The Project Gutenberg eBook of Il Conte di Virtù vol. 2/2

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Title: Il Conte di Virtù vol. 2/2

Author: Carlo Belgiojoso

Release date: November 7, 2018 [eBook #58248]

Language: Italian

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IL CONTE DI VIRTÙ
VOLUME SECONDO


Tipografia del dottor Francesco Vallardi.


AGNESE MANTEGAZZA


IL CONTE DI VIRTÙ

STORIA ITALIANA DEL SECOLO XIV

NARRATA DA

CARLO BELGIOJOSO


VOLUME SECONDO

TERZA EDIZIONE

CASA EDITRICE DOTT. FRANCESCO VALLARDI

BOLOGNA MILANO NAPOLI
Via Farini, 10. Via Disciplini, 15. Via Monteoliveto, 70.

PROPRIETÀ LETTERARIA DELL'AUTORE


[1]

CAPITOLO DUODECIMO

LXXXIV.

Con vezzo rettorico, antico osiam dire come la civiltà, il consorzio umano viene paragonato ad un corpo vivo, le cui membra ricevono legge da una forza interna, ed obediscono ad un'unica volontà. — È noto l'apologo di Menenio Agrippa. Quando la plebe di Roma, ammutinata sulle rive dell'Aniene, udì dal suo tribuno le fatali conseguenze della rivolta tra le membra operose e lo stomaco infingardo, dimise le vane pretensioni, e si rassegnò agli ultimi scanni della republica.

Il meccanismo fisiologico ci fornisce una chiara imagine del vivere sociale; anzi, più che imagine, ne è quasi embrione. — Nelle deserte lande che fiancheggiano l'Orenoco v'hanno dei selvaggi, liberi da ogni patto, i quali, appena divezzati dalla madre, errano [2] soli, immemori della famiglia, scarichi d'ogni dovere, stupidi e quasi atei. Costoro, fatta ragione ad ogni istinto, traggono la vita come i bruti, finchè sull'ultima ora abbandonano, a chi passa, l'arco e le frecce, e legano le ossa alle fiere. — Ma tali tipi di monarchie individuali, in cui l'istinto può dirsi il sovrano, il braccio l'esercito, e il resto del corpo le minori gerarchie, vanno scemando in ragione della crescente civiltà, la quale o li trascina a sè, o li costringe a collegarsi in bande, come i lupi nelle steppe del nord, per difendere il privilegiato individualismo. — Da ciò nasce l'aggregamento degli individui in famiglie ed in tribù, anche presso coloro cui non era già prima' consigliato da mitezza di sangue e da istintiva sagacia.

Nelle tribù si trovano più nettamente delineati i contorni di una società. La verga del comando vuol essere conferita al più forte, od al più saggio[1]. Vi potrà essere in ciò errore di scelta, non disparità d'intenzioni. Il vile o l'inetto non sarà mai il favorito. Per volere dei più quel comando può essere tolto all'uno, e reso [3] ad un altro, oppure conservato nell'istesso individuo, e perfino legato a' suoi discendenti. Il capo della tribù impera; ma altri saggi gli stanno allato, e lo giovano di consigli e d'opera. La gioventù apparecchia le armi, s'addestra nell'usarle, s'ordina in ischiere; veglia o pugna alla comune difesa.

Le primitive abitazioni dell'uomo sono gli antri, disputati alle belve. Poscia si costruiscono capanne fuor terra; più tardi i tugurj sparsi e maldifesi vengono abbandonati, e i singoli abitatori che si sono stretta la mano combattendo a fianchi, convengono nella plaga più sicura e più feconda, ed ivi edificano i proprii casolari[2]. Ecco un altro sacrificio d'individuale libertà, di abitudini e di simpatie, compensato largamente dalla maggior sicurezza, dalla scambievole protezione, dalla speranza di crescente prosperità. Il tugurio dell'uno s'appoggia su quello dell'altro; si accomunano le pareti; si disegnano le publiche strade. Tutti hanno il rispettivo abituro; mentre la siepe, che cinge il gruppo di capanne, è comune a tutti; per tutti sono le vie, il rigagnolo, la reggia, il tempio. All'emergere di dissensi o contese fra i soggetti, il capo della tribù chiama a consulta i saggi, e decide; chi soccumbe cerca invano di resuscitare la questione. Le sentenze del capo diventano leggi; le consuetudini ingrossano il codice, la tradizione supplisce alla storia.

Se la tribù è minacciata da un'invasione di nemici, [4] tutti corrono alle armi, escono fuor del ricinto a difendere la giovine patria; e, dove il nemico è rotto, viene trascinata una pietra a ricordo della vittoria.

Ecco pertanto una società civile costituita su basi quanto semplici altretanto solide e complete. Qui v'hanno governanti e governati, leggi, milizia, equilibrio di poteri e di forze; qui sta la genesi di una nazione che pone le basi alla sua storia, e già l'illustra co' suoi rozzi monumenti. “Nella agricultura essa fonda la sua economia, nella possidenza territoriale sta il fondamento del suo potere[3].„

Non è difficile che in quella nascente società vi sieno degli uomini che arrestano fra tali confini i loro desiderj, e che, paghi di un modesto benessere, vogliano eternare quella mediocrità, che è aurea per le republiche come per gl'individui. Ma un impulso più gagliardo spingerà gli inerti a ricercare nelle terre finitime stirpi consanguinee od affini, con cui accomunare la civiltà e le forze.

Non parliamo delle conquiste, perchè il vincitore tratterà i vinti come uomini senza dei o imiterà il popolo ebreo, che allo straniero assetato non additava il fonte[4]. Non parliamo delle alleanze fondate sugli interessi, perchè saranno mutabili come la base su cui s'appoggiano. Ben più saggia guida è la natura: questa insegnerà ai popoli come si debbano riconoscere, e riunire in una sola nazione. Cesserà il vincolo fraterno dove la natura avrà posto i suoi confini; nè il moverli potrà mai essere lavoro d'uomini o di secoli.

[5]

Abbiamo divagato in queste lontane speculazioni per annicchiarci un po' in alto, ed acquistare il diritto di movere una dimanda. — Può un popolo, chiediam noi, rifare il cammino retrogrado sulla via della civiltà, e correre direttamente e per gradi alla primitiva barbarie?

Invero, dopo la caduta di Roma cagionata dal malgoverno de' suoi imperatori, ma più efficacemente affrettata dall'ignavia del popolo, la nostra penisola offre il tristo spettacolo di una nazione che si affatica in questo indecoroso regresso.

Poichè la porpora imperiale divenne la posta di un gioco azzardoso, l'eletto ad ornarsene era colui, che meglio sapeva trafficare il baratto. — Allora la fortuna non fu più cieca; diventò malefica. Lo scettro non passò da questa a quella mano; ma cadde di pugno all'uno, perchè l'altro lo raccogliesse: e questi, senza punto tentare di purgarlo dall'onta delle replicate cadute, non potendo avvantaggiarsi del despotismo, di cui era un simbolo vuoto, s'accontentava della vanità d'essere salutato col nome di imperatore da centoventi millioni di soggetti. Vanità e non gloria; perocchè il nome di cittadino s'attribuiva soltanto alla parte dei sudditi che soggiornava in Roma, ed i diritti civili spettavano esclusivamente alla casta senatoriale e patrizia. Il resto era un'immensa colluvie di servi; tra i quali emergevano soltanto alcuni favoriti, tolti dalla plebe, e più tracotanti dei nobili; dappoichè la inerte mollezza di questi accordava loro l'uso delle armi, il comando delle milizie e perfino la sostituzione nelle magistrature.

[6]

Per tal modo l'impero, logoro nell'interna sua costituzione per l'impotenza e la precarietà dei tiranni, non che per le soverchianti ambizioni dei clienti e dei legionarii, stremo di forze per le continue ribellioni delle province lontane, contro cui si movevano scarse e spesso infide milizie, screditato nel suo culto pel trionfo dell'evangelio, trionfo splendido ed incontrastato perchè nemico d'ogni schiavitù, consumava due secoli in una ignominiosa decrepitezza. — E i soggetti, imbaldanziti dalla provata impotenza dei tiranni, nuovi all'arte della guerra ma strenui di corpo, gelosi della loro medesima barbarie, che li separava dalla inferma grandezza dei dominatori, ben lungi dal lasciarsi corrompere dalle molli costumanze di Roma, moltiplicavano le sedizioni e le rivolte; finchè, vestiti delle assise imperiali ed aggregati alle legioni romane, drizzarono contro gli imperatori quelle armi che avevano impugnato per loro difesa.

Così lo spirito civilizzatore della città eterna si spense sotto la pressura corrotta de' suoi stessi allori. L'aquila del Campidoglio non fece più ritorno al suo nido; e sulle torri romane sventolò lo stendardo straniero di Odoacre (Anno 476.)

LXXXV.

In quest'epoca i popoli d'Europa, scossi da una febre comune, o istrutti dall'esempio dell'audacia fortunata dei loro dominatori, traboccarono armati dai proprii confini per cercare fortuna su terra straniera. [7] L'Italia fu più spesso e più crudelmente desolata da queste invasioni. Attraversando con rapido esame la storia dei cinque secoli, che seguirono la caduta dell'impero di Occidente, ci si presenta una ripetuta sovraposizione di leggi, di esazioni, di violenze comandate dagli stranieri. Qualche larva di libertà, qualche ricordo dell'antica grandezza giungiamo a scoprire a quando a quando nell'ingrata esplorazione di quelle pagine; ma tali avanzi, simili ai fossili di un terreno perturbato da naturali convulsioni, accennano ad una vita spenta da secoli, di cui non v'ha, e non vi può esser riscontro nelle condizioni successive. Dietro tale esame, solo ci è dato di numerare gli strati di materie distruggitrici che ricopersero il bel paese, desolarono le sue fertili campagne, uccisero la civiltà dei suoi abitatori.

In questa universale emigrazione vediamo i Franchi occupare la Gallia, i Visigoti la Spagna, i Sassoni ed i Normanni l'Inghilterra. Ogni paese ebbe il suo invasore: l'Italia li provò tutti.

Rovesciato l'argine dalla prima onda, era facile alle successive l'irrumpere nell'indifeso piano, occuparlo, e scacciarne i primi arrivati. Il condottiero delle orde incomposte quivi pigliava nome di capitano o di re. Sulle fumanti ruine delle città banchettava e mesceva nei cranii dei vinti. Quanto apparteneva al popolo soggiogato tornava nella legge primitiva, che dà il diritto ad ogni uomo di ritenere per se ciò che è di nessuno. L'avventuriero che forzava l'ingresso in una città, la faceva cosa propria: suoi erano quindi i diritti, gli averi, le vite dei cittadini. — Ma a favor [8] suo e de' suoi egli intanto cangiava la preda di guerra in diritto patrimoniale, e voleva essere italiano pel fatto d'aver contribuito a disfare l'Italia.

All'imperversare di tanto flagello, la nazione scomparve. Il silenzio forzato dei vinti generò la codarda rassegnazione; questa, la smarrita coscienza de' proprj diritti. Assai bene s. Ambrogio, scrivendo intorno al 400, qualificò i municipii italici col nome di cadaveri di città; e invero, dopo tanti secoli di glorie, dopo sì numerose prove di nazionale orgoglio, una toleranza sempre rassegnata era infallibile sintomo di morte.

Il trono d'Odoacre, puntellato da milizie miste d'Eruli, di Turcilingi e di Rugi, fu presto travolto dall'ostrogoto Teodorico. Ma la gente di costui, rammollita da una mezza civiltà, contrasse presto l'impotenza delle orde fortunate. Addormentatasi nelle delizie di un clima dolce e di un'agiatezza non mai provata, (sotto il regno del pessimo Teodato) fornì a Belisario, generale degli imperatori d'Oriente, l'occasione ed i mezzi alla rivincita (anno 536).

Agli otto monarchi goti successe la dominazione dei Longobardi, rappresentata da ventun re. Più barbari ma più belligeri dei Goti, condussero le loro armi colla fortuna, che facilmente sorride agli audaci. Solo, per mancanza di istituzioni civili, non seppero estendere il loro impero su tutta Italia, nè conservare a lungo le provincie soggiogate. Infatti, un ministro dell'imperatore d'Oriente governava l'esarcato di Ravenna; il patriarca d'Occidente teneva Roma, e nel mezzodì della penisola le città greche si reggevano a popolo.

[9]

Al governo civile di Roma presiedeva un magistrato spedito da Costantinopoli, ove s'erano rifugiati gli avanzi della grandezza imperiale. Ma il maltalento di quei proconsoli e l'impotenza di un governo staccato dal suo centro d'azione, impegnavano il popolo romano a rivolgere gli sguardi e le speranze al vescovo che ei medesimo eleggeva, e che riuniva in sè l'autorità di patriarca d'Occidente e di capo della Chiesa latina. — Allora il pontefice fu veramente il padre del suo popolo: allora si brandirono le armi spirituali per maledire lo straniero che desolava la nostra patria. — Giunta infatti al trono di Costantinopoli una famiglia d'eretici iconoclasti, il vescovo di Roma, che allora assunse il titolo di papa, prosciolse dal giuramento i sudditi italiani, e restaurò l'antica libertà. La risurta republica, per lui, salutò di nuovo il suo senato, i suoi consoli.

Se non che, l'autorità tutta morale del pontefice non bastava a far paga l'ambizione dei successori. Fu per opera di costoro, che s'iniziò a danno d'Italia quella fatale politica delle avvicendate predilezioni per lo straniero, che fu la prima e la più esiziale cagione delle sventure nostre dal medio evo in poi. Tentavano i Longobardi d'impossessarsi dell'Esarcato di Ravenna, e il vescovo di Roma chiamava i Franchi a combattere quegli invasori, che Stefano III, scrivendo a Carlo Magno, chiamò razza perfida e fetentissima. Carlo Magno sceso in Italia, sconfitti i Longobardi, ripetè l'oltraggio dei precedenti invasori; ma meno barbaro di quelli, restaurò a proprio profitto l'impero, [10] e ricevette da Leone III la corona e il titolo d'Imperatore d'Occidente.[5](Anno 800)

La dinastia di Carlo Magno regnò meno di un secolo sull'Italia, ed estinguendosi lasciò la penisola in balía ai due pretendenti, Guido di Spoleti e Berengario, nepoti agli imperanti Pipino e Lodovico il pio (888); i quali si contesero lo scettro italico, e finirono per ispezzarlo, tenendone ciascuno un troncone. A comporre definitivamente la contesa dei due emuli, scese in Italia Ottone I. di Sassonia, e co' suoi feroci Alemanni battè ad uno ad uno i rivali, e ridusse il paese disputato sotto il suo scettro, pigliando la corona dei re d'Italia (anno 962).

In questo e nel successivo secolo la sventura nostra toccò quell'estremo, davanti al quale diventa impossibile un peggioramento. Alla mancanza di un governo stabile, alla successione rapida e violenta di prìncipi di ignota origine e di troppo nota crudeltà, al rovescio d'ogni legge patria, alle continue scene di sangue provocate da un armeggiare senza tregua, rimaneva muta, o sembrava esserla, la voce dei popoli sì pronta e sagace, nei periodi di libertà, a sindacare i fatti di chi li governa. Il Cristianesimo aveva abolito la servitù personale; ma l'intera nazione, esautorata de' suoi diritti, non era più che una turba d'iloti. Coi terreni erano divenuti roba di rubello gli uomini che li coltivavano; quindi scarsi, e a poco a poco nulli i frutti [11] dei campi; perocchè la troppo vantata feracità dei suolo italiano non risponde a braccia neghittose per fame o indolentite dai ceppi. S'arroge, che i vincitori, per sdebitarsi verso i fidi condottieri che avevano guidato a buon esito le imprese, solevano premiarli dividendo fra loro le terre e le persone dei vinti.[6] — Tolto ogni patrocinio della legge pel popolo debellato, questo non poteva trovar scampo nemmeno fra le intime e definite angustie de' suoi oblighi servili; poichè il vincitore non riconosceva limite a' suoi diritti. Nel lungo ordine di anni, che accompagnò questa totale ruina, le città italiane (e Roma, anzi tutto, già ricca di qualche millione d'abitanti) s'andavano spopolando. Ogni commercio era morto; ogni cultura sbandita; poche e disconosciute le reliquie di una gloriosa civiltà di dieci secoli.

Ma coi mali estremi si ridestò negli Italiani l'istintivo amore alla vita, naturale così nei popoli, come nell'individuo. Il gigante giaceva a terra sanguinoso, stremo di forze, immobile; ma il suo cuore s'allargava ancora a qualche battito intermittente. Fu da quel resto di vitalità che si accese la favilla dell'amore d'indipendenza, sì caldeggiata dopo il mille, sì validamente protetta dalla costituzione dei comuni.

Per quanto i conquistatori, e gli avventurieri che facevano causa comune con essi, operassero a tutto potere, onde cancellare ogni traccia di libertà sulla terra dei vinti, spegnendo le istituzioni e oltraggiando [12] i monumenti, pure, per la completa ignoranza della lingua e dei costumi italiani, non giungevano essi a rendersi in tutto e sempre e prontamente intesi. Per la qual cosa, si dovette conservare fra padroni e servi una magistratura che si facesse interprete del comando degli uni, e garante della docilità degli altri. Questo potere intermedio, strana saldatura di due sostanze eterogenee che si avvicinarono senza confondersi mai, ebbe da principio il solo officio di ripartire i balzelli, più tardi vegliò alla tutela personale dei cittadini, finchè, simulando sollecitudine per gli interessi dei dominatori, potè favorire i proprj.

In quel tempo non erano infrequenti le subinvasioni d'altre genti nemiche. — Alani, Vandali, Svevi, Borgognoni prima e poi, con varia vicenda, furibondi per fame o per avidità di sangue, si spingevano, s'incalzavano, si mescevano su questa infelicissima terra. — V'erano oltracciò delle masnade perdute le quali, o calate dai monti o spergiurato il vessillo del capo avventuriero, invadevano le terre e le città, mettendo per conto proprio ogni cosa a ruba ed a sacco. — La Venezia era stata più volte desolata dagli Ungari; le coste d'Italia subivano frequenti invasioni dai Saraceni d'Africa. Il popolo, sgomentato dalle continue minacce, accorreva alla curia cittadina ad implorare armi e difese. I magistrati popolari porgevano ai capitani stranieri, questi ai loro signori, la preghiera dei cittadini. Per tal modo, dopo ripetute istanze e nell'interesse medesimo dei dominatori, si ottenne l'assenso di riedificare le mura delle città, abbattute nelle precedenti invasioni.

[13]

Fu allora che ogni città, e sull'esempio di quelle ogni grosso borgo, pose mano a restaurare le proprie bastite, ed a munirle di torri e di castella. — Allora le braccia dei cittadini ripigliarono le aste e le targhe. Nei cuori rinacque la speranza di miglior avvenire; e colla speranza s'avviò in essi il primo battito di amor patrio. — Coloro, che avevano abbandonata la terra natale, e s'erano dispersi nei campi per essere risparmiati dagli invasori, ora che le città possedevano mura ed armi, rimpatriavano. Al ritorno di costoro, i duchi, i conti ed i prelati che tenevano in feudo le città e vi esercitavano diritti sovrani, mal tolerando il contatto con una plebe armata, che sottovoce balbettava parole di libertà, volontariamente si condannarono all'ostracismo: e ritiratisi nelle rocche, si piegarono a vedere ristretta la superficie del loro dominio, per la speranza di conservarne integra l'essenza. — Però, siccome il moltiplicarsi delle armi e degli armati rendeva malsicuro il loro asilo e scarso il satellizio che li circondava, così si videro costretti ad armare gli agricultori già servi della gleba. — Doppio fu il vantaggio di ciò: dall'un canto nelle città, tolta l'oppressione dei nobili, si svilupparono rapidamente le istituzioni civiche; dall'altro la classe campagnuola, addestrata alle armi, si rilevò anch'essa dalla sua servile abjezione; e, nella difesa del proprio signore, apprese a difendere sè stessa, il suo focolare, i suoi diritti. — Tanto è ciò vero, che dopo l'istituzione dei coloni militanti prosperò l'agricultura, e si moltiplicarono le braccia ad ogni genere d'industria.

Luminosi effetti di questo generale armamento si [14] raccolsero nella lunga querela tra Roma e l'impero a proposito delle investiture; querela, che costò all'Italia sessant'anni di guerra civile, ma che mostrò quanto già fossero gagliarde e poderose le forze popolari. Imperocchè delle due parti una pugnava per la libertà; l'altra, fosse poi legata al papa o all'imperatore, non traeva le armi servilmente, ma faceva sua la causa d'altri, e pugnava per esso come un alleato.

Il milanese Eriberto aggiunse alle schiere combattenti il carroccio, su cui accoppiò il vessillo della redenzione e la bandiera del comune, affinchè le milizie raccolte intorno alla doppia insegna della libertà e infervorate dal sentimento che fa di Dio e della patria una sola religione, operassero prodigi di valore. — Allora l'arte della guerra non fu più professata da orde incomposte, ma da piccoli eserciti aventi un capo, un centro, una bandiera. Le spedizioni militari non erano inconsulte: le credenze e i seniori, radunati dai consoli a suon di campana, discutevano e deliberavano: il braccio obediva alla mente.

LXXXVI.

Questi pochi fatti risolvono la questione che ci siamo proposta. — La vita d'un popolo corre la vicenda delle stagioni; può un nembo del cielo disertare ed isterilire un campo, ma non farà mai retrogradare i raggi del sole, nè posporrà i fiori alle frutta. Le nazioni hanno un'epoca in cui gettano il seme, un'altra in cui mietono. Viene anche per esse il pigro inverno, [15] triste ed infeconda stagione in cui si vive di ciò che si è raccolto: — Roma attraversò queste vicende: con Numa, coi due Bruti e con Augusto segnò i confini della sua triplice età. — Ma Roma era altra cosa che l'Italia. La caduta dell'Impero simigliava al decesso di un avo glorioso e decrepito, cui tien dietro una turba di nepoti che ne ereditano le memorie e le sciagure. — Poco fruttarono ai posteri le prime; nell'ultime, invece, si ritemprarono le languide virtù, s'accesero i nobili sentimenti, si maturarono le opere generose. È la più provida delle leggi eterne quella che volge la stessa sventura a profitto dell'umanità. — Senza Attila non avremmo la potente Venezia; senza le irruzioni dei Saraceni non sarebbe surta l'invitta republica di Pisa; e non avremmo la lega lombarda e la vittoria di Legnano se non avesse esistito il Barbarossa. Fatti cotesti che non vogliono essere considerati soltanto come rimedii ai mali estremi, nè come glorie spente, simili a quelle che ingemmano gli annali di Roma. Essi costituiscono la parte più efficace e più feconda d'ammaestramento della storia moderna: in essi si fondò la genesi del nuovo diritto, e si consacrò quell'alto concetto della dignità dei popoli, che per una lunga strada di secoli e di dolori condusse la patria nostra ad essere quella che è: una grande nazione.

Dobbiamo dire dunque che nei molti secoli intermedii lo spirito d'indipendenza non era estinto del tutto, ma che ardeva sotterra come le faci dei primi cristiani, aspettando il momento di celebrare i suoi riti alla faccia del sole. Quella meta fu avvicinata, ma non raggiunta dal governo dei comuni. Ognuno di essi aveva [16] in sè tutti gli elementi, che ponno rendere completa ed invidiabile la libertà di un popolo, ma il fascio popolare non era ancora raccolto da quel legame, che lo rende unico e perciò invitto. — Erano nondimeno più patriotiche le sommesse aspirazioni di un cittadino di quei giorni, che non le classiche apologie dei poeti del secolo d'oro. L'ultimo e meno glorioso municipio italiano era meglio esperto della libertà, che non Roma quando vantavasi d'essere: mari oceano, aut amnibus longinquis septum imperium.[7]

Nel 1042 un patrizio di Milano uccise un plebeo e si dispose ad ottenere venia del sangue versato, pagando una misera ammenda, giusta il prescritto dalle tariffe feudali.[8] La plebe, indignata del fatto e stanca d'essere merce di sì vil prezzo, si sollevò contro i feudatarii e, guidata da Lanzone, corse armata ad abbattere i ripari feudali. Nell'attrito delle armi, il giusto sdegno pur troppo trasmodò in truce vendetta. I nobili, capitanati dall'arcivescovo Ariberto, resistettero alla furia popolare; due anni durò la lotta cittadina; ma infine la libertà ne escì vittoriosa. — I feudatarii ed Ariberto furono espulsi dalla città; i beneficiati vennero costretti a render conto dei beni posseduti per simonia, e ad abbandonare le loro donne, considerate quali concubine. Il fatto di Milano trovò imitatori nelle ville e nelle città vicine. L'Ildebrando favorì dalla sedia pontificia il movimento popolare.

[17]

Anche la contessa Matilde di stirpe straniera, erede delle immense ricchezze dei Longobardi in Toscana, osteggiò quanto potè la baldanza feudale. — Valga questo buon intendimento a scemare la colpa delle sue improvide larghezze al Vescovo di Roma. — Le terre di colei furono l'asilo dei vassalli proscritti; i patti che ella dettava potevano essere accolti da cittadini, e questi, rinvigoriti al travaglio dalla restaurata dignità, porsero in breve tempo luminosi risultamenti del lavoro commesso a libere braccia. Per opera loro si diede il crollo al servaggio feudale: e fu da quel tempo che gli schiavi della gleba si diffusero sulle terre finitime cambiati in coloni. “La prima onda di questa corrente si mosse dalla nostra patria poco dopo il mille.„[9]

LXXXVII.

Abbiamo aperto e consultato un volume di storia, scorrendone il sommario rapidissimamente. Ora ne torna acconcio il proseguire quest'esame; almeno per ciò che riguarda la storia milanese; fino all'epoca cui mettono capo le prime fila del racconto; che andiamo svolgendo. L'arrestarci potrebbe indurre taluno a credere che ogni aspirazione ed ogni gloria nostra siano esclusivamente legate a quest'epoca storica.

Chi è giovane e vigoroso non cura gran fatto i proprj giorni; ei crede che la vita abbia il suo interesse [18] a stringersi con lui. Ma chi discende il declivio degli anni, se trovasi sospinto in qualche pericolo, consulta, non senza angoscia, le proprie forze; il che vuol dire che non ha piena fiducia in esse, e che troppo stima l'oggetto ch'ei rischia di perdere. Così un popolo. Ne' suoi primi anni ama la libertà più assai che la vita; fatto maturo, preferisce la gloria alla vita ed alla libertà; volto a vecchiezza, vuol vivere ad ogni patto, quasi gli bastasse di conservare le forme esterne del suo edificio civile. — Spettano ai popoli nati o risurti di fresco quegli slanci inconsulti, che suscitano od affrettano le grandi imprese. Una nazione, da lunga mano civile, riordina, di rado edifica.

La republica milanese nel secolo XII godeva entro angusti confini tutta la vigoria della sua gioventù, la massima libertà civile e politica.[10] Il popolo, per mezzo di una numerosa assemblea, faceva le leggi. — Sull'esempio di Roma, di Ravenna e di Ferrara, che fino dal secolo X avevano eletti dei consoli, tolse anch'essa dalle diverse classi dei cittadini un vario numero di magistrati, che, esercitando il potere esecutivo in luogo degli officiali regii, completarono la sovranità popolare.[11] Nel consesso legislativo, i conti ed i baroni erano rappresentati dai capitani; la minore nobiltà dai valvassori; la plebe trafficante ed industriale dalle credenze. I consigli consolari, composti talvolta [19] perfino di 18 o 20 individui, costituivano il governo della republica. Ma come l'aumentarne il numero non bastò sempre a mantenere l'equilibrio fra le caste a cui appartenevano, i patrizii pensarono di crescerne l'importanza preponendo ad essi un Podestà, che in certe occasioni investivano di un potere dittatoriale. Allora la plebe, dal canto suo divenuta più gelosa dei proprii diritti, vi contrapose un tribuno, chiamandolo capitano del popolo. — I podestà erano sempre chiamati da qualche republica amica; in più d'un caso si elessero due, tre, e perfino cinque magistrati con questo nome.

Benchè tali fatti accennino una gara penosa e tutt'altro che fratellevole, pure in realtà essi giovarono per qualche tempo ad equilibrare le varie forze, facendole concorrere tutte ad un solo scopo. — Già la republica, in via di fatto, esercitava i diritti sovrani d'imporre i tributi, di far la guerra e di concludere la pace. All'imperatore non era riservato che il diritto eminente di riscuotere una tassa, e di porre il proprio nome sull'esergo delle monete, già fregiate della croce milanese.

Ma il palladio della libertà era il popolo armato. Ogni comune aveva a propria difesa quanti cittadini erano atti a reggere un ferro. Nei momenti di pericolo, tutti gli uomini convenivano sotto la bandiera del comune; e quando le operazioni militari richiedevano lungo tempo e lungo lavoro, una parte o l'altra dei cittadini (e questa dicevasi quartiere) andava al campo.

In questo turno, anche i vescovi si videro costretti a [20] rimettere al popolo, od a' suoi rappresentanti, quella porzione di diritti sovrani che nel traffico feudale si erano usurpati. Anzi, l'autorità vescovile discese a tanto che l'arcivescovo di Milano dovette in più d'un casa implorare dal consiglio consolare la conferma dei decreti emessi dai sinodi. E ciò ne insegna che, altre volte e in un secolo nel quale la riverenza alle persone che rappresentavano la chiesa era giovata dal fanatismo, non s'ebbe scrupolo di invadere, quando la publica salute lo dimandò, i diritti temporali del clero, casualmente associati alla sua spirituale autorità.

Fu in ossequio a tale principio, che Arnaldo da Brescia, nel bel mezzo di Roma, levò la voce contro l'avidità del clero; e suggellò la coraggiosa asserzione col martirio. Quasi contemporaneamente, un povero prete milanese, chiamato Liprando, s'oppose all'elezione dell'arcivescovo Grossolano, chiamandolo simoniaco; ed invitato a provare la sua asserzione coll'esperimento del fuoco, escì illeso dal rogo, davanti ad un sinodo convocato a fare testimonianza del giudizio di Dio.[12]

Ogni successione d'imperatore metteva in pericolo l'ancora malferma libertà. Sotto l'impero di Enrico III e di Corrado suo figlio, amendue occupati dalla guerra per le investiture, i milanesi avevano guadagnata e prosperata la loro indipendenza. Ma Arrigo V, fratello di Corrado, senza porre tempo di mezzo, scendeva in Italia (1110) col proposito di rivendicare i [21] diritti della corona imperiale, e di ridurre le città italiane all'antica obedienza, o per dir meglio all'obliata servitù. L'imperatore dichiarò ribelli tutte quelle terre, che avevano scosso il giogo straniero; e come tale castigò Novara, mettendola a sacco e distruggendola col fuoco.

Sgomentite le città sorelle, spedirono al campo dell'imperatore i loro rappresentanti, affinchè colle preghiere, colle promesse e coi donativi, cercassero di rabbonire l'indignato monarca: — Nobilis urbs sola Mediolanum populosa non servivit ei nummum, scrive Frate Donizone nella sua cronaca[13]; anzi, trattò il superbo principe come fosse nemico, e peggio; perocchè ad un potente riesce assai più oltraggiosa la noncuranza, che la stessa ribellione. E come se tutto ciò fosse ancor poco, sotto gli occhi dello stesso imperatore reduce da Roma, il Comune di Milano punì colle armi la più fedele delle città imperiali, provocando Lodi ad una guerra, che finì colla totale sua distruzione. Gli storici non sanno trovare la ragione di questa discordia, e nemmanco la natura dei fatti che la provocarono[14]. In tanto vuoto di congetture, non ci sembra temerario l'asserire che Milano non avesse in ciò altra mira che quella di esprimere all'imperatore, nel modo il più efficace, il sentimento della propria indipendenza; e che l'oltraggio fatto a Lodi fosse il castigo inflitto ad una città, che si era troppo facilmente rassegnata alla tutela straniera.

[22]

Le stesse prepotenze, per una identica ragione, e sempre colla vittoria della maggiore republica, furono operate a danno di Como, di Cremona e di Pavia. La nostra città imitava Roma, il cui ingrandimento fu l'opera delle armi guidate da una virtù selvaggia, che nelle intemperanti aspirazioni della gloria municipale, non riconosce legame di natura e d'interessi all'infuori delle proprie mura.

Ma ciò che i cronisti contemporanei non seppero giustificare, fu chiaramente spiegato dai fatti posteriori. Le violenze di città contro città erano il sinistro preludio di quelle due leghe formidabili, che dovevano scuotere l'Italia non solo, ma tutta Europa, e che sul campo di Winsberg (1140) armarono e posero di fronte i duchi d'Alemagna col nome di Guelfi, e gli imperiali con quello di Ghibellini.[15]

Questo seme di discordia trovava terreno preparato a' suoi progressi nelle terre italiane, le quali, nella vacillante libertà, sentivano esser legge pel debole lo stringersi al forte. Ma i cittadini milanesi avevano imparato a diffidare tanto della protezione imperiale, quanto di quella del Papa. Estranei fin qui ad ogni lega, che minacciasse l'integrità dei loro diritti, afferravano ogni pretesto per combatterle entrambe nei vicini, che ad esse troppo leggermente s'accostavano. — Gli sdegni che fervevano tra città e città rassodavano intanto la concordia fra gli individui, cui mura o fossa legasse in un solo comune.

S'accordano i popoli, come gli individui, in ciò che [23] tutti vogliono o credono volere il proprio vantaggio. Si discute e si dissente non già nel fissare quale sia il meglio, ma nello scegliere i mezzi più acconci a raggiungerlo. Noi meniamo troppo rumore delle discordie dei nostri maggiori. Era condizione dei tempi se ciò che adesso esala in un rabbuffo della penna, allora faceva correre il sangue.

LXXXVIII.

Gli sdegni dei milanesi contro Lodi e Como, fide all'impero, furono esorbitanti: la discordia fu crudelmente protratta oltre 40 anni. La prima delle due città venne smantellata; all'altra si recò grave oltraggio, atterrandone le bastite e le torri. — Durissime leggi pesavano sui vinti; era prescritto, che nessun lodigiano potesse escire dalla propria capanna, dopo il tramonto del sole; ogni vendita, ogni compera, e perfino ogni matrimonio doveva sottoporsi al placito dei consoli milanesi[16]. Le pene ai contravventori erano, come le leggi, fuor misura feroci. Per la qual cosa, due esuli lodigiani si recarono nascostamente alla dieta di Costanza (1153) e prostesi nella polvere invocarono la protezione dell'imperatore Federico. — Non ci è lecito determinare fino a qual punto operasse sull'animo di costui la voce pietosa dei supplicanti. Certo è, che l'imperatore nel vendicare l'offesa fatta ai lodigiani, assecondava i suoi proprii interessi. — Lo scettro imperiale era, per antiche ragioni di guerra, [24] il giogo del popolo italiano. — Le violenze dei milanesi fornivano il migliore pretesto a richiamarli alla dimenticata soggezione. Il Barbarossa spedì a Milano un suo ministro, latore di un decreto sovrano, che ingiungeva ai milanesi di desistere da ogni prepotenza in danno dei lodigiani.

Ma in qual conto fosse tenuta la protezione straniera anche presso coloro che gemevano in schiavitù, lo attesta la mala fortuna dei due intercessori, che l'avevano invocata. Agli oppressi avanzò tanto senno da farli accorti, che la tutela altrui era ben più triste ventura, che la fraterna discordia. Laonde i reduci da Costanza, che forse s'aspettavano dai proprii concittadini gratitudine e onore, s'ebbero in premio dell'inconsulte pratiche un carico di villanie e il bando.

Peggior sorte toccò poi al legato imperiale. Non appena si mostrò ai consoli di Milano, ed esibì loro il diploma cesareo, l'ira dei rappresentanti ruppe in parole amare ed in espressa dichiarazione di inobedienza. Gli ordini sovrani furono respinti, il rescritto imperiale fu lacerato e messo sotto i piedi; e l'ambasciatore ebbe a grave stento salva la vita[17].

Da ciò nacquero le due calate del Barbarossa in Italia, e la susseguente dieta di Roncaglia (1154); nella quale un numeroso stuolo di feudatarj e di vescovi oltraggiati ed impoveriti dalla cresciuta potenza popolare, indussero l'imperatore a pigliar l'armi per soffocare la libertà e repristinare l'antico ordine di cose.

La prima a sentire gli effetti di questa alleanza fu [25] Tortona, presa d'assedio e distrutta. — Era spettacolo straziante il vedere quei cittadini lottar dalle mura contro le armi nemiche, esinaniti dal più terribile degli strazii, la sete. — Ma a riscontro di tante scene desolanti, la storia ci narra come i tortonesi, dopo l'eccidio della loro patria, trovarono la più cortese ospitalità in Milano, e come più tardi, ajutati dal braccio e dal denaro milanese, ritornarono alla loro patria e la riedificarono più forte, se non più bella, di prima.

Era debito dei milanesi il soccorrere ai fratelli, che avevano sacrificata l'esistenza della loro città nativa al bene della patria comune. Di tali esempi non è ricca la storia. Ciò prova, che le ire di Milano non nascevano da vanità d'impero, ma da più nobile origine. Cadevano Lodi e Como perchè troppo docili vassalle dell'imperatore: si rialzava Tortona perchè sua dichiarata nemica.

Una più fiera tempesta s'addensava intanto sopra Milano: l'ingiuria fatta al ministro imperiale doveva essere espiata dalla nostra città. Due volte Federico volse contro Milano un esercito formidabile ingrossato dalle stesse armi italiane che, più o meno di buon grado, s'erano collegate alle sue. — Nella prima si venne a patti per la troppo facile mediazione del conte Guido di Biandrate, capitano dei milanesi. — Ma questa non fu pace, fu tregua; durante la quale, Milano dovette suo malgrado rassegnarsi alle condizioni imposte dall'imperatore e ratificate dall'infido conte. Il più importante risultamento di tale accordo fu la riedificazione di Lodi, che surse in poco tempo a quattro miglia dalle ruine dell'antica città.

[26]

Nella seconda calata, l'imperatore congregò di nuovo la dieta in Roncaglia, e raccolse altri titoli di malcontento contro Milano. — Pentito forse d'essere stato troppo generoso nella precedente capitolazione, cercava pretesti ad infrangerla. E la infranse di fatto quando richiamò a se il diritto d'eleggere i Podestà e di sostituirvi un ministro imperiale. — Se i cittadini avessero piegato il capo a questo comando, la libertà loro poteva dirsi irreparabilmente perduta. Non v'assentirono; prescelsero di essere dichiarati ribelli, e di provarne le terribili conseguenze. Milano fu quindi posta al bando; le robe dei cittadini abbandonate al saccheggio; le persone condannate alla schiavitù.

Ma i cittadini milanesi non deposero per ciò le armi. — Gli imperiali avevano distrutto Crema alleata coi ribelli; questi ripresero Trezzo difeso dagli imperiali. Vi furono atrocità inaudite nell'uno e nell'altro campo. A nostro conforto però, possiam rilevare dagli stessi cronisti alemanni che, in questa e in altre simili vicende, la superiorità della ferocia non fu mai vanto degli italiani.

Tre anni duravano le ostilità tra l'imperatore e le terre amiche dei milanesi. Un orribile incendio devastò la stessa nostra città, e ne consunse una terza parte; intanto che le continue scorrerie nemiche desolavano la campagna, mietendo le biade immature. Il popolo milanese provava l'estremità della fame e della miseria; soffriva mille torture, mille oltraggi. Una volta, alcuni cittadini esciti a caso dalle mura e caduti in potere degli imperiali, venivano accecati; solo ad un di essi si lasciò in dono un occhio, onde [27] guidasse i compagni in città, e mostrasse a' suoi gli effetti dello sdegno nemico. — Resistette il popolo fino all'estremo; i consoli esaurirono ogni parola di conforto, nè mai uscì dalla loro bocca una proposta codarda. Ma prima che la morte di tutti rassicurasse il trionfo dell'inimico, il popolo dovette arrendersi. Per editto imperiale i cittadini abbandonarono le case loro, che furono rase al suolo in un colle mura e coi publici edificii (marzo 1162). La tradizione ci tramandò questo fatto in un'appropriata iperbole, dicendo che sulla ruinata città fu sparso il sale, e percorse l'aratro.[18]

LXXXIX.

Cinque anni dopo, i milanesi toccavano di nuovo il suolo patrio; e, coll'animo rinvigorito dal patto di ventitrè città giurato a Pontida, si affrettavano a riedificare Milano. La novella città surse come per incanto; anzitutto fu cinta di validi terrapieni, muniti di torri. Poscia, con più vasto intendimento, a difesa di tutta quanta la pianura bagnata dal Po, la lega edificò Alessandria, che fu ed è la più salda trincea dell'insubre indipendenza.

Qui delle due cose l'una. Se la condotta dei milanesi verso le città di Lodi e di Como fu solo un atto severo di sdegno diretto a reprimere le improvide alleanze e la servile obedienza, noi dovremo scriverla fra quegli slanci di selvaggio patriotismo, che trovano [28] una scusa nella barbarie dei tempi, perchè rivelano un culto ardente alla libertà. Ma se, com'è assai più verisimile, fu abuso di forza e concussione dispotica, dovremo altamente commendare la magnanimità delle città oppresse, che, scordato l'oltraggio fraterno, accorsero prontamente in ajuto della compagna pericolante. In questo dilemma sta indubiamente il fatto vero; e l'una e l'altra ipotesi spettano alla storia nostra; nè ci ha il tornaconto per noi a voler nascondere la colpa di una città, quando a riscontro di essa sta l'eroismo di molte.

L'imperatore Federico non rivolse le sue armi soltanto contro le città dell'Italia settentrionale. L'anno istesso, in cui queste si stringevano in lega, egli scese ad Ancona per punirla dell'alleanza contratta coll'imperatore d'Oriente Manuello Comneno. — Federico, colle sue rapide mosse, prevenne gli effetti di questa lega, ed accerchiò Ancona, non d'altro forte che del valore de' suoi figli. La resistenza di quella nobile città costituisce un altro fasto della storia italiana. L'imperatore fu costretto a levare le tende da quei campi e, rôso nell'anima dalla vergogna dell'impresa fallita, piombò su Roma, ed ebbe l'indegna gloria di devastarla. Ma non gli fu concesso di godere a lungo le dolcezze de' suoi trionfi: perocchè nell'estate il veleno dell'aria decimò il suo esercito, e spense oltre a due mila gentiluomini e baroni; per la qual cosa, ritornò sbaldanzito alla sua reggia.

La potenza della nuova lega, l'insubordinazione impunita d'Ancona, gli antichi diritti del serto imperiale obliati o manomessi, risvegliarono gli ardori guerrieri [29] di Federico, che nell'anno 1174 scese pel Cenisio in Italia e, dopo aver incendiata Susa e taglieggiata Asti, mosse contro Alessandria, dov'era raccolta una parte delle forze alleate. Le recenti mura della fortezza sostennero l'urto delle armi nemiche per ben quattro mesi; scorsi i quali, le milizie della lega pigliarono l'offensiva e, rotto il blocco, costrinsero il nemico a raccogliere le proprie forze in lontana pianura, per ivi tentare una battaglia affrontata. — Il campo di essa fu la terra di Legnano; l'epoca, il 29 maggio 1176. In quel dì, l'esercito della lega annientò le schiere imperiali; 900 giovani milanesi, che costituivano la legione della morte, operarono prodigi di valore, e, fatto salvo il carroccio, rassicurarono la vittoria degli italiani. In quella pugna lo stesso imperatore sarebbe caduto in potere dei vincitori, se, visto il rovescio, non si fosse celato in un mucchio di cadaveri. I suoi soldati lo credettero morto; ed è fama che l'imperatrice avesse già indossato il lutto della vedovanza.

La vittoria di Legnano è il più glorioso avvenimento del medio evo italico; questo gran fatto non fu opera di un esercito, ma dell'intera nazione; e perciò dall'intera nazione furono usufruttati i vasti suoi risultamenti. — Per essa l'imperatore Federico dovette scendere a patti coi vincitori; e, soscritte le condizioni della pace nella dieta di Costanza, le registrò nel corpo delle leggi come base al diritto publico del popolo italiano (25 giugno 1183). In forza di quel patto, la feudalità venne bandita dalle terre di Lombardia, ogni città della lega riacquistò il pieno diritto di reggersi [30] da sè, di erigere fortificazioni, d'assoldare armate proprie, di far pace, guerre ed alleanze, di godere di tutte le regalíe, e di dare forza di legge alle proprie consuetudini. — L'imperatore conservò il diritto eminente di accordare le investiture ai consoli delle republiche, di riscuotere un decennale giuramento, e di definire in ultima istanza le querele insurte fra i cittadini o fra le città della lega, qualora la parte soccumbente lo richiedesse. Quest'ultimo atto di sudditanza però, poteva dalla lega istessa venir commutato nell'annuo tributo di due mila marche d'argento.

Federico Barbarossa, che dagli storici alemanni è proclamato un eroe, ed è per noi il più esecrabile fra i nostri nemici, non fu nè l'uno, nè l'altro. — Non fu grande guerriero, perchè spesso e troppo facilmente battuto da forze minori; nè insigne politico, perchè non tenne conto della indomabile potenza di un principio, quand'esso surge a dominare ogni materiale interesse di un popolo. — Ma non deve essere nemmanco il bersaglio d'ogni nostra invettiva; perocchè, mentr'egli non era per nulla più barbaro del secolo in cui visse, giovò più ch'altro, colle armi sue infelicemente adoperate, a rassodare l'indipendenza di quel paese, contro cui egli le aveva rivolte.

I tiranni (ce lo dice la storia, e ce lo confermano i fatti di cui noi stessi siamo oggidì testimonii) sono alcuna volta la providenza dei popoli. Non è sempre vero che gli oppressi sieno facili a sollevarsi contro chi li regge. Spesso anzi s'addormentano negli ozii inverecondi e nei servili ossequii, se la tirannia è blanda, o pel solo fatto che essa è d'antica data. Allora si esita [31] a far getto delle abitudini, benchè indecorose; allora o non si riconosce il bene di una più libera condizione, o se ne discutono le probabilità; e per questo misero conteggio è impossibile giungere alla gloria delle imprese difficili. Ma se le catene diventano insopportabili, se lo strazio è indefinito, e la morte certa, rivivono gli istinti, ed ammaestrano l'oppresso a raccogliere le forze per lottare e vender cara la vita. I migliori amici dei popoli, che hanno perduta la loro libertà, furono dunque e sono sempre quelli, che l'hanno calpestata più crudelmente. Se la lotta, dice un moderno publicista, è la condizione necessaria della vittoria, il nemico diviene il nostro migliore alleato[19].

XC.

Un fiume gonfio scava il suo letto, abbatte quanto lo vuol far deviare, e trascina seco i rivi minori. L'acqua invece, che poltre in uno stagno, si suddivide in pozzànghere, e nella sua inerzia elabora i veleni che l'ammorbano. — Così fu di noi. Le guerre di Federico I avevano ritemprato l'ardor nostro, e fatto convergere ad un solo scopo tutte le forze nazionali. La mitezza di Ottone IV, e la pace che ne seguì, generarono il contagio della discordia. Capitani, valvassori e credenze erano una sola cosa, durante il pericolo: scomparso questo, riconobbero diritti parziali, e si levarono a difenderli. Da ciò ebbe origine quella delimitazione [32] di caste, che creò una prevenzione diffidente ed astiosa fra i nobili capitani e i sottofeudatarj. Ogni casta volle avere il suo consiglio, perchè ognuna sentì d'avere i proprj interessi. Non di rado da tali interessi nacque disparità di vedute; queste generarono dissidj, minaccie, violenze.

In quel secolo, le personali ambizioni dovevano essere meno potenti che non più tardi, quando la risurta civiltà fece dell'ingegno e della cultura intellettuale una forza di prim'ordine, spesso indirizzata a buon fine, talvolta abusata per mire egoistiche e sovversive. — Pure, malgrado l'eguaglianza cagionata dalla comune barbarie, il concetto di una republica, costituita sull'equilibrio dei diritti d'ogni classe e d'ogni individuo, era cosa più bella ad imaginarsi che facile ad ottenersi. La sovranità, spartita una volta equamente fra gli individui, era simile al talento della parabola evangelica, che a ciascuno recò frutto diverso a seconda delle diverse industrie. Il conservarlo integro, riesciva come andare al chino e perdere, quand'altri più operosi o più accorti avevano saputo avvantaggiarlo. In un paese, in cui la sovranità fosse talmente sminuzzata che ogni cittadino ne posseda la sua piccola parte, la custodia di essa è più dovere che diritto; e l'esercizio del medesimo riesce più increscioso perchè meno facoltativo. Non per difetto delle istituzioni popolari, ma per la natura dell'uomo, ciò che è comune, benchè necessario, è meno vagheggiato di quanto ci solleva dalla folla, fosse anche superfluo. Quando a tutti gli individui di un paese venisse distribuito un abito di un sol colore e di una foggia sola, cesserebbe [33] l'orgoglio d'ornarsene; e colla estinta vanità scemerebbe l'interesse di averlo caro e di custodirlo.

Cacciati i tiranni e ricomposta la republica sopra un nuovo ordine di cose, spontaneo fu il volere, facile l'ottenere l'eguaglianza civile. Il dì in cui si fonda una società, ogni membro di essa presenta una distinta ed eguale quota di oblighi e di diritti. Ma non è tutto: bisogna che questi doveri e i corrispondenti diritti si mantengano quali sono, o crescano e s'avvantaggino a beneficio di tutti. Bisogna contenere le forze eccedenti perchè non oltrepassino il livello medio della forza comune; scuotere e ravvivare quelle che languono, perchè la parte inerte non discenda troppo, e nel far modesta rinuncia de' suoi diritti, leda e trascuri i proprj doveri. Tutto ciò, e le naturali differenze generate dall'età, dal clima e dalle circostanze, non che le incidentali, cagionate dall'educazione e dalla civiltà, resero e renderanno sempre arduo l'assunto di conservare all'edificio sociale un'eguaglianza perfetta e durevole.

Chi era tolto dalla folla assai di rado vi rientrò, e vi si confuse, al cessar del favore che lo ebbe sollevato. Intorno a lui si stringevano a poco a poco inavvertitamente i consanguinei, i partigiani, i clienti. La superficie sociale non fu più perfettamente piana. Gruppi di gente privilegiata formarono le caste. In mezzo ad esse, quasi centro e culmine di altretante associazioni parassite, sursero gli ottimati. Era intento loro di dividersi in parti eguali la somma del potere; il volevano, o piuttosto dissero di volerlo: bastò un nonnulla a turbare l'equo riparto dei diritti; bastò a tanto il [34] momentaneo allentamento nella pratica delle virtù cittadine. — Le passioni, malgrado ogni buona intenzione, si gettavano sulle coppe della bilancia, e la facevano traboccare. Le caste si cangiarono in partiti; gli ottimati in emuli. Una guerra sorda, piena d'invidie, di prevenzioni, di false amicizie, ruppe il buon accordo della famiglia. Venne presto il giorno, in cui il popolo, vedendo irreparabilmente turbato l'ordine prestabilito, compì l'ultimo suo atto sovrano, rinunciando ai proprj diritti, ed accettando la signoria di un solo, sempre meno uggiosa e più tolerabile che quella di pochi.

Tale fu la nostra sorte. Le discordie, i partiti, le turbolenze tennero dietro ben presto a quel fortunato equilibrio, che era l'essenza del reggimento popolare. Il comune era fatto un campo: bisognava star con questo o con quello; quindi contro l'uno o l'altro. — Ad escire da tante incertezze, la rappresentanza popolare non trovò miglior rimedio, che conferire il supremo comando ad un solo individuo, imitando ciò che faceva l'imperatore prima della pace di Costanza. Ed a questa autorità venendo designati uomini d'altre città italiane, non si volle già riconoscerne la comunanza di stirpe, il che sarebbe stato un progresso glorioso; ma si cercò nell'individuo d'altra republica un principio di autorità straniera, un potere che fosse meno famigliare, e quindi più riverito. Il primo di tali magistrati che, col nome di podestà, esercitò sul comune di Milano la dittatura, fu un Oberto Visconti da Piacenza. Questo fu il primo e decisivo passo del nostro popolo verso il governo monarchico.

In questo mezzo l'eresia, altra cagione di discordia, [35] fermentava nel nostro paese, alimentata per una parte da uno spirito d'indagine affatto nuovo, per l'altra nutrita dalla stessa intoleranza del clero che credeva spegnerla coi roghi e nel sangue. Al principio del secolo XIII si enumeravano in Milano quindici professioni eretiche. Il podestà Oldrado da Tresseno arse a centinaia i novatori (1233) e si rese caro alla curia romana.[20] Intanto il popolo non infrequentemente si faceva giustizia da sè, rompendo il filo degli atroci processi collo spegnere la vita degli inquisitori. Fra Pietro da Verona e fra Pagano da Lecco furono di questo numero; e, in premio del martirio sofferto e pel merito di averlo fatto subire a tanti traviati, ottennero dopo morte l'incenso e le preci dei beati. La profetessa Mainfreda era gettata alle fiamme; il prete Andrea, che divideva con essa le offerte dei devoti di Chiaravalle, la seguì sul rogo; e le ceneri della taumaturga Guglielmina, poco prima venerate come una reliquia, furono strappate dall'avello e disperse al vento. Citiamo questi fatti perchè ritraggono fedelmente il fanatismo intemperante del secolo; non volendo che ci si apponga l'accusa d'essere ciechi ammiratori delle artistiche scene del medio evo.

L'imperatore Federico II ricondusse la guerra in Italia; e colla guerra si riaccesero in noi le virtù intiepidite. [36] A Cortenova i milanesi furono battuti dagli imperiali; ma la sconfitta non fu ingloriosa. I più preferirono morire sul campo anzichè arrendersi; i pochi superstiti, raggruppati intorno al Carroccio, seppero condursi in salvo, e serbare incontaminato il vessillo della libertà, attraversando terre infestate da nemici, o da amici sleali. Fu Pagano della Torre signor di Valsassina che guidò l'impresa; e fu quest'impresa che preparò a lui ed a' suoi figli un mezzo secolo di gloria e di potenza (1237).

Della rotta di Cortenova ebbero i milanesi larga rivincita in tre memorabili giornate. Duplice fu la vittoria di Camporgnano, poichè in essa furono battuti gli imperiali e gli alleati Saraceni. A Casorate l'esercito dell'imperatore, tratto in inganno da una finta ritirata, credette per un momento d'essere padrone del campo, che poscia coperse de' suoi cadaveri, ed abbandonò. — Presso Gorgonzola, in un terzo scontro, cadde in potere dei milanesi Enzo figlio dell'imperatore. Fu questa l'ultima e la più segnalata vittoria nostra; doppiamente gloriosa giacchè, mercè sua, si fiaccò per sempre la baldanza di Federico; e più ancora perchè i vincitori resero, senz'altro patto che una promessa di neutralità, il reale ostaggio a colui, che non risparmiò la vita ad uno solo dei prigionieri italiani. — Ed anche in questa occasione i nostri maggiori, combattendo per la loro indipendenza, davano prova di una moderazione, che è assai più bella della stessa vittoria. La santità della causa consigliò sempre, anche nell'ardore delle battaglie, l'uso saggio dei mezzi atti a difenderla. Si diede la vita e [37] la libertà al figlio del nostro mortale nemico con una generosità degna di miglior secolo, mentre e prima e poi, nelle piccole e vulgari lotte municipali, i vincitori solevano oltraggiare i vinti fratelli con un carico d'ingiurie, che potrebbero essere chiamate villanie puerili se non fossero figlie di un livore empio e fratricida.[21]

Il servigio reso da Pagano della Torre diede origine ad una carica tribunizia conosciuta sotto il nome di anziano della credenza (1240). Ne fu insignito lo stesso Pagano e, morto lui, Martino suo nipote. Egli doveva difendere la plebe dalle prepotenze dei nobili e sorvegliare l'amministrazione delle entrate. Durante la guerra contro Federico, per strettezze di finanza si era posto in giro il credito dei notabili rappresentato da un obligo scritto.[22] Era, nè più nè meno, la carta moneta dei nostri giorni; e, come ai dì nostri, un tal valsente non gradiva ai cittadini sospettosi sempre dei soprusi di chi li regge. L'anziano diede opera all'estinzione [38] di questo debito, dividendolo in otto rate annuali, e suddividendolo fra proprietarii in quote proporzionate, colla scorta dell'inventario o catastro del censo (1248). Da ciò nacque l'imposta sulla proprietà fondiaria, detta fodro, che è la prima e più netta idea del carico prediale.

XCI.

I torbidi, per cui passò l'impero durante la disputata successione di parecchi monarchi, giovarono per mezzo secolo all'indipendenza nostra: tempo più che bastevole a rassodare la cosa publica, se le ambizioni e le rivalità de' suoi cittadini non l'avessero commossa col continuo travaglio della guerra civile.

Si creò l'officio di capitano generale della republica per contraminare l'elezione del tribuno. L'onore della nuova dignità, che per poco non toccò al feroce Ezzelino da Romano, tanta era la gelosia che ispirava ogni nome cittadino, fu palleggiato tra il Marchese d'Incisa ed Oberto Pelavicino.

Verso quest'epoca il Papa, pigliando in sospetto la crescente potenza dei Torriani, violò il diritto popolare di eleggere i pastori, ed inviò alla sede arcivescovile di Milano Ottone Visconti (1260). Era pensiero del pontefice, che la ricchezza e la potenza di questa famiglia risveglierebbero nel popolo milanese quella fiducia che l'infeudata autorità dei Torriani aveva troppe volte delusa.

Ciò malgrado, la popolarità degli anziani serbavasi [39] ancora assai potente in Napo, benchè d'animo assai diverso de' suoi predecessori. — Napo, camminando ardito sulle orme loro, varcò a poco a poco il limite della tribunizia podestà; e a consacrare l'abuso impiegò l'arte dei tiranni. Milano a quei tempi obliava la semplicità degli antichi costumi, per fantasticar feste e baldorie, come la plebe di Roma. Con questo mezzo, l'anziano perpetuo del popolo riesciva a divenirne il padrone. Egli nominava il podestà, ed accordava alla sua creatura il diritto di eleggere la metà dei membri del consiglio. Ambizioso, e non vano, mostrò disprezzare quelle pompe esteriori, che tradiscono l'interna sete di comando; mantenne vigorosamente le forme dell'antico reggimento nelle monete, nelle adunanze, nelle publiche concioni; ma ingannava tutti, e in sostanza regnò da tiranno. — Che se alcuna volta vide il colosso della plebe levare su lui l'occhio torvo, egli seppe rasserenarlo coi tornei, colle gualdane, con ogni maniera di spettacoli; fra i quali per lungo tempo fu il più gradito il bando od il supplicio d'un nobile. — Per tal modo codesti tribuni, che si vantavano d'aver fatta libera la patria solo per ossequio ed affetto verso di essa, e che di fatto l'avevano servita con zelo e fortuna, ottenuto l'intento, non ponevano misura alle loro esigenze, e mettevano a debito della publica gratitudine ogni pretensione sollevata dalla loro cupidigia. — Si sarebbe detto che volevano avere il diritto di ricondurre il paese all'antica ruina, pel merito d'averlo una volta salvato.

Da tali arti potè il popolo milanese essere sedutto più volte, ma non abusato sempre. — Ogni plebe, e [40] specialmente la nostra, suol essere pronta allo sdegno, ma non meno facile all'oblío delle offese e generosa nel perdonarle. — I cittadini s'accorsero che chi aveva frenata la prepotenza dei nobili, non agiva meglio di loro. Parvero meno gravi le passate sciagure, da che lo stato presente non era gran fatto più rassicurante. Il titolo di vicario imperiale, che Napo sollecitò da Rodolfo d'Asburgo, contribuì a crescergli il disfavore del popolo. Ottone Visconti rinfocolò i sospetti; raccolse partigiani a Como e nel contado; li pose in armi e mosse verso Milano. Incontrato, nella terra di Desio, l'esercito Torriano impegnò con esso una battaglia decisiva, in cui Napo fu battuto, e fatto prigioniero (1277). Dopo ciò, venne rinchiuso in una gabbia di ferro, dove perì miseramente un anno dopo.

Qui comincia la grandezza dei Visconti. Il popolo milanese non avrebbe spodestato il Torriano pel solo scopo di affrettare un mutamento di signoria. — Era la libertà dei tempi della lega, ch'egli, con troppo languide istanze, chiedeva; non un nuovo signore ed una larga dote di promesse e di spergiuri. Ma tale era la sorte nostra. Nel momento istesso che le varie classi ond'era composta la republica venivano ad un accordo, già maturavano novelle ambizioni, foriere di altre discordie. Colui, che per fortuna o per momentaneo favore del popolo s'incamminava dinanzi ad esso col pretesto di farlo libero, sdegnava poscia di rientrare nelle fila dei semplici cittadini, e rinnovava la necessità di cacciarvelo a viva forza.

Quando un tesoro è debolmente custodito, torna buono ai tristi il dire: tanto fa che io m'approprii ciò [41] che non è mio, perchè altri se lo piglierebbe. Il nostro popolo cessò dal custodire il tesoro della propria libertà dal momento che, fidatone il deposito ad altri, s'addormentava neghittoso alle seducenti declamazioni di civismo, intonate da' suoi scaltri tribuni.

Ora tra Napo della Torre, tiranno in nome della plebe, e Ottone Visconti, despota ottimate, vi era forse gran differenza? Quando l'una classe doveva affaticarsi a schiacciar l'altra, qual conforto per la republica se la plebe era vincitrice, e i nobili soccumbenti? L'alternato inalzamento dei Visconti e dei Torriani era sempre vittoria di un partito e, come tale, traeva seco indispensabilmente la sconfitta del principio nazionale, al cui sviluppo è necessaria l'opera attiva e sempre concorde di tutti. — Vero è che questa specie di altalena doveva cagionare eguaglianza, al momento che gli ottimati erano tanto discesi quanto erasi rialzata la plebe; perchè allora le due classi estreme trovavansi ad uno stesso livello. Ma i partiti, mossi da un impulso progressivo o retrogrado, non potevano arrestarsi; all'indimani la plebe riguadagnava tutto quel più che jeri rendeva odiosa la sconfitta nobiltà. Il flagello non era spezzato, ma cambiava di mano: e la cosa publica, oltre al patirne gli abusi inseparabili da ogni autorità conquistata colla forza, andava incontro alle fatali conseguenze di una continua vicenda di gare, di discordie e di vendette.

[42]

XCII.

Il nome di Visconte non spettò in origine ad un casato, ma fu titolo di dignità attribuito a tutti i feudatarii dell'impero, che reggevano una contea in nome dell'imperatore, e perciò erano detti vicarii, o vicecomiti.

Dalla dignità divenuta ereditaria, di cui vi hanno esempj fino nel secolo V, nacque il cognome della famiglia Visconti.[23] Quando essa crebbe in potenza, i cronisti si compiacquero di tessere un romanzo intorno alla sua origine, risalendo alla “fonte del nobile río per una strada di meravigliosi avvenimenti.... Il Prencipe di Macedonia, scrive G. P. Crescenzi, per avere consanguinei questi signori, li notò originati dall'imperatore Anicio Flavio Giustiniano, il grande; gli ascendenti del quale si ascrivono ai reali di Troja.„ E come ciò fosse poco, aggiunge “che con l'imperatore Heraclio venne da Roma Marco, che fu conte d'Angera, e della cui stirpe furono i Visconti„; e infine asserisce “che Angera fu fabricata da Anglo figlio di Ascanio [43] re, il quale fu di Enea genero, et nipote di Priamo ultimo re di Troja„[24].

Perchè Angera fosse la degna patria di sì cospicua famiglia, è chiamata da Stefanardo Vimercati una vasta città, residenza di quei principi, che regnavano nella contea del Seprio, altra nobile parte del regno d'Insubria. E Carlo Torre ci racconta, come il nome d'Insubria fosse dato dal gigante Subre “figlio di quell'Espero, che fu germano d'Atlante (a' cui prodigiosi fatti ottenne l'Italia tutta il titolo d'Esperia) il quale entrato con poderoso esercito in questo clima, facendosi padrone di varj luoghi, stabilì sua ferma sede tra i laghi Lario e Verbano, e tra i fiumi Adda e Tesino, fabricandovi un castello, che dal suo nome Subre, o Seprio fu detto ecc.„[25]

Uberto Visconti, che viveva ai tempi di S. Ambrogio, ammazzò un terribile drago, che devastava le campagne milanesi. Per ciò il popolo decretò a lui ed a' suoi posteri certa decima di grano, che misuravasi in publico collo stajo, onde i suoi discendenti, conservando tale regalía, ebbero per impresa lo stajo, e s'intitolarono Vicecomites de sextario.[26] Galvano Fiamma, per aggiungere altra gloria alla casa Visconti, la fa consanguinea [44] di Carlo Magno, e conferma che i primi conti d'Angera si chiamavano re, e che parlavano alla francese, desumendolo da un'iscrizione da lui letta sur un marmo, scoperto nel 1339 a Turbigo provincia del microscopico regno d'Angera.[27] Il Corio scrive d'un Alione, figlio del re d'Angera e Visconte di Milano nel quinto secolo, che fu dagli imperatori e da pontefici rivestito di grandi privilegi, della dignità di conte d'Italia, del diritto di creare giudici e notai, di riscuotere decime, d'armar militi e cavalieri, spedir nuntii et separare il marito dalla moglie. Egli ne racconta come da Alione nascesse Galvagno, e da questo Perideo, che regnava quando scesero i Longobardi, e morì in battaglia contro i Greci di Ravenna[28]. Giorgio Merula[29] e Tristano Caleo[30] si copiano a vicenda per istabilire che fra i Visconti e i re longobardi eravi legame [45] di sangue, e che la pia regina Teodolinda era di stirpe viscontea. Da Stazzone conte d'Angera nacque Desiderio ultimo re di quella gente, e Berengario II si vuol figlio d'Azzo, conte di Lecco e d'Angera...[31]

Ma basta così: questo è ben altro che storia. Abbiamo messo fuori queste anticaglie, per dar idea dei gettoni di bassa lega che correvano, come oro puro, nella universale povertà dei secoli scorsi. Sono queste notizie simili alle maglie di ferro e alle cotte d'armi: arnesi fuor d'uso, che si guardano però, non senza interesse. Ma in mezzo a tante favole, v'ha la sua parte di vero; e questa è l'arte dei vecchi cronisti, d'appoggiare le fila dei loro racconti in regioni ignote, come se ciò valesse a meritar fede ai grandi avvenimenti veduti od uditi; se pur non è il men nobile proposito di lisciare i potenti e di rabbonirli coll'adulazione. — Concludiamo col secentista Torri, che questa volta la dice giusta: “prendetevi di questi racconti qual più vi aggrada, poichè discorrendo d'ationi occorse nello spazio di più di mille anni, la verità afflitta da così lungo viaggio non può se non zoppicare, stanca d'essere agitata ora su un foglio ad un modo, ed ora su un libro ad un altro[32]„.

Teniamci ai fatti accertati. — Nel 881 Pietro Visconte sottoscrisse i privilegi accordati da Carlo il Crasso alla Basilica Ambrosiana. Nel 1037 Eriprando liberò dalle carceri di Piacenza Eriberto arcivescovo di Milano, e sette anni dopo un Riccardo Visconti fu creato [46] dall'imperatore sacri palatii judex[33]. — È storico che i privilegi accordati dalla città di Milano al Monastero di Pontida fossero sottoscritti da Eriprando, e Marco Visconti. — Nel 1155 Ugo, pur dei Visconti, accorse coi Milanesi in ajuto di Tortona assediata da Federigo I, e morì sotto le mura di quella città. Nel 1158 Ardengo Visconti, con altri capi della republica milanese, fu fatto prigioniero da quello stesso imperatore nella battaglia di Cassano. Combattè in quell'epoca alla difesa di Milano, e vi perì Gherardo Visconte virtute et nobilitate clarus[34]. — Il primo dei podestà di Milano fu un Oberto Visconti; ed un Ottone, console della republica milanese, segnò in Lodi, nel 1162, la capitolazione coll'imperatore Federico. — Consoli di Milano nel 1173, 1186 e 1194 furono Ruggiero, Marco e Guido Visconti. Pietro firmò in Piacenza la pace di Costanza nel 1185. E in un solo anno, cioè nel 1190, al dire del Calchi, questa famiglia dava ad Alessandria, a Vercelli ed a Bergamo i podestà Guidettino, Uberto e Pietro. Matteo Visconti era vescovo di Bergamo, quando Ottone occupava la sede arcivescovile di Milano.

XCIII.

I Visconti, già favorevolmente noti ai milanesi per le cospicue cariche occupate, crebbero nel favore del popolo, quando i Torriani abusarono della vantata loro [47] popolarità. Giovava inoltre ai primi il prestigio di una ricchezza fuor d'uso munifica e generosa. — Il popolo impreca contro i ricchi solo quando li trova spietati; ma, se ha pane e lavoro, fa lume coll'esempio ai declamatori, e precede le facili teorie colla pratica di una vita sobria, industriosa e rassegnata: anzi, l'accontentarsi di un pane parco ed affaticato, è ancor poco; non di rado lo vediamo compiacersi dello splendore altrui, come se il fasto di pochi fosse un vanto di tutti. Esso dunque comprende che tra la ricchezza e la miseria la Providenza pose l'equilibrio, distribuendo il cruccio ed il sorriso in altra misura che non è quella del censo.

I Visconti erano ghibellini; ma a quest'epoca il nome delle due fazioni non aveva più il significato primitivo. Le famiglie potenti, alle quali i comuni avevano conferito il governo delle città, erano guelfe o ghibelline, non perchè favorissero lo sviluppo della libertà nazionale, o difendessero i diritti della corona cesarea; ma si appoggiavano a questa o a quella parte per rassodare la potenza loro ed infeudare nella propria stirpe quell'autorità, che poteva guidarli al trono. — È dunque erronea la sentenza di quanti storici asserirono che la parte guelfa fosse la nazionale. — “Nei vesperi siciliani, che furono un fatto di nazione, quant'altro mai, non si fece strage se non di guelfi[35]„. Erano guelfi i Torriani, come lo fu pressochè tutta Italia, quando Carlo d'Angiò ebbe sconfitto il re Manfredi e con esso la parte imperiale: ma erano guelfi, perchè non potevano più essere ghibellini. — La [48] conseguenza era una sola e la stessa: l'Italia subiva nell'un caso e nell'altro la dipendenza straniera; e, in cambio di servire ai Cesari alemanni, obediva ai re francesi.

Se i Visconti non fossero stati ghibellini di nascita, dovevano divenir tali come successori dei Torriani, per distruggere la potenza dei rivali, e per volgere a vantaggio della propria famiglia le tendenze monarchiche quali si manifestavano nella languente republica. Assisi sul trono e sicuri, avrebbero cessato di mostrare un inutile studio ad una fazione od all'altra: intenti solo a liberare la patria da ogni influsso straniero, a spese della libertà interna, che ormai non sapevasi abbastanza difendere. Venne infatti il dì che i Visconti, fidando la propria fortuna alle armi, schiacciarono con mano di ferro ogni fazione; allora si dannò perfino a morte chi solo pronunciasse la parola di guelfo o di ghibellino. Ma finchè essi salivano, avevan bisogno di un appoggio; il ghibellinismo favoriva lo sviluppo del concetto monarchico, ed abituava i tralignati republicani a riverire una dinastia. Del trionfo della parte ghibellina tutti i nobili si erano felicitati; ma “immiseriti da un lungo esilio, avevano pigliato un contegno rimesso ed ossequioso; la loro condiscendenza tralignò in obedienza, e la republica di Milano, governata dai Visconti, non tardò guari a mutarsi in principato[36]„.

Da qui inanzi, per quasi due secoli, la storia di [49] Milano è strettamente legata a quella dei Visconti, sì che l'una nell'altra si confonde. V'ebbe un periodo in cui ricomparve la signoria dei Torriani; ma fu brevissimo: l'intrusa potenza sembrò suscitata dal destino a rinfrancare viemeglio la grandezza de' suoi rivali.

L'arcivescovo Ottone Visconti, settuagenario, trattava armi e cavalli come un giovine capitano; ma, giunto a decrepita vecchiezza, chiuse il suo governo cedendolo al pronipote Matteo, dopo averlo coi supplicii e colle alleanze messo al riparo dalle pretensioni degli emuli. Nell'elezione di un successore violava egli la prima e più importante legge della costituzione republicana. Grave dovette essere lo scandalo: ma nessuno osò opporsi. Il Consiglio fu interrogato, solo perchè non v'era dubio che avrebbe ratificata l'usurpazione.

Ottone passava gli ultimi suoi giorni nell'abbazia di Chiaravalle; e Matteo, col nome di capitano del popolo, continuava in Milano l'opera dello zio. Meno violento e più scaltrito di lui, chiamò a parte de' suoi ambiziosi disegni la stessa rappresentanza del popolo, forzandola a cospirare inconsapevolmente contro la libertà della patria. In questo senso soltanto, e come maestro nelle arti degli ambiziosi, non deve negarsi a Matteo il nome di Magno, che la storia gli ha troppo generosamente decretato.

Per frenare i replicati tentativi dei Torriani egli aveva bisogno d'armi; e già, l'annuncio di una nuova crociata minacciava di suscitare e rivolgere a lontana impresa l'ardore guerriero de' suoi. Matteo seppe soffocarla. — Dall'imperatore Adolfo di Nassau implorava [50] intanto la dignità di vicario imperiale. Ma le pratiche intorno a ciò erano condotte con tale mistero, che quando giunse il diploma cesareo, tutta Milano credette dovere esso tornar nuovo e quasi sgradito al suo signore. — A convalidare l'inganno, Matteo si finse restío ad accettare la dignità conferitagli; e vi si piegò solo quando il consiglio popolare gli diede quell'assenso, che in niun caso gli avrebbe saputo negare. — Ottenne dallo stesso consiglio la facoltà di usare contro la fazione torriana di quei mezzi, ch'egli aveva già apprestato in secreto; e fece nominare capitano il figlio Galeazzo, proponendolo a tale officio con quel piglio dei tiranni, che non ammette discussione.

Ma l'avveduto principe fu cieco padre: poichè le improntitudini di Galeazzo affrettarono il ritorno de' suoi nemici. Guido della Torre costrinse colle armi il Visconti ad abbandonare la signoria, e a cercare nell'esilio l'oblio della sua sventurata ambizione (1302). — Matteo sopportò la mala fortuna con non comune grandezza. In un piccolo borgo della terra veronese seppe gustare per molti anni la calma della vita privata, aspettando com'ei diceva — “che i peccati dei Torriani superassero quelli dei Visconti[37].„

Guido della Torre restaurò il governo popolare, e lo mantenne in pieno vigore per cinque anni. Ma, rieletto capitano, cedette alla tentazione di allargare la propria autorità, a spese dei diritti del popolo: facile impresa, da che questo aveva ormai rinunciato alla custodia delle proprie franchigie.

[51]

Fu a quest'epoca che Enrico di Lucemborgo, eletto imperatore, scendeva in Italia per cingervi la doppia corona; rito, per circa un secolo, obliato da' suoi antecessori. Scendeva egli in Piemonte, già informato di quanto accadeva a Milano da Francesco Garbagnate, accorso ad incontrarlo al di là delle Alpi. Lo zelo di costui rimise i Visconti in grazia dell'imperatore; sicchè Matteo, dietro avviso dell'amico, escì dal suo modesto ritiro di Nogarola; e, trovatosi con Enrico nella città di Asti, entrò in domestichezza con lui, e n'ebbe larga promessa di protezione. — Infatti, la venuta dell'imperatore in Milano segnò la seconda ed irreparabile caduta dei Torriani. Guido, sedotto da falsi consigli, troppo fidando nel numero e nell'ardimento de' suoi partigiani, meditò un piano di resistenza contro gli imperiali. Se non che, scoperta la trama da quelli stessi, che dovevano prendervi parte, mentre i figli del Visconte (non del tutto innocenti) escivano assolti, Guido, i suoi congiunti e gli amici della sua parte, dopo una rotta decisiva, furono banditi dalla città, e taglieggiati nella vita e nelle sostanze (1311).

Lo scaltro Visconti aveva condotto a buon fine la difficile impresa, palliando con arte finissima la sua ambizione. — Lo stesso imperatore, tratto in inganno dalle sue disinteressate proteste, gli confermò la dignità di vicario imperiale, estendendola a più vasta giurisdizione. A Matteo spettava la suprema amministrazione dello stato; a' suoi figli, strenui soldati, la difesa e l'ampliamento di esso. In tre anni, il piccolo stato soggetto ai Visconti, comprendeva undici cospicue città.

[52]

Il Papa Giovanni XXII, ingelosito dai rapidi progressi di questa famiglia, che minacciava di raccogliere sotto il suo scettro le lacerate province italiane, moveva querela contro Matteo per la dignità di vicario imperiale da esso lui accettata a danno della libertà italiana, che in quel punto tornava bene il difendere. — Matteo eluse le iraconde pretensioni del Papa dimettendo la vanità del titolo; anzi, persuase il proprio figlio Giovanni a spogliarsi del pallio arcivescovile di Milano, perchè lo assumesse frate Aicardo Caccia, eletto intempestivamente dal Papa. — Dalla condiscendenza di Matteo l'irrequieto pontefice trasse maggiore baldanza ad osteggiarne i diritti. Egli suscitò la Francia contro lui; e già le legioni regie calate dalle alpi minacciavano il Visconti d'una guerra di sterminio.

Ma il sagace Matteo anche questa volta seppe scongiurare la procella. — Con larghe proteste e generosi doni, secretamente spediti al campo francese, disarmò gli spiriti guerrieri del capitano nemico; il quale, pago delle spiegazioni ottenute, ricondusse il suo esercito fuori d'Italia senza colpo ferire.

Ancora più adirato il Papa brandì le armi spirituali, e fulminò la scomunica contro il Visconti (1322). Ma gli anatemi già troppo abusati non produssero alcun effetto. Volevasi sollevare il popolo contro la signoria, e questo non si scosse. Matteo, invitato solennemente a scolparsi davanti al legato pontificio residente in un borgo presso Alessandria, vi spedì in sua vece il proprio figlio Marco alla testa di una poderosa armata, contraponendo minaccia a minaccia. — Gli inquisitori [53] non aspettarono il figlio dell'impenitente Visconti. Postisi al sicuro in Valenza, fulminarono contro il signore di Milano una seconda scomunica, condita di così strane imprecazioni, che il successore Benedetto XII, per decoro della sede pontificia, le dovette ritrattare ed annullare, l'anno 1341[38].

XCIV.

Ci sia permesso di ravvicinare e porre in confronto alcune date storiche, onde rimovere il sospetto d'aver scelto ad arte le occasioni di combattere la temporale autorità dei pontefici, d'averla giudicata dagli abusi che la macchiarono, d'aver posto l'eccezione all'altezza della regola.

Prima di Costantino, i pontefici oscuri, umili, poverissimi regnavano sui loro seguaci per la fede ardentissima, e per la carità di cui erano banditori e modelli. Essi facevano causa comune coi neófiti, dividevano con essi nel bujo delle catacombe il pane del povero; fuor di quelle, gli strazii e la gloria del martirio. — Il figlio di Costanzo Cloro, abbracciando la fede di Cristo (312), pose fine alle persecuzioni. Disfatto Massenzio ed ucciso in battaglia il feroce proconsole Licinio, rassicurò alla novella cristianità un'era di pace; ma, traviato da un improvido fanatismo, credette far più gloriosa la chiesa, arricchendola di quella dote madre di tanti mali, che strappò allo sdegnoso [54] poeta quell'amara invettiva contro i chierci del suo secolo:

.... la vostra avarizia il mondo attrista,

Calcando i buoni e sollevando i pravi[39].

Gregorio Magno favorì la caduta degli esarchi ed inaugurò un'epoca affatto nuova pei pontefici (590). Da quel momento il suo sacro officio varcò il tranquillo e modesto esercizio delle virtù cristiane. Il mansueto pastore cominciò a gustare la vanità mondana; ma scorrendo sul pendío delle ambizioni, non seppe arrestarsi e, molto meno, potè risalire alla purezza della sua originaria istituzione. Caddero gli esarchi, e Roma si prosciolse dall'obedienza verso gli imperatori iconoclasti (726); gran ventura per quel secolo, ma irreparabile calamità pei successivi; perocchè d'allora

. . . . . . . . . . . . . la chiesa di Roma

Per confundere in sè duo reggimenti

Cade nel fango e sè brutta e la soma[40].

Quando Carlo Magno restaurò l'impero occidentale (800), i pontefici, chiamati a consacrare l'eletto monarca, raccolsero nelle proprie mani una parte della autorità di lui; imperocchè, mentre gli imperatori confermavano o deponevano i papi, questi riconoscevano od esautoravano gl'imperatori. L'accordo dei due poteri riesciva per solito fatale alla libertà dei popoli; la discordia partoriva guerre lunghe e fratricide; ma, nell'un caso e nell'altro, il concetto tutto spirituale della cristiana associazione era travolto.

[55]

Troppo è per noi il consultare una storia veramente imparziale; ci basta aprire un volume qualunque, compilato, se vuolsi, nelle cupe cancellerie della curia romana, per proclamare altamente che i primi pontefici furono senza confronto migliori dei successivi prìncipi, o vassalli dei prìncipi. Dietro ciò, oseremo chiamare necessaria alla incolumità della religione di Cristo una mondana potenza, che giovò soltanto a rendere meno buoni coloro che se ne adornarono? Vuolsi che la grandezza del principato civile sia mezzo necessario a proteggere l'indipendenza e la inviolabilità della religione. Il buon senso e l'alto concetto delle sublimi dottrine insegnate nell'evangelio ci fanno restii a riconoscere una tale necessità. Imperocchè non fu mai officio del debole sorreggere il forte; la verità non cercò mai d'essere rischiarata dal fittizio bagliore delle glorie terrene. — Al contrario, la storia c'insegna che le meschine alleanze immiseriscono la buona causa. Quella carità che prosperò in mezzo al sangue versato da tanti martiri, nè ora nè mai, dovrà reggersi colla spada, o cercare mercè ai piedi d'un trono.

“I papi furono uomini e non angeli„, disse un rispettabilissimo scrittore, facendo appello all'indulgenza della storia per palliare le gravi esorbitanze dei prìncipi della chiesa[41]. Non temano le anime ingenue; non vogliamo togliere la polvere a viete cronache. — La storia politica dei papi, quale ci viene proposta dai rigidi censori del progresso intellettuale, è soltanto una serie cronologica di nomi non interrotta da Pietro [56] fino a noi. — Quanto vi sia di sovrumano in ciò non spetta a noi il dimostrarlo: accettiamo intanto il riserbo della storia come uno splendido omaggio alla publica morale, e come riprova di quanto abbiamo asserito. Ci limiteremo ad osservare che nelle dinastie storiche il caso si compiace di avvicendare i buoni ed i tristi; sicchè ogni stirpe deplora il suo Tiberio e vanta il suo Tito. I pontefici, per converso, tolti dal seno di una casta, ben di rado portarono al soglio le virtù individuali. Per patto d'elezione, e come atomi d'una mole che ha vita propria ed eccentrica, conservarono integri, e tradussero in atto, a totale vantaggio d'una potente oligarchía, quei principj di cui si chiamavano i temporanei custodi.

Quindi la teocrazia romana, gloriosa della sua immobilità, pose ogni cura ad eternare la mansueta ignoranza. Se la civiltà moderna, coll'impeto del suo corso, non l'avesse trascinata dietro di sè, Galileo sarebbe ancora per essa un tristo od un demente. — Le gloriose scoperte della scienza, le nuove dottrine e perfino le industrie della mano, si dovettero proclamare, diffundere, insegnare lungi da Roma e in onta alle sue minaccie. Per la qualcosa, la città eterna, un dì maestra del mondo, fu nell'evo recente l'ultima sempre a godere i beneficii della civiltà, e non li gustò se non dopo aver visto i suoi reggitori costretti a riconoscere ciò che prima, sprecando l'infallibile parola, avevano combattuto.

Ben è vero, e non si deve tacerlo, che questa regola subì delle importanti eccezioni. Alessandro III, a cagione di esempio, favorì la lega lombarda; Gregorio VII [57] tolse agli imperatori il diritto di eleggere il pontefice. Entrambi accarezzavano il disegno di fondare in Italia una republica teocratica svincolata da ogni straniera influenza. Ma i mezzi per giungere alla gloriosa meta non erano acconci. Più tardi, e in altra mano, quelle stesse armi dovevano tornar buone a spegnere la propugnata libertà. Gregorio VII, per non dar ragione ai popoli delle sue opere, e per trascinarli seco nell'ardua impresa, impose ad essi la credenza nella sua infallibilità; tolse loro il diritto d'eleggere i pastori: e, qualificandosi rappresentante di Dio, costrinse prìncipi ed imperatori a chinarsi nella polvere ed a baciargli il piede. — Noi, avvezzi agli atti tracotanti dello straniero, godiamo in vedere coteste fronti coronate farsi umili e riverenti davanti al povero monaco di Soana. Ma badisi che, consacrato una volta un principio, bisognerà subirne le conseguenze anche quando ne riescono fatali.

Infatti, i papi del secolo XIII non poterono compiere le splendide gesta dei loro antecessori. Le armi erano già logore; il principio ormai vieto divenne il retaggio di una fazione; contro questa surse la fazione rivale. I guelfi favorivano il papa; ma di fronte ad essi surgeva un partito non meno autorevole, e del pari fortunato e potente. Anzi guelfi e ghibellini, a lungo andare, non erano più i fidi combattenti di rivali autorità, ma partigiani inerti e spesso spergiuri di due bandiere, oggi sventolate con orgoglio, dimani vilipese, a norma dei momentanei interessi. E vero altresì, che anche a quest'epoca guelfo voleva significare fautore della chiesa; ma la chiesa dei guelfi non era già l'originaria [58] società dei buoni nella fede e nella carità insegnate dall'evangelio, sì bene una fazione, che aveva censo, feudi, privilegi, armi, passioni come ogni estremo partito. — Gelosa della propria potenza, tenace dei proprii diritti, scambiato il mezzo col fine, non si affaticava già a rendere più grande e rispettata l'autorità dell'evangelio, ma faceva arma di questo per avvantaggiare ed estendere la sua terrena grandezza. — Così l'accessorio divenne l'oggetto principale. Per conservare intatto un patrimonio di caduche vanità, si pose il tesoro mondano sotto il manto della religione; si rinchiuse la creta nel sacrario.

Intanto, mentre gli abusi della corte romana, e i suoi dispotici giudizj turbavano le menti, i ministri di quella religione che insegna a perdonare e ad amare, puntellavano le vacillanti credenze colla spietata parola, e coi supplicj. Fu Innocenzo III (tra i papi non certo il peggiore), che istituì un tribunale per indocilire le menti erranti nelle astruse disquisizioni dogmatiche (1204). Il truce rimedio piacque tanto a' suoi successori, che lo corredarono di squisite carneficine, cui non erano per anco arrivati i sacrificatori di vittime umane. Si era proibito di ardere i cadaveri per non ripetere una costumanza pagana, e si credette di depurare l'aria contaminata dall'eresia, nutrendo i roghi colle carni palpitanti dei vivi. — Allora la chiesa parve chiamata a fare crudele vendetta di quelle persecuzioni, che erano state la più bella gloria de' suoi primi tempi.

Altri pontefici, e non pochi, abusarono della sacra parola per assordare e conquidere le ignoranti moltitudini, fulminando contro di esse l'anatema di Dio. [59] Per tal modo, il sovrano di Roma, oltre al godere entro i confini del suo Stato di tutti quegli esorbitanti diritti che la ferocia del secolo consentiva ai tiranni, possedeva un potere sovrumano e terribile, che abolita ogni discussione, spuntava le armi della lecita guerra, e penetrava, veleno rapido e sottile, nelle fibre d'ogni lontano consorzio per recarvi la civile dissoluzione. Anatemi, scomuniche, interdetti, dettati dal capriccio o da passioni mondane, in contingenze del tutto politiche, furono arti di guerra, che, prosciogliendo i popoli dai legami civili, ed aizzandoli alla discordia fraterna, fecero versare torrenti di sangue.

Gli è per tutto ciò, che quell'anima sdegnosa dell'Alighieri preferì abbeverarsi del fiele ghibellino, anzichè essere patriota coi guelfi.

Per colmo di sventure, venne il dì in cui gli stessi pontefici gradirono l'alleanza dei rampolli imperiali; e ciò accadde quando i capi delle opposte fazioni s'intesero nell'obbietto di spegnere, a vantaggio reciproco, la libertà dei popoli. Allora cessarono o diminuirono nei papi le velleità guerriere. Le armi estere si tolsero l'assunto di arrestare il mondo; e, incoraggite dal cieco orgoglio d'essere sacre alla causa della religione e della legitimità, si scagliarono sui già oppressi per gravarli di un doppio giogo. — Dopo ciò, il principe di Roma, che aveva condannato come ribellione la tarda e naturale difesa del debole, chiamava atto meritorio il delitto del prepotente, e lo arricchiva di mille benedizioni.

Se nel nostro secolo è sparito fin l'ultimo vestigio dell'antico guelfismo, può negarsi che la parte ghibellina [60] non vanti i suoi più ardenti seguaci nei principi del Vaticano? Tra i più caldi zelatori della podestà temporale del Papa non si annoverano forse quelle orde oltramontane, in cui stanno raccolte le reliquie dell'antico impero?

Nei secoli andati, tale politica larvata di pietà, ravvolta nel manto della religione, padrona di noi anche al di là della tomba, intimidiva le menti, e fiaccava le deboli volontà. Ma se lo spirito umano, soffocato da tanta autorità d'armi e di parole, camminava lentamente, esso, altretanto tenace d'ogni sua conquista, non retrocedette mai. La ragione raccolse in secreto i suoi giudizj, spense a poco a poco il falso entusiasmo che travia la coscienza, e rilevossi dalle vane paure. — Davanti ad essa, il bene ed il male, il giusto e l'ingiusto assumono forme vaste e precise, sul cui giudizio riesce impossibile l'ingannarsi. — Se per ossequio ad un principio, o per rispetto alle consuetudini, o per incertezza dell'avvenire, essa si condannò, spontaneamente e per secoli, alla toleranza, non è a dirsi che abbia disconosciuto i principj raccolti e maturati durante il suo paziente silenzio. Se stanca di un'abusata longanimità levò alfine la voce a combattere l'errore dovunque lo scoperse, non deve esser fatta colpa solo ad essa perchè nel demolire una falsa autorità si recò una scossa a tutto l'edificio, minacciando ruina anche a ciò che pur si vorrebbe conservare intatto. — Dicano le storie degli scismi e delle riforme se mal ci apponiamo.

[61]

XCV.

Lo sdegno del Papa Giovanni XXII contro la signoria dei Visconti non si raffreddò nemmanco dopo la morte di Matteo, avvenuta l'anno 1322. Avendo il figlio Galeazzo iniziato il suo governo con atti tirannici, il papa tentò smovere il popolo milanese dalla sua inerte rassegnazione, e sollevarlo contro il suo principe. Ma poichè il popolo rispondeva troppo debolmente a' suoi avvisi, egli colse il destro di togliere Piacenza alla signoria dei Visconti, facendosi vindice di Bianchina Landi, dama di quella città, oltraggiata nell'onore da Galeazzo. Ordinò poscia al clero milanese, che chiudesse i tempj, ed abbandonasse la città; publicò infine una bolla, nella quale venivano accordate larghissime indulgenze a quanti italiani o stranieri pigliassero le armi a danno dei Visconti.

Un esercito numeroso, composto del rifiuto delle orde avventuriere di varie nazioni, mosse contro Milano colla croce in testa; e, strettala d'assedio, per ischerno alle vane difese degli abitanti, fe' correre il pallio sotto le sue mura. Legga il Moriggia ed il Corio chi desidera conoscere per minuto di quali enormità si macchiarono nei sobborghi indifesi codesti paladini della Chiesa.

Tornò buona al Visconti l'amicizia dell'imperatore Lodovico il Bavaro; alla cui detronizzazione mirava l'ambizioso pontefice. — Le armi imperiali ruppero il cerchio di ferro, che stringeva le nostre mura. Marco [62] fratello di Galeazzo, con piccolo nerbo di valorosi, sconfisse i papalini al passaggio dell'Adda presso Vaprio (1324). Le reliquie della Crociata rinchiuse in Monza, dopo un blocco di otto mesi, dovettero calare agli accordi, e chiedere mercè alla biscia scomunicata.

A fare le vendette del Papa e a dar credito a' suoi anatemi, contribuì in sèguito l'incostanza di Lodovico il Bavaro: il quale nella sua seconda calata in Italia pigliò in sospetto i Visconti, e li carcerò nei famosi forni di Monza, appunto allora compiuti dal crudele Galeazzo. Nella mente dei guelfi parve che il cielo si togliesse il carico di continuare le vendette. La prigionia fu breve; ma non meno breve la vita degli scarcerati. Stefano Visconti morì improvisamente il 1327. Galeazzo suo fratello lo seguì nella tomba un anno dopo; e il valoroso Marco, che sognava grandezze ed aveva animo e braccio a conseguirle, fu spento e gittato da un balcone, l'anno 1329.

Considerando la storia di questo secolo, ardua cosa riesce il dipanare l'intricata matassa degli avvenimenti e il risalire, pel vero corso di essi, fino a riconoscerne l'origine. Erano alquanto sbollite le due grandi rivalità, che partivano l'Italia, ma sotto le ceneri ancor tiepide fervevano altre passioni. Le gare municipali, cresciute e rinfocate dalle novelle dinastie, non avevan tregua. I rapidi avvolgimenti della guerra, rotte le vecchie alleanze, creavano nuove amicizie, mutabili sempre come la fortuna. Le città marittime divenivano ognidì più gelose del dominio del mare; in queste, e nelle mediterranee, la varia sorte del commercio e delle [63] armi accendeva invidie e livori. Il dirsi guelfo ormai più non bastava a chiarire quale fosse la bandiera inalberata. Un Papa sedeva ad Avignone in Giovanni XXII; un altro in Italia ed aveva nome Nicolò V. — Così dei Ghibellini. Lodovico il Bavaro fu per gli uni il legittimo imperatore, per gli altri un intruso. E lui cacciato, al sopravenire di Giovanni re di Boemia, quasi tutte le città d'Italia aprirono le porte al più splendido fra i principi stranieri; mentre i Fiorentini prima, poscia i signori di Lombardia, levatiglisi contro, lo forzavano a cedere i suoi possedimenti e ad uscire d'Italia. Di qui surse l'alleanza tra Milano e Firenze, prima stretta per la comune difesa dei due Stati, poscia bruscamente rotta da gelosia municipale. Ed a Firenze s'aggiunse poscia Venezia, insospettita dell'alleanza fra i Visconti e gli Scaligeri.

Ma quanto è difficile tener dietro alle moltiplici vicende, per scoprirne l'origine, altretanto è ovvio il riassumerne le conseguenze. Nella lotta che ferveva da oltre un secolo tra la libertà ed il principato, il popolo, per istinto inchinevole alla prima ma ognidì più svigorito, cedeva terreno a palmo a palmo a quelle famiglie, che egli stesso aveva inalzato. E ciò senza gravi convulsioni e lentamente, sicchè avveniva della cosa publica ciò che accade di un tessuto nel quale i fili non sono omogenei e l'uno consuma l'altro, ed è alla sua volta consunto; così che entrambi si logorano prima del tempo. — Questa consunzione di forze s'operava lenta e quasi inavvertita. I passi che gli antichi governi popolari facevano verso l'assoluta monarchia erano brevi, ma continui; ogni occasione essendo [64] buona a dare un crollo alla maldifesa libertà, ogni piccolo evento propizio per togliere qualcosa a chi non ne ha cura, e per aggiungerlo a chi smaniosamente l'ambisce.

La signoria di Milano fu conferita ad Azzone figlio di Galeazzo I, per decreto del Consiglio generale della città, pronunciato a voti unanimi il 14 marzo 1330[42]. Ma ci è lecito asserire che quella rappresentanza non fosse libera di scegliere altro individuo, quando pure Azzone non fosse quel buon principe, che giustificò coi fatti l'alta stima in cui era tenuto.

Intanto lo sgoverno dei minori municipj favoriva le ambizioni del Visconte. — Brescia, per sfuggire agli Scaligeri, invocava la protezione di Giovanni re di Boemia. Altre città di Lombardia, e la stessa Milano, dovettero subirla; ma Azzone, per trarne più largo profitto per se, ottenne dal monarca straniero il titolo di vicario imperiale. — Per buona sorte, il re di Boemia non tardò a far conoscere di qual peso fosse la sua tutela; onde nel 1332 fu tenuto in Castelbaldo di Verona un congresso di prìncipi italiani, i quali, posti in oblio gli antichi rancori, si strinsero in lega per fiaccare il comune nemico, e trarre a ruina il pontefice, che seco lui congiurava. Cacciato il re di Boemia (1333) e sbaldanzito il Papa, surse Azzone più potente e rispettato di prima. Vercelli e Cremona lo eleggono loco signore: Franchino Rusca gli cede la città di Como: il popolo di Lodi, bandito l'esoso Pietro Tremacoldo, invoca le sue armi. Piacenza s'offre a lui, [65] a patto d'essere liberata dalla tirannide di Francesco Scotto.

Per tal modo, la successione dei Visconti alla signoria di Milano s'andò sempre più consolidando. E quel che era in Milano, avveniva d'altre città: a Verona s'insediavano gli Scaligeri, a Padova i Carraresi, a Ferrara ed a Modena i Marchesi d'Este, a Mantova ed a Reggio i Gonzaga, nel Piemonte i marchesi di Monferrato. Presso qualche comune esisteva ancora, il nome di republica, ma la libertà republicana era spenta del tutto. Bologna, a cagion d'esempio, sfuggiva al malgoverno del legato Bertrando del Poggetto, dandosi ai Popoli; Perugia e Siena obedivano servilmente a Firenze, schiava alla sua volta di Gualtieri di Brienne, duca di Atene, odiosissimo fra i tiranni[43]. Ogni minore città, che non fosse serva di un'altra, aveva il suo tiranello.

Non era dunque più questione di libertà o di servaggio: l'obedire poteva dirsi una necessità. Fortunato il popolo cui fosse dato di piegarsi a men crudo signore. Il mediocre parve buono; il buono ottimo. Invidiavansi i milanesi, e quanti come essi potevano senza adulazione chiamare Azzone il migliore fra i prìncipi. E lo era di fatto: perchè nelle sventure della sua prima età aveva appreso quanto è uggioso l'imperio non secondato dall'amore dei soggetti. Egli, che aveva languito un anno nei forni di Monza, non ebbe cuore di rinchiudervi il suo più fiero nemico. E quando l'amore dei popoli gli suscitò contro la gelosia dei [66] principi rivali e dovette ricorrere alle armi, seppe usare della vittoria con moderazione. — Nell'interno poi, onde rendere meno gravi i disagi della guerra, promosse le arti e le industrie, riedificò le mura della città, ne rabbellì le case e le strade, e costrusse una reggia sì splendida, che destò l'invidia degli stessi imperatori.

L'ambizioso Lodrisio Visconti, cugino di Azzone, mal soffrendo l'umile suo stato, meditò di cacciarlo dalla signoria e di collocarsi al suo seggio. Accarezzò a quest'uopo la plebe colle promesse, i soldati di ventura colle paghe generose; ed, allestita la famosa compagnia di S. Giorgio, modello di feroce valore, si gittò sulle terre del milanese, e pose le tende sulle rive dell'Olona. Ma Azzone (prova non dubia che egli era amato) non appena dichiarò il pericolo, vide tutto il popolo pigliar l'armi in sua difesa, e seguirlo. La vittoria di Parabiago (21 febrajo 1339) è tra le glorie delle armi milanesi. — Tale fu l'impeto dei soldati e sì luminosa la vittoria, che si volle segnalarla come prodigio del cielo. Vive ancora nella memoria dei posteri la tradizione che s. Ambrogio a cavallo, armato di staffile, percotesse le schiere fuggenti di Lodrisio. Lo stesso condottiero nemico cadde in potere dei milanesi. Azzone gli risparmiò la vita; pago di sottrarlo alla tentazione di nuove congiure rinchiudendolo nel castello di s. Colombano.

Sei mesi dopo, Azzone morì (16 agosto 1339); e il lutto del popolo milanese fu profondo e sincero. Convocato il dì seguente il Consiglio generale, furono acclamati signori di Milano Luchino e Giovanni zii del [67] defunto. L'elezione, come nei tempi republicani, fu convalidata dall'unanimità dei membri del Consiglio; ma giova ricordarlo, essi non erano i rappresentanti del popolo, sì bene creature del principe, perchè nominate da lui, o dal podestà, che era suo ministro.

Nella divisione dello Stato, Luchino ben presto raccolse in sè la parte d'imperio spettante al fratello. Valoroso nelle armi, sagace nella civile amministrazione, instancabile nel sorvegliare l'operato de' suoi ministri, severo fino alla crudeltà, ma giusto perchè severo con tutti, egli possedeva i più sodi requisiti di un principe chiamato a fondare una novella monarchia. — Le buone leggi emanate da lui sono il suo miglior elogio. Soppresse ogni sdegno di parte. Ghibellino per interesse dinastico, rispettò i guelfi, e li eguagliò nei favori ai proprii partigiani. — Proibì che si bruciassero le case dei banditi, detrimento della città e sfogo spesse volte di passioni private. Vietò i duelli, pose freno alle soperchierie dei feudatarj, abolì le tasse arbitrarie, compartì equamente le imposte, assolse i contadini e gli artigiani dall'obligo della milizia, perchè attendessero all'industria e all'agricultura, nutrì i poverelli, e seppe preservare Milano dalla pestilenza che desolò tutta Italia nell'anno 1348.

Pari alla sapienza delle leggi era la fermezza di chi doveva sorvegliarne il rispetto. Fe' guerra a oltranza alle masnade che infestavano le campagne, e minacciavano le città; ma, dopo averle debellate, le riabilitò coll'assisa e colla disciplina, di un esercito stanziale. Per esso aggiunse altre sette città alle dieci, che componevano lo stato ai tempi d'Azzone, [68] e portò le armi vittoriose fin sotto le mura di Pisa, da cui riscosse un vistoso tributo. — Creò un giudice d'appello per le cause civili, ed, abolite le immunità processuali, piegò all'unica legge ogni ordine di cittadini. — Nella politica estera si tenne egualmente lontano da atti di timido ossequio e di ostentata indipendenza. Amò vivere in pace coi prìncipi stranieri, ma non sollecitò mai l'amicizia d'alcun potente con indecorose proteste. Sopratutto adoperò rara sagacia a sfuggire ogni occasione di doversi dire vassallo e vicario dell'imperatore.

Da sì accorta amministrazione derivò pronto vantaggio al novello Stato. — Le guerre erano state brevi e fortunate. Benchè gl'interni dissidj fossero soltanto assopiti, la severità di Luchino e la fermezza del suo governo comandavano quella apparente concordia, che, se non è morale progresso, favorisce pur sempre lo sviluppo della prosperità materiale. — Il commercio, l'industria, l'agricultura, durante il suo governo, avevano toccato un alto grado di floridezza.

Farebbe triste officio lo storico che si provasse a difendere Luchino nel suo procedere contro la famiglia Pusterla. Che il capo di essa Francesco, per viste ambiziose, tendesse le fila di una cospirazione a danno dei Visconti, è cosa fuor di dubio; ma ciò non giustifica nè le arti con cui si adescò l'esule a ritornare in patria per tradirlo al carnefice, nè l'atroce sentenza pronunciata contro la virtuosa sua donna, i figli di lei, ed un gran numero di cittadini, di null'altro colpevoli che d'essere amici dell'ambizioso Pusterla. Ma l'inesorabile Luchino possedeva a perfezione l'arte di [69] governare a dispetto dei partiti e senza l'amore dei sudditi. — La ragione di Stato era il suo idolo: e questa tetra divinità, che richiede talora sacrificii di sangue, non sapeva in altro modo accordargli la imperturbata sicurezza del suo governo. Per tal modo, egli già consacrava coll'opera le dottrine più tardi raccolte da Machiavelli, il quale insegnò ai tiranni: che essendo difficile l'essere amato e temuto, meglio è si cerchi d'essere temuto che amato; badando però ad usate cautamente della roba d'altri più che non del sangue, “perchè gli uomini sdimenticano prima la morte del padre, che la perdita del patrimonio[44]„. Sentenza umiliante ma vera, che non discolpa i tiranni, ed accusa l'intera umanità.

Contemporaneamente alla condanna dei Pusterla, Luchino, fatto accorto che i tre suoi nipoti Matteo Galeazzo e Barnabò erano impazienti di dividere il pingue suo retaggio, e che a questo fine tenevano pratiche co' suoi sleali amici, s'accontentò di bandirli dalla città e dalle terre del Milanese. — Questa volta l'accortezza non lo preservò dalla congiura. Il truce disegno dei nipoti ebbe compimento per opera di Isabella del Fiesco, moglie di lui ed amante dell'esule Galeazzo. — La Fiesco, ancora più famosa per la perversità dell'animo che per la rara bellezza della persona, sospettando che le sue tresche incestuose fossero note al marito, prevenne la collera di lui, e si liberò del suo giudice con un veleno (1349).

[70]

XCVI.

Morto Luchino, le redini del governo furono raccolte dall'arcivescovo Giovanni. Sagace quanto il fratello, valendosi d'una amministrazione già bene avviata, fu e potè essere più di lui umano e tolerante. Richiamò i nipoti dall'esilio; tolse dal carcere Lodrisio; e si mostrò disposto a vivere in pace con tutti. Pose la prima delle sue ambizioni nel rendere invidiato il suo governo. — E non andò guari infatti che Bologna, stanca delle malversazioni di un tirannello, implorò d'essere aggregata alla signoria di Milano. Egli gradi l'offerta, e fece pago il principe spodestato con una somma di denaro.

Il papa Clemente VI, dolente forse d'aver lasciato sfuggire l'occasione di riavere quella città, non riconobbe tal patto, ed intimò al Visconte di scioglierlo e di rimettere entro 40 giorni la città di Bologna al suo antecedente possessore; sotto pena d'interdetto contro lui e il suo popolo. Giovanni rispose colle parole tante volte ripetute dagli stessi pontefici “tenere egli l'evangelio con una mano, coll'altra la spada„, e rimandò i legati del Papa senz'altro. Chiamato poscia a scolparsi della doppia inobedienza presso la corte d'Avignone, si mostrò docile all'invito, e fece correre la voce che stava allestendo 12 mila cavalli e 6 mila fanti per fare onore alla chiamata[45]. Bastò [71] la nuova perchè l'ira del Papa si calmasse, senza altra ritrattazione. Bologna divenne città dello Stato di Milano, al solo patto che il Visconti in quella terra s'intitolasse Vicario della Santa Sede.

In questo mezzo la republica veneta, ingelosita delle prospere sorti di Genova in levante, preparavasi a moderarne l'orgoglio. I pretesti ad una guerra sono l'ultima e la più facile cosa a trovarsi, quando fervono le gelosie, e le armi son pronte. Non appena scoppiate le ostilità, la vittoria fu pei Veneziani soccorsi dal re Pietro d'Aragona. Genova allora bloccata in mare dalle galere Venete, assediata sulla costa di ponente dalle schiere aragonesi, provò estrema penuria di viveri. L'unica escita dell'affamata città s'apriva verso le terre d'Alessandria e di Tortona possedute dal Visconti. — L'arcivescovo Giovanni non si mostrò sollecito a soccorrerla, pensando forse che le durezze dell'assedio portate all'estremo sarebbero tornate a suo maggior profitto. Nè s'ingannò: i Genovesi, piuttosto che darsi vinti ai Veneziani od agli Aragonesi, offrirono la signoria della republica al Visconti, che di buon grado l'aggiunse all'altre città dello stato (1353). In questa occasione, il vessillo dei milanesi sventolò la prima volta sul mare. Le navi di Genova, cariche d'armi milanesi, respinsero vittoriosamente le galere veneziane fino sul lido d'Istria; ed ivi, messa a terra una piccola armata, videro andare in fiamme la città di Parenzo, uno dei porti più formidabili della costa veneta.

Dopo sei anni di governo, il signore di Milano cessò di vivere (1354), e la sua morte fu sinceramente compianta. Chi ricorda con noi, che

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. . . . . . . . . . . . giunta la spada

Col pastorale, l'un coll'altra insieme

Per viva forza mal convien che vada[46].

non inclinerà per fermo a trovar provida la signoria di Giovanni Visconti, arcivescovo, principe e capitano. E saremmo di tale avviso, se, per onor del vero, non si dovesse confessare, che la condotta di lui non mirò a conciliare i due poteri, usandoli o meglio abusandoli ad una volta. Vivo Luchino, fu prelato e non principe; nè mai s'immischiò nel governo. Dopo la morte del fratello, condotto dalla forza degli avvenimenti al trono, brandì la spada e dimise la stola; nè mai di questa fe' sostegno a quella: perciò, nell'urto dei due poteri, preferì difendere i diritti del principato civile; e, libero da ogni vano ossequio, verso l'ambiziosa corte d'Avignone, raggiunse l'onorevole scopo di far felice il suo popolo. — Per lui la patria divenne grande, ricca, potente; e se, in mezzo a tanto splendore, egli non fu largo di istituzioni libere, è temerario l'accusarne il maltalento del principe; mentre ci è lecito credere, che il popolo di buon animo s'accomodasse al governo di un sovrano assoluto, quand'ei fosse mite ed illuminato come il Visconti.

XCVII.

Colla successione al trono dei tre fratelli Matteo, Galeazzo e Barnabò, rientriamo nella cerchia dei fatti che abbiamo preso a narrare, e torniamo al nostro umile [73] officio di cronisti. Questo sommario storico ci parve indispensabile a chiarire meglio la condizione dei tempi a cui risale il racconto. Non ci duole d'esserci di soverchio dilungati in questa digressione. La storia è il più semplice e più salubre nutrimento dello spirito umano: quand'essa è veritiera (e può esserla anche in bocca ad umile narratore) non sarà mai, a parer nostro, inopportuna e superflua.

Dei tre fratelli correggenti lo stato di Milano, ci venne dato di far parola separatamente in varie pagine, e torneremo a parlare d'alcuno di loro, se e quando lo sviluppo del racconto il richiegga. Ci sia intanto permesso di chiudere queste notizie con una considerazione.

Il modo, con cui qui si è tracciata la storia dell'origine e dell'incremento della dominazione viscontea, forse ci avrà meritato l'accusa di parzialità verso una famiglia, che la maggior parte degli storici chiama tirannica e liberticida; e se ciò fosse, si leverebbe contro di noi il vecchio adagio: che una cattiva causa condanna chi la difende. — Ma è bene dichiarare che non è e non può essere nostra intenzione di attenuare la colpa di chi degrada la patria, privandola della sua libertà; chè in questo caso saremmo rei di una pietà stolida ed ingiusta. Ponendo i fatti come base dei nostri giudizj, asseriamo intanto che colla signoria dei Visconti andò mano mano scemando la libertà nei paesi a loro soggetti. Ma nel cercare la vera cagione di ciò, non ci arrestiamo alla sola influenza di questa famiglia, nè al volere, per quanto ferreo ed efficace, di pochi uomini. Convien salire per trovarne una più alta e più potente.

[74]

Chi fosse chiamato a decidere quale fra le stagioni è la più bella, quale fra le età dell'uomo la più robusta, certamente non esiterà nella risposta. La primavera è la giovinezza della natura; come la giovinezza è l'aprile della vita umana. — Ma questo dono, sì prezioso e più o meno durevole, è sempre caduco. Sulla fede soltanto di queste povere pagine, chi oserà porre in dubio che i tempi della lega lombarda rappresentano la giovinezza del nostro popolo, la primavera della nostra vita civile? Chi non preferisce l'austera e selvaggia virtù di quel secolo alle balde millanterie dei cavalieri, ai canti evirati dei trovatori? Se quell'epoca è la meno celebrata dagli storici, dicasi che “quando è universale la virtù, non si fa pompa di virtuosi[47].„

Ma qui è necessario avvertire che, mentre il reggimento dei comuni dopo le vittorie contro gli Svevi era popolare, il governo, per diritto, non poteva dirsi del tutto libero: imperocchè anche nei migliori momenti di quel secolo, quando il patto di Costanza, conquiso a Legnano, fu il palladio delle franchigie italiche, il diritto eminente di sovranità sopra queste terre rimase intatto pressa gli imperatori ed i re alemanni. Se i prìncipi lontani e deboli non pesarono sempre con braccio ferreo sopra un paese, che già vantava armi e leggi proprie, lo spirito della dominazione straniera era tradutto nell'ingordigia dei feudatarj, vera emanazione della nordica prepotenza.

Eppure, essendo la durevole concordia del popolo nelle condizioni di quel tempo una virtù impossibile, [75] queste famiglie, con tutto l'odioso apparato delle loro ribalderie, potevano diventare lo scampo della patria nostra. Codeste stirpi, ora bandite dal popolo pel loro fasto insultante, ora richiamate a vestire gli alti officii di capitani o di podestà, avrebbero potuto nel loro interesse compiere quell'emancipazione, che il popolo colle rapide sue vittorie lasciava a mezzo. — La via doveva essere lunga; i mezzi forse odiosi ed illiberali: ma la meta certa ed onorevole. — Mentre le città erano divise tra loro per vecchie ruggini o per gelosie recenti; mentre diveniva un Marcello, come dice Dante, ogni villan che venisse parteggiando; mentre infine l'Italia, per l'infelice destino di Roma sottratta al patrimonio nazionale, cercava invano il faro a cui rivolgere le prore fluttuanti delle sue cento republiche, nulla di più opportuno, a coordinare ad una sola meta i moltiplici e discordi tentativi, che l'opera violenta di una mano che raccogliesse gli sparsi brani della nazione, frenando nei popoli la garrulità delle fazioni e, per compenso, togliendo ai prìncipi stranieri quella autorità che, anche fiacca e maldifesa, era sempre come una punta di ferro latente nella cicatrice.

Queste famiglie avevano tutta l'ambizione che basta a rendere possibile l'ardua impresa. — La maggior parte di esse vantava sangue italiano; alcune, o franche o longobarde, eransi rese italiane vivendo sotto questo cielo, il più adatto a naturalizzare le stirpi straniere. Già in altri paesi, dove le popolazioni barbare ed ignare dei loro diritti erano a discrezione dei tiranni, le nazioni, sparse in un numero indefinito di famiglie, si collegavano, e si rendevano compatte e formidabili. [76] “Ivi i progressi nella civiltà, dice il Sismondi, s'operavano a rilento; i padroni aumentavano in potenza, non già per lo dirozzamento dei sudditi, sibbene per la congiunzione di nuovi stati; e una decina di sovrani potenti era sottentrata a un centinaio di sovrani più deboli[48].„

A tale rivolgimento non doveva e non poteva rimanere estranea l'Italia. Già varie famiglie surgevano a far bottino della sovranità sbriciolata nelle secolari contese. I Visconti tra queste non furono certamente secondi ad alcuna. — L'ardito concetto rifulse nella vita dei più fra i signori e duchi di Milano. Si chiamarono ghibellini, più che non lo fossero: giacchè riconobbero il vassallaggio verso l'impero, per consolidarsi con lui e per lui; l'ossequio ben presto cangiarono in alleanza; coi matrimonii mirarono finalmente a trattare gli altri prìncipi da eguali. Con tale procedere tentavano di rifare sulle ruine del dominio straniero e delle interne fazioni il nuovo regno italico, ed aspiravano a quella corona, che con perdonabile invidia vedevano posare su fronti non italiane.

Quando i diritti sovrani sono abusati, nulla di più provido che il vedere strappar lo scettro dalla mano del tiranno, perchè, ripartito equamente sul popolo, sia da lui guardato con quella religiosa osservanza con cui i gentili custodivano gli dei penati; ma quando l'egoismo o l'ambizione operano di modo, che gli uni abbandonano in un'obbrobriosa incuria il sacro deposito, gli altri lo mercanteggiano o lo usurpano, è minor [77] male, ch'esso ricada nella mano di un solo, il quale si faccia garante della sua incolumità al cospetto della nazione.

Già si è veduto come le signorie d'Ottone, di Matteo I, di Galeazzo I, d'Azzone, di Luchino, e di Giovanni, con più o meno fortuna, riescissero al nobile intento di temperare le intestine discordie, e di svolgere le forze necessarie a rendere ampio, securo e glorioso il nuovo stato. Non si vuol dissimulare, che cotesta naturale espansione fu inceppata dal maltalento dei tre figli di Stefano, ma la vedremo ripigliare vigore poco dopo pel senno e per l'infaticabile operosità del Conte di Virtù; il quale, associando alle armi la sagacia politica, chiamò a sè molti popoli d'Italia, che sonnecchiavano in una maldifesa libertà o, in braccio a tiranelli, si contorcevano in inutili rivolte. Per lui, se la fortuna gli fosse stata propizia, avremmo veduto surgere un forte regno, quale da Roma in poi non aveva mai esistito che di nome, e a tutto nostra danno. Per lui l'italica corona, già da cinque secoli, avrebbe cessato d'essere il trastullo dei prìncipi stranieri, per divenire retaggio e gloria della monarchia italiana.

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CAPITOLO DECIMOTERZO

XCVIII.

Il palazzo di Barnabò Visconti surgeva a sinistra della chiesa di s. Giovanni in Conca, lungo la via che conduce alla Porta Romana e sull'area di tutta l'isola compresa tra quella strada e l'altra diretta alla pusterla del Bottonuto. Chi bramasse conoscere la ragione storica di questi nomi così strani, consulti il Lattuada ed il Torre, che in fatto di etimologie hanno un coraggio, che a noi manca del tutto.

Per mezzo di una galleria coperta, esso congiungevasi alla corte dell'Arengo ed alla rocca di Porta Romana: e in vista delle sue mura massicce, della fossa che lo cingeva e della porta munita di ponte e di saracinesca, poteva dirsi un castello. — Erano in esso ampii e splendidi appartamenti pei prìncipi, belle e commode stanze pei cortigiani, cui si accedeva per diversi cortili. Il pian terreno serviva in parte ai domestici ed al presidio; il resto racchiudeva immense [79] stalle, e quei famosi canili in cui si nutrivano a spese dello Stato migliaja di bracchi e di segugi ed altretanti alani, con una turba di canattieri di proverbiale ferocia.

Nella parte più remota ed obliata del palazzo esisteva l'alloggiamento di Medicina. Per arrivarvi era necessario percorrere un riscontro di cortili, salire scale e pianerottoli, girare anditi e ballatoj. Chi avesse osato spingersi fin là, doveva far conto di schiassuolare da un labirinto, per trovare la via del ritorno.

Medicina, non dissimile da quegli animali, che vivono ed ingrassano nei mondezzaj, si dilettava di abitare una topinaja, la cui sporcizia faceva torcere gli occhi ai curiosi, e ravvolgeva la sua potenza in qualcosa di uggioso e di spaventevole. Avrebbe potuto ottenere una dimora più commoda: non la chiese e non l'avrebbe accettata, per la stessa ragione che il mendicante non vuol dimettere i cenci, che gli servono di mostra a tenere in credito la professione.

Abitava egli dunque nella parte più alta del palazzo, in una cameruccia a tetto, che aveva le anguste proporzioni di un forno. Vi penetrava scarsa la luce da piccole finestre protette da una fitta graticciata tutta polvere e ragnatele. Dalla impalcatura della volta annerita dal fumo pendevano gli scheletri bianchi di un icneumone e d'un cocodrillo. Un immenso avoltojo cogli occhi di vetro, ed una strige colle ali aperte, parevano creature vive impazienti di un varco per escire a volo. Sul fondo della parete, di colore arsiccio e bituminoso, tutta fessa e sbullettata, erano schierati a varii piani fiaschi e vaselli differenti di misura e di [80] forma, ampolle ed ampolline di vetro, di terra, di metallo; alcune colorite dal liquido contenuto; altre lucenti di un riflesso argentino o di color cupreo. Di qua storte e lambicchi destinati a stillare acque salutari o velenose; di là fornelli e crogiuoli; e nel mezzo, sopra un cippo di serpentino, una sfera a grandi armille, poi un astrolabio, che al dì d'oggi farebbe andare in visibilio un antiquario; e in giro tavole nere, con suvvi disegnate a bianco figure angolose, o curve, o serpeggianti: strana traduzione delle cabale non per altro riverite dal vulgo che pel merito d'essere affatto incomprensibili.

Poichè è necessario tenere di vista quest'uomo, che non è l'ultimo personaggio del racconto, sarà bene che visitiamo la sua officina, e che lo cogliamo di sorpresa in uno dei momenti, in cui egli s'abbandona con tutta sicurezza all'esercizio delle sue arti malefiche.

Vestito di una zimarra bruna che traeva al rosso, tutta squarci e rappezzature, coperto il capo d'una beretta a cono simile ad uno spegnitojo, andava egli tramenando la mestola entro un pentolone, dal cui bollore, simile allo scrosciare della pioggia, surgeva un fumo nero e nauseante. Questo lavoro non gli impediva di conversare con un uomo di statura mezzana, d'aspetto ambiguo, e vestito assai poveramente, che gli stava dinanzi coll'aria umile di un accattone.

“Mal vecchio, mal cronico ed incurabile, Seregnino mio: che vuoi che io faccia?„ diceva il negromante, senza levar lo sguardo dal suo fornello, che gli vibrava sul volto una tinta infocata, opportunissima a chi volesse dipingere il demonio.

[81]

“Lo so, messere, lo so: non si viene da voi che per farsi acconciare l'osso del collo. — E voi ci riescite, quando vi mettiate all'impresa da quell'uomo che siete. — Ajutateci, messere, ajutateci per carità; e non ci troverete ingrati. — Una manata d'ambrogini per ognuno dei nostri nemici, che avrete spedito al cassone. — Non è un affare spregevole, eh? Ve lo dico e ve lo prometto in nome della comunità„.

“Figliuol mio, non si crede al santo, finchè non ha fatto il miracolo; — soggiunse Medicina crollando il capo con aria incredula. — Ma pure.... vediamo. Raccontami per ispasso e più chiaramente qual è, e come ti venne dato l'incarico da' tuoi borghigiani. Ma cerca d'essere spiccio, e sopratutto sincero„.

“Ecco la storia genuina; — prese a dire l'incognito avvicinandosi al ciurmatore, e biasciando le parole per trovare un buon esordio. — Ecco qua... Da un pezzo i nostri di Seregno soffrono ogni maniera di villanie per colpa dei vicini di Desio. Una volta costoro vengono a far vendemmia nelle nostre vigne, od a danzare sui seminati; un'altra ci tagliano i cedui, o ci spazzano i pollaj. Sempre poi (perchè questo è frutto che matura in ogni stagione) svaligiano i forastieri stilla strada che congiunge i due comuni; e se il mal capitato è uno dei nostri, ce lo rimandano spoglio e con un rifrusto di legnate. Non v'è pietà per donne o bambini; non più rispetto pei vecchi; inutile pregar Dio e i santi: è un toccarne ad ogni momento, una pioggia d'insulti e di violenze, che gridano vendetta in Cielo. Poco tempo fa ci hanno spedito in borgo il nostro Console, la miglior pasta d'uomo, derubato, [82] pesto, seminudo e colla faccia sfregiata per ischerno da nero fumo, che faceva venire la bruttura ai bimbi. E quando i furfanti hanno un somaro morto o peggio, lo trascinano di notte sulla nostra piazza, e ve lo lasciano con un cartello, che dice: date sepoltura a un fratel vostro. — Vi par piccola cosa, cotesta? Di simili baronate avrei da contarne un pien sacco„.

“Dicendovi che il vostro male è incurabile, non intendeva parlare dei bocconi amari che dovete inghiottire; non è questo il peggior malanno. — Il cancro l'avete voi altri nel cuore, che vi fa piagnucolare, e non sa trarvi d'impaccio. — Sentiamo un po': chi sono e quanti quelli di Desio? Chi e quanti quei di Seregno? Oh per la conca di s. Giovanni! Fate anche voi, come fanno essi: pan per focaccia. — Pigliate l'armi, correte sul comune del nemico; fatevi render ragione degli insulti; e compensatevi dei danni. Se non bastano le minacce, date la picchierella al primo che vi capita alle mani. E se non basta neppur questo, battete all'orba; mettete a ruba le case dei nemici, appiccate il fuoco ai quattro canti del villaggio... Per Dio! che cuore è il vostro?„.

“Si è pensato anche a ciò... ma...„

“Il piovano v'insegna, che le busse sofferte per l'amor di Dio, spingono a gran passo sull'erta del paradiso, n'è vero? — „ soggiunse sghignazzando Medicina.

“Il piovano ha cura d'accendere ognidì una lampada a S. Martino.„

“E' non gli crocchia il ferro al vostro santo: — replicò con ghigno ancor più satanico il ciurmatore. Ebbene volgetevi a lui; ei cangerà i conigli in leoni.„

[83]

“Eh via, messere, non andate in collera per ciò. — Se fui mandato a voi, gli è che si ha confidenza nel vostro ajuto.„

“Non avete chiesto finora consiglio ad altri?„

“No, no: ve lo giuro come se fossi in punto di morte„ — riprese il Seregnino, ponendosi il palmo della mano sul petto.

“E chi snocciola in caso che io accetti?„, soggiunse il ciurmatore sospendendo il suo lavoro, e facendo colla mano l'atto di chi numera delle monete.

“Quei del comune.„

“Il mio secreto in mano al comune ed alla comunità — Fossi matto....!„

“Come volete che si faccia altrimenti?„

“Bisognava venir qui cogli spiccioli, e pagar anzi tutto.„

“Rimango io qui in mano vostra, come ostaggio.„

Medicina non potè trattenere una goffa risata. — “Grazie dell'offerta: un poltrone tuo pari da satollare. No, no; vattene con Dio, torna al tuo paese, e dì a' tuoi, che chi tosto crede, tardi si pente.„

Seregnino rimase come colui, che si sente cascar di mano il pane. Andava mendicando ragioni, e almeno parole, per rabbonire il negromante; e intanto lo guardava con un viso piagnoloso e scontento, come se volesse moverlo a pietà.

“Che fai qui, baccellone? — ripigliò Medicina con tuono adirato; — t'ho già detto il pensier mio. Vattene alla malora e dì a chi t'invia, che di buone intenzioni è pien l'inferno; e che si rivolgano ad altri, chè io non ho nulla per loro.„

[84]

L'inviato del Comune, vedendo che s'addensava sul suo capo un temporale, non volle insistere, ma nel ritirarsi, bel bello, faceva scricchiolare gli scarponi, come se escisse a gran passo; e intanto aveva l'occhio al ciurmatore, sperando ancora d'essere da lui richiamato. Nè il suo presentimento fallì; poichè giunto sulla porta vide che Medicina, deposta la mestola, si volgeva a guardarlo, e gli faceva cenno colla mano di tornare indietro.

Forse fu il liquido fumante della caldaja, che dalle sue bolle infocate spinse un vapore inebriante alla testa di Medicina, e vi risvegliò un progetto temerario ed infernale. Pensarlo, studiarne il piano, indovinarne il risultato, fu un punto solo. Per l'esecuzione aveva bisogno di un compagno, o meglio di un complice, e designava il Seregnino a quest'officio.

Il primo ed immediato suo scopo era quello di far del male; chè nel male degli altri egli, pe' suoi malvagi istinti, riponeva ogni suo bene. In via d'appendice poi, per cavar costrutto dalle sue fatiche, aveva ideato di riservare a sè la diffusione di un rimedio atto a scemarne gli effetti; e questo rimedio doveva costar salato ai borghigiani. E qui stava la morale del suo disegno. — Udiamolo il progetto dalle sue stesse parole.

“Vien qua, mártore, — disse Medicina richiamando l'altro con un tuono di voce alquanto raddolcito. — Non si dica mai che io ho cacciato chi implorava il mio soccorso.„

Il Seregnino gli si avvicinò sollecitamente.

“Senti che cosa m'è frullato per la fantasia. Quel [85] che vorrebbero fare i tuoi amici del comune, perchè non lo facciam noi, a tutto nostro diletto e profitto, senza dar ragione alle comari del che e del come?..„

L'uditore aveva tanto d'occhi, e mostrava la sua crescente meraviglia sbarrando la bocca ad ogni parola.

“In questa pentola, ripigliava, v'è di che mandar due volte quei di Desio a dar le barbe al sole: basterebbe versare una presa della polvere, che sta sul fondo, in ogni scodella da massaro, poi — e fece un gesto, che non è possibile tradurre, — tutto il paese sarebbe in preda a una furiosa moría. Non ti spaventare, non mi far gli occhiacci; ascoltami. A noi basterà dare a quei gradassi una seria lezione per farli saggi ed amicarli coi vicini. — Gitteremo una dose conveniente di questa polvere, nelle fontane... e...„

“Quale ne sarà la conseguenza?„ — chiese il Seregnino sbigottito.

“I terrieri di Desio, m'imagino, ad eccezione del piovano, saranno accostumati a bere acqua e ad attingerla alla fontana. — Quei villani che, tornando dai campi trafelati e sitibondi, si chineranno su di essa per succhiarne una buona tirata, di lì a poco, côlti da un granchio mortale, non avran tempo di chiamare il prete. Ma ciò non accadrà che a più robusti e ai meno temperanti. In quanto al grosso della popolazione che la ingoia nei modi ordinarii, dilungata coi cibi e a corpo fresco, non accadrà tanto male; o per lo meno il male andrà sì a rilento da accordar tempo di porvi rimedio, e in ogni caso quello necessario a dimandar perdono dei peccati, e salvar l'anima. — Da principio sentiranno arsura allo stomaco, [86] poi abbandono di forze e d'appetito, infine una malavoglia ed un fastidio, che li trarrà supini a chieder mercè a Dio ed agli uomini.„

“E poi?...„

XCIX.

La scelerata vendetta proposta dal ciurmatore non tardò ad essere compiuta per mano del suo degno satellite, il Seregnino. — Subito dopo l'inquinamento delle fonti, cominciarono a manifestarsi nel villaggio deplorabili casi di decessi e di malattie inqualificabili. Alcuni spiravano come fulminati da una sincope; altri ammalarono, accusando sintomi nuovi e stravaganti, ai quali la dottrina empirica d'allora non sapeva applicar un nome, e meno ancora un rimedio. Il resto della popolazione portava le impronte dello sgomento sul viso allibito, negli occhi invetrati, nell'andar lento e scomposto. Per giustificare i primi casi, si trovarono le solite contorte ragioni. Chi moriva di colpo era un beone, un diluvione, un uomo senza modo e senz'ordine. Ma quando i casi si fecero più spessi, il chiamarli tutti colpa delle povere vittime era un vezzo crudele, che non bastava neppure a tener tranquilli i superstiti, tocchi essi pure dai sintomi d'una stessa natura. Le menti esaltate dal veleno e dalla paura, pretesero di trovare l'origine dei loro mali in un ordine più alto di cagioni; la prima e la più ovvia di esse fu il credere d'essersi meritati un castigo di Dio. — Quelli che avevano ancora forza per reggersi, accorrevano [87] in chiesa, e si prostravano umili e piangenti, a dimandar perdono dei loro peccati. Fu spedita una eletta d'uomini a Seregno, per confessare i torti dei compagni e chiederne scusa. — Il piovano, che in mezzo a tante miserie, per la ragione già presentita da Medicina, conservava una faccia tonda e rubizza, volendo trar frutto dalla disgrazia, fece tuonare dal pulpito la sua voce, per indurre i peccatori a mutar vita, e a meritarsi il perdono del cielo: mallevando che l'avrebbero ottenuto col riempire il bossolotto delle elemosine.

Quando Medicina, informato d'ogni andamento, potè chiamarsi sodisfatto del successo ottenuto, pensò al resto del suo disegno, dal cui compimento sperava un doppio effetto: quello, cioè, di rassodare il proprio credito col restituire la salute ai borghigiani, e quello ancora più importante di ottenere per sè un generoso compenso della sua turpe impresa.

Aspettò che s'entrasse in quaresima, e fece correre la voce pel borgo, che un santo eremita reduce di Palestina, con un carico di reliquie e d'indulgenze, informato della terribile calamità che affliggeva quella terra, sarebbe accorso ad offrire ad essa il tesoro della grazia divina e il conforto della salute del corpo. — Con quanta ansietà, con qual fede ei fosse aspettato ed accolto, lo imagini chi può farsi un'idea della disperata paura di quegli infelici, che già sognavano il finimondo.

Per eludere ogni sguardo malizioso, Medicina s'ornò il mento d'una barba posticcia, la fronte e le guance alterò con rughe profonde, si chiuse nel suo mantello, [88] avvolse la testa nel cappuccio, prese il bordone e la sporta, ed entrò in borgo col capo chino e curvo nel dorso, come se fosse vecchio d'anni e di penitenze.

Seregnino, quantunque dopo un mese di soggiorno in Milano avesse spogliata l'aria povera e macilenta della sua condizione, dovette mascherarsi con maggior studio, temendo di essere scoperto. I suoi l'avevano conosciuto magro allampanato; ora, dopo i beati ozj dell'officina, s'era vestito di carne soda e rubiconda. — Nondimeno, per ingannare il più fino sguardo, si fe' radere il capo e le ciglia, e si appiccicò una barbetta rossa. — Medicina poi, per isviare la curiosità della gente che non avrebbe lasciato di chiedergli se il suo compagno era un santo di egual peso, improvisò una ridicola storia sul suo conto: spacciando essere egli un infedele convertito, che dianzi non aveva nè legge nè fede, e che, tocco dalla grazia divina e dalle sue parole, abbandonò una greggia di mogli e di schiavi, rinunciò alle ricchezze, ed all'abitudine di mozzare la testa a chiunque non gli andasse a versi, per farsi battezzare nelle acque del Giordano, e divenire il più mansueto, il più savio, il più virtuoso della cristianità. Peccato, però, ch'ei non sapesse spiegarsi che nella lingua del suo paese. Così Medicina diè l'imbeccata al suo allievo; il quale, arrischiando solamente qualche monosillabo tolto a imprestito da una lingua di sua invenzione e pronunciato con una voce fessa e nasale, riesci a farsi credere un miracolo ambulante, una vera pasta di paradiso.

Medicina, tornato alla vita d'altri tempi, aperse le cellule della sua memoria per trarne, coi ricordi della [89] gioventù, gli infallibili secreti di gabbare il mondo. Dall'alto di un palco, costrutto sulla piazza, ed ornato di sacri emblemi, egli dominava la folla collo sguardo e con la parola. — Il primo volgeva spesso al cielo in atto di profonda pietà; l'altra ora improntava di un'eloquenza maschia, minacciosa, terribile, atta ad estinguere ogni avanzo di ribellione; poi tornava piano, mansueto, affettuoso a segno da svegliare negli ascoltatori un tenerume, che si squagliava in lacrime ed in picchiamenti di petto. Il vulgo gradiva tutto: le parole di chiaro senso, come i bisticci inesplicabili ed arcani; anzi forse più questi che quelle.

Certo ormai il ciurmatore d'aver fatto colpo sulla moltitudine, pensò di accreditare le parole col dare un pegno luminoso della sua benefica influenza. — A quest'uopo, di piena notte, (dopo d'aver consigliato ai terrieri di ritirarsi al cader del sole) si recò alla fontana avvelenata, e v'introdusse un reagente atto a cangiare la sostanza venefica sparsa nell'acqua in un'altra di diversa natura che, precipitata nel fondo, doveva rendersi affatto insolubile, e quindi innocua. Per maggior cautela, il dì seguente consigliò all'uditorio di correre ad una fontana fuor del paese, che per inspirazione del cielo gli era stata indicata come ricca di miracolose virtù. Propose agli infermi che s'inebriassero di quell'acqua salutare; e ne porgessero largamente a coloro, che non potevano trascinarsi alla fonte. — Tacciamo delle preci, delle offerte, degli atti di pietà, che inculcava ai devoti, onde rendere più efficace l'uso del farmaco. Fatto è, che al terzo giorno cominciarono a manifestarsi, in modo non dubio, i sintomi di un generale [90] miglioramento. Già i borghigiani, rapiti dall'improvisa ed insperata grazia, gridavano al miracolo: e Medicina, frenando l'incomposta esultanza dei creduli, gridò dal pergamo la ragione alta e secreta del grande prodigio.

“Figliuoli miei, disse egli; sapete voi perchè da due giorni i vostri dolori sono calmi, perchè cominciate a sentire i benefici effetti della salute?... Ve lo dico io — Ho fatto per voi il voto di portare in Terra Santa tant'argento che basti ad ornare il santo sepolcro di una lampada che arderà sempre in memoria della grazia ottenuta. Il cielo accetta il dono che io fo secondo le vostre intenzioni. Ora tocca a voi a mostrarvene degni. Il bene che ora cominciate a sentire, vi può essere tolto, se voi mancherete al sacro patto che io ho giurato in vostro nome. — Guai figliuoli, guai! Pensateci bene: pensate se, per conservare quell'inutile materia, vi conviene perdere la salute del corpo in un con quella dell'anima.„

Non appena ebbe dette queste parole, vide ammucchiarsi intorno a sè tutto quel poco ben di Dio, che i borghigiani avevano in tasca. E questo era un nulla. Tutti correvano alle loro case, e mettevano la mano sui ruspi e sui tesoretti, raggruzzollati a gran fatica o nascosti. Alcuni vi fecero una importante sottrazione; i più deposero il proprio, tal quale, ai piedi del liberatore. Erano piccoli valori; ma gli offerenti erano molti; la somma fu tale, perciò, da vincere l'ingorda aspettazione di Medicina.

Il dì vegnente, caricate su di un somaro (dono esso pure di un povero contadino) l'elemosine raccolte, [91] partì col suo compagno alla volta della città. — Egli riportava intatta un'altra dose della polvere micidiale, di che intendeva far uso in caso di renitenza o d'insolvibilità de' suoi protetti. Ma i borghigiani erano stati fin troppo docili; non mancava altro, che il portassero in trionfo fino a Milano; e l'avrebbero fatto, se Medicina non avesse imposto loro di ritornarsene. Obedì quella buona gente come alla voce di Dio, e tutti si ritirarono nelle loro case a gonfiarsi d'acqua benedetta, a magnificare il miracolo ottenuto, ed a consolarsi del vuoto della borsa, pensando con nobile orgoglio che il loro nome avrebbe suonato glorioso fino nella terra degli infedeli.

C.

Medicina in ogni sua azione soleva proporsi più di uno scopo. Il primo e il più palese, come già si è veduto in tante occasioni, era il guadagno. L'altro o gli altri, collocati, direm quasi, in seconda linea, erano le anella di una catena d'interessi diversi, con mezzi e fini loro proprii, tanto più cupidamente vagheggiati, quanto erano meno facili a raggiungersi.

Nell'affare di Desio si è veduto com'egli abbia toccato vittoriosamente il primo scopo; diciamo ora qual altro disegno nutrisse, e come volgesse a quello ogni suo procedimento.

Medicina era stato punto al vivo dal rovescio toccatogli a Campomorto. Non appena ebbe salva la vita, abbandonò l'affettata mitezza con cui cercava ricomprarla [92] a prezzo di viltà dai vincitori, per tornar quello di prima, l'uomo della vendetta. Non sapeva dire se più gli dolesse il perduto bottino o l'onta della sconfitta. La speranza di avere la rivincita dello smacco sofferto, e di vendicarsi di chi o di che ne era stata la cagione, era l'unico refrigerio di quella doppia spina. Ottenuto il primo intento, l'altro non poteva andar fallito.

Ma quando voleva trovare il bandolo della strana avventura, egli era costretto a frugare nel bujo, e vi si smarriva. Allora riassumeva i suoi voti nel progetto di rendere male per male, aggiungendo al novero delle sventure che affliggono l'umanità una sventura di più, come se questa fosse la restituzione di un valore preso a mutuo, e gli togliesse dalla coscienza il peso d'un debito.

I suoi primi pensieri di vendetta erano rapidi, febrili, sanguinarii: ma non avevano costrutto. Avrebbe voluto radere al suolo il villaggio; ucciderne gli abitatori, far di tutti e di tutto un orribile scempio; e poi gli pareva che sarebbe stato l'uomo il più felice della terra. Ma una voce interna, dato giù il primo bollore, applaudendo all'ardita impresa, gliene chiedeva sommessamente i mezzi. Allora la terribile sentenza, sottoposta all'esame della mente esperta al malfare, veniva richiamata entro i limiti di una moderazione tanto più terribile in quanto che rendeva facile ciò che prima era impossibile. — In questa nuova fase, Medicina risolvette di trovare una vittima qualunque, che espiasse la colpa dell'ignoto destino. La mente sua non andò molto fantasticando [93] nella ricerca: la vittima designata fu Agnese Mantegazza.

Ci verrà chiesto perchè scelse Agnese e non altri? perchè rivolse le sue ire contro costei, che non gli aveva fatto alcun male, e che appena conosceva di nome?

La passione da cui era mosso Medicina, entrata in un secondo stadio e divenuta più fredda, non voleva essere cieca. Appunto perchè l'ira sua non aveva un punto fisso, egli ne faceva questione di opportunità, libero essendo di sfogarla dove e quando meglio gli conveniva. Per una sorte fatale, Agnese fu la prima vittima che gli si presentò alla mente, e il vendicarsi su lei, gli parve cosa che gli offriva la maggior probabilità di riescita, e le migliori condizioni. Forse egli pensò di colpire nella castellana di Campomorto tutta quanta la popolazione del villaggio; forse la fuga di lei, le sue avventure, l'affetto istesso che ella nutriva pel conte, e la protezione che ne ritraeva, gli risvegliarono nell'animo la scelerata compiacenza di distruggere una nascente fortuna ed un futuro pieno di speranze.

Che se queste ragioni pajono deboli, non si ha che a studiare la malvagia natura di quell'uomo, per convincersi ch'egli doveva odiare istintivamente Agnesina. Vera incarnazione dello spirito maligno, era e doveva essere implacabile nemico di colei, ch'egli reputava la stessa virtù. Risoluto ed estremo nelle sue ire, come sagace e prudente nello scegliere i mezzi a sodisfarle, doveva preferire una guerra d'intrighi, ricca di mezzi, ad ogni slancio subitaneo e pericoloso. Ei si [94] preparava pertanto a tirar botte all'oscuro, certo di ferire altrui, ma più ancora certo di salvare sè stesso.

Appena ebbe digrossato il suo perfido disegno, trovò la necessità d'avere un compagno, che lo ajutasse a metterlo in opera. — Lo cercò; o, meglio, il caso glielo offerse in Bergonzio detto il Seregnino, l'uomo fatto per lui. Il suo corto ingegno lo rendeva fedele ed ossequioso; una spensierata temerità, figlia della sua stessa ignoranza, dava a lui l'incrollabile fermezza dello scoglio che sopporta inerte il flagello delle onde. Medicina aveva, per mezzo suo, raddoppiate le forze del suo braccio, ed esteso il raggio della sua malefica influenza, senza ledere l'unità del comando. — Il compagno volava dovunque fosse spedito, senza chiederne il perchè, senza mai pattuire la mercede avanti il lavoro, o pretendere di indovinare le conseguenze prima dei fatti. L'affare di Desio diede occasione ad entrambi di conoscersi bene; la cieca servitù dell'uno divenne, per dir così, il complemento della versatile e poderosa volontà dell'altro. Per tal modo, Medicina aveva scelto il campo della nuova guerra, e stretta la necessaria alleanza per accertarne la vittoria.

Senz'altro occuparci delle tenebrose macchinazioni di quel ribaldo, senza seguire le oblique tracce percorse da lui e far tesoro dell'arcana scienza degli scelerati, vediamolo alle prove, e giudichiamolo secondo i fatti; condonando a lui quel tanto che restò entro i confini di un male incompiuto.

Qui si rannoda il filo che abbiamo spezzato per pigliare notizia di una serie di avvenimenti anteriori [95] al racconto, ma che formano parte integrante di esso, perchè ne preparano e ne affrettano lo scioglimento. Ricordi il lettore d'aver lasciata Agnese impensierita, mesta, incerta del proprio avvenire, sempre però amante, malgrado il dubio crudele di non essere più ricambiata di pari amore.

CI.

In un giorno di maggio dell'anno susseguente ai fatti di Campomorto, Bergonzio da Seregno detto il Seregnino, recava uno scritto da Milano a Pavia, e più precisamente dalla Rocca di Porta Romana al casolare in cui viveva nascosta la nostra eroina. — Quel foglio, chiuso in quarto e suggellato a nero, conteneva delle linee irregolari, sgorbiate, sconnesse, che davano certo indizio della fretta e del pericolo in mezzo al quale erano state tracciate. La firma recava il nome di un prigioniero ascoso in uno scarabocchio misterioso. Solo una persona esperta avrebbe potuto leggervi queste due parole: Ognibene Manfredi. — Questo nome, tutto nuovo per noi, era famigliare ad Agnese: era l'unico degli amici della sua casa, che dopo la dolorosa catastrofe le rivolgesse la parola.

Agnese, che aveva accolta dalla stessa mano di Bergonzio quello scritto con un'aria di stupore, rese a lui un sorriso di compiacenza tosto che ebbe aperto il foglio e riconosciuto il nome di colui che lo inviava.

Ecco il senso di quella lettera: lasciam da parte il testo, perchè il suo stile non volga al ridicolo una cosa [96] che ne pare abbastanza seria per sè e per le sue conseguenze.

“Madonna! Colui che vi scrive è l'unico amico di vostro padre, che non siasi giovato del suo generoso consiglio per scampare all'ira del tiranno. Egli non vi chiede lode o riconoscenza per ciò. Dio fu già troppo buono con lui se lo destinò a rendere un servigio alla figlia di quell'uomo che non pose misura ai sacrificii per essere utile a' suoi concittadini.

“Sono molti mesi, ch'io vivo nel carcere di Barnabò Visconti. I miei giudici mi hanno dimenticato: Dio ruppe loro i fili della memoria, ond'io sopravivessi. Sono abbandonato da tutti, fin'anco dall'ira degli uomini. — In questo mezzo non vidi creatura viva, fuor quella, che vi recherà questo scritto, e l'altra che, a caso o per volere di Dio, me ne fornì l'argomento. In questa profonda solitudine i miei pensieri non escirono mai fuori di una via. Non ebbi bisogno di chiudere gli occhi per non vedere i raggi del sole. Qui il giorno e la notte si rassomigliano. — Ma in questo eterno languore dei sensi, il mio spirito non si stancò di pensare a voi e di pregare il cielo che prima di morire mi facesse degno di rendervi un po' di quel bene ch'io ricevetti dal vostro genitore.

“Le mie preghiere furono esaudite. Il povero prigioniero, cieco dalla diuturna oscurità, ormai disperato d'escire dal carcere che per la mannaja, vi compiange, o Madonna; sì, egli osa compianger voi libera delle vostre azioni, voi ricca di gioventù e di bellezza, e consolata nei vostri dolori dalle lusinghe di uno splendido avvenire.

[97]

“Un uomo, di cui non so dirvi il nome, ma che vi ama, e che apprezza altamente le vostre rare virtù, un uomo esperto del mondo e delle sue ribalderie, arrivò a me, per parlarmi di voi ed eccitarmi ad interporre la mia parola, onde siate avvisata del pericolo che vi sovrasta.

“Egli sa, che voi vivete in Pavia all'ombra di un gran nome, e che riponeste vita e virtù nelle mani di lui, credendo che i suoi giuramenti fossero saldi ed inviolabili come la parola di vostro padre. — Povera illusa! Mentre voi sognate un futuro pieno di gioje e di grandezze, qui in Milano, alla corte di Barnabò, quell'uomo patteggia un'alleanza, che spezzerà tra breve il legame, che a voi lo congiunge.

“Se questo legame può essere ancora dinodato, deh, per l'amore di vostro padre, affrettatevi a svolgerlo, perchè l'onor vostro n'esca integro ancora! — Se no; Dio punisca il traditore; e voi non aspettate a fuggirlo il dì in cui dal balcone del castello di Pavia saranno proclamate le nozze del Conte di Virtù con Caterina figlia di Barnabò Visconti.

“Colui che vi parla per mezzo mio, giura che le pratiche intorno a quest'affare sono avviate da circa un mese, e toccano ormai ad un risultato. — Colui che scrive vi scongiura, per quanto vi ha più sacro, a prestar fede alle sue parole, onde sia salvo l'onore di un nome che suona caro a tutti gli onesti.

“Ognibene Manfredi.„

Quanto strazio per la povera Agnese a quella terribile novella! che cuore fu il suo all'impensata rivelazione! Ben è vero, che già da qualche tempo ella [98] stessa aveva ravvisato nel suo amante qualcosa d'insolito che le cagionava inquietudine. — Ma al nascere de' suoi sospetti li aveva cacciati con isdegno, chiamandoli ingiusti ed irragionevoli. Se talora lo vide pensieroso e preoccupato, come chi volge in mente un secreto e teme che altri lo scopra; all'atto di vederlo partire dovette confessar sempre ch'egli era ancora egualmente tenero ed amoroso verso di lei. I dubii surgevano ad ogni occasione che lo vedesse taciturno; ma si dileguavano tosto ch'egli aprisse le labra per dirle una parola sola. Più di una volta lo aveva supplicato a volerle rivelare la cagione della sua mestizia; e ne lo pregava con quel fare ingenuo, che mentre accenna ad una pietà sollecita ed insistente, esclude ogni sospetto di vana curiosità. Qualche volta era giunta a tanto da metterlo sulla via di dichiararle tutto francamente, foss'anche un pensiero oltraggioso alla sua fede. Ella lo aspettava a questo varco, per combatterlo: ma non ottenne nulla, neppure la confessione ch'egli fosse alcuna volta men sereno di quello che era stato in addietro. — Agnese desiderava ingannarsi; ma l'ostinata negativa di un fatto evidente non faceva che dar corpo alle ombre, e rassodare i sospetti.

Il suo cuore, al lontano timore di un disinganno, si era fatto più sobrio nelle sue manifestazioni. L'occhio, divenuto più penetrante, osservò spesse volte che l'incontro dei due sguardi suscitava in lui un ritorno alle abituali amorevolezze, quasi fosse un trionfo della volontà che gli imponeva di riaccendere la vecchia face, per disperdere la luce sinistra di un sospetto. La lotta durava brevissima, ma non era perciò meno [99] grave. La vittoria era sempre per lei; poichè, una volta spianata l'unica ruga, che solcava quella fronte malinconica, egli tornava l'amante appassionato dei tempi felici.

V'ha una mestizia che si accorda colle emozioni delle anime innamorate, ed è per l'amore ciò che il ritmo flebile è per l'elegia; ma questa mestizia non è mai accigliata o taciturna. Pronta forse agli sdegni, imaginosa nel creare scene lugubri, nutrita a preferenza di lacrime, essa è elemento di vita; non impietra i cuori, ma li accende. — La tristezza che si dipingeva sul volto del conte era d'altra natura. Simigliava alla piccola nube, che incontra momentaneamente i raggi del sole, ma lo attraversa e lo sgombra di colpo. Se l'oscurità ch'essa cagiona è ben lieve sciagura per l'uomo che ama il limpido ed il sereno, la sua densità e il vento che la sospinge sono di tal natura che danno a sospettare pel dimani. — Così pensava Agnese; la quale avrebbe di gran lunga preferito uno sdegno vivo all'invincibile riserbo del suo amante.

Una sola cosa le tornava a tutto conforto: la certezza, cioè, ch'ella non poteva essere cagione di quel mutamento. Perocchè ogni volta che si diseppellivano le memorie del passato e le recenti emozioni, l'amante non trovava in esse noja o sazietà; anzi, in quei discorsi che pajono inezie a chi ha il cuor vuoto, egli rinverdiva il suo animo, e tornava all'estasi ed alla poesia d'altri momenti.

Oh quante volte i sospetti nati da un amore geloso morivano tra le emozioni di un amor confidente! Come spesso Agnese prometteva a sè medesima di combattere [100] le pungenti istigazioni del primo, e di coltivare l'altro, sì ricco di conforto e di speranze! Quante altre volte alle più o meno contorte ragioni, con cui la gelosia creava freddezze e colpe, contraponeva una franca ed illogica negativa, a cui il cuore piegavasi docilmente, come l'atleta infermo al rimedio di una feminetta. — “Oh no, non mai; ciò è impossibile; — ella diceva fra sè con quella fermezza che non ammette discussione; — ciò è impossibile. Egli mi ama troppo; offendendo me, egli offenderebbe sè medesimo; ne' miei stanno i suoi interessi.„ Ed accettava queste parole come una verità che non è lecito mettere in dubio, e beveva a larghi sorsi un palliativo che attenuava i suoi dolori, che talvolta sembrava calmarli del tutto. Ma al rinovarsi del parossismo, il cuore si palesava sempre più sensibile al male, sempre meno obediente al rimedio. — Ognuno di quegli accessi era una nuova spina, cui voleva e sapeva strappare dalle sue carni lacerandole; e, pel momento, lo strazio della operazione faceva tacere l'assidua puntura; ma un avanzo del corpo estraneo, rimaso nella ferita, riproduceva tosto il male più gagliardo e più profondo di prima.

Mentre Agnese cercava invano delle ragioni valevoli per combattere i suoi sospetti; il conte non s'accorgeva che la fanciulla fosse, per colpa sua, meno felice. — Non a capriccio nè per calcolo egli aveva determinato di tener coperta una piaga, di cui forse sentiva del pari il dolore e la vergogna. Tacendo, ei credeva nasconderla; negandola, ei pensava di correggere l'altrui prevenzione; e se alcuna volta gli correva dalla mente al cuore un rimorso, egli sapeva costringerlo [101] al silenzio, confessando a sè stesso che l'amor suo per Agnese era ancora quello dei primi giorni, e giurando che non isperava trovar mai in altra donna quel bene, che Agnese gli aveva fatto gustare.

Così passarono le settimane racchiuse tra la visita del conte, di cui si è fatto parola addietro, e l'arrivo della lettera accennata or ora. — Ma dopo questa, come poteva essere calma e preparata a correre incontro al suo amante?

Appena ebbe percorso il foglio fatale, pronunciandone mentalmente ad una ad una le parole, lo lasciò cadere a terra, e, copertasi il volto colle due mani, rimase alcuni momenti immobile in atto di meditazione. — Poscia, scuotendosi, rese grazie con voce commossa a chi le aveva portato la parola di un amico che già dubitava d'aver perduto. Non volle sembrare sconoscente nemmanco al Manfredi, benchè il servizio che le veniva reso da lui fosse tanto doloroso. S'accostò quindi allo scrigno, e vergò su di un foglio la sua risposta, la quale non fu per certo nè la più pensata, nè la meglio corretta cosa che escisse dalla sua penna. — La passione però vi era rappresentata fin troppo fedelmente; e non mancavano le parole di cortesia per colui, che le aveva data una funesta ma veritiera prova d'affetto. Trasse infine dalla borsa, che le pendeva alla cintura, alcune monete, le porse a Bergonzio, e lo congedò.

Tanto impero sulla sua volontà durò il tempo necessario all'escita di quell'incognito. Rimasta sola, invano avrebbe tentato di prolungare una violenza che le recava strazio insopportabile. Fece alcuni passi [102] barcollando, giunse a stento ad afferrare la spalliera di una sedia, vi si appoggiò un istante, poi si lasciò cadere di tutto peso sullo scranno. Le sue membra, colpite da languore, non l'avrebbero portata un minuto di più. Tutta la vita di lei si era raccolta negli occhi, che, guardando al cielo, sembravano implorar grazia; e forse l'ottennero nel dirotto pianto, che le aprì la via delle parole.

“O Signore Iddio, che ascolto io mai? sclamò ella, con un accento interrotto dai singhiozzi.... Possibile! mi si inganna, e.... perchè con me, e per mezzo mio, s'inganna un'innocente?... Quell'amore, che io accettai come un patto sacro e solenne, non sarà dunque altra cosa che il laccio teso ad un'incauta?... Il mondo è proprio sì tristo.... O poveretta me! O digraziata creatura, che odi tua madre ritrattare le benedizioni, che porse al cielo, quando tu ricevesti il soffio della vita. E questa vita sarà dunque per te una condanna prima d'essere un dono? Ma dov'è la giustizia? A che servono le promesse e i giuramenti? Perchè gli uomini chiamano Dio in testimonio del loro spergiuro?„

E piangeva, piangeva l'infelice a calde lacrime. — Poi ad un tratto, cacciandosi una mano nei capelli e scomponendoli in modo che si disciolsero in un'onda di trecce; — “o Signore Iddio, sclamò coll'accento della disperazione, se quanto mi vien detto è vero, fatemi morire. La morte è l'unico rimedio a' miei mali. Ma non mi condannate per pietà a vedere arrossire l'uomo che io amo; questo strazio vince ogni forza, abbatte ogni ragione. — Madre mia, che leggi nel mio cuore, [103] che presenti da questa l'angoscia che mi è serbata, deh, prega Iddio per me.... pregalo per quell'innocente, che io porto nelle viscere, e che è sangue tuo!„

E in dire queste parole, giunte le mani in atto di preghiera, rimaneva alcun poco muta ed assorta. — Forse credette d'essere esaudita, perchè sentì destarsele in cuore un dubio confortatore.

“Tutto quanto mi vien detto, soggiunse ella alquanto più calma, è egli poi certo? Ognibene Manfredi non sa mentire; ma chi è quell'anonimo che lo ha informato? È possibile che i secreti della corte penetrino le pareti d'un carcere? V'ha dell'improbabile in ciò. — E se mai?... povero Manfredi, in tempi più felici egli volgeva a me giovinetta l'occhio appassionato. Gli perdoni il cielo, s'ei cedette alle esasperate delusioni del carcere. — Forse pensò di parlare pe' miei interessi, e senza pur saperlo, non rispose che ai suoi.... Povero Manfredi; quanto sarei lieta di perdonargli un inganno, una menzogna!„

Ma queste sue parole errarono a fior di labra, e il conforto che ne provava non durò che il tempo voluto a pronunciarle. — Rimaneva quindi l'infelice in quella situazione d'incertezza, in cui la mente, pel troppo rapido lavoro, non afferra alcuna idea netta, e le comprende tutte indistintamente. La scena, che le si svolgeva dinanzi, era cupa; e le speranze cadevano ad una ad una, come le foglie di un fiore percosso dal nembo.

Entrava Canziana in questo punto, col suo aspetto sorridente, biascicando una frase famigliare com'era solita; ma, poichè ebbe veduto la padrona in quello [104] stato, inghiottì il sorriso e le parole e, con un espressione indefinibile di sbigottimento, le domandò:

“Vergine santa che ci è di nuovo?„

Agnese, senza risponder parola, accennò la lettera rimasta a terra, e con un gesto della mano che equivaleva ad una preghiera, la invitò a leggerla. Canziana raccolse il foglio; lo esaminò tutto quanto a corso d'occhio per indovinarne l'autore; e, riconosciutolo alla firma, l'ebbe come segno di buon augurio. Ma quando s'inoltrò nel pieno di esso, e comprese dove mirava, inarcò le ciglia, corrugò la fronte colpita da indicibile dolore; e, masticando la lettura a mezza voce, come sogliono coloro che non hanno famigliarità collo scritto, riempiva le frequenti interruzioni con sospiri ed esclamazioni, con atti di sorpresa e di angoscia.

“Che ne dici?„ dimandò la fanciulla, crollando la testa in segno di completa sfiducia.

Canziana non avrebbe certo risparmiato una buona parola, se questa le si fosse presentata alla mente. Dal canto suo, non tralasciava di metterla alla tortura per trarne un'interpretazione, che non fosse una sentenza. Ma compresa da quella rivelazione che per lei (non messa in guardia come Agnese dallo sveglierino della gelosia) riesciva ancora più strana, cedeva all'attonitaggine propria di chi è colpito all'impensata da grave sventura, e taceva.

“Tu taci mia cara: comprendo... io sono dunque irreparabilmente perduta!.., sclamò Agnese piangendo. Tu non hai una parola per consolarmi; a chi dunque io mi rivolgerò?„

“Figlia mia, non vi nego che la mi par terribile, [105] cotesta nuova... ed è per ciò che vorrei pigliar tempo a crederla....„; soggiunse la donna che finalmente aveva trovato il bandolo alla matassa, e ne dipanava quelle parole, che tornano gradite agli afflitti anche quando non significano nulla.

“Parla: dimmi, che non credi a quello scritto; che esso è menzognero; spiegati in nome di Dio.„

“Ecco qui, — ripigliava Canziana, facendo una breve pausa su queste prime parole che sogliono essere l'esordio delle persone imbarazzate. — Io vorrei aspettare a disperarmi quando vedessi meglio le cose. A nulla udienza, nulla sentenza. Finchè non si ode che una campana, è troppo facile decidere a torto. Non per metter male sul conto di messer Manfredi, che Dio me ne guardi: poveretto, egli è già troppo infelice; ma cosa può saper lui, dico io, di quanto passa fra i signori di Milano e di Pavia? È egli naturale che i secreti della signoria vengano rifischiati qui e qua al terzo ed al quarto? Uhm! più ci penso, e manco ci credo. Povero messer Manfredi, mi fa male il dirlo, egli è sempre stato una testa calda, e di rado ne imbrocca una giusta...„

Qui Canziana, vedendo che la padrona cedeva alle sue parole e si era racconsolata un poco, spiegò con più coraggio tutte le vele della sua eloquenza ad un'aura insolita, che le pareva di buon augurio.

“E poi, se anche quello che vi è scritto fosse nè più nè meno ciò che si è detto in palazzo, e che per ciò? Non li abbiam noi, povera gente, sbugiardati le mille volte quei signori del palazzo? Quante, tra guerre e paci, tra nozze ed alleanze, rimasero nel numero [106] delle panzane, di cui oggi si parla per fabricarne un grande avvenimento, e dimani si sparla per riderne di cuore? Anzi, mille volte (vostro padre, che Dio l'abbia con sè, lo diceva spesso) fu posta in giro una ciarla a bella posta per far volgere da un lato le viste dei curiosi, e intanto dall'altro lato azzeccare di soppiatto qualcosa di ben diverso... Insomma, quello scritto non è mica una bella cosa, ma non la è nemmanco sì brutta da perderne il senno. Quanto a me, (e si mise la mano sul petto in segno d'asseveranza) vi dico schiettamente, vo' farle un bel po' di tara a questa ciancia.„

Agnese, benchè alquanto rincorata da queste parole, si mostrava ancora poco proclive ad ammetterle come una verità, e ciò per due buone ragioni: prima, perchè non aveva dimenticato quei precedenti, di che abbiamo fatto cenno; poi, perchè è istinto di chi desidera fortemente una cosa, il combatterne le probabilità, onde provocare in altro una resistenza armata di tutte quante le ragioni che militano in sua difesa. In simil caso, ci è grato l'aver torto, e non ci stanchiam mai di sentircelo ripetere. Allora le ragioni nuove, a cui non avevamo posto mente, ci cagionano quella grata sorpresa, che proveremmo al vederci ajutati da uno sconosciuto; le vecchie, già ventilate e discusse, crescono pregio alle nostre vedute, aggiungendovi il credito di quello o di quelli, che consentono nella medesima nostra opinione.

Canziana non aveva ancora messo fuori il più valido de' suoi argomenti; ma lo teneva in serbo per chiudere la perorazione, certa di vincere per esso ogni [107] ritrosía, e di neutralizzare completamente gli effetti del disgraziato scritto.

“In fin dei conti, — continuava ella rompendo il silenzio della sua ascoltatrice, — m'è d'avviso che la prima a saperne qualcosa, (se qualcosa vi fosse) dovreste essere voi, figlia mia; nessun altri che voi. Non mi si venga a dire che il conte tenga il piede in due staffe per farsi gioco di una fanciulla: ohibò! Hanno forse bisogno i grandi signori di queste miserie? Sentite cosa mi frulla pel capo; se ciò avvenisse, giurerei che il conte si burla del signor di Milano, per quelle vecchie partite che non sono ancora accomodate fra le due signorie. Vicino a voi, non è vero, che ei va lieto di scordare i suoi fastidii? Lo dice a voi, lo ripete a me le cento, le mille volte, che qui dimentica le cure e gli affanni, e ch'ei non farebbe più ritorno al castello, se non avesse la certezza di esser qui il giorno dopo a rifarsi di tante noje nella tranquilla pace che regna in questa casa. Qual interesse a mentire? Vi pare a voi, che il conte sia uomo da tali viltà?„

Agnese crollava il capo, in atto di chi rimove da sè un dubio oltraggioso. — Rafforzata da questa adesione, l'altra proseguiva:

“Perchè gli onesti sono radi, radi più che i corvi bianchi, non bisogna fare fascio di tutti e di tutto, e credere che non vi sia più al mondo un galantuomo. Ma vo' supporre che gli sia stata fatta qualche proposta; egli l'avrà respinta: e se non l'avesse, gli mancherebbe il coraggio di venir qui, e venendo si darebbe a conoscere. Un raggiro di simil natura non è [108] facile a nascondersi. Voi lo vedreste esser meno calmo, meno espansivo; diventar sospettoso di sè medesimo; rispondere con esitanza o con affettazione agli affetti vostri. — Voi gli leggereste la bugia negli occhi; poichè, a noi altre donne, madre natura ci ha data una speciale penetrazione per scavare i secreti che ci si voglion nascondere; ed è ben più facile che trascendiamo negli ingiusti sospetti, non che viviamo beate e noncuranti quando si ha ragione di sospettare. — Ora, ditemi un po', è questo il caso nostro?...„

Canziana s'aspettava un trionfo, e non s'avvedeva d'aver tocco un tasto dolorosissimo. Ella aveva dichiarato il pensier suo alla buona e schiettamente: ma siccome non era dotata di quella vista penetrante di che faceva merito al suo sesso, metteva per base de' suoi ragionamenti l'esclusione di un fatto, ch'ella credeva impossibile soltanto perchè l'ignorava.

“Tu dici il vero, — ripigliò con un accoramento indescrivibile la povera Agnese, — ed è appunto perchè le tue ragioni sono assennate che esse cagionano in me quell'effetto che tu speravi di rimovere. — Sappi adunque, che i miei sospetti non hanno vita dalla lettura di quel foglio d'oggi; sappi che da oltre un mese io ravviso nel conte alcuno di quei sintomi che tu mi hai accennato.„ E qui, senz'altro riserbo, le dichiarò ciò che essa pensava di lui, e ciò che noi già conosciamo.

Invece di arrestarci a pesare ad una ad una le parole d'entrambe, solleviamo il velo misterioso, che copre altri avvenimenti, per riconoscere quale, tra il [109] giudizio di Canziana nutrito di buone ragioni, e quello d'Agnese scortato dalla logica zoppa dei presentimenti, ebbe il merito fatale d'essere indovino. Per far ciò, c'è d'uopo risalire all'origine dei fatti. Scostandoci da Pavia ed obliando pel momento il carcere d'Ognibene, torniamo al tugurio di Medicina, per vedere come egli stringesse in pugno, ed agitasse a talento, le fila di un tenebroso intrigo.

CII.

Barnabò Visconti, come già s'è detto in più occasioni, non era uomo da piegarsi a consiglio od a legge; non diede retta una sola volta alle più sacre ragioni; non cedette mai a preghiere od a lacrime. Ma egli non apparteneva nemmanco a quella schiera di eroi del medio evo, assimilati al ferro da cui erano coperti, che si fecero perdonare una vita tessuta di ribalderie, per qualche lampo di generosità: di che il mondo tien gran conto ai potenti. Assoluto, ma schietto il più delle volte perchè si stimava invincibile, ricorreva alla frode, all'insidia, e alle pratiche superstiziose, appena dubitasse che il dichiarare i suoi voleri non fosse seguito all'istante dalla compiacenza di vederli compiuti. — Così, mentr'era intolerante dell'influenza d'altri, la subiva inconsapevolmente per opera di colui che sapesse, a tempo debito, agitare davanti a' suoi occhi lo zimbello incantatore d'una fatucchieria.

Il suo secolo, che raccoglieva la trista eredità del medio evo, s'incarnò (ci sia lecita la frase) in quest'uomo. [110] All'epoca presente erano meno continue le guerre, meno iraconde e sanguinose le fazioni. Un'arte subdola ed infame aveva insegnato ai prìncipi il secreto di far la guerra senza turbare le apparenze della pace, senza cangiare i velluti nelle cotte di ferro, ed interrompere le orgie e le corti bandite. — A che giovava destar l'allarme fra i vicini snudando la spada, ed attendendo che dall'urto degli eserciti risultasse la vittoria o la sconfitta? Era cosa meno arrischiata il combattere d'astuzie e l'impiccolire la guerra, restringendola ad una gara d'insidie individuali. Perciò, meglio che ferire in mille parti il paese nemico con un armeggiar lungo ed incerto, era il colpirlo nel suo centro vitale, trascinando il capo di esso nel tranello di uno stiletto, di un veleno o di una perpetua prigionia.

Or mentre le battaglie, combattute lealmente sul campo, venivano inaugurate coll'invocare il giudizio di Dio: queste tenebrose machinazioni, potenti ausiliarie delle armi, s'inspiravano negli arcani responsi dei negromanti e degli indovini, formati alle publiche scuole, dove l'astrologia naturale o giudiziaria (cioè induttiva o chimerica) aveva cattedre e professori: oppure traevano la loro infallibile potenza dalla pretesa associazione dell'uomo collo spirito infernale, stipulata sur un patto che fruttava a quello ogni terrena prosperità, a questo il dominio delle anime e la dannazione de' suoi adepti.

Ognuno sa od imagina come dovevano vivere coloro, che esercitavano tali maleficii in mezzo a gente, che pigliava sul serio questa tremenda alleanza del [111] mondo coll'inferno. Essi erano maledetti ed esecrati come la cagione suprema dei mali, che affliggono l'umanità. L'inclemenza delle stagioni, le fallite messi, ogni mala fortuna, l'infermità o la morte di un uomo, erano un maleficio. Pareva, che rimossa quell'unica ed arcana influenza, il mondo dovesse tornare ad imparadisarsi. — Le leggi civili ed ecclesiastiche non avevano misura nel punire i sacrileghi. Di pieno accordo, decretavano loro i più strani ed orribili castighi, e, stimando essere la morte pena troppo dolce, la porgevano diluita, direm così, in una studiata agonia di tormenti, cui poneva termine il più lungo ed il più crudele dei supplicii, il rogo. — E chi mai a quei tempi si sarebbe rifiutato di portare il suo fascetto di legna al patibolo di un indemoniato?

In Lombardia, non meno che nelle altri parti d'Italia regnavano coteste ubbie. Perocchè, se dapertutto avevano origine dall'ignoranza e dalla ferocia del secolo, qui prosperavano ancor più per le superstiti memorie delle credenze religiose disseminate dagli invasori del nord. E infatti, più d'una superstizione d'origine straniera viveva ancora ai tempi di cui favelliamo. Tale era, per esempio, la celtica usanza di rispettare come cosa sacra certi alberi detti sanctili. Qui vigeva ancora la superstiziosa venerazione delle vipere, credute atte a ridonare la salute al solo mirarle: avanzo di nordica idolatria recato in Italia dai Longobardi. — L'interpretazione dei sogni, e la previsione del futuro desunta da quelli, erano officio degli aríoli; i tempestarj sapevano scongiurare e sciogliere le procelle; certe vecchie comari apprestavano fantocci di cenci alle femine in [112] doglia di parto, e le rendevano di colpo libere e spregnate; v'erano empirici, che componevano unguenti opportuni ad arrestare il sangue ed a sanare all'istante una ferita, untando non i margini della cicatrice, ma l'arma che l'aveva cagionata.

Queste e cent'altre follíe non esistono più ai nostri giorni; ma la memoria di alcuna vive ancora in certe consuetudini del vulgo, sopratutto nel contado. — Forse la generazione ventura ne perderà ogni traccia; giacchè la svegliata gioventù campagnuola, lasciando le vecchie pratiche alle feminette, comincia a riderne di compassione.

Intanto la mala razza, sebbene perseguitata, non si andava diradando: perchè da una parte gli stessi potenti l'accarezzavano, fin tant'almeno che sentivano lusingata l'ambizione loro da profezie di buon augurio; dall'altra, le leggi, anche in ciò pazzamente atroci, mancavano di mezzi ond'essere poste ad effetto. — Astrologi e negromanti vivevano dunque inviolati e riveriti alle corti: indovini, chiromanti e maliarde si tenevano abbastanza al sicuro in luoghi remoti, a dispetto d'ogni minaccia. E mentre chi faceva la legge non metteva misura alle pene, quelli che dovevano eseguirla non ardivano spingersi ad una lotta nella quale si vedevano schierata davanti una legione d'angeli ribelli.

V'ebbero però delle vittime, e non poche. Ma le stolte procedure e i giudici ancor più stolti, agitati da un invincibile terrore, non giungevano a conoscere tampoco la natura dei fatti su cui si fondava l'accusa. Anzi, dopo quei processi, intralciati di forme e d'interrogatorj stravaganti, [113] e in mezzo ad un labirinto di enigmi, la ragione brancolante ed ubriaca riesciva ad addormentarsi del tutto; e non si scuoteva che ad affare compito, più cieca e assai più illusa di prima.

I miseri inquisiti dunque, posti a tormenti, perdevano la ragione, e fra il delirio e le bestemmie narravano, a modo di confessione, mille stranezze di treggende e di malíe; avvalorando sempre più la credulità dei giudici, e ribadendo le anella di una fatale catena di errori.

CIII.

Il carattere cupo e feroce di Barnabò si potrebbe paragonare ad una bicocca poggiata sur una rupe, accessibile soltanto agli uccelli di rapina. I passanti guardano con rispetto misto a terrore quel nido insanguinato; e, raccozzando nella mente mille storie raccontate ed udite con ispavento, trapassano le falde scoscese, senza tentarne la salita, senza nemmanco riconoscere la via che serpeggia per l'erta. Ma il terribile asilo dalle mura di bronzo ha il suo lato vulnerabile; ed il solitario esploratore tentando col favore della notte, a più riprese e affatto inerme, i tramiti circostanti, si spinge tant'alto da sorpassare inosservato le fosse e i rivellini, fino a scoprirvi un ingresso mal difeso. Entrato per quello, egli si confonde col minuto satellizio, e vi tiene umile posto, bastandogli di scoprir tutto e di non essere scoperto.

Medicina aveva appunto operato così. Conosciuto il [114] lato debole del suo padrone, vi si era introdutto a poco a poco silenziosamente; e, confondendo con somma arte i proprj pregiudizj con quelli della mente di lui, lo trascinava qualche volta a pensare ed a volere ciò ch'egli voleva e pensava. — Nel percuotere con mano implacabile i deboli, nel sospettare di tutti e di tutto, nel tentare insidie all'innocenza, erano sempre d'accordo; il ciurmatore non ebbe mai bisogno di stancare la sua imaginazione per condurre il principe a' suoi intendimenti. — Ma quando si trattò di avere i mezzi per abbattere i suoi nemici, e fu d'uopo ricorrere agli spedienti sicuri e secreti, Medicina chiamò a parte de' suoi interessi una donna, salita in gran fama per la prontezza e la veridicità de' suoi oracoli; affinchè lo sue idee, tradutte nel linguaggio augurale, acquistassero l'autorità di un consiglio sovrumano.

Costei, conosciuta sotto il nome generico di maga, individuata con quello di Canidia, era un'amica di Medicina. — Non rileviamo dall'oblío la storia del suo passato e de' suoi turpi intrighi col ciurmatore. Medicina, dopo aver riconosciuto in Bergonzio un fido sgherro, cercava in costei un'alleata; e, con un arte tutta sua, mostrando da lungi al principe l'amo inescato, era giunto a destare in lui il desiderio di consultarla, e a promovere un espresso suo comando di procurargli un incontro coll'avventuriera. Barnabò non sapeva dire a sè stesso che cosa le avrebbe richiesto: gli bastava di poter, mercè sua, gettare uno sguardo alla sfuggita nel gran libro del futuro, e di leggervi una parola che lo confortasse ad intraprendere le pratiche necessarie per dominare l'inerte e timida volontà di [115] suo nipote. — Egli vagheggiava da un pezzo la signoria del Conte di Virtù; era questione di ottenerla a miglior prezzo.

Ma come mai Canidia aveva potuto procurarsi la fama d'indovinare il futuro? — Le interrogazioni di chi accorreva a consultarla, nella maggior parte dei casi, le offrivano un bivio a due escite. Gittandosi a sorte per una di quelle strade, un certo numero di predizioni, in tutte quelle eventualità che dipendono dal capriccio della fortuna, doveva avverarsi. — Il colpir giusto le riesciva meno difficile, perchè le sue predizioni erano espresse di solito negativamente, e si limitavano ad escludere l'avveramento di un tale o tal altro fatto, senza definire in modo positivo ciò che in realtà doveva accadere. Dotata di uno spirito penetrante, scorgeva di leggieri che un equilibrio assoluto di probabilità non esiste presso che mai. Tenendo quindi calcolo dei fatti e delle circostanze che sapeva raccogliere dalla bocca di chi la consultava, e sopratutto attraversando con una intuizione sua propria le passioni e gli interessi di lui, giungeva a scoprire da qual lato la sorte facesse pendere la bilancia. Nel dubio, inseparabile da ogni sua predizione, inclinava sempre a dare risposte incoraggianti e favorevoli; perchè, oltre al guadagnarsi le simpatie de' suoi clienti, ne usufruttava in certo modo il proposito e le forze, e li spronava a far di tutto per renderla veritiera. — Quando nessuna di queste ragioni spandeva un debole raggio di luce sull'avvenire, la risposta era interamente fortuita. Allora Canidia giocava ad occhi bendati: e la cieca dea, che accarezza assai [116] spesso il meno degno fra i giocatori, soleva esserle propizia.

Anche le cose più facili a prevedersi non erano mai annunciate con parole sì chiare, che non offrissero qualche ambiguità nello svolgerne il senso; ma, al pari degli oracoli antichi; sapeva riferirle con parole artificiose, elastiche, a doppio senso; le quali, se da principio erano interpretate a seconda delle speranze, lasciavano luogo più tardi (ove i fatti smentissero le parole) a riconoscere che la profezia era fallita per colpa di chi la frantese; non mai per errore di chi la pronunciò. — Infine; il più delle volte, per viste proprie, o guidata dai consigli altrui, sapeva porsi alla testa delle passioni di chi la consultava, e scuotendole o guidandole ad un dato scopo, indovinava il futuro colla franchezza di chi annuncia il tuono dopo aver veduto il baleno.

In quel giorno, che Barnabò aveva fissato pel suo convegno colla fattucchiera, il tugurio di Medicina eletto a luogo di ritrovo, era stato abbellito di tutte quelle fantastiche ciurmerie, che abbagliano gli occhi e l'imaginazione di un credente. — Canidia che non fondava la sua potenza sull'esosa deformità delle streghe, quale ne piace di solito imaginarle, aveva studiato di mettere in rilievo le attrattive della sua gioventù, circondando di abiti e veli bruni carni floride e bianchissime, e sciogliendo all'aria un tesoro di capelli copiosissimi e lucenti. Essa era alta, maestosa e bella nel volto: ma la sua avvenenza, prodotta da una bizzarra armonia di tratti provocanti, non arrivava più in là che allo sguardo.

[117]

All'avvicinarsi dell'ora designata, sedette sul trono de' suoi oracoli, compose le ricche pieghe del suo abito, ed atteggiò la prima ruga della sua fronte alla maestosa severità di una sibilla. E quando Medicina le annunciò che il signor di Milano s'accostava alla sua porta, diè mano ad un liuto, ed accompagnò coi più armoniosi arpeggi la seguente canzone, svolta in note soavi da una voce fresca ed argentina:

Forosetta, saper vuoi

Se fian lieti i giorni tuoi?

Su, coraggio: t'avvicina,

La man cedi all'indovina.

Tremi in porgermi la mano?

Chiudi l'occhio al fato arcano!

Sarai forse men tapina

Perchè tace l'indovina?

Ami e temi?... ebben, donzella,

Bando a' dubii.... tu sei bella,

Tu sarai dei cor regina:

Credi, credi all'indovina.

Queste parole non avevano alcun valore sull'animo di chi le stava ascoltando, avviato, come ognuno sa, su ben diverso cammino. Ma il canto era soave; e l'ascoltatore, benchè non fosse poeta, si compiaceva d'imaginare che quella voce appartenesse ad una fata colle labra di corallo, le chiome d'oro, e le pupille color d'aria.

[118]

Un momento dopo, la stessa voce con tempra più robusta ricantava quest'altre strofe:

Saper brami se la sorte

Ti prepara allori, o morte?

Pro' guerriero, t'avvicina,

La man cedi all'indovina.

Cor tu vanti a pugne esperto:

Vinci, è ver; ma sul tuo serto

Una macchia porporina

Ahi! già scopre l'indovina.

Lascia il brando e l'asta e il campo;

Arma è l'ôr: dell'oro al lampo

Tutto il mondo umil s'inchina:

Credi, credi all'indovina.

[119]

CAPITOLO DECIMOQUARTO

CIV.

Canidia e Medicina recitavano d'accordo una comedia a beneficio comune. Avevano perciò con grande arte, cercato e raccolto i mezzi per dar colore alla scena; sapendo d'aver a fare con un cervello bizzarro, che aveva, per intoleranza d'ogni rispetto se non per dirittura di mente, il malvezzo di non creder nulla. — Questa volta Barnabò, solito a non riconoscere al mondo altra legge fuor quella ch'egli imponeva a' suoi soggetti, cascava nel laccio tesogli da un intrigante, e si disponeva ad obedire al più vile de' suoi servi.

All'apparire di lui, la fattucchiera, che sapeva tutto, ma finse non accorgersi di chi s'avvicinava, ammutolì; e, deposto il liuto, si levò dal suo seggio per movere incontro al principe, e dirgli con un tuono cortese: “salute.„

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Era notte: nel castello regnava la più profonda tranquillità. Dal beccuccio ardente di una lanterna artificiosamente costrutta si effundeva per la camera una luce tremula, vaporosa, di color turchino, che imprimeva agli oggetti circostanti una luce falsa, ed abbagliava la vista coll'intermittenza de' suoi lampi. — L'aria era satura di un profumo soave che, solleticando gradevolmente l'odorato, recava al cervello le esalazioni di una sostanza narcotica, donde era cagionata, a chi non fosse avvezzo, un'incompleta vertigine, che dominava le forze, ed offuscava lievemente l'intelletto. “Salute, o principe„ replicò Canidia; e, dopo avergli offerto a sedere, avvicinatasi ad una credenza su cui erano schierate coppe di terso cristallo, ne tolse due per mescervi un liquido color d'oro da una boccia vestita di paglia. — “Bevete, o signore, continuò ella con un accento, che lasciava dubio se fosse un invito, o l'esordio delle sue rituali cerimonie. — Il liquore, che io v'offro, stillò da tralci allevati in una terra, dove ogni pietra racchiude un secreto, ogni erba possiede una virtù, ogni soffio d'aria rivela un mistero. Bevete meco alla salute del signor di Milano.„

Barnabò, proclive per natura ai sospetti e reso ancor più diffidente dalla coscienza di essere un tiranno, non soleva mai accostare alle labra un bicchiere, in cui altri avesse versato. — Questa volta diè di piglio alla coppa senza esitanza; e, levatala quant'era necessario perchè un raggio attraversasse un nettare trasparente come l'ombra, se l'avvicinò alla bocca, per tracannare in un sorso il contenuto. Ma Canidia ne lo arrestò, dicendo: “Alla vostra mano splende una gemma di rara purezza.„ — Barnabò [121] infatti portava in dito un'amatista, su cui era effigiato in rilievo un serpente contorto: cammeo prezioso, solidamente incastonato in un anello di squisito lavoro. — “Ogni gemma immersa nel vino, proseguì Canidia, apre l'intelletto di chi beve a contemplare cose meravigliose e lontane: l'amatista poi garantisce dall'ubriachezza. Suvvia, riponete quell'anello nel bicchiere, e fate meco un brindisi alla vostra futura sorte. — Non temete: è ottimo zagarello[49] vino di dieci anni, generoso al pari di voi, ardente come una fanciulla di Capri, fido sempre come un amico vecchio„.

A tali parole, la gemma cadde nel fondo della coppa, e le due destre, rialzando ed urtando fra loro gli orli dei vetri in atto di augurio, portarono alle labra la misteriosa bevanda.

“Evviva il signor di Milano!„ — sclamò l'indovina al momento di bevere.

“Evviva„ — ripetè il principe dopo aver vuotato il bicchiere. Quella bevanda, non del tutto sincera, operò ben tosto i suoi effetti. Il principe sentì raddoppiarsi le forze, e il sangue corrergli nelle vene più libero e più ardente di prima. Ciò gli fece coraggio ad una seconda libazione. Riprese il bicchiere, lo porse a Canidia e, appena ricolmo, lo vuotò di bel nuovo. — La fattucchiera, che conosceva quanto era potente quel liquore e come scarsa la virtù dell'antidoto contro l'ebrietà, non gli avrebbe versato una terza volta; [122] paga di rinvigorire e di accendere la sua fantasia quanto bastasse a renderla atta ad arrestare le fuggevoli visioni, che gli si affacciavano alla mente, e a rannodarle in un tutto di lieto auspicio.

Il lettore ci saprà grado se qui omettiamo di riferire gli scongiuri, le evocazioni e quante formole stravaganti accompagnavano la pratica di quelle indegne cerimonie. — Lo scopo di esse erasi già ottenuto mediante quella doppia libazione.

“Tu, — così prese a dire l'indovina, a cui il carattere profetico dava il diritto di trattare in confidenza i suoi adepti, — tu non temi dunque di vederti davanti quel dimani, che è provida cosa, dicono i saggi, celare agli occhi dei mortali?„

“Non vi fu mai cieco, riprese Barnabò, che non gradisse il dono della vista, dovesse pure aprir gli occhi la prima volta per vedere l'inferno.„

“Sia come tu brami. Credi tu che io possa veramente conoscere il futuro?„

“Sì; io lo credo.„

“Piegherai tu la fronte docilmente a quanto sono per dirti?„

“Sì„ — sciamò fermamente Barnabò, in virtù forse del zagarello, che aveva ingolato.

“Ancorchè fossi costretta ad annunciarti sventure?„

“Sì, sì, sì„ — replicò l'altro con tuono d'impazienza.

“Ebbene: porgimi la tua mano, ed io leggerò su di essa come su di un libro.„

Barnabò stese il braccio sinistro, aperse la mano, e mostrò il palmo. L'indovina, ritrattasi alquanto in disparte affinchè la lampada portasse luce sovr'esso, [123] stette tra momento in silenzio, chinata ad esaminar per minuto il codice della sua scienza.

“Non si fa colpa alla quercia, prese indi a dire Canidia, se essa fu un dì una vil ghianda gittata a caso nella terra: ma è merito di quel povero seme, se in pochi anni diventò la più nobile delle piante.„

Barnabò diede segno manifesto di non aver compreso.

“Non negarmi, proseguì l'indovina, che tu imprecasti al tuo nascere, perchè il destino non ti fece il primogenito de' tuoi fratelli. Dimmi, (e sii sincero; ogni menzogna sarebbe vana in faccia a chi ti legge nel cuore) non è egli vero, che il tuo più bel sogno fu quello di divenirlo?...„

Il principe, chinando leggermente il capo, faceva un segno affermativo.

“Ad ogni costo; non è vero? a costo anche di propinare un veleno a colui, che ti precedeva, e che occhieggiava con sospetto la tua ambizione?„

Barnabò si scosse a queste parole, che gli rammentavano la morte violenta di Matteo suo fratello.

“Invano tu mi fai viso torvo. — Un fratello fu spento per tua mano; l'altro fuggì, e la morte lo ha colpito da lontano. Ma l'ombra di quest'ultimo siede ancora sul trono di Pavia nelle sembianze di suo figlio. — Fu strappato l'albero, e nella sua fossa germoglia il rampollo. — Eppure le tue speranze non sono morte. La meta è ancora quella stessa. Sbarrata la via dritta, ora ti convien battere le viuzze inosservate.„

“È questo appunto che io ti chiedo... e vo' conoscerle da te queste vie...„, soggiunse il principe con impazienza.

[124]

Canidia, invece di rispondere, sorrise maliziosamente. Allora Barnabò battè col piede la terra, e si morse le labra, esclamando con accento furibondo: “Vorreste ricantarmi la vecchia canzone dei vigliacchi o dei bacchettoni che pongono il più nobile dei trionfi nel chinare la testa avviluppata in un cappuccio, mentre un istinto ne chiama a sollevarla cinta di una corona? Guai a te: guai a chi osasse darmi di tali consigli!„

“Potenza degli astri! interruppe Canidia spaventata, tu guasti l'opera tua. Mentre il buon genio ti consiglia di battere i sentieri nascosti, tu segui da forsennato la tua cieca passione. Infelice! qual demone o qual angelo potrà impedire che l'arma ti uccida, se tu stesso la vibri nel tuo cuore?„

Tali parole, dette con accento autorevole, imbonirono il principe, il quale incrociando le braccia sul petto, e con voce più sommessa, pronunciò un “dunque„ lasciando però sottinteso il resto della frase “sbrigatevi che ne è tempo.„

Canidia, pigliando la mano a Barnabò, ed avviandosi con passo risoluto verso una parete entro cui s'aperse un balcone, trasse il suo adepto sulla soglia di un terrazzo, da cui si godeva una magnifica veduta del cielo. Notisi per incidente che era quella notte e quell'ora, in cui il Conte di Virtù traeva dall'eguale spettacolo una sì dolce lezione di saggi proponimenti. — La fattucchiera guardò attentamente da ogni lato; percorse più volte e in tutti i sensi le regioni del cielo, cercando fra una miriade di punti scintillanti di rintracciare un astro: quell'astro che presiedeva ai destini del suo iniziato.

[125]

“Ecco, ecco la tua stella, — proruppe ad un tratto, stendendo la mano verso un lato del cielo, ed additandone una di maggiore grandezza, — non la scorgi tu? Te fortunato, essa splende nella casa di Giove, anzi è presso a congiungersi al più potente dominatore dei cieli. Teco è la forza, teco la virtù efficiente e creatrice. Tu nascesti per essere grande e potente; l'augurio è ben lieto.„

Barnabò subiva l'impero di quelle parole; ma ignaro, com'egli era nella scienza degli astrologi, non giungeva a comprenderne l'importanza, e se in quel punto si mostrava riverente, gli è che aveva interesse a prestar fede a chi largheggiava proferte.

“Quella stella riflette i colori dell'iride, continuò Canidia; la tua vita dovrebbe essere del tutto serena. Il fiammeggiare insistente di un rosso, simile a quello di un carbonchio, avviserebbe a qualche traccia di sangue. Ma il verde che annunzia pace, il bianco che addita potenza, il ranciato che emula il brillar dell'oro, il roseo infine che è il color dell'amore, prevalgono al primo. Suvvia dunque:.... nell'ora, in cui tu nascesti, la tua stella regnava nella decima casa del cielo, che è la più potente. Giove splendeva nella regione meridiana, e dominava tutto il firmamento: presagio di impero a chi respira le prime aure della vita sotto le volte di una reggia. — La luna, splendida sebbene falcata, aggiungeva al tuo felice oroscopo il suo raggio vigile e mite: annunzio di una vita infaticabile e nemica del sonno, cui l'operare è riposo. Marte sanguigno ti occhieggiò da ponente un sol tratto, poi tramontò: non sei nato alla guerra. Venere [126] brillò sul mattino; ma la sua luce vivace fu tosto vinta dal surgere del sole: i tuoi piaceri dovranno essere subitanei e soavi ma passaggieri, poichè l'amore della gloria li signoreggia. Il pallido Saturno, l'esoso pianeta nuncio di malanni e di inferma vecchiezza, non fu visibile. — T'allieta dunque o mortale, — non vi è uomo che raccolga in sè tanti felici pronostici.„

Fin qui Canidia non aveva messo fuori che una cabala di parole, accozzate a libito, che potevano servire di preambolo a predizioni di opposta natura. Eppure, come lo zagarello ebbe la virtù di scuotere i sensi morti dell'iniziato, quelle frasi, pel merito forse di chi le pronunciava, per la solennità della notte, e per i lieti successi che promettevano, aggiunsero fuoco alla sua fantasia, e fecero battere un cuore, per solito inerte. — La fattucchiera s'era avveduta di ciò, e ne andava superba; poichè da una prima vittoria traeva la certezza di riportarne un'altra assai più vantaggiosa.

CV.

“Dimmi ora, come abbatterò io quell'emulo, che signoreggia vicino a me, e confonde la sua miseria colla mia potenza?„ — chiese Barnabò col tuono riverente di chi aspetta un consiglio.

“Non colle armi, o principe:„ rispose nettamente Canidia.

“Con qual mezzo, dunque?„

“Se il tuo rivale fosse povero, ti direi, fállo ricco: egli è debole; ed io ti dico, fa di lui un uomo potente.„

[127]

Il tenore di questo responso s'accostava all'assurdo, e l'assurdo ha le sue attrattive. Una verità ovvia non avrebbe produtto il magico effetto di questo paradosso.

“Dar mezzi a colui per soverchiarmi?...„ chiese Barnabò sorpreso, ma non scandolezzato, da simile proposta.

“È scritto così. — L'umana saggezza fonda i suoi consigli sui precetti dettati dall'esperienza; ma la grande maestra che insegna le regole della vita, non tien conto delle eccezioni. Il perchè, anche i saggi s'ingannano a partito. Non chiedere alla fortuna, perchè ella sia talvolta prodiga, tal altra avara; essa è l'aggregato di oscure virtù, le quali non hanno nome. Se le sue leggi fossero moderate da quella sapienza che regola il mondo, ella non sarebbe nè cieca, nè dea. — Chi spinge la nave in un mare ignoto, studia forse e indaga la ragione del vento propizio che io incalza, o dell'avverso che lo rattiene? Bisogna spiare la fortuna e sorprenderla, non mai interrogarla, e peggio tentare di costringerla„.

Canidia, dopo queste parole, rimase muta e pensierosa, colla testa alta e l'occhio rivolto alle stelle, quasi aspettasse di là l'inspirazione profetica. — Barnabò invece, come uomo smarrito in un mondo sconosciuto, attendeva in silenzio il momento d'esserne cavato; e, pigliando un'aria mansueta, sembrava dimandar pietà a chi lo aveva abbandonato in quelle angustie. Ad arte la fattucchiera non lo distolse per qualche tempo a' suoi pensieri; l'imbarazzo accendeva la fede nell'animo dell'iniziato, e lo preparava ad ascoltare ed a gradire i patti ch'ella stava per imporgli.

[128]

Fu ella ancora che ruppe il silenzio. Dopo aver messo alcuni profondi sospiri, che davano alle sue arcane invocazioni un non so che di faticoso e di solenne, prese a dire:

“Tutta la scienza dei futuro sta nei numeri. Essi costituiscono l'alfabeto di un linguaggio, ignoto ai molti, e di divina origine. I più trovano in essi null'altro che la progressione delle quantità, e non vanno più oltre. Costoro maneggiano gli utensili di una arte sovrumana, e non giungono a scoprire la cagione formale delle cose e degli eventi, insite in quelle cifre. — Consultai i cieli e le traccie della tua mano, non per averne una pronta rivelazione, ma per riconoscere quel numeri, che hanno la virtù meravigliosa ed efficace d'additarmi la pagina del gran libro, e di tradurne i segni mistici. Ed ecco ciò, che mi viene rivelato. — Di trentadue armi, che intorno ti fanno corona, una tu volgerai al tuo rivale, porgendogliela, come fa un amico, per l'elsa. — Ti parrà forse d'aver perduto cedendo ad altri ciò che è tuo. Il seme germoglia e cresce a beneficio di colui che lo nascose nella terra. Diverrà tuo quel suolo, in cui avrai sparso la semente de' tuoi beneficii. — Così con più chiare parole è spiegato l'arcano. — Cresce nella tua reggia un'avventurosa famiglia composta di trentatre figli. Uno tra quelli sia l'arma nascosta, che spegne la già inferma potenza di un nipote ribelle. A lui, che trema di te, presenta la mano di una fanciulla; egli stenderà la sua e la stringerà, come il naufrago stringe lo sterpo. Abbilo teco allora quell'infingardo, e lo signoreggia coll'imperio della tua volontà. — Ma [129] bada che il giorno del patto non senta governo di Marte o di Saturno: torci l'occhio a questi forieri di sinistri avvenimenti. Guardati dal Cancro e dallo Scorpione, sopratutto se ascendenti. Ti saranno favorevoli invece gli altri segni, e più ancora Vergine e Libra. — E se hai a far scelta fra le ore del giorno, scegli le maschie, le dispari, cioè, del dì o della notte, contando dall'alba o dal tramonto del sole...„

Il campo, cui ci siamo avvicinati, si estende all'infinito, e per poco che uno vi metta il piede, non troverà nè via ad uscirne, nè modo d'arrestarsi. — Lasci ognuno svagar sbrigliata la fantasia, e non creda d'aver foga che basti a toccare i confini di questa anarchia d'assurdi. Il delirio ivi è vasto e profondo come l'oceano; nelle viscere de' suoi abissi ci è lecito sognare foreste di coralli, alluvioni di perle, e mostri portentosi, che non sursero mai a fior d'acqua. — Chi si compiace di questi sogni, consulti la famosa libreria di Don Ferrante; noi tronchiamo senz'altro le stolide digressioni dell'indovina per affrettarci a dirne le conseguenze.

CVI.

Se un personaggio rivestito di grande autorità, o mosso da amicizia o da devozione, avesse osato proporre a Barnabò la più semplice, la più sicura intrapresa, egli sarebbe caduto in sospetto; poichè nulla era più ingrato a quel principe che lo zelo de' suoi cortigiani. Fosse pure la proposta saggia e certa di un [130] buon successo, pel solo fatto d'essere escita dal cervello di un altro, sarebbe stata accolta come un'impertinenza, e fors'anche punita come un oltraggio. Ma Medicina che sapeva ciò per pratica, non rinunciava alla speranza di accomunare il proprio col volere di Barnabò. Aveva appreso dalle dottrine empiriche che un rimedio è bene o mal tolerato dal paziente secondo la formola con cui viene amministrato; e perciò ricorreva allo spediente di mettere nel suo filtro un po' di magia per raddolcire la mistione, facendo scendere dalle stelle ciò che si era maturato nelle cellule del suo cerebro. — Vi riescì: e il merito del successo fu in parte suo, in parte di Canidia, che seppe maneggiare con sapiente parsimonia la meravigliosità dell'iniziato.

Barnabò uscì da quel paretajo senza aver fiutata l'insidia. Non ancora convinto della saggezza ed opportunità di quanto aveva ascoltato, s'avviava, mercè le arti di Canidia, a convincersene da per sè. Il responso ravvolto in mistiche parole, serviva, in modo indiretto ma efficace, al trionfo della bugiarda scienza; svegliando nell'adepto l'imperiosa necessità di tradurre il falso oracolo in una più falsa sentenza. Sciolto il convegno, egli corse difilato a rinchiudersi nelle sue stanze. — Non ebbe bisogno di raccogliere la mente, e di chiamarla a dare un giudizio; le parole udite gli brulicavano nel cervello come le note confuse di una gradevole armonia. — Tornò su di esse coll'animo commosso. Surgevano difficoltà; ei si gloriava d'abbatterle: ripullavano i dubj, ed egli pretendeva rischiararli colla face sinistra della sua mezza [131] ebrietà. — Tardo ed irrequieto scese finalmente il sonno a ristorare le sue forze ornai esauste; ma, fosse puro accidente od effetto della misteriosa bevanda, sognò le parole di Canidia e le chiose, ch'egli vi aveva apposte. — Per tal modo, all'indimani il progetto altrui era divenuto cosa sua; ed egli deliberava di metterlo ad esecuzione con animo risoluto, come soleva fare in ogni cosa che nascesse di primo getto dalla sua indomabile volontà.

Quanto al modo di effettuarlo, avrebbe dovuto anzitutto consultare interessi ed affezioni. — Barnabò ebbe trentatrè figli, alcuni nati dalle due mogli, Regina della Scala, e Donnina de' Porri; altri da concubine[50]. Amava singolarmente Rodolfo non perchè figlio della potente Scaligera, o ricco di belle doti, ma perchè, qual primogenito, avendo il privilegio dei favori paterni, doveva raccogliere in sè le speranze della futura grandezza dei Visconti. Perciò giovinetto lo investì dei feudi di Parma e di Bergamo, lasciandolo padrone di reggerli a suo capriccio, come già ne fosse assoluto signore; e per tal modo ebbe presto la trista consolazione di vedere un degno emulo della sua tirannide, e di saperlo sì esoso e malvoluto quanto suo padre. — Amava Carlo perchè strenuo soldato e potente per la parentela cogli Angioini, da lui stretta sposando Beatrice d'Armagnac. Per la stessa ragione predilegeva Verde maritata ad un principe degli Absborgo. — Ma [132] fra la turba dei rimanenti non faceva distinzione; o se ve n'era alcuna, consisteva essa in un men rigido governo a favore dei bastardi, perchè gli ricordavano le illecebre di Beltramola de' Grassi, di Montanina de' Lazzari o di Muzia Figina, o più probabilmente perchè privi d'ogni diritto di successione, tenevano l'occhio basso dinanzi al padre, come chi sconta una pena; accettando per carità un modesto appannaggio, che non intaccava la pingue successione del primogenito.

Non deve far meraviglia se ad un'epoca come questa, in cui i genitori padroneggiavano i destini della prole non ancor nata, un uomo come il Visconti facesse assegnamento sul docile sacrificio di una delle sue figlie, senza nemmanco mettere in questione l'opportunità d'interrogarla. La scelta fu fatta prima che egli vedesse ad una ad una le povere sue vittime, di cui per anco non conosceva bene il nome, e meno le inclinazioni. Ma così aveva egli proveduto altra volta, decretando le nozze di Donnina coll'avventuriero Hawkwood, e di Angleria col Burgravio di Norimberga. Non dissimilmente aveva riempito il seggio vacante della badessa di S. Margherita, ponendovi Margherita sua figliuola, e si sbarazzò di Visina e di Soprana, altre delle sue figlie naturali, costringendole a pigliare il velo. — In quella notte adunque, durante la lunga insonnia, penetrò colla fantasia nel gineceo, dov'era raccolta una plejade di beltà più o meno attraenti, ma tutte infelici, per cercarvi chi fosse più degna della sua scelta.

In un appartato quartiere del castello vivevano, [133] come in un chiostro, le figliuole di Barnabò, circondate da una regale superfluità di vesti, d'ornamenti e di servi, ma prive di ciò che è il primo e più caro alimento della vita, l'aria libera ed il libero pensiero. Crescevano le poverette come fiori trapiantati in un tepidario: belle, precoci, convenientemente istrutte nell'ago, e sui libri; ma pallide, delicate e straniere alle vivaci mariuolerie della fanciullezza. — Sorvegliate da vecchie governanti, che avevano in sospetto la gioventù, perchè perduta da un pezzo, le infelici riscuotevano un vano tributo di frasi e di ossequj, senza giunger mai a deviare i guardi severi, che agghiacciavano ogni moto inconsueto di ilarità; senza mai poter rompere i fili dello spionaggio, che mettevano capo all'inesorabile genitore, e traducevano dinanzi a lui ogni meno calma parola, ogni sospiro mal represso.

Il Visconti, nel prendere una deliberazione e far scelta, avrebbe dunque consultato inutilmente le sue viscere paterne. Fra Damigella o Ginevra, fra Taddea o Beroarda, ancora donzelle, non era vi predilezione: lo snaturato padre avrebbe steso la destra a designare fra esse la vittima, colla indifferenza del pollajuolo (ci si perdoni il confronto) che mette mano alla stía, e ghermisce il pulcino, che più si dibatte. In tanta incertezza, egli pervenne allo scopo per mezzo delle esclusioni. L'una trovò troppo mansueta, l'altra poco avveduta, questa immatura, quella trasandata; infine eccettuò tutte le nate da illegittimo amore, che portavano per toleranza il nome del padre.

Ed ecco come e perchè la sorte cadde sulla giovinetta [134] Caterina; benchè prima destinata a reggere un monastero. Le badesse erano a quei tempi tenute in grande onore, per la dignità loro e più per l'impero assoluto che esercitavano nell'interno del chiostro sopra una numerosa famiglia di prigioniere, ciascuna delle quali reggeva in modo più o meno efficace altre famiglie ed aderenze. — Perocchè i genitori di allora, e di molti secoli dopo, usando ogni maniera di torture per strappare l'assenso dalle labra tremanti delle novizie, solevano poi, ad ogni dubio o difficoltà, correre alla grata del chiostro, a dimandar consigli e protezione; credendo con tali ipocrisie, di sanar la piaga della violenza operata, e di propiziare il cielo, onorando le vittime immolate al suo culto.

Caterina non vantava quella perfezione e quel rilievo di forme, che colpiscono a prima giunta, e riscuotono una pronta ammirazione. Era una di quelle creature gracili e scolorate, che portano impresse sul viso un animo freddo ed una rassegnazione scevra di sacrificio. — Dopo averla veduta più volte però, bisognava accordarle il merito di una non mediocre bellezza. Aveva occhi grandi, ben disegnati, di un purissimo color turchino, per abitudine e per vezzo leggermente socchiusi. Aveva capelli di un biondo pallido, viso di un ovale alquanto risentito, e carni bianche e trasparenti come il marmo pario.

Quando le fu partecipato il disegno del padre, (e fu l'ultima a conoscerlo) chinò la fronte in atto di obedienza, e si preparò ad amare lo sconosciuto cugino, come un mese addietro si era rassegnata al velo ed alla clausura. In questo caso, però, riescì facile alle [135] garrule governanti l'onestare la mutabilità dei comandi paterni. Il confronto tra un chiostro ed una corte riescì a tutto vantaggio di quest'ultima; l'invidiuzza delle sorelle scosse alquanto il cuore gelido di Caterina, e fece correre sulle sue labra un sorriso d'aggradimento affatto nuovo.

Ma questa partecipazione e questo assenso erano preceduti da secrete pratiche, che non dobbiamo omettere.

CVII.

Abbozzato in nube il progetto, Barnabò sentiva il bisogno di avere persona accorta e fedele, che lo ajutasse ad avviarlo.

Egli non pretese di trovare degli amici; poichè avrebbe consumata inutilmente tutta la vita a cercarne uno. — Ei non volle aprirsi con alcuno di quei cortigiani, che facevano folla intorno a lui; poichè li aveva in grande disprezzo, come codardi, pronti a strisciare nel fango per tornare graditi al padrone, ma inetti a destreggiare qualunque bisogna escisse dalle formole delle frasi d'anticamera.

Anche questa volta, a furia d'escludere gli insufficienti e i malfidati, si trovò di fronte un unico individuo; e costui era Medicina. Il decidersi a far conto di lui non voleva ancora significare che Barnabò riponesse tutta la fede in quell'uomo. Fu a ciò indutto dal pensiero, che Medicina doveva avere maggiore interesse che ogni altro a tenere in credito la veridicità dell'indovina: pensò inoltre che, avendo egli assistito [136] alla conferenza, non richiedeva d'essere istrutto sul passato, a lui già ben conosciuto.

Dopo quella notte feconda di vaghi progetti e di gravi risoluzioni, Medicina fu chiamato a comparire dinanzi al principe. Costui gli espose essere suo pensiero di seguire esattamente i consigli dell'indovina; occorrergli però all'uopo una persona fida ed accorta, che s'unisse a lui per condurre l'impresa a buon fine. — E lo scaltro sgherrano, che prima di creare l'imbarazzo aveva preparato il modo di escirne, inchinandosi dinanzi al principe con un atto di ipocrita servitù, dichiarò di voler mettere a sua disposizione vita ed ingegno: chiedendo solo che gli fosse accordato il tempo necessario a studiare e maturare un progetto degno della fiducia in lui riposta.

Il giorno dopo, tornò Medicina al cospetto del principe con un stare in sul grande che accennava il trionfo, e che riesci bene accetto allo stesso Barnabò, solito a vedersi davanti visi abbacchiati ed occhi a terra. Il ciurmatore, senza dichiarare pel minuto il piano concepito, entrò a dimandarne formalmente i mezzi, ed a stabilirne le condizioni.

“Permetta Vostra Grazia, prese egli a dire, che io abbia a mia disposizione ciò che è necessario ad avviare la cosa. — Bramate voi, che quanto sta nei vostri progetti vi sia richiesto come un favore, onde non abbiate a fare altro che ad aggiungervi il vostro consentimento?... Ebbene, se così vi aggrada, rivestitemi per alcun tempo dell'autorità di vostro ministro. — La mia testa vi sia caparra che non abuserò della fiducia riposta nel più devoto dei vostri servi.„ — E s'inchinò, attendendo una risposta del principe.

[137]

Questa non si fece aspettare, e fu quale era desiderata. — Allora Medicina trasse di sotto al giustacuore l'anello, che aveva servito agli incantesimi di Canidia, e mostrandolo al principe continuò:

“Ho bisogno che, come vostro favorito, io possegga un ordine sovrano, che m'apra le porte della corte e della rocchetta. — Quest'anello, in cui sta effigiato il formidabile biscione, sarà il mio talismano. — Vostra Grazia mi conceda l'onore di tenerlo meco fino ad affar compiuto.„

Barnabò fe' cenno affermativo col capo.

“A noi ora, — riprese il ciurmatore, battendosi il petto con un tuono di piena sicurezza; — fra tre giorni un primo cenno, fra un mese un'umile dimanda del graziosissimo nipote vostro; fra due al più tardi le nozze. — Non chiedete di più, o signore; io volo a servirvi.„

Ed infatti escì subito dagli appartamenti del principe, e corse difilato alla rocchetta di Porta Romana, dove, mostrando al castellano il suggello della signoria, venne fatto abile di visitare ogni angolo del fortilizio. — Ei se ne prevalse per chiedere conto di Ognibene Manfredi, e per scendere tosto nel suo carcere ed abboccarsi con lui.

Il silenzio e la discretezza erano il primo patto della grazia di Barnabò; e Medicina sembrava non farne gran conto, rinvesciando, in sul bel principio dell'impresa, il sugo del secreto ad un nemico del principe, che languiva in un carcere, ma che forse non aveva ancora rinunciato alla speranza di una vendetta. — Ma Medicina, che aveva bisogno di persona degna [138] della fede di Agnese, onde avere dalla sua mano uno scritto che la ponesse in sospetto dell'amore del conte, non guardò pel minuto alla strada, quando per essa riescisse ad ottenere ciò che gli era necessario. — Non appena ebbe persuaso il Manfredi a scrivere quella lettera, di cui ci è noto il tenore, spedì latore di essa il Seregnino; mentre egli per altra via, e con altri propositi, s'avviava al castello del Conte di Virtù.

CVIII.

Medicina soleva dire: che il primo prossimo è sè stesso; e fin qui tutto il male sta nello scandalo della parola; perchè al mondo non v'era, non v'è, e, pur troppo, non vi sarà penuria di chi pensa così, e di chi opera su questo metro. Per amar molto gli altri, continuava egli, bisogna cominciar dall'amar moltissimo sè e gli interessi proprii. — E in questo gioco di parole egli non solo trovava il coraggio e l'acume necessario alle sue ribalderie, ma acquietava la coscienza quelle poche volte che essa osò porre, fra lui e le sue mire, l'ostacolo momentaneo di qualche brusca puntura. — Ma, l'abbiam detto e speriamo che il lettore l'avrà appreso dai fatti fin qui esposti, egli non era l'uomo da preferir sempre il certo e scarso guadagno d'oggi al pingue, ancorchè incerto, dell'indimani. — Il rischio, ch'ei poneva nelle sue imprese, valeva a persuaderlo che, gittandosi in braccio alla fortuna, spettasse a lei sola la responsabilità dei fatti che ne derivavano; e, con questa arte finissima, [139] giungeva ad addormentare ogni sinderesi, riputandosi lo stromento del destino, e chiamando fortuito quanto egli aveva temerariamente operato. Seduto ad una mensa sontuosa, su cui la fortuna imbandiva i suoi tesori, egli non soleva trinciar giù alla buona, e pigliarsi sulle prime il meglio che gli stuzzicasse l'appetito. Il suo egoismo era salito al grado di scienza, ed assumeva perfino il colore di virtù, facendolo schiavo di una artificiosa sobrietà. Quindi egli si fingeva talvolta sollecito del bene degli altri, tal'altra curvava il groppone ai capricci di un tiranno, o sapeva rinchiudersi in un mansueto silenzio aspettando migliori momenti; ma tutto ciò pel fine di salvare, a migliore occasione ed a più certo scopo, mente, labro e braccio, rinvigoriti dalla sua studiata astinenza.

Con ciò noi abbiamo reso completo il ritratto di questa mostruosa individualità. I nostri lettori sanno che egli obediva alla volubile sorte press'a poco come i ministri d'Iside si piegavano alle infami rivelazioni degli oracoli, che essi stessi avevano dettato. Vogliamo ora smascherarla del tutto; poichè non vi è perversità più profonda ed esiziale di quella che adopera ad empio fine mezzi leciti e di onesta apparenza, facendo del bene strumento al male.

La lettera del Manfredi, vergata da una mano convulsa, concepita da una mente credula, febrile, traviata da false rivelazioni, era l'ingenua e santa parola di un amico, che dal fondo della sua miseria si rileva un istante, ed approfitta di un lampo fuggevole di vita per dare un avviso salutare alla figlia del suo benefattore. Tale era dessa, almeno nell'intenzione di chi [140] la scriveva. — Ma nelle mani di Medicina diveniva lo strumento di un supplicio lungo ed atroce: era la face agitata sur un acervo di materie incendevoli, o la pietruzza mossa dal vertice del monte che stacca la valanga. Già, prima di ricevere quello scritto, varii sospetti travagliavano l'anima d'Agnese, e la rendevano incredula della propria felicità, perchè essa era soverchia. A poco a poco la gelosia del bene posseduto s'andava mescolando coi presagi di un male ancor lontano ed indeterminato. La stessa ragione sembrava piegarsi più di buon grado a confermare che non a dissipare i vani timori. Ma il più strano si è che il suo interno rodimento era, per una parte non piccola, il riflesso di quella mestizia, che ella medesima portava sul viso; poichè il conte, scorgendo la languidezza, il pallore e la taciturnità d'Agnese, se ne accorava, e non tanto in secreto che non lo facesse conoscere all'amante.

Oltre a queste larve prive di forma, aveva Agnese un'altra ragione positiva ed urgente che la rendeva mesta. Già da qualche tempo la sua salute era meno florida, le sue forze diventavano ognidì più languide e sbattute; e quelle sofferenze, che in diversa circostanza l'avrebbero fatta lieta ed altera, in questa le porgevano il continuo ricordo di un sospetto, al quale l'animo vinto dall'abitudine finiva per accomodarsi come a cosa vera.

Dopo quella lettera, ogni dubio s'era dileguato, ed alla scarsa speranza, che prima le era lecito nutrire, subentrò in lei una certezza ardita e sicura di sè, che decise la questione, come la sentenza tronca il giudizio. Ma [141] quanto era grande il coraggio di Agnese nel sopportare di nascosto le sue torture, altretanto ella era timida nel pigliare una risoluzione: quella fin anco d'aprire il suo cuore all'amante, e di provocare da lui una conferma od una discolpa.

Intanto Medicina faceva un fatto e due servizii. — Già fin da tempo addietro, conduttosi inanzi al Conte di Virtù come soleva fare di sovente, dopo avergli narrate le cento cose più o meno significanti raccolte al castello di Barnabò, con quella studiata indifferenza, con cui il maledico lancia il primo dardo della calunnia, parlò d'Ognibene Manfredi, qualificandolo un avanzo della congiura di Maffiolo Mantegazza, a caso, o per oblio de' giudici, scampato al patibolo. — Tale novella ridestò la curiosità illanguidita dell'ascoltatore, il quale non fu sazio di volgere dimande sul conto di costui, sulle circostanze, che lo avevano condotto alla Rocchetta, e sul privilegio, che lo aveva scampato al supplicio. — Medicina rispose a questa furia di inchieste come il reo interrogato dal giudice. Non mostrava d'aver fretta a narrare: porgeva ad una ad una le sue rivelazioni, quasi fossero le più innocenti e le più frivole cose del mondo; non palesava circostanza, che non gli fosse prima dimandata; ma poneva studio a tener viva la curiosità di chi l'ascoltava, ed a provocare colle altre interrogazioni la necessità d'altre risposte. In questo cambio di parole impazienti e maliziose, non fu mai nominata Agnese; ma, assai peggio che il nome, ne fu indirettamente profanata la virtù. — Imperocchè Medicina, quando venne il buon momento, seppe indurre il conte a sospettare che tra il Manfredi [142] ed Agnese, vivente ancora il padre, esistesse un legame d'affetto.

“Le prove...„ sclamò con calore il conte, dimenticando a quella ingiuriosa asserzione la sua consueta prudenza.

Medicina fu, o finse d'essere, sbigottito. Non per una vana circospezione o per diletto di propinare a stille il veleno, aveva cincischiato sull'esordio del suo racconto. Lodò, a cielo fra sè la propria pensata, e rinovò il proposito di trarne partito. Vedendo che il conte aveva il cuor dolce, conchiuse non esservi cosa più opportuna a stuzzicare la sua curiosità, che il fingere di voler disdire o menomare l'asserito. L'artificio riescì. Non appena il conte vide che il ribaldo, tutto mogio e rappreso si faceva piccino, e biasciava monosillabi vuoti di senso, per farne una scusa, si fè buono e, con voce pacata, tornò ad interrogarlo.

“Suvvia, parla. Possibile che io sia giunto a farti paura? Dimmi quanto sai; t'avrò grado per la tua schiettezza; se fosti ingannato, più tardi mi rallegrerò d'esserlo stato ancor io.„.

Medicina pigliò tempo a rispondere, asserendo che quanto aveva narrato si doveva considerare come una diceria. Chiese quindi licenza per allora; e giurò che sarebbe tornato con delle prove, appena gli fosse dato raccoglierne. Così, in questa come in ogni circostanza, ei ricorreva all'arte di mettere in dubio quello appunto, che bramava far credere agli altri: e vi riesciva.

In una seconda conferenza, contemporanea alla spedizione di Bergonzio, mostrò Medicina d'aver [143] raccolto quanto era necessario alla chiara spiegazione del mistero. Allora tornò l'uomo d'altra volta; bandita la scaltra timidezza, si fece a narrare minutamente quanto aveva saputo od imaginato intorno al Manfredi, componendone una storia che inevitabilmente riesciva a danno d'Agnese. — La verità gli prestò alcuni fatti principali, ma egli seppe ricucirli di maniera che acquistassero più o meno rilievo a seconda dell'importanza e del nesso che avevano colle sue mire. Non lanciò a chiare parole una calunnia; ma ne pose il seme e lo coltivò, perchè portasse in poco tempo molto frutto. Finse di voler palliare con ogni studio una colpa; e per tal modo confermava l'accusa. Tal fiata, arrestò la parola, sfuggendo all'aperta dichiarazione di una circostanza, che traspariva poi più certa dalla sua stessa reticenza; tal altra, dinegò timidamente ciò, che egli aveva già sotto il velo d'altre frasi dichiarato nelle sue premesse. — Il colpo di grazia era riserbato all'ultima e più positiva asserzione: quella, cioè, di una lettera escita di soppiatto dal carcere del Manfredi, e consegnata in tutta secretezza nelle mani d'Agnese.

Questa rivelazione ridestò l'ira del conte a tale che parve vicina a prorumpere. — Medicina allora si sarebbe volontieri dato una fregatina di mano in segno di esultanza; ma la rimise a miglior momento, pensando che aveva ancor molto a fare, e che la trama, benchè concepita a meraviglia, era ancora troppo leggermente avviata.

Del contenuto in quella lettera non volle dir verbo; asserendo e giurando, nel modo il più solenne, di non [144] esserne al fatto; e per quanto il conte colle promesse e colle minacce lo invitasse ad essere schietto, perdurò nel silenzio, promettendo che avrebbe messo in opera tutti i suoi mezzi per saperne qualcosa; e poi riferirlo. Questa fu l'opera del secondo convegno; gli rimanevano ancora due giorni, prima di render conto a Barnabò del suo procedere; in questi due giorni egli sperava di potere raccogliere pel suo padrone più assai di quel che aveva promesso, e prometteva a sè di trarre più pronta e più lucrosa vendetta di quel che aveva osato sperare.

Il conte, dopo la fatale scoperta, fu in procinto di correre alla casa di Agnese, per chiederle uno schiarimento; ma volle e seppe frenare l'impeto della passione, forse temendo di sè, forse sperando di giungere del pari, e meglio, allo scioglimento del terribile enigma col silenzio e colle investigazioni. Intanto, per opera del perfido Medicina, surgeva fra il conte ed Agnese un fantasma ad arrestare d'improviso il placido corso degli affetti ed a rallentare in entrambi ogni confidenza. La posizione dei due amanti diveniva quanto strana altretanto crudele. Ciascuno pensava essere il giudice; ed appariva invece il colpevole; questi cercava sul viso di quella la cagione di un turbamento, che egli senza saperlo tradiva sullo stesso suo volto. — Come era stato eguale in entrambi l'affetto e la felicità, così doveva essere pari il male, ed identico il successo di una calunnia, destramente sceneggiata a danno d'ambedue.

In quel dì, al nuovo incontro, l'uno si mostrò forse più contegnoso del consueto: l'altra, cercando d'imporre [145] al suo viso ed alle sue parole la consueta ilarità e quell'aria di confidenza che le era propria negli ordinarii convegni, apparve affettata, e quindi fu male intesa. Appena i due amanti furono separati, ciascuno riescì a quest'unica conclusione: lodavasi d'aver saputo resistere alla tentazione di rompere in querele; ma deplorava la presenza dei sintomi che accertavano la sciagura. Quel silenzio, che ognuno si era imposto come atto di prudenza, diveniva il titolo dell'accusa, la prova ineluttabile della colpa.

CIX.

Ma finita quella scena, i due attori, rientrando nell'esser loro, assumevano un aspetto assai differente. — Intensissimo il dolore d'amendue: quello di Agnese era uno schianto indescrivibile, una desolazione che vince ogni forza umana.

Non appena ella rivide Canziana, le si buttò al collo, e diè sfogo alla piena del suo dolore col più eloquente linguaggio della passione, il pianto. In quell'abbandono sì spontaneo e completo, riassumeva la poveretta la sua storia: un passato pieno di felicità, un avvenire tutto tenebre e sgomenti. Scorreva Agnese col pensiero le mutue promesse, i giuramenti prestati ed accolti con tanta e sì cara superfluità di parole; e di là scendeva ai raffronti; tentava di penetrare il mistero dell'improviso mutamento, e di scoprirne la cagione. Avida di dolorose sensazioni, spingevasi poi nel futuro, e, schierate le probabili sue sorti, le discuteva ad una [146] ad una, numerando tutte le possibili torture, che l'aspettavano: la casa deserta, l'abbandono di tutti e.... quella gioja, la più sublime tra le gioje di una donna, amareggiata dal rimorso e costretta a racchiudersi nel mistero. Lo spirito travagliato non aveva posa; varcava anni e lustri; cercava la calma dell'età matura; invadeva la tarda stagione delle rimembranze; ma il lontano avvenire nelle sue molteplici vie non le offriva uno scampo. Tutto le annunciava che ella avrebbe un giorno arrossito davanti a suo figlio; poveretta!...

Eppure, spendendo fin l'ultimo anelito di vita in quel doloroso pellegrinaggio non pronunciò una parola di disperazione, non pensò di eludere la crudeltà del destino con mezzi violenti, non ravvivò la mente smarrita cogli acri stimoli della vendetta; ma, voltasi a Dio con voto fervido e rassegnato lo supplicò, che adeguasse al male la virtù espiatrice.

“Fate, o Signore, diceva ella dal fondo del cuore, che io viva tanto da poter narrare a mio figlio la storia de' miei dolori; egli mi perdonerà, ed io gli insegnerò a non maledire a chi gli diede la vita.„

La muta preghiera non aveva altro segno esteriore, che il pianto; nessun altro interprete fuorchè la buona compagna. — Canziana, già conscia di tutto, non osava profanare quella scena con vane frasi. Avrebbe chiesto volontieri al suo cuore una frase acconcia, una parola di conforto; ma il cuore era esausto di tutto, fuorchè di palpiti dolorosi. Piangente anch'essa, accompagnava col pensiero l'agonía mentale della sua diletta. Le tronche parole, che a quando a quando le uscivano dal labro, erano le parti sconnesse di una fervidissima [147] preghiera, con cui implorava l'ajuto di Dio per l'infelicissima donna.

Medicina ben sapeva che il tormentare una creatura, quando questa fosse la mansueta Agnese, era la più facile parte del suo disegno. Più arduo doveva essere lo smovere la volontà del conte, il cangiare l'amore in odio, la stima in diffidenza, il far di lui il giudice e peggio il carnefice della sua amante. Che la denuncia da lui lanciata provocasse in chi la raccoglieva un moto di sdegno, era cosa troppo naturale, nè per ciò solo poteva darsi vanto di un trionfo. — Sbollito il primo ardore, restava l'accusa nella deforme nudità di una ingiuria gratuita; bisognava quindi darne sùbito le prove, e prove certe e complete, sotto pena di veder rovesciato l'ingegnoso edificio, e di sopportare il danno e la vergogna del calunniatore.

C'era di che mettere i brividi nelle ossa al più audace. — E per dir vero, anche Medicina, versatissimo mestatore d'iniquità, provava un'inquietudine tutta nuova. Egli aveva inteso e architettato ogni cosa prima di mettersi all'opera; ma, per quanto il suo piano fosse semplice e chiaro, una parte di esso sfuggiva ad ogni previdenza, e lo metteva in balía del caso.

Medicina e Bergonzio s'erano data la posta nella notte seguente, ad ora fissa, in una località determinata. — Zelantissimo e materiale esecutore degli ordini ricevuti, il Seregnino, mezz'ora prima del convenuto, passeggiava in su e in giù per un ronco, in capo al quale era un'osteriaccia di sinistro aspetto. Arrivò a tempo debito il ciurmatore, e riconosciuto il compagno, [148] e presolo a braccio con una famigliarità insolita, lo condusse nella lurida tana, dove, con una lauta imbandigione, fu chiuso lo scelerato lavoro di quella giornata.

È inutile riferire i discorsi dei due compagni: l'uno ascoltava o rispondeva a monosillabi; l'altro, per fare onore al padrone, lodava a cielo ogni cosa che gli era posta davanti, traendone pretesto di squisite adulazioni pel già fatto e di splendidi augurj pel da farsi. — Al togliere le mense, il Seregnino ripose nelle mani del padrone il rótolo, entro cui era la risposta d'Agnese diretta a Manfredi. Medicina lo svolse senza guastarne il suggello, percorse lo scritto avidamente una volta, poi s'arrestò a studiarne una ad una le parole, quasi durasse fatica a rilevarne il significato; intanto che il compagno, straniero per necessità a tutto ciò che sapeva d'inchiostro, sfiorava un sonnellino impostogli dalla digestione laboriosa. — Lieto il ciurmatore di non aver testimonii, tolse di sotto le vesti un vasellino d'inchiostro, una penna, una lama; e, con un'arte di cui era maestro, raschiò alcune parole dello scritto, e qualch'altra v'aggiunse, senza guastare l'apparente autenticità dei caratteri. Chiuso poscia e suggellato di nuovo il foglio, scosse il compagno e gli consegnò il messaggio. — Parrà a taluno troppo arrischiato e quindi improbabile un tale artificio; e lo sarebbe difatti ai giorni nostri. Ma ricordisi che quella lettera era vergata su pergamena, e che su di essa era facile, anche a chi non possedesse le arti di Medicina, l'alterare o il togliere lo scritto, sopratutto quando era recente. Tal genere di frode era d'altronde assai [149] comune a quei tempi; tanto comune, che Giangaleazzo, pochi anni dopo, dovette porvi freno condannando alla morte i falsificatori degli scritti[51].

Il Seregnino aveva certi occhi appannati e semichiusi che accusavano l'intemperanza, ed imploravano riposo. Alle parole di Medicina si scosse, e cercò di raccogliere a capitolo occhio ed orecchio; e intanto lasciava errare sulle labra uno sbadiglio lungo e sguajato, come se per la bocca dovesse scendergli al cuore la voce del suo padrone. Ma gli ordini di costui erano troppo chiari e concisi perchè non giungessero alla mente trasognata dell'ascoltatore, a dispetto delle nebbie che l'ingombravano.

“Intasca questo cencio, disse Medicina, e bada a custodirlo ben bene, che deve essere la tua e la mia fortuna.„ — A quest'ultima parola lo sgherro chiuse un po' la bocca, aperse alquanto gli occhi, e tese l'orecchio. — “Domattina all'alba partirai per Milano di tutte gambe. Giunto in città, andrai difilato alla rocchetta di Porta Romana, e prima del tocco avrai consegnato nelle mani del Manfredi questo scritto che vale un tesoro. Quanto al modo di penetrare colà, e di parlare al prigioniero, non hai che a ripetere le solite pratiche. — Sii lesto ed accorto. Eccoti un pugno di terzuolini per immollarti il becco durante il viaggio. Giudizio però: non far posa ad ogni rosta, che ti accenni la mezzetta pronta. Avrai agio di rifarti con quegli altri, che tengo in serbo se riesci a bene. Hai dunque inteso? Ah!... riprese poco dopo, [150] mutando tuono di voce e stringendo il braccio al suo ascoltatore fino a trarne un lagno, guai a te, se osi fiatare con anima viva!...„

Il Seregnino, a tali parole e alla brusca scossa ricevuta, pigliava un'aria compunta, e raggrinzava le labra spenzolate, mordendole in aria di stizza; d'una stizza però che voleva significare essere ingiuria il mettere in questione il suo ossequio, la sua fedeltà.

“Ti viene la muffa al naso, poveraccio, — aggiunse Medicina, che forse sentiva un po' di compassione pensando al brutto tiro che gli preparava; — non hai torto; a un par tuo certi avvisi sono un di più„; — e diluì la parola in un risolino pieno di fiducia e d'indulgenza.

Dopo ciò, i due amici si levarono dal desco. Medicina pagò lo scotto; e Bergonzio, guidato da un guattero, prese alloggio nella stalla, dove, gittatosi sur una bica di paglia muffa, fece proponimento di voler dormir sùbito e sodo, per essere in piedi dimani prima dell'alba; e dormì infatti meglio che in un letto sprimacciato. — L'altro, che non aveva tempo e voglia di riposo, nel separarsi dal socio lo sogguardò con un fare fra il pietoso e il beffardo, dicendo tra sè: “mi duol per te: ma!... hai posto il muso nella mia scodella, bisogna che tu ne assaggi un poco anche il brusco. Manco male, il vino si fa pigiando, e nei travagli si fa l'uomo.„

Un momento dopo, e appena fuori dalla taverna, aveva obliato l'inutile tenerume, e correva, o meglio volava verso il castello per arrivare in tempo ad ottenere udienza dal principe.

[151]

CX.

La notte toccava al suo mezzo; le porte del castello erano chiuse, le saracinesche calate, doppie le sentinelle sugli spalti, ai ponti, alle vedette. Medicina, grazie alla sua fronte incallita e al suo parlar franco, potè essere ammesso nel recinto del fortilizio, e far pervenire un'imbasciata pressante al principe. Il quale, per quella spina che ognun conosce, era ancora in piedi, e misurava a gran passi la diagonale della sua camera da letto.

Benchè certo di dovere udire da colui una conferma dolorosa de' suoi dubj, egli non esitò ad accordargli udienza; ma appena lo vide entrare, gli piantò in volto due occhi poco indulgenti, e con voce alquanto aspra gli disse:

“A quest'ora!...„

“Quando si tratta di prestar servitù a Vostra Grazia, io scordo l'ora e forse le convenienze. Mi si perdoni.„

“Che hai dunque? spicciati....„

“Quella prova di cui vi ho parlato stamane....„

“Ebbene, quella prova dov'è?„

“Fra un ora al più tardi essa brillerà dinanzi ai vostri sguardi, se voi porrete a' miei ordini un pugno de' vostri.„

“Nuove condizioni! invero comincio a dubitare che tu non sii quell'uomo che ti dai a credere colle tue millanterie. — Pensa, che il gioco ti potrebbe costar caro...„

[152]

“Io sono nelle vostre mani, o signore; fatemi custodire dai vostri soldati, finchè non torni colui, che giustificherà la mia condotta.„

Mentre il conte taceva impensierito, Medicina ripigliò la parola per dichiarare che uno scritto d'Agnese diretto al Manfredi era nelle mani di un tal Bergonzio da Seregno, alloggiato alla tale osteria, posta nella tal strada. Chiese quindi che venissero spediti alcuni sgherri ad impadronirsi del foglio e del suo portatore; e ciò con tutta sollecitudine, affinchè la preda non sfuggisse alle ricerche.

La dichiarazione era esplicita; ma il conte, che in quel momento sentiva tutto il peso di uno zelo che distruggeva le sue più care illusioni, cercava pretesti ad oscurarne il merito.

“Perchè mai, soggiunse egli, non sapesti impadronirtene tu stesso? Forse ti senti già troppo alto per certi officii?...„

Sorrise maliziosamente il ciurmatore, e ripigliò: — “Voleva evitarvi la noja delle mie parole, ma vedo essere necessaria una spiegazione. Quel Bergonzio, di cui si tratta, non mi è del tutto sconosciuto; come però ebbi buone ragioni per non sollecitare una stretta amicizia con lui, così ne ho delle più forti per non provocare i suoi sdegni. Per ora, un'apparente neutralità mi fa sicuro d'averlo a suo tempo buono a qualcosa di maggior rilievo. Egli potrà essere per me, ciò che io sono per voi; così siamo due a servir Vostra Grazia.„

Al conte veniva in uggia quell'aria di servitù, stipendiata a suo danno. — Troncò pertanto le ciarle, permettendo che una mano di soldati si ponesse agli ordini di Medicina.

[153]

Mezz'ora dopo, Bergonzio, scosso da tre paja di braccia nerborute, apriva gli occhi e la mente alla dolorosa sorpresa di una visita di gente sconosciuta, che gli mandava a male il più lieto tra' suoi sogni, per ingiungergli di recarsi sùbito al castello. — La spranghetta cagionata dalle generose libazioni gli toglieva la voglia di resistere all'invito; onde, levatosi di tutta fretta, escì coi compagni.

L'aria viva e la paura lo fecero tornar in senno; ma potè raccapezzare il filo delle idee, solo quando arrivato al castello e tradutto dinanzi ad un curiale, si sentì investire da una salva d'interrogazioni, che non gli davano tempo a rispondere: egli intanto pigliava tempo a riflettere. Infatti quando cominciò a venir in chiaro della cosa, il sonnacchioso curiale finì d'accorgersi di esserne perfettamente al bujo; e, per poco che l'accusato facesse ancora il sornione, il giudice avrebbe dovuto lavarsene le mani come Pilato, e rimandarlo assolto.

Se non che, in sul più buono, un incognito vestito di una zimarra nera, e coperto nel viso da un cappuccio foracchiato attraverso al quale si vedevano brillare due occhi da basilisco, entrò nella camera e, curvandosi sulle spalle del curiale, gli bisbigliò all'orecchio alquante parole.

A quest'avviso, il volto di costui mandò un lampo di sorpresa, che dissipò gli sbadigli ed il sonno; poichè, se il trattare con un mascalzone innocente gli faceva rimpiangere le coltri deserte, il diletto di scoprire e di torturare un colpevole, chiunque egli fosse, lo compensava ad usura delle perdute dolcezze.

[154]

Il curiale fece quindi eseguire una visita minuta sui panni dell'accusato. — La mano esperta di un manigoldo, dopo avere palpeggiato diligentemente ogni tasca, ogni piega, ogni costura, arrivò finalmente allo sciagurato foglio; e, ghermitolo, lo sottopose all'esame del giudice; il quale, dopo averlo guardato per ogni verso, lo lesse e lo rilesse per cavarvi il bandolo di un'accusa. — Intanto soffiava, e si stringeva nelle spalle come se cominciasse a pigliar gusto in quella facenda.

Bergonzio, posto alle strette da una furia di dimande, asserì sul principio di non saper come e per mano di chi gli fosse capitato quel foglio: aggiunse di più (e questa era pura verità), ch'egli non sapeva riconoscere l'importanza, e nemmanco il senso, di quelle parole. Ma al vedere che non gli venivano menate buone queste scuse, e udendo scricchiolare la puleggia del cavalletto, credè opportuno di chinar la cresta e di dimandare perdono; chè, se le nebbie del vino gli avevano offuscata la memoria, ora poteva finalmente ricordare che quella carta gli veniva affidata da un compare da Pavia coll'incarico di portarla ad un compare di Milano.

Invitato a dire il nome d'entrambi, balbettò di nuovo e si confuse; ma il curiale, che aveva interesse di non lasciar raffreddare le sue morbide piume, fatti amministrare due tratti di corda allo sciagurato, ebbe la gloria di vedere messa a nudo in un attimo tutta quanta la verità, co' suoi incidenti: i nomi, cioè, di Agnese e del Manfredi, l'origine e la destinazione dello scritto, e perfino il nome e le intenzioni di Medicina.

[155]

Ma guardate delirio dello spirito umano: quella rada volta, in cui uno stolido e scelerato mezzo di prova metteva in chiaro tutto il vero, e niente più che il vero, il giudice nel valersene sentiva per essa una sfiducia nuova e sapiente. La colpa di Bergonzio, secondo lui, era più che constatata; valevano per essa tutti gli amminiscoli di prova; ma la complicità di Medicina, attestata dalle medesime circostanze, era assurda; le dichiarazioni del torturato erano un sogno, un delirio, un vaniloquio.

Lo scritto d'Agnese fu tosto consegnato al conte; Medicina si valse della buona riescita del suo intrigo per trattare la causa di Bergonzio; il quale fu nella giornata seguente messo in libertà, un po' malconcio ma colle tasche piene di quei terzuoli, che Medicina gli aveva promesso.

CXI.

Un pittore, che voglia rappresentare una giovine donna sfolgorante di bellezza e d'ornamenti, chiede invano alla tavolozza gli schietti colori, che emulano il brillar caldo e sanguigno delle carnagioni, gli screzii delle stoffe, e lo smagliar delle gemme. Ma l'arte gli insegna che una tinta fosca, ed opportunamente valida, sparsa intorno a quegli splendori, ravviverà la sua languida creazione; giacchè l'occhio dell'osservatore, dopo aver riposato sur un fondo opaco, si rende più sensibile alla subitanea vivezza delle tinte artefatte, e, pel felice gioco dei contraposti, trova brio e vita, dove poco prima era nebbia e languore.

[156]

Il precetto dell'artista che imita la natura fisica si attaglia perfettamente a chi studia di ritrarre il mondo morale. Volendo dipingere l'anima di Agnese, mal riescirebbe nell'intento chi si contentasse di stare dentro il circuito delle sue azioni, enumerando ad uno ad uno i pregi di che era ornata, ed arrestandosi all'esatto computo de' suoi dolori e delle sue virtù. La storia tracciata a questo modo, pel merito d'essere troppo veritiera, non raggiungerebbe lo scopo di lasciare nell'animo di chi ascolta una esatta e durevole impressione. I foschi intrighi e le passioni scelerate degli avversarii, che la circondano, spettano alla sua vita, precisamente come il fondo della tela appartiene al suo protagonista. Con questo contrasto sobriamente maneggiato acquisterà rilievo e forma il ritratto della nostra eroina; e ciò che veduto da vicino sembrerà superfluo o forzato, contribuirà da lungi alla fedele riproduzione della sua imagine.

Tutto ciò sia detto per guidare il lettore a concludere che l'analisi della vita di un ribaldo, qual'è Medicina, non fu tanto una speculazione consigliata dal triste diletto di accozzare tinte vigorose ed ardite, quanto una necessità imposta dallo scrupolo di cronisti veritieri.

È riprovevole il gusto di coloro che pensano ricreare ed istruire chi ode o legge colle più tetre pitture del genere umano; quasichè, scorrendo un museo patologico, alla nauseante rivista di tante diformità, si potesse acquistare un'idea precisa della vita, come ella è secondo i voti della natura. — Ma non è meno strano ed ingannevole il proposito d'altri, che, per [157] pochi fiori raccolti a stento in un vasto campo, vogliono far credere al paradiso del consorzio umano. Queste sdilinquite dolcezze hanno perduto ogni prestigio; le arcadie sono il limbo degli spiriti morti senza il battesimo dell'esperienza. — La storia suol essere varia come la natura; nè tutta fiori, nè rovi soltanto. Valgano a provar ciò le parole con cui apre i suoi insegnamenti un dotto scrittore: “la vera importanza della storia sta negli esempj di morale, che ella può porgere; non si vogliono in essa cercare scene di sangue, sibbene ammaestramenti...; la conoscenza delle vicende dei tempi andati allora solo è proficua quando ci apprende a cansare gli errori, ad imitare le virtù, a vantaggiarsi della sperienza„.[52]

CXII.

Dei tre giorni di lontananza, che Medicina aveva chiesti a Barnabò come prima condizione all'avviamento de' suoi progetti, i primi due erano trascorsi. Con qual risultato, il lettore lo sa. Prima di gettare i semi di un nuovo arbusto, conviene sbarbicare dal suolo ogni resto del vecchio, perchè le radici che rigurgitano di umori non abbiano a soffocare il tenero rampollo. Così pensava Medicina, e perciò aveva posto grande studio a spegnere col veleno della calunnia quel sentimento che nell'animo del conte poteva resuscitare l'affetto suo per Agnese.

[158]

Dacchè il sinistro consigliero gli aveva fitto nel cuore la spina della gelosia, anche i più lievi sintomi divenivano argomento d'accusa. Il contegno d'Agnese, il suo pallore, l'apparire mal dissimulato di una lacrima, tutte cose che potevano essere ed erano difatto naturale conseguenza del suo amore offeso, venivano accolti come sintomi di male opposto: il silenzio era imbarazzo, la pallidezza rimorso, il piangere dispettosa confessione.

Ogni uomo ha una fisonomia morale sua propria. Non vi sono due anime identiche, come non si riscontrano due volti, due piante, due rupi perfettamente eguali. Il più umile degli uomini è perciò un libro nuovo, fecondo sempre di qualche utile insegnamento. Ma il più strano si è che sovente l'istesso uomo, nelle varie fasi della sua vita, disconosce e combatte quelle doti speciali che costituiscono la sua individualità. — Vi ponno essere in una sola esistenza prove di valore e di codardia, atti di ferocia e di pietà, l'estremo della virtù e del vizio. E non è tutto ancora; sovente nella stessa vicenda, e sotto il dominio di una sola passione, l'uomo edifica e distrugge, vuole e rifiuta, ama ed odia. — Tale era appunto la situazione del conte. Tormentato dal sospetto e dal dolore, ora sentiva di aver forza a subire la sua sorte, ora s'inchinava davanti ad essa come il vinto che scende a patti. Alcuna volta egli attribuiva alla dolorosa realtà del momento l'apparenza di un sogno, e riposava nella certezza di vederlo svanire; poco dopo, chiamava sogno la felicità dei tempi andati, e scuoteva l'inerte ragione per dissipare gli avanzi di quel vaneggiamento. Allora armeggiava [159] di risoluzioni e propositi, che in breve, al ritorno di una dolorosa stretta di cuore, si dileguavano in vani sospiri. — Le tempeste erano subitanee, ma terribili. Quando il dolore vinceva la ragione, ogni affetto languiva, la memoria era muta; in quel momento avrebbe ceduto tutti i beni della terra, e perfino la gloria, per rimovere il coltello, che gli squarciava l'anima. Ma quando la ragione tornava padrona del suo animo, deplorava la vanità delle querimonie, e si rialzava a condannare severamente la propria debolezza. Per qualche istante giunse perfino a dubitare dei fatti; e nella ripetuta asserzione che il tradimento d'Agnese poteva non essere vero, trovava le ragioni per crederlo impossibile. Il suo scetticismo colpiva i fatti recenti per lasciar sopravivere le vecchie convinzioni, che gl'infundevano nell'anima una fiducia senza limiti. Sotto l'impero di tali idee, il cuore gli batteva più largo, la mente si rischiarava; egli era sul punto di correre da Agnese, per confessare la colpa d'aver dubitato di lei, per chiederle perdono.

Ma d'improviso una mano agghiacciata gli premeva di nuovo il cuore, e ne arrestava i movimenti. Bastò a tanto uno sguardo sul foglio che Medicina gli aveva consegnato: la memoria troppo fedele gli ripeteva ad una ad una quelle fatali parole. — Poche sillabe abilmente aggiunte, una parola destramente soppressa, cangiavano la più ingenua risposta in un documento d'infamia. Guai a Medicina se il conte, ponendo sotto gli occhi d'Agnese il foglio incriminato, avesse scoperto chi era il vero colpevole!

Ma Medicina vegliava: Medicina attendeva il momento [160] di sottrarre agli occhi del conte la prova del suo delitto; ed impediva qualunque ravvicinamento tra il giudice e l'accusato. Se non che, il protrarre all'infinito questa sorveglianza, oltr'essere cosa assai difficile, lasciava l'impresa a mezzo; ed egli non aveva tempo da perdere. L'ultimo giorno della sua dimora in Pavia, doveva essere consacrato alla seconda e più difficile parte del suo incarico. Tolto il pericolo di un abboccamento tra Agnese e il conte, egli si proponeva di rispondere alla fiducia di Barnabò, e di rendere veritiera la fatidica Canidia. Solo dopo ciò, ei poteva chiamarsi completamente vittorioso.

Bisogna dire che lo scelerato avesse una profonda conoscenza del cuore umano, se si lanciava con tanta temerità nell'impresa di sostituire un legame di pura convenienza ad una profonda affezione. Qui non si trattava di gittare polvere negli occhi di un ignorante; l'uomo, col quale aveva a fare, era avveduto al par di lui. Eppure da un lungo studio delle passioni, e dall'esperienza fatta nel rimestarle, aveva appreso, che una delazione finchè non è riconosciuta calunniosa, è un atto di servitù codarda, che tutti disprezzano, e che ben pochi hanno il coraggio di respingere. — Egli prevedeva che le sue parole avrebbero cagionato ribrezzo nell'animo del conte, e che sarebbero, nondimeno, accolte come una verità. Previde che la lotta sarebbe gravissima pel conte; tanto più che il mistero che aveva presieduto a' suoi amori, lo costringeva ad inghiottire in silenzio la storia della tragica fine di essi. — Isolato e diffidente delle proprie forze, egli dunque non sarebbe restio ad accogliere anche una meschina alleanza. [161] L'infermo disperato non dispregia i consigli della feminetta; il nuotatore pericolante s'aggrappa ad ogni sterpo.

Confidava Medicina nell'arte tutta sua d'impadronirsi dell'altrui volontà, quand'essa è oscillante. Egli sapeva far gradire le sue parole appunto perchè fingeva di gittarle senza pro; sostituiva all'altrui il proprio avviso, lasciando a chi lo seguiva il merito d'averlo trovato. Non di rado propose come un mal consiglio ciò che desiderava più vivamente, e che voleva veder compiuto. Lo spirito di contradizione era il suo formidabile ausiliare; egli sapeva farne gran gioco a suo profitto. Malgrado ciò, sentiva la gravezza dell'assunto, e non si illudeva sulle difficoltà e sui pericoli che avrebbe incontrato. Tutto era buono ad abbattere; ma per collocare solidamente la base del nuovo edificio, si richiedeva senno, prudenza e, più che altro, fortuna.

[162]

CAPITOLO DECIMOQUINTO

CXIII.

La mattina del terzo giorno il ciurmatore, accennando al bisogno di recarsi precipitosamente a Milano, si presentò al conte per ricevere i suoi comandi e pigliar congedo. Vedendolo più cupo del solito, volle sembrare compunto, ed affettò tale imbarazzo da confondersi colla timidezza. Premesse le consuete strisciate — “Se Vostra Grazia non ha altro bisogno di me, disse egli, io con sua licenza ritorno al mio posto.„

Il conte non rispose motto.

Medicina osò fare un lieve gesto d'impazienza, che non sapremmo copiare, ma che si voleva tradurre come un segno di scontento verso sè stesso — Egli lo spiegò meglio con queste parole:

“Vorrei un'ora sola mutar panni con qualcuno....„

Il conte si scosse, ed, ammiccando il ciurmatore con un fare non troppo incoraggiante, ripetè “e poi...?„ [163] pronunciando le due sillabe con un tono interrogativo quasi imperioso.

“E poi.... Se io fossi il Conte di Virtù imiterei il signor Barnabò, suo glorioso zio, che d'ogni cosa disgraziata sa trar profitto.„

“Lascia da parte Barnabò, soggiunse il conte più rabbonito, e dimmi che farebbe un tuo pari al mio posto?„

“Noi povera gente.... è un altro affare. Quando ci capita di tali rovesci, sappiamo vendicarci del tradimento, col mostrar di accettarlo come un ben di Dio. — Niente di più sciagurato che il belare e mettere sospiri appiè di una donna. Ohibò! sarebbe un dar la spezia in bocca al giumento, con vostra licenza — Manca femine al mondo?„

Il tuono plebeo di queste parole doveva fare stomaco ad uomo come il conte. Ma il sugo di esse aveva la sua parte di saggezza, e il conte non sacrificava l'opportunità dell'avviso alla vile forma di esso; anzi lo gradiva appunto perchè non aveva l'aria magistrale di un consiglio.

Intanto poichè egli taceva, Medicina tirò avanti sull'istesso tenore.

“Noi poveretti abbiamo a pensare a ben altre cose; la fame, o provata o temuta, ci fa essere filosofi. — Voi (poichè mi permettete di parlare) voi potete trarre il miglior diletto del mondo da queste avventure — Vi mancano forse i mezzi di vendicarvi?„

Si rannuvolò il conte alla parola di vendetta.

“Vendicarvi, che dico io? — riprese Medicina; — non è precisamente la parola che si fa al caso nostro. Se [164] l'uno ci abbandona non può dirsi vendetta il cercare altri — E quanto a ciò, Vostra Grazia non avrebbe che l'imbarazzo della scelta.„

Il conte, seduto di faccia al ciurmatore, teneva il gomito destro sull'appoggiatojo dello scranno, e nascondeva la fronte nel cavo della mano. — Ma Medicina s'accorse d'essere compreso, e forse già previde che le sue parole toccavano dritto al cuore di chi fingeva di non ascoltarlo.

“C'è dell'amaro per me in tutto questo, o mio signore. Se voi foste in guerra, io potrei seguirvi, e cogliere il destro di mettermi di mezzo tra le aste dei nemici e il vostro petto. — Ora, in simili negozii, la mia fedeltà non giova a nulla. Posso bene liberarvi di chi vi reca fastidio; ma non sono in istato di rendervi chi vi consoli; e molto meno di farvi gradire le idee dell'illustrissimo signor Barnabò — Eppure vostro zio vi porgerebbe i mezzi d'escire da quest'imbroglio.... Sì, per certo; ve lo giuro...„ — E tra sè aggiunse: “Il dado è gettato.„

Il conte alzò il capo con aria di stupore.

“Mio zio?... e che sai tu....?„

“Come io sia addentro in ogni cosa che riguarda la corte di Milano, voi lo sapete da un pezzo. — Vivendo nell'anticamera, io fo il gonzo per frodare la gabella. Il sornione fiuta, fiuta, ma tacendo raccoglie. — È vero che non tutto è di buona lega; pure v'ha sempre il tornaconto a non gettar nulla nelle spazzature — Udite questa, che appunto ha il suo piccolo merito. — Il signor di Milano, tempo addietro, fece l'occhio amorevole al nobilissimo suo nipote....„

“A me?„

[165]

“A voi, messer sì„

“E com'egli si è degnato di ciò?„

“Quante volte gli uomini scoprono la fortuna levando l'occhio in alto! Le stelle, a cui il nobilissimo vostro zio non professa molto rispetto, gli hanno un bel dì raccontato, ch'ei n'avrebbe gloria e fortuna a stringer meglio la parentela con voi, accordandovi una delle sue figlie in isposa.„

“Perchè non mi parlasti prima di ciò?„

“Perchè?... pensai che avreste male accolto le mie parole. Il cognato del re di Francia poteva aspirare a nozze più fortunate. Non per dir male del nobilissimo sangue dei Visconti, me ne guardi il cielo, ma.... messer Barnabò.... ha messo sì poco zelo a conservarlo puro.... D'altronde, il Manfredi.... a quei dì taceva.... Insomma tacqui anch'io, perchè non mi pareva cosa che vi potesse riescire caro od utile il sapere. Mutate le circostanze, forse ciò diviene meno inopportuno. — Ma dico a me, se un tale affare avesse la consistenza di un progetto ragionevole, si farebbe strada da per sè, senza l'ajuto del pover'uomo che son io.„

Il conte in questo momento se ne stava silenzioso, quasi ponesse grande attenzione alle parole altrui; in realtà era assorto, e non ascoltava. Il parlatore, che se n'era avveduto, vagava intorno a lui, accarezzando per così dire la sua meditazione colla quieta armonia di un borbottare sommesso; press'a poco come fa la nutrice che continua a cantar la nanna a un bimbo addormentato, affinchè non si desti. — Medicina non avrebbe scambiato quel silenzio colle più amorevoli parole e con una grossa mancia.

[166]

Senza divagare più oltre in questo dialogo, che non ha altro interesse fuor quello di convalidare la già troppo vantata accortezza di Medicina, eccone brevemente i risultati. Il conte di Virtù accolse il progetto, o meglio vi si abbandonò ciecamente, sperando di trovare in un ordine tutto nuovo d'avvenimenti quella pace che invano chiedeva alla sua ragione. Colle parole di Medicina e coi progetti di Barnabò forse si riaccese in lui più viva quell'ambizione, che non lo faceva pago di una porzione del retaggio avito, e gli prediceva future grandezze. Seppe che la fanciulla chiamata a divenire la contessa di Virtù era la bella e timida Caterina. — Non le diè merito per la bellezza, ma fece grande assegnamento sulla sua docilità; poichè le sue nozze non gli avrebbero richiesto alcun affetto: egli voleva sempre esserle cugino e non sposo. Ma non lo si accusi di un pensiero di vendetta: impalmando altra donna, egli legitimava l'antica passione di Agnese, e le accordava piena libertà di farla rivivere, condonandole il sospettato spergiuro.

Eppure, mentre da un lato la gelosia, sotto apparenza di giustizia calma e dignitosa, lo consigliava a troncare di colpo ogni rapporto con Agnese onde evitare inutili rampogne o atti di codarda indulgenza, dall'altro, la stessa passione più libera e spigliata lo trascinava contro la sua volontà a disconoscere i fatti proponimenti. — Poche ore dopo il dialogo riferito sopra, mentre la ragione aveva in modo inappellabile sentenziato una rottura, egli, lo stesso giudice, quasi inconscio di sè, si trovava in quella casa e presso quella donna, che aveva risoluto di non vedere mai più.

[167]

Il fatto non verrà giudicato da tutti sì strano come esso pare a prima giunta. — Pensiero ed affetto, mente e cuore non sono sempre fidi alleati fra loro nelle guerre della vita, e se non agiscono d'accordo, la passione pur troppo sarà sempre, o più spesso, la vincitrice.

Quell'incontro però (ne duole il dirlo) che doveva rischiarare il fatale mistero e ricondurre i due amanti alla conoscenza di uno scambievole inganno, non fece che spargere nuove tenebre, ed aggiunger credito all'errore. Quando i due amanti si videro, ognuno volle essere il primo a scoprire nello sguardo dell'altro il suo giudizio, la sua sentenza; ma ognuno venne meno all'uopo; e, ritraendosi dal campo, lasciò nell'altro la certezza della propria sconfitta. Fu come una sfida, nella quale entrambi i campioni cadono feriti sul terreno. Ciascuno crede d'essere il vincitore perchè vede il sangue del suo antagonista; e di fatto ciascuno è vinto.

Meglio è che il lettore non conosca come, e con quali parole, s'arrivasse a sì funesta conclusione. Il dialogo fu breve, ma solenne; la passione non ebbe tempo di erumpere sulle labra, e perciò ribollì più terribile nel cuore, ov'era contenuta di forza. Quando il conte, più d'Agnese impaziente, parlò della lettera del Manfredi come di una scoperta casuale, che gli dava diritto di sospettare e di giudicare; Agnese più dolorosamente straziata dal tuono dell'inchiesta, che non dalle parole, si rialzò con atto severo, e rispose al suo accusatore tacendo, e volgendo le spalle a chi l'aveva già condannata coll'insulto di un sospetto tanto indecoroso. — Il [168] conte, posseduto dalla più irragionevole delle passioni, scambiò lo sdegno col rossore; confuse l'orgoglio colla vergogna. Convinto di non aver bisogno d'altre prove, si allontanò o meglio fuggì da quella casa e da quella donna, colla presunzione d'essere interamente guarito dal suo disgraziato amore. Egli dunque si propose di scordare un triste sogno; e ripigliò il filo della sua vita a quel punto in cui la passione per Agnese l'aveva interrotta.

Tutti gli storici s'accordano nel confermare che Giangaleazzo Visconti, come erede del primogenito fra tre fratelli succeduti a Luchino e Giovanni, vantasse il diritto alla intera signoria di Milano. Ora egli cercò appunto in queste dimenticate pretensioni il rimedio della secreta sua piaga. — Far valere i suoi diritti colle parole, sarebbe stata cosa vana: colle armi, impresa perigliosa. Prima dei fatti che lo legarono ad Agnese, era suo intendimento di aspettare il giorno propizio per rivendicare ciò che gli era dovuto. Fino ad un certo punto riesci ad addormentare la sospettosa vigilanza dello zio. Ma il suo amore, qualificato da taluno come una tacita alleanza coi cospiratori di Milano e di Reggio, aveva acceso dei sospetti, e scemato il frutto di sua lunga dissimulazione. — Ecco ora il nuovo suo cómpito; ripigliare il perduto con un atto d'ossequio inaspettato e completo. — Tale era appunto per Giangaleazzo la dimanda in isposa di una figlia del suo rivale. Barnabò di buon grado avrebbe sacrificato i suoi affetti alle illusioni di questa vittoria domestica.

Medicina, vedendo che il conte era tornato a' suoi vecchi disegni, sperava d'esserne fatto l'interprete [169] presso lo zio. E quanto a ciò, ei si credeva in grado di promettere una mediazione efficace. Già gli sorrideva il pensiero di provedere con questo mezzo alla propria sicurezza; poichè l'aria di Pavia cominciava a sembrargli greve. Ma il conte non gradì l'offerta. Senza porre tempo di mezzo, e senza dar campo a nuove investigazioni, per non aver agio di pentirsi, inviò uno de' suoi cortigiani, il più esperto a destreggiare un incarico dilicato, alla corte di Milano, perchè chiedesse in tutta forma alla Grazia del signor Barnabò la mano di sposa della giovine principessa pel nobilissimo Conte di Virtù, signore di Pavia.

E Medicina intanto dovette rimanere al castello, perchè la sua testa fosse caparra della sincerità de' suoi detti. — Nell'ozio penoso dei tre giorni che passarono tra la partenza dell'inviato e il suo ritorno, pensò seriamente ai casi suoi, alla probabile incostanza di Barnabò, al pericolo di una smentita. — Sapeva il furfante che il signor di Milano, in più di un incontro, aveva fatto della volubilità il più valido argomento di sua potenza; se in questa occasione egli non si fosse degnato di confermare le proprie parole, il ribaldo Medicina era castigato da un più ribaldo di lui. — Da tutto ciò il prigioniero traeva queste due conseguenze: che il suo mestiere non era sì liscio e sì prospero, come taluni credevano, e che in vita sua egli ebbe più spesso a temere di quanto disse colla scorta del vero, come in questo caso, che non di ciò che aveva inventato di pianta, per servire a' suoi fini. — Tristissima conclusione, che lo faceva dubitare di non essere ancora compiutamente scelerato, e lo rinfrancava nel progetto di volerlo divenire alla prima occasione.

[170]

CXIV.

Il ritorno del legato spedito a Milano rimise la quiete nell'animo di Medicina, e costrinse la volontà del conte in un nodo indissolubile.

Durante la sospensione d'animo naturale a chi aspetta, Medicina aveva temuto per la sua vita, Giangaleazzo per la propria costanza. La notizia che Barnabò aveva accolta la proposta del conte nel modo il più benevolo assicurò il trionfo del ciurmatore, e tagliò corto ogni perplessità del conte.

L'alleanza fra i due prìncipi prima dubia, guardinga, gelosa, sembrò farsi aperta e sincera. Tali erano le parole, se non le intenzioni dei due contraenti: l'uno e l'altro aspettavano da questo fatto il vicino compimento dei loro voti; ciascuno godeva della pieghevolezza dell'altro, come di una grande vittoria riportata a ben tenue prezzo.

Una differenza assai notevole però correva tra i due. Il conte poneva l'essenziale della sua condotta nell'affettare un ossequio, che disarmava la vigilanza dello zio; volontieri quindi si sarebbe arrestato alla solennità di questo primo atto, senza sobbarcarsi alle noje di un legame positivo ed indissolubile. Barnabò invece, aspettando il buon effetto della nuova alleanza dalla piena esecuzione dei patti che gli erano proposti, affrettava con impaziente desiderio il momento di abbracciare suo nipote col nome di figlio.

In questa secreta discrepanza di vedute e d'azione, [171] vinse, com'è naturale, l'imperiosa volontà di Barnabò; per la qual cosa, dopo pochi giorni, la novella del matrimonio del conte di Virtù colla principessa Caterina, corse, colla rapidità consentita dalle stentate comunicazioni d'allora, per tutte le città del doppio Stato, e fu ripetuta e commentata su tutte le labra dei cittadini.

Come era noto a tutti il rancore che regnava tra i due prìncipi, così apparve strana ed inopinata la riconciliazione. Tra il popolo minuto, alcuni se ne rallegravano come di cosa utile al ben publico; chè quello star sempre coll'arma al braccio era tutt'altro che vivere in pace. Quei pochissimi che, come Medicina, avevano il tornaconto a favorire l'antica ruggine, applaudivano anch'essi; perocchè, a sentirli, l'accordo era apparente, e il nuovo patto doveva essere l'inizio d'altra e più fiera rottura. Ma i più, non occupandosi di queste discussioni, o non giungendo a comprenderne l'importanza, si rallegravano, non fosse altro, per le vicine feste. Il popolo minuto sognava corti bandite e tornei, piogge di terzuoli e fontane di vino; più in su, s'occhieggiavano posti d'onore presso la leggiadra principessa, e si facevano miracoli di cortigianeria per meritarne il favore. Intanto nei due castelli era un continuo formicolare di gente che accorreva a presentare ai padroni le felicitazioni d'uso, o a chieder grazie, o a sollecitare impieghi.

Non è prezzo dell'opera il registrare le strisciate, gli inchini, i sorrisi, le graziette artificiose di quei cortigiani. Nel mercato sociale questi pleonasmi conservano anche oggidì più valore che non meritano. — Privilegio [172] del secolo era invece il convenire dei menestrelli e dei trovatori, che all'annunzio delle splendide nozze accorrevano dalle vicine corti, e, ripulita la bisunta ribeca, provavano sulla triplice corda armonie nuove, versi da paradiso. — Le imagini le più ardite erano ipotecate a celebrare il grande avvenimento. La sposa era una stella, un giglio, una colomba; lo sposo un leone, un'aquila, una quercia. — Smancerie poetiche che allora avevano almanco il pregio d'essere originali.

Oracolo della publica opinione era la bocca dei pochi schiamazzatori, non quella dei molti che tacevano. Il lagno sommesso e la reticenza hanno un'eco postuma, alla quale la sola storia non è sorda. Checchè si dica della liberalità di Barnabò e dell'esultanza del suo popolo, devesi credere, che la novella inaspettata non generasse altro che indifferenza presso quei molti che (fossero, o non fossero amici tra loro i prìncipi di Milano e di Pavia) rimanevano invariabilmente i poverelli e gli sventurati di prima. — V'era poi un bel numero di patrioti, memori delle libertà antiche, che vedevano in questo fatto un ribadimento di catene, un'altra speranza perduta. — V'era infine un'anima, per la quale tutto ciò riesciva più terribile che una sentenza di morte. — Vogliamo parlare d'Agnese, che lasciammo nel dubio di una sventura, e che ora ritroviamo nella inesprimibile desolazione di un male certo, e senza rimedio.

Infelicissima Agnese! Al diffundersi della terribile notizia, portata da cento voci nel modo il più autorevole, vedeva crollare il fantastico edificio delle congetture, con [173] cui, poco prima, ella cercava di puntellare le sue speranze. Nell'incertezza, aveva più volte invocato l'inappellabile giudizio dei fatti; ora, resa certa dalla testimonianza dei fatti, invidiava gli ingegnosi cavilli della perduta credulità. In faccia a tanto dolore, avrebbe benedetto come un dono di Dio la dimenticanza del passato; ma la memoria ed il cuore ponevano uno studio crudele a ravvivarlo dei più ridenti colori; anzi, nell'alterna vicenda del bene e del male, pareva che brillassero le gioje del passato, appunto per fare più tetre le angosce presenti.

L'infelice, che non vuol soccumbere sotto il peso delle sventure, arma la ragione contro la propria sensibilità; cerca, e non di rado trova, chi è infelice quanto o più di lui. Quella pietà, che egli giunge a consacrare al male degli altri, sarà gran sollievo a' suoi proprii. — Ma la povera Agnese, scorrendo il lungo novero delle disgrazie terrene, ritornava in sè colla desolante certezza di non aver trovato al mondo una sventura maggiore della sua. Le parve che l'infermo nel letto de' suoi dolori abbia almeno il conforto delle raddoppiate sollecitudini de' suoi cari. — Il prigioniero ravveduto si consola, pensando che la solitudine e i dolori gli guadagnano il perdono di Dio e degli uomini; grave il prezzo, ma a mille doppii più prezioso il tesoro, che egli si acquista. — Colui che è condannato nel capo inorridisce al pensiero della tragica scena, di cui è il protagonista. Ma il martirio di quelle ore, che la precedono, è misurato; ogni minuto abbrevia d'un passo l'erta del suo calvario; ai piedi di esso troverà l'uomo compassionevole che lo [174] ajuta a portare la croce; lungo la via incontrerà le anime pietose che piangeranno e pregheranno per lui.

Agnese, non d'altro colpevole che d'aver troppo amato, non era vicina a morte; ma incominciava allora un'esistenza nuova, e moveva il primo passo col preludio dell'abbandono, col sospetto di essere creduta colpevole. Agnese trovava la vergogna, dove è il nobile orgoglio di una donna. Quello che per altre era la buona novella, per lei era e doveva essere una colpa, un mistero. Il suo supplicio non aveva misura di tempo: doveva durare quanto la vita, fosse pur protratta a tarda decrepitezza. Che più? perdurava al di là della vita, in quella del figlio suo. Oh questo era il più terribile de' suoi tormenti! L'affetto materno è geloso e diffidente, mentre ogni cosa arride; ma quando sulla culla del suo bambino s'agita un dubio, o nelle viscere ov'egli aspetta di risvegliarsi alla vita, scende un rimorso, oh allora quel dubio e quel rimorso non si calmano per certo al raggio di una speranza indeterminata! La sventura sospettata divien certa; certa almeno quanto agli strazii che essa cagiona.

Quante volte Agnese passò in rassegna la parte più bella della sua vita, per cercarvi la cagione dell'attuale mutamento. L'avrebbe voluto scoprire anche a costo di accusare sè stessa. Ma in ogni sua parola, in ogni atto, nei tanti e tanti nonnulla, che riempiono l'esistenza di un cuore innamorato, non trovò che l'invariabile ripetizione delle medesime proteste, le stesse prove d'amore; forse sempre crescenti a grado, forse soverchie!

[175]

Rammentò poscia le velate e mal comprese parole con che Canziana, in altri tempi, soleva dipingere a lei giovinetta il mondo, la società, gli uomini. Aveva sentito più volte parlare di creature ingannate, d'altre spergiure. — Aveva veduto più d'una donzella vestire a lutto, senza che ciò le fosse imposto dalla morte di un parente; altre, spiccarsi dal mondo, di cui erano la delizia, e correre giovani e bellissime, a seppellirsi in un chiostro; altre ancora, a cui una ruga prematura aveva scritto sulla fronte un mistero che la parte più generosa degli uomini sembrava compassionare, ma non discutere. — Allora Agnese ingegnavasi di convincere sè stessa, che la sua era la storia di cento, di mille altre donne al par di lei derelitte; che la sua virtù, come quella di tutte le sue pari, era stata gioco di una passione quanto violenta altretanto passaggiera. Pensò alla gioventù sgovernata, che si fa bella di così turpi conquiste. Pensò che, mentre ella sentivasi lacerare l'anima, forse il suo amante era calmo; forse pregustava nella sua mente nuove avventure, nuovi trionfi.

Questo non era trovar rimedio a' suoi mali, ma inacerbirli: perocchè il nome di tradita ch'ella attribuiva a sè stessa, supponeva un tradimento, e un traditore. Per la qual cosa, con una carità fin troppo ingegnosa, sforzavasi di rialzare sè stessa, affinchè la sua vergogna non fosse la condanna di un altro. In questo lavoro la ragione diveniva sottile e ferma, come non era mai stata. Non voleva scolparsi, anzi si rimproverava di aver tentato di farlo; accusavasi di inconsideratezza, di inesperienza; e chiamava solo [176] suo complice il destino, cagione unica ed inevitabile di tanto male.

Ma infine il cuore voleva la sua ragione. Scoprire la causa della sventura non era rimoverla od attenuarla. Nulla valeva a restituirle la pace dell'anima; impossibile, il far rivivere la felicità dei giorni passati, sì cari nella tranquilla inconsapevolezza del male, belli e forse più ancora invidiabili negli stessi brevi turbamenti, che accompagnano un amore appassionato. Dietro ciò, l'unico rimedio, il solo conforto era il piangere; e piangeva la tapina lunghe ore, le intere notti, talvolta sola, più spesso assecondata dalla pietosissima compagna. — La quale non aveva parole per confortarla; ma, levando gli occhi al cielo e stendendo ad esso le mani in atto supplichevole, insegnava all'infelice, che non vi è anima derelitta che da esso si diparta inconsolata. Agnese, che non aveva fin qui osato implorare il soccorso di Dio credendosene indegna, rivolse ogni suo affetto a lui; e, come sùbito, al primo slancio, sentì rinascere in se stessa una fiducia nuova e consolatrice, in lui ripose ogni sua speranza, a lui affidò gli interessi del suo cuore, il suo avvenire, quello di suo figlio.

Le inspirazioni, che le scendevano all'anima da questo aprirsi col vero consolatore degli afflitti, erano tenere, soavi, confortevoli: ma largheggiavano di promesse a patto di abnegazione e di sacrificio. Le lacrime da quel punto sgorgarono più libere e meno aduste; la voce che le parlava al cuore pareva quella de' suoi genitori. Era una voce autorevole ma affettuosa; erano parole non scevre da rimprovero, ma promettitrici di [177] perdono. Ella le ascoltava colle mani giunte, ginocchioni, col viso inondato di lacrime, e l'occhio rivolto al cielo. Il pallore, che già da tempo le sfiorava le gote, si ravvivò di un incarnato pieno di brio e di gioventù. L'occhio, prima incerto e sbattuto, si rilevò franco e sicuro a contemplare il cielo. Sembrava che ella cercasse lo sguardo del suo giudice, certa di vedere a fianco di lui due anime benedette che peroravano la sua causa, e le promettevano il divino perdono.

“Miei diletti — diceva Agnese orando mentalmente — se io non fossi rimasa orfana, ora non contristerei la vostra beatitudine colle mie querele. O madre mia, te vicina, io non sarei scesa sì improvidamente nelle battaglie del mondo, o se la sorte mi vi avesse trascinata, vicina a te avrei saputo combattere e vincere. Non voglio nascondere la mia colpa; essa è grave, sì lo comprendo; ma io era sola, inerme, inconsapevole.... Perdona non a me, ma a quell'innocente che è sangue tuo.... Tu sai quanto dolore costi ad una madre l'abbandonare il proprio figlio? il mio angelo nascerebbe orfano, se sua madre fosse maledetta! Deh, per pietà, per l'amor tuo, per le tue viscere, mi affretta il perdono di Dio, ond'io sia degna di baciare in fronte quella creatura, che porterà il tuo nome!„

In questo tacito colloquio trovò Agnese quel conforto, che invano aveva cercato ai cavilli dell'umana ragione. È naturale quindi che ella vi si abbandonasse con passione, quante volte sentiva venirle meno il coraggio. Ma dalla rinata fiducia, ella non traeva argomento a credersi degna dell'impunità; per essa preparavasi [178] con animo sereno ad una austera espiazione; e l'accoglieva e l'invocava come arra di pace.

Altra volta volgeva la parola a suo padre; e le sembrava che la fronte severa del buon vecchio si spianasse alla pietosa sua invocazione.

“Tu, padre mio, diceva ella, tu m'insegnasti ad onorare colui; io frantesi le tue parole, io varcai i limiti, de'tuoi comandi; sconsigliata! Tua figlia però non si chiama indegna del tuo nome, giacchè, coll'ajuto di Dio e con un'intera vita di sacrificj, saprà cancellare questo passo indecoroso della sua giovinezza — È inutile, che io ti sveli come vi fui travolta; non v'hanno misteri per le anime beate. Dirò solo che ebbi un complice, non un seduttore. Io ti prego anche per lui, padre mio; come mai potrei sperare d'essere perdonata, quando non mi sentissi pronta a perdonare? Se egli fu ingannato, deve soffrire al par di me: se ingannò, a suo tempo soffrirà a mille doppii più di me — Deve essere pur doloroso il ricordo di uno spergiuro! Ch'egli non lo provi mai!„

“Le tue parole, proseguiva Agnese dopo una pausa, io le ho nella mente e nel cuore; le ho imparate, e le farò mie. Non chiedere vendetta, tu mi scrivesti in sull'ultima ora della tua vita, ma persevera nella via della carità e della giustizia; per essa si giunge in miglior modo alla medesima meta. Questi detti sono sacri come il momento in cui furono scritti. Giuro per l'amor tuo che farò ogni cosa possibile, perchè essi non sieno smentiti giammai. All'annuncio della mia sventura, chiesi al Signore la grazia di morirne; ora io rinovo più saggia preghiera, chiedo di vivere [179] per mio figlio. L'alleverò, come tu mi hai insegnato, nel timor di Dio, e nell'amor della patria; e se egli mi chiederà un giorno la storia di suo padre, io gli narrerò la tua, o dilettissimo genitore. Oh quanto egli sarà superbo d'esserti figlio! In questo santo proposito che mi rialza dalla polvere, sento tutta la dolcezza del tuo perdono. Umana sapienza non porge tanto conforto. È il cielo, che mi vuol salva; vostra mercè, Dio ebbe pietà de' miei dolori — Grazie, o angeli miei tutelari; compite l'opera della mia salute; non m'abbandonate, non m'abbandonate.„

CXV.

Non è a dire che, dietro tali pensieri, fosse sùbito bandito e per sempre ogni dubio, ogni angoscia. Agnese provò spesso il ritorno de' suoi dolori; ebbe più e più volte ancora il cuore turbato dalla memoria della perduta felicità; sentì di nuovo e più forte il rossore della sua posizione; provò non la convenienza ma l'onta del mistero, in cui ella doveva vivere sepolta. Ma non era per intoleranza o per stanchezza che ella volgeva le sue preghiere al cielo. Quanto erano più gravi i suoi dolori, altretanto più certa e più vicina attendeva la riabilitazione. Dimandava a Dio la forza di sopportarli, non di rimoverli; d'essere rassegnata, non assolta.

Di ciò diede prova quando surse questione sull'opportunità di abbandonare la sua casetta. Nessuna esitanza attraversò tale risoluzione; non la discusse, l'adottò come una necessità, come un dovere. Prima [180] che venisse il momento di spiccarsi dal suo soggiorno, il solo pensiero di dover rinunciare a quell'asilo, che era stato testimonio di tanta felicità, le cagionava una stretta sì forte, che credette non avere animo a sopportarla. Ma quando Canziana le annunciò d'essere riescita a procurarle un nuovo ritiro, ella gradì il troppo sollecito servigio, e seppe troncare il filo di tante soavissime rimembranze senza pure un sospiro.

La scelta della nuova dimora era stata affidata a Canziana. Pensò la buona donna che era bene far presto; ma nello stesso tempo la prudenza la tratteneva, ponendole dinanzi non pochi ostacoli. — Si arrestò qualche tempo a considerare se fosse più conveniente il ridursi a Milano, o a Campomorto. Sottili ma abbastanza valide ragioni la persuasero a non far cadere la scelta sui due luoghi. In questo mezzo, il caso le fece trovare, presso persona di sua antica conoscenza, una romita casipola al di là del Ticino, dove Agnese sarebbe al riparo d'ogni sguardo indiscreto e d'ogni scortese dicería.

Al momento di abbandonare la città, Agnese trasportò seco tre cose soltanto: la lettera di suo padre, quella di Ognibene, e lo scritto del conte da lui dimenticato a Campomorto. Erano i documenti più preziosi della sua storia. — Al resto provide Canziana.

Quando Agnese si dolse pensando che lo staccarsi dalla dimora di Pavia avrebbe affievolito le sue care memorie, si ingannò. Nel suo deserto romitaggio, coll'ajuto del cuore, ella visitava ogni dì la casa abbandonata, e ne richiamava gli oggetti con tanta vivacità di colori, con sì squisita precisione di forme, come se [181] li avesse presenti. Nei primi dì ella era più taciturna del solito: ma a poco a poco la nuova solitudine le riescì gradita; e se pensando al passato ella aveva gravissime ragioni di piangere; nel presente, e ancor più nell'avvenire, trovava qualche motivo d'essere consolata.

A fare meno triste la sua condizione presente, giovò l'esercizio della più saggia carità: ella soleva trovare presso di sè molto superfluo per farne parte ai poverelli. — Ad abbellire il futuro, le valse il pensare alle prossime gioje della maternità: gioje sì vive e sublimi, che non potevano essere turbate da nessuna memoria per quanto amara. Ripigliò ella i lavori dell'ago, non per trapuntar ciarpe ed inezie, come in addietro; ma per allestire il corredo dell'aspettato suo consolatore. Nell'assiduo travaglio, e nello scopo di esso, temperò le acerbe ricordanze, senza abbatterne quella parte che le faceva sperare nuovi e più dolci compensi. Così mentre la mano, con alacrità straordinaria, attendeva all'opera pietosa, la mente si occupava di quello cui essa era destinata. La diletta creatura, che le aveva fatto riamare l'esistenza, già viveva con lei e per lei; le appariva dinanzi ad ogni momento vispo, amorevole, bello quanto un angelo. Ed ella lo vedeva e lo ascoltava, pregustando tutte le delizie dell'esser madre. Nè si arrestava ai primi passi della sua vita; ma lo vedeva crescere garzoncello avido di affetti e di cognizioni; farsi giovine generoso ed intrepido; maturare saggio e benvoluto cittadino. La stima che egli si sarebbe procacciata, era tutto suo merito; di nulla egli era debitore al casuale retaggio di un nome illustre. — Anche [182] la riabilitazione dell'infelice sua madre diverrebbe sua gloria. Quando quel frutto della colpa fosse diventato un valent'uomo, chi mai avrebbe ardito gettare la pietra contro la cagione de'suoi giorni? — Abbandonatasi a tali pensieri, correva Agnese sur un pendío pieno di dolcezze, fino a sognare una felicità completa e durevole. Quel figlio che le era costato tante lacrime le prometteva, già prima di nascere, altretante gioje. Le nostre leggitrici perdoneranno alla sventurata donna questo delirio pel merito dei soavissimi affetti che lo inspirano.

Dopo alcuni mesi di un rigoroso ritiro, durante i quali la tranquilla serenità di quell'anima non fu turbata che da un'ansia amorevole, precorritrice degli eventi, venne il dì benaugurato, in cui lo sguardo della madre potè finalmente fissarsi nelle sembianze della sua creatura. Oh il primo bacio che ella stampò sulle gote rosee del suo bel bambino! Quanta felicità, quale esultanza! — Allora la natura, trionfando di tutti i riguardi umani, infundeva ad Agnese tale sicurezza di sè, ch'ella non avrebbe esitato a dichiarare al mondo intero che quella creatura era sua.

Ma l'orgoglio muliebre cedette sùbito e sempre a più imperioso sentimento. Agnese dimenticò il mondo ed ogni cosa esteriore per non occuparsi che di sè; e in sè stessa comprendeva appunto il suo caro, il suo vezzoso bambino. Dopo avergli prodigato le più tenere carezze, lo sogguardava con occhio innamorato, lo componeva nella culla; poi di lì a poco, stanca di non vederlo, di non toccarlo, ne lo sollevava di nuovo per palleggiarlo e stringerlo al seno; e lo chiamava sue [183] viscere, sua delizia; lo copriva di baci e di lacrime. Agli avvisi di Canziana, che la vegliava con materna sollecitudine, e non aveva fine di raccomandarle un po' di quiete per il ben suo e della creatura, non si mostrò arrendevole, che quando la stanchezza vinse gli affetti, e il consiglio divenne necessità. Allora Agnese giacque tranquilla; ma, posata la testa sul capezzale, volgeva gli sguardi al suo diletto che le dormiva allato. E l'occhio materno (che non è il miglior giudice delle sembianze dei figli) aveva già riscontrato nel tondo e roseo visetto del bambino i tratti vigorosi e severi del padre. A quella scoperta, una lacrima di ben altra natura le spuntò sul ciglio. Pianse la poveretta pensando che a tanta festa non pigliava parte chi vi aveva il più sacro diritto. Dolevasi che lo sguardo di lui non scendesse un momento su quella cuna; perchè ivi avrebbe dovuto farsi più mite e più giusto.... In tale pensiero chiuse gli occhi affaticati, e sognò cose liete.

Ma quando, poco dopo, una esile vocina la scosse dalla fantastica visione e la condusse di colpo alla realtà del momento, oh come le brillò caro e dolce alla mente il ricordo del novello acquisto! Pur quella voce era flebile; il poverino piagnucolava: — “Che hai ben mio? prorompeva la madre, perchè piangi?„ — ed accorsa alla cuna, ne sollevava il tapinello colla maestría che le donne non apprendono, e lo stringeva a sè, cullandolo dolcemente — E quando vide che il bambino appoggiato al suo seno cessava dal piangere, quando s'accorse, che ella compiva l'altro pietoso officio della maternità, nutrendolo della sua vita, nuovo giubilo, nuova ebrezza!

[184]

Troppo arduo sarebbe l'enumerare e il dipingere convenientemente tutte le fasi per cui trascorse l'amore sviscerato d'Agnese in quei primi giorni. Quella vicenda di sollecitudini, di gioje, di trepidazioni, quella litania di dolci ed iperbolici appellativi, con cui una madre vezzeggia il suo bambino, sembreranno a taluni frivole minuzie, pallide imagini di quanto si vede ognidì e dovunque. Ma lo scandagliare per quel mezzo il cuore d'Agnese, e il comprendere tutta la potenza de' suoi affetti, non sarà dato che a voi, sensibili donne. — Voi, dalle placide ed incolpevoli gioje provate o presentite, saprete misurare quelle più tempestose, ma non meno sacre, della nostra eroina; e se la vista di un bel putto che dorme in grembo alla madre vi fa tenerezza, a maggior ragione dovrete essere impietosite nell'imaginarvi Agnese, il cui affetto era ravvivato ancor più da un altro sentimento, maggiormente degno di pietà perchè tanto infelice. — Anzi, (dovrò io apprendervelo come fosse una scoperta?) quello stesso mistero che s'aggrava su lei la farà ai vostri occhi più cara e più degna di compassione. La legge, che disconosce e condanna i fortuiti legami della passione, può avere da voi il culto della coscienza e dell'esempio, senza perciò provocare dal vostro labro un troppo rigido giudizio contro le infelici, che in un consorzio d'affetti offrirono virtù ed innocenza, e ritrassero colpa e vergogna. Costrette a sentenziare Agnese, la vostra ragione non v'impedirà, condannando i fatti, d'amare un po' la colpevole. Non vorremmo che, con danno delle leggi sociali, voi l'assolveste troppo leggermente: non imploriam ciò per Agnese. Imploriamo [185] il vostro perdono; e non vi può essere perdono dove non siavi stata colpa.

CXVI.

Mentre nella romita dimora tutto era calma e silenzio, il castello di Pavia e la corte di Milano brulicavano in modo insolito di gente intesa ad affrettare gli apparecchi per le prossime nozze fra il conte di Virtù e sua cugina. — Il conte, nelle sue frequenti corse a Milano, aveva cercato di rendersi bene accetto a Barnabò, e vi era, almanco in apparenza, riescito: quanto alla timida Caterina non davasi gran pensiero. La giovine principessa, più schiava che l'ultima donzella del popolo, non avrebbe potuto dire una parola, nè tampoco alzare uno sguardo, che non fosse profondamente ossequioso all'indeclinabile cenno del genitore. — Buon per lei, che un cuor tiepido ed una volontà inerte la piegavano al suo destino senza farla accorta del grave sacrificio. — Ella però nella sua pochezza aveva fatto un'osservazione non del tutto frivola: quel principe, or trovato degno di stringere nuovi legami colla sua casa, era quel desso, che, poco prima, facevasi bersaglio dello sprezzo di suo padre e del sarcasmo dei cortigiani. In ciò v'era una contradizione manifesta: ma la mente della fanciulla sapeva conciliarla a tutto suo vantaggio, pensando che il più veritiero dei giudizj sul conto del suo sposo doveva essere l'ultimo.

Non con pari freddezza vi si apparecchiò Giangaleazzo: giacchè se la ragione gli aveva consigliato questo [186] legame come un rimedio, il cuore si disponeva a subirlo suo malgrado, e con penoso disgusto. Parevagli talvolta d'operare con precipitazione, e di fidar troppo nelle sue forze; e concludeva che la dimenticanza, questo farmaco sovrano delle passioni infelici, può bene essere consigliata e voluta; ma che il volerla e l'apprezzarla è ancor poco; perocchè i mezzi impiegati a spegnere violentemente un affetto, conducono a spontanei raffronti; e in essi, a dispetto d'ogni proposito, il passato si veste di seducenti colori; i quali ad altro non giovano che a far più bella ogni cosa perduta. — La grandiosa reggia di Barnabò gli richiamava alla memoria l'invidiata semplicità del casolare di Agnese. Quella turba di cortigiani gli faceva desiderare il piacevole isolamento di Pavia: al bieco sguardo di Barnabò, opponeva la rimpianta serenità di Maffiolo, il freddo contegno di Caterina era il più eloquente contrapposto all'appassionata parola d'Agnese.

Eppure, benchè sentisse essere il suo rimedio inefficace non solo, ma quasi peggiore del male, gli bisognava inghiottirlo; chè, date anche plausibili ragioni a rompere un tale negozio, sarebbe stato cosa strana, e temeraria il tentarlo. — Laonde, come tutti coloro che non potendo fuggire un male gli vanno incontro di buon passo, studiò d'appianare ogni difficoltà, e pose tutto il suo buon volere perchè almeno a una sventura inevitabile non si aggiungesse la pena di una inutile lotta.

Era uso dei tempi il presentare gli sposi di donativi sontuosissimi. — Tale costumanza, in origine consigliata da una giusta compiacenza, era in sèguito divenuta [187] l'oggetto di gare esorbitanti fra le famiglie. Si profondeva un tesoro per accasare una fanciulla, o condurre sposa una nuora; a tal segno che gli Statuti di Milano dovettero porre un limite alla prodigalità dei doni nuziali con apposita legge suntuaria.[53] Scarse all'incontro erano le doti delle fanciulle. — Il Musso, cronista piacentino che illustrò quest'epoca, e da cui ci accadrà altre volte di raccogliere notizie, ne accenna come splendida la dote di seicento zecchini d'oro. Mentre lo sposo, all'istante della promessa, doveva, come caparra del patto, deporre nelle mani del futuro suocero una somma detta meta; poi preparare il dono morganatico pel mattino susseguente al matrimonio, e sborsare una terza pecunia, chiamata mundio, per far suo il diritto paterno di tutelare la fidanzata.

Tutte queste pratiche si dovevano compiere su di una scala più vasta e più complicata, trattandosi di matrimonio fra prìncipi. — Ciò esigeva tempo, trattative, consulte: onde, in mancanza di ragioni valide per rompere un patto sconsigliato, s'aveva un pretesto a ritardarlo e ad incagliarlo.

Ma il Conte di Virtù, benchè nel fondo dell'animo scontento d'aver ceduto ad ambiziose lusinghe, respinse ogni intrigo, e preferì di abbandonarsi al corso degli avvenimenti; anzi volle affrettarli, annuendo a quante proposte gli venivano fatte. Gradì la dote, stipulata in una somma di fiorini d'oro; eguale a quella attribuita alle altre figlie del signor di Milano. —[54] [188] Soscrisse all'obligo dei donativi e delle tasse nella misura prescrittagli dallo zio. Sollecitò presso Urbano VI, il Papa di Roma, (ad Avignone sedeva Clemente VII) le dispense per le nozze fra cugini — Accordò finalmente l'onore di recitare l'inevitabile epitalamio nel dì degli sponsali al primo che gliene chiese l'onore. Intanto venivano allestiti con grande sfarzo e colla maggior prestezza possibile nuovi appartamenti nel suo castello. — Fece acquisto di ricche suppellettili, d'arredi, di vasellami d'oro e d'argento; e comandò, che ogni gran sala fosse ornata di cammino e di focolare, lusso rarissimo a quei tempi.[55]

Il 15 Novembre era il giorno stabilito per la celebrazione degli sponsali. Giangaleazzo che, come compadrone di Milano, dimorava da più giorni nel castello di porta Giovia, escì sul mattino, accompagnato da un ricchissimo corteggio di cavalieri e di militi sfolgoranti d'oro e di gemme, con grande apparato d'armi, e con quella pompa di vesti e d'ornamenti, che spinse il contemporaneo Galvano Fiamma a deplorare le perdute costumanze dei padri, e le vane scimiotterie straniere. “I damerini d'oggi, (è il cronista che parla, e quell'oggi era appunto l'epoca in discorso) indossano vesti strette ed azzimate a modo degli Spagnuoli; si tondono [189] il capo come i Francesi; coltivano la barba alla foggia dei nordici; portano strane calzature a guisa dei Tedeschi; ed imitano i Tartari nel parlar molte lingue. Le donne poi s'incoronano la fronte di crini increspati, il che le fa simili alle dementi; e s'ornano il seno con cinture d'oro, che pajono amazzoni...[56]„ Con tali parole lo scrittore morde i suoi tempi, e ce ne dà una idea. — La semplicità delle costumanze republicane era infatti sparita; e già nelle alte sfere sociali s'andavano istituendo quella gara di novità e quella smania di delicature, che annunciavano pei secoli successivi la tirannía delle mode straniere.

Il cielo era splendido, l'aria mitissima, benchè la stagione fosse già molto avanzata. Il corteggio escì dal castello di buon mattino. Cavalcavano inanzi ad esso gli araldi delle città soggette al conte, tutti uniformemente divisati, e coll'arma del comune, inquartata nello stemma visconteo, sul petto. — Portavano berretti di velluto, a piume leggiere e variopinte; impugnavano trombe d'argento con pendagli e nappe d'oro; ed alternavano il metro di un lieve galoppo con armonie militari. — Poi difilavano in doppio rango soldati a cavallo, in armatura uniforme di ferro, coperti sulla corazza da una tunica attilata di mezzalana a doppio colore. Gli elmetti lucidi, che sembravano d'argento, non avevano celata; una biscia aurea tre volte ricurva ne componeva il cimiero. Tenevano la spada sfoderata; ed ora stringendo ai fianchi, ora comprimendo col freno [190] i focosi destrieri, procedevano corvettando senza guastare l'ordine della cavalcata. — Seguivan dietro loro più cospicui cavalieri: i nobili, cioè gli officiali, i gentiluomini della corte; vestiti in fogge diverse secondo l'età, il grado o il gusto dell'individuo. — Alcuni, tutti in armi, sfoggiavano le più preziose manifatture escite dalle officine di Milano: schinieri, corsaletti, bracciali, gorgiere, corazze, intarsiate a rabeschi od a niello di squisito lavoro; oppure disegnate a fiori, a liste, con rilievi di argento, rattenute da fibie dorate e da tratti di minutissima maglia. Erano armi vergini alle battaglie, consacrate alle leggiadre finzioni delle gualdane. — Altri, invece, coperti di velluto o di seta, sfoggiavano quegli abitini succinti, su cui era impossibile scoprire una piega: attillature nuove e strane, che il già citato cronista piacentino chiamò disoneste[57]. I giovani portavano mantelli corti, a cui facevano bizzarro contrasto lunghi e stretti cappucci, che scendevano fin dietro il ginocchio; avevano brache di sciamito con palme d'oro o d'argento; oppure maglie strette e listate. Calzavano stivaletti con zanche di velluto; o scarpe rostrate la cui punta, abborracciata di pelo di bue, si spiccava ben più di un palmo, oltre l'estremità anteriore del piede. Il collo e il petto erano ornati da catenelle d'oro e medaglie: ciarpe ricamate o catene sostenevano la spada; ma, benchè portassero armi, e ponessero grande studio a mettere in onore i primi peli del viso, al contegno ed all'abito avevano aria di feminette. Mischiati con loro, cavalcavano uomini [191] di toga, i quali, per non far torto alla gravità degli anni e degli officii, o per non scomporre le pieghe dell'ampio guarnellone di grana e le ciocche della zazzera, non concedevano alle cavalcature di levar l'ambio, e ne affidavano il governo a paggi e staffieri. Su quei volti brillavano la prospera maturità dell'uomo agiato e fannullone, o la gioviale spensieratezza dei cavaliere del bel mondo, o la rubiconda petulanza dell'epulone. — Non mancava qualche viso serio, qualche fronte rugosa, qualche labro pieno di gravità; e costoro pigliavano importanza dalla canizie, o dalle insegne onorifiche che loro balloccavano sul petto.

Dietro a costoro, montato sopra un magnifico palafreno bigio, colla coda e i crini lucidi come fili d'argento, seguiva il Conte di Virtù. Vestiva egli una tunica di tela d'oro, entro la quale erano tessuti in seta gli stemmi della famiglia; e sovr'essa indossava la mastruca, specie di zamarra soppannata ed orlata di armellino. Aveva calze di seta bianca; scarpe leggermente rostrate di velluto rosso; berretto d'egual stoffa, rialzato davanti da un magnifico fibiaglio, tutto oro e gemme. Folte ciocche di capelli castani gli scendevano fin sotto l'orecchio, e scorrevano dietro la nuca con un taglio netto, parallelo al candido collare di lino. — Dietro lui, altre cavalcate di militi e gruppi di scudieri conducenti alla dritta i cavalli di scorta dei loro padroni, detti perciò dextrarii o destrieri; poichè l'apparire a tali solennità con una sola cavalcatura sarebbe stata grettezza vergognosa. — Finalmente, in coda a tutti sfilavano compagnie di fanti, [192] varie d'armi e d'assisa: balestrieri, labardieri, pavesarj, guastatori, tutti distinti della insegna della contea di Virtù sposata a

“La vipera che i Milanesi accampa[58]

CXVII.

Chi vuol vedere, attraverso la nebbia dei secoli, la nostra Milano, e indovinare come sarà stata ai tempi, o prima dei tempi di cui è parola, vada ritenuto colle cronache, e non si beva in pace le meraviglie che i nostri vecchi, colla miglior fede del mondo, ne vanno spacciando.

Anche nel discorrere dell'origine di una città, come di quella di un casato, eglino si sono creduti autorizzati di mescere le favole al vero; parendo bello che le prime fila di un racconto si attaccassero sempre al di sopra delle cose vulgari. Non è dunque a farsi stupore se qualche storico trovò il modo di connettere l'origine di Milano alla guerra di Troja, fingendo che da quel semenzajo d'eroi partisse il suo fondatore[59]. Il Torre, dopo aver discusse ad una ad una le strampalate ipotesi intorno al suo nome, s'arresta con molta compiacenza all'etimologia tratta da Plutarco nella vita di Marcello; dove Milano o Mirano [193] vuolsi far credere nientemeno che sincope di res miranda[60].

Prima di tutti, Ausonio, Claudiano, Sidonio Apollinare, che hanno autorità di storici, la celebrano con frasi che farebbero sdilinquire i più pretti ambrosiani se non fossero scritte in latino, e dimenticate nei polverosi in folio delle biblioteche. Fu chiamata l'emula di Roma per lo splendore degli edificj, la nuova Tebe nell'arte della guerra, la seconda Atene per la sapienza civile[61]. Taluno osò perfino affermare che, volendosi rifare l'Italia, non s'aveva che a distruggere Milano, tante erano le meraviglie ed i tesori che in essa si contenevano. Donato Bosso ne dice che le sue mura erano alte sessanta piedi, larghe ventiquattro, ed ornate di trecento sessantacinque torri; e Galvano Flamma racconta che nel ricinto di esse vi erano orti e parchi amenissimi, con serragli di belve e delizie artificiali.

Ma fossero anche veritiere queste pitture, esse ci rappresentano Milano nella sua prima età, quando era la capitale d'una delle più vaste provincie dell'impero romano, e residenza di parecchi dei Cesari. Fra quell'epoca e la moderna stanno i secoli di Attila, [194] di Uraja, di Federico Barbarossa, che in settecento anni la devastarono tre volte: per la qual cosa, ad eccezione di qualche scarsa reliquia, che surge ancora ad attestare la nostra antica civiltà, pel resto Milano non conserva che l'area ed il nome dell'insigne metropoli della Gallia Cisalpina.

Uno sguardo alla sua pianta, quale essa è oggigiorno, ne guida, meglio che le ampollose note dei cronisti, a scoprire le traccie del suo antico perimetro, ed a riconoscerne l'importanza ed il rinovato risurgimento. La triplice sua distruzione è attestata da quell'ordine di strade semicircolari e concentriche, che furono dapprima i valli dell'antica città. Le sue vie meno centrali, che conservano l'appellativo di borgo, o certi qualificativi campestri, come broglio, vigna, êra (aja), orto, ecc., c'insegnano che in addietro quegli spazii erano suburbani. Del pari ci è lecito credere che Milano nei tempi remoti possedesse una zecca, un circo, un'arena, una curia, tenendo conto delle strade che conservano più o meno intatte queste antiche denominazioni.

Intanto è certo che le trecento torri, attestate da Donato Bosso, dovevano schierarsi sur una linea circolare di circa due miglia: le tredicimila case, vantate da G. Flamma e racchiuse da quelle mura, dovevano essere stivate sur una superficie, avente il diametro di mille passi, o poco più. I duecento mila abitanti, cui si volle far ascendere la popolazione di Milano anche nei tempi meno prosperi, vivevano e si agitavano sopra un campo quasi incapace ad accoglierli. E notisi che le case d'allora avevano un sol piano; e che quelle [195] fornite di solajo erano una tal meraviglia, da meritare che si chiamassero solariate le strade, in cui una se ne trovasse; — Infine questo spazio, già sì angusto, era ingombro da un numero relativamente assai grande di templi e di chiostri, sottratti all'uso d'abitazione, o troppo ampii relativamente al numero degli abitatori, ed in confronto alle generali strettezze.

Qui però torna acconcio l'osservare, che i chiostri, alla loro origine, non erano tutti convegni di penitenti. Anzi, le prime instituzioni monastiche avevano il carattare di società industriali, sottomesse a qualche disciplina atta a far prosperare l'associazione; ma la regola era sì larga da venirvi concessa perfino la promiscuità dei sessi. Tale fu, a cagion d'esempio, la casa degli Umiliati di Brera, che da principio (1016) era una congregazione di cittadini, i quali, avendo pur moglie e prole, si proponevano di condurre una vita esemplarmente cristiana, e di attendere in comune alla fabrica ed al commercio dei tessuti di lana[62]. Ma, mentre in quei convegni prosperavano i negozj del secolo, andavano mano mano scapitando la costumatezza e il buon esempio. Per la qual cosa, si dovettero estendere a tutti i conventi le discipline portate di Francia da S. Bernardo, e messe in pratica presso gli abati di Chiaravalle. — La prima regola fu la rigorosa separazione dei sessi; ad essa tenne dietro il vincolo indissolubile dei voti. — Con tutto ciò, al dire del Giulini, nel secolo XIII i monaci di s. Maria Gloriosa, più tardi gli Umiliati, e perfino i Francescani, erano [196] dal popolo chiamati Frati gaudenti: nome che è ad un tempo un giudizio ed una condanna[63].

Tornando alla materiale struttura della nostra città, dobbiamo credere, che sarà avvenuto di essa ciò che Diodoro Siculo riferisce essersi fatto a Roma distrutta dai Galli. Nella fretta di riparare l'onta toccata e di riavere una patria, ogni cittadino si pigliò quell'area, che stimò adatta ai propri disegni; eresse tugurio o palazzo dove e come gli piacque, senza una regola, senza un accordo coi vicini e col comune. Chi aveva cura della cosa publica attendeva a munire la risurta città di terrapieni e di bastite; ma nell'interno ogni privato cercava il suo meglio, e se lo procacciava senza rispetto ai diritti altrui. Quindi s'occuparono perfino le ruine degli edificii e delle mura distrutte, valendosene come fondamento per le abitazioni private.[64] Ecco il perchè le strade riescirono anguste, mistilinee, tortuose fino a parere una stranezza.

Durante il tribunato di Guido, l'ultimo dei Torriani, si cominciò a sentire l'importanza di dare un po' d'assetto alle strade della nostra città. I nomi delle vie di pantano e del malcantone sono ingenue confessioni dello squallore che regnava nelle strade e nei ridotti centrali di Milano. Anguste, quasi per intero ombreggiate dalle immense grondaje, mancanti quindi d'aria e di luce, nutrivano esse coll'indisciplinato stillicidio un pattume fetido, entro il quale si elaboravano i semi [197] dei contagi ricorrenti. — Guido della Torre comprese la necessità di un riordinamento, ma non riescì che ad offrirne un saggio nella via contigua al giardino del suo palazzo verso la Porta Nuova. Anni dopo, al tempo della signoria d'Azzo Visconti, e per cura di lui, la provida innovazione fu estesa a tutte le strade principali della città. Si ridussero in alvei sotterranei le acque perenni che attraversano i meati arenosi del suolo; poi si diede alle vie un declivio opportuno, e lungo i margini delle case vennero disposte schiere di mattoni a coltello, che facevano l'officio degli attuali marciapiedi. Le acque piovane stillavano per mezzo di doccie nel mezzo della strada, ed ingrossavano il rigagnolo che andava a scaricarsi nelle fogne. — Qual magra providenza fossero coteste chiaviche, per solito ingombre da mille immondezze che aspettavano d'ssere spazzate dagli acquazzoni, taluno forse dei nostri lettori se lo ricorderà; poichè qualche ignobile avanzo di esse esisteva al principio di questo secolo, conservando fin anco l'antica denominazione. Cantarana, chi non lo sa, era il nome della gora che attraversava le chiaviche per dar sgombro alle sozzure.

Come gli uomini d'allora erano o troppo validi e potenti, o troppo abbietti e schiavi, così le abitazioni, mancando l'infinita varietà delle fortune mediocri, erano turrite, rinfiancate di mura massicce, coronate di merli, d'altane e di vedette; oppure in più gran numero, sfilavano umili a fior di terra; poco più che tugurii. — Ma ogni proprietario poteva aggiungere alla propria catapecchia quel che meglio gli conveniva; quindi logge sporgenti e ballatoj, scale e cavalcavie a comodo di pochi ed a disagio dei più, cappe di forno [198] ed agiamenti allo scoperto, angiporti e cantonate dove vien viene.

Allora, e per molto tempo dopo, si dovette tolerare, che ad una porta si ascendesse per due o più scaglioni, i quali ingombravano l'area publica; oppure che il piano della strada fosse interrotto da gradini discendenti che guidavano alle umide e sotterranee abitazioni del povero. — Allato alle porte, e lungo le muraglie, erano disposti sedili di pietra o di cotto, per comodo dei pellegrini o dei rivenduglioli. Di tali spazii, usurpati alla proprietà cittadina, il comune lasciava libera l'occupazione, e per tal modo la toleranza precaria consacrava per l'avvenire un diritto immutabile.

Le case e la maggior parte dei templi, al dire del Gioja, erano dopo il mille coperte di paglia[65]. Le finestre avevano le impannate di carta o di lino. I piccoli vetri tondi e verdognoli potevano dirsi un lusso dei grandi edificii. Le piazze venivano coltivate a pascolo per gli animali domestici; e questa consuetudine, benchè scomparsa da lungo tempo, ci è ricordata dal nome di alcuna di esse[66]. Ne racconta il Giulini, che dal secolo XIII in poi si lasciavano errar liberi per la città i porci, credendosi che questi animali, per una speciale onoranza a s. Antonio, convivendo in domesticità cogli uomini, li preservassero dal morbo detto fuoco sacro, che in allora, per la negletta pulitezza, faceva grande strage. Questa costumanza durò fino al 1548, e fu abolita dal governatore spagnuolo don Ferrante Gonzaga[67].

[199]

Ad attestare una povertà discorde dalle gonfie apologie degli annalisti, gioverà ricordare col Bettinelli, che nelle scuole e nelle chiese non si usavano panche o sedili, ma vi si apprestava un letto di paglia, onde sedessero alla rinfusa gli scolari ed i devoti. “Nel XIV secolo, (è il citato Gioja che parla) si portavano in Milano camicie di saja e non di lino; eppure allora Milano era la più ricca città d'Italia. In onta della sua ricchezza, il popolo, che era assai numeroso, trovavasi sì male alloggiato, che un ordine del podestà vietò di stare più di dieci persone in una stanza[68].„

Anche la vantata temperanza dei nostri maggiori, piuttosto che una virtù, era una necessità imposta dalla generale miseria. Questa è una circostanza che, in modo indiretto ma autorevole, dimostra essere le millanterie dei cronisti in disaccordo coi fatti. I plebei, al dire del Ricobaldi citato dal Giulini, si nutrivano di carni fresche tre volte la settimana, non avevano tagliere di legno, non piatti e posate; il marito e la moglie mangiavano in una comune stoviglia. Le cene anche suntuose erano illuminate da fiaccole portate da fanciulli o da servi; chè le candele di cera o di sego non erano in uso[69]. Come il cibo le vesti: l'oro ed i velluti, di che cominciarono ad ornarsi i gentiluomini nel secolo XIV, erano un valore di famiglia, che durava tutta la vita di un personaggio e spesso anche una parte di quella del suo erede.

Cerchiamo dei fatti alla nostra storia, e potremo andare superbi di trovarne molti non del tutto ingloriosi: [200] ma non mordiamo all'esca dell'adulazione fino a credere che la nostra città fosse res miranda. — Diciamo meglio, che al lusso d'allora bastava assai meno di quello che oggi è divenuto stretta necessità.

Non sarà inopportuno che teniamo dietro al Conte di Virtù, nominando le vie ch'egli percorse ed accennandone, con una parola, la storia. Mosse egli dal castello di Porta Giovia, grande edificio militare, che a quell'epoca reputavasi inespugnabile. Le mutate discipline della guerra e la gelosia dei successivi dominatori lo fecero più ampio, ma meno decoroso.

Di là il conte escì sulla piazza, che guarda a levante, allora angusta e sparsa di chiostri e chiesuole di cui non ci rimane che il nome. La via del Baggio, più stretta ed ingombra che non è oggidì, ritraeva il suo nome dalla famiglia di Anselmo da Baggio, che ebbe gran parte nelle publiche vicende durante il governo popolare, e che fu uno dei cinque prelati milanesi assunti al trono pontificio. Passato oltre il ponte vetere, che ne ricorda una porta guernita di fossa dell'antichissima Milano, entrò nella via dell'Orso; che deve il suo appellativo ad una famiglia milanese registrata fra le più audaci zelatrici della Motta.

Fu la Motta un'associazione politica dei cittadini valvassori, avente lo scopo di proteggere e propugnare i diritti del medio stato, e di porre un freno all'arroganza dei capitani. Fra le due caste era surta una rivalità irreconciliabile. Venne il dì in cui i cittadini dell'ordine minore, imbaldanziti dal numero e colla scorta di potenti capi, ruppero in turbolenze; e, tratte le armi contro gli oppressori, li sfidarono a battaglia [201] presso la Motta, piccola terra tra Milano e Lodi. — Da quel casale, e dalla segnalata vittoria ivi ottenuta, ebbe origine tal nome. Ma la fortuna sollevò ben presto gli umili valvassori all'altezza dell'orgoglio dei vinti; provando un'altra volta, che la vera eguaglianza sociale esistette solo al momento in cui due caste emule lottavano fra loro con incerta sorte; dopo ciò, qualunque fosse la vittoriosa, l'unica eguaglianza possibile era quella che concedeva ad ognuna la sua volta d'impero e d'arbitrio.

Attraversò poscia il quadrivio di s. Silvestro, così denominato dalla chiesa fondata l'anno 878 dall'arcivescovo Ansperto da Biassono, uno dei più liberali fra i nostri pastori: quegli, che restaurò Milano dalla ruina in cui era caduta dopo i fatti di Uraja. Rasentò la chiesa ed il monastero di s. Maria della Scala, monumento eretto cinque anni prima da Barnabò Visconti in onore di Regina Scaligera sua consorte. — Percorse quella via, che ora chiamiamo alle Case rotte, e che allora era un largo senza forma, ingombro dalle macerie di una distruzione recente, e chiamato col nome di Guasti Torriani.

Passato il piccolo calle di s. Maria in Solariolo (ora s. Fedele), entrò in quella di Vigelinda (s. Radegonda) nome di donna di regal sangue. È fama che quivi surgesse nel secolo xii l'abitazione dell'arcivescovo Galdino. L'attigua via della Sala fu così chiamata perchè tale era il cognome del pastore patriota.

Dalla via di Vigelinda entrò finalmente nella piazza dell'Arengo, conterminata allora dalla chiesa di s. Maria detta basilica jemale, e dall'altra di s. Tecla o basilica [202] estiva, costrutta sulle fondamenta di un tempio di Minerva. La prima cedette il posto all'attuale duomo; l'altra fu abbattuta per ordine di don Ferrante Gonzaga, onde allargare la piazza, e farla degna di una visita dell'imperatore Carlo V. — E sarem noi, per noi stessi, meno providi e coraggiosi di don Ferrante?

I soldati di Federico Barbarossa, che non rispettavano nulla, nemmanco la voce del loro condottiero, danneggiarono gravemente queste due basiliche, ancorchè privilegiate d'immunità dal decreto imperiale. Una torre, che il poetico Fiamma asserisce essere stata la più bella d'Italia, fu abbattuta in quella devastazione; e le sue pietre servirono di sedile alle adunanze dell'Arengo.

Un altro lato della piazza aveva per limite quel portico che, al dire del Torre, fu fatto costruire da Pietro Figino per onorare le nozze di Giangaleazzo Visconte con Isabella contessa di Virtù, figliuola del re di Francia. Ma, in allora, quelle snelle colonne, che sono l'unico avanzo del prospetto di tale edificio, reggevano archi eleganti, vôlte e muraglie ornate di pitture, un giro d'ampie finestre ad arco acuto, contornato da stipiti a rilievo di terra cotta; e il malaugurato portico, che ora ci auguriamo di non veder più, era un elegante edificio, il preferito ritrovo delle persone d'alto affare. Asserisce il citato Torre, che di simili portici era pieno Milano.

Rimpetto all'edificio di Pietro da Figino, surgevano a chiudere la piazza, baracche e tavole posticcie di barattieri e di mercanti da commestibili; le quali più tardi vennero murate e rese stabili, ed usurparono per [203] incuria dei nostri maggiori il diritto d'ingombrare un'area preziosa. Tale è l'origine di quelle luride sorciaje, che ne costeranno un occhio, se vorremo ricuperare il trasandato diritto, e procurarci una piazza degna dei tempi e del monumento che le sta di fronte.

CXVIII.

Il popolo, facendo ala per le strette vie della città, accompagnava la splendida cavalcata con quell'aria meravigliata che i grandi e gli adulatori interpretano come ossequio, ed è per solito attonitaggine passaggera. — L'uno ammirava le vivaci corvette di un cavallo; l'altro lo splendore dei metalli preziosi e delle gemme; gli uomini cercavano, con occhio più o meno esperto, la più ricca delle cotte o la più micidiale delle armi; le donne il più bel volto o la più studiata attillatura. — Ma nessuno era commosso. Solo una persona leggeva la verità su tutte quelle fisonomie; e costui era il conte. Nessuno poi penetrava i misteri della sua fronte imperturbata: nessuno prevedeva che mentr'egli s'avviava ad una festa, discuteva alti disegni, e congiurava all'ombra della sua magra riputazione.

Passata la comitiva, le due ale di popolo si precipitarono nel mezzo della via, come la terra asciutta rientra nel solco tracciato dall'aratro. — Intanto, nel ritornare alle proprie bisogna, tutti avevano una parola a dire.

“Bel colpo d'occhio!„, sclamava l'uno con accento dì sincera meraviglia.

“Bello davvero! ripeteva un altro. La corte di Pavia non vuol confronti in suo danno„.

[204]

“Ma i nostri cavalieri, aggiungeva un terzo, e sopratutto quelli della compagnia di S. Giorgio... altra roba. Più maestosi i cavalli, più ricchi gli arnesi.... che pezza d'uomini poi!...„.

In questa entrava nel crocchio un vecchietto rubizzo e franco, che volle pur dire la sua.

“Voi siete rimasti con tanto di naso a vedere un simile corteggio. — Bella cosa esser giovani; ma io non vorrei cambiar con voi le mie sessanta quaresime, quando dovessi rinunciare al piacere di ricordare i miei tempi„.

“Che avete veduto?„, dimandarono in coro gli astanti.

“Ho veduto il carroccio!„

“Gran mercato! e chi non l'ha veduto?„

“Dal ferravecchio, e dallo stracciajuolo, vuoi dir tu? Povero semplicione, ti manca solo d'imparare a conoscere le ortiche al tasto„.

“L'avessi anche incontrato nel dì di sant'Agnese, in mezzo alla baldoria di Parabiago, la meraviglia! Un rozzo carcame di carretta, con quattro drappelloni all'ingiro, un pennone nel mezzo, ed otto bovi davanti. — Bel pari a incappucciarli di fiori e di gualdrappe, erano sempre destrieri da giogo„.

“Ve' costui, che è nato jeri, e s'impanca a tartassar i vecchi„, interruppe l'altro non senza un po' di stizza. — Il carroccio, credi tu, che fosse una cosa da cerimonia? — Basta... chi ha giudizio lo mostri...„; e battendosi col piatto della mano sulle labra, tentò sciogliersi dalla brigata e andar pei fatti suoi.

Ma i camerata, scontenti di quella reticenza, che sembrava racchiudere una condanna, lo tennero pei quarti dell'abito, e proruppero ad una voce:

[205]

“Qua, qua, messere, non ci si fugge. — Ditene un po' qualcosa di quanto sapete voi. — Diamine; perchè siamo nati più tardi di voi, dovremo vivere e morire al bujo come le talpe?„.

“Io so, a che allude il vecchio — entrò a dire un quinto o un sesto, che finora non aveva fatto che ascoltare. — Ei vi loda il carroccio per fare onore ai tempi in cui quella povera cosa bastava a far miracoli. Allora, arnesi di ferro ed uomini d'oro. — Non è mica vero?„

Il vecchio non rispondeva a parole, ma affermava col capo.

“Allora si faceva poco, dite voi? Sia pure: ma quel poco era tutto per noi — tirava avanti il commentatore. — Suona la martinella; alto, a chiunque è lecito correre al Broletto; e, se gli vien prurito alla lingua, gli è concesso guadagnar la parlera e dir giù la sua ragionaccia come vien viene. Tempi diversi, figliuoli miei; acqua passata non macina più...„

“Pur troppo, riprese il vecchio; e perciò, ripeto, non mi dolgo de' miei anni, chè almanco posso vantarmi d'aver vissuto. — Dica lo stesso, se il può, questa gioventù azzimata, che non sa far altro che.... Gli avete visti i nostri... e tanto basta...„

“Pure il Conte di Virtù non è un... non è come...„ balbettava taluno.

“Ei sa spiumar la gallina, senza farla strillare„ interrompeva l'altro.

“Bell'indovinare„, diceva un terzo...

“Ei deve essere buono tre volte, — tornava a dire il primo —; all'opere ed al viso, si giurerebbe che lo hanno barattato a balia„.

[206]

“Per me sarei pronto a giurare invece, ch'egli non è diverso da suo padre...„

“Che vorreste giurare....? giurate che quando è notte fa bujo, e che acqua torbida non fa specchio. — Chi ci legge dentro„... soggiungeva l'incredulo.

“Lasciate parlare a chi ne sa„.

“E ne sapete voi più degli altri? Fuori dunque: ma fatti; non parole; che di ciarle ne ho pieno...„

“Io sono pavese; dunque, debbo essere in grado di giudicarlo meglio, colui. Il Conte di Virtù non somiglia punto nè a suo padre, nè a suo suocero. Io non dico chi più valga tra costoro. Conoscete voi, messer Barnabò: eh impossibile il non conoscerlo (e faceva un certo modaccio colla mano come volesse dire; — dovete averne assaggiato il peso.) Ebbene da lui imparate a conoscere il nipote: il rovescio della medaglia„.

“Sia poi come volete, fosse anche un santo disceso dal paradiso, — ripigliava il vecchio tornando al suo tema, — ciò sarà pel minor male di voi altri pavesi, e noi ce ne rallegreremo come è dovere d'ogni buon cristiano. Ma che c'entra Pavia, e il suo principe, con Milano e il suo signore? E poi, fosse anche una cosa sola, perchè mai nel lodarci del minor male non potremo pensare ed aspirare a un maggior bene? Fa peccato colui che, avendo in tasca uno spicciolo d'ambrogino per torsi un pane, desidera d'averne due per comprarsi una fetta di lardo? Per me, queste mezze consolazioni mi pajono il cordiale amministrato al moribondo per rallentargli l'agonia.... bella carità del prossimo!„

[207]

“Il carroccio dunque è il vostro paradiso terrestre?„ soggiungeva l'incredulo, con tuono beffardo.

Il vecchio ammiccò biecamente colui che aveva pronunciate queste parole, ma non aggiunse altro; anzi, escendo dalla folla, e gettandosi nella prima viuzza di traverso, pose mente a che nessuno lo seguitasse. Nel resto della giornata tornò più volte a rivangare le sue parole, e non ci volle meno di una settimana per convincersi, che i pericoli della sua imprudenza s'erano dileguati.

Gli altri continuarono sullo stesso stile; finchè, giunti sulla piazza dell'Arengo e trascinati in mezzo ad una folla più stipata, furono costretti a disperdersi. Ma quale era il sugo di quelle parole dette con tanto riserbo, ed accolte con altretanta diffidenza? Era lo scattare inavvertito di una molla troppo compressa; era l'espressione di un malcontento, che non si traduce in un grido di disperazione solo perchè attende, e confida.

Noi possiamo a stento indovinarlo da queste poche parole: ma il conte l'aveva letto sul viso di tutti.

CXIX.

La corte dell'Arengo che, nella divisione della città di Milano toccò a Galeazzo II, padre del Conte di Virtù, era il luogo fissato pel convegno degli sposi. La cerimonia nuziale doveva essere celebrata nella capella d'Azzone, dall'arcivescovo di Milano, assistito da quello della chiesa pavese.

Il vastissimo palazzo era stato splendidamente abbellito [208] ai tempi della signoría di Azzone. Da ogni città d'Italia aveva quel principe invitato i più cospicui maestri dell'arte, perchè raccogliessero nella sua reggia quanto di più splendido sapevasi fare in quel secolo. Giotto ed Andreino da Edesia pavese, con una numerosa schiera di discepoli, l'avevano ornato di pitture allora stupende, oggi ancora, se esistessero, preziosissime per una semplicità di stile, ed una castigatezza più unica che rara. A decoro delle pareti, degli atrii e delle volte, il pisano Balducci aveva apprestato ricchi rilievi in marmo. — Ma ciò che la rendeva più splendida e meravigliosa erano le peschiere e le fontane; chè l'abbondante deflusso d'acqua limpida e saliente, pel minimo pendio e per le condizioni del suolo, doveva essere un miracolo dell'arte. A ciò aveva proveduto lo stesso Azzone, quando, nel raccogliere e guidare gli scoli sotterranei della città, trasse dal suburbio settentrionale una copiosa vena d'acqua potabile, e la fece scorrere sotto le fondamenta del suo palazzo. — Celebre fra le altre era quella vasca, in cui l'acqua, versata dalla bocca di quattro leoni accosciati, raffigurava il porto di Cartagine col corredo necessario a rappresentare in piccolo una scena della guerra punica. È questa una singolarità attestata da tutti i cronisti; della quale, a dir vero, duriam fatica a farci un'idea.

Luchino aveva rispettato le opere del nipote, suo antecessore nel principato. Non così Galeazzo; che nojato da quel lusso, o invidioso di un nome, che si raccomandava alla sontuosità di molte opere, vantaggiose o magnifiche, le distrusse. Profuse invece [209] immensi tesori per costrurre un castello in Milano, e un altro in Pavia; e li corredò di quanto era necessario per far sbollire ogni furiata di plebe.

La corte dell'Arengo era però sempre il più splendido e decoroso palazzo di Milano. — Ivi, come in suolo neutrale, nel giorno stabilito, convennero Barnabò, e Giangaleazzo, col rispettivo seguito di prìncipi, di magistrati, di cortigiani, di militi. — Nella chiesa di s. Giovanni in Conca fu poi celebrato il rito nuziale; e l'arcivescovo, dopo aver benedetto gli sposi, recitò loro un sermone, nel quale affastellò, colla solita licenza dei tempi, verità evangeliche ed iperboli pagane, onde provare che la Providenza offriva in quel dì la più luminosa prova della sua dilezione al popolo milanese. — Poscia la coppia nuziale tornò alla corte; e, attraversati gli appartamenti guerniti a festa e stipati da gente curiosa, entrò nel gran salone, ancora nominato il tempio della gloria, benchè gli eroi di ogni epoca e d'ogni storia, ivi capricciosamente congregati dal pennello di Giotto, fossero già da più anni scomparsi.

Nel tempio della gloria erano apparecchiate le mense. Inutile il dire ch'elleno furono, per l'apparato e per le imbandigioni, sontuosissime.

Un secolo prima, Guglielmo Ventura, cronista astigiano, faceva le alte meraviglie, perchè il re Roberto in un banchetto dato ai cittadini d'Asti usasse piatti e vasi d'argento. In questo, poteva dirsi che tale lusso era divenuto una necessità per le mense dei ricchi. Quella, alla quale noi ora assistiamo, era il più magnifico esemplare di regale splendidezza. — In [210] mezzo alla mensa erano disposti con istudiata simmetria, fino a recarvi ingombro, vassoi, conche, piattelli d'argento e d'oro, lisci, cesellati o lavorati a niello; fiaschi e coppe di terso vetro; canestri, statuine e piramidi a portar fiori o frutta. E intorno a questa splendida mostra erano schierati gli scranni di velluto e d'oro pei commensali, fra cui emergevano più ricchi i seggioloni destinati ai prìncipi. — Quando un maestro della casa ebbe assegnato i posti ai convitati, i prìncipi pigliarono il proprio, ed ognuno s'assise. Subito dopo, entrarono parecchie coppie di paggi, portanti brocche d'argento, da cui si versò uno stillato d'ambra sulle mani dei commensali.

Fin qui il solenne silenzio non era interrotto che dall'urto argentino degli arredi, e dal fruscío delle vesti dei valletti e dei cerimonieri. E intanto coll'ordine prestabilito venivano recate sulla mensa le più squisite vivande, le quali seguivano nel loro passaggio un corso sì rapido, che talvolta giungevano appena a farsi ammirare dall'occhio degli epuloni, lasciando alle ghiotte fantasie molti desiderii insodisfatti.

Da prima si cominciò con una portata di spicchi d'ogni maniera; poi apparvero caprioli, porchetti, cervi e cinghiali serviti in un pezzo; i polli e la selvaggina in parte erano vestiti delle loro penne quasi a parer vivi, altri guazzavano nei sapori (salse) paonazzo, verde o citrino. Seguiva una messa di altre delicature, come fagiani, pernici e starne; i pesci erano coperti di foglie d'argento che imitavano le squame. Infine i dolci, le torte, i marzapani, le pignoccate brillavano agli occhi dei commensali per la stravaganza delle [211] rappresentazioni, meglio che non promettessero al palato; giacchè v'erano figurate castella, torri, armi da guerra e blasoni; ed era lecito ai commensali il pigliarli d'assalto e l'abbatterli, per far onore all'anfitrione, e per affrettare le più ridicole sorprese. Quella di vedere svolazzare degli uccelletti fuori da una crostata era, in mancanza d'altro, il solito colpo di scena d'ogni pasto. — Il pane era dorato; i vini copiosi e scelti non venivano posti sul desco, ma ad ogni messa si versavano dai fiaschi nei calici di cristallo, a ciascuno dei quali s'accostavano le labra di parecchi commensali.

La moda d'allora imponeva ai grandi di sciupare in un banchetto il centuplo di quanto avrebbe servito a nutrire splendidamente gli invitati; ciò che ai dì nostri con più ragione farebbe nausea. I rilievi della mensa, dopo aver satollato l'innumerevole servidorame, bastavano alla baldoria di una bella parte di popolo. Le reliquie e l'untume, come avanzaticcio di niun conto, colavano per l'acquajo nella scodella del pitocco. In mezzo a tanta profusione però, i nostri maggiori, che volevano essere maestri nell'arte del vivere, mancavano di quei rispetti che ai dì nostri sono il primo requisito d'ogni convegno sociale. — Un solo piatto bastava a due persone; nella stessa coppa bevevano forse dieci invitati. Non conoscendosi l'uso delle posate, quell'acqua d'ambra che si dispensava ad ogni messa non era, come ognun vede, un uso gentile, ma un miserabile ripiego.

L'apparire d'ogni imbandigione era salutato dal suono delle trombe; e i paggi, facendo l'officio d'araldi, li annunciavano alla mensa. Deliziose armonie, tra l'uno [212] e l'altro servizio, riempivano le lacune lasciate dal riserbo dei convitati. — Tacque la musica, quando un trovatore salito sulla bigoncia declamò un canto epitalamico in onore degli sposi, dei prìncipi e dei nobili cavalieri che loro facevano corona. Peccato che la cronaca non ci abbia trasmesso i voli pindarici, i leziosi concettini e nemmanco il nome del poeta; essa si limita a magnificarlo altamente. — Doveva essere uno dei tanti cantori d'amore, reduci da Provenza, che facevano traffico di versi “scritti, come dice Giusti, sulla falsa riga di ser Francesco Petrarca.„[70]

CXX.

Fino a questo punto, l'urto sonoro dei cristalli e degli argenti, il correre dei donzelli, le declamazioni del poeta erano il solo frastuono che soverchiasse il bisbigliare contegnoso dei commensali. Ma da qui inanzi, pel merito dei vini, si sollevò in mezzo ad essi una anarchia di parole, che vinse ogni etichetta. Seguire il filo di un discorso era da principio un affare difficile; perchè le parole, i motti, le arguzie prorumpevano, s'incalzavano, s'incrocicchiavano senza posa e senza legge. L'allegria, in onta al cerimoniale, era divenuta padrona del campo. — Però quelle voci e quelle lingue miravano per diversa via al solo intento di onorare il principe, e di far plauso alla regale splendidezza de' suoi conviti.

I più caldi evviva proruppero all'ultimo bere, quando, spalancati i battenti della gran sala, apparve una sequenza [213] di donzelli recando e sporgendo ricchissimi donativi. Ogni commensale, a seconda del sesso, dell'età, delle abitudini, doveva trovarvi il fatto suo. Armi da guerra e da giostra, mute di cani o falchi o astori erano il dono per la gioventù guerriera e millantatrice. Agli uomini di toga si dispensavano guarnelli di velluto o di sciamito, oppure vesti di taglio succinto, o palandrani e tabardi, che in allora erano d'ultima moda, o infine pugnaletti e spade coll'elsa dorata. Le matrone e le fanciulle scieglievano un monile, una collana, una catena d'oro, oppure vezzi di moda straniera, o trine d'ottimo gusto. In mezzo all'allegria, destata da tanta prodigalità, non era difficile lo scoprire le piccole invidiuzze di chi era o si reputava meno fortunato; e ancora più bello era l'osservare il rapido annuvolarsi di qualche fronte cortigianesca, cui erano toccati oggetti sì improprii e fuor d'uso, da destare il riso dei compagni.

Un tale, per esempio, che godeva fama d'essere completamente illetterato, ebbe in dono i tre libri dei Commentarj scettici di Sesto Empirico, stupendamente copiati e raccolti in un volume coperto di bazzana coi cantucci e col dorso a borchie ed ornatini di bronzo: tesoretto, da far venire l'acquolina a chi appena fosse meno ignorante di lui. Fu uno sganasciare dalle risa di tutti, quando l'inesperto, per darsi l'aria di sapere ammirare il magnifico regalo, lo pigliò a rovescio. — A tal altro venne presentato un leone vivo. Un negro vestito all'africana, trascinandolo per la musoliera, faceva cenno alla gente sgomentita di non averne paura, e in prova, trattava l'animale con famigliarità: ma [214] tutti giravano largo. Se non che il leone, irritato dalle troppe punzecchiature, scuotendo il grugno non senza stizza, sprigionò dalla criniera posticcia due enormi orecchie di ciuco, e si mise a ragliare a tutta gola. Quale dovesse essere l'ilarità degli astanti a quella improvisata, lo imagini il lettore; il quale, da queste sconvenienti bizzarie inventate da buffoni per tenere in credito il mestiere, potrà argomentare fin dove giungesse la spiritosaggine di quei convegni di buon tuono. Ma i cortigiani, teste vuote ed abilissimi piaggiatori, solevano mandare in burla ogni maltratto, e con eroico sanguefreddo, anche in mezzo alla minchionatura, facevano rifiorire un sorriso pieno di mansuetudine, che li rendeva tanto più graditi ai loro padroni.

Intanto anche nella piazza dell'Arengo, e per tutta la città, si diffuse quell'aura di tripudio, che spirava là dentro. Anzi, scostandosi dal suo centro, la publica festa sembrava pigliare maggior vita; perchè, se i tempi erano tristi, il popolo cercava ogni occasione o pretesto per iscordarlo. Sebbene Barnabò non fosse di quei tiranni, che sanno imbonire la plebe con qualche lampo di generosità, nondimeno in questa occasione, per fare onore alla famiglia, tenne un triduo di corte bandita, ed ordinò che si bagordasse e s'armeggiasse con tutta la pompa prescritta dalle vecchie consuetudini.

Le piazze e le vie principali erano perciò addobbate a festa. Drappelloni di tela a varii colori, ghirlande di fiori e di verdure, toccavano da parete a parete, cangiando le vie in pergoli, ed ornando le gronde e le arcate. Dalle finestre e dai veroni piovevano arazzi [215] o tappeti, quali di fino tessuto, quali brillanti de'più bei colori. Gli angiporti erano chiusi da siepaglie di sempreverdi, dove tra pietre rozze e rivestite di borraccina, imitanti uno speco, zampillavano rivi di un liquido rosso ed agro, che il popolo beveva a larghe tirate, come fosse vino. — Qui era la pressa maggiore. In mezzo a quella gente ubriaca, fra le grida degli ingordi, che difendevano il miglior posto, e l'impeto degli assetati, che facevano ressa per arrivarvi, si svolgeva un fremito, che a molti potè sembrare sinonimo di gioja publica. Gli adulatori si spinsero più oltre; asserirono che quella baldoria era l'espressione della publica riconoscenza e della fede incorrotta dei milanesi.

Una folla, egualmente avida ma più tranquilla, si andava pure stipando intorno ai cantambanchi ed agli istrioni, assoldati per tre giorni dalla comunità per tener allegro il popolo con lazzi, o per commoverlo con istorie di guerre, d'incantesimi e d'amori. Costoro mischiavano il sacro al profano, la storia alla favola, le buone esortazioni alle più licenziose novelle. — Molti di essi traducevano in lingua vulgare i versi dei provenzali; altri li ricantavano nella favella natia solleticando l'orecchio degli ascoltatori col vezzo del metro e della rima. — Sulle pareti e sui palchi erano stesi cartelloni dipinti, con suvvi figure, allegorie e scene storiche: deboli e strane imitazioni dell'arte che Giotto aveva recato in Lombardia. Codesti pittori da trivio solevano affastellare sovra una sola tela i fatti successivi di una storia; a spiegar la quale, tornavano buone le enfatiche declamazioni degli [216] espositori. — Qua ballava l'orso; là il babbuino faceva delle smorfie; dapertutto la folla s'andava stipando; e in quell'attrito si svolgeva qualcosa di molto simile all'allegria.

La nostra cronaca ne assicura però che qualcuno dentro di sè arrovellava al vedere tanta cieca servitù, che altri rimpiangevano le forze sprecate in orgie vergognose; sulla sua fede potremmo assicurare che gli schiamazzatori e gli ubbriaconi erano i pochi; che il maggior numero s'era astenuto dal pigliar parte a quelle servili dimostrazioni, sospirando ed affrettando col desiderio tempi migliori. Ciò non è inverosimile; abbiamo veduto noi stessi più feste e abbiamo udito parlar d'applausi, la cui storica importanza stette appunto nell'aver messo in evidenza il contegno dei più che non vi presero parte.

Con miglior proposito la gioventù aveva accettato l'invito di dar prove di sè nelle tre battagliole, che dovevano aver luogo nei giorni della corte bandita. — Barnabò, per far onore al nipote, permise che seguissero tre sfide tra la gioventù milanese; ed assegnò ai vincitori generosi premii d'armi, di stoffe e di cavalli. — Le battagliole ebbero luogo al Broglio fuor delle mura. Nell'ultimo giorno poi tutti convennero nella parte opposta della città, a s. Maria al Cerchio, dove si tennero corse di cavalli e sfide coll'asta (hastiludia) nella quale si distinse la gioventù patrizia.[71]

[217]

CAPITOLO DECIMOSESTO

CXXI.

Il Conte di Virtù aveva assistito a tutte queste solennità senza pigliarvi alcuna parte direttamente. — Ma il popolo lo teneva d'occhio, ammirava il suo aspetto prestante, e preferiva la sua aria severa alla beffarda ilarità di Barnabò. — Forse la coscienza publica credette giustificare l'inopportuna esultanza, facendone mezzo ad attestare la sua simpatia verso un principe, il quale, checchè fosse, non poteva riputarsi peggiore e nemmanco eguale al proprio tiranno. Ma i sentimenti, quando trovano libero sfogo alle manifestazioni, di rado si arrestano entro il giusto confine. La folla vuole amare od odiare; spesso prodiga inconsideratamente i suoi affetti all'uno, solo perchè non può manifestare liberamente all'altro i suoi odii. Così avvenne questa volta. — Non si lasciò passare alcuna occasione d'applaudire il Conte di Virtù, onde [218] apparisse più grave ed eloquente il silenzio, che tutti serbavano in faccia a Barnabò. — Costui o non s'avvide, o finse di non avvedersi, della preferenza accordata a suo nipote; pensando forse di fargliela pagar cara tra poco.

Ma Giangaleazzo dentro sè stesso se ne rallegrava come di una luminosa vittoria. Non era uomo d'insuperbirsi alla troppo facile conquista del favor popolare. — “Ma in qual altro modo, diceva egli tra sè, può un popolo schiavo levare la sua voce contro chi l'opprime? Non aspetto da esso un mansueto omaggio verso di me; mi basta un fremito d'ira contro il comune nemico. L'odio è efficace quanto l'amore...„

A rassodare tali disposizioni, il Conte di Virtù valendosi di un'antica consuetudine, si volse allo suocero per dimandargli una grazia. Era uso che l'uno dovesse chiederla, l'altro prontamente accordarla. Barnabò, infatti, persuaso che il timido nipote non avrebbe osato voler cosa che egli non potesse concedere, l'accolse senza restrizione.

Il conte sapeva che nelle carceri della Rocchetta languiva un gran numero di prigionieri, condannati a lunghe pene, o dimenticati dai giudici. — Era fra questi quell'Ognibene Manfredi, che egli reputava la causa dell'abbandono d'Agnese. — Quanta parte avesse il sentimento d'umanità nello spingerlo a chiedere mercè per tutti quegli infelici, non ci è lecito il determinarlo precisamente. Una nobile pietà ed una ambizione guardinga possono talvolta mirare allo stesso scopo. Ma non devesi porre in dubio, che nella liberazione del Manfredi egli coltivasse un men che generoso intendimento.

[219]

L'affetto che il conte nutriva per Agnese non si era spento nè affievolito in mezzo alle avversità. Era uno di quei sentimenti, che colpiti dalla sventura maledicono al destino, ma rispettano la memoria dell'idolo poco prima adorato. L'abbandono d'Agnese era ormai una necessità; ma la mente ed il cuore di chi rompeva quel nodo miravano con perfetto accordo a rimovere da questo fatto ogni senso di livore, ogni pensiero di vendetta. Anzi, per quella stessa gelosa tutela che ogni uomo deve avere di se stesso, studiavasi il conte di far salvo l'onore d'Agnese, onde per esso fosse salva la dignità di chi l'aveva tanto amata. A questo modo, rimanevagli almanco l'illusione che Agnese era vittima con lui, se non al par di lui, d'un medesimo destino.

“Poichè l'abbandono deve essere eterno, diceva egli, l'ultimo nostro addio sarà una parola di pace! — L'ira e la vendetta procurano rade volte un istante di gioja; ma l'ira è un ebrezza passaggera, da cui l'anima si rileva più debole e più abbattuta; la vendetta è lo sprecamento inconsiderato d'ogni forza del cuore. L'indimani dell'uomo, che si è vendicato, rassomiglia a quello del prodigo che ha consunta l'ultima sua moneta. — Ah perchè non saprò io dimenticare il passato? Perchè, in mezzo alle memorie di tante dolcezze, dovrà sempre rivivere quella di un oltraggio, ahi troppo grave? L'oblío non è dunque in potere dell'uomo? L'occhio può chiudersi davanti a ciò che lo atterrisce; ma il cuore non è árbitro di sè; non può sospendere i suoi battiti, non sa rendersi immemore od insensibile!... Meglio è perdonare: cosa ardua, [220] ma non impossibile. — Quanto grave è stato l'oltraggio, altretanto sarà sublime la compiacenza d'averlo perdonato. — Nessuno si è mai pentito d'aver risparmiato una vendetta. Nessuno si vergognerà mai d'essere stato generoso!„

Tali erano i pensieri di colui, che ora a buon diritto chiameremo il nostro eroe. Con sì benevole disposizioni egli si apparecchiava a far paghi i supposti voti di Agnese, ridonandole l'amante. Proponevasi di ricorrere alla preghiera, se Barnabò non si fosse ricordato della fatta promessa. E il premio di tutto ciò era il pensiero, che un giorno Agnese riconoscerebbe chi era l'uomo, che ella aveva sì leggermente dimenticato. — “Allora (fin qui arrivava la sua vendetta) ella confesserà i suoi torti; ella si pentirà di non essere stata sincera.„

Questo stesso dì, in uno dei pochi momenti rubati alle continue feste, dopo di avere trascorsa la nota degli individui che aspettavano la grazia del principe, il conte vi soscriveva di sua mano il nome di Manfredi. In questo mentre, entrò un valletto, e gli annunciò che una donna giovine e bella implorava la grazia d'essere ascoltata. Il conte, dopo di avere esitato un momento, fe' cenno, che venisse introdutta.

L'esperto servitore aveva detto il vero. Appena la supplicante fu al cospetto del principe, rialzò il velo, e mise allo scoperto un volto di squisita perfezione. Le gote erano pallide, la fronte solcata da una ruga che, raggrinzando lievemente le curve sopraciglia, imprimeva fra di esse un marchio di dolore: la prima e la più seducente attrattiva d'ogni bellezza.

[221]

Quando il conte levò lo sguardo su lei, fece un atto involontario di ammirazione. Fu un segno di riverenza prestato al nobile aspetto della sventura.

“Accostatevi„ — diss'egli con voce mite, accompagnando la parola con un cenno cortese della mano.

La donna fece alquanti passi senza levare la testa e proferire parola.

“Che volete da me? proseguì il conte; narratemi la cagione dei vostri dolori, se pure credete che io valga a trovarvi un rimedio.„

“Principe, — prese a dire la giovine, sciogliendo una voce che si accordava mirabilmente colla pallidezza del suo volto e col languore de' suoi sguardi — Tutta Milano ha fede nel conte di Virtù. Da molti mesi io stanco la bontà del cielo colle mie preghiere; oggi soltanto, sento d'essere esaudita. Iddio, che mi ha inspirata di rivolgermi a voi, mi fa certa che otterrò per voi la libertà di una cara persona, che langue nelle carceri della Signoria.„

Il conte sorrise dolcemente, e sollevando dal tavolo la nota dei prigionieri: “Rade volte in mia vita, soggiunse, provai la compiacenza di poter confermare con una pronta risposta la fiducia che s'ebbe in me. Fate animo. Oggi s'aprono le prigioni; e, per volere del principe, devono essere posti in libertà i carcerati.„

“Tutti?„ — chiese la donna ansiosamente.

“Le eccezioni devono essere assai poche: io spero che tra queste non sarà colui, che vi sta a cuore.„

La donna rispose con un sospiro, che in tal momento aveva un funesto significato.

“Io potrò dissipare all'istante i vostri dubii, continuò [222] il conte, se voi mi direte il nome del prigioniero e il titolo della sua condanna„.

“Ognibene Manfredi è accusato di fellonía„, soggiunse la donna con voce risoluta.

“Ognibene Manfredi!„

“Ahi pur troppo, il suo nome è fatale! Egli col Mantegazza conspirò contro la signoria dei Visconti; per amor mio non volle sottrarsi, come i suoi compagni, alle ricerche della giustizia. — Solo superstite di quella sciagurata cospirazione, egli consuma da molti mesi nelle secrete della Bocchetta.„

“Per amor vostro, diceste? e chi è desso per voi? un fratello forse?„

“Più che un fratello; egli mi ha giurato fede di sposo: e senza la disgrazia che lo ha colpito, saremmo a quest'ora....„

“Poveretta! — disse il conte con una pietosa reticenza, che mirava a scopo ben diverso da quello che la supplicante s'era imaginato — Voi implorate il perdono dell'offeso signore, ripigliò dopo breve pausa: ma dite, e siate sincera, avreste la forza di accordarlo al vostro amante, quando sapeste ch'egli ha mancato alla sua fede?„

“Per essere sincera, come voi dite, dovrei prima perdonare a colui, che lo calunnia:„ — interruppe la donna con straordinaria franchezza, dimenticando a chi parlava.

“Perchè?„

“Perchè il Manfredi mi amò, e mi ama sempre teneramente.„

“Le prove!„, ripigliò il conte con un'ansietà improvisa che tradiva la sua abituale prudenza.

[223]

La supplicante sospettò d'essere caduta in un tranello; non per questo si pentì d'essere stata sincera. Con nobile portamento s'avvicinò al conte, e porse a lui una carta, dicendogli:

“Ecco le prove che voi chiedete. — Pensate, o signore, che la mia vita è in vostra mano. Siate generoso; io sarò discreta nella mia preghiera. — Se non vi è possibile salvarmi lo sposo, fate almeno che la mia sorte non sia divisa dalla sua. — Se la colpa del Manfredi non è degna di perdono, io, sua complice, dimando d'essere punita come lui.„

Il conte svolse con trepidazione la lettera presentatagli. — Mano mano che l'occhio scorreva le righe di quello scritto, il suo volto s'andava rasserenando; l'austera serietà cangia vasi visibilmente in compiacenza. Quel foglio era vergato dallo stesso Manfredi. Un aguzzino di buon cuore, che credeva cosa impossibile il fabricar combriccole con carta ed inchiostro, s'era incaricato di portarlo alla fidanzata del Manfredi. Le frasi di quello scritto erano di tal natura da sconvolgere ogni giudizio precedente sul conto del suo autore. L'affetto per la nostra incognita era rappresentato al vivo, con tanta ingenuità, con sì rara copia e schiettezza di frasi, da non lasciare alcun dubio di sè. — Ma esisteva pure una lettera del Manfredi diretta alla figlia di Maffiolo Mantegazza! — Come si poteva conciliar l'una coll'altra?

Finita la lettura, il conte non sapeva staccar l'occhio dallo scritto, come se aspettasse da quello la spiegazione d'altri misteri. Gli tornavano alla mente, ad una ad una, le parole di quel foglio sciagurato che aveva distrutta [224] la sua felicità. Meravigliavasi però di trovare meno evidenti quelle frasi che, discusse altravolta durante il delirio della passione, l'avevano trascinato a pronunciare una sentenza irrevocabile. Gli avvenimenti sopraggiunti offuscavano il passato; e, in mezzo a quella oscurità, cominciava a splendere una debole speranza di esser stato in addietro vittima di un inganno.

Come il rapido e sinistro bagliore del lampo ci fa trovare alcuna volta la strada smarrita, così una parola, una sola parola, detta a caso, dissipò nell'animo del conte quel bujo doloroso, e lo ricondusse a più confortevole giudizio. — Questa parola fu il nome di Medicina. — Appena l'accusa d'Agnese veniva sottoposta a nuovo esame, poteva dirsi, che la profonda convinzione della sua giustezza era svanita. E troppo lusinghiero era il dubio, perchè il conte non s'arrestasse a vagheggiarlo.

La donna, nel difendere il suo sposo e nel dire quanto ella sapeva di lui, rivendicava involontariamente l'innocenza d'Agnese. — Il suo linguaggio semplice e schietto portava quell'impronta di veridicità, che non si finge, nè s'imita. L'attenzione stessa, con cui il Conte raccoglieva le sue parole, le dava coraggio a non farne risparmio. Ella si sentiva inspirata dal cielo a far trionfare la verità. Per tal modo, colei che era venuta a cercar conforto, e ad implorar grazia, rendeva inconsapevolmente giustizia, e distribuiva a larga mano le consolazioni a chi nulla chiedeva, perchè ormai non sperava più nulla.

Al momento di pigliar congedo dal principe, ella era [225] quasi fuori di sè dalla gioja; il suo cuore, gonfio di una dolcezza inesprimibile, confondeva i sorrisi e le lacrime. — Ma all'atto di escire, alzando lo sguardo sul conte, per udirsi ripetere la cara promessa, fu sorpresa nel vedere che il suo volto non era più sereno come poco prima. — Avrebbe voluto chiederne la cagione, ma non ne ebbe coraggio. Meno lieta quindi essa pure, si ritirò.

CXXII.

L'improvisa angoscia del conte era simile a quella d'un malato, che, destandosi bruscamente dal letargo, si rende ad un tratto sensibile a' suoi dolori e consapevole della sua insanabile infermità. — Mentre Agnese tornava degna dell'amor suo, egli fuggiva lontano da lei e si addormentava per sempre a' suoi affetti. E tutto ciò per voler suo. Il ricordo, di un nuovo legame gli annunciava una sentenza irrevocabile: quella sentenza inconsideratamente invocata e troppo presto ottenuta. Ad uno strazio, così subitaneo ed acuto, non poteva opporre che un conforto: il pensiero che Agnese era innocente. Ma questo conforto, oltre al crescere il valore dell'oggetto perduto, gli ravvivava sempre più il rimorso della propria inconsideratezza. — Come consolarsi d'averla ritrovata, mentre il nuovo vincolo lo costringeva a ripudiare le antiche promesse? Ma perchè dolersene fino alla disperazione, nel momento che la innocenza e le tante disgrazie di colei, la attestavano pura e più degna d'amore e [226] di rispetto? — Così mentre, una legge gli imponeva di dimenticarla; un'altra più autorevole gli comandava di riavvicinarsi a lei, almeno quanto fosse necessario a disperdere i fatali effetti di un giudizio precipitato ed iniquo.

Rimasto solo, s'abbandonò colla persona sur una seggiola, traducendo nell'atto spontaneo delle membra affievolite l'improviso e completo scoraggiamento dello spirito. Per brevi istanti imperversò dentro di lui una procella di pensieri alterni ed opposti da cui non era possibile ricavare un costrutto. Pareva che in lui fossero due persone distinte; duplici quindi il pensiero, il desiderio, la parola. V'era l'uomo che redarguisce, quello che vuole e tenta difendersi; v'era il giudice e l'accusato; il consolatore e l'afflitto; l'uom coraggioso e il pusillanime. La lotta, siccome gravissima, non durò a lungo. I due esseri, che rappresentavano nature opposte, parvero infine confondersi insieme in una sola individualità; ma la virtù, sdegnosa di piegarsi ad ogni men che onesta alleanza, trionfò della passione; essa fu quindi la prima e l'unica a dettar legge.

Ecco ora i patti di questa nobile vittoria.

Chi era stato generoso a segno d'accordare il perdono ad un'offesa, nelle sue apparenze, gravissima; chi aveva provato tutta la parte dolorosa del subire e tolerare un oltraggio, doveva aver animo a compiere il debito più sacro ed urgente di riconoscere il proprio errore, di ritrattare l'accusa, e di porvi rimedio. Rifare il passato era cosa impossibile. Una stolta credulità, spezzando il più caro legame, faceva ricadere le [227] sue fatali conseguenze su chi l'aveva incautamente nutrita. Bisognava sopportarle; era a sperarsi che un po' di calma surgerebbe più tardi a temperare i mali, ed a promovere qualche conforto. V'ha intanto nel riconoscere un errore, nel confessarlo, nel portarvi pronto rimedio, tale generosità e tanta virtù, che quasi il buon effetto sembra abbellire la turpe cagione.

Un altro e più nobile compenso a tanti mali era il veder splendere di nuovo in Agnese il più prezioso ornamento della sua bellezza, la virtù. — Davanti a quella donna ricca di squisiti sentimenti, e sublimata dalla sventura, l'uomo ed il principe, senza tema d'offendere la propria dignità, potevano piegare il ginocchio, e chiedere perdono. A questo pensiero, il più grave dolore del conte era il dover porre un ritardo fra il pentimento e l'espiazione. Come la gelosia l'aveva fatto ingiusto, e poteva di leggieri renderlo vendicativo e crudele, così il pronto ravvedimento lo guidava ad ogni miglior proposito, onde riguadagnare la stima della donna offesa, e quella ben più guardinga e difficile della propria coscienza. Mentre poi si maturavano le circostanze che dovevano avvicinarlo alla sventurata, ei tentava di rendersi più degno del suo perdono, adoperandosi a sollievo degli infelici che il caso gli aveva posto dinanzi.

Cercò, quindi, anzitutto d'affrettare la libertà del Manfredi. Trovò il coraggio di parlare francamente allo zio, e lo costrinse a dimenticare l'ultima vittima della congiura. — Nel decreto di grazia, strappato non senza stento alla durezza di Barnabò, ei s'ebbe, colla libertà del Manfredi, una secreta caparra del perdono d'Agnese.

[228]

CXXIII.

Nella terza sera, e per tutto la notte, Milano fu ancora in festa. L'allegria sembrava farsi più vivace mano mano che piegava al suo necessario termine. Alla corte, fu data una grandiosa rappresentazione dramatica, in cui le divinità dell'Olimpo sceneggiarono con stiracchiate allusioni l'età dell'oro; poscia s'imbandirono suntuose cene. Infine la festa fu chiusa dalle danze, protratte fin quasi all'alba del giorno vegnente. Per la città continuavano le grida e gli schiamazzi; le case erano illuminate; sulle piazze ardevano falò; ma l'orgia generale non fu scarsa di violenze. V'ebbe più di un colpo di pugnale; e l'ubriachezza servì di pretesto allo sfogo di vecchi livori.

La mattina, tutto rientrò nell'ordine. Il conte era deciso di ritornarsene a Pavia quella stessa giornata. Avanti di partire, però, voleva cogliere il primo frutto de' suoi propositi: desiderava vedere il Manfredi, e congratularsi con lui.

Ma con grande meraviglia, questa prima parte de' suoi disegni subiva un ritardo inesplicabile. — Costretto a chiederne conto a qualcuno della corte, venne finalmente in chiaro di un terribile mistero. Il povero Manfredi, quando veniva informato della grazia ottenuta, lottava coll'agonìa. — Forse Barnabò, che non aveva saputo negare grazia all'intercessore, eludeva la promessa, facendo uccidere in carcere l'odiato avanzo de' suoi nemici. Tale fu la spiegazione, che [229] il conte e moltissimi cittadini diedero all'inaspettata notizia. E Barnabò, lieto probabilmente d'essere stato prevenuto ne' suoi desiderii, non si pigliò cura di smentirla.

Non ci sarebbe il tornaconto di raccogliere ragioni per provare che il signore di Milano non era l'autore di quel misfatto. Tacendo, egli mostrò d'approvarlo, ed approvandolo, volle richiamare sopra di sè la sua parte di complicità. Ma il legame dei fatti, che si vanno svolgendo, dimanda che si sparga luce sul vero autore di esso. — L'assassino era Medicina.

All'udire un delitto, la mente umana freme d'indegnazione, ma non si arresta a quel moto: essa vuol farsi un'idea netta del grado di colpa che pesa sul reo, e non suol dar passata alla dolorosa impressione, finchè non indovina quale sia la causa e quale lo scopo del delitto. Un misfatto senza una prima e grave cagione impellente, senza un ultimo e definito scopo, diviene un'azione isolata, vera ed importante quanto a' suoi effetti, ma dubia ed indeterminata nell'indole sua.

Ora quale motivo potè spingere Medicina a togliere di vita il Manfredi? Tutta Milano non seppe trovare alcun rapporto fra l'assassino e la vittima; la publica opinione lasciò quindi fuggire ingiudicato il vero colpevole. Ma i cronisti, quelli sopratutto più diligenti ed oscuri, che scrivendo pei posteri sfidavano le dispettose passioni dei contemporanei, non temettero di asserire che Medicina, ormai atterrito dalla rapidità degli avvenimenti, cui egli stesso aveva dato il primo impulso, credette arrestarli, spegnendo nel Manfredi [230] un depositario di molti secreti spettanti alla congiura del Mantegazza. Non curava egli gran fatto l'incolumità del governo di Barnabò; ma temeva l'ingrandimento del conte di Virtù, suo rivale. Il conservare un perfetto equilibrio di forza e di potere fra l'uno e l'altro, era necessità per lui: perocchè non credevasi arrivato a segno di poterli tradire entrambi. — S'aggiunga a ciò una circostanza di più immediato interesse. La vendetta contro Agnese, mossa, come si è narrato, dall'infelice spedizione di Campomorto, poteva ormai ritenersi condotta trionfalmente al suo termine. Checchè avvenisse, il Conte di Virtù era marito di Caterina Visconti. — Ma il turpe intrigo che aveva ferito nell'onore la virtuosa Agnese, poteva essere scoperto da una sola parola del Manfredi. Costui, durante la sua prigionia, ebbe, come si è detto, parecchie visite di Medicina. I secreti, di cui fu fatto depositario, erano di tal natura, che, innocui per sè giudicati isolatamente, divenivano prove irrefragabili della sceleraggine di Medicina, collocati nella serie d'altri secreti, di cui erano parte o riscontro. — In tutto ciò, v'era per fatto del ciurmatore una circospezione eccessiva; il pericolo sembrava forse troppo piccolo o troppo lontano per creare la necessità di uno scongiuro di sangue. Ma Medicina non badava pel sottile ai mezzi, quando vagheggiava uno scopo. Temeva che il Manfredi parlasse, ed egli lo fece tacere.

Informato della prossima liberazione dei carcerati, si recò, nel cuor della notte, alla Rocchetta; e per la solita via, sempre schiusa a un suo pari, penetrò nel carcere del Manfredi. Col favore delle tenebre, avvelenò [231] l'acqua del prigioniero; poi, annunciandogli la vicina grazia, gli promise con ipocrita asseveranza, che fra poche ore egli avrebbe abbandonato il suo duro soggiorno. Questa volta ei poneva ogni scrupolo nel promettere sol quanto era in grado di mantenere. Infatti, il veleno era di tal natura, ed in tale dose, da poterne garantire il pieno effetto entro il limite di tempo stabilito.

Quando, sul mattino, entrò il carceriero per annunciare al Manfredi la sua libertà, l'infelice, steso boccone sull'umido pavimento, era in fin di vita. Interrogato sull'esser suo, non rispose altrimenti che con un gemito semispento. Volò l'aguzzino a cercare soccorso; ma appena ebbe raccolto nel carcere il capitano della Rocchetta, un medico ed un attuaro, il povero prigioniero non esisteva più.

Per persona di sì poco conto, qual era il Manfredi nel concetto dei servi di Barnabò, non faceva mestieri ricorrere a diligenti ricerche, o raddoppiare le investigazioni onde scoprire la vera causa del suo decesso. Il medico asserì che Ognibene Manfredi era morto di morte improvisa: e fin qui non faceva bisogno d'essere medico per dirlo. Il capitano, il carceriere, il giudice e lo stesso Medicina furono sodisfatti di questa dichiarazione; e dal canto loro posero ogni studio nel farla tener buona. — In Milano corse la novella già commentata; e la più filosofica conseguenza che seppero trarne gli uomini di buon conto si fu: che il Manfredi era morto di gioja, e che una sùbita gioja è ben più fatale che un lungo dolore. — Del resto, troppi erano i crucci dei milanesi, perchè tale [232] sventura meritasse da loro più che la sincera pietà d'un giorno.

Come sèguito a questo fatto s'aggiunga, che la infelice sposa del Manfredi non trascinò a lungo l'angoscia della sua improvisa vedovanza. — Dopo aver tanto patito per la prigionia dell'amante, la sorte volle riaccendere in lei vive speranze, perchè la sua inattesa caduta fosse più aspra e decisiva. Morì la poveretta poco tempo dopo; senza però mettere la voce publica sulla via di scoprire, che un sùbito dolore ammazza non meno che una gioja improvisa.

Giangaleazzo, alla notizia della morte di Ognibene, si dolse più assai che non lo dimostrasse. La sorte di quell'uomo si connetteva strettamente a quella di altra più cara creatura. Intese il fatto, senza accettarne la spiegazione, ma dentro sè l'ebbe come cosa d'assai sinistro augurio.

Non ci arresteremo ad esaminare le cerimonie del congedo in corte; fu un ricambio di gelide frasi e di modi usuali. Nè tampoco terremo conto delle dimostrazioni di omaggio che Giangaleazzo raccolse sulla via, tornando al suo castello. L'unica cosa degna di nota si è che la vantata felicità degli sposi era soltanto sulle labra degli adulatori. La mestizia della sposa, manifestata dal suo pallore, lo scontento del conte, tradito da un involontario aspetto di corruccio, insegnavano anche ai meno esperti che la coppia principesca, in mezzo a tante grandezze, non godeva quella gioja serena, che tante volte è il retaggio del povero. E ciò è fior di giustizia; il poveretto dimanda sì poco, che non pare possibile che il destino voglia o possa sempre essergli avverso.

[233]

CXXIV.

Che fa un uomo, agitato dalla paura, quando sospetta che in un mucchio di materie incendiabili si nasconda una favilla? Egli tramesta, disperde, manda a male quegli oggetti, senza arrestarsi a scrupoli e preferenze. E intanto, per opporsi all'imaginario sviluppo di un male, comincia dal far male egli stesso.

Così operò Medicina. — L'infelice Manfredi veniva sacrificato alla paura di una rivelazione. Altra persona, come lui, e dietro lui, dava adito ad eguali sospetti. Bisognava provedervi. — Convinto che la passione di Giangaleazzo per Agnese non era nè spenta, nè assopita; che il recente legame, destituito d'ogni affetto e d'ogni lusinga, era più che altro un mezzo a tener viva l'antica fiamma; egli non rimpianse il male che aveva fatto, si doleva di non averne fatto abbastanza. Perocchè le arti sue non lo guarentivano ancora dalla probabilità che i due amanti si rivedessero, e che colle parole loro mettessero in chiaro l'intrigo e l'autore di esso.

Agnese era dunque pericolosa per lui, quanto e più che il Manfredi. Ben sapeva che l'infelice donna erasi allontanata da Pavia; conosceva le ragioni per cui ella era fuggita alla vista degli uomini. Ma ignorava il suo nascondiglio; e dubitava che, cessata la ragione di quel ritiro, ella non ritornasse in Pavia; o in altro modo fosse scoperta e riveduta dal suo amante.

Una volta entrato in un progetto, Medicina non era [234] l'uomo delle lungaggini e dei pentimenti. La sorte del Manfredi, al dir suo, non peccava di troppa precipitazione; poche ore di vita, e colui avrebbe potuto diventare il suo accusatore.

Or dunque, intanto ch'egli avvisava al modo d'impedire che il conte rivedesse Agnese, bisognava raccogliere alcune notizie intorno a costei, che eragli sfuggita di vista. A quest'uopo chiamò a sè il fido compagno delle sue ribalderie, e gli ingiunse, senza dirne i motivi, che si recasse tosto a Pavia, e coll'usata sua accortezza cercasse di scoprire la nuova dimora d'Agnese. Lasciò a lui tutto il merito di scegliere la via più acconcia ad escir bene dal suo incarico; ma non gli tacque la gravezza della cosa, la necessità di non destare sospetti, il pericolo d'entrambi, ove fosse caduto in qualche imprudenza. — Il sermone del maestro finiva colle solite frasi; prometteva mari e monti in caso di buon successo, ma guai a lui se non riesciva, due volte guai se riesciva a male!

Medicina accordò al suo compagno due interi giorni per tali pratiche. Al posdimani egli stesso doveva raggiungerlo a Pavia. Convenuta l'ora e la posta, l'uno si mise in viaggio, l'altro chiamò a capitolo le sue vecchie astuzie, per elaborare un piano semplice, e di facile riescita, che in ogni caso, ed alla peggio, gli offrisse uno scampo. Ma la mente del ciurmatore, ormai logora da tante scelerate fatiche, non sapeva togliersi dal campo delle vecchie arti, nè inventare un progetto d'esito certo, senza fare assegnamento sulle antiche improntitudini. Non era egli divenuto timido e pietoso; sprezzava il pugnale ed il veleno [235] perchè erano mezzi proprii d'ogni spirito vulgare; e li posponeva a quegli intrighi, che giungono alla meta prefissa senza lasciar traccia di sè; confondendo i secreti maneggi dell'uomo cogli infiniti e varii spedienti del destino.

Havvi una forte ragione per dubitare che questa volta la sua mente non fosse, come al solito, feconda; poichè, all'atto di mettersi in cammino, intascò più di una fiala avvelenata, e sperimentò la punta di parecchi pugnali.

Bergonzio, che obediva ad occhi chiusi, ebbe campo in due giorni di far le pratiche necessarie, per trarsi d'impaccio. Si recò anzitutto a Pavia, nel luogo dove dimorava Agnese; ivi, se non potè conoscere dove si fosse nascosta la misteriosa donna, seppe almanco da qual parte ell'erasi avviata. Tentò quella strada, e vi si spinse, occhieggiando a destra ed a manca, interrogando i passaggieri e i contadini, mettendo a partito la furberia dei monelli e la loquacità delle comari. Lo zelo e l'accortezza lo posero sulla buona via; e la sorte, che pur troppo è facile amica dei ribaldi, gli fece toccare la meta. — Al cadere del secondo giorno, quando stanco e scorato s'accostava ad un casolare per dimandarvi ospitalità, vide da lontano, all'incerto lume del crepuscolo, una figura feminile che gli parve di conoscere; affrettò il passo, la raggiunse: era Canziana. Girò di fianco, e la seguì da lungi per vedere dov'ella andasse; e per tal modo scoperse l'asilo d'Agnese.

Il giorno dopo, Medicina e Bergonzio si rividero in una osteriaccia fuori delle mura di Pavia; ma [236] l'uno e l'altro non diedero pretesto ai curiosi (ove per caso ve ne fossero) d'indovinare esservi tra loro un concerto od un'intelligenza qualunque. — Esciti entrambi da parte opposta, s'incontrarono in un luogo solitario; dove Bergonzio narrò per filo e per segno il risultato della sua spedizione. Cominciò dal dire il nome del luogo ove Agnese erasi ritirata, la distanza e la strada per arrivarvi; espose colle parole, ed illustrò con una serie di linee tracciate nella polvere, la pianta della casetta, insistendo nel dichiarare che gli accessi erano parecchi ed affatto indifesi. Solo rammentava con dispiacere la circostanza del vicino plenilunio; ond'era necessario affrettare l'impresa e compierla nell'ultimo periodo della notte, se volevasi avere il favore di una completa oscurità. Non omise di riferire che quella dimora, quantunque perfettamente solitaria, non era abitata da Agnese sola. Una famiglia di buona gente, originaria di Pavia, che per vecchi disgusti aveva abbandonato la città, erasi ristretta in una piccola parte dell'abitazione, per cederne la migliore all'ospite benvenuta. Il nome di quella famigliola non eragli stato detto: ma sapeva, che era gente quieta, alla buona, aliena dalle armi e dai sospetti; che per tutta difesa solevasi di notte sguinzagliare un cane lioncino, il quale, abbajando lunghe ore alla luna, aveva abituato i padroni a non tener conto de' suoi avvisi. — Alla peggio poi, quando pure tutta la famiglia fosse in guardia, la lotta non sarebbe stata lunga ed incerta; v'erano tre donne, ed una covata di bimbi; gli uomini erano due; il padrone di casa, giovine e robusto ancora ma affatto [237] privo d'armi, ed un famiglio, il più dormiglioso, il più codardo villano del contorno.

Il Seregnino, finito il racconto, dolevasi dentro di sè del poco accoglimento fatto alle sue parole. Credeva che, dietro tali rivelazioni, il ciurmatore, rotto ogni indugio, sarebbe volato all'impresa; od aspettava almanco d'essere accolto con una parola di approvazione e di lode. — Medicina invece era muto. Contento senza dubio nel sentire che, ove fossevi necessità di usar violenza, il trionfo sarebbe certo, dimandava a sè stesso il modo di evitarla; studiava l'arte di vincere senza combattere.

“Io non chiedo altro, pensava egli, che di porre una barriera insurmontabile fra Agnese ed il conte. Voglio soltanto consacrare i fatti già compiuti mercè il silenzio dei due amanti: silenzio ristretto a tempo e ad un solo argomento. Che il miglior mezzo per far tacere una persona sia lo spacciarla, è cosa che so anch'io da un pezzo; ma questo è l'ultimo spediente, e vi si può sempre ricorrere, quando ogni altro partito riesca a male. Una vendetta compiuta è una di quelle gioje, che non rade volte lasciano dietro sè delle tracce pericolose. No, no; sono queste le glorie degli incauti o dei novizii. — Meglio è far in modo, che Agnese abbandoni per qualche tempo la sua dimora attuale; e, per volontà propria o spinta da una necessità creata ad artificio, se ne vada.... dove, non importa; purchè sia ben lontano.... Ma come.... come rimoverla dalla sua solitudine?„

La luna spandeva raggi obliqui e melanconici su quel misterioso convegno. — Medicina era assorto. [238] Fuor del cappuccio alquanto rovesciato all'indietro, escivano a cerfuglioni i suoi capelli bruni, solcati da screzii color di rame; il volto, perduto in una penombra livida, brillava soltanto della luce tetra ed irrequieta degli sguardi. Posava come chi si arresta di colpo dopo una marcia affrettata: aveva una mano sul giustacuore, coll'altra stringeva l'elsa della spada. Il compagno invece portava la testa alta, e cercava gli occhi del suo padrone, come se ponesse in dubio il suo coraggio, e volesse infondergli il proprio. Nella breve esperienza della sua servitù, quest'era la prima volta in cui reputavasi levato a paro di lui. — Ma s'ingannava a partito; i suoi sguardi di fuoco, le parole tronche e concitate, l'aria guerriera ch'egli affettava, non giungevano a scuotere Medicina dalla sua calma.

Dopo qualche minuto, costui sollevò la testa, raccolse le braccia, e si dispose a parlare ed a procedere avanti. La luce erasi fatta nel suo cervello, ed il partito era preso.

CXXV.

Medicina non disse al compagno più di quanto era strettamente necessario per dar principio al suo disegno. Dimandò d'essere condutto quella stessa notte al luogo ove dimorava Agnese, dichiarando di volere arrivarvi un'ora prima dell'alba.

Bergonzio per girar largo, e dar tempo a torre di mezzo ogni eventuale imbarazzo, propose di partir subito, dicendo tanto e tanto esser meglio aspettar là, [239] che non altrove. — Alle quali parole il ciurmatore aggiunse un cenno affermativo del capo, mentre colla mano destra comandava al compagno di precederlo per insegnargli la strada.

Le tre ore di cammino passarono senza accidente. L'uno procedeva dietro l'altro sur un sentiero serpeggiante fra i campi, che a tratto a tratto si smarriva entro le stoppie e gli scopeti, per isvolgersi di nuovo lungo le siepi od attraverso i boschi. — La luce era scarsa ed infida; sotto l'obliquo raggio della luna, le ombre si prolungavano all'infinito, rendendo sul loro corso l'aria più fosca e pregna di vapori. A tratto a tratto una mezza luce bianca ed incerta, squarciava quelle ampie pezze brune, che sembravano lo strascico di un drappo funebre steso capricciosamente sul suolo. I viandanti non potevano tenere l'egual passo; l'acceleravano o il rallentavano a seconda del più o men comodo andare; talvolta era necessario arrestarsi per varcar siepi o rigagnoli; tal altra retrocedere sulla via già percorsa, e cercare l'entrata di qualche macchia folta o spinosa.

Medicina era sempre taciturno. Il suo disegno, nettamente delineato quanto allo scopo, ma ancora troppo vago nei mezzi, lo trascinava, non senza grave pena, in un labirinto di congetture, fra cui non giungeva a discernere la più probabile. Studiavasi di contraporre ad ognuna di esse un'escita; e s'affaticava a premunirsi contro ogni eventualità sfortunata: ma il doppio assunto gli consumava le forze.

A quando a quando però non mancava di volgere qualche parola al compagno per completare le nozioni [240] necessarie a' suoi progetti. Ora lo interrogava più precisamente sul luogo cui erano avviati, ora dimandava conto di questo o di quell'arnese, che gli poteva tornar buono improvisamente. Una volta gli chiedeva, a cagion d'esempio, se erasi munito di battifuoco e di selce, un'altra se aveva proveduto una scala di corda; poi faceva l'esame delle armi, o s'arrestava a studiare di nuovo la pianta della casipola già tracciata dal suo esploratore. — Pareva infine che non avesse troppa fretta di giungere alla sua meta.

Un galantuomo, che va pei fatti suoi, supponiamolo anche avviato a far del bene, se è sorpreso dalla notte, in mezzo ad una campagna deserta, dove non abbia altra scorta che il lume melanconico delle stelle, e non oda che lo scroscio delle foglie agitate dal vento, o il mormorio delle acque lontane, non sarà più, per regola generale, il rodomonte che è di pien giorno. — Quei brividi, che gli increspano la pelle al soffio della brezza notturna e dietro una veglia prolungata, gli attraversano i muscoli e le ossa; e penetrati nelle viscere vi destano una commozione solenne, che potrebbe dirsi il primo sintomo del terrore. Chi a debellare queste apprensioni invoca il coraggio, nell'allestire le armi, e nel precorrere il pericolo colla difesa, ha già tacitamente riconosciuto l'esistenza di un nemico; e i mezzi apprestati sono nulli, o scarsi, perchè ciò che si crede una larva fuggevole è l'espressione di un sentimento sacro e sublime ridestato dalla vista della natura nella sua più severa maestà. — Impallidiscono a fronte di essa le tiepide rimembranze della vicina giornata; le [241] memorie delle scorse gioje si cancellano; la stessa coscienza del bene che si è fatto, o che si ha il proposito di fare, rimanda i suoi conforti ad altro momento.

Quelle ubbíe, di cui avremo riso le cento volte alla luce del sole o dei doppieri, ci si presentano con un aspetto di esistenza dubia, sul cui conto è intempestivo lo scherno, difficile una calma ed assennata discussione. Le tenebre danno all'occhio vigile la facoltà di vedere ciò che non esiste; all'orecchio sospettoso aggiungono una strana squisitezza, che traduce in armonie sinistre i suoni più innocenti.

La fantasia irrequieta rimesta il vecchio corredo delle memorie, per sollevarvi di preferenza ciò che v'ha di più triste o di men lieto. Per quanto taluno possa vantarsi favorito dalla fortuna, troverà sempre in sè qualche cicatrice più o men bene rimarginata, che gli attesta un dolore patito. — Ivi la sua mente fa sosta, per riprodurre quella parte del passato che meglio s'accorda colla solenne sua mestizia. Penserà di preferenza ai disinganni provati, ai subíti rovesci, alle infide amicizie, agli affetti traditi. E quando egli fosse così fortunato di non trovar pascolo a simili rimpianti, avrà pur sempre qualche cara persona perduta, la cui rimembranza è per sè stessa un dolore. In tal momento, in mezzo alla solitudine, il pellegrino non solo piange con maggior tenerezza le virtù e gli affetti di essa; ma rivede il parente e l'amico come se fosse vivo, o, peggio, come se la tomba si spalancasse per mostrarglielo cadavere.

Una volta aperta il varco a questi delirii, una sola [242] cosa varrà a dissiparli: la luce amica dell'aurora. Allora i fantasmi spariscono, le tombe si rinchiudono, i morti tacciono: le larve nere che passeggiavano sul fondo della scena, appajono quello che sono; null'altro che l'ombra placida e tremula degli oggetti circostanti. Al sinistro strido degli uccelli notturni, si sostituisce un rumore lontano e ravvivato, che è il parlare consueto di chi ne viene incontro, misto alle canzoni dei contadini, allo stridìo dei carri, al mugolare degli animali domestici. — Ecco cambiata la scena.

Tutto ciò avviene all'uomo onesto, il quale in mezzo a' suoi timori, ha potuto consultare la coscienza, e trovarsela amica. Ma quale dovrà essere lo stato d'animo di chi si specchia per la prima volta in sè stesso, e inorridisce inaspettatamente della propria deformità? Sul fondo bujo della notte egli legge a contorni di fuoco, anche se chiude gli occhi, la storia di una vita piena di sceleraggini e gravida di rimorsi. Appunto perchè nella scioperatezza de' suoi giorni, e sotto l'influsso di una luce che sembra mite anche agli occhi del malvagio, non ebbe mai occasione di chiamare ad esame il passato, in quell'ora di oscurità la coscienza avrà lume che basti per vincere le tenebre, e rendersi visibile. — Finchè dura quel parosismo, il vizio avrà perduto le sue attrattive, e senza queste, senza la speranza della riabilitazione, l'animo dello sciagurato proverà quel vuoto che è il primo e certo sintomo della disperazione. Se egli non è ribaldo a segno di dominare l'improviso rivolgimento che si opera in lui, varcherà quest'ultimo confine, vittima di quella stessa febre che era dianzi il sintomo essenziale della sua vita.

[243]

Il silenzio di Medicina, non estraneo a tali impressioni, era un primo attacco di questa terribile infermità. Già un principio di noja gli faceva sembrare troppo lunga e disagiata la strada; in capo ad essa egli vedeva la sua impresa assai più ardua che non avesse creduto sulle prime. La fatica gli riesciva troppo grave; il compenso scarso ed incerto. — Rimandava anche questo disegno nel novero dei molti, che aveva compiuto felicemente, ma che non lo sottraevano ancora alla schiavitù verso gli altri e verso sè stesso. — Infastidito da questi pensieri, egli rivolgeva contro sè qualche rimprovero; non perchè fosse nauseato delle tante sceleraggini commesse, o dubioso della opportunità di commetterne altre; ma perchè deplorava la meschinità dei mezzi, che lo trascinavano, per vie lunghe ed indirette, a riconoscere la vera meta de' suoi desiderj, senza che gli fosse possibile di toccarla mai. — Da venti anni egli operava instancabilmente per divenire ricco, e libero di sè; ed era invece costretto ad una vita di privazioni; a mangiar sempre il pane di un padrone.

Contro voglia, ma per una necessità insuperabile, egli si arrestava in tali considerazioni ogni volta che lo studio de' suoi progetti permetteva alla sua mente una sosta momentanea. Crescevano intanto la stanchezza, il fastidio, le difficoltà, e scemavano collo stesso grado le forze. Se gli fosse stato possibile sciogliersi dal suo compagno, e trovare vicino a sè un ricovero dove godere qualche ora di calma, egli avrebbe messo da parte il suo progetto, risparmiato o ritardato un delitto. Ma tale è la condizione dell'uomo perverso: [244] egli perde le tracce percorse, e non sa tornare su di esse. Però in mezzo ai sofismi, con cui il malvagio tenta di puntellare l'edificio delle sue turpitudini, spesso la verità si fa strada da sè. — Udiamone una dalla bocca stessa di Medicina. Colpito dal ribrezzo di tanti delitti, e in un momento di sfiducia, sclamò tra sè; “A che mi giova avere testa e mano pronte ad ogni ardua impresa, se, dopo aver sudato tanti anni per godermi la vita in pace, mi trovo ridutto a questo punto? Perchè non fui anch'io un galantuomo, come molti altri, che a quest'ora dormono in pace, e non provano il rodimento dell'animo che io provo?„

Questa terribile confessione, colta a volo sulle labra di un malvagio, è feconda di un grande insegnamento. Se la natura non ci fece ottimi, quello stesso istinto che ne fa desiderare la nostra felicità ci consiglia a procurare di diventar buoni. Il bene è bene anche quando viene da fonte meno pura: l'oro non cessa d'essere prezioso, pur se è misto a molta ed ignobile lega. E quando una benigna natura non ci ha dato un animo eletto che ci innamori della virtù, l'interesse, quello principalissimo di vivere in pace cogli altri e con noi stessi, c'invita alle buoni azioni, o per lo meno ci trattiene dalle malvagie.

Ma Medicina combatteva la paura e la coscienza col fatale consiglio degli ostinati nel male: essere troppo tardi per dietreggiare nella vita. L'arrestarsi gli sembrava egualmente impossibile, poichè un'impresa incominciata ed incompiuta era, o sembrava essere, pericolosa. — Bisognava ch'egli s'abbandonasse al destino; e in questo punto il destino era rappresentato [245] da Bergonzio, che lo guidava, suo malgrado, allo scopo designato. — Sopportò la fatica di tre ore di cammino che gli parvero tre secoli: in nessun'altra circostanza una simile corsa gli era costata tanta pena. — Scongiurava le visioni, che gli si offrivano allo sguardo, imprecando e bestemmiando sottovoce. Alle aggressioni occulte della paura, opponeva le occulte voluttà della vendetta; e quando non bastavano a farlo pago nè l'avidità dell'oro, nè la sete di vendetta, egli rinvigoriva i propositi nella imperiosa necessità di proteggere la sua fortuna pericolante. Dopo una battaglia, che gli costò tante fatiche, ebbe anche questa volta l'inonorato trionfo sulla propria coscienza. Giunto alla meta, s'arrestò, e trasse un largo sospiro, che il simile non gli era mai escito dal petto, durante quell'infelice giornata.

CXXVI.

Il luogo della sosta era un piccolo campo alberato all'ingiro da pini ombrelliferi dall'arsa corteccia e dalla pallida verdura. Appiè di alcuni di essi erano disposte pietre rozzamente riquadrate, che potevano servire di sedile; nel mezzo si apriva un vasto spazio di terreno smosso, partito in ajuole da cordoni di mortella, entro cui brillavano gli ultimi fiori dell'autunno.

Il casolare si presentava di fronte sotto la forma più semplice, che possa avere abitazione umana. Un muro piano, protetto da una gronda di paglia, ne costituiva la facciata. Una piccola porta, alla quale si [246] ascendeva per due scaglioni di varia misura, ne era l'entrata principale. Non parliamo delle finestre sparse qua e là senza ordine e senza misura.

Medicina, affranto nello spirito e di conseguenza scemo di forze, sentì il bisogno di far alto e di riposare prima di riprendere i suoi pensieri, e di ridurli ad atto. Si accostò quindi alla più vicina di quelle pietre, e, serratosi ben bene il mantello intorno al corpo, sedette. — Ma poco dopo, quando cercò di liberare dalle pieghe del mantello il braccio destro, per appoggiare il gomito sul ginocchio e il mento nel cavo della mano, sentì che questa era gelata ed inerte come fosse di piombo. Le gambe prive d'ogni elasticità si fissavano aggranchiate nel terriccio, e vi stampavano un'orma profonda.

A crescere l'affanno, da cui era oppresso, contribuirono alcune circostanze del tutto fortuite. Il cielo, già limpido e purissimo, si coperse improvisamente. L'uomo, che non aveva avuto occhi per iscorgere la bellezza di quella vôlta stellata, si destò dal suo letargo per riconoscere quel subitaneo offuscamento. Alzò lo sguardo e vide che una nube sanguigna, frangiata da un lembo argenteo, aveva coperto la luna al suo tramonto. Quell'istantanea privazione di luce sembrava rendere più intenso il freddo, che gli cercava ogni fibra, e gli faceva battere i denti. Ciò gli parve di cattivo augurio.

Quasi al medesimo istante uno strido lontano, raddoppiato dall'eco, partì dal fondo della foresta. Stette egli in ascolto. Quel sibilo acuto, lamentevole, andava crescendo, e s'avvicinava. Contemporaneamente, un corpo pennuto ed ondeggiante solcò lo spazio ed aleggiò [247] così vicino a lui, che l'aria scossa gli flagellò disgustosamente il volto. — Era un gufo che volava al suo nido. Ciò aggiunse al primo augurio un senso di ribrezzo ancora più sinistro.

Si levò Medicina con un movimento rapido, e senza accorgersi mise mano alla spada, per avere da essa quel coraggio, che l'animo non gli porgeva. — Occupavasi nello svolger l'elsa dalle pieghe e dai pendagli, quando udì un rumore, che nella quiete della notte non sarebbe sfuggito a chi fosse anco più lontano di lui. Levò lo sguardo: una luce pallida rischiarò l'interno di una cameretta, di cui s'erano spalancate le imposte: ed una voce sommessa e dolcissima gli portò all'orecchio i numeri armonici di una canzone. Rimise allora la spada, e stette ad ascoltare le seguenti strofe:

Gentil fiore in strania zolla

Sbucciò ai rai d'immite ciel;

Sulla vergine corolla,

Sul pieghevole suo stel

Scatenò l'aprile insano

La gragnuola e l'uragano.

Ma da canto all'infelice,

Un arbusto meno esil

Fe' coll'ombra protettrice

Grato scudo al fior gentil;

E il difese dagli oltraggi

Del rio gel, degli arsi raggi.

Brillò alfin sul suol romito

Calmo il sole; e l'egro fior

Schiuse il calice avvizzito,

Furò all'iride i color,

E fe' pregne l'aure erranti

Di profumi inebrianti.

[248]

Or che crebbe il debil fusto,

Che il caduco fior d'un dì

Fatto è un albero robusto,

Quella zolla, che il nutrì,

(Pur se i giorni tornan grami)

È protetta da' suoi rami.

Anche il cespite vicino,

Che un dì largo di pietà

Fu al modesto fiorellino,

Nutrimento ed ombre avrà:

Poichè gli offre il ciel cortese

Doppio il ben ch'agli altri ei rese.

Nella gioja e nell'affanno,

Se a virtù s'accoppia amor,

Cresce il ben, s'attenua il danno:

Ben più grato è a nobil cor

L'aver parte d'altrui duolo,

Che fra gioje viver solo.

CXXVII.

Queste dolci parole, rese più soavi da una voce flebile ed armoniosa, attestavano la sventura, sorretta da un animo forte e confidente; erano l'antitesi precisa del corruccio bieco, astioso, codardo, che lacerava l'animo di Medicina.

È inutile dire chi fosse quella donna; il lettore l'avrà già riconosciuta. Forse sembrerà strano che, in mezzo a' suoi patimenti e dopo tante vicende, Agnese impiegasse a questo modo le sue veglie. — Si è già detto che le gioje della maternità erano per lei sì grandi da farla dimentica d'ogni pena. Ma, passata la prima [249] ebrezza, quell'istesso sentimento precorreva l'avvenire; e, preso in esame la somma dei doveri che incumbono ad una madre, la travagliava col dubio di non saperli compiere. Senza ciò, Agnese sarebbe stata ancor troppo felice.

Il piccolo Gabriello cresceva come il fiore della canzone all'ombra di men debole arbusto. Ognidì gli occhi innamorati della madre riscontravano sul suo volto un nuovo vezzo. — Dopo pochi mesi, egli volgeva gli sguardi intelligenti alla sua nutrice, e rispondeva con un linguaggio, compreso solo da lei, alle vive e continue dimostrazioni di tenerezza che gli venivano prodigate.

Ma alcun tempo prima di quest'epoca, la tenera creatura fu ad un punto di essere vittima di una violenta malattia. — Nessuna parola può dipingere l'angoscia della madre: angoscia suprema che però non si stemprava soltanto in lacrime ed in preghiere, ma combatteva colle più solerti cure la violenza del male. — Per più giorni, la povera madre non ebbe un minuto di requie. Gradì le cure di Canziana, e della donna che abitava con lei, ma non divise con alcuno i materni officii: l'altrui pietà era un'aggiunta, non un sollievo alle sue sollecitudini. La lotta fu lunga ed incerta. Agnese tremò più volte di una vicina disgrazia: più volte rinacque alla speranza.

Venne finalmente il dì, in cui un migliorare nuovo e subitaneo indusse nel suo animo una speranza meno fuggevole. La sana costituzione del bambino, e le assidue cure a lui prodigate, vinsero la gagliardia del male. La tenera creatura, che il canto della madre [250] adombrava nel debole stelo di un fiore, ricuperò le sue forze, i suoi colori, la sua vivacità. Con lui fu salva Agnese; essa, che avrebbe ricevuto dalla mano di Dio la sventura, come il castigo della sua colpa, accettò la grazia del cielo, come la consacrazione de' suoi diritti materni. Nella notte, in cui Medicina s'accostava a quel santuario di affetti, meditando di profanarlo colla sua presenza, il piccolo Gabriello fu più del solito irrequieto. Vegliava la madre con lui: e, per tenerlo calmo nella sua insonnia, lo cullava leggermente tra le braccia, e gli ricantava alcune strofe, che altre volte avevano bastato ad arrestare i suoi vagiti e ad addormentarlo. — Aveva aperta la finestra, affinchè l'aria esterna, portando via con sè il suono di quella nenia, sollevasse i vicini da ogni molestia, e non li rendesse avvertiti della sua veglia.

Faccia il lettore i commenti a quella canzone: egli comprenderà fin dove erano giunti i dolori della sventurata madre, e fin dove si spingevano le sue speranze. Nella storia del fiore, che cresciuto diventa il protettore della zolla e del cespo che lo nutrirono, veda quale sia il primo e più fervido voto del cuore materno. — Pronto sempre al sacrificio di sè pel bene de' suoi figli, esso però non rinuncia all'ineffabile gioja d'essere nella tarda età confortato e ringiovinito dall'amore di essi. Il cuore che ama soffrire cogli altri, anzichè esultare tutto solo, è il più nobile tipo della carità; è il punto culminante della possibile perfezione umana, cui mettono capo gli eletti istinti della natura, da cui procedono i nobili sforzi della virtù.

[251]

CXXVIII.

La voce e l'apparizione d'Agnese richiamarono le forze di Medicina. Quel canto, come sincera espressione di un animo sereno, gli parve un atto di ribellione ai decreti dell'empio destino, di cui egli voleva essere il ministro. — La calma nel momento della tempesta esacerbava i suoi sdegni, quasi fosse una sfida. Egli, il più malvagio degli uomini, invidiava la pace dei buoni; egli odiava la virtù, appunto perchè tranquilla anche in mezzo alla sventura. Alla scarsa luce che rischiarava la cameretta, credè scorgere Agnese assai pallida ed abbattuta. Se ne rallegrò lo scelerato; e, vedendo che ella non si stancava di vezzeggiare il suo bambino, riconfermò nel cuor suo un orribile disegno.

L'ora opportuna per effettuarlo era venuta. — Il Seregnino, che sedeva presso al suo padrone, attendendone gli ordini, non potè a meno di mostrargli che cominciava ad albeggiare. Da mezz'ora la luna era scomparsa. Agnese aveva cessato dal canto; ma, non istaccandosi mai dal petto il suo Gabriello, passeggiava lungo la camera, e s'arrestava qualche momento alla finestra, levando lo sguardo al cielo, quasi invocasse e salutasse la vicina luce del giorno.

“All'erta, Bergonzio! — disse con un rantolo soffocato il ciurmatore, levandosi da sedere. — Rammenti quanto ti ho detto...?„

“Metterò un debole grido, come fossi al punto di sputar l'anima.... Non è vero...?„

[252]

“Sì.... distenditi a terra, e poni una mano sulla bocca affinchè le tue grida sieno soffocate.„

“Poi?„

“Quando batterò due volte la mano, alzati e seguimi. Dopo aver girato le mie spalle, nasconditi dietro quell'olmo„ — e accennava colla mano la pianta che faceva ombra alla finestra illuminata.

“Poi?„

“Entrare in quella casipola e salire nella camera di madonna deve essere affar tuo„.

“Ponete che io vi sia: e che devo fare colà?„ — Medicina si chinò all'orecchio dello sgherro, e gli pronunciò alcune parole, alle quali aggiunse: “guai a te se cedi alla tentazione di mettere la mano ad altro; scendi tosto, e fa di porre al sicuro il tuo fardello. — Hai la scala di corda per ciò? Molto mi cale della tua vita, sai? perciò voglio salva quella di un altro. — Il suo riscatto deve pagare ad usura le mie e, se avrai senno, anche le tue fatiche„.

“Dio me la mandi buona„ — interruppe il Seregnino con un'aria di malcontento.

“Di che hai paura?„

“Ho paura di voi; se la cosa mal riesce, chi mi scampa dal vostro furore?„

“Tu pigli un passo inanzi, volpone. Pensa piuttosto che se ti mostri accorto, ed assecondi a dovere il mio comando, per te...„ e il suono affettato in cui morì questa reticenza doveva equivalere alla più generosa delle promesse.

Ma il Seregnino ne ricordava altre andate in fumo, anche malgrado i buoni auspicii; per cui risolvette di [253] obedire, solo perchè il non farlo sarebbe stato un partito assai più temerario.

Dopo ciò, Medicina esci dalla macchia, e Bergonzio si pose a terra intonando una litania di sospiri e di gemiti, com'erasi convenuto.

Agnese in più d'un'occasione aveva incontrato Medicina; spesse volte poi aveva udito parlare di lui, e s'era fatta una giusta idea dell'esser suo. — Ma in quella oscurità e in quell'arnese, nessuno, nemmeno chi lo conoscesse perfettamente, avrebbe saputo riconoscerlo. Egli s'era ravvolto in un ampio mantello, fuor del quale esciva il cappuccio della sottoveste, che gli pioveva sul volto. Una barba posticcia gli copriva il mento; una simulata compunzione gli spianava le solite rughe della fronte; e del ribaldo non restava altra apparenza fuorchè l'inestinguibile fuoco de' suoi occhiacci sinistri.

Quando fu vicino alla casetta, si tolse dal sentiero del bosco, e camminò dritto, a passo celere, verso la finestra illuminata. E giunto a tale distanza da potersi far sentire, chiamò a sè l'attenzione d'Agnese, pronunciando e ripetendo con voce piagnolosa “Deo gratias„. Il Seregnino intanto, fido agli ordini ricevuti, mandava gemiti, ed implorava la mercè di Dio e degli uomini, che era uno stringimento di cuore a sentirlo.

“Ah! benedetta — proruppe il ciurmatore con voce alterata quando vide Agnese; — qui vi sarà qualche anima buona che non si rifiuta di prestar soccorso ad un mio compagno...?„

“Che è accaduto?„ dimandò Agnese affacciandosi alla finestra.

[254]

“Non udite i suoi lagni?... poveretto... egli è là„

“Chi? dove?„

“Là abbasso... sdraiato a terra... un moribondo„ Un momento di silenzio permise ad Agnese di ascoltare i gemiti del Seregnino, che, giunti al suo orecchio, avevano tutto il prestigio di un'invocazione pietosa ed urgente.

“Egli era poc'anzi sano al par di me e di voi, ripigliò il ciurmatore. Un male improviso lo colse, e lo ridusse in fin di vita. Svegliate qualcuno, per carità; questa casa non deve essere abitata da voi sola. Per l'amor di Dio e del prossimo, per l'anima di quel cristiano, che implora di morire in grazia di Dio, accorriamo ad aiutarlo. — È lontana da qui la parocchia?„

“O Vergine santa, che mi dite mai! Attendete che io discenda; risveglierò una famiglia da bene, che abita qui vicino. È buona gente che ci ajuterà.„

“Il ciel vi rimeriti, o madonna. Ma, per giovare al prossimo, badate a non far danno a voi stessa. Avete in collo un bambino; non lo esponete al freddo; ditemi a qual porta devo bussare; andrò io stesso...„

Ma Agnese, che non dava più retta a queste parole, visto che il suo bambolo dormiva, senza porre tempo di mezzo, senza discutere tra sè e sè l'opportunità di ciò che era per fare, collocò la creatura sul letticciuolo, e il lume a terra; poi, ravvicinate le imposte della finestra, si dispose a discendere.

Medicina approfittò di quest'istante per chiamare a sè il compagno col segnale convenuto. E Bergonzio, seguendo di tutta corsa il sentiero del bosco, [255] passò vicino al ciurmatore, e vi si arrestò il tempo necessario a raccogliere l'ultimo suo comando riepilogato in queste parole: — “il tempo di recitare un credo.... poi.... sarai all'altra parte del bosco; salva la testa, ma salva anche il tuo bottino; destrezza e coraggio.„ — A tali parole, ravvivate da uno di quegli sguardi, che si vedono anche di notte, e che vogliono significare ampie promesse e ancor più ampie minaccie, corse appiè dell'olmo, vi si arrampicò, pose un ginocchio, poi l'altro, sul davanzale della finestra, aperse le imposte, scavalcò il parapetto, e si lasciò sdrucciolare sul pavimento della camera. — Ormai sicuro della sua impresa, prima di volgersi alla culla del bambino, girò lo sguardo intorno per trovare qualcosa che lo compensasse tosto della scelerata fatica. Intascò di fatto il più che potè fra gli oggetti di valore che gli caddero sott'occhio. Coll'ansia inesprimibile del ladro sacrilego, corse indi alla cuna, stese la mano sulla creatura, e la strappò dalle coltri con una stretta sì brutale, che la destò e la fece prorumpere in uno strido acutissimo.

Agnese, appena escita dalla sua camera, era rimasa un istante sul pianerottolo, incerta se dovesse chiamare Canziana ed affidare a lei la custodia del bambino; ma un sentimento di pietà verso la buona donna, che in un mese d'angosce era invecchiata di dieci anni, la consigliò a non interrompere il suo riposo. — Fidò quindi a Dio il suo tesoro; e, coll'animo calmo proprio di chi s'avvia ad una buona azione, discese la scala, aperse la porta, e andò incontro a Medicina. — Attendevala costui con un aspetto umile e supplichevole; [256] e, coi gesti e colle parole tronche, cercava di condurre la sua vittima il più lontano che fosse possibile dal luogo del delitto. — Fu allora che il vagito, cagionato dall'improvido maneggio di Bergonzio, risvegliò Canziana, ed arrestò i passi d'Agnese; la quale, spaventata da quel grido, si rivolse indietro, e levò gli occhi alla finestra.

Quale orrore! Vide l'ombra di un uomo disegnata a contorni colossali sul fondo lucente della sua stanza. Scorreva dessa tutto il lungo della parete, svolgendosi in una serie di movimenti rapidi e contorti. Talvolta si faceva piccola, per ricomparire un attimo dopo più gigantesca e terribile. — Agnese non poteva comprendere che fosse quello spettro, e che cosa facesse in quel luogo; non pensò tampoco alla possibile presenza di Canziana. Ogni altra ipotesi, fuor questa, era orribile. Lo spirito scosso, così istantaneamente, travide in quella apparizione la realtà spaventevole di quelle treggende notturne, che tante volte aveva udito e sprezzato. — Ben lontana dal saper definire la vera natura del pericolo che sovrastava al suo bambino, si precipitò inconsapevolmente nel vortice delle ubbíe per sognare una ridda infernale di larve e di fantasmi. Ella, che si sarebbe lanciata coraggiosamente nelle fiamme o nell'acqua per salvare la sua creatura, non potè reggere al dubio di un pericolo, ingombro di tenebre e di mistero. — A tale idea le si offuscò la vista; un sudor freddo le invase la fronte; provò una stretta, un affanno, come se i movimenti del cuore le fossero impediti dalla pressione di una mano di ferro. Fuor di sè, e in preda ai delirio, raccolse tutte le sue forze per metter fuori un grido di disperazione.

[257]

Il ciurmatore, che tutto comprese, e che alla debole luce dell'alba aveva scorto i sintomi di una crisi, da cui poteva tornargli grave pericolo, non lasciò tempo all'infelice di raccogliere il respiro e di articolare una parola. Colla mano destra visitò l'elsa del pugnale; poi con un rapido movimento si tolse dalle spalle il mantello, e, spiegatolo dinanzi a sè, lo rovesciò sul capo d'Agnese, mirando a soffocarne il più leggiero anelito. — La sventurata, già moralmente affranta dal terrore, perdette completamente i sensi, e cadde a terra come morta. — Una natura più vigorosa, che opponesse resistenza a tale abuso di forze, avrebbe provocato un'estrema violenza; non a caso Medicina aveva pronto lo stiletto. Ma poichè la vittima subiva il suo destino, senza ribellarvisi — “meglio è, disse lo snaturato, che ella viva affinchè, tornando alla culla del suo bambino, provi la sorpresa di trovarla vuota.„

Intanto il grido di Gabriello, che aveva destato l'allarme, costringeva il Seregnino ad affrettare la sua fuga. Costui, inteso il rumore di persona, che si moveva nella stanza attigua, stringendo ancora più fortemente la sua vittima, corse alla finestra (l'opposta a quella per cui era entrato) la spalancò, e, colla furia del ladro inseguito, s'ingegnò d'attaccare la scala di corda allo staggio maestro dell'impannata. — Ma l'imbarazzo produtto dagli oggetti derubati, la fretta di giungere a salvamento, l'ansia stessa e la paura d'essere sorpreso, rendevano lenta ed improvida l'azione delle sue mani. Costretto ad abbandonare alcune delle molte cose, ch'egli teneva, cedette involontariamente il capo della scala, prima d'averlo [258] bene assicurato alla finestra. La fune scivolò sul davanzale; la via di salvamento era perduta.

“Per la croce di Dio! — sclamò egli, sillabando la bestemmia e accompagnandola con un digrignar dei denti, ed uno sbuffo da disperato; — dovrò io morir qui sotto la stanga di questi villani?.„ E si dimenava come un ossesso, gestendo e sbracciandosi fuori della finestra per tentare di riprendere il capo della scala, oppure per trovare un ramo od altro, che gli offrisse uno scampo.

Tornato inutile ogni sforzo, deliberò di escire dalla parte per cui era entrato; e, benchè il suo carico fosse troppo greve per avventurarlo ad una simile discesa, benchè gli ordini del padrone lo impegnassero a non ritentare la stessa via, pensò che quando non v'ha di meglio, anche il mezzano partito diventa ottimo; e si risolse di tornare sui proprj passi.

Volgevasi ad eseguire la ritirata, quando uno strepito di pedate più distinte gli annunciò l'avvicinarsi d'alcuno. Il passo di Canziana parve al vile l'accorrere rapido e concitato di un drappello nemico. — Rimase per un momento immobile nel mezzo della camera; poi, quando sentì aprirsi la porta, non obedendo che alla sua paura, corse alla finestra opposta, salì sul davanzale; e, strettasi al petto la sua preda, si precipitò alla cieca.

Chi pochi giorni prima aveva salvato Gabriello da una malattia mortale, non volle che egli perisse ora tra le braccia di un sicario. La vittima e il suo assassino giunsero incolumi a terra.

L'altezza della finestra dal piano sottoposto era tale [259] da rendere pericolosa la discesa, massime per chi, ignorando la profondità e la natura del suolo, vi si lasciasse cadere, invece di spiccare un salto verso un punto fisso. — Infatti la scossa fu gravissima pel Seregnino. Appena cadde sul terreno, credette di dovervi rimanere; aveva la testa intronata, tutte le membra dolenti e le gambe inette a moversi. Ma il tramestío che si faceva sopra di lui, e la paura di essere colto e trattato a seconda de' suoi meriti, lo richiamarono dallo sbalordimento. Con qualche stento, e coll'ajuto delle braccia, si rialzò. E benchè si sentisse tronche le gambe, si diede a correre, come meglio glielo concedevano, finchè penetrò nel macchione d'alberi dicontro alla casetta, che era la posta fissata dallo stesso Medicina.

Costui non tardò a comparire. — Il regolare agitarsi dei rami e delle foglie segnava, entro la folta boscaglia, il passo di due uomini che camminavano verso una sola meta. Le indicazioni dell'esploratore erano state così precise, che ambedue allo stesso momento convennero nel luogo stabilito.

“Malannaggia, non sa far altro che pigolare questo pulcino!„ — diceva sottovoce Bergonzio, imitando sconciamente il vezzo di una donna, che tenta d'addormentare sulle braccia un bambino piangente.

“Sarà necessario, che tu parta subito. Questi belati potrebbero essere intesi; e....„

“Che debbo fare di questo malcreato, che stride come una gazza?„

“Gli hai forse fatto male?„

“Tutt'altro; il male fu solo per me; egli è disceso [260] come a cader sulle piume.„ E raccontò la storia della sua caduta. “Forse egli comincia ad ustolare la nutrice... Che gioja, padron mio!„

“Bisognerà che tu vi pensi„

“Io?... alla prima corona di mortella, che vedrò pendere da un uscio, entrerò; e se quest'amico si accontenta di dividere con me una fetta di lardo e un fiaschetto....

“Manco ciarle: appena è giorno fatto, e quando sarai lontano da qui almeno un pajo di miglia, busserai ad una porta, ed entrerai in qualche cascina. — Inventa una storiella da intenerire la prima massaja in cui t'incontri; ella troverà di che rimpinzare il tuo bambolo....„

“Due miglia!... le mie povere gambe, in quel volo, ne hanno fatto più di venti.„

“Una buona corsa scioglierà le membra. Vattene, e presto. Sai che io non sono uso a ripetere i miei comandi. — A mezzodì sarò a V...*, non cercar di più. Là udirai i miei ordini per dimani. Ricordati, che abbiamo fatto la più difficile parte della nostra bisogna. — Per Dio; guai a te, se la tua poltroneria ci facesse perdere il frutto di tante fatiche.„

Intanto che s'avviavano fuori del bosco, dal lato opposto alla casa d'Agnese, Bergonzio tornava sull'argomento, e con voce sommessa “scusate, diceva, una mia ultima parola; e poi me ne andrò dove meglio vi piace. Voi parlaste del frutto delle nostre fatiche: dove è questo frutto? Sta forse in questo cittolo piagnolone? È qui tutta la riconoscenza di aver corso tanti pericoli, e d'essere stato a un filo di rompermi due volte l'osso [261] del collo? Bel bottino da vero! Se fosse il figlio d'un re, pazienza; il riscatto sarebbe degno di lui. Ma costui è ben poca roba; e la madre sua non potrebbe ricomprarlo che a prezzo di lacrime e di svenimenti.... Moneta fuor di corso fra i pari nostri....„

“Tu cominci a ragionar troppo. Credo d'averti detto in altre occasioni, ed ora te lo ripeto per l'ultima volta, che io voglio da te mani pronte e lingua muta. — Fa a mio modo: non cercare il pelo nell'uovo; quando sarà il momento di spartire i provecci dei nostri affari, sarai contento. Se no....„ e troncò la frase con una sospensione di voce, che lasciava indovinare una minaccia.

Il Seregnino tacque, non già convinto o corretto dalle parole del suo padrone; ma perchè pensò d'aver saggiamente prevenuto ogni rovescio di fortuna e la stessa ingratitudine del suo padrone, raccogliendo furtivamente quanto aveva trovato di meglio nella camera d'Agnese. E già bruciava dalla voglia di schierare davanti a sè, a miglior luce e con animo riposato, i varj oggetti che componevano il suo bottino. Dietro a questo pensiero, egli si mostrò pronto ad obedire al suo padrone. Venuto il dì, e lontano dagli occhi di lui, avrebbe poi fatto a modo suo.

Medicina, sodisfatto dell'obedienza dello sgherro, lo congedò, accompagnandolo coll'occhio sulla via che conduceva a V..* Poi, dopo di aver ricapitolato le condizioni del vicino ritrovo, ritornò verso la casetta, pensando ch'era bene sorvegliarla; e studiando modo e mezzo di far pervenire ad Agnese la notizia che il ladro del suo bambino erasi diretto verso Milano. [262] Sperava con tal arte di togliere la madre dal suo nascondiglio, e di rimetterla nelle mani de' suoi nemici. — D'aggiunta poi, avrebbe cercato di diffundere il sospetto, che il rapimento fosse ideato ed eseguito per ordine del Conte di Virtù, in ossequio a quei pregiudizj, che la sua posizione e il suo nuovo stato sembravano in certo modo giustificare. — Questo era il secreto più profondo della sua infame azione.

[263]

CAPITOLO DECIMOSETTIMO

CXXIX.

Canziana, colpita fino allo stupore da quanto aveva veduto, a mala pena giungeva a scuotere la mente per farla giudice dei fatti, che si erano compiuti così vicino a lei. L'incognito, che sotto i suoi occhi saltava da una finestra, era, senz'altro, guidato da scelerate intenzioni. Ma a che mirassero, e per quanta parte potessero già chiamarsi un fatto, era un mistero. Chi poi avrebbe osato imaginare che colui attentasse alla vita di un bambino? Canziana non vi pensò punto; o se, nella rapida discussione di tante congetture più o meno strane, afferrò col pensiero una tale soluzione, non vi si arrestò che il tempo necessario per respingerla come cosa assurda ed impossibile. Agnese d'altronde non si staccava mai dalla culla del bambino; chi dunque poteva avvicinarvisi senza sfidare la sua vigilanza? — “Ma dov'è dessa? Dov'è il bambino? [264] E perchè entrambi sono esciti dalla stanza? perchè non si chiese di me? perchè tanta solitudine e tanto silenzio nel luogo di un delitto, se la vittima è sveglia e libera di sè?„

Se non che la buona donna, interrogando collo sguardo gli oggetti circostanti, per rispondere alle molte dimande che moveva a sè stessa, s'accorse che nella stanza erasi fatto uno strano tramestío. Alcuni oggetti erano tolti dal loro posto ordinario, o sparsi a caso; altri mancavano. Nell'affacciarsi alla finestra, spingendo lo sguardo in mezzo alle tenebre, scoperse un monile d'Agnese, dimenticato sul davanzale. Dietro ciò potè almeno rallegrarsi d'aver compreso che lo sconosciuto era un ladro. E la ragione le ripeteva che un ladro sarebbesi appagato del bottino, e che la lontananza d'Agnese in questa ipotesi diveniva un beneficio della providenza. In mezzo a tanto mistero, questa soluzione era la più logica e la più confortante. Rincorata alquanto, si pose con sollecitudine a rintracciare la sua padrona. Escì dalla camera, percorse il corridojo, ritornò su' suoi passi; la chiamò sommessamente, poi ad alta voce e con maggior insistenza. Discese la scaletta, e cercò la porta d'escita. Spinse leggermente le imposte, e le spalancò. L'uscio era costrutto in modo da poter essere aperto soltanto dalla parte interna della casa. Tale circostanza provava che alcuno non era entrato so prima altri non avesse schiuso l'ingresso. E chi mai se non Agnese poteva aver fatto ciò?

Canziana voleva chiamarsi più tranquilla, ma non lo era in fatto: perocchè una ragione di poco momento non bastava a giustificare la misteriosa assenza della [265] sua padrona. Appena ebbe schiusa la porta, ella rimase in una completa oscurità: ma un momento dopo, le parve di vedere disegnarsi in mezzo alla nebbia i contorni degli oggetti circostanti, debolmente rischiarati dai primi albori. — Discese quindi gli scaglioni della porta; e mise il piede sul piano erboso, che s'apriva davanti alla casetta, cercando il sentiero che guidava alla porta e alla abitazione dei vicini.

“Madonna, — chiese ella con una voce affannosa che accennava l'interna commozione, — Madonna, ove siete voi?„ Poi taceva un momento, aspettando una risposta. Ma tutto era silenzio. Guardò alla parte del casolare, ove abitavano i vicini, per rilevare se colà vi fosse qualche movimento. Ivi pure regnava la più perfetta quiete.

“Vergine santissima! — continuò ella a dire dando all'interjezione un accento ancora più desolato. — Che sarà mai? che mai può essere? Chi mi spiega questo arcano? Madonna! Agnese!„ — e ripeteva le chiamate con voce più forte e con raddoppiata insistenza; e intanto proseguiva il suo cammino sui passi dianzi tracciati dall'infelice madre.

Il ripetere delle chiamate scosse alcuno abituato a destarsi all'alba pei lavori di campagna. — Apertasi una finestra, si udì una voce rispondere alle inchieste di Canziana, dimandando alla sua volta, “che c'è? che è avvenuto?„

“È ciò che chiedo io pure, o Bastiano? — disse l'altra riconoscendo alla voce il suo interlocutore. — Dove è madonna? Avete inteso nulla? I vostri padroni dormono ancora?„

[266]

L'interrogato, sorpreso da tante dimande, e dalle stranissime circostanze che contro ogni abitudine lo risvegliavano sì bruscamente, invece di rispondere, rimbeccava le interrogazioni con altre interrogazioni. Il che non era del tutto un circolo vizioso: giacchè Canziana per questo mezzo raccoglieva pur troppo quanto era necessario a comporre una sinistra risposta.

“Nemmen qui? — soggiunse ella infatti con un tuono di voce che accennava un completo scoraggiamento. — Nemmen qui! ma dove sarà ella? dove dovrò cercarla, in nome di Dio?„

“Che volete, che dimandate?„ — insisteva Bastiano con una sollecitudine che riconfermava la perfetta ignoranza degli avvenimenti.

“Mio Dio, mio Dio! oh poveretta me!„

“Avete perduto qualche cosa?„

La semplicità di costui spezzava il cuore della povera donna.

“Scendete o Bastiano; affrettatevi per amor del cielo, — ripigliò essa con un accento di preghiera interrotto dai singulti. — Una grande, una irreparabile disgrazia ci ha colpito. Madonna e il suo bambino non sono più nella loro camera„.

“Ma come ciò? ma dite davvero? ma v'ingannate senz'altro„.

“Ah, pur troppo non mi sono ingannata!„. E qui espose con minor ordine, che non abbiam potuto far noi, ciò che aveva visto, e per quante e quali ragioni ella temesse una sciagura. — Quale poi fosse la sciagura temuta, non sapeva o non osava confessarlo a sè stessa.

[267]

“Bastiano, per carità, concludeva la buona donna, scendete, corriamo a rintracciarla; fate quest'opera buona, e fate presto. Dio ve ne terrà conto...„ L'infelice non seppe dir altro; il pianto le spezzò la parola.

L'agitarsi del famiglio e le grida di Canziana avevano scosso il sonno degli altri abitatori del casolare. Pochi minuti dopo, gli ospiti d'Agnese erano tutti in piedi, e scendevano a ricercare la donna, più atterriti dall'incompleto annuncio di una disgrazia, che preparati a decidere sulla natura e sulla gravezza della medesima.

E infatti Canziana non era in grado di rispondere ad altre inchieste. Dopo l'ingenua negativa di Bastiano, ella era colpita da una desolazione, che le toglieva la parola e le forze. Quindi alle precipitate dimande dei vicini che, con una pietà quanto dolce altretanto imperiosa, chiedevano d'essere informati dell'accaduto, ella non sapeva rispondere che parole tronche e quasi vuote di senso.

Era una scena straziante. Già in taluno nasceva il dubio che Canziana avesse perduto il senno. Il sospetto non era temerario: la minaccia sarebbe divenuta un fatto se si fosse prolungata ancora la dolorosa tensione in cui si andava logorando la mente di lei, avida di conoscere il vero, inetta a cercarlo e ad affrontarlo.

Intanto che quella buona gente, per provedere alla prima e più positiva disgrazia, cercava di ravviare le parole e le forze di Canziana, il famiglio per caso ruppe la crudele perplessità, scoprendo alla debole luce mattutina, un non so che di nuovo e d'insolito, che [268] sembrava il contorno di un corpo feminile. — Dal dubio alla certezza non passò che il brevissimo tempo necessario a correre sul posto. — E, infatti, appena il buon uomo vi arrivò, lo s'udì gridare a quanta voce “eccola... eccola... è qui... correte„.

Tutti in un momento lo raggiunsero, e riconobbero Agnese. — Ma il primo atto di pietà verso l'infelice si esaurì in una muta contemplazione, come se ognuno, avanti di stendere una mano soccorritrice, volesse conoscere se doveva rallegrarsi o condolersi della fatta scoperta. Agnese pareva morta. L'abbandono completo delle sue membra, lo spasimo dei muscoli della faccia, che mostravano le tracce di una lotta suprema, il pallore mortale che le copriva la fronte, le gote e il seno, da cui il sofferto oltraggio aveva rimosso i lini; tutto infine annunciava una violenza, contro cui la volontà e le forze d'Agnese avevano opposta un'inutile difesa. Il nodo sfilacciato d'un nastro rosso, che le sosteneva sul petto un medaglione, parve agli occhi dei circostanti una striscia di sangue. — Il timore divenne in quel punto certezza; l'angoscia si cangiò in raccapriccio. Nessuno aveva il coraggio di verificare una tremenda realtà: tutti subivano in silenzio la scossa di una disgrazia atroce ed irreparabile.

Ma Canziana, che al pensiero d'una sventura indefinita era muta e fuor di sè, ricuperò le forze davanti ad un mal certo ed al cospetto della sua cara padrona. Accorse quindi sollecita e ringiovinita a raccogliere intorno a quel corpo le vesti scomposte, prima ancora di sapere se esse coprivano una creatura viva. Ma curvandosi sul corpo esanime, per compiere [269] il pietoso officio, e ponendole una mano sul petto, vi sorprese un debole anelito di vita, tradutto in un battere lento e quasi impercettibile del cuore.

“È viva, sclamò la buona donna, è viva! Il cuore batte.... Oh Signor benedetto!„ — In dir ciò levossi, ed inghiottendo le inutili aspirazioni, e troncando ogni atto di pietà inoperosa, sollecitò l'ajuto dei vicini per trasportare la svenuta nella sua camera, e prestarle pronto soccorso.

Pochi istanti dopo, Agnese rinvenne, aperse gli occhi, riconobbe Canziana, e, colla ingenua inconsapevolezza di chi si risveglia da un profondo sonno, chiese agli astanti la ragione di quell'insolite cure.

Canziana, dubiosa se dovesse prima rispondere od interrogare, s'affrettò a venir in ajuto dell'indebolita memoria d'Agnese, sperando di poter sciogliere più presto altri premurosi sospetti.

Le raccontò pertanto come e su quali indizii ella andasse in cerca di lei, come e per mezzo di chi giungesse a scoprirla. Il resto era meglio indovinarlo che chiederlo: prova cotesta, che ella nutriva dei dubj e che non aveva cuore di sollevare nuove questioni per tema di recar danno alla già troppo grave situazione di Agnese. Ma d'altra parte, poco dopo, temeva ancora più forte che una prolungata ignoranza dei fatti potesse cagionarne uno sviluppo men fortunato. Mentre oscillava fra gli opposti partiti, ed una o due volte aveva iniziato la fatale inchiesta da cui poteva escire la consolazione sua o la sentenza d'entrambi, Agnese medesima troncò ogni incertezza, volgendosi a Canziana per chiederle conto del suo Gabriello. Nulla [270] d'inaspettato in ciò; eppure tale parola fu un colpo terribile per la buona donna. A chi mai poteva ella rivolgere ora le sue interrogazioni, se la madre non sapeva rispondervi? Conveniva ingannare la pietà di Agnese, consigliandola a rimettere a miglior momento lo sfogo della sua tenerezza, o non doveva piuttosto farsi sincera narratrice dei fatti, a rischio di ripiantarle nel cuore il coltello di un altra sventura?

In tanta incertezza una pietà più oculata e più tenera, condannando ogni indugio, reclamò altamente che si provedesse col maggior zelo, e sùbito, alla sorte di una creatura egualmente cara. Già il suo silenzio aveva manifestato l'imbarazzo; questo metteva la madre sulle tracce del vero. Prevalse quindi il partito di narrarle tutto prima che ella tutto comprendesse da sè.

“Madonna, — rispose Canziana risoluta di dire il vero, ma peritosa nello scegliere le parole — il vostro bambino non è qui. No, non vi spaventate: raccogliete bene la vostra memoria: non l'avete forse portato con voi al momento d'escire dalla camera?„

L'affetto di madre, messo a così dura prova, reintegrò i sensi d'Agnese, e moltiplicò le sue forze, aggiungendovi l'energia rapida e convulsa del terrore. Le guance, poco prima smunte ed infossate, si coprirono di un rossore intenso; l'occhio si spalancò non a cercar luce, ma a sprigionare un lampo quasi feroce. Si levò ella risolutamente a sedere sul letto; e, con un tuono di voce ed un atto della mano che esprimevano comando, disse: “voglio vedere mio figlio.„

“Lo vedrete, madonna, lo vedrete: ma, per la salute di lui e per la vostra, tranquillatevi; procurate [271] di ridurvi alla memoria il momento in cui siete escita da questa camera; per far ciò vi abbisogna un po' di calma. Suvvia: siate buona.„

Qui Canziana, tenendo una strada più lunga, ed usando le parole le più attenuanti, cercò di condurre la sua padrona a riconoscere il vero stato delle cose, per aver lume e trovar mezzi a provedere.

Finchè Agnese credette che la governante, mossa da un sentimento di soverchia pietà, la consigliasse soltanto a protrarre ad altro momento la consolazione di rivedere il suo bambino, ella potè seppellire in sè i sospetti, accagionandone la mente indebolita e la crisi sofferta. Ma quando, dopo un lungo diverbio, riempiuti i vuoti della memoria e rannodato il filo interrotto delle impressioni, ricordò lo spettro orribile che vagava nella sua camera accanto alla cuna del suo bambino, per poco non cadde morta. In quel campo di terrori indeterminati, la ragione, non trovando il fatto suo, andava smarrita. L'infelice non attese altre dichiarazioni, non si arrestò a far nuove inchieste. Forse il pensiero che la sua mente si faceva di bel nuovo torbida, divenne a questo punto la tavola di salute alla quale fidò l'ultima sua speranza. Si sforzò d'accomodar la ragione al partito di negar tutto. Simile a chi sogna cose orribili ed è consapevole di sognare, ella tentò di sciogliere l'incanto, che la opprimeva, combattendone coll'incredulità ogni apparenza. La mente non reggeva a tanto; chiamò in ajuto le forze del corpo. Levatasi bruscamente, colle due mani spartiva sulla fronte i capelli che gli facevano ombra; si stropicciò gli occhi come se volesse invitarli a veder [272] meglio e a scorgere il vero; e fe' cenno ai vicini, che sgombrassero. Poi, sorda alla voce della compagna che colle parole più affettuose la consigliava a star quieta e a confidare nelle cure altrui, si precipitò dal letto, e corse alla culla del bambino, sperando di trovar colà la prova certa del suo inganno.

È inutile dire che la debole violenza fattale da Canziana non giovò punto. Agnese, ingagliardita dal suo stesso delirio, si precipitò sopra il letticiuolo, e quando lo vide deserto, colle mani protese e tremanti come quelle di un cieco, palpeggiava le coltri sperando di chiamare menzognera la vista. L'ansia di quel momento era estrema. La madre si abbandonava a quella prova con una fede vivissima; quella doveva essere l'ultima e la più fatale sua delusione. Gli astanti, sorpresi e soverchiati da tanti affetti, aspettavano muti ed immobili che Dio operasse un miracolo.

E, in vero, fu un miracolo se Agnese sopravisse a quel colpo, e se la sua ragione, soprafatta da tanto strazio, non cedette all'incalzante delirio fino a smarrire la coscienza di sè. La sventurata rimase per un istante immobile e ritta della persona, colle braccia rigide e le palme svolte ed avvicinate, come se mostrasse ai circostanti quel posto manomesso, profanato, ancor tiepido del calore vitale dell'infelice sua creatura. Portava il capo rivolto al cielo, il collo un po' teso in avanti, e leggermente soverchiato dalle spalle. Rassomigliava alla Niobe impietrita dal dolore, quale ce la ritrasse lo scalpello greco. Le sue carni erano bianche come le vesti; solo a dar vita a quel freddo simulacro, le piovevano sulle spalle e sul petto [273] le treccie brune ravvivate da un serpeggiare molle ed umido, che obediva ad ogni piega del corpo e ad ogni alito d'aria. — E come per la sciagurata rivale di Latona il marmo sudò lacrime,[72] così la fronte di costei rivolta al cielo e ravvivata da due grand'occhi, porgeva a Dio l'unico tributo degli infelici, un copiosissimo pianto. — Sarete voi meno pietose, o leggitrici, perchè la poveretta, davanti a sì crudele spettacolo, non perdette il senno? Perchè, raccolta la ragione dentro i confini del vero, pesò, discusse, riconobbe tutta l'estensione e la profondità del suo male? Ah no! la demenza sarebbe stata pietosa per l'infelicissima madre. — Ella doveva ritornare in sè, perchè gli errori della fantasia non avrebbero mai saputo creare un'imagine più tetra di quella, che ora le veniva presentata dai fatti. Quanto aveva ella sognato nel delirio era troppo al di sotto del vero.

CXXX.

Altrove si è parlato di una madre che vide il proprio bambino cadere d'improviso in gravissimo pericolo della vita. La natura in quell'istante non chiuse il cuore di lei nella sterile meditazione de' suoi mali, ma lo scosse, e lo riaccese di quell'istinto, che centuplica le forze, e rende le braccia di una povera donna atte a far prodigii. Se Agnese avesse dovuto disputare ad una fiera, o ad un sicario, il possesso della sua creatura, non avrebbe pianto, ma operato. Se [274] la parola non bastava a piegar l'animo dell'assassino, ella avrebbe fatto arma delle sue mani e scudo del suo petto. Contro ogni oltraggio, di cui fosse testimonio, le rimaneva sempre la voce per chiamar soccorso, l'occhio per spiare i passi dell'assassino. Alla peggio, poteva correre la medesima sorte della vittima, dividere con essa i pericoli, gli oltraggi, la morte. — Oh allora le parve che il morire vicino al suo diletto, e il morire per lui, fosse una dolcezza privilegiata! Che più? avrebbe quasi preferito stringersi al seno il suo bambino esanime, che non saperlo vivo tra le braccia di uno sconosciuto. — Il poveretto, lontano da sua madre e in balía di un malevolo, sarebbe morto egualmente. Almanco nel primo caso le restava il conforto di essere con lui fino all'ultimo istante, di prodigargli quelle cure, che lasciano nella memoria dei superstiti una soavità mesta e consolatrice. Rammentava, a prova di ciò, le angosce sofferte nella recente sua malattia. Quella lunga serie di notti insonni, di affannose sollecitudini, di passaggiere illusioni, assumevano l'aspetto di un dolore soave, di un male divenuto quasi invidiabile. Varcava col pensiero l'ultimo passo, che minacciava di separarla per sempre da lui; e ancora vi trovava qualche conforto. Poteva accarezzare, stringere, baciare la fredda salma del suo diletto; poteva piangere su di essa e vicino ad essa. La carità non aveva esaurito tutti i suoi tesori; essa serbava ancora altri affetti, altre cure per coronare i miracoli dell'amore materno. Vegliava la spoglia inanimata, l'ornava della candida vesta, la seguiva al luogo dell'eterna quiete. La terra, ove dormono le sue ceneri, consacrata [275] da quel caro deposito, sarebbe divenuta la meta giornaliera de' suoi passi; quella terra, fecondata dalle sue lacrime, doveva convertirsi in una bella ajuola di fiori. Nelle rose cresciute su quella tomba ella avrebbe ravvisato le sembianze del suo angelo; avrebbe gustato le gioje delle sue carezze, aspirando avidamente i profumi esalati da quella sacra zolla. — Le tombe non sono mute, che per le menti assordate dai clamori mondani. La fede, che per le creature elette è necessità, non legge o proposito, susurra nel cuore della derelitta parole sì dolci, che labro umano non pronunciò mai. — “E perchè piangi, o madre mia? — le dice una voce d'angelo — forse che, deponendo sì presto il carico della vita, fui meno fortunato di te: di te che ancora langui nell'esilio? O mia buona madre, sarei io beato in paradiso, se non avessi la certezza che un giorno t'avrò meco?„

Sogliono le anime addolorate sforzarsi di pervenire all'esatta conoscenza della propria situazione, col mezzo dei confronti. Il male altrui, ed anche il male nostro, provato in altri tempi e in altre circostanze, serve di misura ai dolori attuali.

Ma dove si pareggiano interessi ed affetti, il giudizio umano assai spesso va errato; l'urgenza dei mali presenti ne conduce di leggieri a crederci destinati a provare la fatale supremazia della sventura. Così l'infelice, anche quando non lo è compiutamente, pensa, opera e soffre, come se il tristissimo privilegio di un dolore supremo spettasse a lui solo.

Tal era d'Agnese. Ella tornava colla memoria ai mali testè esperimentati per convincersi, che la sua [276] disgrazia presente era senza confronto la più grave di tutte. Rammentava la dolcezza delle cure, che ella poteva prestare poco prima al suo bambino moribondo, per concludere che la sua sorte era ineffabilmente peggiore. — Il cuore, industrioso nel torturarsi, non sapeva darsi pace, pensando che il suo bambino (pur sano e salvo), strappato al seno materno, era costretto a chiedere vita ed alimento ad una carità fittizia o mercenaria. — Provava in ciò il raccapriccio, che un'anima pia sente al vedere un oggetto sacro, manomesso dal ladro sacrilego. — Al terrore di una violenza subitanea, succedeva in lei il ribrezzo delle cure menzognere, che una mano venduta avrebbe prestato all'innocente per l'unico scopo di avvantaggiare il bottino. Le pareva di sentire i lagni della sua creatura ritrosa ad accogliere le sollecitudini di persona sconosciuta. Quei pianti le straziavano l'anima; e dietro essi le pareva d'indovinare la mal contenuta iracondia altrui. Forse ai vagiti dell'innocente rispondeva la bestemmia; alle tenui sue proteste si contraponevano atti violenti e brutali!

Da questi pensieri si lanciava di colpo in un campo d'altri ancora più oscuri, più indeterminati, e non meno dolorosi sospetti. — “Chi mai può avere interesse a commettere tale delitto, chiedeva ella a sè stessa? Ho io dei nemici? e chi sono essi? e con quale scopo entrarono nella mia casa per impossessarsi di un bambino? Come mai dal male fatto ad una povera donna si attendeva quel tanto di bene che basta a spingere un animo feroce a commettere un delitto?„

Qui, ci è forza il dirlo, la mente d'Agnese era travolta [277] in un bujo, in mezzo al quale la ragione si sarebbe di buon grado rassegnata a non riconoscere giammai il vero. — Ma ciò che ella non voleva vedere o scoprire, le si presentava da sè, talora franco e sonoro come ravviso di un amico, tal altra incerto e sommesso come la mezza parola del calunniatore. Ah! la fiera battaglia, che si accese allora nell'animo suo! Tanto fiera, che ai tristi avvisi della ragione ed alla inesorabile evidenza dei fatti, preferì contraporre un'incredulità priva di senso, ma inespugnabile ed assoluta. — Erano sì orribili i sospetti che, per tagliar corto, accusò sè stessa di demenza.

CXXXI.

Questi rivolgimenti dell'animo, non accompagnati da alcuna parola, erano scritti a chiare note sul suo volto; il quale, dopo aver palesato con rapido mutar di colore e di espressione la vicenda interna, finì per contrarre quella immobilità, che è l'ultimo e più terribile sintomo di un'anima soggiogata dal dolore.

Meno commossa Canziana, e quindi più padrona di sè, studiava invece di scoprire la via migliore per precorrere i fatti, e dirigerli a men fatale risultamento. Chiunque fosse il ribaldo, e qualunque lo scopo del suo delitto, saggia cosa era il tentare di raggiungerlo. L'assassino non poteva essere lontano. — Quanto ai mezzi per ispogliarlo della sua preda, ella non ne vedeva che due: la forza o l'oro; questo preferiva a quella. — Passò in rassegna le persone a cui avrebbe [278] potuto affidare una missione tanto delicata. Il campo della scelta era ristretto; le persone abili a ciò erano due soltanto; ma le strade a tentarsi parecchie. A questo punto ella rimaneva interdetta.

Se non che, lo stato di Agnese la costringeva a scuotere l'inerzia comune, onde l'animo della addolorata non soccumbesse sotto il peso della disperazione. — Le frasi consuete, con cui un'anima pietosa tenta racconsolare gli addolorati, non avevano maggiore effetto che la rugiada sur un incendio. — D'altronde, a quali speranze poteva ella richiamare il cuore d'Agnese? doveva inaugurare le sue consolazioni coll'invitarla a piegarsi rassegnata alla mala fortuna, come se fosse perduta ogni fiducia nella potenza di Dio?

Tornò la vita, e con essa il moto e la parola, dove poco prima era silenzio ed inerzia, non appena Canziana propose di spedire il vicino e Bastiano sulle traccie dello scelerato. — Incerta cosa era il poterlo raggiungere, più incerta ancora la probabilità d'indurlo ad abbandonare od a cedere la preda. Ma un disegno qualunque, benchè vago, bastò a rannodare l'ultimo filo di speranza. A tale proposito la madre, rotto il desolato silenzio, trovò parole per animare la pietà altrui, accaparrandola colle proteste di una gratitudine senza confine.

L'amore materno, svolto in una serie di atti e di parole solenni e commoventi, cangiò la preghiera in comando, l'audacia in prudenza, il tentativo in necessità. — Lo stesso Bastiano trovò gli spiriti necessarii a secondare l'impresa del compagno. Il quale, intascato quant'oro si potè raccogliere, e quant'armi si [279] celavano sotto le gabbanelle, s'avviò per escire, chiedendo prima a sè stesso, poi ai circostanti, dove era bene rivolgersi.

Nuovi dubii avrebbero rallentato le buone disposizioni di quei valentuomini, se in quel punto non fosse capitato un contadinello, il quale, tutto ansante dalla corsa e sbigottito nel trovarsi in mezzo a tanta gente, trasse di tasca una medaglia attaccata ad un nastro rosso, e raccontò come l'avesse allora allora trovata e raccolta sul sentiero del bosco, sulla direzione di V...*

La medaglia passò dalle mani del contadino a quelle di Canziana, la quale, senza dir parola, la rimise ad Agnese che tosto la riconobbe. Non fu bisogno di discutere più a lungo sulla via da scegliersi: quella scoperta l'additava chiaramente. — La povera madre si struggeva di tenerezza contemplando e baciando la cara reliquia, e già i due campioni camminavano o, per dir meglio, volavano all'ardita impresa.

Assai poco era a sperarsi da tanta sollecitudine. Dal momento dell'invasione a quello in cui ora ci troviamo, era passato il tempo necessario a disperdere ogni traccia del delitto. Eppure, non vi fu mai rimedio che con maggior prontezza restituisse la vita ad un moribondo. — Per esso l'animo d'Agnese si riscosse quanto era necessario ad aver forza di sopportare i nuovi mali, e di attendere un men fatale scioglimento della catastrofe.

Infelicissima madre! Quando vide che alcuno si dava moto per lei, ringraziò Dio, che le infundeva vita e speranza. I suoi occhi si riaccesero, il suo labro articolò qualche parola, il cuor suo tornò a palpitare. La [280] statua del dolore discese dal suo piedestallo per divenire l'imagine viva della carità, che si strugge in preghiere, in affetti. Ottima Agnese! non appena il potè fare inosservata, gettò le braccia al collo della fida compagna, e su quel seno, asilo consueto della sua fronte agitata, ed esperto a tante e ben diverse lacrime, trovò un momento di requie. Allora Canziana non meditò una parola di conforto; nè Agnese dimandò all'amica più che il ricambio di quella stretta, che le faceva credere d'abbracciare sua madre. In quel silenzio e in quella stretta, ambedue si erano comprese perfettamente. Nei mali dell'anima, come in quelli del corpo, una diagnosi felice è il certo indirizzo alla scoperta del rimedio. Quell'amplesso facilitò ad Agnese il pianto; questo le restituì l'uso della parola; e lo spontaneo sfogo degli affetti era già un dolce conforto.

“Pensa a quanto io ho sofferto, o amica, — disse Agnese con voce commossa; — pensa che dal giorno in cui ho perduto mio padre, la mia vita è un tessuto di disgrazie sempre crescenti.„

“Non lo dite a me, madonna, non lo dite a me, che ho tutto veduto e compreso...„

“Ma forse non avrai ancora compreso che i miei dolori si accumulano oggi in un solo; e che questo nodo di mali è tremendo, e diviene insopportabile.„

Canziana tacque; ma non perchè ignorasse il senso di queste parole.

“Ascoltami, ripigliò Agnese; ora ti voglio dir tutto. Quanto io aveva nel cuore non potè trovar sempre sfogo sul labro. I miei sorrisi erano veritiere prove di gioja; come i sospiri furono sempre l'espressione [281] del mio dolore. Ma i lunghi silenzii, e le veglie inavvertite, velano una storia a te ignota. Ascoltami dunque, te ne prego. — Io era giunta fino ad oggi, pensando che Dio m'accompagnasse nel portare la mia croce. Tu sai che l'incontro di un uomo amato da mio padre ridonò qualche valore alla mia esistenza. Io mi sono abbandonata a lui, pensando che nel ravvicinamento delle nostre esistenze vi fosse qualcosa di sovrumano. In seguito, quando una vicenda misteriosa, in onta a tanti giuramenti, allontanò da me quell'uomo, cominciai a dubitare di me; ma non potei ancora convincermi, che la colpa altrui divenisse colpa mia, o se pur qualche volta provai rimorso, la vista del bambino, di cui Dio mi aveva fatto dono, mi rinfrancò. Non credetti possibile che un angelo potesse vivere e crescere nel seno di una donna maledetta. Credetti d'aver scoperto in questi fatti il secreto della mia espiazione. La mia vita non era più mia, ma della creatura che il cielo m'aveva dato. Io non poteva piangere se egli sorrideva; io non doveva maledire alla mia esistenza, se la sua diveniva ogni giorno più florida e più bella.„

Fin qui Agnese aveva parlato con un calore insolito; e, trascinata dall'entusiasmo degli affetti, obliava per un istante la realtà. Ma il gioco non poteva durare a lungo. Canziana, meravigliata nel vedere tanto cangiamento, era incerta se dovesse rallegrarsi o dolersi di quelle parole. Nulla di nuovo in quanto le veniva detto; ma tutto ciò non era che l'esordio di una impreveduta rivelazione. — Aveva la buona donna l'occhio nell'occhio d'Agnese; accompagnava leggermente [282] col capo il ritmo sonoro delle parole, che escivano come inspirate dal labro di lei. A quando a quando, senza interromperla, v'intrometteva sommessamente un motto d'affermazione. Ma poichè la narratrice, con un calore sempre crescente, era giunta alle ultime parole, comprese che le sue forze erano ormai esauste; quindi, aprendo le braccia quasi accorresse in suo ajuto, raccolse di nuovo e strinse al suo seno il capo della infelice; le baciò affettuosamente i capelli; le prodigò mille carezze. In quella ripetuta testimonianza d'affetto ritrovò Agnese la forza necessaria a ripigliare il discorso: e quando si rilevò dalla sua positura, gli occhi e il volto avevano deposto la fittizia sicurezza, e rivelavano un completo scoramento. — Con altro tuono di voce, e con ben diversa espressione, la poveretta ripigliò la parola:

“Ora, tutto è mutato per me. L'ultima delle mie disgrazie non è soltanto la più grande, è il compendio e l'inasprimento delle altre. La doppia sventura della perdita di mio padre e dell'abbandono di colui riceve ora il suggello dal rapimento della mia creatura. — Dapprima piansero la figlia, e l'amante; ora sono le lacrime di una madre, che si debbono versare; e queste non avranno consolazione. Se ascoltassi una voce, ahi! troppo crudele, della mia coscienza, dovrei dire, che oggi mi vien negato il diritto della maternità, e che la mia speranza nel perdono di Dio si è illanguidita, poichè mi fu tolto l'angelo intercessore. — Dimmi, amica, che ciò non è possibile; che questo è un delirio; che io sono disennata.„ — E le parole d'Agnese finivano ancora nel pianto.

[283]

Canziana, troppo commossa per saper trovare le parole acconcie a consolarla, intercalava il discorso con monosillabi tronchi, che non avevano altro valore fuor quello d'essere pronunciati con un tuono affannoso, sintomo infallibile della pietà la più sincera.

“No, mia diletta, non dite così. — Per l'amor di Dio, acquetatevi.... Non fate ingiuria alla misericordia del Signore.... Egli non abbandona nessuno; nemmanco i più tristi peccatori. — Suvvia, siate buona.... preghiamo e speriamo....„

“Se Dio permise che una povera creatura venisse strappata dal seno materno, soggiunse Agnese, dovrò io supporre che la Providenza abbia scordato l'innocente? ma non è più saggia cosa il credere, che la giustizia divina ha voluto punire la colpevole?„

“No, no: per l'amor di Dio, per l'anima vostra, non indagate i consigli del Signore. — Esso opera per noi, anche quando apparentemente sta contro di noi. È un peccato cotesto vostro dubio. Cercate di dileguarlo. — Uniamoci per pregare Dio, e le anime care che abbiamo lassù.„

“Oh sì, pregherò i miei genitori„, disse Agnese, sempre, ma diversamente commossa.

“Il Signore, loro mercè, guiderà i passi dei nostri amici. Egli toccherà il cuore di chi ne vuol male: a Lui nulla è impossibile.„

Il tratto più caratteristico di queste parole era l'associarsi di Canziana ai dolori della sua padrona, e il volerne la sua parte. Non isfuggiva ad Agnese la squisitezza di questa forma di linguaggio; e si compiaceva di aver compagna nel dolore e nella speranza [284] un'anima buona, la cui vita illibata doveva rendere grate a Dio le comuni preghiere.

“Canziana, prega anche tu.„

“Sì, io pregherò con voi. Iddio legge nel mio cuore, e vede che io gli offro la mia vita perchè voi siate consolata.„

Le due donne, abbracciate insieme, volgevano lo sguardo al cielo; ed inalzavano a Dio la mente ed il cuore. Il volto di Agnese, irradiato dalla luce celeste della fede, si era fatto ancora più bello. I suoi occhi grandi e splendenti più dell'usato, riflettevano i puri raggi del mattino, cui erano rivolti con una languidezza piena d'affetto. Due lacrime pendevano dalle sue ciglia, trasparenti come stille d'acqua che posano su un fiore, e vi attestano gli oltraggi della procella. La bocca lievemente socchiusa, quasi fosse pronta a parlare, non labreggiava parola: la preghiera era tutta mentale. Le chiome disciolte, aggiungevano una splendida cornice alla beltà addolorata, piovendole con leggiadria sul collo e sulle spalle. Le braccia aveva strette al seno, per raccogliervi i lini malassettati, e teneva le mani giunte in atto d'orazione. — La creduta colpevole era il ritratto vivo di una di quelle sante, che l'Angelico soltanto seppe dipingere, poichè le vide cogli occhi della fede.

Un'eguale pietà rendeva ancora più veneranda la precoce canizie di Canziana. Sparirono le rughe dal suo volto; l'anima ringiovinita dalla preghiera e dalla speranza, s'effundeva sul suo aspetto, e s'imprimeva in ogni suo moto.

La preghiera fu breve, appunto perchè fervidissima. [285] Può il cuore umano toccare il cielo; ma non sa librarsi lungamente nelle regioni infinite dell'eterna luce. — L'uomo vede Iddio; come il suo occhio, trascorrendo l'orizzonte, fissa per un brevissimo istante il sole.

CXXXII.

Erano trascorse due ore dalla partenza dei messi, e non si era ricevuta alcuna notizia di loro. Canziana, nullameno, era piena di speranza; Agnese, in seguito al colloquio che abbiamo riferito, aveva cessato dal disperare. Dopo la preghiera, il suo cuore era in grado di raccogliere e valutare quelle poche probabilità di buon successo, che le rimanevano ancora. Teneva conto dello zelo e dell'accortezza del suo vicino; faceva assegnamento sull'importanza degli oggetti che si offrivano in riscatto del prigioniero. Non le pareva possibile che vi fosse ne' suoi nemici altro interesse fuor quello di un turpe lucro. — “Se Dio guida i nostri amici sui loro passi, diceva ella, se permette che gli sciagurati siano raggiunti, la vittoria è nostra. E ciò sarà; perchè Dio è infinitamente buono!„

Ricordava, che nel fervore della preghiera ella aveva offerto al Signore la vita del suo bambino; e dalla calma soave, che dopo quella orazione le era discesa nel cuore, osava concludere che Dio avrebbe gradita l'offerta, ma non accettato il dono. Le tornava alla mente come Abramo, pronto ad immolare sull'altar del Signore l'unico suo figlio, si rendesse caro a Lui. Avrebbe [286] voluto possedere la docilità e la rassegnazione del santo vecchio, per farsi degna dello stesso beneficio. E pure il suo cuore, sebbene conoscesse di non potere vantare tanta virtù, non si stimava del tutto immeritevole della grazia divina. La confidenza rinata pigliava il carattere di buon presentimento.

Passò un'altra ora a questo modo. — Il sole, surto libero e splendente da un letto di nebbia frutto della stagione, vibrava i raggi tiepidi più dell'usato; sembrava che, prima di cedere i suoi diritti all'incalzante inverno, volesse riguardare un'altra volta amorosamente gli ultimi frutti dei campi, e dar l'addio al creato. — Il placido aspetto della natura, che s'apparecchiava al riposo, induceva nell'animo delle nostre afflitte un non so che di confortevole. — Agnese aveva trascorse tutte quante le eventualità fortunate, discutendole ad una ad una colla compagna. Questa, agitandosi nell'immensità del possibile, riesciva a rannodare i fili delle soluzioni più felici onde giustificare tante lentezze, e tener viva la speranza della sua padrona. — Nell'ozio di quella dolorosa aspettativa, quando le parole cominciavano a venir meno, lo spirito di Agnese con spontanea e perdonabile superstizione chiedeva agli oggetti materiali, che le stavano intorno, un responso a' suoi dubii; e come in quel dì ogni cosa era calma e lieta, così tutto pareva ripeterle: abbi fiducia. Ma pure non ne aveva quanta bastasse a renderla rassegnata al lento correre delle ore; mentre, per altra parte, desiderava che elleno non scorressero mai, poichè ogni minuto spegneva una piccola probabilità. — Per porre freno a questi contrasti, ricorreva ad un artificio quanto [287] puerile altretanto spontaneo. Imponevasi la legge di sospendere le ansietà, di aspettare lo scioglimento dei suoi dubii, da questo e da quel caso del tutto fortuito. “Ancora per poco, ella diceva tra sè e sè, finchè il sole giungerà qui co' suoi raggi, finchè quel ragno avrà steso il suo filo sul pergolo.„ E con tale artificio cercava di ingannare sè stessa, e fino ad un certo punto vi riesciva.

Se non che, quel medesimo istinto, che doveva risvegliare nel bambino il desiderio ed il bisogno della madre, faceva in questa rivivere l'assopita necessità di stringere al petto la sua creatura. — Le sembrava di udire i vagiti del bambino che dimandava alimento. Al pianto sommesso e lamentevole, succedevano strida strazianti; vedeva il volto di lui, già roseo, sorridente, farsi torbido, rubicondo, quasi soffocato dall'inutile pianto. Le sue gote si coprivano di lacrime; i vermigli labrucci boccheggiavano convulsamente, ingojando le lacrime e i singhiozzi.

A un quadro così straziante, invano la ragione artificiosamente rassegnata tentava opporre indugi e pazienza. Quelle strida echeggiavano involontariamente nell'anima d'Agnese, dappoichè la natura cangiava in ispasimo quella pienezza di sangue e quel rigoglio di vita, che doveano essere sangue e vita d'un altra creatura. — Martirio di questo genere potrà essere compreso soltanto da chi fu madre.

Non convinti d'avere compiuta la dipintura della scena che ci sta davanti, noi ci affrettiamo alla fine. — Chi ha posto un po' d'affetto nella nostra eroina, deve averci compreso; chi ci ha compreso, non avrà bisogno [288] d'altro eccitamento per far omaggio della meritata pietà alla infelicissima donna. Coloro, che avendo irrigidite le fibre del cuore, negano ogni culto alla sventura, coloro che non videro o non si curarono mai di vedere cose tristi, coloro infine, a cui la pietà fa paura, non gradiranno questi piagnistei. Piacerà ad essi il poter dire che questi fatti sono fole da romanzo, perchè allora è lecito il non sentirne pietà. — Così fa l'avaro; ei non dice di voler negare soccorso all'indigente, ma non discende mai a cercarlo, e se l'incontra, finge di non vederlo, e se lo vede, lo disconosce.

Alla sollecita e fervida pietà delle donne, alla tenerezza delle madri e delle spose, non sarà raccomandata invano la nostra eroina. Elleno sapranno misurare la profondità della sua ferita, e indovinarne tutti i dolori, che nessuna penna saprebbe ritrarre fedelmente. E se qualche ciglio si è fatto severo nel leggere sulle pagine precedenti la storia dell'amante felice, esso ora diverrà più indulgente leggendo quella della sventuratissima madre.

CXXXIII.

Era oltre mezzodì: il sole aveva intiepidita l'aria e smunto gli ultimi profumi dalle erbe e dai fiori del tardo autunno. — L'allodola morosa attraversava l'aria stridendo allegramente, e scendeva di quando in quando nei solchi, a cercarvi i semi di panicastrella e di gittone. I contadini, interrotto per breve momento il lavoro, sedevano [289] a riposo sul ciglio delle siepi, ai raggi solari, e, vuotata in un istante la povera scodella, ringraziavano Chi la dava loro, cantando a tutta gola. Il severo reggitore intanto apparecchiava il cómpito del pomeriggio.

Oh quanto dovevano le nostre donne invidiare una povertà così felice! Elleno, che solevano consacrare al lavoro ed alla parsimonia del povero una pietà così larga e generosa! Perchè il pane dato al famelico non tornava al suo oblatore, sotto la foggia di una parola consolante? Colà si rideva: qui una disperazione rassegnata ed inerte agghiacciava ogni sorgente della vita.

Ad un tratto, uno strepito lontano scosse la meno assorta governante. La terra molle non rispondeva alle pedate; nè si poteva discernere se giungessero uomini o cavalli; ma le foglie aride, che ricoprivano il sentiero, segnalavano, con un insolito fruscio, l'avvicinarsi di più individui. — Alla prima, Canziana credette che fossero i contadini di ritorno dal campo; ma l'ora non era la consueta; lo strepito annunciava tutt'altro. — Bastò intanto sì poca cosa a rompere la funesta monotonia, che opprimeva l'anima di lei. — Oh! la speranza non è sì presto morta: e quando pare morta, bene spesso, come l'arbusto inaridito dalle brume, porta il seme che la resuscita al primo apparire del sole.

Quel rumore non era, come tant'altri, un'illusione; ma si avvicinava, e si faceva più distinto. Se Agnese lo udisse, e gli desse retta, nol sapremmo: Canziana levossi risolutamente, e corse alla finestra.

[290]

Era infatti gente che arrivava; chi, ed a quale scopo, non era possibile indovinarlo. La comitiva girava dietro la casa; e l'angolo di essa toglieva la visuale all'osservatrice. A stento però, traguardando fuor dei rami del pergolo, potè scorgere delle pezze d'ombra projettate sul terreno; dai contorni mobili dello spettro riconobbe che un gruppo di gente, in mezzo al quale era un cavaliero, s'avvicinava al casolare.

Canziana non sapeva spiegare a sè stessa la ragione di una comparsa tanto nuova. Temeva, in vero, che qualche castellano, smarritosi nella caccia, venisse a cercare guida o ricovero: temeva, dicemmo, perchè in quel momento, in mezzo a tanto cruccio, non avrebbe saputo torsi d'impaccio convenevolmente. — Intanto una prepotente vaghezza, ben diversa dalla vana curiosità delle femine, le imponeva di venire in chiaro del mistero; e perciò non rifiniva essa di guardare verso quell'ombra, e di studiarne il contorno ed i movimenti.

Or, mentre stava coll'animo sospeso, uno strido flebile, ma distinto e prolungato, giunse fino a lei. Tese l'orecchio, e stette in ascolto con un'ansia non mai provata. — Era, o sembrava, una voce nota: un lagno, un vagito. — Combattè il dubio troppo lusinghiero coll'artificiosa incredulità di chi rinasce alla speranza. E il dubio si dileguava e la speranza cresceva; poichè quella voce era senz'altro il vagito troppo ben conosciuto del piccolo Gabriello.

Non fu mai da anima pietosa più apertamente franteso il linguaggio di chi soffre; non grido più sincero di gioja rispose mai al pianto di un innocente. — Tanto è l'egoismo dei nostri affetti!

[291]

Canziana si lanciò come forsennata nel mezzo della camera, e rivoltasi alla padrona — “Madonna, Madonna, gridava, egli è qui, è qui;... il nostro angelo... il cuor nostro... Oh Signore Iddio... che tu sii lodato... che tu sii benedetto!„.

Agnese non diè tempo a finire la parola. Surse con un movimento sì rapido, che tutta ne scosse la camera, e, piantando in viso alla governante due occhi incerti, dimandò... “Chi giunge?...„

“Il figliuol vostro! corriamogli incontro... Su via, non mi credete forse?... l'ho udito io stesso, piange, piange il poverino; egli ha bisogno di voi, egli dimanda la mamma„.

Ma Agnese non avrebbe saputo moversi dal posto; il suo sguardo era come invetrato; sul suo volto non si cancellavano, nè tampoco si attenuavano le traccie della sua muta disperazione.

Canziana rimase per un momento annichilata, poi disse fra se: “Un'altra disgrazia! Dio mio, versate su me l'ira vostra; ma risparmiate questa donna; risparmiatela, perchè essa è madre„.

Fu provida cosa che una momentanea debolezza velasse agli occhi d'Agnese il quadro di un mutamento sì rapido ed inatteso. La soverchia gioja l'avrebbe uccisa. Era bene che, fra un dolore disperato ed una gioja senza misura, surgesse una fase neutra di sensazioni vaghe e sbiadite, che contemperassero il presente colle memorie del passato. L'improviso risvegliarsi della febre diede una scossa al sangue gelido ed inerte dell'infelice. Nel male era la crisi.

Ma per tener conto di queste ragioni, volevasi più [292] scienza e minor cuore, che non possedesse Canziana. Il perchè la buona donna, appena riavuta da uno sgomento, ripiombò in un altro forse non meno fatale. Non le sembrò possibile, che un legger malanno si annunciasse con sintomi così gravi. Il suo affetto per Agnese era troppo imperioso per calmarsi alle ovvie consolazioni di chi ha il cuor spassionato. Dubitò che l'infelice avesse perduta la ragione; e pregò Dio, che le inspirasse cosa era a farsi pel meglio.

Il violento surgere d'Agnese, cagionato da una forza fittizia ed anormale, si esaurì all'istante. Infatti non appena in piedi, brancolò cercando un appoggio. E, se la pietosa compagna non fosse prontamente accorsa ad ajutarla, sarebbe caduta. Raccolta da questa, e ricomposta sulla sedia, chiuse gli occhi, e chinò il capo sul petto, come persona che dorme. — Canziana non tentò altra volta di scuotere la sua inerzia; e come avrebbe osato farlo, se l'infelice non si commoveva alla notizia che il suo bambino era salvo?

Canziana, della cui mente abbiamo fatta una pittura modesta, era dotata di un cuore sì amoroso e compassionevole, che poteva dirsi un modello di carità. Ella non era di quelle creature, che, lanciate in mezzo a subite difficoltà, languono sfiduciate, e pagano al male altrui un sincero ma sterile tributo di lacrime e di strida. La buona donna, anche in mezzo alle più gravi peripezie, soleva essere presente a sè, teneva l'occhio sur ogni circostanza, sapeva prevedere ed operare come chi reca negli imbarazzi altrui una intelligenza risvegliata e pienamente estranea. Per la qual cosa, mentre il suo cuore andava a brani pel dolore, la [293] mente provedeva, e le braccia agivano, come meglio potevano, pel minor male dell'infelice. Molte altre pietose al par di lei avrebbero perdute le forze; ella ne raccolse quante ne aveva bisogno per levarla di peso, e collocarla sul letto.

Lo stato di Agnese le dava gravissima pena: perocchè quella quiete non era riposo ma letargo. — Dopo tanto trambusto, il sonno e l'inerzia erano ben altro che sintomi di buon augurio. Nondimeno, vedendo che Agnese era, o sembrava, tranquilla, pensò essere tempo di non dimenticare un'altra persona. Laonde, proponendosi di ritornar sùbito presso l'inferma, volò ad incontrare il nuovo arrivato.

Il poter stringere tra le sue braccia la cara creatura, che le era costata tante angosce, non fu l'unica sorpresa di quel momento. Nè Canziana fu la sola persona, che avesse ragione di meravigliarsi dell'incontro inaspettato.

A chiarire questo mistero, c'è d'uopo tornar sui nostri passi, e spendere alcune parole per rendere conto delle vicende di Gabriello.

[294]

CAPITOLO DECIMOTTAVO

CXXXIV.

Quando Medicina ebbe messo il compagno sulla strada che conduce a V..* gli rinovò le raccomandazioni, lo guardò partire, poi sparì per una viottola di traverso. Non era quella probabilmente la sola impresa, ch'egli avesse sottomano in quel momento.

Il Seregnino, dopo di aver trottato per qualche miglio senz'altro pensiero che quello di obedire a chi lo pagava, cominciò a provare la noja del cammino; e tra il grande bisogno di correre, e quello ancora più grande di non far cattivi incontri, provava una perplessità, un'inquietudine, che lo mettevano di mal animo. — Fino ad un certo punto, egli poteva chiamarsi padrone delle cose sue; comandava, per esempio, alle gambe di non rallentare il passo, e queste obedivano: ma se voleva sospingere la mente al di là di certe brutte fantasticherie che gli si affacciavano, l'imaginazione, più caparbia di un cavallo restio, si compiaceva [295] a passare in rassegna una lunga serie di presentimenti tutt'altro che lieti.

“Messere mi comanda d'essere prudente, e di non lasciare trasparire a nessuno dove si va, e chi siamo, io e questo sciagurato negozio, — ed accennava il bimbo. — Per me non parlo... fa bisogno di insegnarmi ad aver prudenza...? Ma come si tura la bocca a questa gracchia sgolata che non sa far altro che zittire?„.

E intanto, togliendo ad imprestito dalla necessità un'amorevolezza tutta nuova, colla mano carezzevole ma coi denti stretti, cercava di calmare gli strilli della creatura; la quale, com'è naturale, non si accontentava delle moine di un simile balio. Al crescere dei fastidj, scemava l'ossequiosa sua riverenza verso il padrone, ond'egli soleva piegare il capo ad ogni voler suo, senza mai chiedere il perchè di nulla. Allora gli parvero meno vantaggiosi i patti della sua servitù; allora accolse di buon grado e vagheggiò i primi sintomi di una opposizione, che proponevasi di spiegare arditamente, appena si fosse trovato in faccia a lui.

Ma la coscienza, invece di tranquillarlo col pensiero d'essere materiale strumento della volontà di un altro, gli faceva questa volta assaporare il diletto di non avere in tutto e per tutto accettato come legge l'altrui comando.

“Alla peggio, diceva tra sè e sè, devo aver fatto una buona giornata. Se messere non vuole questa volta riconoscere il mio còttimo, ho con me più del bisognevole per compensarmi della mala vita. Ho di [296] che far baldoria per uno, per due, per dieci giorni„. E, in dir ciò, scuoteva sul fondo della saccoccia un pugno di oggetti, che gli rispondevano con un suono argentino. Allora gli tornavano le forze, ripigliava la corsa, e trovava men duro il mestiere.

Giunto a mezzo della strada, volle permettersi una fermata. — Aveva bisogno di riposo, e sentiva pungersi dalla curiosità di riconoscere meglio il valore del suo bottino. Escì quindi dal sentiero; ripose da un canto sull'erba la creatura che finalmente aveva cessato del piangere; e, seduto ai piedi di un grosso albero, dopo di aver disteso davanti a sè il gabbano, cacciò le mani in scarsella, vi pescò il tesoretto, e lo pose in ordine, come farebbe un merciajuolo colla sua bottega ambulante. Parve assai sodisfatto: poichè esaminò gli oggetti ad uno ad uno, di sopra, disotto; li strofinò, li fece saltare sul palmo della mano per giudicarne il peso, e mostrò una giovialità convalidata dalle laute promesse, che quel peso e quel bagliore gli prodigavano.

“Che ne fo io di tutto questo ciarparme? avessi la ganza potrei ornamela nei giorni di festa, ma per me... Una parte la darei volentieri per far dir del bene ai miei morti; perchè, dopo essermi fatto un signoretto, vorrò diventare un galantuomo.... Ma c'è ben tempo a ciò; la signoria è ancor troppo lontana. Meglio è farne un mucchio, e venderla al primo merciadro, che m'abbia faccia di uomo onesto. Tutta questa roba, dell'oro e dell'argento, per un gruzzoletto di terzuolini... Che affarone per lui e per me.... ma (e qui fece pausa) mi sembra di udire del rumore... È il [297] vento che agita le foglie secche. Che cosa vuol dire esser ricco... sùbito s'entra in sospetto. Voglio disfarmi di questa grosseria.... appena a Milano.... anche prima se mi capita l'occasione„.

E qui s'arrestò di nuovo, perchè lo strepito si faceva più forte, e perchè le foglie secche non erano agitate dal vento, ma da parecchie pedate che rimontavano il sentiero.

Un primo istinto consigliava il ribaldo d'evitare un incontro e di cercare una scappatoja; un altro, o meglio lo stesso più raffinato, gli rammentava che anche la fuga aveva le sue difficoltà, i suoi pericoli. Intanto che discuteva, l'occasione d'andarsene si fece meno propizia, quella di restare più accettabile. Quei sopravegnenti d'altronde parlavano alto e libero, ed egli cominciava a comprendere qualche parola, poi tutte le parole e infine il senso ed il tenore del dialogo. Il vecchio istinto di spiare i fatti altrui lo inchiodò, malgrado la paura, sul terreno. Il tronco, a cui era appoggiato, e gli arbusti che lo circondavano, gli servivano da nascondiglio. Rinversò ad ogni buon conto un lembo del gabbano sulla sua roba, poi facendosi piccino per capir meglio nell'ombra protettrice, attese che la comitiva passasse, registrandone e commentandone in secreto le frasi.

“Per sant'Aquanio, al quale ho fatto voto di non bestemmiare il venerdì, la è una cosa da dar l'anima al diavolo!„ diceva l'uno.

“Pensa o Bruto, che dimani è sabato„, interruppe un altro, ridendo sguajatamente.

“Tu scherzi: ma che farò io, se mi si toglie quest'unico pane?„

[298]

“Ha ragione Bruto, entrò a dire un terzo; con una donna come la sua che gli regala un bambolo ad ogni maturar delle mele...„

“Parla bene Rustico. — Il padrone mi fa sapere, ripigliò Bruto, che la selvaggina diviene ognidì più scarsa, e che è malcontento di me. Che vi posso io... per tutti i diavoli! Io sono sempre qui, passo la mia vita in questo bosco, io; corro in su e in giù a ogni ora e straora; distruggo tramagli e lacciuoli. Che devo fare di più... malanaggia!„

“Tante volte il male sta nella testa di chi comanda, e non nella volontà di chi obedisce„.

“Ben detto, o Rustico. Quando si vuol veder fiorire la selvaggina, bisogna appiccare chi la disturba; e non imitar Sua Grazia che, non curandosi di caccie, fa mettere in libertà tutti i cacciatori furtivi„.

“Bisogna imitare messer Barnabò, dissero ad una voce i compagni. Allora sì...„

“Intanto, figliuoli, c'è pericolo di vederci tutti licenziati„.

“Va a servire quel di Milano„ aggiunse Rustico.

“Bisognerà far così, conchiuse Bruto sospirando, a rischio di far vedova la donna ed orfani i figli al primo peccato veniale„.

“Quando sei a così tristo patto, — disse colui che alla prima aveva deriso Bruto, — vuoi tu stare con me e fare il mio mestiere? Un morso di pane l'ho per te e per qualche altro.„

Qui l'interlocutore si arrestò, e costrinse i compagni ad imitarlo. Raccoltili in un gruppo, cominciò a parlare con una voce più sommessa, ma con un accentar [299] d'ogni sillaba, che annunciava una rivelazione importante.

Il Seregnino era ad un passo da loro, ascoltava e non batteva palpebre, e mandava bestemmie dal fondo del cuore ad ogni foglia che gli crocchiasse da presso.

“Ecco qua, — ripigliò colui, stendendo inanzi il braccio sinistro ed aprendo il palmo della mano, come se le ragioni, che stava per dire, vi stessero sopra. — Lasciamo che si rubi qualche fagiano o qualche lepretto, che già per la tavola dei signori ve n'è sempre più del bisogno; e teniam l'occhio ad altro contrabbando. V'ha una schiuma di birbanti che vive alla strada, e regna impunemente in questa selva. Il fisco promette premii, e aggrava di taglie le teste dei ribaldi: ma i ribaldi si ridono di noi, press'a poco come Bruto delle sue lepri. — Ora è tolta la valigia ed anche la vita a un viandante, or si vuota una casa, o si mette mano al marsupio del mercante che ritorna dalla fiera. — Proviamo, se ci è possibile di fare il ladro ai ladri; noi non vorremo la roba d'altri, ci basta la taglia.„

“Eh, eh, l'affare è bello a parole, interruppe Rustico, ma la taglia del fisco non si guadagna a ufo.„

“Chi dice altrimenti? Ci va della pelle, lo so ancor io; e la pelle è un vestito che si rattoppa a stento, e che non si muta a piacere. Gli è perciò che non andrei solo a far guerra alle masnade, e che vi propongo di unirvi a me e di far comunella„.

“Io ci sto, disse Bruto; fui uomo d'armi, e conservo il gusto di menar le mani„.

“Anch'io, aggiunse l'altro, purchè Bruto s'intenda [300] col suo santo per mutar voto. Bestemmii pur anche al venerdì; ma non si ubriachi più, nemmanco alla domenica„.

“Baje!„

“Ecco i patti... Il rischio in comune, e la taglia divisa in tre parti„.

“Avete armi?„

“Ne ho„.

“Ne posso avere„.

“Apparecchiatele; e state pronti. Ci sarà da far presto„.

Il Seregnino ascoltò ogni parola. — Quanta paura ne provasse lo sa il lettore, che lo conosce a fondo. Temeva d'essere veduto; una volta scoperto, temeva d'avere la sua triste professione stampata sulla fronte. Avrebbe quindi dato il guadagno della giornata per essere almeno cento passi lontano da quell'imbroglio. — Non potendo sperar tanto, se ne stava cheto ed immobile; cercava di contenere il respiro, di sospendere l'insolito martellare del cuore e delle tempie.

Alla fine, dopo altre parole sul modo e sul tempo di effettuare il progetto, i tre galantuomini si rimisero in cammino. Il suono delle pedate già cominciava a farsi meno distinto; il senso e le parole degli interlocutori si confondevano nel sibilo della foresta agitata. Il Seregnino salutò con un largo respiro la sua salvezza.

[301]

CXXXV.

Il malvagio quasi sempre quando vuol essere prudente divien vile, quando affetta coraggio si fa temerario. Il Seregnino toccò questi due estremi. Fece come certi ragazzacci malnati, che in faccia a un grosso cane tremano dalla paura, e dietro la coda lo pigliano a sassi. Appena i tre compagni gli avevano volte le spalle, si sentì rinascere nel cuore l'antica tracotanza. Quasi avrebbe voluto correr dietro loro, per chieder conto dello spavento che gli avevano cagionato. Ma il caso s'incaricò d'aggiustar le partite.

Era ancora nel raggio d'udito dei nostri viandanti, quando volle far atto di bravura, affrontando un ultimo pericolo. Si levò, distese le braccia per scioglierle dal granchio della postura, poi s'abbassò fin verso terra per spiegare il gabbano, e dare un'occhiata al suo tesoretto; infine s'incamminò verso il giaciglio del bambino, coll'intenzione di sollevare il suo carico, e di rimettersi alla via.

Ma il bambino (non sapremmo dire se a caso o per colpa di chi lo sollevò) mise in quel punto uno strillo acuto, e ravviò i vagiti. Davanti a questa difficoltà impreveduta, il furfante tornò l'uomo di prima, colla differenza, che l'antica viltà, rilevata dallo spavento, gli fece balenare in capo un mezzo termine assoluto e decisivo. — Avrebbe volontieri chiusa la bocca di quell'innocente, anche a costo di non vederla riaprirsi mai più; gli bolliva nel cuore una voluttà di sangue [302] non mai provata, e colla bava alla bocca masticava bestemmie.

Quale fosse il disegno di costui, e fin a qual punto egli ne avviasse l'esecuzione, è bene tacerlo. — Basterà il dire, che non consumò il delitto; e che se la coscienza era sorda e l'animo insensibile, per buona sorte la mente di lui ancor vigile, e conscia dei propiii interessi, lo sconsigliò da un'inutile atrocità. Infatti, mentre stendeva la mano assassina, il crescendo eguale e rapido delle tre pedate lo avvertì che i passanti ritornavano indietro. — Abbandonò quindi la vittima, non ravveduto ma spaventato dalle conseguenze del suo delitto; corse a ravvolgere nel gabbano i gioielli che aveva dimenticati sul terreno; e vi si sdrajò allato, cercando coll'affettato riposo di eludere, se era possibile, i sospetti dei sopravegnenti.

Questi, infatti, non tardarono a comparire; davanti a tale improvisata, ognuno s'arrestò, girando l'occhio e cercando sul viso del compagno l'aria di sorpresa che sentiva in sè stesso.

“Ecco il lepre, che garrisce, — disse quel tale che intavolò il progetto del nuovo mestiere, nell'atto di mostrare agli altri il bambino; — fai bene, o Bruto, a cambiar professione... se pigli un bambolo per un leprotto, chi sa quante volte, parlando colla tua massaja avrai udito gagnolar la volpe„.

“Ah ah! aggiunse l'altro; povero Bruto, egli sogna le glorie della vecchia professione„.

“Ohe galantuomo! — interruppe Bruto, rivolgendosi al Seregnino, che fingeva di dormire, — perchè lasciate basire quella creatura?...„

[303]

Il Seregnino finse di scuotersi a quelle parole; e, coll'aria ebete e trasognata, articolò delle parole tronche e senza significato.

“Chi è quel putto?„

“Come è qui?„

“Chi siete voi? Ohe siamo sordi, per Dio! Con questa musica negli orecchi ci vuol un bel cuore a sonnecchiare.„

Il Seregnino pigliava tempo a rispondere. Da quell'abile maestro di menzogne ch'egli era, approfittò di quei momenti per mettere insieme qualche favola, e dar conto dell'esser suo. — Ma l'ansietà, con cui aveva seguita tutta questa vicenda, la stessa rapida alternativa, con cui era passato dal terrore al coraggio, e da questo ad un nuovo e più forte spavento, gli avevano sollevato nell'animo una tal febre di parole, per cui, appena sciolta la lingua, perdette la facoltà di frenarla. Disse adunque quanto, e più di quanto, aveva pensato. Si giustificò non accusato; e quindi diede appiglio all'accusa. Narrò fatti strani e contradittorj: parlò del bambino come di un derelitto, di cui si era preso cura per compassione; e l'orfanello, ravvolto in lini finissimi, smentiva l'origine, come la vantata pietà era smentita dal tranquillo dormire in mezzo agli strilli. Nominava il villaggio da cui veniva, e diceva d'essere in volta per Pavia; ma dava dell'uno e dell'altro luogo erronee indicazioni. — I tre compagni, benchè non fossero inquisitori, pigliarono in sospetto queste parole, e più assai il ceffo da triste che stava loro dinanzi.

“Noi torniamo in città, e, giacchè dobbiamo battere [304] lo stesso sentiero, vi faremo compagnia„ — disse l'uno, ammiccando il vicino in modo che voleva significare: “non lo perdiamo d'occhio, costui.„

Ma il Seregnino, tra il cortese e il risoluto, si rifiutava a seguirli; dicendo, essere egli assai stanco, e voler riposare ancora qualche momento.

“Non abbiam trovato la selvaggina, — susurrò il primo all'orecchio di Bruto; — ma forse qualcosa di più raro: o volpe o lupo...„

“Orsù, meno ciarle, — entrò a dire Bruto, con tuono imperativo, — finiamola una volta. Il bambino lo portiam noi, e porteremo anche qualch'altro, se avrà la malacreanza di rifiutare la nostra compagnia.„

Era necessario obedire. Il Seregnino, non senza risentirsi per la violenza che veniva fatta ad un galantuomo che andava pei fatti suoi, si levò con malgarbo, e si dispose a pigliare il fardello. Per far presto, l'uno gli sollevava da terra il bambino, l'altro il gabbano. Ma in quest'atto, il rozzo vestito sprigionò dalle pieghe il bottino mal riposto; davanti al quale si spalancarono dalla meraviglia tre bocche ed altretante paja d'occhi. — È facile imaginarsi come rimanesse il Seregnino. Bruto diè nel gomito al vicino, dicendogli piano: “Animo, figliuoli, che forse costui è la fortuna del nuovo mestiere.„

“È l'uccello allettajuolo„, aggiunse l'altro.

“Lo farà cantare la corda„ mormorò il terzo.

“Presto, pigliatevi la roba vostra, e andiamo che ne è tempo. Volete restar qui, nel bosco, a rischio di farvi spogliare dai ladri?„

E in dir ciò, la brigata s'incamminò verso Pavia, [305] da cui era poco lontana, spingendo davanti a sè il birbone. Il quale non si stancava di protestare su tutti i tuoni, dal più umile al più arrogante, colla preghiera e colla minaccia, che quegli oggetti erano suoi, che gli aveva comprati qui e qua, con denari sonanti, che egli era un uomo onesto, che se volevano portargli via la roba, pazienza: il facessero; ma che non poteva tolerare d'essere pigliato in sospetto, come un ladro; ed altre cose simili, che fatalmente costituiscono il frasario comune del galantuomo e del furfante.

CXXXVI.

Tradutto al castello di Pavia, il Seregnino credette dover far tesoro della esperienza fatta ivi poco tempo prima. La franchezza, che è l'arma degli innocenti, non lo aveva salvato dai tratti di corda. Egli lo rammentava per istabilire, essere più saggia cosa il metter giù le arie, e meritarsi la compassione de' suoi giudici. Cessò quindi d'essere arrogante, e si fece depresso e piccino come un peccatore ravveduto. — L'austera fronte dell'inquisitore e la logica inesorabile delle sue inchieste, gli strozzarono in gola la bugia, che pur cercava modo di venire in suo ajuto; la vista del cavalletto e della corda gliela riaprì alla confessione piana e sincera delle sue ribalderie.

Ma quella schiettezza, che dinanzi al corpo del delitto diveniva necessità, era da lui condita di parole umili e contrite, poichè sperava di movere a compassione il giudice e di aver salva la testa, e si confortava [306] nella fiducia di trarre allo stesso paretaio Medicina, la cagione de' suoi mali. Compiacevasi di far causa comune con lui; o salvo o condannato ch'ei fosse, non voleva esser solo.

Appena gli furono schierati sotto gli occhi i giojelli, confessò d'averli rubati; accennò quando, dove e come li aveva sottratti.

Se non che, l'un d'essi, ornato delle cifre e dello stemma dei Visconti, fermò l'attenzione del giudice, il quale, con una faccia più minacciosa ed una voce ancora più cupa e solenne, ne domandò ragione al prevenuto. E qui appunto, il processo escì dalla strada piana, e il reo si giovò del bujo per cercare una scappatoia. Senza cangiar stile ed aspetto, cogli occhi sempre imbambolati e la voce svenevole, come se fosse un confidente discreto e non il reo, dichiarò che la storia di quell'oggetto riguardava la vita privata del Conte di Virtù, che quindi non poteva essere svelata ad altri che a lui. Dichiarò d'esser pronto a morire, ma di voler rispettare i secreti del principe; e perciò chiese di essere ascoltato da lui solo, asserendo di essere poscia rassegnato a tutto. — Ei parlava di morire, quando appunto cominciava a credere d'aver sicura la vita.

Le moderne procedure, segnando la via entro cui un giudizio deve passare affine di essere elaborato, provedono alla più facile scoperta della verità, e proteggono gli interessi sociali senza dimenticar quelli dell'accusato. Allora il capriccio del principe e l'arbitraria interpretazione delle leggi per parte del giudice assai spesso legalizzavano le vendette e le prepotenze; [307] ma qualche rara volta ponevano il colpevole in istato d'aprirsi da sè la via alla salvezza. — Perciò appunto in questo caso la dimanda del reo non fu trovata vana e ridicola, come la sarebbe oggidì. Lo stesso principe vi assentì di buon grado; anzi, dopo aver veduto quel gioiello, per quei motivi che il lettore indovina, sarebbe disceso nel carcere del ladro per interrogarlo, se il ladro stesso non fosse stato condotto dinanzi a lui per rendergliene conto. Dopo l'interrogatorio del giudice, il Seregnino fu rimandato in carcere; ma non ebbe tempo di far l'inventario della scarsa masserizia ivi trovata, che comparve il bargello, il quale, aggiustandogli una catena al polso ed alla caviglia della gamba destra, gli ordinò di seguirlo. Attraversarono i due individui un labirinto d'androni, di camerotti, poi per una corte ed un vestibolo, giunsero in una sala terrena, dove stava ad attenderli il principe. — Ad un suo cenno, il giudice, il bargello e le guardie si ritirarono nella stanza vicina, dove attesero, origliando alla porta, la chiamata del padrone.

Il reo, invitato a fare le sue dichiarazioni, forse avrebbe incominciato da capo la storia della sua vita, se il conte non gli avesse tronca la parola, imponendogli di tenersi soltanto a quella parte di essa che riguardava l'attuale sua carcerazione.

Da questo racconto, egli venne a sapere quanto, dopo mille ricerche, e malgrado lo zelo de' suoi esploratori, non era neppure arrivato a sospettare. Per opera di un ribaldo e grazie ad un delitto, trovò Agnese; e la trovò sana, salva, e ancor più degna del suo amore; indovinò i crucci e i patimenti dell'infelice donna, rintracciò [308] la via di poterli, se non rimovere del tutto, almanco alleviare non poco. Fu per la fortuita apparizione di quest'uomo, ch'egli scoperse la verità; e la scoperse in tempo di poterne trarre buon frutto. Per lui conobbe che Medicina non era fedele nemmeno all'oro, che gli veniva prodigato. Ma ciò che più d'altro lo commosse fu il sentire che esisteva un frutto de' suoi amori; e che questo aveva corso un gran pericolo, ed era salvo per un prodigio ancora più grande.

Dopo un tal gioco del caso, poteva il conte pronunciare la meritata sentenza contro quell'uomo, di cui il cielo si era giovato ad un fine così santo? Il merito di questa inattesa soluzione tributò per intero alla mano divina; all'uomo, cieco strumento di essa, non volse l'occhio troppo benigno. — Ma gli fe' grazia della vita[73]. In pena del delitto commesso, lo condannò ad una reclusione senza limite di tempo; in premio del bene che contro voglia aveva fatto, ordinò che la pena non fosse altro per lui che un'occasione al suo ravvedimento. Sperò per tal modo di ritorre dalla via del delitto una creatura che il cielo aveva fatta meritevole di essere a parte della sua providenza. — Il pensiero era nobile, e degno d'altro secolo. Ma la cronaca non ne dice se abbia ottenuto buon risultamento.

Il fatto girò le bocche di tutti gli abitanti del castello. [309] Dall'un canto la mitezza con cui era stato trattato il colpevole, dall'altro la somma vistosa distribuita ai boscajuoli, che l'avevano scoperto e consegnato alla giustizia, erano incidenti contradittorii che davano luogo alle più discordi interpretazioni. — Si riconciliavano i commentatori, asserendo in comune che c'era sotto un grande mistero.

Ma ciò che crebbe la sorpresa di tutti fu la notizia che il Conte di Virtù, dopo aver parlato a lungo col delinquente, chiedeva di vedere la piccola vittima, mostrando per essa una sollecitudine, che non si suol prodigare a chi non si conosce.

Il bambino (non si creda che l'abbiamo dimenticato) era stato rimesso alla castellana, la quale, mossa a compassione in vederlo sì bello e sì sparuto, pensò di nutrire per quel dì col pasto della famiglia un suo colosso di dieci mesi, per cedere il latte materno al novello ospite. Questi infatti lo gradì, e ne diede la prova, cessando subito dal piangere ed addormentandosi in collo alla pietosa nutrice.

La buona donna, informata che il conte chiedeva di lei, con una cura ed una compiacenza tutta materna, assettò i lini e le fasce del bambolo; poi, racconciandosi in fretta e in furia i panni e le treccie, si recò dal principe, e gli presentò il bambino, il quale vagò cogli occhi intorno e li piantò sorridendo sul conte. — La buona donna non si stancava di fare ammirare al principe quegli occhioni azzurri e quelle labra di corallo, ponendovi l'ingenua ambizione di chi crede di avervi qualche parte di merito. E non a torto; quel ravvivamento era tutt'opera sua.

[310]

Il conte non ebbe bisogno ch'altri gli insegnasse a farsi tenero dinanzi a quella creaturina. Dovette anzi frenare la piena degli affetti, affinchè il vigile occhio dei circostanti non penetrasse il vero, e ne facesse suggetto delle solite ciarle. Ma la memoria di questo giorno e di questo momento non s'impallidì mai nel suo cuore; egli che, prima e poi, ebbe grave e fortunosa esistenza, non trovò nell'istoria della sua vita un fatto che lo commovesse più di questo. Benedisse la mano di Dio, che gli porgeva i mezzi di fare un atto solenne di giustizia; ed accettò rassegnato le gravi contrarietà, che gli rimanevano, perchè il bene che ne sperava era ancora di gran lunga superiore al male che pur gli era d'uopo subire.

Tutti questi avvenimenti si erano compiuti nello spazio di poche ore. Ma quelle ore, pensò il conte, dovevano sembrar ben lunghe alla povera Agnese! — Per la qual cosa, ordinò che si allestisse tosto l'occorrente affine di ricondurre il bambino presso sua madre; e fissò quali tra i più fidi fossero degni dell'incarico d'accompagnarlo. Mentre si stava apprestando la lettiga e la scorta, il conte tolse dallo stipo una pergamena, scrisse alcune righe, vi pose la firma ed il sigillo della Signoría, poi l'arrotolò, fasciandolo di un nastro coi capi rinchiusi nella salimbacca. Chiamato a sè il più vecchio ed il più fedele de' suoi servi, gli affidò la pergamena ed una somma di denaro, prescrivendogli qual uso dovesse farne. Infine volle veder di nuovo la castellana: il dovere di premiarla della sua pietà gli fornì l'occasione di abbracciare un'altra volta il bambino.

[311]

CXXXVII.

Appena partita la comitiva e fatta sgombra la corte, tutto rientrò nell'ordine solito. Anche il conte tornò mesto come prima; solo che i suoi pensieri erano d'altra natura. Si chiuse nelle sue stanze, ne vietò per quel giorno l'ingresso ai ministri e ai cortigiani, e si raccolse ne' suoi pensieri; ingegnandosi di conciliare, se era possibile, il passato col presente, l'uomo col principe, l'amante col marito.

Da quanto si è detto intorno alle nozze di lui con Caterina Visconti, il lettore ha già appreso che quel legame, consigliato da interessi puramente politici ed affrettato da un giudizio menzognero, non poteva renderlo felice, anche quando fosse necessario dimenticare in Agnese l'amante colpevole. Ma da che questa era rinata nel suo cuore, fatta ancor più bella dalla sua innocenza e dalle immeritate sventure, quella catena diveniva così pesante, da sembrargli insopportabile.

La Caterina, co' suoi modi agghiacciati, co' suoi eterni languori, non era fatta per risvegliare una passione, meno ancora per svellerne una, che avesse profonde radici. D'indole dolce (e forse troppo); facile al sospetto, ma credula così al male come al bene, non seppe mutare le reciproche condizioni della parentela; ella rimase sempre la cugina, non fu mai l'amante di Giangaleazzo. Che se qualche volta deplorò l'abbandono in cui era lasciata fin da quei primi giorni [312] di matrimonio, rinveniva dalle sue querele raumiliata, al pensiero che per quel nodo aveva mutato con invidiabile usura la seggiola di badessa in un trono. Pensava che la sua situazione non era un odioso privilegio. Altre principesse, belle al par di lei e più di lei lusinghiere, subivano la stessa sorte. Caterina lo aveva imparato nella casa paterna, convivendo in fraterna domestichezza colla prole delle molte concubine di suo padre.

Non erano state abrogate, ai tempi di cui parliamo, le leggi del comune, vigili e gelose custodi della publica costumatezza. Alcune di esse erano anzi mantenute in pieno vigore; e le pene, al solito esorbitanti, venivano applicate senza pietà. — Era, a cagion d'esempio, dannato alla frusta del boja chi pronunciasse irriverentemente il nome della Vergine e dei Santi[74]; s'infliggeva una multa di venti soldi di terzuoli a chi pigliasse altrui pei capelli[75]; ma si oltraggiava impunemente la natura, e si attentava all'ordine sociale, non curando la moralità della famiglia. — I giudici laici non avevano coraggio di investigare il delitto o d'applicare la pena fra i potenti; gli ecclesiastici, usufruttando i tardi pentimenti raccolti al letto dei ricchi infermi, invece di prevenire il male, ne traevano il frutto di qualche pia offerta. Le dotazioni dei monasteri, le fondazioni devote, la fabrica di templi o di monumenti sacri, schiudevano il paradiso ai morenti; ma intanto, nella spensierata confidenza di poter cancellare [313] ogni trascorso con un generoso codicillo, l'uomo agiato e potente non poneva misura alle sue sregolatezze. Tanto è ciò vero, che la condotta di Giangaleazzo Visconti, che nessuno certo vorrebbe oggi approvare, era a' suoi dì, per questa parte, esente da ogni censura; anzi, gli storici suoi contemporanei ce lo dipingono di una pietà che peccava del soverchio, e d'un rigor di costumi, che lo faceva riguardare come una felice eccezione dei potenti del suo secolo.

Ma in minor tempo di quello che fu necessario a noi per dire le ragioni della condotta del conte, egli riordinò le memorie del passato; e, posto a raffronto la sua passione ed il suo doppio dovere, tracciò tale piano per l'avvenire, che, vulnerando il meno possibile le apparenze, concedesse al suo affetto una speranza di vita, una probabilità di aver grazia. A ciò invero non riesci per una strada liscia e scevra d'ostacoli. — Deciso a voler bandire le incertezze, sospettò di non saperlo fare; approvò, respinse, richiamò lo stesso progetto, quando scosso dalla passione, quando raffreddato dalla coscienza de' suoi opposti doveri. Fra le due sventurate, or l'una or l'altra gli sembrava la più degna di pietà. Se decidevasi a far trionfare i riguardi dovuti ad un nodo benedetto, il conforto della coscienza non gli dava la forza necessaria a subire la dura legge d'abbandonare chi era, senza propria colpa, tanto infelice. Se volgeva la mente ad Agnese, e obediva agli affetti destati dal suo nome e dalla memoria de' suoi dolori, dubitava d'aver perduto il diritto di provedere e fin anco di pensare a quella donna.

La vista della cara creatura, e la tenerezza che provava [314] nel pensare ad essa, sciolsero la questione, sostituendo alle incertezze, una necessità imperiosa e solenne; quella di provedere all'esistenza di suo figlio. — Negare a lui un nome ed una fortuna, era quanto ripetere la menzogna e lo spergiuro a danno d'Agnese. A tale pensiero non solo approvò quanto aveva fatto; ma riconobbe di non aver fatto abbastanza.

Rialzato da tali pensieri, diede ordine immantinenti che si allestisse il suo cavallo; e appena fu pronto, discese nella corte appartata, montò in sella, e partì di galoppo, volendo essere in tempo di raggiungere la comitiva che lo aveva preceduto al casolare di Agnese. Ravvolto in un ampio mantello, e spinto da rapidissima corsa sulle vie traverse, sfuggì agli sguardi di tutti, e s'unì alla brigata quando essa toccava alla sua meta. — Egli volle pigliare nella conseguente scena di famiglia quella parte che gli spettava per diritto di natura.

La sorpresa della governante, di cui abbiamo fatto cenno addietro, nacque appunto dallo scorgere, che chi rendeva ad Agnese il bambino, era suo padre.

CXXXVIII.

“Ah santa Vergine! — sclamò Canziana fuor di sè della meraviglia al vedere il conte che poneva il piede sulla soglia del casolare — voi qui! È il Signore che vi manda. Se sapeste.... quante disgrazie, quante tribolazioni!... come ha sofferta la mia povera padrona!„ Ed avrebbe volontieri aggiunto “per cagion vostra„ ma in quel momento le parve che il conte fosse l'inviato [315] della Providenza, e quindi lo tenne come inviolabile.

Dalle braccia della castellana raccolse il bambino, e, vedendolo sano e vivace, non poneva misura alle carezze, ed invocava mille benedizioni dal cielo sul capo di chi lo aveva salvato. Le sue parole e i suoi atti, la pietà e la gioja si compendiavano in una sola espressione di tenerezza verso il caro bambino. Ma non era tempo questo di consulte, di lacrime, e meno ancora di interrogazioni. Scambiò poche parole col conte sullo stato d'Agnese, e sulla convenienza di averle ogni riguardo; poi salì da lei, collocò al suo fianco il bambino, e permise (poichè gli veniva richiesto supplichevolmente) che il conte entrasse nella camera della malata, ed ivi pigliasse consiglio dagli avvenimenti.

Appiè del letto, ritto della persona, colle braccia incrociate, col volto mesto e commosso, stava il conte riguardando quelle due creature; la profonda pietà, ch'egli provava davanti a quella scena, era scritta sulla sua fronte e ne' suoi occhi.

“Io fui il vostro tiranno, pensava egli; io t'involai, o Agnese, il secreto della tua felicità, seminai di spine la culla di questo innocente. Spietato! Quasi ho terrore di me stesso! Ho fatto sì gran male a coloro, ch'io amai ed amo tanto; fui sollecito ed ingegnoso nell'ingannar tutti, nel tradire me stesso. Iddio mi inspiri ciò che debbo fare per voi, miei diletti, poichè il ben vostro è ben mio. Povera Agnese, quanto sei sparuta! quanto male io ti ho fatto! Eppure il tuo labro è pronto ad aprirsi al perdono, non al rimprovero. [316] Deh, mia diletta, abbi pietà di me...!„ — Poi fattosi torbido e severo, rimestava nella mente la cagione de' suoi mali, la colpa della sua colpa; allora lo sdegno e la vendetta gli ribollivano nel cuore. — Se in quel punto gli fosse apparso davanti lo scelerato calunniatore, avrebbe avuto cuore d'ucciderlo di sua mano; se colui avesse osato metter piede entro il confine delle sue terre, lo avrebbe fatto porre ai tormenti; la tortura ed il capestro gli sembravano lieve pena a tanto delitto.

Invano ci proveremmo a tradurre fedelmente colla parola la scena pietosa che ci sta dinanzi. L'amore era il protagonista del quadro; ma esso si manifestava assai diversamente sulle mobili fisonomie dei nostri attori. — Sotto il velo di un languore passaggero, la placida e smorta fisonomia di Agnese, attestava la costanza di un amore sempre sviscerato ed ardente. Il suo labro socchiuso pareva che volesse dire: “io non ho mai mancato alla mia promessa; amo, come amai! L'altrui parola avrebbe potuto santificare quell'affetto che io nutro; quanto a me, e prima e dopo quella parola, non potrei amare diversamente.„ — Sul volto di Canziana brillava una tenerezza paziente, un affetto veramente materno. Era l'imagine viva della carità cristiana, che vorrebbe scemare il male dei fratelli, pigliando sopra di sè la croce loro. — Una terza espressione più gagliarda, e meno tolerante, traduceva l'amore del conte in una passione indisciplinata, prepotente, quasi egoistica, che non vede altro che sè, ma che racchiude nel suo sè stesso la vita e la felicità della persona amata. — L'affetto [317] d'Agnese, la carità di Canziana, la passione del conte, s'incontravano infine e si rannodavano sulle care sembianze di Gabriello, che in mezzo a quella tempesta dormiva il sonno degli angeli.

Finalmente Agnese si riscosse. Un lieve scrollo delle membra, annunciando il fine del parosismo, ravvivò la penosa aspettativa di Canziana, e crebbe l'ansia irrequieta del Conte. — Gli sguardi d'entrambi cercavano gli occhi d'Agnese, i quali si schiudevano a tratto a tratto, errando qua e là sugli oggetti circostanti, senza fissarne alcuno. — Corse la governante a rabbattere le impennate della finestra; e le pupille dell'inferma, dilatandosi a poco a poco, poterono finalmente scorgere il bambino, e riposare un momento sulle sue sembianze.

“Vedete — disse Canziana all'orecchio della sua padrona — vedete: il Signore, quando abbiamo fede in lui, e lo invochiamo proprio di cuore, non è sordo alle nostre preghiere. Egli ne rende il bambino, per cui abbiamo tanto pianto e pregato; e ne lo rende sano e salvo... Dio ha fatto un miracolo per noi... Suvvia, Madonna, fatevi coraggio. Questa caparra della bontà celeste v'inspiri fiducia a sperar meglio. Ringraziate intanto il Signore d'avervi visitato; non vi dolete della tribolazione che vi ha inviato. Egli vi ha messo alla prova, e perciò volle farvi degna della sua misericordia.„

Agnese ascoltava risvegliata e commossa, ma non del tutto convinta. La sua testa, indebolita dai patimenti, s'affaticava a raccogliere i pochi fatti, che le si affacciavano; ma non giungeva ad arrestarli perchè [318] fuggevoli, nè a comprenderli perchè perduti nella nebbia delle sue visioni febrili. Schierava per ordine di tempo, e per grado di probabilità, quelli che le apparivano più distinti; ma, come un uomo che fu lunga pezza in viaggio, durava fatica a ravvisare dopo il suo ritorno le vecchie conoscenze. Sapeva per certo d'aver delirato, ma non osava dire a sè medesima qual era il sogno, se il terrore di prima o la calma d'adesso. A poco a poco, rimessa sulla strada del vero dalle affettuose parole di Canziana, e confortata dalla testimonianza dei sensi che vedevano e toccavano il suo diletto, finì per concludere, che i terrori di poco prima, fossero poi sogno o realtà, erano svaniti. — Posto ciò, riesciva finalmente a raccogliere le sparse ricordanze, e a tessere con fila deboli ed interrotte la storia dell'ultima sua disgrazia. Faceva come chi sta interpretando lo scritto di un diploma corroso: costui crede comprenderne il senso, e lo comprende realmente, anche prima d'averne lette tutte le parole, quando ne ha dicifrate una parte.

Un fatto, del tutto fortuito, giovò finalmente a riempire queste lacune. — Gabriello collocato accanto alla madre si risvegliò, mandando un gemito sommesso; intanto che, colle braccia e colle manine ribelli alle fascie, cercava il seno della nutrice; e l'istinto ve lo guidava a dovere. — Agnese, che aveva patito assai per la protratta interruzione del suo pietoso officio, si trasse vicino la creatura, e la fece cheta all'istante. Ma nel far ciò, mentre il ravviare il corso del tributo materno, stagnante per lunghe ore d'inerzia, le faceva provare uno spasimo inesprimibile, ella si [319] rallegrò, perchè il soffrire la faceva certa d'essere viva e desta.

L'oscurità ed il mistero, in mezzo a cui si consumò questo episodio di pietà, non permisero ad Agnese di ravvisare un uomo, che, ritrattosi per rispetto nel fondo della camera e ravvolto nella penombra delle imposte, attendeva la sua sentenza. I suoi affetti, quando pure fossero stati assopiti, si erano già scossi e risvegliati alle vicende di quella giornata; ma se per caso fosse rimasto in lui un avanzo di egoismo, od altro estraneo interesse, quel quadro sì commovente l'avrebbe dissipato.

Il potente signore, l'ombroso amante erano scomparsi; al suo posto risurgeva l'uomo d'un anno prima. In lui v'era di più il rimorso del male inconsapevolmente operato: egli non era l'ultimo a sopportarne le conseguenze. Ma gradiva il dolore come l'unica e certa testimonianza di vivissimo affetto ch'egli potesse offrire all'infelice sua donna.

Canziana, poichè vide la padrona preparata ad altre emozioni, ripigliò la parola.

“Madonna, disse ella; sapete voi come il vostro bambino si trova qui?„

“So che Dio me lo ha restituito. Ho troppe grazie a rendere a lui; ma non sarò ingrata a chi fu strumento della sua misericordia.„

“Che fareste per quest'uomo?„

“Se egli è povero, dividerò con lui la mia fortuna; se egli avrà perduto un figlio, farò quanto sta nelle mie povere forze perchè egli si consoli e lo riveda.„

“E se non avesse bisogno di denaro, nè dell'opera [320] vostra; se egli non vi cercasse la riconoscenza che opera, ma la generosità che dimentica; vorreste voi negargli quel bene che è in vostro potere l'accordargli?„

“Io non giungo a comprenderti; la mia testa è ancora confusa — Tu mi parli di generosità; di dimenticanza....„

“Per condurvi, mia buona figliuola, a parlar di perdono„ interruppe Canziana con una tenerezza ed un autorità del pari marcate.

“Di perdono? — soggiunse Agnese meravigliata. — La grazia, che oggi il cielo mi ha fatto, può rendermi forse superba a segno di scordare che io, più d'ogni altro, ho bisogno d'essere perdonata? Dio sarebbe buono con me, se io pensassi di essere spietata cogli infelici?„

“Questi pensieri sono degni di voi; coltivate il buon proposito, n'avrete merito per l'anima vostra e conforto pel cuore. È sì bello il perdonare!„

“Il sacrificio de' miei risentimenti non è opera d'oggi, mia cara. Perdonai quando io era meno felice che non la sono adesso. In questo momento, se io volessi ridestare le mie ire, scuotere le passioni illanguidite, credi, quelle e queste non risponderebbero all'invito. Io mi sento troppo felice per pensare ad altro fuorchè a rendermi degna d'esserla.„

“Siete dunque disposta a perdonare anche a chi ha fatto male a vostro figlio; non è vero?„

“Sui bambini vegliano gli angeli, ripigliò Agnese; chi fa del male agli innocenti sfida il cielo, e provoca le sue vendette. Il colpevole dunque non cerchi perdono [321] umano, invochi quello di Dio. Ma io povera creatura non mi scorderò di lui; pregherò il Signore perchè ei si ravveda: Dio toccate il cuore a quello sciagurato, — soggiunse con accento d'ineffabile pietà; — fate, ch'ei riconosca il suo delitto, e che torni meritevole della vostra grazia.„

Questa non era soltanto pietà materna; in tali parole era stillato il balsamo della eroica carità, che vendica l'offesa col beneficio. La madre, nel parlare del colpevole, alludeva allo sconosciuto che, ingannando la sua vigilanza, l'aveva strappata dal santuario dei suoi affetti per profanarlo. Ma il conte pigliava le parole d'Agnese per sè; egli aveva oltraggiato la natura; e il suo crudele abbandono preparò i pericoli, che avevano minacciato la vita di due innocenti. — I detti d'Agnese, severi come ogni atto di una madre che difende il suo sangue, racchiudevano però tale e tanta generosità, che rendevano grato il rimprovero.

E infatti, a tali parole credette il conte che fosse venuto il momento di farsi conoscere. Stanco degli indugi, e trascinato da un invincibile affetto, uscì dall'ombra che lo proteggeva; con passo fermo s'avvicinò al letto dell'inferma, e con voce commossa la chiamò per nome.

All'impreveduta comparsa, Agnese tornò quasi a dubitare di sè. Agitata e sbigottita, ella tremava; voleva parlare e non sapeva trovare una parola. Si stringeva al petto con maggior forza il bambino, come se le fosse scudo a un pericolo indeterminato. Fissò con occhio incerto e pieno di lacrime quella apparizione, ma non potè reggere agli sguardi commossi [322] che ella incontrava. — Canziana era tornata alle parole tronche ed insignificanti; la buona donna, vinta dalla pietà, spendeva ogni sua forza a soffocare il pianto.

“O Agnese, ripetè il conte ponendosi una mano al petto, ecco la cagione prima di tutti i vostri mali. Io non dissimulo la mia colpa, io non cerco scuse. Solo vi assicuro, che l'offensore è assai più sventurato dell'offeso; questo è l'unico titolo, che io vanto, per credermi meritevole della vostra pietà.„

In dire queste parole, il conte s'avanzò fino al letto d'Agnese, e vi si inginocchiò allato.

Agnese restò come interdetta. Il suo cuore, straziato da una passione che soverchiava ogni altro sentimento, non gli suggeriva una parola; e, quando pure l'avesse trovata, il labro non sapeva pronunciarla. Fu ancora il conte che ruppe il silenzio.

“Voi tacete, o Agnese? che devo pensare? Esitate forse nel pronunciare una parola severa? Ditela, io vi sono preparato; quella parola non può essere d'odio e di sprezzo. Voi non conoscete ancora la storia de' miei mali, non sapete che l'ingannatore fu prima di voi vittima d'un inganno. Per dovere di carità, prima di condannarmi (giacchè per certo non desiderate di trovarmi colpevole) voi vorrete ascoltare le mie parole.„

“Lasciate che dica anch'io la mia; interruppe Canziana. Figliuola diletta, checchè possa essere avvenuto in addietro, fatto è che chi vi rende oggi il vostro Gabriello è il Conte di Virtù.„

“È suo padre„, disse il conte con voce appena intelligibile.

[323]

Agnese a quelle parole si coperse il volto, e pianse; ma le sue lacrime non erano certamente di sdegno o di dolore.

Dopo un breve silenzio, dileguatosi il rossore che ella aveva tentato di nascondere, rilevò la testa, e veduto l'atteggiamento in cui si teneva il conte:

“Che fate, gli disse; levatevi, o signore; che v'ha d'attraente nella miseria perchè v'inchiniate a quel modo davanti ad essa?„

“Promettetemi il vostro perdono„, replicò il conte in atto supplichevole.

“Ho perdonato a chi mi rapì il figlio. A chi me lo rende devo la mia eterna gratitudine.„

“Voi siete generosa, ed io oso chiedervi di più. — La nostra mente e i nostri cuori s'incontreranno d'ora inanzi sur un oggetto comune. Voi amate Gabriello, voi pensate ad esso e al suo avvenire; io penso a lui, ed amo lui al pari di sua madre. L'esistenza di questo bambino sarà il ritrovo delle nostre anime. — Le leggi umane e i riguardi sociali invano potrebbero impedire questo fortunato incontro. O Agnese, io vi chiedo soltanto ciò che la natura vuole imperiosamente. Vi chiedo per grazia di poter amare quel bambino; perchè, se anche m'imponeste d'obliarlo, io non potrei obedirvi.„

Agnese avrebbe chiuso l'orecchio alle parole del conte se egli avesse parlato in altro modo. Non era studio od arte in lei l'esitanza dignitosa con cui mostrava di aggradire tali dichiarazioni. Costretta a dir pure la sua parola, rispose:

“Una madre protegge il proprio figlio dalle ire e [324] dalle minaccie degli uomini; fra lui e i perversi pone le sue cure, l'educazione, l'esempio, la vita. Ma all'amore altrui essa lascia libero varco. Sarebbe crudele il voler impedire il culto a queste creature innocenti che sono imagini degli angeli.„

“Voi non mi comprendete.„

“Vi ho compreso perfettamente, o signore. Intenerito dalla sorte di questo povero orfanello, voi pensate compensarlo dell'abbandono altrui. È commendevole, è santa la vostra pietà.„

Qui è bene il confessare, che tali parole, riferite seccamente, come noi facciamo, sembrano improntate di qualche amarezza. Ma il tuono di voce, con cui erano dette, smentivano ogni apparenza d'ironía. Certo è, che un'anima appassionata non poteva tornare su quelle memorie senza sentirne dolore. Il ricordo del passato e la vista dell'avvenire, sembravano due nemici in lotta fra loro. La ragione ed il cuore parteggiavano oppostamente sullo stesso campo.

Pel conte, che guardava Agnese, e ne seguiva la mobilità del volto, queste parole benchè decise, non erano che la parte meno eloquente del suo linguaggio: erano, se ci si permette il paragone, come un velo diafano sovraposto ad un oggetto prezioso, che lo fa scorgere a mezzo, ma ne lascia indovinare tutto il valore.

Il conte ripigliò il discorso per esporre le vicende di quella giornata. Raccontò quanto sapeva di Gabriello, e quanto aveva fatto per lui; ma non si curò di dar rilievo all'opera sua; anzi, studiandosi d'essere parco della parola, attribuì tutto il merito della riuscita alla Providenza, chiamandosene semplice e [325] casuale strumento. Con ciò, egli assecondava un nobile assunto; gli interessi del cuore gli facevano presentire che l'alta origine dell'impresa avrebbe rialzato anche il fortuito suo esecutore.

Il lettore, che conosce i fatti, ci dispensa dal riferire le parole di lui. Diremo soltanto com'egli chiudesse la sua narrazione.

“Or bene, continuò egli, prima d'incontrarmi in quella creatura, io dovetti cedere ad una forza superiore che mi trascinava vicino a lei. Mi fu detto che quel bambino era un orfano, e sentii la necessità di dargli un padre; ch'egli era povero, e promisi a me stesso di sollevarlo dalla miseria; chiesi il suo nome, nessuno me lo disse, ed io m'affrettai a dargli il mio. Non mi fate merito di soverchia pietà. La natura, mio malgrado, mi dimandava in secreto l'adempimento de' suoi voti. Ed ora, ora dovrò io dimenticare colui, che ho amato prima di conoscere? Dovrò dimenticarlo perchè egli è vostro figlio... perchè è mio.... perchè è sangue del generoso Maffiolo Mantegazza? Non mi chiedete o Agnese, se io debba far ciò. Voi l'avete detto, è crudele il voler impedire un libero culto all'innocenza.„

Agnese, benchè non levasse gli occhi dal suo bambino, mostrava di porgere tutta l'attenzione a tali parole.

“In quest'atto, — proseguì il conte dopo una breve pausa, porgendo alla madre il rotolo di pergamena di cui abbiam parlato, — in quest'atto io chiamo mio figlio adottivo il derelitto, che ora consegnai a sua madre, e che, come ella dice, è un orfano. Per questo [326] scritto Gabriello porterà il nome, e godrà i privilegi dei Visconti. — Il documento, che io sto per rimettere nelle vostre mani, è legge in tutta la signoria del Conte di Virtù. Ma il principe vi dichiara, che la sua volontà è oggi subordinata alla vostra. Egli attende di sentire dal vostro labro se accettate la proposta.„

Agnese ricevette dalle mani del conte il diploma, lo spiegò, finse di leggerlo, o lo lesse realmente per pigliar tempo a decidere. — La prima risposta che le corse alla mente fu una franca e dignitosa negativa. Ella voleva essere dimenticata e dimenticare. Il suo amore materno bastava a fare serena, se non felice, la sua esistenza; quest'amore doveva essere la difesa e la ricchezza di suo figlio. La storia della sua famiglia le ricordava una serie di nobili atti, un costante sdegno d'ogni servilità, una circospezione non mai smentita in accettar favori da chicchessia. Ma, appena ebbe proposto il rifiuto, sbollì quel subito orgoglio, e il pensiero volò a suo figlio, all'avvenire di lui, alla forse per lui troppo grave oscurità del nome. — Ripetè nella mente alcune frasi dell'ultimo scritto di suo padre: quelle che più si attagliavano alla circostanza; e dovette confessare che il suo genitore faceva del Conte di Virtù una lusinghiera eccezione fra i signori dell'epoca. Pensò che, se l'amore materno è il compendio dell'esistenza di una donna, la pietà figliale è per la prole un brano soltanto della sua vita. Pensò ai casi recenti, ai quotidiani pericoli, ai fatti della stessa giornata. Dubitò che l'amor suo fosse temerario in promettere; temette che le forze fossero di gran lunga meno efficaci, che non i propositi. — Pensando prima [327] a sè, poi a suo figlio, la ripulsa le sembrava nobile ed onesto partito; ma se volgeva il pensiero prima a lui, e tornava poi a sè stessa, sentiva che essa era un atto di freddo egoismo; un ribellarsi quasi ai disegni della Providenza. — Levò a caso gli occhi su Canziana, e vide che il volto di lei era radiante di gioja; di una gioja però ansiosa e irrequieta. Le parve di leggere in quell'aria di contentezza l'approvazione alla proposta del conte; anzi, travide o credette di travedere, che la buona donna si sentisse scemare il cuore al solo dubio di non vederla accolta.

L'ansietà è contagiosa. Agnese contrasse l'inquietudine della governante, e sentì, come essa, il bisogno d'escire da quell'imbarazzo. L'impazienza rendeva più difficile il raffronto delle ragioni che dovevano guidarla ad una scelta; ma la necessità di scegliere diveniva sempre più incalzante. Forzata a rispondere, prima che la sua mente avesse sciolta la questione, determinò di abbracciar quel partito, che imponeva alla madre il maggior sacrificio. Le parve con ciò di mettere al sicuro la sua coscienza. Ponendo sè stessa al di sotto degli interessi di suo figlio, ella poteva esser sicura di dar prova di materna carità. Dove più grande era l'atto d'abnegazione, ivi più nobile e più efficace era la testimonianza d'amore.

La parola che traducesse questi sentimenti era scritta nel cuore, ma non trovava la via ad escire pel labro. Avrebbe voluto dire al conte: “io vi rendo l'amore di vostro figlio, e null'altro che questo„; ma temeva con ciò di separare il suo avvenire dall'avvenire di Gabriello; temeva di stringere un'alleanza a condizioni [328] troppo onerose. E quando ciò fosse una promessa, avrebbe ella la forza ed il proposito di mantenerla? Se le veniva chiesto una più chiara definizione del nuovo patto, avrebbe il coraggio di esporne le condizioni, sì intime, sì delicate, sì difficili a tradursi colle parole? Ella dunque non voleva essere ascoltata, ma compresa; esigeva l'assenso altrui, senza averlo richiesto apertamente. Infatti, la parola timida ed incerta poteva destare sospetto di una accettazione incondizionata; la franca e decisa aveva l'aria di un rimprovero ingeneroso.

Collocata a sedere sul letto, aveva il bambino a sinistra, e se lo teneva vicino con un amplesso. Dallo stesso lato era Canziana pietosa sempre e confidente, ma discreta e taciturna. All'opposta parte stava il conte; il quale, levatosi in piedi, aspettava la sua sentenza.

Allora Agnese, seguendo un'ispirazione del cuore, e ripudiato l'infido magistero della parola, sollevò dolcemente dalla sua giacitura il bambino; e, trasportandolo all'altro lato, lo collocò fra sè ed il conte, sporgendolo verso lui con tale atto di vivo e sobrio affetto, che il labro non avrebbe saputo esprimere.

Fu questa la sua risposta, e come tale l'accolse il conte. Quest'atto fu l'espressione fedele della volontà della madre, fu il suggello o la confessione di un fatto, non una promessa, e molto meno un arrendersi per l'avvenire. Gabriello era in mezzo a' suoi genitori; vicino così all'uno come all'altro. Alla consacrazione di un legame, che ravvicinava le sorti di due infelici senza confonderle, vegliava un angelo. La sua innocenza [329] era scudo all'onore di una donna, e poteva divenire una minaccia per chi si fosse scordato di rispettare la santità del nuovo patto.

Due cuori intanto convenivano nello stesso accordo: rivolti ambedue ad un solo scopo, dovevano correre di pari passo sur una strada vicina, attigua, ma non comune; dovevano provedere allo sviluppo ed all'incolumità di un tesoro indiviso, egualmente prezioso ad entrambi.

L'amore che il conte serbava per Agnese, rigettato poco prima nel novero delle pallide rimembranze, riceveva un nuovo battesimo; si ritemprava nella vita e nell'affetto del figlio. Dietro lui e per lui, poteva egli riamare liberamente la donna, che glielo aveva dato due volte. — Del pari Agnese, nell'aspetto del figlio e nel nobile orgoglio di chiamarsi madre, necessariamente risaliva col cuore a colui, che non si vergognava d'avere amato.

Le destre del conte e d'Agnese, mosse da un medesimo istinto, s'incontrarono carezzevoli e vogliose di pace sulle gote di Gabriello. Ivi l'una cercò l'altra, ed entrambe si confusero in una stretta, pegno di perdono e d'alleanza. Poscia due teste, l'una dopo l'altra, si chinarono sulla fronte del bambino, e vi deposero un bacio. — Agnese non respirò che gli effluvj dell'innocenza; il suo bacio fu soltanto un atto d'ossequio alla natura e una caparra di pace. Ma il conte, benchè agguerrito da nobili propositi, nel baciare il figlio assaporò l'ebrezza lasciatavi dalle labra che lo avevano preceduto.

La vertigine fu così grave come passeggera; nè allora, nè in sèguito, Agnese corse altro pericolo.

[330]

CXXXIX.

Fare concessioni ad un'anima appassionata, e pretendere ch'ella ne usi sobriamente, è come voler trarre poca acqua da una fiumana gonfia, spillandola dall'argine che la sostiene. Si corre grave rischio, che lo spirito della corrente roda l'escita, ed irrumpa. — Il bene che l'uomo sa fare per istinto, o per consiglio della virtù, può pur troppo andar sfruttato per una momentanea incuria, o per l'incontro casuale di avverse circostanze. La carità c'insegna dunque a non aggravare le azioni altrui di troppo severi giudizii; e la ragione ci induce a non credere sempre, che quando la virtù esce incolume da un grave pericolo sia tutto e solo merito nostro. Nello scusare, fino ad un certo punto, il male perchè l'uomo può esservi trascinato quasi inconsapevolmente, non dobbiamo imbaldanzir troppo del bene, perocchè più di una volta vi siamo condotti da una mano invisibile. Quella cagione superiore, che, lasciandoci liberi di operare, dispone però le cose intorno a noi in modo da renderci più facile e più distinta la scelta, chiamatela pure destino se essa ci volge al male; io la chiamo providenza quando ci guida al bene. — Posto ciò, non deve far meraviglia se alcuna volta la fiumana, travagliata all'argine, corre giù per la china senza traboccare; se la favilla si spegne in mezzo alle stoppie; o se due cuori appassionati obediscono alla ragione, e, nutrendo e professando amore, praticano soda e temperata amicizia.

[331]

A questo punto ci pare che alcuno ne dica: questa vostra virtù che annunciate di volerci mostrare d'ora inanzi sempre in mezzo ai pericoli, e sempre salva, dopo quei precedenti di fragilità che ci avete svelati, è meravigliosa, è edificante, ma è poco credibile. Il mondo progredisce, o indietreggia; ma la natura non si cangia: ciò che non sembra possibile per gli appassionati del giorno d'oggi, non può essere probabile per quelli di quattro o cinque secoli addietro. Date (è sempre l'amico lettore che ci consiglia) date al vostro racconto un altro scioglimento; cercatene uno più spiccio e più clamoroso. Se non è il vero, sembrerà almanco il più verosimile.

La colpa di queste apparenze non è di chi scrive, ma di chi gli ha fornito il materiale per tesserne un racconto. Forse fu un torto l'essergli stato troppo ligio, e il non aver osato deviare dalle sue orme. È già una colpa molto diversa e molto più perdonabile.

La tentazione di abbandonarlo l'ho provata, a dir vero, anch'io. Mi sorrise più d'una volta l'idea di chiudere il racconto con una di quelle catastrofi, che scuotono così bruscamente l'animo del lettore da non lasciargli tempo e capo per giudicare se siano vere od assurde. — Fra una rottura completa ed una completa riconciliazione de' nostri eroi, che potevano essere due buone escite, quello scioglimento che, per ossequio alla cronaca, si è prescelto, un'alleanza cioè incerta e condizionata, mi parve il più meschino e il meno efficace. Allora ho schierato dinanzi a me, non senza provarne qualche seduzione, veleni, pugnali e simili spedienti da scena. Occhieggiai una cella solitaria, [332] in cui Agnese avrebbe potuto co' suoi languori espiare il suo fallo: e mi parve che tale avvenimento, oltre essere l'unica soluzione del garbuglio, poteva offrire gli estremi ad un episodio vivo e patetico.

Eppure, ragioni più sode hanno dissipata la tentazione. Dopo aver fatta tanta strada col nostro cronista, ed esserci scambiati molti tratti di cortesia e di benevolenza, non mi parve bello l'abbandonarlo, così su due piedi, per l'unica ragione ch'egli pareva avere la fantasia un po' stanca. Oltracciò, al punto in cui siamo, le pagine del cronista non appartengono più a lui, ma sono per così dire la porta secreta che guida al santuario inviolabile della storia, per la quale ora devesi introdurre il nostro lettore.

Quando mi balenò dunque alla mente il pensiero di separarmi dal compagno, non era più il tempo di farlo. Era bensì lecito di mettere a soqquadro quanto precede e prepara il nodo del racconto, ma lo scioglierlo con un atto violento, in un modo diverso da quello che la storia addimanda, era un tradire la verità ed armare le censure dei passati e dei presenti. — Ed anche qui (poichè sono in vena di schiettezza) dovrò confessare, che gli sdegni del cronista non mi facevano paura, perchè il poveretto è morto senza successori; ma il manomettere il tesoro degli storici, che vivono nei loro libri, e che hanno legato i loro tesori ai dotti, mi parve un atto troppo temerario e pericoloso. — Continuiamo dunque colla cronaca; poichè da questo punto la cronaca cammina di fianco alla storia.

[333]

CXL.

Agnese, dopo quell'atto spontaneo di affetto che era ad un tempo una risposta ed una proposta, sentì svanire da sè l'esitanza, che poco prima la costringeva al silenzio. Non temette di aver concesso troppo, ma provò la necessità di rischiarare la posizione d'entrambi, accennandone i patti. L'importanza del soggetto, le inspirò quella parola nè timida, nè severa, che conveniva ad una donna e ad una madre. — Canziana rimase presente al colloquio: se avesse tentato di allontanarsi, Agnese l'avrebbe trattenuta.

“Eccovi, disse Agnese, quella creatura a cui volete dare il vostro glorioso nome. Sia come il cielo ha destinato. Amate dunque il vostro figlio d'adozione; ma rammentate ch'egli ha una madre, che essa fu tanto sventurata; e che, se ora si chiama meno infelice, gli è perchè il cielo le ha fatto dono di questo tesoro.„

“O Agnese, interruppe il conte, io voglio amare Gabriello con voi, non contro di voi. Voglio che egli gusti la prima e la più soave delle dolcezze umane, l'affetto di sua madre. Io non porrò tra voi e vostro figlio l'autorità del padre adottivo; non lo chiamerò presso di me, se voi non l'avrete congedato dalle vostre braccia. Quando, confuso fra i giovinetti amanti la gloria delle armi, mi chiederà una spada, io gliela cingerò, e gli insegnerò ad usarla.

“Ma fino a quel giorno....„

[334]

“Fino a quel giorno sarà tutto vostro. — Egli ebbe da voi il primo nutrimento del corpo; riceverà da voi stessa il primo pane dello spirito. Tocca alla madre l'insegnare a'suoi figli le prime virtù.„

“Voi siete generoso„ — soggiunse Agnese visibilmente commossa.

“Non mi chiamate troppo presto con tal nome. L'egoismo dell'amore rassomiglia qualche volta alla liberalità di chi semina a piene mani, perchè spera raccogliere nell'egual misura — Quando avrete udito le mie condizioni....„

“Le condizioni, e quali?„

“Quelle che sono richieste dall'osservanza de' miei doveri. L'affetto mio per Gabriello non deve essere un vacuo e leggiero sentimento, che si esaurisce in aspirazioni ed amplessi. È la paterna tutela che mio figlio esige da me; è la incolumità de' suoi giorni, che io gli debbo anzitutto assicurare.„

“Dubitate forse della mia sorveglianza, delle mie cure?„

“Mi guardi il cielo. Gabriello può dormire tranquillo sul seno di sua madre; ma la madre (ditelo in buona coscienza) può ella chiudere gli occhi un momento, e sognare sicurezza in mezzo ad un mondo che l'ha fatta più volte bersaglio della sua malevolenza? — Chi protegge questa donna derelitta; chi difende in lei i diritti della natura?„

Agnese impallidì; gli occhi le si riempirono di lacrime.

“Voi pure, continuò il conte, vi chiamate convinta del mio amore per Gabriello, ma per ciò sareste [335] voi pronta a staccarvi da lui, ed a confidarlo senza riserva alle mie cure? V'ha forse una ragione, o Agnese, perchè io ami meno, o diversamente, quel figlio? L'ansia, che provate alla sola idea di saperlo lontano, è comune anche a me. Io non dubito della madre, ma degli uomini: io non voglio dividere Agnese da Gabriele; ma mi colloco fra questi cari oggetti dell'amor mio e il mondo che li minaccia?„

“Che dite mai, o signore? Voi mi fate paura.„

“Pensate a ciò che è avvenuto jeri, pensate ai fatti d'oggi, e dite se possiamo vivere tranquilli pel dì venturo.„

“Pur troppo! — aggiunse fra sè, ma ad alta voce Canziana, — pur troppo. Senza una grazia del cielo il povero Gabriello era perduto. Non bisogna fidar troppo e sempre nei prodigi; è più saggio prevenire il pericolo che volerlo incontrare per vincere.„

“Anch'io penso così. È perciò che mi sono rinchiusa in questa dimora solitaria, affinchè il mondo si dimenticasse di me.„

“Ma le fiere hanno fiutato da lungi le peste della vittima. Voi potete fuggire di qui, credervi sicura in un luogo ancora più remoto di questo; i ribaldi vi seguiranno, vi raggiungeranno.... Questa guerra codarda va loro a sangue....„

“Ma Dio mio! perchè tanta persecuzione?„

“Non mi odiate per questo, o Agnese; io voglio essere sincero: la causa di ciò sono io. I tristi assalgono il Conte di Virtù nelle sue interne affezioni; perchè non osano attaccare le sue schiere, e far legittima guerra. Gli vogliono rapire il figlio, come gli hanno rapito il cuore dell'amante.„

[336]

Agnese proruppe in uno scoppio di pianto.

“Ma qual è il rimedio a tanto pericolo?„ chiese poco dopo la madre.

“La pietà per vostro figlio vi chiede un nuovo e più grande sacrificio. — La proposta che io sto per farvi è penosa, ma necessaria. Oh perchè Dio non ve la inspira!„.

“Dite, o Signore; io son pronta a tutto.„

“Voi lascerete al più presto possibile questa dimora, e cercherete un asilo nel castello di Pavia.„

“Ciò è impossibile„, rispose recisamente Agnese.

“Era impossibile alla donzella d'un anno fa; ma alla madre, che vuol porre al sicuro suo figlio, ciò è necessario.„

“Dovunque io mi trovi, gli scelerati non oseranno toccare il mio Gabriello: io lo difenderò colla preghiera, colle strida, colle armi se fia d'uopo. Non l'abbandonerò mai; chi vorrà stendere la mano su lui dovrà prima uccidere sua madre.„

“O Agnese, tutto ciò è nobile, è santo; ma la natura non è sodisfatta da questi eroici propositi. Vi è chi vuole, e chi deve dividere i vostri pericoli. Quel desso son io„.

“Ma nel proteggere Gabriello non vi è lecito mettere un'altra volta in pericolo l'onore di sua madre....„ soggiunse con eguale risolutezza Agnese.

“Dubitate voi di me? Oh, allora, fra due mali, fra due incertezze, spetta a voi sola la scelta„.

“Io ho fede nella vostra generosità; ma questa fede, fosse anche la più viva e provata, non mi autorizza a scordare i riguardi che debbo a me stessa. — Ciò [337] che è avvenuto, non mi ha tolto ogni speranza di riabilitarmi dinanzi alla mia coscienza ed agli uomini: io debbo volgere ogni mia azione a questo scopo.„

“Temete il mondo, poveretta; e vi chinate dinanzi all'effimera autorità de' suoi giudizii?„

Agnese tacque.

“Vorrete dunque sacrificare la vita e la salvezza di vostro figlio al timore della loquacità de' miei cortigiani? Sappiate che l'arma della calunnia è inoffensiva in corte, perchè troppo abusata. Ciò che oggi lo sfacendato servidorame guarda sott'occhi e beffeggia, dimani trova degno di plausi e d'onori. Io ho l'arte di soffocare l'insultante sorriso, che vi fa paura; saprò (ve lo giuro) rispettare il vostro nome, e fare ch'esso sia rispettato da tutti.„

Meravigliata della franchezza di queste parole, Agnese non insisteva nella sua ripulsa; ma, con un'aria di aspettativa angosciosa, invitava il conte a spiegare più chiaramente le sue intenzioni. — Tali parole riescivano ancora più misteriose a Canziana; ella voleva ardentissimamente il meglio della sua padrona, ma non sapeva dove cercarlo, a che e a chi fidarsi.

“Uditemi attentamente, proseguì il conte. — Voi conoscete quali rapporti esistano fra me e il signore di Milano: non ignorate, che fino a questo giorno io ingannai la vigilanza de' miei nemici, che seppellii nel fondo dell'animo i miei sdegni, perchè si accumulassero, che posi in essi la mia ricchezza, la mia forza. Oggi mi sento forte e ricco; il modico risparmio di molti giorni è divenuto un tesoro. Il principe timido e docile, che studiava la capricciosa volontà di un parente, [338] per piegarvisi, da questo istante vuol gettare la maschera. — V'ha fra i prìncipi un linguaggio che vince ogni ardita parola, che pareggia la stessa minaccia. — Se oggi Barnabò Visconti mi spedisse un suo legato, io non avrei che a rifiutargli un sorriso, perchè si rompesse la guerra fra me e il signore di Milano. — Ma non è ancor tempo di ciò. Il mio mutar di condotta vuol essere deciso, non imprudente. — La vostra apparizione al castello di Pavia sarà il primo passo verso un'esistenza più libera. Voi sarete il genio benefico che rompe un fatale incanto„.

“E i legami di parentela che avete stretto da poco tempo colla corte di Milano? e l'amore di Caterina Visconti?„

Lasciamo al lettore il definire se in queste parole si celasse un avviso od un rimprovero, se fossero dettate da sentimento di pietà, o da un sintomo inavvertito di gelosia. È probabile che vi entrasse un po' di tutto.

“Voi mi parlate di Caterina? Infelice creatura! Non fu mai fatto strazio più crudele della volontà di una donna. — Fanciulla, fu ceduta al migliore offerente; al Conte di Virtù piuttosto che ad altri, perchè il conte la chiedeva a più larghi patti. Sposa, si vuol fare di lei un secreto strumento del signor di Milano. La timida donna non è atta a tanto. — Una lettera di suo fratello Rodolfo la impegnava due giorni fa, in nome del padre, a spiare le mie intenzioni e a riferirle. Ella respinse la proposta; si chiama o si sente inetta a così odioso incarico. — Io ebbi nelle mie mani lo scritto dell'uno e la risposta dell'altra. Caterina è incapace a far male.„

[339]

“Perciò appunto io rispetterò la calma, di cui ella gode. La mia presenza potrebbe turbarla.„

“Se avete fede in me, se credete alle mie promesse, non dovete temere per lei. La fermezza, con cui vi do parola di volere rispettare i diritti di quella donna, deve essere una guarentigia sacra e solenne anche pei vostri. — Orsù Agnese; non create ostacoli alle mie risoluzioni. È tempo che il timido vassallo di Barnabò scuota il giogo, e ripigli la sua autorità. — Prima di amar voi, prima di sposar Caterina, io era secretamente legato alle sorti di vostro padre e de' suoi amici. Ho temporeggiato anche troppo.„

“Io non comprendo, come ciò che mi chiedete possa entrare in tali disegni.„

“Dal momento che la figlia di Maffiolo Mantegazza avrà posto il piede nel castello di Pavia, dirò che ho gettato il guanto al Visconti di Milano.„

“Ma con qual titolo la figliuola del proscritto varcherà la soglia della reggia dei Visconti?„

“Potrà entrarvi come un'infelice profuga e perseguitata che chiede ed ottiene protezione, ospitalità. Potrà rimanervi come dama d'onore di Caterina nel novero delle matrone e delle donzelle, tolte alle famiglie più affezionate al Conte di Virtù. — Vi è grave, lo so, questo nome; ma, per la memoria di vostro padre, non lo rifiutate. Il sacrificio lo rende nobile; se questa proposta vi fosse sembrata bella e fortunata, allora vi direi: diffidate, o Agnese. In far ciò che vi è grave, avrete salva almeno la vostra coscienza.„

Fra le tante ragioni, colle quali il conte tentò smovere l'animo d'Agnese, questa fu la più valida. Cedendo [340] in altro tempo alle parole di lui, aveva provato un'ebrezza lusinghiera; quell'ebrezza era stata un inganno. Ora ad una preghiera, fattale dalla stessa persona e con non meno vivo affetto, ella provava una commozione grave, solenne, quasi dolorosa. Ma l'idea di un sacrificio ripigliò su lei quell'impero, che altra volta fu usurpato da una vana lusinga di felicità. Tacque Agnese, ma il silenzio ebbe il significato di un'affermativa rassegnata. Il suo aspetto calmo e sereno crebbe il valore della tacita risposta. — Il conte e Canziana l'interpretarono come un si; e l'accolsero con immensa gioja.

CXLI.

Il meno sodisfatto di un simile scioglimento, diciamolo un'altra volta, è chi scrive. Egli avrebbe voluto far d'Agnese un'eroina, e forse poteva sperare di riescirvi anche dopo quello che si è narrato. Ma ora, al punto cui sono avviate le cose, chi potrà persuadersi che altra ragione, fuorchè un amor recidivo, fosse il secreto consigliero della sua docilità? — Le promesse del conte sono sospette; l'assenso di Canziana non ha sufficiente peso. — Nondimeno, questi momenti d'incertezza, questi inciampi involontarii della virtù, ci attestano veritieri. Nulla è più atto ad autenticare l'originalità di un ritratto e la sua felice rassomiglianza, quanto il non avervi omesse le rughe e le chiazze.

I nostri personaggi, ciascuno secondo le proprie viste, chiamarono fortunata la fatta risoluzione. Agnese [341] fece tacere i suoi dubii per rallegrarsi al vedere rivivere i disegni di suo padre. Il conte v'aggiunse il conforto di potere finalmente venire in grado di rendere ad Agnese un po' di quel bene che la sua improvida condotta le aveva rapito. Pensava di circondarla d'ogni sua cura, di darle le migliori e le più sode prove d'affetto; ma queste cure e queste prove d'affetto dovevano essere tali che non la facessero pentita mai della sua fiducia. Egli si trovava forte a ciò; si rallegrava con se stesso; e, affrettiamoci a dirlo, non si rallegrava a torto. — Canziana era fatta lieta dalla convinzione di veder adottato un partito, che poneva al sicuro i suoi diletti padroni. Non era cieca però; vedeva anzi da lontano più pericoli che in realtà non esistessero. Ma altri più gravi e più urgenti pericoli la sospingevano ad accogliere la proposta del conte come un favore, che la Providenza non volgerebbe a male.

Dopo una settimana, che passò nè lieta nè mesta, Agnese, perfettamente risanata, abbandonò, in un con Gabriello e Canziana, il suo ritiro. — In quel punto, gravi pensieri si levarono nella mente loro e resero più doloroso il congedo. Nella mesta calma di chi partiva non v'era soltanto il rammarico delle abitudini troncate. — La buona gente, che aveva esercitata l'ospitalità con nobile disinteresse, pigliò per sè quella manifestazione. Con segni di affetto riverente accompagnò chi partiva fino sulla strada maestra. Ivi la separazione fu affettuosa. La memoria del ricevuto beneficio e la sodisfazione d'aver fatto del bene, durarono ben oltre quel giorno. Agnese ricordò [342] per tutta la vita la carità de' suoi vicini, e potè a suo tempo attestar loro, coi fatti, che chi fa del bene impresta a Dio.

L'ingresso di Agnese nel castello di Pavia fu, come era a prevedersi, segnalato dal solito cicalio dei crocchii cortigianeschi. L'arrivo di una dama era per quegli sfacendati un fatto significante; la bellezza di Agnese, ancorchè modesta e riservata, divenne in breve il punto di mira degli sguardi i più appassionati. Il suo nome e le sue disgrazie prestavano argomento a varie e strane dicerie. — Taluno osò sulle prime tessere sul suo conto novelle poco onorevoli; qualche altro, coll'aria languida e i frequenti sospiri, tentò farsele vicino, e render vere le ingiuriose supposizioni dei calunniatori. Ma la costumatezza di Agnese, i modi onesti e parcamente socievoli, coi quali ella trattava indistintamente tutti i cortigiani, disarmarono in breve le male lingue, e tolsero ogni speranza ai malcreati paladini.

Anche la condotta del Conte contribuì a tale intento, perocchè egli seppe proteggerla più col riserbo, che non coi fatti. In capo a poche settimane, la turba linguacciuta non trovò più il solito diletto nel malmenare la riputazione d'Agnese. Non convinta della sua innocenza ma distolta dal triste officio di scovarne i misteri, finì per rispettare in lei una protetta del padrone, la creduta àrbitra della sua volontà. In corte non mancavano argomenti nuovi e bizzarri per sbramare la cupida oziosaggine degli infingardi. — Agnese pertanto fu salva dalla stessa malevola leggerezza de' suoi nemici.

[343]

Ma era essa felice? Se le fosse bastato il sentirsi sicura dalle minaccie, che l'avevano funestata nel suo ritiro, o il vedere dissipati i pericoli che accompagnavano il suo ingresso in corte, dobbiamo dire di sì. Se a far felice una madre basta il veder crescere bello e gagliardo il proprio figlio, dobbiamo ripetere di sì. — Ma la vita di Agnese non si rinchiudeva tutta entro questi limiti. Il conte non le aveva promesso soltanto di difenderla dalle insidie de' suoi detrattori: egli parlò e promise in nome di suo padre. — Da quel giorno la memoria paterna non fu soltanto una storia di affetti; fu l'idea fissa di un sacro dovere, di un voto che dimandava pronto e coraggioso adempimento.

CXLII.

In quel mezzo, un'altr'anima si scosse, tocca dai sintomi di una passione nuova e prepotente. La languida e svogliata Caterina, al primo vedere Agnese, sentì per essa un'antipatìa foriera di malevolenza e d'odio. La prima volta che la vide fra le dame d'onore, la privilegiò coi tratti della più marcata incuria: appena levò su lei lo sguardo, lorchè il maestro delle cerimonie, presentandola come un nuovo fiore della sua corte, ne pronunciò il nome, e l'accennò colla mano. La sua avvenenza l'irritava; e, siccome non era possibile metterla in dubio, Caterina osò chiamarla una bellezza ipocrita ed usuraja. — Le traccie de' suoi patimenti, invece di meritare pietà, furono giudicate [344] sforzi ingannevoli dell'arte muliebre, di cui ella temeva ed invidiava gli incanti. Credette che quella donna fosse comparsa in corte per gettarle una sfida, e farla vittima de' suoi trionfi. Della sua vita non conobbe che quella parte che riguardava la persecuzione patita per volere di suo padre: ma bastava un tal fatto (e questo era il lato meno debole de' suoi ragionamenti) per credersela nemica, congiurata a suo danno.

Il conte trattava la nuova dama colla riverenza garbata e dignitosa, ch'egli usava con ogni altra della corte. Ma Caterina, delirante di gelosia, credette sorprendere sguardi d'intesa, parole misteriose, perfino mal repressi sospiri. Arrovellava se un fortuito incontro li avvicinasse; e se il caso li teneva disgiunti più dell'ordinario, ella interpretava questa tranquillante apparenza come un riserbo studiato, onde eludere la sua vigilanza, e preparare più tranquilli convegni. Da quel momento, la principessa finì d'essere la donna schifiltosa, noiata di tutto, indifferente a tutto. Raccolse quel po' di vita, che ella consacrava alla scelta dei giojelli e delle vesti, o alle lunghe arti dell'apparecchiatojo, per nutrire la nuova passione, che le faceva battere il cuore, fin allora inerte.

Corse voce nei crocchii dei cortigiani, che la principessa erasi fatta più avvenente. L'ira aveva per verità riacceso quel volto, che, nella sua irreprensibile regolarità, portava dianzi l'impronta di un'anima sonnolenta ed agghiacciata. Le sue gote si colorirono di un leggiero incarnato; gli occhi, di solito socchiusi e paurosi della luce, s'aprirono più liberamente, stanchi [345] dell'oscurità, avidi di vedere, di scoprire, di fulminare i colpevoli.

Ma i propositi, sanciti nelle irrequiete sue veglie, rompevano contro difficoltà insuperabili. Fissava ella cento volte l'ora il momento di dichiarar guerra alla sua rivale; giurava a sè stessa di non voler più oltre soffrire le supposte tresche; ma il dì e l'istante giurato non arrivavano mai. Ella era sola; nessuno aveva penetrato i suoi misteri; a nessuno, nemmanco alla più fida delle sue ancelle, aveva aperto il suo cuore e chiesto soccorso.

Taluno, indovinando in quale tempesta si logorasse l'infelice donna, mosso da una pietà non innocente, osò andarle incontro ed offrirle quella servitù, che essa non sapeva chiedere. Uno scudiero, che aveva sogguardato tante volte con indifferenza la sua padrona finchè ella era assopita nella consueta sua noja, la trovò bellissima e seducente, dopo che la nuova passione aveva rianimata la dea di marmo.

Colpito dall'improviso mutamento, non osando dimandare nè a lei nè ad altri la cagione di quei sospiri, cercò di sorprenderli e di appajarli co' suoi. Ai colleghi nojati dal servizio dell'anticamera si offrì, quante volte potè, come supplente; e studiò ogni mezzo, ogni pretesto, per aprirsi la via al gabinetto della principessa, e sorprenderne il solitario corruccio. I costumi cortigianeschi di quei tempi imponevano a scudieri e paggi di piegare il ginocchio dinanzi alla loro padrona, ogni qual volta dovessero presentarle alcuna cosa. — L'audace scudiero trasse profitto dalla positura supplichevole, a cui lo costringeva il mestiere, per volgere a [346] Caterina tale parola, che frantesa o male accolta avrebbe potuto costargli la vita. — Ma Caterina, stanca d'essere sola, non la sgradì. Ella non pensò ad altro in quel momento che a procurarsi un fido servitore, che spiasse per suo conto dove a lei non era permesso il penetrare. E per certo non imaginò che la devozione di quell'uomo potesse meritare altra mercede, fuorchè l'onore della privilegiata servitù e il compenso di qualche sguardo meno altero.

L'abile intrigante non aveva bisogno di veder ristabilita la calma in quel cuore; poichè allora Caterina sarebbe tornata la donna di prima, ed egli verrebbe confinato di nuovo nell'abbietta anticamera. Bisognava dunque non lasciar riposo a quell'acqua torbida, anzi sommoverla e intorbidarla sempre più; egli poi saprebbe trovare il momento opportuno per pescarvi dentro a suo modo.

Fu allora, e per mezzo di quello scudiero, che Caterina seppe il restante della storia di Agnese. Se nelle sue accuse, fondate sulle apparenze, ella era stata ingiusta, i fatti pur troppo gravi e certi, che ella arrivò a conoscere, rendevano perdonabile il sospetto.

A tale notizia crebbe in lei, se pur era possibile, l'odio per Agnese. L'animo suo, come il volto, fiammeggiò di una passione nuova, impetuosa, indomabile. Ma prima di esaminare i fatti e di riconoscere i colpevoli, prima di richiamare il marito a' suoi doveri, o di rompere coll'autorità del suo nome la supposta tresca, ella sentenziò e giurò vendetta. — Anzi, giova il dirlo, affinchè l'infelice condizione di questa donna non si usurpi una pietà, non meritata, ella avrebbe [347] respinta la sua calma primiera, quando dovesse riaverla a condizione di rinunciare all'ineffabile ebrezza di vendicarsi.

CXLIII.

Caterina stancò la mente nel cercare ed elaborare progetti. Alle pronte e violente determinazioni non inclinava l'animo suo, perchè la passione non aveva fatto che mutare in lei la timidezza in viltà. Preferì quelli che, associandola ai livori ed alle ambizioni altrui, le assicuravano il buon esito dell'impresa senza esporla a pericoli, od impegnarla nell'azione, facendola complice dell'opera d'altri.

Le venne in mente la lettera di Rodolfo suo fratello, che, come si disse, non aveva produtto su lei alcun effetto. La proposta, che in addietro le parve stravagante e criminosa, le si affacciò di nuovo al pensiero rivestita di seducenti colori. Tornò figlia rispettosa di Barnabò, sorella amorevole di Rodolfo, per coltivare con essi disegni di violenza e di usurpazione a danno del signore di Pavia. — Non durò fatica a scordare d'essergli sposa; o rammentò questo titolo soltanto per far più grande l'offesa ricevuta, e per credersi meglio autorizzata a punirla. Scrisse in proposito una lunga lettera a Rodolfo; nella quale, dopo di avere esposte le pene e le umiliazioni patite, invocava in suo soccorso la mente e il braccio del fratello; promettendogli di volere alla sua volta prestar mano a lui ed alla corte di Milano, qualora gli antichi disegni del padre fossero ivi ancora vagheggiati.

[348]

Questa volta il foglio traditore arrivò inviolato al suo indirizzo; perocchè il fido scudiero s'incaricò di portarlo egli stesso a Milano, e di rimetterlo nelle mani di Rodolfo. Costui aveva in quei dì abbandonato temporariamente la sua residenza di Bergamo, ove era signore e tiranno; perchè ivi spirava mal aria per lui, fra i suoi pari il più feroce ed abborrito. Ricevette con grande gioja le nuove della sorella, si propose di parlarne a tempo debito a suo padre, e per lo stesso mezzo le rese una risposta piena di rallegramenti e di speranze. In quello scritto le raccomandava di stare all'erta, di continuare con zelo nel suo spionaggio, di riferire con assiduità e con prudenza ogni andamento del conte, e chiudeva con un mondo di tenerezze fraterne. Altri scritti tennero dietro a questo; il sugo della lunga corrispondenza era il seguente. — Il signore di Milano avrebbe colto il momento per sorprendere colle armi il Conte di Virtù e privarlo della signoria. Contro lui, oltre la ragione della forza, si sarebbero scagliate accuse di fellonia, di cui si andavano raccogliendo le prove. Una di queste era la sua toleranza od amicizia per la famiglia Mantegazza. Quanto ad Agnese, non avevasi che a richiamare il decreto di Barnabò contro i complici di Maffiolo, e i figli o i parenti dei ribelli. A Caterina Visconti finalmente venivano conservati, vita sua durante, la contea di Virtù e i dominii della città e territorio di Pavia. — I patti erano generosi: Caterina vi si adattava di buon animo, e proponevasi di fare tutto il possibile per vederli realizzati.

Ma la volontà di Barnabò, concorde nello scopo con [349] quella de' suoi figli, non lo era nei mezzi. Fermo nella sua antica convinzione che il Conte di Virtù fosse un dappoco, credeva onorarlo più che egli non meritasse, impiegando armi e congiure per abbattere un trono vacillante. Pensava invece che, al primo giorno di sciopero, ei non avesse che a fare una passeggiata verso Pavia, per cacciarne il nipote e fissarvisi come assoluto padrone. Il perchè, Rodolfo e Caterina dovettero aspettare, che il padre si togliesse dalle altre sue gravi occupazioni, prima di metter mano a quest'inezia.

Tali lungaggini non irritavano Caterina, la quale nelle sue secrete macchinazioni prelibava già tutte le delizie della vendetta consumata. La certezza della riescita abbelliva dei più lusinghieri colori i suoi disegni; la fantasia agitata da un delirio nuovo celebrava già il suo trionfo. Ma nel prudente uso dei mezzi, ella era sempre la donna gelida e dissimulatrice. — Simile all'avaro, a cui pro si accumula l'usura del mutuo, non sollecitava il compimento de' suoi desiderii, nella certezza di vederli a suo tempo trionfare in un modo più splendido. — Studiò, quindi, d'essere o di parer calma, onde non destare sospetti; dal canto suo, non tentò d'interrompere troppo presto le fatali apparenze, che giustificavano il suo livore; volle sorprendere imprevedutamente i colpevoli, onde sacrificarli con più completo trionfo alla sua truce passione.

[350]

CAPITOLO DECIMONONO

CXLIV.

Di Barnabò Visconti e del suo governo si è detto nelle pagine antecedenti quanto basta a darne un'idea. Non sarà mestieri aggiunger molto per persuadere il lettore che egli fu uno dei peggiori nostri prìncipi. La fantastica crudeltà, il genio feroce di lui hanno tal fama, che sono passati in proverbio.

Altra volta, parlando dei Visconti e degli Sforza, mi provai a difenderli dai giudizj troppo severi degli annalisti posteriori. — Gli storici, o vinti o ingannati dall'influenza del dominio straniero, credettero tenere in credito i tempi loro, dipingendo con colori esagerati i precedenti. Soltanto chi guarda le due epoche ad una certa distanza, instituendo un accurato raffronto fra il bene ed il male delle due epoche storiche, potrà dare un equo giudizio di ciascuna. Se il bene è scarsissimo nell'una e nell'altra, il male, benchè molto in [351] ambedue, permette una distinzione assai importante. — Nei nostri tiranni è a deplorarsi il delirio dell'uomo; nei dominii stranieri, che raccolsero l'eredità loro, è a combattersi un principio sovversivo d'ogni ragione civile. I primi versarono il sangue dei fratelli che non avevano abdicato ai diritti loro, e perciò si commovevano al vederli concultati; gli altri adoprarono la frusta, perchè il di più era troppo per una greggia di schiavi. In quelli, la successione è varia, alterna; i prìncipi miti e generosi ristorano bene spesso le stanche popolazioni dai sofferti oltraggi, e resuscitano l'amore della libertà, non morto, ma intorpidito nel cuore dei soggetti. In questi, il succedersi dei prìncipi è un fatto insignificante: sopravive ad essi, e regna con essi, il principio della conquista, che fa pessimi i cattivi, e non permette ai buoni di mostrarsi quali vorrebbero essere. Contro i nostri tiranni vediamo a quando a quando sollevarsi il popolo, per chiedere ed ottenere vendetta. Il suo sdegno, talvolta inopportuno, spesso, intemperante, è pur sempre generoso. Contro lo straniero una turba stanca ed avvilita non oppone che la infeconda virtù dei popoli oppressi, la rassegnazione.

Ad ogni modo, in un tempo in cui la nuda verità era tolta in sospetto, nulla di più provido che il mostrarla sotto un velo che l'adombrasse senza tradirla. La rivendicazione della fama dei nostri prìncipi non era soltanto un atto di ossequio alla storica imparzialità; ma diveniva un mezzo, l'unico mezzo possibile, per dire ai nostri oppressori: — nulla di più esiziale di voi; la tirannide dei nostri vecchi ci è più cara che l'ipocrita pietà dei vostri filosofi. Meno male la vista del sangue, che l'atonía, a cui voi ci condannate.

[352]

“Tra i nostri duchi alcuni furono ottimi; altri al livello dei tempi crudeli; pochi soltanto si mostrarono come un'odiosa eccezione della natura umana[76]„; e Barnabò fu appunto uno di queste. — La sua politica non ebbe mai uno scopo fisso; errò in balía di una volontà, che non aveva direzione o guida. Quando l'arbitrio suo era abbracciato per forza da tutti, e poteva essere lume o scorta alla condotta de' suoi soggetti, egli si ribellava contro i suoi stessi voleri. Fu crudele, dispotico, sanguinario, pel solo diletto di provare al mondo ch'egli era potente. Nemmanco a caso gli sfuggì un atto generoso; non premiò alcuno fra quei pochi che gli erano o gli si mostravano affezionati. Eppure la stessa ferocia e la gelosa tenacità del comando svilupparono in lui una delle più pregevoli doti di un principe. Egli non fu servo ad alcuno; non si piegò a preghiera, e molto meno a comando o ad autorità altrui. Il suo volere fu legge per tutti entro i confini del suo piccolo stato; e non subì mai influenza dal di fuori. Ebbe più volte la fortuna avversa; e l'affrontò con coraggio. Conscio del pericolo, ma confidente nella propria stella, ne escì sempre col minor male.

Agli sdegni della corte d'Avignone oppose l'indifferenza e lo sprezzo. La lotta tra lui e la Chiesa durò quanto il suo governo; nè mai si ritrasse da' suoi propositi per minaccia di nemici o per lusinga di alleati. La sua coscienza, corazzata di un cinismo invulnerabile, lo rese impavido e sereno sotto il peso delle scomuniche che a quei dì facevano tremare i suoi pari. [353] Non rinunciò alle sue pretensioni su Bologna, anche dopo la scomunica di Innocenzo VI. — Grimoaldo, abate di S. Benedetto, colui che per ordine di Barnabò aveva dovuto inghiottire la bolla pontificia sul ponte di Marignano, divenuto papa col nome di Urbano V, volle vendicare l'oltraggio fatto ad un legato della corte romana scagliando l'interdetto contro l'empio violatore del diritto delle genti. Barnabò permise che l'arcivescovo di Milano si presentasse a lui, e gli porgesse il breve pontificio; volle anzi sentirsi dichiarare eretico e scomunicato: poscia, con quel piglio che non ammetteva remissione, lo fece inginocchiare davanti a sè, e gli disse in barbaro latino — “non sai tu, o poltrone, che io sono papa ed imperatore nelle mie terre?„ — e, come se ciò fosse poco, scomunicò alla sua volta il papa, e costrinse un prete a leggere in publico la bolla dell'interdetto.

Gregorio XI lo percosse una terza volta colle armi spirituali per le inaudite crudeltà commesse contro i guelfi. Quest'ultima prova non ebbe miglior successo delle altre. — Le ripetute irrisioni suscitarono due crociate contro di lui. Armeggiarono in suo danno l'imperatore, Giovanna di Napoli, il marchese di Monferrato, gli Estensi, i Carraresi, i Gonzaga. L'esercito della lega s'ingrossò d'Ungari, e d'Inglesi. Barnabò, principe debolissimo a fronte di un nemico tanto formidabile, malsicuro della fedeltà de' suoi sudditi, prosciolti dai giuramenti in virtù dell'interdetto, capitano impetuoso ma ignaro dell'arte militare, eluse i disegni della crociata; ed, ora schermendosi coll'inganno, ora stancheggiando il nemico colle tregue, costrinse [354] la lega a firmare una pace meno indecorosa per lui che pe' suoi potenti avversarii. Dopo di che, il principe, dianzi spodestato e messo al bando, divenne più imperioso, più temuto; dai nemici, e meglio obedito dai soggetti.

Quando l'imperatore Carlo IV lo privò della dignità di vicario imperiale, egli mostrò di aggradire questa prova di sdegno, dicendo: — non essere egli vicario di alcuno, ma signore assoluto dei proprii stati.

Un'altra lega, non meno potente della prima, si strinse allora a suo danno. Questa volle far precedere le negoziazioni alle ostilità. Trattavasi di convincerlo essere per lui cosa equa ed utile il deporre le sue pretensioni sulle terre spettanti alla s. Sede. Barnabò, poichè ebbe ascoltato i ministri della lega, li chiamò pazzi, e come tali li costrinse a vestire abiti bianchi ed a montare su ridicoli ronzini; poi a furia di popolo li mandò in volta per le vie di Milano; e, prima di congedarli, li fece sostare due ore alla porta della città, perchè raccogliessero le fischiate e le villanie della plebe.

Ma tali eccessi, che attestano una libidine di potere ed una temerità del pari stolte ed estreme, potevano in qualche modo tornare utili e graditi a' suoi soggetti? Le continue guerre esaurivano il tesoro; i balzelli e le concussioni, poichè i mezzi ordinarii erano insufficienti, dovevano ristorarlo. In mancanza dello spontaneo concorso de' suoi cittadini, stanchi di sostenere col denaro e col sangue le sue stolte imprese, dovette più volte, con orribili minaccie e con castighi ancor più orribili, richiamarli all'obedienza. A Modena [355] raccolse una parte del suo esercito disperso, punendo i morosi con supplicii inauditi. La fortuna non gli era sempre propizia; parziali sconfitte gli fecero perdere Bologna, Modena e le terre finitime. Reduce dalle sue temerarie spedizioni, egli ebbe solo a rallegrarsi d'aver prodigiosamente poste in salvo la persona e la sovranità, e di conservare intatto il suo coraggio per una vicina riscossa.

Delle leggi interne non si occupò gran fatto. Le buone, prezioso avanzo del governo popolare, raccolte e sancite dai suoi predecessori, non abrogò; ma, lasciandole neglette nel corpo degli statuti od affidandone l'osservanza ed il profitto ai magistrati, ne permise, e quasi ne protesse la violazione. Egli intanto attese ad infarcire un codice fin troppo saggio pei tempi, con una prodigiosa congerie di decreti, consigliati dal capriccio, o suggeriti da un improvido zelo, ma più spesso dettati dalla sua natura feroce e capricciosa. Alle pene pecuniarie sostituì le corporali; e fu abile maestro non solo in applicarle ai minori reati, ma in crear nuovi e stranissimi supplicii; ed alla mostruosa violazione delle leggi di natura egli aggiungeva sempre la derisione, provocata dal suo carattere brutale e motteggiatore. — Eccone un esempio. Le vie di Milano, specialmente la notte, erano malsicure. Saggie e severe leggi erano state emanate in proposito avanti il governo di Barnabò; la più ovvia fu quella, che ingiunse ai passaggeri di munirsi di face o di lampione, sotto pena di multa o di prigionia. — Barnabò volle che nessuno, per qualsivoglia motivo, osasse metter piede fuori di casa dopo un'ora di notte; e a chi fosse [356] trovato per istrada faceva amputare un piede, dicendo che il colpevole doveva punirsi in quella parte del corpo, che aveva violato la legge. Colla scorta di un tale criterio punitivo, volendo tenere in freno le fazioni, dannò a morte chi parteggiasse per l'una o per l'altra; e fece tagliar la lingua a chi pronunciava soltanto i nomi di guelfi e di ghibellini.

Devesi all'incuria del suo governo la diffusione della pestilenza, che desolò la città di Milano nell'anno 1361. Ottime leggi sanitarie, sotto il governo di Luchino, l'avevano preservata. Ma Barnabò, o per sprezzo di quanto non emanava da lui, o peggio per l'inumana vista che la minaccia fosse ottimo mezzo di freno e d'intimidazione, non oppose alcuna resistenza al progresso del morbo, il quale nella sola Milano mietè oltre settantamila abitanti.

Intanto egli, per sfuggire al pericolo del contagio, si chiuse nel castello di Marignano. Ivi ingannò la noja della solitudine fra cortigiani e giullari; e, per ischerno alla publica sciagura, raddoppiò le imbandigioni e le orgie. — Cessata la peste, l'altra calamità, sua indivisibile compagna, afflisse il popolo milanese. La carestia, cagionata dall'inclemenza delle stagioni e dalla negletta agricultura, accrebbe, se era possibile, la miseria publica. Barnabò non si diede alcun pensiero per temperare i mali del suo paese. Il signore di Marignano, salvo dalla peste, potè schernire più sfacciatamente la carestía. Non furono mai tanto rumorose ed allegre le caccie del principe, come in quest'epoca; con quante prepotenze verso i suoi vassalli, con quanto danno dei campi, crediamo d'averlo [357] già detto. Si è pure di già accennato come egli alleviasse le sue spese private, obligando i vassalli a nutrire parecchie migliaja de' suoi cani, e a renderne conto, (e qual conto) ad epoche determinate. Condannò ad atroce pena corporale un giovinetto, che raccontò aver sognato di cacciare un cinghiale, e prescrisse che i notaj criminali cominciassero a fruire del publico stipendio solo quel giorno in cui provassero d'aver consegnato al carnefice un ladro di selvaggina.

Siamo ben lontani dall'aver compiuto il sommario delle crudeltà di questo principe. Ma il lettore ne è sazio, e poichè egli non ha bisogno d'altre prove, tiriamo di buon grado un velo su questi vituperi che degradano la dignità dell'uomo.

Quanto doveva essere trista la condizione del popolo milanese costretto ad obedire ad un principe di tal natura! Il governo di Barnabò era reso ancora più duro ed intolerabile dal confronto con quello di Azzone e di Luchino, l'uno mite, l'altro severo, ma giusti ambedue e sapienti. Lo spirito di ribellione cresceva a misura che andavano aumentando i delirii di questa fiera. Ma ogni conato era inutile. Gli elementi di una cospirazione vasta, e certamente vittoriosa, esistevano nel cuore di mille e mille cittadini; ma lo stringere le sparse forze degli individui nel fascio, che rende invitta la scure del popolo, diveniva un'impresa, più che ardua, insensata. D'altra parte, le congiure a quei tempi non avevano che una sola mira: quella di liberare il paese dal tiranno, vendicando il sangue col sangue. Il privarlo delle sue forze, o il sollevare contro lui forze maggiori onde [358] l'uomo debole e degradato sopravivesse a sè medesimo ed alla propria potenza, era un'arte ignorata, frutto di tempi più civili e di consumata esperienza della sventura. — Fatto è che Barnabò ebbe lungo regno; e che contro lui non si levò mai una mano vendicatrice.

CXLV.

Il secreto interprete delle ire impotenti dei milanesi era il Conte di Virtù, il quale teneva d'occhio la corte e la città di Milano, e ne spiava i procedimenti ed i voti, meglio che non facesse Barnabò, in uno co' suoi figli e con Medicina.

Giangaleazzo sapeva che presso di sè, e nello stesso suo castello, si tenevano pratiche col signore di Milano. Egli non disperse però le sue forze nella ricerca degli infidi: ma si giovò dell'opera loro per spargere sul proprio conto notizie ingannevoli, e per crescere e rassodare la cieca confidenza dello zio.

Vero è che il pensiero di affrettare la vendetta, nato dal suo nuovo incontro con Agnese, lo aveva quasi indutto ad abbandonare il consueto riserbo, onde colpire Medicina, ancora più odioso e scelerato che lo stesso Barnabò. Gli sorrideva la speranza di potere raggiungere e percuotere colla sua spada l'infame ciurmatore. Ma abbandonò anche questo pensiero; perchè uno sdegno subitaneo e generoso gli parve meno sicuro che una lenta e ben preparata punizione. — Benchè egli godesse nel suo stato di quella [359] sicurezza, che è la forza di un principe mite e generoso; benchè il suo governo fosse una favorevole eccezione pei tempi che correvano, e diventasse un modello di moderazione, a confronto dei governi vicini e delle recenti tirannidi di suo padre; pure egli non osò mettere a prova la fedeltà e il valore del suo popolo, levandolo in armi e spingendolo inconsideratamente nelle incertezze della guerra. Un'altra via, più lunga ma certa, lo doveva condurre alla fortunata meta.

Lunghi mesi di aspettativa pose egli tra il concetto ed il fatto. — Stancò l'impaziente rabbia de' suoi nemici con una mansuetudine che ne disarmava la mano. Lo scudiero di Caterina corse più e più volte da Pavia a Milano, recando null'altro che le ripetute istanze della sua padrona, e riportando promesse vaghe, rimandate ad un'epoca più o meno vicina, che non arrivava mai. Le relazioni, che venivano fatte a Barnabò sul conto di suo nipote, lo lasciavano troppo tranquillo. Il signor di Pavia nella mente dello zio spendeva la giornata in opere di pietà, interrompeva le consulte per ricordare a' suoi ministri esservi un Dio giudice e punitore dei potenti; non compariva in publico che accompagnato da numerosa scorta di cavalieri; ed infine sollecitava dall'imperatore Venceslao la dignità di vicario imperiale, sdegnosamente rifiutata da Barnabò. — E le parole sue, come i suoi atti, erano sempre, od apparivano, il frutto di un animo timido, irresoluto, ossequioso.

Agnese, penetrato il secreto di questa condotta, l'avvalorava de' suoi consigli; ed aveva fede nell'avvenire. Non così Caterina; le speranze continuamente deluse [360] accendevano vieppiù i suoi sdegni e sviluppavano in una natura fiacca ed impotente una volontà intolerante d'ogni indugio e più che mai cupida di vendetta.

Passò tristamente l'inverno del 1385 per la corte di Pavia. — Il conte ed Agnese fiutavano quell'aria pregna di miasmi, che precede lo scoppio della bufera. Un sorriso artificioso ed ironico da qualche tempo posava sulle pallide labra di Caterina. Le veniva riferito dal fratello, che Barnabò, trovando esausto l'erario, a motivo delle splendide doti assegnate alle molte sue figlie, aveva finalmente risoluto di ristorarlo colla conquista di Pavia. Non s'aspettava che la buona stagione per mettere in atto il disegno. — La conclusione di quella notizia era la seguente: egli, cioè Rodolfo, avrebbe pensato di vendicarla delle offese ricevute da suo marito; lasciavasi poi a lei sola l'incarico di punire, come meglio credesse, la sua rivale.

Tutto ciò venne a notizia del Conte di Virtù. Gli fu riferito ancora che Barnabò pensava ad un futuro riparto dello stato fra i suoi figliuoli; per la qual cosa, se egli fosse venuto a morte improvisamente, la signoria di Milano verrebbe suddivisa in tante parti quanti erano gli eredi di lui. L'impresa sarebbe allora divenuta più difficile: era necessario affrettarla.

Sulla fine d'aprile, Giangaleazzo indirizzò a suo zio una lettera piena, al solito, di frasi umili e devote. — In essa gli ricordava i vecchi legami di sangue, che lo facevano superbo di chiamarsi suo nipote. Gli rammentava inoltre che quei vincoli erano stati ribenedetti [361] dalle nozze di lui con sua cugina, ond'egli aveva acquistato il diritto di chiamarsi suo figlio. Della freddezza, che regnava fra le due corti, incolpò le preoccupazioni del governo; le quali, se assorbivano gran parte della sua meschina esistenza, non gli chiudevano però il cuore alle voci della natura. Pesava sul suo animo il rimorso di non avere fino allora mostrata al mondo tutta la riverenza ch'egli nutriva per un sì nobile principe e per un parente tanto affettuoso. Gli annunciava che, come ammenda de' suoi peccati e pel bene dell'anima sua, gli era stato imposto di recarsi in sacro pellegrinaggio al Monte sopra Varese, per ivi sciogliere un voto alla Vergine. A tale scopo egli doveva passare da Milano ai primi di maggio, ed arrestarsi un giorno nel castello di Porta Giovia. Chiedeva allo zio di poter avere in tale occasione l'onore di baciargli la mano. Che se poi, come caparra d'affetto o di perdono, il nobile parente avesse assentito di unirsi a lui nella pia impresa, egli lo seguirebbe a manca del suo cavallo, e gli porgerebbe la staffa in salire, come suo scudiero. Concludeva dicendo che a Dio ed alla Vergine riescirebbe più gradito il voto, quando fosse consacrato da quest'atto di spontanea ed amorevole conciliazione.

Questa lettera produsse l'effetto che il conte s'era aspettato. — Barnabò trovavasi in mezzo a' suoi figli, quando la ricevette. L'aperse, e riconobbe, senza guardare la firma, i caratteri del nipote. Il suo volto, che prima era torvo, si fece piano e sereno su quei caratteri. Avviata la lettura, mano mano ch'egli scorreva le righe ed affoltavasi nel leggerle e nel pronunciarle, [362] la sua fisonomia ripigliava la consueta aria burlevole, che era sintomo di buon augurio pe' suoi famigliari. Quando l'ebbe scorsa tutta, la ripiegò sghignazzando. A quell'improviso accesso d'ilarità, tutti guardarono in viso al padre; ma nessuno osò interrogarlo. Lo stesso Barnabò non volle defraudare i suoi figli di ciò che lo metteva di buon umore; fe' cenno a Rodolfo, che gli si avvicinasse, e gli diede a leggere il foglio. — Lesse questi, e sorrise per fare la corte alla paterna ilarità, poi consegnò lo scritto ad altro de' suoi fratelli:

“Che ne dite del nostro caro parente?„, chiese Barnabò a suo figlio.

“Dico, soggiunse Rodolfo, che quando la preda cade da sè nella tagliuola, non c'è merito pel cacciatore. Ma pure, o volpe o lupo, ch'ella sia, non conviene lasciarla scappare„.

“A lupo o volpe di questo pelo io fo sciogliere il laccio.„

“Oh, oh, davvero?„

“E poi, se la paura rende l'animale poltrone a segno da non lasciarlo fuggire, io lo scuoto colla punta dei miei calzari e lo fo trottare lontano, perchè i miei valletti l'atterrino a colpi di pietra o di bastone. Prede di questa razza non meritano d'essere toccate dalle mie armi„. — Tali parole erano dette con un tuono di scherno, che vuol essere indovinato.

Rodolfo, incoraggito dalla confidenza che suo padre gli mostrava in un affare di tanto rilievo, abbandonò il traslato, e prese a spiegare con calma e chiarezza i suoi progetti. — Secondo lui, salvo il dovuto rispetto a Sua Grazia, Barnabò avrebbe fatto bene a gradire [363] l'invito del nipote; quando poi il Conte di Virtù si trovava nel castello di Porta Giovia, bisognava cingerlo d'armati, e forzare il presidio alla resa. Rodolfo assicurava di aver pronte a ciò alcune migliaja di fanti e di cavalieri; insisteva nel decantare la superiorità delle forze di suo padre; ed augurava a sè stesso l'onore di una sì bella e sicura impresa. Ma Barnabò trovava magro mercato lo spendere tanta forza per accalappiare un coniglio. Disse, che ad assediare il castello di Porta Giovia, difeso da suo nipote, avrebbe giovato una confraternita di mendicanti o il capitolo di una chiesa, meglio che non le migliaja di alabarde e di cavalli apprestate da suo figlio.

Non aggiunse altro, nè dichiarò quale fosse il suo progetto, ma stabilì dentro di sè di accettare l'invito del conte e di unirsi a lui nel progettato pellegrinaggio. Gli sorrideva alla mente il pensiero di averlo per alcun tempo ospite nelle sue terre; voleva approfittare di questa bella occasione per assaggiarne le idee, le intenzioni, le speranze. Quello che suo figlio progettava pel momento dell'arrivo, potrebbe ancora farsi al ritorno. Intanto egli non lascerebbe di far parere bella al nipote la vita solitaria dei monaci di sopra Varese. — “Chi sa,... diceva egli tra sè, colui è sì impacciato in mezzo al mondo!.... un sajo bruno gli deve stare a meraviglia! e se me ne posso liberare a questo modo, tutti diranno che abbiamo fatto bene e l'uno e l'altro. C'ingrasserei a vedere quel bonaccio incappucciato; mi dà tanto fastidio il sentirlo gemere sotto l'elmo e la cotta!„

[364]

Questa era una prova. Se essa falliva, se il nipote non s'innamorava dell'aria pura del monte e della beatitudine di un chiostro, qualche altro ripiego più diretto e più efficace doveva tornar buono; in ultimo, quello proposto da suo figlio Rodolfo. Perocchè anche nella mente di Barnabò era ferma l'idea, che il Conte di Virtù non doveva tornar più signore di Pavia.

Con tali intendimenti rispose al nipote: avere egli benignamente accolte le sue parole; in prova di che accettava la sua compagnia per la divisata spedizione. Si stabilì che i due prìncipi s'incontrerebbero in Milano il giorno 6 del prossimo maggio, all'ora meridiana.

Questa risposta era affatto ignorata a Pavia. — La stessa Caterina ne ebbe notizia dal fratello, il quale, nell'accennare la probabile riescita del comune progetto, non dissimulava qualche impazienza e qualche timore.

Il conte disponeva ogni cosa per il buon successo de' suoi disegni; ma sapeva sempre coprire le arti sue colle apparenze le più ingannevoli. Non così a Milano: nella numerosa e ciarliera corte di Barnabò, i figli e i famigliari non facevano altro che discorrere di questo strano incontro; e ciascuno vedeva la cosa a suo modo; ognuno aveva la sua proposta a fare.

Chi più d'altro provò meraviglia e dolore all'annuncio di una riconciliazione, tanto impreveduta e inopportuna, fu Medicina. Il quale, senza provare le velleità guerriere di Rodolfo, nè la noncuranza e lo sprezzo del padre, conoscendo meglio che ogni altro il Conte di Virtù, negava fede alla vantata sua moderazione. — Guai per lui, se fosse stato vero che lo [365] zio ed il nipote s'erano riconciliati: egli perdeva la speranza di far rifiorire il suo commercio fondato, come ognuno sa, sul disaccordo e sulla diffidenza delle due corti. Poi v'era un'impresa lasciata a mezzo, che già gli aveva cagionato un rodimento, uno sconforto indescrivibile. Vogliamo parlare dei casi d'Agnese, che invece di allontanarla dal conte, com'era sua speranza, l'avevano sì imprevedutamente ravvicinata a lui. Le sue scelerate intenzioni erano dunque scoperte da quest'ultimi fatti, dalle parole d'Agnese, e dalle probabili rivelazioni del Seregnino; che dopo quel dì non si era più veduto, e che, a quanto dicevasi, si era fatto un uomo da bene alla vista della forca.

Medicina avrebbe dato un occhio perchè l'incontro non avesse luogo; e, quando l'impedirlo fosse cosa assolutamente impossibile, avrebbe almanco voluto che messer Barnabò se ne valesse per pigliare il sopravento sul nipote, od anche solo per interromperne i sospettati disegni. — Intanto, per volere di Rodolfo e per conto proprio, si diede con ogni sollecitudine a cercare mezzi, arti, ripieghi, inganni onde la divisata spedizione fosse sospesa o rivocata. Si giovò della confidenza che in lui riponeva Barnabò, per accendere nel suo animo il sospetto: e, quando vide che ogni artificio umano riesciva inefficace, ricorse alle divinazioni ed alle stelle, e coll'ajuto della scienza e col mezzo di Canidia, formulò un responso minaccioso, che avrebbe dovuto far cangiare pensiero a Barnabò, se egli avesse conservato quel rispetto alla scienza che aveva dimostrato in altra occasione[77].

[366]

Ma Barnabò, che questa volta voleva interrogare l'uomo e non il cielo, accettò con animo indulgente i consigli di Medicina; perchè glieli aveva dimandati, ma s'irritò contro le stelle, che rispondevano senz'essere richieste. Le arti malefiche potevano inspirargli un pensiero, quando la sua mente fosse vuota; potevano convalidare un suo disegno, qualora egli fosse dubioso; ma non mutare, ciò che egli aveva fermamente deciso.

CXLVI.

Era il mattino del sei maggio, il giorno del convegno, e Medicina non aveva fatto accettare a Barnabò nessuno de' suoi consigli. Solo tra lui e Rodolfo si erano, giorni addietro, pigliate le opportune intelligenze perchè la città in quel dì fosse guardata da un corpo di milizie assai più numeroso del solito. Il pensiero di un colpo di mano sul castello di Porta Griovia non era stato abbandonato; i mezzi ad effettuarlo erano pronti. La Rocchetta di Porta Romana ed il palazzo di Barnabò brulicavano di gente armata. — La città era, o pareva, in festa.

Il Conte di Virtù, all'albeggiare di quel giorno, accompagnato da' suoi officiali Giovanni Malaspina, Jacopo dal Verme, ed Ottone da Mandello, e seguito da quattrocento lance, fra cui brillavano i suoi più fidi e valorosi cavalieri, montò in sella, e si diresse di buon passo verso Milano. Il viaggio fu sollecito e senza avventure.

[367]

In quello stessa mattino, poche ore dopo la partenza del Conte di Virtù, il messo secreto di Caterina, reduce da Milano e portatore di un'altra lettera di Rodolfo Visconti, entrò nel castello di Pavia; e, venuto alla presenza di Sua Grazia, da perfetto cortigiano, piegò un ginocchio a terra, e porse sur un bacile d'argento il messaggio diretto alla principessa.

Caterina, in quel momento più impensierita del solito, raccolse il foglio con manifesta trepidazione, ne ruppe il sigillo colla mano tremante, lo spiegò, e lesse sotto voce le seguenti parole.

“Sta di buon animo, o sorella. Dimani (il foglio portava la data del giorno 5 maggio) Pavia obedirà a te sola. — Tre mila alabarde ed altretanti cavalieri aspettano un mio cenno per operare il prodigio. — La residenza di Porta Giovia diverrà un carcere; chi v'entra oggi da padrone vi rimarrà dimani qual prigioniero. — Nostro padre ci applaude. — Penso a te, mia diletta; penso alle tue, alle nostre vendette. Vivi felice.

Rodolfo.
Signore di Bergamo e di Soncino.„

Queste poche parole decidevano una questione lungamente discussa e rimasta sempre sospesa. L'urgenza dei fatti richiedeva una pronta soluzione; questa era la più lusinghiera. La buona novella dissipò le nebbie ipocondriache che intorbidavano la mente della principessa, e richiamò sulle sue labra quasi livide un sorriso di compiacenza, che parve al fido cortigiano la caparra di un generoso premio.

[368]

Costui aveva inoltre l'incarico da Rodolfo di spiegare alla sorella, perchè non conveniva farlo per iscritto, i motivi che lo determinavano a rompere gli indugi, e le circostanze che gli garantivano un buon successo. E in questa missione il manieroso scudiero trovò una lena insolita. Egli, che si sarebbe fatto in pezzi per rattenere quel fuggevole sorriso che lo aveva reso beato poco prima, raccoglieva ogni minuta circostanza, e l'esponeva coll'eloquenza della passione, onde convincere la signora essere ormai certo e prossimo il suo trionfo. — Caterina aveva bisogno di ciò. Poche ore prima, al momento di veder partire il corteggio, aveva trovato suo marito altr'uomo da quello che era stato fino a quel giorno. Egli montava in sella, e passava in rassegna le quattrocento lance con un ardore sì nuovo, con un'aria sì balda e sicura, che sconveniva ad uomo come lui, e molto più al devoto che si dispone ad un pio pellegrinaggio.

La lettera di Rodolfo e le parole dello scudiero tolsero ogni incertezza, e sospinsero la sua mente cedevole oltre i limiti di quell'aspettativa peritosa che vagheggia la vicina fortuna, ma non si abbandona del tutto alle sue lusinghe.

Ormai certa della vittoria, essa volle iniziare il suo solenne trionfo. Verso il mezzodì, precisamente a quell'ora in cui Barnabò e il Conte di Virtù s'incontravano in Milano, Caterina raccolse intorno a sè la corte: e come investita dell'autorità sovrana in assenza dello sposo, diede ordini, ricevette omaggi, dispensò grazie col sussiego di una regina.

Meravigliarono i cortigiani nel vederla sì apparecchiata [369] al comando. — “Dov'è andata la novizia, l'acquacheta, la timidetta dei giorni passati?„, susurravano tra loro i cicisbei della corte, che credevano aver occhi di lince per penetrare checchè frullasse nella mente dei loro padroni. Ma non era il diletto del comando il solo fumo che salisse al capo della misera donna. Ella era ebra di gioia al pensiero di vendicarsi d'Agnese, e la sua vendetta doveva cominciare da quel giorno, da quel momento. — Se una voce amica le avesse detto piano nel cuore: rimetti a dimani i tuoi progetti, ed attendi d'aver la conferma delle notizie di Rodolfo, ella avrebbe risposto: ho tardato fin troppo; ora non è più possibile. Se il devoto scudiero aveva qualche potere sull'animo di lei, egli ne avrebbe fatto uso per spingerla ai fatti estremi; poichè appunto dalla compiacenza della vendetta consumata, il ribaldo cortigiano sperava il premio della sua complicità.

In mezzo alle dame, che facevano corona in quel dì alla principessa, brillava Agnese Mantegazza, non tanto perchè fosse la più bella, quanto perchè in essa si aggiungeva alla regolarità delle forme, ed alla maestà del portamento, l'espressione di una mente elevata, e di un cuore buono e generoso. Più volte Caterina aveva tentato d'abbattere co' suoi sguardi iracondi l'innocente supremazia della rivale; ma altretante volte gli occhi d'Agnese, prevedendo il maligno incontro, lo sfuggivano e mandavano a vuoto l'insulto della superba, punendola colla più gelida noncuranza. — Tanto più s'accese d'ira Caterina, che credeva d'avere cominciata la sua vendetta, e si trovava [370] di fronte un nemico invulnerabile. Chiamò scherno l'imperturbabilità di chi non teme l'ingiuria; la dignità confuse coll'orgoglio. Certa che gli sguardi loro si erano incontrati, giudicò che l'accortezza d'Agnese nell'evitare la sfida, più che un atto di prudenza, fosse un'insolente provocazione.

Riescì non pertanto a moderarsi e a far rifiorire sul suo volto un sorriso. Tornò alla solita fantasticaggine dei discorsi: armeggiò colle ironie e coi frizzi. L'insolita sua vivacità raddoppiava la lena dei cortigiani. Lo adulazioni e le parole melate, le facezie e le insulsaggini si avvicendavano rapidamente, ora trionfanti dell'ilarità degli ascoltatori, ora sepolte modestamente dai motti incalzanti dei nuovi discorsi.

Il moderno costume non ha saputo bandire dai convegni l'adulazione; ma, nel tolerare che essa vi penetri, esige che almeno sia castigata, e sopratutto che parli sommesso. Anche in bocca al più impudente parassita sarebbe disdicevole e ridicolo ai nostri dì il pronunciare il panegirico del protettore, mentre egli è presente. — Lode e biasimo ci seguono alle spalle come lo strascico delle vesti tagliate all'antica. — Nel secolo di cui parliamo invece, la piacenteria e l'adulazione erano le tinte dominanti dei discorsi fra persone d'alta levatura. Si gareggiava di spirito per trovare traslati e concettini atti a creare meriti che non esistevano, o ad ingigantire virtù microscopiche. I potenti e i mecenati dal canto loro, con una toleranza ed una compiacenza egualmente marcate, si lasciavano portare sui trampoli della rettorica dagli adulatori, per sostenere davanti al mondo la parte di [371] eroe in simili apoteosi da scena. Il linguaggio dei poeti aveva generata l'abitudine all'intemperanza delle imagini; e per conseguenza l'insensibilità alle vere e moderate parole. Lo stesso Petrarca non fu del tutto mondo da tale peccato; poichè questo commercio di leziosaggini diveniva una palestra di pedanti discipline; e in molti casi non era altro che ossequio alla moda. Hanno origine appunto da quest'epoca certe formole di servitù, colle quali salutiamo gli amici ed i conoscenti; formole in cui le parole hanno talmente perduto il loro significato primitivo, da farle credere reliquie di una lingua morta.

In questa occasione, vi fu chi entrò a parlare dei Visconti, ed a celebrarne la stirpe, le imprese, i campioni. Ogni membro di quel casato, morto o ancora esistente, aveva il suo tipo negli eroi e nei miti dell'antichità. Pareva che quelli e questi fossero stati i loro precursori. Taluno magnificò la sapienza di Matteo Magno; un altro l'animo invitto di Marco; un terzo la mitezza di Azzone, o la severità di Luchino. — Quando si parlò del Conte di Virtù, la gara si fece più viva e più concorde. Era il panegirico del santo che, nel suo giorno solenne, è sempre più santo degli altri. — La stessa Caterina che, secondo le nostre usanze, avrebbe dovuto accogliere in silenzio quelle proteste di ossequio, volle aggiungervi la sua parola. — “V'ha forse al mondo, disse ella, altro principe sì buono, che onori nella sua corte l'iniquo avanzo di una stirpe, che ha congiurato contro la sua casa?„

Nessuno rispose alla dimanda; perchè nessuno seppe se ciò fosse veramente un'interrogazione. Chi la pigliò [372] per un bollore d'orgoglio a cui bastava rispondere con un inchino d'adesione; chi invece la stimò un dardo lanciato non del tutto a caso, ed aspettava di vedere dov'esso mirava, e quali cose metteva allo scoperto. Un certo numero, infine, tra i più destri, comprese che quel motto era una fardata bella e buona rivolta a qualcuno degli astanti. Tranquillo sul proprio sè stesso, ognuno cercava nei vicini il colpevole. Ma gli sguardi non ebbero ad errar molto per iscoprire dove, e contro chi, era rivolto lo strale.

Se l'infelice Agnese non avesse ascoltate le parole della sua nemica, doveva riconoscerne il valore dallo scandalo che si levò nell'adunanza, appena furono pronunciate. Ma quel motto era giunto fino a lei, perchè Caterina lo indirizzava a lei sola coll'occhio e colla voce. — Agnese ancora sì giovane aveva, in pochissimo tempo e in mezzo a tante vicende, guadagnato quella profonda esperienza, che suol essere l'ultima messe della vita per chi sta in pace colla fortuna. Eppure non aveva ancora provato una puntura tanto acuta e profonda come quella, che le veniva fatta in questo momento. Nelle parole di Caterina ella vedeva falsata e sconvolta tutta la storia della sua esistenza. Il nome di suo padre, vittima del più santo affetto, era bruttato di fango, e confuso con quello dei traditori; una grossolana contumelia le ricordava la sua miseria per poi rinfacciarle un beneficio, che ella aveva subíto, non implorato.

Ma Agnese non si mostrò abbattuta per questo. L'oltraggio era di tal natura che, invece di arrivare tutto allo scopo, risaliva in gran parte all'impura sua sorgente. [373] La malvagia donna sorrideva; ma Agnese non avrebbe voluto essere nel grado di lei, e ridere come ella di un trionfo così indecoroso. Più di una parola le corse alle labra per ribattere l'insulto: fu ad un punto di spiegarsi, a costo di dimenticare dov'era ed in presenza di chi. Non lo fece, e per più ragioni. — Mirando in volto Caterina, e vedendola tanto deturpata dalla passione, ne provò ribrezzo, e temette di rassomigliarle rintuzzando l'ingiuria coll'ingiuria. “È meglio, diss'ella fra sè stessa, sopportare indifesi i colpi della perfidia, che raccogliere l'arma dei vili, per volgerla contro loro.„ Pensava poi a suo figlio; al pericolo cui verrebbe esposto se avesse provocato maggiormente lo sdegno della principessa. La toleranza, consigliata dall'amore di madre, non poteva essere una viltà: era più grande il coraggio del silenzio che non quello della riscossa. — Ammutolì, e per tutta difesa levò l'occhio non dimesso nè ardito, e, girandolo intorno a sè, ruppe colla fermezza degli sguardi le occhiate avide e maliziose che s'intrecciavano davanti a lei, e posavano sulla sua fronte, quasi volessero indovinarne i pensieri, e scoprirvi il resto di quella reticenza, che Caterina aveva abbandonata alla maligna interpretazione di tanti testimonii.

Al frizzo insolente tennero dietro un silenzio ed una svogliatezza generale. La conversazione andò languendo. — Il trionfo della superba rassomigliò ad una festa da piazza, sorpresa al suo bel principio da un acquazzone.

Sciolto il convegno, ogni cortigiano tornò alle proprie abitudini. Chi non aveva a meditare sopra sè [374] stesso, e sopra i probabili vantaggi che sperava ritrarre dal suo mestiere, tornò colla mente alle insolite piacevolezze della signora, e si provò a spiegare l'oracolo delle sue parole.

Volle il caso che in quel giorno spettasse ad Agnese il servizio d'onore presso la principessa. — Fu ella un momento in forse di sciogliersi dall'impegno, adducendo qualche pretesto; ma non lo volle fare, perchè Caterina l'avrebbe accolto come una prova de' suoi trionfi. — Caterina infatti fu più indispettita di quella fortuita combinazione che non lo fosse Agnese: ma, pensando poi di farle pagar cara la sua imperturbabilità, si dispose a percuoterla con nuovi sarcasmi, ed a stancarla colle sue fantasticaggini.

CXLVII.

Lo sdegno dei buoni è vivo, subitaneo, qualche volta intemperante; ma esso sbolle al primo sfogo, e non lascia dietro sè che il cruccio d'aver fatto male, e l'ansia di rimediarvi. — Negli animi bassi ed ingenerosi l'ira rade volte si trova allo stato di una passione ardente; essa è piuttosto il frutto di tanti risentimenti riposti e governati, come le usure dell'avaro; spesso è una lega ignobile in cui v'entra per buona parte la più bassa delle passioni, l'invidia. — L'ira in questo caso non erompe improvisa e quasi inconsapevole; disegna il suo avvenire, e misura i suoi passi, e quando s'accorge che arriva alla sua meta, e vi fa breccia, allora rimette i suoi conti alla vendetta, sua fida alleata. [375] Perciò può dirsi che l'ira dei malvagi comincia, dove lo sdegno dei buoni finisce: l'una avvia la colpa, quando l'altro si sforza d'espiarla.

Tale fu il procedere di Caterina. Dal trovarsi sola con Agnese volle trarre partito per umiliarne la dignitosa alterezza. — Cominciò dall'essere più del solito strana ed assoluta ne' suoi comandi; e scorgendo la mansuetudine della sua vittima, invece di esserne disarmata, s'accese di più vivo corruccio, e sentì crescere la compiacenza di una sfida ineguale. — Non ebbe bisogno di cercare pretesti per venire alle parole umilianti. Velò i primi detti con un'ironia ancora più pungente della contumelia: poi, toltasi la maschera, proruppe in acerbe rampogne contro di lei. Le rimproverò la sua origine, il nome, la condotta, gli affetti; la ferì nella parte intima e più delicata del cuore; non rispettò in lei nè l'orfana, nè la madre egualmente infelice.

“Ma, vivadio — proruppe ella con occhio torbido e minaccioso, dopo un giro di falliti sarcasmi — il vituperio doveva aver un termine. Questo termine è segnato; e il vostro orgoglio subirà la meritata punizione.„

“Che feci io, o signora, per meritarmi l'ira vostra? — E perchè prorumpe essa così improvisa, senza darmi neppure il tempo di conoscere il mio fallo?„

“Impudente, voi osate rinfacciarmi la mia mitezza! Voi osate chiedermi perchè vi punisco oggi, mentre avevo il diritto di farlo il dì che voi poneste il piede in questa reggia? — Sta bene: sì; ho dimenticato me stessa; ho mostrato a vostro riguardo un'indulgenza [376] indegna della figlia di Barnabò Visconti... Ma la donna e la principessa offese si risvegliano oggi...„

“Ah signora, per pietà, non mi giudicate prima di avermi intesa.„

“Aspettate, o madonna, che torni chi si piglierà cura di difendervi: non è vero?„ — ripigliò Caterina, con un tuono d'ironia che la rendeva quasi deforme.

“Io ho fede soltanto nella mia innocenza. Imploro, e piegherò il ginocchio a terra perchè la mia dimanda non sia respinta, imploro soltanto che voi vi degniate ascoltarmi.„

“È tardi.„

“Non è mai tardi per riaversi da un errore, per tornare sulla via della giustizia; credetelo o signora. Faccia il cielo che non possiate provar mai il dolore d'aver perseguitato un'innocente: è grave, è acuto il dolore del rimorso. Chi nega giustizia agli oppressi nega pane al famelico. Ah.... no, principessa voi non mi negherete giustizia... Dite, in nome di Dio, quali apparenze mi accusano, ed io m'affretterò a scolparmi.„

“Vi sono delle colpe che una donna non osa nemmeno svelare. Voi lo sapete. Ma non pensate di potervi nascondere all'ombra di un turpe mistero. Il mio cuore lo comprende, e lo esecra, ancorchè il mio labro rifugga dal pronunciarlo.„

“Troppo, o signora, troppo.„

“Assai meno di quanto fu fatto in mio danno. Voi mi avete tolta la pace del cuore; voi tentaste di togliermi la dignità di sposa e di principessa. Voi menate in trionfo una protervia che sprezza ogni sacro diritto, e vuol far legittimo lo spergiuro, il tradimento. Dite ora se la mia severità è soverchia.„

[377]

“Un'altra volta o signora, non per me, per colui che voi accusate mio complice, credete... I vostri diritti mi sono sacri, o principessa. Iddio lo sa. Ma perchè la mia innocenza rifulga ai vostri occhi abbagliati, è necessario che alcun altro si associi a me nel difenderla.„

“E ancora vi regge l'animo di parlarmi di colui? — sclamò Caterina con un'ira prossima al furore. — Miserabile; v'ingannate. Il conte saprà rompere delle lance in onore di una bellezza infelice; non potrà cangiar la colpa in virtù. Il vostro protettore tarderà ad accorrere alle vostre chiamate, parola di principessa.„ — Caterina diede a queste ultime parole un tuono così marcato, che destò un sospetto nell'animo d'Agnese.

“Perchè, voi dite così? Perchè il signore di questa terra, l'unico padrone in questo castello negherà a me quella giustizia, ch'egli accorda all'ultimo de' suoi vassalli? Oh, il Conte di Virtù, è giusto e generoso!„

“Il Conte di Virtù„... mormorò sottovoce Caterina mordendosi le labra, e lasciando morire la parola in un singhiozzo convulso.

Un breve silenzio tenne dietro a questa scena. Caterina, trascinata fuori della carriera di un contegno prudente, avida di gustare anzi tempo la gioja del suo trionfo, volle annunciarle, che il Conte di Virtù non sarebbe più tornato a Pavia. — Ma la parola opportuna a svelare il terribile mistero non le veniva alla mente. Pensò che aveva sopra di sè la lettera di Rodolfo: quelle brevi righe erano impresse nella [378] sua memoria, come il responso di un oracolo infallibile. — In esse la notizia era francamente emessa, autorevolmente annunciata. — Non aggiunse altro: gettò ai piedi di Agnese la lettera, e, con un cenno altero della mano e del volto, le comandò di leggerla. Poi investendola con uno sguardo, in cui il disprezzo giungeva fino alla ferocia, volse le spalle all'infelice, e corse a rinchiudersi nelle sue stanze.

Come rimanesse Agnese dopo quella scena, è più facile ad imaginarsi che non a descriversi. Un tumulto strano di idee e di affetti le si destò nell'anima alla notizia della congiurata ruina del conte. La sciagura era sì nuova ed impreveduta, che non potè comprenderla ad una prima lettura dello scritto di Rodolfo. Tornò più volte sullo sciagurato documento; e, soltanto dopo una strana lotta di congetture, dovette alfine assicurarsi, che trattavasi di un fatto forse a quell'ora irremediabilmente compiuto. — A tanta sciagura rimase come insensata; l'affetto che nutriva pel conte, benchè fosse un sentimento ben diverso da quella passione che avea provato in altri tempi, bastò a commoverla fino alle lacrime; bevve tutto l'amaro di una sventura che la colpiva due volte, nella persona a lei cara e nella patria. — Ma un altro sentimento sacro del pari ed imperioso, surse fortunatamente nel suo animo, e richiamò all'ordine i sensi fluttuanti e smarriti. — Pensò Agnese a sè; non per se stessa, ma pel figlio suo. Era necessario non metter tempo di mezzo a risolvere. Bisognava abbandonare quel soggiorno; escire ad ogni costo da quel castello; cercare un asilo lontano dalle dolorose memorie della [379] sua gioventù, lontano dalla patria, dove ogni affetto era rimunerato sì tristamente, dove ogni nobile speranza era suggellata dalla memoria di una disgrazia. Accettò con rassegnazione l'esilio e la povertà, come il naufrago accetta, qual porto di salute, il nudo scoglio che lo divide dagli abissi del mare. — “Partirò dimani; no, oggi stesso, sul momento.... La mia fida compagna non mi abbandonerà. Avrò meco il mio diletto Gabriello. Egli sarà il mio unico bene. Sarò povera; ma che monta? gustai gli agi, riconobbi da vicino le vantate delizie della grandezza. Preferisco la miseria, mille volte la miseria... è minor male la privazione del pane, che un superfluo pieno di tante amarezze.„

Rinvigorita da questa risoluzione, Agnese proponevasi di mandarla ad effetto il più presto possibile. — Ma mentre s'avviava ad escire dalla sala, taluno le si fece incontro, e le indirizzò la parola.

“Sua Grazia mi manda a voi„ disse egli. — L'interlocutore era lo scudiero, arrivato quella stessa mattina da Milano. La buona novella, di cui era stato apportatore, lo aveva notabilmente avanzato nei favori della principessa.

“Qualche nuovo ordine forse?„

“Sì; cioè, tale io lo credo, balbettava lo scudiero; un ordine non precisamente per voi, ma riguardo a voi.„

“Spiegatevi; io non vi comprendo.„

“Sua Grazia, con quella penetrazione che è sua propria, ha saputo leggere nel vostro animo un vivo desiderio, cui forse non corrisponde la franchezza della [380] vostra parola. — Vi riesce grave il servigio della corte; ella ve ne dispensa.„

“Avete ragione; io non avrei osato chiedere, come un favore, quanto credo essere l'adempimento di un dovere. — Se in ciò vi è un mio desiderio, non è cosa che torni conto di consultare. Mi basta di aver prevenuto quello della signora. — Io mi allontanerò dalla corte oggi, tosto....„

“Ma.... invero.... — interruppe colla medesima dubiezza lo scudiero — non è intenzione di Sua Grazia, che voi partiate sì presto. Anzi, ella m'impone di notificarvi, che voi non escirete dal castello, che dietro suo ordine.„

“Il favore non è dunque completo?„ soggiunse Agnese non senza ironía.

“Abbiate pazienza; e abbandonatevi alla inesauribile generosità di Sua Grazia.„

“Sono dunque creduta colpevole, e trattata come tale.„

“Non è mio costume il sindacare le azioni de' miei signori — disse con affettata severità lo scudiero. — Per un fido servo, quale io sono, non vi può essere esitanza o dubio in tutto ciò che è chiaro e definito pel proprio padrone.„

“Dite dunque la mia sentenza.„

“Voi rimarrete in questo castello; ma dovrete cangiare il vostro quartiere, con una stanza meno decorosa e più ben custodita che vi sarà designata nella torre di ponente.„

“Prigioniera!„, sclamò Agnese con accento di desolazione.

[381]

“Questa parola non è escita dalle auguste labra della mia signora.„

“Ebbene, subirò la mia sorte rassegnata. Dite alla vostra padrona che io mi preparo ad obedirla; che io ho accolto quest'atto di severità con animo confidente di vederlo presto revocato. La giustizia può tacere un istante, non spegnersi nell'animo di Caterina. — Ho una grazia, a domandarle: mi si permetta almeno che due persone a me care dividano la mia solitudine. Dimenticherò chi mi ha privato della libertà, per benedire colei, che arrichisce la cella della prigioniera di due dilettissimi oggetti. — Posso io sperarlo?„

“Mi duole di dovervi disingannare. L'ordine è preciso.„

“Spiegatevi!„

“Voi dovete essere sola.„

Agnese proruppe in uno scoppio di pianto.

“Lasciatemi almanco, disse poi, che io li veda, che io li abbracci una volta. — È impossibile che un cuore di donna rifiuti ad una madre il conforto di vedere la sua creatura. Non fate quest'oltraggio a Caterina. Essa è migliore di quello che voi la giudicate. In nome di quanto v'ha di più sacro, io vi dimando un'ora di riposo vicino a' miei cari.... Colà troverò la forza di subire, come si conviene, il supplicio che mi è imposto....„

“È impossibile, impossibile. — La dimora che vi è destinata è pronta a ricevervi. Io ho l'ordine di guidarvi colà.„

“Senza speranza di una mitigazione?„

“Al contrario; vi autorizzo a sperare la grazia [382] completa, se vi mostrerete docile a questo comando. Io riferirò alla principessa le vostre parole; io le parlerò delle vostre speranze. State certa, o madonna, che non avrete a pentirvi d'avere obedito.„

Queste parole, consigliate soltanto dalla necessità di consumare un atto di violenza senza divulgarne lo scandalo, indussero Agnese all'obedienza incondizionata. Ben poca fede prestava alle parole dello sgherro. Quel tuono di pietà mascherava malamente la più vile impostura. Ma il suo povero cuore soffriva troppo; e, in mezzo alle crudeli torture, anche una speranza debole ed indeterminata racchiudeva un conforto, che in quell'estrema miseria era provida cosa l'accarezzare.

CXLVIII.

Pochi momenti dopo, Agnese venne rinchiusa in un camerotto, posto al piano più elevato della torre di ponente. — Esso era angusto e scarso d'aria e di luce. Una vôlta affumicata, tutta cosparsa di ragnateli, quattro mura nude e polverose, un pavimento, su cui era impossibile riconoscere la pietra o l'ammattonato, sotto una crosta d'immonda scoviglia accumulata chi sa da quanti anni, costituivano la sua interna apparenza. Vi erano le suppellettili di stretta necessità; un saccone che serviva di letto, una panca che era l'unico sedile, ed un rozzo tavolo con suvvi un'idria ripiena d'acqua.

Benchè preoccupata da gravissimi pensieri, l'infelice Agnese, al metter piede in quel covile, ne rilevò tosto [383] la nudità sucida e ributtante; e, per giunta a tanti mali, provò l'incorreggibile ribrezzo del dover rassegnarsi all'uso delle cose circostanti.

La nausea, questa aggiunta di pena non registrata in nessun codice, è difatto la più grave esacerbazione pei prigionieri che, avendo dall'educazione e dalle abitudini contratto speciali bisogni, sentono in modo speciale la privazione dei commodi e dei conforti che vanno congiunti alla vita libera.

L'assoluta parità di trattamento pel colpevole d'ogni classe, può quindi diventare una violazione dell'eguaglianza, cui l'uomo ha diritto in faccia alle leggi. — Questa non intende percuotere tutte le colpe nell'egual misura; sibbene vuol ritrarre da un grado di sofferenza appropriato al grado di colpa, la maggior possibile reazione verso il bene. — La pena non è mai un atto di vendetta, e non è solo un'espiazione succedanea al delitto, o un postumo di questo: ma è il rimedio che previene la ricaduta; è la quarantena di spurgo pei malati o sospetti di contagio. Come rimedio, dunque, la dose di essa dovrà misurarsi secondo la natura del male, e secondo il grado di toleranza dell'infermo. — Amministrarla a tutti in un'unica misura è propinare a questi il veleno, a quello non cagionar altro che un solletico passaggero.

Interrogate i carcerati, appartenenti a varie classi della società; dimandate loro quale è la parte più dolorosa della pena che subiscono. — Tutti risponderanno che la perdita della libertà è la privazione più grave; ma ciascuno avrà un modo speciale di giudicare e di sentire il resto della pena. A taluno riescono insopportabili [384] l'angustia dello spazio, l'aria stagnante, l'inerzia delle membra: altri anzitutto esecra il cattivo nutrimento, il duro stramazzo, le catene pesanti: altri non sa rassegnarsi alla solitudine, al silenzio, o peggio alla compagnia dei tristi. Ma lo strazio privilegiato di alcune persone sarà lo schifo di quanto sta loro intorno. La lama detersa del carnefice è qualcosa di meno ributtante che la sordida mano del carceriere. L'uso può rendere tolerabili i ceppi, il digiuno, lo sciopero; ma nè il tempo, nè la ragione potranno mai abituare taluno alla violazione di quelle leggi di pulitezza che, apprese dalla prima educazione, diventarono una seconda natura. — Così mentre il vagabondo, avvezzo a serenare e a trovar confortevole il più sozzo tugurio, non prova alcun disgusto dello squallore del carcere; mentre il mendico talvolta finge la colpa per essere ospitato in un ritiro di pena, l'uomo educato deve esercitare una crudele violenza sopra sè stesso, per piegarsi al contatto degli oggetti che lo attorniano, senza che la pena abbia un più piccolo sconto per questo sopracarico di mali non preveduto dalla legge.[78]

Anche Agnese in quel momento scordò le pene del cuore, per sentire l'invincibile ribrezzo che le costava il dovere accomodarsi a quella lurida cameraccia. — Pensò l'infelice che le sue membra dovevano cercare il riposo su quello strapunto, tutto squarci ed untume, la cui tinta cupa ed incerta potevasi chiamare il [385] colore dello sporco. Guardò l'idria, che sembrava brillare ad arte in alcuni tratti della sua convessità per crescere la nausea delle striscie che la vergavano di lordure, e degli orli bisunti e scheggiati che la coronavano. Rabbrividì al pensiero, che avrebbe pur dovuto accostare la bocca a quell'immondo abbeveratojo, forse inquinato poco prima dalle labra svergognate del bestemmiatore. Le parve che l'aria fosse pregna di miasmi da bordello, che le mura ripetessero parole oscene. — Soggiogata da insurmontabile fastidio, pensò che il palco drizzato all'aria libera, su cui il condannato non dà che una parte di sè alla mannaja, fosse qualcosa di più eletto, di meno sozzo. — Eppure, malgrado tanto ribrezzo, ella non poteva torcere i suoi sguardi da quel lurido corredo, finchè la nausea del cuore soverchiò quella dei sensi, e ruppe il fascino fatale.

Quando il sole sceso sull'orizzonte gittò alla sfuggita l'ultimo raggio sull'asilo della prigioniera, questa era immersa in altri e più gravi pensieri. — Ella rileggeva colla mente la storia della sua vita, e faceva confronto tra lo scarso bene e il molto male ond'essa era tessuta. Oh allora svanì la ritrosia all'uso delle immonde suppellettili! La vista di tanto squallore materiale, era un nulla a petto dell'urgenza dei desideri e degli affetti, che le ricordavano una ben più orribile miseria.

In questo mezzo, si destò più vivo che mai il pensiero di suo figlio: ma quel pensiero, in cui s'infervorava un amore oltraggiato, generò in lei un'ansia, una necessità, un delirio ognora crescenti. — Disconfessò le [386] inutili ritrosíe di poco prima, pensando che il tugurio sarebbe diventato una reggia, quando fosse diviso col suo Gabriello. — Dimenticò chi era Caterina per volgere a lei mentalmente una preghiera piena d'affetto e di ossequio; avrebbe osato perfino chiamarla clemente, generosa, se le avesse concesso come una grazia ciò che Dio e la natura le davano come un diritto. Raddolcita alquanto da questo pensiero, cercava di consolarsi nella certezza che il suo bambino, ormai divezzato dalla madre, era così sicuro in grembo a Canziana, come vicino a lei. Poi le sembrava che la momentanea lontananza avrebbe accumulato un tesoro di gioje pel dì, pel momento, forse non lontano, di rivederlo. — Ma un istante dopo, tutto ciò le sembrava scarso, vano, insipido; e cedeva al più imperioso bisogno di vederlo, di ascoltarlo, di prodigargli, com'era solita, mille carezze. Se il dar del capo nelle muraglie le avesse lasciato una debole speranza di scampo, si sarebbe lanciata contro di esse. Se avesse potuto colle mani smagliare la grata che muniva la feritoja, avrebbe fatto ogni sforzo per escirne e lanciarsi a corpo perduto nell'abisso sottoposto. — Ma ogni tentativo era inutile; ogni progetto insano; ogni speranza temeraria: bisognava attendere nell'inerzia che Dio toccasse il cuore all'autrice de' suoi mali.

L'ultimo raggio di sole fu per lei come l'addio di un caro che parte; il lento scomporsi delle forme, invase dalle tenebre, era l'imagine materiale dell'amaro disinganno, in mezzo al quale si dileguavano le sue speranze.

Il crepuscolo è l'ora dei gravi pensieri. La vita dell'universo [387] sembra allentarsi; i polsi del gran colosso sociale battono più radi e più profondi. Nel mondo materiale il cadere del giorno è il punto intermedio fra la vita che produce e quella che consuma. Nel mondo intellettivo è la tregua che ristora le forze dello spirito per spingerle poi nel silenzio della notte più vigorose e compatte alla conquista della verità. — Questa è l'ora della stanchezza per l'artigiano; delle meste ispirazioni pel poeta, del rimorso pel malvagio; del disinganno per l'ambizioso; del rendiconto per tutti. I felici della terra, che non isprecano un palpito senza profitto, la riguardano come il soprapeso della vita. — Se il sorgere della notte li coglie solitarii, rinvengono da quella protervia, che assicura loro un dimani così ridente come l'oggi. Davanti alla maestà del cielo ravvivato dalla prima stella, l'uomo comprende la sua pochezza, l'empio abbassa gli occhi, e il libertino comanda che sieno accesi i doppieri, per affrettare la notte completa, promettitrice di gioje e d'ebrezze artificiali.

Ma l'anima più contristata è quella del prigioniero. La luce diurna penetra scarsa e discreta attraverso la doppia grata, e gli reca ogni mattina una speranza; e la speranza si dilegua con essa al cadere d'ogni giorno. — Mentre si sospendono le industrie del popolo, ed il riposo diviene la sua prima mercede; il prigioniero chiude la giornata nella indecorosa stanchezza della sua inerzia abituale. — Egli invoca il sonno quando tutto il mondo veglia: e il sonno, che egli desidera, non è quello che ristora le forze, e trasporta la mente nelle fantastiche regioni dei sogni. Egli vuol [388] dormire, perchè la veglia, durante quella piena oscurità, gli torna doppiamente tormentosa. Il sole non è ancora scomparso dall'orizzonte, ed egli, con un'ansietà piena di dolore, già ne invoca il ritorno.

L'ora del tramonto è la più mesta per l'esule che rimpiange la sua terra. — Ma il prigioniero è appunto l'esule in mezzo alla sua patria. Dell'aria natía egli non beve che la parte meno eletta; del suo cielo non travede che lo spazio più fosco; gusta i frutti più ingrati della sua terra; ode le parole più aspre della sua favella. Diviso dagli uomini, dalle abitudini, dalle usanze civili del suo paese, egli vede da vicino la terra promessagli pel giorno del perdono, e trema di morire prima di entrarvi. — Alcuna volta egli avrà creduto di poter consolarsi facendo appello alla propria coscienza, o protestando in faccia a Dio contro la parola tiranna della legge; ma se il suo animo non è tranquillo, l'edificio delle sottigliezze, con cui tenta scolparsi, crollerà; e verso la sera, quando la luce del creato si spegne, vedrà rischiararsi quella della sua coscienza, che dà corpo e vita alle ombre dei rimorsi.

Ma Agnese, che nel fondo dell'anima possedeva la convinzione della propria innocenza, poteva levar gli occhi dinanzi alla luce del tramonto, e fissare la maestà del cielo senza timori e senza esitanze. — Ella infatti non si ricacciò nel fondo del suo carcere, non chiuse il capo tra le mani, nè velò gli occhi; ma si volse alla piccola feritoja per bevere cupidamente gli ultimi raggi del giorno moribondo.

Di là la povera donnicciuola, fatta sapiente dalla [389] sventura, volgeva, dimentica di sè stessa, lo sguardo e il pensiero alla città sottoposta, ed abbracciava in ispirito tutta quanta l'umanità. Percorse rapidamente le varie condizioni della vita umana, e tornò forse meno sconsolata in sè stessa; poichè sotto quei tetti, destinati a proteggere la vita del libero cittadino, eranvi per certo anime desolate come la sua. — Gustò allora nella sua pienezza il conforto della coscienza; e in esso trovò il coraggio che attenua il male.

Sotto l'influenza di così nobili pensieri l'istessa natura parve rendersi più docile. Commise la custodia del suo Gabriello alla bontà di Dio, confortata dalla fede che gl'infelici e gli oppressi sono suoi figli prediletti. Bandì le inutili aspirazioni che infiacchiscono il cuore, e raddoppiano i mali. Ringojò le lacrime feconde soltanto per colui che ha l'anima intorbidata. — Infine, posta a confronto la sua infelicissima sorte con quella di colei che ne era la cagione, giudicò che non aveva nulla ad invidiarle; che anzi questa volta toccava alla vittima l'usar pietà a chi l'opprimeva.

I dolori morali, come quelli del corpo, subiscono quasi sempre una vicenda alterna di mitigazioni e di peggioramenti; ond'è fallace il giudizio sull'importanza di un male, quando ci arrestiamo ad esaminarlo esclusivamente nei sintomi di un istante. Agnese in quel punto, davanti al tranquillo aspetto della sua solitudine, confortata dalla sua innocenza, era calma: ma non fu sempre così. — Il cuore alla sua volta, approfittando della stanchezza mentale, ruppe la tregua e rinovò gli assalti. — Quando la ragione attiva e solerte le infundeva la morale certezza che Gabriello [390] era in salvo, sembrava convinta e taceva. — Ma se gli argomenti a creder ciò venivano meno, o se l'intelletto affaticato chiedeva un po' di riposo; il cuore ripigliava i suoi diritti per abbattere l'artificioso edificio delle sue speranze, e reclamare ciò che gli era dovuto.

Noi non accompagneremo l'infelice donna su questo sentiero sì vago, e sì variamente spinoso, perchè, dopo di avere errato a lungo con lei, ci vedremmo ricondutti al punto da cui siamo partiti. Basterà il dire che Agnese ebbe durante la notte qualche breve istante di riposo; ma che esso però non fu di tal natura da ravvivarle le forze affievolite. — La notte, che per chi dorme tranquillo scorre in un attimo, per Agnese fu eterna. — Ma la vicina aurora non nega mai un po' di calma alle anime addolorate. — Quando cominciò ad albeggiare, ella chiuse gli occhi, e s'addormentò tranquillamente.

CIL.

Il sole indorava i comignoli delle torri, e ravvivava con una luce purissima uno de' più bei mattini di primavera, quando entrò inaspettato nel castello un cavaliere portatore di grandi novità. Si affollarono intorno a lui gli scudieri e gli armati; e lo interrogavano sul motivo di quel furioso ritorno, preleggendo sulla sua fisonomia qualcosa d'importante e di straordinario. Egli era latore di una lettera del Conte di Virtù per Caterina sua moglie; ed aveva un sacco di novità da vuotare a beneficio di tutti [391] coloro, che avessero voglia di ascoltarlo. — Partito da Milano la notte, e testimonio oculare degli avvenimenti del giorno prima, era fatto abile di raccontare che il Conte di Virtù si era liberato dallo zio, e che i milanesi con immenso giubilo lo avevano acclamato loro signore. Forse come ogni narratore, che ha il privilegio d'essere il primo a diffundere una grande notizia, condì di qualche iperbole il suo racconto, sopratutto quanto alla parte ch'egli vi aveva fatta; ma la sostanza della cosa era esposta con la veridicità di un rendiconto officiale.

La notizia, sparsasi in un momento per tutto il castello, vi destò grande meraviglia ed una gioia ancora più grande. — Senza tener conto dell'affetto che tutti portavano a Giangaleazzo, il merito di una vittoria, ottenuta così a buon patto e feconda di tanti vantaggi, faceva andare superbi coloro che portavano le armi del vincitore. — E, infatti, mentre Caterina spiegava la lettera di suo marito, il grido di viva Giangaleazzo, viva il signor di Milano, dispensava la nuova ai quattro lati del castello.

A quello strepito, anche Agnese si destò; e, prima che giungesse a riordinare le idee confuse, cedette alla sorpresa di quelle acclamazioni, e volò alla feritoja per indovinarne la cagione.

Poche e confuse parole raccolte qua e là dai crocchi che si erano fatti nella corte, e a cui rispondevano con motti più sonori le genti sparse sulle altane e lungo i parapetti delle finestre, bastarono a destare nell'animo di lei una speranza. — Crescevano le speranze se, alla memoria delle minaccie di Caterina, contraponeva [392] quelle grida, che sembravano esserne una smentita. — Ella conosceva che il Conte di Virtù non era uomo d'avventurare un'impresa, quando non fosse sicuro di un buon successo: e cominciava a sperare che Caterina, in preda ad una passione sregolata, fidando le vendette alla sua mente debole, avesse fatto assegnamento su progetti vaghi o incompleti o male avviati. — Le grida festose si andavano ripetendo; ed il saluto al Conte di Virtù ed al signor di Milano era fuor d'ogni dubio diretto ad una persona sola.

A siffatto riscontro, la mente di Agnese rinvenne completamente dal suo letargo; e, temperando gli inopportuni atti di gioja, richiamò davanti a se tutte le circostanze che avevano preceduta od accompagnata la sua disgrazia, proponendosi di conciliarle coi fatti presenti. — Si arrestò a considerare in ispecial modo lo scritto di Rodolfo a sua sorella; ella ne ricordava le frasi e le parole; anzi, se in qualche punto la memoria non era ben sicura di sè, il foglio, sdegnosamente lanciato a' suoi piedi, poteva venirle in ajuto; giacchè lo scritto era stato raccolto da lei, al momento che la principessa si allontanava. — Agnese infatti lo cercò, e lo trovò sopra di sè. Conduttasi vicino alla finestra, dopo di averlo letto una, due volte, cessò da ogni dubio. Quello scritto, rimasto per caso nelle sue mani, diveniva un'arma colla quale avrebbe potuto vendicarsi nel modo il più terribile della sua nemica. Pensò Agnese alle gravissime conseguenze che avrebbe potuto trarre dall'uso di quel foglio. — Vide l'occasione della vendetta, ma la guardò soltanto per isfuggirla.

[393]

La prigioniera volle trarre miglior profitto dalla sua posizione. Pensando che Caterina doveva essere seriamente turbata nel provedere ai casi suoi, studiò il modo di offrirle uno scampo. Non era questo soltanto un render bene per male; la generosità dal canto suo diveniva un mezzo per cancellare le precedenti impressioni, e per preparare a Caterina ed a se stessa un men funesto avvenire.

Non tardò a presentarsi un'occasione favorevole per mandare ad effetto i suoi disegni. Quando il carceriere entrò nella sua cella, e, con un fare meno brutale del dì precedente, le raccontò ciò che noi diremo tra poco e che Agnese aveva già indovinato, questa si giovò del buon momento per pregarlo a volergli procurare di che scrivere; asserendo che aveva da riferire qualche cosa d'assai importante alla principessa. Dietro giuramento che non avrebbe usato di questo favore per lasciar nelle secche il compiacente aguzzino, le fu recato ciò che chiedeva. Agnese ripiegò la lettera di Rodolfo in un foglio di carta, e vi scrisse sopra le seguenti parole:

“Non odiate colei che, dal fondo di un carcere, vi dà l'unica prova di affetto, che le è concesso d'offrirvi. — Io rendo a voi la vostra pace; in compenso vi chiedo che mi sia restituito mio figlio. Voi non udrete più parlare di me; io vi avrò sempre nel cuore, se accoglierete generosamente la preghiera di una madre infelice.„

Caterina, nel leggere queste parole, trovandosi di bel nuovo padrona del suo secreto, sentì non quanto fosse generosa la sua supposta rivale, ma quanto grave era il pericolo a cui andava incontro, se non accoglieva [394] la proferta; il perchè le fece buon viso. — È troppo il dire che rimanesse vinta dalla generosità di Agnese: più conforme al vero è il supporre che la vulgare sua passione, deviata dai tristi propositi dopo gli avvenimenti, la consigliasse ad accettare una tregua.

All'idea delle grandezze, che le venivano annunciate dagli splendidi fatti di Milano, obliò del pari i rancori verso Agnese e la sventurata sorte di suo padre; fece porre in libertà la prima, ed apparecchiò un sorriso di compiacenza pel momento in cui avrebbe salutato il nuovo signore di Milano.

Agnese, appena escita dal suo carcere, fu invitata a comparire davanti alla principessa. — L'aspetto di costei era sereno; sembrava che la nuova grandezza avesse cancellato sul suo volto fino le traccie dell'astiosa passione del giorno prima. Ricordi il lettore, che quando Barnabò offerse a sua figlia il trono di Pavia in luogo di un chiostro, ella accolse il primo anche a condizione di legare le sue sorti ad un uomo, che non amava, e da cui non poteva essere amata. Ella esciva ora da un egual bivio, con un'eguale risoluzione: accettava la raddoppiata potenza della sua casa, e il seducente splendore della nuova signoria, malgrado la disgrazia di suo padre, e col dubio d'avere al fianco una rivale. Svolgere nel suo cuore un sentimento di pietà per la sorte infelice del genitore e dei fratelli, sarebbe stato come rinovare il prodigio della favolosa statua di Pigmalione. — Cosa meno ardua per lei era il convincersi che le sue gelosie erano infondate.

Agnese cercò d'imbonirla colle parole, come prima tentò di farlo colle azioni. — Il vederla rinunciare ad [395] una vendetta sì bene apparecchiata e sì prossima, riconfortò l'animo di Caterina: ma più ancora valsero a tranquillarla le ripetute istanze con cui Agnese chiedeva d'essere allontanata dalla sua corte. Nella preghiera poneva costei tutto il suo cuore; le parole erano sì ingenue e sì fervide, che diveniva impossibile il metterne in dubio la sincerità.

Caterina, che s'accingeva ad abbandonar Pavia per ricongiungersi al suo sposo nella reggia di Milano, non volle diminuire il suo corteggio, privandolo di una delle sue più belle dame. — Alle ragioni rispettose ma insistenti, con cui questa le chiedeva la propria libertà, ella opponeva con affettata cortesia esser necessario il consultare il suo signore. Il dubio che questi le chiedesse conto della mancanza di Agnese, la forzava a non aderire alle sue brame; e l'altro più grave sospetto, che Agnese potesse un giorno dimenticare la promessa del silenzio, le impose di usarle in seguito tutte le apparenze di una protezione benevola e costante — Da quel dì Caterina ed Agnese non furono, ma parvero amiche.

Chi pagò le spese degli errori della principessa fu l'incauto scudiero. Nel bel momento in cui attendeva il premio de' suoi fidi servigi, scomparve dal castello, e non s'ebbe più nuova di lui.

CL.

Qui finisce la cronaca; ma le fila degli avvenimenti, che rimangono interrotte, ricompajono, s'intessono e si sviluppano di nuovo nell'ordito della storia patria [396] di quell'epoca. — Dal Corio al Verri, da questo agli storici ed ai novellieri contemporanei, tutti riconoscono i nostri personaggi, e attribuiscono loro una parte più o meno importante nella storia. E non solo ci narrano le vicende private ed intime dei Visconti; ma traducono sulla scena, non ultimi fra gli attori, Agnese Mantegazza, suo figlio Gabriello, e fin anco Medicina.

Era quindi mio pensiero di chiudere queste pagine coll'additare al lettore su quali altre più autorevoli avrebbe potuto trovare la continuazione dei fatti interrotti. Mi parve che, un po' per cortesia, un po' per l'affetto portato a qualcuno dei nostri personaggi, egli avrebbe seguito il nostro avviso: chè, in fin dei conti, questa è storia nostra; nella quale, se non vi ha sempre di che menar vanto, non manca mai qualche cosa da imparare. — Ma perchè, dico io, non farò io stesso quello che è consigliato agli altri? perchè non metterò a disposizione di tutti la fatica di un solo?... Se un forastiero poco pratico delle nostre strade ci dimanda la via per giungere al tale o al tal altro luogo che egli vorrebbe visitare, è prima regola di cortesia che gli diciamo: va dritto, o volgi a manca, o ritorna su' tuoi passi. Ma sarà atto più gentile se lo guidiamo fino alla meta, e gli facciamo un po' da cicerone. Quando egli non avesse bisogno della nostra scorta, noi ce ne andremo; ma se, nel dirgli quel poco che abbiamo raccolto dall'uso, possiamo istruirlo di ciò che egli non sa, certo non ci vorrà male pel servigio anche piccolissimo che gli abbiam reso; anzi, ce ne saprà grado, e ce lo mostrerà colla mancia.

[397]

CAPITOLO VENTESIMO

CLI.

Nel giorno 6 maggio 1385, di fortunata memoria pei milanesi, il Conte di Virtù aveva lasciato Pavia, come si è detto, e si avvicinava a Milano, col secreto intendimento di farla libera dalla mostruosa signoria di Barnabò, e d'inaugurarvi un governo mite e glorioso.

Rodolfo e Lodovico, i due maggiori figli di Barnabò, si erano spinti qualche miglio fuori di Porta Ticinese, col pretesto di andare incontro al parente, e di fargli onore; in realtà movevano ad esplorare i procedimenti dell'inimico. — Vista da lungi la comitiva, e scoperto dal polverio che doveva essere molto numerosa, avrebbero voluto rivolgere tosto i cavalli verso Milano per annunciarvi l'arrivo di una compagnia, avviata in apparenza a tutt'altro che ad una pratica di devozione. Ma, poichè gli officiali del Conte di Virtù movevano al galoppo incontro ad essi, e li salutavano [398] collo sventolare delle ciarpe, il retrocedere sarebbe stato un atto scortese, quando non sembrasse viltà. Rodolfo e Lodovico, pertanto, affrettarono il passo; e, giunti in faccia al cugino, scambiarono con lui le cortesie d'uso.

I due fratelli, ancora più insospettiti dal rilevar meglio il numero e l'agguerrimento della comitiva del conte, s'accorsero tosto che le convenienze ricevute e scambiate non erano schiette. Cercavano essi di tenersi al largo, e d'aver libera la strada e l'uso delle armi; ma gli officiali del conte, simulando un'amicizia ossequiosa e sollecita, non sapevano spiccarsi dal fianco loro.

Quell'apparato di forze tanto discorde coll'umile invito del conte, l'aria commossa stampata su qualche volto meno abile a nascondere un mistero, una o due parole dette a caso e raccolte, come si suol dire, per aria, l'aspetto guerriero dei più, e sopratutto il piglio nuovo e risoluto di chi li guidava, cangiarono i dubj in certezza. Rodolfo e Lodovico, lontani l'uno dall'altro, tradussero le loro condoglianze in un'occhiata d'intelligenza e in un sospiro. Il conte, avendo indovinato l'angoscia dei cugini, cercava di rassicurarli raddoppiando le cortesie; ma intanto i suoi officiali stringevano sempre più da vicino i nuovi arrivati.

Il corteggio attraversò quella parte di abitato, che chiamasi oggigiorno Borgo di Cittadella, e che allora era infatti un quartiere suburbano fortificato; e piegò a sinistra radendo la fossa e le mura per tutto il tratto che da Porta Ticinese si stende fino al [399] Ponte di S. Vittore, dov'era la pusterla di S. Ambrogio. — Quivi giungeva dall'interno della città il signor Barnabò, seguito da pochi cavalieri e in compagnia di un frate; e, non appena ebbe veduto il corteggio, spronò la mula, e mosse di trotto incontro a chi arrivava. Ma il Conte di Virtù lo prevenne; e, facendosi vicino a lui più sollecitamente, lo salutò con grande riverenza.

Era questo il segnale convenuto. — Jacopo dal Verme, spingendo furiosamente il proprio cavallo in mezzo al seguito del signore di Milano, pose la destra sulla spalla di Barnabò, e gli disse “siete prigioniero„. Allo stesso momento, Ottone da Mandello strappò dalle mani del principe le redini; e, per disarmarlo più presto, gli recise i pendagli della spada. Il marchese Malaspina si fece consegnare le armi da Rodolfo e da Lodovico. Gli altri del sèguito di Barnabò dovettero cederla, o l'offrirono spontaneamente. Al solo frate non fu fatta violenza.

Nessuna ragione, nemmanco l'interesse supremo della patria, giustifica il tradimento. La storia, che pure riconosce nel Conte di Virtù una mitezza ed una sagacia egualmente superiori al suo secolo, sarebbe più pronta a perdonargli quest'atto se avesse adoperato mezzi anche più violenti, ma meno sleali. — Una sola circostanza attenua alcun poco la sua colpa. Se Giangaleazzo avesse ritardato d'un giorno solo la cattura di Barnabò, egli sarebbe stato vittima di un egual tradimento. Perocchè il signor di Milano aveva dentro di sè fermamente risoluto di rendersi tosto padrone di Pavia; al quale scopo non avrebbe esitato davanti a mezzi anche più vili.

[400]

La storia non dice se più tardi Giangaleazzo abbia riconosciuto la gravezza del suo procedere. È a credere che in quel dì non giungesse pure a dubitare d'avere male operato: giacchè il popolo milanese accolse la novella con un'esultanza indescrivibile, e coprì di plausi frenetici e di viva il suo liberatore.

Intanto che Barnabò coi figli ed i famigliari veniva rinchiuso e custodito nel castello di Porta Giovia, il Conte di Virtù percorreva Milano trionfalmente.

Per far completa l'ebrezza del popolo, il quale in quel giorno di rivolgimento voleva pure riserbato anche a sè il diritto di commettere qualche violenza, il conte gli concesse per decreto, ciò che la turba s'era già pigliato: il saccheggio, cioè, dei palazzi di Barnabò e de' suoi figli. Nessun volere di principe ebbe più pronta e più completa esecuzione. La plebe, divisa in gruppi, si gittò furibonda sugli edificii designati. I primi e i più fortunati posero la mano sull'oro e sugli oggetti di valore; ma le turbe susseguenti ed i tardi arrivati, proclamando in quel giorno il diritto di eguaglianza, manomettevano le ruberie dei primi. I fardelli dei saccheggiatori erano alla loro volta saccheggiati: oggetti preziosi, giojelli di valore incalcolabile, andavano perduti, calpestati ed infranti: tutti volevano avervi la parte loro. Cresceva la folla, non il numero delle cose atte a sbramarla. Non due braccia ma dieci, ma venti, si allungavano risolute per afferrare lo stesso oggetto. Da ciò dispute e risse; violenze e bestemmie. Infine non era più questione di preda, ma gara di distruggere. Le suppellettili, che non potevano essere tenute o trasportate da due mani, erano [401] pallate ora in un senso ora in un altro, poi manomesse e fatte in bricioli; e, perchè questo non avesse più di quello, venivano lanciate dalle finestre. Dopo due ore di soqquadro, non avanzarono che le nude muraglie; e se queste pure non furono spianate, gli è che anche il distruggere costa fatica, e che i guastatori erano in fine d'ogni loro forza.

La plebe sbrigliata era stanca, ma non sazia del bottino; tanto più che, dopo aver troppo affaticato, scoperse d'aver distrutto fin anco il suo guadagno. Dai palazzi di Barnabò si volse quindi ancora più cupida a quelli dello Stato; e quivi, senz'esservi autorizzata dal decreto del principe, invase le dogane e gli officii delle gabelle, disperse il sale raccolto, compensandosi collo sperpero dell'averlo in addietro pagato troppo caro; e, poichè colà non trovò da far preda di denaro o di roba, raccolse i catasti, i libri e quante carte puzzavano della passata tirannide, e condannò il tutto alle fiamme; pensando di riavere l'abbondanza, quando fossero scomparse quelle memorie della passata miseria.

Ma intanto che il popolo si sfogava sulle reliquie dell'odiato governo, Giangaleazzo poneva al sicuro il tesoro di Barnabò, trovato nella rôcca di Porta Romana, e consistente in tal copia di metallo nobile da caricarne sei carra; valore immenso a quei dì, che si stimò oltrepassare i settecentomila fiorini d'oro.

Esultava il popolo milanese in mezzo a tanta baldoria. Esagerando il valore del tesoro scoperto, credeva di non aver più a sopportare tasse od imposte. Ma in mezzo alla publica festa, la più grande e la più sincera gioja nasceva dal pensiero d'aver cangiato [402] il feroce padrone in un principe mite e generoso. — Era un pezzo che i milanesi invidiavano gli abitanti di Pavia; ora la generosità, con cui il Conte di Virtù aveva trattato il popolo di Milano in quei primi giorni, lo confermava nella stima che s'era concepita di lui. — Ond'è che non poteva apparire in publico, senz'esservi acclamato principe e signore. Dal canto suo il conte, mostrandosi lieto delle accoglienze, dichiarava agli amici, ai magistrati ed a tutti, che non avrebbe assunta la Signoria, se il consiglio generale della città non gliela conferiva nelle forme richieste dalla costituzione del paese.

L'ira del popolo contro tutto ciò che apparteneva all'esecrato governo, non ebbe fine coi saccheggi. Vi erano in città memorie più vive e più palpitanti delle sofferte sventure; v'erano i complici della recente tirannide. E il popolo li andava cercando; e, quando credeva di averne trovato uno, lo voleva acconciare a suo modo.

Le poche famiglie, che erano legate al governo di Barnabò, o che ne godevano i favori, lui caduto, abbandonarono la città, e si ritirarono nelle castella, lasciando che i successivi avvenimenti dichiarassero meglio di chi era la vittoria, e che intanto si raffreddasse il furore del popolo. Molt'altri, credendosi meno in vista, o pensando essere la fuga un partito troppo avventato, se ne stavano rinchiusi, studiando qualche nascondiglio, preparandosi una doppia escita pel caso d'invasione. Altri ancora avevano preso il partito di unirsi agli schiamazzatori, di scendere in piazza, e di gridar con essi viva; badando a gridar forte e fra [403] i primi: e, in mezzo a questi, erano alcuni che pochi dì prima insultavano il publico dolore, fatti arroganti dall'immunità guadagnata a prezzo di adulazioni e di denuncie. — E il popolo anche allora si mostrò pronto a menar buoni questi sùbiti ravvedimenti, e a perdonare, nella maggior parte dei casi, il triste passato.

V'era poi un grande numero di persone, che, come avvien sempre, diceva di aver veduto e predetto il grande avvenimento in mille occasioni. A sentirli, costoro si erano fitti in capo da un pezzo che le cose non potevano andar sempre ad un modo, che alla fine dovevano mutare; che Dio non paga il sabato; e assicuravano, che avrebbero voluto avere tanti ducati in tasca, quante volte avevano susurrato all'orecchio di Tizio e di Sempronio, che messer Barnabò doveva fare mala fine. — Colle chiacchiere sanavano essi qualche antica piaga; e tornavano amici con coloro che poco dianzi solevano guardare obliquamente.

Se un popolo, insultato lungamente in ciò ch'egli ha di più sacro ed inviolabile, avesse il diritto di farsi giustizia da sè e alla spicciolata, dovremmo dire che anche in questa occasione i milanesi furono assai generosi; perocchè, dopo di aver dato sfogo alla naturale passione manomettendo le spoglie dell'inimico, si sentirono l'animo così sazio ed alleggerito, da non chiedere altre vendette. — La publica festa fu accompagnata da dimostrazioni che toccavano al delirio, ma non fu bruttata di sangue. I tristi fautori della mala signoria avevano subito la più grave e la più giusta delle pene, assistendo al trionfo dei loro naturali nemici.

[404]

CLII.

La condotta di Giangaleazzo era un frutto precoce di quella politica astuta e temperata, che in lui nasceva da istinto, e che più tardi divenne una scienza a beneficio dei governanti.

Egli era certo di possedere le simpatie dei milanesi; finse nullameno di metterle in dubio onde provocare il voto publico, e farsi forte della sua autorità. Per tal modo, egli cessava d'essere il solo responsabile delle sue azioni, e metteva il nuovo governo sotto l'egida della sovranità popolare. Ma ciò era ancor poco. Il modo violento col quale aveva trattato lo zio, immune da censura finchè durava l'ebrezza della vittoria, coll'andar del tempo, e dietro il naturale illanguidirsi delle memorie, poteva divenire titolo d'accusa contro di lui. Bisognava cercare la via di giustificarlo. Laonde, ordinò che per cura di specchiati cittadini si raccogliessero i fatti che aggravavano la condotta di Barnabò, e si compilasse un regolare processo della sua decadenza.

Non fu d'uopo ricorrerere a calunnie o ad esagerazioni perchè Barnabò apparisse reo di gravissimi delitti e indegno dell'autorità sovrana. Gli atti di ferocia da lui commessi furono registrati e documentati colla maggiore esattezza. La sua prepotenza contro il clero, lo sprezzo delle scomuniche e l'empietà della sua vita, lo qualificavano come un uomo abbandonato da Dio. Il progetto di dividere lo Stato fra i suoi figli, lo accusava di violazione degli statuti patrii. Nel [405] sommovere la feccia vennero a galla molte circostanze prima ignorate. Si potè provare che Barnabò tramava contro la vita e la signoria del nipote. Per ultimo, venne asserito che colle arti diaboliche e coi maleficii aveva rese sterili le nozze del Conte di Virtù; onde, in ogni caso, diventare signore di Pavia per legittima successione.

Queste accuse non avevano bisogno di prove: le prime perchè troppo evidenti, l'ultima perchè assurda. — Eppure, mentre quelle non aggiunsero alcuna importanza al già fatto, questa produsse conseguenze nuove ed inattese. — L'attentato di Barnabò contro la vita del nipote risvegliò lo sgomento, che tien dietro ad un pericolo prossimo e gravissimo superato felicemente, ma del tutto a caso. La taccia di stregoneria aggiunse al ribrezzo di un nome esecrato un prestigio fatale e terribile, che destò nelle menti impaurite il bisogno di premunirsi contro una potenza sovrumana, domata forse, ma non ancor vinta. Gli assassinii e le crudeltà erano fatti completi, da cui non potevano nascere altre conseguenze; queste tenebrose macchinazioni mettevano capo nel vuoto; e le menti inferme, atterrite dal precipizio che si vedevano davanti, si logoravano nel consultarne la profondità ed il pericolo; pareva che il raccapriccio, che ne provavano, contenesse qualcosa di lusinghiero.

Il publico non si curò di quanto già sapeva. Si arrestò di preferenza ad esaminare questa nuova accusa, dimandandone ad alta voce spiegazione, ed aspettando che fosse fatta giustizia. — Siccome Barnabò, come principe, sfuggiva alla pena del suo delitto, [406] la vendetta del popolo volle rifarsi del frodato spettacolo, cercandone più al basso i complici. È raro, che la mente umana non sogni d'aver scoperto il vero, se lo cerca in mezzo all'errore. Quanto più il delirio è grave, altretanto le visioni acquistano forme sode e precise, che le fanno simili alla verità.

Bastò quindi che una sola persona pronunciasse a caso o ad arte il nome di Medicina, perchè altri lo ripetesse, aggiungendovi che quegli era il complice tanto ricercato. Ciò che da prima parve solo possibile, sembrò poi probabile, e finì per essere tenuto come certo. Circolò la notizia per le bocche di tutti; e chi la riceveva come un sospetto, la rimetteva in giro siccome un fatto.

In questo caso, la coscienza publica non aveva bisogno d'armarsi di solide ragioni nè di una dose speciale di credulità, per convincersi che Medicina era uno scelerato. Non era fargli torto il crederlo atto e pronto ad ogni nefanda azione; se il delitto che gli veniva imputato era possibile, egli, il ribaldo per eccellenza, doveva esserne macchiato.

La vita di Medicina era un mistero; ed il mistero s'accomodava facilmente alle ipotesi le più arrischiate. Sapevasi ch'egli era esperto nelle scienze occulte e nella negromanzia, che godeva di una privilegiata domesticità col principe; che infine era ricco, e che ammassava l'oro a palate. — Tutti indizii che nella mente del vulgo lo condannavano senza remissione.

Come la pensassero i giudici, noi sappiamo. — Ma siccome v'era più d'un motivo per procedere contro Medicina, anche senza piegarsi alle superstizioni popolari, [407] così dobbiamo ritenere, che sia stata saggia cosa l'ordinarne l'arresto.

Ma il ciurmatore, preveduta la disgrazia, per sfuggire alle ricerche della giustizia, riparò nel tugurio di Canidia; la quale, quando non era una sibilla, diveniva la più laida bugandaja di Porta Tosa. Due o tre giorni di inutili pratiche per parte della giustizia e de' suoi bracchi, avevano dato tempo al publico di calmarsi alquanto, e l'agio a Medicina di proveder meglio ai casi suoi. — Dolevagli però la vita sfaccendata e neghittosa; e, per quanto si sentisse sicuro della protezione di Canidia, sentiva il bisogno di mutar aria, e d'andarsene lungi da Milano le cento miglia, in luogo sicuro, dove ravviare qualche intrighetto e godersi in pace i frutti della professione. Dopo quattro giorni di ritiro, che gli parvero un secolo, pensando che il furore popolare fosse interamente sbollito, stimò venuto il momento di escire dal suo nascondiglio, e di evadersi inosservato a tutti, e perfino alla sua ospite.

Canidia (sia detto a schiarimento dei fatti che stanno per succedere) vantava dei diritti sulla persona del suo ospite. Ne' suoi tempi, Medicina aveva posto su lei gli occhi disievoli; e v'ebbe fra i due ribaldi qualche nodo d'amore districato col coltello; ma più tardi, accortasi la sibilla che il suo amante avrebbe forse diviso con lei una parte de' suoi guadagni, non mai la gloria dei Medicina, si accontentò di servirlo nelle sue ciurmerie, e di far l'amore non più a lui, ma a' suoi gruzzoli. Con questa vista, lo salvò e lo sottrasse alle ricerche della giustizia; ma, divenuta padrona della sua vita, non ristava dal magnificare il servigio che gli [408] aveva reso, e d'avanzare fuor dei denti una cifra alquanto ardita pel suo riscatto. — Canidia era veramente degna dell'amico suo.

Quella mattina, la sibilla se n'era andata al guado prima del levare del sole. Ne approfittò Medicina per raccogliere il bello e il buono che aveva posto in salvo; lo rinchiuse in una sporta; vestì il sajo ed il mantelletto; si appiccò al mento la solita barba; tracciò alcune rughe sulla fronte e lungo le guancie per aggiungere vent'anni alla sua quarantina; poi, pigliato il bordone e la sporta, s'avviò per escire; pensando di dare un canto in pagamento alla sua creditrice.

Il ciurmatore non era più riconoscibile. All'aria devota, all'andare sghembo ed incerto, voleva sembrare uno che arriva, non uno che va. Era questa l'arte più opportuna per deviare ogni sospetto. Scese le scale, spalancò l'uscio della casa, e sul primo dei tre gradini, che presidiavano la porta, girò l'occhio all'intorno, e fiutò l'aria per sentire se spirava propizia. La strada era completamente deserta: percorse il piccolo chiassuolo delle Tenaglie di Porta Tosa, ove abitava Canidia, piegò a destra verso il brolo di S. Stefano, e di là discese per un'altra stretta verso il giardino dell'arcivescovado, che era a quei dì il mercato degli ortaggi; pensando che quella fosse la via più diretta e sicura per giungere alla pusterla del Butinugo, una delle meno frequentate della città. Per quella egli intendeva di escire, di pigliare le strade di traverso, e di camminar ben bene prima di voltarsi indietro.

Il giardino dell'arcivescovado, convertito a quei tempi [409] in mercato pei commestibili, era una piazzetta di forma irregolare, ingombra di tende e di baracche, che la facevano simile ad un accampamento. Vegliavano alla custodia ed allo spaccio delle civaje e dei pollami certe comari, dalla faccia abbronzata e dall'età inqualificabile, le quali non avevano altre gentili apparenze del loro sesso fuorchè la gonna e la prontezza dello scilinguagnolo. In attesa del sole e dei compratori, chiacchieravano tra loro con un tuono di voce sì vario e sonoro, che pareva il preludio di una rivolta. Ma i visi, benchè improntati di una fierezza maschia, erano calmi; le braccia e le mani, benchè sembrassero latine e pesanti, pendevano inerti, o vezzeggiavano il turgido abdome.

Se Medicina avesse preveduto d'incontrare tanta gente, non sarebbe passato per quei luoghi; ma poichè vi si trovava, vedendo che il suo aspetto non fermava lo sguardo d'alcuno, e che le abitatrici del trivio erano tutte occupate in provare che i migliori tempi avrebbero racconciato l'appetito della gente e il commercio della roba mangiativa, tirò avanti, studiando il passo, e cercando di nascondere la testa ed il volto nel cappuccio.

Sul più buono, dopo d'aver felicemente superato più della metà del cammino pericoloso, quando cominciava a respirare largamente e a credersi quasi in salvo, vide sboccare da una viuzza e scendere nella piazzetta la sciagurata Canidia, che gli veniva incontro. — La riconobbe subito e tremò. Diè d'occhio a destra e a sinistra per scoprire una scappatoja, e passare inosservato. Non trovando altro partito, escì dalla retta [410] che percorreva, e cercò di nascondersi fra le baracche. Ma la strega che aveva scoperto l'uomo e le sue intenzioni, ripiegando dalla stessa parte e circuendo la medesima baracca, gli si presentò di fronte, piantandogli in volto due pupille di fuoco, che volevano dire un mondo di cose, non del tutto cortesi — Medicina avrebbe voluto risponderle con un'aria attonita e indifferente, come se fosse un uomo nuovo; ma l'ideato stupore si dileguò sur un viso sbugiardato dallo spavento. A dispetto d'ogni proposito, il falso viandante apparve più che mai il troppo noto ciurmatore.

“Dove andiamo a quest'ora e in quest'arnese?„, dimandò ella con piglio arrogante.

“Eh... che dite? che volete da me...? io non ho nulla a fare con voi.... non vi conosco, io: lasciatemi andare„, rispondeva Medicina; e intanto cercava di svignarsela con uno sciambietto un po' troppo svelto per chi portava quella barba. La sua voce era assai alterata; ma era la voce di Medicina falsata soltanto dalla paura.

“Si parte dunque, senza neppur dir crepa agli amici? — riprese la furia, incrociando le mani sul petto con una posa virile, che dinotava minaccia e comando — Tutti i giorni se ne impara una....„

“Lasciatemi andare„, interruppe Medicina con una voce divenuta fessa e piagnolosa, che aggiungeva all'espressione dello spavento il tuono accusatore della preghiera.

“Non mi fuggirai, mio bel cecino d'oro, finchè non mi avrai pagato lira e soldo quel che mi è dovuto.„

[411]

Medicina, invece di rispondere, tentò strapparsi dal viluppo e fuggire. — Ma Canidia, non meno pronta di lui, slacciò le braccia conserte, e con una mano di ferro lo strinse al pugno, dicendogli senza curarsi di parlar sottovoce:

“Ah traditore! ah viso di fariseo! È questo il bene che tu vuoi alla Canidia tua? è questa la mercede de' miei servigi?... mostro!„

“Ho da dirvelo un'altra volta che io non vi conosco; che sono un povero...?„

“Ed io ti conosco te, ceffo da capestro„ — e in dir ciò stese la mano sul volto di Medicina, e gli strappò la barba posticcia.

Medicina si sentì perduto. La scena era stata troppo viva perchè sfuggisse alla curiosità delle comari. — Il gruppo dei litiganti era protetto dalle pareti di una baracca; ma più di due occhi avevano già sorpreso lo scandalo, e molte lingue si davano grande premura di strombettarlo alla turba.

L'unica speranza, che ancora rimaneva a Medicina, andò fallita. — Intanto che la folla gli si stringeva intorno, egli con voce pietosa, cogli occhi imbambolati, pel merito dell'antico amore e delle comuni ciurmerie, pregò, supplicò Canidia che non lo perdesse. Raddoppiò, triplicò, centuplicò il valore delle cose promesse, se ella era buona a salvarlo. Quando l'avvicinarsi della folla gl'impedì l'uso libero della parola, l'occhio pietoso e la faccia allibita imploravano mercè, con un'eloquenza ancora più efficace.

Ma prima che si chiudesse intorno a loro una cerchia di gente, Canidia approfittò della confusione [412] del ciurmatore, e, parendole di averlo punito abbastanza, pensò a sè stessa. — Medicina, dopo le minaccie e il tentativo di fuggire, si era messo nella posizione di chi dimanda in grazia la vita; e, per essere più naturale e fervoroso, dimenticava alcun poco la sporta. Tanto bastò alla strega, perchè gliela strappasse senza alcuna difficoltà dal braccio, cui pendeva indifesa. Poscia abbandonò il campo, e cercò di porre in salvo sè stessa e la roba.

A quella sorpresa, rinacque in Medicina l'antico istinto. Imbaldanzito dal pensiero d'aver salva la vita, non s'accomodava a riscattarla a sì grave prezzo. Per riprendere la sporta, in cui era racchiuso il meglio delle sue ricchezze, stese le braccia da forsennato, tentò ghermire Canidia, e corse sui passi di lei. — Ma la folla che lo circondava, dopo avere, per una certa predilezione verso il proprio sesso, accordata l'escita alla donna, si era chiusa di bel nuovo intorno a lui, e gli impediva ogni movimento. Medicina, dimentico dei riguardi dovuti alla sua critica situazione, avvampando d'ira, e non obedendo che ad un bisogno prepotente di riavere il suo tesoro, gridava a piena gola, chiamando per nome Canidia, invitandola a ridargli il mal tolto, denunciandola alla folla come ladra.

Questo era operare una efficace diversione: ma Canidia tramava una vendetta assai più crudele. — Postasi a capo di un bivio, che le offriva un doppio scampo, rimbeccò la denuncia, pronunciando il nome di Medicina, e mostrandolo agli occhi di tutti sotto le spoglie del finto viandante.

Una favilla caduta in mezzo alla polvere può dare [413] un'idea esatta della commozione generale che tenne dietro al suono di quella parola.

“Medicina! lui? l'amico del tiranno, l'ammaliatore, l'assassino, l'indemoniato!„ — gridavano alcune di quelle furie, coi capelli irti dallo spavento e l'occhio stralunato, come se vedessero un rettile velenoso.

“O comari, egli è costui, che vuol togliere al nostro sesso l'unico privilegio che madre natura ci ha dato„ — soggiunse un'altra a cui la paura non aveva alterato l'umore burlevole.

“Vi è una taglia vistosa per chi lo ghermisce vivo, o morto? — Sì. — In comune dunque il merito ed il guadagno; non va bene così? — Da buone sorelle: un po' di carità per tutte.„ Soggiungevano una terza ed una quarta comare.

“Conduciamolo al Broletto. — No, al palazzo di giustizia. — Prima alla curia; bisognerà cavargli dal corpo il demonio. — E se andassimo a S. Eustorgio, dagli abati? — Ma che volete che facciamo noi? chiamiamo i nostri uomini. — Gli uomini! domattina sul fresco! ci porterebbero via tutto il merito, poi tutto il proveccio! — Che bisogno abbiam di coloro? sappiamo anche noi menar le mani, e fare star a segno i prepotenti. — Vivano le donne di Milano! — Suvvia, pigliamolo. — Pigliatelo voi altre, che ne avete maggior agio. — Della corda, della corda; bisogna legarlo. — Bisognerà riguardarlo, condurlo sano e salvo in stia. — Perchè? — perchè fra pochi dì ci renda merito del servigio sulla piazza della Vepra.... Che bel falò...! Che atto di giustizia...! — Muojano i paterini e gli scomunicati. — Viva Milano, viva Giangaleazzo!„

[414]

Tali erano i detti, o meglio le grida, che escivano da quelle creature, tutt'altro che degne d'appartenere al sesso gentile.

I detti erano fino a questo punto più larghi e decisi che non le azioni. Ma l'attrito di tante e così fervide parole avrebbe fra poco conciliate le volontà dissenzienti, e messe in movimento le braccia fin qui inoperose. Medicina non attese di vedersi soffocato da quelle furie, e tentò un colpo da disperato. Trasse di sotto un coltello; e, facendolo guizzare per l'aria, gridò: “Avanti chi ha coraggio.„ Il tiro parve ottimo: invitare il nemico a farglisi incontro fu precisamente come respingerlo. — Subito gli si aperse intorno un po' di largo; da una parte, la siepe delle persone già gli presentava una breccia accessibile. — Tentò di fuggire per essa; stese il braccio armato, e lo rotò davanti a sè. — Le più vicine indietreggiarono sbigottite; le altre, ritirandosi sui lati, allargavano il varco all'escita del furibondo.

Allora tornò a sperare: pochi passi ancora, un po' di coraggio, ed egli era salvo. — Ebbe tempo di rallegrarsene fra sè e sè; vagheggiò nella mente il pensiero della libertà, e gustò la vita dopo d'aver sentito i tocchi dell'agonia. Quanto alla roba perduta, pazienza: gli avanzavano mente, libertà e coraggio per raggranellare un altro tesoro. — Ma correva egli confidente sullo sgombro, quando ad un tratto si sentì côlto da una dolorosa stretta, che, cagionandogli una specie di vertigine, e soffocandogli il respiro, lo incatenava al suo posto. — Una di quelle femine che teneva fra le mani la corda tanto richiesta, e che l'aveva annodata [415] all'estremità, facendovi un cappio corsojo per legare il prigioniero, al vedere che costui gli fuggiva davanti, tentò di giovarsene per arrestarlo. — Allargò il nodo; lo prese colla mano destra, mentre colla manca teneva il capo opposto; indi lo scagliò in aria con tale giustezza, che il nodo investì la testa di Medicina, e gli scese fino sulle spalle. — Un passo di costui fece scorrere il nodo, e incapestrò il fuggitivo.

Le sue smanie non facevano che stringere più fortemente il laccio: l'infelice non lasciò intentato ogni mezzo per liberarsene. — Le minaccie e le bestemmie, che gli gorgogliavano nella strozza, morivano in un rantolo simile al singhiozzo d'un moribondo; una bava densa e insanguinata gli bolliva sulle labra. Sollevò di nuovo il coltello, e, rivoltolo contro sè, tentò di tagliare la corda; alla peggio, si sarebbe recise le canne della gola piuttosto che arrendersi. — Ma il suo disegno fu prevenuto e mandato a male; una strappata di chi sa quante braccia, ciascun pajo delle quali aveva impiegato una forza doppia della richiesta, lo fece traboccare: nella caduta gli fuggì di mano il coltello. Con una voce strozzata, implorò da quelle furie non la sua libertà, ma la grazia di morire secondo la legge, dopo una sentenza e per mano del carnefice: non ivi, sul lastrico, senza aver dimandato perdono a Dio de' suoi peccati. — Pregò, promise, pianse come un fanciullo. — E il cuore di quelle femine, a cui bastava di potere servire alla legge, e di prepararsi un bel guadagno e lo spettacolo di un rogo, si mostrò pronto ad accondiscendere alla preghiera, purchè si levasse, e non facesse resistenza. — Si alzò difatto; ma era malconcio, [416] pesto, deforme; aveva la faccia livida, gli occhi injettati di sangue, le membra contuse e tremanti.

Percorse un tratto di strada senza offese; non contando le contumelie, che gli venivano lanciate, e che egli più non udiva. — Ma, giunto il corteggio sulla piazza dell'Arengo, incontrò una turba di gente avvinazzata, che, veduto il parapiglia e inteso di che si trattava, volle avere la sua parte in quell'atto di giustizia.

La mente si ritrae con ribrezzo dal pensare a quali eccessi possa giungere la mano dell'uomo, dissenziente lo spirito, o illuso in strana maniera da un falso ossequio alla publica moralità. — La frenesia, che invade l'individuo, e gli toglie il senno e la coscienza, fermenta pure nelle turbe, e ne confonde la ragione. Fuorviate dal delirio, esse smarriscono la consapevolezza dell'opera loro, e si affaticano a raggiungere un effetto perfettamente contrario a quello già vagheggiato dalle intenzioni. — Quasi sempre gli assassinii, perpetrati da una plebe furibonda, sono la somma di tante piccole intemperanze, ciascuna delle quali è per sè stessa una perdonabile violenza. — Il presente fatto ne è una prova. Ad uno ad uno, quei popolani s'aspettavano di vedere un atto di giustizia richiesto e sanzionato dalla legge. Ma in ciascuno v'era un fremito d'odio, che richiedeva uno sfogo; nessuno volle o seppe rinunciare alla sodisfazione di esprimerlo, credendo di porgere una testimonianza d'abborrimento al male, di fare un atto di riverenza alla giustizia. — Non un'arma si drizzò contro Medicina; non si pensò di tentare a' suoi giorni; anzi, tutti lo volevano salvo. Ma intanto [417] ei fu vittima di una generale esazione di piccoli insulti. Egli non giunse al Broletto, ma vi fu trascinato di forza: e nel momento che la turba credette di consegnare alla legge un reo, scoperse che il reo era fatto cadavere. Si cercò invano sul suo corpo una ferita mortale. Nessuno lo aveva ucciso; ma gli urti, gli spintoni, le ceffate, i calci, che lo facevano cadere a terra, e le strappate che ne lo sollevavano brutalmente, erano tal somma di mali, cui non potè reggere forza umana. Nessuno lo aveva ucciso; ma egli era morto. La pena aveva preceduto l'invocato giudizio.

Quest'atto feroce fu indegno di un popolo, che inaugurava l'impero della legge, e voleva fare un passo verso la libertà. Fu lo stravizzo del famelico, che dinanzi ad una copiosa imbandigione dimentica la temperanza, ed obedisce agli istinti.

Quanto a Medicina, una fine tanto orribile era la sola veramente degna della sua scelerata vita.

CLIII.

L'accorto Giangaleazzo gradiva le rumorose acclamazioni del popolo che, rovesciata ogni memoria della mala signoria, consacrava in lui la speranza e il principio di un nuovo ordinamento. In cuor suo, però, preferiva ai vaporosi osanna la muta eloquenza dei suffragi raccolti nell'urna del Consiglio. La riconoscenza dei milanesi era viva e sincera; ma il nobile sentimento, [418] anche negli animi generosi, corre la vicenda d'ogni cosa umana. Il tempo avrebbe manifestato che agli interessi del popolo si legavano quelli del suo liberatore, e che il Conte di Virtù, rialzando gli oppressi, sollevava sè medesimo. Affrettò quindi il giorno del pronunciamento, non per togliersi giù da un'incertezza, ma per avere nelle sue mani un documento della volontà popolare: il chirografo, per così dire, della sua legittima proprietà.

Venne il giorno designato all'adunanza del Consiglio generale. La solennità fu splendida. L'etichetta rigida e simmetrica dei magistrati, dei nobili, dei cortigiani, si contemperò nella gioja semplice, ma cordiale, della folla. Appo i primi, la gelida ragione prevaleva agli affetti; in questa, gli affetti sorvolavano le etichette e la moda. — Ma l'intelligenza ed il cuore in quel dì miravano concordemente ad un solo scopo.

L'adunata si tenne nel Broletto nuovo: quel palazzo colossale ed isolato che surge ancora nella piazza dei Mercanti, e che implora di svestire le goffe forme del seicento per mostrare quelle semplici e maestose del secolo della libertà. Il podestà Liarello da Zeno reggeva il Consiglio. Accanto a lui sedeva l'arcivescovo Antonio da Saluzzo, il quale, intervenendo all'adunanza e mostrando la sua franca adesione al nuovo governo, tranquillava la coscienza dei pochi che, in mezzo al conforto del bene ottenuto, sentivano qualche scrupolo sul mezzo che erasi adoperato.

Assistevano al Consiglio due vicarii del principe, uno dei quali era il greco Demetrio Sidonio, il più illustre oratore dell'epoca. — Fu affidato a lui l'incarico [419] di leggere e di commentare l'atto d'accusa lanciato contro Barnabò Visconti. Non spese molte parole intorno alle sue crudeltà, perchè a tutti note; ma s'arrestò ad esporre per minuto ed a provare come Barnabò attentasse alla vita del signor di Pavia; onde trarne la conseguenza, che la condotta di questo non era che un atto di legittima difesa.

Le comunità, i paratici, i collegii dei dottori erano rappresentati nel Consiglio dai rispettivi eletti. Ciascun ordine di cittadini avrà avuto interessi e speranze sue proprie: ma concorde in tutti era l'odio contro la caduta signoria. Per la qual cosa, il voto di decadenza contro Barnabò Visconti fu pronunciato all'unanimità; ed unanime del pari fu quello che deferì la sovranità di Milano a Giovanni Galeazzo conte di Virtù e signore di Pavia.

Basterà il dire, pel resto, che quello fu un vero giorno di festa per tutti. — Dopo tanti anni di una toleranza muta e inoperosa, quello era il primo dì in cui il popolo milanese faceva sentire la propria voce. La sua parola era sovrana; colui che poco prima stringeva in catene il tiranno, si chinava davanti alla volontà popolare, e, interrogandola, non imponeva nè supplicava. Ma se in quel momento, all'indimani di tante sventure, e col vicino esempio di una città sorella che lodavasi della mitezza del suo principe, l'elezione di Giangaleazzo era e doveva essere una necessità, quest'atto di deferenza, quando fossero mancate sode ragioni all'unanime voto del popolo, vi avrebbe fortemente contribuito.

Come poi si manifestasse la gioja publica non torna [420] a conto di esaminare e di descrivere. Ognuno di noi ha veduto più di quanto è necessario per farsene un'idea precisa. Nel secolo nostro la crudeltà di Barnabò non sarebbe stata cosa possibile: noi abbiamo provato altre sventure, altro genere di servitù e di tirannia. — Quale, tra la recente e la lontana, sia la peggiore è facile il dirlo, quando si pensi che il delirio di un uomo è passaggero; ma che la consacrazione di un principio di servitù incatena le generazioni. La tirannia dello straniero, anche quando fu mite, fondavasi sopra l'assurdo rispetto di un'autorità iniqua, che, per essere più durevole e produttiva, seppe qualche volta imporre a sè stessa una misura nell'esercizio de' suoi odiosi diritti. Ma dicasi ad onore del vero: nulla fu più esiziale alla patria nostra, quanto quella mitezza che ci voleva fare rassegnati alla signoria straniera.

La festa d'allora fu invero l'espressione d'una sola città. È dubio se ne varcasse le mura. Forse, nel novero delle ragioni che determinarono l'unanimità degli elettori, figurò non ultima l'ingenerosa ambizione di un Comune, che per tale atto conquistava il primato su venti città italiane. Il sentimento della gloria e della grandezza municipale prevaleva a quello della ricostituzione di una patria comune. L'Italia era un mito, davanti al quale s'inchinavano gli ignorati studiosi della storia antica, o i chiosatori di Dante. — Ma il riconoscere la patria che Dio ci ha dato, e il volgere ad essa ogni pensiero, ogni affetto, ogni palpito di vita, il sacrificare per essa le tradizioni e i vanti municipali, anzi il fare del sacrificio una gloria, doveva [421] essere lavoro di molti secoli, frutto di lunghe e più gravi sventure.

Quella festa pertanto non fu che un'ombra scolorata di quelle che vediamo oggidì. Gli annalisti parlano di luminarie, di giochi, di corse, decretate dal Comune a solennizzare il fausto avvenimento. Saranno state cose splendide, non v'ha dubio; ma la più modesta espressione di esultanza, con che noi abbiamo celebrato la meno importante delle nostre vittorie, è solennità più augusta; perchè senza misura più sacro è il pensiero che le dà vita.

Ai venticinque dello stesso mese, Barnabò co' suoi figli, colla virtuosa Donnina dei Porri sua moglie, accompagnato dai pochi servi che gli erano rimasti fedeli, fu tolto dal castello di Milano, e tradutto, sotto la scorta di Gasparo Visconti, alla Rocca di Trezzo, che lo stesso prigioniero aveva rabbellita e fortificata pochi anni prima, con ben diverso intendimento. Sotto il peso della sventura il suo animo parve raddolcirsi alquanto. Sopportò la prigionia con una pazienza esemplare, se si ha riguardo al suo carattere rabido ed irrequieto. — Forse, riconoscendo allora tutto il male che aveva fatto, provò che la pena non era grave, e la riguardò come l'espiazione de' suoi tanti delitti. Dopo alcuni mesi di una vita inoperosa e tutta dedita alle opere di pietà, trovò la morte sul desco della famiglia: da chi propinata, gli storici non lo dicono asseverantemente. Sospettarono alcuni, che la signoria di Milano, temendolo ancorchè prigioniero, cercasse modo di sbrigarsene. — L'asserzione è affatto gratuita; il Conte di Virtù possedeva troppi mezzi a comprimere [422] ogni conato di rivolta, senza ricorrere a quest'estremo; e l'intera sua vita ci porge bastanti prove per asserire ch'egli fu estraneo a quest'atto d'inutile vendetta.

CLIV.

A quest'epoca la storia nostra esce da' suoi angusti confini, e si svolge in un campo assai vasto.

L'atto violento, con cui Giangaleazzo rovesciò il trono di suo zio, non era soltanto, come parve a molti, una conquista od una rappresaglia. Con quest'unico intento, nè il proposito di liberare i vicini da un giogo insopportabile, nè il diritto di castigare un finto alleato colle stesse sue armi, avrebbero giustificato l'uso di un mezzo troppo sleale. — Un alto concetto ferveva nella mente del Conte di Virtù, quando pose il piede in Milano. Era il sogno di tutta la sua vita che stava per divenire una realtà; era lo scopo di tutte le sue azioni, ch'egli s'avviava a conseguire.

Giangaleazzo meditava di raccogliere sotto il suo scettro le varie provincie d'Italia, per costituirne un regno a beneficio di un principe italiano. Egli aveva fatto il primo passo all'arditissima impresa.

Dopo la caduta della stirpe longobarda, che, in due secoli di dimora nella penisola, ne aveva meritata la cittadinanza, l'Italia alienò definitivamente la sua corona, permettendo che divenisse retaggio dei principi Franchi e Tedeschi. — Le costituzioni dei comuni, propugnate dalle republichette del medio-evo, risvegliarono [423] e mantennero nel popolo l'amore della libertà e delle armi. Ma quello stesso orgoglio, che consigliava minate violenze tra città e città, e che si nutriva di povere glorie municipali, non permetteva agli italiani di riconoscersi e di stringersi fra loro. Nè mai una somma, per quanto grande, di fortune parziali avrebbe potuto ricomporre la nazione. Alla sua esistenza richiedevasi lo sviluppo di un concetto nuovo, consacrato da una nuova virtù: il sacrificio degli interessi individuali. — Di nazione non avevasi un'idea; non si conosceva tampoco la parola. Era dunque vano lo sperare che le singole membra di questo corpo si associassero spontaneamente per tentare un'impresa colossale. Perocchè se i deboli e i poveri comuni la potevano desiderare, le città più floride e culte che avevano storia, leggi, armi proprie, non si lasciavano indurre a dividere colle minori una superiorità troppo invidiata.

Il mezzo infallibile di promovere la solidarietà fraterna ce l'avevano insegnato in addietro gli invasori stranieri, irrumpendo sulle nostre terre e portandovi la desolazione e la servitù. — Nella sventura i popoli riconoscevano l'unità della stirpe, e si riconciliavano per stringersi alla difesa; ma fatalmente, passato il pericolo, s'intiepidivano gli affetti.

Ora, perchè mai la virtù unificatrice, che era la forza delle armi dei barbari, non poteva svolgersi mercè l'influenza più mite di un principe italiano? — A tale dimanda rispondeva coi fatti il Conte di Virtù, quando, riunite sotto di sè le venti città retaggio della sua casa, si proponeva di aggiungervi quelle dei minori Stati vicini, usando pei popoli gli allettamenti di un [424] governo saggio e temperato, e sguainando la spada contro i tiranni.

Ma, prima di spingersi fuori dello Stato, egli volle rendere stabile il terreno, su cui posava il piede. Fu quindi sua prima cura di provedere con savie leggi all'interno ordinamento. Il popolo milanese aveva abbattuto quanto gli ricordava la mala signoria di Barnabò; il suo successore confermò e proseguì l'opera popolare, abolendo le leggi criminali esorbitanti, richiamando in vigore alcuni statuti passati in dissuetudine, altri aggiungendone dietro proposta o consiglio dei migliori cittadini. — Poscia intervenne fra i vicini coll'autorità del suo nome, e colle pratiche della sua politica. Egli presentiva l'importanza di una influenza morale esercitata senza il concorso della forza; ed inaugurava quel sistema d'alleanze, di mediazioni, di buoni officii, che spesso assicurano la vittoria prima di trarre la spada.

La discordia fra i signori della Scala e Francesco da Carrara, gli porse l'occasione di una vantaggiosa alleanza con quest'ultimo. — Infatti, mentre il Carrarese batteva lo Scaligero dalla parte di Vicenza, il Visconti passava il confine milanese a Brescia, ed occupava Verona. — Appena ei vi pose il piede, i cittadini, malcontenti della signoria degli Scaligeri, salutarono il Visconti come loro principe.

La gloria, che accompagnava le armi del Conte di Virtù e la fama di mitezza, di cui godeva il suo governo, indussero la stessa città di Vicenza a scuotere il giogo di Francesco di Carrara, e ad aprire le porte alle schiere milanesi. Invano il signore di Padova [425] levò la voce contro la violazione dei patti d'alleanza segnati fra lui ed il Visconti. — Questi non curò le proteste; rafforzato dal voto popolare, ed opponendo alle pretensioni del Carrarese le ragioni di sua moglie, figlia ed erede di una Scaligera, conservò Vicenza, e la fece centro d'altro più ardito movimento.

Non andò guari, infatti, che anche Padova venne aggiunta allo Stato di Milano; perocchè Francesco da Carrara fece vana prova delle sue armi. Mal difeso da un popolo ch'egli aveva oppresso, cadde in potere del nemico, che lo trasse prigioniero nel castello di Monza. Per tale avvenimento, il confine dello Stato milanese toccò la spiaggia del mare Adriatico.

Ormai padrone di tutta l'Italia superiore, Giangaleazzo volse lo sguardo alla parte centrale della penisola. — Espugnata Bologna colle armi, riscattò a patti Perugia ed Assisi. Anche i signori di Nocera e di Spoleti, presentendo la necessità di piegarsi alla forza ed alla fortuna di un rivale formidabile, cedevano a denaro la signoria. — Pisa fu venduta al Visconte da Gerardo Appiani, e Siena si arrese spontaneamente alle sue bandiere.

La republica di Firenze, gelosa dell'interne libertà più che della salute della patria, con publico manifesto chiamò fedifrago e tiranno il principe lombardo che agognava a cingere la corona d'Italia; e, con rimedio peggiore del male, invitò il re di Francia a scendere in Italia e ad opporsi alla crescente potenza dei Visconti.

Per buona sorte, Jacopo dal Verme, capitano dei milanesi, raccolto un nerbo di truppe nel forte di [426] Alessandria, potè attendere di pie' fermo le legioni francesi, e contrastar loro il passaggio del Tanaro. — Il conte d'Armagnac assediava la fortezza, e con villane provocazioni invitava i lombardi ad escire dal covo ed a misurarsi con lui. — Quando ne fu il momento, Jacopo dal Verme ripigliò l'offensiva; nella giornata 25 luglio 1391 sorprese il campo nemico, fece prigioniero il conte d'Armagnac, e tolse le armi ai pochi che non avevano perduta la vita nella battaglia.

Con altri mezzi, e con eguale fortuna, Giangaleazzo combatteva, e superava le difficoltà che gli venivano opposte dai Pontefici, i quali non sapevano rassegnarsi alla perdita di Bologna e delle altre città, già spettanti alla santa Sede.

La tiara era a quei dì, e lo fu poi per quarant'anni di sèguito, l'oggetto della contesa fra due emuli. — Urbano VI era papa a Roma: Clemente VII voleva esserlo ad Avignone. Il Visconti non imitò il suo predecessore; ma, cercando di renderseli propizii entrambi, adoperava l'amicizia dell'uno per combattere le pretensioni dell'altro. E intanto che aspettava di riconoscere quale dei due pontefici fosse il legittimo, sottomano estendeva i suoi confini nelle terre della Chiesa, e le amministrava con sodisfazione dei soggetti.

Da ciò, non del tutto fuor di ragione, gli storici ed i cronisti dei tempi trassero argomento di chiamare ingenerosa e sleale la condotta di Giangaleazzo. Ma ai nostri giorni, e davanti alla insuperabile necessità di aver una patria, non dobbiamo trovarvi grande motivo di scandalo. — Quando la suprema dignità della Chiesa era divenuta il trastullo di due individui, e nè l'uno, [427] nè l'altro degli emuli inspirava la certezza della propria legittimità, non era affatto riprovevole colui che finiva per non riconoscere nè questo, nè quello. — V'erano in Giangaleazzo dei sentimenti più forti che non il vano rispetto ad un'autorità, che si era degradata da sè stessa colla discordia.

Francesco Gonzaga, prevedendo di dover provare tra poco la sorte degli Scaligeri e dei Carraresi, tentò la fortuna delle armi, e provocò una guerra, in cui le schiere di Giangaleazzo, capitanate da Jacopo dal Verme, riportarono una nuova vittoria. — Il Po in questa occasione fu il teatro di una battaglia navale. Le vele dei Gonzaga presidiavano le due rive del fiume, congiunte da un ponte di legno, che fu miracolo d'arte in quel secolo. Ma l'accorto dal Verme armò di materie incendiarie un gran numero di chiatte, e le spinse infiammate col favore della corrente contro il ponte, il quale arse d'improviso, e cagionò il disordine e la sconfitta dell'esercito nemico.

Quella stessa moderazione, che insegnava al Conte di Virtù di piegarsi apparentemente alla volontà degli antipapi, lo rendeva ossequioso e riverente dinanzi alla autorità dell'imperatore. — Bisogna dire che pei suoi fini avesse mestieri della protezione cesarea. Gradì infatti il titolo di vicario imperiale, e più tardi sollecitò dall'imperatore Venceslao quello di duca, sottoponendosi ad un'ingente spesa, onde assicurare a sè ed a' suoi successori il retaggio di una corona.

L'atto di liberalità dell'imperatore suscitò infatti gli sdegni dei prìncipi di Germania, che deposero Venceslao e conferirono la porpora imperiale a Roberto di Baviera. [428] Costui l'ebbe a condizione di rivendicare da Giangaleazzo la mal donata dignità ducale; e vi s'accinse imponendo per iscritto al Conte di Virtù, milite milanese, di rendere all'imperatore tutte le città, terre e castella spettanti al romano impero, minacciando in caso di rifiuto di trattarne il possessore come fellone.

Dalla risposta del duca si vedrà com'egli intendesse la sua dipendenza verso l'impero. — Nel ducale rescritto egli si qualifica, in onta alle minaccie, duca e signore di Milano, chiamasi legittimamente investito della ducale autorità dal re dei Romani, e rigetta l'accusa di ribelle su Roberto, che disconosce l'operato del suo predecessore. Chiude infine, giurando di volere difendere colle armi i proprii diritti contro chiunque osasse violarli.

L'imperatore non aggiunse altra parola: scese dalle Alpi, e mosse incontro al duca con poderoso esercito. — Ma le milizie del duca, accampate sulle terre Bresciane, non lasciarono tempo agli imperiali di raccogliersi e di spiegare le proprie forze. Il conte Alberico da Barbiano, condottiero della compagnia militare di s. Giorgio, che aveva per vessillo — L'Italia liberata dagli stranieri — guidò le manovre dei milanesi, e fu l'eroe della giornata. Gli imperiali ebbero la peggio; e l'imperatore Roberto, raccolti i pochi avanzi del suo esercito, per la via di Trento, ritornò in Germania a medicare le sue piaghe.

Può sembrar strano come il Verri ed il Giulini, i benemeriti campioni della storia milanese, onestissimi scrittori e diligenti raccoglitori di notizie patrie, mentre si mostrano rigidi ed inesorabili nel giudicare la [429] condotta politica del primo duca di Milano tacciandola di doppiezza e di slealtà, non abbiano una parola per commendare l'ardimento e la fortuna delle sue imprese militari. Anzi, mentre accusano Barnabò, perchè imperito nella guerra volesse in più circostanze guidare egli stesso l'esercito, non osano confessare che Giangaleazzo ebbe la fortuna o la sapienza di confidare la bandiera della patria ad abilissimi capitani, che la riportarono sempre ornata di qualche nuovo alloro. I due lodati storici scorrono leggermente sui campi di Alessandria e di Brescia, dove l'armi del duca fiaccarono la prepotenza degli eserciti di Francia e di Germania: avvenimenti che, per sè soli, basterebbero a renderlo immortale presso i posteri. — Ma non vogliam male per ciò ai nostri illustri concittadini. Nel tempo in cui essi scrivevano, un docile ossequio verso prìncipi stranieri miti ed illuminati non era un delitto. La condotta del primo duca offendeva quel sentimento di sudditanza verso l'impero, che in allora, pel dominio d'altre idee e pel timore del peggio, era accolto anche dalle anime oneste. Il nostro paese aveva sonnecchiato due secoli nel letargo del dominio spagnolesco. I nuovi padroni sembravano voler essere migliori: e gli Italiani li accoglievano di buon animo pel bene che promettevano, persuasi che la patria loro non potesse altrimenti esistere che come ancella o figlia d'altra nazione. — Non dureremo fatica a persuaderci di ciò; le tanto ripetute discordie italiane furono fino a jeri il pretesto alla prepotenza degli oppressori, e l'argomento più valido alla rassegnazione degli oppressi. I Visconti e gli Sforza, [430] che, nell'ambizioso disegno di legare alla propria stirpe la corona d'Italia, tentavano di ridonare alla patria un principe non straniero, furono fraintesi dagli storici. — Poichè null'altro che una vile cupidità guidava gli imperatori ed i re d'oltremonte a contendersi il possesso della penisola, diveniva provida cosa che si levasse contro gli emuli l'ambizione, se non più nobile, certamente più giusta, di un principe nazionale, che mirasse ad usufruttare per sè le fatali pretensioni dello straniero. — Non devesi accettare ciecamente il bene quando scaturisce da fonte meno buona; ma, se ciò che si ottiene è non solo vantaggioso, ma conforme ai principj eterni della giustizia, è impossibile che i mezzi sieno del tutto iniqui. E se ci sembrano tali, dobbiamo dire, che non di rado una colpa fa trionfare il diritto; a quel modo che il lievito di cosa corrotta sviluppa il germe di nuova ed eletta produzione.

CLV.

Le armi di Giangaleazzo Visconti, dopo la disfatta del re dei Romani, si concentrarono intorno a Firenze, e la strinsero d'assedio. La nobile città, gelosa delle sue franchigie municipali, respinse l'assalto dei milanesi con un valore degno di migliore impresa. Ma la republica fiorentina cessava di essere il rifugio della libertà italiana dacchè era venuta a patti collo straniero. Fallita la speranza di trovare appoggio nel re di Francia, ella confidava la difesa di sè stessa a Giovanni [431] Hawkwood, avventuriero inglese. Battuto anche questo, accarezzava l'amicizia dell'imperatore. — Non era da queste incompatibili e svariate alleanze, che potesse sperare soccorso la libertà. Guardiamoci però da un giudizio troppo severo verso un popolo, la cui colpa fu quella di non aver compreso ciò che in quel secolo era ignorato da tutti. Salendo col pensiero a quei tempi, ed uniformandoci allo spirito municipale che presiedeva alle piccole republiche, la difesa dei Fiorentini è argomento di viva ammirazione. Ma colla storia alla mano, informati delle sventure susseguenti, e pensando che l'ambizione del tiranno milanese avrebbe forse potuto rimoverle, noi deploriamo una resistenza, che si opponeva alla costituzione di un forte regno italiano; perchè esso avrebbe risparmiato alla patria nostra quattro secoli di servitù. Una libertà locale e ristretta è un tesoro nascosto; l'indipendenza completa è il benessere che concede il pieno uso della vita e delle forze.

I Fiorentini difendevano strenuamente le loro mura; ma il coraggio e la costanza non potevano reggere a lungo contro il numero degli assedianti e il genio militare dei più cospicui capitani del secolo. La caduta di Firenze finiva di raccogliere sotto lo scettro di Giangaleazzo tutte le provincie che formavano l'antico dominio dei re Longobardi. Il duca non aspettava che la notizia della resa di quella città per farsi acclamare re d'Italia, e chiudere per sempre i passi delle alpi ai pretendenti stranieri.

Questi fatti correvano sullo scorcio del mese d'agosto, l'anno 1402. Il duca risiedeva nel castello di [432] Marignano, dove, occupato di preferenza dell'ordinamento civile dello stato, non obliava la guerra. — Frequenti notizie gli arrivavano del campo; e tutto gli faceva presentire vicino lo scioglimento della grande questione. Al dire del Corio e di tutti gli storici, la buona novella era così prossima e sicura, che il duca già aveva fatto allestire le insegne reali, di cui si sarebbe ornato l'indimani della caduta di Firenze: quel giorno avventuroso in cui l'Italia avrebbe finalmente avuto un re italiano.

CLVI.

La sera del primo settembre, la corte di Giangaleazzo, solita ad escire a diporto sulla tarda ora nei giardini attigui al castello, per godervi il fresco, fu d'improviso turbata da uno strano avvenimento. Il duca che, dopo aver speso troppe ore nelle cure dello Stato, soleva confondersi co' suoi cortigiani e passare seco loro qualche momento in affabile domestichezza, quel dì, oppresso dalla straordinaria caldura, si trattenne più tardi del consueto nel giardino; anzi, spintosi con alcuni de' suoi officiali nella parte più lontana di un viale assai folto, si pose a sedere sur una panchetta di pietra, favellando delle imprese avviate, e predicendo a' suoi intimi le prossime glorie della sua patria e della sua casa. Il benessere, di cui si era lodato un momento prima respirando le aure temperate del tramonto, era seguito da un senso di freddo, quasi molesto, cui non pose mente in sul sùbito, incalorito, com'egli era, nel discorso. Ad [433] un tratto, lo assalse un brivido più forte; cercò vincerlo, scuotendosi, e le forze non risposero alla volontà. Gli astanti accorsero a lui, e lo persuasero a rientrare tosto nel castello, attribuendo quell'improvisa indisposizione all'umidità della notte. Era infatti una di quelle sere, in cui l'atmosfera, dopo aver stagnato per lunghe ore negli umidi avvallamenti della pianura, beve dalla terra arsa dal sole il veleno della corruzione, e lo trasmette agli incauti, che cedono all'allettamento di un insolito rezzo. — Il duca articolò a stento qualche parola; batteva i denti; aveva il respiro profondo, interrotto, affannoso. Quando fu portato nelle sue stanze, aveva l'aspetto di un cadavere: gli occhi erano spariti nelle orbite segnate da un cerchio livido; le guancie infossate disegnavano l'ossatura delle mascelle; le labra contratte e smorte lasciavano travedere i denti stretti dallo spasimo. — Il medico ducale, che non era più l'Esculapio di cui abbiamo parlato addietro, accorse e prestò all'infermo sollecita cura. Oppose i rimedj più ovvj ai sintomi incalzanti; ma senza indagarne la cagione, senza tentare di paralizzare gli effetti del veleno assorbito. — Richiamò il calore alle membra intirizzite, applicandovi dei fomenti tiepidi: ed, apprestato un alessifarmaco composto di erbe aromatiche stillate nel vino, glielo fece ingojare a sorsi. Un'ora dopo, l'infermo si risvegliava dall'assopimento. Al gelo lapideo delle membra subentrava il calore della vita; a questo l'ardor della febre. — E il duca, i cortigiani e lo stesso medico se ne rallegrarono come di una crisi salutare e decisiva.

[434]

Nella notte, anche malgrado un calore anormale, dormì abbastanza tranquillo. La mattina vegnente l'infermo sembrava del tutto risanato. La prostrazione di forze ch'egli accusava, era giudicato l'effetto postumo del parosismo. Del resto, se il povero medico avesse avuto bisogno d'altre prove per credere al trionfo della sua scienza, bastava che interrogasse l'infermo: questi asseriva di trovarsi bene, e d'avere dimenticato ogni cosa. Infatti, in quel dì attese alle cure dello Stato, come nei precedenti; ricevette il solito corriere speditogli dal campo, gradì le buone nuove che gli venivano portate, ed inviò per suo mezzo nuovi comandi. — La terza mattina tutto era al Castello come nei giorni passati. Non si parlava della malattia del duca che per rallegrarsi della sua pronta guarigione.

Ma d'improviso, verso il tramonto, un più grave insulto lo assalì di nuovo. I sintomi, ch'erano precisamente gli stessi d'altra volta, si manifestavano ancora più gagliardi. Ripetutosi l'uso dei farmaci, che avevano operato il prodigio, parve che la natura gradisse quelle scosse, e che le forze ne fossero momentaneamente rialzate; ma, poco dopo, l'infermo ricadeva in un'atonìa ancora più desolante. — Tutta la famiglia costernata guardava con aria pietosa in faccia al medico, quasi volesse impegnare la sua scienza a ripetere il miracolo dell'arte. — Se l'onest'uomo lo desiderasse, non è d'uopo dimostrarlo. Ma, oltrecchè egli non aveva scoperto la vera natura del male, mancava dei mezzi validi a combatterlo. Il nuovo mondo non gli aveva donato il tesoro di quella corteccia che rompe l'incalzante periodo delle febri perniciose.

[435]

Appiè del letto i membri della famiglia, storditi e inoperosi, si consultavano ansiosamente cogli sguardi; ciascuno ricercava sul volto altrui quella speranza che nel suo cuore s'era dileguata. Il medico, a cui correvano più frequenti gli occhi degli astanti, stringeva le labra, o ne sprigionava a quando a quando un suono che non era nè parola, nè sospiro. Tastava or questo or quel polso del malato: gli amministrava a brevi intervalli una dose del farmaco, scorreva colla mano tiepida e leggera sulla sua fronte gelata. Ma cogli atti, e colla mestizia del volto, avrebbe voluto dire ai parenti ed ai servi; “raccomandatelo al Signore, perchè l'arte umana non può più far nulla per lui.„ Mezz'ora dopo il duca era in fin di vita. Allora il dabben uomo si ritirò sconfitto, e cedette il campo ad un capuccino; il quale, avvicinatosi al letto dell'infermo, tentò risvegliarne i sensi e richiamarlo un momento alla vita, per dirgli ch'egli era sul punto d'abbandonarla. — Ma come l'infermo non rispondeva alle chiamate, il sacro ministro compì il suo officio con pietoso riserbo; recitò per lui le preci dei moribondi, lo segnò colla croce, lo asperse più volte d'acqua santa; poi, inginocchiatosi a fianco del letto, invocò sul morente l'assistenza dei beati. Gli astanti, con una pietà ravvivata dall'affetto, ripetevano la devota invocazione.

A tre ore di notte, il duca era agonizzante; pochi minuti dopo, egli spirò. — Pel borgo di Marignano corse la notizia della morte del duca, non preparata da quella della sua malattia. I cortigiani ed i vassalli l'accolsero con dolorosa attonitaggine: gli uni [436] e gli altri diedero segni non dubii di profondo e schietto dolore. All'inevitabile e penosa incertezza, destata da un avvenimento che scomponeva d'improviso tutte le fila di una domesticità feconda di grandi vantaggi pei parassiti e pel servidorame, prevaleva un sentimento di vera e profonda mestizia; perocchè questa volta, nel principe potente si era perduto l'uomo mite, affabile, generoso. Se anche il più odiato tiranno suol essere compianto da quelli che condividono i beneficii del despotismo, questo principe, che non aveva mai abusato del suo potere se non per far guerra ai tiranni, e che faceva dell'amore dei soggetti il mezzo più acconcio ad assecondare la sua nobile ambizione, questo principe doveva lasciare un vuoto assai doloroso nell'animo di quanti lo avvicinavano. — I superstiti erano a ragione dubiosi se il suo successore sarebbe stato buono come lui; erano certi intanto che dalla vedova reggente non potevasi sperar bene.

La salma ducale fu trasportata a Milano ed onorata di suntuosissime esequie. Oratori di tutte le città sparsero fiori d'eloquenza sulla sua bara. Convennero in quella occasione nel maggior tempio di Milano tutti i vescovi delle provincie, i rappresentanti dei comuni colle insegne municipali, i consanguinei e gli affini della casa Visconti. — Accompagnavano il feretro dugentoquaranta cavalieri e duemila fanti vestiti a bruno. Magnifico era il corteggio degli araldi e dei cortigiani, che portavano le insegne ducali. Il letto funebre, tapezzato da un drappo di sciamito, lasciava vedere il cadavere ravvolto nei paludamenti ducali e colla spada [437] al fianco. I più cospicui officiali dello Stato portavano la bara; altri la proteggevano con un baldacchino di stoffa d'oro foderato d'ermellini.

Soverchie lodi furono allora prodigate davanti alla spoglia del duca. L'iscrizione apposta al suo sarcofago lo qualifica “il padre della patria, che cacciò dalla loro sede i tiranni gravi ai popoli, che protesse i pusilli, ed umiliò i superbi. Nessun altro ebbe la parola dolce al par di lui, nè vi fu mai in tutta Europa principe di lui più prestante e degno d'imperio.„[79] Intanto gli annalisti si preparavano a giudicarlo con un'altra misura, senza dubio meno equa. — Quel principe che vivo fu chiamato “raggiante per la nobiltà del sangue, specioso per la bellezza del corpo, sereno per la virtù dell'animo[80]„ venne poi dagli storici successivi qualificato sleale, infedele, ipocrita, timido nell'avversità, arrogante nella prospera fortuna. Antonino, arcivescovo di Firenze, lo accusa perfino di vituperevoli lussurie; imputazione non confermata da altro scrittore, nè da alcun documento, anzi, smentita dall'indole stessa della sua vita, quale ci viene narrata concordemente dagli storici e dai cronisti. È degna di rimarco l'osservazione di P. Giovio. “L'arcivescovo di Firenze, scrive egli, con goffo e disonesto modo di dir male, insolentemente si diede a vituperare [438] il nemico della patria sua.„ Ma, poco dopo, lo stesso Giovio cade nella colpa rimproverata agli altri, quando soggiunge “non si vede di lui edificio alcuno, pure un po' magnifico, avendo i suoi maggiori, in casa e fuori, fino alla pazzia suntuosissimamente edificato corti, rôcche e palazzi.„[81] E non ricorda il valentuomo, che Giangaleazzo faceva edificare il Duomo di Milano e la Certosa di Pavia? — Altre accuse, e non lievi, gli vengono mosse dallo stesso Corio, il più discreto e il meno appassionato tra i cronisti de' suoi tempi.

Il criterio storico ne insegna prima di tutto, che alle enfatiche apologie dei panegiristi bisogna fare un vistoso diffalco. È antico destino, che i potenti non abbiano mai ad essere onorati dalla compagnia della verità. Se la lode accanto ad essi divien troppo frondosa, alle spalle il biasimo non è mai meno esagerato. Assai spesso la verità balba e timida al cospetto di un potente, l'insegue troppo ardita e ciarliera quand'egli è passato.

L'opinione del Corio e degli annalisti, che con lui e o dopo di lui accusarono questo principe, hanno una certa autorità; nondimeno la storia, imparziale raccoglitrice dei fatti e giudice competente dell'ordine e della natura di essi, non deve riputarsi inappellabile, fin quando non si saranno raffrontati e contemperati i giudizj emessi in epoche e da persone diverse. L'ardua sentenza intorno ad un uomo è meglio rimessa ai posteri, [439] quanto più lontani tanto più autorevoli. Imperocchè la storia non chiude mai il suo libro; ed ogni uomo di buon senso, colla scorta dei fatti che da essa apprende, può a suo talento ripetere il giudizio intorno ad un personaggio o ad un fatto; e confermare od annullare una vecchia sentenza.

Riassumo brevissimamente alcune notizie.

Anche i più severi giudici del duca Giangaleazzo non attribuirono a lui un solo atto di crudeltà. Egli non applicò mai in veruna circostanza quelle leggi di sangue, che condannavano i colpevoli al martirio prima di subire l'estremo supplicio. In un solo caso publicò un editto, che risentiva la ferocia del secolo; ma vi fu indutto da forte ragione. Trattavasi di un delitto che, ad un grado speciale di perversità, accoppiava il pericolo di conseguenze irreparabili. — Un dispaccio apocrifo, munito della firma ducale falsificata, sfruttò la splendida vittoria di Jacopo dal Verme contro i Gonzaga. Giangaleazzo, memoro altresì di ciò che aveva fatto Medicina in danno d'Agnese, aggravò la pena dei falsarj, e promulgò un bando che li condannava alle fiamme.

Per confessione degli stessi suoi nemici, molte furono le buone leggi con cui provide al civile ordinamento dello Stato. Taluna parve sì nuova ed avanzata pei tempi, che destò forse qualche scandalo per la sua strana precocità. Instituì i consigli di giustizia, e sottopose a norme inviolabili l'interpretazione e l'applicazione degli Statuti, togliendo l'arbitrio ai magistrati, onde spesso le più savie leggi erano fatte inefficaci ed inique. — Creò una magistratura per le entrate, incaricandola [440] di regolare i tributi sulla norma dei bisogni; di porre un freno all'ingordigia degli esattori; d'impedire i balzelli e le concussioni. Ordinò la consegna degli ostaggi e la demolizione delle rôcche, nelle quali i feudatarj esercitavano atti di capricciosa tirannia. Rese produttive varie sorgenti di publica ricchezza, e vi attinse i mezzi a ristorare l'erario: quelle imposizioni, che allora forse recarono qualche scandalo, divennero più tardi una fonte naturale d'entrata per ogni governo. Pose, a cagion d'esempio, un'imposta sugli atti notarili; introdusse il bollo per la validità dei documenti; prescrisse che i viandanti si facessero conoscere per mezzo di carte rilasciate dall'autorità. Compì ed illustrò la raccolta degli Statuti patrii fino all'anno 1396. Frenò le violenze private, limitando il diritto di portare le armi. Ordinò in fine che negli atti publici si sopprimesse l'uso della parola popolo, e le venisse sostituita quella di comune.

La maggior parte degli storici si levano indignati contro questo decreto, e lo chiamano frutto di una politica codarda perfino al cospetto dei fantasmi. Si disse che Giangaleazzo odiò il governo popolare, che cercò di distruggere le franchigie tradizionali, che combattè la libertà, che ne odiò perfino la parola. — Ma ecco quanto osserva intorno a ciò un illustre nostro contemporaneo, che non sarà per certo preso in sospetto di troppa indulgenza coi tiranni. — “L'isolato racconto della soppressione della parola popolo ce lo fa, è vero, odioso, ma quando nei motivi della sua legge lo vediamo esortare la parola comune pel desiderio della concordia della nobiltà col popolo, noi vi applaudiamo.„[82] [441] Difatto egli pensò di spegnere fino la voce e la memoria delle lotte sociali, che laceravano il paese: coll'abolizione di una parola volle abolito il fatale antagonismo fra la plebe e la nobiltà. Nella parola comune, egli raccomandava la solidarietà delle varie classi, la maggior possibile eguaglianza sociale. — I suoi antecessori avevano compresse le fazioni, e quelle tacevano rassegnate a malincuore. Sotto il suo governo elleno andarono mano mano scemando per mancanza di vitalità: ogni classe, ogni città, ogni borgo doveva fare sacrificio delle privilegiate franchigie a pro della patria, affinchè tacitamente si costituisse in nazione. I fatti precedevano il grande concetto.

Dopo la lega lombarda, l'Italia aveva fatto un gran passo verso la libertà; ma il principio di una dipendenza al trono imperiale, come si è già detto, veniva consacrato di bel nuovo nella stessa pace di Costanza. A scuotere completamente il giogo straniero, richiedevasi la presenza di un pericolo costante, che legasse in un fascio le armi delle piccole republiche, e le rendesse immemori delle glorie parziali ed effimere. Allontanato il pericolo, i comuni, i prìncipi ed i pontefici studiavano per lo contrario di guadagnare per sè quell'influenza che avevano tolta alla podestà straniera; anzi, acciecati dall'interesse e dopo breve tempo scordato il patto fraterno, ricorrevano alla tutela dello straniero per far prevalere le loro pretensioni. — Se ad ingentilire un popolo bastasse la vita di un uomo, l'educazione [442] sarebbe stata il più efficace mezzo ad ottenere lo scopo vagheggiato; ma in quel secolo d'ignoranza e di pregiudizj, mentre i tirannelli e le republiche non vedevano altro nella patria che una preda disputata; la speranza di diffondere e di consacrare un concetto tanto nuovo e sublime diveniva follía. — Era necessario che l'idea s'incarnasse nel braccio e nel senno di un uomo; bisognava che il popolo subisse un mutamento dalla mano inesorabile di chi lo reggeva; bisognava che avvenisse di noi quello che avviene dell'infermo, liberato da un malanno ignoto per l'opera violenta del chirurgo.

Grave accusa vien fatta al governo di Giangaleazzo per la sua slealtà verso i principi italiani. — Vero è che le sue alleanze furono, o parvero sempre, dettate da momentanei interessi. Sovente le rappresaglie e la guerra ruppero le giurate amicizie, prima di un avviso, e senza nemmanco un'apparenza di ragioni. — Ma egli non sacrificò a queste fuggevoli associazioni il voto e l'interesse della nazione che risurgeva. Nelle guerre coi signori della Scala e coi Carraresi rispose alla tacita preghiera di due provincie maltrattate dalla più odiosa tirannide. Soltanto Firenze si levò tutta in armi contro lui; e fu infatti davanti alla unanimità di un popolo che le sue forze si mostrarono meno potenti.

Non gli facciamo torto s'egli non apparve un grande capitano. — La guerra per lui non fu il fine, ma il mezzo de' suoi disegni. Un principe, che in quel secolo attendeva tranquillo all'ordinamento civile dello Stato e ne affidava la difesa e l'onore ad abili condottieri, è [443] a considerarsi come un unico esempio tra' suoi pari. Noi dovremo anzi considerarlo come il migliore dei prìncipi guerrieri, badando al fatto, che durante il suo regno le armi italiane furono sempre vittoriose. — Per mezzo di strenui e peritissimi condottieri, quali furono Alberico da Barbiano, Jacopo dal Verme, Ottobono Terzo e Facino Cane, egli procacciò al suo secolo ed al nostro paese la gloria ed i vantaggi di un'arte nuova che raddoppia l'impeto delle schiere colla tattica e la disciplina. D'allora in poi scemò in Italia la fatale influenza dei capitani di ventura d'oltralpe, che, coperti di un'assisa mercenaria, manomettevano crudelmente le povere provincie, contro cui o per cui combattevano.

Non si deve passare sotto silenzio, come durante un governo commosso da continue guerre, e preoccupato da un intento quasi temerario, il primo duca favorisse gli studii e le arti della pace. L'università di Pavia, fondata da suo padre, toccò l'apice dello splendore per opera di lui. Bandì dalla sua corte le frivole smancerie dei cavalieri e dei trovatori; e, privilegiando della sua amicizia i dotti, introdusse fra i suoi intimi una piacevolezza egualmente cortese, ma più franca e veritiera.

Suo padre e suo zio avevano munito le città soggette di rocche inespugnabili, profondendo immensi tesori per preservare la timida sovranità dagli assalti dei nemici e dall'ira delle popolazioni. Giangaleazzo, mentre faceva guerra ai confini, e combatteva nell'interno le velleità municipali, potè meditare ed avviare l'erezione dei due più stupendi edificii religiosi del suo secolo: il duomo di Milano e la Certosa di Pavia. Nè [444] il grandioso concetto eragli consigliato dalla vana ambizione dei tiranni, che con un tratto di penna ipotecano il genio e la ricchezza dei sudditi, per poi usurpar loro il diritto alla immortalità. È fama che lo stesso duca convocasse presso di sè gli architetti di varii paesi, e discutesse seco loro la scelta di un tipo e l'appropriata sua decorazione; anzi non è temerario il supporre con qualche cronista, che fra gli anonimi maestri, che tracciarono od ampliarono quei vasti progetti, debbasi registrare il nome dello stesso duca. — Arricchì di una pingue dotazione i due monumenti; e con una accortezza, che non accenna per certo alla coscienza timida che gli venne attribuita, seppe usufruttare per sè le pingui esazioni della corte romana, ottenendo da Bonifacio IX che partecipassero all'indulgenza del giubileo, l'anno 1390, quei fedeli che offrivano al nuovo tempio due terzi della somma necessaria pel pellegrinaggio a Roma. — Il ripiego fu sapiente; e il persuaderne la corte romana dev'essere stata opera più ardua, che a noi non pare a prima giunta.

A chiudere questi cenni convengono le parole del lodato scrittore. “Io non proporrò mai questo principe per modello, scrive P. Litta, ma per noi Italiani gli è di tutti il più importante. Prometteva all'Italia l'unità politica. Da Stefano IX in poi, molti vi si erano accinti, ma nessuno più di lui si avvicinò alla meta. Ebbe per oppositori in parte gli imperatori, ma più ancora gli stessi suoi connazionali. La profusione dell'oro e le scissure della Germania lo rendevano tranquillo da un lato, ma l'interna reazione non gli lasciava la possibilità di una riescita.„

[445]

“L'Italia, nei posteriori avvenimenti, ha veduta giustificata l'utilità della tentata impresa della nostra monarchia; per cui, concedendo tutto ciò che v'ha in Giangaleazzo di più odioso, non si potrà mai impugnare, come, essendo egli giunto a tanta potenza da far sperare la stabilità di una vicina grandezza, fosse un dovere di consacrarci all'esaltamento di lui, mentre nei trionfi del Visconti erano concentrati gli interessi e l'onore nazionale. Ma noi, incapaci di penetrare nelle tenebre del futuro, ci opponemmo agli sforzi di un uomo, che tentava di modellare la nostra penisola sulla situazione delle grandi monarchie, che si stavano preparando in Europa: onde, giunte queste a singolare grandezza, l'Italia indispensabilmente ne fu la vittima.[83]

[446]

CONCLUSIONE

CLVII.

Io credo che, se le erbe selvatiche di uno scopeto fossero dotate della parola, non se ne varrebbero per lodare un albero frondoso e fruttifero, che per caso surgesse loro nel mezzo. V'ha un genere di miseria, che non riconosce sè stessa, e che si mostra quasi superba della propria nullità. Vi sono degli invidiosi che tentano di consolarsi, negando agli invidiati quel merito che da loro appresero a desiderare. — Questa è una delle ragioni per cui gli storici dei secoli passati, ed i potenti che gl'inspirarono, non riconobbero nel nostro eroe una fortunata eccezione dei tempi. — Le successive sventure guidarono i posteri a più equo giudizio; il male fece apprezzare il rimedio, quando l'opportunità di applicarlo era passata.

Ma la storia dei fatti, che ne mostra lo scopo a cui mirava quel principe, è ben diversa dalla storia dell'uomo e delle cause delle sue azioni. — La prima [447] scende a cercare le conseguenze, l'altra risale a scoprire l'origine degli avvenimenti.

Non è sempre vero che le grandi imprese sieno il risultato di virtù egualmente grandi. Come v'ha talvolta il figlio degenere dal padre, così vi sono delle piccole cagioni che partoriscono grandiosi effetti. Questo avviene tanto più facilmente se il caso si compiace di accumulare varie piccole circostanze, e di farle concorrere ad uno scopo unico e determinato. — L'albero, che ombreggia il campo sterile, non è debitore della sua prosperità soltanto all'ottima natura del seme; è probabile che il concorso di molti incidenti, parzialmente inefficaci, abbiano contribuito a sollevarlo dalla miseria che lo circonda.

Vediamo brevemente se la vita di Giangaleazzo può dirsi determinata dalla fortuita associazione di circostanze atte a favorire in lui lo sviluppo di tendenze speciali: e, in caso affermativo, quali esse sieno state.

Per certo non gli poteva bastare l'aver sortito dalla natura un ingegno sagace, una volontà ferma, una costanza di proposito privilegiata. Altri prima di lui possedevano queste doti; nessuno vide meglio e vagheggiò più da vicino la meta. — Era egli forse guidato dall'ambizione? Questo sentimento, fonte ordinaria delle più ardite imprese, è per solito insofferente degli indugi ed indisciplinato nell'uso dei mezzi. Non è a credersi ch'egli avrebbe saputo sacrificare a questo idolo la sua gioventù, nè che avrebbe aspirato a meritarsi la gloria e l'immortalità, sopportando la dimenticanza e lo sprezzo pei migliori anni della sua vita. L'ambizioso non cede la certa gloria dell'oggi, per [448] la incerta del dimani; non aspira alla potenza, battendo la via delle umiliazioni. Egli obedisce alla propria passione; non la domina, nè la contiene, molto meno la dirige a nobile scopo. — Colui che sa mettere d'accordo i suoi individuali interessi con quelli di un popolo, che fa della gloria del suo paese la gloria sua, fosse anche stimolato dal meno nobile amore di sè, non deve essere accusato di colpevole ambizione.

Tutti gli atti, che inspirarono il governo del primo duca, rivelano in lui una mitezza di carattere nuova pei tempi; egli fu dunque ambizioso d'apparire giusto, clemente, umano. Vide che i tirannelli moltiplicavano in Italia i punti di contatto tra le terre nostre e lo straniero; egli ebbe l'ambizione di sostituire al secolare despotismo dei feudatarj dell'impero una sovranità forte, assoluta, ma unica e nazionale. Divenuta la guerra un bisogno, egli ambì di avere a' suoi stipendii i migliori capitani, e rialzò la fatale necessità delle armi al grado di gloria italiana. Infine, mentre i suoi capitani vincevano per lui, egli ambiva di associare il suo nome allo splendore dei monumenti e alla saggezza delle civili instituzioni.

Una gran parte di tutto ciò, era merito del suo animo. Però, com'egli vinceva i nemici col braccio de' suoi soldati, così superava le interne lotte dell'animo ajutato dagli affetti delle persone care. — L'idea di Maffiolo Mantegazza era divenuta sua; l'amore di Agnese non era il premio, ma piuttosto il motore delle sue azioni.

Noi abbiamo lasciata l'infelice madre a Pavia, sfuggita per prodigio da una perfida insidia, tramata [449] dalla gelosia della principessa Caterina. Costei scordò le sue vendette, quando lo sposo, lanciandosi nelle ardite imprese, le fece travedere lo splendore di una grandezza inaspettata. Cessò di volgere l'occhio sinistro alla supposta rivale, dacchè riconobbe che ella sola poteva spingere il duca sulla via della gloria. Tre anni dopo la cattura di Barnabò, Caterina divenne madre. Questo fatto, che distruggeva le supposizioni del malefico prestigio della rivale, cancellò ogni avanzo di rancore, e risvegliò in lei a pro d'Agnese tutta quella benevolenza, di che il suo cuore era capace.

Agnese, non più l'amante di Giangaleazzo, era il genio delle sue vittorie. — La severa presenza di questa donna aveva finalmente costretto al silenzio le malediche lingue degli scioperati. V'ha nella virtù un'impronta così solenne ed autorevole, che comanda rispetto perfino ai malvagi.

Il pensiero di Maffiolo, reso sacro dalla sua morte e riscaldato dall'amore ardentissimo per la figlia di lui, diveniva pel duca un destino, una necessità, un voto che non si poteva infrangere. — Agnese glielo ricordava col suo aspetto, colla pratica costante delle sue virtù, colle prove sviscerate del suo amore materno, la cui dolcezza, malgrado ogni riserbo, risaliva fino a lui. — Tra il duca ed Agnese esisteva il piccolo Gabriello. — Non era dunque necessario che l'uno rammentasse all'altro le gioje trascorse e le mutue promesse; queste e quelle erano quotidianamente resuscitate dalla presenza di un pegno d'amore, sul quale s'incontravano e s'abbracciavano in silenzio due esistenze allontanate, ma non divise.

[450]

Grande è la potenza di un affetto. A quei tempi, sotto la cotta d'armi, non di rado palpitavano cuori sì morbosamente sensibili che, tenendo in niun cale la vita, l'esponevano ad aspri cimenti per meritare il sorriso di una donna. Ma gli effetti di questi improvisi incendj erano passaggieri, come il premio a cui aspiravano. L'impero d'Agnese sull'animo del duca non fu mai nè artificioso, nè violento. Non aveva ella bisogno di porre in rilievo le sue doti; e molto meno di soggiogare colla forza delle armi feminili un animo già troppo a lei vincolato. — Il duca era stretto ad Agnese da un legame assai più nobile. L'affetto di costei era il tacito moderatore delle sue impazienze, il discreto consigliero delle sue incertezze, il fido alleato, sempre pronto a dividere con lui la buona come la mala fortuna.

Asserirono gli storici che Giangaleazzo, al principio del suo governo, fosse timido ed inetto a grandi cose. — Lo fu difatto: ma cessò di esserlo quel giorno in cui scoperse d'avere al fianco il genio della patria incarnato nella erede di Maffiolo. — Ecco l'unica e fortuita circostanza, che trasse dal nulla l'uomo, e lo avvicinò agli eroi. Senza l'amore di questa donna, senza il vivo ed efficace impulso delle sue sollecitudini, egli avrebbe lasciato languire il suo disegno, disperando forse di vederlo compiuto.

Un legame sì nuovo e sì straordinario non si allentò mai; perocchè Agnese, esperta del passato, lo aveva posto sotto la salvaguardia della virtù. — L'amante poteva essere tradita una seconda volta; l'amica diveniva inviolabile. — Perciò nei ritrovi privati ella ebbe cura d'aver sempre vicino a sè il piccolo Gabriello: [451] la sua presenza era un ricordo ed un avviso. Temperante nella parola, non abusò mai del potere che ella aveva sul cuore del duca. Interrogata (e lo era spesso) traduceva nell'affettuoso linguaggio dell'amicizia la rigida sapienza di suo padre. Qualche volta ella si trovò discorde dall'opinione di chi l'interrogava; e quasi sempre la restía volontà del principe dovette piegarsi all'ingenuo buon senso di una debole creatura.

Mentre il duca con una fortuna prodigiosa abbatteva i piccoli tirannelli, Agnese, felicitandolo della vittoria, soleva ripetergli — “riàlzati quanto più puoi da costoro che hai prostrato nella polvere, solleva il tuo trono colle savie leggi„.

Quando il duca cadde infermo a Marignano, fu grande il dolore de' suoi famigliari. La stessa Caterina escì dalla sua naturale immobilità; si mostrò commossa, ed ebbe gli occhi pieni di lacrime. — Ma in mezzo a quelle molteplici espressioni di un dolore sincero, la più viva e la più solenne testimonianza d'affetto gli fu data da Agnese. Ella non piangeva, e non pregava colla parola; le sue membra erano immobili, ma le sue pupille, con un'ansietà febrile ed un'angoscia indescrivibile, cercavano il lume ormai spento negli sguardi del moribondo, come una donna vana cerca nella polvere lo smarrito giojello.

Quando il duca ebbe esalato l'ultimo respiro, Caterina inventò pianti, singhiozzi, stridi adeguati alla circostanza. Le dame si studiavano d'imitarla. Agnese soltanto taceva; ma il suo silenzio, la prostrazione delle forze, il pallore mortale delle sue gote, furono [452] un elogio funebre assai più eloquente, che non le smanie venderecce dei cortigiani e le ampollose declamazioni degli oratori.

Agnese pensò che il voto solenne di suo padre non era sciolto. Ella previde, che Dio protraeva ad altro secolo la sacra impresa di far libera la patria.

Compiuto il rito funebre, Agnese stabilì di abbandonare Milano e di ritirarsi a Pisa che, per testamento del duca, era concessa in feudo a Gabriello Visconti. Partirono con lei il figlio già diciottenne e Canziana; la quale, benchè vecchia ed infermiccia, aveva colle lacrime agli occhi implorata la grazia di morire vicino a' suoi padroni.

In quella città credette Agnese di trovar rimedio al suo dolore. Si propose di vivere nel passato, di raccomandare l'avvenire di suo figlio all'amore del popolo, di spargere in mezzo ad esso il salutare esempio della virtù e della carità verso la patria. Sperò l'infelice di potere ivi promovere e coltivare i reconditi disegni di suo padre e del duca. E poichè non era suonata l'ora del riscatto d'Italia, ella aveva risoluto di affidare ad un popolo generoso e guerriero il sacro deposito della grande idea, certa che, ove fosse compresa, sarebbe in breve divenuta feconda dei più luminosi risultamenti. — Ella s'ingannò.

Morto il duca di Milano, i capitani, che guidavano le sue armi, non poterono accomodarsi ad una reggenza gretta, ingenerosa, sorda ad ogni consiglio. — Disfatto l'esercito italiano, Firenze riacquistò la sua libertà municipale. Il suo vessillo escì come in trionfo dalle mura sguernite, e portò nel territorio vicino, col [453] rancore del subíto oltraggio, il desiderio della vendetta. Pisa fu la prima città, che udì l'invito, e si sollevò contro il biscione. Le gravezze, inseparabili da qualunque governo, sembrarono esorbitanti ai Pisani, i quali troppo a malincuore s'accomodavano all'obedienza verso una sovranità lontana, che essi chiamavano straniera ed intrusa. — Alcuni cittadini aprirono secrete pratiche con Firenze per liberarsi dal dominio dei Visconti. La congiura fu scoperta; e Gabriello, intimorito dalle minaccie del popolo e de' suoi vicini, credette spegnere la ribellione dannando a morte Francesco Agliato, capo e promotore di essa. Il castigo produsse l'effetto di una provocazione: i Pisani aggiunsero al malinteso dovere di liberare la patria il non ignobile proposito di vendicare la morte di un concittadino. Ruppero allora in aperta rivolta; ed, ajutati dalle milizie fiorentine, piombarono sulle schiere dei Visconti, e per poco non le dispersero.

I soldati di Gabriello, educati alla nobile scuola dei condottieri di suo padre, si difesero una prima volta, e respinsero gloriosamente l'assalto. Ma poco dopo il giovine Visconti, che non aveva fiducia nelle proprie forze, osò, inconsulta la madre, soscrivere con Bocicaldo Le Meingre, governatore di Genova in nome del re di Francia, un trattato di alleanza, in virtù del quale egli cedeva al re il porto di Livorno, a patto che le armi francesi lo proteggessero dalle insidie dei Fiorentini.

Gabriello accolse con giubilo i primi frutti di questa sciaguratissima alleanza. Agnese, che serbava scritte nel cuore le saggie parole di suo padre, vi si rassegnò, [454] sospirando, e pregando Iddio che disperdesse i suoi funesti presentimenti.

I buoni officii del governatore francese ottennero a pro di Gabriello una tregua d'armi; intanto che i Fiorentini proponevano di riscattar Pisa a denaro. L'offerta, male accetta al Visconti, tornò opportuna al suo alleato, che in quel punto desiderava l'amicizia di Firenze, ed agognava a mettere mano sul prezzo, per sottrarre da esso una pingue senseria. — I Pisani, informati delle trattative avviate, lieti di far sorte comune con Firenze, non pensarono che il mediatore dell'intrigo era tal uomo, che non avrebbe mai posposti i suoi interessi a quelli di una povera città italiana. La speranza del promesso riscatto li fece sordi e ciechi ad ogni savia rimostranza. Il popolo pisano convalidò la proposta, ripigliando le armi contro il Visconti. — Il giorno 20 luglio 1405 Pisa era divenuta un campo di battaglia. Alla frantesa convinzione, che in quel dì si combattesse per la salute della patria, tutto il popolo si levò furibondo, ed attaccò con eroico coraggio le schiere del Visconti. Queste si difesero con pari valore; respinsero una, due volte l'attacco; ma alla fine dovettero cedere al numero e all'impeto dei rivoltosi. — Gabriello ed Agnese, seguiti dalla vecchia compagna, ebbero scampo nella rôcca, presidiata da soli duecento cavalieri e da pochi fanti.

[455]

CLVIII.

Intanto che la rôcca veniva apparecchiata all'estrema difesa, la madre chiamò a sè Gabriello; ed, abbracciatolo con una tenerezza ancora più viva del solito, ed invocata sul capo di lui la benedizione del cielo, potè rinovargli una salutare lezione. — Gli rammentò anzitutto il suo grave fallo; e gliene fece toccare con mano le terribili conseguenze. La prima e la più grave tra quelle era la necessità di volgere le armi contro i suoi cittadini; dacchè questi, insurgendo, prestavano involontario soccorso alle cupide pretensioni di un avventuriero. — L'unico rimedio al suo errore era la vittoria; l'unica emenda il ridonare a' suoi cittadini quella libertà che bramavano, affinchè per l'avvenire non la chiedessero ai nemici comuni. Vincitore, o vinto, doveva Gabriello rompere il funesto patto che lo faceva servo ad interessi estranei. Gli disse, essere mille volte meglio morire, che non ottenere in grazia la vita, e pagarla col sacrificio della propria dignità. — “Guai, conchiuse ella, a quell'uomo ed a quel popolò che spera di ottenere libertà dalla tirannide altrui. Non può essere lecita alleanza quella che ti costringe a combattere al fianco dei nemici della tua patria. Le promesse dell'avventuriero, anche quando fossero generose, tornerebbero sempre a danno di chi le sollecita e le accoglie. Figliuol mio, che tu sia o no signore di Pisa è troppo piccolo interesse, perchè tu scorda d'essere, ad ogni modo e a [456] dispetto d'ogni fortuna, un Visconti e un duce italiano.„ Dopo ciò, scioltasi dagli amplessi del figlio, e rinvigorita dal coraggio che le inspiravano l'amore di madre e la carità ardentissima verso la patria, vestì armi e corazza. — Sorella primogenita di Caterina Riario, s'apprestava a combattere l'ultima battaglia al fianco di suo figlio, ed alla testa dei pochi che gli erano rimasti fedeli.[84]

La nostra eroina sotto quelle spoglie era ancora meravigliosamente bella. — Noi, che abbiamo spesa qualche parola nel dipingerne l'avvenenza florida e giovanile d'altri tempi, dovremo aggiungere che gli anni e le sventure avevano modificata, non deteriorata, la sua bellezza. La severità del volto ingentilita dagli affetti, la regolarità dei lineamenti ravvivata dalla espressione alterna ed incalzante della passione, la vigoría delle forme congiunta alla prontezza dei movimenti facevano di lei il tipo vivo delle sognate amazzoni. Ma, mentre il braccio era fermo e la fronte imperturbata, il cuore parlava dall'occhio un ben diverso linguaggio; era ancora e sempre il cuore della madre e della donna. — La poveretta indovinò che i suoi dolori avrebbero fine; ma presentì ad un tempo che altro a lei carissimo doveva sopravivere e soffrire. — Prima di vestire l'armatura e di confondersi coi soldati, s'inginocchiò; e, rivolta la mente a Dio, non gli chiese la vittoria, ma invocò la grazia di vivere con suo figlio, poichè ella prevedeva ch'egli dovrebbe provare le acerbità della fortuna.

[457]

I momenti erano preziosi. La folla dei nemici, ingrossata intorno alla rôcca, colpiva le mura colle pietre e i difensori colle balestre. Il cielo mesceva le sue ire a quelle dei combattenti. Un denso velo di nubi copriva tutto l'orizzonte, e s'avanzava a poco a poco spargendo di tenebre il campo: quell'eroismo fratricida era ingrato a Dio. Frequenti lampi vincevano il balenare delle armi; il tuono rumoreggiava prima cupo e lontano, poi interrotto da clamorosi scoppii, che facevano tremare la terra, e si prolungavano in un muggito assordante. Pareva che la natura volesse divenire sorda e cieca alle bestemmie ed alle violenze che si scambiavano gli assalitori e gli assaliti.

Le baliste e le petriere lanciavano enormi macigni. Ripetendo incessantemente le percosse nella parte più debole della rôcca, la coprivano di fessure, sfondavano i mattoni, spezzavano gli archi morti, facevano piovere nella fossa sottoposta lo sfasciume della ruina, riempiendo l'aria di scheggie e di polvere e spianando la via agli assalitori.

Il campo pisano era già seminato di cadaveri: alcuni colpiti dalle armi degli assediati, altri, in maggior numero, pesti ed uccisi dalla colluvie stipata che ingrossava ad ogni istante. I colpi degli assediati non miravano invano; e la vista degli oppressi e dei morti ravvivava sempre più il furore degli assedianti. Alcuni già toccavano le mura; altri tentavano di appoggiarvi le scale; i più arditi facevano degli sforzi per salire sul rivellino, ponendo il piede e la mano nel cavo delle screpolature, o sovra le pietre sporgenti dai ruderi.

[458]

Sugli spalti, dove ferveva maggiormente la battaglia, a fianco dei più coraggiosi, talora davanti a tutti, vedevasi un guerriero dalle armi forbite e colla visiera calata, che, tenendo in una mano il vessillo visconteo, nell'altra la spada, animava colla parola e coll'esempio i compagni. — Era Agnese che, dimentica di sè e del pericolo, teneva vivo ne' suoi fidi l'ardore della difesa.

Ma i valorosi, che pugnavano con lei, compresero, pur troppo, che la resistenza, fosse pur costante e disperata, non sarebbe mai vittoriosa. Lo scrosciare delle pietre annunciava il guasto crescente delle mura; le grida vicine e distinte attestavano che i nemici erano ad un passo dalla breccia. Nondimeno si pugnò con eroico coraggio anche dall'alto della rôcca. Gli audaci, che avevano osato appressarvisi, erano respinti colle aste e coi dardi; i primi, che avevano tentato di scalare la bastita, venivano ruzzolati di colpo nella fossa.

I Pisani, vedendo che l'assalto costava troppo gravi sacrificii, ripigliarono l'uso delle macchine da guerra per aprire la breccia all'angolo del rivellino, su cui era addensato il maggior numero di difensori. L'operazione procedeva alacremente con visibile danno del fortilizio. Già il terrapieno, straziato da mille fessure, era vicino a scoscendere. Il contramuro, che lo rinfiancava, assottigliato dalle percosse, sostenevasi a mala pena sur una pietra fortuitamente invulnerata. Bastava un colpo ben diretto ad abbattere quel sostegno, ed a travolgere, colla più gran parte del muro, gli incauti che vi stavano sopra.

[459]

Un più grosso macigno, lanciato con straordinario impeto, arrivò netto allo scopo; la muraglia fu d'improviso nascosta da un nuvolo di polvere; un rombo spaventevole e prolungato annunciò il crollo della bastita. I militi del Visconti, al sùbito traballare del suolo, ebbero tempo di porsi in salvo, retrocedendo precipitosamente; ma Agnese, o inconsapevole del pericolo o disperatamente audace, rimasta immobile al posto, cadde travolta nel terrapieno sfranato. Le scheggie, i frantumi ed il terriccio sollevato in aria dalla scossa, ripiombarono su lei, e la sepellirono nelle ruine.

Alle strida degli assediati rispose un grido selvaggio del popolo vittorioso. I Pisani si precipitarono contro la breccia, e s'apparecchiavano a salirla. Il cadavere dell'infelice Agnese avrebbe servito di scaglione ai furibondi popolani, che anelavano a lanciarsi nella rôcca, per passare a fil di spada quanti vi erano rimasti.

Bocicaldo Le Meingre, il quale aveva assecondato il procedere dei Pisani, affinchè il Visconti ridutto agli estremi s'arrendesse ai patti stipulati da lui, pensò allora di far prevalere un sentimento di umanità, e d'impedire il completo trionfo dei rivoltosi. — Perocchè se questi avessero occupata la rocca, ogni speranza di compromesso tra i Visconti ed i Fiorentini sarebbe svanita. In questo caso, egli perdeva l'opportunità d'acquistare una vantaggiosa influenza in Italia; ed era costretto a rinunciare al pingue lucro dell'arbitramento.

Gli araldi, che si trovavano al campo, per suo ordine [460] fecero squillare le trombe; ed arrestati i vincitori, publicarono in nome del governatore una sospensione d'armi. I Pisani, che avevano disprezzato la voce di un principe italiano, ascoltarono docilmente il comando dell'intruso intermediario.

Memore delle ultime parole della madre, Gabriello avrebbe dovuto respingere ogni proposta. Non gli rimaneva più che a lanciarsi nella ruina ed a morire accanto a lei. Il ferro fratricida gli sarebbe stato meno fatale che non le lusinghe di un falso amico. Sventuratamente non ebbe il coraggio o la previdenza della scelta. Sgomentato dall'impeto dei vincitori, commosso dalla inevitabile sorte de' suoi compagni, colpito nel più profondo dell'anima dall'inaspettata morte di sua madre, accolse la proposta di Le Meingre, e gradì la tregua. Scelse di sopravivere alla sconfitta per rendere i dovuti onori alla spoglia materna. Forse sperò di potere più tardi vendicarla.

Gli araldi interposero fra le parti belligeranti un contratto già sottoscritto dai Fiorentini, in virtù del quale la città e la rocca di Pisa venivano da Gabriello Visconti cedute a Firenze dietro un indenizzo di 206 mila fiorini d'oro. La somma doveva esser sborsata in varie quote, ad epoche fisse; il governatore Le Meingre, ricevendo in deposito il valore convenuto, si faceva garante della esatta osservanza dei patti presso le due parti contraenti.

Gabriello fece diseppellire dai ruderi il cadavere di Agnese. — Se il dolore e la pietà figliale non l'avessero istintivamente condutto innanzi alla sua spoglia, invano avrebbe egli tentato di scoprire le angeliche [461] sembianze di sua madre in quella salma pesta e deforme. Le vennero prestati gli estremi onori con splendidi funerali. Vuolsi che, appena cessato il furore della battaglia, gli stessi nemici le tributassero uno schietto e profondo rimpianto. Gabriello partì pochi giorni dopo, seguito da pochissimi suoi fidi, fra i quali non v'era più Canziana. — La buona donna non potè sopravivere alla disgrazia della sua padrona: infermò, e la seguì poco dopo nella tomba.

CLIX.

Gabriello Visconti si ritirò a Sarzana, unica terra del suo feudo, che gli fosse rimasta fedele. Ma Le Meingre non gli consentì di godervi quella calma, di cui egli aveva bisogno per ristorare le forze, e riaver il coraggio alla sognata riscossa.[85]

Circondato da mille lusinghe visibilmente menzognere, già travedeva sul volto de' suoi vassalli il contagio della seduzione straniera. Nel 1406 abbandonò Sarzana, lasciandovi un governatore, e si diresse alla corte di Gianmaria Visconti, nella speranza di trovare presso il fratello quell'appoggio, ch'egli era deciso di non più accettare dall'amico infido. — Appena fu lontano da Sarzana, i cittadini, istigati da chi governava in suo nome, e sedotti dalle libertà promesse dall'astuto Bocicaldo, si ribellarono contro la dominazione viscontea, [462] e dichiararono di voler fare sorte comune coi genovesi.

Irritato dal procedere sleale de' suoi vassalli, e più ancora dagli scelerati intrighi del governatore di Genova, che mirava a privarlo di tutto, s'unì ai ghibellini nell'intento di porre un freno alle ambiziose mire dei francesi. Battuto una volta dai guelfi, capitanati da Jacopo dal Verme, presso Binasco l'anno 1407, trovò un ricovero ed una prigione nel castello di Porta Giovia in Milano. L'anno seguente cambiò il carcere nel bando; errò qualche tempo per le città del Piemonte; e alla fine risolvette di recarsi a Genova per chiedere al governatore la somma di ottanta mila fiorini d'oro, che gli erano ancora dovuti per la cessione di Pisa. — Ma Le Meingre, mallevadore del contratto e depositario della somma, trovò miglior partito di sbarazzarsi del creditore, accusandolo di essere venuto a Genova per congiurare a danno dei guelfi, e per rimettere la città in potere dei ghibellini. Gabriello fu quindi imprigionato; la stranissima accusa venne autenticata dalla tortura: e il reo, posto ai tormenti, confessò l'imaginaria conspirazione e la sua complicità; onde fu dannato a morte e decapitato, il 15 dicembre 1408. Dopo ciò, Le Meingre ritenne la somma come legale confisca dei beni di un fellone.

Dio era stato pietoso chiamando a sè la povera Agnese prima di quell'infaustissimo giorno.

FINE

NOTE:

1.  E cotal pianta di Republica è fondata sopra i due principj eterni di questo mondo di nazioni, che sono la mente e il corpo degli uomini, che le compongono. Imperocchè constando gli uomini di queste due parti, delle quali una è nobile, che come tale dovrebbe comandare, e l'altra vile, la quale dovrebbe servire, e per la corrotta natura umana senza l'ajuto della filosofia, la quale non può soccorrere che a pochissimi, non potendo l'universale degli uomini far sì che privatamente la mente di ciascheduno comandasse e non servisse al suo corpo, la divina Provvedenza ordinò talmente le cose umane con quest'ordine eterno che nelle Republiche quelli che usano la mente vi comandino, e quelli che usano il corpo vi ubbidiscano. (G. B. Vico Scienza nuova pag. 25.)

2.  Sopratutt'altro per le fontane perenni fu detto da' politici, che la comunanza dell'acqua fosse stata l'occasione, che da presso vi si unissero le famiglie. (Vico Scienza nuova lib. 2, pag. 199.)

3.  Romagnosi.

4.  Vico, Scienza nuova lib. I, pag. 62.

5.  Secondo il Tiraboschi Carlo Magno, quasi compiutamente illetterato, approfittò del suo soggiorno in Italia per apprendere i rudimenti della lingua latina dal grammatico Pietro da Pisa. (Storia della lett. ital. voi. III. c. I.)

6.  Il regno dei Longobardi era stato diviso fra 35 governatori che pigliavano il nome di duchi; ciascuno dei quali era tiranno assoluto della provincia a lui commessa.

7.  Tacit Ann. lib. 1.

8.  ... ciascun nobile poteva occidere un plebeo con la pena de libre septe et soldo uno de terzolij per la qual cosa molti erano morti. Corio Hist. di Mil.

9.  C. Cattaneo. Introd. alle notizie ecc. pag. LVI.

10.  La republica di Milano si limitava alla città, e a qualche villaggio del suburbio. A piccola distanza esistevano le Contee del Seprio, della Martesana, ed altri distretti, che avevano una costituzione propria.

11.  Muratori R. I. S. Dissert. 46.

12.  Le cerimonie di questo giudizio di Dio, sono riferite per esteso da Landolfo juniore al cap. X, Rer. It. Script. Tom. V. p. 476.

13.  Rer. Ital. Scrip., tom. V, pag. 378.

14.  Trist. Calch. Med. Hist. Patr., lib. 7, p. 149. Verri Stor. di Mil., t. 1, p. 252.

15.  Sismondi, St. del risorgimento della libertà in Italia, cap. II.

16.  Trist. Calch.

17.  Murena R. Ital. Scrip., tomo VI.

18.  Galvano Fiamma.

19.  Sir R. Peel.

20.  Il nostro Podestà fu in altro secolo superato da più zelanti interpreti delle bolle pontificie. L'elettore di Treveri, per dare effetto alla bolla di Innocenzo VIII (1484), in poco tempo distrusse col fuoco e colla mannaja 6510 individui accusati di stregoneria. — Sprengel. Stor. pramm. della medicina. Gioia Galat. Lib. III. Cap. VIII.

21.  I cittadini di Reggio, sconfitti dai Parmigiani presso la Secchia, furono rilasciati dalle carceri con una mitra di carta in capo ed una canna in mano (1152). All'uscire di prigione, un aguzzino dava ad ognuno di essi uno scappellotto. Lo raccontano il Muratori (Annali d'Italia) ed il Tassoni al canto V. della Secchia rapita. — Sorte più umiliante toccò ai Parmigiani prigionieri in Cremona (1230): essi furono rinviati alle loro case senza brache e in mezzo ai fischii della plebe. — Un fascio di paglia si appose alle natiche dei prigionieri pavesi, e vi si diè fuoco al momento d'uscir di Milano (1108). Lo narra il Fiamma (Rer. It. Script. Tom. XI). — I nobili erano rimandati coll'obligo di portare un cane sulle spalle, i prelati dovevano tenere un messale, i contadini un aratro. Ce ne dà conferma lo storico Arnolfo Hist. Mediol. lib. 1.

22.  Vedi Corio all'anno 1240.

23.  Ce lo attestano il Corio, e Landolfo Seniore, citato dal Giulini all'anno 1037. L'uso dei cognomi divenne generale verso il secolo X. Essi si desumevano o dalle cariche, come i Visconti (Vicecomites) Cattanei (Castellani) De Capitani (Capitani) Avogadri (Avvocati) ecc.; oppure dal nome dei parenti, come Donati, Ridolfi, Uberti, Orsini; o da vizii e difetti personali, come Zoppi, Malatesta ecc.; o in fine dai sopranomi dettati talvolta dal buon umore delle publiche festività; tali sarebbero Cane, Mosca, Braccio, Cassone, Mastino ecc.

24.  G. P. Crescenzi, Anfiteat. Romano, nel quale colle memorie dei grandi si riepilogano in parte l'origine et le grandezze dei primi potentati di Europa. Milano 1648. — Di quest'opera si è publicata soltanto la prima parte. L'altra, tuttora inedita, esiste nella biblioteca Belgiojoso. È una disordinata collezione di molte notizie storiche ed altretante favole.

25.  Il Ritratto di Milano colorito da Carlo Torre. Milano 1715.

26.  G. P. Crescenzi sudetto.

27.  Ecco questa iscrizione quale fu copiata da G. Flamma nel libro 7.º delle sue Cronache.

Je Fuy Galdé de Turbigez

Roy des Lombards incoronez

Sur les autres Barones apprexiez

Ce que vos veez ou portez

Por Deo vos prí non me robez.

Sotto la pietra si trovò un avello, entro cui giaceva il cadavere con corona d'oro massiccio tempestata di gemme: aveva allato uno stocco, sul pomo del quale era inciso il seguente distico:

Cet est l'espee de miser Tristant

Un il occist Lamorath d'Yrlant.

28.  Corio, Hist. di Mil., parte prima fogl. 7.

29.  Lib. 1, Vicecom., fogl. 16.

30.  Lib. 10, fogl. 114.

31.  Crescenzi sudetto.

32.  Ritratto di Milano.

33.  Trist. Calc. Hist. Urbis Med.

34.  Trist. Calch. sud.

35.  C. Cattaneo. Alcuni scritti, vol. 1, p. 82.

36.  Sismondi. Storia del Risorgimento, del progresso, del decadimento e della ruina della libertà in Italia. Cap. IV, pag. 110.

37.  Verri. Storia di Milano, Cap. X.

38.  Rainaldi ad annum 1341, citato dal Verri.

39.  Inferno. Canto XIX.

40.  Purgatorio. Canto XVI.

41.  C. Balbo. Vita di Dante, Cap. II, lib. II.

42.  Rosmini, Storia di Milano.

43.  Sismondi. Storia della libertà in Italia. Cap. VI.

44.  Machiavelli, Il Principe. Cap. XVII.

45.  Vedi il Corio e P. Giovio.

46.  Dante. Purgatorio, Cap. XVI.

47.  C. Balbo. Vita di Dante.

48.  Storia del risorgimento, e della ruina della libertà in Italia. Cap. III.

49.  Vino d'Apuglia assai prelibato e riputatissimo anche presso gli antichi.

50.  La maggior parte degli storici attribuisce trentadue figli a Barnabò Visconti. — Pompeo Litta nelle sue famiglie celebri italiane ne registra e ne nomina trentatre, tra i quali più della metà bastardi.

51.  Decreta antiqua pag. 185 (1393).

52.  Sismondi.

53.  Stat. Cap. 455.

54.  La dote stipulata per queste nozze fu di cento mila fiorini d'oro. Verri Istoria di Milano C. XIV. Giulini e Corio all'anno 1365.

55.  Andrea Gataro, nella storia di Padova publicata dal Muratori, ne racconta come nell'inverno 1363 trovandosi in Roma Francesco vecchio da Carrara, non vedesse un sol cammino in quella città; perchè tutti facevano fuoco nel mezzo della casa sul pavimento, oppure in cassoni pieni di terra.

56.  G. Flamma. Opus de gest Azon. Vicecom. Muratori Dis. Vol. XXV.

57.  Quod ostendunt naticas etc.... Vedi il Musso suddetto.

58.  Dante, Purgatorio, Canto VIII.

59.  G. Merula Antiq. Vicecomitum lib. 1.

60.  Ritratto di Milano colorito da Carlo Torre, lib. I.

61.  Leggasi l'iscrizione seguente che fregiava l'ingresso della Porta Romana, e che Galeazzo II trasportò sul ponte del Ticino a Pavia:

Dic homo qui transis, dum Portae limina tangis:

Roma secunda vale; Regni decus Imperiale,

Urbs veneranda nimis, plenissima rebus opimis;

Te metuunt gentes, tibi flectunt colla Potentes,

Tu bello Thebas, tu sensu vincis Athenas.

62.  Vedi il Giulini all'anno 1016.

63.  Vedi il Giulini sudetto all'anno 1262.

64.  Attestano questo fatto le due strade di S. Giovanni sul Muro, e dei Moriggi (ad muricolos). Vedi il Fumagalli. — Vicende di Milano dopo la distruzione di Federico Barbarossa.

65.  Galateo di M. Gioja, lib. III.

66.  El pascuee di gainn, di rest, ecc.

67.  Giulini all'anno 1268.

68.  Galateo di M. Gioja, lib. III.

69.  Giulini all'anno 1223.

70.  Giusti Proverbj. Illus. VI.

71.  Galv. Flamma Manip. Flor. Cap. XXV.

72.  Lacrymas etiamnum marmora manant. Ovid Metam. Lib. VI.

73.  Contro il furto duravano le leggi della Republica, emanate dal podestà Beno da Gozadino; giusta le quali, il ladro era punito la prima volta colla perdita d'un occhio, la seconda col taglio delle due mani, la terza (era il caso del Seregnino) colla forca. — Statuto di Milano, all'anno 1272.

74.  Statuto di Milano, dell'anno 1272.

75.  Giulini, all'anno 1232.

76.  C. Simonetta. Prefaz. pag. 14.

77.  Vedi il Corio all'anno 1385.

78.  Conobbi un pitocco che, al sopravenire dell'inverno, si rendeva colpevole di qualche piccola trasgressione, per essere colto e imprigionato. Nel carcere trovava almeno un tetto ed il pane quotidiano.

79.  P. Giovio. Vita dei XII Visconti.

80.  Tali parole furono pronunciate dal vescovo di Novara Pietro di Candia, che poi diventò papa Alessandro V, nella cerimonia solenne celebratasi sulla Piazza di S. Ambrogio, quando Giangaleazzo vestì le insegne ducali.

81.  P. Giovio. Vita dei XII Visconti. Trad. di Lodovico Domenichi.

82.  P. Litta. Famiglie celebri italiane. I Visconti. Fascicolo IX, tav. VI.

83.  P. Litta. Famiglie celebri italiane. — I Visconti.

84.  Caterina Riario, figlia di Galeazzo Sforza duca di Milano, fece prodigj di valore nella difesa della rocca di Forlì. P. Litta. Famiglie celebri italiane.

85.  And. Billius. Histor. lib. I. Rer. It. Script. Tomo XIX. Georgii Stellae Ann. Genneus. pag. 1217 R. I. Script. Tomo XVII.

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VOLUME PRIMO
 
Pag. lin. errata corrige
 
92 6 di quello; gli usciva di quello, gli usciva
114 5 predilettoe prediletto
173 31 desriveore descrivere
212 30 barda barba
 
VOLUME SECONDO
 
Pag. lin. errata corrige
 
18 29 Leprio Seprio
20 25 Arrigo IV Arrigo V
143 17 dichiarate dichiarato
156 4 che chi
224 14 sobbarcata sottoposta
260 11 cassina cascina
280 30 veritieri veritiere
440 11 le la

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Le correzioni indicate dall'autore a fine volume sono state riportate nel testo.