Title: I Moncalvo
Author: Enrico Castelnuovo
Release date: March 4, 2018 [eBook #56682]
Language: Italian
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I MONCALVO
ROMANZO
DI
Enrico Castelnuovo
MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1913
—
Terza edizione.
PROPRIETÀ LETTERARIA
I diritti di riproduzione e di traduzione sono riservati per tutti i paesi, compresi la Svezia, la Norvegia e l'Olanda.
Copyright by Fratelli Treves, 1908.
Tip. Fratelli Treves.
a Donna Vittoria Aganoor Pompilj.
In questo libro povero d'arte ma ricco di sincerità ho cercato di ritrar qualche strano fenomeno della nostra vita contemporanea. E poichè il libro a Lei non dispiacque oso pregarla di accettarne la dedica, ben lieto che mi si offra l'opportunità di ravvicinar per un istante al mio nome il suo nome illustre e di affermar pubblicamente il conto in cui tengo il suo ingegno, il suo animo, la sua preziosa amicizia.
Venezia, gennaio 1908.
Enrico Castelnuovo.
[1]
I MONCALVO
Arrivato a Roma la sera innanzi dopo un lungo soggiorno all'estero, Giorgio Moncalvo aveva voluto recarsi la mattina presto a Villa Borghese, ove lo chiamavano molti ricordi della sua adolescenza. Egli tornava da una grande metropoli, ricca di tutti gli agi della vita, di tutte le raffinatezze del gusto, di tutti gli strumenti del sapere, superba di recenti trofei, orgogliosa della sua civiltà prepotente e dominatrice; tornava da Berlino che a lui, spirito scientifico e indagatore, aveva offerto larghi mezzi di studio quali non può ancora offrire l'Italia. Eppure quest'Italia, non ricca, non vittoriosa, verso cui egli aveva rivolto i suoi passi con l'aria umiliata di figlio che quasi si vergogna della madre, quest'Italia lo aveva riavvinto a sè fin dal momento che, sboccando dalle gallerie del Gottardo, egli si era affacciato ai piani e ai laghi di Lombardia. [2] E di mano in mano ch'egli procedeva nel suo viaggio lungo le coste del Mar Ligure e del Tirreno, egli aveva sentito crescere in lui e farsi sempre più caldo, più intenso l'amor della patria. Com'era bella la sua Italia in quello scorcio d'ottobre! Là al Nord, dond'egli scendeva, erano ormai i segni precursori dell'inverno; già nei parchi lisciati e pettinati cadevano dai rami le foglie rapite in giro dal vento; già ogni cosa intristiva nel cielo bigio, umido e freddo; qui l'aspetto della natura accennava appena a una voluttuosa stanchezza e l'estate pareva tuttavia indugiarsi e sorridere attraverso il tepore dell'aria e la luce del sole.
Quest'impressione provava Giorgio Moncalvo percorrendo nell'ora mattutina i larghi viali di Villa Borghese, e fermandosi di tratto in tratto a guardar le praterie smaltate di fiori ove i cavalli pascolavano liberi, e le grandi masse degli alberi che intrecciavano, senza confonderle, le gradazioni infinite dei loro verdi; dal verde cupo del pino, al verde opaco della quercia, al verde tenero della robinia.
Pressocchè deserta quand'egli v'era entrato, la Villa andava a poco a poco animandosi.... Qualche carrozza di forestieri ai quali il cocchiere faceva da cicerone; qualche coppia romantica; qualche ciclista solitario; qualche governante coi bimbi; [3] qualche ordinanza a cavallo; qualche gruppo di preti.... Passò una compagnia di soldati; passò, col ronzio d'un enorme moscone, un'automobile polverosa, lasciando dietro di sè un forte odor di benzina; passò, proprio dinanzi a Moncalvo, un allegro manipolo di studenti.
Egli pensava: «Anch'io.... un tempo!»
Dov'era andato quel tempo? Dov'erano andate (e pur egli era giovine sempre) l'elasticità della sua fibra, la sua voglia di saltare, di ridere, di far del chiasso? Dov'erano andati gli amici, i compagni coi quali, ai primi rintocchi della campana che annunziava la fine sospirata delle lezioni, egli volava a Villa Borghese a ruzzare sull'erba, a giocare alla palla, a esercitarsi sulla bicicletta? E dov'era la sua mamma che, avvezza a vivere in una tranquilla città del Veneto, varcava a malincuore l'ingresso della Villa magnifica e rumorosa e diceva, tentennando la testa: «Sì, sì; sarà un bel posto, ma troppa gente, troppe vetture, troppo frastuono.... Non mi ci abituerò mai»?
Giorgio Moncalvo rammentava che i giocondi ritrovi di Villa Borghese erano stati interrotti in seguito alla malattia e alla morte della povera donna. Povera, povera mamma! Buona, intelligente, ma nata col segreto dell'infelicità! Fin che suo marito era stato un professorino d'istituto [4] tecnico a duemila cinquecento lire l'anno ella lo aveva assordato con le sue lamentazioni esaltando, per umiliarlo, il fratello Gabriele che non perdeva le notti sui libri, ma, slanciandosi arditamente negli affari, accumulava una grossa fortuna e faceva nuotar la famiglia nell'abbondanza.
— Almeno tu ci procurassi qualche soddisfazione d'amor proprio! — ella sospirava. — Ma sì!... Con tutto il tuo ingegno resterai a marcire in una scuoletta di provincia....
Ed ecco che, di punto in bianco, Giacomo Moncalvo era divenuto un uomo celebre; aveva, coi suoi lavori di geometria superiore, vinto il premio reale dei Lincei per le matematiche, aveva ottenuto per concorso una cattedra all'Università di Roma.
— Sei contenta? — egli aveva chiesto alla moglie.
Ell'aveva risposto di sì, e forse sulle prime era stata contenta, ma fu una contentezza che durò poco. Sopraggiunsero i fastidi del trasporto, le difficoltà dell'alloggio e quelle anche maggiori di regolar l'azienda domestica in una città ove tutto costava infinitamente più caro. Indi nuove e interminabili querimonie.
— Qui si spende il doppio, il triplo.... Valeva proprio la pena di cambiar stato e domicilio per ridursi a dover guardare al centesimo! E [5] poi che confusione, che babilonia! È un miracolo se non si va sotto una carrozza od un tram.... Ah, la mia pace, la mia pace!
La sua pace ella l'aveva trovata, di lì a non molto.... in cimitero, dopo una malattia breve e un'agonia dolce, che le aveva permesso di accommiatarsi affettuosamente dal marito e dal figlio e di chieder loro perdono se, amandoli tanto, li aveva tormentati con le ineguaglianze del suo carattere cruccioso ed inquieto.
Rivolgendosi a Giorgio in particolare, ell'aveva soggiunto:
— Ah, se la zia Clara potesse venire a star qualche mese con te!
In fatti, al solo annunzio della disgrazia, la zia Clara era venuta spontaneamente nientemeno che dal Cairo ove abitava già da parecchi anni con l'altro fratello, Gabriele, quello che aveva il bernoccolo degli affari. Era venuta ed era rimasta circa nove mesi, riordinando la casa, facendo sentire a Giacomo e a Giorgio tutto il pregio d'una buona massaia.
— Perchè non rimani sempre con noi? — le aveva chiesto il professore.
— Non posso.... Tutti di laggiù mi vogliono.
— Che bisogno hanno di te?
— Forse più di voi altri.
E quelli di laggiù, come la zia Clara chiamava [6] suo fratello Gabriele, la cognata Rachele e la nipote Mariannina, se la portarono via nel novembre dopo aver passato anch'essi alcune settimane a Roma, di ritorno dal viaggio che facevano ogni estate nel nord dell'Europa. Questi parenti milionari che alloggiavano all'Hôtel del Quirinale, e sfoggiavano un lusso da principi, e tenevano carrozza e cavalli, e si facevano servire i pasti a parte con gran profusione di Bordeaux e di Sciampagna, avevano allora colpito la fantasia del giovine studente, trattato da loro con cordialità rumorosa, commensale festeggiato alla loro tavola, guida desiderata nelle loro visite ai monumenti di Roma.
Egli era per lo più con le donne; chè lo zio Gabriele, piombato in Italia durante un periodo d'elezioni generali, aveva avuto la malinconia di sollecitare una candidatura in un collegio del Lazio e si recava spesso tra i suoi presunti elettori a sbalordirli con le sue promesse e con i suoi quattrini.
Le signore disapprovavano questo capriccio costoso.
— Era meglio comperare quel yacht che ci avevano offerto, — diceva la figliuola, ch'era una vispa ragazza di dodici anni.
E la moglie, bellezza un po' matura dal tipo spiccatamente orientale, guardandosi le mani [7] bianche e giojellate, si lagnava dell'insolita tirchieria del marito che non aveva voluto regalarle un anello di brillanti esposto da Marchesini sul Corso, con la misera scusa ch'ella ne aveva già troppi.
— Se lo zio riuscisse, — chiese Giorgio una sera, — verrebbero a stabilirsi in Italia?
— Presto o tardi, — rispose la zia Rachele, — lasceremo certo l'Egitto.... Ma non c'è furia.... Gabrio intanto, — ella chiamava spesso il consorte con questo diminutivo — Gabrio potrà andar su e giù.... È un viaggio così breve!...
Del resto, non occorse pensarvi, poichè Gabriele Moncalvo fu sonoramente battuto dal suo competitore, ch'era appoggiato dai clericali ed ebbe buon gioco contro un candidato forestiero, ebreo e socialistoide.
Benchè la sconfitta gli fosse amara, Moncalvo finse di non darsene per inteso, e si limitò a deplorare che l'Italia fosse sempre sotto il dominio dei preti, nemici d'ogni progresso. In quanto a lui, doveva esser riconoscente agli elettori che non gli avevano dato il voto e gli permettevano così di non distrarsi dal suo lavoro proficuo. E giacch'era libero da preoccupazioni politiche e s'avvicinava il momento della partenza per l'Egitto, egli voleva dedicare alle bellezze di Roma l'ultime due settimane del suo soggiorno in Italia.
[8]
In queste peregrinazioni, Giorgio, fresco degli studi classici, era stato un'ottima guida allo zio, il quale, con meraviglia del nipote, aveva mostrato più gusto artistico e più cultura archeologica di quella che non potesse aspettarsi da un uomo d'affari. Lo zio, alla sua volta, ammirando l'intelligenza pronta del giovinetto, aveva un istante accarezzato l'idea di associarlo alla sua azienda.
— Vuoi far la tua fortuna?
Giorgio rammentava questa domanda che lo zio gli aveva rivolta a bruciapelo, appunto a Villa Borghese, nell'atto di montare nella carrozza che li aspettava all'uscita del Museo.
— Se vuoi far la tua fortuna — erano state le precise parole dettegli da Gabriele Moncalvo dopo averselo fatto sedere accanto — devi piantar l'Università, ch'è una fabbrica di dottori inutili, e venire in Africa con noi.... Stai un paio di mesetti al Cairo come mio segretario particolare, prendi qualche lezione d'arabo, e in febbraio o in marzo vai nella nostra casa di Kartum.... Gente nuova, paesi nuovi, ci s'impara di più che in tutte le biblioteche del mondo.... E, strada facendo, vedrai delle antichità che non hanno nulla da invidiare a quelle di Roma.... In cinque o sei anni ti garantisco io che metti da parte un buon gruzzolo e puoi tornare in Europa a viver d'entrata.... Già fra cinque o sei anni ci torneremo [9] tutti.... Ah, non pretendo che tu decida subito. Riflettici, consulta tuo padre, e sappimi dir qualche cosa domani o doman l'altro.
Non s'era concluso nulla. Il professore Giacomo, pur dichiarando al figliuolo che non voleva vincolar la sua libertà, l'aveva sconsigliato dall'accettar la proposta, ed egli stesso, Giorgio, non s'era sentito la forza di abbandonare il suo babbo, la sua casa, la sua patria, i suoi studi.
— Me lo immaginavo, — disse Gabriele Moncalvo. — Avete lo scirocco nelle ossa, come tutti gl'italiani contemporanei.... Il vostro ideale è l'impiego e la pensione.... E poi tuo padre è un filosofo stoico che disprezza il danaro.... Pazienza.... Se cambi opinione prima che finisca l'anno, non hai da far altro che imbarcarti per Alessandria e telegrafarmi.... Intanto c'imbarchiamo noi con mia sorella Clara, che avrete la compiacenza di restituirci.
Erano passati sett'anni, e per una serie di combinazioni Giorgio non aveva più rivisto questi suoi parenti, bench'essi fossero venuti ogni estate in Europa. Si può anzi affermare che quasi quasi egli li aveva dimenticati, a eccezione, s'intende, della zia Clara, la cui fisonomia placida e buona gli era sempre scolpita nella memoria e con la quale scambiava di tratto in tratto una lettera affettuosa.
[10]
«Sarà per me una festa il riabbracciarti, — ella gli aveva scritto all'annunzio del suo prossimo arrivo a Roma. — Ormai, grazie al cielo, siamo tornati italiani anche noi e, se Dio vuole, avremo finito di girare il mondo. Gli zii e la Mariannina ti salutano e sperano che non farai il prezioso come il tuo babbo che, per dir la verità, è un po' troppo orso».
La prospettiva di riabbracciare la zia Clara era certo gradita a Giorgio Moncalvo; non così quella di trovarsi col resto del parentado, verso il quale egli era stato messo in diffidenza dalle lettere di suo padre. «Sono immensamente ricchi, — ammoniva il professore, — molto più ricchi di quello che non fossero sett'anni fa. Non son gente per noi. Io apprezzo le grandi qualità di mio fratello; non ho nulla da rimproverare a mia cognata; ammiro la Mariannina ch'è una bellissima ragazza; ma me ne tengo alla larga quanto è possibile. E ti consiglio di tenertene alla larga anche tu».
— E un consiglio che seguirò senza fatica, — pensava Giorgio Moncalvo.
E, in vero, se in quei sett'anni i suoi parenti erano diventati molto più ricchi, egli era diventato molto più serio, molto più schivo dei piaceri, del lusso, delle allegre compagnie. E quante nuove immagini, e quante nuove impressioni s'erano [11] sovrapposte nella sua mente e nel suo cuore alle immagini, alle impressioni di un tempo!
Appassionatosi degli studi fisiologici, e fattosi conoscere per qualche monografia originale mentr'era ancora all'Università, suo padre lo aveva mandato subito dopo la laurea a Berlino presso il celebre professor Raucher, che n'era rimasto entusiasta e lo aveva invitato ad aiutarlo nel suo gabinetto. Doveva trattenervisi solo alcuni mesi e vi si era trattenuto tre anni, chiuso, si può dire, fra i quattro muri del laboratorio, pieno di riverente ammirazione pel maestro insigne che nella scienza volta al servizio dell'umanità cercava un conforto ai due gran dolori della sua vita, la moglie morta, la figliola condannata a morire.
Accolto nell'intimità della casa, Giorgio Moncalvo aveva conosciuto la bionda e pallida Frida, che parlava con meravigliosa serenità del destino che l'attendeva, e sapeva di dover rinunziare all'amore e alla maternità, e pur, nell'anima assetata di affetto, architettava il romanzo d'un legame puramente spirituale e fraterno.
E vi fu un momento in cui Giorgio Moncalvo s'accorse d'essere divenuto egli stesso l'eroe di questo romanzo. Frida lo avvolgeva di una simpatia calda e discreta; quand'egli, ospite desiderato, sedeva alla mensa dei Raucher, era sicuro [12] di trovarvi, preparate dalla giovinetta, le vivande ch'egli preferiva; quando la sera veniva a prendere il tè nel salottino raccolto ove il professore si riposava dalle fatiche della giornata, ella, pianista squisita, sonava per lui la musica ch'egli amava di più: Bach, Beethoven, Schumann. Altre volte invece, con la sua vocina esile e dolce, ella gli recitava le liriche di Goethe, di Schiller, di Heine, o lo supplicava di leggerle e di spiegarle una canzone di Leopardi, un coro di Manzoni, un'ode di Carducci, e stava intenta a sentirlo, affascinata, commossa dalla melodiosa lingua italiana ch'ell'aveva appresa fanciulla, passando due inverni a Pisa con la sua mamma, e che pronunziava ancora abbastanza correttamente e non senza una sua grazia gentile.
Di tratto in tratto, in una crisi del male che la insidiava, Frida rimaneva per tre o quattro giorni nella sua camera, invisibile a tutti fuori che al padre. E in quei giorni la ruga dolorosa che solcava sempre la fronte dello scienziato si faceva più profonda, e i piccoli occhi acutissimi, avvezzi a scrutar la vita segreta dell'atomo, non reggevano allo sforzo del microscopio.
— Guardi lei, Moncalvo. Oggi non posso.
— Ah, Moncalvo, Moncalvo, — aveva esclamato una mattina il professore, cedendo a un bisogno subitaneo di sfogo, egli così avvezzo a padroneggiare [13] le sue emozioni, — se sapesse quello che io provo quando mi chiamano illustre, quando vantano le mie scoperte!... Io mi cambierei col primo bifolco che passa per la strada pur d'avere una figlia sana.... Io darei tutto il mio bagaglio di scienza per lo specifico d'un ciarlatano che facesse guarir la mia Frida.... E non c'è speranza.... Uno, due anni forse, e me la vedrò portar via come hanno portato via sua madre.... Perchè, perchè l'ho fatta venire al mondo?... Perchè ho sposato una donna affetta d'una malattia che si trasmette ai figlioli?... Ella, poverina, aveva il diritto d'ignorare.... Ma io, io, il grande fisiologo?... Creda, Moncalvo, è una colpa che non mi perdonerò mai.... E se Frida non fosse un angelo, come avrebbe ragione di maledirmi!... E, a ogni modo, quella sua ferma risoluzione di non prender marito.... già io stesso non glielo permetterei.... non è una tacita condanna per me?... Ah, se le cose fossero andate diversamente, se Frida fosse stata una ragazza come le altre.... libera di ubbidire alle sue simpatie!... Basta, è inutile discorrere di ciò che non può accader mai.... Grazie, Moncalvo, grazie delle attenzioni che usa alla mia Frida.... Non la disilluda.... Le lasci credere che le vuole un po' di bene, il bene di un fratello ad una sorella.... Frida non le chiede di più....
[14]
Ora Giorgio Moncalvo domandava a sè stesso quali fossero stati, quali fossero veramente i suoi sentimenti per Frida Raucher. Certo egli non l'aveva amata d'amore; pure il suo pensiero correva a lei con una tenerezza fatta di compassione e di gratitudine; pure all'idea ch'ell'era così lontana, che probabilmente egli non la avrebbe rivista, egli sentiva le lacrime fargli un groppo alla gola. Com'era bianca e smorta il giorno in cui egli s'era accommiatato da lei! Come le tremava la voce quando, sforzandosi di sorridere, ella gli aveva detto: — Era inevitabile che dovesse tornare in Italia, presso suo padre.... Avrebbe fatto malissimo a rifiutare l'assistentato che l'è offerto a Roma.... Resteremo amici ugualmente, non è vero?... La nostra affezione non è di quelle che hanno bisogno della convivenza.... Mi scriverà.... in italiano.... E le risponderò anch'io in italiano.... Sarà un esercizio utile.... Non si scandalizzerà de' miei spropositi.... Addio, signor Giorgio.... e buona fortuna....
La piccola mano umida e sottile che Moncalvo aveva presa nella sua s'era ritirata dolcemente, i mesti occhi languidi s'eran rivolti da un'altra parte; con un ultimo cenno di saluto Frida era scomparsa.
Giorgio Moncalvo girellava per la Villa da circa un paio d'ore. C'era entrato da Porta del Popolo [15] e si dirigeva pian pianino verso l'uscita di Porta Pinciana, con l'intenzione di dare una capatina nei Quartieri Ludovisi, abbozzati appena nel tempo ch'egli partiva da Roma. Ma proprio mentr'egli, rallentando il passo, guardava alla sua sinistra, sopra un tenue rialzo di terra, il monumento a Goethe, biancheggiante fra il verde nel nitido candore dei marmi, la sua attenzione fu distratta da uno scalpitar di cavalli. La cavalcata, composta di tre donne e di un uomo, veniva dalla parte di dov'egli era venuto e probabilmente si avviava anch'essa a Porta Pinciana. Le tre donne, elegantissime nei lunghi vestiti d'amazzoni, erano giovani e belle; il loro compagno, che mostrava d'esser più vicino ai cinquanta che ai quarant'anni, aveva aspetto signorile ed aristocratico.
Moncalvo s'era tirato sul ciglio della strada per lasciar passare il gruppo che s'avanzava al buon trotto; ma qual fu la sua meraviglia quando una delle cavallerizze, e precisamente quella che gli era parsa la più bella e la più giovane, fece un gesto festoso di riconoscimento e si staccò dagli amici gridando forte:
— Go on; I'll soon be with you.
Indi la stessa voce, rivolta a lui, continuò in perfetto italiano:
— O Giorgio.... non si conosce?... non si saluta?
[16]
La bella incognita si chinò sulla sella e, tenendo la manina inguantata, soggiunse con un lieve accento d'impazienza:
— La Mariannina, via... Tanto ci vuole?...
Finalmente Giorgio Moncalvo la ravvisò.
— Mariannina!... Scusi.... È tanto mutata....
— Ma che scusi?... Ma che cosa significa quell'è tanto mutata?... O che mi daresti del lei!
Egli arrossiva, balbettava, stillandosi invano il cervello per mettere insieme due parole, umiliato al pensiero della misera figura che egli faceva con questa cugina non riveduta da sett'anni; ella però seguitava a sorridergli incoraggiante, benevola, paga dell'ammirazione ch'ella sentiva d'avergli inspirata.
— Verrai a trovarci, s'intende, — ella disse palpando il collo del suo magnifico sauro dalla fronte stellata che s'agitava fremente e raspava la terra col piede. — Aspetta.... Stasera no, che siamo fuori di casa.... Domani sera alle sette e tre quarti, a pranzo.... Riceverai l'invito per te e per lo zio.... Palazzo Gandi, via Nazionale, quasi dirimpetto alla Banca d'Italia.... Il tuo babbo potrebbe aver dimenticato l'indirizzo.... Ma domani non si salva, neppur lui.... A domani.... senza fallo.
E volò via in un nembo di polvere.
[17]
Giorgio Moncalvo rimase alcun poco immobile, con la fulgida visione negli occhi. Quella era dunque la Mariannina ch'egli rammentava con le sottane corte, leggiadra forse, ma in quel periodo critico nel quale la più bella fanciulla del mondo ha nel volto, nella persona qualche nota stridula ed aspra che turba ed offende e arresta, anche sul labbro compiacente dei familiari, i pronostici dell'avvenire? Era quella oggi così affascinante nella mirabile armonia delle membra, nella misteriosa profondità dello sguardo, nella massa corvina dei lucidi capelli ondulati, nel sorriso ammaliatore, nella voce vellutata e soave che ricercava le segrete fibre dell'anima? Come pareva fuggire e sciogliersi in nebbia, dinanzi alla superba creatura piena di forza e di vita, il tenue fantasma esangue della malinconica Frida! In che vaporose lontananze di sogno si perdeva il piccolo mondo ov'egli, sordo al frastuono e insensibile alle lusinghe di una grande città, aveva vissuto tre anni nella pace degli studi!
— Sono uno sciocco, — disse il giovine scienziato scrollando le spalle. — Sono uno sciocco.... Nonostante la parentela, che può esserci di comune fra la Mariannina e me, fra la ragazza più volte milionaria e il povero assistente con milleduecento lire d'assegno?... L'ho incontrata oggi per caso, sarò domani a pranzo da lei.... [18] e poi me la caverò con una visita a ogni morte di papa.... E se cominciassi col non andare al pranzo?... Ma che pretesto addurrei?... Dovrei confessare che ho paura!... Paura di che?... Sciocco! Sciocco!
E s'avviò lentamente. Dall'alto del suo capitello corintio la statua di Goethe guardava Roma; alla base del monumento, Mignon appoggiata all'arpista sembrava mormorare la canzone patetica ripetuta così spesso da Frida:
Kennst du das Land wo die Citronen blühn,
Im dunkeln Laub die Gold-Orangen glühn...?
Era stato un pranzo di famiglia.
Per non far dispiacere a suo fratello e a suo nipote, il commendator Gabrio Moncalvo non aveva invitato nessuno, fuori del pittore Brulati ch'era di casa e che non poteva dar soggezione. Ciò non toglie ch'egli, il commendatore, fosse in frac e che la signora Rachele, ancora bella non ostante i suoi quarantatrè o quarantaquattr'anni, sfoggiasse le sue spalle opime, traboccanti [19] dal corpetto d'un abito di tulle nero a paillettes. La Mariannina era vestita di surah bianco a pieghine, con una cintura celeste intorno alla vita e un vezzo di perle al collo.
Ora i commensali erano raccolti in salotto e la zia Clara, la sorella nubile e anziana dei due Moncalvo, presiedeva alla distribuzione del caffè e dei liquori. Ell'aveva sempre la sua fisonomia dolce e buona, ma era molto invecchiata negli ultimi tempi; aveva l'aria stanca e i capelli grigi; grigi come il colore del suo vestito di seta. — Ma sœur grise — la chiamava qualche volta, scherzando, Gabrio Moncalvo.
L'ampio salotto, ingombro di sedie e seggioloni d'ogni forma e misura, era illuminato a luce elettrica e ammobiliato signorilmente ma senza sobrietà. Dalle pareti pendevano piatti di maiolica, pezzi di stoffe antiche, stuoie giapponesi, in mezzo a cui l'occhio appena riusciva a discerner tre o quattro acquarelli romani di molto pregio. Un gruppo di piante metteva una nota verde in un angolo; all'angolo opposto, sopra un piedistallo girevole, si ammirava una statuina di bronzo del Cifariello; fra una cantoniera i cui palchetti erano pieni di ninnoli e uno scaffalino contenente alcuni libri con legatura di lusso sorgeva un piccolo pianoforte verticale; altri volumi artistici erano gettati alla rinfusa sopra [20] una tavola più grande; un tavolino di lacca reggeva il servizio del caffè e dei liquori.
— Tu non hai religione, — disse la signora Rachele al cognato, con l'aria di chi ripiglia un discorso interrotto.
Il commendator Gabrio si mise a ridere.
— Stasera mia moglie non vuol lasciarti in pace.
— Ma sì, — interpose la signora Clara offrendo in giro le sigarette. — Lasciatelo in pace. Non viene quasi mai e quando viene lo punzecchiate.
— Oh! — rispose la signora Rachele. — Giacomo non è uomo da confondersi per così poco.... E in quanto a te, — ella soggiunse alludendo alla Clara, — in quanto a te, sei come lui.... sei com'eravamo tutti....
Il professore Giacomo alzò gli occhi da un libro che stava sfogliando.
— Converrebbe sapere che cosa tu intenda per religione.
— Che domanda! — ribattè la signora Rachele, imbarazzata più di quello che non volesse parere.
— Come se tutti non sapessero quello ch'è la religione! Intendo una serie di dogmi incrollabili, altrettanto sicuri quanto i vostri teoremi matematici, su cui si possa appoggiarsi come a una norma per la vita....
— E tu fa conto che questi dogmi ci siano, [21] ch'essi c'impongano di operare il bene verso amici e nemici, di astenerci da ogni atto basso e malvagio, e regola di conformità la tua condotta.
— No, no, non basta far conto. Occorre la certezza che questi precetti ci vengono da Dio, che l'obbedirvi ci assicura un premio, che il trasgredirli porta seco una pena.
— La solita investita di capitali, — pensò il professore. Ma non lo disse. Disse soltanto: — E tu credi quello che vuoi.
— Ecco come siete, — replicò la signora Rachele, arrabbiandosi. — Lo so benissimo che posso credere quello che voglio, ma io ho bisogno di rinforzar la mia fede con la fede degli altri, ho bisogno di un culto, di un complesso di pratiche in comune.... Gabrio tace, ma è del mio parere....
— Ah, non hai tutti i torti, — assentì il marito cacciando dalla bocca il fumo della sigaretta. — Le dottrine materialiste hanno fatto il loro tempo.
Giorgio Moncalvo, che chiacchierava con sua cugina, nel vano d'una finestra, non potè reprimere un moto di maraviglia. Gli tornavano a mente le fiere invettive anticlericali udite da suo zio sette anni addietro.
La Mariannina indovinò il suo pensiero.
[22]
— Oh, il babbo non ha mica più le idee che aveva una volta.... Non c'è niente di male a cambiare quando si cambia in meglio. À présent, nous sommes des gens rangés.
Intanto la discussione continuava più vivace che mai fra Giacomo Moncalvo e la cognata.
— Dunque, — disse il professore, — tu diventi una conservatrice.... E da ragazza, se ben rammento, passavi per una ribelle, per un'eretica, e il tuo nonno....
La signora Rachele fece una spallucciata.
— Tal quale come in casa vostra.... I nonni erano strettamente ortodossi, come i vostri, attaccati a certe forme antiquate, ridicole....
— Non senza la loro poesia, — notò il professore.
— Le difendi, tu
— No, le considero spassionatamente, come tutti i riti, come tutti i simboli in cui l'umanità ha messo una parte della sua anima.
— Ma come possono interessarci quelle storie di tremila, di quattromila anni sono, dette in una lingua che nessuno capisce più?... Quei patriarchi, quel passaggio del Mar Rosso, quel Mosè che scende dalla montagna con le corna in fronte!
— Eh via, ci hanno fabbricato su anche l'edifizio della religione nuova.
— È un'altra cosa, è un'altra cosa, — protestò [23] la signora. — A ogni modo, per tornare a noi, i nonni erano rabbiosamente ortodossi; la generazione venuta dopo faceva finta di credere, ma non credeva; noi della terza generazione non potevamo crescere che come siamo cresciuti.
Il professore annuì.
— Sicuro, la vecchia fede moriva. Tanto più era necessario che ciascuno di noi si assimilasse quello che vi è di permanente, d'indistruttibile nelle religioni per dar forza alla legge morale che deve governare la nostra vita.
— Ecco il tuo torto, — saltò a dire il commendatore. E respinse da sè la Tribuna che aveva preso in mano in quel momento. — Prima di tutto a varie religioni corrisponde una varia morale.... quella dei turchi, per esempio, che ha pure le sue attrattive.... Dunque convien principiare con lo scegliere la religione di cui si vuol spremere il sugo.... poi, questo sugo sei ben sicuro di conservarlo quando hai gettato via il frutto?
— Tu mi hai frainteso.... Io non volevo dire che le religioni siano la sola base della morale.... A formar questa entrano tanti altri fattori che sono dati dalla razza, dai costumi, dal grado di civiltà.... Anzi oggi, in alcuni paesi civili, la morale degli uomini veramente virtuosi è superiore per parecchi rispetti a quella che le religioni [24] insegnano.... Ma è un fatto che, generalmente, le religioni rappresentano il massimo sforzo dell'uomo verso un ideale di perfezione, e che questo sforzo è per sè un elemento di grandezza morale....
— Ah, lo confessi? — esclamò, trionfante, la signora Rachele.
— Non ho la minima difficoltà a confessarlo. Ciò non toglie che io m'auguri prossimo il tempo in cui la morale possa reggersi da sola come un monumento che si regga senza l'armatura. Vedi, la religione è come il dizionario, ch'è sempre in arretrato quando lo si paragoni alla lingua viva.
La signora Rachele accennò a replicare, ma il marito le fece segno di non insistere.
— E qual'è l'opinione del nostro Brulati? — egli chiese rivolgendosi al pittore che schizzava delle caricature in un album tascabile.
— Brulati non ha opinione, — rispose l'artista. — Non ho voglia di torturarmi il cervello, io.
— Allora vediamo l'album.
— Non ne vale la pena.
E Brulati stava per riporre il libriccino nella tasca interna del soprabito. Ma si pentì a mezzo e soggiunse:
— Se mi assicurano di non aversene a male....
Tutti gli furono intorno ridendo di cuore dell'abilità [25] con cui Brulati sapeva cogliere il lato comico d'una fisonomia.
Il più entusiasta era Gabrio Moncalvo, quantunque fosse il più tartassato dal caricaturista.
— Insuperabile! Con due tratti quest'uomo vi ammazza.... E non c'è da sbagliarsi.... Ci si riconoscerebbe fra mille.... l'ho sempre detto. I quadri di Brulati hanno molto merito, ma ce ne son tanti altri come i suoi.... Dove non ha rivali è nella caricatura.... In Francia, in Germania, in Inghilterra, collaborando al Journal pour rire, ai Fliegende Blätter o al Punch, farebbe tesori. Noi siamo un popolo di spiantati.
E il commendatore seguitava a confrontare le varie caricature.
— La mia è il capolavoro, non c'è dubbio. Ma anche tu, Rachele, sei ben servita.
La signora Rachele sorrise con la bocca stretta.
— Non lo nego. È il genere che non mi piace.
— Hai torto.... Però (non è vero, Brulati?) non si può pretendere che le belle donne siano contente di vedersi ridotte in questo stato.
— È il destino di tutte le cose belle d'esser messe in parodia, — disse pronto Brulati.
— Non mi canzoni, — replicò la signora, ammansata dal complimento. — Io sono ormai un rudero.
— Ce ne fossero di quei ruderi!
[26]
— Ed ecco qui mia sorella, — seguitò il banchiere. — È tutta lei.... E pure non c'è che un po' di naso e due puntini per gli occhi.... e nient'altro.
La signora Clara, ch'era di umore gioviale, e non aveva mai avuto pretese, disse in tuono scherzoso:
— E giusto.... Non c'è altro realmente.
— Anche Giacomo è tal quale, — ripigliò il commendatore seguitando la sua rivista. — Un paio di lenti, un ciuffetto sul fronte, e ce n'è d'avanzo.
— Dev'essere un bel passatempo per lei, — notò il professore rivolgendosi a Brulati. — Se potessimo far lo stesso quando assistiamo alle sedute dei Lincei!
— Oltre al professorone ha fatto anche il professorino? — domandò la signora Rachele, che con questo accrescitivo e questo diminutivo intendeva designare il cognato e il nipote.
— Già; la caricatura mia e di Giorgio non l'ha fatta? — soggiunse con la sua petulanza la Mariannina, mentre, in punta di piedi, dietro le spalle del padre, vedeva svolgersi le pagine dell'album.
— Sfido io! — ribattè Brulati. — Erano in ombra perfetta.
— Doveva dirci che ci mettessimo in luce.
— Nemmen per sogno.... Stavan troppo bene così.
[27]
Quest'era anche l'opinione di Giorgio, il quale tornò nel vano della finestra, ove la Mariannina lo raggiunse subito.
Nonostante i suoi fieri proponimenti, il giovine scienziato subiva il fascino della cugina bellissima che dopo sett'anni gli appariva tanto diversa da quella d'un tempo. Come s'era aperto fulgido ed orgoglioso il fiore ch'egli aveva visto nel boccio! Tutto in lei pareva un incanto: il viso, la persona, la voce, perfino il profumo ch'ella spargeva intorno a sè. Ed egli, l'austero giovine che, immerso nei suoi studi, poco o nulla aveva concesso ai piaceri della sua età, oggi pendeva inebbriato da quella bocca ammaliatrice, da quegli occhi accesi a volte d'una sùbita fiamma, a volte velati da una dolce malinconia. E la divina fanciulla gli dava del tu ed egli dava del tu a lei, ed ella lo aiutava a rievocare il passato e lo ascoltava benevola quando egli le parlava de' suoi disegni per l'avvenire.
— Le nostre passeggiate al Foro Romano, te ne rammenti?
— Altro! E quelle al Palatino?
— Ti rammenti? Ti rammenti?
— Sicuro.... E come mi confondevi con la tua erudizione! Il poco che so di storia romana lo devo a te.
— Oh, io ero un pedante.... Noi, uomini di studio, [28] siamo pedanti tutti.... Avevi più ragione tu che, appunto al Palatino, mentre io ti discorrevo di Augusto, di Caligola, di Tiberio, stavi incantata a sentire il cinguettio allegro dei passeri nel folto degli alberi....
— Davvero? Che buona memoria hai!
— E ricordo anche che al Foro Romano i fiori di giaggiolo che crescevano ai piedi del tempio di Saturno t'interessavano molto di più delle mie dotte dissertazioni.
— Ero una bimba. Ma adesso la so lunga, dopo che al Foro Romano ho avuto per guida nientemeno che Giacomo Boni.
— Brava!
La dimestichezza così presto ristabilita fra i cugini non dava ombra ai coniugi Moncalvo, d'accordo ormai nell'aspirare a un gran matrimonio per la loro figliuola, ma sicuri che la Mariannina non si sarebbe scaldato il sangue per uno spiantato; un'inquietudine di diversa natura turbava invece la signora Clara, che per interrompere il colloquio de' due giovani rivolse una domanda al nipote:
— Dunque, Giorgio, quand'è che cominci le tue lezioni?
— Quando s'aprirà l'Università.... il mese venturo.... Intanto Salvieni mi disse d'andar a lavorare nel suo gabinetto.
[29]
— Sei assistente di Salvieni? — disse il commendatore.
— Sì.
— Che ha la cattedra di.... di....?
Giorgio pronunziò una parola difficile.
— Già, già.... Non si capisce, ma poco importa. E che paga hai?
— Milleduecento lire.
— Per i sigari.
— Se non fumo! — obbiettò Giorgio.
— Per i minuti piaceri, insomma.... molto minuti....
— E poi mi preparerò i titoli per partecipare a un concorso.
— A qualche cattedra di ginnasio?
— D'Università.... spero.
— E riuscendo entreresti come professore straordinario?
— Naturalmente.
— Con tre mila lire l'anno?
— S'intende.
— Per diventar poi con comodo professore ordinario con cinquemila lire di stipendio....
— Ci vuol tempo.
— Figùrati se non lo so.... Come ce n'è voluto a tuo padre, il quale oggi con due quinquenni guadagna la bellezza di seimila lire, meno la trattenuta. Dico bene?
[30]
Padre e figliuolo si misero a ridere.
— Sei meglio informato dell'agente delle tasse.
— Ho sempre tenuto d'occhio i miei stretti parenti, — rispose il commendatore. — E in ogni modo, fin che viveva la povera Lisa, era lei che ci ragguagliava di tutto.... Non è vero, Rachele?
Quest'allusione alla moglie e alla madre morta dispiacque al professore Giacomo e a Giorgio. Essi non ignoravano che la povera Lisa non s'era mai adattata serenamente alla sua condizione economica appena modesta, e se ne doleva nelle sue lettere alla cognata, dalla quale accettava, e fors'anche sollecitava regali di qualche valore. E se fosse dipeso da lei non avrebbe esitato un momento ad accogliere le offerte di Gabrio che, avvezzo a maneggiar dei milioni e liberale per indole, sarebbe venuto volentieri in aiuto del fratello. Ma guai a toccar questo tasto con Giacomo! A badare a lui, la sua famiglia non aveva bisogno di nulla.
— Voi siete filosofi, — riprese il commendatore, per mitigar l'effetto delle parole pronunziate prima, — ed è una bella qualità ch'io ammiro.... negli altri.... Multa petentibus desunt multa.... Non ho dimenticato interamente il mio latino.
Il professore completò ridendo la citazione:
— Bene est cui deus obtulit, parca, [31] quod satis est, manu. — E soggiunse: — La Lisa era un angelo.... Aveva l'unico torto di non voltarsi a guardar quelli che stanno peggio di noi.... Dio buono! Tra la mia paga e il frutto della sua dote e di quel poco che avevo io, abbiamo sempre avuto il modo di sbarcare il lunario anche quando io non ero che un misero professorino di liceo.... Non siamo stati mai più di tre, e allora Giorgio era un bimbo....
— Pure a non intaccare il capitale in quei primi anni sei stato bravo.
— Voglio esser sincero. L'ho intaccato due anni di seguito per portar la Lisa e questo ragazzo in montagna.... Grazie al cielo, ho potuto colmare il vuoto, e alla mia morte Giorgio avrà venticinquemila lire da aggiungere ad altrettante ereditate da sua madre.... Sarà quasi ricco.
— Non siete esigenti, — dichiarò il commendatore, scuotendo il sigaro nel porta-cenere. — Ricco senza il quasi egli sarebbe stato accettando sett'anni fa la mia proposta.
La Mariannina intervenne con una frase che per lei non aveva importanza, ma che produsse una viva impressione sul cugino:
— Se diventerà celebre si consolerà di non esser milionario. La gloria vale la ricchezza.
— La gloria, la gloria! — borbottò il commendatore, — A ventanni tutti la sognano.... quanti [32] poi la raggiungono? A ogni modo, anche la gloria ha le sue ingiustizie.... Perchè dev'essere riservata agli scienziati, ai poeti, agli uomini di Stato, ai guerrieri?... Credete che ci voglia meno ingegno a concepire e a condurre a buon fine le grandi operazioni finanziarie che a fare una scoperta, o a scriver dei versi, o a governare un paese, o a vincere una battaglia?... Uomini come Morgan, come Carnegie....
— Io preferisco Marconi, — saltò su la ragazza.
In quella il domestico sollevò la portiera e introdusse un signore di età matura, ma di bella presenza, nel quale Giorgio Moncalvo riconobbe il cavaliere elegante ch'egli aveva visto a Villa Borghese in compagnia della Mariannina.
— Come va, donna Rachele? — chiese il nuovo arrivato chinandosi a baciar la mano che la padrona di casa gli tendeva amichevolmente.
— Mio fratello Giacomo, mio nipote Giorgio, il conte Ugolini Ruschi, — disse il commendatore Gabrio a modo di presentazione. — Ma forse con Giacomo si sono già incontrati.
— Col signor professore?... Sicuro.... Qualche mese fa, — rispose il conte.
— È professore in erba anche mio nipote, — soggiunse Gabrio Moncalvo. — Malattia ereditaria.... Arriva fresco fresco da Berlino, ove ha [33] completato i suoi studi di fisiologia.... Ora è assistente di Salvieni.
— Berlino! — esclamò il conte. — Che città!.... Ci fui dieci anni or sono per le nozze di mio cugino Wartenburg.... cugino in terzo grado per parte di donne.... Non ha avuto occasione di frequentare i Wartenburg?... No?... Gran famiglia.... famiglia che riceve....
— Oh, io vivevo così ritirato, — notò Giorgio.
— Dai miei parenti vanno molti professori, — riprese Ugolini. — E mio cugino è una specialità in araldica. Sa anche benissimo l'italiano....
Si rivolse alla signora Moncalvo e soggiunse:
— Se mi permette, donna Rachele, glielo farò conoscere la prima volta che verrà a Roma per una seduta dell'Ordine.
Ugolini alludeva all'Ordine di Malta di cui era cavaliere anche lui.
— Sarà un onore, — balbettò tutta confusa la signora Rachele. — Ah, quella loro villa sull'Aventino! E pensare che non ci vanno mai!... Se l'avessi io!
— Ci torneremo, donna Rachele. Ci torneremo quando sarà qui mio cugino.
Il conte Ugolini Ruschi vi aveva un giorno accompagnato le due Moncalvo, madre e figliuola, e la visita aveva lasciato, sopra tutto nell'animo [34] della madre, un'impressione profonda. Una specie d'esaltazione mistica s'era impadronita di lei, mentre il cavaliere di Malta la guidava tra le fitte siepi di bosso che limitano i sentieri rettilinei del non ampio giardino, le mostrava nella chiesa le tombe degli antichi Gran Maestri, le sedeva accanto nella splendida terrazza a' cui piedi scorre il Tevere e da cui l'occhio abbraccia tanta parte di Roma.
— San Pietro domina tutto, — aveva detto con enfasi il conte additando la cupola di Michelangelo. — Tutto è piccolo al paragone.... E San Pietro resterà. San Pietro continuerà a dominare su tutto.
Così, in mancanza di Turchi da combattere, il cavaliere della fede non s'era lasciato sfuggir l'occasione di magnificare in cospetto delle due reprobe le glorie del cattolicismo. E da allora in poi, anche per ragioni d'indole diversa, le effusioni religiose del conte Ugolini avevano trovato, specie da parte della signora Rachele, benevolo ascolto.
— Beato lei che crede! — ella sospirava sovente.
E ne' suoi colloqui con la Mariannina levava a cielo il perfetto gentiluomo che univa tanta grazia mondana a tanto fervore di pietà.
La Mariannina conveniva ch'era stata una fortuna [35] l'aver conosciuto Ugolini, per mezzo del quale ell'aveva potuto assistere alla canonizzazione di due Santi ed esser ammessa a un ricevimento del Pontefice che non aveva sdegnato di abbozzar sul suo capo d'eretica un vago segno di benedizione. Tuttavia gli sdilinquimenti materni le parevano eccessivi e richiamavano sul suo labbro un sorrisetto ironico o una smorfia dispettosa.
Quella sera la prospettiva di tornar alla Villa sull'Aventino a fianco di due cavalieri dell'Ordine entusiasmava addirittura la signora Rachele.
— Ah Ugolini, com'è amabile, com'è gentile!... Hai sentito, Mariannina?
— Ho sentito, ho sentito, — replicò la ragazza con mal celata impazienza. — Ma, a proposito, conte, ha rivisto miss May dopo la nostra cavalcata di ier l'altro?
— Non l'ho rivista, ma mi ha scritto, mandandomi uno chèque di cento sterline per le nostre pericolanti.
— Appunto, sapevo che aveva quest'intenzione.
— Ha mandato fino da ieri, e come può credere ho risposto subito. È d'una generosità quella signorina!
— Suo padre ha un miliardo, — borbottò il pittore Brulati.
— E lo fa fruttar bene, — soggiunse Gabrio Moncalvo.
[36]
— È permesso? — chiese dalla soglia una vocina insinuante.
E un pretino che aveva più di cinquant'anni ma ne mostrava assai meno si avanzò nel salotto.
— Oh, monsignor de Luchi, — dissero in coro il commendatore e le donne. — Che buon vento?
— Ecco, signora Rachele. Passavo di qui e vedendo le finestre illuminate ho pensato fra me e me: I signori Moncalvo sono in casa. Andiamo a salutarli.
— Bravo!
Non erano ancora finite le presentazioni e i saluti, che già entravano altre persone, tutte in frac e cravatta bianca; un segretario del Ministero degl'interni, un deputato della maggioranza, un consigliere d'una grande Società d'assicurazioni, un alto personaggio degli esteri. Quest'ultimo cercò istintivamente con gli occhi la poltrona ov'egli soleva fare il suo pisolo, e vedendola occupata rimase un momento perplesso. Ma la vigile signora Clara ne spinse verso di lui una di simile.
— Qui, qui, commendatore.
— Oh, signora Clara.... Mi crede proprio un sibarita, — disse il diplomatico affrettandosi però a sdraiarsi nel comodo seggiolone. — Ed ella crede anche ch'io dorma, — egli soggiunse. — Scommetto che lo crede.
[37]
— Nemmeno per idea, — ribattè la signora. — Ella finge di dormire per non lasciarsi scappare i segreti della Consulta.
— Proprio così, cara signora, proprio così.... Lei almeno capisce a volo.... Non lasciarsi sfuggire i segreti propri e cercar di sorprendere i segreti altrui, ecco l'alfa e l'omèga della nostra professione....
Mentre il consigliere della Società assicuratrice discorreva d'affari con Gabrio Moncalvo, il deputato della maggioranza e il segretario del Ministero degl'interni si sforzavano di accaparrar l'attenzione della Mariannina che li teneva a bada tutti e due senza trascurare il cugino Giorgio. La signora Rachele intanto, seduta fra il conte Ugolini Buschi e monsignor Paolo de Luchi, accoglieva con visibile compiacenza certe comunicazioni fattele da quest'ultimo.
A un tratto ella non potè trattenersi dal chiamare sua figlia.
— Mariannina! Mariannina!
— Son qui.... Che cosa desideri?
La signora Rachele fece segno alla ragazza di avvicinarsi.
— Lo sai? — ella le disse piano. — Io firmerò il manifesto per la Fiera di beneficenza subito dopo la principessa Oroboni.
— Che onore!... Del resto, sei quella che ha dato di più.
[38]
— Ma son l'unica che non abbia un nome patrizio.... E sono anche l'unica.... mi intendi?...
— Sì, la gran macchia d'origine....
— Diceva poi il nostro don Paolo che nella settimana ventura potremo andare insieme con lui a vedere il palazzo e il giardino.
— Oh, oh! Si degnano!
— I padroni non ci saranno.... Saranno a Loreto.
— Allora! — fece la Mariannina con un gesto sprezzante.
— Non entra nessuno nemmeno quando non ci sono in casa i padroni, — spiegò monsignore. — Ho ottenuto io il permesso.... per loro....
— Ma sì, — riprese la signora Rachele. — È una preferenza della quale dobbiamo esser grati.
Giacomo e Giorgio Moncalvo si alzarono.
— Di già? — chiese il commendatore.
— Siamo gente selvatica, — rispose il fratello, sorridendo.
— Vi aspettiamo presto.... A prima sera siamo sempre soli.
— Io voglio una visita tutta per me, — dichiarò la zia Clara al nipote. — Da mezzogiorno alle quattro sei sicuro di trovarmi in casa.
— E se telefoni in tempo, trovi anche me, — soggiunse la Mariannina accompagnando i parenti fino all'uscio. — Voglio mostrati i miei acquarelli.
[39]
— Dipingi?
— Sicuro. Studio con Brulati.... Andiamo qualche volta insieme in automobile nella campagna romana.... T'inviterò una mattina.
— Grazie.
Il professore Giacomo abbreviò i saluti.
— Buona sera. — Spìcciati, Giorgio.
— Ti sarai persuaso che non è ambiente per noi, — disse il professore al figliuolo quando il portone del Palazzo Gandi si richiuse dietro a loro.
Giorgio non diede una risposta decisa.
— È un fatto che non mi raccapezzo.... Sono sempre molto alla mano, specie lo zio e la Mariannina, ma non sono più quelli di sette anni fa.... Hanno mutato orientazione.
— Completamente.... Mio fratello era radicale, ora è conservatore; si atteggiava a spirito forte, ora amoreggia coi preti.
— Ma come? Ma perchè?
— Eh, mio caro, ognuno ha i suoi difetti.... Gabriele....
[40]
— A proposito, oggi tutti lo chiamano Gabrio.
— È più chic.... Gabrio dunque è ambizioso.... Visto che non riusciva da una parte, s'è voltato dall'altra.
— E s'illude d'aver l'appoggio dei clericali per entrare in Parlamento?
— Credo che abbia rinunziato alla politica.
— E allora che aspirazioni ha?
— Ha un poco le aspirazioni di sua moglie, ambiziosa anche lei, ma come soglion essere le donne, che ci tengono più all'apparenza che alla sostanza.... Entrare nei salotti più chiusi ed intransigenti, assistere dalle tribune riservate alle funzioni di San Pietro, appartenere ai Comitati di beneficenza ove prevalgono le dame dell'aristocrazia nera, ecco i grandi ideali di tua zia.... Gabrio poi, ch'è un uomo positivo, accarezza la prospettiva di partecipare per mezzo della sua Banca internazionale a qualche operazione finanziaria col Vaticano.
— Sta a vedere che avremo lo spettacolo commovente d'una conversione!
— Non me ne meraviglierei.... Credo però che mio fratello ci penserà due volte prima di tagliarsi dietro i ponti.... A lui giova avere un piede anche nel campo liberale.
— In fatti, — notò Giorgio, — riceve una società molto mista.... Un monsignore, un cavaliere [41] di Malta, un deputato, un alto funzionario del Ministero degli esteri, un segretario del Ministero degl'interni, che mosaico!
— Ce n'è per tutti i gusti.
— E quel cavaliere che uomo è? — proseguì Giorgio. — Pare in grande intimità con la famiglia.... Ieri mattina era a Villa Borghese con la Mariannina e con le sue amiche americane.
Il professore tentennò la testa.
— Ma!... Io lo conosco poco.... Passa per aver molti debiti....
— E monsignore?
— Lo conosco anche meno.... Mi dà l'idea d'un pretino furbo, inframmettente sotto la maschera della discrezione, punto sincero nelle massime di tolleranza che ostenta per aver facile accesso anche nei salotti meno ortodossi.
Dopo una pausa, Giorgio Moncalvo chiese, esitante:
— E della Mariannina che opinione hai?... A sentirla, si direbbe che non le sian saliti fumi al cervello.
Inquieto, il professore Giacomo guardò suo figlio.
— Per carità, Giorgio, non te ne fidare.... Mio fratello e mia cognata hanno il gran merito di mostrarsi quali sono; ed è la ragione per la quale, pur non approvando le idee e la condotta di Gabrio, [42] gli voglio sempre un gran bene.... Ha, con tutte le sue debolezze, qualità preziose d'ingegno e di cuore, e, dopo la Clara ch'è un angelo, è il migliore capo della famiglia.... Ma, di fondo, non è cattiva neanche la Rachele.
— Cattiva sarebbe soltanto la Mariannina, — ribattè il giovine con una certa amarezza.
— Non esageriamo.... La Mariannina è quella che dev'essere fatalmente una ragazza contenta in ogni suo capriccio, corteggiata, bellissima, e con un milione di dote.... senza contar gli altri che le verranno alla morte dei genitori.
— Però non ha l'aria d'aver il culto del danaro, — obbiettò Giorgio. — Capisce il valore dell'intelligenza, della dottrina....
— Forse capisce la gloria, o.... piuttosto della gloria.... la fama, che suona le sue mille trombe e richiama l'attenzione della folla sopra un nome.... Sarebbe.... forse.... capace d'innamorarsi d'un uomo celebre.... pel quarto d'ora che gli dura la celebrità.... Il giorno in cui l'astro fosse offuscato da un altro più luminoso ella si reputerebbe sciolta dai suoi impegni.... Non è donna che s'immolerebbe al genio oscuro o al genio sfortunato.
— Sei severo.
— Son giusto.... Ma, in fine, perchè ci bisticciamo? Grazie al cielo, tu non hai da sposarla.
— Io? — disse Giorgio con ostentata indifferenza. — Ci [43] mancherebbe altro!.... Mi meraviglio piuttosto che non si sia già sposata. Ha diciannove anni....
— Non son molti.... A ogni modo, i partiti non le sarebbero mancati.
— E non ne ha trovato nessuno di suo aggradimento?
— Pare.
— Che vuole?... Un principe?
— Chi sa?
— Qui ce ne son tanti.... Ma le sue amiche americane le faranno concorrenza. E hanno anche più danari di lei.
— Vero.... Ma i suoi danari son qui, alla mano; gli altri sono di là dall'Oceano.
Così chiacchierando, padre e figliuolo erano giunti presso all'imboccatura del tunnel del Quirinale. Un tram diretto ai Prati di Castello si fermò accanto a loro per lasciar scendere qualcheduno.
— Si potrebbe salire, — propose il professore.
— Volentieri.
Senza parlare arrivarono, portati dal tram, fino in Piazza della Libertà e percorsero a piedi, in silenzio, i quattro o cinquecento metri che li dividevano da casa loro, in prossimità di Piazza Cavour.
— Siamo alloggiati con meno lusso dei nostri [44] congiunti, — disse scherzando il professore Giacomo dopo aver aperto la porta e acceso con un fiammifero la candela ch'era posata per terra in un angolo.
— A Berlino ho sempre vissuto in una cameruccia da studente, la metà di quella che ho qui, — dichiarò Giorgio.
E voleva prendere il lume di mano a suo padre, ma questi s'oppose.
— No, per oggi ti precedo io.... Ho più pratica.
— Buona notte, — soggiunse il professore quando, fatti centocinquanta scalini, furono entrati nell'appartamento.
— La disposizione del nostro quartierino la sai.... La tua camera da letto è lì.... Hai bisogno di nulla?... La nostra donna ha l'abitudine di coricarsi presto.... Io preferisco di non farmi aspettare.... Però, se tu vorrai....
— No, babbo, — rispose Giorgio, ricambiando la buona notte. — Perchè dovrei aver più esigenze di te?
Nella sua camera, davanti alla scrivania, presso a una cassa di libri non ancora interamente vuotata, Giorgio Moncalvo pensò a suo padre con un'ammirazione mista di tenerezza e d'invidia. Era ormai conosciuto, in patria e fuori, come uno de' maggiori matematici italiani, e conservava [45] immutata la semplicità dei gusti e dei modi, e i brevi e fuggevoli contatti col fratello ricchissimo non servivano che a fargli amare di più la vita sobria, le abitudini quasi claustrali, le aule della sua scuola, le pareti silenziose del suo studio. Anch'egli, Giorgio Moncalvo, a Berlino, imponendosi a modello il suo maestro Raucher, per tanti rispetti simile al padre suo, aveva condotto nel presente, aveva sognato per l'avvenire un'esistenza non turbata dalle passioni, non distratta dai piaceri, non avvilita dalla sete dell'oro. Tutt'al più la gentile adorazione di Frida gli molceva l'anima con la soavità di una carezza, temperava con un soffio di poesia le rigide austerità della scienza.
Ma oggi egli non riconosceva se stesso. Gli era bastato veder la Mariannina, sfiorarne il vestito, toccarne la mano, udirne la voce, aspirarne il profumo per sentir un altr'uomo dentro di sè, un uomo simile a quelli ch'egli soleva guardare dall'alto come esseri di una razza inferiore. Provava anch'egli quelle febbri del sangue che gli eran parse fino allora uno stigma di bestialità; anch'egli era distratto nelle sue meditazioni da pensieri profani, da immagini lascive; oppure, in qualche momento, s'abbandonava alla duplice illusione tante volte derisa di giunger più presto alla gloria per mezzo dell'amore e di conquistar [46] l'amore per mezzo della gloria. La Mariannina non aveva ella detto che preferiva Guglielmo Marconi ad Andrea Carnegie?
Senonchè, Giorgio Moncalvo era uno di quei pazzi che conoscono la loro pazzia, e quella notte, curvo dinanzi al manoscritto d'un lavoro scientifico ch'egli aveva cominciato a Berlino in tedesco e che voleva rifar da capo in italiano per presentarlo all'Accademia dei Lincei, fu colto ad un tratto da un riso amaro e spasmodico leggendo questo periodo: «Poco importa che una cellula nasca per scissione, germinazione, endogènesi o gènesi».
— Sono un bell'imbecille! — egli esclamò scattando dalla seggiola e dando sulla tavola un pugno che fece oscillare la fiamma della lampada. — Sono un bell'imbecille! Colmerò l'abisso che mi divide da mia cugina con le mie dissertazioni sulla gènesi e l'endogènesi!
E dopo aver girato alquanto su e giù per la camera, si rimise a sedere con la persuasione di aver, per quella notte almeno, snidato dalla sua mente la Mariannina. E seguitò a scrivere: «In fondo, il contenuto d'un elemento anatomico vivente non differisce in modo essenziale dal blastòma che lo circonda; qua e là vi sono sostanze organizzate, in seno alle quali si effettua l'incessante movimento molecolare».
[47]
— Bravo! — sibilò una voce beffarda accanto a Moncalvo.
E l'immagine scacciata della Mariannina tornava, petulante e provocante, a turbarlo, e la voce beffarda ripigliava con freddo cinismo: — Non isperare di liberarti di me.... Quando mi credi morta nella tua memoria, risorgo. Sono un tossico ch'è penetrato nelle tue vene e non ne uscirà che con tutto il tuo sangue.... Sono un'immagine che si è fermata nella tua pupilla e che può impallidire talvolta, scancellarsi mai.... Non sono io, no, la scialba e linfatica Frida Raucher, diafana e bianca come un raggio di luna; le mie labbra bruciano, i miei occhi hanno vampe di sole; sono l'eterno femminino che tu credevi fulminare col tuo disprezzo. Sono l'eterno femminino e mi vendico.... Non sono qui per amarti, ma per tormentarti....
Giorgio Moncalvo si riprovò a scrivere, ma per quella notte non riuscì più a mettere insieme due righe. Allorchè si decise ad andare a letto erano quasi le cinque.
Anche in Palazzo Gandi c'era qualcuno che non dormiva. Era la Mariannina. Ma non la teneva desta il pensiero di Giorgio Moncalvo. Certo ella doveva riconoscere che il giovine scienziato era molto più interessante dei bellimbusti che le facevano la corte; che non c'era, per esempio, [48] paragone possibile fra lui e il deputato della maggioranza e il segretario del Ministero degl'interni che, pur dianzi, l'avevano assediata con le loro galanterie.... Ma se quest'era un'eccellente ragione per desiderare la compagnia del cugino, non era una ragione altrettanto buona per correr dietro alle ombre e ordir la tela di un romanzo da collegiale. La mal celata inquietudine della Mariannina aveva una causa affatto diversa. Bench'ella avesse accolto con simulata freddezza la comunicazione di sua madre circa alla possibilità di visitare il palazzo e il giardino Oroboni, quella notizia l'era giunta singolarmente gradita. Entrare nel geloso recinto le pareva una prima vittoria, preludio forse di vittorie maggiori.
Quante volte, dacch'ell'era a Roma, ell'aveva fissato curiosamente, insistentemente il muro massiccio che sorgeva dirimpetto alla sua abitazione, dall'altra parte della via rumorosa, e continuava ininterrotto lungo due viuzze laterali mal selciate e deserte! Sulla fronte di quel muro, di là dal quale spuntava, ondoleggiando al vento, la cima di qualche pino e di qualche pioppo, non c'erano aperture di sorta; o, a meglio dire, un gran portone preesistente era stato chiuso e sbarrato con solide spranghe di ferro. Solo da una piccola torre, che, a uno degli angoli, di poco superava l'altezza della muraglia, alcune finestrette [49] difese da persiane di legno guardavano sulla strada. Una fortezza o un convento, ecco l'impressione ricevuta da chi costeggiava il recinto inospitale, di cui bisognava cercar l'ingresso in fondo a una delle vie laterali.
Però la Mariannina Moncalvo, da una delle sue camere al secondo piano, era riuscita a penetrare con l'occhio nel misterioso soggiorno. E intanto ell'aveva notato che quello che sembrava un semplice muro era, sul davanti almeno, una terrazza lunga e stretta ov'erano allineati dei vasi di limoni. Certo una scala interna metteva alla terrazza ch'era in comunicazione con la torre. Del giardino sottoposto, naturalmente la Mariannina non vedeva che una parte, abbastanza però da indurne ch'esso doveva esser molto ampio, ricco d'acque, d'ombre e di fiori. Non grande sembrava al paragone la palazzina del Seicento che, alquanto diroccata, lasciava trasparir fra le piante la sua facciata grigia e la sua cornice sporgente.
Della nobilissima e antica famiglia dimorante colà la Mariannina aveva chiesto e avuto notizie prima ancora che le bazzicassero in casa il conte Ugolini Ruschi e monsignore de Luchi, i quali, come ascritti all'aristocrazia nera e legati agli Oroboni dai vincoli di parte, avevano cercato di mettere in miglior luce quei campioni purissimi dell'intransigenza romana. Restavan vere nondimeno, [50] in linea di fatto, le informazioni originarie raccolte dalla Mariannina Moncalvo. La famiglia era ridotta a due sole persone, la principessa Olimpia e il figliuolo di lei, don Cesarino. Il principe Ottavio, rispettivo suocero e nonno, morto nel 1885, dopo il 20 settembre 1870, in segno di protesta contro il nuovo ordine di cose, non era più uscito di casa sua se non in carrozza chiusa per andare al Vaticano, e per isolarsi meglio dal mondo empio e corrotto aveva speso un'infinità di quattrini nella costruzione del muro di cinta. Il figlio e successore principe Gregorio aveva seguito l'esempio del padre, ajutato in ciò da un'artrite che gli rendeva penoso e difficile il muoversi.... tranne che per l'ultimo viaggio da lui intrapreso nel 1890. Don Cesarino, rimasto orfano a quindici anni con un patrimonio dissestato e una salute più dissestata del patrimonio, e con la sola compagnia della madre malaticcia e bigotta, non aveva sentito alcun bisogno di mutar tenore di vita e vegetava, nel suo palazzo e nel suo giardino, trattando pochissima gente, anche della sua parte politica.
La Mariannina lo vedeva girar pei sentieri, perdersi nei viali, chinarsi sull'aiole, or solo, ora a braccio della madre. Una volta ella vide più da vicino tanto lui quanto la principessa Olimpia, sulla terrazza insieme con un prete, quel monsignore [51] de Luchi ch'ella doveva conoscere di lì a poco. E si rammentava che il prete pareva più giovine, oltre che della principessa, di don Cesarino. I due procedevano lenti e silenziosi con l'aria di persone che si fossero stancate a salir sino lassù e alle quali dessero noia i rumori esterni. Il sacerdote, che li precedeva di qualche passo, si voltava ogni momento, parlava, gestiva come incitandoli a fare uno sforzo e a vincere la loro ritrosia. Ed egli compì il miracolo d'indurli a entrar nella torre, ad affacciarsi a uno dei finestrini di cui egli si era affrettato ad alzar le persiane. Là Mariannina ebbe l'impressione di aver dinanzi a sè due vecchi ritratti: la principessa magra, cerea, con gli occhi grigi ed immobili, coi capelli brizzolati aderenti alle tempie, con una baverina bianca insaldata che ricascava sulle spalle e acquistava maggior risalto dal vestito di seta nera; don Cesarino alto, esile, pallido, senza un pelo di barba, lo sguardo incerto, le labbra esangui, la testa piegata un po' sulle spalle, e pure con una certa innata distinzione nell'aspetto, con quell'impronta di razza che in certe famiglie si conserva fino nell'estrema degenerazione. Ora dietro la principessa, ora dietro il figliuolo faceva capolino la fisonomia gioviale di monsignor de Luchi, bianco, roseo, paffutello, con la guardatura maliziosa di chi la sa lunga, oltre che per [52] merito del proprio ministero, anche per diretta esperienza. E la Mariannina rammentava benissimo che quel giorno monsignore aveva richiamato sopra di lei l'attenzione di don Cesarino. In fatti, dopo due paroline susurrategli nell'orecchio dal prete, il giovine aveva rivolto gli occhi verso la finestra al cui davanzale ell'era appoggiata e s'era messo a fissarla ostinatamente, mentre un lieve incarnato gli si diffondeva sulle guance smorte. Ella pure aveva arrossito, combattuta fra il desiderio di sottrarsi a una curiosità indiscreta e la compiacenza di non passare inosservata ad un principe romano. Proprio in quel punto, la Mariannina ne aveva fresca la memoria come di ieri, passò per la strada, in un'elegante vittoria diretta al Quirinale, la regina Elena insieme con la bella principessa Jolanda. La gente si scopriva in atto rispettoso; la Sovrana chinava il capo con un sorriso benevolo. Ma la principessa Oroboni si tirò indietro con un moto brusco, e lo stesso fecero, benchè con minore prontezza, don Cesarino e monsignor de Luchi. Quest'ultimo s'indugiò un minuto di più per richiuder le imposte. Indi tutti e tre riapparvero sulla terrazza; la principessa camminava con passo più spedito a braccio del figlio; monsignore parlava e gestiva come prima.
Dopo d'allora la Mariannina non aveva rivisto [53] il giovane principe e la madre di lui se non di lontano, tra l'aiole e i viali del giardino. Invece aveva conosciuto monsignor de Luchi, portato in casa del conte Ugolini Ruschi. E monsignore, amabile, disinvolto, s'era subito accattivato le grazie della famiglia: aveva accettato un paio d'inviti a colazione ed a pranzo, aveva spillato varie centinaia di lire alle donne per un Ospedale di bambini, per un Asilo notturno, per un Ricovero di fanciulle pericolanti, compensandole con l'invio di biglietti per le funzioni di San Pietro e con la promessa di farle entrare fra le patronesse di qualche opera pia aristocratica.
— Che leggerezza è la nostra! — diceva la signora Rachele. — A dar retta a mio cognato Giacomo, i preti cattolici sarebbero intolleranti, fanatici, imbevuti di pregiudizi.... Invece, sfido a trovare una persona di umore più conciliativo di monsignor de Luchi.... Mai una allusione sconveniente, mai una parola ironica....
E la Mariannina ripeteva spesso tra lo scherzoso ed il serio:
— Quel pretino è la mia passione.
Adesso, per mezzo del pretino, ella stava per varcare la soglia vietata di casa Oroboni, e un giorno, chi sa, lo stesso monsignore l'avrebbe forse presentata a donna Olimpia e a don Cesarino.
Faceva caldo e la Mariannina, che aveva già [54] principiato a svestirsi, aprì la finestra. Eran cessate le corse dei tram, i negozi eran chiusi, metà delle lampade elettriche erano spente, per la strada non passava che qualche omnibus d'albergo e qualche fiacre; una donna seduta alla cantonata offriva con voce monotona ai pochi pedoni la Tribuna e il Giornale d'Italia. Di fronte, il muro degli Oroboni pareva più bruno, più alto, più inospitale che mai; di là dal muro, il giardino si stendeva simile a un mare tenebroso. Qualche soffio d'aria agitava le masse delle piante e ne strappava gemiti e fragranze. A un tratto l'occhio della Mariannina si fermò sopra un punto luminoso che brillava dietro le persiane d'una delle finestre della torre. Possibile che ci fosse qualcuno? La ragazza pensò che quella finestra era circa all'altezza della sua, e che com'ella, se le persiane non fossero state abbassate, avrebbe potuto benissimo veder chi fosse lì dentro, così di là si poteva veder lei, e un subito pudore la colse, una subita vergogna d'esser sorpresa da uno sguardo indiscreto, mezza discinta, coi capelli giù per le spalle. Chiuse in fretta i vetri, tirò le tende, finì di spogliarsi e si cacciò sotto le coperte. Ma non riusciva a dormire, e scese due volte dal letto, e senz'accendere il lume si accostò alla finestra, sollevò un lembo della cortina, aguzzò l'occhio verso la torre, verso [55] il punto che prima era illuminato. Tutto era buio; certo nella torre non v'era più anima viva. Ma chi poteva esservi prima? Un domestico venuto a prender qualche oggetto dimenticato? O la principessa, o don Cesarino? Strano in verità ch'essi venissero nella notte in quel luogo ove di giorno non venivano mai. Ma tutto era strano negli Oroboni, ed era appunto questa stranezza ch'esercitava una speciale attrattiva sulla Mariannina Moncalvo. Le pareva che dovess'esservi una soddisfazione straordinaria a essere ammessi in quel sancta sanctorum, ad appartenere a quel cenacolo di eletti.... Al Quirinale ci andavano tutti; anch'ella era stata presentata alla Regina, era stata invitata ai balli di Corte: e vi si era trovata con persone della piccola borghesia, con mogli e figliuoli dì avvocati, di medici.... Al Vaticano era su per giù la medesima cosa, e il Papa riceveva migliaia e migliaia di persone d'ogni razza, d'ogni ordine sociale, benedicendo a destra e a sinistra il gregge umano che gli si prosternava ai piedi.... Invece le case come quella degli Oroboni erano chiuse a due catenacci, e proprio per questo sarebbe stato un gran trionfo il penetrarvi....
Nella notte insonne, la Mariannina, stesa sul letto, con le mani intrecciate dietro la nuca, seguitava a fantasticare. Le tornavano alla mente [56] certe proposte di matrimonio ch'ella, d'accordo coi suoi, aveva respinte. In Cairo, fin da un paio di anni addietro, due baroni della finanza, d'origine semitica; a Roma, appena giunta, un tenente di vascello e un ufficiale di cavalleria, tutti e due con la loro brava corona di conte, ma con pochi quattrini.
— Per i quattrini meno male, — aveva detto la signora Rachele. — Ma se si deve rinunciarvi, ci vuole un principe.
Un pensiero bizzarro fece sorridere la Mariannina.
— Eccolo il principe!... don Cesarino!
E per un istante ella si vide a fianco di quel giovine che non aveva mai conosciuto la giovinezza, si vide nuora di quella donna che passava la sua giornata a biascicare orazioni e a protestare contro la breccia di Porta Pia.
Bisogna convenire che sarebbe stato uno degli spettacoli più singolari di questi tempi così ricchi di sorprese.
— Bah! — concluse la Mariannina. — Ho almeno un milione di dote; sono figlia unica e avrò più tardi un patrimonio immenso.... Il principe non mi può mancare.... Se non sarà lui, sarà un altro.
E si voltò sul fianco per cercare d'addormentarsi. Era l'alba.
[57]
Il commendatore Gabrio Moncalvo aveva l'abitudine di alzarsi per tempo, ma quella mattina (era una grigia mattina di novembre) egli si alzò assai più presto del solito, e per la scaletta interna scese nel suo studio ch'era composto di un'anticamera e di tre stanze modestamente arredate. Nell'anticamera soleva esserci un fattorino, pronto ad ogni chiamata; la prima delle tre stanze, un po' buia, e spesso illuminata a luce elettrica anche di pieno giorno, era occupata dal segretario Fanoli; nella seconda, più allegra e spaziosa e che guardava nell'ampio cortile, stava ordinariamente il commendatore; l'ultima, un salottino piccolo e austero, si apriva soltanto per accogliere i visitatori di maggior riguardo o quelli che avevano qualche cosa di molto importante o di molto delicato da dire.
Il segretario Fanoli non veniva che verso le nove; quando il commendatore entrò nello studio non c'era che il fattorino, intento a spolverare i mobili.
[58]
— Il portone sarà ancora chiuso, — disse Moncalvo. — Va in portineria e fa aprire. Aspetto qualcheduno.
Sedette alla sua scrivania ch'era collocata presso una finestra e si accinse a correggere le bozze d'un articolo che doveva uscire nel prossimo numero d'una rivista finanziaria. La luce era scarsa, ma per fortuna gli occhi gli servivano bene ed egli non ebbe bisogno di accender la lampada.
Di lì a poco il fattorino introdusse la persona aspettata, che s'inchinò profondamente.
Il commendatore s'alzò in piedi e fece un cenno di saluto.
— Ah, lei.... Passiamo di là, se non le spiace.
Nel salottino riservato Moncalvo si sdraiò sopra una poltrona e additò una sedia al suo visitatore.
— Ebbene, ha la lettera? — gli chiese.
Quegli al quale era rivolta questa domanda (un omino di mezza età, dal vestito dimesso, dalla biancheria poco pulita) si affrettò a rispondere:
— Naturalmente.
E tirò fuori di tasca un portafogli unto e frusto, da cui estrasse una lettera ingiallita.
— Dia qui.
L'omino esitava, non vedendo comparire ancora le cinquecento lire promesse.
— Non si fida? — ripigliò in tuono sarcastico [59] Gabrio Moncalvo. — E allora se ne vada.... se ne vada pure col suo prezioso documento.... Se crede ch'io ci tenga tanto ad averlo!...
— Oh, signor commendatore, — protestò l'altro facendosi piccino piccino, — come può immaginarsi una cosa simile?
Moncalvo prese con circospezione fra le due dita la lettera che il losco personaggio gli offriva e si accostò alla finestra per esaminarla.
Era proprio quella, era una lettera scritta sett'anni addietro ad un giornalista amico di Zanardelli per ottener l'appoggio del Governo nella lotta elettorale. Oltre a professarsi di sentimenti liberalissimi, Moncalvo s'impegnava solennemente a votar la legge sul divorzio, che, in quel tempo, il Ministero pareva deciso a far trionfare a ogni costo.
— Lei era alla Tribuna? — domandò Moncalvo.
— Sissignore.
— E non c'è più.... da un pezzo?
— Da qualche anno.
— E da qualche anno questa lettera è nelle sue mani?
— Appunto.
— Come l'ha avuta?
— Sa.... in una redazione tante carte vanno disperse....
[60]
— L'ha rubata, via....
— Oh, commendatore....
— Non importa. Ricuperandola, io non faccio che esercitare un mio diritto.
L'ex reporter della Tribuna sbarrò tanto d'occhi.
— Intendo un diritto morale, — soggiunse il commendatore con un sorrisetto ironico. — Benchè, creda pure, se anche questa lettera fosse pubblicata, io non ci perderei nulla. Chi è che non può cambiar opinione in sett'anni? A ogni modo non ritiro la mia parola. Eccole le cinquecento lire.... Apra, apra e verifichi....
E Gabrio Moncalvo consegnò al giornalista in partibus una busta contenente un biglietto della Banca d'Italia nuovo fiammante.
Con un inchino, più profondo di quello che aveva fatto entrando, l'anonimo si accomiatò.
Il banchiere si fregò le mani.
— Quell'uomo non sa il suo mestiere. Poteva ricavar molto di più. Non che una lettera di sett'anni fa significasse gran cosa, ma è sempre meglio distruggerla.... Diamine! Un impegno formale di sostener la legge sul divorzio.... Che avrebbero detto i miei amici.... d'oggi?
Mentre Moncalvo stava per uscire dal salottino con l'intenzione di rimettersi alla correzione delle sue stampe, gli si ripresentò il fattorino di studio [61] con una carta da visita e una lettera, dategli in quel momento da un signore forestiero che insisteva per essere ricevuto.
Il commendatore, dopo aver gettato l'occhio sul biglietto ch'evidentemente portava un nome ignoto per lui, aperse la lettera e ne guardò la firma che doveva avere un'occulta virtù, perch'egli mosse incontro allo sconosciuto gridando:
— Avanti, avanti!
Colui ch'era fornito di una così ragguardevole commendatizia era un uomo di mezza età, di statura vantaggiosa, di tinta olivastra, con barba e capelli folti e nerissimi, naso adunco, occhi profondi sotto gli occhiali fissi. Vestiva una redingote di panno nero chiusa d'alto in basso, teneva nella sinistra il cappello a tuba ed i guanti.
Si fermò a pochi passi dal commendatore, e disse in tuono dubitativo, in francese:
— Il signor commendatore Gabriele Moncalvo?
— Sono io, per l'appunto.
— Il dottore Löwe, — ripigliò l'altro, presentandosi da sè.
— La prego, si accomodi, — disse il commendatore introducendo il forestiero nel salottino riservato e facendolo sedere sopra un divano. Gli sedette dirimpetto e chiese: — Lei ha visto recentemente il barone?
[62]
— Tre giorni fa, a Francoforte.
— E sta bene?
— Così così.... Ha fatto anche quest'estate la cura di Carlsbad.
— Io non lo vedo da oltre un anno.... Siamo però sempre in corrispondenza d'affari.
— Lo so. Il signor barone mi ha parlato di lei con molta deferenza, come di persona che può aiutarmi assai efficacemente nella mia propaganda in Italia.... Perchè suppongo ch'ella s'immagini lo scopo della mia visita.
— No.... se devo esser sincero, — rispose Moncalvo fingendo di cascar dalle nuvole, benchè avesse già una vaga idea di ciò che il dottore voleva e cercasse una via intermedia tra l'aperta adesione ch'egli reputava contraria a' suoi interessi e il deciso rifiuto che avrebbe potuto dispiacere al magnifico barone di Francoforte.
— A ogni modo, — riprese il dottore sbottonandosi il vestito e chiedendo licenza di depor sopra un tavolino un fascio di giornali e di opuscoli, — a ogni modo, la questione non può esserle nuova, e ciò mi permetterà di non farle perder troppo tempo.
Il banchiere s'inchinò cerimoniosamente.
— Non considero mai come tempo perduto quello che occuperò ad ascoltare una persona che gode la fiducia del signor barone.
[63]
Dopo abbozzato un gesto di ringraziamento, il dottor Löwe entrò nel cuore del soggetto.
La sua deposizione fu breve e chiara. Egli era uno dei capi del movimento sionista e girava l'Europa per far proseliti alla sua idea e assicurarne il trionfo con aiuti materiali e morali. Tedesco di nascita, egli aveva vissuto a lungo in Galizia, in Russia, in Rumenia, aveva visto coi propri occhi le persecuzioni a cui gli Ebrei sono fatti segno, e s'era dovuto persuadere delle profonde radici che ha in quei paesi l'antisemitismo, onde, quand'anche la legislazione mutasse e fossero abolite le inabilità giuridiche che pesano sulla razza giudaica e i Governi le diventassero altrettanto favorevoli quanto le sono ora contrari, le cose resterebbero su per giù quelle di prima.... Unico rimedio l'abbandono in massa delle terre inospitali e la formazione di uno Stato ebreo nei luoghi ove sono le rovine del tempio, le tradizioni bibliche, i ricordi delle glorie e dei lutti del popolo.
Il dottor Löwe parlava con accento caloroso e convinto, senza perdere il dominio di sè, senza staccar gli occhi dal suo interlocutore, ch'egli sentiva piuttosto ostile che indifferente. E qualche volta ne precorreva le obbiezioni.
— Lo so, lo so.... Loro Ebrei dell'Occidente non si rendono conto del vero stato delle cose.... Hanno conquistato tutti i diritti, possono diventare magistrati, [64] generali, ministri.... Ma non s'illudano troppo.... L'antisemitismo, anzichè attenuarsi nei paesi che ne sono più infetti, ricompare in quelli che n'erano immuni...; ove non è palese, è latente.... In Francia fa progressi da gigante.... Anche in Italia se ne vedono i segni.
Il dottore pareva compiacersi altamente di questa constatazione e proseguiva imperterrito:
— Sarà una fortuna, perchè così la benda cadrà dagli occhi dei più restii, e tutte le nostre mirabili facoltà saranno volte al trionfo finale della razza.... Israele non ha compito la sua missione nel mondo.... Lo so, lo so, — ripetè con enfasi l'apostolo credendo di scorgere un risolino sul labbro di Gabrio Moncalvo; — loro sono scettici circa ai destini del nostro popolo.... loro guardano alle nazionalità con cui credono di potersi assimilare.... Mai, mai....
— E pure, — insinuò Moncalvo, — per mezzo dei matrimonii....
— Matrimonii misti! — esclamò il dottore. — Se una cristiana entra nella nostra casa, e pur non abiurando la sua fede lascia che la famiglia continui ad essere ebrea come prima, non c'è nulla da dire.... Ma se si tratta di fare una famiglia senza religione, o se si pattuisce di battezzare i figliuoli, non può derivarne che sventura.... Creda, signor commendatore, anche dal punto di [65] vista dell'interesse materiale, sono tutti calcoli sbagliati.... Nè il battesimo dei figliuoli, nè il battesimo proprio basta a realizzar la fusione che loro sognano.... Attraverso tre o quattro generazioni si scoprirà il marchio della razza, e il pregiudizio trionfante punirà gli apostati e i discendenti degli apostati.
— Sta a vedere, — obbiettò il commendatore. — C'è più d'una Rothschild che ha preso l'acquasanta. Ce n'è a Parigi, nel Faubourg Saint-Germain; ce n'è a Londra: la moglie di Rosebery, per esempio....
La faccia del dottore si contrasse dolorosamente.
— Pur troppo.... È una delle grandi afflizioni del barone.... Ma pochi che disertano non rompono la compagine d'un esercito. La gran famiglia è sempre nostra.
A questo punto l'apostolo, che non era degenere dalla sua stirpe e alla fantasia del visionario associava lo spirito positivo dell'uomo pratico, pensò che doveva venire a una conclusione.
— Lasciamo le considerazioni generali, — egli disse, — e pel momento contentiamoci di quel che si può.... La risurrezione del regno d'Israello è un bel sogno che si avvererà col tempo.... Ora non si tratta che di soccorrere i fratelli perseguitati [66] ottenendo per essi un lembo di terra ove possano vivere in pace e adorare il loro Iddio.... Se non sarà uno Stato, sarà una colonia; se non sarà in Palestina, sarà altrove.... Io non appartengo agl'intransigenti.... Studieremo le proposte che ci verranno fatte.... compresa quella dell'Uganda, che sembra ci si voglia fare dall'Inghilterra. L'essenziale è di procurare una sede stabile a quelli che non hanno patria.... ciò che noi Tedeschi diciamo eine Heimstätte für die Heimatlosen.... E badi. Usando il vocabolo Heimstätte (sede, dimora) noi mettiamo da parte il concetto politico.... In questi limiti le diffidenze non hanno più ragion d'essere, e la nostra impresa non può non apparire altamente filantropica e civile.
— Oh, senza dubbio, — principiò Moncalvo. Ma s'interruppe avendo udito nella stanza attigua la voce squillante della Mariannina che parlava col segretario, il quale doveva esser venuto da poco.
— Non è visibile?... Pazienza.... Lo avvertirà lei che....
— Mi perdoni, — disse il commendatore al dottor Löwe. — Vado a sentire che cosa vuole mia figlia.... Torno subito subito....
— Prego, non faccia cerimonie....
La Mariannina, quando vide suo padre, lo baciò con effusione.
[67]
— Fanoli, — ella disse in tono scherzevole, — era risoluto a lasciarsi uccidere piuttosto di concedermi il passaggio.
— C'è una consegna precisa, — spiegò il banchiere. — Nel salottino nessuno entra se non chiamo io.
— Che misteri poi ci sono in quel salottino.... riservato ai soli adulti.... come in certi casotti? — riprese la Mariannina, tentennando la testa. — Però, se Fanoli aveva la consegna precisa ha fatto il suo dovere, e lo propongo per una promozione....
Moncalvo guardò con orgoglio paterno la bella ragazza ch'era in cappellino, pronta ad uscire.
— Pazzerella!... Mi dirai poi che cosa volevi.... Spìcciati.... Ho qualcheduno di là....
— Volevo annunziarti, — replicò la Mariannina, — che vado in automobile con Brulati e con la zia Clara e che non farò colazione a casa.
— E dove andate?
— A Mentana, a copiare un vecchio castello Borghese che, secondo Brulati, è molto pittoresco.
— Non guidi mica tu l'automobile?
— Saprei guidare benissimo....
— Uhm!
— .... ma c'è lo chauffeur, Giovanni....
— Meno male.... È un uomo prudente.
[68]
— A proposito di automobili.... Quella nostra Panhard di otto cavalli che fa tutt'al più 30 a 35 chilometri all'ora è indegna di noi. La Mercedes di miss May ha 40 cavalli e può raggiungere una velocità di 90 chilometri.
— È proprio quello che non voglio io, — dichiarò il commendatore. — Sono pazzie.... E poi io non ho i milioni di miss May....
— Almeno una Fiat di 24 cavalli.... Non ti rovinerai per così poco.
— Basta, per adesso non compro nulla.... Ma dimmi piuttosto come sei riuscita a persuadere la zia Clara.... coi suoi reumatismi? con le sue paure?
— In quanto a paura, non ne ha che se guido io. E io le ho giurato di non metter neanche la mano sul manubrio. In quanto ai reumatismi, l'avvilupperemo negli scialli.... Ne portiamo tanti con noi.
— Perchè, bada, la giornata dev'essere freddina.
— Saremo ben coperti.... Ti ripeto che c'è un deposito di scialli in automobile.... A più tardi....
La Mariannina gettò un bacio a suo padre, fece un saluto amichevole a Fanoli, e infilò l'uscio.
— La posta la vedrò dopo, — disse Moncalvo al suo segretario. — Ora sbrigo quel signore. — E aggiunse un gesto che gli risparmiava un'esclamazione [69] poco corretta: — Che rompiscatole!
Naturalmente, rientrando nel salottino, egli rinnovò le sue scuse al dottor Löwe.
— Ma si figuri! — biascicò questi. E riprese il discorso dove l'aveva interrotto: — Se non m'inganno, ella conveniva che, nei limiti in cui oggi restringiamo la nostra propaganda, nessuno ha motivo di adombrarsene. — Incoraggiato da un segno d'assenso, il dottore proseguì: — Io non dubito quindi ch'ella vorrà far parte del Comitato sionista di Roma.... spererei anzi ch'ella vorrà presiederlo.
Moncalvo misurò subito le conseguenze del passo a cui si cercava indurlo, e si mise sul guard'a voi.
— Ah, caro signor dottore, ella mi coglie alla sprovveduta e deve permettermi di non darle una risposta lì per lì.... Cioè sopra un punto le rispondo subito, e mi dispiace risponderle negativamente. Circa alla presidenza, non ci pensi neanche.... Fra i suoi correligionari che abitano alla capitale....
— I nostri, — sottolineò il dottor Löwe.
— Come vuole.... i nostri.... Insomma, fra gl'Israeliti di Roma ve ne sono molti assai più noti di me.... molti che hanno un nome nella politica, nella scienza, nell'arte.... ve ne sono poi [70] moltissimi di più ortodossi, ai quali sarebbe doveroso il rivolgersi.
— L'ortodossia non è indispensabile.... Noi ci teniamo a mostrare la solidarietà della razza indipendentemente dalla questione religiosa.
— È un punto anche più delicato, — ribattè il commendatore. — Loro si ostinano su questa benedetta razza, su questa pretesa nazionalità.... Ma noi dell'Occidente la nazionalità ebraica non l'intendiamo, e la razza, creda pure, dopo tanti secoli s'è imbastardita.... Santo Iddio! Tante razze ci sono in Italia.... Longobardi, Etruschi, Latini e che so io?... Chi li distingue?... E anche le nostre donne, via....
— Non dubiti, che l'Ebreo lo si distingue sempre, — interruppe vivamente il dottore fissando gli occhi in viso a Moncalvo che aveva il tipo semitico pronunziatissimo. — A ogni modo, il signor barone mi assicurava che lei non è di quelli che si vergognano delle proprie origini.
— Non c'è nulla da vergognarsi, — replicò il commendatore un po' infastidito. — Ma altr'è questo, altr'è prendere una parte attiva nel movimento, entrare nei Comitati....
— Neppure nel Comitato non entrerebbe?.... Aveva prima parlato della presidenza.
— Per la presidenza non c'è neanche da discorrere....
[71]
— E pel Comitato?
— Adagio, adagio.... Ci penserò su.... Le darò una risposta positiva.... In tutti i casi, — soggiunse Moncalvo, al quale premeva non compromettere i suoi buoni rapporti coi Rothschild, — in tutti i casi, non creda ch'io voglia negare ogni aiuto all'impresa.... nei limiti delle mie forze che non possono paragonarsi a quelle del signor barone.... C'è una cassa sociale?
Il dottor Löwe accennò agli opuscoli che aveva portati seco.
— Le lascio queste pubblicazioni.... Vedrà che i membri dell'Associazione s'impegnano a un contributo annuo, ciò che non ha nulla a che fare con le oblazioni straordinarie.
— Sta bene, — riprese Moncalvo. — La mia oblazione la farò anch'io, non ne dubiti.
Il dottore si alzò.
— Noi accettiamo tutto con riconoscenza.... Però la sua collaborazione ci sarebbe stata più preziosa di qualunque offerta in danaro.... E prima della costituzione definitiva del Comitato tornerò da lei....
— Sarà sempre un onore.... Si trattiene qualche giorno?
— Vorrei spicciarmi entro la settimana... Ho un itinerario lungo.
— E dove alloggia?
[72]
Il commesso viaggiatore del Sionismo nominò una locanda assai modesta, nella vecchia Roma, condotta da un israelita.
— Io vorrei averla un giorno mio commensale, — disse Moncalvo, certo che l'altro non avrebbe accettato l'invito. — Domani?... Posdomani?
— Grazie.... Faccio tutti i miei pasti all'albergo, — rispose, inchinandosi, il dottore a cui la rigida ortodossia non permetteva di sedere a una tavola ove i cibi non fossero apparecchiati all'uso giudaico.
E si congedò, accompagnato dal commendatore fino al pianerottolo della scala.
Il banchiere tornò nella stanza di Fanoli per dare un'occhiata alla posta.
— Veda prima questo telegramma, — disse il segretario mostrando al principale un dispaccio arrivato da pochi minuti.
— Ah, ci offrono trecentomila lire per stornar la vendita delle mille azioni di Terni, consegna fine mese. Dia il bene stare.... per telegrafo.
— Io credo che, insistendo, darebbero diecimila lire di più, — suggerì Fanoli.
Il commendatore Moncalvo fece un segno negativo col capo.
— Non insista. Chi troppo tira la corda, la spezza.... Ho sempre seguito questa massima negli affari, e non ho avuto che da lodarmene.
[73]
Corretto, rispettoso, il segretario non aggiunse sillaba e si accinse a scrivere il telegramma di benestare. Nello stesso tempo però egli consegnò al principale una lettera riservata.
— Uhm! — fece Moncalvo storcendo il naso. — Sento odore di conte.... Quest'è Ugolini....
— A giorni scade il suo pagherò, — soggiunse Fanoli.
— Lo chiami pure un non pagherò, — ribattè il banchiere che aveva rotto la busta. — Ecco qui.... domanda la rinnovazione a sei mesi.
— Per la seconda volta.
— Eh, caro Fanoli, si aspetti la terza, la quarta e via di seguito.... Non ho mai calcolato sul rimborso di quelle quindicimila lire.... Trovo anzi che Ugolini è un uomo discreto.... Ma sì; se invece di quindici ne avesse chieste venti o venticinquemila, sarei stato imbarazzato a rispondere di no.... Quell'Ugolini è un uomo prezioso.... Accompagna le mie donne di qua e di là.... Mi libera da una quantità di seccature.... sopra tutto con mia moglie, che non rifinisce di cantarmene le lodi.... Ed è cavaliere di Malta, ciò che impone silenzio alle male lingue.
Fanoli si guardò bene dal sorridere dell'ingenuità del suo principale, e chiese arricciandosi i baffi:
— Dunque la rinnovazione è concessa?
[74]
— Concessissima. Quindicimila lire da me, quindicimila dalla Banca internazionale non son nulla di eccessivo per uno che ha tante aderenze e anche alla Banca ha giovato indirettamente.
Qui notiamo fra parentesi che della Banca internazionale il commendator Gabrio Moncalvo era l'anima e che vi passava gran parte del pomeriggio, facendovi la pioggia e il bel tempo.
Data una rapida occhiata ad altre lettere e telegrammi, il nostro banchiere si riaccinse alla revisione delle sue bozze. Ma nemmen questa volta potè rimanere tranquillo; chè, annunziata da un mellifluo: — Disturbo? — gli si parò innanzi la faccia rasa e rubiconda di monsignore de Luchi.
— Oh, lei? — esclamò Gabrio Moncalvo. — Avanti, monsignore, avanti.
— Buon giorno, commendatore.... Ha fatto un oh di maraviglia quando m'ha visto.... Per l'ora insolita, forse.
— Non per l'ora. Le dirò, le dirò.... Entri anche lei nel gabinetto riservato.... Passi, s'accomodi.
E fattolo sedere al posto ov'era pur dianzi l'apostolo del Sionismo, gli spiegò in poche parole chi fosse e che volesse il suo predecessore, concludendo:
— Ecco la ragione del mio oh.... Sono contrasti che non si vedono che ai nostri giorni e non si [75] vedono che a Roma.... Che confusione di lingue, non è vero, monsignore? Un sacerdote della Chiesa cattolica, un ebreo del vecchio stampo, e uno che non è nè carne nè pesce....
— Siamo nell'Urbs, — notò l'ecclesiastico.
— Però prima del Settanta certi contrasti non erano possibili.
— Perchè no? Perchè no? — rispose monsignore che aveva questo intercalare. — La Chiesa è inflessibile nei principii, è intransigente nelle apparenze, ma in fondo è sempre stata tollerantissima.
— Uhm, uhm!
— Parlo sul serio. E i pontefici non hanno mai escluso nessuno dalla loro presenza.
— Sarà.... Quello ch'è sicuro è che lei, monsignore, è un vero uomo di mondo, un vero uomo moderno.
— La Chiesa è sempre antica e sempre moderna, — disse il prete. — È contemporanea di tutti i secoli e intende tutte le questioni.
— Anche il Sionismo?
— Perchè no? La Chiesa sa che il tempio di Salomone non si ricostruisce. Essa non permetterà che sorga un regno d'Israele ove è la tomba di Cristo, ma non disapprova l'emigrazione degli Ebrei verso qualche regione ove possano vivere in pace.... Sarà tanto più probabile che quelli [76] che si sono ormai assimilata la nostra civiltà abbraccino la nostra fede.
— Sicchè.... scusi, sa, se per un istante faccio finta d'esser un buon cattolico anch'io e la prendo per mio direttore spirituale.... (dicono così, non è vero?) lei non pensa che un appoggio dato all'impresa possa nuocermi presso i suoi amici?
— All'impresa sionista?
— Appunto.
— Niente affatto.... Solo bisognerebbe vedere il programma.... Ha messo la sua firma anche lei?
— No, no, — si affrettò a rispondere il commendatore che ormai era deciso a non sottoscrivere, — la firma no. Tutto si limiterà a una contribuzione pecuniaria.
— E allora.... è troppo naturale.... Una persona che ha la sua posizione finanziaria, e che appartiene sempre... almeno ufficialmente.... alla confessione israelitica, non può chiuder la sua borsa.
Moncalvo, che in fondo era soddisfatto del responso di monsignor de Luchi, tentennò la testa.
— La credono inesauribile la mia borsa.... E invece basterebbe una crisi....
— Lasciamo andare, lasciamo andare.... Chi ha i suoi capitali, la sua abilità, le sue aderenze non ha paura di crisi.... Ma veniamo a noi....
— Son qui tutt'orecchi.
— Ecco, si tratta dell'affare Oroboni.... Il Consiglio [77] della Banca internazionale s'è riunito?
— Sì, s'è riunito, ha discusso.... Ma è un osso duro, non glielo nascondo.... L'affare non presenta quelle garanzie che sarebbero necessarie per subentrare alla Banca d'Italia in questo mutuo.... Vede che la Banca ha una gran fretta di liberarsene.
— È uno strascico della Banca Romana, e si capisce che la Banca d'Italia desideri liquidare al più presto l'eredità.... Poi la legge stessa le impone di smobilizzare.... che termini barbari!... Ma fossero tutte sicure come questa le sue investite!
— Curioso però che questa gran proprietà non dia da due anni l'occorrente per pagar gl'interessi.... E sì che gli Oroboni sono in due e non fanno lusso.
— Tutt'altro.... Ma è un'amministrazione trasandata.... Lasciamo stare il palazzo di città, ma i fondi potrebbero dare una rendita quadrupla di quella che dànno.
— Se non sanno amministrare, vendano.
— Finora la principessa non voleva, e don Cesarino è così ossequente alla madre!... Non è detto però che non possa cambiar d'opinione.... se vi fosse una proposta vantaggiosa.... Caro commendatore, — soggiunse l'ecclesiastico come se gli [78] fosse venuta un'idea subitanea, — ha mai pensato se l'acquisto potesse convenire a lei?
— A me? — esclamò Moncalvo fingendo sorpresa. — Come vuole ch'io possa togliere un milione dalla mia azienda?... Noi banchieri abbiamo bisogno di denaro vivo.
— Eh, via! Anche con un milione di meno la sua azienda prospera lo stesso.... Gliene restano sempre a bastanza.... E nella peggiore ipotesi c'è il credito che fa miracoli. Due righe di telegramma al suo amico Rothschild, e quella cassa è a sua disposizione.
— Ha voglia di scherzare, monsignore. No, no, non sono operazioni per me.
— Sarebbe un affar d'oro. Il palazzo di Roma e la villetta di Porto d'Anzio valgono il milione da loro soli. Tutti i fondi presso Albano sono dati per soprammercato, e in mano sua frutterebbero il sei per cento e più.
— Sì, per quello che me ne intendo io d'agricoltura!
— Lei si procura un buon agente.
— Quello degli Oroboni, per esempio?
— No, quello degli Oroboni non farebbe per lei... Ma il proprietario nuovo non sarebbe legato da nessun impegno.
— Via, son discorsi inutili. Io non compero.... E pel mutuo con la Banca internazionale [79] che vuol che le dica?... Mi dispiace, ma temo che non se ne farà nulla.... Posso ritentare....
— Bisognerebbe far presto, prima che la Banca d'Italia mandi all'asta.... Non che l'asta abbia ad esser necessariamente rovinosa.... Scommetterei che si troverebbero applicanti anche per più del milione.... Ma è l'effetto morale.... per la principessa, per don Cesarino.... È la prospettiva di dover abbandonare il loro palazzo.
— Questo accadrebbe anche in seguito a vendita privata.
Monsignor de Luchi si aggiustò il colletto.
— Secondo il compratore.... Vi potrebb'esser quello che consentisse ad affittare ai proprietari attuali.
— Bravo!... Per non riscuoter mai la pigione.... No, no, caro monsignore.... Chi comprasse il palazzo e il giardino non avrebbe che da far tabula rasa e da approfittare dell'area per rifabbricarvi.... Cinque o sei piani, stanze piccole, tutto il comfort moderno.... potrebbe col tempo essere un discreto impiego.
— Ah, commendatore mio, — esclamò il prete congiungendo le mani, — che sacrilegio!... Distruggere una delle poche oasi che ci siano rimaste!... Come se non ce l'abbiano deturpata abbastanza la nostra Roma!... E che cosa direbbero le signore che hanno un senso d'arte così squisito?... [80] Si ricorda giorni fa, quand'ebbi l'onore di accompagnarle a visitare il palazzo e il giardino Oroboni, si ricorda la sua Mariannina, che entusiasmo!
— Verissimo. Il demolire sarebbe un peccato.... Ma il compratore non potrebbe fare altrimenti.
— Scommetto che lei non demolirebbe.
— Ho paura che perderebbe la scommessa.
— Lei non vorrebbe dar un dispiacere simile a sua moglie e alla sua figliuola.
Moncalvo tentennò la testa.
— Ma d'altra parte mia moglie e la mia figliuola non vorrebbero suggerirmi una speculazione rovinosa. Sa, anche loro l'istinto degli affari lo hanno nel sangue.
Nel dir queste parole il commendatore sorrise. Poi, mutando argomento, uscì in questa proposta:
— Lasciamo per un poco gli affari.... Faccia una bella cosa.... Resti a colazione con noi.... Siamo soli, mia moglie ed io.... La Mariannina e mia cognata sono in automobile e non torneranno che nel pomeriggio.... Via, che impegni ha?
— Ma.... veramente.... — biascicò monsignore.
— Non cerchi delle scuse, — insistè Moncalvo.
In realtà monsignore era dispostissimo ad accettare. Egli era sicuro che il restar a colazione non avrebbe già avuto per conseguenza di lasciar da parte gli affari, ma anzi di farli rimettere sul [81] tappeto in condizioni più favorevoli, con un'alleata efficacissima al fianco, donna Rachele, che aveva una grande simpatia per gli Oroboni e conoscendo i loro impicci economici sarebbe stata lieta che suo marito li salvasse dal naufragio.
— Simpatia disinteressata? — pensava monsignore.
Egli credeva di aver letto in quell'anima di donna piena di vanità e d'ambizione. E forse non s'ingannava.... Ma neanch'egli era per lei un libro così chiuso ch'ella non vi avesse letto dentro qualche cosa.... Chi sa se non avrebbero finito per intendersi?...
— Ebbene? Che medita? — domandò il banchiere.
— Che vuol che le dica?... Alla sua cortesia non si resiste.... Per che ora sarebbe?
— Si va a tavola a mezzogiorno e un quarto.
— E io a mezzogiorno e un quarto sarò da loro. Son le dieci e mezzo.... Ho tempo d'avanzo d'andare fino alla Cancelleria e di tornare indietro.
— Diamine! Ha una bella passeggiata.... Vuol che faccia attaccare il fiacre?
— Ma si figuri! Cammino volentieri, e a ogni modo c'è il tram qui alla porta.
— Come crede.... In pochi minuti il fiacre sarebbe pronto.
— No, grazie.
[82]
— Grazie a lei di aver accettato l'invito.
E il commendatore accompagnò fino sul pianerottolo l'ecclesiastico, come aveva prima accompagnato il sionista.
Due agenti di cambio aspettavano nell'anticamera. Sulla scrivania di Fanoli erano alcuni telegrammi aperti, il cui contenuto parve recar molta soddisfazione a Gabrio Moncalvo.
— Dei quattrini ne escono, — egli disse fra sè, — ma per fortuna ne entrano molti di più.
Poi chiamò il fattorino.
— Salite in casa e fate avvertir mia moglie che monsignor de Luchi sarà a colazione con noi.
Sbrigati gli agenti di cambio, Moncalvo dettò in francese una letterina al segretario:
«Signor dottore,
«Metto a disposizione della nobile opera alla quale Ella consacra la sua attività la somma di venticinquemila franchi. Incaricherò i miei amici baroni Rothschild di Francoforte di fare per mio conto il versamento alla cassa centrale. Consento naturalmente che il mio nome figuri tra gli oblatori; mi duole invece di non poter entrare nel Comitato romano. Augurando il miglior successo all'impresa, la prego di accettare l'assicurazione della mia stima profonda.
«Suo obbl.mo
«Gabrio Moncalvo».
[83]
Dopo aver apposta la sua firma, il commendatore dettò l'indirizzo e ordinò al segretario di far recapitare la lettera al più presto.
— Anche questa faccenda è liquidata, — egli disse fregandosi le mani.
L'automobile filava a velocità moderata attraverso Piazza delle Terme e via Venti Settembre. V'erano dentro quattro persone: la Mariannina Moncalvo con la zia Clara, il pittore Brulati e lo chauffeur, Giovanni.
A un certo punto la Mariannina gridò:
— Ferma!
Giovanni chiuse i freni e l'automobile si fermò all'angolo del Grand Hôtel. Il portiere dell'albergo fece due passi credendo che qualcheduno volesse scendere; poi, visto che la faccenda non lo riguardava, tornò indietro sbadigliando.
— Cosa c'è? — disse spaventata la zia Clara.
— Niente, niente, — rispose Brulati voltandosi.
E la Mariannina soggiunse, mentre faceva dei cenni con la mano a un giovinotto che s'avvicinava di corsa:
[84]
— C'è Giorgio.
Il professorino, che aveva ubbidito all'appello della cugina (e come non ubbidirvi?), si accostò, rosso in viso e trafelato, all'automobile, intorno al quale ronzavano gli sfaccendati.
— Buon giorno, — egli disse salutando tutti, ma non avendo occhi che per la Mariannina. — Siete in gita?
— Gita artistica, — replicò la ragazza. — Vado fino a Mentana a dipingere con Brulati.
— A Mentana! — esclamò Giorgio colpito dal nome. — Dove si son battuti nel novembre 1867?
— Sarà.... C'è un vecchio castello dei Borghese assai pittoresco.... Almeno da quello che dice il mio illustre maestro.... Io ci vado per la prima volta.... — Guardò maliziosamente il giovinotto e soggiunse: — Tu hai una voglia matta di veder Mentana.... per amore della battaglia, s'intende.... una battaglia ove c'era Garibaldi, ora ricordo.... ebbene, vieni con noi....
— Se non ci sta nell'automobile? — insinuò la zia Clara.
— Ci sta benissimo, — ribattè la nipote. — Ci sta fra noi due.... pigiandoci un poco.... Animo, monta.... È un favore che non meriteresti perchè non ti lasci veder da un secolo.
La signora Clara, che aveva molta stima e molto affetto per Giorgio e avrebbe voluto salvarlo [85] dalle civetterie della nipote, rinnovò le sue obbiezioni.
— Lo faremo star male e staremo male noi.... E probabilmente egli avrà da lavorare.... E sarà aspettato a colazione da suo padre.
— No, — disse il giovane. — Oggi mio padre non fa colazione a casa.... È a Frascati, da un collega.... Voleva che ci andassi anch'io, ma mi seccava.... Capisco che sono più orso di lui.
— Dunque non ci son scuse.... Si spicci, signorino.
Giorgio esitava.
— Non vorrei dar un dispiacere alla zia Clara.
— Che dispiacere vuoi darmi? — rimbeccò la zia. — La tua compagnia mi è sempre cara.... Ma questa birichina ti farà perdere mezza giornata.
— E tutta la testa, — borbottò in modo quasi incomprensibile il pittore Brulati, che aveva un'ammirazione sconfinata per la bellissima ragazza e nonostante i suoi cinquantacinqu'anni sospirava platonicamente per lei.
Intanto Giorgio aveva, alla meglio, preso posto fra la zia e la cugina.
— Ero sicura che ci si stava comodamente! — esclamò la Mariannina in aria trionfale. E ordinò allo chauffeur: — Avanti!
— Siete sicure del tempo?... — chiese Giorgio [86] guardando il cielo ch'era percorso da grossi nuvoloni.
La signora Clara si tirò sulle ginocchia la coperta di felpa.
— Temo anch'io che voglia piovere.
— Non pioverà, — sentenziò la Mariannina. — E il cielo e la campagna sono più pittoreschi così che quand'è sereno.
In un lampo l'automobile uscì da Porta Pia e si trovò sulla via Nomentana, fiancheggiata di ville a destra e a sinistra.
— Ah, queste ville romane! — disse la Mariannina. E soggiunse subito urtando il gomito di Giorgio, che trasalì al tocco della candida mano: — A proposito; non ci siamo più visti dopo la mia visita al Palazzo e al giardino Oroboni.... Lo sai ch'era la mia gran curiosità.
— Lo so, — rispose il giovine che quest'annunzio turbava, senza ch'egli potesse spiegarsene il perchè. — E come ci sei penetrata?
— Per merito di monsignor de Luchi.... il mio monsignore.
Giorgio scrollò le spalle.
— Curioso gusto di aver ogni momento un prete fra i piedi.
— Eh, caro mio, non siamo mica intolleranti, noi. Quel pretino si getterebbe sul fuoco per me.
— Gli credi? Avrà i suoi secondi fini.
[87]
— Si fa presto ad accusare. Bisogna provar le accuse.
Giorgio non rilevò la sfida, e riprese:
— Dunque che meraviglie ci sono da quegli Oroboni?
— Tutto è caratteristico, tutto ha una sua impronta particolare. Me ne appello a Brulati.
— C'è stato anche lei?
Il pittore ch'era seduto accanto allo chauffeur, girò su sè stesso per rispondere.
— Sì, non mi son lasciato sfuggir l'occasione.... Oh, forse il luogo non avrebbe tante attrattive se non fosse poco meno che inaccessibile ai profani.... A Roma ci son giardini infinitamente più ampi e meglio tenuti, con maggior ricchezza di piante, d'acque, di fiori.
— Ora Brulati mi cambia le carte in mano, — disse la Mariannina. — Era d'accordo anche lui che una delle originalità del giardino Oroboni fosse d'esser così trascurato.
— Non lo nego.... Ricorda un po' il quadro di Calderini, Giardini abbandonati.
— Appunto.... Ah, quei sentieri ove cresce l'erba, quegli alberi che nessuno si sogna di agguagliare, di pettinare....
— Sentiamo il parere della zia Clara, — disse Giorgio.
— La zia Clara non ha nessun parere, per la [88] gran ragione che la zia Clara non c'era, — rispose l'interrogata.
— Che la zia Clara ci fosse o non ci fosse, — riprese con calore la Mariannina, — ciò non toglie, signorino mio bello, che quella villa degli Oroboni nel centro di Roma non sia una magnificenza.
— Strani gusti avete! — rimbeccò Giorgio. — La putrefazione, la morte.... Ma io amo la vita nell'aspetto delle cose e delle persone.
E avvolse d'uno sguardo appassionato la bella cugina che, in verità, era il simbolo della vita e della giovinezza.
La Mariannina, ch'era fresca fresca della lettura delle Vergini delle Roccie, disse a Giorgio ch'egli non era artista, che non capiva la poesia delle rovine, delle acque stagnanti, delle foglie infracidate, delle aristocrazie che si spengono.
— E c'erano i campioni di queste aristocrazie? Li hai conosciuti?
— Magari! Ma non c'erano.... Erano a Loreto.
— A sciogliere un voto?
— Chi sa? Dev'esser bella Loreto.
— La fiera delle indulgenze e il ritrovo delle ignoranze.
— Ci fosti?
— No.... fui a due passi.... a Recanati.
[89]
— Al paese di Leopardi?
— Sì, quello era un uomo.... Altro che i tuoi Oroboni!
— Chi fa il confronto?... E pure io non dispero di conoscerli.
— Tornerai?
— E perchè no?... come dice monsignor de Luchi.
— Già, monsignore ti condurrà.
— S'intende, monsignore.... O che male c'è? In che t'ha offeso quel buon pretino mio?
— Che vuoi che ti dica? — replicò Giorgio. — Io non capisco che punti di contatto ci possano essere tra un monsignor de Luchi e la figlia del commendatore Gabrio Moncalvo.... Una volta....
— Una volta, — soggiunse vivacemente Mariannina, — monsignore avrebbe cercato il modo di bruciarmi viva. Ora viene a colazione da noi.... Non ti pare che sia meglio?
— Sicuro ch'è meglio.... Ma non mi negherai che il tuo monsignore e quei mummificati Oroboni pei quali vai in sollucchero rappresentano un mondo, un ordine d'idee affatto diversi dalle nostre idee e dal nostro mondo.... Me ne appello alla zia Clara.
La buona signora, ch'era un po' paralizzata dalla corsa dell'automobile e s'avviluppava sempre più nei suoi scialli, aveva in cuor suo l'opinione di [90] Giorgio, ma desiderava evitar le discussioni. E si contentò di rispondere:
— Cari figliuoli, sopra tutto non vi bisticciate. La zia Clara lascia che ognuno pensi a suo modo.
— È questo professorino che vorrebbe imporsi, — replicò con petulanza la ragazza...
— Smetti anche tu, — pregò la zia.
— Io mi diverto a farlo arrabbiare, — rispose con voce raddolcita la Mariannina. — E poi voglio avere il merito di raffinare i suoi gusti.... È uno scienziato.... ma è un borghese....
— Che cosa significa?
— Significa.... significa, — disse la Mariannina andando un po' a tastoni, — uno che accetta le opinioni correnti....
Giorgio fece un segno negativo col capo.
— Sissignore.... Oggi è di moda far gli spiriti forti, protestare contro l'oscurantismo, il clericalismo....
— Ma che? Ma che? — interruppe il cugino. — Anzi i clericali tornano in auge.
— Adagio, Giovanni! — gridò la signora Clara. — C'è un baroccio.
— Eh, lo vedo.
Il baroccio, a due ruote, tirato da due cavalli coi fiocchi rossi, scendeva rumorosamente da Ponte Nomentano. Di sotto al caratteristico ombrellone [91] blu, il barrocciaio degnò appena di un'occhiata l'automobile che gli passava rasente. Un canino ringhioso abbaiò.
Di là dal Ponte Nomentano la strada, già così larga e diritta, si ristringeva, diventava irregolare e tortuosa, avvallandosi spesso, alzandosi talora fino a dominar la campagna malinconica e suggestiva. Qualche buttero a cavallo percorreva le grandi praterie ove pascolavano le mandre disperse, qualche macchia d'eucaliptus, qualche quercia solitaria, qualche pino rompeva la monotonia della verde pianura leggermente ondulata.
— Adagio! — seguitava a raccomandare la signora Clara.
Di sotto alla pesante coperta di felpa, ch'era abbastanza grande da servire per tre e di cui la Mariannina aveva reclamato la sua parte, Giorgio Moncalvo cercò la mano della bella cugina e la strinse forte nella sua. Ella, sempre calma, rispose con una leggera pressione delle dita; poi liberò la mano prigioniera e si ravviò il velo sul viso. Un sorrisetto enigmatico errava sulle sue labbra.
— A momenti piove, — sospirò la zia guardando il cielo ch'era più scuro di prima.
La Mariannina fece un gesto d'impazienza.
— Nemmen per sogno. Scommetto che torneremo col sole.
[92]
E Giorgio, ormai disposto a darle ragione in tutto, soggiunse:
— Infatti lì in fondo c'è una striscia d'azzurro.
Brulati, ch'era invece di pessimo umore, si voltò per contraddire.
— Ma che azzurro?... Anzi quei monti eran chiari e ora son coperti.... Pioverà senza dubbio, e, se stesse in me, farei fare un dietro front all'automobile e filerei per Roma.... Non è giornata, no, da dipingere.
— Credo che Brulati non abbia torto, — disse la signora Clara, ma i due giovani le diedero sulla voce. Tornare indietro? Ora che s'era quasi arrivati? Per la paura d'un po' di pioggia? Come se in ogni caso non fosse meglio giungere in un paese ove sarebbe stato facile di mettersi al riparo!
La Mariannina se la prendeva particolarmente col pittore. Non si vergognava d'esser così pusillanime?
Giorgio dichiarò che, in quanto a lui, piuttosto che rinunziare a veder Mentana, ormai che s'era a pochi chilometri, avrebbe finito il viaggio a piedi.
— Bravo! — esclamò la Mariannina. — Vengo anch'io.
— Vuoi? — chiese Giorgio fissandola negli occhi.
[93]
— Siete matti? — interruppe la signora Clara.
La Mariannina fece una spallucciata.
— Cara zia, tu hai bisogno di esser catechizzata da miss May.
— Miss May non ha da catechizzarmi niente affatto, — ribattè la signora Clara. — Ella è padrona di regolarsi secondo i suoi usi americani. Noi seguiamo gli usi europei.
Queste cose la signora Clara le disse senza scomporsi, senz'alzar la voce d'un punto, ma con un'intonazione che contrastava con la sua apparenza di persona esile, malaticcia, remissiva.
Nè la Mariannina si ribellò, benchè fremesse in cuor suo e trovasse inesplicabile la soggezione che, in certi momenti, la zia le inspirava.
— Manca molto a questa benedetta Mentana? — chiese la signora Clara a Giovanni.
— Se mi lascia dar un po' più di forza alla macchina, ci siamo in cinque o sei minuti.
— Sia pure.... con giudizio però.
— Non dubiti.
L'automobile accelerò la sua corsa; gli squilli della cornetta di allarme echeggiavano quasi ininterrotti lungo la via solitaria.
La zia Clara aveva chiuso gli occhi e arrovesciata la testa sulla spalliera del sedile. I due giovani invece, col busto proteso innanzi, aspiravano [94] voluttuosamente l'aria frizzante che batteva loro sul viso.
— Auff! — disse la Mariannina alzando il velo che le si appiccicava alle tempie e alle gote. — Così mi piace.... Tagliare il vento, divorar lo spazio.... esser padroni della strada....
— Io così farei il giro del mondo, — dichiarò Giorgio a voce bassa.
— È lunghetto.
— In buona compagnia mi parrebbe breve, — soggiunse il professorino parlando quasi nell'orecchio della cugina.
Ella riprese il suo tuono ironico.
— La buona compagnia sarei io, s'intende....
— Sfido!
— Un ratto in automobile.... Non mancano gli esempi. Sta a vedere se lo chauffeur sarebbe disposto....
— Ah, senza chauffeur.... diamine!
— Allora guiderei io.... perchè tu non sai nemmeno tenere il manubrio.... questo si capisce a volo.
— Pur troppo, — confessò Giorgio, mortificato.
— In questo caso.... perchè anch'io guido come posso.... si farebbe una gran frittata....
— Sarebbe una bella morte.
— Grazie.... Per te.... Ma ci sarei anch'io.
— Ecco Mentana, — annunziò Brulati. E additò [95] un gruppo di case. — Quello più alto è il castello Borghese.... Lo chiamano castello tanto per dire, ma in fondo non è che un vecchio palazzone diroccato.... assai pittoresco.... specie quando c'è il sole.... Oggi pur troppo....
— E la battaglia, — domandò ansioso Giorgio Moncalvo, — dove la si è combattuta?
Brulati, benchè romano, ne sapeva pochino....
— Qui intorno.... Credo che Garibaldi, coi suoi, fosse dentro Mentana, in marcia per Tivoli.... I papalini avevano occupato i poggi, le ville.... Ero un ragazzo allora.... Più avanti c'è un'ara ai caduti.... e stanno costruendo un museo per collocarvi le reliquie della giornata....
E poichè Giorgio insisteva nelle sue domande:
— Oh, — disse la Mariannina, — è storia di quarant'anni fa. Ci vuol altro a ricordarsi!
La zia Clara si scosse e protestò energicamente.
— E storia di ieri, è storia nostra, e bisogna ricordarsene.... Anch'io, come Brulati, ero poco più d'una fanciulla in quel tempo, e pur rammento quanto se ne discorreva.... A casa nostra biasimavano i giovani che avevano risposto all'appello di Garibaldi e io scandalizzai i nonni dichiarando che se fossi stata un uomo sarei corsa subito ad arruolarmi....
— Ma! — disse Giorgio con un sospiro. — Io [96] invidio sempre quelli che son nati mezzo secolo prima di me.... Avevano almeno la possibilità di morire da eroi.
— Bah! — fece la Mariannina con una smorfia. — Come se bastasse morire in battaglia per essere eroi.... Una palla può buscarsela anche uno che scappa.
Erano giunti al limite del paese, e Brulati suggerì di fermarsi e di scendere. Se si doveva tornar indietro per la medesima strada era meglio voltar l'automobile addirittura. Quelli che volevano vedere il monumento ai caduti potevano recarvisi a piedi.... Non erano che pochi passi, fino a quella specie di piazzetta che c'è a metà della via III Novembre.... Egli il monumento lo sapeva a memoria e preferiva d'andar verso il castello a riconoscere i luoghi, per fissar il punto più adatto per fare uno schizzo.... se non oggi, un altro giorno.
— Io intanto vado con Brulati, — annunziò la Mariannina saltando giù dall'automobile. — Poi egli mi accompagnerà fino al monumento, ove la zia Clara e Giorgio possono precederci.... Caro Brulati, se pur il monumento lo sa a memoria, niente impedisce che lo veda una volta di più.
Lusingato dall'idea di far da cavaliere all'affascinante ragazza, il pittore s'inchinò profondamente.
[97]
— Lei comandi e io ubbidisco.
— Va bene, — disse la signora Clara prendendo il braccio del nipote. — Ci raggiungerete.... È di qua?
— Sissignore, questa è la via III Novembre, — rispose un cicerone del paese, che, non invitato, s'era messo al fianco dei forestieri.
— Li lasci soli? — chiese Giorgio. E seguiva con l'occhio i due che s'allontanavano.
La zia non potè trattenersi dal ridere.
— Che scrupoli!.... Pur dianzi avresti voluto far solo con la Mariannina il giro del mondo.... Parlavi piano, ma ho buoni orecchi.
Giorgio arrossì, balbettò qualche frase sconnessa.
— Oh, non ti confondere.... Non ho paura che tu scaldi la testa a tua cugina.... Non c'è nessuno che gliela possa scaldare.... Vedi se ho da darmi pensiero perchè la ho lasciata a tu per tu con Brulati che ha cinquantacinqu'anni e non è compromettente.... In ogni caso, è più in pericolo lui.... Ma se non sa difendersi, tanto peggio.... Egli m'interessa fino a un certo punto.... Tu, tu mi stai a cuore e non vorrei che tu avessi a perdere la tua pace.... Se dovess'esser così, sarebbe stato mille volte meglio che tu fossi rimasto in Germania.
[98]
Erano all'incirca i discorsi che Giorgio Moncalvo aveva uditi da suo padre e di cui gli era forza riconoscere la piena ragionevolezza.
Tanto per dir qualche cosa alla zia, egli negò d'esser innamorato della Mariannina. Gli piaceva, questo sì, e quando l'era vicino subiva il fascino ch'ella esercitava su tutti, ma aveva ancora abbastanza sale in zucca da capire che non era pane per i suoi denti....
Poco persuasa, la zia Clara tentennava la testa.
— Non la cercare, dunque.... È pericolosa, te lo assicuro io.
— Anche tu, come il babbo, sei ostile alla Mariannina, — notò Giorgio con amarezza.
La signora Clara, s'impazientì.
— Io?... Io le voglio un bene dell'anima.... Me la son vista crescere sotto gli occhi, sento che la casa mi parrà deserta quand'ella ne sarà uscita.... Ma la conosco con le sue qualità e coi suoi difetti.... Farà molto, molto soffrire.... E non è responsabile.... Sa di trionfare con la sua bellezza, con la sua grazia, con le stesse bizzarrie del suo carattere; sa che gli uomini vanno in estasi per un suo sguardo, per un suo sorriso, e dispensa sguardi e sorrisi credendo di far dei felici.... Che colpa ne ha lei se la felicità d'oggi diventa sventura domani?.... Che colpa ha la fiamma se brucia?... Fuggila, fuggila.
[99]
— Non dovrei dunque venir mai, mai più da te, dallo zio?... Ci vengo così poco....
— Se non puoi armarti d'indifferenza, non ci venire.... Ma bada.... La guida ci fa un segno.
Per un lieve declivio giunsero allo spazio dove sorgeva, cinta da una cancellata di ferro, l'ara ai morti di Mentana. Vi si leggeva scolpita la bella epigrafe del Guerrazzi: «La bocca di questo sepolcro manda ai viventi una voce che dice: deh! siate men vili, e fate, deh fate che per la patria e la libertà non siamo morti invano».
La custode arrivò con le chiavi, aperse la cancellata, aperse una porticina che metteva nell'interno del monumento, accese una candela sopra una mensola. Nel centro di quella cella quadrata, dalle pareti scure e massiccie, un sarcofago di marmo conteneva, visibili attraverso il coperchio di cristallo, ossa e teschi dei caduti nella giornata del 3 novembre. Sulla mensola, vicino al lume, era una coppa piena di carte da visita. Silenziosamente Giorgio vi depose la sua.
— Poveri giovani! — sospirò la signora Clara.
— No, zia, non li compiangere, — protestò Giorgio. — Sono morti per una grande causa.
— Ci può esser in ogni tempo qualche grande causa per cui combattere, e, se occorre, morire.
La custode credette doveroso di mettere una parola.
[100]
— Io c'ero.
Zia e nipote si voltarono. In fatti la donna, che aveva l'aria di non aspettar più il mezzo secolo, poteva esserci stata.
— Ero una bimba, — ella soggiunse.
— E che cos'ha visto? Ha visto Garibaldi? — le chiesero.
— Ah, no.... Sono rimasta tutto il giorno nascosta in cantina.
Proprio nel momento in cui questo testimonio oculare dava così preziose informazioni sulla battaglia, la Mariannina e Brulati s'affacciavano alla porta.
— Siamo qui, — disse la Mariannina. — Per oggi bisogna rinunciar a dipingere. Comincia a cader qualche goccia di pioggia.
— Lo prevedevo io! — esclamò la signora Clara. — Era meglio accettare il consiglio di Brulati.
— Brulati dà sempre buoni consigli, — affermò il pittore con comica solennità.
Giorgio invitò la cugina ad entrare nel monumento, ma ella accennò col dito che non entrava.
— Perchè?
— Ho inteso da Brulati che ci son degli orrori lì dentro. No, no. È inutile. Non ho simpatia per gli ossari. Su, Brulati. Andiamo a goderci la bella vista. Ha detto lei che di quassù c'è una vista magnifica.
[101]
— Col cielo sereno, però.
— In ogni modo io vado, — riprese la ragazza. — Chi vuole mi segua.
Brulati le tenne dietro come un cagnolino.
La custode dava altre spiegazioni, mostrava un cranio forato da una palla.
— Che pietà! — sussurrò la signora Clara giungendo le mani. E ricordò la frase tristamente celebre: Les Chassepots ont fait merveille.
— Chi sa poi s'era un garibaldino o un francese? — obbiettò Giorgio guardando verso la porta.
— È lo stesso, — rispose la zia. — Forse aveva vent'anni; aveva una madre che lo aspettava.... Tu sei sulle spine.... Usciamo pure.... Dove sono quei due?
— Qui, a un passo, — disse la custode.
Dal ciglio del poggio si dominava la Sabina. Brulati enumerava i paesi.
— Ecco, a sinistra Fara Sabina, Montelibretti, Morigoni, Palombara; a destra Sant'Angelo, Monte Celio, Tivoli nascosto dietro quegli ulivi.
— Se non sa dire più di così.... — principiò la Mariannina. E s'interruppe per rivolgersi alla zia e a Giorgio che sopraggiungevano.
— Tutta la scienza di Brulati consiste a sciorinare una quantità di nomi.... Allora tant'è prendere il Baedeker.... Quando gli si domanda dov'erano [102] i papalini, dov'erano i francesi, che strada hanno tenuto per piombare addosso a Garibaldi, resta a bocca aperta.
— Se ho confessato prima che non conosco i particolari della battaglia!
— Io c'ero, — ripetè la custode intascando la mancia datale da Giorgio Moncalvo.
— Brava! Racconti.
Giorgio scoppiò in una risata.
— Oh sì.... Ha passato la giornata nascosta in cantina.... Non ha visto nulla.
— Sentivo le fucilate.
— Gli ossari mi fanno ribrezzo, — disse la Mariannina. — Ma una battaglia la vedrei volentieri. E scommetto che non avrei paura, che m'inebbrierei del fumo, della polvere, del frastuono....
— Piove davvero, — osservò la signora Clara. — Che si fa, figliuoli?
Dopo aver agitato i varii partiti, e visto che a Mentana non c'era una trattoria possibile, conclusero che il meno peggio era di risalir subito in automobile e di andare a far colazione a Sant'Agnese. Anche senz'affrettarsi troppo, ci potevano arrivare in poco più di mezz'ora.
Quando si misero in cammino la pioggia affittiva e l'ombrello aperto dalla signora Clara non riparava nè lei nè gli altri, ond'ella si decise di chiuderlo e tirò su lo sciallo fin sulla faccia. Il [103] cattivo tempo influiva sull'umore di tutti; Brulati brontolava collo chauffeur; lo chauffeur se la prendeva con la strada tortuosa e ineguale; Giorgio meditava sulle gravi parole della zia; la Mariannina, non avvezza a tollerare serenamente le contrarietà, aveva tanto di muso. La infastidiva anche il contegno del cugino, che, senza dubbio, era stato catechizzato dalla zia Clara e non pareva più quello di prima.
— Bah! — ella pensò. — Pur ch'io voglia....
E sotto la coperta che avevano stesa sulle gambe e che, bene o male, li difendeva dall'acqua fece una manovra simile a quella che il professore aveva fatto prima; avanzò cioè pian pianino la mano fino a toccar quella di lui. Ma appena l'ebbe toccata ritirò bruscamente la sua come per fuggire il contatto. Giorgio s'imporporò in viso; una fiamma guizzò ne' suoi occhi.
La Mariannina non si mosse, ma l'espressione della sua fisonomia si raddolcì alquanto.
— Mariannina! — disse Giorgio quasi involontariamente. E non potè continuare perchè l'automobile si fermò di colpo e per poco non sbalzò fuori quelli che vi si trovavano. Era scoppiata una gomma.
— Ne ho una di ricambio, — avvertì Giovanni ch'era saltato giù per il primo. — Ma ci vuol tempo.
[104]
— Quanto?
— Un'ora.... tre quarti d'ora....
— Benone. Bel lavoro avete fatto! — borbottò stizzita la Mariannina.
— Son casi che nascono.... La strada è piena di sassi.
— Cari miei, — dichiarò la signora Clara che Giorgio aveva aiutata a scendere, — il peggio è di star qui fermi sotto la pioggia.... Camminiamo.... In qualche posto si arriverà.
— Si dev'esser vicini a Ponte Nomentano, — disse Brulati. — Lì c'è un'osteria, e ci metteremo al coperto.
— Intanto, — ripigliò la signora Clara, — io ho necessità assoluta di sgranchirmi le gambe.... Giorgio mi farà ombrello.... Prendilo, via, l'ombrello.... Nell'automobile devono essercene due.... Uno servirà per Brulati e la Mariannina.... Coraggio, e avanti!
Gli ordini della zia erano così precisi e perentorii che Giorgio non osò disubbidire.
— E voi, Giovanni, — ripigliò la signora Clara, — se vi spicciate, raggiungeteci, dando un'occhiata all'osteria di Ponte Nomentano pel caso che ci fossimo fermati là. Se no, saremo a Sant'Agnese.
S'avviarono, sgambettando nel fango. La pioggia seguitava a cadere lenta, fine, minuta. Il cielo [105] era tutto grigio; a fatica si distinguevano i contorni dei monti lontani.
La Mariannina, tirato su il cappuccio, dichiarò che non voleva saperne nè del braccio, nè dell'ombrello di Brulati. Volteggiava di qua e di là, presta, leggera, segnando appena nella mota l'orma del piccolo piedino elegantemente calzato. Di sotto il cappuccio le lampeggiavano gli occhi ch'ella posava ora su Giorgio, ora su Brulati, con un'espressione tra provocante ed ironica.
A Ponte Nomentano si fermarono solo qualche minuto per parlamentare con l'oste. Ma a dispetto dei cartelli che portavano scritto: Vini di Frascati — Buona cucina — Sala superiore, — l'oste confessò che, tranne il vino, non c'era nulla di pronto; nemmeno la sala superiore, in ristauro da una settimana. Al pianterreno invece tre o quattro barocciai semiubbriachi trincavano allegramente cantando certe loro canzonaccie.
La stessa signora Clara, benchè fosse stanca, espresse il desiderio che si tirasse innanzi fino a Sant'Agnese.
— Ormai siamo in ballo, — ella disse. — A Sant'Agnese riposeremo.... E poi, se Dio vuole, prenderemo una carrozza o il tram, e torneremo a casa.... Sarà una gita da ricordarsene per un pezzo.
[106]
— Se davano retta a me, — borbottò Brulati, — a quest'ora saremmo a Roma.
— Invece di dir cose inutili, — replicò la Mariannina, — lei dovrebbe affrettare il passo e precederci a Sant'Agnese per ordinar la colazione.
— Non mi comprometto.... Se viene anche lei per assistermi coi suoi consigli....
La ragazza accennò negativamente col capo.
— Non vengo. È troppo brontolone.
La signora Clara osservò che Sant'Agnese non doveva esser lontana e ch'era meglio arrivarci tutti insieme.
— Già farete colazione voi altri.... In quanto a me, non ho fame, e mi basterà bevere una tazza di tè caldo.
Camminarono in silenzio per un buon quarto d'ora. In prossimità di Sant'Agnese furono raggiunti da una vettura di rimessa, chiusa, a un cavallo, guidata da un cocchiere vestito di nero, col cappello a staio.
Un giovinotto elegante che si trovava nella carrozza sporse la testa dal finestrino, ravvisò le signore e Brulati e ordinò al cocchiere di fermarsi.
— Oh, signora Moncalvo, come mai qui, a piedi con questo tempo?
— Tò, Cherasco! — esclamarono la Mariannina e la signora Clara.
[107]
Era quel segretario del Ministero degl'interni che veniva qualche volta la sera da loro e che anche Giorgio aveva visto.
Dopo che la Mariannina ebbe spiegato l'accidente automobilistico che aveva costretto lei, sua zia e i suoi compagni alla non gradevole passeggiata, il cavaliere Cherasco (era cavaliere, che già s'intende) scese con gran premura dal legno e dichiarò che se le due signore andavano a Roma egli sarebbe ben lieto di accompagnarle dove volevano.... Era dispiacente di non poter offrire un posto anche ai loro due cavalieri, ma proprio non c'era modo di accomodarli.... Per non gravare troppo il bilancio, un Ministro di S. M. il Re d'Italia non aveva diritto che a un miserabile fiacre.... Perchè quello era il fiacre di S. E., per conto di cui egli, Cherasco, aveva dovuto far un'ispezione.... Ma Sua Eccellenza sarebbe stato lietissimo d'apprendere che il suo legno aveva servito a togliere d'impiccio due dame gentili.
Le dame gentili si guardarono.
— In verità, — disse la signora Clara, — ch'io quasi quasi approfitterei.... se mia nipote non avesse troppa fretta di far colazione....
— Fretta? — interruppe la Mariannina, ch'era sempre avida di novità e si divertiva un mondo a veder l'aria disgustata di suo cugino Giorgio e del pittore Brulati. — Non ne ho punta. Mezz'ora [108] fa avevo fame. Adesso non ne ho più.... E in ogni modo, son sicura che a casa troverò da mangiare meglio che a Sant'Agnese.... Dunque, Cherasco, la prendiamo in parola.
— Naturale!... È quello che voglio.
Il segretario, raggiante, si profondeva in ringraziamenti pel grande onore che gli si faceva.
La signora Clara ebbe uno scrupolo di coscienza.
Ma lei, poi, come ci sta?
— Io?... Perfettamente.... Non ho che da abbassare questo sedile.... da una persona.
E Cherasco sottolineò la frase per far capire una seconda volta che non c'era posto per altri.
— Mòntino; signore, mòntino.
— Voi ci scuserete, — disse la signora Clara tendendo la mano ai due uomini ch'eran lì mogi mogi. — È stata una gita disgraziata.... Ma ne faremo una col bel tempo.
— Arrivederci, Giorgio. Arrivederci, Brulati, — soggiunse la Mariannina. — Mi dispiace proprio, ma non posso lasciar sola la zia.... M'immagino che dopo colazione tornerete a Roma col tram.... Se venite al palazzo Gandi, prenderete il tè con noi.
Lo sportello della carrozza si chiuse. Il cocchiere frustò il cavallo che partì al trotto.
Brulati gettò via dispettosamente un mozzicone [109] di sigaro e posò sulla spalla di Giorgio Moncalvo la mano che aveva libera dall'ombrello.
— Lei non conosce ancora sua cugina come la conosco io. Di questi tiri ne fa continuamente, e bisogna prenderla com'è. Mi meraviglio piuttosto della signora Clara....
Giorgio pensò che sua zia aveva colto con entusiasmo l'occasione di separarlo dalla Mariannina, e questo pensiero l'irritò. Perchè tanto zelo? O che quella benedetta donna lo credeva un bimbo che non sapesse difendersi da sè?
— Non istaremo mica qui a infracidire, — ripigliò il pittore, visto che il suo compagno di sventura non si moveva. — In dieci minuti saremo a Sant'Agnese e ci si potrà rasciugare e ristorare.... Vuol ripararsi sotto il mio ombrello?
— Grazie, — rispose Giorgio. — La pioggia non mi disturba.... E ormai non mi par che valga la pena di fermarsi a Sant'Agnese.... Almeno io non mi fermo.... Approfitterò del tram.
— Padronissimo, — replicò Brulati avviandosi con passo affrettato. — Io non intendo far la fine del conte Ugolino, e infilo la porta della prima bettola che trovo.
[110]
I coniugi Moncalvo, che avevano finito di far colazione ma non s'erano ancora alzati da tavola, discorrevano animatamente fra loro. Erano rimasti soli; monsignor de Luchi, loro commensale quella mattina, era appena uscito; i camerieri avevano avuto l'ordine di non entrare finchè non fossero chiamati.
— E tu non sapevi nulla? La Mariannina non t'aveva detto nulla? — chiese il commendatore.
— La Mariannina non se ne sarà nemmeno accorta, — rispose la signora Rachele. — Sarà stata tanto lontana dall'immaginarsi....
— In quanto a me, penso che sian fantasie di monsignore.
— Come? Monsignor de Luchi è intimo degli Oroboni, e non è uomo da parlare a caso. Del resto, qual maraviglia se la nostra figliuola ha fatto impressione in un giovine dell'alta aristocrazia romana?
— Io non mi stupisco dell'impressione, — replicò Gabrio Moncalvo. — Mi stupisco che monsignore la giudichi tale da poterci architettar su [111] un matrimonio.... In quella famiglia! Con quelle abitudini! Con quei pregiudizi!
La signora Rachele pareva assorta in una visione sublime. Non era un sogno? Sua figlia, la sua Mariannina, aveva la possibilità di diventare principessa Oroboni?
— Suonerebbe bene, non è vero, Gabrio, questo nome di Mariannina Oroboni? E che trionfo sarebbe!
Il commendatore cercò di calmare gli entusiasmi della consorte.
— Un trionfo che costerebbe caro. Intanto bisognerebbe tirar fuori un milione per comprare la roba degli Oroboni; poi il palazzo di Roma bisognerebbe assegnarlo come parte di dote alla Mariannina, e in fine sarebbe necessario arrotondare questa dote con parecchie altre centinaia di migliaia di lire perchè gli sposi potessero campare alla meno peggio.
— Non eri già disposto a dare alla nostra figlia, alla nostra unica figlia, un milione di dote?
— Ho detto una volta che per collocarla bene non baderei a sacrifizi, e che sarei arrivato volentieri fino al milione; ma non è provato che non si possa trovarle un partito degno di lei per la metà della somma.
La signora Rachele protestò con tutte le sue forze.
[112]
— Che lesinerie son queste? Credi che la Mariannina non sappia di poter fare assegnamento sopra un milione? E che partito migliore potresti trovare?
— Eh, via, una gran nobiltà, un gran nome; ma pel rimanente?... Lasciamo stare ch'è mia famiglia in rovina; ma quel don Cesarino che tipo è?... Un giovane che par decrepito, ch'è sempre vissuto sotto una campana; un fossile che non capisce nulla del mondo moderno.
— Parli dei pregiudizi degli altri! — esclamò, scandalizzata, donna Rachele. — E i tuoi?... Quella gente vede il mondo in una maniera che non è la nostra.... Ma sei sicuro che non lo veda meglio?... Libertà, libertà!... Le belle imprese che si compiono in nome della libertà!... Scioperi, dimostrazioni, rivolte.... Non manca altro che un giorno vengano a svaligiarci la casa.
— Anzi verranno, — disse il commendatore ch'era uno spirito filosofico; — ma quando pure abbian portato via tutto quello che c'è, non resteremo sulla paglia.... E passata la burrasca torneremo in auge come prima.... Invece, se gli Oroboni e i loro simili avessero continuato a tenere il mestolo in mano, saremmo tutti e due nel Ghetto di Ferrara, io a vendere vestiti usati, tu a spennacchiar le oche.
Quest'allusione allo stato sociale degli avi spiacque [113] alla signora Rachele che si rodeva di non essere una Montmorency, ed ella ribattè dispettosamente:
— In quanto a questo, è quasi un secolo che i miei sono usciti dal Ghetto.
Moncalvo si fregò le mani.
— Merito dei liberali, cara mia. Merito della Rivoluzione francese e del primo Regno d'Italia.
— Io non nego i meriti di nessuno, — replicò la moglie. — Ma è certo che oramai gli Oroboni, anche se governassero loro, non avrebbero più le idee di una volta.... E la miglior prova è che abbiano gettato l'occhio sulla nostra figliuola.
Il commendatore tentennò la testa.
— Non dimenticherai mica la clausola della conversione.
— Sfido io! O che ti formalizzi? Come se a quella, presto o tardi, non ci si dovesse venire!
— Adagio, adagio! — disse il prudente marito, facendo con le mani il gesto di chi vuol fermar qualcheduno. — Che su questo punto si debba transigere per la Mariannina, lo ammetto.... Se il battesimo è per lei condizione sine qua non di un gran matrimonio, lasciamo pure che si battezzi.... Ma altro è la Mariannina, altro siam noi.
La signora Rachele storse la bocca con una smorfia di persona disgustata.
[114]
— È la prima volta che ti vedo così attaccato alla tua religione.
Gabrio Moncalvo sorrise con aria di compatimento.
— Io non sono attaccato nè alla mia, nè a quella degli altri, ma appunto per questo non sento neppur bisogno di convertirmi.
— Io invece quel bisogno lo sento, — esclamò con impeto la signora Rachele. — Sento che porterei nella nuova fede tutto l'ardore della neofita.
— Anche questo è possibile, — dichiarò placidamente Moncalvo. — E sarebbe una bella seccatura in famiglia.... Ma persuaditi pure che, quale pur fosse il tuo zelo, esso non basterebbe a far dimenticar le tue origini.... Tu ed io, nonostante il gran lavacro, saremmo sempre considerati quelli di prima.
La signora Rachele faceva dei segni negativi col capo.
— Padronissima di negare.... Io ti ripeto che la nostra posizione sociale non muterebbe d'una linea, nemmeno presso gli Oroboni.... nell'ipotesi che quel don Cesarino diventasse nostro genero.... Sì, sì, se credi che l'aver per genero un principe ti darebbe diritto di cittadinanza nella loro società, t'inganni a partito.... Ebrei o cattolici, liberali o codini, noi seguiteremmo ad esser per loro d'una razza inferiore.... accarezzati forse nei [115] giorni in cui si deve ricorrere alla nostra borsa, invitati ai loro ricevimenti ufficiali, ma guardati sempre d'alto in basso.... Ecco quello che guadagneremmo dall'aver nostra figlia principessa.
— E se fosse così (ch'io non lo credo), — domandò inquieta la signora Rachele, — vorresti mettere ostacoli alla felicità della Mariannina?
— È un'altra faccenda, — disse il banchiere. — Nostra figlia è ambiziosa, e noi dobbiamo pensar sopra tutto a lei.... La felicità molte ragazze la troverebbero in un matrimonio diverso da questo.... ed ella stessa qualche anno addietro.... chi sa?... Basta, acqua passata non macina più.... Oggi la Mariannina ha grandi idee, e son persuaso che ella sogni un blasone ed un titolo e che per diventar principessa ella sia disposta a rinunciare, oltre che alla cosidetta fede degli avi, anche a parecchie di quelle soddisfazioni che sono ricercate dalle nature romantiche e sentimentali.... Io terrò nel debito conto i suoi desiderii.... Ma finora son tutti castelli in aria, e la prudenza non è mai troppa....
Di ciò la signora Rachele convenne, non senza osservare tuttavia che di positivo c'era una cosa: la nuova visita che si doveva fare al giardino degli Oroboni, col pieno consenso di don Cesarino e della principessa madre e con la probabilità d'incontrarsi con loro.
[116]
— Già, — replicò il commendatore, — voglion vedere la merce.... Tanto più è necessario di evitare le chiacchiere intempestive.... anche con la Mariannina.... Non c'è nulla di concreto.... Tutto è allo stato di nebulosa.... E io devo camminare coi piedi di piombo.... Non dimentichiamoci che quando scoppierà questa bomba.... dato che scoppi.... avremo contro di noi mezzo mondo, principiando da Giacomo e dalla Clara.
— Spero bene che non darai retta a loro, — proruppe con stizza la signora Rachele. — La Clara è un'eccellente creatura, piena di buon senso, ma è uno spirito terre à terre, ch'era nata per esser moglie di un impiegato a tremila lire l'anno. E in quanto a tuo fratello, sarà un brav'uomo, tutti lo affermano, ma è anche lui un essere antidiluviano che non capisce i tempi.... E in fondo egli non ti perdona d'esser riuscito a far quattrini.
— Oh!... a lui i quattrini non fanno gola.
— Lo so.... E non credo che ce li invidii.... Ma ce li rinfaccia.
— Sin da fanciullo, — disse il banchiere rievocando i vecchi tempi, — viveva di nulla. S'isolava dalla famiglia dedita ai suoi piccoli traffici, si seppelliva fra i libri.... E alla scuola era sempre il primo.... mentre io passavo a scapaccioni.
[117]
La signora Rachele, ch'era orgogliosa dei milioni accumulati da suo marito, scrollò le spalle in atto sprezzante.
— Ecco quello che valgono i trionfi delle scuole.... In verità, nessuno vi crederebbe fratelli.
— Mah! Fenomeni che si ripetono spesso.
Dopo un momento di silenzio la signora Rachele riprese:
— A proposito, io ti confesso che non vedo di buon occhio l'intimità di tuo nipote Giorgio con la Mariannina.
— Giorgio viene da noi così di raro!
— Sì, ma quando viene si prende troppa confidenza.
— Non è lui che se la prende.... È la Mariannina che gliela dà.
— La Mariannina è fatta così. In fondo è un Lucifero, ma del sussiego non ha mai voluto averne, nè è ragazza da tollerar osservazioni.... Sta però tranquillo che quando occorre sa tirar fuori le unghie.... Giorgio stesso dovrebbe capire che le cose sono mutate.
— Quel Giorgio, — riprese il commendatore, e c'era nel suo accento il rimpianto d'un bel sogno svanito, — sette anni fa s'è lasciato scappar la fortuna.... Se andava a Kartum a quest'ora avrebbe messo da parte un bel gruzzolo.
— Meglio così, — interruppe la moglie. — Allora [118] tu coltivavi l'idea di un'unione fra i due cugini.
— Non sarebbe stata un'enorme disgrazia, — notò Gabrio Moncalvo. — In mancanza di figli maschi, non è male aver un genero che si occupi dei nostri affari. Se la Mariannina sposa don Cesarino Oroboni, non sarà certo lui quello che mi aiuterà a condur la mia azienda.
— Tuo nipote non ha maggiori attitudini pel commercio di quelle che avrà don Cesarino, — replicò la signora Rachele.
— Chi sa se non le avrebbe avute? — soggiunse il marito. — È un giovine d'ingegno.
— Sì, sì, sul genere di suo padre.... È di quelli che restano spiantati tutta la vita.
— Non s'indebitano almeno come gli Oroboni.... Non si rovinano....
La signora Rachele perdette la pazienza.
— Pare impossibile che un uomo intelligente non veda l'abisso che c'è tra la vecchia nobiltà e noi.... Loro possono indebitarsi fino agli occhi, possono rovinarsi senza scapitar nella riputazione e senza perdere il loro posto nella società. Conservano il loro nome, il loro passato, le loro aderenze.... Noi no; noi siamo ricchi o non siamo nulla. E non vai proprio la pena di cercar di fondare delle dinastie.... Il giorno in cui i Rothschild piombassero nella miseria, nessuno si ricorderebbe [119] di loro.... O che ti lagni di non aver maschi?... Forse si mangerebbero quello che tu hai guadagnato. Tu quando sei stanco puoi ritirarti, e se la Mariannina diventa una principessa romana, ella, ch'è l'unica erede del tuo patrimonio, rimetterà in piedi una famiglia decaduta.... Sarà meglio, spero, ch'esser la moglie d'un professorino che potrebbe appena pagare il sarto col suo stipendio e per il resto dovrebbe far la parte di mantenuto.
Il commendatore, che durante lo sproloquio della sua consorte aveva avuto il tempo di arrotondare e accendere una sigaretta, replicò un po' seccato:
— Il professorino è fuori di combattimento.... Ormai nè tu nè io lo accetteremmo per genero, nè la Mariannina lo accetterebbe per marito. E tu sei la prima a esser persuasa che s'egli pensasse a una cosa simile (che non lo credo) la Mariannina gliene farebbe perder la voglia.... Chiudergli la porta in faccia non posso.... sarebbe un'offesa gratuita a lui e a mio fratello.
Gabrio Moncalvo si alzò e si mise a girar per la stanza con la testa bassa e con le mani congiunte dietro la schiena.
L'accenno di sua moglie ai Rothschild lo aveva turbato. La gran casa bancaria, sopra tutto la casa madre di Francoforte, l'onorava della sua [120] benevolenza.... Ora appunto la casa di Francoforte era la più attaccata alla fede mosaica e chi sa che effetto le avrebbe fatto la notizia della conversione dell'unica figliuola del suo corrispondente Gabrio Moncalvo? Tenergliela nascosta era impossibile.... Figuriamoci se tutti i giornali di Roma non ne avrebbero parlato!... D'altra parte l'idea d'imparentarsi con una famiglia principesca romana lusingava la vanità del banchiere più di quanto egli non volesse confessare a se stesso, e distruggeva nel suo spirito le obbiezioni giudiziose che pure egli aveva mosse alla signora Rachele.
Questa, che si teneva sicura della vittoria, stimò inopportuno di insistere.
Si alzò anch'essa di tavola e si affacciò alla finestra.
— Dio, come piove! — ella disse.
Infatuati, prima a discutere con monsignore de Luchi, poi a conversare tra loro, i due coniugi s'erano appena accorti che il tempo era peggiorato.
— Piove fitto davvero, — soggiunse il commendatore, guardando anch'egli di là dai vetri. — L'ho detto alla Mariannina che non era tempo da uscire in automobile.
— S'intende ch'erano andati per dipingere.
— Mi dispiace anche per la Clara che ha sempre [121] la disposizione alle bronchiti.... Se si potesse mandar loro incontro il landau coperto....
— Dove? Andavano a Mentana, ma probabilmente non ci saranno arrivati e si saran dovuti ricoverare in qualche posto.
— E chi sa che strade ci saranno!... Pur che non accadano disgrazie! — disse Moncalvo, avvicinandosi alla moglie.
— Bah! — fece la signora Rachele. — Di Giovanni si può fidarsi.
Ella fissava con occhi cupidi, dall'altra parte di via Nazionale, il muraglione del giardino Oroboni e le cime degli alberi ondeggianti al vento.
— Pur che tu voglia! — ella sussurrò, posando una mano sulla spalla del marito.
Gabrio sorrise.
— Sei ambiziosa.
— Per nostra figlia.
— Non per nostra figlia soltanto, — riprese il banchiere. — Tu vorresti veder principessa la Mariannina, ma vorresti anche un titolo per te, e non ti contenti di quello che sarebbe facile avere.... E pur se ne contentano i Rothschild....
— La baronìa?... No.... Ce ne son troppi di questi baroni della finanza.... È quasi un altro stigma di razza.... Tu devi esigere una corona di conte.
[122]
— Cara mia, la Consulta araldica non è più di manica larga come una volta.
— Tu hai vinto difficoltà maggiori di queste, — incalzò la signora Rachele. — Hai sempre vinto.
— Lusingatrice!
Ella seguitò carezzevole:
— Sei partito da principii umili e sei arrivato così in alto.
— La fortuna mi ha aiutato, — disse Moncalvo con vera o finta modestia.
— Ci furono momenti in cui la fortuna stava per isfuggirti e tu hai saputo riafferrarla, — soggiunse la moglie. — E ci furono anche momenti in cui tu dubitavi della tua stella e qualcheduno ti rincorava.
Nell'evocazione di quel tempo passato la bellezza matura, un po' avvizzita, della signora Rachele si rianimava, pareva rifiorire. E intanto la bianca e morbida mano di lei, dalla spalla di Gabrio saliva pian piano fino al mento, lisciava la barba brizzolata.
— Sì, eri tu a rincorarmi, — egli disse. — Fosti una buona, una fedele compagna.
Ella arrossì, sapendo di non meritare tutta intera la lode. Fedele s'era mantenuta effettivamente fino a più di quarantanni; poi, travolta nel turbine del gran mondo, aveva ceduto alle tentazioni.... oh non molto.... quello che bastava per [123] non esser ridicola.... Anch'egli, del resto, aveva fatto le sue scappatelle, sempre per la medesima ragione, per non esser da meno degli altri.... senza mai perdere la testa, senza mai innamorarsi sul serio.... come non s'era innamorata lei, che aveva voluto bene a un uomo solo, al suo Gabrio.... Fors'egli ignorava le sue debolezze.... forse, sospettandole, le perdonava.... al modo stesso ch'ella perdonava quelle di lui....
S'udirono dei passi rapidi nella stanza accanto. L'uscio si spalancò.
— Oh, Mariannina! — esclamarono in coro il commendatore e la signora Rachele. — Curioso ch'eravamo accanto alla finestra e non ci siamo accorti della tua venuta.... Per solito l'automobile fa uno strepito indiavolato.
— Ma che automobile?... Son venuta in fiacre, nel fiacre di Sua Eccellenza il ministro dell'interno.
— Come? Perchè? Che cos'è successo?... E la zia Clara?
— La zia Clara è venuta con me.... È andata nella sua camera.... Ora vi racconterò.... Lasciatemi respirare.... E sopra tutto datemi da mangiare.... Ho una fame!
La ragazza premette il bottone del campanello elettrico.
— Non hai fatto colazione?
[124]
— No!
— Insomma, si può sapere che accidente v'è toccato?
— Un accidente semplicissimo.... Non vi sono morti, nè feriti. E scoppiata una gomma dell'automobile.
— E che c'entra il fiacre di Sua Eccellenza?
— Non parlo più fin che non ho mangiato, — dichiarò la Mariannina che s'era seduta a tavola e sgretolava un panino. — Oh, finalmente! — ella disse rivolgendosi al cameriere accorso alla scampanellata. — Che il cuoco mi mandi tutto quello che ha.... subito.... caldo o freddo, non importa.
Erano quasi le undici di sera. Un fiacre chiuso si fermò davanti alla porticina di servizio del palazzo Oroboni, e ne discese monsignor de Luchi.
Una donna matura, che reggeva una piccola lanterna a olio, venne ad aprire.
— Buona sera, Pulcheria.
— E lei, monsignore?
[125]
— Sì, la principessa mi ha mandato a chiamare.
— Appunto, — rispose la Pulcheria, richiudendo la porta e dando il chiavistello, — ed ero qui in portineria ad aspettarlo.... Mio marito dev'esser in casa, nell'ingresso. È di un umore intrattabile.... Se lo catechizzasse un po'?... Non ora.... non ora.... A momento opportuno.
— Cara mia, — replicò monsignore, avviandosi dietro di lei pel sentiero ghiaioso che scricchiolava sotto i suoi piedi, mentre nella notte senza vento gli alberi erano immobili e il silenzio del luogo era rotto soltanto dal chioccolìo monotono d'una fontana, — a catechizzare vostro marito si perderebbe il fiato.... È un uomo che vorrebbe il mondo a suo modo.
— Purtroppo, — sospirò la donna. — Ora s'è fitto in capo che debba succedere una specie di rivoluzione qui dentro, e dichiara che in questo caso se ne va.... Dove poi andrebbe a finire? Qui non riscuotiamo il salario da un pezzo, ma almeno si ha l'alloggio e il vitto.... E all'età di Plinio, coi suoi acciacchi e con le sue idee, non è mica facile trovare....
— Ma che non faccia bestialità, — replicò il sacerdote. — Ma che non s'immischi di quello che non lo riguarda.... È lui che la fa la rivoluzione pretendendo di giudicare i suoi padroni....
[126]
— Dunque è vero, monsignore?.... Dunque c'è qualche cosa in aria? — chiese ansiosamente la Pulcheria.
E, voltandosi, alzò il lume quasi fin sotto il naso del prete per leggergli in faccia la risposta.
Monsignore si riparò gli occhi con le mani e rimase impassibile.
— Do anche a voi lo stesso consiglio che a vostro marito. Non v'immischiate di ciò che non vi riguarda.
E per liberarsi dalla seccatura affrettò il passo e soggiunse:
— Vedo chiaro dietro i vetri.... È inutile che v'incomodiate di più... Credo d'aver pratica abbastanza.
Salì in fretta i pochi gradini della scalinata ed entrò.
Meno discorsivo della consorte, il servo Plinio gli venne incontro in silenzio.
— La principessa è nella sua camera?
Plinio accennò di sì.
— C'è lume per le scale?
— C'è il lume acceso davanti all'altarino del pianerottolo.... sulla scala piccola.
— Basterà. Salgo di lì.
Illuminata di sotto in su, la tavola dell'altarino lasciava indovinare una testa di Madonna, curva in atto amoroso sul frutto delle sue viscere. [127] Del bimbo si distinguevano appena i contorni sparenti, come, del resto, spariva gran parte del quadro sotto lo strato di fuliggine, onde il continuo fumicare di quel lume sempre acceso lo aveva lentamente cosparso.
— Ormai nelle chiese hanno introdotto la luce elettrica, — pensò monsignore, ch'era uno spirito moderno.
— Monsignor de Luchi, — annunziò il cameriere picchiando all'uscio di donna Olimpia.
S'intese il fruscìo d'una veste di seta. Una voce femminile rispose:
— Avanti!
La principessa, ch'era in piedi, mostrò a monsignore una sedia; indi, vedendo che Plinio non si decideva ad andarsene:
— Cosa c'è? — chiese bruscamente. — Se avrò bisogno di voi, sonerò.
— Il fuoco è spento, — biascicò Plinio, dando un'occhiata al caminetto.
— Non importa. Non ho freddo. Andate.
Il servo ubbidì.
Col busto proteso innanzi, monsignore attendeva che donna Olimpia parlasse.
— Pregavo, — ella disse, accennando all'inginocchiatoio che sul cuscino di velluto crèmisi portava il segno recente delle ginocchia che lo avevano compresso. — Pregavo, invocavo dal Signore [128] una guida in questo ch'è forse il momento più critico della mia vita.... Il Signore è muto.... Non sono degna.
Si abbandonò sur una poltrona, e dopo una breve pausa riprese:
— Ho chiamato voi..., voi che avete ordito tutta questa trama....
— Era l'unica via che restasse, — mormorò il sacerdote allargando le braccia.
— Già.... A voi sta bene dir così, — seguitò donna Olimpia. — vi ho chiamato a quest'ora perchè si potesse discorrere senza esser disturbati.... Oggi ho parlato con Salvucci, il nostro benemerito agente generale, l'uomo che godeva la nostra piena fiducia e che ci ha mandati in rovina.... Vorreste forse scusarlo? — chiese con accento vibrato la principessa, interpretando a suo modo un movimento di monsignor de Luchi.
— No, no, — rispose costui. — È stato inabile, imprevidente, ma..., siamo giusti.... la situazione era molto difficile.... Bisognava, venti o venticinque anni fa, prima della crisi edilizia, aver il coraggio di vendere il giardino, il palazzo....
— Perchè vi fabbricassero un albergo?
— Sicuro che gli speculatori non hanno scrupoli archeologici.
— Mai, mai, — protestò donna Olimpia. — A ogni modo, s'era necessario di vendere, Salvucci [129] doveva dichiararlo, e cercare un compratore nella nostra casta.... fra i patrizi romani.... Invece egli non ha saputo far altro che debiti.... E oggi non sa far più nemmen quelli.
— E che suggerisce? — domandò monsignore.
— Siete ingenuo, — ribattè la principessa in tuono sarcastico. — Naturalmente suggerisce quello che suggerite voi.... quello che voi gli avete detto di suggerire....
— Non io, principessa.... La forza ineluttabile delle cose.
— Ah, don Paolo, se non ci fosse di mezzo la follia di mio figlio, so io quel che farei.... Io lascerei andar all'asta le nostre terre, la nostra villa di Porto d'Anzio, questo palazzo, tutto insomma; lascerei portar via i mobili, i quadri, e aspetterei che i gendarmi venissero a cacciare anche me dalla mia camera, dalla soffitta forse, dove mi sarei rifugiata.... Meglio, mille volte meglio che accettar le proposte dei vostri Moncalvo.... Ma avete stregato mio figlio, il mio Cesarino, egli che doveva esser più geloso di me della nostra dignità, del nostro nome.... Se l'aveste sentito, oggi!... Sì, dopo di Salvucci, ho voluto udir lui oggi stesso.... ho voluto saper da lui s'egli era disposto a subire in pace la nostra vergogna, s'era disposto a vendersi.... Altro che [130] disposto!... Ci va come a una festa.... don Cesarino, capite? Don Cesarino, che non osava guardare in faccia una donna.... che voleva farsi frate!... Ora muor dietro a quella figliuola di ebrei, di strozzini, con cui non ha mai scambiato una parola, che ha vista soltanto dalla finestra.... o per la strada.... Perchè da vicino non si son mai visti, non è vero?... Non si sono mai trovati insieme? Non mi avete mica ingannata?... Non avete mica fatto in modo che s'incontrassero?...
— Oh, donna Olimpia! — esclamò, con aria offesa, monsignore.
— Ormai non mi fido più di nessuno, — ribattè la principessa, — e di voi meno degli altri.
Slanciato quest'ultimo strale, la vecchia patrizia si tacque, soffocata da un nodo di tosse.
Don Paolo si affrettò a mescerle un bicchier d'acqua, le raccomandò di calmarsi e le chiese:
— Posso parlare?
Senza dir motto, ella fece un segno affermativo col capo.
— Ebbene, principessa, — cominciò il prete con la sua voce piana ed insinuante, — io comprendo lo stato del suo animo e son qui per ricevere le sue battiture.... Ma non le è mai venuto in mente che in questa che lei crede un'opera del demonio....
— Proprio così, — biascicò donna Olimpia.
[131]
— .... non le è mai venuto in mente, — proseguì monsignore, — che ci sia invece un disegno alto della Provvidenza?... Permetta.... Io non sono che uno stromento.... Permetta.... Poco più d'un anno fa, quand'era manifesto che la Banca d'Italia era decisa a realizzare il suo credito e si batteva invano a tutte le porte per evitar la catastrofe finanziaria, conoscevo io forse il commendatore Moncalvo?... E quando, andata in fumo ogni speranza di ricco matrimonio, pareva che don Cesarino volesse chiudersi in un convento, sapevo io forse che questa Mariannina esistesse? Ed ecco che, circa in quel tempo, la famiglia arcimilionaria viene a stabilirsi a Roma, viene ad abitare dirimpetto al palazzo Oroboni, ed io, per mezzo del conte Ugolini Ruschi, entro in rapporti col commendatore Gabrio, che mi dà subito cinquemila lire pel nostro Asilo, e mi presenta alle sue signore cortesi, munifiche, sempre disposte a largheggiar coi miei poveri, sempre piene di deferenza pel cattolicismo, per la Chiesa, pel papato....
— E voi le credete sincere? — interruppe la principessa. — Hanno l'eresia nel sangue.
— Sono cresciute nell'indifferentismo, — corresse monsignore, — come molte di queste famiglie israelite dell'Occidente.... Si sono staccate dalla loro religione e non sanno risolversi ad abbracciare [132] la nostra. S'illudono di poter vivere senza religione alcuna.... Ma sono meno impreparate di quello che si pensa ad accoglier la verità della fede....
A un gesto dubitativo della sua interlocutrice, don Paolo si infervorò di più nel discorso.
— Senza questa persuasione intima, profonda, non mi sarebbe balenato in mente il disegno che, con l'aiuto del cielo, spero di condurre ad effetto.... Noti, donna Olimpia, noti le coincidenze che non possono dipendere unicamente dal caso.... Don Cesarino vede questa signorina Moncalvo dalla finestra, la osserva, egli che aveva il ribrezzo della femmina, va di sera alla chetichella nella torretta del giardino per tentar di penetrare con l'occhio nella camera di lei, per tentar di coglierla al passaggio dietro i vetri, dietro le tende; e nello stesso tempo la giovine ha una curiosità acuta di conoscere i segreti di questo recinto, di visitar questo palazzo, d'incontrarsi con quelli che lo abitano e ch'ella scorge appena di lontano in mezzo alle macchie d'alberi....; e intanto di pieno accordo coi genitori s'interessa alle nostre opere pie, partecipa alle nostre beneficenze, viene nei nostri ospizi, ammira la potente organizzazione della carità cattolica, influisce.... badi, donna Olimpia, influisce sul padre per disporlo favorevolmente all'operazione [133] finanziaria che salverà dalla rovina la famiglia Oroboni.
— Oh, don Paolo, don Paolo! — esclamò la principessa. — Non capite.... è naturale, non potete capire — (e in queste parole c'era un'allusione alle umili origini del sacerdote) — quale mortificazione sia per me il sapere che le nostre miserie furono discusse in quella casa, che riceveremo l'elemosina da quella gente....
— Principessa mia, — disse monsignore, — alla fine dei conti gli Oroboni avranno dato più di quello che ricevono. E senta se non ho ragione di trovare in tutto ciò la mano della Provvidenza? Il primo cenno a un possibile matrimonio non l'ho fatto io.... È stata la signora Rachele Moncalvo.... molto timidamente.... come per tentare il terreno.... Io la guardai attonito. «Lo so, — ella disse, — il maggior ostacolo è la religione.... Ma se non fosse che quello! Sarò beata il giorno in cui mia figlia avrà preso il battesimo».
— E voi, — rimbeccò donna Olimpia, — voi avete subito morso all'amo.
— Io, — rispose don Paolo con una certa alterezza, — io avevo letto ormai da più giorni nell'anima di quella borghese arricchita; io non avevo bisogno di mordere all'amo.... Era lei piuttosto ch'entrava spontanea nella via sulla quale [134] io volevo condurla... Sono sacerdote, principessa, e sono da molti anni amico e servo devoto di casa Oroboni.
Donna Olimpia chinò il capo assentendo.
— Come sacerdote, — continuò monsignore, — non posso essere indifferente alla salvezza d'un'anima; come amico e servo di questa famiglia, devo fare per essa tutto quello che dipende da me per restituirle l'antico splendore.
Un sorriso amaro sfiorò le labbra della principessa.
Don Paolo non vi pose mente, e ripigliando il tuono d'umiltà che aveva abbandonato per poco, ripetè la frase pronunciata pur dianzi:
— Io non sono che uno stromento.... Non sono io che ho illuminato il cuore della signora Moncalvo, non sono io che ho predisposto un esperto uomo d'affari come il commendator Gabrio a distrar più d'un milione dalle sue speculazioni proficue per immobilizzarlo in questo palazzo, nella villa in rovina di Porto d'Anzio e nei fondi finora punto rimunerativi d'Albano.... Ma sopra tutto non sono io che ho infiammato il sangue di don Cesarino, che ho svegliato i suoi sensi atrofizzati.... Quante volte ella mi diceva sospirando: «Non è un uomo come gli altri.... È torpido, è frigido.... Non si sposerà. Se si sposasse non avrebbe figliuoli. Povera casa Oroboni!» Questo [135] ella mi diceva dopo abortiti i vari disegni di matrimonio.... Ed ecco che il Signore fa il miracolo per mezzo di questa giovinetta che appartiene alla stirpe dei reprobi.... ecco che tutte le speranze rinascono e che è nuovamente lecito di contare su una lunga discendenza degli Oroboni, in cui, presto forse, ci sarà un difensore della Chiesa, un campione della fede.
— Ah don Paolo, — proruppe la vecchia signora, — è inutile che doriate la pillola.... Dite che non c'è scampo; dite ch'è vano ribellarsi ai voleri del cielo.... e non dite altro.... È meglio.... Zitto!... Non sentite?
— Sì, — rispose monsignore levando gli occhi verso il soffitto. — Qualcheduno cammina qui sopra.
— È la camera di Cesarino. È lui che cammina.
— Sta per scendere forse?
— Non c'è pericolo, — replicò donna Olimpia. — Ma ormai nella notte non ha requie.... Ogni tanto si alza, gira su e giù per la stanza come un animale chiuso nella sua gabbia.... Per causa di colei!... E pensare che tre o quattro secoli fa, se una donna di quella razza avesse coi suoi sortilegi infami sconvolta la mente d'un cristiano, d'uno dei nostri, la Chiesa avrebbe ben saputo liberar coi suoi esorcismi la vittima e [136] arder sul rogo la fattucchiera.... Non ha più armi oggi la Chiesa; non sa più nè redimere, nè punire.
— Si calmi, principessa, — disse don Paolo senza esagerarsi l'importanza di questo ritorno offensivo. — La Chiesa ha sempre lo stesso potere, ma adopera le armi che meglio convengono ai tempi.
— Il matrimonio! — sogghignò donna Olimpia.
— Perchè no?... Il matrimonio può anch'esso servire alla gloria del Signore.... Don Cesarino sposerà una battezzata.... Della conversione rispondo io.
— Una conversione apparente, — ribattè la vecchia Oroboni.
— Una conversione sincera, — rimbeccò il sacerdote. — Ho già cominciato in segreto a istruire la signorina Moncalvo e son sicuro che la scolara mi farà onore.... Il segreto è necessario perchè i Moncalvo hanno molte aderenze nella loro comunità e non desiderano di sollevare uno scandalo intempestivo.... Sarà opportuno che la bomba scoppi tutta in un colpo e che si abbia nello stesso momento la notizia del battesimo e del matrimonio....
— Dio, Dio! In che bivio mi trovo! — disse la principessa attorcigliando nervosamente il fazzoletto alle dita. — Voi siete in buona fede, [137] lo ammetto, voi credete di agire pel nostro meglio.... Ma vi siete troppo compromesso.... Siete ormai troppo interessato nella riuscita di questo disegno.
— Si consulti con altri, — suggerì freddamente monsignor de Luchi. — Ha parenti, ha amici nell'alta aristocrazia romana.... perfino nel Sacro Collegio.
Donna Olimpia fece un gesto sprezzante.
— Nessuno ci ha mai ajutati nè d'uno scudo, nè d'una parola. Nessuno ci ajuterebbe.... Se vivesse Leone XIII, andrei a gettarmi ai suoi piedi, a pregarlo d'illuminare il mio spirito.
— Vada da Pio X... Una Oroboni non può non esser bene accolta da Sua Santità.
— Tutti sono ben accolti dal nuovo Papa, — disse donna Olimpia con un accento da cui traspariva l'orgoglio patrizio. — Ma non m'intenderebbe.... È un Papa d'idee democratiche.... come voi....
Nella stanza superiore si continuava a camminare.
— Sentitelo, sentitelo.... Non si cheta.... Ha la febbre addosso.
— Potrebbe far qualche pazzia, — insinuò monsignore. — Ha venticinqu'anni compiuti.... Potrebbe valersi delle facoltà che gli accorda il Codice.
— Don Paolo! — esclamò la principessa giungendo [138] le mani. — Diventate rivoluzionario anche voi sotto la vostra tonaca di prete?... Nelle nostre case nessuno ancora s'è ribellato all'autorità dei genitori.... E voi credete che si ribellerebbe Cesarino?
— Non credo.... Accenno alla possibilità della cosa.
Donna Olimpia si nascose il viso tra le palme e stette alquanto raccolta. Nella stanza non si udiva volare una mosca. Dal piano di sopra veniva il solito rumore di passi. Silenziosamente monsignor de Luchi si chinò ad abbassare il lume a carcel che filava.
— Con un profondo sospiro la principessa Oroboni riprese:
— Bisognerà dunque salir questo Calvario. E cominceremo col ricever quelle dame.... Quando?
Don Paolo dissimulò prudentemente la gioja della vittoria, e si contentò di rispondere:
— Quando vuol lei.... Al più presto possibile.... Sa ch'è una visita di cui si parla da qualche settimana....
— Ero indisposta....
— Appunto, e fu questa la causa del ritardo.... Ora....
— Ora, — soggiunse donna Olimpia, — è meglio spicciarsi.... Domani, doman l'altro, fissate voi.... La vedrò finalmente questa sirena che ha [139] fatto perder la testa a mio figlio.... Lo so, me l'avete indicata un giorno dalla finestra della torretta. Ma io son miope.... Che c'è?
Il sacerdote tirò fuori il portafoglio e ne tolse una fotografia di piccolo formato che presentò alla sua interlocutrice.
— Ecco, se vuol averne un'idea....
— Oh don Paolo! — esclamò donna Olimpia in tuono tra beffardo e scandalizzato. — Che razza di ecclesiastico siete? Girate coi ritratti delle femmine in tasca!
— L'ho preso per consegnarlo a lei, — rispose serio serio monsignore. — Nessuno potrebbe trovarci a ridire.
Donna Olimpia guardò attentamente la fotografia; poi la posò, con una smorfia, sul tavolino.
— È bella. Ma di una bellezza sensuale, volgare, sfacciata come i suoi milioni, come la genìa a cui appartiene.
— È più bella del suo ritratto, — dichiarò monsignore. — La vedrà domani.... perchè gliela accompagnerò domani, con sua madre, un po' prima delle tre.... Le giornate sono così corte in questa stagione!
— E verrà anche quel vostro commendatore.... intendo il padre della ragazza?
— No, non credo.... È tanto occupato.... Ella avrà tempo di conoscerlo....
[140]
— Per me sarei ben lieta di non conoscerlo mai, di non aver mai sentito parlare di lui.... Ah, de Luchi, è proprio il Signore che mi castiga.... Quando mi sono confessata a voi, voi mi avete assolta.... ma Egli.... Egli non assolve....
— Il Signore visita quelli che ama, — replicò l'ecclesiastico. — E spesso i dolori che dà si mutano in gioje.
— Nell'altra vita.
— Non nell'altra vita soltanto.
— Ma Egli non potrà impormi di accoglier questa intrusa come una figliuola! — proruppe donna Olimpia.
Accorto, discreto, don Paolo non insistette. Il più era fatto e al punto in cui eran le cose il resto sarebbe venuto da sè.
— Iddio la inspirerà, — egli disse alzandosi e baciando la mano che la principessa gli porgeva. — Buona notte, donna Olimpia.
— Buona notte, — ella rispose con voce sorda. Scosse il campanello e: — Accompagnate monsignore, — ella ordinò al vecchio Plinio. — E mandate da me l'Adelaide.... A domani, don Paolo.
— A domani.
[141]
— Sì, — disse il giovane principe che aveva offerto il braccio alla Mariannina e l'accompagnava in giro pel giardino, — sì, io la vedevo sovente dietro i vetri di quella stanza ch'è proprio dirimpetto alla nostra piccola torre.... Anche di sera la vidi.... due volte.... Ell'aveva aperto le imposte e s'era affacciata alla finestra.... La vidi profilarsi in nero sullo sfondo rischiarato dalla lampada elettrica.
Mentre don Cesarino diceva così, un lieve incarnato si diffondeva sulle sue gote pallide e un tic nervoso gli faceva batter le palpebre su cui egli passava e ripassava la mano bianca, sottile, luccicante di anelli. Uso ai lunghi silenzi vuoti di pensiero, timido per modo da non saper quasi fissare una donna in faccia, era stupìto egli stesso della propria facondia, stupìto di sentirsi tanto meno goffo, tanto meno impacciato del solito. Ma più di tutto si maravigliava d'aver osato ribellarsi all'autorità della madre che non l'avrebbe voluto presente a questa prima visita [142] della Moncalvo e che aveva dovuto cedere per prudenza dinanzi a una sua dichiarazione preventiva: — Se non posso riceverle oggi in casa mia, andrò io a cercarle domani in casa loro.
Don Cesarino si voltò un momento per mostrare alla Mariannina la torre che sorgeva all'angolo del muraglione di cinta e la cui base pareva perdersi in un viluppo di piante.
— Abbiamo un pajo di camerette lassù.
— Ora mi spiego, — soggiunse la ragazza, — il chiaro ch'io vedevo qualche sera dietro le persiane.
— Ero io.
Pochi passi più avanti, la principessa Olimpia, discorrendo con monsignor de Luchi e con la signora Rachele Moncalvo, rievocava il tempo nel quale il giardino, molto più ampio, si stendeva ov'era adesso la strada.
— Quando hanno rovinato la nostra Roma con le loro fabbriche, — ella disse, — ne hanno preso una parte, appunto quant'è larga la loro via Nazionale.... Abbiamo dovuto rifare il muro di cinta a livello della torre che una volta s'innalzava isolata in mezzo al parco. E allora vi si saliva nel pomeriggio per prendervi il fresco, e tutto intorno era una bellezza di verde.... palme, quercie, cipressi, ed era una fragranza di fiori, perchè di là dal nostro giardino ce n'erano altri, [143] e poi altri ancora, e non si vedevano queste brutture, nè si avevan gli orecchi assordati da questo fracasso di tram e di automobili.... La sera regnava un gran silenzio, rotto solo dal canto dei grilli.
La signora Rachele, benchè inorridita all'idea di quel mortorio, finse di andare in estasi.
— Certo doveva esser molto più poetico.... Però dentro questo ricinto si è come fuori del mondo.
— Mai abbastanza, mai abbastanza.
— Bisogna pure adattarsi a vivere in questo mondaccio, — obbiettò monsignore.
— Lo sappiamo che lei ci si è adattato anche troppo, — disse la Oroboni tra scherzosa e severa.
La signora Rachele si ricordò di certe allusioni di suo marito. Pareva che monsignor de Luchi avesse qualche peccatuccio sulla coscienza, qualche infrazione a uno dei voti pronunziati nell'abbracciare il sacerdozio.... Ma chi si salva dalla calunnia? Perfino dell'austera principessa Olimpia si voleva far credere che in gioventù avesse avuto le sue debolezze....
E la Rachele Moncalvo era dispostissima a crederlo, trovandovi una scusa alle sue scappatelle recenti, concludendo che nella high life tutti fanno lo stesso, e deplorando sempre più di non [144] esser cattolica per non poter di tratto in tratto aggiustare i conti con Domeneddio.
— Non frequenta la società? — chiese la Mariannina a don Cesarino, il quale aveva accennato alle sue abitudini quasi claustrali.
— La frequentai per poco, — egli rispose. — Ora non ci vado mai.
— E pure, — seguitò la ragazza, — col suo nome, con la sua posizione tutti devono farle festa.
Egli tentennò il capo.
— Non creda.
Era per don Cesarino un tema penoso. Sì, aveva frequentato la società per due inverni consecutivi quando sua madre sperava che, come altri principi romani, anch'egli si accaparrasse una sposa fra le miliardarie che l'America manda di qua dall'Oceano a scambiare i loro dollari coi titoli della vecchia Europa. E invano le intraprendenti misses gli si erano affollate intorno piene di buona volontà; ma l'audacia della loro flirtation, anzichè ingalluzzirlo, lo aveva sgomentato, aveva cresciuto la sua ripugnanza per le femmine in genere, aveva acuito il suo desiderio di non incontrar sul suo cammino nessuna di queste creature fragili e perverse. Ed egli aveva attraversato un periodo d'esaltazione religiosa durante il quale sua madre e monsignor de Luchi [145] avevano avuto un bel da fare a impedirgli d'entrare in un chiostro. Oggi non gli pareva di esser più quello, e mentre camminava a fianco della bella semita e sentiva sotto il suo braccio la molle pressione del braccio di lei, gli si trasfondeva nel sangue un ardore che le superbe americane non avevano saputo comunicargli, un ardore fatto di spasimi e di voluttà, che gli dava, insieme con vaghi terrori ascetici, un'inusata baldanza, una coscienza nuova di potere e di forza.
Vedendolo preoccupato, la Mariannina taceva.
— Perchè tace? — domandò Cesarino. — L'ascolto così volentieri! Ha una voce così dolce.... Dovrebbe cantar così bene!
— Oh, no davvero.
— Conosce la musica però?
— Suono il pianoforte.... E studiavo anche il canto.
— Ha smesso?
— Ho studiato un poco quand'ero a Parigi.... Poi siamo partite, e non ho ancora ripreso.
— Ma riprenderà?
— Forse.
— Ha viaggiato molto?
— Molto.... Da bambina in su.... Ho girato quasi tutta l'Europa e per parecchi anni ho abitato l'Egitto.
[146]
— Dev'esser bello viaggiare, — sospirò don Cesarino. — Io vorrei andare in Terra Santa.
— Oh, quello sarebbe il mio sogno, — esclamò la Mariannina con un entusiasmo che pareva sincero.
Ma il giovine principe la guardò alquanto meravigliato. Che fascino poteva avere la Terra Santa per lei, la reproba, la discendente dei crocifissori di Cristo?
Pure, riordinando con uno sforzo di memoria e d'intelligenza le sue monche cognizioni di storia sacra, pensò che anch'ella era legata a quei luoghi dalle tradizioni degli avi, dalla pietà del suo tempio ch'era stato distrutto, del suo popolo ch'era stato disperso.
In verità, don Cesarino attribuiva all'esclamazione enfatica della ricca ereditiera un significato assolutamente fantastico. Nell'entusiasmo di lei per la Palestina non entravano nè i ricordi dei padiglioni di Giacobbe, nè quelli del tempio di Salomone. La sua era una curiosità tutta mondana di fanciulla viziata, in cerca d'impressioni sempre nuove e diverse. A Gerusalemme ella non si sarebbe certo unita alla schiera dei fanatici che singhiozzano ogni venerdì sulle rovine del Santuario, non avrebbe, come i moderni Sionisti, studiato sul posto il piano edilizio della capitale d'un nuovo Regno d'Israello, ma, seduta alla [147] tavola rotonda del New Grand Hôtel, dissimulando studiosamente le sue origini, avrebbe, con le inglesi di Cook, preso gli accordi per le gite a Gerico, al Giordano, al Mar Morto.
Pure don Cesarino, nei grandi occhi a mandorla della Mariannina, negli occhi umidi, luminosi e profondi, seguitava a leggere ciò che non v'era. Vi leggeva, insieme col rimpianto delle glorie tramontate per sempre, l'avvilimento di una condanna che non ha remissione, l'anelito ardente a sollevarsi, a redimersi. E si esaltava all'idea di rialzare con la sua mano quell'angelo fulminato, di riscattar quell'anima a cui le colpe dei padri avevano reciso le ali.... Ah, purificarla con l'acqua lustrale, insegnarle le verità della fede, e poi, a suggello della conversione, portarla seco penitente contrita al sepolcro di Cristo, che sogno magnifico, che felicità nuova e insperata! Pareva a don Cesarino che un fascio di raggi squarciasse ad un tratto il cielo grigio della sua vita, gli aprisse le vie chiuse dell'avvenire.
La principessa madre si voltò bruscamente verso il figliuolo e gli disse:
— Fa freddo. Si rientra in casa.
Nel salotto terreno, che un'ombra discreta occupava in quel pomeriggio invernale, il vecchio Plinio servì la cioccolata e i biscotti. Le sue mani rattratte tremavano, il suo sguardo interrogatore [148] si fermava a vicenda sulla principessa Olimpia, su don Cesarino, su monsignor de Luchi e sugli ospiti strani che mal dissimulavano l'arroganza di risaliti sotto i modi umili e deferenti. Ed egli, che non poteva incontrar l'equipaggio dei Moncalvo senza fare una smorfia che involgeva nel medesimo disprezzo i cavalli e chi li guidava, la carrozza e chi vi stava dentro, egli aveva ora la mortificazione di sentir donna Olimpia domandare alla signora Rachele se voleva un altro pezzo di zucchero e di veder don Cesarino in adorazione davanti alla Mariannina come davanti a un'immagine sacra. Che tempi eran questi? Era possibile che gli Oroboni si umiliassero ai Moncalvo solo perchè i Moncalvo eran ricchi? Possibile che al danaro sacrificassero la loro dignità? E pensare ch'egli, povero in canna com'era, rinunziava già da più anni a riscuotere il suo salario pur di non abbandonare i suoi antichi padroni!
— Tirate le tende che coprono i medaglioni, — ordinò la principessa.
Apparvero allora, nelle cornici stinte e polverose, i ritratti di famiglia che monsignor de Luchi si affrettò ad illustrare. Quel vecchio segaligno, con lo zucchetto rosso in capo, era il nobiluomo Andrea, patrizio veneto (chè veneta era l'origine della famiglia) e cardinale di Santa Chiesa, [149] competitore di Camillo Borghese (che fu poi Paolo V) al soglio pontificio, non riuscito per le mene di Francia. Quello alla sua destra, nell'ampia zimarra guernita d'ermellino, era il fratello di lui, Nicolò Alvise, cavaliere e procuratore della Serenissima, dipinto da uno scolaro del Tintoretto: venivano quindi due nipoti, don Antonio e don Marco, e il pronipote cardinale Pietro, istitutore dell'Accademia oroboniana, quegli che, rotto ormai ogni legame con la Repubblica di Venezia, aveva richiamati in Roma il padre e lo zio e piantata qui stabile dimora. Ultimo, in ordine cronologico, il bisavolo di don Cesarino, cameriere segreto di Gregorio XVI, morto di crepacuore il giorno della fuga di Pio IX a Gaeta. Sola fra tanti uomini una donna, la sposa di don Marco, schietto sangue romano, Tarquinia dei principi Altieri, la piccola testa superba eretta sul collo bianchissimo e sulle spalle opulente, metteva una nota giovanile in quel malinconico concerto di faccie serie e aggrinzite.
Don Cesarino si chinò all'orecchio della Mariannina.
— Quel ritratto la ricorda.
— Ricorda me? — chiese la ragazza imporporandosi in viso.
— Sì.... Nell'arco delle ciglia, nel taglio della bocca.
[150]
A un cenno della principessa le tende si riabbassarono e gli antenati di don Cesarino furono sottratti alla mortificazione di nuovi confronti.
— Non oso invitarla da noi, — disse timidamente la signora Rachele al momento di accommiatarsi. — Sarebbe troppo onore.
— Grazie, — rispose la principessa, alzandosi in piedi. — Noi non andiamo da nessuno.
E con quel noi ella comprendeva anche suo figlio.
— Mi permetta almeno di venir di tratto in tratto a ossequiarla.... con la Mariannina.
Donna Olimpia assentì freddamente con un cenno.
— Venga.... facendomi avvertir prima da monsignore.
— Esco anch'io, — disse il sacerdote.
— E io accompagno le signore fino al portone, — annunziò don Cesarino, evitando di guardare in viso la madre.
La signora Rachele, appena fu in giardino, sicura di non essere udita da altri, perchè la figliuola e don Cesarino erano rimasti indietro, non potè trattenersi da un piccolo sfogo con monsignor de Luchi.
— Auff!... Una gran dama.... dalla punta delle unghie alla radice dei capelli.... su questo non c'è dubbio.... ma, diamine, vi gela.... Le nostre [151] regine.... lasciamo stare le opinioni.... sono infinitamente più alla mano.
Don Paolo, di fronte alle singolari riserve della signora Rachele Moncalvo, si sentì in obbligo di dichiarare che per le due regine (non disse le nostre) egli aveva una gran devozione.
La regina Margherita sopra tutto era una pia e santa donna, molto affezionata alla Chiesa. In quanto alla principessa Olimpia, bisognava mettersi nei suoi panni.... Quello che accadeva era così nuovo per lei, così lontano dalle idee in cui ell'era cresciuta....
— Ma vorrei sapere quello che s'è concluso con questa visita, — insistè la signora Rachele. — Non una parola, non un'allusione al vincolo che dovrebbe unire le nostre famiglie.
Monsignor de Luchi sorrise.
— Un po' di pazienza, signora Moncalvo, un po' di pazienza.... Le cose sono ormai messe in modo che non c'è più pericolo di tornare indietro.... Dove sono quei due ragazzi?
Con la scusa di mostrarle una quercia che, secondo la fama, era stata piantata nel 1660, don Cesarino aveva condotto la Mariannina per un sentiero che riusciva ugualmente alla porta d'ingresso, ma vi riusciva allungando il cammino di un centinaio di passi. Così per un momento i due giovani furono perduti d'occhio.
[152]
— Ci rivedremo presto? — supplicava don Cesarino premendo forte il braccio della ragazza.
— Mah! — fece ella guardando in terra. Pareva assorta nella contemplazione di un sassolino che aveva il colore dei lapislazzuli. — Dipende dalla sua mamma.... Non ha l'aria d'esser molto entusiasta di me, la sua mamma.
— È il suo carattere, — ribattè don Cesarino. — Ha avuto tanti dispiaceri nella vita.... Ma quando la mamma saprà ch'io desidero molto.... molto di vederla.... e di vederla spesso.... sempre....
— Oh.... sempre.... Sarebbe noioso.... — disse la Mariannina, giocherellando con un ciondolo che le pendeva dalla catena dell'orologio.
— Sì, sì, — confermò il giovine. — Non ischerzo mica. E avrei bisogno di parlarle a lungo.... Se venissi da lei, mi chiuderebbe la porta in faccia?
— No, purchè venisse col consenso della sua mamma.
La Mariannina aveva capito benissimo che per meglio conquistare il cuore di don Cesarino le conveniva far la ritrosa e mostrarsi deferente al principio d'autorità.
— Zitto! — ella disse tendendo l'orecchio. — Mi chiamano.
— Mariannina! Mariannina! — chiamava infatti [153] la signora Rachele, ch'era ferma presso il portone con monsignor de Luchi.
— Eccomi, eccomi.... Via.... che cosa fa?
Quest'interrogazione della ragazza era rivolta al principino Oroboni che le avea afferrato la mano e gliela baciava avidamente.
— Le voglio tanto bene, — balbettava il giovine, rosso, infiammato in viso.
— Tss! — fece ella portandosi l'indice alla bocca.
E si liberò per raggiunger la madre.
Mentre questo accadeva in giardino, nel salotto terreno, di dove i visitatori erano usciti, il servo Plinio s'indugiava a raccogliere le tazze di cioccolata per metterle nel vassoio e riportarle in cucina. Evidentemente egli avrebbe voluto parlare, ma non osava.
Donna Olimpia, ch'era sprofondata nella poltrona, immersa nei suoi pensieri, si scosse all'acciottolìo delle porcellane e ammonì:
— Abbiate riguardo.... è l'ultimo servizio di vecchio Sassonia che ci rimane.... Che c'è? — ella soggiunse udendo come il suono d'un gemito represso.
Plinio non rispose; la principessa che aveva l'animo esulcerato si lasciò scappare una frase ingiusta e cattiva:
— Eh, chi sa che fra poco non possiate riscuotere i vostri arretrati di salario.
[154]
A quest'offesa, che inchiudeva una vaga conferma dei gravi avvenimenti temuti, l'antico domestico traballò come se avesse ricevuto una mazzata sul capo; ebbe appena la forza di deporre sul tavolino il vassoio carico delle sue tazze (e se il vassoio non si rovesciò, bisogna credere che c'è un Dio anche per le porcellane di Sassonia) e si precipitò, singhiozzando, fuori della camera nella quale irruppe con impeto uguale e quasi contemporaneamente don Cesarino.
— Mamma, mamma, — esclamò il giovine principe, gettandosi ai piedi di donna Olimpia e stringendole le ginocchia: — la voglio, la voglio.
Un paio di giorni dopo, fra il tocco e le due, il pittore Brulati tornava, per via Merulana, da una gita a piedi fuori di porta San Giovanni, ove aveva invitato due amici francesi a colazione da un oste di sua conoscenza. Gli amici s'erano voluti fermare al Museo Lateranense; egli aveva stimato più igienico di proseguire il suo cammino, e con la testa alta, con le mani sprofondate [155] nelle tasche del soprabito aspirava voluttuosamente l'aria vibrante di quel freddo e limpido pomeriggio di dicembre, fatto apposta per dissipare i vapori del vino di Frascati, bevuto forse in quantità maggiore del necessario. E invero le sue idee, un po' confuse in principio della lunga via Merulana, andavano riordinandosi a grado a grado, tantochè prima di giungere a Santa Maria Maggiore egli si ricordò, fra l'altre cose, che non aveva più sigari. Entrò da un tabaccaio, rifornì il suo astuccio, comprò quattro cartoline postali, e nell'uscir dalla bottega s'incontrò faccia a faccia con la signora Rachele Moncalvo, ch'era scesa in quel momento da un tram.
Il pittore non seppe frenare un oh di maraviglia; la signora, a cui l'incontro riusciva tutt'altro che gradevole, arrossì sotto il velo che le copriva il viso, ma con una grande padronanza di sè tirò fuori dal piccolo manicotto di màrtora la destra inguantata e la porse, celiando, a Brulati.
— Ebbene, Brulati, sa ch'è buffo? Mi guarda come una bestia rara.... Dica la verità; le pare impossibile che una donna amante di tutti i suoi comodi, avvezza a fare il suo chilo dopo ogni pasto, sia uscita a quest'ora e invece di ordinare che le attacchino il suo fiacre ben chiuso [156] e ben ovattato, sia venuta fin qui in un tram ove si gela? Che vuole? Vado a portar qualche soccorso a una povera famiglia che abita in queste vicinanze e preferisco di non arrivarvi in carrozza.
Brulati approvò il delicato pensiero, e si mise macchinalmente a fianco della signora Moncalvo.
— Va da quella parte? — egli chiese.
— Sì.... La parte opposta di quella per cui va lei.... Arrivederci, Brulati.... Non si svii per causa mia.
— Oh, posso benissimo accompagnarla per un tratto di strada, — disse il pittore con uno squisito senso di opportunità.
La signora Rachele lo avrebbe mangiato vivo, e in fatti gli mostrò i denti ch'erano ancora bellissimi, ma glieli mostrò atteggiando la bocca a un sorriso.
— Ecco, le permetto di venir fin là.... fino a quel candelabro.... Niente di più.
Intanto ella pensava: — Che cretino!... E lo dicono un artista di genio!... Non capisce nulla.... Però.... se capisse, sarebbe peggio.... Se poi va a raccontare a tutti che m'ha vista qui....
E ripigliò a voce alta:
— Sono opere che acquistano tanto maggior pregio quanto più sono segrete.... Non so davvero [157] perchè ne abbia parlato con lei... E non mi tradisca, le raccomando.... Gabrio e la Mariannina mi canzonerebbero.... A sentir loro, si spende anche troppo in beneficenze....
— In fatti, — osservò il pittore, — i Moncalvo hanno la riputazione di esser munifici.
— Sicuro, — soggiunse la signora Rachele, — mio marito non rifiuta mai il suo nome e il suo danaro.... ma la carità nascosta è la migliore.... Quante miserie resterebbero ignorate se non facessimo un piccolo sforzo per cercarle!
— Pur troppo, pur troppo, — sospirò Brulati mentre la signora rallentava il passo, e pur fingendosi disinvolta guardava sospettosa intorno a sè.
A un tratto ella si fermò sui due piedi e disse in tuono deciso:
— Addio, Brulati.... L'aspettiamo domani a pranzo.... E siamo intesi, non una parola di questo incontro....
— Non dubiti.... Anzi vorrei....
— Che cosa? — chiese la signora Rachele frenando a stento la sua impazienza.
— Ecco, — riprese l'artista tirando fuori di tasca il portafoglio, — poichè mi ha onorato di una sua confidenza, vorrei partecipare anch'io all'opera buona che fa.... vorrei offrire il mio obolo a quella povera famiglia....
[158]
— O che ghiribizzi le saltano in testa?... Neanche per idea.... No, no.... A ogni modo sarà per un'altra volta.... Grazie, e arrivederci.
Ma quel benedetto Brulati insistette tanto che ella, non vedendo altra via di liberarsene, finì con l'accettare il biglietto da 25 lire che egli si ostinava a metterle in mano, e rinnovando un grazie affrettato si allontanò rapidamente. Chi le fosse passato vicino in quel momento avrebbe notato l'espressione strana della sua fisonomia, e l'avrebbe sentita brontolare: — Imbecille! Che cosa ne faccio ora di queste venticinque lire?
Brulati, dal canto suo, rimessosi in cammino, si abbandonava a gravi considerazioni.
— Benedette donne! Chi le indovina mai?... Io non avrei creduto che questa signora Moncalvo avesse spiriti così filantropici.... Non che sia avara, tutt'altro, ma mi pareva più disposta alla carità fastosa che alla carità segreta.... È vero che quasi quasi se ne vergogna e aveva l'aria di voler strapazzarmi per averla sorpresa.... Anche le mie venticinque lire come le ha ricevute!... Capisco che son poche, ma non ho mica i suoi milioni, io.... Ognuno fa quello che può.
A questo punto l'ottimo Brulati vide qualche cosa che mutò bruscamente il corso de' suoi pensieri. Una carrozzella, che il cocchiere spingeva [159] con la maggior velocità consentita dal modesto bucefalo che vi era attaccato, per scansar un tram, rasentò il marciapiede rischiando di arrotare una vecchia che traversava la strada e conduceva a mano un fanciullo. Il fanciullo pianse per la paura, la vecchia inveì contro il fiaccheraio e il fiaccheraio inveì contro la vecchia, mentre un signore impellicciato ch'era nella vettura dava segni manifesti d'impazienza e urlava: — Avanti! Non perdiamoci in chiacchiere, che già non è successo nulla.
In fatti il fiacre ripigliò la sua corsa, non prima però che Brulati avesse riconosciuto nel signore impellicciato il conte Ugolini Ruschi. Era dubbio se questi avesse riconosciuto lui; certo che i due non si salutarono. Ma l'artista sostò un minuto a guardar quella carrozzella che si perdeva nella direzione presa pur dianzi dalla Rachele Moncalvo, e non potè a meno di esclamare: — Tò! Che anche il conte abbia un'opera di carità da queste parti?
Messo per questa via, Brulati si ricordò delle voci che gli erano pervenute all'orecchio e che egli non aveva voluto raccogliere, si ricordò di atti, di parole a cui egli non aveva badato e che ora gli sembravano prove chiare e lampanti dell'intimità della Moncalvo col conte, e, ci dispiace dirlo, finì col gratificarsi dei medesimi [160] titoli onde la signora Rachele lo aveva gratificato in cuor suo: — Imbecille! Cretino!
Camminava con passo frettoloso, gesticolando in modo strano e borbottando frasi slegate ove gl'improperî contro se stesso si alternavano con quelli contro la Rachele Moncalvo.
— Ah un'opera di carità!... Sfacciata!... E io idiota!... E le ho dato venticinque lire!... Si può esser più balordi di così?... Ma che ipocrita!... Con quell'unzione!... Con quell'aria di donna che cerca le miserie segrete!... Non vuol che si scopra.... Sfido io!... E pure sapevo ch'era vana, ambiziosa all'eccesso.... Ma corrotta non la credevo.... Asino!... Perchè non la credevo corrotta?... Perchè la credevo diversa dalle gran dame con le quali s'imbranca?... Ah, ah, ah!... E anela a entrar nel grembo della Chiesa?... Naturale.... Ve la condurrà il cavaliere di Malta.... Già, quando le donne si dànno in braccio alla fede, c'è da aspettarsi il peggio.... Il marito, s'intende, non si era accorto di nulla.... come, del resto, non mi ero accorto io.... che, se avessi potuto supporre, avrei posto la mia candidatura.... Perchè no?... È sempre un boccone appetitoso e avrei fatto miglior figura a concluder qualche cosa con lei che ad adorar platonicamente quel fior di civetta ch'è la sua figliuola.... Se fossi in tempo?... Se provassi?... Non sarebbe delicato, capisco, [161] come amico di famiglia.... amico del commendatore.... Ma chi bada a queste fisime, ormai?... È un mondo di carogne, e gli schizzinosi stanno freschi.... Povero commendatore!... In affari sarà un uomo di genio, in casa avrà la sorte comune.... E se poi non fosse vero?... Se si trattasse d'una semplice coincidenza?... Se il ritrovo galante fosse un parto della mia fantasia?... Tò!... Eccomi da capo con le mie ingenuità.... È vero, verissimo, arcivero.... Imbecille! Cretino!
In queste bizzarre disposizioni d'animo Brulati giunse nel suo studio in piazza dell'Esquilino, ove la modella lo aspettava da un'ora e lo accolse con poca amabilità.
— Non son mica la tua serva, io, — disse la Trasteverina dalle forme opulente. — M'hai fatto venire alle due e sono le tre passate.... T'avviso che prima delle quattro voglio esser libera....
Ella gli dava del tu non perchè potesse vantare alcun diritto su lui, ma perchè quel pronome l'era più familiare e l'usava quasi con tutti.
— Non è vero che sian le tre passate, — rispose Brulati guardando l'orologio, — ma non sono in vena di lavorare neppur io, e ti metto in libertà addirittura.
— Un momento, — riprese la popolana riagganciandosi i bottoni del corpetto. — Mi pagherai la mia giornata.... Non è colpa mia....
[162]
— S'intende che ti pago, — interruppe l'artista. E le consegnò cinque lire. — Sono meno di venticinque e sono spese meglio.
La modella fece un viso maravigliato.
— Lo so che non puoi capire, — soggiunse Brulati. E battendole amichevolmente sulla spalla le chiese: — Dunque per le quattro devi esser libera?... Hai anche tu un'opera di carità?... Non capisci nemmen questo?
— Vossignoria parla in un certo modo! — biascicò la donna richiamata al senso delle distanze sociali da quel linguaggio sibillino.
— Hai ragione.... Vattene con Dio.
— E per domani?
— Domani alle nove, senza fallo.
Brulati uscì di lì a poco, senza nè mèta nè scopo, tanto per consumare il tempo, e poichè nella mattina aveva camminato anche più del bisogno prese il primo tram che gli capitò e scese a San Silvestro.... Il Corso, ove giunse in due passi, era pieno di movimento, come suol essere nei pomeriggi invernali. Davanti al Caffè Aragno qualcheduno lo chiamò: — Brulati, o Brulati!
Era il commendator Gabrio Moncalvo. Dopo la moglie, il marito.
Il commendatore, fermo sul marciapiede del Caffè, in mezzo a un gruppo di notabilità finanziarie, gli fece segno di avvicinarsi.
[163]
— Bravo, Brulati, ora mi accompagna fino alla Banca.... Non occorrono presentazioni.... Non è chi non conosca il nostro Brulati, uno dei nostri artisti più geniali....
— Oh, prego....
Tutti chinarono il capo con aria di degnazione. Eran tutti commendatori; uno, con un nome tedesco, grosso, rubicondo, con una tuba grigia fasciata di nero, era barone per soprammercato.
— Devo avere un suo acquarello, — disse costui. — L'ho comperato in aprile scorso, alla Mostra.... Oh bellissimo.... L'ho regalato a mia moglie.... Rappresenta.... che cosa rappresenta?... «Un'ottobrata romana», mi pare.... Oh, bellissimo....
— Veramente, — notò il pittore con un sorriso, — all'ultima Mostra io avevo un quadretto solo, «Un funerale di campagna»....
— Un funerale di campagna?... Sicuro, sicuro.... Un gioiello.... Scambiavo un soggetto con l'altro....
— Grazie.... Ma forse il signor barone si sbaglia.... Quell'acquarello è invenduto.... Forse il signor barone confonde.... Egli ha comperato realmente l'«Ottobrata romana» che non è mia, ma di Crunali, Mario Crunali.
Il banchiere fece una smorfia.
— Crunali.... Brulati.... nomi che si somigliano.... Ho tante cose per la testa, io....
[164]
— Cosicchè, sarà per un'altra volta, — disse Moncalvo per troncare quel dialogo imbarazzante.
Prese il braccio del pittore e si congedò dagli amici.
— Arrivederci, cari.... Voi montate nelle vostre carrozze.... Io faccio questi due passi.... Il medico m'ha ordinato il moto.... Andiamo, Brulati.... Già si vede che lei oggi è un disoccupato.... Coraggio.... La Banca non è lontana.... in via del Plebiscito.
Affabile per sua natura, quel giorno Moncalvo era più espansivo del solito. Aveva anch'egli fatto colazione fuori di casa, fra due sedute di due Società di cui era consigliere, e i tartufi annaffiati con una mezza bottiglia di Château Laffitte l'avevano messo di buon umore.
— Bel tipo quel Bernheim! Si atteggia a Mecenate e confonde i nomi degli artisti e i soggetti dei quadri.... Glielo farò comprare ugualmente il «Funerale di campagna».
— Scusi, — replicò Brulati. — È un quadro che non vendo. Ho promesso di regalarlo.... indovini a chi?
— Come posso indovinare?
— Ho promesso di regalarlo alla signora Mariannina, quando si sposerà....
— Nientemeno! — esclamò il commendatore. Ed ebbe rimorso di aver tenuto segreto a Brulati [165] un avvenimento che stava per compiersi nella famiglia, e del quale si buccinava già qualche cosa.
— Chi sa che domani a pranzo non senta una gran novità, — egli cominciò. — Perchè domani l'aspettiamo, è il suo giorno....
— Una novità? — disse Brulati in tuono interrogativo.
Allora Gabrio Moncalvo gli raccontò ch'era in procinto di stipulare il contratto d'acquisto di tutti i beni degli Oroboni e che contemporaneamente sarebbe stata firmata la promessa di matrimonio fra la Mariannina e don Cesarino.
— M'immagino i commenti poco benevoli che si faranno, — soggiunse il banchiere prevenendo le obbiezioni. — Non parlo di quelli degli amici di casa Oroboni; parlo dei commenti dei miei cosidetti correligionari, degli arcadi del liberalismo, dei pedanti della borghesia.... Pur troppo anche dai miei parenti devo aspettarmi una mezza scomunica.... Figuriamoci mio fratello e mio nipote.... il professorone e il professorino, come li chiama la Rachele.... imbevuti di vecchi pregiudizi e di vecchie formule!... E mia sorella, poveretta, un angelo, ma cristallizzata nelle idee di trent'anni fa!... Ho notato che le persone esili, malaticcie stentano di più a rinnovare il loro bagaglio intellettuale.... Già, già, ci daranno [166] degli apostati, dei rinnegati.... Sicuro, perchè la Mariannina dovrà convertirsi.... sfido io.... Intanto si convertirà lei.... dopo, vedremo.... Di che cosa si tratta infine?... Di quattro goccie d'acqua.... E presto o tardi bisogna decidersi a passare il Rubicone.... Noi siamo un anacronismo.... Questo non significa che dobbiamo sparire.... Dobbiamo anzi con quello che c'è di sano, di vigoroso nella nostra razza rinsanguare le sfibrate aristocrazie occidentali che hanno poi più ragioni di vivere perchè hanno radici profonde nella terra, nella storia europea.... mentre noi siamo nomadi.... Dico noi, ma lei non c'entra.... Sì, caro Brulati, questi matrimoni hanno un carattere provvidenziale e non possono non aver conseguenze benefiche.... In principio, si capisce, essi rappresentano un sacrificio da una parte e dall'altra.... Nel caso specifico, vuol ch'io non m'accorga che la Mariannina paga il suo titolo con un sacrificio?... Lasciamo stare i danari; ma don Cesarino non è certo un giovane che faccia girar la testa a una ragazza.... Non è bello, non è colto, non è spiritoso, e da questo lato la Mariannina avrebbe meritato molto di meglio.... Ma verranno i figliuoli.... oh verranno senza dubbio.... e i figliuoli terranno dalla madre, e a lei resterà la consolazione di aver rinnovellata la vecchia stirpe.... Tutto non si può avere a questo [167] mondo.... Così per gli Oroboni.... l'orgogliosa principessa Olimpia avrebbe voluto una nuora della sua casta con un albero genealogico che risalisse alle crociate.... Ma la nuora patrizia sarebbe stata a corto di quattrini e forse non avrebbe avuto prole, o l'avrebbe avuta gracile, linfatica.... Questa invece le darà dei colossi.... e inoltre.... che non è cosa da trascurarsi.... le avrà indorato il blasone.... Ha seguìto il mio ragionamento, Brulati?... Mi par distratto.... O casca proprio dalle nuvole?... Non sospettava nulla di nulla?
L'artista confessò che da certi discorsi di donna Rachele e dalle frequenti visite di monsignor de Luchi era preparato alla notizia della conversione, non a quella del matrimonio....
— Ah, — ribattè Gabrio Moncalvo con una spallucciata, — la conversione senza il matrimonio non avrebbe sugo.... Sentirà, sentirà domani da mia moglie.... Perchè, se la cosa è riuscita, è in gran parte merito suo....
— Davvero? — fece Brulati tanto per dire una parola.
— Eh, sì, — ribattè il banchiere, — merito suo.... È stato un lavoro di filigrana tra lei e don Paolo.... Sono sincero; non la credevo da tanto.... Donna intelligente sì, ma così avveduta, così tenace ne' suoi propositi, così discreta [168] sopra tutto, non la credevo.... Un po' ambiziosetta, questo sì.... ma la freneremo.... Ora vorrebbe un titolo....
— Niente di più facile, — esclamò il pittore.
— Niente di più facile, lo so, quando si tratti di avere una delle solite nobiltà... Ma quel benedetto Ugolini ha montato la testa a mia moglie per una contea romana....
Brulati fece un punto ammirativo.
— Pontificia, vuol dire?
— Già, pontificia.... Ha l'unico merito di esser più rara....
— E il conte Ugolini....
— È cavaliere di Malta, è nelle buone grazie del Vaticano.... Ma son chiacchiere.... E avranno prima da discorrer con me.... Se credono ch'io passi con armi e bagagli nel campo nero....
— Volevo ben dire, — replicò Brulati. — Io di politica non me ne intendo, ma coi preti non ho mai avuto buon sangue e le cannonate del 20 settembre 1870 sono tra i più bei ricordi della mia adolescenza.
— Il poter temporale sarebbe caduto anche senza quelle cannonate, — soggiunse il conciliativo Moncalvo, — e ormai nessuno pensa sul serio a rimetterlo in piedi. In quanto ai preti, ce ne sono di buoni e di cattivi.... Monsignor de Luchi, per esempio, è una perla.... A ogni [169] modo, non abbia paura, Brulati.... Non son uomo da legarmi a filo doppio con nessun partito.... Eccoci al portone della Banca.... Grazie della compagnia e arrivederci domani a pranzo alla solita ora.... A proposito, se mia moglie non accenna all'argomento del matrimonio, non ne parli neanche lei.... E zitto con tutti, mi raccomando, fin dopo la stipulazione.
Il primo impulso di Brulati quando fu solo, fu quello di ripetere al proprio indirizzo gli epiteti ingiuriosi con cui s'era vituperato qualche ora innanzi. Idiota e cretino che vivendo nell'intimità dei Moncalvo non s'era accorto di quello che si stava tramando; idiota e cretino che nello stesso giorno s'era lasciato prendere in giro dalla signora Rachele e non aveva avuto il coraggio di dir l'animo suo circa al matrimonio della Mariannina e alla conversione politico religiosa della famiglia! Lo confortava però il pensiero che c'era qualcuno anche più idiota e cretino di lui, ed era il commendator Gabrio Moncalvo in persona, il sapiente finanziere, il geniale speculatore, il ricercato consulente di un numero infinito di Società. Ah, quella contea romana sollecitata per i Moncalvo da Ugolini Ruschi era il non plus ultra del comico. Altro che contea! Quello era il minimo dei servigi che il cavaliere di Malta rendeva al suo amico, e il [170] commendator Gabrio aveva ben ragione di tenerselo caro. Che mondo, che mondo! E come farebbe, egli, Brulati, domani, pranzando in casa Moncalvo, a non ridere in faccia a tutti e due i coniugi?... Domani poi sarebbe anche scoppiata la bomba del fidanzamento della ragazza!... Era strano.... La notizia gli aveva prodotto una impressione penosa, come d'una cosa assurda, come d'un contratto ignobile, ma non era stato il colpo che egli poteva aspettarsi, vista la sua qualità di fervente e devoto ammiratore della Mariannina. E constatando il carattere superficiale di quella sua passioncella senile, egli si trovava nella condizione di chi s'accorge di non aver che lievi ammaccature sul corpo dopo una caduta in cui credeva d'essersi fracassato le ossa.
Queste riflessioni consolanti rendevano a Brulati meno sensibile la stanchezza, mentr'egli seguitava a girellar per le vie e s'indugiava dinanzi alle vetrine dei negozi ormai tutti illuminati, resistendo alla tentazione di passar un'oretta allegra in un certo caffè presso Campo de' Fiori, ove solevano riunirsi nel pomeriggio parecchi giovani artisti di sua conoscenza. Gli è che, in mezzo a quei capiscarichi, egli aveva paura di lasciarsi scappar qualche parola intorno agl'incidenti della giornata. Ne aveva pieno il [171] gozzo, e nonostante i suoi propositi di esser discreto, se lo tiravano in lingua....
— Ahi! — egli esclamò ad un tratto, come uno che spasima pel mal di denti.
Non erano i denti. L'esclamazione dolorosa gli era strappata dall'apparire improvviso di persona, che, in quell'istante, non poteva giungere più inopportuna. E cercò schivarla fermandosi a guardar la mostra d'un gioielliere, ma il professore Giorgio Moncalvo (era lui, era il terzo Moncalvo che in poche ore gli capitava tra i piedi) gli posò una mano sulla spalla.
— Bravo, signor Brulati. Finge di non vedere.... Quant'è che non va dagli zii?
················
Arrivando a casa tutto stralunato, Giorgio Moncalvo chiese alla donna di servizio che venne ad aprirgli:
— Mio padre è nel suo studio?
— C'è, sissignore.... Badi ch'è giunta una lettera per lei.... L'ho messa sul suo cassettone.
[172]
— Va bene. La vedrò dopo, — disse il giovine, consegnando alla domestica il soprabito ed il cappello.
E si precipitò nello studio, di dove usciva in quel momento il dottor Flacci, l'assistente del professore Giacomo.
Egli, il professore, era seduto davanti alla sua scrivania in mezzo a una quantità di libri e di carte. Un modesto lume a petrolio, protetto da un cappello verde, raccoglieva un cerchio di luce sui libri e sulla testa calva dello scienziato, il quale depose le lenti e alzò gli occhi verso il figliuolo per domandargli, non senza una certa ansietà:
— Che cos'è successo?
— Non è successo nulla che tu non sappia, — principiò Giorgio agitatissimo. — È impossibile che tu non sia a parte del secreto.... Perchè hai voluto tenermi all'oscuro di tutto?...
— Io non t'intendo, — replicò il professore. — Spiègati.... e metti un po' d'ordine, metti un po' di calma nei tuoi discorsi.... Prendi una sedia.
Giorgio fece segno di no.
— Preferisco rimanere in piedi.... Vuoi farmi credere che tu ignori quello che si passa in casa di tuo fratello.... tu che ci fosti anche ieri?
— Ci fui ieri, dopo parecchi giorni che non ci [173] andavo.... ci fui per visitar mia sorella che pur troppo non istà bene....
— Già.... E a me non è permesso di andarvi.... in ossequio all'autorità paterna, — disse Giorgio con una punta d'ironia.
— Via, via, — ribattè il professore Giacomo, alzandosi anch'esso e avvicinandosi al figliuolo. — Io non t'ho dato ordini.... T'ho consigliato pel tuo meglio.... E ora ti prego di scender dalle nuvole.... Qual è questo gran segreto del quale io dovrei essere a parte?
— Dio buono! — esclamò con impeto Giorgio. — Hai parlato ieri con la zia Clara, ed ella non t'avrà detto quello che disse a me or ora un estraneo, Brulati?... E nota che ha taciuta qualche altra cosa.... giurerei che aveva sulla punta della lingua qualche altra cosa che non mi riuscì di strappargli....
— Insomma, sentiamo quello che hai saputo....
— Che la Mariannina sposerà il principe Cesarino Oroboni, che porterà un milione di dote, che, naturalmente, prima di diventar principessa romana, si purificherà nell'acqua battesimale.... come l'obelisco di San Pietro.... che, forse, insieme con lei, o poco dopo, si convertirà la zia Rachele.... Ebbene, tu non sapevi niente?
— Niente di positivo, — rispose il professore, — e non credo che le cose siano al punto che tu [174] dici.... Ma io non mi maraviglio di nulla. Gabrio, sua moglie, la Mariannina son tutte persone ammalate d'ambizione e di vanità..... hanno un'impazienza morbosa di uscir dalla borghesia, di farsi perdonare le loro origini....
— E la zia Clara, — interruppe Giorgio, — che pensa, che fa?
— La zia Clara non ebbe.... più di quello che io le abbia avute.... le confidenze del fratello, della cognata, della nipote.... Ella ha appena un vago sentore di ciò che si sta macchinando.... Forse, quando sarà guarita, tornerà con noi.... perchè puoi immaginarti ch'ella non approva.... come non approvo io....
Questo semplice dissenso, così tranquillo, così misurato, non poteva bastare a Giorgio; anzi lo irritava di più.
— Ci mancherebbe altro che approvaste!... Ma vi pare che sia sufficiente?... C'è di mezzo il nostro nome, la nostra famiglia.... Altro che non approvare! Agire bisogna!
Giacomo Moncalvo guardò suo figlio con uno stupore mal dissimulato.
— Tu vaneggi, Giorgio?... Con che titolo vorresti agire? Che diritti abbiamo? Siamo noi i custodi di tutti i Moncalvo?... Mio fratello batte una strada che non è la nostra, ma dalla quale non si ritrarrà perchè vi trovò le soddisfazioni [175] più grate al suo cuore.... E convien rendergli giustizia; la posizione ch'egli ha conquistata egli la deve al suo ingegno, alla sua attività.... Ed è onesto, per quanto sia difficile, a chi maneggia il danaro, di conservar le mani pulite.... È onesto e generoso.
— Sì, — confermò Giorgio sarcasticamente, — ha tutte le virtù e si presta a un mercato ignobile e concede la mano della sua figliuola all'ultimo rampollo incretinito d'una razza esausta.
— È ignobile, lo consento. Ma sii pur certo che la Mariannina non è una vittima.... Se questo matrimonio si conclude, vuol dire ch'ella n'è persuasa almeno quanto i suoi genitori.
— No, babbo, non posso ammetterlo.
— E pure dovrai ammetterlo. È il gran cruccio di tua zia Clara che aveva un'adorazione per questa nipote, che aveva lasciato la nostra casa per starle vicino, che confidava di esercitare un'influenza su lei, e invece giorno per giorno se la vide sfuggir dalle mani, crescere affatto diversa da quella ch'ell'aveva sperato, capricciosa, egoista, insofferente d'ogni ostacolo, non schietta, non franca.... più ambiziosa, più vana de' suoi parenti, benchè sappia infingersi meglio.
— Oh babbo! — disse Giorgio. — Tu sei spietato con la Mariannina.... tu la odî.
[176]
— Io non odio nessuno.... Io non so s'ell'abbia coscienza del male che fa....
— Salviamola allora, — gridò il giovine, interpretando a rovescio la parola del padre.
— Ah, io non alludo al male che fa a se stessa, — ribattè il professore. — Quello io non ho mezzi per impedirlo.... Intendo il male che fa agli altri.... che fa a te.... al mio figliuolo.
Gli passò carezzevolmente la mano sui capelli (ora Giorgio era seduto con la testa china, con le braccia allungate sulle ginocchia disgiunte) e seguitò:
— E pure tu dovresti esser convinto che quand'anche tua cugina fosse una creatura perfetta, ella non potrebb'essere la compagna della tua vita.
Giorgio assentì con un cenno del capo.
— È vero. Nè io mi adatterei alle sue ricchezze, nè ella si adatterebbe alla mia povertà.... E a un suo matrimonio ragionevole mi sarei rassegnato.... anche a un matrimonio patrizio.... ma non a questo con Cesarino Oroboni.... non a questa commedia della conversione.... Tu sei uno spirito largo, tollerante; la tua legge morale sta al disopra dei dogmi e dei riti; tu m'hai insegnato a giudicare gli uomini secondo le qualità del loro animo e del loro ingegno, non secondo il culto a cui appartengono. A me poco [177] importa d'una confessione o dell'altra o di nessuna; quello che m'importa è la sincerità, e non posso capacitarmi che si abbracci una fede nuova per effetto di una clausola di contratto.
— Qui hai pienamente ragione, — dichiarò il professore, — e queste conversioni utilitarie sono uno degli spettacoli più tristi e più vili del nostro tempo.... Ma che vuoi farci?
La facile acquiescenza di suo padre irritava Giorgio.
— No, no, non è lecito lavarsene le mani.... La nostra voce dobbiamo farla sentire.... Se non s'impedirà nulla, pazienza.... Non avremo rimorsi.... E a te non potranno chiudere la bocca.... Io penserò a dare una lezione a quell'intrigante di monsignor de Luchi.... E quel don Cesarino come lo provocherei volentieri!
— Una violenza! Una sfida! — disse Giacomo Moncalvo, turbato dalla crescente esaltazione di Giorgio che dimostrava quanto profonda fosse la ferita che Mariannina gli aveva aperta nel cuore. — Tu che sei così mite ed equanime, tu che sei uno spirito così moderno e sai quanto valgano queste famose soluzioni cavalleresche!... Nota che probabilmente Cesarino Oroboni non si batterebbe, o per non incrociar la sua spada con un infedele, con un plebeo, o per non venir meno ai suoi principî religiosi.... E quando si [178] battesse? Quando tu l'avessi ucciso.... chè non voglio ammetter l'ipotesi opposta.... saresti più felice?
— Alla felicità ho rinunziato per sempre, — rispose cupamente Giorgio.
— E ti lagni s'io son severo con lei? — esclamò il professore. — Con lei che ti ha sconvolto il cervello?... che ti ha messo per una via senza uscita?... Che t'ha distratto dalle tue ricerche, dai tuoi studi?
— Babbo, babbo, perdonami, — riprese Giorgio, levando verso il padre gli occhi imploranti, — ma io penso qualche volta che se anni fa avessi seguito il consiglio dello zio, se avessi accettato il posto ch'egli mi offriva a Kartum, le cose avrebbero preso un aspetto diverso.... Era evidente che lo zio voleva associarmi a' suoi affari con un secondo fine, vedendo in me un possibile marito della sua figliuola.... E anni fa la Mariannina non era quella d'oggi.... S'è guastata poi....
— Povero Giorgio! E tu credi che avresti vigilato su lei da Kartum, mentr'essa sempre più bella, sempre più ricca, al Cairo, a Nizza, a Parigi, in mezzo a una società frivola e cosmopolita, si ubbriacava d'omaggi, cresceva fra il lusso e i piaceri? Che disinganno, s'ella fosse stata la tua fidanzata, che disinganno t'avrebbe atteso [179] il giorno in cui tu l'avessi rivista!... No, no, ragazzo mio, non fu una disgrazia, non fu un errore quello di non aver accettato il posto di Kartum; la disgrazia vera è che quella gente sia venuta a stabilirsi a Roma, l'errore è che tu sia tornato dall'estero; ed è in parte errore mio, perchè ho contribuito a farti tornare....
Fino a quel punto lo scienziato era riuscito a dominar la sua commozione. Ora egli stentava a padroneggiarsi. La sua voce tremava, le lacrime gl'inumidivano il ciglio.
— Non ho che te solo, — egli disse. — Speravo di poter averti presso di me.... Non supponevo nemmeno che la simpatia che tu provavi per tua cugina, quand'era poco più che una fanciulla, potesse, in condizioni tanto mutate, diventare una passione violenta.... Tu non la nominavi mai nelle tue lettere.... io mi tenevo sicuro ch'ella ti fosse indifferente....
— E io? Io, — protestò Giorgio, — io l'avevo dimenticata.... Te lo giuro, babbo, l'idea di trovarla a Roma non mi turbava.... Sapevo ch'era cresciuta immensamente la distanza che mi divideva da lei.... dieci, venti volte milionaria.... Anch'io, babbo, ero lieto di venir qui, di proseguir qui, vicino a te, la mia carriera scientifica.... Ero così contento.... Ora non so quello ch'io abbia.... non connetto due idee....
[180]
Scattò dalla seggiola, riprese a girar per la stanza. E dopo una pausa continuò, riattaccandosi a una frase pronunziata da suo padre:
— Una passione violenta?... No, non è neppur questo.... Sono più persuaso di te che devo scancellar dalla mia mente e dal mio cuore la Mariannina.... Guarda, se lo zio Gabrio mi dicesse: «sposala», e s'ella mi dicesse: «sposami», io risponderei di no, tanto mi parrebbe assurdo questo matrimonio.... Sei stupito? Ti sembro in contraddizione con me medesimo?... Oh babbo, il tuo povero figliuolo ha perso la testa.
— È una crisi, una crisi che passerà, — replicò il professore, cercando di nascondere sotto il fare scherzoso la sua inquietudine. — E se realmente devono succedere gli avvenimenti che ti furono annunciati, noi non vi assisteremo.... Prenderò io stesso una licenza di sei mesi dall'Università.... sarà la prima che prendo.... faremo un lungo viaggio fuori d'Italia, fuori d'Europa.... Magari potessimo portar con noi mia sorella!... Se la sua salute non le permetterà di muoversi, la lasceremo qui a riordinare la nostra casa.... Son sicuro ch'ella da mio fratello non resta.... Ci si troverebbe troppo a disagio.... A ogni modo, tornando a Roma dopo sei mesi trascorsi in mezzo a gente e costumi diversi, poi avremo bell'e dimenticata quella famosa Mariannina, anche se [181] sarà principessa.... anzi tanto più se sarà principessa.... Non lo credi, giovinotto?
Giorgio tentennò il capo con un mesto sorriso.
— Tu lasceresti per me le tue abitudini, la tua cattedra?
— Sicuro che le lascerei.... per sempre, se fosse necessario.... Per fortuna basterà un'assenza non lunga.... Non ti va il mio progetto?
— Ne riparleremo, babbo.... Grazie di tutto.... Come sei buono!
— Qualcheduno picchiò timidamente all'uscio.
— Chi è?
La donna di servizio avvertì che la cena era pronta.
— Or ora veniamo, — disse il professore. E s'avviò dando il braccio al figliuolo.
La cena fu silenziosa, benchè Giacomo Moncalvo cercasse di tirar in campo i più svariati argomenti. Solo alla fine Giorgio si animò un poco discorrendo dell'insegnamento di fisiologia di Salvieni e della parte del corso che l'illustre uomo aveva affidato interamente a lui. Eh, Salvieni non faceva stare i suoi assistenti con le mani alla cintola.
— Hai scuola anche domattina? — chiese il professor Giacomo.
— Sì, alle nove. E per le otto devo essere in laboratorio.
[182]
— Non esci stasera?
— No, voglio riordinar le mie note per la lezione.
— In tal caso non uscirò neppur io.... Finirò di corregger le bozze di una memoria per i Lincei.
— Buona notte, babbo.
— Te ne vai?... Ma io non ho fretta.
— Scusa, babbo, — soggiunse Giorgio. — Avrò da fare per quasi un paio d'ore.... Domattina esco prestissimo.
— È giusto.... E il meglio sarebbe che tu ti coricassi addirittura.
— No, no.... l'immergermi ne' miei studi mi giova.
— Buona notte allora, figliuolo mio.... E pensa a quel mio progetto.
— Ci penserò. Ne riparleremo....
— E, — ripigliò il professore, colto da una subitanea inquietudine, — mi prometti di non fare nessun passo senza consultarmi?
— Te lo prometto, — rispose Giorgio. E suggellò la promessa con un bacio.
La lettera che lo aspettava nella sua camera e ch'egli aveva assolutamente dimenticata, veniva da Berlino ed egli riconobbe tosto nell'indirizzo la calligrafia lunga, sottile di Frida Raucher. Povera Frida! Due volte sole egli le aveva scritto da Roma e tutt'e due le volte in ottobre. [183] Poi s'era limitato a spedirle delle cartoline illustrate. È vero che non dava più segni di vita neppur lei; certo era in collera e aveva ragione d'essere in collera.... O forse era stata più ammalata del solito?
Giorgio ruppe con qualche trepidazione la busta.
«Caro amico, — scriveva la Frida Raucher in un italiano abbastanza spedito, non però senza qualche incertezza di ortografia e di grammatica, — prendo la penna di nascosto di papà e contro la proibizione del medico, che soltanto da ieri mi permette di alzarmi. Alla metà di ottobre ho avuto una ricaduta grave e credevo proprio di esser venuta agli ultimi. Si dice così in italiano? Ho paura di no, ma il mio maestro sarà indulgente. Mio padre era intenzionato di avvisarlo del mio cattivo stato, ma io stessa gli ho detto di attendere. Perchè dare un dispiacere inutile al professore che ormai è nella sua patria, nella sua casa, fra le sue occupazioni e non potrebbe in nessun modo venir a Berlino a trovare la sua piccola, malata amica? Bisognerà avvisarlo dopo, naturalmente.... Invece sono ancora in grado di scriverle io e la ringrazio per le belle cartoline postali, dalle quali vedo che, se pur non ha tempo di mandarmi una lettera, si ricorda qualche volta di Frida.... Papà [184] vorrebbe accompagnarmi in Italia questa primavera, e come sarei felice di passar qualche settimana a Roma! Ella sarebbe la nostra guida, non è vero, ci mostrerebbe i monumenti che abbiamo ammirato nelle fotografie e nelle cartoline? Ma sono Luftschlösser, castelli in aria; so che non è possibile, e forse in primavera non sarò più in questo mondo.... Povero, povero papà!... Per lui solo mi dispiace morire.... Spero che avrà consolazione delle sue scoperte.... Ora fa certi studi che lo costringerebbero ad andar molto lontano. Ma non vuol lasciarmi.... Sono proprio un impiccio.... Devo smettere perchè sono tanto tanto stanca. Addio, signor Giorgio, viva felice e conservi un posto nella sua memoria alla sua devota, affezionata e gar treu bis an das Grab
«Frida Raucher.»
Le ultime linee erano confuse, quasi illeggibili, sia che la mano di Frida tremasse, sia che una lacrima fosse caduta sul foglio. E anche Giorgio Moncalvo piangeva, vinto dalla pietà della gentile fanciulla, che si congedava dalla vita con sì rassegnata bontà, con sì delicato abbandono, pudicamente confessando il suo amore, l'unico amore della sua breve giovinezza. Già lasciandola egli sapeva che non l'avrebbe rivista, [185] ma ora il sentirselo annunziare da lei gli faceva correre un brivido per tutte le membra e il tenero addio di Frida gli suonava come un rimprovero. Gli pareva che il suo dovere sarebbe stato di accorrere al letto della moribonda, di raccoglierne l'estremo respiro, di deporre un ultimo bacio sulla sua fronte verginale. Quanto meglio che il vaneggiar dietro all'altra, all'altra ch'egli avrebbe voluto disprezzare e abborrire e che pur gli dominava l'anima e i sensi!
La mattina appresso, poco dopo le nove, il professore Giacomo Moncalvo stava prendendo il caffè nel suo studio, quando entrò la donna di servizio con un biglietto.
— Manda suo fratello il commendatore, — ella disse. — E c'è giù la carrozza che aspetta.
— La carrozza? — esclamò il professore. E con mano nervosa ruppe la busta.
— C'è qualche disgrazia? — chiese la donna vedendolo impallidire.
— Mia sorella sta male, — egli biascicò. — Vado subito.... Giorgio è uscito?
— Da un'ora.
[186]
— Se torna quando non ci sono.... — principiò Giacomo Moncalvo. E s'interruppe come se gli ripugnasse di riavvicinar suo figlio alla Mariannina. Ma si pentì delle esitanze e riprese: — Se torna, che venga anche lui, là, in palazzo Gandi, in via Nazionale....
Infilò affrettatamente il soprabito e scese a precipizio le scale, mentre la domestica sporgendosi dalla ringhiera del pianerottolo gli gridava dietro:
— Sarà a casa per colazione?
— Non so, non so....
Nel brougham egli rilesse ancora una volta il biglietto di Gabrio. Non erano che due righe, buttate giù in gran furia:
«La Clara è aggravatissima. Ci sarà un consulto alle undici. L'ammalata domanda di te e di Giorgio. Venite subito».
Nulla più di così. Quando, come s'era aggravata la Clara? Non eran passate quarantott'ore dacchè Giacomo l'aveva vista, pallida sì, debole, sofferente, ma non certo in condizioni da far credere all'imminenza d'un pericolo. Diceva ella stessa ch'era stanca di rimaner chiusa nella sua camera, che il medico le imponeva troppi riguardi, che un po' d'aria libera le avrebbe giovato.... Che nuove complicazioni eran sorte in così breve tempo? Il cocchiere non era in grado di dar [187] spiegazioni. Anch'egli aveva sentito dire che la signorina Clara stava malissimo, e non sapeva nient'altro.... Del resto, non c'era dubbio, se Gabrio aveva mandato quel biglietto, se aveva mandato la carrozza, doveva trattarsi d'un caso urgente.... Non d'apoplessia però; se la Clara non fosse stata in sè non avrebbe potuto chieder di lui e di Giorgio.... E non c'erano obbiezioni possibili; Giorgio aveva l'obbligo sacrosanto di rispondere all'appello della zia, e nè il padre, nè alcuno al mondo aveva il diritto di trattenerlo.... Anzi sarebbe convenuto cercarlo subito, prima che fosse troppo tardi!... Ma intanto ciò che premeva di più era di arrivare, e a Giacomo Moncalvo pareva che il brougham non corresse mai abbastanza.
Al palazzo Gandi il professore trovò tutti profondamente commossi ed ansiosi. Non solo il commendator Gabrio era sinceramente affezionato alla sorella, ma anche la signora Rachele e la Mariannina erano avvezze a considerare la Clara come una persona indispensabile, una persona giudiziosa, modesta, pronta a sacrificarsi per gli altri.... proprio quello che ci vuole in una casa d'egoisti.
— Non ce ne sappiamo dar pace, — disse Gabrio. — È vero; dopo quella disgraziata gita in automobile ove c'era anche tuo figlio....
[188]
La Mariannina intervenne.
— Dov'è Giorgio?
— Ha lezione.... poco lontano di qui.... alla Scuola d'igiene, in via Agostino De Pretis.... Si può trovar chi vada a chiamarlo....
— Ci penso io, — soggiunse la ragazza. E uscita nell'andito ove c'era l'apparecchio telefonico, si fece mettere in comunicazione con la Scuola d'igiene.
— C'è il professore Giorgio Moncalvo?
— Sì; è in laboratorio. Chi lo vuole?
— Che venga immediatamente al telefono. Preme moltissimo.
— Ma chi parla?
— Non importa. Preme, preme, preme. Ha capito?
Dopo un breve silenzio un'altra voce si fece sentire attraverso il telefono, aspra, concitata, quasi aggressiva, e rinnovò la domanda:
— Chi parla?
— Son io, sono la Mariannina Moncalvo. Parlo con Giorgio Moncalvo?
La voce che pur dianzi aveva suonato iraconda si raddolcì, si velò, e rispose:
— Sì, sono Giorgio.... Mi chiami tu, Mariannina?
— Io stessa. È necessario che tu lasci tutto per correre da noi. La zia Clara sta male e desidera vederti.... C'è qui anche tuo padre.
[189]
— Oh Dio! Molto male sta?
— Molto, molto.... Fra poco ci sarà un consulto. Dunque ti aspettiamo.
— Fra un quarto d'ora sarò a casa vostra.
— Va bene. Addio.
Il commendatore spiegava intanto al fratello come la Clara, che pur troppo non s'era mai rimessa dal gran raffreddore preso nella sciagurata gita automobilistica, fosse stata colta la sera innanzi da affanno di respiro e febbre violenta, come le condizioni si fossero peggiorate nella notte, come il medico curante avesse detto trattarsi d'una polmonite e avesse espresso il desiderio di consultar subito Marchiafava.
— E ora aspettiamo con impazienza questo consulto, — concluse Gabrio Moncalvo guardando l'orologio. — È per le undici.... e non sono che le dieci e un quarto.
La signora Rachele, che veniva dalla camera della malata, si rivolse al cognato:
— È più tranquilla.... Se vuoi vederla.... Procura però di non farla parlar troppo.
Il professore stentò a nascondere l'impressione penosa prodotta in lui dall'aspetto emaciato di sua sorella. Anche due giorni addietro ell'aveva l'aria sofferente; ma quale opera di demolizione doveva, in poche ore, la malattia aver compiuto nel gracile organismo! La pallida faccia [190] incorniciata da due liste di capelli grigi si sprofondava nei guanciali; il petto era ansante, lo sguardo fisso; solo un tenue incarnato diffuso sugli zigomi prominenti rivelava il fuoco distruggitore della febbre.
Ella accennò a Giacomo di avvicinarsi e susurrò:
— Grazie della tua visita.... E Giorgio?
— Verrà più tardi.
— Che faccia presto.... Vorrei salutarlo.
Si voltò verso la Giovanna, la donna di servizio che l'assisteva, e la pregò di abbassare una tenda.
— I nostri discorsi di ier l'altro! — ella proseguì tirando fuori dalle coperte la mano esile e bianca e tendendola al fratello. — Ti ricordi? Dovevo tornare a stabilirmi con voi....
Giacomo finse di non intendere il significato di queste parole.
— Ebbene? Ci tornerai.... appena guarita.
— Ormai non guarisco....
— Oh Clara!
— E fors'è meglio.... Evito di dare un dispiacere a loro che sono sempre stati buoni con me.... E non vedrò delle cose che, anche viste di lontano, mi dispiacerebbero.... È una triste commedia la vita, caro Giacomo!... Tu hai i tuoi studi.... hai il tuo figliuolo....
[191]
La prese un nodo di tosse, e il professore, sollevandola alquanto, le somministrò poche goccie di un calmante che la Giovanna gli porse.
— Ti lascio ora, — egli soggiunse. — Non devi affaticarti.
— E dove vai?
— Pel momento resto di là.
— Ah! — disse la Clara raccapezzandosi. — Attendi l'esito del consulto.
E abbozzò un sorriso scettico, triste.
— Se capita Giorgio, mandalo....
Nell'anticamera Giacomo Moncalvo trovò il fratello che gli veniva incontro.
— Che effetto t'ha fatto?
— Ma! — sospirò il professore. — È molto giù.
— Pur troppo, pur troppo, — ribadì Gabrio rasciugandosi gli occhi. — Povera Clara! Ti giuro che non so immaginarmi questa casa senza di lei.... Un giorno mi mostrò l'intenzione di lasciarci per fissarsi un'altra volta con voi altri.... Ma spero che si sarebbe ricreduta.... Perchè, perchè avrebbe dovuto lasciarci?
— Auguriamoci che guarisca, — rispose Giacomo. — Tutto il resto è secondario.
— Hai ragione, — soggiunse il commendatore, lieto di poter fermare il discorso e il pensiero su questo voto comune.
I due fratelli rientrarono insieme nel salottino [192] da lavoro della signora Rachele, la quale stava confabulando con la cameriera.
— Lo sapete che le chiavi le ha mia cognata. Saranno forse nel suo cassettone.... Ora non è possibile.... Cercherete più tardi, dopo il consulto.
Di nuovo il commendatore tirò fuori l'orologio:
— Dieci e trentacinque.... E fossero almeno puntuali!... E la Mariannina?
— L'hanno chiamata al telefono.
Era miss Lizzie May, la sua amica americana, che la invitava a prendere il tè al Grand Hôtel alle 5, e la Mariannina Moncalvo spiegava all'amica che le sarebbe stato difficile accettare l'invito per le condizioni gravi della zia. Della qual cosa, naturalmente, miss May era very sorry indeed. A questa manifestazione del suo cordoglio l'americana aggiungeva una vaga allusione a certe notizie che correvano circa a un gran matrimonio di miss Moncalvo.... Si lagnava d'essere tenuta all'oscuro di un avvenimento di tanta importanza. E miss Moncalvo rispondeva che le notizie erano per lo meno assai premature, e che quando vi fosse qualche cosa di positivo la prima a saperlo sarebbe stata la sua dilettissima miss May. La dilettissima miss May aveva già iniziato la sua brava controrisposta, quando gli orecchi delle due interlocutrici, [193] anzichè il suono delle note voci, sorpresero una conversazione smarrita nel labirinto delle reti telefoniche circa a un riporto di 500 Obbligazioni del Prestito della città di Roma.
Dunque il dialogo terminò così, e la Mariannina, abbandonando l'apparecchio, vide dietro di sè il cameriere che le disse:
— C'è suo cugino, il professor Giorgio. Devo accompagnarlo dalla signora?
— Avanti, avanti! Ma che passi di qua. O che non è di famiglia?
— Oh Giorgio, ci vuole la minaccia di una disgrazia per vederti!... Ci hai dimenticati.
Ella parlava come se nulla fosse successo, come se nulla li preparasse, come se una barriera insuperabile non fosse in procinto di alzarsi fra lei e questo cugino, fra lei e tutto il passato.
E Giorgio, fattosi del color della porpora, era dinanzi a lei sbalordito, confuso, chiedendo a se stesso se non sognava, se proprio era questa la Mariannina che per diventar principessa sacrificava le sue simpatie, la sua dignità, i suoi ideali di donna.
Egli balbettò:
— La zia Clara?...
Con un gesto sfiduciato, la Mariannina rispose:
— Ho poche speranze.... Sentiremo i medici.... Sai che alle undici ci sarà un consulto.... Vieni.
[194]
— Dove?
— Da lei.... dalla zia.... per un momento.
Gli si pose a fianco, lo avvolse nella carezza del suo sguardo, sentì ch'egli sarebbe stato suo, sempre suo, checchè potesse accadere.
E la sua soddisfazione non era soltanto fatta d'orgoglio. Perchè Giorgio le piaceva, perch'ella doveva confessare che vicino a lui ella era più turbata che vicino a qualunque altro; e appunto per questo ella desiderava la sua compagnia come il bevitore agguerrito desidera il vino più generoso che lo eccita senza ubbriacarlo. Ell'era ben certa che non si sarebbe ubbriacata.
— Tanto grave è? — chiese Giorgio, maravigliato anch'egli che la sua domanda fosse così calma, non esprimesse un'ansietà più viva, una commozione più profonda.
— Gravissima, — sospirò la Mariannina.
Schivando le camere ov'erano gli altri e di dove veniva un suono di voci, ella infilò un corridoio, voltò per un andito, aperse un usciolino a muro che metteva in un'anticamera piena di armadi.
Egli la seguiva. Ella disparve un momento dietro una portiera; poi, alzando una pesante tenda di drappo, accennò a Giorgio di avvicinarsi.
— Ecco Giorgio! — ell'annunziò.
Sfiorò con un bacio la fronte dell'ammalata, [195] scambiò una parola con la Giovanna, raccattò da terra un mazzo di chiavi, le chiavi che la cameriera cercava; poi uscì in punta di piedi, e sembrò a Giorgio che uscisse con lei la poca luce che rischiarava la stanza.
— Giorgio! — chiamò con voce appena percettibile la zia Clara.
Egli si scosse, vergognandosi di se stesso, sentendo un velato rimprovero nel tono con cui la zia proferiva il suo nome, quasi volesse domandargli: — Sei venuto per lei o per me?
Accostatosi al letto, egli prese la mano che disegnava un saluto e la portò avidamente alle labbra.
— Zia Clara! Zia Clara!
— Mi sarebbe doluto assai non vederti! — ella bisbigliò. — E pure.... forse....
Non finì la frase, ma pregò il nipote di rassettarle i guanciali sotto la testa.
— Così.... va bene....
Fece segno all'infermiera che non occorreva il suo aiuto e disse piano a Giorgio:
— Non pensare a lei, Giorgio, non ci pensare.
Era estenuata e non potè soggiunger di più. Giorgio le sedette accanto, in silenzio, con la fronte china a terra, trattenendo le lacrime che gli annebbiavano la pupilla.
[196]
Qualcheduno entrò, lo toccò sulla spalla. Era lo zio Gabrio.
— Ho sentito dalla Mariannina ch'eri venuto.... Hai fatto bene.... Ora lasciala.... I medici stanno salendo le scale.
E rivoltosi alla sorella che aveva le palpebre abbassate e pareva sonnecchiare, ripetè:
— Sai, Clara, sono qui i dottori....
Ella accennò lievemente col capo.
— Conosci anche Marchiafava, non è vero?
— Sì....
Il consulto durò circa tre quarti d'ora e si chiuse con un responso desolante. L'infiammazione polmonare si estendeva rapidamente, il cuore era debole; bisognava esser preparati al peggio. In fatti tutte le cure furono vane, e un secondo consulto non potè che constatare l'imminenza della catastrofe. La signora Clara visse due giorni a forza di ossigeno e di punture di canfora, pronunziando a stento qualche monosillabo, ma mostrando d'intendere ciò che le si diceva e di conoscere le persone che la circondavano. E i suoi occhi velati si fermavano di preferenza sui due fratelli che la sua agonia riavvicinava per poco e che le vicende della fortuna e le opposte tendenze avevano irrimediabilmente divisi. Erano innanzi a lei, uomini più che maturi, ma ella li rivedeva fanciulli, nella casa modesta, fin da [197] allora diversi d'aspetto, d'indole, di gusti; Giacomo, pallido, biondo, alto, sottile, di lineamenti fini e delicati, timido, paziente, spesso taciturno, sempre studioso; Gabriele, tarchiato, bruno di capelli e di carnagione, di profilo spiccatamente semitico; loquace, ardito, ribelle alla famiglia e alla scuola, e pur smanioso di primeggiare e atto a supplir con la prontezza dell'ingegno alla deficienza dell'applicazione. Come le volevano bene tutti e due, com'ella riusciva a calmar le loro piccole bizze, a comporre i loro dissidi coi genitori gretti e sofistici, coi nonni rigidamente attaccati al vecchio culto mosaico! I genitori ed i nonni erano morti presto, ed ella era rimasta, a diciotto anni, a dirigere la casa e a badare ai fratelli, di cui il maggiore, Giacomo, non aveva ancora compiuto i quindici. Aiutandoli a diventare giovani ell'aveva lasciato passare la sua giovinezza.... E quando ciascuno di loro aveva battuto la propria via, abitando alternativamente con l'uno e con l'altro, era stata sempre vicina a tutti e due col pensiero, aveva chiuso il suo mondo nell'orbita del loro mondo. Era lei che li univa, era per amore di lei ch'essi scordavano ciò che v'era d'inconciliabile nelle loro opinioni e nei loro caratteri. Ora non più, non più.... Il tenue filo si spezzava, la Clara partiva per non tornare....
[198]
La mattina ch'ella morì, i due fratelli, avvolti anch'essi dall'onda delle memorie, si gettarono le braccia al collo piangendo. Anch'essi ricordavano ciò ch'era stata per loro la Clara, anch'essi sentivano che ella li abbandonava proprio nel momento in cui ci sarebbe stato maggior bisogno di lei.
Il commendatore era il più affranto dei due. Egli che, senza dubbio, sarebbe stato il primo a dimenticare, egli che non avrebbe tardato a riprendere con l'usata energia le sue occupazioni, sordo ad altre voci che non fossero quelle della vanità, dell'ambizione, della smania sfrenata di aggiungere ricchezze a ricchezze, oggi supplicava il fratello di non lasciarlo, di difenderlo dagli importuni, di assisterlo nelle cure penose di quei momenti.... Anche Giorgio poteva essere utile.... Dov'era?
Giacomo disse che lo aveva mandato lui all'Università per una ambasciata che gli premeva.
— Fin che quella santa creatura è sopra terra, — riprese Gabrio, dovete restare con noi.... Sì, sì: per un paio di notti c'è modo di accomodarvi.... Per te c'è la camera dei forestieri ch'è sempre pronta.... Anche per Giorgio un buco lo troveremo.... E intanto bisognerà vedere insieme se la povera Clara ha lasciato scritto qualche cosa.... Io credo di sì.... Credo che in uno dei [199] suoi cassetti ci sia una carta.... Chi andrà a cercarla?... Io non posso.... non posso.... E ci sarà da far la partecipazione.... Abbi pazienza.... Falla tu.... E il trasporto, Dio mio, il trasporto!
Qui si affacciava una grossa questione. La Clara, al pari degli altri della famiglia, non osservava le pratiche di nessun culto, ma non aveva mai abiurato la religione israelitica in cui era nata; anzi si sapeva in modo positivo ch'ella disapprovava altamente la prossima conversione, ormai certa, di sua nipote e quella probabile di sua cognata. Quindi non c'era via di mezzo: o il funerale civile, o il funerale secondo il rito ebraico. E già un delegato della Comunità era venuto a prendere gli accordi.
Ma quando il segretario Fanoli portò l'ambasciata al principale, questi andò su tutte le furie.
— Eccoli i corvi che si precipitano sui cadaveri. Si ha un bel voler liberarsi di questa camicia di Nesso. Si ha un bel vivere trenta, quarantanni della vostra vita fuori della religione che i parenti vi hanno imposto; nossignori, ecco che all'ora della morte essa vi si presenta sotto la forma di un'agenzia di pompe funebri.... Ma che non ci secchino.
La signora Rachele, sopraggiungendo in quel punto, rincarò la dose.
[200]
— Ma sì, Fanoli, cacci via quell'indiscreto.... Gli dica che noi non abbiamo rapporti con la sua Comunità.
— Adagio, adagio, — ripigliò Gabrio Moncalvo, richiamato al senso della misura dal linguaggio eccessivo della moglie. — Non c'è alcuna necessità di far dichiarazioni di principii.
Il professore intervenne.
Mi pare che non possiate decider nulla senz'esservi assicurati prima se vi sono disposizioni speciali della Clara.... Io risponderei a quel signore che torni più tardi, o.... meglio ancora.... che telefonerete voi.
Il suggerimento era così ragionevole che il Commendatore e la signora Rachele non poterono non accoglierlo.
Fanoli accennò a lettere, telegrammi, ma Gabrio Moncalvo lo interruppe:
— Faccia lei quello che può.... Pel resto aspetti.... E oggi non voglio veder nessuno.
— Appunto il direttore della Banca Internazionale era venuto poco fa in persona.... Ma non ha insistito per farsi annunziare, e io non ho creduto....
— Benissimo..... Grazie.... E siamo intesi, licenzi quel messo della Comunità. Come ha detto il professore, telefoneremo.
Un servo, entrato in punta di piedi, susurrò [201] qualche parola nell'orecchio della Signora Rachele, che fu pronta a moversi.
— Che c'è? — chiese il marito.
Ella, evidentemente turbata dalla presenza del cognato, replicò in fretta:
— Nulla, nulla.... Un ordine da dare.
E uscì.
Giacomo passò al fratello un foglietto sul quale aveva buttato giù la minuta dell'avviso mortuario.
Il commendatore lesse a mezza voce: «I fratelli Gabrio e Giacomo Moncalvo, la cognata Rachele, i nipoti Giorgio e Mariannina partecipano con profondo dolore la morte oggi avvenuta della loro dilettissima Clara, donna esemplare per gentilezza d'animo e dirittura di mente, vissuta cinquantacinque anni pensando il giusto, operando il bene, sempre dimentica di se stessa per giovare agli altri».
— Vero, vero.... Va egregiamente.... Però tu sei il fratello maggiore.... Il tuo nome dovrebbe figurar primo.
— Ma è morta in casa tua, e mi è parso....
— Come credi, — soggiunse Gabrio, che prevedeva le obbiezioni di sua moglie se l'ordine fosse stato invertito. — E hai soppresso i titoli?
— La tua commenda?... Il professorato mio e di mio figlio?... Si possono aggiungere.... ma mi [202] sembrano così fuori di luogo in una partecipazione funebre!
— Hai ragione. Quello che occorre è un cenno circa al giorno, all'ora, al modo del trasporto.
— Lo so, e precisamente per questo dobbiamo premettere quella ricerca nelle carte di nostra sorella.
Con uno sforzo il commendatore si alzò.
— Mi accompagni?
— Sì. Hai le chiavi?
— Le ha mia moglie.... Ha detto che torna subito.
— Non sarebbe male ch'ella fosse presente.
La signora Rachele entrava in quel momento.
— No, no, — ella dichiarò al cognato che la invitava a seguirli. — Non mi fido de' miei nervi. Queste son le chiavi.... Quella della scrivania è la più piccola.... Vi attenderò qui.
Ella premette il bottone del campanello elettrico.
— La signorina?
— È sempre nel suo studio con le sue amiche.
— Come sono invadenti quelle americane! — pensò la madre fra sè. E fece un confronto mentale fra loro e monsignor de Luchi e il conte Ugolini Ruschi che pur dianzi erano venuti a portarle una buona parola. Erano rimasti in piedi e avevano insistito perchè non si disturbasse [203] nessuno, nè il signor commendatore, nè la Mariannina.
La signora Rachele aveva voluto saper l'opinione di monsignore circa ai funerali, ed egli aveva risposto queste precise parole: — Ma è naturale che i funerali si facciano secondo il culto a cui la defunta apparteneva.... Non si può fare altrimenti.... Il funerale civile sarebbe peggio, molto peggio.... Farebbe una pessima impressione anche agli Oroboni.
I due fratelli non avevano durato fatica a trovare ciò che cercavano, e ora Gabrio rientrava nel salottino di sua moglie tenendo in mano una piccola busta chiusa sulla quale era scritto: «Ultime volontà di Clara Moncalvo». Era pallido e sfatto come chi ha negli occhi una visione di morte; posò in silenzio la busta sul tavolino, e sedette con lo sguardo fisso, uno sguardo che non vedeva le cose presenti.
Inquieta, la signora Rachele gli si avvicinò.
— Vuoi aprir la finestra?... Vuoi un bicchierino di Marsala?
Egli rifiutò con un gesto.
— E Giacomo? — chiese la moglie.
— Viene.... S'è indugiato di là.... Sai, c'è Brulati nella camera.... S'è offerto spontaneamente di fare uno schizzo, prima che la fisonomia si scomponga... Un vero amico, Brulati....
[204]
— C'è stato anche monsignor de Luchi, — avvertì la signora Rachele.
— Era qui? L'hai visto?...
— Sì, quando il cameriere m'ha chiamata.... Non s'è voluto nemmeno sedere..... non ha voluto che lasciar le sue condoglianze e quelle degli Oroboni.
— Pensare che si doveva proprio in questi giorni stipulare il contratto! — sospirò il commendatore.
— L'ha detto.... Ha detto che stipulerete dopo i funerali... quando crederai tu.... A proposito, la sua opinione.... Zitto.... Ecco tuo fratello.
— Ed ecco anche la Mariannina.... Finalmente! Dov'eri?
— Con miss Lizzie e sua zia.
Il professore, abbastanza calmo, disse:
— Lo schizzo riuscirà bene.... Se tu vedessi, Rachele, che pace, che serenità le spira dal volto!... Ha tutta la bellezza della sua bontà.
Prese la busta e domandò a Gabrio:
— Devo aprire?
— Apri.
La Mariannina si voltò verso lo zio.
— Non si aspetta Giorgio?
— È inutile. Lo rappresento io.
Il testamento era datato da due anni addietro ed era brevissimo.
La Clara aveva parole affettuose per tutte le [205] persone delle due famiglie presso le quali ell'aveva alternativamente vissuto; lasciava a ciascuna d'esse un ricordo; lasciava piccoli legati alla servitù, e istituiva erede residuaria della sua modesta fortuna una seconda cugina, vedova e poverissima, che abitava a Ferrara e di cui Giacomo e Gabrio avevano perduto ogni traccia. Solo la signora Rachele si risovvenne che, essendo uscita un giorno a piedi, ell'aveva incontrato sua cognata ch'entrava in un ufficio postale per assicurare una lettera. Di quella lettera, che certo conteneva una rimessa di danaro, ella aveva visto l'indirizzo e le pareva proprio che corrispondesse al nome della persona menzionata nel testamento.
— Dev'essere una figlia del fratello di nostro nonno, che noi abbiamo appena conosciuto.
— O piuttosto figlia d'un figliuolo.... E perchè poi, — soggiunse Gabrio, — se era così povera, non s'è rivolta a me?
— Non avrà osato.
— Poteva osare la Clara.
— Avrà preferito di dar del suo.... in segreto, — replicò il professore. — Era di quelle che non si vantano mai. E ha fatto benissimo ad aiutare una parente disgraziata.
— A quanto può ascendere questa famosa eredità? — chiese la signora Rachele.
— Il conto si fa presto, — rispose il marito, [206] che, nel discorrere di affari, trovava il suo sangue freddo. — La Clara ebbe alla morte dei genitori una parte uguale a quella ch'è toccata a Giacomo e a me. Venticinque mila lire.... Non le ha intaccate, ma non le ha aumentate.... Depurandole dai legati, resteranno forse venti mila lire. Per quella parente che non ha nulla è una provvidenza.
— Sì, sì, — borbottò la signora Rachele con condiscendenza di milionaria. — E sui funerali non una parola?
— Nulla.
— Allora ne sappiamo quanto prima.... Come ci si regola?
— Eh, — rispose Giacomo, — non c'è altro che telefonare alla Comunità.... come s'era rimasti intesi.... In mancanza d'istruzioni precise, io credo che si debba tener la via consueta.... Nostra sorella era molto spregiudicata, ma noi non possiamo sapere se nell'intimo del suo cuore ella non si sentisse ancora legata in qualche modo alla religione della sua infanzia.
Il commendatore si strinse nelle spalle.
— Tu mi dài questi consigli... tu che hai dichiarato tante volte di voler funerali civili?
— Io dispongo di me, non degli altri.
— Il funerale civile, no certo, — protestò energicamente la signora Rachele.
[207]
— È così brutto! — disse la Mariannina.
— Vedi bene, — riprese Giacomo, — che tua moglie e tua figlia sono della mia opinione.
— Sì, ma esse sono molto più accanite di me contro i riti mosaici.
— Scusate, son pregiudizi.... I riti di tutte le religioni ebbero in tempi di fede il loro significato profondo.... E anche quando la fede non c'è, son degni del nostro rispetto.... Del resto, non pretenderete mica di fare alla nostra povera Clara un funerale cattolico.
— Lo so che non è possibile, — rispose dispettosamente la signora Rachele. — Ma sarà l'ultima volta che quei satrapi della Comunità saliranno le nostre scale. È tempo di finirla con quest'umiliazione.
— Cara cognata, — disse Giacomo, — ti auguro di non aver mai umiliazioni maggiori.
Gabrio accennò a sua moglie di tacere, e deciso oramai a votare il calice fece chiamare il suo segretario. Era già risollevato dal suo abbattimento, ricuperava le sue forze, la sua attività.
— Dunque, pel funerale, telefoni pure.... S'intende che vogliamo un funerale di primissima classe.
— Bada, — insinuò Giacomo. — La Clara aveva gusti così semplici....
— Scusa, — ribattè pronto il commendatore, — qui [208] non si tratta dei suoi gusti, ma degli obblighi miei. — E chiese a Fanoli: — Sarà per domani?
— No, signor commendatore. Sarà per doman l'altro. Domani è sabato.
— Ah, c'è la festa.... Insomma telefoni e ci sappia dir precisamente l'ora per inserirla nelle partecipazioni che devono esser stampate e spedite in giornata.... Mio nipote l'aiuterà per gl'indirizzi..... Credi che Giorgio dirà di no? — chiese Gabrio al fratello.
— Presterà l'opera sua senza dubbio, — rispose questo. — Aveva tanto affetto per sua zia!
— Ecco, Fanoli, — ripigliò il banchiere. — Prenda questa minuta, la completi lei appena s'è accordato con quei signori, e poi la mandi dal tipografo.... Ordini una tiratura di mille copie.... Ha fattorini a sua disposizione?
— La Banca Internazionale ce ne dà quanti vogliamo.
— E adesso, — soggiunse Gabrio Moncalvo dopo aver licenziato Fanoli, — adesso pensiamo al modo di onorar degnamente nostra sorella.... Io vorrei che fin da domattina comparisse nei giornali una lista di elargizioni per un totale.... mettiamo.... di ventimila lire.... Sì, sì, ventimila lire. La Clara non merita meno.... L'essenziale è di spenderle bene.... Cerchiamo insieme.
[209]
Questa forma di carità fastosa dispiaceva al professore Giacomo, come sarebbe dispiaciuta alla Clara: tuttavia egli si contentò di schermirsi:
— Sei tu che spendi il danaro.... Fa' tu.
Il commendatore dissimulò un moto d'impazienza.
— Io sono negli affari e ho potuto accumulare un bel patrimonio.... È naturale che spenda io.... Ma la mia intenzione sarebbe di far queste offerte in nome di tutti e due.
— Nemmeno per idea, — dichiarò con fermezza il professore.
— Lo so che sei orgoglioso, lo so.
— Sarebbe molto strano che parlassi altrimenti.
— Vi raccomando l'Opera di Sant'Antonio, — interloquì la signora Rachele.
La Mariannina si accostò carezzevole al padre.
— E io vi prego di non dimenticare le mie pericolanti.... Ce ne sono di tanto carine.
— Quali pericolanti?
— Via, quelle dell'Opera pia che abbiamo visitato la mamma ed io in compagnia di monsignor de Luchi.
Il professore Giacomo non potè a meno di abbandonare la sua neutralità.
— Ho detto che non me ne immischio; mi sembra però che in queste beneficenze dovreste procurar [210] di conformarvi ai probabili desiderii della nostra cara defunta.... E non credo che ella avrebbe pensato nè all'Opera di Sant'Antonio, nè alle pericolanti di monsignor de Luchi.
— Perchè, perchè? — gridarono a una voce la signora Rachele e la Mariannina.
Ma il commendatore riconobbe che Giacomo aveva ragione.
— All'Opera di Sant'Antonio e alle pericolanti penseremo un altro giorno, — egli disse in tono conciliativo. — Oggi occupiamoci delle istituzioni che anche la Clara avrebbe amate.
Il professore lo ringraziò d'uno sguardo.
— Qui, qui, — disse Giorgio Moncalvo al garzone del fiorista che lo seguiva. — Qui, su questa cassapanca, ove c'è ancora posto.
E il fattorino posò nel luogo indicato una bellissima corona di sempreverdi, da cui pendeva un largo nastro di seta con queste parole ricamate in argento: «Alla cara zia, il nipote Giorgio».
Mentre il professore si frugava nelle tasche per [211] dar la mancia al ragazzo, un uscio laterale si aperse e a fianco della miliardaria miss May comparve la Mariannina Moncalvo. Vestiva tutta di nero; i neri occhi sfavillavano sotto le lunghe ciglia arcuate; la bianchezza marmorea del fronte spiccava sotto la massa opulenta dei bruni capelli; sotto la stoffa greve dell'abito succinto e nella sua severità elegantissimo si disegnavano mirabilmente le linee della persona che Fidia non avrebbe sdegnato di prendere a modello.
— Oh Giorgio, — ella esclamò trattenendo con lo sguardo il cugino che cercava di sgattajolare. — Hai voluto portare anche tu una ghirlanda alla povera zia.... Vedi quante ne son venute.
Infatti ce n'eran d'ogni specie e misura, così da coprir quasi interamente le pareti: la più grande, la più ricca era quella di miss May.
— Ora ti presento alla mia amica, — soggiunse la Mariannina. — Il professore Giorgio Moncalvo, mio cugino; miss Lizzie May.... È un po' orso questo professore, ma si ammansa.... Address him in english, my dear. He can speak very well.
— O indeed? — disse miss May. E scambiò poche parole col giovine professore, che aveva l'aria imbarazzata, confusa e si occupava appena di lei, assorto com'era nella contemplazione dell'altra, tanto più bella ed affascinante.
[212]
Nella superba sicurezza de' suoi milioni, l'americana non provò nè dispetto, nè invidia; lasciò morire il colloquio con Giorgio e si accommiatò verbosamente dalla Mariannina.
— Domattina ho una gran paura di non poter assistere ai funerali.... Se potessi seguire il trasporto in automobile?... What do you think of it?... Che ne pensate?... Non conviene?... Eh, no, capisco anch'io che non conviene.... E allora temo che non ci vedremo prima di lunedì.... Domani non avrò neanche il tempo di respirare.... Il servizio divino, il sermone.... due conferenze.... un concerto.... il five o'clock al Grand Hôtel ove ci sarà il vostro celebre romanziere Vannoni.... E poi, per le otto, il pranzo all'ambasciata americana.... L'ambasciatrice vuol mostrarmi l'albero di Natale che sta preparando per i bimbi della colonia.... Cara mia, questa Roma mi ammazza.... Ma lunedì presto telefonerò.... No, no, non chiamate, è inutile.... Il mio automobile dev'esser giù che m'aspetta.... Good bye, darling.... How beautiful you are in black! Come siete bella in vestito nero!... Good bye, sir.... Very pleased to have made your acquaintance.... Lietissima d'aver fatta la sua conoscenza.
Giorgio, ch'era all'altro angolo della sala, chinato sopra una ghirlanda di provenienza ignota, [213] si scosse in sussulto, si avvicinò e strinse macchinalmente la mano giojellata che miss May gli porgeva.
La Mariannina accompagnò l'amica fino sul pianerottolo; Giorgio tornò a subir l'attrazione della ghirlanda misteriosa. Era più piccola delle altre, tutta di viole, senza nastro.
— Chi l'ha mandata? — chiese il professore alla cugina, che dopo un ultimo saluto a miss May richiudeva la porta.
— Quale?
— Questa.... la sola che non abbia l'indicazione del donatore.
La Mariannina aggrottò le ciglia.
— Che t'importa saperlo?
— È un segreto?
— No, — rispose alteramente la ragazza. — L'ha mandata don Cesarino Oroboni.
Giorgio Moncalvo impallidì, una sofferenza acuta gli si dipinse sul volto, gli spezzò, per un istante, la parola sul labbro.
La Mariannina, impassibile, lo dominava con gli occhi.
E intanto un ultimo raggio di sole entrava, obliquo, dalla grande vetrata, strisciava sui sempreverdi, sui crisantemi, sulle orchidee, sui lunghi nastri di seta tessuti in oro o in argento.
Moncalvo fece uno sforzo supremo.
[214]
— Bisogna ch'io ti parli, — egli disse.
La Mariannina non manifestò alcuna sorpresa di quella brusca richiesta.
— Parla.
— Non ora.
— Non ora, lo so.... È impossibile.
— Quando?
Ella si raccolse per pochi secondi; poi riprese:
— Stasera. Il babbo t'ha pregato di sorvegliare la restituzione delle carte da visita a quelli che ci fecero avere le loro condoglianze. Sarai dunque nel mezzanino con Fanoli e con i due scrivani della Banca Internazionale.... Per mezzanotte il lavoro sarà finito, e, in ogni modo, verso mezzanotte licenzia tutti.... Saranno beati di andarsene.... Io, appena sarò sicura che tu sei solo, verrò.
— Tu.... verrai?... — egli chiese, stupito della prontezza con cui ella assentiva alla sua domanda, e, più che di questo, dell'ora e del luogo da lei scelti per il colloquio.
— Verrò.... Dovrei forse aver paura? — ella soggiunse con un gesto sprezzante.
Il sole era scomparso, la breve giornata invernale finiva quasi senza crepuscolo.
La Mariannina si accostò a una parete, girò una chiave, e, come per incanto, cinque lampade elettriche si accesero al centro e agli angoli [215] della sala, piovendo la loro luce fredda sulle ghirlande, mettendo in rilievo l'alta figura della giovinetta, che, nel bruno vestito succinto, in mezzo a quei fiori di morte, aveva l'aria d'una fata bellissima posta a custodir la soglia d'un cimitero.
— Mariannina! — balbettò Giorgio.
Ella si portò l'indice alla bocca.
— Zitto. Qualcuno può udirci. A stasera.
E lo lasciò solo, sgomentato all'idea dell'abboccamento ch'egli aveva pur dianzi mostrato di desiderare. Perchè lo aveva desiderato? Che avrebb'egli detto alla Mariannina? Che avrebb'ella detto a lui ch'egli già non sapesse o non immaginasse?... A ogni modo, anche volendo, non gli era più possibile di ritirarsi.
Quasi fosse d'accordo con la figliuola, lo zio Gabrio lo chiamò di lì a poco e gli disse:
— Abbi pazienza, povero Giorgio.... Speravo di liberarti dalle seccature, ma non c'è caso.... Stasera mi fai la cortesia di dare il cambio a quel disgraziato Fanoli che da jer l'altro in poi non ha avuto un momento di requie.... Resteranno ai tuoi ordini i due impiegati dell'Internazionale.... Procura che spiccino quanto più lavoro possono e allorchè li hai congedati chiudi il mezzanino e tieni la chiave.... Me la consegnerai domattina.... prima della cerimonia.... Io andrò a [216] letto presto per aver domani la forza necessaria per seguire il trasporto.... Tutti andremo a letto presto stasera, tutti siamo affranti.... mia moglie, la Mariannina, tuo padre.... Egli poi a maggior ragione degli altri.... Non è più un giovinotto, e ha voluto far troppo.... Figùrati, ha voluto comporla nella cassa lui stesso.... Non lo sapevi?... Sì, sì, oggi alle tre.... con l'ajuto di Brulati.... Oh, io non avrei resistito.... Basta, ancora domani....
E sotto le frasi rotte, slegate di Gabrio Moncalvo s'indovinava una specie d'intolleranza dello spettacolo di tristezza e di morte che da vari giorni affliggeva la casa, una specie d'impazienza che tutto finisse, che la vita riprendesse i suoi diritti e il suo impero.
Già per lui essa cominciava a riprenderli, e prima di pranzo desiderò dar un'occhiata alle ultime lettere e agli ultimi telegrammi che eran giunti e chiamò Fanoli per richiamargli alla memoria un certo versamento di titoli che si doveva fare il lunedì alla Tesoreria generale. Quindi, con lo stesso Fanoli, trattenuto a desinare, parlò di un Sindacato ch'egli aveva in animo di promuovere per spingere il prezzo della Rendita e agevolare la conversione. A tavola fu quasi solo a discorrere, confortato dai monosillabi approvativi del segretario. Discorreva di finanza, [217] di politica, e anche d'edilizia romana, come uno che vuole sviar la mente da pensieri importuni, distrarre l'orecchio da suoni molesti. In fatti era in lui il ribrezzo della morte, della morte ch'era entrata nella sua casa, che gli era tanto vicina.
Prima delle frutta, la signora Rachele, che aveva bevuto soltanto un brodo ristretto e mangiato un'ala di pollo, accusò delle vertigini e delle nausee strane e diede il segnale della partenza. La Mariannina la seguì dopo aver augurato la buona notte a tutti. Parve a Giorgio ch'ella lo salutasse in modo speciale, gli parve che gli occhi di lei si fissassero nei suoi per ricordargli l'appuntamento. E gli salì una fiamma al viso.
Indi a poco si alzò il professore Giacomo.
— Ti duole il capo? — gli chiese amorosamente il fratello.
Egli fece segno ch'era una cosa da nulla.
— Buona notte.
— Buona notte.
— Accompagno il babbo, — disse Giorgio.
— Sì, accompagnalo, — replicò lo zio. — E dopo torna qui.
— Era proprio inutile, — susurrò Giacomo appoggiandosi al braccio del figliuolo.
Passarono davanti la camera della Clara. L'uscio [218] n'era semplicemente rabbattuto. Giacomo Moncalvo lo spinse ed entrò.
Il letto era disfatto, senza coperte, nè lenzuola, nè materassi, nudo come uno scheletro. Appoggiata su due solidi cavalletti, la bara, coperta d'un drappo nero, con frangie d'argento, teneva il mezzo della stanza; quattro ceri le ardevano ai lati spargendo intorno una luce gialla e fumosa or più or meno intensa, secondo che più o meno vivace e frizzante penetrava l'aria per le imposte socchiuse. L'armadio a specchio era quasi interamente mascherato da un'enorme ghirlanda di foglie verdi e di bacche nere e lucenti sul cui largo nastro si leggeva la scritta: «All'angelo della casa». Due donne d'aspetto volgare, nè vecchie nè giovani, sedevano presso a un tavolino con le gambe avviluppate in due grossi scialli di lana; avevano dinanzi a sè un vassojo e sul vassojo un fiasco e due bicchieri; l'espressione della loro fisonomia rivelava la suprema indifferenza acquistata nell'adempimento professionale d'un triste ufficio.
All'apparire dei signori le due donne si alzarono, offersero ossequiosamente le loro sedie.
Giacomo Moncalvo fece segno che non occorreva e con un dito sulle labbra impose silenzio.
Stettero qualche minuto, padre e figliuolo, con gli occhi fissi sul feretro ove giaceva quella che [219] ben a ragione era detta l'«angelo della casa»; poi, taciti com'eran venuti, si dileguarono, senza badare alle donne che, addossate alla tavola, si profondevano in inchini, nascondendo, forse per un resto di pudore, il fiasco e i bicchieri, compagni delle loro veglie.
Giorgio ricordava intanto le ultime parole che aveva raccolte dalla bocca della moribonda: «Non pensare a lei». Monito vano. Egli non aveva mai pensato a lei così intensamente come ci pensava ora.
Nel mezzanino, e precisamente nella stanza ch'era per solito occupata dal cavaliere Fanoli, due lampadine elettriche portatili rischiaravano il banco dietro a cui i due commessi dell'Internazionale attendevano al loro lavoro. Giorgio Moncalvo sedeva a un tavolino tutto ingombro di carte, illuminato anch'esso da una lampada Edison.
Fanoli, prima di andarsene, gli aveva dato le indicazioni necessarie.
— Lì, in quel vassojo a sinistra, sono i biglietti [220] già ricambiati.... Li ho controllati io.... Da questa parte son quelli ancora da ricambiare.... Anche a quel mucchio di telegrammi fu risposto.... Agli altri che sono sotto quel calcafogli risponderò io senza fretta.... Lì sul canterale c'è una riserva di biglietti nostri in tanti pacchi da cento.... E sul canterale sono pure trenta o quaranta avvisi mortuari la cui spedizione fu ritardata, ma che partiranno stanotte.... Spinati (era uno dei due commessi) che abita in vicinanza di San Silvestro, quando esce di qui avrà la compiacenza di portare alla posta centrale tutto quello ch'è pronto....
Ora Giorgio Moncalvo chiedeva a sè medesimo in che cosa consistesse l'ufficio d'ispettore che gli era affidato. Quei due giovinotti intenti a scrivere non mostravano d'avere alcun bisogno della sua guida; anzi era certo che gl'indirizzi li sapevano far meglio di lui, perchè essi avevano una magnifica calligrafia ed egli l'aveva pessima. Inoltre, nello stato di febbrile inquietudine in cui egli si trovava, egli non era in grado di esercitare alcun sindacato efficace, ed era già molto se riusciva a nascondere la sua agitazione e a restar seduto al suo posto. Di fronte a lui, sulla parete, l'orologio a muro col suo tic tac uniforme rammentava il passare del tempo, e Giorgio seguiva con l'occhio il movimento della [221] lancetta sul quadrante.... Com'erano lunghi i minuti! Fino alle undici e tre quarti, alle undici e mezzo al più presto, egli non poteva rimaner solo.... E non erano ancora le dieci!
Quello dei due commessi che Fanoli aveva chiamato col nome di Spinati gli disse:
— Ecco, signor professore, se lei volesse, potrebbe esaminare queste cento soprascritte confrontandole coi biglietti a cui si risponde e che abbiamo conservati qui.
Giorgio Moncalvo si scosse.
— Confrontare?... Ma lo credo perfettamente inutile.... Lascino che li ajuti in qualche cosa che sappia fare anch'io.... Mi diano da attaccare i francobolli.
— O signor professore, vuol prendersi lei questa briga?
— Che c'è di strano?
— E poi, scusi, — soggiunse Spinati maliziosamente, — ella non ha esperienza.
— Come?
— Sicuro.... Ella si servirebbe dei vecchi metodi.... Invece....
E Spinati mostrò una macchinetta molto semplice e pratica con la quale s'inumidivano i francobolli senza toccarli con la lingua.
— Ha ragione. È più comodo e più pratico, — disse Giorgio. — Ma imparerei anch'io.
[222]
— Credo bene. E imparerebbe presto.... Ma non ne vale la pena.
— Allora, — riprese il professore, — mi passi un pacco di quei biglietti di ringraziamento e li metterò nelle buste per riconsegnarglieli dopo affinchè tra lei e il suo compagno facciano gli indirizzi.
Spinati ubbidì con aria rassegnata.
Giorgio Moncalvo si accinse coscienziosamente all'opera, ma non potè durare a lungo. Quelle buste e quei biglietti orlati di nero, esalanti un odore acido d'inchiostro di stampa; tutti delle stesse dimensioni, tutti con l'identica scritta: «La famiglia Moncalvo ringrazia», gl'irritavano i nervi, gli producevano una sensazione dolorosa agli occhi, alla testa, alle dita. E poi l'immobilità continuata gli era intollerabile.
— Li ammiro, — egli esclamò alzandosi bruscamente.
I due giovani lo guardarono meravigliati.
— Sì, — ripetè il professore, — ammiro la loro pazienza, la loro calma.... Sono instancabili.
— Non sono occupazioni che stanchino, — osservò Spinati.
E l'altro che aveva taciuto fino allora soggiunse posando per un momento la penna:
— Sarà accaduto anche a lei qualche volta di dover rimanere inchiodato sulla seggiola per finire [223] un lavoro che non poteva essere rimandato al domani.
Se gli era accaduto? Sì, certo, e quante volte! Quanti giorni, levatosi all'alba, la sera l'aveva sorpreso nel suo studiolo o in un laboratorio, ora assorto nei libri, ora intento a scrutar con la lente del microscopio il segreto degli esseri, a investigar nel crogiuolo e nelle storte le trasformazioni della materia! Ma tutto ciò gli pareva tanto lontano! Gli pareva adesso d'aver perduto ogni facoltà d'attenzione e d'indagine; un fitto velo s'era calato fra lui e il mondo del suo pensiero; egli si sentiva incapace di risolvere il problema più semplice e di ripetere la formula più comune. Oh superbie della scienza e dell'ingegno! In questo momento i due giovinotti che scrivevano tranquillamente indirizzi con la sicurezza di non sbagliarli erano di gran lunga superiori a lui. E forse avevano anch'essi per la testa qualche leggiadra donnina, ma la loro Dulcinea non era di quelle che fanno impazzire....
Giorgio si accostò al canterale ov'erano i pochi avvisi rimasti da spedire; ne spiegò uno macchinalmente e lesse le parole sincere e commosse dettate da suo padre:
«I fratelli Gabrio e Giacomo Moncalvo, la Cognata Rachele, i nipoti Giorgio e Mariannina partecipano con profondo dolore la morte oggi [224] avvenuta della loro dilettissima Clara, donna esemplare per gentilezza d'animo e dirittura di mente, vissuta cinquantacinque anni pensando il bene, operando il giusto, sempre dimentica di sè per giovare agli altri».
Com'era vero! Com'era vero! E come la zia Clara era degna di esser ricordata ed amata! E pure, ella era ancora sopra la terra, ed egli quasi la dimenticava e non aveva in cuore che la Mariannina, la quale valeva tanto meno di lei!
Allorchè l'orologio segnò le 11.40 Giorgio Moncalvo disse ai due giovani:
— Il più è fatto. Possono andarsene. Mi pare che il cavaliere Fanoli avesse pregato uno di loro di portar tutto alla posta centrale.
-Oh, — rispose Spinati, — ci passiamo tutti e due dalla posta centrale. Così dividiamo il peso.
— In fatti, — convenne Giorgio Moncalvo, — uno solo sarebbe imbarazzato.
-Oh, si dice per ridere.... D'inverno, col soprabito, ci son tante tasche disponibili.
— Badino di non dimenticar nulla.
— Non dubiti. Buona notte, signor professore.
— Buona notte.
················
Giorgio era solo e l'aspettava ansioso. La Mariannina non gli aveva dato altre indicazioni precise che quelle dell'ora, ma certo ella sarebbe [225] discesa dalla scaletta interna che riusciva appunto nella stanza di Fanoli. Egli aperse la porticina, illuminando in tal modo un tratto della scala a chiocciola. A mezzanotte udì, in alto, un lieve rumore, e il sangue gli si rimescolò nelle vene.
— Chi è? — egli disse.
Ella era già dinanzi a lui.
— Sono io, — ella rispose col suo solito sorriso enigmatico. — Non mi avevi chiesto un colloquio? Non ti avevo promesso di venire?
E gli si piantò davanti intrecciando le mani e appoggiandosi coi gomiti alla spalliera d'una seggiola.
— Perchè stai ritta?
— Non sono stanca.... Parla, via....
Egli, così eloquente dalla sua cattedra, non trovava più nè idee, nè parole.
— T'aiuterò io, — ella riprese con la sua calma superba. — Mi hai chiesto un colloquio a proposito di quella corona di viole....
— Del principe Cesare Oroboni?
— Appunto.
— Il tuo fidanzato?
— Probabilmente.
— Ma tu, tu sei disposta a sposarlo?
— Sì.
[226]
— Sei franca almeno, — dichiarò Giorgio con immensa amarezza. — E lo ami?
— Per ora no.... Niente impedisce ch'io lo ami più tardi.
— E cambi religione per cagion di questo matrimonio?
— Anche per questo.
— Anche per fede dunque?
— Ecco, pel momento, della fede ce n'è poca, ma monsignor de Luchi m'istruisce con tanta pazienza che, presto o tardi, finirà col convincermi.
— Oh Mariannina, Mariannina! — esclamò Giorgio Moncalvo alzando ambe le braccia. — Ti sposi senz'amore, ti converti senza fede, e non hai vergogna?
— Di che dovrei vergognarmi? Quante sono le ragazze che fanno matrimoni d'amore, e quante fra quelle che praticano una religione vi credono proprio sul serio?... Indovino ciò che vuoi dire.... Non credere alla religione in cui si è nati non è la stessa cosa che entrare in una religione nuova in cui si crede anche meno.... Ma chi ti assicura che non crederò domani?... A ogni modo, le cerimonie del cattolicismo mi piacciono.... E, in verità, tu dovresti essere l'ultimo a scandalizzarti.... Non mi pare che tu abbia mai mostrato una gran tenerezza per la cosidetta fede degli avi.
[227]
— E che significa questo? — replicò Giorgio. — Io non ho abbandonato una superstizione per abbracciarne un'altra. Mio padre, ch'ebbe sempre una condotta logica, m'insegnò con l'esempio che l'onestà della vita, lo spirito di sacrifizio, l'amore del prossimo non hanno bisogno di puntellarsi sui dogmi di nessuna Chiesa.
La Mariannina si strinse nelle spalle.
— Queste sono utopie.... Il mondo vorrà sempre una religione.... Quella che fu nostra si sfascia da tutte le parti.... Prendiamo l'altra.... prendiamo la religione della maggioranza.
— Non la maggioranza dell'umanità, in ogni caso....
— O che me ne importa?... La maggioranza di questi paesi.... Se fossi in Turchia mi farei turca.
— Come parli, Mariannina!... Come sei positiva, utilitaria, alla tua età, col tuo ingegno che dovrebb'essere aperto a tutte le correnti dell'avvenire! E tu invece ti volgi verso il passato....
— Chi sa che l'avvenire non sia proprio quello che tu chiami il passato.
— Ah no, — protestò energicamente Giorgio Moncalvo. — Il passato non torna.... E tu, tu che sei ambiziosa....
Gli occhi della Mariannina sfavillarono.
— .... tu che sei ambiziosa, — ripetè Giorgio, — come sbagli strada!... Se per te il matrimonio [228] non è che un mezzo di brillare, di essere una donna ammirata, potente, cerca il tuo compagno nella schiera di quelli che si slanciano nella vita pubblica.... E ce ne sono d'intelligenti, ce ne sono di titolati che diventeranno ambasciatori, ministri.... Quanti fra loro sarebbero felici di darti il loro nome!... Sei tanto bella! Sei tanto ricca!
— Lo so, — rispose la ragazza, — che avrei potuto sposarmi in quel modo.... Ma era troppo facile.... Ne ho avuti di quegli aspiranti a cui tu alludi.... e li ho lasciati alle mie amiche.... Ce n'è una appunto ch'è secretaria d'ambasciata a Pietroburgo.... Un'altra è deputatessa, e alla prossima crisi salirà di grado.... Suo marito chiacchiera alla Camera, lavora negli uffizi (vedi che ho pratica del linguaggio tecnico) e si conquisterà presto il suo bravo portafoglio.... Bel gusto! Esser ministro in un paese ove i Gabinetti durano pochi mesi e ove il primo mascalzone venuto può scagliarvi addosso un sacco di vituperî.
— Ma è la vita, è la lotta, — gridò Giorgio.
— È un campo aperto a tutti gl'intriganti, — ribattè la Mariannina. — Io voglio trionfare ove pochi trionfano.
— E ti attacchi a un cadavere?
— Un cadavere che non ha paura di decomposizione.... [229] Ma pensa.... Io, d'una razza che costoro sprezzano e abbominano, io salire al grado di principessa romana! Vincere tutte le antipatie, tutti i pregiudizi....
— Non li vincerai, — interruppe violentemente Giorgio Moncalvo. — Sarai sempre la reproba.
— Oh se vincerò! — ella rispose. — Oh, se saprò impormi! Tu non mi conosci.
Così dicendo ella gli fissò in volto gli occhi superbi, i quali parevano chiudere in sè tutto ciò che la donna può promettere e minacciare.
E di nuovo egli provò innanzi a lei quello che aveva altre volte provato, un sentimento strano fatto di sentimenti contrari, d'attrazione e di ripugnanza, d'audacia e di pusillanimità, un bisogno di afferrarla e di fuggirla, di dirle che l'odiava e di caderle ai piedi adorandola.
— È vero, non ti conosco, — egli dichiarò con accento grave, guardandola con un'espressione accorata della fisonomia. — Troppo tempo siamo rimasti senza vederci.... Sett'anni fa, eri molto diversa.... Non bella come sei oggi.... più buona.
— Sett'anni fa, sett'anni fa, — ripetè la Mariannina. E v'era nella sua voce come un rimpianto del passato irrevocabile, e il lampo delle sue pupille di domatrice si velò d'un'ombra di mestizia.... Ma ella scacciò quell'ombra da sè con una mossa rapida della piccola testa. E chiese [230] sorridente: — Meno bella ero?... Ero poco più d'una bimba.... E pure a qualcheduno piacevo.
Giorgio arrossì intensamente. E rivide la Mariannina in quel lontano passato, la rivide al suo fianco per le vie e tra i monumenti di Roma, disposta a riconoscere la superiorità di questo cugino maggiore, lieta di strappargli una parola d'approvazione e di lode. Oggi, alla distanza di sett'anni, dicendogli: «a qualcheduno piacevo», ella diceva senza dubbio la verità.... Ma s'ingannava se credeva d'avergli, allora, inspirato una passione.... Sett'anni addietro egli era uno studente serio ed austero, infatuato della sua scienza, alieno da tutto ciò che potesse distrarlo dai suoi sogni di gloria, deciso ad aprirsi una strada nel mondo, a compensare con la sua buona riuscita le cure avute da suo padre per lui. Quanto più savio allora d'adesso! Ed era appunto per questo ch'egli aveva oggi arrossito all'allusione della Mariannina, appunto perchè sentiva d'amarla adesso quand'egli avrebbe avuto il dovere di scancellarla dalla sua mente, quand'ella meritava tanto meno di essere amata.... Ma egli sentì anche, dal modo in cui ella parlava, sentì che allora era lei che lo aveva amato, sentì che forse allora s'egli avesse voluto, se avesse accondisceso alle offerte dello zio, ell'avrebbe finito coll'esser sua.... Sarebbe stato felice? No, [231] no; gli restava abbastanza chiaroveggenza da intendere che c'era troppa diversità tra i loro caratteri, i loro gusti, le loro aspirazioni, perchè un'unione fra loro potesse esser felice.... Non importa, ella gli avrebbe dato un'ora d'ebbrezza, ed egli, il rigido scienziato, travolto da un vento di follia, chiedeva a se stesso se per avere quest'ora non convenisse sacrificar tutta la vita.
— Mariannina, — egli disse a voce bassa e concitata accostandosi a lei, — Mariannina, se anni fa le nostre anime eran così vicine, se poi le circostanze le hanno divise, hanno eretta una barriera tra noi, credi tu che quella barriera non potrebb'essere abbattuta?
Ella si strinse nelle spalle.
— Tu vaneggi.
Giorgio incalzò:
— Forse è una tavola di salvamento che ti offro.... Sei a un bivio terribile della tua vita.... Tu stai per gettarti in un baratro di viltà e di menzogna.... stai per comperare un misero blasone a prezzo del tuo corpo e della tua anima.... E pur sei intelligente, e hai un cuore che palpita, un cuore che ha bisogno d'amare.... Spezza l'incanto malefico.... ubbidisci al tuo cuore.... al tuo cuore ch'è mio....
— Il mio cuore non è di nessuno, — ella replicò con alterigia, mentre Giorgio, meravigliato [232] egli stesso della frase che gli era sfuggita, s'accorgeva d'esser giunto a quel limite estremo oltre il quale la volontà e la ragione non governano più gli atti dell'uomo.
A fronte di lui, la Mariannina, interamente padrona di sè, continuava calma e pacata, con quella sua voce ch'era una musica:
— Povero Giorgio! Tu vorresti salvarmi.... E non capisci che sono io che ti salvo?... Non capisci che se ti dessi retta tu saresti domani il più misero dei mortali?... Non vedi che la forza delle cose ci spinge per vie affatto contrarie?... Che romanzi di tempi cavallereschi vai architettando nel nostro secolo positivo! Non sett'anni, cent'anni fa dovevamo incontrarci.... anzi prima ancora.... dovevamo crescere accanto nella vecchia città di dove sono originarie le nostre famiglie, entro il vecchio recinto che chiudeva la gente della nostra razza, all'ombra delle nostre vecchie sinagoghe, isolati in un mondo ostile, ristretti di ambizioni, d'idee, fidenti solo nella missione del nostro popolo.... Allora sì avremmo potuto sposarci ed esser felici.... Oggi è impossibile.... La morte della zia Clara ci ha riuniti per un istante.... Non ci vedremo più mai. Separiamoci senza rancore.
— E diventerai principessa Oroboni? — gridò Giorgio.
[233]
— Lo spero.
— O Mariannina, che Sfinge sei tu? Che impasto di contraddizioni?... Tu affoghi nel cinismo quello che c'è in te di buono e di alto.... Sei piena d'ingegno e t'afferri alle cose morte e imputridite.
Ella lo fermò con un gesto.
— Basta, Giorgio, sono quella che sono, e poco importa dal momento che non dobbiamo vivere insieme. Non mi negherai almeno il merito d'esser stata franca con te.... Che diritto avevi tu di chiedermi spiegazioni? Che obbligo avevo io di dartene?... Ti sembra ch'io sia una ragazza disposta a render conto dei fatti suoi?
Le labbra di Giorgio si atteggiarono a un amaro sorriso.
— Una triste preferenza mi hai accordata.... Hai voluto tu stessa cacciarmi il pugnale nel petto. E non temere di aver sbagliato il colpo. La ferita è mortale.
Che cosa passò allora nell'anima della Mariannina? Fu vana lusinga di sanare la piaga? Fu desiderio crudele di esacerbarla?
Fatto si è ch'ella allontanò violentemente la sedia alla cui spalliera era stata appoggiata durante tutto il colloquio, e con un movimento fulmineo della sua persona flessuosa si slanciò sul cugino e lo baciò sulla bocca. Ma quando egli, [234] balzando come una fiera sotto la scottatura di quel bacio, cercò di stringerla al petto, ella si svincolò con uno strappo gagliardo, e con agilità di scoiattolo guadagnò la porticina della scala a chiocciola e gliela sbattè in faccia.
— Guai se mi segui!... Addio per sempre.
In un attimo ella fu al sommo della scala, spinse l'altra porta che metteva nell'appartamento superiore, e che scendendo ell'aveva soltanto accostata, e la chiuse dietro di sè.
Dal basso, con gli occhi fissi nel buio ov'ella era scomparsa, ove l'aria era ancora impregnata del suo profumo, Giorgio chiamò inutilmente: — Mariannina! Mariannina! — Indi, barcollando, rientrò nello studio. Una sedia, la sedia che la Mariannina aveva respinta, era rovesciata sul canapè, un pacco di buste ch'ella aveva urtato col gomito nel suo passaggio era sparpagliato sul pavimento, e quelle buste orlate di nero, quelle buste che ricordavano il lutto della famiglia e la presenza d'un cadavere nella casa, parevano gettar un'ombra lugubre sulla rapida scena svoltasi dianzi lì dentro. Poveri morti! Povera zia Clara!... Ella non era ancora sepolta, e già nella memoria del nipote c'era appena un posticino per lei....
Mariannina! Mariannina! «Addio per sempre» ell'aveva detto a Giorgio. Ma ell'era nel suo sangue, [235] nella sua anima; era sulle sue labbra ove ell'aveva impresso il bacio rovente, era nelle sue vene ov'ell'aveva trasfuso un ardore di febbre. Ed egli se l'era lasciata sguisciar dalle braccia, e non aveva saputo provarle, egli giovane e forte, che non si scherza col fuoco, che non si suscita impunemente la tempesta dei sensi.
Giorgio soffocava, aveva un bisogno imperioso d'aria e di spazio, un bisogno di correre, di stancarsi, di domar con la fatica fisica le membra e lo spirito. Anzichè risalire in casa per la scaletta interna, uscì per la porta che dava sul pianerottolo dello scalone, la chiuse a chiave, e un po' a tastoni, un po' aiutandosi coi fiammiferi, scese nel vestibolo rischiarato da un fanale fioco, fiancheggiato da piante di sempreverdi, triste ornamento alla cerimonia di domani. Aperse il portone di cui in quella notte non s'era dato nemmeno il catenaccio, e si trovò nella strada, avvolto da una nebbia fredda e sottile. Nella nebbia, a lunghi intervalli, le poche lampade ad arco tuttora accese mandavano una luce biancastra, riflettendosi qua e là nelle pozze lasciate dalla pioggia recente; misterioso, arcigno, inospitale, sorgeva di fronte il muro massiccio del giardino Oroboni, e, quasi la notte fosse il suo regno, pareva dominar la via addormentata.
— Maledetto! Maledetto! — urlò Giorgio stringendo [236] i pugni verso la mole ciclopica, simbolo d'un passato che l'agile vita moderna non riusciva a scalzare. — Maledetto! — egli ripetè, livido d'odio contro quella rocca medioevale ove la Mariannina stava per seppellire la sua giovinezza. E mentre si slanciava innanzi nella strada deserta, lo rodeva sempre più acuto e cruccioso il sentimento della propria impotenza. Come non aveva saputo esser cinico e brutale con la Mariannina, la cui sfida temeraria non meritava altra risposta, così, egli n'era sicuro, non avrebbe trovato il modo di colpire il nemico invisibile che trionfava per la sola virtù dell'antichità della stirpe. Con che armi combatterlo? A che gara chiamarlo? Che provocazione, che insulto scagliargli? Una provocazione? Un insulto? Come? Quando? A uno che non s'incontrava mai? A uno con cui non s'aveva nulla di comune, nè le consuetudini della vita, nè le aderenze, nè le amicizie?... Perchè gli amici servono (oh, servono benissimo), anche quali intermediari di villanie, e nulla è più difficile che l'ingiuriare una persona con la quale non si ha nessun punto di contatto.... Di nuovo alla mente di Giorgio balenò l'idea d'un duello. Ma gli sovvenne di quello che gli aveva detto suo padre: «Probabilmente Cesarino Oroboni non si batterebbe, o per non incrociar la sua spada con un infedele, con un [237] plebeo, o per non venir meno ai suoi principî religiosi....». Sì, ma potrebbe accettare.... E allora, che gioja! Ucciderlo o essere ucciso.... Una gioja?... Forse una gioja sarebbe stata il morire.... Ma uccidere?... La natura, l'educazione, tutto ciò che v'era in Giorgio Moncalvo d'ingenito e di acquisito si ribellava contro questa voluttà selvaggia del sangue, contro questa cieca e folle maniera di risolver le proprie contese. Pure in mezzo alla sua esaltazione egli avvertiva la differenza profonda tra lui e don Cesarino. Questi non sarebbe stato ridicolo nè rifiutando di battersi in nome de' suoi pregiudizi, nè accogliendo la sfida in nome degli usi cavallereschi; ridicolo sarebbe stato lui, l'uomo di meditazione e di studi, ridicolo in ogni modo, tanto se il suo antagonista lo metteva alla porta, quanto se gli accordava l'onore del singolare certame.... Ah, dov'erano i tempi in cui egli scorreva i suoi giorni tranquilli fra le pareti d'un laboratorio, assorto nelle sue ricerche, sotto la guida amorevole del fisiologo illustre ch'egli aveva considerato un secondo padre e che somigliava il padre vero per l'ingegno, pel culto della scienza, per la purezza e la semplicità del carattere? Anche allora, anche nel laboratorio silenzioso, egli aveva conosciuto ansie ed emozioni profonde; aveva palpitato dinanzi alle sue storte, ai suoi crogiuoli, [238] alle lenti del suo microscopio, nel corso d'un'esperienza che avrebbe potuto rivelare un nuovo segreto della materia, una nuova legge del mondo fisico. Anche allora, fra i gas pestiferi e le culture velenose, aveva visto da vicino la morte. E non aveva tremato, e non aveva perduto mai la serenità del suo spirito.... Oggi invece....
La nebbia s'era sciolta in pioggia, una pioggia fine, minuta che penetrava nell'ossa. Giorgio non vi badava; egli procedeva rapido nel suo cammino mordendosi i pugni, agitando le braccia, biascicando frasi rotte ed incomprensibili, guardato con curiosità diffidente dai rari nottambuli che lo prendevano per un pazzo o per un ubbriaco.
Le gambe lo avevano portato nella direzione di casa sua, ma forse egli stesso non vi pensava; vi pensò solamente quando, dopo via Tomacelli, imboccò il ponte Cavour.... E allora s'arrestò perplesso, confuso.... Che ci andava a fare a casa sua ove non lo aspettava nessuno, ove non avrebbe trovato nemmeno la sua camera apparecchiata e l'unica donna di servizio sarebbe stata immersa in un sonno profondo, sapendo che i suoi padroni dormivano in palazzo Gandi? Sicuro; egli alloggiava sotto il medesimo tetto della Mariannina, della futura principessa Oroboni!... No, in verità, neanche in palazzo Gandi egli non alloggiava [239] quella notte, perchè nel chiuderne il portone s'era dimenticato che non ne aveva la chiave. Fino all'alba (e nel cuor di dicembre l'alba spunta così tardi), egli era un vagabondo a cui i carabinieri avrebbero potuto domandar le carte!...
Sul ponte non c'era anima viva; qualche lume disperso sulle rive, sui colli circostanti rompeva a fatica l'ombre profonde; sotto gli archi, contro le pile l'acqua gorgogliava con un sordo muggito.... Giorgio Moncalvo si affacciò alla spalletta, guardò in giù, ebbe un istante l'attrazione terribile dell'abisso.... Precipitarsi a capofitto, esser travolto dal vortice, perdere dopo pochi secondi la memoria e la conoscenza, divenire una cosa inerte che si dissolve.... E intanto fra qualche ora, ai funerali della zia Clara, lo aspetterebbero invano. Dov'è? Dove ha dormito? Chi lo vide uscire dal mezzanino? Chi fu l'ultimo a parlare con lui?... Ah, certo, la Mariannina non si sarebbe tradita.... Ma possibile ch'ella non provasse una vaga inquietudine, che non avesse un vago sospetto, che non dicesse: «Se accade una disgrazia ne son responsabile io»?
No, no, non questo ella direbbe. Direbbe invece: «Era un pazzo. Doveva finir male».
Come talora, nel bujo più fitto d'un temporale, le tenebre si squarcialo per un istante, e, per un [240] istante, nell'interstizio di due nuvole, appare l'occhio del sole ridonando forme e colori agli oggetti, così, per una chiaroveggenza improvvisa e fuggevole, Giorgio Moncalvo ebbe la lucida visione di ciò che v'era di grottesco, di assurdo nei suoi propositi di suicidio.... Morire per la Mariannina; per lei immerger nel lutto suo padre, lo scienziato alto ed integro del quale egli era ormai l'unica gioja e l'unico affetto! Per lei rinunziare alle febbri dell'indagine, alle speranze della gloria, alla santa ambizione di aggiunger qualche particella di vero al patrimonio dell'umanità?
Il giovine si ritrasse bruscamente dalla spalletta del ponte e riprese il suo pellegrinaggio notturno, sotto la pioggia che anche quando cessava di cadere era come diluita nell'aria, avvolgeva le cose in un'atmosfera umida e greve. Andò per via Ripetta a piazza del Popolo, da piazza del Popolo per via del Babbuino a piazza di Spagna, ove un fiaccheraio, seduto a cassetta sotto l'ombrellone aperto, gli fece segno: — Vuole?
Perchè no? Giorgio era stanco, era fradicio; il fiacre poteva offrirgli un asilo fino al mattino.
— Dove? — chiese il cocchiere disceso ad aprir lo sportello e a levar la tela cerata che copriva il cavallo.
[241]
— Ma!... Dove vuoi.... Anche in nessun posto... Anche qui fermo.
E poichè l'altro lo guardava attonito, soggiunse a modo di spiegazione:
— Ho dimenticato la chiave di casa e trovo inutile di picchiare chi sa quanto al portone.... Mi basta essere al coperto.... Ti prendo a ora e ti pago subito.
Mise un biglietto da dieci lire nelle mani del vetturale, i cui sospetti svanirono per incanto.
— Star fermi non si può, — egli disse. — Gireremo qui intorno.
Giorgio Moncalvo si rannicchiò in un angolo e chiuse gli occhi sperando che il movimento della carrozza che procedeva al passo gli avrebbe conciliato il sonno. Non dormì; cadde in una specie di letargo, durante il quale l'immagine tentatrice della Mariannina lo perseguiva insistente. Ecco, ella si chinava su lui, lo baciava sulla bocca.... e rideva.... Egli, scotendosi in sussulto, tendeva invano le braccia verso la Sirena, verso la Sfinge.... E a ognuno di questi risvegli si sentiva peggio di prima; con le membra indolorite, con l'ossa peste, con le tempie strette in un cerchio di ferro....
Quand'egli riebbe la piena coscienza di sè era [242] ancora notte, ma già la città si destava e le vie meno silenziose e deserte annunziavano l'avvicinarsi del giorno.... Con uno sforzo Giorgio Moncalvo abbassò il finestrino e diede al fiaccheraio l'indirizzo del palazzo Gandi.
L'androne, le scale, i mezzanini, la sala d'ingresso dell'appartamento padronale non bastavano a contenere la gente venuta ad assistere al trasporto di Clara Moncalvo. A dire il vero, quelli ch'eran venuti per lei, semplice, buona, modesta, eran pochini, semplici anch'essi e modesti com'ella era stata, e si cercavano a vicenda, e si scambiavano una parola e una stretta di mano, sforzandosi inutilmente di riunirsi in un angolo, di sfuggire alla folla gonfia e pettoruta che li spingeva, li sballottava di qua e di là nella smania di farsi vedere, di giungere a uno dei tavolini ove su appositi fogli listati di nero ciascuno scriveva la propria firma indicando, s'era il caso, l'istituto o il sodalizio che rappresentava. Più indiscreti, più inframmettenti di tutti, [243] quattro o cinque cronisti di giornali cacciavano il naso in ogni parte, interrogavano questo e quello, prendevano le loro note come ad un ballo o a una seduta parlamentare. — Un funeralone, un funeralone! — dicevano. Ed era infatti un funeralone che raccoglieva insieme le classi più disparate della società romana. C'era il cospicuo personaggio del Ministero degli esteri, c'era il segretario Cherasco, un paio di senatori e un pizzico di deputati; c'erano, s'intende, i pezzi grossi dell'alta finanza, presidenti e amministratori d'Istituti bancari, seccati in fondo d'essersi dovuti scomodare senza il confortino di una medaglia di presenza, ma dissimulando la noja sotto la correzione irreprensibile delle forme. Ed essi, turba cosmopolita superiore ai dissensi religiosi e politici, servivano di cuscino fra i gruppi eterogenei che si guardavano in cagnesco: da una parte molte delle conoscenze che i Moncalvo, per mezzo di monsignor de Luchi e del conte Ugolini-Ruschi, avevano fatto nell'aristocrazia nera; dall'altra gli ortodossi della comunità israelitica, che, come uccelli di preda, s'erano abbattuti sul commendatore Gabrio al momento del suo arrivo a Roma e che oggi parevano essersi data la posta in questa casa di dove si voleva scacciarli. Oggi ancora vi entravano per virtù della morte, vi entravano coi loro emblemi [244] e coi loro riti, affermavano ancora una volta la vitalità indomabile del loro Iddio e della loro stirpe.
Il cavaliere Fanoli e il pittore Brulati, intimi della famiglia, ricevevano le condoglianze e ringraziavano in nome del commendatore, che avrebbe voluto stringer la mano a tutti quanti, ma che doveva risparmiar le sue forze per l'accompagnamento della salma fino al cimitero.
— E come sta il commendatore? E la signora? E la signorina? — si domandava a gara, fingendo una gran sollecitudine.
— Ma! Possono immaginarsi.... dopo lo strapazzo di questi giorni.... Non che la povera signora Clara godesse di una buona salute.... Tutt'altro.... Ma forse appunto per questo si era avvezzi alle sue indisposizioni e nessuno s'aspettava una catastrofe così repentina.
Un giovane bianco come uno spettro fece una rapida apparizione sulla soglia d'una delle stanze che davano sulla sala.
— Chi è? Chi è? — chiesero quelli che non lo conoscevano, ed erano i più.
— È il nipote del commendatore, — risposero i bene informati. — È figlio del professore all'Università.
Qualcheduno cascò dalle nuvole.
— Il commendatore ha un fratello?
[245]
— Sicuro, un fratello ch'era già a Roma un bel pezzo prima di lui.
— Non lo si sente mai nominare.
— E pure è un brav'uomo.... membro dell'Accademia dei Lincei, eccetera, eccetera.... Vive molto a sè.
— Dev'essere un orso addirittura.... E quel figliuolo?
— Quello ha vissuto alcuni anni in Germania.... Da un paio di mesi è assistente di Salvieni.
— Anche lui nella carriera dell'insegnamento.... Mangierà di magro.
— Ha l'aria di aver mangiato di magro sempre.... e di non aver vita lunga.
— Infatti pare appena uscito di malattia.... Ma il padre dov'è?
— Sarà col resto della famiglia.... Lo vedremo or ora dietro la bara.
— Ed è vero poi, — domandò uno in gran segretezza, — che a giorni scoppierà la bomba del matrimonio e della conversione?...
— Ma! — rispose colui al quale l'interrogazione era rivolta. E strizzando l'occhio mostrò poco lontano il conte Ugolini-Ruschi. — Bisognerebbe chiederlo a quello lì.
— O al pittore Brulati....
— No, no, il conte la sa certo più lunga.
Qualche parolina detta a mezza voce e raccolta [246] con avidità provocò dei sorrisetti maliziosi, dei colpetti di tosse, dei raschiamenti di gola.
— Via, saranno calunnie, — ammonì un benevolo.
E un impaziente guardò l'orologio.
— L'invito era per le nove e mezzo. E son le nove e tre quarti. Un po' di puntualità ci vorrebbe.... I preti di tutte le religioni fanno i loro comodi.
— Ma i rabbini sono già venuti.
— Sì.
— No.
— Sono venuti, non c'è dubbio.... Zitto.
Si spalancò una porta.... La folla ondeggiò.... Una luce fioca di ceri, un borbottio di preci in una lingua incomprensibile.... il feretro coperto da un drappo nero passava.... Tre o quattro si levarono il cappello....
— No, tenerlo bisogna.
— Come?
— Ma sì.... Non hanno mai assistito a funerali israelitici?
— Ecco il commendatore.
— E quello è il fratello.... a braccio del figliuolo.
— Ah, quello lì!... È più vecchio....
— Credo.
— Non somiglia.
[247]
— Poco.... Però c'è il tipo.
Fanoli e Brulati si sbracciavano per regolare l'uscita.
— Un momento, un momento. Lascino andare avanti le signore.
Erano una ventina, tra le quali la miliardaria miss May, che s'era decisa a venire e aveva ordinato al meccanico di andarla ad aspettare con l'automobile davanti alla gradinata dell'Esposizione. Sua zia, indisposta, era rimasta a casa.
— Ora, — disse Fanoli, — favoriscano di passare quelli che devono reggere i cordoni.
Veramente, trattandosi d'una donna, quest'ufficio sarebbe toccato alle signore, ma il commendatore Gabrio aveva preferito di vedere intorno alla bara di sua sorella i gros bonnets della finanza.
Ora i chiamati a nome da Fanoli, tutti commendatori, lavorando di gomiti, ansando e sbuffando, si aprirono faticosamente la via. Le lucide tube, le pelliccie di lontra e di martora, gli spilli di brillanti alla cravatta, le ricche catene dell'orologio davano a questi ragguardevoli personaggi una cert'aria di famiglia.
— Se si sfracellassero, che frittata di milioni! — sussurrò il cronista della Tribuna all'orecchio d'un compagno.
A malgrado di tutti gli sforzi, alla svolta dello [248] scalone, sul pianerottolo, ci fu un intoppo. Non si andava nè innanzi, nè indietro.
E intanto salivano su dall'androne gravi, lente, nasali, le preghiere nella lingua sconosciuta. Erano le stesse cantilene che avevano risonato per le vie di Sionne e lungo i fiumi di Babilonia, le stesse che negli esilii dolorosi avevano confortato i lutti delle famiglie raminghe. Non c'era angolo del mondo ov'esse non avessero portato un'eco dell'Oriente lontano; s'erano confuse al fremito di tutti i mari, all'urlo di tutti i venti; avevano invocato pace ai morti d'Israele in tutti i cimiteri dispersi da Varsavia a Parigi, da Francoforte a Siviglia, da Venezia ad Amsterdam, da Londra a Nuova York, da Calcutta a Lisbona. Tramandate di generazione in generazione, di secolo in secolo, avevano conservato come aromi preziosi la fede, la speranza, le illusioni di un popolo, tanto più sicuro di risorgere quanto più al fondo precipitava. Oggi la funebre nenia non suscitava nè commozioni, nè affetti; le note strascicate, gutturali si alzavano, ricadevano come zampilli d'una fonte a cui nessuno più si disseta.
«La grazia dell'Eterno sia su di noi», — cantava l'officiante nella lingua ignota. — «Il premio delle nostre opere, deh, tu ci prepara, e le opere stesse disponi in guisa che meritar lo possiamo.
[249]
«Chi dimora nel nascondimento dell'Altissimo alberga all'ombra dell'Onnipossente. Io dirò al Signore: Tu se' il mio ricetto e la mia fortezza: in te, mio Dio, sicuro confido».
Le preghiere cessarono.
— Avanti! — gridavano quelli ch'erano al sommo della scala.
E dal basso si rispondeva:
— Or ora. Un po' di pazienza.
— Avanti!... Si soffoca, — insistevano i primi.
Così dall'alto al basso si scambiavano parole iraconde, esclamazioni crucciose, finchè, quando Dio volle, si fece un po' di largo nell'androne, e la massa umana, stretta, schiacciata fra le pareti della scala, potè rimettersi in movimento e unirsi al corteo già incamminato. Il carro funebre di prima classe che portava il feretro era innanzi un buon tratto quando gli ultimi uscivano dal palazzo. Sulle faccie congestionate brillava la gioia ineffabile della liberazione; il sole irrompendo trionfale dopo la notte e la mattinata piovosa spazzava via, insieme con le nuvole, le immagini di morte; il funerale diventava spettacolo a se stesso. Deposta la maschera di dolore che molti avevano creduto necessario di accomodarsi sul viso durante la prima parte della cerimonia, gl'intervenuti, specie quelli ch'eran più lontani dal carro, chiacchieravano allegramente [250] fra loro, occhieggiavano le ragazze, si pavoneggiavano sotto gli sguardi curiosi dei passeggeri dei tram elettrici, costretti ad arrestarsi o almeno a rallentare la loro corsa.
Tra gli uomini d'affari la conversazione prendeva un carattere tecnico.
— Queste Borse sempre di buon umore, eh!
— Sicuro, anche iersera Parigi dava un mezzo punto d'aumento sulla Rendita.
— E a Genova, le Terni, avete visto?
— Oh, cresceranno ancora.... Se poi si fa il trust.... — disse il barone Bernheim lisciando con la manica la immancabile tuba bianca che aveva il pelo arricciato come quello d'un gatto spaurito.
— I concimi hanno un grande avvenire, — sentenziò un agente di cambio. E annunziò la prossima formazione d'una nuova Società di concimi chimici con dieci milioni di capitale.
Ma già parecchi sgattajolavano a destra e a sinistra, persuasi d'avere ormai sacrificato abbastanza del loro tempo alle convenienze sociali. Così, per esempio, miss May, giunta a piedi del Palazzo dell'Esposizione, piantò in asso con americana disinvoltura il gruppo delle signore, salì in un batter d'occhio la gradinata, e rivolta sulla folla la macchinetta fotografica che aveva tenuta ad armacollo sotto la pelliccia di lontra, [251] tentò di fermare in un'istantanea la scena pittoresca che le si svolgeva dinanzi. Poi scese tranquillamente ed entrò nell'automobile che l'attendeva.
Tuttavia le diserzioni non impedirono al corteo di arrivar numeroso fino a piazza delle Terme. Più in là non si spinsero che quelli di famiglia, il cavalier Fanoli, il pittore Brulati, il conte Ugolini-Ruschi, il direttore della Banca Internazionale, due professori d'Università intimi di Giacomo Moncalvo, il giovine e timidissimo dottor Flacci, assistente di questo, e pochi altri.
Sotto l'impressione dell'aria frizzante e del sole il commendator Gabrio andava via via rinfrancandosi, e col direttore della Banca e con Fanoli discuteva d'affari, criticava il Governo e il Parlamento, schiavi delle vecchie formule, incapaci di secondare il mirabile risveglio economico della nazione. Bisognava assolutamente cambiar tutto, con nuovi uomini, con nuovi programmi.
Giacomo Moncalvo aveva lasciato il fratello per avvicinarsi a Giorgio, di cui lo impensieriva il pallore mortale, e, più del pallore, il silenzio cupo e la tristezza profonda.
— Ho vegliato la notte.... Sono stanco, — aveva detto Giorgio a sua giustificazione.
[252]
— Lo so.... Invece di riposarti sei uscito.... non sei rincasato che questa mattina.... Una pazzia. Ragione di più perchè tu ti riposi adesso. Non occorre che tu venga al cimitero.
Ma a tutte le sollecitazioni Giorgio aveva opposto un rifiuto secco, deciso, solo consentendo ad appoggiarsi al braccio del padre.
E il professore Giacomo sentiva lo sforzo che egli faceva per non gravarlo di tutto il suo peso, per reggersi sulle gambe che gli si piegavano.
— Ma tu non istai bene.... Non puoi venire fino a Campo Verano.... Vuoi che torniamo indietro insieme?... O vuoi entrare in una delle carrozze che ci seguono al passo?
— No, no, è meglio ch'io cammini.... Te ne prego, babbo, non insistere.... Torneremo in carrozza insieme, dopo il funerale.... Andrò a casa, mi metterò a letto.... dopo che avrò visto scender sotterra la zia, che mi voleva tanto bene.
Sì, tanto bene ell'aveva voluto al nipote, e Giorgio pure l'aveva avuta cara; ma Giacomo Moncalvo, benchè ignorasse la strana avventura di quella notte, sentiva che suo figlio non diceva il vero, ch'egli non era in quello stato unicamente per la passione di aver perduta la zia. La Clara, la buona Clara, non poteva lasciar dietro di sè che un soave ricordo; era un'altra che gli turbava [253] la pace, un'altra, rigogliosa di salute e di vita, che gli stillava il veleno nel sangue.
Giorgio taceva, schivando l'inquieto sguardo paterno, tenendo gli occhi bassi, assorto nella sua visione di dolore e di voluttà, premendosi di quando in quando col fazzoletto la bocca su cui ardeva ancora la fiamma dell'ultimo bacio.
Il corteo, assottigliato, si avvicinava alla meta. Dopo la via di Porta San Lorenzo, seguendo la via Tiburtina fiancheggiata da officine di scalpellini, da botteghe di fiorai.... e da osterie consolatrici dei superstiti, lasciandosi a destra la chiesa di San Lorenzo, varcata la porta d'ingresso del riparto israelitico, esso procedeva per una via chiusa fra due muri, verso una cancellata aperta proprio dirimpetto alla cappella mortuaria.
Mentre il feretro era tolto dal carro, l'officiante intonava nuovamente le preci funebri.
«Lodato sia il Signore Dio nostro, Re dell'Universo, che ci ha creati nella sua giustizia, che ci ha nutriti e conservati per atto di giustizia, e che nella sua giustizia ci ha fatti morire. Egli conosce il numero di tutti coloro che dormono in questa polvere, e ci farà tutti risorgere un giorno per atto di sua giustizia. Sii tu benedetto, o Signore, che risusciti i morti».
E continuava nella cappella mortuaria:
[254]
«Dell'Onnipossente sono perfette le opere; egli è giusto in tutte le sue vie. Gli atti suoi sono tutti amore e verità, nè in essi puossi suppor difetto. Chi oserebbe chiedergli: Che fai?
«Egli governa l'Universo; a volontà sua fa vivere, fa morire, fa scendere il corpo nella tomba, ma presso di sè richiama l'anima immortale».
Nella fretta di finire, il rabbino biascicava sommessamente altre preghiere. Ma da un angolo della cappella si levò una bella voce di basso profondo:
«Perdona, o Signore, ai peccati della nostra sorella il cui cadavere caliamo nel sepolcro».
Tutti si voltarono dalla parte di dove la bella voce veniva, tutti sentirono vibrare in essa, che pur parlava un idioma sconosciuto, un accento insolito di convinzione e di fede.
L'officiante, sconcertato un momento riprese:
«Usale misericordia in grazia dei meriti dei padri nostri....»
E l'altro, quello che nessuno si ricordava di aver visto nel corteo, attaccò il versetto seguente:
«Riposi il suo corpo in pace e l'anima sua voli al cielo a godere della felicità eterna. Amen!»
Di labbro in labbro corse la dimanda:
— Chi è?
— È un tedesco, il dottor Löwe, — rispose qualcheduno che nella figura esotica, caratteristica, [255] aveva ravvisato il fervente apostolo del Sionismo.
E il dottore, nell'uscir dalla camera mortuaria, si accostò a Gabrio Moncalvo per dirgli ch'era giunto quella mattina stessa dalla Polonia, che in treno aveva letto la triste notizia e appresa l'ora dei funerali, e che per non perder tempo s'era fatto portare subito al cimitero.
Rimosse le ghirlande, rimosso il drappo nero listato d'argento, il feretro è deposto sopra un carretto tirato a mano fino al posto della sepoltura, fino ai piedi d'un colombario vuoto che aspetta.
In lugubre silenzio la gente assiste all'ultima parte della cerimonia. Già la bocca spalancata ha divorato la sua preda, già i muratori sono intenti a chiudere il vano coi mattoni e la malta. Suonano le ultime preci:
«Il pietoso Iddio perdoni il peccato e non distrugga il peccatore; usi tutta la maggior clemenza per reprimere la sua collera.... La terra ritorni alla terra, com'era in origine, e lo spirito ritorni a Dio che lo diede».
Gabrio Moncalvo disse al fratello:
— La collocano lì provvisoriamente.... Ho intenzione di farle erigere un monumentino.
Giacomo tentennò la testa.
— Povera Clara! Non la vedremo più!
[256]
— Povera Clara! — ripetè il commendatore. — Non avrei creduto che dovessimo perderla così presto.... Ah, guai se non ci potessimo stordire col lavoro!... Pur troppo non c'è altro da fare... Andiamo!
Aveva fretta di uscir dal triste recinto, di rientrar nella vita, di ripigliar le sue abitudini, di scordare quei giorni penosi.
Ma dovette prima scambiar nuove strette di mano e sorbirsi nuove condoglianze e prodigar nuovi ringraziamenti.
— Grazie in nome di tutti noi.... anche di mia moglie e della mia figliuola.... Davvero non dimenticheremo mai queste dimostrazioni.... Giacomo, Giorgio, non salite nel mio landau?
— Scusaci, — rispose il professore. — Noi abbiamo urgenza d'essere a casa.... Io sono spossato.... E Giorgio è in peggiori condizioni di me.
— È vero.... Ho notato anch'io che questa mattina ha un gran brutto colore.... Cos'ha?
— Spero non abbia nulla, eccetto un po' di stanchezza.
Il commendatore tese la mano al nipote.
— Animo, giovinotto.... Alla tua età i mali passano presto.... Dunque, se proprio ci tenete ad andar subito a casa vostra, prendete una di queste carrozze.... Fanoli, veda lei quale è disponibile.... Ce ne devono esser d'avanzo. Abbia pazienza, [257] Fanoli, metta a posto tutti quanti.... E poi mi raggiunga a casa.... Farà colazione con me.... Anche Brulati, se vuole.
Il pittore si scusò. Aveva un impegno.
Prima di montare in una carrozza del S. O. M. di Malta, il conte Ugolini chiese a Gabrio Moncalvo:
— Crede ch'io possa in giornata riverir le signore?
— Provi sul tardi. Erano a letto, con poca disposizione ad alzarsi per oggi.... specie la Mariannina.... Provi a ogni modo.
Il commendatore si rivolse al direttore della Banca Internazionale:
— Venga con me, lei.... Dobbiamo discorrere.... Così va bene.... E ora, avanti!
Cacciando la testa fuori dello sportello ordinò al cocchiere di far trottare i cavalli.
Non pareva più l'uomo di prima, abbattuto, affranto sotto il peso del suo dolore. E pure quel dolore era stato sincero, com'era sincera la sua affezione per la sorella perduta. Ma in lui le impressioni erano vive, non durevoli, ed egli aveva la felice attitudine a vedere il lato buono delle cose. Anche in questa disgrazia, in questa grande disgrazia, c'era quello che si direbbe il rovescio della medaglia.
Era noto che la Clara non avrebbe fatto buon viso ai prossimi avvenimenti domestici, ma fino [258] allora ella aveva taciuto per prudenza. Avrebbe continuato a tacere quando fosse scoppiata la bomba? E le inevitabili discussioni non avrebbero rischiato di creare un dissidio insanabile? Era abbastanza che il dissidio vi fosse con l'altro ramo della famiglia. Almeno la Clara era morta in pace con tutti, portando seco la sicurezza di lasciare un vuoto nella casa ov'ell'era ospite gradita e preziosa da tanti anni. Scomparsa lei, il commendatore si sentiva più libero, e già affrettava col pensiero il colloquio che aveva fissato per le tre pomeridiane col notajo e con monsignor de Luchi, e che doveva preludere alla domanda ufficiale di don Cesarino e alla stipulazione dei due contratti: il contratto di compravendita del palazzo Oroboni e della villa di Porto d'Anzio e il contratto di nozze. Era tempo ormai di uscire dal periodo preparatorio e di passare il Rubicone. Alea jacta est. L'affare in sè era men che mediocre; Gabrio Moncalvo lo sapeva benissimo, e la somma ch'egli immobilizzava nel palazzo e nel podere avrebbe avuto ben altro valore restando nelle sue mani; ma anche dal punto di vista commerciale la speculazione poteva finire con l'esser buona se agevolava a lui e alla sua Banca la conquista di nuove clientele nel mondo cattolico. A ogni modo, bisognava veder le cose nel loro complesso, pensare al [259] grande significato del matrimonio della Mariannina, dell'entrata solenne di lei nella società più chiusa, più aristocratica di Roma. Oh, la Mariannina aveva ben ragione di non curarsi di quello che tutti possono avere. Moglie d'un deputato, d'un senatore, d'un generale? Per una ragazza che portava un milione di dote, più.... les espérances, dei generali, dei senatori e dei deputati ce n'erano a dozzine; ma esser moglie d'un principe Oroboni, d'uno dei rappresentanti più genuini dell'intransigenza religiosa e politica, ecco la vittoria di cui la Mariannina, non nobile, non cattolica, aveva il diritto d'andar superba. C'era sì la formalità della conversione, e la prospettiva delle inevitabili cerimonie dava un po' di noja a Gabrio Moncalvo. Era anzi questo il motivo per cui egli aveva imposto alla consorte di frenar pel momento i propri ardori di catecumena. A lui non conveniva di far troppo chiasso in una volta, nè di compromettere i suoi rapporti con la casa Rothschild. Più tardi forse, alla sordina, senza pubblicità....
Questi pensieri che gli turbinavano nella mente non impedivano a Gabrio Moncalvo di chiacchierar di politica e di finanza col direttore della Banca Internazionale. E allorchè quest'ultimo tirò il discorso sulla conversione della rendita, il commendatore diede una risposta che [260] valeva così per la coscienza religiosa di sua moglie come pel saggio d'interesse del nostro consolidato 5 per cento.
— No, per ora la conversione non si farà.
Intanto, nella carrozza ov'egli era salito con Giorgio e col dottor Flacci, il professore Giacomo era assorbito da tutt'altre cure, e non distaccava gli occhi dal figliuolo, rannicchiato in un canto, con la testa sprofondata nei guanciali, con le gambe e i piedi avviluppati in un plaid.
Alle ansiose interrogazioni paterne Giorgio rispondeva appena.
— Sì, credo d'aver la febbre, ma passerà.
— Flacci, — disse il professore al momento di scendere dalla vettura, — mi fa il piacere di passare in farmacia, in via Cicerone, e di pregar che telefonino a Rangoni, il nostro medico....
— Vado subito.
— O babbo, che fretta! — barbugliò Giorgio. Ma non s'oppose.... Anzi ringraziò Flacci con un cenno del capo.
Quando, sostenuto da suo padre e dal portinajo, ch'era un uomo muscoloso e robusto, egli giunse su delle scale, la donna di servizio, venuta ad aprire, non potè frenare un'esclamazione:
— Madonna Santa, che cosa è successo?
E si voltò verso il professore.
[261]
— Zitto, zitto, — replicò questi. — Non facciamo casi.... È la fatica, l'emozione.... Un paio d'ore di letto sarà il miglior rimedio.... Andate a preparare la camera....
Era quella, dopo oltre due mesi, la prima sera che Giacomo Moncalvo passava nel suo studio, e il volto pallido dello scienziato, ov'erano i segni d'un'ansietà piuttosto sopita che dissipata, esprimeva altresì la compiacenza dell'uomo abitudinario che trovandosi in mezzo a oggetti cari e domestici ripiglia il filo dei pensieri interrotti.
Di fuori pioveva e faceva freddo. Nello studio era un dolce tepore di stufa, era una tenue, gentile fragranza di viole che rievocava le immagini della primavera.
— Ah, Flacci, Flacci! — disse Moncalvo rivolto al giovine e timido assistente che gli sedeva di fronte. — Anche i fiori mi vuol portare.... Mi tratta come la dama del suo cuore.
Flacci arrossì.
[262]
— Non ce l'ho, io, la dama del cuore.
E soggiunse: — So che le viole le piacciono, e mi son preso la libertà di adornarne il suo studio nel giorno ch'ella vi rientra con l'animo tranquillo.
— Grazie, Flacci.... Grazie di questa come di tante altre attenzioni che ha avute per noi.... Eh, non ci sdebiteremo mai.... Ma non creda ch'io abbia l'animo tranquillo....
— Oh professore, perchè?... Il medico....
Giacomo Moncalvo tentennò la testa.
— Il medico afferma che la crisi è superata, che la guarigione è sicura.... Sarà... Ma io non oso sperare che Giorgio torni quello di prima.... Il suo silenzio ostinato intorno alle cose, alle persone di cui parlava nel suo delirio m'inquieta e mi turba.... Ora quasi mi augurerei che la sua convalescenza tardasse, ch'essa non dovesse coincidere con certi avvenimenti ch'egli non potrà ignorare e che avranno un contraccolpo sul suo spirito.
Il dottor Flacci chiese sommessamente: — Non ha intenzione di condurlo lontano?
— Tutto sta ch'egli voglia venire.... Non è un fanciullo.... E poi un viaggio si risolverebbe in pochi mesi d'assenza.... È l'aria di Roma che non fa più per mio figlio.... Quanto meglio ch'egli non si fosse mai mosso da Berlino!... Ora anche [263] di là ho una triste novella da dargli.... Basta, discorriamo delle nostre faccende.... Io spero lunedì di riprender le lezioni al punto dove le ha lasciate lei....
— Che festa sarà per gli studenti il rivederla sulla cattedra! — esclamò Flacci.
— Gli studenti sono molto cortesi e mi accoglieranno bene, non ne dubito.... Ma in quanto all'insegnamento, non si accorgeranno della differenza.
— Professore, mi confonde, — balbettò Flacci. E le sue gote s'imporporarono un'altra volta.
— Non sono uso a far complimenti, — replicò Moncalvo. — A proposito, Flacci, resta a cena con me?... Sì, sì, senza cerimonie.... Sono solo.... Ed ella è un così parco mangiatore che si può sempre invitarla all'ultimo momento.... Aspetti a ogni modo che sentiamo per che ora sarà pronto.
E si accinse a sonare, ma in quel punto si udì una scampanellata all'ingresso.
— Chi sarà?
— Se vuol che vada a vedere? — disse il dottor Flacci.
— È inutile.... S'è qualcheduno che domanda di me, lo sapremo. Del resto, non ho ancora tolta la consegna.
Dopo aver picchiato all'uscio, la donna di servizio [264] s'affacciò sulla soglia. Era perplessa, confusa.
— Ebbene?
— C'è di là suo fratello, il commendatore.... Io avevo detto che il signor professore non riceve, ma egli insistette, e....
— Ch'entri pure, — ordinò Giacomo Moncalvo dopo un istante d'esitazione.
— Io mi ritiro, — dichiarò l'assistente.
— No, — rispose il professore, — non abbia fretta.... Si ritirerà dopo.... se sarà necessario.
E si alzò per muovere incontro al fratello.
— Finalmente! — esclamò il commendator Gabrio avanzandosi con le braccia aperte.
Giacomo gli tese la mano e lo accompagnò verso il canapè.
— Siedi.
— Finalmente! — ripetè il banchiere. — Avevi dato i catenacci alla tua porta.
— Non vedevo nessuno.... tranne questo giovinotto.... per dovere d'ufficio.... Il mio assistente, dottor Flacci..
Il commendatore chinò il capo senza pronunziar parola. Lo turbava la presenza di un estraneo.
Flacci, ch'era già sulle spine, si dileguò in silenzio.
— Lo credevo uno studente, — notò Gabrio. — È così giovine.
[265]
— È giovanissimo, ma mostra anche meno della sua età.
— Dunque, — riprese il commendatore, — io mi sono informato sempre.... ogni giorno....
— Lo so.... grazie.
— T'ho fatto chiedere un'infinità di volte se potevo venire....
— Devi scusarmi.... Non avevo la forza....
— Credi, mi era tanto pesato dir di no a quella tua domanda.
Una fiamma salì al viso di Giacomo Moncalvo.
— La mia domanda era assurda, — egli rispose affrettatamente, precipitosamente, come se le parole gli bruciassero la lingua. — Avevo perduto la testa.... Giorgio aveva sempre quel nome sulle labbra.... «Ella sola potrebbe guarirmi, — egli ripeteva. — Mi basterebbe vederla un minuto, accanto al mio capezzale.... Siete voi che la tenete lontano».... E la chiamava, la chiamava.... Era uno strazio.... I medici non davano più quasi nessuna speranza.... Fu allora che chiesi: «Se provassi a pregarla?...» «Provi», mi dissero. E ti scrissi.... Ma lo capisco, il rifiuto era inevitabile.
— Non mi serbi rancore, dunque?
Giacomo fece un segno negativo col capo.
— Se Giorgio fosse morto non ti avrei perdonato più.
— Invece, grazie al cielo, guarisce.
[266]
— Lo spero.
— Ma sì, ma sì, non c'è dubbio.... Ho parlato io stesso col vostro medico oggi.... Anzi fu allora che pensai: Poichè è fuori d'ogni angustia mi riceverà.
Giacomo sospirò.
— Ci vorrà del tempo prima che io sia fuori d'ogni angustia.... Del resto, è vero, tu non hai colpa.
— Nessuno ha colpa, — ribattè Gabrio. — È stata una fatalità.
Il professore taceva.
— Ella non può averlo lusingato, — insistè l'altro. — Ella lo trattava con confidenza, come un fratello.... La conosci, non ha sussiego....
— Doveva averne in quest'occasione, — interruppe Giacomo, — doveva accorgersi del male che faceva.... Ma, per carità, non fermiamoci su questo terreno scottante.... Giorgio metterà giudizio.... o qui, o altrove....
— Giorgio lascerà Roma? — esclamò il commendatore. — Lascerà il suo posto, la carriera in cui è avviato?
— Se non potrà esser salvo diversamente.... L'essenziale è ch'egli viva.... e che sia un uomo.
— E tu?
— Io? — disse il professore. — Sono stato solo per tanti anni; ci starei ancora.... In caso [267] disperato, mi farei liquidare la pensione, e seguirei mio figlio.
Ma si pentì di questa debolezza, e soggiunse:
— No, no.... anzi non lo seguirei.... I vecchi sono un impiccio.
— Sei uno stoico, — borbottò Gabrio Moncalvo.
— Mi piego all'inevitabile, — riprese il fratello.
Gabrio si fece coraggio.
— E alla questione economica hai mai pensato?... La malattia di Giorgio deve importi ben gravi sacrifizi.
— Non tali ch'io non sia in grado di sopportarli.... Nella peggiore ipotesi farò qualche risparmio sulla mia sola spesa di lusso, sulla mia biblioteca.
— E non t'è venuto in mente, — insisteva il banchiere, — ch'io son ricco, molto ricco, e che mi terrei fortunato se tu mi permettessi d'aiutarti?
— La tua offerta non mi fa maraviglia.... Sei stato sempre generoso.... Ma io penso che ogni uomo, finchè sia sano di corpo e di spirito, deve bastare a se stesso.
— Dunque rifiuti?
— Ringrazio, ma rifiuto.
— Sei superbo, superbo.... Ti offende l'idea di dover qualche cosa a tuo fratello.
[268]
— Se non ho bisogno di nulla?... Se non mi sento povero?...
— Perchè ti sei avvezzato a privarti di tutto.
— T'inganni, Gabrio.... O, almeno, ti assicuro che nessuna delle mie privazioni mi pesa.... Quando mi confronto con tanti a cui manca perfino il necessario, a me pare di nuotar nel superfluo.... Hai visto quel giovane ch'è uscito di qui?
— Il tuo assistente?
— Sì, il dottor Flacci, un ragazzo che diventerà un grande matematico.... Or bene, quello, per anni e anni, finch'era studente, viveva in una soffitta e pativa il freddo e la fame. Oggi, con uno stipendio di milleduecento lire, più il frutto di tre o quattro lezioni alla settimana, mantiene, oltre a sè, la madre vedova.... Mi sembra ch'egli meriterebbe d'essere assai più commiserato di me.
— Che significa questo? — ribattè il commendatore. — Per male che uno stia può trovar sempre chi sta peggio di lui.
— E pure il dottor Flacci è contento.
Ma Gabrio Moncalvo protestò contro questa concezione umile della vita.
— Sì, sì, sarete ammirabili, ma vi manca un grande stimolo e una grande soddisfazione. E ancora voi altri, tu, tuo figlio, il tuo dottor Flacci, siete scienziati, avrete la persuasione di giovare all'umanità con le vostre scoperte, con la vostra [269] dottrina.... Non mi negherete però che vi è del bene che non si può fare che col danaro e che le migliori intenzioni del mondo non servono quando non si abbiano i mezzi per attuarle.
— Ognuno opera nei limiti delle sue forze, — obbiettò il professore.
— Naturale. Ma dev'essere una gran pena.... che dico dev'essere?... è, perchè l'ho provata anch'io nei primordi della mia carriera, è una gran pena il sentirsi gridare ogni momento: «Alto là. Non si passa». Non si passa perchè non vi son quattrini; ch'è quanto dire: Oggi non si può assistere un amico, domani non si può proteggere un artista, doman l'altro non si può partecipare a una impresa che sarà fonte di prosperità e di lavoro, e nè oggi, nè domani, nè mai si può levarsi un capriccio, si può compiacere a una voglia della moglie, dei figliuoli, di qualche persona cara.... Eh via, avete un bel bandir la crociata contro noi ricchi, avete un bel dire che a contar l'oro e i biglietti di banca c'insudiciamo le mani; io affermo che una delle nostre mani sudicie sparge intorno a sè più beneficî di mille delle vostre mani pulite....
Giacomo sorrise.
— Ora sei tu che fai il processo a noi poveri spiantati.
Il commendatore si strinse nelle spalle.
[270]
— È tattica di guerra.... Per difendersi validamente bisogna portar l'attacco nel campo avversario.
— E tu attacchi a fondo.... Ci stritoli addirittura.
— Tu non c'entri, — ripetè Gabrio. — Tu hai una specie di ricchezza che noi onoriamo....
— Ma che non figura nei listini di Borsa, — completò Giacomo.
— Può figurarci anch'essa quando si trasformi in scienza applicata.
— Vedi dunque che non è il caso mio, — disse il professore. — Io non ho il merito della più piccola applicazione.
— Non importa. Non c'è nessuna verità che resti perpetuamente inapplicabile. Quando il seme è buono, o presto o tardi darà frutto.
— Speriamo, — soggiunse Giacomo Moncalvo che non era in vena di discutere.
E, macchinalmente, guardò l'orologio appeso alla parete dirimpetto, ciò che richiamò il suo interlocutore all'altro scopo della sua visita.
— Senti, — principiò Gabrio col tuono dimesso di chi sta per toccare un argomento scabroso, — la Mariannina si sposa sabato.
— Ah! — fece Giacomo senza scomporsi. — Sapevo ch'era fidanzata.... non da te.
— Come potevo dirtelo s'eri invisibile?... E [271] poi.... insomma mi capisci.... Tu non assisterai alla cerimonia?...
Il professore non rispose, ma l'espressione della sua fisonomia esprimeva abbastanza chiaro com'egli fosse maravigliato della domanda.
— Intendo, intendo, — ripigliò Gabrio Moncalvo. — Non puoi assistervi.... Tu disapprovi tutto.... la conversione, il matrimonio....
— In quanti vi convertite? — chiese Giacomo.
— La sola Mariannina, per ora.... La Rachele più tardi....
— E tu?
— Oh, per me non c'è fretta.... Prevedo che mi convertirò anch'io, ma non c'è fretta.
— In fatti, — disse Giacomo ironicamente, — sarà bene lasciar scorrere qualche anno di più dal tempo ch'eri un mangiapreti.
— A chi non è accaduto di cambiar opinioni? — ribattè il commendatore.
— Il male si è, — rispose pronto il fratello, — che le tue opinioni sono schiave del tuo interesse.... almeno di quello che credi il tuo interesse. Le tue convinzioni di oggi non sono più salde di quelle di sett'anni fa.
— Che ne sai tu?... Sett'anni fa ho imparato a mie spese quello che valgono i demagoghi.
— E oggi vuoi imparare quello che valgono i reazionari.
[272]
— A ogni modo, — riprese Gabrio, — allora perchè mi hanno respinto?... Non potevo essere un miglior deputato di tanti altri? Non avevo dato prove sufficienti d'ingegno, d'energia, di spirito d'iniziativa?
— Nessuno lo nega, — consentì lo scienziato. — Ma le tue stesse parole confermano che il tuo mutamento dipende in gran parte dall'amor proprio ferito.
— E se fosse? Chi non reagisce contro l'ingiustizia? Chi non si ribella contro l'ingratitudine?... Io sono ambizioso.... Meno la povera Clara, siamo stati tutti ambiziosi in famiglia.... Anche tu, d'apparenza così modesta.... Vuol dire che la tua ambizione è d'indole più nobile della mia.... Non importa.... Ci tenevi a essere uno dei primi matematici d'Italia, e sei riuscito....
— Tu sei riuscito a essere uno degli uomini più ricchi, — disse il professore.
— Non mi basta, — esclamò impetuosamente Gabrio Moncalvo. — Voglio per me, voglio per mia moglie, per la mia figliuola una posizione sociale che sia al disopra delle fluttuazioni della ricchezza.... Ecco il motivo pel quale approvo il matrimonio e la conversione della Mariannina, ecco perchè, presto o tardi, la Rachele ed io abbracceremo la religione della maggioranza.... La Rachele lo farà anche per fede
[273]
— Davvero?
— Sì. Monsignor de Luchi, che le dà qualche lezione, afferma di non aver mai trovato un terreno meglio preparato.... Ridi?
— Tutt'altro.... Anzi, s'è così, riconosco che tua moglie è superiore a te....
Gabrio alzò gli occhi in atto interrogativo.
— Sicuro, — riprese Giacomo, — perchè farebbe per una ragione seria una cosa seria.
Gabrio tentennò la testa.
— Non è seria ormai.... Si esce da una religione a cui non si crede....
— .... per entrare in un'altra a cui si crede anche meno, — continuò Giacomo. — Lo so, Gabrio, questa è la frase con cui si giustificano le conversioni alla moda.... Ma io preferisco le antiche, quando c'era un po' d'idealità, un po' d'entusiasmo....
— Sei curioso tu, coi tuoi scrupoli.... Qual'è la tua fede?
— Ah, io sono un eretico; sono un positivista, un materialista.... Tutti lo dicono, e sia.... Senonchè, io conservo il rispetto per le cose in cui migliaia e migliaia di uomini credono e sperano. Le religioni si possono combattere in nome di una verità più alta e più pura; non è lecito servirsene come d'un vestito che a piacere s'indossa e si smette.
[274]
Prima che il commendatore potesse rispondere, Giacomo si levò in piedi e soggiunse:
— Ma basta di ciò. Non separiamoci con male parole.... Sei venuto a farmi una offerta generosa, e ancora una volta, grazie; sei venuto ad annunziarmi il matrimonio di tua figlia.... e che ella sia felice....
— E, — balbettò Gabrio, disponendosi a prender commiato, — non ti vedremo da noi neppure quando non ci sarà più la Mariannina?
— Se tu avessi bisogno di me, — disse il professore, — io sarei sempre a tua disposizione..... Ma tu, così ricco, così influente, che bisogno puoi avere d'un povero insegnante di matematica che vive fuori del mondo, chiuso nelle sue formule?
— Quanto orgoglio, quanta ironia c'è nella tua modestia, — esclamò il banchiere.
E s'avviava verso l'uscio.
Ma nel punto di varcar la soglia e mentre Giacomo stava per sonare si voltò improvvisamente e afferrò tutt'e due le mani del fratello.
— Credi davvero ch'io non possa mai aver bisogno di nulla? Credi davvero ch'io sia felice?
E Gabrio Moncalvo non pareva più lo stesso uomo che un quarto d'ora prima magnificava la condizione dei milionari.
— Del denaro! — egli seguitò. — Sicuro, in [275] quello si nuota, almeno fin che si ha il vento in poppa.... Ma credi ch'io non sappia che c'è il rovescio della medaglia?... Credi che non mi sgomenti l'idea di dover star sempre sulla breccia, sempre alla vedetta perchè nessuna buona occasione ci sfugga, perchè nessun pericolo ci colga impreparati?
— Chi t'impedisce di liquidare, di metterti in quiete? — domandò Giacomo.
Gabrio sorrise amaramente.
— Come si vede che non hai pratica di queste faccende!... È proprio facile di liquidare una sostanza come la mia! Una sostanza investita in centinaja d'imprese diverse, rappresentata da centinaja di titoli esposti a tutte le oscillazioni della Borsa, da centinaia di cointeressenze, di partecipazioni che mi tengono impegnato per anni e anni!... E quando avessi liquidato, ridotto tutto allo stesso denominatore, so forse io stesso quello che mi resterebbe? Forse trenta, forse venti milioni....
— Ti par poco? — interruppe il professore.
— Eh, caro mio, il giorno in cui ti ritiri dagli affari e li impieghi al tre o al tre e mezzo per cento non hai da far troppa baldoria....
E scorgendo la faccia attonita del fratello, Gabrio spiegò il suo concetto:
— Dico non hai per modo di dire.... Si sa [276] che per te otto o novecento mila lire di rendita sarebbero un'enormità, ma tutto dipende dalle abitudini.
— Da ragazzi, — obbiettò Giacomo, — ci tenevano a stecchetto....
— Ah, quelle abitudini lì, — interruppe il banchiere, — io le ho perdute da un pezzo.
— Quanto spendi, in nome di Dio?
— Ti lascio nella curiosità per non scandalezzarti.... E ora figùrati se non dovrò colmare i vuoti del connubio Oroboni.
— Non dài un milione di dote alla tua figliuola?
— Un milione e il palazzo che ho comperato apposta per fargliene un regalo.
— E hai paura che gli sposi muojano di fame?
— Ho la certezza che il frutto di quel milione basterà tutt'al più per un trimestre.... I principi costano cari: e la Mariannina sente la dignità del suo nuovo stato. Aggiungi al resto i fumi di mia moglie che crescono ogni giorno.
— Pensare che rimanete in due soli in casa!... — notò lo scienziato.
— La Rachele vale per mille.... Non era così una volta, lo riconosco, ma ormai è nell'ingranaggio, e non c'è rimedio.... Nel loro mondo, vedi, quelli che ci son nati se la cavano con poco o nulla; noi altri non si finisce mai di [277] pagar la tassa di buoningresso.... E se tutto si pagasse in moneta!
Gabrio Moncalvo fece l'atto di inghiottire un boccone amaro e poi riprese abbassando gli occhi e la voce:
— La Rachele mi ha sposato per amore, e nonostante i suoi difettucci è stata sempre una buona moglie, aliena dalle galanterie.... So di molto io se oggi non mi tradisce....
— Eh, che idee!
Gabrio scrollò le spalle con affettata indifferenza.
— Non sarà.... Se ne dicono tante.... È curioso; fino a pochi anni fa non avrei dubitato della Rachele per tutto l'oro del mondo.... com'ella non avrebbe avuto ragione di dubitare di me.... Ora, sul tramonto, questa fede reciproca non c'è più.... Les Dieux s'en vont. Ti ricordi come i nostri nonni magnificavano, tra le virtù della razza, la fedeltà coniugale?... Anche questa è una leggenda.... segno di più che la razza degenera....
— Ci si livella agli altri nelle qualità e nei difetti, — osservò Giacomo. — Dalla razza non puoi uscire nemmeno per merito dell'acqua battesimale.
— Verissimo. Ma dopo qualche tempo dimentico e faccio dimenticare di avervi appartenuto.
[278]
— Bel guadagno! — esclamò il professore. — Val la pena, per questo, di commettere una vigliaccheria?
— Non sei equo, — rispose Gabrio Moncalvo decidendosi finalmente ad andarsene. — Tu consideri le cose dal tuo punto di vista di uomo incorruttibile, dedito tutto alla scienza, superiore alle nostre piccole miserie.... Se tu fossi ne' miei panni!... Fata trahunt, c'insegnavano in liceo. Siamo schiavi del nostro destino.... Il tuo è d'isolarti nel mondo del tuo pensiero, per scoprire le verità eterne che cresceranno il patrimonio intellettuale dell'umanità; il mio è di gettarmi nella baraonda degli interessi economici per aumentare le ricchezze materiali del paese.... e le mie. Tu non dipendi che dal tuo genio, non hai paura di avversari, non hai da stare al beneplacito di alleati, di amici.... Io dipendo da tutti.... Se pur la macchina del tuo cervello s'arresta, l'opera che hai compita rimane; se s'arresta la mia, che débâcle!... Sì, sì, dei due io sono il più debole; io son quello che può aver bisogno di venir a chiedere da desinare all'altro.
— Se intanto vuoi chiedermi da cena? — disse in tuono scherzevole il professore, mentre premeva col dito il bottone del campanello.
— Grazie.... Per oggi no.... Ho un invito e devo correre a vestirmi....
[279]
Quindi Gabrio ripetè, come a scarico di coscienza:
— Sai.... è per sabato.... alle nove antimeridiane.... Alle due gli sposi partono....
— Per dove?
— Vanno in Terra Santa.
— Oh, — fece Giacomo. — In omaggio al Vecchio o al Nuovo Testamento?... Ma sono indiscreto.... Scusa.... E buona notte.
— Buona notte! — replicò Gabrio infilando la pelliccia che la donna di servizio teneva spiegata davanti a lui. — Saluta Giorgio.... se credi che ciò non possa dispiacergli.
Il professore borbottò una frase di ringraziamento. Poi, accompagnato ch'ebbe il fratello sino alla porta della scala, si rivolse alla domestica:
— Il dottor Flacci?
— È dal signorino.
— Sta bene. Andrò io a chiamarlo. E tu porterai in tavola.
— Ci sarà poco da portare in tavola, — dichiarò la fantesca breve ed arguta.
— Perchè?
— Perchè tutto è bruciato, — fu il lugubre responso. — Con questa visita di Santa Elisabetta!
Giacomo accolse la notizia con filosofia.
— Ci vorrà pazienza.... Però era meglio non avvisarci. [280] Probabilmente non ce ne saremmo accorti nè Flacci nè io.
La donna alzò le braccia al cielo per invocare la misericordia del Signore sugli esseri imperfetti che non hanno palato, e si precipitò verso la cucina.
Gli sfaccendati che la notizia d'una duplice cerimonia aveva richiamati quel sabato mattina nei pressi della Basilica di San Giovanni Laterano videro, prima delle nove, arrivar sulla piazza dieci o dodici carrozze di gala, e fermarsi una dopo l'altra a pochi passi dal portone di bronzo del Battistero, e scenderne una trentina e più di personaggi d'alto bordo, dame, cavalieri, prelati, e, con l'ajuto dei servi in livrea, aprirsi il varco in mezzo alla folla e scomparire dietro il portone, di cui due vigili municipali vietavano l'accesso ai profani.
Il pubblico, costretto a contentarsi d'una visione fuggitiva e confusa, si sfogava in commenti poco benevoli.
— Già, perchè son ricchi ci caccian fuori come i cani.
[281]
— Non è poi questa gran bellezza quella giudia....
— Per bella è bella, — disse uno che aveva spirito equanime. — Ma quante deve farne a quel suo gramo marito!
— È quel biondo, pallido, mingherlino che pare gli manchi un'ora a morire?
— Appunto. E non può aver vita lunga.... Era meglio per lui se andava prete.... Ma si voleva un erede del nome....
— Uhm! — fece uno scettico. — Non è tipo da aver eredi.
Ma un altro, più scettico ancora, rimbeccò pronto:
— Oh, ella saprà ben levarsi d'impiccio.
— È vero che porta cinque milioni di dote?
— No, no; uno solo ne porta.... Quando poi morirà il padre ce ne saranno degli altri.
— Il padre era quel signore tarchiato, rubicondo che le dava il braccio?
— Già. È straricco.
— E si battezza anche lui?
— No, non credo.
Un'automobile che sopraggiungeva con gran fracasso richiamò a sè l'attenzione.
— Largo, largo!
Dall'automobile scesero due signore elegantissime e con andatura franca e decisa si diressero [282] al portone di bronzo, i cui battenti, come per incanto, si apersero e chiusero al loro passaggio.
— Avete visto che arie?
— Quella davanti pareva l'Imperatrice del Gran Mogol.
— È l'americana che può spendere un milione al giorno, — disse un commesso di negozio che non aveva paura di sballarle grosse.
— Uh! Che bombe! Trecentosessantacinque milioni all'anno.
— E trecentosessantasei negli anni bisestili!
— A chi vuol darla a bere?
— È proprio così, — ripeteva il commesso di negozio facendosi forte dell'autorità della sottocuoca dell'ambasciatore americano.
Mentre quelli di fuori quasi si bisticciavano per i milioni di miss May (il lettore avrà capito che si trattava di lei), nel centro del Battistero, fra le otto colonne di porfido che Sisto III innalzò, nel recinto circolare che una balaustra protegge e a cui si scende per pochi gradini di marmo, la Mariannina Moncalvo, tutta vestita di bianco, la fronte liberata dal velo, riceveva il battesimo e pronunziava l'abjura. A uno a uno, rispondendo alle domande del sacerdote, ella ripudiava i suoi errori, e il sacerdote, ch'era la nostra buona conoscenza monsignor de Luchi, dopo averle versato l'acqua lustrale sul capo e sparsole [283] qualche granellino di sale sulla lingua e untole leggermente d'olio l'orecchio, l'accoglieva in grembo della Chiesa con la formula consacrata: «In nome di Dio ti battezzo». La madrina intanto, vecchia dama dell'aristocrazia nera, donna Cornelia Flamini, ritta presso la neofita, le teneva le mani sopra le spalle e ripeteva insieme con lei a voce bassa le parole del Credo dette a voce alta da monsignore. Altre voci sommesse facevano eco di tra la schiera dei presenti, quasi tutti inginocchiati innanzi all'altare apparecchiato per la messa.
Compiuta questa parte essenziale del rito, monsignor de Luchi, in mezzo a un gran silenzio, si rivolse alla pecorella ch'entrava nell'ovile di Cristo e le disse come senza colpa ella fosse stata avvolta fino allora in una notte profonda, e come ormai le tenebre si fossero squarciate e le sue pupille fossero messe in grado di sopportar tutta la luce della verità: «Che gioja nel cielo, — proseguì don Paolo, — per queste vittorie della fede! Per questo ritorno al Signore dei discendenti di quelli che lo hanno perseguitato, crocifisso, deriso! E come esulterà il cuore paterno di Dio quando pel ravvedimento di tutti egli potrà depor la sua collera e scancellare il marchio d'infamia dalla fronte dei rejetti e restituire una patria ai dispersi!»
[284]
Con un gemito sordo donna Rachele Moncalvo tradì la sua rabbiosa impazienza del battesimo rigeneratore, ma il commendator marito trattenne a fatica un gesto d'uomo seccato. Quel monsignor de Luchi, per solito così misurato e discreto, oggi perdeva le staffe. Che sugo avevano quelle parolone sonore davanti a lui, Gabrio Moncalvo, che non aveva dichiarato ancora in modo esplicito di voler uscire dalla schiera dei reprobi?... E non era tempo di finirla con quell'antifona dei persecutori, dei crocifissori?... O che diciannove secoli non erano bastanti per creare la prescrizione?
Ben altri pensieri agitavano la mente di don Cesarino Oroboni durante le varie fasi della cerimonia. Solo in un angolo, con le ginocchia sul nudo pavimento, egli aveva cercato d'immergersi nella preghiera, di allontanar da sè ogni pensiero profano. Ma di tratto in tratto una forza più potente della sua volontà lo spingeva a levar lo sguardo verso la donna affascinante che fra poco sarebbe sua. Ecco, non era un sogno; la barriera insuperabile che l'aveva diviso da lei era caduta; un sacerdote cattolico aveva profferito le parole liberatrici che disserrano il fonte della salute; ecco, un vescovo che aveva atteso in disparte orando in silenzio s'era avvicinato grave e solenne alla nuova recluta della fede, [285] le aveva impartito la cresima, le aveva offerto il mistico pane.
Ed ecco che ora don Cesarino è prostrato accanto a lei dinanzi all'altare; egli in abito nero, ella avvolta in una nuvola di veli bianchi. Gli anelli benedetti si scambiano; dalle labbra esangui del patrizio romano, dalle labbra tumide della fanciulla semita esce il «sì» fatale che unisce gli sposi fino alla morte e dopo la morte; allargando le braccia don Paolo de Luchi invoca sulla giovine coppia le grazie del cielo. Indi strette di mano, e baci e augurî in quantità, e quell'inquietudine allegra e quel cinguettìo abbondante e festevole che succede ai lunghi e forzati raccoglimenti. Tutti vorrebbero avvicinarsi alla sposa; tutti vorrebbero da lei uno sguardo, una parola, un sorriso. I genitori, i parenti, le amiche l'abbracciano commossi; le semplici conoscenze aggiungono alle congratulazioni qualche complimento sulla sua bellezza, sulla sua eleganza, sulla sua aria regale. Ella mostra di gradire gli omaggi e a don Cesarino ch'è ansioso di darle il braccio fa cenno di non aver troppa fretta. Non devono star insieme tutta la vita?
Ma don Paolo de Luchi interviene.
— Sì, sì, anzi i due sposi a braccetto.... Di qui.... Oh quelli del Municipio aspetteranno.... Avanti! Vengano dietro a me.... Io faccio da battistrada.
[286]
E monsignore, uscendo per primo dal Battistero, precede la comitiva lungo i porticati interni della Basilica fino alla sacrestia, ov'è preparato un magnifico rinfresco.
— Oh monsignore, — dice in tono di mite rimprovero il commendator Gabrio Moncalvo battendogli amichevolmente sulla spalla, — con questo po' po' di trattamento lei fa guerra alla mia colazione.
— Il nostro commendatore ha voglia di scherzare, — risponde don Paolo. E ajutato da due inservienti della Basilica distribuisce fra gl'invitati il tè, la cioccolata, i liquori, le paste.
— Ah, Ugolini, — sospira donna Rachele accettando un pasticcino dal cavaliere di Malta. — Che cerimonia!... Non c'è che la Chiesa cattolica che abbia di questi riti.... Verrà, spero, quel benedetto giorno in cui sarò accolta anch'io nella comunione dei fedeli.... Vi sono già col cuore, lo giuro.
— E il cuore è il più, — risponde il conte Ugolini-Ruschi, tanto per dir qualche cosa.
Appartata quanto più sia possibile dalla folla mondana, con presso a sè donna Cornelia Flamini e altri due o tre dei purissimi, la principessa Oroboni divora in silenzio la sua umiliazione. I suoi occhi non hanno lacrime, le sue labbra non hanno lamenti, ma la sua fisonomia tradisce [287] la lotta fra l'orgoglio indomato e la rabbia e il dolore che vorrebbe prorompere. C'è intorno a lei un'atmosfera di gelo; chi avrebbe voluto avvicinarsele si arresta in cammino, chi avrebbe voluto rivolgerle un complimento banale sente morirsi le parole in gola. Ella, di quando in quando, leva lo sguardo ostile verso la Mariannina, verso la nemica che le ha stregato il figliuolo, che ha avvinto a sè quella debole anima, che, trionfando coi sensi e con l'oro, ha trascinato nel fango il nome illustre degli Oroboni. Tutti i pregiudizi succhiati col sangue, tutto l'odio di razza tramandato di generazione in generazione, tutti i sospetti, tutte le diffidenze, tutte le gelosie delle suocere contro le nuore si adunano in quello sguardo che la Mariannina sopporta senza batter palpebra, col calmo e tranquillo sorriso di persona che non dubita della sua forza.
Dal gesto con cui la principessa ha rifiutato una tazza di cioccolata ch'egli stesso era venuto ad offrirle, don Paolo capisce che, per un certo tempo almeno, la vecchia patrizia non gli perdonerà la parte da lui avuta in quel matrimonio e ch'egli dovrà rassegnarsi a sentirsene dir di cotte e di crude, ciò che del resto non gli fa una grande impressione perchè ci è avvezzo.... Ma non est hic locus, e per evitare in momento inopportuno [288] la minacciata scarica d'elettricità egli si ritira prudentemente, e raccogliendo intorno a sè miss May, la zia di lei ed altre signore, mostra loro il calice regalatogli in questa solenne occasione dalla famiglia della sposa.
— Una bellezza, una vera bellezza.... Puro Quattrocento....
E, assicuratosi che nessuno dei Moncalvo può udirlo, don Paolo de Luchi soggiunge piano: — Se l'è procurato il commendatore da uno dei suoi correligionari.... Ma!... Due terzi dei tesori delle nostre chiese son passati in mano di quella gente.... E chi sa a che prezzi disfatti.... Meno male che qualche oggetto ripiglia la buona via.
In quella, Brulati, ch'era uno dei testimoni al matrimonio civile, fa notare a Gabrio Moncalvo che non c'è tempo da perdere. Si sarebbe già dovuti essere al Campidoglio.
— Ma sì, ma sì, — dice il commendatore che nei giorni scorsi s'era adoperato invano per far precedere il rito civile al religioso. Gli Oroboni erano stati inflessibili, e inflessibile quanto loro era stata donna Rachele, accesa di zelo mistico e grande dispregiatrice delle formule che si pronunciano al municipio.
— Prima in chiesa, prima in chiesa.... Al municipio ci si andrà dopo, unicamente perchè lo esige la legge....
[289]
Ajutato da Brulati, il commendator Gabrio chiama a raccolta.
— Avanti, signore e signori.... Quelli che vengono al municipio abbiano la cortesia di spicciarsi.
All'appello rispondono alcuni soltanto. Altri si dileguano in silenzio, altri, vincendo la soggezione, si aggruppano intorno alla contessa Olimpia, la quale ha fatto già uno sforzo enorme a recarsi in chiesa e non vede l'ora di riseppellirsi nel vecchio palazzo, ohimè non più suo, ma che ella seguita a riguardar come suo.
Il corteo nuziale, ridotto così, attraversa a passi rapidi la Basilica, e per la maestosa gradinata scende sulla piazza immensa di Porta San Giovanni, che digrada con lento pendìo fino alla chiesa di Santa Croce in Gerusalemme, e di là dai resti dei vecchi acquedotti, di là dai tetti delle fabbriche nuove che la deturpano lascia veder le linee vaporose dei colli albani. Ivi gli equipaggi attendono; ivi attende l'automobile di miss May; ivi uno sciame di accattoni, di monelli, di venditori ambulanti, di semplici curiosi, mal rattenuto da poche guardie municipali, preme, avvolge la nobile comitiva che insofferente di contatti plebei si affretta a salir nelle carrozze e ordina ai cocchieri di sferzare i cavalli.
[290]
— Vi precedo, — grida miss May fendendo la folla con la sua superba Mercedes e sollevando dietro a sè un nembo di polvere, mentre una dozzina di ragazzi cenciosi, non contenti dell'elemosina avuta, le scaraventa dietro una filza di epiteti espressivi tolti dal vocabolario romanesco.
Altri, per la stessa ragione, inseguono per qualche tempo il landau della sposa, urlando: — La giudia! La giudia! — ciò che strappa un gemito dal petto di donna Rachele:
— Anche dopo il battesimo!... Quando la finiranno?
— Cosa vuole? — dice il conte Ugolini per consolarla. — Sono ignoranti.
Al Municipio la funzione è breve, tanto più che il sindaco e gli scrivani, infastiditi dalla lunga attesa, non vedono l'ora di andar a colazione. Anzi il sindaco ringhiotte il discorso che aveva preparato e si limita a due parole di augurio.
La signora Rachele trionfa, e non contenta di sfogarsi con Ugolini si volge in aria quasi di sfida a quello scettico impenitente del pittore Brulati:
— Che differenza dalla cerimonia in chiesa! Non vorrà mica negare?
Ma Brulati ch'è di cattivo umore risponde:
[291]
— Eh, sicuro, in chiesa c'è più pompa. Ma quello è fumo, questo è arrosto.... E per diventare principessa Oroboni bisogna passar di qui.... A proposito, — continua il pittore liberandosi da un peso che gli grava lo stomaco da molto tempo, — che notizie ha di quella povera famiglia?
La signora Rachele sulle prime non capisce.
— Quale famiglia?
— Non rammenta? Quella di via Merulana.
— Ah! — fa donna Rachele arrossendo. — Che memoria ha!
— Gli è, — seguita Brulati impassibile, — che in questa lieta occasione rinnoverei volentieri l'offerta....
— Grazie, grazie, — interrompe bruscamente la signora. — Non occorre.... Le condizioni son molto migliorate....
— Hanno vinto una lotteria?
— Si figuri....
— Che fortuna rara!
— Ha dei giorni ch'è insopportabile, — borbotta la signora Rachele. E piantando in asso il suo petulante interlocutore accetta il braccio offertole dall'alto personaggio degli esteri, quello che di sera ha l'abitudine di dormirle in salotto.
— Forse mi comprometto, — dice il diplomatico. — Ora che i Moncalvo entrano nel campo [292] avversario.... Meno male che S. E. il Presidente del Consiglio non vuol inasprire il Vaticano....
— Ah commendatore, — esclama con enfasi la signora Rachele. — l'uomo di Stato che riconcilierà l'Italia con la Chiesa sarà più benemerito di Cavour. Sua Eccellenza dovrebbe aspirare a questa gloria.
— Sono questioni delicate, cara signora, questioni che bisogna lasciar risolvere al tempo.... Ma ecco che tutti hanno posto la loro firma e che si può avviarsi.
— Viene a colazione da noi? — chiede donna Rachele.
— Grazie. È impossibile. Sono atteso alla Consulta.
Il pubblico di piazza del Campidoglio, composto in parte dei forestieri che vanno a visitare i musei, è più garbato di quello di San Giovanni Laterano. Qui nessuno sa o nessuno si cura del recente battesimo; qui nessuno leva il grido sconveniente la giudia, ma un mormorio spontaneo di ammirazione accoglie la sposa novella che a braccio del marito esce dagli uffici di stato civile e risale in vettura.
Un francese, alle cui orecchie son giunte le parole matrimonio principesco, dice con aria convinta:
— On voit bien que c'est une princesse.
[293]
Una nube vela l'orgogliosa bellezza di Mariannina Moncalvo. Ora ch'ella ha profferito il «sì» che vale davvero in faccia alla legge, ora che un nodo indissolubile l'avvince a don Cesarino, ora per la prima volta ella domanda a se stessa s'ella non sia stata vittima d'un vano miraggio e se il dono completo di sè non sia prezzo troppo alto per la conquista d'un nome e d'un titolo. Sì, certo, ella dominerà il suo consorte, ma intanto, almeno per qualche tempo, ella non potrà rifiutare le sue carezze, non potrà sfuggire un contatto che le ripugna. E un'altra immagine ch'ella vorrebbe cacciare da sè torna insistente a perseguitarla: l'immagine del cugino di cui ella s'era divertita ad attizzare la fiamma, del cugino che era stato in procinto di morire per lei. Non lo ama ella, no; ella è troppo padrona di sè medesima, troppo corazzata contro gli assalti della passione, ma ella sente ancora sulla bocca la bruciatura del bacio ch'egli le ha reso in cambio di quello ch'ella, provocante, gli ha dato. E pensa: — Lo vedrò più?
Con la faccia ostinatamente rivolta verso il finestrino ella risponde appena alle domande dello sposo.
— Sei un po' smorta. Cos'hai? Non ti senti bene?
— Ho l'emicrania.... Troppi fiori....
[294]
La carrozza rallenta, s'arresta davanti al palazzo Gandi.
Con un salto la Mariannina balza a terra, traversa l'ingresso brulicante di gente, sale lo scalone, e, staccandosi da don Cesarino che non osa seguirla, entra per l'ultima volta nella sua camera di fanciulla. In un baleno ella si spoglia della veste nuziale, indossa l'abito da viaggio, guarda di là dalla strada il muro alto, bruno, massiccio degli Oroboni, e il cuore le si gonfia d'orgoglio all'idea di aver forzata quella rocca inviolabile ove fino a poco addietro nessuno della sua razza avrebbe ardito mettere il piede. Oggi è lei la principessa Oroboni. Che le importano i superbi disdegni della suocera riottosa? Che ombra può darle quella pallida larva destinata presto a sparire?
Via, via dall'anima le fisime sentimentali! La Mariannina Moncalvo deve portar regalmente il suo titolo.
Quand'ella scende fra gl'invitati i suoi occhi sfavillano, le sue guancie hanno ripreso l'usato colore.
— Come sei bella! Come sei bella! — esclama don Cesarino. — E la tua emicrania?
Ella si stringe nelle spalle.
— È scomparsa.... A me le indisposizioni non durano.
[295]
Don Cesarino china il capo umiliato. Egli, sofferente fin dalla nascita, troverà indulgenza presso la splendida creatura rigogliosa di salute, esuberante di vita?
Gabrio Moncalvo abbraccia entusiasta la figliuola.
— Sei più principessa di tutte le principesse.
Il commendatore che in chiesa s'era trovato a disagio, che al municipio era rimasto un po' male per la fretta e la svogliatezza del sindaco, qui, in casa sua, nel suo ambiente, ha ricuperato la sua vena e il suo brio. Si guarda dal dirlo, ma contrariamente a sua moglie, ch'è avvilita e irritata per la mancanza quasi completa dell'aristocrazia del blasone, a lui non par vero di non vedersi davanti nè l'arcigna principessa Olimpia, nè donna Cornelia Flamini, nè parecchie altre delle mummie che assistevano alla cerimonia di San Giovanni Laterano. Ora, nella folla che lo circonda e che fa onore al suo sontuoso buffet, è in prevalenza l'aristocrazia bancaria alla quale egli appartiene e ov'egli è riverito come un monarca assoluto.... Sì, sì, questo è il suo regno. Lo facciano pur conte del papa, egli rimarrà sempre banchiere, legato a doppio filo con gli uomini della finanza, senza distinzione di patria, di stirpe, di fede....; quindi anche coi suoi vecchi fratelli semiti che la fanatica signora Rachele [296] avrebbe voluto escludere dall'odierna solennità domestica, ma ch'egli aveva invitati a malgrado di lei. «Già non verranno», — ella diceva per coonestar l'esclusione. «Ci pensin loro, — era stata la facile risposta di Gabrio Moncalvo. — Io non commetto villanie. Del resto, giurerei che verranno». Non solo eran venuti, ma alcuni di loro avevan mandato alla sposa regali splendidissimi che ora figuravano tra i più belli messi in mostra nell'apposita stanza ove i visitatori erano introdotti per turno e ove non mancava la discreta sorveglianza d'un servo fidato.... Con tanta gente.... non si può mai sapere.... Perchè, non scherziamo, c'erano oggetti di gran valore, specie un monile di perle con pendente di brillanti, dono di miss May, di cui si affermava che il giojelliere avesse, tempo addietro, rifiutato sessantamila lire.
Tre o quattro cronisti, tal quale come nel giorno del trasporto della povera signora Clara, cacciano il naso da per tutto, assediano di domande gl'intimi della famiglia, prendono note nel taccuino, interrompendo talvolta il lavoro per far qualche riflessione filosofica e profonda.
— Ma! Vicende di questo mondo. Non sono tre mesi ch'eravamo qui per un funerale.
— Les morts passents vite.
Uno, più indiscreto degli altri, urta col gomito [297] il vicino per additargli un libro di devozione legato in cuoio con borchie d'argento dorato, offerto alla sposa da monsignor de Luchi.
— Il maestro non vuole che la scolara dimentichi le sue lezioni.
— Bah! Quella non è donna da recitar salmi.
— Eh, chi sa? Le neofite son le più ferventi.
— Se i vecchi Moncalvo si svegliassero!
— Zitto. C'è il principe.
Don Cesarino Oroboni, poichè la Mariannina è accaparrata dagli amici e dalle amiche e sopra tutto dall'invadente miss May, è come sperduto in quella società nuova per lui. Appoggiandosi al braccio del conte Ugolini-Ruschi, che almeno è della sua casta, egli gira su e giù per le sale, e da lui, ch'è cavaliere di Malta e fu in Palestina, attinge notizie sul viaggio, sui conventi di Gerusalemme, sul monte degli Olivi, sul Golgota, su Nazareth, sulle distanze da percorrere, sulle fatiche da sopportare per conoscere tutti i luoghi che udirono la parola di Gesù. E Ugolini, che si vanta di cospicue aderenze in ogni angolo della terra, oltre a fornir le informazioni richieste, promette lettere commendatizie per questo e per quello, pel balì dell'Ordine che fu suo condiscepolo, pel superiore dei Francescani ch'è suo amico, pel console austriaco ch'è figlio d'un cugino di sua madre di buona memoria, [298] e marito della nipote d'un barone Hohenstein di Monaco, da lui conosciuto anni addietro presso i suoi parenti Wartenburg di Berlino.
Ma a poco a poco, con nuove felicitazioni ed augurî, gl'invitati si ritirano. Restano al lunch solo gl'intimi della famiglia, primi tra i quali, s'intende, miss May, il conte Ugolini, il pittore Brulati, il cavaliere Fanoli e monsignor de Luchi, capitato proprio all'ultimo momento, quando già si disperava di vederlo. Resta pure, benchè non sia degl'intimi, il barone Bernheim che s'è invitato da sè.
Monsignore, amabilissimo, scusandosi dell'involontario ritardo, offre il braccio a donna Rachele e l'accompagna a tavola. Egli prende il posto alla destra di lei; alla sinistra siede il conte Ugolini, onde ella si trova fra quello ch'è oggi il dolce peccato e quello che sarà presto la facile penitenza. Con che ansietà ella invoca il giorno in cui le sarà dato prostrarsi ai piedi del degno ecclesiastico e confessare la colpa e ottenere l'assoluzione!
Lo sciampagna trabocca, spumeggiante, dai calici; i brindisi e i viva agli sposi s'incrociano. Ma tutti fanno silenzio quando monsignor de Luchi si alza e accenna a voler parlare.
Monsignore apre un foglietto piegato a modo di telegramma e comincia con voce solenne:
[299]
— Ho una sorpresa, una cara sorpresa per la nostra coppia felice. In questo momento ho ricevuto da Sua Eminenza il cardinale segretario di Stato il seguente dispaccio:
«Sua Santità invia benedizioni ed augurî ai dilettissimi figliuoli Cesarino e Mariannina Oroboni».
— Oh, monsignore! — esclama donna Rachele. E non riesce a dir altro, e mostra una spiccata disposizione a svenire, incerta soltanto se deve cader dalla parte di don Paolo o da quella del conte Ugolini-Ruschi. Ma i due la sostengono e la rinfrancano, ond'ella riacquista il dominio di sè e calma coi cenni e coi sorrisi la trepida sollecitudine dei commensali.
— Non è nulla.... È passato, — ella assicura. — Effetto della commozione.... Un favore così segnalato.... così inatteso.... E lo dobbiamo a lei, monsignore!... Mariannina, genero mio, non avete ringraziato don Paolo?
Ed ella afferra la mano del sacerdote e la copre di baci. Gli sposi vorrebbero fare altrettanto, ma monsignore si schermisce, dichiara che il merito, se c'è, non è di lui solo.... Anche il conte Ugolini-Ruschi con la sua influenza, con le sue aderenze....
Modesto e dignitoso, il conte fa segni negativi col capo.
[300]
— Sì, sì, sento che c'è anche lei, — protesta con enfasi donna Rachele, arrossendo di non averci pensato prima. E stringe con effusione la destra al suo impareggiabile amico. E incita con lo sguardo il marito a manifestare la propria riconoscenza.
— Grazie, grazie, — borbotta il commendatore con moderato entusiasmo. Gli è che anch'egli ha in serbo una sorpresa per la figliuola e gli duole di vederne sciupato l'effetto da questo colpo di scena.
— How interesting! — esclama miss May leggendo per di sopra la spalla di monsignore il dispaccio del Vaticano, mentre i camerieri sturano altre bottiglie di sciampagna e ricolmano i calici.
Zitto! Don Paolo ha qualche cosa da soggiungere.
— Io propongo, — egli dice, — un brindisi al nostro Sommo Pontefice Pio X.
C'è un momento di esitazione, e il barone Bernheim, che aspetta una nuova commenda italiana, non può trattenere un espressivo: «Uhm, uhm!»
— Il mio brindisi è rivolto al Pastore delle anime e non al Sovrano, — spiega monsignore. E allora tutti si levano in piedi applaudendo; solo il pittore Brulati, con la scusa di raccattare il tovagliuolo scivolatogli giù dalle ginocchia, trova [301] il modo di esimersi dalla toccante dimostrazione, e brontola corrucciato: — Dopo la commedia, la farsa.
— Io spero che l'eco di questi applausi giungerà fino a Sua Santità, — ripiglia don Paolo appena tace il tintinnio dei bicchieri.
E poichè i vapori del vino gli dànno un poco alla testa, egli si lascia scappare due o tre frasi imprudenti.
— Sì, questi applausi hanno un grande significato. Essi sono uno dei tanti sintomi di quella riconquista di Roma ch'è la vera, ch'è la più desiderabile. «Il mio regno non è di questo mondo». Regnar sulle anime, ecco ciò che interessa.... E se le anime tornano a noi, tornano alla Chiesa, non sarà una gran disgrazia aver perduto quattro palmi di terreno....
— Bravo don Paolo! — salta su, ridendo, il commendatore. — Lei rinuncia al poter temporale.... Se la sentono....
— Io non rinuncio a nulla, — ribatte monsignore accorgendosi di essere andato tropp'oltre. — La Chiesa ha i suoi diritti e protesterà sempre contro le violenze commesse a suo danno.... Ma io parlo come privato.... E per me, sì, l'essenziale è che la Chiesa riconquisti le anime.... Del resto, accetto l'avvertimento amichevole del nostro illustre commendatore.... e.... acqua in bocca.
[302]
A suggello delle sue parole monsignor de Luchi accosta il bicchiere alle labbra.... ciò che desta l'ilarità dei presenti, i quali notano che nel bicchiere c'è vino e non acqua.
— Ebbene, figliuoli, — dice il commendatore dopo aver consultato l'orologio, — se non volete arrivar troppo tardi a Napoli sarà bene che vi disponiate a partire.... l'automobile è pronta.... E non è l'automobile solita.... È una Fiat di cinquanta cavalli che metto nella corbeille della Mariannina.
— Ah, babbo! — grida la neoprincipessa gettando le braccia al collo dell'autore dei suoi giorni con uno slancio d'affetto filiale che non può capire chi non abbia un padre milionario.
Gabrio Moncalvo è contento. La sua sorpresa ha maggior successo dell'altra; l'automobile dà scacco matto alla benedizione.
Carezzevole, la Mariannina domanda:
— E quanti chilometri....?
— Calma, calma, — interrompe il banchiere. — Lo chauffeur ha l'ordine di non superar la velocità di cinquanta chilometri all'ora.... Per oggi comando io.... Spero che tuo marito non se ne offenderà....
— Si figuri!
Don Cesarino pensa con accorata tenerezza al vecchio landau di famiglia, al vecchio cocchiere, [303] ai due vecchi cavalli bai che solevano impiegar circa venticinque minuti per portarlo da casa sua fino a San Pietro, e chiude istintivamente gli occhi, turbato dalla visione della sfrenata corsa automobilistica che lo aspetta. Ma quando li riapre scorge un risolino ironico sulle labbra della Mariannina e si vergogna di se stesso.
— Di la verità, hai paura? — chiede la giovane sposa.
Egli arrossisce e balbetta:
— Con te?... Con te farei il giro del mondo.
La frase identica, mesi addietro, ella l'aveva udita da quell'altro.... Sì, certo, tutti e due sarebbero stati pronti a fare il giro del mondo con lei; ma quell'altro non avrebbe avuto paura.
— Flacci, mi fa il piacere di sonar quel campanello, — disse Giorgio Moncalvo, che da due giorni si alzava e ancora molto pallido e debole era seduto sur una poltrona accanto alla finestra.
— Se desidera qualche cosa, son qua io, — rispose [304] il giovine e officioso matematico, balzando in piedi.
— Grazie, mi basta che suoni, — replicò il convalescente. E quando la donna di servizio accorse alla chiamata, le ordinò di mandar subito a prendere il Giornale d'Italia e la Tribuna della sera innanzi e il Popolo Romano e il Messaggero della mattina.
La domestica consultò con lo sguardo l'assistente, il quale alla sua volta arrischiò un timido ma....
— Non c'è ma che tenga, — disse Giorgio. — Se solleva ostacoli vado io in persona, nonostante il divieto del medico.... chè già mi reggo benissimo.
La minaccia ebbe il suo effetto; il dottor Flacci non fiatò più e la donna uscì per eseguire la commissione.
Giorgio Moncalvo portò la mano alla bocca per reprimere uno sbadiglio.
— Lo so, lo so, caro Flacci, fra il babbo e lei c'è un complotto contro di me e mi sorvegliano per turno.
Flacci protestò con un gesto vivace.
— A fin di bene, s'intende, — continuò l'altro senza scomporsi. — Temono ch'io commetta qualche pazzia, e vogliono custodirmi sotto una campana di vetro.... lontano dalle emozioni.... Se [305] pregavo lei di procurarmi i giornali avrebbe tirato in campo mille difficoltà.... Per questo ho preferito dar l'ordine direttamente.... Ci sarà la relazione sul matrimonio di mia cugina.... Via, non faccia l'indiano.... Per quanto abbia l'abitudine di viver fra le nuvole, non può non aver sentito che jeri la figliuola dell'illustrissimo commendatore Gabrio Moncalvo, mio zio, s'è sposata col principe Cesarino Oroboni, dopo, ben s'intende, aver preso il battesimo in piena regola.... La notizia è giunta a me nonostante tutte le precauzioni, e vorrebbe fingere d'ignorarla lei che non è relegato a casa e non ha nessuno interessato a nasconderle nulla?...
— Non lo ignoravo, ma....
— Ma la cosa non le importava affatto?... È naturale.... Ella non è parente della sposa.... Ma io sono cugino, primo cugino, e questa indifferenza sarebbe imperdonabile.... È vero che siamo in disgusto.... Mio padre non è voluto nemmeno andare alle nozze.... Poco male.... La parentela c'è sempre.... Non ha cugine lei?
— No.
— Meglio.... Son causa di fastidi e di pettegolezzi.... Il meno che possa toccare è di sentirsi dire che se n'è innamorati.... Lo hanno detto anche di me.... E non è vero.... Si figuri se potevo innamorarmi d'una cugina arcimilionaria! [306] In quanto ad approvare il matrimonio che ha fatto, questo no.... Nè il matrimonio, nè la conversione.... Son cose che non siamo stati capaci di digerire, nè mio padre, nè io.... Giudichi lei, Flacci.
— Io veramente....
— Smetta quell'aria da diplomatico.... Se avesse una cugina, le piacerebbe vederla far queste commedie pel gusto di diventar principessa romana?... Ride?...
— Mi par così comica l'idea d'una principessa romana nella mia famiglia!
Giorgio Moncalvo s'infastidì.
— Questo non è rispondere.... Le piacerebbe?
— Eh, no sicuro.
— Sia lodato il cielo.... È un tale assurdo!... Ai nostri tempi entrar a bandiere spiegate nel campo reazionario!... Metter la maschera della bigotteria per trovar buona accoglienza presso quattro beghine!
Giorgio, che da un pezzo non era stato tanto discorsivo, continuò per altri cinque minuti, su questo tuono, solo interrompendosi di tratto in tratto per maravigliarsi che la donna non gli portasse ancora i giornali.
Finalmente i giornali vennero, e il nostro professore ne prese due e diede gli altri due a Flacci.
— Guardi un po' lei nel Popolo Romano [307] e nel Messaggero. Guardi la cronaca rosa, i «fiori d'arancio».... Sarà in terza pagina.... Dio, che uomo!... Fuori della sua matematica è come un pulcino nella stoppa.... Ecco, io ho già visto che la Tribuna e il Giornale d'Italia hanno tre righe sole.... l'annunzio nudo e crudo della cerimonia, e una frase di elogio per la bellezza della sposa.... Sono giornaloni.... Non si degnano di dedicar troppo spazio a simili inezie.... Ebbene?...
— Qui mi pare ci sia qualche cosa.
— Ah, nel Messaggero? — disse Giorgio strappando il foglio di mano all'assistente. — Sicuro.... C'è una colonna.... Questo si chiama saper fare il giornale....
E si mise a leggere con avidità, accompagnando la lettura con osservazioni ironiche.
— Già.... si comincia con la descrizione del battesimo.... Toccantissima.... La sposa era un'apparizione.... Il cronista va in estasi.... deplora di non aver la penna di d'Annunzio per esaltarne degnamente le bellezze.... Stupido! Passiamo avanti.... Ecco la nota dei principali regali: brillanti, perle, smeraldi, rubini.... Non è abbagliato, Flacci?
— Sono incompetente.... Ho paura che non distinguerei un diamante da un pezzo di vetro comune.
[308]
— Bravo!... Seguono i regali.... Magnifico servizio d'argenteria.... magnifiche porcellane giapponesi.... tutto magnifico.... Avanti.... oh, oh, questo è più magnifico di tutto.... «Allo sciampagna — si parla della colazione sontuosissima in casa di mio zio — allo sciampagna, monsignor Paolo de Luchi, che aveva celebrato il matrimonio religioso, portò la benedizione del Papa....» Non si scuote nemmeno per questo, Flacci?... Resta impassibile, come per i giojelli?
— Faccia conto.
— Io invece sono commosso fino alle lacrime.... Pensi, mia cugina fino a jeri era una reproba; mio zio e mia zia sono ancora fuori della comunità dei fedeli.... ci entreranno, pare, ma pel momento sono fuori.... e cionullostante il Santo Padre manda sulla casa inquinata dall'eresia la sua apostolica benedizione.... E forse non la manderebbe a lei, caro Flacci, che, ortodosso o no, è pur nato e cresciuto in grembo alla Chiesa. Io, se fossi ne' suoi panni, protesterei.
— Ha voglia di ridere, professore.
— Tutt'altro.... Sono troppo compreso dell'onore ch'è fatto al nome Moncalvo e di cui ho anch'io la mia parte.... Veda le fortune che cápitano a chi ha una bella cugina ricercata dai principi romani....
Giorgio gettò di nuovo l'occhio sul giornale.
[309]
— Senta, senta: «Gli sposi sono partiti alle ore 15 per Napoli in una splendida Fiat da cinquanta cavalli, regalata dal commendatore Moncalvo alla figliuola. Fra pochi giorni s'imbarcheranno per Terra Santa»... Se la può immaginare mia cugina in pellegrinaggio alla tomba di Cristo?
— Non ho l'onore di conoscerla, — obbiettò il dottor Flacci.
— È vero, lei non conosce nessuno.... tranne le sue formule.... Beato lei! Così non ha distrazioni e arriva alla celebrità in treno diretto.... Lo dice sempre mio padre che lei si sveglierà celebre quando meno se l'aspetta.
— Il professore è troppo indulgente per me.
— No, no, mio padre non è che giusto.... Però mi dispiace ch'ella perda un'eccellente occasione di ridere alle spalle della neoprincipessa Oroboni prosternata ai piedi del Santo Sepolcro.... E scusi, nel Popolo Romano c'è nulla?
— Nulla.... Almeno mi sembra.
— Dia a me.... È vero, nulla.... Cioè il puro annunzio.... Che giornale! Basta, rileggerò stasera il Messaggero prima di andare a letto.... Mi farà buon sangue.... Oggi ho proprio passato un'oretta allegra.
Giorgio Moncalvo si alzò dalla poltrona fregandosi le mani e fischiando tra i denti il motivo della marcia nuziale del Lohengrin.
[310]
In questo stato di eccitamento lo trovò di lì a poco il professore Giacomo e n'ebbe una nuova conferma di ciò che sapeva. Malato o convalescente, taciturno o loquace, il suo figliuolo era fisso in un solo pensiero, il pensiero assiduo, cruccioso della Mariannina. Era come se il resto del mondo non esistesse per lui; mai un'allusione ai suoi studi prediletti, mai una parola sugli amici di Berlino, quella parola che suo padre aspettava per comunicargli una notizia, per consegnargli una lettera giunta quand'egli non era ancora fuori di pericolo.
A che pro ritardar più oltre? Con l'indifferenza che Giorgio ostentava per tutto, non era da temersi che la triste novella gli recasse una scossa troppo violenta. E a ogni modo, s'era una scossa, non poteva egli ritrarne piuttosto beneficio che danno?
Così il professore si decise a romper gli indugi e la sera stessa fece cadere il discorso sui Raucher.
All'udir quel nome Giorgio ebbe un gesto sconsolato.
— I Raucher! — egli disse. — Povera gente!... l'ultima lettera di Frida era tanto triste, tanto sfiduciata.... Ora mi ricordo.... Temeva di non arrivare alla primavera.... E io non le ho risposto.... Ma non è stata colpa mia.... Mi sono ammalato subito.... Le risponderò, mi scuserò....
[311]
Giacomo Moncalvo mise una mano sulla spalla del figliuolo.
— Risponderai a suo padre.
— Come? — esclamò Giorgio turbandosi in volto. — A suo padre?... E Frida?...
Il professore chinò il capo.
— Perchè non dici nulla?... Voglio che tu mi dica la verità.
— Sai che non v'era speranza di salvarla.
— Morta dunque?... Morta? E da quando?... Come l'hai saputo?
— È venuta la partecipazione a stampa insieme con una lettera per te.
— Quando? Quando? — insistè Giorgio.
— Circa tre settimane fa.... Stavi male....
— E perchè hai continuato a tacere quando stavo meglio?... Perchè hai atteso tre settimane a darmi questa lettera?... Dov'è?
— Eri sempre debole, — si scusò il professore togliendosi di tasca una busta orlata di nero.
Giorgio riconobbe la calligrafia del dottor Raucher. E prese la lettera e la girò fra l'esili dita.
— Da tre settimane! — egli ripeteva. — Che si penserà di me che non ho scritto una parola?
— Ho scritto io in vece tua, — soggiunse Giacomo Moncalvo. — Ho informato il professore della tua malattia.... C'è anche un libro....
[312]
— Che libro?
— Non so.... È tuttora sotto fascia. La lettera ti spiegherà.... Vuoi che apra io, che legga io?
— No, gli occhi mi servono.
Giorgio s'accostò alla lucerna per leggere il funebre messaggio. Il professore sedette in disparte.
«La mia Frida ha finito di patire l'altra sera — scriveva il dottor Raucher — e io adempio a un preciso incarico della mia benedetta informandone lei che ha conosciuto e apprezzato quell'angelo. «Scrivigli tu stesso — ella diceva — scrivigli in mio nome, e assicuralo che non ho mai dimenticato la sua bontà per me e che muojo convinta di non esser dimenticata da lui, sebbene in questi ultimi tempi non m'abbia scritto. Ma m'immagino quanto assorto egli sarà nei suoi studi».
«Ella riceverà per la posta anche un libro che mia figlia mi pregò di spedirle. È il volume delle poesie di Carducci che Ella le aveva regalato e che leggevano insieme un anno fa.... Frida aveva così caro quel volume!... Lo conservi, Moncalvo, lo conservi in memoria della soave creatura che mi lasciò solo al mondo.
«Non le parlo di me. Ella può figurarsi il mio stato. Non vivevo che per questa figliuola, verso la quale mi pareva di dover espiare la colpa gravissima [313] di averla fatta nascere. Quanto ha patito, povera santa! Non credo che ne' suoi vent'anni ci sia stato un giorno in cui non soffrisse.... E non ha mai avuto un lamento, non ha avuto un rimprovero.... Basta così.... Perduta la mia Frida, sento la vanità di ogni cosa.... Non so come potrò rientrare nel mio gabinetto da lavoro, ove pur la buona fanciulla veniva tanto di rado, ma ove attraverso le pareti mi giungeva talvolta il suono della sua voce.... E poi a che pro studiare, a che pro meditare? Se non fossi affranto d'animo e di corpo, cercherei forse di offrire la mia vita per qualche grande causa.... All'età mia non s'è più utili a nulla.... Tocca a Lei ora, tocca a quelli che come Lei hanno dinanzi a sè l'avvenire. Possa Ella trovare nella scienza le consolazioni che a me sono negate per sempre.... Mi accusi ricevuta del libro, mi ricordi a suo padre e mi creda
«Suo
Guglielmo Raucher».
Giorgio Moncalvo posò la lettera aperta sul tavolino e stette silenzioso con la faccia nascosta fra le palme. Gli si affollavano alla mente i ricordi del suo soggiorno a Berlino; ricordi del laboratorio austero ov'egli si era educato alla scrupolosa severità dell'indagine, ricordi della casa [314] ospitale che la gracile Frida empiva del suo sorriso e del suo dolore. E a pensar quella casa senza di lei, a pensare senza la diletta figliuola l'uomo illustre del quale per vent'anni ell'era stata la tenerezza ineffabile, l'inquieta e trepida cura, egli ebbe per un istante vergogna di sè, vergogna dell'agitazione in cui lo mettevano le febbri della sua fantasia, così piccole e vane al paragone delle miserie reali.
Il professore Giacomo, ch'era uscito tacitamente, tornò recando qualche cosa in mano, e avvicinatosi a Giorgio:
— Ecco il piego arrivato per te da Berlino, — gli disse.
— Sì, sì, — rispose il giovane. — È il volume delle poesie del Carducci. Lo avevo regalato io l'anno scorso a Frida Raucher. È per desiderio di lei ch'esso mi è rispedito....
E Giorgio additò a suo padre la lettera dello scienziato tedesco.
— Leggi pure.
Egli intanto, rotta la fascia che cingeva il libro, andava svolgendone i fogli, molti dei quali erano annotati in margine da Frida nella sua calligrafia minuta e sottile. Parecchie di quelle note, Giorgio lo rammentava benissimo, erano state dettate da lui; ma altre la Frida ne aveva aggiunte più tardi, dopo ch'egli era partito da [315] Berlino; qua e là una parola, una data, un giorno della settimana. Una pagina era piegata, quella che conteneva l'ode breve e squisita:
Or che le nevi premono,
lenzuol funereo, le terre e gli animi,
e de la vita il fremito
fioco per l'aura vernal disperdesi,
tu passi, o dolce spirito;
ecc., ecc.
A piedi, Frida aveva scritto, e la scrittura pareva più incerta, più tremante del solito: «Letzter Gruss».
Ultimo saluto! E certo quel saluto era per lui, per Giorgio, e la piccola frase era l'ultima che la mano stanca di Frida aveva vergata. Cara, buona fanciulla che gli aveva dato tutto il suo cuore senza chieder nulla in ricambio e che nell'ora solenne della morte lo assolveva delle due colpe che più difficilmente si perdonano, l'indifferenza e l'oblio.
Staccandosi dalla suggestiva poesia carducciana, gli occhi del giovane videro dietro un velo di lacrime la città nordica sepolta nella neve, e la neve cader giù a larghe falde sui tetti, sulle strade, sui parchi, sul camposanto ove Frida dormiva.... Sentì un nodo alla gola e ruppe in singhiozzi.
[316]
Suo padre si chinò su lui dolcemente.
— Giorgio, quando sarai più forte, quando la stagione sarà più mite, vuoi che andiamo a Berlino a visitare il dottor Raucher?... Sono convinto che gli farebbe piacere il vederti.... Gli eri tanto caro, eri tanto caro a sua figlia....
Con una mossa energica del capo Giorgio respinse la proposta paterna.
— Andare a Berlino? Presentarmi al dottor Raucher? Dopo la noncuranza villana con cui ho trattato negli ultimi tempi la povera Frida?
— Si capisce dalla lettera ch'egli non ti serba rancore.
— Che importa?... Son io che non posso perdonare a me stesso.
— Confessando la colpa t'alleggerirai del rimorso.... Riflettici, Giorgio, tu hai la necessità di mutar aria, di mutar città, di dare un'altra piega ai tuoi pensieri.... A Berlino ti trovavi bene.... Vuoi tornarci? Vuoi che domandiamo al professore Raucher se consente a riprenderti seco?... Oggi egli è accasciato dal dolore, crede di non esser più buono a nulla.... Ma potrebbe bastargli una spinta per rimettersi all'opera.... E sarebbe una fortuna per la scienza.... Io parlo contro il mio interesse.... Che cosa dovrei desiderare per me se non che tu rimanessi qui al mio fianco, in questa casa che la tua presenza [317] aveva rianimata, rinnovellata?... Invece m'accorgo che non è possibile.... Tu qui a Roma, almeno per qualche anno, non ci puoi rimanere.
— No, babbo, — rispose Giorgio. — Partire sarebbe una viltà. Lascia ch'io resti qui, accanto a te, lascia ch'io impari da te ad esser forte.... Appena il medico me lo permetterà, ricomincierò le mie lezioni.... Cercherò di stordirmi lavorando.... come hai fatto tu in mezzo alle contrarietà della fortuna.... No, andare a Berlino non sarebbe un rimedio....
— Andiamo altrove, se lo preferisci, — disse il professore; — andiamo in Francia, in Inghilterra per tre, per sei mesi, come t'avevo proposto in passato.... ti rammenti?... la sera in cui s'aggravò la mia povera sorella?... Non puoi, non puoi per ora abitare a Roma.
Giorgio abbozzò un sorriso.
— Non posso?... Così debole mi credi?... Abbi pazienza e saprò dimostrarti il contrario.
Ma subito dopo, con tutt'altro tuono e con manifesta incoerenza, soggiunse:
— Il dottor Raucher ha ragione.... Quello che ci vorrebbe in certi casi sarebbe una nobile causa a cui poter offrire la vita.... Ah perchè non devo esser nato due generazioni prima, quando si cospirava, quando si combatteva per l'Italia, e Garibaldi chiamava intorno a sè il fiore della [318] gioventù, ed era nell'anime un fervore magnifico di generosi ideali, una fede robusta nell'avvenire della patria? Ah, t'assicuro, babbo mio, che se fossi nato allora non me ne starei oggi ad annaspar nebbia.
— I periodi eroici della storia dei popoli non si rinnovano così spesso, — obbiettò il professore. — La patria si può servire anche in tempi tranquilli.
Giorgio Moncalvo ebbe uno scatto violento.
— La patria dei commendatori Moncalvo e delle principesse Oroboni? La patria degli avventurieri e degli snobs che per vanità si accostano ai nostri eterni nemici e fanno brindisi al Papa, salvo, del resto, a mutar casacca quando ne avessero il tornaconto?... Ah no, per Dio, che quella patria non si serve e non si vuol servire!
Il professore tentennò tristamente la testa.
— Come ti agiti, Giorgio!... Converrai pure che non sei calmo, che non sei forte.
— Ma sfido io! Vi sono spettacoli che movon lo stomaco.
— Motivo di più per allontanarsene.... Delle bassezze, delle viltà ne vedrai da per tutto, pur troppo, perchè il mondo è fatto così.... Ma distogliti per un certo tempo dallo spettacolo di quelle che maggiormente t'irritano i nervi.... No, non ti domando di rispondermi subito.... Dormici [319] su.... La notte porta consiglio.... Mi risponderai con tuo comodo.... E al dottor Raucher scriverai?...
— Sì, domani gli scriverò.... Non già per annunziargli la nostra visita....
— Fa come credi....
Giacomo Moncalvo baciò in fronte il figliuolo e si ritirò, deciso di mettersi anch'egli in corrispondenza epistolare con lo scienziato tedesco.
Gli scrisse il giorno dopo, all'insaputa di Giorgio, gli scrisse senza nulla nascondergli, e n'ebbe una pronta risposta. «Non creda — diceva la lettera del dottor Raucher a Giacomo Moncalvo — non creda che il mio dolore m'impedisca di comprendere il suo. Nè tema ch'io sia rimasto offeso da ciò ch'ella mi espone con sì nobile franchezza. L'affezione fraterna che il suo Giorgio aveva dato alla mia Frida era tutto quello che la povera malata potesse chiedere, ed ella è morta riconoscente del benefizio, ignorando, e [320] fu meglio, la tempesta che travolse il suo amico negli ultimi tempi. Penso anch'io che convenga a Giorgio di allontanarsi da tutto ciò che può alimentare la sua infelice passione. S'io vedessi la probabilità di ricominciar la mia solita vita gli offrirei di tornare con me, ma ho assoluto bisogno, almeno per qualche tempo, di cambiare abitudini. Come? Quando? Non lo so. Cento idee, cento progetti diversi mi si agitano nella mente. Se uno d'essi piglierà forma concreta, se sarà tale da permettermi di ricorrere al mio antico collaboratore mi affretterò ad informarnela. Abbia un po' di pazienza. Fra due, fra tre mesi al più saprò dirle se sono ancora in grado di giovare agli altri, o se sono un uomo finito».
Giacomo Moncalvo aspettava.
Intanto Giorgio aveva voluto riprender le sue lezioni. Ma le aveva riprese senza calore, senza entusiasmo. Non era più quello d'una volta. Il professore Salvieni, che gli aveva ceduto una parte del suo corso magnificandolo agli studenti come una fulgida promessa della scienza, cominciava a dubitare d'essersi ingannato; i rivali, gli emuli malignavano. «Era una gonfiatura. È uno di quelli che s'infiltrano nelle Università per virtù della gloria paterna.... Oggi non è che assistente, ma al primo concorso saprà farsi nominar straordinario.... Così avremo la dinastia dei Moncalvo.... [321] Come se delle dinastie universitarie non ce ne fossero abbastanza».
Giorgio sentiva di perder terreno nella stima degli altri e di sè, e ogni giorno faceva eroici proponimenti.... pel giorno dopo. «Domani ritroverò la mia energia, domani mi rimetterò sul serio al lavoro».
Senonchè, il domani era simile all'oggi e qualunque applicazione continuata ed intensa gli era impossibile. I suoi libri prediletti gli venivano a noja, i suoi vecchi manoscritti, le sue note in italiano e in tedesco, documenti d'un'attività intellettuale di cui si maravigliava egli stesso, gli parlavano un linguaggio che ormai egli stentava a comprendere. Come? Tante idee egli aveva avute? Tante ricerche aveva iniziate? Di tante opere aveva abbozzato il disegno? Così superbo edifizio di gloria aveva architettato?... Povero architetto che ormai non sapeva mettere insieme due pietre!
Disposto per indole alla benevolenza, diventava a poco a poco scontroso e sarcastico. Poichè la molla della sua energia era spezzata, pareva infastidirsi che gli altri non fossero inerti al pari di lui, e non risparmiava le sue censure nemmeno a suo padre, oggetto un tempo della sua ammirazione. Non avrebbe potuto riposarsi? Non avrebbe potuto esser contento della fama raggiunta? [322] Che voleva di più? Con Flacci era feroce addirittura, nè si lasciava sfuggir l'occasione di pungerlo. «Non è sangue quello che le scorre nelle vene, — gli diceva talvolta. — È matematica allo stato liquido. Lei non è un uomo; è una fabbrica di teoremi.... Mi stupisce che non domandi il brevetto.... Via, sentiamo, di quante memorie alla settimana si sgrava per i Lincei o per qualche altra Accademia?»
Ora Giorgio vedeva spesso Brulati. Dopo il matrimonio della Mariannina il bizzarro artista andava meno in palazzo Gandi e s'era accostato a quello ch'egli chiamava impropriamente il ramo cadetto della famiglia Moncalvo, partecipando all'errore di molti che credevano Gabrio il maggiore dei due fratelli.
Che Brulati, imbizzito anch'egli contro la principessa Oroboni, fosse in quel momento il compagno più desiderabile per Giorgio Moncalvo, questo non avrebbe osato pensarlo nessuno e certo non lo pensava il professore Giacomo. Ma come chiuder la porta in faccia ad un uomo che tutti amavano e stimavano e che per rendersi meglio accetto aveva offerto ai nuovi amici un dono prezioso: la copia del ritratto bellissimo fatto alla povera signora Clara sul letto di morte? Bensì il professore, accogliendolo con franca cordialità, gli aveva detto tra serio e scherzoso: [323] «Badi che qui non si deve parlare nè di mio fratello, nè di mia cognata, nè di mia nipote, nè di nozze, nè di conversioni».
E, in casa, la consegna era abbastanza rispettata. Ma, fuori, le cose mutavano aspetto, e quando Giorgio dava una capatina nello studio di Brulati o lo raggiungeva in quel caffè della vecchia Roma ch'era un ritrovo d'artisti, il pittore si lasciava volentieri tirare in discorso.
La Mariannina? La principessa? Sicuro; da buona figliuola ella scriveva ogni tanto ai suoi genitori, e la signora Rachele, donna Rachele, mostrava con orgoglio le lettere piene di elogi per le virtù, e pel tatto di don Cesarino e piene di entusiasmo per la terra sacra ove la novella sposa, beata lei, aveva posto il piede.... Quella donna Rachele si scioglieva in lacrime di tenerezza. A lui, a Brulati, lo scettico, il reprobo, ella diceva in aria di trionfo: «Ha visto, signor profeta di malaugurio? Ha visto se quei due non eran nati per intendersi, per completarsi a vicenda? Mia figlia ha la bellezza, l'intelligenza, il danaro; mio genero ha la razza, il sangue, ha un patrimonio di credenze, di convinzioni che gli uomini dell'oggi non hanno».
Un punto su cui Brulati amava diffondersi era l'ardore di neofita della Moncalvo. Non era ancora battezzata, ma frequentava ormai le funzioni [324] di chiesa, era patronessa di parecchie fondazioni cattoliche, ascritta alla società di San Vincenzo di Paola, vicepresidentessa dell'Istituto delle pericolanti, consigliera dell'opera pia del Pane di Sant'Antonio, promotrice di una colletta a pro dei missionari, eccetera, eccetera.
— Che aspetta dunque a fare il gran passo? — chiedeva Giorgio.
Ma! Brulati diceva che non si conoscevano precisamente le ragioni dell'indugio. Secondo alcuni era lo stesso commendatore che muoveva ogni sorta di ostacoli; secondo altri, che forse erano nel vero, tutto dipendeva da un incidente toccato a monsignor de Luchi, il direttore spirituale di donna Rachele. Monsignor de Luchi, pare impossibile, era, pel momento, in disgrazia dei superiori e aveva dovuto ritirarsi per un pajo di settimane in un convento di francescani a far penitenza.... Non gli perdonavano il discorso pronunziato alle nozze della Mariannina con una frase ambigua sul potere temporale.... Apriti cielo!... Non c'era voluto di più per scatenar le collere della Curia.... E sì che l'untuoso sacerdote aveva proposto un brindisi al Papa e predetto alla Chiesa la riconquista di Roma. E pur troppo, soggiungeva il pittore, pur troppo il pronostico minacciava d'avverarsi.
Nelle sue passeggiate con Giorgio Moncalvo per [325] le vie della capitale, Brulati tornava spesso su questo spauracchio della riconquista di Roma da parte del Vaticano e commentava amaramente la frase di de Luchi mostrando al suo compagno ora i nuovi edifizi comperati o costruiti da corporazioni religiose, ora i preti, i frati, le monache di ogni specie e colore che sbucavano da tutti i canti.
— Come se non ne avessimo abbastanza dei nostri, — protestava l'artista, — ci son piombati addosso quelli che la Francia ha spazzati via. Aprono conventi, aprono ospizi, aprono scuole, aprono perfino locande; ogni arma è buona per impadronirsi delle anime e dei corpi. Bella generazione che ci preparano, di pinzochere e di sacrestani!... E pensare che non solo non trovano contrasti, ma trovano ajuti dove meno si crederebbe; perch'è di moda far all'amore coi clericali.... quando pure non si getti ogni riguardo umano e non ci si proclami clericali addirittura.... Guardi la sua ineffabile zia.... Eh, caro professore mio, — seguitava Brulati col cordiale assenso di Giorgio, — abbia pazienza.... Io ho sempre creduto che l'antisemitismo sia una cosa barbara e idiota, ma se gli ebrei fanno lega coi preti non garantisco di non diventare anch'io un feroce antisemita.
Altro incentivo alle sfuriate di Brulati era lo [326] strazio che, secondo lui, per ordine del commendator Moncalvo, si stava facendo del palazzo e del giardino Oroboni. La Mariannina, ormai proprietaria del luogo, aveva dato carta bianca a suo padre, e il commendatore s'era messo nelle mani d'un ingegnere che, in pochi mesi, della caratteristica palazzina del Seicento avrebbe fatto una delle più volgari case di questo secolo di mercanti.
— Non che quella palazzina fosse un capolavoro, non che non ci fossero a Roma dei giardini più belli; ma era un complesso armonico, intonato, raccolto.... Vedrà, vedrà invece l'anno venturo.... Ora l'opera di distruzione è appena iniziata e dal di fuori non ci si accorge di nulla.... Bisogna affacciarsi alle finestre del palazzo Gandi.... Non ci va più, lei?
No, Giorgio non ci andava e non ci sarebbe andato più, quantunque, cedendo all'attrazione dei luoghi ove la Mariannina era vissuta fino a due mesi addietro e dei luoghi che l'avrebbero accolta in un prossimo avvenire, egli fosse passato sovente da quella strada, avesse sovente alzato gli occhi verso l'abitazione degli zii e verso la massiccia muraglia che la prospettava e che nascondeva il casino Oroboni.
— Anche la muraglia è destinata a cadere, — gli disse Brulati una mattina. — Già, vogliono [327] sostituirvi una cancellata artistica. Si figuri! La muraglia era nuda, disadorna, e pure l'occhio ci si era avvezzo e quel suo aspetto cupo ed inospitale corrispondeva all'indole della gente reazionaria e antidiluviana che vi dimorava. Era uno dei tanti contrasti fra la vecchia Roma e la nuova.... Nossignori, la buttano giù.... Questi milionari non capiscono niente.... A loro basta di ostentare la loro ricchezza.
— E la vecchia principessa che fa? — chiese Giorgio Moncalvo.
— Donna Olimpia, — replicò il pittore, — s'è rifugiata nella sua camera e non n'esce mai, e non riceve nessuno. Ha dichiarato che finch'è viva non lascerà penetrare in quella camera nè ingegneri, nè capomastri, nè manovali.... Credo che si rassegneranno ad aspettar la sua morte prima di compiere i ristauri....
— E come alloggeranno gli sposi al loro ritorno? Pensano di prolungar la loro assenza all'infinito?
— Tutt'altro.... Torneranno anzi fra poche settimane.... Ma andranno ad abitare provvisoriamente un villino in via Ludovisi, preso in affitto per conto loro dal rispettivo padre e suocero.... Me lo ha detto lo stesso commendator Gabrio jersera.
— Ah, tornano? — borbottò Giorgio, a cui la [328] notizia, pur così naturale, produceva un turbamento ch'egli cercava di nascondere.
— Sì, — disse Brulati, fissando in viso il suo interlocutore. — Sono curioso di vedere che linea di condotta la neoprincipessa terrà verso le antiche conoscenze.... Per ingraziarsi la società nera in cui è entrata dovrebbe rompere tutti i vecchi legami, ma con la Mariannina non si è mai sicuri di nulla....
— Per me, — disse Giorgio, — la considero come morta in ogni caso.
Brulati assentì con un cenno del capo.
— Farà bene.... È una creatura pericolosa.
— Pericolosa anche per lei, dunque, — soggiunse il professore con un sorriso forzato.
— Oh, io non corro pericoli.... Alla mia età certi mali non si pigliano.
— Lo crede?
— Ma sì. È come per la tosse asinina.
— Ah, quella si piglia.... E badi che negli adulti è più grave.
Quella mattina Giorgio e Brulati si separarono un po' in sussiego, come se vi fosse una sorda rivalità fra di loro.
A casa, il professore Giacomo Moncalvo aspettava con impazienza suo figlio. Quando lo sentì venire, lo chiamò nel suo studio. Era pallido, commosso.
[329]
— Che hai? — domandò Giorgio con ansietà. — Non istai bene?
— Sto benissimo. Siedi.
— Una cattiva notizia?
— Cattiva? Non mi pare.... Ne giudicherai tu stesso.
Giorgio prese dalle mani di suo padre una lettera listata di nero.
— È del dottor Raucher?
— Sì; era aperta dentro una per me.
Vi fu un breve silenzio.
— Dunque ne conosci il tenore? — seguitò Giorgio.
— Lo conosco. Il dottor Raucher ti propone di andar in India con lui e con un altro giovane scienziato tedesco a studiare il bacillo della peste. Egli ha un largo sussidio dal suo Governo e dalla Società di fisiologia di Berlino e ha la facoltà di stipendiare due assistenti a sua scelta.... Tu saresti uno dei due.
«Si tratta — continuò Giorgio leggendo — di rimanere fuori d'Europa non meno d'un anno, in paesi inospiti, in mezzo a spettacoli di miseria e di morte, esposti ai rischi del contagio, esposti alle insidie di popolazioni superstiziose e ignoranti. Le offro quello che posso, quello che a me, vecchio e sconsolato, sembra il modo migliore di nobilitar gli ultimi anni di vita; Ella è [330] giovane, ha dinanzi a sè un lungo avvenire; prima di accettare l'offerta, prima di mettere a repentaglio ogni cosa in nome di un ideale umanitario e scientifico, rifletta. Io attenderò una sua risposta fino al 20 di questo mese. Nel caso che Ella acconsenta, c'incontreremo la mattina del 25 a Brindisi per imbarcarci nel pomeriggio sul piroscafo della Peninsulare».
Tenendo sempre il foglio spiegato, Giorgio levò gli occhi verso suo padre.
— Che mi consigli?
Le labbra del professore si contrassero in uno sforzo.
— Va, — egli disse. E parendogli che questo consiglio, in bocca sua, destasse un'impressione di sorpresa al figliuolo, soggiunse: — Oh Giorgio, Giorgio, sii pur certo che non parlerei così se ti credessi guarito dalla tua follia.... Sii franco e sincero. Puoi giurarmi che quando tua cugina ritorni.... ella sta per tornare.... tu non cercherai di vederla, di avvicinarti a lei?.... Puoi giurarmi che il solo fatto di saperla nella stessa città, a pochi passi da te, non basterà a toglierti la quiete, la serenità di cui hai bisogno per i tuoi studi?
— Hai ragione, — dichiarò Giorgio con voce ferma e con accento risoluto. — Non sono guarito e senza una scossa potente non guarirò. Forse [331] la mia salvezza sta nel rimedio che m'è proposto dal dottor Raucher.... Uomo ammirabile!... A sessant'anni egli ha l'energia e la baldanza d'un giovane.... Accompagnandolo nel suo viaggio pericoloso pagherò una parte del debito che ho verso di lui e verso la memoria della povera Frida.... Anche con te, padre mio, spero sdebitarmi se sopravvivo.... Finora poche gioje t'ho dato.
— Oh, come t'inganni! — esclamò il professore Giacomo, inghiottendo le lacrime che gli facevano un nodo alla gola. — Sei stato la mia consolazione e il mio orgoglio. Ero superbo del tuo carattere, del tuo ingegno, del conto in cui ti tenevano scienziati d'alto valore come il Raucher; vedevo in te una futura gloria italiana.... E non voglio, non voglio che queste speranze restino deluse.... Sdebitarti meco, tu dici?... No, non è questo.... Con te stesso devi sdebitarti.... Devi trovare te stesso.... Ti sei smarrito in non so che labirinto.... Conviene uscirne a ogni costo.... Ed è per fartene uscire ch'io son ricorso all'aiuto del dottor Raucher....
— Tu, babbo?
— Sì; di Raucher che ti stima, di Raucher che ti vuol bene, anche in memoria del bene che ti voleva la sua figliuola.... Ti ricordi della lettera desolata ch'egli ti scrisse, dopo la sua disgrazia? [332] C'era una frase che mi restò scolpita qui dentro: «Se non fossi prostrato d'animo e di corpo cercherei d'offrir la mia vita per qualche grande causa». Era, su per giù, il voto medesimo ch'io avevo raccolto dalle tue labbra.... E io supplicai Raucher, se ricuperando le sue forze egli persisteva nel suo proposito, se vedeva una causa per la quale meritasse di combattere, lo supplicai di non dimenticarsi di te, di sceglier te s'egli aveva bisogno di un compagno.... Egli me lo promise, e ora mantiene la sua promessa. E con che parole affettuose, lusinghiere! Leggerai, leggerai la lettera ch'egli mi ha diretta.... Il dottor Raucher ha il cuore pari alla mente.... E io sapendoti con lui, che ti considera come suo figliuolo, soffrirò meno della tua lontananza; mi consolerò di non poter dividere i vostri rischi. Perchè anche a questo avevo pensato, anche a seguirvi.... Ma che farei? Io non sono che un matematico. Che aiuto potrei recarvi nei vostri studi?... In queste spedizioni chi non ha il modo di rendersi utile non è che un ingombro. Meglio ch'io stia qui di piè fermo ad aspettar che tu torni.
Il professore aveva preso nelle sue mani le mani di Giorgio e continuava a scrutarlo, a interrogarlo con lo sguardo e con la parola.
— Perchè tu tornerai, tu vincerai la tua prova.... [333] Sei sempre stato robusto, e della tua malattia (la malattia fisica intendo) non ti risenti affatto, non è vero?
— No, — disse Giorgio. — Mi sono rimesso più presto di quello che credevo.
— E anch'io, — ripigliò il professore Giacomo, — anch'io ho tuttora la macchina solida. Mi troverai.
— Oh padre mio! — esclamò il giovane. — Se non dovessi trovarti, tanto sarebbe ch'io rimanessi laggiù a ingrassar la terra.
Il professore portò l'indice al labbro:
— Zitto.... Queste cose si lasciano dire ai vecchi.... Alla tua età bisogna procedere avanti imperterriti senza troppo indugiarsi a raccogliere quelli che cadono per stanchezza.... Del resto, perchè angustiarci?... Io non ho il minimo dubbio che avremo degli anni da stare insieme e da viver felici.
Giorgio sorrise con un cenno d'assenso, fingendo anch'egli una sicurezza che non aveva.
— Telegraferò oggi stesso a Berlino, — egli soggiunse.
— Oggi?... Perchè?... Raucher ti raccomanda di non precipitare la tua decisione.... Potresti pentirti.
— Non voglio pentirmi.
— No, — insistè il professore, — non telegrafare [334] oggi. Son io che te ne prego.... io che pure ti spingo a partire.... Domani....
— Ci tieni.... proprio?
— Sì.
— Sarà dunque per domani.
— Grazie.
Staccandosi dal figliuolo, Giacomo Moncalvo si avvicinò alla finestra da cui si dominava gran parte di Roma. Giorgio lo seguì in silenzio.
— Sei tu? — disse il professore con voce sorda.
— Son io.
Erano appoggiati tutti e due al davanzale, toccandosi coi gomiti, porgendo l'orecchio al respiro della città immensa che pareva dormire nel sole. Dalle facciate delle case, dai tetti, dalla strada venivano ondate di calore e di luce; era nell'aria quella sonnolenza greve che dalle cose trapassa agli nomini, e ammorza le sensazioni e spezza le volontà, e dà all'anima l'impressione di perdersi, di annientarsi nell'infinito, come in un naufragio senza dolori e senza terrori. «Ah se durasse sempre così, se non vi fosse risveglio!» dice fra sè chi cede al fascino strano. «Se non vi fosse risveglio!» pensavano i due ch'erano l'uno accanto all'altro affacciati a quella finestra e che fra poco sarebbero stati divisi da tanto cielo e da tanto mare. «Se non vi fosse risveglio, se l'ora della separazione non dovesse sonar più!» [335] essi pensavano, pur non avendo la forza di ritirare le parole proferite, di revocare le decisioni prese. Sentivano che non c'era rimedio, che bisognava rassegnarsi al destino.
E di lì a due settimane Giorgio Moncalvo salpava da Brindisi.
················
Dopo che la campana ebbe dato per l'ultima volta il segnale della partenza, il professore Giacomo, che aveva accompagnato a bordo i viaggiatori, discese sul molo e fermo sulla banchina seguì a lungo con gli occhi e con l'anima il piroscafo che s'allontanava e s'impiccoliva fino a non parer che un punto nero sull'orizzonte.
Quando anche il punto nero disparve, quando svanì la sottile striscia di fumo che segnava nell'azzurro del cielo la rotta della nave invisibile, egli si scosse e riprese a capo basso la via dell'albergo, tra il vociar dei facchini, e lo strepito dei carri, e l'agitarsi incomposto di una folla cosmopolita scesa appena da altri vapori e portante sui volti abbronziti l'arsura dei climi torridi. Mai egli non aveva provato così acuto e pauroso il senso della solitudine, egli che pure, dopo la morte della moglie e nell'assenza del figlio, era vissuto solo per tanti anni nella casa modesta, sacra alla meditazione e allo studio.
Era vissuto solo, ma confortato da una dolce [336] speranza: quella di aver tra non molto questo figlio con sè; acceso del suo stesso amor della scienza, pago come lui delle gioie che dà la ricerca del vero. Oggi non più; oggi il figliuolo, reduce appena al tetto domestico, egli se l'era strappato dal fianco, lo aveva sbalestrato a migliaia e migliaia di miglia, in luoghi ove tutto era nemico. Dicendogli: «Va, segui il tuo maestro, affronta il pericolo delle stagioni inclementi, delle malattie contagiose, degli uomini ostili»; egli aveva creduto salvarlo da pericoli anche maggiori, aveva creduto ubbidire a una voce imperiosa della coscienza.... E nondimeno la sua coscienza non era tranquilla. Aveva egli il diritto di far ciò che aveva fatto? Toccava a lui, proprio a lui, di mettere Giorgio a quello sbaraglio? Una madre avrebbe agito così? E se fosse accaduta una disgrazia? Se Giorgio non fosse tornato?
Nella sera il professore partì. Giunto a Napoli la mattina, dopo una notte insonne, in attesa della corsa per Roma, comperò un paio di giornali, e gli cadde l'occhio sopra una notizia della cronaca vaticana della Tribuna:
«È ormai positivo che un'alta onorificenza sarà accordata fra poco da Sua Santità al ricchissimo banchiere israelita commendatore Gabrio Moncalvo, presidente della Banca Internazionale, [337] di cui sono noti i rapporti finanziari col Vaticano. Il commendatore Moncalvo è padre dell'attuale principessa Oroboni, convertitasi al cattolicismo in occasione del suo matrimonio. Sappiamo da ottima fonte che anche il commendatore e la moglie di lui entreranno presto in grembo alla Chiesa; anzi, secondo alcuni, la data del battesimo coinciderebbe con quella dell'onorificenza».
Seguivano, in nota, alcuni commenti agrodolci della redazione, la quale ricordava che parecchi anni addietro il commendatore Gabrio Moncalvo aveva posto la sua candidatura in un collegio del Lazio con un programma decisamente anticlericale.
In fondo, la notizia non doveva fare una grande impressione al professore Moncalvo che da un pezzo apprezzava al suo giusto valore la ginnastica politico-religiosa di suo fratello, e dopo la morte della Clara non aveva rimesso il piede in palazzo Gandi. Tuttavia, in quel momento, la lettura della Tribuna accrebbe la sua tristezza. Era un'altra voce che gli ripeteva la verità dolorosa: «Sei solo».
Oh, come si sbandano, come si dissolvono le famiglie! Giacomo Moncalvo rivolò col pensiero all'infanzia lontana, all'umile casa paterna in cui egli e Gabriele avevano mosso i primi passi, non [338] rassomigliandosi punto e pur volendosi bene, riconciliati dopo i brevi dissidii da uno sguardo, da una parola della sorella maggiore. E in quella rievocazione dei tempi andati, ove le immagini dei nonni e dei genitori sfumavano nella nebbia, il professore rivedeva, insieme con la sorella maggiore, le figurine svelte e flessuose di due fanciulle molto più piccole, la Lisa che un giorno doveva diventare sua moglie, la Rachele che doveva diventar moglie di Gabrio.... Ora la Lisa era morta, ed era morta la Clara, già così lieta delle duplici nozze, e Gabrio e la Rachele di nulla si mostravano tanto solleciti come di rinnegare il passato, e i figliuoli nati dai due matrimoni non s'erano incontrati che per farsi del male, e, mentre l'una s'era venduta per un titolo, l'altro, profugo volontario, cercava in rischiose avventure la pace e l'oblio.
Tale la sorte dei Moncalvo, invidiati forse dal mondo. Chi aveva la gloria, chi la ricchezza, chi il blasone; la felicità non l'aveva nessuno.
Ma da queste considerazioni d'indole privata Giacomo Moncalvo si sollevava ad altre più generali e forse ancora più tristi. Non era, no, un fenomeno isolato questo sfacelo morale onde una parte dei Moncalvo dava così miserando spettacolo. Quasi da per tutto era un abbassamento dei caratteri, un naufragio delle convinzioni, un [339] cinico disprezzo delle virtù eroiche della rinuncia e del sacrificio, una corsa sfrenata verso gli effimeri onori e le improvvisate ricchezze.... Che importa che la scienza estenda ogni giorno il suo dominio sulla natura, che importa che ogni giorno i confini del sapere si allarghino, se l'uomo non cresce in bontà e in dignità, ma diventa più piccolo in un mondo più grande?
FINE.
[341]
I. | A Villa Borghese | Pag. 1 |
II. | Dopo pranzo | 18 |
III. | Due che non dormono | 39 |
IV. | Una mattina bene occupata | 57 |
V. | In automobile | 83 |
VI. | Fra marito e moglie | 110 |
VII. | La principessa Olimpia Oroboni | 124 |
VIII. | Don Cesarino | 141 |
IX. | Gl'incontri del pittore Brulati | 154 |
X. | Il professorone e il professorino | 171 |
XI. | Anche la zia Clara prende congedo | 185 |
XII. | Uno strano appuntamento | 210 |
XIII. | La sfinge | 219 |
XIV. | Funerali | 242 |
XV. | I due fratelli | 261 |
XVI. | Battesimo e matrimonio | 280 |
XVII. | Triste convalescenza | 303 |
XVIII. | Verso l'esilio | 319 |
OPERE di ENRICO CASTELNUOVO:
Nella lotta, romanzo.
Edizione illustr. da Gennaro Amato L. 4 —
Due convinzioni, romanzo 4 —
Dal primo piano alla soffitta, romanzo 3 50
I Moncalvo, romanzo 3 50
Lauretta, romanzo 3 50
L'onorevole Paolo Leonforte, romanzo 2 —
Filippo Bussini juniore, romanzo 1 —
Natalìa, ed altri racconti 1 —
Alla finestra, novelle 3 50
Sorrisi e lagrime. Nuove novelle 3 50
P. P. C. Ultime novelle 3 50
Nota del Trascrittore
Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.
Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.