, ma per nobilitare e rinvigorire del loro esempio sè stessa. Cresciuta in agiatezza modesta, l'autrice di queste Novelle vide poi dì men lieti, ma forse allo spirito più sereni; e non tanto per tirannia di fortuna o per propria negligenza, quanto per elezione d'anima veramente eletta, per amore del semplice, e per istinto di quella verace uguaglianza che non condiscende se non per assumere gli altri a sè, e non ambisce appareggiarsi ne' vantaggi e ne' trastulli ma sì piuttosto ne' danni e ne' dolori, spontanea si condusse alle angustie di povera vita; e quando poteva freddamente, se non duramente, comandare, si fece a sè e ad altri, come insegna l'Amico degli uomini, ilaremente ministra; e acquistò così, non che perdere, dignità. Non è mica che la Contessa si contentasse d'andare, così per balocco e quasi per burla, a cogliere margheritine ne' prati, e chinandosi lasciasse cadere come elemosina una parola alle povere contadine, beate di quel raggio piovuto dall'alto su loro, e maravigliate che le contesse camminino su due piedi; non è già che per chiasso e come in maschera la si vestisse da contadinella e andasse ne' dì solenni a' perdoni, e quindi alle veglie, non contraffacendo ma naturalmente tenendo il linguaggio del paese, acciocchè l'umile popolo a lei non conosciuta si desse a conoscere meglio. Ma essa davvero convisse con loro, e si prestò a tutti i servigi di massaia, intanto che i nepoti lavoravano nel podere proprio; ben disgraziati se dall'incallire alquanto le mani e dall'abbronzare la faccia non acquistassero gentilezza allo spirito, e all'anima umanità. Non è dunque arcadico in lei l'amore de' campi, è patimento insieme e diletto, com'ogni affetto vero dev'essere nella vita. E dal conoscere la natura morale ne' campagnuoli le venne il poter meglio sentire, e però meglio dipingere, le bellezze della esteriore natura, non in genere o in ombra per circonlocuzione accettate da' libri, ma quali stanno ne' luoghi da essa abitati. Nè le bellezze de' luoghi potevano davvero piacerle se le fosse uggiosa la gente che vive in essi, s'ella non sapesse discernere non solo sotto i difetti il pregio, ma anche sotto i pregi il difetto; giacchè il troppo abbellire dall'un lato con la rettorica delle scuole o con quella delle conversazioni, è dall'altro un imbruttire al di là del vero e fin del possibile; e chi adula il male, da ultimo calunnia il bene, perchè smarrisce e le norme del conoscerlo e la potenza ad amarlo. Non tanto la nascita e le consuetudini domestiche e gli studi ameni e la vicinanza di colte città e la conoscenza d'uomini ornati di lettere diedero all'autrice il poter congiungere agli ammaestramenti della natura i sussidi dell'arte, e l'uno con l'altra aiutare anzichè disservire; ma questo benefizio le venne principalmente dall'essere lei italiana, e d'una delle province del Veneto, dove, quasi al par che in Toscana e più che nelle altre, le memorie e gli abiti della civiltà sono sparsi per le campagne, e ne fanno altrettante contrade d'una medesima terra; dove i piccoli villaggi rammentano illustri nomi d'artisti e scrittori, mostrano opere d'arte invidiabili a molte capitali d'Europa, e rare in talune d'Italia stessa. Così le fu dato sentire talune almeno tra le ispirazioni e della natura e dell'arte, conciliare alcuni vantaggi e attenuare alcuni inconvenienti delle due vite diverse, e spesso per nostra colpa repugnanti, la campestre e la cittadina. Non già che le fosse possibile indovinare tutti i segreti nè della squisitissima nè della corrotta urbanità, per maniera che nel dipingere uomini e cose non famigliari a lei, la non ecceda talvolta nell'abbellire, e che, per forza d'inevitabili disinganni, la non sia tratta a giudizi severi e a diffidenze acerbe alla bontà dell'anima sua. Ma qual è l'uomo esperto di quel che chiamasi mondo nelle grandi città, che conosca a pieno e al vero tutti i segreti del cuore, che possa fedelmente ritrarli? In tutti i dipintori dell'affetto umano, anche sommi, chi ne conoscesse intera la vita, discernerebbe delle opere loro quelle parti che non in tutto si conformano a verità o per la poca esperienza o per l'osservazione non sufficientemente esatta; e chi ben riguardasse quelle opere, senza conoscerne punto la vita, ne indovinerebbe da esse un qualche arcano agli autori medesimi non conosciuto. Ma quella di cui ragioniamo, osservando riverentemente l'uomo là dov'egli è più schietto, e intravvedendolo ad ora ad ora anche là dove è meno, scelse la parte migliore; e in questo s'accosta più ai veri intenti dell'arte che spesso non faccia Giorgio Sand con le sue massime prestabilite, con la sua passione che vuol parere sistema, ed è pregiudizio; con la sua perpetua querela ribelle non tanto alle presenti condizioni della società, quanto all'eterna natura delle cose, querela di rancore più che di accoramento, più che di pietà, di vendetta. Il pregio di questi scritti più raro (e così raro non fosse!) si è che l'autrice parla di cose a lei note per quanto si può; che non cerca almeno l'incognito a bello studio per gabbare sè stessa; come fanno taluni che si figurano che quel ch'essi non sanno debba essere ignorato da tutti, e che però tutti abbiano a farsene ammiratori sorpresi, nessuno giudice intelligente. Il reale che l'autrice si pone dinnanzi non è del più basso, nè affettatamente volgare, come in certuni che cercano col fuscellino il mostruoso dell'inerzia, l'eroico della trivialità. Ma la realità ch'ella prende a ritrarre è nobilitata, non però trasmutata, da quel senso del conveniente, ch'è l'ideale più sicuro all'artista, appunto perchè un senso tale, seguendo la legge del bene, muove dalla norma del vero, ch'è il bello sovrano. E il sentimento del bene fu in essa educato da quegli affetti di stima e di ammirazione i quali si nutrono meglio nella solitudine che nella frequenza, e sono quasi gli affetti domestici ampliati, e in nuovo modo applicabili. L'abito dello stimare con soverchia indulgenza, dell'ammirare con credula docilità, può portare disinganni e dolori; e nelle anime meno gentili qualche eccesso in contrario; ma gli è pur sempre meno pericoloso, gli è pur sempre migliore indizio dell'anima, che non sia l'abito della diffidenza, del dispregio, dello scherno. E anche in questo ella si può chiamare fortunata, che Dio la scampò dalle ammirazioni premature degli uomini, dalle lodi che, se non corrompono, fiaccano, dalle cerimonie tra galanti e accademiche, che prosificano e istupidiscono. La si venne svolgendo da sè, come germe, per naturale temperie della terra e del cielo, non per calore di stufe: i suoi primi fiori caddero a ornare quasi riconoscenti la terra che li nutrì, nè mano straniera li colse per sgualcirli con voglia irriverente. Le fu privilegio il non essere lodata troppo, il non essere tentata a far pompa dell'ingegno e dell'arte, e stemperare l'essenza del suo pensiero in volumi, come insegnarono al sesso detto debole i romanzieri del sesso forte, che d'un fiasco di vino empiono botti d'acquerello. E a non ammontare libri sopra libri le insegnò lo studiarne e l'amarne pochi; la Bibbia sopra tutti, e Virgilio. E le giovò l'apprendere la lingua tedesca sulla _Messiade_, e per la _Messiade_: poema dove Dio e gli Angeli e gli uomini parlano troppo, ma più alto e più puro che nel _Paradiso perduto_, come si conveniva cantando il cielo racquistato e la terra redenta. Ho già rammentato Giorgio Sand; con la quale, fra molte differenze, ha la signora Percoto alcune conformità, ma nel bene. Essa non conseguirà mai la fama che toccò in sorte alla donna francese, più svestita forse che travestita; non la conseguirà sì perchè qui il paradosso con le apparenze della novità non colora le cose vecchie, sì perchè la fantasia qui non fa sfoggio di sè in lunghi intrecci felici; sì perchè l'Italia divisa e ignota a sè stessa non offre agl'ingegni nè le tentazioni nè i premi che la Francia; sì perchè a scrittore italiano manca lo strumento richiesto a diffondere nelle moltitudini il senso e l'affetto della bellezza, manca un linguaggio comune a tutta la nazione, determinato, vivente, che faccia con l'affetto e con l'idea, come corpo con ispirito, un ente solo. E anco qui la gentildonna, per divinazione di poeta, si fece più popolo che molti scrittori del popolo stesso non degnino: e non potendo al dialetto toscano, attinse al proprio dialetto, ch'ella scrive con garbo d'artista; e col linguaggio de' libri lo contemperò come meglio sapeva, meglio però che assai celebrati non sappiano. Sentì per istinto come nel fondo di tutti i dialetti italiani è un che di comune alla nazione tutta; come pensando il friulano pretto ella fosse men lontana dal vero toscano di que' tanti che toscaneggiano per grammatica, e sfiorettano non co' _Fioretti_ di San Francesco (più friulani anch'essi e più milanesi e più siciliani di quel che paia), ma col Boccaccio e col Bembo. Non già che qualche o improprietà di linguaggio mezzo erudito o affettazioncella di stile quasi accademico non dia fuori anche qui, ma non frequente così come in altri: e la verità del sentire infondendosi nella schiettezza del dire, è qui tanto più notabile quanto men ricercata bellezza. Quest'è uno degli insegnamenti che noi dall'esempio di questa donna possiamo dedurre: ma il migliore, e che tutti li comprende e ne dà la ragione, si è l'indicato già, non mai raccomandato abbastanza: parlare delle cose che meglio si conoscono, di quelle che si amano, parlarne appunto nel modo che le si veggono e sentono; e a tal fine trascegliere tra le conosciute le più gentili, tra le amate le più meritevoli dell'amore di tutti. I. LIS CIDULIS, SCENE CARNICHE. A LUCIA VENTURA VIVANTE CATERINA PERCOTO. I. Volgeva il giorno al tramonto, e Giacomo, seduto sul dinanzi del pigro carrettone, giugneva appena sotto le sbiancate rupi di Amaro; egli avrebbe voluto divorare la via, guardava al sole che già si nascondeva dietro Cavasso, guardava ai cavalli stanchi, alla strada che si faceva sempre più ripida. — Ancora una mezz'oretta, disse il carrettaio, e poi siamo a Càneva. — Contate di passar la notte là? chiese il povero giovinotto, cui la speranza che l'aveva mantenuto allegro e facondo tutto il viaggio, or quasi scaduta cominciava a mettere in serietà. — Farò dare due misure alle mie bestie e poi proseguirò, disse l'altro. Passarono entrambi quella mezz'ora in perfetto silenzio: l'uno pratico del sentiero e sicuro delle sue mule, lasciavasi andare a lor discrezione, senza por mente all'orribile pericolo di quelle erte così frequenti, e saliva lento, e veloce discendeva, sempre intento a raggruppare la coda della sua frusta; l'altro cogli occhi fisi ad un punto, aveva mille volte col pensiero percorso lo spazio che ne lo divideva, e, se gli avessero offerto di guadare il torrente, di gettarsi attraverso quelle frane e que' rompicolli, avrebbe accettato, purchè avesse potuto marciare in linea retta. Giunsero a Càneva, e Giacomo, smontato dal carrettone, contò alcune monete al compagno; indi, postosi in ispalla il suo fardello, prese la via di Paluzza, contento d'essersi liberato da quella pigra vettura, e persuaso che le sue gambe dovessero servirgli assai meglio. Infatti, pareva ch'ei volasse. Lasciò la strada non ancora compiuta che passa per Terzo, e tenutosi basso tra le ghiaie del dirupato torrente, lo saliva a ritroso valendosi di tutte le scorciatoie e tendendo l'orecchio perchè il fragore delle acque gl'insegnasse il luogo dei ponticelli. In tre anni di assenza, quanti rivolgimenti! Il fiume inquieto aveva cangiato più volte di corso, ed egli era obbligato a rintracciare le seghe e i passi mutati. Era dirimpetto a Zuglio, quando le aeree campane di San Pietro suonarono l'Avemmaria. Quel suono lo commosse. Parevagli la voce conosciuta d'un amico che rivedi dopo lunga lontananza. Quante memorie gli tornarono allora nel cuore! La sua fanciullezza passata, i genitori, gli amici, la patria, il primo palpito della sua anima innamorata, tutto si legava a quella campana armoniosa, che, illuminata dall'ultimo raggio del sole, salutava la prima il suo ritorno. Bel pensiero gli parve allora quello dei suoi vecchi compatriotti, che consecrarono all'Apostolo quella sublime pendice. E la chiesa parrocchiale circondata dal cimitero, comune un tempo a tutta la vallata, e il magnifico campanile situato in modo che l'angolo della sua guglia compie la piramide della montagna, gli parvero in quell'istante opera veramente maravigliosa. Arrivò sull'imbrunire ad Arta, guardò la montagna che sorge a sinistra del villaggio, e sulla cui cima è situata Cabia. Il cuore gli batteva impetuoso. Nel dimani celebravasi la messa così detta della gioventù, ed egli avea tanto corso, ch'era giunto prima che si cominciasse a far scivolar le girelle. Tra que' monti vige un antico costume. La sera precedente a un dì solenne, alcuni giovinotti del villaggio ascendono la montagna, piantano a lor dinanzi un impalcato, e tagliate di legno resinoso delle rotelle in forma di stella, le conficcano ad un palo, indi danno lor fuoco e le girano, le girano finchè sieno bene ardenti, poi battono d'un gran colpo il palo sulla panca, e le fanno scivolar giù a salti per la montagna consecrandole al nome delle giovinette del paese. A' piedi del monte vi è un'altra turba di garzoni, che stan pronti con armi da fuoco per festeggiare a chi più può il nome della propria amorosa. Giacomo sapeva che la gioventù del suo villaggio era solita nel dì seguente far cantare una messa alla Vergine perchè ne custodisse i costumi, e che in quella sera salivano a metà dell'erboso monte di Cabia per lanciare le girelle. Erano tre anni ch'egli aveva abbandonato Arta per guadagnarsi il pane col mestiere del legnaiuolo. Era giunto a farsi benvolere dal suo padrone, aveva accumulato qualche risparmio, e ritornava in patria a far provvista di legnami, e nello stesso tempo a vedere se la Rosa gli era ancora fedele. Portava un paio di pistole e della polvere da schioppo, e tutto il viaggio aveva mulinato del come arrivare sconosciuto, e della grata sorpresa che preparava a lei nel farle sentire nella festa delle girelle salutato il suo nome da parecchi spari e forse più che alcun altro delle compagne. Quando guardò al monte di Cabia e vide che arrivava in tempo, sentì corrersi al cuore un tal soprassalto di gioia e sì fattamente cominciarono a tremargli le gambe, che dovè entrare nell'osteria per refocillarsi un istante. Ivi ad una tavola trincavano alcuni giovinotti suoi coetanei. Vicino alla tazza tenevano le pistole già cariche e cantavano le patrie villotte, quelle villotte, ch'egli stesso un tempo insieme con essi avea creato e che più d'una suonava nel nome della Rosa. Fu lì per correre ed abbracciarli, ma si rattenne pensando all'improvvisata che macchinava. Si ritirò in un cantuccio, visitò le sue armi; e quando vide partire i compagni, tenne lor dietro fino alle falde della montagna. Là si nascose dietro una macchia presso il fonte, e stava aspettando il grido di gioia che doveva dirgli il nome dell'amata. Era una bella notte serena, mite la stagione e tutte ancor verdi le montagne. Di dietro ai gioghi di Cabia spuntavano due candidi raggi che andavano allargandosi a guisa di ventaglio e si perdevano nell'immenso azzurro. Prima che comparisse la luna incominciò la festa. Fu accesa la prima girella e balzò pei greppi della montagna consecrata al parroco del paese; dopo questa fu lanciata la seconda nel nome della più bella ragazza del villaggio, e poi una terza, e poi una quarta, e spari di fucile e grida festose le salutavano al basso, e l'eco fragorosa le ripeteva fin'oltre Paluzza. L'un dopo l'altro furono declinati ventotto nomi, senza che mai suonasse quello di Rosa Pignarola. Era indescrivibile l'ansietà di Giacomo. Sul principio, il proprio orgoglio gli faceva sperare primo quel nome. Bionda, ricciutina, candida e rosata, dagli occhi neri e dalla svelta figura, gli pareva impossibile che tutti come lui non la vedessero per la più bella. Ma quando udì preposte altre, ch'egli aveva conosciute, e che nella sua mente non valevano un ricciolino della Rosa, cominciò a pensare che la poveretta era così trascurata perchè aveva l'amante lontano, e sentivasi crescere il cuore, e si felicitava di vendicarla e farla trionfare cogl'impensati suoi spari. Intanto suonò l'ultimo nome di fanciulla. Dopo questo furono inalberate un'altra ventina di girelle, e fra gli evviva i canti e gli scoppi balzavano a salti dalla montagna, ed altre a furia le seguivano, sicchè da lungi ti pareva una pioggia di stelle che giù volassero a tuffarsi nelle acque della Bût, o che una magica verga per illuminare la notte avesse percosso il monte e fatta scaturire questa magnifica fontana di foco. Povero Giacomo, che fu di lui, allorchè sentì svanirsi ogni speranza! Ch'era dunque stato della Rosa? Avrebbe voluto lanciarsi tra i compagni e chiederne conto, ma lo rattenne la paura d'una risposta fatale. Potevano dirgli ch'ella era morta.... o maritata.... Ah! ch'egli avrebbe dovuto prevederlo. Così bella!... Era impossibile che si fosse contentata d'aspettarlo; lui tapino che non aveva di suo che le braccia! — Questo pensiero lo riempì d'amarezza, e per un istante gli pesò sul cuore tutta l'impotenza della sua umile condizione. Si ricordò allora di sua madre.... Con quanto affetto non lo avrebbe abbracciato la povera vecchia! Erano tre anni che non la vedeva. Quando partì, ella pianse tanto! Era infermiccia e temeva di morire senza rivederlo, gli diede tutto il danaro che a forza di privazioni aveva potuto raggranellare, lo benediva con tanto amore.... ed egli aveva potuto ritardarle la consolazione di riabbracciarlo?... Aveva potuto fantasticare tutto quel giorno per far sorpresa ad una ingrata che lo aveva dimenticato, e neppure un pensiero alla povera donna che non viveva se non per lui.... Ben gli stava l'immenso dolore con che il cielo ne lo puniva! e lacrime dirotte gli corsero per le guance. Cresciutogli affetto dal rimorso, avviossi alla sua casa ansioso di abbracciare la buona vecchia, la cognata ed i figliuolini del fratello, l'ultimo dei quali era nato dopo la sua partenza. La porta della cucina era socchiusa, due fanciullini giocavano insieme seduti dinanzi al focolare, e un terzo dormiva in grembo alla cognata, che ad ogni tratto smetteva di ninnarlo per attizzare gli stecchi sotto un paiuolo che dal fumo e dal borboglío conoscevi presso a bollire. La vecchia col dorso vôlto alla porta e china sulla madia aperta, era affaccendata a far correre lo staccio. Prima ad accorgersi del sopravvenuto fu la cognata, che mise il suo bimbo sullo spazzo e corse ad abbracciarlo. Ei le fe' cenno di starsi cheta, e pian pianino era per gittare le braccia al collo di sua madre, quando questa s'accorse, diè un grido, e, gettato lo staccio, strinse al cuore il suo povero Giacomo. Dimenticarono per buona pezza la polenta, lieti del rivedersi e curiosi di tutto che era passato in quel frattempo. Suo fratello era ito sul monte colla mandria di compare Giovanni, e doveva di giorno in giorno ritornare. Le due donne lo aspettavano pel dì della Madonna, ed erano liete che il caso avesse così per quel giorno solenne riunita tutta la famigliuola. Intanto i fanciullini, che al suo venire s'erano rincantucciati in un angolo del focolare, gli si fecero d'intorno e mescevano anch'essi la loro linguetta a quell'allegro chiacchierare; ei tenne un pezzo fra le braccia il piccino, e lo baciava con quell'affetto con cui avrebbe baciato il fratello. Chiese dei conoscenti, degli amici, del parroco; ma non nominò la Rosa, nè le donne s'attentarono di farlo. Era uno scoglio che tutti tre fuggivano per diverso motivo. Giacomo procurava di mostrarsi gaio: fu solamente durante la cena, che il cuore la vinse. Suo malgrado gli corse la memoria ai giorni precedenti la sua partenza, e impensierito teneva in mano la scodella, senza poter trangugiare il tozzo che meccanicamente aveva imboccato. Le donne si accorsero, e dopo un minuto di silenzio: — Che hai Giacomo? chiese la madre con voce affettuosa. Povero Giacomo! gli occhi gli si fecero grossi, e suo malgrado fu vista luccicare una delle tante lagrime che inghiottiva. — Hai dunque saputo della poveretta? continuò essa. Quest'anno è stato un grand'anno per lei! Noi abbiamo preveduto che doveva finire così. Si affaticava di troppo, massime sul taglio dei fieni: correre ogni giorno fin lassù nei prati di Sorassacco.... — Ma dunque?... diss'egli, e aspettava, come il condannato aspetta la fatale sentenza che deve troncargli il capo. — Dunque è morta? — Morta no! ma gravemente ammalata. Dopochè suo padre si è riammogliato, la poveretta non poteva aver pace con quel demonio della Margherita. Ne pativa d'ogni sorte, finchè finalmente risolse d'andarsene, e prese servigio qui a Cedarzis in casa di quel mandriano, che ha suo figlio muratore in Germania; te lo ricorderai, era della tua età. In quella casa ella lavorava dì e notte per farsi benvolere, e un po' forse per dar torto alla matrigna, che la predicava per una dappoco. La mattina una fornata di pane, ch'e' hanno i dazi, poi l'acqua per la cucina, talvolta un mastello di pezze: a mezzogiorno un boccone, e poi su ne' boschi a legna, e caricava più che alcun'altra; e quando si fecero i fieni, mi diceva qui la Togna, dall'alba alla sera un continuo lavorare, finchè si è buscata la malattia, per cui sono otto giorni che batte la febbre. — E che ne ha detto il medico? chiese Giacomo. — Ho paura che nessuno si sia preso la briga di consultarlo, e forse, soggiugneva la vecchia, sarà meglio; che se la è destinata.... — Oh madre mia! vi prego.... Che ora abbiamo? Non devono essere ancora le dieci, e forse s'io corro in Piano, arrivo prima che il dottore si corichi. — Il dottore? ripigliò Tonina; facilmente, se andate qui da M*** egli c'è ancora. È solito giocar la partita con quei signori che son venuti a prendere le acque, e l'altra sera batteva mezzanotte che ho sentito passare il suo carrettino. — Volo dunque là, disse Giacomo: a rivederci domanmattina. II. Tra i forestieri venuti a bere le acque, c'era una ricca signora di B*** sul primo fiorire dell'età, appariscente piuttosto che no; grandemente amata da' suoi, ell'era da tre anni ammalata e forse vicina al sepolcro. Dopo aver consultato indarno i primi professori dell'arte e ricorso a tutti gl'immaginabili rimedi, furono suggerite a sua madre le acque di Carnia, e la figlia accettò, non perchè le credesse efficaci, ma per compiacere a' suoi cari, e forse nel suo secreto per una trista speranza. Nata di seme italiano, in una città italiana, i suoi genitori avevano creduto di farla distinguere fra tutte le sue coetanee col procurarle un'educazione peregrina, ed a tal fine se la tolsero dal seno, e la mandarono ancor bamboletta in un convento nel cuore della Germania. Povero fiore così acerbamente trapiantato! Lungi dal suo clima e dalla sua terra natale ella crebbe a stento. Aveva sortito da natura un carattere timido, un cuore espansivo e facile all'affetto. Si trovò sola in mezzo a volti stranieri: lungo tempo incompresa suonò per essa la voce umana, e ad uno ad uno morirono sulle sue labbra tutti gli accenti del suo armonioso dialetto. Dicevano che l'uso della stufa, a lei italiana e debole, era stato cagione della malattia che soffriva. Aveva perduto la voce, e tutto faceva dubitare che fosse affetta da tisi. Ella stessa n'era persuasa, e placidamente si rassegnava a lasciare questa bassa terra di guai dove non aveva còlto che dolore; ma per una contraddizione inconcepibile nascondeva a tutti la sua malattia. Pareva che cercasse di velare agli occhi degli altri, ciò ch'era pienamente manifesto a' suoi. Giunta in Carnia, non volle che fosse chiamato per lei il dottore, e la madre fu obbligata ad informarlo in secreto ed a fare che le sue visite fossero come di semplice civiltà, o per l'occasione di altri forestieri alloggiati nello stesso albergo. Se avveniva che una notte avesse tossito più delle altre, o se la mattina guardandosi nello specchio le pareva di essere più sparuta del solito, si chiudeva nella sua camera e ricusava di lasciarsi vedere. Sul tramontare quasi ogni giorno la coglieva un po' di febbriciattola: allora i suoi occhi, per solito muti e come appannati, si animavano, e benchè brillanti di una luce sinistra, apparivano bellissimi; le sue labbra si colorivano d'un rosso vivace traente più al chermisino che al corallo, e le sue gote sempre pallide si facevano serene, e serena mostravasi la sua ampia fronte italiana, ombrata da nitidi folti capelli castagni, che, oltre le tempie lasciati liberi, si avvolgevano in due morbide spire scendenti sulle delicate ma pallide spalle. Il sussulto della febbre le rimetteva nelle vene il brio della giovinezza per lei già perduto, e in quell'ora e tutta la sera parlava volontieri, e le facevano gradita attenzione nel farle visita e giuocare la partita. La madre, poveretta, lusingata dall'affetto, vedeva con piacere queste ore d'ilarità, faceva buon viso a tutti, procurava di farla divertire, e non s'accorgeva di contribuire con ciò a consumare la vita preziosa per conservar la quale avrebbe dato la propria. Il dottore guardava con interesse questa gentile creatura già destinata al sepolcro, e nel vedere che le acque, ch'ella con gran coraggio beveva, lungi dal recarle danno, come in simili disperati casi suole avvenire, pareva anzi che l'avessero alquanto migliorata, nel suo intimo nutriva una lontana lusinga. Quanto avrebb'egli pagato nel veder consolata la povera madre! Non ardiva peraltro palesare questa sua fievole speranza, ma faceva più frequenti le visite; e tutto il tempo che gli era libero la sera, lo passava in loro compagnia, nel pensiero d'osservare più dappresso l'ammalata, di giovarle se fosse stato possibile coll'arte, od almeno colla sua presenza impedire ciò che avrebbe potuto accelerare il punto fatale. Era dunque egli spessissimo da M*** e si fermava fin tardi, come aveva osservato la Tonina; e Giacomo, che diritto corse là a vedere di lui, lo trovò infatti, che già montato in carrettino stava per andarsene. In poche parole narrò il caso della Rosa. Il dottore lo fece salire nel proprio carrettino, e invece d'avviarsi a Piano tenne a mancina verso Cedarzis. Faceva un bel chiaro di luna, ed erano magnifiche quelle montagne vedute così di notte. Tacevano entrambi. Giacomo stanco di quella troppo combattuta giornata, e presso ad un di quei momenti solenni che s'imprimono nell'anima per poi colorare gran parte della nostra futura esistenza, pensava alla Rosa; ma era calma la sua fronte, e il cuore lungi dall'essere agitato batteva placido, e l'aria fresca del torrente gl'irrigava le membra d'una dolcezza tranquilla e soave. Sia che la finita nostra natura non ci permetta le agitazioni del dolore che sino a un punto oltre il quale tornano i nervi nella quiete di prima, o che l'interno dell'uomo rassomigli alla faccia esterna del globo che abita, sulla quale, prima della procella, regna sempre la calma più perfetta, fatto si è che il povero giovane, lontano pochi minuti dalla terribile catastrofe che poteva infrangere la sua anima, si lasciava andare a una soavità di pensieri e ad una pacatezza d'immagini, quasi simile al sopore d'innocente bambino. I pensieri del dottore erano quali da qualche tempo solevano essere ogni sera a quell'ora. Riandava il saluto, gli atti, il portamento, ogni parola della forestiera. Erasi fitto in mente, che la malattia di lei derivasse da più recondita fonte che non si diceva. Quell'ostinato fuggire ogni rimedio, quella sua disperazione di guarire unita alla strana cura di dissimulare e nascondere i propri patimenti, alcune espressioni a cui egli aveva dato un senso assai lontano forse dall'idea di chi le aveva proferite, la malinconia, l'abbandono e un cupo desiderio ch'egli credeva d'aver talvolta sorpreso ne' languenti suoi sguardi, qualche sospiro, qualche istante di astrazione involontaria, tutto questo ingigantito e colorato poeticamente dalla sua fantasia di giovanotto, gli faceva vedere in quella interessante creatura la vittima di qualche tremenda passione. Qual era la spina che s'era fitta in questo cuore di vergine? Amava ella colla veemenza d'un primo affetto forse contrastato, forse illecito? più facilmente, come dicevano i suoi occhi lenti e freddi, avrebb'ella così giovanetta percorso un lungo stadio, e disingannata, piegherebbe la frale esistenza oppressa dal peso dell'umana malizia? La prima volta che la vide restò colpito dal singolare contrasto che la sua educazione faceva coll'esteriore sua forma. Infatti guardando Massimina, chi mai avrebbe immaginato di ritrovare nelle sue labbra, mobilissime come quelle di tutti i meridionali, il barbaro accento e le aspirazioni del settentrione? Anche le sue maniere avevano un non so che di esotico; e v'era ne' suoi detti, nel suo vestire, in ogni suo tratto una tal quale bizzarria, che tuo malgrado ti feriva; ond'egli avvezzo a tutto notomizzare avrebbe voluto squarciar il mistero e contando ad una ad una le fibre di quel cuore, scoprire donde proveniva il veleno che così distruggeva quella macchina gentile. E non s'avvedeva, che i soli cadaveri ponno venir sottomessi a tale disamina, e che a misura che ti avanzi colla face della scienza nella mano, fugge ritrosa la vita, e che se v'ha qualche cosa per cui la sottile osservazione sia un'arte affatto vana, gli è appunto il cuore della donna! Giunsero intanto a Cedarzis, smontarono dinanzi una casetta che Giacomo additò, e picchiato, chiesero della Rosa. La povera fanciulla giaceva in una cameruccia a pian terreno; sul meschino letticciuolo le vesti della malata facevano uffizio di coperta; da più ore niuno era stato a vedere di lei. Era nel delirio della febbre, il suo volto infocato ardeva, le carni inaridite scottavano; non conobbe il dottore, non s'accorse di Giacomo, sempre nella stessa positura cogli occhi impietriti e fisi in un punto continuava a delirare, e le parole tronche e sconnesse uscivano dalla sua bocca tutte di un tuono e senza che mai perciò movesse le labbra. Fu indarno il farle mostrare la lingua: il dottore le prese il braccio per forza, e mentre tacito contava il rapido battere dell'arteria, diede un'occhiata a Giacomo che finì di sconcertarlo. Si pose a scrivere. Prima di terminare la ricetta, si volse alla padrona di casa, e le disse di trovar tosto chi andasse in Piano a farla spedire. — Non basterebbe doman mattina? dimandò quella femmina mezzo assonnata e vogliosa di presto sbrigarsi. — No, rispose il dottore, s'è già anche di troppo ritardato.... e stava per dire alcunchè di brusco: ma guardatala, s'accorse che l'inchiesta non proveniva da cattivo cuore, bensì da quel fatale pregiudizio per cui la maggior parte dei villici riguardano la medicina come scienza inutile. — Non avete alcuno, buona donna, ripigliò egli con voce più mansueta, da mandar tosto alla spezieria? perchè, vedete, questa povera fanciulla è di molto aggravata, e un'ora perduta potrebbe forse decidere della sua vita. — Ma.... diss'ella, son tutti a dormire. — Ebbene! fateli alzare. — Giacomo allora richiamò tutta la sua energia e fece un passo come per proferirsi. — Buon giovanotto! gli disse il dottore che lo intese, monta nel mio carrettino, trotta, ti aspetto qui: forse intanto dechinerà l'accesso, e potrò somministrarle io stesso la prima pillola. Non ringraziò, non rispose Giacomo; ma era già nel calesse e volava. Il dottore fece alcune interrogazioni a quella donna; ma accortosi che ne cavava poco costrutto, si rivolse all'ammalata e tornò a sentirle il polso. La vecchia intanto aggiustò il lucignolo alla candela, poi si assise su di una cassa, e tiratosi il fazzoletto sugli occhi, dormicchiava. La malata continuava nel suo terribile vaneggiamento: solamente, dopochè le si aveva per forza fatto cavare il braccio, all'immobilità di prima aveva sostituito un sinistro movimento, come se, dato una volta l'impulso ai nervi, fosse per lei impossibile di frenarli. Se ne accorse il dottore, e più volte fe' prova di coprirla, ma indarno; ella tornava sempre a quel moto convulsivo, e presentava fuori delle coperte quella mano pallida e tremolante. A tal sintomo, che annunziava in modo così evidente la presenza del sussulto nervoso, scosse il capo il dottore, e tremò di non essere forse più in tempo d'arrestare la tremenda malattia. Concentrato camminava su e giù per la cameretta, gli parve l'aria soffocante, e pensò che negli otto giorni dacchè ella giaceva forse non si erano aperte mai le finestre. Mentre colla mano allontanava la rozza imposta di una di esse, gli corse alle nari un lieve profumo, come di garofano. Era una cassetta con un bel pedale di questo fiore e due bottoni già quasi dischiusi. Ma sbocciavano languidi, ed anche la pianta era imbianchita. Dacchè Rosa giaceva, niuno s'era più ricordato de' suoi fiori, ed essi crescevano all'oscuro, senz'aria e senz'acqua. Nella rude sua vita di fatica e di travaglio, forse quella cassetta era il suo unico sollievo. Forse ell'era un dono dell'amante, e chi sa con quanta gioia avrà veduto spuntare que' due bottoni sperando di adornarsene nella vicina festa della Madonna; ed ahi! pensò il dottore, non fiorivano forse che per venir gettati sulla sua bara. I loro petali scoloriti, il gambo sottile, e quell'esile fragranza che spandevano, tornarono nella mente del dottore un'altra creatura che grandemente li somigliava. Anch'ella pareva cresciuta all'oscuro; la sua giovanezza era come quella di que' garofani, avvizzita prima di sbocciare, senza un soffio d'aura vitale, senza un raggio di sole che la confortasse, senza una stilla di benefico umore che la rinverdisse!... Eppure così languida e così morente, spandeva anch'ella un effluvio di gentilezza che dolcemente rapiva. — Tornò ad osservare la malata. Il rosso infocato delle sue guance cominciava a dar giù, a poco a poco tranquillossi il delirio e il sussulto, e parve come conspersa d'un lieve madore. Di lì a pochi minuti Giacomo di ritorno entrava con in mano la scatola delle pillole. Il dottore guardò l'orologio, e vôlto alla vecchia: — Su, madonna, disse, portate un cucchiaio e una tazza d'acqua. Ma come faremo, continuava, a provvedere che venga bene assistita questa povera fanciulla? Bisognerebbe cambiarla di biancheria, farle del brodo; e qui in casa, o non hanno, o non vorranno, e se ci fidiamo di loro.... Dite, madonna, diss'egli alla femmina che ritornava, chi assisterà quest'oggi la malata? — Che c'è da fare? rispos'ella. — Allora il dottore prese Giacomo in disparte, e restarono intesi di mandar tosto a chiamare una brava donna del villaggio che faceva da levatrice, e che questa assisterebbe la malata, senza che quei di casa s'impicciassero nè punto nè poco. Indi tornato al letto di lei, le fece prendere la pillola. Più non delirava, ma non era peraltro in sè, e mostravasi abbattuta. Giacomo la chiamò più volte per nome; ella non fece che aprire i suoi grandi occhi languenti, lo fisò come mentecatta, e poi di nuovo assopì. Venne intanto la Maddalena, il dottore le diede i suoi ordini, le lasciò il proprio orologio perchè fossero eseguiti colla massima esattezza, e partiva accompagnato da Giacomo, che non sapeva come ringraziarlo, se non col pregare per lui e consecrargli tutto sè stesso. III. Nel dimani, prima che il sole avesse superato le pendici del monte Marianna, Giacomo era di già un'altra volta a Cedarzis. Attraverso frane, grebbani e siepaglie, egli avea tenuto la via più breve, e spuntava sull'altura che cuopre a settentrione il villaggio, quando udì sonare a distesa il campanello che precede la comunione agl'infermi, e poi giù tra il verde vide le torce, la bianca ombrella del Sacramento e una riga di lumi e di donne devote, che col fazzoletto sugli occhi e le mani giunte seguivano pregando ed alternando con voce sottile le litanie al grave salmeggiare del sacerdote e dei pochi che lo accompagnavano. Portavano il Signore alla Rosa. A quella vista sentì nel cuore un subito affetto e un desiderio di preghiere, e corse ad unirsi alla processione, e coll'anima purificata da immenso dolore pregava per lei.... Pregava che il Signore gliela ridonasse! Giunto alla casa del mandriano, entrò il sacerdote con pochi, tra' quali Giacomo. Gli altri s'inginocchiarono sulla via, e pregavano sommessi. Nella cameretta di lei avevano apparecchiato un tavolino coperto da una tovaglia da chiesa con suvvi due candele accese e il secchiello dell'acqua santa; Maddalena, la padrona di casa, Giacomo, il sagrestano, e i due che portavano le torce, inginocchiati facevano corona al letto. La malata aveva sul capo il suo fazzoletto da festa, teneva gli occhi chiusi, le mani giunte, e nella semplicità della sua fede pregava in silenzio. La sua faccia era pallida, abbattuta, ma serena; i graziosi ricciolini che solevano contornarla, ora distesi e negletti volitavano in tenui liste sulle tempie e lungo le guance. Quando sentì la voce grave del sacerdote annunziarle la pace, adunò tutte le sue forze e fece come un moto per sollevarsi incontro al Signore che veniva a visitarla; indi con più divozione strinse le mani, e al chiarore delle torce fu veduta correre sulle bianche sue gote più di una lagrima. Cogli occhi sempre chiusi aprì le labbra pallidissime, e ricevette l'Agnello che toglie i peccati, chinò la fronte, e dentro a sè raccolta pregava con grande affetto. Spensero i lumi e partirono: solo Giacomo era rimasto, e colla faccia nelle palme inginocchiato a' piedi del letto piangeva in silenzio. Di lì a qualche poco Rosa s'accorse di lui. — Giacomo? diss'ella, siete proprio voi? Egli si alzò, ma non poteva proferire parola. — Oh! se sapeste quanto ho pianto per paura di morire senza vedervi! — e gli porse la mano, e quelle mani affettuosamente congiunte più si dicevano di quanto avrebbe saputo la lingua. — Nei giorni passati, continuò Rosa, ho tanto pregato la Vergine e i Santi che vi mettessero in cuore di tornare al vostro paese, e questa notte mi siete comparito in sogno: eravate seduto lì — e additava il posto che Giacomo aveva tenuto durante il suo tremendo delirio; — ero così contenta di vedervi!... Quando mi sono svegliata questa mattina e che mi sono accorta d'aver sognato, ho sentito una tale amarezza!... Non ho potuto tranquillarmi, se non nel momento della comunione. Mi parve allora che il Signore mi promettesse che vi avrei riveduto in paradiso.... Ah! Giacomo, e voi siete qui!... Mi farete una grazia? chies'ella dopo alcuni minuti di silenzio. — Potete credere! disse Giacomo tutto commosso. — Dopochè voi lasciaste il paese, ne ho patite tante.... — So tutto, interruppe egli, mi hanno raccontato.... — Or bene. Mio padre non voleva che venissi qui, e crede che io non lo ami! Gli ho fatto dire che sono ammalata.... — Ed è stato a ritrovarvi? Rosa fe' cenno di no, e le si annebbiarono gli occhi. — Pur troppo morrò senza vederlo! diss'ella dopo un altro momento. Mi dorrebbe, ch'egli credesse ch'io fossi partita da questo mondo serbando rancore contro di lui.... e voi, Giacomo, avete a farmi la grazia d'andarlo a trovare. Gli direte ch'io l'ho sempre amato come quando ero picciola e che viveva la mia povera madre, gli porterete quel po' di danaro che mi viene del mio salario, lo bacerete per me, e voi contategli con quanto dolore vada sotterra priva della sua benedizione e del suo perdono.... — In quella entrò Maddalena con una scodella. Si accorse che la malata era commossa, e non le parve bene; fece viso arcigno, e mentre col cucchiaio andava freddando il brodo. — Bisognerebbe, disse a Giacomo, che arrivaste da Galante per farvi dare quel paio di lenzuola e quella copertina che dicevano ieri sera; e poi qui ci vuole della carne.... — E andava ricordando al giovane diverse faccenduole e spese da farsi tanto da torselo dai piedi. Giacomo intese, e salutata la Rosa, se ne andava. — Ricordatevi di tornare! diss'ella. — Sì! borbottò la Maddalena, faremo un altro piagnisteo, e così la febbre tornerà da capo. La malata prese con molto piacere quel brodo, poscia dolcemente s'addormentò. Quando venne il dottore a visitarla, si mostrò ilare, parlò di buon umore, il suo polso era quasi senza febbre. Verso sera ei fece di nuovo ritorno. Trovò rinnovato l'accesso, ma però dalle riferte della Maddalena capì che il delirio s'era spiegato più tardi e men feroce della sera innanzi. L'ammalata aveva il viso straordinariamente acceso, sicchè pensò all'applicazione delle sanguisughe alle tempie. Tra il mandarle a prendere, l'applicarle, una nuova prescrizione di chinino, e l'insegnare a Maddalena come doveva regolarsi in quella notte e nel dimani, fece sì tardi, che per quella sera dovette rinunziare alla sua solita partita di Arta. IV. Il dì seguente, era domenica; quantunque si fosse innanzi colla stagione, faceva bellissimo tempo, e il dottore con alcuni amici pensò di fare dopopranzo una passeggiata sino alle fonti, e così visitare tutti ad un tratto i suoi ammalati; almeno quelli a cui era permesso di venir soli ad attignere le acque salutari. Quando furono sul ponticello dirimpetto ad Avvosacco, scorsero il bacino circondato di gente; v'erano delle signore sedute sulla panca, e qui e colà tra le ghiaie del torrente apparivano delle brune macchiette di chi andava, di chi veniva, o di chi gironzava, sicchè compresero che non avevano sbagliato, e che tutti com'essi avevano saputo approfittare della lieta giornata. Anche la Massimina era venuta, e la sua toletta, benchè semplice, era alquanto più ricercata del solito. Aveva un vestitino alla religiosa, liscio, di forme svelte, e minutamente quadrigliato bianco e verde, con sul capo a mo' di cuffia una pezzuola di raso nero adorna di trine: una bella dalia fresca color scarlatto, posata con leggiadro capriccio dall'un dei lati, accresceva il pallore di quel volto, ed i suoi occhi quasi sempre abbattuti, or pel contrasto di quel fiore vivacissimo parevano ancora più smorti, e più languidi. Quando vide il dottore fu prima a salutarlo, e la madre in tuono di gentile rimprovero: — Bravo! gli disse. E che fu ieri sera di voi? Noi vi abbiamo aspettato sin tardi.... — Signora, rispos'egli, ho dovuto trattenermi a Cedarzis per una malata — e narrò di Rosa. — Ieri sera, disse un'altra signora, abbiamo progettato una piccola gita, e speriamo che voi pure sarete della brigata. — Si! sì! anch'egli, replicarono due vispe ragazzine, che alla sola idea di già tripudiavano; ed egli deve persuadere a venirci la signora Massimina che fa la ritrosa.... — Ma di che si tratta? chiese il dottore. — Qui la signora N***, disse un giovinotto, ha proposto di far dimani una passeggiata sino a San Pietro.... — Partiremo tutti _in corpore_, continuava un altro, e dopo ammirata e visitata in ogni angolo l'antica cattedrale, ci ritireremo sul praticello dietro la chiesa donde si vede il tramonto, e là, seduti in faccia a quella superba prospettiva, vogliamo goderci una lieta merenduccia. — Il progetto non può essere più bello, rispose il dottore; ma temo di non poterne approfittare, perchè ho molti ammalati; — e guardava Massimina e coll'occhio pareva che la scongiurasse a guardarsi da un simile strapazzo. La povera giovinetta aveva ben compreso che il salire quel monte e l'esporsi all'intemperie d'una cena all'aperto non era piacere per lei, e vi si era rifiutata; ma nella gentilezza della sua anima avrebbe voluto che ne godessero almeno gli altri, sua madre, il dottore, e che nell'andarsene non fossero amareggiati dall'idea ch'ella restava. Perciò mostravasi lieta, e coi più cortesi modi cercava di far sì che il progetto venisse consolidato e che tutti ne approfittassero. Intanto il sole si raccoglieva nel verde degli abeti che incoronano la cima del monte di Fiellis. Era un di quei solenni momenti della natura che si fanno sentire nell'anima. La luce infranta dal folto degli alberi si spandeva più dolce, e i pratelli e i boschi che vestono il dorso delle ridenti montagne dirimpetto a Fiellis, per la fusione delle tinte e per la quietezza del lume apparivano come più freschi. Al di là della via che va a Paluzza, il tratto di fertile campagna che lieve s'inchina da Piano ad Arta era ancora illuminato, e quelle fiorenti biade parevano un tappeto di soffice verzura su cui tranquillo si riposava lo sguardo. A sinistra sulla più elevata pendice l'antica cattedrale col suo coperto di piastre, colle invetriate rutilanti di luce, e coll'ardito campanile che si slancia al cielo come un sublime pensiero, Zuglio più basso tra le rovine, e lungi, dove finiva la vista, Terzo quasi avvolto nella nebbia; a destra Arta candida nel grembo di tre verdi montagne, e Piano ed altre villette sparse qua e là nei punti più fertili della vallata, componevano un quadro, che veduto in quell'ora era veramente magnifico. Aggiugni il torrente le cui acque fragorose spandevano freschezza ed armonia, aggiugni il delicato effluvio dei ciclami misto al profumo di mille piante resinose che ti veniva alle nari con quell'aria sì pura e sì viva, onde senza saperlo tutti sentivano l'influsso della bella natura che li circondava, e la contemplavano assorti in religioso silenzio. Venne a trarneli una _carniela_ che fu udita intonare sulla cima del monte vicino. Non arrivavano a discernere le parole: lor giugneva soltanto la cadenza, e quelle voci giovanili e quelle note semplici e prolungate scendenti dall'alto, e all'aperto, erano una musica ch'entrava nel cuore. Da lì a poco scoprirono due donne che venivano giù per que' grebbani leste e quasi saltando; s'assisero e di nuovo cantavano. Questa volta udivasi chiaro Olin gioldi l'alegrie Come zovins che no sin; Sunerà l'avemarie Dopo muartis che sarin. Sia che quel canto armonizzasse colla disposizione degli animi, e colla gentile malinconia dell'ora, tutti lo trovarono bello, e fuvvi chi osservò come la Carnia, produttrice di acutissimi ingegni, ricca di tradizioni popolari, di memorie nazionali, di ruderi consecrati dalla storia, paese così eminentemente poetico; con un dialetto armonioso, particolarmente in bocca alle sue donne, pure non aveva un poeta. Ella vantava in Francesco Janis un bravo giureconsulto, in Ermagora un riputato antiquario ed elegante latinista, nel conte Camucio vescovo d'Istria e poi patriarca d'Antiochia un illustre teologo, in Floriano Morocutti un insigne letterato e famoso diplomatico, in Dalla Stua un erudito, e non vi era chi con patria canzone avesse celebrato questa bella natura così ricca e così pomposa! Le due montanine erano intanto discese, e s'appressavano anch'esse alla fonte. Con quella ingenuità ch'è loro naturale vennero a ber l'acqua senza soggezione dei signori che ivi erano. Una di esse attinse una tazza e la presentò all'altra, che assaggiatala fece una smorfia e ratto la gettò via. — Diacine! sclamò con quel suo accento provenzale, e questi signori la bevono? — Non vi piace? — Ma sa di ova fracide! e rideva, e maravigliava che si potesse venir sì da lontano per tracannare quella nequizia. E non sarebbe meglio una tazza di buon vino? diceva alla compagna, sbirciando cogli occhi furbetti alcuna di quelle signore, che alla cera sparuta e malaticcia pareva a lei facesse gran fallo a non ristorarsi piuttosto con un bicchierino di quelli che si bevono nei dì di sagra dall'oste di Paluzza. — Non ne avevate mai più bevuta? chiese il dottore. — Mainò, mio bel signore, e spero di non beverne neanche altra. Venendo giù dal monte abbiam veduto qui tanta gente, e c'è venuta la curiosità di sapere anche noi che delizia vi fosse. — Eravate dunque voi altre quelle che cantaste quella bella canzoncina? Esse arrossivano e ridevano. — Or via, fatecene sentire un'altra! — E tutti le pregavano; ma esse guardando quella numerosa comitiva non si sentivano di servir loro di trastullo, e mossero per andarsene. — Dunque, e questa villotta? — Al solo suono dell'acqua Pudia,[1] o signori, non è troppo buon cantare, disse la più maliziosa, e salutando con bel garbo continuarono la loro strada. Anche gli altri pensavano a ritirarsi; si salutarono, e chi per una parte, chi per l'altra s'avviavano alle loro dimore. Il dottore prese la via di Arta, e dava braccio alla madre di Massimina. Giunti al ponticello, s'accorse che la fanciulla era rimasta ultima, e senza riflettere, dopo aver dato mano a passare a più di una di quelle signore, tornò di qua per offrire il suo braccio a lei. Ella vi si appoggiò languidamente, e ristette un minuto come pensierosa a riguardar l'acqua che a gran gorgogli e rapida come il fulmine passava sotto il debole ponticello e faceva traballare le uniche due travi che lo costituivano. A che pensava? Quelle onde concitate e l'una all'altra continuamente succedentisi le rendevano forse immagine della vita? Forse il suo pensiero vagava lungi e ricordavasi di qualche amata persona, o di qualche gioia fuggita come quel rapido torrente? forse per una di quelle bizzarrie che pur sono in natura, compiacevasi, ella così debole e quasi morente, a bilanciarsi sopra il pericolo e da sì fragile riparo a sfidare quell'impeto? — Vi fa paura, madamigella? le chiese il dottore. — Oh no! diss'ella con un quieto sorriso. La mia malattia mi ha da gran tempo avvezza a non temere. Non comprese egli allora tutto il senso di tali parole; e poichè per la prima volta aveva toccato della sua malattia, prese il destro di parlargliene, e l'andava confortando e persuadendo a voler fidarsi ai soccorsi dell'arte, e le narrava di guarigioni ch'egli stesso aveva vedute e di casi assai più disperati del suo. Massimina camminava in silenzio, e pareva come assorta in altri pensieri. Quando furono ad Arta, la madre fece invito ai dottore di entrare; ma egli se ne scusò, e salutati tutti ed affrettando il passo prese la via di Cedarzis. V. Nel dì susseguente, sul far della notte, il dottore passava di nuovo per Arta. Vide lume nelle camere di Massimina, entrò nell'albergo, e gli dissero che tutti i forestieri erano andati a far una gita a San Pietro, e che sola era rimasta colla sua cameriera la giovinetta. Pensò di salutarla, e salì. La camera dove solevano ricevere stava aperta, acceso il lume; ma niuno vi stava. S'assise sul piccolo sofà e attese. Passati alcuni minuti, si alzò, e si pose a camminar forte: l'uscio che metteva nella stanza di lei era semichiuso; suppose ch'ella vi fosse, e continuò a far rumore. Indarno. Gli venne allora in mente che le fosse venuto male, e senza più riflettere spalancò la porta. Non c'era anima viva. Sul tavolo vide la sua calzetta e penna e calamaio e un libricciuolo aperto su cui erasi scritto di recente. Il cuore gli batteva forte: ei faceva una male azione; ma suo malgrado gli occhi gli correvano su quella scrittura minuta e leggera. Ei lesse. Erano memorie vergate dalla fanciulla, erano segreti del suo cuore. Egli coonestava la sua indiscretezza coll'idea che, conoscendo a fondo l'animo di lei, avrebbe potuto forse giovarle. La prima pagina datava dai cinque di gennaio di quell'anno, e diceva così: «........ Mi avevano regalato un bel mazzetto. — Quindici giorni dopo, mio padre, che voleva far aggiustare la stufa della sua camera, mandò un muratore sulla soffitta. Sgombravano macerie, e trovarono ivi nascosta una tazza con acqua limpida ed entrovi un fiorellino di geranio cannella. Chi aveva là portato quel fiore? Chi vel manteneva cangiandogli ogni giorno l'acqua? Una fanciulletta di dieci anni, che i miei genitori hanno raccolta per carità e che si educa nel servigio della casa, aveva rubato quella cannella dal mazzetto che mi era stato regalato. Confessò, e fu gravemente sgridata per aver osato metter le mani nei fiori della sua padrona. Me ne dolse.... e amai quella povera fanciulla, che certo deve aver l'animo gentile. Aveva rubato un fiore! e non dei più brillanti: v'erano dei garofani, delle camelie, ed ella scelse l'esile e pallido fiorellino della cannella. Non se ne adornò il seno, o i capegli, ma lo nascose in luogo sì remoto che non poteva neanche goderne, se non di rado, il profumo. A lei bastava il cangiargli ogni giorno l'acqua e compiacevasi di sapere che, nascosto a tutti, viveva per lei!.... Quando glielo tolsero, divenne rossa rossa e le si gonfiarono gli occhi. Avevano scoperto il suo secreto e troncata la misteriosa simpatia che la legava ad un fiore. Privo di chi lo curasse ei moriva in quel giorno, ed a lei venivano dissipati molti gentili pensieri, candida delizia della fanciulletta sua mente....» Voltò in fretta due o tre fogli, e gli cadde l'occhio sulla seguente _«Memoria funebre._ »Povera Lugrezietta! Così all'udire la precoce tua perdita prorompono coloro che ti conoscevano. Quante delle compagne, che un dì teco scherzavano entro i recinti del chiostro, avran oggi così esclamato! Quelli che non ti conoscevano, allo spettacolo della tua bara, segnata di candida croce, avran chiesto il tuo nome, e all'udire che appena tocco il quarto lustro ti appassivi come un tardo bottoncino di rosa colto dalla bruma invernale, ti avran donato una lagrima di compassione. Povera Lugrezietta!... Volano i giorni, e ratta si dilegua l'orma leggera che tu stampasti nella vita. Breve tempo basterà a seppellire nell'oblio la tua memoria. Lo sconosciuto, che tra i monti del settentrione si commosse ai funerali dell'itala verginetta, forse ha già dimenticato il tuo nome: le tue compagne per pochi giorni ancora ridiranno la dolente istoria intrecciando false novelle alla tua verace sciagura; le antiche vergini, e il venerando nostro padre, egli che pietoso raccolse dalle tue pupille la prima lagrima del pentimento, per pochi giorni ancora ti raccomanderanno a Dio nelle loro preghiere, e quando il dì dei morti verrà a metterti nella lista di coloro che in quest'anno abbandonarono la vita, il tuo nome inscritto sulla nera scheda del coro ridesterà alla lor mente la tua sorte come una dimenticata arietta ci rammenta al riudirla le fuggite idee della fanciullezza. Da qui a dieci, da qui a vent'anni chi più ti ricorderà? Quella stessa madre sconsolata che corse a strignerti al seno per l'ultima volta, e spenta ti depose sul letto funebre, ti avrà allora già dimenticata.... o almeno i ridenti tuoi anni ch'ella vide svanire non le sembreranno più che un bel sogno il cui dileguarsi profondamente rammarica. Povera Lugrezietta! A questa voce di universale compianto io non mesco la mia. Compagna dei tuoi primi anni, conscia delle più segrete ambasce del tuo cuore, come potrei piangere quel sonno profondo che finalmente ti dà pace? Ma di tutte forse le tue amiche io più a lungo serberò la tua memoria. Piacemi la melanconia, è mio diletto la solitudine, ed ha per me voluttà il dolore delle tombe. Giovinetta, tu verrai spesso a farmi compagnia nei silenzi della notte, finchè un fatto simile al tuo me pure addormenti entro la terra dei sepolcri.» Più innanzi così voltando le carte lo percossero queste altre parole: «.... Padova.... Bassano.... Vicenza.... In altri tempi, o con quanto ardore avrei visitato queste belle città! Oggi il mio cuore chiuso aborre le loro allegrie, e rifugge dall'ammirarne i preziosi monumenti. Pochi passi lontana dal villaggio che fu cuna a Canova, io non l'ho ancora visitato.... Io che tante volte piansi all'aspetto dei capi d'opera dell'arti belle, dimani vedrò forse fredda ed insensibile questi marmi che il genio del grand'uomo animò? Non avrò più nel mio petto neppur una scintilla d'entusiasmo? Oppressa dalla sciagura l'anima mia è morta, i miei occhi disseccati non hanno più lacrime, sulle mie labbra non v'è più sorriso....» Il giovane leggeva rapidissimo, avrebbe voluto nell'intuizione d'un minuto percorrer tutte quelle linee; tremava, ed era attento al minimo rumore. Fu più volte per desistere, ma la curiosità lo vinse, e dopo aver deposto il libretto e stato un attimo in orecchie, lo riprese: lo scartabellò tutto velocissimo e lesse quest'ultima pagina: «Oggi appunto compiono quattr'anni. Questo breve spazio di tempo ha operato per me una grande rivoluzione. Ho cangiato paese, il modo di vivere, le persone che mi circondano, perfino il pensiero; anzi mi pare di non ritrovar più me stessa in me.... Avevo penato da principio ad assuefarmi alla vita del chiostro. Parlavano una lingua a me straniera; non c'era una creatura che mi amasse! Sognavo ogni notte i baci di mia madre, le carezze di mio padre, i giuochi e le corse gioite co' miei fratellini. Quell'aria così fredda, quel cielo sempre fosco, quei volti tutti sconosciuti mi agghiacciavano il cuore.... Un po' alla volta mi ci sono avvezza; amai la mia prigione, ed ora il più dolce de' miei piaceri è il rammemorare gli anni infantili ivi passati. — Oggi quattr'anni fu un giorno solenne. L'amica dell'anima mia, Beatrice, dedicavasi a Dio! Ci avevano vestite di bianco. E a molto tempo che noi aspettavamo con ansietà questo giorno, vi ci eravamo apparecchiate colla preghiera e col digiuno: vegliai tutta la notte, piansi e pregai.... Oh se oggi potessi ricordarmi tutti i pensieri di quella vigilia! — Il mio cuore non è più lo stesso. — Parmi ancora sentire la fredda brezza dell'alba e vederne il languido crepuscolo. Le campane sonavano a festa, la chiesa arredata come ne' dì solenni, tutte già alzate le monache, e noi liete correnti pe' chiostri bramose di rivedere finalmente la nostra amata Beatrice. Mi ricordo che mi tolsi all'allegria e prima della funzione mi ritirai sola in coro e pregai per essa.... Oh se io potessi sentire ancora l'affetto di quella preghiera! Era innocente l'anima mia, e la mia voce alzavasi a Dio come la fiamma della lampada perenne che arde dinanzi al suo altare, e mi pareva che fosse accetta. Venne il momento della funzione, tersi la faccia lagrimosa e andai ad unirmi alle altre alunne, che mi aspettavano per accompagnar la novizia. Dacchè aveva cominciato il suo anno di prova, noi non l'avevamo più riveduta. Ci avevano fatte inginocchiare in capitolo con un cereo acceso in mano di rimpetto ai banchi delle monache. I nostri occhi erano volti alla porta: si apre; credevamo fosse lei, era invece la Badessa coi veli rabbassati e tutta chiusa nel suo maestoso ammanto; ella venne a sedersi nella sua cattedra a destra dell'altare. Pochi minuti dopo guidata dalla maestra delle novizie e seguita da due fanciulline coronate di fiori, l'una delle quali portava una ghirlanda di spine, l'altra il Crocefisso, comparve la Bice. Era vestita da un magnifico abito di raso bianco, coi capelli leggiadramente annodati, sul cui nitido nero spiccavano molti brillanti e il prezioso diadema a cui era raccomandato il velo che le ombreggiava le spalle. Era pallida, e in atto modesto teneva chinate al petto le potenti pupille. S'inginocchiò sul damasco che avevano apparecchiato per lei, e dopo breve preghiera, si cominciò a disporre la processione. Portava la croce una giovane monachella che aveva professato l'anno innanzi; seguivano a due a due, colle mani incrociate sotto lo scapolare, le altre suore, ultime le più vecchie; dietro ad esse la Badessa, indi noi accompagnate dalle nostre maestre. A misura che si svolgeva, la processione passava dinanzi al banco dove noi inginocchiate aspettavamo la nostra volta. Così Beatrice, quando mi passò dappresso, potè strignermi una mano, e susurrarmi un affettuoso: _Prega per me!_ Mi balzava il cuore con una commozione che non ispero sentire più mai! Quando entrammo in coro, l'organo suonava devoto e alcune voci come di angeli cantavano il _Veni Sponsa Christi_. Ardevano tutte le lampade e numero infinito di ceri. La chiesa di fuori era piena di gente, ed alcuni curiosi si vedevano affollati alle grate delle finestre che si aprono ai lati dell'altare, e che in quel giorno erano senza cortina. Prendemmo il nostro posto, e la novizia s'inginocchiò nel mezzo del coro sul banco ivi apparecchiato per lei. Tutte le particolarità di quella funzione mi stanno ancora in mente come se vi avessi assistito pur ieri. Vedo la folla dei curiosi dar luogo al Prelato che col suo pastorale e con devote parole chiamava la giovinetta al suo cospetto; la vedo avanzarsi timida, odo la sua protesta, l'ho presente quando si toglieva dalle mani gli anelli e dal collo e dalla testa i brillanti, e calpestava tutti quei muliebri adornanenti; indi le tagliavano i capelli, le velavano il capo ed il mento, la cingevano d'una corona di spine, la vestivano di povera lana, le strignevano i fianchi con una fune; e mentre le monache intonavano un salmo di gioia, mi par ancora vederla tutta lieta correre a baciarle una per una. Ella aveva consumato un gran sacrifizio, e la sua fronte era serena, e da' suoi occhi come da limpido ruscello traspariva la contentezza della sua anima. Dedicavasi a Dio sul più bel fiore della giovanezza, voleva consumare tutta la sua vita nel tempio del Signore come il candido cereo che sull'altare gli arde in olocausto. Tal pensiero allora mi pareva bello e gentile. Sparirono quegli anni di preghiera e d'innocenza, altri palpiti commossero il mio povero cuore, imparai altri affetti.... Ragioni splendenti m'insegnarono a ridere di quel mio primo devoto desiderio; ma queste ragioni non han potuto svellermi dalla memoria quei giorni, e spesso, quando la mia anima geme oppressa dal dolore a cui la sorte mi ha condannata, vedo un coro di pudiche monachelle che salmeggiano nel crepuscolo mattutino: odo le monotone lor voci che in quella solitudine posatamente ripetono le divine parole che a Dio cantavano gl'inspirati profeti, e sento che in mezzo a loro potrei forse ancora aver pace!...» Qualcuno saliva le scale.... Ei getta il libro, ed è in un attimo nell'altra camera seduto sul sofà e, tenendo il respiro, accompagnava coll'orecchio teso quella pedata, finchè udì crocchiare l'uscio in fondo al corridoio. Prese allora il cappello e giù in due salti nel cortile, e poi fuori in istrada. Stava per svoltare l'angolo, quando vede lungo il muricciuolo, che fa parapetto alla via, una figura di donna, e ravvisa la cameriera di Massimina. — Siete voi, Marietta? e la vostra padrona? ei chiese quasi involontario. — Zitto! È uscita, e devo aspettarla qui. — A quest'ora? e dove?... — In quel casale colaggiù. La poverina non mangia nulla: un po' di latte di capra è il meglio che appetisce: qui non ne hanno, ed ora che sono tutti fuori è andata sola a provvederlo in segreto per non far dispiacere ai padroni di casa. — Non le dire di avermi incontrato — e tirò innanzi. La porta del casale era aperta e d'intorno al fuoco si vedevano tre fanciulli cenciosi, una povera donna e l'alta ed elegante figura di Massimina, che dritta in piedi tra quella squallida miseria pareva l'angiolo della consolazione. Il dottore, situato in modo da non essere scoperto, si fermò a guardare. Apparve un vecchio e con passi tremanti le portava un fiasco di latte. Ella lo prese, mise in mano a lui alcune monete ed uscì velocissima. Non vide il dottore che gli avesse dato, ma il vecchio cadeva inginocchioni piangendo e baciava la terra ch'ella aveva toccato coi piedi, e la donna e i fanciulli consolati pregavano per lei. VI. Rosa ogni giorno acquistava vigore. Ell'era in quello stato di convalescenza in cui il corso pericolo fa più preziosa la ricuperata salute, e in cui il cibo ed il sonno divengono così saporiti che sono voluttà. Le cure amorose di Giacomo, la sua compagnia, il perdono del padre che egli le aveva ottenuto, e la speranza di vedersi presto unita a quell'ottimo giovane per cui la gratitudine le accresceva affetto, facevano sì che ella trovasse sempre più dolce e cara la vita. Cominciava ad alzarsi, e il dottore le aveva promesso di lasciarla andare a messa pel dì della Madonna. Giacomo consumava il suo giorno tra la propria famiglia e lei; l'amava ogni dì più, parevagli d'aver egli salvato quella giovine esistenza; il bene ch'ella godeva era suo, viveva in lei ed eragli divenuta cara a misura dei patimenti e delle angosce sofferte. Ma non era lieto.... Aveva dei pensieri pel capo; stava talvolta le ore intere senza proferire parola. Nella sua famiglia pativano di miseria; più volte s'accorse che la cena che le due donne gli riserbavano era cavata dalla lor bocca, e che i fanciulletti stentavano il pane. Erano sparutelli, quasi nudi, ed egli comprendeva i lunghi lor pianti e tristamente gli suonavano nel cuore. Era venuto in paese con qualche soldo di risparmio e con una somma affidatagli dal suo padrone perchè provvedesse legname. Comperò invece polenta pei suoi, provvide ai bisogni di Rosa ed intaccò ciò che non era suo. Sperava alcun poco nella prossima venuta del fratello; ma il suo bel sogno di piantar casa, metter su bottega da legnaiuolo e condur moglie era già quasi svanito. Venne la vigilia della Madonna. Le mandrie scendevano dalla montagna, la via di Paluzza era tutta ingombra. Venivano giù a processioni a processioni, e udivi un continuo tintinnio di quelle infinite campanelle misto al belato delle capre ed al muggire delle stanche giovenche. I pastori affranti da lungo viaggio seguivano lenti quell'immenso torrente di bestiame. Erano tre mesi che mancavano dalle lor case; tre mesi di una vita durata allo scoperto e quasi nomade, e pur su que' volti squallidi e rifiniti dalla fatica vedevi un raggio d'ineffabile allegria. Tornavano alle lor mogli, ai figli, alla famiglia, e dappertutto ti si mostravano donne e fanciulli che lor venivano incontro, e ad ogni istante udivi un dolce salutarsi, e voci piene di affetto e di consolazione. Giacomo col più grandicello dei nipoti era anch'egli sulla via. Ravvisò il fratello da lungi che veniva colla mandria di compare Giovanni, corse ad abbracciarlo; e dopo il reciproco interrogarsi e narrare, continuavano insieme la strada. — Tornano magre quest'anno, osservò Giacomo. — Le capre non c'è tanto male, ma le armente!... disse l'altro: abbiamo dovuto contentarsi delle due prime poste; non è stato possibile a nessuno salire al terzo casone. Ier l'altro, quando siamo partiti, c'era ancora tanto di neve. È stato sì poco caldo quest'anno, che la neve non s'è potuta liquefare. — Anche le biade han sofferto per mancanza di caldo. — Pur troppo sono indietro! Le migliori che ho veduto in tutta la via sono coteste — e additava la campagnuola di Piano. Davvero hai fatto bene a metterti a un mestiere: le annate corrono sì scarse, che in questi nostri monti non si campa. Giacomo si sentiva serrar il cuore. — Ho tanto fatto, continuava l'altro, per conservare queste due armente.... e quest'anno purtroppo prevedo converrà mangiarle. — Non siete andato al monte colle mandrie di compare Giovanni? — Avevo un grosso debito con lui.... e voglia il cielo che le donne non l'abbiano di già rinnovato! — Qui si fece tetro ed ammutirono entrambi. Quando furono a casa la madre narrò tosto della biada provveduta col danaro di Giacomo. Il fratello rimase prima sorpreso, e poi talmente grato e commosso che non rifiniva dai ringraziamenti. — Oh Dio mio! caro Giacomo, andava esclamando, tu mi hai proprio redento! aveva una tal passione di dover far danaro di quelle due bestie.... Ora poi compare Giovanni può nettarsene la bocca! È un pezzo ch'ei fa all'amore alla Beleetta. Sono stato in montagna per lui e vorrei sperare d'aver pagato il mio debito; che se avesse ancora pretese, gli darò il vitellino della Picotta. — E di lì a poco ripigliava: Quest'inverno tu ti fermi in paese, n'è vero? Sposi la Rosa, noi l'ameremo come una sorella, lavoreremo tutti uniti, tu tornerai al mestiere, intanto crescerà la canaglia, e formeremo una famigliuola di grazia di Dio, che ha ad essere una vera benedizione. Tali parole erano coltellate al cuore di Giacomo. Fu più volte per narrargli com'era ita la faccenda; ma al vederlo così contento non gli pativa l'animo di turbarlo. Almeno, ei diceva tra sè, lasciamolo cenare in pace questa sera, e dimani gliela conterò. Andati a dormire, Giacomo pensava a' suoi casi. Non potè serrar occhio in tutta la notte; pentivasi di non aver subito detto che quel danaro non era suo, pentivasi di averlo toccato. D'altra parte gli sanguinava il cuore all'idea di dover privare la sua povera famigliuola di quelle due mucche unico bene che possedeva, e gli si presentavano alla mente i nipotini nudi, chiedenti pane, e udiva quei pianti prolungati ch'ei bene sapeva che valessero. Vedeva sua madre malaticcia, cadente, strascinar nell'indigenza di tutti gli ultimi giorni; e Rosa? Avrebb'egli avuto cuore di sposarla così, senza avere di che mantenerla? Farla stentare come la sua povera cognata? E se un suo figlio, un biondino delicato e tenerello, amore d'entrambi, avesse dovuto piangere, com'egli si ricordava di aver udito quelli di suo fratello? Ah, ch'ei voleva piuttosto patire tutta la sua vita, ma patir solo! Risolse dunque di lasciarla, d'essere galantuomo, e di compensare col lavoro delle sue braccia il dolore e il sacrifizio ch'era nella necessità d'imporre alla sua povera famiglia. Si alzò con questo proponimento, e rassettatosi del suo meglio andò a Cedarzis per accompagnare a messa la Rosa. La trovò già pronta. — Andiamo fino a Fiellis? interrogò essa tosto che lo vide. — Appunto, è sagra colassù quest'oggi; ma per voi sarà forse troppo lontano.... — Oh sono quattro passi! Fa una giornata di paradiso, e poi io sto così bene.... E mossero entrambi alla volta di Fiellis. Rosa infatti aveva bella cera, quantunque non fosse più così rossa nè così fresca come prima che ammalasse. La sua tinta s'era fatta più chiara, i suoi begli occhi neri non avevano riacquistato tutto il loro splendore: erano un po' languidi, parevano più lenti, e quando poi si fisavano su Giacomo avevano un non so che di così affettuoso, di così soave.... la gratitudine e la semplicità del suo amore vi tralucevano come da limpido specchio. Anche la sua voce aveva perduto quel brio e quel correre degli anni fanciulleschi, s'era fatta più mite, e dava più di rado in iscrosci di risa; invece una tinta di leggiadria malinconica ne ingentiliva il colore. Pareva insomma che la natura si fosse compiaciuta di gettare su lei risanata un candido velo dalle cui pieghe leggere traspariva più graziosa la splendida Rosa di prima. Arrivarono a Fiellis proprio sul punto che s'incominciava la messa. Il Prevosto apparato solennemente era già sull'altare, fumavano gli incensi, e di mezzo a quella nube azzurrina alzavasi un _Kirie_ devoto cantato d'alcuni semplici montagnuoli, che non intendevano quelle greche antichissime parole consecrate dal culto; ma le cui voci erano pure come la fede che professavano. La chiesa era zeppa di gente, che ti offriva un contrasto singolare. In quella remota villetta posata sulla cima della montagna, come il nido dell'avoltoio, nel verde di quegli abeti che paiono inaccessibili all'uomo, od almeno tanto lontani dallo strepito del mondo civilizzato che t'immagineresti d'esser finalmente nel grembo della natura ancora vergine ed intatta, tra le mura di quella rustica chiesetta, dinanzi all'altare povero d'arredi e di cera, e non ornato che di fiori campestri, vedevi una moltitudine di giovinotti in guarnacchino di velluto con calzoni attillati, coi capelli alla _renaissance_ e col fare e coi modi cittadineschi. Fiellis, come la maggior parte delle ville della Carnia, manda la sua gioventù a vivere fuori di paese, ed il mestiere che a preferenza si scelgono è il sarto. Appena son essi in istato di camminare da sè, emigrano, vanno a Venezia, in quelle lucide botteghe imparano a trattar l'ago e le forbici, e ritornano coi costumi e coi vestiti affatto disformi. Il dì della Madonna ne aveva richiamati molti, e lì li vedevi malamente contrastare col rozzo vestire e co' modi ingenui delle lor madri e sorelle. Se a questa messa solenne qui cantata avesse assistito quel tale che dimandava, perchè la Carnia non aveva un poeta, la risposta veniva assai facile. Dall'epoca in che il superbo despota romano obbligò i Carni ad emigrare, continua ancora il tristo costume. Lasciano essi i lor monti e consumano gli anni dell'affetto nel tumulto cittadino, indi ritornano a profanare la semplice lor patria coi vizi della società, e Dio li ha puniti, e non hanno un poeta. — Rosa cogli occhi fisi nella sacra funzione faceva correre i grani del rosario che le pendeva dalle mani piamente incrociate. Giacomo non poteva pregare, era distratto, inquieto: andava pensando al modo di tenerle discorso della sua risoluzione. Fin dalla mattina aveva fermato di farlo nell'accompagnarla a casa; ma ora che il punto si avvicinava, avrebbe voluto trovar qualche pretesto per poterlo ancora protrarre. Come mai dirle ch'ei la lasciava? Quali parole avrebbero potuto mitigare il dolore di questo abbandono? Ah! ell'era guarita, era sì bella, e non doveva esser più sua! Uscirono di chiesa, e il povero giovane nell'offrirle l'acqua benedetta tremava tutto e si sentiva mancare. Sulla piazzetta c'erano altre donne state a messa, conoscenti della Rosa, che la salutarono e si congratulavano con lei risanata: fecero un po' di strada in compagnia. Egli era impaziente, avrebbe voluto che andassero, e temeva di restar solo. La fanciulla s'accorse di qualche cosa ch'ei le avesse a dire, e come se fosse stanca lasciò andar innanzi le altre e si sedette: ma a Giacomo la parola non veniva. Stettero un pezzo ivi seduti cogli occhi fisi nella magnifica prospettiva che lor s'apriva dinanzi e che forse non vedevano nè l'uno nè l'altra. Ripresero il cammino, ed egli guardando giù fiso una svolta del viottolo ch'entrava in un boschetto di giovani abeti, e si propose di non passar quel sito, senza aver parlato. Quando vi giunsero, fe' cenno di sostare. — Ma non sono mica stanca, disse la fanciulla. — Sediamoci, Rosa, ho voglia di parlarvi.... ed esitava. Voi sapete se io vi voglio bene!... E si fisavano entrambi, e il lungo loro sguardo diceva più delle parole. Eppure, continuava egli, io deggio lasciarti!... — Ma perchè? — Povera Rosa! Non piangete Rosa; vi dirò tutto, e poi farò quello che voi vorrete; anzi intendo di metter la cosa nelle vostre mani. Or bene. Io son venuto in paese con qualche soldo; ma non erano tutti miei: doveva provvedere una zattera di legname. I miei pativan fame... In poche parole, io non ho più il danaro; e se voglio essere galantuomo, bisogna che obblighi mio fratello a vendere le nostre armente, che sono quanto possediamo. Mia madre è vecchia infermiccia.... a casa sono tre fanciulli che dimandano pane.... Fa d'uopo ch'io ritorni al mestiere per compensarli del sacrifizio che fanno. Voi Rosa potete campare colle vostre fatiche.... — E non possiamo lavorare tutti insieme? diss'ella prendendogli la mano. Ci ha ad essere provvidenza anche per noi! — Sì: ma le mie braccia sono vendute per fin che avrò pagato! E se laggiù doveste patire di fame? Ed io esservi lontano.... e non potervi aiutare?.... — Or bene, tornate al mestiere, lavorate, e io vi aspetterò.... — No, Rosa! è d'uopo ch'io vi ritorni la vostra libertà. Potrebbe presentarvisi una buona occasione; e non è giusto che la perdiate per aspettare un poveretto che non può offrirvi se non la miseria! — Ah! sclamò Rosa, ho capito, non mi volete più bene! — Che dite mai? Sa il cielo se io vi amo! Non vi voglio, perchè non ho cuore di farvi stentare.... perchè possiate esser felice con altri!... Ma la fanciulla piangeva più che mai amaramente, e a lui, che tentava rabbonirla e toglierle dagli occhi il grembiule, voltava le spalle e colle mani lo respingeva. — Quietatevi, Rosa! Le vostre lacrime mi fanno male al cuore.... via, siate buona, e capitemi.... — Eh vi ho capito, sì! diss'ella. Tornerete via, e un'altra vi farà ben presto dimenticare di me.... Era ben meglio lasciarmi morire! — Ma se vi ho detto che non voglio fare se non quello che voi volete! — Dunque non parlate più di lasciarmi. — E vorreste star così impegnata!... — Sicuro! — E se non mi fosse possibile ritornarne prima di altri tre anni?... — Magari dieci! O vostra, o di nessuno. — O mia Rosa, sclamava egli, amiamoci dunque sempre! E sorgevano entrambi, e continuavano la via alquanto racconsolati dal vicendevole loro amore. VII. Pareva a Giacomo d'essersi tolta dal cuore una montagna di piombo, tanto il colloquio tenuto colla Rosa lo avea consolato. Lasciatala a Cedarzis, ei mosse verso casa con passo più celere. Trovò sua madre intenta al desinare; suo fratello e sua cognata non erano ancora ritornati da messa. Fu contento di trovar lei sola, e tosto le narrò ogni cosa. La buona donna, che si avrebbe cavato il sangue dalle vene per veder felici i suoi figli, cominciò a dargli coraggio, e a dolcemente rimproverarlo per non aver prima chiarito la faccenda; poichè, diceva essa, a quest'ora si sarebbe già ripiegato, e tu saresti fuori di pena. Intanto vennero anche gli altri, e insieme concertarono di ricorrere a compare Giovanni, il quale, nella speranza di far suo l'armento, avrebbe volentieri prestato il denaro. Giacomo poi si sarebbe affrettato di ritornare al mestiere, dove col suo assiduo lavoro poteva in breve coprir questo debito, indi ripatriare e sposarsi la Rosa. Così stabilito, desinarono lieti, e poscia il giovane cominciò subito a darsi le mani attorno. Fra la scelta e la compera del legname, l'approntare la zattera e due o tre corse fino a Paluzza per causa di compare Giovanni, che in quest'affare voleva camminare coi piè di piombo, il povero giovinotto consumò tutta la settimana, senza che gli restasse tempo di andar a vedere la Rosa. Questa lo aspettava ogni sera coll'impazienza propria degl'innamorati, e non vedendolo mai, cominciò ad immalinconire. Riandava tutte le parole del lor ultimo abboccamento, e ogni giorno più parevale intravedere il pensiero d'abbandonarla. A principio scacciava tale idea come una tentazione, si rimproverava d'ingratitudine. Quel povero giovane aveva tanto fatto per lei, che il sospettarlo così le pareva ingiustizia; ma un po' alla volta il mal umore offuscò tutte queste ragioni, ed ella trovavasi misera, afflitta, e assai più malata di quando giaceva. Sul tramonto, quando aveva spacciate le sue faccende, mettevasi a filare sulla porta della casetta. Guardava ansiosa verso Arta, una lieve speranza la rincorava; ma a misura che mancava la luce, ogni speranza svaniva. Traeva sempre più lenta le agugliate; le mani le cadevano, sentivasi serrare il cuore e finiva col ritrarsi a piangere nel suo povero letticciuolo. Venne finalmente il sabbato sera, e Giacomo, benchè fosse stanco per molte corse che aveva dovuto fare, capitò a Cedarzis a vedere di lei. La fanciulla lo accolse malinconica, per altro non si lagnò. Era venuto: ciò valeva per essa più di qualunque scusa, e quando ei le prese la mano e fisandola con affettuosa premura pareva ricercare il perchè di quella sua malinconia, ella gli aveva già ampiamente perdonato, e il racconto che fece degli impicci che lo avevano impedito di venire, non servì che ad accrescerle il rammarico d'averlo ingiustamente sospettato, sicchè procurava di compensarlo con più di affetto. Parlarono a lungo, il tempo volava per essi graditamente, e l'idea di doversi presto separare veniva addolcita dal proponimento di patire, e di affaticarsi l'uno per amore dell'altro. Disse Giacomo del come aveva aggiustate le sue faccende; disse ancora come a forza di reiterate corse e preghiere aveva ottenuto, che tra le molte zattere in quella settimana approntate fosse prima a partire la sua, e che perciò gli conveniva darle in quella sera l'ultimo addio, mentre nel dimani per tempo avrebbe dovuto trovarsi alla sega a lanciare il legname e a seguirlo.... — Dimani?... chiese Rosa, e restò come perturbata. Era domenica, e pareva a lei trista cosa profanare colla fatica il dì consecrato al Signore. — Altrimenti avrei dovuto aspettare ancora molti giorni.... Gli è per grazia che vengono dimani al mulino.... — Ma non sarebbe stato possibile lunedì? — Lunedì, martedì e tutta questa settimana saranno lanciate quelle che furono messe in pronto prima della mia, e niuno certamente vorrebbe cedermi la sua volta. — Avete fatto gran fallo, diss'ella dopo alcuni minuti di silenzio, a non pensarvi prima. Questo vostro partire in giorno di festa io l'ho per cattivo augurio — e si mise di nuovo in malinconia. — Ma non si lavora mica dimani. La zattera è già bella e apparecchiata, non v'è che a lanciarla, e prima potete credere bene che anderemo a messa. — Qui Rosa lasciò cadere una lacrima. Il povero giovane era mortificato, avrebbe voluto persuaderla, togliere quest'ubbia, rasserenarla: ma le parole non gli venivano. Una voce segreta nel profondo del cuore gli ripeteva invece ch'ella aveva pur troppo ragione. Intanto si faceva tardi, la luna era comparsa sull'alto della montagna di Cedarzis; si avvicinava il momento di separarsi, ed entrambi consumavano in silenzio i pochi minuti che loro restavano: eppure avevano ancora mille cose da dirsi. Ella stava appoggiata all'uno degli stipiti della porta col capo chino e quasi nascosto in seno, e colle mani teneva la cordella del grembiule e così soprappensiero l'andava facendo a piccole pieghine. Pareva la fiammella della candela di cera, quando sul primo accendersi arde così languida e debolina, che non sai se voglia mancare, o rompere il dubbioso silenzio e dar su rinvigorita e potente. — Dunque?... diss'egli, ed allungò una mano come per prendere quella di Rosa. Gliela strinse la fanciulla e poi se la posò sul cuore, e — Or via, rispondeva riscossa e rinfrancata, or via, non ci lasciamo così! — E qui tutti due esilarati tornarono a parlare del loro amore, finchè finalmente si venne all'addio. — Mi vorrete dunque sempre bene? chies'ella per ultimo. — Che domanda! borbottò Giacomo, e mosse per andarsene, ed ella lenta lo accompagnava alcuni passi. Si salutarono e poi ancora camminavano insieme un altro poco. La luna impicciolita ed alta splendeva a perpendicolo sul loro capo. Si strinsero per l'estrema volta la mano, e poi Rosa a tutta corsa ritornava: si sedette sul limine della porta, e accucciolata e tutta in sè ristretta posò la fronte nelle mani e stette un istante; il core le batteva che parea volesse schiantarsi, surse e andò sul suo povero letticciuolo a pascersi di lacrime e di dolore. VIII. Cinque miglia più in su di Paluzza, dove comincia la terra tedesca e dove cessano le verdi montagne che fiancheggiano il canal di San Pietro, nel mezzo, come per confine, sta un monte di aspetto severo. Aspro e selvaggio ei sorge solitario: non un filo di erba, non un arbusto sulle dirupate sue spalle. La roccia, stagliata a perpendicolo, ha la forma di un muro che termina in tre orride punte, di cui la mezzana s'inalza fin nella regione delle nubi, ed è tanto inclinata sul dinanzi che par sia lì per piombare sul sottoposto villaggio. Là sopra, dietro quell'immane padiglione di pietra, avvi un laghetto la cui faccia tranquilla mantiensi sempre allo stesso livello. Le sue rive son coperte di freschissimo verde che fa in quell'altezza una serie di ridenti pratelli, seminati di fiori e di fraghe il cui delizioso profumo scende talora a consolare le valli circonvicine e il profondo torrente. Alla metà di questa rupe, dalla parte di mezzogiorno, s'apre una caverna in forma di O, da cui coll'impeto della folgore sgorga la But. Nè per siccità di cielo, nè per arsura di stagione giammai vien meno, ed è tanta la foga del suo scaturire, che per lungo tratto la vedi correre spumante e bianca come calce in bollitura, e chi su per le valanghe, che continuamente cadono scosse dal monte, s'inerpica a vederne dappresso la sorgente, sente sotto a' piedi il tremito della terra convulsa. Eppure l'ardito montanaro si serve di questo impetuoso torrente per esportare i legnami, e qui e colà lungo il suo letto vedi a tal uopo eretti degli edifizi. Spesso nelle piene ella li riversa, e l'uomo di nuovo li ricostruisce. Il piede delle montagne che fanno sponda è in più luoghi corroso, in più luoghi l'alveo scende ripido, ed è aspro di ciottoli smisurati e di cretaglie a cui d'intorno fan vortice le acque e sono continuo pericolo alle zattere che osano percorrere quella via. Nella piena del 1823, quando il Moscardo, ingrossato dall'immensa congerie di pietre che sfranavano dalla montagna di Silverio, ruppe dirimpetto a Cleulis e vuotò il lago che per dieci anni aveva coperto le campagne di Timao, oltre a molti altri guai, furono rovesciati il mulino e la sega che sorgevano a piedi di San Pietro, e lungo tempo la But corse in quella direzione sicchè ne risentirono danno anche le fonti salutari che nascono là dappresso. Or essa ha di nuovo ripreso l'antica sua via, e vedi asciutto il solco profondo che vi fece e dirupata la montagna che lì forma una ripida gradinata, il cui ultimo ciglio è gremito di giovani abeti, dietro il cupo verde de' quali, il sole della sera fa ridere un piano pratello che si stende in semicerchio e su cui basa a guisa di piramide il monte di Fiellis. Più volte Massimina, quando veniva a bere le acque e sedevasi sulla panca del fonte, guardava a quella ricca verdura. Oh s'ella avesse potuto salire colassù! ammirare da di là il bel paese che le stava d'intorno! Le pareva così fresca quell'erbetta, così soave quell'aria ch'ella vedea tremolare tra quelle frondi, ed il suo cuore appassito avea tanto bisogno di freschezza e di riposo! Se in quell'amena solitudine ell'avesse potuto passeggiare a bell'agio, sedersi e respirare e bevere di quell'atmosfera così nitida, forse i suoi polmoni si sarebbero esilarati, e scosso il peso che a guisa d'incubo da tre anni l'opprimeva. Ma ella si sentiva debole, malata: per venire sin lì avea messe in opera tutte le sue forze, non poteva neppur raccogliere tanto fiato da rispondere a chi la salutava; attraversare le ghiaie del torrente, arrampicarsi per quel dirupo era fatica che non osava, e indarno gliene mettevano vaghezza gli anni giovanili non ancora domati dalla sua tremenda malattia. Spesso, fitta in tal pensiero, ella stava le ore intere colla tazza in mano e cogli occhi in quel verde, e guardava con accorato desiderio, e non udiva i discorsi di chi le sedeva dappresso, e talvolta neppure la parola a lei diretta. Una mattina (era di domenica) alzossi prima del consueto e scese alla chiesa per udirvi la messa. Dopo questa doveva celebrare e predicare il Prevosto. La madre di Massimina desiderava fermarvisi, ma vedendo affollarsi la gente e temendo che a lei potesse nuocere, si levò. La giovinetta intese, le disse all'orecchio restasse, ch'ella intanto andava a far colazione, e fe' segno a Marietta che la seguisse. Bevette con piacere il suo caffè col latte; il sole splendeva limpido, neppur un filo di aria turbava il sereno di quella bellissima e tepida giornata: prese il suo ombrellino e s'avviò sola verso le fonti. Era più ilare del solito e camminò senza fatica tutto quel tratto di via. Stette buona pezza seduta sul margine del bacino, che a quell'ora era affatto solitario. Attinse l'acqua salutare proprio dove limpida come argento liquefatto zampilla dal terreno, bevette, e si rinfrescò con essa il volto e le mani. Godeva diguazzare, e cogliere i sassolini ch'ella copre di zolfo a guisa di candida peluria. Godeva seguire cogli occhi le mille giravolte del ruscelletto, e udirne il lene mormorío. I suoi pensieri erano lieti come la brezza leggera che vien giù colle acque della But, come l'effluvio che a lei mandavano i fiori de' circonvicini pratelli. Giù per la riva di Arta vide discendere alcun che di bruno; le parve persona che ivi dirigesse il passo, e come disturbata surse per isfuggirla. — Vi sono momenti nei quali si sta così bene soli! Si sente come un bisogno di abbandonarsi interamente all'aria e alla terra che ne circonda: i nostri pensieri, i nostri affetti ci corrono sulla faccia, e i più reconditi secreti dell'anima, come l'immagine nel vetro, vi si dipingono tanto nudi che lo sguardo anche di un caro sarebbe allora importuno. Massimina, quasi senza accorgersi, mosse verso il monte. Fosse il desiderio di sfuggire quell'incontro, o che il tepore della bella giornata e il bevere dell'acqua l'avessero rinfrancata, attraversò le ghiaie senza fatica, e saliva con coraggio il viottolo, e le pareva di averselo figurato assai più ripido di quel ch'era difatti. Giunse sul praticello, e nell'ombra degli abeti che gli fanno siepe sedette su di un sasso, e nascosta in quel verde contemplava la magnifica scena che le si apriva in cospetto. Piano, guardato da quel punto appariva evidentemente fabbricato su di un terreno d'alluvione. Dalle gole che s'internano tra la montagna del Cucco e quella che tutta sfranata gli sorge di rincontro e protende i grebbani della fronte come tanti denti di lupo, si precipita un'immensa congerie di materia calcare che forma i rialzi del villaggio, e abbasso con declivio più dolce la fertile campagna che si stende sino al torrente. Ivi la vegetazione è rigogliosa e l'occhio si posa volentieri su' rotondi e morbidi noci che qui e colà sorgono di mezzo ai seminati, e sul verde oscuro dei mille colossali abeti che a guisa di tende compariscono schierati sulla via di Paluzza e con bizzarra linea chiudono a settentrione il ridente dei campi. Massimina non poteva saziarsi di mirare, e l'orrido ossame del Cucco, che gigantesco s'inalza colle sue creste puntite sulle floride montagne del canale, le pareva una vecchia invidiosa che con occhio losco guardasse alla danza d'una compagnia di vergini. Intanto, la persona ch'ella aveva veduto scendere nel torrente, dalla riva di Arta giugneva alla fontana. Era una bionda contadina con sul dorso una gerla piena di bottiglie. La posò presso alla panca, poi cavatene alcune le sciacquava e le metteva in piedi sulle pietre del bacino. Vistasi sola, lasciò lì la gerla con tutte le bottiglie, e per la ghiaia si dirizzava quasi correndo al ponticello di Piano. Alla sega sotto il villaggio era in pronto una zattera, e Massimina distingueva benissimo cinque o sei uomini che si travagliavano per lanciarla, e udiva i colpi di martello e lo scassinare dei pali che le toglievano d'innanzi. Già erano montati due in punta, tre dietro, e coi remi ricurvi a guisa di falce stavano pronti per tenerla in mezzo e difenderla ed equilibrarla tra le rocce sporgenti e le cretaglie del ripido alveo. È liberata; vola come strale dall'arco giù per le acque rapidissime; vola, e i giovani han tutta abbandonata la persona sull'agile remo, e vedi le loro svelte figure delinearsi or sul verde dell'opposta riva, or sul bianco delle ghiaie. Giungono al ponte; a corpo morto si gettano boccone, passano, saltano in piedi e son di nuovo all'opra. Svoltavano uno degli angoli più pericolosi; per isfuggire un vortice che menava dritto in alcuni massi, le cui schiene acuminate sporgevano come punte di scure, tennero un po' troppo a mancina, e non videro una donna che lì proprio sotto la ripa stava lavando alcuni cenci. Era domenica, non immaginavano che fosse, ed ella, fidata nel dì festivo, non temeva le zattere. Quando se ne accorsero, non erano più in tempo di schivarla, e la pigliarono sotto colla gerla, col vassoio e con tutte le sue pezze. Quell'intoppo li portò di netto ad un'altra punta, il mezzo della zattera si sollevò, croccarono le travi, la furia della corrente terminò di squarciarla, e fatta in pezzi andò per lungo tratto battendo d'una riva nell'altra, finchè affatto disciolta correvano e travi e tavole come tante paglie per l'acqua. Giacomo fu il primo a salvarsi; spiccò un salto su d'un masso, e di là coll'aiuto del remo si lanciò sulle ghiaie. Due de' suoi compagni furono rotolati lunga pezza, finchè finalmente, arrampicandosi alle sponde, poterono anch'essi uscire; un altro diede colla fronte in un macigno, e disparve tingendo di sangue l'onda che lo travolse. Fu tratta viva a terra la donna, benchè mal concia da molte percosse; e l'ultimo, nel mezzo del fiume aggrappato ad un sasso, metteva tutta la sua forza per non cedere alle ondate, che gli si rompevano sul dorso. Gridavano: si tenesse fermo finchè potessero venirgli in aiuto; ma, o che le mani aggranchite più non reggessero allo sforzo, o che gli entrasse lusinga di poter solo salvarsi nuotando, si lasciò andare, e in un attimo fu gettato nello scoglio, e sfracellato. Al caso orribile alzarono un urlo i compagni, e Massimina spaventata, come se il suo accorrere avesse potuto aiutarli, scendeva in gran fretta, senza più ricordarsi della sua debile salute. Dall'altra parte, colle mani nei capegli e piangendo e gridando tornava di tutta corsa alla fontana anche la contadina che lì avea lasciato la gerla. Essa era in tale stato d'angoscia, che non s'accorse della signora, e inginocchiata sul fonte, mentre procacciava d'empiere i fiaschi, cogli occhi pieni di lagrime non vedeva che si facesse, e rompeva di continuo in questo singhiozzo: — Oh Dio mio! Oh Dio mio! — Quegl'infelici vi appartenevano? chiese Massimina. — Oh no! diss'ella, cioè, sì signora.... Ah ch'egli s'è accoppato! L'han tratto fuori che non aveva più figura d'uomo. Vergine santissima! — e nascondeva il volto nelle mani. Massimina piangeva con lei. — Era festa quest'oggi! Dovevano rispettare la festa! Ah! che il cuore mel disse ieri sera quando venne a darmi l'ultimo addio. Ora: un d'essi accoppato.... quella donna rovinata.... ed egli? egli.... tutto perduto! — e tornava a chinar la fronte nelle palme. — Or via poverina, non vi disperate così! e faceva di rialzarla, e quando l'ebbe seduta sulla panca, le s'assise dappresso, la teneva abbracciata, e piangevano insieme. Poi l'aiutò ad attignere e a collocare nella gerla le bottiglie, indi a caricarsene le spalle. Tornavano ad Arta, e strada facendo la fanciulla narrò alla pietosa signora tutti i particolari della disgrazia. Per dare un ultimo addio a Giacomo, alzatasi prima dell'alba, ella aveva pregato un'altra ragazza facesse per lei in quella mattina il servigio della casa, e in cambio era venuta ad attignere quei fiaschi per alcuni ammalati di Tolmezzo, e così vederlo partire. Poveretta! Fu spettatrice invece dell'orribile disastro che toglieva a lui due de' suoi compagni, tutto il suo avere, ed ogni speranza per sempre ad entrambi. Ad Arta, Rosa immersa nell'angoscia continuò la lunga sua via, e Massimina commossa, conturbata entrò nell'albergo, salì le scale, si chiuse nella sua camera, e rifiutò di lasciarsi vedere per tutto il restante del giorno. IX. Oramai la maggior parte dei forastieri, che erano in Carnia per le acque, pensavano a partire, e la madre di Massimina riceveva ogni giorno visite, or dall'uno or dall'altro, che prima d'andarsene venivano a salutarla. Contenti quasi tutti di quell'aria balsamica e di quelle fonti veramente prodigiose, coll'aspetto della salute e colla loro allegria crescevano a lei il rammarico del poco o quasi nessuno profitto della sua povera figlietta. Fra gli altri, chi più le destava invidia, era un giovine di sedici anni venuto lì in Arta dopo di lei, e in sì miserabile stato, che il dottore credette prudenza consigliarlo a non voler neanche tentar quelle acque, che per la loro troppa efficacia potevano riescirgli fatali. Ma egli, a cui tutti i rimedi erano fino allora tornati vani, si ostinò alla prova di quest'ultimo, e contro ogni aspettazione cominciò a migliorare. Aveva racquistato il sonno e l'appetito, i suoi occhi impietriti s'erano svegliati, e quando prima di ripatriare venne a riverire la signora, le sue guance rifiorite promettevano in breve perfetta la guarigione. Quanta gioia per i suoi genitori nel rivederlo così mutato! Lo avevano mandato tra quei monti esile, moribondo, forse senza neanche speranza di riabbracciarlo, e tornava come una bella rosa rinfrescata dalla rugiada. Ella invece tra pochi giorni avrebbe ricondotta al padre la sua Massimina più pallida di prima, col dolore di non aver più nulla a tentare, e nella sola aspettazione di vederla soccombere. Infatti la fanciulla da alcuni giorni era tornata a tutti i suoi soliti patimenti. Stava quasi sempre chiusa in camera, e nel suo malinconico silenzio pareva dimandasse di partire per rivedere ancora una volta il suo paese, e morire tra le braccia de' suoi. L'aria della montagna aveva cominciato a farsi rigida e la mattina e la sera non permetteva più di uscire, senza molto riparo di vesti. Anche le acque diventate fredde piombavano sullo stomaco come una massa di pietra, e Massimina da due giorni ricusava di beverne. Allora la madre a malincuore, come chi si vede costretto a rinunziare a speranza lungamente vagheggiata, risolse di ritornarsene a casa. La sera, in presenza della fanciulla, ordinò al padrone dell'albergo una carrozza per portarsi in un villaggio vicino a far visita di congedo a una buona signora del paese, sua antica conoscenza, che, durante la loro dimora in Arta, era stata più volte a farle cortese compagnia. Parve che Massimina accogliesse con piacere questa gita; ma nel dimani mattina ella stava così male, aveva tanto tossito tutta la notte, era sì pallida ed abbattuta, che la madre non osò neppur proporle di accompagnarla. Col cuore raggruppato baciò in fronte la sua povera creatura, e si mise in carrozza quasi piangendo. Rimasta sola Massimina, si chiuse nella sua camera, aprì l'armadio e cominciò a cavarne vestiti, biancheria, libri e a tutto disporre per la partenza. Ma era così svogliata! Ogni qual tratto si sedeva, affisava languida languida il pavimento, e colle mani abbandonate in grembo stava lunga pezza come assorta in tristi pensieri. Poi di nuovo tornava in traccia or di quest'oggetto, or di quello, e li apparecchiava in fila sul letto, perchè la Marietta trovasse più facile l'allestire i bauli. Aprì la sua cassettina da lavoro, riordinava gomitoli, forbici, ditale, metteva a suo luogo quei mille nonnulla indispensabili alla donna, quando le venne tra le mani la busta delle sue gioie: sorrise d'averla portata lì in Carnia, indi pensierosa tornò ad assidersi, e guardava la sua bella collana, gli orecchini, le smaniglie. Era ancora in semplice sottanino, e sulle spalle per ripararsi dal freddo aveva gettato una mantiglia color grigio perla che in altri tempi le avea servito per uscire dal ballo, e che ora disusata strapazzava per camera. Tornò col pensiero a quando per la prima volta, adorna di quelle gioie, ella lasciava la festa coperta da quella stessa mantiglia allora elegante. Col gomito posato sul tavolo velava colle dita bianchissime gli occhi semichiusi, e le sue labbra abbandonate ad un lieve sorriso, e la sua mesta fronte inchinata, da cui scendevano in vago disordine i lunghi capelli non ancora pettinati, le davano sembianza d'una delle _Malinconie_ di Natale Schiavoni. Rifaceva colla memoria tutti i pensieri di quella sera. Sul primo fiore degli anni, elegantemente abbigliata, ella aveva danzato e sorriso: mille sguardi di ammirazione l'avevano dolcemente applaudita, s'era sentita bella, e il suo cuore di fanciulla aveva balzato di emozioni ignote in allora, ma così vive e soavi, che col solo ricordarsene ne sentiva ancora l'oscillazione. Quando assisa nel suo cocchio ella tornava a casa per la notte stellata, la sua anima piena di vita si slanciava nell'avvenire con più impeto di quello con cui i suoi giovani cavalli divoravano la via. Erano passati tre anni. Quante illusioni svanite in sì breve spazio di tempo! Oramai una alla volta l'erano morte in cuore tutte le speranze della giovanezza. A que' bei sogni dorati era successo il disinganno; pochi passi lontana dal sepolcro, ella quasi vi si gettava contenta per riposare dall'aspra via a cui la sorte l'avea condannata. Surse, e meccanicamente si cinse al collo i diamanti e poi serrò sui polsi i manigli: le andavano larghi. Alzò il braccio, e si guardava quella mano pallida e quasi trasparente che pareva di cera. Si affacciò allo specchio. Oh come cangiata! Le sembrava d'esser appena l'ombra di sè stessa. Si posò la destra sul cuore, e mentre ne contava i palpiti pensò: tra poco dormiremo! E s'immaginava d'esser distesa sul suo letto di morte, attorniata da' suoi cari, e di ordinare che le mettessero intorno quelle gioie a cui stavano legate tante memorie della sua vita passata, e pensava l'ultimo addio, e le lagrime della sua povera madre.... Ma già in questo mondo ella pativa troppo! e dinanzi al trono di Dio avrebbe tanto pregato per lei, che la si sarebbe finalmente racconsolata. E continuava colla mesta fantasia a figurarsi la pompa funebre, il canto freddo e posato dei sacerdoti, tanti volti sconosciuti, che sarebbero venuti a vederla, tanti di persone amate, e allora indifferenti.... e le passavano dinanzi tutte le fisonomie di cui si ricordava, e per caso anche quella della giovane contadina al cui dolore pochi giorni prima ella aveva tanto compatito. Pensò: Anch'essa così giovane e così infelice! Come lampo improvviso le si affacciò allora un'idea. Non avrebb'ella potuto rimediare alla disgrazia da cui era stata colpita? fare la felicità di due poveri sfortunati?.... assumere per essi le veci della Provvidenza?... per quei pochi giorni che ancora le restavano, privarsi d'una memoria anche cara, e donare ad altri quel bene ch'ella non potea più godere? Ah sì! Consolare quelle due afflitte creature, aprir loro i tesori dell'amore, vivere benedetta nella loro memoria, le parve in quel momento gioia tale da compensare le molte sue lacrime! Prese un foglio di carta, e scrisse rapidissima una letterina al dottore che diceva così: «Mi preme di parlar con voi. Fatemi la cortesia di venir subito. — Massimina.» Poi chiamò la Marietta, le diede il foglio, e le disse di tornar a vestirla e pettinarla. Il dottore appena l'ebbe in mano che ravvisò i caratteri, e l'aprì involontariamente agitato. Che mai poteva volere?... Prese il cappello, e fantasticando si mise sulla via di Arta. Arrivò all'albergo. — La signorina vi aspetta nella sua camera, — gli disse Marietta tosto che lo vide, e gli fece balzare il cuore con un tremito di cui non sapeva rendersi conto. Trovò Massimina seduta sul sofà. Vestiva un semplice accappatoio a fondo bianco, chiuso con nodi rosati. Era assai sparuta, e in mezzo al suo visibile soffrire lo salutò con un lieto sorriso, e nella sua gratitudine gli rivolse uno sguardo pieno d'affetto, ma così puro e così giovanile, ch'ei non potè a meno di non paragonarla a un di que' freschi germogli, che sul finire d'ottobre mette talvolta il rosaio, la cui fragile e dilicata tessitura e il verde malaticcio ci richiamano con un mesto desiderio alla stagione che passa. — Perdonate, dottore, diss'ella, se ho ardito disturbarvi. Ma voi mi sembrate così buono.... e mi avete inspirato tanta confidenza.... — Se fosse vero!... Se io potessi in qualche maniera esservi utile.... — Anzi voi solo.... E continuava con una specie di timidezza, che suo malgrado le colorava le guance. — Ho approfittato di questo momento che la mamma è fuori.... Il dottore, che pieno delle sue idee era già assai innanzi, e credeva di capir la cose a mezz'aria, appressò la sedia, e fisandola con rispettoso affetto: — Gli è un pezzo, disse, che io vi osservo.... Le mie cognizioni sono scarse, Madamigella, ma l'interesse che voi mi destate!... Se voi voleste accettarmi per vostro amico, e come a tale aprirmi il vostro cuore.... dirmi tutti i vostri patimenti.... Credete: il morale ha grande influenza sul fisico.... e io non sono di quelli che prescrivono di dimenticare. Vi sono dei dolori che l'anima non può dimenticare! e l'ostinarsi a chiuderli dentro di noi, lungi dall'esser rimedio, è rovina: giova invece confidarli all'amicizia, trovar chi sappia piangere con noi.... La povera fanciulla s'era fatta bianca bianca, teneva chinati gli occhi, e avrebbe voluto poter troncare un discorso ch'ella aveva bene involontariamente provocato, e che a guisa di ferro in piaga ancora aperta le rincrudiva il patire. Quando credette di poter parlare, senza che le sgorgassero le lacrime: — Non si tratta di me, disse con un suono di voce che aveva del mesto e del rassegnato insieme. In quanto a me, credo già fissa la mia sorte, nè se anche il potessi, vorrei cangiarla.... Oh no, no! Io ho già compíta la mia carriera. L'arte vostra potrebbe forse restituirmi la vita.... ma, a che mi varrebbe senza le dolci illusioni che la fanno bella? Scosse la testa, come se volesse scacciarne qualche pensiero, poi ricomponendosi: — Vedete dottore, io vi ho chiamato qui, soggiunse, perchè mi aiutiate a procurarmi un piacere.... Un piacere che mi compensa dei mali che soffro.... — e titubando girava tra le mani la busta delle gioie. — Voi avete salvato la vita a una bella ragazza di questo paese, che io ho poi veduta l'altro giorno assai misera.... — La fidanzata, interruppe il dottore, di quel disgraziato che ha perduto domenica?... — Sì, la Rosa. In quel giorno abbiamo fatto amicizia insieme. Queste gioie io non le porterò più.... Avevo pensato che me ne adornassero quando sarò morta, ma è meglio che servano alla felicità di quei due poveri giovani.... Pregheranno per me!.... — E vorreste?... — Ch'essi godano quel bene che io non posso. — Oh signora! sclamò il dottore, e nell'impeto della sua ammirazione allungava la mano per prendere una delle sue e baciargliela. — Tenetemi il segreto, gli disse la fanciulla mettendogli in pugno la busta, e ricordatevi che vi siete profferto d'essermi amico! E alzatasi si ritirava nella cameretta contigua. L'indomani il dottore colla Rosa e con Giacomo tornava ad Arta per presentarli alla loro benefattrice. I due giovani erano fuori di sè per la gioia, e non vedevano l'ora di gettarsi a' piedi dell'angelo celeste, che senza conoscerli aveva loro fatto tanto bene. Giunsero all'albergo, chiesero di lei.... Era partita da due ore. Rivolti verso il Friuli piangevano e pregavano, e il Signore li avrà certamente ascoltati. II. PRETE POCO, BIOGRAFIA. Pre-poco, così chiamavasi per dileggio un povero prete che visse cinquanta e più anni nella nostra parrocchia, una creatura che pareva nata per essere il paria della società, tant'era il disprezzo di cui fu colmato tutto il tempo della lunga sua vita. Sono ora due anni ch'egli riposa nel cimitero, e sarebbe difficile trovare il suo tumulo, ch'egli non ha lasciato alcuno che lo bagnasse di lagrime, o che vi spargesse un fiore od una preghiera. Visse non consolato d'amicizia nessuna, nè lasciò eredità di affetti. Ho visitata per caso la piccola cameruccia ch'egli abitava. Chiusa tra quelle quattro mura come in una scatola di pietra visse anni e anni un'anima, e pensava, e i suoi pensieri non sono caduti in nessun'altra anima: simili a ruscello che rientra in sè stesso, simili a favilla che si spegne in grembo alla stessa cenere dove fu accesa, essi sono nati e morti nel cranio di cotest'uomo senza che nessuno li scrutasse. Chi sa quali gioie romite, quai sogni, quai fantasmi ei vide dispiegarsi l'un dopo l'altro sulle brune pareti di questa povera cameretta! Chi sa quai dolori, e quante lacrime furono qui versate! È una notte freddissima: dalle fessure degli usci e dalle impòste delle finestre s'ode un sibilo acuto: è il vento di dicembre che turbinando percorre la nuda campagna e a grandi ondate viene a rompersi nelle muraglie. Mi sono svegliata, ho acceso il lume e in queste ore di solitudine e di sonno il pensiero mi dipinge la vita di questo povero prete. Nel rammemorarlo e investigarne le azioni e gli affetti, nel rintracciare, per così dire, il solco leggiero ch'egli ha lasciato su questa terra dalla quale scomparve, io provo una specie di piacere. La nostra anima gode nel contemplare le opere del Creatore; e sia che fermiamo lo sguardo sovra gli animali, sulle piante, sulle reliquie del passato, o sovra noi stessi, ci disfavillano da per tutto i raggi della sua sapienza; e colui che ritrasse nel marmo una fanciullina che raccolte sulla spiaggia del mare alcune conchiglie ne appressa una all'udito come in atto di spiarne la tenuissima vita, ci ha dato un'idea giusta di questa secreta compiacenza che emana dall'osservazione. Mentre seduta sul mio letto io sto qui delineando questa specie di bizzarra biografia, è facile che nessuna altr'anima si ricordi di lui. Eppure per più di cinquant'anni fu veduto invariabilmente intervenire alle sacre funzioni. Sempre nello stesso posto, cogli stessi arredi, questa figura singolare era l'ultima fra i ministri della Chiesa, e portava senza mai alterare la sua pacata fisonomia il disprezzo di che veniva continuamente caricato. Quand'io dopo sette anni di assenza ritornava dal collegio, trovai mutato il parroco, altri gli accoliti; le fanciulline mie coetanee, abbandonati i banchi della dottrina, sparse per la chiesa come tanti bei fiori già sbocciati, od altre in lor vece le cui fisonomie non aveva più mai vedute, e mille volti nuovi, e que' che brillavan per giovinezza già appassiti, ed altri dispersi, e tutta quasi la popolazione cangiata. Solo quest'uomo era rimasto immobile al suo posto. Sette anni volati sul suo capo non avevano fatto che leggermente più pallida la sua faccia, e più bianchi i suoi radi capelli, e un po' più grigia la sua vecchia sottana. Pareva che il tempo avesse solamente scolorata la forma, del resto come i pilastri dell'altare, come le statue che ne lo adornano, fra tanti rivolgimenti egli era ancora lo stesso. Vestito della còtta più gualcita e più povera, sia che uscisse dalla sacristia portando l'incensiere, o che a piedi dell'altare inginocchiato servisse la Messa, o che dopo la funzione dietro la turba dei preti attraversasse la navata di mezzo, i suoi occhi continuamente avvallati non guardavano che la terra, o, per meglio dire, pareva che immobili a tutti gli oggetti circostanti non avessero più la forza di accorne l'immagine. Anche la sua voce era in disaccordo cogli altri suoni come quella di un sordo per cui tutta la natura è muta. Quando nei vespri della Domenica cantava, al suo solito, l'ultima delle Antifone, le parole rotte, ineguali e in un accento come straniero, parevano il suono di una campana appesa a sterminata altezza a cui un vento furioso rapisce la voce appena creata. Avresti detto che dinanzi alla mente di quell'uomo stava fitta una memoria di altri luoghi, e di altri tempi, e che alle sue orecchie suonavano altre armonie, per cui era impotente a mettersi all'unisono della realtà che lo circondava. Era come l'assetato di Dante che in mezzo ai tormenti dell'inferno vedeva continuo i freschi pratelli e i rivoletti del Casentino. Ma quali esser potevano coteste memorie? Era venuto ad abitar qui fin dalla sua prima giovinezza, nè più mai dopo, che si sappia, uscì di parrocchia. Menava una vita precisamente di chiesa e casa. Un suo zio che gli aveva fatto il patrimonio, e che morì cappellano del villaggio, gli aveva lasciato in eredità alcuni campi e la casuccia dov'era la cameretta in cui dimorava. Nessuno gli prestò mai il minimo servigio. Viveva, come il più austero anacoreta, di erbaggi senza condire, o di qualche frutto, o di patate e di rape ch'egli solo abbrustolava sul suo picciolo caminetto. Nessuno gli vide mai in dosso un abito nuovo. Quelli che portava, erano di sì vecchia data e cotanto smontati di colore, che lo avresti preso per uno di quegli antichi ritratti dei nostri nonni, a cui il tempo ha rosicchiate le tinte. Dormiva su di un saccone di paglia, ed aveva un tal guanciale che meglio una pietra. Quella casuccia dov'egli abitava, è situata quasi dietro la chiesa nel vicolo più deserto e più melanconico del villaggio. Non vede quasi mai sole; e di questa stagione solamente dopo mezzo giorno, quando egli ha superato il culmine della chiesa, le getta una zona di luce che si rompe in angolo dall'ombra del campanile. Io mi ricordo d'averlo veduto una volta che sedeva leggendo sul breve pianerottolo a cui appoggia la scala esterna di legno, che mette nella sua camera; aveva gli occhiali; scoperta la fronte: pareva che fosse profondamente assorto, non tanto nella lettura, come in qualche grande pensiero ch'ella gli avesse risvegliato; e nella sua faccia pallida, e nelle sue labbra semiaperte ed immobili v'era un senso di tranquillo dolore, come quello d'un uomo che ha ricevuto un gran torto di cui sdegna lagnarsi, o di chi tradito dalla fortuna senta morirsi in cuore una speranza lungamente vagheggiata. Mi par ancora di vedere in cima a quella rozza scaletta quella figura meditabonda, quell'ampio librone e il dolce riverbero del sole che dorava la muraglia. La fantasia me ne dipinge un quadro colla sottoscritta — _annos eternos in mente habui_. La quaresima insegnava catechismo ai fanciulli, e anche via per l'anno nelle Domeniche dopo la messa parrocchiale addottrinava i più bamboli, assisteva immancabilmente a tutte le funzioni, eccetto a funerali ed a quelle dov'è annessa limosina; per altro, se moriva un mendico, era questo prete che sulla sua fossa pregava per carità. Non celebrava: e narravano che lo avesse fatto solo otto giorni quando fu consacrato sacerdote, e un'altra volta in un'epoca più tarda per condiscendere al parroco defunto, uomo di rara pietà e santa discrezione che fra noi ha lasciato una memoria ogni giorni più benedetta e più cara; ma poi fu veduto restituire la limosina ai devoti che gli avevano commesso il sacrificio, e quando si lasciò ridurre a nuovamente dir messa, si accostò all'altare tremando, patì tanto, e pianse, ed era così annichilito, che il buon parroco non glie ne parlò più mai, avendo compreso che era pena superiore alle sue forze. Talvolta il Giovedì santo s'accostava alla comunione cogli altri sacerdoti. Più sparuto del solito, egli veniva all'altare in atto così umile e così contrito, che non era possibile guardarlo senza sentirne commozione. Pareva che compreso della sua nullità si tenesse indegno d'appartenere al clero, o che la memoria gli rinfacciasse qualche gran colpa commessa, o che nel suo cuore ci fosse qualche tremenda passione cui non valevano a domare nè gli anni, nè li patimenti, nè la vita orribile a cui si era spontaneamente condannato. Presso il volgo, questo suo non dir messa, e non essere mai progredito d'un passo nella carriera sacerdotale, gli valeva dispregio: aggiungi che la gente giudica spesso dall'esterno anche la capacità morale; ed egli esile e meschino della persona, vestito all'antica, di panni scolorati, con un rancido cappello ch'era sempre lo stesso, senza amici od aderenze di sorta, si era guadagnato il soprannome di Pre-poco, e veniva pubblicamente canzonato, e la sua vita austera si diceva sordida avarizia, e nessuno si faceva scrupolo di deriderlo e recargli molestia. Dopo la morte del parroco suo protettore, questi dispregi crebbero a tale, ch'ei più non comparve in canonica nei giorni d'invito al clero, come soleva per lo innanzi. Forse ch'egli comprese, che la sua età avanzata, il suo silenzio, la sua costante malinconia lo rendevano esoso, e potevano turbare il lieto umore degli altri; e visse più solitario e più ritirato. Vi fu perfino chi negli ultimi suoi anni, quando perduto ogni vigore, infermiccio e cadente strascinavasi a stento alla chiesa, e il tremolante suo capo pareva implorare il riposo del sepolcro, vi fu chi ardì deriderlo in un'oscena canzone, che cantavasi per le vie, e forse ferì le orecchie del vecchio moribondo. Questa fu l'ultima goccia del tremendo suo calice! e allora che disteso sulla paglia del suo miserabile giaciglio chiese di venir consolato da quel Signore ch'è padre anche degli sfortunati, fu visto raccogliere tutte le sue forze per inginocchiarsi a riceverlo, e stese la mano a' suoi offensori, e pregò pace e perdono a tutti i fratelli; quella pace e quel perdono che a lui gli uomini non concessero. Oh! se quel tale avesse meco visitata la sua cameretta pochi giorni dopo la sua morte, ed avesse letto sulla sua scrivania, tra le pagine d'una vecchia bibbia che appariva in più luoghi logorata, questa nota scritta di suo pugno fin dagli anni suoi giovanili, come rilevasi dalla data 1784! «Per guarire.... »Alzarmi invariabilmente ogni giorno alle quattro del mattino: »Recitare l'Uffizio, leggere un capo del Kempis, poi due ore di meditazione, indi in Chiesa ad assistere alla Santa Messa. »Nei giorni che non si fa dottrina, e il tempo che avanza dalle funzioni sacre occuparmi in qualche lettura divota. »Dopo pranzo studiare la bibbia, poi di nuovo due ore di meditazione. »La sera leggere in ginocchio sino alle dieci. »A mezza notte alzarmi per recitare i salmi e piangere a' piedi del Crocifisso.» Oh! se avesse veduto dinanzi al suo oratorio logorato il suolo a forza di starvi inginocchiato, e cangiato il colore del tavolino su cui era piantata la croce dalle tante lacrime versate, e avesse pensato un momento all'anima che visse lì sepolta cinquanta e più anni, e lottò tutto quel tempo contro un pensiero od un affetto che doveva essere più potente della sua volontà.... oh! invece di deriderlo, l'avrebbe facilmente compianto! Negli scaffali della sua libreria v'erano molte opere de' Santi Padri, v'era la Somma dell'Angelico, le _Confessioni_ di Sant'Agostino, v'era un piccolo libercoletto tutto sdrucito, la Lettera di San Girolamo a Nepoziano. Vidi un libro di conti dove appariva che tutti i suoi risparmi servirono ad estinguere un debito incontrato dallo zio per mantenerlo nel collegio de' Somaschi a Cividale, e per costituirgli il patrimonio. Pochi giorni prima della sua morte, si parlava in paese di un lascito alla Compagnia di Gesù, per cui diventava probabile che se ne erigesse in Cividale una Casa; e sul suo oratorio era spiegata una copia della famosa bolla di Clemente XIV. V'era in più luoghi di suo pugno sul muro inciso il nome di Premariaco villaggio del quale egli era oriundo. Ciò mi fece venir l'idea di visitarlo. Partii sull'alba della mattina susseguente. Attraversava le liete prateríe che si stendono all'oriente delle colline di Buttrio, udiva il fremito del Nadisone che le taglia, senza poter vederne le acque, chè l'alveo scende lì assai profondo e le rive gremite di erba dinanzi alla vista si uniscono e fanno tutta una spianata. Il villaggio è ameno per molta verzura, e per le tante selvette di pioppi che fanno argine alle acque. Due passi fuori dell'abitato sta un piccolo ponte eretto su due macigni che si sporgono incontro, e tra cui sepolto come in un abisso, passa mugghiando con grand'impeto tutto il torrente. Ei viene dall'antica Cividale dritto come freccia. Presso Premariaco si frange ad un creto, s'allarga e forma una spezie d'oasi di ghiaja minutissima che fa parer più verdi le macchie dei giunchi silvestri, e dei saliceti onde è cinta; poi fatto un angolo acuto e tutto in sè ristretto, si precipita sotto il ponte e si perde in mille zampilli tra un'immensa congerie di cretaglia ch'egli ha smosso dalle sponde e che per lungo tratto ingombra il suo letto. Que' grebbani si dispiegano alla vista in forme svariate e bizzarre. Surgono alcuni in piramide, altri pendenti dalle rive paiono pronti a precipitare: ve n'ha di piatti, pensili sull'onda sotto cui s'interna ampio cavo che pare una grotta, altri, piombati nel mezzo, fanno isolette su cui vive ancora qualche annosa pioppa che nella caduta s'è piegata e con parte dei rami lambe la corrente. Uno ve n'è nel bel mezzo che s'erge come campanile ed ha la testa forata, e sulla pigna cresce un virgulto; altri tutti nudi ed irti di punte stanno accavalciati ed infranti, e le acque chiuse nel loro grembo formano pozzi che dal cupo verdastro giudichi profondissimi. I nativi chiamano questo luogo _Businot_, nome che in friulano indica l'assordante fragore che manda, e i qui nutriti hanno nella loro pronunzia alcun che dell'aspro di cotesto fragore. Pre-poco ne conservò l'accento fino alla morte. Non gli valse a dimenticarlo nè la lunga dimora in Coteggio, nè la vita menata tutta fuori di patria. Quest'uomo che qui ha passato gli anni della sua prima gioventù, che avrà mille volte errato a diporto su coteste rive e custodito il gregge pei pratelli che le inghirlandano, che nella sua oscura cameretta su tutte le pareti ne segnava il nome, facilmente doveva aversele sempre dinanzi. Qui forse egli gustò qualche rapida gioia che gli si volse in lutto dall'ambizione di chi gli strappò di mano la verga per sostituirgli la penna. Guardando dal ponte l'umile casuccia dov'egli nacque, pensai alle speranze tradite de' suoi poveri genitori. Era figlio unico. — Avranno raggranellato tutti i loro risparmi per unirli a quelli dello zio, e farne un giorno o l'altro un bravo piovano presso cui trarne nell'opulenza gli ultimi loro anni. Donna Tomasa sua madre chi sa quanti bei sogni avrà fatto, quando sel vide la prima volta dinanzi vestito degli abiti clericali! Doveva essere stata un'epoca, nella quale questo povero prete tanto disprezzato brillava per leggiadria e lindura, e forse anche per acutezza d'ingegno. Rivelavano il primo le stesse sdruscite sue vesti non mai rinnovate, poichè faceva d'uopo che fosse assai ricco il suo mobile, se durò quasi sessant'anni; in quanto al secondo, nato contadino fu posto in un collegio rinomato, disse messa giovanissimo, e i libri che leggeva bastano a farci comprendere che la sua mente doveva valere alcun che di più dello zero. Una catastrofe successe in quest'anima che tarpò tutti i suoi voli, e la ridusse ad aspettare la fine senza più fare un passo nella vita. Vi sono degli uomini che sanno vivere a seconda degli eventi, che cangiano amici ed opinioni colla stessa facilità con cui si cangia di camicia; degli uomini che tengono schiava la fortuna, e che in ogni posto del mondo sanno crearsi un Eden che li circonda di beni; ma ve n'ha anche degli altri il cuore dei quali una volta piagato non guarisce più mai, e per cui un affetto è come un destino. Il mondo li chiama pazzi. Questa parola toglie di più vederne i patimenti, ed è come la pietra che si getta in bocca al sepolcro e che nasconde il cadavere. Forse il mondo ha ragione, ma mi perdonerà, se io li compiango. III. LA NIPOTE DEL PARROCO. Se tu avessi visitato nel 18... il villaggio di B***, una figura singolare ti colpiva. Era una giovinetta di diciotto anni, di civile condizione, che rimasta orfana, viveva coll'unico suo parente, il venerando parroco di B***. Ei l'aveva raccolta fin dagli anni più teneri, ed affezionatosi alla fragile creatura, non aveva potuto distaccarsene neppure in vista di procurarle un'educazione più adatta al suo sesso ed alla sua nascita. Sacerdote interamente dedicato ai doveri del suo ministero, in una campagna abitata da soli contadini, se ne eccettui le due o tre famiglie signorili che venivano a far vendemmia a B*** o in quei dintorni, come poteva egli intendere all'educazione d'una fanciulletta? Le insegnò a leggere, a scrivere, qualche regola di morale, qualcuna di economia: del resto ella filava, o cuciva grossolanamente una camicia. Non sapeva di trapunti, non di musica, e tranne l'animo gentile per natura, e fatto più gentile dalle scelte pagine che lo nutrivano, la sua educazione era affatto semplice, anzi quasi contadinesca. L'autunno, in grazia dello zio, uomo venerando, la cui memoria dura ancora in benedizione, veniva ammessa nelle famiglie dei signori. Que' due mesi, in cui ella godeva della società, era accarezzata dalle dame, saggiava i modi cittadineschi, partecipava alla musica, alle danze, ai conviti, alle partite di piacere, non erano i più belli del suo anno. In que' due mesi era costretta a rinunziare a tutte le sue gradite consuetudini: mille catene suo malgrado la costringevano, ed i piaceri che in cambio le si offerivano, non valevano per lei la vita solitaria sì, ma liberissima a cui era avvezza. Aggiugni, che il suo amor proprio restava spesso offeso dall'orgoglio con che quelle signore spiegavano a lei dinanzi tutta la pompa delle loro mode. Ella vestita di semplice tela, ella coi capegli costantemente ad una foggia annodati, senza gioielli, adorna solo di qualche fiore campestre, ignara dei modi e delle gentili costumanze del vivere cittadino, in que' convegni era straniera, era come un fiore di prato posto a morire nella calda serra dove fiorisce la pomposa camelia. Non le cadde però mai in pensiero d'imitare le fogge in che brillavano quelle galanti damine, contentavasi della vesticciuola fina, ch'ella stessa aveva filato, e del suo rozzo cappellino di paglia. Eppure quella figura sì umile non era la meno interessante del crocchio. Tuo malgrado fra tante belle donne ti si fermava involontario lo sguardo su quella giovine testa così semplice, e nello stesso tempo così affettuosa. Orfana dai primi anni, avvezza al dolore, malaticcia, la sua fisonomia aveva un non so che di malinconico, e il candore della sua pelle faceva aggradevole contrasto colla nerezza delle sue chiome e co' suoi grandi occhi pensosi. Ma non era in una stanza riccamente addobbata, non era tra gli specchi, e i mobili eleganti, e i fiori, e le seriche cortine, che bisognava vedere Adelina. La solitudine dei campi, e la rusticità d'una capanna facevano più adeguata cornice a quest'ingenua figura. Bisognava vederla nella canonica dello zio quando riceveva le visite dei curati dei contorni, e faceva gli onori della casa. Lì era a suo agio; lieta del piacere che sentiva il buon vecchio nell'essere visitato da' suoi amici, la vedevi far loro accoglienza co' modi i più schietti e i più cortesi. Lì presentava della bottiglia, faceva colle sue mani un caffè così fresco ed aromatico, ch'era passato in proverbio. Bisognava vederla quando, partiti i signori, sedeva in fila colle giovani contadine al chiaro della luna, e con quelle sue mani picciolette filava, filava un lino, le cui finissime agugliate non avevano pari. Talor cantava in coro le villotte del paese, e fra tutte quelle voci argentine distinguevasi la sua per una tinta di soave malinconia ch'era anche ne' suoi sguardi, nel pallor della sua fronte, nell'espressione delle labbra, in tutti i suoi moti. Bisognava vederla, quando, raccolti i lembi della leggera sua gonna, errava pei campi scegliendo erbette salubri ed odorosi funghi, e quando armata d'una canna, alla cui estremità faceva rete candido velo, inseguiva pei prati le mille farfallette di che va ricca la nostra primavera. Ma se poi l'avessi veduta sul fare dell'alba ritornare dall'aver visitato un vecchio mendico, o un qualche malato in lontano casolare, oh allora bisognava confessare, che anche Adelina era bella! Ella soleva levarsi assai per tempo, spillava una botticella di limpido cividino, o di vecchio piccolit, metteva la bottiglia in un suo forzierino, vi aggiungeva alcune picce di candido pane, talvolta dello zucchero, del caffè, od altre siffatte provvigioni, e postosi in capo il suo leggiadro cappellino, ed impugnata una verghetta, via pei campi lesta lesta, e solitaria arrivava alla capannuccia del misero, come l'angelo consolatore, e prima che fosse surto il sole era già di ritorno. Molti anni dipoi i contadini di quei contorni narravano ancora mille di questi tratti. Ma dov'era allora la buona fanciulla? Sposa fortunata, e madre di figli amabili come lei, godeva ella forse il premio dovuto al suo cuore pietoso? Nessun lo sapeva. Da quel paese era disparsa; e solo durava la memoria di lei, come la fragranza del garofano che una mano indiscreta recise, come il raggio che fa bionda la neve delle nostre montagne molte ore dopo che il sole è tramontato.... IV. IL REFRATTARIO. Mancava un'ora al levare del sole, e sulle ghiaie del torrente dietro i colli di Oleis, spuntava un giovanotto avvolto in uno oscuro pastrano col cappello calcato sugli occhi, guardingo e quasi sospettoso. Era gonfio il torrente, la barca legata all'altra riva, deserto il paese. Ei fisò il guardo sulle rovine del castello dei conti di Manzano che di là dalle acque gli sorgevano di faccia sulla prima delle fertili colline che da settentrione a levante chiudono la bella vallata di B***. Vide le creste dei negri murazzi che incominciavano a rosseggiare, tornò indietro, e con rapidi passi rasentava il torrente fin là dov'ei freme profondissimo fra due muraglie d'indomabil cretaglia. Evvi un sito dove le sponde han franato, e l'un sull'altro in immensa congerie giacciono i sassi e riempiono il letto sicchè da lungi odi il fragor dell'onda adirata. Ivi ei discende, e saltando d'un masso in un altro passa il torrente: poi di nuovo si dirige verso le colline, e par che ne fisi una, che sorge di mezzo ed ha la cima coronata di pini. A misura ch'ei s'avanza, il suo passo diventa più ratto, la sua fisonomia più serena. Giunto in vetta a quel colle siede un istante vòlto all'oriente, e contempla lo spettacolo d'un'aurora del nostro paese. Oh come bella a lui dinanzi si spande la feconda pianura! Cento villaggi tra quel verde arridono al primo raggio del sole. Era nel principio di primavera, e i campi seminati a frumento parevano tappeti di morbido velluto a cui facevano frangia i filari delle viti e i mori che cominciavano allora a mettere lungo i nitidi rami que' lor fiocchi di foglia, il cui verde allegro e stillante di rugiada guardato di contro al sole nascente, dava sembianza ad ogni albero di un velo sparso a mazzolini di dorato ricamo. Egli stette buona pezza fiso in quella prospettiva, poi surse e s'avviò verso una casuccia che sorgeva a metà del declivio dov'erano più folte le viti, e dove parea più fertile il suolo. Stava per entrare e già alzava la rustica porta del cortile, quando percosso da contrario pensiero tornò piano piano a posarla sul palo biforcato che faceva da stipite, e si ritrasse guardingo, e si nascose dietro una siepe vicina donde vedeva il fonte a cui sogliono attignere i colligiani di que' contorni. Da lì a pochi minuti usciva dal casolare una giovinotta ben tarchiata e ridente, e cantarellando e dondolando sulle spalle le secchie, avviavasi al fonte. Ei le tenne dietro, e quando chinavasi per attignere: — Bondì, Nencia, gridò, che fa mio padre? — La fanciulla spaurita diè un grido, e rossa rossa fisavalo, e non sapeva ravvisarlo. — Tu dovresti essere la Nencia, continuò egli, parmi riconoscerti alla fisonomia; ma, mio Dio, come se' cresciuta e diventata bella! Quand'io partiva da casa eri così piccina! — Sareste Giovanni? diss'ella, e lo guardava maravigliata. — Ma sì, Nencia mia, sono il fratel tuo, sono Giovanni, e vengo alle tue nozze. L'ho saputo, or saranno un quindici dì, che sposi Meni il nostro vicino; e all'udirvi nominare m'è venuto in cuore un tal desiderio di abbracciarvi e di rivedere il mio paese, che ho tosto fermato di voler essere anch'io a coteste nozze, se credessi che nel dimani mi mozzassero il capo. Or di', si può entrare in casa? — Entrate pure, entrate liberamente, non vi sono che i vecchi; — e lasciate sul margine della fontana le secchie, corse tutta giuliva a portare in casa la lieta notizia. Uscirono i due vecchi ad abbracciare il loro primogenito, e la fanciulla corse giù pel colle a chiamare i fratelli e la cognata ch'erano già pe' campi. Ei mancava da otto anni, erano otto anni che quei poveri vecchi piangevano perduto il loro amato figliuolo! Sulla canuta lor fronte ei vedeva scritti a caratteri tremendi questi otto anni di dolore a cui li aveva condannati. Oh se avesse saputo rassegnarsi ai voleri del cielo! Ora egli avrebbe potuto ottenere il suo congedo e ritornerebbe in famiglia contento, coll'anima quieta a scegliersi una compagna, e sostenere la vecchiaia dei suoi cadenti genitori. Invece non era che un esule perseguitato dalla giustizia. Questi otto anni di aborrito servigio militare, per fuggire i quali aveva lasciato la patria e ogni cosa amata, ora si prolungavano su tutta la sua esistenza. Non aveva voluto essere soggetto per un'epoca determinata, e lo era diventato per fin che viveva! Entrò in casa, e nel rivedere gli oggetti compagni della sua fanciullezza, dei soli anni che avea passato felici, gli si strinse il cuore. Indarno per togliersi a quella potente commozione interrogava delle nozze della sorella. Dovevano celebrarsi nel posdimani, egli era venuto a tal fine. Nel luogo del suo esilio un mercatante di buoi che ne aveva venduti un paio a suo padre, senza saperlo, così chiacchierando gliene aveva data la notizia. Sola notizia dei suoi che dopo la sua fuga fosse giunta sino a lui! Aveva chiesto del padre, della madre, dei fratelli, degli amici, della patria; e all'udire quei cari nomi, sentì risvegliarsi in cuore tutto l'affetto che loro portava, e risolse rivederli, riabbracciarli, respirare anche una volta l'aria del suo paese; e venne alle nozze di Nencia. Ma la sua situazione era tale, ch'ei non poteva nè accompagnarla all'altare, nè sedersi co' suoi cari alla mensa. Doveva contentarsi di godere di soppiatto per qualche momento la loro compagnia in qualche angolo e separato dagli altri. Non potè fidarsi neppure di rimaner lì in cucina. Sua sorella postasi sulla porta del cortile faceva la guardia; ma lo spavento dei vecchi ad ogni entrare di qualcheduno, spavento che indarno cercavano dissimulare, era indizio troppo pericoloso; risolvette mettersi in sicuro e lasciar in quiete gli altri col salire disopra. Tutta quella bella giornata, ei la passò in una cameruccia oscura dalla cui picciola finestrella vedeva i campi del poderetto su cui viveva la sua famiglia, e ardeva di desiderio di tornarli a percorrere. Quelle viti così rigogliose i cui festoni gli serravano l'orizzonte, egli stesso aveva dato mano a piantarle. Colaggiù una fila di bei mori era come per incanto spuntata dalla terra: si ricordava, ch'era stato suo il progetto del dissodare quella lista di terreno inutile. Dall'altra parte cercava indarno una riva di vecchie viti alla cui ombra egli aveva mille volte guidato al pascolo i buoi. Erano state tolte, vangata l'erba e rinnovate le piantagioni declinando la terra a mezzogiorno. Tutti questi cambiamenti operati nella sua assenza erano per lui del più grande interesse, e guardava accorato dall'angusta finestrella al verde dei campi e alle patrie colline. A poco a poco mancava la luce, un velo si distendeva tranquillamente su quel paese per lui pieno di tante memorie, ed egli assorto ne' suoi pensieri assopivasi placidamente come la natura già scolorita e già discesa in grembo alla notte. Le campane dei villaggi circonvicini che ad una, a due, a tre, a più, e poi tutte suonavano l'avemaria vennero a risvegliarlo. Ei conosceva distintamente la voce di ognuna. Questa gli rammentava qualche allegra partita di piacere goduta co' suoi compagni nella sagra di quella villa; l'altra un mortorio di amata persona a cui era intervenuto, e dove il suo cuore aveva tanto patito. Anche la memoria dei dolori sofferti è cara nel luogo dove siam nati. Surse Giovanni, ed affacciatosi alla finestrella, e veduto già tutto oscuro e tranquillo, pensò di scendere. In cucina allestivano la cena; quando lo videro, Nencia andò a chiudere la porta, e poi gli fe' segno di sedersi vicino al fuoco, che in quelle ore fresche della notte e su quella collina, colla limpida sua fiamma, benchè si fosse innanzi colla stagione, faceva ancora dolce invito. Chiacchieravano insieme, espandevano il loro cuore dopo tanti anni di lontananza, e i dolci legami del sangue, rinforzati dal dolore e dall'amore, si facevano sentir più potenti. Picchiano, e prima ch'egli abbia tempo di salire la scala, la porta senza catenaccio si apre, ed entra una donna; la comare Betta, che dal colle vicino veniva a quel casolare a chiedere a prestito cinque libbre di farina. Tutti ammutolirono, e Giovanni tornò a sedersi, abbassò il capo e si tirò il cappello sugli occhi; stava tutto ristretto in sè, e malediva alle vampe del fuoco che gli davan proprio per mezzo alla faccia. Sua madre erasi affrettata d'aprire la madia e colla bilancia in mano pesava la farina; ma l'accorta comare, come per veder meglio dove tagliava il romano, la trasse verso il focolare e china sulla spranga diè un'occhiata di soppiatto allo sconosciuto, mosse le labbra ad un lieve risolino, ringraziò ed uscì. Lo aveva alla ravvisato? Stettero in silenzio alcuni minuti come per dimenticare, se fosse stato possibile, questa disgustosa circostanza che avvelenava la loro gioia; poi cenarono. La Nencia spillò una botticella di vino di ronco che tenevano riservato pel dì delle nozze. Era nero come inchiostro, e guardato di contro al fuoco traspariva limpido e granatino; e nella tazza s'incoronava d'una rosa spumante che ratta dileguavasi spandendo un gratissimo effluvio come di fraghe. In poco d'ora ei fe' loro svanire di mente la malaugurata comparsa della Betta, e li tornò all'ilarità di prima. Il dimani era giornata di grande impiccio per quella buona famiglia di colligiani. Trattavasi di apparecchiare il pasto, la dote, i vestiti, di fare le convenienze della partenza; insomma era la vigilia delle nozze di Nencia. Cominciò prima dell'alba un andirivieni di persone, che continuò tutta la giornata, e che obbligava Giovanni a viversi rintanato peggio di qualunque prigioniero. Ora, era una frotta di giovinotte che cercavano della Nencia per salutarla; ma in fatto per vedere l'abito nuziale, il fazzoletto, gli anelli, e su disopra nella sua cameruccia, e un cicalío di voci acute, e un prendersi fuori di mano l'una a dispetto dell'altra or quest'oggetto or quello, e provarselo e sentenziare e tripudiare, e un continuo pericolo per il povero refrattario ch'era miracolo sfuggisse ai dardi di que' tanti maliziosi e vivacissimi occhietti. Ora venivano i suonatori per stabilir l'ora e intendersi pel dimani. Abbasso in cucina, chi grattugiava il pane, chi apparecchiava intrisi e tortelli, la madre in maniche di camicia e colla gonna succinta era intenta a lustrare i lebeti, i paiuoli, gli alari. Or entrava una comare portando tegami ed altre masserizie; chè la povera gente in queste occasioni han tutto comune, e si prestano l'un l'altro ciò che tengono, come fossero una sola famiglia. Or un'altra veniva con timo, con amaroco, con menta, e sfoderava la sua sapienza sulla fabbrica degl'indispensabili raviuoli. E così fino all'avemmaria, senza che il povero diavolo potesse mai un momento uscire dal suo nascondiglio. Andavano a trovarlo uno per volta con circospezione, or il padre, or la madre, ora il cognato, or qualcuno degli amici i più fidati, ma anche questi brevissimi istanti di gioia erano amareggiati dalla paura. Non aprivano mai la porta della cameruccia senza che il sangue tutto gli piombasse sul cuore; ed immobile senza trar fiato aspettava la sentenza di morte in ogni faccia che gli si presentava. In mezzo ai più cari discorsi, all'espansioni di più dolce affetto, cadeva in cucina un qualche arnese, davasi un'improvvisa serrata di porta, un abbaiare del cane, una voce od un rumore qualunque non conosciuto bastavano per agghiacciargli sul labbro la parola ed a farlo morire dieci volte per ora. Erano otto anni ch'ei menava questa vita infelice, e non aveva mai tremato così. Quei poveri vecchi, la sua famiglia ch'ei poteva da un momento all'altro gettare nella disperazione, accrescevano di tal maniera i suoi timori, che l'essere venuto a trovarli invece di riescirgli consolazione com'egli si riprometteva, era tormento dei più squisiti. Nel dimani prima della funzione per un solo momento vide la Nencia, e non gli fu possibile d'abbracciare nessuno degli altri. Appoggiato alla sua finestrella aspettava che passassero da una svoltata a' piedi della collina, e di lì mentre a due a due sfilavano per andare alla chiesa, egli dal profondo del cuore mandava loro saluti ed auguri. Nella villa la gente s'era affollata lungo la via, e quando attraversavano la piazza e sulla porta della chiesa, Meni osservò alcuni gruppi di curiosi che guardavano alla comitiva nuziale con interesse un po' troppo vivo, e tra loro chiacchieravano, pareva a lui, con qualche sinistro sogghigno. Ma finita la messa, all'udire gli evviva d'una frotta di giovanotti suoi coetanei che lo aspettavano all'uscire di chiesa, e univano la loro voce allo scoppio delle pistole e alle arcate dei violini, tranquillossi, e si persuase che da non altro provenivano i suoi sospetti, se non dall'esser conscio a sè stesso d'un pericoloso segreto. Stavano per sedersi a tavola, quando entrò il Parroco: tutti rispettosi col cappello in mano lo salutavano, e la sposa rossa come un bel pomo corse a baciargli la mano; il buon vecchio le diede un leggiero buffetto sulla guancia, e dicendole alcune parole affettuose e sorridendo con pacata dolcezza, coll'occhio indagatore cercava di Meni, e tiratolo innanzi univa nella sua le mani dei due amorosi giovinotti. Poi si sedeva alla mensa, alla sinistra della sposa, e con quel suo fare tutto alla buona procurava d'inspirare confidenza a que' semplici contadini che tenevano per un grande onore l'aver lì a commensale il loro Piovano, ma non sapevano uscire dal silenzio che loro imponeva la presenza di sì autorevole e venerata persona. Un po' alla volta col vuotare delle tazze cominciarono a trarsi di soggezione, ed alla terza o quarta portata già tutti chiacchieravano a voce alta, ed erano divenuti eguali e sentivansi a lor agio. L'allegria s'era fatta generale, ed il Parroco godeva nel vederli lì tutti insieme festeggiare le nozze della sua buona figliozza. Solamente l'acuto suo sguardo aveva scoperto una nube d'inquietudine sulla fronte aperta e sincera del vecchio Valentino, ed anche, l'allegria di Meni gli pareva forzata. In quanto alla Nencia, più d'una volta l'aveva sorpresa che si asciugava le lagrime; ma un po' di malinconia in fanciulla ch'esce dalla casa paterna è cosa tanto naturale, che non ci aveva posto caso. Tutto ad un tempo s'ode abbaiare il cane, e poi una forte picchiata. Il più giovane dei fratelli della Nencia corre ad aprire, ed entrano l'agente comunale, il cursore, tre contadini dei più anziani, e nella corte seguivano altri ancora. Il Parroco dà una rapida occhiata a sè d'intorno, e vede messer Valentino pallido come la morte, Meni che pareva lì basito, la Nencia che tremava come una foglia. Si alzò, si fece incontro ai sorvenuti dimandando loro il perchè di una tal visita. Allora l'agente comunale si fe' innanzi cavando di tasca un ordine con cui gli si era comandato d'impadronirsi di Giovanni. — Date qua — disse il Parroco; e cercava degli occhiali. Quando gli ebbe inforcati spiegò la carta come per leggere; ma invece cogli occhi al disopra dei vetri guardava attentamente i circostanti, e stette buona pezza in simile attitudine, che nessuno ardiva disturbarlo, tant'era la venerazione in che l'avevano. — Intanto, buoni amici, accomodatevi, e voi compare, continuò egli rivolgendosi a messer Valentino, fate girare il boccale, chè qui si fa allegria e devono tutti partecipare. — Il povero vecchio, come rianimato dalla voce di lui, cominciò a mescere ed a far sedere i nuovi venuti. Ma sulla porta un contadino faceva cenno ad altri ch'entrassero, e mormorava del ritardo. Se ne accorse il Parroco, e posata la carta sulla mensa, ed incrociate le mani, così cogli occhiali ancora sul naso fisava severo; e ravvisato un giovanotto che si disponeva a salir primo le scale: — Ehi! disse, Michele, facciamo un brindisi alla sposa, — e gli offriva il suo proprio bicchiere; poi vòlto all'agente comunale: — Mi pare, disse, che avrebbero potuto lasciarci almeno terminar di pranzare; non dico mica a voi; voi non fate ch'eseguire il vostro dovere, e fate bene; — e cavata la scatola in atto amichevole gli offeriva una presa, poi ne annusava un'altra, e lentamente assaporandola: — Via, messer Valentino, allegri! che grazie al cielo non ci sono disgrazie. Credevano che vostro figlio Giovanni fosse stato così gonzo da venire alle nozze di Nencia, ma poichè cotesta, come si vede, è una mera fanfaluca, non v'è ragione di spaurirsi. Voi già permetterete a questi galantuomini che salgano disopra, e se ne accertino coi propri occhi. Intanto date loro da bevere, e voi altri accomodatevi; che vi assicuro io che niuno uscirà di qua. — Erano parole di persona autorevole e grandemente amata, sortirono effetto; e tranquillati, cominciarono a girare intorno il boccale, e a fare evviva agli sposi. Alcuni peraltro s'erano posti a' piedi della scala come per essere più certi che nessuno discendesse, tra questi Michele l'ultimo dei coscritti di quell'anno, e che sperava esentarsi, se fosse stato preso il refrattario. La maggior parte, che un certo interesse non avevano, già cominciavano a pentirsi d'esser lì venuti a mettere in iscompiglio quella buona famiglia, e trovavano assurdo d'aver potuto credere che Giovanni fosse ritornato in paese e in famiglia proprio in un giorno di nozze, ed alcuni già ridevano di aver bevuto così grosso e si traevano dietro gli altri, che in una moltitudine il pensare di pochi dà sempre norma al rimanente. Avviene come in un vaso di acqua, se lasci cadere due o tre gocce di vino, d'indaco, o di altro liquore colorante, che tutta la massa si tinge in quello. Un contadino d'aspetto franco, dal gran cappellone e dalla giubba tagliata all'antica, s'era intanto avvicinato al Parroco, e con aria di confidenza soffregava le dita, come per chiedere una presa: — Oh, compare Martino! gli disse il buon vecchio porgendo la tabacchiera, voi pure siete qui? — Che vuole, reverendissimo? dietro questi matti.... — Io vi credeva ancora a Venezia. — Siamo ritornati ieri sera, e, sia ringraziato il cielo, non l'han voluto il mio Tita. Ma ne ho avuto una! la mi capisce... se mel facevano buono, oh ci toccava di morir di crepacuore, mia moglie, mia figlia, e tutti noi! — Or via, me ne consolo; ma dite un po' (e qui appiccavano un dialogo e tutti i circostanti attenti ad ascoltare), come vi è piaciuta Venezia? — Niente affatto, reverendissimo! — O diaccine! Non vi è piaciuta Venezia? — Ma reverendissimo no! che ci preferisco qui il nostro piccolo villaggio di Bolzano. — E perchè, di grazia, tutta questa antipatía? — Perchè.... perchè.... da Bolzano, signore, si può uscire quando pare e piace. Io vado, vengo, torno e nessuno mi fa le freghe. Ma da Venezia.... oh! è un altro paio di maniche! — Siete pure tornato sano e salvo. — Sì, perchè in fondo sono un galantuomo, ma ce ne ha voluto!... Io l'ho per me, reverendissimo, che quello sia un paese di gran curiosi. — E il Parroco sorridendo e tornando ad offrire la tabacchiera, lo incoraggiava a dirne di belle; e anche gli altri s'erano fatti d'intorno e sghignazzavano a spalle del buon cappellone che col suo tuono spropositato continuava: — Dappertutto volevano saper chi mi fossi, figlio di chi, quant'anni m'avessi; e poi — le carte! e taffete le spiegazzavano, e squadrarmi dalla punta del naso alle unghie dei piedi. Misericordia! Io vo mille volte in un anno a Bolzano, a Media, a Z*** e nessuno ne fa le maraviglie, e se entro in una osteria sono il ben capitato; e se anche non ho un quattrino, mi danno da bere e da mangiare sul credo quanto al nostro agente comunale e quasi quasi come a vossignoria illustrissima. — Ridevano, ed egli un po' mortificato: — Io per me, ci sono ito perchè si trattava di Tita; ma prima che ci torni, prima che mi ci facciano mettere più piede in quelle lor brutte bicocche nere, che chiamano gondole.... — Vi ha fatto paura il mare? — Eh! reverendissimo, non so mica se possa far buon bevere il trovarsi lì in quel brodo in una cuna mal connessa a due sole dita da Patrasso.... E serio serio narrava d'una brutta avventura di cui diceva d'essere stato egli stesso testimonio, e in mezzo all'incredulo sghignazzare degli ascoltanti asseverava: — Ma se li ho veduti io, padre madre e un loro bimbo; e il mariuolo che li guidava, quando vide imbrogliato l'affare, gettò il remo; e dato un salto nell'acqua, via come un ranocchio si è salvato, e quelle tre povere creature avevano un bel gridare misericordia e tirar giù santi e sacramenti: la barcuccia, dopo aver un poco girandolato come una trottola, ha fatto un buco nell'acqua, che si è tosto rimarginato, e giù in fondo, e nessuno li ha mai più veduti. — Vi sarà sembrato, compare. — Eh signore!... È stato lei a Venezia? — Ma sì, caro compare, più volte, e non mi è mai toccato di vedere nessuna disgrazia. — Basta.... e lungo la laguna tutte quelle tante gondoline affondate, che stanno lì ancora col becco in aria...? ne ho contate io un numero infinito di qua e di là, e mi sentivo sudar i piedi ne' zoccoli, e non vedevo l'ora d'esserne fuori. Oh insomma, sono stati i gran matti que' primi che si sono pensati d'andar a fare il loro nido proprio nel bel mezzo dell'acqua! — Ho capito, disse il Parroco ridendo, quando avete scambiato per tante gondole affondate anche i pali che segnano la via, è inutile più oltre contrastare. Ma parmi, diss'egli rivolgendosi all'agente comunale, che la vostra intenzione era di fare un sopraluogo.... — Signore, diss'egli, l'ordine ricevuto.... Ella peraltro ci ha rassicurati.... — No no, buona gente, fate pure il vostro dovere; qui già messer Valentino m'immagino che non vorrà mica averselo a male. Accompagnateli disopra, compare, diss'egli al povero vecchio, che a queste parole tramortito cercava indarno tanta forza da potersi reggere sulle gambe. Nondimeno si mosse, come per servir loro di guida, fece due o tre scalini e, appoggiatosi al muro, lasciò che gli altri salissero senza di lui. Ivi passò alcuni minuti in sì terribile aspettazione, che potrebbe solo descrivere chi, posato il capo sul ceppo fatale, avesse provato lo spavento dell'imminente ghigliottina. Visitarono a una a una tutte le camerucce, salirono sul granaio; poi di nuovo giù in cucina, in corte, nelle stalle e sul fienile, cercarono ogni angolo, e indarno, che non v'era anima viva. Alcuni ridevano di chi aveva prestato così bonariamente fede alle ciance di madonna Betta; altri erano mortificati d'esser lì venuti a far sì brutta figura: si gettavano la colpa l'un su l'altro; e se li avessi chiesti separatamente, ognuno era venuto per pura curiosità, e in quel momento ti sarebbe stato difficile trovare i caporioni dell'impresa se ne eccettui chi aveva segnato il ricorso. Fecero alla meglio le loro scuse, e partirono, lasciando quella povera famigliuola ancora tramortita e incredula d'un esito così insperato. Ch'era dunque stato di Giovanni? Dal suo nascondiglio egli li aveva veduti venire, aveva spiato ogni loro mossa, e quando s'accorse che la maggior parte già stava in cucina, era corso nella cameruccia di sua sorella, e dalla finestra che metteva sull'orto, col coraggio che in simili circostanze presta il pericolo, spiccò un salto, e poi arrampicatosi a un albero aveva scalato il muricciuolo e giù pel ronco attraverso i seminati dov'era più folto il verde, e in un batter d'occhio trovossi su di un viottolo che mette al villaggio dalla parte del cimitero; e passata la chiesa, nella sua confusione corse a rifugiarsi entro la prima porta che vide aperta, ed era il cortile della canonica. Una giovinetta mingherlina e pallida, ma di gentile aspetto, stava intenta ad innaffiare un quadrettino di terra pulitamente rastellato, netto di sassi e cinto di mirto. V'erano anche alcuni vasi su d'una panca lì dappresso, e certo aveva essa lasciato aperto l'uscio nell'entrare, carica dell'acqua ch'era stata ad attignere al fosso vicino. Giovanni non la ravvisò; ma incoraggiato dalla sua dolce fisonomia, le si prostrò dinanzi, e: — Per carità, gridava, salvatemi! ch'e' mi son dietro. — Adelina depose l'innaffiatoio; corse a chiudere l'uscio, e poi, fisato quel povero giovane: — Possibile, disse, Giovanni? Or via, non temete, che qui nessuno ardirà entrare. — Si ricordò egli allora della nipotina del Parroco, e tutti i lineamenti della fanciulletta di quell'epoca gli balzarono repentinamente alla vista della ragazza che gli stava innanzi; l'età peraltro coll'accrescerne le forme le aveva abbellite, e ne' suoi grandi occhi pensosi s'era svegliato un raggio che prima non esisteva. Con rapide parole narrò il pericolo nel quale si trovava, e la pregò di volerlo nascondere finchè si fossero tranquillati e potesse di nuovo espatriare. — Oh povero Giovanni! diss'ella. Avete fatto bene a venir qui. Ci scommetto che lo zio ne avrà piacere. Questi anni passati vi nominava sempre, e si rammaricava della vostra lontananza. Oh! egli vi proteggerà. E poi, lo pregheremo tanto tanto!... ma voi siete ancora tutto spasimato. — E correva in casa, e poi quand'era per entrare: — Badate, soggiugneva, se a caso picchiassero, che non vi venisse il pensiero d'andar voi ad aprire! — E tornava con una bottiglia di refosco e con una tazza. Giovanni non voleva bevere. — Or via, ripigliava Adelina, due dita per amor mio. Sapete pure ch'io vi ho voluto bene. Vi ricordate di quelle lunghe sere d'inverno, quando insieme con Meni, con Luca, cogli altri vostri compagni venivate qui a imparare a far di conto, e poi con lo zio vi preparavate per cantare sull'organo il _Missus_ della novena di Natale...? — Che bei tempi! diss'egli, e depose la tazza sul vassoio ch'ella teneva in mano. — Ancora un tantino? — No, vi ringrazio. — Ella posava la bottiglia sulla panca dov'erano i vasi de' suoi fiori, si sedeva lì dappresso e facevagli luogo perchè ei pure si sedesse. Ma Giovanni era inquieto; ad ogni lieve rumore tendeva l'orecchio, e parevagli sempre che la porta si spalancasse ed entrassero a catturarlo. — Se a caso venissero, disse la fanciulla, intanto ch'io vo ad aprire, voi correte disopra e chiudetevi nello scrittoio dello zio. Crederanno ch'egli abbia la chiave; e poi, state pur certo che nessuno ardirà entrare là entro. — Buona Adelina! e la fisava cogli occhi lagrimosi e pieni di gratitudine. — Ma voi vi eravate dimenticato di me!... Siete stato tanto tempo via.... — Dite piuttosto che voi siete cresciuta, e che mi era difficile a potervi così a prima vista ravvisare. — Eppure io ho conosciuto subito voi.... e mi pare che se steste mille anni lontano, tanto vi riconoscerei. Mi ricordo sempre le vostre buone grazie. Quand'era malata, e voi ogni sera tornavate dal pascolo con un piattello di fraghe selvatiche per la povera Adelina! E quando dicevano che le more di rovo mi facevano bene, e voi e vostra sorella ce le portavate ogni giorno! e quel vispo passerino che mi regalaste l'ultimo anno prima di partire, e che avevate nudrito a posta per me, e sul capo gli avevate attaccata quella bella crestina rossa di velluto.... Mi è durato più di due anni, sapete? Era così grazioso! Mi volava sulle spalle, sul capo, mi correva dietro come una pollastrella.... — Udivasi un passo posato che si faceva sempre più vicino. È lo zio che ritorna, — disse Adelina, dopo essere stata un momento in attenzione. — Andate di sopra, potrebbe darsi che fosse in compagnia. — E il giovane obbedì tosto, mentr'ella con precauzione pian piano apriva la porta. Era infatti il Parroco. Adelina gli corse incontro, lo fece sedere lì presso a' suoi fiori, e gli narrò di Giovanni. Il vecchio si fe' tetro, posò la fronte sul pomo del suo antico bastone e stette alcuni minuti senza dir parola. — E dove è egli? — chiese poscia con accento un po' brusco. — Di sopra nel vostro scrittoio. — Si alzò, e frastornato entrava in casa; la fanciulla col capo chino tutta mortificata lo seguiva in silenzio. S'era fatto notte, ed egli sulla soglia si fermò come irresoluto. — Ho fatto male, n'è vero?... disse Adelina quasi piangente. — Accendi un lume. — Poi quand'ella ritornò prese la candela e salì sopra. Giovanni in atto rispettoso corse a baciargli la mano. Egli tirò innanzi, posò il lume sulla scrivania, si sedette nella sua ampia seggiola a bracciuoli, guardava serio serio quel povero giovane che avvilito stava nel suo cospetto come un delinquente. — Giovanni.... disse finalmente il prete, povero Giovanni! E chi mai mi avrebbe detto di vederti in questo stato, quando negli anni passati venivi qui tutto allegro coi tuoi compagni, e mi consolavi di tante belle speranze? Tu il primo nella scuola, tu il più morigerato, l'esempio della parrocchia, il mio confidente, il mio giovane amico!... Avevano un bell'inorgoglire di te i tuoi poveri vecchi! Credevano che tu dovessi essere il conforto degli ultimi loro anni.... e Dio ti aveva dato braccia e cuore! Ma non hai saputo resistere all'infortunio e li hai abbandonati.... e hai tradito la famiglia che il Signore ti aveva destinata. Che mai erano otto anni di servizio militare? Che consolazione, se ora ottenuto il tuo congedo, in vece di ritornare come un proscritto fossi venuto a sostenere la loro vecchiaia, e a vivere nel tuo paese da uomo onesto con una compagna che ti amasse e che ti desse dei figli buoni e costumati? Oh! ma la gioventù non pensa a cotesto: il presente è tutto per lei. Si crede libera, padrona di sè, e vuole a ogni costo fare a suo modo, se anche per fuggire una disgrazia dovesse abbracciarne una peggiore. Sai tu quante lacrime hai fatto versare a tua madre? Tremar sempre! piangerti irreparabilmente perduto! non saper nulla di te! Ogni anno della tua lontananza sono stati dieci che tu loro accorciavi di vita! Sono invecchiati, incanutiti prima del tempo, hai mangiato loro il cuore. Nel tuo esilio tu non hai veduto i loro patimenti. Potevi star allegro, perchè la gioventù gode di tutto e presto si affà ad ogni sorte di vita. Tuo padre era malato di crepacuore... e tu forse neppur ti ricordavi di lui. — Oh mi credete cattivo! — No Giovanni, no; il rammarico di vederti fuori di strada mi cava queste parole che forse ti offendono. Oh se tu sapessi quanto dolore mi ha recato la tua fuga inconsiderata! Ho peraltro più volte dubitato che l'esser lungi dal tuo paese, il menar vita raminga, e Dio sa con che gente! non distruggesse nel tuo cuore quei semi di religione e di affetto, ch'io con tanta consolazione aveva veduto germogliare fin dalla tua prima infanzia, e non ti nascondo che questo pensiero mi faceva un gran male.... ma le lacrime che ora ti vedo mi dicono che sei ancora il mio Giovanni. Fatti in qua poveretto! Oh tu pure devi aver molto sofferto nel viver così lontano da tutti quelli che ti amavano! — E il giovane prostravasi a lui dinanzi, e singhiozzando posava la faccia bagnata di pianto sulle sue ginocchia. — Dì, e non ti è mai caduto in mente, che mentre eri così lontano potevano morire i tuoi, senza neanche la consolazione di darti l'ultimo addio? E se oggi che sei ritornato, avessi chiesto di questo povero vecchio e per risposta ti avessero mostrato il mio sepolcro, dì, e non avresti avuto rammarico di avermi lasciato partire da questo mondo senza neanche salutarmi? — Dio mio! Voi mi squarciate il cuore.... Io che vi debbo tanto! io che anche quest'oggi son salvo in grazia vostra?... Ero disopra che sentivo tutte le vostre parole e vorrei potervi ringraziare.... — Ringraziarmi? di che? Ma credi tu, che quando sono venuti a cercarti io sapessi del tuo ritorno? Credi che se lo avessi saputo, gli avrei lì trattenuti in cucina?... E in buona coscienza, avrei io potuto valermi di quel poco di ascendente che ho sui miei parrocchiani per impedire ciò che poi infine era giustizia? Dio lo sa se mi duole di vederti così. Vorrei col mio sangue ridonarti al paese, alla tua povera famiglia: non mai però col danno di un altro. La sorte era toccata a te! Oltre il dovere che abbiamo tutti di sottostare alle leggi del nostro paese, col solo presentarti a cavare il numero, tu promettevi nella maniera la più solenne di accettare, qualunque ei si fosse, il destino ch'ei ti sortiva. Il servigio militare era un debito tuo, che colla tua fuga hai gettato sul capo di un altro, obbligandolo a pagare per te. È stata una mala azione, di cui tu devi render gran conto! Se io ti avessi abbastanza inculcato questi principj, tu forse non l'avresti commessa. Ma non vale richiamare il passato, se non per pensarci a ripararlo. Fra poche ore tu lascerai di nuovo questo paese; e forse per sempre. Io son vecchio, Giovanni, e facilmente non ci rivedremo più! Nel darti l'ultimo addio, lascia che ti preghi di una grazia. Io non vo' sapere come tu sia vissuto questi otto anni; profugo perseguitato dalla giustizia, senza mezzi di sussistenza, senza famiglia, solo nel mondo, la vita a cui ti sei condannato è pochi passi lontana dal delitto. Quando le passioni colla loro prepotenza vi ti spingeranno, ricòrdati degli anni innocenti della tua fanciullezza.... ricòrdati di questo povero vecchio che ti scongiura a voler essere onesto! — Si alzò, e fattosi sulla porta, colla voce ancora commossa chiamò Adelina. — Vedi di dar da cena a questo giovane, le diss'egli. — Vi ringrazio, rispose Giovanni, ma non ho bisogno di nulla. Vi prego solamente a far sapere ai miei che son partito, e a consolarli.... — Or bene, ripigliò il Parroco, e apriva la scrivania, spero che non vorrai ricusare questi pochi soldi: tu sai che son povero e non posso offerirti di più. — E insieme colla nipote lo accompagnava sin sulla porta della canonica. Il giovane li salutò, e baciò la mano al buon sacerdote, e gliela bagnò di lacrime. Essi stettero buona pezza sulla porta, e in silenzio ascoltavano i passi di lui che se ne andava, finchè finalmente anche quel leggiero rumore si perdette nelle tenebre della notte. . . . . . . . Circa due anni dopo, sulla sera d'una bella giornata d'autunno Giovanni ritornava a quella canonica. Nel luogo del suo esilio gli giunse una lettera nella quale gli si dava notizia che il buon Parroco si era tanto adoperato coi signori di que' contorni, da poter mettere insieme la somma necessaria per un cambio, e col mezzo di un amico potente ch'egli aveva nella città di Venezia aveva ottenuto il suo completo perdono. Pieno di gratitudine, egli aveva divorato la via, e suo primo pensiero era di correre a' piedi del suo benefattore. Veniva col cuore gonfio di mille affetti. Trovò la porta semichiusa, entrò nel cortile; non v'era anima viva, solo gli ferì la vista il giardinetto di Adelina tutto in disordine. Quel quadrettino ch'ella teneva con tanta cura, era ingombro di male erbe e pieno di sassi, il mirto che lo circondava ingiallito e in più luoghi disseccato, non v'erano più fiori nei vasi, solo un'ortica cresceva nell'angolo dov'egli si ricordava di aver veduto alcune rigogliose pianticelle d'amorini. S'inoltrò in cucina: una vecchia stava filando seduta presso il fuoco: chiese del Parroco. — Sta poco bene, disse la donna, nondimeno aspettate, che lo avvertirò. — L'ordine e la nettezza che ivi altre volte regnavano, erano spente: parevagli tutto deserto. Scese il vecchio, e accolse freddo la riconoscenza e l'amore di lui. Le sue labbra sbiancate non avevano più sorriso. Era morto il raggio eloquente che soleva animargli lo sguardo, ed ora i suoi occhi si movevano lenti e come assiderati. Un'arbore percossa dal fulmine ha un aspetto meno tremendo di quel che avesse per Giovanni quell'uomo così cangiato. Avesse almeno veduta Adelina! Ma quell'amabile orfanella il cui dolce sorriso poteva ravvivare tutti gli oggetti che la circondavano, non comparve quel giorno, ed egli partì confuso, presago di qualche disgrazia. Si ricordava d'essersi ancora spiccato da quella porta piangendo, ma questa volta le sue lacrime erano senza misura più amare! . . . . . . . V. MARIA. Maria era una contadina nata in un'amena villetta sulla sponda sinistra del Natisone, e venuta a marito in una famiglia di buoni mezzaioli, abitante a poche miglia di distanza dall'altro lato del torrente. La giovanezza passò per lei in un momento, ed appassitasi prima del tempo, a trentacinqu'anni ne mostrava quasi cinquanta. Non erano i suoi capelli che fossero imbiancati, ma la sua pelle delicata e fina aveva assunto una tinta giallastra. La sua fronte appariva solcata da rughe precoci, ed i suoi grandi occhi celesti parevano come impietriti. Chi si ricordava d'aver veduto nelle sagre del paese pochi anni innanzi danzare questa bionda e ricciuta contadina, le cui braccia fresche e vellutate vincevano in candore le maniche della camicia che le velava per metà, non poteva darsi pace che un così breve spazio di tempo avesse bastato a scolorire le rose vivaci delle sue guance, ed a trasformarla in modo da non poterla più quasi ravvisare. Era uno di quegli irrecusabili testimoni dell'umana caducità, che nostro malgrado ci fanno pensare alla vita che fugge, e ci riempiono il cuore di amarezza. Moglie di un uomo che l'amava, e ch'ella stessa aveva scelto, innestata in una famiglia di villici bensì, ma sufficientemente agiata, e dove il numero delle braccia non era scarso al lavoro, madre di cinque figli robusti e morigerati, la sua vita scorreva abbastanza tranquilla per non dar a divedere nessun adequato motivo di questa sua precoce consunzione. Ella aveva sortito da natura una gentilezza d'animo e una squisitezza di sentire in armonia forse coi delicati lineamenti del suo volto, e colla fina tessitura del suo individuo, ma poco comuni alla sua classe, e poco convenienti alla vita laboriosa e alla società grossolana a cui era destinata. Una parola, un pensiero, il cangiarsi del tempo, uno de' suoi cari in pericolo, la minima disgrazia o contrarietà bastavano talvolta a conturbarla. Si fabbricava sola le angosce, il suo cuore appassionato batteva rapido, e i suoi battiti avevano forse così anzi tempo consumata la fragile corteccia di che viveva avviluppato. Tutti i vari accidenti della vita lasciavano un'orma indelebile su questa dilicata creatura, simile alla candida campanella del convolvolo silvestre che non può senza offuscarsi sopportar l'ala del più leggiero fra gl'insetti. Una volta vennero ad avvisarla che suo padre trovavasi gravemente ammalato. Era tardi, e pioveva a dirotto; nulla di meno, ella, preso il suo fazzoletto da testa, e gettatavi sopra un'ampia tovagliola di tela ben fitta, correva per la strada più breve alla volta del villaggio nativo. Ma giunta al torrente, e guadato il primo ramo, s'accorse che l'acqua cresceva. A cavalloni giù per la ghiaia veniva un secondo, un altro più lungi torbido e spumante percuoteva con gran fragore nella riva, e rosicchiandola in cerchio faceva cadere le zolle del prato a cui aveva sotto cavate le fondamenta; capì che sarebbe stato vano il tentar di superarlo, tornò addietro, e costeggiando giunse fino a Manzano, dove sperava di trovar la barca che la tragittasse. Impossibile: le piogge cadute nei monti lo avevano talmente gonfio, ed ei precipitava con tanta furia, che per allora bisognava lasciarlo correre. Chi può dire l'affanno della povera donna? Ella guardava quell'immenso volume di acque biondastre che pareva volessero strascinar seco i villaggi fabbricati sulle sue sponde, stendeva le braccia come se avesse voluto trapassarlo a volo, piangeva, e stette lì tutta la notte esposta alla piova disperandosi, ed aspettando angosciata che venisse il momento di poter pur finalmente varcare. Un'altra volta ell'era al campo assieme con una sua cognata più giovane, a cui ella voleva un gran bene, e il bambino della quale ella spesso sovveniva del proprio latte e curava come fosse stato suo. Or egli avvenne che così chiacchierando, non so su che fatto domestico, la giovane si lasciò scappare una parola di rimprovero. Uscita da quelle labbra ch'ella aveva le tante volte baciate col più sincero affetto, la ferì nel cuore come freccia avvelenata. Pianse molto per quella parola, e fu sì afflitta, che quando gli altri neanche più se ne ricordavano, ella ammalò e stette più giorni a letto. Non era già che se le succedeva d'esser talvolta offesa od ingiuriata ella rompesse in lamenti. Chiudeva il suo dolore in sè; ma come una dimostrazione di benevolenza, una buona grazia qualunque, destavano in lei una gratitudine, così del pari manteneva a lungo la ricordanza dei mali tratti ricevutine, il suo cuore era tardo a rimarginare le ferite, e al minimo tocco rinsanguinava da capo. Un dì vide la suocera affaccendarsi ad ammannire non so che ghiottoneria per il bambino d'una sua figlia; si ricordò che sedici anni prima le era stato negato un po' di pan bianco per il suo primogenito che delicato e malaticcio non poteva trangugiare la polenta; e pianse, come s'egli avesse tuttora patito la fame di quel giorno. Questo eccesso di sensibilità era il lato debole della buona Maria, era l'ombra, la polvere che appannava un poco le altre belle qualità del suo carattere, perchè qualche volta oppressa dal dolore trascurava i doveri di famiglia, all'adempimento dei quali senza questo difetto sarebbe stata sempre zelantissima: ma più che agli altri era funesto a lei, che mangiava spesso il suo pane bagnato di lagrime, e non le spuntava quasi mai una gioia, che non le si volgesse tosto in amaro. Povera Maria quando le mancarono i genitori, quando le andò via soldato l'ultimo de' fratelli! ella pianse tanto e parve così distrutta, che in pochi giorni le erano volati sul capo degli anni interi. Ma la disgrazia che maggiormente la ferì, e per la quale mostravasi tanto disperata ed inconsolabile da far temere per la sua ragione e per la sua vita, fu la morte della sua ultima figliolina. Difatti quella bimba era così cara, che portò via il cuore a tutti quelli che la conoscevano. Io mi ricordo di una sera. — Si celebravano le nozze d'un cugino della Maria; e invitata da quei buoni villici a partecipare alla loro gioia, io sedeva presso al fuoco in compagnia d'alcune vecchie comari, mentre nella stanza contigua si ballava. La fanciulletta avrà contato allora quattr'anni. Venne con tutta libertà a sedersi su' miei ginocchi. Indarno le buone donne la sgridavano, e per poco mi toglievano il piacere di quelle innocenti carezze, ch'ella, protetta da miei baci, continuò a trattarmi come se fossi stata sua madre. Bisognava vederla, fatta allegra dal suono dei violini, danzare intorno per la cucina tenendosi il grembialino, e poi alla fine d'ogni scambietto mi saltava di nuovo in braccio, mi accarezzava i capegli e voleva che la baciassi. Ella mi conservò a lungo l'amicizia di quella sera. Tutte le volte che mi vedeva dappoi in chiesa attraverso di que' suoi ricci biondi che parevano oro filato, mi sorrideva e non era contenta finchè non l'avessi salutata d'un guardo. Se nelle sere festive, mentre ritornava dal rosario, s'accorgeva ch'io fossi a goder la notte seduta al mio solito su d'una pietra in fondo al villaggio, lasciava la compagnia delle sorelle, e in punta di piedi s'appressava. Mi par ancora di vederla sbucare dietro la siepe dei mori, e soffermarsi lì tacita al chiaro della luna finchè trovava il destro di dirmi quel suo affettuoso _Mandi!_[2] ch'era un saluto venuto dal cuore, e che per il mio cuore valeva per ben mille studiati complimenti. La Menicuccia era una candida fanciulletta, sempre sorridente e diritta sulla ben complessa personcina, che non temeva la presenza dei signori, e che, per quanto procurassero di farla stare in rispetto, non voleva capire le differenze di condizione. Io l'amava per quella sua ingenua famigliarità, che mi lasciava guardare a fondo nel suo cuore non ancora chiuso dalla trista esperienza che insegna al povero a trattare da nemici i più fortunati di lui, per quel _tu_ affettuoso e confidenziale che faceva sparire le cieche divisioni della sorte e mi rivelava i tesori di quella semplice e bella animetta. Or ella è volata in paradiso. Vi sono dei dolori che passano inosservati, o tutt'al più leniti di un breve compianto; dei dolori che non si osa di effondere, perchè la simpatia non sempre li propaga negli altri. Il mondo non dona che poche lagrime ad un vecchio che ha compiuta la sua mortale carriera: eppure quelli che lo amavano non devono sentir meno la sua perdita perchè la sua testa era grigia. Anzi una lunga abitudine e molti anni di affetto, col rafforzare i legami del cuore, dovrebbero farci sentire più viva e più irreparabile la ferita quando la morte viene a lacerarli. Chi pensa al fanciullino che dalla culla passa alla tomba quasi senza toccare la vita? Lo si cinge di candide vesti, lo s'inghirlanda di fiori, gli si canta un salmo di gioia, e si lascia pianger sola la madre che ha sentito con lui spegnersi parte della sua anima e che vede portar nel cimitero il suo sangue e la sua carne. Così trascorsi alcuni giorni, nessuno più pensava al dolore di Maria. Le restavano altri quattro figli, e poi non era giusto pianger un'angioletta beata nel cielo, e non avevano riguardo a parlargliene, e con improvvide consolazioni accrescevano la desolazione della povera madre. Essa pensava continuamente a' pochi anni della sua Menicuccia, la rammemorava dappertutto ov'era solita vederla; e quando, nel coricarsi, presso al suo letto gettava lo sguardo sulla culla deserta o sulle vesticciuole ancora appese alla parete, il cuore le s'infrangeva e passava tutta la notte piangendo. Gli ultimi momenti della fanciulla particolarmente erano per essa diventati una memoria indelebile. Nei quindici giorni ch'ella stette ammalata aveva voluto aver sempre sua madre daccanto; e, come la face che prima d'estinguersi manda più vivo splendore, così ella in quelle ore estreme aveva dato segno di un'intelligenza e di un affetto superiori alla sua età. Una sera mentre ritornava dal campo, passò in vicinanza al cimitero. Si ricordò che quando era a giornata in altra casa, la fanciulla andando pei campi e passando per di lì, soleva fermarsi ore e ore seduta sul limite della porta, affine di darle il buon giorno. Le parve di vedersela innanzi pallida pallida, che la rimproverava d'averla dimenticata e di passarle dappresso senza darle un abbraccio. Tornò addietro piangendo; s'inginocchiò sulla porta del cimitero, e chiamandola coi più dolci nomi la salutava e le parlava come se realmente l'avesse veduta. Un vecchio prete, che era stato a visitare un infermo in un molino poco di là distante, e che se ne tornava a casa attraverso la campagna, udì quel lamento. Chiuse il breviario, e stato un attimo in orecchi, s'incamminò a quella volta. Egli era d'un esteriore alquanto ruvido, ma il suo cuore schietto s'apriva alla compassione; e subito che ravvisò la donna, sentì rimescolarsi il sangue, le si appressò, e con la voce piana e più che poteva amorevole, — Comare! le disse, comare, che fate voi qui a quest'ora? — Ah! rispose la donna additando una sepoltura, ogni giorno ella veniva a salutarmi. Ogni sera sulla porta di casa ella stava aspettandomi per corrermi in braccio prima di coricarsi! — Il prete la lasciò piangere, e parlò a lungo con lei della fanciulla, e si fece raccontare tutti i particolari della malattia che l'aveva rapita; poi le stese una mano, e mostrava di volerla accompagnare a casa. Ma la donna tornò ai suoi pianti, e protestò che voleva rimaner lì presso a sua figlia. Ei le si assise vicino, e con voce calma: — Ella non è qui! le disse. Qui hanno posto il suo corpo, ma la sua anima è in cielo dove aspetta con gioia di rivedervi.... Sentite, Maria; se il Signore vi avesse detto: io vi lascio la vostra Menicuccia, ma dei figliuoli che v'ho dato questa piegherà a male e dopo la vita sarete sempre divisa da lei! dite, non sareste contenta d'avergliela invece donata adesso? Oh! la vita è breve, Maria, e sarà una gran consolazione il ritrovare lassù tutti quelli che abbiamo amato in questo mondo! Coraggio adunque, e affatichiamoci per questo poco di tempo! Ella intanto prega per voi, pe' suoi fratelli, per tutti i suoi cari. Pensate che avete dinanzi a Dio una creatura che è vostra. Sì; quell'anima che ora insieme cogli angeli gode il paradiso, l'avete voi donata al Signore!.... — E continuò a confortarla colle pietose idee della religione. La donna aveva sollevata la faccia, e teneva gli occhi lagrimosi al cielo ch'egli le additava. Il suo dolore s'era fatto quieto, come la notte che già occupava l'orizzonte. Alcune rare stelle scintillavano nell'azzurro, e la rugiada tacita e lenta si diffondeva su tutto il creato. Si avviarono insieme al villaggio. Nel dividersi, il buon prete le promise che avrebbe ogni giorno pregato per lei, e che sarebbe spesso venuto a visitarla per piangere insieme e parlare della sua figlioletta. Maria aveva finalmente trovato un amico, e dopo di quella sera, la sua vita, se non fu lieta, scorse almeno rassegnata e tranquilla. VI. UN EPISODIO DELL'ANNO DELLA FAME. Chi passa per Manzinello a tre porte a diritta della chiesa, vede una meschina casuccia, le cui due uniche finestrelle sono ora quasi nascoste da una vite che lor dinanzi protende i tralci carichi di molta verdura e di bei grappoli color d'oro. Nel 1816, abitava ivi un povero bracciante di nome Pietro. L'inclemenza delle stagioni, le guerre antecedenti, e l'improvvidenza d'un governo affatto nuovo preparavano al Friuli quell'epoca tremenda, che doveva in seguito così crudelmente desolarlo, che a noi nati più tardi par catastrofe piuttosto immaginata che vera. La mercede giornaliera, unico mezzo di sussistenza di cui campava egli e la sua famigliuola composta di sua madre, di sua moglie e di un figliolino, andava facendosi sempre più meschina, e spesso anche il lavoro mancava affatto; sicchè non gli era più possibile provvedere i generi che la scarsezza del ricolto aveva fuor di misura rincariti. Le due donne erano state obbligate a smettere il filare, perchè non potevano più raggranellar i soldi necessari alla provvista del canape, nè trovavano chi loro facesse credenza. Da principio, avevano tirato innanzi colla vendita di alcuni utensili di cucina ed attrezzi di agricoltura, col mettere in pegno le lenzuola, le coltrici e perfino i vestiti; ma anche questo fonte fu presto al termine. Venne l'ottobre; i campi desolati dalle gragnuole non lasciavano neppure la speranza delle vendemmie. Per non tradire le viti, s'aveva dovuto reciderne le trecce quando l'uva non era anco verde, e s'erano falciati i frumenti tuttavia in fiore. Un piovere ostinato aveva di poi guasti i granturchi, dimodochè vegetavano bianchicci: i gambi esili lungo i solchi slavati dalle acque parevano in camicia, e, quando si venne alla raccolta, le pannocchie rachitiche e mal mature erano la maggior parte nude di granelli. Sedevano una sera egli e la moglie sul limitare della loro casuccia, e pensavano al come provvedere al loro meschino campamento. La vecchia, immiserita dallo stento, era già da alcuni giorni ammalata; non avevano di che sostentarla, mancava lavoro, non v'era più nulla da impegnare nè da vendere, ci volevano ancora tre lunghi mesi a finir l'anno, e il veniente si mostrava già nell'aspetto il più terribile. E l'inverno? di che avrebbero campato, quando non vi sarebbe stato più nulla di verde? Non sapevano dove dare il capo. Pietro intristito teneva la fronte nelle mani: Maria in silenzio guardava alla notte stellata, alla pace dei campi; e il pensiero, invece di tormentarsi del presente vagava nelle memorie del passato, e per un bizzarro contrasto, le tornavano in mente le gioie della sua giovinezza. Prima del suo matrimonio ella era stata parecchi anni nella città d'Udine in casa di un mercante in qualità di fantesca, ma più particolarmente per badare i bimbi, l'ultimo dei quali dalle braccia della nutrice era passato nelle sue, e si può dire ch'ella lo aveva cresciuto e divezzato come se stata fosse sua madre. Nata nella semplicità dei campi, ella aveva portato seco il suo cuore schietto e facile, e s'era attaccata a' suoi padroni come se fosse della famiglia. Serviva non per mestiere, ma per affetto; e siccome l'ultimo de' suoi pensieri era il salario che riceveva, così non le passava neanche per la mente che le attenzioni e la benevolenza che le si prodigavano provenissero dall'utile che si trovava dal suo ingenuo e disinteressato servizio. La povera fanciulla credeva di essere amata! Non sapeva ella vedere l'immensa muraglia che il destino ha posto tra il ricco e il povero, od almeno nella sua bonarietà credeva che l'affetto potesse superarla. Rammemorava il tempo passato in quella casa. Contava allora 15 anni, e dai lineamenti che ancora conservava si poteva facilmente dedurre ch'ella doveva essere stata a quell'epoca un'assai bella ragazzetta. A donna giovane infiorata dalle grazie dell'avvenenza tutto facilmente si piega, e per fin l'aria nel circondarla si fa più gentile. Sia pur meschina la sua condizione, nel mondo non v'ha trono che possa paragonarsi a que' brevissimi anni di sorriso e di amore. Sicchè la poveretta nel riandare quell'epoca si ricordava per certo de' suoi più bei momenti. Come lampo le balenò dinanzi alla mente un pensiero. Se ricorresse a' suoi antichi padroni? Lo disse al marito. Per tutta risposta scosse il capo con un mesto sorriso. Ma la Maria, che misurava il cuore degli altri dal proprio: — Accertati, andava dicendo, sono buoni signori. Mi volevano bene.... E poi non si tratta che di farci credenza pochi mesi. Pagheremo colla galetta. — E se i bachi andassero a male? — Ne abbiamo pur fatto quest'anno colla sola foglia del cortiletto quasi trenta libbre. Possibile che il Signore e la Vergine Santissima non ci aiutino anche in avvenire? Nel dimani andarono alla città. La Maria tutta la strada non faceva altro che rammemorare gli anni ivi passati, e narrava al marito gli usi della famiglia, l'amore che le avevano i bimbi, i regalucci ricevuti dalla padrona; ed era allegra di rivedere persone ch'ella amava con tutto il cuore. Giunti all'abitazione del mercante, Maria picchiò, tutta fiducia; e Pietro, cavatosi il cappello, stava dietro alla moglie pieno di quell'umile esitanza che provano le genti di campagna nell'entrare le soglie del ricco, per cui quando mettono il piede in quelle pulite abitazioni e su quei lastrichi forbiti, elegantemente intarsiati, allegri di luce e di spazio, pare che inghiottano un'amara medicina, o che sien tratti ad un tribunale dove sappiano di non trovare nè misericordia nè giustizia. Un fanciulletto di circa dieci anni in uno svelto vestitino all'ungarica, in quella che entravano, attraversava il salotto d'ingresso. Lo ravvisò tosto Maria; e corsa ad abbracciarlo, non rifiniva d'ammirare il suo Carletto cotanto cresciuto ed imbellito. Il fanciullo s'era fatto vermiglio, ed aggiustava i suoi lunghi e biondi capelli scompigliati dai baci della rozza contadina, e si guardava le lattughe del candido collaretto, che nell'impeto di quell'affettuoso abbracciamento erano rimaste alquanto gualcite. Comparve sulla porta dello scrittoio il padrone di casa. — Spícciati, Carletto, diss'egli, di' alla mamma che ti dia quella nota.... — Poi accorgendosi dei contadini: — Buona gente, di chi domandate? — Una parola con lei, rispose Maria, baciandogli la mano. Egli allora li fece entrare in scrittoio, si sedette, e, deposti gli occhiali sulle spalancate pagine di un ampio libro di conti, si fece puntello della destra al mento, e cogli occhi nei due che gli stavano dinanzi aspettava che parlassero. Ma la Maria, che in suo cuore sperava un altro accoglimento, era tutta mortificata, ed abbassato il volto con visibile commozione sfilava le punte dell'ampio fazzoletto che piegato a croce le copriva la testa e le spalle; e Pietro, veduto quel silenzio della moglie, non sapeva come cominciare. Finalmente, dopo aver girato da tutti i lati il suo povero cappello: — Siamo a pregarla, Illustrissimo, diceva con voce contrita, se ella volesse farci la carità di darci tanto denaro da comperare un po' di biada.... che noi la pagheremmo colle galette.... — Dio mio, figliuoli miei! rispose il mercante, grattandosi il capo e col dosso della mano sollevando la grigia berretta che lo copriva.... darvi denaro, così su per le dita? Io non vi conosco.... — Non ci conosce!... Ha servito qui in casa quattr'anni.... Maria era sulle spine, avrebbe voluto potersi nascondere sotto terra: le sue guance infuocate brillavano di un tal rosso, che traspariva dal fazzoletto ch'ella si aveva tirato sugli occhi, e le di cui punte continuava a sfilare rapidamente e con un moto quasi convulso. — Sarà, conchiuse il mercante, ma se non trovate chi vi faccia garanzia.... — Allora la donna pose la mano in saccoccia, e cavatone un biglietto di monte: — Per amor di Dio ci soccorra, signore, disse; questo le servirà di garanzia. Sono cinque fili d'oro, che ho guadagnati qui in sua casa. Me lo ha comprato lei co' risparmi del mio salario, e vi ha aggiunto in regalo la crocetta.... È giusto che ritorni nelle sue mani. Il mercante prese il biglietto, lo esaminò, poi chiese a quanto poteva ammontare la galetta che speravano di fare; indi scrisse una lettera, e li mandò da un negoziante di granaglie che stava pochi passi lontano. Ringraziarono ed uscirono. Uno staio di granturco costava allora quarantotto lire; aggiungi il guadagno del rivenditore, quello di chi aspettava il denaro, la qualità cattiva del grano, la paga della macina e la fame che faceva consumare più del consueto, sicchè tutti quelli che l'hanno patita s'accordano nel narrare che in quell'annata mangiavasi il doppio; per il che poco durò loro quella provvidenza. Tornarono due o tre volte alla città col sacco sulle spalle, ed era esaurito il valore dei fili d'oro della Maria. Erano alla vigilia di Natale, e nella madia neanche una presa di farina. Il freddo si faceva sentire aspramente, pochi i vestiti, niente da bruciare, e lo stomaco vuoto. Pietro aveva portato a casa alcuni cavoli, ma le donne non avevano con che cuocerli. Sedevano entrambe intirizzite vicino al fuoco, su cui ardeva una manata di canne. Nei giorni precedenti avevano un po' alla volta abbruciate le tavole del letto, le sedie, una botte e tutti gli utensili che non era stato possibile di vendere, poi sfacevano il recinto di canne che chiudeva il cortile. Fracide, consunte dal tempo e dalla pioggia, più che calore spandevano fumo. Il vento che piombava dal fumaiolo, faceva stridere la debole fiammella e battere i denti alle donne. Soffiavano nelle mani, e ristrette l'una appresso dell'altra e accucciolate procuravano di tenersi calde coll'avvicinarsi della persona. Stettero alcuni minuti in triste silenzio; indi Pietro prese il cappello, e come ispirato da improvvisa risoluzione usciva. — Dove vai? chiese la moglie. — A provvedere un po' di stecchi, diss'egli, ed uscì. Era una bella notte stellata, ma un freddo così vivo che rodeva le viscere. Il vento s'era quetato, ma invece spirava di quel fino fino che taglia le orecchie e penetra sotto le unghie; la luna non ancora spuntata; tutta in silenzio la campagna. Ei si diresse verso un campo, dov'erano dimolte viti giovani appoggiate a dei pali. Prima di mettersi all'opera, posò il cappello in un solco; ma pensando che poteva dimenticarlo, e che trovato servirebbe di spia, lo riprese e lo nascose dietro il tronco d'un vinciglio, poi abbassatosi guardava giù pel campo attraverso i filari delle viti; gli parve che nessuno vi fosse, e slacciava i vimini. Aveva liberato un sette carracci, quando gli parve udire una pedata; tornò a guardare, e s'accorse di uno che veniva a gran passi lungo la pianta che gli stava di fronte. Si pose a correre, allora udì un fischio, e poi un dàlli dàlli, sicchè comprese ch'egli era in fra due; il povero diavolo scappava alla disperata, riuscì a togliersi di via prima che i suoi persecutori lo chiudessero in mezzo, ma inciampò in uno sterpo e cadde boccone: non era appena rialzato, che udì suonare per terra una tale mazzata, che guai! se lo avesse colto. Intanto che il galantuomo che lo inseguiva si riebbe dallo sforzo fatto nel menargli quel colpo, egli aveva potuto guizzargli di mano e saltato il fosso era sulla via e correva salvo a casa; ma aveva lasciato il cappello nel campo, e persoprappiù avea perduto anche la sua berretta di maglia, che nel passare così in fretta sotto a' festoni delle viti gli si era appiccata ad un viticcio. Nel dimani, giorno di Natale, come avrebbe fatto ad andare alla messa senza cappello? Tutti si sarebbero accorti del ladro; e Pietro, che per la prima volta costretto dal bisogno s'era posto a quella mala via, sentiva tutta la vergogna dell'essere scoperto. Intanto a casa le due donne stanche di aspettarlo erano andate a dormire senza cena. Salì tentoni la scala, e svestitosi piano piano per non isvegliare la moglie, si mise a letto. Ma la fame, il freddo e i mali pensieri non lasciavangli pigliar sonno. Si chiuse gli occhi colle mani e a forza di star quieto appisolò un momento, ma poi ratto svegliossi, e da capo a' suoi pensieri. Credette d'aver dormito lungamente e che già spuntasse l'alba; sicchè uscì dal giaciglio, si vestì in fretta, e tornò a vedere se avesse almeno potuto ricuperare il suo cappello. Era per entrare nel campo quando udì battere l'orologio del villaggio, contò: undici ore solamente! Si guardò intorno sospettoso, fischiò, stette in orecchi, poi tornava a fischiare e a guardare. Sinceratosi d'esser solo, corse al vinciglio a' cui piedi aveva appiattato il cappello. Lo raccolse contento, e poi rapidamente metteva in fascio i carracci già slacciati, ne cavava di altri, usando per altro diligenza per non offendere le viticelle; e mentre a ogni tratto si rannicchiava a spiare per di sotto a' festoni, se fosse scoperto, vide la sua berretta, che menata dal vento, dondolava da uno stecco, corse a pigliarla e, gettati sulle spalle tanti carracci quanti poteva portare, tornava a casa lieto, perchè aveva almeno di che godere una buona fiammata e sgranchirsi una volta le membra. — Lungo sarebbe descrivere ciò che patì quella povera famigliuola durante quell'orribile inverno. Nudrivansi di radici di erbe selvatiche raccolte nei prati, e, se veniva lor fatto di trovare in qualche recesso una covata di piantaggine ancor verde, lo avevano per fortuna, e se la mangiavano allessata così senza sale e senza condimento di sorta. Macinavano i torsi del cinquantino, e quella sterile e scheggiosa farina mescevano a poche prese di buona e ne facevano un arido pane insalubre, senza sapore, e piuttosto inganno alla fame che verace nutrimento. I semenzai delle rape e de' cavoli venivano disertati; e facevasi festa se potevano dar le mani in quelle piante già tallite, che mangiavansi fino alle radici. Vicino al villaggio fu seminato un campicello a fave; se ne accorsero i meschini che pativano la fame, e tosto a disseppellire, e colle unghie le razzolavano fuori, e in poco di ora tutta la terra fu voltata sottosopra. Una sera Pietro portò a un suo compare benestante un paio di calze di lana, e gliele diede per due pugni di farina di melica, e quello era il cibo di tutta la giornata. Un'altra volta gli venne in capo di far macinare un po' d'avena che teneva in serbo per semina, e vedere se avesse potuto servirsene a vivere; ne trasse una farina così candida da disgradarne il frumento. Lieto la diede alle donne, che tosto ne fecero una bella stiacciata, e cucinatala sotto la cenere, speravano di darsi una buona satolla. La cavarono, era color d'oro, e dentro bianca come latte. Per la cucina si spandeva un profumo di pan fresco che consolava, ma non fu nulla di poterla trangugiare. Aveva un sapore così ostico e tanto aspro e mordace, che lor stringeva le fauci come se avessero masticata una sorba ancora acerba. La vecchia già malaticcia non poteva più durare a vita così stentata, e sugli ultimi di carnovale si ridusse a letto. Il fanciullino strillava giorno e notte, e indarno la misera madre procacciava acquetarlo co' baci. Il suo petto era esausto; e più della fame la crucciava il veder immiserire quella sua creaturina, che continuamente le piangeva tra le braccia, e ch'ella non poteva in nessuna maniera aiutare. In quei giorni di dolore Pietro si risovvenne d'un suo antico credito. Ne' tempi addietro la sua famiglia teneva in affitto una colonia da un signore di Cividale. Dai conti fatti, quando venne accomiatato, egli risultava creditore di un cinquanta franchi per tanto vino di sua parte lasciato al padrone. Sul momento non gli furono pagati, ed egli li lasciava volentieri, persuadendosi di averli così in deposito in buone mani, e di potersene a qualunque bisogno servire. Pensò poi di riscuoterli; ma fu fatto correre tante volte indarno alla città, e l'ultima ricevette dal fattore una tal salva d'improperi, ch'egli, ignaro delle leggi ed impotente a farle valere, si rassegnò a riguardare quel suo capitale come per sempre perduto. Ora per altro che si trovava ridotto in sì deplorabile situazione, tornò a pensare a quel suo credito, e risolvette di fare un ultimo tentativo e di gettarsi ai piedi del ricco signore e d'implorare quel denaro ch'era suo sangue. Con questa intenzione sul principio di quaresima una bella mattina si pose sulla via che mena a Cividale. Camminava a rapidi passi, e qui e colà sotto i pioppi che fiancheggiano il torrente, sui prati, lungo le siepi vedeva dei miserabili gettati per terra, chiedenti indarno un tozzo di pane, e moribondi per inedia. Cacciati dalla fame, a torme scendevano dai monti, innondavano le città e i villaggi, e, non trovata misericordia, si spandevano a morire per li campi. Le fioche loro grida squarciavano il cuore a Pietro, come un orribile presentimento. Giunto in città, corse difilato alla casa del suo antico padrone. Saliva le scale proprio nel momento ch'egli colla moglie discendeva. — Signore, una parola! disse il povero contadino. — Non vedi che io esco? Aspetta in cucina: e partiva brontolando contro quegli asini dei servi, che aprivano, diceva egli, a ogni sorta di gente. Pietro mortificato si trasse in cucina, e, seduto in un cantuccio, aspettava. Aspettò il ben di Dio, senza che mai nessuno si ricordasse di lui. I servi mangiavano, vedeva correre su e giù con fiaschi di vino. Entrava il fornaio con un cofano di pane; e mentre lo riponevano negli armadi il profumo di quelle candide picce fresche di forno faceva venir l'acquolina in bocca al poveretto, che non aveva fatto colazione e a momenti più non isperava neanche di farla. Di quando in quando la cuoca scoperchiava un tegame e rivoltava non so che vivande, ma di un odore così squisito, ch'ei non potè più durare, e chiese: — Quanto ancora staranno a ritornare? In quella il padrone entrava in cucina. — E non era un uomo?... disse; ehi Pietro! e lo tirava in disparte. — Sono venuto, illustrissimo, per vedere se fosse di suo comodo di contarmi quei cinquanta franchi.... — E non c'è il fattore? — Ma, illustrissimo, sono stato tante volte, e sempre inutilmente. — Or bene, ritornerai. — E poi, signore, il fattore quest'oggi non è in città.... — Sta a vedere, che, perchè sua signoria non s'incomodi a tornare un'altra volta, toccherà a me a far da fattore! e tra il brusco e l'ironico volgeva le spalle al meschino che tenendogli dietro pregava: — Per carità, signore, anche una parola! A casa muoiono di fame...! Mia madre ammalata.... Cinquanta franchi per lei sono niente, per noi la vita!... — Eh vattene! rispos'egli; non mi seccare con cotesti piagnistei, che se i cinquanta franchi ti vengono, io non ho mica l'intenzione di trattenerteli. Intendi, o non intendi? conchiuse mostrando la porta all'infelice che colle mani tese e col volto atteggiato ad ineffabile dolore ancora pregava misericordia. Dovette andarsene. Nell'uscire di quella casa, gli venne un pensiero. Si calcò il cappello sugli occhi, e lì vicino colle spalle appuntate alla muraglia si morsicava in silenzio le labbra. Era domenica, quella contrada frequente, perchè il duomo e la piazza vicina. Attraverso le lagrime, che gli gocciolavano tacite per le guance emaciate, egli vedeva sfilarsegli dinanzi una quantità di gente. Erano giovinette colla paniera che correvano per recare un abito nuovo, ed un elegante cappellino a qualche signora del vicinato, erano canonici paffuti, dal maestoso portamento, e passando gli vellicavano la faccia lagrimosa coi loro morbidi mantelletti di seta; e poi belle signore tutte camuffate, giovinotti dalla vispa andatura, dal ridere affettato, che or si attruppavano, or fermavansi in liete chiacchiere, or salutavano alle finestre di facciata, e dietro a loro un profluvio di odorate essenze; indi donne ed uomini ancora e fanciulli, e tutti volti sconosciuti, che non davano un guardo a lui, che non comprendevano, e certo non importava loro di comprendere, ciò che passava nel suo cuore. Finalmente uscì di casa anche colui ch'egli aspettava; allora Pietro si mosse a camminargli dietro. Quando furono rimpetto al duomo, il signore entrò. Una quantità di gente stava intorno al pulpito. Vedevi una devota attenzione su tutte quelle facce sollevate in alto. Il predicatore era un giovane sacerdote in còtta e stola, pallido il volto e come estenuato dallo studio. La sua voce aveva un non so che di grave, e pari alle note dell'organo rimbombava armonica per le volte della maestosa cattedrale. Quando quel siffatto signore fu a portata di distinguere i suoni, raccolse queste parole: «Siate misericordiosi, come misericordioso son io, ed imitate me vostro Creatore, che non solo a voi, ma anche agli uccelli del cielo ed alle fiere del bosco preparo l'alimento. Se io ho provveduto alla vita di tutti, come potrò vedere senza adirarmi che l'uomo pèra per colpa dell'uomo dalla miseria e dalla fame distrutto? Al mio cospetto fra il ricco ed il povero v'ha forse disuguaglianza? Sono tutti della medesima creta impastati, e tutti un giorno in quella egualmente devono trasformarsi. Che se tu possederai le ricchezze e chiuderai le tue viscere alla misericordia, sarà da te lontana la mia pietà; e se non avranno i poveri le primizie delle tue biade, e te ne starai pascendo e satollando il cuore di tue ricchezze, piomberà sopra di te l'afflizione, e tu piangerai indarno con mesti ululati nel turbine della sciagura ravvolto; e vedrai putrefatte le tue facoltà e consumate dalle tignuole le tue vestimenta, arrugginiti i tuoi metalli, e quella ruggine, a guisa di fuoco, consumerà e divorerà la tua carne.» Girò gli occhi sull'udienza, e come per caso gli si fermarono su d'una faccia pallida, ch'ei tosto riconobbe. Era Pietro. Gli stava piantato di costa e senza por mente nè al luogo dove trovavasi, nè alle parole del predicatore ch'egli non intendeva, in maniche di camicia, colla giubba sulle spalle e col petto scoperto su cui potevi contare le costole, guardavalo fiso fiso. Cercò più volte di sottrarsi cangiando di posto; ma indarno, cangiava anche l'altro. Pareva che si fosse prefisso di voler stargli sempre in cospetto, come il rimorso di una mala azione, e di morire dinanzi a' suoi piedi. Gli corse un brivido per l'ossa, più non intese le parole della predica, e in quella folla di uditori che gli stavano d'intorno più non vedeva che una sola figura; quel contadino cencioso, che a guisa di scheletro si rizzava sulle nude gambe, col volto disfatto, coi capelli irti e cogli occhi incavati, fisi in lui e guardanti con un'espressione così sinistra, che non potè più sopportarli, ed usciva. Attraversò la piazza, svoltava la contrada che mette a man ritta, quando s'accorse che quell'uomo gli teneva dietro. Per liberarsene, entrò in una bottega da caffè. L'ostinato contadino niente curando quei signori ivi adunati si adossò al pilastro della porta, e come una mala cariatide continuava a minacciarlo degli occhi, il cui lampo aveva non so che di tremendo. Quel signore, come confuso si cercò allora in saccoccia; e se lo levò dinanzi gettandogli un tallero. Pietro corse a provvedere un po' di carne per sua madre, poi senza assaggiar nulla, si mise di nuovo in via e volava verso casa. Trovò nella cameretta della vecchia il cappellano che recitava le preci dei moribondi. A' piedi del letto era inginocchiata la Maria. Quando lo vide, gli corse incontro piangendo, e gettandosi nelle sue braccia, non colle parole, ma col suo dolore gli narrò tutto ch'era avvenuto nel tempo della sua assenza. Il tenue soccorso, ch'egli arrecava, era già troppo tardi. La vecchia per altro s'accorse ch'egli era venuto, e lasciato cadere sul petto il Crocefisso che le avevano posto tra le mani, fece come un moto per abbracciare un'ultima volta suo figlio, e ne' suoi occhi già appannati ed immobili parve che lampeggiasse un raggio d'affetto. Moriva consunta dall'inedia, moriva tra i suoi cari impotenti a soccorrerla, e pareva che lasciasse questo mondo consolata dal pensiero di alleggerire ad essi il peso dell'esistenza. Il sacerdote continuava a recitare le preci della Chiesa, e la sua voce grave e devota colla potenza della religione impediva i trasporti del dolore. Non ardivano interromperlo, e piangevano sommessi, e gli ultimi momenti di lei passavano tranquilli e rassegnati. Quando la candela benedetta, che le tenevano appressata alla faccia, arse immobile, egli intuonò il _De profundis_, e gettato uno spruzzo di acqua santa sul cadavere prese per un braccio Pietro, e lo condusse fuori. Lo lasciò piangere buona pezza fra le sue braccia, poi sedutosi con lui vicino al fuoco cominciò dolcemente a rimproverarlo, perchè egli avesse tenuta nascosta così la sua trista situazione. — Io non poteva, è vero, diss'egli, darti dei grandi aiuti, che son povero e son padre di molti poveri: ma nondimeno nella maniera che mi fosse stato possibile ti avrei soccorso, e, se non altro, colle mie amicizie. — Nel partire voleva condurlo seco in Canonica; ma il pover uomo era sì stanco dal viaggio, sì estenuato dall'inedia e dal dolore, che andò a gettarsi nel suo meschino letticciuolo. Ivi fu assalito da crudeli pensieri. Appoggiava la testa al muro, e sentiva sul cranio il ghiaccio della parete. Nella cameretta contigua colla testa appoggiata alla stessa parete giaceva sua madre morta, e morta di fame! Udiva il piangere del suo piccolo figliolino, che andava facendosi sempre più fioco, ed in ultimo non era più che un gemito prolungato e così pietoso, che gli rimbombava nel cuore; e abbasso nella via passavano i mugnai cogli asini e coi muli carichi di biada; egli udiva il pestare delle zampe e le grida dei conduttori. Poche pugna di quella biada bastato avrebbero a salvargli sua madre.... Oh se i ricchi avessero voluto cedergli una delle loro facoltose giornate! quello che nelle loro case si gettò ai cani!... Tanti in questo mondo che nuotano nel ben di Dio, ed egli tapino neppur un tozzo di pane per vivere! A ventisei anni essere in letto esinanito dalla miseria, tanto debole da non poter neanco voltarsi dall'altra banda, aver veduto sua madre morire priva di ogni soccorso, sentire i pianti della sua creatura, pensar sua moglie.... e intanto altri nella seta, nell'oro, in mille delicatezze! In quel momento gli parve orribile la giustizia degli uomini, ed era tentato di spaccarsi il cranio pestandolo sulla parete che gli serviva di guanciale. Ma l'immagine di colei che era di là gli si presentò dinanzi come l'aveva veduta poche ora prima, colle labbra appoggiate ai piedi del Crocefisso, rassegnata a chiudere nel dolore una vita menata tutta di dolore; gli sovvenne l'ultima occhiata ch'ella gli diede, l'amore con che gli stese le braccia moribonde, come per stringerlo al cuore e confortarlo a patire; rammemorò l'affetto ch'ella gli aveva sempre portato; le preghiere che dalle sue labbra aveva imparate, quando nella chiesa ancora fanciulletto gli mostrava l'altare e insegnavagli a devotamente giugnere le mani; recitò quelle preghiere per lei.... e nella sua memoria quietato, chiuse gli occhi lagrimosi e s'addormentò. Alcuni giorni dopo che fu dato sepoltura a sua madre, il cappellano lo mandò a chiamare. Andò Pietro in Canonica, e il buon prete, dopo averselo fatto sedere vicino, cavò di tasca una lettera, e spiegatala gli disse: — Qui mi scrive un mio amico, il signor tale, che vi prenderebbe al suo servizio. Gli è un galantuomo, che converte in belle piante di mori e di viti gli zecchini che gli ha lasciato suo padre, e dà da vivere alla povera gente. Avreste dodici soldi al giorno e due libbre di farina; la domenica e il giovedì minestra, e un boccale d'aceto per settimana.... Adagio, compare, soggiuns'egli al contadino, che a quella proposta aveva aperto gli occhi e si consolava come a una fortuna insperata, tu hai moglie e un figlio; non devi abbandonare la poveretta senza ottenere prima il suo assenso. — La mandarono a chiamare, e quando si fu seduta lì presso loro, il cappellano le espose il contenuto della lettera, e poi con dolci parole la confortava a dir schiettamente se acconsentiva. Maria abbassò la fronte. Questo abbandono del marito era dolore non preveduto e tanto crudele, ch'ella lo sentì nel cuore fisicamente come la punta di un ferro. Nella sua misera condizione ella aveva bisogno di una creatura che seco dividesse i patimenti e le lacrime. Partito l'uomo a cui tutti si volgevano i suoi pensieri, i suoi affetti, che sarebbe stato di lei vedova e tapina nella solitudine della sua povera casetta? e in quali braccia si sarebbe gettata, se per avventura le morisse intanto il bambinello già tanto debole e malaticcio? Pure raccolse tutto il suo coraggio, e presa la mano del marito: — Andate, disse: vivete almeno voi! — e due grosse lagrime le caddero dagli occhi. — Vivrete tutti, soggiunse il cappellano intenerito; confidate nella provvidenza di Dio! E intanto voi partite subito: poichè a questa si ha da venire, è meglio finirla. — Allora i due poveretti si abbracciarono; e Pietro senza poter dir parola, ma cogli occhi raccomandando al buon prete la sua donna piangente, si tolse di lì, e si pose in via alla volta del bel paesetto dove abitava quell'amico del cappellano. Arrivò sul mezzogiorno. Il padrone lo mise tosto nel novero dei lavoranti. Era una turba di cinquanta e più uomini, che in quell'ora entravano tutti nel cortile; e in cucina in una gran caldaia si rimestava un'enorme polenta per quelli di essi che avevano scelto di riscuotere così la lor porzione di farina. Pietro in quel primo giorno l'ebbe anch'egli cucinata. Ma poi cominciò a farsi ben volere dal castaldo e da sua moglie. Era compiacente, attivo, aveva bei modi; e poi, nelle ore di riposo ispazzava la cucina, attigneva l'acqua, dava mano alle faccenduole di casa, di maniera che lo presero a pranzo con loro; ed egli in capo a due settimane potè mandare alla Maria un bel sacchetto di farina e tutti i soldi delle giornate, che il padrone pagava puntualmente ogni sabbato. Quel signore trasse in quell'anno un grand'utile dalle braccia dei poveri ch'egli seppe impiegare. I magliuoli da lui piantati hanno prosperato magnificamente, e i mori a ceppaia, e quelli d'alto fusto, che da ambi i lati mettono confine ai filari delle viti sono ora giganteschi, e servono di modello agli agricoltori di que' contorni. Pietro, con un senso di riconoscenza, visita ogni anno questa bella piantagione, e nei giorni testè passati additava tutto allegro la molta uva pendente da quei tralci rigogliosi. Pareva che ve l'avessero appesa col filo, tanto il Signore si era compiaciuto di benedire i sudori del povero, e la benefica industria di quel bravo possidente. VII. IL LICOF. Possedere ad un tempo avvenenza, ricchezza e gioventù, dovrebb'essere quel tanto di paradiso terrestre che può la sorte concedere ai mortali. La contessa Ardemia della Rovere aveva ricevuto dalla mano di Dio questi tre bei doni della fortuna, e inoltre un cuore capace di affetto, uno spirito abbastanza svegliato, una cospicua nobiltà di natali; con tuttociò ell'era tutt'altro che felice. Per obbedire ai parenti e per altre convenienze di famiglia, ella aveva contratto assai giovane un matrimonio contro genio, a' pesi del quale non aveva poi saputo rassegnarsi. — Ella non era di quelle donne, che purchè godano d'una brillante posizione in società, sanno inghiottire le pillole più amare. Una collana preziosa, un cascemire delle Indie, un qualunque presente per ricco ed elegante che fosse, non valevano a rabbonirla quand'era stata offesa nel suo amor proprio, o credeva mancato ai riguardi che le si dovevano. Aggiungi ch'ella era d'un carattere assai vivo, e un po' altera e capricciosetta, cosicchè in capo a pochi anni si trovò nella necessità di dividersi dal marito. Una donna giovane e bella che viva isolata in mezzo ad una città, è presto scopo alla maldicenza, e ben anche alla calunnia. Ella aveva compreso tutta la difficoltà della sua posizione, e per sottrarsene viveva la maggior parte dell'anno in una sua villetta, contentandosi di fare qualche allegra giterella, or in una or in altra delle città circonvicine, e di sbizzarrire in oggetti di lusso e di moda, in ricchezza di equipaggi, in bellissimi cavalli ed altre leggiadrie, che unite alla sua rara bellezza le valevano l'ammirazione e l'applauso della folla, dappertutto dove le piaceva mostrarsi. Più tardi s'accorse che questi frivoli piaceri erano troppo scarso compenso all'amarezza del suo povero cuore ferito, e che chi ha la disgrazia d'aver perduto la famiglia che il Signore le aveva destinata, se può trovare qualche conforto nelle cose di quaggiù, gli è solo nel procurare d'essere utile agli altri. D'altronde, col genere di vita allegra e quasi spensierata a cui nei primi momenti della sua crisi si aveva appigliata, il suo sacrificio non era abbastanza completo per imporre silenzio al mondo. Avrebbe bisognato che a vent'anni avesse menato la vita d'una donna di cinquanta, che si fosse contentata di seppellirsi nella sua solitudine, od almeno di non comparire nella società con quegli ornamenti che davano tanto risalto alla sua bella persona, e che movevano l'invidia delle sue rivali. Se l'avessero veduta priva di tutti i piaceri, con un vestito fuori di moda, trasandata, vecchia prima dell'ora, le avrebbero perdonato la sua avvenenza, la sua ricchezza; avrebbero fors'anco compatito il suo passato, e si sarebbero compiaciuti di riguardarla come una vittima infelice e tradita. Ma se v'era chi per lei nutriva simili sentimenti, la maggior parte invece facevano sul suo conto ben altri commenti. Per cotesti ell'era una donna bizzarra e capricciosa, e che non voleva rassegnarsi agli obblighi del suo stato — era una bisbetica, che non aveva saputo perdonare al marito le colpe ch'ella stessa, second'essi, colla sua mala condotta aveva occasionate — una civettina, che trovava il suo conto a viver fuori di ogni soggezione; e non mancavano di scrutare tutti i suoi passi, ed anche di lacerare la sua riputazione colle più maligne interpretazioni. Queste chiacchere, unite ai rimproveri che di quando in quando riceveva dalla madre, che, lei bamboletta ancora, era passata a seconde nozze, e le aveva regalato una sorella e due fratelli uterini, invidiosi del suo assai più ricco patrimonio, spargevano d'assenzio molti de' suoi giorni. Fortunatamente che il suo cervello era un terreno fertile di fiori che ad ogni strappata di dolore ne produceva tosto di altri e più ridenti e più vivamente coloriti. Ora le veniva il capriccio di cavalcare, e vestita all'amazzone e accompagnata dagli amici scorazzava su d'un brioso ginnetto per tutti i contorni della sua villeggiatura, finchè una predichina della madre o di qualcuno dei parenti non l'obbligava a smettere. Le saltava allora di provare il valore delle sue gambe; e fattasi amica la moglie dello speziale, o la nipote del curato, esciva ogni giorno in abito succinto e con un largo cappello di paglia a far delle lunghe passeggiate, fumando qualche sigaro, e compromettendo il decoro della nobilissima sua stirpe, e di quella del marito, col degnarsi di entrare in qualche povera osteria dei villaggi che percorreva. Alzavano allora il naso i parenti offesi da queste sue pedestri scampagnate, e a forza di rimbrotti giugnevano a persuadergliene l'inconvenienza. Ma il peggio si era l'autunno, quando recavansi a villeggiare nei paesi circonvicini le sue amiche di un tempo, una sua zia gran Dama della croce stellata, e il marchese del Verde marito della madre, che aveva la sua casa di campagna a poche miglia di distanza da lei. Venivano a farle visita, e sempre restavano malcontenti di qualche novità che trovavano, o nel palazzino, o nelle persone che la frequentavano, o nella sua maniera di vivere. Un anno, fra gli altri, fu un gran chiasso, e poco mancò non finisse di disgustarsi per sempre con tutta la sua nobile parentela. Si pensò di farsi piantare in una vasta prateria, a piedi delle colline, un capannuccio di frasche, e provvistasi della sua brava licenza, ogni mattina innanzi che albeggiasse usciva ad uccellare. Prima ad accorgersi dello scandalo fu la zia gran Dama della croce stellata. Era essa venuta a farle visita, e non trovatala in casa, ne chiese alla cameriera, un po' per premura di sapere della nipote, e un po' per curiosità de' suoi fatti. Questa le raccontò il nuovo gusto della padroncina; e madama indignata di simili bassezze, propose di ricattarsi della visita fatta invano, coll'accusarla ai parenti; il che fece la sera istessa alla conversazione del marchese del Verde, dove convenivano a far la partita la maggior parte dei signori dei contorni. Parve la cosa tanto strana, che non le fu prestata piena fede: che una contessa della Rovere, discendente da antichissima famiglia, imparentata colla prima nobiltà del paese, andasse ad uccellare alle mattoline, non combinavasi nè colle loro idee, nè col carattere orgoglioso ed altero che credevano d'averle sempre conosciuto. È vero che dopo _il passo falso_, così essi chiamavano quello del divorzio, l'Ardemia n'aveva commessa più d'una delle storditaggini; ma questa pareva troppo grossa, e si limitarono a crederlo uno scherzo malizioso della signora zia. Due giorni più tardi dovettero peraltro persuadersi che non era stata aggiunta sillaba al fatto. Il marchese del Verde con alcuni amici e col curato, verso mezzogiorno trovavasi per caso nella spezieria, quando la vide che ritornava a casa, seguíta dall'uccellatore che portava sulle spalle a cavalcioni d'una lunga asta le gabbie dei richiami, i zimbelli, le paniuzze e gli altri attrezzi dell'uccellanda. Ella era in borsacchini di cuoio, in un vestitino verde, svelto e succinto che le stava a meraviglia. Aveva appiattati i ricci in un grazioso turbante di velluto dello stesso colore, sotto il quale quel suo bel visino fresco sorridente, e allora un po' arrossato per il sole e per la lunga camminata, pareva una fragola rugiadosa mezzo nascosta tra le foglie. Portava ella stessa la preda consistente in un bel mazzo di mattoline e di cutrettole, e sul petto a guisa di decorazione le usciva da un occhiello un cordoncino a cui erano appesi diversi zirli e fischierelli d'argento. Questo era più di quanto occorreva per suscitarle contro la guerra. Il marchese particolarmente non poteva perdonarle l'idea di passar per il villaggio in quell'arnese, mentre per andarsene a casa aveva altra via ed anco più breve. Ciò a' suoi occhi era un voler proprio attirarsi l'indignazione del pubblico, e prostituire il decoro della famiglia. La sera alla conversazione non si fece altro che parlare dello scandalo; e fu risolto che nel domani la marchesa, aiutata dalla zia, avrebbe fatte le sue rimostranze in lettera, non volendo più nessuno esporsi ad un contatto che avrebbe potuto riuscire burrascoso, e perchè il mal umore era tanto grande da rendere difficile, per non dire impossibile, il mantenersi a sangue freddo. Nel domani, mentre le dame davano forma al sermone, i due fratelli, in compagnia d'un altro giovinotto lor compagno di scuola e ospite in casa, pensarono di fare una scappata all'uccellanda. Faceva una di quelle bellissime giornate d'autunno, che sogliono fiorire in fondo alla buona stagione, come s'ella volesse prima di cedere il campo all'inverno darci ancora un ultimo addio. I tre giovinotti s'erano messi per un viottolo tortuoso che riesciva ad un'acquicella, e attraverso le siepi ancora verdi la vedevano passare luccicando, e ne udivano il lieve susurro che faceva armonia con un lontano coro di voci che parevano discendere da uno dei colli vicini. Era gente che terminava di raccogliere le uve, e così vendemmiando cantavano le loro villotte. Un'allegria infinita si spandeva per tutto il creato coi raggi del sole, che spogliati del loro calore, ma splendidi e limpidi come nel più forte della state, piovevano in grembo al verde dei campi e quasi accarezzavano le membra. L'atmosfera placida e senza nubi era commossa da un solo filo d'aria, ma così tenue, che non giugneva a scuoter le frondi, tranne quelle della tremerella e del pioppo, che sulle più alte cime apparivano or bianche ed or verdi a seconda che le inargentava la luce. A qualche passo di distanza scoprivano di quando in quando alcuni fili di tenuissima seta attraversare lievemente ondulanti la via. Vollero discoprire l'insetto che ardiva lanciarli così pel vano, e fermatisi, dove un punto lucido del filo aveva fermata la loro attenzione, viddero il ragno navigatore dell'aria che, adagiatosi tra le vele dell'elegante barchetto ch'egli s'ha filato, si abbandona al venticello e passa quasi volando da un albero all'altro, svogliendo come da gomitolo la seta che la natura gli ha posta nel seno. — Così chiacchierando ed osservando giunsero al rivoletto. Lo guadarono coll'aiuto d'alcuni sassi gettati attraverso la corrente, e furono sulla vasta prateria che si stende a piè delle colline di Buttrio a Rosazzo. Camminavano veloci per l'erba, cercando discoprire coll'occhio dove fosse il capannucolo della sorella. In fondo, quasi sotto alle colline vedevano un punto nero, e si diressero a quella volta. Quando le erano distanti non più d'un tiro di fucile, la viddero che era sulla porta del capannuccio nascosta tra le frasche, e guardava in alto ed aveva il fischietto alle labbra. Si soffermarono in silenzio. Cinque o sei mattoline giù dai colli dalla parte di levante venivano a piccioli spruzzi volando per l'aria; giunte a portata dei pali, e veduto giuocare nell'erba il zimbello, si lasciarono cadere ad ali abbandonate sulle paniuzze. Presto la contessa e l'uccellatore uscirono a raccoglierle, ed anch'essi come per un moto involontario corsero ad aiutarli. Alcune, piegato col loro peso la debole verghetta, penzolavano insieme con essa dalle corna del palo; una o due erano cadute sull'erba e svolazzando cercavano di spaniarsi. Lieti le portarono nel capannuccio, e non avevano ancora terminato di salutarsi, che l'uccellatore avvisò che ne passavano di altre. Tosto fu dato mano ai fischietti e zimbelli, ma queste, immaliziate, quando furono a fior de' pali rialzarono il volo e andarono a posarsi più lungi sul prato. Allora alcuni fanciulli ch'erano al pascolo dalla parte di ponente andarono a prender loro la volta e procuravano farle rivolare alla pania; le vedevano saltellare per l'erba, e con esse erano alcune cuttrettole che discernevansi al tremolare della bianca e lunga lor coda. Finalmente ripigliarono il volo, e la maggior parte come le prime si buttarono sulle paniuzze. I giovani cominciavano a prender gusto al divertimento; e più ancora lo trovarono perdonabile, quando l'Ardemia, mostrando in una lunga filza la preda abbondante di quella mattina, lor propose una colazione sul prato. Accettarono allegri, e si misero ad ammannire gli uccelletti. Ella mandò a raccoglier le legna alcuni di que' pastori e ad uno di essi ordinò che andasse alla sua colonia, che era quella che si vedeva alla radice del più vicino dei colli, e dicesse alla Betta di venir subito giù e di portare con sè un buon fiasco di _rebola_, l'occorrente per gli uccelli e per la polenta. Intanto l'uccellatore d'una lunga bacchetta s'ingegnava di costruire una specie di spiedo, e poi, conficcati due pali in terra, dava loro forma di alari, e traversalmente a forza di vimini assicurava un terzo che facesse da catena da fuoco. Erano ancora in questi preparativi, quando di mezzo al verde viddero spuntare una vispa contadinella che portava in mano un paiuolo e sulle spalle appesi all'arconcello due cesti coperti da due polite tovagliuole. Le corsero incontro, e deposti i cesti sull'erba cominciarono a cavarne fuori la farina, il sale, l'olio, i ciccioli, la salvia; la Betta s'era ricordata di tutto, e inoltre aveva aggiunto un bel piatto d'uva fresca e delle frutta, che col loro vago colore, e col profumo che spandevano, solleticavano dolcemente l'appetito. Accesero il fuoco, la Betta s'accinse a far la polenta, e in un momento il frugale banchetto fu pronto. Allora s'assisero in cerchio sull'erba che lor serviva di mensa, di tappeto e di sedia, e allegri cominciarono ad assaporare la preda. La contessa diede d'occhio alla Betta che un po' indietro, tutta rossa pel sole e per la fatica della polenta, s'asciugava il volto coi lembi del suo fazzoletto da testa, e la invitò a sedersi con essi e a prender parte alla colazione; ma la buona fanciulla ricusava, parendole inconveniente mettersi con quei signori. — Via, da brava, le disse Ardemia, qui siamo tutti eguali; e sarebbe bella che dopo averci aiutati sin adesso, ora volessi andartene a bocca asciutta! — Le forme avvenenti e le aggraziate risposte della forosetta fecero trovar giusta l'osservazione ai ragazzi, che anch'essi si unirono a persuaderla, e tanto fecero finchè l'obbligarono a prender parte al banchetto. Ma quando videro che l'Ardemia non si limitava alla sola giovinetta, e che volle far sedere in compagnia anche l'uccellatore, l'avvisarono che ciò era un lasciarsi andare un po' troppo, e pensavano, quasi arrossendo, ai commenti che ne avrebbe tirati la zia Gran Croce stellata. Oramai non si poteva più ritirarsi, e si accomodarono alla meglio a cotesto capriccetto della sorella, tanto più che l'ultima _rebola_ e gli uccelletti saporitissimi e cotti al vero punto quietarono loro nelle vene il sangue nobile che incominciava a intorbidarsi, e il misero all'unisono dell'allegra compagnia che li circondava. Un poco alla volta il chiacchierare si faceva sempre più disinvolto, e sulla fine, senza più distinzioni di nascita, parlavano come se fossero stati eguali. Gran parte dei discorsi caddero sull'uccellata, sulle mattoline, sul modo di conservare i richiami. La contessa voleva sapere da dove venissero, e perchè su quella stagione passassero così metodicamente. L'uccellatore pretendeva saperlo ed essere anche stato nel loro paese. — Nel paese delle mattoline! ripigliò uno dei giovani, e che paese è cotesto? — Gli è una montagna posta a confine del Friuli, due buone giornate sopra Cividale. Ecco là — quel cucuzzolo che spunta sul ronco del signor ***. — Quel bianco più alto di tutti? — — No, disse l'uccellatore. Quella è una delle vette del Monte Canino. Siamo troppo sotto alle colline; ma se guardano più giù verso Manzano, vedranno quel becco che pare la punta di un campanile. E lì è Monte Maggiore. — E là stanno di casa le mattoline? — — Gnor sì, e i fringuelli, e le beccacce, e le starne, e le coturnici, e una quantità di selvaggiume che è proprio una gloria. Là vanno in primavera a fare i loro nidi, perchè quel monte, signori miei, è ricco di boscaglie immense, c'è una prateria dove pascolano bellissimi puledri; vi sono grotte da cui sgorgano sorgenti d'acqua, che mantengono per l'estate una freschezza deliziosa e un verde sempre morbido e perenne. Gli è dietro di quelle giogaie che nasce da una parte il Nadisone e vien giù fra' grebbani a Cividale, e dall'altra più in dentro l'Isonzo, che corre a Gorizia segnando come un gran ferro di cavallo tra montagne che toccano il cielo colla cima.... — E che cosa sei stato a fare tu in quei paesi? — A provvedere uccelli di richiamo, rispose l'uccellatore. Ci andai con alcuni compagni, e di quella strada ci siamo spassati un poco a cacciare. Che siti di delizia! le beccacce ci davano ne' piedi ad ogni minuto. E tra que' pometi a piè di quei poggi, in quei praterelli irrigati da tante acquerelle, ci si levavano intorno storme di oche e di anitre selvaggie. — Ma se là fanno il nido.... — Ed è da di là che ci vengono quelle belle bionde Marinze dagli occhi piccoli e vivi, bianche e rosse come un bel pomo di Carnia, a cui la natura ha fatto appositamente la testa piatta affinchè possano portarvi sopra con facilità quelle immani ceste.... — Eh di' piuttosto che un tal costume è la cagione per cui sono così conformate! ma già fa lo stesso. Tira, tira innanzi. — Signor no! diss'egli, la è proprio una particolarità del paese che loro vale un mondo per i trasporti delle derrate tra quei dirupi dove non ci sono strade. Eh! anch'io guardando le giovinotte che passano qui la state colle frutta, pensava che fosse il peso che a forza di comprimere il cranio avesse lor ridotta la fronte a sole due dita di dimensione, e fatti riuscire in fuori gli zigomi delle guance. Ma non è vero. Sono stato lassù, e ho dovuto convincermi che proprio nascono così, e che è stata la mano di Dio che ha loro dato una così fatta schiacciatina. — E alla carlona continua a dar loro lezioni di storia naturale, Dio lo sa quanto esatte, ma che condite col racconto del suo viaggio e dell'impressione che gli aveva lasciata nell'anima la vista di quel lembo del nostro Friuli che confina colle genti slave, li divertivano, e lor facevano trovare amena la conversazione di quell'uomo che consideravano non più di un rozzo bifolco. Finita la colezione, i giovinotti si accommiatarono, e tornavano a casa meno avversi alla sorella, i cui capricci in buona coscienza non trovavano poi tanto di cattivo genere. In tale disposizione d'animo, durante il pranzo, a cui in quel giorno assisteva anche la zia, al solito riaccamparsi delle accuse e dei lamenti contro l'Ardemia, osarono avventurare qualche parola in di lei favore, ma fu un versar olio nel fuoco. Avevano mal calcolato la forza del partito contrario. Oltre le due dame, che collo scrivere la lettera della mattina, e col rammemorare a tal uopo e ponderare insieme tutte le avventataggini della giovine avevano finito col sempre più disgustarsi, c'era il marchese anch'egli all'ultimo segno malcontento, e per fino la sorella, ad onta del bene che le voleva, in quel dì si univa a darle biasimo. Da un pezzo ella soffriva a malincuore quelle tante chiacchiere; le pareva che in qualche maniera si riversassero sopra di lei, e che unite al passo clamoroso del divorzio e alla cattiva fama che si aveva acquistata nella società accrescessero sempre più per lei le difficoltà di un buon collocamento. Cosicchè la narrazione che i giovani fecero del piacere goduto, non fu che un nuovo capo d'accusa. Simili sollazzi, oltrechè inusitati per una donna, non avevano secondo essi per niente il merito di mostrare un cuore umano e ben fatto. Poi si trovò affatto volgare e plebeo il mettersi in compagnia d'un uccellatore che non era altro che un rozzo contadino, il sedersi a far merenda su di un prato, il mescolarsi con persone tanto al di sotto e per nascita e per educazione; e qui indignati tutti d'accordo si scatenarono contro a cotesto nuovo delitto di lesa nobiltà. La zia Gran Dama della croce stellata mostravasi particolarmente offesa, e nell'impeto della sua eloquenza arrivò perfino a conchiudere, che questi cattivi gusti, e la propensione che si vedeva nei giovani a dimenticare così facilmente il proprio grado, doveva nascere dalla pratica oramai così fatalmente diffusa del vaccino, per cui le stirpi le più nobili e più gentili si trovavano al terribile contatto di vedersi inoculare il sangue d'un marcio bifolco. Quantunque quest'acuta osservazione avesse avuto il vantaggio di far sorridere un cotal pochino le labbra sottili ed ironiche del marchese, pure si risolvette di punire l'Ardemia col troncare con essa per intanto ogni relazione d'amicizia, e ai giovani si giunse fino a dar ordine di ricordarsi bene di non metter più piede in casa di lei. A prima vista la giovane contessa, quando lesse la lettera della madre, rimase dolente d'avere involontariamente recato un così grave disgusto, ed era quasi per andar subito da lei a promettere di rinunciare all'uccellata; ma poi, riflettendo, che se faceva questo passo per mantenere la buona armonia, le sarebbe stato d'uopo sacrificare anche un altro piacere ch'ella aveva proposto, e che certo non era di loro approvazione, pensò di tirar innanzi. Ormai l'autunno era per terminare, si trattava solo di pochi giorni, e in suo pensiero, giacchè si erano corrucciati per le mattoline, tanto valeva che durassero in quel corruccio e le lasciassero così più libertà all'adempimento del suo progetto, dopo il quale si sarebbe accomodata a tutti i loro desidèri, e un solo perdono e una sola pace avrebbero fatte le spese del necessario rappattumarsi. In molti luoghi del Friuli esiste un'antica costumanza, per cui, sul finire dell'autunno, dopo terminata la raccolta e fatto i conti ai coloni, il padrone invita a pranzo ogni capo di famiglia a lui soggetta, e questo banchetto si chiama il _Licof_. Ora l'Ardemia aveva pensato di dare in quell'anno questo _Licof_ con tutta la solennità possibile; e poichè ella era una donna aveva invitato non solamente tutti i capi di famiglia tra i suoi affittaiuoli, ma anche tutte le padrone di casa. Nella sua bizzarra testolina aveva divisato di dare con ciò un esempio, per cui tra i contadini sparisse quel brutto costume che vuole escluse le donne dalla mensa de' loro mariti, e le condanna a mangiare in disparte o in un cantuccio del focolare, perfino nei giorni solenni di nozze o di battesimo. Aveva fatto apparecchiare dei regalucci che intendeva dispensare sul fine del pranzo a tutti gli invitati, e particolarmente a quelli e a quelle che avevano meglio acquistata la sua approvazione, distinguendosi o in qualche utile industria agricola, o nell'economia domestica, o nell'allevare il bestiame, o infine con una esemplare condotta o con qualche bell'azione di cui ella si faceva render conto dal suo fattore, uomo integerrimo e grandemente amato in paese. E a questo banchetto, che per solito s'imbandisce nelle cucine dei signori, e che ella aveva divisato di trasportare in un salotto a pian terreno che dava sul suo giardinetto, e che aveva a tal fine appositamente fatto allestire, si proponeva di sedere anch'essa attorniata da' suoi buoni affittaiuoli, e di prenderne parte, che che ne dovessero poi dire i suoi illustri parenti. Per lo passato, in mezzo ai capricci e alle bizzarrie con cui spesso aveva dato motivo di disgusto alla famiglia, s'era peraltro sempre mostrata affettuosa e per lo più docile ai loro rimarchi; sicchè, ora vedendola non far caso dei ricevuti rimproveri e continuare l'uccellata, parve questo suo procedere una muta protesta con cui avesse in animo di sfidarli, e s'accrebbe il mal umore, che poi giunse al suo colmo quando riseppero del divisato banchetto. Tanto più, che, come in tutte le occasioni, non mancarono neanche in questa le ciance esagerate e i soliti mali uffici indiretti, che dipinsero la cosa come un baccano per ogni lato disdicevole alla sua condizione e alla sua nascita. Fu narrato come erano già accaparrati i sonatori per la musica durante il pranzo; ciò che faceva temere non si terminasse con una festa da ballo, a cui essa si sarebbe forse anche degnata di prender parte. Erano stati visti portare alla sua casa diversi cofani di provviste, e ognuno voleva dire la sua su ciò che potevano contenere. Si era saputo d'una visita fatta al Parroco ad oggetto di ottenere il permesso per una messa solenne, a cui dicevasi ch'ella voleva intervenire la mattina in gran treno accompagnata dal fattore e seguíta da tutti i suoi dipendenti. La malignità poi non si risparmiava di vociferare sulla bizzarria dell'abito ch'ella avrebbe in quel giorno indossato, e che si diceva già ordinato alla sarta. Questo dava gran materia di discorso, particolarmente alle signore dei contorni sue conoscenti ed amiche, che al toccarsi di una tal corda non mancavano di rammemorare tutte le volte che s'era mostrata in un abbigliamento alquanto capriccioso; e tanto più si scatenavano contro la sua mania d'inventar nuove fogge e farsi originale, quanto gli uomini per difenderla che anche in onta a tutte le regole della moda e del buon gusto, ella sapeva benissimo scegliere quei vestiti che meglio le tornavano alla persona e facevano più spiccare la sua incontrastabile bellezza. Allora il vespaio era stuzzicato: si mettevano in campo tutti i suoi casi passati, si recriminavano tutte le sue azioni, le si leggeva la vita, si sentenziava, si condannava; e invece di placare, soffiavano nel fuoco; e sempre più s'ingigantiva il malcontento dei parenti già di troppo esacerbati. Or egli avvenne, che proprio la vigilia di questo pranzo che faceva tanto chiasso, capitò in casa del marchese il cavalier di F***, allora nominato governatore a N***. All'università di Bologna egli aveva conosciuto il padre dell'Ardemia, e s'erano legati in una di quelle intime amicizie, che la giovanile vigoria degli affetti persuade dover durare eternamente; ma che poi troppo spesso dileguano al variare della vita. In fatti, i due giovani dopo quell'epoca disgiunti e sobbalzati in assai diversa carriera, non avevano mantenuto che una rara corrispondenza ed anche questa col tempo venne meno. Nel cuore del cavaliere.... era rimasta però una viva e gratissima memoria dell'amico; ed ora nel suo viaggio da Vienna a N*** passava per le terre di lui, e sentiva ad ogni passo declinare il nome de' villaggi ch'egli mille volte li aveva ripetuti, volle rivederne la vedovella e conoscerne la figlia, de' cui casi aveva udito qualche cosa nella città di R*** dove ne aveva chiesto, e dove s'era fermato alcuni giorni ad oggetto di esaminare un istituto ivi eretto di recente. Il cavaliere di F*** aveva sortito dalla natura un'assai bella mente e un cuore caldo per tutto ciò che stimava tornar utile alla società. Possedeva la rara prerogativa di far adottare agli altri quasi all'insaputa le proprie opinioni e tendenze. Il suo guardo acuto e scrutatore discerneva, a primo slancio, anche di mezzo alle debolezze ed alle follie, quella scintilla di bene che la provida natura ha collocato in ogni cervello umano, e che spesso quanto è più ingombra e nascosta nella cenere, posta in attività, altrettanto è più efficace. Per lui non era uomo, per rotto e malvagio che fosse, che non possedesse qualche secreta virtù, capace di redimerlo, e sapeva valutarla, e trarne profitto fin in coloro che gli erano nemici ed oppositori. In somma, era uno di quei rari uomini, che in qualunque posizione sanno farsi centro di movimento e di vita; ma che se la sorte fa salire al potere e pone a capo delle cose, sono benedizione al paese che li possiede, e segnano un'epoca certa di progresso e di ben essere universale. Salito rapidamente in carriera, ed in grazia del suo merito e dei servigi prestati onorato di un impiego importante, egli tornava nella provincia affidata al suo governo; dove la sua attività, cresciuta in proporzione del suo grado, poteva paragonarsi al perno che fa girare la ruota, o alla possente locomotiva che trascina il convoglio d'una strada ferrata. Il marchese fu sensibile all'onore che gli recava questa visita inaspettata, e in sua casa fu posta in opera ogni possibile diligenza, perchè ei ne trovasse splendida l'ospitalità. Alla conversazione della sera comparvero invitate tutte le più gentili signore dei contorni, nè mancarono a rallegrare la brigata i dolci accordi del piano e dell'arpa, quest'ultima particolarmente toccata con molta grazia dalla giovane marchesina. Il cavaliere, ch'era seduto presso la madre, nel fargliene complimento domandò dell'altra sorella, della figlia del suo amico. Alla succinta risposta che ne ricevette e al pronto cangiar d'argomento, s'avvide ch'egli aveva toccato una corda ingrata. Richiamando allora quanto pochi giorni prima nella città di R*** aveva udito vagamente narrarsi intorno al suo mal avventurato matrimonio, sospettò che fosse infelice e fors'anco colpevole, e si sentì stringere il cuore per la memoria dell'antica amicizia. Nel dimani poi, quando furono soli, volle esserne meglio chiarito. Alle risposte evasive con cui la contessa procurava di schermirsi, egli oppose il desiderio di far una visita innanzi di partire a questa figlia del suo amico, che aveva veduto una sola volta quand'era ancora bambina prima della morte del padre. Allora mortificati gli dissero della sua condotta, delle sue stravaganze, gli narrarono assai dolenti i dispiaceri che avevano di fresco ricevuti; nè gli tacquero del plebeo convito che proprio in quel giorno doveva consumarsi. Il cavaliere ascoltò in silenzio tutte queste lagnanze, fece alcune inchieste relative alla sua vita passata e al carattere del marito che le avevano dato, poi conchiuse pregando il marchese a volerlo accompagnare dopo pranzo alla villetta dov'ella dimorava. Non era possibile più oltre rifiutarsi, e appena pranzato, attaccati i cavalli, partirono. Nell'attraversare il giardinetto che dava ingresso alla casa, furono percossi l'udito da un lieto cicaleccio che si univa al tramestio di molte persone, all'armeggiare dei piatti, al tintinnire delle tazze, delle posate, al suono dei violini; e tutti questi rumori all'aprirsi della porta, insieme colla luce dei doppieri, uscirono come l'ondata d'un fiume raddoppiati e fusi in un solo, atto ad intronare la testa ad un sordo. Il primo oggetto che si presentò ai loro sguardi fu la giovane contessa, che, assisa in capo alla mensa, e proprio dirimpetto all'uscio, aveva ai fianchi in due lunghe file i suoi numerosi convitati. Il suo abito nero molto accollato, sul quale arrovesciavasi una piccola cornicetta liscia annodata ad un nastro a mo' di cravatta, i suoi capegli divisi sulla fronte e lasciati cader giù semplicemente alla nazzarena, le davano un tal quale aspetto maschile, che, congiunto alla sua grande rassomiglianza col padre, fece colpo al cavaliere e lo commosse quasi alle lacrime. E li parve di vedere redivivo l'amico suo, gli parve di essere ancora a quegli anni giovanili così pieni di energico affetto, quando tante speranze sorridevano ad entrambi; ed il suo cuore già correva a quella bella creatura, che gli mosse incontro un po' confusa, un po' arrossita, ma che, sentendolo un amico di suo padre, rincuorata, se lo fece sedere dappresso e con infantile fiducia lo mise a parte dell'innocente piacere che godeva. Intanto diversi di que' contadini, messi in confusione per quella visita, s'erano alzati e tirandosi indietro lasciavano spazio al marchese, il quale, non sapendo come orizzontarsi, cambiava alcune parole col vecchio fattore. E gli diede d'occhio la contessa, e fattagli accostare una sedia lo pregò d'accomodarsi; poi rivolta ai contadini: — Via, da bravi, disse, riprendete senza soggezione il vostro posto, che questi signori ci permettono di continuare la nostra allegria. Non è vero, soggiunse ella volgendosi al cavaliere, che non ve lo avrete a male, se, invece di condurvi subito in camera da ricevervi trattengo qui con questa buona gente; perchè.... abbiamo ancora una piccola solennità da compire?... — Anzi ve ne ringraziamo, rispose il cavaliere. L'esser venuti qui, ad onta che vi sapevamo occupata, è stata un'indiscretezza.... chè non voleva partire senza vedervi, e voi mi perdonerete per l'amicizia che mi legava al padre vostro.... E fissò lo sguardo intenerito negli occhi di lei, che all'udire di nuovo il nome di suo padre, fatta più confidente, come all'aspetto d'una persona già da lungo tempo conosciuta ed amata, gli porse la mano, e senza altri complimenti così si mise a discorrere con lui. — Questo pranzo autunnale è un'antica costumanza che mio padre non preteriva in disgrazia, e io ho voluto quest'anno ripristinarla. Ci ho poi fatto le mie aggiunte un po' di mio capo, che si sa, e un po' secondo i consigli del mio fattore, che è un ottimo galantuomo, e che qualche volta si pensa di approfittare, figuratevi, per fino de' miei capricci. Signor Giovanni! gridò ella, si parla di voi, capite? — Comandi, contessina! rispose il vecchio che a quell'appellazione si alzò tosto da sedere, e venne ad ascoltare i suoi ordini. — State, state! Io non voleva che accusarvi qui a questo signore; ma poichè vi vedo in piedi, aggiunse abbassando la voce, fate pure portare i cofani ed apparecchiatevi a compiere la cerimonia. Abbiamo, continuò ella verso il cavaliere, provveduto alcuni regalucci da dispensare a questa buona gente sul finire del pranzo, così in attestato della mia gratitudine per la loro attività nel coltivare i miei campi, per la loro buona condotta.... Il signor Giovanni poi, pretende con questo mezzo d'incoraggiare l'agricoltura, l'industria — che so io? Lasceremo che si tragga d'impiccio a suo modo, e che metta in orologio, o in cappello nuovo, o in stivali chi meglio crede. Io per me mi son riserbata di regalare due soli fra gli uomini: Pappà Gregorio, che è quel vecchio all'antica in giubba di lana bianca, _bianchella_, dicon essi, panciotto scarlatto.... e il giovinetto che vedete quarto laggiù in fondo da quella stessa banda. — Quel biondo, quasi imberbe, coi capelli troncati quasi a metà della guancia e tutti da un lato? — Sì, diss'ella, è un po' birichino, e ha mancato poco ch'io la trovassi col signor Giovanni perchè non lo voleva nel numero degl'invitati. Oh, ma il signor Giovanni! se sapeste! voleva limitarmi ai soli capi di famiglia, ai soli miei coloni; le donne poi, la non gli poteva entrare! Gli pareva una novità formidabile, quasi un sacrilegio; e mi ha tirato fuori una farraggine di ragioni, secondo lui, convincentissime. Ma dite la verità, caro signore, non fa piacere a vederle qui frammischiate ai loro mariti, ai loro figli? E dove sarebbe stata l'allegria, se in questa casa, in cui la padrona è una donna, fossero state escluse tutte quelle buone comari? Guardate la Menica come è contenta! come le brillano gli occhietti! È quella bruna colla pezzuola color di rosa colaggiù a sinistra. Povera Menica! Oh se sapeste che ottima creatura! se non temessi di annoiarvi, vorrei dirvi un bel tratto di lei. — Io vi ascolto anzi con gran piacere, disse il cavaliere; ma giacchè vi mostrate così compiacente, vorrei prima che mi diceste, perchè, ad onta dell'opinione del signor Giovanni, avete voluto tra i vostri invitati il giovinetto che mi avete accennato! — Perchè, diss'ella, in mezzo alle sue bizzarrie, io gli ho scoperto un bel cuore; e ora che mi son fatta del tutto campagnuola, lo voglio tra' miei amici, certa che farà giudizio e diverrà un giovine perbene. Il signor Giovanni, col suo occhio di lince e colla sua pretesa di saperle tutte, non faceva altro che dirmene continuamente _plagas_; ch'egli era il primo nei chiassi alle sagre, che la domenica si faceva vedere sulla piazza colla pipa in bocca, in collarino, che frequentava l'osteria, ch'era un po' baruffante, un po' manesco.... Ma io ho anche io la mia polizia; e qualche volta è una commedia, soggiunse ella sorridendo, a vedere come il signor Giovanni resta di sasso al trovarmi istrutta al pari di lui ed anche meglio; e il buon uomo non sa capire come diacine io faccia a sapere tanti pettegolezzi. — Ci scommetto, le sussurrò il cavaliere, che il vostro capriccio di quest'anno dell'uccellata non era senza il suo perchè.... — Il fatto sta, conchiuse la contessa ridendo, che il mio fattore non ha tanta malizia.... e che io senza di lui ho saputo scoprire un tratto gentile di Ermagora che gli tengo a conto, e che a' miei occhi lo redime di molte delle sue piccole bricconate. Nell'inverno dell'anno scorso, egli ed altri nove giovinotti qui del villaggio ottennero dal fattore di far sopra di sè, ad ore perdute, un fosso in un mio podere, che era circondato da una siepe di rovi, e ch'egli ha voluto cambiare in tanti gelsi a basso fusto, e ogni sera, dopo terminati i lavori della giornata, invece di starsene al fuoco, andavano laggiù a scaldarsi lavorando tre e quattro ore a lume di luna. Intendevano con quei soldi di godersela nel carnevale, facendo una mascherata, e andando attorno coi sonatori prima per il paese, poi per i molini, e terminando, già si sa, con una bella cena. Ermagora n'era il capo: avevano già apparecchiato i vestiti, e Dio lo sa in che gloria aspettavano quel giorno! Ora suo padre nel salire una scala a mano per trar giù dal fenile non so che masserizie, cadde e si slogò un piede. Indovinate mò'! Ermagora andò subito dai compagni a dispensarsi della mascherata; e per quanto essi procurassero d'impegnarlo ad intervenire, facendogli osservare che il male non era di conseguenza, ch'essi stessi gli avrebbero ottenuto dalla famiglia il permesso, non ci fu caso. Il buon giovinotto a tutte le loro sollecitazioni rispondeva, che sapendo suo padre addolorato in letto, il cuore non gli dava di divertirsi a ballare; e poichè essi non vollero tenere la sua parte di guadagno, Ermagora la impiegò a provvedere l'occorrente per il malato. — Il Cavaliere guardò per alcuni minuti in silenzio quel giovine, poi rivolto alla Contessa: — E la Menica? le chiese, non volevate voi narrarmi anche di lei...? — Oh la Menica pure è una donna di cuore! sclamò la Contessa cogli occhi innumiditi. Una donna che ce ne vorrebbe per ogni famiglia l'eguale! Oltre ch'essa è una brava massaia, economa, avveduta, buona poi come un angelo, sa compatire agli altri, e nel suo poco ella ha viscere di misericordia per tutti. Quattr'anni fa, capitò qui nel paese un vagabondo, ed aveva seco la moglie vicina al parto. Chi lo mandava all'ospitale, chi si schermiva, mostrando l'impossibilità di ricoverarlo con una donna in quello stato. La Menica l'accolse, e con una carità che noi altri signori non conosciamo, cesse alla disgraziata il proprio letto, e la trattò come se fosse stata una sua sorella. Ella a questuare per la puerpera, ella a provvedere pannilini pel bambino. Filava la notte più del solito, e tante ne disse a quell'uomo, e tante ne fece, che lo persuase a rinunciare al suo brutto mestiere, e a mettersi una volta a guadagnar il pane coi propri sudori. Quando la donna fu in istato di faticare, se l'associò nelle domestiche faccende, e seppe colle sue belle maniere così adoperare col marito e coi cognati, che accondiscesero a tenerli in casa, finchè potessero altrimenti provvedersi: il signor Giovanni ha poi loro dato in affitto alcuni campi e una casuccia, ed ora, in grazia di quella buona creatura, se la campano anch'essi onoratamente colle loro fatiche. Povera Menica! Oh se sapeste il bene ch'io le voglio! e anch'ella mi ama.... Oh sì! ad onta della differenza di condizione, di quest'ostacolo insormontabile che la sorte ha posto tra il ricco ed il povero, il suo cuore è uno dei pochi che mi han sempre e sinceramente amata. Nei primi momenti della mia disgrazia, continuò la Contessa, lasciandosi andare ad una di quelle effusioni dell'anima, che al toccar di certe corde e alla presenza di certe persone sfuggono tanto spontanee che sono quasi inavvertite, nei primi momenti della mia disgrazia, quando, non volendo più lottare contro la guerra accanita che mi aveva rotto un mondo infame, io venni qui a rifugiarmi in questa solitudine, costretta a vedermi innanzi il volto infinto di tanti falsi amici che venivano a compassionarmi per trar materia di accrescere i miei falli.... mal compresa, denigrata, l'amore disinteressato e sincero di questa povera contadina m'era conforto! Oh se sapeste le volte le volte, che sotto il pretesto di portarmi dei fiori, o di vendermi delle uova, ella spiava che fossi sola, e veniva a guardarmi con quell'occhio pietoso con cui una madre guarda al suo povero figlioletto malato!... Ella stette un momento in silenzio, poi ripigliò: Ho una crocetta d'oro che le voglio regalare; ma non crediate mica ch'io pretenda di premiare con ciò la bell'azione che vi ho raccontato! Questa la può compensare solo Iddio e la coscienza di averla fatta! e poi a rammemorargliela sarebbe un farla soffrire. Voglio solamente darle un ricordo di amicizia, che, per quanto ella lo possa aggradire, certo non lo porterà al collo con più affetto di quello ch'io mi poso sul cuore le prime violette dell'anno e le margheritine dei prati che la mi va talvolta regalando. — Il libero sfogo che s'era permesso, l'aveva alquanto commossa, e per ricomporsi rivolse lo sguardo ai convitati, che, finito il banchetto, stavano chiacchierando divisi in diversi gruppi: la percosse il suono di replicati — Illustrissimo sì, illustrissimo no, — di due o tre contadini, in mezzo ai quali s'era situato il Marchese, che, partito il fattore, procurava del suo meglio d'equilibrarsi in quella per lui difficile atmosfera, movendo di quando in quando alcune signorili inchieste a quelli che gli erano più dappresso. L'Ardemia, per fare un diversivo e rimettere in comune l'allegria della parola, che s'era fatta oramai troppo parziale: — Pappà Gregorio! — gridò a quel vecchio venerando ch'ella aveva dapprima indicato al Cavaliere, e sporgendo verso di lui il suo bicchiere, — via da bravo, — disse, — facciamo io e voi un brindisi a quel signore, amico di mio padre, che ha voluto colla sua visita farci più lieta questa bella giornata; e poi voglio che voi colla vostra solita schiettezza mi diciate una verità. Come ve la siete passata quest'oggi? — Corponone! rispose il contadino, serviti e trattati come principi in compagnia della nostra padrona.... — No, no, diss'ella, io so che la mia idea di far venire al Licof anche le donne non vi garbava nè punto nè poco.... — Ah briccone di pappà Gregorio! esclamarono alcune comari. Dunque egli non ci voleva al Licof? — E che non avete voluto a nessun patto condurre la vostra donna Lucia, continuò la contessa. — Ma gli è fatto che le donne devono starsene a casa, mormorò il vecchio. Per altro le prometto che se un altr'anno saremo vivi, anche madonna Lucia sarà della partita, e per bacco! che se quest'anno è stato un sussurro da perdere le orecchie, colla giunta della lingua di mia moglie.... particolarmente se la è un poco brilla.... Qui fu interrotto da molti scoppi di risa: chè il facile naturale di donna Lucia era universalmente conosciuto. — Senta, Contessa! sclamò il vecchio in modo da superare il baccano. Come al suo solito, ella ha fatto una novità, alla quale noi altri al nostro solito eravamo ritrosi, ed è finita come sempre, cioè, coll'essere più contenti di prima. — Dunque, buon uomo, interrogò il Cavaliere, la vostra padroncina vi fa spesso delle novità? — Ella piccioletta e giovanina, come la vede, le so dir io che ha rimestato l'intero paese, e la ce ne ha fatte di belle. Una veh! in particolare la mi ha crucciato per un pezzo! e se non fosse stato ch'ella è la figlia del mio buon padroncino, che Dio abbia in gloria! e che la gli somiglia come un pomo partito, ogni poco mi risolveva ad uscire dai suoi ceppi, e.... e faceva una grossa capponeria! Si figuri, signore, il primo anno che è venuta a star qui, ella e il signor Giovanni si sono pensati di ridur tutte le coloníe a soli venti campi dell'una! Una famiglia come la mia, che si può dire da più secoli lavora sempre lo stesso terreno, vederselo tolto quasi per metà....! — E poi? chiese la Contessa ridendo. — E poi.... e poi, già si sa, adesso siamo contenti! ci pareva di dover morir dalla fame, ci pareva di non aver più dove seminare le biade.... e invece quei venti campi ci danno adesso più dell'antico terreno, paghiamo il nostro affitto, e si è meno oppressi dalla fatica. In somma.... è stato bene! e quella piccola testolina lì, vale per tutte le nostre. — Intanto il signor Giovanni aveva fatto portare nel salotto una lunga tavola coperta, e ritiratosi all'uno dei capi, cogli occhiali sul naso percorreva in gran confusione uno scartafaccio di memorie, preparandosi a compiere la cerimonia secondo gli ordini ricevuti dalla Contessa. Ella lo vide, capì l'imbarazzo che gli cagionava la presenza di quei due signori, e per liberarnelo: Ecco, disse, il fattore che aspettava i miei ordini per distribuire i regali. Ma come la faccenda vuol riuscire un po' lunghetta, perchè egli ha le sue predichine e le sue raccomandazioni da fare, io darò principio, e poi, se vi piace, noi ci ritireremo nella stanza contigua. — Il Cavaliere le prese la mano in aria affettuosa: — Io, disse, vorrei pregarvi d'una grazia. In casa N*** mi aspettano, ed ho fatto anche troppo tardi. Diman mattina assai per tempo io deggio partire, e facilmente le mie occupazioni non mi permetteranno più di rivedere cotesto paese. Mi dorrebbe le ultime ore che mi rimangono di consumarle lontano da voi.... Facciamo una cosa. Montate in carrozza, e terminiamo insieme in seno alla vostra famiglia questa bella giornata!... — Ella rimase un istante indecisa, si morse leggermente il labbro inferiore, e gettò uno sguardo involontario dalla parte del Marchese.... Il Cavaliere allora, fatto accorto, si rivolse al Marchese, e con la disinvoltura che gli era naturale, dando al discorso l'aria d'una frase di amabile galanteria, lo pregò a voler egli patrocinare la sua causa. L'altro, che da un pezzo era sulle spine, e che pensava che a casa sua non si sarebbero trovati meglio, non vedendoli ancora capitare alla conversazione, ch'ei sapeva in quella sera dover essere numerosa, e già adunata per far corte al suo ospite, non gli parve vero di potersela cavare così a buon mercato, ed insistette perchè l'Ardemia senza altre dilazioni accettasse tosto l'invito. Allora la contessa capì che non bisognava trascurare questa facile occasione di rappattumarsi co' suoi; e nel mentre che si attaccavano i cavalli, disse rapidamente alcune parole al signor Giovanni, perchè egli sostenesse le sue veci, e incominciò la distribuzione col presentare pappà Gregorio di un comodo pastrano col suo cappuccio, e colle sue maniche. — A me! disse il vecchio meravigliato. — A voi sicuro, rispose la Contessa. Siete il più anziano de' miei dipendenti, il patriarca del villaggio, un galantuomo, e un bravo padrone di casa, che mi preme di conservare in salute per molti anni, onde gli altri imitino il vostro esempio. E adesso, buon pappà, che i carnovali pesano, bisogna procurare di star bene riparati dal freddo. Questo pastrano, aggiunse ella battendo leggermente colla sua piccola mano sulla spalla del vecchio, state certo che vi terrà più caldo della vostra _bianchetta_, e quantunque nè vostro nonno nè vostro padre non lo abbiano a loro giorni costumato, voi farete a mio modo, e lo porterete particolarmente quando si va ai mercati, o in viaggio, e si sta fuori le notti. — Il vecchio dopo averlo esaminato per tutti i lati, se lo gittò sulle spalle pavoneggiandosi, e baciando con espansione di affetto la mano alla sua padroncina. — Pappà Gregorio in pastrano! esclamò. Affè che la è una grossa novità, ma alla quale sarei pure il gran babbeo se non sapessi adattarmi! — Tutti gli fecero evviva, e la Contessa infilato il suo palettò, e allacciatosi il cappellino, disse un addio cordiale ai convitati, scusandosi di non poter ella terminar la cerimonia, e in compagnia dei due ospiti montò in carrozza fra le liete acclamazioni di tutta quella gente che s'era mossa ad accompagnarla, e continuavano a benedirla anche dopo partita. In casa V***, come il Marchese aveva preveduto, era già buona pezza che aspettavano. Trovarono la maggior parte delle signore del paese, che a guisa di tanti bei fiori primaverili già adornavano la stanza. Le loro acconciature più del solito ricercate, gli abiti sfoggiati di alcune di esse, e i loro abbigliamenti tutti alquanto pretenziosi, davano a divedere che non si erano dimenticate del forestiero. Da principio vi fu qualche occhiatina maliziosa alla toelette della Contessa, che lor pareva, ed era veramente, assai semplice, nè sarebbe mancato un tantino di critica, se le continue distinzioni e la preferenza che le accordava il Cavaliere non avesse loro imposto una spezie di soggezione. Vedendola trattata con tutto quel rispetto da un cotal uomo, presero invece il partito di farle la corte, e gareggiavano a chi meglio poteva mostrarsele amica. Anche la madre e la sorella, dimenticato di tenerle broncio, furono con lei assai affabili, e perfino la zia Gran Dama della croce stellata si avvisò di rivolgerle parecchie volte la parola. Cosicchè la serata passò lietissima, e l'Ardemia, senza bisogno di altri mezzi, si trovò, in grazia del Cavaliere, almeno per allora, pienamente riconciliata colla sua nobile famiglia. VIII. IL PANE DEI MORTI. L'autunno declinava: le cime dei monti già innevate, il verde della campagna ogni giorno più languido e giallastro. Oramai la maggior parte delle famiglie signorili dei contorni s'erano ritirate alla città, e quei casini deserti, colle finestre chiuse, rientrati nel silenzio e nell'abbandono, accrescevano la malinconia della moribonda natura. Solo la contessa Ardemia della Rovere continuava ad abitare nella sua tranquilla villetta, e dal nessuno apparecchio, dal nessuno movimento nella sua casa pareva ch'ella avesse deciso di passare in campagna anche l'inverno. Aveva ricevuto le visite di congedo dei parenti, degli amici, e alle loro sollecitazioni di seguirli in città, aveva risposto sempre con indeterminate e vaghe promesse; ma in suo cuore, lungi dal temere quella solitudine ch'essi le dipingevano a negri colori come argomento a determinarla alla partenza, si consolava anzi di potersela a suo agio godere, affrancata dalle continue visite e dal cicaleccio di tanti importuni. Un po' per vaghezza di novità, un po' per capriccio giovanile, ella aveva in quell'anno intrapreso un lungo viaggio, e dimorato alcuni mesi in seno alla società d'una delle più cospicue capitali. Vedere co' propri occhi quei centri di civiltà e di eleganza, che aveva tante volte sentito a magnificare dagli altri, partecipare ai tanti piaceri e divertimenti che ivi si offrono all'avvenenza e alla ricchezza, gettarsi nel bel mondo per ammirare da vicino tanti nuovi oggetti che la fantasia le indorava in mille modi lusinghieri, ed anche un tantino nel secreto del suo cuore per farsi ammirare, quest'era stato spesso il sogno accarezzato de' suoi giovani anni, ed ora che le circostanze della sua vita l'avevano resa libera, ella aveva voluto effettuarlo. Ma, o che un bene lungamente agognato, nell'atto del possesso riesca sempre minore della realtà, o che quei frivoli piaceri non avessero radici abbastanza tenaci per germogliarle nel cuore, ella si trovò presto stanca di quella vita dissipata e senza scopo; e in mezzo alle conversazioni, ai teatri, ai balli, dove il suo spirito ed i suoi molti doni naturali e di fortuna l'avevano resa cara più di quanto ella stessa avesse osato ripromettersi, le sorgeva nell'animo il desiderio dei campi paterni, delle sue collinette, de' suoi buoni contadini, della tranquilla e semplice vita, a cui si aveva da qualche tempo assuefatta. Aveva fatto quel viaggio ad oggetto di divertirsi, e invece grandemente s'annoiava, e ogni sera si riduceva nella sua camera da letto malinconica e infastidita di tutto, come chi ha sprecato malamente il suo giorno. Si rammaricava seco stessa di non saper godere come gli altri, le pareva d'esser di cattivo gusto, e prefiggevasi per l'indomani nuove gite di piacere e nuovi sollazzi. Ma indarno ella passeggiava per quegl'immensi giardini, dove la mano dell'uomo ha saputo domare una natura ritrosa e forzar la terra quasi suo malgrado qui ad elevarsi in molli colline, là ad aprirsi in vaghi laghetti popolati di cigni e cinti di piante esotiche; più lungi a distendersi in pratelli, in viali il cui verde comperato a forza di fatiche contrastava evidentemente colla sterile campagna dei dintorni, col clima umido, col cielo freddo e nebuloso. Con un senso d'insuperabile amarezza, che le metteva sul labbro il sorriso dell'ironia, ammirava nelle serre costose agglomerati quei tanti fiori provenienti dalle più diverse contrade, e la magnolia e la palma gigantesca imprigionate sotto una vòlta di vetri, e sentiva per esse il desiderio della lontana lor patria. Lodava l'arte che con gentile magistero aveva saputo vestire le sterili zolle dei più ridenti colori, e disporli a disegno in modo che acquistassero vaghezza dal contrasto, e per servire a' suoi fini costrignere innumerabili calici a sbocciare tutti in un colpo; ma in suo cuore sentiva di preferire l'umile pervinca nata spontanea tra le macerie d'un muricciuolo o sulle sponde d'un capriccioso rivoletto, e i balsami delle tante rose silvestri che inghirlandavano le collinette del suo paese. Così del pari in quelle sale, dove il lusso più raffinato adunava tutte l'eleganze della moda, e dove lo spirito e la bellezza venivano a far pompa tra la luce dei doppieri e le ricche suppellettili, ella si trovava come in disagio, e procurava indarno di far tacere una specie di voce secreta, che fin lì tra quelle magnificenze ardiva richiamarle alla memoria i semplici ma cordiali saluti della povera Menica, o le vivaci risposte d'Ermagora, quando senza tanti rispetti palesava alcuna parte del suo energico sentire. — In patria ella sfuggiva le conversazioni e i convegni, perchè dopo le sue vicende le pareva di leggere in ogni volto un'amara ironia, e il rimprovero del suo passato; qui, dove non era conosciuta, credette di poter di nuovo godere della società, ma s'accorse ben presto che cotesta appunto era la ragione che glielo impediva. Ell'era straniera: nessun legame d'affetto colle persone che la circondavano; nè a lei altro interesse veniva donato, che quello della curiosità. Quando aveva fatto mostra di quel poco di spirito che l'educazione le aveva fornito e ricevuto l'omaggio di quello degli altri, ogni attrattiva era esaurita. Nulla arrivava fino al suo cuore, ed esso le si chiudeva per abbandonarsi alla noia. Quelle frasi melate, quei complimenti smaccati, a cui era costretta opporre, o in un modo o nell'altro, le stesse convenzionali risposte, le parevano un insipido gioco, un vero luogo comune. Sentiva di non essere amata, e non vedeva l'ora di ritornarsene laddove poteva essere utile agli altri, e far ancora palpitar qualche cuore. Sicchè partì disingannata di molte illusioni, e guarita in gran parte da quella smania femminile di far comparsa ed attirarsi gli occhi e l'applauso della frivola moltitudine. Soprattutto era rimasta tanto disgustata dallo strepito e dalle vanità cittadine, che risolse di fermar per sempre la sua dimora in campagna, e di cercar un compenso alla mancanza della famiglia e al vuoto che la circondava col dedicarsi tutta a far fiorire, per quanto in lei stava, l'agricoltura, e procurare, come una madre affettuosa, il benessere e la felicità de' suoi buoni dipendenti. In tale disposizione ella vide passare in quell'anno l'autunno. Partiti i signori, e liberata dalle tante lor visite, le pareva di respirare, e s'occupava alacremente col signor Giovanni de' suoi progetti, e dei lavori e delle migliorie ch'egli le andava suggerendo. Era alla fine d'ottobre. In molti luoghi del Friuli esiste un'antica pratica, per cui ogni famiglia nel dì d'Ognissanti dispensa al popolo una quantità di pane a seconda della propria agiatezza. Non è già questa un'elemosina. Vengono a riceverlo tutti gli abitanti del villaggio, e prima d'assaggiarlo, pregano per i defunti del donatore. Contadini benestanti, capi di famiglia, artieri e mugnai, che in tutt'altra occasione si vergognerebbero d'accettare la più piccola carità, in quel giorno, confusi ai poverelli, battono alla tua porta, e senza rossore ti domandano il pane dei morti. Poi alla lor volta dispensano anch'essi la propria fornata. Anzi, dove non ci sono signori, ogni contadino, fa tanti grossi pani di sorgoturco quante sono le famiglie del villaggio, e vanno in giro a riceverlo, e a vicenda lo dispensano agli altri; sicchè in quel giorno ognuno assaggia il pane dei fratelli, e prega per i loro defunti, mettendo così, almeno una volta all'anno, in comunione il cibo, l'affetto e la preghiera. — La contessa Ardemia, che si ricordava d'aver veduto come in quel giorno il suo avo paterno, assiso nel suo ampio seggiolone a bracciuoli, dinanzi ad una tavola nel salotto a pian terreno dispensava colle proprie mani il pane dei morti ai contadini, che in turba venivano lì a riceverlo, e a salutare il loro vecchio ed amato padrone, trovava questa pratica pietosa troppo secondo il suo cuore, perchè non pensasse a ripristinarla. La mattina d'Ognissanti, dopo la messa parrocchiale, ell'era difatti seduta con tutta gravità nel posto, dove la memoria, con uno dei quadri indelebili dell'infanzia, le rappresentava la faccia serena e i bianchi capegli del buon'avo, e teneva ai lati diversi grandi panieri colmi fin sotto al manico di picce sgranellate e allora allora cavate dal forno. Il cortile era già pieno d'una moltitudine di gente, che faceva pressa alle porte della cucina, dove i servi appostati li lasciavano entrar con ordine, onde non facessero confusione dinanzi alla Contessa nel salotto, e poi uscissero quietamente dall'altra porta che dava sul giardinetto. Entravano a due, a tre, a quattro; or una madre coi figliuoletti, or un'altra col suo bimbo fra le braccia, or un vecchio venerando, or una turba di garzoncelli e di giovanetti; e tutti, salutata con affetto la signora, si baciavano in segno di riverenza il dorso della mano, prima di distenderla al panetto, ed uscivano fra lieti e commossi. Alcuni, i più noti e famigliari a lei, si fermavano a dirle qualche parola d'amicizia, o qualche complimento al modo loro, ma venuto dal cuore; le madri particolarmente mettevano una specie d'ambizione nel presentarle i lor bamboletti, gli ultimi nati, quelli ch'ella non aveva ancora veduti, e che lì imparavano per la prima volta a sorridere alla buona signora. Fra i tanti che in quel giorno le passarono dinanzi, una donna le rimase profondamente impressa. Teneva per la mano un fanciulletto assai sparuto e meschino, che si asciugava col grembiule della madre gli occhi lagrimosi; un altro veniva dietro, attaccato al lembo della gonna; e in braccio, un piccino accoccolato sul suo seno e avvolto quasi tutto nel bruno fazzoletto ch'ella portava in testa.... Era pallida; e al primo vederla, la Contessa non seppe raffigurarla, quantunque quella fisonomia non le paresse affatto nuova. Ma quando, invece di seguire l'esempio della maggior parte degli altri e prendere d'in sulla tavola il pane che le veniva offerto e andarsene, ella si tirò all'un dei lati, e fattasi vicina alla Contessa insegnava al più grandicello dei fanciulletti a baciarle la mano, ed ella stessa, presi i panetti per sè e per i due piccioli, gliela strinse con grande affetto e gliela baciò lasciandovi cader sopra una lacrima, l'Ardemia si risovvenne: e — Rosa! le disse, con quella sua voce affabile e manierosa. Sei tu, mia buona Rosa? È tanto tempo che non ti vedo, ch'io quasi non sapeva neanche più ravvisarti! — Esse erano a un dipresso della stessa età; e prima che l'Ardemia fosse messa in convento, avevano più d'una volta giocato insieme da fanciullette e corso pei prati a caccia di farfalle e di fiori. Ma l'una si conservava ancora in tutta la freschezza della gioventù, mentre la povera Rosa, oppressa forse dagli stenti, e da qualche secreta malattia, era dimagrita, aveva perduto il colore, e ad onta de' suoi graziosi lineamenti appena poteva dirsi l'ombra di sè stessa. Era proprio la rosa dell'ultimo dicembre, bella tuttavia nel suo malinconico pallore, ma appassita e languente prima ancora d'aver finito di sbocciare. Quella cera macilente, que' fanciulli sparuti, quella stretta di mano, e quella lacrima, le duravano fisse nella memoria. Fantasticava quali potevano essere i suoi casi, quale il dolore che così anzi tempo l'andava consumando. La sapeva maritata di suo genio con un giovane sartore del paese, che campava onoratamente lavorando del suo mestiere nelle famiglie dei contadini. Era padrona sola in casa e pareva che non avesse motivo di lagnarsi nè dell'amore del marito nè di malattie o di disgrazie che si sapessero. Del resto, non apparteneva ai coloni della Contessa, e de' suoi fatti ella non se n'era interessata più che tanto. Ma ora sentiva bisogno di penetrare in quel cuore. Nel dopo pranzo d'Ognissanti la gente concorre tutta alla chiesa, e pregano per i defunti. I sacerdoti, dopo aver cantato in tuono funebre l'esequie e asperso d'acqua benedetta il catafalco eretto nel mezzo della chiesa a ricordare il dì dei morti, e gli antichi sepolcri dell'interno, passano processionalmente nel cimitero e si fermano sui tumuli a recitare le preci raccomandate dalla pietà dei superstiti. Alcuni li seguono, la maggior parte si ferma inginocchiata sui banchi, e accompagnano sommessamente quelle voci monotone e devote, che si sentono farsi or più dappresso or più lontane a seconda del luogo dove riposano le ossa dei trapassati. La funzione dura a lungo, sicchè la gente viene e va per dar luogo agli altri ed assistervi tutti alla lor volta. L'Ardemia era venuta anch'essa, e cercando cogli occhi per la chiesa vi rinvenne la Rosa, che inginocchiata in un angolo vicino alla parete pregava con gran devozione, e ogni tanto sollevava all'altare gli occhi bagnati di lagrime, poi di nuovo tirandosi sulla faccia il fazzoletto si nascondeva con esso e colle mani congiunte su cui si teneva abbassata. Le stava dappresso uno dei figliuoletti, e stanco di pregare l'andava ogni qual tratto punzecchiando. Parve che la donna si lasciasse finalmente persuadere da quella muta eloquenza, perchè, difatti, di lì a pochi istanti sorse, e giunta alla pila dell'acqua benedetta, colla mano con cui si aveva segnata toccò le dita al bambino, gli fece fare la croce e devotamente inchinatasi partì con esso. Venne allora in mente all'Ardemia di approfittare del momento in cui tutti erano alla chiesa per recarsi non veduta da lei a vedere se pur poteva in qualche maniera asciugare quelle lacrime. Uscì con questa intenzione, e lenta lenta s'avviò verso la dimora della Rosa. Giunta alla casuccia, ristette in forse sull'uscio semichiuso, mal sapendo se dovesse spalancarlo ed entrarvi, mentre udiva i due fanciulli che tra loro altercavano, e la madre pareva che fosse salita disopra ad acquietare il piccino. — Capiscila una volta, Menichetto! Lascia stare quella sedia. Vuoi romperti il collo? Lo dico alla mamma veh! Mamma! (strillava con voce più acuta.) Ve' Menichetto che ha messo una sedia sulla tavola e s'arrampica a dispiccare l'ultimo manipolo dell'uva che ci ha portato pappà! — Ho fame io! gridava l'altro piangente. Tu se' stato a casa, e avrai mangiata intanto mezza la pappa di Vigi, e poi mi hai tolto il pane dei morti.... — Il pane dei morti non si può mangiare se prima non si prega. — Ma io sono stato in chiesa, ho pregato e voglio mangiare. È diventata una cosa curiosa in questa casa. Adesso non si fa più polenta, non minestra.... Tu e la mamma non fate che continuamente piagnucolare. Ha ragione il pappà che diceva l'altra sera ch'è stufo di voi altri.... — Vien qui, ti dico! Non vedi la sedia che tentenna? Via, da bravo, aspettiamo la mamma e mangeremo insieme il pane dei morti. In quello si sentiva la donna che discendea la scala. Mise un grido, vedendo dove s'era arrampicato quel diavoletto, lo prese in braccio, gli tolse l'uva che aveva già dispiccata, e fattili inginocchiare tutti e due, recitò adagio un _Pater_ ed un'_Ave_, che essi accompagnavano con quelle loro vocine infantili. Poi diviso il manipolo dell'uva, lasciò che se la mangiassero insieme col pane. — E tu mamma, non mangi uva? chiese il più grandicello. — No, figliuoli miei; sapete pure ch'io non ci penso. — Ma, e questa mattina per dare a noi la polenta che ti aveva regalato la Maddalena non hai neanche fatto colazione.... — E adesso, ripigliava Menichetto, e adesso pane solo! Mangia, mamma, un po' di uva! Ti prego, almeno questo picciolo grappoletto! Guarda com'è bello, neppur un acino ammezzito!... — Via, da bravi bambini, state quieti. Anzi per non spargere i granelli e insudiciarmi la tavola, prendete là quella panierina e andate giù nell'orto sotto la pergola; ch'io mi fermo qui per sentire se piange Vigi. — Eh! disse allora il maggiore colla voce piena di lacrime, tu ci mandi via!... So bene io perchè! La donna non rispose, ma il fanciullo gettandosele fra le braccia: — Ah mamma! continuò, tu vuoi fare come jer l'altro: invece di mangiare, tu ti metti qui colla testa fra le mani appoggiata sulla tavola, e piangi tanto tanto! Oh Dio mio! se fai così, tu diventi ogni giorno più pallida e finirai coll'ammalare.... — Via mattuccio! che pensieri son cotesti? Sapete pure, che quando voi altri siete buoni, io sono sempre contenta. Ed alzatasi, mise ella stessa l'uva nella panierina, aprì la porta dell'orto, ve li condusse e li congedò, accarezzando prima la bionda e ricciuta testolina del vispo Menichetto, e poi quella di Tita, che quando si sentì sul capo la mano di sua madre, alzò la faccia e gliela baciò con trasporto affettuoso. L'Ardemia allora si fece coraggio e si mostrò sull'uscio come in atto di picchiare. — La Contessa! sclamò la donna meravigliata. — Sì, mia buona Rosa, son io, diss'ella, che tornando dalla chiesa ho voluto venirvi a trovare. E presa la sedia ch'ella le offeriva, vi si assise con tutta dimestichezza. — Sai tu, che quando ti ho veduta questa mattina, io mi sono grandemente rimproverata d'aver lasciato passare tanto tempo senza vederci? Siediti qui, Rosa, e discorriamola un poco insieme, perchè una volta noi eravamo grandi amiche.... — Oh! ella mi ha sempre trattata con bontà.... — Di' che ti voleva un gran bene, e che tu pure allora me lo volevi! Dopo ci hanno divise; mi hanno messo in convento, ho vissuto in città, mi sono maritata.... Insomma sono passate tante cose!... E se tu sapessi quanto ho patito! Ma ora non vado più via, sai; mi stabilisco per sempre qui in campagna, e vogliamo rinnovare la nostra antica amicizia. E strinse con affetto la mano alla contadina. — Ti ricordi, Rosa, quanto correre insieme per i prati di Soleschiano, allorchè si andava a caccia di farfalle? e quei tanti fiori che tu mi portavi?... — Erano bei tempi quelli! — disse Rosa commossa, abbassando gli occhi e chinando la testa sul petto. — Io mi ricordo sempre di un nido di capinere che tu avevi scoperto dietro il viale, e che andavamo ogni giorno a visitare godendoci a guardar quei poveri uccellini implumi che ci pigolavano incontro, come se loro avessimo portato l'imbeccata. Ma non gli abbiamo mai toccati! ci faceva compassione la madre, che ci svolazzava dappresso osservandoci e tremando per i suoi piccini. A proposito, e quanti figliuoletti hai tu? — Ne ho tre.... I tre che avevo meco stamane. — In quella confusione ho avuto appena tempo di guardarli; ma me li condurrai in casa, non è vero? — O signora! poichè me lo permette.... — Via, trattiamoci con confidenza, Rosa. Io sono sola al mondo! Ho la disgrazia di non aver figli.... Oh! se tu sapessi come amerei una creaturina che fosse mia.... Ma mi fa piacere l'accarezzare almeno quelli degli altri; quelli degli amici. Compensami un poco, Rosa, e promettimi di condurmi spesso i tuoi.... Rosa, a questa preghiera che le rivelava la fraternità della sventura, dimenticò ogni differenza di condizione, e gettate con impeto le braccia al collo della Contessa si strinsero entrambe in un amplesso, come quando erano fanciulle e si amavano ignare ancora delle umane vicende e delle triste disuguaglianze della sorte. — Dimmi, e dov'è tuo marito? Chiese la Contessa dopo un momento di pausa. — Ah...! egli è fuori. — E la Rosa si lasciò andare a un dirotto di pianto. — Non mi nasconder nulla. Io ho già letto nel tuo cuore. Tu sei infelice! e devi confidarti con me che ti sono amica e sorella. Non sai tu, che s'io non posso asciugarle, voglio almeno divider le tue lagrime? Povera la mia Rosa! dunque egli non ti ama più?... E dov'è andato? Dimmi tutto, che io comprendo il tuo dolore. Ho tanto patito in questo mondo, che purtroppo so per prova che cosa sia voler bene e vederci pagati d'ingratitudine. Rosa non poteva parlare, ma scuotendo il capo accennava che non era già questa la cagione del suo cordoglio. Quando credette d'essere in grado di superarsi, raccolse tutta l'energia di cui era capace, e proferì con voce calma: — No! non è del suo amore ch'io mi lagno. Ei non ha veruna colpa meco, e ci ama anche troppo. Ma non posso nè devo dirvi di più. Tradirei quel povero disgraziato, e non farei altro che precipitare me stessa e le mie creature! — Precipitarti? precipitar le tue creature? Che dici mai Rosa? Egli potrebbe dunque cader in mano della giustizia? Egli ha dunque commesso qualche delitto? — Ah no, buon Dio, che non lo avrà commesso! La Madonna benedetta, che ho tanto pregato a questi giorni, gli avrà tenuto la mano sul capo! È tanto tempo ch'io non inghiotto che lagrime! Possibile, ch'egli voglia farmi morire? — e si torceva le dita quasi fuori di sè stessa. — Or via, tranquillizzati, e discorriamo insieme. Chi sa ch'io non possa giovarti? Intanto dimmi, dov'è? Sai ch'io ti voglio bene, e di me puoi fidarti come di te stessa. Forse che astretto dal bisogno.... — Sì! il vederci senza pane.... quelle creature che piangevano.... — Ma.... e dunque il mestiere non vi dava abbastanza da campare? Io ho sempre creduto che non vi mancasse il modo di sussistere onoratamente, perchè.... non era egli che lavorava da sarto in quasi tutte le famiglie del paese? — Quand'io l'ho sposato, le cose andavano bene; si mise a narrar la donna allorchè si fu un poco rimessa in calma. Egli cuciva non solo a tutti quei del villaggio, ma anche a parecchie famiglie dei vicini. Non ci mancavano mai lavori. Di più, io avevo da ragazza, quando venivo per casa vostra, imparato dalle cameriere della mamma a dar qualche punto, a stirare ed azzimar la biancheria, e m'ingegnavo a guadagnarmi qualche soldo col lavare i fazzoletti di tulle alle contadine e con altri piccioli servigetti. Avevamo allora la nostra cucina ben fornita, non ci mancava niente, e nel nostro stato potevamo dirci ricchi, mentre ci avanzavano sempre un pajo di talleri. Ma un disgraziato accidente ci ha rovinati.... A poco a poco egli ha perduto tutti gli avventori.... — Ma come è stata questa faccenda? Via da brava, narrami tutto. — Oh Dio! disse Rosa, se sapeste, quante umiliazioni ho sofferte! Sentirci trattar da ladri! Veder il mio Tita scacciato dalla compagnia degli altri fanciulli come un mariuolo...! E le donne chiacchierare dei nostri fatti! E quand'io entrava nelle loro case, guardarmi sospettose per paura che involassi qualche cosa.... Mi sono avvilita, non ho più ardito dimandar lavoro a nessuno.... Non oso più neanche lasciarmi vedere...! E tutto per uno sbaglio, per una cosa da nulla, che può succedere a qualunque galantuomo. — E perchè non palesar subito il caso e scolparvi col dire la verità? — Oh sì! che ci avrebbero creduto! E poi, quando noi ci siamo accorti, il danno era già fatto. Ecco come fu l'istoria. Egli aveva in costume d'uscir qualche volta con lo schioppo. A me veramente non garbava gran fatto, perchè a cagione di cotesto ei si trovava di necessità in compagnia di certi giovinastri poco di buono, o almeno sfaccendati, a cui se avesse somigliato sarei stata disperata. Sopportavo peraltro. Era così chiuso e sedentario, che un poco di svago mi pareva necessario alla sua salute. Una mattina, eravamo sul finire d'ottobre, e da parecchie settimane si lavorava giorno e notte per allestire due spose, egli stanco mi getta il sottanino che cuciva e mi dice alzandosi: Non manca che di fare il sopraggitto alle cuciture e di terminare la balzana, e per que' pochi punti già basti tu. Non ho proprio più volontà di lavorare, e a forza di star giù piegato mi duole il collo. Invece d'andarmene a giornata, esco con lo schioppo. Mi han detto che sul Nadisone ieri si son visti vari stormi d'anitre selvatiche. Voglio vedere se posso buscarti da cena. — La sera non era tornato. Mi coricai inquieta e pensando a mille malanni. Venne assai tardi e mi accorsi che aveva bevuto. Nel dimani io era ingrognata, egli pentito procurava di rabbonirmi a forza di carezze. Sai, Rosa, mi disse, ch'io non son solito a darti di questa sorte di dispiaceri, e ti prometto che sarà l'ultima volta. E voleva darmi lo schioppo, che lo chiudessi nell'armadio oppure che lo vendessi, onde non lasciarsi mai più tentare a far di simili scappate. Poveretto! sarebbe stato crudeltà privarlo di quel suo unico divertimento. Solo lo pregai a voler per amor mio sfuggire le compagnie e non gettar malamente i soldi all'osteria e star fuori, senza avvertirmi, la notte, perchè era questo che mi dava pena. È stato un puro accidente, egli allora mi disse; un accidente curioso, che voglio narrarti. Ieri mattina, quando sono uscito alla caccia, io mi tirai verso le ghiaje del Nadisone dove confluisce colla Torre, ed era affatto solo. Girava tra i saliceti ed i pioppi laggiù lungo il renajo in traccia dei maggiorini. Il sole era bellissimo e dava nelle acque che da lungi luccicavano tra i sassi. Io guardava la corrente, quando in un sito mi parve di scorgere qualche cosa di bruno, come una turba di volatili che si sciaquattassero. Pensai che fosse il selvaggiume, e messomi carpone dietro un cumulo di ghiaie mi strascinai adagio adagio così nascosto finchè credetti d'essere a tiro. Alzo un momento la testa, ed era uno stormo infinito che mi fece balzare il cuore dalla gioja. Allora lascio andare la schioppettata e salto in piedi per esser pronto coll'altra canna a dar la seconda, allorchè si fossero aggruppati alzandosi in colonna. Ma qual fu la mia sorpresa, quando, invece di levarsi a volo, li vidi fuggir tutti sparnazzati per la corrente. Capii d'averla fatta grossa, e che erano le anitre del vicino mugnaio. Mortificato mi trassi al torrente e le uccise venivano giù per l'acqua supine e co' piedi all'aria. Ne pescai cinque. Non sapeva che farmi. Portarle a casa, temeva che passando per il villaggio qualcheduno me le vedesse. Andare al molino e confessare lo sbaglio, no davvero non me ne sentiva il coraggio. La Giustina avrebbe fatto uno scalpore del diavolo, nessuno al mondo avrebbe potuto persuaderla della mia innocenza. Tu sai che donna è colei: la sola idea d'impicciarmi colla sua lingua mi faceva tremare. Sicchè, non vedendo rimedio, guadata l'acqua, le portai all'osteria di Bolzano. Ivi erano parecchi amici stati alla caccia prima di me, che annoiati di non trovar nulla s'erano messi a bere, e le abbiamo mangiate insieme. — Ahimè! invece di codesto sarebbe stato ben meglio sopportare tutte le contumelie della Giustina, e pagargliele magari un occhio del capo! O che l'oste abbia parlato, o fors'anche qualcuno degli stessi compagni, il fatto sta, che non andò guari che la cosa si riseppe. Cioè, si riseppe che mio marito aveva portato a cucinare nell'osteria di Bolzano le cinque anitre. La mugnaia che le aveva cercate per mare e per terra, e che ogni sera si fermava ore e ore sull'uscio del molino e lungo il canale a chiamarle a perdita di voce, andò sulle furie. In quell'anno, per soprassello di disgrazia, qui e colà per il paese erano spariti parecchi capi di bestiame. La Giustina non mancò di vociferare colle comari, come finalmente si sapeva dov'erano andati, e narrava a suo modo la storia delle anitre. Si cominciò a guardare sinistramente mio marito, e nelle case dove andava al lavoro lo tenevano d'occhio. I contadini, che costumano uscir tutti pe' campi alle loro faccende e lasciar la casa abbandonata, non trovavano più del loro conto servirsi di persona sospetta. Per trarsi d'impiccio barattarono sartore. Oggi una famiglia, dimani l'altra, in poco d'ora si perdette tutti gli avventori. Egli uggioso, tra per le malegrazie che riceveva, tra per le strettezze domestiche, si mise a frequentar l'osterie, credendo col vino d'assopir la passione. Ivi fece delle conoscenze.... Certi disgraziati cominciarono allora a bazzicarci per casa. Capitavano a straore, domandavano di lui, e c'era sempre qualche mistero, qualche secreto. Dio! o Dio! come fu tutto in breve cangiato. Egli, che una volta non faceva pensiero senza tosto comunicarmelo, diventato taciturno mi sfuggiva, mi trattava come una straniera, pareva che avesse paura della mia presenza. Vedendomi strillare, e i fanciulli mal nutriti, piangenti, arrabbiava e teneva certi propositi così poco cristiani ch'io ne fremeva, e piuttosto che udirli quasi desiderava se ne stesse fuori. Una volta ci portò dell'uva. Alla mia dimanda: come avuta? rispose: regalata nelle famiglie dove cuciva; ed era un anno che non dava un punto! Questi giorni passati pareva che mulinasse qualche gran cosa. Guardava accorato ai bambini, e a me disse: che se voleva morire, mio danno.... ma che le sue creature egli voleva ad ogni costo nutrirle; che il mondo era grande, e che roba ce n'era per tutti! Poi diede in iscandescenze scagliandosi contro i ricchi e profferendo bestemmie orribili che mi fanno ancora agghiacciare il sangue. Ieri l'altro, dopo l'Avemaria, vennero qui a cercare di lui due persone ch'io non aveva mai più vedute, e verso mezzanotte è partito con essi. — E ora dov'è? chiese la Contessa con visibile sgomento. — Di preciso non lo so.... — e Rosa tremava, e colle mani convulse strignendo quelle di lei, continuò come in atto di preghiera: — Per amore del cielo! che nessuno al mondo lo sappia....! ma vedendo quelle facce sinistre.... quando sono andati disopra a confabulare, io era lì.... — e accennava la scala. — E hai potuto scoprire....? — Dio, o Dio! parlavano di sete.... di forzare un magazzino.... di trovarsi questa sera alle nove sotto le colline di Cormons, insieme con altri che nominavano, e là complottare.... — Dicesti sotto le colline di Cormons?... — Sì: udii che specificavano il sito accennando un comunale chiuso a sinistra da una sterpaglia, a un tiro di schioppo dal quadrivio.... — Di là del Nadisone? Che va a Gorizia, a Cividale....? Ho capito. E levata in piedi s'avviava concitata per andarsene a casa. Rosa colle mani giunte la seguiva lagrimando e pregando: non volesse tradirla! non aprisse bocca! Pietà di lei, dei figli! di quel disgraziato!... — Fídati al mio cuore! le gridò la Contessa, e sparì via per la strada che pareva che volasse. Giunta a casa, ordinò che si attaccassero i cavalli e salì disopra nella sua camera. Ella non aveva preso nessuna risoluzione determinata; non sapeva ella stessa che cosa avrebbe fatto; ma con quell'impeto e con quell'ostinazione, che in mezzo alla loro debolezza sanno talvolta rinvenire le donne quando mettonsi in capo di riuscire, marciava intanto al luogo indicato, e deliberata di tutto adoperare, aspettava dal caso e dal proprio cuore i mezzi opportuni. Verso le otto il signor Giovanni, ch'era stato al suo solito in canonica dal cappellano, se ne tornava a casa bel bello. Vide dinanzi alla porta la carrozza, e formulando in una interrogazione il pensiero che gli passò per la mente: — Oh! oh! disse, e dove si va mo adesso? — Ha ordinato la padrona, risposero i servi. In quella sortiva la Contessa vestita da viaggio, e vedutolo: — Siete capitato proprio a proposito, esclamò. Su da bravo! montate in carrozza ed accompagnatemi. Il buon vecchietto, quantunque a malincuore, pure s'adattava ad obbedire sul momento. Ma ella, datagli un'occhiata: — Eh no così, per bacco! disse. Prendete il vostro soprabito, perchè fa freschetto, e forse che ci tocca star fuori tutta la notte. Allora sì che il signor Giovanni si sentì proprio mancar le gambe. Ma ella aveva un'aria così risoluta, che non osò metter in campo obbiezioni, e come un agnello, fatto quanto gli aveva imposto, le si assise dappresso. — Per la via di Mangano a Cormons. Ordinò la Contessa. Strada facendo il signor Giovanni cercò più volte di mettersi in dialogo; ma ella pareva troppo occupata dei propri pensieri per dargli retta. Rispondeva qualche monosillabo tanto da troncare il discorso, e mostrava evidentemente d'aver per la testa qualche progetto ch'egli non arrivava a discoprire. Ricacciato così, suo malgrado, alle proprie riflessioni, il signor Giovanni non poteva a meno di non trovare assai poco a proposito quella gita in quella giornata e a quell'ora. Ahi! pensava tra sè. Eccoci di nuovo ad uno dei soliti capriccetti! e io, che fidandomi alla bonaccia di quest'autunno, osava sperare che finalmente fosse guarita? Sì poi!... E come all'improvviso l'è saltata la mosca! Sta mattina a messa, dispensare colle proprie mani il pane dei morti, a' vespri tutta divota e compunta che pareva una santa.... e adesso presto in carrozza, e chi sa dove diaccene anderemo! Oh! donne, donne!... concludeva il buon fattore, e involontariamente gli si affacciava il proverbio: che chi è matto non guarisce mai. Passato il Nadisone, la Contessa ordinò che si andasse a passo. La notte era placida, faceva un bel chiaro di luna, e le colline di Rosazzo, quelle più lontane del Coglio e la facile catena che termina col monte di Cormons coronato la fronte del suo vecchio castello, apparivano nitide e si disegnavano in bruno su d'un fondo cilestrino tempestato di rade e pallide stelle. Per la via non incontravi anima viva. I contadini a quell'ora erano tutti ritirati in casa a recitare il lungo rosario dei morti; e la credenza che le anime come in quella notte vadano vagolando intorno avvolte nel funereo lenzuolo, non avrebbe lor certo permesso di lasciarsi trovar fuori. Sicchè la campagna era affatto deserta, solo sentivi a un buon tratto di distanza tutti i campanili del circondario sonar a distesa le malinconiche danze dei morti.[3] Giunti su di un quadrivio, la Contessa fece fermare; e aguzzando gli occhi guardava di qua e di là con un'attenzione, che al signor Giovanni mise i brividi. Poi cavò l'orologio e lo fece battere. Otto e trequarti. Era evidente ch'ella aspettava qualcheduno. — Si trattasse mai di qualche intrighetto!... pensò con angustia il signor Giovanni. E io qui testimonio! allora sì! che la vorrei veder bella co' suoi signori parenti.... — e si passò due dita tra il collo e la cravatta come per allargarne il nodo, onde poter meglio inghiottire la scialiva che a questa riflessione gli si era ingrossata. La Contessa intanto aveva raffigurato la siepe e il comunale indicati dalla Rosa, e le parve di veder in lontananza qualche ombra, che attraversasse in quella direzione la campagna. — Sono là senza dubbio! pensò ella, e, o nell'andata o nel ritorno è impossibile che su questo quadrivio ei non debba capitare. E avvolta nel suo ampio fazzoletto, si disponeva imperterrita ad aspettare magari tutta la notte. In quella, si sentì un passo affrettato che si faceva sempre più dappresso. Comparvero due paesani, che, data un'occhiata sinistra a quella carrozza lì ferma, continuarono la loro strada verso Cormons. Quando si furono allontanati: — Ecco due, che non hanno paura nella notte dei morti! disse il signor Giovanni che aveva osservato con una specie di terrore quelle due facce proibite. — No davvero! rispose la Contessa. Ma e' mi pare che siano forestieri; o almeno io non so d'averli mai più veduti. — Eh! il diavolo saprà a che razza di gente appartengono, sclamò egli. Ma, e noi.... s'arrischiò poscia a dimandare, che cosa facciamo noi qui fermi a quest'ora? — È una mia idea, che più tardi saprete. Vi spiegherò tutto, mio caro amico, ma per ora.... per quanto strana vi possa parere la mia condotta, vi prego, tacete, e lasciatemi fare. — Buon Dio! mormorò il fattore, purchè non incappiamo nei malandrini!... Di lì a pochi minuti, per la via di Corno venivano altri tre. La Contessa li guardava con grande attenzione. Uno portava una specie di botticella, che dal modo con cui dondolava pareva vuota, e attraversavano il quadrivio dirigendosi dalla parte di San Giovanni. — O per bacco! È Nardo il nostro sartore, gridò la Contessa. Ehi! Nardo! fatti in qua. Guarda che fortuna a incontrarti qui a quest'ora! Mi faresti un piacere? diss'ella al sartore, che sentendosi chiamare per nome s'aveva cavato il cappello e s'era messo alla portella. Monta a cassetta ed accompagnaci fino a Corno. — Volentieri, diss'egli.... ma devo.... — Capisco che ti preme d'andare a casa; ma ti scuserò io colla Rosa; e poi noi torniamo indietro subito; e coi cavalli non dubitare che faremo presto. — Bene, rispose allora Nardo, un momento, tanto che dica una parola ai miei compagni. E andato ai due ch'erano rimasti in disparte, sussurrò loro alquante frasi inintelligibili, e, consegnata ad essi la botticella, tornò verso la carrozza. — Guarda che gente coraggiosa! gli disse la Contessa. Tra la notte dei morti e tra le fantasie che correvano per la mente al signor Giovanni, io mi era messa in una tale paura, che non ardiva andare nè avanti nè indietro. — Ma paura di che? ripigliò il sartore. Sono anni che qui in questi dintorni non si sentì mai che sia avvenuto il minimo accidente. — Ecco una parola da uomo! Ora che vieni anche tu in compagnia, mi sento più tranquilla. Monta dunque vicino al cocchiere, e andiamo, diss'ella. Poi rivolta al signor Giovanni, gli mormorò sotto voce: — Ricordatevi che a Corno voi dovete cercarmi un foglio di carta da bollo, la quale vi guarderete bene dal trovare.... Giunti al villaggio, il fattore eseguì a puntino l'ordine ricevuto. — O che combinazione!... sclamò la Contessa. E adesso che cosa si fa? Se non premesse.... Ma gli è che quella benedetta scrittura dev'esser fatta proprio entr'oggi. Giacchè siamo in ballo, e la notte continua ad esser bella, l'unica sarebbe di andare fino a Cividale! Che ne dici Nardo? ti spiacerebbe star fuori ancora un paio d'ore? E corsero a Cividale, dove la Contessa trovò, ci s'intende, tutto quello che desiderava; poi, invece della via percorsa, fecero un giro, e per Grupignano e per Butrio tornarono a casa, ch'era la mezzanotte. La Contessa volle che il sartore si fermasse a cena con lei. Era allegrissima, e pareva orgogliosa per quella sua gita notturna: tanto, diceva, l'avevano divertita il chiaro della luna, l'ora insolita, la solitudine dei campi e il correre affrettato dei cavalli. — Ma se non eri tu, disse rivolta al sartore, invece di godermi, mi sarei inspiritata; perchè il signor Giovanni tirava fuori certi discorsi di morti, di malandrini.... Ma dopo anch'egli s'è quietato, e abbiamo tranquillamente ciarlato di certi nostri progetti.... Anzi, a proposito, bisogna che ti faccia una domanda. In un anno, quanto a presso a poco puoi calcolar di ricavare col tuo mestiere di sartore? — Io! rispose Nardo. Cosa vuole? si lavora a contadini.... — Pure? — Po! a stare assidui, appena tanto da campare. — E se trovassi chi ti desse una buona paga, avresti difficoltà ad abbandonare il mestiere? — Ma, che cosa potrei fare in quella vece? Io non so nè leggere nè scrivere; il contadino, non ci sono avvezzo.... — E se io ti dicessi: in luogo di star lì tutto il santo giorno a cucire, prenderai in ispalla un archibugio e guarderai i miei campi; cioè, guarderai i nuovi lavori ch'io vo facendo, affinchè le bestie o i male intenzionati non me li guastino.... e ti passerò all'anno duecento fiorini? — Sarebbe possibile? duecento fiorini? disse Nardo stupefatto. — Accetteresti? Già, io credo che non ci sarebbe molto da fare, perchè in paese, grazie a Dio, abbiamo tutta buona gente. Fo solo per tranquillizzare il signor Giovanni, che brontola sempre per paura di veder una volta o l'altra guastati i suoi nuovi lavori. — Oh Dio buono! disse il sartore. E posso sperare tanta fortuna? E Rosa, e i miei poveri figliuoli avranno dunque la polenta? — Via rispondi, se sei sì o no contento. — Contento?... Ah! se sapeste il bene che voi mi fate.... servirvi, adorarvi finchè avrò vita!... — Presto dunque, signor Giovanni, andate dalla Rosa, e se anche è a letto, fatela subito alzare, e conducetela qui: chè non vogliamo stabilir nulla senza di lei. — Il signor Giovanni, che fino allora aveva sempre obbedito senza capir nulla, e che si sentiva metter in bocca discorsi e progetti che non gli erano mai passati pel capo, credette proprio di sognare; ma ricordandosi della promessa ch'ella gli aveva fatto di spiegargli ogni cosa, continuò di buona grazia la parte passiva che gli era stata intanto assegnata, e preso il cappello, andò per la donna. Ell'era seduta sul limitare della porta, e quando lo vide, gli corse incontro e tutta in lagrime: — Mio marito! gridava. Che cos'è di mio marito?... — Vostro marito è colla Contessa che cena, ed ella mi ha ordinato di venirvi a prendere.... Rosa ansante gli prese tutte due le mani, e senza neanche chiudere la porta di casa, corse via con lui che pareva fuori di sè stessa. Entrati nel tinello, la povera donna non poteva credere ai propri occhi, e lì tutta pallida e tremante a traverso certi goccioloni di lagrime che le cadevano inavvertite, guardava sorridendo al marito, alla sua benefattrice, senza poter proferire neanche una parola. La Contessa le raccontò come lo aveva incontrato; la gita che avevano fatta; poi le espose il progetto, dimandandole se era contenta. Per tutta risposta Rosa le cadde dinanzi inginocchioni, e piangendo come una bambina non rifiniva mai di stringerle e baciarle la mano. Si sedettero a tavola. Tutti erano commossi; e perfino il signor Giovanni, quantunque per lui fosse ancora ogni cosa nel mistero, vedendo gli altri, faceva ogni tanto una smorfia e di soppiatto andava asciugandosi le lacrime. IX. IL CUC.[4] A due tiri di fucile dal villaggio di Mansinello, in riva al picciolo torrente che scende dai colli vicini, presso al ponte è situata una rustica casetta da contadini, ma così propria e pulitina, che ti si rivela subito il ben essere della famiglia che dentro vi abita. All'un dei lati una palizzata nuova, sulle cui punte simmetricamente tagliate in forma di labarde fan capolino alcune rose del Bengala, chiude un orticello diligentemente scompartito; dall'altro s'allarga il cortile che scende fino alla corrente e dal quale a guisa di piramidi s'innalzano diverse biche di paglia e di strame, sulla cui più alta cima sventola una banderuola ad indicare i mutamenti dell'aria. Quel cortile è popolato da una quantità di bestiame minuto, e ti sarà di rado occorso di passarvi dinanzi senza vederne uscire od entrarvi reduci dal pascolo molte torme di polli d'India, di anitre, di oche, guidate da qualche tarchiato fanciulletto dalla cui cera rubizza ed allegra avrai potuto argomentare come lì dentro non vi sia, grazie a Dio, giammai penuria di buona polenta. Infatti dalle finestre del granaio puoi scorgere come ei sia tutto soffittato da lunghi festoni di granoturco, e spesso essi si protendono fino al di fuori appesi a dei grossi chiodi ad inghirlandare la facciata di mezzogiorno. Questa casa è abitata da una numerosa famiglia di contadini, che pagano puntualmente il loro affitto e a cui non manca giammai nè un tallero in saccoccia nè l'allegria nel cuore. Mi ricordo sempre la prima volta ch'io entrai a salutarli. Era d'inverno, e sedevano tutti adunati in cucina intorno a un bel fuoco, aspettando che si riversasse la polenta. Garzoni e giovanette, chi attendeva a sgranocchiare, chi con un coltellino intagliava di minuto e capriccioso lavorio il fusto d'una rócca; uno imbroccava un paio di eleganti zoccoletti dalla fodera di scarlatto e dal tacco a triangolo tutto a ghirigori; le donne filavano badando a' bimbi, mentre la padrona di casa allestiva le scodelle e andava ogni qual tratto scoperchiando un capace tegame, le cui ondate di ghiotto e untuoso vapore facevano aprire gli occhi al dormiglioso alano che accovacciato lì dappresso al fuoco aspettava anch'egli colla famigliuola il momento di refocillarsi. Ma fra tutte quelle facce gioviali e piene di salute, la più originale, la più degna d'attenzione era quella del vecchio padrone di casa. Seduto in capo al focolare colle gambe incrociate, e colle mani or sulle ginocchia or distese alla vampa, egli andava guardando con un certo sorriso di compiacenza alla sua lieta famigliuola, e pareva che in suo cuore s'applaudisse di quella felicità, come se avesse avuto la coscienza di averla egli stesso creata. La sua fronte calva e leggermente corrugata dagli anni era serena, e sotto le folte sopracciglia già quasi affatto canute, gli brillavano sereni due begli occhi azzurri che il tempo non aveva potuto offuscare, e nella cui limpidezza traspariva la dolce tranquillità di un'anima contenta, come la bonaccia del cielo in una bella notte d'autunno. Un altro vecchio venerando gli sedeva dappresso intento a far ballonzolare sulle ginocchia una candida fanciulletta che ogni tanto gli si avvinghiava al collo, e baciandogli le guance abbronzite, confondeva i morbidi ricci della sua bionda testina colle ispide e grigie chiome di lui. Guardando a quei due uomini assisi lì, l'uno dappresso all'altro, e che evidentemente ti si mostravano per i padroni o i capi della famiglia, ti era facile l'accorgerti di una diversità di origine tra essi. La statura, il colorito, i lineamenti affatto differenti e perfino la pronunzia che presentava due di quelle caratteristiche varietà che qui nel nostro Friuli s'incontrano quasi ad ogni mutar di villaggio, ti palesava com'era impossibile ch'essi fossero nati dallo stesso padre; nemmanco nella stessa casa; mentre l'affetto con cui si guardavano e si rivolgevano il discorso, lasciava trasparire com'essi erano uniti da un legame assai più forte ancora, che non sono quelli del sangue. Essi erano cognati; Valentino aveva sposato una sorella di Domenico, e il modo con cui il caso li aveva congiunti era una di quelle vecchie istorie che quest'ultimo si compiaceva di spesso raccontare a' suoi figli ed a' suoi nipoti d'accanto al fuoco nelle lunghe sere invernali, nella quale egli riconosceva la mano benefica della Provvidenza e l'origine della sua presente prosperità. Ne' suoi anni giovanili Domenico s'era trovato in ben altre circostanze; e in quella casetta, oggi sì florida, regnava allora lo stento, la miseria, il lavoro senza compenso. Rimasto orfano per tempo con due figli ancora bambini e con tre sorelle, delle quali, per l'età troppo fresca, una sola era in istato di prestargli aiuto nelle molte fatiche necessarie alla coltura della colonía ch'ei teneva in affitto, vedeva in ogni anno che passava un accrescimento di debito col padrone e sempre più consumarsi i suoi pochi modi di sussistenza. Mancavano le braccia al lavoro, e a provvederne di mercenarie bisognava ogni giorno disfarsi o di qualche utile oggetto o di qualche istrumento di agricoltura, o finalmente diminuire il numero degli animali compagni delle sue fatiche; e assottigliato così il suo capitale agrario, veniva di necessità che anche i campi dimagrissero a colpo d'occhio, ed egli si trovava sempre più povero ed affaticato. Nè giovava sperar nell'avvenire, perchè le sorelle che intanto si avvicinavano all'epoca del loro collocamento, avrebbero causato in breve, non solo una nuova diminuzione di capitale, ma anche di lavoro; e fino a tanto che i figli fossero cresciuti, egli aveva tutte le ragioni di temere, che il proprietario, vedendo ogni anno sminuita la sua rendita, pensasse a cambiare fittaiuolo. Egli era in questo tristo frangente, quando una mattina di gennaio, estremamente scorato, e non sapendo come più provvedere di biada alla sua povera famigliuola durante i lunghi tre mesi d'inverno che ancora rimanevano, uscì di casa nell'idea di recarsi al mercato a vendere gli unici due buoi da timone che ancora possedeva. Egli stette l'intero giorno immerso nella folla d'uomini e d'animali che in tale occasione riempie il vasto spazio a cui nella città di Udine si dà il nome di Giardino. Coi piedi nella mota, e colle spalle appoggiate all'uno de' suoi buoi che in mezzo a quel tramestio stavano placidamente ruminando, ei ravvolgeva mille tristi pensieri, e si lasciava urtare e spingere dai sensali, dai venditori, dai compratori, senza curarsi dell'infernale schiamazzo e della moltitudine irrequieta che lo circondava. Solo, ogni volta che qualcuno allettato dal bel pelame delle sue bestie e dalle loro forme abbastanza promettenti veniva a palpar loro la giogaia, a pigliarle per le corna, a riconoscerne l'età col guardarneli in bocca, ei trasaliva e, come se non fosse stato lì per vendere, tremava dal vedersi dinanzi un compratore. La sola necessità lo aveva spinto a quel passo; ed ora ch'egli era sul punto di disfarsene, gli veniva dinanzi più gigante che mai il pensiero del come avrebbe poi fatto senza di essi ad arare ed a preparare la polenta e l'affitto per l'anno venturo. Due sole volte gli fu profferto un prezzo, ma tanto al di sotto del loro reale valore, che in coscienza ei non potè neanche contrattare. Sicchè, venuta la sera, tra afflitto e contento del non avere venduto, pensò di ritornarsene a casa. Preso un po' di cibo così alla presta, veniva via per la strada postale, sempre mulinando al come avrebbe fatto a campare. Era stata una di quelle giornate d'inverno annebbiate e pallide, che non sai bene se voglia risolversi in pioggia od in neve, ed ora coll'avvicinarsi della notte spirava un acuto levante che agglomerava le goccioline invisibili di cui era piena l'atmosfera, e cangiatele in un fino nevischio le gettava sui rialzi della via e nei ridossi dei solchi, dimodochè già la terra cominciava ad apparire giù e colà allineata di bianco. Domenico procedeva in silenzio scuotendo ogni tanto dal cappello l'acqua diaccia che gli si fermava sull'ala e pestando i piedi che gli si andavano inzoccolando. Per ripararsi dal freddo, egli s'aveva gettato sulle spalle a mo' di gabbano una specie di sdrucita casacca; ma il vento che gli dava giusto per mezzo alla faccia, finì ben presto di sradicare l'unico bottone che gliela teneva allacciata. Pensò allora di supplire con un auzzo di legno, ed a tal fine guardava lungo il fosso per vedere dove gli fosse stato più agevole il varcarlo a tagliarsi una bacchetta nella siepe. Gli diede allora nell'occhio un oscuro fardello mezzo coperto dalla neve che giaceva quasi nell'acqua. Lo raccolse; era un farsetto, pesava fuor di misura ed aveva le maniche gonfie e dure, come se ci fossero state entro ancora le braccia. E che diaccine vorrà esser qui? disse Domenico, che alzatolo esaminava le imboccature strette al basso da due vincigli attortigliati. Provvidenza di Dio! esclamò quando dopo aver introdotta la mano in uno di que' pesanti salcicciotti, la cavò piena di svanziche. Gli è denaro, tutto denaro! E come il foglio, su cui si abbia scritto coll'inchiostro simpatico, al calore del fuoco cambia subito d'aspetto e lascia comparire il pensiero e la vita dove prima non era che carta insipida e bianca, così egli al tocco di quel metallo si risentì tutto quanto, si rianimò, il cuore dilatato accolse con battito di gioia il sangue che gli affluiva più vivace e più rapido, le idee della sua mente presero subito un altro corso, ed ei si trovò come per incanto tramutato in tutt'altro uomo. Mille pensieri, mille diversi progetti gli si affacciarono. Camminava concitato, e si vedeva dinanzi agli occhi la gioia della sua famiglia, i campi che teneva in affitto lavorati e concimati all'ultimo apice, le masserizie rinnovate, le sorelle, la moglie, i figliuoli vestiti da festa, nuotare nell'abbondanza e nella consolazione; e già gli pareva d'incontrare per la via il suo padrone, guidando non mica quei due poveri ed unici buoi, ma la più numerosa e la più pingue plina[5] del contorno e di salutarlo senza neanche levarsi il cappello di testa, con quell'aria soddisfatta e quasi da eguale che sa tenere il contadino benestante che non ha bisogno di nessuno, e che non tiene un quattrino di debito con chi che sia. Egli era il ben venuto in tutte le osterie, il rispettato nel paese, il _factotum_ nel consiglio comunale; ristorava la chiesa, il campanile, faceva fare di nuovo il pozzo: insomma per un momento gli passarono pel capo i più matti pensieri, e immaginava ogni sorta di eventi, eccetto il più ovvio e naturale, quello che doveva succedergli da lì pochi passi, cioè d'incontrarsi nel padrone della somma ch'egli aveva rinvenuta. Domenico era appena andato alquanti tiri di fucile, che si vide venir incontro correndo un giovane tutto ansante ed in lacrime. Quando fu a portata d'essere inteso, si fermò a raccogliere il fiato, poi in atto di somma angoscia gli chiese: — Avreste per sorte, galantuomo, veduto per via un farsetto con del danaro legato nelle maniche? — Un farsetto, replicò Menico, con del danaro?... Avete dunque perduto una somma di danaro? — Niente manco che il valore di due paia di bovi! una disgrazia orribile, amico, che mi fa dar volta al cervello, ch'è la mia rovina, quella del mio padrone e di tutta la sua famiglia. Oh Dio mio! che sarà mai di me?... e si mise a piangere e a strapparsi i capelli. — Immaginatevi, continuava, sono un povero famiglio. Il mio padrone mi ha mandato al mercato; ho venduto questa mattina; e siccome il danaro mi fu contato la maggior parte in tante svanziche, e io non voleva far solo la strada, ho aspettato a venir via assieme con altri contadini del mio paese. Per non lo perdere lo aveva riposto nelle maniche del farsetto, e il demonio mi ha tentato a gittarlo sul carro di un nostro compare. A Prademano ci siamo fermati, vado per riprendere il mio farsetto.... Oh Dio! oh Dio! non è più!... Torno a rifare la strada; ma già è impossibile che a quest'ora non l'abbiano ritrovato, e per me è finita! Oh la disgrazia orribile! — e tornava a disperarsi. — Via via, disse Domenico, tranquillizzatevi, che il vostro farsetto è qui. Il giovane a queste parole spalancò gli occhi, vide che era vero, si gettò a' suoi piedi, poi strinse il contadino fra le braccia, e piangeva e gridava che pareva impazzito. — Era in un fosso, capite! l'ho veduto proprio per miracolo, e il danaro ci deve essere intatto, perchè io non gli ho che tastato il polso per di qui: e guardate, gli diceva tutto allegro, mostrandogli i danari ancora legati dai vimini. Continuarono la strada fino a Prademano, e il giovane voleva che Domenico si tenesse almeno un gruzzolo di quelle svanziche, dicendo ch'ei poteva disporne, perchè aveva credito col suo padrone di molti anni di salario, ma il buon uomo non volle neppur un quattrino; solo fermati dinanzi la porta dell'osteria, bevettero insieme un fiasco di vino e si divisero, avendo stretto fra loro una di quelle amicizie di cuore che durano finchè dura la vita. Nessuno dei bei sogni di Domenico si era avverato. Egli aveva restituito quel danaro così come lo aveva rinvenuto, senza neanche numerarlo, tornava a casa povero come prima; nondimeno egli era allegro: anzi non sapeva ricordarsi di essere stato così allegro in vita sua. Giammai abbracciò così contento sua moglie, i suoi figliuoli, le sorelle come in quella sera; gli pareva che gli fossero diventati più cari, sentiva di voler loro un bene indicibile, di voler bene a tutto il mondo, e la cenetta che essi gli avevano apparecchiato gli andò per ogni vena. Oh! egli aveva asciugate le lacrime a un disgraziato, aveva potuto sollevare un'anima afflitta, far sparire in un subito la sciagura che l'opprimeva, tornarla all'ilarità, alla quiete di prima; e questa gioia unico bene che gli era provenuto dall'accidente occorso, e l'unico ch'egli non aveva saputo prevedere, gli riempiva ora l'anima di tanta dolcezza, che gli valeva tutti i dorati castelli in aria e le matte immaginazioni che quel danaro ritrovato gli aveva per un momento fatto passar per la mente. Dopo quell'epoca non passava domenica e dì festivo che a quel casale non capitasse puntualmente Valentino, il giovane della somma perduta. Ve lo conduceva la gratitudine; e Domenico, che aveva preso ad amarlo come si ama sempre la memoria d'una buona azione, lo vedeva assai volentieri, ed uscivano insieme alle funzioni, e talvolta anche a diporto nei vicini villaggi. Egli era diventato come di casa, e non istette molto ad accorgersi della strettezza in cui si trovava l'amico. Con quei modi che sa suggerire la riconoscenza e l'affetto, ei seppe tanto adoperarsi, che finalmente lo persuase ad accettare l'imprestito de' suoi salari. Domenico nella rettitudine della sua anima aveva capito che sarebbe stato un mal retribuire, anzi contristare l'amicizia, se per falsa delicatezza si fosse più oltre ostinato a patire egli e la sua famiglia, piuttosto che valersi di quel danaro che gli veniva offerto con tanta espansione di cuore. Per tal modo questo dolce ricambio di beneficio fatto così alla buona, ed accettato senza orgoglio, accresceva ogni dì più fra loro l'affetto. Valentino, povero orfano condannato fin dall'infanzia a mangiare il pane degli altri ed a vivere senza famiglia, riguardava come sua quella dell'amico, e tutte le ore che gli restavano libere, veniva a passarle in quel casale dove sentiva l'ineffabile consolazione di essere amato. E lo amavano tutti come un caro fratello; i fanciulletti, appena che lo vedevano capitare, gli correvano incontro e facevano allegria; le donne gli usavano le più delicate attenzioni; ma chi più degli altri mostrava interesse per lui, era la maggiore delle sorelle di Domenico, una graziosa brunetta di vent'anni dai modi ancora infantili e dallo sguardo ingenuo e gentilmente amoroso. Ella aveva sempre qualche cosa in particolare da dirgli. Era de' suoi fiori, del nido dei colombi, del vitellino ultimo nato che la lo intratteneva: talora gli faceva delle curiose interrogazioni, gli comunicava con innocente confidenza tutti i suoi pensieri, così come s'andavano svolgendo nella sua giovane testa; e fosse caso od irresistibile forza di secreta simpatia, non era volta ch'ei venisse in casa, che presto o tardi non si trovassero seduti l'uno appresso dell'altro; e quando andavano tutti insieme a qualche sagra, se anco la Lucia uscisse di casa a braccetto colla sorella, o colla cognata, nel ritorno era sempre con Valentino ch'ella vi rientrava. Un misterioso potere, di cui non si erano per anco avvisati, teneva ammaliate le loro anime e li costringeva col pensiero o col fatto a cercarsi del continuo; sicchè non si trovavano mai tanto a lor agio come quando erano insieme. Vivere nello stesso ambiente, respirare l'aria medesima, leggersi a vicenda negli occhi ogni più intima commozione, mettere in comune tutte le loro gioie e tutti i loro dolori, quest'era per essi, se non la felicità, almeno quel più di bene di cui possa godere quaggiù sulla terra l'umana creatura. Codesta coppa voluttuosa in cui senza reflettere entrambi a gran sorsi bevevano, era dunque l'amore? Primo ad accorgersene fu Valentino. Una domenica dopo la messa, egli s'era fermato insieme con altri compagni sulla piazza della chiesa, e guardavano alla gente che usciva. Come è ben naturale, chiacchieravano di ragazze, e secondo il proprio capriccio davano la preferenza a questa od a quella; egli taceva, e senza saperlo pensava alla Lucia, quando l'udì nominare. Un giovanotto delle meglio famiglie del paese ne tesseva con molto calore l'elogio, e conchiuse dicendo ch'egli aveva in pronto un bel mazzolino, e che intendeva andare in quell'istesso giorno a' vesperi nella parrocchia di lei per regalarglielo, e chiederle così licenza di camminare per casa: il che, stando al loro linguaggio, equivale alla protesta di volerla amoreggiare. Valentino guardò con disprezzo all'impronto chiacchierone, e stava per lasciarsi trasportare a qualche brusca parola, ma lo colpì l'eleganza del vestito che indossava cotanto migliore del suo; il cappello nuovo chinato sull'un degli orecchi che lasciava vedere la folta zazzera ben pettinata e dava garbo a quella fronte e a quel volto pieni di brio e di baldanza giovanile; un fazzoletto di seta, il cui angolo a vivaci colori faceva capolino dalla tasca, e un altro gettato a tracollo che gli si allacciava sul petto. Era la prima volta che ci badava; ma quel giovinastro che fin l'altrieri giocava colla ragazzaglia del paese alle piastrelle per le strade, era diventato un gran bel giovane; e nell'ammirarne la svelta e slanciata persona, che a guisa di fresco e rigoglioso abete s'ergeva così ben complessa sulle gambe tornite, sentì suo malgrado che la Lucia avrebbe dovuto apprezzarne l'omaggio, tanto più che si trattava d'una buona fortuna. Egli invece, povero figliuolo senza famiglia, che cosa avrebbe potuto offerirle? Chiederla in isposa, ei non aveva mai pensato a codesto: ma ora il progetto di costui gli svelava troppo bene la natura de' suoi propri più reconditi desidèri. Chiederla in isposa egli meschino bracciante che non aveva di suo che la vita? e se anche la fanciulla accecata dall'amore avesse potuto preferirlo, dove condurla? Come provvedere ai bisogni d'una nascente famiglia? forse sarebbe stato facile trovare a pigione una cameretta e mettersi nella condizione di _sottani_ che vivono del solo lavoro della giornata; ma se una malattia od una disgrazia qualunque li avesse colpiti, di che allora campare? ed egli che l'amava, come mai avrebbe consentito ch'ella rinunziasse a un così buon collocamento per strascinarla seco a patire nel più profondo della miseria? Queste riflessioni gli fecero, per così dire, palpar con mano la propria inferiorità, e per un momento odiò quell'avvenente giovanotto. Più lo guardava, e più si sentiva mordere il cuore da un'amarezza tale, che non potè più oltre sopportarne la presenza. Rientrato nella casa de' suoi padroni, si occupò come di consueto nelle faccende che gli spettavano; solo quando venne l'ora dei vesperi non uscì nè chiese d'andare da Domenico: aveva risolto di non andarvi mai più. Era passato già quasi un mese ch'egli durava in tale proponimento. Domenico e la sua famiglia non potevano darsi pace di cotesto non vederlo. Da principio credettero che qualche impiccio ne lo avesse impedito, poi sospettarono che potesse giacere ammalato, e una domenica sera, dopo averlo lungamente aspettato indarno, la Lucia insieme colla cognata risolsero di andar nel dimani mattina per tempo al villaggio di lui per sapere come fosse. Le due donne s'erano avviate appena sorto il sole, ed erano andate un mezzo miglio di strada, quando s'incontrarono in un magnano che aveva la sua fucina contigua alla casa dei padroni di Valentino. Tosto ne lo richiesero. — Ammalato? rispose l'artiere, ma che cosa vi sognate? non sarà neanche un'ora ch'io l'ho lasciato nel comunale vicino al crocicchio, e se vedeste come volta la terra! le braccia intanto, affè, non pare gli si sieno aggranchite! Esse si guardarono, fecero ancora alquanti passi, poi d'accordo risolsero di tornarsene a casa. La Lucia teneva il capo chino, o lo rivolgeva dall'altra parte della via, onde nascondere alla cognata qualche lacrima che a malgrado de' suoi sforzi voleva uscirle dagli occhi, aveva perduta la favella, era diventata pallida. A lei che in tutta la notte non aveva chiuso un occhio per paura che fosse ammalato, le parole del magnano avrebbero dovuto riuscirle di conforto, invece le avevano fatto male al sangue. Essere sano e non venire! questo pensiero continuamente le si riproduceva nel cervello, questo pensiero come spina avvelenata le si era fitto nel cuore. A pranzo indarno procurava d'inghiottire qualche boccone, le si fermava nel collo, e la notte invece di dormire piangeva. In pochi giorni ella si era talmente mutata, che tutti in famiglia se ne accorsero. Domenico, che ci aveva pensato sopra, risolse di farla finita e di andare egli stesso da Valentino e di sapere come era questa faccenda. In chiesa a' vesperi non lo vide, aspettò un poco sul piazzale finchè fosse venuta fuori tutta la gente, pur sperando d'incontrarlo, ma indarno; allora andò dove stava di casa, e finalmente lo trovò in cortile seduto sotto la pergola malinconico e stralunato. — Valentino, diss'egli, sono venuto a vedere come la intendi, e se è propriamente vero che tu ci abbia abbandonati! Ma dico io, che cosa ti abbiamo fatto noi altri poveretti, per trattarci di questa maniera? — Non interpretarmi a male, Domenico.... io sono un disgraziato.... ma il mio affetto per voialtri è, e sarà sempre lo stesso. — Oh sì davvero! un bell'affetto! egli è quasi un mese che, a quel che pare, tu ci hai dato commiato, e intanto quella povera ragazza patisce.... Via, non accade far lunghi discorsi, se hai destinato farla morire, continua pure così, che te lo dico io l'hai trovato il vero modo. — Oh non dir questo! È anzi per lei, per il suo bene, pel bene di entrambi, ch'io mi sono determinato a non metter più piede laggiù. — Ma che pasticcio è cotesto? vi siete dunque bisticciati tra voi due? — Oh no! la non sa niente. — Via, parliamoci franco; l'ami tu questa ragazza, sì o no? — Se l'amo!... Anzi perchè mi sono accorto d'amarla troppo.... poichè io sono un poveretto che non posso offerirle se non miseria.... perchè non voglio che per colpa mia ella perda una buona occasione.... — Ma se tu l'ami, ed ella ti ama, mi pare che la buona occasione non occorra aspettarla. — Ma io, Domenico, non ho che le braccia! — Ed ella? — Io non ho nè padre, nè madre, nè nessuno al mondo!.... Trovar un po' di stanzuccia e mettersi a vivere da sottani, sarebbe lo stesso che tradirla.... mentre quel ragazzotto qui dirimpetto potrebbe farla star bene, e condurla in una buona famiglia di contadini dove certo non le mancherebbe la polenta. — Ma ella ama te, Valentino!... Io ti voglio bene come se tu mi fossi fratello. — E io a te! — Un fratello per me sarebbe una vera fortuna, perchè i miei campi avrebbero due braccia di più per lavorarli; e poi, se si maritasse, mi aggiugnerebbe un altro aiuto nella cognata, e la famiglia crescerebbe; e tu sai, che la disgrazia della mia famiglia è l'essere in pochi; e io non potrei lasciar partire la Lucia senza finire di rovinarmi. Ora, dico io, quello che non ha fatto il Signore, perchè non possiamo farlo noi? Facciamo conto, Valentino, d'essere fratelli; sposa la Lucia, vieni in casa nostra, io ti offro ciò che ti manca, la famiglia! e tu in compenso mi cavi dalla miseria. Il danaro che tu mi hai prestato io non posso restituirtelo, invece ti metto a parte di tutto quel che possiedo. Aiutami, Valentino, a mantenere i miei poveri figliuoli, ed essi un giorno aiuteranno te e ci acquisteranno il pane quando saremo vecchi; diventiamo fratelli! — Fratelli, per la vita e per la morte! disse Valentino commosso; e si abbracciarono ratificando con tutta l'espansione del cuore questo santo progetto. Da quel giorno in poi essi si riguardarono sempre come se fossero nati dal medesimo sangue. Misero in comune tutti i loro beni e tutti i loro mali, e Dio li benedì; e così fu creata la prosperità di quella numerosa famiglia di contadini, che ora senza contrasto è una delle più agiate e delle più felici del paese. X. LA FESTA DEI PASTORI. Ballavano sui prati di Solleschiano. Avevano piantato il tavolato sulla sponda sinistra del torrente all'ombra dei pioppi che fanno argine alle acque. Quella vasta prateria, che a guisa di ventaglio si stende tra il Nadisone e la Torre, era tutta seminata di gente, che in ogni direzione solcandola convenivano al luogo della festa. Or capitava una carretta tirata da muli, da cui smontavano un paio di leggiadre mugnaie che aggiustandosi la gonna, il grembialino di seta, i tremoli delle trecce, a forza di gombiti si facevano largo tra la calca. Or vedevi venir su pel prato una compagnia di ragazzette che si davano braccio: correvano, e il bianco de' loro ampi fazzoletti da testa, e i vivi colori di quelli da collo te le facevano scorgere una buona pezza lontane. Da un'altra parte raccolti in brigatelle venivano i giovinotti coi cappelli guarniti di un fiore o di una penna di pavone, colle calze azzurre slacciate e un po' arrotolate intorno al collo del piede mostravano la gamba robusta velata di pelo, e pronta a slanciarsi dietro la facile armonia del Valzer. Taluni cantarellavano, e allungando il collo al disopra della folla guardavano se ancora fosse venuta la loro amorosa. Il sole tramontava placido, e attraverso quelle mille fogliuzze di pioppo allora allora sbucciate e continuamente tremolanti, mandava gli ultimi suoi raggi ad illuminare la festa e dare una tinta fantastica a quei giovani volti un po' abbronzati e fatti rossi e vivaci dalla gioia della danza. Intanto alcuni, scelto coll'occhio un siterello in disparte, aprivano un cesto od un carnierino ed apparecchiavano sull'erba una merenduccia da godersi in compagnia. Cotesto ballare che qui si fa, si chiama la Festa dei Pastori, perchè i primi ad aprirla sono i giovanetti dei due villaggi, che nei mesi antecedenti al maggio menano in comune il bestiame al pascolo per la prateria. Essi hanno il diritto di ballare _gratis_, e lor si dà come per mancia qualche soldo e delle uova per la merenda. L'usanza s'è allargata in modo, che quasi tutti i padri di famiglia dividono tra i loro dipendenti alcune monete a tal uopo, cosicchè di queste merenduccie qui e colà, nell'ombra dei pioppi, dietro la riva che fiancheggia la strada di Palma, per tutto il prato se ne vedeva moltissime. Qualcuno s'era ingegnato d'avvivare un piccolo focherello, e d'intorno, mentre si riscaldavano le vivande o friggevano le uova, tenendosi per le mani, danzavano improvvisando allegre villotte. Nel mezzo del prato su d'un carro stava una botte di vino, ed era un continuo andirivieni a questa spezie di mobile osteria. Fra la calca che formava cerchio a quelli che ballavano, avresti notato un gruppo che si distingueva pel bruno signorile dei vestiti, per l'alto o trincato chiacchierare e per le boccate di fumo che tratto tratto saliva in ruote azzurrognole al di sopra dei loro fini cappelli di felpa. Erano alcuni giovinotti di fresco laureati, amici del medico condotto, venuti a passar con lui quella bella giornata di primavera, e dopo il pranzo, egli li aveva menati a vedere la festa campestre, che ogni anno usano fare su questi prati nella prima domenica di maggio, giorno in cui si vieta il vago pascolo. Se la godevano, or a notare l'aria d'importanza con cui que' ben tarchiati campagnuoli andavano a parlare co' sonatori, poi a prendere le loro belle e a lanciarle in un valzer alla contadina, dove il pestare dei piedi per la capriola finale erano un ritornello inevitabile; ora adocchiavano le danzatrici, e, — Guarda, diceva uno di essi, bella ragazzina quella dalla pezzuola colore scarlatto, che s'è lasciata cadere dalla testa il fazzoletto, onde mostrare i tanti tremoli che ha nelle trecce. — È la figlia d'un ricco affittuaiolo che abita in quella casuccia bianca che vedi là nella terza delle colline che ci stanno dirimpetto; rispondeva il dottore. — Bellina in verità! notava un altro. No, non sa ballare. Vedi modo sgraziato di portare la persona! e poi come butta le gambe! — Effetto, mio caro, dell'essere avvezza a saltare pei colli. — E l'altra, che balla con quel mascalzone che fa pompa del moccichino ricamato che s'è cinto attraverso la vita....? — Una mugnaia. — Io vorrei che ballassero quelle due là che si bisbigliano alle orecchie; quelle due care pettegole dai ricciolini minuti minuti e dalla vita mingherlina, che stanno lì dappresso a quella grassoccia che ha scritto sul viso la pretesa d'esser bella, ma che non lo è niente affatto. — Quella, vedi, diceva il dottore, ha nome di bellissima, mentre le altre due non sono contate un'acca. I contadini destinati alla fatica calcolano la bellezza in relazione ai loro bisogni. Buoni gombiti e buone spalle sono per essi la migliore attrattiva, e si prenderebbero, io credo, una donna a peso. — Infatti, osservava un altro, quelle che qui ballano non sono per nessun conto le migliori. Io vedo là nella calca spuntare dei visetti da angelo che allungano il collo per desiderio di far quattro salti, e cotesti villanzoni passano loro dappresso senza neanche guardarle, mentre le regine della festa sono due, tre, madame pataffie ben grasse e ben rubiconde, tutte ansanti e grondanti di sudore. E motteggiavano notando le smorfie, le occhiatine dolci e gli sguaiati attucci di quelle giovinotte che nella pretesa d'esser belle facevano vie meglio risaltare i difetti della loro goffa figura. — Guarda colei che si fa fresco col lembo del grembiule. Misericordia! che vezzi e che ridicole smancerie! — Eppure, osservava un altro, cotesti villani le fanno la corte, ed è incontestabilmente una delle leonesse della festa. — O dottore, dottore, cantarellava un mingherlino accarezzandosi le basette, anche questa sua vantata semplicità dei campi ha il suo lato ridicolo. Insomma, qui bisogna venire per conoscere quanto sia di bello reale nella poesia arcadica che or si vorrebbe tornare in moda. Se le contadine e le pastorelle fossero come ce le dipingono nei libri.... — Ma tu, interrompeva il dottore, per una che sia un po' sguaiata gridi contro tutte? — Almeno, tornava a dir l'altro, se non si può asserire che sieno tutte brutte, concederai che questi ragazzi son di un gusto ben perverso. — Oh! per cotesto poi nè più nè meno di voi altri ganimedi di città, che innamorati _dell'amabile pallore_ fate tante dive di tutte le clorotiche e le tisicucce tra le vostre madamine. Almeno qui se non si sa conoscere la vera venustà ed eleganza delle forme, si apprezza la forza e la salute che pure sono doni del cielo. — M'immagino che la tua decantata _Miutte_ sarà anch'essa un pezzo maiuscolo sul fare di coteste passate schiattone. — La mia Miutte, diceva il dottore, in qualunque condizione è vestita, sarebbe sempre bella, poichè i suoi lineamenti sono perfetti; capite? Bisogna vedere che profilo precisamente greco, che bellissima capigliatura, che occhi, che disinvoltura e che eleganza nel portare della persona! — Ih! ih! tu ce la dipingi una Venere! — Sissignori, una Venere, con questo di più, che bella com'è, ella non sa di esserlo. — Davvero che è proprio nel paese dove non sanno di esser belle; se se lo credono fin quelle che sono orride! — Appunto mo per cotesto, vedi, la sua bellezza ha un'attrattiva indescrivibile. La poverina è piuttosto graciletta, scarmolina, di colori delicati, e coll'idee del bello che qui regnano, ella non fu mai giustamente apprezzata; anzi crede in buona coscienza che la natura sia stata avara con lei di questi pregi esteriori, ed è per compensarne il difetto che è dolce ne' modi, aggraziata e modesta. Ella ti parla in un tuono così umile, veste semplicissima, lontana da ogni ostentazione.... Insomma pare che sia sempre in atto di chiederti scusa, se la sua vista non ti produce un senso abbastanza aggradevole; e ciò, a veder mio, aggiunge un gran pregio alla sua reale bellezza. — Ma sai tu, dottore, che con coteste poetiche descrizioni ci hai grandemente invogliati di vederla? — Or via additaci questa tua Miutte. — Questa tua Venere dei campi. — Questa bella senza pari. — Questa ninfa rusticana. — Questo tuo modello arativo-prativo e boschivo: — saltarono su a gridare tutti in un colpo. — Doveva venire.... diss'egli morsicandosi le labbra. — Ma a quel che pare, soggiunse un altro, ti ha canzonato. Il dottore, che, se non l'aveva precisamente detto, aveva almeno lor fatto credere d'aver un mezzo appuntamento, sentiva un po' di stizza d'aver dato in falso e procurava mutar discorso. Intanto s'era fatto tardi, il tavolato si spopolava, pel prato andavano diradandosi i gruppi di gente, e udivi di lontano il canto dei già partiti. Gli amici del dottore si congedavano, e montati in un calessino gli gridavano, ridendo, buona fortuna, e qualche altra piccante e buffona parola, ch'egli accolse con un forzato sorriso. Sentivasi suo malgrado umiliato. Dopo ch'egli nel suo cuore aveva fermamente ritenuto che quella donna capitasse, e dopo averne dette tante mirabilia ai compagni e con boria giovanile dato loro ad intendere un po' di amoretto, questo non essere venuta, gli volgeva in amaro tutta l'allegria di quel giorno. Compivano all'incirca tre anni ch'egli aveva veduto per la prima volta la Miutte. Era un mercoldì di carnovale, egli veniva nel villaggio di S*** a pranzo dal cappellano suo amico, e non trovatolo in canonica, entrò nella chiesetta dov'era a celebrare ed a benedire un matrimonio. Col suo bel mazzo di fiori in mano, velata da un ampio fazzoletto di _tulle_ ricamato e piegato a croce, da cui trasparivano le folte trecce tempestate di tremoli d'argento e rilucenti com'ebano lisciato, usciva prima la sposa. L'azzurro vivace della sua gonna di seta, l'allegra pezzuola del collo, colore di croco e picchiettata in iscarlatto, il grembialino cangiante tra il verde ed il rosso pallido, gli parevano addirsi a quella giovine creatura, che come un'alba d'estate gli compariva dinanzi in tutta la pompa del più bel giorno della sua vita. Ma quando giunta alla pila dell'acqua benedetta nel segnarsene la fronte, ella rivolse al suo sposo gli occhi umidi di pianto, e raccolta l'anima nella faccia dilicata ed ingenua, fe lampeggiare in un pudico sorriso l'interna sua contentezza ed affettuosa riconoscenza, quella fisonomia gli parve d'angelo, e gli s'impresse nel cuore a tratti indelebili. Dipoi la rivide assai di rado, chè ne' villaggi un po' discosti dalla città ed abitati da soli agricoltori, la vita delle contadine maritate è tutta di casa e di lavoro, ned egli aveva nessun decente pretesto per andarla a trovare. Fu solo due anni più tardi che essendosi ammalato il suocero di lei, egli ebbe occasione di vederla dappresso e di chiacchierare con essa qualche momento. Era spessissimo al letto dell'ammalato. Ella, riconoscente alle cure ch'ei prodigava a quel vecchio, che oramai veniva da lei riguardato come suo proprio padre, cercava di mostrare la sua gratitudine con mille attenzioni al giovane; ma non le passava neanche per la mente ch'ei potesse pensare a lei più del dovere. Le mogli dei nostri contadini sono di raro civette. Da ragazze fanno all'amore, cangiano amanti, scelgono; ma una volta maritate, la lor vita è tutta consecrata ad un solo uomo, nè credono possibile l'infedeltà. La Miutte ch'era lontanissima dal supporre nessuna mira nel dottore, trattando con lui, non usava poi neanche nessuno di quegli artifici di contegnosa virtù sì frequente nelle donne che in ogni uomo che loro usa un'attenzione veggono un seduttore. Semplice ed ingenua, ella apriva a lui i tesori della sua anima, e godeva con tutta innocenza dell'amicizia che gli veniva profferta. Quando fu guarito il vecchio, cessarono le visite del dottore, nè più si rividero, se non incontrandosi a caso, o qualche volta in chiesa alle sacre funzioni. Ma in quella prima domenica di maggio verso le undici del mattino il dottore andando a visitare un'ammalato e volendo accorciare la via attraversava un campo di frumento. Vide sul margine vicino alla siepe un fascio d'erba cavata di fresco come accennavano i papaveri e i fioralisi non ancora appassiti, e guardando lungo i solchi, scoprì la Miutte che succinta le gonne e curva tra le spiche nettava il frumento. — Brava! diss'egli, invece d'andare a messa, voi state qui lavorando! — Ma!... rispose ella ridendo. Gli agnelli mangiano anche in giorno di festa, e questa sera si balla sui prati.... — Voi non avete tempo di far erba, ho capito. Eh! questo ballare per voialtre donne è una gran tentazione; ed anche le più sagge mandano la predica del Piovano sul granaio del Papa, purchè avanzi tempo di divertirsi, n'è vero? Divenne rossa rossa, e, perchè egli pieno di fretta camminava a gran passi, lasciò che continuasse la sua strada. Questa era stata tutta la promessa di venire alla festa, sulla cui base egli aveva fatto credere ai compagni che una bella contadinotta lo aspettava a far un valzer; ed ora che la sua vanità era stata punita, tornava a casa di mal umore un po' stizzito e in cuor suo accusando la povera Miutte. Quando fu nella villa, vide sulla porta della casa di lei una sua cognata, fanciulla di circa sedici anni, che appoggiata all'un degli stipiti stava chiacchierando con un giovinotto, e gli venne l'idea di dimandare della Miutte. — Caterinuccia, diss'egli, fammi un piacere, portami un po' di fuoco, chè accenda il sigaro. Ella corre a prenderlo, e mentre accendeva: — Perchè non hai voluto ballare sui prati con quel giovinotto ch'era in mia compagnia? — Oh! perchè, diss'ella, noi altre poverette balliamo alla buona, e con loro signori non è da mettersi. — Ha pur ballato meco tua cognata. — La Ghita? — No, la Miutte. — Non è vero niente, rispose ridendo. — Non è vero? ed io ti dico di sì. Tu eri allora già partita. — Ma se la Miutte non è stata pei prati nè punto nè poco! — Vuoi dirlo a me? — Sicuro a lei! Ella è dalla Maddalena. — Chi è questa Maddalena? chiese allora il dottore fumando, e schiacciando un tantino colle dita la punta del sigaro. — Quella poveretta che sta laggiù accosto a' cipressi, e che or saran due anni ch'è inchiodata in letto. — Una malata? e nessun m'ha chiamato? vado subito a vedere di lei. E mosse verso la casuccia indicata, contento di questa combinazione che gli dava agio di rivederla. Mentre con passo affrettato attraversava il villaggio, il pensiero gli correva alla donna, il cuore gli palpitava come se si fosse trattato d'un colloquio d'amore. Aveva tanto parlato di lei in quella giornata, il suo desiderio di vederla nella festa era stato così vivo, l'allegria, gli amici, la spensierataggine dei loro discorsi, le spacciate millanterie, e per ultimo l'essere stato deluso e un po' canzonato gli aveva talmente esaltata l'anima, che aveva finito col trovarsi riguardo a quella giovane, non nella sua posizione reale, ma in quella che aveva immaginato e procurato di far credere agli altri; ed ora a questo abboccamento che il solo caso gli offeriva, e' vi andava come se di comune intelligenza fosse stato prima da entrambi concertato. Aveva in animo di farle finalmente dichiarazione d'amore e d'adoprare ogni possibile artifizio per trarla a corrispondergli. Se lì non gli veniva fatto di parlare a quattr'occhi, pensava d'accompagnarla a casa. Era notte: la villa deserta, perchè vicina l'ora della cena; questa volta l'occasione gli si presentava propizia. Giunto ai cipressi, vide a man ritta una casuccia meschina, che guardava su d'un cortiletto chiuso d'una palafitta di canne, e indovinò che fosse l'indicata, perchè dalle fessure della finestrella in alto traspariva un po' di lume. Le altre case, dove non c'erano ammalati, a quell'ora apparivano illuminate soltanto in cucina. Picchiò, nessuno veniva; s'accorse allora che i cancelli erano aperti. Attraversò in punta di piedi il cortile. Spinse leggermente la porta di casa, ch'era del pari socchiusa. Sul focolare due tizzi semispenti, che ogni qual tratto davano ancora una vampata, gli rischiararono quel miserabile tugurio dove non c'era anima viva, ma il lume scendeva dall'apertura della scala e dal soffitto in qua e in là rosicchiato dai sorci e logoro dal tempo. Le donne erano lì sopra; ei le udiva chiacchierare e di tratto in tratto i salti d'un bambino gli spolveravano il cappello e le spalle. Ascese pian piano, e fermatosi sulla soglia col dorso allo stipite che rimaneva al buio e cogli occhi nella camera, contemplò per un momento inosservato la scena che gli si presentava. Una rozza lucerna di ferro appesa alle travi illuminava parcamente la stanza e disegnava a grandi ombre sè stessa, or sulle screpolate pareti, ora sul letto, a seconda che la faceva girandolare l'aria ch'entrava dalla mal riparata finestrella. Un bel fanciulletto ch'ei tosto ravvisò pel bambino della Miutte, correva su e giù, e rotolavasi per lo spazzo facendo ogni sorte di capriole. La Miutte era seduta presso il capezzale ed aveva sulle ginocchia un altro bambino esile e più piccolo del suo; un bambinello biondo, coi capelli fini fini non pettinati, che d'intorno alla testina, stando alti, formavano come una specie d'aureola leggera e trasparente che gli dava somiglianza di quel fiore fragilissimo che dipingono nelle mani del Tempo. Ella lo vezzeggiava e ogni tanto chinavasi a raccogliere or l'uno or l'altro dei due pomi con cui il piccino trastullavasi. Al colore dei capelli, alla fisonomia, all'amore con cui stava riguardandolo, ei conobbe nella malata la madre. — Senti, Maddalena, bisogna proprio che tu ti risolva.... — diceva la Miutte a questa povera creatura, che lì distesa in letto, atteggiata il volto di grande malinconia stava ascoltando in silenzio, come chi vede la necessità di un sacrifizio e nell'istesso tempo ne sente tutta l'amarezza. All'aspetto di tanta miseria il dottore aveva sentito mancarsi l'anima e non ardiva inoltrarsi; ora le parole della Miutte gli destarono curiosità, e stette ad intendere il fine del discorso. — Ve' Maddalena, si tratta del tuo Giannetto. Come vuoi pretendere ch'ei cresca e viva chiuso in questa camera? A noi contadini fa d'uopo del sole, dell'aria, dei campi; noi siamo come gli uccelli, rinserrati non possiamo campare alla lunga, e il tuo povero piccolo sente già il danno della vita meschina a cui è condannato. Chi direbbe che avesse più tempo del mio Pierino? È sparuto, che rassomiglia un gambo d'insalata in bianco! Ma in coscienza mia ti morirà.... Pensa che ha due anni e che ancora non cammina, e che se ti ostini a tenertelo qui, finirà pur troppo col non camminare giammai! L'ammalata taceva, solo ogni tanto s'asciugava col lenzuolo una lagrima. — Dunque, Maddalena, me lo porto via questa sera? Se fosse.... per riguardo ai miei.... T'ho già detto, che mio suocero egli stesso m'ha ordinato di parlartene. Io.... non avrei ardito far io la proposta, perchè.... sono buona gente, ma tu lo sai meglio di me che tirano un po' al selvatico. Ora poi da questo lato non c'è più da dubitare, e sta' certa che tutti sono contenti. In quanto all'aver cura del fanciullo, Maddalena mia, tu lo dai a me.... a me che posso dire d'esser viva in grazia tua. Oh! non mi sono mica dimenticata, diss'ella, baciandola in fronte con grande affetto, che tu ti sei acquistata questa malattia per amor mio, per allattare il mio Pierino! — Or via, non mortificarmi, rispose finalmente l'ammalata, procurando di sollevarsi un poco sul meschino letticciuolo in modo d'aver libere le braccia. Poi prese per le mani l'amica, e posatole su d'una spalla il capo stanco, disse in tuono di dolorosa rassegnazione: — Tu parli per il mio bene, ed io son grata così a te come a' tuoi; capisco che avete, non una, ma mille ragioni. L'amor vostro è una provvidenza per quel povero piccino.... Se sapeste per altro quale conforto ei mi sia nelle mie lunghe giornate di dolore l'avermelo qui sul letto! Oh Miutte, tu me lo porterai via.... e io resterò sola a patire! e la sera quando verrà a casa il mio povero uomo, non troverà più nessuno se non questa disgraziata che gli raddoppia gli affanni della vita, e che sarebbe pur bene che il Signore finalmente prendesse con sè...! — Ma che cosa ti figuri di non vederlo altro? Puoi ben credere che tutte le volte che potrò, verrò qui a condurtelo, anzi questo sarà un pretesto per venire a trovarti più spesso. Intanto ogni domenica farò come oggi: coll'alba a messa, poi nei campi a far erba e così la sera con te.... E quando io ti menerò Giannetto che camminerà da se solo! quando lo rivedrai ogni volta più rubicondo e più grassoccio! Il medico picchiò. — Avanti, dissero le donne. Credevano che fossero i mariti, e restarono un po' confuse alla vista del dottore. — Sapete voi, diss'egli, che cosa vengo a far qui questa sera? A sgridarvi ben bene tutte due. Quanto tempo è che siete ammalata? Chiese in tuono brusco alla Maddalena. — Circa due anni, signore. — Ah, due anni! e in due anni non avete mai trovato l'opportunità di farmene avvertito? e invece di medicarvi e guarire in un quindici giorni, avete preferito di marcir lì in un letto, senza un'anima che vi assista?... E voi, continuò in collera rivolto a Miutte, voi che le siete amica, che in questi due anni mi avete veduto un milione di volte, v'era tanto difficile il dirmene una parola? — Per i poveri, signore, disse Maddalena, il medico è inutile. — Non sapete, adunque, ch'io sono pagato precisamente per i poveri? — Ma voi se foste venuto a visitarmi, replicò la donna, avreste ordinato delle medicine.... e se anche mi fossero state date per carità, quando si prendono, bisogna pur far un po' di brodo.... e mio marito è un povero bracciante, che, dopochè mi sono gittata in letto e non posso più aiutarlo, arriva appena a buscarsi la polenta.... Ah, signore, conchiuse ella in uno scoppio di pianto, se vi avessi chiamato, l'unica provvidenza per me, sarebbe stata l'ospitale! — Per carità, gridò allora in atto supplichevole Miutte; vi prego, no, all'ospitale! — Ma io vorrei sapere, esclamò il medico, perchè a voialtri contadini faccia tanto orrore questa parola ospitale? Certo che in nessuna delle vostre case, neanche presso i meglio benestanti del paese, un ammalato può essere trattato e servito come lì dentro. Lì sono pronti tutti i soccorsi dell'arte, si può avere ad ogni ora il medico, non manca nè biancheria nè alimento.... Io vedete, se mi ammalassi, non avrei nessunissimo riguardo a farmi portare all'ospitale. La donna per tutta risposta aveva preso tra le braccia il suo bambino, e stringendolo al cuore con una specie d'angosciosa tenerezza lo copriva di baci e di lacrime. — Or via, diss'egli, non si parli più d'ospitale, ma narratemi invece della vostra malattia. Miutte allora tirò innanzi un deschetto, affinchè il dottore si sedesse, gli prese il cappello, e dato d'occhio al suo piccolo che s'era cacciato tra gli arcioni della cuna e la ninnava a tutto slancio empiendo la stanza di sussurro, corse a lui, gli disse all'orecchio alcune paroline dolci, poi lo portò a sedere sul letto dell'ammalata vicino a Giannetto, e baciatili entrambi, ed accarezzatili un momento, tanto che stessero quieti, tornò a sedersi al suo posto, e aiutata dall'amica raccontò l'origine del male. Era un gennaio, freddissimo, la neve al ginocchio e un continuo soffiare di borea. Miutte, ammalata da parto, non reggeva ad allattare, e non ardiva palesare il sopravvenutogli malore, perchè in famiglia, gente di natura forte e tutti sani e robusti di corpo, l'avrebbero creduta delicata. Già al momento del suo matrimonio s'erano mostrati poco contenti di lei a motivo della sua complessione piuttosto gracile. Sua cognata, un bel pezzo di donna, massiccia e d'una tempra di ferro, durante la gravidanza lavorava senza nessun riguardo, e quando le cominciavano le doglie, era il suo solito che si metteva a lustrar le caldaie, i lebeti, i paioli, e dato alla luce il bambolo, ventiquattro ore dopo era in cucina, e in capo a tre giorni di nuovo al lavoro al pari d'ogni altro della famiglia. E queste male imprudenze, da quella gente rozza si decantavano per bravura, e i vecchi di null'altro tanto menavano vanto come di aver cresciuto prole vigorosa, amante della fatica e sprezzatrice del disagio. Miutte che temeva le loro derisioni, soffriva in silenzio; e Maddalena tre volte al giorno veniva a far da madre al bambino dell'amica, che senza lei sarebbe indubitatamente morto d'inedia. Nè per cadere di pioggia o di neve, nè per imperversare della stagione, giammai tralasciò dal pietoso uffizio; se non che ella pure era fresca di parto; il marito per non perdere giornata lavorava allora in un mulino fuori del villaggio, ed essa, a forza di aggiungere alle sue quotidiane fatiche quello strapazzo, ammalò, tirò innanzi senza curare il male fino alla buona stagione, ma poi finì col perdere le gambe e trovarsi inchiodata in letto. Impedita così di lavorare, quando più l'era necessario per supplire ai bisogni della sua cresciuta famigliuola, trovossi oppressa dalla miseria. Il marito per non lasciarla morire di fame stava via tutto il giorno a lavorare; ella sola colla sua creatura a languire fino all'avemmaria; e il piccolo privo degli aiuti della madre anneghittiva anch'egli, nè i brevi momenti che suo padre gli dedicava la sera, erano bastati in due anni neppure a insegnargli a camminare. Solo conforto della poveretta era l'amicizia e la gratitudine di Miutte. Ma innestata in una famiglia piuttosto ruvida, dove il lavoro era indefesso, poco ella poteva. Qualche scappata a trovarla, qualche tenue soccorso, e del resto non era al caso d'offrirle se non un cuore che sanguinava al suo patire! In quella domenica ella le aveva portato i pochi soldi che il suocero le aveva dati per la merenda dei pastori, e invece d'andare sui prati, era venuta lì a farle compagnia. Erano ancora in questi discorsi, quando sentirono abbasso in cucina un pispillare di pollastri. — Sicuro, sono tornati i nostri uomini, disse Miutte, e corse alla scala. Infatti erano essi ed avevano provveduto di che fare un po' di brodo all'ammalata. Il dottore la esaminò, poi le fece alcune ordinazioni, e raccomandò alla Miutte di sorvegliare perchè nulla mancasse. Dopo quella sera ci fu spessissimo a visitarla. Vicino al letto di lei trovava spesso Miutte, e avrebbe potuto parlarle d'amore: ma aveva discoperta troppo bella la sua anima per più osar di profanarla. In grazia di lui Maddalena riacquistò la salute, e in capo all'anno alla festa dei prati, ei godeva di una di quelle compiacenze dell'anima, che valgono più di quanto possono offrirci i sensi, e che il cielo ha riservato in premio alla virtù. All'ombra dei pioppi, sul margine del torrente erano sedute sull'erba due donne in compagnia dei loro mariti e di due graziosi bamboletti, e godevano d'una merenduccia a cui prendeva parte anche il dottore. La Maddalena era allegra, sulle sue candide gote rinfrescate dalla salute, il sangue tornava a rifiorire con tutta la grazia della giovinezza, i suoi occhi rianimati si posavano con emozione, or sull'amica che tutta lieta le stava d'accanto, or sul suo bambinello che vedeva correre e far capriole sull'erba, or su quel giovane signore, alle cui cure affettuose doveva la felicità di quel momento. Quando le cime dei monti cessavano di rosseggiare, e che la dolce curva delle collinette che lor si stendono ai piedi si confuse nel bruno del loro dorso, il dottore tornava alla sua dimora affatto solitario come l'anno innanzi. La festa era sparita, spopolato il prato; il silenzio era venuto colla notte a distendersi su quella pianura un momento prima così piena d'allegria e di rumore. Egli guardava allo stellato dei cieli, e si sentiva l'anima commossa e piena d'una gioia che l'anno addietro, in quell'istesso sito, sarebbe stato ben lontano dal sapersela immaginare. XI. REGINETTA. Fra le quaranta giovinette che si educavano nel collegio di S*** nella città di V*** era una fanciullina di circa nove anni, una cara bamboletta che si distingueva per la sua fisonomia di angelo, e per la dolcezza e delicatezza del suo carattere. Erano due anni che i suoi genitori l'avevano affidata alle cure di quelle buone madri, e già tutte l'amavano, e le sue compagne non sapevano guardare con invidia la predilezione con cui veniva trattata; tanto i suoi modi erano carezzevoli ed affettuosi. Docile, compiacente, pareva un agnellino a cui non si può usare senza rimorso una malagrazia. Il cielo non le aveva a dir vero largito nè grandi bellezze nè talento distinto. Delle quattordici fanciulline sue coetanee ell'era quasi sempre l'ultima ad apprendere le lezioni, e le sue picciole manine dilicate e bianche come una goccia di latte non segnavano i meglio punti, nè sapevano agucchiare disinvolte la più bella calzetta; suppliva peraltro la sua buona volontà, che ella con tutta attenzione ascoltava gl'insegnamenti; e quando in coro pregavano unite dinanzi alla Vergine, Reginetta colla sua bionda testina inchinata sul petto tutta candida e pura, stava con tanta divozione, che l'avresti presa per un vero angioletto. Nelle ore di ricreazione, invece di prender parte ai giuochi ed all'allegria chiassona delle sue vispe compagne, la povera fanciullina era spesso obbligata a terminare il compito della mattina, od a studiare la lezione, chè la sua memoria indocile abbisognava d'un più lungo tempo, che non era d'uopo alle altre. Suor Serafina, la maestra della classe, compassionava alla poveretta, e per non costringerla a rinunciare ai giuochi della sua età era più mite del solito, e spesso a lei perdonava i punti a sghimbescio. Ma contuttociò la fanciulla, o che sentisse vergogna del suo poco profitto, o che la vita del chiostro non le si confacesse, era quasi sempre malinconica, e bisognava un comando per farla partecipare ai divertimenti ed alle corse tanto care alle ragazzine della sua età. Avvenne, che una signora amica di quelle madri e lor benefattrice, che spesso visitava l'educande, avesse notato l'aria di mestizia che sempre regnava sul volto della piccola Reginetta. E un giorno chiamatala in disparte: — Reginetta mia, le disse, perchè sei tu sempre così mesta? La maestra e un'altra monaca incalzavano la dimanda, finchè la fanciulla ruppe in uno scoppio di pianto. Allora la buona signora dimandò che gliela lasciassero sola, e presala tra le sue braccia a forza di carezze e di baci la incoraggiva ad aprirle il suo cuore. — Sei tu malcontenta di Suor Serafina?... — Oh no! diss'ella; anzi io l'amo, ed ella è buona.... mi vuol bene anche troppo! — Dunque qualcuna delle tue compagne?... — No, signora. — Ora capisco. Non ti piace il convento. Due grosse lagrime caddero allora dagli occhi della piccola. — Dimmi, Reginetta, vorresti uscirne? — Ma io non posso lagnarmi di niente, diss'ella, mi trattano bene.... Gli è solo che dopo che sono qui non ho ancora mai veduto a levarsi il sole. Le mura che mi circondano sono alte alte, e quand'era con la mia buona mamma, ogni mattina facevamo una grande passeggiata sul fare del giorno, e ci sedevamo sulla collinetta in fondo al parco sotto gl'ippocastani, ed ella mi prendeva sulle sue ginocchia, e mi dava tanti e tanti baci. O mamma mia!... Ora la vedo così di rado.... e il pappà, mai. E piangeva nascondendo il volto in seno alla signora di C***. Quest'ultima parola e l'espressione con cui venne proferita rivelarono alla signora di C*** come la fanciullina sapeva delle vicende de' suoi genitori più di quanto comportasse la sua età; e guardandola con occhio di compassione, ed accarezzandole con ambe le mani i suoi lunghi capegli biondi che ella aveva bagnati di pianto, non ardì aggiugnere più sillaba, ma d'allora in poi la prese sotto la sua protezione speciale, e spesso veniva a vederla, e procurava di tenerle vece di madre. Benchè Reginetta avesse vivi e giovani entrambi i genitori, un disgraziato accidente l'aveva resa quasi orfana. La sua mamma correva per una delle più belle ed amabili signore della città di V***. Un'educazione peregrina l'aveva adorna di tutte quelle brillanti qualità che fanno della donna un fiore olezzante di profumo, ma che non bastano a garantirla dall'abito maligno del mondo. Ricca e bella, ella fu per tempo ricercata in isposa dai più agiati fra i giovani suoi coetanei. Per un raro capriccio della sorte l'eletto dai suoi parenti lo fu anche dal suo cuore. Il conte di B***, unico rampollo di cospicua famiglia, univa tutte quelle prerogative che ponno allettare il cuore e l'amor proprio d'una donna. Si videro, si piacquero, nessuno ostacolo alla loro unione; anzi pareva che il cielo li avesse creati l'uno per l'altro, e il matrimonio fortunatissimo fu celebrato fra gli applausi e la contentezza universale. In capo all'anno una bambina veniva a compiere la loro felicità, e la madre beata allattò col proprio seno la sua Reginetta, ch'era nata nell'amore e la di cui indole affettuosa non doveva poi mai smentirne l'amore. Passarono così alcuni anni, certamente i più belli della loro vita, perchè ogni giorno s'accresceva l'affetto vicendevole che si portavano, e perchè le loro speranze concentrate in un oggetto ad entrambi immensamente caro rendeva loro un paradiso l'adempiere ai doveri domestici. Pareva che la fortuna si fosse dimenticata de' suoi triboli per versare sul loro capo soltanto le rose. Quando si ama e si è amati, la famiglia è un tesoro inesauribile di piaceri; piaceri semplici e modesti, ma che vincono quanto di più brillante può offrirci la società. In quei piccoli sacrifizi fatti all'amore, in quelle attenzioni dilicate, in quelle affettuose prevenienze v'è tanto di bene, che il mondo non ha gioie che reggano al confronto. Un'acconciatura graziosa, un abbigliamento leggiadro, che ti dia vanto di buon gusto, sentirsi bella ad una veglia o ad un ballo, sono piaceri così vivi a cui sorride sempre il cuore d'una donna; ma ch'è mai cotesto trionfo della vanità paragonato alla delizia d'una madre, che sente per la prima volta balbettare dalla sua creaturina la preghiera ch'ella le ha insegnato?... La contessa di B*** aveva l'anima capace di gustare coteste gioie, e benchè la sua fortunata posizione e le sue brillanti qualità la rendessero desiderata a tutti i convegni, e fosse per così dire uno de' fiori più eletti che ne profumavano l'allegria, pure ella preferiva la compagnia della sua figlietta, e i mesi che insieme col suo marito passava in campagna erano i più belli del suo anno. Là dedicavasi tutta alle cure domestiche, e l'occhio del suo sposo riconoscente le era ricompensa, e le valeva più che tutti gli sguardi d'ammirazione che il suo bel volto e gli avvenenti suoi modi le potevano attirare nella pompa del suo palchetto da teatro. Talvolta la sera prima di coricarsi visitavano entrambi la cuna della loro bambina, e lì fermi stavano a contemplarla addormentata fra le coltrici leggiadre che la contessa aveva di sua mano ricamate. Tal altra godevano a sentirle balbettare i dolci nomi di Babbo e di Mamma, e ogni giorno v'era qualche nuova grazia che sotto a' loro occhi si dispiegava. Amava la contessa i fiori, ed il marito le preparava ogni anno nel giardino la grata sorpresa di qualche pianta novella, e il dì che fioriva era una festa; ella se ne adornava il seno e i capelli, inghirlandava la sua piccola Reginetta; nè mai dimenticava di comporre per l'ora del pranzo un leggiadro mazzolino dove il fiore recentemente regalato teneva il primo posto. Qualche volta si compiaceva a ritrarlo in colori, e poi colla seta e colle lane ne componeva de' graziosi ricami che avevano sempre per ricompensa qualche dilicata attenzione dello sposo e ne facevano più vivo l'amore. Erano felici: e questa felicità fu rotta, e bevettero entrambi nell'amara coppa della sciagura. Di lì a qualche anno quella deliziosa villeggiatura era quasi abbandonata da' suoi padroni. La signora più non compariva. Aveva scelto invece una sua villetta che formava parte della sua dote, amena per la posizione, ma dove non v'era nè il casino, nè l'agiatezza, nè le comodità della prima, e dove il piccolo giardinetto pareva appena un'ombra di quel ch'ella aveva lasciato, e che ogni anno trovava arricchito dalle piante novelle che il suo sposo per lei vi faceva trapiantare. La signora non si degnava neanche guardarlo, e se le portavano i fiori raccolti, li lasciava trascurati, come se più non ne amasse la fragranza. Invece divertivasi a far lunghe passeggiate, alle quali voleva compagna la sua piccola Reginetta. Ma presto annoiavasi di quella solitudine. Il marito non veniva mai a trovarla: ai buoni villici che ne chiedevano, ell'era obbligata a dar per tutta risposta che affari pressanti lo trattenevano nell'altra villeggiatura. Ma era pretesto evidente, perchè molti avevano notato che egli alcuna volta in compagnia d'amici era passato per quel villaggio colla sua brisca da caccia e coi cani, nè aveva tampoco dimandato di lei, come se non esistesse. In città vivevano nella stessa casa, ma separati d'appartamento, e il più delle volte, quand'ella vi soggiornava, egli invece trattenevasi in campagna, o faceva qualche viaggetto fuori di paese, sempre solo, o in altra compagnia, non mai con quella della moglie. Alle feste, ai teatri, ai convegni di piacere ella compariva, ma non più al fianco dello sposo; prendeva parte alle danze più facilmente che per lo innanzi; il suo abbigliamento era divenuto più ricercato; ella era cresciuta in bellezza, il suo spirito s'era fatto più disinvolto, le sue labbra sorridevano quasi sempre, anzi pareva che non sapessero più se non sorridere a tutti e di tutto; pure ad un fino osservatore non sarebbe isfuggito, che quel sorriso copriva alcun che di bene amaro, e ch'egli era come una spece di arma con cui ella procurava schermirsi dalle indagini degli occhi altrui e dalla maldicenza che le rombava d'intorno. Unico bene per lei era l'occuparsi della sua Reginetta. Le era continuamente d'intorno con un affetto sempre crescente. Ma quando le aveva fatto imparare la sua lezione, o insegnato a piegar l'orlo del grembialino, o ad agucchiare i primi punti dalla calzetta, quando l'aveva seduta al piano ed era giunta a guidar quelle piccole manine dietro le variazioni di _Herz_, mancavale il più grande dei compensi, il sorriso d'approvazione del suo sposo, e senza ch'ella osasse confessarlo neanco a sè stessa, questa mancanza le volgeva in amaro tutta la sua gioia. Che mai le valeva lo star lì seduta al telaio un'intera settimana per ricamarle un abitino, se poi l'era tolto il vestirla per gli occhi di lui? Era ben magro compenso l'ammirazione di gente straniera, se i due soli occhi che avrebbero potuto guardare a Reginetta con affetto pari al suo, si volgevano altrove e non curavano al finissimo lavorio e al buon gusto di cui ella aveva saputo adornarla! Quest'era dolore ch'ella indarno cercava attutire col darsi a tutti i divertimenti che la sua agiata condizione e la sua rara bellezza le offerivano. Rideva, danzava, folleggiava; ma come se in un piede ti si figge una spina, col correre te la cacci sempre più nel vivo, così ella con tal vita dissipata, lungi dallo strappar quella che le si era fitta nel cuore, più e più la se l'internava. Intanto la fanciulla toccava i sett'anni. Una mattina ell'era nella sua camera intenta a farne il ritratto. L'aveva vestita di bianco, e cintala di una fascia rosata e scioltole i crini, mentre la si trastullava con alcuni balocchi, ella si compiaceva a fissarne sulla tela l'ingenuo sorriso. Picchiano, e la cameriera le annunzia una visita del marito. Altre volte ei sarebbe entrato senza farsi annunziare, e qual gioia per lei il corrergli incontro e mostrargli quel lavoro! Invece ora, pallida come la morte, ella potè appena balbettare una mezza parola, e compiere colla mano tremante l'atto di semplice civiltà con cui lo invitava ad assidersi. Egli finse di non accorgersi nè del turbamento nè della sedia additata; ma in aspetto assai severo disse, che veniva per un affare d'importanza. Posato il pennello, ella ascoltava. — La mia figlia, continuò egli, ha compíto sett'anni. Come padre, io deggio pensare alla sua educazione; trovo conveniente il collocarla nel collegio di S*** e vengo ad avvertirvi, o madama, perchè mi venga consegnata. Un fulmine a queste parole colpì la misera madre. Nella faccia severa di lui, ella vide la legge che inesorabile strappavale dalle braccia il suo unico tesoro, e impossente a difendersi perdette i sentimenti. Quando tornava in sè, trovavasi nel suo letto attorniata dalle ancelle piangenti, che non sapevano darle la trista notizia che la sua Regina era già ita in convento. Il conte, adempito a quest'atto ch'ei credeva necessario al futuro ben essere della figlia, partì per la campagna senz'altro curarsi di lei che lasciava ammalata di crepacuore. Ma anche per lui quell'amena villeggiatura aveva perduto ogni attrattiva. Parevagli d'essere affatto solo, si annoiava mortalmente, e ancora fiorente d'anni sentivasi come invecchiato. Risolse di fare un lungo viaggio, e credeva di rinnovarsi il cuore col vedere cose nuove. Ma ritornò come era partito, e una sola speranza gli rallegrava la vita: quella di Reginetta reduce dal collegio e capace di supplire al vuoto che lo circondava. L'evento deluse peraltro i suoi progetti. La fanciulla delicata di complessione, avvezza ad essere tenuta con tutte quelle cure che il solo affetto materno sa immaginare, tolta all'amore de' suoi genitori, mal sapevasi adattare alla vita metodica e piuttosto severa d'un monastero. Chiudeva il suo dolore in sè, e ciò nocque alla sua salute. Crebbe debolina e triste. Sugli anni più ridenti pareva già stanca della vita. Indarno le monache procuravano tutti i mezzi per allontanare la malattia da cui era minacciata. Ci voleva un'aria più libera e più vivo affetto di quello ch'esse potevano nutrire nei loro vergini cuori consegrati al Signore. La fanciulla fu in breve ridotta a guardar il letto. Accorse la madre alla trista notizia. Dopochè gliela avevano tolta, solo poche volte era stata a ritrovarla, che quel salutarsi divise dalla grata del parlatorio, quel non poter dirsi una parola senza testimoni, era pena ad entrambe, e piangevano, e dal rivedersi non ritraevano altro che più amaro dolore. Ora le fu permesso di entrare e salire alla piccola cameretta dell'infermeria, dove avevano già trasportato l'ammalata. Nell'accompagnarla lungo i corridori e il dormitorio, la Badessa cercava di prepararla con dolci parole al dolore che l'attendeva; ma la misera madre, come se avesse avuto l'ali volava impaziente ad abbracciare la sua creatura; ed era in tale agitazione, che la vecchia credette bene di pregarla a tranquillarsi un poco prima d'entrare in camera. Sedettero in un andito dell'infermeria e passarono alcuni minuti in silenzio. La contessa cercava a tutta forza di reprimere l'affanno che la crucciava, inghiottiva le lagrime, e rimandava nelle viscere il singulto che suo malgrado l'esciva del petto gonfio di dolore. La vecchia stava contemplandola e si sentiva forzata alla compassione. Nate nobili entrambe e ricche, avevano scelta assai diversa la via. L'una dall'età più fresca aveva rinunziato agli agi ed alle dolcezze della vita: aveva chiuse le carni dilicate in una tonaca di ruvida lana; erano anni ed anni che una corda teneva per lei le veci della gentile cinturetta di raso che stringeva all'altra la disinvolta persona; il suo cuore, custodito sempre puro e penitente, le dava come diritto di giudicare con tutta severità quella giovane profumata ed elegante che le stava dinanzi, a cui il mondo dava il titolo di bella, e ne lacerava la fama. Quand'ella scese a riceverla sulla porta del convento e l'introdusse, parevale che l'aria sacra dei claustri affidati alla sua custodia restasse contaminata dalla presenza di quella donna molle e tutta mondana, e camminando al suo fianco non amava che la negra sua tunica fosse tocca dalle vesti di lei. Ma ora le lacrime della madre avevano distrutta l'antipatia: trovavasi come chi legge un libro di autore conosciuto, e alle cui opinioni non può consentire, e che nondimeno piange perchè chi scrisse piangeva. E pentivasi d'essere stata troppo ligia alle raccomandazioni del conte, e sentiva rimorso di non aver prima consolata quella povera creatura col chiamarla ad abbracciare la figlia già morente e forse irreparabilmente perduta. Entrarono nella cameretta dell'infermeria. Le impòste socchiuse e le cortine disciolte non permisero alla contessa, che veniva in quel buio per il sole d'una bella giornata, di tosto raffigurare la fanciulla. Ma ben questa al subito aspetto della madre gridò commossa: — O mamma mia! e fuori della coltrice tendeva le braccia consunte ed anelanti all'amplesso materno. Dietro la voce si appressò tentoni al letto e colle pupille intente cercava nelle tenebre il volto della figlia. Un poco alla volta cominciò a discernere il bianco dei cuscini tra cui posava, e poi, come avvolta nella nebbia, la faccia languida e la figura giacente della sua Reginetta. Oh come cangiata! Pareva un giglio due giorni dopo còlto, quando col gambo più non attigne l'acqua del vaso e piega la testa e colle abbandonate campanelle guarda la terra. Le si assise dappresso, si baciarono, e teneva nelle sue mani quella di lei ardente per febbre. Quando la pupilla dilatata le permise di raffigurare distintamente tutti gli oggetti che la circondavano, scoprì nell'angolo tra il letticciuolo ed il muro una fanciulletta, che al suo venire s'era alzata in piedi, e stava come in atto di saluto. Era una povera orfanella ch'educavano per carità, amica di Reginetta, che, dopochè era malata, stava del continuo a farle compagnia, e la lasciavano, quantunque tenessero per appiccaticcio il male, che non aveva parenti che potessero lagnarsene, e il cuore della piccola era più forte delle loro rimostranze. Intanto il campanello che con segni diversi suol chiamare le monache, suonava a replicati rintocchi. La Badessa stette un momento in orecchi. — Mi chiamano in parlatorio, disse, và giù Amalia e dì alla conversa che suoni la vicaria, ch'io mi trovo impedita. Corse in due salti la fanciulletta, e ritornò colla portinaia, che chiamatala fuori le significò essere in parlatorio il conte e chiedeva con gran premura di parlare con lei. Era egli ritornato da un lungo viaggio, e trovato a casa l'annunzio della malattia della figlia era volato subito al convento, e con grande istanza dimandava d'abbracciarla. Ma per entrare ci voleva il permesso dell'Ordinario, ed egli afflittissimo partì tosto ad ottenerlo. La monaca fu contenta in suo cuore che i due coniugi non si fossero incontrati, e tornò in camera della malata nell'idea di darne avviso alla contessa, onde sapesse evitare di trovarsi lì quando veniva. Ma fu indarno, chè la povera madre s'era ostinata a non abbandonare più il letto della sua creatura. Per paura di farle male soffocava il dolore, e colle labbra composte ad una mentita ilarità, seguiva tutti gl'infantili discorsi della fanciulla, solo con dolcezza andava ogni tanto pregandola a non istancarsi. — Mi racconterai quando sarai guarita; ora ti può far male.... Sì, bambina mia, ma non parlar tanto.... Starò sempre con te, non temere, non ci divideremo più! e le componeva le mani sotto le coltri, e le aggiustava i guanciali. Ma Regina aveva tante cose da dire alla sua mamma, che ogni momento rompeva la sua quiete. — Sai mamma, che ho anch'io un piccolo giardinetto? E ci ho dentro una luisa. Se muoio, voglio che sia dell'Amalietta. N'è vero che ne terrai conto per amor mio? e volgevasi alla compagna e prendevale la mano. — Oh, l'Amalia è la mia più grande amica! È buona sai, mamma, e ci vogliamo tanto tanto bene! e tu pure le vorrai bene n'è vero? — Sì, cuor mio! ma tien sotto le braccia. — Quando vai in campagna, ricòrdati di portarmi una pianticella di quei bei fiori celesti.... di quegli ultimi che ti ha regalato pappà; di quelli che mi avevi posti nei capelli il giorno della mia festa. E senza volerlo, squarciava l'anima alla madre, che in quel momento sentiva tutto il peso delle memorie. Di lì a poco — Dammi un altro bacio, mammina! La baciava, e l'impressione di quelle labbra inaridite e brucianti che duravale a lungo sulle gote, finiva di toglierle ogni speranza. — Se non mi fossi ammalata, ora avrei terminato di cucire la camicia del babbo! fo una camicia da uomo sai? e fina! Ma.... ci ho tanto stentato!... Se non fosse stata l'Amalia ad aiutarmi, massime nelle pieghine delle maniche e dello sparato, non ne sarei mai venuta fuori. Vuoi vederla, mamma? — La vedremo dimani; ora procura di riposare. — Dimani! Oh che bella giornata è dimani per me! Ti hanno detto la bella grazia che ricevo? — No, cara. — Entro di comunione dimani, sai? Questa mattina è stato il confessore a trovarmi e mi ha chiesto se sarei contenta di ricevere il Signore. Dio mio! Io so poco la dottrina, non posso nè pregare nè star digiuna.... L'Amalietta, ch'è tanto più brava di me e più buona, nondimeno fin questa Pasqua non farà la sua prima comunione.... e a me, domani porteranno il Signore.... O mamma mia, che grazia grande!.... Voglio tanto pregarlo!... e per te, sai mamma, lo pregherò.... Mi dispiace una sola cosa. Io aveva sempre in animo di dirti che tu mi ricamassi un bell'abitino bianco per la mia prima comunione. Ora non posso alzarmi, e non giova pensar altro. Ma promettimi una cosa. L'abitíno lo ricamerai lo stesso? La contessa accennava di sì, ma non poteva proferir parola. — Or bene; servirà qui per l'Amalietta che non ha mamma, e che quand'io più non sarò, voglio che ti tenga le veci mie. Fatti in qua, Amalia; ch'ella ti baci! Ed era contenta di vederle abbracciate, e la contessa col volto posato sul collo dell'orfanella nascondeva le lagrime e l'angoscia dell'anima dilaniata. Si faceva tardi, la Badessa avrebbe voluto che la signora se ne fosse andata: ma non ardiva tornargliene a dire. Intanto il campanello del parlatorio annunziava il confessore, ed ella scese a riceverlo, e nell'accompagnarlo su in camera dell'inferma gli tenne discorso della visita della contessa, del ritorno del marito e della paura che aveva non s'incontrassero; e quasi pregava lui a voler con bel modo congedarla, tanto più che le leggi della clausura non avrebbero permesso che lì entro rimanesse la notte. Il vecchio venerando taceva. Giunti alla porta della cameretta, la badessa si ritirò tornandogli a raccomandare di persuaderla ad uscire, mentre poteva darsi benissimo che da un momento all'altro capitasse il conte. Il sacerdote entrato, salutò, poi s'assise presso l'ammalata e con dolci parole le chiedeva della sua salute e la confortava. La sua faccia macilente, il capo calvo e gli occhi raccolti, gli davano un aspetto severo e conciliavano rispetto; ma quando parlava, la sua voce calma ed affettuosa, la carità del suo accogliere ed i suoi modi miti e modesti, non ispiravano se non confidenza ed amore. Era un padre che, spogliata ogni autorità in faccia a' suoi figli, non aveva più se non viscere di misericordia. E tutte quelle fanciullette lo amavano, e Reginetta sentiva grande consolazione della sua visita e pendeva tutta dalle sue labbra, e cogli occhi umidi di pianto ascoltava da lui le parole del Signore. Parlarono a lungo, e così senza affaticarla la istruiva e l'andava preparando alla comunione. Quando la contessa vide che si disponeva a confessarla, s'alzò per uscire ed aspettar fuori. — Se non le dispiace, diss'egli, potrebbe intanto coll'Amalietta entrar a pregare nella contigua cappella. La fanciulla guidò allora la contessa nella cappelletta dell'infermeria, e dinanzi all'altare della Madonna s'inginocchiò prima, colle mani giunte con gran devozione la invocava per l'amica. — Pregare! pensò la contessa. Erano anni ed anni ch'ella più non pregava. Dinanzi a quell'altare prostravansi ogni giorno tante anime pie, tante vergini sante che consumavano la lor vita innocente nella penitenza.... avrebbe ella ardito inginocchiarsi, dov'esse; accanto alla pura angioletta, che lì tutta candida nella semplicità della sua anima implorava l'aiuto del cielo? Guardò all'immagine. Il sole che tramontava percoteva coll'ultimo riverbero nelle invetriate della finestrella, e dava al quadro una tinta porporina. L'avevano dipinta in atto dignitoso, cogli occhi avvallati, le labbra socchiuse e gentilmente severe, come quando nella sua romita celletta riceveva la visita dell'angelo, e il raggio che allora a caso la percoteva parea che fosse la fiammata della fronte pudica all'annunzio del mistero d'amore. E la donna sentivasi indegna di quella presenza verginale, e non ardiva pregare, e la guardava che si faceva sempre più rubiconda, come se avesse sentito rossore di lei. Ah s'ella avesse potuto gettarsi a' piedi di quell'immagine e col cuore pieno di pianto scongiurarla per la sua Reginetta! Tornò col pensiero a' suoi giovani anni, quando la preghiera l'era quasi un bisogno, quando la sua anima ancora innocente trovava sì dolce la meditazione delle cose celesti. Un'altra epoca era succeduta; altri pensieri, altri affetti. Gittata nel mondo come fragile barchetto in balía dell'oceano, le gioie della terra avevano troppo facilmente penetrato il suo cuore inesperto ai dolori, e un po' alla volta aveva sentito distruggersi quel primo divoto affetto, come rosa che apre la corolla ai venti e agli infuocati soli della state e perde colla freschezza il profumo. Nell'abbondanza della felicità, aveva sorriso della fede di quei primi infantili suoi anni, le gioie della virtù le parvero troppo semplici e credette trovar compenso nell'amore dell'uomo. Ma era venuta l'ora del dolore, ed ella condannata a tracannarlo tutta sola, senza un'anima che la compiangesse, ripensava con desolazione l'affetto altre volte giuratole eterno, le amicizie credute durature, le lusinghe del mondo che le sparivano dinanzi, e a questo cangiare di scena si sentiva l'anima vuota e bisognosa di ricorrere a Dio. Intanto una mano avea stretto la sua, ed ella sentì gocciolare alcune calde lacrime insieme col bacio che le s'imprimeva. Era l'orfanella che terminata la preghiera e veduto il dolore che l'opprimeva, procurava confortarla colle sue innocenti carezze. Ella non sapeva di lei, se non che era la mamma della sua amica morente, e partecipava alle sue lacrime come al suo affetto. Si scosse e rientrarono insieme nella camera della malata. La badessa le aveva prevenute; un'altra monaca con le chiavi del convento e col lume acceso aspettava che il confessore e la contessa si congedassero per accompagnarli fuori, ma quest'ultima tornata a sedersi presso alla figlia ricusava di abbandonarla. Esposero le leggi della clausura, dissero che tornasse all'indomani: tutto fu indarno. Si rivolsero allora al confessore e lo pregarono a voler egli persuaderla. Quell'uomo d'aspetto severo, cogli occhi fissi nel suolo, che non le aveva se non appena rivolta la parola, era dunque arbitro? Ella si gittò inginocchioni, e colle mani giunte e tutta lagrimosa pregava la lasciassero; non dimandava che un cantuccio presso la sua figlia: avrebbero pur dovuto far vegliare una serva alla sua assistenza, considerassero lei come serva, presterebbe ogni più umile uffizio: ma non la togliessero di là! Il sacerdote la fe' alzare, e ordinò alle monache portassero un materasso vicino al letto della malata. La fanciulla allora contenta stese le braccia alla sua mamma, e questa consolata accarezzava la sua creatura e la bagnava di lagrime. Rimaste sole, Reginetta volle che la sua mamma l'aiutasse a recitare alcune preci, poi le chiese ancora un bacio e si compose come per dormire. Era stanca, troppe commozioni l'avevano in quel giorno agitata, e il soffio della vita in quel debole corpicciuolo già estenuato andava mancando a vista d'occhio. Quando parve assopita, la contessa adagio adagio liberò la mano che ella teneva ancora in una delle sue, le pose il braccio sotto la coltrice, indi in punta di piedi andò a gettarsi sul letto che le avevano apparecchiato; ma di lì a pochi minuti surse e si affacciò alla finestrella della cameretta. Dava su d'un'ampia corte quadrata a cui d'intorno correva l'edifizio, e nel mezzo cinta da una pergola s'apriva una fonte coi margini di polita pietra, unica macchia biancastra che a quell'ora rompesse il bruno dell'erba e delle mura ottenebrate dagli anni. Non altro rumore le veniva che quel lieve dell'acqua. Dov'erano adunque le monache? forse in coro, od in capitolo, od in qualche altra parte del monastero più remota, dove obbedienti le congregava alcuna delle lor leggi. Ma al punto delle nove squillò una campanella, e tosto dalla parte di mezzogiorno apparvero illuminati sei grandi finestroni alla gotica, le cui vetriere arabescate a diversi colori e fogliami lasciavano trasparire una processione di teste velate che le une alle altre si succedevano come ombre sul muro: indi una preghiera giungeva sino a lei, e un sordo romore di più scanni che tutti in un colpo si movevano. Sparivano quelle teste e il silenzio non era più rotto che da una sola voce esile e monotona che leggeva qualche cosa di devoto ch'ella non arrivava a discernere. Pensò un istante a quella vita tanto diversa dalla sua. Alzarsi, pregare, lavorare, prender cibo e riposo sempre ad ore determinate, obbedire ad un codice di regole che forse contava più secoli, e così continuare tutta la vita finchè un suono di campana annunzi alle sorelle che v'è una camera vuota, un posto per un'altra creatura più giovine che rinnuovi il dente della macchina e serva a perpetuare la santa idea del primo fondatore.... Tutte quelle monache così riunite, le parevano membra di una sola persona, e il monastero un vasto orologio, dove ogni moto è regolato dal pendolo; ed ella, che in quel momento sentiva troppo amara l'esistenza, avrebbe volentieri rinunziato alla propria individualità per confondersi fra quelle donne che, ignorate dal mondo, più non ne conoscevano nè le gioie nè le lagrime. Dimenticar tutto ed esser dimenticati, pregare e patire, ma nella solitudine d'una celletta, senza che nessuno vegga la ruga che l'affanno ti solca sulla fronte o ti conti i capelli che il tempo t'imbianca, vivere anni ed anni sotto un altro nome, in altre vesti, nel silenzio e nella penitenza; le pareva vita beata e mille volte preferibile a quella ch'ella menava tra gli agi, le delicatezze e le rose del mondo. Ma v'era una creatura in cui si concentravano le sue speranze, della cui vita ella viveva, e a cui stava attaccato ogni suo bene futuro; una creatura debole, ammalata, a cui forse restavano poche ore di vita. Guardò Reginetta: dormiva abbandonata trai cuscini, pallida così che pareva un fiocco di neve od una di quelle nuvolette che dinanzi al sole si dileguano. Le sue labbra sottili e semiaperte lasciavano passare il respiro senza dar segno, e solo le sue narici allargate e quasi trasparenti con un lievissimo moto palesavano che l'anima non era ancora fuggita. Le si riempirono gli occhi di lagrime e sentì una tale stretta al cuore, che quasi macchinalmente fuggendo da quello spettacolo la sua mano apri la porta della cameretta. Un'altra porta dirimpetto non ben chiusa lasciava fuggire un filo di luce che rigava l'andito e si rompeva nella parete opposta. S'appressò in punta di piedi. Dinanzi a un deschetto stava seduta una giovane monachella con un cestellino sulle ginocchia come in atto di far filacce, ma aveva chinata la testa e pareva addormentata. Un fornelletto ardeva lì dappresso e v'erano dei fiaschi, delle scatole con medicinali, e all'intorno della camera diversi utensili d'infermeria. All'appressare della contessa la giovane si riscosse, trasse macchinalmente alcuni fili dal pezzettino di tela che aveva nelle mani, poi risovvenutasi, posò sul desco la cestella e veniva alla porta. La contessa l'aprì. — Le occorre qualche cosa? chiese con voce sommessa la monaca. Già pochi minuti, sono stata a spiare alla lor camera, ma la Regina dormiva, e per non disturbarla aspettava qui. — Dorme ancora, disse la contessa. Ma.... oh Dio mio! ell'è così estenuata.... — La badessa mi ha detto di offerirle se volesse cenare.... se abbisognasse di un poco di brodo, di qualche ristoro.... — Grazie; non mi occorre niente, disse la povera madre. — Or bene, procuri di tranquillarsi, si butti sul letto. Io veglio qui e pregherò per lei.... L'altra non rispose, le strinse la mano e lacrimando rientrò nella stanza della malata. Continuava a dormire; ma s'era fatta ancora più pallida e pareva che le sue labbra mormorassero alcune parole. Sognava, e ridenti fantasie abbellivano quelle ore di riposo, che per lei erano forse le ultime. Ci siamo, diceva con un impeto di gioia. Ho tanto desiderato di rivedere questi luoghi. Ah! il Signore me l'ha fatta la grazia. Mi pareva impossibile, che mi lasciassero morire là dentro! e frammischiava parole inintelligibili che le morirono sulle labbra come sospiri. S'era un poco sbarazzata dalle coperte, di modo che appariva l'anelare del petto bianchissimo; ma era tanto scarno, che ne numeravi le ossa e vedevi quasi passare il respiro. Talora alzava una mano a gestire e sorrideva, e dalle chiuse palpebre trapelavano le lagrime. Al sommo delle guance s'era colorata d'un vermiglio così vivo che rendeva più notabile il pallore della fronte, del mento puntito e dell'esilissimo collo. La povera madre le si assise dappresso, non ardiva coprirla per paura di romperne il sonno, inghiottiva i gemiti, non osava guardarla, ma colle mani incrociate e strette sul petto raccoglieva suo malgrado quelle parole sconnesse significanti or allegria, or affetto, or dolore e che a guisa di frecce avvelenate le trapassavano l'anima. — Oh il bel sole della campagna! Questo è grande ed aperto. Corri, mamma; corriamo.... sono due anni ch'io desidero di respirare. Mi tenevano chiusa, soffocata tra quelle mura così alte. Senz'aria.... senza il sole, senza i tuoi baci. Nessuno mi baciava, sai, mamma! Ah! io era orfana, abbandonata da tutti.... e volevano che ridessi! Qui voglio ridere e correre; in questo verde.... Quanti raggi! che splendore! ma mi fa male agli occhi. Mi ci hanno avvezza troppo alle tenebre. Ah! questo sole così bello mi stanca; andiamo all'ombra; sediamoci colaggiù, col pappà, sulle sue ginocchia. È tanto tempo ch'egli non mi stringe fra le braccia!... Ma mi amavi lo stesso, n'è vero, babbo mio?... E la mamma? Dove è andata?... Qui, mamma mia, tra voi due, come una volta! E allargava le braccia per avvicinare quelle due persone a lei tanto care, e componeva la faccia ad una quieta contentezza, come se avesse godute le loro carezze. Poi di lì a poco tornava a parlare, e più che sogno pareva delirio febbrile. — Ve' quante farfallette! Ch'io prenda quella cilestrina che s'è posata a mangiare sull'ortensia della mamma! E adagio adagio stendeva una mano e piegava le dita come in atto di acchiapparla. — Mio Dio quanti occhietti! come contenta spalanca ogni tanto le ali e mostra il velluto di quel suo bel corpiccino azzurro e nero! La sua faccia intenta nel sogno assumeva un'espressione d'innocente furberia, e librando tutta la persona dietro il moto della mano mostrava la trepida gioia di chi medita una sorpresa. — Ahi m'è fuggita! Ve' come si innalza! Volano mille altre con essa.... tutta l'aria è piena di farfalle.... Che confusione! Non sono più celesti e bianche, sono rosse.... Tutte rosse, e anche nel giardino sono nati un milione di fiori colore di fuoco.... e i fiori volano anch'essi. Tanti, tanti!.... Non posso più! Paiono neri, come quando nevica e a forza di guardare i fiocchi sembrano un turbine di mosche. Mi fa male.... Portatemi via, laggiù sul fiumicello, ch'io mi rinfreschi la faccia nell'acqua corrente. Ma no! non voglio passare il ponte! Oh Dio mio! veh come tentenna! Oh babbo! Oh mamma mia!... salvatemi. E svegliavasi tutta in sudore. Sua madre le aggiustò i cuscini e procurava di liberarle il collo dai capegli bagnati e tutti in disordine. Poi chinata la fronte sulla fronte di lei e con una mano accarezzandola e stringendole al dorso le coperte, le chiedeva con voce sommessa, se volesse prendere un po' di brodo. La fanciullina fe' cenno che no: ansimava ed era abbattuta fuor di misura. Alle tre del mattino cominciò a suonare la sveglia. A quel romore improvviso la signora si fece alla finestra. Era ancora tutto scuro, ma a misura che lo strepito percorreva i dormitòri, le cellette delle monache andavano illuminandosi; in poco d'ora una quantità di lumicini erano sparsi per tutto il convento. La monachella dell'infermeria venne a vedere di loro, poi rassettava il letto, poneva in ordine la camera, allestiva un piccolo altarino; indi aprì la porta che metteva nella cappelletta. Vennero delle altre monache, portavano palme di fiori, cerei, mantiletti; una rifaceva nelle caraffine i mazzolini; un'altra recò il messale, le ampolle: apparecchiarono il camice, la pianeta, un velo umerale, tutto il necessario per la messa e per la comunione. Intanto cominciava ad albeggiare, suonò mattutino, e le monache se ne andarono. Rimase la sola infermiera, che rientrò nella camera della malata per farle prendere non so che pozione. Di lì a poco venne l'Amalia. A forza di preghiere ella aveva ottenuto di levarsi prima delle altre educande e di passare tutto quel giorno al letto dell'amica. Entrò nella camera con sul volto la gioia di questa concessione. Tosto che Reginetta la vide, le stese una mano e si sforzò di sorridere; ma era tanto aggravata dal male, che oramai il suo spirito aveva ceduto, e soffriva muta ed immobile come l'oppresso dall'incubo. I modi dolci e le parole pietose della giovane monachella avevano un poco sollevato il cuore della povera madre. S'erano tirate nel vano della finestrella, e così discorrendo insieme l'indusse a passar con lei nella cappelletta, e poi nella cucina dell'infermeria, dove le aveva preparato da colezione. L'orfanella rimasta sola, montò ginocchioni sulla sedia dove era stata la contessa, e posata la testa vicino a quella di Reginetta leggermente le accarezzava i capegli e adagio adagio con que' suoi ditini dilicati glieli divideva sulla fronte, poi immobile rimaneva lì a guardarla finchè le si riempivano gli occhi di lagrime. — Sto male, Amalia, disse la fanciulla. A questo gemito l'altra non rispose che con un bacio. — A momenti, continuò Reginetta, mi porteranno il Signore! e io non ho pregato.... non ho neanche dette le mie orazioni! — Non ti crucciare, ch'egli ti vede il cuore; e poi noi tutte abbiamo pregato per te. — Se tu sapessi come mi duole di non veder mai le mie compagne!... — Verrebbero tutte a trovarti; ma non vogliono permettere: dicono che il chiacchierare ti fa male. — E dovrò morire, senza neanche salutarle? — Ti prego, non dir così..., guarirai!.... Torneremo ancora a far le nostre lunghe passeggiate.... — Mai più, Amalia! cioè, tu sì, ma io anderò sotterra. — Oh Dio! oh Dio! disse l'orfanella, e nascose tra i cuscini la faccia piena di pianto. — Non piangere, veh! perchè io sono contenta. Non vedo l'ora d'esser lassù per pregare il Signore a farmi una grazia; ma vorrei prima vedere ed abbracciare tutti i miei cari. Tacque un momento, poi ripigliò: — Tu, poverina, non hai conosciuto il tuo babbo, e non sai che cosa vogliano dire le sue carezze! E di lì a un altro poco tornò a dire: — Oh Dio mio! se tu sapessi come il mio mi amava! Egli era buono allora; mi prendeva sulle sue ginocchia, mi addormentava sul suo petto, io era la sua piccola Ginetta, il suo tesoro.... Una volta, Amalia, prima che la mamma si svegliasse, ei venne a vestirmi, e mi menò via con lui ad uccellare sui prati. L'erba era ancora tutta coperta di brina; io aveva freddo, egli mi prese in braccio, mi scaldava le mani col suo alito, mi poneva a sedere sul suo pastrano, e tutti gli uccelletti che cadevano nella rete erano miei. E ogni sera, prima di coricarsi visitava il mio letticciuolo e mi metteva sul guanciale un regaluccio di confetti. Ma poi tutto si è voltato. Ei divenne cattivo, la mamma malinconica.... non mi badavano più! — e tirò il lenzuolo sugli occhi. — Ma se piangi, disse l'Amalia procurando di scoprirle la faccia, ti farà male. Su via, Reginetta! pensa alla tua mammina; al Signore che a momenti viene a visitarti! Noi lo pregheremo qui insieme tanto tanto, e sta sicura che rivedrai il tuo pappà! Guarda, ieri quando la badessa là dappresso alla porta della cappella parlava colla tua mamma, mi parve di capire ch'ella dicesse che verrà quest'oggi. — T'inganni, Amalia! — Ma no, ti dico, l'han nominato; anzi mi pare che la badessa diceva, ch'egli, o che doveva venire, o che è stato ieri in parlatorio. — Non lo vedrò! disse allora Reginetta con un senso di amara certezza. Se anche ei fosse ritornato dal suo viaggio, gli avran detto che c'è qui dentro la mamma.... Oh! dopochè le cose si son cangiate, egli sfugge la mia povera mamma, e piuttosto che incontrarsi con lei mi lascerà morire senza neanche salutarmi!.... Una volta, continuò essa sotto voce, come temendo che altri udisse, una volta, prima ch'io fossi ben certa ch'essi si odiavano, io lo incontrai che saliva la scala e, come al solito, gli corsi incontro perchè mi prendesse in braccio e mi portasse dalla mamma. Ebbe cuore di scacciarmi, Amalia! e mi disse una brutta parola che mi fece molto male e che non ho potuto mai dimenticare.... La contessa e l'infermiera rientrarono. S'appressava il momento della comunione. La monaca postasi all'inginocchiatoio, disse ad alta voce alcune preci che la fanciullina con gran devozione accompagnava. Poi le accomodò i guanciali in modo che stesse quasi seduta, e sul capo le pose un velo nero. Un campanello annunziò che il confessore era venuto. La monaca accese le candele dell'altarino e spalancò la porta della cappelletta. Mentre egli s'apparava, venne ad assistere alla messa la processione delle monache e delle educande. Dinanzi portava il Crocefisso la più giovane delle novizie, due altre con torce le camminavano ai lati, a due a due procedevano le madri, seguivano le educande vestite a nero, velate, e tutte avevano in mano accesa una candela benedetta. Sfilarono pel dormitorio recitando ad alta voce il _miserere_, poi entrarono nel salotto al di là della cappella, dove da una porta e da due grandi finestre grigliate assistevano alla messa e inginocchioni sullo spazzo pregavano sommessamente per l'inferma. In quel frattempo era venuto al parlatorio il conte. Trovò assicurata al di dentro la corda della campana in modo che non potè farla rispondere, la ruota era ferma, la grata al di là dei cancelli chiusa da un'impòsta di ferro a grossi chiovi le cui teste rotonde si potevano vedere dalle due aperture in forma di occhi praticati nella tela della cortina di mezzo. Nella sua impazienza ei cominciò a pestare col bastone intorno alla ruota, poi lo strisciava con impeto facendolo saltellare lungo i cancelli, e finalmente lo introdusse nell'apertura della cortina e con tutta la sua forza sconquassava l'ultima impòsta. A quel disperato picchiare una creatura si mosse dirimpetto all'altr'occhio della tela, aprì un piccolo finestrino, e presentando una faccia grinza tutta imbacuccata nei veli dimandava con voce stridula chi fosse e che cosa volesse a quell'ora. Udita la risposta, disse in tuono di monacale indifferenza, che bisognava aspettare perchè assistevano alla santa messa. — Chiamate la badessa, disse il conte incollerito, ditele che son io, che vengo col permesso di monsignore, che voglio vedere mia figlia, che mi si apra tosto il portone. — Non è possibile, signore, in questo momento, perchè la badessa, la portinaia, tutte le monache e tutte le ragazze sono nell'oratorio della cappella, dovendo questa mattina comunicarsi per viatico un'educanda che si trova agli estremi. — Ma non capite che son io il padre della fanciulla, e che voglio assolutamente vederla? E la sua voce aveva un accento di tale disperazione, che la vecchia impaurita tentò dì rabbonirlo col pregarlo di pazienza. — Già, diss'ella, la funzione non può fare che termini, e allora la madre abbadessa lo compiacerà. Anche ieri ha lasciato entrare la madre della fanciulla e le ha permesso di dormire in convento. — In convento? Ella? Mia moglie? Chies'egli come colpito dal fulmine. — Sì, signore, la contessa è qui fin da ieri mattina. Vado a vedere se han terminato — e si ritirò chiudendo il finestrino. Il conte si lasciò cadere su d'una sedia e posata la fronte sulla pietra della grata pensava: Ella è qui! qui, a canto a Reginetta che muore.... Va bene! Povera bambina mia! L'abbiamo tradita, sacrificata, posta a morire in quest'orribile prigione; ella colla sua infame condotta, io per toglierla dal suo esempio.... è giusto che veniamo entrambi a raccogliere l'ultimo gemito della nostra vittima. Oh Dio, Dio! diss'egli, e la rivedrò qui in lacrime, in lacrime forse mentite, ad abbracciare la mia povera creatura, ella che ne ha segnata la condanna? Le darò il gusto di vedermi a piangere? le farò capire tutta la desolazione che mi ha gettato nell'anima? No no, diss'egli ad alta voce, non sia vera tanta viltà! E preso il cappello se lo calcò in fronte risoluto di partire. — Troverò tosto un posto in diligenza, partirò da questo paese, anderò lontano lontano, dove nessuno mai più mi nomini nè lei, nè i suoi parenti, nè la mia disgrazia. Il tempo guarirà il mio cuore. Voglio godere di tutti i piaceri della vita, e a forza di distrazione sarò ancora felice. Ma giunto alla porta del parlatorio si arrestò. Gli venne in mente la sua Reginetta moribonda, gli parve di vederla che gli stendeva le braccia, come per stringerlo al seno ancora una volta. Pensò che forse in quel momento ell'era nell'ultima agonia, e chi sa con quante lagrime implorava di morir consolata da uno de' suoi baci! Avrebb'egli potuto negarglielo? Rigettare la sua innocente creatura? L'amor suo? Lasciarla partire da questo mondo nell'idea di non essere più amata dal suo babbo? Ella, che il primo sentimento del suo cuore manifestò con una carezza a lui?... Si ricordò quando colle sue piccole manine gli si attaccava al collo, e non ancora capace di stringere le labbra ad un bacio, gliele posava aperte sulla bocca. Tutte le gioie di quell'epoca beata gli passarono per un momento nella memoria. Amante riamato, padre, pieno di vita e di speranza, quali anni di paradiso! Dopo, chi più aveva inteso il suo cuore? Egli era rimasto solo sulla terra! Indarno aveva procurato di distrarsi col seguire la vita dissipata della maggior parte dei giovani suoi coetanei. Le loro ironie non avevano potuto mai disseccare in lui la fonte dell'affetto, ed anche immerso e macchiato dalle vanità e dai piaceri che si possono godere in questo mondo, sentiva nel suo intimo, ch'essi erano ben lungi dal valere tutti insieme una gioia senza rimorso, o un sacrifizio fatto all'amore e alla virtù. Questi ed altri simili pensieri gli si affacciavano, a cui del continuo si mesceva, come un eterno ritornello, l'immagine di quella donna ch'egli aveva tanto amato e la cui larva lusinghiera era giunto a squarciare per non trovarvi sotto che debolezza ed inganno. In quel mentre avevano aperto il convento ed egli fu invitato ad entrarvi. Quest'invito gli piombò sul capo come una sentenza a cui era oramai impossibile il sottrarsi, e s'incamminò alla porta del monastero, risoluto qualunque si fosse il dolore che lo aspettava, di divorarlo in silenzio. Egli andava a rivederla, e bevere tutto in un colpo il calice amaro che da tanti anni lo attossicava; a perdere quanto gli era stato caro sulla terra; ed a tal scena di angoscia portava il suo cuore rassegnato a lasciarlo trafiggere, lacerare a brani a brani; ma per l'ultima volta! poichè aveva fermo di partir subito dopo, e di non tornar in patria mai più. Come il martire che s'incammina al supplizio, procurava d'adunar tutta la sua energia, perchè la sua fronte comparisse impassibile, e perchè nè una lagrima nè un gemito tradissero la tremenda battaglia della sua anima. A fianco della badessa trascorse i porticati a pian terreno, salì le scale e spuntava in capo al lungo ed ancòra scuro dormitorio, quando una lontana preghiera gli ferì l'udito. Erano più voci giovanili, che recitavano con lenta cantilena la _Salve Regina_. A misura che s'avanzava verso una zona di luce che da una porta aperta si versava nel dormitorio, udiva più distinti i dolci nomi con che invocavano la pietà della Madre di Dio. E giunto a quella porta, nel passarvi dinanzi, insieme colla luce che ne usciva, gli venne l'olezzo dei fiori che adornavano l'altare, e queste parole: _O clemens o pia o dulcis virgo Maria_, cantate da una quarantina di voci fresche ed affettuose, i cui acuti penetravano al cielo. E così alla sfuggita vide una turba di giovani teste in atto di devota preghiera colle bocche aperte e gli occhi sollevati ad una immagine angelica in viso, che a guisa di lampo lo percosse, senza poter bene raffigurarla, ma i di cui lieti vestiti dolcemente frammischiati di roseo, di azzurro pallido e di verde gl'infusero nel cuore come un raggio di speranza. Speranza che si dileguò appena entrato nella camera dell'inferma. Reginetta non s'accorse di lui, ma colla testa china, colle mani giunte continuava a movere tacitamente le labbra come se ancora pregasse. Attraverso il velo nero che le avevano posto sul capo, ei guardò quella faccia pallida, quelle spalle dimagrate, quelle mani consunte e quasi color di cenere, e non ardiva appressarsi. Allora l'infermiera dall'altro canto del letto, si chinò sulla fanciulla e dolcemente scuotendola, — Reginetta, le disse, Reginetta, vedi il pappà ch'è venuto a trovarti! — Il pappà? diss'ella, dov'è? e sollevando gli occhi si vide sopra suo padre che le stendeva le braccia. Consolata allora gli prese la mano, se la posò sul cuore, e poi con voce languida continuò: — Ah! non è vero dunque, che tu volevi lasciarmi morire qua dentro, senza neanche salutarmi? — Non dir così, bambina mia, che mi trafiggi l'anima! Io era fuori, e solamente ieri seppi della tua malattia.... — Dunque mi vuoi bene? me l'hai voluto sempre? — Ma se sei la mia Ginetta! il mio tesoro.... — Tornami, tornami a dire, chè la tua voce mi fa bene qui.... Oh se tu sapessi come io ti desiderava!.... Come mi parvero lunghi questi due anni che non ti ho veduto! Pensavo sempre a te, e la notte ti vedevo in sogno, ma.... il più delle volte malinconico, colla faccia burbera, talchè non ardivo raccontare le parole che mi dicevi, neanche alla mia amica.... — E dov'è questa tua amica? diss'egli per frastornare un discorso che lo toccava troppo sul vivo. L'Amalia allora si fe' vicina. — Ella babbo, è dessa. Baciala, ch'è un angelo! Sempre qui, accanto al mio letto. Oh, ella non ha voluto abbandonarmi! Povera Amalia! io non posso compensarti, se non col pregare per te, quando sarò lassù.... E di lì a poco, vedendo suo padre che accarezzava l'orfanella: — Babbo mio, disse, ti voglio fare una preghiera. L'Amalia, poverina, non ha babbo nè mamma, non ha nessuno in questo mondo che pensi per lei. Io ieri l'ho detto alla mamma, ed ella mi ha promesso che quand'io più non sarò, terrà lei in mia vece; e tu anche devi promettermi d'essergli padre! La condurrete via con voi altri in campagna: la metterete a dormire nella mia cameretta: la mamma le insegnerà a lavorare, tu a scrivere: ella vi vorrà tanto tanto bene, come ve lo voleva la vostra Ginetta; e io di lassù vi guarderò contenta, e inginocchiata dinanzi al Signore lo pregherò per voi altri, e vi benedirò del bene che farete a lei come se fosse mio. Oh tu non devi dirmi di no! continuò ella serrando le braccia intorno al collo di suo padre, che in quel momento era troppo commosso per poterle rispondere. Quando si fu un poco tranquillato, e che sedutosi sulla sponda del letto lo vide che stava guardandola affettuosamente ed ogni tratto abbassandosi le baciava la fronte, — Oh sì! disse, stammi sempre accanto! se tu sapessi il bene che mi fanno i tuoi baci! Mi pare di tornare a vivere; d'esser a casa, come una volta!.... Ma una volta c'era anche la mamma con te. Dove sei, mamma? ch'io voglio morire in mezzo a voi due; tra le vostre braccia.... La contessa tutta in lacrime era ancora nel posto dove s'aveva inginocchiato al momento della comunione. Ella aveva sentito venire il marito, l'aveva veduto entrare; un batticuore sempre crescente s'era impossessato di lei, ma come se fosse stata inchiodata, non trovò forza d'alzarsi, e subiva immobile tutta la confusione di quell'istante. La notte vegliata, l'afflizione, le memorie del passato avevano sparso sulla sua faccia un abbattimento e una malinconia, che ne rendevano più toccante la bellezza. Ella accoglieva nella sua anima tremante tutte le parole della fanciulla e si cangiava ogni momento di colore, come la parete su cui salta un raggio di sole riverberato dall'acqua; e quando Reginetta si volse a chiamarla, le lagrime a quattro a quattro le corsero per le gote senza che potesse pensare a nasconderle o ad asciugarle. — Mamma! Oh mamma!... tornò a gridare dal suo letto la fanciulla. Allora il conte andò a lei e senza guardarla tutto tremante con voce sommessa e rapidissimo proferì: — Ti prego! rispettiamo questi ultimi momenti. Quando io avrò perduto tutto ciò che rimane del nostro amore, giuro che partirò tosto e non ti disturberò mai più con la mia presenza. — Oh! allora.... diss'ella, io non uscirò più di qui! e a forza di piangere e di patire Dio forse mi perdonerà.... E vennero al letto della malata. Reginetta prese la mano di suo padre, poi quella di sua madre e le unì insieme stringendole colle sue piccole manine. — Il Signore, diss'ella, mi ha fatto la grazia di vedervi qui tutti due prima di morire. Or bene, se volete che vada sotterra contenta, tornate ad amarvi come una volta! La contessa allora si lasciò cadere inginocchioni. Egli guardò quella faccia lagrimosa da cui traspariva tutta la desolazione dell'anima, e sentì che aveva ancora viscere di misericordia per lei. La raccolse fra le sue braccia, e se non poteva richiamare i giorni felici dell'età passata, si prefisse almeno di alleviare la sua sorte, di proteggerne la debolezza, di piangere insieme e d'essere amici per sempre. Fu tanta la gioia della fanciulla nel vederli l'uno nelle braccia dell'altro, che il suo cuore non bastò a contenerla. Alzò gli occhi, giunse le mani come in atto di ringraziamento, mosse le labbra per dire ancora una parola; ma l'anima era già volata in Paradiso. Pura angioletta passata per tanta prova di dolore, nel cospetto di Dio ella non si sarà certo dimenticata dei suoi poveri genitori, nè della sua sorella adottiva a cui lasciava in eredità la propria famiglia. XII. IL VECCHIO OSVALDO. All'albergo capitò questa mattina una superba carrozza da viaggio tirata da due cavalli stornelli. Ne smontò un ricco signore che abita la città di T***, e aveva seco la nuora, bellissima donna, e due leggiadri bamboletti figli di lei. Andavano a passar qualche giorno in un loro villaggio situato tra queste montagne. Il suocero mi salutò, mi presentò alla Signora, che tra superba e graziosa mi fece un freddo complimento. Era vestita da viaggio, nondimeno elegante. Quegli occhi così neri e quella fisonomia altera e capricciosa mi fecero risovvenire d'averla veduta ancora. Ella, che vestita di finissimo velluto, adorna di trine, scintillante di preziosi monili io vidi altra volta salutata regina della _soirée_, veniva ora a passare alcuni giorni in Carnia, tra questi dirupi? Veniva nella patria del suocero.... Presi l'ombrellino, e sola m'avviai alle acque salutari. Un vecchio montagnolo pascolava una meschina vaccherella a' piedi della montagna di San Pietro. Nel venerando suo volto mi parve vedere alcuni lineamenti a me non ignoti. Se altro fosse stato il suo arnese, l'avrei creduto padre del ricco mercatante che pochi momenti prima mi aveva salutata, tanta si era la rassomiglianza. Sorrisi, e sedetti sulle pietre della fontana che in quell'ora era affatto solitaria. Di lì a pochi minuti il vecchio venne anch'egli, s'assise a me dappresso e narrava dei tempi passati. Erano settantacinque anni, ch'ei giovanetto di dodici aveva, diceva egli, per la prima volta guidato un medico a quella scaturigine. Venuto a caso nel paese, cenava con due suoi amici, all'aria aperta, sulle sponde pittoresche della But: sentì l'odore dello zolfo, chiese da che proveniva e scoprì le famose sorgenti. Ma allora, continuava il vecchio, esse erano migliori, l'odore che spandevano si sentiva perfino a Tolmezzo; un bel prato le circondava di verzura, v'erano delle acacie piantate all'intorno, egli stesso aveva dipoi veduto trecento forestieri incoronare il bacino. A quei giorni fortunati, soggiugneva sospirando, era ben altro il paese! I monti più verdi, le notti della Carnia più limpide, una luna più lucente del sole che ora ci splende le illuminava, e stelle più scintillanti ricamavano i cieli. Egli allora era garzone e cantava armonie cento volte più belle che non si sanno oggigiorno. Povero vecchio! e il suo occhio commosso piagneva una lagrima. Gli anni avevano offuscato il suo sguardo, irrigidite le sue membra, quietato il palpito del suo cuore, ed ei così tramutato deplorava i tempi cangiati! Stette ivi un pezzo con me, bevette nella mia tazza l'onda medicinale ch'io stessa attinsi per lui, mi promise le carniele ch'egli aveva cantato nell'amore della sua prima gioventù. Amava con passione il suo paese dal quale non era mai uscito, quindi la sua anima era ancora vergine e piena di poesia come la superba natura che ci stava d'intorno. Finchè gli anni giovanili gli durarono, egli aveva lavorato nella _Sega_ che ci stava difaccia sulla riva opposta del torrente, e ch'egli m'additava con una specie d'affetto. Adesso viveva in una piccola casuccia ad Avosaco co' suoi risparmi, e col latte dell'armenta che pascolava. Mi narrò le tradizioni del paese, le costumanze, le feste. M'apriva l'animo come se stata fossi sua figlia. Chiesi il suo nome, e seppi ch'era fratello del negoziante, e zio della gentile signorina da me veduti poche ore innanzi. Coloro che passando sull'alto della via che va a Paluzza m'avran scòrta sedermi così a lungo presso quel vecchio cencioso, non avrebbero forse immaginato ch'io preferissi la sua semplice conversazione a quella de' suoi educati parenti. XIII. LA FILA. In quel giorno la Menica s'era alzata più del solito mattutina, e postasi nel mastello, aveva con tanto gusto dimenate le braccia robuste, che prima delle undici tutte le sue pezze già stavano fuori del bucato, ed ella senza aspettare il pranzo della famiglia, mangiato così alla svelta un boccone, e caricatasi le spalle, era corsa fuori della villa a risciacquarle nel vicino torrente. Era di dicembre; l'aria fredda dei monti aveva già fatto morire il verde della campagna; per le siepi un solo fiore ancor s'arrampicava ad appendere le sue ghirlande: la vitalba, che inaridita lo stelo e nudato di foglie, pareva essersi tramutata in fili di candida seta, o in mazzetti di piume di cigno; e il soffio che ve li faceva tremolare penetrava già così acuto nella carne, come se l'avesse morsicata con sottili spille di ghiaccio. Ma la Menica giovane e gagliarda e riscaldata dal continuo lavoro non lo curava, anzi con le maniche rimboccate fin sopra al gomito e puntata la gonna con uno spillone dietro alle reni, mentre con le gambe nude s'era inoltrata nella corrente, pareva che ve lo sfidasse, tanto quelle sue membra fresche e colore di rosa apparivano vivaci ed animate dal sangue della giovinezza. Solo ogni tratto guardava sospettosa al sole che indorava i cucuzzoli delle montagne e delle colline, che al di là delle ghiaie del torrente incoronavano il paese, ed affrettava l'opera per terminarla prima che imbrunisse, onde le pezze non le si agghiadassero e non le riuscisse poi malagevole l'accomodarle sui becchi dell'arconcello. Sbatti, sbatti e risciacqua, in poco d'ora ell'ebbe finito. Colle mani ancora bagnate si lisciò e si rifece i ricci che le si erano scompigliati lungo le gote, poi gittatosi in capo il suo fazzoletto a croce, ed allacciatone i lembi al sommo della testa, in modo che la frangia di scarlatto passandole per di sotto al mento e contornando quel suo grazioso visetto, le faceva come una specie di bizzarra aureola, si caricò l'arconcello sulle spalle, e via spedita, cantando se ne ritornava tutta contenta al villaggio. — Ehi Menica! Sai che domani per la nostra villa passeranno i soldati? — E tanti, tanti!... colla musica, colle bandiere.... — Soldati che vengono da un paese lontano. — Figúrati! dicono che saranno almeno tre mesi che sono in marcia.... Così con voce concitata, una a dispetto dell'altra, narravano alla Menica due ragazzette, che vedutala venire le erano corse incontro sulla strada in capo al villaggio. — E chi vi ha raccontato tutte codeste novità? chiese la giovinetta appoggiando la mano sulle sue pezze e facendo girare all'altra spalla l'arconcello, che col suo peso l'aveva fatta per un momento desiderosa di sosta. — È capitato or saranno due ore un picchetto, e insieme col cursore e coll'agente comunale, sono andati intorno ad apparecchiare gli alloggi. — Gli alloggi! Vuoi tu che si fermino nel nostro villaggio? — Ma sì, ti dico; anzi da qui innanzi ne passeranno, non so quante migliaia.... — Uno _sterminio_ infinito! L'ha detto in questo momento il signor Lionardo, ch'è venuto dalla città dov'è stato a comperare la cera per la chiesa. — E che confusione nella villa! Madonna Barbara è corsa a nascondere le galline.... dicono di sotterrare le masserizie, la biancheria.... — Quel villaggio era fuori di mano, e dall'epoca dei Francesi per di lì, non c'erano passati soldati, sicchè codesta pareva una grande novità, e la gente s'era messa in paura, e fantasticavano per trovare la ragione di ciò che forse non era che una semplice esperienza onde accorciare la via. Correva il 1847; la lunga pace avea fatto dimenticare il passaggio delle truppe francesi e tedesche degli anni delle guerre; ma ora questa novità faceva ricordare i danni di que' tempi infausti, e le vecchie comari tiravano fuori mille istorie di prepotenze, di spaventi, di saccheggi, di modo che la Menica e le sue compagne a forza di sentirne parlare avevano concepito una sinistra idea di cotesti soldati, e nel dimani avevano pensato di non lasciarsi trovare nel villaggio. La sera, com'era d'aspettarsi, nella stalla di compare Martino, dove di consueto s'adunavano, cotesto fu il tèma di quasi tutti i discorsi. Hai tu mai veduto uno di questi notturni convegni che i contadini chiamano _File_ e che, se mal non mi appongo, potrebbero servire di rustico _pendant_ alle profumate _soirées_ dei vostri eleganti _salons_? Così nella capitale come nel remoto villaggio sono questi i centri dove si spande il seme della parola e germina nelle anime i suoi frutti di bene e spesso anche quelli del male. I ricchi e i poveri figliuoli d'Adamo vi convengono per motivi quasi eguali. Trovarsi in buona compagnia, fuggire il freddo e la noia delle lunghe notti invernali, libare qualche sorso di gentile o di rustico amore.... Solo qui, invece delle stufe, delle costose mobiglie, dei serici tappeti, dello sfarzo degli abiti e dello splendore dei doppieri, non ti si presenta che una povera stalla riscaldata dall'alito degli animali, e una turba di gente rozzamente vestita, rozzamente adagiata su fasci di stoppie in mezzo al fieno, rischiarata dalla luce rossastra di qualche fanale appeso alle travi; e v'è anche la differenza, che per cianciare qui non tengono le mani inerti nei guanti olezzanti, o ne' manicotti d'armellino, ma le donne le adoprano a trar la chioma alle loro conocchie, e gli uomini lavorano qualche paio di zoccoli, o impagliano una sedia, o col coltellino cuoprono d'intagli e di ghirigori qualche utensile destinato ad amata persona. Gruppi fantastici, mosse svariate ed armoniche; graziosi effetti di lume ti fanno balzare all'occhio più di una forma squisita ed improntata di quella ingenua bellezza che potrebbe tentare il pennello dell'artista forse più delle adorne e lisciate celebrità delle vostre sale, dove il costume straniato dalle tiranniche leggi della moda, e l'artificioso e il convenzionale sono spesso morte sicura del bello. Oh se l'istruzione, deposto il cinico suo manto e le burbanze dogmatiche, si degnasse di penetrare inosservata tra questa povera gente! Gli è un terreno vergine ed assetato del bene che darebbe il cento per uno. Ma chi ci pensa? Invece i discorsi fatti a caso e il bisogno di pascere di un qualche cibo dilettevole le anime curiose e giovanette, spesso getta la malizia delle generazioni passate a germogliare con danno funesto nell'avvenire. Quasi nel mezzo del quadro ch'io t'ho additato, dove un fanale appeso alle travi pioveva dall'alto in quattro mobili zone la luce vaporosa che rischiarava la scena, avresti subito, tra un gruppo di donne ivi sedute all'ingiro, ravvisato tre volti conosciuti: la Menica e le sue compagne. La Menica filava in silenzio, le altre due andavano di tratto in tratto punzecchiando colle loro domande una donna attempata, intenta a sfilare alcune fimbrie che poi raggruppate avvolgeva in gomitoli. Ogni volta che in aiuto al suo lavoro ella alzava le mani dove batteva più viva la luce del fanale e v'intendeva lo sguardo, tu avresti veduto lampeggiare in quei suoi piccoli occhietti un tal sorriso di giovanile malizia, che ti appariva in pieno contrasto colle rughe della faccia e col pallore del cranio, che i pochi e indarno lisciati capelli non bastavano a interamente coprire. Pareva che il pensiero le rimenasse dinanzi momenti di gioia da gran tempo passati, ch'ella certo non avrebbe ardito palesemente rammemorare, ma che avevano ancora tanta forza sulla sua anima, da farle dimenticare il presente. Quest'è la buccia di Madonna Sabata. Vuoi conoscerne l'interno? Ascoltiamo qualche brano de' suoi discorsi. — Ma in tanta malora, temete che i soldati vi mangino, che andate tenendo questa razza di propositi? — Io ho paura dei soldati. — E io anche, e non voglio vederli! — La Menica continuava a tacere. — E poi non siamo mica noi sole che abbiamo paura; dimandatene alla Barbara, alla Betta, a comare Lucia, che pure è una donna che sa, e che a' suoi tempi ne ha vedute di tutti i colori. — Bisogna sentire che cosa han fatto in quella volta delle guerre, quando capitarono nel mulino di messer Giacomo e volevano accopparlo perchè credevano che avesse nascoste le anitre. — E a madonna Lucia avevano bendati gli occhi e le facevano tener su le mani, e sacramentavano colla spada sguainata. — Poh! rispose la Sabata facendo scintillare in que' suoi maligni occhietti un sorriso d'ironia. Non c'era in tutto il villaggio una strega più brutta e più indemoniata di colei. Ma io so, vedete, che a me non han fatto per certo nessuna malagrazia. — Voi sarete stata la figlia dell'oca bianca.... — A sentirvi, in coscienza che pare che i soldati sieno tanti orsi, tanti diavoli.... scioccherelle! Essi erano dei bei ragazzi, vedete! assai garbati, vestiti come tanti _monsù_, allegri e briosi che sapevano dire le gran belle paroline.... Eh per bacco, che quando li avrete veduti non farete più tanto le selvatiche! — In quanto a me, disse Menica, m'importerebbe assai poco delle loro galanterie. — Oh tu poverina, che non hai altro in testa che il tuo Toni, sei compatibile! — Dunque voi dite che non occorre fuggire — replicava una di quelle forosette. — Ci va del modo di pensare. Io per me certo non mi muovo. Misericordia, far tanto chiasso pei soldati! Si vede proprio che non sapete nè anche di esser vive. Ce ne sono passati tanti nel mio villaggio prima ch'io mi maritassi.... Ogni giorno si può dire ne passavano; e poi un reggimento si fermò d'alloggio quasi tutta la state. — Eh mio Dio! e voi altre ragazze stavate lì in mezzo a' soldati? — E dove volevate che fossimo andate? Sentite, a proposito di fuggire, vi vo' raccontare quello che avvenne a B***. E tiratasi più innanzi, guardava nel lume i capi delle filacce che raggruppava, ed aggiustatone uno co' denti, fece rapidamente alquanti nodi, poi si mise a raccontare. — A B*** doveva capitare d'alloggio una compagnia ch'erano i più indisciplinati di tutto l'esercito di Napoleone. Giovinotti senza prudenza, birichini e buontemponi che per tutto dov'erano stati avevano fatto arrabbiare i mariti e gli amorosi (soggiuns'ella con voce rimessa), a forza di tante scede che facevano alle belle piccoline, così essi solevano chiamare noialtre ragazze. Aggiugni che proprio in que' giorni, alcuni villani del paese avevano fatto baruffa per un baciozzo, un pizzicotto, che so io, che un ufficiale avea dato in pubblico alla fidanzata d'un tale che era il primo _bulo_ del villaggio; cosicchè i nostri uomini imbizzarriti cominciarono a parlottare contro di essi, e tante ne dissero, che ci persuasero ad andar tutte a nasconderci su d'un fenile in casa d'una vecchia, a cui avevano raccomandato di custodirci e di tenerci celate ad ogni occhio. Arrivano i soldati, e in paese grosso come B*** neppure una ragazza per le case, ma solo vecchie sibille sdentate e brutte come l'orco. Potete credere s'e' si misero ad annasare per ogni angolo onde trovar dove avessero potuto rintanarsi le care piccoline! Sulla sera quattro di loro entrarono nella stalla della nostra vecchia. Noi ch'eravamo lì sopra sul fenile li sentiamo, e ci viene curiosità di anche vederli. Si fa un po' di confusione, e poi pian pianino si solleva una di quelle vecchie tavole tutte tarlate e ci mettiamo ad adocchiarli. Forse che uno sprazzo di polvere cadde sui loro vestiti, o che la luce del nostro fanale avesse lampeggiato fin laggiù, o che qualcuna s'avesse fatto sentire a bisbigliare, essi alzano gli occhi e tra le ragnatele vedono i nostri visetti che danno solenne mentita a tutte le bugie che andava loro infinocchiando la vecchia. Si dicono fra loro quattro parole in francese, uno resta, gli altri via come indemoniati. Da lì a pochi minuti tutti erano nella stalla e intorno alla casa colla spada sguainata. Otto di loro ordinano alla padrona di condurli di sopra. Spaurita, obbedisce. Noi l'una su l'altra, come gli uccelli quando vedono il nibbio, eravamo corse tutte in un gruppo in fondo al fenile. Ci dicono con buona maniera di non aver paura e ci fanno venire avanti. Poi volevano sapere perchè eravamo lì nascoste. Nessuna ardiva fiatare, chi si vergognava, le più indietro ghignavano e coi gomiti spingevano le altre, chi nascondeva la faccia dietro le spalle delle compagne. Finalmente una, preso coraggio, disse filo per filo come stava la cosa. — Ah paura di noi! paura di noi! replicavano i soldati. Poi dato in mano un fanale alla vecchia che tremava, e chiamati quattro di quelli ch'erano a basso, le ordinarono di accompagnare subito, scortata da essi, alla sua casa quella che aveva parlato. E così di mano in mano una alla volta ci fecero condurre alle nostre famiglie, senza toccarci neppure un dito; solamente, chiamati i genitori, facevano una predichina dicendo che i soldati erano galantuomini, che non occorreva fuggire, e che spettava ai padri ed ai mariti, non ad altri, custodire le loro donne. Dopo di quella scena non c'è mai più passato neanche per la mente d'aver paura dei soldati. Venivano a lavorare con noi nei campi; mangiavano con noi la polenta; la festa c'invitavano alla lor tavola, spesso ci pagavano da colazione. Si sa che non erano sempre così ritenuti e galantuomini come in quella sera; ma si rideva, si chiacchierava e si passavano le gran belle ore in compagnia di quei matti birichini. Le ragazze avevano preso gusto a farsi vedere pulitine, attillatuccie, e che che ne mormorassero i nostri uomini, si parlucchiava volontieri con quei spiritosi ed eleganti _monsù_, e c'ingegnavamo anche noi di dire il nostro _oui_, e vi so dir io che quando sono partiti, più d'una ha bagnato di lagrime il fazzoletto. — Questi ed altri discorsi della Sabata che ringalluzzata sciorinava alla Menica e alle sue compagne la parte allegra delle sue antiche memorie, tranquillizzarono un poco le innocenti, sicchè nel dimani, invece di fuggire come avevano pensato, erano curiose di veder finalmente coi loro occhi questi soldati di cui avevano tanto sentito parlare. S'erano appostate insieme con altre donne e fanciulli dietro i cancelli di ferro del giardino del conte, di là li avrebbero veduti sfilare lungo la via; e chi avesse lor posto mente si sarebbe facilmente accorto, che, se non altro, certo non si erano dimenticate di pettinarsi e d'indossare in quel giorno i loro meglio vestiti. A sinistra dei cancelli sorgeva un calidario, le cui invetriate illuminate allora dai raggi meridiani trasmettevano un po' d'allegria alle povere piante straniere ivi imprigionate, e tra il verde degli aranci e i festoni delle rampicanti, vedevasi qualche purpureo bocciuolo di camelia già voglioso di spiegare la sua pompa, e l'azzurro e il violetto dei delicati achimenes, che ingannati dalla dolcezza dell'ora parevano sorridere al sole dimentichi del loro clima nativo. Attratte dai fiori, come le api, alcune di quelle ragazzette s'erano appressate alla serra, e li adocchiavano amorose attraverso a' vetri, trovando così un altro gradito pascolo alla loro curiosità, che il ritardare dei soldati teneva da qualche ora in impaziente aspettativa. Là entro tra il profumo e la letizia dei fiori passeggiava uno dei felici di questo mondo. Avviluppato in un'elegante vestaglia a svariati colori, andava lentamente assaporando gli effluvi d'un prelibato cigarro d'avana, il cui fumo a vortici leggeri pareva accarezzare la bionda sua testa e circondarla talvolta come d'un'aureola azzurrognola, che ne faceva più graziosi i contorni. Era il giovane conte, che in quella mattina aveva pensato d'ingannare alcune delle sue lunghe ore di ozio contemplando i tesori del suo costoso calidario. La luce del sole, improvvisamente intercetta, lo fece accorto delle giovanette, e se esse spiavano curiose i suoi fiori, anch'egli diede un'avida occhiata a' loro graziosi visetti. Pensò che venivano opportune ad alleviargli un poco la noia, e giacchè per la solitudine del villaggio non c'era pericolo che altri lo appuntasse di trivialità, corse ad aprire la portiera, e le invitò a venir entro. Le forosette non se lo fecero dire due volte. Sia che ve le attirasse desiderio dei fiori, o che l'esser lì disoccupate le facesse vaghe di scambiare qualche parolina con quell'elegante signorotto, o che i discorsi della sera innanzi le avessero rese meno salvatiche, esse accettarono ardite, e chiacchierine e vispe allungavano le mani ai vasi dovunque le invitava la fragranza o i vivaci colori di qualche bocciuolo, senza farsi troppo scrupolo se anche si avesse trattato di un fiore esotico che costava Dio sa quante cure. — Ehi, ragazze, adagio! disse il conte. Non mi devastate, perdinci, la serra! perchè voi altre fate presto a gettarmi tutto alla malora.... — Ma non faremo dunque un mazzolino da figurare domenica alla messa grande? — Ve' quella rosa lassù! Io voglio quella rosa scarlattina! — gridava la Menica accennando a una bella camelia che aveva già sparsi i delicati suoi petali di velluto. — Dirò al giardiniere che faccia a ognuna il suo mazzolino, ma adesso pazienza! guardate, ma non toccate!... Tu poi sei un vero diavoletto! — diss'egli alla Menica, afferrandola per la cintura, mentre s'arrampicava a dispiccare la camelia. Quand'ella si volse, e il giovane l'ebbe guardata un istante negli occhi assai fiso, — Vuoi proprio quel fiore? — le chiese con voce melliflua, ed egli stesso lo recise e voleva adattarglielo sulle trecce di ebano in quel giorno lucenti come specchio; ma la fanciulla si schermiva, poi facendosi innanzi ratta glielo prese di mano e se lo recò avidamente alle nari. — Oh! disse, una così bella rosa e senza un odore immaginabile!... vada per le povere nostre roselline selvatiche, che crescono al sole aperto, senza nessuna cura e nondimeno le hanno un profumo che le san proprio di paradiso! — Ma adesso delle tue roselline non c'è che la spina.... Io per altro voglio esser buono con te, perchè mi hai un visino da furbacchiotta!... Dimmi i fiori che desideri e ti farò io stesso il mazzetto. E mentre il giardiniere contentava le altre, egli colla Menica passava in rivista tutti i vasi susurrandole ogni tanto qualche dolce parolina e lanciandole certe occhiate, che in altra occasione l'avrebbero fatta arrossire.... ma pareva che in quel giorno ella non badasse che alla gola dei fiori. E ne aveva chiesti tanti, e il giovane li legava così alla rinfusa, che il mazzetto era riuscito un vero fascio. Si assise in un angolo della serra, li slegò sul grembiale e si mise a riordinarli, scegliendo i più belli per sè, gli altri dividendo in più mazzolini, pensava regalarli. Era tanto intenta a quel suo lavoro che il conte non trovava più via da farle alzare i begli occhi. Egli allora si mise a sfogliare dei fiori e poi all'improvviso gliene gittava in faccia una manata. A forza di scuotere la testa, le si staccò dagli orecchini una gocciolina d'oro. Ella e le sue compagne e il conte la cercarono indarno; era caduta lì per terra e gli occhi non la potevano rinvenire! A Menica traspariva dalla faccia il gran dolore che provava per averla perduta. Il giovane, a consolarla e a riparare il danno cagionato da quello scherzo, le chiese gli orecchini e che egli l'avrebbe fatta rimettere. Intanto la musica avvisava che passavano i soldati. Le ragazze corsero preste a vederli. A passo militare, con a capo d'ogni compagnia i loro ufficiali sfilavano tutti coperti di polvere e stanchi e rifiniti dal lungo viaggio. Volti stranieri, fisionomie impassibili, od annoiate, su cui le vivaci note della tromba guerriera e dei timballi cadevano innavvertite od inefficaci, come la pioggia sul vetro, senza poterlo penetrare, bionda progenie del settentrione, staccata dalla terra natale, dai campi e dalle officine a cui Dio l'aveva sortita, essi marciavano forse per mai più ritornarvi obbedienti ad un pensiero che certo ignoravano, o che almeno loro non erasi manifestato se non come l'impulso che mette in moto la macchina. Povere pecore umane che si tosano e si scannano senza badare a' loro inutili belati! Povera carne da cannone che si adopera senza essere consultata! Si schierarono sulla piazza; parte continuò la marcia, parte rimase d'alloggio per quella notte nel villaggio. Menica nei dopo pranzo s'era tirata nella sua cameretta nell'intenzione d'occupare il resto di quella giornata, interrotta dall'insolita avventura a mettere in sesto alcuni capi di biancheria, ma affacciatasi alla finestrella che dava sull'orto, mentre guardava mesta agli alberi già nudi di verde, che, come tanti scheletri, lasciavano trasparire tra' rami la brulla campagna, e alle foglie secche soffiate dal vento che ruzzolavano sulla terra, vide i due ch'erano d'alloggio nella sua casa strascinarsi lentamente verso il rivoletto la cui faccia agghiacciata, che il languido raggio del sole non aveva avuto forza di sciogliere, appariva nel fondo. Pareva che mal potessero reggere sulle gambe, e quando furono all'acqua si scalzarono e ponevano a refrigerare sul ghiaccio i piedi gonfi ed insanguinati. Erano due giovani affatto imberbi, stanchi e macilenti, e lo spasimo evidente che provavano sembrava lenito da quella crudele medicatura, che replicavano con una specie di furore. La fanciulla sentì compassione e corse a raccontarlo a sua madre. La Lena, ch'era una buona donna, pensò che que' due disgraziati in un paese lontano lontano, avevano forse una madre che li piangeva, senza poterli soccorrere, com'ella avrebbe pianto uno dei propri figli se fosse stato soldato; pensò al bene che le avrebbe fatto al cuore, se in quel paese lontano lontano, una donna avesse avuto pietà della sua povera creatura, e senza più ricordarsi nè perchè venivano nè chi erano, sentì per essi viscere di madre. Accese un buon fuoco e poi uscì nell'orto a cercare di loro. Quando li vide così malazzati e rifiniti dalla stanchezza e rotti i piedi che gettavano sangue, — Oh povere creature! sclamò tutta commossa, e, additando la porta, dentro, dentro, figliuoli, che vi faremo la polenta. Da brava, Menica, prendi una salciccia, spilla un fiasco di vino.... Ma, e' avranno bisogno di un po' di brodo. Quel più giovane ha gli occhi malati e trema come una foglia.... Oh sì certo, poveretti, una zuppa vi farà bene! Piglia una gallina, Menica.... E disperata di non poter parlare nella loro lingua nativa, replicava l'invito alzando la voce, come chi ha da fare co' sordi. Ma i soldati, benchè non intendessero verbo del linguaggio di lei, accettarono con riconoscenza ed entrarono lieti a scaldarsi, chè in quegli atti e in quella fisionomia piena d'affetto v'era un'eloquenza ch'andava dritto al cuore senza bisogno di vocaboli per farsi intendere e persuadere. Intanto capitarono dai campi il marito e i figli della Lena. Oltrechè dopo la fatica dell'intero giorno un po' di cenetta non deve essere cattiva improvvisata, erano anche tutti gente di buon cuore, e furono contentissimi di quell'apparecchio e davano mano anch'essi. Uno dei ragazzi, còlto il destro, susurrò alcune parole alla sorella. — Perchè non entra? diss'ella, continuando nelle sue faccende; vedi bene che questa sera non ho tempo da perdere! Nondimeno di lì a poco uscì. Povero Toni! Egli che appositamente per vederla era venuto in quel giorno nei campi che essi tenevano in affitto, e non trovatala, s'era tolto di tornare a casa pel villaggio di lei allungando così la sua via per lo meno di due grosse miglia, pure per darle un saluto!... Non era già ch'ei le fosse disaggradito. L'aveva scelto ella stessa a preferenza di tutti i giovani del contorno. Egli buono, egli bello ed affettuoso doveva essere il sostegno del suo avvenire; nè certo aveva motivo di pentirsi di una fede data spontaneamente e consentita con gioia da tutti i parenti. Ma gli è che i tesori dell'amore vogliono essere custoditi con grande gelosia; che se li lasci svaporare presto inaridiscono, e il suo cuore di donna s'era in quel giorno troppo facilmente aperto, e insieme col profumo dei fiori aveva, senza accorgersi, aspirato il sottile veleno della vanità, e la sua giovane testa, distratta da troppo curiosi pensieri, non poteva in quella sera riflettere e manco avvisarsi se altri pativa. Toni partì malcontento. Le parole brevi e la maniera spiccia con cui ella aveva accolto quel suo saluto d'amore, gli avevano profondamente amareggiata l'anima. Camminava a passi rapidi attraverso la campagna e se la vedeva sempre dinanzi agli occhi vestita da festa, più bella del solito, ma fredda e cattiva per lui; ed era mortificato, come chi pensando cogliere una rosa, si punge invece la mano. E questo non fu che il preludio dell'immenso dolore che lo aspettava nella prossima domenica, quando andato, come soleva, alla messa parrocchiale nel villaggio di lei, la vide in chiesa con un mazzolino di fiori, ch'egli certamente non le avea portati, e ch'erano rari per essere dono di qualche povero contadino. Eppure i fiori potevano venire dalle mani d'un'amica, forse dalla moglie del giardiniere dei conti; ma che fu di lui, allorchè guardandola più fiso gli parve che avesse cangiato di orecchini, e che invece dei consueti ch'egli da più anni le conosceva, ne avesse adesso un paio assai più ricchi, più eleganti e foggiati ad uso di signora! Chi glieli aveva dati? E i più strani pensieri gli passavano per la mente, e si sentiva il cuore come morso da un serpe, e la mano con moto involontario cercava nelle saccocce la ronca. Tentò di quietarsi. Pregò Iddio che non fosse vero!... Inginocchiato vicino alla pila dell'acqua benedetta, teneva la testa appoggiata alla pietra, e la faccia nascosta nelle mani come se avesse voluto impedirsi la vista, come se col comprimere il cranio gli fosse stato riparo al non impazzire. Finita la messa, uscì di chiesa nell'intenzione di andarsene a casa senza volerne saper altro. Ma due ragazzette, anch'esse con in seno un mazzetto, gli passarono dappresso ridendo, e le loro parole, a guisa di freccia avvelenata, così gli ferirono l'udito: — Ha' tu veduto il regalo del conte?... Ha' tu veduto com'era superba?... — e si perdettero nella folla continuando le loro osservazioni. — Il conte? pensò il giovane. Gli è dunque il conte che le ha regalato que' magnifici orecchini? Quel signorotto scapestrato e prepotente che, per nostra maledizione, par che quest'anno voglia restar qui in eterno a contaminarci l'aria co' suoi vizi e stravizi? Oh che si stieno nelle loro città cotesti malaugurati signori!... E rotto il primo proposito s'avviò, come soleva ogni festa, alla casa di lei. Pallido la faccia, cogli occhi stralunati che ogni tanto piangevano una lacrima involontaria, col cuore in tempesta, l'aspettava sull'uscio. Venne la Menica, e prima che fosse entrata passava per la via in un carrozzino con due briosi cavalli il giovane conte. I loro sguardi s'incontrarono, egli la salutò e sorrise, ella sorrise ed arrossiva. I dubbi del povero Toni si cambiarono allora nella più crudele certezza. In quella rapida occhiata e in quel sorriso, come rischiarate da un lampo d'irrefragabile verità, egli aveva veduto a nudo le loro anime, e nulla avrebbe più potuto illuderlo. Quando fu solo colla fanciulla, il cuore saturato d'amarezza con subita vicenda gli si commosse e tornò suo malgrado alle passate memorie, ai tempi felici quando così dolce gli sorrideva l'amore. Contemplava muto in un'espressione d'ineffabile dolore quella giovanetta che col capo chino, confusa ed arrossita gli stava dinanzi a guisa di delinquente. Scosse la testa, terse una lagrima e colla voce rammollita da un ritorno d'invincibile affetto, — Menica.... diss'egli, ti ricordi della mattina del _Corpus Domini_?... Qui, dinanzi a questa porta, abbiamo fiorito insieme i Maj che io ci avevo piantati la vigilia. Tu componevi i mazzolini, io seminavo la via di foglie d'isopo e di fiori.... Erano poveri fiori di campo che io avevo colto per te a lume di luna, ma tu allora li trovavi belli!... Oh! chi mi avrebbe detto che proprio qui dinanzi a questa porta io doveva ricevere da te il crudele accoglimento che mi facesti l'altra sera? Poi fisandola con occhi ardenti, che le vedevano i più reconditi misteri dell'anima, tutto ad un tratto cangiando tuono di voce le chiese. — Ma che mai speri tu da colui? Forse ch'e' si dimentichi della nobile sua stirpe a segno di farti contessa, che Iddio te ne guardi!... Or non sai tu come amano i signori? Finchè dura, ti coronano di rose, ti mettono sull'altare, ti aprono il paradiso.... Oh! essi sanno i modi gentili e le belle parole. Le imparano sui libri, dov'è l'amore di tutte le generazioni passate. Ma perchè non hanno radice nel cuore, così presto come le dicono, sfumano via e non sanno dimani quel che oggi ti promisero. Sono mazzolini piantati nella sabbia, sono il giardino dei fanciulli che un'ora di sole inaridisce e distrugge. Oh! non fare all'amore con codesti giovanotti di città che sanno di lettere, non profondere i tesori dell'affetto a chi è avvezzo a trastullarsi dell'affetto!... Che sarà di te, quando annoiato del gioco, ti lascerà vedere a nudo l'anima sua, e sarai gittata da parte come un cencio dismesso, insultata e calpestata nel fango come la viola che oggi teneva fra le labbra? Noi poveri contadini non sappiamo le belle frasi; ma il bene che vogliamo viene dal cuore, ma la nostra donna anche vecchia siede rispettata presso il nostro focolare, ma la nostra donna resta sempre la madre dei nostri figli! Dividere con te il mio pane, lavorare con te e per te, assisterti nei tuoi giorni di dolore, queste erano le gioie ch'io mi riprometteva dalla nostra unione. Oggi affascinata da non so quali sogni tu rinneghi tutto il bene che ci siamo voluti.... ma verrà un giorno in cui forse ti ricorderai di me, e tornerai indarno col desiderio alla povera vita che io ti offeriva! Ella intanto si era addossata allo stipite della porta, teneva la fronte e gli occhi nascosti col gomito posato alla pietra, non vedevasi che il basso delle gote ardenti per la vergogna e qualche lagrima che le gocciolava lungo le mani; pure la sua voce era ferma. — Gli è un destino! disse. Tutti i vostri rimproveri, io me li ho già fatti, ed altri ancora ben più amari!.... Nè mia madre, che ne morrà di dolore, nè la punizione del cielo che certamente mi aspetta, valgono a impedirmi di sentire quello che mio malgrado io sento. Potrei dissimulare e tradirvi, Antonio.... amo invece di dirvi la verità. Come mi sia entrata nel sangue questa febbre, io non lo so, ma tornare indietro è ormai impossibile: se egli mi abbeverasse di lagrime, mi calpestasse sotto a' piedi, io non sarei per questo meno sua. Sono una disgraziata.... indegna di voi! lasciatemi al mio destino. Nè si rivolse a guardarlo, nè si rimosse di lì per dargli l'ultimo addio. Ed egli? Oh! perchè si calcava indignato il cappello sulla fronte e partiva da quella casa per sempre? Era un'anima sull'orlo del precipizio, cogli occhi chiusi dalla passione, bisognava ritrarnela, bisognava stenderle le braccia e salvarla, fosse stato per forza. Ma v'è un onore, una falsa delicatezza che c'impongono d'abbandonare i nostri cari quando hanno più d'uopo del nostro soccorso e proprio nel momento fatale del pericolo. In quella notte ella fece un sogno. Le pareva d'essere col conte in una vasta prateria a' piedi delle colline. Era domenica: le campane de' circostanti villaggi suonavano la messa, ma ella coglieva fiori per lui, e tanti ne pullulavano e di forme così peregrine e vaghi di sì vivaci colori, che non si ricordava d'averne mai più veduti di simili. Prima d'andarsene ancora due, poi cotesti tre, e un altro e un altro, le venivano proprio nelle mani e non poteva saziarsi. Intanto l'ora si faceva tarda, i campanili l'un dopo l'altro si quietavano: per quella domenica la messa era ita. Già il sole colle sue grandi ali di fuoco librato sulla valle, splendeva nel suo pieno meriggio. La terra dei campi lontani, riscaldata da' suoi raggi vaporava al disopra del folto delle piante, giù dalle colline scendeva a torrenti il profumo dell'uva fiorita, il ronzio degl'insetti, il canto degli uccelli, la musica delle cicale sorgeva d'ogn'intorno nella sua più alta armonia. Era il momento solenne in cui la vita della natura si spiega in tutta la sua pompa. In mezzo a quelle tante voci, le parve d'udire quella di sua madre che la chiamava. Affannata moveva i piedi come per correre e non poteva; invece insieme con lui sedevasi all'ombra di un'acacia e componeva in mazzolini i fiori raccolti come nel giorno del passaggio dei soldati. Le parve allora che l'orizzonte di quella vasta prateria s'andasse a grado a grado restringendo; più non vedeva le colline, ma invece era surto un muro; anzi quattro, e sovr'essi negli angoli s'inalzavano quattro croci mortuarie. L'acacia alla cui ombra s'erano riparati accorciava i larghi rami, e fattili rientrare nel tronco li spingeva al cielo in forma di piramide. Pietre funebri e nere croci spuntavano fra l'erba.... Erano nel cimitero assisi su d'una recente sepoltura; sulla sepoltura di Toni! Inorridita voleva fuggire, ma gli occhi del conte che la guardavano intenti, cupidi, in una espressione d'indefinibile amore, come nel giorno che le regalava la camelia, ve la tenevano suo malgrado inchiodata. Quegli occhi di fuoco ella se li sentiva penetrare nelle ossa, e nulla poteva toglierla al fascino fatale, neppure l'orribile puzzo del cadavere che infracidiva sotto a' suoi piedi. Alcuni giorni dopo ella abbandonava il villaggio nativo per recarsi alla città insieme colla famiglia del conte, addetta al servizio della casa. Con quei modi del potente che per parte del debole non ammettono replica, egli stesso l'aveva chiesta a suo padre. Indarno la Lena aveva tentato d'opporsi. I campi che lavoravano li tenevano in affitto da lui, sicchè l'acconsentire fu riguardato siccome necessità di supremo interesse. Se la coscrizione ti colpisce il più caro dei figli, quegli ch'è sostegno e guida della casa, quand'anche ti si schiantasse il cuore, nondimeno bisogna rassegnarsi a lasciarlo partire. Per la Lena il caso era identico, e dovette piegare la testa. Passarono quasi due anni. Per una via remota che dalla strada postale attraverso ai campi riesce dietro alla chiesa del villaggio veniva una donna. Portava sul capo un fardello, le vesti dimesse e coperte di polvere, l'andare come di persona stanca ed estenuata da lungo viaggio. Era verso i primi di gennaio, l'occaso velato da una nube vaporosa che continuava la catena delle Alpi, il cielo limpido di colore azzurrino traente al verde, una lista di piccole nubi leggermente dorate lo tagliava da settentrione a ponente, sovr'esse di nuovo netto l'aere, e poi come un mare di nuvolette ancora più minute e più leggermente dorate. Il sole maestosamente lento le attraversava. Calato nei vapori, spogliò in un attimo la rutilante aureola e apparve quasi globo immenso di fuoco che traforasse la terra. Vicino a sparire si tinse di sangue. Inghiottito affatto dalle tenebre, parve che in un momento di rimorso egli spandesse il sangue che aveva raccolto nel suo coricarsi, poichè le nubi circostanti ne apparvero tutto ad un tratto imporporate. A grado a grado s'andavano scolorando, e quando la campana del villaggio suonò l'angelus, esse erano già fredde, monotone e color di cenere. Forse così la vita quando l'amore avrà per sempre cessato di accarezzarla....! Intanto quella donna era giunta alla sua casa paterna. Dacchè ella mancava, tutto ivi s'era cangiato. La sua povera madre, colpita da uno di quei cocenti dolori che non hanno consolazione quaggiù, era passata a vita migliore. Il padre affranto anch'egli dalle disgrazie, strascinavasi a guisa d'automa e pareva ancora l'ombra di sè stesso, tant'era in breve tempo invecchiato e ridotto impotente. Due de' suoi fratelli s'erano ammogliati, e in questi mutamenti domestici, perfino la sua cameretta di un tempo trovavasi adesso occupata. Fu accolta assai freddamente, come persona che giugne affatto inopportuna. Ma ella aveva in cuore, coll'umile vita, e coll'affetto operoso e paziente, di redimere il suo passato, se non agli occhi degli uomini, almeno dinanzi a Dio; perciò rassegnata e serena si mise ella stessa in tutto nell'ultimo posto. Assistere con pia sollecitudine gli anni cadenti e le infermità del vecchio, aiutare le cognate nella cura dei bimbi, prestarsi indefessa ai bisogni della famiglia, scegliere anzi la parte più dura e più disaggradevole di ogni fatica, quest'era l'impiego di tutti i suoi giorni. I mali tratti e gl'indiretti rimproveri, senza aprir bocca accettava siccome meritati, nè mai altro opponeva che un'angelica mansuetudine e una bontà a tutta prova. Quando uscivano a lavorare nei campi, ell'era sempre prima e portava il peso dell'intera giornata con tale un'alacrità che non ti lasciava indovinare la vita molle e le delicatezze dei giorni cittadini passati in casa di signori. Ma chi l'avesse attentamente guardata, malgrado di tutta cotesta energia, si sarebbe accorto che la sua salute e la sua giovinezza andavano deperendo. Non accusava giammai nessuna sofferenza, il suo cibo era quello degli altri, sempre pronta ed instancabile; ma tutti i giorni più pallida, più ammencita e una malinconia negli occhi che tradiva il forzato sorriso dalle labbra assottigliate. Pareva che un cruccio segreto e fatalmente immedicabile, a guisa di verme nascosto nelle midolle della pianta, le rodesse con dente assiduo ogni principio vitale. Sua unica gioia era ne' dì festivi recarsi alla chiesa appena l'aprivano. A tal fine invece di riposare delle fatiche della settimana, come d'ordinario i contadini sogliono, ella le domeniche alzavasi anzi più mattutina del consueto. S'occupava subito delle faccenduole più ovvie, tanto che il suo starsi in chiesa non fosse di disturbo alla famiglia, e al tócco dell'avemmaria, mentre gli altri ancora dormivano, ell'era già dinanzi al Signore. In quell'ora di solitudine, nel silenzio del santuario, lasciar libero corso alle lagrime ed effondere l'anima travagliata nel seno di Colui che punisce e perdona con ben altra giustizia che quella del mondo, le era come una specie di consolazione. Sentiva che v'era un occhio il cui divino acume non avrebbero giammai potuto offuscare nè i pregiudizi nè le ipocrisie degli uomini; e che quest'occhio di eterna rettitudine guardava nel suo cuore e vedeva com'ella aveva amato, e come l'avevano ricambiata! Le sue lagrime allora scorrevano tranquille come rugiada che refrigera, e ad onta di tutti i suoi errori, fidava nel perdono di Dio. Chi al fioco lume dell'alba misto allo splendore delle faci benedette, avesse contemplato quella faccia devota, umida di pianto e assorta nella preghiera del cuore su cui come in limpido specchio passavano senza velo tutti i pensieri e tutti gli affetti dell'anima, si sarebbe subito sovvenuto di quelle divine parole del Salvatore: Ti sarà molto perdonato perchè molto amasti! Era la Domenica delle palme. Dispensavano l'ulivo, simbolo della pace, e un uomo che da parecchi anni non poteva più trovar pace, era venuto a cercarla a' piedi di quell'altare. Nei tempi passati, quando frequentava il villaggio, egli soleva accostarsi a' sacramenti in quella chiesa. Un buon prete a cui egli avea confidato l'anima sua, approvava la rettitudine delle sue intenzioni e benediva l'affetto che gli era nato nel cuore. Doveva quel prete, tra pochi giorni, col sacro rito della religione unirlo per sempre alla giovine compagna che egli si aveva eletta. Invece tutt'era sparito! distrutto in un momento il sogno della sua felicità, le sue speranze tradite.... Nell'eccesso del suo dolore, quell'uomo aveva bestemmiato Iddio e maladetta la sua creatura. Trasse giorni miseri, avvelenati dall'odio. Sfuggiva i luoghi memori delle sue gioie, nel cuore non avea più nè lagrime nè affetto, guardava alla vita con fredda ironia. Un giorno sentì desiderio di piangere e di pregare, e venne a' piedi del suo antico confessore. Col ramo dell'ulivo benedetto tra le mani, al rientrare della processione, egli s'era inginocchiato vicino alla pila dell'acqua santa. Nubi d'incenso velavano l'altare; gli osanna avevano cessato; finito il Passio, e il santo Sacrificio procedeva quieto al suo fine, accompagnato soltanto da una soave e maestosa melodia dell'organo. Alcune pie donne, che al _postcommunio_ s'erano accostate a ricevere dalle mani del celebrante il mistico pane scendevano dai gradini della balustrata. A guisa di visione, una gli passò dinanzi. Bruna le vesti, bruno il fazzoletto, gli occhi raccolti e la faccia pallida concentrata in santi pensieri. Si ricordò del giorno in cui, inginocchiato nello stesso luogo, la vedeva a sè dinanzi tra i ricami del candido velo. Allora in tutto il sorriso, in tutto l'orgoglio della giovanile bellezza; ma l'olezzo dei fiori e il luccicare dei ricchi pendenti gli veniva al cuore siccome veleno. Adesso la lagrima che le rigava le guance sparute, lo aveva commosso. Tornò col desiderio ai tempi trascorsi. Un sogno gli passò per la mente e si sentì rivivere in un moto di generoso perdono. Nel dì solenne di Pasqua, Antonio era tornato a trovare la Menica. Benchè i lineamenti del suo volto serbassero le tracce dell'orgasmo di quegli otto giorni combattuti, pure in quel momento era calmo e ferma la voce, come di chi, dopo molti riflessi ha finalmente preso una risoluzione irremovibile. — Io ti ho più volte detto: o questa mano o nessun'altra; diss'egli, mentre nell'effusione del suo affetto le aveva presa la destra. Oggi vengo a ripeterti la stessa parola. O Menica, se non abbiamo potuto incominciare insieme la vita, chiudiamola almeno insieme! Pallida, più pallida del consueto, senza ardire di guardarlo gli rispose, e le tremavano le labbra: — Iddio vi benedica per il bene che avete voluto farmi con la vostra visita e con queste generose parole! Quaggiù sulla terra, io non isperava di rivedervi più mai, Antonio. E voi siete venuto, e io tengo ancora una volta fra le mie questa mano che voleva farmi felice. No: io non posso e non devo accettare; ma se sapeste come il mio cuore vi ringrazia!.... E le lagrime che le piovevano dagli occhi bagnavano le loro mani riunite. — Oh ti prego, non mi respingere così! Tu piangi.... e anche domenica in chiesa piangevi, poveretta! Io ho detto subito: ella ha bisogno di versare le sue lagrime sul cuore di un amico. Ecco, io t'apro le braccia. Non ti domando che di lenire il tuo dolore, e di compensare a forza di affetto quel tanto che gli altri ti hanno fatto patire. Ella scosse mestamente la testa, poi chiamato sulle labbra scolorate un sorriso tanto amaro che pareva una nuova lagrima, — La mia vita è già chiusa, disse. Ancora qualche giorno penoso di prova, ma in breve la fine. Io lo sento: e poi c'è una voce che continuamente mi chiama, la voce della mia povera madre. Ella è partita da questo mondo senza benedirmi. Sul suo letto di morte, tra i volti dei suoi cari ella ha cercato indarno il mio. Io, infelice! ero lungi allora, e non pensavo al cuore che avevo calpestato e che mi chiamava per darmi il suo perdono e il suo ultimo addio. Ora è laggiù nel cimitero ch'ella mi aspetta; e se sapeste come io desidero di rivederla! Miseri i figliuoli che hanno contristato il cuore della madre! Ma più miseri, se l'hanno perduta senza una parola di riconciliazione. Tutte le notti ella mi è dinanzi nelle lagrime ch'io le ho fatto versare, e mi guarda severa, e talvolta mi pare che alzi la mano per maledirmi. O Antonio, io ho bisogno di rivederla!.... Stettero entrambi alcuni istanti in silenzio; ella col grembiale si teneva nascosta la faccia; poi come scossa da improvvisa visione, ripigliò: — Amare ed essere riamati, patire l'uno per l'altro, pensare con un'anima sola, mettere insieme la vita e poi rivivere insieme nei figli, e cotesto dinanzi agli occhi di Dio senza paura di colpa, anzi benedetti da da lui, oh! mi pareva il paradiso in terra; la suprema delle gioie umane! Ma io, infelice, quando mi si rivelarono le profanazioni del mondo, volli persuadermi che fosse un sogno e che non poteva esistere nessun cuore capace di volermi bene così! E voi, Antonio, venite a mostrarmi ch'era vero, e che tutta questa felicità poteva, poteva essere mia!.... — Dimentichiamo il passato. Non hai tu fede nel perdono di Dio? Or bene, lascia che anch'io ti perdoni! Uniti nel pianto, uniti nella preghiera, se è possibile, Menica, io voglio amarti ancora di più.... — Ah! non è più tempo, diss'ella. Non ho che una speranza, che quest'amore che ora ci vien tolto, Iddio ce lo renderà lassù. Promettete, Antonio, che nel giorno dei morti ogni anno voi verrete a trovarmi e farete dire una messa per l'anima mia e per quella della mia povera madre! Egli si portò alle labbra la mano di lei e promise col cuore. Indi si divisero. Era venuto l'autunno; quella stagione in cui la terra friulana, siccome a festa, fa pompa del più lieto de' suoi prodotti. Dal mare alle alpi, disposti in innumerevoli filari si dánno la mano i tralci delle sue viti. Spesso il frutto pende più copioso delle foglie, e chi visita in quell'epoca le colline della sua regione di mezzo, benedice ai grappoli d'oro di quelle tante ghirlande. Ma nell'ottobre del 52 la campagna del povero Friuli era mesta. Tristi anni si erano successi, e per colmo di sventura in quest'ultimo anche i suoi bei vigneti infracidivano. Il flagello venuto dal mare s'era propagato fino alla montagna. A guardare quelle trecce fiorenti di verdura e d'un momento all'altro affummicate, passe, quelle uve fetenti ed abbrustolite, pareva che l'angelo della desolazione fosse passato per il paese e l'avesse tocco col tremendo suo dito. La vendemmia si compieva in silenzio, turbe di contadini seguivano avviliti i carri che percorrevano le vie, trasportando nei tini il sucido avanzo del frutto che crepitava come se fosse carbonato. Aggiungi che ad accrescere malinconia, i giorni si succedevano continuamente annebbiati o piovosi, e le foglie ingiallite prima del tempo incominciavano a cadere; sicchè i cittadini venuti in quei due mesi a godere la campagna avevano un mal divertirsi. Tra le famiglie signorili, la cui molta agiatezza non lasciava che s'accorgessero di cotesto lutto universale, una ve n'era presso alla quale, siccome a centro, soleva concorrere quasi tutta la gioventù d'una tal qual condizione, dei dintorni. Oltrechè la signora era un'assai compita e gentile persona, che sapeva piacevolmente intrattenere la compagnia, si combinava ch'ella teneva ospite in casa una giovine forestiera molto in voga a quell'epoca. La dicevano oriunda di Parigi. Certo il suo fare disinvolto, lo spirito del suo conversare e quel non so che di semplice insieme e peregrino, che appariva costantemente nella graziosa e svariata sua _mise_, sapevano di capitale, o almeno di molta esperienza di mondo. I sommovimenti del 48 l'avevano gittata in Friuli, dove in grazia di alcune aderenze di alto bordo fece in breve delle relazioni ed era diventata l'eroina del giorno. Nel numero di quelli che aspiravano a farle la corte, c'era una nostra conoscenza; il giovane conte. Amico del marito di lei, amico della famiglia nella quale erano ospiti in quell'autunno, lo si vedeva assai spesso al suo fianco. Quai che si fossero le occulte loro mire, pareva che entrambi con grande accorgimento si studiassero di darsi reciprocamente nel genio. In lui forse vanità, o desiderio di procacciarsi un passatempo che gli rompesse la triste monotonia della vita disoccupata, o fors'anco nuovo capriccio; in lei.... — Ma io m'intendo così poco di cotesti sentimenti di seconda mano che spesso costituiscono tutto il romanzo delle classi elevate in mezzo alle quali non vivo, che credo meglio non dirne. Per chi lègge già sarà cosa affatto ovvia, sicchè mi perdonerà se invece di seguire tutti i fili intricati di cotesta tela cangiante e fragilissima che chiamano galanteria, io salto al solo punto che tocca la mia storia. — Un dì che il tempo faceva un po' di tregua, uscirono a una scampagnata. Giovinotti e signore comodamente assisi su d'un carro allestito con soffici cuscini di lana spiegavano i loro variopinti ombrellini. Il conte, come di consueto, aveva trovato modo di porsi vicino all'elegante parigina. S'erano impegnati in un assai caldo colloquio, e vi si lasciavano andare colla spensieratezza di due giovanotti di vent'anni. All'improvviso sentirono il carro che si arrestava. Veniva una croce nera accompagnata da fanali, poi sacerdoti in lugubre stola, e un cadavere, dietro una quantità di lumi e una lunga processione di popolo piangente. Erano usciti dal villaggio a man ritta, dove tra il folto dei viali scorgevasi il palazzo del conte. Il tristo incontro turbò l'allegria della brigata, e le signore, sgomentate, avrebbero voluto ad ogni costo evitarlo. Ma la strada angusta, in mezzo ai campi e fra due fossi capaci, non lasciava nemmanco pensarci. Bisognò proprio fermare in disparte, ed aspettare che passassero. Rasentavano il carro dal lato dov'era seduto il conte colla sua elegante compagna, e la cassa segnata d'una croce bianca gli venne tanto dappresso che quasi lo toccava. Chi era l'umana creatura, che nell'andarsene al luogo dell'eterno riposo, veniva lì a cercarlo, come se avesse voluto dargli ancora un addio? Egli nol chiese; ma se anche gli avessero detto il nome della povera Menica, che gl'importava di lei? Ella non era che una delle tante che per la via dei sensi avevano potuto entrare, un momento, in quello ch'ei diceva suo cuore, e che al pari delle altre n'era poi uscita per sempre. Viva, o morta che fosse, ei non si curava di saperlo. Immerso ne' suoi progetti, continuò l'allegra sua gita; ella fu deposta nel cimitero accanto alla sua povera madre in quel posto di eterna pace che da parecchi anni così ardentemente invocava. Oh! se nella stalla di compare Martino, invece delle sucide reminiscenze di quell'orgia straniera che ha contaminato la generazione che ci precedette, e che Madonna Sabata sciorinava con tanto gusto a quei poveri cuori di vergini, ci fosse stato un qualcuno che avesse letto le tue gentili novelline, o Pietro Thouar! XIV. LA COLTRICE NUZIALE. I. UN BAZAR DI NUOVO CONIO. — Diciotto braccia di buona tela casalina.... — Cinque carantani di questo pastrano — Una caldaia! la fodera di un pagliericcio.... — Due fiorini una bella coltrice nuova. — Chi vuol comperare questa sottana? Un paio di calzoni, fazzoletti, camicie. — Una camicia di bucato.... due paiuoli. — Tutte le masserizie d'una cucina per dieci fiorini. — Donne, madonne, messeri! ci sono dei bei vestiti.... — Guardate questa gonna di fioretto per metà prezzo! — Vendo i cavalli a chi dà venti fiorini. — Chi vuol dare una _svanzica_ di un lenzuolo?... Belle ragazze, comprate, ci sono dei grembiuli.... Comprate il rigatino nuovo a un carantano il braccio.... — Un giustacore per un carantano! — Una copertina da letto per un fiorino! — Messeri, madonne, comprate, comprate!.... E una quantità di gente s'era affollata d'intorno alle due carrettaccie dalle quali una mano di soldati andava scaricando alla rinfusa diversi arnesi, suppellettili d'ogni maniera e di ogni uso, robe vecchie e nuove, gridando il prezzo che ne volevano ritrarre come se si avesse trattato d'una vendita all'incanto. Codesto accadeva su su d'un piazzale, dinanzi alla chiesa in un villaggio tra l'Isonzo e il Nadisone. Era la seconda festa di Pasqua. La stagione lieta per l'apparire della primavera, faceva una consolazione del sereno dei cieli e della verzura della campagna. Diffuso un giubbilo per tutto il creato e nell'aria tepente delle ore meridiane gli effluvi del biancospino e delle prime viole; il mormorio del fiume in armonia coi canti degli augelletti di già solleciti del nido; l'orizzonte limpido; solo di là dalle acque verso ponente, qui e colà, in diversi punti vedevi ancora sollevarsi alcune colonne di fumo; erano i villaggi incendiati nella passata settimana santa. La chiesa aperta e tuttora inondata d'incenso annunziava come fosse in quel punto terminata la funzione; ne uscivano ancora alcune comari, e veduto lì sulla piazza quella confusione non guardavano ad anima viva, ma intenti all'oggetto agognato, pareva che per lo sforzo di quella per lei ardita intrapresa, fossero vicini a gonfiarseli di lagrime. Giunta a farsi largo, afferrò colla mano tremante il lembo di una coltrice, che il soldato aveva in quel punto dispiegata, ed — Io, disse, vi do i due fiorini! La sua voce argentina impose silenzio alle altre comari, che stavano d'intorno, e ritirate le lasciarono conchiudere il contratto. Poi cavati dalla saccoccia altri danari, comperò la lentima di un letto nuziale, una copertina di rigato e non so che altri oggetti, dei quali fatto un fardello se lo caricò sulla testa, e lieta della sua buona ventura tornò a traforare la folla. — Ehi Mariuccia! le gridavano le amiche, non occorre più dirci che il tuo damo l'ha da nascere. — Che sì, che cotesto l'è un bell'apparecchiarsi il nido! — Guardate la Mariuccia quanta roba si porta via! — E le correvano dietro per esaminare con più agio gli avvantaggi dell'affare ch'ella aveva conchiuso. In grazia di que' prezzi così facili, in poco d'ora tutta la mercanzia fu smaltita. Come un cesto di piuma gittato dalla finestra quando soffia la borra, quelle suppellettili, quegli arnesi, e persino i cavalli e le carrette sparirono. Nettata la piazza, i soldati entrarono all'osteria, e bevuto e sghignazzato, tornavano per d'onde erano venuti a' loro quartieri. Nel passare il torrente s'incontrarono in altre carrette cariche di roba razzolata tra le macerie dei villaggi incendiati. Erano villici, che più avveduti non avevano aspettate di comprare da essi, ma erano stati da soli a far raccolta, ed ora allegramente se ne tornavano col bottino. Quell'incontro non fu per certo una buona ventura. I soldati, quantunque briachi, pretesero che lor si dovesse almeno il tributo dell'acquavite. Convenne vuotare le saccocce contenti di asciugarla al costo di pochi carantani e di qualche piattonata. Quando entrarono i contadini nel villaggio, si sentiva ancora di là delle acque rimbombare nell'aria gli _urrà_ della brigata militare. II. CHI ERA LA MARIUCCIA. Nata in una numerosa famiglia di contadini, dove non regnava la pace domestica, la Mariuccia assaggiò assai per tempo il tristo calice della sventura. Da bambina mal gradita alle zie ed all'ava paterna, che in lei puniva il carattere bisbetico e la lingua insolente della nuora, cresceva a stento fra una turba di fanciulli e quasi coetanea ad una bella cuginetta che divideva con lei i giochi puerili, ma non le carezze e l'affetto dei vecchi. Trascurata e spesso maltrattata quando ancora aveva lo scudo della madre, perduta questa, nessuno più pensava alla povera piccola, e la si lasciava languire priva perfino delle cose più necessarie. Le contese sempre più acerrime che sorgevano fra i diversi membri della famiglia, sovente finivano collo scaricare la tempesta sul suo capo innocente, e quando il disaccordo giunse a tale da partorire la divisione, ella col padre cacciata di casa, dovette mettersi nella meschina condizione di chi vive del lavoro giornaliero. Poichè le suppellettili, gli animali, gli attrezzi agricoli che in unione bastavano a farli campare onestamente su d'un terreno da coloni, così ripartiti, furono per tutti una miseria. Quella divisione l'era sempre rimasta impressa come il più gran dolore della sua infanzia; non già ch'ella avesse compreso le conseguenze che ne dovevano nascere, ma lo staccarsi dalla cuginetta e dagli altri fanciulli che con lei ridevano e giocavano, il cambiare la buona casa colonica fino allora abitata, in una miserabile abitazione da sottani dove le toccava di rimanere quasi sempre soletta, anche così bambina le facevano capire ch'era una disgrazia. I sottani, cotesta piaga delle nostre campagne, sono la più meschina e la più infelice delle classi della società; quella su cui pesa maggiormente il lavoro senza compenso, e dalla quale scaturiscono i mendicanti, i vagabondi, e spesso anche i ladri e gli assassini. I possidenti che vanno in rovina danno sovente origine alla loro esistenza, perchè cominciano dall'alienare i fondi produttivi, e in ultimo affittano o vendono le case mezzo diroccate a una specie di speculatori che poi le subaffittano a dei miserabili, che, o per disgrazie, o per discordie domestiche divisi, non hanno più la possibilità di condurre una colonía. Questi speculatori, per lo più possidenti di fresca data, a tali orribili tuguri, uniscono uno o due campicelli, dei quali esigono affitti spropositati. Coloro che accettano, sanno che se anche l'annata andasse propizia, l'assiduo lavoro e la più industriosa diligenza non faranno mai che il fondo produca tanto da soddisfare al debito assunto; ma la necessità di un po' di tetto che li ripari, e di un campo dove raccorre almeno le legna per riscaldarsi l'inverno, o che se non altro serva di pretesto a ciò che altrove si raccoglie, fa che pieghino il capo a tutte l'esorbitanze del locatore. Malattie, tempi burrascosi, mancanza di lavoro, sono poi disgrazie ch'essi non prevedono, o che certo non entrano nei loro calcoli. Colui che affitta sa bene anch'egli che il suo campo, se anche fosse la terra promessa, non potrebbe giammai dargli il provento che richiede; ma egli spera d'aver a fare con gente avveduta che sappia ingegnarsi e profittargli, e, pur che paghi, il modo non importa; se no, guarda a ciò che portano sotto i suoi coppi, e alla fine dell'anno col sequestro fa il conto rotondo. Anzi vi sono di quelli che nelle quattro pecore, nelle vaccherelle e ne' pochi attrezzi dell'inquilino, veggono preventivamente il loro affitto. Così gli sciagurati, che si trovano nella necessità di abbracciare tal vita miserabilissima, passano d'uno in altro tugurio sempre più nudi, finchè, spogli di tutto, vanno ad ingrossare la schiera dei mendici e dei vagabondi. Infatti il padre della Mariuccia in pochi anni consumò tutto quel poco che aveva redato, e dopo aver fatto soggiorno in questo e in quel villaggio sempre nei peggio abituri, finì coll'ammalarsi e morire all'ospitale. Cosicchè a dodici anni la povera fanciulla, coperta di cenci e ridotta sulla strada, andava elemosinando. Un giorno ell'ebbe la buona ventura di capitare alla porta di un contadino benestante, la cui moglie colpita dalla sua bella fisonomia, la prese seco a servire. I contadini trattano per solito i loro servi come tanti membri della famiglia. Se non possono dar conveniente salario, non fanno almeno sentir tanto la diversità della condizione. Cibo e lavoro in comune, quasi nessuna disuguaglianza di vesti, e quel che val più, non disprezzo ne' modi, non imperiosa acerbità ne' comandi. La povera creatura, che non aveva mai goduto il bene di trovarsi in una famiglia dove regnassero l'ordine e la pace, si affezionò ben presto a' suoi padroni. Lavorava con essi nei campi, filava la sera nella stalla o d'accanto al fuoco con le figlie del suo padrone, che la trattavano come sorella, imparava da esse e dalla loro madre a trattar l'ago, ad accudire alle faccende domestiche. Era divenuta una bella ragazza, e rimpannucciata e rinsanichita e in comunione del loro affetto, più quasi non s'accorgeva d'essere un'orfana. Ma quegli anni spensierati volano rapidi e succede un'epoca nella quale ci si accorge di avere il cuore, e i suoi palpiti fanno pensare all'avvenire. Una domenica di agosto la Mariuccia insieme con la Lisa, la figlia de' suoi padroni, trovavasi alla sagra di Madonna di Strada. Una quantità di gente era là convenuta, e le due giovanette l'una al braccio dell'altra giravano amorosamente chiacchierando insieme, e soffermandosi ogni qual tratto a guardare le tavole di ciambelle e di frutta esposte in vendita sul praticello dinanzi alla chiesa campestre. Alcuni giovinotti le avevano notate e lor tenevano dietro, desiderosi di entrare con esse in discorso. Il sole, benchè oramai vicino al tramonto, dardeggiava ancora i suoi raggi cocenti sulla testa della moltitudine. Le due fanciulle ripararono all'ombra dell'un dei cipressi che fiancheggiano l'entrata nel praticello, e lì sedute sul basso del muricciuolo, si facevano fresco coi lembi dell'ampio fazzoletto a croce, che loro adornava la testa, mentre lanciavano sorridendo qualche furtiva occhiatina che diede coraggio ai giovanotti di farsi dappresso e cominciar la conversazione. In poco d'ora s'erano fatti amici. Esse offerirono cortesemente la sagra che avevano comperata. Un giovane accettò un paio di noci dalla Mariuccia e le regalò in ricambio un bel garofano ch'ella adattò subito nella sua cintura dalla parte del cuore. Era un bruno ancora quasi imberbe, alto e ben fatto della persona, con un certo cappellino di paglia, messo un po' alla _bula_ e che dava risalto ai molti capelli neri, che tutti uniti gli scendevano fino alla metà del collo e gli lambivano la candida camicia arrovesciata sulle spalle. I suoi occhi neri avevano un non so che di dolce, e con qualunque degli astanti avesse parlato, quasi sempre s'incontravano in quelli di lei. Venne l'ora della partenza e i giovani vollero accompagnarle fin presso al villaggio. Da quella sera la Mariuccia non dimenticò più quello sguardo, e anche appassito conservò come una reliquia quel fiore. Ma la sua fronte ilare era divenuta pensierosa. Più non rideva così facilmente, nè più la sera con le compagne si lasciava andare al solito allegro cicaleccio; meditava invece, e una leggera tinta di malinconia s'era impossessata di tutti i suoi atti. La povera fanciulla aveva saputo che quel giovane apparteneva a una buona famiglia di contadini del vicino villaggio. S'egli avesse eletto la meglio ragazza del paese, certo i genitori s'avrebbero baciato la mano nel concedergliela, perchè l'entrare in quella casa era tenuto da tutti una fortuna. Or ella non era che una povera orfana, una serva.... Che cosa gli avrebbe portato in dote se poteva appena campare? Ma Vigi veniva tutte le domeniche a funzione nel villaggio di lei, l'accompagnava a casa nel sortire di chiesa; se talvolta la mandavano in su quell'ora ad attignere, egli le portava la corda, l'aiutava sul pozzo in presenza di tutti, e oramai non v'era più dubbio sulle sue intenzioni. Allora la Mariuccia divenne più attiva nel pensiero di apparecchiarsi un po' di mobile. Stava in fin tardi a filare di guadagno. Alzavasi prima di tutti la mattina, affinchè i suoi padroni fossero contenti di lei e le concedessero qualche ora di lavoro per suo conto. Se buscava qualche carantano, guardavasi bene dal gittarlo in ispese inutili. La vecchia Maddalena, che l'amava come se le fosse figlia, s'era accorta di queste sue cure e procurava di facilitarle qualche piccolo provento. Ma per accumulare quanto bastasse alla compera almeno del letto nuziale e dell'indispensabile coltrice, ci voleva! Passarono così alcuni anni, quando in quel villaggio avvenne il mercato ch'io qui sopra accennai. Chi può dire la consolazione della Mariuccia nell'aver potuto così utilmente impiegare i suoi risparmi? Ella si aveva portati a casa quegli arredi, e se li custodiva nella sua cameruccia e se li guardava con quell'affetto istesso di adorazione con cui l'avaro, quando è solo, contempla i suoi ricchi tesori. III. LA VISITA. Per lo stradale che da Gorizia mette a Udine due magnifici cavalli neri facevano volare una elegante carrozza discoperta. Dentro a fianco d'un signore piuttosto avanzato in età stava mollemente adagiata una gentile damina, la cui _mise_, benchè da viaggio, annunziava il buon gusto della capitale. I suoi bellissimi occhi intenti al sole che tramontava avevano un'espressione piuttosto melanconica. Era d'estate. La vasta pianura rinfrescata da un leggero venticello moveva placidamente il ricco suo verde indorato dagli ultimi raggi. Una quantità di picciole nubi tinte nei più vaghi colori dell'iride s'andavano agglomerando sull'orizzonte come per far corteo al sole moribondo che già cominciava a tuffarsi nella lontana marina. Parevano i flutti di un immenso mare di porpora, parevano un'infinita turba di pecore dal vello d'oro che dopo aver pascolato tutto il giorno pegli azzurri campi del cielo or si riducevano all'ovile dietro i passi del loro sfolgorante pastore. La giovinetta, innamorata della magnifica scena, metteva sì poca attenzione agli animati discorsi del suo compagno da viaggio, che questi a trovar la parola che pur le penetrasse l'udito dovette cercarla in un'allusione a quel bellissimo tramonto. — O mia Cati! ei le diceva, se il nostro progetto s'avvera, i miei ultimi giorni saranno lieti e io terminerò felice la mia mortale carriera, come quel sole che ora in sì placida e maestosa pompa discende all'occaso. Una lagrima corse per le guance alla giovinetta. — Dio, che mi vede l'anima, sa come io lo preghi, padre mio, di concedervi una lunga vita e tutta felice, — diss'ella con un timbro di voce così soave che pareva un'armonia. — Oh! io lo sarò felice e pienamente, ripigliò il vecchio, quando ti vedrò in possesso della bella fortuna che ti si prepara. Fin da quando tu eri fanciulletta nell'istituto delle Dame X*** a Vienna, e io ti vedeva crescere ogni giorno più aggraziata e gentile, cotesto era il più caro de' miei voti; ma non ardiva pensarci da senno, perchè troppo grande mi pareva la distanza fra te umile figlia di un barone di provincia ed egli sangue di principi, collocato sì dappresso alla santa maestà del trono. Chi mi avrebbe detto che proprio nel momento in che la sua fortuna fatta di tanto più cospicua pe' segnalati servigi prestati al nostro buon Imperatore, io fossi così vicino a veder realizzata cotesta mia secreta speranza? Eppure la lettera della tua nobile zia e l'invito della Contessa che ora ci chiama in sua casa, dov'egli ritorna dopo la sua gloriosa vittoria, mi danno certezza che il mio è qualche cosa di più di un castello in aria. Mia Cati, poichè egli desidera di rivederti, credi, non può essere che per deporre a' tuoi piedi la sua immensa fortuna. E quando ti avrà riveduta non sarà, no, più sogno il mio! Le tue adorabili qualità lo faranno superbo della sua scelta, nè l'amore grandissimo che io ti porto mi fa ora velo dinanzi agli occhi. Allorchè mio fratello moribondo ti confidava nelle mie braccia, io mi accorsi subito che l'orfanella era un grande tesoro... — Tesoro, padre mio, è stata la vostra bontà, le cure e l'affetto più che paterno che voi sempre mi prodigaste, al quale, soggiunse ella abbassando la voce e facendosi sempre più melanconica, al quale io sento rimorso di non saper corrispondere come dovrei!... — Senti, Cati, noi vogliamo vivere sempre insieme. Quando sarai maritata, io mi stabilirò a Vienna vicino a voialtri: ti vedrò ogni giorno, la tua felicità sarà tanta vita per me. Vienna è un gran bel paese! L'allegra, la gaia Vienna, il paradiso terrestre delle feste e dei piaceri! Oh si sa vivere a Vienna!... Qui, poverina, tu se' fuori di sito. Chi sa comprenderti qui? Cotesti rozzi provinciali non possono apprezzare le grazie squisite della tua nobile educazione; le tue amabili maniere, il tuo buon gusto, i tuoi distinti talenti qui sono perduti, sprecati, e per questo mi sei così melanconica. Ma a Vienna avrai campo di brillare. Tu se' nata fatta per essere la delizia di una capitale, per destare l'ammirazione e la simpatia nei nostri eleganti _salons_. Oh pensa la mia gioia quando ti vedrò finalmente collocata nella luminosa atmosfera che unica ti si conviene! Il riverbero di tanto splendore farà ringiovanire il povero vecchio. Non dubitare, torneranno i bei tempi della pace. In breve le armi vittoriose del nostro sovrano finiranno di ristabilire dovunque l'ordine e la tranquillità. Una volta estirpata la ribellione, tu pure tornerai lieta. Il tuo cuore sensibile non è fatto pe' trambusti della guerra. Essi ti turbano, ti fanno male, ed è perciò che le tue belle guance si sono illanguidite. Povera la mia Cati! Tu se' un nobile fiore, ma dilicato: coteste villane bufere ti offendono, ed hai bisogno della ricca e tepida serra per poter spiegare tutto il tesoro de' tuoi colori e de' preziosi profumi. La tua serra è la capitale. Là mi tornerai fresca ed allegra, colle tue belle rose sul volto, cogli occhi pieni di vita e di brio.... Ed entusiastato continuò per buona pezza a discorrere dell'avvenire che gli prometteva un così dolce sorriso. La fanciulla taceva, e contemplava gli ultimi sprazzi della luce che quietamente facevano rubiconda la cima dei nostri monti. Una volta nel passare dinanzi a un cimitero campestre i suoi occhi si fermarono sui tumuli coperti di recente erbetta a' piedi degli ulivi le cui frondi commosse dall'aura vespertina tremolavano or bianche ed or verdi lasciando piovere la porpora del tramonto che come un affettuoso addio pareva accarezzare quei poveri morti, e sentì che a tutte quelle gioie mondane ella avrebbe preferito di dormire eternamente, ma lì nella sua terra nativa. Frattanto la carrozza giunta a N*** s'era soffermata alla sbarra dove si paga il pedaggio. Vedendo signori, una povera donna trasse innanzi a chiedere l'elemosina. La seguivano tre bambini, portava il grembo fecondo di un altro. L'atto strano con cui stese la destra volgendo dall'altra parte la faccia vergognosa e queste parole: Abbruciati di Jalmicco! — ch'ella proferì invece di preghiera, ferirono il barone. Ei rimise nel borsellino la moneta che già stava per gittarle e guardandola con severo cipiglio — Ribelli eh? disse, oh bene vi sta la terribile punizione che vi tiraste addosso! A simile genia nessuna compassione! — e ordinò al cocchiere di sferzare i cavalli. Come l'inesperto, che nell'adoperare un coltello a due tagli s'insanguina le mani, così quel rimprovero ferì tremendamente da due parti. La pietosa fraile vide quella povera donna farsi di bragia e tirare a sè l'ultimo de' suoi bambini che stendeva ancora le mani ad implorare misericordia dalla carrozza che partiva, videla accarezzarlo con un sorriso d'indefinibile amarezza, mentre inavvertite le gocciavano a quattro a quattro le lacrime sulla bionda testa dell'innocente. Un'orribile scena d'incendio, di rapine, di dolori e di miseria le si dipinse dinanzi all'anima commossa... Quai che si fossero le colpe di quella meschina, ella pativa: pativano quei poveri fanciulletti che certo non potevano aver colpa. Chi sa quante lacrime erano condannati a versare!... Quella moneta rifiutata avrebbe pur potuto tergerne qualcuna! ed ella, che in tal momento avrebbe voluto tergerle a costo di sangue, sentiva di abborrire quel metallo rimasto lì inerte. Oh! ei le pesava sul cuore come un rimorso. E le pareva peccato pensare a comparir bella e spiritosa nell'istessa ora che quella raminga piangeva per non aver pane da dare alle sue creature; far pompa di mille inutili adornamenti, godere una lieta serata, tutti i comodi e il lusso della vita, mentre colei senza tetto, gittata su d'una strada nel profondo della miseria rammemoravasi forse la crudeltà di quei signori, che invece di soccorrerla l'avevano rimproverata.... E lo sforzo terribile di dimandare l'elemosina pagato con un rifiuto!... Doveva averle costato quell'umile dimandare l'elemosina! Tutto il sangue l'era corso alla faccia. L'aveva ben'ella veduta come si nascondeva e come le tremavano le labbra, quando proferì quella solenne parola: Abbruciati di Jalmicco! E le si ridusse dinanzi alla memoria la sera in cui salita sulla terrazza della sua casa aveva veduto ardere quel povero villaggio insieme cogli altri in quella notte distrutti. Quando smontò nel cortile della Contessa, e fatta salire nella camera da ricevere ella fu accolta con ogni maniera di cortesia così dalla padrona di casa come da diversi graduati austriaci che lì stavano aspettandola, la sua mente funestata non ravvolgeva che tristi pensieri. Era pallida fuor di misura, un cerchio di ferro le strigneva le tempia, di modo che parevale sentirsi scoppiare il cervello, la luce dei doppieri le offendeva la vista; nondimeno procurò di raccogliere tutta la sua forza per corrispondere ai gentili complimenti che le venivano indirizzati. Un bel giovane biondo dalla tinta dilicata e dagli occhi cerulei le si assise dappresso. Parlavano della capitale, dov'ella era stata educata, delle conoscenze comuni ad entrambi, di un magnifico giardino, che da fanciulli avevano una volta visitato insieme.... Procurava di comporre al sorriso le labbra smarrite; discorreva di fiori, e cogli occhi dell'anima non vedeva che macchie di sangue. Le pareti della stanza erano adorne dei ritratti dei più famosi tra i generali dell'armata austriaca. La luce dei doppieri dava nei vetri e nelle cornici dorate dei quadri, e quel riverbero agli occhi ammalati di lei pareva lo splendore infausto degli incendi altre volte veduti e dappoi continuamente meditati; cominciò ad offuscarsele la vista. I lumi, la stanza, le persone che la circondavano, i quadri, tutto le si mesceva. Quelle immagini ch'ella vedeva come a traverso le fiamme, le si tramutavano dinanzi: assumevano le forme esecrabili di cadaveri scarnati, di serpenti, di luridi vampiri. I muri le si mostravano tutti insozzati di larghe strisce di sangue, il pavimento un bulicame di sangue; perfin la croce di brillanti che scintillava sul petto del suo giovane interlocutore le parve grondante di sangue. Chiuse gli occhi inorridita e lasciò sfuggire un gemito. Tutti s'accorsero che le veniva male, e la contessa s'affrettò a condurla sulla terrazza a respirar l'aria fresca della notte. Rimbombava il cannone di Palma e l'aria appariva ad intervalli accesa dalle bombe che da quattro lati lanciavansi contro la fortezza. I loro scoppi facevano tremare fin dalle fondamenta la casa, e talmente offesero i nervi di lei, che spaventati per la sua vita dovettero subito pensare a coricarla. IV. I RIBELLI. — Lela! su po', Lela, cammina! gran fatto che stasera tu non possa tenerci dietro. — È colpa Tinetto, mamma, che va come una lumaca. — Ho perduto uno zoccolo io,... piagnucolava zoppicando il piccino, e mi fa male al piede, e non ci posso ire io.... — Butta via anche l'altro, gli diceva la sorella, chè già gli è tutto sdrucito, e si va meglio scalzi. Ma il fanciullo piangeva, e udivasi sempre più distante lo scalpitare della madre e dell'altro bambino ch'ella si strascinava seco. — Mamma, Tinetto non può piue; me lo piglio in braccio? — Oh sì davvero! volete rompervi il collo? — e fermatasi, — Santa Vergine! esclamava, che pena con queste creature! Se non fosse stato quel birbo di quel signore, che co' suoi rimbrotti ci ha tutta inimicata la gente, già colui della sbarra ci dava da dormire. Ora bisogna andarsene all'altro villaggio; quando arriveremo, saranno già tutti coricati, e ci toccherà di serenare sulla strada. Lela, vuoi camminare tu con Giacomino, e io procurerò di prendermi in braccio l'altro? Ma fatti alcuni passi, il suo stato l'obbligava a metter giù il fanciullo e a sedersi sull'orlo d'un fosso per riposare. — Mamma, e non ci darai pane questa sera? chiedevano i bambini. — Povere le mie viscere! E non avete veduto come ci hanno maltrattati? Oh Dio, Dio!... Ahi! che lampo d'inferno. Vogliono proprio abbruciarla quella povera fortezza! — diss'ella abbarbagliata dal vicino splendore d'una delle tante bombe, che in quella notte si lanciavano contro Palma; e tornò ad alzarsi come per fuggire al fracasso che la intronava. E così trascinandosi alla meglio giunse finalmente al villaggio che giace alla diritta della strada postale. Non lungi dalla chiesa, in un cortile dinanzi a una casa colonica vedevasi un focherello d'intorno al quale si agitavano alcune persone. Ella si diresse a quella volta. Erano contadini che avendo i bachi in cucina preparavano la cena lì all'aperto. — O, di casa! disse la donna. Potreste darci ricovero per questa notte? La fecero entrar subito, e vedendola in quello stato, vollero che si assidesse in loro compagnia, mentre aggiugnevano un po' d'acqua nella caldaia. Chiacchieravano delle vicende della guerra, e la poveretta, rinfrancata da quell'accoglienza ospitale, osò dire ch'era di Jalmicco.... — Oh la disgraziata!... sclamò la padrona di casa lasciandosi cader di mano la mestola con cui gettava nel paiuolo la farina, e tutti gli astanti cangiarono d'aspetto e si misero a sogguardare sospettosi la forestiera e i suoi piccoli, come se quella parola fosse stata una bestemmia. — Voialtri Italiani, disse un vecchio venerando che dai bianchi capelli e dal rispetto con cui veniva trattato pareva il capocchia della famiglia, foste severamente puniti. Io non sono stato a Jalmicco, ma mi dicono che sia una vera desolazione. — O messere, rispose la poveretta, là non c'è più una sola casa in piedi! Mucchi di sassi anneriti dal fuoco, calcinacci che ingombrano la piazza e le strade, la nostra bella chiesa tutta rovinata, fin le pietre de' sepolcri spezzate, le reliquie e le immagini dei santi disperse, mutilate, insozzate.... Oh mio Dio!... e in mezzo a quella distruzione acquartierati i soldati che insultano a' meschini che osano rovistare tra quelle macerie.... — Eravate in paese quando diedero il fuoco? — Mio marito era ne' campi. Io meschina a casa colle creature. Mia suocera spaventata corre ad avvisare che vengono. Per paura dei soldati, fuggo. Avevo al collo il cordon d'oro, mi penso che potrebbero rubarmelo, lascio i piccoli sulla via e torno addietro a nasconderlo nella cassa.... Oh! Io aveva una bella cassa, piena zeppa di biancheria e tanti vestiti da far invidia a una regina. Mi cavo perfin la pezzuola ch'era di seta, e stupida la ripongo colle altre robe per prendermi cotesto straccio che solo mi è rimasto. Poi via per i campi, e dietro s'udivano le fucilate e lo scalpitare dei cavalli e il parapiglia dei miseri paesani. Oh Dio! non avevo fatto un miglio, quando un gran fumo cominciò ad alzarsi nel sito del nostro villaggio e poi a' quattro lati le fiamme, e poi qui e colà altri villaggi ardevano. Che notte di orrore! e non saper niente di mio marito! Ogni qual tratto ci raggiugnevano turbe di fuggenti coi bambini in collo, coi vecchi e cogli ammalati che strascinavano, e chi ci diceva che lo avevano fucilato, chi ch'era morto sul campo calpestato dalla cavalleria. Tre giorni stetti ramingando come forsennata appiattandomi nei fossi. Finalmente ei venne, e mi disse che di tutta la nostra roba non ci rimaneva più nulla come qui su questo palmo di mano. — Poveretta! poveretta! dicevano singhiozzando le donne commosse da quel racconto; e dimenticate che si trattava di ribelli. — E la casa? era vostra la casa? — Era mia, diss'ella, e ci avevamo speso ad aggiustarla ducento ducati; tutti i nostri risparmi, l'anno passato. — Non avete nessuno dei vostri che possa soccorrervi? — I miei fratelli sono su d'una buona colonía e per mangiare polenta se la campano, ma sono entrambi pieni di prole: una sorella moglie del gastaldo del conte B; le altre due maritate lì nel villaggio adesso sono a pane esse e i loro figliuoli: e mio padre? e mia madre che non hanno più nulla...? O mio Dio, ci vuol altro per soccorrerci tutti...! Dev'essere in questi contorni una mia cugina, aggiunse ella, dopo un momento di pausa nel quale s'aveva asciugato col dorso della mano le lagrime che le scorrevano lungo le guance macilenti. Sono tre anni che ho saputo ch'ell'era a servire in una buona casa di contadini, e siccome quand'eravamo fanciullette e vivevamo insieme, ella mi voleva un gran bene, così di quel poco che poteva, cercai di aiutarla.... Forse ch'ella adesso si sarà maritata.... — Volete scommettere, Mamma, ch'ell'è la Mariuccia...? sclamò una ragazza. — Appunto, quest'era il suo nome. — Ell'è a servire qui dirimpetto.... — Oh la vedrò pur volentieri dimani! disse la poveretta. — Anzi quest'anno la va a marito, e in una casa di benestanti, che proprio l'ha trovato fortuna. — E continuarono tutta la cena a discorrere di lei, del fidanzato, della sua famiglia, e di quella dov'ell'era a servire, finchè venne l'ora di coricarsi. La condussero insieme coi bambini sul fenile, e la meschina, refocillata dal cibo e lieta per le buone notizie ricevute, dormì un lungo sonno, nel quale le parve d'esser tornata nella sua casuccia insieme col marito e coi figli, e ch'ella sciorinava da una gran cassa tutte le sue suppellettili abbruciate, che aveva tanto pianto. V. LA CUGINA. Nel dimani, prima che il dì fosse ben chiaro, ell'era già sulla strada, ad aspettava che s'aprisse la casa che le avevano accennata. Mostrava di voler farsi una gran bella giornata: il cielo era nitido; i monti spiccavano azzurri nell'atmosfera purissima e leggermente dorata dai primi crepuscoli; un fresco venticello foriero dell'aurora increspava il verde allegro dei cólti di frumento che dalla parte di ponente le si dilatavano dinanzi come l'ondeggiare d'una vasta marina. Il cannone tuonava ancora, ma questa volta i colpi partivano dalla fortezza e parevano i nitriti di un immenso cavallo da guerra che laggiù nel folto della campagna schizzando fiamme dalle narici e percotendo colle gambe il terreno sfidasse l'ira dell'inimico. Quando il sole fu sorto, apparve la fortezza, ed ella distingueva sui baluardi il lampeggiare del fucile delle vedette: il culmine del duomo scintillava, e più in alto nell'aria serena inondati di luce sventolavano i tre colori della bandiera italiana. — Povera Palma! sclamò la donna commossa, almeno tu se' viva ancora! — e s'inginocchiò a ringraziarne il Signore. Sia che la solenne maestà dell'ora le infondesse un religioso raccoglimento, o che ve la spignesse un ignoto affetto del cuore, lungamente pianse e pregò. Ella amava Palma come si amano le memorie dei giorni più lieti. Là era stata insieme collo sposo a scegliersi gli anelli delle nozze; là aveva comperato il suo primo fazzoletto di tulle e i vestiti dei giorni festivi. Su quella bella piazza circolare, all'ombra degli odorosi acaci che le fanno viale all'intorno, ell'era stata tante volte a vendere le uova delle sue galline, i pulcini primaticci, i paperottoli, gli erbaggi dell'orticello. Anzi quando stava nella sua casuccia a Jalmicco, e non sapeva come raggranellare qualche carantano per i bisogni della crescente famigliola, presto faceva un mazzolino di timo, di maggiorana, di salvia e di altre erbucce fragranti, o raccoglieva un bel piatto d'insalata od alcuni cavoli fiori, e giù a Palma, e sempre a tornare col denaro desiderato. Or ella sentiva gratitudine per quelle note e care contrade, e pregava il Signore che le salvasse dal ferro e dal fuoco che avevano sterminato il suo povero villaggio. Usciva intanto da una casa vicina una bella giovinetta e coll'arconcello sulle spalle avviavasi ad attignere. Quando furono l'una appresso dell'altra si guardarono entrambe un istante perplesse, e la giovane, deposte le secchie — Oliva! gridò, siete veramente Oliva? — Mariuccia, mia buona Mariuccia, che gusto di rivederti dopo tanto tempo bella ed allegra...! E corse ad abbracciarla con tutto l'affetto dell'animo. — Ma voi siete così patita, Oliva, che quasi stentava a ravvisarvi... — Eh! dopo tante disgrazie, è miracolo esser vivi, — diceva la poveretta, e sul pozzo e per la via l'accompagnava narrandole i tanti flagelli che l'avevano colpita e la vita raminga e desolata che da più mesi conduceva. La Mariuccia la fece entrare co' bambini nella casa dov'era a servire, e parlato co' padroni si mise insieme con essa a preparare un po' di foglia pei bachi. Quando furono sole, — La è andata più bene di quel che credeva, disse la Mariuccia. Avevo paura che non vi vedessero volentieri, perchè qui, non l'hanno mica troppo con voialtri Italiani... Vi trattano, che so io, da gente turbolenta, da ribelli... — Lo so, Mariuccia...! Credi tu che se la necessità di stendere la mano, per non vedermi morire di fame queste povere creature, non mi avesse da lungo tempo fatta dura la pelle, ch'io sarei stata mai capace d'affrontare i sarcasmi con che, appena passato il confine, si fanno tutti un dovere di punire la nostra sventura? Oh! ma che cosa abbiamo fatto? Che cosa ha fatto, dico io, il nostro povero villaggio? In che mai possono avervi offesi questi meschini fanciulletti, che non sanno ancora neanche parlare? — Dicono, che vi siete dichiarati Italiani.... — Diacine! E voialtri, che cosa siete voialtri? — Qui siamo Imperiali. — Imperiali! Oh sì! perchè v'è colà su d'una via comune, in mezzo a' campi nostri e vostri senza distinzione, un vecchio confine di pietra, che i fanciulli di ambi i paesi avranno rovesciato, se basta, almeno almeno un migliaio di volte! Ma senti, ti prego, come parlate, come vestite, che Signore si prega nelle vostre chiese? Io trovo che siamo tutti cristiani e fratelli, perchè voi intendete me, io intendo voialtri, e preghiamo tutti insieme quell'istesso Iddio e quell'istessa benedetta Madonna. Quei cani di soldati, vedi, che sono venuti ad abbruciarci, bestemmiavano in una lingua che a noi poveretti pareva tutto l'abbaiare delle bestie, ed avevano certi visi tutti differenti dai nostri, e bisogna poi che non pregassero niente affatto il nostro Signore e la nostra Madonna, perchè altrimenti non avrebbero osato far tutti quegli orrori nella nostra chiesa dinanzi al Sacramento; anzi contro la Chiesa e contro il Sacramento! — Eh, voi avrete ragione, rispose la Mariuccia. Ma vi so dire che qui la pensano bene altrimenti. Bisognerebbe che sentiste le belle prediche che fa su questo argomento il nostro bravo pievano. — Oh, io non so di lettera! conchiuse Oliva alquanto corrucciata; ma credo che tutto il latino di questo mondo non potrebbe giammai persuadermi che sia ben fatto maltrattare quelli che patiscono! Allora la Mariuccia procurò di barattare discorso, e le chiese d'un loro vecchio zio, che quando vivevano insieme era sempre malaticcio. — È morto, rispose mestamente Oliva, ed anche la povera zia Giustina è morta. — Forse laggiù?... allora dell'incendio? — No: dappoi; egli a Claujano, e la zia all'ospitale... Oh, la è un'orribile istoria! Tu sai, ella continuò dopo un momento di pausa, che quando la nostra famiglia si divise, egli e la zia Giustina, che non erano maritati, fecero casa insieme. Coi loro risparmi avevano comperato a Jalmicco una picciola casuccia, tre camerette; la zia tesseva, e se la campavano abbastanza bene. Ultimamente il pover'uomo era quasi sempre ammalato, e quando vennero i soldati, trovavasi a letto e non poteva fuggire. La zia non volle abbandonarlo, e s'inginocchiò sulla porta della camera sperando di commuoverli a misericordia. Oh sì! misericordia. Vennero; lo cavarono nudo dal letto, lo gettarono da una finestra nel cortile ed appiccarono fuoco. Ella, raccolte le lenzuola, le coperte e quel più che poteva di filati e di cenci, e con essi ravvolto alla meglio quel misero corpo tutto insanguinato e pesto dalla caduta, s'ingegnava di strascinarlo fuori dalle fiamme in riva al torrentello che attraversa il villaggio. Alcuni fuggenti, impietositi dalle grida del pover'uomo, lo trasportarono con loro a Claujano, dove morì narrando tali orrori da far raddrizzare i capelli. Ella stette lì diversi giorni immobile come mentecatta a guardare l'incendio. Quando tornarono i nostri a cercar nelle rovine, la trovarono che più non conosceva nessuno. Teneva a sè dappresso alcuni pezzi mezzo abbruciati del suo telaio ed un gran mucchio di filati cavati fuori dal fuoco, a cui stava appoggiata. I soldati, forse per dileggio, le avevano messo a' piedi una scodella di vino con della salsiccia tagliata dentro a mo' di zuppa. Non poterono farle pronunziare una sola parola. Guardava stralunata con un certo sorriso così strano che cavava proprio le lacrime. Pareva che i suoi occhi, dinanzi ai quali era passata tutta quella orrenda scena di distruzione, non potessero più ravvisare anima viva. Volevano menarla via, ma non fu possibile; strillava, si strappava i capelli, mordevasi le dita. Il nostro buon parroco, che in tutta quella tremenda disgrazia non ci ha mai abbandonati, avvisato del caso, venne a vedere di lei. Parve un istante riconoscerlo, perchè gli prese il lembo del vestito e glielo baciò con grande affetto; ma non fu nulla di farla muovere di lì, e dovette andarsene com'era venuto. Egli si adoperò per trovarle un posto nell'ospitale di Udine. Quando vennero a levarla, comprese e si mise a piagnere e s'inginocchiò, e tornatole l'uso della parola, scongiurava per le viscere di Cristo che non volessero metterla all'ospitale! La condussero per forza, e tre giorni dopo era morta! — Povero zio Coletto! povera zia Giustina!.. Che fine deplorabile! Ah, per pietà, Oliva, non parliamo altro di queste brutte vicende! — disse tutta rattristata la ragazza. E Oliva con quel suo accento indurato da' patimenti, — Ti fa male eh? pensa poi chi le vede coi propri occhi; chi ne fu parte! E s'intende, non ti ho narrato che di due soli. Sai tu quante storie di lagrime e di sangue potrei ancora accumulare?... Oh! cotesto non è appena il _quartese_. Chi potrebbe numerare i tanti periti miseramente dopo proprio scappati dal fuoco? E quelli che periranno in grazia degli stenti e della miseria? Lascia che venga l'inverno!... Entrò nella stanza la figlia della padrona di casa, e con bel garbo invitò le donne e i fanciulli in cucina a far colezione. Le due cugine si sedettero l'una appresso dell'altra, e così mangiando, la Mariuccia tirò fuori il discorso del suo fidanzato. Oliva si rasserenò alquanto pensando alla fortuna della ragazza, e questa, finita la colezione, la fece salire nella sua cameretta per mostrarle quel po' di mobile che aveva apparecchiato, e di quella strada nell'intenzione di cercare nelle sue robe se trovava qualche cencio pe' bambini e uno straccio di camicia per lei. Erano lì tutte intente a sciorinare vestiti, biancheria, quando Oliva diede d'occhio alla coltrice pulitamente piegata in quattro nell'armadio. L'afferrò colle mani tremanti, la dispiegò tutta quanta. — Questa è la mia coltrice! gridò meravigliata. — Oh! vostra..., balbettò Mariuccia. — Eh! mio Dio, non vuoi che la riconosca, se la ho cucita colle mie mani? Aspetta, aspetta.... e cotesta, diss'ella, è la copertina del mio letto nuziale!... Ma come va questa faccenda? Mio Dio! e qui, se non isbaglio, hai la lentima del mio pagliericcio? Ma non ho mica le traveggole, sai; questa è tutta roba mia... — Come diacine volete che sia vostra, se la ho comperata?... L'altra fuori di sè per la contentezza non l'ascoltava. Fatta rossa in volto come una bragia, piangeva, rideva, baciava or l'uno or l'altro di quei capi. — E chi mi avrebbe detto, sclamava, di trovar qui le mie povere robe che ho tanto piante.... che credeva abbruciate!... Ah mio Dio, me lo sono bene sognata io questa notte! E poi diranno che non s'ha da credere a' sogni! Oh Mariuccia, che consolazione! Và che tu lo sapevi, ed hai voluto farmi una sorpresa! — Se vi dico che le ho comperate.... Mi costa due fiorini la coltrice!... — Due fiorini?... Ma non capisci che la ne vale almeno almeno quindici? La pura fodera l'ho pagata io in bottega a Palma dieci belle svanziche. La ragazza mortificata piangeva. — Or via, non ti affliggere. Sai che cosa faremo? Anderò da' miei fratelli, dalla sorella ch'è gastalda del conte, da tutti quelli che conosco; narrerò il caso: è possibile che qualche buon'anima non m'aiuti, e che non arrivi ad accumulare il denaro che puoi avere sborsato? — Ma io non posso cedervela! disse la fanciulla costernata. Si tratta della mia fortuna.... Mio Dio! Gli è tanto tempo che stillo per prepararmi un po' di mobile, e adesso che il Signore mi ha aiutata col mandarmi una tal base, dovrei perderla?... Se anche voi mi restituiste i quattrini che ho spesi, dove più comperare a così buon mercato? — Vorresti dunque tenerti ciò ch'è mio? Ti trovo mille testimoni che conoscono questa roba. Ella è evidentemente rubata, capisci? — Oh no rubata! — Come no? Basta a provarlo i prezzi vili che dicesti. O Mariuccia, non voler essere cattiva! Pensa alla mia situazione.... alle mie creature che sono nude! Verrà l'inverno; a me povera mendica toccherà di partorire sulla strada, o su qualche fenile esposta a tutte le intemperie: e tu potresti in buona coscienza tenerti questa roba ch'è sangue mio? Mariuccia non rispondeva, ma nel pensiero le tornavano tutti i suoi pensieri di felicità. Che cosa avrebbe detto il fidanzato, quando l'avesse saputa spogliata di quel po' di mobile di cui tante volte ella gli aveva parlato? Che la famiglia di lui? Doveva dunque andar in casa proprio nuda di tutto?... — Non rispondi? replicò Oliva. Oh! se ti ostini, pensa che il Signore ti castigherà. Egli ha lunghe le mani, vè! — Ma perchè ha da castigarmi? In fin dei conti, io ho comperato in pubblico, che tutti han veduto. Se questa roba era vostra, aggiunse ella colla voce tremante e tutta rossa in viso, voi foste ribelli! e il saccheggio e l'incendio, io l'ho sentito in predica le cento volte, fu una giusta punizione di cui possono approfittare i sudditi fedeli del nostro buon sovrano. — E tu Mariuccia, tu mia cugina, tu che mi volevi tanto bene, ardisci proferire una sì orribile bestemmia?... gridò la donna indignata. Ebbene! tienti pure cotesta roba, la ti farà buon pro! Io nuda e raminga, non vorrei per certo sulla coscienza di simili acquisti. Mentre tu dormirai tranquilla sotto quella coltrice ch'è mia, io mi morirò forse di freddo; ma ogni volta che la ti toccherà la pelle, tientelo bene a mente, tu avrai sull'anima, non uno, ma sette peccati mortali! — E corse giù per le scale a precipizio, e presi i suoi figliuolini uscì da quella casa pregando Iddio che facesse giustizia. VI. LA FRAILE. Nella parte interna di un bel palazzo sul Traunick a Gorizia, in una stanza riccamente addobbata, sui cuscini d'una magnifica _dormeuse_ giaceva languidamente cogli occhi semichiusi una persona di nostra conoscenza, la fraile Cati. Le doppie cortine di seta abbassate lasciavano penetrare appena tanto lume da discernere gli oggetti. Avviluppata in una candida vestaglia di mussolina, le cadevano sul collo negligentemente due grosse trecce di capelli neri; le braccia abbandonate, le mani e la faccia tanto bianche, che se non fosse stato il lieve palpito del seno a palesarla viva, l'avresti tolta per la bella donna descritta da messer Francesco nel Trionfo della Morte. A lei dappresso, in piedi, una giovane fantesca agitava un piccolo ventaglio, ma con tanto riguardo che niun rumore n'udivi, tranne il pendolo dell'orologio, che in forma di tempietto colle sue colonne d'alabastro sull'un dei tavolini laterali misurava lentamente il tempo. Quell'orologio, i candelabri d'argento, le molte porcellane, gli stipi, le sedie ad intaglio, la spalliera ed i bracciuoli della dormeuse foggiati a fiorami inargentati che venivano a cadere sul velluto dei cuscini da cui pendevano ricche frange di ciniglia colore amaranto in armonia con quelle delle tende, le tavole di tarsia, le cornici dei quadri che adornavano le pareti, gli specchi, le scansie, tutto era manifattura viennese. Il barone nel suo affetto per la capitale voleva che ogni cosa gli venisse di là, perfino la servitù; e bene te ne accorgevi guardando alla sottile cintura, alla forma delle spalle e alla tinta biancastra della cameriera che assisteva alla fraile. Peraltro in quella stanza scorgevi un oggetto che non era di Vienna. Dinanzi alla finestra, tra le frange dei ricchi cortinaggi, in forma di lampada pendeva un picciolo vasellino di ghisa e dentrovi una pianticella rampicante. Non prezioso nè per metallo nè per ricchezza di adornamenti, egli era elegantissimo per le sue svelte e semplici proporzioni che ricordavano quelle graziose lucerne funerarie, che anche qui nel Friuli escono talvolta dal seno della terra a farci fede del buon gusto artistico dei nostri antichi. In evidente contrasto con tutti quei mobili sopraccarichi di minuzioso lavorío, finitissimi se vuoi in ogni loro dettaglio, ma pesanti nell'insieme, pareva che in quella stanza ei non avesse analogia che colla sola ammalata. Pallida il viso, colle trecce disciolte, senza ornamenti e negligentemente avvolta in quella semplice mussolina che nella sua leggerezza permetteva l'apparenza delle membra, anch'ella era bella più che per altro per la purezza delle forme e per quel non so che di armonico e di gentile che traspariva da tutta la sua persona. Ma un'altra somiglianza pareva ch'esistesse tra la giovinetta e quella pianticella destinata a vivere lì nella sua camera. Circondate da un'atmosfera fittizia, in mezzo ad oggetti stranieri, erano entrambe come prigioniere. La pianticella nel pallido suo verde stendeva gli esili germogli verso il raggio di luce che a traverso le griglie e le tante cortine veniva debolissimo a visitarla, e pareva con mesto desiderio anelare al suo clima originario, al sole e all'aria aperta del suo lontano paese. La fanciulla nella profumata penombra di quel magnifico _boudoir_ pareva anch'ella languire come uccellino in gabbia dorata. Forse che nel core le batteva il desiderio d'una più libera vita; forse che dinanzi alle chiuse pupille le passavano memorie di altri tempi e di altri luoghi, e vólti di persone amate e le gioie e i sogni della infanzia; forse che mentre ella giaceva lì nel silenzio, colla persona gittata in quel suo mesto abbandono, la sua anima spaziava per le convalli della sua patria, e vedeva le cognite cime delle sue belle montagne, e respirava l'aria purissima del suo cielo nativo, e nell'orecchio le sonavano come canti le voci del dialetto che primo imparò dalla madre. Nata su quell'ultimo lembo della terra italiana, laddove due grandi nazioni si toccano e aspettano il giorno di strignersi con affetto fraterno la mano, ell'aveva nella fisonomia l'impronta d'entrambe. Quei due tipi gentilmente confusi la facevano più bella, come i torrenti e le montagne delle due diverse regioni ravvivano ivi e fan più dilettoso il paese. Indarno l'avevano da fanciulletta strappata di là per farla educare in uno dei primari istituti di Vienna: la capitale con tutti i suoi prestigi, la maestà della corte che aveva veduto dappresso, la vita elegante dell'alta società a cui il barone nel suo orgoglio la destinava, non avevano mai potuto farle uscire dal cuore l'affetto alla sua terra natale. Cresceva melanconica e straniera come il fiorellino della torrida, che a forza di stufe si vuol fare allignare in un clima agghiacciato. Oh quante volte ella, povero punto invisibile perduto nell'immensa congerie de' bianchi fabbricati che costituiscono la capitale, sospirò per amore della patria lontana! Era cotesto il sogno delle sue notti e il desiderio incessante di tutti i suoi giorni. Come se la sua anima fosse stata un'emanazione della terra italiana e del sole che vi risplende, o che ve l'avesse creata la porpora dei nostri tramonti, o l'effluvio dei tanti calici che adornano le nostre convalli, ella era legata a quei luoghi, e divisa deperiva. Continue visioni del suo paese, a guisa di grandi quadri le passavano dinanzi alla fantasia e la chiamavano potentemente all'Italia. Un dì, insieme con le compagne l'avevano condotta sulla sponda del Danubio a veder la partenza d'un piroscafo. Guardava quell'immenso volume di acque livide che a guisa di mare procede maestoso incontro all'oriente; repentinamente le parve d'essere a Cividale a contemplare dal ponte gigantesco l'azzurra corrente del Nadisone che passa inabissata sotto i due archi ineguali, e vedeva il sasso su cui l'ardito architetto non dubitò di basare la superba sua mole; e le sponde screpolate coperte di lunga erba e di cespugli; e le case antichissime che paiono imminenti al precipizio; e i comignoli dei svelti campanili che qui e colà accennano all'epoca longobarda; e udiva i canti delle lavandaie che inginocchiate sulla ghiaia dell'alveo profondo sbattono in cadenza i loro candidi panni: poi la scena le si cangiava, ed era sull'Isonzo, e vedeva le verdi sue acque incoronate di schiume correre frettolose tra le rive ridenti seminate di pittoreschi villaggi, di villaggi che ad uno ad uno ella raffigurava e riconosceva con un palpito sempre crescente, finchè l'infinito desiderio della patria la fe dare in un dirotto di pianto. Un'altra volta, nel tempo delle vacanze estive, passeggiava di sera insieme con lo zio sull'alto dei bastioni. Dall'una parte la romorosa città co' suoi eleganti equipaggi, colle sue vie illuminate a gas, frequenti di popolo infinito; dall'altra il silenzio delle fosse deserte e qualche raro lume perduto nel verde dei _glacis_; più lungi le linee di fanali degl'immensi sobborghi che fuggivano dinanzi alla vista, e taluni si specchiavano nell'onda quieta del fiume. Una nebbia leggiera, a guisa di velo trasparente gittato su d'una bella che dorma, avvolgeva tutta la vasta capitale e lasciava trapelare sovr'essa muti e bianchi i raggi della pallida luna. Ella affisò quel disco sparuto e vaporoso, e un istante le parve di vederlo brillare nello schietto argento che illumina le nostre notti; ma non era Vienna ch'ei rischiarava: un'altra città le si andava dispiegando dinanzi all'innamorata fantasia, una città di provincia ch'ella aveva più volte visitato da fanciulletta, Udine colla sua bella piazza contarena, e in quel vivace chiaro di luna gli svelti colonnami del corpo di guardia, in grazioso contrasto colla fontana e col gotico palazzo del Comune, e sovr'essi eminente in iscorcio il castello che si perdeva nell'ampio stellato immensurabile allo sguardo. Oh ella aveva coll'anima varcato le Alpi! La pianura del Friuli le stava dinanzi, e rammemorò i gentili venticelli che in quella stagione e in quella dolce ora vengono dal mare ad accarezzarla, la freschezza e la pace diffuse nella limpida atmosfera, gli effluvi della terra inumidita dalle rugiade, i canti armoniosi degli usignoli; e un impeto di affetto la riempì di cordoglio, e in quella sera si coricò tanto melanconica che la credettero ammalata. E lo era difatto: quell'interno desiderio, ch'ella nutriva in segreto, convertito in passione agía potentemente sul suo fisico, di modo che il barone credette che ne fosse colpa la vita troppo occupata ch'ella menava, e la levò dall'istituto. La speranza di ritornare in patria le sorrise allora con tutta la sua forza, ed ella rianimata cominciò subito a guarire, lo sguardo le si aperse alla gioia e le brillò di una luce inconsueta, le rifiorì il colorito, e divenuta vispa ed allegra, si faceva ammirare per la sua non comune bellezza che parve in quei giorni aver raggiunto il suo massimo splendore. Chi può descrivere la contentezza che le raggiava dalla faccia, allorchè vestita da viaggio insieme collo zio montò sulla strada ferrata? Il volo del vapore era assai men rapido del suo ardente desiderio, e guardava con ansia al sole che le pareva non volesse mai tramontare. La notte, mentre la maggior parte dei viaggiatori dormivano, ella, aperta la finestrella, contemplava la colonna di ardenti scintille della locomotiva che il vento arrovesciava all'indietro come la chioma del serafino che attraversa il deserto, ed era da lei benedetta più della nube che guidò gli Ebrei alla terra promessa. Quando apparve l'alba, le si dispiegò dinanzi la bella vallata di Gratz, e il sole nascente si specchiava nelle acque del fiume che là corre. A Lubiana udì i primi accenti del suo caro dialetto, e sull'alto del Prevalt le parve di sentir l'aura che veniva dal suo paese.... Oh la patria! la patria!.... e il cuore le batteva rapido, le tremavano le ginocchia, e commossa dall'infinito affetto lacrimava. Ma giunta a Gorizia nel palazzo dello zio, dove tutto ricordava la capitale e dove frequentavano i primi signori del paese che avevano per onore di affettare i costumi e la lingua di là, le parve d'esser tornata di nuovo straniera. Aggiugni, che in quell'epoca era scoppiata la rivoluzione in Italia, e Gorizia era piena zeppa di militari austriaci che inondavano la sua casa di visite tedesche, e la conversazione si aggirava sempre intorno a truci progetti di guerra e a tristi novità di sangue che a lei cresciuta malaticcia e dilicata di fibra facevano male. Non già ch'ella scusasse i ribelli. Semplice giovanetta, nuova nel mondo e avvezza a rispettare l'autorità di chi credeva più sapiente di lei, non le passava neanche per la mente di contrastare alle altrui opinioni, tanto più che sarebbe stato un opporsi allo zio, da cui era amata come un idolo, e al quale la legavano la più viva gratitudine e il più tenero affetto figliale. Ma il suo cuore sensibile, ad onta della sua ragione, la faceva sempre simpatizzare per quelli che pativano. Quando cominciarono le ostilità, ella vide con ispavento avviarsi alla distruzione tutte quelle orde di soldati; e i cannoni e le bombe e i razzi innumerabili che seco loro trascinavano la facevano raccapricciare. Tremante come una foglia aspettò il primo rimbombo della battaglia, e la vista dei villaggi incendiati la inorridì. Stette tutta la notte su d'una finestra a guardare il fuoco, che come tante bocche d'inferno, qui e colà, in mezzo al verde dei campi divampava sempre crescente a devastare il suo amato paese. Oh s'ella avesse potuto salvarlo! Piangeva e pregava desolata, or gittandosi inginocchioni, ora strappandosi i capelli. Nel dimani più morta che viva la strascinavano in carrozza incontro alle schiere che ritornavano vittoriose. Gorizia era tutta in trionfo, le vie piene di gente che faceva echeggiare i più lieti evviva, sulle finestre parate a festa donne eleganti coronate di fiori che sventolavano i loro bianchi fazzoletti. La musica annunziò che venivano. Ella bianca come una statua guardava agghiacciata quei soldati ancora briachi della carneficina, che i suoi concittadini accoglievano con tanto applauso. Passavano, passavano, e nel mezzo conducevano una ventina di prigionieri, mutilati, sanguinosi, che si facevano marciare coi calci del fucile e a piattonate. Oh lo sghignazzare del popolaccio! le beffe e i sarcasmi che piovevano su quegli infelici!.... Si gettavano loro addosso ogni sorta d'immondizie, e vi fu una signora che dall'alto della sua carrozza si degnò di sputare in faccia ad uno di essi.... La fraile a quell'atto orribilmente villano si coperse il volto; avrebbe voluto esser sottoterra, e stette lì in tutto quel baccano cogli occhi e colle orecchie chiuse come se fosse morta di vergogna. Tornata a casa, si serrò nella sua camera, nè potè più mai cavarsi dalla mente l'immagine di quel giovane italiano, ch'ella aveva veduto così indegnamente ingiuriato. Molto tempo dappoi ella sognava ancora il suo volto pallido, i grandi occhi neri fieramente riguardanti, e i bellissimi denti, ch'egli discoperse un cotal poco sotto la bruna basetta in quel suo ironico sorridere, con cui parve che promettesse il dì della vendetta. Indarno nel Venerdì santo alcune di quelle signore vennero ad invitarla perchè facesse parte d'una lieta comitiva di Goriziani che volevano accompagnare le truppe che marciavano sovra Udine. Quai che si fossero le colpe di quella città, ella l'amava, e fremeva alla sola idea che fosse minacciata. Così più tardi, quando quasi ogni sera una processione di _fiacres_ conduceva al monticello di Medea il bel mondo di Gorizia che là si adunava per godere lo spettacolo di Palma bombardata, ella aborriva dalla loro compagnia. Quella curiosità le pareva esecrabile, come gli osceni tripudi della plebaglia quando accorre in folla all'esecuzione di un delinquente. Nei giorni poi in cui si festeggiavano le vittorie degli Austriaci, ella si chiudeva nella sua camera, e negava di lasciarsi vedere da chi che si fosse. Cotesta malinconia, cotesto languore dopo la visita di N*** s'erano accresciuti fuor di misura. Passava le intere giornate a letto, od abbandonata sulla sua _dormeuse_ cogli occhi chiusi in tetro silenzio, e dovevano usare tutte le precauzioni perchè a lei giammai non si parlasse nè di guerra nè di stragi e le giugnesse il meno che fosse possibile il rimbombo dei cannoni e il baccano della città festeggiante, mentre era evidente che le raddoppiavano il soffrire. Il barone era in pena, e temeva di qualche occulta malattia che distruggesse in secreto quella per lui carissima vita. Indarno aveva consultato i più riputati medici del paese: la ritrosia di lei congiunta alle loro disparate opinioni accrescevano l'imbarazzo. Ora avvenne, che proprio in quei giorni capitasse a Gorizia un celebre professore del Giuseppino di Vienna, chiamatovi ad assistere il principe di W*** tornato dall'Italia gravemente ferito. Il barone desiderò di fargli vedere la nipote. A quell'annunzio un impercettibile senso di disgusto trapelò dalla smorta fisonomia della malata; nondimeno accondiscese alla visita, e composta nella sua consueta impassibilità lasciò che il dottore la esaminasse e discorresse lungamente nel suo dotto tedesco con lo zio, senza ch'ella mai aprisse la bocca. Suggeriva un'altra vita, una vita di moto e di svagamento, e soprattutto un viaggio a qualche stabilimento di bagni. Ma dove condurla in quel momento di terribile agitazione politica? E in Italia ardeva la guerra, e le vie presentavano poca sicurezza, particolarmente per lei che tanto aborriva ogni sorta di trambusti. Al barone si presentò subito l'idea della capitale e degli eleganti bagni di Baden, a' quali si avrebbe ogni giorno potuto trasferirsi col mezzo del vapore per le di cui corse ella aveva in altri tempi mostrato così viva simpatia. Ma la giovinetta si turbò tutta quanta, e giugnendo le mani supplicava: Oh, no a Vienna!.... fucilano a Vienna!.... — ed atterrita da feroci immagini di sangue s'impallidì come un cadavere, e tale un tremito le si diffuse per tutta la persona, che ben compresero come quel progetto sarebbe stato morte per lei. Quando partito il dottore ella fu sola con lo zio, che appoggiato sulla spalliera della sua _dormeuse_ stava contemplandola con accorata tenerezza, si lasciò cadere colla faccia lagrimosa sulla mano di lui, e mentre gliela copriva di baci, — Oh! mio buon padre, supplicava, per pietà salvatemi voi! — Ma che posso io fare per te? Parla, angiolo mio! le rispondeva il barone; e chinandosi tutto sovr'essa aspettava coll'anima aperta che la gli chiedesse magari il sangue. — Andiamo via di qua! diss'ella; andiamo a vivere nella nostra romita villetta sulle sponde del Nadisone: la pace dei campi e l'aria balsamica che vien giù colle acque del torrente mi guariranno! — Ebbene, se lo desideri, noi partiremo anche domani; solamente, rifletteva il barone dopo un momento di pausa, io non potrò mica assentarmi per molti giorni da Gorizia, adesso che passa tanto militare. — Oh! io non vi chiedo un tale sacrifizio, rispose la fanciulla. Voi rimarrete qui con tutta la famiglia: a me basta l'assistenza della vostra buona gastalda, che mi voleva tanto bene quand'era piccola, giacchè io voglio là mettermi a una vita semplice e affatto campagnuola. Farò con lei delle lunghe passeggiate; se me lo permetterete uscirò anche talvolta coi cavalli, e vedrete che in breve quando voi verrete a trovarmi io sarò affatto risanata. — Il barone contento di quest'ultima parola che rivelava in lei viva ancora la speranza, le promise di contentarla, ed uscì a disporre perchè nel dimani fosse tutto pronto per la partenza. VII. LA PROCESSIONE. — È inutile, buona donna; non vedete i cavalli già pronti? figuratevi s'egli ha tempo adesso d'ascoltare i vostri piagnistei! -Ah! per carità, signor Franz, un solo minuto; si tratta del mio Vigi che vogliono fare soldato.... — Queste parole si cambiavano nell'atrio del palazzo del barone tra un cameriere tutto attillato e una vecchia contadina che insisteva per essere presentata al padrone. Ella aveva seco il figliuolo, un bel ragazzotto bruno, che, se non isbaglio, noi abbiamo veduto alla sagra di Madonna di Strada, e sulla porta, colla testa china e tutta chiusa nel suo ampio fazzoletto a croce, stava la Mariuccia, che nel suo dolore li aveva seguiti a Gorizia, sperando, la semplice, di poter redimere l'amato giovane, se non altro a forza di lacrime. — Ma se vi ho detto che questo non è momento di disturbare i padroni! Or via, capitela una volta e andatevene in vostra malora! brontolava il cameriere. Sono tre grosse ore che si aspetta qui coi cavalli attaccati, e adesso che la fraile s'è finalmente alzata ci vorrebbe proprio anche quest'altro impiccio! — In quella vestito da viaggio il barone scendeva le scale. La donna corse a baciargli la mano, e tutta lagrimosa gli narrò del figliuolo. — Oh! oh! diss'egli; ma che cosa v'immaginate? ch'io possa farlo restare a casa quand'è l'Imperatore che lo chiama all'armata? — O signor barone! ella che ha tante conoscenze a Vienna.... una sua parolina che ce lo salvasse come già anni il figlio di Piero!... — Erano altri tempi, madonna. Adesso si tratta di servire la patria.... e poi la vita del soldato non è mica la così grande disgrazia! Gli è un bel giovane, robusto.... Fátti in qua! diss'egli a Vigi che cavatosi il cappello gli si appressò tutto rispettoso. Perdinci! gli ha una figura da vero granatiere. Su via, giovinotto, coraggio! — Ma egli accorato guardava la Mariuccia, che a quelle parole s'era messa in un dirotto di pianti. — Eh! non bisogna badare all'amorosa, sclamò il barone. La fortuna la va pigliata quando la viene, e la carta che vi chiama soldato in questi momenti la è una vera fortuna, capite! Doppia paga, ben trattati, carriera aperta.... E poi in una guerra d'insorgenti come questa, in un paese ricco come l'Italia, se saprete farvi onore, non vi mancherà certo la vostra parte di bottino; e quando cotesti matti si saran finiti di quietare, che già non anderà a lungo, poichè le nostre armi finora sono state sempre vittoriose, m'impegno io di procurarvi un congedo. Tutto al più un paio di anni, giovinotto, e poi tornerete a casa colle tasche piene di napoleoni, con una bella croce sul petto, e cotesta pazzerella che ora piagne, se avrà tanto giudizio da aspettarvi, sarà ben contenta di cangiar stato e di diventare la vostra signora moglie! Addio, addio; vi ricorderete di me e mi farete un brindisi al primo bivacco, quando sarete in campo! E gettò al giovane una moneta. — Partirono mortificati. Ma le parole del barone erano un seme che doveva dare il suo frutto. Il giovane le andava ruminando continuamente, ed esse avevano acceso ne' suoi neri occhi una specie di fiamma sinistra che consumò ben presto le lacrime che il pensiero della Mariuccia gli faceva versare. L'Italia, questo paradiso terrestre, questo paese dell'abbondanza e della ricchezza ch'egli aveva tante volte sentito magnificare, gli stava sempre nella mente. Se incontrava un ricco, se per caso vedeva lo scintillare d'un anello, di un monile, o di qualunque altro oggetto prezioso, subito gli veniva l'idea che di codesti in Italia ne dovevano essere a migliaia, e senza scrupolo nel secreto del suo cuore agognava all'oro dei ribelli, come a preda lecita e promessa. Insomma, egli s'andava ogni dì più formando al destino che l'attendeva, e questi pensieri gl'infondevano una certa aria marziale e uno spirito d'intrapresa, di modo che quando venne l'ordine di partire per l'armata, egli era di già soldato nell'animo e in gran parte disposto a dar prove non indegne dell'austriaco valore. Frattanto il barone che aveva accompagnato in campagna la nipote, se ne tornava contento che il piccolo viaggio, invece di esacerbarne le sofferenze, l'avesse anzi alcun poco esilarata. Nei tre o quattro giorni ch'egli si trattenne in quella sua romita villetta abitata da soli contadini, aveva dovuto starsene affatto digiuno di notizie politiche, ed era impaziente di conoscere alcuni dettagli e i progressi dell'ultima vittoria. Nell'attraversare la strada postale, si ricordò che proprio in quel giorno alcuni graduati austriaci, tra' quali un generale suo amico ch'era alla direzione del blocco di Palma, dovevano trovarsi a pranzo in un villaggio vicino in casa d'un conte suo congiunto di sangue, per solennizzare la ricuperata salute del nipote del maresciallo S***, che ferito sotto Udine, era là stato trasportato, e ordinò di dirigere a quella volta i cavalli, proponendosi di godere anch'egli di quel lieto convegno, e sperando di risapere da loro alcun che di preciso intorno ai grandi avvenimenti in quei giorni consumati. Ma non aveva fatto due miglia che dovette fermarsi. Una quantità di gente ordinata in lunga processione, col capo scoperto e alternando divote salmodie, gli veniva incontro proprio per la strada ch'egli doveva tenere. Erano gli abbruciati di Jalmicco che trasportavano l'immagine della Madonna e le reliquie dei loro Santi. Un buon prete impietosito dai lamenti dei miseri che andati a rovistare fra le macerie dei loro distrutti focolari avevano veduto quegli oggetti venerati esposti alla profanazione della soldatesca ivi accampata, aveva loro ottenuto di raccoglierli nella chiesa ospitale del vicino villaggio. Appena udita la nuova di questo permesso, la dispersa popolazione accorse da tutte le parti, e nel trovarsi lì riunita sulle rovine dell'amata terra natale, nel rivedersi dopo tante sventure, nel salutare il loro buon parroco venuto anch'egli per sì pietosa funzione, lacrimavano consolati, si strignevano in dolci abbracci, e alcuni arditi s'erano arrampicati sul campanile ad onta che il fuoco non vi avesse lasciato che le nude muraglie, ed avevano cominciato una scampanata che tuttora percoteva le orecchie del barone. Venivano prima le croci annerite dall'incendio, poi i gonfaloni, gli stendardi intorno ai quali sventolava ancora qualche brandello di seta arsiccia, indi i preti che portavano gli avanzi dei vasi sacri, degli arredi sacerdotali e le reliquie dei Santi, ultima l'immagine della Vergine, mutilata, col bambino cincischiato la faccia, monco le mani, e cogli occhi cavati. Seguiva una turba infinita di donne, che ad ogni versetto del salmo intonato dai preti e da' cantori alternava nel suo linguaggio questi pietosi lamenti: — Madre nostra benedetta, noi che vi avevamo vestita come una regina, col manto ricamato, coll'abito di seta colle frange d'oro; e vi hanno denudata e vi hanno tolta la corona dal capo, i veli dal seno.... — Madre nostra amorosa, noi che vi avevamo donato gli orecchini, appeso al collo e intorno all'arca il nostro cordon d'oro, riempite le mani dei nostri anelli; e vi hanno strappate le orecchie, insozzata la faccia, tagliate le dita!... — Noi che ogni sera venivamo a recitarvi il rosario; e vi hanno invece maltrattata, bestemmiata, come noi cacciata di casa!... — O cara nostra Madre tanto bella, tanto santa! chi più vi riconosce? — O povera Madre nostra, che cosa hanno fatto del vostro divin bambino? Dove sono le croci d'oro che gli fregiavano il petto? Dove le tante rose di cui vi avevamo nei dì solenni adornata?... E continuavano variando all'infinito cotesti lor treni. Quelle facce sparute e lacrimose, quei tanti fanciulletti scalzi e macilenti che seguivano le loro madri, quella popolazione tutta cenciosa che colle mani giunte e in divoto raccoglimento gli sfilava dinanzi trasportando, come gli esuli dell'antica Troja, gli avanzi venerati del suo culto, quelle preci e quei mesti lamenti conturbarono il barone e quasi suo malgrado lo commossero. Indarno per cancellare quella triste impressione egli procurò d'immergersi con tutta l'anima nella gioia del convito. Nè la lieta accoglienza che ricevette, nè le strepitose notizie venute proprio in quel momento dall'Italia, nè i reiterati evviva al magno Radetzki poterono in nessun modo cavargli dalla memoria il miserando spettacolo di cui era stato testimonio. Fra i bicchieri colmi di vino e l'allegria degli entusiastati compagni, altro ei non vedeva continuamente che la lunga e lugubre processione degli abbruciati di Jalmicco. VIII. GUSTI DELLA CAMPAGNA. Non andò guari che la fraile Cati cominciò a risentire il benefico influsso dell'aria libera dei campi, ch'ella aveva tanto desiderato. Appena partito il barone, ella s'era messa a godere con tutta pienezza di quella vita campestre, e rinunziato ad ogni etichetta pranzava in compagnia della gastalda e di suo marito, usciva a far delle lunghe passeggiate colla Rosina loro figlia, una ragazzetta di quindici anni che le si affezionò ben presto come se le fosse nata sorella; vestiva semplice, e trovava un gran piacere a conversare così alla buona con essi e colle comari del paese facendo uso del suo nativo dialetto, le cui frasi erano sopravvissute nella memoria ad onta della straniera educazione, ed ora nel riudirle e nel tornarle a proferire le pareva di rivivere negli anni beati dell'infanzia. Alzarsi ogni dì mattutina per respirare l'aura balsamica dell'alba e ricrearsi dello spettacolo del sole nascente, del canto degli uccelli, delle danze fantastiche delle variopinte farfalle; vederlo tramontare assisa in riva al torrente, le cui onde illuminate dagli ultimi raggi le passavano dinanzi in rapidi volumi di oro e di porpora; bevere gli effluvi dei tanti fiori che su quell'ora malinconica prima di chiudere al riposo i vaghi lor calici sogliono esalarli più dilicati come un addio alla luce moribonda; contemplare nei notturni silenzi l'immenso stellato dei cieli e la mite vaghezza dei raggi lunari, quando si diffondono come piove d'argento sul vaporoso creato; coteste erano delizie ch'ella preferiva a tutti gli spettacoli che l'arte più raffinata avesse potuto offerirle nella società in cui aveva fino allora vissuto. Ma un'altra sorte di piaceri assai più cari al suo cuore ella sapeva procurarsi in quella solitudine. La sua ricca condizione e la liberalità dello zio la ponevano in istato di poter soccorrere molti disgraziati, ed ella come angelo di consolazione volava dappertutto dove sapeva di poter tergere una lacrima. In breve si sparse la fama della sua beneficenza, e in que' contorni ell'era conosciuta ed amata come la madre dei poveri. Un dì, sul finire dell'autunno, sedeva al solito su d'una pietra dirimpetto al pozzo col cestellino al fianco, e agucchiava lesta lesta ricambiando ogni qual tratto gli affettuosi saluti delle contadine che s'avviavano ad attignere. In fondo al villaggio vedevasi aperta la porta della Chiesa; alcuni fanciulli s'andavano aggruppando là intorno, come se avessero aspettato qualche novità, e il concorso delle donne all'acque era in quella sera più dell'usato numeroso. — Che abbiano proprio da battezzarlo nella nostra chiesa? interrogava una di esse. — Ma sì! almeno questa mane sono stati ad avvisarne il curato; e poi non vedete il sagrestano che aspetta? — Se fosse vero dovrebbero venir innanzi.... — Mi par grossa, diceva un'altra, che una creatura di quei di là s'abbia da battezzare in chiesa di cristiani! — Oh bella! quand'è nata sul fenile di messer Valentino, vorresti che la portassero fuor di paese? — Il fatto sta, ch'egli è un bel pezzo ch'io sono ad attignere e ancora non si vede anima viva. — Non la battezzano, no, comare, state certa. I ribelli sono tutti dannati, e non è mica un'oca il nostro curato per impacciarsi con simile genía. — Ecco mo che vengono! sclamava una giovinetta; e tutte a guardare a quella volta. — Ah mio Dio, non c'è che la levatrice!... — E la creatura?... — Eh perdinci! Trattandosi di roba sua, il diavolo se l'avrà sul fatto inghiottita. — Oppure, soggiugneva una vecchia, la madre che dev'essere una strega maledetta, poichè dicono che in quello stato ha potuto scappare di mezzo alle fiamme, l'avrà partorita con un piedino di porco, e si saranno accorti, ed ora non la si potrà battezzare. — Vedete la Menica che parla colla levatrice!... Ella saprà com'è questa faccenda.... — E tutte lasciato l'attignere si fecero curiose intorno alla nuova venuta. — Non ponno trovare in tutto il paese chi voglia tenerla al battesimo, disse quest'ultima, poichè si tratta di ribelli, capite! A queste parole la fraile si alzò dal sedile, e fatto segno alla Menica d'accostarsele, — Buona donna, le disse, vi prego, avvisate subito il curato che sarò io la santola di quella povera creatura. — E s'avviò a casa; indi di lì a pochi minuti era in chiesa tra una folla di curiosi, e con devoto raccoglimento teneva al sacro fonte una fragile creaturina i cui pianti prolungati pareva che implorassero la compassione degli astanti. Finita la cerimonia, le campane sonarono a festa, e furono forse la sola voce di gioia che si congratulasse colla madre di quella nuova animetta ch'ella aveva messo nel numero dei viventi e che allora era entrata nella fede de' suoi padri. In quell'istesso giorno la fraile si fece accompagnare al fenile di Valentino e volle salutare la puerpera. Ma qual fu la sua sorpresa, quando nella meschina che giaceva su d'un po' di paglia in quel luogo esposto a tutte le intemperie, ravvisò la poveretta di N***, a cui pochi mesi prima il barone aveva così crudelmente negato l'elemosina! E anch'ella, la donna, parve l'avesse subito ravvisata, poichè si turbò tutta quanta, e divenuta di bragia, colle mani si nascondeva la faccia. La fraile le si appressò, le si assise d'accanto, e con voce affettuosa: — Noi ci siamo vedute ancora, le disse, e in cattivo momento...! Or via, facciamo la pace, poichè io voglio per quanto posso riparare l'offesa di quella brutta sera, e oggi che ci siamo fatte parenti, e che in qualche maniera sono anch'io la madre della vostra creaturina, voi non potete negare di strignermi la mano in segno di perdono e di amicizia! — Oliva gliela baciò, e rassicurata da quelle benevole espressioni, osò pregarla che procurasse di far sapere a suo marito lo stato miserabile in cui si trovava. Dopo l'incendio, egli s'era messo a giornata in una bottega da falegname. Un contadino dell'Illirico, che possedeva alcuni campi a Jalmicco, aveva più volte tentato di acquistare da lui il fondo della casuccia distrutta. Sperando sempre in qualche risorsa, essi non avevano voluto acconsentire; ma finalmente costretti dal bisogno s'erano rassegnati, e Oliva, lasciati i fanciulli a una sua sorella, s'era avviata per trattare coll'acquirente. Gli stenti, la fatica del camminare e l'afflizione le accelerarono il parto: sorpresa dal male, aveva dovuto pregar ricovero in quel fenile, ed ora si consolava nell'idea di poter ancora protrarre cotesta vendita dolorosa al cuore. La fraile le promise di mandar subito a vedere di suo marito, e chiamato messer Valentino, gli ordinò che provvedesse in suo nome tutto ciò ch'era necessario per la puerpera; poi la sera colla gastalda cercò di combinare il modo di alloggiarla. In pochi giorni una polita casetta lì nel villaggio fu allestita con tutto l'occorrente per lei e pei fanciulli, e quando venne il marito trovò preparata una botteguccia da falegname con gli utensili che gli facevano duopo, sicchè per vivere egli e la famigliuola bastava che avesse lavorato. Quei poveretti piangevano di consolazione e di gratitudine, e la fraile era divenuta l'amica dell'Oliva e la madre de' suoi figliuolini, ch'ella spesso visitava, e le cui innocenti carezze e l'affetto ingenuo le compensavano in gran parte le molte lagrime ch'ell'era destinata a versare. L'inverno era intanto venuto, e il barone con lettere e visite frequenti la sollecitava a tornarsene alla città; ma essa a forza di preghiere seppe persuaderlo a lasciarla ancora in quella solitudine per lei piena di attrattive ad onta di tutti i rigori della stagione. S'occupava continuamente di qualche benefico provvedimento pe' suoi amati poverelli; una quantità di fanciulletti venivano a trovarla, ed ella aveva per tutti qualche regaluccio e qualche affettuosa parola. Alle giovinette insegnava alcuni facili lavori muliebri. Per la gente di campagna l'inverno ha molte ore disoccupate, ed esse se ne valevano per imparare dalla buona fraile a ricamarsi il fazzoletto de' dì solenni, a cucir con garbo un grembialino, e talune anche a leggicchiare qualche libretto instruttivo ch'ella, a forza di pazientemente tradurre nella lingua nativa, aveva loro appreso a capire. Talvolta venivano a cantarle le villotte del paese, ed ella le ricambiava coll'insegnar loro qualche bella canzoncina italiana, o qualche divota preghiera. Passò così gradevolmente l'inverno, e parve che in grazia di quella vita semplice e di quelle dolci abitudini di campagna le si fosse a poco a poco rifiorita la salute, tanto la sua faccia era divenuta serena e tornato lo sguardo a rianimarsi d'una secreta speranza. IX. IL CANNONE DI MARGHERA. Non era ancora comparsa la primavera, ma già diffuso nell'aere quel non so che di voluttuoso, che n'è il preludio, come se fosse l'alito della terra innamorata incontro al sole che deve farla germogliare e rivestirla del magnifico suo verde. La fraile aveva incominciato le sue liete passeggiate in riva al torrente. Spesso le allungava fino a un casale, dove una contadina sua amica allattava l'ultimo bambino dell'Oliva. Erano stati a cercare di lei per una sua parente gravemente ammalata, che prima di morire implorava di vederla, e la fraile, che l'aveva consigliata a contentare questo pietoso desiderio, nella sua assenza, aveva ella assunto la sorveglianza della famigliuola e le cure di madre per l'abbandonata creatura. Cotesta gita, ch'ella si aveva imposto come un dovere, l'era diventata così cara, che pativa se per caso trovavasi obbligata ad ometterla. Usciva per solito mattutina, portava seco qualche regaluccio per la balia, e camminava lesta lesta pensando al bimbo ch'ella ogni giorno vedeva crescere e farsi più grazioso. Doveva pur venire il momento ch'ella avrebbe discoperto su quella faccia infantile la scintilla dell'intelligenza! Oh sì! doveva in breve comparire l'anima in quei cari occhietti azzurri; e chi sa che il loro primo sorriso non fosse stato per lei, od almeno chi sa che un giorno o l'altro non l'avessero finalmente riconosciuta e ricambiato l'amore con cui ella così sovente li contemplava! Più d'una volta ella s'aveva goduto a spiare il bottoncino della rosa, o i teneri pinnocchietti della reseda per cogliere l'istante in che esalavano il loro primo profumo; ma sorprendere il primo lampo d'affetto nella creatura umana doveva essere ben più dolce! Assorta in codesti pensieri i suoi occhi vagavano commossi sulla magnifica scena che così camminando le offeriva il paese. Ivi il torrente scorre attraverso una vasta pianura. La nuova e l'antica capitale del Friuli, l'una dirimpetto all'altra, campeggiano sull'orizzonte a destra: Udine, che vista da quel punto sembra maestosamente assisa a' piedi delle Alpi, col suo bel castello che guarda all'Italia; e in fondo alla pingue campagna che si dilata fino al mare il campanile d'Aquileja, colla sua bruna aguglia ch'esce dal folto come piramide destinata a sfidar l'ira dei secoli. Le ridenti praterie della sinistra paiono distendersi fino alle colline che da Butrio vanno a Rosazzo, e una quantità di paesuzzi seminati alle loro falde, in armonia cogli allegri casini campestri e coi cipressi che qui e colà ne incoronano le vette, dánno un aspetto pittoresco a quel lembo di paese che lì tutto ad un tratto si dispiega dinanzi allo sguardo del viaggiatore che viene da Trieste. Spesso nel tornarsene a casa ella sedeva a riposare in cospetto di quella bella natura, e consumava molte ore meditabonde spaziando col guardo innamorato or per l'infinito de' cieli, ed or per la svariata prospettiva che le stava dinanzi. Una gioia segreta le balenava talvolta negli occhi, come se nel fondo del suo cuore si ridestasse qualche grande speranza, che gli uomini e gli eventi avessero indarno tentato rapirle. Allora la sua fisonomia assumeva un'espressione di tanta felicità, che pareva inspirata; ma ciò che le innalzava l'animo a quella specie di estasi non era nè lo spettacolo delle Alpi gigantesche che a guisa d'anfiteatro la circondavano, nè l'amena pianura già imbalsamata dal primo soffio primaverile, nè l'immensità e la purezza de' cieli che le stavano sul capo, nè tampoco il pensiero della gentile creaturina ch'ell'era stata a visitare. Per quanto soave fosse l'immagine che questi oggetti le procuravano, v'era qualcosa di più profondo e di più sublime che in tali istanti aveva potenza di agitarla. Il suo occhio si posava sulla neve delle Alpi, sul mandorlo che incominciava a fiorire e a cui d'intorno ronzavano i mille insetti della terra svegliata, sulle acque del torrente, sulle prime farfallette della stagione che le danzavano innanzi nei due colori che pochi anni addietro nel nome del suo Pontefice avevano rianimato l'Italia; coteste erano dolci impressioni, ma quasi inavvertite. Ciò che la scuoteva siccome scintilla elettrica mettendole nell'anima il sussulto della vita e negli occhi il fuoco e il brio della giovinezza, era il cannone di Venezia che udivasi distinto rumoreggiare ogni tratto, e che le montagne ripercotevano da lungi. Sì! il rimbombo del cannone che tante volte l'aveva offesa, ora l'entusiastava e la riempiva di gioia ineffabile. Divisa dal mondo, relegata in quella sua volontaria solitudine, poco o nulla ella sapeva degli avvenimenti che in quell'epoca si consumavano; ma il cannone l'avvertiva che Venezia viveva tuttora, e che le sorti della sua patria non erano peranco decise. Legata per una specie d'istinto alla causa che là si difendeva col sangue, indarno le avevano insegnato a riguardar come un delitto la rivoluzione italiana: ad onta di tutti i ragionamenti ella sentiva nel cuore che là era raccolta come nei palpiti di un moribondo tutta l'energia della sua povera nazione, e pregava perchè ella potesse resistere e trionfare della prepotenza delle tante armi che la circuivano. Per lei, quella era quistione di vita o di morte, e così lontana lottava anch'ella coll'anima e respingeva il nemico, e le fluiva nel sangue quell'istessa ardita speranza che faceva prodi le scarse legioni che difendevano Marghera e la tanto contrastata piazza del ponte. La stagione avanzava, i monti s'erano oramai vestiti di verde, infoltivano gli alberi, coprivasi di fiori la terra, ed ella continuava ogni giorno ad uscire all'aperto, avida di quel cannoneggiamento, come di musica che le mettesse nell'anima l'entusiasmo, e nei giorni ch'ei taceva, malinconica ed ammalata, quasichè le fosse mancata la sorgente che le alimentava la vita. Un dì, era digià l'agosto, invitata dalla dolce frescura che sul tramontar del sole dalle acque del torrente si diffonde a refrigerare la campagna, ella si trasse così passeggiando solinga fino alla chiesetta campestre che dicono di Madonna di Strada. Erano più giorni che non s'udiva il cannone, ed ella seduta sul muricciuolo del cimitero, a piedi d'un cipresso, mesta e pensierosa intendeva con ansia l'orecchio alla lontana laguna. Alcune nubi oscure a guisa di panno funebre velavano l'occaso, e dietro ad essa come macchiato di sangue calava muto e senza raggi il sole; giaceva in un profondo silenzio il creato, e per quanto ella aguzzasse l'udito, l'aria lo vellicava tranquilla senza portarle il fremito di nessun rumore. Stette così buona pezza in attenzione, quando la scosse il salmeggiare di alcune voci monotone che si facevano sempre più d'appresso. Vide luccicare tra il verde degli alberi alcuni fanali, poi una croce. S'avvide ch'era un funerale che veniva alla sua volta; ma i suoi pensieri da qualche ora erano divenuti così tetri, che l'idea di un cadavere e della triste cerimonia che andava a compiersi lì sotto a' suoi occhi, lungi dal farla fuggire, aveva anzi qualcosa di analogo colla terribile malinconia in cui era caduta, e unì la sua voce a quella dei sacerdoti, e pregò anch'ella la requie e la luce eterna per lo sconosciuto che all'ombra di quella devota chiesetta veniva ad aspettare il dì del tremendo giudizio. Intanto il funebre corteo s'era arrestato, avevano deposto la bara sul limitare del cimitero, e i sacerdoti attendevano in lugubre silenzio. In antico due villaggi che formavano una sola parrocchia avevano di comune accordo eretto alla Vergine quella chiesetta e consacrato ai loro defunti il praticello che la circondava. Caduta la Repubblica Veneta, la spada dei vincitori segnò a capriccio un confine politico che squarciò quel luogo tra due diverse province. Ma ad onta di tai regolamenti, il cimitero di Madonna di Strada era rimasto promiscuo, e Veneti ed Illirici, riuniti almeno dalla morte, dormivano indistintamente e confondevano insieme le loro ossa in quella terra consecrata dalla pietà dei loro padri. Solo il villaggio italiano per la tumulazione dei suoi era obbligato ad aspettare un sacerdote dall'Illirico; perciò avevano ora deposto il cadavere a' piedi del muricciuolo, e finchè fosse venuto, rimaneva interrotto il funerale. La fraile nel tornarsene a casa pensava addolorata alle tante divisioni che laceravano la sua povera patria. La malinconia dell'ora, l'ostinato silenzio della laguna, un presentimento funesto ch'ella si sentiva nel cuore, quel morto, che a guisa di sinistro augurio era venuto a turbare la sua solitudine, avevano potentemente agito sulla sua immaginazione, di modo che in quella sera, taciturna e scoraggiata si ritirò nella sua camera prima del consueto. Si appoggiò coi gomiti alla finestra che guardava verso mezzogiorno, e contemplando la notte si abbandonò di nuovo alla voluttà del meditare. Era sórta la luna, e illuminata da lei le si spiegava dinanzi la pianura che si confondeva col cielo senza che l'occhio arrivasse a discernerne i confini. Là era l'Italia! Il pensiero gliela figurava tutta intera nella sua forma geografica, tra i due suoi mari e coll'estrema sua isola vòlta al limite africano.... Oh! se l'alito di Dio la rianimasse ancora una volta, e riunisse in un solo pensiero di vita i ventiquattro milioni della sua popolazione, come quando spirò dai quattro venti a far rivivere le ossa dei morti che il Profeta della risurrezione vide schierarsi sulle rive del Chobar in compatto ed onnipotente esercito!... E pregò perchè il Signore fosse santificato, e venisse sulla terra il regno della sua divina giustizia. — Si coricò, chiuse le stanche pupille, e giunse finalmente ad addormentarsi; ma quantunque in altra forma e diversamente colorate dal sonno, le stesse fantasie continuavano a germogliarle nel cerebro. Le pareva d'essere vestita a lutto, come quando l'era mancata la madre, e che un velo nero le copriva la fronte e discendeva fin quasi alle calcagna: era assisa come al suo solito in riva al torrente, ma le sue acque avevano cangiato colore: erano fosche e scorrevano in tanta copia, ch'ella pensò che si fosse tutto ad un tratto liquefatta la neve dei monti. Guardò; ma i monti erano spariti, e in quella vece s'allargava una campagna senza limiti, il cui lontano orizzonte si perdeva nella nebbia. Allora non riconosceva più il sito: le pareva d'esser trasportata in un deserto, dove a confine del creato scorresse quel volume di acque nerastre. Guardava atterrita a sè d'intorno, e non scorgeva che ghiaie interminabili, terre aride e campagna desolata. Solo dalla parte di mezzogiorno vedeva in lontananza una specie di giardino i cui alberi fioriti digradavano in ogni più vago colore; ma s'era sollevato un vento impetuoso che malmenava quelle loro teste gentili e delicate come piuma: il cui soffio agghiacciato giugneva sino a lei, le scomponeva i capegli e le faceva stridere intorno alla persona il lungo velo e le vesti di seta. La bufera s'andava sempre aumentando, e nuvole di fiori schiantati avvolti in turbini di sabbia venivano spinti attraverso la corrente del nero fiume. Il rugghio della procella era divenuto tremendo; pareva il tuonare d'innumerevoli artiglierie, pareva il grido d'infinite migliaia di morenti. Il giardino era già devastato, gli alberi a guisa di scheletri torcevano le braccia denudate, il fiume era tutto coperto dalle loro spoglie. Come quando fiocca la neve, o quando in primavera si sciamano le api, così spesse ed agglomerate in vortici di sabbia passavano continuamente e sempre più a lei dappresso, e il sibilo che mettevano pareva lamento d'infinite voci umane. Allora il sogno le si cangiò in tremenda visione. Que' globi oscuri, quelle nubi travolte dalla bufera che incessanti valicavano il nero fiume, erano turbe di anime; erano i morti per la patria ch'ella vedeva passare all'altra vita. Una processione di venerandi vecchiardi colle braccia incrociate sul petto: — Noi, le dicevano, noi le viventi barricate di Palermo! Noi lo scudo dei combattenti per la libertà!... Oh prega, prega per il nostro povero paese! — Noi i traditi a Curtatone.... — Noi gli abbandonati sulla Piave.... — Noi i venduti a Milano!... gridavano altre legioni. — Siamo morti contenti per l'Italia! Una speranza ci ha rallegrato gli spasimi dell'agonia.... Oh prega che il nostro sangue non sia sprecato! Sacerdoti avvinti di catene, sacerdoti col crocifisso nella destra, altri sacerdoti colla spada al fianco: — O giovinetta, le dicevano, siamo morti in difesa del nostro gregge; siamo morti a' piedi dei profanati altari.... Uno Iddio! Una giustizia! Prega che venga il suo regno! Poi fra una turba di guerrieri tutti coperti di sangue, ella vide una donna di maestoso aspetto, ma di straniera fisonomia. Aveva le chiome bruttate di fango, le vesti squarciate, e scalza e insanguinata i piedi gentili. Nel passarle dappresso le stese una mano bianca come neve, e portava in dito l'anello nuziale. Le parve allora che incoraggita da quel gesto ella la interrogava: — O chi se' tu che così dividi le lagrime e il sangue de' miei? Dove andate, o difensori della nostra causa? Qual destino è riserbato a questa povera Italia? — Ella non rispose a tali domande, ma versando un torrente di lagrime: — Fuggi, le disse, da questo mondo perverso! Ritírati nel santuario, consacra al Signore i tuoi giovani anni, e impetra da lui sorte migliore agli orfani figlioletti miei ch'io lascio alla tua patria! — Allora udì un fragore tremendo come di mina che scoppiasse, e uno spirito fiero con la miccia ancora accesa nelle mani trapassava nell'aria a guisa di angelo sterminatore. Le schiere dei morti cantavano un inno e benedivano alla generosa Ungheria. Ma altre legioni s'affrettavano intanto al fiume. Erano giovanetti di tutte le stirpi italiane, dal Lombardo risoluto all'adusto e vivace Siciliano. Le loro recenti ferite sanguinavano tuttora; erano tristi, macilenti; taluni piangevano.... altri in atto dispettoso volgevansi a riguardare addietro, come se più della morte li crucciasse il pensiero della vittoria nemica. Uno tra essi le si fermò dinanzi e la fisava come se l'avesse ravvisata. Era la stessa faccia pallida da lei veduta a Gorizia, e che tante volte dappoi ella aveva mestamente ripensata, ma, oh quanto diversa! Allora, benchè prigioniero, il suo sguardo ardeva d'una così ineffabile speranza, che come scintilla elettrica ella se la sentì subito propagare nel cuore. Adesso que' grandi occhi neri la guardavano muti, agghiacciati nell'espressione di un dolore che non verrà mai più consolato. Il segno di una ferita gli attraversava la fronte, la barba squallida e i capelli tutti bruttati di polvere e di sangue rappreso; un'altra ferita in guisa orribile gli squarciava il fianco.... Le pareva che a quella vista ella commossa da un irresistibile impeto d'affetto sclamasse: — Cara, desiderata immagine che hai sì spesso consolato la mia solitudine, ahi! perchè mi torni adesso innanzi così mesta? Dove sono le gioie che in mezzo ai vilipendi di quella infame giornata mi prometteva il tuo divino sorriso? — E si slanciava per baciare il sangue di quelle grondanti ferite. — Addio, sorella! le diceva allora il giovinetto. Questa che vedi è forma vuota, nè io posso stringerti la mano pietosa che tu mi distendi.... Tutto è finito! L'ultimo baluardo della nostra indipendenza è già in mano al nemico. Venezia è caduta! e noi già fummo.... Se un disperato valore avesse potuto risparmiarle l'estremo fato, questi che son qui meco l'avrebbero salvata. Ma altrimenti decretava Iddio.... forse perchè le colpe dell'Italia fossero lavate nel nostro sangue e nelle nostre lagrime; e non ascoltò le preci di una popolazione desolata che tutta intera si prostrava dinanzi ai suoi santi altari. Ma se a noi non diede la vittoria, ci diede almeno il coraggio della prova, e sia benedetto il suo santo nome! Ora, quelle sembianze mortali che tu amasti, o sorella, giacciono fra le rovine di Marghera senza sepoltura cristiana, e forse le calpesta il piede impuro del mercenario croato.... Io vado nel seno di Dio! Tu che rimani, offerisci in olocausto al Signore la tua vergine vita, e come candido cereo che arde nel santuario, prega! prega, o sorella, perchè la generazione ventura cresca più di noi virtuosa, e possa ella redimere dallo straniero la nostra povera patria! — Fu tanto e così sensibile il dolore che queste parole le recarono, che le si ruppe il sonno, ed ella si trovò tutta bagnata di lagrime. Appena giorno, le portarono una lettera del Barone. In essa lo zio le annunziava, come Venezia aveva finalmente capitolato, e accennando all'ordine ristabilito ed alla pace che oramai non poteva così facilmente turbarsi, esprimeva il desiderio ch'ella ritornasse in Gorizia, anzi chiudeva col dirle, che fra pochi giorni sarebbe egli stesso venuto a levarla. Tutto quel dì e buona parte del susseguente ella stette ritirata nella sua camera. Apparecchiava i bauli, disponeva le cose sue, scrisse a lungo: era visibilmente conturbata, ed alla gastalda, che messa in pena per la sua salute venne più volte a vedere di lei, confidò che doveva partire, e che era cotesto che l'addolorava. Poi quando tutto fu pronto, ed ella già vestita da viaggio, la chiamò di sopra. Aveva la scrivania aperta, e terminava di far la scritta su diversi gruppi che le stavano dinanzi. — Vo via, Menica! e qui ti lascio alcuni ricordi per ciascuno de' miei buoni amici che non ho cuore di salutare, diss'ella; ma tu lo farai per me, non è vero? — E alcune lagrime le caddero dagli occhi. Indi soggiunse: — Questi orecchini sono per la tua Rosina; e questa crocetta la porterai tu per amor mio.... — E senza aspettare che la donna ringraziasse, continuò: — All'Oliva, quando sarà di ritorno, dirai che cotesto è per il suo ultimo bambino, e che voglio che la gl'insegni il mio nome. Oh mi sarebbe stato pur caro il vederlo crescere qui sotto a' miei occhi!... Ma il mio destino mi chiama altrove.... e se tu sapessi come mi pesa l'abbandonare questa cara villetta!... Mi ci ero proprio affezionata.... — Ebbene, disse la Gastalda, questo vuol dire che ci tornerete presto. Ella scosse mestamente la testa. — Questa lettera la lascerete qui. — E affacciatasi alla finestra stette alcuni minuti mestamente contemplando il paese. Poi, piangendo, abbracciò la Menica, e: — Addio, le disse; vi ringrazio dell'amore che mi avete portato. Quando lo zio, ne' suoi ultimi anni, verrà forse ad abitare in questa solitudine.... ed io non ci sarò! fate voi le mie veci, consolate la sua vecchiaja.... ma non gli parlate giammai di me!... — E come per torsi alla troppa commozione, scese rapidamente le scale, si gettò in carrozza, e ordinò che prendessero la strada di Palma. X. DIO NON PAGA SEMPRE IL SABATO. La malata ch'era ita a trovare l'Oliva, era la sua cugina Mariuccia. La povera fanciulla non aveva saputo superare il dolore che le cagionò la partenza di Vigi. Siccome, sul primo accorgersi del suo amore, ella aveva tanto patito per paura d'ingolfarsi in una passione infelice e non consentita, così dopo, quando vide appianate le difficoltà, vi si era abbandonata con tutto l'impeto della giovane anima, ed ella amava come si ama una sola volta nella vita, cioè senz'altro rimedio che possedere, o morire. Quando quella leva inaspettata le rapì il giovane amato, ella si sentì annichilita, come percossa dal fulmine. Ogni suo progetto di felicità, ogni sua speranza veniva miseramente distrutta, ed ella tornava ad essere per lungo tempo e forse per sempre la povera serva di prima. Indarno cercava immaginarsi, ch'egli avrebbe potuto tornar a casa fedele alle sue promesse: otto anni di servigio militare, otto anni di separazione erano per lei una prospettiva terribile.... e poi, c'era la guerra di mezzo; la guerra, quest'orrore ch'ella non aveva mai potuto comprendere, e che il suo Vigi andava ad affrontare in paese lontano, senza di lei!... Oh! se una palla l'avesse colpito.... Che cosa valevano allora le promesse del Barone ch'ella ricordava non altrimenti che una crudele ironía? Impallidita, più morta che viva, ella lo vide partire, e l'allegria, od almeno la speranza d'un avvenire fortunato che le parve trapelare nell'ultimo addio del giovane, a lei che restava accrebbe il martirio. Cominciò a visibilmente dimagrire, stava quasi sempre taciturna, inghiottiva più lagrime che bocconi, la notte non poteva chiuder occhio; e così affievolita, per non perdere il pane, sforzavasi a strascinare il peso delle fatiche giornaliere, finchè finalmente mancatagli la lena, si diede ammalata. Aggiugni, che una voce secreta, a guisa di verme che internamente la consumasse, esacerbava que' suoi patimenti. Quella voce le diceva del continuo, che Vigi non sarebbe mai più ritornato, e che ella sola ne aveva la colpa, perchè ella era stata crudele con la sua povera cugina, l'Oliva, e adesso Iddio l'aveva punita! Non ardiva dirlo a nessuno, ma le parole tremende che l'Oliva le aveva lanciato nel partire, le suonavano sempre all'orecchio; e quando si riduceva nella sua camera, quelle robe di lei le stavano lì negli occhi come un vivente rimorso, e le facevano passare le notti terribilmente insonni. Oh! che le valevano quelle sue miserabili ricchezze per conservare le quali aveva fatto tacere nel suo cuore ogni senso di compassione e di giustizia, ora ch'ell'era abbandonata, ed egli forse sulla nuda terra cadavere insanguinato? In tanta miseria, ella non aveva neanche il conforto della preghiera, perchè le pareva che il Signore non l'ascoltasse; e le rifiutasse quella misericordia ch'ella non aveva avuto per la sua povera cugina. Intanto vennero nuove di un tremendo fatto d'armi a Vicenza, e la lettera diceva di molti del paese chi mutilato, chi all'ospitale, ma niente di Vigi. Allora le famiglie che si erano consolate della perdita dei loro sperando che facessero fortuna, cominciarono a gemere e ad imprecare alla maladetta guerra. Ella, già certa in suo cuore ch'ei fosse morto, credeva che non glielo dicessero per compassione, e tossicava e distruggevasi ogni dì più. Quel vederla così deperire rammaricava tutti quelli che la conoscevano; ma chi ne sentiva un'infinita pietà era la Lisa, la figlia della padrona di casa. Non ardiva però mai venirle in discorso nè del suo male, nè della sua sventura, perchè s'era accorta che sarebbe stato un rincrudire la piaga; ma la circondava di mille dilicate attenzioni, cercava di alleviarle le fatiche col prevenirla ed addossarsele ella, e senza lasciarsi ributtare dal suo ostinato silenzio, le teneva più ch'era possibile affettuosa compagnia. Un dì, sul finire dell'inverno, ell'era stata ad attignere in sua vece, e tornata a casa, vedutala sola, col volto nascosto tra le mani rannicchiata presso al fuoco, le si assise d'accanto: — Mariuccia, le disse, sa' tu ch'è ritornato Coletto? — Ella si scosse, e cogli occhi languidi pel molto pianto la guardava come trasognata. Coletto! quel giovane muratore del vicino villaggio, che era in sua compagnia alla sagra di Madonna di Strada quand'egli ti vide la prima volta?... — Tornato!... E come lo sai tu? — L'han detto sul pozzo or son pochi minuti. Ieri è capitato alla sua famiglia l'avviso di andarlo a prendere con una carretta a Gorizia dove è venuto con un trasporto, e questa sera ei deve essere a casa. — Ma egli, Lisa, egli.... non ritornerà! — Mio Dio! perchè affliggersi prima dell'ora? Son pochi dì che ho veduto sua sorella.... I suoi sono in pena, sì, ma pure sperano che non vi saranno disgrazie. — Ah Lisa! non ha mai scritto, e nessuno ha mai più saputo nulla di lui.... — Gli è per questo, ch'egli non deve esser perito, perchè alle famiglie di quelli che sono morti hanno a tutte mandato la carta! — Ma sai, Lisa, che questo tuo discorso mi fa gran male? Oh! perchè vuoi tu tormentarmi col mettermi in cuore una vana lusinga? — Tormentarti? Mariuccia mia, e puoi tu supporre in me tanta cattiveria? Io ti parlo, vedi, perchè mi pare, ch'essendo tornato Coletto, se andassimo da lui, noi potremmo sapere qualche cosa di preciso. E diman mattina, se tu il consenti, io vi vado. — Ebbene! allora noi ci anderemo insieme. Forse egli sarà stato presente a' suoi ultimi momenti, e prima che a tutt'altri, hai ragione, Lisa, egli deve narrarli a me! Nel dimani esse erano a messa nel villaggio vicino, e dopo messa da Coletto. Era dì festivo, e trovarono più gente di quel che avrebbero voluto. Chi per semplice curiosità, chi per amicizia e chi per motivo simile a quello che guidava le due donne, diversi paesani erano lì entrati in cucina e circondavano il soldato, che seduto presso al fuoco loro narrava ad alta voce le sue terribili vicende. Esse, al primo rivederlo, rimasero come interdette, tanto era mutato. Senza un braccio, orribilmente mutilata una gamba, e la faccia macera e fuor di modo annerita dalla pioggia e dal sole. Egli conobbe subito la Lisa, ma la Mariuccia la fisò un pezzo prima che si risovvenisse. Quando si fu un poco orizzontato, — Anche voi, ragazze, eh! venite a congratularvi, disse, della bella fortuna che abbiamo fatta. Oh! quando siamo partiti, pareva che andassimo nel paese della cuccagna. Dovevamo ritornare ricchi come Creso! e portare in regalo alle nostre amorose gli anellini e i pendenti delle ribelli!... Invece abbiamo lasciato chi la vita e chi le membra; e quelle pompose fandonie non erano inventate che per farci andare allegri incontro al cannone che ci ha conci come potete vedere! Contuttociò la è ancora una fortuna l'esser qui a raccontarla, perchè io mi credo d'essere il solo di que' del paese: gli altri, ragazze mie, sono iti tutti all'inferno! A queste parole la Mariuccia diede un grido. — E Vigi? disse, e Vigi?... Ah se l'avete veduto morire, raccontatemi almeno le sue ultime parole! E nella sua disperazione s'era inginocchiata, e protendeva le mani tremanti come per implorare che parlasse. — Siamo stati sempre insieme, e purtroppo l'ho veduto morire.... Ma, se non vi quietate un poco, io non vi dirò niente, Mariuccia! Ella allora con quanto aveva di forza procurò di frenarsi, inghiottì i singulti, sospese negli occhi le lagrime prorompenti, e muta e pallida come una statua, stava ascoltando. — Fu nell'istesso giorno! ci caricarono entrambi sul medesimo carro! io fui portato all'ospitale, egli morì per strada. Il primo fuoco noi l'avevamo veduto sotto Treviso, e non ci fece troppo buon bevere, quantunque per quella volta il nostro reggimento l'avesse scapolata quasi netta; ma a Vicenza fu un altro paio di maniche. Quei maladetti ribelli facevano tonare i cannoni ad un modo che la frega del bottino ci era affatto passata. Vedevamo tornar indietro continui convogli di feriti, e chi vomitava sangue, chi urlava da dannato, e i cadaveri ce li abbruciavano lì sotto il naso; e quando venne la nostra volta e ci ordinarono di avanzare, noi eravamo più morti che vivi, e credo che in quel momento anche i più arditi avrebbero volentieri rinunziato a tutto l'oro delle città italiane per poter essere in quella vece nelle nostre montagne un povero disertore perseguitato dai birri; ma un battaglione di croati pronti a tirarci addosso, se non si ubbidiva, ci fece tornar in corpo il coraggio. Camminavamo nel sangue, sopra i cadaveri; cápita una palla e mi porta via il braccio; ed era lì per terra che ancora giuocava alla mora, quando un'altra con un fracasso d'inferno mi rovescia, e nello svenire ho sentito la voce di Vigi che bestemmiava. Quando tornai in me stesso, mi trovai sul carro, e al mio fianco stava il povero giovane, ma era già passato.... Mariuccia, come se quell'orribile narrazione l'avesse petrificata, cogli occhi sbarrati, colla bocca aperta, pallida ed immota continuava ancora ad ascoltare, e alla Lisa, che gemente in cuor suo d'esser ella stata la causa di quell'immenso accrescimento di dolore, s'affannava per condurla via, obbedì senza dir verbo come bambina smarrita. Fece la strada senza mai aprir bocca. Rientrata in casa, a guisa di macchina s'occupava delle consuete faccende, finchè venne la notte, e si ritirò nella sua camera. La Lisa in pena, e non sapendosi augurar niente di bene da quel tetro silenzio, stette un pezzo alla sua porta spiando con affettuosa sollecitudine: le parve che fosse quieta, e andò anch'ella a coricarsi. Non aveva appena chiusi gli occhi, quando un urlare prolungato e pieno d'angoscia le ruppe il sonno e la fece balzare spaventata dal letto; ned ella sola, tutta la famiglia fu desta, ed accorsero alla camera della Mariuccia d'onde partivano quelle mestissime strida. La trovarono in camicia: rannicchiata in un angolo, che miseramente si strappava i capegli, si torceva le dita; nè fu possibile raccapezzare una sola parola che palesasse l'accaduto. Era ghiaccia, batteva i denti con una specie di convulsione così terribile, che se anche avesse voluto, le impediva di parlare. S'accorsero che aveva la febbre, e sbigottiti andarono pel medico, mentre la Lisa s'ingegnò di farla tornare a letto; ma non v'era modo che potesse riscaldarsi. La buona fanciulla nel vederla in quello stato deplorabile lagrimava sommessa, e a forza di carezze procurava di ravviarle i crini scomposti. Quantunque priva di conoscenza, pur pareva che per istinto ella sentisse l'affetto di quella mano pietosa, e s'andasse grado a grado quietando. Venne il medico. Fin da quando si manifestarono i primi sintomi della malattia, egli ne aveva fatto un cattivo pronostico; ora la trovava di molto aggravata, ma non capiva cotesta specie d'improvviso delirio. Nel partire, disse alla padrona di casa che c'era assai poca speranza, e che quando fosse tornata in sè stessa, sarebbe stato bene avvisarne il curato. Nell'indomani le condussero in camera il sacerdote, e fu una scena tremenda. Diede in ismanie feroci gridando: ch'ell'era dannata! ch'era inutile, che la non voleva confessarsi.... Indarno ei si fece a calmarla con tutti gli argomenti che suggerisce la religione. — Via! via!.... urlava l'infelice, a che mi venite adesso a parlare di Dio? Dio, io l'ho rinnegato il giorno che ascoltai voi, prete sacrilego, predicar dall'altare, che noi altri potevamo approfittarci della roba dei ribelli! Che l'incendio e il saccheggio erano giustizia!... Oh!... dir messa così, con l'odio nel cuore!... Innalzar l'Ostia consecrata e spalancar l'inferno ai vostri figliuoli!... Non mi toccate! Le vostre mani grondano sangue.... Egli è il sangue dei traditi che vi hanno creduto! Oh!... l'ultima sua parola è stata una bestemmia! È morto dannato.... Adesso brucia nel fuoco eterno! E venite a predicarmi la misericordia di Dio? Non v'è più misericordia.... Se anche ci fosse, io non la voglio!.... — E bestemmiava Dio e i Santi, e malediva l'ora del suo nascimento.... La padrona di casa scandolezzata fuggì turandosi le orecchie, gli altri scotevano la testa inorriditi; la sola Lisa era rimasta vicina all'amica e piangeva col viso nascosto nelle mani. Il sacerdote, bianco come un cadavere, si mise la stola, e con visibile turbamento andava cercando sul suo rituario una prece che valesse a calmare quell'orribile delirio. Ella, alzatasi a sedere sul letto, a momenti colle mani convulse si strappava i capelli urlando da forsennata, a momenti quietandosi e declinata la faccia sul petto senza guardare a nessuno, mormorava seco stessa: — Crudeli! Nessuno gli ha medicato la ferita.... nessuno gli ha detto una parola di conforto! L'hanno lasciato morire come un cane.... Ma io non l'abbandonerò, no! Gli ho data la mia fede, e sarò sua anche laggiù...! Questa notte è stato a chiamarmi. Oh com'era pallido! Sedeva lì su quella maladetta coltrice! e accennava le robe dell'Oliva; aveva una piaga orribile in mezzo al petto.... e' la dilaniava colle mani.... e mi ha gettato il suo sangue nel volto! Il sacerdote aveva intanto intonato le litanie, e la sua voce monotona e quella dei circostanti che rispondevano in coro l_'ora pro ea_, coprivano quella di lei affievolita dalla lunga angoscia. — Contro di me, Vigi? contro di me che ti ho tanto amato? Giorno e notte pensavo sempre a te!... Per esser tua un solo momento avrei dato la mia vita, l'anima mia! Oh! guarda come mi sono consumata.... Quel fiore che tu mi hai donato a Madonna di Strada, io l'ho ancora.... e se tu sapessi con che disperato affetto io me lo posavo ogni notte sul cuore!... Ti ho amato più di Dio.... più della giustizia! Sono stata colpevole per troppo amore! ma tu non devi rimproverarmelo, oh no! non tocca a te! gli è quel prete infame, che colle sue prediche ci ha traditi entrambi, ed ora che mi sono dannata per avergli creduto, ardisce venir qui ad insultarmi colle sue vane preghiere! Non vedete ch'egli è tutto macchiato di sangue? Oh! io ne sento l'intollerabile puzzo.... — Poi sopraggiunto un nuovo impeto di furore, si cacciò le mani nei capelli, e rovesciatili in sugli occhi strillava disperata: — Vi ho pur detto, ch'egli è inutile pregare! Sono dannata! e non v'ha più misericordia nè perdono. Uscite! — E v'era ne' suoi gridi tale un accento, che li fece tutti ammutolire. Partirono, e più nessuno ardì entrare in quella camera, dove così evidentemente pareva che ci fosse la maledizione del cielo. Lisa sola non ebbe cuore di abbandonarla, e benchè afflitta oltre misura, continuava ancora con affettuosa sollecitudine a prestarle le sue cure. Talvolta l'ammalata, miseramente vaneggiando, la respingeva dicendole ogni sorta d'ingiurie; ma tal altra, vinta da quell'umile e sempre costante affetto, pareva tornare in sè stessa, e mansuefatta si gettava a piangere tra le sue braccia. In uno di questi lucidi momenti, mentre teneva la fronte su d'una spalla della Lisa, e questa con infinita compassione accarezzava quel povero corpo di già consunto su cui potevi dinumerare le ossa, — Sorella, le disse, pazienza per poco ancora, e poi avrò finito di tormentarti. Oh, se tu sapessi come io desidero di andar sotterra!... Ma prima tu devi farmi una grazia. Io avevo una cugina, continuò ella, l'unica parente che una volta mi volesse bene.... Orfana fin dai primi anni, e raccolta qui per carità da tua madre, tu sai, Lisa, ch'io non ho nessuno in questo mondo! — Poi dopo una breve pausa in cui entrambe singhiozzavano, ripiglia: — Un giorno ella venne a cercarmi.... Le avevano abbruciata la casa, ed ella colle sue creature, nell'ultima miseria, viveva elemosinando. Con lei, che quando campava s'era più volte ricordata di me, io fui crudele, Lisa! Quelle robe che sono là su quell'armadio erano sue: io le aveva comperate dagl'infami che hanno saccheggiato, e non volli tornargliele.... e la lasciai partire, senza curarmi della sua disperazione. Ora Dio mi ha punita! Mi figurava che quella dovess'essere la mia coltrice nuziale.... invece, egli è morto! e io lo raggiugnerò tra poco. Ma prima di andare all'eternità, vorrei rivedere l'Oliva! restituirle le sue robe! e implorare che la mi perdonasse.... — Lisa le promise di far subito cercar della donna. A Jalmicco ebbero notizia del dove si trovava. La informarono, ed ella, consigliata dalla buona fraile, diede ad allattare il bambino, e venne al letto della morente. Subito che la vide, — Ed è pur vero, disse, che sei venuta, Oliva? Ah, ch'io temeva che tu non volessi più saperne di me, e di dover morire senza poterti dimandar perdono!... — E in atto supplichevole le tese incontro le braccia ischeletrite. Oliva commossa non poteva parlare, e guardava quella faccia pallida che non era più riconoscibile, quelle forme consunte, quelle mani color di cenere, e la trovava tanto malata da parer appena l'ombra di quel che era nel passato. Ella parve se accorgesse, poichè ripigliò: — Che differenza, Oliva, di quando ci siamo vedute l'ultima volta! Io era bella allora! ma rea dentro nell'anima, non ascoltai nè le tue ragioni, nè le tue lacrime.... Oh, ma il Signore ti ha vendicata! Da quel momento, quante disgrazie sono piombate sul mio povero capo! Egli ha fatto giustizia fra noi due.... Adesso eccomi ridotta in fin di morte. Da questo letto io non mi alzerò più.... Oh dammi un abbraccio e dimmi che mi hai perdonato! — Possa così Iddio perdonarci ad entrambe! disse l'Oliva; e la strinse al seno con tutta l'espansione dell'affetto. Ma la Mariuccia turbata mormorò tristamente: — Oh, non parlarmi di Dio! La mia sorte è fissata.... io non posso più sperare nella misericordia di Dio.... — Che dici mai, sorella mia? Oh! anzi noi vogliamo pregarlo insieme. Possibile ch'ei non ti ascolti e non ti ridoni la perduta salute? Chi più di me tribolata, quando fuggita dal villaggio in fiamme, mi strascinava pei campi colle mie povere creature, vicina al parto, priva di tutto.... e venivano a dirmi che il mio marito l'avevano fucilato? Stetti tre giorni in quell'orribile angoscia, e fui lì lì per impazzare; peraltro non disperai; anzi inginocchiata per terra invocava l'aiuto della Madonna, e con tutta la forza della mia anima pregava Dio che non fosse vero. Ed egli, Mariuccia, mi esaudì; e mio marito era vivo: nè solo questo, ma Iddio mi diede anche coraggio a durare tutti i dolori di quella misera vita: e poi, quando gli parve ch'i' avessi patito abbastanza, non ha egli mandato sulla terra per consolarmi un angelo celeste sotto le forme di una bella signora che venne a trovarmi sul fenile, dove abbandonata da tutti io giaceva da parte, e tenne a battesimo la mia creaturina, e raccolse me, i miei figlioletti, mio marito, e ci diede da vivere e da lavorare di modo che adesso siamo più felici di prima? Oh, non manca, no, la Providenza a chi la invoca di cuore! Senti, diss'ella dopo un momento di pausa in cui pareva che seco stessa andasse ruminando qualche progetto, finchè tu duri malata, io starò qui con te! Mariuccia per riconoscenza si portò alle labbra la mano di lei, che teneva tuttavia fra le sue. — Ma noi vogliamo fare insieme un voto. Ogni giorno, inginocchiata qui presso al tuo letto, io reciterò una parte di rosario; tu l'accompagnerai col pensiero, col cuore, insomma così come puoi, perchè non devi affaticarti, e se il Signore ci esaudisce, quando sarai guarita, noi anderemo insieme a Udine alla Madonna delle Grazie, a far le nostre divozioni, e dinanzi all'immagine discoperta ascolteremo una Santa Messa in ringraziamento. La malata sorrise, ma con tanta amarezza, che ben si pareva come nel suo cuore non vi fosse più altra speranza che quella di morire. — Dunque prometti? — No! — diss'ella. — Ma perchè, buon Dio? — Perchè io non guarirò! — Oh, per cotesto poi sarà quello che piace al Signore! — Ma io non desidero di guarire.... Da gran tempo io non viveva che per lui! Ora egli è morto.... Se tu non avessi nè figlioletti, nè marito, nè nessuno che ti amasse!... oh! allora a che vorresti rimanere in questo mondo? — A piangere, a pregare per essi! Promettiamo, Mariuccia. Se il Signore vorrà chiamarti a sè, io anderò io stessa a Madonna di Grazia. Anzi ci anderò ogni anno a far celebrare una Messa per l'anima tua e per quella di lui, finchè saremo tutti riuniti in paradiso. — Inutile! diss'ella; e cominciava a turbarsi e guardare stralunata. — Oh, non dir così! Una volta tu mi volevi bene.... Su via, quietati per amor mio! Ma la fanciulla non l'ascoltava, e agitata da un terribile pensiero si torceva le dita gridando: — Oh la guerra maladetta!.... Me l'hanno adescato con infami promesse.... ed egli, Oliva, egli che non ha mai torto un capello a nessuno, che non sapeva uccidere una mosca! egli è corso a scannare i fratelli come si corre ad un festino!.... L'avevano talmente imbriacato, che quando partì, potè lasciarmi senza piangere.... Doveva essere l'ultimo addio, e non ci siamo nemmanco abbracciati! È morto, Oliva, col peccato nel cuore! e Dio l'ha permesso perchè io fui crudele con te.... Gli è per colpa mia ch'egli arde adesso nell'inferno. — Mariuccia! Possibile che tu possa proferire di simili bestemmie? Oh! non sai tu che la misericordia del Signore è infinita! Io non so parlare, vedi, perchè sono una povera donna; ma se fosse qui il nostro buon parroco di Jalmicco, egli sì, saprebbe insegnarti come a noi non tocca entrare negl'imperscrutabili giudizi di Dio.... — Oh ti prego! lascia stare i preti. Gli è per colpa delle loro prediche ch'io sono diventata cattiva! — Può essere, replicò allora l'Oliva, che qualcuno de' vostri preti traviato dalla passione vi abbia detto una parola di sangue; ma non sono poi mica tutti compagni! Oh se tu conoscessi quello che io ti nominava! Se tu conoscessi quello che io ti nominava! Se tu avessi veduto la carità infinita con cui egli ci assisteva nel terribile nostro infortunio! La sua canonica era abbruciata, ridotto povero e nudo come noi, e nondimeno sempre con noi a dirci parole di conforto, a soccorrere come poteva i malati, a placare l'odio nei nostri cuori! — E le raccontava, ora le sue parole al letto di un moribondo, ora le preghiere ch'egli innalzava pe' suoi desolati parrocchiani nella chiesa guasta dalle fiamme, ora diversi tratti di quel cuore tutto viscere di misericordia per essi, e spesso tornava in cotesto argomento, e tante gliene disse, che finalmente un giorno l'ammalata mostrò desiderio di vederlo. L'Oliva corse subito in traccia di lui, ed egli nella sua evangelica carità venne a consolare gli ultimi momenti della tribolata. Le disse parole di pace e di perdono quali ella non aveva mai più sentite. La sua vita di sacrificio e l'intemerata sua fama accresceva autorità al suo santo ministero. Ascoltò con pazienza tutti i dubbi che travagliavano la poveretta; lasciò che tutta gli narrasse la storia del suo infelice amore; e quando con molte lagrime confessò il suo peccato e la disperazione in cui era caduta, — Figliuola, le disse, la misericordia di Dio non ha confini, e le sue vie, alle nostre menti ristrette, sono spesso impenetrabile mistero. Fra questi stessi uomini di sangue che sono venuti nel nostro paese a spargere la desolazione e la rovina, io ho veduto più d'uno che piangeva il misfatto de' suoi feroci fratelli. Ho veduto un croato inginocchiarsi dinanzi alle nostre immagini mutilate, accarezzare le ossa dei morti che i suoi per insulto avevano cavate dai sepolcri, picchiarsi il petto e deporre sul nostro altare il suo obolo! Quella lacrima e quell'obolo certo Iddio non li avrà lasciati ire perduti; forse ch'essi avranno impetrato al meschino un lampo di luce che lo ravveda ne' suoi ultimi momenti, forse che saranno seme destinato a redimere, quando che sia, quella povera nazione abbrutita, che ora si fa strumento di chi opprime! O sorella, Dio conta tutti gli aneliti del nostro cuore, e se qualche volta ha battuto a bene, credi pure ch'egli saprà largamente ricompensarci! La gioventù dell'uomo che amasti fu pura.... Oh non gli sarà, no, mancato nel suo morire un buon pensiero! Guai a te! se ti fossi ostinata contro questo Padre di misericordia, che ti chiama fra le sue braccia, e dove forse rivedrai colui che quaggiù sulla terra ti aveva data la sua fede! Che sarebbe di te, se accecata da troppo mondano amore, ti fossi trovata perduta per sempre, e per sempre divisa dall'amante che Iddio ti aveva pure conceduto? — Ella pianse pentita, e risovvenendosi delle sue smanie passate, prima di ricevere il Viatico mostrò desiderio di chiedere perdono a tutti quelli che aveva scandolezzati. Ma egli nello stato di estrema debolezza in cui la vedeva, temendo che la troppa commozione potesse riuscirle fatale, non glielo permise, ed assunse invece di adempier egli per lei a cotesto atto di cristiana pietà. Sul fare dell'alba le portarono il Signore. Nella camera erano la Lisa e l'Oliva; la padrona di casa non aveva osato entrare per paura di disturbarla, e piangeva inginocchiata sulla porta. La febbre aveva ripigliato con furia: quella faccia così colorita dall'accesso era pur gentile! pareva che nelle sue ultime ore ell'avesse voluto infiorarsi ancora una volta di tutta la sua passata bellezza, e gli occhi le risplendevano, come la favilla che prima di estinguersi manda più viva la luce. Dopo ricevuta l'estrema unzione il male peggiorò di modo che a momenti la levava di sè, e allora tornava col pensiero al suo fidanzato e gli parlava come se fosse stato presente. — Non andar in collera, Vigi! Vengo subito, Vigi.... Vedi, sono già vestita. Ah poveretta me! mi dimenticava di puntarmi nelle trecce quel garofano che mi hai donato a Madonna di Strada. Guarda com'è bello! Pare spiccato adesso.... L'ho fatto rivivere io a forza di lacrime.... Che specchio è codesto? Non ci si vede lume.... Aiutami, Lisa. — E colla mano pallida si cercava tra i capelli. — Adesso son pronta, andiamo! Ma dov'è tua madre? Non voglio mica partire senza salutarla. Madre!... O madre!.... perchè non vieni a darmi la tua benedizione prima che vada all'altare? Io era poverina e nuda e abbandonata da tutti, ed ella mi ha raccolta; mi ha insegnato a guadagnarmi il pane.... Se Vigi oggi mi sposa, è in grazia di lei. Oh voglio vederla! Tutti mi han perdonato, perfin l'Oliva. Oh, anch'ella deve perdonarmi! Mi sono confessata.... Ho tornato a pregare il Signore.... Era tanto tempo che non osava entrare in chiesa!.... Anche Vigi si è pentito! me l'ha detto questo santo sacerdote.... e gli anelli, non sono roba saccheggiata.... li devono benedire sull'altare! Quando li avrò in dito mi staranno pur bene, Lisa!.... Ah! la testa mi gira... non reggo più!.... Ma perchè tutte quelle candele accese? E una croce nera?.... Questo corteo non è da nozze.... Or via, non pregate in tuono così lugubre! — Alla raccomandazione dell'anima parve ritornasse in sè, perchè volle baciare il Crocifisso, e disse alla Lisa: — Prega per me che già sono moribonda! — Poi vedendo l'Oliva che piangeva, scosse la testa e, — Non piangere! disse, che oramai cotesto è il meglio per me. Finisco di patire! e di lì a poco stendendole una mano, — Quando sarò sotterra, ti ricorderai qualche volta di me, non è vero, Oliva? Ma.... senza rancore!.... — Oliva accorata si chinò sovr'essa e non osava stringerla al seno di paura che le restasse fra le braccia. Il sacerdote vide l'effetto di quelle povere due anime purificate dal dolore, e ripensando agli odj passati si commosse. — Grazie a te, buon Dio, diss'egli, che nella tua misericordia ti compiaci a confondere l'opera crudele dei nostri nemici! Hanno seminato il sangue e la vendetta, hanno diviso i fratelli! ma ecco che i cuori ritornano. Oh sì, figliuole! i nostri cuori sono fatti per amarci, per perdonarci. In questo solenne momento consecrato dalla morte, noi vogliamo pregare insieme per il nostro povero paese! Oh sì!.... l'una nelle braccia dell'altra pregate perchè cessino una volta le ire funeste che lo hanno così miserabilmente lacerato, pregate perchè i fratelli si ricordino dei fratelli, e se abbiamo comune la lingua e la patria, ci conceda anche il Signore di riabbracciarci tutti in un solo pensiero di unione e di amore! Offeriamo a lui le nostre lacrime perchè lavino i tanti peccati che ne' due ultimi anni han contaminato questo lembo di terra italiana! Ecco un'anima che già sta per entrare nella luce eterna. I dubbi di questa terribile ora, le pene dell'agonia, il sacrifizio della giovine vita, sieno un'ostia di espiazione e di pace! Raccogli, o sorella, tutte le tue forze, e nel bacio del tuo Dio crocefisso sollevati alla sublime carità di quest'ultima preghiera! — Ella congiunse le mani, stette un istante pregando con grande affetto, poi mosse le labbra a baciare il Crocefisso offertole dal sacerdote, e pronunziando queste parole: — Pace!.... Perdono!.... Ci riunisca tutti il Signore! — a guisa di persona stanca depose il capo sul guanciale; ed era passata. XI. LA LETTERA. L'Oliva dopo che ebbe assistito ai funerali della sua povera cugina tornava a casa col cuore saturato di lacrime, impaziente di abbracciare il marito e' figlioletti, di rivedere la buona fraile; e adesso che aveva tanto patito, ella sentiva come bisogno di confortarsi un poco nel loro affetto. Quando fu vicina al villaggio, vide nella casa del barone chiuse le finestre dell'appartamento della fraile. Un sinistro presentimento le fece tremar l'anima. Fosse ammalata?.... E prima della propria famiglia corse a vedere di lei. In cortile i cavalli attaccati, e sulla porta del salotto il barone afflitto in vista e così stralunato ch'ella non ardì abbordarlo, tanto più che quella fisonomia rimastale sinistramente impressa nella sera di N.... le aveva sempre inspirato una specie di ritrosía: tutta la servitù mostravasi mesta, come se fosse accaduta in casa qualche grande disgrazia. In cucina trovò la Menica che piangeva. — Per carità, Menica, che cosa è avvenuto? dov'è la fraile? — Oh, non la rivedremo mai più! disse la gastalda accorata. Io credeva che fosse andata a Gorizia.... Il padrone è venuto, e la lettera ch'ella ci ha lasciato per lui, palesa che ci ha abbandonati per sempre e che si è ritirata in un convento. A questa notizia l'Oliva fu percossa come da un fulmine, e non sapeva rinvenire la parola. — Ah ch'io doveva prevederlo! continuò la Menica afflittissima. Quando mi disse addio, ella pianse tanto!.... e poi quel raccomandarmi di salutare i suoi amici.... quel ricordarsi di ognuno.... Quell'anima santa ha voluto fin nell'ultimo momento far del bene a tutti quelli che conosceva; e anche di te, Oliva, si è ricordata; anche del tuo ultimo bambino.... — E la condusse disopra per consegnarle i doni che le aveva destinati e per ripeterle le ultime parole di affetto con cui si era divisa da quelle persone e da quei luoghi che aveva tanto amato. La lettera ch'ella aveva lasciata allo zio diceva così: «Mio buon Padre! »Permettete che nel dividermi per sempre da voi, io faccia ancora uso di questo nome benedetto che mi concesse la vostra tenerezza. È l'orfana che voi avete raccolta, la creatura che vi piacque ricolmare dei vostri benefizj, la figliuola del vostro amore, la vostra Cati, o mio buon padre, che ora viene a darvi il suo ultimo addio! Indarno ho cercato dissimulare a me stessa la ferita crudele che questa lettera recherà al vostro cuore amoroso. Oh tutti i miei giorni dovevano esservi consacrati! e io avrei voluto domare il dolore che mi distrugge, perchè l'aspetto della mia felicità compensasse in qualche maniera il tanto bene che voi mi avete fatto. Ma un destino, contro al quale oramai io più non valgo a lottare, mi comanda di ritirarmi nel santuario del Signore a pregare e a piangere per il mio povero paese. — Mi sta dinanzi la vostra santa immagine paterna, e intendo di parlarvi senza velo, anzi di aprirvi tutto il mio cuore, come se fossi inginocchiata a' vostri piedi e voi mi deste la vostra ultima benedizione. »Nata di sangue italiano, nulla ha potuto cancellare l'affetto grande che mi legava alla mia terra, qualunque si fossero i suoi destini. Lontana, unica consolazione della mia vita erano le sue memorie; tornata, non vissi che delle sue speranze. Se Iddio le avesse benedette, e la mia nazione fosse adesso libera ed indipendente, forse io avrei potuto accettare lo sposo, che credendo di farmi felice voi mi avevate destinato. Tra i figli di due paesi egualmente liberi, egualmente potenti, bella l'unione del sangue! Ella è preludio di quella santa alleanza, che nel cospetto di Dio stringerà un giorno come altrettante sorelle tutte le nazioni della terra. Ma finchè v'è chi abusa della forza e chi patisce, cotesta fraterna eguaglianza non esiste, e tra gli oppressi e gli oppressori sorge un muro di separazione che non si può varcare senza delitto. Le ultime terribili vicende mi hanno insegnato che io appartengo alla stirpe dei conculcati, ed ho veduto nelle file dei nostri padroni l'uomo che mi sceglieva a compagna della sua vita.... La mano ch'egli mi offeriva era bagnata nel sangue dei miei.... l'alloro della sua fronte grondava delle nostre lacrime!.... Da quel momento un profondo orrore s'impadronì della mia anima, e abborrii da una unione, il cui solo progetto mi parve imperdonabile. Voi rispettaste il mio dolore, nè più mi parlaste di quelle nozze di peccato. Fu delicatezza di cui vi sarò grata in eterno: nè mai dimenticherò le cure amorose di cui mi circondaste, quando afflitta dalle tante sciagure che desolavano il mio paese io caddi ammalata; nè la vostra generosa pietà che mi permise di rifugiarmi in questa tranquilla solitudine, lungi dalla gioia oscena di chi poteva godere dell'esterminio dei propri fratelli! »E la pace dei campi e i semplici costumi e l'amore di questa buona gente nel ridonarmi la salute mi avrebbero anche riconciliata col mondo, se il mondo potesse avere qualche attrattiva per l'anima che ha veduto svanire l'unica speranza che ancora l'attaccava alla vita! Vi confesso: al rompersi della lotta io mi era guardata intorno e aveva veduto i miei fratelli in quelli che pativano. Sentii simpatia, non pei favoriti dalla cieca fortuna, ma per l'imprescrittibile diritto di un popolo calpestato; non pe' vittoriosi, ma pei vinti! e amai la misera donna che vi chiedeva l'elemosina in nome dell'incendio, i feriti strascinati a Gorizia in mezzo agl'insulti, il prigioniero che aveva combattuto per la sacrosanta causa della Italia! Allora la mia vita si legò alla sorte della mia povera patria, e sperai che tante lacrime e tanto sangue non fossero indarno versati. »A Dio non piacque ch'io vedessi il suo giorno. — Forse non è ancora colma la tremenda misura dei patimenti che ce lo devono meritare, e ad affrettarlo egli mi comanda di offrirgli in ostia di propiziazione questa povera mia vita. Sia fatta la sua santa volontà! Chino la testa rassegnata, e dico per sempre addio a voi, mio buon padre, ai luoghi che mi videro nascere, a' miei cari poverelli che metto nelle vostre mani.... a tuttociò che amai quaggiù sulla terra! Fra pochi giorni, recise le chiome e indossato l'abito di penitenza, io avrò pronunziato il voto solenne che mi dividerà dal mondo. Allora sarà come se più non esistessi.... Se qualche volta vi ricorderete di me, oh sia, non per maledirmi, ma per compiangere al mio destino e per perdonare alla mia memoria. Cati.» XV. LA DONNA DI OSOPO.[6] Deus meus, Deus meus, ut quid dereliquisti me? SAN MATT., XXVI. — Dio lo sa, Maddalena, s'io ti sono grata!.... Ma non posso più oltre permettere che tu ti cavi il tuo pane di bocca per darlo a noialtri! — Oh non pensare per me, ti scongiuro! Stà certa che il Signore provvederà.... — Queste parole si scambiavano con mesto affetto due giovani donne in una stanza a pian terreno nel villaggio di Osopo. Dalle lunghe tavole, dalle panche di legno situate ai due lati della stanza, si capiva che quel luogo in altri tempi aveva servito ad uso di osteria; ma ora era nella solitudine, nè vi vedevi altri personaggi che le due donne accennate: la prima, la padrona di casa, seduta colla persona abbandonata e la testa nascosta fra le mani; una testa languente come di un fiore appassito, le mani scarne e pallide quasi di cera; l'altra era una bella fanciulla vivace, sorridente, le guance fresche come un pomo, ma le solcava una lacrima. Ella aveva deposto sulla tavola vicino all'amica un cestino di uva e una salvietta ricolma di farina. — Questa è l'ultima uva della mia pergola, diss'ella, e la porto a' tuoi bambini perchè a me non fa più di bisogno. Esci un momento, Rosina mia, e vedrai che non ti dico bugie. — E presala per il braccio, la forzava dolcemente ad uscire seco nel cortile. Il sole era vicino al suo tramonto, un fascio di nubi tenebrose occupava la cima del monte di Geònis, e alcune fumate di nebbia s'alzavano dal Tagliamento e su per la brulla schiena della montagna andavano ad agglomerarsi a quelle nubi che ogni tanto davano un lampo. — Guarda! disse la giovinetta, questa sera senza dubbio farà temporale; e io allora non avrò paura dei soldati, uscirò dal villaggio, anderò a Udine, mi metterò a lavorare e non morirò più di fame. — Oh! s'io non avessi quelle due meschine creature.... gridò la povera madre. — Senti, Rosina, quand'io sarò a Udine cercherò di tuo marito, gli farò sapere la vostra orribile situazione.... e chi sa ch'egli non possa venirti a trovare e recarti qualche sussidio gettandosi più su nelle acque del Tagliamento e capitando qui a nuoto come fanno quegli arditi della fortezza.... — Ma Rosina scoteva la testa, e l'altra non osava continuare, perchè sentì nel cuore raggruppato che quell'era una troppo vana speranza, ed ahi! ella non aveva che lacrime per consolare l'immenso dolore di questa disgraziata che già presentiva tutti gli orrori dell'irreparabile destino. Si abbracciarono piangendo, si divisero mute, senza neanche potersi dare un addio, ch'entrambi pur troppo sentivano come doveva essere l'ultimo quaggiù sulla terra. Rientrata la Rosina, tornò a sedersi nella sua seggiola, e mestamente ripensava al suo passato. Due fanciulletti scherzavano a' suoi piedi, innocenti creature, ignare della loro sorte, vispe ed allegre come l'agnellino che non sa d'esser tradotto al macello. Si arrampicavano sulle sue ginocchia, volevano ad ogni tanto baciarla, ed ella accarezzando or l'uno or l'altro lagrimava involontaria sulla loro candida fronte. Un vento impetuoso s'era intanto sollevato, il tuono facevasi sentire più frequente e più romoroso, e ad intervalli appariva illuminata dai lampi la finestrella che dietro al focolare guardava dalla parte della montagna; alcune grosse gocce di piova cominciarono a percuotere nei vetri, la porta si spalancò con impeto lasciando entrare come un'ondata della bufera che imperversava al difuori. — Vien tempo cattivo! gridavano i fanciulletti; e la donna corse a chiudere le imposte ed accese un lumicino, poi di nuovo sedutasi pareva ascoltare con una specie di secreto compiacimento lo scroscio della pioggia che già cadeva a torrenti, e l'urlo e il fracasso dei tuoni. Ella pensava all'amica, e la speranza che quel temporale valesse a proteggerne la fuga, l'aveva per un momento rianimata. Il lumicino ch'ella aveva acceso non bastava a rischiarare tutta la stanza piuttosto vasta e all'antica, colle travi alla Sansovino. Illuminava le teste amorose dei fanciulletti e quella melanconica di lei, poi dolcemente si perdeva nelle tenebre, lasciando apparire una sola delle pareti, quella di contra, dove col carbone, ma a tratti di mano esperta, stavano effigiate alcune figure di grandezza naturale. Pareva una specie di corteo nuziale, e la sposa, benchè non avesse la faccia rivolta allo spettatore, nell'aggraziato movimento della persona, nella leggiadria e nella sveltezza del torso, e nei molti capegli raccolti in trecce, che con alcune linee maestrevoli erano figurati sotto il velo abbozzato cadente sulle spalle, ricordavano così caratteristicamente la bella persona della padrona di casa, che subito t'avvedevi com'ella aveva dovuto servire di modello a chi aveva lì delineata quella scena. Forse che quell'abbozzo improvvisato sull'affumicata parete senza i mezzi dell'arte, era lo slancio amoroso di un'alma contenta della felicità de' suoi buoni amici; forse ch'egli era stato creato tra l'allegria dei bicchieri da un pittore, che così aveva voluto consacrare la gioia domestica de' suoi congiunti di sangue, o fratelli di fede; e chi sa di quai sogni dorati e di quali dolci speranze lor sorrideva in quel giorno la mente; la mente piena della poesia dei giovani anni, sotto l'influenza di un'ora felice nel trasporto e nell'effusione dell'amore? L'avvenire ch'essi allora così lietamente prevedevano, era intanto sopraggiunto; ma dov'erano adesso le persone ivi effigiate? Dove il pittore? Una sola rimaneva ancora al suo posto, la povera donna, ma come cangiata! Quella nobile testa eretta e così piena di brio giovanile si piegava come rosa disfogliata a guardare la terra. Gioia, amore, speranza, tutt'era svanito. Del suo ridente passato non le rimanevano che queste due povere creaturine; memoria de' suoi giorni più belli, sangue e vita del suo cuore, epilogo d'ogni suo affetto, e destinate purtroppo ad una sorte fatale. Ella che le amava più delle sue viscere, avrebbe dovuto tra breve vedersele morire d'inedia.... Simili alla pianticella che il sollione aduggia in grembo a una terra inaridita, ella le avrebbe tra poco vedute appassire sulle sue ginocchia, senza poter loro porgere una sola stilla di refrigerio.... Le prese fra le sue braccia, le strinse al cuore con un impeto di disperato cordoglio, e bagnandole di lacrime le coricò nel letticciuolo a sè dappresso, implorando per esse la misericordia di Dio. — Passarono otto giorni. Il sussidio recatole dall'amica già era al suo fine. Dopo quel dì nessuna nuova di lei. Doveva aver passato la linea dei soldati senza pericolo. Oh! s'ella avesse potuto fare altrettanto e provvedere un po' di pane a' suoi morenti figliolini! La disperazione, la fame, l'amore di madre vinsero la sua naturale timidezza, e s'accinse a tentare, anch'essa l'uscita. Oramai non v'era più mezzo, lì si moriva indubitatamente. Nessun soccorso, nessun'altra speranza; l'istinto della propria conservazione aveva già chiuso tutti i cuori. I pianti prolungati dei fanciulletti che chiedevano pane l'era diventato martirio insopportabile. Risolse di trapassare le file dei soldati e di procacciar loro ad ogni costo un tozzo di pane. Coll'ultimo pugno di farina aveva loro apparecchiato un po' di cibo. Mentr'essi mangiavano ella piangeva. Il più grandicello se ne accorse, e lasciato il cucchiaio s'arrampicò fra le sue braccia a baciarla, e colla pezzuola del seno di lei s'ingegnava di tergerle le lacrime. — Non hai più fame, Vigino? — chiese la donna colla voce soffocata. — Sì che ho fame! ma tu piangi.... — Or via, cuor mio, finisci di cenare e poi anderemo a far nanna, e prima diremo insieme le orazioni. — Anch'io le orazioni, mamma, anch'io!.... — balbettò colla bocca piena l'altro piccino. — Anche tu sì questa sera, perchè dimani io vo fuori, e voi altri dovete esser buoni e dormir quieti nella vostra cuna finchè venga a vestirvi la vicina Natalia. — Ci farai dire l'orazione lunga, quella pel ritorno del babbo? — Ella non rispose; ma preso in braccio il piccolo, saliva le scale piangendo, mentre Vigino attaccato alla gonna le si strascinava dietro. Quando furono di sopra li fece inginocchiare dinanzi ad una Madonna, e recitò alcune preghiere, ch'essi ripetevano balbettando colle manine giunte e cogli occhi fitti nella santa immagine. Poi li coricò. Non finiva mai di baciarli, accarezzava or l'una or l'altra di quelle due bionde testoline, strigneva tra le coltrici quei due cari corpicciuoli, e ogni volta ch'essi aprivano gli occhi sonnacchiosi a rimirarla, sentivasi il desiderio di un nuovo amplesso, e lor mormorava tutti quei dolci nomi e quelle parole d'immenso amore che sono nel solo linguaggio della madre. Poi quando le parvero assopiti s'inginocchiò ai loro piedi e pregava col cuore: — Dormite, angioli miei, dormite tranquilli! Oh! s'io potessi alimentarvi col mio ultimo respiro.... Mio Dio, che me li hai dati, mio Dio, che hai santificato l'amore della mia gioventù coll'animare queste due creature che sono sangue e vita di lui che ho tanto amato, li metto nelle tue mani, custodiscili tu, e non permettere ch'io me li vegga morire di fame! Madonna benedetta, per l'amore di quel bambino che tenete fra le braccia, pietà di questi due poverini!.... Oh, guardate che soave dormire! Essi non sanno nulla del loro crudele destino. Si sono stesi nel loro letticciuolo tutti contenti, si sono abbandonati al sonno in piena buona fede come se fossero i figliuoli di una ricca regina.... e dimani neppure un briciolo di pane per nutrirli!.... Oh creature mie così belle, così amorose!.... e dovrete morire di fame? E non vi sarà più misericordia nè in terra nè in cielo? Io non dimando che un tozzo di pane per la vostra vita! Possibile che le lacrime di una madre non sieno esaudite? Madonna benedetta, che avete provato a esser madre, copriteli col vostro manto, teneteli sul vostro seno insieme col vostro bambino finchè io torni a salvarli.... — E tutta lacrime si alzò. Si avvolse in un bruno fazzoletto. Poi prima di partire tornò ancora una volta vicino alle loro cune, li benedì entrambi col segno della croce, ed uscì tacita e guardinga lasciando semichiusa la porta. Era la notte alta: pel villaggio un silenzio come di morte; tutte le case all'oscuro e le vie affatto deserte. La donna fatti alcuni passi si fermò dinanzi ad una casa e gettò un sasso nella finestra. Una specie di fioco lamento che finiva in un rantolo come di moribondo le rispose. Stette un momento in attenzione, ma nessuno si mosse. Allora ella gettò un secondo sasso e, — Natalia! gridò, Natalia, venite alla finestra. — Si rinnovò più forte il lamento, e pareva accompagnato da parole d'impazienza; finalmente le imposte scricchiolarono, e una voce rauca, quasi sibilante dimandava: — Avete dunque risolto? Volete proprio andarci? — Ma sì, Natalia, altrimenti essi muoiono di fame. — Oimè! oimè!.... e se vi fermano? Ricordatevi che la Giulia e la comare Teresa le hanno condotte in prigione a Gemona. E v'ingannate, continuava rialzando la voce a guisa di fischio, v'ingannate se credete ch'io possa nutrirvi le vostre creature. Son otto giorni che non vedo briciolo di pane, e quando non ce n'è non si può dare, capite! — Mio Dio, Natalia, non vi domando pane! Andate solamente dimani a vedere di loro. Io già a quest'ora sarò di ritorno. — E dimani, chiese la vecchia, come si vivrà dimani? — Cotesti pomi basteranno a tenerli vivi per dimani; — e tiratasi indietro le lanciò dentro della finestra il fazzoletto raggruppato. Intanto la luna mostravasi languidamente in cielo fra le nubi spezzate. Le due donne si salutarono, e la povera madre rasente il muro fuggiva via silenziosa come un'ombra cercando i luoghi più tenebrosi. L'altra coi gomiti alla finestra e colla testa fra le mani stette ancora un pezzo a riguardarla. Il lume della luna in quel momento la rischiarava, e quella faccia macilente, quelle forme biancastre e puntite che si disegnavano su d'un quadrato di tenebre, come su d'un panno mortuario, avevano un non so che di sinistro. Pareva l'abbreviatura della morte, così come sogliono figurarla sui catafalchi: un cranio e due ossa in croce. Erano più giorni che la fame macerava quel povero scheletro vivente. Ora la fragranza dei pomi lo aveva come rianimato. Appena udito il tonfo della loro caduta sul pavimento, la sua mano scarna come un uncino corse ad afferrarli, e per una specie d'istinto se li appressò subito alle labbra. Poi mormorava: — Uno, due, tre, quattro pomi! Gli è un bel dire, ella ha ancora dei pomi pe' suoi bambocci! Chi può averglieli dati? Eh mio Dio! quando si è giovani si trova compassione; ma io potrei picchiare a tutte le porte del villaggio che non buscherei neppur una presa di farina. Direbbero che ho vissuto abbastanza.... Sono già più giorni che nessuno dà niente! Oh mio Dio! La fame!.... la fame!.... gli è un cane che latra nello stomaco.... — Ed appoggiò sulle frutta le labbra inaridite. Assaporava in una specie di estasi il loro profumo.... Tutto ad un tratto, come se si fosse innebriata, come se le fosse svanita la mente e più in lei non potesse che il solo istinto animale, si mise a rosicchiarli. Dimenava le mascelle con una specie di furore, nè ristette finchè non se li ebbe affatto ingoiati. La povera madre aveva intanto varcato l'estremo confine del villaggio; udiva il passo monotono delle scolte austriache; più che mai guardinga s'inoltrava lentamente studiando la via, teneva il respiro, pregava coll'anima, e alla minima buffata di vento che movesse le frondi o le facesse scrosciare le vesti, gettavasi per terra, un brivido di spavento l'invadeva, e tremava perfino dei battiti del proprio cuore, poi tornava ad avanzarsi strisciando così carpone. Aveva appena oltrepassato il primo scaglione, quando s'accorse d'essere discoperta; raccolse con ambe le mani la gonna e si pose a fuggire; ma il grido della sentinella, lo strepito dell'arma che questa aveva abbassato, e la paura d'incappare nell'altra di contro, che anch'essa era uscita a darle la caccia, la fecero fermare benchè già fosse quasi fuori di tiro. Vedendosi perduta, la misera donna s'inginocchiò, e guardando all'occhio tremendo del fucile che biecamente la minacciava, e protendendo le mani, gridava desolata: — Pane per i miei poveri figliuoli! Io non dimando che pane!...[7] — Pane? _Kruca_! — ripetè il croato, e mostrandole un pezzo di pane da munizione l'invitava con un selvaggio sorriso a venirlo a prendere dalle sue mani. Sorse la donna, e non aveva fatto due passi che fischiò la palla e la colpì nella fronte. Cadde supina, e le lunghe chiome arrovesciate fecero origliere a quella pallida faccia, su cui anche dopo fuggita l'anima errava il pensiero dei figliolini traditi e morenti di fame. — Alcuni giorni dopo, cacciate dal lungo digiuno, strillavano per la strada di Osopo due meschine creature. In camicia, cogli occhi infossati, coi capelli irti, sparuti e colore di cenere, chiedevano della mamma, e la loro voce sempre più languida ed infiochita diveniva una specie di gemito che passava l'anima. Quelle membra istecchite, quel collo lungo e sottile per cui vedevi a passare quasi il respiro, quelle ossa che potevi ad uno ad uno dinumerare, erano uno spettacolo d'infinita compassione. Dopo molto aggirarsi, guidati da una specie d'istinto, essi si strascinarono sul cadavere della povera donna. Nella loro innocenza credevano che dormisse, e, — Su, mamma! le gridavano, su, svégliati! — Andiamo a casa, mamma! — La Natalia non è stata a vestirci. Nessuno è stato a vedere di noi.... — Nessuno ci ha dato niente!... — Mamma! su via, moviti una volta!... — Oh! se a cotesta scena di lacrime fosse stato presente l'uomo che li aveva generati! Verrà forse un giorno in cui, dopo molte e inenarrabili sventure, tratto dal desiderio de' suoi monti nativi, ei tornerà a rivedere questa povera terra tradita. Ei tornerà!... e dinanzi al villaggio desolato dalle fiamme e dalla rapina, dinanzi alla smantellata fortezza,[8] sulla pianura che dicono Campo una piccola croce di legno gli additerà tutto ciò ch'egli aveva di più caro quaggiù sulla terra.... Ma allora il suo cuore esulcerato dovrà piangere per ben altri e più tremendi disastri! XVI. LA RESURREZIONE DI MARCO CRAGLIEVICH. È caduta la spada dal fodero, ha nitrito il cavallo di Marco. — Il cavallo di Marco Craglievich l'han sentito nitrire sul monte d'Urbina, in Prilipa dalle bianche case, nelle foreste e nelle valli della Serbia, lungo le sponde del nero fiume, l'han sentito a Samodresa, e nella pianura di Còssovo; fin tra le nude rocce della Gernagora l'eco ha ripetuto il suo nitrito. Craglievich Marco si sveglia. Sul fianco del monte d'Urbina sono ancora due vecchi abeti, e in mezzo a loro un pozzo. Essi vincono ancora in altezza la cima del monte, ma le loro braccia percosse dal vento e squarciate dal fulmine han perduto la verdura; negro, solcato dal tempo, si specchia nel fonte l'immane loro tronco. — Han veduto nell'acqua bruna come lume di luna lucente, ma non era lume di luna lucente, era l'ultima lettera di Marco caduta nel pozzo dai rami degli abeti a cui egli l'aveva appesa prima di morire, era il calamaio d'oro ch'egli aveva gettato nel pozzo, che or torna a risplendere e manda raggi sulla faccia dell'acqua. Craglievich Marco si sveglia. La terra ha tremato, dalla bocca del pozzo fin giù nell'acqua profonda si è udito un sordo fragore come di vento sotterraneo, che ha rivelato i misteri della fontana. Dalle radici del monte d'Urbina ei s'è propagato fino a quelle dell'Atos, là dove il fiume sbocca improvviso dal masso, e poi torna ad inabissarsi in un'umida argillosa caverna. Il santo abate di Vasa col suo discepolo Isaia in quelle caverne portarono d'Urbina il cadavere di Marco e lo seppellirono nel mistero vicino all'acqua bruna. Gli alberi pendenti dall'alto gli gocciarono per anni ed anni sul capo le loro lacrime. Or s'alza dalla voragine un groppo di nubi: vanno le nubi lentamente volteggiando per tutto il paese. Or alte, or basse, or percosse dal sole, ed ora dal vento, cangiano di forme, cangiano di colore. Talvolta si distendono come un ampio velo di nebbia e salgono i greppi della montagna, poi nella valle si condensano e mandano lampi. Tra i lampi si vede il dosso d'un cavallo pezzato, si vedono le punte dorate d'un immenso busdorano. Talvolta fanno groppo e sopra ad esse giganteggia il capo d'un guerriero. Il berrettone di zibellino calcato sulla fronte si confonde colle nere sopracciglia; i neri mustacchi, fini mustacchi gli cadon sugli omeri. Poi la nube lo copre, e n'esce invece la pelliccia di lupo arrovesciata, e il pomo della spada damaschina, e l'auree nappe che dánno in terra; poi la testa del cavallo pezzato sanguigna fino agli orecchi; dall'unghia gli scintillano vive faville, dalle narici gli balena azzurra fiamma. Il freno è una serpe, una serpe lo sprone. Stridono le serpi, nitrisce il cavallo, e la maestosa visione percorre la terra. Donne vestite a lutto, madri piangenti, vedove e fanciulle desolate escono dalle loro case per tutto dove passa e guardano; guardano e sentono che è venuto il giorno fatale. — Ma dove sono i prodi destinati ad affrancare la patria? forse accampati sulle rive del nero fiume pronti a varcarlo per la libertà? forse nelle foreste della Serbia a giurare un patto colla stirpe del generoso Milosio? forse inginocchiati d'intorno alla tomba di Dositeo pregano l'aiuto di Dio, e ricevono dalle mani del serbico patriarca e de' suoi dodici prelati la santa comunione? o ai piedi della Kraina disposti in ordine di battaglia aspettano il segnale per gettarsi come tanti leoni sulle falangi dei Turchi a rivendicare i loro sacrosanti diritti? Il nero fiume scorre in silenzio fra le rive abbandonate; nelle foreste della Serbia non si giura nessun patto, solo pascono in pace le numerose mandrie degli animali della libertà; è deserta la tomba di Dositeo, e al passaggio di Marco si commovono solo le ossa del padre della patria, e dánno un gemito sotto la pietra sepolcrale. Il vento freme fra le nude rocce della Kraina, ma non vi sono nè cavalli, nè guerrieri. — Essi saranno accampati nella pianura di Còssovo — grida Marco, e arrabbiato cavalca alla pianura di Còssovo. — Come stoppie disseccate dal sole e dal tempo, stridono sotto le unghie del cavallo le ossa dei morti per la libertà; le ossa di Lazzaro Conte, dei nove Giugovich e del loro esercito; ma in tutta la pianura non vede Marco anima viva. Con voce tremenda grida Marco ai quattro venti: — È venuto il giorno della Redenzione! or dove sono i nostri prodi? — Volarono due negri corvi; uno veniva dal settentrione, l'altro dall'occidente, i rostri avevano insanguinati fino agli occhi, gli artigli fino al ginocchio, e calati nella pianura amara, si posarono entrambi in faccia a Marco sulle ossa dei morti, e gridavano. — O corbi fratelli in Dio! disse allora Marco, venite voi dal settentrione, venite dall'occidente? vedeste i nostri armati? vedeste i figli della nostra terra? sanno essi che il giorno è venuto? saranno essi qui in breve per la battaglia della libertà? — E i due vecchi corvi rispondono: — O Marco figlio di Vacassino e di Santa Gevrosima, o Marco gloria ed onore di Slavia! noi vorremmo darti buona novella, ma non possiamo se non qual è. — E l'uno dei corvi gracchia, e l'altro dice: — Vengo dall'Italia: freme l'Italia e non vuol più servire a Cesare; manda Cesare a domarla i figli del tuo paese. Cento migliaia passano i monti, cento migliaia varcano il mare. Lì fui, lì vidi. Saccheggiarono, distrussero, incendiarono. Hanno cavato gli occhi ai santi, hanno insozzato gli altari, hanno insultato le donne, hanno uccisi i fanciulli, hanno bevuto del loro sangue. Lì fui e lì vidi quando cozzarono le schiere: degl'Italiani non so che rimane, e de' tuoi quel po' che rimase feriti e in sangue. Hanno per altro vinto i tuoi, ma l'Italia quietarsi non può. — Quando ciò sente Marco, egli strilla come stizzita serpe: — Ahi! ahi! mala novella è codesta, o corvi, ahi! ahi! Non era contro l'Italia ch'essi dovevano pugnare. Che importa a noi dell'Italia? forse che le sue catene ci pagano il nostro sangue? forse ci giova l'aver lasciato in Italia le nostre ossa or ch'è venuto il giorno della Redenzione? or chi dunque combatterà per noi? — E il corvo gracchia, e l'altro dice: — Restavano ancora al Bano mille e mille prodi pronti a pugnare per i loro diritti. Aveva il Bano occhi di falco, cuor di poeta; ma gli hanno chiusi gli occhi con una benda d'oro, coll'oro avvelenato il cuore. Passarono il Savo; acqua impetuosa e fredda. Credevano di pugnare per la libertà, ma non erano che martello in mano all'oppressore. Lì fui, e lì vidi quando i due eserciti si affrontarono. Quindici mila cadaveri hanno coperta la terra; ho mangiato della loro carne, ho bevuto del loro sangue. Quindici mila sono morti, ma non per la patria! sono morti, e si maledice al loro nome! Il Bano ha varcato allora il nero fiume e minacciava la bianca città dello imperatore. Lì fui, e lì vidi; han combattuto, han vinto. Saccheggiarono, distrussero, abbruciarono. Ma Vienna quietarsi non può, e il loro nome sarà maledetto. — Quando ciò intese Marco, versa lacrime Marco pel guerriero viso, e tra le lacrime così crucciato impreca: — Cada il sangue de' traditi sul capo de' traditori! o Bano che potevi far libera e grande questa terra, e invece l'hai macchiata d'eterna infamia; possa la fredda Sava ingoiarti insieme coi nostri nemici! Molte madri hai trafitte, e mogli alla famiglia rimandate, e dolci sorelle fatte vestire a lutto. Oh! tanto sangue versato e versato indarno! Era venuto il giorno della Redenzione, e voi vi siete ricordati del mio male e non del mio bene! Vi siete ricordati del padre Vucassino e non della santa mia madre Gevrosima. Io combattevo pel giusto e per l'oppresso. Contro Vucassino padre e re io aggiudicava l'impero al giovanetto Urosio, e voi avete pugnato contro la giustizia. Dalla mano del Turco io rivendicavo la spada damaschina su cui erano incise le tre lettere cristiane, e voi avete data la vostra agli oppressori. Io liberava dal carcere i fratelli, dalla schiavitù le fanciulle, percorreva la terra soccorrendo agl'infelici, e spezzando ogni sorta di catene, sicchè un giorno in questa istessa pianura di Còssovo e grandi e piccoli gridavano: Viva Marco che la terra dal malanno francò, che stritolò della terra il tiranno! E voi invece siete corsi nelle file del tiranno a ribadire le catene delle nazioni sorelle. Oh vi siete ricordati della maledizione di mio padre e non del motivo che me la fece incontrare! Vi siete ricordati di quando io raccoglieva l'oro nella tenda dei vinti, della mano tagliata a Roscanda, degli occhi cavati, avvolti nella sua pezzuola e a lei buttati nel seno; del vino che io beveva in Istambùli, del peccato ch'io confessava a mia madre, e per cui tanti edificai monumenti; vi siete ricordati della mia lunga servitù nelle case del Turco, ed ecco che avete perciò tradita la patria e rinunziato al giorno della sua Redenzione! — E cadde di cavallo, nè più si sveglierà finchè non sia pentita la terra. XVII. IL CONTRABBANDO. I. I BURATTINI. Passate le ultime case di Predemano, la fanciulla rimasta sola affrettava il passo verso l'alveo del torrente. Il sole era già tramontato, e un ultimo soffio di luce purpurea pareva baciare in oriente le lontane creste dei monti, mentre il suo riverbero faceva più gaio il verde delle sottoposte colline. Era la prima volta ch'ell'era stata a Udine senza la compagnia della madre. Portava sul capo un grosso fardello di lana, ch'ella s'aveva comprato coi guadagni de' suoi filati; e la notte imminente, e quella vasta spianata a quell'ora affatto deserta, tranne un carrettino che a lei dinanzi lentamente attraversava le ghiaie, le mettevano in cuore un senso di recondita paura, per cui benchè stanca camminava più lesta, e quando fu alla cappella della Madonna ella aveva già raggiunto il cavallo che montata la riva andava a passo riposandosi della fatica dell'alveo. — Giannetta quasi involontaria posò il suo fardello sulla tavolina dietro il biroccio, e poi dato un salto anch'ella vi si assise dappresso. — Ehi! che fai tu lì ragazza? le chiese il padrone del biroccio; vuoi col tuo peso rompermi la tavolina? — E fermato il cavallo che zoppicava smontò a liberargli la zampa, chè nel passare il torrente s'aveva inchiodato un sasso nel ferro. — Sono così stanca, signore, rispose la Giannetta, che fareste proprio una carità a condurmi sin a Butrio. — Quell'uomo era una specie di fattore di campagna che amava i contadini. Ei la fece montar dentro, e continuava la strada guardando in silenzio quella bella ragazzetta che non mostrava più di quindici anni, e che tutta rubiconda gli sedeva dappresso tenendo sui ginocchi il suo grosso fardello di lana. Aveva il capo in un bruno fazzoletto a croce colle frange colore scarlatto; i cui lembi passati sotto il mento le riuscivano ad annodarsi al sommo della testa, formando così intorno a quel grazioso visino una specie di bizzarra aureola che ne accresceva la vaghezza. Non erano andati appena un tiro di fucile che s'accorsero come un'altra giovinetta teneva lor dietro correndo, e sforzandosi di raggiugnerli: — Ehi, signor Biagio! gridava trafelata, fermate signor Biagio! — E che cosa ti occorre? — Oh bella! fermate il biroccio — E così? — diss'egli trattenendo le briglie. — Siete in buona compagnia, signor Biagio! ma mi pare che c'è sito, e che potreste prendere anche me. — Dove se' stata fino a quest'ora? — A Udine come voialtri, se non mi inganno, e sono stanca. Vi ho lampato che montavate la riva della Madonnetta, e vi ho corso dietro sino a qui. Io non peso cinquanta libbre, signor Biagio, e dico io, quando avete fatto grazia ad una forestiera, potete meglio farla a me che sono del vostro paese. — Ed era già montata vicino alla Giannetta, mentre il buon uomo si tirava alla banda per farle spazio. — Tuo padre è dunque rimasto a Udine? — Mio padre ha buone gambe, messere, e spero che sarà a casa — rispose l'ardita mingherlina, mentre sogghignava in aria di mistero. Il fattore brontolò fra' denti alcune parole brusche, poi fattosi serio toccò il cavallo, e pareva assorto in qualche grave pensiero. Allora quella vispa chiacchierina, veduto che il signor Biagio non le badava, si mise a discorrere colla Giannetta, e: — Hai comperato a Udine quella lana?... Ci vogliono delle lunghe ore a filarla, capisci?... Oh, val meglio provvedere alla bella prima in bottega i vestiti; guarda questo mio com'è bellino!... Sei di Butrio neh? — E poi: — se' stata quest'oggi sulla piazza dei polli? — Oh no! rispose la Giannetta, non ci ebbi tempo, o per meglio dire ho perduto il mio tempo nel passare per la piazza di San Giacomo nel momento di quel gran sussurro.... — Eri dunque anche tu lì, quando quei brutti cani davano la caccia al contrabbandiere? — Sperava di trovar una donna del mio paese venuta a vender frutta, e ho veduto tutta la scena. Se non era quel giovanotto a liberarlo, voleva passar male al poveretto.... — Ma com'è stata? Io ero a veder la commedia sulla piazza dei polli, e solo tardi la gente mi ha raccontato.... — Credo che avesse del tabacco. Aveva venduto e numerava i soldi, quando le guardie lo hanno adocchiato e gli sono andati addosso in quattro. Egli si difendeva colle mani e coi piedi, con un coraggio!... e tutta la gente affollata intorno, che mai più tanta calca. A forza di dargli, te l'han gittato in terra, gli han tolto il cesto; e stavano per legarlo, quando un giovinotto, un bel giovinotto che non dimenticherò se vivessi mille anni, salta in mezzo, un calcio all'uno, un pugno all'altro, li sbalordisce, gli dà tempo di rialzarsi; egli riprende il suo cesto; e via come la folgore tra mezzo i _bravo!_ della folla meravigliata. Lo inseguono, egli entra in una casa, trova la chiave su d'un cancello, si precipita e chiude il cancello; ma un di que' dannati che gli era dietro al pelo passa la mano tra i ferri e lo piglia pe' capelli. Egli allora si volge e colle unghie e co' denti tenta di sbrigarsi, indarno; era tutto insanguinato il braccio, e nondimeno colui resisteva. Il contrabbandiere allora cava la ronca, e affè ho creduto che gli tagliasse la mano, se non era pronto l'altro a ritirarla. Quando hanno aperto, egli se l'aveva, grazie al cielo, di già svignata scalando il muro di un orto; e se tu avessi veduto come sono rimasti con tanto di naso! — Brutti _pilucchi_! — mormorò l'altra. — Ma che commedia se' tu stata a vedere sulla piazza dei polli? — chiese la Giannetta che infervorata nel racconto di quell'avventura aveva preso un po' di confidenza con la compagna. — Non hai tu mai veduto la commedia? — Io no, diss'ella. In città io ci bazzico poco: ci vo talvolta con mia madre, ma spedite le nostre faccenduole torniamo presto a casa; soltanto quest'oggi ch'ero sola ho fatto un tantino più tardi. — La commedia! Oh io ci ho un gusto matto. Se m'accorgo che ci sia la commedia, io ve' ci vado se credessi di tornarmene a casa dopo la mezza notte. Immaginati un palchetto alto così come il pulpito dove predica nei dì di sagra il nostro piovano.... — L'ho veduto io un giorno passando per la piazza, e c'era tanta gente! Ma mia madre non ha voluto fermarsi; diceva che le sono fattucchierie, e che quelle meraviglie le fanno in virtù del demonio. — Sarà stato in dì di mercato, quando Pagliaccio mangia le stoppe e le digerisce in cordella, si caccia in corpo uno spiedo, inghiottisce fuoco ed altre simili gherminelle; ma la commedia è un'altra istoria. Ci sono degli omiciattoli niente più alti del tuo cubito, e là su quel palchetto parlano fra loro, camminano, ballano ch'ell'è una gloria a vederli. Oggi ce n'era uno cattivo e brutto come un satanasso, e aveva nome.... aspetta; aveva nome Brighella. Questo signor Brighella con una vocina tutta nel collo bestemmiava.... Oh mio Dio, se tu avessi sentito che razza di bestemmie! I nostri uomini, neanche quando vengono a casa ubbriachi non ne sanno di così fiorite. Aveva sposato una certa signora Colombina, e gliene faceva di tutti i colori. La disgraziata aveva un bel piangere; per tutto conforto ei le regalava delle buone busse, e non mica coi pugni ve', con tanto di mazzafrusto! e a forza di dargliene ei te l'ha finalmente accoppata; allora il birbante la getta a cavalcioni del suo mazzafrusto e la porta via così a seppellire senza neanche metterla nella bara. Un altro omiciattolo con tanto di barbetta grigia cápita a dimandargliene conto. Vestiva una zimarra negra e lunga fin quasi alle calcagna, sott'abito di scarlatto, un coltellaccio nella cintura, e in testa una berretta a borsa ripiegata sulle spalle così come quella che si mette talvolta qui il signor Biagio l'inverno, quando viene a farci visita nelle nostre file; e dietro aveva un servitore col viso nero come il carbone, e l'abito a cento mila colori. Costui, un capo nuovo, ne diceva delle pazzie da farci crepar dalle risa. Io contenta sperava di veder fatta giustizia. Ma invece, indovina mo! vien fuori Brighella col suo mazzafrusto, si attaccano, si picchiano, si pigliano pel collo. Parevano due galli d'India ben bene arrovellati; e il perfido l'ha vinta, e invece di veder giustizia, ho veduto accoppati e stesi per terra tanto il buon vecchietto dalla zimarra come quella cara gioia di quel matto moretto del suo servitore. — Intanto erano arrivati a Butrio; Giannetta smontò ringraziando, e gli altri due continuarono la strada fino a Manzano. II. LA PREDICA E IL SUO FRUTTO. Acceso un buon fuoco nel camminetto del suo scrittoio a pian terreno, il signor Biagio, cogli occhiali sul naso, stava scartabellando un grosso libro di conti, e ad ogni voltar di pagina andava centellando qualche sorso di rebòla che in panciuto fiascone, collocato a lui dappresso nella cavità del muro, rifletteva in lampi dorati il sereno guizzare della fiamma. Il signor Biagio era un buon galantuomo che nella sua gioventù aveva fatto una grossa bestialità: così almeno il paese aveva giudicato il suo matrimonio colla Betta, una povera contadina che non aveva che le braccia. Possedeva quaranta campi di suo, aveva ottenuto a Padova il diploma di dottore, avrebbe potuto trovar buona dote, piantarsi in qualche città e vivere decorosamente come avvocato, o percorrere la carriera degl'impieghi. Invece incocciatosi in quel suo amore alla pastorale aveva rinunciato a tutti questi vantaggi per farsi campagnolo, anzi quasi contadino, poichè lungi dal far cangiar stato alla moglie e vestirla signorilmente, s'era adattato alla condizione di lei, e trovatasi una casuccia lì nel villaggio aveva salariati due giovani famigli; e provvisti gli attrezzi e gli animali necessari, faceva lavorare in casa i suoi campi, ed educava all'agricoltura i propri figli. Aveva fatto il suo calcolo. Co' scarsi suoi modi difficilmente avrebbe potuto procacciar loro un'educazione cittadina; e se anche a forza di stenti fosse riuscito a farli addottorare, egli, che conosceva per pratica i costumi e la vita della università, temeva che a carriera compita per tutta paga dell'amore ch'ei loro portava, avessero potuto disprezzare la madre, e condannarli forse entrambi ad una vecchiaia solitaria e desolata. Meglio, pensava egli, agiati contadini, padroni del loro campo e della loro vita, che miseri impiegati, avvinti a una troppo pesante catena e, quel ch'era peggio, a risico di perdere quella freschezza di cuore e quella fede dell'anima, ch'egli aveva veduto più che altrove crescere e mantenersi rigogliosa nell'aria libera dei campi e sotto la sferza del sole. Ad onta del biasimo de' suoi benevoli vicini, egli aveva in buona parte raggiunto il suo scopo; e il sacrifizio della sua condizione per abbassarsi a quella della moglie gli era stato largamente compensato dalla felicità che godeva. La nascita di un figlio, lungi dall'essere un pensiero che lo crucciasse pel futuro provvedimento, era invece una festa di famiglia, perchè ad ogni nuovo individuo egli vedeva aumentarsi coi mezzi di lavoro la prosperità de' suoi campi. Infatti egli aveva avuto dal suo matrimonio quattro figli maschi e una femmina, ed istruiti dal padre a leggere a scrivere e in quel tanto che addicevasi alla loro condizione, erano l'esempio degli altri giovani; e tutti lavoravano, e il suo poderetto veniva indicato in paese per modello, e più d'uno dei possidenti dei dintorni ricorreva al signor Biagio perchè dirigesse qualche loro nuovo lavoro, o désse lumi per una saggia amministrazione; ed ultimamente aveva anche ottenuto l'agenzia di un ricco signore, che a causa delle recenti vicende aveva dovuto emigrare, sicchè egli s'andava ogni giorno facendo più forte. I conti ch'esaminava appartenevano appunto ad un colono di questo signore, ch'egli aveva fatto chiamare, perchè non era bene contento della sua condotta. Quando fu venuto: — O compare Martino, gli disse, sedetevi qui e discorriamola un poco assieme! — e lo fece accomodare dall'altro lato del camminetto offerendogli un bicchiere di rebòla. Martino gettò in un angolo il suo cappellaccio e si mise ad assaggiarla guardandola ogni tanto con occhio amoroso di contro alla vampa i cui raggi pareva godessero accarezzarne la schiuma. Martino era un uomo di circa quarant'anni, robusto e snello della persona, folta la chioma, due occhi bigi vivacissimi ed arditi come quelli del falco, il volto abbronzato di forma piuttosto quadra. Aveva nel suo portamento e in tutti i suoi atti un non so che di risoluto, pareva un vecchio militare o un marinaro che sfida e ama l'infuriar dei venti e le tremende procelle del suo mare, non mai un contadino. — Ho qui la vostra partita, gli disse il signor Biagio, che continuava ad esaminare il suo grosso libraccio, e trovo che da tre anni a questa parte voi mi siete rimasto indietro, compare. — Cotesto è rimproverarmi perchè non ho pagato puntualmente il mio frumento d'affitto — rispose Martino in tuono brusco. — Ma sì! e vi ho fatto chiamare, perchè proprio bisogna che ce la intendiamo. Mettetevi un po' ne' miei panni. Gli è che i beni del povero Conte, ora ch'è esule, mi sono diventati un deposito ancora più sacro, e voi sapete ch'io non sono ricco, e che non posso senza ingiustizia supplire col mio. — L'anno non è ancora terminato, signor Biagio. Quando saremo a Natale, ella avrà l'un sull'altro tutti i suoi denari. — Non basta, compare! La vendemmia sui vostri campi diventa ogni anno più scarsa. Guardate qui. Nel quarantasette voi avete fatto di vostra porzione venticinque congi di più che quest'anno, e per la galletta sono due annate che vi manca la foglia. Ecco il conto delle centinaia che io ho dovuto somministrarvi, e voi sapete che non ne abbiamo accresciuto il peso. Cotesto è male per il padrone, ma è male anche per voi, compare. — Ma se i miei tralci non vogliono intendere di caricarsi di grappoli, se i miei mori non dánno una bella cacciata, dovrò io avermene la colpa? — Potreste anche aver ragione, se non ci fosse il confronto degli altri affittaiuoli. Or via, compare, io voglio parlarvi come a un amico, come a un fratello. La causa per cui i vostri campi da qualche tempo rendono meno di quelli degli altri io la so, compare! — La sa?... Allora la dica. — Gli è che i vostri campi voi non li amate più. Non occorre andar per le lunghe, io ci sono stato a passeggiare per entro, e, compare, mi è toccato di rado d'incontrarmi nè in voi, nè nei vostri figli. Bensì ho veduto che si aspetta sempre gli ultimi momenti per farvi i lavori necessari, che si fanno in fretta e per conseguenza alla peggio; che trascurate i mori, che le viti rimangono spesso lì senza vangare, di modo che i rovi hanno un bel crescere per fino sotto alle trecce, che non le rimettete, che gli alberi li lasciate deperire, che voi fate economia di concime.... Oh, insomma, compare, le vostre terre sono in disordine e vanno ogni anno peggiorando, sicchè, se voi non mutate, in coscienza io non posso più oltre lasciarvele. — Martino s'era fatto serio e non sapeva trovare una risposta. Il signor Biagio gli pose una mano sulla spalla e continuava in atto amichevole: — Voi compare, vestite bene, i vostri figli sono spesso all'osteria, la ragazza non c'è festa che non isfoggi o qualche fazzoletto di seta, o qualche abituccio comprato in bottega assai poco conveniente per una contadina. Con quello che adesso rendono i vostri campi cotesto non è possibile. Voi attignete a qualche altra sorgente, caro compare. — E che male c'è mo, dico io, se un povero galantuomo pieno di prole procura d'ingegnarsi e di vivere alla meno maladetta? — Volete che vi parli franco, compare? Il contrabbando che voi credete una risorsa diverrà la vostra rovina e quella della vostra famiglia. Voi avete messo per una cattiva strada i vostri figli! Io non voglio parlare dei ragazzi che, se volete esser sincero, confesserete che già a quest'ora v'hanno più d'una volta amareggiato il cuore; riflettiamo solamente un poco alla sorte che preparate alla vostra povera Tonina. Ella è lesta come un uccello, avveduta, chiacchierina, e la vi vale un milione per le vostre misteriose faccende. Ma nel giovarvi di lei voi non pensate che gli è un tirarne guadagno a tutte sue spese, e che miseramente la sacrificate. Ogni giorno fuori, a Udine, a Trieste; su tutte le piazze, in compagnia d'ogni sorta di gente, talvolta tornarsene a casa sola e a straore.... Credete che la v'impari la dottrina là sui mercati oziosa, mentre sta aspettando il momento di aiutare al vostro brutto mestiere? Intanto ella cresce e nessuno le insegna a lavorare, e s'innamora sempre più d'una vita dissipata, e chi sa chi sa di quali cattive massime s'imbeve per quando verrà il momento di trovar un marito e diventar anch'ella madre di famiglia! Mettetevi la mano al petto, compare: se voi foste un giovanotto vorreste una moglie educata così? Sentite, il contrabbando vi darà dei guadagni, io non nego, vi darà forse anche più di quello che potrebbe darvi il lavoro delle vostre terre; ma se fate bene i vostri conti, e mettete nella bilancia tutti i sacrifizi che egli vi costa, la vita inquieta ed arrischiata che menate, il sangue e l'anima dei vostri figli che tradite, oh! e' sono guadagni che in coscienza vi devono far ben male al cuore. — E c'era nelle sue parole un tal fondo di verità, che Martino non potè a meno di non restare commosso. Disse al signor Biagio che ci avrebbe pensato sopra; e come il peccatore minacciato da qualche disgrazia, o che ha veduto morire l'amico o il congiunto, partì nell'intenzione di cangiar vita ed abbandonare ad ogni costo il suo brutto mestiere. Ma quando fu a casa trovò che erano stati ad invitarlo, perchè in quella sera istessa si portasse al villaggio di Medeuzza dove i suoi compagni intendevano di festeggiare con una cena la sua avventura della piazza San Giacomo. Stette un pezzo da capo al fuoco colla testa nel pugno, quistionando seco stesso se doveva andarvi. L'impressione che gli avevano fatto le parole del signor Biagio s'andava intanto a poco a poco dileguando, come il rimbombo d'una campana che si perde nello spazio, o come la luce quando la sera si ritira dal creato e ci lascia ciechi in grembo alla notte. In poco d'ora tutti i suoi buoni proponimenti erano svaniti, ed egli preso il cappello s'avviò per una solitaria stradella di campagna che mette al torrente. Aveva oltrepassato la linea dei mulini, ed internatosi nei boschetti di acacie e di pioppi, e tra gl'intricati saliceti che su quella sponda fanno argine alla furia delle acque, riusciva alle ghiaie che già il sole tramontava. Ei camminava concitato, e la vista de' bei paesetti, che a piedi delle colline si presentano come una ghirlanda sull'altra sponda del Nadisone, non valeva in quella sera a rasserenargli la fronte. Quella magnifica scena della natura, che al mancar della luce s'andava a grado a grado scolorando, gli rendeva immagine del buon pensiero che per un momento gli era passato per la mente. Come le rose dell'occiduo sole, che dopo aver brillato un'istante, illanguidivano, come la neve delle alpi, che di rubiconda e dorata già tornava al muto pallore, così quel pensiero gli aveva solo momentaneamente illuminata l'anima, e suo malgrado ei sentiva rimorso d'averselo lasciato svanire. Aveva intanto guadagnato l'altra sponda, e attraversava i prati che chiamano Modoletti; una vasta spianata, il cui orizzonte ha per confine da tre lati le montagne, da mezzogiorno il mare. L'occhio vi spazia quasi all'infinito, e il cuore in quella lontananza, allor tuttavia risplendente dell'ultima luce, indovina l'estensione della nostra povera patria. In altri tempi i Modoletti erano popolati d'una quantità di cacciatori, che nelle serene giornate autunnali ivi convenivano dai diversi paesi circostanti ad insidiare alle allodole che vi abbondano. Le ridde fantastiche di quei matti augellini che scendono in frotte a schernire la civetta, il giubbilo de' capricciosi loro canti diffuso per l'aere, il rimbombo degli archibugi, i cani pronti ad afferrare la preda e recarla ai padroni nei diversi posti, che quasi eredità di famiglia son per molto tempo passati da padre in figlio, qualche brigatella di amici che venivano sul mezzogiorno a portar la colazione, formavano su quei prati una specie di festa campestre, il cui tripudio ti feriva l'udito molte miglia da lungi. Ora silenzio, abbandonate le buche, solitaria la prateria, e i cacciatori chi sotterra, chi nell'esilio, le loro armi infrante dalla legge militare che ci posa sul capo. Il contrabbandiere oltrepassava taciturno, e il suo sguardo acuto procurava di discernere da lungi il villaggio. Un'antica torre quadrata, un palazzo dalle cui finestre senza impòsta vedevi ogni tanto correre qualche lume, un campanile mezzo in fabbrica da cui pendeva sulla chiesa un lungo travicello inclinato con una fune in capo, come l'amo del pescatore, erano gli oggetti che al suo avvicinarsi gli si facevano sempre più distinti. Quando giunse era notte. Gli abitanti di quel luogo vivono quasi tutti di traffico. Vanno a Trieste, vanno in Germania: le piccole case quadrate a due piani con una o due camerette rassomigliano tanti dadi gittati disordinatamente in mezzo al verde dei campi. Una sola sorge a quattro piani in forma di palazzo, ma sdrucita dal tempo, senza impòste, la porta spalancata, le travi in più siti minaccianti rovina. Appartenne a una famiglia signorile; ora è affittata a numerosi inquilini, e vedi da più parti uscire il fumo che t'indica le varie famiglie in quel recinto annidate. Di rado ti sarà occorso passarvi dappresso senza vedere dalle sue finestre sporgere varie stanghe con fasce e cenci d'ogni fatta esposti ad asciugare. Percossi dal sole ed agitati dal vento, essi rassomigliano i fronzoli di cui talvolta s'adorna una vecchia. Martino vi entrò. Alcuni giovanotti staccavano da una brisca un paio di mule trafelate ed ansanti. Allorchè lo videro, un d'essi gridò: — Gli è un bel capitare a quest'ora, birbante, quando tutto è già allestito! e perchè così a mani vuote? — Taci, Giacomaccio! chè questa sera egli è l'eroe della festa e non vogliamo rimbrotti; compenserà un'altra volta — interrompeva un piccolo tarchiato che teneva due pistole nella cintura. — Già della grazia di Dio se ne cuoce qua entro per tutti! — Dove sono? — chiese Martino. — Su in sala a complimentare il babbo ch'è arrivato in questo punto. — Ed egli si mise a salire la scala. Tutti gli abitanti del palazzo erano in moto, un andirivieni, un baccano da non dirsi, le porte delle stanze spalancate, e dense nubi di fumo untuoso in mancanza di camini riempivano lo spazio e si precipitavano per le finestre. In sala avevano formato una specie di mensa a diversi piani con armadi, con casse, e perfino colle tavole di letti. Una quantità di gente vi stava assisa all'intorno, altri mangiavano in piedi, alcune donne coi loro fanciulli stavano accoccolate sul limitare dei lor appartamenti. Al comparire di Martino una salva d'applausi fece echeggiare tutto il palazzo. Gettavano all'aria i cappelli, gli sporgevano il boccale, alcuni battevano le palme, altri fischiavano in segno di benevolenza e di approvazione, come spesso costuma il volgo friulano. Nel posto più eminente, con una salvietta dinanzi come per distinzione, mentre gli altri senza tante cerimonie mangiavano nella nuda tavola, sedeva un uomo di forme imponenti, alquanto attempato. Portava in capo un berretto di pelo, teneva negligentemente gittata sulle spalle una _blouse_ di velluto nero, dalla quale gli riuscivano le braccia in semplice manica di camicia, ma candida e fina, in modo che faceva contrasto coi cenci sudici della maggior parte degli altri convitati. Una fisonomia di un tipo singolare, che potentemente ricordava quegli antichi ritratti dei nostri feudatari che ancora si veggono appesi alle pareti dei castelli del Friuli: occhi grandi sotto sopracciglia arcuate; un non so che di feroce e di bello insieme. Portava due folti mustacchi grigi, sotto cui appariva come lampo il sorridere scarso delle labbra improntate di amarezza: terreo il colorito ed abbronzato, come di chi condusse vita aspra ed indurata ai patimenti. Ne' suoi atti una certa sprezzatura signorile, e un impero che veniva sentito da tutti gli astanti, e bene te ne saresti accorto al silenzio che fecero, quand'egli accennò colla mano a Martino di farsegli appresso. — Dicono, figliuolo, che l'altro giorno a Udine in piazza San Giacomo tu ti se' comportato egregiamente, e poichè sono venuto a passare una notte cogli amici di questi contorni ho voluto vederti; — diss'egli battendogli colla mano sulla spalla, e facendoselo sedere al fianco. — È stata una bravura, babbo, che corpo di satanasso merita ricompensa! — gridò uno dei commensali; — s'è battuto contro quattro.... in mezzo a un popolo infinito, e i maladetti pareva che si fossero proprio incocciati a volerlo acciuffare ad ogni costo; ma egli a traverso la folla via come un'aquila! — Pareva la vostra mula bianca quando ha sentito l'odore della finanza, e voi gli gridate: guarda ai corvi! — Viva Martino! e morte ai pilucchi! — urlavano parecchi tracannando alla sua salute più d'una tazza di vino spumante. Intanto sulla mensa era stato deposto un capretto contornato di lepri arrostite, e fattasi l'allegria generale, s'era sollevato un immenso cicaleccio e una confusione di voci e di grida, i cui acuti, i soli che l'orecchio valesse a raccogliere, erano qualche bestemmia. Quelle facce sinistre, quegli uomini la maggior parte armati a dispetto della legge, quei loro atteggiamenti arditi, veduti lì al chiarore fantastico di alcuni fanali affumicati, appesi senz'ordine qui e colà per la sala, e che il vento ch'entrava da fenestroni mal riparati faceva continuamente girandolare, formavano una specie di quadro tremendo, a cui le vetuste pareti e le mobiglie disusate e gli arazzi squarciati, tra' cui brandelli vedevi inchiodate numerose pelli di animali scorticati, alcuna delle quali ancora gocciolante di sangue, facevano adeguata cornice. Dov'erano adesso i nobili abitatori di cotesto diroccato palagio? Oh! se fosse lor dato sollevare dal sepolcro la testa dormigliosa, e rimirare per un istante così trasformata questa sala, dove un tempo avranno goduto i loro signorili banchetti e le danze del cavalleresco loro avo! Come ombre fugaci, come fiori d'un giorno passano le generazioni umane, e spesso l'ultima venuta calpesta spensierata le memorie e le tombe degli avi. Invece dell'araldo che in quell'epoca sarà entrato ad annunziare la visita della vicina castellana, o del pellegrino reduce da Terra Santa, ora nella sala comparivano due giovinotti con la notizia che sedici carrette ben cariche di contrabbando stavano già in pronto per varcare il confine. Il babbo guardò nell'orologio: erano le dieci e un quarto, poi scostata la salvietta faceva rapidamente lì sulla tavola colla matita una specie di conto. Tutti tacevano. — Mastro Pietro Cabala! — e un piccolo sbilenco si alzò subito da sedere e stava attento ad aspettare i suoi ordini. — Bevete un boccale e andate sul momento a far la spia ai piluchi dei posti vicini. Dite che sul passo di Romans a mezzanotte in punto devono traghettare tre carrette di zucchero, date i contrassegni, fate credere almeno quattordici gli uomini che le accompagneranno, affinchè ci lascino netta la stradella della Madonna, e mettetevi nelle loro mani come ostaggio. — Cabala fece un brindisi, prese il cappello e s'avviò sull'istante. — Tinorio, Meneghino il guercio, e la buona lana del Giacomaccio sono i fortunati ch'io mando questa notte a fare alla finanza il mio regalo di zuccheri. — S'ha da partir subito? — domandò il Tinorio con una faccia lunga e malcontenta. — Subito certo, perchè voi avete per lo meno cinque miglia di più degli altri da fare. — O diacine, babbo! gli è un brutto mandarci così alla spiccia in prigione, e senza neanche lasciarmi terminare di cenare.... — Aggrottò le sopracciglia, e — Ringrazia, canaglia, continuò con voce severa, ch'io mi contenti di farti solamente adesso smaltire il vermigliano, per cui poco ha mancato tu mi mandassi a picco la nostra ultima impresa. — Questo rimbrotto fu causa che alcuni si mettessero a ridere; ma egli lanciò loro un'occhiata che li fece subito tornare quieti. Quando furono usciti i tre ch'egli aveva indicato, si rivolse ad un uomo che gli stava di costa, e che dai vestiti e dai capelli impolverati pareva un mugnaio, e colla voce sommessa gli chiese in fra i denti: — Detratti gl'invalidi, quanta gente abbiamo di cui si possa propriamente fidarsi? — Colui diede un'occhiata all'intorno, e contando sulle dita: — Fa d'uopo questa sera contentarsi d'una ventina, perchè taluni sono già avvinazzati.... E andava accennando. — Il Moro no, Tinuccio nemmeno, il Frate mi ha certi occhi.... — Or bene, disse egli ad alta voce, allegri, figliuoli, e terminiamo di cenare; poi Vento, Centesimo, il Commissario e gli altri là da quella parte usciranno ad esplorare la via, e i quindici che io sceglierò, capitanati dal vecchio Napoleone e da Martino qui, marceranno all'impresa. — Martino al sentirsi nominare gongolava tutto quanto dalla gioia. Pareva che gli occhi gli volessero uscire dal capo, tanto gli scintillavano, e non potendo parlare prese la mano del babbo, se la posò sul cuore, e se in quel momento gli avesse comandato di saltare a piè pari nella bocca d'una voragine, ei vi si sarebbe lanciato, senza neanche pensarci sopra. Oh se fosse stato presente il signor Biagio, e avesse potuto vederlo in tutto quell'entusiasmo! Ma il buon uomo era invece nel suo letto, e fra un sonnellino e l'altro ripensava con compiacenza alla bella predica fatta, e si prometteva un frutto ben differente. III. L'AMORE. A piedi delle colline di Butrio, a man ritta della via che conduce a Cividale si estendono alcuni gentili praticelli frastagliati da siepaglie di alni, sparsi qui e colà di qualche pioppo. La Giannetta soleva in que' luoghi condurre al pascolo il bestiame. Di rado saresti passato in quelle vicinanze senza sentir la sua voce argentina echeggiare per l'aere, come quella dell'allegra allodoletta quando balla incontro al sole cantando le sue infinite variazioni. Fin dagli anni più teneri ella aveva preso pratica di quei siti. Prima coi paperi, poi cogli agnelli, in séguito, quando non c'erano lavori nei campi, nelle ore mattutine e sulla sera col gregge bovino. Ivi i giuochi della sua infanzia, ivi le corse e le danze colle compagne, ivi s'era aperta la sua anima alle prime impressioni, e come se la bella natura che la circondava avesse contribuito a formarla, ella aveva in sè qualche cosa di quell'aere purissimo e di quell'allegra e serena verdura. Più tardi, quando fatta grandicella aveva incominciato a piegar le dita al lavoro, passava molte ore seduta all'ombra d'una macchia d'arboscelli, e filava cantando or le orazioni che imparava alla chiesa, ora le mille villotte che l'innamorata gioventù spande a rallegrare di poesia la solitudine dei campi. Anche quest'anno al primo fiorire del biancospino ell'era tornata e cantava, ma la sua voce divenuta più gentile aveva assunto come una tinta di affettuosa malinconia, e anch'ella, quietata la vivacità di quegli anni spensierati in cui l'umana creatura gittata nello spazio par che altro scopo non abbia che di crescere e svilupparsi, s'era fatta più mansueta, più composta. Talvolta, dopo aver cantato una rima d'amore, abbassava la testa graziosa e rimaneva lungo tempo in silenzio come meditando il suono di qualche frase che l'era ancora incompresa. Tal'altra tutto ad un tratto mettevasi a cercar fiori, e se ne adornava i capelli, o riempiuto il grembiale fermavasi con gran cura ad iscegliere fra essi i più belli, ad assortirli ed a tesserne ghirlande e mazzolini; poi due farfallette che le passavano dinanzi carolando le facevano dimenticare il lavoro, e collo sguardo intento le seguiva per l'aere, finchè dileguate nell'azzurro della volta celeste ella chinava gli occhi inumiditi di pianto — e il pianto l'era voluttà, e spesso senza saperlo dolcemente vi si abbandonava. Pareva che in quell'anno le si fosse generato nell'anima un sentimento nuovo, un recondito affetto che la luce, l'aria e la terra la invitavano senza sua coscienza ad effondere. Era come il fiore, che finito di spiegare la forma leggiadra ch'ei ritrae dal suolo, e bevuto dall'atmosfera tutto il colore che deve adornarlo, in un bel giorno il sole lo guarda e gl'infonde il profumo. Ma quando immobile, colla testa fra le mani stava ore e ore assorta in silenzio, a che pensava ella? Dinanzi alle chiuse pupille era un'immagine che continuamente le passava; una immagine che il tempo non aveva potuto illanguidire, anzi ogni giorno ei gliela rendeva più vivace, come se i sogni dell'oggi avessero avuto forza per accrescere que' del domani. Il giovine che ella aveva veduto sulla piazza di San Giacomo difendere il contrabbandiere le si era impresso nell'anima in maniera indelebile. Le stava sempre negli occhi, e ogni volta che fermavasi a ripensarlo, lo rivedeva più bello. Quell'impeto generoso con cui s'era lanciato solo e senz'armi contro ai quattro che avevano già trionfato, la snella persona, l'indomito ardire che gli lampeggiava nello sguardo, quei folti capelli neri che con un altero scuoter di testa ei s'aveva gittati all'indietro, quella giovane faccia ancora imberbe, impallidita per l'ira, le labbra bianche atteggiate ad un impavido sorriso di sfida, l'affrontarsi, il sollevare il caduto, e la nobile noncuranza con cui dopo la vittoria si calcò in fronte il cappello e si tolse agli applausi della folla entusiastata, erano memorie ch'ella si sentiva nel cuore sempre più vivaci e più profonde, come la cifra scolpita nella giovine corteccia che cresce e si dilata insieme colla pianta. Oh s'ella avesse potuto rivederlo! ma tranne i sogni della sua fantasia, nulla ella sapeva di lui, e intanto il mistero istesso aggiugneva prestigio all'idolo ch'ella s'aveva creato. Talvolta con puerile serietà si metteva ad interrogare un fiore, e strappandogli ad uno ad uno i petali gli chiedeva, se la lo doveva rivedere, se sarebbe diventato il suo damo; e se la risposta veniva contraria, trovava subito la scusa per non crederci, o il fiore non era il primo ch'ella aveva guardato, o invece di uno l'erano venuti due petali ad un tratto, e tornava a ricominciare. Tal'altra stando lì all'aperto accoglieva con affetto l'aria che le vellicava la faccia immaginandosi che potesse esser quella ch'egli aveva respirato. Avrebbe voluto cangiarsi nell'uccelletto che le passava sul capo volando, per viaggiare a suo talento il mondo e scoprir dove fosse. La sera non poteva mai staccar gli occhi dalle prime stelle che comparivano sul firmamento, sperava che anch'egli le avesse guardate, e sentivasi dolcemente consolata nel pensare che v'era pure un punto nel creato dove le loro anime potevano forse per un istante ritrovarsi unite. Intanto le sue mani erano diventate pigre, spesso tornava a casa co' fusi vuoti, e quel tanto consumarsi sempre fitta in un vano pensiero le aveva a poco a poco offuscata la fronte ed appassita la freschezza del suo cuore di vergine. Parve che la madre avesse notato questo suo mutarsi, ma la buona donna lungi dall'apporsi al vero interpretava secondo i propri desiderj. Fra gli amici che spesso venivano in casa, c'era un giovine per cui la vecchia Maddalena aveva tutte le sue predilegioni. Di modi mansueti, di un carattere quieto ed affettuoso, Meni invece di giocare alla romorosa partita delle bocce, o di cantare strambotti coi compagni lì nel cortile, o nella via dinanzi alla porta della casa, come talvolta solevano nelle sere dei dì festivi, faceva più volentieri compagnia alle donne, e le aiutava nelle loro faccenduole; ed ora mettevasi colla vecchia a ragunare i pulcini, o pure colla Giannetta annaffiava il basilico, o le insegnava a potare i rosai e a tesserli in eleganti festoni lungo il muricciuolo dell'orto, dov'ella si teneva il suo quadrettino di fiori. Più maturo di età, egli aveva cominciato ad affezionarsi a lei fin da quando era bambina, e la domestichezza e la dolce consuetudine di vederla quasi ogni giorno gli avevano, senza ch'ei se ne accorgesse, generato nel cuore una simpatia che oramai formava parte della sua vita. La Giannetta anch'ella lo amava, ma come un fratello. Gli anni troppo acerbi e la loro gioia spensierata non le avevano lasciato capire la fiamma malinconica che s'era accesa negli occhi del giovane; e un affetto, quando nasce soltanto nell'anima, gli è come un vincolo di sangue, che può di rado cangiare natura. Venne anche per essa un'altra epoca, ed accolse altri pensieri, ma non furono per lui. La vecchia Maddalena guardava ad entrambi, e se aveva indovinato il cuore dell'uno, era però ben lungi dall'immaginarsi ciò che si passasse in quello dell'altra. Meni era così amorevole, così un giovane per bene, e di più apparteneva a una famiglia di contadini agiata e di buona gente, che fin dal primo conoscerlo, nel suo affetto di madre, le passò subito per la mente un pensiero, ma tanto lontano che non ardiva confessarlo neanche a sè stessa. Più tardi le si cangiò in isperanza, e quando vide la Giannetta impensierita, non dubitò che la cosa non camminasse secondo i suoi desiderj, e che la fanciulla guardasse anch'ella co' suoi occhi, e cercava tutte le occasioni che si trovassero insieme, e che si potessero liberamente parlare. Fu in questa intenzione che nel dì dell'ottava di Pasqua la vecchia studiò il modo che i due giovani insieme con una cugina di lui e un'altra ragazza lì del villaggio andassero alla sagra di Percotto. Negli anni trascorsi quella sagra era una delle più fiorite dei contorni. Una quantità di gente vi traeva da tutte le parti per godere gli spettacoli che in quel giorno solevano rallegrare la moltitudine. Oltre la festa da ballo c'erano sempre alcuni saltimbanchi e giocatori di bagattelle, c'era la presa dell'agnello, cioè un agnello incoronato di ciambelle e di bottiglie con al collo appesa una borsa di danari: si collocava alla sommità di un lungo palo unto e bisunto di olio e di altre materie glutinose, ed era premio a chi avesse saputo avviticchiarvisi a quell'altezza e pigliarselo; e quella prova riusciva di grande sollazzo, ed era un favorito tripudio della moltitudine campagnuola, che rompeva in infiniti sghignazzamenti alle cadute dei poco destri e all'untume di che s'infardavano. Quantunque vi fosse anche in quell'anno gran concorso di gente, mancavano i divertimenti. Dopo il quarantotto, l'agnello era stato messo da banda, e la moltitudine, fattasi meno spensierata, non si sentiva più tanta voglia da ridere. C'era peraltro la festa da ballo, che le autorità avevano permesso a dispetto dei preti; ma la maggior parte della popolazione la vedeva a malincuore, perchè dopo tante lagrime e tanto sangue, pareva che non si potesse più in coscienza dimenticarsi e danzare senza rimorso. Benchè la Giannetta sul primo trovarsi in mezzo alla folla ci patisse, non amando quei tanti sguardi che la sua non comune bellezza non mancava d'attirarle, pure in quel giorno appena giunta nel villaggio le parve come di esilararsi, tanto poco ella capiva le intenzioni e l'affetto del povero Meni. Dopo aver alquanto girato per il paese, entrarono all'osteria. Era piena zeppa di gente, e in fondo a una lunga tavola mangiavano le ova sode col radicchio alcune donne col fazzoletto gittato attraverso la persona, scollacciate e tutte rosse e scalmanate in viso, sicchè t'era facile l'accorgerti che venivano dalla festa. La Giannetta non le ebbe appena guardate che ravvisò subito la più giovane, e corse a salutarla con tutta l'espansione dell'animo, come se si avesse trattato di una carissima amica. Era una conoscenza fatta in un giorno per lei memorabile. In quel giorno le si era svegliato il cuore ad un palpito fino allora sconosciuto. Dopo, quanti pensieri, quante soavi emozioni, quanta vita!... Ed ella amava tuttociò che in qualche maniera gli poteva essere collegato; e il ritrovare adesso quel volto, il riudire quella voce le era speranza recondita, e quasi presagio di gioia imminente. Nel vederla stretta a così confidente colloquio con quelle donne tanto a lei dissimili, Meni pativa, e avrebbe voluto poterla levare di là, e gliene faceva preghiera colla faccia mesta e collo sguardo affettuoso; ma ella non intese. Parlavano della festa. — Ha' tu badato, Mora, a quel biondino che ballava colla birraia, quando noi siamo partite? — Colui ch'è venuto con tuo fratello?... Gli è un mugnaio del mio paese. — Té! la Tonina che ha sul fegato il biondino! — osservava la più vecchia, un viso da volpe coi capelli grigi e tuttavia a cincinnoli. — Và, che ti darebbe l'animo di tornar sul tavolato per procurar di rubarlo alla birraia! — Poh, che miracoli! Voi che siete nonna avete ballato quasi un'ora.... — Gli è che ho buone gambe, e poi oggi per noialtre c'era cuccagna, non è vero, Mora? — E la Mora un poco punta: — Che cuccagna d'Egitto! Io so che finora non ho mai stentato di ballerini, e l'altro giorno a Dabardò voi che stavate a guardare, potete farne fede; e sì delle ragazze non ne mancavano!... — Ma oggi dove diacine si saranno cacciate, che sulla festa di quelle del paese non ne vedevi neppure una?... — Dicono che le ha compunte il Parroco questa mattina con una predica tutta piagnistei. — Oh le santerelle! ma tanto meglio per noialtre. — Sì: peraltro se non si fuggiva, a forza di farci ballare ci ammazzavano. — Vuoi che torniamo? — disse la Tonina; e come se avesse respirato l'armonia dei violini, balzava in piedi elastica. — Torniamo! — E strascinarono con loro la Giannetta che stretta al braccio dell'amica non aveva avuto tempo d'accorgersi come Meni con le sue due compagne seguisse accorato. Quando arrivò sulla festa, il primo oggetto che la colpì fu il giovane della piazza di San Giacomo, il giovane ch'ella aveva tanto pensato! Questa volta non era sogno. Le stava dinanzi in tutta la sua bellezza, con una mano gentilmente posata sul fianco, cogli occhi raccolti, e danzava leggero con una certa sprezzata disinvoltura, che pareva che neanche movesse la snella persona. Ella più non vide gli astanti, non vide la ballerina, non vedeva che lui.... e se non era il battere del cuore sempre crescente, e il fremito delle ginocchia che glielo impedivano, la musica l'avrebbe rapita lì in mezzo tra i vortici della danza. Quando fermarono i violini, egli venne a riposarsi vicino alla sorella, e salutò per la prima volta la bella giovanetta a cui ella dava il nome di amica. La Tonina volle che danzassero insieme, e al primo ripigliarsi del valzer, come aliga in balía del torrente, come foglia travolta dal turbine ella volava col giovane amato. Pallida il volto, fuori di sè stessa, il suo orecchio non beveva che armonia, il suo cuore non respirava che amore. Già tramontava e ballavano ancora. Cominciò a diradarsi la festa, il villaggio si dispogliava e continue brigatelle di gente partivano per tutti i lati. La Giannetta con la sua compagnia tornava a casa dalla parte del torrente. La Tonina e la Mora tenevano la stessa strada. Non erano appena alle ghiaie che alcuni giovani a mulo le raggiunsero. Erano mugnai, e tra essi il contrabbandiere. Quando fu vicino alla Giannetta lasciò che la sua bestia andasse a passo, e si mise a discorrere colla fanciulla. A poco a poco si sbrancarono dagli altri. Egli, abbandonate le briglie, colla persona inchinata sul dinanzi; ella appoggiata alla bestia: e lo scalpitare dei ferri tra i sassi copriva il lieve bisbiglio delle loro sommesse parole. Era bella la sera, netto l'orizzonte, e le colline di Butrio e la costiera di Cormons sormontate dai picchi ancora innevati delle alpi, presentavano dinanzi a' loro sguardi una zona di paese, che la luce di quell'ora fantastica accarezzava con una specie di malinconico affetto, e faceva più vago il primo verde di che appariva screziata. Quel poco e pallido verde che annunziava l'imminente primavera era pur gentile! Era come il tenue sorriso che dopo lungo dolore torna ad infiorare le labbra d'un'amata persona. A Manzinello si divisero, e l'una compagnia prese la strada di Marzano, l'altra quella di Butrio. La Giannetta camminava concitata, e come se la melodia dei valzer uditi le durasse tuttora nell'orecchio; talvolta colla voce si metteva ad imitarne la cadenza, tal altra prendeva il braccio delle compagne, e le sforzava a correre seco per qualche tratto. Era allegrissima e non badava al mesto silenzio del povero Meni. Troppa commozione l'aveva in quel giorno agitata perch'ella potesse riflettere a lui. Quando arrivarono a casa, la Maddalena, che con trepida gioia stava aspettando l'esito della gita, venne loro incontro. La buona vecchia, mentre s'andava immaginando le dolci parole che s'avrebbero detto i suoi cari figliuoli, aveva loro apparecchiato una cenetta di famiglia, e voleva che tutti si fermassero; ed era così contenta ed accarezzava Meni con tanto affetto, ch'egli non si sentiva la forza di disingannarla; e benchè avesse il cuore gonfio di lagrime procurava di mostrarsi lieto. Si dispensò peraltro dal restare a cena, e salutati tutti come di consueto, uscì all'aperto. Era una bella notte serena, la luna splendeva tranquilla, e illuminata da lei gli stava dinanzi, netta e distinta in ogni sua parte, quella modesta casetta di contadini dov'egli aveva passato tante ore felici. Vedeva la linea del muricciuolo su cui facevano capolino i rosai della Giannetta, vedeva in fondo all'orto il mandorlo fiorito, alla cui ombra tante volte era stato seduto insieme con essa: tra' suoi rami sentì che volitava un uccelletto, stette un istante in orecchi, e l'udì zufolare in mesto ed amoroso tenore, mentre da una siepe vicina s'andava sollevando ad intervalli un sommesso gorgheggio. Era l'usignuolo che colla sua fida compagna tornava al nido consueto. Si ricordò che l'anno innanzi la prima ad accorgersi della sua venuta, era stata lei. E poi insieme avevano notato il sito che aveva scelto, e lo visitavano in secreto, e videro dischiudersi le uova, crescere e vestirsi di piuma gli uccellini, finchè venne il giorno in che cominciarono a volare. E quel giorno era stato per loro due una festa. Seduti sull'erba, sotto la pergola si godevano taciti a contemplare l'amore con cui il padre e la madre li addestravano. Usciti dal nido pigolavano trascinandosi a salti per le aiuole, e i vecchi fatti anch'essi piccini, li chiamavano facendo lor dinanzi certi piccoli voli, or alla siepe del ribes, or a' cespugli del biancospino: e quando finalmente fidati alle giovani penne si abbandonavano all'aria, tornavano loro incontro volando come frecce, e colle ali li sostenevano finchè li trassero dall'orticello, e tutta la famigliuola insieme volò via contenta per l'aperto dei campi. O quante volte la sera, quando la vecchia Maddalena, o qualche altro della famiglia veniva a sedersi troppo dappresso a quel nido e faceva tacere sul mandorlo l'usignuolo, essi avevano trepidato per paura che si scoprisse il segreto, e i loro occhi s'erano incontrati, e nel loro muto linguaggio s'avevano detto la comune inquietudine! Quanta gioia in quell'epoca.... quanti soavi pensieri, quanti sogni d'amore!... E adesso tutto finito! Non doveva dunque più mai ripassare la soglia di quella casa ospitale, dove i suoi anni giovanili erano stati consolati da tanto affetto? Mai più le carezze della buona Maddalena?... L'usuale saluto con cui in quella sera egli s'era congedato, era dunque l'ultimo? Oh s'essi avessero potuto vedere come sanguinava il suo cuore, mentre con mentita ilarità dava loro la buona notte! Ma chi aveva badato al povero Meni? Erano allegri, parlavano della sagra, del ballo; la fanciulla non gli aveva neanche rivolto uno sguardo, ed egli partiva per sempre!... Egli saturato di amarezza, egli che aveva veduto dileguare in una maniera così crudele la speranza del suo avvenire, il sogno accarezzato de' suoi giovani anni, egli si ritirava in silenzio per non disturbare la loro gioia. Aveva capito d'essere di peso, e in quel momento si sarebbe volentieri seppellito sotto terra, perchè altri liberati dalla sua importuna presenza avessero potuto godere senza rimorso. Guardò per l'ultima volta quella casa dove restava tanta parte della sua vita, vide col pensiero la serena immagine della fanciulla a cui egli aveva donato tutto sè stesso, e coll'anima inginocchiata dinanzi a Dio, nel suo immenso dolore pregò che fosse felice, e che il giovane ch'ella gli aveva preposto l'amasse com'egli l'avrebbe amata! IV. DUE ANNI PIÙ TARDI. Alle tre del mattino una piccola barca salpava dal molo San Carlo a Trieste. Le nubi cubavano meste sul golfo, e a guisa di un immenso panno bigio da cui trapelava sol poca ed incerta la luce, cadevano affaldate sul dorso dei monti, mentre una nebbia leggera, come se fosse l'alito del mare, involgeva l'operosa città che già incominciava a destarsi. A levante l'orizzonte s'apriva in una pallida lista che annunziava i crepuscoli e faceva più bruno l'alternarsi delle onde concitate. Nella barca stavano sedute alcune donne friulane. Quasi ognuna portava un cesto coperchiato, od un fardello. Con esse due soli uomini, un ciabattino che dicevano il paron Giacomo, e che s'era messo al governo del timone, e colui che remigava sbracciato coi calzoni rattoppati, una vera faccia proibita. Avevano sciorinata la vela, ma non furono appena scostati dal lido, che dovettero ammainare, perchè l'insolente libeccio che da qualche ora aveva incominciato a soffiare, si faceva sempre più forte, e co' suoi colpi rabbiosi minacciava squarciarla; le onde ingrossavano. — Il mare mi ha un gran brutto muso quest'oggi — disse una di quelle donne guardando al pelo dell'acqua che s'andava facendo sempre più bruno. Intanto gonfiati dal vento lor stridevano in capo i fazzoletti, e le vesti fischiavano. — Da brave, comari! giù dalle panche, sedetevi sul tavolato nel mezzo della barca — gridava da prua un dei manigoldi. Obbedirono. Una fra esse era compresa da visibile sgomento. Tenevasi fortemente stretta alla gonna delle compagne, mormorava continue preghiere, e ad ogni ondata o colpo di vento rompeva in un grido e chiamava in aiuto la Vergine benedetta e tutti i santi del paradiso. Le altre la deridevano. — È inutile, Giannetta, se non vedi di gridare un po' più forte, come vuoi che ti senta il buono Iddio in mezzo a questo strepito indiavolato? — Ahimè! soggiugneva la Mora, ci vuol altro che i tuoi flebili piagnistei! Le bestemmie che tira paron Giacomo risicano di essere assai più efficaci, perchè egli, perdinci, ha trovato un timbro di voce che penetra i cieli! — Via, finiscila con codeste scene! — Io per me dico, osservava un'altra, che i nostri uomini avrebbero fatto pur bene a risparmiarci l'imbroglio di questa povera bimba che non sa far altro che piagnucolare. Finchè c'era la Tonina vada! chè almeno quel folletto colla sua bravura compensava; ma adesso.... — A proposito della Tonina, interrompeva la Mora, sai ch'io ieri l'ho veduta.... — L'hai veduta? Eh burli! È tanto tempo che non si sa nulla di lei. — L'ho veduta con questi occhi, vi dico! E non avevo mica le traveggole; era proprio in anima in corpo la Tonina.... — E che cosa ti fu detto? E dove si trova? — Oh bella, a Trieste si trova! in quanto al parlare con essa è un altro paio di maniche. Io ero alla finestra di un terzo piano con una mia conoscente, ed ella attraversava piazza Lipsia a braccetto d'un giovinotto, vestita come una dama col suo bravo cappellino in testa e in guanti.... Non poteva credere a me stessa, e sono corsa a basso per incontrarla. Veramente ha fatto le viste di non conoscermi, ma l'era finzione, la m'ha conosciuto benissimo ed è diventata rossa come una cresta di gallo.... — In quella alcune voci in mare gridavano a piena gola alla barca che si tenesse alla larga. — Alla larga un diavolo! rispose il ciabattino, non vedete che mare indemoniato? Noi vogliamo guadagnare la riva Conti e non mica per risparmiar le vostre reti andar con questo guscio di noce a far visita in Istria al capo di Salvorre. — Erano pescatori che a causa del mal tempo s'affrettavano a togliere dall'acqua le chiusure tese per la pésca, e con immensa fatica lottavano contro il vento e contro le onde. La barca veniva proprio pel mezzo dei loro ordigni, e non era possibile che passasse senza lacerarli. S'impegnò d'ambe le parti una zuffa di bestemmie che finirono di spaventare la povera Giannetta. Anche le sue compagne, allora accorte del pericolo, stavano rannicchiate sullo spazzo e tremavano. Ma paron Giacomo tenne fermo, e in mezzo a una salva d'improperi passò vittorioso attraverso le reti senza badare agli squarci che operava, mentre allontanarsi dalla costa con quella sua fragile navicella sarebbe stato lo stesso che farsi portar via come paglia travolta dalla bufera. A forza di stenti finalmente afferrarono. Le donne messe a terra badavano a' loro fardelli. La vecchia Caterina le divise in due schiere. L'una doveva salire la montagna e a Prosecco subir la visita dei doganieri, l'altra per greti e viottoli di malagevole riuscita trascinar il contrabbando studiando a forza di buoni occhi e di buone gambe di evitare qualche tristo incontro. Qui nuova baruffa, perchè la Giannetta destinata colle prime, erasi ostinata a voler piuttosto affrontar il pericolo, e ad onta della sua poca attitudine assoggettarsi agli strapazzi della fatica di quella mala via. Povera Giannetta! Benchè da due anni ell'avesse sposato il contrabbandiere, pure non poteva ancora assuefarsi al brutto mestieraccio. Quel dover fingere, quel dir continue bugie, vivere di frodi e d'inganni, essere sempre in compagnia di gente sfrontata, a lei cresciuta nella semplicità dei campi e nell'ingenuo affetto d'una famiglia d'onesti agricoltori, era patimento superiore alle sue forze, e vi si adattava a malincuore; ma fra tutte queste amarezze ce n'era una ch'ella non aveva mai potuto trangugiarsi: la visita dei doganieri. Le pareva offesa così villana, alla quale la sua dignità e il suo cuore di donna si ribellavano potentemente. Povera Giannetta! Inebbriata da troppo amore, ella non aveva veduto che la beatitudine di finalmente possedere l'idolo che s'aveva creato nella sua giovine fantasia; e non ebbe tempo da riflettere alla vita che abbracciava, nè ai disinganni che avrebbe tra poco dovuto subire. Era come chi guarda a un magnifico palazzo e non pensa ai dolori e alle lagrime di sangue che forse lì entro si versano. Anche i suoi parenti, quando il contrabbandiere chiese la sua mano, s'erano facilmente consolati, ed avevano acconsentito con gioia, perchè la casa di Martino non mancava di agi; anzi i suoi secreti guadagni lo mettevano in istato di scialare e veniva considerato come il più facoltoso tra i contadini dei contorni. Vestivano da signori, si trattavano senza risparmio, avventori a tutte le osterie avevano credito in paese; e perfino la vecchia Maddalena, quantunque il suo prediletto Meni colla sua improvvisa risoluzione di andar in Germania a lavorar sulla strada ferrata le avesse portato via il cuore, un poco alla volta si rasserenò e credette una fortuna il nuovo partito ch'erasi presentato alla figlia. Quest'era la pagina dorata su cui leggevano gli occhi del mondo, ma ve n'era un'altra recondita scritta a caratteri ben tetri, e questa col tempo doveva leggerla la sola Giannetta. Crearsi coll'anima innamorata un sogno, e dopo averlo lungamente vagheggiato indarno, vederselo tutto ad un tratto realizzare, e giugnere il fatto laddove non ardivano neanche i più segreti desiderj del cuore, dovrebb'essere la suprema fra le gioie umane, e la Giannetta l'aveva conseguita. La fortuna s'era compiaciuta di regalarle il suo bel castello in aria: per una specie di miracolo, ella aveva non solo trovato, ma possedeva l'idolo della sua fantasia. Contuttociò la Giannetta non era felice. Affascinata dalla bellezza del giovane, poi da' suoi modi attraenti, ella non aveva avuto tempo da riflettere al più essenziale, all'anima ed al cuore di lui, e gli si era donata prima di conoscerlo; o per meglio dire, sulla base di alcune esteriori qualità che l'avevano invaghita, ella aveva immaginato a suo modo un'anima ed un cuore che il tempo doveva ben altrimenti rivelarle. Ella si aveva lasciato entrar l'amore per gli occhi, e gli occhi l'avevano tradita. — Il brutto mestiere che Dino esercitava fin dall'infanzia, lo metteva troppo spesso al contatto di gente rotta ad ogni sorte di vizi, perchè egli avesse potuto conservare i semplici costumi dei campi tra cui era nato. La vita arrischiata e sempre in lotta ch'ei conduceva gli aveva insegnato assai giovane a disprezzare ogni legge, e la sua mente s'aveva formato a suo modo l'idea dei propri doveri e diritti. Circondarsi di menzogne e di frodi, disobbedire all'autorità e anche talvolta resisterle colle armi; far vita scioperata e girovaga, frequentare le città e immergersi nelle gozzoviglie di equivoche taverne, dove spesso divideva le sue gioie col libertino, col ladro, col micidiario, gli avevano da gran tempo avvelenata la coscienza. Oh! se la semplice giovanetta, che nella sua serena solitudine lo sognava con tanto affetto, avesse potuto vederlo tra i bicchieri e gli amici e le profanazioni di quelle orgie abbiette dove così spesso ei protraeva le notti! Se avesse potuto udire un solo dei loro discorsi.... udire da quelle labbra così soavemente amorose, che cosa egli intendesse per amore!... La schifosa lumaca che talvolta si nasconde nel bocciuolo della rosa, il rettile che comparisce improvviso fra l'erba a contaminarla del suo alito pestilenziale, le avrebbero inspirato assai meno orrore. Erano anime degradate che nel calice della gioia oramai più non bevevano che la impura feccia. Come la farfalla che col lungo volare perde la dilicata peluria e la freschezza e i brillanti colori delle ali screziate, come la sensitiva che una mano indiscreta finisce coll'appassire e privarla del nerbo della vita, così a forza di sprecare l'amore, essi l'avevano per sempre perduto. Anime invalide a mai più sentire i divini entusiasmi del bello, a cui dinanzi la magnifica tela del creato passava scolorata e senza poesia. O che mai valevano le loro gioie sguaiate e il cinismo dei loro sorrisi in confronto di una lagrima di soave emozione! Ed era a una di queste anime inaridite ch'ella, l'inesperta, aveva profuso i ricchi tesori del suo cuore! Povera Giannetta quando s'accorse dell'inganno, quando ad uno ad uno dileguati tutti i suoi sogni, finalmente s'avvide che di quanto amava quaggiù sulla terra non altro l'era rimasto che la forma esteriore! Avesse almeno trovato un conforto nella famiglia ch'ella aveva adottato per sua!... Ma ella, altrimenti educata, altrimenti avvezza a guadagnarsi il suo pane, non trovava simpatia tra quella gente ardita, i cui costumi erano tanto disformi dai suoi. Ridevano della sua timidezza, si burlavano della dignità dell'anima sua, e i suoi modi miti ed affettuosi le erano quasi una specie di colpa. Aggiugni che affatto inetta a' loro traffici, invece di giovarli spesso serviva d'imbarazzo. Da principio rifugiavasi nell'amicizia della Tonina. L'età quasi pari, l'esser ella la prima della famiglia che aveva conosciuto, e il suo fare, che in mezzo a molti difetti pure aveva del franco e del leale, le conciliavano confidenza. Poi la Tonina anch'ella le voleva bene, e nel suo modo s'ingegnava di proteggerla, e pareva quasi si avesse assunto di educarla ai pericoli e alle difficoltà di quella nuova vita. Ma anche questo conforto durò poco. In paese la Tonina era una ragazza discreditata. La vedevano troppo spesso alle sagre bazzicare con ogni sorta di gente. Non amava il lavoro; invece sempre fuori, e all'osteria entrava disinvolta, e le piaceva scialare vestiti più a modo cittadino che da campagna. Era stata in promissione prima ad un mugnaio, poi con altri, ed alla sua porta venivano a farle all'amore i meglio trincati giovinotti del paese, ed ella se ne teneva; ma oramai nessuno le si proferiva a marito. Cominciò ad accorgersi ch'ell'era lasciata in disparte, e vedeva intanto farsi spose le compagne più giovani. Offesa nel suo amor proprio si mise in malinconia, e un bel giorno alla Giannetta disse che andava a Trieste e che non sarebbe ritornata. — A Trieste, soggiunse ella, ho trovato un damo che vale per tutta cotesta genía che mangia il pan d'oro e poi marcia in zoccoli. Vo' far la mia fortuna. — Giannetta lo credette uno scherzo; ma purtroppo ella rimase a Trieste. Qualche tempo dappoi morì la vecchia Maddalena. Allora la povera creatura si trovò affatto sola in questo mondo. Nessuno divideva le sue lacrime, nessuno sapeva intendere il suo cuore. Avesse almeno potuto, come una volta, passare le ore nel verde dei campi, occupata nel lavoro della terra o nella custodia del bestiame, e abbandonarsi senza testimoni al suo dolore, e disfogare l'amarezza dell'anima tradita! Ma la catena ch'ella stessa s'aveva imposto la strascinava suo malgrado dietro quella gente, come fragile schifo attaccato alla nave da guerra, fra i pericoli e le tempeste di una vita ch'ella oramai abborriva. Questo stato di continua violenza agiva intanto anche sul suo fisico. Visibilmente dimagrita, ogni giorno si alzava più pallida e più stanca. I suoi grandi occhi neri, perduto il brio della giovinezza, guardavano sempre più mesti e malati: nessuna speranza, nessuna gioia li rianimava, ed e' si posavano lenti sugli oggetti, quasi non avessero avuto la forza di raccorne l'immagine. Nessuno ci badava, ed ella deperiva; deperiva come la pianticella che una mano incauta ha posto a morire trapiantandola in un terreno che non le si affà. Nella sua misera condizione unico sollievo le era il ripensare al passato. Quando la vita amareggiata da immenso dolore ha perduto tutte le sue attrattive, l'anima oppressa dall'ingrato presente si getta nei campi dell'immaginazione o si ripiega sopra sè stessa e rivive di memorie; ed ella del continuo richiamava i suoi giovani anni, la vita innocente, le gioie e l'affetto della casa paterna. Curva le spalle sotto il fardello che le veniva assegnato, confusa nella turba dei contrabbandieri, in quei tristi viaggi ch'ella cotanto abborriva, spesso col pensiero si segregava dalla loro compagnia, e taciturna e sorda a tutti i loro sarcasmi ritornava con accorato desiderio ai dì sereni della sua infanzia. Tra le continue visioni dell'ameno paese nativo, tra le carezze della sua povera madre, e le amate persone con cui allora divideva la vita, e i giuochi puerili e le consuetudini e gli affetti di quegli anni beati, come una specie di eterno ritornello le si mesceva una immagine ch'ella aveva per gran tempo dimenticata, e che allora, suo malgrado, si sentiva risorgere dal profondo del cuore e a guisa di rimorso la riempiva di pianto. Vedeva la faccia affettuosa di Meni e la malinconia ed il tacito rimprovero di que' suoi lunghi sguardi appassionati con cui l'aveva lasciata nell'ultima sera; ed ella che allora non aveva saputo intenderlo, adesso lo rammemorava con un desiderio sempre crescente. Oh! se avesse potuto rivederlo e posare la sua povera fronte afflitta su quel cuore che per tanto tempo l'aveva amata colla tenerezza di un fratello, e narrargli i suoi falli e le tante lacrime che l'abbeveravano; se avesse potuto parlare con lui della sua povera madre perduta, e piangerla e pregar per essa fra le sue braccia!... Come al solito, erano questi i pensieri ch'ella ravvolgeva nella mente, quando lasciata la barca e salita la faticosa erta di Conti avviavasi colle compagne tra gli sterpi e le cretaglie dei reconditi sentieri del Carso. Al declinare del giorno riuscivano sulla strada postale presso al villaggio di Dobardò, ove lasciarono il loro fardello tra le viti e il muricciuolo di scheggie d'un di quei campucci che il povero slavo con infinita pazienza s'ingegna di creare sul dorso della brulla montagna, ed entrarono a refocillarsi nell'osteria. La Giannetta stanca del viaggio si gettò sulla panca in un angolo della stanza, e posata la faccia ardente di contro al fresco della parete s'aveva lasciato cadere sugli omeri il fazzoletto: apparivano le trecce molli di sudore, ed ella cogli occhi semichiusi pareva che dormisse. Le altre s'erano fatte portar da bere, e intanto che l'oste ammanniva la frittata, esilarate dallo spirito gentile di quell'asciutto e purissimo cividino, ricominciavano i loro cicalecci. — Ehi signor Michele, l'è un deserto quest'oggi la vostra osteria.... — Signor Michele, non ci darete che frittata? Al meno tagliate per entro un po' di salsiccia. — Piglia la scodella, Mora, e fà di diguazzare, ch'e' non ci regalasse qualche uovo boglio. — E dove diamine si sono ficcati quest'oggi i vostri avventori? — I miei avventori, rispondeva con tutta pace l'oste, sono avvezzi a capitare più tardi, e poi non è mica giorno di sagra quest'oggi! — Domenica neh, avete avuto la sagra? — Domenica; e ballavasi su due tavolati. C'era della signoria; c'era mezzo il territorio e una quantità di Triestini.... — Che fortuna per le vostre _tamblade_! Non vi sarete già lasciato trovare sì alla sprovvista e avrete loro ammannito qualche cosa di meglio che un po' di frittata in zoccoli. — Ma!... siamo in montagna. — C'è un pentolino di brodo, volete farne una zuppa per la malata? — Ve' anche costui che s'ingegna di far l'occhiolino pietoso alla nostra madonna addolorata! Bravo signor Michele! E tu Giannetta, coraggio, che colle tue smorfie hai trovato chi vuol farti la pappa. — Vi ringrazio, diss'ella, ma non prendo niente. — Ben pensato davvero! Così per soprassello, oltre a' tuoi fardelli, avremo il gusto di strascinare a casa anche te.... — Una carretta intanto entrava nel cortile. — Se non isbaglio abbiamo compagnia, disse la vecchia Caterina che guardava dalla finestra. A quell'annunzio lasciarono in pace la poveretta e tirate dalla curiosità si misero ad osservare i nuovi venuti. Era una specie di sdrucito carro a banchi tutto coperto dalla polvere, con un cavallaccio maghero e trafelato, e ne smontavano cinque o sei giovinotti, che dal vestito e dagli arnesi mostravano di essere operai che andassero a Trieste. Un d'essi d'aspetto severo e piuttosto melanconico, quando fu nella stanza si mise a fisare la Giannetta. Visibilmente commosso si calcò in fronte il cappello, e pallido come un cadavere uscì di nuovo all'aperto. Ella sulle prime non lo conobbe. La barba lasciata crescere, il vestito che indossava e due anni di lontananza e di patimenti ne avevano di troppo mutata la fisonomia; ma a quello sguardo, a quell'atto si risovvenne, e lasciate le compagne corse subito sulle sue tracce. Sedeva sotto una pergola colle braccia conserte al petto, come se avesse voluto comprimere il cuore, e parve non s'accorgesse di lei. — Meni! diss'ella, Meni tanto desiderato!... Se sapeste come ringrazio il Signore di pur vedervi una volta! — Egli non rispose, ma immoto come una pietra continuava a guardare il non lontano laghetto che tra le gole della montagna rifletteva la porpora degli ultimi raggi. — Due anni, Meni, da che voi siete partito! Quante lacrime versate in questi due anni! Io, disgraziata, non ho saputo intendere il vostro affetto; invece vi ho preferito un uomo.... che non mi ama.... Oh perdonatemi! Voi siete buono, Meni. Mi ricordo sempre di una volta ch'eravamo seduti come adesso sotto una vite in faccia al sole che tramontava; e una formica correva sul vostro vestito e voi non voleste ch'io la scacciassi; ma la lasciaste progredire finchè si arrampicò sopra una foglia.... Non vogliate scacciare adesso la povera Giannetta che inginocchiata a' vostri piedi si rifugia al vostro cuore e vi scongiura a tornarle a voler bene come quando eravamo sempre insieme e la nostra mamma con noi!... Ora ella è in paradiso.... e io son sola a questo mondo, e grandemente infelice.... Oh guardate come mi sono consumata! — Il giovane a queste parole si nascose la faccia colle mani, poi dopo un momento di pausa la sollevò bagnata di pianto e colla voce ancora commossa così dolcemente rispose: — Sono andato via, perchè tu potessi abbandonarti al tuo amore senza rimorso. Una preghiera feci allora, e poi replicai incessantemente che Dio ti désse tutto quel bene che a me veniva negato! Non fui esaudito.... In quei brutti paesi là io pativa troppo. Seppi di una strada ferrata che si costruisce in Italia, e pensai d'imbarcarmi a Trieste per andar a lavorare dove almeno si parla la mia lingua. Nel passare così vicino ai luoghi dove son nato, sentivo un desiderio infinito di rivederli e di riabbracciare la buona vecchia che avrebbe voluto farmi felice. Or ella non è più.... ed io non ho più nessuno che mi ami! A finir di riempiere la misura del mio dolore doveva venire la certezza che tutti i miei sacrifizi sono stati inutili. Noi ci siamo traditi, Giannetta!... e a noi non resta che una sola speranza, quella di rivederci in un'altra vita. Dì a' miei compagni che mi sono incamminato e che mi troveranno per via. — E si divisero e in quella notte viaggiarono entrambi, ella per Gorizia a casa, egli per Trieste al mare; e le loro anime desolate si univano in un solo intenso desiderio, quello di dormire presto nella terra del cimitero. V. L'ULTIMO VIAGGIO. Nella camera mortuaria dell'ospitale civile di Trieste, sulla panca parata dal funebre lenzuolo, le mani istecchite incrociate sul petto, con una candela accesa a' piedi, vestito del camiciotto di carità, giaceva un cadavere. Se la nera lavagna appesa al muro sovra il suo capo non l'avesse detto, sarebbe stato difficile riconoscere in que' diformati avanzi la vispa giovinetta che noi abbiamo veduto tante volte sulla via di Udine vicino a Butrio, o nelle sagre dei nostri villaggi prima alla danza, mentre i biondi capelli le scappavano in riccioli lungo le guance rosate e sul collo gentile. Quei capelli adesso irti e bagnati ancora dal sudore della morte avevano perduto la lucentezza e si diffondevano sinistramente a contornare una faccia contraffatta, lineamenti diventati orribili. A ventisei anni ell'aveva consumato la vita, lungi dal paese nativo, senza una lagrima di compianto, senza la stretta di mano di nessuno de' suoi cari! Sul letto dello spedale, abbandonata da tutti, in quelle lunghe ore crudeli di rimorso e d'impotente desiderio a ricominciare la già sprecata giovinezza, oh quante volte ella sarà tornata col pensiero alla casa paterna, agli anni innocenti della sua infanzia, alla povera chiesetta del disprezzato villaggio! Fin da quando la sua malattia aveva cominciato a seriamente aggravarsi, ella aveva trovato modo, col mezzo d'una donna che usciva dallo stabilimento, di far sapere alla Giannetta del miserabile suo stato, e per segnale e preghiera chè venisse, le aveva mandato la crocetta d'oro che soleva portare al collo prima della sua partenza. La Giannetta era venuta, ma pur troppo tardi. Subito che fu a Trieste, ella lasciò a' loro traffici il marito e gli altri contrabbandieri, e corse difilata all'ospizio. Dinanzi a quel vasto caseggiato di architettura senza fisonomia, ma pur moderna e signorile, rimase un istante in forse, parendole impossibile che sotto l'apparenza di tanta agiatezza dovesse nascondersi la miseria di cui ella andava in traccia. Nell'entrare s'incontrò in una lettica vuota: guardava a chi indirizzarsi; quando vide nel cortile alcuni inservienti che sciorinavano un panno mortuario. Percossa da un funesto presentimento si appressò col cuore atterrito, e proferì il nome della povera Tonina. Le risposero un numero e la indirizzarono alla sala delle donne. Coll'ansia di chi spera imminente l'abbraccio di cara persona, ella percorreva le due lunghe corsie che formavano croce, e di letto in letto ne andava ricercando coll'occhio le amate sembianze. Tanti volti squallidi atteggiati al dolore, e tutti stranieri! Ricorse ad una infermiera e chiese del numero che le avevano indicato. In quella, da una delle porticelle impannate d'ingresso, entrava il dottore e si dirigeva precisamente al letto che portava quel numero onde visitarvi l'ultima venuta, una vecchia coi capelli grigi. Le dissero allora che la giovane ch'ella cercava era morta e il suo posto già occupato. Non sapevano o non avevan tempo di badare alle interrogazioni che a tale annunzio andava loro facendo tutta in lagrime la contadina. Nascose il volto fra le mani, e dopo un momento di concentrato dolore si dispose ad uscire. Dietro a lei giù per le scale in un lenzuolo trasportavano un cadavere. Non vedeva l'ora d'esser fuori dall'infausto edifizio. All'aperto le pareva di potersi abbandonare più liberamente al pianto di che aveva piena l'anima. Si risovveniva della prima volta che si erano incontrate, della gioia grande che provò, quando dopo tanto tempo la rivide in quella osteria e seppe ch'era sorella di Dino, del bene che si avevano voluto.... Quell'anima amorosa era stata la sola che nella famiglia del contrabbandiere l'era venuta incontro colle braccia aperte, e si ricordava mille tratti del suo buon cuore; ed ella che tante volte aveva diviso le lacrime degli altri, ella era morta abbandonata da tutti! Oh! l'avevano ben crudelmente dimenticata; e benchè per parte sua fosse innocente, nondimeno sentiva rimorso di averla lasciata morire, senza neanche darle l'ultimo addio. Le pareva che la crocetta che le aveva mandato fosse come un rimprovero, e si vedeva dinanzi l'immagine della povera Tonina agonizzante che la chiamava al suo letto, che le stendeva indarno la mano. Angosciata da questi pensieri entrò nel cimitero, e inginocchiata in quella parte dove non distinte da croci posano confuse le ossa dei poveri, nell'effusione della sua anima pregava: — Dove sei, Tonina? Dove sei, sorella mia? Oh non credere ch'io ti abbia dimenticata! Han detto di te tante brutte cose, ma io ti amavo sempre allo stesso, e pregherò per te ogni giorno della mia vita; farò dire una messa in suffragio dell'anima tua, e Dio ch'è buono ti darà la sua pace. La tua crocetta me la metto qui sul petto, e mi ricorderò sempre di te e del bene che tu poveretta mi hai voluto. Dicono che c'è un'altra vita, e io spero che ci rivedremo in quella, e che tu allora mi avrai perdonato se non ho potuto correre a consolare i tuoi ultimi momenti. Oh! dinanzi al trono di Dio che noi possiamo essere abbracciate e volerci ancora bene come una volta! Allora saranno finite le lagrime, e il Signore avrà misericordia anche di noi povere disgraziate. — E recitava con divota effusione di cuore tutte le preghiere che sapeva. L'anima invisibile che certamente le volava dintorno avrà accolto con dolore consolato quelle pietose parole, e nel sentirsi ancora amata, avrà perdonato al mondo i suoi crudeli disprezzi e l'abbandono e la trista dimenticanza dei suoi cari. Il sole intanto placidamente scendeva in grembo all'ampia marina, e i suoi ultimi raggi diffondevano come un velo di luce rosata; alcune barche pescherecce a guisa di uccelli acquatici solcavano il golfo che in quell'ora pareva dilatarsi e confondersi coll'azzurro dei cieli. Tra i molti legni schierati in porto avresti veduto una specie di trabaccolo intorno al quale si affaccendavano alcune persone. Si caricavano delle botti di olio, e a misura che imbruniva, andava aumentandosi l'andirivieni di certe figure dubbie che passeggiavano sul molo, e si vedevano aggruppate in quelle vicinanze. Al di là del Ponte Rosso, in una bettola fuor di mano, stava trincando con alcuni compagni l'uomo a cui apparteneva il trabaccolo. Vicino al fiasco teneva sciorinato il passo della Dogana e i nomi di diecisette individui, ch'egli s'era impegnato di condurre in quella notte al porto di Monfalcone. Ad ogni momento entravano a bere di quella gente che a Trieste dai paesi circonvicini vengono a vendere uova, erbaggi, polli; e datisi alcune occhiate d'intelligenza, per dieci o dodici carantani pattuivano il ritorno colla barca di paron Gregorio. Erano donne vestite alla contadina, erano uomini di sinistra apparenza, la maggior parte in farsetto e berretta alla marinaresca. Al modo spiccio con cui venivano conchiusi quei contratti ben t'accorgevi che la Dogana non ci aveva che fare. Entra un giovinotto, appoggia un gombito sulla tavola, e inchinata la persona bisbiglia sommesso alquante parole nell'orecchio di paron Gregorio. Questi l'ascolta lentamente centellando, e quando ha finito di parlargli depone la tazza, e: — Intesi! Poi col dorso della mano forbendosi i grigi mustacchi: — Il posto per cinque, mi pare?... — No davvero, solamente per tre. Mogliema s'è ostinata a voler andarsene a piedi.... — Come? interrompeva una ragazza, non viene la Giannetta? Eh via, persuadetela, Dino, ch'ell'è una grossa stramberia il pigliarsi tutta quella gambata, quando invece si può trovarsi domattina fresche e riposate a Monfalcone! — Andate mo a dirgliene! ch'io per me non ne voglio saper altro, e ho perduta la pazienza. — Dov'è rimasta? — L'è qui fuori colla Caterina che a forza di piagnistei s'è lasciata tirare ad accompagnarla. — E la Beppa usciva, ma indarno, che la Giannetta in quella sera non voleva proprio saperne del mare. Fosse la reminiscenza della paura durata nell'ultimo viaggio, o che abbattuta dalle tante lagrime versate si sentisse scorata e più del consueto uggiosa di quella compagnia, o che nel secreto dell'anima le parlasse un funesto presentimento, invece di lasciarsi persuadere, cominciò ella a pregare la Beppa che per l'amore di Dio non volesse fidarsi alla barca. — O no! le diceva, non t'arrischiare Beppa: credi invece a me, e andiamo a piedi! — Ma che fantasie! Guarda com'è bella la notte! C'è un lume di luna che consola! E poi ho promesso di tener compagnia alla Maddalena, oltre che conduce seco la bambina, è anche incinta, e non potrebbe camminare. — Dì alla Maddalena che si fermi a Trieste. Andrà un'altra volta a casa. Alla bruma entrerò io a vedere di suo marito, e gli dirò che l'ho così consigliata pel suo meglio. Oh il pover uomo, dimani me ne ringrazierà!... — Non capisci, che abbiamo già pagato? — Sálvati Beppa, e che vadano i dieci carantani!... — Che diacine di discorsi tenete voi altre costì? interrompeva la Mora che uscita dall'osteria stava da qualche minuto ascoltando, messa come in apprensione. Chi ti ha detto che questa notte s'ha proprio da fare un buco nell'acqua? E postasi in mezzo colle mani in fianco tirava in faccia alla Giannetta un paio di occhi spiritati. — Il cuore me lo dice! — — Ah! il cuore.... Anch'io ho pagato.... Peraltro per dieci carantani non vo' mica farmi mangiare dai pesci! Vengo io con te! — Si divisero; la Beppa rideva, ma la Giannetta l'abbracciò piangendo con una tenerezza abbandonata come se fosse stato l'ultimo addio. Non erano per anco giunte ad Opeina che cominciò a spirare la bora. Più andavano e più pigliava piede, di modo che nelle svoltate, quando si trovavano in bocca alle gole dei monti, per far ressa a quella furia che a guisa di cateratta aerea si precipitava sul mare, dovevano tenersi fortemente avvinghiate l'una con l'altre e camminare di conserva. Proseguirono così tutta la notte. Sul fare dell'alba spuntavano a Sistiana, laddove la montagna s'apre sul golfo e si presenta allo sguardo la fertile spianata del territorio e il littorale friulano fino alle rovine dell'antica Aquileia. Una confusione di voci lontane, un gridare indistinto, come lo stormire d'immensa boscaglia, o come il fragore di molte acque rompenti tra scogli pareva loro che salisse fino ad esse, or sì or no a seconda del vento; guardavano, e il sole che si faceva specchio nelle sinuosità della costa, e l'alito della terra già risvegliata rutilavano troppa luce perchè i loro occhi valessero da quell'altezza a discernere gli oggetti. Quando furono presso Duino s'incontrarono in alcuni viandanti che discorrevano di una grande disgrazia successa in quella notte sul mare. Pescatori usciti assai per tempo e a causa della bora dovuti ritornare in porto avevano narrato di un legno fuorviato; di una barca desolata, dicevano essi, che si vedeva fluttuare senza direzione in balía delle acque dirimpetto alla Madonna Marsigliana. A quell'annunzio, la gente spaventata era corsa alla spiaggia, e dal porto era partito un legno onde verificare l'accaduto; ma nulla di preciso sapevasi ancora; solo alcuni cadaveri che il mare aveva rigettato facevano purtroppo fede del disastro. Le donne allora incominciarono a piagnere e a pregare il Signore e la Vergine santissima che non fosse vero, e affrettavano il passo come se il loro accorrere avesse potuto impedire la disgrazia. Ai Bagni altra gente e altri particolari. La barca che aveva naufragato era quella di paron Gregorio, undici cadaveri erano già stati pescati, fra questi una donna di Monfalcone era stata riconosciuta. Dovevano avere sbagliato nell'imboccare il porto, od essersi impigliati nella punta di pietre che lo protegge, o forse troppo carichi, era stata cotesta la cagione della loro sventura. La Caterina e la Mora nella loro angoscia facevano sempre nuove interrogazioni, ma la Giannetta pallida, cangiata di fisonomia, cogli occhi impietriti ascoltava impassibile tutte queste congetture, come se neanche si avesse trattato dei suoi. Pareva che il dolore le avesse tolto ogni energia. Era come uno che dopo aver lungamente nuotato ed esaurito tutte le forze, si abbandona alla corrente e senza resistenza vede accavallarsi sul capo l'onda che deve strascinarlo nell'abisso, o come l'ammalato che perduta la speranza si sente già morto e più non cura che che gli facciano dintorno. Certa della sventura già prima che succedesse, ora non aveva più lagrime. Nella piaga del suo cuore potevano figgere e rifiggere il ferro; da lungo tempo squarciato ei non gettava più sangue. La strascinarono a Monfalcone come un cencio. XVIII. LA MOGLIE. Persone distinte sotto ogni aspetto, la parte più eletta dei giovani eleganti, e numerose signore già da qualche ora affluivano alla casa del conte Battista, chè gl'inviti della Cecilia venivano sempre accettati con gioia, perchè tutti amavano la Cecilia; e sebbene fosse bella, ricca e fortunata, non v'era chi le portasse invidia, tanto i suoi modi erano gentili ed improntati di quella schietta e cara modestia che sa fruire dei piaceri altrui più che de' propri. Sapevano le signore che ella sarebbe stata cordialmente contenta di trovarle belle e di vederle brillare, e perciò, quasi a compenso, venivano in quella sera a farle corteggio e ad accrescere così l'allegria della festa che il marito le aveva consacrata. Trattavasi di una città di provincia, e, più che il compassato cerimoniale d'etichetta, avresti notato una certa affettuosa disinvoltura di modi, che ti palesava subito come cotesto più che altro era un lieto convegno d'amici; non mancava peraltro il lusso, la ricchezza e il buon gusto negli abbigliamenti; la sala particolarmente era arredata con molta leggiadria, scelta la musica, e una profusione di lumi e di fiori, sicchè la festa prometteva di farsi oltremodo brillante. Il conte Battista, unico erede di una vistosa fortuna, s'era ammogliato assai giovane, e amava teneramente la sua bella e graziosa compagna. Il suo più dolce pensiero era di farle cara la vita e d'indovinarne ogni desiderio. E la vita, nei due brevi anni dacchè si erano uniti, volava per essi tutta intrecciata di rose. Era in occasione di questa festa, ch'egli aveva fatto dipingere la sala e acquistate alcune mobiglie di squisito lavorio, eseguite da un bravo artefice del paese; e compiacevasi dei giudizj degli amici venuti ad ammirare il buon gusto di quelle sue nuove ricchezze, ma nel secreto del suo cuore un'altra gioia si aveva riserbata. Sapeva che la Cecilia aveva fissato di comparire in quella sera in un leggiadro abbigliamento all'orientale: or egli, al momento che si vestiva, le aveva fatto trovare sulla sua toeletta un bel finimento di corallo che completava in maniera veramente magnifica quel novello capriccio della moda. E la Cecilia in così fatto costume appariva più che mai attraente: aveva qualche cosa della poesia delle odalische; trasportava coll'immaginazione ai sogni delle mille ed una notte. Ei la vedeva accarezzata dagli occhi di tutti, mentre con una semplicità e disinvoltura piena di grazia faceva gli onori di casa, le accoglienze alle amiche, ed apriva ella stessa la danza; ma la ricompensa che in suo cuore s'aveva ripromessa non veniva. — Ella accoglieva sempre colla gioia e colla gratitudine d'una fanciulla la menoma attenzione del marito; e quegli occhi sereni, che gli dicevano senza mistero tutta la contentezza della sua anima innocente, e l'ilarità, e l'affettuosa espressione di quella cara fisonomia lo riconducevano a' suoi anni più giovani, ed era uno dei beni di che la provvidenza gli teneva consolata la vita. Ma questa volta, o non aveva aggradito, o qualche spina secreta s'era fitta in quel cuore. Forse che la vivacità dei colori dell'abbigliamento le togliessero il brillare della consueta sua tinta, gli pareva pallida, e negli occhi pensierosa e come contristata, e forzato il sorriso e perfin la voce velata da una malinconia ch'ella indarno cercava superare. Era più bella del consueto, ma d'una bellezza austera e meditabonda che rivelava od una sofferenza, od una lagrima. Si ricordò allora che gli parve così mutata fin dal giorno innanzi. Per gli apparecchi della festa aveva voluto recarsi alla campagna onde scegliere i più bei fiori della ricca serra che ivi tenevano. Era partita allegrissima: aveva mille progetti, di ghirlande, di mazzolini simbolici per le amiche, ch'ella stessa intendeva comporre e regalare; gli aveva su questo argomento tenuto così bizzarri propositi! folleggiava come fanno i fanciulli.... Tornò coi cristalli della carrozza ermeticamente chiusi, e discese mesta e impallidita, come se i tanti fiori che la circondavano l'avessero fatta languire coi loro troppo vivaci effluvj: così almeno aveva egli interpretato; e attribuì alla stanchezza del viaggio se lasciò che altri l'intrecciassero, e se parve dappoi poco curarsi del tanto vagheggiato festino. Ma ora vedeva la cosa sotto un altro aspetto, e pativa; e le più strane supposizioni gli facevano un tormento di quegl'istanti che aveva creduto consacrare alla gioia. Appena partite le signore, ella si era ritirata nella sua stanza da letto. Alcuni amici trattenevano ancora il conte, che non sapeva più come dissimulare l'angustia che lo amareggiava. Quando alla fine fu libero, risolse di subito chiarirsi. Dopo il suo matrimonio, era questa la prima nube che veniva a turbare la sua felicità; voleva diradarla a costo anche di trovarci sotto il dolore. — Salì le scale mortalmente agitato, ed aperta con precauzione la porta, rimase un istante perplesso sulla soglia. La campana d'alabastro, nascosta dietro le ampie cortine della finestra, mandava una luce così debole, che non avrebbe concesso di rilevare gli oggetti, se non fosse stata riflessa dalle candide pareti e dai mobili tutti candidi di quel nitido santuario. Ell'era coricata, e posava sugli origlieri come se avesse dormito. Si appressò in punta di piedi. Era pallida fuor di misura, dalle chiuse pupille trapelavano le lagrime, e sulla sua faccia estenuata passava senza sospetto il dolore dell'anima, come se le fosse stata dinanzi qualche amara visione. Allorchè sentì vicino l'alito di lui, si riscosse, gli stese le braccia, e con un sorriso che finiva in pianto, nascose sul suo petto la fronte coperta di rossore. — Ma che cosa è avvenuto? ma perchè queste lagrime, buono Iddio?... — diss'egli, accarezzandola e raccogliendo colla mano le lunghe ciocche de' suoi capelli disciolti. — Se tu sapessi, Battista, quel che ho veduto!... ti parrà una fanciullaggine.... ma io non posso aver pace.... sento qui nel cuore come un rimorso continuo.... E quando la presenza e l'affetto di lui l'ebbero alquanto rasserenata, — O amico mio! ripigliava, io ti ho sempre detto tutti i miei pensieri: anche quelli che qualche volta ti fanno sorridere e trattarmi da fanciulla.... perchè tu sei buono e raddrizzi le mie idee, e la tua parola indulgente, e il bene che ci vogliamo, m'insegnano a farmi degna di te. E anche ieri, subito tornata dalla campagna, ti avrei detto tutto.... ma mi pareva crudeltà turbar colle mie fantasie l'allegria della festa che tu mi avevi preparata, e ho creduto di saper dissimulare.... — Oh sì! come se io non ti conoscessi...! Ma non sai tu, ch'io leggo su questa cara fronte e in questi occhi benedetti tutta l'anima tua, e che tu non puoi patire senza ch'io divida le tue lagrime? Cecilia mia, cavami di pena! dimmi che cosa è accaduto, così colla confidenza e colla schiettezza di tante altre volte.... — Or bene: sono andata in campagna per la provvista dei fiori. Sapeva delle camelie così ricche quest'anno, e degli achimenes fioriti tutti, anche le ultime varietà che tu facesti venire e che non aveva peranco vedute. Ero così contenta, che non mi sono neppure accorta del freddo grande che faceva; e poi ben vestita, avvolta nella mia pelliccia, sui soffici cuscini d'una carrozza ben chiusa, colle mani nel manicotto, che m'importava del freddo? Oh il freddo non è per noialtri signori! Attraverso de' miei impenetrabili cristalli io godeva della vista del cielo, del sole nascente, dei campi tutti inargentati di pruine, e fantasticava ai ghiribizzi dei mazzolini che voleva comporre. Ero tanto beata e tanto immersa in cotesti miei progetti, che non mi sono neanche mai ricordata del povero Antonio che stava sulla cassetta, e che non avrà certo trovato piacevole il capriccio di quella mia gita così mattutina. Arrivo, e non trovo nè Valentino, nè le chiavi della serra. Intanto che cercavano, la gastalda mi dice, che sarà facilmente ito a far un po' di compagnia alla Margherita ch'è malata da un mese, e la cui figlia egli intende sposare. La Margherita, quella buona donna che ti ha allattato, e che ti vuol tanto bene, come se fosse tua madre.... Allora mi viene in capo: voglio andarla a trovare. Mi vedrà volentieri, io pensava, e poi le dirò di Battista, le dirò ch'egli ha gradito i funghi portatici a regalare queste vendemmie.... perchè mi ricordava d'averla veduta più d'una volta con un costellino di funghi, e che dimandava di parlare con te; ma tu allora eri impedito, e volevo.... — E volevi, diss'egli, riparare la mia trascuranza, compiere per me a un dovere verso quella povera donna, colla tua delicata cortesia rimediare alla mia spensierataggine.... Ma ti giuro, Cecilia, non è stato per alterigia o per mancanza di cuore!... gli è proprio che a noialtri uomini occupati di mille impicci, certe piccole attenzioni ci sfuggono... Ella gli pose la mano sulla bocca e fattasi rossa continuava: — Volevo recarle conforto e aprirmi l'adito di offerirle qualcosa, ecco tutto. Mi feci dunque accompagnare alla sua casa. In cucina facevano la polenta; un fumo d'affogare, e se aprivano, il vento rapiva i tizzi e li ruzzolava sullo spazzo. Non ti so dire l'orrore di quella negra e sucida caverna! Salii una scaletta diroccata, e davvero ho creduto accopparmi, perchè i gradini in più luoghi mancavano, e taluni tanto fracidi da non osare a fidarvi sopra il piede. La stanza della malata, sotto a' coppi e al disopra della cucina, e nera come la cucina, perchè le tavole in più d'un sito rotte proprio affatto lasciano trapelare il fumo, che tormenta e fa tossire la poveretta che è affetta da mal di petto... Oh Dio mio! e pensare che quella è casa nostra, e ch'e' sono nostri affittuali!... Delle finestre non ti parlo, senza vetri già si sa; sicchè la meschina, che è là inchiodata in letto da più d'un mese, non ha neppure il conforto della luce. — Ma perchè non avvisano il fattore di cotesti disordini? sclamò il conte annuvolato. — Ho detto anch'io la stessa cosa, ma sai quel che risposero? Gli è, soggiuns'ella in un tuono sommesso come se titubasse, gli è che la casa della Margherita in tale deplorabile stato, tra quelle dei nostri coloni non è mica la sola, e a far tutti i restauri che sarebbero proprio di prima necessità per quella povera gente, bisognerebbe, amico mio, che noi avessimo il coraggio di rinunziare a buona parte di cotesto vano lusso che ci circonda. Stettero entrambi alcuni istanti in silenzio. — Oh! ripigliò ella, se tu sapessi quel che mi diceva questa sera la musica del nostro festino, i gioielli e la seta di cui io era coperta, i profumi di quei nostri tanti fiori....! E anche adesso qui in questa stanza così riccamente addobbata, in mezzo a una profusione di finissimi lini, di ricami, di mille costosi oggetti.... veggo sempre la Margherita.... la sento tossire, e mi pare che si tratti di nostra madre.... — Non facciamo esagerazioni, Cecilia! Puoi credere che se avessi soltanto immaginato tale miseria, io avrei voluto ripararla ad ogni costo.... Poi il lusso che tu adesso condanni, sai tu a quante famiglie si fa per nostro mezzo sorgente di onorati guadagni? — Tutti questi argomenti che ci scusano sono passati anche per la mia mente, e benchè io non sappia tirare le conclusioni come voialtri fate, capisco che non sarebbe giusto rifiutar ogni agiatezza, perchè v'è chi patisce.... Ti ricordi quando mi conducesti a vedere il giardino inglese e il parco dei conti N.? — Fu uno dei più bei giorni della mia vita. Tu eri allegrissima e trovavi così ameni quei luoghi!... — E tu pensasti subito ad erigere una serra e a modellare il nostro giardino sul gusto di quello che mi aveva tanto piaciuto! Allora rimodernata la casina, aperta sul tetto una terrazza, in fondo al viale il chiosco, il boschetto d'inverno, il parco, la corte d'ingresso; per tua cura tutto fu nuovamente abbellito. A ogni gita che facevo, trovavo sempre qualche sorpresa. Una volta fu l'acquicella che co' suoi graziosi rigiri e colle sue cascatelle era venuta come a dar l'anima a que' siti; un'altra la collinetta, e poi la grotta, e poi le artificiose rovine del castello gotico, che tu stesso inventasti, e il cui modello in sovero deve averti costato molte ore di paziente fatica; eppure io non me ne accorsi, se non nel giorno in cui, già tradotto in pietra, mi si presentò all'improvviso di mezzo al verde, e pareva che una fata lo avesse fatto balzare dal seno della terra.... — Io mi ricordo, Cecilia, soggiunse egli fissandola con dolce emozione e passando il braccio dietro a' guanciali di lei, io mi ricordo di tutte le care ed affettuose parole che tu mi dicesti in quel giorno! Eravamo assisi l'uno presso dell'altro sul fusto rovesciato dell'antica colonna che ho fatto venire dagli scavi di N.; alcune roselline selvatiche crescevano tra i rottami del capitello, e il salice che ci faceva ombra, mosso dalla brezza, pareva inchinarsi a baciarle. Era assai lieta la sera, e i placidi raggi del sole che tramontava, intersecati dal verde, ti circondavano di una luce così fantastica.... — Adesso, siccome allora, io sento tutto il valore dell'inestimabile tesoro che il signore mi concesse nel darmi cotesto tuo cuore! Non mi sfugge nessuna delle tue dilicate premure, nessuna delle tue continue attenzioni.... Veggo tutto il bene che tu mi vuoi.... Pure, Battista, invece di esserti grata, io ti ricambio oggi coll'amareggiarti!... Gli è che dopo quel che ho veduto co' miei propri occhi, mi pare che noi siamo cattivi! e che io ne ho la colpa, perchè fin adesso non ho pensato che a godere.... Oh, se, invece di contentare i miei capricci, tu avessi speso quel denaro nelle case dei nostri poveri coloni! — Erano lavori di lusso, diss'egli; hanno peraltro impiegato molte braccia, e dato il pane a molte famiglie.... Ma alla Cecilia pareva, che se quegli operai, invece di costruire una grotta, un castello, i chioschi, e i tanti abbellimenti del suo giardino, avessero lavorato nelle case dei contadini, il loro pane sarebbe venuto fuori allo stesso, e non poteva quietarsi, e finchè v'era tra' suoi affittuali chi pativa di freddo, o mancava di spazio, quelle tante vanità della moda che le stavano d'intorno, le pesavano sul cuore, e sentiva rimorso de' suoi divertimenti come se fossero stati procacciati col sangue e colle lagrime del povero. Parlarono a lungo, e in quella stessa notte stabilirono di migliorar subito l'abitazione della Margherita. Colla sollecitudine e colle delicate attenzioni di due figli affettuosi provvidero a tutti i suoi bisogni, e la buona donna, che li aveva sempre amati con viscere di madre, nel vedersi adesso contraccambiata, godeva di tanta felicità, e non sapeva più neanche ricordarsi della passata trascuranza. Dopo quella festa, la casa del conte Battista assunse come una specie di aspetto severo. Comparivano di rado ai pubblici spettacoli, e la toeletta della contessa s'era fatta più semplice e più modesta. In quella vece, appena comparsa la primavera, stabilirono il loro soggiorno alla campagna, e il villaggio cresceva e ringiovaniva a colpo d'occhio: diverse fabbriche nuove erano surte come per incanto, le vecchie venivano riattate, in poco tempo spirava in quei dintorni come un'aria di agiatezza e di ben essere che consolavano il cuore. Era bello allora per la Cecilia, goder del lusso di che la circondava l'amore del marito, e le loro gioie s'erano fatte più pure e più serene, perchè sentivano entrambi d'essere benedetti ed amati. XIX. LA COGNATA. Era una bella sera d'autunno; l'ultimo riflesso del sole dava nelle invetriate, e faceva sorridere le rose del Bengala, che in leggiadri mazzolini penzolavano dinanzi alla finestra, leggermente commosse dalla brezza vespertina. Dinanzi a quella finestra stava seduta al lavoro Teresa, ma, colle mani abbandonate sul grembo, si aveva lasciato cadere il ricamo, e la sua bella fronte corrugata pareva ravvolgesse tristi pensieri. Sul sofà a lei dirimpetto era adagiata la suocera, e finiva di recitare l'ufficiuolo della Vergine. La dolce poesia di quell'ora passava inavvertita ad entrambe. La vecchia, nel fervore della sua divozione, non aveva occhi per guardare alle bellezze del tramonto, o forse dinanzi alle sue chiuse pupille splendevano imagini di un tramonto più bello consolato da celesti speranze. Ma qual era la spina che trafiggeva il cuore della giovane? La luce queta, che così amabilmente le accarezzava la bionda testa, perchè non aveva potere in quella sera di rasserenarla e aprirle sulle labbra il consueto sorriso? — Ell'era la compagna del primo dei figli della suocera; di fresco s'era ammogliato anche il secondogenito, ed ella aveva accolto in casa la cognata col cuore e colle braccia aperte. I fratelli fra loro si amavano, ed amavano la madre, e tutti i progetti di felicità della Teresa consistevano nel conservare questa dolce armonia, e nel trattarsi con confidenza e con reciproca amicizia. Il suo marito aveva dovuto la mattina recarsi alla città, e la nuova venuta, con poco delicato riguardo, aveva concertato per quel giorno una gita di piacere, ed era uscita collo sposo senza dirlo a lei; anzi, quasi mostrando di schivarne la compagnia. Al suo cuore amoroso, che non sapeva godere se non in unione de' suoi cari, quest'era una crudele ferita. E perchè il dolore è come fonte perenne che a disseccare non giova l'attignere, così ella, meditandolo, s'empieva l'anima di sempre nuove amarezze. Riandava tutti gli atti, tutte le parole della cognata; e ciò che prima aveva interpretato a bene, adesso le aveva un senso funesto. Le pareva, che quella giovane non fosse venuta in casa coll'idea di fondersi nella famiglia, che con tanto affetto l'aveva ricevuta nel suo seno; che non avesse l'intenzione di far suoi nè i loro dolori, nè le loro gioie. Scopriva adesso che il suo contegno era studiato, e che sotto il velo di modi gentili e benigni si nascondeva una crudele freddezza. Si ricordava di un giorno in cui avevano ricevuta la visita di alcuni cari amici, ed ella, nell'effusione della sua anima contenta, s'era lasciata andare a stendere le braccia alla cognata come per istringerla al cuore, e farla partecipare a quella pura gioia di famiglia: era stata civilmente respinta, e il ghiaccio di quell'atteggiamento, schivo e quasi disprezzante, le tornava adesso in mente, ed era come mettere il dito in ferita che non abbia ancora rimarginato. Dopo che vivevano insieme, esse si avevano dato assai pochi baci. Qualche rara volta per convenienza, per dovere; ma colla tenerezza, coll'espansione di due amorose sorelle, oh cotesto ella non osava neanche sperarlo! Avevano comune la vita, ma no l'affetto. E quella povera vecchia ch'ella vedeva lì pregare, oh! anch'ella non era amata. Attenzioni, premure suggerite dalla riflessione, ma non dal cuore. Forse quando si avrà bilanciato il diritto e il rovescio dello stato che si abbracciava, nel novero dei pesi a cui bisognava pur rassegnarsi, saranno entrate la suocera e la cognata!... Forse quando la campana del villaggio suonerà il mortorio di quest'affettuosa madre di famiglia, e i suoi figli piangeranno la sua ultima dipartenza, e la casa sarà nel lutto, in mezzo alle lagrime, troverassi un cuore che potrà sentirsi sollevato d'una parte de' suoi pesi...! E l'anima contristata lasciavasi andare a sempre più meste fantasie, e non vedeva l'ora che tornasse il marito, per poter piangere tra le sue braccia e disfogare un poco l'amarezza da cui sentivasi così crudelmente oppressa. Picchiano, ed entra una donna, curva per gli anni, macilente, imbacuccata la testa in un sudicio fazzoletto, e la misera veste, che la copriva, lasciava trasparire la forma della magra persona. Credevano che volesse l'elemosina; ma ella chiese di parlare colla padrona. Quando fu nella stanza, guardava intorno a sè curiosa tutti gli oggetti, e le sue labbra ammencite si componevano ad un impercettibile riso d'ironia, che tradiva l'umiltà de' suoi atti e l'affettata mansuetudine del suo volto. La Teresa, che più d'una volta aveva veduto con quanta benevolenza la suocera accoglieva i poverelli e lasciava che venissero a narrarle le loro disgrazie, accostò una sedia, e fe segno alla mendica che vi si accomodasse. Questa si mise in faccia alla padrona di casa, e per alcuni istanti si fissarono entrambe con grande attenzione. — Non mi conosci? — No, davvero! E continuava ad osservarla attraverso gli occhiali. — Non ti ricordi più di me? Guardami bene.... sono passati tanti anni, tante sventure! nondimeno, possibile ch'io ti sia affatto uscita dalla memoria? — E siete...? — Paola! la tua cognata!... A questo nome la suocera diè un grido, e gettati gli occhiali, si guardarono entrambe con una così tremenda espressione di odio, che la giovine si sentì rabbrividire. L'una, sotto la maschera di un viso pietoso, composto a forzata dolcezza, pareva il serpente che già pregusta gli spasimi della vittima, ch'è venuto ad avvelenare; l'altra, percossa all'improvviso da una funesta memoria, non aveva avuto tempo da domare l'impeto dell'anima conturbata, e quel nome, come scintilla caduta in mezzo alla polvere, aveva in un momento rideste le antiche passioni del suo cuore; e quella faccia accesa, quegli occhi quasi fuori dell'orbita, quella persona tutta tremante per l'ira, incutevano spavento. Sul tavolo stava ancora aperto l'ufficiuolo della Madonna; la sua mano convulsa, teneva ancora il rosario che con tanta devozione aveva poc'anzi recitato; i suoi capelli bianchi indicavano già vicino il sepolcro: erano entrambe sull'ultimo confine della vita, e l'odio tuttora vivo.... Cinquant'anni di lontananza e di sventura, non avevano avuto forza di placarlo: erano tornate giovani entrambe per risentir tutto il furore di questa brutta passione; e la sola morte poteva forse quietare il battito di que' due cuori esulcerati. Esse avevano vissuto un tempo insieme in quella medesima casa. La Paola vi era nata: vide con occhio invidioso entrarvi la sposa del fratello prima ch'ella s'avesse trovato un marito. La bellezza della cognata, i riguardi che le si usavano, infine il suo ricco corredo nuziale, che non le lasciava in nessuna maniera la speranza di poterla eguagliare, le erano tante trafitture. Cominciò a vendicarsi col far ricorso a tutti quei piccioli dispetti che sanno soltanto le donne. La malevolenza fu reciproca, e per alcuni anni, esse divennero il martirio l'una dell'altra. Finalmente la Paola trovò marito; si lasciarono senza che il rancore dei loro cuori fosse estinto. Parve che la fortuna s'incaricasse ben presto della punizione d'entrambe, perchè l'una in capo a pochi anni rimase vedova; la Paola, andata a vivere in paese lontano, senza amicizie di sorta, nel seno d'una numerosa famiglia che l'accolse come una straniera, pagò ad usura le lagrime che aveva fatto versare. Dovette uscirne col marito e co' figli. Dopo molte crudeli disavventure, dopo aver cambiato più volte di domicilio, si trovò, negli ultimi anni della sua vita, vedova, senza figli, e ridotta a mendicare un tozzo di pane. Allora si ricordò della casa paterna, e risolse di finalmente subire la tremenda umiliazione d'implorare la carità della cognata. La sola religione potè indurre questa a non negarle soccorso; ma era uno sforzo di virtù, a cui il cuore terribilmente ripugnava, e il beneficio stesso, fatto senza affetto, senza nessuna compassione, diveniva tanto amaro, che pareva una specie di vendetta. La Teresa, testimonio di questa scena deplorabile, intravide l'abisso, dove potevano condurla i suoi propri sentimenti. Fremette di orrore, e si propose di estirpar subito dalla sua anima il germe funesto dell'odio, e di aprirla in quella vece alle dolcezze ineffabili di un generoso perdono. Quando tornò suo marito, uscirono insieme incontro a' cognati. La notte era placida, lo splendore della luna si diffondeva amorosamente sul verde dei campi già irrorati dalla rugiada, come la carezza di un amante che perdona alle lagrime della sua bella pentita. Le loro anime assaporavano la soave voluttà del trovarsi di nuovo insieme dopo un giorno di assenza. La dolce effusione dell'amore li faceva buoni, e discorrevano del come rendere meno amara la sorte della sventurata ch'era venuta a rifugiarsi nella loro famiglia. Non vedevano l'ora d'incontrare gli altri due per metterli a parte del loro progetto. Finalmente li videro venire, e la Teresa corse ad abbracciare la cognata e a raccontarle la venuta della infelice. Si unirono tutti e quattro nel pensiero del bene, e l'affetto e il benefizio, che volevano insieme versar su quel misero capo disgraziato, strinsero fra essi i santi legami del sangue. In quell'ora si sentirono veramente fratelli, e fu il principio della domestica felicità che il Signore aveva loro riserbata. XX. LA MALATA. Avevo una giornata cattiva. Mi ero alzata col sole; ma il sole era malinconico; pioveva i suoi raggi sul verde dei campi, così offuscati, così languidi come se fosse stata l'ultima carezza di un malato o il sorriso di una speranza che fugge. Il baluardo delle Alpi che accerchia da tre lati la pianura del mio paese, mostravasi vicino, e tutte le fonti dei torrenti che la corrono, fumavano sollevando gruppi di nubi in forma di piramide dalla Piave fino all'illirico Isonzo. Anche dalla parte della marina cominciava ad ottenebrarsi, e quei vapori in breve congiunti davano segno evidente di pioggia. Io sento l'influenza d'una giornata serena, così come d'una tempestosa, e spesso i miei pensieri prendono colore dall'aspetto esterno della natura che mi sta d'intorno. Forse era questo il motivo della mia malinconia; e, come le nubi nell'atmosfera, mi venivano sopra le tristi memorie del passato e coi loro fantasmi mi turbavano il cuore. Io pensavo a molti crudeli disinganni, al sorriso bugiardo di tanti idoli che avevano allegrato la mia povera vita, e adesso disfiorati di ogni poesia mi stavano dinanzi nella loro nuda realtà: pensava ad un ultimo sogno le cui amabili visioni, simili ad innamorati serafini che vengono dai padiglioni dell'Eterno, mi avevano aliato d'intorno riempiendomi l'anima di gioie celesti, e al tocco della sciagura disparivano come il sole di quel giorno già ottenebrato dalle nubi. Sì: la sciagura era stata la pietra di paragone che aveva infranto il castello dorato di una santa speranza.... ed io provavo tutto l'amaro della delusione, come l'infelice ch'ha in serbo un tesoro pel dì del bisogno, e gli è stato involato, e non gli resta tra le mani che il meschino ed inutile involucro in cui lo aveva riposto. Piovigginava; e la mia anima si faceva sempre più tetra e scoraggiata e dolente delle contradizioni e delle umane fralezze; e' mi pareva quasi di aver perduto la fede nel bene. Una donna mi parlò a lungo della povera Miutte, e seppi con certezza, ch'ella mi avrebbe veduta volentieri, che anzi da molto tempo mi desiderava, e che la mia visita non sarebbe nè male interpretata, nè avrebbe recato confusione o disturbo di sorta. Sono nove anni ch'ella patisce inchiodata in un letto dal quale pur troppo non uscirà che per entrare nel sepolcro. Vi parrà strano, che in tutti questi nove anni io non le abbia mai fatto una visita. Ci sono dei dolori che incrudeliscono alla vista di chi ci conobbe felici, e per disgrazia l'ultima volta ch'io vidi la Miutte fu in un giorno di nozze. Ell'era in allora una assai bella giovanetta, bella al pari della sposa e lieta forse più di lei. Sedeva al banchetto, al fianco del suo giovane fidanzato, e tra pochi giorni anche a lei era riserbata la gioia di veder consacrato il suo amore dinanzi all'altare, ma senza che perciò fosse obbligata all'abbandono de' suoi; ch'ell'era unica figlia, e avevano stabilito di maritarla in casa, e le lagrime della sua cugina nel congedarsi dai parenti ella non le avrebbe versate. Aggiugni, che a non voler entrare la casa del povero sotto quell'aspetto di autorità, o di prepotente beneficenza che romperebbe con esso per sempre ogni legame del cuore, ci vogliono pratiche assai più delicate e più fini riguardi che non a varcare le soglie dei ricchi: e poi la sventura ha anch'essa il suo pudore, non è più concesso tergerne le lacrime alla mano incauta che una volta l'offese. Già da alcuni anni era mancato il padre della povera Miutte; la sua bambina aveva imparato a conoscermi, e tutte le volte che la incontravo correva spontanea a darmi un bacio: ciò un poco alla volta mi aveva fatto amici il marito e la madre di lei; ed ora ella stessa, la malata, mi chiamava al suo letto. Ci andai subito benchè piovesse. Una misera casuccia da sottani, la scala oscura e in cattivo stato, la cameretta sotto a' coppi, colle travi e colle pareti annerite dal fumo della sottoposta cucina; non altri arredi che un trespolo, una vecchia cassa, due bigonce che servivano da sgombratoi e una Madonna di carta, attaccata coll'ostia al muro, sulla quale pendevano incrociati il ramo dell'ulivo pasquale e la candela benedetta; ella nel suo letto nuziale, coperta da un nitido lenzuolo, la cui bianchezza faceva contrasto colla tinta oscura e affumicata di tutto ciò che le stava d'intorno. Dalle finestrelle spalancate vedevasi il verde dei campi, come un ampio tappeto a cui metteva confine la ridente catena di colli che vanno da Butrio a Manzano, e sul davanzale d'una di queste finestrelle una cassetta con tre balsamine in fiore, la cui bellezza inodorosa rallegrava gli occhi della malata senza offenderne i nervi dilicati e convulsi. M'assisi vicino al suo capezzale, e guardava commossa a quella povera creatura, ch'io mi ricordavo d'aver veduto in tutto lo splendore della giovinezza. Anch'ella si ricordò di quel giorno di nozze, e ne riandava i più minuti particolari, e faceva il confronto d'allora col suo stato presente, ma con pace rassegnata; ma con un sorriso sulle labbra che pareva quello d'una santa. Mi raccontò l'origine della sua malattia. Ell'era divenuta madre quasi contemporaneamente alla giovane sposa al cui banchetto nuziale avevamo insieme assistito. Correva un inverno perverso: spiravano continuamente venti burrascosi, e per le strade la neve montava sino al ginocchio. La sua cugina, esile della persona e di tempra assai delicata, non aveva latte che bastasse a nutrire il bambinello. In casa di contadini che per la loro condizione son usi a considerare la forza e la salute siccome merito, questa era una disgrazia che copriva di rossore la poveretta, che non aveva loro apportato in dote qualità così necessarie e cotanto apprezzate. Ogni notte in secreto veniva la Miutte ad allattare l'affamata creaturina ed a supplire per l'amica ai doveri di madre. Fidata nella sua gioventù e nella sua fiorente robustezza, benchè fresca di parto, attraversava la neve e con ispensierata generosità si esponeva ad ogni intemperie. Il ripetuto strapazzo portò i suoi frutti. Troppo poveri per ricorrere di proposito alla medicina, usarono da principio dei suggerimenti di ignoranti femminette, e solo quando aveva ella già affatto perduto l'uso degli arti inferiori chiamarono il dottore. Fu tarda e inutile ogni sua prova. — Il buon dottore, diceva la Miutte con quel suo angelico sorriso, il buon dottore ha fatto di tutto per guarirmi, e benchè oramai non ci sia più speranza di sorta, viene lo stesso a visitarmi, ed anche l'altro giorno è stato. Oh quanto bene mi fa a vederlo! Vorrei essere una ricca signora per potergli dimostrare la mia gratitudine. Ma tutti i giorni io prego per lui e fo pregare questa mia innocente bambina. Non è vero, Annetta? — soggiungeva volgendo l'affettuosa parola alla fanciulla, che, inginocchiata sul trespolo vicino al suo capezzale, con grazia infantile le stava lisciando i capelli. — Adesso son io diventata la bambina della mia Annetta. Ella mi pettina, mi acconcia le lenzuola, mi porge da bere, mi dà la pappa.... perchè io non posso più muovere le mani. — Era troppo vero. Quel misero corpo rattratto, e tutto in un gruppo come un gomitolo, era impotente a qualunque movimento. Appariva come un'erma dolorosa a cui siano state tronche tutte le membra. Il lenzuolo rialzato da due bastoni per impedire che la toccasse, lasciava scorgere le costole storpie e sollevate fin sotto al mento, e su quell'informe tessuto di ossa e di muscoli le braccia contorte si posavano immobili, e le sole dita della mano destra potevano ancora afferrare una sottile verghetta rimonda dalle foglie eccetto che nella punta, dove facevano mazzo, colla quale ella s'andava leggermente cacciando le mosche. Non aveva che la testa. Pur quella testa era bella ancora. Anzi, a' miei occhi, più bella di quando la vidi l'ultima volta. Pulitamente pettinata, aveva conservato tutto il ricco tesoro de' suoi bruni e rilucenti capelli; e sulla sua fronte serena pareva che si fosse risvegliato un raggio di fina e nobile intelligenza che prima non era. Illanguidite le rose delle guance, temprato lo splendore delle nere pupille, fatta più affettuosa, più gentile l'espressione delle labbra non per anco appassite, benchè più pallide, tutta la sua fisonomia aveva come acquistato un non so che di etereo, di spirituale. Con una certa ingenuità quasi infantile ella mi narrava de' suoi piaceri. In quello stato, in mezzo a tutte quelle sofferenze, con tutte quelle privazioni mi parlava di piaceri!... Teneva le finestrelle continuamente aperte, perchè diceva che l'odore dei campi veniva a rallegrarla ed a ridestarle nella memoria le ore felici de' suoi dì trascorsi; e benchè da nove anni chiusa in quella tomba, distingueva ancora la voce dei passanti per la via a lei noti, e mi narrava con riconoscenza di un giovane suo coetaneo, il quale, ogni volta che passava per andare nel campo vicino, la salutava, ed ella ne conosceva da lungi la pedata, ed era lieta di quel saluto come di regalo, e pregava per lui e per tutti i suoi cari.... Aveva nella stanza un pulcino addomesticato in modo che ad una sua chiamata le veniva a beccare sul letto. — Gli è il mio compagno di sventura, diceva. Mia madre quest'anno ne ha fatto nascere una numerosa covata e vanno a pascolare nel verde; ma questo me l'ho scelto io, ed è qui prigioniero con me, e mi consola nelle mie lunghe ore di solitudine. — Poi subito rasserenata: — Ho anch'io i miei _lussi_, soggiugneva. Intanto ogni giorno voglio una verghetta nuova per cacciarmi le mosche, e senza nessun riguardo mando a prenderle nella siepe vicina, ed i proprietari non fanno opposizione perchè si tratta della Miutte. Bisogna vedere quando viene il parroco a trovarmi, o quando mi portano la comunione: allora voglio sul letto i miei be' lenzuoli bianchi, e mi fo mettere al collo una pezzuola che mi ha comperato a Palma il mio povero uomo; una pezzuola che potrebbe dire a qualunque signora, tanto è di buon gusto.... ed io amo le cose belle, e i bei colori!... Se vedeste come l'Annetta m'infiora la camera in quei giorni! ma di fiori di prato, di fiori innocenti che non hanno fragranza, perchè gli odori non li posso patire. Oh!... a proposito della comunione, fatemi una grazia: venite anche voi domenica ad accompagnarla, ed inginocchiatevi qui, presso al mio letto, colla vostra candela in mano, e pregheremo insieme! — Glielo promisi. Sua madre intanto mi raccontava della sua angelica bontà, e come soffriva sempre senza lagnarsi, e come era di tutto contenta, e che nella stagione dei lavori eglino talvolta andavano nei campi e la lasciavano sola di molte ore, ed anche succedeva che nel fervor delle faccende si dimenticassero di lei, ed ella patisse di sete, nè mai per questo un rimprovero; ma sempre al loro ritorno la trovavano lieta. Ella s'accorse di queste lodi, e impensierata: — Mia madre è indulgente, disse, e non si ricorda più, come in principio sono stata anzi ben cattiva! Oh! io piangevo, piangevo le intere giornate e non potevo rassegnarmi.... ma il loro affetto mi ha consolata. Il mio povero uomo lavorava tutto il giorno per mantenerci, e mai che abbia voluto andar a dormire via di qui, ma talvolta stava su le intere notti per assistermi.... e poi essi non mi lasciano mancar di niente. Fino il caffè! Ma sapete che dopo che la Salvina ha fatto l'ultimo vitellino, io m'ho bevuto del caffè nel latte almen cinque volte! E come mi piace! Gli è ch'io mi vo facendo ogni giorno più alla signora e prendo gusto a tutte le vostre dilicature. Una cosa sola mi amareggia: quel non poter più muover le mani a nessun lavoro. E intanto l'Annetta cresce, e non v'è chi le insegni nè ad agucchiare, nè a darsi un punto, perchè mia madre, oltre che non ha tempo, oramai è fatta vecchia e gli occhi non le servono. — Senti, Miutte, le dissi, viene l'inverno, e dal tramonto al coricarsi ci sono parecchie ore di ozio; vorresti che l'Annetta venisse da me, e io le insegnerei a far le calze a suo padre, a cucire una camicia, e, se sei contenta, anche un pochino a leggere? — — A leggere! — gridò la fanciullina, e mi corse in braccio, e nella ingenuità del suo affetto voleva ch'io la baciassi. La madre non rispose; ma le tremavano le labbra e lagrimava consolata. Quando tornai a trovarla, la picciola Annetta mi venne incontro tutta giuliva con un libro ch'ella stessa aveva cucito, e nella sua semplicità credeva ch'io m'avessi la magia di animare per lei ad un tratto quei poveri stracci bianchi e far che le dicessero Dio sa che bella cosa! Ne' miei giorni di dolore spesso io visito quella povera casuccia, e sempre torno col cuore rasserenato. Siamo diventate amiche, ma non di quella amicizia che i beati del mondo si credono talvolta comperarsi dal cuore del povero col gettargli qualche moneta del loro superfluo. Io non sono ricca, ma se anche lo fossi, tengo che l'oro per quell'anima dilicata sarebbe un peso villano che, invece di strignere, romperebbe l'affetto. Sì: di tratto in tratto io le vo portando qualcuna di quelle ch'ella chiama nostre dilicature. Ridereste a vedere in che consiste questa curiosa carità. Gli è talvolta una pezzuola di poco costo, ma di vivi colori, e di vario e più che si può grazioso disegno per la piccola Annetta. Gli è un frutto, o una ciambella per la malata, o tenue porzione di qualche vivanda ch'ella non conosce. Un giorno, colla scusa d'insegnare alla bambina a farle il caffè, le ho portato due vasellini di vetro colorati, uno collo zucchero, l'altro coll'aroma di già macinato e la chicchera e gli utensili necessari. Adesso disegno per lei. Prima una Madonnina a cui ho fatto fare la sua cornice e l'appenderemo dirimpetto al letto. Poi, a seconda che mi viene, fiori, farfalle, uccelletti e fogliami che attacchiamo coll'ostia a coprire le affumicate pareti e ch'ella tanto aggradisce perchè sono lavori delle mie mani. Quando mi educavano, era di moda imparare alle giovanette un po' di disegno. Dicevano per adornare lo spirito; e la bella frase, allora incompresa, mi dava animo a riempiere i cartoni di linee più o meno scorrette ed a distemprarvi sopra in forma bizzarra le tinte che più mi aggradivano; e quantunque il merito principale di quei sgorbi fosse tutto della mia buona cassetta di colori fini, pure mi lodavano, e io me ne teneva quasi d'artista. Più tardi, uscita di convento, imparai la vanità di quegli studi incompleti, e com'erano misera apparenza al pari di tanti altri di cui s'infarcisce la femminile educazione, e piuttosto artifizi di _toelette_ che non vere cognizioni od ornamenti dello spirito, come osavano dire. Gittai l'inutile pennello, nè più lo ripresi, se non per la Miutte. Avranno immaginato ch'io dovessi un giorno colorire chi sa quante pagine eleganti negli _album_ delle nostre più belle signore di moda. Invece tutte le mie prove stanno in quest'angolo remoto, su questa annerita e screpolata parete. Pure mi piacciono qui! Poveri disegni, senza pregio d'arte, fatti sol per affetto, ed accettati dall'affetto, gli è come se fossero al loro posto. Ma l'alimento maggiore della nostra amicizia sta nell'effusione reciproca delle anime nostre. Quand'io le apro i mali della mia povera vita, ella m'intende, e la sua parola di pace è per me come quella di un angelo che mi fa buona e rassegnata. Nove anni di solitudine e di meditazione hanno depurato il suo spirito, ed a misura che il corpo deperiva, s'è fatta più viva e più nobile la fiammella della sua intelligenza. Scintilla dell'alito divino, nel crogiuolo di tanti patimenti, ella splende sempre più serena sulla cenere di sè stessa, e ogni dì meno impigliata dal peso di questa misera creta, s'innalza a celesti visioni traendo forza dalla propria distruzione, come fiore che cresce nella terra dei sepolcri. Una mattina la trovai sola, e tanto assorta ne' suoi pensieri, che pareva non si accorgesse del mio venire. Il sole aveva di già superato il culmine della sua casuccia e dall'angolo superiore della finestrella le gettava sul letto un ultimo raggio. Ella, colla consueta sua verghetta di avornio, andava leggermente agitando gli atomi luminosi vaganti lungo quella zona di luce. Era pallida, e le stava negli occhi meditabondi così una profusione di malinconico affetto che a guisa di profumo le si diffondeva per tutta la faccia. Me le assisi dappresso in silenzio, e quando mi vide, — Oh! se sapeste, disse, che curiosi pensieri mi passano per la mente! Questa notte ho sognato che il Signore mi aveva concesso una grazia, e andava fantasticando tutto il bene che me ne verrebbe, se fosse possibile.... — Ti sei forse sognata, le chiesi, d'esser guarita? — — No, no, mi rispose con un mesto sorriso. Sono tanto avvezza alla mia sorte, che questa speranza non mi viene più neanche in sogno. Ma mi pareva che avevano permesso al mio Luigi di sposare un'altra. — — Un'altra, Miutte! e n'eri contenta? — — Sì! contenta!... — Poi ripigliava: — Lo so, non è permesso, nè io intendo mormorare di una legge santa, che se toglie un bene alla povera Miutte, impedisce chi sa quanti mali.... Ma non sarà colpa se parlo con voi di questo sogno soave che a guisa di celeste benedizione, mi riconciliava colla mia tremenda disgrazia. Io amo Luigi! L'amo adesso più di quel giorno che voi ci vedeste insieme per la prima volta, alle nozze di mia cugina. Ma allora, nel fervore de' giovani anni, inesperta al dolore e piena il cuore di terrene speranze, io non avrei neanche saputo immaginarmi quel bene che oggi gli voglio. Senza accorgermi, più che per lui, io l'amavo per me, e non guardavo che a me.... Adesso comprendo tutto il peso della indissolubile catena ch'egli strascina. Consumare la vita in incessanti fatiche per nutrire tre creature impotenti ad aiutarlo!... Mia madre sempre più vecchia; per la fanciullina verrà un giorno in cui dovrà abbandonarci, perchè chi mai vorrebbe dividere tanta nostra miseria? E così dinanzi agli occhi del poveretto non altra prospettiva che una vecchiaia senza famiglia propria e senza sostegno di sorta. Oh! per lui sarebbe pure stato meglio ch'io fossi a dormire colaggiù nel cimitero!... un'altra donna avrebbe fatto da madre alla mia Annetta, avrebbe diviso i travagli del derelitto, consolata la sua vita: sarebbero venuti insieme a pregare sulla mia fossa, ed io dal Cielo, oh! come li avrei benedetti! Qualche volta questo pensiero mi fa meno rassegnata, e nelle mie ore di malinconia mi viene la tentazione di desiderare e pregare di andarmene.... Al Signore non piace, e sia fatta la sua volontà! Invece dell'angusta sepoltura, egli mi ha lasciata nella mia camera; invece delle tenebre, della solitudine, e della schifosa umidità della terra, io mi ho qui un buon letto, la vista della mia bambina, le cure e l'amore dei miei. Oh, se io potessi godere di questi beni senza che fosse continuo sacrifizio e danno per essi! Bisognerebbe che tutto camminasse come se da lungo tempo io avessi finito.... Già, in questo mondo, io più non sono che come una memoria.... un'apparenza e null'altro! Se io fossi morta e voi avreste potuto dipingere la mia immagine, così come quella della Madonna che ci sta dirimpetto, e l'avreste regalata a Luigi, io son certa ch'egli avrebbe pianto di contentezza e l'avrebbe voluta qui, in questa camera, come un tesoro, a testimonio della sua vita, e a lei dinanzi gli sarebbe stato dolce pregare e parlare di me colla mia Annetta e con tutti i suoi cari! Qui, in questa camera, e invece la mia anima.... Oh! se mi fosse dato essere spettatrice di un poco di bene, vedere intorno al mio letto una famigliuola felice, godere del loro affetto, partecipare a tutte le loro gioie, a tutti i loro dolori!... E una lagrima le corse rapida lungo la guancia; ma i suoi occhi, animati da sorriso ineffabile, si fissavano nei miei con una tale potenza che io me li sentii nel cuore e per un momento la compresi. In quell'istante di reciproca emozione i pensieri ch'ella mi trasfondeva, a guisa di rugiada di pace, mi quietavano un'antica ferita che fino allora io avevo creduto insanabile. La mia anima volava incontro ad un'altra anima, ed un capo amato che non sarà più mio posava sovra il mio cuore, e io ne tergevo le lagrime e ne curavo i mali coll'affetto e coll'amicizia di una madre, senza ricordarmi di me.... Povera Miutte! nel gran libro dell'amore tu, in quel giorno, m'insegnavi una nuova pagina, e forse la più bella! XXI. L'ALBUM DELLA SUOCERA. La contessa Giulia era una delle più compite ed eleganti signore della città di C.... Maritata giovanissima al conte Rodolfo Marini, in grazia della ricca dote ch'ella aveva portato in famiglia, in grazia delle sue amabili qualità personali e della cospicua nobiltà del casato di cui era l'unica ereditiera, ella godeva nella società d'una delle più brillanti _posizioni_. Quando fu stretto questo parentado, i Marini, che ne vedevano gli avvantaggi e che lo calcolavano come un colpo di buona fortuna, procurarono con tutti i loro sforzi di rendere gradito alla sposa il nuovo suo stato. Il più bell'appartamento della casa fu tosto ridipinto e riammobigliato; le antiche gioie di famiglia vennero date in mano ad uno de' più esperti gioiellieri del paese perchè le legasse alla moderna in un magnifico diadema, in una collana e in due superbi braccialetti, che dovevano far parere ancora più graziosi i contorni del bel braccio ed il candore del collo giovanile e della fronte serena destinati ad ornarsene. La carrozza e i cavalli, di cui fino allora s'era servita la contessa Eleonora sua suocera, furono cangiati in un ricco equipaggio fatto venire appositamente da Milano e che poteva passare per uno dei migliori del paese; i servi rivestiti di livree nuove e in parte mutati; l'antica cameriera di casa ceduta alla contessa Eleonora, fu rimpiazzata da una giovane che meglio sapesse i misteri della toelette, e che esclusivamente doveva servire alla sposa. Anche nella loro villeggiatura di San Leonardo furono fatti di molti abbellimenti; oltre le mobiglie rinnovellate, fu ridotta in giardino una parte dell'orto che dal lato di mezzogiorno s'apriva dinanzi alla casa, e in fondo si costruì un elegante calidario che riempirono di piante esotiche, le quali, dopo aver adornato nella buona stagione il passeggio della padroncina, dovevano lì raccolte produrre negli ultimi giorni dell'anno i fiori destinati a profumare e a rallegrare le stanze di lei. Si mise alla loro cura un giardiniere che servì ad aumentare la turba dei domestici che in tale occasione venne a popolare quel casino di campagna, fino allora contento al rustico servigio dell'ortolano e di sua moglie. Tutta la famiglia Marini insomma sentì l'avvenimento di questo matrimonio e ne riportò come una specie di lustro. La contessa Giulia era una bella giovane, bionda, delicatamente educata, che toccava con molta grazia il clavicembalo, dipingeva dal naturale con tinte languide e molto sfumate dei fiori e delle farfallette, instrutta in ogni sorte di ricami, e che in conversazione sapeva brillare adoperando con rara perizia l'accento e le frasi di non so quante lingue straniere. Aveva una scrittura piccioletta e fina fina, che dava grazioso risalto ai gentili periodetti che la sua mano bianca e leggera gettava su d'un foglio profumato della più bella carta di Veinen. Amava la danza, il teatro, i convegni eleganti, forse perchè un intimo sentimento l'avvisava che la maggior parte degli sguardi s'affisavano in lei; ma sapeva velare questo suo trionfo di tanta modestia, che le altre donne l'amavano ad onta di esso e gli uomini trovavano maggior attrattiva nel farle la corte. Simile in ciò alla violetta, la cui fragranza riesce tanto più cara quanto più tra le foglie si nasconde. Dolce di modi, anche in casa ella si faceva amare dallo sposo e da tutti quelli che la circondavano. Il conte Rodolfo aveva ordinato in modo la famiglia, che a lei poco pesavano le cure domestiche. Bastava che pensasse ad abbigliarsi, a divertirsi, a godere la vita. Un suo cenno era tosto obbedito, si spiavano tutti i suoi desiderj, e questa gentile creatura pareva sortita dal destino a passare per questa valle di lagrime, odorando soltanto gli effluvi della rosa, senza mai toccarne le spine. In pochi anni ell'era divenuta madre di due graziosi bamboletti; una fanciullina che appena tocco il quart'anno avevano affidato alle cure d'una Bonne, fatta venire appositamente dalla Svizzera, perchè così senza fatica le insegnasse la lingua francese e la tedesca e ne sorvegliasse l'educazione, che pensava di completare più tardi coi maestri di disegno, di ballo, di musica e di belle lettere. In quanto al maschio, per la sua tenera età viveva ancora sotto la tutela della nutrice. Le visite ch'ella continuamente riceveva e ch'era obbligata a rendere, le cure che doveva alla propria salute; avendo sortito da natura una complessione dilicata, resa ancora più fragile dalla molle educazione ricevuta, complessione che al minimo soffio si squilibrava; la lunga faccenda del lisciarsi, profumarsi, pensare sempre a nuove fogge di abbellimenti e di vestiti, onde comparire in una splendida aureola agli occhi del pubblico, che per l'onore e per il piacere del suo sposo doveva spesso affrontare; assorbivano in tal maniera il suo tempo che assai pochi minuti gliene restavano per godere l'amore dei figli e le dolcezze della famiglia. Ad ore determinate glieli conducevano elegantemente abbigliati, e ciò spesso succedeva durante qualche visita, ond'ella avesse campo di far brillare anche agli occhi altrui quei piccioli miracoletti d'uno spirito e d'una intelligenza precoce, che tanto inorgogliscono il cieco amore dei genitori. Questa giovane dama attraversava così la vita a somiglianza di chi passeggia per un giardino e spicca da ogni aiuola un fiore, intrecciando una lunga ghirlanda che appassirà forse in breve, ma che intanto lo rallegra co' suoi svariati colori e co' profumi, nè gli lascia pensare alla inesorabile stagione che agghiaccerà ben presto sulla terra i semi delle piante, stendendo su tutto il giardino il suo triste mantello di neve. Pure, con tutte le cure che si erano dati per affrancarla dai pesi che nella distribuzione della famiglia toccano alla donna, e con tutte le attenzioni che usava il marito per renderle facile e lieta la vita, c'era un dovere dal quale non poteva dispensarsi, e, benchè lieve, bastava talvolta a spargere il disgusto e la tristezza in qualcuno de' suoi giorni. Nella parte più rimota del palazzo dei conti Marini, in un terzo piano occupava due camere la vecchia contessa Eleonora. Questa donna, che in altra epoca era stata capo della famiglia e che, quantunque non uscita da ricco casato, rimasta vedova in tempi disastrosi, aveva saputo colla sua attività e colla sua saggia economia puntellarne la fortuna; al momento del matrimonio del figliuolo trovò conveniente di cedere ogni padronanza e di ritirarsi in quelle due camerette. Ella aveva compreso, che per una bella e ricca ereditiera, com'era la contessa Giulia, uno degli ostacoli più forti ad accettare la mano di suo figlio doveva essere l'idea di trovar in casa una suocera. Per appianare questa difficoltà aveva spontaneamente migrato dal suo appartamento, ceduto ogni diritto, e, contenta di un tenue assegnamento mensile, viveva in casa, come se non ci fosse. Ma le convenienze volevano che la nuora salisse ogni qual tratto a farle visita, a condurle i nipotini, ad invitarla a discendere nella sala da pranzo nei giorni solenni e qualche altra rara volta in fra l'anno. E queste visite per la giovane erano una gran noia. Quantunque la suocera si mostrasse con lei sempre affabile e dolce, nè si prendesse mai l'arbitrio d'entrare in dettagli sulle faccende domestiche, pure la sola idea della dipendenza era per essa una catena. Questa vecchia vestita continuamente di bruno, alta della persona e punto incurvata dagli anni, quasi sempre silenziosa, i cui occhi meditabondi facevano contrasto col sereno sorriso delle labbra, questa vecchia che portava con disinvoltura adorne le pallide guance de' suoi lunghi capelli canuti, diligentemente pettinati, aveva nel suo portamento un non so che di così nobile e di così dignitoso che imponeva rispetto, e nella sua presenza la contessa Giulia si trovava suo malgrado umiliata. Nei pochi giorni in ch'ella discendeva nella sala da pranzo, a lei dinanzi tutti i convitati si sentivano compresi da riverenza, si dimenticavano di far la corte alla giovane, e, ad onta della poca importanza ch'ella si dava e del suo contegno, ell'era incontrastabilmente la prima e la più rispettabile figura della famiglia. Anche in villeggiatura teneva lo stesso metodo di vita; se non che la maggiore ristrettezza del locale aveva ridotto ivi il suo appartamento ad una sola cameruccia. Sulle prime, soleva la vecchia uscire a far delle lunghe passeggiate per la campagna o a qualche casale delle vicinanze, accompagnata dalla sua cameriera e talora anche sola; ma un poco alla volta era andata diradandole, poi le aveva smesse affatto, e, tranne qualche visita alla chiesa, viveva quasi sempre chiusa nella sua camera. Con questo tenore di vita mancarono in breve le visite che riceveva, e si trovò ridotta così in campagna come in città ad una compiuta solitudine. Tanto più ch'ella schivava di far nuove conoscenze, e le antiche andavano di giorno in giorno mancando, o per morte, o perchè a persone attempate riusciva troppo incomodo il salire le tante scale che conducevano alla sua dimora. Cosicchè spesso, quando in casa Marini, nell'appartamento di gala si sentiva il suono del piano, e una lieta comitiva d'amici faceva corona alla bella contessa Giulia, nelle due camere di sopra era solitudine e silenzio, e dinanzi ad una modesta lucerna vegliava su qualche libro, o col lavoro tra le mani, o scrivendo, la sola tranquilla figura di quest'abbandonata madre di famiglia. Tra i molti che frequentavano la famiglia Marini c'era un giovane avvocato, una delle più antiche e nello stesso tempo delle più recenti conoscenze della contessa Giulia. A spiegare un tal paradosso basterà narrare come fu stretta cotesta relazione. Ell'era ancora nella casa paterna, quando il suo maestro di disegno, venuto a darle la solita lezione, posò un giorno sul tavolo alcuni acquerelli che portava a casa per ritoccarli e dar loro l'ultima mano. La giovanetta si mise a curiosamente scartabellarli, e gettò gli occhi sur un gruppo di gelsomini dipinti su carta a fondo rosato. Erano tre fiori nati contemporaneamente dello stesso occhio, ma l'uno non alzava più che il calice deserto dalla corolla che, capovolta, era caduta a' piedi del ramo, e i due superstiti collo stelo inchinato e le dilicate foglie quasi conserte in un candido amplesso pareano guardare e piangere insieme quel loro perduto fratello. Ella stette un pezzo assorta a contemplarli. Aveva di fresco perduta una sorellina. Ciò le rendeva immagine del suo dolore; e, quando alzò la bionda testa per chiedere al maestro di chi fossero, una lagrima le cadde dall'occhio. Il maestro le narrò sorridendo ch'eran fattura d'uno studente di legge, il quale, avendo fatta da poco una grossa eredità da una zia che appena conosceva, s'era messo nei mesi di vacanza a studiare il disegno e si piaceva ad attribuire così passioni ed affetti ai fiori; le descrisse una farragine di altri disegnetti dove questo bizzarro giovinotto aveva dipinto or una rosa che si drizza inorgoglita a ricevere il primo raggio del sole, or un'altra che languida piange l'appressarsi dell'inverno le cui brine le han già incurvato lo stelo ed accartocciata la verdura, or due dalie brillanti che si stringono in un bacio confondendo insieme con bell'effetto i petali diversamente colorati. La fanciulla ottenne di trattener qualche giorno l'acquerello, ne trasse una copia in ricamo di cui adornò i cartoncini d'un suo grazioso taccuino, e così lavorando s'inchiodò nella mente il nome del pittore. Le sarebbe stato caro il conoscerlo di persona, ma, pochi giorni dopo, seppe ch'egli era partito per gli esami di laurea e che a un bel pezzo non sarebbe ritornato in paese, perchè si proponeva di cominciar a godere la sua inopinata fortuna con un lungo viaggio. Onde si contentò d'immaginarlo, e per lungo tempo la vaga forma, ch'ella gli prestava in pensiero, venne a ricreare le sue ore di solitudine, finchè, a poco a poco illanguidita, si confuse cogli altri fantastici sogni di quella poetica età. Ell'era già sposa e madre, quando, parecchi anni dappoi, lo vide per la prima volta ad una soirée. Certo che se non avesse sentito proferirne il nome, il ritratto della sua fantasia non sarebbe stato sufficiente a farle ravvisare in lui il pittore dei gelsomini. Ella ne aveva forse indovinato la facile disinvoltura, i modi peregrini e leggiadri, ma la sua immagine era troppo indeterminata ed aerea per avvicinarsi ad alcun che di reale. Ciò che s'accorse di non avere sbagliato si fu il senso di dolce commozione che provò in sua presenza, particolarmente quando s'avvide che gli occhi del giovane spesso ritornavano su lei, e parevano averla distinta fra tutte le belle che adornavano la sala. Quando in quella stessa sera ei venne a sederle vicino e si parlarono, ella sentì suo malgrado corrersi al viso una leggera fiammolina, che le fece temere d'aver arrossito; e rispondeva impacciata e confusa alle consuete frasi di complimento, con cui in società si comincia la relazione di una nuova persona. Parlarono d'una prossima festa da ballo a cui erano entrambi invitati, della stagione stravagante che correva, dei diversi paesi ch'egli aveva visitato ne' suoi viaggi; e per quanto procurasse di tener ferma l'attenzione ai discorsi del suo interlocutore, ella invece pensava: È molto tempo ch'io m'immagino i lineamenti del suo volto, il tono della sua voce, i suoi modi, la sua persona.... Ecco, finalmente ei mi sta dinanzi. Precisamente non è questo il ritratto della mia mente. Io non aveva indovinato nè questi capelli così neri, nè questa faccia così pallida ed estenuata. La fiamma che arde in que' suoi lenti e malinconici sguardi è assai più dolce.... più affettuosa.... La sua voce ha un non so che di così buono, di così caro.... io non ne avevo sbagliato il colore, ma l'idea del suo molto sapere e dell'esperienza ch'egli deve avere acquistata ne' suoi viaggi mi facevano supporre un tono più severo e temprato a modo di chi insegna, non di chi pieghevole par che chieda un consiglio all'amicizia.... — Ed era tanto distratta, che dopo si rimproverava d'aver mostrato poco spirito e temeva d'avergli lasciato un'assai cattiva impressione di sè. Sperò peraltro d'essersi ingannata, quando, di lì a pochi giorni, ei venne a farle visita in compagnia di suo marito di cui s'era fatto in breve l'amico. Il conte Rodolfo, immerso com'era ne' suoi progetti di migliorare l'asse paterno e di mettere a frutto la ricca dote ottenuta, onde un giorno avesse ad accrescere il patrimonio della sua casa, accolse con piacere la relazione del giovane avvocato dai cui lumi traeva insegnamenti e larga materia di discorso. Più tardi, quando le visite di lui presso la contessa s'erano fatte assidue, ei le guardava di buon occhio, perchè lo sollevavano dall'obbligo di distrarla e gli lasciavano maggior tempo d'attendere a' suoi affari e di far più spesse gite in campagna o fuori di paese. Positivo per carattere e filosofo alla sua maniera, la sua giovanezza era scorsa abbastanza tranquilla, perch'ei credesse alla realtà di quelle passioni, che generatesi nel cuore dell'uomo a guisa di verme nel tronco di un albero possono tutta consumarne la vita. Le teneva per sogni da poeti, per esagerazioni di anime inferme, o tutt'al più per capricci di un momento dai quali si può a nostra voglia guarire. Il suo matrimonio era stato un affare di calcolo, dove il cuore certamente aveva avuto assai poca parte. Contento di sua moglie per gratitudine e per vanagloria, ne' suoi giorni di meditazione ell'era la nobile radice da cui doveva rigermogliare più splendido e più rigoglioso il suo albero gentilizio; e ne' suoi giorni di poesia l'odalisca graziosa destinata a rinfrescargli e ad abbellirgli la vita. Del resto ei s'inquietava sì poco del cuore di lei, che non si era nemmanco mai curato di sapere se per caso battesse. Egli l'aveva veduta fin dai primi momenti della loro unione brillare nel mondo attorniata da tutti i giovani galanti del paese. Era avvezzo al suono delle lodi che le venivano tributate, e le riguardava come un gergo convenzionale, di cui la società circonda sempre una bella donna, e, ben lungi dall'adombrarsene, queste lodi e questa galanteria le accrescevano pregio, e ne invaniva come il possessore di un bel quadro che gode dell'entusiasmo che suscita il suo capo d'opera. Questa turba di giovanotti che la vagheggiavano erano farfalle che facevano omaggio al suo bel fiore e che una lunga esperienza gli aveva dimostrato innocenti, nè punto curava ch'ora n'avesse una di più, tanto più che, continuando il paragone, il giovine avvocato con quella sua cera macilente ed estenuata mal poteva passare per pericoloso. D'altra parte la contessa Giulia pareva porre tutto l'impegno d'una donna nello strignere sempre più i nodi di questa nuova relazione. Oltre la simpatia ci andava anche del suo amor proprio. Nelle visite che faceva alle amiche, nei convegni della sera, dappertutto e da tutti sentiva lodare lo spirito, la disinvoltura, i bei modi del giovane, e la sua vanità era dolcemente lusingata dalla preferenza ch'ei le mostrava. Gradito nelle prime famiglie del paese, ricercato nelle compagnie, additato quasi a modello per il suo buon gusto e per la sua eleganza, la donna, a cui egli rendeva il primo omaggio, doveva tenersene, tanto più che avendo molto viaggiato e vissuto per alcun tempo nelle più rinomate capitali, tra' suoi compatriotti il suo voto era oramai diventato inappellabile. Se ella compariva sempre agli occhi del pubblico fra le signore che meglio sapevano vestirsi ed ornarsi, in quel carnovale la sua toelette parve un tipo di leggiadria, che le altre, sperando indarno di soverchiare, si davano almeno il vanto di imitare. Non vi fu festa a cui non intervenisse, e ai balli pareva instancabile, come inesauribile la sua fantasia nell'inventar sempre nuova e più graziosa foggia di adornamenti. Allegra e spiritosa, come chi sente in cuore la vittoria, ella fu così in quell'inverno l'anima di tutti i divertimenti. Il suo piede volava alle danze, il suo cocchio per le vie. Se ai pubblici passeggi incontravi un drappello di leggiadre donne e di giovinotti a cavallo, nell'amazzone gentile che prima lanciavasi al galoppo abbandonando al vento i lembi dell'ampio vestito e le chiome e i veli del bizzarro cappellino di felpa, ravvisavi la contessa Giulia. In quella giovane personcina così delicata e gracile era entrato un bisogno di moto, una sete di vita; pareva ritornata agli anni spensierati della fanciullezza, quando il nostro corpo gettato nello spazio a forza di attività tende a crescere e a svilupparsi. Il suo cuore desto da un lungo letargo, o per dir meglio lanciato in una nuova esistenza, batteva rapido e allegro, le sue ore si succedevano sempre piene e felici, ed ella passava d'una in altra emozione con tanta velocità che non le restava tempo a riflettere. Trascorse così l'inverno e parte della primavera; e, prima che s'accorgesse, si trovò all'epoca in cui ogni anno soleva recarsi in campagna per attendere dall'aria balsamica ed aperta dei campi un refrigerio alla propria salute e a quella dei figli. Partì come di consueto; ma, invece di godere dell'aspetto della terra ringiovanita, che di qua e di là del cocchio fuggente le si apriva come in tanti ventagli di lieta verdura, ella si sentiva chiuso il cuore, e, a misura che si allontanava dalla città, le parole e lo spirito le mancavano. Non avvertì la fresca brezza della collina che le scherzava dolcemente tra i capegli e lungo le gote, non curò i profumi delle violette primaticce e del bianco spino, che ogni qual tratto le venivano alle nari; passò il torrente senza guardare nè alle sue rive rinverdite, nè ai salici che colle loro chiome rinnovellate baciavano l'onda; giunse a San Leonardo, e quell'allegro casinetto di campagna circondato di fiori le parve deserto, e a tal segno deserto, che suo primo desiderio fu di coricarsi a dormire, come se si sentisse ammalata. Non sapeva rendersi ragione di questo vuoto, di questa tristezza sempre crescente che suo malgrado l'opprimeva; ma chi l'avesse per qualche giorno indagata si sarebbe facilmente accorto ch'ell'era divenuta pensierosa, che i suoi occhi e la sua fisonomia non si rianimavano che al proferire di un nome, e che questo nome suonava in quasi tutti i suoi discorsi; anzi pareva che non prendesse parte alla conversazione che per il piacere d'introdurvelo. Ella, un tempo così vaga della lieta compagnia e delle partite di piacere, preferiva ora la solitudine, e spesso la sera stava ore ed ore seduta su d'una pietra in fondo al giardino cogli occhi fitti nell'ampio stellato. Talvolta faceva di lunghe passeggiate per luoghi non frequentati e spesso in riva al torrente. Una mattina uscì di casa con questa intenzione. Il cielo era annuvolato e pareva prometter vicina una di quelle piogge benefiche della primavera, che già da parecchi giorni i contadini sospiravano. L'aria crassa e pesante le aveva inumiditi i capegli di maniera che le ciocche inanellate che le adornavano le gote s'erano fatte lunghe e le scendevano in disordine sulle spalle e sul petto; spesso le rondini le passavano dinanzi tanto basse che parevano coll'ali rader la terra. Giù sul torrente una quantità di uccelli acquatici volavano a fior d'acqua a caccia d'insetti e di pesciolini; la pioggia era imminente, ed ella non se ne accorse, se non quando alcune rare e grosse gocce le caddero sulla testa e sulle spalle, e cominciavano a far pallottole nella polvere della via. Non era più in tempo di ritornare addietro, allargò il parasole e corse a salvamento sotto i folti rami di un tiglio che proteggeva un tabernacolino campestre ivi eretto forse da qualche viaggiatore scampato dalla furia del torrente. Non s'era appena seduta sulla pietra che serviva d'inginocchiatoio, che le gocce fatte più spesse e più rapide sollevarono una specie di dolce mormorio che s'andava sempre più dilatando e crescendo. Pareva che ogni foglia movesse una lingua, ogni radice aprisse la bocca a ringraziare il Creatore dell'umore benefico che mandava a rinfrescarle. Ell'era assorta in quella fragorosa armonia e guardava ai fiori che col loro capo tremolante parevano accogliere consolati le stille che ne facevano più vivace il colore, mentre esalavano più soave il profumo misto a quello della terra bagnata. In quell'ora di solitudine pensò un poco a sè stessa, e, richiamando il passato, le parve d'accorgersi che un qualche grande cambiamento stava per succedere nella sua anima. Cercò di rendersi ragione della malinconia che l'opprimeva, esaminò il suo cuore: non osava confessarlo a sè stessa; ma c'era una persona che da qualche tempo lo faceva suo malgrado palpitare. Le sue gioie, i suoi dolori, i suoi pensieri oramai s'aggiravano intorno ad un solo oggetto. Non era di suo marito, non de' suoi figli, ch'ella più s'occupava: un altro era venuto a cacciarsi tra essi; anzi davanti ad essi, e la memoria di lui assorbiva tutta la sua vita. Trovò che amava la solitudine perchè in essa il pensiero le rifaceva i momenti che aveva passati in sua compagnia, ch'ell'era continuamente occupata a rimeditare tutte le parole ch'egli le aveva dette e a dar loro qualche senso forse più arcano di quel che valevano; perfino ne' suoi sogni era sempre la stessa immagine che le compariva dinanzi. Le parve d'essere sull'orlo d'un precipizio, e tremò di non aver forza bastante a cansarlo. Allora sentì rimorso di contraccambiare così alle affettuose premure di che la circondava lo sposo, e le parve che sarebbe stato dovere l'aprirgli candidamente il proprio cuore e confessarsi a lui. Ma s'ei l'avesse derisa? Se avesse trattato di fanciullaggini questi suoi scrupoli? Già aveva provato, che certi discorsi ei non li comprendeva, o gli parevano inezie, ed ella arrossiva innanzi tratto d'una confessione la cui delicatezza ei non avrebbe certo saputo apprezzare. Oh se almeno le fosse stato concesso confidarsi ad un'amica! Versare questi suoi pensieri in un'altr'anima capace di compatirla e di aiutarla a salvarsi! Se avesse avuto almeno una madre fra le cui braccia gettarsi a piangere ed a chieder consiglio! Ma la sua da molti anni dormiva nel sepolcro; e nella società frivola e in maschera, dalla quale era stata sempre attorniata, ella non aveva ancora saputo incontrare un cuore. Intanto pioveva a dirotta. I rami che la proteggevano, carichi d'acqua, cominciavano a lasciarla sgocciolare. Dovette montar sulla pietra e tenersi ritta sotto la scarsa tettoia che copriva l'immagine, e nondimeno l'acqua che precipitava dalla gronda e a' suoi piedi s'alzava in sonagli, le inzaccherava i lembi del vestito. Era in tale attitudine quando dall'altra parte del torrente le parve di vedere attraverso il nembo staccarsi la barca per tragittare una carrozza. Si ricordò che suo marito doveva in quel giorno venire in campagna, e pensò fosse lui. Solo le parve un gran miracolo ch'egli, che non soleva mai intraprender nulla senza prima molto riflettere, si fosse in quella mattina posto in viaggio ad onta del cielo turbato. — Ch'ei si sia messo così a risico di bagnarsi, diceva intra sè, per sola premura di venirmi a trovare? È impossibile. Ci sarà forse sotto qualche altro più forte motivo; — e colla mano facendosi visiera allo sguardo, lo aguzzava alla barca procurando di discernere il colore dei cavalli e dell'equipaggio che stava sul ponte. Più s'avvicinava e più capiva d'essersi ingannata. Giunta finalmente vide i barcaiuoli gittar i tavolini sulla ghiaia, sbarcar i cavalli e la carrozza, e con sua grande sorpresa nel giovinotto che la seguiva, quantunque mezzo coperto dall'ombrella, ravvisò l'avvocato. Un tremito l'assalse le ginocchia, impallidiva, arrossiva, non voleva credere ai propri occhi. Lo vide montar in carrozza, e dovette assicurarsi che non aveva sbagliato. Il giovane stava per passar oltre, quando, gettato a caso lo sguardo a quella volta, la riconobbe. Fece fermare, e in due salti corse a lei. — Voi qui, madama? — le diss'egli maravigliato. — Questa mattina sono uscita a passeggiare e, senza che me ne accorgessi, la pioggia mi ci ha cólta.... — In verità, interruppe il giovane, ch'io ringrazio quest'accidente che mi offre l'opportunità di ricondurvi a casa. Ma come mai così sola...? I loro occhi s'incontrarono e si dissero la gioia reciproca che provavano nel rivedersi. Ella si appoggiò al suo braccio. Il giovane per ripararla teneva l'ombrello in modo di bagnarsi tutta l'altra spalla. Se ne accorse la contessa e gli si fece più dappresso. Intirizzita dal lungo star lì in quell'aria umida e fredda tremava, le sue mani erano ghiacciate. Ei sentì quel tremito, la fissava pauroso che si trovasse male, e non ponevano mente nè l'uno nè l'altra al fango e all'acqua che correva per la via. Si assisero nella carrozza. Il disordine de' suoi capegli bagnati, la confusione di quell'incontro spargevano sul suo volto dilicato una non so quale timida grazia che ne accresceva la bellezza. Tacevano entrambi, e solo tardi ei le presentò un biglietto del marito. Il conte Rodolfo, chiamato da una lite, invece di venire in campagna aveva dovuto partire per Venezia ed aveva affidato all'amico l'incarico di farne partecipe la moglie. Incarico ch'egli accettò di buon grado, mentre, dovendo andare a Gorizia, passava di necessità a poca distanza del villaggio ch'ella abitava. Per solito la contessa Giulia soffriva mal volentieri la lontananza del marito. La circondava di tante attenzioni, preveniva tutti i suoi desiderj, sapeva così bene disporre ogni cosa che la vita senza di lui le riusciva più disagiata. Ma questa volta, quand'ebbe letta la lettera, il primo moto del suo cuore fu, suo malgrado, di gioia. È ben vero che si pentì subito, e, chinata la testa, propose seco stessa di frenare ad ogni costo i battiti delle arterie commosse, di farsi di ghiaccio, di trapassare impassibile sull'orlo del pericolo ch'ella non aveva cercato. Era ancora in questi pensieri quando le parve di sentirsi leggermente accarezzare i capegli. Si fece di porpora e non ardì alzare la fronte per paura di trovarsi troppo dappresso alla faccia del giovane, ma andava ruminando qualche parola innocente con cui rompere quel silenzio. Anch'egli cercava d'appiccare discorso. Erano impacciati, confusi ambidue; finalmente si misero in dialogo, ma nè l'uno nè l'altro badava alle frasi indifferenti che andavano dicendo; le loro anime si parlavano invece un altro linguaggio assai più eloquente e che non aveva d'uopo del suono della voce. Furono in un momento alla villetta. La pioggia continuava, e trovarono i servi ch'erano stati in traccia di lei per portarle l'ombrello, ma non avevano saputo indovinare per dove si fosse avviata. La compagnia della governante e dei fanciulli servì a rimettere nel suo stato naturale la contessa che non permise al suo ospite di continuare il viaggio con quel mal tempo. Durante il pranzo ella fu abbastanza disinvolta, poi si occuparono di disegni, di poesia, fecero insieme della musica e terminarono così deliziosamente la giornata. Via per la notte il cielo rasserenò. Le bizzarre creste dei monti, che a guisa d'anfiteatro chiudono quasi da tre lati la fertile vallata del Friuli, presso all'alba spiccavano nette ed azzurre dall'arancio dell'orizzonte; comparve il sole, e il verde della campagna rinfrescato dalla pioggia mostravasi più gaio e riempiva de' suoi mille profumi l'atmosfera fatta limpida e dolcemente commossa dalla brezza mattutina. La contessa contro il suo solito s'era alzata per tempo ed aspettava il suo ospite a far colazione in un elegante stanzino, le cui finestre adorne di ricchi cortinaggi cilestri davano su d'un giardinetto. In una caraffa d'acqua alcune rose di maggio circondate da violette, da gelsomini e da fiori di reseda imbalsamavano l'ambiente. Ella aveva fatto chiamare la governante perchè le conducesse la figliuoletta, e intanto stava guardando dalla finestra il bel tempo ritornato e i fiori che colle loro vaghe testoline gocciolanti di rugiada parevano goderne e sorridere incontro al sole e consolarsi di quell'aere così puro: ad ogni tratto le passava dinanzi qualche uccelletto rapido come freccia, e udiva non lungi pispillare dal nido i piccini a cui egli aveva portato l'esca; o il lieto cinguettio delle passere che volavano sul tetto, e poscia aggruppate piombavano tra il verde degli alberi. Ma l'allegria diffusa per tutto il creato non penetrava sino al suo cuore. Era pensierosa, e forse a quell'aere purissimo, a quella tepente e lieta giornata di primavera avrebbe preferito la pioggia del dì precedente. Dietro a lei, ritto in piedi, cogli occhi fitti nella stessa prospettiva, un altro partecipava agli stessi sentimenti. Era il giovane dottore che con quel bel tempo vedevasi tolto ogni pretesto di più oltre indugiar la partenza. Pensava a una parola di congedo; e quand'ella si volse e si lessero negli occhi il dispiacere scambievole che provavano e si trovò nelle mani quella di lei, che aveva baciato per darle addio, venne ad entrambi l'idea di fare insieme codesta gita. In un attimo le due carrozze furono attaccate, e la contessa salì in quella del suo ospite, mentre nell'altra la seguiva la governante coi fanciulli. Durante il viaggio, l'ameno paese che percorrevano, l'aspetto delle ridenti colline, della fertile pianura, delle violette qua e là sparse tra il verde dei campi e lungo le rive dell'Isonzo aprirono loro il cuore ad un colloquio confidenziale, nel quale si rivelavano con gioia i propri pensieri e gran parte della vita trascorsa. Giunsero alla città quasi senza avvedersene; e, dopo il pranzo ei le propose di visitare insieme il sepolcro dell'ultimo dei Borboni di Francia. Salirono la collina tenendosi a braccetto, ed ogni tratto si fermavano ad ammirare il sottoposto paese. Il cielo era tornato ad annuvolarsi, e la nebbia leggera che a guisa di fantastico velo ora avviluppava la città, ora attraversando il fiume saliva come globi di fumo su pel verde delle circostanti montagne, accresceva la vaghezza di quelle magiche vedute. Trovarono la chiesa aperta e solitaria, lessero la pomposa epigrafe posta sul modesto sepolcro dell'esule. Quando uscivano piovigginava, e ripararono un momento sotto le frondi di una magnifica acacia ad ombrella. Alcune note che venivano dall'organo fermarono la loro attenzione. In chiesa non era anima viva; solo la contessa aveva notato sull'organo dietro i leggii del parapetto una ruvida cocolla che faceva cornice a una faccia pallida, i cui occhi malinconici, ma scintillanti e pieni di espressione, percorrevano un libro di musica. Doveva essere uno dei frati abitanti quel romitorio, forse l'organista. Era un'armonia placida e mesta, di cui non sapevano ravvisare l'autore. Alcune note somigliavano di Meyerbeer, ma poi si fondevano in un'aria di maestosa semplicità a cui seguivano delle libere fantasie che non si ricordavano d'aver mai più udite e che probabilmente venivano improvvisate al momento. Muti e commossi ascoltavano quel suono che ogni tanto s'interrompeva per lasciar morire nell'aria alcune vibrazioni meste come un gemito, poi ricominciava e si faceva sempre più affettuoso e più soave. Pareva l'effusione di un'anima divisa dal mondo e forse infelice, che rammemorava nella solitudine i suoi giorni d'amore. Egli non s'immaginava che altri l'ascoltasse: avvolto nel mistero, lanciato chi sa da quali sventure in seno alla vita austera del cenobio, e bisognoso come tutte le anime appassionate di espandersi, quasichè avesse goduto con un amico un'ora d'intima confidenza, apriva i più riposti secreti del suo cuore coll'unico mezzo che forse gli era concesso. Così, senza saperlo, serviva d'interprete ai due che l'udivano. Per essi quella mano ignota disuggellava una pagina recondita dei loro cuori, che non avevano per anco letta. Quando discesero dalla collina e si rimisero in carrozza per ritornare a casa, le loro anime s'erano talmente intese, che, cessata ogni titubanza, si lasciavano andare a una dolce famigliarità, come se da lungo tempo avessero vissuto, pensato e sentito allo stesso modo. Parevano due sorelle, a cui l'origine comune e una lunga consuetudine di affetto fa riguardare cogli stessi occhi ogni bene e ogni male della vita. Mai più s'erano trovati tanto all'unisono. I cavalli correvano e le nubi in senso inverso l'una a cavalcioni dell'altra, quasi un esercito in fuga, si ritiravano verso i monti della Carintia, lasciando serenato il cielo dalla parte di mezzogiorno. Un leggero venticello gettava a ogni tanto nella faccia del giovane il velo che svolazzava sul cappello della contessa. Colla persona abbandonata al moto del legno essi contemplavano ora il sole che fra una comitiva di nuvolette leggere e trasparenti come la madreperla, o come liste d'argento a riflessi dorati toccava già quasi il verde del monticello, alle cui falde biancheggia il palazzo dei conti d'Attems; ora i gioghi cinerei del Carso, che si disegnavano su d'un orizzonte azzurro e tanto limpido che pareva dinanzi allo sguardo dilatarsi senza confine; ed ora, vòlti all'indietro, il castello di Gorizia che colla sua faccia severa s'inalzava sulle ridenti colline che lo circondano e sulla città gentilmente sparsa nel verde; e notavano un piede dell'arco baleno, che quasi per ischerno irradiava de' suoi brillanti colori quella fabbrica sinistra destinata a punire la sventura e il delitto. Mille riflessioni diverse, mille fantastiche idee passavano loro per la mente, e nel comunicarsele le rivestivano di tutta quella poesia che in tal istante abbelliva a' lor occhi il creato. Pareva che gli oggetti esterni si presentassero ad essi attraverso di un prisma che amabilmente li colorava; e spesso veniva sulle labbra dell'uno la parola che l'altro aveva già concepita nell'anima, come se una scintilla elettrica riunisse i loro nervi e facesse di due una sola persona. In quella stessa sera, quando la contessa fu sola nella sua camera, e, dopo aver licenziato la cameriera, invece di coricarsi si sedette nel suo ampio seggiolone, tornarono a passarle dinanzi agli occhi le pittoresche vedute, le ridenti scene, che le si erano offerte nella giornata; e la sua mente rifaceva tutti i discorsi e le riflessioni a cui l'avevano sollevata la poetica fantasia e le ardenti parole del suo giovane compagno di viaggio. Come una palla che spinta su per l'erta da una mano vigorosa torna in virtù del proprio peso a rifare il cammino percorso, così ella in quell'ora di solitudine tornava a rammemorare tutte le diverse emozioni provate. Insieme coll'aria e coi profumi dei campi, coll'aspetto dell'ameno paese, coi suoni e colle voci udite, coll'alito e colle calde parole del giovane aveva aspirato una specie di sottile veleno che l'era penetrato nelle ossa e dal quale oramai affascinata si lasciava trasportare quasi fragile pianta che a lungo abbia lottato coll'impeto delle acque, e che finalmente sradicata e travolta senza più riparo corre insieme col torrente a sprofondarsi nel mare. Ella aveva veduto l'amore; per la prima volta in sua vita l'aveva veduto negli occhi del giovane, ardente, immenso, quale non se l'era mai immaginato. Le era caduta la benda; la cortina che fino allora le aveva tenuto nascosto il creato le si era improvvisamente squarciata, ed ella si vedeva dinanzi ne' suoi più fantastici colori una felicità infinita, a conseguire la quale l'avevano resa impotente. Unir la sua sorte a quella d'un uomo amato e che ti ami, consecrarsi alla sua famiglia, divenir la madre de' suoi figli, passar tutta la vita ad adorarlo, a dividerne i dolori; questa le pareva la suprema delle gioie umane, e gliel'avevano per sempre rapita! e troppo tardi ella finalmente se ne accorgeva! Fino a quel punto le parve di non aver vissuto, ma vegetato. Educata nella ristrettezza di quattro pareti, senza conoscere nè il mondo, nè sè stessa, si erano prevalsi della sua inesperienza per venderla ad un uomo, per cui il suo cuore non aveva giammai palpitato. — Posò la testa fra le mani, le tornarono in mente i suoi anni giovanili; la spensieratezza con cui s'era lasciata condurre ad un passo, che il solo amore può santificare, e più che mai le parve d'essere stata venduta. Con un singulto impossibile a descriversi, ella ripetè per due o tre volte questa trista parola, e i suoi occhi versarono un torrente di lacrime. Quando ripensava ai motivi che l'avevano così facilmente indotta a legarsi per sempre ad un uomo, che non solamente non amava, ma il cui carattere e il cui cuore le erano affatto sconosciuti, non poteva darsi pace della propria leggerezza e appena prestava fede a sè stessa. L'idea di liberarsi da quella condizione di fanciulla, che a guisa dell'attillato corsetto dei dì d'etichetta le teneva inceppata la vita, la vanità di vedersi così giovane già fatta sposa, il desiderio di far brillare in un cerchio più vasto quei frivoli talenti di che con tanta cura nell'educarla l'avevano adornata, ecco le ragioni che la resero contenta di un contratto da' suoi parenti già quasi conchiuso prima ch'ella avesse, si può dire, neanche veduto lo sposo. E si ricordava arrossendo che la gioia più grande di questo amore di convenzione gliel'avevano recata i ricchi e veramente magnifici presenti nuziali ch'egli le fece; che i giorni più lieti erano stati quelli in cui elegantemente abbigliata e seduta in carrozza in compagnia di lui aveva percorso quasi in trionfo la città facendo le visite di partecipazione, ricevendo mille lusinghiere congratulazioni ed obbligando ad ammirarla tutte le sue amiche e conoscenti; che tutti i suoi pensieri di quell'epoca erano stati rivolti, non già ai doveri dello stato che abbracciava, ma agli splendidi avvantaggi di cui avrebbe in breve goduto. Era stata allettata non dallo sposo, ma dalla brillante posizione ch'egli le offeriva; non dal suo amore, ma dalla sua condiscendenza; la quale condiscendenza le veniva solidamente assicurata dalla ricca sua dote. Unica difficoltà che per un momento le aveva inspirato un po' di ritrosia fu la suocera che trovava in casa, e ricordossi come le fosse stato caro che avesse abbandonato ogni ingerenza in famiglia, e che, a riguardo del matrimonio, cedesse il suo appartamento, ritirandosi al terzo piano. Oh! se quella fosse stata la madre di un uomo amato, di quante affettuose cure non l'avrebb'ella circondata! Con che amore non si sarebbe compiaciuta di obbedirla, di riverirla, di confortarne gli anni cadenti, di rallegrarla col metterle in grembo i figli del suo figlio! Oh! i genitori dell'uomo amato son cosa sacra al pari e più forse dei propri! — Invece, in cinque anni vissuti sotto al medesimo tetto, esse si trattavano ancora come straniere; e, benchè la vita ritirata della povera vecchia le avesse cansato ogni disturbo, ella si sentiva per lei una freddezza e una antipatia invincibili, nè aveva mai saputo riguardarla altrimenti che come la sua croce domestica. Che differenza tra la vita frivola ed inutile ch'ella menava e quella d'una donna fortunata nel suo amore, che trova la felicità nell'adempimento dei propri doveri, e che in quell'istante ella si vedeva dinanzi dipinta nei più amabili colori! Che mai le valevano tutti gli agi del suo stato signorile, tutte le mollezze e le vanità che la circondavano, in confronto di questo amore tranquillo e virtuoso, ch'ella aveva irreparabilmente perduto e che può solo formar un Eden della terra e render dignitosa ed importante alla società la condizione della donna? Oh s'ella avesse potuto ritornare a' suoi giovani anni! rifare la via così crudelmente smarrita, non sarebbe stato tesoro di quaggiù ch'ella non avesse volentieri sacrificato per ricomprarsi una sì dolce prospettiva! E perchè mai, quando l'educavano, farle consumare tante ore all'acquisto di cognizioni che dovevano poi servire solamente di ornamento, e non piuttosto insegnarle un po' meglio i doveri dello stato, a cui era destinata? Perchè farne un miserabile trastullo, un fiore vago sì ed odoroso, ma che non deve dar frutto, invece di allevarla alle soavi e sante affezioni di famiglia, alla dignità di sposa e di madre? — Ed era alla luce sinistra della passione che per la prima volta in sua vita le balenavano dinanzi agli occhi queste terribili verità! — Gettò con impeto il ciondolo della veste da camera che teneva fra le mani, ed affacciatasi alla finestra, l'aprì, come se la calma della notte avesse potuto quietarle i polsi e l'anima agitata. La notte era mesta, la faccia della terra appariva uniforme e negra, come se fosse stata coperta da un ampio panno funereo. La luna vicina al tramonto già toccava in occidente le ultime alpi; il suo disco aggrandito dai vapori si vedeva per intero, benchè per la maggior parte cieco di luce come nei noviluni e nella sua ultima fase; e quel globo muto e di colore sanguigno pareva il teschio di un immane serpente che, sollevatosi sulle creste dei monti, l'avesse addentata e si sforzasse ad inghiottirla. Forse la videro così coloro che ne' suoi eclissi immaginarono le lotte del drago. Sola in cospetto del creato ella sentivasi come abbandonata creatura in mezzo ad un gran tempio adobbato a gramaglie, dove la divinità inesorabile più non ascoltava le sue preghiere. Un avvilimento, un rimorso senza speranza di perdono s'erano impossessati della sua anima; riguardavasi come contaminata e incapace per sempre di virtù. Prima ancora di conoscere i tesori del proprio cuore ella li aveva miseramente sprecati. Indarno la Provvidenza le aveva seminato nell'anima quel sublime fior dell'amore, che, gelosamente custodito, può tutta abbellire la vita e profumarla di nobili e santi sentimenti; ella lo aveva tradito, prima ancor che germogliasse, e per motivi sì vili che al solo ricordarsene si vergognava; il suo matrimonio le pareva in quel momento un'infame profanazione, da cui l'era tolto per sempre il redimersi, e sentiva orrore di sè stessa e dei propri suoi figli. De' suoi figli, di quei poveri bamboletti innocenti ch'ella amava come parte di sè; ma v'era un ben altro e più immenso affetto con cui ella sentiva che avrebbe amato una creaturina nutrita del suo latte e figlia d'amore! Tornò a piangere, e con un rammarico sempre crescente la sua anima lanciavasi verso tutto questo bene di cui non l'era più possibile godere senza delitto. Passò di tal modo la notte. Sul rompere dell'alba il sottile venticello che spirava dalle cime dei monti le parve che la consolasse, rinfrescandole la faccia; ma a poco a poco ei si faceva sempre più piccante, e le dilicate sue membra, affrante da quella veglia inconsueta, più non valsero a sopportarlo. Chiuse la finestra e si dispose ad abbigliarsi. Le braccia le cadevano; un languore, una malinconia invincibile s'erano impadroniti di lei. Rimaneva lungo tratto immobile, ora appoggiata al letto, ora col capo abbandonato tra i cuscini della sua _dormeuse_, su cui lasciava cadere ogni tanto qualche grossa lagrima che involontariamente le usciva dagli occhi semichiusi; ed ora seduta dinanzi allo specchio che le rinfacciava una cera abbattuta e come di malata, le labbra scolorate, le guance impallidite. Quasi a velarsene ella sciolse i capegli che soleva portare all'inglese; ma la nessuna cura avutane la sera e l'umido dell'aria notturna non avevano loro permesso d'assumere che pochissimo riccio: indarno procurava d'incresparli dividendoli in minute anella; snervati ed appassiti le fuggivano dal pettine; e, invece d'adornarla, le parve che colla loro lunghezza le accrescessero pallore, sicchè se li annodò sopra alla nuca lasciandoli cadere per di dietro sul collo a guisa delle statue di Grecia. Quando discese per la colazione trovò il giovane che già stava aspettandola. Ei notò l'orma di malinconia che quella notte aveva lasciato sulla faccia di lei. L'aveva veduta molte volte più bella, più pomposamente abbigliata, ma giammai così attraente, e non poteva staccare lo sguardo da quegli occhi azzurri e pensierosi, a cui l'amore dava una tinta più profonda e ch'ei se li sentiva così dolcemente guardare nell'anima. Non si parlò più di partenza nè in quel giorno nè nei susseguenti, finchè venne il conte Rodolfo, e tornarono di conserva alla città. Qui le era riserbato un di quei terribili disinganni che schiantano l'anima, e a cui di rado la donna sa dignitosamente rassegnarsi. Essi si amavano, ma con assai diversa misura. Ella, fisa ed assorta in lui come satellite nel suo pianeta, gli si era consecrata con un abbandono e con una devozione che non potevano venir pienamente contraccambiati. Oramai aveva concentrato in lui solo tutte le speranze del suo avvenire, gli aveva donato la sua pace, la sua vita, l'anima sua; gli stessi passi fatti nella via della colpa erano un sacrifizio ch'ella gli aveva offerto; e questo amore, benchè infelice e macchiato dal rimorso, era il compenso ch'ella chiedeva e il solo bene di quaggiù, di cui si sentisse ancora capace. Cotesta passione, di cui ella s'aveva già miseramente creato un destino, non poteva di pari modo assorbire tutta l'anima del giovane. Altrimenti educato, altrimenti conoscitore del mondo e di sè stesso, gli si apriva dinanzi un'assai più vasta prospettiva che non gli permetteva come a lei di affisarsi per sempre e senz'altre distrazioni in un solo oggetto, qualunque ei si fosse. A lui giovane, pieno di vita, indipendente e padrone assoluto d'una pingue fortuna, tutto il creato offriva continui tributi di profumo e di armonie, e profondeva a' suoi piedi i brillanti tesori della sua ricca cornucopia. Dotato di potente immaginazione e di quell'attitudine a comprendere ogni sorte di bello ch'è prima base all'anima dell'artista, senza l'inopinata eredità, che, prima ch'ei si avesse scelta nel mondo una posizione, venne ad abbagliarlo coi prestigi della ricchezza, ei sarebbe forse riuscito o pittore o poeta. Ma, poichè la sorte gli aveva offerto di eleggere, preferì di godere dei frutti delle arti piuttosto che di affaticarsi a produrli, e sprecò nei piaceri quella feconda scintilla del genio che la natura gli aveva seminata nel cuore. Della fallita vocazione null'altro gli era rimasto che la facoltà di supplire colla fantasia a quanto di manchevole gli presentavano gli oggetti esterni in cui s'incontrava. Sulla base di alcune aggradevoli qualità, la sua anima da poeta era pronta a crearsi un ideale che si compiaceva ad abbellire e ad adornare coi più magnifici colori, e del quale finiva sempre coll'invaghire, senza accorgersi d'essere allucinato dai propri suoi sogni. Ma, col considerarlo dappresso, l'idolo perdeva ogni giorno qualcuno de' suoi prestigi; finchè, ridotto alla nuda realtà, egli trovavasi ingratamente disingannato e bisognoso d'altrimenti occupare lo spirito. Allora, dimentico di quel primo oggetto, correva in traccia d'altri più nuovi, svolazzando leggermente pel giardino della vita a guisa di ape dorata che bacia ogni fiore, senza rivolgersi a guardare addietro, se qualcuno avvelenato dal suo tocco piega il calice e miseramente appassisce. Così fu che a forza di trattare da vicino colla contessa, egli ebbe ben presto esaurita quella pover'anima che senza sospetto tutta versavasi nella sua; e, a misura ch'ella andava discoprendo in lui una superiorità d'intelligenza e una ricchezza di pensiero che le crescevano passione, egli invece si vedeva sfumar tra le mani il tesoro che aveva tanto agognato; la realtà e il possesso glielo rimpicciolivano, e l'amore illanguidì. Le sue visite si facevano sempre più rade e più brevi. S'accorse che l'anima della sua compagna era impari per potergli tener dietro a quegli infiammati discorsi, a quei fantastici voli, a cui sul principio del suo innebriamento si lasciava andare così volentieri, e cominciò ad annoiarsi d'un affetto ch'ei trovava troppo uniforme. La donna s'avvide di questo cangiamento che le metteva la morte nel cuore; ma come un infermo, che quanto più sentesi vicino al suo fine, con altrettanto più di forza s'aggrappa alla vita, cercava d'illudersi, chiudeva gli occhi, immaginava ragioni a scusarlo e pativa in segreto. Più tardi si permise qualche rimprovero, che altro effetto non ebbe che di sempre più allontanarlo, perch'egli a fuggire il turbamento di questi lamenti coglieva per le sue visite, che oramai gli erano divenute una catena pesante, i momenti in cui in sua casa v'era conversazione, ed era primo a partire, e con un pretesto o con l'altro guardavasi bene di rimaner solo con essa. Queste per altro non erano che le prime spine della crudele ghirlanda ch'ella stessa s'aveva intessuta. Chi può dire l'agonia di quell'anima, quando lo vide offrire i suoi omaggi ad altra donna più giovane e più alla moda? Quando, più non valendo a sopportare l'odioso confronto, cessò di comparire ai pubblici convegni e trovossi dimenticata nella solitudine della sua casa? A palliare l'immenso dolore che la divorava s'annunziò ammalata, e lo era assai più di quello ch'ella stessa sel credesse. Nelle lunghe ore di meditazione, a cui si era volontariamente condannato il suo pensiero, non faceva altro che del continuo rammemorare minutamente tutte le fasi della sciagurata passione a cui si aveva dato in preda, e le pareva impossibile che tante proteste, tanto amore, avessero dovuto aver per fine cotesto crudele ed impreveduto abbandono! Perchè strascinarla sulla via della colpa, se doveva poi, quando non l'era più concesso retrocedere, lasciarla sola? Era dunque stato per capriccio, per miserabile vanità, pel trastullo di un momento, ch'ei le aveva avvelenata l'anima, messa nelle ossa questa febbre immedicabile, suscitato nel sangue questo tumulto, questo delirio che non potevano oramai quetarsi da null'altro, se non dall'amore o dalla morte? Ah! dunque per così poco ella aveva tradito i suoi doveri, perduta la sua pace, rinunziato alla virtù, alla preghiera, rinunciato perfino al perdono di Dio? Quest'amore, che per sua disgrazia ella sentiva impresso nell'anima a caratteri indelebili, non era stato dunque per lui, che come una cifra che si segna per scherzo sulla sabbia e che al primo soffio di vento si dissipa senza lasciar traccia di sè? Pensò ch'era un assurdo pretendere ch'egli avesse il cuore più grande, o più piccolo di quello che lo aveva fatto. Ma nell'amarezza del suo terribile disinganno le pareva che le sarebbe stato una specie di conforto un ultimo abboccamento, in cui, giacchè aveva pure deciso di abbandonarla, le avesse egli stesso con tutta franchezza annunziata la sua sorte. Sì! vederlo ancora una volta, sentire dalle sue labbra la propria condanna, gettarsi a' suoi piedi a piangere, a rammemorargli l'immenso affetto che si erano portati; quest'era un desiderio, che ad onta di tutte le opposizioni della sua ragione, continuamente le rinasceva. Capiva ella bene che, poichè il cuore di lui s'era cangiato, sarebbero tornate vane tutte le sue lacrime, che l'amore è una catena la quale una volta spezzata più non si rannoda, che la sola compassione non ha vigore a risuscitare una fiamma oramai già spenta; che se fosse discesa a confessargli lo stato miserabile in cui si trovava, egli, lungi dal risentirne pietà, avrebbe trattato di delirio le sue parole, avrebbe riso de' suoi gemiti, l'avrebbe forse anche crudelmente ributtata. E nondimeno nel fondo della sua anima sentiva una forza prepotente che la spingeva suo malgrado a correre in traccia di lui. Sì! per le vie anche le più frequenti, in mezzo alla gente, nei teatri e nei crocchi, dove col sorriso sulle labbra ei dimenticava il pianto a cui l'aveva condannata, le pareva che avrebbe voluto seguitarlo e rinfacciargli i giuramenti infranti, le pene senza confine, la sciagura, l'inferno che le aveva posto nel cuore. Ah! gli uomini l'avrebbero derisa e trattata da folle.... Ebbene, dovevano a viva forza strapparla da lui, dividerla per sempre dal marito e dai figlioletti ch'ella aveva traditi, chiuderla nell'orribile casa, dove la loro pietà raccoglie le infelici che più non hanno ragione. Avvinta da ceppi, sul giaciglio dell'ospitale, nelle veglie di quella vita disperata, le sarebbe almeno concesso raccontar giorno e notte la sua sventura, lagnarsi di tanta ingratitudine, piangere e nominarlo a suo talento. In uno di questi momenti in cui la sua mente offuscata da troppa passione quasi vaneggiava, si risolse a mandargli un'imbasciata pregandolo a venire da lei nel dopo pranzo, ora in cui poteva parlargli senza testimoni. Non ricevette risposta. Appoggiata alla finestra della sua camera stava spiando se venisse. La sua casa era situata in una lunga contrada, che metteva ad una delle piazze più frequentate della città. Ogni giovane vestito a nero ch'ella vedeva da lungi imboccare quella via, la faceva palpitare, finchè s'accorgeva d'essersi ingannata. Aveva apparecchiato un plico di lettere che intendeva restituirgli e andava ruminando le parole con cui gli avrebbe dato l'ultimo addio, procurando di disporsi ad una calma e ad una rassegnazione dignitosa che le lagrime involontarie le quali ad ogni tanto le gocciolavano per le guance, e il tremito di tutte le membra, suo malgrado smentivano. Era in questa situazione, quando lo vide passare in carrozza in compagnia della giovane signora a cui da qualche tempo faceva la corte. Era tanto intento a vagheggiare la sua nuova conquista che non s'accorse di lei nè tampoco rivolse la faccia a quella parte. Ella vide sulle sue labbra mezzo velate dalle brune basette un indefinibile sorriso di gioia, che palesava l'estasi a cui trovavasi in preda. — Si sentì uno schianto al cuore, e le ruote veloci, che lo trasportavano via, avevano già finito di rumoreggiare al suo orecchio, ch'ell'era ancora inchiodata sulla pietra della finestra, come se fosse stata percossa dal fulmine. Prese un foglio di carta, una penna e si mise a scrivere questo biglietto: — Che tu mi neghi un'ultima parola, dopo tanto amore che ci siamo portati, mi par cosa crudele. — Doveva peraltro immaginarmelo, riflettendo alle tante amarezze che mi fai da qualche tempo inghiottire. Pazienza! ti ho perdonato la nuova amica, che ti sei compiaciuto prepormi.... ti perdono anche questa barbara indifferenza e freddezza nel lasciarmi per sempre. Oggi un anno.... io non avrei saputo leggere nel tuo cuore questa pagina. — M'illudeva a segno di riguardarti come parte di me. — Avrei dovuto invece capire che la colpa non consacra l'affetto, e che la tua maniera di trattarmi è una giusta punizione. Di qui a un anno sarà, spero, terminato il mio patire. — Ti scrivo per rimandarti le tue lettere e per chiederti perdono di tutti i dispiaceri che posso averti recato nel corso della nostra fatale relazione. Quando leggerai queste parole mie ultime a te, io sarò, come al solito, chiusa nella solitudine della mia camera a piangere e a ripensarti con un affetto che tu non conosci.... — Prima di terminare s'era già pentita. Colla penna non le pareva possibile di dire neanche la metà di quello che avrebbe voluto, e tornò al desiderio di vederlo e parlargli ancora una volta. Aveva lacerato la carta ed aprì la finestra per gittarne nella via i minutissimi pezzi che teneva in mano. In quella s'aperse la porta di casa e vide uscirne la suocera, che, accompagnata dalla sua cameriera, andava al suo solito a pregare nella Chiesa vicina. Le balenò in mente un pensiero. S'ella salisse alle stanze di lei e, preso un cappello e una mantiglia della vecchia, andasse così incognita ad aspettare il giovane alla sua abitazione?... Il passo era arrischiato, ma oramai la sua mente esaltata dalla passione non le lasciava campo a rifletterne tutte le conseguenze, e quest'idea di pur forzarlo ad accordarle un colloquio, che a tutt'uomo ei sfuggiva, vinse in lei la naturale timidezza: uscì dalla sua camera, e tremando salì le scale come il malfattore che s'avvia al delitto. Quando fu nell'appartamento della vecchia, le gambe rifiutavano di sostenerla, e le fu duopo gettarsi a sedere sul sofà. Aveva esaurito tutte le sue forze e voleva attraversare buona parte della città, e credeva di aver abbastanza di coraggio per esporsi ad una scena che poteva farsi pubblica e precipitarla per sempre! Sul tavolo che le stava dinanzi giacevano spalancate alcune pagine scritte di fresco; gettò a caso gli occhi su queste parole: «... Ancora qualche giorno, e poi finalmente dormiremo per sempre nella quiete del cimitero. Su questa terra, quando non si è più amati, e che ci si accorge di essere di peso, la morte è riposo desiderato, è fine di patimenti e di esilio! ed è già gran tempo, che al di là del fiume della vita io veggo i miei cari che mi stendono le braccia....» Il carattere era di pugno della vecchia. Questa donna silenziosa, dal mite sorriso, dai modi affabili e politi, sempre eguale a sè stessa, in vista così rassegnata e tranquilla; questa donna, che non aveva mai aperto la bocca ai lamenti, pativa dunque nel suo segreto? A lei dappresso, sotto al medesimo tetto, a pochi passi di distanza della sua camera, v'erano dunque dei dolori ch'ella non aveva mai sospettati? Si versavano delle lacrime ch'ella non aveva mai pensato ad asciugare? V'era un'anima profondamente afflitta, che, stanca del mondo, invocava con sì intenso desiderio la pace dei morti?... Ma quali potevano essere i motivi che amareggiavano così gli ultimi giorni di questa povera vecchia? Prese in mano le pagine che le stavano dinanzi. Era un Album, su cui non appariva altra scrittura che quella di lei; datava da qualche mese in antecedenza al matrimonio del figlio, e lesse le seguenti memorie: «Io Eleonora Andreuzzis, maritata Marini, di sessantadue anni, ai quindici di marzo 1842 sono venuta ad abitare queste due stanze, avendo ceduto il mio appartamento in contemplazione del prossimo patrimonio di mio figlio Rodolfo. — Comincia adesso per me un'altra vita. Lascio il governo della casa e, si può dire, mi ritiro dal mondo. All'attività, ai continui pensieri, alle brighe succede ora la calma. Pel corso di oltre quarant'anni io ho atteso all'economia di questa famiglia, prima in compagnia di mio marito sotto la direzione di un vecchio zio che mi amava come se fossi stata sua figlia, e la cui memoria mi sarà sempre benedetta; poi vedova e sola, poi aiutata da mio figlio. In questo lungo periodo di tempo molti dolori hanno afflitto il mio cuore, ma fui anche consolata da gioie non comuni; ed ora nel ritirarmi ho la compiacenza di aver adempito ai doveri del mio stato e di veder prosperate le mie fatiche. Dei figli che il Signore mi aveva dati un solo è restato con me. Nelle guerre fatali che hanno sconvolto il nostro paese ho perduto il mio primogenito; il secondo è lungi, e non lo vedo se non di rado; ma so che gode di una brillante posizione. Ho potuto collocare agiatamente la mia figlia Lauretta; ella è felice, e ciò mi consola della grande lontananza che ci divide. Mi rimaneva la minore, quella che più di tutti rassomigliava a suo padre, e per la quale, mio malgrado, io sentivo una predilezione e una più grande tenerezza. L'avevo maritata qui nella nostra città e in apparenza con abbastanza di fortuna. Imprevedute disgrazie la colpirono, dovette espatriare, ed è morta lasciando due poveri orfanelli, che abbisognano di pane. Fortunatamente la facoltà, ch'io ora rimetto nelle mani di mio figlio Rodolfo, è tale da potergli permettere di ricordarsi di loro. Inoltre il ricco partito, che gli si offre, lo metterà sempre più in istato d'essere pietoso senza ledere i propri interessi. Tutti i nostri parenti sono giubbilanti per questo matrimonio. Una ricca e bella ereditiera, una buona ed amabile giovinetta che ha ricevuto la più elevata educazione e che esce da cospicua famiglia, è veramente più di quanto potevano ripromettersi le nostre speranze. Ieri è stato segnato il contratto nuziale; e, poichè a contemplazione della sposa, si credono necessarie nella nostra famiglia molte riforme e un altro piano di economia domestica, piano che le nostre attuali condizioni di molto migliorate ci concedono di adottare, io ho dato i miei conti ed ho ceduta l'amministrazione. Non mi rimane più nulla a fare, e posso godere del riposo che mi si concede. La mia vita quind'innanzi sarà divisa tra la preghiera, la lettura e la meditazione; ed è per occupare le tante ore di ozio, che mi avanzeranno, ch'io voglio scrivere in questo libro i miei pensieri. «Ai 15 detto, due ore dopo mezzanotte. »Non posso dormire, ho acceso il lume e torno a scrivere. Questo cambiamento di camera mi disturba. Forse col tempo mi ci avvezzerò, ma ora mi pare di essere esiliata. A quelle pareti mi attaccavano tutti i miei dolori e le mie gioie passate. Le mie memorie erano tutte là! Là mi accolse quel buon vecchio che per tanti anni mi fece da padre; là l'amore di mio marito e de' miei figli! Come tante giovani pianticelle, io li ho veduti crescere a me d'intorno in quelle stanze. Se almeno si avesse potuto trasportar qui i miei mobili.... ma la ristrettezza del locale non lo permise. È una fanciullaggine, di cui arrossisco; eppure, quando li hanno portati via per far luogo al nuovo mobiliare destinato alla sposa, quando ho veduto il pittore, il tappezziere pronti a rimodernare e dar tutta un'altra faccia a quei luoghi, mi pareva un sacrilegio, e mi sono sentito schiantare il cuore. Domani lavoreranno anche nella mia camera da letto. Tutto sarà spostato, mutato.... perfino l'immagine della Madonna, a cui dinanzi io pregava ogni sera. Voleva che me la collocassero qui; ma non era a proposito, rompeva la simmetria di questa piccola cameretta, e non osai replicare per paura che s'accorgessero del sacrifizio ch'io faceva ad uscire dal mio appartamento. Ah! quando mio marito moribondo mi dava l'ultimo addio e mi raccomandava i nostri figliuoletti, io promisi di assisterli inginocchiata dinanzi a quell'immagine.... Essi non sanno con che tenace affetto l'anima dei vecchi s'attacchi a tutti quegli oggetti che furono testimoni della loro vita passata! Le abitudini di quaranta e più anni non si possono recidere tutto ad un tratto, senza che il cuore ne sanguini. Io era assuefatta ogni giorno alla vista di quelle pareti, di quei mobili, di quelle anticaglie, essi dicono, ma che per me nel loro muto linguaggio avevano parole di tanto amore.... — «4 Aprile 1842. »Mi hanno portato alcuni regali che la sposa mi destina accompagnati dal suo ritratto. Sono lavoro delle sue mani: un elegante leggío trapunto a perlette, un manicotto, una _dormeuse_, su cui ella in mezzo ad una ghirlanda di fiori ha gentilmente intrecciato alle mie le sue armi gentilizie. La buona giovinetta si è dunque ricordata di me! Mentre le sue dita industri s'affaticavano colla lana e colla seta a colorare questo vago disegno, ella dunque pensava alla povera vecchia? Oh se ella sapesse come io le sono riconoscente, e come commossa guardo la sua immagine in questo ritratto! Dicono che le rassomiglia perfettamente, ed ella è bella, d'una bellezza dilicata, insinuante.... Ha diciotto anni, ma gliene daresti appena quindici, tanto quelle forme sono gracili e appena pronunciate. — Più la contemplo e più mi sento forzata ad amarla. Quella candida fronte ombreggiata da biondi capegli è così serena.... così mite ed affettuoso il guardare di quegli occhi azzurri! così verecondo il sorriso delle labbra.... La sua fisonomia tra il timido e il malinconico ha un non so che di così soave!... Poverina! ella ha perduto entrambi i genitori, ella non ha madre che l'accarezzi, ed ora viene forse tremando in una famiglia che non conosce. Oh, ma io l'aspetto colle braccia aperte, io l'amerò come se mi fosse figlia, sì! come la cara che ho perduta, come la mia Matilde, e quell'anima benedetta, ch'è lassù nel cielo, sarà contenta ch'io sia la madre dell'orfanella, e che con lei prenda cura dei tapinelli ch'ella mi ha lasciato. Oh sì! la dolce espressione di questo volto angelico mi è garante della bontà del suo cuore....» e continuava con tanta espansione, che la contessa Giulia non ebbe coraggio di proseguire. Gli occhi le si erano fatti grossi, e attraverso alle lagrime le sfuggivano le parole. Chiuse per un momento il libro e pensò con rimorso a tutte queste speranze così miseramente tradite. Ahi! ch'ella aveva contraccambiato con una ben crudele freddezza a coteste braccia che con tanto amore le si erano spalancate incontro. Più sotto lesse quest'altra memoria datata «Agli 11 aprile dello stesso anno. »Oggi si son dati a legare per la sposa i gioielli di famiglia. Ne ho fatta io stessa la consegna e per una grossa ora sono stata presente alle ordinazioni. Spero che nessuno si sia accorto di ciò ch'io soffriva. È una debolezza, di cui mi vergogno; ma, mio malgrado, nel distaccarmi da quelle gioie io sentivo di fare un grande sagrifizio. — Non è già ch'esse solleticassero la mia femminile vanità. Ne' miei anni ciò sarebbe ridicolo, ed è gran tempo che senza rammarico ho cessato di adornarmene. Ma esse erano mie! Ad esse stavano legate tante memorie della mia vita passata! Guardandole io poteva ricordarmi senza rimorso dei più bei giorni della mia giovinezza, in cui esse brillavano tra le mie trecce, mi cingevano il collo e le braccia, pegni d'amore d'una famiglia e d'uno sposo, a cui l'anima mia è stata sempre intieramente devota. Oh le danze giulive ed incontaminate, oh i dì fiorenti per liete amicizie e pei tripudi di una pompa innocente ch'esse mi richiamavano al pensiero! Sì! la coscienza di avermi sempre serbata fedele all'affetto di chi allora mi circondava di quelle splendide inezie, anche adesso ch'io sono invecchiata e già vicina al sepolcro, mi faceva contemplarle con un senso di soavissima compiacenza. Oh! quante volte nell'aprire il mio scrignetto io mi vedeva passar dinanzi nella loro allegria i miei anni giovanili, e le rose di quell'epoca beata serenavano la fronte alla povera vecchia e le facevano ancora balzare il cuore! Ora il mio scrignetto è vuoto, e quelle dovizie, che furono già mie, passeranno ad adornare un'altra testa più giovane, e un collo e un paio di braccia non corrugate dagli anni! — Oggi, quando mio figlio le andava lentamente cavando dallo scrigno ch'io gli avevo aperto, e, mettendole a una a una nelle mani del gioielliere, calcolava nella sua fredda vanità a quanto potevano ammontare, i nostri occhi guardavano ben diversamente! Egli, ammirandone la varia grossezza, l'acqua più o men bella, non vedeva che il loro materiale valore. Io invece mi ricordava, che quel diadema era stato collocato sul mio capo nel giorno più bello della mia vita, che quei ricchi pendenti io li aveva nelle orecchie dinanzi all'altare, dove il sacerdote ha benedetto il mio primo ed ultimo amore; che la collana mi era stata messa al collo dalle proprie mani di quell'uomo che ho tanto amato quaggiù.... che i braccialetti mi furono regalati dal nostro buon zio; di lui che seppe leggere nei nostri giovani cuori ed acconsentì così lieto alla nostra unione; e mi pareva di vedere ancora il sorriso di compiacenza di quella faccia veneranda, con cui applaudiva al proprio buon gusto e alla mia contentezza.... — Lo spillone era un presente fattomi la prima volta ch'io divenni madre; gli anelli, i puntali, quel vezzo di perle, quell'altro paio di orecchini, ognuno di questi oggetti mi rammemorava dei giorni, solenni, dei giorni di felicità domestica che hanno rallegrato la mia vita; e nel vedermene spogliare, il mio cuore gemeva come se a una a una gli avessero divelte tutte le sue radici. Il mio guardo era freddo, indifferente; ma nel fondo della mia anima io gridava: Oh! aspettate.... già io non durerò a lungo. Non vedete? il mio capo è canuto, si piega da sè solo verso la terra del sepolcro, dove in breve dormirà per sempre. Oh! abbiate compassione, e, per questi pochi giorni che ancora mi rimangono, lasciatemi vivere circondata da questi dolci ricordi, da questi sacri pegni d'affetto! — Cotesto spogliare una vecchia cadente per adornare la fronte baldanzosa dei giovani; cotesto cacciarla dalle sue stanze, dalle sue abitudini, da tutto ciò che le fu caro per far luogo alla generazione che sorge, è bene un barbaro costume! Non basta dunque la mano del tempo che ad una ad una ci spegne tutte le gioie della vita: quando la scena è cangiata, quando non viviamo più che nel nostro passato, allora viene l'uomo, ci strappa da tutti gli oggetti a cui eravamo affezionati, ci toglie tutte le nostre memorie, e c'intima che l'ora della partenza è suonata, e che oramai su questa terra noi siamo di troppo! — «14 detto 1842. »Ho letto una pagina sublime che ha rianimata la mia vita e sparso come una specie di balsamo sulle piaghe del mio povero cuore. Ho letto la storia di Ruth. Questa giovane che abbandona i parenti, la patria, la religione degli avi per seguire una suocera sfortunata e piangente; il dignitoso silenzio con cui ella dapprima ascolta Noemi che le comanda di riedere al padre; poi la sua energica protesta, le sue affettuose parole, la sua cieca sommissione, la delicatezza con cui si consacra ad un uomo attempato, perchè riviva la famiglia del suo primo marito e siano consolati gli ultimi giorni della sua madre adottiva, sono tratti così pieni di amore che mi hanno profondamente commossa. Io mi vedeva dinanzi la candida immagine della giovinetta che verrà tra poco ad abitare questa casa, e mi pareva che ella mi stendesse le braccia e che in una dolce effusione d'affetto fosse la sua bocca, che mi ripetesse quelle soavissime parole: La sola morte mi dividerà da te! — Sì: unite dai legami del sangue, unite da quelli più forti ancora dell'amore, noi vogliamo insieme a vicenda confortarci la vita! Ella viene a rinnovare la nostra famiglia, a riempiere il vuoto che mi circonda; oggetto di tenerezza ad entrambi, ella viene a collocarsi tra mio figlio e me, a far così più vivo l'affetto che ci portiamo. Vi sono mille dilicate attenzioni, mille cure prevenienti, mille amabili minuzie che sfuggono all'uomo; la donna sola sa convenientemente apprezzarle ed infiorarne la domestica felicità. A lei spetta adempiere questa parte, che la farà angelo di consolazione ad entrambi. Io la conforterò ai doveri che il suo nuovo stato le impone, mi farò guida a' suoi giovani passi, le sarò madre, amica e sorella. Intenderemo insieme ai figliuoletti che il Signore le darà! Quest'idea mi ringiovanisce e riapre alla gioia il mio povero cuore. Un suo figliuoletto, figlio del mio figlio, che porti il nome e fors'anche nel volto infantile i lineamenti di qualcuno dei cari che mi amarono!... Vedermelo qui sui ginocchi scherzare, sorridere, rivelarmi ogni dì più un'indole conosciuta.... Un figliuoletto, che, come quello che Ruth metteva tra le braccia di Noemi, fosse per così dire l'epilogo di tutte le mie memorie, di tutte le mie affezioni.... Oh buon Dio! e di che immenso affetto non amerei io questa tua innocente creatura! L'antico tronco può dunque rigermogliare e vedersi circondato dai fiori dei suoi nuovi virgulti? Oh grazie a te, Dio di misericordia, che riserbi ancora tanta speranza e tanta consolazione alla povera vecchia! — «Oggi, 22 maggio 1842, si sono finalmente celebrate le nozze. Dopo il tumulto di questa solenne giornata, eccomi di nuovo sola coi miei pensieri — Nella più lieta stagione dell'anno, quando tutto si riapre alla speranza e all'amore, quando la terra già rinverdita nell'orgoglio della sua giovinezza dispiega l'immensa moltitudine dei suoi fiori, m'apparve dinanzi per la prima volta questa bella giovinetta, che da sì lungo tempo io desiderava abbracciare, e da cui oramai dipendono tutte le gioie del mio avvenire. Ell'era vestita di bianco, velata fin quasi ai piedi da una magnifica sciarpa di merletto, che la faceva più vaga assai che non nel ritratto.... Ma oserò io dirlo? Nella sua faccia, ne' suoi occhi, nel suo sorriso io cercava indarno un raggio d'affetto! Alla mia cordiale accoglienza ella non rispose che con frasi squisitamente civili e rispettose; all'amore, con cui io le stesi le braccia, ella contraccambiò con un amplesso tanto freddo che mi parve forzato. Credetti allora d'accorgermi che questi capelli grigi e questa fronte corrugata dagli anni a lei così fresca e rosata inspirassero un senso d'invincibile ribrezzo. Forse io m'ingannava, ed era la soggezione di tanti occhi a lei rivolti, il frastuono di questo giorno solenne, i nuovi pensieri che la rendevano riservata e contegnosa. Quando mi conoscerà un po' meglio, e che trattandoci in piena confidenza sarà dissipata cotesta timidezza di fanciulla.... forse mi amerà.... Ah! che s'io guardo all'espressione di quei suoi occhi che così di rado e così agghiacciati mi si rivolgevano, un tristo presentimento mi dice ch'ella non vedrà mai altro in me se non la suocera!» Dopo questa memoria l'Album appariva interrotto da quattro anni di silenzio, e quella che seguiva, in data del 30 settembre 1846, diceva così: «È oramai molto tempo che ho smesso di scrivere. Una lunga successione di patimenti, il sentirmi ogni giorno più isolata e malinconica, le mie speranze che a una a una si son tutte dileguate, mi han chiuso il cuore e mi han tolta la forza di reagire. Dimani si anderà in campagna. Stamattina me ne hanno dato l'avviso, ed essi sono già partiti, sicchè questa sera in famiglia io sono sola. Sola come sempre, poichè è un pezzo ch'io non esco dalla mia camera, e qui è ben raro che nessuno ascenda! — »1 ottobre 1846. »Un impreveduto accidente ha rotto quest'oggi la trista monotonia della mia vita. Pioveva, e, poichè mi avevano mandato la carrozza ad onta del mal tempo, io mi era avviata per andare in campagna. Giunta al torrente, lo trovai fuor di misura ingrossato. Bisognava varcarlo sulla barca, ed io non aveva moneta da pagare. Quei buoni galantuomini, che da molti anni mi conoscono, volevano a tutti i patti tragittarmi, e, credendo ch'io avessi paura dell'acqua, si disponevano ad accompagnarmi in gran numero. Veramente in quel momento la mia povertà mi riesciva pesante oltremodo. Prima di partire non mi sono avvisata che avrei potuto trovare un tale ostacolo, ed era già un pezzo ch'io avevo disposto della mia mesata per quei poveri orfanelli che non hanno più nessuno che si ricordi di loro. I pochi soldi che mi rimanevano sarebbero stata una troppo meschina mancia per tutta quella gente, e feci voltare i cavalli; ma la pioggia continuava forte, e a M*** dovetti fermarmi. Mi ricordai allora che in quel villaggio doveva esserci un'amica di mia figlia Matilde, e, fattami condurre alla sua casa, le chiesi ospitalità per alcune ore. Oh la lieta e cordiale accoglienza ch'ella mi fece! Erano molti anni che non ci eravamo vedute. Io vivo così segregata dal mondo, che oramai ho perduto tutte le mie conoscenze, ed ella, maritata in una comoda famiglia, ma che abita sempre in campagna, si è interamente dedicata alle cure domestiche, e non esce quasi mai dal villaggio. Suo marito al sentire ch'io era la madre di un'amica ch'ella ha spesso in memoria mi trattò subito con una così affettuosa confidenza che mi pareva di esser tornata agli anni felici in cui anch'io avevo una famiglia. Mi condussero i loro bamboletti, mi misero a parte delle loro gioie, mi colmarono di mille gentili attenzioni, di modo che quantunque si fosse serenato e io avessi potuto ritornarmene a C***, non mi fu possibile dispensarmi dal restare a pranzo con essi. — Abbiamo lungamente parlato della mia Matilde. Quella commemorazione ci fece piangere, i sentimenti del mio cuore erano partecipati, ed io mi trovai come esilarata. Sedetti a tavola presso al parroco, vecchio venerando, loro amico, che avevano invitato perchè mi tenesse compagnia. I nostri discorsi furono lieti. Sbandita ogni etichetta, una reciproca e franca amicizia teneva luogo delle cerimonie. Il più grandicello dei fanciulletti, assiso all'un de' capi della mensa vicino al mio posto, mi chiamava col dolce nome di nonna, e ad ogni momento, disobbedendo ai cenni di sua madre, voleva ch'io gli mescessi da bere, che gli tagliassi il pane, che porgessi orecchio alle sue infantili dimande. Dio mio! è tanto tempo ch'io pranzo sempre sola, o, se discendo nei giorni d'invito, la numerosa compagnia e i riguardi delle nostre costumanze di città mi privano del vedermi dappresso i miei nipotini. Anzi, per solito, onde evitare disturbo, li fanno pranzar prima: — e oggi accolta con tanta cordialità in seno a questa onesta famiglia di campagnuoli, messa a parte delle loro consuetudini e dei loro affetti, mi pareva di essere in paradiso. Il desinare era semplice e alla buona come i loro modi, e, confesso, l'amicizia di cui era condito mi valeva a cento doppi tutta la ricercatezza e i _comfort_ dei nostri sontuosi banchetti. — Non v'erano nè servi gallonati nè pompa di vasellame nè squisitezza da cuoco, ma schietta e piena libertà, ma cuore aperto. Dopo siamo discesi in giardino, e ci han servito il caffè in un chiosco di verdura. I convolvoli dei più vivaci colori attorcigliati intorno ai rami delle rose del Giappone ne tappezzavano vagamente le pareti e pendevano sulle nostre teste in una profusione di bizzarre ghirlande. La cara compagnia ed il lieto ed amichevole conversare mi facevano trascorrere le ore così graditamente, che solo tardi mi avvisai che bisognava partire. Mi accomiatai quasi piangendo da quella buona famiglia; al loro augurio di presto rivederci il mio cuore non poteva rispondere che con un tristo presentimento. Io sono vecchia, ho rinunziato a tutte le mie relazioni, e non potrei forse senza recar disturbo ai miei figli, rinnovare per puro divertimento cotesta gita. D'altronde, io sentiva con una profonda amarezza, che in mia casa non mi sarebbe stato possibile ricambiare in pari modo la loro cordiale ed affettuosa ospitalità. — «Ai 2 dicembre 1846, sono tornata ad abitare questa camera per non uscirne mai più. — Da qui passerò al cimitero, da qui all'eternità.... Oramai su questa terra a me non resta che apparecchiarmi a morire. Tutti i legami che mi tenevano alla vita sono spezzati, tutte le mie gioie, tutte le mie speranze spente per sempre. Ah! l'affetto vive ancora nel mio cuore, ma chi più l'intende? È lungo tempo ch'essi mi hanno dimenticata, come se già fossi nella tomba. Il mio capo s'è fatto bianco, le mie membra si sono inaridite, io m'incurvo e perdo ogni giorno terreno; la scena del mondo mi si chiude dinanzi, quelli che mi amarono sono già partiti per un'altra patria, quelli che restano mi guardano indifferenti e ogni dì più mi si alienano, come se colla loro freddezza volessero avvisarmi ch'io non ho più nulla a fare con essi e che appartengo ad una generazione ch'è già passata. Ah mio Dio! perchè darmi un'anima e affetti e pensiero che sopravvivono così alle rovine degli anni? Perchè non si è ella appassita insieme col corpo? Ieri ho dato l'ultimo addio a quella casa di campagna, a quella cara villetta dove ho vissuti tanti anni felici, dove c'erano per me tante memorie! I patimenti di questi due mesi di villeggiatura mi hanno risolta a non ritornarvi mai più. La mia salute mal ferma e la mia età avanzata non mi permettevano d'uscire a respirare l'aria dei campi; ho dovuto rinunziare perfino a portarmi alla chiesa perchè troppo lontana. Esiliata dalla famiglia, chiusa quasi sempre in una camera tanto ristretta che mi lasciava appena mutare il passo, tribolata per soprappiù dall'ingrata compagnia d'una fantesca per me estranea che, sotto il pretesto di assistermi, divideva meco l'alloggio e mi toglieva fin anche la libertà di pensare; l'unico sollievo che mi restasse era di starmene lungamente appoggiata alla finestra a guardare con desiderio infinito le colline, i prati, la campagna, dove io non tornerò mai più a movere il passo. Ad accrescere l'amarezza della mia situazione avevo dirimpetto la dimora di un contadino, e vedevo ogni giorno la vecchia Maddalena seduta sul limitare della casuccia circondata dai bambini della sua nuora, filare consolata dalle loro carezze. Nell'ultimo stadio della vita, vicina come me al sepolcro, ella cantarellava ancora a quei piccioli le canzoni della sua giovanezza; la sua fronte aggrinzita era lieta: v'erano ancora per lei dei baci spontanei.... godeva d'un affetto e d'una felicità domestica che io non conosco. I suoi nipotini le saltellavano intorno, correvano a raccogliere fiori ed erbette, che poi deponevano sul suo grembiale, le narravan le loro infantili imprese; il più piccino talvolta le si addormiva sui ginocchi. — Oh, vivere in comunione coi rampolli del nostro sangue, aspettare l'ultima ora circondati dalla loro tenerezza, amare ed essere amati, finchè venga il momento della partenza; questo dovrebb'essere il destino dell'uomo! Fortunati coloro a cui una vita rozza e lontana dagli agi e dalle triste costumanze d'una società più raffinata concede di poterlo godere senza contrasto! La mortale carriera può esser bella così, ne' suoi principii come nel suo fine, simile al nascere e al tramontare del sole; ed il compirla non è morire, ma far come il fiore che depone nella terra i semi già maturi, e vede con gioia riempito il suo posto dai bocciuoli, che son nati dal medesimo stelo e che dopo di lui vivranno del suo umore; non è morire, ma ricongiugnersi ai cari che ti han preceduto, portando loro il saluto d'amore dei cari che lasci! Oh no! non voglio più vedermi dinanzi agli occhi lo spettacolo di questa felicità che a me è così crudelmente vietata. Addio piuttosto per sempre, amena verdura dei campi, aria balsamica del torrente, luoghi remoti e praticelli ombreggiati dai salici delle sue sponde! Addio, mie belle collinette, consapevoli di tante mie gioie! Cipressi che m'insegnavate da lontano il sito della mia casa, rovere antica che hai veduto senza mutarti passare ai tuoi piedi tante generazioni, lunga fila di pioppi, dietro le cui cime tremolanti tramontava così magnifico il sole, addio, io non vi rivedrò più mai....» La pagina che susseguiva era l'ultima e cominciava così: «Il cuore mi si ristringe ogni dì più....» Intenta a quella lettura la contessa non pose mente a un passo tardo, che saliva le scale e si faceva sempre più vicino. Prima ch'ella se ne accorgesse la suocera fu disopra, e, aperta la porta, si presentò sulla soglia della camera. Vederla, gettare il libro e prostrarsi a' suoi piedi fu un punto per la giovane. La vecchia rimase un istante sorpresa; ma, veduto ch'ell'era tutta in lacrime, tentava rialzarla e farla sedere sul sofà. — Ah madre mia! ella gridava, ah! ch'io sono una disgraziata, immeritevole del vostro perdono.... — Che dici mai? interruppe tutta commossa la contessa Eleonora. Tu, figlia mia, tu, mia Giulietta, ai miei piedi?... Oh! fra queste braccia.... — e se la fece sedere dappresso, e, tenendola stretta alla persona, accarezzava sul suo petto quella povera bionda testa percossa dalla sventura, e accompagnava con tante lacrime il racconto ch'ella le fece dell'amore che la consumava e la confessione tutta intera de' suoi falli. Quell'anima santa non aveva per lei altri rimproveri che le carezze, e con una compassione infinita deplorava le triste consuetudini della società, i pregiudizi e l'improvvida educazione di cui la donna è troppo spesso la vittima. Un poco alla volta le richiamò alla mente l'immagine de' suoi poveri figliuoletti, e le insinuava di vivere per essi! Che sarebbe stato di quelle due meschine creature, già di troppo abbandonate, se lor fosse mancata anche la madre? Ah! toglierli dalle mani straniere che preparavano forse anche ad essi una sorte del pari infelice, consecrarsi alla loro educazione, aprire a quelle giovani animette i tesori della virtù e dell'amore, questo doveva essere il nobile scopo a cui unite dovevano quind'innanzi entrambe mirare. Quando la vita avvelenata da immenso dolore ha perduto tutte le sue attrattive, v'è ancora un conforto, quello d'essere utile agli altri! Le generose parole della vecchia rialzavano quella povera anima desolata e avvilita dalla colpa. I loro cuori s'erano finalmente intesi, e, confuse l'una nelle braccia dell'altra, promisero di non separarsi mai più e di protestare a forza d'affetto contro le triste ingiustizie che lor pesavano sul capo. XXII. LA SÇHIARNETE.[9] I. Venivano via cantando una di quelle antiche rime d'amore, che create Dio lo sa da che anima e in che momento di felice poesia, rimangono tradizionali in un dato paese, come tra gli uccelli lo strido caratteristico della specie. Erano una quindicina di giovanotti; dietro il villaggio, attraverso la campagna, riuscivano sullo stradale e a passo militare si tenevano a manritta verso il rettilineo che mette al palazzo dei conti di Brazzacco. La notte placida come suole nel maggio, e lucente pel lume della luna, lasciava discernere gli oggetti come se fosse stato di giorno. Una stella spuntava allora al disopra del viale: l'avresti presa per Sirio, tanto scintillava serena e vivacissima tra le cime dei carpini, ma forse era il Cane maggiore che seguiva da lungi Orione già alto pei cieli. Giunti all'acquicella, alcuni s'assisero sotto le acacie, altri si sparsero pei campi a raccogliere fiori e foglie emblematiche. C'è nel paese una vecchia usanza. Ogni sabato di maggio s'uniscono così in brigate e girano la notte d'uno in altro villaggio cantando i loro strambotti, e dinanzi alla dimora delle giovani da marito, depongono, spargono od intrecciano in vario modo rami, erbe e ghirlande che da tempo immemorabile hanno un significato generalmente conosciuto. Cotesta costumanza, che con voce friulana dicono _Sçhiarnete_, riesce talvolta un omaggio, e l'ambiscono ed è il desiderato dei premi; più spesso però la lode va frammista a qualche biasimo terribile, sicchè non v'è ragazza che in quelle notti del maggio ardisca abbandonarsi tranquillamente al riposo. Stanno all'erta e appena allontanati i giovani, escono tacite a spiare ogni cosa, e se tra i fiori possano rinvenire il serpe temuto, cautamente lo sbrigano. Talvolta gli amanti e i fratelli son essi che fanno la guardia, ma i cori dei cantanti passano e ripassano, ed è tanta la loro longanime accortezza, che all'alba le fanciulle si trovano quasi sempre giudicate. Sul passo della Manganizza già tornavano intanto alcuni colle nuove provviste. Erano mazzi di papaveri, rami di tremerella, spiche di segala, bacche di ligustri, fiordalisi, coronille, pervinche, viole del pensiero, una quantità di fiori campestri e d'erbe d'ogni fatta, perfino l'ortica e l'abborrita cuscuta devastatrice dei prati. Le mettevano con ordine in alcuni panieri, e i tre o quattro che parevano i caporioni dell'impresa andavano discutendo fra loro i meriti delle ragazze del vicino villaggio. — Ecco qua una bella frasca di pioppo per la Tinuccia, diceva l'un d'essi. — E anche queste spiche di segala, ch'ell'è superba come un lucifero. — La segala, amico caro, fà di tenerla per la figliuola di mastro Antonio, la quale non ha in testa che fumi, e sciala la domenica a uso dama, mentre non sa filarsi neanche la camicia. — Ehi! oseresti farti protettore della Tina? chiedeva in tono corrucciato un ultimo disceso allora dall'argine del torrentello, dov'era stato a tagliare un gambo d'irsuti cardi. Io, vedi, porto proprio per lei questi bei fiori colore di porpora che guai a chi li tocca! — Che diaccine vai tu bestemmiando di proteggere la Tina? se l'ho con colei forse più che tutti voialtri dopo il brutto tiro ch'ella ha giuocato a quella pover'anima dell'Armellino. Vorrei foderarle la porta, la finestra e l'albero che le sta di contro di ortiche, di triboli e d'ogni mala erbaccia che Dio s'abbia creato nella sua collera. Ma volete fare le cose senza senso? chi di voi può negare ch'ella non sia bella?... — Bella e modesta come la Madonna annunziata, ma cattiva.... — Intelligente, laboriosa, con un fare tutto melato che la t'incanta.... — Ha ragione Giacomino, le spine e l'assenzio non le vanno, ma non ha cuore; mettiamogli il cardo. — Aspettate, quest'è una ghirlanda di tremerella.... — Va bene, la tremerella volta le foglie al minimo soffio. Or bianco e or verde, or dell'Armellino e ora di Giorgio. — Ma è proprio vero, si faceva a chiedere un altro, ch'ella ha piantato l'Armellino per isposare Giorgio il nipote dell'oste di Oleis, se non isbaglio? — La storia è oramai vecchia. Dove sei stato che pare che tu venga dalle nuvole? — Affè me l'han detto l'altra sera appena tornato in paese, ma credevo che fosse una chiacchiera; perchè, vi ricordate, l'anno scorso quanti bei fiori tutti d'accordo le abbiamo recato sulla porta? — Fu un vero trionfo. Chi era che le combinava così bene l'anno scorso? — Ve' lì Nardo e il Rosso e Giacomo.... — Perdono, interruppe quest'ultimo, Giacomino non c'entrava. — Ah no, no! Tu eri a Manzinello a custodire l'amorosa.... e davano in uno scroscio di risa. L'altro continuava: — Sulla sua porta l'anno scorso si appendeva una ghirlanda di gelsomini, poi un mazzolino di mammole con un magnifico garofano nel mezzo, che diceva bella e modesta ad un tempo, a lei la salvia, la cannella, la luisa; a lei una rosa di maggio che avevamo in primo ben rimonda dalle spine, perchè per giudizio di tutti ell'era la meglio ragazza dei dintorni e non si poteva trovare dove attaccarle un biasimo. — E l'Armellino, oh come era lieto di quella nostra sentenza! — Ti ricordi, quando fra le foglioline di timo che avevamo sparse sulla soglia per la minuzzata s'accorse di qualche spiluzzico di reseda che quel briccone del Rosso ci aveva gittato per entro a dinotare l'amore allora segreto, ma di cui egli nella sua malizia aveva già qualche barlume? — E ci guardava con tanto d'occhi per sapere come fosse venuta fuori; e invece di negare, nella sua ingenuità spiattellava ogni cosa. — Povero Armellino, e adesso soldato! — Come soldato? Egli era meco nella nota! — Soldato ti dico.... Va cambio per disperazione! E nel proferire questa parola Giacomino si alzò indispettito e piantò con impeto la ronca nel tronco d'un'acacia. In questo mezzo avevano terminato di disporre ogni cosa, e i panieri erano già pieni di mazzolini e di ghirlande. Alcuni avvicinati rivedevano il lavoro e andavano notando: — Questo per la Peppa, l'altro per l'Annina; quando uno osservò: — E per la Menicuccia che cosa le avete apparecchiato? — Chi è questa Menicuccia? — Sta in fondo alla villa, una piccola sui quindici, piuttosto bellina, che alla sagra di Madonna di Strada faceva l'occhiolino al terzo e al quarto... — Adesso ci vengo: porta per solito una pezzuola scarlatta,.... non sa dire una parola con garbo, in ricambio ride e sorride.... Ma vorresti metterla fra le ragazze da marito? — O bella! è lei che ci si mette. — Per la Menicuccia, gridava Giacomino, una rosa inodora e un mazzo di trucioli! — Bravo! ben trovato! I trucioli esprimono al vivo il desiderio dell'armadio nuziale, che la poverina già comincia a sentirsi nel cuore. — Su dunque, prendete i cesti, intonate le canzoni, e apriamo la marcia per Soleschiano. — A Soleschiano! gridavano in coro. — Adagio un momento, si faceva a dire il Rosso interrompendo quella foga; non mi pare ben pensato. Vorrei farvi osservare.... — Fermi tutti! e si ascolti il dottore della compagnia. — Ecco, continuava il Rosso, a Soleschiano devono già averci sentiti; e poi a quest'ora avranno avuto notizia dei fatti di Manzinello. Noi abbiamo qui certi mazzolini che forse laggiù non troveranno troppo di buon odore. Se Giorgio, se il Moro, che so io? se i fratelli della Menicuccia fossero ad aspettarci.... È vero che noi abbiamo tutti la ronca, ma se ci toccasse di dover darla a gambe, e perdere i cesti, e spandere senza costrutto per la villa i nostri fiori e le nostre ghirlande che ci costano tanta fatica!... — Siamo in quindici, pauroso! — Osservo che laggiù potrebbero essere più di quindici, replicava il Rosso, e non amerei dimani alla messa grande comparire con qualche battufola sul mostaccio. — Or bene, spícciati, e fuori il tuo consiglio. — Infatti, io consiglierei, proseguiva colui che pareva l'Ulisse della brigata, che s'andasse pure a Soleschiano e cantando anche se vi aggrada a gola aperta, ma che non si regalassero che i fiori e le erbe inconcludenti, tenendo ben guardate nei nostri panieri quelle che potessero spandere qualche effluvio un po' ingrato.... — Oh questo poi no! interruppe Giacomino. Vada per le altre, ma alla Tina, siamo tanti vili se perdoniamo.... — E chi ti dice di perdonare? Da Soleschiano noi passeremo sempre cantando a San Lorenzo. Sul pozzo pianteremo un bel maggio che voglia dire qualche cosa in comune a tutte le ragazze del villaggio; e voi altri là spicciatevi subito a comporlo; poi come se fosse finito sciogliamo la compagnia, e per gli orti e per la campagna quatti quatti torniamo tutti a Soleschiano. — Subito all'esecuzione! disse Nardo, e secondo una mia idea ecco qui questo bel ramo di oppio che può servirci benissimo per San Lorenzo. — L'oppio vuol dire lagrime; ma se non ti spieghi meglio!... — Nei giorni di mercato a Palma, quando si passa mattutini pei villaggi che stanno lungo la via, non è una specie di consolazione il trovare intorno al pozzo già tutte alzate e leste ad attignere le ragazze del paese che ti salutano per nome, che ti offrono da bere, che ti fanno un risolino, o ti dicono una bella parola, mentre ripigli lena per le fatiche del viaggio? — Ridevano, e taluno osservava che a Claujano questo caro conforto del povero viandante non manca per certo: gli è una gloria; sempre folla a quel benedetto pozzo, e garbate e graziose le ragazze. — Ma a San Lorenzo, ripigliava Nardo, chi di voi ne ha incontrato una sola? Gli è un pozzo deserto e silenzioso come un sepolcro; tutto al più qualche vecchia, o qualche omaccio. Or bene, se attacchiamo dei mazzolini di papavero alle frondi di questa pianta permalosa che appena si tocca piange ad ogni stagione, vorrà dire che la pigrizia delle belle di San Lorenzo fa piangere noialtri poveri diavoli di giovinotti. — Viva il ghiribizzo di Nardo! — E si misero ad adornare di papaveri l'oppio, intonarono una villotta, e via alla volta di Soleschiano. Nel villaggio erano aspettati. Alcune ombre si vedevano correr via velocissime rasente i muri, qualche porta gettava per un momento uno sprazzo di luce, poi la si udiva rinserrare di nuovo con cautela, scorgevasi dalle finestre semichiuse qui e colà trapassare qualche lumicino; dall'una parte un leve bisbiglio di voci, dall'altra un fruscio di piedi, o qualche rumore improvviso; una sola casa, quella della Tina pareva affatto abbandonata e sepolta nel silenzio. Fecero le viste di non si addare, e passarono per la villa in marcia ordinata gittando ogni qual tratto una manata di erbe odorose di petali di rosa, di corimbi d'acacia. Sul piazzale dirimpetto al palazzo si fermarono a comporre alcuni canti, mentre tre o quattro deponevano dinanzi a taluna delle case qualche fiore o qualche frasca innocente. Indi ripigliata la marcia si diressero verso il villaggio di San Lorenzo. Non avevano appena oltrepassata l'osteria, che Soleschiano come rianimato tornava al movimento e alla vita. Si spalancavano gli usci, udivi a chiamarsi per nome, ad interrogarsi; alcuni curiosi si facevano ad esaminare le foglie e le erbe sparse per la via, e avresti notato più d'una vocina gentile che dall'alto di qualche finestra scendeva ad intromettersi al cicalare della piazza. Durò il tramestio finchè arrivarono le notizie di San Lorenzo. Allora quietati, ognuno si ritirava in santa pace alla propria dimora, e pochi minuti dopo si avrebbe potuto giurare che tutto il villaggio dormiva. Una creatura peraltro faceva eccezione, la Tina. Affatto sola, ritirata nella sua cameretta ella aveva passato alcune ore di mortale angoscia. Aveva messo il fanale fuori della porta, e seduta sovra una cassa colle mani incrociate in grembo e colla testa bassa come chi si sente colpevole, continuava a star lì immota senza osare porsi a letto. La finestra aperta lasciava entrare il lume della luna che scherzava sul pavimento dipingendo in mille bizzarre forme le mobili foglie del gelso gigantesco piantato dinanzi alla casa. Era un pezzo ch'ella pensava tremando al giugnere di quella notte, ma non si sarebbe mai immaginata di doverla affrontare così sola; Giorgio le aveva fatto tante promesse, e Giorgio non era venuto! Nel villaggio, dopochè aveva lasciato l'Armellino, ella non aveva amici. Le stesse compagne d'infanzia da qualche tempo la sfuggivano, ed ella sentiva troppo bene nel cuore com'era diventata per tutti un oggetto di disapprovazione e di disprezzo. Povera Tina! così dolce di modi, così bella e serena, come mai l'era fallito l'amore? Pensando al suo passato, le pareva impossibile che l'avessero dimenticata, ma non ardiva accertarsene col farsi alla finestra. Aveva sentito i canti dei giovanotti andar via allontanandosi nella direzione di San Lorenzo, poi l'agitarsi del villaggio di Soleschiano e i passi e il rumore di chi andava su e giù per la via, e una voce che diceva: — Netta anche la porta della Tina! — II. Il silenzio della notte era tornato, l'aria non le portava più se non il leve mormorio della Manganizza e i canti degli usignuoli nel viale; nondimeno non poteva persuadersi che fosse finita. Una volta le parve di sentire come avvicinarsi un passo guardingo, e fatta di ghiaccio senza neanche alitare stava in orecchi: l'ombra delle foglie del gelso ch'ella vedeva a' suoi piedi nel chiaro della luna s'agitò un istante in modo assai strano. Appendevano una qualche frasca a quell'arbore, od era stato un improvviso buffo di vento? Ma non appena aveva potuto quietare il battito del cuore per queste subite e forse vane paure, che udì assai distinto alcune pedate che venivano da diverse parti; poi un bisbiglio di voci sommesse e un fruscio fra il fogliame del vicino viale, e tacere ad un tratto il canto degli usignuoli, indi cangiarsi in quel fischio lamentevole che mandano le femmine quando si vedono gente dappresso e tremano sul nido impaurite pei loro piccini. Non era più dubbio, tornavano; e di lì a pochi minuti, se l'angoscia glielo avesse permesso, ella avrebbe potuto raccogliere buona parte di questo dialogo, che s'intavolava proprio sotto alla sua finestra. — Non sono, ti dico! — Ma questa mattina li ho veduti io co' miei occhi: erano due bei giranei, la casselletta col garofano che le ha regalato quella bestia dell'Armellino, e un'altra tutta folta di basilico. — Oh bella! Si sarà sentita sulla coscienza il peccato e per prevenirne almeno in parte la punizione, li avrà tirati in camera. — La finestra è aperta; mi darebbe l'animo di scalarla e andarglieli a tòrre magari di sotto al letto. Ma vuoi scommettere ch'ella s'è cavata dai freschi coll'andarsene a dormire fuori di casa, ed ha portato via tutti i suoi fiori immaginandosi già che questa notte noi glieli avremmo devastati? — È facile: altrimenti quel bravaccio di Giorgio si sarebbe lasciato vedere, credendo d'imporci con quei suoi baffi colore di sorcio; ma i fiori non può averli portati con sè, e neanche nella camera, adesso che ci penso, non devono essere; avrebbe chiuso le impòste; li avrà nascosti in qualche campo. — E allora come si fa a trovarli fuori? — Aspetta; parmi d'aver veduto qui dappresso un seminato di canapa. Io ho buon naso; intanto che vengono gli altri, andiamo a cercarli. — E si allontanavano. Quando furono vicini al campo indicato, il Rosso cavò fuori il suo moccichino, lo distese per terra e razzolando colle mani lo riempiva di sabbia e di minuti sassolini. — Che diaccine vai ora facendo? chiese l'altro meravigliato. — Ti dico ch'i' ho buon naso e che il basilico ha buon odore. — Poi si mise a girare per la canapa, e come se l'avesse incensata gittava per tutti i versi manate di sabbia, indi annusava col muso all'aria a guisa di bracco. Nardo rideva, e fermo sul ciglio del fosso stava guardando a quelle tante parabole di sassolini che illuminati dalla luna parevano goccioline di acqua o di argento liquefatto cadenti ad innaffiare quel luccicante quadrato di verde. — Ci siamo! gridò il Rosso, il basilico risponde, — e veniva fuori trionfante con in braccio la cassetta. — Eh! ho trovato anche gli altri, sono lì dappresso. Sapevo bene che il basilico chiacchierone avrebbe fatto la spia! — Infatti quella povera inconsapevole pianticella percossa dai sassolini aveva mandato un così acuto getto di profumi che valse subito a tradirla e a discoprire i compagni. Si misero a trasportarli sull'interrato che circonda il Rovere dirimpetto all'osteria. Erano tutti intenti a questa faccenda, quand'eccoti dal villaggio un repentino urlare di voci adirate, un dágli, un accorr'uomo, un parapiglia da non dirsi. Nardo lascia andare la cassetta e spaurito si mette anch'egli a gridare. Il Rosso non vuol altro, salta il fosso e via a gambe su pel viale. Nel frattempo ch'essi erano andati a cercare le casselle della Tina, gli altri avevano quasi terminato d'infiorare a lor modo il villaggio già affatto immerso nel sonno, e fatti franchi dall'esito dell'impresa fino allora felice, giugnevano in piena sicurezza a quell'ultima casa. Contenti di poter finalmente sfogare il rancore che tutti d'accordo portavano alla sfortunata fanciulla, senza più oltre aspettare i due che mancavano, s'erano già posti all'opera. Avevano vuotato i cesti e andavano sciorinando sul terreno le loro frasche e i fiori d'ogni sorte. Un povero figliuolo a cui pareva spirito il mostrarsi più degli altri accanito, con gioia maligna, come se avesse sperato farsi udire da lei, enumerava ad alta voce il tristo significato di quelle tante erbacce. Quando giù dal moro, come un fulmine salta l'Armellino, e datogli due sonori scappellotti, gli ordina di rimetter tosto nei cesti tutto quell'arsenale di porcheria, e di sgomberare sull'istante. Voleva far resistenza, ma un altro più potente scappellotto lo persuase, e chinatosi per terra rapidamente obbediva. Gli altri sbigottiti da quell'improvvisa ed inaspettata comparsa, parte s'erano dati alla fuga, parte gridavano arrabbiati, ma non osavano affrontarlo, perchè egli aveva cavato la ronca, e così fattamente tremava e gli uscivano dagli occhi tali scintille di concentrato furore da far temere chi sa qual tremenda esplosione. A qualche passo di distanza s'erano peraltro aggruppati diversi, e bestemmiavano minacciosi e s'aizzavano l'un l'altro per farsi alla zuffa e vendicare l'insulto. Giacomino stupefatto, che di tutta quella scena non aveva potuto capir nulla, se non l'inopinata presenza dell'amico, quando potè un poco raccapezzarsi gli si fece dappresso e chiese con voce calma fissandolo arditamente: — Che ti abbiamo fatto noialtri per maltrattarci in cotesta maniera? — E a voialtri che cosa importa della Tina, che venite qui a rompermi l'anima, a crescere dolore sovra dolore? Via tutti per Dio, se no vi caccio a coltellate! — Ma non sai tu che siamo in quindici, e che potremo bene tenerti fronte, se non avessimo pietà d'un povero pazzo? — Sì!... sclamò egli improvvisamente mutando tenore. Sì! pazzo! l'hai detta. Ma tu una volta, Giacomino, mi volevi bene.... Và, persuadi quei monelli ad andarsene: che mi lascino in pace! Ad essi la Tina non ha fatto nulla. Son io il tradito.... E poi che importa, s'ella non può più amarmi? Quante ore felici non ho passate io qui!... Adesso, in questo mondo sono di troppo.... fra pochi giorni vado via per sempre. Non offendete questa povera creatura che mi è stata tanto cara.... Oh Giacomino! Ti prego per la nostra amicizia, per amore della mia memoria, fà che anch'essi la rispettino! — E si gettò a piangere sul petto dell'amico, che intenerito lo strinse fra le braccia. Nel dimani, nella villa di Soleschiano, erano due persone che piuttosto che comparire alla messa si sarebbero seppellite sotterra; la Tina, e il povero diavolo a cui erano toccate le busse. Risolvettero peraltro entrambi di affrontare ad ogni costo quel rossore, ma la ragione che ve li persuase era affatto diversa, e vi si accinse ognuno alla propria maniera. Il giovanotto aveva pensato che nel suo caso era assolutamente necessario di farsi vedere proprio lì nella sua chiesa; e farsi vedere in modo tale che bastasse a smentire qualunque voce corsa della disgraziata avventura. Nella sua testa, credette che a tal uopo tornasse bene vestirsi dei migliori abiti, mostrarsi allegrissimo, ed egli ch'era stato sempre la miglior anima del paese, in quel giorno fece il bulo, e passeggiava sulla piazza in mezzo alla gente con un fazzoletto scarlatto ad armacollo, due altri nelle saccocce di cui a bello studio gli riuscivano fuori le cocche, e per la prima volta in sua vita con la pipa in bocca. — In quanto alla fanciulla, era domenica, e mancare al precetto, non le passava neanche per la mente. Ma per isfuggire allo sguardo di tanti curiosi, corse in chiesa appena l'alba, e chiusa nel suo ampio fazzoletto s'inginocchiò in un cantuccio, e stette là immota finchè, finita la messa, tutti furono usciti. Da quell'epoca in poi, questa fu per lei un'abitudine costante. Era diventata solitaria e taciturna, quasi sempre ritirata a casa pareva che sfuggisse ogni umano consorzio. Nei giorni di lavoro in campagna usciva cogli altri, ma non prendeva parte nè ai loro canti nè alla loro allegria. In famiglia, mansueta e dolce, come sempre, obbediva; del resto di rado avresti sentito la sua voce; pareva che nemmanco ascoltasse i discorsi degli altri, tanto stava continuamente fisa ne' suoi pensieri. Sua unica gioia era potersi appartare, e tutte le ore disoccupate le consumava in qualche angolo remoto col viso fra le mani, e spesso una lagrima furtiva le solcava le guance ogni giorno più pallide. Ma non era per questo meno bella. Anzi tutti i suoi lineamenti avevano acquistato una non so quale ineffabile vaghezza, che non potevi a lungo contemplare, senza sentirti la commozione nel cuore. Non più eretta la persona come nella superbia della prima giovinezza, ma a guisa della dilicata campanula dei convolvoli, o della cineraria che sull'esile gambo piega così graziosa la sua corolla gentile, anch'ella quasi sempre teneva bassa la testa. Dalle labbra mobilissime involontariamente talvolta le traspariva un impercettibile sorriso di voluttuoso affetto che passava come lampo, o trasformavasi nell'amara espressione d'un inconsolabile dolore. Oh chi l'avesse potuta osservare, quando internata nella solitudine del giardino dei Conti riusciva sul margine della Manganizza tra le pioppe e le querce secolari che ivi la fiancheggiano, e abbandonata a sè stessa si sedeva senza sospetto a contemplare il corso dell'acquicella! I più reconditi pensieri le si dipingevano allora quasi senza velo sulla candida fronte; tutta l'anima le correva alla faccia, e i suoi grandi occhi neri nei quali da qualche tempo s'era accesa una fiamma passionata pareva che vedessero gioie ineffabili in ogni onda che passava; ma fuggivano tutte, ed ella sorgeva pallida, lagrimosa, ed atteggiata di una così cupa disperazione che l'avresti presa per la Niobe dei Greci. Che era mai che così la rapiva in estasi per poi gittarla in cotesti desolati pensieri? Che era questa forza arcana che metteva adesso tanta vita in quelle gracili membra, e mentre visibilmente deperivano le irradiava di tanta grazia, di tanta quasi divina bellezza? Era la scintilla venuta finalmente ad animare la statua di Pigmalione: era l'amore. Questa capricciosa passione ch'ella non aveva conosciuto, nè quando promise la sua fede all'Armellino, nè poscia quando si legava con Giorgio, ora che li aveva perduti entrambi, la sentiva in tutta la sua potenza. Cresciuta negli anni, ma ancora col cuore inesperto, accettò l'amore del primo, perchè anch'ella gli voleva bene, ma come a un dolce amico d'infanzia, come a un fratello. Erano pari di condizione, le loro famiglie si amavano, il giovane metteva tanta cura nel compiacerla, ed ella si sentiva così riconoscente che credette davvero che cotesto fosse l'amore; e poi nella sua vanità di fanciulla, le pareva così bello essere corteggiata, avere di già il damo, che non le era neanco passato per la mente di riflettere alla gravità dell'impegno che si era assunta con quella promessa. Venne Giorgio: l'aveva per caso incontrata nell'uscire di chiesa, e preso dalla sua modesta bellezza, si fermò a parlare di lei con una donna del villaggio, i cui racconti finirono d'innamorarlo. Giorgio agiato di famiglia e superbo di poter vestire i dì di festa a uso signorile e di tener qualche tallero in saccoccia, era uno di quegli uomini che credono sempre di onorare e felicitare la fanciulla a cui offrono il tesoro della loro mano e del loro nome. Non si fece dunque nessuno scrupolo di soppiantare un povero diavolo che non aveva se non le braccia, e col mezzo stesso di quella donna mandò in regalo alla Tina un mazzolino di fiori. Erano veramente belli, e la fanciulla senza pensare alle conseguenze, invece di rifiutarli se li mise nella cintura e comparve con essi alla sagra di Madonna di Strada. Da quel momento il giovane si credette autorizzato ad entrare la sua casa. L'Armellino nella sua dilicatezza frenava le gelosie, col cuore infranto piangeva in secreto, ma lamentarsi con lei non voleva, o non degnava: tal volta anche forzavasi di far buon viso a quei vanitoso la cui sciapita conversazione non sapeva comprendere com'ella trovasse aggradevole; ma stanco del tremendo martirio finì col ritirarsi. Quando seppe che la fanciulla, lungi dall'aver compreso il suo generoso contegno, si credette sciolta da ogni promessa, e senza cercar spiegazioni di sorte, quasi per tòrsi all'umiliazione di un abbandono aveva dato la sua fede all'altro, si sentì la morte nel cuore e risolse di lasciar per sempre un paese dove per lui non v'erano che memorie dolorose. Ma perchè la sua famiglia restava così priva di due braccia robuste, credette di compensarla col darsi cambio, e portare nelle mani della desolata sua madre il prezzo della sua povera vita venduta. Mancavano pochi giorni all'adempimento di questo irrevocabile sacrifizio, quando sotto le finestre della Tina avvenne la scena che abbiamo descritta. La fanciulla che non aveva amato Giorgio più dell'Armellino, comprese allora il cuore del giovane, che con tanta leggerezza ella aveva potuto tradire. Lo vide bello nell'impeto dell'ira; più bello nella commozione quando piangeva fra le braccia dell'amico. Sentì come sarebbe stato orgoglio portare il suo nome, rammemorò tutto il bene che sin da fanciulli si avevano sempre voluto, e quando non v'era più speranza, amò con tutta la potenza di cui era capace. Tutti nemici, tutti l'avevano abbandonata; ironie e disprezzo in ogni parola che udiva, ed egli era venuto a difenderla; prima di partire per sempre era venuto a circondarla del generoso suo amore, a lasciarle quest'ultimo addio, questo perdono tanto immeritato!... Lo vedeva sempre dinanzi agli occhi, udiva il suono di quella voce altera e tonante, poi in un subito così amorosa; meditava con un rimorso infinito le dolci parole, ch'egli le aveva tante volte ripetuto e da lei così mal ricambiate.... Per una di quelle parole adesso avrebbe dato il sangue, l'anima — e non era più tempo! Pensava alla vita misera che per sua colpa egli andava ad intraprendere.... Oh invece era l'amore, ch'essi dovevano insieme dividere! Era la sua povera madre desolata ch'ella avrebbe amato come propria e assistita e confortata negli ultimi anni! Ed ahi! ella forse la malediva.... — Questi pensieri lungi dall'attenuarsi diventavano ogni giorno più vivi. Ci sono delle memorie che il tempo cancella, ma ve ne hanno anche delle altre che a guisa di cifre incise nella corteccia d'un giovane arboscello, crescono e si dilatano colla pianta e il tempo non fa che renderle più profonde. Giorgio più non compariva. Nell'importanza che dava alla sua persona aveva creduto che a difendere la porta della Tina in quei terribili sabati del maggio avesse dovuto bastare l'essersi egli dichiarato l'amante. Ma poichè la cosa era ita altrimenti, ed egli dopo i vanti menati aveva finito collo starsene a casa lontano da ogni rumore, adesso poi non osava affrontare le beffe dei giovinotti del villaggio, e nella sua viltà fece le viste che la fama di lei così dilaniata fosse un ostacolo all'assenso dello zio oste di Oleis, ch'egli poi non voleva a nessun patto disgustare; e in capo ad alcune settimane mandò a dire alla Tina com'ella poteva riguardarsi in piena libertà. La fanciulla sorrise amaramente, ma non ne fu sorpresa: era già un pezzo ch'ella aveva imparato a valutare quel cuore. III. Avvennero intanto gli scompigli del quarantotto. Le lettere dell'Armellino mancavano. In paese dicevasi ch'ei potesse esser passato in Isvizzera, ma era una congettura: di preciso non sapevasi nulla, e la madre che non aveva mai potuto rassegnarsi, adesso con tante notizie di tumulti e di guerra che da ogni parte circolavano, si faceva sempre più sconsolata, e finì coll'ammalare. Al crepacuore e alle lagrime angosciose era successa una spossatezza mortale: ogni giorno più estenuata pareva che avesse cessato di soffrire; era una quiete lenta e placida, ma evidentemente foriera dell'ultimo sonno. Ridotta a non poter più uscire dal letto, in quelle lunghe ore mentre appariva assopita, pensava agli anni trascorsi, alle persone che le stavano d'intorno e che in breve doveva abbandonare; al suo povero figlio lontano, ai cari che l'avevano preceduta e che sperava rivedere nel seno di Dio: le risovvenne d'una creatura a cui ella per lungo tempo aveva portato un odio profondo, come causa del passo sconsigliato che aveva fatto il suo misero figliuolo, e prima di morire desiderò di riconciliarsi. Andarono per la fanciulla. Era un pezzo che non si vedevano, ed entrambe si commossero nel ravvisarsi tanto diverse. La fanciulla pallida, tremante venne piena di pianti ad inginocchiarsi a canto al letto; la malata stese le braccia ischeletrite, e stringendola con affetto sul suo cuore mormorò queste parole: — O Tina, che dovevi essere la mia figlia, perdonami il tanto male che ti ho voluto! — Rimasero qualche tempo così abbracciate e poi parlarono a lungo dell'infelice lontano. Pareva che per una intuizione sovrumana la vecchia leggesse a fondo il cuore mutato della fanciulla. Forse che l'anima presso ad uscire dalla terrena compage si faccia in quei supremi istanti alle sue visioni più libera e come divina. Un dì mentre la giovane, che non aveva più voluto partirsi da quella stanza, le andava con amorosa sollecitudine riscaldando del suo alito una mano che le si era aggranchiata, — Dimani, disse, questa mano sarà sotterra! — E poi tornando al solito argomento dei loro discorsi soggiunse rassegnata: — Non lo rivedrò! Pregavo sempre il Signore che prima di morire volesse farmi questa grazia, ma non gli è piaciuto: forse la concederà a te.... Oh sì, poverina!... Quando sarò lassù pregherò per te, e lo rivedrai.... Era un buon figliuolo e Dio gli darà fortuna. Non mi ha recato mai se non un solo dolore, ma io gliel'ho perdonato. Gli dirai, Tina, che sono partita da questo mondo senza rancore di sorte, e che gli ho perdonato tutto, anche quel danaro infame prezzo della sua povera vita. — Una volta aprì gli occhi e guardava verso la porta, consolata come se avesse veduto entrare qualche cara persona; indi usciva ad intervalli in queste sconnesse parole: — Era menzogna sai. Povera Tina! se anzi ti vuol tutto il suo bene.... Sono già quattro giorni che fa qui le tue veci. Ecco, mi sostiene fra le sue braccia, mi assiste e mi serve come se fossi una bambina.... Perchè non mi avete obbedita? Sareste maritati da un pezzo e io non morrei.... Oh! è brutto morire senza aver veduto una vostra creatura.... E la Tina è sola; non ha figliuoli, ma il Signore le ha dato allo stesso il cuore d'una madre. — Infatti la povera giovane era tutta intenta a procurarle sollievo. Ora le accomodava i guanciali, ora si sedeva in modo che potesse riposare sul suo petto; e adesso accorata da quel vaneggiamento lagrimava sommessa, e colla mano delicatamente ravviandole i capelli pareva che si studiasse a forza di carezze di tornarla in sè stessa. Quel po' di esaltazione febbrile andò via cessando, ma cresceva la difficoltà del respiro ed era caduta in una specie di sopore letale, sicchè aspettavano che di momento in momento passasse. Avevano accesa la candela benedetta, il Sacerdote recitava le preghiere dei moribondi, quando tutto ad un tratto si risvegliò, sforzandosi di sorgere a sedere; volle che le aprissero la finestrella e chiedeva dove fosse la posizione della Svizzera. Il sole era già sparito dietro i picchi delle azzurre montagne, un ultimo riflesso di luce imporporava ancora il nitido orizzonte; stette un pezzo colla faccia rivolta a quel punto e guardava intenta, ma l'anima s'era già ritirata dagli occhi che apparivano offuscati e come coperti dal velo della morte: scosse mestamente la testa, poi disse alla Tina: — Inginocchiati, figlia mia. Egli lontano e tu qui! ma io vi benedico tutti due! — E la sua mano tremante fece un segno di croce verso la finestra e cadde a posarsi fredda come un ghiaccio sul capo della fanciulla. Udirono un ultimo soffio — era l'anima, era l'alito di Dio che tornava in quel momento al suo creatore. Allora si sollevò un gran pianto e uscivano dalla stanza desolati. Sola la Tina era rimasta. Immobile al suo posto lì presso al cadavere orava e piangeva in silenzio. Poi quando venne l'ora di trasportarla nella bara, pregò che nessuna mano straniera la toccasse, ed ella stessa le compose le vesti e il bruno fazzoletto e la candela benedetta e il rosario fra le mani. Le collocò il capo sovra un nitido guanciale, sollevandola con dilicato riguardo come se fosse stata viva, ed era infinito l'affetto e la riverenza con cui ella compieva tutti questi pietosi uffizi. A canto a quel letto aveva passato alcuni giorni d'indicibile agitazione e di angoscia tremenda, aveva tanto patito, versate tante lacrime; eppure nel tornarsene a casa dal cimitero si sentiva nel cuore una pace e una dolcezza da gran tempo ignorate. Le pareva che quell'anima santa pregasse ora per lei, riandava commossa le parole di perdono e la benedizione ricevuta; e come se il dolore avesse avuto potenza di rigenerarla, il pensiero del giovane lontano le veniva adesso quieto e quasi senza rimorso. — Una sera che tornava a casa dai campi trovò sulla sua porta il sacerdote che aveva assistito la madre dell'Armellino. Il vecchio venerando quando la vide si tolse gli occhiali mettendo in saccoccia il breviario che aveva recitato lungo la via, e chiese di favellarle. Qualche tempo innanzi un buon prete di Cividale suo intimo amico gli aveva scritto raccomandandogli d'informarsi se in que' dintorni si fosse trovata una giovane disposta ad accettar servigio presso le monache del Monastero così detto maggiore di quella città. Siccome le contadine di rado si adattano ad abbandonare i loro campi ed è poi difficilissimo che si sentano vocazione per la chiusura, così egli non si era dato nessuna premura di eseguire cotesta commissione e non aveva neanche risposto in proposito. Ma nell'occasione di quella malata avendo avuto agio di osservare la singolare pietà della Tina ed essendosi informato della vita solitaria e ritirata che menava, veniva adesso appositamente per fargliene proposta. A lei che non aveva mai potuto cavarsi dal cuore l'immagine dell'Armellino, e che al suo amore senza speranza e all'amaro rimorso che la consumava non aveva mai trovato altro lenimento che i pensieri della religione, parve bello adesso potersi ritirare a piangere nel santuario del Signore. Rispose dunque adesivamente, e senza pórci tempo in mezzo si risolvette a lasciar la famiglia e il paese nativo. Il sacerdote le diede una lettera di raccomandazione, e alcuni giorni dopo col suo fardello in testa ella partiva mattutina alla volta di Cividale. Teneva la via più corta, cioè i viottoli che a traverso i prati e le colline mettono sulla sponda del Nadisone presso il villaggio di Premariaco. Era sulla fine d'autunno, una di quelle giornate nuvolose in cui si cominciano a sentire i primi buffi del vento iemale. Dagli alberi ingialliti si staccava ogni tratto qualche foglia che veniva a rotolare dinanzi a' suoi passi; camminava spedita e deliberata nella presa risoluzione, ma i suoi pensieri involontariamente armonizzavano colle malinconie della natura. Quando fu sull'alto delle colline rivolse un ultimo sguardo al paese che lasciava. Le gioie dell'infanzia, le sollecitudini e l'affetto della famiglia, le memorie dell'amore stavano là. Si sentì al cuore come uno schianto, e pianse alcuni minuti la sua povera vita tradita. A guisa di tappeto vagamente intarsiato le si spiegava dinanzi un ampio tratto di pianura, il basso Friuli fino al mare; ma i suoi occhi non vedevano che un punto, il villaggio nativo, e lì dappresso quasi impercettibile la bianca chiesetta del cimitero, dove le pareva di tristamente abbandonare le sante ossa della pia donna che morendo l'aveva chiamata col dolce nome di figlia e che adesso dinanzi al Signore doveva pur pregare per lei.... Riprese la via, ma era accorata, e a misura che s'avvicinava alla meta, l'animo repugnante le correva al passato. Giunse a Cividale che non erano ancora suonate le dieci. Si recò subito all'abitazione del sacerdote a cui l'avevano indirizzata. Con tutta l'energia di cui era capace, procurava di ricomporsi e di cancellare ogni traccia dei mesti pensieri che suo malgrado l'avevano conturbata; ma quando entrò nel parlatorio e vide le fitte inferriate di quella tenebrosa finestra a cui poco stante s'affacciava la figura austera e l'abito strano d'una vecchia conversa, ella che non aveva nessuna idea di quel che fosse un monastero, le parve di riscontrare qualche cosa che grandemente s'avvicinava alla trista dimora dei delinquenti, e si sentì ghiacciare il sangue. Venne la Badessa. Era una donna sui sessanta, allegra, rubizza, di modi franchi e cordiali, che salutò con enfasi l'amico sacerdote che l'accompagnava, e appena ebbe udito il motivo della loro venuta fece spalancare la porta e l'accolse con cortesia mostrandosi a prima vista compiaciuta del buon aspetto della giovane. Suonò ella stessa una campana con certi rintocchi convenuti, e capitata l'anziana delle converse, gliela consegnava subito perchè le facesse vedere il monastero e conoscere le diverse persone che vi soggiornavano, ed ella tornò in parlatorio dal sacerdote che stava aspettandola. C'era là entro un numeroso popolo feminile diviso in monache, converse, giovani inservienti, ed educande. L'edifizio, antica rovina longobarda a diverse epoche restaurata, posto sulla estrema sponda del Nadisone che ivi trascorre inabissato tra pittoreschi dirupi, ha un aspetto singolare che desta ad un tempo meraviglia e ribrezzo. In qualche sito il terreno su cui ponta, ha evidentemente franato; ne fanno fede i massi precipitati nel profondo e le radici penzolanti tra i virgulti che vestono in parte la scoscesa ed altissima ripa; e c'è un muro del tempietto che dicono di Piltrude principessa, tutto a crepacci, avendo al disotto ceduto le fondamenta. Ei si presenta all'occhio in una retta perpendicolare fino alle ghiaie dall'alveo, tanto trovasi adesso rasente al precipizio. Parte di un acquedotto che si suppone opera romana attraversa le viscere del convento e sotto a' suoi piedi getta nel torrente una cascata perenne. Il sotterraneo dove passa è ridotto ad uso di magnifico lavatoio di cui le monache si possono valere a loro agio anche nei giorni di piova. Hanno lì sopra un picciolo giardinetto posato sullo sporto del dirupo come innaccessibile nido di aquila; vi si discende per una sola porticella praticata nel fianco del fabbricato che ivi lascia libero quell'angolo di fertile terreno. La vista che vi si gode dal parapetto è una delle più incantevoli. Domina gran parte dell'alveo fino al ponte gigantesco tra i cui archi ineguali sorride una scena di vago paesaggio. Quella linea che con mirabile ardimento dell'arte fu ivi gittata a congiungere le due parti della città, nei dì di mercato è formicolante di gente che diresti quasi sospesa nell'aria. A basso, vicino all'acqua verdastra, sorge un molino ed altri opifici che nella loro distanza ti paiono casine da fanciulli. Di contra stanno i fantastici dirupi della sponda opposta e gli edifizi a fisonomia antica e ruderi bizzarri coperti di edera, e un po' più lungi, posato nel verde di un ameno praticello, l'elegante caseggiato che fu un tempo il monistero di Santa Chiara e poscia collegio militare. Se guardi dall'una parte, è il serpeggiare del torrente che viene dalle alpi, è la vallata nevosa che s'apre tra i picchi del San Lorenzo e quel solitario di Monte maggiore, è la cima consacrata alla Vergine a cui concorrono continue processioni di devoti, e poi da levante a mezzogiorno il digradare di monticelli e di colline fino alla fertile pianura; e l'orizzonte si chiude colle più lievi colline e colla più dilatata pianura che sfuma nella lontananza dal lato di ponente. IV. Cotesta poesia della natura che s'apriva così ricca dinanzi agli occhi di quel romanzesco monistero, la vita affatto nuova, gli usi per lei singolari e l'attendere alle mansioni che le avevano affidate, assorbirono per qualche tempo tutto l'animo della Tina di modo che trovavasi pienamente contenta della presa risoluzione. Le lagrime e i turbamenti passati le apparivano adesso come un sogno, nè se ne voleva più ricordare, se non per purificarsi e farne espiazione a forza di lavoro e di preghiera. Anche le monache avevano pigliato ad amarla. Il suo aspetto attraente, la dolcezza e la serenità de' suoi modi, la sua non comune intelligenza le conciliavano ogni anima. Passò così diversi mesi, e se allora le avessero offerto di cingere anch'essa il velo e proferire gl'irrevocabili voti, facilmente l'avrebbe considerato come un favore, e si sarebbe da sè stessa incatenata per sempre su quello scoglio inaccessibile e diviso da ogni umano consorzio. Ma quando venne la primavera cominciò a sentirsi come un secreto desiderio della terra nativa. Lo reprimeva ella con tutta la sua forza, ma spesso così insensibilmente gli entrava nel sangue che già n'era dominata tutta quanta prima che la sua volontà avesse potuto neanche avvedersene. Sullo scorcio dell'inverno, quando i rigori del freddo avevano cominciato alquanto a mitigarsi, le era stato affidato un novello incarico ch'ella accettò tutta contenta come quello che meglio d'ogni altro, per la pratica che ne aveva, le dava agio di dimostrare la propria abilità. Si trattava di preparare la terra del giardinetto sul torrente. La coltivazione dei fiori era una delle mansioni della sagrestana suor Maria Eletta, il solo individuo di quel recinto che la Tina non aveva ancora mai potuto vedere. Di una salute dilicatissima, passava molta parte dell'anno ritirata nella sua cella, e il freddo come il caldo eccessivo talmente l'offendevano che ne rimaneva malata; le compagne per altro gliene avevano più volte parlato e sempre con tale venerazione da fargliene desiderare la conoscenza, ma eccetto la conversa che l'assisteva, senza un ordine espresso della Badessa, nessuna avrebbe ardito varcare la soglia di quella camera. Suor Maria Eletta amava la solitudine, e, a meno che non fosse all'estremo sofferente, impiegava le sue ore in ogni sorte di leggiadri lavori, tra cui tenevano il primato i fiori artificiali. Un mazzolino ch'ella aveva creato per le feste di Natale parve alla Tina tale portento da non potersi capacitare che fosse opera umana. I fiori più minuti come la luisa, la vainiglia, diverse specie di verbene erano perfettamente imitati, la mammola difficilissima somigliava così vera da invitarti ad odorarla, ma due rose sovrattutto erano veramente incomparabili. L'una appena sbocciata pareva che avesse nel grembo le gocciole della rugiada, l'altra appassita, coi petali scolorati pronti a sparpagliarsi al minimo soffio, guardava la terra con tanta malinconia, ed era così leggiadra nel suo dilicato pallore da farti pensare sospirando al fuggevole sorriso degli anni giovanili. Siffatte meraviglie, che ogni qual tratto uscivano da quella cella misteriosa, crescevano ognor più la grande curiosità della Tina. Quando un giorno la Badessa le disse che per i lavori del giardinetto bisognava dipendere dalle istruzioni di suor Maria Eletta, ed ella stessa la condusse a riceverle nella camera della malata. Strada facendo le raccomandò di non parlare a voce alta, perchè, soggiungeva: — Quell'anima benedetta non se ne lagna, ma è evidente che soffre. — La Badessa aveva per suor Maria Eletta i più dilicati riguardi. Per lei faceva eccezione alle austere leggi del monistero, la dispensava dal comparire in coro, dal refettorio comune, da parecchie obbedienze della regola; e non solo quando trovavasi sofferente, ma tutto l'anno la sua vita era affatto libera e poteva occuparsi come meglio le aggradiva, nè v'era tra le consorelle chi di ciò avesse mosso il menomo lamento; pareva anzi che tutte la tenessero per una persona affatto eccezionale e privilegiata. Entrarono nella stanza; le impòste socchiuse e colle cortine abbassate lasciavano penetrare appena tanta luce da discernere gli oggetti. La malata stava seduta sul suo letto, ma peraltro vestita, e lo scapolare si distendeva sulla rimboccatura delle candide e finissime lenzuola; teneva la testa china e come intenta al lavorio delle sue piccole mani, che così quasi all'oscuro rapidamente frastagliavano alcuni fogli di carta verde; il velo venuto innanzi le adombrava la faccia di modo che la Tina non potè pienamente raffigurarla. — Eletta mia, le disse la Badessa procurando di attenuare il suo grosso metallo di voce, ti conduco la ragazza, fà d'intenderti con essa, la troverai pronta ad eseguire tutti i tuoi ordini. — Oh vi ringrazio, buona Madre, proferì Maria Eletta con un tono così dolce che pareva un'armonia; e tu, giovanetta, siediti qui. — E quando la Badessa si fu ritirata, e la Tina tutta rispettosa ebbe preso il posto che le aveva indicato, continuò ancora più dolcemente: — Mi han detto che vieni dal contado e devi saperne di fiori. Anch'io, giovinetta, ho vissuto parecchi anni in campagna e amavo la buona gente che lavora la terra. Oh! è bella la vita all'aperto, nell'aria libera e tra il verde di tante piante. Dopo questa consecrata al Signore, è la più bella! — Poi dopo varie interrogazioni ed alcuni precetti risguardanti il giardinetto, le ingiunse di tornare ogni giorno a trovarla; e quando prendeva congedo, — Ricordati, disse, che noi dobbiamo volerci bene; l'amore dei fiori e il passato in qualche parte uniforme, ora che stiamo entrambe nella casa di Dio e siamo diventate sorelle, ci devono legare insieme d'amicizia perenne. Così la Tina ebbe la chiave del giardinetto, e divideva quasi tutto il suo tempo tra la cura dei fiori e le amabili lezioni della monaca malata. Ed erano queste due cose che ne facevano nascere mille altre per cui ogni giorno più sentivasi involontariamente strascinata alle antiche memorie. Tutte le volte ch'ella andava dalla Sagrestana i loro discorsi finivano sempre col rammemorare la vita dei campi. Era un eterno ritornello che usciva naturalmente dall'argomento dei fiori. Suor Maria Eletta si lasciava andare così volentieri a far menzione ora delle colline di Butrio, ora dei prati di Soleschiano, ora della magnifica vista che si gode sul Torre venendo da Percoto, che la Tina in quella camera si vedeva continuamente dinanzi agli occhi le cognite scene del suo amato paese nativo. Pareva che, in altr'epoca, la monacella avesse assai bene conosciuto quei luoghi e che ne serbasse cara la memoria. Talvolta interrogava se dinanzi alla chiesetta di Madonna di Strada erano tuttavia così rigogliosi i due secolari cipressi ch'ella si ricordava d'avervi un tempo ammirati, se nella seconda domenica di maggio costumavano ancora di ballare sul prato all'ombra dei pioppi che fanno argine al torrente, e cento altre domande affatto frivole in apparenza, ma a cui la fanciulla commossa rispondeva col cuore pieno di lagrime. Nell'orticello ella vi entrava sempre colla ferma intenzione di lavorare indefessa, ma finiva spesso coll'appoggiarsi al parapetto e rimaner lì molte ore assorta a contemplare nell'abisso le onde continuamente succedentisi che si rompevano spumeggiando nei massi, passavano via sotto gli archi del ponte e correvano verso un paese, dove il suo pensiero le aveva digià precedute. Che se anche resisteva alla prima tentazione di porsi in quel posto, sorgevano in seguito mille altre che involontariamente ve l'attiravano. Era un delicato profumo di biancospino che ascendeva dal sottoposto torrente a farla desiosa di scoprire dove fosse. Erano le lavandaie che cantavano in coro sbattendo i loro panni; le vedeva in lontananza, non poteva afferrare le parole, ma la cadenza le suonava nell'anima ricordandole le patrie canzoni. L'uccellino che le passava sul capo, le farfallette carolanti intorno alle sterpaglie della sponda opposta, le miriadi di moscerini che vedeva alzarsi in colonna lungo l'alveo, spandersi come ondate di fumo, disparire nel verde, lo stesso sonito fragoroso delle acque, la stessa aria primaverile impregnata di mille fragranze che le metteva nelle ossa un nonsocchè di molle e di voluttuoso, tutto aveva una voce che le risvegliava il desiderio de' suoi anni trascorsi. Allora coll'innamorata fantasia ricostruiva a suo modo la felicità che aveva perduta, e in mezzo al paradiso di quel sogno sorgeva a sorriderle una immagine che da lungo tempo ella si sentiva indelebilmente scolpita nel cuore, ma sfumava come lampo, e un rimorso cocente la riempiva di pianti. Così s'era dileguata la pace ch'ella aveva sperato rinvenire in quella pia solitudine, e gli atti languidi, il pallore delle labbra, la malinconia sempre crescente dello sguardo indicavano come anche la salute stava già per dileguare. Se ne accorse suor Maria Eletta, e un giorno fisandola con grande attenzione le posò una mano sul cuore e le disse: — Tu hai male qui! — Poi accoltala tra le braccia la baciò con accorata tenerezza come se si fosse sentita le viscere di una madre. La povera fanciulla diede in singhiozzi e nascondeva il viso fatto di porpora. — Se tu mi guardi, soggiunse la monaca, ti accorgerai facilmente che il dolore ha lasciato più d'un'orma su questa faccia estenuata.... forse le lagrime che tu poverina versi in questo momento le avrò versate anch'io. Aprimi il tuo cuore, ti consolerò! pregheremo insieme! — e colla mano scarna l'andava dolcemente accarezzando. La desolata che da gran tempo sentiva il bisogno d'un poco d'affetto, ruppe il silenzio e nell'amplesso dell'amicizia così versava senza mistero il suo tristo secreto. — Potessi pregare! Ma che volete ch'io faccia in chiesa, se dinanzi agli altari, se nelle devote immagini, se perfino.... o Dio! Dio! non oso dirlo: perfino nell'ostia sacrosanta io non vedo che lui?... — Misera creatura! Ma chi mai poteva mandarti in un santuario di vergini? Or non sai tu — e continuava in tono sommesso, come paurosa che qualche orecchio indiscreto potesse ascoltare — or non sai tu, ch'esse sono tutte pure come gli angeli del Signore, e che non potrebbero intenderti giammai, nè sentire pietà de' tuoi mali? I loro cuori sono troppo nel cielo perchè li tocchi dolore di questa nostra povera carne umana. — E stette un pezzo meditando, mentre dalla faccia inspirata le balenava il pensiero di proteggere la infelice, e, quai che si fossero i raggiri che l'avevano tratta là entro, infrangere le sue catene e ridonarla all'amante. Ma quando la Tina le narrò con tutta ingenuità la sua pietosa istoria, e vide com'ella amava senza speranza, — Povera sorella mia! le disse, fors'è provvidenza che tu sia venuta in questo luogo di pace. Il tempo ti guarirà; intanto piangi con me: ho anch'io passato lunghi anni di dolore; eppure il Signore mi ha consolata. E tutte le volte che veniva nella sua camera, con una dolcezza rassegnata e serena le parlava della brevità della vita, delle illusioni misere della giovinezza, del buono Iddio che conta le nostre lagrime e premia il sacrifizio, delle ineffabili consolazioni di chi fa un poco di bene in questo mondo, del paradiso dove finalmente rivedremo i nostri cari e dove il nostro cuore non sarà più nè ingannato nè frainteso. La primavera quasi a mezzo inoltrata e il bel tempo stabilito non lasciavano più temere dei rigori della passata stagione, e suor Maria Eletta anche in quell'anno disponevasi ad uscire dalla sua cella e per alcuni giorni partecipare alla vita delle sue consorelle. Tosto che se ne sparse la notizia, tutto il convento fu in festa. Le monache e le converse vennero ad aspettarla a' piedi della scala, la Badessa le dava braccio, e quasi processionalmente la condussero in coro. Una letizia diffusa su tutti i volti palesava come ell'era universalmente amata, e in quel giorno recitavano l'ufficio con tale un'enfasi di devozione che pareva che ognuna nell'interno ringraziasse il Signore di sentire ancora una volta in unione alle loro quella voce così pura nella sua malinconia, così soave ed armoniosa che dava come una novella inspirazione ai cantici e alle laudi degli antichi profeti. L'altare era adorno di fiori per la maggior parte usciti dalle sue mani: i dilicati trapunti e i veli delle tovaglie erano suo lavoro. Ritta nella sua cattedra, colle mani incrociate sullo scapolare, teneva gli occhi abbassati sul breviario, ma dalla sua pallida faccia traspariva un'indicibile commozione per questa così amorosa accoglienza. Nell'uscire, si fermò nell'atrio dove dormono le ossa delle antiche madri del monistero. Orava tacita, contemplando le iscrizioni logore dal tanto passarvi sopra. Ce n'è una di quelle pietre di marmo bianco senza parole, ma vi corre intorno un fregio. Sono crani ed ossa tra cui passano leggiadre foglie d'acanto e serpeggiano convolute in graziosi arabeschi, e la rosa leggera esce dagli occhi della morte, quasichè lo scultore avesse voluto epilogare su quel sepolcro la fugacità delle nostre povere gioie, e quella speranza divina che la fede fa rampollare dal grembo istesso della distruzione. Alla Badessa che l'aveva raggiunta e che in quel punto le offeriva l'acqua benedetta: — Ecco, disse, un bel sito. Vorrei che mi ci mettessero qui! — e si segnava sorridendo mestamente. Lungo i portici le vennero incontro diverse ragazzine. Erano giubbilanti del rivederla, e dopo aver baciato la mano alla Badessa, si fecero a salutarla colla vivacità propria dei loro anni. Ella chiese il permesso che tutte le educande venissero in quel giorno a passare la ricreazione del dopo pranzo in sua compagnia nell'orticello sul torrente. Quelle fanciullette allegrissime corsero via saltando a portarne la lieta notizia e a convocare le compagne. In refettorio la Badessa dispensò dal silenzio come nei dì solenni, e sul finire del pranzo suor Maria Eletta fece recare una cesta in cui c'erano diversi lavorucci ch'ella aveva compiti per ognuna delle consorelle durante il tempo che le sue sofferenze l'avevano tenuta confinata nella sua cella. Anche alle fanciulle nell'orticello dispensò dei regalucci. Erano santini col margine a trafori, portafogli graziosamente ricamati, lavori di perline, rosarietti, cestelle; e per le piccine giocarelli di palle, sonagli ed altre galanterie: nessuna fu dimenticata, nè delle converse, nè delle serve; ed offriva questi piccioli ricordi in maniera così umile, che pareva che fosse un chiedere scusa dei tanti giorni in cui la sua poca salute l'aveva costretta a vivere segregata da tutte, ma nei quali pure aveva pensato ad ognuna di esse. Dimostrossi poi così soddisfatta dei vari lavori che la Tina aveva eseguiti nell'orticello, che questa non potè difendersi dal sentirne in cuore una dolce compiacenza. Le fanciulle aiutarono a portar fuori i vasi che nell'inverno erano stati a riparo in una stanza interna, e la Tina e una conversa li collocavano con bell'ordine sul parapetto e sovra alcune panche disposte a gradini lungo il muro. Que' spiritelli delle ragazzine, benchè fosse l'ora dei loro chiassi, attente a' cenni di Maria Eletta eseguivano ogni cosa senza confusione e si guardavano bene dal calpestare le aiuole. Era per esse una festa l'obbedirla, e nel convento correva il proverbio che il comparire della monaca malata faceva ogni anno più buone e più assennate le educande. Eppure non s'ingeriva giammai nelle cose di scuola, ned era il caso che dalle sue labbra uscissero ammonizioni, o consigli di sorte. Il prestigio stava in una parola: l'amavano. Per solito, dal momento in cui, superati i rigori del freddo, le diventava possibile uscire dalla sua camera, fino agli eccessivi calori della canicola, ella godeva di una perfetta salute. In pochi giorni s'andava così per grado rinforzando, che non l'avresti creduta la stessa persona. Allora, nelle vigilie di solennità, era capace di durare tutto il giorno in piedi ad adornare la chiesa come richiedeva il suo ufficio di sagrestana, e quand'anche fosse sórta qualche improvvisa stravaganza di tempo, l'osava affrontare senza paura per cogliere a suo modo i fiori del giardinetto; anzi quando dopo un dirotto di pioggia e l'imperversare della bufera avveniva una qualche straordinaria piena del Nadisone, ella chiedeva subito licenza alla Badessa d'andarla a vedere, e lo star lì molte ore a contemplare quel magnifico spettacolo della natura, era uno de' suoi gusti prediletti. E un altro favore ella otteneva ogni anno dalla Badessa; ed era di passare una giornata tutta intera sull'alto del campanile. Vi ascendeva affatto sola la mattina assai prima che albeggiasse. Protetta dalle griglie che circondano il sito delle campane, poteva invisibile dominare la città e tutto all'intorno un orizzonte assai vasto, che trasformavasi in vari aspetti a seconda delle diverse ore del giorno e degl'infiniti accidenti di luce che andavano dispiegandosi dal mare lontano alle prossime alpi. Quando scendeva, per consueto il sole era già tramontato. Le monache tenevano opinione che quella fosse per lei una giornata straordinariamente santa e che passasse colassù il suo tempo assorta in devote orazioni. Certo, per molti giorni consecutivi avresti notato nella sua faccia pensierosa l'orma d'una singolare esaltazione. La fisonomia di suor Maria Eletta, benchè improntata d'un'amabile soavità, era una di quelle che il tempo non ha forza di tramutare. Si faceva d'anno in anno più pallida e più sparuta, ma que' lineamenti che s'andavano come assottigliando, nella loro fina espressione lasciavano meglio trasparire l'anima, e gli occhi inspirati d'una luce serena mandavano lampi sempre più vivi, quasichè attingessero dall'avvenire la consolazione di qualche cara speranza. — Ella e la Tina trovavansi un dì affatto sole nell'orticello; avevano terminato d'annaffiare le piante, ed appoggiate al muricciuolo scambiavano tra loro ogni qual tratto qualche parola il cui tono affettuoso ti chiariva subito la reciproca amicizia che oramai le teneva legate. Era sul finire di maggio, nitida e quieta l'atmosfera, e il sole vicino al suo tramonto spandeva come un sorriso d'amore su quella magnifica scena. Suor Maria Eletta aveva gli occhi al di là del ponte, sull'ultima linea di lievi colline i cui dorsi gentili van dolcemente serpeggiando dinanzi alla pianura che confina col mare. Il velo di luce, che s'andava a mano a mano ritirando dal creato e aveva digià lasciate fredde le montagne a mancina, accarezzava ancora quel tratto di lontano paese. Così tranquillo e nitente nella purezza dell'aere, così delicatamente illuminato dalle rose dell'occaso, era pur bello! Ma quali memorie andava egli richiamando dinanzi all'anima della santa monacella? Certo il lieve sorriso della sua faccia piena di pace ti diceva, che se anche erano di lagrime, non avevano però la forza di turbarla, e che ella guardava al passato a guisa dei beati, che nell'alto delle loro sedi più non possono essere tocchi dalle vanità di questo nostro mondo. V. Una volta suor Maria Eletta disse alla Tina: — Vedi in quella riga di collinette che l'ultimo raggio del sole fa adesso così verdi? Ivi io ho passato molti de' miei anni.... — La fanciulla da un pezzo guardava anch'ella a quel punto, ma con desiderio accorato, ma col rammarico di una ricordanza indelebile; aveva la faccia bagnata di pianto e preoccupata dai propri pensieri rispose fra i singulti: — Oh paese mio benedetto, dove potrei adesso essere felice!... e io sciagurata non ho saputo intendere il suo cuore, e in cambio del tanto bene che mi voleva l'ho fatto fuggire disperato; sono stata la morte della sua povera madre!... — Non cruciarti così, non piangere, Tina, le diceva Maria Eletta, che solamente allora s'accorse a che tristi meditazioni s'era in quel frattempo lasciata andare la poveretta, e dolente di non averlo preveduto cercava adesso di quietarla col santo pensiero della rassegnazione. — Certo fu grande sventura la tua! Ma, giacchè non v'è più speranza e nessun bene di questo mondo potrebbe mai consolarti, a che desiderare i luoghi testimoni di tanto dolore? Non è meglio che tu sia qui con me? Ti amo io, come una figlia, come una dolce sorella! perchè mi vorresti abbandonare? Se si trattasse della tua felicità, direi: il Signore me la toglie, ma le dà un compagno, una famiglia, un dovere da adempiere: questi occhi ch'ella doveva chiudere, si spegneranno senza rivederla, ma ella si ricorderà allo stesso della povera monacella; pregherà per me anche colaggiù; insegnerà il mio nome e la mia istoria a' suoi figli: perchè, Tina, io voglio narrarti la mia istoria; e sarai contenta: ma se tutto è finito e non vi sono che lagrime, oh, allora piangiamo insieme! — Poi guardandola colla tenerezza d'una madre: — Povera colombella, le diceva, venuta a rifugio su questo creto inaccessibile, all'ombra del santuario del Signore, tu rimpiangi adesso il mondo lasciato, perchè, quando ti colse la procella, non ne avevi ancora veduto che il suo lato bello. Chi sa quanti crudeli disinganni ti aspettavano! fra quegli uomini colaggiù dove vorresti ritornare ci sono delle prepotenze, delle falsità, che a te inesperta non passano neanche per la mente. Vedi qui sotto come le onde si accavallano, si urtano, si infrangono nei massi: giugneranno tutte sotto quei due archi là, e arriveranno un giorno libere al mare; ma noi intanto siamo fuori, e ringraziamone il buono Iddio. Ti ho detto che voglio narrarti la mia povera vita, e vedrai che ci sono lacrime più amare delle tue. Ho peraltro perdonato e guardo adesso senza cordoglio a' miei anni giovanili e ai sogni che allora mi sorridevano, lieta che la volontà del Signore mi abbia invece chiamata in cotesta solitudine. — E per vari giorni consecutivi all'ora istessa esse venivano insieme nell'orticello, e, dopo la cura dei fiori, così la monaca si faceva a narrare i suoi casi passati: — Avevo dieciotto anni, quando conobbi un giovane, la cui memoria rimastami pura come quella di un angelo, è anche adesso una delle mie più care consolazioni. Orfana fin da bambina, i miei genitori mi avevano lasciata unica erede di un ricco patrimonio. Nella famiglia della zia che mi aveva raccolta, io godevo d'illimitata libertà. Suo marito, buon uomo, di cui mi ricordo sempre con tenerezza, pretendeva che l'educazione dovesse farsi da sè, e non per via di comandi, o di leggi, alle quali dappertutto si sogliono più o meno assoggettare i fanciulli. Se desideravo, m'insegnavano; del resto, purchè non disturbassi, io era lasciata affatto padrona di me stessa, nè mai m'accorsi d'essere sorvegliata, o che si volesse farmi pensare o sentire alla loro foggia. Bene o male che fosse, almeno la mia fanciullezza non fu abbeverata di lagrime, e quegli anni, che la natura destina ad ogni creatura umana così belli, io non li ebbi contrariati giammai dal prepotente volere degli altri. Passavo con loro una parte dell'anno in città, e l'altra in un casino ch'essi tenevano su quei colli là vicino al tuo paese. Agiati, ospitali, la loro famiglia era grandemente frequentata. Questo ho dovuto dirti per farti capire in che maniera io avessi potuto strignere una così intima amicizia col giovane che ti ho accennato. Perchè, Tina, quel giovane non credeva come noi, non pregava nelle nostre chiese; era un ebreo. Avevo fatto la sua conoscenza per puro accidente. Ecco come avvenne. Credo che fosse di carnovale. I collegiali davano una rappresentazione, così come hai veduto qui le nostre educande. Mi ci trovavo in compagnia di molte signore, madri e sorelle dei giovanetti. La sala angusta non permetteva comodo spazio a tutti gl'intervenuti, sicchè sul dinanzi sedevamo noi donne, e gli uomini e gli ultimi arrivati dietro in piedi. Sento alle mie spalle un accalcarsi di gente. Era il giovane che entrava con a mano due fanciulli, ma non poteva aprire il varco e le creaturine rimanevano quasi soffocate dalla folla. Due dame che l'avevano adocchiato, e forse sapevano chi fosse, fecero le viste di non si accorgere, e colle loro pellicce sciorinate sulle sedie finirono di otturare il solo spiraglio per cui i poveri piccini procuravano di contemplare anch'essi un tantino dello spettacolo. M'ingegnai d'accennare che avanzassero, e a forza di strignermi sull'altro lato riescii a farli passare sul dinanzi; e il più piccolo, ch'era una bella bambina ricciuta e bionda come un angioletto, me la presi sulle ginocchia. Sul momento della partenza, nel ripigliarsi la sorellina, non so che complimento ei mi facesse; certo non doveva aver nulla di particolare, ma io sento ancora nel cuore il tono timido e la dolce emozione di quella voce. Dappoi egli trovò modo di venire a farci visita. La zia lo accolse gentilmente; pure in sulle prime, forse a causa della diversità di fede, traspariva in lei un non so che di contegnoso che a me faceva male e che mi credevo come in debito di compensare; ma il marito, a norma dei larghi principii che ti ho detto, riconobbe allo stesso le rare qualità del giovane, e lo trattava con tanta benevolenza che presto ei divenne uno dei nostri più intimi amici. Non puoi credere come quell'anima era bella e quanto bene mi fece la sua conoscenza! Fino a quell'epoca io ero vissuta affatto spensierata e senza prefiggermi nessuno scopo; cominciai a riflettere ed amai l'occupazione e cercavo più che potevo di arricchirmi di utili cognizioni; e un'altra sorgente di gioie purissime ed ineffabili mi aprì la sua benedetta amicizia. Mi sono sempre stati cari i fiori, e allora io n'ero veramente appassionata. Un giardiniere, che veniva qualche volta in famiglia, mi aveva promesso una piantina di non so che giranio. La nostra casa era situata in uno de' più bei borghi della città; dietro aveva un cortile interno, in fondo al quale c'erano le scuderie e un'uscita che metteva sur un vicolo popolato da povera gente; sicchè dall'una parte edifizi signorili, larga la via, moto continuo, aspetto di opulenza; dall'altra sudiciume, casucce infelici, miseria. Eravamo intesi che la mattina prima di andare al giardino dove lo aspettavano a giornata, ei mi avrebbe portato il vasetto per cotesto ingresso che gli accorciava la via. Nella mia infantile impazienza mi alzai coll'alba, e attraversato il cortile, sul portone che dava nel vicolo, mi misi ad aspettare ansiosa la cara pianticella. Passa il giovanetto. Così mattutino, per quella remota contrada.... non potevo persuadermi; ma egli mi aveva riconosciuta, e un po' esitante, un po' arrossito, pur si ferma a salutarmi, e mi narra d'una famiglia infelice che abitava pochi passi lontano. Erano quattro fanciulletti orfani e due vecchie, una delle quali cieca; tutti senza pane. Entriamo insieme nel miserabile tugurio. La cieca stava seduta in un angolo vicino al fuoco, sentì il suo passo e, riconosciutolo, stendeva le mani come per tentare dove fosse: egli le si assise dappresso colla tenerezza di un figliuolo. Aveva trovato da collocare il ragazzino maggiore e veniva a portargliene la notizia. Di sopra si sentirono le voci dei due piccoli che l'altra donna stava vestendo. Scesero le scale, oh Dio mio come sparuti! li seguiva una fanciulletta coi piedini nudi.... Io, vissuta sempre negli agi, non avevo giammai sospettato una scena di tanta miseria, e mi si strinse il cuore per infinita pietà. Egli comprese, e come se gli fossi stata sorella, mi affidò l'incarico di cucire alcune camice e i vestitini per quelle povere creature. Oh! di che gratitudine non mi sentii io allora legare a quell'anima benedetta! Serbammo fra noi due il segreto, e io lavoravo nella solitudine della mia camera con una gioia che in mia vita non avevo provato la più soave. Quando veniva la sera, erano questi i nostri colloqui, e ci mettevamo un così vivo interesse, come se fossero stati d'amore. Quel giovanetto, Tina, era buono, e faceva il bene quasi per istinto; era onesto, pieno di rettitudine, benefico per natura così come uno è gentile. Dolevami ch'egli non avesse la nostra fede, ma mi pareva sventura e non colpa, ed anzi la compassione per questa sua immeritata disgrazia me lo faceva ogni giorno più caro. Pativo di ogni parola che potesse toccare cotesto argomento ad offender lui anche lontanamente, e cominciai allora a riflettere su molte umane ingiustizie. Pregavo Iddio, e tuttora lo prego che infonda invece la sua carità nei nostri cuori, e ci faccia miti e mansueti e tutti fratelli. Erano già passati alcuni anni di questa nostra intima amicizia, nè giammai c'era uscita una sola parola, o un menomo atto che indicasse amore, e ci amavamo, è certo, con tutta la potenza delle anime nostre. Un giorno e' mi fece una strana dimanda: — Poniamo, diceva, ch'io fossi un vostro pari e nato nella vostra fede, se chiedessi la vostra mano...? — Sospettai: potrebbe forse la passione indurlo ad un cangiamento per cui non istanno le sue convinzioni? felicità suprema unire la mia alla sua vita; ma sua madre che ne sarebbe desolata! Io strappare un figliuolo dal seno della madre! Se non è per comando di una verità profondamente sentita, cotesto è delitto. E fatto uno sforzo supremo, con patente menzogna risposi: Non l'accetterei!... Miseri! avevamo entrambi raggiunto un'ora d'irrevocabile dolore e dissipati per sempre i nostri dolci pensieri. Egli lasciò accartocciarsi il disegno rappresentante due sposi all'altare che stavamo insieme guardando e che aveva dato occasione a quella fatale inchiesta, e io sentii cadermi sulle mani alcune sue lagrime di fuoco. Non ardii sollevare il viso e stetti lungo tempo immobile. Quando finalmente mi scossi, egli era partito, senza darmi un addio, senza proferire una sola parola. — E non ci siamo mai più riveduti! Seppi peraltro più tardi che stabilitosi fuori di paese, s'era ammogliato. Tutto l'amaro del sacrifizio mi piombò allora sul cuore. Fino a quel punto non so che filo di sognata speranza m'era andato sostenendo la vita. Mi pareva che doveva tornare, che avrei potuto spiegargli ogni cosa, mostrargli a nudo l'anima mia, dirgli quanto l'amavo: che se non ci era concesso d'esser felici, avremmo almeno pianto insieme e ci saremmo l'un l'altro consolati col santo pensiero d'un immutabile affetto. Ma quella notizia fu un colpo di fulmine che non avevo saputo prevedere, e dinanzi alla quale mi trovai affatto annichilita. Oh le lagrime ch'io versava in quelle lunghe notti insonni tormentate dall'infinito desiderio di rivederlo e dalla certezza di averlo irreparabilmente perduto! Ma a che narrarti gli spasimi di un cruccio che tu, poverina, devi pur troppo conoscere? È stata la somiglianza dei nostri casi, Tina, che mi ha aperto l'adito al tuo cuore, e adesso m'inspira tutta questa confidenza. Sì, sorella mia, anch'io come te ho amato e ho pianto; ma, più debole di te, mi lasciai talmente sopraffare dalla mia sventura che caddi malata. Un languore invincibile mi consumava, ogni giorno più stanca e più pallida io era oramai vicina a non potermi più alzare dal letto. I miei buoni parenti sgomentati mi trasportarono in campagna, e la loro tenerezza mi circondò di affetto, di tanta delicata pietà che finalmente valsero a riavermi. Là su quelle colline cominciò per me un'esistenza affatto nuova. Mi piacevo della solitudine dei siti e uscivo spesso a diporto pel verde dei declivi all'aria pura ed aperta, sotto l'occhio del sole. Qualche volta mi sedevo al margine d'un fonte salutare, e quelle acque mi ricreavano. Salivo d'una in altra pendice, lieta di contemplare da vicino il cipresso che me l'aveva indicata, o se m'internavo dalla parte dei boschetti, erano le dolci note degli usignuoli ch'io mi fermavo lungamente ad ascoltare. Io andava così placidamente bevendo la pace serena della bella natura che mi stava d'intorno e a poco a poco me la sentii come trasfusa nel cuore, che finalmente quietato, mi si aprì di nuovo alla vita. Fu in quel torno di tempo che un mutamento domestico nella famiglia de' miei buoni parenti venne a colmarli di gioia. Un nipote ch'essi grandemente amavano e al quale avevano destinato l'eredità dei loro beni, compiuti gli studi e tornato da un lungo viaggio stava per contrarre un matrimonio di loro pieno assentimento. Gli sposi dovevano stabilirsi in casa quasi figli, e lo zio si occupava nel sopraintendere ai diversi lavori che aveva ordinati all'uopo di apparecchiare l'appartamento nuziale. Queste faccende, e le molte visite di costume per tale occasione li obbligarono a tornarsene alla città. In quanto a me, non ignoravano che mi sarebbe stato di peso, e mi lasciarono in piena libertà nell'allegro casinetto delle colline. Oramai riacquistata la primiera salute e fatta amicizia con diverse giovanette, facevo con esse frequenti escursioni nei dintorni. Ho percorso tutti quei luoghi e ne serbo assai cara la memoria. Ecco perchè, quando sei venuta qua entro, provavo tanto piacere a discorrere teco del tuo paese nativo. Nel tuo villaggio ci sono stata parecchie volte, e vedo il viale dei Conti, il Palazzo, la Manganizza, come se tuttora mi fossero dinanzi agli occhi. Amavo la buona gente che lavora la terra, e a poco a poco dimenticati della mia condizione anch'essi mi amavano e mi ammettevano senza riguardi nella loro intrinsichezza. Confusa con essi ho pregato nelle loro chiese, prendevo parte ai conviti nuziali, ai battesimi, alle danze della sagra, mi sedevo come una sorella al capezzale degli ammalati, colla candela benedetta fra le mani intervenivo alle devote processioni, e su quel monte che ci sta dirimpetto più d'una volta sono stata in pellegrinaggio a visitare in loro compagnia la Madonna benedetta. Quando gli sposi vennero a passare l'autunno sulle colline mi trattarono col più cordiale affetto. In quella famiglia regnava un mirabile accordo: rispettosi e devoti i giovani, condiscendenti i vecchi, e tutti lieti e benevolenti, e a me poi s'usavano i più dilicati riguardi e tante attenzioni che pareva che si fossero come uniti per compensarmi delle lagrime passate. Partecipavo col cuore aperto alla contentezza de' miei buoni zii, alle giovanili speranze e alla gioia dei cugini, alla crescente prosperità della famiglia. Sì, una memoria veniva talvolta anche allora, come ombra, a funestarmi; ma io pregavo rassegnata e in pace; e ogni sera potevo offrire al Signore qualche poco di bene operato nella giornata; e se anche nel mio secreto piangevo perduta per colpa di quello sfortunato amore la famiglia che mi era stata forse destinata, mi consolavo nella speranza di quella degli amati cugini. Lieta della solitudine dei campi ch'io stessa mi avevo eletto e che mi era dato godere senza contrasto, spaziavo libera nell'aria e nel verde come uccelletto respirando la poesia del creato, e nessuno faceva male interpretazioni e il mio nome rispettavano. Avevo dimenticato la città e le sue costumanze per istrignermi sempre più alla povera gente che mi compensava col suo amore disinteressato e colla sua stima. Chiudere in pace i miei giorni in quella solitudine ignorata, sotto gli occhi di Dio, facendo quel più di bene che mi era possibile, amando con sincerità e purità di affetto tutte le creature che mi circondavano e ricevendo in contraccambio il loro amore, quest'era il mio fine, questa la speranza e la gioia della vita che mi avevo prefissa. VI. — Ebbene, Tina! continuò suor Maria Eletta, un uomo che io non avevo cercato, che certamente non potevo avere offeso, venne su' miei passi, turbò la calma che con tanta fatica avevo riacquistata, distrusse i miei sogni e mi precipitò di nuovo nelle lagrime. Oh, cadere colaggiù tra i vortici di quell'onda perigliosa e, dopo avere lungamente lottato colla morte, a forza di lena affannata riuscire alla riva, e invece d'una mano amica trovare chi ti risospinga nel gorgo!... Lungi, lungi l'uomo! Ci sono dei cuori freddi ed impermeabili che come se fossero di marmo stanno immobilmente attaccati al loro dovere. Per essi non ci sono gioie dell'affetto, ma neanche i pericoli: passano incolumi fra le lusinghe della vita e nulla può infrangerli. Ma i nostri, Tina?... Io ho messa la mano sul tuo e so come batte.... Oh! poichè non han potuto battere a bene la prima volta, credi, per noi deboli creature non resta altro asilo che la solitudine assoluta e il santuario del Signore. — L'uomo, che ti dicevo, era un dottore di legge, antica conoscenza del cugino, che teneva allora fra le sue mani molti affari della famiglia. Nel tornarmene a casa dalla consueta passeggiata del mattino, lo trovai con la mia buona zia che discorreva di non so che pio istituto. Era venuto a passare alcuni giorni in campagna con noi, e mostravasi così rapito della pittoresca bellezza di quelle nostre colline, che si conciliò subito la mia simpatia. Aggiugni che, benchè avesse di molto viaggiato e conosciuto il mondo, a differenza in cotesto di tanti altri suoi colleghi, dalle sue labbra non usciva giammai una parola men che riverente per tutto ciò che accennasse a credenza od a culto religioso; anzi nelle pratiche nostre più minute pareva semplice e devoto come la più umile femminetta. Colla zia s'intratteneva sovente delle cose della fede, e l'accompagnava alla chiesa e assisteva con essa alla Messa con una pietà così singolare che al solo vederlo ti sentivi commossa. Cólto d'altronde e nei modi estremamente politi di una scioltezza così elegante e così nello stesso tempo riservata e modesta, la sua conversazione era come un'armonia che dolcemente attraeva. In casa tutti l'amavano, non eccettuato lo zio che discorreva assai volentieri con lui, perchè ei sapeva finamente rilevare ciò che v'era di vero in quelle sue opinioni in apparenza strane e quasi sempre eccentriche. In quanto a me, un po' alla volta era diventato il compagno ordinario delle mie escursioni, e come se le nostre anime sentissero all'unisono, i miei gusti erano sempre anche i suoi. Appassionato per i fiori, quasi inavvertitamente portava all'occhiello del vestito quelli che io prediligeva. Che se talvolta mi fermavo a contemplare estatica qualche bel punto di vista o qualche magnifica scena della natura, nel ripigliare il passo trovavo che anch'egli l'aveva notata, tanto apparivano nella sua faccia i segni di una viva commozione. Di certe leggere attenzioni ch'egli mi andava usando così alla lontana, e con una delicatezza quasi impercettibile, io mi ero accorta, ma siccome tutti sapevano che da gran tempo avevo rinunziato a qualunque idea di matrimonio, le accettavo sempre nel loro più semplice significato, persuasa che conscio della mia risoluzione ei non potesse nutrire secondi fini. Non valsi peraltro a scansare ch'egli non mi parlasse finalmente all'aperta. Invece di rivolgersi a me, avrebbe potuto chiedere la mia mano ai parenti e suscitarmi, particolarmente per parte della zia, una di quelle affettuose persecuzioni, dalle quali altre volte non avevo potuto cavarmi che a forza d'infinite amarezze. Gli fui quindi riconoscente, e nell'impeto di quella subitanea commozione stavo già per rivelargli l'anima mia, ma un'invincibile ripugnanza mi trattenne. Mi avrebbe egli rettamente intesa, o non più tosto sospettata e calunniato l'angelo ch'io tuttora adoravo con tutta la devozione di un primo amore? Risposi che non potevo accettare, che la mia sorte era già irrevocabilmente fissata, che s'ingannava nel creder puro il mio cuore; e tornata alle antiche memorie piansi per alcun'istanti inconsolabile. Il mio rifiuto non valse ad allontanarlo; solo pareva che il suo affetto per me si fosse cangiato in una candida e quasi fraterna amicizia. Egli s'andava intanto destramente insinuando nella mia anima, ch'io infelice gli abbandonavo quasi a compenso del negato amore. Ed a cotesto contribuì non poco il conoscere entrambi un pio sacerdote, che a quell'epoca la voce pubblica venerava come un santo. Egli era stato al mio letto, quand'io mi trovavo in fin di morte, e la sua parola di pace in quei terribili momenti di disperata angoscia aveva lenito le mie lagrime e messomi nel cuore il desiderio di rassegnarmi. Ora quell'uomo del Signore amava il giovane con viscere di padre e sapeva della nostra amicizia, e col mezzo di lui, che andava spesso a visitarlo nel suo romito oratorio, si può dire che teneva entrambe le nostre anime nelle sue mani. Era col suo assentimento che aveva stretto il patto fra noi di avvertirci scambievolmente dei nostri difetti e di renderci l'un l'altro migliori, e il modo franco e nello stesso tempo pieno di dolcezza con cui egli l'adempiva, mi era gioia sincera ed accresceva la mia fiducia nella sua amicizia. Una sola cosa mi rammaricava, ed era ch'egli sempre credeva maggiore del vero quel po' di bene ch'io andava facendo. Una volta còlti dalla pioggia entrammo a riparo in un casale dove da più anni giaceva malata una povera figliuola ch'io conoscevo. Mentr'egli trattenevasi in cucina colla famiglia, salii alla sua camera. Io la visitavo talora; ma i miei conforti a quel letto di dolore consistevano più che altro in parole, essendo assai tenui i soccorsi ch'io era venuta di tratto in tratto arrecandole. Nel tornarcene a casa egli mostravasi così commosso, e mi parlava con tanto entusiasmo delle molte beneficenze che mi permettevano di spargere tra i poverelli le mie non comuni ricchezze, ch'io mi sentii veramente umiliata. La sera, quando fui sola nella mia camera, pensavo a cotesto con una amarezza indicibile. Qualunque somma io avessi chiesta al nostro agente, credo certo che non mi sarebbe stata negata; ma in realtà era assai poco quello che per solito io dimandava. Sotto l'incubo di tali riflessioni provai per la prima volta come un secreto dolore che la mia posizione non mi lasciasse affatto libera e senza sorveglianza di sorte nell'amministrare e disporre de' miei beni. Mi entrò nell'anima un rimorso cocente del bene che non avevo fatto. Dio mi aveva dato un ricco patrimonio e non mi era mai caduto in mente di rifletterci; tanti infelici languivano, e per una timidezza che allora mi parve colpa io trascuravo di alleggerire la loro miseria. Mi piovevano sul cuore le lagrime dei poveretti che avevo vedute, e risolsi di riparare a cotesta mia crudele negligenza. Infatti, alla prima notizia che mi pervenne di non so che tremenda sciagura, vinta ogni ripugnanza chiesi ed ottenni una grossa somma di danaro, e poichè quella catastrofe era esagerata e io mi trovavo fra le mani un vistoso residuo, a scansare nel caso di qualche altra occasione l'impiccio e il rossore di una nuova domanda, lo depositai col mezzo del mio amico su d'un monte di pietà, e si convenne che il frutto del capitale fosse infrattanto impiegato a soccorrere i poveri. Correva già quasi un anno di questa nostra relazione, quando m'accorsi che il mondo cominciava a far male interpretazioni; e anche in famiglia alla cordiale amicizia di prima subentrava adesso una tal quale freddezza che mi fece sospettare della loro disapprovazione. Colla mia spensieratezza io mi era dunque attirata sul capo dei ben severi giudizj? Non per me, ma per le care persone che mi amavano, ma per lui stesso me ne dolse. Compresi che bisognava smettere e aspettavo che la cosa venisse dalla sua delicatezza; invece, come se fosse stato affatto cieco, le sue visite diventavano sempre più frequenti: feci forza a me stessa, e un dì ch'eravamo soli gli entrai di cotesto. Egli tornò allora al suo antico progetto come quello che poteva riparare ogni cosa, e mi persuase a rimettermi alla decisione del santo uomo che già conosceva il mio cuore. Era il punto dove si voleva tirarmi, ed io misera ci venni strascinata dalla lunga insistenza e dalla prepotente volontà di quest'uomo, così come il povero fiore ch'io getto adesso nel torrente, voglia o non voglia, fra poch'istanti passerà sotto l'arco del ponte. Perchè sapevo bene qual sarebbe stata la parola del ministro di Dio che avevo promesso di consultare! Da molto tempo egli soleva considerare come un gran bene per me l'amore del giovane, e dolcemente mi consigliava a non resistere più oltre alla Provvidenza che mi offeriva nella santità del Sacramento una guida sicura agli affetti inesperti ed un amico che mi avrebbe protetta e salvata dalle memorie del mio passato che talvolta venivano così crudelmente a turbarmi. Avevo dunque risolto. Fidata nelle speranze di un incerto avvenire, donavo con quella parola il mio cuore, le dolci abitudini della famiglia e dei luoghi in cui vivevo, la libertà illimitata della mia vita e le mie più intime convinzioni. Come un albero che ha di già attecchito e che si vuole trapiantare troppo tardi, mi avevo lasciato a poco a poco scalzare tutte le radici e aspettavo peritante di andarmene nell'ignoto terreno. Ma ahimè! l'albero infelice che con tanto studio s'erano ingegnati di cavare dal suolo nativo non era stato che per lasciarlo da parte. — Da parecchie settimane nulla io sapevo di lui. In famiglia sempre più freddi, e io bisognava di effondere l'anima travagliata da troppo gravi pensieri. Ardisco e gli scrivo. Viene una lettera studiata che schiva tutti i punti toccati dalla mia. Era malato, da più giorni guardava il letto, doveva nel dimani farsi salassare. Peraltro era cosa passeggera, e chiudeva col promettere fra giorni una visita. Dormii poche ore inquiete e sognavo di vederlo, ma era pallido e la sua mano agghiacciata come quella di un cadavere; strinse un momento la mia, poi l'abbandonava in un subito e mi volgeva le spalle, senza che valessero a richiamarlo nè le mie preghiere nè le mie lagrime. Appena giorno volli portarmi alla città, addussi non so che pretesto, ma era per sapere di lui. — Seppi più di quanto voleva. Invece del letto e del salasso era uscito per una gita ad un villaggio vicino, dove trovavasi una giovinetta, la cui mano da gran tempo egli sollecitava, appunto così come faceva con me. Gran parte della sua giovinezza egli l'aveva spesa in quelle che il mondo chiama fortune d'amore, e conosceva molto bene l'arte d'impadronirsi d'un povero cuore di donna. Quando le lagrime di taluna delle vittime gli suscitavano qualche impiccio, egli cambiava paese. Ora pareva che volesse trar profitto di questa sua scienza per iscegliersi a suo modo una sposa. Avevamo avuto la disgrazia di fissare in due la sua attuale attenzione, e a guisa di perito mercatante, dopo aver ben pesati i vantaggi di entrambe, era per lei ch'egli s'aveva finalmente deciso. Se tu sapessi il male che mi fece questa scoperta! Misera cosa il cuore umano, e ogni passo della giovinezza seminato di mille idoli fallaci che fanno insidia alla nostra frale virtù. Avrei potuto perdonargli l'incostanza; i traviamenti stessi della passione: sì! anche tradita avrei avuto lagrime per compiangerlo; ma venire a turbare la pace altrui per mero progetto, ma assumere cotesta maschera d'ipocrito affetto per niente altro che per un miserabile interesse personale!... Quando guardo alla gente che passa colaggiù su quella via lontana, o alle tante teste che vanno e vengono per la riga del ponte, e penso che fra esse può trovarsi un uomo simile, benedico quest'asilo inviolabile, dove non giugne il loro alito avvelenato. Tornai a casa coll'anima infranta. Appena smontata dalla carrozza mi dicono che lo zio mi chiamava nel suo gabinetto. Salgo le scale in fretta e lo trovo seduto dinanzi alla scrivania sulla quale stavano aperti diversi libri di conti. Il buon uomo aveva l'aspetto commosso. Si tolse gli occhiali, stette un pezzo guardandomi senza proferire sillaba, mi fece sedere a sè dappresso, mi prese la mano e dopo averla lungamente accarezzata fra le sue, scosse la testa, e, — Non è possibile, disse, si sono ingannati, questa poverina ci vuol bene! Non è vero, figliuola mia, che tu mi ami? e ami anche la zia, anche i cugini? — A sì impensate parole un impeto di pianto mi strinse le fauci, e per tutta risposta mi portai alle labbra la benedetta sua mano paterna. — Oh lo sapevo bene! perchè il povero vecchio non ti ha mai contristata. Ma è un affare dilicato; tocca l'onore, figliuola, ed essi pensano colla loro testa, nè io voglio farli pensare a mio modo, no! liberi tutti e liberi anch'essi. Fortuna che cotesto è un fatto che già doveva avvenire in breve allo stesso! Ecco qui il resoconto della facoltà che ti hanno lasciato i tuoi genitori. Queste cedole e questo danaro sono roba tua. La tua casa l'ho fatta ammobiliare di nuovo: troverai un appartamento che spero sarà di tuo gusto, così pure l'equipaggio e la servitù che ti aspetta. Ci ho messo la stessa premura che per i cugini, perchè già anche voi altri due io vi considero come figliuoli; ed è un buon giovane e ti farà felice, e saremo sempre amici, forse meglio così divisi che se si avesse trattato di far tutta una famiglia. Dio! Dio mio! queste parole mi laceravano fuor di misura. Che avevo io fatto per meritarmele? Dunque adesso ch'io era abbandonata e sola a questo mondo, anch'essi mi scacciavano dalla loro casa? Che m'importava delle mie ricchezze, se non avevo più un'anima che mi amasse? Caddi a' suoi piedi e stendeva le mani tremanti ad implorare pietà. Oh! egli che aveva raccolto l'orfana, non doveva ributtarla così nel momento della sventura.... Ma il buon vecchio non m'intendeva. Partiva sempre dalla persuasione che il mio matrimonio fosse già cosa stabilita. — No, figliuola, tu non mi hai offeso, tu non devi chiedermi perdono di nulla. Nè su te nè su persona al mondo io non mi sono mai arrogato una simile autorità: a' miei occhi essa è affatto odiosa, perchè tu eri libera e potevi liberamente scegliere, nè c'era bisogno di partecipazioni. In quanto ai cugini, essi si sono offesi pel denaro che facesti depositare sul Monte; ma passerà, e celebrate le nozze, quando sarai stabilita nella tua casa, vedrai che torneremo tutti in buona armonia.... — Allora compresi ch'era inutile ogni spiegazione, e che se anche fossi giunta a vincerlo dal lato del cuore, non sarebbe stato che a spese della sua pace domestica. Rimanermi in famiglia non era più dunque possibile: vi si opponeva la mia stessa dignità. Presi una penna e segnai la rinunzia ai cugini di tutti i miei stabili; poi inginocchiata a lui dinanzi, lo pregai della sua benedizione, perchè nel dimani io mi sarei chiusa per sempre in questo monistero. Fu inconsolabile; ma io nella notte ebbi agio di ben meditare la mia posizione, e il mio partito fu irrevocabilmente preso, nè più valsero a smuovermi nè le sue lagrime nè quelle della povera zia. Debole, malata e sola, come vivere in un villaggio per me affatto nuovo, in una casa dove non ero cresciuta e dove non avrei trovato nessuna creatura che potesse compiangere la mia sorte, e circondarmi di quelle cure affettuose di cui allora più che mai sentivo il bisogno? Qui conoscevo la buona Abbadessa, qui erano anime pure che nella loro santa carità avrebbero curato i mali di una misera sorella che si rifugiava fra le loro braccia: per non turbare il sereno della vergine loro vita non avrei potuto narrare la trista mia istoria, ma potevo io piangere dinanzi al Signore e pregare insieme con esse. VII. Quelle due misere nel raccontarsi reciprocamente i loro casi s'erano sentite più che mai sorelle ed amiche. La Tina teneva come un favore che l'avessero destinata a prestarsi nelle incumbenze dell'ufficio spettante a suor Maria Eletta; ed attenta ad ogni suo minimo cenno la obbediva e l'assisteva premurosa; e quando giaceva malata, vegliava al suo capezzale e ingegnavasi di usarle tutte quelle piccole attenzioni che sa pensare soltanto il cuore d'una figlia. D'altra parte la monaca s'era così affezionata alla giovane, che se la voleva sempre vicina, e non sapeva dissimulare la gioia grande che avrebbe provato, se il Signore le avesse dato l'inspirazione di assumere il velo e legarsi anch'ella indissolubilmente alla stessa vita. Persuasa che nella sua posizione questo fosse il meglio, glielo veniva dolcemente insinuando. Passarono così quattro anni all'incirca, e l'infelice affievolita dalle tante lagrime inutilmente versate oramai cominciava ad accogliere il desiderio di finalmente quietarsi in quel luogo di pace. — Era sulla fine d'aprile. Dopo alcune settimane di precoce primavera cadeva una pioggia dirotta che unita alle molte nevi disciolte nei monti ingrossava fuor di misura il torrente. L'acqua toccava i segni delle piene straordinarie. Un momento di sosta era successo, e suor Maria Eletta ne approfittò per venire al suo solito nell'orticello a contemplare quell'imponente spettacolo della natura. Aveva portato seco un suo libriccino di memorie, e posata sul parapetto vi segnava per entro alcuni suoi pensieri. Le nubi s'accavallavano minacciose, e i flutti in senso inverso gonfi e spumanti correvano rapidi a infrangersi nei massi empiendo il creato della fragorosa lor voce. Alberi sradicati, tavole e legnami passavano convoluti sotto i suoi occhi. A forza di fisare quel precipitoso fuggire della torbida fiumana le pareva che tentennassero gli edifizi della riva opposta e che si movesse perfino il ponte. In faccia alla tremenda maestà delle acque stette gran tempo assorta e come fuori di sè stessa. La sera, quando si fu ritirata nella solitudine della sua cella, dinanzi alle chiuse pupille era tuttavia il torrente che trapassava, e aveva tuttavia piene le orecchie de' suoi soniti procellosi. Alcune gocce di piova percossero nelle invetriate. Le sovvenne che aveva dimenticato lo stipo delle sue carte e che non s'era neppure avvisata di chiudere la porta del giardinetto. Prese il lumicino e discese. La notte era buia e ad intervalli piovigginava. Nell'accostarsi al parapetto le parve in mezzo al romoreggiare del torrente di discernere un grido. Stette in orecchi, ed era una voce umana che veniva dal basso ed implorava aiuto con un accento così lacerante da cavarti il cuore. Corse dalla Badessa a narrare spaventata il caso. Pochi minuti dopo per i dormitòri del convento suonava la sveglia, e le monache coi loro lumicini in mano uscivano dalle celle a dimandare che fosse, ed ansiose s'avviavano giù per le scale alla volta dell'orticello. In un istante tutta la popolazione del recinto s'era adunata in quel sito. Le tenebre cubavano impenetrabili sull'alveo, ma le grida laggiù in quel profondo continuavano. Attaccarono uno dei loro fanali ad una cordicella e la lasciarono discendere dal parapetto. Quando fu a basso, le sue quattro zone di luce, gettate sul torrente come tanti ventagli, lasciavano scorgere per lungo tratto i flutti illuminati che passavano attraverso, ma il vento che lo faceva girandolare rendeva continuamente mobile la scena, senza che l'occhio valesse in nessun punto a poterla fisare. Come rapida visione ei rischiarò una volta il molino sottoposto, e alcune monache scoprirono ch'era in parte rovesciato e che due travi del tetto apparivano sollevate in forma di croce spaventosa. Era da quel punto che veniva la voce, e il fragore delle onde pareva ivi fremere in modo più iracondo. Dopo un istante di tenebre, il fanale tornò di nuovo a rischiarare quella rovina, e allora si vide distintamente un uomo, che salito sul tetto della fabbrica già più che mezza diroccata, si teneva miseramente abbracciato a una di quelle travi, mentre a lui d'intorno mordevano i flutti, e il muro scrollato precipitava a tonfi nella corrente. Le monacelle spaurite si misero a gridare; alcune inginocchiate pregavano, altre piangevano. Ma la Badessa, assunta tutta l'autorità del suo grado, — Presto, disse, a cercar delle funi. Voi, Teresa Felice, andate subito a prender quella del bucato; Rosa Luigia, portate del refe. Le cordicelle della chiesa, Tina!... Sgombrate il parapetto: oltre a Maria Geltrude che tiene il fanale una sola si resti, tu, Maria Eletta; e guarda attenta tutti i movimenti di quell'infelice. Qua le più giovani e pronte all'opera e con coraggio! — Intanto che si eseguivano questi diversi ordini, talune bisbigliavano tra loro, e una delle anziane si appressò alla Badessa, chiedendole qual fosse la sua intenzione. — Salvarlo, se Dio ci aiuta!... — Avverto, disse suor Maria Angela, che noi abbiamo voto di clausura, e che senza il preciso permesso del Decano della Collegiata.... — Mia cara, sono le undici, il Decano e tutti i canonici a quest'ora saranno a letto, e a meno che non voleste uscire di convento voi, non vedo come si potrebbe ottenere il suo permesso.... — E dato d'occhio ad altre due che sotto i loro veli rabbassati col viso arcigno stavano attente alla conclusione del dialogo, — In nome di santa obbedienza, disse, voi suor Maria Cherubina e voi Crocefissa, seguite subito Maria Angela e andate in coro a pregare il Signore che metta la sua mano e mandi a bene questa nostra difficile impresa! — Si misero allora in fretta ad acconciare a più doppi le corde, poi le gettarono dal parapetto allo sciagurato che si vi aggrappò con tutta l'energia della sua disperata situazione. Le serve, le converse e le monache più giovani messe in fila l'una dopo l'altra tiravano come se si avesse trattato di attignere; Maria Eletta, pallida, tremante guardava nell'abisso; la Badessa dirigeva; una vecchia veneranda, inginocchiata sul nudo terreno, colle mani giunte pregava ad alta voce invocando la Vergine santissima e tutti i santi del cielo. — Oh Dio! ecco, ha abbandonato la trave. Signore, salvatelo! Angeli santi, ch'ei non s'infranga nei creti! — La fune per alcuni momenti oscillava. — È sospeso sull'abisso. Gesù misericordia!... — Coraggio, figliuole! si tratta della vita d'un uomo.... Oh se ci fosse dato riuscire! — E le giovani robuste raddoppiavano i loro sforzi. — Viene! È a mezzo, trapassa i virgulti.... torna isolato nello spazio. Guai adesso se le sue mani perdessero vigore!... Tenetevi forte, galantuomo! Anche un momento e poi sarete in sicuro. Raccomandatevi al Signore!... Eccolo! è in salvo! è fuori d'ogni pericolo!... — E un giovane sfigurato dall'angoscia, coi capelli irti e gocciolanti di sudore compariva al parapetto, e varcatolo con un ultimo sforzo cadeva a guisa di cadavere in mezzo alla turba femminile che gli si stipava intorno tra curiosa e lieta dell'averlo ricuperato.[10] Tina, che, visto quel deliquio, s'era subito affrettata di correre in cerca di qualche essenza spiritosa che valesse a farlo rinvenire, tornava adesso con un fiaschetto di stravecchio, e nell'intenzione d'insinuargliene alcune gocce fra le labbra, mettevasi in ginocchio presso di lui che giaceva sull'erba colla testa posata al vaso d'un arancio, e tanto bianco che pareva di cera. La fanciulla nell'atto di guardarlo, si risovvenne in un subito, e gridava stupefatta: — L'Armellino, buon Dio!! Sogno mio desiderato da tanti anni!... Signore pietoso che me lo rendete per miracolo.... oh! ch'ei non muoia, o Signore!... E fuori di sè stessa accoglieva sul suo seno quella povera testa abbandonata. Il giovane sentì sulla fronte il dolce tepore delle lacrime ch'ella versava, aperse gli occhi attoniti, e come se gli fosse passata dinanzi una visione celeste sorrise innamorato. Ma al ritornare della vita, la coscienza dell'antico dolore gli si risvegliò più cocente che mai, e assunta un'espressione d'infinita amarezza, respinse quell'affetto come se fosse stato una crudele ironia. Fra tante Vergini che severe in quel momento s'andavano tacitamente ritirando turbate dal contegno della fanciulla, una pietosa gli si fece dappresso, una immagine serena e gentile, l'angelo che veniva a dire la parola di Dio. — Armellino! — e la sua voce soave aveva come dell'inspirato. — Questa poveretta ha raccolto gli ultimi sospiri della madre tua. Sul suo letto di morte tua madre ha perdonato e pregava per tutti due e ha dato la sua benedizione a tutti due. Interprete di lei che ora dal cielo vi guarda commossa, io stringo insieme le vostre mani. Figliuoli, dopo tante lagrime il Signore vi concede un'ora di gioia. Siate buoni ed operosi, e laggiù nel mondo dove dovete tornare ricordatevi della povera monacella che ancora qualche anno starà qui pregando, e poi anderà ad aspettarvi nel seno di Dio! — La Tina avvezza a venerare suor Maria Eletta come una santa accolse con piena fiducia una sì dolce speranza; ma il giovane stette silenzioso, la sua mano si ritirò mestamente e guardava contristato la terra. Per farsi un'idea di quel che passava nel suo cuore bisogna che torniamo un istante addietro e che diamo una rapida occhiata alla vita ch'egli aveva menato in questo frattempo. Era partito dal suo paese nella certezza di aver perduto per sempre l'amata fanciulla. Egli infelice, per non essere spettatore delle altrui gioie, s'era volontariamente inchiodato a una tremenda catena che lo aveva strascinato lontano in mezzo ai vortici di straordinari e crudeli avvenimenti che lo fecero troppo tardi riflettere alle conseguenze della sua disperata risoluzione. Nella Svizzera, dov'era fuggito, non potè giammai saper nulla de' suoi cari. Fu allora ch'ei sentì tutta l'amarezza di quell'ineffabile dei dolori ch'è la patria lontana. Desiderava l'aere e la terra dei luoghi dov'era nato; desiderava i cari suoni della sua lingua, i cogniti volti delle persone tra cui aveva vissuto, la povertà e perfino i patimenti dei tempi passati. Ma a fargli più cocente il cruccio dell'esilio, due immagini gli stavano del continuo fitte nella memoria: il dolce sorriso della fanciulla perduta; e adesso avrebbe tolto di tollerare anche l'aspetto della felicità del rivale pur di rivederla! e le lagrime della sua povera madre. Ahi! ella che lo aveva allattato e cresciuto con tanto amore; ella che sempre compativa a tutti i suoi dolori, ella era sola, invecchiava ogni giorno, ed ei non poteva volare a consolarla!... Vedeva quella cara testa canuta, ne sentiva i pietosi lamenti, e nel rimorso infinito di averla abbandonata gliene chiedeva ogni momento perdono coll'anima. Per uno dei tanti capricci di quell'epoca di trambusti, quando meno se lo aspettava, egli si trovò sciolto dal malagurato impegno e libero di potersene tornare a sua voglia in paese. Non è a dirsi come s'affrettasse a varcare le alpi e come consolato rivide l'ampia pianura italiana. Tornava col cuore esultante, avido di tutti gli antichi affetti, ansioso dei luoghi e delle note persone, e non vedeva l'ora di sentir finalmente nominare il suo amato villaggio. Dopo rientrato in Friuli, a Tricesimo dovette fermarsi a riprender lena. Sperava che fosse l'ultimo riposo necessario, e seduto sulla panca dell'osteria aspettava impaziente che le forze rintegrate gli permettessero di ripigliare il cammino. C'erano lì alla stessa tavola altri viandanti, tra cui un mugnaio di Cividale ch'era stato a Magnano a provvedere una macina, con un merciaiuolo e due rivenduglioli; questi ultimi di Medeuzza venuti a comperare asparagi per poscia portare a Trieste, avevano intavolato un discorso che lo faceva stare con tanto d'orecchi. Era quistione di non so che affare e avevano più volte nominato Giorgio. — Mi bastava la garanzia della moglie, disse il mugnaio, ma così per le dita.... — Son gente però di polso e un giorno o l'altro sarà già tutta roba del nipote, osservò il merciaiuolo che pareva aver molta pratica delle persone di cui parlavano. — Sapete cosa sarà veramente di lui? la dote della poveraccia che s'è lasciata corbellare dalle sue millanterie, chè i suoi be' ducati dicono che la glieli abbia dati in mano senza briciolo di carta: in quanto ai campi dello zio è un altro paio di maniche. — A queste parole il giovane capì che Giorgio non doveva avere sposato la Tina; e curioso di sapere come fosse, entrò anch'egli in dialogo con questa interrogazione proferita quasi a mezza voce, tanto lo faceva palpitare la speranza di chiarirsi di un fatto che intravedeva a seconda de' suoi desiderj: — Giorgio, il nipote dell'oste di Oleis s'è dunque ammogliato? — Pare, galantuomo, che voi manchiate da molto tempo; gli ha già due bambocci! — Ed è tuttavia uno sventato come quando era scapolo, — soggiunse l'uno dei rivenduglioli. — Figuratevi, continuò il mugnaio, la bella società che avrei stipulata con colui! A me torna meglio, capite, un povero diavolo che abbia soltanto le braccia.... — Ma, e sua moglie? replicò l'Armellino, non doveva egli sposare una certa Valentina?... — Valentina di dove? chiese il merciaiuolo. — Di Soleschiano. Abitava la casuccia che ha dinanzi quel bel moro.... — Volete scommettere ch'egli intende quella siffatta? Eh! figliuolo caro, delle amorose, Giorgio ne avrà avute Dio sa il numero. Ma voi tirate fuori delle istorie rancide.... — Gli è, insisteva il giovane, che m'interesserebbe assai di sapere che sia avvenuto di quella ragazza, e poichè avete conoscenza del paese.... — Adesso mi risovvengo! interruppe il più attempato, si tratta della Monaca di Soleschiano!! e si mise a ridere. All'osteria, dove in passando si si ferma talora a bere una mezzina, ce ne hanno raccontato. Faceva all'amore con un contadino del villaggio che si è dato cambio per disperazione di trovarsi tradito. — E la madre, aggiunse l'altro rivendugliolo, quando avvennero i trambusti del quarantotto, non sapendo più nulla del suo povero figliuolo, è morta di crepacuore: ma quella fraschetta fu punita, perchè Giorgio, venuta fuori una buona dote, se n'è lavato le mani, e l'ha piantata. Dicono poi che un bel giorno è sparita e che sia ita a farsi monaca. In che razza di monistero ve lo lascio pensare! Il certo si è che mai più se n'è sentito novella.... VIII. Que' sguaiati discorsi al cuore dell'infelice furono coltellate. A che tornare in un paese dove non avrebbe più trovato la sua povera madre? Tutto il desiderio che lo aveva fino allora infiammato gli si cangiò in ritrosia insuperabile. Meglio, pensava, non sentir più mai nominare nè la sua casa nè la sciagurata creatura che ne lo aveva cacciato, nè lei perduta per sempre, e che un amaro rimorso gli rappresentava come vittima ch'egli stesso aveva immolata. Nel dimani peraltro, benchè desolato e coll'anima piena di pianti, quasi per istinto e' si trovò avviato verso la patria. Per la stessa strada, accompagnando il carro con la macina comperata, veniva anche il mugnaio di Cividale. Fu di tal maniera che gli si offrì l'occasione di accettare servigio in quel molino. Così senza ch'ei lo sapesse, anzi quasi suo malgrado, il caso lo avvicinò alla fanciulla, come se l'amore dei loro cuori fosse stato una potente calamita la cui forza attraente non avevano potuto distruggere nè il tempo nè le tante sventure. Senza metterci tempo in mezzo, in luogo di tornare a casa, in compagnia del mugnaio egli era venuto in quella stessa sera a Cividale, ed aveva cominciato subito a disimpegnare le diverse faccende del suo nuovo mestiere. Lavorava indefesso procurando così di attutire le dolorose memorie del passato. A giorni peraltro esse tornavano, e allora il pensiero gli vagava lontano a figurargli la perduta fanciulla in mezzo allo strepito e alla folla di qualcuna delle tante città che aveva veduto. Non immaginava ch'ella potesse pregar nella solitudine in cima al dirupo che gli stava sospeso sul capo! Passarono così alcuni anni, nei quali, mercè la sua molta attività ed alcuni fortunati eventi ch'ei seppe volgere a proprio vantaggio, gli riuscì di stabilmente associarsi al proprietario dell'edifizio, di modo che la sua sorte poteva dirsi dal lato materiale onestamente fissata; quando avvenne la sciagura che abbiamo descritta. Avvezzo nelle piene del torrente a trovarsi nel molino, subito che l'acqua minacciava il pian terreno, era suo costume trasportare sui granai le farine e quanto credevano potesse andar soggetto a guasti; poi a misura che la fiumana s'alzava salivano a' piani superiori, e passata la burrasca tornavano tutti come prima al lavoro. Ma questa volta un macigno staccatosi dall'alto e venuto a percuotere nella cantonata dell'edifizio aveva aperto una breccia che produsse il disastro. I compagni s'erano tutti salvati a tempo; egli solo rimasto ultimo trovossi prigioniero delle acque; e se l'inopinato soccorso venutogli dal convento valse a scamparlo da una morte che oramai pareva indubitata, colla distruzione del molino perdeva ogni sua fortuna e tornava nella misera condizione di prima, cioè colle sole braccia, tanto più che gli scarsi mezzi del mugnaio con cui era entrato in società non avrebbero permesso la rifabbrica. Erano questi pensieri che gli facevano guerra, quando il meraviglioso ritrovo della fanciulla e quella per lui insperata manifestazione d'amore unita alle dolci parole di suor Maria Eletta tornarono a suscitargli nell'anima in tutta la sua forza il sogno di felicità de' suoi giovani anni. La Tina nella beatitudine del rivederlo si lasciava andare a tanta ingenua espansione che il giovane alla perfine le aprì con confidenza tutte queste sue angustie; la monaca in mezzo ai due faceva carezze alla fanciulla e la guardava commossa come se si avesse trattato di affetto tutto suo, poi col fare mansueto e coi miti propositi si studiava di richiamare la speranza nell'animo travagliato di lui e di appianargli le tante difficoltà ch'egli andava mettendo innanzi; ma più spesso, sollevati gli occhi al cielo, ascoltava meditabonda i loro discorsi e pareva che aspettasse di lassù una inspirazione che valesse al vero bene di quelle due povere creature ch'ella già amava con viscere di madre. Ma nel mentre queste tre anime amorose s'andavano così tra loro confortando, nell'interno del convento succedeva una tutt'altra scena ed inspirata da ben diversi sentimenti. Le monache, che la Badessa aveva mandate in coro, dopo un'assai breve orazione fatta per obbedienza, posato uno dei loro lumicini sul sarcofago della principessa longobarda, si riunirono tutte tre sullo stesso banco e davano sfogo all'esuberanza del loro zelo con una miriade d'osservazioni intorno al caso accaduto. Ed avevano un non so che di sinistro quelle teste velate che confabulavano sotto voce lì in quell'angolo nell'ombra fantastica progettata dagli emblemi della morte, mentre al di fuori fremeva iracondo il Nadisone. Appena poi s'accorsero che cominciavano ad uscire dall'orticello, corsero curiose incontro per sapere della fine. Se avevano già prima ardito censurare la condotta della Badessa, ora che udirono narrare dello scandolo della Tina non ebbero più ritegno. Vi fu chi propose di convocare sull'istante il capitolo e obbligar la Badessa a render conto dell'infranta clausura. Suonarono infatti la campana, e le più autorevoli andate ad assidersi sui loro scanni aspettavano accigliate. Quella campana suonata così nel cuor della notte, finì di mettere in iscompiglio il convento. Dalle celle, dove alcune si erano ritirate, dall'orticello, dove altre erano rimaste, lungo i porticati, giù pei dormitòri, tutte accorsero obbedienti al segno convenuto, e nell'incontrarsi s'interrogavano a guisa di formiche quando s'ammusano. Così indettate, al comparire della Badessa una delle anziane a nome delle consorelle fece la mozione. La buona vecchia rispose poche precise parole: doversi ringraziare il Signore che loro aveva concesso di salvare la vita a quell'infelice: se rotta la clausura, ella sola come Badessa trovarsi responsabile: in quanto alla Tina, non aveva voti di sorte; peraltro avrebb'ella pensato a custodirla: andava intanto ad aprir la porta al giovane. — E senz'altri rispetti sciolse il capitolo, lieta in suo cuore che l'imbroglio fosse avvenuto a guerra finita. Ma nel mentre con passo concitato attraversava la corte per recarsi dal giovane e vedere se fosse in istato di finalmente andarsene, in fra sè stessa non poteva astenersi dal riflettere: Che faccenda vuol essere cotesta? Pare che la Eletta sia affatto cieca! E quest'altre poi vogliono vedere più di me che sono la Badessa. Eh! saprò metterci riparo senza dei loro capitoli. Pettegole! a mezzanotte convocare il capitolo... Pur troppo ci vedo anch'io; non l'hanno tutto il torto, perchè il contegno di quella ragazza è stato uno sproposito... Saranno conoscenti, saranno amici.... ma se anche fosse un fratello c'era proprio da scandolezzarsi. Modi riprovevoli, sentimenti profani; mondana fin nelle midolla.... e volevano farmi credere che desiderasse il velo? Bella vocazione! Basta, dimani parlerò col confessore, e se sarà correggibile.... Intanto sbrighiamoci del giovane e mandiamolo pe' fatti suoi. Questo giovane è proprio stato una tentazione del demonio.... Peraltro sono così contenta d'averlo salvato che tornerei sempre a fare lo stesso, oh sì! dovessero dimettermi di Badessa issofatto! Caspita, si trattava della vita d'un uomo! — Ma quando fu sulla porta della cucina, dove suor Maria Eletta aveva fatto entrare l'Armellino, e la Tina ad asciugargli le vesti fradice gli aveva acceso un buon fuoco, e li vide ch'erano tutti tre in dolci confabulazioni, e la monaca gestiva animata come se avesse esposto qualche progetto a cui i giovani prestavano la massima attenzione, e ora commossi fino alle lagrime ringraziavano, ora raggianti di gioia assumevano un'espressione di felicità ch'ella non aveva immaginato, se non sulla faccia dei beati che stanno in paradiso, sentì che tutti i suoi severi propositi le si sfumavano e veniva col cuore e colle braccia aperte — a mettersi anch'ella in compagnia. Suor Maria Eletta le corse incontro. — Abbiamo combinato tutto, le disse; il molino si rifabbricherà, egli sposerà la Tina, lavoreranno insieme, in pochi anni potranno restituire ai poveri il capitale.... Oh Madre mia, come è buono il Signore! Un tale orribile disastro! e' c'era il dito della sua provvidenza che voleva ravvicinare queste creature! Poverini! e pensare ch'essi si amavano con tutta l'anima e nol sapevano.... ma ora ogni cosa è chiarita, nè ci sono più malintesi. — La Badessa fece una carezza alla Tina quasi per rappattumarsi dell'averla in cor suo così facilmente condannata, e guardando sottecchi il mugnaio mormorò a mezza voce: — Ma colle monache come faremo? Si sono formalizzate, capite? — Le non sapevano ch'era il suo fidanzato, rispose Maria Eletta. Ora, voi potete far aprire la porta e il giovane va via subito. — Oh sì, galantuomo! Cotesto è il meglio. Perchè, alla fin dei conti siamo in convento, e certi contatti... Dio lo sa, se sono lieta d'aver potuto salvarvi! ma se questa fraschetta non vi rivedeva si sarebbe fatta monaca, e invece, ecco, in un attimo volta bandiera e addio che ci siamo visti! A rubarla al Signore ha bastato il vostro alito, giovinotto! — — Ma ella sarà una buona cristiana allo stesso, e crescerà la sua prole nel santo timore di Dio. Oh, il mondo ha bisogno di brave donne, e nei giorni che rimarrà ancora qui con noi, vogliamo istruirci, pregare e prepararci a cotesto, non è vero, Tina? — Ahi! sospirò la Badessa, preveggo persecuzioni, e come difenderla? — La darete a me, la custodirò nella mia camera. È convenuto, Madre mia, la non può uscire, finchè il giovane non abbia fatto fare le gride e allestito ogni cosa per le nozze. Allora viene a levarla.... — Meglio, figliuolo, che mandiate una qualche buona comare del vostro villaggio, e noi intanto le prepareremo un po' di mobile. — Io ti darò le carte, continuò Maria Eletta, e anderete insieme a Pordenone dalla persona che ti dicevo e che troverai indicata. — Siamo dunque intesi, conchiuse la Badessa. E guardò con compiacenza l'affettuoso addio che i due giovani si davano; indi rimessa nella gravità del suo grado, stese loro la mano ch'essi baciarono colla più viva riconoscenza. Partito il mugnaio si ritirarono nelle loro celle, e la buona vecchia prima di coricarsi s'inginocchiò a' piedi del Crocifisso, e lo ringraziò della misericordia che le aveva usata, e pregò per la felicità di quelle due creature, e, così come aveva detto Maria Eletta, che fossero cristiani e che vivessero insieme nel santo timore di Dio. IX. L'Armellino nel dimani tornava al suo villaggio nativo, tornava dopo parecchi anni d'assenza e col cuore agitato da mille diversi sentimenti. Era una bella mattina affatto limpida, e nell'aria una certa fragranza, una specie di alito ravvivante che annunziava la presenza della già dispiegata primavera. I contadini ne avevano approfittato, e i campi si vedevano per ogni dove popolati di gente che lavorava. Oltrepassate le colline, attraversava la prateria che dicono Manzana, e i suoi occhi da un pezzo si fissavano sui buoi d'un aratro che andava e veniva aprendo i solchi della terra che sta per confine al di là dell'acquicella. Quando fu tanto vicino da distinguere le persone, il giovane che guidava gli animali si fermò a guardarlo con grande attenzione. Si ravvisarono entrambi nel punto istesso e si corsero incontro con la gioia di due fratelli che si rivedono dopo lunga lontananza. — Viva Armellino per Dio! Gli è l'Armellino che ritorna! gridava l'uno gettando all'aria il cappello e precipitandosi fra le braccia dell'altro, che tutto commosso so lo strinse al cuore coll'identica amicizia di quella notte che si erano salutati per l'ultima volta sotto le finestre della Tina. Gli altri si fecero anch'essi avanti e gli si strinsero intorno avidi delle sue novelle, e poichè era l'ora della colazione, lasciarono che i buoi riposassero, e si misero a chiaccherare delle tante cose passate. Seppe allora come la sua famiglia aveva in quel frattempo cambiato domicilio e trovavasi sur una colonia al di là del Nadisone. Questa inaspettata notizia lo turbò; non aveva mezzi di sorte, nè vedeva sul momento come avrebbe potuto ripiegare. Se ne accorse Giacomino, e a tòrlo d'impaccio, con quella franca e cordiale amicizia ch'è propria dei poveretti, gli propose subito, perfin che avesse ultimate le sue faccende, di far casa insieme. — Lassù dai tuoi, disse, saresti troppo lontano; correre su e giù non ti torna, sarebbe un continuo perditempo; ti offro la mia cameretta invece, e tu così puoi aiutarci nei lavori della stagione. Guarda mio padre come ne gongola al solo pensiero! — Diceva la verità perchè il buon vecchio gli si era appressato, e a convalidare la proposta del figliuolo, aveva cavato la scatola e tutto allegro gliene offriva una presa. In quella capitò sul campo a portar la colazione madonna Lucia. Non aveva appena deposto dalle spalle l'arconcello, che lo riconobbe, e subito nuovi evviva e mille benvenuto, che pareva proprio che il rivederlo fosse per tutti una festa domestica. Dovette assidersi con essi sul margine erboso dell'acquicella; e si disponevano a far colazione, quando madonna Lucia scoperchiando il cesto per cavarne la polenta e la frittata che aveva loro apparecchiato, cambiò fisonomia e colle mani nei capelli — Ah poveretta me! — disse, e rimase lì stecchita che pareva una statua. — Che c'è? chiese il padre di Giacomino, che non capiva questo subitaneo costernarsi della moglie. — Non vedete? Non si può far colazione! — Sarebbe bella, perdinci! Dopo quattro buone ore che si lavora e dopo quel tantino di gambata che ha fatto questo poveretto. Non si può far colazione?... Perchè mo di grazia? — Ah mio Dio! Perchè è venerdì, e io me l'ho dimenticato, e la frittata l'è di grasso; l'ho fatta proprio coi ciccioli! — Ammutolirono tutti, che la sentenza di madonna Lucia coll'appetito di quell'ora non garbava gran fatto. Ma il buon cappellone, dopo averci alquanto pensato sopra, in atto brusco pigliò il piatto della vivanda contrastata e si accinse con eroica pazienza ad estrarne uno per uno i ciccioli, e consegnandoli alla moglie, — To', disse, porta a casa. — Indi sicuro del suo operato come un dottore di teologia che abbia deciso un caso di coscienza, imbandì la colazione che si misero tutti a mangiare, tornati al buon umore e ai discorsi di prima. — Per l'Armellino quell'incontro e quell'accoglienza furono una vera fortuna. Accettata la proferta e collocatosi nella casa di Giacomino lì a Soleschiano nel villaggio istesso della fanciulla, non solo trovavasi più a portata per le sue faccende, ma essi si prestavano per lui come se fosse stato un fratello, e la loro compagnia e la loro amicizia tolsero ch'ei si lasciasse sopraffare dalle tristi reminiscenze che certamente gli si sarebbero risvegliate in tutta la loro forza nel seno della propria famiglia, dove più non doveva rivedere la sua povera madre. Fu Giacomino che gli procurò una picciola somma ad imprestito necessaria pe' suoi presenti bisogni, e senza della quale sarebbe stato impicciatissimo; perchè quando andò a trovare i suoi, e s'accorse delle loro strettezze, capì che non avrebbe avuto coraggio neppur di accennare a quel po' di miseria che gli veniva come sua parte. Donna Lucia poi, ch'era parente della matrigna della Tina e ben accetta al fratello e alla cognata di lei, si accinse a parlar loro del ritorno della fanciulla, e colla sua valida mediazione seppe far dimenticare l'offesa della brusca partenza e disporli a riceverla di nuovo in casa perfin che fossero conchiuse le nozze. Stabilita così ogni cosa, in capo ad alcune settimane, il giovane potè recarsi di nuovo a Cividale, onde intendersi col mugnaio suo antico socio per la rifabbrica del molino, e levare dal monistero l'amata fanciulla. Suor Maria Eletta le aveva dato una lettera, la cui soprascritta indicava una persona che doveva trovarsi a Pordenone. Bisognava dunque recarsi colà. Dopo molto progettare partirono in quattro, i due fidanzati, Giacomino e una sorella di lui. Oltrechè donna Lucia aveva consigliato di cogliere quest'occasione per la compera degli anelli, dell'abito nuziale e di altri indispensabili oggetti, c'era che questo viaggetto in sì cara compagnia e alla vigilia della sua felicità, per la fanciulla che aveva vissuto tanto tempo nel dolore e nella reclusione, diveniva adesso un piacere dei più squisiti. Nel suo secreto la pungeva anche un vivo desiderio di vedere co' propri occhi il misterioso personaggio che aveva avuto tanta influenza sulla sorte della sua benefattrice. E quando seduta colla giovane amica sul di dietro della carretta che Giacomino si godeva a far volare tra il polverio degl'interminabili rettilinei della strada postale, ella assaporava in silenzio la voluttà d'esser finalmente in un vasto spazio e di attraversarlo a guisa di freccia, nell'estasi delle soavi emozioni che le faceva provare la presenza del giovine amato, le si mesceva del continuo con tutti i suoi particolari la trista istoria che le aveva raccontato la povera monacella. Le lagrime di lei, ch'ella rammemorava con pia amicizia, le erano come un freno per non abbandonarsi a tutta la foga della propria felicità; come una religiosa malinconia dell'anima che le faceva più quieto e più pensato l'amore. A Pordenone seppero che la persona che cercavano era un avvocato di molto grido, ma che da parecchi anni ridottosi infermo più non usciva di casa, nè riceveva visite di sorte; il suo studio però era frequentato quasi come per lo innanzi, e gli affari procedevano appoggiati alla straordinaria reputazione della sua firma e alla solerzia di uno dei giovani che ivi facevano la pratica. Compresa la difficoltà di consegnare direttamente la lettera di suor Maria Eletta, pensarono di rivolgersi a cotesto giovane. A tal uopo, lasciati all'osteria Giacomino e la sorella, i due fidanzati s'avviarono alla dimora dell'avvocato. Era una casa d'aspetto signorile; e mentre ascendevano le scale, all'aprirsi d'una porta situata dirimpetto allo studio furono colpiti dall'allegro frastuono di molte voci che ne uscivano e dalla rapida vista d'una stanza magnificamente addobbata, entro alla quale così in passando poterono raffigurare l'agitarsi di un numeroso crocchio di gente elegante. Entrati nello studio, il giovane a cui si erano indirizzati uscì un momento e tornò colla risposta: che, trattandosi di un affare di assai vecchia data, bisognava che ritornassero, non essendo possibile così su due piedi rinvenire il documento necessario; tanto più che il dottore era in quel giorno assai sofferente, e la signora occupata nel ricevimento di alcune visite non avrebbe potuto per allora parlargliene. Nel venir via più non trovarono la guida del cameriere che li aveva introdotti. Povera gente di campagna, nuovi del sito e confusi dalle cose vedute ed udite così al rovescio di quanto immaginavano, sbagliarono l'uscita, ed imboccata un'altra porta scesero per una scala secreta che metteva in cucina. Apparecchiavano un rinfresco, e a sbrigarsi di loro alla più breve, un servo accennò che attraversassero l'appartamento a piè piano e se ne andassero per quella parte. Nella seconda stanza videro un uomo sdraiato sur un vecchio sofà. Non s'accorse che passavano, e cogli occhi fitti nella parete sembrava come assorto in una lunga e dolorosa meditazione. Aveva affatto calva la testa, una lunga barba bianca ed incólta gli scendeva sul petto lasciato nudo dallo sparato della camicia senza abbottonare, unico velame di quel misero corpo ischeletrito, se ne togli una veste da camera per lungo uso smontata di colore che teneva gittata sulle gambe. Un'indefinibile espressione di amarezza traspariva dalla faccia macilente. Tutto ad un tratto si pestò la fronte con ambe le mani, e piangeva con istrida prolungate come bambino che hanno picchiato. Mentre turbati da quel triste spettacolo s'affrettavano in punta di piedi a guadagnare l'uscita, udirono dietro a loro l'altercare dei servi che bestemmiavano l'accidente che aveva così rivelato a due estranei la miseria del loro sciagurato padrone. Tornati all'osteria, non osarono dir verbo su quanto avevano veduto. La Tina era pallida, contraffatta, e il cuore le batteva in un modo così sinistro, come se le si fosse guastato il sangue. Ricusò di più rimetter piede in quella casa; ed ella, che nella sua femminile curiosità aveva tanto desiderato di conoscere davvicino quella persona, ora avrebbe voluto poterla dimenticare in eterno; ma invece non v'era cosa che valesse a cavargliela dal pensiero e vi faceva intorno incessanti congetture. Qual mai poteva essere la strana malattia che tormentava quell'uomo? Egli, che nella sua gioventù s'era fatto gioco delle lagrime degli altri, perchè piangeva adesso con un accento così toccante, così desolato? Sentiva forse gli affetti che aveva derisi? Quali immagini gli si dispiegavano su quella parete dove guardava così intento? Forse i volti pallidi, lagrimosi delle misere che aveva tradite? Una ce n'era che ad onta di tutti i dolori ch'egli le aveva versato nell'anima, pregava in pace e rassegnata. Ora, ch'ei si trovava nelle mani di gente senza cuore, desiderava forse la commiserazione di quella pia? — L'Armellino intanto a forza d'insistere per una risposta, era venuto a capo di farsi consegnare le carte appartenenti a suor Maria Eletta, e riscossa la somma anticamente depositata sul Monte di pietà, senza più oltre curarsi di un mistero che non lo riguardava, si dispose coi compagni a tornarsene a casa. Era il primo sabato di maggio, e quando, dopo aver corso tutta la notte, al rompere dell'alba entravano nel villaggio di Soleschiano, s'accorsero delle vie sparse di fiori. Smontati da Giacomino, i due giovani alquanto trepidanti accompagnarono a casa la Tina. Dall'oriente che incominciava a rischiarare spirava una leggera brezzolina che faceva gentilmente tremolare le foglie del moro, e colla sua pura freschezza ravvivava gli spiriti intorpiditi dal protratto vegliare e dalla stanchezza del viaggio. Veniva loro alle nari come un sentore di rose, a misura che si avvicinavano sempre più acuto. Dai rami dell'arbore ne pendevano diverse ghirlande, e una ve n'era intrecciata di erica e di ulivo mentre la terra lì dinanzi appariva seminata di foglioline d'isopo. Si ricordarono che nei pellegrinaggi che si fanno alla Madonna del Monte, i divoti quando discendono sogliono mettersi sul cappello o nella cintura mazzolini di erica fiorita che cresce ivi in grande abbondanza e che chiamano i fiori del perdono. — Pace e perdono! — sclamò Giacomino. La Tina commossa staccò dalla corona che le aveva offerto un ramicello d'olivo e una ciocca di quei fiori, e li porse al suo fidanzato. L'Armellino li portò alle labbra, e per un impeto subitaneo gli si rinnovarono tutte le gioie dell'antico amore. Si contemplarono un istante desiosi. La luce incerta dell'albeggiare li faceva pallidi. La fanciulla sollecita entrò in casa; egli stringendo la mano all'amico si staccò da quella porta senza poter proferire una parola. Pochi giorni dopo inginocchiati dinanzi all'altare, coll'anima purificata dalla preghiera e dalla penitenza, ricevevano insieme il mistico pane; e il bene che si avevano sempre voluto diventava Sacramento. FINE. INDICE. Niccolò Tommaseo a' lettori Pag. 1 I. Lis cidulis, scene carniche « 9 II. Prete Poco, biografia « 65 III. La nipote del parroco « 75 IV. Il refrattario « 79 V. Maria « 99 VI. Un episodio dell'anno della fame « 107 VII. Il licof « 125 VIII. Il pane dei morti « 155 IX. Il cuc « 178 X. La festa dei pastori « 191 XI. Reginetta « 207 XII. Il vecchio Osvaldo « 239 XIII. La fila « 243 XIV. La coltrice nuziale « 271 XV. La donna di Osopo « 345 XVI. La resurrezione di Marco Craglievich « 355 XVII. Il contrabbando « 361 XVIII. La moglie « 405 XIX. La cognata « 415 XX. La malata « 421 XXI. L'album della suocera « 433 XXII. La sçhiarnete « 481 NOTE: [1] _Acque Pudie_ si chiamarono fin dal tempo dei Romani, non è ben chiaro perchè. [2] _Mandi_, in lingua friulana, vale: mi raccomando a te. [3] Chiamano così i contadini il sonar delle campane, che si fa in quella notte, e molte famiglie mandano qualche fiasco di vino in regalo a quelli che suonano purchè duri a lungo la scampanata, che intendono sia in suffragio dei loro defunti. [4] _Cuc_ dicesi in dialetto friulano il marito che va ad abitare in casa della sposa. [5] _Plina_ in friulano indica tutta la boveria d'una famiglia d'agricoltura. [6] Il villaggio di Osopo, che contava nel quarantasette duemila abitanti, giace sulla riva sinistra del Tagliamento a piedi della fortezza dello stesso nome, costrutta dalla famiglia Savorgnano sulla vetta di un monte scosceso e isolato fatto a picco, di 90 a 100 metri di altezza, a cui si può ascendere per una sola strada ben custodita. I Tedeschi affamarono il villaggio vietando a tutti gli abitanti l'uscita, onde col mezzo della compassione ottenere la resa della fortezza. [7] Qui la narrazione in ogni suo più minuto particolare s'attiene alla più scrupolosa verità. [8] La fortezza è opera di un semplice privato, ma tale che meritò esser tenuta in pregio da Napoleone: fu da uno dei discendenti Savorgnan donata alla Repubblica Veneta, perchè diventasse baluardo italiano contro le irruzioni del Nord. Il donatore benemerito fu sepolto nel giardino in vetta al colle fortificato. Caduto San Marco, i Francesi invasori furono veduti giuocare alle bocce col cranio venerando dentro al quale ha rampollato quel generoso pensiero di patria.... Ora gli Austriaci demoliscono il forte.... [9] Questo _sc_ in friulano ha un suono particolare che partecipa alquanto del _c_ toscano, che non è nè l'_sc_ della prima sillaba di _schiavo_ nè quello di _scialare_. [10] È caso che realmente avvenne, non mi ricordo più l'epoca precisa, ma parmi nella piena del 1822; io l'ho sentito dalla bocca della vivente più che ottuagenaria Baijloni di Pordenone in allora Abbadessa. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK RACCONTI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. 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