The Project Gutenberg eBook of Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana

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Title: Tizio Caio Sempronio: Storia mezzo romana

Author: Anton Giulio Barrili

Release date: April 15, 2020 [eBook #61841]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK TIZIO CAIO SEMPRONIO: STORIA MEZZO ROMANA ***

TIZIO CAIO SEMPRONIO


Tizio Caio Sempronio

storia mezzo romana

DI

ANTON GIULIO BARRILI

SECONDA EDIZIONE
RIVEDUTA E CORRETTA

MILANO
FRATELLI TREVES, EDITORI
1879.


PROPRIETÀ LETTERARIA.

Tip. Fratelli Treves.



INDICE


[1]

TIZIO CAIO SEMPRONIO

CAPITOLO PRIMO. Entra in scena l'eroe.

Lettori umanissimi, voi certamente non l'avete conosciuto, perchè egli fioriva un mezzo secolo prima dell'èra volgare, cioè a dire dopo il settecentesimo anno dalla fondazione di Roma.

Chi? domanderete. Il protagonista del mio racconto, il chiarissimo Tizio Caio Sempronio, cittadino romano, dell'ordine dei cavalieri. Non lo confondete, per carità, coi cavalieri moderni, che sono di più ordini. A Roma i cavalieri formavano un ordine solo, ed erano, una delle tre spartizioni del popolo, fatte da Romolo, buon'anima sua. E quasi non occorre che io dica essere questi tre ordini, il patrizio, l'equestre e il plebeo; tutta brava gente che non vivevano molto in pace tra loro, ma che per un migliaio d'anni spadronarono utilmente su tutto il mondo conosciuto. La qual cosa mi conduce a pensare che gli storici abbiano un po' calunniato [2] quel popolo, o per lo meno vedute le sue bizze domestiche con una lente d'ingrandimento.

Ma non ci perdiamo in chiacchiere. Se vi piace, siamo all'anno 703 ab urbe condita, sotto i consoli Servio Sulpicio Rufo e Marco Claudio Marcello, egregie persone, di cui non so dirvi altro che il nome. Consoliamoci insieme, pensando che essi importano poco al nostro soggetto.

Tizio Caio Sempronio era un gentil cavaliere, e bello, per giunta, come un dio di fabbrica ellèna. Si diceva che sua madre lo avesse concepito dopo essersi fortemente commossa alla veduta di una statua di Scopa. Aveva i capegli biondi e riccioluti, diritto il naso, breve il labbro superiore, il mento rotondo, l'orecchio piccolissimo; insomma, tutte le bellezze d'Apollo. E quando andava a diporto per la via Lata, o per la Flaminia, con le sue listerelle di porpora (clavus angustus) che scendevano parallele sul davanti della tunica, ed erano il contrassegno del suo ordine, gli facevano l'occhiolino le matrone, dal fondo delle loro lettighe, e gli uomini s'inchinavano, o si recavano la mano al cappello, secondo che andassero a capo scoperto, o portassero il pètaso.

Gli uomini non lo onoravano già per la sua bellezza, s'intende; che anzi avrebbero dovuto invidiarlo e scoccargli un «i in malam crucem» dal profondo dell'anima. Queste delicatezze gli uomini ce le avevano in corpo fin da quell'ora; tanto è vero che la civiltà è antica e i suoi primordii si perdono nella notte caliginosa dei tempi.

Tizio Caio Sempronio era un leggiadro cavaliere, [3] l'ho detto; ma in compenso era anche ricco. Aveva grossi poderi a Tivoli e nell'agro Reatino, donde uscivano i suoi maggiori. Per altro, se il nostro cavaliere potea vantarsi Sabino d'origine, non lo si poteva riconoscer tale alla parsimonia proverbiale di quella gente. Tizio Caio Sempronio spendeva liberalmente tutte le sue entrate, e dell'altro ancora. Però andava per le bocche di tutti, e si faceva a gara per averlo amico. Uomini di vaglia, o giovani promettenti, come Cesare e Catilina, lo avevano in pregio; e perfino quel caro matto di Clodio, prima di far quella morte immatura, che tolse un altro salvatore a Roma e un grand'uomo alla storia, era stato in molta dimestichezza con lui.

Mi affretto a soggiungere che Tizio Caio Sempronio non era uno dei loro in certi disegni politici. A cena, alle terme, sotto i portici, al teatro, sta bene, ma niente più in là. Il nostro bel cavaliere amava la Repubblica tal quale l'avevano lasciata i vecchi, e non sentiva il prepotente bisogno di rimutare le istituzioni. Era, pel suo tempo, quello che oggi si direbbe un conservatore.

L'unica cosa che non avrebbe voluto conservare, erano le ipoteche; noiosissime ipoteche, le quali già incominciavano a fioccare sopra i suoi latifondi. Ma già, il tizzo non risplende senza ardere. Ed era così allegra la fiammata! Ed era così sontuosa la dimora del gentil cavaliere!

Egli abitava sul Viminale, in un bell'edifizio a due piani, donde si godeva una vista incantevole. Il senator Rosa ha avuta la fortuna di trovare le substructiones di questa casa tra i Bagni d'Agrippina [4] e le Terme di Olimpiade, e di riconoscerne il possessore antico, da un sigillo di bronzo, rinvenuto nella cella vinaria. Io posso adunque, dietro la scorta del dotto archeologo, darvi un briciolo di descrizione, ricostruirvi con la fantasia l'abitazione di Tizio Caio Sempronio.

Figuratevi un edificio diviso in due scompartimenti principali: l'atrium, o cavaedium, coi suoi annessi necessarii all'intorno, e il peristilium, con le sue pertinenze; l'uno all'altro riuniti da una stanza intermedia, il tablinum, e da due corridoi (fauces) che gli stavano ai lati. Avete inteso? Debbo immaginarmelo, chè in vero mi tornerebbe difficile di darvene una descrizione più chiara.

E adesso che avete il complesso, il nocciolo della pianta, entriamo pel prothyrum, o vestibolo, androne di entrata dall'uscio di strada, nel cui pavimento a musaico è raffigurato un cane, un cinghiale, od altro animale grazioso e benigno, che dovrà farci buona accoglienza in nome del padrone di casa.

Varcato il vestibolo, si riesce nell'atrio. È uno spazio chiuso, rettangolare, i cui lati sono coperti da una tettoia, la quale ha una larga apertura nel mezzo (compluvium) a cui corrisponde nel pavimento un bacino (impluvium) destinato a ricevere l'acqua piovana dalla soprastante apertura. La tettoia è sorretta da colonne, che formano per tal guisa un chiostro aperto, da ricordare, ma con assai più d'allegrezza per gli occhi, un chiostro di monastero.

Lo vedete quest'atrio? No, non lo vedete ancora. [5] Infatti, come potreste vederlo a tutta prima, se, al tempo di cui parlo, ce n'erano di tre specie?

Primo fra tutti, c'era l'atrio toscano, il più semplice e il più antico, adottato a Roma per imitazione dagli Etruschi. Esso non aveva colonne. A reggere la tettoia che correva lungo le pareti delle stanze laterali, bastavano due lunghe travi, che andavano pel lungo da muro a muro, nelle quali se ne calettavano due altre più corte, in guisa da formare un'apertura quadrata nel centro.

Ma questa forma d'atrio parve ben presto una povera cosa, e s'inventò l'atrio tetràstilo, ossia di quattro colonne, che rispondevano appunto ai quattro angoli dell'apertura.

Da questa novità alla bellezza dell'atrio corinzio non c'è che un passo. L'apertura si allarga, le colonne crescono di numero e di magnificenza. L'arte greca ha vinto; nell'atrio sfolgoreggia la luce; la matrona può stare in casa, filar la sua lana e viver casta (casta vixit, lanam fecit, domum servavit), senza morir d'anemìa.

Fermiamoci ora. Siamo in un atrio della terza maniera. Lungo le pareti delle logge laterali, tra gli usci delle camere, si rizzano sui loro piedistalli le statue dei maggiori, alcuni dei quali sono anche effigiati in cera, entro le loro nicchie, sull'architrave degli usci. Di fronte al vestibolo, dall'altro lato dell'atrio, è il tablino, archivio ad un tempo e sala di ricevimento. Infatti, nei primi tempi lo si adoperava a contenere le tabulae, gli archivi della famiglia; ma servì poi a ricevere i visitatori. Questa camera, che ha la parete di fondo formata [6] da tramezzi di legno, o scene mobili, può diventare in estate un passaggio, come le fauces che le corrono sui lati; un passaggio, vo' dire, dall'atrio al peristilio, che è la seconda divisione della casa. Vedete che magnificenza! Una persona che entri dal vestibolo, può guardare d'un tratto, e senza difficoltà, attraverso l'intiera lunghezza dell'edifizio, atrio, peristilio e giardino.

Prima di uscire dall'atrio, diamo un'occhiata ad alcune altre particolarità. Delle statue e delle immagini degli antenati, vi ho detto quanto basta. In un certo punto della parete c'è il tabernacolo degli dei Lari. Erano questi gli spiriti guardiani, le anime degli estinti, che, giusta la credenza dei Romani, facevano ufficio di protettori, nell'interno della casa. Erano costantemente rappresentati come giovinetti succinti, inghirlandati di alloro, e in atto di tenere in alto sul capo un corno da bere. Sempre davanti a loro stava un'ara di marmo, il focolare, con una cavità sulla cima, per ardervi gli incensi quotidiani.

Un'altra ara, più rilevata e più nobile, era qualche volta nel tablino, davanti a un tabernacolo in cui si adoravano gli dei Penati, o patroni della famiglia, che potevano essere Giove, Giunone, Minerva, Apollo, Nettuno, od altro qualsivoglia degli abitatori dell'Olimpo.

Fatta questa necessaria distinzione tra Lari e Penati, entriamo nel peristilio. È la parte più familiare della casa; un colonnato, come nell'atrio corinzio; quattro corridoi all'intorno, e lungo i corridoi le camere per uso della famiglia. In mezzo [7] al cortile è qualche volta il giardino, con tutti i fiori che piacciono alla matrona, se ama i fiori, o con tutte le piante utili alla cucina, se è una massaia, che bada anzi tutto al risparmio.

Ma qui non ci sono massaie. Tizio Caio Sempronio è scapolo, e non ha da ringraziare per suo conto gli Dei alle calende di Marzo, quando tutta la Roma coniugale celebra la bontà di cuore delle spose Sabine. Lasciamo dunque il giardino co' suoi fiori. Esso darà le rose, di cui i servi di Tizio Caio Sempronio comporranno le ghirlande per gli ospiti, quando si sdraieranno nel triclinio, vasta sala da pranzo, che è per l'appunto lì presso, a poca distanza dalla cucina.

Prima dì finirla con la descrizione della casa, vorrei parlarvi dal piano di sopra, diviso in piccole camere, anch'esse per uso d'abitazione. Non v'induca in errore il loro, nome di coenacula. Non ci si pranza più, fin dai tempi di Varrone, ed è rimasto un nome generico per le camere del piano superiore, ove dormono i servi e i ragazzi, come nelle camere a tetto di tante case signorili del tempo nostro.

In casa del mio amico Tizio Caio Sempronio si dorme poco. C'è sempre corte bandita; colazione al mattino, o jentaculum; merenda, o pranzo, alle tre del pomeriggio, coi nomi latini di prandium e di merenda (veramente il pranzo è pei ricchi, e la merenda pei lavoratori, forse perchè bisognava guadagnarsela); cena finalmente alla sera. Tutti questi nomi si sono rimutati nell'uso moderno, e il pranzo ha preso il posto della cena. Già, lo ha [8] detto Vittor Ugo, ceci tuera cela. Ma io conosco ancora molti impenitenti pagani, che fanno merenda in casa, quando la famiglia prende il suo pasto più forte, e cenano, poi, quantunque all'osteria, molto più tardi, e in compagnia di allegri commensali.

Le cene di Tizio Caio Sempronio avevano fama in città, come quelle di Lucio Licinio Lucullo. Figuratevi se gli mancavano i convitati, con la magnificenza gastronomica di cui facea pompa il suo cuoco, e la presenza delle più belle e colte fanciulle dell'Attica, o delle rive della Jonia. A quei tempi era di moda il greco, siccome ai dì nostri il francese.

Oggi, sia lodato Iddio, il greco non si conosce più, neanche dai professori. La moglie d'un grecista famoso raccontava un giorno di non aver concessa la sua mano a quel degnissimo uomo, se non dopo la testimonianza di due oneste persone, le quali giurarono che egli insegnava bensì il greco, ma che non lo sapeva altrimenti.

[9]

CAPITOLO II. Il triclinio.

Siamo alle calende d'Aprile. Il mese è sacro a Venere, e in questo giorno le donne romane vanno a lavarsi nei templi, o nei sacrari domestici, inghirlandate di fiori e di mirto. La ragione ve la dice Ovidio, nei Fasti. La dea madre d'Amore, uscita appena dall'onde, stava ritta sulla spiaggia asciugandosi i capegli al sole, allorquando s'avvide di essere adocchiata da uno stuolo di Satiri. E qui, o fosse perchè quei così le parevano indegni di contemplarla, o perchè ella non si era anche avvezza a simili adorazioni, Afrodite nascose prontamente le sue bellezze con un cespo di mortella, fatto nascere lì per lì sulla riva.

Altre cerimonie si facevano in quel giorno, e tutte avevano l'acqua per ingrediente necessario. Verbigrazia, le fanciulle da marito andavano a lavarsi nel tempio della Fortuna virile, per cancellare ogni [10] imperfezione dal corpo. Ma perchè tra le imperfezioni ci dovevano essere quelle che nessuna acqua varrebbe a spianare, io suppongo che il miracolo della Dea dovesse consistere piuttosto nell'acciecare gli uomini per modo, che non si avvedessero più di una spalla fuori posto, d'una pupilla sviata, o d'altro sconcio simigliante. Accadeva che la gobba, la sciancata, o la cisposa, trovasse marito? La Fortuna virile aveva fatta la grazia.

Tizio Caio Sempronio non aveva nessuna di queste cerimonie da compiere, e nemmeno voleva sacrificare, come in quel giorno era l'uso, a Venere Verticordia, perchè facesse il miracolo di svolgere i cuori dagli illeciti affetti. Il giovinotto festeggiava alle calende d'Aprile il suo giorno natale. Era segnato tra i nefasti, nel calendario; ma che farci? Non si nasce mica quando si vuole. Ora, il miglior modo di passar l'uggia dei giorni nefasti, anche nella Roma antica, era quello di stare allegri quanto più si potesse.

E quanto a ciò, non dubitate, il nostro cavaliere aveva disposte le cose per bene. La sua casa accoglieva quel giorno un giusto numero di amici. Erano i quattro più cari e le quattro più belle; otto insomma, e lui nove; non di più, perchè dovevano mettersi a tavola.

Era un precetto antico che il numero dei commensali dovesse incominciare da quel delle Grazie, che erano tre, e non andare oltre quel delle Muse, che erano nove. In meno di tre, il banchetto riusciva malinconico; in più di nove turbolento.

Quattro cose, poi, si reputavano necessarie ad un [11] convito: belli i convitati, scelto il luogo, acconcio il tempo e non negletto l'apparecchio. I commensali, inoltre, non dovevano essere troppo loquaci, nè muti. Ai primi si conveniva il foro, ai secondi il letto. Quanto ai discorsi, non dovevano toccare argomenti difficili, nè gravi, bensì giocondi, che derivassero l'utilità dal diletto, e recassero qualche conforto allo spirito. Così la pensavano i nostri vecchi Romani, che non volevano a mensa le noie del tribunale, del senato, dei comizi, o del banco.

Dopo tutto, come si sarebbe potuto parlare di queste cose punto piacevoli, alla mensa di Tizio Caio Sempronio, dove c'erano Lalage, Delia, Febe e Glicera? Lalage, una bellissima bruna, che, parlasse o ridesse, metteva in mostra due file di denti così leggiadri, da chiuder la bocca ad un esercito di causidici? Delia, una bionda, severa all'aspetto, come una statua di Fidia, ma con un paio di occhi, donde uscivano bagliori che vi rimescolavano il sangue nelle vene? Febe, bianca e soave come la Dea della notte? Glicera, dolce come il suo nome e piena lo sguardo di più dolci promesse?

La sala del triclinio era spaziosa e ornata con greca magnificenza. Dorato il lacunare, i cui cassettoni apparivano colmi da canestri di fiori, in atto di spandersi sui convitati. Le pareti erano maestrevolmente dipinte, con quadrature, prospettive e lontananze, che illudevano gli occhi e facevano parere il luogo più vasto. In quella di mezzo si ammirava un affresco, rappresentante Amore e Psiche, mezzo sdraiati davanti ad una mensa sontuosamente imbandita. Certo, da quell'affresco doveva [12] Apuleio aver cavato più tardi il soggetto del famoso episodio della sua favola milesia. Tizio Caio Sempronio chiamava quel dipinto: «Amore a tavola» e lo celebrava il primo tra tutti gli amori. Se avesse ragione non so, e non ho tempo a cercare.

Figuratevi che ci ho ancora un mondo di cose da dirvi. Tutto intorno si vedevano arredi d'altissimo pregio; candelabri di bronzo, che imitavano lo stelo d'una pianta, e recavano in cima un dischetto, su cui era posata la lucerna; tripodi, su cui si ardeva l'incenso, od altro aroma di effluvio più grato alle nari; mense vasarie, su cui posavano boccali, brocche, anfore ed altri utensili necessarii al convito; da ultimo il repositorio, o portavivande, vistoso mobile di legno, incrostato di tartaruga e arricchito di fregi d'argento, scompartito in varii palchetti, l'uno sull'altro, destinati a sostenere i vassoi con le loro diverse portate.

La mensa era nel mezzo, tutta in legno di cedro, levigata e rilucente, macchiata qua e là come una pelle di pantera, quadrata di forma, per adattarsi ai tre letti che le correvano intorno.

I letti, sicuro; e appunto per questo la sala si chiamava triclinio, dai tre letti su cui si adagiavano i commensali, appoggiati sul gomito sinistro. Ogni letto aveva tre posti, coi loro cuscini e guanciali di piume, ed ogni posto aveva il suo nome, il sommo, l'inferiore e l'imo. La stessa denominazione serviva pei letti, da destra a sinistra del riguardante, salvo che il letto di mezzo non si chiamava inferiore, ma il medio. Di qui le divisioni [13] gerarchiche dei posti, summus, inferior, imus, in summo, oppure summus, inferior, imus, in medio, e finalmente summus, inferior, imus, in imo. Quest'ultimo era proprio l'ultimo posto della mensa. Ma il primo non era mica il summus in medio, come porterebbe la nomenclatura accennata, bensì l'imus in medio, perchè il convitato più ragguardevole, stando nel letto di mezzo, che era il più nobile, restasse anche vicino al padrone di casa, che era sempre il summus in imo.

Lettori, se io riesco oscuro, non è mia colpa. Vorrei invitarvi romanamente a cena, e chiarirvi meglio il negozio. Accettate la buona intenzione, vi prego.

Tutto era all'ordine; i lumi accesi in giro sui candelabri e nella lampada di bronzo dorato, che pendeva dal lacunare. Il lettisterniatore aveva sprimacciato i letti a dovere e i commensali prendevano il luogo assegnato dal nomenclatore a ciascheduno di loro.

Ottima usanza era questa, e mi sia lecito di aggiungere, a mo' di parentesi, che potrebbe svecchiarsi utilmente ai dì nostri, per risparmiare ai convitati la molestia di andar su e giù intorno alla mensa, cercando i loro nomi sulle cartoline ospitali, ed anche per dare ad ognuno la consolazione di conoscere i suoi compagni di tavola; cosa difficile oltremodo, con l'uso moderno, e dove i convitati sian molti.

Gli uomini si erano sdraiati a mezzo sui letti; le donne stavano sedute. Così portava la costumanza romana; ma niente impediva che, ad una [14] cert'ora del banchetto, il capo di Delia o di Lalage si arrovesciasse a destra o a manca, secondo il capriccio, e le rose della ghirlanda convivale si sfogliassero sulla sintesi del vicino.

La sintesi, ho detto. E non crediate trattarsi qui di uno dei due procedimenti filosofici per cui la mente umana svolge e perfeziona le sue cognizioni. Si tratta della combinazione di una tunica discinta con maniche corte, e di un pallio che ricopriva la metà inferiore del corpo ai convitati. Questa combinazione si chiamava con greco vocabolo, la sintesi, od altrimenti la veste cenatoria.

Notate che si prendeva il cibo più o meno delicatamente con le dita, e che la salsa poteva assai facilmente cadere sulla tunica. Donde la necessità d'indossare una veste ad hoc, la quale era fornita dall'ospite. Il convitato non recava di suo che il tovagliolo, nel quale, a cena finita, riponeva confetti, frutte, ed altri rilievi della mensa, che era permesso a tutti di portar via, come si usa anche adesso, nei pasti villerecci, dai convitati indiscreti.

Oltre la sintesi, fatta per cansar le frittelle sugli abiti, i commensali avevano dall'ospite il nardo ed il cinnamomo per ungersi i capegli, e la corona di rose, che, premendo sulle tempie, non permetteva ai fumi del vino (almeno, così credevasi allora) di salire al cervello.

Così disposte le cose, un ragazzo portò sulla mensa il bossolo dei dadi, e si lasciò decidere dalla sorte a cui spettasse il titolo di re del vino.

Il punto di Venere, che era il migliore, poichè in esso i tre dadi cadevano mostrando sulle facce [15] superiori tre numeri diversi, toccò ad una donna, alla vispa Lalage dalle labbra di corallo e dai denti di avorio.

Un applauso universale salutò la regina.

— Non è questo il giorno d'Afrodite? — gridò Lucio Postumio Floro, a cui Lalage piaceva maledettamente. — E non è giusto che Venere favorisca la sua bella figliuola? —

Il sorriso, l'ho detto, stava di casa sulla bocca di Lalage. Ma quella volta esso apparve più soave dell'usato, e Postumio Floro n'ebbe al cuore una dolcezza infinita.

In quel mentre si udirono liete armonie. I sinfonisti entrarono nel triclinio, quale suonando la cetra, quale il flauto, in accompagnamento ad un coro di giovinetti, che cantavano le lodi del padrone, composte in metro saffico da Publio Cinzio Numeriano, il poeta.

— Belli i versi ed il canto! — disse Tizio Caio Sempronio, facendosi rosso dal piacere. — Abbia l'amico Numeriano tutto quello che gli gioverà domandarmi. E voi, — soggiunse, rivolto ai servi sinfonisti, — che avete cantato e accompagnato un carme degno di Apolline, siate da quest'oggi liberti. —

I sinfonisti si profusero in rendimenti di grazie. Numeriano, che era sdraiato all'ultimo posto, si senti più felice in quel momento, che se gli avessero dato il posto consolare, occupato pur dianzi da Lalage, la regina del banchetto.

— Ave, Sempronio! — diss'egli, — Tu sei veramente il primo dei Celeri. —

[16]

Avverto il lettore che Celeri dicevansi da principio i cavalieri, dal loro primo capitano Fabio Celere. E Numeriano, ricordando le antiche denominazioni, avrebbe potuto dire eziandio il primo dei Ramnensi, dei Taziensi, e dei Luceri, perchè appunto in tre centurie erano stati divisi i primi cavalieri da Romolo, e ascritti alle tribù di tal nome.

Incominciò, come a Dio piacque, il banchetto. Il Dio era Mercurio, a cui toccava la prima e la miglior parte del primo piatto di carne. Se poi la mangiasse, non so; forse ne faceva un presente al guardiano del santuario.

Mentre i sinfonisti cantavano e suonavano, un servo accorto, lo structor, aveva disposti sui vassoi del repositorio i piatti della prima portata, a mano a mano che giungevano dalla cucina. E appena finito il carme, altri due servi avevano sollevato il portavivande dalla credenza, collocandolo in mostra sulla tavola. C'era là dentro la gustatio, o l'antecœna, come a dire l'antipasto, o i principii; tutta roba da gustarsi per aguzzar l'appetito.

Di solito non mancavano nell'antipasto le uova sode, acconciate con salse; donde il proverbio romano «ciarlar dalle uova fino alle mele;» ossia dai principii alle frutte. Ma il lusso incominciava a volere che le uova fossero di pavone, le quali costavano un occhio, come potete argomentar di leggieri.

Il cuoco di Tizio Caio Sempronio aveva dunque seguita la moda, e mandava in tavola le uova di pavone; ma perchè la materia fosse vinta dall'arte, [17] quelle uova giungevano in un vassoio foggiato a nido, su cui era una pavona di legno, con le ali spiegate, in atto di covare. S'intende che, non essendo la femmina del pavone così bella a vedersi come il maschio, lo scultore pittore aveva dato alla covatrice il collo azzurro, le penne lionate e il ventaglio dagli occhi d'oro, del suo vanaglorioso compagno.

Dispensate le debite lodi a quella ghiotta novità, e mostrato di saperla gustare, i convitati dovevano bere. Ma a questo provvedevano i coppieri. Già il credenziere era venuto innanzi con una grossa anfora, su cui era scritto a lettere allungate: Opimianum.

Il nomenclatore si era avanzato a sua volta ed aveva gridato, commentando la scritta:

— Falerno del consolato di Opimio! —

Lucio Opimio Nepote era stato console con Fabio Massimo nell'anno 632 di Roma. Quel vino avea dunque settant'anni. Ma non era quello il solo suo pregio. Nell'anno 632 ab Urbe condita, essendo console Opimio, la stagione fu così asciutta, che ogni sorta di frutti rimase squisitissima; il vino principalmente riuscì egregio, e tanta fu la sua fama, che con l'andar del tempo usavasi dire Opimiano ogni vino vecchio che servivasi alla mensa dei grandi.

— Come dobbiamo noi bere questa ambrosia dei Numi? — chiese Postumio Floro. — Dillo, o regina dalle labbra di rosa.

— Nel sestante, per ora; — sentenziò la regina. [18] — Del resto, il Falerno Opimiano non è vino da deunce.

— Da triente, almeno! — osservò Marco Giunio Ventidio, volgendo a quell'anfora uno sguardo divoto.

— Alla seconda portata, se vi pare, o Quiriti! — rispose la regina.

— Diva Lalage, tu parli come i littori di Servio Sulpicio, quando il console si reca al tribunale; — replicò Giunio Ventidio.

«Se vi pare, o Quiriti!» era la frase invariabile dei littori, quando avevano a sgomberare le vie dalla calca del popolo, per dare il passo libero ai magistrati. Si vobis videtur, discedite Quirites.

Quanto alla controversia per la capacità dei bicchieri, lasciando stare le arcaiche corna di bufalo, usate a tal uopo dai primi Romani, e i fregi di metallo prezioso onde furono ornate in processo di tempo, noterò che i bicchieri si fecero più tardi d'oro, d'argento o di stagno, secondo le condizioni di fortuna, e si chiamarono, dalla misura di liquido che potevano contenere, sestanti, trienti e deunci. Del sestante, che conteneva appena due once, si servivano le persone sobrie. Augusto beveva sempre al sestante e non più di sei volte durante il suo pasto. Quattr'once conteneva il triente, che era perciò ritenuto un bicchiere di moderata grandezza, pei bevitori ragionevoli; e ciò per contrapposto al deunce, o bicchiere da undici oncie, che era il calice prediletto dei beoni.

— Néttare! — esclamò Elio Vibenna, un gustatore dei primi, dopo aver fatta scoppiettare due volte la lingua contro il palato.

[19]

— Sei Giove, adunque? — domandò Postumio Floro.

— Con Ebe al fianco; — rispose Vibenna, con un galante accenno alla sua vicina. — Febe val Ebe, ed anzi qualche cosa di più.

— Segnatamente, — aggiunse Postumio, — se avrai da bere alle lettere! —

La celia destò il buon umore di tutta la brigata. Dicevasi bere alle lettere, quando, in onore di una donna, si bevevano l'uno sull'altro tanti bicchieri quante erano le lettere di cui si componeva il suo nome.

Ricordano gli eruditi che Marziale propinava all'arrivo di Lidia con cinque bicchieri; di Lica con quattro, di Ida con tre; e poichè nessuna di queste belle si mostrava, il povero poeta solitario chiedeva consolazioni a Morfeo. È da credere che, con tante libazioni, il dio dei papaveri non si facesse aspettare; tanto più che il buon Marziale aveva già bevuto prima per altre donne di molte lettere, come, ad esempio, Giustina.

Gli amici di Tizio Caio Sempronio ridevano, centellando il Falerno del consolato d'Opimio; e frattanto i servi, tolti dalla mensa i rilievi dell'antipasto, si facevano innanzi col primo servito, o caput coenae, come dicevasi allora.

Il repositorio era diventato una vera selva di piatti, il cui pregio appariva vinto da quella artistica confusione con cui erano disposti. Immaginate una ventina di vassoi d'argento, che recavano torte, focacce, gamberi, anitre, ariguste, quarti di maiale, triglie, fichi d'Africa, lepri, fegatelli, e via [20] discorrendo. Non vi parlo delle varie salse in cui era cucinata tutta quella grazia di Dio, perchè vi confonderei la testa e fors'anco vi guasterei lo stomaco delicato, con que' miscugli di pepe e miele, di cumino e di silfio, che formavano gl'intingoli dei padroni del mondo.

Levati ad uno ad uno i vassoi dal portavivande, lo scalco fu pronto a trinciare in giuste parti ogni cosa. Non si usava allora di lasciar niente nel piatto di mezzo. Ad ognuno dei commensali toccava la sua porzione, ed egli poteva mangiarla, o riporla, o rimandarla, come più gli piacesse. Per tal modo, non c'era a temere d'indiscreti, che, verbigrazia, si servissero di tutto il migliore del pesce, lasciando la testa e le spine all'ultimo del giro. E nemmeno si avevano a patire i danni della propria discrezione, o modestia. La rapacità degli uni e la timidezza degli altri avevano un solo correttore, lo scalco.

[21]

CAPITOLO III. Donne, vino e canzoni.

Mentre tutte quelle pietanze si distruggevano allegramente, e perchè la cena non apparisse un pasto di affamati volgari, la regina comandò che qualcheduno dei commensali proponesse una quistione gradevole.

Vibenna domandò qual fosse miglior vino tra il Cecubo e il Massico; ma Giunio Ventidio sciolse prontamente la quistione, dicendo che erano ottimi ambedue, e che il superlativo, anche a detta dei grammatici, non ammetteva comparativi.

Postumio Floro avrebbe voluto che si disputasse intorno all'anima dei creditori, ma Lalage dichiarò che non avrebbe patito di tali discorsi a tavola, e condannò Postumio a non guardarla più fino alla seconda mensa, cioè fino alle frutte.

Il poveretto gridò che lo si voleva morto. Tizio Caio Sempronio intercesse per lui e gli ottenne la [22] grazia della diva, a patto che trovasse il modo di dire una cosa gentile a tutte, senza scontentarne veruna.

— Non son poeta; — rispose Postumio; — e qui meglio di me varrebbe Numeriano. Ma poichè lo volete, vi dirò che amo una donna sola, perchè.... non ho quattro cuori. —

Le donne, così chiaramente indicate dal numero dei cuori che si augurava Postumio, dovevano sentenziare. Ma Lalage taceva, per non aver aria di sapere chi fosse quell'una. Febe guardava Numeriano, che era dall'altra parte della mensa e non si accorgeva di essere guardato da lei. Glicera si stringeva amorosamente al fianco di Caio Sempronio, e non badava troppo alla conversazione.

Delia parlò, Delia la bionda, severa all'aspetto, come una statua di Fidia.

Secondo lei, la donna amata da Postumio Floro doveva esser poco lusingata dalla sua dichiarazione.

— E se Giove ti avesse dato quattro cuori.... — diss'ella al suo vicino di destra, — che cosa avverrebbe?

— Mia bella severa, — rispose Postumio, — non ardisco prevederlo. Ma certo, qualunque cosa avvenisse, l'avrebbe voluto lui, ed io non ci avrei ombra di colpa. —

Intanto i coppieri andavano attorno con le anfore, mescendo il vino nei vuoti sestanti.

E il cuoco venne egli in persona, per curare l'arrivo della terza portata. Il vassoio quella volta era smisurato e ci volevano due uomini per sorreggerlo.

[23]

Un grido di ammirazione ruppe dalle labbra di tutti i convitati. Il cuoco sorrise, come sanno sorridere i cuochi, quando ci hanno ancora dell'altro, con cui sbalordire i commensali del padrone.

E non aveva torto, perdinci, il degno scolare di Apicio. Figuratevi che aveva cotto un cinghiale intiero, coperto ancora (dico ancora, ma certo si trattava di una giunta artificiale) della sua pelle setolosa. E perchè niente mancasse a dargli l'aspetto del vero, la degna bestia si vedeva sdraiata, come in atto di voltarsi, in un certo intriso, che voleva raffigurare un pantano, ed era la salsa più appetitosa del mondo.

— Come? — dimandò Vibenna, rinvenuto allora dal primo stupore. — Non è stato neanche sventrato?

— Qui ti volevo! — disse il cuoco tra sè.

Indi, ad alta voce proseguì:

— Perdona, illustre Vibenna; quello che non è stato fatto può farsi ancora. —

E levato il coltello dalle mani dello scalco, lo piantò arditamente nel petto del cinghiale, traendo la lama a sè, per quanto lungo era il ventre.

Allungarono tutti il collo e stettero cogli occhi tesi per vederne balzar fuori le interiora, ma non senza sospetto di qualche piacevole novità. Difatti, il cuoco appariva sicuro del fatto suo. O faceva troppo a fidanza con l'umore del padrone, o ci aveva il segreto in corpo, e quell'abile colpo di coltello doveva metterlo fuori.

Una risata omerica salutò la conseguenza dell'operazione. E qui l'epiteto di omerica vien proprio [24] a taglio, perchè il cavallo di legno, divino lavoro di Pallade, non gittò tanti armati nelle mura di Troia, quante il cinghiale sventrato diè fuori salsiccie, olive, sanguinacci, tordi, ed altre ghiottornie, debitamente rosolate, che promettevano una festa di sapori al palato.

Tosto gli schiavi si avvicinarono e lavorarono coi loro cucchiai a raccogliere tutta quella sugosa grandinata e a collocarla in giuste parti nei piatti dei convitati, mentre lo scalco, riprendendo il coltello dalle mani del cuoco, faceva destramente a pezzi il cinghiale, per darne uno spicchio a ciascuno.

— Gli Dei ti proteggano, o Caio; — disse Vibenna, ammirato. — Tu possiedi la fenice dei cuochi.

— A Sibari gli avrebbero eretta una statua; — aggiunse Ventidio. — Noi dovremmo decretargli il trionfo.

— Per carità, non me lo guastate. Io l'ho già manomesso; — rispose Tizio Caio Sempronio. — Che altro potrei fare per lui? Mi mette al fuoco dugentomila sesterzi all'anno; è questo il tributo che io pago alla sua maestria.

— Vivi cent'anni, o Caio, — gridò il cuoco inchinandosi, — e conservami la tua benevolenza.

— Coi dugentomila sesterzi; — aggiunse mentalmente Postumio Floro. — Vedete un po' il mio amico Caio, come spende allegramente il suo! Se gli domandassi oggi i quarantamila che mi occorrono, per chetare quel Cerbero di Cepione! —

Il dispensiere si era fatto innanzi col Massico, altro vino che non la cedeva al Falerno, nè al Cecubo. E la regina del convito appagò il desiderio [25] di Marco Giunio Ventidio, facendo dare in tavola i trienti.

— Oh bene! — gridò Ventidio. — Beviamo dunque e celebriamo queste spume generose col verso.

— Col verso! Tu?

— Io, sì, io. Che vi credete? Che alle mie ore non sia poeta anche un Giunio Ventidio? Sentite qua:

Ben venga, amici, il Massico,

E cresca la misura,

Mentre gli affanni e i triboli

La sorte rea matura.

Quando si muoia e dove

Si vada, è in grembo a Giove.

Ci pensi dunque il Dio,

O se ne scordi pur, come fo io;

Mentre bevo al tuo nome,

Febe divina dalle bionde chiome.

Versa, coppiere, il liquido

Rubino profumato.

Vedi? Alla prima lettera

Bevo, e in un sorso è andato.

Per la seconda, ratto

Versa, ed io bevo.... È fatto.

La terza ancor ti chiedo,

E per la quarta ad implorarti io riedo.

Perchè sì breve ha il nome

Febe divina dalle bionde chiome?

[26]

— Ma bene! Egregiamente! — gridò Caio Sempronio. — Tu rubi l'arte a Numeriano.

— E mira anche a rubargli dell'altro: — soggiunse Vibenna.

— Dell'altro? Che cosa?

— Il cuore della mia vicina e sua, che va troppo spesso con gli occhi verso il nostro poeta. —

Febe si fece rossa in volto come una fragola. Anche Numeriano arrossì, ma non per la stessa ragione di lei. Il giovine poeta pensava a tutt'altro, e dovette credere che l'amico Vibenna si prendesse giuoco di lui e di Febe.

— Difenda Numeriano la sua conquista! — disse la regina, a cui piacevano i versi. — Egli è il prediletto delle Muse.

— Sì, canti Numeriano.

— Sentiamolo; — disse Ventidio. — Ma badi, io gli contenderò la palma fino all'ultimo.... bicchiere!

Numeriano, colto così alla sprovveduta, non sapeva che pesci pigliare.

— Ma io non ho ancora detto di voler combattere; — diss'egli timidamente.

E il suo sguardo andava frattanto più oltre, verso la spalliera del letto di mezzo, donde si sentiva venire incontro come un'aria di temporale. La dea c'era; perchè non ci sarebbe stata la nuvola?

— O Numeriano, che vuol dir ciò? — chiese Vibenna. — Ti spaventa il competitore? E non t'incuora nemmeno la speranza del premio?

— Amici, — rispose Numeriano, — perdonate [27] al pusillanime che vi confessa la sua codardia. Mi dò per vinto.

— Senza scendere in campo?

— Senza scendere in campo; e griderò volentieri un evviva a Marco Giunio Ventidio. —

La più parte dei commensali erano per menar buona a Numeriano la sua ritirata. Ma c'era la dea nella nuvola, e non poteva mancare la folgore. Intonuit laevum.

— Come? Non bastano ad inspirarti gli sguardi soavi di Febe? — chiese con ironico accento la bella e severa Delia, che aveva notato le occhiate della sua bionda compagna a Numeriano, anche prima dell'osservazione maliziosa di Elio Vibenna. — Così poco potere ha la donna sul prediletto delle Muse?

— Anche tu! — esclamò Numeriano, ferito da quel sarcasmo, che non credeva di aver meritato. — Anche tu! Ah, per Apolline, io sono calunniato. E non son donne le Muse? — Ed io potrei macchiarmi di così nera ingratitudine, dimenticando che la donna è la regina dei cuori, come lo è oggi del nostro convito? —

Il lusinghiero accenno propiziò a Numeriano il cuore di Lalage.

— Bene! — diss'ella. — Cantaci dunque il regno della donna.

— Lo canterò, — rispose Numeriano, dopo un istante di pausa, in cui parve misurare le sue forze, — lo canterò, a confusione di chi non intende il mio cuore. —

[28]

E chiesta l'ispirazione al biondo Iddio, Numeriano incominciò:

Forma soave e splendida,

Anco ai celesti piaci,

Leda, Latona, o Danae,

Hai del Tonante i baci.

Nè t'amerà il poeta

Che anela al sacro monte?

Amor di carmi è fonte;

Fonte d'amor sei tu.

Per te il solingo genio

Beato od infelice.

Te chiede inspiratrice,

Più desiata meta

Quanto superba più.

Qual, de' mortali a strazio,

Chiuse nel cor più gelo,

Di lei che al Dio de' numeri

Nacque sorella in Delo?

Delle bellezze avare

Seppe Atteon lo sdegno,

Che, fatto a' veltri segno,

Indarno supplicò.

Ma Endimione inconscia

Fe' d'Atteon vendetta,

E là del Latmo in vetta

La nube tutelare

I divi amor celò.

[29]

Cinzia, Diana, o Delia,

Qual più nomarti hai caro,

Del cacciatore improvvido

Mi serbi il fato amaro?

O me, già fuor di spene,

Ora più lieta attende?

De' tuoi rigor l'emende

Lice sperare a me?

Non l'osa ormai l'assiduo

Dolore ai danni esperto;

E nulla chiedo e il serto

Rapito all'Ippocrene,

Bella, consacro a te.

Solo retaggio ed umile,

È pure il mio tesoro.

Poeta tuo, dimentico

Ogni più verde alloro.

Te salutar regina

È più sicuro orgoglio

Che i fasci in Campidoglio

Ed il trionfo ambir.

Ciò basti a cui s'inchinano

I vinti Medi e i Parti;

A me sol giovi amarti,

E a' piedi tuoi, divina,

Procombere e servir.

— Bene! per gli Dei immortali! — gridò Tizio Caio Sempronio, profondamente commosso. — Diana [30] o Delia che sia, questa donna è adorata in forma solenne!

— Senti, Delia; — disse la regina del convito. — Tu sei debitrice d'un bacio a Numeriano. O in premio ai suoi versi leggiadri, o in penitenza di un falso giudizio, a tua scelta.

— Di che mi punite? — domandò la bella sdegnosa. — Di aver costretto il poeta a cantare? Lodatemi, invece, perchè l'ode è riuscita degna di Valerio Catullo.

— Questo paragone vai forse un bacio; — entrò a dire Ventidio.

— Non per me; — rispose prontamente Numeriano. — Del resto, io l'accetto come uno scherzo di quelle labbra, che fanno parer bello il sarcasmo. Valerio Catullo è un gran poeta, ed io sono uno scolaretto. —

Quella di Numeriano era onestà, rara anche allora per un alunno delle Muse. Ma pensate, o lettori, che Numeriano era giovane, e non aveva anche imparato a lasciar correre tutti i giudizii che potessero nuocere ai suoi fratelli in Apolline e far comodo a lui.

Intanto che gl'innamorati si bisticciano (poichè, già lo avrete capito, Numeriano è invaghito di Delia ed ella lo sa da un bel pezzo), non dimentichiamo le ultime fasi della cena.

I servi avevano portato via la mensa ed erano andati attorno coi catini d'argento e cogli asciugamani, perchè i convitati ripulissero le forchette, date a loro dalla madre natura, e tali perciò da non potersi portar via sudicie, per rigovernarle in cucina.

[31]

Ciò fatto, a suon di cetre e di flauti, venne in mezzo al triclinio la seconda mensa, bella a vedersi per la sua lastra di legno prezioso intarsiato d'avorio e di tartaruga, con fregi d'argento, che ricorrevano eziandio sul piede, riccamente intagliato.

Sulla seconda mensa erano già imbanditi i confetti, i dolciumi, le torte di cotognato ed ogni generazione di frutte serbevoli. Non mancavano tuttavia le frutte fresche, quantunque si fosse alle calende di aprile. L'Africa e la Sicilia erano gli orti suburbani di Roma. E qual è lo scolare di umanità che non ricorda i fichi d'Africa, portati dal fiero Catone in Senato, come il più fresco degli argomenti a conforto del suo eterno: Delenda Carthago?

Intanto si seguitava a bere. Le anfore si succedevano e non si rassomigliavano; e i discorsi neppure; anzi, questi assai meno delle anfore. Parlavano tutti, e bevevano a lor posta, senza aspettare i comandi della regina. La quale, del resto, non avrebbe saputo più darne, incalzata com'era dalle fervide orazioni di Postumio Floro, che affogava nelle proteste d'amore il ricordo dei quarantamila sesterzi di cui era debitore all'usuraio Cepione.

Tra Ventidio, che criticava ad alta voce tutti i poeti del tempo, e Vibenna che incominciava ad annaspare, come uomo che caschi dal sonno, Febe taceva, pensando a Numeriano, che mostrava di non pregiare i suoi vezzi e di non intendere le sue languide occhiate. Glicera, dolce come il suo [32] nome, aiutava Caio Sempronio a ravviare la conversazione, che procedeva a sbalzi, ad urti, a sbrendoli, come era naturale in quell'ora. Delia, più padrona di sè che non fossero gli altri, si schermiva destramente in quella guerra di parole, prodiga d'arguzie e sorrisi a tutti, fuorchè al suo poeta, al povero Numeriano, che non sapeva distogliere lo sguardo da lei.

La cena finiva, come tutte le cene dei nostri vecchi Romani, in una gran confusione. Qualcheduno dei commensali aveva già provato ad alzarsi, o perchè avesse il braccio indolenzito, o perchè volesse sperimentare le sue gambe. E alle lacune avevano tenuto dietro i cangiamenti di posto. Ventidio, sfortunato con Febe, era andato a chiacchierare più da vicino col padrone di casa, e Numeriano si era trovato, senza avvedersene, all'altro capo del triclinio, col gomito timidamente appoggiato sulla spalliera del letto di mezzo, accanto al guanciale di Delia.

— Poeta, — gli diceva la bella sdegnosa, rispondendo ad un inno in prosa che egli le aveva bisbigliato all'orecchio, — tu piaci alle Muse, ma io ti consiglio di ottenere anche i sorrisi di Pluto. —

A quella frecciata che lo coglieva in pieno, il povero Numeriano impallidì.

— Hai ragione; — diss'egli poscia. — Ma è colpa mia se non son ricco? E mi accuserai tu, — soggiunse, prevedendo ciò ch'ella avrebbe potuto rispondergli, — se i miei occhi ti trovano bellissima tra le belle e il mio cuore sente il bisogno di dirtelo? Si può amarti, o Delia, anche [33] senza aver le ricchezze.... o i debiti di Giulio Cesare.

— Ed io non chiedo tanto; — replicò sorridendo la greca. — I miei gusti sono più modesti che tu non creda. Abborro questo sfarzo dei tuoi concittadini, questo lusso mostruoso che rasenta la follia. Ero nata per vivere come una giovine e mite sacerdotessa, nel tempio d'una Dea....

— Che tu avresti fatta morire d'invidia; — interruppe Numeriano.

— Se una Dea potesse morire; — notò Delia, che le lusinghiere parole del giovane avevano rabbonita. — Ma infine, anche a voler fare la vita dei pastori di Teocrito, ci vuol sempre il bosco, l'orto e la casa. Non hai pensato a questo, o poeta?

— È vero: — disse Numeriano, chinando la fronte. — Ma se tu mi lasci sperare, l'idillio avrà la sua scena e la colomba il suo nido. —

[34]

CAPITOLO IV. L'amico si conosce alla prova.

Numeriano prometteva nel modo usato da certi animi deboli, che buttano le parole innanzi, per aggrapparvisi poi, e per trovare nell'obbligo di fare una data cosa lo stimolo sufficiente alla loro irresolutezza.

Non operò diverso quel capitano, di cui non rammento più il nome, che gittò il fodero della spada nelle file nemiche, per procacciare a sè stesso e ai suoi soldati la necessità di andarlo a raccogliere.

Ora il nostro Publio Cinzio Numeriano aveva promesso, con tutto il desiderio, ma senza la certezza dell'attendere. Una speranza lo sosteneva; quella di avere il consiglio e l'aiuto (anzi, più l'aiuto che il consiglio) di Tizio Caio Sempronio.

Certo, se qualcheduno poteva dare una mano in quel frangente al nostro innamorato, quegli era [35] Tizio Caio, che passava per uno dei più facoltosi cavalieri di Roma e che amava molto il poeta Numeriano. Forse, gli esempi di ciò che sperava, mancavano tuttavia. Mecenate era fanciullo, nè ancora aveva regalato ad Orazio Flacco un podere nella Sabina, nè fatto restituire a Virgilio Marone il suo campo avito sul Mantovano. Ma il patronato letterario era già negli usi romani, fin dai tempi di Scipione Africano e di Lelio. L'amico di Numeriano era ricco e di buon cuore; poc'anzi aveva detto parole, che a Numeriano erano tornate più dolci del miele; non c'era altri che lui per intenderlo, altri che lui per soccorrerlo.

Caldo di quel disegno che gli era balenato alla mente, Numeriano cercò degli occhi il padrone di casa. Tizio Caio Sempronio non era più nel triclinio; ma, dalla cortina rialzata, si poteva vederlo poco lunge, appoggiato da una colonna del peristilio.

— Andiamo; — disse Numeriano tra sè. — L'occasione è propizia, e questa è forse una ispirazione di Venere. Tizio Caio, tu sarai la tavola di salvezza di quest'altro Simonide. —

Così pensando, uscì dal triclinio, per accostarsi al suo protettore. Ma, giunto appena sul limitare, vide ciò che il lembo della cortina non gli aveva consentito a tutta prima di scorgere. Tizio Caio Sempronio dava udienza a Postumio Floro, e il colloquio, proseguito sotto voce, appariva molto confidenziale.

Numeriano, prudentissimo giovane, tornò frettolosamente indietro, per aspettare a muoversi da capo, quando vedesse rientrare Postumio.

[36]

— Sì, — diceva intanto quest'ultimo a Tizio Caio Sempronio, — mi trovo ad un brutto passo. L'usuraio Cepione non mi dà requie. Sono citato davanti al pretore per le none di questo mese e farò una trista figura. Tutto per quarantamila sesterzi... una miseria; non pare anche a te?

— Sicuro, — rispose Caio Sempronio; — una vera miseria! —

Lettori, date anche voi ragione a Postumio. Infatti, che cos'era il sesterzio? Potreste insegnarlo a me; una moneta del valore di due assi e mezzo, la quarta parte d'un denaro d'argento, e corrispondeva a ventiquattro centesimi e dieci millesimi della moneta odierna. Nei primi secoli di Roma il sesterzio era coniato in argento, ma più tardi lo si era fatto d'oricalco, che è come a dire una bellissima qualità di ottone. Diciamo dunque che Postumio aveva bisogno di quarantamila sesterzi, poco meno di diecimila lire. Che cosa sono diecimila lire? Una miseria per Tizio Caio Sempronio, che era ricco, e per Postumio Floro, che non le aveva lui, ma che contava di trovarle nei forzieri dell'amico.

Caio Sempronio stette a pensare un pochino. Diecimila lire sono una miseria, certamente, ma una miseria che non si porta in tasca, neanche ai dì nostri, che si ha il vantaggio inestimabile del portafogli e della carta monetata. Bisognava dunque parlare all'arcario, servo o liberto, che teneva i conti e soprintendeva alle entrate e alle spese della famiglia. Ora il dover parlare di queste cose all'arcario, è sempre stata una noia non lieve, anche [37] ai tempi e con la beata tranquillità di Tizio Caio Sempronio.

Ma l'amicizia non ha forse i suoi dritti? Che cosa vale il danaro a paragone dell'amico? Non è l'amico una continuazione di noi medesimi, un compartecipe di tutti i nostri diritti, quantunque non lo sia, e non lo voglia essere, di tutte le nostre servitù? L'uomo non vive dell'uomo, come il lupo del lupo? almeno, quando non ci ha di meglio per servire al suo pasto?

Queste ed altre considerazioni di tal fatta si succedettero nella mente del cavaliere, e la sua risoluzione fu pronta.

— Quando ti occorrono? — chiese egli a Postumio.

— Te l'ho detto, in questi giorni. Alle none di aprile dovrei essere chiamato in giudizio e correre per le bocche di tutta Roma. Vedi che guaio! —

Le none cadevano al cinque d'aprile; c'erano dunque appena quattro giorni di tempo.

— Orbene, disse Caio Sempronio, — passa domani da me.

— A che ora?

— Sul meriggio; vedrò di servirti. —

Postumio Floro fece l'atto di gettargli le braccia al collo.

— Oh Caio! oh amico impareggiabile!

— Chetati, via! — disse l'altro, schermendosi dalla stretta di Postumio. — Debbo ringraziarti io stesso di aver pensato a me in questa occasione.

— Ma se lo dicevo io! Tu sei la fenice dei cavalieri di Roma. Te lo dirò col verso di Catullo; [38] nessuno osi paragonarsi a te. Jam tibi nullus se conferet heros.

— Veramente, non dice così, il verso di Catullo; ed io, poi, non sono un eroe.

— Lo sei per me. Che cosa facevano gli eroi? Compievano imprese maravigliose; purgavano le terre dai mostri, campavano gli amici dall'Erebo. E tu non mi salvi da Cepione, mostro assai più feroce di Cerbero? La mia gratitudine, o Caio! Abbimi tuo debitore per la vita, e chiedimi a tua volta ogni cosa.

— Grazie, farò di non averne mestieri. Per un servizio da nulla, non bisogna far troppo a fidanza cogli amici.

— No, te ne prego, conta su me in ogni occasione. Se tu non mi promettessi di farlo; non accetterei oggi questo... piccolo servizio, per quanto mi sia necessario.

— Bene, poichè tu lo vuoi, ci conterò; — disse Caio Sempronio, per farla finita. — A domani, dunque; il mio arcario ti preparerà il danaro numerato. —

Postumio Floro gli strinse la mano e non volle spiccarsi da lui senza averlo abbracciato e baciato. Già, lo sapete, l'amicizia ha i suoi dritti.

Nel triclinio, frattanto, si continuava a bere e a chiacchierare allegramente. Non vi giurerei per altro che i discorsi fossero molto ordinati.

Cinzio Numeriano stava persuadendo Delia dell'amor suo e delle sue buone intenzioni, quando rientrò Postumio, con quell'aria di trionfo che potete immaginare, e andò diritto a ripigliare il suo colloquio con Lalage.

[39]

— Ecco il buon punto; — disse Numeriano tra sè. — Vado, e gli espongo il caso mio. Il Massico mi ha infuso un po' di coraggio; approfittiamone. —

Ma egli non potè mandar subito il suo disegno ad effetto. Bisognava finire il discorso incominciato con Delia, trovare un pretesto per allontanarsi da lei; e quando finalmente lo ebbe trovato ed uscì, vide Caio Sempronio che passeggiava nel peristilio, ma in compagnia di Giunio Ventidio.

— Eccone un altro! — borbottò Numeriano. — Non ci ho proprio fortuna. —

I due peripatetici erano in assai stretto colloquio. Giunio Ventidio doveva essere entrato in argomento ex abrupto. E Numeriano tornò un'altra volta nel triclinio.

— Buon per me che Vibenna dorme; — pensò egli, guardando quell'altro, che russava disteso sul letto; — se no, dovrei rassegnarmi ad essere il quarto. —

Lasciamo il poeta Numeriano, che avrà qualche altra cosa da bisbigliare all'orecchio di Delia, e teniamo dietro a Giunio Ventidio. È tanto riscaldato nel suo colloquio col padrone di casa, che non si accorgerà punto della nostra presenza; la quale ha, dopo tutto, il vantaggio di essere tutta spirituale.

— Tu solo puoi liberarmi da una grave molestia; — diceva Ventidio a Caio Sempronio. Figurati che cosa mi accade. Ho da tre mesi alle costole quella birba matricolata di Furio Spongia, l'argentario [40] che sta nel Foro, alle Botteghe Vecchie. Egli mi ha imprestato in tre volte cinquantamila danari.

— Ahi! — disse Caio Sempronio tra sè. — Ne va via uno e ne capita un altro.

— Cioè, dico male; — proseguiva intanto Giunio Ventidio; — non mi ha imprestato che la metà della somma. Il resto lo hanno portato gl'interessi. Ma torna lo stesso, poichè sono cinquantamila danari che devo, e quel furfante li vuole ad ogni costo.

— E tu non puoi restituirglieli.

— Come lo sai? — chiese Ventidio, cercando di affogare in una risata la vergogna di quel brutto momento.

— Si capisce, per Diana! E ti si legge anche negli occhi.

— Così è, mio ottimo Caio; non posso restituire i cinquantamila danari, se non vendo i miei orti sull'Esquilino. A te, ecco appunto un affar d'oro.

— A me? In che modo?

— Ti cedo i miei orti; tu me li paghi quel che valgono, ed io mi libero da quel ladro di Furio. Che te ne pare? Si combina?

— Eh, non è mica una grama pensata; — disse Caio Sempronio, respirando un tratto, poichè vedeva allontanarsi il pericolo di una stoccata come quella ricevuta testè da Postumio Floro; — quando si ha della terra al sole e dei debiti alle spalle, il meglio è sempre di vender la terra e di levarsi i debiti. Ma io, dolcissimo Ventidio, di terra ne [41] ho già fin troppa. Non potresti cercare un altro compratore?

— Ah, se tu mi manchi, sono un uomo spacciato.

— Come? Stiamo a vedere che ci sono io solo in tutta Roma per comperare i tuoi orti!

— Sicuro, non ci sei che tu: o, per dire più veramente, io non vedo che te. —

Caio Sempronio stentava a capire.

— Ragioniamo un pochino; — diss'egli.

— Ragioniamo quanto vuoi.

— Se tu non paghi i cinquantamila danari, che cosa ne avviene?

— Che Furio Spongia mi cita davanti al pretore urbano, che il pretore mi condanna, e che i miei beni sono messi all'asta, trenta giorni dopo la sentenza.

— I tuoi beni! Saranno gli orti alle Esquilie, non è vero? Perchè non hai più altro al sole.

— Tu l'hai detto; non ho più altro.

— Orbene, — prosegui Caio Sempronio, cui pareva di aver trovato il segreto dell'argomentazione socratica, — vendere domani, lasciar vendere trenta giorni dopo la sentenza, non è forse tutt'uno? E poichè certamente i tuoi orti varranno quella somma...

— Valgono anzi di più; — interruppe Ventidio.

— Meglio ancora, e tu puoi mettere la mano su quel che ne avanza.

— Sì, ma il disonore dell'asta pubblica, non lo conti per nulla? Se vendo a te domani, o doman l'altro, posso dir sempre e far dire: a Tizio Caio [42] Sempronio questi orti piacevano; Ventidio non ha saputo negarli all'amico. L'amicizia è una gran cosa; come far contro all'amicizia?

— Capisco; — rispose Caio Sempronio, mettendosi sullo stesso tono di Ventidio; — ma la taccia di cattivo gusto che ne verrebbe a me, non la conti un pugno di ceci? Comperare i tuoi orti sull'Esquilino? presso il tempio di Mefite? accanto al carnaio di tutta la poveraglia? —

Caio Sempronio non aveva tutti i torti. Sull'Esquilino, alle radici del Fagutale, o bosco di faggi a Giunone Lucina, erano i puticoli, sepolcri della plebe, così detti a putrescendo. E là per l'appunto aveva il suo sacello Mefite, la dea del mal odore.

— Hai ragione; — rispose quell'altro; — ma gli orti Ventidiani non sono mica da quella parte. Del resto; hai lassù i ricordi più gloriosi di Roma; il Tigillo sororio, che rammenta la pugna degli Orazii e dei Curiazii; il Vico Ciprio, che piacque tanto ai Sabini...

— Sì, — interruppe Caio Sempronio, — e il Vico Scellerato, con Tullia che passa in cocchio sul cadavere insanguinato del padre.

— Vedo che hai intenzione di comperare i miei orti; — disse Ventidio. — Li disprezzi troppo.

— No, ti ripeto, non mi vanno.

— E sia; imprestami allora il danaro.

— Peggio ancora! Cinquantamila danari? Ma sai che sono..... cinquantamila danari? La metà della mia rendita..... d'una volta! Amico mio, soggiunse il povero cavaliere, messo alle strette da quell'importuno [43] di Ventidio, — tu non crederai mica che io tenga così egregie somme a dormire nell'arca. Le terre non danno sempre quel che dovrebbero; i soprastanti sono la gente più ladra del mondo; le spese crescono tutti i giorni; anche oggi ho promesso di far servizio a qualcheduno..... Quarantamila sesterzi, mio caro!

— Ah si?... — gridò Giunio Ventidio. — Quel furfante di Cepione è nato vestito.

— Come sai?... — chiese Tizio Caio, turbato.

— Oh bella! Lo so, perchè ieri quei quarantamila sesterzi sono stati chiesti in imprestito a me. A me, figùrati, a me, che ne ho appena duecentomila... da chiedere!

— Poichè dunque tu sai, — riprese Caio Sempronio, — ti sarà facile intendere che non posso servirti, dopo aver già promesso un imprestito ad altri.

— E tu compra i miei orti. Questo non è un imprestito, è un collocamento di moneta. Con sessantamila danari fai una compra eccellente.

— Sessantamila! — esclamò il cavaliere. — Crescit eundo! Quando ti fermerai?

— Mi fermo qui, perchè è il loro prezzo. Vorresti tu pagarli meno di quello che valgono? — domandò Giunio Ventidio, con quel suo fare tra le scherzoso e l'impudente, che doveva vincere la riluttanza di Caio Sempronio. — Forse ti turbano i sonni gli allori di Cepione, di Furio Spongia ex di tutti i loro degni colleghi delle Botteghe Vecchie? —

Le botteghe Vecchie, che ricorrono per la seconda [44] volta nel dialogo, erano uno dei punti più noti di Roma. Sentite a questo proposito come quella lingua tabana di Plauto fa parlare l'attrezzista (Choragus) nella sua commedia Il Punteruolo: «V'indicherò io in qual luogo possiate trovare, senza cercar molto, se avete bisogno di parlargli, un birbante o un fior di virtù, un galantuomo o un farabutto. Chi cerca adunque d'uno spergiuro, vada al Comizio; chi d'un bugiardo o d'uno spaccone, al tempio di Cloacina; chi un marito ricco e pelato, faccia capo alla Basilica; lì pure saranno le femmine andate a male e i cavalocchi. Giù in fondo del Foro passeggiano i galantuomini e i signori; nel mezzo, lungo il canale, gli arcifanfani; sopra il Lago gli arroganti, i pettegoli e i maligni, che per nulla ti si scagliano contro co' vituperi, senza pensare a tutto quel che di vero si potrebbe dire di loro. Presso alle Botteghe Vecchie ci stanno gli strozzini e gli strozzati; accanto al tempio di Castore i musi da fidarsene poco; nel borgo de' Toscani i bellimbusti; nel Velabro, chiedi e domanda, fornai, beccai, aruspici, trecconi; altri mariti ricchi e pelati presso la casa di Leucadia Oppia. Ma è stato bussato all'uscio; fo punto.»

— No, certamente; — rispose Caio Sempronio; — ma qual prova del valore che tu assegni a questi orti... Ventidiani?

— La prova è nel mio tabulario. Vieni e vedrai, o manda e saprai, quanto li ha pagati mio padre; dugento quarantamila sesterzi; poco più di quello che tu dài ogni anno al tuo cuoco, perchè ti faccia onore davanti agli amici, con queste cene luculliane. [45] Suvvia, Tizio Caio; — soggiunse Ventidio, con accento carezzevole, scendendo alla perorazione, — fammi questo favore, che è nell'indole tua, poichè tu sei il principe dei cavalieri. Me lo diceva anche Clodia, la bellissima vedova di Metello Celere. «Quel Caio Sempronio non ha chi lo agguagli in tutte le tre centurie, e voi altri dovreste baciar dove passa.» —

Tizio Caio Sempronio non era indifferente alla lode di una bella donna, e non lo poteva essere a quella di Clodia, che era bellissima tra le belle. Già tutti gli uomini son fatti così, e il sorriso di una bocca leggiadra li fa andare in solluchero. Figuratevi poi il sorriso di Clodia! Il nostro eroe avrebbe fatto più sciocchezze per lei, che non ne avesse fatte qualche anno addietro il povero Valerio Catullo.

— Ah sì? — diss'egli, accostandosi a Giunio Ventidio. — E in quale occasione ha ella parlato così benignamente dei fatti miei?

— Ma..... non rammento bene. Mi pare che si parlasse dell'invito che avevi fatto agli amici pel tuo giorno natalizio. Sai pure, gli amici tuoi ragionano spesso e volentieri di te; e in casa di Clodia le occasioni di farlo sono più frequenti che altrove. Ah, se invece di queste Greche (bellissime, non lo nego) tu avessi invitato qualche Romana.....

— Clodia è unica; — interruppe Caio Sempronio; — dove è lei, non c'è più luogo per altre. Ma chi sa? un giorno forse darò una gran cena, in onore.... dei Mani di suo marito.

[46]

— Bravo, così va fatto. Intanto, se non ti dispiace, gliene darò un cenno, ed ella ti sarà grata di questa attenzione.

— Grazie; — disse Caio Sempronio. — Domani intanto passa da me; parleremo de' tuoi orti.

— Ah, tu mi rendi la vita. E conta sulla mia gratitudine.

— Ci conto, non dubitare; — rispose il cavaliere, che vedeva finire il suo colloquio con Giunio Ventidio come l'altro con Postumio Floro.

Il padrone degli orti Ventidiani strinse la mano del suo futuro salvatore e si allontanò canticchiando, come un uomo che non ha più sopraccapi.

— Veramente le calende d'aprile sono un giorno nefasto; — pensò Caio Sempronio. — E se non fosse che ho udita una buona parola di Clodia..... Ma l'avrà poi detto davvero? È così bugiardo, questo Ventidio! Basta, sarà quel che sarà, ritorniamo al triclinio e beviamo il vino del commiato. —

In quel mentre, gli si parò davanti Cinzio Numeriano.

— Ah, eccoti qua, mio bel poeta! — gridò il cavaliere, mettendogli amorevolmente le mani sugli òmeri. — Dimmi tu, domandami tu qualche cosa, che mi torni di buon augurio, dopo tante.... —

Voleva aggiungere: seccature; ma si tenne la parola tra i denti.

— Lasciamola lì; disse invece, mutando discorso. — Tu hai fatta quest'oggi per me un'ode meravigliosa.

[47]

— Bontà tua; — rispose umilmente Numeriano.

— Bontà della tua Musa, non mia; tu sei nato poeta e le api del Parnaso ti hanno stillato il miele sulle labbra. Non è egli così che si dice?

— Tu sei cortese; — disse Numeriano. — Ma credilo, se c'è nella mia ode alcun che di buono, è tutto opera tua, perchè me l'ha inspirata l'amicizia.

— Te lo credo, Numeriano, te lo credo. Tu sei un vero amico, non uno dei soliti piaggiatori della fortuna. Tu, per esempio, non mi hai chiesto mai nulla.

— Ahi, ahi! — pensò il poeta. — Come faccio ora a dirgli?... Se parlo, guasto la buona opinione che egli s'è fatto di me. —

[48]

CAPITOLO V. Amore è cieco.

Tizio Caio Sempronio levò di pena egli stesso il suo giovane amico.

— Ma io, — proseguì, — a te solo ho detto: abbi da me tutto quello che ti piacerà domandarmi. Chiedi adunque, o Cinzio Numeriano. Vuoi la mia casa? No; questa non hai mestieri di domandarmela, perchè essa è già tua.

— Grazie! — rispose Numeriano, stringendo e baciando la destra che Caio Sempronio gli aveva sporta in quel punto. — Del resto, tu mi conosci, o Caio; i miei gusti sono assai più temperati. Io ho sempre sognato una modesta casetta, con una fontana lì presso, e un po' di bosco all'intorno, per ascoltare ciò che bisbigliano i Fauni all'orecchio delle Ninfe.

— Poeta! Tu credi ai Fauni e alle Ninfe?

— Certamente. Muta i nomi quanto vorrai, le [49] cose e le idee rimangono, belle di giovinezza immortale. E quelle che io ti ho detto, non sono elleno forse le voci della natura, che parlano dai sassi, dall'aria, dai tronchi d'alberi e dalle acque scorrenti, in cui le ha chiuse il Dio ignoto, e indovinate il mortale? Per me, vedi, quelle ombre romite, quei silenzi profondi, hanno splendori e favella; splendori che io non saprei dipingerti, favella che io non sarei capace di esprimere; ma che importa ciò? M'invadono l'anima, mi riscaldano il cuore, e mi si tramutano in alate canzoni. La mia vita è là; in quelle ombre, in quei silenzi, amare, cantare, e il tuo Cinzio sarebbe intieramente felice.

— Sì, per Giove, lo meriti; — gridò Caio Sempronio. — Ma io mi penso che la modesta casetta, la fontana e il bosco all'intorno, dovrebbero essere abbastanza vicini alla città. Perchè, infine, io non sono poeta, ma certe cose le intendo e le sento alla maniera dei poeti. Quella che tu chiedi non è la vita campagnuola del vecchio Catone, che attendeva alla coltivazione per venderne i frutti; è la quiete operosa dello spirito, lontana da tutte le brighe e da tutte le vanità, ma vicina a tutte le eleganze, a tutte le consolazioni dell'amicizia e dell'arte. Non è così? Ti ho capito, o Numeriano; e tu non potresti vedere diversamente la cosa. Orbene, io ci ho il fatto tuo; una villa sull'Esquilino, il vero monte della guardia, donde l'occhio spazia pel lontano orizzonte, senza perder di vista i tetti della Roma quadrata; donde si scorge il Soratte, [50] il Lucretile, i colli Albani e il tempio di Castore; donde, in un volger di ciglia, si possono vedere le aquile che volano sul monte Sacro, e gli sciocchi che misurano a lenti passi il selciato del Foro. E con tutto questo, una villa non così grande, da recarti le cure e le molestie della padronanza, ma nemmeno così piccola, che non ci abbia a campar su un poeta tuo pari.

— Ah, smetti, te ne prego; — esclamò Numerano; — o consentimi di chiuder gli occhi e di vedere col desiderio quest'orto delle Esperidi.

— No, non occorre di chiuder gli occhi; ti bisogna anzi di tenerli aperti. Ho io le chiavi dell'orto, e son tue.

— Dici da senno?

— Del migliore ch'io m'abbia. Ah, per gli Dei immortali! — gridò Caio Sempronio, dimenticando un tratto di parlare con Numeriano e di farsi intendere da lui. — Non compro per rivendere, io; non fo il mercante, nè l'usuraio. Vogliono tutti il mio danaro, ci calano sopra, come le arpìe sulla mensa dei compagni d'Ulisse. E facciano a lor posta, finchè la dura; ma io darò pure un esempio; lo darò, prima che le forze mi manchino. Amico, — e, così dicendo, Caio Sempronio tornava in carreggiata, — io ho fatto in vita mia tante sciocchezze, che vorrei, per una volta tanto, imberciarne una, esser utile a chi lo merita, passare alla posterità con un atto che facesse dire di me: quello sconclusionato di Tizio Caio Sempronio non era poi un capo della mandra d'Epicuro, come il complesso della sua vita potrebbe far credere. Cinzio Numeriano, [51] promettimi almeno che mi ricorderai nei tuoi versi. Non ho vinto barbari re; non ho assoggettato provincie. Anch'io potevo fare qualche cosa, e me ne sono rimasto con le mani in mano. Ma infine, ho amato qualcheduno ed ho saputo discernere il bene dal male, i cuori gentili dalle anime nere, gli amici dai parassiti. Era destino che prendessi questa via, anzichè un'altra; ma se ho seguita la peggiore, ho vista almeno e riconosciuto la buona. Rendimi giustizia, o poeta. Non siete voi, discepoli di Febo Apollo, i vindici della storia? Io frattanto ho reso giustizia a te, sceverandoti dal numero degli importuni, dei supplicanti, degli insaziabili, e via discorrendo.

— Che dici tu? — mormorò Numeriano. — E non ero venuto appunto per chiederti anch'io qualche cosa?

— No, non lo fare; lascia a me la cura e la consolazione di concedere a te quello che non mi avrai domandato; — interruppe Caio Sempronio. — Del resto, che cosa avevi tu a chiedere, dove io ti avevo precorso con l'offerta? Non ti confondere con gli altri; se io non ti avessi confortato a parlare, saresti ancora fuori di strada, e la modesta casetta la chiederesti alle Muse, sulle falde del Parnaso, accanto alla fontana Castalia. Dunque, veniamo a noi. Compro domani gli orti di Ventidio, sull'Esquilino. Saranno tuoi da quell'ora, e al solo patto che tu m'inviti qualche volta ad una pitagorica cena, e mi legga i tuoi versi. —

Il poeta non si rinveniva dallo stupore ond'era tutto compreso.

[52]

— Ah Caio Sempronio, amico, patrono mio! — gridò egli, alzando gli occhi al cielo. — Gli Dei prosperino te e la tua casa, perchè tu salvi un povero poeta dalla disperazione.

— Per Giove! Eri già a questo punto? Buon per me, che sono giunto in tempo. Ma dimmi; in che modo quello che poc'anzi era un bel sogno per te, diventa ora una necessità?

— Ah, è vero; — rispose Numeriano, impacciato; — non ti avevo detto ogni cosa. Sono... Ma già, potrai immaginartelo.

— Innamorato, forse?

— Per l'appunto, sebbene la parola non esprima a gran pezza tutto quello che sento.

— Venere ti salvi, o Numeriano! Amar troppo e ber troppo, sono due cose da evitarsi del pari.

— Hai ragione, ma come fare? Si vorrebbe andar misurati e non ci si riesce. Perciò avviene che Elio Vibenna sia così concio dal vino, da non potersi più alzare dal suo lettuccio, e che io sia così concio dall'amore, da averne perduto il sonno.

— Di bene in meglio! Ma che cosa ha da vedere cotesto con la ricchezza? Un poeta è già ricco abbastanza per l'arte divina dei carmi, e ad una donna romana piace assai più di vedere il suo nome sulle tavolette di cera d'un alunno delle Muse, che non di aver cinto il collo d'un vezzo di perle orientali.

Numeriano rispose con un sospiro:

— Come? Non è forse vero? Ti saresti imbattuto per avventura in una donna senza cuore?

[53]

— Oh, non giudicarla da questo, te ne prego; — rispose Numeriano. — Il suo cuore è aperto a tutti gli affetti gentili. Essa è una creatura celeste, e quantunque per la sua bellezza insigne e per le grazie elette dell'animo sarebbe degna di sedere al convito dei Numi, i suoi gusti son semplici e schietti come quelli della figlia d'Alcinoo.

— Già, tutte così, le donne, agli occhi d'un poeta innamorato! — disse Caio Sempronio, ridendo. — E ti ama, si capisce?

— Credo di sì; — soggiunse modestamente Numeriano.

— Io temo di no; — riprese Caio Sempronio. — Se ti amasse, non domanderebbe a te altra cosa che la tua gioventù, la tua bellezza e i tuoi versi.

— Sì, — replicò Numeriano, — se ella fosse in tal condizione da poter vivere a modo suo e mio. Ti ho detto che i suoi gusti son semplici. Figurati, amico, che la vita di Roma, con le sue feste, i suoi giuochi, i suoi mille rumorosi sollazzi, le torna molesta. Già, non è romana, lei; è una figlia della Grecia, una di quelle vezzose creature dai flessuosi contorni, dorate la fronte purissima dai raggi del sole dell'Attica, che noi amiamo raffigurarci coi loro pepli ricadenti in molli pieghe sui fianchi, e con ramoscelli di pallida oliva tra mani, per intesser corone ai vincitori dei giuochi di Corinto, o d'Elèa.

— Mi par di vederla!

— Tu la conosci, infatti; essa non è lontana di qui.

[54]

— Davvero? E il suo nome?

— Delia; non l'avevi tu indovinato? —

Caio Sempronio inarcò le ciglia e guardò fisso il suo giovane amico, in atto di profondo stupore.

— Dovevo immaginarmelo; — diss'egli, dopo un istante di pausa. — Dopo quell'ode.... dopo quell'inno pindarico! Ma di grazia, Numeriano, che necessità di esser ricco? Se io fossi, non dirò la tua Delia, ma la più superba patrizia di Roma, e tu avessi fatti per me i versi che hai fatti poc'anzi per lei, ti giuro per Febo Apolline che ti avrei qui nel mio cuore, ancorchè tu fossi il più povero dei Quiriti. Ma basti di ciò, poichè i Numi non hanno pensato a questa metamorfosi, e sii felice con Delia. E quante lune ti concederà ella, a consolare la tua solitudine?

— Tutta la vita.

— Bada, Numeriano; è un termine troppo lungo, e per lei... e per te.

— L'amo; — rispose il poeta.

— Amare non è ancora sinonimo di ammogliarsi; — notò Caio Sempronio. — Per tuo bene e suo, puoi vivere con Delia, senza la cerimonia della confarreazione, o della coenzione.

— Con la più solenne maniera di nozze, io condurrò Delia in mia casa; — gridò Numeriano, infiammato.

— Col farro, adunque; di bene in meglio! —

Per intendere l'osservazione di Caio Sempronio e la risposta di Numeriano, bisognerà ricordare le tre forme di matrimonio degli antichi Romani, l'uso, la compera e il farro. La prima era senza [55] fallo più spicciativa. La donna andava a casa dell'uomo ed era riconosciuta per legittima moglie dopo un anno di convivenza, purchè il furbo consorte non avesse fatto in quello spazio di tempo un alibi di tre notti.

La compera (coemptio) si faceva con alcune solennità, quasi comperandosi i due sposi a vicenda. La donna portava tre monete; una in mano, e la dava al marito; una nella calzatura, e la riponeva nel sacrario dei Lari domestici; una nel borsello, e la offriva ai Lari Compitali del crocicchio più vicino alla casa. Ne seguiva che la donna andava in mano e sotto il dominio del marito, diventando compagna, partecipe de' suoi beni ed erede. L'uomo, dal canto suo, non era sotto la potestà della donna; ma, come comperato da lei, le dava la porzione conveniente della sua eredità.

La confarreazione si faceva alla presenza di dieci testimoni, con alcune formole particolari e con un sacrificio solenne, in cui si adoperava il pane di farro; e per tal guisa veniva la donna in potere dell'uomo. Le nozze si contraevano alla presenza del pontefice massimo e del flamine Diale, per mezzo del farro e del sale, donde ebbero il nome di confarreazione. Questo modo di celebrare gli sponsali era ritenuto religiosissimo, e vi si adoperava il farro arrostito, che spesso serviva ne' sacrifizi agli Dei.

— Numeriano, — prosegui Caio Sempronio, dopo aver pensato a tutte le cose che siamo venuti discorrendo brevemente, — vuoi un consiglio da amico? Non fare questa corbelleria. Ottima come [56] amante, ti farà buona riuscita come moglie? Credi a me; non abusare del farro.

— L'amo; — rispose il poeta.

— E che dirà la Musa? Anche questa è una specie di moglie; anzi, è la moglie legittima tra tutte. Ammetto che ella possa chiudere un occhio su certe scappate; ma se tu le condurrai un'altra donna sotto il tetto maritale, povero a te, non farai più nulla di buono.

— L'amo; — tornò a dire quell'ostinato di Numeriano.

— E sia; non intendo già di negare il fatto. Sono invece pentito di averti fornite le armi per mandare ad effetto il tuo truce proposito. Tu uccidi il tuo ingegno, mio povero amico! E per chi, poi? Per un Etèra di Corinto; giovane, bella e colta quanto vorrai, ma infine è sempre una Etèra. Non la cogli mica dal tralcio, quest'uva di Corinto, e ancora aspersa del suo polviscolo resinoso. È venuta a Roma come tante altre sue sorelle, di marmo pario o di carne, portate da un fiero console, a trofeo di vittoria, o da un furbo mercante, ad argomento di ricchezza. È una delle migliori, per bellezza e per senno, chi te lo nega? Se fossi per dare un tuffo nello scimunito, ti giuro, amico Numeriano, che non mi parrebbe di fare naufragio intiero, imitandoti. Quantunque, — soggiunse Caio Sempronio, correggendosi prontamente, — se avessi a fare un capitombolo della tua sorte, vorrei Afrodite in persona, anche con tutti i suoi anni di milizia, e i ricordi, poco piacevoli, di Vulcano, di Marte e di Anchise. —

[57]

Condannate il mio cavaliere, se vi dà l'animo, voi che avete in pregio le frutte spiccate appena dall'albero e la bellezza accompagnata dall'onesto riserbo.

Per altro, io non vorrei condannato neanche il povero Numeriano. Pensate che amore non ragiona, e che, dopo tutto, in Roma non si usava di guardar troppo nel sottile in certe faccende. Anche in materia di ritegno femminile, si era già, sotto il consolato di Sulpicio Rufo e di Claudio Marcello, molto lontani dalla moglie di Collatino e dalla madre dei Gracchi, e le stesse matrone non potevano sperar di piacere ai mutati Quiriti, se non collo smettere un pochino, e magari anche molto, dell'antica austerità e della ruvidezza delle donne sabine. Roma aveva conquistato la Grecia, e la Grecia aveva conquistato Roma; l'una si era servita delle sue armi invincibili, l'altra de' suoi costumi irresistibili. La fiera e forte repubblica s'ingentiliva, non c'è che dire, e si corrompeva anche un tantino; essendo già fin d'allora un caro difetto degli uomini di non far nulla a mezzo e di non voler trovare un giusto equilibrio tra la virtù e la grazia, la sostanza e la forma.

Che farci, se le statue di Fidia e di Prassitele e i quadri di Apollo e di Zeusi, varcando l'Egeo e lo Jonio, traevano dietro a sè anche i loro insuperabili esemplari, e se i discendenti di Fabrizio e di Cincinnato rendevano giustizia alla bellezza, all'ingegno pronto e vivace, di quelle vezzose Ateniesi e Tebane, Corinzie ed Efesie, che avevano guidati gli scalpelli e i pennelli dei primi artisti [58] del mondo? I rètori e i filosofi greci, che erano sembrati così pericolosi a Catone il censore, potevano andarsi a riporre. Ben altri maestri di eleganza riuscivano per Roma le figlie di Grecia, che calavano a stormi sul Lazio, più numerose, giusta l'energica espressione di Plauto, che non siano le mosche in estate, cum caletur maxume. Venivano dall'Attica, dal Peloponneso, dalla Sicilia, le graziose divoratrici di patrimonii; seducevano con la rara bellezza delle forme, con le studiate grazie dello spirito, con gli ornamenti delle lettere greche e latine, e con tutta la lieta compagnia de' vizi eleganti. Già parecchie di loro s'intromettevano audacemente nelle faccende politiche, come Precia, la bella amica di Cetego, o come Chelidone, presso cui Verre, a cansare una perdita troppo grave di tempo, aveva trasportati senz'altro gli uffizi della pretura. Leggete in Plutarco le vite di Lucullo e di Pompeo; date una scorsa ai comici e ai lirici latini, e ne vedrete d'ogni forma e colore.

Giuochi e danze, corone, unguenti, conviti, manti di bisso e di seta (che era la gran novità di quel tempo), smeraldi, ametiste, vasi murrini e simili altre delicatezze, erano gli strumenti di uno incivilimento frettoloso, che dilapidava le sostanze delle grandi famiglie, il frutto sudato di quelle rigide istituzioni che avevano chiusa la ricchezza in pugno al patriziato, resistendo con tanta fortuna alle sedizioni della plebe e ai ripetuti tentativi di generosi novatori, o d'insigni scellerati. Inconscie distruggitrici della fortezza romana, come le locuste lo sono dei campi su cui raccolgono il volo, le poetiche [59] figliuole di Grecia erano esse medesime le vittime della possanza d'un popolo, che trascorre a tutti gli eccessi della vittoria. E il più delle volte erano fanciulle inesperte, rapite ai quieti ginecei e travolte in una corruzione a cui non partecipavano punto le loro anime gentili, avide di sapere, di godere la vita, non già di affogar sè e gli altri nei pantani del vizio. È mestieri di conoscere la vita greca, per intendere che le Etère non possono trovar riscontro nella vita odierna, nè essere involte in una stessa condanna con certe disgraziate creature dei tempi nostri. Se non temessi di farmi gridare la croce addosso dai moralisti, direi anzi che l'Etèra antica non può essere paragonata, con una certa apparenza di giustizia, che alla dama moderna. Infatti, oggi la dama è colta, come allora lo erano soltanto quelle povere Etère, mentre avevano biasimo le dame che mostravano di sapere qualche cosa, oltre il filare la classica lana e il soprantendere al bucato domestico. Rammentate di che critiche fosse oggetto Sempronia, la moglie del console Giunio Bruto, perchè era ornata di lettere greche e latine, e suonava e ballava più elegantemente che non si convenga ad onesta matrona. La frase è di quel fior d'onest'uomo che fu pei tempi suoi Crispo Sallustio; il quale aggiunge aver essa avuto tante altre qualità simiglianti, che erano veri stromenti di lascivia. E scusate se è poco.

Io non intendo di assumere le difese di madonna Sempronia, che aveva, secondo me, un altro torto gravissimo, quello di amare un Sergio Catilina. [60] Dico e sostengo che gli antichi non erano da meno del moderno padre Zappata; predicavano bene e razzolavano male. Se amavano tanto le oche in casa loro, perchè andavano fuori di casa a deliziarsi coi cigni? E se l'eleganza e la coltura erano anche per loro un necessario accompagnamento della bellezza, perchè ne osteggiavano l'ingresso nelle pareti domestiche?

Basta; poichè tanto e tanto non riusciremmo più a persuaderli, torniamo alle Etère. Ne abbiamo vedute quattro nel triclinio di Tizio Caio Sempronio. Una di esse, che vi consento di credere la migliore, aveva fatto perder la testa a Cinzio Numeriano, che voleva sposarla senz'altro.

Nè gli potevano far senso le argomentazioni di Tizio Caio Sempronio, o, al più, dovevano farglielo come una opinione personale, in cui è lecito di non consentire. Ricordate che in quel tempo tutto il riserbo, tutta la bellezza morale della donna, consistevano nello star molto in casa, a far la massaia, poi nell'andare ai giuochi dei gladiatori e condannare a morte questo e quello dei caduti, con una voltata di pollice, poi nel passare allegramente di mano in mano, divorziata da un marito che volesse compiacere ad un amico, e via di questo passo. Altro che il polviscolo resinoso del grappolo e la calugine delle pesche duracine! Quelle eran peggio delle frutte di mercato, brancicate da mezzo mondo; e una povera Greca non ci aveva mica da scapitare al confronto.

Lettori, io passeggio sulla brace. Incedo per ignes suppositos cineri doloso. Meglio sarà tornare al colloquio, [61] che per queste chiacchiere abbiamo lasciato in tronco.

— Orbene, che vuoi? — diceva il poeta. — Per me, Venere è discesa in terra. Ma che dico Venere? Tutte le dee della Grecia, che noi abbiamo trasformate coi nostri nomi italici, si sono confuse e ringiovanite in questa donna divina. Che importa, se il fiore non è stato colto da me? Posso io andare a ritroso del tempo e cozzare col fato? So che è maravigliosamente bella e che le arcane fragranze della sua gioventù mi hanno inebriato. A volte, pensando di lei, mi arde il sangue, e la vampa mi sale al cervello; a volte mi sento adagiato in una calma profonda. Hai tu provata mai la volontà ineffabile del non pensar a nulla, del lasciarti andare in balìa del caso, come la piuma in balìa della brezza meridiana? Io, dopo aver molto sospirato e sognato, mi abbandono a questi ondeggiamenti, a queste beatitudini eccelse. L'amo, l'amo, e non vedo, non sento più altro.

— Povero amore! — esclamò Tizio Caio Sempronio. — È un bel ragazzo, ma è cieco. Vedete qui Publio Cinzio Numeriano. È giovane, bello, ricco d'ingegno e caro alle Muse. Cento donne a gara gli farebbero dolce la vita, e senza rapirgli la sua libertà, questo primo dei beni. Ma no; egli non conosce la sua fortuna, o la disprezza, che è peggio, ed ha mestieri di una catena e d'un collare di ferro. Amore è cieco, ho detto; aggiungo ora che l'uomo è pazzo. —

Cinzio Numeriano era rimasto un po' sconcertato da quelle considerazioni del suo protettore.

[62]

— Ti duole di avermi promesso il tuo aiuto? — gli chiese. — Bada, amico e patrono mio; son cosa tua e tu puoi togliermi la dolce speranza de' tuoi benefizi.

— No, non temere; — rispose Caio Sempronio. — Certo mi duole di aver promesso, poichè so a qual fine ti servirà la fortuna. Ma anche Giove in cielo è vincolato da' suoi giuramenti, e, qualunque cosa avvenga, io non verrò meno alla data parola. Bùttati nella voragine, senza aver pure il conforto di tornar utile a Roma; io non ci ho che vedere. —

Numeriano spiccò un salto, per l'allegrezza, come avrebbe fatto un fanciullo, dopo avere ottenuto un giocattolo lungamente sospirato.

— Ah, grazie! — proruppe. — E tu assisterai alle mie nozze?

— Anche questa? Dovrò io comporre il rogo al mio povero poeta?

— Sì, te ne prego, te ne supplico.

— E sia; lo farò. Col farro, adunque?

— Col farro e col sale.

— Il sale poi è necessario nel caso tuo. Mostri di averne così poco in zucca, mio bel Numeriano! Ora veniamo a noi. Posdimani avrai gli orti di Ventidio. E proprio dopo il contratto di donazione, mi farò tuo prossenéta, ti condurrò dai parenti della donna..... cioè, no, dalla sua nutrice, che l'ha in custodia, e tu le chiederai Delia in isposa. Ti risponderanno di sì, quando io avrò mostrato il contratto, non è vero? Bene; tu le darai l'anello pronubo, che essa metterà nel quarto dito della [63] mano manca, dov'è la vena che corrisponde al cuore. Sarai da quel punto il suo sperato, com'essa la tua sperata.

— Per pochi giorni. — m'immagino; — disse Numeriano ridendo. — Tu non vorrai farmi sospirar troppo il gran giorno.

— No, per Giunone Cinzia. Non aspetteremo Maggio che è un mese così infelice pei matrimoni. Mense Maio nubunt malae, è proverbio volgare. Evita le Calende, le None e gli Idi, che sono tutti giorni nefasti, e potrai ammogliarti nelle condizioni più prospere che ti siano consentite, a meno che tu non ami aspettare dopo gli Idi di Giugno, che è l'ottimo dei tempi coniugali.

— Son contento di far le nozze verso gli Idi di Aprile; — disse l'impaziente Numeriano.

— Affrettiamoci, dunque. Vi vedo già tutt'e due, coronati di fiori e verbene; tu coi capelli recisi, lei col flammeo sulla fronte, a custodire il rossore; i fanciulli con le faci, una delle quali di bianco spino, che guidano la donna alla tua casa, ornata a festoni di rose, di mirti e di allori. Giunti alla porta, si fa entrare prima la conocchia, con la lana e col fuso, simbolo delle cure a cui la tua Delia non ha mai atteso fin qui. Ma non importa, ci attenderà poi; tutto sta ad avvezzarcisi. Ambedue toccate l'acqua e il fuoco, posti sul limitare. Poi gli amici solleveranno tra le braccia la sposa, e la faranno entrare, senza che tocchi la soglia col piede. Vesta l'avrebbe per un sacrilegio, e gli amici sarebbero troppo dolenti che quest'uso santissimo andasse negletto.

[64]

— Godo, di vedere che tu la prendi a giuoco, — notò Cinzio, che non sapeva se dovesse ridere, o adontarsi, di quella filatessa di gentili cerimonie e di beffardi commenti.

— Come fare altrimenti, amico Numeriano, come fare altrimenti? Tu lo vuoi; sia fatta la tua volontà. Ed entrato in casa a tua volta, le consegnerai il mazzo delle chiavi, per la custodia di tutte le cose domestiche. Un tempo non le si sarebbe consegnata la chiave della cantina, perchè alle donne era vietato ber vino, pena il ripudio. Rammenterai l'editto di Catone, che stabiliva l'obbligo del bacio dei congiunti alla donna; perchè questa, caso mai ne avesse bevuto, non potesse altrimenti nascondere l'infrazione della legge. Ma qui non è il caso, e tu farai molto volentieri queste indagini da te; non è egli vero?

— Puoi crederlo; — rispose Numeriano, che già assaporava la dolcezza di quelle indagini, con tutta la presaga virtù del desiderio.

— E adesso, andiamo; — soggiunse il cavaliere Caio Sempronio. — S'è chiacchierato abbastanza, e i nostri amici vorranno propinare ai Lari Compitali, che guidano i passi degli ubbriachi e fanno trovar l'uscio di casa. —

Numeriano respirò. Con tutto l'affetto e la gratitudine che sentiva pel suo amico e patrono, il nostro innamorato cominciava ad annoiarsi di quelle sue stiracchiature cerimoniali, che arieggiavano maledettamente la satira.

[65]

CAPITOLO VI. Rose e spine.

Il giorno dopo quella famosa cena (giorno che io vi permetterò di chiamare romanamente quarto Nonas Aprilis, poichè era il terzo sopra le None, che cadevano al quinto giorno del mese) il cavaliere Tizio Caio Sempronio si alzò mal volontieri dalle morbide piume.

Quasi non sarebbe mestieri di accennarlo, poichè già s'indovina, argomentando che l'ospite di tutti quei capi scarichi doveva essere andato anche tardi a dormire. Ma siccome tutto è relativo in questo mondo, va detta anche l'ora in cui il nostro cavaliere scese dall'alto giaciglio, non senza bisogno d'aiuto, per non cascar giù dalla scaletta, così assonnato com'era.

Non c'è che dire, i nostri antichi Romani amavano i loro comodi. Avete già veduto che pranzavano [66] sdraiati, appoggiando il torace sul gomito. Figuratevi ora che dormivano su certi letti così alti, da aver mestieri d'uno sgabello, o d'uno scalèo, per salirvi su. Que' letti erano fatti a guisa dei nostri sofà di maggiore grandezza, con una spalliera da capo, con un'alta fiancata dalla parte del muro, e interamente aperti dal lato per cui ci si entrava. L'intelaiatura era tesa con cinghie, che sostenevano un gran materasso, su cui erano collocati un capezzale e un guanciale. Ho veduto uno di questi letti, il letto di Didone, dipinto a suo luogo nel più antico codice dell'Eneide, che è il Virgilio Vaticano. Lo scalèo ha nove gradini; nientemeno! C'era la sua parte di risico, a voltarsi sul fianco.

Torniamo a Tizio Caio Sempronio. Il nostro cavaliere si alzava per solito verso il meriggio. Quel giorno, malgrado la veglia prolungata e i fumi del vino, si alzò alle nove, che era l'hora tertia, nella divisione del giorno presso gli antichi Romani.

Che cosa aveva da fare? La terza era l'ora dei negozi forensi. Exercet raucos tertia causidicos, mi pare che abbia detto Marziale. Ma anche senza essere un causidico, e senza l'obbligo di andare ai tribunali, Tizio Caio Sempronio ci aveva per quel giorno la sua parte di seccature; epperciò, prima di ascendere su quel suo Campidoglio notturno, aveva raccomandato al servo di svegliarlo ad ogni costo per quell'ora insolita. E scosso ripetutamente dal fidato cameriere, che fu mandato a quel paese una mezza dozzina di volte, il povero cavaliere si alzò, per andare a finire di svegliarsi in un bagno [67] d'acqua fresca: ottima cosa al mattino, segnatamente quando non si ha obbligo di berla.

— Andiamo, via! — aveva egli detto tra sè, per consolarsi di quella interruzione al più bel sogno d'oro che mandasse mai l'alba degl'infingardi al più divoto de' suoi cultori. — Bisognerà pensare a quei cari amici, che aspettano un servizio da noi. —

Mentre egli era al bagno, capitò l'ostiario.

— Che c'è? — domandò il cavaliere.

— Padrone, è venuta all'uscio di strada una vecchia....

— Vada a pettinar Proserpina! — gridò Caio stizzito. — Così male ha da cominciare la mia giornata? —

L'ostiario sorrise, e ripigliò:

— Se n'è andata, difatti, ed ha lasciato questo per te. —

Così dicendo porse una tavoletta pugillare al padrone.

Pugillare? Che diavol è? Sentite qua; si chiamavano pugillari certe piccole tavolette, rivestite di cera, per iscriverci su. Derivavano il nome dalle loro piccole proporzioni, perchè potevano essere comodamente tenute nel pugno; ed erano usate per quaderni di memorie, per notarvi i pensieri fuggitivi, e sopratutto per mandar lettere amorose.

Insomma, avete capito. Avrei potuto dirvi subito un viglietto, come quello di Rosina a Lindoro. Ma non siamo per niente sotto il consolato di Sulpicio Rufo e di Claudio Marcello, ed io ho sentito il bisogno di dirvi: una tavoletta pugillare. Abbiate [68] pazienza e seguitemi, mentre io guardo che senso ha fatto sull'animo del cavaliere il messaggio mattutino della vecchia Gabrina.

Tizio Caio Sempronio si era affrettato, come potete immaginarvi, a rompere il suggello e ad aprire le due facce del pugillare.

— Ah! — esclamò egli, dolcemente commosso, leggendo la prima parola.

Adesso bisognerebbe dir l'ultima, perchè il nome dello scrivente si mette in fondo; ma allora lo si scriveva sempre da principio. Cicero Terentiae suae salutem dicit.

La lettera non era di Cicerone, vi prego di crederlo. Del resto, sentite Caio Sempronio che vi chiarisce il negozio.

— Clodia! — mormorò egli, dopo la prima esclamazione che ho detto. — Come va che quella divina mi scrive? A me, Tizio Caio Sempronio, che le ho parlato a mala pena una volta? —

Mi direte che il miglior modo, anzi l'unico, di sapere che cosa voglia da noi una dama, quando ci fa l'onore di scriverci, è quello di legger subito ciò ch'ella si è degnata di mettere in carta. Ma questo, che è vero in tanti casi, non lo è poi in tanti altri. Non lo era, per esempio, nel caso di Sempronio e di Clodia.

Vedete, difatti; la bellissima patrizia scriveva così:

«Clodia, a Tizio Caio, salute.

«Ti parrò ardita; e forse è questa la fama che corre di me. Qualunque io ti sembri, non sarò mai paurosa, nè sciocca. Stimo te grandemente; [69] nè l'ho taciuto in alcuna occasione; fors'anco, sarà giunto alle tue orecchie. Alle mie è giunto un sogno, niente più d'un sogno; ma tu sai quanta fede debba prestarsi a questi avvertimenti del cielo. Una mia schiava prediletta ha sognato di te, che eri fatto in tre pezzi da uomini assetati del tuo sangue. Ho tremato in udire il racconto della sua visione, e non ho potuto resistere al desiderio, nè voluto sottrarmi all'obbligo di avvisarti. Chiedi ai matematici, e godi le prospere Megalesi; è il mio voto.»

Avete capito voi? No. E Tizio Caio nemmeno.

Non già perchè non intendesse le ultime parole, che forse allegheranno i denti a qualcuna delle mie lettrici, poco pratiche d'anticaglie. Le Megalesi erano feste solenni alla dea Cibele, onorata sotto il nome di gran madre degli Dei, epperciò chiamata in greco Megalisia. E perchè tutte le feste d'allora finivano in giuochi e spettacoli, come quelle del nostro popolo finiscono in corpacciate e combibbie, le Megalesi, che duravano otto o nove dì, cominciando nel quarto giorno di aprile (pridie Nonas Aprilis), erano più specialmente dedicate alle rappresentazioni sceniche. Pei Ludi Megalensi furono scritte quasi tutte le commedie di Terenzio.

Quanto ai matematici, era questo il nome degli astrologhi, degli indovini, che interpretavano i sogni della gente da bene. Orazio Flacco non voleva che si facesse capo a costoro, e raccomandava a Leuconoe di non chiedere il futuro ai calcoli babilonesi. E appunto da Babilonia, patria di astronomi [70] e di matematici, erano venuti a Roma gl'indovini; e l'astrologia e la matematica, scienze dei Magi, avevano dato il nome all'arte di quegli antenati di Cagliostro.

Nemmeno era dubbio per Tizio Caio Sempronio il senso della lettera. Niente di più naturale che il dar retta ai sogni, in un tempo e in un paese di superstizioni come quello, che aveva tra l'altre cose i giorni fasti e nefasti, le ferie pubbliche e private, e queste anche in occasioni di fulmini, di modo che, ogni qualvolta si sentisse tuonare, era giorno feriato, fino a tanto non si fossero placati con offerte e sacrifizi gli Dei.

Dunque, nell'avvertimento di madonna Clodia non c'era nulla da dire. Ma una donna che scrive ha sempre un secondo fine, un intendimento riposto. E perchè si prendeva costei tanta cura della salute di Tizio Caio? Che cosa si doveva leggere tra le righe dello scritto? Lo avesse almeno invitato ad andare da lei! Ma no, d'invito non ce n'era pur l'ombra, neanche sotto forma di permesso, per un rendimento di grazie. Un avviso, un augurio, un voto, e nient'altro.

— Strana donna! — pensò il cavaliere. — Che cosa debbo conchiudere? Che ella si dà pensiero di me. E sia. Ma allora perchè non aggiungere: «a voce ti dirò meglio»? E questo accenno alle prossime feste! Che voglia vedermi allo spettacolo? Sì, certamente, ci andrò; ma di questo ella poteva esser sicura, e non c'era bisogno di dirmelo. Ma forse vuol farmi sapere che ci andrà lei. Ed anche questo era inutile. Dove non è, la bellissima Clodia? —

[71]

Quanto al pericolo che la bella patrizia gli accennava nel suo viglietto, Tizio Caio Sempronio ci pensò molto meno che a tutto il restante.

— Che pericolo ho da correr io? — diss'egli tra sè. — Esser fatto in tre pezzi! E da chi? Se i sogni vanno interpretati a modo, io posso credere che non si tratti d'una spartizione materiale. Infatti, vedete qua; ier sera non ne ho avuti tre, che volevano il mio.... e che l'avranno, pur troppo! Il sogno è stato veridico, anzi fatidico. Son tre gli assetati del mio sangue, o, per dire più veramente, di dugento sessantamila sesterzi. E li abbiano, poichè li ho promessi. Il sogno della schiava di Clodia non prova esso che io debbo dissetare quest'oggi i miei tre supplicanti? —

Questo ragionamento lo ricondusse a ricordare come e perchè fosse balzato quel giorno da letto un po' più presto del solito.

— Piramo! — gridò egli, richiamando lo schiavo, che si era prudentemente allontanato.

— Padrone!

— Dirai all'arcario che venga qua.

— Prima del cinerario? —

Il cinerario, se nol sapeste, era uno schiavo che, presso le dame, assisteva l'ornatrice, mentre questa faceva l'acconciatura del capo alla padrona; e il suo principale ufficio consisteva nel riscaldare il calamistro, o ferro da riccio, nelle ceneri; donde il suo nome che ho detto. Ma in alcuni casi, e presso gli uomini, egli faceva altresì l'ufficio di barbiere. Del resto, anche allora i capegli riccioluti non era solamente delle donne, e spettava al [72] ferro caldo di dare ai patrizi romani le ciocche morbidamente inanellate della chioma d'Apollo.

— Anche prima del cinerario; — rispose asciuttamente il cavaliere.

Lo schiavo si allontanò, per andare in cerca dell'arcario.

— Vedete qua; — proseguiva intanto il nostro eroe, rifacendosi volontieri al tema del suo soliloquio. — Ella pensa a me; si affretta ad avvertirmi d'un pericolo che mi sovrasta. Ella già non poteva immaginarsi che si trattasse solamente delle mie sostanze, della mia persona.... giuridica. Senza badare ad altro, passando sopra a tutte le consuetudini, ha voluto avvertirmi. Divina Clodia! E poi dicono di lei che è.... che Valerio Catullo.... Baie! Già, i poeti sono la gente più molesta e pericolosa che al mondo sia. Vi scoccano un'ode, un'elegia, e tutta Roma, leggendo quell'ode, quella elegia, pensa che i sogni del poeta siano la verità, che le bellezze lodate da lui siano state vedute, che i difetti e i torti notati da lui siano torti e difetti veri e manifesti come la luce del sole. E una degna matrona, così calunniata, non ha più modo di rifarsi. Il poeta ha parlato; il volgo la condanna. Maledetti poeti! Non aveva mica torto Platone, a bandirli dalla sua repubblica! Questi ornati venditori di ciancie sonore vi mettono una povera donna in piazza. Hanno veduta una mano, come tutti gli altri, e nei loro versi vi descrivono il braccio, l'omero, e.... via discorrendo. Il volgo dei lettori, aiutando la malignità, immagina il resto. Dove il poeta non ha fatto altro che seguire i vaneggiamenti [73] dell'estro, o le necessità della prosodia tiranna, egli vede altrettante indiscrezioni della più autentica forma. E in questa guisa si scrive la storia. Una donna ne ha uno? Povera lei! Gliene regalano cento. —

Come vedete, il nostro cavaliere girava all'ottimista. Di mattina, lo siamo sempre un po' tutti. La triste esperienza è un frutto delle ore più tarde, nella gran giornata dell'uomo; e poichè il giorno è nel suo piccolo una immagine della vita, voi potrete concedermi che il più melanconico dei pessimisti veda anche lui le cose del mondo, poniamo per un'ora, tinte dei colori dell'alba.

Del resto, e per ciò che risguarda il sesso debole, siamo sempre disposti a pensarne un gran bene, quando le sue debolezze profittano a noi. Per solito, delle donne che c'importano poco, si sente dir corna e si tace, quando non vi s'aggiunge del proprio l'onesta complicità del sorriso. Ma fate che una di loro entri nulla nulla nel cerchio della nostra giurisdizione, che un suo sguardo, una parola sua, udita e riferita, sveglino nel nostro animo la speranza, o nel cuor nostro il desiderio; e quella donna diventa di punto in bianco un'altra. Poverina, l'avevano calunniata. Già, gli uomini, metà son tristi e metà sciocchi; qual virtù uscirebbe salva dalle ciarle assassine?

Poi, viene il punto in cui l'uomo avvicina la donna calunniata. È così bella! Vedete che grazia, che soavità, che dolcezza! Ecco il segreto svelato; era cortese e l'han gabellata per lusinghiera; confidente di modi e le hanno dato lettere patenti di [74] sfrontatezza. E l'uomo che ha fatta questa grande scoperta, felice di non doversi confondere coi tristi, nè con gli sciocchi, sale di cerchio in cerchio, per tutte lo stazioni del paradiso, fino a tanto, assorto nei raggi luminosi della divinità, ne resta così abbacinato da non veder più nulla. Dopo tutto, che importa il vedere? «Credete più ai vostri occhi che a me?» domandava audacemente una donna, che conosceva a fondo il suo uomo. Non era possibile che questi volesse farle un torto così grave, credette a lei e negò fede a' suoi occhi.

La bella Clodia, che faceva quella mattina palpitare così forte il cuore di Caio Sempronio e smarrire il suo giudizio (cosa non troppo difficile, perchè ne aveva sempre avuto pochino), era certamente una delle dame più calunniate di Roma. A torto, o a ragione? I versi del suo poeta, anche a fargli la tara, c'indurrebbero a credere che ella meritasse la sua fama.

Povero Catullo! Ne ha dovute mandar giù! Poeta elegante ed appassionato, già celebre fin dalla prima giovinezza per aver disposata nelle sue odi la delicatezza immaginosa di Anacreonte all'ardore profondo di Saffo, conobbe per suo danno la moglie di Metello Celere, se ne invaghì perdutamente, e da quel giorno egli non ebbe più pace. Riguardoso nella forma, mutò il nome di Clodia in quello di Lesbia; ma la cronaca non tenne il segreto, e Lucio Apuleio potè raccogliere ancora due secoli dopo le indiscrezioni della cronaca e tramandarle alla posterità.

Nessuna donna, se crediamo a Catullo, poteva [75] reggere al confronto della sua innamorata. «Quinzia è bella per molti, dice egli; per me è bianca, alta e di nobile portamento; ma che sia bella in complesso, nego, perchè in quella grande persona non c'è grazia nè spirito. Lesbia sola è intieramente leggiadra; perchè, essendo bellissima tutta, ha rapite tutte le grazie a tutte le altre donne di Roma.» Contemplava il suo volto, ne udiva le soavi parole, e gli sembrava d'esser beato al pari, e, se possibile, più degli Dei. Veduta lei, niente altro desiderava. Ma la sua lingua s'intorpidiva; una fiamma gli scorreva per tutte le membra; gli risonavano le orecchie, gli occhi gli si coprivano di tenebre. Bello ogni atto, leggiadra ogni cura di lei. La vedeva deliziarsi nell'amore d'un passero, e lui a cantare il passero che ella amava più dei suoi occhi. Morì il passero, e lui a piangerne in versi stupendi la morte, invitando le Grazie e gli Amori a confortarla con le lagrime loro. «Viviamo, o mia Lesbia, ed amiamoci, le dice egli un giorno; non valgono un soldo le ciancie dei vecchi barbogi. Muore il sole e risorge; noi, morta una volta questa breve luce, abbiamo a dormire una notte perpetua. Dammi un migliaio di baci, e poi cento, poi altri mille ed altri cento ancora; e così via via, fino a perdere il conto.»

Ma ohimè, un giorno doveva cadergli la benda dagli occhi. Clodia era una civetta; non amava lui solo. Bella, ma senza cuore! E il poeta si sdegna, vuol rompere la catena, per custodire la sua dignità. Ma come fare? «Odio ed amo, dice egli ad un amico. Chiedi come ciò avvenga? Non so; ma [76] lo sento e ne muoio.» L'ama troppo, non c'è via di salute; si allontana da lei e ritorna; l'amor suo è una sequela interminabile di sdegni e di paci. Irato contro sè stesso, disegna di allontanarsi da Roma, per non assistere alle sregolatezze di Clodia; va in Bitinia con Caio Memmio Gemello; ne ritorna povero e più innamorato che mai. Soltanto le sciagure domestiche lo distoglieranno un tratto dalla sua pena, e l'isoletta di Sirmio, sul Benaco, poco lunge dalla natale Verona, gli farà meno triste l'autunno precoce della sconsolata sua vita.

E adesso che abbiamo veduta la figura di Clodia attraverso ai rapimenti e alle malinconie d'un poeta, facciamo ritorno al nostro cavaliere Tizio Caio Sempronio. Il poeta s'è ridotto ai silenzi della sua villa di Sirmio, e Clodia è a Roma, sempre bella, sempre elegante, e circondata da cento vagheggini. Qual è la donna che non ci ha i suoi, dopo l'esempio di Penelope, ròcca di fede coniugale, assediata per tanti anni dai Proci? Ma badino, i bellimbusti di Roma; se entra in scena Tizio Caio Sempronio, poveri a loro! È un giovanotto che non perde il suo tempo, nè prima, nè dopo. È forte e bello, di buon cuore pe' suoi amici, inchinevole al tenero con le signore donne, ma non fino al punto di guastarcisi il sangue. Egli chiederà a Clodia ciò che essa può dare, sorrisi e carezze; non già la costanza, derrata di cui egli non saprebbe che farsi, e a cui non potrebbe offrire il ricambio.

Per altro, anche a non volersi smarrire troppo lungamente nelle ombre di Pafo, tornano sempre [77] piacevoli i cominciamenti d'un ripesco amoroso. Messo il piede sul limitare del bosco, il cavaliere ci trovava un gusto matto a rincorrere le farfalle che gli svolazzavano capricciose davanti agli occhi. Fuor di metafora, Caio Sempronio seguiva col pensiero tutte le fasi di una lieta avventura, incominciata così ex abrupto con una tavoletta pugillare, che andava rivolgendo ancora per tutti i versi, quando gli si fece dinanzi l'arcario.

— Mio signore, eccomi qua; — disse costui, inchinandosi profondamente.

— Sei tu, vecchio Lisimaco? Che cosa vuoi?

— Mi avevi fatto chiamare.... — riprese quell'altro.

— Ah sì, è vero; — disse Sempronio risovvenendosi; — ho anzi bisogno di te. Già capirai di che si tratta. —

Lisimaco stette muto a guardarlo. Era un vecchio servo, o, per dire più veramente, un liberto, servo manomesso, che continuava a vivere in casa degli antichi padroni, esercitando l'uffizio di arcario, ossia di soprintendente e cassiere. Pulito, molto serio e d'una rara probità, Lisimaco aveva avuta la piena fiducia del padre di Caio Sempronio, uomo assennato e non d'altro curante che di far prosperare la sua casa; nè doveva mancargli la pienissima fiducia del figlio, che alle faccende sue pensava pochissimo, come mi pare di avervi fatto già intendere.

Il liberto taceva, vi ho detto; ma il cavaliere continuò il discorso per lui.

— Ho bisogno di moneta; — soggiunse.

[78]

— A' tuoi comandi; — rispose Lisimaco.

— E molta; — ripigliò il cavaliere.

— Ahi! — mormorò quell'altro, — siamo alle solite.

— Come? saresti all'asciutto?

— Oh, questo, poi! — esclamò il vecchio liberto, che sentiva offesa da quel dubbio la maestà della casa Sempronia. — Ma se tu mi permetti un'osservazione....

— Sentiamo l'osservazione.

— Padrone mio, si spende troppo.

— Eh, non dico di no.

— Anche le case più ricche vanno in malora, se non c'è misura nello spendere.

— È sempre stata la mia opinione; — disse gravemente Caio Sempronio; — e son lieto di vedere che tu partecipi al mio modo di vedere. —

L'arcario lo guardò trasognato.

— Mi pare, — pensò egli, — che il cavaliere voglia burlarsi di me. —

E non aveva mica torto, il vecchio Lisimaco. Ma, per rispetto al padrone, finse di non aver capito.

— Anche la tua casa, padrone, finirà come tante e tant'altre, se non provvedi in tempo.

— Ottimamente; ma dimmi, savio Lisimaco. Ci sono ancora.... in tempo?

— Che domanda! Grazie agli Dei, siamo sempre sul sodo.

— Ah, meno male. Mi avevi già fatto paura. Dunque, si possono avere quest'oggi quarantamila sesterzi per compiacere all'amico Postumio Floro? [79] È un imprestito, non ti spaventare, mio vecchio Lisimaco.

— Vado a numerare la somma; — disse l'arcario, dopo aver tratto un sospiro.

— Aspetta ancora. All'imprestito dunque abbiamo provveduto. Ora c'è dell'altro. Mi bisognano, per un altro negozio, sessantamila denari.

— Sessantamila! — balbettò l'arcario, strabuzzando gli occhi. — Hai detto sessantamila....

— Denari, sicuro; che ragguagliati alla moneta di rame fanno dugento e quarantamila sesterzi, o poco meno. Ma non ti confondere; non si tratta di un imprestito, questa volta; si tratta invece di un collocamento, d'una compera di fondi. —

Lisimaco diede una rifiatata, ma senza rallegrarsi molto. Il povero cassiere andava da Scilla a Cariddi. Cessava la paura, sottentrava lo stupore.

— Tu comperi?

— Sì, — rispose Caio Sempronio, — compero gli orti di Ventidio, sull'Esquilino.

— Tu comperi? — tornò a chieder quell'altro, che non poteva mandarla giù.

— Sì, te l'ho detto; che cosa ci trovi di strano?

— Ma, mi pare che ce ne sia la sua parte. Perdonami, signor mio; ma è nuova davvero, che tu abbia pensato a comperare un pezzo di terreno.

— Io che ci ho sempre avuto una gran propensione a buttar via, non è vero? — disse il cavaliere, ridendo. — Ma non temere, Lisimaco; io [80] non sono mutato per ciò. Compero.... ma per regalare il comprato.

— Di bene in meglio! Ed è questo che tu chiami un.... collocamento di moneta?

— Ma sì, vecchio Lisimaco, è questo. Non ho forse detto di comperare?

— Per regalar poi.

— Ah, questa, vedi, è una seconda operazione. Badiamo ora soltanto alla prima. —

Lisimaco crollò il capo, ma non aggiunse più altro. Con quel matto del suo padrone non c'era modo di ragionare.

— Eccoti lì ingrognato, mio Cerbero! — proseguì Caio Sempronio. — Ma infine, abbi pazienza; ho promesso. Vorresti tu che io mancassi alla mia parola?

— Tolgano gli Dei immortali che io ti consigli in tal guisa; — rispose il vecchio Lisimaco, non sapendo più che pesci pigliare. — Debbo dunque metter da parte anche i sessantamila denari?

— Se li hai in cassa.

— Li ho.... quantunque, levati questi, non ci rimanga molto di più. E tu lo sai, padron mio, che le entrate dell'anno scorso hanno già preso il volo, mentre questo è a mala appena incominciato.

— Bene, per tirare avanti fino al raccolto, puoi chiedere in prestito al danista Corbulone. Intanto vedremo di ristringere le spese.

— Ah, magari! — esclamò il vecchio liberto, alzando gli occhi e le palme al cielo. — Con un [81] anno di risparmio, si potrebbe ancora rimetterci in carreggiata.

— Un anno! — gridò il cavaliere. — È troppo. Mettiamo sei mesi.

— Ma bada, ci sono ancora le ipoteche sul fondo Reatino, il più bel fondo che tu possieda! Poi c'è l'imprestito di dugentomila denari sulla villa di Aricia. Poi....

— Dimmi, — interruppe Caio Sempronio, — non avresti tu un altro discorso più allegro da tenermi, per questa mattina? A momenti tu mi passi in rassegna tutta la emerita classe degli argentarii. —

Lisimaco gli rispose con un gesto che voleva dire: che colpa ci ho io?

— Animo, via; — ripigliò, il cavaliere, vedendo la faccia malinconica del suo povero cassiere. — Non pensiamo ora a queste miserie. Vedremo di correggerci, se sarà scritto nel libro dei fati. Tu scrivi intanto, nel tuo, che oggi verrà Postumio Floro, al quale dovrai consegnare quarantamila sesterzi, e Giunio Ventidio per vendermi i suoi orti alle Esquilie, contro la somma di sessantamila danari.

— E metterò a libro l'acquisto degli orti?

— Sì, se ti piace, — rispose Caio Sempronio, con quella sua faccia da ridere, che dava tanta noia al disgraziato cassiere, — purchè tu aggiunga in margine: regalati oggi stesso a Publio Cinzio Numeriano, poeta innamorato. —

Ciò detto, il cavaliere congedò con un gesto [82] maestoso il suo povero arcario, che se ne andò borbottando tra i denti:

— Poeti.... innamorati.... matti... tutta gente da legare!

[83]

CAPITOLO VII. Venere spogliatrice.

Clodia Metella, che le necessità del racconto mi costringono a presentarvi, era una delle tre sorelle di Publio Clodio Pulcro.

Ma chi era Publio Clodio Pulcro? Era quel caro matto che aveva iniziata la sua vita pubblica introducendosi travestito da donna nella casa di Giulio Cesare, durante la celebrazione dei riti della dea Bona; marachella giovanile per cui subì un processo, e non ne uscì sano che corrompendo i suoi giudici. Sano nella persona, io vo' dire, non già nella fama, che n'ebbe uno strappo maiuscolo, anche per la testimonianza di Marco Tullio Cicerone, a cui giurò in conseguenza un odio mortale. Eletto tribuno, con l'aiuto di Pompeo e di Cesare, che protestava a suo modo contro certi sospetti, tanto da far passare in proverbio l'onestà di madonna Aurelia sua moglie, si diede a perseguitare [84] in ogni guisa il suo illustre nemico. Questi gli oppose l'unico uomo che potesse tenergli testa, Tito Annio Milone; e l'andò tra quei due da galeotto a marinaro.

Il resto è noto ad ogni scolaro di retorica. Milone si recava un giorno a Lanuvio; Clodio tornava dalla sua villa d'Aricia; i servi delle due comitive s'azzuffarono; Clodio, ferito nel tafferuglio, fu trasportato in un'osteria di Bovilla; Milone pensò che fosse giunto il momento di levarsi quel bruscolo dagli occhi, e, fatto trascinar Clodio fuori dell'osteria, gli diede, o gli lasciò dare da un suo gladiatore, il colpo di grazia sulla pubblica strada. Accusato d'omicidio, fu invano difeso da Cicerone, che si era così turbato alla vista di tanti armati, onde il console Pompeo aveva asserragliato il Foro in quella occasione, da perdere la tramontana senz'altro.

Ciò era accaduto un anno prima del tempo a cui si riferisce il nostro racconto. Milone era andato in bando a Marsiglia, e laggiù, avendo ricevuta una copia dell'orazione, riveduta e corretta, del suo gran difensore, uscì in queste memorande parole: «vedete un po'! se Cicerone avesse proprio parlato come ha scritto, io non sarei qui a mangiar triglie.»

Dove mi ha portato il ricordo di Clodio? Torniamo alla sorella, celebre in Roma per bellezza e per tante altre cose. Giovanissima, l'avevano data in moglie a Quinto Metello Celere, pretore da prima, poi console, ed uno dei più saldi sostegni della parte patrizia. Questo Metello, essendo [85] pretore, si era unito a Marco Tullio Cicerone per isventare le trame di Sergio Catilina, altra conoscenza di tutti gli scolari di retorica; e quando il famoso cospiratore era partito improvvisamente da Roma, egli, inviato nel Piceno per contendergli i passi dell'Appennino, lo aveva abilmente costretto a dar di cozzo nelle schiere dei console Antonio Nepote. In premio di questo servizio, otteneva un anno dopo il governo della Gallia Cisalpina, col titolo di proconsole, e due anni più tardi era console a sua volta.

In quell'ufficio il nostro Metello avrebbe potuto far prova di saviezza, non scontentando troppo quell'ambizioso di Pompeo; ma fece tutto l'opposto, e sospinse il pericoloso cittadino nelle braccia di quell'altro bel mobile, che fu Giulio Cesare; donde la famosa alleanza, che, per esserci entrato anche Licinio Crasso, andò sotto il nome di primo triumvirato. Probo e coraggioso, ma altiero e mal destro come tutta la parte patrizia, che dava gli ultimi aneliti della sua possanza con lui, Metello Celere non potè impedire a Giulio Cesare, dittatore futuro, di vincere una legge agraria, nell'anno 695 di Roma, e morì così subitamente, nel bollore della sua opposizione, che corse voce avergli la moglie propinato un veleno.

Come vedete, non eravamo lontani da Clodia. Mi duole di tornare a lei con un sospetto di veneficio, ma che farci? La cronaca ha i suoi diritti, nè io posso mutarla a mio senno. La cronaca dice anche dell'altro; e poichè Clodia Metella, nel terzo anno di vedovanza, accusò un Marco Celio Rufo di aver [86] tentato di avvelenarla, saltò su Cicerone a dar nuovo pascolo ed autorità alla cronaca, difendendo il giovinotto e dicendo di Clodia Metella tutto il peggio che si potesse dire d'una donna romana di quel tempo. Ora, a quel tempo, le matrone romane non erano stinchi di santo. Ciò forse per la ragione che i santi erano ancora di là da venire.

Per altro, badate, se ne spacciavano tante, e la libertà di parola era così grande, che io non mi meraviglierei punto, se un critico moderno riuscisse a provare che gli avvocati antichi e gli antichi cronisti erano ad un dipresso quel che sono gli avvocati e i cronisti moderni. Qual è l'uomo, o la donna, a cui non si possa, con uno sforzo di volontà, appioppare un delitto? Non abbiamo noi forse udito testè che l'onorevole Minghetti, quell'uomo creduto finora sì candido, ha un infanticidio sulla coscienza? «Sì, o signori (diceva alla Camera dei deputati il suo coraggioso accusatore), egli ha uccisa la bambina Cicoria, che aveva a mala pena spuntato due denti.» Il quale Minghetti fu nella medesima tornata parlamentare gabellato anche per una sirena, per una maliarda, e va dicendo. Laonde, io ho incominciato a capir Cicerone e il valore delle metafore; nè mi spavento più di Clodia Metella, la quale doveva esser giudicata molto retoricamente dai suoi contemporanei, Cicerone compreso, che ne era invaghito anche lui, a segno di destare le gelosie di madonna Terenzia sua moglie. È Plutarco, un'altra lingua tabana, che lo afferma; ed io, tutto considerato, non ci vedo niente di strano.

[87]

Mettete da ultimo che meritasse la sua fama; io, fatte le mie restrizioni da uomo prudente e da buon cavaliere, non vo' impicci per questo. Gli autori ci dicono Clodia assai bella, e su questo particolare possiamo esser tutti d'accordo.

A me pare di vederla, nel segreto del suo spogliatoio, attiguo alla camera da letto. Il sole è già alto, ma solo da pochi istanti la bella patrizia si è spiccata dalle braccia di Morfeo. Lo dice il bianco indusium, specie d'accappatoio, il cui fine tessuto ricorda le nostre mussoline di lana, e il cui colletto è ricamato, o, per dire più veramente, ornato di fregi appiastrati, non conoscendosi allora il ricamo propriamente detto, con tutta la sua varietà di forme e di nomi. Le maniche, larghe e brevi, non scendono oltre il gomito. Il lembo inferiore si vede ornato da due file di perle, che sfiorano il musaico del pavimento, illustrando così il modo proverbiale latino, margaritas calcare, passeggiar sulle perle.

Nel bel mezzo della camera è una gran tavola di marmo, su cui, intorno ad una larga spera di acciaio, sono disposte in ordine tutte le ampolle, i pennelli, i barattoli e tutte l'altre cianciafruscole ond'è composto il mundus muliebris. Uno scanno a bracciuoli, col suo cuscino di piume, attende la divina Clodia, che sta per mettersi allo specchio. Dalle pareti dipinte le ridon gli Amori; da una gabbia pendente dal soffitto la saluta un pappagallo africano, con tutti i salve, i vale, gli euge del suo repertorio linguistico. Come siamo lontani dal passero d'una volta, dal passero amoroso e gentile, [88] i cui privilegi destavano la gelosia di Valerio Catullo! Non c'è che dire, Clodia Metella è invecchiata.

Cionondimeno, è sempre bella, maravigliosamente bella, e direi quasi che la sua bellezza ha guadagnata dagli anni una certa magnificenza, pari a quella delle rose, quando hanno intieramente dischiuso il calice avaro all'ammirazione del riguardante. Osservate la bianchezza lattea delle sue mordide carni; essa è proprio governata col latte, perchè in esso furono inzuppate le molliche di pane, di cui Clodia Metella si è accuratamente ricoperta la faccia ed il collo, prima di mettersi a letto. Altre usavano in quella vece un cataplasma di fave grasse, la cui inamabilità doveva quarant'anni più tardi urtare i nervi ad Ovidio.

Una diligente abluzione ha già tolte dal viso quelle croste notturne in cui si è custodita la bellezza; la carnagione è stata aspersa coll'elenio, un quissimile doll'aspasina moderna, formato con latte d'asina; poi col lomentum, pasta di fior di farina e di mirra giudaica, indi coll'esìpo di Atene, vero elettuario, anzi olio essenziale, che doveva la sua untuosità al succo estratto dalla lana delle pecore. Era quello il cosmetico in voga, e le dame romane solevano inondarsene a dirittura la pelle.

Poichè sono a ricordare tutti questi guazzetti, non dimenticherò che Roma femminile aveva anche il suo latte antefelico, per le macchie della pelle e pei bitorzoli, l'alcionea, preziosa mucilagine la quale si estraeva da certi nidi d'uccelli, che, argomentando dal nome, possiamo credere alcioni. [89] Si strofinava leggermente il viso con l'alcionèa, e la pelle diventava tosto così lucente come la superficie d'uno specchio.

Intenderete di per voi, che, dopo tanto abuso di manteche e d'unguenti, bisognasse lavarsi le mani col sapone. Di questo i Romani ne avevano due specie, il molle e il liquido. Il più riputato incominciava allora a venir dalle Gallie, ed era un composto di grasso di capretto e di cenere di faggio. L'arte romana lo aveva aromatizzato con cinnamomo, oppure con nardo di Persia.

Lavate le mani in tal guisa, e rasciugatele nel gausape quadratum, in cui vi consento di ravvisare lo asciugamano di quei tempi, velloso da una parte e liscio dall'altra, la bella patrizia si è raschiata la lingua con una acconcia laminetta d'acciaio; si è spazzolata i denti ed ha gargarizzate le acque famose di Cosmo e di Nicèro (i Frecceri e i Bortolotti di quel tempo) ne male odorati sit tristis anhelitus oris. Il verso non ve lo traduco, perchè lo capirete ad orecchio. Dirò soltanto che è un verso del suo poeta, dell'uomo che l'ha più fortemente amata, e che l'ama tuttavia, sebbene lontano e dimenticato.

Non perchè io lo reputi un obbligo, ma perchè mi pare atto di cortesia verso la benemerita classe dei profumieri, soggiungerò che l'acqua di Cosmo si componeva, d'acqua anzitutto, poi di zafferano e rose di Pesto.

A profumare la bocca delle sue belle patrone, Cosmo aveva inventato eziandio certe pastiglie, di mirto, lentisco e finocchio. Le dame romane erano [90] ghiotte di questi aromi indolciti, che facevano cadere in disuso il mastice di Scio. Pastillas Cosmi luxuriosa vorat.

Non racconterò alle mie lettrici con che sorte di acqua le eleganti figliuole di Quirino si ripulissero i denti. Il preziosissimo liquido si traeva dalla Spagna e si conservava in vasi d'alabastro.... Ma perchè dalla Spagna, mentre a conti fatti lo si poteva ottenere anche in casa, in modo naturalissimo, e senza dare il minimo disturbo ad alcuno? Gli autori che accennano la strana costumanza, non hanno pensato a dircene le ragioni. Marziale si è contentato di affermare che, quanto a sè, i denti se li risciacquava con l'acqua pura. I moderni, gente schifiltosa, daranno ragione a Marziale.

Dove abbiamo lasciato Clodia Metella? Si è lavata le mani; ma badate, non l'ha anche finita con le abluzioni. Infatti, ella entra ora nella sala del bagno. Il solium argenteum (poichè ella si bagna in una vasca d'argento) è già pieno d'acqua, profumata con essenza di gelsomino. La fida clessidra ha misurato lo spazio di mezz'ora, e Clodia Metella è venuta fuori dai tiepidi lavacri. Dico tiepidi, perchè i bagni freddi non s'usano ancora, almeno nelle pareti domestiche; soltanto sotto l'Impero un medico li raccomanderà, e i posteri dovranno salutarlo come l'inventore della idroterapìa.

Asciugata nella sindone, stregghiata per tutte le membra con uno strigile venuto da Pergamo, Clodia Metella ha indossata la tunica intima, su cui le schiave ornatrici hanno ravvolta in dotte pieghe la toga matutina. Ed entra, ciò fatto, il pedicuro, [91] che col suo forfex (scusate se non posso dispensarvi da questi particolari) ragguaglia abilmente al sommo delle dita le unghie rosee dell'olimpico piede.

Olimpico, ho detto, come sinonimo di snello e di breve. L'arte antica faceva piccolo il piede agli Dei; cosa che non finisce di piacere ai veristi moderni, i quali sembrano dimenticare che gli Dei passeggiavano sulle nubi e, quando toccavano terra, non pesavano altrimenti sulle piante coi sessanta od ottanta chilogrammi della loro divinità.

Ciò posto in chiaro, non mi fermerò più oltre su questo argomento, quantunque il piede d'una bella donna meriti ogni più lunga stazione e possa dare l'appiglio a molte meditazioni divote. Del resto, vedete, non s'è fermato troppo neanche il pedicuro. Clodia Metella ha avuto dalla natura un piedino sottile, non ha usato affaticarlo mai nella giornata, non ha avuto mai bisogno di strizzarlo in calzature troppo aggiustate; perciò mancano le cornee durezze e gli altri ingrossamenti cutanei, che domandino una pronta rimondatura ai ferri dell'artista pedestre.

Ecco ora la colezione che arriva. Le cure dell'ornamento non sono ancora finite, anzi può dirsi che siano a mala pena cominciate; ma appunto per questo è necessario d'interromperle con una piccola refezione (jentaculum) che permetta alla dama di giungere senza languori di stomaco fino all'ora del pranzo. Un servitorello, vestito d'una tunica frangiata che gli si stringe alla vita e gli scende a mala pena al ginocchio (donde il suo nome [92] di puer alticinctus) reca una authepsa d'argento, coi suoi carboni accesi nel caldano che le sta sotto. Capirete da questo che l'authepsa è il ramino dell'acqua calda. Un altro ragazzo porta sulle mani un canestro di frutte, con un panino tondo, disegnato a spicchi, e un piattello di legno di cedro, con suvvi una coppa d'argento, e un vaso d'onice, colmo di vino di Sezza, il famoso e costoso Setino, che piaceva tanto a Marziale, ma non si lasciava bere troppo spesso da lui, povero in canna com'era.

Clodia Metella mangia un frutto, rompe una crosta di pane, mescola il vino con l'acqua calda, beve, e la sua colezione è finita. Così l'uccellino, destatosi appena, e scosse le ali sul ramo, dà un paio di beccate alla ciliegia, o al fico, umido ancora della rugiada del mattino, e torna contento ai gorgheggi, ai voli, agli amori. Clodia Metella ritorna alle cure della conscia bellezza. C'è un'altra bisogna, e più delicata, da fornire. La pomice di Catania, strofinata sulle braccia e sulle gambe, toglierà perfino l'ombra di certi molesti accessorii, tollerabili appena appena sulla cute dell'uomo. Anche il labbro superiore può esserne ombreggiato, e qui la pomice di Catania sarebbe ancora troppo ruvida; occorre dunque l'unguento di psilothrum, o di dropax. Il primo è fatto col succo della brionia, o vitalba, che si voglia dire: l'altro.... di che cosa è fatto l'altro? Non so, e mi contento di citarvi Marziale, che raccomanda, per la faccia, questi due depilatorii insieme: Psilothro faciem laevas et dropace frontem.

Dopo la colazione, un'altra risciacquata ai denti [93] non farà male. A proposito, ha denti finti la nostra eroina? Le guardo in bocca, come si fa coi cavalli non donati, e non mi riesce di vederne. Se per avventura ne ha, son legati in oro. L'usanza è antica, e i dentisti moderni non hanno fatto che seguire la tradizione di cento generazioni. Leggete le Dodici Tavole, o, per dire più veramente, quel tanto che ne è rimasto. Nella decima Tavola, dove si tratta delle sepolture, sta scritto: Neve aurum addito; ast si cui auro dentes vincti erunt, eum cum illo sepelire urereve sine fraude esto. Traduciamo, perchè gli è proprio il caso, con questo latino assaettato. «Non ponete oro coi cadaveri; ma se taluno abbia denti legati in oro, sia permesso di seppellirlo, e bruciarlo, con esso.»

Ora, seguendo l'ordine delle cure femminili, veniamo all'acconciatura del capo. Clodia Metella ha una chioma da far invidia a molte sue pari; non ha bisogno del grasso d'orso, tanto raccomandato da Galeno, nè dell'unguento di cantaridi, accennato con le debite restrizioni da Plinio. Neppure ha mestieri di tingere in nero i suoi capegli con piombo disciolto nell'aceto, nè in rosso con le erbe di Germania, che giovano a mutare in carote i gigli precoci d'una testa di donna. Il crine di Clodia Metella è ancora d'un nero lucido, che potrebbe farsela con quello dei corvi.

L'ornatrice ha già snodato e stretto in pugno il volume di quelle morbide chiome. Il cinerario è lì pronto a togliere dal fuoco il ferro da riccio, che dovrà dare alle ciocche sulla fronte l'ondosità del mare. Clodia felice! Ella ha proprio trovata la [94] fenice delle cameriere, perchè tutto procede a dovere, e non c'è caso di spazientirsi, nè di sgridarla per un colpo di pettine più forte dell'altro, o per soverchio accostarsi del ferro caldo alla pelle. Arricciati sulle tempie, rigirati in due lucide staffe all'altezza degli orecchi, i bei crini di Clodia si attorcigliano sulla nuca in un mazzocchio aggraziato, a cui fanno sostegno due spilloni d'oro. Così vuole la moda. Ancora pochi anni, e uno di questi spilloni, tolto dalle chiome di Fulvia, la moglie di Clodio e di Marc'Antonio, trafiggerà la lingua di Marco Tullio Cicerone. Carine, non è vero, queste patrizie di Roma?

Ed ora, per Clodia Metella, sarebbe il caso d'imbellettarsi il viso, col minio, o con altre temperanze di rosso. Ma per quest'oggi le piace d'esser pallida; il bianco è il colore degl'innamorati. «Sia pallido chi ama, ha detto Ovidio; è questa la tinta degli amanti; ognuno che vede quel volto sbiancato, ha da esclamare: ecco i segni d'amore!» Anche gli occhi debbono apparire più grandi e più profondi del vero; e a questo gioverà una pennellata d'antimonio (stibium) sull'arco delle ciglia e agli angoli esterni delle palpebre. La moda è antica nell'Asia, e non per niente i padri delle belle Romane hanno conquistata l'Asia ai numi austeri del Lazio.

Finalmente, la testa è in ordine. Le cosmète (con questo nome si chiamavano le cameriere) vanno attorno per la camera, scoperchiando certe casse d'ebano, in cui si contengono le stole, i pallii, le toghe, le riche, e tutti gli altri capi di vestiario [95] della loro padrona. Qual veste indosserà per quel giorno Clodia Metella? À lei piace frattanto di vedersele tutte schierate dinanzi, per scegliere a occhio il colore che più le andrà a genio, o che le parrà più acconcio ad ottenere l'effetto desiderato. Chi non sa che il colore ha un'arcana virtù, in materia di galanteria? Ci sono, tra un bel viso e la tinta d'una veste, armonie segrete di cui sentiamo il fascino, senza intenderne e senza pure indagarne la ragione.

Là veste caratteristica delle matrone romane era la stola, lunga ed ampia tunica di lana, semplice e severa come il costume della forte repubblica, che l'aveva ereditata dai vecchi Sabini. Le maniche generalmente erano lunghe, serrate al pugno con una fibbia. Due cinture la stringevano al busto, l'una delle quali passava sotto il seno, l'altra sul fianco; di guisa che, tra questi due legamenti che la premevano, essa offriva al riguardante un giro irregolare, ma artistico, di piccole pieghe. Si distingueva dalla tunica propriamente detta, per uno strascico chiamato instita, che era cucito sotto gli sboffi posteriori della seconda cintura, e scendeva fino a terra, coprendo le calcagna e aggiungendo maestà all'incesso della dama. Era questa la stola di Veturia, la madre di Coriolano, come si vede raffigurata da un affresco nelle Terme di Tito. Ed ugualmente vestita, pittori e poeti romani ci rappresentarono Giunone, l'altera moglie di Giove. Si usò bianca da prima, poi di tutte le varietà della porpora, e d'altri colori per giunta, accortamente distribuiti secondo le ore del giorno. [96] Ovidio consigliava, per colori di mattina, il verde marino, il celeste, il paglierino, il violetto.

Un bel colore d'amatista, che prendeva risalto da un fregio d'oro sugli orli della veste, fu prescelto per quel giorno da Clodia Metella. L'amabil pallore delle carni ci guadagnava un tanto, e i grandi occhi abilmente cerchiati d'antimonio ne avevano una espressione più profonda e più viva. Non dimentichiamo la vitta, nastro di colore, che s'intrecciava in due o tre giri attorno alle chiome corvine. La vitta era, al pari della stola, l'ornamento della donna ingenua, o nata libera. Alle schiave, alle liberte, alle cortigiane, non era lecito portarla.

Lettori, io vi fo grazia dei coturni. Dio sa dove mi condurrebbe il pericoloso ufficio di descrivervi un laccio, voluttuosamente rigirato intorno ad un collo di piede che pare scolpito da Fidia. Vi parlerò invece degli anelli di Clodia, tutti infilati su di un colonnino d'avorio, donde essa li toglie per metterli nelle dita. Tra essi è l'anello magico, che ha, in luogo della solita gemma, un pezzo di ferro o di bronzo, tolto dalle forche (aes patibuli), ed è stato consacrato da un sacerdote di Giove Serapide, sotto quella costellazione che ha veduto nascere Clodia Metella. La nostra matrona porta questo amuleto invece dell'anello maritale. Rammentate che Metello Celere è morto, e non è stato surrogato da alcuna forma di justae nuptiae.

A compiere l'adornamento della bella persona, Clodia cinge i polsi d'armille, o braccialetti, in forma di serpenti d'oro, che portano rubini e smeraldi [97] incastonati nella cervice. Agli orecchi ha sospeso i crotalii, pendenti d'oro a tre gocce di perle, come quelli messi in mostra da Giunone, quando andò sul monte Ida a sedurre il marito. E qui si ferma l'esposizione delle gemme, perchè la dama non ha ancora disegnato di uscire di casa. Se volesse, potrebbe luccicare dal capo alle piante come una bacheca di gioielliere. Due dactilyothecae sono aperte davanti a lei, colle gemme d'estate e le gemme d'inverno. La divisione è ragionevole, come vedrete. Nella fredda stagione si portavano i gioielli pesanti, nella calda i leggeri. Leggeri e pesanti per la legatura, s'intende, che poteva esser vuota o massiccia; laddove le perle e le pietre prezioso erano di tutte le stagioni, e le belle portatrici non badavano al peso.

Ovidio, che ho già citato più volte, come maestro in cosiffatti negozi, accenna all'uso delle dame di coprirsi il collo con vezzi di perle orientali, serbando le più grosse e le più pesanti per gli orecchini. E ce n'erano veramente di prodigiose. La perla che Cleopatra stemperò nel suo vino era valutata due milioni; e un'altra d'ugual prezzo avrebbe fatta la medesima fine, se Marc'Antonio non si fosse opposto a quella continuazione di pazzia. Questa seconda perla, passata nelle mani di Agrippa dopo la morte di Cleopatra, fu segata in due, per farne gli orecchini ad una statua di Venere, collocata nel Panteon.

Belle dame del tempo mio, chiederete di vedere i diamanti di Clodia Metella. Ma badate, ai tempi di Clodia non si conosceva ancora l'arte gentile di [98] sfaccettare il diamante. Ora, un diamante greggio non è un diamante; è una pietra informe, un oggetto di curiosità, da mettersi in una collezione geologica, non da appendersi agli orecchi, o al collo, di una leggiadra donnina. Ne convenite?

Dunque, al tempo di cui narro, non si usavano brillanti, nè autentici, nè apocrifi; nello scrigno di una gran dama le perle tenevano il primo luogo. Costosissime, come vi ho accennato, tanto da far dire a Properzio, dove parla di una signora coperta di gemme, che essa portava addosso l'eredità di due generazioni future.

Matrona incedit census induta nepotum.

Abbiamo seguito Clodia Metella in tutte le fasi dei suoi apparecchi galanti. Oramai la bella patrizia è armata di tutto punto, per combattere la gran battaglia di quel giorno. A chi si prepara la sconfitta? Chi andrà incatenato al suo cocchio trionfale? Aspettate e vedrete.

Eutiche, la prediletta ornatrice, ha presentato alla sua signora uno specchio tondo e concavo, di bronzo levigato e rilucente, che più non sarebbero i nostri specchi moderni di cristallo. Clodia si vede bella, si ammira, compone il volto ad una espressione di soave malinconia e sorride. Il sorriso vuol dire che quell'aria le sta bene, e che Clodia è contenta di sè.

Finita la grand'opera della giornata, le cosmète si ritrassero dalla camera, dopo avere augurato alla padrona ogni maniera di felicità. Rimasta sola, Clodia Metella andò ad un armadio di cedro, che [99] stava appoggiato alla parete, e lo aperse, per riporvi ella stessa i gioielli che non le erano serviti per la sua acconciatura. Quell'armadio era insieme uno scrigno e un tabernacolo. Difatti, la nostra eroina custodiva là dentro e le sue gemme e i suoi Penati.

Clodia Metella era molto divota. Un maldicente avrebbe soggiunto che era divota come lo sono generalmente le donne che hanno molto da farsi perdonare, e che contano di accrescere ancora la somma del loro debito coi Numi pietosi. Io non lo dirò, lettrici mie belle, perchè non ho fatto studi sufficienti sulla materia, e non vorrei dire una sciocchezza sulla fede degli altri. Son ricco, in questo particolare, e spendo sempre del mio.

Nessuno mi domanderà che cosa fossero gli Dei Penati, e nessuno li confonderà, spero cogli Dei Lari. Ad ogni modo, prego i lettori a ricordare la distinzione fatta, nel primo capitolo della mia storia, tra queste due specie di numi. E proseguo, accennando che tra i Penati di Clodia Metella c'era Venere, la madre degli amori, bellissima statuetta in metallo di Corinto, dorato. Questo metallo era bronzo della qualità più fine, e ripeteva il suo nome dall'incendio di Corinto, quando la città, capitale della Lega Achea, fu presa ed arsa dal console Mummio, perchè appunto in quell'occasione gli ornamenti metallici dei templi e delle dimore private si fusero in guisa da formare quel ricco e solido amalgama, celebrato poi come ottimo per fondere statue.

Quella Venere, rappresentata nell'atto di uscire [100] dal bagno, era un miracolo di bellezza, e si diceva che l'artefice greco avesse tolto a modello il volto di Clodia. Possiamo dar la tara a questa asserzione, soggiungendo che lo scultore poteva benissimo avere adulato un tantino il suo esemplare. Io desumo questa mia opinione dall'aria di compiacenza con cui Clodia Metella si fermò a contemplare la statua; compiacenza molto simile a quella di una leggiadra donnina dei tempi nostri, quando guarda la prima copia del suo ritratto, ricevuta allora allora dal fotografo. S'intende, se la prova è riuscita bene. Ora, perchè una prova fotografica riesca bene, è assolutamente necessario che ci renda più belli del vero.

Venere usciva dal bagno, ho detto; e il lettore avrà già inteso che la dea si mostrasse spoglia di tutti quei veli importuni, ond'erano così poco amici, e giustamente, i nostri fratelli di Grecia. Eppure, vedete, quella Venere, così spogliata, aveva dato argomento alla vena sarcastica di Cicerone, che l'aveva audacemente gabellata per una Venere spogliatrice. E perchè? Pel doppio uso a cui serviva l'armadio. Da quello scrigno Clodia Metella aveva preso il denaro chiestole da Marco Celio; dunque là dentro ella custodiva i presenti ricevuti da tutti i vagheggini di Roma; e quella Venere, intorno a cui si ammonticchiavano le gemme e le perle, quella Venere si immedesimava con Clodia Metella, e l'una prendeva il soprannome di spogliatrice dall'altra.

Dobbiamo credere all'avvocato? Lettori e lettrici, io lascio la cosa nelle vostre mani, e lavo tranquillamente le mie.

[101]

Quelle di Clodia avevano intanto presa un'acerra, scatoletta quadra di avorio, coi pie' di bronzo, nella quale si conteneva l'incenso dei sacrifizi; e, presi su d'una paletta d'argento parecchi granellini del prezioso aroma, li gittavano entro un braciere rizzato su d'un'ara portabile davanti al simulacro della dea.

— Sii propizia, o madre! — disse Clodia Metella. — Io spero ogni cosa da te. —

Crepitò l'incenso sui carboni ardenti e levò una piccola nube di fumo, che andò a lambire il piede d'Afrodite.

Fatta la libazione sacra e notato il segno felice di quella linea diritta che aveva seguita il fumo del sacrifizio, Clodia Metella richiuse il tabernacolo ed uscì dalla stanza. Colà, infatti, ella non poteva ricevere visitatori; era quello il sacrario della bellezza, di cui un profano non doveva varcare la soglia.

«Vi sono certe cose che un uomo deve ignorare; — ha scritto Ovidio nella sua Arte d'amore. — Lasciateci credere che voi dormite ancora, mentre lavorate a farvi belle. Perchè avremmo noi a sapere a quali artifizi è dovuta la bianchezza della vostra pelle? Non venga un amante curioso a sorprendere il secreto di tutti que' vostri barattoli. Soltanto l'arte nascosta è quella che giova. Scoperta, si volgerebbe a danno vostro, e distruggerebbe la nostra fiducia per sempre. Vedete come è sottile quella lamina d'oro che orna le tende d'un teatro; guai se queste si lasciassero vedere dallo spettatore, prima di essere acconciamente disposte. [102] Siamo dunque intesi; certe cose hanno a farsi senza testimoni. Nec nisi submotis forma paranda viris.»

Ed anche noi siamo intesi. Clodia Metella, uscita dalla sua camera, andò a sedersi nel tablino, sotto gli occhi dell'ostiario e degli atriensi, cioè a dire del portinaio, che poteva vederla dal suo androne, e dei camerieri, che andavano e venivano lungo il colonnato dell'impluvio.

Anche questa era arte sopraffina. Lucrezia, la moglie di Collatino, con tutta la sua austerità matronale, non avrebbe pensato a custodirsi con tanto riguardo.

[103]

CAPITOLO VIII. L'attesa.

Se l'aveste veduta, come era bella, con quella sua stola di color d'ametista, fregiata d'oro sui lembi, che dava risalto alla marmorea bianchezza delle carni; opulenta di forme, ma snella in apparenza per la mirabile giustezza delle proporzioni; con que' suoi occhi profondi e languidi; con quelle chiome abbondanti, che luccicavano tra i due giri della vitta porporina, e col mazzocchio cadente in riccioluti corimbi sulla nuca; se l'aveste veduta, io metto pegno che avrebbe fatto dar volta ai vostri cervelli, come a quello di Valerio Catullo e di tanti altri suoi degni contemporanei.

Non era per quel giorno una bellezza procace, e molto negava delle sue lusinghe allo sguardo. Vi ho già detto che portava le braccia coperte da lunghe maniche, strette ai polsi con armille d'oro. In quei braccialetti foggiati a serpenti, erano incastonati [104] rubini e smeraldi; agli orecchi portava pendenti di perle; ma il collo non avea vezzi, oltre quelli di madre natura. E forse per questo appariva più bello.

Insomma, io penso che se l'avesse veduta in quel punto il banchiere Cepione, il più ricco usuraio delle Botteghe Vecchie, pur di baciare quel collo, avrebbe date volentieri le sostanze di cento figli di famiglia. Ma Clodia, dal canto suo, avrebbe ricusata quella ecatombe. Sono tanto bizzarre le donne!

Perchè ho tirato in ballo Cepione? Ah, maledetta lingua! Io vi sfringuello i segreti dell'arte mia prima del tempo. Fate conto che non abbia detto nulla; se no, addio interesse dell'opera.

Veduta la sua signora che entrava nel tablino, un servo si avanzò per prendere i suoi ordini. Era un adolescente, e voi già lo avete veduto portare la colazione.

— Sei tu, Carino? — chiese la bella patrizia, voltandosi languidamente sulla cathedra supina, sedia lunga, con la spalliera inclinata indietro, e senza bracciuoli, che era un quissimile delle moderne poltrone. — Vedi che ore sono. —

Carino usci nel cavedio (così aveva nome il vano dell'atrio, tra il compluvio e l'impluvio, dove batteva direttamente la luce) per dare un'occhiata all'emisfero, specie d'orologio solare, che prendeva il nome dalla sua rassomiglianza con un emisfero, o metà del globo, il quale si supponeva tagliato pel suo centro, nel piano d'uno de' suoi cerchi più grandi.

[105]

Prima di andar oltre nella descrizione, bisognerà dire qualche cosa intorno agli orologi e alla divisione del giorno in ore. Questa incominciò assai tardi presso i Romani, i quali non avevano nei primi secoli alcun mezzo per misurare e distinguere le ore, e fino al quarto secolo della loro storia non giunsero a stabilire il meriggio. In tre parti adunque dividevano il giorno: luce, crepuscolo e tenebre. La luce si spartiva in cinque periodi: mane, ad meridiem, meridies, de meridie, solis occasus. Il crepuscolo in due: vesper e prima fax, che sarebbe da noi l'ora nella quale i lampionai vanno attorno per accendere il gasse. Le tenebre in sette: concubium, nox intempesta, ad mediam noctem, media nox, de media nocte (o mediae noctis inclinatio), gallicinium, conticinium. Il concubium significava l'ora di andare a letto: la nox intempesta diceva non esser tempo da far nulla, salvo dormire; il gallicinium era il canto del gallo; il conticinium il silenzio del gallo, considerato come passaggio all'aurora. Voi lo vedete, o lettori; la nomenclatura era ricca, ma la distribuzione incertissima. Bastava ad esempio che un gallo non potesse dormir le sue ore, per guastare tutto l'ordine prestabilito.

Il primo strumento che ebbero i Romani per distinguere le ore fu un quadrante, ossia orologio solare, portato di Sicilia da Marco Valerio Messàla, dopo la presa di Catania, nell'anno 477 ab Urbe condita. Quinzio Marco Filippo, censore, ne stabilì uno più esatto nel 576. Ma questi orologi servivano solamente di giorno, e nei giorni di sole. Alle ore di notte aveva provveduto Scipione [106] Nasica nel 493, con la introduzione della clepsydra, vaso pieno d'acqua, da cui il liquido passava per un piccolo foro in un bacino sottoposto, ove, a misura che andava crescendo, sollevava un pezzetto di sughero, che indicava le ore. Questa clessidra, si chiamò anche orologio d'inverno, e il suo perfezionamento permise ai Romani di spartire il giorno naturale in ventiquattro ore, dodici delle quali assegnate costantemente al giorno artificiale, e dodici alla notte; per modo che erano le une a vicenda or più brevi ed or più lunghe, secondo le diverse stagioni.

L'uso del quadrante durando tuttavia (e dura anche adesso sotto il nome di meridiana), si provvide a farlo concordare con la divisione del giorno in ventiquattr'ore. Per esempio, l'emisfero di Clodia Metella, disco concavo, sostenuto da un Atlante di marmo, portava, giusta l'uso del tempo, le dodici ore di luce divise in quattro parti, ognuna delle quali rappresentava per conseguenza tre ore. Queste divisioni prendevano i nomi di prima, terza, sesta e nona, che sono giunti fino a noi colle Ore canoniche. Quanto alle ore della notte, anch'esse furono divise in quattro parti, distinte col nome di prima, seconda, terza e quarta vigilia, derivando il vocabolo dalla milizia e dall'uso dei soldati, che duravano in sentinella tre ore di seguito.

Adesso che mi sono mandato avanti questo po' di scienza imparaticcia, intenderemo il ragazzo Carino, che, dopo avere guardato l'emisfero e la linea d'ombra segnata dall'indice di bronzo, tornò nel tablino per dire:

[107]

— È vicina la terza. —

Segno che erano a un dipresso le undici del mattino, considerando che il sole era spuntato dopo le cinque. Inclinatio ad meridiem, avrebbero detto i Romani di dugent'anni prima.

Clodia Metella sospirò. Che fosse innamorata? Ma!... potrebbe anche darsi. Io, del resto, non vi assicuro nulla; dico che sospirò, e aggiungo che fece chiamare Eutiche, la fedele cameriera, per mandare i suoi comandi all'ostiario, o portinaio, se meglio vi torna.

— Verrà Caio Sempronio; — le disse; — fallo entrare.

— Sta bene; ma se venisse anche il vecchio Pluto? —

Pluto era il nome del dio delle ricchezze, ed era anche il soprannome che Clodia, ne' suoi dialoghi intimi con la fidata ornatrice, aveva dato all'argentario Cepione.

— Se venisse, — rispose Clodia, torcendo le labbra in atto di persona infastidita, — direte che non sono in casa.

— Ma... — soggiunse l'ornatrice, — se tu stai qui, mia signora, egli potrà vederti dal pròtiro. —

Eutiche non riusciva ad intendere perchè la sua padrona volesse quel giorno ricevere le sue visite alla presenza di tutti i famigli ed anche del primo venuto a cui si aprisse l'uscio di strada.

A questo proposito, mi sembra di avervi già detto, nella mia descrizione di una casa romana, che dall'androne dell'uscio si vedeva per l'appunto [108] il tablino, e che, se la mobile scena di quella camera fosse stata rimossa, si sarebbe anche potuto vedere il peristilio che veniva dopo, e l'eco, ultimo cortile di ogni abitazione un po' ragguardevole.

— È vero; — disse Clodia Metella, con aria sbadata. — Ma c'è rimedio. Dirai all'ostiario che cali la cortina del pròtiro. —

Eutiche s'inchinò, e veduto che la sua padrona non aveva più altro da comandarle, andò a dare le sue istruzioni all'ostiario. La cortina fu calata, e la quiete di Clodia Metella assicurata dallo sguardo dei visitatori importuni.

La bella patrizia si era mollemente abbandonata sulla spalliera del suo seggiolone, e, preso un codice che era su d'un monopodio lì presso, ne andava svolgendo le pagine.

È un errore il credere che i libri, nell'antica Roma, fossero tutti foggiati a volumi, o strisce di papiro incollate insieme, e arrotolate intorno ad un cilindro; donde l'espressione evolvere volumen per dire che si leggeva un libro. Questo era l'uso comune per le opere d'una certa lunghezza. Ma gli antichi avevano anche il codex, libro composto di fogli staccati, legati insieme nella forma dei libri moderni. Quei fogli erano sottili assicelle di legno, rivestite di cera, chiamate per l'appunto caudices; donde il nome di codice, rimasto poscia nell'uso, anche quando al legno si surrogò la carta, o la pergamena. E in questi libricciuoli non si scrivevano soltanto memorie e annotazioni, ma eziandio cose di maggiore importanza, come a [109] dire le leggi; donde più tardi il nome di codex Justinianeus, Theodosianus e via discorrendo, perchè appunto in quella forma di libro riusciva più facile riscontrare una massima, un responso, un canone di giurisprudenza.

Non argomentate da ciò che Clodia Metella rubasse il mestiere ai giureconsulti e studiasse in quel codice gli editti dei pretori, o le leggi delle Dodici Tavole. Dato che il codice fosse la forma più acconcia per un libro da leggicchiarsi senza troppo fastidio, è naturale il pensare che dovesse esser quella d'una raccolta di versi, o d'un romanzo, i soli volumi che potessero andar per le mani d'una signora, a cui non piacesse la disagiata postura che i pittori hanno data alla Sibilla di Cuma e a San Giovanni evangelista.

Clodia Metella aveva proprio per le mani un romanzo. Veramente, il vocabolo non era anche inventato, e dicevasi in quella vece una favola milesia. Perchè questo nome? Ve lo dirò in breve; perchè Mileto, nella Jonia, era la città in cui fiorì primieramente questo genere di letteratura. Distinto dalla storia, accanto ad essa, sorse il romanzo, dopo le conquiste d'Alessandro il Macedone. I vinti Persiani innestarono i propri costumi ai costumi greci, e nella Jonia, che era tragitto fra l'Asia e l'Europa, si composero le favole milesie; accolte con favore perfino dai severi Spartani. Il primo di tali romanzieri fu un Antonio Diogene, co' suoi Amori di Dinia e Dercillide; ma il più celebre di tutti, che può considerarsi il padre del romanzo antico, fu il milesio Aristippo, di cui si [110] citano, uno Specchio di Laide, e gli Amori d'Anzia e di Abròcomo. Le favole milesie passarono in Roma, per cura d'un Cornelio Sisenna, nel tempo che le fazioni di Silla e di Mario affliggevano la repubblica, e veramente (notano gli eruditi) sembrava che tali racconti fossero fatti per ricreare gli spiriti in mezzo alle sanguinose calamità della patria.

Or dunque, la nostra eroina leggicchiava il suo bravo romanzo, come potrebbe fare ognuna di voi, mie graziose lettrici. Se gliene fosse saltato il ticchio (io per altro non gliel'avrei augurato), Clodia Metella avrebbe potuto anche leggere un giornale, come fanno i vostri mariti, aspettando la colazione. Perchè, vedete, questo fiore della umana, sapienza non è mica una cosa moderna. Nil sub sole novi; i giornali, verbigrazia, si usavano già da molti anni in Roma, sotto il nome di acta diurna, e di acta urbis; che sarebbe come a dire i fatti della città.

Il vocabolo diarium era stato usato già da un Sempronio Asellio, il quale scriveva al tempo dell'assedio di Numanzia. Ma perchè c'è discrepanza tra i dotti intorno al vero significato della parola, ci atterremo soltanto a ciò che è stato dimostrato. E infatti si sa che gli acta diurna surrogarono in Roma gli annali dei pontefici, e che la loro pubblicazione dovette essere anteriore al primo consolato di Giulio Cesare (anno 690 ab Urbe condita), donde ebbe solamente principio quella degli Atti del Senato, che venne poi soppressa da Augusto, non permettendosi — più altra pubblicazione fuor [111] quella dei diurna, o diurni; vocabolo da cui si formò quello di diurnale, adoperato principalmente in materia liturgica.

Quei primi esemplari del giornalismo odierno erano una semplice ed arida enumerazione di fatti, e non avevano spesso neanche il merito dell'esattezza. Ma questo, diranno i maligni, è un peccato originale che non hanno lavato più mai. Come si divulgavano? Chi li scriveva? Non se n'ha lume; nessun giornalista ci è stato conservato nelle ceneri pompeiane, o tra i cocci del monte Testaccio. Questo sappiamo, che i giornali, quantunque scritti da gente oscura, si leggevano comunemente, anche dalle signore, mentre sedevano allo specchio e flagellavano a sangue le cosmète che non facevano il loro dovere. Ce lo racconta Giovenale:

Et caedens longi relegit transacta diurni.

L'emisfero del cavedio segnava la terza, e Clodia Metella aveva a mala pena leggiucchiato due pagine della sua favola greca (il greco era per le Romane d'allora quello che è il francese per le dame del tempo nostro) quando si udì un colpo discretamente dato col picchiotto di bronzo all'uscio di strada. Poco dopo, l'ostiario trasse la fune del saliscendi e la porta cigolò sui cardini. Clodia Metella volse a mezzo la testa e diede una sbirciata là in fondo. La cortina si alzava in quel punto; segno che il visitatore era proprio quel desso che la signora aspettava.

Tizio Caio Sempronio comparve nel vano dell'androne, [112] elegantemente vestito di due tuniche, la subucula e l'angusticlavia; quella di lana tinta in violetto, con lunghe maniche, e il lembo che giungeva alla metà della gamba; questa di lana candidissima, con maniche corte e il lembo che terminava alla metà della coscia. Una cintura nascosta sotto un giro di dotte pieghe, le stringeva ambedue alla vita, rompendo artisticamente la dirittura delle due strette liste di porpora, cucite sulla tunica superiore, che erano il distintivo dell'ordine equestre, e che davano appunto alla tunica il suo nome di angusticlavia. Un calzaretto di cuoio colorato come la subucula, allacciato con fettucce incrociate sul collo del piede e avvolte intorno alla gamba fino al principio del polpaccio, compiva dal basso il vestimento del bel cavaliere. Una toga, non troppo stringata nè larga, gli girava intorno al collo, leggiadramente annodata sulla spalla sinistra e trattenuta da un fermaglio d'oro, in cui si vedeva incastonata una gemma. Nella mano destra teneva il pètaso, che si era levato pur dianzi dal capo, mostrando le chiome bionde e ricciolute, spartite con una precisione inappuntabile nel bel mezzo della fronte.

Il nostro cavaliere apparteneva alla classe degli uomini delicati, e non andava per via senza cappello. Del resto, o cappello o berretto, l'usanza di coprire il capo era molto comune. La statuaria romana non ha tenuto conto del cappello, se non per rappresentarci Mercurio, o qualche araldo in viaggio; ma che per ciò? Neanche l'arte nuova dei tempi nostri ardisce scolpire i grandi uomini [113] con la tuba, e i tardi nepoti, se dovessero prender norma dalle nostre scolture, avrebbero a credere che nel secolo decimonono andassero a capo scoperto anche i generali più freddolosi e più gelosamente inferraiolati del mondo. Manfredo Fanti informi, dal suo piedistallo della piazza di San Marco, a Firenze.

Lasciamo dunque da parte le testimonianze infedeli dell'arte scultoria, e badiamo piuttosto agli scrittori latini e a quel tanto di pittura domestica che ci fu conservato da un felice capriccio del Vesuvio. Era lecito agli antichissimi Romani di andare a capo ignudo, in quella guisa che era lecito di portare per unico vestimento un gonnellino intorno alle reni, come i Ceteghi berteggiati da Orazio, o di coprire la nudità con un semplice mantello, come Valerio Publicola, e di custodirsi il capo dai raggi di Febo con un lembo della toga, imitando la frettolosa acconciatura dei cittadini di Gabio. Ma i libri e i dipinti ci mostrano che i Romani non tardarono molto ad imitare dai Greci il pileus e il pileolus, di guisa che se ne videro d'ogni forma, dal berretto frigio di Paride al romano di Bruto, dal berrettino di Priamo a quello di Orazio Flacco, quando era in casa. Il pileus fu il distintivo degli uomini liberi; lo si concedeva ai servi liberati, donde il modo proverbiale: ad pileum vocare; e lo portavano tutti gli schiavi di Roma, nella mascherata dei Saturnali.

Quanto al petasus, cappello di feltro con la fascia bassa e la tesa larga, che gli scultori greci non poterono dispensarsi dal mettere in capo ai cavalieri [114] della processione Panatenaica, effigiati sul Partenone, lo vediamo citato da tutti gli scrittori latini, come un capo di vestiario usato comunemente per via. Plauto lo accenna in più luoghi. Leggete Svetonio e vedrete Augusto che portava il cappello, e così volontieri, da non saperne star senza, neanche tra le pareti domestiche. E questo mi pare un argomento da troncare ogni disputa.

Gabellatemi dunque il cappello di Tizio Caio Sempronio. In altre cose moltissime i Romani antichi non erano dissimili da noi, quantunque l'abitudine del vederli in tragedia ce li abbia fatti credere diversi di costume e di sentimenti. La natura umana è sempre e dovunque la stessa, e i Romani non avevano soltanto la più parte dei nostri usi, ma altresì un buon numero delle nostre delicatezze, ed anche dei nostri vizi. Una cosa non pare che avessero al medesimo grado di noi, quella che certuni chiamano verecondia, ed altri ipocrisia. Ma questa è veramente virtù moderna, e i novellieri italiani e francesi ci mostrano che in tutto il medio evo la si conosceva poco in Europa. E forse anche oggi è praticata ugualmente dappertutto? Noi, verbigrazia, abitatori del continente europeo, non abbiamo tutti gli scrupoli e le titubanze degli Inglesi, e parliamo liberamente delle nostre camicie. È vero, per altro, che non citiamo più ogni sorte d'indumenti, in una scelta conversazione; segno che la verecondia anche tra noi fa passi da gigante.

Ma questa è apparenza. Nella sostanza noi siamo pari agli antichi Romani, e questi somigliavano a [115] noi. Gli uomini di Plutarco, tanto citati a titolo di onore, ne facevano d'ogni cotta, e qualche volta avevano bisogno di cansare il biasimo con un arguto spediente, come avvenne, per esempio, a Scipione Africano, quando gli si domandarono i conti del denaro ricevuto da Antioco. Siamo lungi dai nostri due personaggi. Ma aspettate, fo un salto e ritorno nell'atrio.

[116]

CAPITOLO IX. Duettino d'amore.

L'ostiario aveva già pronunziato il necessario: «quis tu?» e, udito il nome del cavaliere, lo ripeteva ad alta voce all'atriense, che era il valletto d'anticamera, il lacchè della padrona di casa. E questi a sua volta, indettato dall'ornatrice, precedeva il visitatore nel tablino.

Caio Sempronio si avanzò con aria disinvolta e col sorriso sul labbro. Clodia Metella, fingendo di vederlo allora, si alzò a mezzo dal suo seggiolone, e, deposto il codice sul monopodio (che era poi, come vi dice il nome greco, una tavola sorretta da un solo piede), offerse la sua candida mano al nuovo venuto.

Quasi sarebbe inutile il dirvi che il nostro cavaliere la prese e la baciò divotamente col sommo delle labbra.

— Divina Clodia, — diss'egli, — io ti son grato [117] di due cose, e dell'avviso amichevole e del permesso che mi hai accordato di venire ad ossequiarti. Come vedi, non sono anche stato fatto in tre pezzi.

— Ah, sì; — rispose la bella matrona, con aria impacciata; — pensavo anch'io che l'avvertimento non doveva esser preso alla lettera. Ma ero tanto commossa! Ti conoscevo solamente per fama, e mi sapeva male che un gentil cavaliere, come tu sei, potesse correre un pericolo. Sai pure che noi donne ci spaventiamo di poco; e i sogni, dopo tutto....

— Sono mandati da Giove; lo ha detto Omero. Ed io ti ringrazio di avermi avvisato. Farò buona custodia intorno al mio petto. Del resto, io m'avvedo d'esser caro agli Dei, poichè essi mi fanno ottenere quello che io desideravo ardentemente da un pezzo.

— Che cosa? — dimandò ella, così candidamente, che più non avrebbe potuto una fanciulla di quindici anni.

— Di conoscerti da vicino, — rispose Caio Sempronio, inchinandosi, — di essere annoverato fra i tuoi servitori. —

Un amabile sorriso fu la ricompensa del nostro cavaliere. Clodia Metella poteva ridere senza paura; i trentadue denti che metteva in mostra erano suoi, e per diritto di nascita, non già in quel modo che Marziale rimproverava a madonna Luconia.

— Adulatore! — mormorò ella, schermendosi modestamente. — Che vedi in me di preclaro?

— La forma, prima di tutto; l'ingegno, poi.

[118]

— Come? Tu metti l'ingegno al secondo luogo?

— Sì, perdonami, o Clodia. La prima bellezza è quella del volto, perchè è la prima a vedersi. In un bel volto c'è la promessa di una bell'anima. E il tuo mantiene le promesse, mi pare.

— Ah, non lo credono tutti; — diss'ella, sospirando.

— Che farci, signora mia? Persuader tutti e piacere a tutti, sono due cose egualmente impossibili.

— È giusto; ma una donna dovrebbe avere almeno il diritto di essere stimata per quel che vale.

— Lo sei; — notò gentilmente Caio Sempronio, a cui una bugia non pareva in quella occasione un troppo grave peccato.

— Non lo sono, e mi duole; — replicò vivacemente Clodia Metella. — Tu parlavi poc'anzi della forma. Sì, voglio ammetterlo, poichè tu lo dici, son bella.....

— La bellezza è un dolce dono degli Dei; — interruppe galantemente Caio Sempronio.

— Ah, non lo dire! Essa è un triste dono, il più triste che gli Dei possano fare ad una donna. Fortuna che passa presto, e la mia è presso a fuggirsene.

— Che dici tu mai?

— Il vero. Non sai? Sono nata sotto la dittatura di Silla. —

Questa di Clodia Metella doveva essere una bugia ben più grossa di quella del suo interlocutore. Lucio Cornelio Siila era stato dittatore tra il 672 e il 675 di Roma. Clodia Metella si attribuiva dunque [119] dai ventotto ai trent'anni, mentre io e voi, lettori umanissimi, gliene avremmo dato almeno cinque di più.

Ma io e voi non siamo nei panni di Tizio Caio Sempronio.

— Perdonami, — diss'egli, scuotendo il capo in atto d'incredulità, — se io non riconosco questo merito alla dittatura di Silla. Il mio genio mi dice che tu sei nata sotto il consolato di Licinio Lucullo e di Aurelio Cotta. —

A quel furbo di Caio Sempronio non bastavano i cinque anni sottratti da Clodia; ne sottraeva altri cinque a sua volta.

— Via! lasciamo le adulazioni! — rispose Clodia sorridendo. — Il tuo genio travede.

— Sarebbe la prima volta; per solito egli non m'inganna. Del resto, egli mi ama, e non c'è niente di strano se vede co' miei occhi. Ora i miei occhi ti dicono bellissima tra le giovani patrizie di Roma. Qual meraviglia se la tua bellezza è il desiderio e lo struggimento di mille?

— Vedi, è questo il mio rammarico! — soggiunse Clodia Metella, afferrando l'occasione al varco. — Ah, gli uomini son tristi. Perchè ad una povera donna sorridono ancora i doni della gioventù, le si fanno intorno a gara, come i Proci intorno alla moglie d'Ulisse. Mostrarsi austere? Non giova; anzi, puoi metter pegno che nuoce. Nel concetto degli uomini, una donna che li respinge tutti apertamente, lascia credere che ne ami troppo e celatamente uno solo. E perchè siamo onestamente cortesi con tutti, perchè li lasciamo [120] avvicinarsi a noi, vedere la nostra casa, come sia priva di nascondigli, vigilata da cent'occhi ad ogni ora del giorno — (così dicendo Clodia Metella accennava all'atrio, donde passavano allora per caso due schiave, recando fiori al larario) — eccoli inventare, o lasciar credere, che è peggio, le più liete fortune. Ammessi in casa tua, ti derubano, e ti infamano per la bocca dei loro difensori. I più discreti confidano alle Muse i sognati amori e chiamano l'universale a confidente dei loro audacissimi vanti. —

Marco Celio Rufo e Caio Valerio Catullo erano serviti ambedue senza tanti riguardi. E non pareva lei, mentre parlava così; la si sarebbe creduta Astrea corrucciata, che minacciasse di volarsene al cielo, per fuggire al consorzio degli uomin iniqui, o la Verità, costretta per sua salvezza a rifugiarsi in un pozzo.

Non vi dirò che al nostro cavaliere quella difesa di Clodia paresse oro di coppella. Ma anche dando la tara alle ragioni di lei, non potè fare a meno di riconoscere che in tesi generale Clodia aveva ragione. Le donne sono così facilmente calunniate, come sono amate e desiderate. La loro debolezza è un invito alla prepotenza degli uomini.

La conversazione volgeva al serio, e Caio Sempronio tentò di ricondurla sul primo tono.

— Ah i poeti! — esclamò. — Non ne conosco che uno, il cui animo sia bello come i suoi versi.

— L'araba fenice, dunque? — ripigliò Clodia [121] Metella, seguendo senza fatica quel nuovo giro dato da Caio Sempronio al discorso. — E chi è costui?

— Cinzio Numeriano, un bravo giovinotto, modesto e buono, che farà a giorni le sue nozze con una bellissima Greca. Sarò io il suo auspice, e già l'ho fatto ricco, perchè non abbia a far altro che amare e cantare, alla guisa degli usignuoli.

— Dei buoni! Hai fatto questo? — gridò Clodia Metella ammirata. — Oh come sei grande! Veramente nobile è l'uso che fai delle tue molte ricchezze. Viver lieto con gli amici, onorare gl'ingegni, che dovranno illustrare anche nelle arti e nelle lettere il gran nome di Roma, contendere alla Grecia il vanto della gentilezza e della eleganza, è questa un'opera degna di te. Come ti imiterei volentieri!

— Che ti trattiene dal farlo?

— Non son ricca, o per dir meglio, non lo sono tanto da colorire tutti i disegni che ho nella mente.

— Perdonami, divina Clodia; a te non fa mestieri quel che bisogna a me. Una donna bella ha in sè stessa una virtù che manca all'uomo. La luce che emana da lei illumina e riscalda come quella del sole, e fa sbocciare i fiori dell'intelletto, come l'altra i fiori del prato.

— Bel paragone, ma falso come tutti i paragoni. Io so quel che posso, e non è molto, pur troppo; — rispose Clodia Metella, con un sospiro. — Uomini e donne, non possiamo veramente esser utili [122] altrui, se non siamo potenti. Anche la bellezza non risplende, se tu non la collochi in alto; almeno, — soggiunse, correggendo la frase e accompagnando le parole con un mite sorriso, — essa non risponde all'ufficio che tu vorresti assegnarle, quello di illuminare. E sarebbe pure così bello, spandere in benefizi intorno a noi quello che Giove ci ha largito, di ricchezza e di forza! A che raggruzzolare, per una generazione di immemori eredi? A che restringersi nelle pallide cure, quando si vive una volta sola e l'Orco avaro ci rapisce ogni cosa in un colpo?

— Così penso ancor io, — disse Caio Sempronio, — quantunque non sappia dirlo così bene. Tu hai l'ingegno ornato, e veramente felice è colui che ti ascolta. Tu leggevi poc'anzi, ed io forse ho interrotto....

— Oh no, niente di grave. Del resto, i gravi studi non sono fatti per noi. Leggevo una favola milesia. Sai pure, è la favola che ci consola qualche volta della triste verità.

— Lascialo dire a noi, bellissima Clodia. Tu stessa puoi dar vita a quanto di più leggiadro saprebbe immaginare la fantasia d'un poeta della Jonia. —

Il complimento era un po' stiracchiato, ma Caio Sempronio lì per lì non aveva trovato niente di meglio.

— Ah così fosse! — esclamò Clodia Metella. — Leggevo appunto di due anime amanti che fuggirono alle noie della vita cittadina, per foggiarsi un mondo a lor posta nella pace dei campi. E [123] un giorno o l'altro, chi sa? anche sola, io me ne andrò a rifugio nel mio podere d'Albano, per fantasticare nei boschi, dopo aver atteso alle cure domestiche e distribuito il còmpito alla famiglia.

— Come? Ardiresti privar noi, Roma tutta, delle tue grazie ammirabili? Tu, nata per le tede nuziali?

— Ma sì, io; — rispose Clodia, scuotendo fieramente la bellissima testa. — Troppo fosca luce hanno data le prime tede nuziali per me; frattanto, questa insidiata solitudine mi pesa. Ti parlavo poc'anzi dei Proci. Orbene, son troppi, e troppo molesti, i pretendenti intorno a Penelope; taluni di essi anche odiosi. —

Caio Sempronio ebbe una stretta al cuore. Non si sta impunemente al fianco di una bella donna, ed ogni accenno ad altri uomini che le facciano la corte, o sperino qualche cosa da lei, ci dà noia, come l'immagine d'un rivale che di repente s'intrometta fra lei e noi. Non siamo ancora innamorati, e già siamo diventati gelosi.

— E chi, di grazia? — domandò egli, turbato.

Clodia Metella notò quella sollecitudine, strana abbastanza per un primo incontro; ma fece le viste di non addarsene, o di trovarla naturalissima, che torna lo stesso.

— Non so se faccio bene a dirtelo; — rispose ella, con una esitazione che accresceva il pregio della confidenza. — Ma già tu sei uno de' pochi Romani, che valgano qualche cosa e in cui una donna possa confidarsi a chius'occhi. Cepione!

[124]

— L'usuraio?... Cioè, — soggiunse Caio Sempronio, tentando di cogliere al volo la parola fuggita, — volevo dire, il banchiere?

— Proprio lui; — disse Clodia Metella, crollando mestamente il capo. — Vedi un po' i graziosi vagheggini che mi tocca sopportare! E poi mi parli di tede nuziali! Di bellezza che illumina e riscalda! Ho ferito il cuore di uno tra i più ricchi, ma anche tra i più spregevoli cittadini di Roma. Debbo io ringraziar Venere protettrice per quel resto di bellezza che.... ti piace di trovare in me?

— Amabil resto, di cui ogni cavaliere romano si contenterebbe, lasciando per esso tutte le Dee dell'Olimpo!

— Pazzo! — esclamò Clodia Metella, facendo con le labbra la più leggiadra smorfia del mondo. — Sarai dunque incorreggibile?

— Dimmi costante, padrona mia. Si è incorreggibili nei vizi, costanti nelle virtù. —

Noti il discreto lettore quel «padrona mia» gittato là, in un momento di tenerezza, dal nostro Caio Sempronio. «Divina» e «bellissima» erano aggettivi che si spendevano senza troppo riguardo con tutte le donne; laddove il «padrona mia» (hera mea) non si diceva che alla donna del cuore. Come vedete, il nostro cavaliere non ci andava di gamba malata.

— E sia, — ripigliò Clodia Metella, senza far le viste dì aver notata quella rapida progressione, — diciamo pure costante, sebbene la costanza accenni ad un passato..... che nel caso nostro non vedo.

[125]

— Si fa molto cammino in breve ora, quando si ha la fortuna di vederti, o bellissima Clodia. Ma dimmi piuttosto, — soggiunse, non volendo aver l'aria di insistere su quell'argomento delicato, — Cupido è dunque riuscito a penetrare co' suoi dardi quella montagna di carne? —

La bella patrizia, con tutto il desiderio che aveva di stare in contegno, non potè trattenere le risa, a quella pittura che Caio Sempronio faceva del galante argentario.

— Dèi buoni! — esclamò. — Ignoro come ciò sia avvenuto; ma debbo argomentarlo dalla guerra spietata che egli mi fa. E ne sono veramente seccata. Vedi un po' la strana pretesa! Perchè mi ha reso un servizio, della sua professione, s'intende, e che io pago profumatamente, il degno banchiere si è fitto in capo...

— Di prendere un altro interesse sopra il tuo cuore? — domandò Caio Sempronio.

— Per l'appunto. Ed io non so se debba ridere, o andare in collera. Ma la faremo finita ben presto. Gli restituirò il suo denaro, dovessi anche vendere le mie gemme, e lo farò mettere alla porta.

— Poveretto! Vorrai punire i suoi occhi di avere amata la luce?

— Tu lo difendi ancora?

— Non lui, per verità. Tratto la causa di tutti coloro che hanno la fortuna di avvicinarti; — disse Caio Sempronio, cercando di ricondurre la conversazione sul tenero. — Non potrei io alla mia volta apparirti noioso? —

[126]

Clodia non rispose nulla a quella domanda incalzante. E neppure alzò gli occhi a guardare il giovinotto, intesa com'era a baloccarsi cogli anelli che aveva nelle dita.

— E ciò sarebbe doloroso per me, — soggiunse il cavaliere, — assai doloroso, dopo averti conosciuta. Perdonami, sai, ma io dico quello che sento. Buona come sei, devi lasciarti ammirare, e lasciartelo dire. È uno sterile conforto, lo so; ma almeno potrò pensare che tu non ignori il mio male, quantunque avara di farmachi. E poi, non è del tutto infelice chi prega e spera; infelice è colui che, dopo aver contemplato il sole, è risospinto nelle tenebre.

— Basta, basta, pericoloso ragionatore! Con la tua lingua soave faresti muovere i sassi, come già avvenne ad Orfeo; — disse Clodia Metella, smozzicando amabilmente le parole.

Era costume delle dame romane, uguali in cotesto alle moderne sirene, di cincischiare il discorso, simulando qualche esitanza di lingua e togliendo perfino dalle parole qualche lettera indispensabile (litera legitima) che suonasse troppo aspra al palato.

— Vedete qua, — proseguiva Clodia Metella, — Tizio Caio Sempronio, il più elegante e il più celebrato dei cavalieri di Roma, che si adatta a sprecare il suo tempo prezioso con una povera donna, a cui la giovinezza più non fiorisce le guance. Avessi quattro lustri, almeno!

— Li hai sempre, e non un giorno di più. Te lo dicono i miei occhi innamorati; te lo dica [127] il mio sangue, che riarde nelle vene. Dove tu sei, divina Clodia, non osino mostrarsi Ebe ed Erigone.

— Cessa, te ne prego! — mormorò ella, colta da una commozione improvvisa.

Due lagrime intanto spuntarono dagli occhi di lei e scesero lente lunghesso le guance.

Caio Sempronio rimase di sasso. La vide farsi bianca in viso come il marmo di Paro; quelle lagrime, poi (badate che l'immagine è classica), scorrevano come l'acqua di sotto alla neve disciolta, e dalla stretta dolorosa che n'ebbe, quelle lagrime gli parvero il suo proprio sangue che gli grondasse dal cuore. Leggete Ovidio, che dice la medesima cosa in versi latini.

Ovidio, per allora, non aveva anche messi i lattaiuoli. Caio Sempronio, punto pratico dell'Arte amandi, la quale era di là da venire, si spaventò di quelle lagrime.

— Ti ho forse offesa? — gridò, profondamente turbato. — Perdona il mio ardimento, te ne supplico.

— No, non mi hai offesa; — rispose Clodia asciugandosi le molli rugiade; — pensavo al contrasto delle tue dolci parole con tutti i dolori che mi sono derivati da questo dono fatale dei Numi. Oh, i giudizi del volgo! Se la gente sapesse da quali impure fonti ella attinge, e qual maestro di dotte calunnie è l'amor proprio ferito di certi uomini, o la gelosa invidia di certe donne! E sei tu sincero, parlandomi come hai fatto poc'anzi? Puoi esserlo, dopo tutto quello che si è malignato sul [128] conto mio? Non hai forse pensato fra te che alla donna dei mille amanti si poteva parlare a tutta prima d'amore?

— Oh il brutto pensiero che t'è venuto in mente! — gridò Caio Sempronio, con accento di rimprovero. — Ti ho detto quel che sentivo, lo giuro per gli Dei immortali.

— Del resto, che importa? — ripigliò Clodia Metella, crollando superbamente il capo. — Pensi il volgo ciò che gli piace. Mi giudichi male la stoltezza, mi morda l'invidia, mi perseguiti il rancore; purchè uno mi stimi, io non mi lagno del fato. —

«Purchè uno mi stimi» capite? Era il colpo di grazia, e Caio Sempronio lo ricevette in pieno, nella parte più vitale. In lui, come in tutti gli uomini, la parte più vitale non era forse la vanità?

Caio Sempronio prese amorevolmente la mano di Clodia e la carezzò, come si farebbe della mano d'un bambino che si vuol rabbonire.

— Padrona mia, — le disse, col più soave accento che uscisse mai dalle labbra d'un uomo, — tu lo sai, tu lo senti, che io ti stimo, come meriti di essere stimata da ognuno. Non mi credere un temerario vanitoso, se troppo presto ti ho palesato il segreto dell'anima mia. Certo, non era presto per me. Da tanto tempo la tua bella immagine mi stava scolpita nel cuore! Ti vedevo spesso, nella tua lettiga per via, nelle feste, nei teatri, sempre ammirata, corteggiata da mille adoratori, sfortunati, sì, ma non meno adoratori per questo, [129] non meno solleciti intorno a te; mentre io ero lunge, non veduto da te, e senza il coraggio di avvicinarmi mai. Fin da allora ti amavo, o bellissima Clodia; ciò ch'io t'ho detto poc'anzi non era che la continuazione di un vecchio monologo. E tu condannami ora; statuisci la pena, sono pronto a subirla. —

Clodia Metella non rispondeva; ma non aveva neanche ritirata la mano, prigioniera d'amore tra le mani del nostro infiammabile eroe.

[130]

CAPITOLO X. Il terzo incomodo.

Tutto ad un tratto la bella indolente ritrasse la mano. Caio Sempronio credette di averla offesa col suo ardimento, e rimase perplesso, tra lo stupore dell'atto improvviso e il desiderio di trovare una parola per iscusarsi con lei. Ma gli occhi di Clodia non avevano mutato espressione; il suo viso spirava la calma e la benevolenza consueta. Perchè dunque Clodia Metella aveva ritirata la mano?

Il nostro eroe non ebbe a penar molto per saperne il perchè. Clodia Metella, che sedeva colla fronte rivolta all'entrata, aveva veduto accorrere il suo servitorello dal pròtiro, donde era giunto al suo orecchio un rumore confuso di voci, come di gente che altercasse sull'uscio.

Usiamo del nostro diritto e corriamo a vedere che cosa accadesse laggiù.

— Ma se ti dico che sono invenzioni! Figùrati [131] se per un mio pari ci dovrà esser mai porta muta! Aprimi questo cancello, per Ercole, e bada di non averti a pentire! —

L'uomo che così parlava, sbuffando ad ogni tratto come un vitello marino, cercava intanto di spingere l'ostiario, per entrare nel suo camerino, donde sarebbe potuto riuscire nell'atrio, senza bisogno di farsi aprire i due battenti del cancello.

Ma l'ostiario aveva una consegna e non si lasciava intimorire dalle minacce, nè spingere indietro dagli urti imperiosi del nuovo venuto.

— Nobilissimo Cepione, — diss'egli, — tu non entrerai. —

E con modi rispettosamente severi, s'industriava di mettergli le mani a posto.

— Ecco due frasi che cozzano! — gridò Cepione. — Nobilissimo è un titolo che mi piace. Sono della gente Servilia e tu mostri di non essertene dimenticato del tutto. Ma tu aggiungi, stupidissimo uomo, che non entrerò? Entrerò, a dispetto di Cerbero, entrerò in questa casa, come Quinto Servilio Cepione, mio illustre antenato ed omonimo, entrò nella città di Tolosa. —

Intanto il paggio Carino era giunto al cospetto della padrona.

— Che cosa è stato? — dimandò Clodia Metella, senza punto scomporsi.

— Cepione, il banchiere, che vuole entrare ad ogni costo; — rispose Carino.

— Non gli hanno detto che sono fuori di casa?

— Sì, ma egli non ha voluto crederlo, e giura che ha da parlarti di cose urgenti. —

[132]

Clodia Metella torse il viso, in atto di profondo fastidio.

— Le cose urgenti di Servilio Cepione! — mormorò poscia, con accento sarcastico, rivolgendosi al suo giovine visitatore.

— Urgenti, o no, lascialo entrare; — diss'egli a mezza voce.

— Ma egli ti riuscirà molesto.

— Che farci? Bisogna saper anche patire qualche cosa. Del resto, egli è venuto a cercare la luce del sole. Concedine un raggio al nuovo Prometeo. —

Carino interrogò con lo sguardo la sua bella padrona, sul cui labbro le parole di Caio Sempronio avevano chiamato il sorriso. E veduto il cenno di assentimento che essa gli fece, il vispo adolescente corse a levar la consegna all'ostiario.

— Eccoti interrotto ne' tuoi voli pindarici! — notò argutamente Clodia Metella, ripigliando il discorso con Caio Sempronio.

— Per quest'oggi; — rispose egli, con aria di rassegnazione. — Ma non mi permetterai tu di continuare, o divina? —

Un nuovo sorriso balenò dal volto di Clodia e la bellissima destra tornò per pochi istanti tra le mani del nostro eroe, che v'attinse il coraggio a sopportare la compagnia di Servilio Cepione.

Costui vi è già noto, o lettori. Era il famoso banchiere delle Botteghe Vecchie, il creditore spietato di Lucio Postumio Floro e di tanti altri giovani patrizii romani. Imprestava al dodici per cento, che era l'interesse legale. Le dodici Tavole parlavano [133] chiaro: si quis unciario foenore amplius foenerassit, quadruplione luito; che è come a dire: se taluno darà a prestito oltre il dodici per cento, sia condannato nel quadruplo. Ma gli usurai avevano trovato ben presto la malizia per eludere la legge, fingendo vendite di merci, a cui attribuivano un valore doppio e triplo del vero, e vi è permesso di credere che Quinto Servilio Cepione non fosse in quest'arte da meno de' suoi degni colleghi. Lo accusavano altresì di tosar le monete; ma di questo io non potrei starvi mallevadore, ricordando come sia facile il volgo a credere il peggio, dove ci sia già l'indizio del male. Dice argutamente un proverbio francese: non s'impresta che ai ricchi.

Quanto alla boria nobilesca del nostro banchiere, va notato che, se egli non era proprio della gente Servilia, una delle antichissime di Roma, ci fallava di poco, essendo i suoi maggiori di gente servile. Il suo bisavolo era stato schiavo ed avea preso il nome di Quinto Servilio Cepione, quello stesso che era stato console nell'anno 648 di Roma, e che, dopo avere espugnata Tolosa, si era fatto sconfiggere un anno dopo dai Cimbri, lasciando sul campo ottantamila soldati. I figli del liberto erano diventati ingenui, e nel lucroso mestiere degli argentarii si consolavano della poca stima in cui erano tenuti da coloro che potevano vantare una lunga serie di liberi antenati e tutti i privilegi inerenti al diritto gentilizio. Ma così non la intendeva il quarto discendente ingenuo del nuovo ramo Servilio. Il nome illustre lo aveva, e questo [134] gli pareva titolo bastante, se non forse ad ottenere una magistratura e ad essere eletto sacerdote, almeno a tenere nel suo atrio le immagini degli antenati, mescolando abilmente i mezzi busti di quattro consoli, che erano Cepioni autentici, con quelli di quattro argentarii, che erano Cepioni sì, ma apocrifi. Avete già udito come si empiesse la bocca di quella sua derivazione consolare. Non dubitate, la metteva fuori ad ogni tratto, e s'impancava coi patrizii, senza un pensiero al mondo di ciò che altri dicesse alle sue spalle. Del resto coi patrizii avea relazioni frequenti e strettissime; relazioni d'usuraio, come vi ho detto, ma che gli meritavano inchini, sorrisi e strette di mano. E questo, in attesa delle maledizioni, che non potevano mancargli alla scadenza del debito, questo nutriva la vanità del nobilissimo uomo.

Era egli, come vi ha detto Caio Sempronio, una montagna di carne. Aveva piccina la testa e grossolane le fattezze. La barba, rasa sulle guancie, gli girava a mo' di collare intorno alle mascelle, nascondendo la pappagorgia che gli pendeva sotto il mento. Postumio Floro diceva di quella barba: — è la forca che tu meriti, o Cepione, segnata anticipatamente intorno al tuo collo. —

Il nobilissimo uomo entrò sotto l'atrio con passo risoluto, ma barellando un pochino per cagione di quel buzzo che doveva portare con sè, e dondolando sotto alla risvolta della toga il braccio corto e massiccio. Gli occhi piccini e luccicanti, le gote rubiconde come i rosolacci, le labbra tumide [135] e per giunta allungate da un certo suo vezzo tra l'orgoglioso e il beffardo, finalmente quella pappagorgia che vi ho detto più su, davano al nostro Cepione una certa rassomiglianza con un tacchino. S'intende che nella mente sua egli si teneva per un gallo.

Si avanzò fino alla soglia del tablino, e, avvedutosi di quell'altro, gli gittò un'occhiata, da cui traspariva tutto il suo malcontento. Ma quell'altro non era nobile per nulla, e nobile di ventiquattro carati, come sapete; donde avvenne che gliene rimandasse un'altra così altezzosa, da mutar la burbanza di Quinto Servilio Cepione nel più amabile dei sorrisi, accompagnato dal più servile tra tutti gli inchini.

— E così, mia bella padrona, — incominciò il banchiere, rivolgendosi a Clodia Metella, — tu non eri oggi in casa pel tuo servo Cepione?

— Sei entrato e mi trovi; — rispose Clodia senza scomporsi; — segno che c'ero per te, come per tutti.

— Sì, sono entrato; ma dopo aver fatte le mie lagnanze all'ostiario.

— Ed hai fatto benissimo; — disse la furba matrona. — Se tu non avessi alzata la voce, non avrei udito nulla e non avrei potuto sapere che l'ostiario interpretava male i miei desiderii. —

Cepione rispose a quell'abile scappatoia con una crollatina di testa e con un certo ehm, che pareva una specie di compromesso tra il dubbio interno e l'obbligo di accettare quella scusa per buona.

[136]

— Eccoti il banchiere Cepione.... Quinto Servilio Cepione; — soggiunse Clodia, presentando il nuovo venuto al suo primo visitatore; — ed ecco a te, — ripigliò, volgendosi al banchiere, — il nostro chiarissimo Tizio Caio Sempronio, onore dei cavalieri romani. —

Avete mai veduto due cani ringhiosi, che già erano sul punto di avventarsi l'uno contro l'altro, ma che, ripresi in tempo da una parola severa del padrone, capiscono di doverla smettere, e, quantunque brontolando, s'accostano dimessamente e si scambiano la fiutatina d'obbligo? Se li avete veduti, intenderete a un dipresso come si salutassero quei due cittadini romani, nel tablino di Clodia Metella.

— Conosco il banchiere Cepione; — disse Caio Sempronio, con aria di bontà, da cui trapelava un po' d'ironia; — me ne ha parlato molto l'amico mio Postumio Floro.

— Sì... un bravo giovinotto; — borbottò Cepione, che non sapeva per qual verso pigliarla. — Ieri mattina mi ha restituito quarantamila sesterzi, che gli avevo cortesemente imprestati. È strano, per altro; — soggiunse, dando un'occhiata maliziosa al cavaliere; — i sacchetti delle monete portavano il sigillo di casa Sempronia.

— Ti è lecito di credere, — disse il cavaliere, con un suo risolino a fior di labbra, — che io gli dovessi del danaro e che glielo abbia restituito.

— Lo crederò, se ti fa comodo; — rispose Cepione, ridendo così sgangheratamente, che mise in mostra i denti più aguzzi e più neri di tutto l'orbe [137] conosciuto; — del resto, da qualunque parte ci venga, l'oro è sempre il bene arrivato.

— Saresti avaro? — domandò Clodia Metella.

— Io? no, per gli Dei; ma ho fede nell'oro. È un bel metallo, e lo stesso Giove non dubitò di assumerne la forma, per presentarsi ad una delle sue innamorate. Non era mica novellino, il padre dei Numi. Senza oro non si ottien nulla, neanche il sorriso delle belle.

— Oh, questo poi!

— Sì, dite che non è vero; la mia esperienza dà ragione alla trovata di Giove. Donde io argomento che in amore, come in ogni altra cosa, l'essenziale sia di aver molti sesterzi.

— Via, Cepione, tu esageri. Vorrai dire che la ricchezza è un grande rincalzo alla bellezza, e su questo non ci cade dubbio. Volere o no, si spende sempre, per piacere alla gente; ma in profumi, in porpora e bisso, in perle e monili, come facciamo noi donne, per esempio.

— Ah sì, non c'è che dire; vi vestite con tutte le più preziose cianciafruscole del mondo. Siamo noi che ci andiamo spogliando. Ma niente di male; sarebbe dolce il restare con la sola tunica intima, o con un cencio di toga, come Valerio Publicola, pur di toccare il cuore ad una donna come te.

— Sia lode a Venere! Ecco almeno una galanteria; — disse Clodia Metella.

— L'incenso è veramente un po' grossolano; — pensò Caio Sempronio tra sè.

— O che? — diceva intanto il banchiere. — Credi che Servilio Cepione non abbia occhi, padrona [138] mia? Non ti dirò tutte le belle cose che possono susurrarti all'orecchio tanti vagheggini sconclusionati; ma ho un cuore anch'io, e lo metto divotamente a' tuoi piedi, insieme con cinque milioni di sesterzi. Non mi pare un'offerta spregevole; — soggiunse, tirandosi indietro sulla persona e dando una sbirciata al suo giovane competitore.

— No, certamente; — rispose Clodia Metella, fingendo di non dare alle parole del vecchio più importanza di quella che si darebbe ad una celia; — ma vi sono donne in Roma che preferiscono un cuore, senza tanti amminicoli.

— Ah, tu li chiami... amminicoli? Padrona mia, dacchè Roma è Roma, si sono sempre chiamati sesterzi. —

Caio Sempronio era sulle spine, come potete immaginarvi. Se non fosse stato per le buone creanze, avrebbe dato così volentieri un golino nella pappagorgia a quel maledetto furfante!

Un piccolo caso venne in buon punto a levarlo di pena, dando un nuovo indirizzo alla conversazione.

— Hai buoni occhi, dicevi? — ripigliò Clodia Metella, senza rispondere all'arguzia plebea di Servilio Cepione. — Or ora li metteremo alla prova. Ecco qua il mio paggio Carino che precede il mercante di Tiro. —

[139]

CAPITOLO XI. Il prodigo e l'avaro.

Cepione si volse, e vide infatti apparire nell'atrio il servitorello di Clodia, con due altri personaggi, uno dei quali, vestito d'una lunga dalmatica, vergata di bianco e di nero, doveva essere il mercante, e l'altro dalla tunica succinta, che gli giungeva al ginocchio, e dal carico che aveva sulle spalle, appariva lo schiavo del primo.

— Ben vieni, Aderbale, — disse la matrona. — Che ci porti di bello, stavolta?

— Mia nobil signora, — rispose il mercante, inchinandosi profondamente, — tutto quello che c'è di più nuovo per l'estate. La mia nave è giunta iersera ad Ostia, e, come tu vedi, non ho posto indugio a venire da te, quantunque da due giorni Annia Sulpicia, la moglie del console, e Giunia Sillana, la impazientissima tra tutte le matrone [140] di Roma, mi avessero comandato, pena il loro corruccio, di passar prima da loro.

— Hai fatto bene; — disse Clodia, accompagnando le parole con una mossa orgogliosa del capo. — Io non soglio stare agli avanzi di nessuno. Apri l'involto, Aderbale, e vediamo; questi sapientissimi uomini giudicheranno. —

Lo schiavo aveva già deposta la balla sul pavimento, e Aderbale il mercante, dato di piglio ad un coltello, recise d'un colpo la fune che teneva stretto l'involto; indi sciolse la triplice fascia di tela che custodiva i preziosi tessuti della sua patria.

Erano stoffe di lana, mie lettrici amorevoli. A quel tempo non era anche conosciuta in Italia la seta, e pochissimo il cotone, che andava famoso in Oriente sotto il nome di bisso. Ma non compiangete troppo le Romane d'allora, perchè quella lana era finissima e filata così sottilmente, da meritare a certe stoffe il nome di aria tessuta. Quanto ai colori, c'erano rappresentate tutte le gradazioni dell'iride, e non avrebbero avuto da invidiar nulla a quei delicati impasti, a quelle vaghissime temperanze, che oggi danno fama così grande alle fabbriche di Lione.

— Vedi, nobilissima Clodia, — diceva il mercante, sciorinando le pezze sul monopodio della matrona e facendo ricadere i lembi in ricche pieghe sul musaico levigato del pavimento, — son colori di porpora, non d'erbe. —

Le tinture si distinguevano allora in porporine ed erbacee, le prime cavate dal succo delle conchiglie, [141] e le altre da quello di certi vegetali. Si crede comunemente, ricordando la porpora regia e la cardinalizia, che il color porporino fosse solamente cremisi, o scarlatto. Ma questo, presso gli antichi Romani, era il colore estratto da una sola varietà di conchiglie, che era l'ostro; laddove da tante altre, e tutte chiamate col generico nome di porpore, si traeva ogni sorte di colori, come a dire l'olivigno, il violetto, l'amaranto, il paonazzo, l'azzurro, il cilestro, il glauco marino, e aggiungete pure liberamente tutte le mezze tinte possibili, ottenute la mercè di una tintura sovrapposta ad un'altra. A questo modo si aveva la pregiatissima stoffa versicolore, che mutava di colorito secondo i riflessi della luce.

I paesi più celebri per la porpora, sul Mediterraneo, erano le spiagge del Peloponneso, della Sicilia e dell'Africa; sull'Atlantico, le coste della Britannia, dell'Irlanda e dell'Armorica. Le conchiglie di quest'ultimo mare davano il colore più scuro; quelle del Tirreno e dello Jonio il violetto, laddove sulla spiaggia di Fenicia predominava il cremisi. Réaumur, che non ha solamente inventato il termometro, si è provato anche a rifar la tintura di porpora, e i suoi esperimenti hanno dimostrato che la conchiglia di Tiro poteva dare essa sola tutte le gradazioni accennate. Secondo lui, il succo tingente è bianco, fino a tanto che resta nella sua vescichetta, tra le fauci del prezioso animale. Versato sulla tela di lino, apparisce subito d'un verde leggiero. Esposto all'aria e al sole, si muta in verde carico, indi in verde [142] marino, poscia in azzurro, e da ultimo in rosso. Lavatelo con acqua calda e sapone, e vi matura in un cremisi splendidissimo, che non vi fa più altre metamorfosi.

Lasciando da parte tutte queste manifatture, noi torneremo a Clodia Metella, che, da esperta conoscitrice, andava esaminando e palpando lo stoffe di Aderbale, per sentirne la finezza ed ammirarne i colori.

— Che pensi? — domandò ella tutto ad un tratto, volgendosi a Servilio Cepione, che stava guatando quella mostra col suo piglio beffardo.

— Penso, — rispose il banchiere, — che un bel regalo lo ha fatto Ercole ai poveri mariti e a tutta la dolente schiera degli innamorati. —

L'osservazione del vecchio argentario ha mestieri d'un breve commento. Si credeva a quei tempi che la porpora fosse stata trovata da Ercole. Passava un giorno il semidio lungo la marina di Tiro, quando il suo cane (lo vedete, Ercole, accompagnato da un cane, alla guisa dei ciechi?) quando il suo cane, che aveva una fame da lupi, s'imbattè in una conchiglia, gittata sulla spiaggia dai flutti. Fido, o Melampo che fosse, non fece parte della sua scoperta al padrone; ruppe il guscio coi denti e mangiò il saporito mollusco, dopo di che si presentò ad Ercole, col muso tinto del più bel rosso che vi possiate immaginare. — Che cos'è? dimandò il semidio, che non aveva mai osservato una cosa simile. E veduto che razza di conchiglia avesse sgranata il suo cane, andò in busca di tutte le altre, che si trovavano sulla [143] spiaggia, por ispremerne il succo sulla tunica di lana bianca che portava indosso. Quasi sarebbe inutile di aggiungere che la tunica d'Ercole divenne tosto d'un bel rosso carico, e che egli n'ebbe un piacere da non dirsi a parole. La sua tunica gli parve da quel giorno così bella, che gli seppe male di indossarla più oltre come abito di fatica. La regalò allora al suo buon amico, il re di Tiro, che andò a sua volta in visibilio, e lì sui due piedi mise fuori un editto, per confiscare il color della porpora ad uso ed ornamento esclusivo della sua sacra persona.

— Ecco, — diceva intanto Aderbale, sciorinando la sua mercanzia, — una pezza di porpora violetta che vince lo splendore dell'amatista. Dirai, nobilissima Clodia, che somiglia al colore della tua stola; ma, se ben guardi, la tinta è alquanto più chiara ed ha riflessi più vivi. È il meglio, il nec plus ultra, della fabbrica di Annone, riconosciuta ormai per la prima di Tiro. Ami meglio il verde marino? Eccoti questa, che si affà mirabilmente al candore del tuo volto e alla lucentezza dei tuoi capegli neri. Di quest'altra devi farti una rica, per uscire a diporto. È trasparente e ti custodirà dalla polvere, senza toglierti di vedere e di esser veduta dai nobili cavalieri, che gitteranno occhiate di desiderio nella tua lettiga dorata. E adesso guardami questa; non ti par latte, entro a cui sia stata stemperata una perla eritrea? Vedi come torna bene, piegata in due doppi! Aggiungi due o tre strisce di porpora azzurra o scarlatta sui margini, ed hai una diploide alla foggia greca, [144] che nessuna Ateniese, foss'anco Aspasia rediviva, potrebbe vantare la più vistosa, o la più elegante. —

Clodia Metella non si lasciava abbarbagliare da quel luccichìo di frasi dell'asiatico mercatante. I suoi occhi, precorrendo la meditata progressione di quel commentario alla moda, si erano fissati su di una stoffa di lana nera, sottilissima e intessuta a strisce d'oro filato, che era veramente una meraviglia a vedersi.

— E questa, quanto vale? — domandò.

— Padrona mia, riconosco il tuo buon gusto; — esclamò Aderbale, senza curarsi di rispondere subito in chiave. — Questa è la più ricca novità della stagione, e, non fo per vantarmi, è anche la prima pezza che se ne vede in Roma.

— Il prezzo ti ho chiesto, il prezzo.

— Ah, il prezzo è veramente un po' forte. Ma la stoffa è così bella, che, quando io te l'avrò detto, ti parrà proprio regalata. Cinquemila sesterzi.

— Cinque... — balbettò Cepione, spalancando gli occhi dallo stupore. — Che cos'hai detto? Ripeti.

— Cinquemila sesterzi, o, se meglio ti piace, nobilissimo uomo, milleduecento denari. Con tutto l'oro che c'è dentro, è data proprio per nulla.

— Ah sì, ce n'è fin troppo, dell'oro. Vedete che spreconi!

— Perchè ti lagni? — entrò a dire Caio Sempronio. — A qual uso migliore potrebbe servire il preziosissimo tra tutti i metalli, se non a rendere più appariscente la bellezza? Io vedo già la [145] nostra divina Clodia Metella, adorna di quella veste dorata, risplendere come la dea Bona alle calende di Maggio, nel sacrario del pontefice massimo.

— Sì, sì; — rispose Clodia Metella, crollando malinconicamente il capo; — ma trovo anch'io che costa un po' troppo. Non ho già i cinque milioni di sesterzi di Servilio Cepione.

— È come se tu li avessi; non ti ha egli profferte le sue sostanze, come contorno all'offerta del suo cuore? — ribattè Caio Sempronio ridendo.

A quella scappata del cavaliere, il vecchio argentario fece il muso più lungo del solito.

— Eh, eh, — gridò egli, punto sul vivo, — tu la ricordi in buon punto; e se mi saltasse il ticchio.....

— Ottimamente! Compera dunque la veste e fanne un presente alla Dea.

— Ma di grazia, perchè non la comperi tu?

— Io? Così fossi certo che si degnasse di accettarla!

— Graziosa, quella paura!

— Non ci credi? Sia dunque tua la colpa, se io ardisco di offerire qualche cosa a Clodia Metella. Aderbale, dammi da scrivere. —

Il mercante capì subito che cosa intendesse di fare il nostro giovinotto, e cavò dalla sacca, che portava ad armacollo, un dittico di legno e uno stilo di avorio. Il dittico era una doppia tavoletta, che si chiudeva come le due copertine d'un libro, presentando al di fuori una superficie piana, [146] e di dentro un sottile rivestimento di cera, con le sponde rilevate tutto intorno, perchè le due faccie, richiudendosi l'una sull'altra, non avessero a combaciare per modo da guastare le lettere, segnate nella cera medesima con la punta dello stilo.

Caio Sempronio tolse la tavoletta dalle mani di Aderbale e vi scrisse queste poche parole:

«T. C. Sempronio a Lisimaco, suo dispensatore. Pagherai oggi cinquemila sesterzi al mercante Aderbale, di Tiro. Sta sano.»

Ciò fatto, consegnò il dittico al mercante, che, data una scorsa allo scritto, s'inchinò e si dispose a metter da parte la pezza di stoffa destinata da Caio Sempronio alla bellissima Clodia.

— Oggi stesso, a quell'ora che ti farà comodo, passerai alla mia casa, sul Viminale, — disse il cavaliere, — e Lisimaco ti darà la pecunia.

— Tu sei il più liberale tra tutti i patrizi di Roma; — rispose Aderbale, intascando il prezioso chirografo. — Ed eccoti, nobilissima Clodia, la veste. Ti consiglio d'indossarla per le feste Megalesi. Annia Sulpicia vuol proprio morirne d'invidia.

— Oh Caio! — mormorò Clodia Metella, tutta vergognosa, all'orecchio del giovane. — Io non accetterò mai un così ricco presente.

— Perchè, padrona mia? Sono un temerario, lo vedo; ma la colpa non è mia. Cepione mi ha data la spinta. Se vuoi punirlo della sua improntitudine, non ci hai modo migliore di questo. Accetta con lieto animo il mio povero dono. —

Clodia sorrise e porse la sua bella mano a Caio [147] Sempronio. Era quello il ringraziamento, e il nostro cavaliere se ne fece abilmente un premio, stampando su quella mano il più ardente dei baci.

— Animo, giovinotto, e non perdiamo tempo! — gridò Cepione stizzito.

Ma il giovinotto non pose mente alle bizze del vecchio Arpagone, e, chiesto a Clodia Metella il permesso di tornare il giorno seguente, tolse commiato da lei. Per una prima visita aveva fatto abbastanza, ne convenite?

Il mercante aveva rifatta diligentemente la sua balla e se n'era andato anche lui, dopo molti inchini, ringraziamenti ed augurii di prosperità alla liberalissima Clodia, che gli comperava le stoffe più preziose col denaro degli altri.

Cepione era rimasto in piedi nel tablino, ora guardando Caio Sempronio che se ne andava, ora Clodia che aveva seguitato il giovinotto con una lunga e malinconica occhiata fino alla tenda del pròtiro. Il vecchio argentario non appariva troppo contento; di certo egli mulinava qualche cattiveria, a sfogo della bile che già gli schizzava dagli occhi.

Tutto ad un tratto, diede in uno scroscio di risa.

— Che c'è? — dimandò Clodia Metella, con aria tra stupita e severa.

— Ho fatto una bella scoperta; — rispose Cepione. — La colomba è innamorata.

— Sì; — diss'ella brevemente, in quella che stendeva la mano al monopodio, per ripigliare la sua favola milesia.

— E il colombo, — soggiunse Cepione, — è molto ricco.

[148]

— Che importa? — riprese Clodia Metella, stringendosi nelle spalle.

— Come, che importa? Importa moltissimo.

— Non a me certamente. —

L'argentario rispose a quel magnanimo diniego con un ammicco beffardo. Ma perchè Clodia fingeva di non vedere, crollò il capo ed aggiunse:

— Sia pure, come tu dici; ma importa a me. Dammi lode per la mia schiettezza, ti prego.

— Non vedo come c'entri tu; — replicò la matrona.

— Non c'entro? Non c'entro? Figùrati! Noi qui faremo a metà. Tu prenderai l'amante, io la pecunia. —

A quella cinica bottata dell'argentario, Clodia Metella si rizzò di scatto, come una serpe a cui sia stata calpestata la coda.

— Che novità son queste? — gridò, saettando Cepione con uno sguardo corrucciato.

— Padrona mia, un po' di calma, e vediamo di intenderci; — disse quell'altro, adagiandosi tranquillamente sul cuscino d'una sedia a bracciuoli. — Anzitutto, perchè parli di novità? Non sono forse passati per le mie mani tutti i giovani patrizi che tu hai onorati della tua benevolenza? Valerio Catullo, Celio Rufo, Cornelio Basso, Aulo....

— Finiscila! — interruppe Clodia Metella. — Tu sei veramente noioso.

— Ah, ti secca la nomenclatura? Bada, padrona mia, non intendevo citare che i colombi spennacchiati; mettevo in disparte tutti quegli altri che hanno avuta la sorte di non lasciarci le penne [149] maestre. Il povero Cepione li ha veduti passar tutti, l'uno dopo l'altro. Per Ercole! Si davano la muta, come i legionarii in sentinella. Ed io, destinato a colmar gl'intervalli, mi trovavo sempre fuori delle tue grazie; vedevo appena il sole, che già mi spariva dagli occhi. Eppure, vedi la mia bontà; in attesa di riavere la tua benevolenza, facevo servizio ai miei fortunati rivali; imprestavo quasi sempre io, le migliaia di sesterzi che dovevano servire ai donativi; fornivo io le armi contro di me. Che cosa vuoi di più umano? Ed anche adesso, io mi preparo a servirti. Quel giovinotto mi piace. Ti ringrazio di averlo scelto così ricco. Poverina! potevi benissimo invaghirti d'un plebeo povero in canna, o d'un cavalierino indebitito fino agli occhi, ed io avrei dovuto recarmelo in pace. Ma tu non l'hai fatto, padrona mia bella; tu sei sempre quella matrona di garbo, che ero avvezzo a stimare da tanti anni. Abbi dunque i miei ringraziamenti, e concedi che io tiri innanzi a servirti. —

Clodia Metella si mordeva le labbra a sangue.

— E.... — diss'ella, con voce tremante dalla rabbia, — se io non volessi stare al tuo patto?

— Faresti malissimo; — rispose il beffardo vecchio; — perchè io potrei....

— Potresti? Continua!

— No, non è bene scoprirsi così scioccamente, e con una donna di così sottile accorgimento come tu sei. Oh, non dubitare, io ti rendo giustizia. Se fossi pretore, come ci avrei diritto pel nome che porto, darei ad ognuno il suo, che non ci mancherebbe mezz'oncia.

[150]

— Daresti! — notò ironicamente Clodia Metella. — Sarebbe la prima volta.

— Ah sì; come se l'imprestare non fosse una maniera di dare! Do ut des, do ut facias, son forme di contratto, mi sembra. E a proposito di fare, bada, padrona mia, che non mi venga in mente di far aprir gli occhi al tuo nuovo amatore.

— Non lo farai; — disse Clodia, dopo un istante di pausa.

— Sta a te ch'io non lo faccia, mia bella. Sii prudente, e non avrai a dolerti di me. Déi buoni, e non è giusto che io trovi un compenso alla brevità di questi interregni? Perchè, infine, tu ci hai una virtù singolare, che riesce tutta a mio danno. Quando uno ti piace, bisogna rassegnarsi; nel tuo cuoricino non c'è mai posto per due.

— Cepione, io l'amo.

— Lo so, poverina; intendo i tuoi spasimi, e, come vedi, asciugo una lagrima di tenerezza. Mia candida colomba! Sei così buona, così affettuosa! Lo seppe Metello Celere, tuo cugino e marito; lo seppe anche la felice memoria di Publio Clodio, tuo degno fratello....

— Ma infine, — proruppe Clodia, non vedendo più lume, — vorrai tacere una volta? Lascia i morti nell'Averno e non mi dar noia più oltre. Ti ho sempre ai fianchi, ora coi sarcasmi, ora con le minaccie. Chi ti ha mai impedito di fare il tuo mestiere? Metello Celere ha avuto il torto di morire, senza lasciarmi venti milioni di sesterzi. Se così non fosse, vedresti tu come io starei a sentirti.

[151]

— Eh, lo so, che non mi ami. Ma appunto per ciò è notevole la nostra alleanza. Che cosa c'è di più grande di due che si odiano e si aiutano a vicenda? Io, vedi, qualche volta sento il desiderio di chiuder le mani intorno al tuo collo di cigno e di strangolarti senz'altro. Sei bella ed io non lo sono; ti amo e tu ti beffi di me; quando pure ti degni di sorridermi, indovino che ciò mi costerà un bel gruzzolo di monete. Ah, se non fosse che tu sei una civetta addestrata e che fai calare da tutte le frasche i merli curiosi al mio campo!... Ma basta; se no, vado fuori dei gangheri. Padrona mia, siamo intesi e non occorrono altre spiegazioni tra noi. Venere conservi la tua bellezza, e Diana cacciatrice mantenga saldi i panioni del tuo nobilissimo servo. —

Ciò detto, il bravo argentario si alzò da sedere, e, fatto un mezzo inchino alla sua alleata, s'incamminò verso l'uscio. Clodia Metella riprese il suo codice e provò a ricominciar la lettura, ma per un bel pezzo non ne spiccicò una parola.

[152]

CAPITOLO XII. Nel teatro di Pompeo.

Siamo ai cinque di aprile, giorno dedicato nel lunario cattolico a San Vincenzo Ferreri, ma segnato nell'antico calendario romano con queste parole LUD. MATRIS MAG., abbreviazione che vuol dire: ludi Matris magnae, ossia, giuochi della Gran Madre.

Erano questi i giuochi Megalesi, e si facevano in onore di Cibele, la Berecinzia, detta in greco Megale Meter, che significa appunto gran madre. Avevano avuto cominciamento verso la fine della seconda guerra Punica, nell'anno 548 di Roma, quando il simulacro di Cibele, la madre degli Dei, fu portato di Frigia alle rive del Lazio, e di là, con pompa straordinaria, introdotto nelle sacre mura di Romolo. Erano giuochi particolarmente scenici; perciò si celebravano sempre in teatro, e nel giorno che cadevano correva tra i cittadini [153] una lieta usanza di convitarsi a vicenda. La qual cosa esprimevasi col verbo mutitare, cioè tramutarsi a cena qua e là, or da questo or da quello, come a memoria del felice tramutamento della Dea dallo rive di Frigia a Roma.

Ovidio ci ha detto nei Fasti perchè i giuochi Megalesi fossero i primi e i più grandi dell'anno. Berecinzia non era forse la genitrice dei Numi? Era giusto che i figli cedessero il primo luogo alla madre. Cicerone, che per infilzare aggettivi non restava indietro a nessuno, chiamò i giuochi Megalesi «casti, solenni, religiosi sopra quanti ne furono mai» e soggiunse che «a riverenza della loro origine e della dea cui erano sacri, non fu mutato loro neppure il nome, essendo i soli tra i giuochi romani, che si chiamassero con vocabolo straniero.» Vedete un po' che maestà sbardellata di giuochi!

Altre solennità ammettevano le rappresentazioni sceniche, come ad esempio i giuochi Consuali, sacri a Conso, dio degli arcani consigli, che, essendo stati ordinati da Romolo in memoria delle rapite Sabine, erano tenuti i più nazionali, e perciò detti Romani per eccellenza. Venivano poscia i Plebei, i Funebri e gli Apollinari; i primi in memoria della rivendicata libertà contro gli oppressori Tarquinii e della restituita concordia tra i padri e la plebe, dopo la fortunata favoletta di Menenio Agrippa; i secondi, derivati dai Greci, in onore degli illustri defunti; gli ultimi, consigliati dalle profezie d'un tal Marcio indovino, che nella seconda guerra Punica aveva promessa la vittoria, [154] purchè si onorasse Apollo con solenni spettacoli. Ma la festa Megalese si distingueva in ciò da tutte le altre, che essa consisteva appunto ed unicamente nelle rappresentazioni teatrali.

E qui si facevano onore gli edili curuli, magistrati che avevano cura degli edifizii cittadini, dell'annona e dei solenni spettacoli. Erano essi che pagavano i poeti drammatici di maggior grido per averne commedie nuove da sperimentare in quell'occasione, e che spendevano profumatamente per mettere in iscena col massimo decoro le migliori produzioni dei vecchi. Quattro delle sei commedie di Terenzio, l'Andria, l'Eunuco, la Suocera, il Punitor di sè stesso, furono scritte per questi giuochi. Nè creda il lettore che la moltitudine si accostasse con molta religione a cotali cerimonie, quantunque fatte in onore della madre degli Dei. Si rideva e si fischiava come ora, che il teatro è doventato la cosa più profana del mondo. La Suocera di Terenzio non fu lasciata finire, perchè nella piazza accanto al teatro lavoravano i funamboli, e l'uditorio svagato aveva più voglia di veder passeggiare sulla corda, che di esserci tenuto lui, sulla corda, dalle invenzioni del gentile poeta. Consolatevi, autori del tempo mio; il pubblico è sempre lo stesso, da che esiste il teatro.

Lettori, se non vi dispiace (e perchè, poi, dovrebbe dispiacervi?) entriamo nel teatro di Pompeo. È presso al Circo Flaminio, nella regione nona, la più bassa e la più popolosa di Roma, corrispondente al moderno Parione.

Fu questo il primo teatro stabile dell'eterna [155] città, e al tempo della nostra narrazione contava a mala pena i suoi quattro anni di vita, essendo stato eretto per cura di Pompeo Magno, nell'anno 699, dopo la guerra Mitridatica.

Sapete già tutti, ed io qui lo ricordo pro forma, che le rappresentazioni sceniche ebbero origine in Grecia, dove in principio era costume di farle sotto un frascato, od ombracolo, che dava ricetto ai giuochi villerecci; poscia in un carro, quello di Tespi, che menavasi attorno pei trebbi e per le borgate; più tardi su di un palco, messo insieme con quattro assi, come quelli dei saltimbanchi di villaggio. Da quel tempo, la scena aveva seguitato ad ampliarsi e ad ornarsi, ma sempre rimanendo di tavole. Una disgrazia che costò la vita a centinaia di spettatori, persuase Temistocle e i suoi Ateniesi a fabbricare di buon materiale gli edifizii scenici; e gli architetti Democrate ed Anassagora idearono in tal guisa il primo teatro di fabbrica, scavando le gradinate a semicerchio nel fianco di una collina a piè dell'Acropoli, e mettendovi di rincontro il palco e la scena.

Questo raccontano le storie. Altri vuole, ed ha parecchi ruderi dalla sua, che i primi teatri stabili sorgessero in Sicilia e nelle colonie greche dell'Asia Minore. Io, lasciando gli archeologi a vedersela tra loro, vi dirò che in Roma la severità delle leggi, non potendo opporsi validamente ai ludi scenici introdotti nel 599 dai censori Valerio Messala e Cassio Longino, bastò cionondimeno ad impedire per cent'anni intieri la costruzione d'un teatro permanente. Plauto e Terenzio esponevano [156] le loro favole in teatri posticci, o nel Circo, destinato alle corse dei cavalli e alle sanguinose pugne dei gladiatori. Terminati gli spettacoli, doveva tosto disfarsi anche il teatro. Neppure si perdonò a quello sfarzosissimo, che Scauro aveva innalzato per ottantamila persone, con trecento sessanta colonne, tremila statue, la scena per metà di marmo e per metà di vetro. Inaudita forma di lusso! esclama Plinio. E tanta opera non ebbe che un mese di vita.

Più fortunato fu il console Pompeo, perchè il suo teatro, costrutto sul disegno di quello che egli aveva veduto a Mitilene, non soggiacque alla condanna degli Edili. La spesa era stata immensa, e il console era stato tacciato di troppo sfarzo per una fabbrica che non aveva a durare; ma, avendo egli adonestato il suo colpo con un titolo di pietà, edificando sulla cavea del teatro un tempio a Venere vincitrice, la fabbrica non potè essere distrutta, e, diventando stabile, fu lodata di parsimonia. La bandiera aveva fatto passare la merce.

Patito un incendio sotto Tiberio, il teatro di Pompeo fu subito ristorato da quell'imperatore. Caligola e Claudio lo abbellirono. Nerone in un sol giorno lo fece indorare, per mostrarlo al domani in tutta la sua pompa a Tiridate, re d'Armenia. Gran tempo dopo, essendo rovinato, fu da Teodorico rifatto sulle vecchie fondamenta. Se non riuscì del tutto una fabbrica ostrogota, bisognerà darne lode agli artefici, che erano sempre italiani. Le vestigia dell'edifizio, trovate nei tempi nostri in capo alla via dei Giubbonari, presso la chiesa [157] di Sant'Andrea della Valle, fanno buona testimonianza della romanità del lavoro.

Ma entriamo una volta e vediamo le tre parti notevoli del teatro, che sono la cavea, l'orchestra e la scena. Tutti i teatri romani, su per giù, con un meniano di più, od uno di meno, si rassomigliano, e quando se n'è visto uno si son visti tutti.

La cavea, che oggi direbbesi il recinto, è la parte più ragguardevole per la sua mole e quella che propriamente può dirsi theatrum, o visorium, perchè di là gli spettatori, distribuiti lungo le gradinate a semicerchio, vedono la scenica rappresentazione. Le gradinate, dal podio, o parapetto «che men loco cinghia» come direbbe Dante, salgono allargandosi man mano fino all'orlo superiore, intorno a cui gira una galleria coperta, dal cui architrave sporgono gli arpioni, o i pali, che terranno disteso il velario.

Ogni sette gradinate ce n'è una larga, ed alta il doppio delle altre; e questa non è per sedervi, ma per passare da un punto all'altro del recinto. Di queste divisioni (praecinctiones) nei teatri molto grandi ce ne sono infino a tre. Il complesso dei gradi tra una precinzione e l'altra dicesi moenianum, specie di ripiano interiore a cui corrisponde di fuori un ordine di maestose arcate e di gallerie. Dove le precinzioni e per conseguenza i ripiani sono tre, la cavea resta divisa in tre ordini, che si dicono cavea prima, cavea secunda e ultima cavea (la piccionaia moderna), i cui gradi non sono di pietra, ma di un semplice tavolato. Ogni meniano è tagliato da più scale, raffiguranti i raggi [158] d'un circolo, donde gli spettatori vanno a cercare il posto loro assegnato dalla tèssera, o biglietto d'ingresso; e in tutte lo precinzioni si aprono più porte (vomitoria) donde sbocca in teatro la folla, venuta su per gli androni che girano nei fianchi dell'edifizio. Gli spazi compresi tra le scale hanno sembianza di cunei, epperciò ne portano il nome.

Tutte queste divisioni vi confonderebbero oggi la testa, lo capisco. Ma, se foste Romani d'allora, non ci pensereste più che tanto. Facciamo un esempio. Avete avuto una tessera d'avorio, su cui, accanto al titolo della commedia (Casina Plauti) sono incise queste parole abbreviate: CAV. II. CUN. III. GRAD. VIII. Che vuol dir ciò? Che avete l'ottavo posto nel terzo cuneo della seconda precinzione, o del secondo meniano. Non vi confondete adunque, pigliate la scala che mette alla galleria del second'ordine; giunto lassù cercate la indicazione del terzo vomitorio, e di là riuscite subito entro la cavea, alla vista del pubblico. Un'occhiatina ai numeri; il cuneo comincia con cinque posti; dunque il vostro sedile è nel secondo giro di gradini; eccolo là, difatti, col suo bravo numero inciso sulla pietra. Il maestro di sala (designator) non lo ha lasciato occupare da nessuno; al peggio dei peggi (come avviene oggidì nelle sedie chiuse dei nostri teatri) il vicino, per comodo suo, ci ha posato il suo pètaso. Andate liberamente, egli si affretterà a tirarlo via; se no, avrete il diritto di fargliene una frittata.

E adesso un'occhiatina all'orchestra. I Greci davano alla piazzuola semicircolare, compresa nel [159] giro del podio, il nome di orchestra, o ballatoio, perchè questo era il luogo delle danze, dei cori e dei mimi. I suonatori stavano sopra un palco, che, somigliando ad un'ara sacrificatoria, era perciò detto Timele. Ma nei teatri romani, sebbene si conservasse il nome di orchestra, il luogo era riserbato ai magistrati e alle persone di maggior conto. Perciò era più angusto che nei teatri di Grecia. Noi moderni l'abbiamo fatto più ampio, e lo chiamiamo platea.

Davanti all'orchestra era il palco scenico; quadrilatero di pietra, alto cinque piedi dal suolo, lungo due tanti più che il diametro dell'orchestra. Sul lato posteriore sorgeva una facciata, ornata di colonne, di statue, di pitture; e questa era la scena fissa, che veniva innanzi con due ali sui lati minori del quadrilatero, o proscenio, dove recitavano gli attori. In queste due ali si aprivano le porte per cui passavano le comparse, le macchine degli Dei, il còrago, ossia l'attrezzista e capo comico, quando aveva da dire qualche cosa all'uditorio. La facciata della scena presentava tre porte; l'una nel mezzo (valvae regiae) per cui entrava il protagonista; le altre ai lati (hospitalia) che servivano al passaggio delle seconde parti.

Non dimenticate che la scena antica rappresentava sempre un luogo aperto, perchè i personaggi facevano e dicevano tutti i fatti loro fuori dell'uscio di casa. Rammentate poi che, al momento di cominciare il dramma, calavasi dall'episcenio, luogo superiore alla scena, il sipario, od aulaeum, come dicevasi allora, che andava a ravvolgersi nell'iposcenio, [160] cioè sotto ii palco scenico; tutto il rovescio dei nostri teatri. C'erano inoltre gli echei, vasi di bronzo ordinati a rendere più armonioso il teatro. Vitruvio ci racconta che erano collocati in cellette sotto le gradinate, con tale calcolo matematico da dividere il recinto della cavea in accordi di quarta, quinta e ottava; onde l'eco che ne risultava fosse una perfetta sinfonia.

È passato il mezzogiorno; il pranzo è già stato digerito, e la moltitudine invade il teatro di Pompeo, dove si recita la Casina di Plauto, vecchia commedia che piace sempre, assai più di tante altre di autori recenti. L'ingresso al pubblico è gratuito per l'ultima cavea, che è la più capace di tutte. L'orchestra, riservata ai senatori e ai magistrati, si va popolando lentamente. Laggiù son tutte persone che amano i loro comodi e che sanno di trovarceli belli e preparati, sotto forma di bisellio, o sedia da due posti, con un morbido cuscino e uno scannello per reggere i piedi. Più presto si vanno occupando i posti della prima e della seconda cavea, assegnata ai patrizii e alle loro donne. Pompeo aveva da principio destinato quei quattordici gradi all'ordine dei cavalieri; onde seder nei quattordici ed esser cavaliere tornava lo stesso. Ai lati dell'orchestra sorgono alcune logge (tribunalia) dove stanno i magistrati che presiedono alla rappresentazione. Vi è permesso di vedere in queste tribune i moderni palchetti municipali, dove si affollano gli assessori teatrali, e in genere tutti i consiglieri del Comune, segnatamente quando c'è in scena il corpo di ballo.

[161]

L'ordine accennato poc'anzi non era osservato ai tempi di Plauto e Terenzio, quando i teatri erano di legno e il popolo vi si accalcava alla rinfusa. Nè tale fu sempre in appresso, perchè vediamo dagli autori essere state qualche volta confinate le donne su in alto, nelle gallerie coperte, con grave sfregio all'estetica. Lo immaginate, un recinto seminato di teste mascoline, come un campo di papaveri, od altra piantonaia da sbadigli? Dei immortali! ci doveva essere per gli spettatori il medesimo gusto che c'è pel deputato in una seduta parlamentare, coi colleghi intorno, e le dame lontane lontane, come le stelle fisse, o come le nebulose, nell'alta cerchia delle tribune.

Per fortuna, e ad onore del buon gusto antico, Ovidio ci lascia scorgere nei teatri del suo tempo una ragionevole promiscuità dei due sessi. Ed io posso dirvi, senza scostarmi dal verosimile, che Clodia Metella entrò accompagnata dal bel cavaliere Tizio Caio Sempronio, per uno dei vomitorii che mettevano sulla prima cavea, e andò a sedersi nella terza fila del quarto cuneo, poco lunge dal podio, che era occupato dalle vergini Vestali.

[162]

CAPITOLO XIII. Amori in vista.

L'apparizione della bellissima Clodia destò per tutto il teatro quella attenzione e quel bisbiglio che destano sempre le belle, quando entrano in una numerosa adunanza. Ciò che parrebbe sommamente disdicevole in una ristretta compagnia, diventa naturalissimo in una gran folla di persone, dovunque ella si trovi, o tempio, o teatro, dove nessuno ha da portare la malleveria di quel pissi pissi generale, di quel fruscìo di vesti e di quello scricchiolìo di sedie, in cui tutti hanno pure avuta la parte loro.

Le donne volsero una rapida occhiata alla nuova venuta e arricciarono il naso. Già, si capisce, Clodia non era quel fior di bellezza che dicevano gli uomini e non meritava che tante nobili matrone si storcessero il collo per lei. Ma tratto tratto gli [163] occhi tornavano là e lampeggiavano sguardi invidiosi ad una stola di porpora nera intessuta a liste d'oro, che dava tanto risalto alla bianchezza perlata delle carni. Annia Domizia, la impazientissima tra le seguaci della moda, e Giunia Sillana, una pallidona che passava per la più bella tra le patrizie romane e che faceva disperare coi suoi eterni rigori il vecchio console Servio Sulpicio Rufo, si morsero le labbra dal dispetto e sentenziarono che quella stola era di pessimo gusto.

Anche le vergini Vestali diedero la loro sbirciata alla terza fila del quarto cuneo; ma, sia detto ad onore di quelle santissime donne, non tanto per sacrificare alla vanità, guardando alle vesti di Clodia Metella, quanto per vedere un po' da vicino quel leggiadro giovinotto che l'accompagnava, e per cui più d'una tra loro avrebbe lasciato spegnere il fuoco sacro, anche a dover finire nel campo Scellerato.

Non meno curiosi delle Vestali, e delle matrone, si volsero a guardare Clodia gli edili, dall'alto dei loro tribunali, e i magistrati e gli altri uomini consolari, dal basso dell'orchestra. Marco Tullio Cicerone, il famoso giureconsulto, che contava allora i suoi cinquantacinque suonati, si voltò sul bisellio anche lui ed onorò di un lungo sguardo la giovine coppia.

— A chi s'è ora attaccata, la sanguisuga? — domandò egli tra sè, poco rispettosamente per la sorella del suo vecchio nemico. — Mi par di conoscerlo; è un Caio Sempronio. Povero giovane! Vuole dar fondo con lei alle ricchezze che gli ha [164] accumulate quel gravissimo uomo di suo padre nella pretura di Sicilia. —

Marco Tullio, lo sapete, dava facilmente il titolo di gravissimo e di santissimo, ed anche più facilmente quello di ladro e di assassino. Era un vezzo oratorio, che finì per costargli la testa.

Ora, se i vecchi si scomodavano sui loro sedili, lascio pensare a voi, lettori umanissimi, che cosa dovessero fare i giovani. Stavo già per dirvi che tutti i cannocchiali erano volti su Clodia Metella, ma ho ricordato in buon punto che l'invenzione di quell'utile istrumento doveva tardare ancora milleseicento e più anni. In mancanza di cannocchiali, lavoravano gli occhi, e giova credere che in quel tempo fosse più scarso il numero dei miopi.

Clodia Metella, come forma, era molto ammirata; per contro, non si risparmiavano le frecciate alla sua fama.

— Non temete, — notava argutamente un tale, ripreso di troppa severità da uno spettatore più temperato, — non si dirà mai tanto di Clodia Metella, quanto ella stessa ha mostrato di volere che si pensi di lei.

— La frase è lunga e contorta; — osservò Giunio Ventidio. — Non si potrebbe dire brevemente che essa ha fatto d'ogni erba fascio?

— O d'ogni fior ghirlanda; sarebbe più cortese, la metafora.

— Sì, sì, usategli cortesia; ella non ve ne serberà gratitudine. La quadrantaria preferisce i quattrini. —

[165]

Quadrantaria! Era questo il nomignolo grazioso di cui Marco Tullio, con quella sua lingua tabana, aveva gratificato Clodia Metella. L'immagine era ardita e ci voleva anche uno sforzo di volontà singolare per appioppare quel brutto appellativo ad una donna come lei, sapendo che quadrantaria, si forma da quadrante, piccola moneta di rame, pari in valore alla quarta parte di un soldo. Lisimaco, verbigrazia, il dispensatore di Tizio Caio Sempronio, non le avrebbe fatto un torto così grave, egli che vedeva andare così lestamente l'oro e l'argento di casa.

Ma, quadrantaria o no, nè Giunio Ventidio, nè altri linguacciuti, che erano adunati con lui in un angolo del podio, dove si riducevano per solito i giovinotti eleganti di Roma, potevano parlare di scienza propria intorno agli atti di Clodia. È già stato notato come, in simiglianti negozi, che toccano la vanità mascolina, parla chi non ha niente a dire, mentre chi potrebbe parlare con un po' di ragione sta zitto.

— Vedetela là, quella sirena, come lo ha tirato a' suoi piedi! — esclamava Giunio Ventidio, dimenticando di essere stato egli stesso cinque giorni addietro il galeotto tra quei due. — Bisognerà che io lo avverta, il nostro povero Caio.

— Avvertirlo! E perchè? — disse Postumio Floro.

— Eh, mi pare che le ragioni non manchino. Siamo amici o non siamo? Egli si rovina.

— Ah, baie! Se non è lei, sarà un'altra.

— Sicuro, ma sia almeno tal donna, — soggiunse [166] gravemente Ventidio, — che egli possa condurre attorno senza ignominia. Clodia Metella è troppo.... come ho da dire?

— Di' quel che vuoi; s'impresta ai ricchi.

— Diciamo dunque.... devastata.

— Nella fama, s'intende. Vedete Marco Tullio, che ci ha fatto lo strappo più grande, nella causa di Celio Rufo, come la guarda a squarciasacco!

— Amore antico, che s'è inacetito!

— Marco Tullio almeno non ci ha lasciate le penne. È un merlo vecchio.

— Terenzia sua gli avrebbe cavati gli occhi.

— E fu ad un pelo di farlo.

— Guardate, guardate! Si può essere più sciocchi del nostro amico Caio Sempronio?

— Che cos'è?

— Non vedete? Le fa fresco col suo ventaglio di penne di pavone. Poverina, che non avesse a riscaldarsi troppo, con questi ardori.... d'aprile!

Caio Sempronio non aveva fatto soltanto ciò che notavano di lui, in quel crocchio di caritatevoli amici. Entrato con Clodia Metella nel meniano, e vigilato con molta cura il passaggio di lei, perchè nessun piede profano le calpestasse lo strascico della stola, si era inchinato con sollecita galanteria, per disporre acconciamente il cuscino su cui ella doveva sedersi. Egli stesso, ricusando l'opera del servo designatore, aveva collocato lo scannello di legno sotto i delicati piedini della sua dolce padrona. Egli stesso, di tanto in tanto, si voltava indietro, per tenere in rispetto con una provvida occhiata i vicini del quarto scaglione, affinchè nessuno [167] di loro, mettendo sguaiatamente innanzi le ginocchia, venisse ad urtarla da tergo.

E la divina Clodia arrossiva dal piacere di vedersi così attentamente servita. Gli sguardi fugaci che ella volgeva tutto intorno a sè, in quella moltitudine di spettatori, tra cui dovevano essere parecchi dei suoi antichi corteggiatori, dicevano chiaramente: vedete, o Quiriti, non è anche finito il mio regno.

Infatti, quel biondo cavaliere poteva considerarsi come la prima e la più invidiabile tra le conquiste che potesse fare un'alunna di Venere tra quei giovani patrizii di Roma. E quando egli sollevò tra le dita quel suo meraviglioso flabello, che raffigurava la coda spiegata d'un pavone, agitandolo soavemente da presso alle tempie di Clodia Metella, molte nobili matrone allibbirono; molti giovanotti eleganti invidiarono quella graziosa novità, che doveva trovare imitatori in buon dato; e un vecchio Alcibiade, che pizzicava di poeta, sentenziò che Venere spogliatrice aveva rapiti gli onori a Giunone.

A chiarire questa immagine classica, ricorderò che il pavone era sacro alla moglie di Giove. Quanto a Venere spogliatrice, il lettore ha già visto chi fosse; Cicerone, che vien sempre in ballo quando si tratti di uno di quei frizzi che levano la pelle, aveva proprio bollata la povera Clodia, come si bollano i buoi, col marchio rovente dei gabellieri alle porte.

Il prologo della commedia distolse un tratto dalla nostra coppia amorosa l'attenzione dell'uditorio. I [168] lazzi del personaggio scenico parevano fatti a bella posta pei giovani eleganti che sedevano all'estremità del podio.

— «Date retta, vi prego, alla compagnia; — diceva in un certo punto il prologo della Casina. — Mandate a quel paese la malinconia e non pensate ai debiti. Oggi nessuno ha da aver paura dei creditori. Giorno di giuochi è giorno feriato, anche per gli strozzini. Tutto è tranquillo; il Foro ha vacanza; gli usurai fanno giudizio e non chiedono niente a nessuno. Pensate forse al poi? Quando i giuochi sono fatti, a nessuno si rende più niente.» —

Questa Casina era una delle ultime e delle migliori commedie di Plauto; però piaceva ancora, un secolo e mezzo dopo la morte dell'autore. S'intitolava dal nome di una bella schiava, a cui volevano dare marito in due, il padre ed il figlio, per una ragione che i discreti non vorranno domandarmi di certo. L'intento della commedia, secondo che notano i savii, era morale abbastanza, vedendosi in essa un vecchio innamorato che finisce col portare le pene della sua ridicola zerbineria; ma nella favola poi, ci si riscontrava una libertà veramente plautina e il buon costume ne usciva assai mal trattato.

E ci andavano, direte, lo vergini Vestali? Mah, che ci posso far io? Ci andavano anche le più savie e costumate matrone, gli edili, i consoli e tutti i personaggi più gravi di Roma. E ridevano vi so dir io, con la scorta degli autori, e ci si spassavano un mondo. Era quello il tempo in cui si [169] poteva dire e sentire ogni sorta di capestrerie, a patto che si giurasse di non farne mai. Ovidio diceva: «io vivo onestamente; solo la mia Musa è un po' scollacciata». E Marziale seguitava: «il mio libro è lascivo, ma la mia vita è proba». Ambedue imitavano Catullo, l'antico amante di Clodia, che aveva scritto di se:

Nam castum esse decet pium poetam

Ipsum; versiculos nihil necesse est.

Quella cara società antica somigliava in cotesto alla medievale e a quella del risorgimento; quando le signore leggevano le novelle del Certaldese e del vescovo Bandello, e quando papi e cardinali assistevano alla rappresentazione della Calandra, amenissima commedia del loro collega Dovizi, detto il Bibiena. E in Francia e in Inghilterra non era lo stesso? Conchiudiamo; più di noi, i nostri antichi amavano farsi un po' di buon sangue e non badavano alla qualità dei sali con cui si otteneva l'intento. Così avveniva che le commedie di Plauto, in cui, a detta d'Orazio, i sali erano così grossolani, piacessero a tutti i Quiriti, e ci prendesse gusto il severo Catone, come più tardi aveva a prenderci gusto san Gerolamo, che si era portato l'autore prediletto nel deserto e se lo andava centellando saporitamente, a riposo delle notti vegliate nelle lagrime della penitenza.

Tra un atto e l'altro della commedia, ripigliava il cicaleccio dei nostri giovinotti eleganti. In mezzo a loro era capitato Quinto Servilio Cepione, che li conosceva tutti intimamente, come potete argomentare, [170] e che con la sua presenza ne fece scantonare parecchi.

— Ohè, Cepione, — gli disse Postumio Floro, battendogli con molta confidenza sul ventre, — come va? siamo sconfitti?

— Sconfitti! Che vuoi tu dire?

— Debellati, per Bacco! Laggiù, alla terza fila del quarto cuneo, il vincitore trionfa.

— Eh, eh! — rispose Cepione, ridendo di mala voglia. — Vuol durar poco, il trionfo.

— Che importa la durata, se il tuo competitore ascende la via Sacra?

— Questa, poi, è troppo forte; — esclamò Giunio Ventidio. — La via Sacra! Lo dirai forse pel tratto delle Botteghe Vecchie! —

Una risata generale accolse l'arguzia di Giunio Ventidio. I lettori rammenteranno che le Botteghe Vecchie, ritrovo degli usurai, erano appunto nel Foro, accanto alla via che metteva al Campidoglio.

Ma, se risero i giovani sconclusionati, non rise mica Servilio Cepione. L'argentario fece anzi il muso più lungo del solito.

— Eh, eh! ne parlate allegramente, delle Botteghe Vecchie, padroni miei, — rispose egli, con amarezza, — ora che avete pagato, non so come, i vostri debiti a questo odiato Servilio!

— O che? — disse Postumio, dissimulando con un ghigno d'aver ricevuto il colpo in pieno. — Ti piacerebbe di non essere stato pagato? Forse per farci fare il viaggio dei tre mercati? Attàccati ai panni di Tizio Caio Sempronio, se l'hai proprio con lui.

— Con lui? Io? E perchè avrei dovuto averla [171] più con lui che con te? Caio Sempronio è un bravo giovinotto. Spende del suo, e, se lo getta via come un pazzo, è padrone di farlo. Noi uomini savi contentiamoci di raccogliere.

— Ah, lo confessi? — gridò Postumio Floro.

— Sicuramente; che male c'è? Dovrei vergognarmi di imitare Porcio Catone, il rigido censore, che imprestava danaro alla gente, per cavarne un frutto maggiore del reddito dei suoi campi Tuscolani? Giovinotti, giovinotti, quando intenderete il prezzo della pecunia....

— Non sarà più tempo; — interruppe Giunio Ventidio. — È questo che volevi dire? Ti s'è risparmiata la fatica. Del resto, vedi, amico Cepione, quando voi, uomini savi, vorrete usare della ricchezza, non sarà più tempo neanche per voi, e un bel giovinotto vi farà mettere alla porta senza tanti riguardi.

— Quanto alla porta, lasciamola lì! — borbottò l'usuraio.

— È pure toccata ad uno che conosco io; — aggiunse Postumio Floro. — E se egli non fosse stato messo alla porta, poniamo per via di metafora, Clodia Metella non sarebbe oggi in teatro, al fianco di Caio Sempronio.

— Se parli per me, t'inganni a partito, — rispose Cepione, sbuffando. — Clodia Metella è là, col vostro amico, perchè.... perchè non me ne importa un fico.

— Hai torto; è così bella! — disse Postumio.

— Dieci volte più bella del solito; — aggiunse un altro. — Quella stola frangiata d'oro....

[172]

— Listata!

— Anzi meglio, vergata d'oro, le sta a meraviglia.

— E non è certamente un dono di Servilio Cepione; — notò quella linguaccia di Ventidio.

— E perchè non lo sarebbe? — domandò l'usuraio inviperito. — Potrei, meglio di voi, far questo ed altro, potrei coprirla d'oro....

— Del nostro!

— Del vostro, o di mezza Roma, potrei farla risplendere più di Cibele, o di Venere vincitrice, se la cosa mi piacesse. Ma non mi piace, ecco tutto. —

Il nostro banchiere incominciava a pentirsi d'essere andato a ficcarsi in quel vespaio. Postumio e Ventidio gli davano più noia degli altri; erano i più accaniti contro di lui. Se non avessero pagato in quegli stessi giorni i loro debiti, con che gusto si sarebbe vendicato! Ma tutti i giorni vengono, chi sappia aspettarli, pensò il nostro Cepione, ed una ne paga cento.

Que' zerbinotti, poi, non sapevano spiccarsi da Clodia Metella; non sapevano spiccarsene con gli occhi, nè coi discorsi. Clodia Metella, argomento di tutte le invidie, lo diventava altresì di tutti i desiderii.

È questa l'arcana virtù (mi perdoni la virtù, se adopero in questa guisa il suo nome) di certe donne perdute. Le illustri scostumatezze tirano a sè tutti gli animi deboli. Si sa di andare a rovina; tanto meglio. Così va la farfalla al lume, pazzamente, sentendo bruciarsi il sommo dell'ali. Quella [173] donna, poi, non era neanche una greca, una etèra, una di quelle arpie calate in Roma per mandare in rovina i severi Quiriti; era una matrona, una patrizia romana, e, volere o no, figlia e moglie di uomini consolari.

Vedete, ad esempio; poco lunge da Clodia Metella, sull'orlo del quinto cuneo, sedeva un'altra donna, bella come lei e di parecchi anni più giovane. Anch'essa era piaciuta a molti. Ma non era che una greca; tra pochi dì sarebbe stata la moglie di un povero poeta; l'etèra appariscente vestiva con semplicità, come si conveniva alla vigilia del nuovo e modesto suo stato; perciò scompariva, si confondeva nella moltitudine delle Lucrezie di Roma.

E lo sentiva anche lei, non dubitate; e a risico di rimpicciolire ai vostri occhi l'immagine di Cinzio Numeriano, vi dirò che quell'onesta ma umile condizione a cui la chiamava il poeta, non le pareva un gran che. Ancora un mese o due, e le sarebbe parso un errore. Essere in vista, corteggiata, desiderata, e magari come una saltatrice, un'ambubaia di Siria, quello era il buono. E invece, guardate che disdetta, la povera Delia si sacrificava a Cinzio Numeriano, un giovine di belle speranze, ma di poche sostanze; e queste, poi, frutto d'una liberalità di Tizio Caio Sempronio. Quello era un uomo!

— Eccolo là, — pensava la bionda Delia, guardandolo lungamente, attraverso le ciglia semichiuse, e facendo le viste di badare a tutt'altro; — eccolo là, giovane, ricco e felice. È bello di una [174] lieta ed altera bellezza, non mesta, non umile, non timorosa, come quella di Cinzio. L'uomo ha da essere ardito. Vedetelo, con quella fronte alta e quel suo sguardo sfavillante. Pare che sfidi tutta Roma ad essere più felice di lui. E quella Clodia, come si tiene! È poi bella come dicono? Certo, quest'oggi non è male. Ma qual donna mediocre non apparirebbe bellissima, con quelle perle intrecciate nei capegli, scambio di una semplice vitta, e con quella stola di nera porpora, intessuta d'oro, che dà tanto spicco alle carni? È lei la regina del teatro, non c'è che dire, e i giuochi Megalesi sono banditi per lei. Noi altre, povere donnicciuole, ci sfiguriamo tutte, non siamo più nulla al confronto; nemmeno la nobile Giunia Sillana, che è senza dubbio la più bella di tutte le patrizie romane. —

Giunia Sillana si sarebbe grandemente meravigliata, se avesse udita la chiusa del soliloquio di Delia. Figuratevi! Una donna che loda la bellezza di un'altra! Tuttavia, se ella avesse avuto lì per lì uno specchio e ci si fosse veduta per entro, non sarebbe stata molto a capire il perchè d'una lode così spontanea. Quel giorno, la povera Giunia Sillana era verde come un ramarro.

Lettori, per dirvi tutte queste cose, io commetto una piccola indiscrezione; sto origliando, direbbe un seicentista, alla toppa d'un cuore. Il volto di Delia non lasciava trapelar nulla di questi brutti pensieri; non si vedeva in lei che una bella donnina, sebbene un po' più fredda e severa del solito. Per altro, bisogna ricordare che una bella [175] donnina, quando è scontrosa, imbruttisce parecchio, o, se vi torna meglio, apparisce meno bella di prima. E questo accadeva a Delia, quantunque Numeriano, innamorato com'era, non potesse avvedersene.

Un consiglio alle donne. Non facciano mai il viso arcigno, salvo il caso che vogliano parer simulacri di marmo e rimanere sul piedistallo. C'è anche il suo gusto a far ciò, lo capisco; ma io parlo per quelle che vogliono, se non piacere a più d'uno, almeno parer belle a tutti. Ho spesso per le mani Ovidio, che mi racconta i mille artifizi delle dame romane, e, come vedete, incomincio a rubargli il mestiere. Badino, per altro, le mie belle lettrici, io non pretendo d'insegnare a nessuna e non domanderò come lui che esse scrivano sulle loro tavolette: «egli è stato il nostro professore» (Inscribant tabulis: Naso magister erat), ben sapendo che il mio diavolo nasceva appena, quando il loro andava già ritto alla panca.

Torniamo a Delia. È una donna incontentabile, e farebbe una carità fiorita a non accettare la mano di Cinzio e a ripigliar la sua parte di donna libera. Pure, se noi ci facessimo a consigliarla in tal guisa, metto pegno che ci manderebbe a quel paese. C'è sempre nel cuore di certe leggiadre donnine un pochino di mal talento, e come un desiderio di far dispetto. — Ah, vuole sposarmi, il poveraccio? Orbene, sì, lo faccia a sua posta; vedrà che bel giuoco! — Qualche volta non lo dicono nemmeno tra sè; ma ci hanno il genietto maligno, accoccolato dietro una piegolina del cuore, [176] che pensa lui le vendette; e le farà, non dubitate, le farà senza tanti discorsi.

A consolare le bizze di Delia era andato Postumio Floro, dopo il quart'atto della commedia. Vi ho già detto che la sperata di Numeriano sedeva sull'estremità d'un cuneo; donde vi sarà facile intendere, se avete ancora davanti agli occhi la pianta del teatro romano, che Postumio Floro, ascendendo la scaletta rasente al cuneo poteva avvicinarsi ai due fidanzati senza recare troppo disturbo alla gente.

— Avete visto? — diss'egli, ammiccando.

— Che cosa? — domandò Numeriano.

— I nuovi amori del nostro amico Caio Sempronio.

— Sì, male collocati; — sentenziò la bizzosa donnina.

— Eh, non mi pare. Clodia è così bella!

— Lo credi?

— Mah, lo dicono tutti; e quando tutti dicono....

— Non è più il caso di ripetere; — interruppe Delia, nascondendo in un motto arguto la sua scontentezza. — Vuoi tu essere, o Postumio, il pappagallo di Clodia Metella?

— No, per gli Dei; al peggio dei peggi, mi sarei contentato d'essere il suo passero.

— Vent'anni fa?

— Mettiamo dieci, via! Ella non è così vecchia.

— Lo sembra. Ed io non so capire come mai, per quella Cibele inorpellata, il tuo amico Caio [177] Sempronio abbia potuto dimenticare la giovine e fresca Glicera.

— Ho capito io; — pensò il giovinotto. — Queste donne son tutte beccate ad un modo. —

Postumio vedeva giusto. Dalla fidanzata di Cinzio Numeriano a quella superba di Giunia Sillana, tutte le spettatrici l'avevano a morte con Clodia Metella; non potevano patire quello sfoggio d'ori e di perle; sopra tutto non sapevano rassegnarsi alla nuova conquista che ella avea fatta, del più leggiadro e del più magnifico tra i cavalieri di Roma.

La conseguenza di tante bizze fu questa, che molte matrone, le quali da un pezzo salutavano mal volentieri Clodia Metella, o fingevano di non vederla quando la incontravano per via, si affrettarono a star su, appena finito lo spettacolo, e quali studiarono il passo, quali lo ritardarono, per modo da esser vicine a lei nell'uscita.

— Salve, divina! — incominciò una di loro, Marzia Amerina.

— Mia bellissima, tu sei proprio un amore; — aggiunse Valeria Lutazia.

— Dove hai presa quella stoffa? È oro filato; — esclamò Anna Domizia, precorrendo san Tommaso, quello che voleva vedere e toccare.

— In verità, — disse Giunia Sillana, le cui parole erano armi a due tagli, — essa ti rende più bella. —

Tizio Caio Sempronio, come potete figurarvi, camminava impettito a guisa di trionfatore.

— Mia dolcissima, — ripigliò Valeria Lutazia, — dove [178] fai conto di passare l'estate, quest'anno?

— A Baia; — disse Clodia Metella.

— Hai ancora la tua villa sul lago Lucrino? — domandò malignamente Giunia Sillana, alludendo ad una lunga stazione fatta laggiù da Clodia Metella con Celio Rufo.

— No, ne compero un'altra; — rispose Clodia, senza scomporsi; — e ci andrò per le calende di maggio.

— Come? ci abbandoni pei giuochi Florali? — disse Valeria.

— E per la festa della dea Bona? — aggiunse Giunia Sillana. — Sarà una grave mancanza. —

La dea Bona, se nol sapete, era la dea matronale per eccellenza, e si citava questo bel fatto di lei, che, fino a tanto era vissuta tra i mortali, nessun uomo, tranne il marito suo, l'avesse veduta, o avesse pure inteso profferire il suo nome.

Clodia Metella fece le viste di non avere udito. Era l'unico spediente per non avere a raccogliere il frizzo di Giunia Sillana.

Sotto i portici del teatro, mentre Caio Sempronio si era fatto avanti per chiamare la lettiga, le si accostò Servilio Cepione, caldo ancora di tutte le acerbe punture inflitte alla sua vanità dai giovani patrizi romani.

— Clodia Metella, — le bisbigliò all'orecchio, — io cenerò con te, questa sera. —

E dava intanto una sbirciata compassionevole ai suoi derisori, che stavano là, secondo l'uso, adocchiando le dame.

[179]

— Non mi seccare; — rispose Clodia, alzando le spalle.

Se aveste veduto il muso di Servilio Cepione, in quel punto! I suoi amici e debitori, che non lo perdevano d'occhio, ne ridono ancora oggi, nel regno delle ombre.

[180]

CAPITOLO XIV. Le nozze di Numeriano.

La mattina del sesto giorno sopra gli Idi d'aprile....

Ma qui, prima di andar oltre, bisognerà spiegarci un tratto. Il calendario romano è così disforme dal nostro, con le sue calende, le sue none, i suoi idi, e l'uso di contare i giorni alla rovescia! Gli Idi d'aprile cadevano al 13; dunque, tornando indietro sei giorni, abbiamo il sexto Idus, corrispondente agli 8 d'aprile.

È un bel giorno per Cinzio Numeriano, e un giorno di grandi faccende per Tizio Caio Sempronio, che ha dovuto perfino rinunziare alla sua visita mattutina in casa di Clodia Metella. Per altro, come vedrete, ha pensato a lei, e fa conto di vederla dopo il tramonto del sole.

Quella mattina, adunque, Tizio Caio Sempronio si alzò da letto più presto del solito, e, preso il [181] bagno consueto, stette allo specchio un'ora di più che non facesse negli altri giorni; indi, tutto azzimato, spirante ambrosia alla guisa d'un Nume, si dispose ad uscire di casa.

Il vecchio Lisimaco lo attendeva nell'atrio.

— Mio signore! — disse l'arcario, inchinandosi.

— Orbene, Lisimaco, che c'è?

— Chiederei di trattenerti per breve ora, se non ti spiace. Ho certi conti da farti vedere....

— A proposito, — interruppe Caio Sempronio, — hai mandati i fiori a Clodia Metella?

— Sì, mio signore.

— Col silfio cirenaico?

— Col silfio cirenaico; — rispose Lisimaco, traendo un sospiro.

E aggiunse tra sè, commentando quel sospiro malinconico:

— Mille denari, per una pianticella che non è la metà del mio braccio! —

Il silfio era una pianta preziosissima e celebre tra gli antichi per le miracolose proprietà che le erano attribuite. Risanava ogni male, purificava l'aria e l'acqua, e, come se ciò non bastasse, addormentava le pecore e faceva starnutare le capre. Tolgo questi particolari da Teofrasto e da Plinio, che ci indicano il silfio come una pianta fornita d'una radice carnosa, d'un gambo simile a quello del finocchio, e d'una foglia a un dipresso come quella del selino. A Cirene lo si aveva per sacro, essendo apparso di botto, come diceva la leggenda, dopo una pioggia di bitume, sette anni dopo [182] la fondazione della città, nell'anno 420 di Roma. I compagni d'Alessandro il Macedone trovarono questa pianta copiosamente sparsa sulle montagne di Candahar. Aristofane fa dire ad un sicofante che egli non muterebbe vita, neppur se gli regalassero del silfio, consacrato a Batto, il fondatore di Cirene. Giulio Cesare vendette per mille cinquecento marchi d'argento la provvista di silfio che si custodiva nel pubblico erario di Roma. Nerone un giorno ne ricevette una pianta in dono, e a palazzo se ne fecero molti discorsi, come di un presente straordinario. Infine, il silfio è rappresentato sul rovescio delle monete di Cirene, che non è celebre solamente per questo, ma anche per aver dati i natali al poeta Callimaco e al filosofo Carneade, quello che va debitore della sua fama, in uguale misura, ai grandi elogi di Cicerone e alla poco salda memoria di Don Abbondio.

— Bene! — esclamò Caio Sempronio. — Dunque, sta sano, mio vecchio Lisimaco.

— Ma... vorrei dirti...

— Sì, sì, capisco che vorrai dirmi qualche cosa; ma non ho tempo, sai? Oggi si tratta di lavorare per la felicità degli altri, e non è tempo da pensare alla propria. —

Ciò detto, diè una voltata sulle calcagna e si avviò verso il pròtiro, lasciando il suo vecchio arcario a crollar mestamente il capo, com'era suo costume da parecchi giorni.

Lisimaco non aveva anche finito di ciondolare, che il cavaliere tornò indietro.

[183]

— Vedi che bestia! Dimenticavo l'essenziale. Sono andati i servi agli Orti Ventidiani?

— Sì, mio signore.

— Col monile di perle?

— Col monile di perle; — ripetè l'arcario.

E aggiunse mormorando:

— Trentamila sesterzi! E non è ancora contento!

— Che cosa borbotti? — domandò il cavaliere, sorridendo.

— Che l'hai pagato trentamila sesterzi, e ti pare d'aver fatto un dono di poco.

— Ma sì, pur troppo! — esclamò Tizio Caio. — Le son perline da nulla, e mi duole non averne trovato di più vistose. Non sai tu, vecchio Lisimaco, che ce ne sono di grosse come le noci e più ancora? Si racconta che in Egitto, nella reggia dei Tolomei, ce ne siano due molto più grosse degli occhi che mi stai ora facendo.

— Sono in Egitto; che fortuna! — gridò l'arcario, che proprio non se la poteva rattenere fra i denti.

— Chiamala una disgrazia; — rispose il cavaliere. — Noi, per averle, dovremmo far guerra all'Egitto. E chi sa, che un giorno o l'altro non me ne salti il ticchio?

— La guerra è una bella cosa; — notò il vecchio servitore; — essa riempie i forzieri, non li vuota.

— Ed io, vedi, ho risoluto; andrò nella milizia. —

Lisimaco ebbe un barlume di speranza.

[184]

— Quando, mio signore? — domandò egli sollecito.

— Appena avrò speso l'ultimo quattrino; — rispose Caio Sempronio.

La fronte del vecchio si rannuvolò di bel nuovo. Intanto il nostro cavaliere si avviò da capo all'uscio di casa, e questa volta per non tornare più indietro.

Tizio Caio Sempronio andava a piedi, perchè i Romani di quel tempo non si erano ancora tanto infemminiti da adoperar la lettiga. Ma i suoi servi lo avevano preceduto agli orti Ventidiani, ed uno di loro portava, tra gli altri arnesi, un paio di mullei, calzari elegantissimi, dello stesso colore della tunica, affinchè il padrone potesse comparire in casa di Cinzio Numeriano senza traccia di polvere.

Quel giorno il nostro cavaliere faceva l'ufficio di auspice; un quissimile di ciò che è presso i moderni francesi il garçon de la noce. Era lui che qualche giorno prima aveva assistito al contratto degli sponsali e che quella stessa mattina aveva osservati gli augurii; senza ridere, vi prego di crederlo. Inoltre, da buon romano, aveva posto mente a non stabilire le nozze in giorno nefasto, come sarebbero state le Calende, le None e gli Idi, le feste Parentali, le Salie, ed altre che per brevità si ommettono.

Tre giorni si spendevano dai Romani nella celebrazione delle nozze. Nel primo, lo sposo visitava la sposa in casa del padre di lei; nel secondo la sposa andava a dormire in casa del suocero, [185] per uscirne sull'alba del terzo, che era propriamente il giorno nuziale, e quello in cui si celebrava il matrimonio nei modi già detti altrove, della mutua compera, e della confarreazione, e con tutte le cerimonie che or ora vedremo, se non vi dà noia lo assisterci.

Le prime cerimonie erano state compiute, e non al tutto secondo gli usi romani. Rammentate che Delia era greca e che viveva in Roma da sola, fuori d'ogni potestà di parenti. Perciò il nostro Numeriano non aveva potuto andare dal padre di lei per fargli la domanda rituale: «volete voi darmi la vostra figliuola in moglie?» Neanche era stato il caso di fare per due giorni, tra le due case degli sposi, quei viavai che ho accennato pur dianzi. Erano andati dal pontefice massimo, e là, alla presenza del gran sacerdote, e di dieci testimoni, il Flamine Diale, o sacerdote di Giove, aveva sacrificata una pecora e divisa tra gli sposi la tradizionale focaccia di fior di farina. Quindi la bella etèra di Corinto se ne era tornata alla sua casa, donde il giorno seguente gli amici dello sposo dovevano andarla a levare per forza.

Era anche questa una cerimonia inutile, perchè non si trattava più d'una fanciulla, che si dovesse strappare dal seno della famiglia. Ma questa era la forma più antica e più solenne di matrimonio, a ricordo del modo in cui Romolo e i suoi celibi compagni si erano impadroniti delle belle Sabine; e Delia, poichè aveva a maritarsi, voleva fare le cose con ogni maggior pompa, a [186] conforto della sua vanità femminile. Ora, argomentate se l'innamorato Numeriano non volesse contentarla anche in questo.

Il giovane poeta era fuori di sè dalla gioia. Quando il suo auspice giunse agli orti Ventidiani (li chiameremo ancora con questo nome, per intenderci alla bella prima), Numeriano, tutto vestito di bianco e coi capegli tagliati di fresco secondo il rito, stava disponendo ogni cosa pel sacrificio augurale di quel giorno. Un popa, specie di sacerdote beccaio, era già in attesa, coi suoi cultrarii, o sgozzatori assistenti; la vittima grugniva ai piedi dell'altare, davanti all'uscio di casa.

Lettori, io non ci metto di mio nè sal nè pepe. Si sacrificava il dì delle nozze una scrofa, simbolo di fecondità coniugale presso i Romani. Virgilio stesso ha creduto necessario di citare nel suo poema la scrofa meravigliosa, trovata da Enea sotto un leccio, presso la riva del Tevere, con trenta porcellini intorno; triginta capitum foetus enixa.

Compiuto il sacrificio nelle debite forme, di cui vi fo grazia, venne il giro di una breve refezione d'amici. Era l'ultimo addio dato da Cinzio Numeriano al suo celibato, e l'avverbio feliciter suonò da tutte le labbra, mentre si andavano vuotando le tazze.

La giornata era bella e il pranzo s'era fatto fuori della casa, in giardino, per non guastare i preparativi del triclinio, destinato alla cena nuziale. Era un bel giardino, anzi un bosco senz'altro, [187] quello che Ventidio aveva venduto a Caio Sempronio e questi liberalmente donato al suo giovane amico. Elci, roveri e pini vi erano cresciuti fitti abbastanza per far riparo dai raggi del sole, ed altri arbusti più umili, come il biancospino, la betulla e il corbezzolo, consolavano gli occhi con le varie temperanze del verde ond'erano rivestiti.

Quello era davvero il luogo per un poeta. Fauni, Naiadi, Driadi ed Amadriadi, ci dovevano esser tutti, quei cari numi, di cui la religione pagana aveva popolate le selve del Lazio. Quei sassi coperti di muschio, quelle acque zampillanti, quegli ombrosi recessi, dovevano aver voci arcane e piene di attrattive per un seguace d'Apollo. E il nostro Numeriano prendeva moglie! Abitatrici del sacro monte, Pierie, Castalie, e comunque vi piaccia esser nomate, dove eravate voi in quel punto?

Intanto che i nostri celibi finiscono di pranzare (e più non occorre di dire che cosa fosse il pranzo dei Romani) andiamo poco lunge, caliamo dall'Esquilino verso ponente e ascendiamo il Celio, dov'è la regione più popolosa della eterna città. Lassù, presso il tempio di Tullo Ostilio, in una casetta modesta di fuori, ma arredata internamente con greca eleganza, troveremo la sposa, in mezzo ad un cerchio di amiche, intente ad ornarla per l'ultima cerimonia, e ad invidiarla per la sorte che le tocca, di doventare una matrona romana.

Delia era semplicemente vestita, come l'uso portava. Non ori, non perle, non porpora, ma solamente [188] la stola di lana bianca, tessuta in casa, per seguitare l'esempio di Caia Cecilia. E qui bisognerà fare un po' di parentesi per raccontare chi fosse costei. Caia Cecilia, o, per dire il suo nome arcaico, Tanaquilla, era la moglie di Tarquinio Prisco, famosa per cento domestiche virtù, tra cui prima di filare e tessere la lana. Lanam fecit, diventò, dopo questa donna esemplare, il più bel vanto d'una matrona romana; portare il dì delle nozze una stola come la sua, fu obbligo a tutte le sue pronipoti. Come se ciò non bastasse, fu costume universale di assumere per quel giorno il nome di lei. Tutte le spose, nella cerimonia nuziale, si ornavano del nome di Caia.

La stola nuziale di Delia era stretta al fianco da una zona, o cingolo, di lana di pecora. Anche qui c'era la sua ragione, trovata dai teologi del tempo. Festo Pompeio vi dirà che, nella medesima guisa in cui la lana della pecora, ravvolta in gomitolo, appare tra sè congiunta, così il marito è congiunto e legato alla moglie. Troppa sottigliezza, signor Festo Pompeio! Il vero si è che la sposa, per somigliare a Caia Cecilia, doveva essere tutta vestita di roba fatta in casa; epperciò la zona non poteva non essere di lana, come lo era la stola. Il cappio di questa zona dicevasi il nodo d'Ercole (Herculaneus nodus) e lo scioglieva alla sera il marito, a titolo di buon augurio, per essere felice di molta prole, come lo era stato Ercole, famoso per molte fatiche e più ancora per avere avuto una settantina di figli, che Dio ne scampi ogni fedel cristiano.

[189]

Delia era vestita oramai di tutto punto, e i capegli biondi aveva attorcigliati e raffermati alla nuca con una piccola asta di ferro. Era l'asta di Giunone Curite, così detta dal vocabolo sabino curis, che significava per l'appunto quell'arma. I teologi di cui sopra hanno lasciato scritto che quell'asta nei capegli augurava una prole maschia, forte e bellicosa. Gli amici della storia pura vedono in questa cerimonia un altro accenno alle prime nozze romane, che furono fatte con l'armi alla mano.

Mancava ancora la ghirlanda di fiori e di verbene, e mancava il flammeo, velo finissimo che col suo colore ranciato doveva nascondere il rossore, il «color di fiamma viva» come è stato detto così bene da Dante Alighieri, che disse bene ogni cosa. Ma, per venire a quest'ultima parte dell'acconciamento nuziale, occorreva che giungessero all'uscio di strada i rapitori.

E giunsero finalmente, guidati da Tizio Caio Sempronio, che, nella sua qualità d'auspice, d'amico e di protettore, doveva avere gli onori della giornata. Delia aspettava lui per l'appunto, e, vedendo lui, non badò a Postumio Floro, ad Elio Vibenna, nè a Giunio Ventidio, che lo accompagnavano in quella facile impresa.

— È dunque vero che tu vuoi rapirmi la figlia? — disse l'amica più vecchia di Delia, che faceva presso di lei l'ufficio di pronuba.

— Sì, madre, è necessario; ed avverrà con tua buona pace, — rispose Tizio Caio, sorridendo amabilmente, — se pure non vuoi che scorra il sangue fino alle falde del Celio.

[190]

— Se lo volessi pur io, non lo vorrebbe Giunone; — mormorò la pronuba, trattenendo le risa, — E dove la condurrai tu?

— A Publio Cinzio Numeriano, che l'ha ottenuta ieri col farro e col sale, che l'ama e che la farà padrona di casa sua. Come fu portata la più bella tra le Sabine a Talassio, così noi porteremo la più bella tra le Corinzie a Numeriano.

— Talassio! Talassio! — gridarono festosamente alcuni adolescenti vestiti di bianco e inghirlandati di fiori.

Chi era questo Talassio? Rimontiamo al ratto delle donne Sabine e lo vedremo. Il fatto avvenne, come sapete, in occasione dei giuochi solenni ordinati da Romolo, in onore del Dio Nettuno equestre. Giunta l'ora della festa, e mentre i padri Sabini erano intenti ai giuochi, i giovani romani, al segno dato, corsero a rapire le fanciulle dei loro vicini. La maggior parte furono possedute da coloro che le rapirono; alcune delle più belle, come destinate a taluno dei principali patrizi, erano condotte loro a casa da certi della plebe, che di ciò (narra Tito Livio) avevano avuto commissione. Tra le quali essendo stata presa una di eccellente bellezza dalla compagnia di un certo Talassio, e domandando molti che la incontravano a chi mai fosse condotta, i portatori, perchè non le venisse fatta violenza, rispondevano ch'era di Talassio e che essi la portavano appunto a Talassio. Onde fu poi questa voce nelle nozze gridata e celebrata.

[191]

Talassio, dunque, Talassio! E mentre tutti così gridavano in coro, uno dei matrimi, che così, ed anche patrimi, erano chiamati gli adolescenti del cortèo, andato ad un'ara che ardeva nell'atrio davanti ad un simulacro di Giunone Cingia, la dea degli sponsali, v'accese la face di biancospino. Anche questa era una cerimonia d'importanza. Il biancospino era stimato di gran virtù per discacciare le malìe. Inoltre, quella face, prima che il cortèo entrasse nella casa del marito, era contesa e rapita dagli amici di lui, affinchè non avesse da estinguersi in casa, o non si conservasse, per abbruciarla poi nei funerali d'uno dei coniugi. Ambedue questi casi, come ben vede il lettore, potevano riuscire di pessimo augurio.

Postasi in fronte la corona e velata la testa col flammeo, la bellissima etèra uscì dalla sua casa sul Celio. La seguivano le amiche più fidate e gli amici di Numeriano. Andavano innanzi i giovinetti, uno dei quali, come ho già detto, con la face di biancospino, un altro con la conocchia, col pennecchio di lana e col fuso, a simbolo di ciò che la donna romana doveva fare in casa del marito; un altro ancora col cùmero, o vaso nuziale, in cui si recavano tutti gli utensili della sposa. Tutto intorno e dietro al cortèo, gran numero di curiosi, la più parte ragazzi della plebe, che aspettavano una gettata di noci dalla liberalità del marito, quando fossero giunti alla casa di lui. Talassio! gridavano tutti. Talassio! ripetevano i viandanti, che s'imbattevano nel cortèo e si tiravano da un lato per lasciarlo passare. E non [192] mancavano le lodi alla bellezza singolare della sposa, che veramente le meritava, nè gli augurii di felicità, tutta roba che costa poco, val poco, e lascia il tempo che trova.

Così, sceso dal Celio e traversata la via Nevia, il cortèo nuziale salì all'Esquilino, per andare agli orti Ventidiani. La casa di Numeriano, davanti a cui già s'era adunata gran gente, aveva l'uscio spalancato e le mura tutte ornate a festoni di rose, di lauro e di mirto, intrecciati fra loro. Altri festoni di fiori adombravano il tabernacolo del vicino crocicchio, dov'erano esposte alla venerazione dei viandanti le immagini dei Lari compitali.

L'usanza delle nicchie e degli altarini sugli angoli delle vie, come vedete, è antica. Scambio delle anime purganti, di Sant'Antonio, o di San Rocco, c'erano i Lari compitali, custodi del passeggiero, oppure i due serpenti affrontati, con un'ara nel mezzo, che rappresentavano il genius loci, e, mercè la riverenza dovuta alla divinità tutelare, distoglievano i viandanti dal meritarsi una multa, per contravvenzione ai regolamenti municipali.

Gli stipiti della porta erano tutti coperti con fasce di lana rossa, e drappelloni della medesima stoffa pendevano dall'architrave, non dissimilmente dai parati con cui si rivestono nelle grandi solennità gli archi e i pilastri delle chiese. Quanto alla soglia, essa luccicava di un unto che le avea dato poco dianzi lo sposo, strofinandovi sopra un cencio impiastricciato di grasso di lupo. Plinio [193] mi dice a questo proposito che il grasso di lupo era indicatissimo contro le malìe, come la face di biancospino. E qui vorrei chiedere al mio amico Degubernatis se l'usanza sia d'origine ariana o semitica. Io tra i popoli del Sennaar ho trovato molte di queste ubbie; ma certo il mal occhio e simili altre diavolerie sono di tutti i popoli, come il timore, di cui parla Lucrezio, che lo ha celebrato artefice e padre di tutti gli Dei.

Del resto, lettori umanissimi, tornando all'unto di cui sopra, non temete pei leggiadri calzari e per la stola di Delia. Essa non toccherà in nessun modo il limitare dell'uscio. Ha in quella vece toccata col sommo delle dita la brocca dell'acqua e l'orlo del focolare, collocati davanti all'ingresso. Il fuoco e l'acqua erano due elementi, presso gli antichi, e, secondo la grammatica, maschile il primo, femminile il secondo. Nella loro congiunzione era adunque simboleggiato il matrimonio. Infatti, soggiungeranno gli arguti, l'acqua spegne il fuoco, e il matrimonio è spesso un grande spegnitoio. Ma queste sono malignità dei moderni. Noi diremo in vece cogli antichi che l'acqua era la purità, il fuoco la incorruttibilità, e che ambedue convenivano egregiamente a significare la fede.

La brocca dell'acqua, toccata appena, fu portata dentro dai servi, perchè con quell'acqua così consacrata si dovevano lavare i piedi agli sposi. Così i due coniugi erano uniti per sempre, salvo il caso del divorzio, con le mani e co' piedi.

Compiuta quella prima cerimonia della toccatina ai due sacri elementi, Delia si fermò davanti [194] all'uscio. Numeriano era apparso di là dalla soglia, pallido per la commozione, ma con gli occhi scintillanti di desiderio.

— Chi sei? — domandò egli, per obbedire alle uggiose lungherie del rito.

L'auspice si avvicinò in quel punto alla sposa e le bisbigliò la risposta all'orecchio.

— Dove tu sei Caio, io sarò Caia; — rispose Delia, ripetendo le parole dell'auspice.

Le quali parole volevano dire: ove tu sei signore e padre di famiglia, io sarò signora e madre di famiglia con te.

— Ben vieni; — ripigliò Numeriano. — Sii Caia dunque, secondo il rito dei nostri maggiori, Caia secondo i voti del mio cuore. —

L'invito era pieno d'ardore e di tenerezza. Ma la signora Caia nicchiava. Ed anche questo era d'obbligo; dovendosi intendere che la pudica fanciulla entrasse di mala voglia in una casa, dove, anche padrona, aveva a perdere qualche cosa del suo. Ora, la bella etèra di Corinto doveva far tutto romanamente quel giorno, anche a risico di veder ridere i maligni.

Tizio Caio Sempronio era lì pronto, per tutti i casi difficili.

— La soglia della casa maritale è consacrata a Vesta, la castissima Dea; — entrò egli a dire sollecito. — Calpestarla sarebbe un sacrilegio. Sposa di Numeriano, consenti all'auspice di sormontare l'ostacolo. —

Così dicendo Caio Sempronio si chinò verso di lei e, stendendo con pronto atto le palme, sollevò [195] di peso la bella persona. Tremò la fanciulla e mise il grido adatto alla circostanza; ma tosto si ricompose, secondando la destra operazione del suo rapitore, e aiutandosi coi piedini a far ricadere in caste pieghe i lembi della stola. Così, com'ella faceva, io mi son sempre figurato il primo atto di Proserpina, anche in mezzo alle angosce del suo istintivo terrore, quando si sentì levata da terra, nelle braccia dell'innamorato Plutone. E non è forse vero, mie vezzose lettrici, che voi in un caso simile vi diportereste tutte del pari? Se mi diceste di no, sarei costretto à non credervi. La donna porta in ogni cosa l'indole sua. Vedete la Niobe di Scopa; anche in quel brutto momento della sua vita, la bella donna ha l'aria di domandare a qualcheduno se le pieghe della sua veste e i suoi atti siano artisticamente composti, davanti agli occhi dei critici.

Non si tiene impunemente tra le braccia un peso così dolce, come quello che teneva Caio Sempronio tra le sue. Il nostro eroe pensò che la cosa non era stata male ideata e che l'usanza meritava di conservarsi. Ma egli amava Numeriano, era tutto compreso della dignità dell'ufficio, e respinse prontamente quel pensiero così poco dicevole alla circostanza. Si affrettò, quindi, mirando a scavalcare anche lui lo sdrucciolo limitare, e, giunto dall'altra parte, depose la trepidante colomba davanti a Numeriano, che la baciò divotamente sugli orli del flammeo e la condusse a sedere sul letto geniale, collocato nell'atrio.

Si avanzarono allora i servi della casa, l'ostiario, [196] l'atriense, il cubiculario, il cuoco, il dispensatore e va dicendo, ognuno dei quali s'inginocchiò davanti alla nuova padrona e pose nelle sue mani una chiave, significando così che a lei toccava la custodia di tutte le cose domestiche. Tra costoro era anche il cellario; ma egli, dopo essersi inginocchiato, non consegnò altrimenti la sua chiave, che era quella della cantina.

Una chiave di quella fatta non si dava alla sposa. E ciò per seguire, almeno nella cerimonia, gli antichi Romani, che vietavano l'uso del vino alle donne, perchè il vino, dicevano essi, era incentivo a certe marachelle. Così cantava la legge di Romolo: «Si vinum biberit domi, uti adulteram puniunto.» Si ricordava a questo proposito l'esempio di Fauna che, per aver bevuto vino contro la legge, perdè la vita tra le battiture datele dal marito. Per altro, ingentiliti i costumi, la donna che beveva vino non si uccideva più; bensì era lecito al marito di ripudiarla, tenendosi bravamente la dote.

Ed anche questa rimase nella storia come una severità soverchia del tempo di Catone, il quale stabilì che le donne, entrando in casa del marito, fossero baciate da tutti gli astanti, acciò non potessero nascondere il grave odore del vino, caso mai ne avessero bevuto.

Il lettore discreto immaginerà che Publio Cinzio Numeriano facesse in questo particolare una piccola eccezione alle patrie leggi, e non amasse lasciar esercitare da altri un così piacevole sindacato.

[197]

CAPITOLO XV. Il ricevimento.

Compiute le cerimonie dell'entratura, la nuova sposa fu condotta con gran pompa nelle sue camere, dove Cinzio Numeriano, con molta gravità, si fece a slacciare il nodo d'Ercole, simbolico nodo della verginità che la donna recava nella casa del marito.

Ciò fatto, lo sposo fu licenziato; e la pronuba e le ancelle attesero a spogliar Delia delle vesti nuziali, troppo dimesse, come avete veduto, perchè ella avesse ad indossarle per tutto il rimanente della giornata. Una stola di porpora azzurra, con fregi d'argento, prese il luogo della stola di lana semplice, che continuava la modesta tradizione di Caia Cecilia. La ghirlanda di fiori e verbene fu tolta e consacrata ad un simulacro di Giunone Cingia, che sorgeva allato del talamo. Fu tolta del pari la vitta di lana che tratteneva i biondi capegli [198] della sposa, e in sua vece vi fu intrecciato il vezzo di perle che aveva donato l'auspice alla novella matrona.

Un grido di ammirazione salutò la bellissima Delia al suo riapparire nell'atrio. Numeriano si avanzò, la prese per mano e la condusse nel tablino, dove, fattala sedere nella cattedra matronale, ad uno ad uno le presentò tutti gli amici che aveva convitati pel banchetto geniale, che doveva incominciare poco stante.

Ho già descritta una cena, e non ne descriverò una seconda, quantunque sia una cena nuziale. Soltanto noterò due particolarità: che a Caio Sempronio fu dato a tavola il posto d'onore, imus in medio, per modo che Delia, seduta alla sinistra di Numeriano, si trovasse tra l'auspice e lo sposo; che poi, ad un certo punto della cena, fu recato agli sposi il succo di papavero, mescolato con latte e miele.

Era il papavero, appresso i Romani, un simbolo di fecondità. Epperciò vediamo, in tutte le monete e marmi antichi, le donne Auguste, incominciando da Livia, portar le spighe e i papaveri.

La cena non fu lunga, e, contrariamente all'uso romano, ci si bevve poco. La solennità della circostanza e la presenza della novella matrona consigliavano un po' di misura. Inoltre, quella sera bisognava levar le mense più presto del solito, perchè alla cena doveva tener dietro un po' di ricevimento, un quid medium tra l'accademia e la festa da ballo.

Anche qui, i moderni non hanno inventato [199] niente, neanche le lettere d'invito. I nostri padri facevano di più; incominciavano da una illuminazione generale, sulla facciata della casa e nel pròtiro, con lucerne inghirlandate di fiori. Gl'invitati deponevano la toga, la rica, il pallio e simili, nelle mani dell'ostiario, e ricevevano in cambio la tessera di avorio, in cui era inciso il numero corrispondente a quello che doveva distinguere i panni depositati nell'androne. Poi si faceva innanzi il nomenclatore e vi domandava: «quis tu?» cioè a dire: chi sei? chi debbo annunziare? Davate il nome ed egli lo ripeteva ad alta voce nell'atrio, perchè lo sentissero i padroni di casa e potessero farvisi incontro con le più degne accoglienze.

Non vi dirò nulla dei sontuosi arredi; nulla dei torchietti accesi sui lampadarii di cristallo, i cui prismi ne riflettevano e ne moltiplicavano la luce; vi parlerò di tutti quei giovani patrizi azzimati e profumati, che si erano arricciati i capegli col calamistro e rase le gambe con la pietra pomice; di quelle vezzose matrone, che, pur di passare una sera in festa, non si erano mostrate schizzinose e non avevano badato a certe minuzie. Già, non era di quel tempo la massima proverbiale: de minimis non curat praetor? E poteva credersi che quelle mogli, sorelle, figliuole di pretori e di consoli fossero da meno dei lori padri, fratelli e mariti?

Ce n'erano di belle e di brutte, di fatticciate e di magre, come nella famosa lista di Leporello, il faceto cameriere di Don Giovanni Tenorio. E fin d'allora avevano l'uso di correggere con l'arte i difetti [200] della natura e di secondare con la scelta dei colori le lusinghe della conscia bellezza. Non erano sole le giovani a inghirlandarsi il capo di fiori, o di foglie d'edera, alla guisa delle Baccanti; anche le dame mature cercavano in tal modo di levarsi di dosso una diecina di primavere.... o di autunni. Abbondavano le matrone coperte di gemme, che più tardi dovevano far dire ad Ovidio: «l'acconciatura c'inganna; tutte si coprono di oro e di pietre preziose; la minor parte di ciò che vedete è la donna; pars minima est ipsa puella sui.» Già fin d'allora le brune amavano vestirsi di bianco e le bianche di nero. Le magre si coprivano volontieri le spalle ed il petto con sottilissimi veli di Coo. Senonchè, la magrezza non era neanche allora un difetto romano, e la più parte potevano presentarsi degnamente scollacciate. «O voi che avete la pelle bianca, diceva il poeta, mettete gli òmeri in mostra». E le dame di Roma antica non avevano neppure bisogno di cosiffatte raccomandazioni; vi prego di crederlo.

Ho detto poc'anzi che i moderni non hanno inventato nulla, in materia di eleganze donnesche. Aggiungo che non hanno neanche inventati i guanti. Parecchie delle matrone invitate agli orti Ventidiani, ne avevano d'intieri, chiamati digitales, o di mezzi, chiamati manicae, e corrispondenti ai manichini del tempo nostro. Per altro, la moda non le obbligava tutte a questo accessorio importuno; le matrone che avevano una bella mano non facevano alle altre il sacrifizio di portare un guanto Joséphine, che coprisse le loro dita affusolate, [201] rappicciolisse più del bisogno una palma morbida e bianca di neve, e sottraesse all'ammirazione dei popoli un polso tornito dalle Grazie. Avessero poi guanti, o non ne avessero, tutte portavano in mano il fazzoletto, che all'uopo diventava un ventaglio, e riempiva l'aria di soavi fragranze. Perchè il fazzoletto? direte. Ed eccomi a contentare la vostra curiosità. Perchè dalla finezza della tela e dalla delicatezza dei fregi, si vedesse chiaro che quel capo importantissimo dell'ornamento femminile veniva proprio da Setabo, città della Spagna, famosa allora per quei gentili tessuti.

La bellissima Delia sosteneva assai nobilmente la nuova parte che le era stata assegnata dal caso, ricevendo con molta disinvoltura il bacio delle dame e la stretta di mano dei cavalieri, ed accogliendo con modesti inchini le lodi che si facevano da ogni parte al buon gusto della sua acconciatura, alla perfezione della divisa dei capegli, così difficile ad ottenersi con una chioma abbondante come la sua, al vezzo di perle che le adornava il capo, ai ciondoli a tre goccie che le pendevano dagli orecchi, ma sopratutto alla sua bellezza, stragrande bellezza, insuperabile, divina bellezza.

Anche smaccate, le lodi piacevano fin d'allora alle belle. Ovidio, che le conosceva intus et in cute, ha detto nella sua Arte d'amore: «Lodate, lodate; è difficile non essere creduti. Ogni donna si reputa adorabile; la più brutta si compiace di sè; la più casta gradisce un complimento. Vedete il pavone; lodato, fa tosto la ruota. E dopo tutto, badate di [202] non dire ad una donna se non quello che capirete dovergli piacere senz'altro.»

L'essèdra era già piena stipata, quando fu annunziato Verannio Fabullo. Quel nome fu accolto dall'adunanza coi segni del più manifesto favore. Verannio, il prediletto delle Grazie! Verannio, il Musagete, Apollo tornato in terra! Ci furono delle matrone che si sentirono venir meno, per la dolcezza infinita, che quel nome gli aveva sparsa nel cuore.

L'argomento di tutte quelle tenerezze comparve nella sala. Era un coso piccolo e tozzo, inferraiolato, con una fascia di lana girata a più doppi intorno al collo, e la testa coperta da una specie di berretto frigio, i cui orecchioni gli pendevano sulle guance ed erano legati da un soggolo sotto il mento. Nessuno si meravigliò di quell'assetto freddoloso, che tanto contrastava con tutte le buone creanze. Verannio Fabullo era un recitatore di professione, e passava in quel tempo pel primo di Roma. L'artista temeva a ragione per la sua gola; un colpo d'aria non poteva guastargli di botto quella bellezza di voce, che la natura benigna gli aveva largita e l'arte educata con tante cure gelose?

Applaudito, accarezzato, Verannio Fabullo si profondeva in inchini a dritta ed a manca. Le matrone facevano a gara per liberarlo da tutti quegli impicci che portava addosso; ed egli frattanto, cavata una scatolina dal seno della tunica, ingoiava pastiglie di mucillaggine.

La conclusione di tutto questo maneggio si fu che Verannio Fabullo, il prediletto delle Grazie, il [203] vecchio fanciullo allattato dalle Muse, recitò un carme epitalamico, facendo andare in visibilio l'udienza, con le inflessioni della voce, con gli atti e contorcimenti della persona, con le languide occhiate e con le abili pause, che domandavano i battimani.

I versi erano di Cinzio Numeriano, che si fece tutto di bragia, quando l'artista applaudito lo prese per mano, degnandosi di averlo a parte dei suoi trionfi declamatorii.

Dopo la recitazione, entrarono i servi con grandi vassoi di metallo in cui erano paste e rinfreschi. Le paste chiamate liba e crustula, erano focacce e biscotti, composti di farina, latte ed uova, non differendo per nulla dai sapientissimi intrugli dei moderni pasticcieri. I rinfreschi, sorbta, sorbilla, gelata, vi dicono col nome loro che cosa fossero, cioè a dire acque acconcie, con neve o ghiaccio per entro.

L'invenzione dei refrigeranti era ancora di là da venire. Fu Nerone il primo che diaciasse l'acqua e il vino, mettendo l'anfora in un secchio ripieno di neve. Prima di lui, si metteva il ghiaccio, o la neve, a dirittura, nelle bevande. Lettori, quando berrete dello Champagne frappé, ringraziate Nerone, buon'anima sua. Queste delicatezze sono state trovate da lui.

Le acque acconce e le gramolate erano per le dame, già si capisce; gli uomini preferivano il vino, che nelle feste soleva offrirsi indolcito col miele. «Attico miele mescolate col vecchio Falerno (ha detto il poeta); ecco un vino degno di essere mesciuto da Ganimede, nel convito degli Dei.»

[204]

Dopo la recitazione, i canti e i suoni. Chi aveva una bella voce cantava qualche canzoncina, accompagnandosi sulla citara, istrumento conforme alla moderna chitarra, o sul nablio, arpa di forma quadrangolare, di cui si pizzicavano le corde con le dita, senza bisogno del plettro. Anche qui abbiamo il maestro Ovidio, che ne raccomanda lo studio a tutte le fanciulle desiderose di farsi ammirare. Il nablio era uno strumento fenicio, e senza dubbio il medesimo del nevel ebraico, menzionato così spesso nei salmi. Dalla Fenicia era passato ai Greci, e da questi ai Romani. Delia lo suonava egregiamente, e potete credere che quella sera, dopo essersi fatta pregare un tantino, non negasse un saggio dell'arte sua al plauso dei convitati.

Ed ora, eccoci al ballo. Dove ci son donne e musica, come non muover le gambe? L'orchestra era all'ordine, coi suoi varii strumenti, sui quali dominava il flauto. Si fecero avanti le danzatrici più brave, quelle che potevano ballare da sole, farsi ammirare per la grazia delle loro movenze, accompagnandosi col sistro egiziano, o con le nacchere spagnuole (crusmata gaditana). Vennero quindi i passi a due, petto a petto, e il braccio dell'uomo intorno alla vita della danzatrice. Velle latus digitis et pede tange pedem. Non vi par di vederci la posizione dei nostri balli di società? E badate, non mancavano neppure le quadriglie, o contraddanze, che vogliam dire; il nome antico di coronae saltantes vi mostra le coppie dei ballerini disposte a cerchio, in atto di menare la ridda.

Intorno ai ballerini e nelle camere attigue, le [205] vecchie, le brutte e le svogliate, chiacchieravano insieme; e i discorsi loro erano, come adesso, il celeber ludus, il nobilis actor, le fori lites, cioè a dire lo spettacolo in voga, l'attore famoso, il processo celebre. Più in là si rideva alle spese d'un medico, a cui si era rivolta la consueta domanda: quem trucidasti hodie? corrispondente alla moderna frase: «dottore, quanti, stamane?»

In un'altra camera c'erano le tavole da giuoco. Si giuocava al ludus latrunculorum, giuoco d'ingegno, che si faceva su d'una scacchiera, con pezzi di legno, d'avorio, o di vetro, distinti in due squadre, diversamente colorate, e mossi in tal guisa, che un pezzo dell'avversario rimanesse preso tra due dell'altro giuocatore, o cacciato in un posto donde non si potesse più muovere. C'era anche il ludus duodecim scriptorum, o delle dodici linee, somigliantissimo alla nostra tavola reale, come l'altro lo era al giuoco delle dame. I più arrisicati giuocavano ai dadi, ma con tre dadi, non già con due, come ora si costuma. Gettar tre numeri differenti fuori del bossolo dicevasi il punto di Venere e vinceva su tutti; gettar tre assi era il punto del cane e perdeva da tutti.

Il tiro cane, il tiro da cani, non ci verrebbero per avventura di là?

[206]

CAPITOLO XVI. Quod erat in fatis.

Mentre noi ci perdiamo in chiacchiere, Tizio Caio Sempronio ha abbandonata l'essèdra.

Il nostro cavaliere prendeva poca parte alla festa. Clodia Metella gli aveva fatto giurare che non avrebbe ballato, ed egli manteneva la data parola. Aveva giuocato due o tre colpi ai dadi, ma s'era annoiato, e, non sapendo che fare, e vedendo di fuori un bel lume di luna, era andato a passeggiare in giardino.

A che pensava? Miei giovani, ditelo voi. Quando la luna falcata veleggia nel firmamento, temperandone coi miti chiarori l'azzurro, e la brezza notturna, ricca di tutti i profumi della fiorente natura, va susurrando tra le ombre misteriose del bosco, dove grugano le tortore e gorgheggiano i rosignuoli, non si può pensare che ad una cosa. [207] Luce soavemente diffusa, canti, fragranze, mistero, tutto vi accarezza lo spirito, v'inebria i sensi e vi consiglia ad amare.

Il mio eroe s'era messo, dirò così, su d'una strada di dolce pendio, che conduceva al precipizio. E lo sapeva; ma pensava altresì che, prima di giungere allo scrimolo, avrebbe raccolte le sue forze per piegare da un lato e non dare ai Romani lo spettacolo di una grande caduta. Ricordate a questo proposito i suoi discorsi col vecchio Lisimaco. Intanto, viveva a furia, coglieva avidamente i baci dell'amica fortuna, come chi sa quanto ella sia capricciosa ed instabile. Clodia, la più bella, se non la più reputata delle patrizie romane, lo amava d'un amore intenso, smisurato, furibondo. E l'uomo è sempre felice d'ispirare una passione selvaggia. S'intende, in mezzo a tutte le raffinatezze della vita; chè altrimenti è molestia ineffabile. L'antitesi governa il mondo; niente di bello senza un po' di contrasto. Luce ed ombra, non erano forse le due cose che facevano bello in quell'ora il bosco di Numeriano?

Esser giovani e piacere alle belle; in una amarle tutte, sentendo confusamente dentro di sè che si può essere amati da tutte, sol che si voglia; e non volerlo tuttavia; non è egli forse il colmo delle umane voluttà? E il pensiero di Caio si volgeva con intensità di desiderio a Clodia Metella, Venere discesa in terra, con tutte le possenti attrattive, le care debolezze e le adorabili cattiverie del suo sesso, invidiata, odiata, calunniata, fors'anche colpevole, ma bella, sovranamente bella. Che faceva [208] in quel punto? Pensava a lui, com'egli a lei? Come doveva esser dolce quell'ora, nei giardini di Clodia! Come dovevano splendere, a quel lume di luna, e mormorare soavemente alla riva, le bionde acque del Tevere sacro!

— Andiamo; — pensò Caio tra sè; — qui non c'è più nulla che mi trattenga, ed ella certamente mi aspetta. —

Si era già volto indietro per ritornare sopra i suoi passi, allorquando gli venne udito un fruscìo di vesti tra gli alberi. Poco stante, sbucata da un viale lì presso, gli si parò davanti una forma bianca e leggiera di donna.

Caio Sempronio pensò alle Driadi, protettrici delle selve, e credette di vederne una in quel punto.

La gentile apparizione si avvicinò, e la sua veste, di bianca che pareva da lunge, si mostrò azzurra agli occhi del giovane. Non era una ninfa, era alcun che di più saldo e palpabile, e voi, lettori, al colore della stola, già l'avete conosciuta. Era Delia.

— Oh! la vezzosissima sposa! — gridò Caio, inchinandosi. — Come qui sola? E Numeriano?

— È andato al balcone sul pròtiro, per gittar noci alla ragazzaglia dell'Esquilino. E poi, — soggiunse la bella, crollando la testa, come una passera spensierata, — Cinzio ha tutte le cure del ricevimento sulle braccia e non può farmi compagnia. Fa un caldo così soffocante, là dentro! Ed io avevo bisogno d'aria.

— Come io.

[209]

— Bene, siam dunque pari. Torna indietro, bel cavaliere, e dammi il tuo braccio.

— Volentieri; — si affrettò egli a rispondere, non intendendo bene per qual spedizione si mettesse alla vela.

Che cosa dirle, frattanto? Una galanteria, certamente, perchè una bella donnina, che si appiccica al vostro braccio, ha sempre diritto ad un simile omaggio, anche quando il cuore non si sia infiammato. Ma quella donna era in una condizione così diversa dalle altre, che Tizio Caio Sempronio poteva rimanere perplesso, senza passare davanti ai vostri occhi per un collegiale. O non poteva la sposa novella aver proprio sentito il bisogno d'un po' d'aria e d'una passeggiata all'aperto? E che c'era di strano, se, trovato in giardino il suo auspice, uomo in cui naturalmente doveva riporre maggior fede, gli domandava il suo braccio? Era proprio il caso di atteggiarsi a corteggiatore, foss'anche per celia, e di farla pentire della sua confidenza?

Tutti questi dubbi, come parvero gravi a lui, così spero che parranno ragionevoli ai lettori, e gli meriteranno un pochino di compatimento, se il nostro eroe lì per lì non sapeva che pesci pigliare.

— E così, — diss'egli finalmente, per rompere, il ghiaccio, — sei felice, ora?

— Ora, sì; — rispose Delia, con una strana intonazione di voce;

Caio Sempronio ci perdette la tramontana.

[210]

— Perchè ora? — ripigliò, tirato su quello sdrucciolo come la biscia all'incanto.

— Ma.... non l'hai chiesto tu stesso? — ribattè la giovine Greca. — Mi domandavi se ero felice ora; ed io t'ho risposto: ora, sì.

— Sta bene, — osservò Caio Sempronio, impappinandosi sempre più, — ma io intendevo un «ora» di più largo significato, come a dire tutto questo primo periodo di felicità coniugale.

— Ah, ah, con te ci voglion le glosse! — esclamò Delia, ridendo. — Orbene, ti parlerò anch'io per grammatica. Nel maggiore può esser compreso il minore; ne convieni?

— Certamente.

— Ed è così, che il mio significato, assai più ristretto, io lo fo stare nel tuo. —

Il cavaliere non credette opportuno di replicare più altro; ma involontariamente strinse col suo il braccio di Delia. Era il meno che egli potesse fare, non è egli vero? La galanteria non l'aveva detta lui; se l'era in quella vece sentita dire. Il ringraziamento era dunque necessario; e tanto meglio se era muto, perchè non occorrevano glosse pericolose, se la galanteria di Delia esprimeva un sentimento profondo, nè attenuazioni prudenti, se quella risposta di lei era semplicemente uno scherzo.

Andarono per buon tratto di strada silenziosi; egli duro, stecchito, quasi a dissimulare nella saldezza delle membra la perplessità dello spirito, lei tutta sfiaccolata, reggendosi al braccio di lui e con la bionda testa appoggiata al suo òmero.

[211]

La luna falcata veleggiava nei sereni del cielo, su cui si disegnavano spiccati i bruni profili dei cipressi e dei pini. Le fragranze della selva e gli effluvii sottili che si svolgono da una bella donna mollemente sospesa al nostro braccio, i gorgheggi dei rosignuoli, le ombre discrete che spaziavano sotto i diffusi rami degli elci e dei roveri, tutto parlava un arcano linguaggio allo spirito del nostro giovine eroe.

In fondo al bosco, sotto ad un arco di lieta verzura, biancheggiava un simulacro di marmo. Era una statua di Venere, che pareva uscisse allora dal bagno. Infatti la dea sorgeva col piede a fior d'acqua, dal mezzo di una vasca, donde uscivano intorno a lei cespi di odorose giunchiglie e su cui si cullavano le foglie spante delle tarde ninfèe.

— Madre, — le disse Delia, con accento sommesso, appoggiandosi sempre più languidamente al fianco del suo compagno, — inspira un po' d'amore per me nel cuore di Caio!

— Che dici tu? — esclamò il cavaliere, dando un sobbalzo a quella confessione inattesa.

Zitto! — rispose Delia, stringendosi a lui e ponendogli la mano sulla bocca. — Ho fatto un voto. Non turbare l'invocazione e lasciami attendere la risposta della dea. —

Lettori cortesi, che cosa avreste fatto voi altri, nei panni di Caio Sempronio? Cioè, intendiamoci, non ve lo domando, o, per dire più veramente, non aspetto la vostra risposta. Vi dico in quella vece, e subito, che Caio Sempronio fece su per giù [212] quello che avreste fatto voi in una occasione consimile. Stette zitto come Delia voleva; arrossì e si pentì di avere arrossito; da ultimo, poichè a lui toccava di abbracciare un partito, abbracciò.... abbracciò quello che piaceva alla dea. Ora, che poteva mai volere la dea, se non che egli si dimostrasse un buon cavaliere e prendesse la cosa pel suo verso?

Rise adunque e pensò che la sorte era una gran capricciosa. Povera gita disegnata alla riva del Tevere! Intanto, al soffio della brezza stormivano le fronde, sorridevano i Fauni e bisbigliavano le più matte cose alle Amadriadi, eterne prigioniere nei tronchi ramosi degli alberi.

Tutto ad un tratto, si udì dal sentiero vicino un rumore di passi. Delia prese la mano di Caio Sempronio e scivolò guardinga dietro una macchia di mortelle.

— Dove sarà andata a rimpiattarsi? — diceva una voce, che egli riconobbe per quella di Postumio Floro.

— Il bello si è, — soggiungeva un'altra voce, — che manca pure il nostro bel cavaliere, l'auspice delle nozze. Che sia andato anche lui a prender gli auspicii?

Caio riconobbe la voce di Giunio Ventidio.

— Giriamo da questa parte; bisbigliò il giovane a Delia; — ci vedranno nel gran viale, al loro ritorno.

— No, lasciamoli andare; mentre essi ci vanno cercando, noi giungeremo a casa. —

[213]

Così dicendo, Delia studiava il passo, seguendo il tragetto che doveva avvicinarla alla meta.

Le voci degli indiscreti cercatori si andavano perdendo dall'altra parte del bosco. Non visti, nè uditi, Caio Sempronio e Delia pervennero alla radura che separava il giardino dalla casa.

— Resta; — diss'ella; — tu verrai dopo. —

E veduto che in quello spazio aperto non c'era nessuno, uscì risoluta dalla macchia.

Sull'entrata del peristilio si trovò faccia a faccia con Numeriano, che andava in traccia di lei.

— Ah! — esclamò egli, prendendola amorevolmente per mano.

— Chi cercavi? Caia? — diss'ella sorridendo. — Eccoti Caia! —

Il nostro cavaliere ebbe una stretta al cuore, udendo quelle audaci parole. E rimase lì, incerto, tra il desiderio di uscire dal suo nascondiglio e la paura di farsi scorgere alle calcagna di lei.

Tutto ad un tratto udì le voci de' suoi degnissimi amici, che tornavano dalla loro esplorazione.

— Vi dico, — insisteva Giunio Ventidio, — che erano essi. Elio Vibenna, non li hai tu riconosciuti?

— Ma, ecco, — rispose Vibenna, — ho veduto uno, qui nel viale, che si avviava da quella parte, e al suo portamento mi è sembrato Caio Sempronio. Quanto a lei, è chiara; se non era in casa.... Che ne dite voi altri?

— Certo, doveva esser fuori. Ah, come vogliamo ridere! — gridò Postumio Floro.

[214]

— Amici, date retta a me; — ripigliò Giunio Ventidio. — Piantiamoci qui, in vista dell'uscio. Da quel prato scoperto avranno sempre a passare. —

Caio Sempronio fremette, pensando alle conseguenze, se Delia non fosse stata più pronta ad uscire.

— Bricconi! — borbottò egli tra i denti. — Ecco gli amici! —

Il suo soliloquio fu interrotto alle prime parole da una esclamazione di Elio Vibenna.

— Che vedo! Guardate là, nel vano dell'uscio....

— È Numeriano; — disse Postumio.

— Con una donna; — soggiunse Vibenna. — Non vi par Delia?

— Sicuro, è lei. Per Ercole, da dove è passata?

— Forse non era in giardino.

— Anzi, c'era, ed è rientrata or ora, mentre noi stavamo per giungere in vista della casa.

— Vedete che disdetta!

— Si sapesse almeno dov'è Caio Sempronio! —

Il cavaliere si morse le labbra.

— È appunto quello che non saprete; — pensò egli tra sè.

E quatto quatto si allontanò da un'altra banda. Conosceva poco gli orti Ventidiani, ma capiva così in digrosso che il dio Termine non doveva essere troppo lontano. Infatti, seguitando un viale che andava in direzione parallela al lato posteriore della casa, dopo fatti trecento passi, trovò il muro di cinta.

[215]

— Ci siamo; — diss'egli; — ora bisognerà trovar modo di scavalcarlo. —

Il muro era piuttosto alto, ed egli, quantunque aitante della persona, non giungeva colle mani ad afferrarne la cima. Diede un'occhiata in giro, invocò Mercurio, il dio degli astuti, ed ebbe la fortuna di trovare il fatto suo in un tronco di betulla, che giaceva mezzo fradicio in un angolo. Lo prese, lo trasse a sè, e appoggiatolo al muro, tastò col piede l'inforcatura di un ramo. Sembrandogli che potesse resistere quanto gli bisognava per afferrare la meta, prese subitamente l'abbrivo. Scricchiolò il ramo e si ruppe; tremarono gli embrici che facevano tetto alla cima del muro; ma il nostro eroe si tenne aggrappato alla sua conquista, e facendosi puntello dei gomiti giunse finalmente a mettere un ginocchio sull'embriciata. Oramai non c'era più da temere; Caio Sempronio stava a cavalcioni sul muro.

Diede allora un'occhiata dall'altra parte. Gli orti Ventidiani confinavano di là con una viottola campestre, il vico di Silvano, che egli ben conosceva. Una rifiatata di contentezza salutò la scoperta. L'altezza del muro l'aveva misurata nel salire; poteva dunque discendere, anzi lasciarsi cadere senza pericolo nella viottola sottostante. Detto fatto, spiccò il salto e cadde in piedi, ma tirandosi dietro due tegoli dell'embriciata, che già aveva scossi nell'ascendere.

Potete immaginare che non istette a raccattarli. L'essenziale era di avere delusa la curiosità indiscreta dei suoi garbatissimi amici. Una ripulita [216] alla tunica, che in quello strofinìo sul muro doveva essersi un po' stazzonata, ed egli avrebbe potuto, seguendo la viottola, riuscire sulla piazzetta davanti alla casa di Numeriano.

Per altro, aveva fatto i conti senza un certo bruciore, che sentì d'improvviso al ginocchio, nel muovere i primi passi. Tastò dove gli doleva e si accorse d'essersi fatta una scorticatura alla pelle. Di certo grondava sangue; poco, probabilmente, ma quanto bastava per accusarsi, se alla vista di tutti gli fosse sgocciolato lungo la gamba.

Anche qui non gli venne meno l'assistenza del nipote d'Atlante. Una casetta campestre era là, a mezza strada. Tizio Caio andò a quella volta, diede una spinta al cancello ed entrò. Una povera vecchia stava in cucina, rigovernando alcuni piatti di stagno. Chiese un po' d'acqua e lavò la sua scalfittura, che non era gran cosa, e poteva nascondersi benissimo sotto il lembo della tunica inferiore. Pose mano alla borsa, diede alla vecchia una moneta d'oro, non avendone d'argento, ed uscì, senza badare agli atti di meraviglia e agli inchini della povera donna.

Tutto ciò in un brevissimo spazio di tempo. Giunto sulla piazzetta, si ficcò in mezzo alla plebe, che stava sempre accalcata davanti alla casa, a contemplare l'illuminazione della facciata, che si andava spegnendo man mano. Il rientrare non gli fu difficile, e nemmeno il raccontare una frottola all'ostiario, per colorire in qualche modo la sua uscita in istrada.

— Ah, finalmente, ti trovo! — esclamò Numeriano, [217] vedendolo nell'atrio. — Credevamo che tu fossi partito senza dir nulla e Delia ne era addoloratissima, perchè voleva salutarti, ringraziarti ancora una volta di quanto hai fatto per noi.

— Delia è troppo buona; — mormoro Caio Sempronio. — Ero venuto dietro di te al balcone, quando gettavi le noci, ed ho veduto nella folla un servo di Clodia Metella. Pensando che chiedesse di me, sono uscito per andarlo a cercare. —

La bugia era detta e l'amico se l'aveva bevuta. Caio Sempronio entrò allora dalla fauce nel peristilio e andò a piantarsi sull'uscio che metteva in giardino. Ventidio, Vibenna e Postumio Floro, erano ancora laggiù alle vedette.

— Amici, che si fa? — gridò Caio Sempronio. — Si piglia il fresco? Badate, il tempio della dea Mefite non è lontano e l'aria della notte è pericolosa pei capi scarichi. —

I tre curiosi si guardarono in faccia. Avevano l'aria di cascar delle nuvole.

— Come? Anche lui, dentro? — borbottarono. — Non ce n'è andata una bene! —

La notte era inoltrata e i convitati ad uno ad uno abbandonavano la casa di Numeriano. Il nostro cavaliere adempì all'ultimo ufficio dell'auspice, conducendo gli sposi alla camera nuziale.

— Salve, o Caia, — diss'egli alla sposa. — Giunone ti guardi.

— Si, son Caia davvero; — mormorò ella, dandogli un'occhiata assassina.

Quella notte, l'auspice di Numeriano se ne andò difilato a casa, facendo questo conto tra sè:

[218]

— Non ne ho più due alle spalle, ne ho tre. Glicera, Clodia, Delia; le tre Grazie, insomma. Apollo non saprebbe desiderarsi di più. E quel brontolone di Lisimaco sarebbe capace di non mostrarsene contento. —

[219]

CAPITOLO XVII. Viaggio a Citera.

Povero Lisimaco! Povero servo fedele, che lavorava con tanta perseveranza e con tanta onestà a puntellar l'edifizio! Avesse almeno pensato a tagliarsi un abito dalla pezza, per offrirlo al padrone, quando egli si fosse trovato ridotto agli sbrendoli! Sarebbe stato un bel tanto di sottratto alle unghie di Furio Spongia, di Crispo Lamia e di Servilio Cepione.

Di Cepione? Sì, anche di Cepione. Mi chiederete come c'entrasse lui; e, poichè la domanda non mi sembra irragionevole, farò di appagare la vostra curiosità. Qualche giorno dopo i fatti che vi ho narrati, il ricco e adiposo argentario entrava nelle grazie di Caio Sempronio.

Gran bell'anima doveva esser quella di Servilio Cepione. Quando si dice che l'apparenza inganna! Sotto quella montagna di carne palpitava dunque [220] un bel cuore? Nessuna traccia gli era rimasta di quella ruggine che avete veduta nascere in casa di Clodia Metella. Anche l'offesa toccata alla sua vanità, all'uscita del teatro di Pompeo, era stata dimenticata. Servilio Cepione doveva aver dato un tuffo nell'acqua di Lete.

Quanto al nostro cavaliere, perchè avrebbe egli serbato rancore contro il vecchio argentario? I felici non hanno tempo ad odiare. È già molto se ricordano. E Tizio Caio non ricordava nemmeno; una cosa sola gli stava in mente; che Cepione era diventato il suo banchiere, e che egli poteva prender danaro a lunga scadenza, evitando la noia di parlare a Lisimaco e di vedersi fare il muso lungo un braccio, ogni qual volta gli toccasse quel tasto.

Contro il suo costume, Servilio Cepione aveva imprestata una grossa somma a Caio Sempronio, senza chiedergli nessuna guarentigia, senza cercare, come suol dirsi, il nodo nel giunco.

— Tu sei ricco e puoi spendere; — gli aveva detto, alzando bonariamente le spalle. — Beato te! Quanto al margine delle tue sostanze, ci vorrà tutto il denaro delle Botteghe Vecchie, prima che si giunga a far pari. Del resto, siamo patrizi, o non siamo. E se non c'è fede tra noi, con chi ha da essere? —

Potete immaginare che Tizio Caio non s'ingegnasse di levargli quella buona opinione. Il banchiere parlava meglio di Lisimaco, e questo era l'essenziale.

Intanto, il fedele arcario, vedendo che il padrone [221] da qualche giorno aveva meno bisogno di danaro, pose lo spirito in pace e fu ad un pelo di credere che egli mettesse finalmente giudizio. Ad onore della sua perspicacia debbo soggiungere che quella maniera di pensare gli durò poco, assai poco.

— Doman l'altro io parto per Baia; — gli disse un giorno Caio Sempronio; — e rimarrò per tutta la stagione della bagnatura.

— Mio signore, Nettuno ti guardi. E.... — soggiunse il vecchio servo, andando timidamente incontro alla parte noiosa del colloquio, — m'immagino che ti occorrerà una certa somma di danaro.

— Non molto, Lisimaco, non molto; — disse il cavaliere, crollando la testa. — Mi basteranno da quindici a ventimila sesterzi. —

Lisimaco respirò; ma quella sua rifiatata non escludeva la meraviglia. E il fedele arcario non poteva mica dissimularla al padrone.

— Sai, — ripigliò il cavaliere, — laggiù si spende meno che a Roma. Si sta in acqua molte ore del giorno; si fanno gite campestri; tutte cose che domandano poco. La spesa maggiore è quella del viaggio. —

L'arcario cascava dalle nuvole.

— Dove andiamo, Dei buoni! diss'egli tra sè. — O il padrone vuol morire, o tira il danaro da un'altra parte. —

Questa conseguenza delle sue argomentazioni non era tale da lasciarlo tranquillo. Ma come fare, per vederci chiaro? Il povero Lisimaco dovè per quella volta attaccare la voglia all'arpione.

Bene immaginò dove s'andava a finire coi risparmi [222] del padrone, quando vide capitare davanti all'uscio di casa un carpento, una basterna, una reda, tutta una salmeria di cocchi e di bagagli, come se si fosse trattato di andare per una spedizione contro i Reti, o nella Gallia Narbonese.

Il carpento era una vettura a due ruote, ricoperta da una tenda e fornita di cortine, con le quali si potesse chiuderla davanti, capace di contenere due o tre persone, e tirata da un paio di mule. Era la vettura usata dalle matrone romane in viaggio, fino dalla più remota antichità, come si vede in Tito Livio, dove narra di Lucumone e di sua moglie, al loro arrivo in Roma.

La basterna era una specie di lettiga, o palanchino, a uso speciale delle dame; veicolo chiuso, portato da due muli, uno davanti e l'altro dietro, ciascuno attaccato ad un distinto paio di stanghe. Clodia Metella, quando fosse stanca dei sobbalzi a cui andava soggetto il carpento, poteva riposarsi nella molle andatura della basterna.

Quanto alla reda, era questa un grande e spazioso carro a quattro ruote, fornito di parecchi sedili, in guisa da essere adatto al trasporto d'una numerosa brigata, coi suoi bagagli e provvigioni. Somigliava allo char-à-banc dei Francesi, ed anzi esso stesso, come il vocabolo ond'era denominato, doveva essere d'origine gallica. Lo usavano i Romani, al tempo di Cicerone, così in città come in campagna. Annio Milone andava a Lanuvio su d'una reda, con la moglie Fausta e coi musicanti di lei, quando fece sulla via Appia il brutto incontro di Clodio.

[223]

Lisimaco non sapeva ancora tutto. Non sapeva, per esempio, che, oltre alle varie specie di vetture per comodità della sua compagna di viaggio, il cavaliere aveva fatto allestire un talamègo nel porto di Tarracina, dove la via Appia toccava per la prima volta il mare.

Talamègo? Che diavol è? Non vi spaventate, o lettori; talamègo viene da talamo, ossia camera da letto.

Era una barca di gala, inventata dai Greci di Alessandria per le gite di piacere sul Nilo, splendidamente addobbata, fornita di tutto quanto fosse necessario ad una lieta compagnia, perfino di camerini da dormire; insomma, un quissimile, se non nella forma, negli usi, delle nostre golette da diporto.

Clodia Metella aveva già annunziata la sua partenza per alla volta di Baia, e i lettori rammenteranno a questo proposito le pungenti domande di Valeria Lutazia. Ma, ci andasse ella con Celio Rufo, o con altri, il fatto era questo, che Clodia amava moltissimo il soggiorno di Baia, come lo amavano tante famiglie patrizie degli ultimi tempi della repubblica.

Imperocchè, non è da credere che il golfo di Baia, col suo capo Miseno, Bauli, Cuma, il lago Lucrino ed il lago d'Averno, sia stato solamente un luogo di delizia pei successori d'Augusto. Assai prima che Marcello, l'erede presuntivo di questo imperatore, andasse a morirvi d'una malattia di petto, presa a curare un po' tardi, i medici consigliavano ai patrizi cagionevoli di salute e alle patrizie [224] ammalate di nervi, le acque e il clima di Baia, benigno sempre e senza inverno. Giulio Cesare ci aveva una villa; un'altra, a gran pezza più sontuosa di tutte, ce ne aveva Ortensio, il coetaneo e il rivale di Cicerone; e in questa villa, dove risiedettero in processo di tempo parecchi imperatori, Nerone si abboccò l'ultima volta con sua madre Agrippina.

Oggi, col benefizio delle strade ferrate, i ricchi romani vanno per le bagnature a Palo, l'antica Alsio, a Rimini, a Senigallia; allora invece andavano a Baia, a Pozzuoli, a Pompei, percorrendo volentieri distanze di gran lunga maggiori, quantunque non avessero ancora un servizio regolare di poste e vetture sospese sulle molle.

La felice coppia si mise adunque in cammino. Clodia Metella era salita sulla reda, insieme con le sue ornatrici e coi servi più strettamente necessarii alla sua persona. Caio Sempronio dal canto suo s'era mosso dal Viminale, col suo piccolo esercito, ed aveva operata la sua congiunzione con lei, subito fuori della porta Capena.

Si viaggiava sulla via Appia, la più grande e la più celebre di tutte le vie maestre d'Italia, che andava direttamente da Roma a Tarracina, donde si spingeva a Capua e di là fino a Brindisi, diventando così la linea principale di comunicazione con la Grecia, con la Macedonia e con l'Oriente. Regina viarum l'ha detta Stazio; e fu eziandio la più antica di tutte, essendo stata incominciata dal censore Appio Claudio il Cieco, nell'anno 441 di Roma.

[225]

Ad un certo punto della strada, in vista dei colli Albani, tra Aricia e Bovilla, era il luogo in cui due anni addietro era accaduto lo scontro di Annio Milone col tristo fratello di Clodia. Ma la nostra bella viaggiatrice era una donna forte, e passando di là non diè segno di verun turbamento; anzi, lasciò che i suoi si fermassero, per dar da bere ai cavalli, e per bere eglino stessi, a quella medesima osteria nella quale era stato trasportato Clodio morente, per la stoccata ricevuta nelle spalle da Birria, il fiero gladiatore di Annio Milone.

A Tarracina (l'antichissima Anxur) presso il monte Circèo, famoso per le malie di un'altra seduttrice d'uomini, i due amanti smontarono dal cocchio. Clodia Metella credeva di dover fare una breve sosta colà, per continuare poscia la strada fino a Capua, donde la via Appia si congiungeva alla Consolare, che doveva metterli a Cuma, ed era ben lunge col pensiero dalla improvvisata che appunto nel porto di Tarracina le aveva preparata il magnifico cavaliere.

Una bellissima nave, tutta dipinta di bianco e listata di rosso, colle vele tinte di croco e coll'aplustre vagamente rigirato in forma d'ala d'uccello in cima alla poppa, stava sulle àncore nella rada. Era il talamègo di Caio Sempronio.

— Padrona mia, vuoi tu salire su quella nave, — diss'egli, — e fare per acqua il rimanente del viaggio? Il mare è tranquillo, e Deiopea, la bellissima tra le Nereidi, ammirerà per la seconda volta una donna più bella di lei.

[226]

— E quando è stata la prima? — domandò Clodia Metella, che non intendeva ancora tutta la finezza del complimento.

— Oh la prima è lontana da noi di molti secoli, e la vezzosa Nereide ha avuto anche il tempo di dimenticarsene. Alludo al viaggio marino d'Afrodite, al quale può bene paragonarsi il tuo, mia divina signora. Tu sei bella del pari, e l'unica differenza sta in ciò, che questa volta la conchiglia è più grande. —

Salita sul talamègo e notata la vaga disposizione d'ogni cosa in quel galleggiante nido d'amore, Clodia Metella espresse nelle più soavi parole la sua gratitudine per Caio Sempronio.

— Non c'è in Roma un uomo che possa starti a paro; — diss'ella, concedendo ai baci del cavaliere la sua mano leggiadra; — ed io t'amo oggi più che mai. —

La nave, spinta da due ordini di remi, entrò di lancio nelle acque più poetiche del Tirreno. Sulla sinistra il curvo lido dei Lestrigoni, le rupi cavernose su cui sorgeva Gaeta, la spiaggia di Formia, su cui Scipione Africano e l'amico Lelio avevano costume d'ingannare il tempo raccogliendo nicchi marini, la sacra selva di Marica alla foce del Liri, Volturno, Literno, e la rocca di Cuma; sulla destra le isole, tra cui grandeggiavano Ponzia e Pandataria; e più lunge, attraverso il cammino della nave, le due belle Pitecuse, Inarime e Pròchita, oggi Ischia e Procida, illuminate dalla rosea luce del tramonto.

Il giorno dopo, inoltrandosi la nave tra l'isola [227] di Procida e il capo Miseno, si offerse ai loro occhi la più meravigliosa veduta del mondo. Allora non si parlava ancora di Bisanzio, e Costantino non era anche venuto fuori, per fondare una città che contendesse la palma della possanza a Roma e il pomo della bellezza a Napoli e Cuma. I due golfi di Baia e Partenope, col capo Miseno a sinistra, il Vesuvio a destra e la punta di Posilipo nel mezzo, erano allora i più bei luoghi che potesse immaginare fantasia di poeta.

Lido veramente incantevole, che tutti conoscete, o di veduta, o per fama. Eppure, vedete, doveva essere allora due cotanti più bello, con quella sua fila di ricche e popolose città, con tutti que' boschi che la reverenza umana consacrava agli Dei. Oggi parecchie di quelle città sono cadute in rovina e non offrono allo sguardo del viaggiatore che umili borgate di pescatori; intorno ai santuari sparsi per le colline, i boschi sono scomparsi, e quelle care divinità che li abitavano, o sono andate in frantumi, o hanno presa la via del Museo Nazionale. Ma allora!... Da capo Miseno fino al promontorio di Posilipo (in greco: cessa dolori), era una lunga e gaia sequela di città e di ville sontuose, frastagliate qua e là da corsi d'acqua e da sproni di colline digradanti sul mare; Miseno, sacro alla memoria del trombettiere di Enea, la ridente Baia, e la vecchia Cuma, con le sue torri che facevano fronte a due mari, e coi suoi tre laghi, l'Acheronte, l'Averno e il Lucrino, in mezzo alle cui tacite ombre gli antichi avevano collocati i regni della morte, l'Erebo e l'Eliso, dove, udita [228] la fatidica Sibilla, discese il fuggiasco di Troia a visitare gli estinti e i non nati.

Colà si davano mano la mitologia e la storia. Quello era il mare solcato per la prima volta dai Pelasgi, quelli i lidi visitati dagli Argonauti, da Ulisse e dal figliuolo d'Anchise. Il genio d'Omero e quello di Virgilio vi si aggirano ancora. Le isole delle Sirene, Palinuro, vi ricordano a un tempo l'Odissea e l'Eneide.

Andiamo più oltre verso levante; ecco Dicearchia, o Puteoli, col suo tempio famoso di Giove Serapide e coi campi flegrèi alle spalle. Più oltre ancora è Posilipo, con la famosa villa di Vadio Pollione, giù di Licinio Lucullo, Posilipo, grazioso promontorio con due grotte scavate nei fianchi, una delle quali, ingrandita via via, si chiamerà per un pezzo la cripta neapolitana. Giriamo la punta; ecco un golfo cinque o sei volte più grande, con le due città sorelle di Palepoli e di Neapoli, succedute alla gloria della vecchia Partenope, fenicia sirena con nome greco. Avanti ancora; ecco le città di Ercolano e Pompei, distese ai piedi del dormente Vesuvio, nel cui cratere selvoso si cacciava il cinghiale. Più lunge è Stabia, dove il lido s'incurva, con la bella Surrento, e il promontorio di Minerva, da cui sembra essersi spiccata l'incantevole isola di Capri, già famosa per le sue uve, ma non ancora per le immani lascivie di Tiberio. E là, dietro il capo di Minerva, azzurreggia la costa, lasciandovi intravvedere il golfo Posidonio e la valle di Pesto, celebrata per la fragranza delle sue rose e per la magnificenza dei suoi templi immortali.

[229]

Le due città maggiori, di cui vi ho detto, Palepoli e Neapoli, biancheggiano sui fianchi di un anfiteatro di colline, interrotto nel bel mezzo da un monte, che s'avanza a guisa di sprone sulla riva del mare. È quello il monte Echia, che si chiamerà un giorno Pizzofalcone, e che, seminato di case, confonderà le due figlie di Partenope in una. Quell'isoletta, che sorge poco lunge dal lido, è Megaride, che i futuri abitanti di Napoli paragoneranno ad un uovo. Torniamo verso ponente, per compiere il quadro; l'isola bella che fronteggia Pozzuoli, è Niside; quei due scogli più vicini alla spiaggia si chiamano Limone ed Euplea. Su quest'ultimo si eleva il tempio di Venere Euplea, dove i marinai vanno a prender gli auspicii di un felice viaggio, prima di mettere alla vela per lo stretto di Zancle, dove latrano assiduamente i cani di Scilla e mugghiano i gorghi dell'opposta Cariddi.

Una vecchia tradizione, raccolta da Omero, narrava che le Sirene, bellissime cantatrici le cui membra terminavano in coda di pesce, abitassero quel mare, e che una di loro, chiamata Partenope, si uccidesse pel dolore di non aver potuto trattenere Ulisse e i suoi compagni col canto. La tomba di lei fu rinvenuta nell'edificare una nuova città, e questa dal nome di lei, fu detta Partenope. Mito gentile, che non ha perduto ancor nulla della sua primitiva freschezza. Le Sirene abitano tuttavia quelle isole e quelle rive incantate; per non cedere ai dolci inviti, bisogna proprio essere Ulisse, e aver gravi negozi che vi richiamino a casa.

Lettori, vi ho forse annoiato, con questa mia [230] fermatina sul golfo Cumano. Abbiate pazienza. Le Sirene cantavano, ed io non ho pensato in tempo a turarmi gli orecchi con la cera. Quando vedo Napoli, moderna od antica che sia, non so più spiccarmi da lei. Napoli possiede il mio cuore, e gli archeologi di là da venire potranno farne ricerca, se credono che ne valga la spesa. Esso è stato lasciato da me (vedete che profanazione!) in un cantuccio della tomba di Virgilio, nella prima nicchia a man destra.

La villa presa in affitto da Tizio Caio Sempronio per allogarvi i suoi splendidi amori, era una delle più belle del golfo, e Clodia Metella, invaghita del luogo, gli pose il nome di Citera. Sorgeva il palazzo poco lunge dalla spiaggia, in mezzo a una selva di pioppi è di allòri, tra le ultime case di Baia e le prime di Bauli, godendo intiera la vista di Niside e delle altre isolette minori, di Posilipo e della villa di Licinio Lucullo, di Pozzuoli e della villa di Cicerone.

Marco Tullio aveva poderi da per tutto; in Arpino, sua patria, a Tuscolo, a Pozzuoli, a Pompei. Portentoso uomo, che parlò tanto, pensò tanto, viaggiò tanto, scrisse tanto, e trovava ancora il tempo per riposarsi e scriver lettere agli amici! Quest'ultima è la cosa di lui che mi meravigli di più.

[231]

CAPITOLO XVIII. Luci ed ombre.

Ricordo d'aver letto, ai tempi della guerra di Crimea, una storia pittoresca di Russia, dove le vignette usurpavano il luogo del testo. Pochi versi di stampa, messi a piè di pagina, aiutavano a spiegare, e sempre in modo burlesco, i capricci della matita. Ad un certo punto mi avvenne di leggere che il regno di Ivano III (o secondo, o quarto, chè non rammento bene, e del resto importa poco) fu tutto una macchia di sangue. E la macchia c'era, e occupava i due terzi della pagina.

Ora, per dirvi qualche cosa del soggiorno di Tizio Caio Sempronio negli ozi di Baia, dovrei far capo anch'io ad uno spediente di quella fatta; e questo capitolo potrebb'essere rappresentato utilmente da una foglia di fico. Scelgo questa, perchè è la più larga tra tutte le foglie classiche; ma, se a voi piacesse meglio, o lettori, potrebb'essere anche una foglia di banano.

[232]

L'amore è una cosa che non si racconta. Perchè m'indugerei io a sminuzzarvi un affetto, in cui entrano tanti ingredienti disparati e bizzarri? Neanche l'essenza di gelsomini, stillata con tanta cura dal profumiere, ci guadagnerebbe nella nostra estimazione, ad essere veduta in tutte le trafile per cui deve passare, prima di esserci servita in una ampollina di cristallo arrotato.

Si volevano bene; erano belli; erano giovani. Lui più di lei, ma una donna ha soltanto gli anni che mostra; e poi, Caio Sempronio non faceva all'amore col calendario alla mano, e la lista dei consoli l'aveva lasciata in Campidoglio, affidata alle cure dei custodi del Tabulario. Qualche lettrice avrebbe voluto nel mio protagonista un amore in cui c'entrasse per due terzi la stima, quella stima che ci è inspirata dalla verecondia e dalla dignità della donna. Ma a que' tempi l'amore non era tanto sofistico. Si facevano statue alla verecondia, alla pudicizia e a tutte l'altre virtù congeneri; ma erano bei simulacri di donne, a cui s'appiccicava quella scritta; donne molto vestite, per ottenere bei partiti di pieghe; e la cosa non portava altre conseguenze.

Del resto, il mio cavaliere non aveva neanche veduto quella bellissima statua della Pudicizia, che ho veduta io, allogata in una nicchia, al primo piano dello scalone del palazzo Capitolino; bellissima statua, scolpita probabilmente dopo di lui e in tempi anche peggiori del suo, perchè erano i tempi di Roma imperiale. Clodia Metella era bellissima tra le belle; era patrizia, e in eleganze, in [233] sottigliezze d'amore, valeva tre Greche. Poteva egli chieder di più?

Inoltre, egli amava con furia, senza guardarsi intorno, nè avanti. Sentiva così confusamente nel suo cervello che era un uomo perduto, che quella vita spensierata non sarebbe potuta durare più molto, e chiudeva gli occhi.... Cioè, intendiamoci, gli occhi della mente, perchè gli altri, i più utili ai bisogni della vita quotidiana, li teneva aperti e fissi nel volto della donna amata, di cui non poteva saziarsi.

Ed anche lei non restava da meno. Come non amare un uomo giovane e bello, che contentava tutti i suoi capricci, e quasi quasi non le dava il tempo di averne, tanto era sollecito a precorrerli con le sue splendidezze? Tenera, obbediente e carezzevole come una schiava, quella fiera matrona, per cui tanti uomini avevano palpitato e tanti erano finiti male, gli si prostrava qualche volta ai piedi, e, puntellando i gomiti sulle ginocchia del giovane, sorreggendosi tra le palme la bellissima testa arrovesciata, e figgendo i suoi grandi occhi in quelli di lui, quasi volesse leggergli in fondo dell'anima, gli chiedeva con accento infantile: — dimmi su, bel cavaliere, quante donne hai amato? E quante t'hanno amato al pari di me? —

Care domande astute, lacci tesi, sotto le apparenze ingannevoli di uno slancio di tenerezza! Un uomo non deve lasciarsi cogliere a queste lustre; non deve risponder mai la verità, anche quando gli paia meno pericoloso il farlo. Se avviene che Don Giovanni apra la bocca e si lasci cadere uno [234] o due nomi, anche l'Elvira meno gelosa va tosto su tutte le furie. Il sentimento della vanità e quello della rivalità, naturale, a quanto dicono i pratici, nelle figlie d'Eva, assai più che l'amore, ed anche dove non entri l'amore, le fanno dare nei lumi.

E voi, signori, non siete forse della medesima pasta? Che cosa fareste voi, se una donna, pregata e supplicata, perdesse tanto della sua accortezza, da lasciarvi intendere quanti siano stati i vostri antecessori, non già nelle sue grazie, ma solamente nei ricorsi in grazia?

Io so, per esempio, di un mio svisceratissimo amico, il quale si era nei primi anni della sua giovinezza perdutamente invaghito di una madonna di Raffaello, che egli credette spiccata dal quadro espressamente per lui. La prima volta che egli potè trovarsi accanto alla diva e passeggiare con lei a lume di luna, credete pure che gli parve di toccare il cielo col dito, e che, da buon figliuolo, lasciò trapelare tutte le sue intenzioni coniugali. Non l'avesse mai fatto! La madonna di Raffaello, anzi del beato Angelico, trovò modo di passare in rassegna, a quel lume di luna, tre splendide occasioni di matrimonio, che le erano trascorse davanti, ma ohimè, senza fermarsi il tempo necessario per essere afferrate. Immaginate voi con che cuore la udisse il mio innamorato e che muso lungo rischiarasse quel poetico lume di luna. Alla prima cantonata guardò l'orologio, tirò in ballo un appuntamento, e prese commiato, promettendo una visita pel giorno dopo. La madonna del beato Angelico l'aspetta ancora.

[235]

— Ne ha persi tre; — diceva l'amico in cuor suo, mentre andava svoltando il canto; — orbene, al primo che le capita, potrà raccontare... d'averne persi quattro. —

Gabellatemi la digressione, mentre io ritorno a Caio Sempronio. Il mio cavaliere, da uomo prudente, si tenne sui generali; rise, menò il can per l'aia, non volle dir nulla. Sarebbe stata bella davvero, che avesse raccontate lì per lì tutte le sue mirabili imprese! Ce n'era una tra l'altre, e la più recente di tutte, che non gli lasciava la coscienza tranquilla.

Nei primi due mesi del suo soggiorno a Citera, aveva ricevuto lettere da tutti gli amici, perfino di quelli da starnuti; ma neppur una da Numeriano, dal più caro di tutti. Era quello il suo sopraccapo, l'atra cura che di tanto in tanto gli dava un picchio al cervello.

Si sentiva colpevole, ma non per suo deliberato proposito. I fati l'avevano voluto; sic fata tulere. Ora, se Cinzio gli avesse scritto, il nostro cavaliere si sarebbe levato un gran peso dal cuore.

Un giorno gli capitò un uomo fidato da Roma. Gli recava parecchie lettere, una delle quali in carta jeratica, che egli svolse per la prima, dopo averne rotto il suggello.

Mentre egli legge, parliamo un po' della carta da scrivere presso gli antichi Romani. Era fatta di sottili falde di corteccia di papiro e se ne conoscevano dieci qualità differenti: la jeratica, detta anche regia, che era la più antica, e che vediamo menzionata anche da Catullo; la fanniana, fabbricata [236] in Roma, e così chiamata dal fabbricante Fannio; la dentata, così detta, non perchè avesse i denti, ma perchè era lisciata e ripulita con un dente d'animale, per ottenere una superficie levigata da sdrucciolarvi sopra la penna, come la carta lustra dei moderni; l'anfiteatrica, la saitica, la lenotica, qualità inferiori, così denominate nei luoghi nei quali erano fabbricate; l'augustana, chiamata più tardi claudiana, che fu, sotto l'impero, la qualità migliore; la liviana, così detta in onore dello storico Tito Livio, che era la seconda in bontà; poi la carta bibula, o sugante, così spugnosa e trasparente, da lasciar filtrare l'inchiostro e da mostrare le lettere attraverso; e finalmente la carta straccia, da involtare le merci, donde il suo nome di carta emporetica.

Quanto alle tavolette di cera e ai pugillari, che servivano anche per scriver lettere, segnatamente se brevi, ne ho già parlato altrove. Ma poichè mi ricordo di avervi detto che sulla cera si scriveva con uno stilo di avorio, aggiungerò, tornando al papiro, che ci si scriveva su con un calamus, o penna di canna, spaccata sul becco (donde l'appellativo di fissipes) e intinta nell'atramentum, o liquido nero, che si conteneva nell'atramentarium. Questo era il calamaio, nel significato moderno della parola; laddove il calamarius degli antichi significava il portapenne, o astuccio per portare attorno le cannuccie da scrivere. Anche la penna d'uccello si usava; ma il costume non va più su del secondo secolo dell'êra volgare, avendone noi il primo esempio in mano ad una Vittoria, scolpita nei bassorilievi della colonna Traiana.

[237]

Questo po' di erudizione scolastica, messa qui pei collegiali, miei invidiabili amici, non farà arricciare il naso ai provetti, i quali vorranno sapere, io m'immagino, che cosa ci fosse scritto in quel rotolo di carta regia, che andava leggendo Tizio Caio Sempronio. Quei signori io li contento subito. Ecco la lettera:

«Lisimaco Liberto, a Tizio Caio, suo signore, salute.

Un servo ossequente, ma probo, deve dir sempre la verità intiera al padrone. Ora sappi che le cose tue, e non per colpa del tuo servo, che ci ha messo ogni studio maggiore...»

— Le solite storie! — interruppe il cavaliere stizzito. — La leggerò un altro giorno. —

E arrotolato da capo il foglio, lo gettò nella capsa, scatola circolare e profonda, col suo coperchio da chiudersi a chiave, che era l'arnese necessario di tutti i Romani in viaggio, per metterci dentro i loro libri e le carte di maggior conto.

Ciò fatto, prese, a mo' d'antidoto per la stizza, un altro rotolo; ma questo era di carta dentata, e non avea l'aria di appartenere alla categoria dei fogli noiosi. Lo aperse; era una lettera scritta in greco, che allora, mi pare d'averlo già detto, era conosciuto in Roma quasi come oggi da noi il francese.

Il cuore gli diede un sobbalzo, avendo egli riconosciuti alla bella prima i caratteri di Delia Cinzia.

«Egli sa tutto (diceva la lettera, in cui, per la fretta, erano ommesse le frasi di cerimonia). [238] Come ne sia venuto in chiaro, non so, nè mi è importato cercare. Non ho negato nulla, perchè non son usa a mentire; ma ho alzata alla mia volta la voce ed ho minacciato di andarmene. Egli è tornato mansueto come un agnello; piange e m'ama sempre più. Ma se tu vuoi, esco da questa casa e per sempre, non lasciando altro che il dolce ricordo di un'ora felice.»

— » No, per gli Dei! Non ci mancherebbe altro! — gridò Caio Sempronio, come se ella fosse davanti a lui e sul punto di mandare la sua risoluzione ad effetto.

— Che c'è? — dimandò Clodia Metella, che entrava in quel mentre nel tablino.

— Nulla, nulla; — rispose il giovane, lasciando che il foglio si arrotolasse da sè, e riponendolo nella capsa con l'aria più tranquilla del mondo. — È il mio arcario che fa un piagnisteo.

— Dicevi che non ci mancherebbe altro....

— Sì, perchè vuol lasciarmi, se io non metto un po' di misura nello spendere. È liberto e può andarsene a sua posta. Ma gli scriverò oggi stesso e vedrò d'ammansirlo. —

Quelle spiegazioni, date con molta tranquillità (e lascio immaginare a voi quanto gli costasse), appagarono Clodia Metella, che non amava molto ragionare di cose gravi, e meno ancora di conti.

La bella e scaltra patrizia ci aveva per questo le sue buone ragioni. Non era lei la causa delle lagnanze di Lisimaco, e non doveva anche saperlo?

Quel giorno i nostri due amanti dovevano fare una gita a Pompei, dove Clodia era stata invitata [239] dalla sua buona amica Giunia Sillana, che passava l'estate in quella graziosa città. Bisognava soverchiare un'altra volta quella superba matrona, baciarla amorevolmente su ambedue le guancie e mettere in mostra un monile di smeraldi, che l'avrebbe fatta schiattar dalla rabbia.

Erano corse continue, in cerca di sempre nuovi piaceri. Il talamègo, ancorato nelle acque di Baia, era ogni giorno in faccende; oggi a Capri, per visitare la grotta azzurra; domani al lago Lucrino, per mangiar le ostriche annaffiate col Cecubo; un'altra volta per andare a Pozzuoli e passar sotto il naso a Marco Tullio Cicerone, che si era fatto lecito di chiamar quadrantaria la più bella e la più desiderata tra le patrizie di Roma; e via via, sempre scampagnate, merende, conviti, musica, danze e bagni di ninfe.

S'intende che Clodia Metella era sempre gelosa. Guai al nostro cavaliere, se gli accadeva di dire a qualche amica di Clodia una frase che arieggiasse il complimento!

Quel medesimo giorno essa gli aveva dato i suoi bravi ricordi, prima di salir sulla nave.

— Bada, mio bel cavaliere! Giunia Sillana mi vuole; ma l'invito è per te. Essa ti guarda troppo e il suo petto è sempre gonfio di sospiri. Bada, mio bel cavaliere! Io possiedo un filtro sicuro; se tu non mi ami più, mi uccido; e tu morrai dentro l'anno.

— Padrona mia dolce; non ti uccidere, te ne supplico; — rispose Caio Sempronio, abbracciandola. — Mi vedresti capitare al passo d'Acheronte [240] prima che il vecchio navalestro avesse dato un grido di meraviglia, al vedere una così bella conquista. —

Così la chetava egli, tra un complimento e un sorriso, godendo profondamente in cuor suo d'essere amato a quel modo.

— Vada a farsi impiccare Lisimaco mio, con tutte le sue spilorcerie! Come potrei io abbandonare una donna simile? E possedendola, come non circondarla d'oro e di gemme? Per Giove Capitolino, non ne abbiamo noi ricoperta una rozza pietra, venuta di Frigia, decorandola col nome di Cibele? Ed io non farei altrettanto per una bella donna, che non è di sasso per me? Infine, domando io, perchè si vive? —

Io qui capisco benissimo che, se lo avessero udito certi grand'uomini di Grecia e di Roma, la logica del mio cavaliere sarebbe stata ridotta a mal partito. Socrate, per esempio, gli avrebbe risposto: si vive per la virtù; Platone: per la sapienza; Fabrizio: per la patria; Cicerone: per la gloria e per tutte le altre cose insieme. Ma questi grand'uomini non erano fortunatamente ad udirlo; e se ci fossero stati e gli avessero sciorinati i loro altissimi veri, io metto pegno che Caio Sempronio non li avrebbe capiti. L'amore non è cieco soltanto; è anche un po' sordo.

Il nostro eroe viveva tanto bene laggiù! Neanche a Roma si era mai sentito così pienamente felice. Già, Roma era tutta nel golfo Cumano, ma Roma allegra e spensierata, senza foro e senza liti, senza ambizioni di potere e zuffe al ponte dei [241] suffragi, Roma condiscendente e buona, per cui tutto era bene, e che non vi metteva gli occhi addosso, se passavate con una bella donnina al braccio, e magari anche con due.

Un giorno egli aveva dovuto allontanarsi dal suo dolce nido, per andare fino a Napoli, e far cambiare la forma d'un certo diadema, che Clodia Metella doveva portare qualche giorno dopo ad una festa notturna. Tizio Caio Sempronio si adattava anche a questi servigi; e credo anzi che qualche volta andasse dal calzolaio per scegliere la più aggraziata foggia di sandalo o di mulleo, o per raccomandare, pena il suo corruccio, che il lavoro fosse fatto a quel Dio.

Clodia Metella era dunque sola, nel suo asilo di Citera, allorquando le fu annunziata una visita.

All'udire il nome di chi domandava d'entrare, la bella patrizia fece il viso brutto anzi che no. E vedete, di grazia, se non n'era il caso; quel tale era Cepione, Servilio Cepione, che si era rotolato fin là, attraversando i colli Albani e i monti Tifati, ripetendo insomma una parte delle imprese di Annibale. Che cercasse anche lui gli ozi di Capua? Videbimus infra.

— Come? Tu qui? esclamò Clodia Metella, in atto di grande stupore.

— Io, sicuramente... — rispose Cepione, sbuffando dal caldo peggio d'un toro. — Ed anche da qualche giorno.

— Bravo! E non sei venuto subito a vederci? — diss'ella, con aria di rimprovero, quantunque non ne pensasse proprio una maledetta.

[242]

— Come fare, con quel tuo colombo, che è sempre nel nido? Ero venuto qua per fare quattro bagnature. È il medico che me le ha ordinate. Dice che gli umori serpeggiano, che certe macchie alla pelle non gli piacciono (e neanche a me, pel gallo d'Esculapio, neanche a me!), che infine l'acqua salsa mi farà bene. Ed io mi diguazzo nell'acqua salsa da tre giorni, e la gente mi piglia per un Tritone.

— E già m'immagino che farai fuggir le Nereidi.

— Eh, eh! — rispose il vecchio argentario, con un suo risolino asciutto, che era sincero come i rimproveri di Clodia Metella. — Padrona mia bella, le Nereidi non somigliano mica tutte a te, che ti sei innamorata d'un mercante di tibie. —

Servilio Cepione alludeva alle gambe snelle di Caio Sempronio, che certo, paragonate alle sue, così tozze e corte, potevano offrire una rassomiglianza con le tibie, che erano i flauti, o, se vi piace meglio, i clarinetti degli antichi Romani. Per altro, a Clodia Metella non facea comodo di capire l'allusione, così sciocca com'era.

— Che cosa intenderesti di dire? — domandò essa con piglio altezzoso.

— Che il povero Servilio Cepione non conta più nulla, ai tuoi occhi. Eppure, padrona mia, egli fu un tempo... un tempo!...

— Sospiri? In verità, ci hai grazia. Par di sentire il mantice di Vulcano.

— Venere si ricorda dei giorni passati nella fucina; sta bene; — ripigliò Cepione, facendo bocca [243] da ridere. — Sii Venere adunque per intiero, e riamami un poco. Vedi, cuoricino, il tuo Vulcano ha la fortuna di non essere neanche zoppo.

— Mi fai orrore; va via! — diss'ella, schermendosi.

— Ah, ah! Siamo davvero a questi punti? — esclamò l'argentario, inarcando le ciglia e allungando le labbra con quel suo vezzo tra l'orgoglioso e il beffardo, che lo faceva rassomigliare ad uno scimmiotto quando fa le boccacce. — Tu dunque non vuoi la tua parte?

— Di che?

— Di Caio Sempronio, del tuo fido colombo. Sai, padrona mia bella? Tu lo pelavi; noi lo abbiamo arrostito.

— Non capisco.

— Amabile candore! Ti parlerò dunque alla buona. Noi prestavamo i danari che tu spendevi, o facevi spendere così allegramente. E ce ne sono andati, sai! Come poteva esser diverso? Viaggi e salmerie, da far ricordare una legione quando cambia presidio; vesti a carra, ori, perle e pietre preziose a palate; uno sciame di servitori; una villa da re; una nave di gala, come quella dei Tolomei; feste, conviti, scampagnate; tutto ciò rallegra la vita, ma costa caro, assai caro. Lo sappiamo ben noi, perchè era tutto sangue nostro. Sicuro, siamo stati noi gli spenditori; io, Furio Spongia e Crispo Lamia. Sebbene, quasi quasi si potrebbe dire che sono stato io solo, mentre gli altri due non erano che i miei prestanomi. Tu mi costi già due milioni di sesterzi, hai capito? due milioni di [244] sesterzi. E in meno di sei mesi! Tutto ciò è maraviglioso, e Giulio Cesare, il più grande scialacquatore di Roma, non avrebbe saputo far meglio. —

Clodia Metella taceva.

— Vuoi tu sapere come io mi sia arrisicato a fargli credito? — prosegui l'implacabile argentario. — Dei buoni! Avevo preso a volergli bene. È opera tua; amo chi tu ami; tu graffi, io bevo il sangue; tu peli, io arrostisco. Il nostro bel cavaliere ha ereditata da suo padre una larga sostanza; non così larga come si diceva per Roma, dove tutto si esagera, ma pur sempre ragguardevole; poniamo un quattro milioni di sesterzi. Ma vedi, quando il giovanotto ha conosciuto, te, divina Clodia Metella, ne aveva già divorato due milioni, o quello che certi usurai gli avevano dato per questa valuta, ipotecando i suoi fondi. Un milione lo ha mangiucchiato lì per lì; tra male spese e regali agli amici nella corsa primavera. Due milioni glieli abbiamo imprestati noi...

— E ne rimane uno scoperto; — interruppe Clodia Metella.

— Mi piace di vedere come calcoli a volo; — notò Cepione. — Sicuramente, c'è un milione di sesterzi, o giù di lì, per cui temiamo di dover rimanere allo scoperto.

— E adesso? — chiese ella.

— E adesso vogliamo vederci chiaro. Capirai che non si vuol restare così, mentre egli ci domanda dell'altro, e i primi creditori vogliono esser pagati. Io, per esempio, comprerei il credito, insieme [245] con Furio Spongia e Crispo Lamia, ma prima di far questo passo dobbiamo guardare se nelle sue sostanze c'è il pieno per esser pagati.

— Ma dimmi, — ripigliò Clodia Metella, — quanto a imprestargli dell'altro...

— Noto con piacere che ti prendi molta cura dei fatti suoi; — disse Cepione, ammiccando. — Ma sono dolente di doverti rispondere che, quanto a imprestargli dell'altro, non ne faremo nulla. Non ti ho detto, e non hai riconosciuto tu stessa, che c'è un milione di sesterzi in pericolo?

— Egli dunque...

— Non ha più un asse di suo. E il suo arcario Lisimaco, che ha saputa l'intenzione dei primi creditori e conosciuta l'esistenza dei nuovi, deve averglielo scritto l'altro dì. Ah, tu hai lavorato di fine, Clodia Metella; te lo dico io, che me ne intendo. E adesso, senti; quantunque tu sia la donna più generosa del mondo e il cuore di Caio Sempronio basti ad ogni tuo desiderio, son pronto, in nome della triade argentaria, a farti un presente, che sarà il nostro rendimento di grazie.

— Vediamo; — disse la matrona, guatandolo in viso con una espressione singolare.

— È un consiglio; — soggiunse egli, ridendo.

— Ah! non so che farne.

— No, rassicùrati, non è nemmeno un consiglio. È una notizia, dalla quale tu caverai tutto ciò che ti parrà meglio. Il tuo amante.... ti ha tradita.

— Come? — gridò Clodia Metella, i cui occhi scintillarono improvvisamente, ma forse non al tutto dalla rabbia.

[246]

— Ecco qua; si parla in Roma di certe nozze, alle quali un biondo cavaliere era stato invitato, di cui anzi egli era stato l'auspice. Si accenna ad una passeggiata in giardino. L'auspice e la sposa tornarono in casa per vie diverse. Le apparenze, lì per lì, erano salvate. Ma c'è della gente curiosa, al mondo, che troverebbe il nodo nel giunco. E questa gente ha trovato.....

— Che cosa?

— Parecchie cose, ha trovato. Anzitutto, un tronco d'albero appoggiato in un certo luogo al muro di cinta; poi due embrici rotti sulla corona del muro; poi una povera vecchia del vicinato, che aveva dato acqua al biondo cavaliere per lavarsi una scalfittura al ginocchio, ricevendone in dono una moneta d'oro. Ecco una moneta bene spesa, affè mia, per farsi conoscere da mezza Roma. Per Ercole, non tornava lo stesso salire su d'un tetto e gridare il suo nome alla gente?

— Ah, l'infame! — mormorò Clodia Metella, che ben ricordava quella assenza di Caio Sempronio dagli orti Tiberini e la circostanza della scalfittura, da lui spiegata con una mezza bugia.

— Vedi? — incalzò Cepione. — Ecco il bel guadagno che si fa ad impacciarsi coi giovani, con questi farfalloni, che non stanno mai fermi in un luogo, e il cui solo diletto par quello di vagabondare dalle rose ai ligustri.... quando non è quello di dare una scorsa su qualche cesto di cavolo. E adesso che il nostro bel farfallone dal cavolo torna alla rosa, vedremo questa dischiudergli amorosamente le foglie, come se niente fosse...

[247]

— Oh, non lo speri! — ribattè Clodia Metella. — Lo manderò dove va mandato, agli orti Ventidiani. Capisco ora perchè li aveva comprati e regalati, lui, che in fin dei conti non possedeva la sostanza di Lucullo, e non era stato nominato erede di un secondo Attalo! —

Attalo era il personaggio favorito dei Romani, quando volevano citare un grande esempio di ricchezza. E la ragione era questa che Attalo III, re di Pergamo, detto Filometore, essendo morto senza figli ottant'anni addietro, aveva lasciato erede di tutte le sue sostanze il popolo romano. Il quale, colpito da tanta magnificenza, dimenticò volentieri che il testatore era un fior di briccone, che coltivava nel suo giardino tutte le piante velenose conosciute a' suoi tempi e impregnava del loro succo i fiori e le frutte che inviava a' suoi prediletti. Ma che cosa non fa dimenticare un bel gruzzolo di monete?

— Sì, un bel ricco! — notò Cepione. — E dove si sia ridotto, mi pare di avertelo detto poc'anzi. Se tu non lo soccorri, io temo...

— Soccorrerlo, io? — interruppe Clodia Metella. — Tu se' pazzo, o Servilio. Mi vorresti così sciocca da rovinarmi per lui e da mandare la villa d'Albano e gli orti sul Tevere nel baratro in cui si sono sprofondati i suoi quattro milioni di sesterzi? Già, soccorrerlo! Perchè seguiti a fare il vagheggino con la moglie di Cinzio Numeriano! Neanche per sogno; o non son io, o lo pianterò su due piedi.

— Brava! così va fatto; è il miglior modo per [248] non lasciarsi intenerire. M'immagino, — soggiunse con arguzia feroce il banchiere, — che ciò non avverrà senza sdegni e maledizioni, perchè, siamo giusti, sei tu, padrona mia bella, che l'hai ridotto allo stremo.

— Io? Sono forse io che l'ho consigliato a spendere? Io non gli ho chiesto mai nulla. Io son patrizia romana, e della gente Claudia, la più nobile e la più antica di tutte.

— O dove metti la gente Giulia? — domandò l'argentario, che ci prendeva gusto a punzecchiare la sua alleata.

— Sì, davvero, gran nobiltà! — rispose Clodia Metella. — Discendono da Giulo, il figlio di Enea. Ma, a buon conto, nella storia di Roma non compariscono che verso i principii della guerra punica. I Claudii, in quella vece, vennero dalla Sabina in Roma, sei anni dopo la cacciata dei re. —

Era graziosa, quella quistione di antenati, in mezzo alle smanie per la infedeltà, o, a dire più veramente, la povertà di Tizio Caio Sempronio! Ma bisogna pensare che Claudia Metella ci aveva il suo pudore anche lei, ed era naturale che volesse nascondere sotto la nobiltà della stirpe quel brutto esempio d'ingratitudine che si disponeva a dare.

Cepione, per altro, non volle menarle buono il suo fumo nobilesco.

— Senti, padrona mia, — diss'egli col suo tono beffardo, — lasciamo in disparte gli antenati Sabini e i Troiani. Gli uomini si conoscono dalle opere loro. Tu fa vedere che sei nobile davvero [249] per te, non volendo aver che fare più oltre con gli straccioni. Io, domani o doman l'altro, gli fo sequestrare il suo talamègo e tutto quanto ha portato di buono con sè... anche le gioie.

— Oh, queste poi!

— Certamente; — ripigliò l'argentario, facendole il bocchino; — ma insieme con lo scrigno, o, se ti piace meglio, con la dea che le porta. —

Clodia chinò la testa e pensò. Infatti, era il caso di pensare da senno. Con quelle notizie che recava Cepione, e che del resto ella si aspettava un giorno o l'altro, la compagnia del bel cavaliere diventava un gran peso. Uscire di là, bisognava. E come ne sarebbe venuta a capo, se qualcheduno, a lei noto e interessato a servirla, non le dava una mano?

Dopo alcuni istanti di pausa, in cui il suo cervello sottile fece molte miglia di cammino, Clodia Metella alzò con piglio risoluto la fronte, e, guardando fisso Cepione, gli disse, così tra il dubbio e l'affermazione.

— La dea conserva i suoi donativi, non è egli vero? Sarebbe sacrilegio spogliarla.

— S'intende. I voti non sono essi il premio delle grazie che ha fatte la dea? E non è giusto che conservi i suoi cuori d'oro, le sue armille, i suoi monili, dopo averseli così ben guadagnati?

— Ne parleremo; — rispose Clodia, dopo un'altra piccola pausa.

— Perchè non parlarne subito? — disse Cepione. — Padrona mia, queste risoluzioni si prendono a volo. Non si tratta per l'appunto di volar via?

[250]

— Verissimo; ma senti, ecco il tuo cavaliere che torna.

— Il mio! questa è buona davvero.

— Tuo, o di Furio Spongia, o di Crispo Lamia; non siete voi altri che lo avete dissanguato? —

Il degno argentario stava già per rispondere qualche altra malignità, quando Caio Sempronio comparve nell'atrio, con la sua baldanza negli occhi e col sorriso sul labbro.

[251]

CAPITOLO XIX. Siamo agli sgoccioli.

Clodia Metella si era prontamente ricomposta con quella balìa di sè, che è propria delle donne. Non se l'abbiano a male, di grazia, le mie buone lettrici. Io penso che sia una virtù il sapersi padroneggiare, così nelle piccole cose come nelle grandi, e se è vero che la necessità aguzza l'ingegno dell'animale pensante, come svolge e perfeziona l'istinto del bruto, si può ben dire che la soggezione in cui, da che mondo è mondo, fu sempre tenuta la donna, le abbia appunto accresciuta la virtù del dissimulare, e data in pari tempo la scusa.

Quanto a Servilio Cepione, il nostro vecchio argentario ci aveva un grugno così fatto, che poco ci voleva a nascondere i moti nell'animo. Il sorriso e la smorfia erano tutt'uno per lui.

[252]

Caio Sempronio rimase un po' sconcertato alla vista inattesa del suo ippopòtamo. Ma infine, quella medesima qualità che più doveva dargli molestia, poteva anche rendergli gradita la presenza di lui. Era un creditore. Ora, coi creditori, non ci son vie di mezzo; o sprofondarsi in inchini, o buttarli dalla finestra. Almeno, questa è l'opinione dei debitori, che in questa materia sono i giudici più autorevoli. Caio Sempronio, debitore maraviglioso, non poteva onestamente appigliarsi al secondo partito, anche per la ragione che incominciava a trovarsi al verde, e, alla vista di Servilio Cepione, gli parve che gli si presentasse la fortuna, col corno dell'abbondanza tra mani.

Lo accolse dunque benissimo, e gli mosse incontro con le braccia distese.

— Oh Cepione! Che buon vento ti ha condotto tra noi?

— In verità, — disse quell'altro, — il vento non ci ha avuto a far nulla. Son venuto per terra. Del resto, come dicevo poc'anzi alla nostra Clodia Metella, una ragione poco piacevole mi ha tirato fin qua. I medici mi hanno ordinati i bagni di mare, per una certa salsedine che m'è venuta alla pelle.

— Malattie dei ricchi! — notò Caio Sempronio ridendo.

— Ah, non parlar di ricchezze! Non si fa nulla.....

— E i danari dormono nelle arche, infruttuosi, non è vero? Ma sta di buon animo, Servilio; presto [253] ti darò occasione io, di srugginire le chiavi del forziere. —

Cepione fece un muso lungo una spanna.

— Basta, ne parleremo; — prosegui Caio Sempronio. — Oggi si sta allegri. Rimani con noi, ci s'intende?

— No, ti ringrazio. Sono qui per curare la mia salute e non posso fare la vostra vita da epicurei.

— Che! Ti spaventi di poco. Pensa che l'allegria fa buon sangue.

— Vieni almeno a cena da noi; — disse Clodia Metella, secondando abilmente le premure del compagno.

Cepione si lasciò persuadere. Oramai era accettato in casa e poteva aspettare tranquillamente il buon punto. Fatte poche altre chiacchiere sul più e sul meno, il degno uomo prese commiato per andare alla sua bagnatura, e Caio Sempronio lo accompagnò cortesemente fino all'uscio di strada.

— Poveraccio! — diss'egli tornando nel tablino, ove Clodia Metella attendeva ad alcuno di quei nonnulla, che le donne chiamano lavori, mentre non sono altro che passatempi. — È un avaro, uno strozzino; ma in fondo in fondo è migliore della sua fama. —

Il nostro cavaliere vedeva tutto color di rosa, in quel giorno.

— Padrona mia dolce, — soggiunse egli, — sono stato fuori un po' troppo. Ma la colpa fu del lavoro, che non era finito. Ecco il tuo diadema. Va bene così?

[254]

Clodia ammirò, e si volse a guardare il giovine col più lusinghiero dei suoi dolci sorrisi.

Ora, chi nol sa? i sorrisi d'una bella donna si bevono, e scendono al cuore più soavi dell'ambrosia, o del nèttare. «Niente è più dolce del miele» ha detto Salomone; e certo l'autorità è grande, nè si può così leggermente contraddirgli. Pure, io porto opinione che il sapientissimo re non badasse troppo a quel che diceva. Se ci avesse pensato un pochino, metto pegno che si sarebbe ricordato. Poffaremmio! Che tra i mille sorrisi raccolti nel suo palazzo (e dico mille, perchè ne ha tenuto il conto la storia), non ce n'avesse uno da valer più d'un favo di miele?

Caio Sempronio bevette senz'altro quel sorriso di Clodia, e nella dolcezza ond'era tutto compreso dimenticò ogni sopraccapo.

— Mia bella amica, — le bisbigliò quindi all'orecchio, — io ti amo. E tu? —

Clodia Metella non rispose. Ma fece meglio; gli gettò le braccia al collo.

— Dopo tutto, è un bel giovane; — pensò la bella patrizia, che se ne intendeva. — Peccato che non sia più ricco! —

Fu quella l'orazione funebre agli amori di Tizio Caio Sempronio. Ma che importava ciò, se il morto era calato nel monumento con una ghirlanda di rose?

Quel giorno la cena fu gaia oltre l'usato. Il nostro cavaliere avea l'aureola dei beati intorno alla fronte; e Clodia Metella..... Abbiamo veduto come sapesse padroneggiarsi e dissimulare, quella gentile alunna di Venere.

[255]

In mezzo a tutti i piccoli episodii della serata, Cepione trovò il modo di dire alcune parole all'orecchio di Clodia. Ma Caio Sempronio, dal canto suo, trovò il modo di parlare un tratto da solo a solo con Cepione.

— Amico mio, quattro parole.

— Ci siamo! — pensò l'argentario. — Attenti a parare la botta. —

E ad alta voce soggiunse:

— Mio cavaliere, sentiamole.

— Forse già le indovini. Ho bisogno di danaro.

— Non ne ho. Ti parrà strano, e i tuoi occhi me lo dicono chiaramente, prima che parlino le labbra. Ma il fatto è questo: non ne ho. In questi mesi mi sono andati a male parecchi negozi e mi trovo in secco.

— Mi duole..... per te e per me; — disse, dopo una breve pausa, Caio Sempronio. — Ma, poichè mi sei amico.....

— Amicone! Amicone! — interruppe l'argentario, prendendogli una mano e battendogli così amorevolmente sul braccio, che non pareva più lui.

— Orbene, poichè così è, potrai parlarne o scriverne, che sarà meglio, al tuo collega Furio Spongia, a Crispo Lamia, a qualcun altro delle Botteghe Vecchie.

— Ahi, ahi! — esclamò Cepione, con quell'aria di soave malinconia che assumono i mercanti sulle difese, e in generale tutti gli uomini che stanno per negarvi un servizio. — Le Botteghe Vecchie sono chiuse.

[256]

— Da quando? — domandò Caio Sempronio, che lì per lì non aveva capito il senso riposto della frase di Cepione.

— Da quando hanno incominciato a diffidare. Bada, non sono io che parlo; riferisco i discorsi degli altri. C'è Furio Spongia che asserisce aver tu preso ad imprestito per somme di gran lunga superiori alle tue sostanze.

— Ah! dice questo, il briccone?

— Sicuro, ed aggiunge di averne le prove. A me, che volevo persuaderlo del contrario, perchè ho fede in te, e dopo tutto non mi spaventerei d'aver perduta una parte del mio, pur di averti potuto rendere un servizio, a me, dico, Furio Spongia ha risposto di essersi abboccato col tuo arcario e di averlo costretto a convenirne, dopo tirata la somma di tutti i tuoi debiti, antichi e nuovi. Anzi, mi aggiungeva che Lisimaco... Ê così che si chiama il tuo cassiere?

— Sì, va innanzi; — disse Caio Sempronio, impaziente di giungere al fine.

— Mi aggiungeva dunque che Lisimaco, turbato da quella improvvisa scoperta, che rendeva inutile il suo ufficio, ti aveva scritto una lettera.

— A me? Non so nulla di ciò.

— Eppure, quella medesima sera il messaggiero era partito da Roma.

— Aspetta; — disse Caio Sempronio. — Ora mi rammento. Dev'essere stato quindici giorni fa. Lisimaco infatti mi scriveva..... Ma in verità, non so che cosa mi scrivesse, perchè non ho letto il messaggio.

[257]

— Leggilo ora, e vedrai. —

Il nostro cavaliere, scombussolato da quelle ingrate notizie, andò nella sua camera, aperse la capsa e trovò la lettera del suo povero arcario. Era un piagnisteo dalla prima all'ultima parola. Lisimaco aveva riconosciuti ad uno ad uno gli sdruci fatti dal cavaliere nel suo patrimonio, e conchiudeva malinconicamente col dirgli: «tu non hai più nulla del tuo; i creditori sequestreranno ogni cosa, e, quel che è peggio, i tuoi poderi non basteranno a coprire i debiti, così numerosi ed ingenti, come hai avuto il senno di farli.»

Rimase di sasso. Non ignorava già di andare alla rovina, ma non credeva di giungerci così presto. Altro che fermarsi allo scrimolo! Egli era già a gambe levate nel vuoto.

Il primo pensiero che gli usci formato ed intiero da quella gran confusione, fu per la donna amata da cui avrebbe pure dovuto separarsi.

— E Clodia? Che dirà Clodia? Come l'avvertirò io di tanta sciagura? —

La conclusione del suo soliloquio si fu che per quella sera non avrebbe parlato di nulla. Rimettere le noie al dimani è sempre stata la gran regola degli uomini a modo.

Il giorno dopo, era meno che mai disposto a parlare. Andò in quella vece a trovar l'argentario, per vedere se fosse possibile di intenerirlo.

— Senti; — gli disse; — l'autunno è inoltrato e a giorni mi bisognerà ritornare a Roma. Fa ancora uno sforzo, e t'assicuro che sarà l'ultimo.

[258]

— Lo vorrei, per Saturno, ma non posso. Tu vuoi cavar sangue da una rapa. Ho appena il danaro bastante per viver qui una ventina di giorni, da solo e senza uscire di riga. Quanto a Furio Spongia e a' suoi degni colleghi, mi pare di avertene detto abbastanza ier sera. Credo anzi che abbiano intenzione di rivolgersi al pretore, se già non lo hanno fatto, per tutelare i loro diritti. —

Al nostro eroe cascarono a dirittura le braccia.

— Siamo già a questi punti! — diss'egli.

— Mah! Io non ne so nulla; ti ripeto quello che ho inteso a dire e ti aggiungo quello che temo. —

Caio Sempronio usci disperato dal diversorio, in cui era alloggiato il feroce argentario.

Quel giorno fu tutto per Clodia. E lei? Quanto a lei, lettori umanissimi, non so dirvi che pensieri le girassero per la fantasia. Sbadigliare non fu vista da alcuno, e se vi dicessi, per certe mie induzioni, che reprimeva gli sbadigli e gli atti d'impazienza, temerei di asserire una cosa non vera. L'hanno tanto lacerata, quella povera Clodia Metella, che non ci sarebbe misericordia da parte nostra ad imitare i suoi contemporanei. Ammettiamo, per farla finita, che le dolesse di vedere il suo Caio Sempronio così presto andato a male, ma che, da donna assennata qual era, desiderasse in cuor suo di trovare un'uscita, e per lui e per sè.

— Stamane, se permetti, — le disse il povero cavaliere, — vo fuori.

— Dove?

— Fino a Puteoli. Ho da vedere un amico. —

Clodia Metella indovinò così a mezz'aria che tutto [259] stava per finire, e non volle trattenerlo. Per altro, una parola ci voleva; e la parola fa questa:

— Purchè non si tratti d'una donna!

— Ah, non temere! Chi ama te, le dimentica tutte. —

Ciò detto, si allontanò, ma non senza volgere dal fondo dell'atrio una lunga occhiata a lei, che gli sorrideva dal tablino aperto, bella e fresca come l'aurora.

— Lasciarla! pensava egli intanto. — Non ne sento il coraggio. Udiamo prima il consiglio di un savio. —

Chi era costui, che doveva metter bocca sulle faccende di Tizio Caio Sempronio? Aspettate, e lo vedrete. Il pensiero di far capo a costui gli era nato nella notte, e, cosa strana, posando al fianco di Clodia. Il mondo è pieno d'antitesi, e il cervello dell'uomo, che è un piccolo mondo, ne ha una ad ogni svolta delle operose sue cellule.

La barca su cui era salito il nostro cavaliere andava a tutta forza di remi verso Puteoli; ma volse a riva, prima di giungere in vista di quel piccolo porto. Colà si vedeva una villa graziosa, le cui mura dipinte di cinabrese s'inerpicavano per la verde costiera, andando a congiungersi al sommo di un poggio, dove sorgeva una casa foggiata a mo' di tempio greco. Questa almeno era l'apparenza sua, derivata dal portico d'ordine dorico, che correva lungo la fronte dell'edifizio.

Quel luogo dicevasi l'Academia, e gli eruditi hanno già capito a chi appartenesse. Noi che non [260] siamo eruditi (e ci corre) prenderemo ad imprestito un po' della loro dottrina, per dirvi che Acadèmo era un cittadino ateniese, il quale aveva nominato il popolo erede dei suoi orti, convertiti poscia in pubblico passeggio, cinto di mura da Ipparco, abbellito da Cimone, illustrato dai discepoli di Platone, che vi si raccoglievano a disputare; donde la scuola ebbe il nome di Academia. Ma perchè tuttociò non vi chiarirebbe ancora le origini dell'Academia di Puteoli, aggiungeremo che un grande romano aveva imposto quel classico nome alla sua casa di campagna, posta colà, tra Puteoli e il lago d'Averno, abbellendola di portici e circondandola di giardini, ad imitazione dell'Academia di Atene. E quest'uomo, ormai lo hanno indovinato anche i non eruditi, si chiamava Marco Tullio Cicerone.

Caio Sempronio, smontato dal burchiello alla riva, salì per un sentieruolo, che, serpeggiando attraverso una macchia di corbezzoli e di frassini, metteva all'abitazione del magno oratore. Tutto in quel luogo era grazioso e severo ad un tempo; si capiva alla bella prima che dovesse essere il romitorio d'un filosofo, e che quel filosofo fosse anche un uomo di buon gusto. Alla mente del nostro cavaliere s'affacciò per l'appunto una sentenza dell'Arpinate, che doveva essere nata colà: hic mihi jucundior solitudo, hic et amicitia jucundior.

Fu annunziato l'arrivo del nostro eroe, mentre il più elegante dei pensatori romani stava dettando una delle auree sue pagine al suo liberto, amico e discepolo, Marco Tullio Tirone. Non ignorate [261] per fermo che i liberti prendevano il nome dei loro antichi padroni.

Caio Sempronio non voleva riuscire molesto in quell'ora solenne, e il filosofo approfittò delle cortesi sollecitazioni di lui, per finir di dettare uno dei suoi capitoli immortali. Cicerone stava appunto per condurre a termine il trattato «Della Vecchiaia» che è senza fallo uno dei suoi migliori, anzi l'ottimo fra tutti, per la purezza della forma e la dignità dei pensieri.

In quel libro parlava Catone il Maggiore, ma un Catone riveduto e corretto dall'ingegno altissimo di Marco Tullio, che si levava nella chiusa ad inarrivabili altezze.

— «Nessuno, o Scipione, mi persuaderà mai, che il padre tuo Paolo, o i due avi Paolo e l'Africano, o il padre dell'Africano, o lo zio, o molti altri valentuomini che non accade di enumerare, avrebbero operato tante cose degne del ricordo della posterità, se non avessero veduto con l'occhio della mente che la posterità era ad essi dovuta. O pensi che io (per lodare un tratto anche me, alla guisa dei vecchi) mi sarei tolti sugli omeri tanti assidui travagli in città e nel campo, se avessi pensato di dover chiudere la mia gloria in quei medesimi confini in che la mia vita doveva esser chiusa? E non sarebbe stato assai meglio trarre oziosa la vita e quieta, senza alcuna fatica, o contrasto? Senonchè, io non so come, l'animo mio, sollevandosi, sempre così vedeva la posterità, come se, dopo la morte, avesse a continuargli la vita. La qual cosa se non procedesse in tal modo, che [262] le anime nostre fossero immortali, l'intelletto degli ottimi non si travaglierebbe di certo per conseguire una gloria immortale. E perchè credete voi che muoiano di buon animo i sapienti, e tutto al contrario gli stolti? O non vi pare che l'animo il quale più scorge, e più lontano, s'avveda per l'appunto di partire per regioni migliori, mentre chi ha ottusa la vista nol vede? Sì, veramente, io m'esalto nel desiderio di vedere i padri vostri, che ho rispettati ed amati; nè quei soli che io stesso conobbi, ma altresì coloro dei quali udivo e leggevo, e intorno ai quali scrissi nei miei libri di storie. Pronto alla partenza per quei luoghi, nessuno varrebbe a trattenermi, volesse anco ritornarmi alla prima giovinezza, ricuocendomi, come si narra del vecchio Pelia aver fatto Medea. E se pure un Dio mi concedesse di tornar bambino, così che io dovessi vagire in cuna, in verità ricuserei, non volendo, quasi alla fine del mio corso, dalle riprese essere ricondotto alle mosse.» —

— Stupendo! — esclamò Caio Sempronio, che non seppe trattenere lo scoppio della sua ammirazione.

Marco Tullio, a cui piaceva la lode, pagò quella esclamazione con un sorriso e con un cenno amichevole del capo; indi continuò la sua dettatura:

— «Invero, che cos'ha la vita di utile, o non piuttosto di travaglio? Ma l'abbia pure; essa ha certamente, dopo tutto, la sua noia e il suo termine. Non mi piace adunque di rimpiangere la vita, come molti ed anche savii hanno fatto. Neanche mi pento di essere vissuto, perchè sono vissuto in [263] tal guisa da non credermi nato invano, e da questa vita mi parto, come si fa da un ospizio, non come da una casa. Infatti a noi la natura diede l'albergo per soggiornarvi, non già per abitarvi. O splendido giorno, nel quale io parta per quel consesso di anime divine e mi allontani da questa turba e confusione di gente! Nè solo andrò a quegli uomini dei quali ho detto poc'anzi, ma eziandio a Liciniano mio figlio, di cui non nacque uomo migliore, nè chi lo avanzasse in pietà; il cui corpo fu abbruciato da me, quando era più naturale che il mio lo fosse da lui. L'anima sua non mi abbandonò, veramente; anzi, mirando a me di continuo, s'avviò a quel luogo dove sapeva che io pure avrei dovuto giungere un giorno. La quale sventura mia io parvi sopportare con fortezza, non perchè mi vi acconciassi di buon animo, ma perchè me ne consolavo, stimando non esser lontane tra noi la dipartita e l'assenza. Per queste cose, o Scipione (che mi dicevi di averne fatte spesso le meraviglie con Lelio), la vecchiezza, non che molesta, mi torna dilettevole e cara. Che se io m'inganno nel credere immortali le anime umane, volentieri m'inganno, nè voglio mi si tolga un errore, che abbellisce la mia vita. Se morto non sentirò più nulla, come credono certi filosofastri, non temo che i filosofi, morti anche loro, abbiano a deridere questa mia illusione. Che se poi non dobbiamo essere immortali, tuttavia è desiderabile per l'uomo di estinguersi al suo tempo. Imperocchè la natura, come in tante altre cose, così ha una misura nel vivere. E la vecchiezza [264] è come il compimento della vita; è il quint'atto della commedia, in cui dobbiamo sfuggire ogni ombra di stanchezza, segnatamente dove si aggiunga la sazietà. Queste cose avevo a dire della vecchiaia, a cui v'auguro di pervenire, affinchè le cose udite da me possiate trovar giuste, mercè la vostra esperienza.» —

L'amanuense aveva finito di scrivere, e Cicerone diede una rifiatata di contentezza.

Anche questa è condotta a termine; — diss'egli. — E quasi quasi mi duole. Ci si separa mal volentieri da un amico; e questo lavoruccio era un amico per me.

— Tu lavori sempre, ad onore di Roma, — notò con timido accento il giovine cavaliere.

— Così tu dicessi il vero! Confermeranno i posteri la tua sentenza? Ecco il punto. Ad ogni modo, fo quanto è in me per meritarla. Le lettere mi consolano in ogni studio della vita, e, come tu vedi, mi seguono anche in villa. E adesso, o Tirone, — soggiunse il grande uomo, — va a ricopiare lo scritto; lo manderemo agli amici, se credi che ne valga la spesa. Io udrò frattanto questo umanissimo giovine. —

Tirone raccolse le sue tavolette e si ritirò, mentre Caio Sempronio si faceva innanzi.

— Tu vorrai perdonarmi l'indugio; — continuò Cicerone. — Noi vecchi abbiamo sempre qualche ricordo da lasciare a chi verrà dopo; e guai a noi, se perdiamo il filo, perchè il tempo incalza e la Parca ci attende. —

Il grande oratore e filosofo sentiva già forse vicina [265] la morte. Infatti, sei anni dopo, egli moriva coraggiosamente, nel sessantesimo quarto anno d'età, vittima delle ire d'Antonio che egli aveva fulminato con le sue filippiche, piene di tanto amore per la patria e di tanta devozione alla causa della libertà, che pur vedeva perduta. I soldati recarono la sua testa a Fulvia, la moglie di Antonio, e la fierissima donna, impugnato lo spillo che le teneva raccolti i capegli, vendicò sulla lingua del morto le dure verità dette dai rostri al suo secondo e al suo primo marito. Ricorderete che innanzi di dar la mano al futuro amante di Cleopatra, il quale la trattò poi secondo i suoi meriti, facendola morire di dolore e di gelosia, Fulvia era stata la moglie di Publio Clodio.

— Ma lasciamo questi vani discorsi; — proseguì Cicerone. — In che cosa può giovarti l'opera mia? —

Caio Sempronio gli espose allora in poche parole il caso suo, riserbandosi di tornarci sopra con maggior diffusione, per tutti quei particolari che al sommo giureconsulto mettesse conto di sapere. Cicerone, che aveva conosciuto da vicino il padre di lui, lo ascoltò con molta benevolenza e volle conoscere tutto, dall'a fino alla zeta.

— C'è una donna, di mezzo! — esclamò. — Dovevo immaginarmelo. Giovani matti, che non ricordate essere stata una donna la causa dell'eccidio di Troia! È vero per altro — soggiunse egli, ridendo umanamente della sua medesima osservazione, — che, se non cadeva Troia, non nasceva Roma. Dunque, perdoniamo alle donne, e tiriamo avanti. —

[266]

Il nostro cavaliere proseguì il suo racconto, nel quale gli occorse anche di profferire il nome di Clodia Metella. E questo non giunse nuovo a Marco Tullio, che rammentò allora il teatro di Pompeo e la rappresentazione della Casina di Plauto, alla quale abbiamo fatto assistere i lettori.

— Io non ti dirò nulla di lei; — disse il magno oratore. — Sarei un testimonio sospetto. A me basta che tu, sapendo quello che io ne ho detto al tribunale pochi anni or sono, non abbia temuto di venire da me per consiglio. Forse intendevi che, dopo quanto t'è occorso, ero io il tuo alleato naturale. —

Queste parole di Cicerone svegliarono nel cuore di Caio Sempronio un vago senso di tristezza. Egli non aveva pensato a nulla di tutto ciò che il suo illustre interlocutore vedeva in quella visita, fatta piuttosto a lui che ad un altro. Era andato da Marco Tullio, per la stima che aveva grandissima del suo ingegno, per la stessa urgenza del caso, che non portava di andare a cercare un consigliere lontano, mentre ce n'era uno a pochi passi da Baia, e in fondo in fondo anche per quella virtù dell'istinto, che nei supremi momenti ci fa indovinare da qual parte si trovino gli aiuti più poderosi. Ma quell'accenno del grand'uomo al passato, gli fece provare una specie di rimorso, che si mutò in corruccio, non contro Cicerone, bensì contro sè stesso.

— Forse ho dubitato di lei? — pensò Caio tra sè. — E venendo a chieder consiglio da Marco Tullio, intendevo forse di vendicarmi su lei? Mi [267] sono rovinato per quella donna, è vero, ma come mi sarei rovinato per un'altra, nè più, nè meno. —

L'interna battaglia che io vi ho descritta con tante parole, durò a mala pena un istante. E in pari tempo il nostro cavaliere sentì il bisogno di sviare il discorso.

— Forse, — diss'egli, — la causa non è degna di te, ed io ho abusato....

— No, non credere che sia da meno del mio povero ingegno; — interruppe Cicerone. — Te lo dirò con Terenzio: sono uomo, e nessuna delle umane miserie ha da essermi straniera. Mi occuperò del tuo caso, appena sarò di ritorno in Roma. Io non mi sono trattenuto a Puteoli che per finire il mio libro. Ma il Foro mi richiama da un pezzo, e fo conto di partire domani o doman l'altro. Vieni a vedermi laggiù e conducimi il tuo Lisimaco, per tutti i ragguagli e per tutti gli schiarimenti che mi saranno necessarii. Comunque esso valga, il mio patrocinio lo avrai.

— Ah! — gridò il cavaliere. — Tu mi ridoni la vita. Con te si vince di sicuro.

— No, non cantar vittoria, te ne prego. Un cattivo avvocato può perdere una causa buona; un buon avvocato non può guadagnarne una cattiva. Almeno, — soggiunse, con una restrizione che gli pareva necessaria, — se il giudice è onesto. —

Caio Sempronio si accomiatò finalmente dal grande oratore, promettendogli che pochi giorni dopo si sarebbe presentato a lui, nella sua casa al Palatino.

[268]

CAPITOLO XX. Una va e l'altra viene.

Egli ritornò alla riva con la morte nel cuore. Con che animo avrebbe egli detto a Clodia Metella: partiamo alla volta di Roma? Non sarebbe bisognato confessarle ogni cosa? E quella confessione non l'avrebbe fatta arrossire?

Pure, non si poteva fare altrimenti. Caio Sempronio si rassegnò, implorando da Minerva una buona ispirazione, pel momento in cui si sarebbe trovato da solo a solo con Clodia.

La navicella toccò la riva di Baia, senza che egli avesse trovato niente di meglio nella gran confusione del suo cervello. Balzò tuttavia sollecito a terra, e corse, volò, al nido dei suoi poveri amori; nido diletto, da cui gli era pur necessario allontanarsi tra breve.

Il silenzio regnava in Citera. La sua bella compagna non era ad attenderlo, come soleva, sotto il vestibolo. L'atrio era deserto, e deserto il tablino.

[269]

— Ahimè! — pensò egli in cuor suo. — così sarà deserto il luogo domani. Vedete come è già triste fin d'ora. —

Caio Sempronio tornò indietro, per chiedere della signora all'ostiario.

— È uscita; — gli disse Piramo, il servo che già conosciamo fin dai principio di questo racconto.

— E dove è andata?

— Non so. Ma aspetta, padrone; forse te l'ha scritto in una lettera, che ha consegnata alle sue donne, poco prima di uscire. —

Caio Sempronio sentì al cuore una stretta violenta. Piantò l'ostiario al suo posto, infilò la fauce che s'apriva a fianco del tablino, e riuscì nel peristilio, dove stavano le ancelle di Clodia. Erano tre, quelle che Clodia aveva condotte seco da Roma, l'ornatrice e due cosmète; ma Caio Sempronio non vide che queste due, intente a ripiegare panni e chiuderli in certi forzieri, come se facessero i preparativi per mettersi in viaggio.

Il cavaliere si avvicinò alle donne, e, senza porre tempo in mezzo, domandò:

— C'è una lettera per me?

— Sì, mio signore; — disse una delle cosmète. — Eccola qui. La padrona mi ha raccomandato di non smarrirla, e la tenevo in tasca aspettando il tuo arrivo. —

Caio Sempronio prese il messaggio di Clodia. Era un pugillare, come il primo che aveva ricevuto da lei. Ruppe il suggello con ansia indicibile, e lesse.

[270]

Non erano che pochi versi, segnati in fretta, e come a mano volante.

«Io parto. Non cercare di raggiungermi, perchè tutto è finito tra noi. Pensa agli orti Ventidiani, e consòlati.»

Il povero giovane rimase esterrefatto. Mentre egli ritornava, pensando tra sè come dirle delle sue strettezze, ella si allontanava da lui, lo abbandonava, e per sempre! Gli orti Ventidiani! Chi mai aveva potuto informarla?... Era gelosa; questo almeno appariva dalla lettera. Ma una donna veramente gelosa non sarebbe rimasta, per rinfacciargli prima il suo tradimento? Costei invece partiva, senza attendere nemmeno le sue discolpe, o i suoi recisi dinieghi. Perchè, infine, quali erano i testimonii? E non poteva anche esser falsa la accusa?

Tutte queste erano belle ragioni; chè il nostro eroe, quando voleva, ragionava anche lui e meglio d'un libro. Ma, anche col torto dalla parte sua, Clodia Metella era sparita, e il pensiero della sua insigne durezza non era quello che potesse lì per lì consolare il povero Caio Sempronio.

Egli rimase un tratto sospeso, col suo pugillare tra le mani. Finalmente, gli balenò l'idea di domandare alle donne con chi fosse andata la loro padrona.

— Non sappiamo; — risposero.

— E tu? — chiese all'ostiario che aveva indovinata la catastrofe e seguito a rispettosa distanza il padrone.

[271]

— Ê andata con un vecchio... con quel grasso che pare il dio Sileno....

— Ah, per gli Dei infernali! — gridò il cavaliere.

Voleva dire dell'altro, ma si trattenne in tempo, ricordando che ci aveva quei tre, a testimoni delle sue furie.

— Contate di partire, voi altre? — chiese alle due cosmète, dopo un istante di pausa.

— Se tu ce lo consenti; — rispose la più vecchia di loro. — La padrona ci ha detto di aspettare i tuoi ordini. —

Al nostro eroe toccava ancora di pagare alle due ancelle di Clodia le spese del viaggio. Era l'atellana dopo la tragedia!

— Bene! — replicò Caio Sempronio, con lo stesso accento con cui avrebbe detto: male! — Andrete quando vi piacerà. E tu e i tuoi compagni, — soggiunse, volgendo la parola all'ostiario, — aspettate. —

Ciò detto, andò fuori, per respirare più libero, e mettere, se gli riusciva, il cervello a partito. Baia, il suo golfo, i colli tutto intorno, gli parvero un deserto. Per giunta, il cielo s'era abbuiato, e il mare, ai primi soffi dello scirocco, aveva preso un colore di piombo.

Guardando a caso dalla parte di Cuma, il nostro cavaliere vide venire per la via maestra una reda, tirata rapidamente da due robusti cavalli bianchi. Quel cocchio, come fu giunto davanti al cancello di Citera, si fermò, e Caio Sempronio vide una matrona che si disponeva a discendere.

[272]

— Forse lei, che ritorna? — pensò, senza badare che la dama era sola e che quei cavalli bianchi non erano i suoi.

Intanto, attratto da una forza irresistibile, volò verso il cancello. La matrona era discesa e gli veniva incontro sorridendo. Non era Clodia; era Giunia Sillana.

— Oh, come son lieta di vederti! — esclamò la bella patrizia. — E come mi rallegro di non essere tornata indietro! Ero già sul punto di farlo, vedendo il mal tempo; la qual cosa mi avrebbe tolto il piacere di stringerti la mano. —

Caio s'inchinò, e le porse la destra, così per rispondere alla sua cortesia, come per aiutarla a salire su pel viale. Per altro, non aveva aperto bocca.

— Tu sei triste; perchè? — dimandò Giunia Sillana, notando il suo silenzio e non potendo ascriverlo a mancanza di riguardi.

— Signora mia... — balbettò il cavaliere.

E finì la sua frase con un sospiro tanto fatto.

— Ma che c'è? Voglio saperlo. Ah, forse, — soggiunse, sorridendo, — qualche nuvola viatrice?

— Sì, viatrice, l'hai detto; — rispose il giovine, crollando la testa. — Clodia Metella è partita. —

E poichè Giunia Sillana mostrava di maravigliarsi del fatto, cavò il pugillare dalla cintura e lo aperse sotto gli occhi di lei.

— Ed io che ero venuta a visitarla! — gridò la signora, giungendo le mani. — Ma come? che capriccio l'ha presa?

[273]

— Lo so io? Così avessi saputo prima a chi gittavo il mio cuore! — rispose egli, sbuffando.

— Povero Caio! E con chi è andata? Con qualche pantomimo?

— No; con Servilio Cepione, con l'argentario.

— Ah, con quel vecchio otre? con quella montagna di carne? Consolati, bel cavaliere! Una donna che cambia così male non merita una lagrima.... e neanche il sospiro che ora le dài. —

Caio Sempronio non sospirava in quel punto per Clodia. Sospirava, pensando che Cepione era ricco, e che egli, invece, era rimasto povero in canna.

— Senti; — proseguiva Giunia Sillana, fermandosi con delicatezza femminile a mezza strada, dove era un sedile di marmo, all'ombra d'un pergolato; — il mondo è pieno di consolazioni, per un uomo tuo pari. Chi non ti compiangerebbe? Chi, conoscendo te e lei, non imprecherebbe a lei? Essa è già punita abbastanza dalla sua scelta, non dubitare! Sarà la favola di tutta Roma. A proposito, quando ci torni, a Roma?

— Subito, per vederla, per....

— No, non devi far nulla contro di lei; — interruppe Giunia Sillana. — Ci sono delle donne per cui s'incontrerebbe volentieri la morte, e delle altre che basta disprezzare, quando non è d'avanzo. Chètati dunque; un giorno le passerai davanti, al fianco di una donna più bella, e riderai degli spasimi che essa ti ha fatto provare in passato. —

[274]

E si faceva rossa, a dirgli queste cose. Incominciò a credere che Giunia Sillana ci avesse un miccino di cuore, se ci metteva tanta cura a consolare quel povero abbandonato.

Caio Sempronio era rimasto pensoso, con gli occhi a terra.

— Sei dunque persuaso? — continuò Giunia Sillana. — Mi prometti di esser calmo?

— Sì, — rispose egli, — te lo prometto. Oh, non temere, strapperò l'immagine sua dal mio cuore.

— Bene, così va fatto. E adesso per non rimanere qui, dove tutto ti parlerà di cose tristi, vieni da noi; Pompeia è una bella città, ricca di passatempi, e ti darà pace allo spirito. —

Caio Sempronio alzò gli occhi a guardarla, e, per una consigliera di calma, per una invitatrice agli svaghi pompeiani, gli parve troppo bella. Un altro, poniamo l'innamorato console Servio Sulpicio Rufo, avrebbe trovato che quello fosse per l'appunto il caso di accettare; lui no.

— Grazie; — rispose. — Debbo andare a Roma, o domani, o doman l'altro.

— Non puoi aspettare? Tra otto, o dieci giorni al più tardi, si viene anche noi.

— Non posso; — replicò Caio Sempronio, chinando la testa.

Giunia Sillana battè sdegnosamente del suo piedino sulla ghiaia del viale.

— Sempre lei! — esclamò, con accento d'amarezza.

— Ti giuro che non vado per lei; — disse il giovane. — Sappi, poichè mi credi così fanciullo, [275] che le cose mie non vanno troppo bene. Il mio arcario mi ha scritto l'altro giorno di gravi dissesti. Temo di restar povero....

— Già! — interruppe Giunia Sillana, precorrendo di cinquant'anni una sentenza di Orazio. — La sanguisuga non ha lasciata la pelle, se non quando è stata piena di sangue. —

Caio Sempronio acconsentì col silenzio all'osservazione della sua bella vicina.

— Or dunque, — riprese egli poscia, — stamane sono andato a Puteoli per chieder consiglio a Marco Tullio Cicerone. Ero appunto da lui, quando essa è fuggita. Il grand'uomo mi ha promesso il suo patrocinio.

— Cicerone è un insigne giureconsulto, — notò Giunia Sillana, — e vede molto giusto in ogni cosa. Ricordi tu come l'ha giudicata, tre anni fa, la bella quadrantaria?

— Ah, di grazia, non parliamo più di costei! Ti dicevo di Cicerone. Egli parte domani per alla volta di Roma, e appena giunto colà vuol prender cognizione del caso mio, per provvedere in tempo ad ogni necessità. Tu vedi adunque che debbo partire ancor io senza indugio.

— Quand'è così, non insisto; — disse Giunia Sillana, acquetandosi a quella buona ragione.

Ma subito dopo ella aggiunse:

— Vai per mare?

— No; — rispose il cavaliere rabbruscandosi a un tratto. — Per mare son venuto, e per mare non tornerò certamente. Andrò a Capua, e di là sulla via Appia.

[276]

— In questo caso, — osservò Giunia Sillana, — il talamègo non ti serve più a nulla.

— A nulla, — ripetè Caio Sempronio.

— Benissimo; potresti dunque venderlo a me.

— Ê tuo, padrona; — rispose egli, che nel suo improvviso mutamento di fortuna non aveva perduti gli istinti del gran signore.

Giunia Sillana accolse quella profferta con un amabile sorriso.

Ti ringrazio; — diss'ella; — ma a questi patti non lo voglio. Non insistere, ti prego; mi troveresti più ferma a ricusare, che non è facile Clodia Metella a prendere. Sappi, del resto, che avevo già domandato ad Elvio Sillano, mio ottimo marito, di comperarmi una barca di gala, somigliante alla tua. Noi donne siamo un po' come i bambini, e vogliamo tutto quello che ci dà negli occhi. Elvio Sillano ha detto di sì; il negozio è dunque già fatto per metà. A lui, anzi, parrà di toccare il cielo col dito, se potrà risparmiare qualche migliaio di sesterzi, comperando il talamègo di seconda mano e ancor nuovo per giunta.

Con queste ragioni, vere o non vere, ma certamente pietose, Giunia Sillana cercava di persuadere il giovinotto.

— Dunque, siamo intesi; — conchiuse ella, per non dargli tempo a ravvedersi. — E se non vuoi tenere i servi che hai condotti a Baia, compreremo volentieri anche quelli.

Caio Sempronio pensava per l'appunto a tutte quelle bocche inutili che avrebbe dovuto mantenere. E l'offerta di Giunia Sillana, rincalzata dall'autorità [277] del marito, gli fe' dare una rifiatata di contentezza.

— Sta bene; — diss'egli; — accetto.

— E adesso, — ripigliò con aria di trionfo la matrona, — tu vedi pure che devi accompagnarmi a Pompeia. —

Caio Sempronio rimase perplesso; ma Giunia Sillana gli diede il colpo di grazia.

— Vorresti forse che mio marito, alla sua età, facesse lui la strada, da Pompeia fin qua? —

Il nostro cavaliere s'inchinò. A quella argomentazione non c'era nulla da opporre.

Frattanto la bella matrona si era alzata da sedere, e accompagnata da Caio Sempronio si avviava al cancello.

— A proposito, — diss'ella, mentre erano già davanti al montatoio della reda, — come si chiama il tuo talamègo?

— La Sirena; — rispose il cavaliere.

— Un mostro adunque? Metà donna e metà pesce, per allettarti con la sua bellezza e poi sguizzarti di mano? No, no, — proseguì ella ridendo, — questo nome non mi piace. Se permetti, quind'innanzi sì chiamerà l'Amicizia; il nome di una cosa sacra ed umana ad un tempo, non favolosa, nè mostruosa, nè paurosa; ne convieni? —

Come resistere a quelle parole? Il santo nome dell'amicizia non era egli una malleveria, una guarentigia contro ogni sospetto di secondi fini?

Or dunque, sotto il manto dell'amicizia, Caio Sempronio salì sulla reda. E mentre la Sirena Clodia Metella, a fianco dell'adiposo Cepione, viaggiava [278] per Linterno e Gaeta, alla volta di Roma, il nostro bel cavaliere, al fianco di Giunia Sillana, viaggiava per Cuma e Neapoli, alla volta di Pompeia.

Convenite, lettrici umanissime, che c'era più garbo e più eleganza in questo rapimento che in quello. Giunia Sillana pareva un trionfatore romano che si avviasse al Campidoglio, conducendo in mostra il più nobile dei suoi prigionieri.

Due differenze erano per altro a notarsi: che il trionfatore era una bellissima donna pallida con due grandi occhi neri, da valere essi soli un paio di legioni, e che il prigioniero era in cocchio, senza catene alle braccia.

[279]

CAPITOLO XXI. Pro tribunali.

La mattina del penultimo giorno di ottobre (che, per amore di latinità, potremo chiamare anche tertio kalendas novembris), l'insigne Marco Rutilio Cordo, pretore urbano, con la sua ampia toga fregiata sui lembi da una lista di porpora, se ne usciva di casa, preceduto da tre coppie di littori, anch'essi togati, con la loro bacchetta nella destra, e coi fasci delle verghe, ma senza scure, alzati sulla spalla sinistra.

Marco Rutilio Cordo si recava al Foro, per amministrare la giustizia. Ma come? in un giorno feriato? In quel giorno per l'appunto cadevano le ferie di Vertunno, il dio degli alberi ed anche dei contratti e delle permute; donde si argomenterà facilmente che, in un paese agricolo come il Lazio, fosse anche un giorno di nundinae, ossia di mercato.

[280]

E qui bisognerà spiegarsi un tantino. Neanche presso gli antichi Romani si poteva amministrare la giustizia ogni giorno dell'anno. C'erano i giorni nefasti, in numero superiore ai sessanta, che non si ritenevano da ciò; e a questi contrapponevano i fasti, in numero di quaranta, determinati dalla legge per l'esercizio della giurisdizione. Dopo questi venivano i cento novanta giorni comiziali, destinati per le adunanze del popolo, e messi anche a disposizione dei magistrati, ogni qual volta non ci fosse comizio; laonde il piccol numero dei fasti, propriamente attribuiti alla trattazione delle cause, non era un così grande svantaggio per la giustizia, come a prima giunta parrebbe.

Un'altra divisione era quella dei giorni in festi e profesti, cioè festivi e non festivi. Un giorno fasto cadendo in un festivo, perdeva per quel fatto la sua qualità di fasto, cioè di giorno destinato all'amministrazione della giustizia. Ma questa massima fu a mano a mano ristretta, e ad esempio i giorni di mercato, che erano festivi o feriati, furono dalla legge Ortensia, nel 468 di Roma, annoverati tra i fasti; parendo ragionevole che il contadino, venendo in città per l'occasione del mercato, avesse modo di sbrigare in pari tempo le sue faccende giudiziali, approfittando della giurisdizione volontaria del sor pretore.

Il qual pretore, che era il secondo magistrato della repubblica e surrogava i consoli quando essi conducevano in guerra gli eserciti, entrando in uffizio proponeva la formola, o l'editto, secondo il quale doveva giudicare, per tutto quell'anno, delle [281] cose spettanti alla sua giurisdizione. E giudicava lui direttamente, o per mezzo di giudici, scelti nell'ordine senatorio, e delegati da lui per ogni causa speciale. Ma qui sento il bisogno di girar la chiave dell'erudizione; se no, risichiamo di morire affogati. Compirò il ritratto del pretore dicendovi che, oltre la toga pretesta e i sei littori, egli aveva la sedia curule, il tribunale in un luogo elevato del Foro, e l'asta e la spada, simboli del suo dominio e dell'autorità di troncare ogni nodo litigioso. Questi gli onori; quanto alle noie, sappiate che aveva poche vacanze, non potendo che per lo spazio di dieci giorni assentarsi da Roma.

Quella mattina, adunque, Marco Rutilio Cordo, pretore urbano, andava al suo tribunale, per giudicar lui in persona. Si trattava d'una causa importante per sè stessa e pel nome dell'oratore. I lettori, che indovinano tutto, solo che siano nulla nulla messi sulla strada, hanno già indovinato che l'oratore era Cicerone, e che la causa era quella di Tizio Caio Sempronio co' suoi creditori degnissimi.

Ma quand'anco non lo avessero indovinato, lo argomenterebbero ora dalle parole che andava borbottando tra sè, alla guisa dei vecchi, il nostro ottimo Marco Rutilio, nel recarsi al suo posto.

— Quel povero Caio Sempronio! Lo vedo brutto, ma brutto assai, malgrado l'ingegno del suo avvocato. Infine, e che perciò? Roma ha bisogno di qualche esempio. E non è forse tempo di mettere il cervello a partito a tutti questi pazzi scialacquatori? Quanto agli usurai, non lo nego, sono la [282] peste della città. Ma nel caso nostro è proprio vero che l'usura ci sia? Non liquet. —

Non liquet era la frase di rito dei giudici, quando non constava loro del fatto, e non ci vedevano chiaro, nè per assolvere, nè per condannare. La tabella che recava incise le lettere N. L., iniziali delle due parole in discorso, equivaleva ad una delle moderne assolutorie per mancanza di prove.

Nelle vicinanze del Foro c'era già una gran ressa di popolo. Le Dodici Tavole avevano stabilito che ogni giudizio dovesse incominciarsi prima del mezzogiorno, ed era già mane ad meridiem, cioè a dire mancava un'ora al punto legale. Patroni e clienti, curiosi d'ogni sorte, villani, causidici, cavalocchi e via discorrendo, si affollavano tutti agli accessi del Foro. E i littori di Marco Rutilio Cordo dovevano ad ogni tratto alzar la bacchetta, per far cansare la gente sul passaggio del magistrato.

— Se vi pare, fate largo, o Quiriti! —

Il principio della frase era una pretta cerimonia. Al popolo romano, ai Quiriti, non si poteva parlare con alterigia, si capisce; ma guai se i Quiriti non avessero obbedito a quella preghiera. Due littori abbrancavano il riluttante; un altro slegava i fasci, e lì, in mezzo alla strada, poteva rompere sulla schiena del mal capitato una mezza dozzina di verghe.

Passando davanti alle Botteghe Vecchie, il grave personaggio ebbe un mezzo trionfo. Tutta la nobil classe degli argentarii e quella nobilissima dei [283] loro sensali, facevano a chi gridasse ed applaudisse di più. Marco Rutilio Cordo ne fu intenerito; i littori adoperarono un po' meno la bacchetta e permisero che uno dei più fervidi ammiratori baciasse al magistrato il lembo della toga pretesta.

Quella dimostrazione era un'alzata d'ingegno di Servilio Cepione, di Furio Spongia e degnissimi sozii. Tutti que' furbi di tre cotte conoscevano il debole del pretore, o, per dir meglio, l'animo umano, che ha, dopo tutto, qualche buona qualità. Ora, non è chi lo ignori, sono appunto le buone qualità che spesso lo fanno operare alla rovescia. E voi, lettori, immaginate l'effetto che tutte quelle grida e genuflessioni dovevano avere sull'animo di Marco Rutilio Cordo. Quei poveri argentarii, che gli procacciavano lì per lì una specie di trionfo, non meritavano essi un po' di riguardo?

Si vobis videtur, discedite, Quirites! — ripeterono finalmente i littori, cercando di allontanare, col miglior garbo possibile, quei ferventi acclamatori.

La traduzione della frase non ve la dò, perchè l'avete avuta in anticipazione poc'anzi.

Con le accoglienze fatte al pretore contrastavano in modo singolare quelle che otteneva pochi minuti dopo, dalla classe degli argentarii, il gran Cicerone. Lo guardarono a squarciasacco, mentre egli passava, seguito dalla turba de' suoi clienti ed ammiratoti, ed io sarei quasi per giurare che, se non ci fosse stata questa guardia rispettabile intorno a lui, Publio Clodio e Sergio Catilina [284] avrebbero trovato, non uno, ma un centinaio di vendicatori.

Del resto, il grand'uomo era avvezzo a simili scene, e non se ne curava più che tanto. Inoltre, la riverenza di tutti gli altri frequentatori del Foro lo pagava di quelle bizze, a misura di carbone. Tutti s'inchinavano davanti a lui; la più parte dei campagnuoli si scoprivano il capo. Non era egli uno dei loro? Nato in Arpino e venuto povero in Roma, non aveva fatto passi da gigante, fino a meritare il nome di padre della patria, decretato a lui dal Senato? E veramente l'insigne oratore filosofo si avviava allora a meritar la sua fama di gran cittadino, più che non avesse fatto in passato, con le sue debolezze per Cesare e Pompeo, ambedue tiranni e laceratori della patria. Le sue dubbiezze, le esitazioni e le vanità erano già per isvanire; lo spirito suo, purificato dall'amor patrio, doveva sfolgoreggiare nelle filippiche contro Antonio, aguzzarsi in una guerra disperata per la libertà e la grandezza di Roma. Vano tentativo! Mancava la fibra per le grandi virtù. Operare e patire da forti, non era più il motto dei discendenti di Muzio Scevola. Farsaglia non vide che i tralignati eredi delle antiche famiglie, noti per burbanzosa ignoranza, dispregio d'ogni savio consiglio, e desiderio di vendette feroci. Nè in città doveva rimanergli nulla di meglio; i giovani di buona indole erano della forza di quel suo cliente, che aveva ereditato da suo padre una sostanza di quattro milioni di sesterzi e ne aveva scialacquati cinque in due anni.

[285]

Il nostro giovane eroe non era più quello di prima. Gli mancava quella baldanza che traluce dagli occhi dei felici e li addita di schianto all'invidia dell'universale. Per altro, si conteneva come poteva meglio, e simulava, nel continuo sorriso, una sicurezza, che gli osservatori più accorti non vedevano sostenuta dalla serenità dello sguardo.

Era stato in que' giorni da parecchi amici suoi per aiuto. Ma tutti quei giovani eleganti, suoi fidi compagni del buon tempo, suoi convitati di ogni giorno e suoi debitori per ragguardevoli somme, lo avevano messo pulitamente fuor di speranza. Giunio Ventidio era sempre disperato, quantunque vivesse da gran signore, e non poteva imprestargli un sestante, che era la sesta parte di un asse. Quanto a Postumio Floro, il suo rifiuto merita di essere raccontato per botta e risposta.

— Caro mio, tu domandi vino ad un otre sgonfiato. Son tuo debitore, lo ricordo benissimo, ed è anzi uno dei miei ricordi più grati. Ma infine, quando non ce n'è....

— Hai pure ereditato da tuo zio quei poderi in Sabina!

— Ah sì, parliamone, di quella eredità! Boschi, dove non c'è più un albero da tagliare, grillaie, sterpeti, campi visitati dalla grandine quattro volte all'anno, e per giunta un castaldo che mi sa di ladro a cinquanta miglia discosto. Se tu volessi cedermi il tuo Lisimaco! Quello è un uomo veramente prezioso! Ti sei rovinato, è vero; ma [286] puoi dire almeno di averteli mangiati tutti da per te....

— Non tutti, non tutti! — osservò malinconicamente Caio Sempronio. — Sono stato aiutato. —

Postumio Floro senti il colpo; ma non si dispose perciò a mutar di registro.

— Se tu parli per me, — rispose egli, — hai torto. Un servizio reso è un servizio reso, a patto di non essere rinfacciato. Mi rimetterò in gambe, e ti restituirò i trentamila sesterzi.

— Quarantamila, se non erro; — notò Caio Sempronio.

— Ah sì, quarantamila. Io non ho mai avuta una gran memoria, pei numeri. Quanto all'esser pagato un giorno o l'altro, contaci su. Ho risoluto di cangiar vita; diventerò un uomo grave; mi farò campagnuolo; darò dei punti a Catone; sarò io il mio arcario, il mio dispensatore, il mio tutto. Oh, la farò vedere a molti, che mi credono un dappoco. Già, sotto il romano, l'agricoltore c'è sempre, ed io seguirò l'esempio di Cincinnato. A proposito, e perchè non faresti anche tu la tua metamorfosi?

— A qual pro? E su che? — disse Caio Sempronio. — Per condurre l'aratro, ci vuole anzi tutto... l'aratro, e i quattro jugeri di terreno. Ora, io non mi trovo più a possedere nè questi, nè quello.

— La cosa cambia aspetto; — sentenziò con breviloquenza spartana Postumio Floro.

E il nostro cavaliere non ebbe modo di cavarne più altro.

[287]

Restava l'amico Numeriano, il gentile poeta, a cui Tizio Caio aveva così liberalmente regalato un podere. Ma il poeta, vedutolo una volta per via, s'era voltato dall'altra banda. Ed egli, del resto, non sarebbe mai andato a cercarlo, dopo quel certo guaio notturno.

Ma perchè, domanderete voi, Cinzio Numeriano riteneva quegli orti, dono di un amico infedele? Ahimè, debolezze umane! Cinzio Numeriano lo avrebbe fatto di gran cuore, anche a risico di passare per un carattere inverosimile agli occhi dei critici; ma c'era Delia di mezzo, Delia che lo amava già poco, e lo avrebbe amato anche meno, fors'anche piantato, se fosse caduto in miseria.

La bella Greca, entrata per quella porta che vi ho detto nel consorzio delle matrone romane, si era fatta assai prontamente al costume di tante e tante altre. Già si diceva per Roma che la bionda signora non vedesse di mal occhio il nobile Postumio Floro, quel tale che nelle ombre degli orti Ventidiani aveva spiate le sue notturne passeggiate con Caio Sempronio. È proprio così come io ve la racconto, o lettori. Certi ripeschi amorosi non hanno altro principio che il timore d'una donna e il disprezzo di un uomo.

Torniamo a Caio Sempronio. Dopo aver picchiato inutilmente all'uscio dei suoi debitori, si era rivolto ad Elio Vibenna. Quel sapiente gustatore di vino non gli doveva nulla, non gli era legato da altr'obbligo, fuor quello di parecchi inviti a cena. Poteva dunque non essere ingrato.

[288]

E non lo fu davvero, quel bravo Elio Vibenna. Udito il bisogno dell'amico, gli offerse liberalmente un migliaio di sesterzi, poco meno di dugentocinquanta lire; una gocciola al mare!

Caio Sempronio aggradì il buon volere, non i mille sesterzi. Egli era tuttavia nel possesso dei suoi fondi, quantunque da un giorno all'altro gli dovesse venir tolto, e non sapeva che farsi dei pochi.

Intanto quelle scenette cogli amici gli avevano fatto conoscere il mondo, e la stizza si era trovata nel cuore di lui al paragone con la nausea. Il nostro povero eroe se n'andava quel giorno al Foro, fidando poco nella sua causa, quantunque difesa da Marco Tullio, ma fermamente risoluto di non mostrarsi avvilito, di rider lui, prima che ridessero alle sue spalle i cattivi e gli sciocchi.

Ed eccovi perchè, andando al fianco di Marco Tullio, il nostro cavaliere simulasse nel sorriso quella tal sicurezza, quantunque gli occhi si vedessero smarriti e confusi.

Il pretore Marco Rutilio Cordo era già salito sul suo tribunale, e aggiustava in dotte pieghe i lembi della toga pretesta sulla sedia curule, scanno con gambe a ìccase, da potersi aprire e chiudere, intarsiato d'avorio e d'oro. I sei littori s'erano piantati a tre per lato intorno al tribunale; gli accensi, specie di uscieri, avevano annunziata ad alta voce la causa e chiamavano le parti in giudizio.

Ho detto specie d'uscieri, e mi spiego; se no, [289] questa benemerita classe di cittadini potrebbe vedere in me un uomo non disposto a farle tutto l'onore che le è dovuto, e per tante ragioni. Gli accensi, così detti ab acciendo, ossia dal chiamare, erano uffiziali civili, addetti al servizio dei consoli, dei pretori e dei governatori di provincie, e spettava loro di convocare il popolo alle assemblee, di chiamar le parti impegnate in una causa davanti al tribunale, di mantenervi l'ordine, ed anche, per variare un pochino, di gridar l'ora all'alba, al meriggio e al tramonto.

Un'altra forma d'uscieri erano i praecones, o banditori, usati anch'essi a citare il reo e l'accusatore, ma forse più specialmente nelle cause criminali, e a proclamar la sentenza; a chiamar le centurie al voto, nei comizi, e a gridare il voto d'ogni centuria e il nome degli eletti; a fare il servizio dell'asta pubblica, dei giuochi circensi e delle pubbliche assemblee; a precedere con la tromba i funerali solenni, e finalmente a gridare sulle piazze gli oggetti smarriti. Un mestiere da cani, come vedete!

Le parti erano presenti; da un lato i creditori, Servilio Cepione, Crispo Lamia, Furio Spongia e due altri della combriccola; dall'altra il convenuto Tizio Caio Sempronio, assistito da Marco Tullio Cicerone, accompagnato da Lisimaco, il suo arcario, e da Elvio Sillano, che non ci aveva veramente che fare, ma che ottemperava ad un desiderio di sua moglie, dando al cavaliere quella testimonianza d'amicizia.

[290]

Esposta dal pretore la causa, letta dall'accenso quella parte dell'editto pretorio che conteneva la legislazione di quell'anno rispetto ai debitori, Servilio Cepione e i suoi compagni deposero i loro titoli di credito. Caio Sempronio, come mi pare di avervi detto a suo luogo, si era impegnato con altrettanti chirografi a restituire a tutte quelle brave persone il danaro tolto ad imprestito, assicurandone il pagamento sui fondi a lui pervenuti dalla eredità di suo padre.

Le carte parlavano chiaro, e non c'era verso di storcere il senso delle parole.

L'arcario Lisimaco, invecchiato di dieci anni in un punto, offerse con mano tremante il testamento del vecchio Caio, e i libri dell'entrata e dell'uscita, donde appariva il valore dei fondi in quistione.

Su questi libri s'impegnò la prima scaramuccia. Gli attori non ammettevano la validità dei conti, fatti com'erano e presentati dalla parte del convenuto. Ma fu agevole a Marco Tullio di ridurre gli avversarli al silenzio, accennando come quei conti annuali rispondessero perfettamente al valore assegnato al patrimonio nel testamento di Caio, e alla stima fatta dai periti, quando il giovine Tizio Caio Sempronio aveva contratti i primi debiti ipotecarii, per la somma di due milioni di sesterzi.

Era una magra vittoria, perchè, anche secondo la stima antica, il valore del patrimonio non sarebbe bastato a coprirvi i cinque milioni di sesterzi, che formavano il debito complessivo del suo povero [291] cliente. Ma il facondo oratore sperava di provare il fatto della illecita usura, e di restringere quel debito a più modeste proporzioni. Ora la prima vittoria gli faceva sperar bene del resto.

[292]

CAPITOLO XXII. Sulle ventitrè e tre quarti.

Il valentuomo parlò per tre ore alla fila, con quella abbondanza punto volgare, e con quella concitazione, forse un tantino retorica, ma sempre efficace, che formavano il pregio singolare di tutte le sue orazioni. Chiaro e preciso nella esposizione del fatto, accorto nel dissimulare i lati deboli della sua argomentazione, fu vivacissimo nella dimostrazione, flagellando a sangue gli argentari, contro i quali, raccolte tutte le prove e gli indizi che per lui si potevano, invocò il rigore delle Dodici Tavole. La legge parlava chiaro: «se taluno dà a prestito oltre il dodici per cento, sia condannato nel quadruplo.»

E qui, lasciando le prove, seguiva un caldo elogio delle Dodici Tavole, fonte d'ogni pubblico e privato diritto, e insegnamento necessario, che a ragione i cittadini romani imparavano a memoria, [293] fin dalla più tenera età. «Insieme con le leggi civili e coi libri dei pontefici, la raccolta delle Dodici Tavole ci offre (diceva l'oratore) l'immagine intiera dei tempi antichi; ci si trova la vecchia lingua dei padri nostri, e certe forme di azioni usate allora ci fanno entrare nei loro costumi e nel loro modo di vivere. Il governo della cosa pubblica è tutto in quelle leggi, come vi è compresa tutta la filosofia. Le leggi, infatti, son quelle che c'insegnano a cercare e a pregiare sopra ogni altra cosa la virtù; in esse è il premio al valore, all'onestà, alla giustizia; in esse hanno i vizi e le frodi la loro ammenda, l'ignominia, il carcere, le verghe, l'esilio e la morte. E non già per via di lunghe ed oscure argomentazioni, bensì per la loro autorità suprema e le loro decisioni imperative, esse c'insegnano a padroneggiare le nostre passioni, a frenare i nostri desiderii, a difendere le nostre proprietà, e a non recare sull'altrui le avide mani, od anche un solo sguardo di cupidigia. Gridi ognuno a sua posta, io dirò tuttavia ad alta voce il mio pensiero. Sì, il libro delle Dodici Tavole, sorgente e principio delle nostre leggi, vale esso, da solo, e per la sua ragguardevole autorità e per la sua feconda utilità, tutti i trattati di filosofia. Quanto i nostri maggiori andassero innanzi per sapienza a tutte l'altre genti, assai facilmente intenderete, quando vi piaccia di paragonare le nostre leggi con quelle dei loro Licurghi, Draconi e Soloni. È veramente incredibile, quanto ogni legislazione civile sia, a petto della nostra, grossolana e direi quasi ridicola.»

[294]

Marco Tullio era scaltro, come vedete. Gli avversarii invocavano contro il suo cliente le Dodici Tavole, ed egli vinceva la mano agli avversarii, facendosi primo a lodarle. Inoltre il pretore Rutilio Cordo aveva dato fuori pel suo anno di magistratura un editto, il quale non era altro che una parafrasi di quelle vecchie leggi; e a quell'uomo bisognava entrargli nelle grazie con ogni maniera di artifizi.

«Mi volgo a te, — proseguiva Cicerone, — mi volgo a te, Marco Rutilio, uomo santissimo, del quale io dubito se sia nato mai in Roma nostra il più umano nei costume, il più retto nell'operare, il più ossequente alle leggi, donde ha saldezza d'ordini e fondamento di grandezza la repubblica. Mi volgo a te, arbitro della giustizia, e chiedo se i nostri giovani spensierati, appunto per questo difetto dell'età, che gli anni troppo facilmente correggono, debbano sottostare all'imperio degli uomini perversi, che delle sante leggi si giovano per dar lusinghe e via facile allo sperdimento delle ricchezze. Sian severe le leggi, e lo sembrino anche di più; non io me ne dolgo, ben sapendo come giovi, più del loro medesimo peso, il santo terrore che incutono ai trasgressori. Ma appunto perchè sono severe, noi dobbiamo sperarle benigne per noi. Gravi furono fatte dai nostri maggiori, non perchè colpissero i buoni, fuorviati dalla imprudenza propria, o dal raggiro altrui, ma perchè il loro rigore cadesse tutto sui raggiratori e sui tristi.

«Questo che io dico, tu credi, ed hai mostrato [295] d'intenderlo in quel tuo sapientissimo editto, che durerà certamente nella memoria dei posteri, quanto il ricordo delle sante tavole a cui esso s'informa. Oh veramente anno fortunato per Roma, quello in cui tu conseguisti la pretura, perchè la tua giurisdizione, raffermando l'imperio della legge, insegnerà le vie del ravvedimento ai giovani nostri, dimentichi dell'antica severità di costume, e colpirà in pari tempo i malvagi adescatori della gioventù inesperta, ai quali sembra (e in ciò, per Giove, s'ingannano!) che i nostri venerandi maggiori per altro non abbiano sudato intorno alle fonti della giustizia, se non per coprire i loro artifizi e secondare i loro feroci appetiti.»

Questa era la chiusa. E dietro la chiusa venne il plauso del popolo, che soverchiò per un tratto le vociferazioni del partito degli argentarii. L'arringa aveva fatto, come si direbbe ora, una profonda impressione; ma non aveva demolito l'edifizio dell'accusa, nè distrutti ad uno ad uno gli argomenti della parte avversaria; miracoli che si operano adesso, con tanta facilità, da ogni avvocato novellino.

Il pretore Rutilio Cordo impose silenzio e l'ottenne. Le lodi del grande oratore gli andarono all'anima, non debbo tacerlo; ma egli poteva cavarsela con un cenno di ringraziamento. Il magistrato sapeva benissimo che quelle lodi non costavano molto all'avvocato, e che, dopo tutto, la ricompensa gliel'avrebbe potuta dare in un'altra occasione. Sono tante, le buone occasioni, tra l'avvocato ed il giudice! Nè questi è sempre convinto [296] di aver dato fuori una buona sentenza, nè quegli di aver detta la verità, quantunque ne simulasse l'accento. I fiumi di eloquenza consolano i clienti e le turbe, nell'aula magna della giustizia; gli àuguri, poi, incontrandosi dietro l'altare, non possono trattenersi dal ridere.

Si aggiunga che i giudici hanno sempre avuto per costume di fare a modo loro, senza darsi pensiero delle arringhe. Qualche volta, mentre gli avvocati si accapigliano alla sbarra, il buon magistrato schiaccia il sonnellino dell'innocenza, dietro alla pietosa catasta dei codici. Ma allora non si poteva farlo, come ora. Davanti al pretore non c'era un pezzo di tavola, e la sedia curule non aveva spalliera.

La qual cosa vedano i giudici moderni se possa stare a prova di superiorità degli ordini giudiziarii antichi sui nostri. Io vengo difilato alla sentenza del mio dolce pretore.

Considerato che il debito era di cinque milioni di sesterzi, mentre la sostanza del debitore non oltrepassava i quattro; considerato che non constava per certe prove avere i creditori ingrossato il debito con illecita usura, si condannava il cavaliere Tizio Caio Sempronio a pagare. E perchè i due primi creditori, che avevano già ottenuta la missio in bona, potevano soli essere pagati per intero, come portava l'anteriorità del loro credito, mentre gli ultimi tre risicavano di perdere una grossa parte del loro avere, si accordava a questi ultimi, per guarentigia del credito, di impossessarsi del debitore, salvo il caso che [297] non si presentasse qualcheduno a farsi mallevadore per lui.

Marco Tullio doveva prevedere questa sentenza, perchè non mostrò di esserne meravigliato. Si volse in quella vece ad Elvio Sillano, e gli bisbigliò all'orecchio:

— Ecco il buon punto; offriti mallevadore per l'amico. —

Elvio Sillano, a dir vero, non si aspettava un tiro di quella fatta. Sua moglie lo aveva spinto ad accompagnare Caio Sempronio, ed egli in molte cose, anzi nella più parte, faceva quel che voleva sua moglie; in tutte le altre, poi, faceva quel che non voleva lei direttamente, ma che gli suggerivano i consiglieri di seconda mano, dopo aver presa l'imbeccata da lei. Ma bisogna anche dire che ad un così grave esperimento non era mai stata messa la sua infinita bontà.

— Eh.... — diss'egli titubante, — la cosa non sarebbe mica impossibile. Vediamo un po', per che somma m'impegnerei?

— Un'inezia; — rispose Cicerone; — un milione di sesterzi. Che cos'è infatti un milione di sesterzi per un riccone tuo pari?

— Nè più nè meno d'un milione di sesterzi; — replicò il brav'uomo, che non era del tutto uno scemo. — E già si capisce, io perderei questa somma senz'altro?

— Non dico di no. Ma se i poderi del tuo povero amico si vendessero per un prezzo superiore ai quattro milioni, tu verresti a perdere quel tanto di meno.

[298]

— E se si vendessero ad un prezzo inferiore?

— Non è probabile.

— Ma è possibile, tuttavia.

— Eh, non lo nego; — disse Cicerone, chinando la testa.

— In questo caso, — ripigliò Elvio Sillano, — io ci perderei anche più di un milione. Grazie infinite!

— Dunque?

— Dunque, non ne faremo nulla. I miei vecchi non mi hanno insegnato a correre rischi così grandi. —

Frattanto, per ordine del pretore, l'accenso si faceva innanzi a gridare:

— Cittadini, nessuno di voi si fa mallevadore pel convenuto? —

Nessuno fiatò.

Allora il pretore Marco Rutilio Cordo pronunziò le parole solenni con cui era chiuso il giudizio.

— Servilio Cepione, Furio Spongia, Crispo Lamia, la legge vi consente di prendere in pegno la persona del vostro debitore. —

Quelle tre arpie non se lo fecero dire due volte, e posero l'unghie addosso a Caio Sempronio con tanta furia, che tutti gli astanti diedero in uno scoppio di risa.

In quella risata universale andò perduto quel po' di compassione, che in ogni altra circostanza non sarebbe mancata al povero condannato. Ma già, dove ha potere il numero, basta un nulla per isviarne i moti, e portarlo alla crudeltà, all'ingiustizia, [299] alla dimenticanza, e, per farla breve, a tutte le altre virtù cardinali dell'uomo.

Aggiungete che Tizio Caio Sempronio aveva in quei pochi anni di sfolgoreggiamento dato troppo da fare all'invidia. Non si era meritato con la saviezza e la temperanza sua la stima dei grandi, e con le eleganti follie, i vistosi trionfi, la bellezza e la salute (sì, perfino con la salute) si era attirato gli odii dei piccoli. Finalmente, era punito, quel vanaglorioso Alcibiade, che offendeva tutti col suo fasto! Era scoppiata, quella bolla di sapone, che si librava così pomposamente in aria, facendo mostra de' suoi vaghi colori!

Marco Tullio si accostò al suo cliente, gli strinse la mano e gli disse una parola di conforto.

— Spera, o Caio; tutto non è anche perduto. —

Cepione rizzò la testa e si fece rosso peggio di un basilisco, a quella frase del grande oratore, che pareva una sfida al suo diritto, riconosciuto poc'anzi solennemente dalla sentenza del magistrato.

— Pretore, — gridò egli con quanto fiato ci aveva in corpo, — la legge ci assiste, non è egli vero! Noi possiamo condurre con noi il debitore e caricarlo di catene, del peso di quindici libbre?

— Lo potete; — rispose il pretore, che non era un erudito dei tempi nostri e non si smarriva alla ricerca d'una apocrifa legge Petilia Papiria, che proibisse l'uso dei ceppi pei debitori condannati. — Se il debitore vuol vivere a sue spese, lo faccia; se no, dovrete nutrirlo per sessanta giorni, dandogli almeno una libbra di farina al giorno. [300] Nella prima metà di questo termine egli potrà liberarsi, o pagando, o transigendo....

— Resta a vedersi se vorremo transigere; — borbottò Cepione.

— Nella seconda metà, — proseguì il magistrato, — voi dovrete per tre giorni di mercato condurre il debitore davanti a me, e annunziare pubblicamente la somma del debito, se mai si presentasse qualcuno a liberarlo. Se anche il terzo di questi esperimenti non riuscirà a nulla, dovrà cessare la prigionia; voi rimanderete libero il prigioniero, salvo che non vogliate cancellarlo dal novero dei cittadini, o con la schiavitù, vendendolo di là dal Tevere, o con la morte, prendendo sul suo corpo la parte che spetta a ciascheduno di voi. —

La legge era dura, ne convengo. E ne convenivano anche gli antichi Romani, che hanno inventato il proverbio: «dura lex, sed lex,» insegnando così a rispettare le leggi, anche quando paressero acerbe.

Parecchi autori moderni, disputando su questo diritto di fare a spicchi un debitore insolvibile, hanno sostenuto che si trattasse soltanto d'una minaccia. Ma oltre che gli antichi scrittori la prendono tutti sul serio (e mi basterà citare Aulo Gellio, Quintiliano e Tertulliano), noto che contro l'opinione dei sullodati moderni sta anche un raffronto di questa legge con altre delle Dodici Tavole e con molte di secoli posteriori, quando il diritto romano era giunto all'apogèo.

Vediamo anzitutto le Dodici Tavole. Son puniti [301] di morte gl'incendiarii, i falsi testimoni, i diffamatori, gli stregoni, i ladri notturni. C'è anche la legge dell'occhio per occhio e del dente per dente. «Se alcuno rompe un membro ad un altro, e non s'accomoda con lui, subisca la pena del taglione».

Andiamo avanti; il codice Teodosiano punisce di morte i debitori del fisco e tutte l'altre specie di debitori, quando per vizio di sregolatezza siano divenuti insolvibili. E Valentiniano, dal canto suo, dannava a morte tutti i debitori che per cagione di povertà non fossero in grado di pagare.

E qui, poichè m'è occorso di accennare una incerta legge Petilia Papiria, dirò che essa, se pure è autentica, risguarda soltanto una restrizione del diritto che aveva il creditore a mettere le mani addosso al debitore, prima che questa manus injectio gli fosse consentita pro judicato, cioè a dire dopo una sentenza del pretore. Se ne ha notizia da un passo di Tito Livio, dove racconta, all'anno 428 di Roma, essendo consoli Caio Petilio e Lucio Papirio, che, vedute le sevizie di un usuraio sulla persona del giovinetto Publilio, datosi spontaneamente prigione per un debito del padre, il senato commise ai consoli di proporre al popolo una legge, per la quale nessuno fosse più tenuto nei ferri, se non lo meritasse per colpa commessa e per iscontare una pena. Livio non dice espressamente che i consoli abbiano poi proposta la legge; ma, sia pure stata proposta e vinta, essa non risguarda che un caso di cattura stragiudiziale e non infirma punto il.... Diavolo! Diavolo! O vedete un po' dove ero andato a ficcarmi!

[302]

Schiarito il punto controverso, vi dirò che il nostro povero Tizio Caio Sempronio rimase pro judicato in balìa dei suoi creditori feroci, che lo trassero via pel Foro, in mezzo agli scherni, ai fischi, agli applausi e alle grida d'ogni genere, di quello che i poeti hanno chiamato «il mobil volgo».

Marco Tullio Cicerone, passata quella burrasca, se ne andò pei fatti suoi. Era un po' triste, il grand'uomo, perchè aveva preso ad amare quel giovane sventato, e perchè nella rovina di lui vedeva la mano di Clodia Metella, di quella Venere spogliatrice, che invano egli aveva svergognata pochi anni addietro, al cospetto di tutta Roma, nella memoranda difesa di Celio Rufo. Ma, dopo tutto, quella battaglia perduta era un semplice episodio nella sua vita forense; e di sconfitte ce n'erano state parecchie, tra l'altre quella recente per Annio Milone, che ancora non aveva potuta mandar giù. Ora, lo dice un proverbio latino, dov'è il più, non si tien conto del meno.

Assai più confuso e impacciato di lui, se ne andò a casa Elvio Sillano. Come avrebbe egli raccontato l'accaduto a quella brontolona di sua moglie?

Ma ella sapeva già tutto, quando il marito le capitò davanti con quella sua cera ingrullita, e gli diede un assalto così violento, che il brav'uomo si riscaldò a sua volta e trovò lì per lì una fermezza che in ogni altra occasione gli sarebbe mancata.

— Uomo senza cuore! — gridava la bella patrizia [303] inviperita. — Per colpa tua egli è ora in mano a quei tristi, che lo tormenteranno.... lo uccideranno....

— Oh questo poi! — interruppe Elvio Sillano. — Lo venderanno, ecco tutto; e noi lo compreremo.... se pure vorranno calare un tantino i prezzi, e non domandarne un milione di sesterzi. Quanto ad ucciderlo, che tornaconto ci avrebbero?

— Per vendetta si può fare di peggio; — rispose la moglie. — Tu sai che Cepione era geloso di lui. Fino a tanto che ha avuto da spennacchiare, non ha fiatato; anzi è corso negl'imprestiti un poco più in là del bisogno, tanto per averlo in suo potere. E grazie a te, gli è riuscita.

— Ma infine, ragioniamo; dovevo io mettere a repentaglio una metà, un terzo delle mie sostanze, per accomodare i pasticci d'uno sventato, che conoscevo a mala pena da due mesi? —

Giunia Sillana diede al marito un'occhiata di profonda commiserazione.

— Tu sei un codardo, o Elvio. Non hai capito che Caio Sempronio è uno di quegli uomini che non cascano per sempre, e che c'è vantaggio a dar loro una mano. Ora egli, per la tua sciocca paura, perde la fama e la libertà. Clodia Metella vuol ridere saporitamente di lui... e di noi! Ah, quanto mi sarebbe più caro che tu fossi stato meno liberale in altre cose con me! Quella villa a Pompeia! Quella schiava di Mileto pel mio giorno natalizio!....

— Tutte cose che costavano assai meno, mia [304] bella; — rispose Elvio Sillano; — ed io potevo regalartele, senza pericolo di andare in rovina. —

Giunia Sillana si avvide che da quella parte non c'era più nulla da fare, e lasciò di rammaricarsi. Un'ora dopo, la bella matrona usciva di casa, dopo aver fatta annunziare la sua visita al console Sulpizio Rufo. E non è a dire come l'egregio uomo si rallegrasse di quella inaspettata ventura.

[305]

CAPITOLO XXIII. Dopo la sentenza.

Abbiamo lasciato il nostro eroe sotto il peso della sentenza pretoria, e non ci siamo neanche fermati a dire con che animo l'avesse accolta. Ma questo s'immagina facilmente. Caio Sempronio era andato al Foro con poca speranza di vincere, ma quella poca gli bastava per non prevedere un colpo così grave. E mentre sperava che l'eloquenza di Cicerone facesse condannare i suoi creditori come usurai, o che almeno il suo amico Elvio Sillano volesse offrirsi mallevadore per lui, ecco, gli capitava tra capo e collo la mazzata, si sentiva ghermito dalle luride mani di Servilio Cepione e dei suoi brutti colleghi.

A quel tocco improvviso si scosse, e un senso di paura gli scorse per tutte le fibre. Ma in pari tempo gli sovvenne che era in un luogo pubblico, al cospetto di mille, e rialzò fieramente la testa, [306] come per far fronte al destino con la dignità del silenzio. Era la mano di Cepione, quella che si era posata sulle sue spalle; ma egli sentì la mano di Clodia Metella, di Clodia Metella, che oramai gli appariva ciò che veramente era, un vile strumento degli argentarii. Forse era da credersi che quella Venere spogliatrice gli avesse voluto un po' di bene, in mezzo a tutti gli artifizi che le erano comandati dal suo mestiere di adescatrice, e che ciò avesse destato la gelosia di Cepione; altrimenti, non si sarebbe potuto spiegare l'accanimento dell'usuraio contro di lui.

Come mai era penetrato l'amore in quella montagna di carne? Caio Sempronio ci perdeva il filo. Forse non era amore, quello di Cepione, ma vanità offesa, che è peggio. Comunque fosse, il povero Caio Sempronio era diventato lo schiavo, l'addictus di quell'uomo e de' suoi due prestanomi.

E andando in mezzo a loro, pensava con raccapriccio al futuro. Chi lo avrebbe riscattato dalle loro mani per una somma così ragguardevole, come quella che formava lo scoperto de' suoi debiti? Valeva egli il sacrifizio d'un milione di sesterzi? E avrebbe trovato l'amico compassionevole, o il matto, che si scomodasse a tal segno per lui?

Il nostro povero cavaliere si vedeva già fatto a spicchi. Le Dodici Tavole parlavano chiaro. «Se più saranno i creditori (e questo era proprio il suo caso), scorso il terzo giorno dei mercati, lo facciano in pezzi; se qualcheduno ne tagliasse più o meno, non sia incolpato di frode.»

Tre spicchi, adunque, perchè i creditori erano [307] tre. Questa la prospettiva, e non c'era mica da scherzare. Al nostro prigioniero tornava in mente quel certo pugillare di Clodia Metella, dal quale aveva avuto principio la loro relazione. «Stimo te grandemente, nè l'ho taciuto in alcuna occasione; fors'anco sarà giunto alle tue orecchie. Alle mie è giunto un sogno, niente più d'un sogno; ma tu sai quanta fede debba prestarsi a questi avvertimenti del cielo. Una mia schiava prediletta ha sognato di te, che eri fatto in tre pezzi da uomini assetati del tuo sangue. Ho tremato in udire il racconto della sua visione, e non ho potuto resistere al desiderio, nè voluto sottrarmi all'obbligo di avvisarti. Chiedi ai matematici, e godi le prospere Megalesi; è il mio voto.»

Caio Sempronio era superstizioso come tutti gli antichi Romani. I lettori rammentano che, appena ricevuto lo strano viglietto di Clodia Metella, egli aveva interpretato il sogno col fatto dei tre amici, che volevano danari da lui. E certo, allora come allora, la spiegazione poteva bastare. Ma adesso, che tristo lume non riceveva il sogno dalla sentenza di Marco Rutilio Cordo? O non si sarebbe detto che quel sogno era una profezia, da dar dei punti ai famosi libri della Sibilla?

Alla Sibilla ci penso io, raccontando. Ma non ci pensava di sicuro il nostro povero eroe, che aveva ben altro pel capo. Uscì dal Foro, sempre in mezzo ai suoi argentarii e ad una caterva dei loro clienti, con la fronte alta, guardando tutti e nessuno, e senza che l'animo partecipasse alle impressioni della vista.

[308]

Così in confuso gli parve che alla prima cantonata Cepione lo avesse lasciato, raccomandandolo a qualcheduno, ma non ci badò più che tanto. Andava con la corrente, dove lo portavano i gomiti dei suoi vicini, e non ritornò alla coscienza di sè medesimo se non quando si trovò nell'atrio d'una casa, che non era la sua, ma quella del suo capitale nemico.

Due servi, facce proibite come il loro padrone, lo presero per le braccia e lo condussero in una camera sotterranea, che in altri tempi doveva aver servito da cantina, e il cui finestrino, munito di sbarre di ferro, prendeva lume dal vano del peristilio. Là dentro fu chiuso. Poco stante gli portarono una brocca d'acqua e una focaccia di farina, del peso d'una libbra. Cepione faceva ogni cosa secondo la legge.

C'era buio là dentro, e a tutta prima il nostro prigioniero non ci si raccapezzava. Ma avvezzando gli occhi a poco a poco, vide contro la parete una specie di rialzo, come un letto di fabbrica, che poteva anche, e più facilmente, essere stato un ripiano per collocarvi due o tre botti di fila. Comunque fosse, quello doveva essere il suo letto. Onesto Cepione! Vedete un po' come aveva pensato anche ai comodi del suo debitore.

Si appoggiò alla proda di quella costruzione a doppio uso, incrociò le braccia sul petto e rimase lunga pezza immobile, assorto nei suoi tristi pensieri. Era così nuovo il suo stato! E gli giravano tante cose per la mente confusa! Non aveva coscienza del tempo, nè dello spazio; era qua e là [309] in un punto, col passato e col futuro, che facevano a cozzi nel suo spirito e si scambiavano le parti.

Clodia Metella lo amava e non aveva potuto salvarlo. Era stato chiamato in giudizio, ma Cicerone con una splendida arringa aveva fatto condannare i suoi creditori a pagargli due milioni di sesterzi per la illecita usura. Cepione era scoppiato dalla rabbia. Giunia Sillana lo portava in trionfo. Numeriano cantava la sua vittoria ed egli lo ricompensava col dono degli orti Ventidiani. Postumio Floro gli domandava diecimila sesterzi in imprestito, ed egli lo mandava a quel paese, dopo avergli rinfacciata la sua ingratitudine e il cattivo servizio reso a lui presso Numeriano, il giorno dopo le nozze di Delia. Il suo ritorno in auge gli avea conciliata l'amicizia di tutta Roma; il magno Pompeo lo voleva dalla sua, gli offriva il comando di una legione; Cesare andava su tutte le furie e gli giurava un odio mortale; vinta la fazione di Pompeo, s'impossessava del giovane tribuno, e lo gettava in un carcere.

Si tornava al carcere, come vedete; questo era il triste, l'innegabile vero.

Parecchie ore erano trascorse in quella corsa sfrenata della fantasia vagabonda. Ad un tratto, e mentre il suo pensiero ritornava alla realtà delle cose, il prigioniero fu colpito da strani rumori, che gli venivano dall'alto. Erano grida confuse, ma non d'alterco; la nota dell'allegria risaltava chiaramente da quel pazzo tumulto di suoni.

I nemici di Caio Sempronio banchettavano sulla [310] testa del prigioniero; celebravano la loro vittoria tra i fumi dell'orgia.

Si accostò alla parete, donde col frastuono delle voci gli veniva un filo di luce; si aggrappò alle ineguaglianze del muro e giunse ad afferrare le sbarre che chiudevano il finestrino. Sospeso in quel modo, tese l'orecchio e rimase in ascolto, se mai gli venisse fatto di capirne qualche cosa.

Il triclinio di Cepione non doveva esser molto lontano dal peristilio. Poco stante il prigioniero riconobbe la voce del suo nemico. Servilio Cepione doveva già aver alzato più volte il gomito, perchè quella voce gorgogliava maledettamente; segno che il vino bevuto faceva nodo alla strozza.

— A te, padrona! — gridava l'avvinazzato argentario. — Ti chiamino pure Venere spogliatrice, e quadrantaria, i nostri nemici! Tu sei una donna portentosa, e noi ti faremo una statua. —

Una voce di donna rispondeva a quel brindisi; ma Caio Sempronio non riuscì ad afferrarne una sillaba. Per altro, il suono di quella voce, e più l'allusione dell'argentario, gli fece intendere che quella donna era Clodia Metella.

Lei dunque al banchetto di Cepione! Lei presente a quella invereconda orgia di strozzini! Proprio nel giorno che egli era stato condannato, e certamente non ignorando dove egli fosse rinchiuso! Come era caduta! Come si dimostrava corrotta ed infame!

Ed egli aveva potuto invaghirsi di quella donna; vivere così lungamente ai piedi della quadrantaria, senza vederne la bruttura, senza sentirne il lezzo? [311] La nausea gli venne alla gola e provò il bisogno di bere. Lasciatosi cadere sul battuto, andò a cercare la brocca e tracannò un sorso. L'acqua gli seppe d'amaro e la rigettò in fretta, come se fosse veleno. La sua bocca era amara, non l'acqua; il povero Caio aveva la febbre.

I rumori del convito gli tornavano molesti. Provò a non badarci e volse il pensiero a Giunia Sillana, a quella donna che poteva avere i suoi difetti come tante e tante altre, ma che gli aveva dimostrato un po' d'affezione. Certo, se fosse dipeso da lei, egli non sarebbe caduto nelle unghie di Cepione, non sarebbe finito là dentro. E certo, in quell'ora, in quel punto medesimo, mentre la vile quadrantaria sorrideva procacemente allo stuolo impuro dei suoi nemici, inebriandosi di vino e di scherni, Giunia Sillana pensava a lui e cercava il modo di essergli utile.

Quel pensiero lo confortò un tratto. Si sdraiò sul suo letto di pietra, volgendo la faccia alla parete e stringendosi le palme agli orecchi. Era stanco, sfinito da tante commozioni, e cadde in un sonno profondo. I sogni lo consolarono della realtà. Tornava all'aperto, respirava le aure soavi della libertà, e Giunia Sillana gli stendeva le braccia. In verità, era costei la più bella donna di Roma; non impiastricciata di farina e di minio come quell'altra, che usava levarsi dallo specchio tutta lucente come una figurina di smalto, ma bianca del suo pallore naturale, amabile pallore che rendeva agli occhi la mite bianchezza del marmo. E al marmo poteva paragonarsi la salda maestà di quelle sue [312] forme rigogliose, invidia eterna di tante patrizie, celebrate per bellezza in una città dov'erano così numerose le belle.

E gli occhi, Dei immortali! Dove trovare i più grandi e i più nobilmente pensosi, sotto l'arco maestoso e profondo delle lunghe ciglia? Come un mare tranquillo lascia scorgere le arene dorate del fondo, così quegli occhi mostravano a tutta prima i tesori dell'anima, la pietà e l'amore. E l'una e l'altra cosa erano per lui, gli erano promesse da quegli occhi benignamente rivolti su lui.

Nel più bello, fu risvegliato in soprassalto da un improvviso rumore. L'uscio girava sui cardini rugginosi, e un'ombra nera, spiccando sulla luce rossastra d'una lucerna che dietro a lei era recata da un servo, entrava poco stante nel carcere. Caio Sempronio balzò in piedi, e riconobbe il suo creditore e padrone.

[313]

CAPITOLO XXIV. Un colpo di mano.

Il degno argentario si reggeva male sulle gambe e balbettava alcune frasi sconnesse. L'ubbriachezza era evidente.

— Salve, amico; — gorgogliò Cepione. — Non ho voluto andare a letto, dove penso che mi troverò assai bene.... Il letto è una gran bella cosa e viva la faccia di chi l'ha inventato! Che cosa volevo dirti? Ah, ecco qua, sono venuto a darti la buona notte. Come ti trovi in questa camera?

— Bene; — rispose asciuttamente Caio Sempronio rimettendosi sul suo letto di pietra e guardando filosoficamente il soffitto.

— Non fo per dire, ma è davvero una bella camera; — ripigliò con aria beffarda l'argentario. — Un po' umida, se vogliamo; ma c'ingrasserai, non dubitare, e diventerai bello come il tuo amico Cepione. Vedo che ti mancano ancora gli anelli e la [314] catena. Abbi pazienza; non prevedevo che Marco Rutilio Cordo volesse procurare oggi stesso un così grande onore alla mia casa, e non mi ero preparato. Ma il fabbroferraio capiterà a momenti e ti adornerà di tutto punto, che il dio Saturno medesimo non potrebbe desiderarsi di meglio. Così non sarai più molestato e potrai dormire tranquillo. Vedi che io sono un brav'uomo e ti voglio bene.

— Grazie! — interruppe Caio Sempronio, volgendogli le spalle.

— Non lo credi? Hai torto. Amavo Clodia più di te, si capisce. La crudele matrona aveva dimenticato un po' troppo il suo Cepione. Ma è tornata buonina, sai; regno io, finalmente, nel suo cuoricino. E adesso io mi ricordo di te, ti perdono il ratto della Sabina, e prima d'andarmene a letto, vo' berne un bicchiere con te. Trappola, lascia qui la lucerna e va a prendere una bottiglia di quel buono. —

Il prigioniero capì che non c'era modo di levarselo dai piedi. E vincendo il ribrezzo che gl'inspirava quel furfante, gli domandò:

— Ma come l'amavi tu, quella donna? E se l'amavi, perchè mi hai lasciato andare tant'oltre con lei?

— Perchè?... Oh bella! Mi domandi il perchè? Ragazzo mio, sappi che Cepione, il banchiere, ha sempre amato due cose, le belle donne e i danari. Quale delle due più dell'altra? Non so, non cerco. Vedi, ero povero e brutto.... cioè no, ero soltanto povero, e mi dicevano brutto perchè ero povero. Questi patrizii, pettoruti, pieni di boria, che il canchero [315] se li porti! Ah, pensavano che noi non ci saremmo mai vendicati del loro disprezzo? Cepione li ha tutti in un calcetto. Ah, non sono nobile, io? Sono un mascalzone, un plebeo? V'ha a costar cara, per Ercole! A buon conto, son ricco; il vostro sangue l'ho succhiato io; per questo mi vedete così fatticcione. Chiamatemi pure l'obeso Cepione, la montagna di carne; io mangio bene, bevo meglio, e mi rido di voi. Mi capitate ad uno ad uno tra le unghie; vi scortico, vi levo i pezzi, mi vendico. Già capisco che un giorno o l'altro qualcheduno pagherà per te, ed io perderò la tua amabile compagnia. Ma badino bene, paghino fino all'ultimo sesterzio. Non fo ribassi, io! E se credono che mi manchi il coraggio di rinunziare anche al prezzo di vendita d'uno schiavo, s'ingannano a partito. Lascino trascorrere il terzo giorno di mercato, e giuro a Saturno che ti fo tagliare in tre pezzi, per prendermi la mia parte. Voglio quella tua testolina elegante, hai capito? La voglio; e me la faccio piantare qui, sulle mie spalle, per andare attorno, a innamorare le patrizie di Roma,... anche quelle che non sono quadrantarie.

— Starà male la mia testa, piantata su quell'otre gonfiato; — osservò Caio Sempronio. — Sai che cosa ti converrebbe di più? D'impiccare ad una trave quel tuo corpaccio di Sileno, e di figurarti che la tua anima sozza sia entrata nel mio.

— Ah, ah, burlone! — gridò l'argentario, colto in pieno dai sarcasmi del suo debitore. — A buon conto, questo corpaccio ha preso il tuo posto.... dove tu sai.

[316]

— E di ciò ti ringrazio; — riprese Caio Sempronio. — Mi ci trovavo male, e fu colpa mia, imperdonabile colpa, di non essermene avveduto un po' prima.

— Che cosa intenderesti di dire?

— Niente che ti riguardi. Va, adesso; Clodia ti aspetterà.

— Sicuro che mi aspetta! Me lo ha detto poc'anzi: «Servilio, anima mia, passerino mio, fa presto, non perdere il tempo con quello sciocco sdanaiato del tuo prigioniero.» —

Caio Sempronio non rispose verbo a quello sfogo di vanità. Il ricordo del passero gli fece venire in mente Catullo.

— Povero poeta! — diss'egli tra sè. — Come è caduta giù la tua Lesbia! —

Intanto giungeva il Trappola con una bottiglia di vetro dal collo stretto e dal ventre rigonfio, che raffigurava la testa di Medusa, e due coppe di terra cotta, ornate di bei fregi rossi, su fondo nero.

— Padrone, ecco il vino. È Cecubo.

— Ah furfante! — gridò l'argentario. — Un vino così prezioso per questo straccione?

— Ma.... — balbettò il servo; — tu stesso m'hai detto di portare il migliore. E poi, se devi berne anche tu....

— È vero, è vero; — disse Cepione, facendo la ruota. — Io devo berlo ottimo, e tu approfitti della fausta occasione, o Sempronio. Ringrazia il mio genio tutelare. —

E con quella volubilità che è propria degli ubbriachi, [317] il degno argentario offerse da bere al suo debitore.

Caio Sempronio respinse la tazza, che scivolò dalle mani di Cepione e sarebbe certamente andata in frantumi, se il coppiere non fosse stato pronto ad afferrarla per aria. Il vino, tuttavia, andò ad inaffiare il battuto.

— Non vuoi bere? — gorgogliò l'ubbriaco. — Hai torto, e Libero ti punirà. Anzi ti ha già punito, — soggiunse egli, felice di avere trovato un bisticcio, — perchè ti ha fatto schiavo. A te, Trappola, da bravo; versami ancora tre gocce di nettare. Ma bada, per Bacco, che non ti tremi la mano. Tu risichi di farmi una libazione che non è più necessaria. —

Quasi non sarebbe mestieri di spiegare ai lettori le parole dell'argentario. Dicevasi libazione quel tanto di vino, o d'altro liquore, che si spargeva sull'ara, quasi per dinotare che tutto era consacrato agli Dei.

— Padrone, non son io, — disse il Trappola. — È la tua coppa, che si muove.

— Ah sì? E come può essere? Io son saldo, vedi, saldo come un Atlante. —

E barellava, il degno argentario, per modo che il Trappola reputò necessario di condurlo bel bello fino al letto di fabbrica, affinchè vi trovasse un rincalzo al suo centro di gravità.

In quel mentre, si affacciavano sul limitare cinque o sei uomini, condotti dall'atriense.

— Padrone, — disse il servo, — eccoti il fabbroferraio, venuto per metter le catene al prigioniero.

[318]

— Benissimo! — gridò Cepione. — E siano saldate a dovere, chè questo furfante non abbia a fuggirmi.

— Non dubitare, nobilissimo Cepione; — rispose il fabbroferraio, con una voce che colpì Caio Sempronio; — ribadiremo gli anelli per modo che neanco il dio Saturno potrebbe cavarne i piedi. —

Saturno aveva, tra gli altri suoi uffizii celesti, il patronato degli schiavi, ed era spesso rappresentato con le catene ai piedi; catene che si toglievano via, durante la sua festa, nel mese di settembre, quando si concedeva agli schiavi una libertà temporanea.

Il fabbroferraio, uomo aitante della persona e nero di fuliggine per tutte le membra, si face innanzi, seguito dai suoi aiutanti, che portavano le catene e gli arnesi del mestiere.

— Quanti siete? — esclamò Cepione. — Sono forse necessarie tante persone, per adattare due cerchi di ferro alle gambe d'un uomo? —

Il fabbroferraio si mise a ridere.

— Temi di doverci dar da bere a tutti, nobilissimo Cepione? — domandò egli, cansando la risposta. — I miei garzoni non bevono vino.

— Quando non ce n'hanno; — soggiunse a mezza voce uno di loro.

Intanto il nostro Caio Sempronio allungava una gamba, per agevolare il lavoro al fabbroferraio. Lo aveva veduto più da vicino, aveva studiato meglio la sua voce, e sotto la fuliggine che gli copriva il volto, aveva riconosciuto Piramo, il suo [319] ostiario, venduto da lui, insieme con tutti gli altri schiavi della casa, a Giunia Sillana.

Piramo, dopo aver data al prigioniero un'occhiata d'intelligenza, s'inginocchiò, e, presa la catena dalle mani d'uno de' suoi compagni, ne adattò un anello alla gamba del paziente.

Cepione seguiva attentamente degli occhi il lavorìo di Piramo.

— Che m'andavi tu cantando del Dio Saturno? — gridò egli, com'ebbe visto l'anello. — Quei cerchi son troppo larghi.

— Non mi pare; — rispose il fabbroferraio.

— Ti dico che son troppo larghi per quelle due tibie, e lo sarebbero anche pe' miei polpacci.

— Tu vuoi scherzare, nobilissimo Cepione; — disse Piramo, che fino allora non aveva tralasciato di ammiccare al prigioniero, sperando che volesse capirlo. — Vedi tu stesso, se la cosa è possibile. —

Così dicendo, tolse l'anello dal piede di Caio Sempronio, e lo adattò alla gamba di Cepione.

— Vedi? — gridò questi con aria di trionfo. — Cresce almeno sei dita.

— Non si tratta d'altro? Eccoti come si rimedia; — rispose il finto fabbro.

E presa una tanaglia, strinse e rivoltò i capi dell'anello di ferro in tal guisa che questo gli andò come se fosse stato fatto a bella posta per lui.

— A noi, ora; — gridò Piramo, scoprendo il suo giuoco.

E preso per un braccio il nostro cavaliere, che stava guardando tutti e tutto con aria melensa, lo [320] spinse fuori della camera. In pari tempo appoggiava una pedata al Trappola, che non aspettò la seconda, e trovò più comodo di ruzzolare in un canto.

L'altro servo dell'argentario era già andato via. Aveva accompagnato laggiù il fabbroferraio e non gli era parso necessario di restare.

Caio Sempronio indovinò finalmente che cosa si volesse da lui. Infilò la scala, seguito da Piramo e dai suoi bravi compagni; giunse nell'atrio, dov'erano sparsi in parecchi gruppi i convitati di Cepione, e, dati due o tre spintoni a dritta e a manca, sguizzò dal pròtiro sulla pubblica via, prima che i caduti avessero potuto rimettersi in gambe, e tutti gli altri rinvenire dallo stupore.

— Ah, furfanti! Ah, scellerati! Abbrancateli! Non lasciate uscir nessuno! —

Così gridava Cepione. E già si era mosso per correr dietro ai fuggiaschi. Ma una catena di trenta libbre (perchè in ciò il fabbro lo aveva servito a dovere) non si porta così facilmente da nessuno che voglia correre, e molto meno quando si è alzato un po' il gomito. Il degno argentario si era a mala pena avveduto di quell'impedimento, che la catena gli s'intralciava fra le gambe, ed egli cadeva bocconi davanti all'uscio del sotterraneo.

Il tonfo di quell'otre disteso ebbe le conseguenze che doveva avere. Non mi dilungherò in una descrizione poco piacevole; dirò invece, aiutandomi con una perifrasi, che quel tonfo gli levò un peso dallo stomaco, se non al tutto i fumi dal capo.

Poco lunge da Cepione era caduto il Trappola, [321] e per quella causa impellente che sapete. Il poveraccio, udito il rumore della tombolata e tutto il restante che per brevità si omette, si alzò come potè, e pesto, indolenzito, sconcertato da quella inaspettata catastrofe, andò ad aiutare il padrone.

— No, lasciami stare! — balbettò Cepione con voce soffocata dalla rabbia e da tutto il restante che ho detto. — Corri nell'atrio anche tu! Fermate il prigioniero e gli siano distese sessanta vergate sulla schiena.

— Il prigioniero! Sì, piglialo! — pensò il Trappola, muovendo verso la scala. — A quest'ora è già fuori dell'uscio. Basta, egli mi manda ed io vado. Il sapore delle pedate non era buono di certo; ma l'odore del vino che ritorna alla luce è di gran lunga peggiore.

— Sessanta vergate sulla schiena! — ripeteva intanto Cepione, mentre tentava di rialzarsi e andava brancolando nel sudiciume. — Ed altrettante ai suoi compagni, prima di metterli in croce! Oh, me la pagheranno, me la pagheranno! Vedete che audacia! Farla a me, a Servilio Cepione! E il fabbroferraio, che era di balla con questo bel mobile! Ah, per l'Averno, se mi capita nelle unghie!... —

Tutto ciò borbottato, gorgogliato a intervalli, si capisce, ed anche frammisto alle spume ingenerose che gli fiottavano dalle labbra. Se lo aveste veduto, quant'era brutto! Clodia Metella, anima nera, se vogliamo, ma donnina di garbo, avrebbe inorridito senz'altro.

Finalmente, mandati dal Trappola, che reputava [322] più salubre di correre sull'orme del fuggiasco scesero nel sotterraneo gli altri servi della casa e trascinarono fuori l'impiastricciato padrone, con la sua catena ai piedi, non potuta levare lì per lì. La brigata dei commensali, che abbiamo lasciata nell'atrio, era tutta sossopra dallo spavento, per aver veduto sbucar fuori e fuggire, non senza distribuzione di busse, quel branco di fuligginosi Ciclopi; ma l'apparizione del vecchio argentario, di quella balla di cenci da mandare al bucato, mutò l'indirizzo e fece dare tutti gli astanti in uno scoppio di risa. Che farci? Il riso è contagioso, e i bricconi non sentono compassione; neanche del proprio simile, che è tutto dire!

A quelle inaspettate accoglienze, Sileno andò su tutte le furie. Guardò intorno e capì che il prigioniero era fuggito. Anche il Trappola, tornato allora dal pròtiro, gli confermò la cosa con la sua aria ingrullita. Fece per saltare addosso ai servi, poi si volse furibondo ai commensali, che seguitavano a ridere; ma le forze gli vennero meno, torse gli occhi, digrignò i denti, e stramazzò privo di sentimento sul musaico dell'atrio.

Finalmente, dopo tanti che gliene avevano augurati in sua vita, gliene capitava uno! Ma, pur troppo, non fu di quelli a ferraiuolo. Giove ottimo massimo non suol dare di queste soddisfazioni alla virtù sulla terra. Si mandò pel medico, e due dozzine di mignatte non ischifarono di succhiare il suo sangue. Lettori, compiangiamo quelle povere bestie.

E ritorniamo a Caio Sempronio; se no, ci pianta [323] lì, come Olimpia sullo scoglio, e chi lo raggiunge è bravo.

Uscito sul margine della strada, aveva seguito Piramo, come un fanciullo seguirebbe la madre. Infatti il suo fedele ostiario lo aveva preso per mano, e, giunto alla svolta dell'isola, si ficcava in un vicolo, mentre i compagni loro scantonavano lesti, chi da una parte e chi da un'altra, senza aspettare il comando.

Il nostro cavaliere camminò un dugento passi a quel modo, senza far parola, chè non era tempo da chiacchiere. In fondo al vicolo stavano due cavalli bardati. Piramo si fermò; il ragazzo, che teneva i cornipedi per le redini, si fece avanti; Caio Sempronio capì a volo, e d'un balzo fu in sella.

— E adesso, padrone, al galoppo! — disse Piramo, che lo aveva prontamente imitato.

— Dove si va? — chiese il cavaliere. — Forse da lei?

— No; ella si comprometterebbe e tu potresti essere ripreso da un momento all'altro. Del resto, la vedrai ad ogni modo, laggiù, dove andiamo a far capo. —

Andavano verso la porta Nomentana. Ad un certo punto lasciarono i cavalli ed entrarono in una casa di modesta apparenza, dove Piramo si levò quella fuliggine ond'era tutto lordo e Caio Sempronio indossò un'altra tunica, che dèsse meno negli occhi. Ciò fatto, uscirono da una postierla che dava su di una viottola campestre, e con passo spedito si allontanarono dalla parte di settentrione, per andare a cercare la via Tiburtina.

[324]

Giunia Sillana aspettava l'esito dell'impresa in una sua villa, dove nessuno avrebbe argomentato che andasse, a stagione tanto inoltrata. Quando vide apparire Caio Sempronio, libero, sano e pieno di gratitudine per lei, la bella matrona divenne più pallida del solito, e si lasciò cadere, sfinita dalla commozione e dall'eccesso della gioia, sul lettuccio del triclinio, dove era preparata la cena a quel povero affamato.

— Grazie! — diss'egli, commosso non meno di lei. — Ti son debitore della luce, dell'aria, della libertà, della vita, insomma. E in qual modo sei riuscita a salvarmi?

— Il console Sulpicio Rufo è un uomo di cuore; — rispose la bella matrona, reprimendo un sospiro. — Egli ha ceduto alle mie preghiere e prestato mano all'impresa. Ma parliamo d'altro; — soggiunse ella, vedendo che la fronte del nostro cavaliere si andava rannuvolando. — Attendi a ristorar le tue forze, e poi, scambio di riandare il passato, provvederemo al futuro. —

[325]

CAPITOLO XXV. Chi ha avuto ha avuto.

Erano passati trenta giorni dalla condanna di Tizio Caio Sempronio e dalla sua consegna legale in mano dei creditori. Il termine cadeva proprio in un giorno di mercato, e il degnissimo pretore Marco Rutilio Cordo sedeva maestoso in tribunale, attorniato dai littori ed intento ad amministrare la giustizia.

Cause di molta importanza non ce n'erano, quel giorno; nessun oratore di grido aveva a sfoderare le armi della sua invitta eloquenza. Eppure, quel giorno, si vedeva nel foro una calca più fitta del solito, perchè i creditori di Tizio Caio Sempronio, del più bello, del più elegante tra i cavalieri di Roma, dovevano condurre il loro prigioniero davanti ai pretore, e annunziare ad alta voce la somma del debito, se mai si presentasse qualcuno a pagare per lui e a farlo rimettere in libertà.

[326]

Intendiamoci bene, tutta quella gente ci andava per vedere le facce malinconiche dei tre creditori, essendo noto a tutta Roma il fatto della fuga di Tizio Caio Sempronio.

Dov'era andato a far capo il giovinotto? Saperlo! I littori lo avevano cercato per ogni dove; ma fiaccamente, diceva Cepione, che non sapeva darsene pace. Il feroce argentario, nello sfogo delle sue bizze, era trascorso ad accusare il console Sulpicio Rufo di connivenza nel colpo di mano, imputato da lui e da Clodia Metella all'amore di Giunia Sillana pel nostro cavaliere. Per veder giusto in certe cose, non ci sono che i nemici e le donne. À quelli aguzza l'ingegno il rancore; queste non hanno mestieri d'aguzzarlo; la finezza del senso è in loro una seconda natura.

Giunia Sillana aveva sorriso di quei sospetti, contenta che avessero dato nel segno. Ma il console Sulpicio non ci aveva le stesse ragioni di lei per lasciar correre, e fatto chiamare a sè l'argentario, gli aveva data una strappazzata coi fiocchi. Badasse a' casi suoi, tenesse la lingua tra i denti; se no, povero a lui! E il nostro Cepione, quantunque di mala voglia, si era inchinato, aspettando il giorno dell'udienza pretoria, a cui doveva presentarsi, in compagnia de' suoi sozii, egli e loro con un pugno di mosche.

Or dunque, mentre il sapientissimo e santissimo uomo Marco Rutilio Cordo stava sulla sua sedia curule, rendendo giustizia e accomodando in bella guisa le pieghe della sua toga pretesta, comparvero davanti al tribunale i tre usurai.

[327]

— Che cosa volete? — domandò.

— Pretore, ti chiediamo giustizia.

— Qui la si fa sempre, e per tutti. Di che vi lagnate?

— Del fatto che sai. Trenta giorni or sono, tu ci hai dato nelle mani il nostro debitore Tizio Caio Sempronio....

— E fu bene, perchè egli non aveva pagato per intero il suo debito. Lo avete portato via a buon dritto ed io spero che lo avrete nutrito secondo la legge, o permesso che egli si nutrisse meglio, a sue spese.

— Ah sì, egli s'è nutrito davvero; — gridò Crispo Lamia. — Lo stesso giorno che tu ce lo hai consegnato, il prigioniero è fuggito.

— Fuggito?

— Sì; lo ignori tu forse, mentre tutta Roma lo sa?

— Cittadini, — rispose gravemente il magistrato, — io qui non debbo sapere se non quello che consta al mio tribunale. Dunque, è fuggito? E voi ve lo siete lasciato sguizzar di mano?

— Un tradimento! — urlò Cepione. — Un indegno tradimento! Egli non può esser fuggito senza la connivenza di qualcheduno.

— Accusate, e vedremo; — disse il pretore.

— Ma.... — balbettò l'argentario, che rammentava la minaccia del console, e voleva pur dire qualcosa; — i complici son troppo alti e potenti. —

Marco Rutilio Cordo aggrottò le ciglia senz'altro.

— Non c'è nessuno troppo alto o possente, in [328] Roma, davanti alla maestà delle leggi. Parlate dunque, accusate liberamente. Vi avverto, per altro, — soggiunse, con accento severo, — che le mezze accuse non giovano, ed io vi farei costar care le false. —

Cepione, inviperito, voleva replicare. Ma i suoi colleghi, più prudenti, lo tirarono per un lembo della toga.

— Non mettere te e noi in un ginepraio, — gli bisbigliarono all'orecchio. — Tu lo vedi; il pretore non ischerza. —

Cepione li chetò con un gesto della mano, che voleva dire: ho capito. E abbassando il tono, ripigliò:

— Ma il nostro credito, chi ce lo paga? Che cosa ci rimane, se il debitore è sfumato? Il suo nome nella tua sentenza! In verità, è troppo poco.

— Non dico di no; rispose Rutilio Cordo, soddisfatto di vederli calare. — Ma non son io che vi ho fatto perdere il pegno. E proprio volevate farlo in tre pezzi?

— In tre pezzi, sì, in tre pezzi, come ci consentono le patrie leggi.

— E sia; lo potete. Spartitevi quel che rimane, senza pregiudizio del vostro diritto su tutto quel più che potrà ritornarvi in balìa. A te, Crispo Lamia, sérviti pel primo, quantunque tu non sia il maggior creditore, ed abbi Tizio, il prenome. A te, Servilio Cepione, prenditi Caio, il nome gentilizio. E tu, Furio Spongia, abbi quel che rimane, Sempronio, il cognome della famiglia. Lo volevate dividere in tre; vi accordo il taglio, vi assegno le porzioni; non se ne parli più altro. —

[329]

Così nella sua alta sapienza Marco Rutilio Cordo, che qualche volta amava far la burletta, vizio che è rimasto e s'è perpetuato presso tutti i giudici della terra, a rendere manco noiose le lunghe ore d'udienza!

Una risata omerica di tutti gli astanti accolse la sentenza del pretore. Quando la voce fu passata di fila in fila, per modo che ne fossero informati i più lontani, fu uno scoppio d'ilarità in tutto il Foro; ilarità che si propagò per tutte le vie, per tutti i chiassi dell'eterna città. Le aquile e i corvi, frequentatori assidui dei sette colli, passando a volo sulle mura di Romolo, in quel momento d'epica giocondità, rimasero un pezzo a becco aperto, domandando tra sè per qual ragione fosse uscito dalla sua serietà il popolo più grave e più contegnoso dei mondo.

La sentenza di Marco Rutilio Cordo, buttata là senza pretensione e così per mandare a spasso quei tre noiosi argentarii, trovò i suoi lodatori, e passò in proverbio la divisione di un nome in tre parti. Tizio Caio e Sempronio restarono separati e per sempre. I nomi d'Aulo, di Nigidio, ed altri, che erano serviti fino allora ai giureconsulti nel proporre gli esempi, cedettero il luogo a quei tre. Tizio ha dato a Caio; Caio ha negato a Sempronio; e avanti di questo passo, fino al tempo nostro, che tramanderà l'usanza ai venturi.

Lettori dell'anima mia, vi ho chiarito un passo d'archeologia romana, e voi siete capaci, non che di rendermi grazie, di non prestar fede alle mie trovate. Questa è la sorte di tutti i grandi scopritori, ed io mi rassegno.

[330]

Ma voi siete anche capaci di chiedermi come e dove andasse a finire il giovinetto, a cui era toccata quella burlesca diminutio capitis. Ed ecco, è per l'appunto quello che ignoro. Ho rovistato in tutti i bugigattoli della storia, e non ho trovato un bel nulla.

Leggo cionondimeno in Plutarco, nella vita di Elvio Sillano (quel valentuomo che sapete, e reputato degno di entrare in paragone con un eroe della Grecia), che la bella Giunia Sillana era molto tranquilla. Segno evidente che l'amico doveva star bene e che si adattava di buona voglia alla necessità di conservare l'incognito.

Un giorno, la bella pallidona s'imbattè in Clodia Metella. Le due matrone non si erano più visitate, nè incontrate per via, dopo la stagione delle bagnature nel golfo di Neapoli.

Giunia Sillana fece le viste di non riconoscerla. Ma l'altra le andò incontro difilata, e col più amabile dei sorrisi sul labbro. Dicono i pratici che le signore donne ci abbiano sempre questo sorriso in mostra, quando si dispongono a dare una stoccatina a qualche amica del cuore.

— Oh, bellissima, — gridò Clodia Metella, prendendo amorevolmente le mani dell'amica, — come stai? Non ti si vede più.

— Sto bene e tu mi vedi; — rispose asciuttamente Giunia Sillana.

— Ah sì, una volta all'anno! Beato chi ti possiede! Dimmi, a proposito, che cos'è avvenuto di quel leggiadro cavaliere?.....

— Di che cavaliere mi parli? — chiese Giunia [331] Sillana, seccata dall'intenzione sarcastica di quel modo avverbiale che aveva usato Clodia Metella.

— Di Tizio Caio Sempronio, poichè bisogna dir proprio il suo nome. Dicono che sia andato all'esercito di Cesare.

— Sarà vero.

— Ma dicono altresì che non sia uscito di Roma e che viva nascosto in una tua villa.

— Sarà vero anche questo. —

Tanta imperturbabilità era piuttosto singolare, e Clodia si morse le labbra dal dispetto.

— Dunque, mia bellissima, tu conservi il segreto. Non ci sarà verso di cavarti nulla di bocca?

— Perchè dici questo? Ho anzi un'imbasciata per te; — rispose Giunia Sillana.

— Da lui?

— Sicuramente, da lui.

— Oh Venere madre! e sei stata così buona....

— Da incaricarmene, certamente. Povero giovane, è così gentile d'animo e memore delle sue vecchie amicizie! Egli m'ha detto di consigliarti in suo nome l'uso quotidiano e abbondante dell'acqua di Cosmo. Servilio Cepione si lava così poco, e lascia un odore così cattivo su tutto ciò ch'egli tocca! —

La botta era andata al cuore. Clodia Metella perdette il lume degli occhi.

— Mi pagherai questo affronto, faccia di verderame! — sibilò essa, con voce soffocata dalla rabbia.

Giunia Sillana non si commosse punto, nè alla minaccia, nè all'insulto.

— Io non ti temo; — rispose; — tutta Roma [332] sa chi tu sei, quadrantaria! Del resto meglio esser verdi, che impiastricciate di medicamenti letali. Si narra che Metello Celere, il tuo povero marito, per averti baciata sulle guance, sia morto. —

In questa guisa le due matrone si separarono, sorridendosi a vicenda, mentre i loro servi si tenevano ad una rispettosa distanza.

Giunia Sillana non aveva certamente a temer nulla dallo sdegno di Clodia. Elvio Sillano era del partito di Cesare, che trionfava, e Clodia Metella doveva appiccar la voglia all'arpione. Del resto, era andata maledettamente giù, la quadrantaria. E vennero presto le rughe e si dileguarono ad uno ad uno gli amanti.

Servilio Cepione, sempre più adiposo e rosso scarlatto nel grugno come i bargigli d'un tacchino, un bel dì fu trovato morto nel suo letto. Quella volta gli era capitato per davvero, e furono esauditi i voti ardentissimi di tanti cittadini, che glieli auguravano a secco. I suoi colleghi delle Botteghe Vecchie gli fecero un funerale magnifico, accompagnato dalle imprecazioni di tutti i sette colli. Ma pur troppo, nella fretta, dimenticarono di mettergli in bocca la moneta per pagare il suo passaggio a Caronte, ed io credo che il mascalzone, con tutte le sue ricchezze, non abbia ancora potuto mettersi in barca.

Mi domanderete di Cinzio Numeriano. Il bel poeta non fece più versi, che raccomandassero il suo nome alla posterità. Dopo tante liete impromesse! Ma pur troppo è così; la Musa non vuol rivali, e pianta lì, senza tanti complimenti, chi [333] non sa essere tutto per lei. E un bel giorno lo piantò anche Delia, fuggendo in Ispagna con un pantomimo famoso.

Giunio Ventidio, Postumio Floro, Elio Vibenna.... Io spero, o lettori, che non mi domanderete notizia di tutte queste parti secondarie. Sappiate del resto, che uno dopo l'altro morirono tutti. E, senza mestieri di appurare il fatto con l'Arte di verificare le date, ho ragione di credere che sia morto anche il leggiadro eroe della mia storia, mezzo romana e mezzo di tutti i tempi e di tutti i paesi.

Se vi ha divertiti, ditelo; ma per carità non la date ad imprestito. Oltre che gli amici non vi restituirebbero il libro, voi fareste un danno all'editore.

Se poi v'ha annoiati, come temo, state zitti, per l'amor di Dio, e pensate che anche alle manifatture di questa sorte va applicato il proverbio: non tutte le ciambelle riescono col buco.

FINE.


[334]

INDICE

Capitolo I. Entra in scena l'eroe Pag. 1
» II. Il triclinio 9
» III. Donne, vino e canzoni 21
» IV. L'amico ei conosce alla prova 34
» V. Amore è cieco 48
» VI. Rose e spine 65
» VII. Venere spogliatrice 83
» VIII. L'attesa 103
» IX. Duettino d'amore 116
» X. Il terzo incomodo 130
» XI. Il prodigo e l'avaro 139
» XII. Nel teatro di Pompeo 152
» XIII. Amori in vista 162
» XIV. Le nozze di Numeriano 180
» XV. Il ricevimento 197
» XVI. Quod erat in fatis 206
» XVII. Viaggio a Citera 219
» XVIII. Luci ed ombre 231
» XIX. Siamo agli sgoccioli 251
» XX. Una va e l'altra viene 268
» XXI. Pro tribunali 279
» XXII. Sulle ventitrè e tre quarti 292
» XXIII. Dopo la sentenza 305
» XXIV. Un colpo di mano 313
» XXV. Chi ha avuto ha avuto 325

DELLO STESSO AUTORE

(Edizioni in-16).

Racconti e novelle (1809). Nuova edizione in-16:
Vol. I: Capitan Dodero, Santa Cecilia, Una notte bizzarra L. 2 —
Vol. II: L'Olmo e l'Edera, Il libro nero 3 —
I Rossi e i Neri (1871). Due volumi 7 —
Val d'Olivi (1873). Seconda edizione 2 —
Le confessioni di Fra Gualberto (1873). Seconda edizione 3 —
Semiramide, racconto babilonese (1873). Seconda ediz. 3 —
La legge Oppia, commedia (1874) 1 —
Castel Gavone (1875). Seconda edizione 2 50
Come un sogno (1875). Quarta edizione 2 —
La notte del commendatore (1875) 4 —
Diana degli Embriaci (1877) 3 —
Cuor di ferro e cuor d'oro (1877). Seconda edizione 5 —
Lutezia (1878). Seconda edizione 2 —
La conquista d'Alessandro (1879) 4 —

(Edizioni in-32).

Capitan Dodero. Terza edizione L. — 50
Santa Cecilia. Due volumi. Terza edizione 1 —
L'Olmo e l'Edera. Due volumi. Terza edizione 1 —
Il libro nero. Due volumi. Terza edizione 1 —

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici.

Copertina creata dal trascrittore e posta nel pubblico dominio.