The Project Gutenberg eBook of La città italiana nell'alto Medio Evo: Il periodo langobardo-franco

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Title: La città italiana nell'alto Medio Evo: Il periodo langobardo-franco

Author: Guido Mengozzi

Release date: July 18, 2020 [eBook #62690]

Language: Italian

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*** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA CITTÀ ITALIANA NELL'ALTO MEDIO EVO: IL PERIODO LANGOBARDO-FRANCO ***

LA CITTÀ ITALIANA
NELL'ALTO MEDIO EVO


GUIDO MENGOZZI

La città italiana
nell'alto medio evo


Il periodo langobardo-franco

ROMA
ERMANNO LOESCHER & Cº
(W. REGENBERG)


SIENA 1914 — STAB. ARTI GRAFICHE LAZZERI



INDICE


A MIO PADRE

CON AFFETTO PARI ALLA STIMA


[v]

INTRODUZIONE

La storia delle condizioni delle città italiane nell'alto medio evo fu oggetto di gravi e fondamentali ricerche, per opera di numerosi storici italiani e stranieri, a cominciare dal Muratori, dal Fumagalli, dal Sismondi, dal Pagnoncelli e dal Savigny. Ai tempi della preparazione del nostro Risorgimento questo tema fu anzi discusso con particolare attenzione dal Manzoni, dal Balbo, dal Troya dal Capponi e da molti altri perchè si volle quasi in quelle remote origini rinvenire l'anima più spontanea della nazione, ricercandovi i diritti della nazionalità.

Ma quelle dotte discussioni non riuscirono ad appagare in tutto i desiderî degli studiosi. Sta di fatto che l'opera di Carlo Hegel fu poco appresso una grave critica di quei risultati: e più tardi tutti gli studiosi, in Italia e fuori, dovettero muovere da ricerche e da argomentazioni nuove e diverse. Il problema delle condizioni giuridiche dei vinti Romani, quello della sorte dei municipii e delle corporazioni, quello dell'organizzazione ecclesiastica, quello dell'origine dei Comuni furono, si può dire, ripresi ex novo, e recarono luce feconda alla storia generale del diritto pubblico italiano del medio evo.

Tuttavia non si è ancora portata la ricerca, in modo abbastanza ampio e profondo, sul punto centrale di tutti questi studii: la città, considerata nelle sue condizioni territoriali, nelle sue divisioni giuridiche, nella sua compagine particolare, per cui si distingue da ogni altro elemento: organizzazione generale, circoscrizione provinciale, [vi] circoscrizione ecclesiastica, borghi, pievi, ville, centri rurali: la città, voglio dire, nel suo aspetto geografico, storico, giuridico.

È stato mio proposito di assumere questo tema, di natura intimamente ed esclusivamente giuridica, per esaminarlo con tutte le mie forze, senza pretendere di affrontare e di risolvere tutti quei problemi, che con quel tema stanno senza dubbio in diretta connessione, ma che qualche volta hanno contribuito, con la loro imponenza, a sviare il giudizio degli studiosi. Da una ricerca circoscritta a questo argomento capitale e d'indole schiettamente giuridica, ho creduto che si potesse derivare lume anche su quei problemi, per quanto ciò dovesse avvenire per via indiretta e talvolta soltanto per accenni, che potranno apparire anche incompleti.

Ma in un tema così vasto, che ha domandato alle mie forze una lunga e faticosa indagine, non ho pretesa di aver portato se non un contributo di metodo e di resultati.

Nell'atto di licenziare il mio libro mi rimane tuttavia la convinzione che dai competenti il metodo possa essere giudicato giusto e che i resultati non siano del tutto vani.

[1]

PARTE PRIMA La città romana, gota e bizantina[1]

§ 1. L'antica cerchia di Roma primitiva. — § 2. La cerchia murata del IV sec. av. Cr. — § 3. I Mille Passus. Determinazione territoriale. — § 4. Determinazione dei Mille Passus riguardo alle magistrature. — § 5. Mille Passus Urbs e suburbium. — § 6. Differenza fra Roma e le altre città: Pomoerium e Continentia Aedificia. — § 7. Determinazione dei Mille Passus rispetto ai plebei. — § 8. Determinazione dei Mille Passus rispetto ai beni pubblici. — § 9. Determinazione dei Mille Passus rispetto al culto. — § 10. Città e campagna negli ultimi anni dell'impero d'occidente. — § 11. La conquista gota. — § 12. Città e campagna sotto i Bizantini. — § 13. Le divisioni territoriali interne delle città. — § 14. Conclusione.

§ 1.

— Nei primi tempi storici Roma fu costituita dall'esiguo numero delle gentes delle tre tribù dei Ramnes, dei Tities e dei Luceres, costrette più che disposte ad unirsi su di un territorio assai limitato per necessità della comune difesa contro l'ostilità convergente degli elementi circostanti. Ognuna di esse, infatti, conservava inalterato l'assetto genetico interno sotto il potere, più di coordinamento che di effettivo comando, del «rex», insieme col quale cooperavano — per diritto proprio e non per nomina di lui — i capi delle singole «gentes».

Questa condizione di cose fece sì che le linee fondamentali [2] dell'organizzazione politica romana si formassero in modo singolare. Il perdurare delle lotte interne ed esterne indusse a costituire un nucleo più saldo e durevole, favorito dalle condizioni topografiche, nucleo che divenne così capoluogo ad un tempo del territorio e centro di organizzazione della difesa. Ed a questo fenomeno, per cui già si divergeva dal primitivo sistema barbarico, nel quale, pur in sedi relativamente fisse, oltre la rotazione delle terre, troviamo la vita in villaggi facilmente abbandonabili, si aggiunse, come effetto a causa, quello della maggior considerazione della terra stessa. Questa, appunto perchè limitata, ebbe tanta importanza da superare quella dei rapporti familiari, prevalenti nell'organizzazione barbarica, e costituì la base di ogni rapporto giuridico.

Sotto l'auctoritas del pater[2], oltre i parenti, vivevano anche tutti coloro che, per vicenda sfortunata di guerra — deditio — o per patto amichevole — applicatio — si trovavano alla sua dipendenza[3].

Lo Stato primitivo costituisce — si sa — un cielo chiuso entro cui non si entra che attraverso l'«hospitalitas»[4]. Nell'epoca in cui prevale il potere dei capi delle «gentes» di fronte a quello del re, che, in tempo di pace, si limita a regolare i «Sacra» e lo sviluppo edilizio, anche questo diritto di rappresentanza è esercitato prevalentemente dai «patres». Più tardi, però, il [3] potere regio, favorito dalla naturale scissione degli antichi gruppi gentilizi in più piccoli nuclei famigliari riconnessi al capostipite ma da esso distinti e separati, fu avvantaggiato enormemente per il rapido incremento della popolazione. Quest'aumento, dovuto in parte alla necessità di soddisfare bisogni, ai quali il sistema agnatizio non sopperiva affatto o inadeguatamente, e, in parte di gran lunga maggiore, causato dall'immissione di elementi vinti ritenuti meno pericolosi se tolti dal luogo di origine, portò alla costituzione entro la «civitas» di una classe speciale in condizione giuridica inferiore a quella dei «cives» originarii.

E, questa classe si formò sotto la manus del re.

È certo che le leggende dell'«asylum» e del ratto delle sabine, con cui si risolveva il problema dell'aumento della popolazione, sono di origine forestiera e quindi, presumibilmente, ostili ai romani; ma appare altrettanto evidente, dal complesso dei miti con i quali questi ultimi cercarono di modificarle, la modestia delle origini e il lungo perdurare nello stadio primitivo[5]. Di più noi sappiamo per testimonianza concorde delle disposizioni dell'antico diritto quiritario e delle narrazioni degli scrittori[6] che intorno ad ogni «domus» correva un ambitus di origine sacrale[7] che la cingeva da tutti i lati e che l'insula dei quartieri popolari — quel vasto agglomerato di case a diversi piani e a muri comuni — è di epoca posteriore.

Popolazione scarsa, dunque, ed occupante nello spazio limitato della città un'estensione relativamente assai lata.

[4]

Si aggiunga che la scienza ha dimostrato — il Vico con meraviglioso genio l'aveva intuito — che le divinità adorate in appositi templi fuori del «pomoerium» non che diverse erano addirittura straniere a quelle adorate in Roma. E se si riconnettono tutti questi dati con la leggenda dell'uccisione di Remo, la cui importanza, notata anche dal vecchio Varrone, consiste nel carattere sacro attribuito alla fossa, destinata a raccogliere la città entro un cinto inviolabile che non può essere oltrepassato se non in luoghi appositamente determinati e cioè le porte; se ne deduce la conseguenza che in immediata vicinanza della città, ma separati dal vallo e dalla fossa, ci dovessero essere quei popoli vinti che per misura di sicurezza Roma strappava al suolo nativo e aggregava a sè collocandoli sotto l'«hospitalitas» del re.

Ho parlato di vallo e di fossa e non di mura perchè la costruzione ed il culto di queste è posteriore: la leggenda parla di Romolo che uccide il fratello per aver superato di un salto la fossa già scavata o il solco dell'aratro che segnava il luogo ove avrebbe dovuto esser quindi scavata[8]. Non si parla affatto di mura. E il contatto continuo del vincitore col vinto, ostile per odio recente e per diversità antica di origine e di culto, spiega perchè fosse considerato come delitto capitale il traversare il vallo fuori che per le porte[9]. I nomi dei luoghi adiacenti alla Roma primitiva, infatti, sono tutti eponimi [5] di genti plebee; stirpi diverse, cioè, da quelle originarie di Roma. Così il Celius, le due Exquiliae, l'Oppius, il Cespius, e così via. Invece entro il «pomoerium» si trovavano in pari condizione giuridica le tre tribù originarie, le cui divinità si mantennero contemporaneamente e con pari vigore fino al tardo prevalere di Giove capitolino, che personifica e rappresenta l'unificazione di Roma.

Ma un allargamento di questo concetto non avviene che nel secolo IV, quando, con la costruzione delle mura, si inizia un'amplissimo movimento di riforme che rinnuova tutta la vecchia Roma. Infatti la definizione del pomerio dataci dai libri auspicali[10] come di un «locus intra agrum effatum per totius urbis circuitum pone muros regionibus certis determinatus, qui facit finem urbani auspicii» è posteriore, come si scorge chiaro dalla menzione delle mura, alla costruzione delle mura stesse ed è stata presa a torto come prova dell'identità del «pomoerium» col cerchio murale. La prova si evince, a mio parere, da una induzione, che ritengo legittima, intorno all'antichissima distinzione degli auspici in urbani e non urbani (ben differente dall'altra «domi et militiae»); poichè se si tien presente che il diritto di consultare la volontà divina spettava esclusivamente ai patrizi[11] si dovrà anche ammettere che tale diritto in origine spettasse [6] soltanto alle «gentes» comprese entro il pomerio. E così si spiega pure come l'Aventino, in tempi posteriori a quelli indicati dalla tradizione, ma anteriori alla costruzione delle mura, rimanesse fuori della cinta per il suo carattere forestiero e plebeo, essendo abitato dai cittadini delle città latine vinte e dagli schiavi che ivi si rifugiavano nell'«asylum»[12]. E si chiarisce l'altro fenomeno, non meno importante, che solo dopo lunghe lotte la triade capitolina riuscì a prevalere sulle altre divinità[13].

§ 2.

— Il nostro Bonfante, con un'indagine tenacemente perseguita, ha dimostrato che nella famiglia romana sui membri che compongono il gruppo familiare vi è un'autorità di natura politica tanto forte da tenere il predominio sull'elemento patrimoniale nel passaggio ereditario: autorità che ha una corrispondenza completa e mirabile nel campo del diritto pubblico e che fa sì che al modo stesso con cui nello Stato il capo apparisce come il rappresentante di un gruppo che non muore mai, così anche la famiglia è un perenne organismo politico il cui capo si perpetua per la designazione del successore fatta dal predecessore[14]. Ma questo stato di cose che poteva prevalere finchè le organizzazioni politiche di ordine superiore erano scarse o fiacche, doveva mutarsi quando le forze centrali dello Stato operarono con efficacia. Ne venne che questo acquistò tanto maggior consistenza quanto più quelle, suddividendosi, formarono nuovi nuclei legati alle «gentes» originarie da vincoli che andarono sempre più indebolendosi fin quasi a sparire del tutto.

[7]

Noi sappiamo come di diritto facevano parte del senato quei «patres» che, successori dei capostipiti delle genti originarie, erano i custodi di ciò che costituiva l'anima della gente stessa: i sacra, le feriae, i sepulcra. E ci sedevano — come irrefutabilmente dimostra la mancanza di un sistema di maggiorascato e l'uso assoluto del regime della designazione — appunto perchè tali e non per ragioni di parentela[15]. Il fulcro della gente era costituito dal suo culto interno: chi dal «pater» morente era ritenuto il più atto ed il più degno a succedergli acquistava con la designazione (dopo la relativa accettazione) tutti i diritti annessivi, dai decreta gentilicia all'auctoritas senatoriale. Il tratto caratteristico dell'eredità romana per cui all'erede è imposto ex iure — e questa è la peculiarità — l'onere della custodia e del mantenimento dei «sacra» anche quando, come al tempo di Cicerone, era divenuto gravissimo, non si spiega se non pensando ad un'epoca in cui invece costituiva l'elemento di maggior rilievo di tutta l'eredità medesima, la quale — si badi — era impossibile senza designazione di erede. E quest'epoca, per la natura eminentemente religiosa dei «sacra», corrisponde a quello stadio primitivo in cui l'elemento religioso predomina e, cioè, l'epoca regia.

Era dunque la proprietà dei sacra e dell'hedificium in cui questi si conservavano che dava diritto di partecipare [8] all'assemblea la cui «auctoritas» aveva come scopo precipuo l'osservanza, il mantenimento e sopratutto il contemperamento dei vari mores ritusque majorum[16].

I rami derivati dai ceppi primitivi — patres minores — non potendo vantare eguali diritti, furono logicamente esclusi dal senato. Però, come compievano essi pure funzioni vitali per lo Stato, ottennero di partecipare al pubblico reggimento mediante un'altra assemblea — comitia curiata — cui aprivano l'adito requisiti differenti, adeguati al contributo fisico, intellettuale e finanziario che questi rami portavano a prò della collettività. E come questo non poteva aversi senza la presenza assidua — è il termine usato dalle fonti — nello Stato: e questa, alla sua volta, inconcepibile senza un valido substrato economico, non poteva basarsi che sulla terra, questi requisiti ebbero anch'essi per base l'elemento realistico della proprietà.

Ma intanto ne conseguì che, pur rimanendo inalterata la base realistica dei diritti pubblici subiettivi, accanto ad una proprietà quasi sacrale, cui ex iure essi erano vincolati, se ne ammise un'altra di minor efficienza intima alla quale era necessaria la concomitanza di elementi personali.

Nè l'evoluzione si fermò qui: questi elementi personali, una volta ammessi, agirono con intensità sempre più [9] forte fino al punto di avere a base non più la proprietà ma l'abitazione. Così entrarono i plebei.

Insieme con i plebei vivevano intorno alla città anche quei clienti che per varie e note cause si erano staccati dalle originarie dipendenze patronali e, sempre crescenti di numero, formavano un insieme ben distinto — come lo prova l'esistenza dei concilia plebis — dai «patres» e dai «patricii». I loro nuclei davano luogo, attraverso ad una lenta e faticosa selezione, ad un elemento nuovo, ricco, forte e potente, il quale, per la diversità di culto e di origini, poteva esplicare tendenze disgregatrici. Inoltre i plebei, cooperanti anch'essi alla vita cittadina e alle guerre, erano indotti a ribellarsi — e lo fecero con tenacia e moderazione mirabili — a quella condizione, imposta loro dall'egemonia assoluta delle classi più elevate, per la quale il loro contributo di forze e d'armi era considerato dallo Stato come il correspettivo dell'occupazione del suolo pubblico su cui abitavano[17]. Lungamente vissuti su quelle terre nella stessa posizione di fronte allo stato che i clienti di fronte ai patroni[18] e ormai ignari dei remoti patti con cui i loro progenitori erano entrati nella «civitas», si sentono — e vogliono esser riconosciuti — meritevoli di una maggior tutela giuridica e di un più ampio godimento dei frutti delle vittorie.

Per la pressione delle contingenze esterne, per il timore di un dissolvimento dell'unità così a lungo e con tanta fortuna mantenuta, verso la fine del IV secolo av. [10] Cr. i dominatori, stremati dall'invasione gallica, vennero a patti con i plebei e concordarono con essi una di quelle leggi eminentemente contrattualistiche, la cui natura è stata messa in luce dal Dallari[19].

Da allora, giustamente, il Pais fa datare il risorgimento definitivo di Roma per la sua fatidica missione. La piccola cinta primitiva cede il posto ad un valido muro che racchiude in più ampio giro la cittadinanza rinnovellata da nuova costituzione. Entro il muro furono chiusi anche tutti coloro che, topograficamente, già formavano un tutto unico con la città stessa. Ma neanche così, presumibilmente, si giunse ad aver sufficiente numero di braccia per il compimento impellente di opere pubbliche, sopratutto di difesa[20], e fu necessario attribuire alla città una parte del territorio circostante, il quale venne determinato con l'antichissimo sistema decimale dei latini.

§ 3.

— Documenti sincroni o sicuri che indichino l'estensione precisa della zona esterna attribuita alla città, ma con una serie di caute deduzioni mi sembra di poter giungere ad un'accettabile soluzione del problema.

In primo luogo è pacifico che la prima e principale funzione del pretore plebeo è quella di proteggere la plebe dalle «angariae». Ora è altamente significativo che questo magistrato abbia sempre esercitato la sua giurisdizione oltre che nella città anche mille passi all'intorno. Non solo: la prima magistratura che compare negli albori repubblicani non è costituita dai consoli, ma [11] dal praetor[21] o judex, al quale questi sono succeduti. E questa oscura magistratura di transizione, su cui le successive hanno trovato fondamento, mi pare di importanza peculiare per la storia costituzionale di Roma, perchè, oltre a segnare il passaggio dal sistema monarchico a quello repubblicano, essa indica anche che si è allargata la originaria base del cittadinatico concedendolo anche a coloro che abitavano fuori delle mura purchè a distanza non maggiore di un miglio, con il diritto di partecipare alla vita pubblica nelle assemblee relativamente assegnate.

Già verso la metà del secolo V, epoca presumibile delle leggi delle dodici tavole, la norma in esse sancita, che nessuno sia bruciato o seppellito entro la città, dimostra come sia attenuato il vecchio concetto dei «sacra». La gran comunità cittadina è ormai formata: resta che gli elementi destinati a comporla riescano a trovare un equilibrio più equo ed una compenetrazione più piena ed a questo tendono — e con fortuna — i plebei, sia dentro le mura che fuori fino a mille passi.

Il Mommsen, indagando la struttura del diritto pubblico romano, ne ha indicata con ragione la chiave nella distinzione fra l'«imperium domi» e l'«imperium militiae», ma ne ha trascurato troppo il modo con cui essa si è formata. Se nell'epoca più florida della repubblica il concetto territoriale predomina assoluto senza nessun conto dell'elemento personale (cittadinanza, patriziato, plebe) e della natura dei singoli reati; a questo non si è giunti che per un'evoluzione di cui solo l'ultimo stadio, tipicamente cristallizzato, è stato da lui rilevato. I limiti rigidi segnati all'esercizio del potere assoluto — chè questo è il contenuto dell'«imperium militiae» — significano che originariamente coloro che si trovavano nel territorio sacrato — effatum come dicono [12] i libri auspicali — ed erano ammessi alla cittadinanza, godevano una protezione accordata loro in virtù di un patto giurato da tutti gli ordini dei cittadini — «lex sacrata» — e logicamente negata ai non cittadini. Infatti, costruite le mura e attuata la divisione delle quattro tribù territoriali urbane, se da una parte l'unità della città si rafforzava, dall'altra i nuovi gruppi aggregati, per essere rimasto sempre ai patrizi l'jus auspiciorum, venivano a perdere l'autonomia religiosa e amministrativa mantenuta fino ad allora, si sarebbero trovati in condizione peggiore di prima, se loro non fossero stati accordati congrui compensi e benefici a cominciare da quello della partecipazione alle curie[22].

Nel diritto privato, invece, più compenetrato di elementi religiosi e in mano dei soli patrizî, il principio contrattuale della virtù legislativa, che aveva per funzione di creare un vincolo sempre più stretto di interdipendenza fra le varie «gentes» nell'epoca regia e fra le varie classi di cittadini in quella successiva, non si manifestò affatto. E quindi mentre il campo del diritto pubblico fu chiuso ostinatamente agli stranieri, ai vinti, agli alleati: fu aperto loro con gran facilità quello del diritto privato, la cui elaborazione fu abbandonata ai giuristi ed ai magistrati[23].

§ 4.

— L'importanza dei «mille passus» nel campo del diritto pubblico fu già rilevata dagli studiosi, ma restano a mettere in luce alcuni punti fin qui trascurati del tutto o male intesi.

A questo mirò già in parte lo Zdekauer con un geniale e profondo contributo rimasto, pur troppo, interrotto[24]. Egli è riuscito a dimostrare che anche nel diritto [13] privato i mille passus si differenziano dal rimanente territorio e sono uniti alla città, così per l'«actio aquae pluviae arcendae», per la «locatio-conductio», per la dazione dei tutori, per la sorveglianza delle vie da parte dell'edile, per le fontane e per la determinazione del luogo di nascita. E, di più, ha messo in rilievo la esistenza e la natura di una differenza di regime giuridico, fra gli edifici che vi si trovano sparsi irregolarmente e quelli che si staccano dalle mura con contatto immediato formando le vie che partono dalle porte.

La fonte più importante a questo proposito è data da un passo di Emilio Macro, tolto dal primo libro della sua opera sulla vigesima[25], che stabilisce il principio che per Roma «mille passus non a miliario urbis sed a continentibus aedificiis numerandi sunt»; vale a dire che a Roma i «mille passus» si contano non dalle mura (come si faceva in tutte le altre città) ma dall'ultima casa ad esse direttamente congiunta in senso radiale.

Lo Zdekauer, premesso giustamente che tale maniera eccezionale di misura mostra che anteriormente anche a Roma si seguì la regola comune di contare le miglia dal segno infisso nelle mura cittadine presso ogni porta, ritiene che il passo in questione sia da mettersi in relazione con quello di Modestino, il quale fa obbligo al tutore testamentario, che vuole scusarsi, di presentarsi personalmente al giudice entro un termine di tempo fissato in proporzione della distanza[26].

E realmente anch'esso si riconnette alla questione se i «continentia aedificia» sieno considerati o no come facenti parte della città. Non credo, però, che questa sia la disposizione principale.

In primo luogo c'è una diversità non piccola, avvertita anche dallo Zdekauer, ma non spiegata, fra l'uso assoluto che della formula mille passus fa Macro e il [14] modo di esprimersi di Modestino, il quale, illustrando la nota costituzione imperiale, parla senz'altro di miliaria. Nè vale il dire che non conosciamo l'opera dal cui insieme è stata tolta l'espressione: qualunque interpretazione se ne voglia dare, sta il fatto che l'espressione «mille passus» è quasi un anacronismo nel Digesto e che in tutto il titolo «De excusationibus» si parla sempre di «miliaria» e mai di «mille passus». Dal momento che quantitativamente indicavano la stessa misura non mi par ammissibile che in questo titolo se ne debba trovare la spiegazione.

Io credo invece che si debba muovere da un punto di partenza diverso.

Bisogna anzitutto riflettere che i «mille passus» come tali sono una statuizione di diritto pubblico, sulla quale, appunto perchè tale, le modificazioni sono entrate a stento e tardivamente: di più, sebbene rientranti nel disegno del diritto privato con il ciclo evolutivo messo in luce dal Bonfante[27], conservano tracce tutt'altro che scarse della loro origine. Perciò io ritengo che si debba ricorrere all'esame degli istituti di diritto privato che più da vicino si riconnettono col diritto pubblico e cioè l'eredità, la tutela e la curatela.

La Lex municipalis tarentina[28] e la Lex coloniae genetivae juliae[29], fanno obbligo a coloro che vogliono partecipare alle magistrature cittadine di avere un domicilium nella città stessa o nei mille passi circostanti. Il principio, contenuto in germe nella lex Acilia repetundarum del 122 o 123 av. Cr. con l'essere stato applicato a due colonie così diverse fra loro mostra più che probabile che fosse tenuto normalmente a base nell'opera di ricostituzione delle città italiane, iniziata subito dopo la [15] «lex julia de civitate», con la quale si concesse a tutti gli italiani il diritto di cittadinanza romano[30].

Ora tale possesso urbano che dava luogo a così gravi conseguenze politiche ebbe naturalmente una più ferma, quasi direi speciale protezione giuridica.

Fra le imposte stabilite da Augusto ci fu la «vigesima hereditatum», la quale, come si sa, non era variabile a seconda del grado di parentela dell'erede col defunto. Ponendo mente che il passo di Macro proviene da un'opera sulla vigesima e tenendo presente che fino alla fine del sec. IV dopo Cr. gli immobili entro le città furono immuni da imposte[31], e che, d'altra parte, i «mille passus» furono sempre considerati come parte integrante della città murata, io ritengo che tali beni fino a quest'epoca fossero esenti dalla vigesima.

E in quest'opinione mi conforta l'esame del complesso delle norme concernenti l'alienazione, la permuta, l'ipoteca etc. dei beni dei minori. La prima disposizione imperiale che ci interessi è l'orazione di Settimio Severo del 195 con cui si proibiscono ai tutori gli atti dispositivi senza il «decretum judicis». Al suo tempo, si badi, l'antica costituzione municipale era già così profondamente modificata da presentare le stigmate della decadenza ormai vicina e, sebbene non ancora molto esteso il sistema dell'obbligatorietà e dell'ereditarietà delle cariche e degli uffici, più non si avevano gli antichi sistemi autonomici con cui dalla metà del 1.º secolo av. Cr. Roma aveva tentato unificare tutta l'Italia certo e forse tutto l'impero.

[16]

Orbene tale orazione[32] si esprime precisamente così: «Praeterea, patres conscripti, interdicam tutoribus et curatoribus ne praedia rustica vel suburbana distrahant, nisi ut id fieret, parentes testamento vel codicillis caverint». E tanto nel principio del titolo, che è un commento di Ulpiano, come in tutte le altre leggi che a questa si riconnettono, troviamo uniti i «praedia suburbana» con i «rustica». Una sola fa eccezione e secondo me, importantissima: la legge con cui l'imperatore Gordiano estende all'agnato del furioso le cautele imposte al curatore ed al tutore, dicendo che non a torto si viene ad estendere il beneficium dell'orazione del divo Severo, per il quale «possessiones rusticas sine decreto Praesidis pupillorum seu adolescentium distrahi vel obligari prohibitum est». Come si vede secondo questo passo l'orazione non si sarebbe occupata dei «praedia rustica et suburbana» in contrapposto ai beni urbani, ma dei soli «praedia rustica». E «praedia rustica», si osservi, non per la loro destinazione, secondo il concetto elaborato dalla giurisprudenza, ma, come è chiaramente indicato dall'unione con i «suburbana», per la loro situazione territoriale.

Ora, poichè la disposizione gordiana del 239 è solo di pochi anni posteriore a quella di Severo, io ritengo molto probabile che il testo primitivo di questa parlasse solo di «praedia rustica» e che si debba ad interpolazioni di poco posteriori l'aggiunta dei «suburbana» passata in tutti i testi successivi.

La regola giuridica che richiede per i soli «praedii» fuori del suburbio l'interposizione del Preside può essere illuminata da un doppio punto di vista. Prima di tutto da quello interno della famiglia. Il capo di essa aveva così ampia sfera di azione che anche dopo la morte la sua volontà aveva valore e quindi la sua designazione si considerava perfetta nella scelta e nella destinazione [17] specialmente per quei beni che costituivano il nucleo più importante dell'eredità. Si sa, infatti, che sotto un certo aspetto si può dire che l'erede continua la personalità del defunto. In secondo luogo può essere interpetrato dal punto di vista fiscale, per l'imposta ereditaria della vigesima la quale, attuata la prima volta da Augusto, sparisce prima della radicale riforma dioclezianea. Ed è logico che sia così: concessa da Caracalla la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero e preso a base degli «honores» il censo determinato in base all'entità e non alla situazione territoriale[33], i primitivi concetti puramente romani, vigenti sopra tutto per l'Italia, andarono in disuso ed ebbero conseguenze del tutto opposte a quelle che si sarebbero potute immaginare. Infatti quei beni urbani e suburbani che lo Stato, in riguardo alla loro funzione lasciava a disposizione più immediata e rigorosa dell'autorità familiare e indenni da gravami ereditari, quando in seguito, i concetti ereditari romani più che trasformarsi si rovesciarono, si trovarono meno tutelati degli altri. Il preside oltre e più dell'esazione, della vigesima, tardi entrata e presto sparita, curava la salvaguardia degli interessi del minore. Si diminuiva la forza creativa della designazione del de cuius ma si aumentava la tutela del patrimonio dell'erede. Anzi, come dapprima questa vigilanza si esercitava solo su i predi rustici, quando su questi venne invece a fondarsi la partecipazione agli «honores», non si capì più — specialmente trattandosi di disposizioni che dovevano aver valore nella immensa varietà dell'impero — il nesso storico che aveva guidato a quel resultato. E come al tempo di Cicerone non si comprendeva l'evoluzione ereditaria nè le fasi per cui la tutela e la curatela da istituti a vantaggio della famiglia si erano capovolti in vantaggio del minore contro di essa; così dopo Alessandro Severo [18] più non si comprese la distinzione originaria dei beni in urbani e rustici e si formò la corrente giurisprudenziale che intese a spiegarla in base alla funzione da loro adempiuta. E come questa era diretta ad uno scopo economico cui servivano senza contingenze di elementi politici, la legislazione si uniformò ai criteri elaborati dalla scienza. Con questo in più: che quei beni rustici, i quali si trovarono più tutelati perchè riguardo a loro lo Stato restrinse gli antichi rigidi vincoli dell'autorità familiare, resultarono più tardi a maggior vantaggio di questa perchè nel periodo di maggior sviluppo economico furono considerati come l'elemento indispensabile per il godimento degli «honores». Ed al legislatore il problema si presentò in maniera del tutto opposta a quella con cui si era impostato, perchè le prime cose che si vendevano oltre i mobili, gli argenti, gli ori e le cose preziose erano le case cittadine, in cui, come dice Costantino[34], era morto il padre e era cresciuto il minore con davanti agli occhi le statue degli antenati. Questo, dove l'eredità romana aveva trovato il suo fulcro genetico, per cui era lasciata libera al padre la «designatio» decisiva, veniva ora ad essere la parte del patrimonio esposta per la prima alla vendita.

E Costantino, che ebbe sacro il culto familiare, insorse contro tali alienazioni profanatrici con una legge basata su criteri di distinzione dei «praedia» in «rustica» ed «urbana» importantissimi per noi. Infatti egli mette insieme «mobilia pretiosa, urbana etiam praedia, et mancipia, domos, balnea, horrea atque omnia, quae intra civitatem sunt», in contrapposto a «mancipia et praedia rustica». Poichè, — come già da più di un secolo Ulpiano aveva insegnato[35], — urbanum praedium non locus facit sed materia, — le «domus», i «balnea», gli «horrea» etc. sono predi essenzialmente urbani, la specificazione di intra civitatem deve avere una significazione speciale [19] e questa non credo possa essere che quella della città insieme col territorio che le è intorno strettamente avvinto e distinto dal rimanente. Ed allora, se solo i «praedia rustica» sono contrapposti a quelli della città ed, anzi, insieme con questi sono considerati i suburbani, si avvalora l'ipotesi da me espressa che Severo ed Ulpiano abbiano parlato di «suburbana» solo per l'interpolazione che i loro passi hanno dovuto subire[36].

La trasformazione sostanziale dei concetti su cui si basava la partecipazione agli «honores» è importantissima per spiegare anche un altro istituto di diritto privato: la fiducia. È noto che l'ipoteca è un istituto di origine piuttosto tarda: le sue parti furono per lungo tempo sostenute dalla fiducia che ne differiva sostanzialmente perchè dava al creditore la proprietà della cosa oggetto del negozio. Ponendo in relazione questo fatto con la norma che a base dei diritti pubblici metteva la proprietà di una «domus», cioè di un palazzo, di una casa signorile[37] appaiono chiare le conseguenze terribili per il debitore fiduciario che, privato della proprietà della sua «domus», si trovava ipso fatto privato del diritto della cittadinanza che garantiva e tutelava più di ogni altro i cives romani. E la fiducia, che si basa su un immobile, serve solo per le classi più [20] elevate — «patres» e «patricii» — mentre per i plebei si ha il nexum che è il titolo esecutivo personale, che dà il debitore insolvente in mano al creditore. Solo più tardi, dopo la lunga lotta dei plebei (nella quale è noto quanta parte avesse la questione dei debiti) così la fiducia come il nexum perdono il loro carattere politico e divengono puri istituti di diritto privato.

La natura oligarchica della costituzione romana, insieme con le condizioni economiche, la maggior garanzia data al creditore e la tendenza conservatrice italica, permise a tale istituto di mantenersi a lungo; ma anch'esso, sebbene non sparisse dal diritto privato, perdette ogni forza nel diritto pubblico quando la magistratura poggiò non più sulla «domus» ma sul «praedium» e non fu più ritenuta come indispensabile la specifica proprietà dell'«hedificium».

§ 5.

— Da quanto si è detto fin qui si apre la via ad una congettura di fondamentale importanza.

Se leggi speciali sanzionano per Roma il principio che i «continentia aedificia» fanno parte della città, se ne può dedurre che per le altre città vigeva il principio opposto, vale a dire la separazione fra la città murata e le costruzioni in immediata vicinanza di essa e, cioè, — poichè queste, per necessità di cose non potevano aggrupparsi che presso le porte — i borghi della città stessa[38].

Lo Zdekauer[39] ha avanzata l'ipotesi che i borghi fossero preveduti nel momento della fondazione della città e non già frutto e conseguenza di un successivo incremento della popolazione. Ed ha perfettamente ragione.

[21]

Per quanto sieno scarsissime le fonti a questo proposito, l'importanza del problema che esse concernono è tale che non si può almeno non intravederlo, perchè in questo punto sta la chiave della spiegazione del problema dell'incolato.

Luciano[40], il mordace filosofo eclettico del secondo secolo dopo Cr., con il suo abituale sarcasmo contrappone gli ’επήλυδες καὶ ξένοι dei sobborghi agli indigeni — ’αυθεγευῆς θὲ ούδεις — della città, in cui è cittadino chiunque voglia esserlo. Perciò, egli dice, i barbari sono molti.

E anche più esplicita è l'iscrizione affricana di Sicca Veneria che ci parla di «incolae quae intra continentia coloniae nostrae aedificia morabuntur»[41]. E lo stesso fenomeno è confermato per i sobborghi di Samos[42].

Ora, come si è visto, soltanto a Roma i «continentia aedificia» facevano parte della città. In tutte le altre città, invece, erano compresi nella zona dei «mille passus». Ma non erano in tutto regolati dallo stesso regime giuridico che reggeva le città. Oltre alle magistrature maggiori, la cui autorità si estendeva su tutto il territorio giurisdizionalmente soggetto alla «civitas»[43], ve ne erano delle minori, delle quali alcune esercitavano il loro potere sulla città e sui mille passi adiacenti e altre soltanto entro la cinta murata. Asconio nel commento alla quarta orazione di Cicerone contro Verre distingue nettamente il MAGISTRATUS INTRAMURANUS dal MAGISTRATUS URBANUS[44], mentre due iscrizioni comensi ricordano [22] il SEXVIR URBANUS[45], che non è poi così inaudito e inesplicabile, come è apparso al Mommsen[46], perchè esaminando tutta la scala delle cariche[47], i collegi[48], la popolazione[49], fra la città e i sobborghi si trovano sempre delle differenze: differenze di cui si hanno tracce anche prostazioni finanziarie[50] e nella costruzione dei monumenti[51]. Di più nella generalità delle città, Roma [23] compresa, le divinità del suburbio sono differenti da quelle cittadine[52] e da quelle rurali.

Qualora si metta in rapporto questo insieme di elementi col diritto di cittadinanza romano, si può concludere che originariamente entro la città abitavano solo i «cives», mentre i sobborghi erano rilasciati agli «incolae». Ed è per questo che si spiega come fino da quando una città si fondava, si prevedevano i sobborghi[53].

§ 6.

— La trasformazione del regime giuridico dei beni urbani e suburbani, di cui ho parlato or ora, è relativamente tarda per le altre città, ma antichissima per Roma, la quale si trova ad aver sorpassato questo stadio gran tempo prima che si sia iniziato il movimento di unificazione dei municipi e delle colonie italiane, che, secondo i Gracchi, dovevano costituire con Roma il fulcro organico e congruo dell'impero. Di qui la ragione della permanenza del passo di Macro nel Digesto.

Se il primo miglio da Roma comincia dove i «continentia» aedificia finiscono, questi sono, evidentemente, considerati come un tutto unico con Roma stessa. E questo è tanto vero che chi è nato nei «continentibus aedificiis» è considerato come nato a Roma. Se non erro la chiave per spiegare tale differenza è data dalla disposizione [24] per la quale chi era cittadino di Roma, per nascita o per domicilio — poichè anche per questo valeva la stessa regola — aveva diritto a partecipare alle distribuzioni annonarie ed ai congiaria che, immesse in modo stabile fra le spese pubbliche dalla lex sempronia frumentaria del 133 av. Cr., non furon più tralasciate. Dapprima la distribuzione era fatta dietro un lieve correspettivo; ma verso la metà del 1.º secolo av. Cr. divenne completamente gratuita. È qui che balza fuori l'importanza del «pomoerium», ben differente da quella dei secoli antecedenti. Lo Zdekauer ha dimostrato come non sia accettabile l'opinione del Mommsen che il pomerio si mantenga quel cerchio intramurano che gira intorno città[54]: ma io ritengo che non si debba accogliere nemmeno l'altra accettata dallo Zdekauer, dal Detlefsen[55], dall'Uelsen[56], dal Nissen[57] e dal Merlin[58], [25] che il pomerio si porti avanti non con l'ingrandimento della città, ma quando si allargano i confini dell'impero e che rappresenti presenti una cerchia sacrale e non un limite amministrativo o di diritto privato.

Il pomerio, per me, conserva sempre il suo carattere peculiare che è quello di servire a separare i cittadini della città murata da quelli che ne son fuori: esso si allontana dalla sua base primitiva, cioè le mura, quando le condizioni peculiarissime di Roma lo richiedono. Per la parte politica non necessitano trasformazioni, chè la divisione in tribù urbane e rustiche permane fino a che tutto non si accentra nelle mani dell'imperatore. Ma la cosa è ben diversa nel campo amministrativo: per partecipare alle distribuzioni bisognava esser cittadini di Roma città. Ciò è tanto vero che la rubrica VII della legge «julia municipalis», posteriore di un'ottantina d'anni, la quale stabilisce che l'edile debba sorvegliare in egual modo le vie «in urbem Romam propriusve urbem Romam passus mille» non conosce la distinzione dottrinaria fra «urbs» e Roma[59], che non si era ben delineata nemmeno ai tempi di Alfeno[60].

Ora a chi consideri la natura dell'equilibrio delle forze patrizie e plebee nella costituzione di Roma non può sfuggire come la forza del veto tribunizio sia tale da impedire ai patrizi quasi tutto ciò che alla plebe non piace. Quando il sistema repubblicano decade e si prepara l'avvio al principato e la corruzione serpeggia con le fraudolente ed arbitrarie inclusioni di cittadini nelle tribù fatte dai censori e le violenze della «turba forensis» — ben note e frequenti dai tempi di Tiberio Gracco a quelli di Augusto — elemento indispensabile per riuscire a dominare era appunto il favore di questa turba. Favore interessato, ben inteso, che si risolveva nella concessione delle cariche meglio fruttifere ai più potenti [26] e nella distribuzione di pane e di circensi agli altri. Varî erano i modi di contentare i primi; unico quello di soddisfare i secondi: aumentare il numero di quelli che avevano diritto alle distribuzioni annonarie e renderle sempre più abbondanti e gratuite. Si vede bene che il concetto genetico era l'attuazione pratica di un calmiere da parte dello Stato a favore dei meno favoriti suoi membri, per render loro possibile l'acquisto delle derrate alimentari al minor costo che la produzione annuale e le condizioni dell'erario permettevano.

La «lex Octavia» dell'85 av. Cr. ridusse a 5 i modi assegnati a ciascun cittadino, ma lasciò immutato il sistema. Invece Clodio, il turbolento e facinoroso strumento di Cesare, nel 58 av. Cr. introdusse il principio assoluto della gratuità trasformando l'istituzione economico-filantropica in uno strumento di dominio che Cesare ed Augusto non si lasciarono sfuggire di mano. Il primo portò il numero dei partecipanti a 150000, il secondo a 200000. Gli storici son concordi su questo punto.

Si è tentato variamente di spiegare il modo tenuto per arrivare a questo resultato ed il Willems[61] ha messo bene in evidenza il sistema della redazione delle liste che potevano favorirlo: ma queste erano la conseguenza del mezzo adottato per riempirle, non il mezzo stesso.

Questo mezzo era l'allargamento del pomerio.

L'unico storico che si occupi un po' a lungo delle vicende del pomerio è Tacito, che ne parla nei suoi annali[62]. Questi, messi in relazione con le modificazioni più su accennate, concordano perfettamente. Egli dice che il pomerio cittadino fu allargato da Sulla, da Cesare, da Augusto e da Claudio e aggiunge che i termini posti da quest'ultimo e di cui era stato redatto atto pubblico erano visibili ancora ai suoi tempi. È vero che egli dice [27] a proposito di Cesare che questo allargamento fu fatto secondo quel «more prisco quo iis qui protulere imperium, etiam terminos urbis propagare datur». Ma la consistenza di questo antico costume appare evidente nel capitolo successivo nel quale egli descrive il cerchio del pomerio segnato da Romolo e da Tazio dopo le loro vittorie[63]. Nessun rancore si deve tenere al sobrio storico se da buon romano egli accoglie volentieri le magniloquenti leggende glorificanti l'Urbs; ma nessun timore che egli ne tenga a noi, se noi che lo possiamo, vagliamo con critica severa i dati che egli ci somministra. E questi son tutt'altro che da accogliere per l'epoca regia. Tratto in inganno dalla somiglianza delle condizioni nelle quali Sulla, Cesare ed Augusto avevano ampliato il pomerio con quelle attribuite dalla tradizione a Romolo ed a Tazio egli le mette in relazione. Ma, per quanto vi sia una remota corrispondenza di fatti, non sono e non possono essere in relazione.

Queste notizie servono a consentire una determinazione approssimativa per giudicare quando entrò nella legislazione romana la massima che considerava come parte di Roma gli edifici continenti senza soluzione di continuità lungo le strade. Non prima di Claudio perchè egli fissò limiti ben determinati, non dopo Papiniano perchè il passo del Digesto[64] che parifica i nati nei «continentibus aedificiis» a quelli nati entro le mura è tolto dal suo terzo libro «ad legem Juliam et papiam». [28] Dunque fra il 54 e il 212 dopo Cristo e, date le condizioni generali dell'impero, piuttosto più vicino al secondo termine che al primo.

La mia conclusione si allontana alquanto da ciò che resultò allo Zdekauer e agli altri autori ricordati. Se il pomerio include i «continentia aedificia» e questi segnano il limite estremo del diritto dei cittadini alle distribuzioni annonarie e il massimo termine entro il quale il tutore, che vuole scusarsi, si considera come presente entro la città, mi pare che sia da giudicarlo come un limite di carattere amministrativo e di diritto privato insieme.

Così, oltre alle trasformazioni dei domicilia suburbani, son venuto a parlare della condizione speciale dei plebei di Roma.

È tempo di occuparsi della plebe cittadina delle altre città.

§ 7.

— «Plebs», secondo l'opinione concorde di tutte le fonti, di qualunque tempo da Gaio[65], a Paolo[66] a Teodosio il giovane[67] giù giù fino a Giustiniano[68], sotto l'aspetto personale, ha un unico concetto negativo: è costituita dai «ceteri cives sine senatoribus». Secondo alcuni scrittori[69] questa parola, presa in senso più stretto, indica quella parte della cittadinanza che, non avendo alcuna fortuna patrimoniale, è esonerata da ogni imposta[70]: ma siccome, appunto per questo, è esclusa da ogni partecipazione alla vita pubblica attiva, così non ne terrò conto che quando la sua posizione giuridica apparrà modificata.

[29]

Sotto l'aspetto della sua connessione territoriale la «plebs» è stata fino ad ora divisa in due grandi categorie: urbana quella entro le mura — fatta eccezione per Roma i cui «continentia aedificia», come vedemmo, sono considerati parte integrante della città; — rustica l'altra.

Questa bipartizione, secondo me, è errata e deve cedere il posto ad una tripartizione così formulata: PLEBS urbanaPLEBS extra muros positaPLEBS rustica.

Fondamentale a questo proposito è il tit. 55. (Ut rusticani ad ullum obsequium vocentur) del libro XI del codice giustinianeo, che contiene queste due leggi:

«Ne quis ex rusticana plebe, quae, extra muros posita, capitationem suam detulit et annonam congruam praestat, ad ullum aliud obsequium devocetur, neque a rationali nostro mularum fiscalium vel equorum ministerium subire cogatur».

«Si qui eorum, qui provinciarum rectoribus obsequuntur quique in diversis agunt officiis principatus et qui sub quocumque praetextu muneris publici possunt esse terribiles, rusticano cuipiam necessitatem obsequii quasi mancipio sui iuris imponant aut servum eius vel forte[71] bovem in usus proprios necessitatesque converterint [sive xenia aut munuscula quae canonica ex more fecerunt, extorserit, vel sponte haec, quae inprobata sunt, oblata non refutaverit], ablatis omnibus facultatibus, perpetuo subiugetur exilio[72]: et nihilo minus rusticanum, qui se in eiusdem operas sponte propria detulisse responderit, par poenae severitudo constringat. [Eadem vero circa eos censura servetur qui xenia aut munera deferri sibi a possessoribus cogunt aut oblata non respuunt]»[73].

Lo scopo di queste due disposizioni — ce lo dice il titolo — è di impedire le concussioni e le sopraffazioni [30] di cui erano vittime i rusticani e di proteggerli contro le arbitrarie imposizioni di ogni obsequium. Quest'ultima parola ha usi svariatissimi nelle fonti giustinianee e pregiustinianee, nelle quali ora ha significato di officium, ora di munus, ora di ministerium, oscillando da un mero contenuto di prestazione di opera ad uno più ampio di contributo di opera e di materia.

Nel nostro caso però, se non m'inganno, il senso ne è reso chiaro da un'altra legge[74] strettamente connessa con le nostre. In essa s'impone al Prefetto del Pretorio di far cessare quella praebitio operarum, quae inlicite a provincialibus hactenus expetita est.

Ora nella legge di Valentiniano, Valente e Graziano, che è la fonte di questa disposizione e che, oltre ad esser più lunga, è diretta ad un fine diverso, non solo questa «operarum praebitio», è qualificata come un «obsequium», ma è anche specificata: essa si prestava cum animalia, quibus prosecutio debeatur, advenerint.

Ed in questa interpetrazione concorda anche il senso della parola «ministerium» quale la troviamo usata in tutti e due i passi. Essa non indica soltanto l'opera che si presta con l'intervento di una determinata persona, ma anche un certo sacrifizio pecuniario da parte di quest'ultima: sacrifizio che può giungere fino ad una contribuzione vera e propria, strettamente connessa con l'opera prestata come, per esempio, nella legge dell'anno 406 con cui Onorio e Teodosio limitano ai soli Comites e Magistri militum il diritto di pretendere dalle città il riscaldamento dei loro bagni privati (ministerium)[75].

Lo scopo generico delle due disposizioni dunque è eguale: vediamo ora se lo stesso si può dire del fine specifico di ciascuna di esse.

Nella prima si impone ai Rationales di non costringere al «ministerium» delle mule e dei cavalli del fisco [31] la plebe rusticana extra muros posita che adempie a certi obblighi. Nella seconda si proibisce a tutti gli ufficiali sottoposti ai rettori delle provincie di trattare il «rusticanus» come un proprio mancipio e di usare dei servi e dei buoi di lui come di cosa propria.

Intanto mancipes ha qui un senso specifico chiarito da numerose leggi del codice teodosiano[76]: la parola indica coloro che, preposti alle singole stationes e mutationes del cursus publicus, ne curavano il buon andamento guardando che gli animali non fossero rubati, trattati male, troppo percossi, privati del pascolo etc.[77].

La legge dunque vuole che questi magistrati non facciano abuso dei poteri da essi tenuti sui provinciali fino a costringerli a fornir loro tutto il necessario per i loro viaggi, precisamente come per il servizio pubblico erano tenuti a farlo gli appositi mancipi e, sopratutto, non adoperino per loro esclusivo e particolare vantaggio i servi o i buoi di essi, sempre, ben inteso, sotto lo specioso pretesto che si trattasse di un pubblico tributo. Infatti è da tener presente che mentre il «cursus publicus» vero e proprio è un servizio instaurato dagli imperatori[78] e mantenuto con le contribuzioni delle città e dei privati, tali contribuzioni non giungono tuttavia a rivestire un carattere specifico di destinazione esclusiva a quel particolare scopo, come avviene invece per le contribuzioni dell'annona e dell'«hospitalitas»[79].

[32]

Ma in breve si aggiunse un sussidiario servizio di trasporto — cursus clabularis — cui erano adibiti i buoi. E questi buoi non erano forniti dallo Stato ma dai proprietari fondiari sicchè tale fornitura gravava sui fondi come un onere reale[80] insieme col «ministerium» occorrente e cioè col mantenimento e con la cura degli animali stessi: cioè la paglia, il fieno etc. ed il servo o i servi necessari. Costantino, che mirava a risollevare le condizioni già tristi dell'agricoltura e a non opprimere troppo i possessori rustici, con una legge dell'anno 315, oltre a proibire che i buoi aratori ed i servi coltivatori potessero essere pignorati per debiti fiscali[81], volle che i primi fossero esclusi dal «cursus publicus» a cui dovevano servire soltanto animali appositamente destinati[82].

Disgraziatamente le condizioni dell'impero, come è noto e come vedremo meglio in seguito, peggioravano sempre più e gli imperatori non avevano ormai altro scopo che di estorcere il massimo denaro dalle provincie. E perciò anche la maggior parte dei saggi provvedimenti del codice teodosiano rivolti al miglioramento ed al progresso dello stato o spariscono del tutto o si trasformano profondamente nel codice giustinianeo. Così avviene della legge tutelatrice costantiniana di cui più non troviamo traccia e così avviene della legge 2 che ho riportato integralmente e della quale le mutilazioni triboniane hanno del tutto cambiato il senso e lo scopo.

Importantissimo per lumeggiare questo fatto è il vedere che i due passi — strettamente connessi l'uno all'altro — non riportati nel codice giustinianeo da una [33] parte ci parlano di «xenia» e di «munuscula» e dall'altra di «possessores», dimostrando così in modo non dubbio — anche se non bastasse il fatto che il titolo sotto cui si trova la legge è «ne damna provincialibus inferantur», — che la legge tratta e si occupa di «provinciales», cioè di «possessores». Invece — e questo è il punto fondamentale — nel codice giustinianeo si occupa dei «possessores», dei «provinciales» la legge unica del titolo «ne operae a conlatoribus exigantur»[83] e la legge teodosiana che prima li regolava, è trasformata completamente. Invece che i «provinciales» e i «possessores» essa concerne quei rustici i quali risiedono su una terra, della quale non sono proprietari, dal momento che la «praebitio operarum» col suo contenuto economico, colpisce questi e non essi, mentre li colpisce invece col suo contenuto di prestazione di opera, con le angariae[84], per usare il termine tecnico delle fonti.

Ma se noi osserviamo da questo lato la prima delle leggi prese in esame, vediamo subito una differenza enorme. Quì la «plebs rustica» paga la «capitatio» e presta l'«annona»: anzi è appunto il soddisfacimento di questi oneri che dá diritto all'esenzione dal «ministerium» [34] delle mule e dei cavalli del fisco, tanto che, argomentando a contrario, si può dedurre che fra quelli della plebe rustica posita extra muros tale imposta grava solamente su coloro che sono esenti dalla «capitatio» e dall'«annona».

Ora nella categoria dei coltivatori di terre altrui, genericamente indicati col nome di «plebs rustica» due leggi del codice teodosiano fanno una distinzione che permane anche nel codice giustinianeo[85], da una parte di coloni originali[86] e dall'altra di «plebs adscripta»[87]; ma quantunque ne costituiscano quasi la totalità sia con l'opera che con i frutti nè questa nè quelli sono chiamati direttamente al soddisfacimento dei «munera», dei quali risponde allo Stato il «possessor». È giusta l'osservazione fatta dal Leicht[88] che in realtà tali tributi, in via ordinaria, erano pagati dai coltivatori, ma non condivido la sua opinione che questi ultimi stieno direttamente di fronte allo Stato in qualità di contribuenti. Un caso in cui ciò sembra avvenire è quello della legge con cui Valentiniano e Valente concedono ai «coloni rei privatae» l'adhaeratio nella conlatio equorum[89] che consisteva nel pagare 23 soldi invece di ogni cavallo da consegnarsi all'esattore[90]. Ma, anche a non considerare che questa legge non è stata accolta da Giustiniano, bisogna pensare che siamo nel caso specialissimo di coloni non già di un privato qualunque ma della res privatae, di fronte alla quale essi per l'indissolubile legame che ormai li avvince al fondo, appaiono nel rapporto più similiare a quello possessorio. E per di più si tratta di coloni dell'Africa, il paese classico del colonato [35] e dei saltus, le cui «leges», come è noto, hanno un processo di formazione[91] ed un'azione rispetto agli abitanti del saltus, paragonabile, almeno in parte, a quella delle leggi ordinarie per i cittadini dello Stato.

E sopratutto poi bisogna tener presente una fondamentale distinzione fra i redditi dei tituli canonici dell'annona e dei tributi amministrati, curati e sorvegliati dal «Comes sacrarum largitionum» e che pervenivano al Fiscus, da quelli dei beni e dei «fundi» della «res privata» che erano amministrati dal «Comes rerum privatarum»[92].

La legge su citata non ha carattere pubblico se non in quanto si possono considerare di diritto pubblico le cose che compongono la «res privata» del principe. In questo caso si tratta dei «saltus» africani di cui il principe è proprietario nè più nè meno di un privato qualunque[93] onde non si può avere che un rapporto puramente privato di natura non diversa da quelli che nascono dalle disposizioni delle «leges saltus».

[36]

E questo è tanto vero che l'obbligo della collazione di cavalli, in natura o in moneta, non grava su tutti i coloni del «saltus» ma solo su quelli che, come interpetra acutamente Gotofredo, sono obnoxii et adscripti terrae sotto la vigilanza dei procuratores saltus detti anche procuratores rei privatae.

Qui non si giunge ad un concetto di diritto pubblico se non attraverso la persona di carattere prevalentemente pubblico del principe, ma la natura del rapporto è privata.

L'unico caso in cui si possano veramente vedere i coloni soggetti direttamente all'imposta è dato dai coloni dei praedia fiscalia. Questi appariscono in tale condizione dalla legge che esplicitamente li sgrava dai «munera» della «civitas»[94].

Ma questo caso ha pur esso la sua spiegazione. Ciò avviene perchè, per la mancanza del concetto di persona giuridica dello Stato, concetto limitato al Fiscus, il diritto romano non concepisce dei beni fiscali tributari dello Stato e quindi, mancando il soggetto diretto dell'imposizione, si vuole impedire che questa venga a gravare su coloro che con la terra appartenente al fisco hanno maggiori vincoli e, cioè, per la parte affittata e subaffittata, al colono, al servo della gleba che rimangono sempre vincolati al suolo per quanto gli affittuari cambino; e per la parte dominica al «procurator»[95].

Ora, dunque, nel primo caso s'impone al colono una gravezza che rientra nella categoria di quelle che gli incombono per la natura della sua condizione giuridica. Non si deve, quindi, in questo caso parlare di soggezione all'imposta da parte dei coloni.

Parrebbe invece che legittimamente se ne potesse parlare per il secondo caso; ma qui questo assoggettamento avviene per l'incompletezza della teoria romana [37] in un punto specialissimo, limitato, circoscritto e non estensibile ad alcun altro caso[96].

C'è però una legge importantissima del codice teodosiano[97] che dice: «decurio pro ea portione (sc. tributorum) conveniatur in qua vel ipse vel colonus vel tributarius eius convenitur et colligit (fructus); neque omnino pro alio decurione vel territorio conveniatur». Questa legge è riportata dal Leicht[98] a sostegno della sua tesi e forma, anzi, la base ed il fulcro della sua dimostrazione[99].

Ma a me sembra, che l'interpetrazione più piana debba considerare il «convenitur» come riferentesi al decurione, ed il «colligit» a «colonus vel tributarius» onde l'espressione significhi che il decurione è responsabile del pagamento dei soli tributi delle terre che gli appartengono e di quelle di cui gode i frutti attraverso l'opera della «plebs rustica». Ora la natura di questa «plebs» ci è chiarita dalle fonti che ce la mostrano assegnata, distribuita e vincolata alla terra[100] e comprendente tutta quella scala sociale di individui che dal servo addetto ai lavori rustici, saliva attraverso al colonato, fino a quegli inquilini e subaffittuari sui quali specialmente, [38] dovevano gravare le conseguenze della scarsa certezza del diritto, sopra tutto per il fatto che risiedevano su terra altrui[101]. Tutte queste persone non giungevano al diritto pubblico che attraverso al «dominus» della terra e di fronte a questo dal servus, che non aveva affatto personalità, si andava fino al colonus che ne aveva una così distinta da poter annullare in parte il contenuto dispositivo della proprietà dominica e fino al tributarius personalmente ancor più indipendente e libero del colono. Per ciò a me pare esatta l'espressione della legge «colligit fructus»: tanto il colono, quanto — e più — il «tributarius» hanno una sfera di attività e di produzione indipendente o almeno autonoma di fronte all'attività dominica; ma lo Stato ritiene responsabile il «dominus» del pagamento delle imposte di ogni terra [39] da cui tragga vantaggio chiunque è legato a lui e al suo fondo.

Stando così le cose, se si mettono a confronto le due leggi del titolo 48, salta agli occhi una differenza importantissima: quella plebs rustica che è extra muros posita paga la capitatio e presta l'annona direttamente; l'altra no: la prima è soggetto, la seconda oggetto dell'imposta.

E, spingendo anche più avanti l'indagine, vediamo sorgere evidente anche un'altra differenza fra i due passi: nel primo l'imperatore si rivolge al «Rationalis», nel secondo al «Rector provinciae».

Il Rationalis, detto nei primi tempi dell'impero Procurator Caesaris[102], prima aveva la cura della sola «res privata» del principe, ma, quando la fortuna del capo dello Stato s'ingrossò del fisco[103], anche per esso si ebbero dei «rationales». detti rationales summae, o summarum. Non è facile distinguere con precisione le funzioni degli uni da quelle degli altri: entrambi sono egualmente ricordati nella Notitia imperii come ufficiali del comes sacrarum largitionum e del comes rei privatae[104]. Quel che a noi importa osservare è che essi sono ben distinti dai presidi e dai rettori delle provincie: a questi era affidata l'administratio, a quelli l'actus.

Ora qual'è la ragione per cui, mirando ad uno stesso scopo generico, il codice giustinianeo per alcuni incarica il «rationalis» e per altri «il rector provinciae»? Non perchè si tratti di cosa del fisco — il «cursus publicus» era «fiscalis» — tanto l'un servizio con i cavalli e le mule quanto l'altro con i buoi lo erano. — Non perchè si tratti di opere e prestazioni di natura diversa: in tal caso, (ne abbiamo un esempio nella legge teodosiana accolta da Giustiniano) il legislatore si sarebbe rivolto contemporaneamente a tutti e due, perchè, — è bene [40] ricordarlo — Triboniano modifica la legge teodosiana in modo da adattarla a quella «plebs» che giustamente Gotofredo equipara ai coloni[105]; mentre qui invece abbiamo proprio una «plebs» distinta dai «possessores» di cui si occupa un'altra legge e questa «plebs» appare di condizione ben diversa a seconda che sia indicata o no come extra muros posita. E, di più, questa differenza di opere è legata con una differenza giuridica rilevantissima, riguardo alla soggettività; soggettività equiparabile e simile, ma certo non identica a quella dei «possessores», dal momento che di questi si occupa una legge a parte. L'aver potuto riconoscere che esiste una speciale categoria di «plebs rustica» direttamente assoggettata all'imposta è cosa di importanza rilevante, che dà a questa categoria una fisonomia singolare ed una autonomia tutta propria così di fronte alla città come di fronte al resto della plebs rustica del contado, in un ambito che tutto porta a credere essere stato quello dei Mille Passus. Questo riconoscimento modifica, se non m'inganno, ciò che fino ad ora si è ritenuto in proposito e mostra come la concezione della città e del suo territorio avuta fino ad oggi non sia stata completa. E siccome uno studio delle nostre città medioevali deve muovere da un esame accurato della città romana, ognun vede l'importanza di questa constatazione. Essa sarà ancor meglio messa in evidenza nel corso del lavoro.

Intanto vediamo se si hanno altre prove dell'esistenza di una zona di territorio intorno alla città governata da un regime giuridico diverso da quello del restante territorio e i limiti e l'estensione di essa.

Vediamo dei beni pubblici.

§ 8.

— Senza scendere ad un esame della distinzione fra la «res publica» e la «res in patrimonio fisci»[106], [41] che non c'interessa ex professo, vediamo come gli scrittori hanno distinto i beni comuni pubblici.

Unico, si può dire, che abbia tentato una classificazione in questa materia, è il Rudorff[107], alla cui opinione hanno acceduto tutti gli scrittori successivi dal Brugi[108], al Roberti[109], al Calisse[110], al Finocchiaro-Sartorio[111]. Secondo il Rudorff tali beni si possono distinguere in tre categorie. La prima comprende tutti i beni che appartengono al municipio come persona giuridica ben distinta dai suoi componenti e che — e questa è considerata come caratteristica — non possono essere alienati. Tali sono, per un verso, le strade, le piazze, le mura, le porte e gli edifici pubblici, «theatra, stadia et similia» e dall'altro quelle terre, quei pascoli e quelle «silvae» che «in tutela rei urbanae adsignatae sunt». Nella seconda categoria sono i beni — anch'essi generalmente pascoli e boschi — appartenenti alla comunità non come ente, ma come aggregato di persone che di essi potevano godere dietro il correspettivo di un canone. La terza era costituita dai beni appartenenti non a tutti i cittadini, ma ad un gruppo di essi, con un rapporto di diritto prevalentemente pubblico, quantunque non scevro di infiltrazioni, talvolta molto forti, di diritto privato. I beni di queste due ultime categorie, a differenza di quelli delle prime, erano alienabili.

[42]

Secondo il Rudorff, dunque, i beni dell'«universitas» sono inalienabili.

Io non condivido la sua opinione.

Beni comuni a tutti i cittadini, intanto, sono soltanto le cose «publicatae, ab eo qui jus publicandi habuit»[112], sulle quali tutti i cittadini hanno «iure civitatis», non «quasi propria cuiusque»[113], diritto di uso conforme alla destinazione e limitato in modo da rendere possibile uguale uso da parte degli altri. Ma non erano inalienabili: le fonti ci mostrano la procedura facile e piana con cui si toglievano all'«usus publicus» e si alienavano[114]. Non era il carattere di uso pubblico che ostasse, ma il consenso dell'imperatore, rappresentante della volontà preminente del popolo romano. E quando, dopo Caracalla, ogni predominio di Roma fu giuridicamente spento nell'equiparamento comune, anche il consenso imperiale, poggiato soltanto su ragioni finanziarie, per il fatto che ogni bene delle città fu considerato come la garanzia delle imposte, non tardò a sparire. Teodosio e Valentiniano nel 443 autorizzano espressamente le città a vendere i loro beni in caso di bisogno[115].

Nè meno impreciso è il carattere preso a distinzione fra i beni della prima e della seconda categoria. È vero che per i beni della seconda specie si ha il pagamento di un «vectigal»[116]; ma questo non può essere preso come criterio distintivo. Lo stesso Igino, che chiama «vectigal» il canone pagato, distingue in diverso modo gli «agri vectigales», i quali, secondo lui, «sunt obligati quidam reipublicae populi romani, quidam coloniarum aut municipiorum aut civitatum aliquarum». Egli, dunque, [43] distingue i «bona vectigalia» dello Stato romano da quelli delle città suddistinte alla lor volta in «coloniae», «municipia» e «civitates»[117].

In realtà, se non m'inganno, a base della teoria del Rudorff sta un equivoco causato dalla tendenza a trasportare idee moderne sulle condizioni antiche troppo naturalmente diverse.

Nell'epoca nostra, quantunque tale materia presenti difficoltà non lievi[118], si hanno sicuri elementi di giudizio. Lo Stato nostro non è più costituito da un insieme di classi o di persone una sola delle quali domina e governa; ma risulta dalla stretta unione di un nucleo di abitatori con un determinato territorio, su cui si aderge un governo che è l'emanazione della volontà di questi e che ha per mira il bene di tutti con il minor sacrificio possibile dei singoli. E questo grande concetto è mirabilmente servito dal duttile istituto della persona giuridica, che, teoricamente perfezionata da Savigny, ha preso ora larghissimo e degno sviluppo. Ne consegue che criterio di distinzione fra i diversi beni sarà, oltre l'appartenenza, la destinazione; e a questo criterio potrà tener dietro, sebbene non sempre, ed in ogni modo sempre come effetto non necessario, anche l'amministrazione.

Nel diritto romano manca il grande concetto delio Stato moderno e di più nell'antichità, quantunque lo Stato sia un'entità concreta, mirabilmente perfetta, della fenomenologia sociale, non è un'entità di diritto. Lo Stato, come soggetto di diritto, coincide con il «populus romanus» e tutto ciò che a questo appartiene e che lo concerne, fu considerato come parte integrale della sua natura pubblicistica, così per le cose, come per i crediti e le obbligazioni patrimoniali e per l'acquisto dei [44] diritti[119]. Inoltre nell'antico diritto romano ogni istituto di diritto pubblico trova il suo substrato in un istituto di diritto privato, poichè rami interi di questo, originariamente estranei al diritto pubblico, vi sono col tempo trapassati[120]. Si deve anche aggiungere che l'elemento, più che principale, unico, considerato dal diritto romano nelle persone giuridiche è quello personale; l'«universitas», il «collegium»[121]. E così se originariamente pubblici erano solo i beni del popolo romano[122], come pubblico era solo il diritto che «ad statum rei romanae spectat»[123], più tardi, essendosi l'imperatore considerato come il rappresentante del popolo romano, i beni di lui, appunto perchè suoi, furono investiti di carattere pubblico anche se per destinazione e per uso non erano tali. Invece sotto altri aspetti si faceva una deviazione a questo principio. Infatti come conseguenza dell'applicazione del sistema di autonomia così usato dai Romani nelle conquiste, a poco a poco, più o meno intensamente nei diversi casi, si equipararono le singole città all'«Urbs» e si finì col chiamare pubblici, sebbene impropriamente, anche i beni di queste.

E, inoltre, la teoria rudorffiana pecca anche per altre inesattezze non lievi. Non tien conto del fatto, rimarcato per la prima volta dal Niehbur e confermato dalle indagini successive[124], della gran varietà di condizioni [45] di elementi e di vita delle città, ammessa e consentita da Roma che si limitò, anche in seguito, ad adattarlo e generalizzarlo[125]. E, per di più, ha raccolto indifferentemente materiali di ogni tempo e di ogni provenienza senza esaminare se l'uno poteva essere accoppiato con l'altro.

Quel «vectigal» — prendo l'esempio più alla mano — sul pagamento o meno del quale egli fa gran conto, indica propriamente il reddito ricavato dai beni pubblici e riscosso per mezzo dei pubblicani[126]. Invece più tardi da Ulpiano[127] esso ha avuto il significato di reddito di [46] beni pubblici comunque pagato e riscosso. E tale cambiamento di significato fu, come ben si comprende, la conseguenza delle modificazioni subite da quei beni che, tolti ai vinti e dichiarati suolo pubblico, formarono la parte più importante e più produttiva dei beni dello Stato durante la repubblica e furono poi in massima parte distribuiti ai privati con le leggi agrarie del settimo secolo[128]. Considerare il pagamento del «vectigal» [47] come peculiarità di certi beni — come fa il Rudorff — non è giusto per un duplice ordine di ragioni: anzitutto perchè il concetto l'estensione ed il valore se ne modifica rapidamente col modificarsi della costituzione di Roma e poi perchè non tutte le città, quando furono assoggettate all'egemonia di Roma, furono trattate alla stessa maniera[129]. E — aggiungo — anche se lo fossero state, beni pubblici delle città non furono mai quei «bona vectigalia» che furono, come si sa, distribuiti ai privati[130]; mentre invece ad esse fu conservata un'aliquota o la totalità dei beni, che già erano goduti in comune dai cittadini fino dalla fondazione della città stessa. Questi beni, in quanto avevano subìto più o meno intense modificazioni nella natura e nella funzione, si trovavano ad essere in condizioni diverse e, conseguentemente, sotto un regime giuridico differente da quello che regolava i beni comuni delle colonie, sia che fossero fondate «ex novo» oppure con una «deductio».

E così il Rudorff non tien conto, da una parte, della mancanza di uniformità nei concetti giuridici sostanziali, [48] dall'altra dei criteri differenziali portati dalla varietà dei tempi.

Per quest'ultimo riguardo si potrebbe fare a mio parere una distinzione in tre periodi: uno (da suddividersi in altri minori, a seconda delle vicende della città presa a studiare) fino agli imperatori; un altro dal secolo primo alla fine del quinto e l'ultimo che comprenda le modificazioni apportate dagli ultimi imperatori romani di occidente e quelle ancor più gravi della legislazione gota e bizantina.

Data la differenza enorme su accennata fra lo Stato romano ed il moderno, io non credo che la destinazione abbia in quello l'importanza che ha in questo e che, invece, criterio distintivo peculiare debba essere il sistema di amministrazione, che è, nel diritto attuale, un criterio quasi tutto affatto secondario.

Non bisogna dimenticare, però, come la deficiente costituzione giuridica dello Stato romano impedisca che questo, come ogni altro sistema di distinzione, vada esente da qualche deviazione.

Nell'anno 372 Valentiniano Valente e Graziano inibirono ai curiali la facoltà «conducendorum praediorum et saltuum reipublicae»[131]; ventotto anni dopo ne completarono la disposizione con la legge «de locatione fundorum iuris enfiteutici et reipublicae et templorum»[132]. [49] Dal confronto di queste leggi si vede l'errore del Rudorff nel comprendere fra i «communia» delle città, considerate come persone giuridiche, le porte, le strade, le mura et similia; e le terre, i pascoli e le selve assegnati «in tutela rei urbanae».

Nella seconda di queste leggi si considerano i «loca reipublicae, quae aut includuntur moenibus aut pomeriis sunt connexa», insieme con i «praedia» ed i «saltus» di cui parla la legge del 372, proibendo degli uni e degli altri la «conductio» ai curiali. Questi ultimi beni vengono distinti dalle mura, porte, strade, piazze, teatri e stadi, di cui parla Marciano[133], ossia «omnia aedificia publica sive iuris templorum intra muros posita vel etiam muris coherentia», i quali, nel caso che «nullis censibus patuerint obligata», Arcadio e Onorio stabilirono nel 401 che «curiales et collegiati teneant atque custodiant»[134].

E ciò, si badi, senza che manchi un esatto criterio di distinzione fra le due prime specie di beni: nell'un caso si parla di «loca», nell'altro di «praedia» e di «saltus». «Locus», ce lo dice Fiorentino[135], «sine aedificio in urbe area, rure autem ager appellatur»: esso non è un «fundus,» come nota Ulpiano[136], «sed portio aliqua fundi». Ed è chiaro anche il processo di modificazione del concetto delle mura e delle porte. Da prima, per il simbolico e religioso modo con cui erano costruite, si consideravano come sante e pubbliche in quanto edifici destinati al culto, il quale era considerato come funzione di Stato. Più tardi un logico senso di differenziazione, senza far loro perdere il carattere religioso, li separa dagli edifici [50] più propriamente destinati al culto, riconnettendoli ai beni pubblici ai quali erano da ascriversi per l'appartenenza, per la destinazione e per l'amministrazione.

Arcadio e Onorio, con le due leggi del 400 e del 401, disciplinano nuovamente il regime dei beni pubblici, con la mira di stringere ancor più il cerchio di ferro, che univa le persone al luogo di origine[137]. Essi vogliono che i beni enumerati vengano affidati in perpetua conduzione, mediante il pagamento di un annuo canone congruamente determinato, ai municipes collegiati et corporati[138]. Gotofredo, nel commento a questa legge, ritiene che «municipes» indichi i curiali, i decurioni; ma io penso invece che la parola abbia proprio il senso originario ristretto di «muneris participes recepti in civitate»[139]. Contro l'interpetrazione comune data da Paolo[140], a me sembra che urti la lettera della legge: penes municipes corporatos et collegiatos URBIUM singularum conlocata permaneant. Ora urbs, lo sappiamo, ha un significato tecnico che ne circoscrive l'ambito al cerchio delle mura[141]. E sappiamo pure che base esclusiva dell'organizzazione agraria dei romani era la città, e che solo in essa i cittadini abitavano e risiedevano[142], con esclusione, come ho cercato di dimostrare, anche dei sobborghi[143].

E c'è di più.

Costantino proibisce ai curiali la conduzione dei PRAEDIA [51] e dei SALTUS reipublicae, Onorio e Arcadio prima vogliono che i «LOCA reipublicae quae (si noti) aut includuntur moenibus aut pomeriis sunt connexa penes municipes corporatos et collegiatos conlocata permaneant»; e l'anno dopo danno delle norme per l'amministrazione di tutti gli AEDIFICIA PUBLICA intra muros posita vel etiam muris coherentia, i quali «aedificia», se «nullis censibus patuerint obligata», «curiales et collegiati teneant atque custodiant».

Anche non ponendo mente che gli imperatori medesimi, regolando la stessa materia, non potevano dimenticare la norma emessa pochi mesi prima — onde si può credere che avrebbero usata la stessa frase se avessero voluto esprimere lo stesso concetto —; vi è un altro argomento che porta, se non erro, un valido sussidio alla mia ipotesi; ed è la clausola che non fossero obbligati a nessun censo, clausola che non può indicare se non l'occupazione di suolo pubblico permessa ad un privato, dietro il correspettivo di un canone, il cui nome tipico è appunto censo.

Ed allora, se non m'inganno, scaturisce chiara una triplice distinzione dei beni comuni delle città:

1) praedia[144] e saltus, cioè appezzamenti di terreno coltivabile o ad uso di pascolo da essere locati al migliore offerente;

2) terre, aree, appezzamenti di terreno[145] entro la città o riconnessi al pomerio[146], da locarsi a cittadini collegiati o corporati;

[52]

3) aedificia entro la città o ad essa ricongiunti, i quali, fatta eccezione di quelli vincolati a privati dietro il pagamento di un censo, devono essere tenuti e custoditi dai curiali.

I primi, del cui reddito i cittadini godevano solo indirettamente, potevano essere liberamente locati al miglior offerente. Ma gli altri beni, che si trovavano entro la città o in immediata vicinanza e ne toccavano più da presso la vita, potevano esser locati soltanto a cittadini («omnis venientis extrinsecus... ademptatione remota»), i quali offrissero serie garanzie, evitandosi modi di «occultae conductionis». Si richiedevano cittadini collegiati e corporati, uniti, cioè, in quei collegi ed in quelle corporazioni che, per la loro importanza, erano giustamente detti membra urbis[147]. Ad essi soli, che sostenevano carichi e pesi pubblici, si concedeva il vantaggio dei redditi di questi beni, dietro il correspettivo di un canone, che il ristretto numero dei concorrenti rendeva assai tenue; mentre se ne escludeva quella plebs urbana, che Costantino aveva dichiarata immune dalla capitatio[148] e che veniva a goderne indirettamente a traverso [53] al censo annuo riscosso dal municipio ed adoperato a comune vantaggio. E, finalmente, gli edifici in città o nella cerchia del pomerio — rispettate le concessioni già perfette al momento della promulgazione della legge — non potevano essere ceduti; ed i decurioni, come rappresentanti della città, dovevano esercitare l'ufficio di vigilanza e di custodia di questi beni, che formavano parte integrante della città e dei quali tutti i cittadini godevano. Dunque, accanto a fondi comunque appartenenti alle città e dovunque situati, si distinguono le terre e gli edifici che sono entro le città stesse o sono ricongiunti ai loro pomerii.

Quale sia il limite territoriale di questa ricongiunzione la legge non dice: segno evidente che la teorica e la pratica concordavano a pieno a questo riguardo. E poichè noi non conosciamo altro termine usato dai Romani fuori di quello dei mille passus, ritengo che appunto questo limite fosse pacificamente riconosciuto a base della costituzione dei tempi imperiali.

§ 9.

— Si è visto come la legge di Arcadio ed Onorio accenni anche agli edifici iuris templorum. Nessuna meraviglia [54] che fossero considerati come pubblici in uno Stato in cui il culto era riguardato come una funzione statuale:[149] per il problema nostro importa vedere se abbiano qualche importanza le divisioni territoriali e più specialmente quella dei mille passi. Ammesso come vero ciò che io son venuto fin qui esponendo sulla differenziazione di questa cinta suburbana, nulla impedisce di supporre che il noto adattamento della Chiesa nelle circoscrizioni territoriali laiche non si sia arrestato davanti a quella. Ho già ricordato che i templi fuori delle mura sono così frequenti da essere giudicati di rito fino dalle prime età di Roma. Ma, se non è raro il caso di luoghi ove città suburbio e contado abbiano ognuno divinità differenti, come Roma, Aventicum, Selinunte, Segeste, Taormina, Samo, Fotidea ed altre[150]; le leggi di Arcadio ed Onorio del 400 e del 401, insieme con altri elementi, mostrano che questo stato di cose, fatta eccezione di Roma e, forse, di qualche altra città, col modificarsi della costituzione romana[151], finì col dare il posto ad un altro, nel quale le divinità del suburbio furono accolte fra quelle cittadine e la città ebbe un pagus suburbanus ad essa ricongiunto per ragioni di culto.

Tale è il Pagus Aug. Felix suburbanus di Pompei[152].

Il Mommsen, illustrando le numerose iscrizioni che lo ricordano, non ha creduto di poter giungere ad alcuna [55] conclusione sicura, ed il Voigt non si è occupato di tale questione. Ma, considerando come la Chiesa cattolica si sia fatta un'arma contro il paganesimo soppiantandone le manifestazioni del culto[153] e sostituendo le proprie istituzioni, anche nelle divisioni territoriali già da quello costituite, a me pare che, se fonti più tarde e documenti attendibili mostrano con evidenza che la Chiesa, come norma generale, considerò la città insieme ad un cerchio più o meno esteso di territorio all'intorno[154], lo stesso si debba presumere essere avvenuto antecedentemente. E valga il vero: un documento pontificio interessantissimo toglie ogni dubbio a questo riguardo. Nell'aprile del 596 Gregorio Magno si rivolge a Mariniano «episcopo ravennati cum caeteris fratribus et coepiscopis et sacerdotibus, levitis, clero, nobilibus, populo militibus civitate Ravenna consistentibus vel ex ea foris degentibus»[155]. Numerosi documenti, che appartengono ad un periodo successivo, provano il perdurare inalterato di uno stato di cose da secoli in vigore e spiegano il valore della espressione ex ea foris, che potrebbe essere interpretata in senso più lato che la frase non consenta. Per economia del lavoro e per non ripetermi, dovendo esaminare ad uno ad uno i documenti in parola nella seconda parte, riporterò ivi i testi, dai quali resulterà che l'unica ipotesi accettabile è che il pago suburbano si circoscrivesse nel limite dei mille passus.

§ 10.

— Parlando del limite dei mille passus rispetto al culto, ho accennato ad uno dei mutamenti su essi portati [56] dagli ultimi secoli dell'impero d'occidente. Bisogna ora considerare tale questione in modo più ampio. E perciò è necessario gettare un colpo d'occhio, per quanto rapido, sulla vita cittadina nel suo complesso. Non intendo entrare in un esame minuto, quantunque non le condivida, nè dell'opinione del Declareuil[156], il quale ha sostenuto che la decadenza dell'impero è posteriore di un secolo a quanto si ritiene comunemente; nè di quella del Baudi di Vesme[157], il quale, in antitesi piena col [57] Declareuil, pensa che già alla metà del secolo quarto l'organizzazione sia stata così completamente trasformata da essere del tutto spariti gli antichi duumviri giusdicenti, e sostituiti dovunque da un comes. A me basta considerare le trasformazioni del giuoco delle forze cittadine e le conseguenze che esse hanno avuto.

[58]

La plebe, nel senso moderno della parola, cioè i nulla tenenti, non aveva obblighi e non aveva diritti: l'autorità risiedeva nelle curie e nei magistrati. Però, essendo tali organi troppo rigidi; siccome si era venuta formando lentamente una nuova classe, uscita dalla plebe per ragione di aumentate ricchezze, i suoi componenti, che erano i minores possessores[158], mentre venivano aggregati alle curie per tutti gli oneri, non avevano poi alcun vantaggio, nè difesa speciale. Di ciò fu incaricato il defensor[159], che fu istituito come rappresentante e tutore dei [59] loro interessi dagli imperatori, i quali ne rilasciarono la nomina alle città: e queste vi procedettero per mezzo delle magistrature e delle curie, senza partecipazione alcuna della plebe, che, per essere stata esentata dalla capitatio da Costantino e per la sua povertà, non poteva aver bisogno di uno speciale rappresentante, nè, logicamente, partecipare all'elezione di esso. La plebe non partecipava alla vita pubblica che attraverso alla Chiesa. La Chiesa, centro fino dal terzo secolo, di interessi per tutti coloro che dalla potestà laica erano meno favoriti, ottenuto pieno riconoscimento giuridico e politico, avocò a sè a poco a poco le funzioni degli antichi culti, ed al modo di essi fu considerata come funzione pubblica e le fu affidata parte rilevante di quell'azione civile che lo Stato più non poteva espletare. E poichè, come gli antichi canoni sanciscono[160], il vescovo, nominato dal clero e consacrato dal pontefice, deve essere eletto da tutti i fedeli; così anche quella parte della popolazione [60] che ne era altrimenti impedita, riuscì a conseguire una partecipazione, per quanto tenue, alla vita cittadina.

Per necessità di cose, però, la Chiesa, entrata nell'orbita delle istituzioni statuali ed uniformandosi ad esse, aveva ristretto l'originario corpus christianorum nel sacrum venerabile concilium costituito dal corpo dei sacerdoti e l'azione della plebe nella costituzione politica sarebbe stata ben presto ridotta al nulla, se altre e più forti cause non avessero agito vigorosamente. Cominciata verso la fine del secolo quarto la serie delle invasioni barbariche, s'imposero riattamenti di mura e riordinamento dell'esercito. All'una ed all'altra cosa gli imperatori tentarono provvedere. Abolita l'antica libertà di disposizione di cui godevano le città per il riattamento e la conservazione delle mura[161], Arcadio e Onorio nel 395 vollero destinata a tale scopo la terza parte del canone «qui ex locis fundisque reipublicae annua praestatione confertur»[162]: ma, essendosi questo reddito manifestato insufficiente, malgrado che alle città fossero state restituite le «possessiones» tolte ad esse dagli imperatori cristiani e donate alla Chiesa[163], l'anno dopo stabilirono un'imposta apposita, confermata più tardi da Onorio e Teodosio[164], che colpiva tutti indistintamente gli abitanti delle città — ordines et incolae[165].

L'imposta alla quale universi erano soggetti portione suae possessionis et jugationis, era reale e colpiva solo i possessori, compresi quei minori, più su ricordati[166]. [61] Ma non bastava costruire e mantenere le mura: bisognava difenderle. E agli imperatori, riuscito vano ogni tentativo di riforma dell'esercito[167], ormai divenuto una esosa ed obbligatoria contribuzione di uomini e di denaro e precipitato dagli antichi nobilissimi elementi romani in un'accozzaglia spregevole di barbari, di servi, di schiavi e di coloni[168]; come era riuscito vano ogni tentativo di riorganizzare le curie e i collegi[169], non rimase che concedere ai cittadini l'uso, fino allora proibito[170], delle armi[171] ad esortarli a combattere per la difesa delle loro persone e delle loro case. Tale appello muove ad populum[172] Valentiniano, quando nel 440 Genserico si presenta minaccioso in Italia; e lo ripete in speciale modo ai Romani, che le mura aureliane, terminate da Onorio e restaurate da Probo, più non riuscivano [62] a difendere[173], imponendo a tutti indistintamente — «nullus penitus excusetur» — la restaurazione e la «custodia murorum portarumque».

Tutti i cittadini, ormai, anche i nullatenenti dovevano cooperare alla difesa della città: quegli oneri che prima gravavano direttamente sui patrimoni e sulle terre, si trasformano in pesi personali. Non si tratta soltanto di fornire i tironi e i cavalli: occorrono le forze e il braccio di tutti; ed il ferro barbarico, aprendo aspre ferite, pur nello strazio immane che ne consegue, oltre a deporre il germe fecondo del sentimento della necessità che tutti combattano e tutti difendano la propria città portò altre non meno gravi conseguenze.

Prima di tutto si veniva lentamente formando quell'insieme dei meno favoriti, del quale si vede lo sviluppo successivo nell'exercitus cittadino delle città bizantine, che comprende tutti gli armati qui in civitate inventi sunt a puero usque ad senem[174].

Inoltre fin che gli oneri gravavano su coloro che possedevano terre, il diritto di decisione spettava ai curiali, e più tardi, per mezzo del defensor, a tutti i possessores; ed il maggior vantaggio spettava a quei collegiati e a quei corporati che soddisfacevano a tante necessità della vita pubblica: mutate le condizioni e resa necessaria la cooperazione di tutti; anche i minimi, che solo la Chiesa aveva uniti alla collettività cittadina, ebbero diritto alla partecipazione alla vita pubblica. E mentre già dal 443 Teodosio e Valentiniano[175] avevano riconosciuto loro il diritto di decidere in merito all'alienazione dei beni della città, i quali possono essere alienati solo cum communi consensu[176], così da Maioriano li vediamo ammessi all'elezione [63] del defensor: municipes, honoratos, PLEBEMQUE.... adhibito tractatu atque consilio, egli stabilisce, sibi eligant defensorem, factumque dematurent[177].

Ed anche la posizione giuridica di tali beni venne, conseguentemente, a mutare.

Che le alienazioni di questi fossero divenute frequenti è dimostrato dalla costituzione del 443, che le proibisce quando non sieno promosse da uno stato di estrema necessità. Tali beni pubblici segnano ora il correspettivo dei nuovi aggravi militari richiesti ai cittadini, oltre l'obbligo normale imposto dalla costituzione politica. Di fronte allo Stato certe terre rappresentavano un certo contributo di soldati, di annona, di tributi: praebitio tironum, praestatio annonae, tributorum, hospitalitatis etc. Talune, anzi, terrae limitaneae, burgariae, avevano questa sola massima e specifica funzione di servire agli obblighi della milizia. E da un punto massimo, segnato da queste terre limitanee, sulle quali, per l'intensità con cui erano colpite da oneri militari nessun'altra imposta gravava[178], si scendeva ad un minimo in quelle terre che dovevano fornire contributi di varia indole, ciascuno dei quali, e quello militare fra questi, era, necessariamente, meno rigido e meno esteso che nelle terre della prima specie. Oramai anche le città, per le continue esigenze della difesa, venivano accostandosi alla condizione giuridica di quelle colonie militari, per cui il servizio [64] armato era scopo principale, e, come queste, erano obbligate alla munitio[179]. Tale obbligo era generale; sola differenza era che i coloni, appunto perchè tali, erano tutti proprietari di una terra; i cittadini no; e, quindi, nelle città le terre pubbliche dovevano più intensamente servire quasi di correspettivo al servizio personale richiesto ai cittadini. L'economia, ormai poverissima, non s'imperniava più sul denaro, ma sulla terra, che divenne il fattore dominante: e ne conseguì, naturalmente, l'aumento considerevolissimo delle persone risiedenti in terra aliena: come pure altre deviazioni giuridiche, tra cui quella che riconosce l'autorità di scacciare il metator, non soltanto al proprietario, ma anche alla stessa plebe, concepita così come in un rapporto stabile con la terra[180]. Questa ascensione della plebs è importante anche da un altro lato: prima, come abbiamo visto, della tutela della plebs, sia urbana che rustica era incaricato il defensor. Di esso qui non si parla: prova evidente, a mio credere, che esso andava restringendo la sua autorità entro la cerchia delle mura o pochissimo al di fuori, anche prima che Maiorano con la sua costituzione del 458 sanzionasse ufficialmente questo mutamento[181].

Questo forzato equiparamento di tutte le classi, fatta eccezione dei senatores e dei più potenti, porta alla decadenza irrimediabile del defensor, e dà luogo alla trasformazione finale fattane da Giustiniano, il quale, quando riconquistò l'Italia, lo ridusse alla condizione di un semplice emissario del governo centrale[182].

§ 11.

— Tra le disposizioni di Maioriano e quelle di Giustiniano non corre soltanto un secolo: cade fra esse [65] il regno di Odoacre e quello degli Ostrogoti. Nè l'uno nè l'altro furono senza conseguenze sulla costituzione italiana, ma il primo, per la sua corta durata, non segnò che il principio di un sistema, che divenne normale solamente con i Goti.

Odoacre, come è noto, concesse ai suoi soldati il terzo delle terre romane, e queste, dopo la sconfitta di Ravenna, furono date agli Ostrogoti. Siccome questi erano in maggior numero dei primi ed accolsero anche nelle loro file numerosi gruppi dei precedenti conquistatori[183] furono necessarie altre terre, le quali vennero distribuite con equanimità rimasta famosa, dalla tertiarum deputatio presieduta da Liberio e furono assegnate con i pittacii[184].

Le terre pubbliche, nella terribile condizione in cui si trovavano le curie[185], vennero incamerate dal fisco del re, il quale, per mezzo del curator, sotto il controllo diretto del comes Gothorum, invigilò sui prezzi, sulle vendite, sulle distribuzioni dei generi di prima necessità[186].

Ma se questo fu l'andamento generico, noi non sappiamo con precisione le vere condizioni dell'assegnazione. Bisognerebbe conoscere la grande varietà di usi e di consuetudini, che risalivano ai primi tempi della conquista romana; usi che l'Impero non aveva unificato e di cui si intravede l'esistenza in quel diritto romano volgare, formatosi nella pratica accanto al diritto romano classico[187]: diritto volgare che ebbe, come si vedrà, singolari manifestazioni anche nel campo del diritto pubblico.

L'importanza dei Goti non deve essere considerata [66] soltanto per la azione che i resti di questo popolo sopravvissuti alla sconfitta finale e rimasti in Italia, possono avere esercitata, servendo quasi di ponte di passaggio verso la più fiera invasione germanica[188]; bensì deve essere considerata per l'influenza decisiva che la costituzione gotica ebbe in Italia durante il regno barbarico.

È fuori di dubbio che le curie rimasero, benchè in tristissime condizioni. Quanto al rimanente della popolazione urbana, il Gaudenzi, basandosi sul cap. 64 dell'editto teodoriciano, che stabilisce che l'uomo libero nulli obnoxius civitatis, che abbia violata un'ancella altrui vergine, sia sottoposto ad una vigorosa fustigazione e poi vicinae civitatis collegio deputetur, ritiene che lo Stato, obbligando tutti i collegi solidalmente al pagamento integrale della lustralis collatio, li abbia costretti a fondersi in un collegio unico divenuto servo della città[189].

L'idea contiene, secondo me, gran parte di vero; ma non mi pare che quella fusione dei collegi, diversi per attribuzioni, per mansioni e per lavoro ed ognuno dei quali, in quanto «obnoxius civitati», era obbligato a certe peculiari prestazioni, sia avvenuta nel modo indicato dal Gaudenzi. Io ritengo che la diversità etnica dei Goti e dei Romani, la differente condizione sociale ed economica e la differenza di culto, abbiano strette tutte le classi romane meno elevate — non le sole corporazioni — in un rude isolamento. I Goti soli avevano il diritto alle armi, ed essi soli erano esenti da imposte[190]; [67] e, di più, il concetto politico di Teodorico, che giustamente prevedeva nell'affratellamento livellatore della Chiesa cattolica,[191] l'affievolirsi di ogni egemonia del suo popolo, tenne lontani i vincitori dai vinti, dei quali, come abbiamo veduto, anche gli infimi erano entrati a far parte della vita cittadina. Oltre le imposte in denaro ed in natura, bisognava richiedere di continuo le prestazioni personali, per la necessità della difesa, delle fortificazioni, dei trasporti, dei servizi sussidiarï, delle opere pubbliche[192]. E come da un lato la popolazione diminuiva sempre più[193] e dall'altro l'artigianato andava ognor più disgregandosi[194], gli Eruli prima ed i Goti dopo, furono tratti a considerare la città tutta — corporati e non corporati compresi — come solidalmente responsabile delle imposte e delle prestazioni, ed ogni individuo come legato ad una determinata città: obnoxius civitati, come dice Teodorico[195].

Già le fonti romane degli ultimi anni del secolo quarto parlano del consortio cittadino ad portus et aquaeductus instaurationem, ed al tempo di Giustiniano lo si vede esteso alla murorum extructionem, da cui nessuno può essere scusato[196]. Teodorico, parlando delle persone che potevano esser possedute per un trentennio ricorda i [68] curiali, i collegiati ed i servi[197]. Ma, a provare che con la parola collegiati non s'intendono solo i corporati, ma tutti i cittadini vincolati alla città, mi sembra decisivo il raffronto col Breviario Alariciano[198], il quale conserva la disposizione del Codice Teodosiano,[199] con cui si richiamano alla loro città i collegiati fuggitivi, mentre non conserva alcuna delle molte costituzioni che concernono le corporazioni.

Dunque collegium indica tutti i vinti legati alla città, non i soli corporati.

Di più i Goti portarono una modificazione sostanziale che, se ebbe poca efficacia dove la dominazione bizantina potè cancellarne gli effetti, ne ebbe però grandissima nel territorio conquistato dai Langobardi. Essendo stato tolto ai Romani l'uso delle armi, ma non gli aggravi accessori ed annessi al servizio militare, questi, uniti agli altri obblighi finanziarî ed amministrativi ed ormai consuetudinarî, si fusero e si confusero con essi, e gli oneri delle albergarie, dei trasporti, del rifacimento e costruzione delle mura, delle strade, degli edifici pubblici[200] etc., per i quali occorreva così il materiale, come la mano d'opera, cambiarono la loro natura giuridica.

Per il fatto che tutti vi erano sottoposti, sparì l'antica massima romana che distingueva gli oneri rurali [69] dai cittadini, per ragione della sostituzione possibile solo nei secondi: per il fatto che vi erano astretti anche i nullatenenti, venne una limitazione al tradizionale concetto dei munera patrimoniorum[201], dalla quale scaturì un sistema che ebbe a base l'ibrido concetto dell'abitazione.

E così fu ristretto ancor più l'elemento personale poggiato su una capacità che già da tempo si era venuta ognor più limitando nel diritto di mutar sede, ed il quadro fu completato: soggetto all'auctor il commendato, soggetto al proprietario il residente in terra altrui, vincolato il colono alla terra, legato l'operaio alla corporazione, il decurione alla curia e, ora, anche il cittadino alla città.

Il dualismo fra il partito nazionalista e quello romanizzante, scoppiato violento alla morte di Teodorico e terminato con la disfatta finale dei Goti, stremando ancor più l'Italia con rovine e con stragi, ribadì il ferreo anello che strozzava le città.

Le terre comuni cittadine furono incamerate, come ho detto, dal fisco regio, il quale ne ebbe la proprietà fino ad allora goduta dalle città; ma, apparentemente, non si portarono modificazioni gravi allo stato di cose precedente, perchè i cittadini continuarono a goderne. Si instaurò così un diritto d'uso che trovava la sua base nella consuetudine anteriore e i suoi limiti nella volontà regia[202].

§ 12.

— Le prime circoscrizioni ecclesiastiche, le urbane, sostituendosi a quelle pagane, ne avevano calcato [70] le linee. E come queste comprendevano con la città i mille passi, anche la parrocchia cittadina ebbe a conseguire gli stessi confini. Infatti un'antichissima tradizione cattolica, consacrata nei canoni e nei concili, considera il vescovo, oltre che come supremo gerarca nell'ambito della diocesi, anche come titolare della parrocchia della città cui il vescovo è preposto: il pontefice stesso, prima di essere il capo della cristianità, è il parroco di Roma, e come tale, fino al penultimo papa, il primo atto compiuto da lui era la visita alla chiesa di S. Giovanni in Laterano, considerata come la matrice di Roma.

In questo ambito, la Chiesa, come chiesa cittadina, esercitò le sue funzioni religiose e le statuali; ma non riuscì ad equiparare le condizioni della plebe rustica extra muros posita a quelle della plebe cittadina. Due cause egualmente invincibili vi si opposero: da un lato il criterio dell'inamovibilità dal fondo, ormai predominante; dall'altro l'azione del fisco bizantino che subentrò a quello gotico con qualche nuova e maggiore estensione.

Infatti nella costituzione del Codice giustinianeo[203] riportata più su, si mira a proteggere la plebs rustica extra muros posita, sia che risieda in terra pubblica che in privata, dalle angherie del rationalis, mentre quella rustica in genere è tutelata contro le angarie di coloro che «rectoribus provinciarum obsequuntur». E questo e la diversità dell'obsequium, che l'una e l'altra plebe è costretta a fornire, provano come la prima rientrasse nelle grandi linee della plebe rustica piuttosto che di quella urbana: tanto più che la legislazione imperiale mirava a considerarla come assimilabile a quella dei fondi imperiali[204].

[71]

Ma se la Chiesa non riuscì a fondere la plebs rustica extra muros posita con la plebs urbana, nemmeno all'impero riuscì ad equipararla a quella colonica. E ciò per varie cause: la mancanza nella nostra Italia del latifondo, nel senso che questa parola ha per l'Africa; il formarsi del colonato dal fissarsi dei patti stabiliti nelle prestazioni coloniche, prima a tempo e poi perpetue; il mantenersi immutato delle circoscrizioni romane, per le quali le terre ove questi abitavano furono sempre distinte dal contado e sottratte all'arbitrio modificatore di un singolo; l'azione coordinante della chiesa per la quale tutti i membri di una determinata circoscrizione sono parificati nel diritto di eleggere il proprio antistite; la breve durata della legislazione bizantina. Tutte queste cause impedirono che la legislazione imperiale avesse il suo effetto e favorirono il mantenersi di questa classe singolare fra la popolazione cittadina e quella propriamente rurale.

Così al quadro delle classi sociali si deve aggiungere una nuova gradazione fin qui ignorata; così al confronto del Beaudoin fra i doveri dei cittadini verso la città e i doveri dei coloni verso il fundus, bisogna immettere un terzo elemento medio — la plebs rustica extra muros posita — alla quale realmente si possono contrapporre gli altri due, perchè quest'ultimo ha diritti ed oneri, che corrispondono alla condizione giuridica degli altri.

§ 13.

— Resta che consideriamo ora le divisioni territoriali interne della città.

La grandezza di Roma cominciò quando le originarie tribù precittadine si fusero in nuovi nuclei legati alle circoscrizioni territoriali, che delle antiche tribù conservarono solo il nome, ciò che è segno dell'armonica e [72] completa fusione degli elementi etnici cittadini. Le tribù cittadine, che per lungo tempo rimasero immutate nel numero e nei confini, erano indicate tutte con nomi locali: suburana, esquilina, collina e palatina. La posteriore divisione del territorio, su diciassette tribù, dà un solo nome locale: clustumina, mentre le altre portano tutte il nome di qualche gente patrizia[205], sotto il patronato della quale si trovavano.

La tribù era insieme una divisione territoriale ed amministrativa, in base alla quale, sotto la direzione dei curatores tribuum, si faceva il reclutamento, il censimento e la percezione del tributum. Per esse si compievano anche offici religiosi, per mezzo di collegi — collegia compitalicia — presieduti dai magistri, onorando i lares compitales con feste annuali che ebbero appunto il nome di compitalia, e si provvedeva alla cura urbis per mezzo dei pretori[206].

L'importanza della tribù aumentò con la repubblica, a tutto scapito dell'elemento strettamente territoriale di essa, poichè, rimasta politicamente intatta, finì con l'essere sostituita amministrativamente dai vici, nati e causati dall'enorme incremento della città.

Il Marquardt[207] sostiene che i vici ricevettero un carattere amministrativo officiale da Augusto, ma a me sembra che il passo di Svetonio, dove si parla del recensum populi ordinato da Cesare come praefectus morum e compiuto nec more nec loco solito sed VICATIM per dominos insularum[208], sia da interpetrare come l'annuncio di un nuovo sistema officiale della distribuzione della popolazione per vici nella costituzione politica. Difatti [73] lo stesso Svetonio, nella vita di Augusto[209], si limita a dire che egli ripetè ciò che aveva fatto Cesare. Non per questo io intendo dire che il concetto del Marquardt sia privo di base; ma esso va inteso nel senso che Augusto, iniziatore del principato, attuando questo sistema, ne rendeva normale l'uso per i propri successori.

È logico ammettere che, anche prima del loro riconoscimento giuridico, questi vici compissero funzioni necessarie alla vita sociale del tempo e, verosimilmente, funzioni religiose.

Festo conosce tre specie di vici: i rustici, aggregati di case in campagna; i suburbani, aggruppamenti di edifici, «continentia» alle mura della città che «itineribus regionibusque dissimilibus discriminis causa sunt dispartita»[210] e, finalmente, gli urbani propriamente detti, i quali originariamente erano costituiti dal pervium per il quale «habitatores ad suam quisque habitationem habent accessum». Il Digesto ha appunto un passo in cui si delimitano i casi, in cui questi vici debbono essere considerati come viae publicae e come viae privatae[211]: e da esso appare come questi strettissimi vicoli, angustissimae semitae, come dice Cicerone[212], o tenues vici, come li chiama Marziale[213], erano contrapposti alle viae, dette anche plateae dal glossario latino parigino[214], che erano le viae latae a porta in portam, e che, secondo l'antichissimo sistema latino accolto da Roma e da questa applicato in tutte le colonie, dividevano, intersecandosi perpendicolarmente nel forum, la città in quattro parti.

[74]

I vici, come istituzione amministrativa, erano una specialità di Roma e forse, ma è molto discutibile, di qualche altra città. Cesare, nelle prescrizioni di edilizia e di viabilità della sua lex Julia municipalis, non parla mai di vici, ma sempre di viae. Il De Marchi[215], che tende a non far distinzione fra Roma e le altre città, crede che queste ultime, infinitamente più piccole della metropoli, — come conosciamo dall'estensione, molto ristretta, del loro circuito — non avessero altra divisione che quella in quartieri e che questi fossero delimitati dalle viae. Infatti delle grandi città solo la notitia urbis di Costantinopoli nomina per quartiere un certo numero di «collegiati qui e diversis corporibus ordinati, incendiorum solent casibus subvenire». Ma anche ammettendo — e non si può farlo senza grandi riserve — che qui per quartiere si intenda proprio la quarta parte della città, il Declareuil[216] fa giustamente osservare che altri passi[217] fanno ritenere che questo fosse l'eccezione e non la regola. Ed in realtà solo a Bisanzio, a Roma, più tardi a Ravenna e a Napoli, troviamo la divisione in regiones: divisione di cui non si ha traccia quasi in nessun'altra città[218].

Attribuzioni specifiche di vero interesse municipale non vengono affidate a questi quartieri durante la repubblica ed i primi secoli dell'impero: ma non per questo debbono essere rimasti senza importanza per la popolazione cittadina, specialmente plebea, per ragioni del culto speciale che in essi si celebrava. Lo dimostra il fatto che hanno continuato a sussistere per tutto questo tempo; e più tardi, quando, forse per l'avvento del cristianesimo, stavano per perdere la loro ragione di essere, [75] furono rinvigoriti dal sistema delle distribuzioni granarie.

Si è molto discusso se tali largizioni, almeno come istituzioni normali e periodiche, avvenissero in tutte o almeno in gran parte delle città dell'impero[219]. In realtà i municipi non erano obbligati a nutrire la plebe e fare ad essa distribuzioni gratuite[220]: i rescritti imperiali di Marco Aurelio e di Vero stabilivano i prezzi cui si poteva e doveva vendere il frumento[221], ma lo zelo dei particolari vi suppliva così spesso che le fonti stesse parlano di queste elargizioni e le disciplinano. Inoltre se varii indizi fanno pensare che queste costituzioni imperiali sieno decadute nell'osservanza durante il corso del terzo secolo, come si dovrebbe indurre dal passo di Erodiano in cui si parla delle casse frumentarie della città della Gallia, di cui si impadronì Massimino: la presunzione diviene sempre più sicura quanto più, coll'avanzarsi della decadenza, si trasforma la costituzione politica, e la plebe, caduta nella desolazione generale, entra a far parte della cittadinanza.

Come dissi, il suo primo ingresso essa lo fa indirettamente attraverso la Chiesa, la quale, con quella virtù di adattamento splendidamente lumeggiata dal Fustel de Coulanges, si appropriò quanto più potè degli ordinamenti laici statali. A quel modo stesso che, come risulta certo, fu affidata al vescovo la sorveglianza sulla vendita del pane e degli altri commestibili[222], possiamo presumere che, quando la miseria impose le distribuzioni gratuite[223], queste fossero fatte, con tutta probabilità [76] dal vescovo[224]. E dato che tutte le classi della città erano chiuse nei rispettivi collegi, ordini e numeri, fatta eccezione della parte della cittadinanza a cui queste particolarmente si rivolgevano e che pure doveva esser determinata, la divisione unica possibile sembra essere stata quella dei quartieri, i quali — mantenutisi sempre — si rendevano ora necessari anche per la difesa e la manutenzione delle mura imposte a tutti i cittadini. Oltre alle conseguenze già accennate, ne scaturì il bisogno di una divisione territoriale della città più consona ad accogliere il nuovo sistema dell'exercitus civium. Nei grandi centri, dove la costituzione corporatizia perdurò più a lungo, l'influenza della schola bizantina si fece assai sentire, anche nella distribuzione territoriale delle regiones. Così a Roma, a Ravenna, a Napoli ed in qualche altra città. Negli altri luoghi, dove il centro urbano non si era scostato molto dalla primitiva distinzione in quartieri, questi restarono a base di tutto l'ordinamento.

I corpora, gli ordines, i numeri, ormai stremati, erano incapaci di un'azione salda e forte; e così furono assegnate alle divisioni territoriali tutte quelle incombenze di cui la città, auspice ormai la Chiesa, era tuttora capace. Ed era pur fatale che fosse così! Ormai tutto faceva pernio sulla terra ed anche le divisioni delle città subirono la prevalenza dell'elemento terriero.

La venuta dei Goti, più che modificato, sembra che abbia aggravato e reso più rigido questo sistema, il quale serviva mirabilmente a fondere la città nell'unico collegium civitatis.

Nè diversamente agì la breve dominazione bizantina. Ma questa, però, portò una modificazione sostanziale, di cui le fonti gotiche non ci danno nessun indizio e [77] che, quindi, si deve attribuire esclusivamente al sistema tributario bizantino.

Sappiamo che il fisco del re goto si era appropriato la massima parte delle terre pubbliche, ma non pare che toccasse la posizione giuridica della plebs rustica extra muros nella sua relazione con la città e più propriamente col vescovo: tanto più dato il sistema di tolleranza adottato da Teodorico.

Giustiniano, invece, col sostituire il fisco suo a quello dei Goti, non riuscì ad eguagliare le terre intorno alla città alle altre terre fiscali, come era sua intenzione, nè a staccarle dalla città, cui la parrocchia cittadina ed i diritti di uso le legavano, ma privò coloro che vi risiedevano dei vantaggi inerenti alla città stessa e cioè della partecipazione alle distribuzioni ed alle elemosine, che il vescovo faceva alla plebe delle città, preparando così il terreno a successive modificazioni ancor più gravi, delle quali studieremo lo svolgimento nel capitolo seguente.

§ 14.

— In conclusione, mentre nella città la popolazione, tradizionalmente divisa negli antichi nuclei, si polarizza verso le nuove più pratiche e più feconde divisioni territoriali, le quali, pur senza acquistare per varî secoli ancora consistenza giuridica, esercitarono tuttavia notevole azione sulla vita cittadina; al di fuori, in contatto immediato, si mantiene una classe che non è più di liberi, ma non è nemmeno di coloni. Ed a questa classe è dovuta in gran parte, come vedremo, la meravigliosa fioritura dei nostri comuni medioevali.

La vecchia Roma, negli ultimi suoi secoli, preparava il terreno agli istituti che, rinsanguati dai Germani, formarono poi il sistema dello Stato barbarico; ma quella fatidica fattrice di civiltà non dimenticò il mezzo perchè anche il feudo, con l'evolversi dei tempi, avesse a cadere, e perchè su di esso si formasse una nuova e [78] più elevata civiltà. Ed attorno alla città, dove restò la culla delle manifestazioni civili, pose una mirabile cinta contro cui si spuntò l'ira rapace dei dominatori terrieri e si infranse l'azione torpida del sistema curtense. E come già dalla fine del secolo quinto aveva dato il nome all'elemento fondamentale del feudo, — il beneficium — alla fine del sesto non mancò di darlo a questo circuito. E l'una e l'altra volta con la voce dell'organo allora più vitale della romanità: la Chiesa. Come Pietro Crisologo ricorda il «beneficium»[225], così Gregorio Magno parla della massa nel senso di quella parte più aderente alla città e pur fuori di essa, che serve a nutrir questa e ne forma quasi una necessaria appendice.[226]

[79]

PARTE SECONDA La città langobarda-franca

§ 1. Territorium. — § 2. Suburbium. — § 3. Campanea. — § 4. Bona publica e arimanniae. — § 5. Il populus cittadino. — § 6. I suoi elementi: pars ecclesiae, pars publica, cives. — § 7. La Chiesa come istituzione cittadina. La pieve: origine, elementi (territorio, clero, parrocchiani, decime, oblazioni, beni) e sviluppo. Modificazione di essa e origine della parrocchia a tipo moderno; le chiese cardinali. — § 8. Il mercato cittadino. — § 9. Il centro urbano e la sua natura giuridica. — § 10. L'assemblatorio cittadino. — § 11. L'assemblea regionale langobarda. — § 12. Azione dell'uno e dell'altra nella costituzione della città. — § 13. Le divisioni territoriali interne della città. Conclusione.

§ 1.

— Ai tempi della discesa dei Langobardi, il territorio giurisdizionalmente soggetto ad ogni città era, adunque, costituito dal territorium, dal pagus suburbanus e dall'urbs.

Bisogna ora vedere se la nuova invasione abbia portato cambiamenti e quali.

Cominciamo dal territorium.

Per il primo il Muratori suppose che, pur con qualche eccezione[227], le circoscrizioni ecclesiastiche normalmente coincidessero con quelle civili[228] e, più tardi, le giuste osservazioni del Beretta[229], confermate da buone [80] ricerche particolari[230] e completate dall'esauriente indagine del Pabst[231], ne convalidarono l'opinione con prove così sicure, che un insistervi da parte mia sarebbe completamente superfluo, se con il problema da essa prospettato non fosse intimamente connessa un'altra questione, sulla quale, per la sua importanza, da gran tempo s'affaticano gli studiosi, senza essere riusciti fino ad ora a conclusioni soddisfacenti: la questione, notissima, delle controversie vescovili per l'estensione del territorio diocesano.

Gli scrittori ammettono tutti come sicuro che prima dei Langobardi i confini ecclesiastici coincidessero perfettamente e dovunque con quelli civili e che ai Langobardi si debba il perturbamento di cui le controversie in parola sono la manifestazione. Qualcuno[232], più radicale, sostiene senz'altro che i Langobardi non assegnassero ai distretti amministrativi gli stessi confini delle diocesi: altri, seguito dai più, ha ritenuto più probabile che i Langobardi, per sistema, mantenessero le antiche divisioni territoriali e che le vertenze vescovili sieno nate dal fatto che nei luoghi dove l'invasione proruppe più cruenta e si mantenne più feroce, alcuni vescovi furono costretti a fuggire e l'amministrazione spirituale dei loro fedeli fu affidata ad antistiti vicini, i quali, in buona o mala fede, ritennero alcune pievi, anche quando la primitiva sede episcopale fu ricostituita[233].

Come si vede, causa unica ed assoluta del perturbamento — diretta o indiretta che sia — è da tutti ritenuta l'invasione langobarda.

[81]

Non è improbabile, invece, che le cause si debbano rintracciare in una condizione di cose preesistente rimasta immutata — salvo le poche ed inevitabili perturbazioni inerenti ad un così brusco e rude passaggio[234] — anche con i Langobardi.

La lex julia municipalis[235] ricorda solamente municipia, coloniae, praefecturae, fora, conciliabula, vici e castella, e queste furono certamente le sole divisioni amministrative romane da Cesare in poi: ma, d'altra parte, è altrettanto certo che fra le indicazioni topografiche richieste dalla forma censualis[236] c'è anche quella del pago, e i monumenti romani, che ancora possediamo, a cominciar dalla tavola alimentaria velleiate[237], ci attestano [82] la persistenza del pagus. Il pagus — è merito del Voigt l'averlo dimostrato[238] — ente a base prevalentemente religiosa, sotto la direzione dei magistri pagorum, curò anche gli interessi più strettamente locali affidatigli dal municipio, nel largo sistema di autonomia proprio della costituzione romana fino al terzo e quarto secolo dell'impero. Più tardi, sparita l'autonomia, questo agglomerato di tradizioni religiose e di bisogni comuni servì alla pubblica amministrazione come efficace strumento per le cure dell'esazione finanziaria.

Dato l'originario carattere dell'istituzione, ne era a centro un tempio, un luogo sacro, in cui i pagensi convenivano. Si ebbe così una circoscrizione composta di varî territorî, qualcuno dei quali era molto spesso incluso e sottoposto alla giurisdizione di un diverso municipio, ma che pure potevano far capo ad un centro comune tutto loro proprio, distinto dai municipi stessi. Il cristianesimo, divenuto religione ufficiale dell'impero, non mancò di insediarsi anche nei pagi, molto numerosi in Italia; ma portò un'innovazione, di cui non si tardò a sentire le conseguenze. Il pago viveva di propria ed autonoma vita: la pieve, per l'organizzazione sua, non poteva non dipendere direttamente da un vescovo; il primo prescindeva da ogni capoluogo municipale, la seconda doveva far necessariamente capo alla civitas. Criterio distintivo, naturalmente fu tenuto quello della giurisdizione ecclesiastica, e così tali pievi dipendettero dall'episcopio a cui spettava l'ordinazione dei titolari.

La Chiesa stabilì sino dai primissimi tempi — «sicut in regulis contineatur antiquis» — che la diocesi era costituita non dal territorio giurisdizionale della città in cui il vescovo risiedeva — territorium non facere diocesim — ma dalle parrocchie unicuique ecclesiae pristina dispositione deputatae[239]. Poteva avvenire che la pieve fosse [83] costituita da due o più vici di uno stesso territorio, ed allora i parrocchiani si univano pacificamente per la nomina dell'arciprete: tale è il noto caso della pieve di Mosciano, la cui plebs congregata comprende due centene, che compariscono insieme con i loro centenari[240]. La cosa era ben più grave quando i territori erano giurisdizionalmente separati: la pieve legava fortemente alla città, cui faceva capo per l'episcopio, parte del territorio di altra città. Di qui i lunghi ed acri conflitti.

Il Leicht[241] crede che solo all'epoca carolingia, rendendosi frequente la costruzione di nuove chiese, plebs, fundus e vicus venissero regolarmente a coincidere. Si può ammettere che solo in quest'epoca la voce plebs acquisti un carattere non soltanto religioso, come all'epoca langobarda, ma anche pubblico; come è certo dai capitolari franchi che numerose chiese furono costruite al tempo franco, oltre quelle, già frequenti, degli ultimi tempi langobardi. Ed è pure da accettarsi l'idea che il sistema curtense, largamente favorito dall'unione del potere religioso con quello civile, tendesse fortemente a stringere la «curtis» intorno alla chiesa che ne era considerata come il centro. Ma a queste considerazioni non si può rigidamente legare la costituzione di nuove pievi, almeno in linea generale; ce ne accerta l'opposto sistema con cui la legislazione carolingia tratta le chiese battesimali rispetto alle altre (cappelle, oratori etc.). Solo alle prime, sorte sotto il primitivo ordinamento cristiano della quadripartizione (di cui larghe tracce si conservano, però, anche in tempi assai tardi), spettano le decime. E le usurpazioni del feudo tendono più spesso ad una abusiva riscossione di esse, che non ad un frazionamento territoriale a beneficio di una chiesa non insignita di tal diritto[242]. Il moltiplicarsi delle parrocchie [84] rurali si avvera massimamente quando la reazione alla simonia imposta la parrocchia su nuove basi e si vale abilmente della nova consuetudo, invalsa presso i grandi signori nel secolo decimoprimo, di frazionare i loro dominî[243] per suddividere molte delle antiche pievi in un numero più o meno ampio di parrocchie, il cui popolo, per antica tradizione, oltre il nome di plebs, conservò anche quello di populus.

§ 2.

— Ancor più grave, perchè del tutto trascurata dagli storici del nostro diritto, e, pur tuttavia, di anche maggiore importanza, è la questione del suburbium.

Base di ogni ricerca e punto di partenza di ogni indagine mi sembra che debba essere il progetto di divisione dell'impero fatto da Carlo Magno nell'anno 806, e che è, del resto, anche l'unica fonte legislativa che dia luce sull'argomento.

In questo progetto le città italiane vengono specificate così: civitates cum suburbanis et territoriis suis atque comitatibus que ad ipsas pertinent[244].

La voce suburbium, di evidente derivazione, proviene [85] da quel sub urbe romano[245] che si è conservato a lungo intatto in alcune parti d'Italia e specialmente nella regione emiliana[246]; ma, pur mantenendo inalterato il senso generico di vicinanza alla città, riceve vario valore e diversa significazione specifica a seconda del variare dei tempi e dei luoghi, onde l'indagine è resa assai difficile ed è tenuta a procedere con gran cautela ed a far conto anche dei più esigui elementi.

Se numerosi documenti, dovendo indicare il territorio prossimo alla città, invece di suburbium, usano dire prope, extra, iuxta, foris, ad civitatem o ad muros civitatis o adoperano qualche altro termine consimile, ve ne sono altri molto notevoli, per quanto poco numerosi, che adoperano espressioni meno generiche, le quali possono essere prese come esponenti di uno stato di cose generale o, almeno, molto diffuso.

Primo esempio di tale uso tecnico, per ordine di tempo, è il testamento con cui il monaco Grato di Monza dispose nell'anno 769 delle cose sue, curando che tutte capitassero in buone mani, riferendosi specialmente a quelle che aveva «in civitate boloniensi vel foris circa ipsa civitate»[247].

Un secondo esempio ci è dato dal diploma con cui nell'815 Lodovico il Pio conferma al monastero di S. Zenone, «constitutum in suburbium civitatis Verone», le numerose elargizioni di Pipino, e fra le altre la chiesa dei SS. martiri Fermo e Rustico con le decime e le pertinenze, fra le quali l'«horreum infra civitatem Veronam cum suis areis in circuitu (civitatis)»[248].

Anche più evidente, per questo rispetto, è la concessione [86] di alcune terre fatta nell'873 da Gherardo, vescovo di Lucca, a un certo Cristiano, con l'obbligo, fra gli altri, di tre giorni di opere per settimana, «ubique utilitas fuerit in circ[uit]o civitatis»[249]. E più importante ancora è un altro documento lucchese appartenente, secondo alcuni critici, al secolo ottavo o alla prima metà del successivo[250], secondo altri — e forse non a torto — alla seconda metà del secolo nono[251]. È un polittico del vescovado, redatto, molto probabilmente, nel momento burrascoso, in cui numerose liti, destinate a sminuirne il patrimonio, rendevano necessaria una rassegna accurata delle sue terre e delle persone che comunque ne dipendevano. Poichè le varie possessioni, sparse su un esteso raggio di territorio, non furono riunite in un'unica «curtis», si hanno più polittici riguardanti ciascuno una speciale massa di beni. Quello di cui ora si tratta concerne le terre situate nel territorio lucchese e distingue nettamente quelle in circuitu civitatis da quelle esistenti fuori.

Ed altri documenti usano lo stesso termine: sappiamo di un pascolo comune in circuitu Civitatis Nove[252], della chiesa di S. Tommaso apostolo, «que sita est in Regio civis vetere cum suo domocultila intus et foris in circuitu Regio»:[253] pure di Reggio conosciamo delle «res que sunt in circuitu civitatis que vocatur Aemilia»[254] ed abbiamo ricordo delle selve della chiesa cremonese situate in circuitu civitatis[255].

[87]

E gli esempi potrebbero susseguire più numerosi, se si scendesse ancora nel tempo: cosa che, per l'esattezza della dimostrazione, non è necessario ora di fare[256].

Accanto a quest'espressione, ce ne è anche un'altra di minore appariscenza e di uso meno frequente; e ciò — io credo — per aver subito più rapidamente dell'altra mutamento di significato. Parlo dell'avverbio infra. Originariamente esso indicava uno spazio fra due punti determinati; ma, nel corso dei secoli, ha subito tali modificazioni che la frase infra civitatem, per esempio — ed è quella che a me preme esaminare — si è intesa come rispondente al concetto: «entro la città». Non nego che, in molti casi, talvolta anche nei documenti anteriori al secolo XI e quasi normalmente in quelli posteriori, tale interpetrazione sia esatta; ma vi sono documenti in cui simile significato è in opposizione diretta con la verità dei fatti. Nella donazione che, nel 767, il re Desiderio fece a sua figlia Angelberga di molinas duas insimul molentes positas in aqua quae exit de cuniculo qui decurrit INTRA SUPRASCRIPTA CIVITATE BRIXIANA FORIS MUROS CIVITATIS ante portam beatissimorum martirum Faustini et Jovite[257], è evidente che intra indica tutt'altro che l'interno del recinto murato. E il famoso monastero di S. Salvatore, sempre detto infra civitatem[258], è fuori [88] delle mura; come sono fuori delle mura un ortellum pertinentem de veronense comitatu situm infra civitatem Veronam non longe a Curte Alta, donato da Berengario I a Ingelfredo[259] ed una casa ed alcune terre «infra civitatem Pistoriensem» donate da Rasperto all'oratorio in onore dei SS. Paolo Pietro e Anastasio da lui costruito «intus Pistoriensem civitatem»[260]. E identico significato ritroviamo in documenti lucchesi, piacentini e bolognesi[261] per l'Italia settentrionale e centrale; e, per il mezzogiorno, nei documenti beneventani, i quali tutti, per indicare un luogo entro le mura, usano in con l'ablativo o intus, e adoperano infra per indicare un luogo fuori delle mura ma vicino ad esse[262].

[89]

Mi sembra da escludere che infra nei casi indicati accenni una vicinanza immediata alle mura, e ciò perchè documenti sincroni e della stessa regione in genere adoperano prope: PROPE muros, PROPE civitatem, o qualche altro avverbio consimile. D'altra parte è pure da escludere in modo assoluto il significato di una distanza molto grande.

A spiegare perchè tale voce in alcuni casi eccezionali abbia questo significato è da pensare all'uso che ne fa Costantino nella legge con cui distingue i beni urbani dai rustici in base non alla destinazione, ma all'ubicazione, comprendendo fra i primi, come ho cercato di dimostrare nella prima parte[263], quelli che sono INTRA civitatem: entro la città murata, cioè, e nell'ambito di mille passi. Si può ritenere che ai termini ed agli istituti antegiustinianei, conservatisi a lungo nella nostra Italia, sia da aggiungere anche questo avverbio[264]. Così si [90] vede pure come a produrre la grande varietà dei nostri formularî notarili abbiano contribuito anche elementi che risalgono a tempi non bassi dell'epoca romana. Determinare in quale proporzione ciò sia avvenuto non è facile, perchè più tardi le tracce del tecnicismo dell'alto medio evo, che si ricollega a tradizioni allacciate al diritto teodosiano, furono cancellate dall'opera livellatrice ed in parte distruggitrice del rifiorito studio del diritto giustinianeo: sicuramente non è privo di importanza. Non è, però, compito mio indagarlo: io debbo, invece, ricercare se il medioevo offra altri elementi a provare l'unione giuridica del suburbium alla città.

Oltre alle fonti giuridiche possono essere di grande aiuto quelle ecclesiastiche. L'esistenza di un pago suburbano connesso alla città per ragioni di culto, è accertata in modo inconfutabile per alcune regioni italiane, come Pompei[265] ed è presumibile con molto fondamento per le altre, specialmente dopo il secolo quarto, quando la Chiesa, divenuta organo della religione dello Stato, si adattò alle divisioni territoriali di questo.

Molti documenti di sicura autenticità mostrano il territorio suburbano ecclesiasticamente congiunto alla città [91] e formante con essa un'unica parrocchia, con perfetta continuità con la situazione a noi nota per la precedente epoca romano-bizantina.

Il monaco Giona, originario di Susa, vissuto a lungo nel monastero di S. Colombano e più tardi abate in quello di Enona presso Mastricht, dove morì verso il 670, nella vita di S. Eustasio di Luxeuil[266], narra che questo santo costruì in suburbano Bituricensis urbis molti e floridi monasteri della regola di S. Colombano, cominciando da uno in insula supra fluvium Milmandram.

Un secolo dopo il pontefice Stefano III (768-772) si duole fortemente con Ariberto, vescovo di Narbona, che la «plebs judaica» possegga terre frammiste a quelle dei cristiani «in villis et in suburbanis»[267].

Il primo capitolare di Teodulfo vescovo aurelianense, dell'anno 797[268], stabilisce che i sacerdotes qui IN CIRCUITU URBIS aut IN EADEM URBE sunt, conveniant in unum il popolo ad publicam missarum celebrationem alla chiesa matrice episcopale: e il secondo capitolare, di poco posteriore[269], a togliere ogni dubbio, nel ripetere la stessa disposizione, parla di sacerdoti urbani e suburbani.

E il concilio di Pavia dell'850[270], confortato da documenti che ci attestano altrettanto per Roma[271], Verona[272], [92] Pavia[273], Ferrara[274], Parma[275], Bergamo[276], etc., conferma come regola generale il principio che i singuli urbium vicini et suburbani sieno retti per municipalem archipresbyterum, con netta separazione dai parrocchiani delle singole pievi rurali: suburbane terre que dividuntur a plebibus, dice un atto parmense[277].

Quanto alla estensione di questo territorio suburbano, che non deve essere esigua, se il passo di Giona vi include l'isola del fiume Milmandra; essa è messa ancor più in evidenza dal diploma dell'842 di Ramperto, vescovo di Brescia, al monastero di Faustino e Giovita[278], che include nel suburbio un vico intiero, con le sue terre. E il vico è detto vico suburbano episcoporum, mostrando la generale applicazione, almeno territorialmente, della norma amministrativa della Chiesa romana che distingueva il patrimonio in suburbana, massae et [93] coloniciae[279]. E la vita di S. Ebrulfo, di autore anonimo ma perantiquo, come si esprime il Mabillon, ne narra l'elezione ad abate in suburbanis Ambianensium nel monastero sorto nel luogo «ubi Fulcianus et Victoricus glorioso certaverunt martyrio» e che dista da Ambiano due leghe[280].

E a questi esempi se ne possono aggiungere altri se si ricorre all'aiuto offerto dalla decima. Questa, come è noto, si pagava solo alle chiese matrici[281]. Nella città essendo matrice la cattedrale, tutti i luoghi che appaiono soggetti per la decima alla città fanno parte del suburbio[282]. A Bergamo, per esempio, il territorio soggetto alla decima non si limitava al solo monte su cui la città è situata, ma si estendeva circa quattro miglia[283]. Lo stesso [94] è a dirsi di Brescia, posta anch'essa sopra un monte: «in montem Brixiam civitatis», dice Luitprando[284].

Il Roberti[285], sulla traccia dello Schupfer[286], che giustamente aveva asserito che il «mons Bergomi» era un bene comune della città, volle dedurre di qui una regola generale e affermò che allora ogni città edificata sopra un monte, aveva il monte stesso come bene comune. Tale asserzione, inesatta nel fatto — numerosi documenti provano l'esistenza di non poche proprietà private sul monte stesso — non mi pare giustificata nemmeno come tentativo di spiegare la specificazione possessoria usata dalle fonti, perchè il monte è considerato come spettante alla città non perchè fosse gravato, ammettiamo pure, nella maggior parte della sua estensione da diritti civici; ma perchè incluso in quel suburbio che faceva parte integrante della città in ogni caso: anche — in ipotesi — se i beni comuni ne fossero stati tutti al di fuori.

Molto vasto era pure il suburbio di Verona[287] quale [95] ce lo raffigura un documento dei primissimi anni del secolo IX; e di non piccola estensione dovevano essere quelli di Pavia, di Torino, di Ivrea, di Vercelli, di Reggio, di Città Nuova e di Modena[288].

E non cito qui altri documenti posteriori, perchè il ricorrere indifferentemente a documenti anteriori e posteriori al gran movimento di concessione di terre suburbane ai vescovi, iniziato negli ultimi anni del secolo nono, porterebbe a unire situazioni giuridicamente assai diverse.

Non mi sembra inutile invece un'altra osservazione.

Non si deve credere che il territorio suburbano assegnato probabilmente a tutte le città, fosse delimitato da per tutto con la stessa unità di misura. Fra gli antichissimi usi indigeni accolti dagli agrimensori romani[289], ci fu senza dubbio la lega gallica, che troviamo esplicitamente ricordata dagli agrimensori stessi e da Ammiano Marcellino[290] e che constava di 1500 passi. [96] Il bannilega — giurisdizione su una lega di territorio intorno alla città[291] o al mercato[292] — si basa senza dubbio sulla lega e non sul miglio romano ed era, conseguentemente, più ampio di cinquecento passi del corrispondente pagus suburbanus romano; quando non lo era di molto di più, come ad Ambiano dove il «suburbium» era costituito da due leghe[293].

Considerando che in Francia, sino da antichissimi tempi, questo territorio apparteneva alle città entro gli stessi confini[294] e che in Italia oltre che a Bergamo e a Verona, anche a Lodi e nelle altre città italiane dell'antica Gallia[295] il territorio suburbano appare di un'estensione maggiore che altrove, inclino a concludere che, dove non si hanno speciali condizioni topografiche, ci si trovi dinanzi ad un'antichissima divisione territoriale rimasta inalterata nel passare dei secoli e dei popoli[296].

Vediamo ora in quale rapporto questo suburbio si trova colla città e da quale regime giuridico fu governato: vedremo più tardi — dopo studiate le condizioni interne della città in questo periodo — le modificazioni apportatevi dall'azione reciproca della città e del suburbio.

Il passo del sinodo romano in causa Formosi pape distingue nel patrimonio ecclesiastico tre elementi: i suburbana, le massae e le coloniciae[297]. Se questa originariamente fu una pura distinzione topografica, non credo [97] che tale si mantenesse più tardi. E di fatto, per quale ragione si dovrebbe credere che nel suburbio, che conosciamo assai esteso, non esistessero terre in rapporto massaritico o colonico con la Chiesa? Forse perchè la città era tutta contornata da beni comuni? No certo: il fatto stesso dell'esistenza di beni suburbani di proprietà di una chiesa esclude la possibilità che fossero tutti beni comuni. O forse perchè entro il suburbio non si potevano avere massari o coloni? Nemmeno: nessuna legge, che io mi sappia, contiene simile disposizione, la quale, del resto, sarebbe sempre contradetta da numerosi documenti, che provano l'esistenza di massari e di coloni non soltanto nel suburbio, ma anche entro le mura. D'altra parte la espressione è così chiara che non lascia luogo a dubbi di sorta: i suburbana son differenti dalle massae e tutt'e due dalle coloniciae.

Il diritto romano dei tempi classici, è noto, concepisce la persona fisica nei due soli stati di libertà e di servitù. Invece il diritto germanico — che conosce già quella categoria intermedia degli aldi, così difficile a definire ed a cogliere nella sua vera natura, poichè tiene del libero e del servo ad un tempo — venuto in Italia a regolare i rapporti giuridici di persone vinte e che la residenza in terra altrui, riducendo il rapporto di soggezione da personale in reale, aveva anche prima menomato molto nella libertà personale, finì con l'ammettere infiniti gradi nelle condizioni dei soggetti; onde si venne a costituire una scala, all'ultimo gradino della quale stava il servo, mentre il primo era costituito dal figlio di famiglia e dalla donna[298].

Nel passo del sinodo romano, l'elemento più basso è quello colonico, a cui da quello suburbano si scende non direttamente, ma con il gradino intermedio del massaro. È vero che la posizione giuridica del massaro [98] non è eguale nè da per tutto nè in ogni tempo[299], ma però è certo che, generalmente, era più autonoma se non libera di quella del colono[300]. E, logicamente, i coltivatori delle terre che la Chiesa possedeva nel suburbio, dovevano trovarsi in una condizione giuridica anche migliore. Ma se questo è, si deve anche ammettere che tale fenomeno non poteva esser dovuto unicamente ed esclusivamente alla Chiesa: questa non poteva porre a base una tal distinzione soltanto perchè certe terre erano vicine alla città, mentre altre ne erano lontane. Ci voleva una causa più forte; e questa è da trovarsi nella diversa condizione giuridica delle classi suburbane; diversa condizione giuridica mantenutasi per il consolidamento di una antica consuetudine[301], per la quale i lavoratori delle terre suburbane erano costretti a prestazioni meno onerose, per numero e per quantità, di quelle a cui erano obbligati i massari e, più dei massari, i coloni.

Perchè, bisogna aggiungere, non è la Chiesa di Roma soltanto che usa questo sistema: tutte le altre tengono lo stesso procedimento. Un esempio ne abbiamo da quella di Lucca, che distingue le terre possedute nel territorio [99] lucchese in due grandi categorie, a seconda che sieno poste o no in circuitu civitatis.

Infatti tanto nelle une come nelle altre la popolazione è divisa nelle due categorie dei redditales e degli angariales: i primi obbligati a prestazioni in danaro o in natura, i secondi a queste ed, inoltre, a un certo numero di opere ogni settimana. Ma si hanno differenze notevolissime.

Nelle terre suburbane il vescovado possiede 65 redditales e 25 angariales, mentre nelle terre situate nel comitato la proporzione è del tutto invertita: 50 angariales di fronte a 19 redditales[302]. E, di più, gli angariales in circuitu, oltre ad un numero fisso di angarie — abitualmente tre per settimana — pagano quasi sempre metà del vino e dell'olio; mentre gli angariales delle altre terre sono esenti da queste ultime prestazioni. E differenze sensibili si notano anche riguardo ai redditales, dei quali alcuni di quelli in vicinanza della città davano, oltre al censo abituale, anche un terzo e talvolta perfino la metà «de omne lavoratione» o «de lavore maiore».

A escludere che si tratti di un caso eccezionale, basta la concomitanza col documento bresciano e più ancora con quello romano.

D'altra parte si vede bene, come i redditales, considerati come tali, stanno all'apice della categoria dei non liberi risiedenti su terra altrui, e vi sono vincolati meno strettamente dei massari e, a ragione maggiore, dei coloni. E un'altra cosa che dà da pensare è la differenza fra persone della stessa classe a seconda della loro situazione topografica.

Non si può credere che la prevalenza dei redditales sugli angariales nel suburbio sia dovuta all'azione o all'influenza del mercato cittadino sulle classi servili: noi ci troviamo, nel caso del documento lucchese, davanti [100] ad una percentuale molto forte di redditales, che nulla impedisce di supporre estesa anche alle terre possedute da altri nel suburbio cittadino: se realmente essi avessero a poco a poco migliorato la loro condizione per i benefici influssi del mercato cittadino e della città e, più spesso ancora, del suburbio stesso, come sede di quello, non si arriva a capire come questi angariali, frequentemente ricordati, sieno in peggiore condizione degli angariali comitatini, e come e perchè i redditales che risentono il contatto cittadino si trovino più gravati di quelli che ne sono distanti. In verità apparirebbe — non dico che sia — tutto il contrario.

Dunque la spiegazione di tale stato giuridico deve essere cercata, in un altro campo, quello cui ho già accennato: l'irrigidimento dei vincoli e dei contratti rurali iniziato negli ultimi tempi romani. Io trovo una continuazione diretta con la condizione dei lavoratori della terra nei mille passus romani, quando furono anch'essi travolti nella gran rovina che li privò della libertà e li legò come gli altri alla gleba, lasciando loro l'unico vantaggio di fronte agli altri coloni, a cui la legislazione giustinianea tentò di equipararli, di un quantitativo diverso e meno oneroso di prestazioni; e queste continuarono inalterate nei secoli successivi, in modo che, quantunque i lavoratori, su cui gravavano, fossero, al pari degli altri, chiamati redditales ed effettivamente rientrassero in tale classe, pure se ne differenziarono.

Quanto poi alla coesistenza di un esiguo numero di angariales, mi pare che questo fatto, oltre ad escludere ancora una volta che tutti i dipendenti della Chiesa, solo perchè suburbani, godessero di posizione privilegiata, escluda anche che ciò sia dovuto ad un'azione, comunque esercitata, della parrocchia cittadina (comprendente come sappiamo, anche il suburbio); perchè in tal caso, nè gli angariales sarebbero rimasti più gravati dei loro confratelli comitatini, nè i redditales, che erano anche più numerosi, si sarebbero trattenuti dall'avvantaggiarsi di più.

[101]

Del resto il fenomeno mostrato dal polittico lucchese non è isolato: un'altra pagina interessante per la storia della condizione dei lavoratori della terra del suburbio può essere offerta dall'esame comparativo di due diplomi concernenti Asti.

Nell'anno 924 un certo Oberto chiese a re Rodolfo, di cui era fidelis, il castello vecchio di Asti ed alcuni servientes infra eamdem civitatem commanentes, singolarmente nominati, con le mogli ed i figli cum massariciis illorum et omnibus rebus mobilibus et inmobilibus. E il re, con diploma del 5 decembre dello stesso anno[303], gli concesse il castello con le sue pertinenze e cum servis et ancillis et omnibus mobilibus ad eosdem iuste et legaliter pertinentibus.

Basta un'occhiata per accorgersi di un fatto abbastanza strano in un diploma: la dispositio non corrisponde esattamente alla narratio: in questa si domandano dei servientes con le loro massaricie ed i loro beni mobili ed immobili: in quella si concedono degli immobili con i servi e le ancelle che li lavorano e con i beni mobili — i soli beni mobili — che ad essi appartengono legalmente: con tutta probabilità si accenna al peculio.[304]

Ho detto che questa dissonanza è un fatto abbastanza strano (e chiunque conosca un po' le norme delle cancellerie regie ed imperiali, lo sa); ma esso diviene ancor più strano per il ripetersi di questa stessa discrepanza in un altro diploma regio, di poco posteriore a questo, che concerne le stesse precise cose di cui si tratta in questo[305]. È un diploma del 23 luglio 938 con [102] il quale Ugo e Lotario confermarono al vescovo Brunengo questi stessi beni pervenuti al vescovado nel frattempo: sembra per una donazione mortis causa. Nella narratio si parla di massaritia sex cum servis et ancillis ea rettinentibus: nella dispositio si usa la formula consueta in tutte le concessioni: casis massaritiis ac famulis utriusque sexus.

Il contrasto è meno stridente che nel diploma del 924, ma non meno evidente perchè la parola rettinentibus — qualunque significato abbia il verbo retinere — indica pur sempre qualche cosa di diverso da quello che si sarebbe desunto se il diploma avesse detto che quei servi e quelle ancelle pertinebant alle massaricie donate. La correlazione fra i due diplomi impedisce di pensare ad un errore qualunque da parte della cancelleria regia e quindi si deve ricercare per altre vie una spiegazione dell'incognita.

Si può osservare — rifacendo la via a ritroso attraverso ai due diplomi — che la narratio del secondo parte dalla dispositio del primo e che la dispositio del secondo segna l'ultimo punto della trasformazione della condizione di questi lavoratori. Essi da prima appaiono in tale stato che se non possono esser detti veri e propri servi, ci si avvicinano tanto da essere qualificati come servientes: eppure, per un altro lato — quello di esser considerati come soggetti di un diritto su una terra — se ne allontanano così profondamente, che il cancelliere di re Rodolfo, non sapendo come meglio conciliare questi due elementi così profondamente antitetici e per i quali il diritto del tempo non offriva alcun riscontro, li qualifica come veri e propri servi concedendo loro il diritto del peculio. Ugo e Lotario ne peggiorano [103] ancor più la condizione perchè non fanno nemmeno accenno al loro peculio.

Non mi pare si possa negare che il punto di partenza, quale ci è fornito dal diploma del 924, è dato dalla condizione ibrida, che ha del servo e del non servo; fatta di vincoli personali e di diritti d'indole reale che sembrerebbero inconcepibili con i primi. Come è nata e come si è formata tale condizione? Per rispondere a questa domanda il miglior mezzo è, forse, il cominciare col determinare il luogo in cui essa appare.

Questi lavoratori si trovavano nel suburbio della città di Asti. Ciò mi sembra dimostrato dall'espressione infra civitatem usata dal diploma di re Rodolfo: espressione che non può indicare entro la città perchè per indicare il castello vecchio (che si sa di sicuro essere stato situato dentro le mura della città) lo stesso diploma dice in civitate A. L'avverbio infra ha conservato anche qui il suo antichissimo significato e ci offre modo, se non m'inganno, di spiegare come si sia potuto avere fra le varie classi sociali anche quella di questi servientes.

Discendenti da antichi lavoratori di terre suburbane, pubbliche fino dal tempo romano, o divenute tali in seguito: essi, al sopravvenire dei Langobardi, furono considerati come più vicini ai servi che ad ogni altra classe, ma, essendo addetti alla lavorazione della terra, come tutti i lavoratori della terra in genere, ebbero continuate anche in seguito le condizioni antecedenti. Furono, così, chiamati servientes invece che servi ed ebbero riconosciuti consuetudinariamente dei diritti che i veri e propri servi non avevano. Solo quando l'autorità pubblica, nel donarli, si trovò costretta a determinare la loro situazione giuridica, essi rientrarono nel quadro delle classi di lavoratori, quale si concepiva, secondo le leggi, nel secolo IX. e nel X.: e non fu certo a loro vantaggio. Fino ad allora essi avevano continuato a mantenersi, salvo, forse, delle deviazioni che oggi più non si possono determinare, ma che non furono certamente molto sensibili, in uno stadio che solo la speciale condizione giuridica [104] del suburbio al tempo romano aveva potuto contribuire in modo decisivo a far nascere.

A questo modo si può avere un'idea, certo molto approssimativa ma non trascurabile, delle modificazioni che la venuta dei Langobardi portò nel territorio suburbano. Il quale — non va dimenticato — fu soggetto più che ogni altro a perturbazioni, perchè, sia per ragioni strategiche che sociali e politiche, le guerre si risolvevano nella conquista delle città, intorno alle quali veniva necessariamente a decidersi la maggior parte delle battaglie. L'invasione, infatti, diviene conquista, quando, prese le città, i Langobardi ne occupano il territorio e vi si insediano stabilmente.

E perciò io credo che intorno alla massima parte delle città italiane continuasse l'antico suburbio romano e su di esso prevalessero le antiche consuetudini rimaste quasi completamente inalterate.

§ 3.

— Però l'atto di Carlo Magno non parla soltanto di terre suburbane: civitates, dice, cum suburbanis et TERRITORIIS SUIS. Questi territoria non erano quelli dipendenti giurisdizionalmente dalla città: proseguendo, il documento aggiunge et cum comitatibus que ad ipsas pertinent. Come tali territoria non s'identificano con le terre suburbane, distintamente ricordate, così non si confondono con i singoli comitati. Non resta che pensare ai beni comuni, la cui continuazione ininterrotta dall'epoca romana fino al basso medio evo, negata contro il Savigny dal Bethmann Hollweg e dal Roberti, ammessa invece dal Tamassia[306] e vittoriosamente dimostrata dallo Schupfer[307] è stata ormai riconosciuta dalla opinione comune[308].

[105]

Questi beni, posti alla dipendenza del duca o del gastaldo insieme con i beni pubblici — publicum — a cui l'autorità suprema li avvicinava con l'equipararli amministrativamente all'organismo della curtis regia, soddisfacevano con i diritti d'uso alle necessità dei cittadini e si distinguevano da quelli più propriamente pubblici, perchè, a differenza di questi, gli utenti ne potevano godere senza l'obbligo di pagarne il canone corrispondente.

Anzi, esaminando più attentamente il noto reclamo dei provinciali istriani contro le usurpazioni del duca franco Giovanni[309], non mi sembra azzardato il pensare che, più che di diritti di uso, si tratti di un vero e proprio diritto di condominio dei cittadini sulle terre del comune[310]: NOSTRAS silvas, unde nostri parentes herbatico et glandatico tollebant, dicono essi, terras NOSTRAS, NOSTRAS runcoras, NOSTRA prada, NOSTRA pascua. E non è a dirsi che si potesse ingenerare confusione per il fatto che queste, come le altre terre pubbliche, si trovavano sotto la dipendenza del duca. Il duca riconosce esplicitamente di aver compiuto gli atti che gli si imputano, ma dichiara di averlo fatto in buona fede ritenendoli beni pubblici. «Istas silvas et pascua quae vos dicitis — ecco le sue parole — ego credidi quod ex parte d. imperatoris in publico esse deberent».

Anche ammesso e non concesso che non si trattasse che di diritti di uso, questi sono tali da incidere così [106] profondamente l'elemento dominico da annientarne quasi il lato dispositivo.

Ma poi, se non m'inganno, la teoria dello Schupfer è sopratutto basata sulla terminologia dei documenti: comunalia, compascua publica, campora comunalia, res comunes, comunes, comunanciae, vicanalia, etc: tutte queste espressioni che richiamano alla mente — è innegabile — l'idea di una compartecipazione.

Ma non sono le sole.

Alcuni nostri documenti, che concernono importantissime città langobarde, a incominciare dalla capitale del regno fino a quella Brescia in cui densi si stabilirono i nobili langobardi[311], ne usano anche un'altra.

Il placito pavese del 14 marzo 914[312], ricorda un hortum suburbium huius Ticinensis, non multo longe a basilica S. Theodori sive et braida una in CAMPANIA huius Ticinensis. E la stessa parola, oltre che nel diploma con cui nel 989 Ottone III concede al monastero di S. Pietro in Ciel d'oro omnem terram in CAMPANIA papiensis urbis[313], la troviamo nel diploma del 1014 di Ottone conte palatino e di Pietro vescovo al monastero del Salvatore costruito foris in CAMPANEA ticinensis civitatis[314].

A Piacenza nel 1085 fu celebrato un «concilium generale» in CAMPANEA civitatis P. ubi est ecclesia S. Victorie martyris et virginis[315].

Qualche decennio prima il vescovo di Brescia Odofredo si era obbligato a non fare alcun «hedificium» in Monacello e nessuna proibizione e interdizione ai bresciani «pasculandi, incidendi et capellandi» sul Monte Degno e sul Monte Canedulo, a cui «coherent ab una [107] parte via q. d. mantuana, ab aliis omnibus campania»[316].

Il primo documento pavese, col simultaneo ricordo del suburbium e della campanea, esclude ogni possibilità di sinonimia tra queste voci.

E un bel documento veronese[317] ce ne mostra l'intima natura. Essendo potestà di Verona Grimerio Visconte piacentino e lamentandosi che, poco tempo prima della sua podesteria, communis campania Veronae «a quampluribus esset capta et caperetur», con tal perdita che «communis utilitas taliter diminui videbatur quod ad maximum universitatis detrimentum spectare posset», pensò di provvedere. E, avuto il consiglio dei suoi giudici ed assessori e dei causidici, dei militi e dei negozianti e in special modo di tutti coloro che avevan giurato di dargli consiglio in buona fede, pose molte persone giurate «ad jam dictam communem campaniam Veronae per suum sacramentum a praediis privatorum hominum discernendam et separandam», e quindi, con queste persone e con molte altre di Verona andava «circumiens eamdem communem campaniam Veronae et eam, secundum juratorum sacramenta, ab allodiis, ponendo terminos, segregans».

Si tratta, evidentemente, di beni pubblici cittadini, per i quali — e per essi soltanto — è da credere perdurasse a Verona, come a Pavia, a Brescia e a Piacenza il termine di CAMPANEA.

Se questa campanea risulta diversa dal suburbio e dal comitato e — come si ammette da tutti — alle città rimasero in proprietà in uso — questo per ora non ci riguarda — dei beni; possiamo pensare che nell'atto di Carlo Magno tale parte del territorio sia indicata dai territoria tenuti distinti dai suburbanis e dai comitatibus. [108] Ma, in quest'atto, di fronte al vincolo più tenue, per il quale il comitato pertinet alle singole città, se ne ha uno più intimo per cui e le terre suburbane ed i territoria sono ambedue dichiarati proprî delle città — civitates cum suburbanis et territoriis SUIS. — Ora se si pensa che le terre suburbane non appartenevano affatto, nella loro totalità e nemmeno nella maggior parte, alle città, in proprietà privata, o ad altro titolo simile, sia pure sotto l'amministrazione ducale o gastaldale; nè vi avevan su, se non in caso eccezionale e fortuito, diritti di uso; bisogna concludere che la triplice distinzione del territorio di fronte alla città, porta al riconoscimento della città — come tale e non come sede di autorità pubblica — al grado di persona giuridica pubblica con facoltà e con diritti distinti da quelli dell'autorità regia e con beni separati da quelli che l'autorità pubblica aveva nell'ambito della circoscrizione territoriale della città. Il documento è chiaro: son proprie delle città — suae — terre di cui i privati non hanno nè proprietà nè uso di natura privata e che non si confondono con le proprietà del publicum, per riguardo al diritto pubblico.

Esaminiamo più da vicino questi due punti: mancanza di diritto di proprietà o di uso e distinzione dai beni del publicum.

Poichè l'atto di Carlo M. chiama proprie delle città — suae — le terre suburbane, di cui la proprietà spettava a chiese o a privati, ed a queste terre equipara senza differenza alcuna le terre appartenenti alle città stesse: esaminando a fondo il documento bresciano, veniamo a concludere che fra le terre, sulle quali il vescovo riconosceva dei diritti ai cittadini, e la campanea circostante c'era sicuramente una differenza. Ammesso che la parola campanea a Verona indica beni della città, — e non c'è nessuna ragione che induca a credere che a Pavia, Brescia, Piacenza etc. avesse significato differente — ne consegue che fra i beni pubblici delle città esistevano distinzioni di vario genere, per il diverso titolo di proprietà, per il diverso uso a cui erano destinate. Nei beni [109] pubblici esaminati dallo Schupfer l'elemento predominante è l'uso comune e lo prova — come ho detto — il complesso dei termini usati per indicarli[318]. Ma nei casi da me raccolti questo concetto dell'uso comune non è indicato nè punto nè poco: eppure resulta che la campanea apparteneva alla città e non al publicum. Infatti nè a Pavia e in un placito, nè a Brescia, in un atto di tanta importanza, si sarebbe mancato di farne risaltare il carattere, se si fosse veramente trattato di terre demaniali, mentre il genitivo possessivo — huius Ticinensis — le dichiara della città.

§ 4.

— Ma oltre a queste terre, nella costituzione langobarda, ve ne sono altre che appaiono collegate a determinati centri abitati, fra i quali anche le città, e che occorre quindi esaminare: le terre arimanniche.

Il Muratori[319] sostenne per il primo, con il suo meraviglioso intuito storico, che si trattava di beni concessi dal fisco; e con lui, più tardi, si sono schierati il Roth[320], il Leicht[321] e il Checchini[322]. Nessuno di questi scrittori, però, ha considerato a fondo quella che mi pare la legge fondamentale in rapporto ai beni arimannici e l'unica che veramente sia di applicazione generale.

Tale legge è la nota costituzione emanata da Federigo I nella famosa dieta di Roncaglia del 1158 e passata poi nel libro delle consuetudini feudali. Con essa, [110] volendo rivendicare i diritti dell'impero, Federigo I determinò la serie delle così dette regalie.

E cominciò proprio colle arimannie. Regalia autem sunt: ARIMANNIAE, viae publicae, flumina navigabilia et ex quibus fiunt navigabilia, portus, ripatica, vectigalia, quae vulgo dicuntur monetae etc.

Poichè è certo che, anche a quel tempo, esistevano terre spettanti al publicum e invece la legge fridericiana, se si eccettua la parola arimanniae, non ne parlerebbe mai[323], è evidente, data l'importanza dell'argomento, che con questa parola s'indicarono proprio i beni di pertinenza dell'impero[324].

Con questa conclusione non si accorda nè l'opinione del Leicht[325], al quale, tuttavia, spetta il merito di aver lumeggiata la riconnessione dell'arimannia alle terre pubbliche, nè quella del Checchini[326]: il primo ritiene che l'arimannia sia non la proprietà dell'arimanno, bensì il diritto che egli gode su terre prative e boschive, originariamente concesse dal pubblico al gruppo di cui egli fa parte. E pure il Checchini parla solo di originaria appartenenza delle arimannie ai beni del fisco.

In conclusione, se non m'inganno, l'uno e l'altro affermano che questi beni, prima di proprietà del fisco, sono stati da questo ceduti a determinate persone e queste vi hanno conseguito un diritto di proprietà, che può esser limitato da restrizioni così gravi da giungere fino al divieto di alienazione, ma che non cessa, per questo, di essere un vero e proprio diritto di proprietà.

[111]

A me invece pare che qui si abbia la concessione non di un diritto di proprietà, quale s'intende nella coscienza giuridica del tempo; ma di un semplice diritto di possesso ispirato proprio a quei concetti barbarici della gewere, i quali, se non giungono, forse, allo sviluppo creduto dallo Schupfer, non me ne sembrano, in verità, così lontani come il Leicht prima ed il Checchini poi hanno sostenuto: possesso, in opposizione al quale Federigo I aveva rivendicata l'alta proprietà pubblica, in quanto egli si considerava come continuatore dell'idea imperiale in cui si impersonava il populus romanus, supremo detentore degli attributi della sovranità.

Io credo che l'istituzione dell'arimannia sia una delle manifestazioni più rilevanti, se non unica, dello Stato germanico, la quale non abbia quasi affatto subito influenza da elementi estranei e che — appunto per questo — ci possa offrire una riprova delle energie circostanti che la rinchiusero in limitatissima cosa.

Il Leicht[327] ha trovato alcuni punti di analogia fra l'arimannia e le terre limitanee romane: altrettanti se ne trovano, secondo me, con le terre pubbliche delle città, le quali compiono funzione analoga così negli ultimi tempi dell'impero romano, come anche in seguito, durante i tempi goti e bizantini.

Certo alcune di queste terre — il Leicht ha ragione — dallo Stato romano, appunto perchè le destinava a barbari, furono dotate di quegli speciali privilegi che potevano [112] renderle più conformi ai barbari che Roma assoldava per costituire la massima parte delle sue milizie. Ma è ormai noto come fra grandi civiltà decadenti e nuove civiltà tuttora nel sorgere sieno molti e notevoli punti di contatto, senza per questo che ne derivi la conseguenza che le prime abbiano agito sulle seconde.

E qui, mi pare, siamo proprio nel caso.

Il Checchini è sostenitore assoluto dell'influenza bizantina sull'arimannia langobarda, la quale, secondo lui, riproduce esattamente l'organizzazione dei fondi militari di confine[328].

Non posso — ora — fermarmi a lungo su questa questione, incidentale per la mia ricerca, e debbo quindi tralasciare di occuparmi così del problema che riguarda lo stato personale degli arimanni — gli arimanni eran liberi, ma la loro libertà non credo punto fosse quella dei veri e proprî exercitales — come dell'esame del modo con cui istituti bizantini avrebbero potuto influire sulla costituzione di gruppi arimannici già in azione nei primi anni successivi all'interregno, non che di tutte le altre questioni relative. Ma non posso fare a meno — non foss'altro per giustificare la mia affermazione così recisamente opposta — di esaminare un po' attentamente i punti di identità che il Checchini ha voluto trovare fra l'arimannia e gli istituti militari bizantini.

Egli dice che molti documenti riferentesi all'arimannia riproducono esattamente l'importante prescrizione imperiale per cui i «fundi limitanei» erano «ab omni munere vacui» e così (son le testuali parole del Checchini)[329] [113] «il diploma di Carlo il Grosso alla chiesa di Arezzo, — a. 882 — prescrive: «...... in omnibus liberis et erimannis prefatae S. Aretinae Ecclesiae filiis.... iubemus ut ab eis nec donaria aut redibitiones neque pignorationes vel iniustae districtiones exigantur», ed un altro diploma di Enrico IV: «nullus dux, archiepiscopus ecc..... in eorum domos albergare theloneum, vel aliquam publicam functionem dare eos (arimannos) cogat».

«Siamo così in grado di trovare (diciamolo tra parentesi), la ragione dell'errore in cui sono caduti molti autori, che, avendo constatata quest'immunità dell'arimannia da qualsiasi onere fiscale, l'hanno presa per una terra allodiale».

I documenti — in verità — suonano in modo un po' diverso da quello con cui il Checchini li ha citati.

Il primo è il famoso diploma immunitario alla chiesa aretina che il Muratori[330] credette generale per tutte le chiese d'Italia.

L'imperatore, avendo conosciuto come i suoi ministri «contempto timore Dei et abiecta a predecessoribus (nostris) interdicta, per plebes et ecclesias seu ecclesiastica praedia et domos placita teneant, districtiones in liberos, massarios super ecclesiasticas res residentes, et servos et aldiones faciant tributa; ab eis exigant census et donaria, angarias etiam et opera[s; et] non solum ab eis sed ab omnibus liberis eri[man]nis et ecclesiae [114] filiis», vuole assolutamente con la sua imperiale autorità «omnes has superstitiones et importunas violentias funditus abolendas» e a questo scopo stabilisce (statuentes) che «in sancta aretina ecclesia nullus comes, nullusque judex vel quelibet iuditiariae potestatis persona tam in plebibus quamque et in monasteriis, titulis aliisque ecclesiis vel domibus seu urbanis vel rusticis possessionibus ad eam pertinentibus placita tenere, massarios et colonos, liberos, aldiones vel servos quosque residentes super res ad predictam sanctam ecclesiam pertinentes quolibet modo distringere, pignorare, angariare, census et redibitiones et donaria aliqua exigere quoquomodo presumat; sed liberos, massarios, quos legalis coactio exigit querere ad placitum, per patronum seu a[dvoc]atum ad placita ducan[tur] ut legal[is diffi]nitio legalem contentionis finem impo[nat]; ac etiam in omnibus liberis et erim[a]nnis praef. s. aretinae ecclesiae filiis et eiusdem diocesi commanentibus massariis et colonis observari omnimodis iubemus; videlicet ut ab eis nec donaria aut redibitiones neque pignora neque iniustae districtiones exigantur, sed unusquisque cum legalis censura exigit a patrono suo ad placitum deducatur, ne pignorationis occasio aditum rapine depredatoribus in aliquo prestet»[331].

Come si vede — ed è ben noto — l'imperatore per evitare i soprusi, che i suoi ministri commettevano nell'esercizio della giustizia, proibisce loro l'introito nel territorio diocesano reso immunitario, stabilendo che gli abitanti ne siano presentati al placito da apposito avvocato.

Gli erimanni — chiunque si voglia indicare con questo nome — non sono trattati diversamente da tutti gli altri abitanti della diocesi aretina, qualunque ne sia la condizione, dal servo al libero; perchè unico e solo [115] scopo dell'imperatore è di sottrarli tutti alle arbitrarie vessazioni dei ministri regi: non si tratta affatto di imposte: ma di esenzione da obblighi giurisdizionali, e quindi, da arbitri e da soprusi.

Il diploma di Enrico IV è anche più refrattario all'interpetrazione del Checchini.

L'imperatore, per intercessione di Adalbergo vescovo di Amburgo, concede «cunctis hominibus de vico Viglevani et Serpi atque Pedulae et Viginti Columnae, cunctis filiis filiabusque eorum nec non et hominibus eorum omnibus ut ab arimannia exeant, et nullus dux, archiepiscopus, episcopus, marchio, comes, vicecomes, gastaldio, sculdasius nullaque regni persona in eorum domos albergare, theloneum vel aliquam publicam functionem dare eos cogat, nec eos nec eorum posteritatem placitum custodire compellet ultra nostrum placitum»[332].

Tutta la concessione deriva dal primo inciso — non riportato dal Checchini — «ut ab arimannia exeant».

E l'altro documento, citato in nota dal Checchini, e che è l'atto di pace del 1114 fra la contessa Matilde ed il vescovo di Parma Bernardo; fra le altre clausole, ha la promessa del vescovo che agli «arimannis de Monticulo nullos alios USUS vel FACTIONES deinceps requisierit, nisi quos eius antecessores SOLUMMODO IN PACE et non in guerra ex illis habuerant»[333].

«Ergo — io non saprei come dir meglio del Muratori — arimanni tempore etiam pacis ad quaedam obsequia, servitia et factiones obligabantur»[334].

Tutti i documenti dal Checchini stesso citati, non che suffragarne l'opinione, ne provano precisamente l'opposto, e rendono quindi superfluo il ricordo del districtu et integro servitio quod de jure debebant all'imperatore i due arimanni ceduti nel 1159 da Federigo I [116] alla chiesa di S. Alessandro di Bergamo[335] e dell'omni debito, districtione et notione atque placitu cui erano costretti quei liberi homines qui vulgo herimanni dicuntur i quali, insieme col castello di Romagnano, Ottone I donò al monastero di S. Zenone di Verona[336]; e di tutti gli altri documenti — e sono molti — da cui appare in modo irrefutabile come gli arimanni fossero soggetti a tributi e a prestazioni[337].

E non è soltanto in questo che la voluta analogia fra «fundi limitanei» ed arimannie non esiste.

Il Checchini, per dimostrare che comune agli uni e alle altre era anche il divieto di alienazione, cita il diploma di Enrico III agli arimanni di Sacco con cui l'imperatore stabilisce che «non liceat ipsam erimanniam suam vendere aut archiepiscopo, aut patriarche aut duci, aut marchioni, comiti, vicecomiti nec aliquibus ex potentioribus».

Ma è evidente invece che l'imperatore permette loro la più ampia facoltà di vendita e di cessione, fatta unica e sola eccezione delle persone più potenti degli arimanni stessi, le quali — i livelli delle chiese ne danno una prova evidente — avrebbero avuto di mira e di resultato lo scompaginamento di un insieme di forze e di individui, che l'imperatore voleva invece, seguendo un sistema tradizionale, tenere unito. Anche nei giuramenti di fedeltà [117] e di sottomissione è abituale l'eccezione di guerreggiare contro l'imperatore o contro il papa ed altre determinate persone. Si dovrebbe sostenere che il giuramento di fedeltà non esiste? Nè il procedimento è diverso: sono le manifestazioni sociologiche, diciamo così, che confermano, con l'eccezionalità di qualche disposizione, la generalità di una norma o di un istituto.

Nei «fundi limitanei» esiste un vero e proprio divieto di alienazione; mentre qui si ha in diritto una facoltà di alienare la quale può essere completa, come nelle arimannie friulane[338], o limitata come nel caso su citato; ma in ogni modo esiste sempre senz'altra limitazione che quella che il concessionario debba subentrare negli obblighi a cui sottostava il concedente, in quanto titolare di una terra, su cui incombevano speciali oneri.

E appare anche un'altra differenza fondamentale fra l'istituto bizantino e quello langobardo. Nel primo la proprietà della terra passava dallo Stato al soldato ed ai suoi successori: nel secondo no; il publicum conserva sempre un diritto eminente di proprietà che non si manifesta solo in caso di inadempienza degli obblighi e per la risoluzione di una condizione; è un diritto che si affievolisce coll'andar del tempo e sotto l'azione di numerosi elementi ed, in alcuni casi, si trasforma, ma non si estingue. Nei primi anni il publicum esercita il suo diritto di distribuzione delle terre comuni concesse in precaria ad un determinato gruppo, come nel noto caso della fiurvaida pisana, mentre più tardi di questo esercizio di autorità non si ha menzione. Ma il diritto eminente dello Stato permane e lo si vede apparire nella imposizione fridericiana riguardo alle arimanniae, nella quale si comprendono tutte le terre sulle quali lo Stato vantava diritti non annullati da concessioni speciali.

E in tal modo si viene ad un altro punto più interessante [118] ancora; la determinazione del patrimonio dell'arimanno.

Secondo il Leicht, l'arimanno possederebbe, come tale, una terra speciale, che sarebbe appunto l'arimannia, oltre il suo allodio: l'arimannia, secondo quest'autore, sarebbe solo la terra pascolativa, almeno originariamente. Io credo, invece, che arimannia non sia soltanto questa ma sia la terra, la sors, concessa ad ogni singolo arimanno, insieme col diritto sul compascuo e sulle prestazioni, di cui queste due terre dovevano rispondere, per mezzo della persona a cui erano state concesse.

In tal modo si rende spiegabile la frase del diploma imperiale agli arimanni, con la quale si concede a questi hereditatem et res communes. Nè può far meraviglia il fatto che la terra sia chiamata hereditas: con tal nome sappiamo esser stata indicata non soltanto la terra allodiale ma anche quella colonica, la quale — ed è questo un punto di contatto con l'arimannia — senza staccarsi dal patrimonio del «dominus», è suscettibile di cessione, di alienazione e di donazione[339] anche fuori dell'ambito del mithio, entro il quale i coloni fiscalini [119] hanno facoltà anche più ampie[340]. Senza contare che ripugna al concetto della costituzione di un gruppo arimannico l'idea della mancanza di una terra propria di ciascuno, perchè è proprio questo il campo nel quale il sistema della sors e della terra comune ad essa assegnata si può e si deve manifestare. Il Leicht[341] ha combattuto giustamente, seguito dal Checchini, l'opinione dell'Andrich che gli arimanni nei piccoli castelli fossero i soli comunisti ed aggiunge che però è innegabile che al gruppo vicinale stesso, come ente, gli imperatori ed i loro succedanei sovente investono l'arimannia, la quale viene così ad immedesimarsi col comune: così a Mantova, a Cremona. Ed è vero. Io aggiungerò che, dall'insieme dei documenti, risulta la prevalenza dell'elemento cittadino-romano su quello arimannico-germanico.

Nel diploma di Enrico II del 1014[342], si parla esclusivamente di arimanni, mentre in quello di Enrico III del 1055[343] si parla di tutti i cittadini di Mantova, dei quali gli arimanni, in virtù del diploma del 1014, erano potuti entrare a far parte. Infatti con quest'ultimo diploma l'imperatore prende sotto la sua protezione tutti gli arimanni — cunctos arimannos — che abitano — habitantes — nella città di Mantova, nel comitato di essa ed in alcuni vici espressamente nominati — in civitate Mantue, sive in Castro qui d. Portus sive in vicoras q. n. S. Georgio, Formicosa, Cepada, seu et in comitatu mantuano con tutte le loro cose e cioè cum omni eorum hereditate, paterno vel materno jure, proprietate, communaliis sive omnibus rebus que ab eorum parentibus possessa fuerunt et eorum adquisita sive adquirenda.

Invece dal diploma di Enrico III del 1055 appare che l'imperatore, volendo estirpare le «superstitiosas [120] exactiones et importunas violentias» di cui gli arimanni mantovani erano vittime, stabilisce ed impone che «nulla magna parvaque persona predictos cives, videlicet ermannos in Mantua civitate habitantes (ossia quegli arimanni che erano entrati ad abitare come cittadini in Mantova) de suis personis, sive de illorum servis et ancillis vel de liberis hominibus in eorum residentibus terra, vel DE EREMANNIA et COMMUNIBUS REBUS AD PREDICTAM CIVITATEM PERTINENTIBUS ex utraque parte flumine mincii sitis, sive de beneficiis, libellariis, precariis, seu eciam de omnibus eorum rebus mobilibus et immobilibus iuste conquisitis et iuste conquerendis inquietare, molestare, disvestire, sine legali judicio presumat». Ora si potrebbe ricordare che a Lucca era avvenuto altrettanto parecchi secoli prima: nel 786[344] gli arimanni erano entrati a far parte dei cives ricordati fino dal 722[345]. Ma quello che a me preme rilevare è la differenza che corre fra i due passi concernenti la terra arimannica: nella prima abbiamo l'hereditas distinta ma unita con le terre comuni dei singoli gruppi arimannici; nel secondo l'una e le altre, sotto la comprensiva dizione di eremania, sono nettamente separate dai beni comuni pertinenti alla città. E su quest'ultimo diploma si modellano quelli successivi del 1090, del 1133 e del 1159 di Matilde[346], di Lotario II[347] e di Federigo Barbarossa[348].

A qualunque distanza fossero le arimannie dalle mura cittadine, costituivano sempre un'organizzazione distinta da quella della città, la cui configurazione territoriale rimane individuata anche per questo lato.

[121]

Nè si potrebbe obbiettare che si può avere una confusione quando, invece di terre lasciate in proprietà alle città, si tratta — ed è il caso più frequente — di terre così dette comuni delle quali alle città è concesso solo l'uso mentre la proprietà rimane al re.

Prescindendo dal caso del Palatium o Curtis regia che non si distingueva dalle altre curtes, — lascio da parte la questione, per me irrilevante, della distinzione fra fisco e patrimonio privato del re, che il Sohm afferma già delineata mentre è negata dall'Hartmann — non si distingueva, dico, se non per un più rapido formarsi del diritto che scultoriamente fu detto dal Solmi[349] curtense; delle altre terre regie bisogna fare una bipartizione. V'erano terre, prati, selve, laghi etc. sulle quali dal re potevano venir concessi diritti e facoltà di uso, dietro il correspettivo di un canone o magari senza. E queste erano terre non specificatamente addette ad una comunità di persone. E c'erano poi altre terre sulle quali, in quanto e perchè facevano parte di un determinato gruppo politico, i componenti di esso avevano speciali diritti. Le une e le altre terre si trovavano sotto il dominio eminente del «publicum»; ma nel primo caso predominava assoluto l'elemento patrimoniale; nel secondo questo era quasi tutto, per non dire addirittura tutto, assorbito dall'elemento pubblico. Conseguenza non improbabile del modo con cui sull'esempio dei re goti, i re langobardi si considerarono come successori del fisco bizantino[350]. E la differenza si manifestava anche nel diverso modo di agire della potestà pubblica sugli uni e sugli altri: nel primo caso il diritto d'uso scaturiva immediatamente [122] dalla concessione regia; nel secondo indirettamente; perchè il re, se non commetteva un arbitrio che può, magari, giungere fino alla spogliazione, possibile senza dubbio, ma, per la sua stessa natura, eccezionale, non poteva ammetterlo al godimento dei diritti di uso se non costringendo il gruppo, che non avesse voluto accogliere il nuovo venuto di buona volontà, ad accettarlo col vigore del suo preceptum[351].

Ma nel primo caso il re, sieno beni suoi o dello Stato, può disporne come vuole; nel secondo riconosce la consistenza del gruppo dei vicini.

Nel caso nostro della città.

Ed è ormai tempo di avviarsi a ricercare la natura di questa consistenza.

§ 5.

— Una prima osservazione si impone.

Dal momento che i Langobardi rispettarono le antiche divisioni territoriali, è certo che esse dovettero avere un'importanza effettiva, perchè non è possibile ammettere che ai barbari, pochi e selvaggi, convenissero le divisioni territoriali di un popolo evoluto fino alla decadenza e, per quanto decimato dalle carestie, dalle pestilenze e dalle guerre[352], infinitamente più numeroso; mentre è pure giocoforza convenire che ai langobardi ariani, tali divisioni non poterono esser date dalla chiesa cattolica.

Prima che il Solmi negasse la continuazione medioevale delle vecchie corporazioni romano-bizantine, si era sostenuto unanimemente che queste servissero ai dominatori come strumento di estorsione. Dopo di lui nessuno si è occupato di colmare la lacuna che veniva lasciata scoperta, quantunque — se non m'inganno — non [123] si possano del tutto accogliere i risultati negativi a cui egli è pervenuto.

Si hanno tracce sicure di prestazioni quas homines exinde in publico habuerunt consuetudinem faciendum[353]: Pipino[354] parla del rifacimento delle mura, delle porte, delle strade, dei ponti e degli edifici pubblici, come di antiqua consuetudo e Carlo Magno[355] ricorda mansionaticos, paraveredos et operas; tutti dimostrano la continuazione ininterrotta dal tempo romano di tutti questi aggravi[356] e compiono il quadro datoci dalla famosa pensio dei saponai di Piacenza[357], dal taglio e trasporto delle legna dei cittadini di Benevento[358], dalle prestazioni dei Veronesi per il rifacimento delle mura[359], da quelle dei Cremonesi per l'uso delle acque[360] e anche da quella dei Lucchesi[361] e dei Pisani[362] per il palazzo imperiale. E [124] che più? Chi non conosce — anche a voler tralasciare gli aggravi del triplice placito annuale[363] — il famigerato passo di Paolo Diacono che parla di populi adgravati?

Il Tamassia[364], nella sua recensione al libro del Solmi sulle associazioni precomunali, osservando come il documento piacentino del 744 sia una conferma regia di una più antica concessione di privilegi, per la quale da Liutprando è confermata al vescovo di Piacenza pensionem illam de sapone h. e. libr. XXX. quae palatii nostri in civitate Plac. inferebantur et ab ipso patruo nostro ad pauperes lavandum concessa sunt, crede probabile che la chiesa piacentina ottenesse dal re langobardo la continuazione di un antichissimo diritto a suo favore e gravante gli esercenti dell'industria del sapone.

Egli ritiene così che non si possa disconoscere un certo vincolo di dipendenza fra gli operai e la Chiesa, la quale, con i suoi organismi associativi, nei secoli V e VI servì di rifugio allo spirito corporatizio romano, strangolato dalle istituzioni coatte dell'ultimo diritto imperiale; ed in quelli successivi, pur senza implicare necessariamente l'esistenza di un corpus, ebbe non scarsa importanza[365]. Effettivamente, il Tamassia ha messo felicemente in rilievo — il Solmi stesso lo ha riconosciuto[366] — l'influsso esercitato, in questo rapporto, dalla Chiesa. Ed io credo che la Chiesa abbia esercitato nell'epoca [125] langobarda un'azione di eccezionale importanza e ne tratterò più innanzi; ma non mi pare che ciò sia avvenuto nel modo indicato dal Tamassia e dal Solmi[367].

Per provare l'asserto da essi voluto, sarebbe stato necessario dimostrare l'esistenza di un vincolo, intercedente fra il vescovo e gli artigiani cittadini, nei rapporti della vita pubblica delle città. Invece il documento veronese[368] e quello senese[369] dal Solmi citati mostrano, è vero, una certa organizzazione artigiana, se non industriale; ma essa nasce, si esplica e si circoscrive nel complesso dei beni di proprietà del vescovado: onde non ha nulla di diverso dall'organizzazione interna di ogni curtis regia, ecclesiastica, o privata, e, sia che il centro ne sia dentro o fuori le mura, costituisce sempre un organismo fuori della vita cittadina.

E lo stesso è a dirsi dei monasteri in questo periodo normalmente in dipendenza se non in potestà diretta del re[370]. Non aveva certo alcun contatto con l'artigianato cittadino quel laboratorio del monastero femminile di San Michele in Firenze, in cui per il convento di Nonantola ogni anno si confezionavano le famose quinque bone stamineae; e lavoravano dodici ancelle, mandate dal convento stesso insieme con la materia prima necessaria per le tele e le vesti dei monaci[371]; come non aveva nulla di comune con la città l'altro monastero femminile, anch'esso fiorentino, di Sant'Andrea, che pure doveva essere un centro di produzione non disprezzabile, se era obbligato all'annuo tributo di un vestito di lana [126] di capra in parte palatii persolvendum[372]. Abbazie e monasteri, anche nei rari casi in cui non erano favoriti da quelle concessioni immunitarie che avevano come conseguenza precipua di isolarli da ogni contatto esterno, non ricorrevano ad magistros et manuales estranei che in caso di necessità assoluta ed anche allora solo per costruire a petre et calcina gli edifici ubi sunt omnes officine sicut abbatia habere debet[373].

Facendo capo a quanto ho detto sulla trasformazione subita dalle città negli ultimi tempi dell'impero, accentuata nell'epoca gotica ed aggravata ancor più in quella bizantina, io ritengo che i Langobardi abbiano considerato ogni centro abitato, sia urbano che rustico, solidalmente responsabile degli aggravi e delle imposte. Poichè è certo che se le corporazioni sparirono, d'altra parte le imposte, sia pur modificate, rimasero; mi pare che tale spiegazione sia, se non accettabile, ammissibile: tanto più che consente anche di arrivare ad un'interpetrazione del passo di Paolo Diacono, la quale oso sperare non sia la più campata in aria delle moltissime tirate fuori fin qui.

Il Leicht[374] ritiene che populi si possa riferire con verosimiglianza alle popolazioni rustiche dei grandi possessi romani prima soggetti alle tertiae. Ed è vero: ma populus non indicò solo questa popolazione; indicò anche gli altri gruppi vicinali che si raccoglievano nel vicus e nell'urbs. Ogni locus, ogni vicus — ce lo dice Rotari[375] — aveva il suo territorio e così quelli vicini [127] alla città venivano a chiuderla tutto intorno in un ambito, che si può seguire attraverso le divisioni ecclesiastiche, e che era costituito dal centro murato e da una certa estensione di territorio di cui la città era dotata al pari di ogni vico: non come sede di un judex. La parola populus nel diritto romano classico indicava abitualmente l'insieme degli abitanti in una civitas[376], così che la provincia si poteva dire divisa in città o populi; ma più tardi, forse per l'azione della Chiesa[377], anche le circoscrizioni minori furono chiamate col nome di populi[378], aprendo e facilitando la via al sistema goto-bizantino, che, staccando le classi militari e le più elevate dalla rimanente popolazione, chiamò populus quest'ultima in tutti i suoi agglomerati, fossero essi urbani o rustici[379].

A risolvere il famoso passo di Paolo Diacono, a mio modo di vedere, si possono addurre tre elementi sicuri: la coincidenza delle circoscrizioni civili con quelle ecclesiastiche, l'esistenza di varie prestazioni e la ripugnanza incoercibile dei Langobardi a pagare imposte e contribuzioni.

Considerando che i Langobardi erano pochi, ariani e barbari, la coincidenza — ripeto — non può essere spiegata, come alcuni autori inclinano a credere, con la supposizione che per un certo tempo tali divisioni territoriali sieno state usate solo dalla Chiesa e che i Langobardi l'abbiano riprese da essa. È molto più verosimile [128] che i Langobardi le abbiano conservate perchè tale conservazione apparve loro di utilità immediata e indiscutibile: tanto è vero che, dove tale utilità generica fu sorpassata da una necessità impellente, non si peritarono di procedere a nuove e diverse divisioni[380].

Esaminando le varie prestazioni, di cui si ha notizia per l'epoca langobarda, si vede che di una — la tertia pars frugum, alla quale furono soggetti i romani verso i conquistatori — nessun testo ci dice in modo preciso come veniva corrisposta; delle altre i documenti e le leggi franche (che ricordandole sino dal 782 come antiqua consuetudo ne provano sicuramente l'antichità) ce le mostrano come gravanti collettivamente su nuclei vicinali determinati per pievi[381]. E poichè accanto alla pieve rurale coesiste e predomina la pieve urbana; nè la ragione consiglia nè i documenti permettono di credere che tali nuclei sieno solamente rurali[382]. Di più [129] dalle più antiche leggi barbariche che si conoscano, si vede concepita ed attuata una responsabilità collettiva che colpisce un insieme di individui determinato soltanto territorialmente con i confini entro i quali abita e vive il gruppo vicinale[383]: responsabilità e determinazione che corrisponde perfettamente ai documenti langobardi che possediamo[384].

Finalmente dal momento che i Langobardi non contribuirono certamente (almeno nei primi tempi: vedremo in seguito perchè questo stato di diritto fu più tardi mutato) alle gravezze ed alle imposte, queste colpirono soltanto ed esclusivamente i romani.

Premesso questo e tenuto presente il sistema di responsabilità collettiva, al quale erano state condotte le singole circoscrizioni territoriali dalla decadenza romana e più ancora da quella goto-bizantina, mi sembra sintomatica, ma non strana, la disposizione imperiale che, proprio a proposito dell'hospitalitas, abbandona i classici concetti romani, che basano la persona giuridica sull'elemento personale, e riconosce non irrilevanti facoltà giuridiche in un amorfo complesso di individui determinati unicamente in base all'elemento ibrido dell'abitazione senza alcuna considerazione dell'elemento e dello stato delle persone[385]. Tale pervertimento non può esser dovuto che all'irrefrenabile dilagare di una decadenza che i consueti mezzi giuridici non eran capaci nè [130] di contenere nè di regolare e che preparava favorevole terreno alle successive istituzioni barbariche.

A questa stregua il passo in cui Paolo Diacono dice che populi tamen adgravati per Langobardos hospites partiuntur mi pare suscettibile di questa spiegazione. I singoli populi, ossia le singole città con le terre cittadine ed il suburbio[386], al pari ed insieme con i singoli vici e loci [131] con il loro respettivo territorio, prima furono obbligati collettivamente e solidalmente al tributo della tertia pars frugum[387]; e più tardi, quando, dopo l'interregno, la conquista prese un assetto definitivo, furono divisi fra i Langobardi a seconda ed in proporzione della necessità e dei bisogni: necessità e bisogni che si conguagliavano alle esigenze della difesa[388], al numero dei componenti i singoli gruppi, ai loro desideri[389] e alle loro tendenze[390].

Questi populi, adgravati dai duchi che si vollero rifare della parte di patrimonio ceduta al re, furono senza dubbio soggetti al rifacimento delle mura, delle porte, delle strade, dei ponti, degli edifici pubblici, delle cloache e, nelle città fluviali, anche dei porti; e, dove fu possibile, come a Cremona, a Piacenza, a Benevento e altrove, anche ad altri aggravi speciali e furono divisi, secondo l'opportunità e la convenienza dei vincitori, fra i vari duchi e fra i diversi aggregati di fare, che, sotto la loro guida, si distribuirono nel paese conquistato, dividendosene le terre.

E come nelle continue e terribili devastazioni, ormai da gran tempo imperversanti, la terra abbondava, mentre i grandi possessi dei nobili romani uccisi al tempo di Clefi soddisfacevano, o quasi, le richieste dei maggiori [132] langobardi; le terre che pur rientravano nei singoli populi ma dagli scarsi abitanti non erano utilizzate, furono divise fra gli altri Langobardi[391], mentre agli indigeni fu lasciata, oltre la proprietà privata di ciascuno, un'altra terra di uso comune, necessaria ed indispensabile quanto l'altra. E in alcuni luoghi, in cui la terra abbondava ancor più, ne fu lasciata alle città anche dell'altra su cui i cittadini non esercitavano un diritto di uso nè come tali, nè come facenti parte di un qualche consorzio di diritto privato con terre a comune; era una terra che a nessuno di essi spettava in proprietà, ma che dallo stato langobardo era riconosciuta spettante alla città stessa, in quanto forniva a questa i sassi, le pietre, il legname e le altre cose necessarie per il rifacimento delle mura, dei ponti, e per le altre speciali imposizioni, cui la città doveva sopperire.

Del resto, si accetti o no questa mia interpretazione, confido non si possa negare che al tempo langobardo la città si differenziava territorialmente dalla judiciaria di cui è a capo.

§ 6.

— Bisogna ora vedere se e quanto è rimasto dell'antico concetto romano della civitas, per passare poi all'esame degli elementi principali che lo costituiscono.

Cominciamo dal primo punto.

L'atto di fondazione del famoso monastero di Senatore in Pavia, del novembre del 714, è stato steso da Felice subdiaconus et notarius sancte ticinensis ecclesie, e sottoscritto da Todo notarius regie potestatis e da Aufrit notarius regius[392].

In un altro documento pavese[393], di poco posteriore, — è del 729 — si legge:

[133]

«Quam donationis seu confirmationis nostre paginam Magno notarius sancte ticinensis ecclesie ex iussu Benedicti venerabilis subdiaconi et exceptoris ticinensis scribendo rogavimus et subter confirmantibus testibusque obtulimus roborandum.

Ego qui supra Magnus notarius sancte ticinensis ecclesie scriptor huius cartule donationis post tradita complevi et dedi».

È evidente che Felice e Magno erano notari della chiesa pavese, ma non exceptores ticinenses e tanto meno notari regie potestatis: e che Benedetto era ad un tempo suddiacono e exceptor; come era suddiacono e exceptor civitatis il suo confratello piacentino Vitale che in un documento dell'anno 721[394] si qualifica Vitalis v. v. subdiaconus exceptor civitatis Placentinae.

C'erano, dunque, notai del re, notai della chiesa e notai della città[395]. L'esistenza dei primi due non fa meraviglia; ma riguardo agli ultimi non si può non osservare che la forza della civitas non deve essere stata tenue se riuscì a tenersi distinta dal potere pubblico anche nella città in cui esso aveva posto la sua sede principale; e che ciò è tanto più notevole in quanto, sparite, [134] con la dominazione langobarda, le curie, le corporazioni e le maggiori autorità romano-bizantine, erano venuti a mancare i cardini sui quali avrebbe potuto poggiare più agevolmente per mantenersi.

Riservando ogni congettura a quando sieno stati raccolti tutti i dati, che ho potuto rinvenire, prendiamo atto della tripartizione che si vede delineata e proseguiamo.

Un altro bellissimo documento che, per la sua importanza, merita di esser segnalato in prima linea, è una notitia veronese dell'837 riferentesi a fatti avvenuti nell'818[396], sulla quale, ormai quasi del tutto trascurata dopo l'Hegel[397], richiamò or non è molto, l'attenzione il Leicht[398] e si è servito anche il Mayer[399]. È una «notitia» qualem pedaturam murorum veronensis civitatis pars domus episcopii sancti Zenonis praeteritis temporibus facere solita fuerit.

Al tempo della puerizia di Pipino, verso gli ultimi del 700, essendo frequenti le irruzioni degli Ungari, Carlo M. pensò di riparare le più importanti città di confine e fra queste Verona, per la massima parte distrutta e «muros, turres, fossasque per urbis girum fecit adiectisque palis fixis a solo usque munivit». Ma allora de faciendis muris et fossis sorse una contesa inter cives, et urbis judices, ac partem S. Zenonis; perchè mentre i giudici volevano che l'episcopio contribuisse per la terza parte; la Chiesa (compresi in essa quattro monasteri, di cui tre regi e due xenodochi, pure regi) «quod ad comparationem tanti populi exigua esset», volebat non tertiam [135] sed quartam sicut antiquitus fuerat, dare. E non si veniva a capo di nulla perchè da una parte il vescovo non voleva cedere e dall'altra la «pars publica» non poteva provare quello che sosteneva, sia perchè era passato molto tempo da che la città non era stata munita, sia perchè al tempo dei Langobardi «nihil indigebat, publico studio munita: si quid modicum ruebat, statim a vicario civitatis restituebatur». Finalmente si ricorse al giudizio di Dio, che riuscì favorevole al vescovo e pose termine ad ogni questione. Tanto che quando nell'837 l'imperatore Lotario mandò a Verona i suoi due messi Mario, conte di Berg, e Erimberto, vescovo di Lodi, al vescovado ed ai suoi soci fu affidato il rifacimento della quarta parte delle mura della città presso la porta nuova e dei muri del castello. E «opus illud perfecit».

Sull'attendibilità e l'autenticità di questo documento nessuno ha sollevato dubbi: l'Hegel e il Mayer se ne servono per provare che le mura e le costruzioni difensive romane continuarono ad esistere anche nell'epoca langobarda; il Leicht per mettere in rilievo il saldo vincolo dal quale appaiono uniti i cives accanto al rappresentante del pubblico potere: e solo si deve tener presente che non è un vero e proprio atto pubblico, ma una memoria, una notitia, fatta redigere dalla chiesa veronese, qualche tempo dopo, a ricordo degli avvenimenti occorsile e a scopo di evitare possibili contestazioni future[400].

[136]

Questo era da premettere per allontanare qualunque possibile obiezione da un documento che offre la prima prova sicura del mantenersi in Italia di una parte importantissima di sistemi di diritto pubblico prettamente romani.

Non si può dubitare che, ancora nel secolo ottavo, la ragione per cui la «pars pubblica» veronese si riconosceva obbligata a contribuire alla terza parte dell'opera, si debba trovare nell'antica disposizione di Arcadio e Onorio[401], passata integralmente nel Codice Giustiniano[402], che assegnava alla riparazione delle mura ed al mantenimento delle terme la tertiam partem de redditibus fundorum iuris reipublicae; e può nascere questione soltanto nel determinare con esattezza a quale delle varie raccolte, in cui essa è stata inclusa, sia da attribuire. Io credo che non si debba pensare nè al Codice Teodosiano nè a quello Giustinianeo, ma sibbene al Breviario Alariciano: e ciò perchè l'Interpretatio visigotica trasforma la legge in maniera che si attaglia in modo perfetto alle condizioni dell'Emilia e della Tuscia — le due grandi regioni in cui era divisa l'Italia al tempo dei Franchi — quali ci sono mostrate dal documento di Verona e dalle fonti legislative, mentre non si potrebbe dire altrettanto del rimanente della penisola.

Nel Breviario Alariciano la disposizione, di cui ci stiamo occupando suona così: Quotiens aedificia vetustate consumpta necesse fuerit reparari, ad ipsam reparationem tertiam partem de proprio fiscus impendat. Si è omessa ogni menzione della subustio thermarum e si è sostituita [137] l'espressione «fundi iuris reipublicae», che poteva dar luogo ad incertezze (per determinare se si fosse trattato di fondi del fisco o della città), con il termine fiscus, di indubbio significato. E la notitia veronese mostra chiaramente la partecipazione del fisco regio al riattamento delle mura, mentre un capitolare sicuramente italico parla di piazze e di cloache restaurate a totale carico dell'erario pubblico e di ponti e di «reliquis similibus operibus» mantenute dallo Stato in cooperazione con gli abitanti e con le singole chiese senza mai far parola di terme[403]. Invece nella parte inferiore dell'Italia centrale la Summa Perusina[404] ricorda ancora le terme e solo ha una leggiera variante nell'indicazione dei redditi pubblici: moenia publica et therma de tertia parte reditibus publicis reparetur; e nell'Italia meridionale, attraverso alla concessione fatta nel 774 dal duca Arechi di Benevento al monastero di S. Sofia[405], si vede limpidamente come, per tradizione o per testi giuridici, si sia mantenuto il sistema romano-bizantino delle terme e del loro riscaldamento per opera del fisco e dei cittadini. E se si mantenne nelle regioni langobarde, a più forte ragione è da pensare che si conservasse nella parte d'Italia rimasta più a lungo bizantina.

Un solo testo, generalmente attribuito all'Italia, fa eccezione: la c. d. Legge Romana Udinese.

Questa legge mostra evidentemente di avere calcato in questo punto, come in molti altri, il Breviario Alariciano [138] ma svisandolo e, conseguentemente, allontanandosi del tutto dalla massima romana e dalle applicazioni che, in modo non da per tutto uniforme, ma sempre inspirato ad identico concetto, essa ebbe in Italia. In questa, come abbiamo visto, si considerano due termini: le mura della città e le terme. Di quest'ultime il Breviario non parla, mentre estende la comprensione dell'altro termine a tutti gli edifici pubblici, con lo scopo evidente di imporre in un numero maggiore di casi l'obbligo della prestazione ai cittadini ed alla chiesa vescovile. Ora la legge c. d. romana udinese con la sua seconda interpr. alla legge I del libro XVI dice: Si aliquis judex antiqua publici habitacionem in civitatem renovare voluerit, tercia parte cum adiutore fisci ipsum aedificium renovet. Non solo non si parla più delle mura; ma, pure a voler passar sopra — conoscendo lo spropositato latino del compilatore — alla differenza fra una reparatio necessaria ed una renovatio voluta dall'«judex», anche il centro della disposizione è spostato perchè si parla di un'habitacio che riguarda unicamente l'«judex», al quale, se vorrà ripararla, verrà concessa la partecipazione del terzo della spesa da parte del fisco.

Per questo punto almeno la c. d. Legge rom. udin. non ha certamente avuto applicazione in Italia. Non voglio dire che se ne possa senz'altro dedurre che perdano ogni vigore le numerose argomentazioni fatte per sostenerne l'italianità, dalle magistrali memorie dello Schupfer alle geniali supposizioni del Gaudenzi; ma sta il fatto che su una questione determinata con precisione e per la quale si hanno come termine di paragone documenti e testi sicuramente italiani, la legge romana udinese si è trovata in contrasto aperto.

Dal documento veronese, dunque, si vede come alla riparazione ed al mantenimento delle opere pubbliche concorressero insieme, ed oltre ai cives, la Chiesa e lo Stato.

Di questo fatto si hanno anche altre conferme.

La partecipazione della Chiesa è provata da un Capitolare [139] italico, del quale Lodovico il Pio, riportandolo nel suo Capitolare dell'817, ci attesta la larga applicazione in Italia[406]. In esso si conferma l'antiquam et justam consuetudinem per la quale gli ecclesiastici erano obbligati alla costruzione dei ponti e di altre simili opere insieme cum reliquo populo e si stabilisce che il rappresentante della pubblica autorità non deve chiamarli direttamente al lavoro — per alium exactorem ecclesiastici homines non compellantur — ma deve rivolgersi al rettore della chiesa — rector ecclesiae interpelletur — e questi risponde dell'esecuzione del lavoro.

L'esempio di Verona calza a capello anche a questo proposito: insieme col vescovado si vedono formare la quota della Chiesa varî monasteri e due xenodochi.

E poichè si parla di antiqua consuetudo è più che probabile che le cose non procedessero con sistema diverso al tempo dei Langobardi, i quali, presumibilmente, lo ricevettero dai Goti attraverso alla breve dominazione bizantina.

È al tempo dei Goti che la Chiesa cattolica comincia a staccarsi dallo Stato, per divenire la Chiesa di una sola parte — e della parte vinta — della popolazione; ed è allora che si può concepirla gravata di una parte dell'onere del rifacimento dei pubblici edifici. Il Codice Giustinianeo non ha accolto alcuna delle numerose costituzioni imperiali, che da Costantino in poi, avevano costituito alla Chiesa una condizione privilegiata in fatto di imposte e di esazioni ed ha equiparato in tutto e per tutto gli ecclesiastici ai laici, immobilizzandoli, al pari di questi, nelle singole circoscrizioni e sottomettendoli a quegli oneri che, prima sordida munera, son qualificati da lui come nobili e necessari; ma per quanto potesse colpirne i membri, non credo che la legislazione bizantina, che tanto si valeva della Chiesa [140] da affidarle funzioni pubbliche molto importanti, sia potuta giungere a concepire il corpus della Chiesa nel suo complesso come un congruo e possibile soggetto di esazione tributaria. A questo, secondo me, arrivarono senza sforzo i Goti che erano barbari ed ariani; distinti, cioè, per razza e per culto dai vinti, fra i quali non poteva essere difficile scorgere e colpire quella che formava la parte più importante della loro vita.

Nè le cose dovettero passare altrimenti sotto i Langobardi: soltanto la collettività cittadina non avendo raggiunta sotto di loro quella consistenza della quale vigorosi sintomi economici non appaiono che alla fine del secolo ottavo ed ai primi del successivo, nè la Chiesa essendo ancora pervenuta all'importanza politica e sociale, riconosciutale da Carlo Magno; l'attività del rappresentante della pubblica autorità risaltava per modo da offuscare la partecipazione d'opere e di spesa alla quale, sotto la sua direzione ed il suo comando, i cittadini e la Chiesa dovevano sobbarcarsi[407].

Per quel che concerne la partecipazione dello Stato alle opere pubbliche, le tracce forniteci dal documento veronese vengono illuminate, completate e prospettate nelle loro proporzioni nel quadro delle istituzioni cittadine del tempo, da un capitolare franco che, col carattere generale, proprio delle disposizioni legislative, affida che il caso di Verona è da considerarsi non come isolato e particolare ad una sola città, ma come un episodio corrispondente al sistema degli ordinamenti pubblici che reggevano le città italiane conquistate dai Franchi: sistema proprio e caratteristico dell'Italia e tutto affatto distinto da quello di ogni altra regione.

[141]

Il Capitolare tratta «de plateis vel cloacis curandis unius cuiusque civitatis de regno Italiae ut singulis annis curentur» e stabilisce che ciò sia fatto a cura e carico totale dello Stato — non volumus quod exinde pandum aliquis ad partem palatii nostri persolvat[408].

Ora — si badi bene — una cura vigile delle cloache e delle piazze cittadine, di per sè stessa poco consona all'organizzazione statuale barbarica, non si può assolutamente concepire staccata da quel sistema delle angarie che, se ebbe una consistenza giuridica speciale nel sistema feudale, ebbe una applicazione non meno estesa nel precedente sistema barbarico. Perchè dei bisogni locali fossero soddisfatti dallo Stato senza un contributo specifico, destinato ad un particolare scopo, degli individui che ne erano avvantaggiati, ci voleva un paese nel quale fosse viva e forte la concezione dello Stato come un ente saldo ed omogeneo personificante l'insieme di tutti i cittadini. E questo paese, anche se la legge non lo dichiarasse in modo esplicito, non poteva esser che l'Italia. E la cosa è resa ancor più notevole dal fatto che tale tradizione appare non nei primi tempi della conquista langobarda, ciò che avrebbe potuto non recar meraviglia, ma quando essa è sostituita da quella franca. Dal confronto del documento veronese con il capitolare ora ricordato appare indiscutibile la partecipazione diretta, a spese proprie, dello Stato ad opere di pubblica utilità e necessità; partecipazione non sporadica e saltuaria, ma generale e sistematica, che i re franchi non avrebbero, non saprei dire se piuttosto subita o accolta, se una speciale condizione di cose non ve li avesse costretti. Nessun altro capitolare, infatti, parla mai di simile contribuzione da parte dello Stato.

E anche questo elemento ebbe la sua importanza per la costituzione delle nostre città. L'autorità pubblica, che con il rapido e progressivo decadere del potere centrale, [142] si avviava al sistema feudale; costretta a supplire con mezzi propri alle necessità della difesa, rese sempre più impellenti dalle invasioni ognor più frequenti e minacciose, fu tratta fatalmente ad affidare tale onere (che le tristi condizioni della sua finanza e la debolezza dei suoi organi non le permettevano di sostenere) alle energie locali. Ma queste, giuridicamente non obbligate affatto o solo in parte, non vi si sobbarcarono che verso congrue concessioni che diminuirono sempre più la forza del governo centrale e dei suoi rappresentanti sulle città e le avviarono vigorosamente, attraverso al governo, notoriamente mite, dei vescovi, alla completa autonomia. I cives, infatti, erano anch'essi obbligati a contribuire, come abbiamo veduto a Verona, per una certa parte, e questo conferma anche per un altro lato l'ipotesi accennata or ora che, per rendere loro possibile di soddisfare a tali oneri fossero rilasciati alle città alcuni beni, anche quando, sotto il gastaldo, dipendevano direttamente dal re. La discordia ben nota, fra i duchi ed i gastaldi, fomentata dalle guerre intestine e dalle dissensioni fra il partito nazionalista e quello romanizzante, non fu nè la sola nè la principale causa per la quale, istigati e sorretti dal duca desideroso di abbattere la concorrente autorità del gastaldo — specialmente quando l'uno e l'altro coesistevano nella stessa città — i cittadini diminuirono sempre più la facoltà del gastaldo e del re sui beni pubblici.

E da questo stato di cose derivò anche un'altra conseguenza. Quando l'elemento cittadino riprese vita e vigore, non si accontentò di un diritto di uso su quei beni, ma ne pretese la piena proprietà perchè ed in quanto considerò l'uso fino ad allora fattone non come un diritto in sè stesso finito, ma come la manifestazione esterna di un vero e proprio diritto di proprietà, capace di escludere ogni ingerenza dell'autorità pubblica.

Non è soltanto a Verona che si vede l'insieme dei cittadini ben distinto dalla Chiesa e dalla pars publica.

[143]

Lo stesso è a Cremona.

Cremona resistè molti anni all'invasione langobarda, finchè nel 603 Agilulfo, che ne temeva grave pericolo per la vicinanza alla capitale mosse contro di essa, la conquistò e ne divise il territorio fra la curtis regia di Sospiro ed il ducato di Brescia[409]. E ciò per non disturbare i potenti duchi di Bergamo e di Brescia i quali fin dal momento dell'invasione avevano occupato gran parte del territorio di Cremona[410]. La città in breve risorse, favorita dalla sua felice condizione topografica; tanto che la troviamo ricordata nel famoso patto del 730 fra Liutprando e i militi comaclensi[411].

Mentre verso la metà del secolo nono Lodovico teneva il suo placito generale in Pavia comparvero Rothecario, Dodilo, Gudiberto et ceteri habitatores de civitate Cremona e proclamarono che il vescovo aveva fatto loro grandi ed ingiuste violenze riguardo alle loro navi costringendoli a pagare «ripaticum, palificturam seu pastum» (sono le imposizioni del patto del 730) che nè loro nè i loro parenti avevan mai pagato.

L'imperatore mandò a Cremona il suo consigliere Teodorico, al ritorno del quale si tenne un nuovo placito; ma essendo apparso insufficiente il materiale di prova, si rimise la decisione della controversia ad un successivo placito che fu tenuto dallo stesso Teodorico «in domo ecclesiae» di Cremona nell'852[412]. Vennero di nuovo i sopradetti habitatores cum reliquis habitatoribus de ipsa civitate confermando le primitive accuse [144] che il vescovo ingiustamente li costringeva agli stessi obblighi dei militi comaclensi. Ad essi il vescovo, dopo aver detto che a lui la palifictura e il ripatico spettavano di diritto «iuxta istud pactum quod Dominus b. m. Karolus inperator confirmavit», produsse idonei testimoni i quali provarono che quegli uomini che agivano «de ipso porto» contro la chiesa, nec ipsi nec parentes sui naves habuerunt nisi tempore Pancoardi et Benedicti episcopi e che fino ad allora avevano portato il sale da Comacchio comuniter con i militi comaclensi e comuniter ripaticum et palificturam dabant PARTI REGIE et ECCLESIE CREMONENSI; e che anche dopo che negli ultimi trent'anni cominciarono a commerciare con navi proprie da Comacchio, davano il ripatico e la palifittura. E la deposizione di questi testimoni fu così completa e convincente che Teodorico, dopo aver sentito dal gastaldo e dall'avvocato della regia corte di Sospiro che la corte stessa non aveva da accampare alcun diritto, giudicò che «ipsi homines ripaticum vel palificturam de suis navibus iuxta ipsum pactum de antea dare deberent».

Da questo documento si vede come la vita cittadina cominciasse veramente a svolgersi a Cremona nei primi anni del secolo nono e che solo allora i cremonesi cominciarono a possedere navi proprie ed esercitare da sè stessi il commercio e ad affacciare pretese di indipendenza economica. Prima di allora il complesso della cittadinanza era ben distinta dalla Chiesa e dalla parte pubblica, ma formava un complesso incolore, incapace, a quanto pare, di possedere in proprio: almeno se stiamo a quel che si dice delle navi.

Nè quest'affermazione è in opposizione con quanto sono venuto esponendo rispetto alla personalità giuridica della città; perchè accadde alle nostre città quello che era avvenuto in Roma ai collegia tenuiorum, i quali furono riconosciuti come capaci di diritto, quantunque i loro membri, singolarmente presi, non fossero soggetti [145] di diritto, per ragioni fiscali e di opportunità amministrativa.

Di fronte alla fiacchezza congenita dello Stato barbarico, resa più grave dall'indebolimento proprio e caratteristico del periodo feudale; fra due grandi forze della società: lo Stato e la Chiesa; la vittoria doveva fatalmente arridere a quest'ultima, ricca di donazioni recenti e sempre più numerose: forte di antiche, care e solide tradizioni rinvigorite dallo spirito di romanità; centro non unico ma prevalente della cultura; salda in una organizzazione temprata dalle lunghe traversie.

Erano ecclesiastici i due exceptores di Pavia e di Piacenza e così a Verona come a Cremona aveva arriso alla Chiesa l'esito del giudizio. E in qualche luogo essa giunse a coprire con un suo membro anche quell'ufficio di curator di così certa derivazione romana e di così incerta determinazione nel medio evo: a Lucca in un documento del 740 troviamo Gaudentium presbitero in christo pater curator nostro[413].

Alla Chiesa, dunque, prima che allo Stato è da rivolgere l'attenzione.

§ 7.

— La religione cristiana ha esercitato sullo sviluppo della nostra civiltà un'influenza vasta e complessa che, considerata da un punto di vista generale e d'insieme, si comprende nell'espressione generica di azione della Chiesa; però gli elementi, di cui tale azione resulta, sono così ingenti per numero e così differenti per origine, per natura, per sviluppo e per intensità, che è [146] indispensabile una specificazione; e questa specificazione deve esser consona alla natura speciale dell'indagine presente.

Avendo per scopo lo studio della costituzione delle nostre città, è ovvio che ci si deve occupare dell'azione della Chiesa in tanto ed in quanto ha rapporto con essa; e, quindi, si deve stabilire fra le varie manifestazioni del fenomeno religioso una gradazione di importanza, per cui dalle forme di contatto più immediato e di azione più diretta si scenda alle ultime e più remote ripercussioni del sentimento religioso[414]. Siccome la Chiesa, oltre che come un unico grande corpo, si può considerare anche come la resultante della unione dei varî centri locali che la compongono; e questi, in quanto costituiscono l'organo intermediario fra quella ed i proprî fedeli, sono, per necessità, in continuo contatto con quei centri locali: è evidente che nel caso nostro il primo e principale istituto da studiare è quello con il quale la Chiesa si organizzò nella città e, cioè, la chiesa cittadina; e che si deve individuarlo ed esaminarlo di contro e di preferenza ad ogni altro. Inoltre, poichè questa indagine mira a valutare quale sia stata l'azione esercitata dalla Chiesa nel periodo langobardo-franco, deve basarsi, come punto di partenza e di paragone, sulla conoscenza di tale azione nel periodo anteriore: e questa conoscenza, alla sua volta, deve esser raggiunta esaminando come la Chiesa si è stabilita ed organizzata nella città e quali conseguenze ne sono derivate in rapporto alla vita cittadina.

A risalire fino ai più antichi tempi ed a condurre l'indagine con questo criterio induce anche un'altra considerazione.

La Chiesa primitiva per rendere più rapida e proficua [147] la propaganda e più salda l'organizzazione, ebbe gran cura di adattarsi il più possibile ai gusti, alle tendenze, ai costumi, alle usanze dei singoli luoghi e concesse ampia facoltà ai vescovi di adottare le formule ed i riti ritenuti più consoni alle varie popolazioni, lasciandoli arbitri di giudicare fino a qual punto questa che in alcuni casi, giunse ad esser piuttosto indipendenza che autonomia, fosse compatibile con l'unità dogmatica indispensabile alla Chiesa[415]. Solo dopo la metà del secolo quinto si comincia ad avvertire una qualche tendenza ad una unificazione specialmente nella Gallia[416] e nella Spagna[417]; ma in maniera così blanda, che non si andò più in là di un semplice coordinamento della dottrina e degli usi nell'ambito ristretto dei varî concilî sinodali e metropolitani. Oltre le grandi differenze che distinguono la chiesa latina da quella greca[418]; differenze notevoli si riscontrano fra le varie chiese componenti la prima e cioè l'italiana, la gallica e la spagnuola[419]; ed altre tutt'altro che insignificanti si riscontrano [148] pure fra i varî centri di ciascuna di esse. Nella nostra Italia, dove traccie numerose attestano la forza delle prische razze italiche, il lungo perdurare delle loro tradizioni[420] e il vigore del loro diritto[421]; nella nostra Italia, la terra classica delle città, questa varietà di liturgia, e non di liturgia soltanto, si manifestò più fortemente e persistè più a lungo che in ogni altro paese.

Fra i numerosi ordines officiorum, che si cominciarono a raccogliere nelle cattedrali delle varie città dopo la lotta contro la simonia e per le investiture e che rappresentano una tendenza decisa verso l'unificazione generale; tendenza che fu accentuata e vittoriosa solo con Innocenzo III; fra questi ordines officiorum, dico, si riscontrano differenze profonde. E la cosa è tanto più notevole in quanto la diversità non appare soltanto fra i riti maggiori e più noti quali quello romano[422], l'ambrosiano[423], il ravennate[424], e, magari, l'eusebiano dovuto [149] in gran parte al noto vescovo vercellese del secolo IV[425]; ma anche fra tutti gli altri: la chiesa fiorentina[426] mostra una liturgia ben differente da quella senese[427], come da quella pisana[428], dalla lucchese[429], dalla [150] pistoiese[430] etc.; come quella piacentina[431] non si confonde affatto con la parmense[432] o la modenese[433] o la bolognese[434] o la padovana[435]. E così via. Ogni chiesa, per quanto fedele figlia di Roma e di professione ortodossa, ha riti e liturgie speciali tanto che nemmeno il concilio tridentino (che pure snaturò e capovolse tante istituzioni della Chiesa e volle ridurla ad assetto organico ed omogeneo) riuscì a rimuoverle del tutto.

Ora queste differenze non si sarebbero mantenute tanto a lungo se non avessero risposto ad un'esigenza speciale dei luoghi e dei tempi; e non si sarebbero tenacemente radicate se non fossero state sinceramente sentite e fortemente volute. Siccome la Chiesa, in quanto proveniente da un'unica origine, ha dovuto avere in ogni tempo cura o almeno, tendenza precipua della sua unità di fede e di culto, è logico pensare che dove questa unità appare rotta od attenuata, ciò dipenda non da arbitrarî mutamenti dovuti a quella parte dell'elemento locale che costituiva per il suo carattere l'organo della Chiesa centrale, cioè, del clero; ma da infiltrazioni eterogenee e cioè laiche da quello dovute subire o che il [151] clero credette bene di accogliere. Dimostrare che tali deviazioni si manifestano da per tutto e differenti da luogo a luogo, significa dimostrare che non si trovavano in contraddizione col dogma e che cooperavano validamente alla sua diffusione e, cioè, che la organizzazione primitiva della Chiesa fu tale che comportò, se non resultò a dirittura di elementi particolaristici, tenuti insieme da un certo numero di vincoli e di legami generali.

Rilevare ed esaminare questo aspetto della costituzione della Chiesa riguardo alla città significa conoscere una delle principali istituzioni della città stessa[436]. Le differenze di liturgia erano la conseguenza di concessioni destinate a soddisfare particolari e speciali esigenze che provenivano da differenze non già dogmatiche, ma etniche e territoriali, tanto più forti e, quindi, tanto più importanti quanto più a lungo si sono mantenute. Erano una manifestazione ed una conseguenza di differenze di natura laica e, perciò, un esame comparativo di esse può condurre a rilevare se e quanto del particolarismo, a tutti noto, delle nostre città nell'epoca comunale risalga nel tempo e può condurre ad offrire un termine di confronto per vedere e giudicare i mutamenti e le innovazioni prodottesi nel corso dei secoli. Si intravede così, se non m'inganno, qualche cosa (se non pure un vero e proprio lato) di quella corrente oscura ma innegabile [152] che ha fluito ininterrotta dalla repubblica di Roma alle repubbliche d'Italia e per esse, che dello Stato moderno posero le prime basi, al tempo nostro: corrente che ha congiunto queste a quella senza che lo splendore dell'Urbe spengesse o assorbisse ogni personalità delle altre città, le quali, invece, nel compenetrarsi di essa hanno trovato la forza ed il mezzo per conservare la parte più intima e più caratteristica di sè medesime.

[153]

L'unità di misura e di base delle istituzioni della Chiesa fu la pieve. Il primo punto, da determinare è la consistenza e la natura dell'istituzione civile su cui la pieve s'insediò perchè solo in tal modo si può pervenire a determinare quale è stata l'azione della Chiesa, così rispetto al tempo romano, come a quello successivo.

Già si è avuto occasione di rilevare che la pieve della città comprende la città ed il suburbio e che corrisponde in modo perfetto alla circoscrizione civile: per determinare quanta parte di tale coincidenza è dovuta alla Chiesa, è necessaria un'indagine relativamente ampia dell'istituzione su cui la Chiesa si adagiò e, cioè, del pago. Si avrà così anche il vantaggio di conoscerla non soltanto nella sua costituzione interna, ma anche nei rispetti e nei rapporti con le pievi rurali che la circondano e di avere un punto fisso onde giudicare se e quanto degli istituti anteriori all'invasione langobarda, si sia conservato per opera della Chiesa.

Il pago ebbe una costituzione saldissima, a formare la quale hanno cooperato tre fattori: quello economico, quello civile e quello religioso, ognuno dei quali deve esser esaminato a parte.

Cominciamo da quello economico.

Il re Astolfo con un diploma dell'anno 753 fece ai monaci di Nonantola questa concessione: «in quibuscumque [154] comitatis vel locis cellas acquisiveritis aut villas ubi silve communes sunt, vestram semper portionem habere[437]».

Al suo tempo, dunque, il regno era costituito da comitatus divisi in loci, suddivisi in ville e celle[438] e a queste ultime (celle e ville) potevano spettare delle selve, dei beni comuni. E questi diritti spettavano loro per un diritto di natura pubblica, perchè la concessione, in sostanza, è una limitazione che l'autorità regia stabilisce ed impone all'esercizio normale e giuridico (non già arbitrario) del proprio potere e questo non può esplicarsi che nel campo del diritto pubblico[439].

Per precisare meglio la posizione giuridica dei beni comuni di queste minime circoscrizioni territoriali, occorre scendere per un momento a documenti molto posteriori per poi valersi di altri anteriori che da questi sono completati, mentre, alla lor volta, contribuiscono validamente a illuminare i primi.

In un documento lombardo del 1201 si vedono esistere sino da antichissimo tempo varî pascoli e vicanalia nel loco Veliate[440]. Vicanalia in tutta l'Italia langobarda [155] sono detti i beni comuni dei vici, compresi nelle loro circoscrizioni territoriali e ad essi spettanti[441]: dunque in un solo locus si trovavano più vici e ciascuno di essi aveva pascoli e beni comuni distinti e separati da quelli di tutti gli altri vici e — si può aggiungere — anche da quelli del locus stesso considerato nel suo complesso. Infatti fra le consuetudini di Milano ce ne è una[442] che distingue i beni comuni dei loci del distretto in communia e vicanalia e li distingue in modo che appare chiaro che i communia sono dei vicanalia sui quali il signore di tutto il distretto — dominus cui est totum districtum — ha una facoltà così estesa che in caso di vendita ha diritto alla metà del prezzo ricavatone. Questo dominus, in sostanza, è il rappresentante, la personificazione della giurisdizione del distretto[443] e siccome questo distretto è costituito dal locus, i communia si trovano rispetto al locus in un rapporto nel quale non si trovano i vicanalia. E poichè nella consistenza di fatto sono identici, [156] come è dimostrato dalla consuetudine stessa che a proposito di communia parla del prezzo di «illarum omnium viganalium»; la differenza fra essi è costituita dalla presenza o meno di un rapporto diretto col locus[444]. Infatti tanto nell'un caso come nell'altro la partecipazione e la presenza simultanea dei domini e dei vicini [157] al ricavato della vendita delle terre comuni o dei loro frutti, assicura che ci troviamo fuori da rapporti d'indole e di natura privata. Ma nel caso della vendita di vicanalia tutti i comunisti partecipano con eguali facoltà e nella medesima proporzione; mentre invece se si tratta di communia, il dominus, in quanto è investito di facoltà giurisdizionali sul distretto intiero, ha diritto alla metà del ricavato totale ed in quanto, poi, è comunista ossia possiede delle terre partecipa alla distribuzione della metà che rimane in proporzione delle terre stesse: [158] «partem accipit pro parte terrarum quam in ipso loco habet».

I vicanalia sono beni destinati agli abitanti del vico per sopperire alle necessità proprie di ogni centro abitato in periodo economico di livello molto basso; prevale in essi la considerazione dell'elemento personale e, quindi, su di essi hanno indistintamente eguali diritti tutti coloro che abitano nel vico, sieno essi domini o semplici vicini. Invece i communia non sopperiscono ai bisogni delle persone ma a quelli dei fondi e la loro funzione è di completare l'ossatura economica del locus nei rispetti delle terre lavorative che lo compongono, le quali necessitano di altre terre che ne formano il complemento indispensabile. Su queste terre comuni a più fondi, i vicani hanno diritto solo se possessori dei fondi stessi ed in proporzione della loro entità. Ed inoltre, siccome i communia sono beni comuni per un rapporto di diritto pubblico che li distingue in modo assoluto dalle comunioni di terre originate dall'eventuale incontro di volontà di due o più proprietarî; colui che dell'autorità pubblica è il rappresentante nel distretto, ha su questi beni una facoltà preminente ed assoluta che in caso di vendita è valutata economicamente alla metà del ricavato totale.

In un tempo in cui l'economia naturale predomina dappertutto; nessun'altra base per l'esercizio delle funzioni militari e politiche e amministrative tornava possibile e nessun'altra sarebbe stata più solida e appropriata del possesso della terra. Per questo ogni capo ottiene grandi possessi. Però accanto a questi possessi che alimentano l'economia privata di coloro che sono investiti dell'esercizio di pubbliche funzioni[445], si hanno, sempre all'identico scopo di sostenere le funzioni stesse, altre facoltà sui beni comuni alle terre che formano ciascun [159] distretto. E si conosce anche l'entità di queste facoltà. Se al dominus (come ci attesta il Libro delle consuetudini milanesi) in quanto dominus spettava la metà dell'intiero ricavato della vendita di un bene comune, la sua autorità doveva valere in eguale proporzione anche nella deliberazione da cui la vendita traeva origine, perchè la vendita non è che la conseguenza e la manifestazione esterna di un atto volitivo, a formare il quale hanno cooperato le varie volontà aventi diritto su quel bene comune.

La stessa distinzione fra communi e vigano[446], fra communantiae e viganalia[447], si trova in documenti anteriori all'epoca in cui le consuetudini milanesi sono state raccolte[448] e si conserva inalterata negli statuti posteriori[449].

E la continuazione ininterrotta da tempo remotissimo è provata dal sussistere di nomi della bassa latinità e perfino del parlare comune e volgare.

[160]

Un documento laudense del mille[450], per esempio, parla di vicanalibus atque conciliis. Che i concilia sieno qui rispetto al vicanalia quello che nei documenti ricordati or ora sono i vicanalia rispetto ai communia, non mi pare si possa negare. Prima di tutto resulta dal contesto e poi, in ogni modo, l'atto aggiunge subito dopo: «cum ecclesiis et capellis», mettendo in correlazione evidente l'ecclesiae con i vicanalia e le capellae con i concilia; ed il termine ecclesia, — ne ha data da più di un secolo completa dimostrazione il nostro vecchio e bravo Lupi — di regola indica esclusivamente le pievi, delle quali se ne aveva una per ogni capoluogo[451] di fronte agli oratorî e alle cappelle private liberamente sparse per il pago.

Nè si hanno concilia solo a Lodi: si sa di concelibus locis a Gravedona[452] e nel Canton Ticino[453], di concilibus locas sul Lago Maggiore[454] e a Bergamo[455], di concilibus locis in quel di Como[456]. E se ne possono trovare anche altri esempi; mentre io mi limito a quel tanto che mi sembra sufficiente a dimostrare che il fatto è generale.

Ma non c'erano soltanto terre pertinenti ad un solo concilium: ce ne erano anche di pertinenti a più concilia insieme e che si chiamavano interconciliaricia; e [161] come i varî concilia facevano capo al vicus; così questi beni erano interconciliaricia rispetto ai concilia, ma communia rispetto al vico, il quale costituiva una circoscrizione maggiore ed unitaria che li comprendeva ed univa tutti. Interconciliaricia è una parola sicuramente e genuinamente romana e, quindi, lascia supporre che anche l'altra parola concilia sia un'antica parola romana o volgare, accolta dai compilatori dell'Editto langobardo, perchè già in uso nella pratica. Rotari, infatti, distingue nettamente il concilium dal vicus: ambedue sono rustici, ma il primo, distinto anche topograficamente dal secondo, è considerato come l'infima suddivisione dello Stato e composta di elementi servili[457]. Del resto a confermare che l'antica ossatura romana rimase inalterata, si può fare anche un'altra considerazione. Il sistema dell'agricoltura non muta dall'epoca romana nella successiva[458] e, quindi, è presumibile che nemmeno la parte dell'organizzazione dei vici relativa ad essa abbia subito modificazioni.

Aggruppati nel respettivo pago questi vici formavano, insieme con le minori suddivisioni nelle quali si frazionavano, dei complessi omogenei ed organici. Siculo Flacco attesta che della munitio delle vie vicinali erano incaricati i magistri pagorum, i quali dovevano curare la prestazione delle opere necessarie da parte dei possessori[459] ed avevano anche altri ufficî, conservati loro dalle leggi teodosiane e giustinianee e dalla consuetudine[460], che mostrano chiaramente che il pago ed i suoi [162] magistri erano il centro ed il perno dei varî vici di cui esso è composto, e che tale condizione di cose si è mantenuta per secoli e secoli con modificazioni scarse e minime.

Per quanto cautamente si proceda non si riesce a trovare una differenza fra le disposizioni delle fonti romane e quelle del secondo capitolo mantovano generale con cui Carlo Magno si duole che per la dolosa complicità dei magistri (consentientibus magistris), alcuni riescano a sottrarsi all'obbligo della restaurazione della chiesa battesimale[461]. Quest'obbligo dalle più vetuste fonti è ricordato sempre insieme con quello della restaurazione delle strade, dei ponti e delle mura ed insieme con esso — come abbiamo veduto — è sempre qualificato come antiqua consuetudo[462]; ciò che ci assicura che il sistema non è stato importato dai Franchi e ci spinge, anche per questo lato, a ricercare la riconnessione dell'onere verso la chiesa con l'onere verso lo Stato nel tempo romano ed a rilevare fino da ora la posizione subordinata che in questa opera di conservazione s'intravede aver avuto la Chiesa.

E ciò si vedrà ancor meglio continuando l'individuazione del pago dal lato religioso.

Il pago romano aveva feriae speciali che traevano origine dalla sua natura economica e corrispondevano alla sua costituzione civile[463]. Un solo [163] tempio — compitum — serviva a tutti gli abitanti, i quali, uniti nei sacra che si facevano nei crocevia in onore dei Lari e nelle varie lustrazioni con le quali si invocava dalla divinità che le messi e le sementi granissero — ambarvalia — e crescessero — feriae sementivae[464] erano ancor maggiormente stretti fra loro da una processione che girava torno torno ai confini e ne faceva annualmente così esatta ricognizione che oltre a fornir materia ai poeti[465], se ne potevano valere agrimensori e giuristi[466].

I medesimi bisogni, lo stesso timore di eguali pericoli, la medesima speranza in un soccorso divino[467], per la nota adattabilità della Chiesa cristiana, fecero sì che i riti della nuova religione fossero quanto mai simili a quelli dell'antica: la plebs al posto del compitum; chiamati i fedeli dal caro e ben noto suono delle stesse campane che avevano chiamato a quello i gentili[468]; accolte per la maggior parte le vecchie usanze dalla mietitura alla vendemmia[469]; sostituito il contenuto (e non tutto) ma non la forma dei canti lustrali con le litanie, suppliche solenni, in forma dialogata, appositamente adottate, per [164] invocare la protezione divina sopra i beni della terra, che si recitavano nelle stesse epoche percorrendo gli stessi itinerarî che per secoli avevano percorso le lustrazioni, attraverso gli stessi vici e gli stessi campi nei pagi rustici; uscendo e rientrando per le stesse porte e passando per le stesse vie e per gli stessi crocicchi nel pago cittadino al quale, superato lo stadio primitivo in cui la città coltivava divinità diverse e superiori a quelle del suburbio, fu aggregato anche il pago suburbano[470]. E come la lustratio e le altre funzioni del culto particolare della città erano affidate ai Flamines[471], mentre nei più larghi confini a cui giungeva l'autorità della magistratura cittadina, ogni incombenza di culto spettava [165] al Sacerdos; così il vescovo, capo della diocesi, è indicato paganamente col nome di sacerdos[472] e, accanto a lui, è, non meno romanamente, qualificato come municipalis — al pari dell'antico flamine — l'arciprete che è preposto agli abitanti della città e del suburbio[473].

Il cristianesimo continuò la stessa precisa via del paganesimo e cementò e rafforzò sempre più la preesistente e persistente unità del pago. Fu suo principio assoluto che non vi potesse essere che una sola pieve in una medesima circoscrizione plebana: plures ecclesiae baptismales in una terminatione esse non possunt[474]; che non si potessero frazionare le diocesi primitive altro che in caso di necessità evidente riconosciuta ed in ogni modo e sempre con le maggiori cautele; nè si potessero ridurre pievi a semplici cappelle[475], nè creare [166] nuove pievi, quantunque normalmente si trovassero a molta distanza fra loro[476].

Le pievi furono erette nel capoluogo dei singoli pagi, di cui constava ogni civitas e ad esse accorrevano i fedeli di tutti i vici circostanti e delle villae pertinenti al pago stesso per partecipare nei giorni stabiliti alla sacra sinassi e prender parte agli uffici divini[477]. Verso la fine del quarto secolo e ancor più in seguito, furono costruite nella maggior parte dei vici del pago altre piccole chiese, oltre che nelle ville e nei fondi dei ricchi; ma furono soggette alle chiese più antiche del territorio ove si trovavano[478].

[167]

Come al capoluogo del pagus erano soggetti civilmente i vici, i castra e le villae, di cui constava; così le basilicae e gli oratoria compresi nella circoscrizione delle singole pievi, furono messi alla dipendenza rigida e diretta dell'ecclesia matrice e dell'arciprete che ne era a capo; ed i confini ecclesiastici coincidettero perfettamente con quelli civili in tutta l'Italia[479].

La città per questo lato, s'inquadra nelle stesse linee generali. Al pari di ogni pago ebbe (come si è veduto nei primi paragrafi di questa seconda parte) il suo territorio — territorium civitatis[480] che per la sua posizione (sub urbe) fu indicato col nome di suburbio, separato dal contado e comprendente le sue terre ed i suoi beni comuni, ben distinti dalle altre terre pubbliche e private e costituì un organismo in sè stesso finito e capace di sopperire quasi completamente a sè stesso.

[168]

La cattedrale era la sua pieve, nella quale risiedeva con il vescovo anche l'arciprete[481] e che era la pieve della città per eccellenza: plebs civitatis[482], plebs de civitate[483], plebs brixiana[484], plebs, ecclesia mediolanensis[485], etc. e la matrice di tutte le altre chiese che si trovavano nella città e nel suburbio. Ad essa sola spettava conferire il battesimo, amministrare i sacramenti, celebrare la sacra sinassi, convocare la popolazione alla celebrazione dei divini ufficî e ricevere le oblazioni dei fedeli[486]. Nelle grandi solennità di Natale, della Pentecoste, [169] della Pasqua e dell'Ascensione alla chiesa della città dovevano recarsi tutti i fedeli della diocesi[487] perchè vi si trovava il vescovo che era capo spirituale di tutti: ma in tutto il resto dell'anno, essa funzionava come una qualunque pieve e godeva di eguali prerogative.

Era obbligatorio in modo assoluto per tutti coloro che abitavano nella città e nel suburbio di assistere ai divini ufficî nella cattedrale perchè soltanto ad essa si doveva convenire — legiptimus est ordinatus conventus[488] — così come dopo morti non potevano essere seppelliti in altro cimitero che in quello della cattedrale. Entro la città erano altre chiese ed oratorî; ma lettere e decisioni di papi, rituali antichissimi, canoni di concilî e documenti varî[489] attestano tutti unitamente che non vi si potevano celebrare messe, nè amministrare il battesimo, nè fare le vigilie negli anniversari dei santi. Neanche il vescovo, nonchè concedere l'autorizzazione ad un prete, poteva dir messa in un oratorio[490]: si arrivava fino al punto di ritenere che fosse meglio non ascoltare e non celebrare la messa piuttosto che celebrare o assistere al [170] sacrificio divino fuori della pieve[491]; anzi della propria pieve, perchè l'obbligo era tanto rigoroso che prima di incominciare le funzioni l'officiante doveva domandare ai fedeli se fra di loro ve ne fosse alcuno appartenente ad altra pieve e la ragione per cui aveva abbandonato il suo pastore[492].

Il pago suburbano si trovava rispetto alla città nello stesso rapporto che il territorio di ogni pago rurale rispetto al proprio capoluogo. Però se la natura del rapporto di soggezione sostanzialmente non differiva, non si poteva dire altrettanto dei due termini del rapporto stesso, perchè nel suo contenuto intrinseco, nè alla città può essere equiparato il centro rurale, nè al suburbio di quella il territorio di questo. La città, infatti, giunge ad esistere solo quando il nucleo originario ha raggiunto un certo numero di elementi naturali, artificiali e giuridici di cui i centri rurali sono privi e la sua consistenza di centro urbano si assoda col differenziarsi da essi: allora essa lega a sè con vincolo diretto una quantità determinata dal territorio che la circonda e l'assoggetta al regime giuridico più conveniente al proprio sviluppo; ciò che fa nascere una nuova differenziazione fra questo ed il rimanente territorio soggetto alla città. Abbiamo vedute alcune delle caratteristiche giuridiche così del centro murato come dei mille passus e dei loro rapporti scambievoli: vedremo ora le ulteriori conseguenze che da tale stato di fatto e di diritto derivano, così per la natura speciale della pieve come per l'intima connessione delle istituzioni ecclesiastiche con quelle civili.

[171]

Verso la fine del secolo ottavo cominciano ad apparire i primi segni di due fenomeni, l'uno sostanzialmente economico, l'altro prevalentemente religioso, che per vie diverse iniziarono un movimento simultaneo e convergente il quale nella pieve cittadina, e soltanto in essa, ruppe la coincidenza delle circoscrizioni ecclesiastiche con quelle civili e allargò le prime, lasciando le seconde immutate, a tutto vantaggio dei vescovi, ai quali fornì il primo e principale coefficiente per ottenere dall'autorità pubblica quelle ingenti concessioni di territorio suburbano, che caratterizzano l'inizio e il primo periodo della loro signoria: concessioni che, nella loro generalità, furono il riconoscimento giuridico pubblico di uno stato di fatto che già esisteva e che non fu punto creato da esse; che segnarono il momento forse più appariscente, ma non certo costitutivo, di un fenomeno maturatosi indipendentemente da ogni azione diretta del potere regio ed imperiale.

Il risveglio economico generale, di cui appare qualche barlume negli ultimi tempi langobardi e che si accentua sempre più in seguito, specialmente lungo la grande arteria padana, si manifestò anche nel territorio rurale dove l'aumento di popolazione prodottosi nelle città, centro prevalente degli scambi, rese necessario un aumento dei mezzi di sussistenza, per produrre il quale fu messa a coltura una quantità di terre sempre maggiore, scelta di preferenza entro e vicino alle città. E poichè le disponibilità offerte dal territorio suburbano erano minori che altrove, perchè, appunto per la sua vicinanza alla città, non era mai stato disertato del tutto di lavoratori, si mise mano non di rado a lavorare anche le terre comuni e, fra queste, talvolta, anche quelle pubbliche, le quali, per l'esigenza delle necessità sociali cui dovevano soddisfare, si trovavano a non molta distanza dalle mura[493].

[172]

Su queste zone, così guadagnate alla coltura, i vescovi, forti dell'appoggio delle leggi franche, non mancarono di imporre una decima, la quale in vista e ragione dei beni, fino ad allora nuovi all'opera agricola, fu appunto, chiamata decima novalium.

E questa decima speciale ci servirà appunto di strumento d'indagine per rintracciare la speciale condizione del territorio suburbano; così come l'istituto generale della decima ci ha servito a rilevare il quadro generale dei rapporti fra le divisioni territoriali dello Stato e quelle della Chiesa.

Con la riscossione della decima novalium non si iniziò una vera e propria trasformazione giuridica: quelle terre incolte, sia private che pubbliche, pertinevano alla città: i frutti che di esse si dovevano alla chiesa, spettavano, quindi, alla chiesa della città e, per essa, al vescovo che ne era a capo. Ma ciò nonostante — senza fermarci ora a considerare l'aumento di importanza e [173] di forza che questo aumento di redditi conferiva al vescovo di fronte alla immutata e quindi, in confronto, diminuita condizione del rappresentante del potere pubblico entro la città — merita di esser rilevato un fatto. Prima il territorio parrocchiale di decimazione corrispondeva in modo perfetto al suburbio, e, perciò, siccome questo si distingueva dalle terre pubbliche e comuni, anche se comprese entro il suo perimetro, anch'esso se ne era distinto. Ora l'antica armonia delle divisioni ecclesiastiche con quelle civili cominciò ad esser turbata a danno di quest'ultime, le quali per di più furono sorpassate, dalla Chiesa anche per un altra via.

Il forte sentimento religioso dell'epoca — troppo noto perchè occorra anche solo accennarne le prove — produsse, insieme con le frequenti fondazioni di oratorî e di cappelle, altrettante donazioni di terre per il loro mantenimento. Di tali chiese, numerose da per tutto, non poche furono costruite anche vicino alle città. In questo caso poteva avvenire che i fondi donati all'oratorio fossero tutti situati entro il suburbio e si estendessero solo usque ad suburbii fines[494]; ma più frequentemente avveniva che se ne spingessero al di fuori. Allora, siccome facevano capo all'oratorio e questo — per la decima — alla città; quest'ultima, prevalente sulla chiesa rurale per la superiore autorità del vescovo di fronte a quella dell'arciprete, di tanto estese i suoi confini di decimazione a detrimento di quella di quanto spazio tali terre occupavano entro i suoi confini. Si aggiunga che non di rado simili fondazioni e dotazioni erano dovute a gruppi, relativamente numerosi, di persone che si riunivano a questo scopo[495]. La quantità [174] delle terre donate, allora, era anche maggiore e la loro estensione più ampia: erano germi fecondi di nuovi centri imminenti, nuclei di prossime villae, quando non erano veri e proprî vici addirittura, che venivano a formare con l'antico territorio suburbano un unico territorium decimationis (come dicono i documenti)[496], i cui confini — fines, confines decimariae — si allontanavano sempre più dal perimetro del suburbio civile.

Ad Asti si parla fino dal secolo nono di quicquid de decimis amplius adiacet civitati:[497] e si può ritenere antica di secoli la tripartizione che delle decime cittadine fa un documento bresciano del secolo decimosecondo, che ricorda le decime dei cittadini, dei suburbani e del territorio appartenente alla pievania cittadina: omnes decimas civium et suburbanorum ET TERRITORII AD CIVITATIS PLEBATICUM PERTINENTIS.[498]

Naturalmente questa espansione fu tutt'altro che regolare in quanto si manifestava e si accentuava a seconda del capriccio dei fondatori; per modo che mentre in alcuni punti i confini ecclesiastici ancora coincidevano con quelli civili, in altri se ne allontanavano di poco ed in altri anche di qualche miglio. A Bergamo, per esempio, a detta di una testimonianza della prima metà del mille e cento, erano considerati come sacerdoti cittadini tutti i sacerdoti delle chiese della città, dei sobborghi e delle villae.... circa civitatem illam duo miliaria et in tali parte etiam infra tria et infra quatuor et ultra[499].

Circa nello stesso periodo di tempo la pieve cittadina cominciò a differenziarsi da quella rurale anche per un altro lato, che ne tocca più da vicino la costituzione.

[175]

I cristiani, fino dai primissimi tempi, ebbero grande venerazione per coloro che erano morti per la fede soffrendo il martirio o che avevano condotta una vita di devozione e di sacrificio: ne raccolsero con cura amorosa i resti mortali e tributarono loro un gran culto[500]; tanto che, avendo l'abitudine di raccogliersi a pregare, oltre che le domeniche ed insieme con il vescovo, anche tutti gli altri giorni e privatamente, preferirono sopratutto quei luoghi dove i confessori avevano subito il martirio od erano tumulati i loro corpi o raccolte le loro reliquie e quivi furono erette chiese precipuamente destinate al culto di essi e che ebbero, appunto perciò, il nome di oratoria, martiria e memoriae[501]; mentre, già dal tempo di Costantino, abolendosi a questo riguardo le antiche disposizioni romane[502], cominciò l'uso delle traslazioni[503] e divenne ben presto norma comune e molto osservata quella di consacrare le basiliche col collocarvi reliquie di santi[504], che con la maggior solennità venivano deposte sotto gli altari[505]; e ivi celebrare in modo speciale i loro dies festi che erano l'anniversario della morte o del martirio[506]. In queste chiese nei primi tempi non si faceva alcun servizio di culto, come non si faceva in alcun'altra chiesa all'infuori di quella matrice e solo vi si recitavano orazioni, salmi ed inni[507]; [176] e gli ecclesiastici che vi si trovavano non dovevano nè potevano far altro che assistere i fedeli in tali orazioni e curare la custodia e la conservazione dell'edificio e dei sacri arredi. Però verso la fine del secolo secondo, probabilmente per iniziativa ed opera di Gregorio Taumaturgo, si cominciò a solennizzare con maggior devozione del solito l'anniversario della morte, il natale dei santi più venerati[508]. Il vescovo con tutto il clero ed il popolo con grande pompa si recava in processione dalla cattedrale alla chiesa del santo ed ivi, oltre alla recitazione degli inni e delle salmodie particolari a quel santo, compiva anche tutti quegli uffici del culto che abitualmente si celebravano nella chiesa matrice. Nel quarto secolo queste processioni si celebravano già numerose volte dell'anno per uno stesso santo, come ci fanno sapere sant'Ambrogio e sant'Agostino[509] ed in seguito aumentarono tanto che nel secolo ottavo l'officiante, prima di prendere commiato dal popolo, ebbe costume di annunziare in qual chiesa si sarebbe officiato la volta successiva[510].

Queste processioni e le relative officiature fin dall'epoca più remota — iuxta antiquam ecclesiae observantiam — come [177] dice il vescovo Amulone che pontificò a Lione sulla metà del secolo nono[511], si fecero in giorni determinati e solo in quelle chiese che per le reliquie di santi molto venerati, ne furono dichiarate e riconosciute meritevoli: ciò che fece nascere fra tali chiese e la cattedrale un vincolo ed un rapporto che non esisteva con le altre chiese private. Inoltre la consuetudine romana della posizione dei cimiteri fuori delle mura[512], insieme con il sistema, osservato scrupolosamente per molti secoli dalla Chiesa, di non rimuovere le reliquie che in via eccezionale[513] e senza disgregarne e separarne le varie parti, (come si fece in seguito[514]) e, sopra tutto, la proibizione rigorosa di deporre corpi di santi in oratorî di campagna[515], ci spiega facilmente come la costruzione di simili cappelle fosse frequente dentro ed in prossimità delle mura; mentre, d'altra parte, il sistema preferito della Chiesa, di andare ad occupare proprio [178] gli stessi edificî che prima erano adibiti al culto pagano, portava pure che nella città e nel suburbio, ove più numerosi erano stati i templi e le divinità pagane, più numerose fossero le nuove chiese e risentissero della precedente organizzazione.

La frequenza dei fedeli presso queste chiese fu tanta che il vescovo, oltre a recarvisi varie volte all'anno insieme con tutto il clero, fu costretto a stabilire un turno settimanale fra i sacerdoti della cattedrale perchè ve ne fosse sempre qualcuno ad assisterli e guidarli nella recitazione delle preghiere e dei salmi[516].

A Milano, fino dal secolo nono si ha traccia di decomani[517].

[179]

La forma decomanus, degomanus e dogmanus è da considerare come una varietà derivata dalla pratica di acconciare a foggia latina le voci vernacole e dalla consuetudine di scriverle secondo la ragione del suono, ossia secondo che erano pronunziate volgarmente, della parola ebdogmanus e dogmanus, che si trova anche in altri documenti[518]. E questa parola dogmanus, a sua volta, è una pretta scorciatura della voce hebdogmanus nella quale degenerò, conformemente all'indole del dialetto lombardo, la più comune e latina hebdogmadarius e hebdomadarius.

I decomani, ossia gli ebdomadarii, milanesi originariamente erano dei sacerdoti della chiesa cattedrale deputati per una settimana, come dice il loro nome, ad officiare una determinata chiesa; ma più tardi, per l'aumentare della frequenza dei fedeli presso le chiese preferite, l'arcivescovo fu indotto a deputarvi degli ecclesiastici che vi risiedessero in permanenza in modo stabile e fisso.

Il più antico esempio di questo mutamento ci è offerto dalla chiesa di S. Ambrogio.

Verso la metà del secolo ottavo il clero milanese, affaticato [180] dal servizio che doveva prestare presso la cella di questo santo — diutius laborantibus in eadem ecclesia — domandò all'arcivescovo di nominarvi ed istituirvi un apposito monastero di monaci che di continuo e pubblicamente vi celebrassero gli uffizî e le laudi — ante sancta corpora continuatim indifferenter ac publice officia et divinas laudes concelebrent — e l'arcivescovo li accontentò con un diploma dell'anno 789[519].

I monaci ebbero in tal modo alcune facoltà che nè il custode Forte, a cui prima era affidata la chiesa, nè alcun altro custode di chiesa privata aveva. Esse erano di tale entità da trasformare il primitivo e modesto oratorio privato — cella — in una chiesa fornita di facoltà tali da meritare la qualifica di ecclesia[520], propria delle sole pievi, pur senza trasformarne il carattere in una vera e propria pieve.

Poichè dall'anno 789 — in cui l'arcivescovo institui il monastero — all'anno 864, nel quale sono ricordati i decomani officiales della chiesa di S. Ambrogio, non avvenne di sicuro (come si rileva da un documento di cui ci occuperemo ben presto) alcun cambiamento presso di essa, si ha fondata ragione di ritenere che i preti decumani di cui si parla nel secondo documento sieno i monaci ai quali vennero concessi col primo speciali facoltà. Ed in tal caso, siccome il testamento di prete Gregorio non accenna a differenza alcuna fra i decumani delle varie chiese che ricorda; la concessione, fatta dall'arcivescovo Pietro, di celebrare pubblicamente e di continuo gli uffizi e le laudi, può esser presa come punto di base e di partenza per determinare l'ufficiatura propria dei decumani.

Si è accennato ad un documento concernente la chiesa di S. Ambrogio.

[181]

Con esso l'abate ottenne dall'arcivescovo Tadone che alcuni sacerdoti, che, poco prima per sua utilità, aveva raccolti e collocati presso la chiesa per celebrarvi i maggiori ufficî del culto fossero annoverati nel consorzio dei sacerdoti cittadini[521]. Ai monaci si aggiunsero, dunque, dei preti esclusivamente incaricati dell'officiatura; l'officiatura stessa si estese fino alla celebrazione della messa cantata ed i preti furono ascritti all'ordo della cattedrale.

I privilegi speciali concessi ai preti istituiti dall'abate nel monastero di S. Ambrogio presso la sua chiesa, [182] concernono due obietti distinti: le persone di questi preti e le loro facoltà liturgiche.

Essi ottennero di essere annoverati nella congregazione dei preti cittadini per una concessione eccezionale dell'arcivescovo in conseguenza degli speciali ufficî del culto che furono autorizzati a compiere e che erano ben differenti da quelli dei monaci, ai quali, appunto perchè ritenuti non idonei, furono aggiunti.

Per la celebrazione dei maggiori ufficî del culto non era meno necessaria della capacità dell'officiante (che doveva aver raggiunto il presbiterato) la capacità del luogo, che doveva essere chiesa pievana; e la prima era subordinata alla seconda per modo che solo i preti di una chiesa pievana potevano compierli.

In virtù della concessione dell'arcivescovo Tadone la chiesa di S. Ambrogio fu equiparata per certe parti della liturgia alla pieve cittadina ed i suoi sacerdoti nel compierle furono equiparati ai sacerdoti della cattedrale: ed una volta equiparati venne naturale conseguenza che fossero loro aggregati.

Questa concessione è dell'866. Un documento di due anni prima, cioè dell'864, ricorda i decomani officiales di varie chiese cominciando da quella di S. Ambrogio e nell'atto stesso l'autore ha cura di specificare che fa parte dell'ordo della santa chiesa milanese. Dunque in quest'anno gli officiales decomani di Sant'Ambrogio non emergevano per alcun verso di fronte ai decumani delle chiese di S. Valeria, di S. Nabore e di S. Vittore e, al pari di essi, non facevan parte del clero maggiore. Anzi si può dire qualche cosa di più: quei preti che col diploma arcivescovile vengono aggregati al clero cittadino non sono mai stati nè mai divengono officiales decomani: Berengario I nel suo diploma del 2 decembre 894 ricorda i preti distintamente dai monaci che son detti ufficiali — presbiteris ATQVE officialibus S. Ambrosii[522]. Ed [183] anche in seguito gli uni furono distinti dagli altri pure nella gestione patrimoniale affidata ai soli monaci.

È evidente che i decumani delle altre chiese, a cominciare dai monaci stessi della chiesa ambrosiana, non ebbero mai i privilegi concessi dal diploma tadoniano e si trovarono tutti nell'identica posizione.

Decumani s'incontrano anche a Parma[523] e a Monza[524]; e se in quest'ultima città, forse, furono istituiti a somiglianza [184] ed imitazione della metropoli lombarda — ciò che, del resto, è tutt'altro che sicuro, perchè, fra l'altro, in essa si seguì il rito romano e non quello ambrosiano —; il trovarli a Parma esclude che le chiese decumane sieno una caratteristica di Milano e fa pensare che come la causa prima della loro origine e, cioè, il culto dei santi, fu diffusa dovunque, anche altrove sieno sorti eguali resultati, se pure indicati con nome diverso.

Carlo il Grosso in un diploma dell'883 alla chiesa di Bergamo ricorda tre specie di chiese: plebane, cardinali e private — ecclesiis baptismalibus aut CARDINALIBUS seu oraculis[525].

Le chiese cardinali sono nettamente distinte dalle chiese battesimali: la particella disgiuntiva aut è così evidente che non richiederebbe nemmeno la conferma dell'altro diploma, pure di Carlo il Grosso, alla chiesa di Piacenza, nel quale accanto alle pievi dell'episcopato si menzionano le chiese cardinali della città — ecclesiis baptismalibus seu quae intra predictam cardinales habentur[526] — e quella, ancor più esplicita, offerta dal diploma di Ugo e Lotario al vescovo di Pavia[527], in cui si parla di cappelle cardinali — omnes cardinales capellas —.

[185]

Se erano cappelle non potevano essere pievi.

D'altronde, mentre erano prive delle speciali facoltà di cui godevano le pievi, la qualifica speciale di cardinales le distingue pure dalle altre cappelle ed oratori. Cardinalis è ciò che spetta, che appartiene, che è in un qualche modo direttamente o strettamente legato, vincolato al cardo. Nell'alto medio evo con il nome di cardo si è indicata solo ed esclusivamente la chiesa plebana della città[528]; dunque la qualifica di cardinales indica che le chiese qualificate con tal nome si trovavano in un rapporto più intimo che le altre con la cattedrale.

Siamo proprio nel caso delle chiese decumane di Milano e di Parma, di cui si può, per mezzo di queste, conoscere il lato di maggiore rilevanza per noi.

Il diploma di Carlo il Grosso parla di chiese cardinali intra civitatem. Quest'espressione indica romanamente anche nel caso presente il territorio urbano e suburbano insieme. Lo dimostra il can. 56 del concilio di Meaux dell'845 con cui si impone ai vescovi di ordinare canonicamente i titoli cardinali costituiti nelle città e nei suburbii — titulos cardinales IN URBIBUS ET SUBURBIIS constitutos —. Siccome è inammissibile che il concilio volesse intendere con questa disposizione di imporre ai vescovi il rispetto e l'osservanza delle norme della chiesa e dei dettami della giustizia solo per le chiese cittadine e suburbane, lasciando loro facoltà di agire disonestamente e simoniacamente per le chiese cardinali rurali; è chiaro che chiese cardinali — tituli cardinales — esistettero solo nella città e nel suburbio.

Costituirono, dunque, una peculiarità della pieve cittadina.

[186]

Anche a Vercelli si trovano chiese cardinali, ma non in tutte le città furon chiamate con lo stesso nome[529]: a Lucca, dove la chiesa matrice della città è detta sedes[530], [187] furon dette sedales[531], a Verona semplicemente tituli e titularii gli officianti[532]; del nome che ebbero in altre città, se pur l'ebbero, non ci rimangon documenti che ci dieno notizia, mentre ci offrono elementi sufficienti per individuarle[533].

[188]

Queste chiese si distinsero da tutte le altre perchè tennero ad un tempo della pieve e della cappella. Nei giorni feriali vi si celebrarono da appositi ecclesiastici le messe piane e le altre orazioni minori con la partecipazione del popolo[534] mentre fino ad allora questo non era lecito che nella cattedrale e dal clero di essa. E si iniziò così un'ampia trasformazione che introdusse nella costituzione della chiesa la parrocchia a tipo moderno, priva del fonte battesimale e delle maggiori prerogative delle antiche chiese matrici, e che dette alla città quelle cappelle che formarono tanta parte della sua ossatura nell'epoca comunale.

Cominciarono a formarsi sul finire del secolo ottavo, come è dimostrato dal documento del 789, che se ne può considerare come il primo esempio perchè S. Ambrogio fu il santo più venerato di Milano[535] e Milano [189] fu sempre e in ogni campo la prima fra tutte le città del territorio lombardo-tosco; e già agli albori del successivo erano largamente diffuse.

Esse ebbero anche altre peculiarità, ma di queste sarà opportuno parlare dopo avere almeno accennato alcuni altri elementi generali della pieve.

Il clero nei primi tempi della Chiesa riconosciuta viveva intorno al suo antistite, in qualche raro caso — e mai per lungo tempo[536] — riunito insieme nel modo in cui vissero più tardi i canonici[537], in generale con un sistema di vita meno rigidamente regolato; e lo assisteva nelle cerimonie del culto e nell'amministrazione dei sacramenti, recandosi per tal fine quà e là per la diocesi, secondo il bisogno, finchè, stabilite le pievi nei capoluoghi dei singoli pagi, fu in gran parte assegnato in modo fisso a ciascuna di esse ed intorno al vescovo ne rimase solo un esiguo numero.

Anche in questo la Chiesa fu fedele al suo sistema ed al suo programma di assimilare l'ordinamento civile romano. La città aveva i suoi magistrati, il suo ordo: la chiesa della città ebbe il clero disposto ad immagine di essa[538] e chiamato con lo stesso nome di ordo[539] che continua ininterrotto nel medio evo ed origina il termine [190] di ordinarii, ordinarii cardinales[540]. E come il regime municipale ebbe per pernio la città e fu caratterizzato da un sistema urbano accentratissimo[541], così la città fu la cellula anche del nuovo organismo ecclesiastico ed in questo pure emerse una tendenza accentratrice che sopravvisse dovunque all'organizzazione civile romana[542] ed in qualche caso si mantenne inalterata per parecchi secoli. Il principio, per esempio, che per esser eletto a capo di una chiesa bisognava avervi percorso tutti i gradi fino dall'inizio[543], lo si trova in pieno vigore a Milano nel secolo decimosecondo[544] quantunque [191] le condizioni fossero profondamente diverse, essendosi formata una nuova classe di ecclesiastici cittadini.

Originariamente, infatti, il clero cittadino era formato esclusivamente dagli ecclesiastici che officiavano la cattedrale. Quelli a cui era affidata la custodia delle cappelle e degli oratori, onde, appunto, il loro nome di custodes, e che erano, di solito, dei semplici chierici, quantunque qualche volta potessero essere anche preti e diaconi e magari occupare una posizione sociale elevata[545], non potevano compiere presso la loro chiesa, come già si è detto, alcun ufficio liturgico.

Più tardi, creati i decumani[546] per togliere agli ordinarii il carico del ministerio quotidiano presso altre chiese della città; questi risiedettero presso la propria chiesa ed ebbero una competenza rituale proporzionata al carattere della chiesa di cui era loro affidata la speciale officiatura. E perciò, in quanto non appartenevano alla cattedrale non furono aggiunti al clero di essa; ma poichè le loro chiese si trovavano entro il perimetro della chiesa della città[547] e le loro facoltà di officiatura [192] erano ben maggiori di quelle dei custodi degli oratorî privati; costituirono una classe intermedia che fu detta ordo minor per distinguerla dall'ordo major della cattedrale e dal reliquo clero della città[548].

Gli ordinarii cardinales comprendevano tre ordini: preti, diaconi e suddiaconi[549]; i decumani, in ragione delle loro attribuzioni, erano tutti preti[550] e, quantunque sparsi nelle varie chiese della città, costituirono anch'essi una congregazione, alla quale, a Milano, fino dal secolo nono è a capo un primicerio[551], che continua a [193] risiedere nella stessa chiesa di cui è officiale[552] pure quando, qualche tempo dopo, non volendosi aumentare il numero degli ordinarii[553], furono istituiti dei decumani anche presso la cattedrale[554]: riprova non dubbia [194] che l'origine loro è dovuta ad una spinta che muove dall'elemento laico che vive nella città e non dall'elemento ecclesiastico che fa capo alla pieve cittadina. L'arcivescovo Ariberto, fondando nel 1042 la loro canonica[555] li chiama peregrini appunto perchè di fronte agli ordinarii, che nella metropolitana erano a casa loro, i decumani stavano come ospiti e pellegrini tanto è vero che nel compiere le funzioni sacre stavano fuori del coro, che era la parte della chiesa riservata al clero officiante[556].

L'ordo si distingueva e quasi si contrapponeva all'elemento laico, identicamente a quanto avveniva nella costituzione civile, che era stata tenuta a modello[557], ma viveva con essa in stretta unione.

Per l'ordinazione degli ecclesiastici tutti, dal più umile chierico all'arcivescovo, era necessario l'assenso dei laici[558], il quale, dice S. Agostino[559], doveva manifestarsi secondo la consuetudine della Chiesa: consuetudine, che, come già si è avuto occasione di accennare, variava da luogo a luogo.

[195]

Nella nostra Italia dove lo Stato, per ragioni prevalentemente finanziarie, riconobbe nelle minori circoscrizioni una consistenza distinta da quella del capoluogo, l'autorità del vescovo, contrariamente a quanto avveniva nei paesi franco-germanici[560], fu limitata al punto che nelle chiese rurali non poteva esser ordinato un ecclesiastico che già non vi fosse appartenuto[561]; ma, in compenso, il diritto di partecipare all'elezione del vescovo, che, in virtù del principio che chi a tutti è preposto da tutti deve essere eletto[562], sarebbe spettato a tutti i diocesani, fu ristretto ai soli componenti della pieve cittadina[563].

E accanto a questa indipendenza del gruppo vicinale della città dal resto della diocesi è opportuno accennare subito quella di cui godeva di fronte allo Stato.

La Chiesa, scioltasi, quando in Italia si costituì il regno ariano dei Goti, dai legami che l'avevano fino ad allora tenuta avvinta all'Impero, fu libera nei suoi [196] rapporti religiosi e, quando vennero i Langobardi, ariani anch'essi e venuti come nemici dichiarati di Roma e dell'Impero, svolse la sua attività secondo i principi costituzionali conseguiti anteriormente[564]; ed anche in seguito, quando si furono convertiti al cattolicesimo ed i loro re mirarono a favorire, per fini politici, la nuova religione, permase tuttavia la libertà dell'elezione[565]: libertà, anche questa, che mancava nei paesi franco-germanici[566]. Sopraffatti i Langobardi, conquistata l'Italia [197] e rinnovato l'antico Impero, Carlo M. credette di attuare anche in Italia il suo sistema, che continuava quello dei Cesari romani, di far degli organi della Chiesa organi dello Stato, ma l'elezione del vescovo continuò a spettare unicamente ed esclusivamente a coloro che facevan parte della pieve cittadina[567].

La città, dunque, anche per questo lato emerse di fronte alla diocesi ed a tutte le altre pievi.

Naturalmente l'intervento dei laici non si avverava sempre nè nello stesso modo. La designazione, che era la parte sostanziale dell'elezione, spettava a tutti, laici ed ecclesiastici, sebbene non nella stessa proporzione. Le formule ed i documenti ecclesiastici dall'epoca romana[568] all'alto medio evo, sono concordi[569] nel graduare questo diritto per modo che dopo una logica preminenza del clero (ritenuto più idoneo a giudicare delle attitudini dell'eligendo nel disimpegno delle sue mansioni principali[570]) è fatta larga parte all'autorità delle classi più elevate, riservando agli strati più bassi una facoltà prevalentemente negativa che consiste quasi sempre in un semplice atto di presenza. Dal decretum in cui veniva raccolta la documentazione dell'avvenuta [198] elezione[571] si vede chiaro che il predominio del clero era tutt'altro che assoluto: non di rado era equiparato e sorpassato da quello dei seniores[572], dei nobiles[573] e [199] qualche volta anche dall'impetuoso prorompere della turba dei fedeli[574].

La consacrazione, come atto esclusivamente liturgico, era compiuta dai soli ecclesiastici[575]; ma anch'essa offre un lato degno di rilievo nei riguardi della costituzione cittadina in quanto che, sorte le chiese cardinali, per la loro speciale natura occorse una speciale consacrazione. Una testimonianza lucchese a proposito della natura e della qualità di una chiesa dichiara che il vescovo l'ordinava come le altre chiese sedali — sicut alias ecclesias sedales[576]. Mentre, invece, la designazione del titolare avveniva nello stesso modo che per la pieve[577] fatto solo eccezione di una tendenza a restringerla a coloro ai cui bisogni prevalentemente serviva, la quale si accentua e si fissa solo dopo il secolo nono.

E ancor più intimi erano i rapporti fra ecclesiastici e laici nel campo patrimoniale. Al loro sostentamento si provvide per parecchi secoli con una mensurna divisio prelevata dalla cassa comune della comunità formata col contributo di tutti[578]. Tale contributo originariamente [200] volontario si trasformò ben presto in obbligatorio per gli sforzi tenaci del clero favorito dalla posizione preminente del pontefice in Italia, tanto che, quantunque lo Stato tentasse ripetute volte di opporvisi[579], verso la metà del quinto secolo erano già stabiliti appositi giorni per queste collette — dies collectarum — che essendo fruttuosissime all'incremento della Chiesa si ritenne bene di render perpetue[580]; e per assicurarsele [201] in modo sempre più certo si introdusse anche il sistema di obbligare i fedeli a giurare di osservare questo precetto[581].

Alla fine del secolo sesto queste collette erano regolarmente diffuse: Gregorio I parla come di cosa normale della «collecta facta inter civitatis januensis habitatores» in una lettera del 599 al vescovo di Genova Costanzo che invita ad esonerarne un vecchio povero e cieco di nome Filagrio[582].

[202]

Genova allora non faceva parte del regno langobardo; ma anche in esso i fedeli corrispondevano alla chiesa il loro contributo annuale, il quale costituiva un obbligo di sola coscenza, di natura esclusivamente religiosa e privo di ogni riconoscimento da parte dello Stato.

La misura in cui si pagava corrispondeva ad una proporzione largamente in uso nell'antico sistema fiscale romano di cui avevan conservata ininterrotta ed immutata la tradizione gli scrittori ecclesiastici[583] ed a una non meno antica consuetudine rimasta inalterata negli usi civili[584] e si conguagliava alla decima parte dei proventi.

Di quì il nome di decima; ma questo nome, quantunque non sconosciuto in Italia[585], ebbe però la maggiore diffusione al tempo dei Franchi, chè le cose cambiarono con loro e cambiarono profondamente: non già perchè essa sia sparita o perchè il nuovo Stato, essendo confessionale, considerò come doveri pubblici i principali obblighi del credente — e fra questi la collecta — e subordinò i diritti civili e politici al soddisfacimento di quelli — ciò che avrebbe segnato solo un progressivo [203] e, magari, naturale svolgimento — quanto e sopratutto perchè con essi fu introdotto un nuovo e tutt'affatto diverso istituto, il quale si unì e si confuse con la vetusta collecta italiana e ne perturbò profondamente la funzione ed il sistema e ne sostituì anche il nome.

Carlo Martello nella necessità di costituire un nerbo di cavalleria capace di far fronte alle mobilissime schiere degli arabi che premevano minacciosi al confine orientale, non potendosi valere di terre del fisco perchè depauperato dalle pazze prodigalità dei suoi antecessori; mise la mano sulle terre delle chiese e le distribuì ai privati con concessioni revocabili il cui scopo principale era l'obbligo di mantenere e fornire un proporzionato numero di cavalli e di cavalieri.

Dopo di lui la Chiesa non volendo rinunziare alle terre confiscatile, nè lo Stato alla facoltà che vi esercitava, nè i concessionari al loro godimento; sotto la minaccia di una nuova invasione, si venne ad un contemperamento delle varie tendenze, il quale originò un nuovo istituto giuridico.

Quest'istituto fu il beneficio.

Con esso le Chiese conservarono la proprietà delle terre tolte loro, il re la facoltà di disporne con concessioni non oltrepassanti al massimo la vita del concessionario; e quest'ultimo, che delle terre stesse aveva il godimento per volontà del re e per opera della chiesa, fu obbligato a corrispondere al primo un proporzionato servizio militare ed a pagare annualmente alla seconda un censo in denaro di un solido d'argento per ogni manso ed un contributo in natura fissato nella decima e nona parte dei frutti ed a concorrere in modo equo al restauro della chiesa stessa in caso di bisogno[586].

[204]

L'assetto definitivo il beneficio lo ricevette da Carlo Magno col capitolare aristallense del 779.

E questo, dopo l'approvazione della dieta langobarda, passò anche in Italia; quantunque con una clausola — si exinde usque nunc ad partem ecclesiae decima et nona exivit[587] — che ne mostra tutto il carattere esotico che essa aveva per l'Italia e che, in conclusione, nei rispetti del passato ne annullava lo spirito perchè l'applicava solo nei casi nei quali il concessionario di un fondo ecclesiastico corrispondeva già la nona e la decima parte dei frutti: ciò che non poteva essere avvenuto che per scambievole convenzione privata, non avendo avuto luogo in Italia alcuna confisca di terre ecclesiastiche.

E più tardi il capitolare italico ritorna sull'argomento imponendo ai conti ed ai fedeli tutti che chiunque aveva in beneficio terre di una chiesa doveva corrispondere alla chiesa stessa regolarmente e completamente le decime e le none e concorrere secondo il bisogno e la possibilità alla sua restaurazione — ut quicunque de rebus æcclesiæ beneficia habent pleniter nonas et decimas [205] ad ipsas ecclesias donent.... et iuxta possibilitatem et quando necessitas exigit de opera ad ipsas ecclesias restaurandas adiutorium faciant —[588].

E anche Lodovico il Pio, alla sua volta, insistè sull'uno e sull'altro obbligo, aggiungendo una forte pena in caso di inadempienza, per ricordare ai renitenti che avrebbero finito col perdere il beneficio — et insuper bannum nostrum solvat, ut ita castigatus caveat, ne sæpius iterando beneficium amittat —[589].

Con questo l'antica collecta italiana non cessò di esistere nè fu messa da parte. I vescovi langobardi nel capitolare concordato l'anno successivo o poco dopo al capitolare aristallense, ebbero caro di fare inserire la disposizione che ciascuno dovesse pagare alla pieve secondo il costume e la sacra consuetudine: — De decimis. Ut unusquisque suam decimam ad ecclesiam offerat sicut mos vel sacra consuetudo esse dinoscitur[590]. —

E, più tardi, Lotario stabilì per legge la procedura da seguire per facilitarne la riscossione e renderne obbligatorio il pagamento[591].

[206]

La decima franca, quale è configurata dai capitolari, è, dunque, un diritto reale che nasce ex iure per esplicita disposizione di legge a favore di una chiesa sui beni di essa concessi dal re in beneficio; nasce simultaneamente con gli altri obblighi che la legge addossa al concessionario ed è uno degli elementi da cui resulta lo speciale istituto del beneficio.

La decima italiana, invece, originata da un volontario contributo dei fedeli, trasformato in seguito dalla Chiesa in obbligo di coscenza rinvigorito dal giuramento e consolidato nella misura, è dovuto ad una sola chiesa — la pieve — ed ha carattere e natura esclusivamente personale in quanto che investe la persona del parrocchiano, il quale appunto e soltanto per questa sua qualità, è tenuto a conferire alla pieve, ed alla sua pieve soltanto[592], la decima parte dei suoi proventi e questo suo contributo è, insieme con altri e minori obblighi della stessa natura, il titolo che gli dà diritto all'assistenza religiosa ed all'esercizio delle facoltà proprie del parrocchiano.

Fra questi altri obblighi si deve ricordar per primo [207] il rifacimento e la riparazione degli edifici del culto perchè sebbene la Chiesa abbia stabilito fin da antichissimo tempo che si dovesse provvedere con la quarta parte dei redditi e delle oblazioni; sia per la difficoltà della trasformazione delle offerte in natura sia per l'analogia con l'obbligo imposto ai concessionarî di benefici ecclesiastici, sia per altra ragione, le fonti italiane del tempo franco — e si rimettono sempre ad antica consuetudine[593] — la ricordano separatamente. Ciò che attesta anche per questo lato quell'autonomia di formazione e di sviluppo, di cui già si è avuto occasione di far parola.

La stessa trasformazione della collecta da volontaria a obbligatoria subì quella parte di oblazioni che i fedeli facevano in momenti di maggiore solennità ed importanza e cioè il battesimo, il matrimonio, e la morte[594]. Anzi fu facilitata dalla natura di fatto straordinario che ognuno di questi momenti segnava nella vita di ciascun individuo; come dalla necessità in cui si trovò la chiesa [208] di proibire le grandi agapi, riannodantesi ad antichissimi usi pagani, che si tenevano in chiesa per solennizzare questi avvenimenti e che, accolte da prima perchè accumunando ricchi e poveri rispondevano ai sentimenti dell'uguaglianza e della carità, eran divenute ben presto causa di inconvenienti e di disordini[595]. I banchetti in chiesa furon proibiti ed una parte della somma che prima essi richiedevano devoluta alla chiesa.

Queste oblazioni assunsero così l'aspetto e la natura di una vera e propria tassa — diritti di stola — corrisposta per un determinato servizio e siccome l'unica chiesa autorizzata all'esercizio del culto era la pieve conversero tutte a suo favore aggiungendosi agli altri obblighi del parrocchiano e rinsaldarono anche per questo lato gli stretti vincoli che lo univano alla sua chiesa.

Accanto ed insieme con queste oblazioni c'erano, poi, anche tutte le altre che la pietà dei fedeli offriva alla chiesa di sua spontanea volontà e anche queste, naturalmente, spettavano tutte alla sola pieve.

Sorte le chiese cardinali, le quali avevano una speciale officiatura per la quale, fatta eccezione di speciali giorni, vi potevano esser celebrate le messe e compiuti i servizi e gli uffici divini: ed essendo sorte per il culto speciale e straordinario che i fedeli professavano per alcuni santi; nacque un contrasto fra i diritti della pieve e la volontà dei fedeli. Contrasto talvolta sanato dall'esplicito intervento del vescovo e nella più gran parte delle volte causa ed origine prima dei conflitti numerosi fra i canonici della chiesa cattedrale e gli officianti delle chiese più frequentate delle varie città.

[209]

Esempio del primo caso è il diploma tadoniano, già tante volte ricordato, a favore del monastero di S. Ambrogio.

Con esso l'arcivescovo non si limita a confermare le donazioni di terre e di immobili che il monastero stesso aveva ricevuto in passato o avrebbe ricevuto nell'avvenire — quicquid in iamdicta ecclesia S. Ambrosii..... collatum fuerit — come nel diploma dell'arcivescovo Pietro dell'anno 789; ma concede anche la facoltà di ricevere tutte le oblazioni che dai fedeli fossero comunque offerte: CONCEDIMUS atque confirmamus.... OMNES OBLATIONES que a Cristifidelibus... quoquomodo a majoribus five a minoribus delate fuerint, omnesque res omnesque possessiones ibidem collatas etc.[596]. E la concessione di queste oblazioni è ritenuta di maggior importanza della conferma del possesso dei beni perchè è fatta precedere.

In generale, però, alle chiese cardinali era lasciata solo una parte delle oblazioni, riservandone il rimanente al clero della cattedrale il quale aveva diritto anche ad un gran pranzo e ad altri minori atti di ossequio, quando vi si recava collettivamente ed in gran pompa nella festa del santo a compiervi l'ufficiatura solenne[597].

Decime ed oblazioni non erano, però, i soli proventi della Chiesa.

Quantunque nella Chiesa di Roma fino al secolo sesto — a concorde testimonianza di Teodoro lettore e del Liber Pontificalis — si sia avuto per sistema di non tenere altri immobili che quelli strettamente necessarî all'esercizio del culto, vendendo le terre e le case donate e distribuendone il ricavato fra la chiesa, il vescovo e il clero; tale sistema o fu esclusivo della Chiesa di Roma o non durò molto a lungo; e, comunque, il problema dell'assetto giuridico della proprietà immobiliare [210] della pieve non si pone per gli edifici del culto diversamente che per gli altri immobili.

Divenuto il cristianesimo religione ufficiale dello Stato — chè l'anteriore ed incerta condizione giuridica[598] non c'interessa — lo Stato ebbe nella nuova religione quell'ingerenza che aveva prima esercitato sugli altri culti e che segnava quasi il correspettivo della protezione accordatale e della posizione di privilegio fattale, ed i templi ed i loro beni furon considerati come pubblici e tutelati con norme particolari, in continuazione precisa del sistema tenuto con i culti anteriori — fatta eccezione, tuttavia, di un punto speciale che è proprio quello che c'interessa.

Anteriormente fra i numerosi culti tollerati nell'Impero il maggior numero di facoltà e di diritti fu concesso solo ad alcuni di massima importanza, ai quali fu concessa anche la testamentifactio passiva; e titolare di tali diritti fu istituito il tempio nel quale ciascuna di queste divinità era maggiormente e per antonomasia venerata[599].

[211]

In seguito, colla religione cattolica, nella necessità di contemperare il rispetto all'unità della Chiesa con le ragionevoli esigenze locali dei fedeli e rendere agevole il funzionamento delle proprietà immobiliari, si andò formando una prassi, riconosciuta e completata poi dalle leggi, per cui erede dei beni per volontà di testatore o in forza di legge devoluti alla chiesa, fu la chiesa del luogo del de cuius[600]; e siccome la Chiesa si era insediata e organizzata sulle basi dell'organizzazione pubblica romana e con essa si trovava quindi in piena armonia; e la sua unità di organizzazione fu la pieve: così la pieve, impersonata dalla sua chiesa, ebbe tutte le facoltà di una vera e propria persona giuridica.

Caduto l'impero romano, sopraffatti i Goti e disfatti i bizantini; con i Langobardi cessò ogni diritto dello Stato all'ingerenza nell'amministrazione della Chiesa ed ogni pieve fu libera nella sua organizzazione interna.

E questa presenta due speciali elementi: uno nei rispetti della pieve in generale, sia urbana che rustica, l'altra nei soli riguardi della prima.

L'una si è che cessata l'ingerenza dello Stato, lontano e non ancora completamente assodato nè affermato rigidamente come più tardi avvenne, il diritto di intervento dell'autorità pontificale, riconosciuta anche dalla legge — ciò che sta a provare anche qui una vera e forte resistenza di usi anteriori, contro i quali urtarono inutilmente i sistemi franchi — l'autonomia finanziaria della pieve dall'episcopato[601]; autonomia che da documenti di ogni parte del territorio langobardo ci è dimostrata non minore nei rispetti dell'elezione dell'arciprete e delle altre mansioni in cui partecipava l'elemento [212] laico[602]; avveratasi con l'invasione langobarda una tendenza a restringersi entro la pieve ed i propri correligionarî; la comunità cristiana raccolta entro la pieve stessa sia urbana che rustica — unita anche per altri legami economici e giuridici in parte già accennati e di cui ci occuperemo nei paragrafi seguenti — costituì un vero e proprio corpus nel quale l'elemento laico intimamente si fondeva con l'elemento ecclesiastico. E, ritornando in parte sotto il contatto straniero ed eretico degli ariani, ai primi tempi ed ai primitivi sistemi, questa persona giuridica esplicava la sua azione nei rispetti del culto per mezzo del clero, assistito dai laici e, nei rispetti patrimoniali, per mezzo dei laici sorvegliati dal clero.

La pieve urbana dell'alto medio evo, poi, è caratterizzata dalla gradazione con cui le facoltà d'intervento nell'amministrazione del suo patrimonio sono distribuite fra i suoi parrocchiani; che è quella stessa che si riscontra nel culto dei primi stadî di formazione della città e mantenutasi inalterata pur col mutar dei culti e degli Stati. In virtù di essa classe dirigente, suddivisa in altre in modo vario secondo i tempi, sono solo gli urbani mentre ai suburbani, pure uniti nella stessa pieve, è permessa solo una pallida e passiva partecipazione.

[213]

Laici ed ecclesiastici costituivano insieme una unità sola nella quale l'azione degli uni o degli altri prevaleva a seconda che si trattava di uffizi divini o di cose terrene: ma che agiva sempre con la compartecipazione obbligatoria di tutti, creando un complesso di rapporti nel quale le speciali facoltà di ognuno erano a volta a volta doveri o diritti.

Alle condizioni del parrocchiano si contrappone quella del fondatore di una chiesa privata, al quale, secondo l'antico sistema romano pienamente concordante con quello germanico, ne spetta la completa proprietà con le sole limitazioni riguardo all'esercizio del culto derivanti dall'organizzazione generale della Chiesa.

Le chiese cardinali, le quali non erano nè pievi nè cappelle ed alle quali quindi mal si adattavano i sistemi delle une e delle altre, furono costrette ad andare cercando un adattamento fra il sistema parrocchiale e quello della chiesa privata: e qualche volta, poi, si trovavano in una singolare condizione.

Prendiamo il caso della chiesa di Sant'Ambrogio di Milano.

Dopo il diploma del 866 in essa si avevano: una chiesa titolare del diritto di proprietà sui beni, un corpo di monaci ai quali ne era affidata l'amministrazione ed ai quali in effetto erano concesse e donate le oblazioni e gli immobili dai fedeli, una congregazione, consortium, di sacerdoti i quali erano incaricati dell'officiatura ed ai quali era pure riconosciuto un diritto di natura economica nei rispetti dei beni della Chiesa[603].

La delineazione giuridica precisa del diritto di questi ultimi il diploma arcivescovile del 866 non la fa; ma essa risulta dai documenti che illustrano le lunghe liti che a proposito di esso ebbero in seguito monaci e canonici[604].

[214]

Era la stessa posizione precisa in cui si trovavano gli ordinarii della Chiesa di S. Giovanni di Monza rispetto ai custodes della Chiesa stessa i quali erano i rappresentanti del diritto di proprietà dei beni della chiesa.[605]

La posizione non era troppo semplice; pur tuttavia di colpo non furono creati istituti nuovi; furon piegati e modificati con clausole speciali i vari istituti romani, non mai abbandonati dalla Chiesa[606] che meglio si prestavano. Ma queste modificazioni moltiplicandosi, consolidandosi, acquistarono delineazione e configurazione sempre più distinte da quelle da cui originariamente furono costituiti e formarono alla lor volta un nuovo istituto giuridico, destinato a grande avvenire.

Quest'istituto fu il beneficio ecclesiastico[607].

La pieve italiana — concludendo ormai in poche parole questa ricerca che la mancanza assoluta di ogni lavoro al riguardo ha reso così lunga — continuò un'antichissima unità territoriale che ebbe vita in Italia prima di Roma e che appunto perchè italiana e non romana rimase anche quando Roma non fu più e sopravvisse perchè era un complesso omogeneo e completo di elementi economici, giuridici e religiosi.

La città col suo suburbio e le sue pertinenze: il pago rurale col suo capoluogo, i suoi vici e le respettive terre [215] comuni furono uniti dal culto cattolico come da quelli pagani e dal sistema finanziario dei Langobardi come da quello dei Romani e dei Bizantini.

Ogni parrocchiano fu vincolato alla sua parrocchia e l'unione fu tale che uffici divini ed affari terreni richiedettero egualmente la simultanea presenza e partecipazione degli ecclesiastici e dei laici; nè questi potevano senza gravissimo e giustificato motivo astenersi dalle funzioni e dagli uffici del culto, nè quelli, senza questi, essere eletti o comunque trattare o disporre dei beni della pieve e la fissità del domicilio già forte negli ultimi tempi romano-bizantini e ancor maggiore in seguito, concordando pienamente col criterio di autonomia delle varie pievi, in uso nella Chiesa, strinse ancor più i vincoli già così rigidi, che avvincevano il parrocchiano alla sua pieve, nei riguardi della decima e delle oblazioni.

Verso la fine del secolo ottavo, però, la pieve urbana comincia a differenziarsi da quella rurale allargando i suoi confini all'esterno e dando origine nel suo interno a nuovi nuclei i quali acquistano parte delle facoltà e dei diritti che prima spettavano alla sola pieve. Questi nuclei sono le chiese cardinali, le quali formandosi con linee sempre più precise costituiscono la parrocchia a tipo moderno, la quale rompe l'unità della antica pieve, le sottrae molte delle sue prerogative e dà luogo all'origine di formule e istituti rispondenti alla sua speciale natura. E queste formule e questi istituti, essendo sorti per complemento necessario di un organismo che era sorto per naturale conseguenza e soddisfacimento di bisogni veramente e fortemente sentiti, risposero ad essi in modo conveniente e congruo per modo che non solo nella maggior parte non furon toccati dalle profonde modificazioni che in seguito furono apportate in tanti campi nè dalle deformazioni del concilio tridentino; ma qualcuno di essi si allargò a disciplinare un immenso numero di rapporti e fu caratteristico dell'organizzazione ecclesiastica intiera. E questo fu il beneficio ecclesiastico.

[216]

§ 8.

— Per studiare l'origine e la costituzione della pieve si è dovuto prima ricercare la natura e la consistenza dell'antica circoscrizione civile su cui essa s'insediò e a tale scopo è stata dedicata la prima parte del capitolo precedente: ora essa — ed appunto per ciò si è tenuta un po' più diffusa di quanto a prima vista poteva apparire strettamente necessario — ci mette in grado d'indagare anche la manifestazione più saliente della sua struttura civile ed economica.

Quantunque lo Stato e la Chiesa lo avessero proibito ripetute volte[608], l'abitudine di tener mercato nei giorni festivi si mantenne così tenace[609] che lo stesso Carlo Magno fu costretto a permettere espressamente ed esplicitamente che UBI ANTIQUITUS FUIT si continuasse a tener la riunione del mercato in die dominico.

Poichè gli uffici divini si celebravano ordinariamente di domenica, e pure di domenica ordinariamente si teneva mercato, è chiaro che lo scambio dei prodotti avveniva di regola nell'occasione della festa religiosa che radunava molta gente nel capoluogo; e siccome ogni parrocchiano era obbligato ad adempiere i suoi doveri presso la propria pieve e soltanto presso di essa e le singole pievi erano normalmente molto distanti fra loro[610], era difficile e perciò improbabile il potersi recare nello stesso giorno ad una pieve per gli ufficî divini e [217] ad un'altra per il mercato e quindi ne conseguiva che il mercato era normalmente composto dei soli parrocchiani di ciascuna pieve[611]. La pieve della città era costituita da urbs e dal suburbium: dunque al suo mercato abituale partecipavano solo gli urbani ed i suburbani.

«Per forum, in circuitu ecclesiae — narra Landolfo Seniore in un passo della sua storia[612]erant tunc causa negotiandi tam civiles viri quam suburbani pariter congregati.

E alla stessa conclusione si giunge anche seguendo un altro filo conduttore, il quale permette anche di conoscere pure la natura di questo speciale mercato.

Il Capitolare di Carlo Magno «De truste facienda si esprime così: nemo presumat, ad nos venienti mansionem vetare et quae ei necessaria sunt sicut vicino suo vendat»[613].

[218]

Questa disposizione ha un carattere di privilegio che appare evidente appena la si metta in relazione con l'altro Capitolare, pure di Carlo Magno, che concerne gli iterantes[614]. Quest'ultimo si occupa degli iterantes, dei viaggiatori in genere, sia che si rechino dal re che altrove: — «De iterantibus, qui ad palatium aut alicubi pergunt» — per scopi e ragioni di loro privata e particolare spettanza e proibisce che sieno comunque assaliti e che sia ad essi negata l'erba indispensabile per i loro animali. Invece nel primo Capitolare si parla di quella classe speciale di viaggiatori, che si recano dal re non per ragioni a vantaggio proprio, ma per servizio pubblico. Infatti si conoscono due specie di trustis: una è la comitiva eletta dal re, la guardia più fida e più cara; l'altra è una specie di squadra incaricata di perseguitare i delinquenti e organizzata sino dal tempo dei Merovingi, dalle cui leggi è passata in quelle carolingie e con esse, anche in Italia[615].

In ambedue i casi si tratta di un servizio speciale, per il quale il re concede delle facilitazioni di alloggio e di vitto che nega a tutti gli altri.

[219]

Ora se il re vuole che ad essi le cose necessarie sieno vendute come il vicino le vende al vicino, è chiaro che tra i vicini tali scambi avvenivano in un modo diverso che fra vicini ed estranei e che questo modo offriva speciali vantaggi e, infine, che questa diversità aveva natura e consistenza giuridica. Infatti il re, col solo fatto di determinare così specificatamente e con un Capitolare le persone alle quali era concesso di godere alcuni vantaggi del rapporto di vicinatico senza esserne compartecipi, viene a riconoscere anche per questo lato del mercato, l'esistenza del gruppo vicinale e dei rapporti giuridici che vi si imperniano; così come la riconosce quando, invece di una limitazione parziale e temporanea come questa, glie ne impone una maggiore e più duratura obbligandolo ad accogliere entro di sè un estraneo, già da esso rifiutato[616]. Anche in questo caso dal fatto che solo al re con uno speciale preceptum è possibile e lecito vincere la resistenza del gruppo vicinale, sgorga limpida la conseguenza che in tutti gli altri casi questa resistenza è incoercibile: è cioè, lecita, riconosciuta e protetta. Vicinus nei Capitolari come negli editti[617] e nelle leggi[618] e nei documenti[619] ha un senso tecnico ben definito: indica chi fa parte di una determinata unità, di un determinato comune, per [220] usare il termine che comparisce in Francia sin dal secolo ottavo[620] e di cui si hanno tracce nella nostra Italia fino dai tempi di Carlo Magno[621]. Il comune cittadino — lo si è visto — comprende con la città anche il suburbio ed il rapporto vicinatico, quindi, unisce anche rispetto al mercato, urbani e suburbani e non altri[622].

Il cap. 11 fa obbligo al vicino di vendere a colui che viaggia in servizio e per conto del re, come vende al suo vicino — sicut vicino suo vendat —: lo scambio, dunque, avveniva direttamente fra vicino e vicino senza intromissione di alcun intermediario che comprasse per rivendere e non per consumare. D'altra parte i Capitolari parlano[623] di telonea solo a proposito di negotiatores, [221] delle persone, cioè, come a maggior chiarimento si soggiunge, che a scopo di commercio — causa negotiandi — si recano a piccole tappe — de una domo ad aliam — di luogo in luogo con la loro substantiam che volta volta si rinnova nel contenuto mentre rimane immutata nella destinazione di esser comprata per esser rivenduta. I vicini che non si muovono dal loro comune ed acquistano e vendono per i bisogni immediati del proprio consumo, non hanno alcun carattere di commercianti di professione e, quindi, sono immuni dai telonea. E, per conseguenza, sono immuni da quei tributi che fino dal tempo romano colpivano i generi di commercio[624], anche i generi che essi si scambiano e che si possono conoscere grazie al cap. 11, il quale parla di necessaria: dei commestibili di prima necessità.

Le cose più minute ed i generi di prima necessità che formavano questo mercato, erano prodotte, nella loro quasi completa totalità, nelle terre urbane e suburbane e tutti coloro che vivevano su queste terre, essendo obbligati a convenire alla pieve cittadina per i doveri cultuali, trovavano in quest'occasione un incentivo [222] e una spinta a portare i propri prodotti, che nel concorso di numerose persone avevano maggior facilità di esito; mentre, per un altro verso, essendo molti i venditori e potendosi trattenere a lungo in città per essere giorno festivo, si rendeva inutile e non gradita l'opera di intermediari.

Questo mercato minuto e piccolo, in quanto soddisfaceva bisogni sentiti in ogni tempo da qualsiasi centro abitato, durava ininterrottamente da secoli e secoli e le fonti continuano a chiamarlo forum come al tempo romano[625]; e come al tempo romano si era differenziato dalle nundinae[626], così nel medioevo si distingue dalle fiere e dai mercati tenuti ad intervalli maggiori[627] e con regime giuridico speciale[628] e si tiene tutte le domeniche per provvedere le cose e le cibarie indispensabili all'alimentazione degli abitanti di un angusto territorio; mentre nelle più note feste della Chiesa e nelle ricorrenze [223] dei santi più venerati dei singoli luoghi[629] se ne tengono altri, nei quali, per mezzo di mercanti venuti di fuori affluiscono generi di ogni natura, di cui la città sente il bisogno o il desiderio. Ed in questi, che si tenevano a distanza di tempo non breve l'uno dall'altro, si rendeva necessario il commercio in terza mano, perchè solo dei mercanti di professione potevano portare merci e derrate da luoghi lontani e partecipare ai varî mercati. Ed è proprio ed esclusivamente il commercio in terza mano che è soggetto ai gravami riconnessi al diritto di regalia, per poter riscuotere i quali si voleva che tali mercati si tenessero sempre nello stesso luogo[630].

Un bel documento fornisce a questo proposito elementi preziosi. È un atto nel quale è raccolta la decisione di alcuni viri antiqui noscentes usum curadiae, eletti dal vescovo di Asti sul finire del secolo decimosecondo, a ripristinare gli antichi usi del mercato astese, turbati da alcune innovazioni fiscali che avevano dato luogo ad una perniciosa guerra di tariffe con i marchesi di Ponzono[631]. Il documento è assai tardo rispetto all'epoca [224] langobardo-franca; ma la concessione del mercato al vescovo di Asti risale ai primissimi albori del secolo decimo, nè si fa accenno a modificazioni anteriori a quelle che gli «antiqui viri» sono chiamati ad eliminare e si può credere che la disposizione concernente la cibaria risalga ad epoca molto remota, perchè i Capitolari non accennano minimamente ad alcuna imposizione su di esse nè si conosce alcun provvedimento dei re d'Italia a questo proposito.

Il documento, dopo aver riportato l'elenco della gabella di tutte le voci, dice che de agmis et haedis nihil sicut et de fructibus et de ovis et de his omnibus quae brachio portantur. Idem de pullis et de piscibus recentibus.

Questo mercato, dunque, resulta costituito esclusivamente dal traffico dei commestibili di minor portata: agnelli, pecore, ortaggi, frutta, pollame etc. e sussiste accanto e di fronte ad un altro mercato che si distingue così da questo più minuto commercio, come dal grande traffico che metteva capo alle fiere[632]. Un diploma carolingio [225] è esplicito: esso concede il forum ed il mercatum che si tenevano nel giorno di S. Zeno nella città di Verona[633].

È evidente che il forum non era la stessa cosa del mercatum.

Il mercato nel quale le merci sottostanno a norme e a gravami speciali si raduna ad intervalli sempre più brevi con l'aumentare dell'importanza e della vita della città e verso la fine dell'epoca franca, là dove la città è stata in grado di sostenere e di mantenere o, ciò che è lo stesso, di aver bisogno di uno scambio così frequente; diviene anch'esso ebdomadario[634]; e si sovrappone a quello minuto vicinale, del quale, però, anche dopo vari secoli si possono qua e là trovare delle tracce[635]. Ma questo mercato a cui convengono i mercanti [226] delle regioni vicine e delle regioni lontane per portarvi prodotti altrove comprati e comprarvi prodotti altrove vendibili, non avrebbe potuto sorgere se non fosse stato congruamente preceduto da un altro sistema di scambio capace di fornire alla città le cose più necessarie con un flusso periodico, normale, frequente e continuo: i due requisiti che nei diplomi che fanno concessione di mercati compariscono più tardi di tutti gli altri. Ed è proprio su questo sistema di ristretto scambio vicinale dei prodotti di prima necessità, che deve fermare l'attenzione a preferenza ed in modo speciale chi voglia conoscere della costituzione e del diritto delle nostre città nell'alto medio-evo, cioè nell'epoca anteriore a quella nella quale il commercio formò la parte prevalente della loro energia.

Il noto tipo del mercante franco-germanico che sotto [227] una speciale protezione del re, gira di regione in regione e risale e discende il corso dei fiumi[636], ha presso di noi dei precursori e dei contemporanei nei negotiatores de Langobardia che fino dal 629, e probabilmente anche prima, si recano alla fiera di Parigi, aperta loro dal re Dagoberto in quest'anno[637]: e nei mercanti che percorrono il corso del Po e ne rendono attivi la navigazione ed i porti[638]: ma questi, come quelli, per quanto fattori eminenti dell'energia economica delle nostre città, nulla offrono che in qualche modo ci illumini sulle loro particolarità più intime e più speciali, perchè il commercio ha per funzione e per scopo di mettere a contatto luoghi e persone e prodotti diversi e, quindi, per necessità è tratto ad avere un carattere internazionale, che si accentua sempre più quanto esso maggiormente si estende. Invece quel piccolo, ristretto scambio, limitato entro angusti e ben noti confini, a poche cose ed a poche persone, che si perpetua da secoli quasi nello stesso modo e nelle stesse proporzioni, è proprio il terreno favorevole per eccellenza al conservarsi delle antiche usanze e delle vetuste consuetudini particolari ai singoli luoghi.

A Milano il forum si trovava davanti ed intorno alla cattedrale[639], ma tale ubicazione si può considerare come un'eccezione[640]. Nelle nostre città, generalmente [228] regolari[641], il forum era costituito dalla piazza formata dall'incontro del cardo maximus col decumanus, che erano le due vie principali, intersecantesi perpendicolarmente: era il punto centrale della città, l'antico templum[642]. Per il modo con cui sorse e si sviluppò il cristianesimo, per le difficoltà incontrate prima di poter essere tollerato e riconosciuto come culto ufficiale e per l'ostacolo, quasi per ogni dove insormontabile, rappresentato dalla preesistenza di edifici e fabbriche intorno al foro; quasi mai la Chiesa cattolica potè costruire la sede vescovile sul foro, che rimase invece il luogo consueto del mercato. Così a Vercelli[643], a Cremona[644], a Brescia[645], [229] a Lucca[646], a Piacenza[647], a Bergamo[648], a Parma[649], a Pavia[650], a Pisa[651], a Ferrara[652], a Verona[653], a Firenze[654], a Arezzo[655], etc.[656].

[230]

Il mercato settimanale anche se non si trovava davanti alla chiesa, aveva sempre luogo, dunque, dentro alla città, dentro alle sue mura; mentre la fiera ed il mercato maggiore, di solito si tenevano fuori. E ciò è da rilevare perchè può fornire un buon punto di partenza per giungere a formulare un criterio di differenziazione della costituzione delle città italiane da quelle franco-belgo-germaniche.

La città italiana mantiene sempre una posizione elevata e distinta di fronte al territorio circostante, che le è annesso e soggetto ed è caratterizzata da un complesso di norme di natura giuridica, che rientrano nella più ampia organizzazione dello Stato, ma, come abbiamo già veduto, sono speciali alla sola città ed al suo suburbio; e costituiscono il nocciolo da cui con evoluzione progressiva, senza alcun distacco da un periodo di tempo all'altro, si è venuto formando e sviluppando quel particolarismo che raggiunge nel medioevo comunale il momento di maggiore sviluppo[657].

[231]

Agli elementi che hanno formato il diritto cittadino deve essere, dunque, aggiunto anche il mercato vicinale, in quanto che anch'esso si restrinse alla città ed al suburbio e cooperò validamente al formarsi di consuetudini [232] e di norme giuridiche, distinte e diverse da quelle del territorio rurale[658].

Per determinare con precisione tale azione e per rilevare le differenze e le affinità fra gli usi prodotti dagli scambi vicinali, occorrerebbe entrare in un'indagine comparativa delle varie consuetudini che si trovano sparse negli statuti comunali o raggruppate e raccolte insieme fino dal secolo decimoterzo, la quale esorbiterebbe dal campo di studi prefisso a questo volume nel quale si vuole esaminare solo la funzione economica, in quanto rientra nella costituzione delle nostre città nell'alto medioevo, e si mira ad aprire ed indicare soltanto le linee generali da cui resulta. Ma non si può fare a meno di determinare quale è il colore di fondo del quadro di cui le molteplici consuetudini locali rappresentano le gradazioni, le tonalità e l'ultimo sviluppo.

Anche oggi si conserva fra campagnoli e mercanti di bestiame l'uso di stringersi a vicenda la mano per conchiudere i contratti; cosicchè il momento della perfezione risiede non già nella manifestazione verbale della [233] volontà, ma sibbene nella stretta di mano[659]. Questo accordo di buona fede, essendo senza alcun valore di fronte alla legge, non può essere originato dalla legge stessa; tanto è vero che se ne trova traccia fino al secolo decimoterzo anche nei documenti medioevali[660], che ne specificano la natura giuridica e lo chiamano col nome tecnico di mercato.[661] E si può risalire ben più innanzi se si osserva che la frase comune, che, appunto perchè comune è certamente antica, dell'uso trecentesco «impalmare la fede» corrisponde perfettamente, sia nella forma esterna che nel contenuto giuridico, alla formula «manu fidem facere, fidem facere e manum facere», che si trova nei documenti del più remoto medioevo[662]. E, quindi, finchè non sia dimostrato che fra l'una e l'altra si è avuta una soluzione di continuità, durante la quale è stato in vigore un sistema diverso, si deve ritenere che il modo di dire volgare sia divenuto comune in quanto continuava un uso antichissimo dovunque [234] diffuso. E se questo è, siccome tale formula è sicuramente romana[663] ed è dalle fonti romane che è passata nei documenti medioevali[664], si può constatare che questo sistema si trova in perfetto accordo con il rigido formalismo dell'antico diritto romano, il quale non dette mai all'istrumento scritto altro valore che probatorio[665]; e si può concludere che anche questo formalismo resiste alla pressione dell'ultimo diritto romano, insieme ed al pari di tutti quegli istituti del diritto teodosiano che si mantennero in Italia malgrado e dopo la legislazione giustinianea; e che potè trovare favorevoli condizioni di ambiente nel formalismo dei diritti germanici e, specialmente del diritto salico, ma che preesistette ad essi e, quindi, non potè esserne originato.

Il che, in conclusione, significa che anche in questo campo si trovano elementi che vivono in Italia ininterrottamente sino dal tempo di Roma repubblicana.

Il mercato vicinale ha per scopo il sostentamento della città: esso le fornisce i mezzi necessarii alla sua esistenza e che da sè stessa non si può procurare perchè prevalentemente costituita da edifici e da abitazioni; e li fornisce soprattutto alle classi meno elevate della popolazione prive di curtes e di terre da cui poterli ricavare. Esso vive, perciò, della vita della città, si attenua [235] col suo decadere, progredisce e si trasforma col suo progredire. Intimamente legato ad essa, ne è elemento sussidiario importante. Non unico però. Quindi le norme giuridiche originate da questo scambio costituiscono solo una parte del sistema giuridico proprio della città e si aggiungono a quelle che già si sono rilevate: ma non completano il quadro; e, per di più, per determinare l'importanza e la quantità di questa parte occorre prima ricercare o determinare gli altri elementi che hanno formato la costituzione e il diritto delle nostre città.

§ 9.

— I Langobardi quando, assodata la conquista, si fissarono stabilmente nel nostro paese, trovarono nelle città e nei castelli, che erano luoghi forti e muniti, degli ottimi strumenti di dominio contro i vinti e di difesa contro le incursioni esterne e vi si insediarono di preferenza curando assiduamente la guardia[666] e la manutenzione delle mura[667].

La città ed il castello erano contraddistinti appunto dalla presenza della cinta murata: Rotari, impadronitosi di alcune città della Liguria, per punirle della resistenza oppostagli, le ridusse a semplici vici abbattendone le mura: «muros earum usque ad fundamentum destruens, vicos has civitates nominari praecepit»[668].

Ma la città si distingueva anche dal castello: il capitolo 39 dell'Editto stabilisce che quando un reato è stato commesso entro la città, la pena ordinaria e consueta sia aggravata di una multa speciale a vantaggio del fisco. Si aggiunge, cioè, alla figura normale di ogni reato, un nuovo reato che consiste nell'ingiuria alla [236] terra il cui mantenimento in buono e pacifico stato, la cui pace, per usare il termine tecnico, il re impone in modo particolare — iniuria terrae —; e si fa della città — solo della città, chè del castrum non si fa parola — un terreno giuridicamente protetto in modo speciale[669].

Questa zona di particolare natura giuridica ha nelle mura dei confini rigidamente ed immutabilmente fissati. Si ha, dunque, aperta la via a ricercare da che cosa sia stata costituita in quest'epoca la città nel senso giuridico della parola; a ricercare, cioè, se sia esistito e di quale natura ed entità e in quali proporzioni un regime giuridico di natura pubblica proprio ed esclusivo della sola città, del solo centro murato cinto di mura; e la posizione di questo regime nell'ordinamento politico.

Con la disposizione del capitolo 39 non si pone il primo substrato di una particolare consistenza giuridica della città: se ne delinea, piuttosto, il riconoscimento ufficiale, completando con un provvedimento consono ai criteri del diritto pubblico dell'epoca e, cioè, di natura germanica, uno stato di fatto e di diritto in molta parte preesistente.

È tutta romana la distinzione delle città e dei castelli, in quanto cinti di mura dai vici e dai loci, aperti ed indifesi[670]; come è tutta romana la disposizione che punisce severamente chi ne scavalchi di soppiatto le mura[671]. È tolta di peso da un passo di Modestino riportato nel Digesto e corrisponde in modo perfetto anche [237] allo scopo di esso, chiaramente mostrato dal titolo — de re militari — in cui è contenuto: si può e si deve considerarla come un'altra e nuova prova che i compilatori dell'Editto ebbero conoscenza delle fonti romane non solo attraverso a rifacimenti barbarici ma anche direttamente.

I Langobardi, i più feroci dei barbari feroci, ripugnanti ed alieni dalle sedi fisse e dagli agglomerati numerosi, abituati a vivere sparsi e disseminati in piccoli gruppi — vicatim — furon tratti, inconsapevolmente[672], a riconoscere ed accettare la sottile distinzione fra urbs e castrum, perchè la loro venuta, se spazzò via gli ultimi avanzi dell'organizzazione burocratica romano-bizantina, non distrusse le basi prime della struttura economica della città, consolidata da lunghi secoli e che i due regni barbarici degli Eruli e dei Goti e la trista dominazione bizantina, prostrandola fino all'ultimo grado di decadenza, avevan dolorosamente preparato a sopportare senza urti troppo violenti la loro rude signoria.

In Italia non era mai cessato l'antichissimo sistema, probabilmente preesistente alla stessa conquista romana[673], per cui le più elevate facoltà giuridiche erano [238] prerogativa esclusiva di coloro che avevano diritto alla qualifica di urbani, i quali in tutti i rami del vivere civile, dalle magistrature — magistratus urbanus — ai collegi e corporazioni — collegium urbanum, collegia urbanorum — alle opere — opereis urbanorum — alla cittadinanza tutta, insomma, intesa nel senso ristretto del gruppo dei rapporti fra l'individuo e la città, di cui è cittadino — urbanicivis urbanus — godevano una preminenza assoluta ed incontestata.

Anche con la legge dell'anno 400 — e già la rovina di tutte le istituzioni premeva — gli edifici, gli orti e le aree dei pubblici edifici ed i luoghi pubblici situati entro la città ed il suo suburbio, insieme ed al pari dei beni ecclesiastici, furono locati in perpetua conduzione ai soli urbani collegiati e corporati delle singole città. E più tardi fu solo alla plebe urbana che fu riconosciuto diritto di partecipare alla cosa pubblica, specialmente riguardo ai beni comuni, quando fu costretta ad aggiungere il suo contributo personale a quello ormai insufficiente delle curie e delle corporazioni.

Nè lo perdette quella specie di collegio cittadino, in cui per lo sbiadirsi sempre maggiore delle proprie caratteristiche individuali, andaron fondendosi in forzata coesione le varie classi sociali dei vinti al tempo dei Goti[674].

[239]

I Langobardi trovaron tale stato di cose e non lo mutarono.

Erano urbani — civitatis Reatine habitatoribus — quei Reatini i quali nel 774 ricercarono i confini del gualdo publico presso la loro città, insieme con il notario Insario incaricatone dal re Rachi, con il messo del duca Lupone, con il loro gastaldo Immone, con due sculdasci ed il marphais, ed ai quali fu inviato uno dei quattro brevi redatti alla presenza del duca di Spoleto «et quartum (breve) quidem direximus ad supradictos homines in Reate»: dice il documento[675].

E la presenza del gastaldo stesso di Rieti alla compilazione ed all'invio del breve mostra che la solidità e la consistenza giuridica del gruppo da essi formato di fronte allo Stato, di cui egli era il rappresentante, non era minore di quella, che già si è avuto occasione di accennare, dei cittadini di Pavia, di Piacenza, di Cremona, di Verona, etc.; i quali erano urbani al pari di questi; come è provato dalla qualifica di habitatores urbis, de civitate, con cui li vediamo chiamati[676] quando, come in quest'ultima città, non son detti addirittura urbani.

Il conte Nannone, per esempio, incaricato da Ottone I. di dirimere una controversia fra il vescovo Raterio ed i suoi concittadini, il 30 giugno 968, seduto al suo tribunale, interroga e si rivolge ai soli urbani — «ita orsus est loqui: quid vobis videtur, urbani, de isto prato?» —[677].

Nella nota convenzione stipulata nel 1037 tra il vescovo Olderico ed i cittadini di Brescia, a proposito dei [240] beni comuni della città[678], la concessione dei medesimi non è fatta a tutti i vicini della civitas di Brescia; ma solo a quelli di essi che abitavano entro le mura: vos qui supra — (presbisteris ceterisque liberis hominibus Brixiam habitantibus) — vicinos eiusdem Brixiae civitatis habitantes vestrosque filios et heredes, et proheredes simulque omnem progeniam vestram.

E ancor più evidente è quello che avviene a Mantova, dove, col diploma imperiale del 1055, sono detti e qualificati cives anche gli arimanni entrati ad abitare entro le mura e sono protetti in modo speciale e differente da tutti gli altri arimanni sparsi per il territorio mantovano — predictos cives, videlicet ermannos in Mantua civitate habitantes[679].

A Bergamo nel 1081 il vescovo Arnulfo decide una grave controversia che da tempo si agitava fra i canonici di S. Vincenzo e quelli di S. Alessandro per causa di certe decime, con l'aiuto e il consiglio di «multorum clericorum, civium, extraque urbem manentium sapientum et nobilium.[680] Dei non urbani (extra urbem manentes) non partecipano che i nobili e i sapienti[681] mentre i cittadini partecipano tutti e chi fossero questi cives lo indica la contrapposizione e la preminenza su quelli che vivevano fuori delle mura: erano gli urbani.

[241]

A Pavia nel 1084[682] comparve nella corte del vescovo, alla presenza dei capitanei, dei valvassori e dei cittadini maggiori e minori della città — presentia capitaneorum, vavasorum et civium majorum seu minorum ipsius civitatis — l'abate Veridiolo per querelarsi contro l'abbadessa del Monastero di S. Maria Teodota; ed il predetto popolo dei maggiori e minori cittadini — predictus popolus tam majorum quamque minorum — stabilì di prendere il monastero sotto la propria defensio — la parola ed il significato corrispondono pienamente a quelli dei diplomi regi ed imperiali — affinchè nessuno osasse turbarlo e sempre rimanesse «in ipsorum istorum civium majorum seu minorum potestatis defensione».

Dato che il notaro Eurico dichiara di avere scritto questo decretum per invito dei capitanei dei valvassori e dei cives — per ammonitionem istorum capitaneorum et vavasorum et civium —: è chiaro che questi cives costituiscono una classe sociale distinta ed inferiore — dal momento che è ricordata per ultima — alle due prime nell'ordine politico: ma di autorità tale da aver diritto di cooperare con esse in affari di primaria importanza. Che anzi, dal documento appare in modo non dubbio che a prendere l'iniziativa furono proprio e soltanto i cives.

Nel documento — e l'osservazione vale anche per i documenti ricordati più avanti — civitas indica sempre il complesso delle abitazioni chiuse entro le mura: il monastero di S. Pietro, per es., è detto «extra murum predictae civitatis»; e un altro documento dello stesso anno e dello stesso luogo[683] specifica che un tal Uberto, ottimo milite, è civis Papiae urbis. Il significato di urbs non ha bisogno di spiegazioni; così come è sintomatico che il poeta bergamasco Mosè del Brolo, fiorito nella prima metà del secolo decimosecondo[684], chiami cives [242] solo coloro che abitano entro le mura e urbana negotia tutti gli affari d'importanza[685].

Nè si può passar sotto silenzio — pur tralasciando tutti gli altri documenti in cui si ricordano cives — l'esempio, che ha con quello pavese bei punti di contatto, fornito dalla «Relatio de innovatione ecclesie sancti Geminiani» scritta probabilmente verso la fine del 1106[686].

La vecchia chiesa di S. Geminiano di Modena minacciando rovina, l'ordo clericorum e l'universus eiusdem ecclesiae populus cominciano a discutere sui provvedimenti da prendersi.

Finalmente in tempo di sede vacante, cioè probabilmente dopo la morte del vescovo Benedetto nel 1099, per consiglio concorde così del clero, come dei cittadini e degli arcipreti di tutte le pievi rurali e dei militi della chiesa stessa — unito consilio non modo clericorum... sed et civium universarumque plebium prelatorum seu etiam eiusdem ecclesie militum — si decide la costruzione di una nuova chiesa.

Nel 1099 mutinenses cives et omnis populus danno principio alla nuova fabbrica. Nel 1106, sotto il vescovado di Dodone, la fabbrica del nuovo tempio è giunta a tal punto che vi si può trasportare il corpo di S. Geminiano.

Fissata la traslazione per il primo giorno di maggio se ne dà avviso non solo a tutta la diocesi ed alle «comprovintiales civitates» ma anche alle «adiacentes». Si raduna quindi in Modena un «maximum episcoporum concilium, clericorum, abbatum et monacorum, fitque congregatio militum, fit et conventus populorum utrisque sexus» come a memoria d'uomo non si era visto [243] mai. Vi accorre anche «cum suo exercitu» la contessa Matilde.

Avvenuta la traslazione nasce una disputa abbastanza vivace fra i vescovi ed i cives perchè i presules desiderano revelare le reliquie del santo ed i cives autem et omnis populus ci si oppongono recisamente. Si ricorre alla contessa Matilde la quale si toglie d'imbarazzo consigliando di attendere la prossima venuta di Pasquale II; e giunto il papa nell'ottobre, per suo consiglio si procede all'apertura del tumulo dopo aver deputato alla custodia del corpo di S. Geminiano sex viros de ordine militum et bis senos de civibus obbligatisi prima con giuramento a custodirlo e salvarlo da ogni pericolo di violazione.

La città, dal punto di vista ecclesiastico, resulta dell'ordo clericorum e dell'universus eiusdem ecclesiae populuis e cioè degli ecclesiastici e dei laici viventi entro i suoi confini: ma di questi ultimi alla deliberazione effettiva con cui si decide la ricostruzione della chiesa, insieme con gli arcipreti del contado ed i vassalli del vescovado partecipano solo i cives; soltanto i cives hanno diritto di opporsi al parere dei prelati riguardo alle reliquie e solo i cives hanno l'onore di vegliarle e possono pretendere ed ottenere di essere in numero doppio di quello dei militi onde pareggiare col numero lo squilibrio della diversità di armamento e esser posti in pari grado con loro.

Eppure alla ricostruzione della chiesa non sono soltanto i cives, ma anche tutto il populus che partecipa e concorre.

Populus indica tutti i parrocchiani di una pieve, urbana o rustica che sia, maschi e femmine indistintamente — populi utriusque sexus — ma fra questi — nel primo caso, che è quello ora in esame — si distingue una classe speciale, la quale ha facoltà così energicamente assodate che anche nella decisione di affari di apparenza e di veste esterna prevalentemente religiosa — di [244] sostanza non si può dire per l'intimo legame che univa la cattedrale alla città — non solo supera, ma esclude addirittura l'intervento di quegli altri che pure fanno parte integrante dell'identica ed unica istituzione, che li accomuna egualmente alla stessa chiesa, allo stesso fonte battesimale, allo stesso culto.

Cives sono i soli urbani: i suburbani costituiscono il rimanente del populus.

E della distinzione, della separazione anzi, fra gli uni e gli altri si ha anche la riprova.

I consoli di Bergamo, avendo deciso nel 1171[687] di erigere in borgo franco il castello di Romano nuovo, stabilirono che i burgensi dovessero fare «ostem, vardam, et laborem et tractum» secondo i loro precetti, pagare i dazî e le imposte solo quando li avrebbe pagati la città e godere di una libertà pari a quella di uno dei borghi di Bergamo: «ad modum burgi debent stare et esse et ita debent esse liberi ut unus ex burgis civitatis Bergomi».

Questi borghi sono quelli attaccati alle mura cittadine — i consoli, dice il documento, devono comandare a quelli di Romano nuovo sicuti hominibus suburbiorum suorum —; e il documento, accennando esplicitamente alla libertà dei borghi sorti presso le porte della città, fa risaltare in modo evidente che la città doveva godere una libertà diversa e, per conseguenza, maggiore: il limite fra i due regimi giuridici non poteva esser segnato che dalle mura.

Non si avverte, se non m'inganno, soluzione di continuità fra il più antico materiale epigrafico e quest'ultimo documento.

La conversione dei Langobardi al cattolicismo, favorita dalla condiscendente negligenza dei sacerdoti ariani, riconosciuta perfino da papa Gregorio I, fu rapida e [245] grande: Autari — tanta era già la frequenza dei battesimi — proibì che i neonati fossero battezzati e a pochi decenni dall'invasione il cattolicismo penetra anche nella corte regia, con effetti deleterî per la costituzione langobarda. Il culto, come abbiamo veduto, legava con vincoli fortissimi gli adepti e li strappava allo Stato: chi, convertito, entrava nella comunità cristiana, entrava a viver la vita non soltanto religiosa, ma la vita civile, che si assommava in gran parte in quella religiosa, del popolo vinto e con l'entrarci dell'elemento germanico vincitore ne alzava il livello sociale; e con moto irresistibile spianava la via all'equiparazione nel campo del diritto pubblico. La decima che il nuovo convertito si obbligava con giuramento a pagare per sè e per i suoi successori, era per lui un obbligo volontario liberamente contratto: ma per quelli che venivano dopo di lui e che si trovavano obbligati per virtù del patto da lui giurato e da essi inconsapevolmente accettato con l'involontario ricevimento del battesimo nei primi anni della loro puerizia, assumeva l'aspetto di una vera e propria imposta facilitata nel pagamento, piuttosto che confermata nel diritto e apriva pian piano l'adito alla partecipazione di tutti i cittadini, di qualunque origine e di ogni nazionalità, agli oneri che gravavano sulla città: oneri, che avevano al momento della conquista un carattere in completa opposizione con la natura dei Langobardi e che dai Langobardi, nei primi tempi, certamente non furono sopportati, mentre poco tempo dopo si vedono gli habitatores tutti di varie città obbligati indistintamente a tali prestazioni ed oneri: difesa, costruzione e riparazione delle mura etc. etc. ripartite secondo il vecchio sistema romano e con una cooperazione dello Stato inconcepibile nella organizzazione germanica: segno innegabile di un predominio di concetti e sistemi proprî dei vinti e dai vincitori accolti e condivisi. Ed in tutti i rami della vita civile l'elemento romano assorbiva dentro di sè, trasformandolo ed infondendogli la propria civiltà e le proprie consuetudini, l'elemento germanico.

[246]

Artefice e fucina di questa trasformazione fu la città.

La città non perdette mai la sua preminenza sul territorio rurale. La sua importanza economica attraeva irresistibilmente i Langobardi sia che ancora conservassero la sors guadagnata con la vittoria, sia, ed ancor più, se l'avevano perduta e la sua importanza strategica aumentava rapidamente il livello sociale dei suoi abitanti, richiedendone la cooperazione nella difesa e nella guardia delle mura a cui l'esercito vero e proprio, mai molto numeroso ed in progressiva diminuzione per l'uso di combattere a cavallo, era del tutto insufficiente.

Rotari stesso parla della sculca come di un servizio che di poco differisce dal servizio militare vero e proprio[688]. E questa sculca, che i documenti chiamano, e giustamente, col suo bel nome romano di excubiae[689]; comprende ed indica quei varî servizi di riparazione e di guardia e di difesa delle mura che gli urbani continuavano a sostenere dal tempo romano e che ora, condivisi anche dai vincitori, vanno perdendo il carattere umiliante che loro era stato inflitto dai Goti. E così gli urbani, riacquistato il diritto alle armi, assurgono ad un grado elevato nella considerazione sociale e politica e formano anch'essi un esercito: l'esercito degli abitanti della città, dei cittadini — exercitum senensium civitatis, dice un documento del 730[690] — distinto dall'esercito formato da quegli altri che abitano nel territorio giurisdizionalmente soggetto alla città.

Ma non manca, però, una vigorosa azione germanica la quale con forza ed indirizzo prevalentemente negativo in parte non piccola distrusse, in parte erose ed in parte trasformò la costituzione della città, per modo che quella che ne resultò se fu meno lontana dall'antico [247] municipio romano che dal rude gau barbarico, ebbe natura, funzioni, caratteri ed elementi tutti suoi proprî.

Nella costituzione langobarda anche quando, conquistata l'Italia, il potere regio, sotto l'esempio e l'azione del diritto romano e della Chiesa, si fu affermato vigorosamente sui gruppi famigliari e gentilizi ed ebbe sostituito pene pubbliche ed irrogate d'autorità pubblica alle vetuste pene private, permane e si conserva il criterio barbarico per il quale la convivenza sociale piuttosto che dall'azione regolatrice di un potere centrale, è assicurata dalla pace intervenuta fra i gruppi parentali, in seguito alla coesione spontanea a scopo di difesa e di conquista da cui ebbe origine lo Stato; e per il quale la violazione del diritto è considerata reato nei rispetti della collettività in quanto, riaccendendo uno stato di guerra e di inimicizia fra i nuclei che la compongono, perturba questa pace.

Sulla considerazione degli elementi intrinseci del reato (che si fa strada a stento e scarsamente, appena per qualcuno dei più generali, quale l'elemento subiettivo ed individuale) continua a prevalere la considerazione degli elementi oggettivi ed esterni: il danno alla pace pubblica ed il danno alla parte lesa. E così, mentre dalle composizioni private stabilite per convenzione volontaria delle parti nasce il guidrigildo, commisurato sullo stato e la qualità della persona e completato dal minuto formalismo delle disposizioni penali; così entro la protezione generale che si stende su tutto e su tutti si disegna un'altra protezione particolare che il re, per mezzo del suo banno, concede in modo e misura variabili a persone ed a luoghi, proporzionandola, nel primo caso, alla loro condizione, nel secondo alla loro importanza. La prima è il mundio; la seconda è la pace.

Questa pace è tutta germanica.

Quando l'Impero romano raggiunse il massimo splendore, una pace immensa e maestosa ne illuminava l'estesissimo territorio dove il diritto e la giustizia dominavano sovrani, di contro alle tenebrose regioni barbariche, [248] turbate di discordie e di stragi nelle perenni guerre interne. E sorse un vero e proprio culto per questa immensa romanae pacis majestas[691] che formò dal secondo secolo dopo Cristo in poi, il substrato di tutti i pensieri politici nell'orbe romano[692] e che culminava nel concetto di cittadinanza, per la quale il civis romanus, soggetto delle più ampie ed elevate facoltà giuridiche, emergeva su tutto e su tutti nel vasto dominio soggetto a Roma e retto dal suo diritto.

Invece la pace di cui il re langobardo protegge la città è l'esponente della mancanza di unità di criterî giuridici e di impotenza di applicazione dei medesimi, per la quale il diritto, non applicato ovunque con gli stessi criterî e con lo stesso vigore, forma quà e là entro i confini dello Stato delle oasi privilegiate. Fra queste tiene il primo posto la città. La città, che era stata anche al tempo romano l'unica circoscrizione conosciuta, apparve sino dai primordi della conquista come l'unica base del governo locale. E poichè così per le contingenze della difesa presente come per le tradizioni e le consuetudini dell'antico tempo[693], si chiudeva nelle mura, si sviluppò un diritto di cittadinanza ristretto al solo centro murato e le cui facoltà, riservate esclusivamente a coloro che vivevano entro le mura, non si irradiarono al di là del suburbio ed ogni città fu centro e termine di una cittadinanza ed in ognuna civis fu solo l'urbanus.

E siccome lo Stato barbarico era incapace di coordinare le varie energie locali in modo da fonderle in un unico e saldo organismo, come aveva fatto lo Stato romano; questo ristretto sistema di cittadinanza si affermò con continuo e crescente vigore nella costituzione politica e vi rappresentò e costituì una vera e propria classe sociale suscettibile anche di gradazioni interne, distinta [249] da tutte le altre, di fronte alle quali, anzi, conquistò una posizione di indiscussa egemonia.

A Bergamo i cives, l'abbiamo veduto or ora, son chiamati a decidere delle questioni più gravi insieme con i nobiles ed i sapientes; a Modena, a Milano, a Pavia nel secolo decimoprimo, distinti in majores e minores, contemperano l'azione dei capitanei e dei valvassori e il movimento toccò in breve il suo culmine, chè con i Comuni il diritto, che si può chiamare urbano, e che anticamente era stato il primo e meno elevato gradino del diritto di cittadinanza, fu fine e termine a sè stesso e il paese resultò formato di tante ed autonome città senz'altro vincolo comune e reciproco che le ideologiche costruzioni della monarchia e dell'Impero.

§ 10.

— L'organizzazione degli antichi municipî riposava sulle curie e sui magistrati e queste e quelli, insieme con le corporazioni che costituivano come le membra della città, pensavano al disbrigo degli affari. Ma dai primi del secolo quinto, sotto la pressione irresistibile delle necessità di difendersi contro le invasioni da ogni parte irruenti, fu chiamata a vigilare e a combattere anche la plebe urbana ed in correspettivo, le furon riconosciute delle speciali facoltà nei rispetti della cosa pubblica le quali si aggiunsero, integrandole, a quelle degli organi già esistenti, in proporzione del contributo portato dai nuovi venuti; e fecero sì che per i provvedimenti di maggiore importanza fu necessario il communi consensu di tutti i cittadini[694].

Per manifestare questo comune consenso che richiedeva una generale riunione, fu scelto il luogo nel quale era già antica consuetudine che tutti indistintamente si riunissero accomunati dalla fede e cioè sul sagrato della Chiesa, alla quale lo Stato affidava, per non [250] dire addirittura abbandonava, una parte sempre più ampia dei suoi impegni e dei suoi doveri.

E così la Chiesa, oltre ai veri e proprî compiti che disimpegnava già prima come religione ufficiale dello Stato, coprì con la sua protezione questa nuova e speciale assemblea che aveva per carattere distintivo una funzione suppletiva ed integratrice dell'amministrazione normale della città.

Con i Goti questa funzione suppletiva si accentuò in proporzione della decadenza sempre maggiore delle curie e delle corporazioni ed in correlazione del formarsi di un unico e forzato collegium che comprendeva tutta la città. E di più avendo essi riserbato soltanto a sè stessi l'uso delle armi e l'esenzione dalle imposte ed avendo incamerati nel Fisco regio i beni pubblici delle città, sanzionarono di diritto e di fatto agli italiani una condizione di inferiorità civile e ridussero le loro facoltà su tali beni a semplici diritti di uso.

I Langobardi spazzaron via con gli ultimi avanzi delle curie e delle corporazioni quanto ancora rimaneva dell'antico organismo burocratico romano-bizantino; ma non ebbero ragione di impedire la riunione degli indigeni dinanzi alla Chiesa, sia perchè esternamente e superficialmente si presentava di natura religiosa, sia perchè funzionava molto bene come mezzo di pubblicità e di estorsione di imposte; ed in nessun modo poi, allo stato in cui l'avevano ridotta i Goti, dava ombra od ostacolava la dispotica volontà dell'ufficiale pubblico preposto alla città.

Rotari, inspirandosi al cap. 58 dell'Editto di Teodorico, accenna al conventus ante ecclesiam come al luogo dove si poteva far bandire dal precone il rinvenimento di un animale smarrito e di cui si fosse ignorato il proprietario[695]; quasi come un semplice mezzo di pubblicità, così come al tempo goto, durante il quale non fu [251] infrequente il caso che anche le leggi, incise in tavole di marmo, fossero murate negli atrî delle chiese. Ma, quantunque Rotari, sia stato ariano intransigente, nazionalista convinto e per conseguenza ostile all'elemento indigeno ed alla parte romanizzante del suo popolo e abbia inteso a raccogliere in iscritto le antiche consuetudini e le vecchie leggi dei suoi per conservar loro quel predominio assoluto, che era andato rapidamente diminuendo; pur dalla stessa sua legge appaiono dei sintomi che accennano ad un notevole aumento di importanza del convegno che ogni giorno festivo si raccoglieva sul sagrato della pieve.

Egli distingue nettamente le riunioni illecite sia dei rustici — rusticanorum seditiones, concilios[696] — che dei cittadini — zavas et adunaciones... per singulas civitates[697] — dalle altre; e queste, in conseguenza e conformità dell'antico sistema germanico per il quale non si concepisce un'assemblea senza carattere politico giudiziario, appaiono investite di uno spiccato carattere legale. Tutte le riunioni e le adunanze contemplate e consentite dall'Editto, invero, sono protette con la pena gravissima di 900 solidi — «si quis (stabilisce infatti il cap. 8) in consilio vel quodlibet conventu scandalum commiserit noningentos solidos sit culpabiles regi» —. Ora dal momento che il cap. 343 parla di un conventus ed il cap. 8 protegge con tale pena tutti i conventus indistintamente — quodlibet conventu — e dall'Editto non è sanzionata alcuna eccezione a tale proposito, si deve ammettere che anche il conventus ante ecclesiam sia stato protetto dalla stessa pena. Ed allora, essendo certo che la gravità della pena non può essere stata causata dalla vicinanza del conventus ad un luogo sacro, perchè lo stesso Rotari limita a 40 solidi la pena di chi commette uno scandalo in chiesa[698]; il fatto che Rotari abbia [252] tutelato il conventus ante ecclesiam con la pena di 900 solidi, che è la pena massima che protegge la funzione politico-giudiziaria, anche se non si vuol giungere alla conseguenza che egli l'abbia considerato come un vero e proprio organo di essa, è, però, un indizio sicuro che al suo tempo l'assemblea davanti alla chiesa, nella quale il precone esercitava normalmente e giuridicamente le sue abituali funzioni, e che, per certi riguardi, era equiparata all'azione dello stesso giudice, era qualche cosa di diverso dalle umili e mal sopportate riunioni dei fedeli in cui — nei primi anni dell'invasione — si trattavano affari e cose esclusivamente religiose.

Venuti come nemici e stabilitisi come conquistatori, i Langobardi continuarono a reggersi con i sistemi originarî escludendone completamente i vinti e intesero di conservarsi un assoluto e completo predominio. Gli effetti furono precisamente opposti. Ciò fece sì che quando gli Italiani, riavutisi un po', cominciarono a rialzarsi, ogni loro spinta verso l'alto fu un colpo di piccone alla costituzione di quelli.

E il fulcro e l'organo primo di questo movimento fu appunto l'assemblea cittadina la quale era una forma semplice quant'altra mai di amministrazione e si attagliava perfettamente alle consuetudini germaniche alle quali si avvicinava in modo singolare per quanto concerneva i beni pubblici comuni, rispetto ai quali gli urbani avevano un diritto paragonabile, almeno nella manifestazione esterna, a quello di cui nell'organizzazione germanica godono i commarcani sui beni comuni della marca. Ed offriva un ottimo punto di riunione agli elementi germanici che la religione cattolica, la civiltà romana, la costituzione cittadina ed il variare delle condizioni economiche e speciali strappavano alle schiere dei Langobardi.

Dalla venuta dei Langobardi quest'assemblea perde il carattere di organo suppletivo e diviene l'organo esclusivo dell'amministrazione interna degli urbani e inizia un'evoluzione per la quale dal momento in cui, [253] sotto il duca o il gastaldo, le sono permesse solo ristrettissime facoltà, attraverso ad un progressivo incremento, sboccia nell'assemblea generale che elegge i consoli e origina e forma il Comune.

Rotari, sia pure involontariamente, riconosce alla riunione dinanzi alla chiesa un certo valore anche perchè equipara il bando fatto in essa dal precone alla denunzia fatta al giudice ed ancor più fortemente accentua la consistenza del gruppo vicinale — dal quale non eran certo esclusi gli indigeni — nel cap. 176 dove dichiara che per l'espulsione del lebbroso è indifferente che la constatazione della malattia sia fatta dal giudice o dal popolo — judici vel populo certa rei veritas —[699].

Lotario dopo aver stabilito che i documenti dovessero essere redatti da veridici ed onesti notai alla presenza del conte, dei vicarî o degli scabini, volle che quando questo non era possibile, come, per esempio, per i testamenti, la carta fosse mostrata o agli ufficiali pubblici o nel convegno davanti alla chiesa — statim charta ostendatur vel ante comitem judices vel vicarios, aut in plebe, ut verax agnoscatur esse[700].

Nei capitolari langobardici dell'803[701], prendendo alla lettera un antico concetto della romanità decadente, è detto che certi soprusi «ipsa plebs non patiatur» e fu consuetudine che le ordinanze che imponevano l'eribanno dovessero esser lette coram populo.

E la riunione consueta del popolo era davanti alla pieve.

Più importante di tutti, poi, a lumeggiare l'entità e la consistenza di questa riunione è ciò che si sa di Piacenza.

Pipino nel suo Capitolare del 790 circa si esprime testualmente così: «Non est nostra voluntas ut homines [254] Placentini per eorum praeceptum de curte palatii illos aldiones recipiant[702].

Il diploma parla in modo non dubbio di un praeceptum fatto dai Piacentini. Quest'atto, dunque, non era dovuto nè al rappresentante dell'autorità pubblica nella città, nè al vescovo; tanto nell'uno che nell'altro caso si sarebbe usata una formula diversa. Si sa quanto scrupolosa esattezza sia stata usata dai notai e non è credibile che mentre si hanno tante disposizioni che concernono i conti e gli altri ufficiali pubblici ed i vescovi e gli altri ecclesiastici, proprio in questo documento che ha tutto il carattere di una legge, si fosse arrivati ad un'aberrazione simile.

Non era il conte, non era il vescovo che aveva formato il praeceptum: era la civitas placentina: quella civitas che si distingueva egualmente dallo Stato e dalla Chiesa e che aveva anche il suo notaro — exceptor civitatis placentinae — distinto dal notaro del re e dal notaro della Chiesa; e che si radunava a discutere e a risolvere, con un'energia giuridica che in qualche caso giungeva fino a tentare di sovrapporsi a quella regia, le questioni che più la interessavano. Infatti essi in questo caso non trattano dei beni comuni, ma esercitano la loro azione anche in altri campi e di grande rilievo. E da troppo poco tempo era cessata la dominazione langobarda perchè si possa pensare che tale sviluppo si sia avuto solo nei pochi anni del regno franco, il quale, è noto ma è bene ricordarlo, non ha portato troppe innovazioni in Italia, nè — mai — senza il consenso dei Langobardi.

E ben a ragione Pipino parla di praeceptum, adoperando il termine che è usato per indicare l'espressione giuridica della volontà delle persone pubbliche in atti di grande importanza.

Questo praeceptum in sostanza è una vera e propria [255] concessione di cittadinanza con la quale i piacentini accolgono fra loro — recipiunt — gli aldî regi e illumina internamente quella consistenza del gruppo dei cives, che i documenti fin qui riportati lumeggiano esclusivamente nei rapporti con l'esterno.

Esso dimostra, infatti, che per essere ammessi a farne parte non bastava un'accettazione tacita, ma occorreva una dichiarazione solenne la quale era fatta da tutti i cives e soltanto da loro e solennemente era consacrata in scritto e comprova così l'importanza del gruppo stesso.

E quel che avveniva a Piacenza si può con grande verosimiglianza ritenere che sia avvenuto da per tutto. A Rieti, a Verona, a Cremona ed in altre città i documenti esaminati nelle pagine precedenti provano tutti concordi e sicuri l'esistenza del gruppo ben determinato dei cives, degli urbani, i quali costituiscono una vera e propria universitas giuridicamente riconosciuta, così nei rispetti delle persone come del territorio ed alla quale inoltre sono perfino riconosciute in modo preciso delle terre e dei beni pertinenti con rapporti varî di diritto: una universitas che può stare legalmente in giudizio presentandosi collettivamente o facendosi rappresentare, in quel modo che consentiva la rudimentale procedura dei giudizî del tempo, da proprî e speciali delegati, i quali erano riconosciuti come tali anche in controversie nelle quali gli urbani stavano contro l'autorità pubblica dello Stato e dei suoi rappresentanti e contro la Chiesa; un'universitas, infine, che ha anche un proprio e speciale e caratteristico notaio — l'exceptor civitatis.

È all'universitas degli urbani che è dovuto il praeceptum piacentino.

E gli urbani si raccoglievano per discutere e per decidere nella piazza davanti alla Chiesa.

L'uso era così generale che qualche volta dava anche il nome alla piazza stessa: a Milano il Foro pubblico (che si trovava dinanzi alla Cattedrale) ne fu detto asamblatorium. Ce lo fa sapere un bel documento del [256] 789[703] e di certo non è a credere che si cominciasse proprio da quell'anno.

Nè l'assemblee che in esso si raccoglievano avevano soltanto o prevalentemente carattere religioso: la prova offerta da quanto si è detto fin qui, è tale da render superfluo la menzione della riunione nella quale, verso la fine del secolo nono[704], l'abbate Pietro del monastero di Sant'Ambrogio, chiese ed ottenne dall'arcivescovo, dal conte, dal clero e dal popolo, la concessione di una strada — pro qua Petrus abbas a venerabile antistite Anspertum seu comite Alberico seu cuncto clero et populo devotissime petiit —.

E l'ascensione degli urbani e della loro assemblea, una volta sbocciata in pieno sole al tempo dei Franchi così favorevoli alla Chiesa, progredisce sempre più rapida con i re d'Italia e con gli Ottoni che dei vescovi fanno il pernio principale del governo dello Stato e quello esclusivo del governo della città. E l'assemblatorium cambia ancora il suo nome per denotare il nuovo e più ampio complesso di funzioni: diviene il consulatus civium. «Actum in civitate Mediolani in consulatu civium prope ecclesiam sancte Marie» dice un documento del secolo decimoprimo[705].

[257]

E questi cives sono proprio e soltanto gli urbani, i quali si raccolgono nella gran piazza per discutere e provvedere ai loro particolari bisogni — consulere — separatamente dalle classi feudali dei capitanei e dei valvassori e che si uniscono a questi solo per gli affari di comune e principalissima importanza quale ad esempio l'esenzione per sei giorni della curtadia, una speciale tassa di mercato durante le feste dei SS. Gervasio e Protasio e la tregua di sedici giorni per tutti coloro che vi fossero accorsi, stabilite nel 1098 ed allora, tutti insieme, formano il communi consilio totius civitatis presieduto dall'arcivescovo[706].

Due anni dopo questa generale assemblea si trova qualificata come magistratum: — Tunc ante Magistratum praeterea sancimus ut etc.[707].

E l'uso ed il senso di tale parola non è nè eccezionale nè isolato. Ecco la formula di un documento del 1056 rogato a Bologna con cui la contessa Willa vedova del Duca e marchese Ugo di Toscana dona la libertà alla sua serva Cleriza. «Abeatis vias apertas, dice ad un certo punto l'atto, portas Paradisi, portas Civitatis, portas Castellis, in placitis et in conventis locis ambulare [258] et stare et Wadia pro te dare et omnes fines facere comodo melius potueritis vel volueritis»[708].

L'espressione «ambulare et stare» messa fra la menzione del placito e quella della wadia, ha un senso tecnico giuridico corrispondente alla lettera al nostro «andare e stare in giudizio»; e fra quei «conventis locis», che non sono delle riunioni qualsiasi dal momento che la formula li ricorda così esplicitamente, tiene di certo il primo posto il conventus ante ecclesiam.

Ancora un passo e la città incapace di consulere direttamente da sè stessa in tutti i numerosi bisogni e nell'impossibilità di assistere volta per volta i suoi delegati e bisognosa di un organismo più consono al suo progredito sviluppo ed ai suoi maggiori bisogni e all'aumento della sua popolazione nominerà in colloquio facto sonantibus campanis[709] con mandato generico, in maniera stabile e a tempo determinato, varie persone, incaricate di consulere abitualmente al disbrigo normale delle evenienze le quali verranno così ad averne l'antico e fatidico nome di consules richiamantesi alla più pura romanità: e sarà sorto il Comune.

Così, spinti dalla necessità di seguire la corrente dalle origini fino al momento in cui fluisce luminosa in ampia e meno sconosciuta pianura, siamo giunti fino al termine dell'epoca storica di cui in questo volume si intende solo studiare gli inizi.

Rifacciamoci dunque indietro.

§ 11.

— Il consilium civitatis è un vero e proprio elemento dinamico di primissimo ordine nella costituzione della città. Ma non è il solo.

C'è un altro e non meno importante fattore di norme [259] giuridiche, il quale fu importato dai Langobardi e che richiede ora la nostra attenzione.

L'assemblatorium milanese non ebbe di certo nulla a che fare con la maggiore assemblea del regno langobardo. Questa era composta dei primati o ottimati e di tutto il felicissimo esercito e si radunava non già sulla piazza della cattedrale; ma nell'antico anfiteatro romano che si trovava presso, ma al di fuori delle mura di Milano — in circo apud Mediolanum, — dice Paolo Diacono narrando l'incoronazione di Adaloaldo, e queste parole ci lasciano supporre che con ciò si seguisse una consuetudine da gran tempo invalsa, quando speciali esigenze specialmente militari, non la chiamavano altrove[710].

E fin qui nulla di strano: l'assemblea generale aveva carattere straordinario, eleggeva il re, trattava gli affari di generale importanza per tutto il regno, come la formazione e la pubblicazione delle leggi, la dichiarazione di guerra o la stipulazione di trattati etc. Dovunque si fosse raccolta, si distingueva facilmente, per la costituzione e per le funzioni d'indole generale, dalla ristretta riunione dei componenti di un'unica pieve.

Ma i Langobardi non si sono assisi soltanto a Milano sulle ampie gradinate degli anfiteatri romani.

A Lucca in un atto dell'808 l'antico anfiteatro è detto parlascium[711] ed il termine non è romano perchè le fonti romane non lo hanno, ch'io sappia, mai usato in questo senso e non è d'origine germanica[712] perchè, anche senza contare che i documenti lucchesi medioevali hanno un sapore di romanità piuttosto classica che decadente[713], a poca distanza da Lucca lo stesso termine è stato dato ad un luogo dove non è mai esistito [260] alcun anfiteatro[714], ciò che prova che il vocabolo non è usato ad indicare i soli anfiteatri, ma anche altri luoghi, i quali servissero a simile uso. L'ipotesi più plausibile è che il nome sia derivato dalla funzione a cui il luogo era adibito; e quale fosse questa funzione è facile congetturare dalla relazione intima ed appariscente ed in perfetta armonia con la condizione del linguaggio di quel tempo a Lucca (dove appaiono prestissimo notevoli e numerosi segni del nuovo volgare italico) della parola parlascium col verbo parlare, di cui è evidente filiazione: era il luogo dove si parlava, dove si discuteva per eccellenza. E queste discussioni, se dettero all'edificio un nuovo nome, dovettero essere frequenti, numerose ed importanti.

Non è soltanto a Lucca che questo avviene: ad Arezzo[715], a Pisa[716], a Firenze[717], in Toscana; a Cremona[718], a Bergamo[719]; in tutta Italia, insomma, gli [261] antichi anfiteatri sono chiamati con voci che ripetono l'origine dal verbo parlare, più o meno trasformati dal vernacolo dei vari luoghi e dal trascorso dei secoli: parlascium, parlasium, perlasium, perilasium, perlassi, etc.

A Firenze, anzi, c'eran due parlasci: il parlascium majus ed il perilasio picculo, del quale a noi oggi conservano notizia solo documenti non anteriori al secolo decimoprimo; ma la cui remota esistenza è ben provata dalla qualifica di maggiore data al primo, offerta da documenti molto più antichi e che non può esser nata che dal bisogno di distinguerlo da un altro più piccolo e più antico.

Di anfiteatri romani a Firenze, come in ogni altro luogo, ce n'era uno solo; ed ambedue i parlasci eran fuori delle mura. Resta a vedere quale altro luogo ebbe questo nome. Fuori delle mura, oltre l'anfiteatro, ci fu fino alla metà del secolo decimo anche la cattedrale, allora dedicata ad una santa siriaca ora quasi sconosciuta[720]. Ed a chiunque sappia per quanti secoli si sono conservati e qualche volta si conservano tutt'oggi, più o meno deformati, antichi nomi germanici e perfino romani, non parrà troppo strana l'ipotesi che questi documenti conservino il ricordo di due antichissime riunioni e ne mostrino anche la diversa considerazione in cui erano tenute.

La riunione davanti alla chiesa risale ai primi tempi del cristianesimo e fu formata, com'è naturale, dai soli fedeli. I Langobardi venuti in Italia cinque secoli e mezzo dopo, ariani, nemici e vincitori, non si accostarono a quest'umile assemblea dei vinti, da cui anche i Goti, che pur ripetevano dall'Impero romano il titolo giuridico della loro signoria, si erano tenuti lontani.

Se si trova traccia di un'altra riunione — chè del conventus ante ecclesiam parla l'Editto stesso — questa non può essere stata composta che dei Langobardi, e [262] poichè dell'esistenza di quest'ultima offrono indizi documenti di regioni diverse, si ha ragione di ritenere che sia la loro originaria assemblea regionale.

Anche dopo venuti in Italia, i Langobardi continuarono a reggersi secondo l'avita costituzione e tutti gli ufficiali pubblici, a cominciare dal re, furono coadiuvati dall'assemblea dei liberi atti alle armi che, a maggioranza di consensi, deliberavano intorno a tutto ciò che interessava la vita politica comune dello Stato e delle varie regioni.

Ma il rapido consolidamento dell'autorità regia, dopo l'interregno, e l'aumento del suo potere, reso indispensabile dalla necessità di dar compattezza ed unità allo Stato, onde potesse resistere alle pericolose pressioni che lo minacciavano ai confini e allo sgretolamento interno in cui si sarebbero risoluti i ribelli antagonismi dei duchi, affievolì l'originaria cooperazione dell'assemblea nazionale fino a ridurla ad una forma di partecipazione, non di rado quasi del tutto passiva, che serviva come mezzo di pubblicazione a ciò che la clementia sovrana aveva già decretato — decrevit — come dice Liutprando[721] o che, come ancor più romanamente si esprime Astolfo[722], principi placuit.

E con lo scadere della maggiore, furono sminuite anche di più le minori assemblee regionali, alle quali, oltre la trattazione degli affari regionali dello Stato, fu sottratta anche la nomina dei gastaldi e dei duchi, la prima riservata totalmente, l'altra in gran parte, al re.

Così che la parte di gran lunga maggiore delle loro attribuzioni si ridusse all'esercizio della funzione giudiziaria che in tutti i regimi barbarici è un complemento ed una prerogativa del potere militare.

Il thinx ed il gairethinx, se pure originariamente ebbero significazione diversa[723], già al tempo dell'Editto indicano [263] egualmente l'adunanza popolare e la ricordano a proposito della conferma delle leggi, della donazione e della manomissione. Ma ormai non si trattava più che di un ricordo e di una tradizione, mantenuti quasi esclusivamente in vita dal nome, perchè si giunge fino alla frase thingare absconse, che è proprio antinomica col concetto primitivo di thinx.

Ciò era in diretta relazione ed in parte anche in conseguenza del mutamento avvenuto nel sistema militare. In esso il primo posto, che in origine era riservato alla fanteria, fu preso ben presto dalla cavalleria mentre rimaneva inalterato l'originario sistema per il quale milizia e cittadinanza formavano un indissolubile binomio che si assommava nell'exercitalis al quale soltanto spettavano i pieni diritti civili e politici. E ciò accentuò maggiormente, a beneficio di coloro che erano provvisti del possesso fondiario (indispensabile al mantenimento dei cavalli), le disuguaglianze fra i liberi che le nuove condizioni economiche create dalla conquista avevan prodotto in pochissimi anni.

Già molto tempo prima di Liutprando, che ne parla come di consuetudine generale e diffusa «consuitudo enim est», con la parola exercitalis si designava una classe composta di persone della più varia condizione economica e giuridica, di cui alcune godevano di un guidrigildo doppio di quello assegnato a coloro che stavano all'ultimo gradino ed avevano a pena i titoli necessari e sufficienti per meritare la qualifica di esercitale — minima persona, qui exercitalis homo esse invenitur centum quinquaginta solidos componatur et qui primus est, trecentos solidos[724].

E questi ultimi, privi di case e di terre, — minimi homines qui nec casas nec terras suas habent, — quando, nei casi e nei limiti stabiliti dalla legge, erano dispensati [264] dal servizio militare attivo, potevano essere obbligati ad un determinato numero di opere per settimana a vantaggio del giudice, dello sculdascio e, perfino, del saltario.

La trasformazione diviene ancor più grave, come è noto, ai tempi di Astolfo.

Si era ben lontani dalla primitiva ed indomita fierezza germanica per la quale l'intonsa capellatura, la lancia e le armi erano ambite prerogative del libero, che riconosceva piena autorità ai capi e si piegava ai loro comandi solo in tempo di guerra.

La trasformazione si ripercosse fortemente nell'ordinamento politico. In questo, mentre le maggiori facoltà erano ormai riservate al re con detrimento dell'assemblea dei liberi, non più chiamati a dividere il potere con i capi, si vennero formando nuove e differenti condizioni di idoneità a base delle quali stava, oltre la libertà, che prima era l'unico requisito, anche il possesso fondiario, divenuto ora elemento indispensabile per l'esercizio completo delle armi.

Con questo mutamento, non mancando il popolo vinto di terre, nè essendo stato ridotto in servitù, fu aperto l'accesso all'esercito e all'assemblea anche agli indigeni, ai quali non mancava neppure un certo titolo di carattere militare, per il servizio di guardia, di restaurazione e di difesa delle mura, che si assommava nella sculca, e di cui già si è accennato.

E tanto più facilmente avvenne l'accettazione dei vinti in questa assemblea in quanto che col progredire del movimento discendente spariva sempre più il lato onorifico di tale facoltà, lasciando e facendo sentire le conseguenze gravose dell'obbligo che esso imponeva.

Non era soltanto un onore il rendere giustizia; era anche un dovere e questo dovere già grave in sè stesso era reso ancor più molesto dall'ingorda speculazione degli ufficiali pubblici, i quali, con il pretesto di render giustizia, convocavano con ininterrotta frequenza tali assemblee onde ottenere i donativi che era antica consuetudine [265] offrire a chi presiedeva il tribunale, o, più spesso, per estorcere arbitrarie contribuzioni in cambio dell'esonero dal presentarsi volta volta concesso.

Le cose erano giunte a tal punto che una riforma s'imponeva; ma essa non fu dovuta ai Langobardi; nessuno dei loro re osò porre le mani sull'antichissima istituzione quantunque ormai degenerata. Fu Carlo Magno che introdusse una modificazione sostanziale, stabilendo che non si potesse convocare tutti i liberi in assemblea generale più di tre volte all'anno e che per il soddisfacimento dei bisogni della giustizia quotidiana volle istituito un corpo stabile e fisso di persone elette in numero di sette per ogni pieve e chiamate scabini[725].

A questo punto termina il primo periodo dell'antica organizzazione germanica. Già mutata profondamente nella costituzione interna; con i Franchi la vecchia assemblea si scinde in due ed acquista funzioni determinate. Così nasce, sorge il placito: placito annuale, generale, l'uno, composto di tutti i liberi forniti di possesso fondiario e con funzioni in prevalenza giudiziarie, ma di grado più elevato ed alle quali ne vanno congiunte anche altre, sebben limitate, politiche e sociali; placito quotidiano l'altro, e ristretto al solo esercizio della giustizia e composto di un numero preciso di individui, i quali finiscono col formare una vera e propria classe distinta nell'assetto sociale.

Ambedue hanno un'unica origine nell'assemblea regionale germanica, la quale già prima della trasformazione di Carlo Magno senza perdere la sua intima natura, subì modificazioni più o meno gravi a seconda dell'azione più o meno energica, secondo i tempi ed i luoghi, su di essa esercitata dall'elemento indigeno delle varie regioni e dal suo diritto, cioè dal diritto italiano; ma in ogni modo e sempre queste variazioni devono essere considerate come contingenti, non mai come sostanziali. [266] In alcune regioni si conserva inalterato il sistema della partecipazione attiva di tutti i liberi al giudizio; in altre tale facoltà è ristretta a quelli degli astantes e dei circumanentes che sono giudici ed assessori; ed in altre infine, romanamente, la sentenza è demandata al solo giudice[726].

Ed anche alla riforma carolingia l'organizzazione sociale e giudiziaria che si era venuta formando in Italia oppose una resistenza che non deve esser passata sotto silenzio, perchè prova l'intensità delle varie energie locali e degli elementi indigeni italiani che le animavano.

Non di rado nel giudizio presieduto dal conte, insieme con gli scabini, si trovano e presenziano anche altri ufficiali pubblici e qualche volta partecipa, e con facoltà attive, anche un numeroso concorso pubblico; presenza e partecipazione piuttosto in contrasto con le disposizioni della legge, la quale non sempre viene applicata anche riguardo al numero degli scabini che, almeno nei documenti fin qui conosciuti, non si vedono mai comparire in sette come essa dispone[727]. E pure nella determinazione della competenza — specialmente nei riguardi del placito inferiore del centenario — la legge trova forti ostacoli: lo stesso capitolare italico di Carlo Magno ha due disposizioni, il cap. 35 ed il cap. 93, in aperto contrasto l'una con l'altra.

§ 12.

— Ad ogni modo però, ed è ciò che a noi preme ora accertare, nelle linee generali, la riforma fu attuata; e da allora si delineano netti due sistemi di placiti: uno generale in cui alle facoltà giudiziarie ne vanno congiunte altre di natura più propriamente politica e di alta amministrazione, ed uno quotidiano di competenza esclusivamente giudiziaria.

[267]

E quest'ultimo, che a noi soltanto interessa, ebbe nei riguardi della città un'azione di primaria importanza.

Gli scabini erano eletti a consenso di popolo — totius populi consensu — e la città col suo suburbio costituiva un populus: il primo dei populi.

Con la riforma di Carlo Magno essa ottenne che l'amministrazione della giustizia fosse affidata a persone di sua scelta e di sua fiducia.

E così la città che, forte dell'unione col suburbio, aveva una salda ed omogenea ossatura, era regolarmente alimentata dal suo mercato settimanale ed aveva già, oltre ad un proprio notaio, un organo, embrionale quanto si vuole, ma esclusivamente suo, per provvedere ai suoi speciali bisogni — il consiglio cittadino —: venne ad avere un organo proprio anche per l'amministrazione della giustizia.

Fino ad ora la città aveva costituito un complesso organismo di persone e di cose che si era mantenuto distinto e in condizione eminente dal territorio rurale; quando potè provvedere da sè stesso sia pure in parte, ma in parte principale, ai bisogni della giustizia, senza l'intervento continuo e la presenza dell'autorità dello Stato, cominciò a staccarsene addirittura, poichè ormai essa veniva a trovarsi congiunta al paese aperto circostante soltanto con vincoli di diritto pubblico sempre meno efficaci e meno sentiti, e questi, in meno di un secolo, con le concessioni immunitarie ai vescovi, si spezzano quasi del tutto.

I capitolari carolingi stabiliscono, come si è detto, che gli scabini debbano essere eletti dal conte e dal popolo insieme, totius populi consensu; ma nemmeno per questo lato ebbero in Italia applicazione completa nè uniforme.

In qualche luogo l'elezione avvenne in una maniera tutta speciale. A Lucca, per esempio, si vedono comparire normalmente accanto a persone qualificate col semplice nome di scabini, altri individui detti scabini [268] ecclesiae[728] mentre altri documenti ci conservano il ricordo di scabini comitatus[729]. Queste tre specie di scabini — chè la specifica qualifica delle ultime due classi non lascia dubbio sulla loro sostanziale diversità — provano l'intensità ed il vigore di preesistenti sistemi conservatisi in onta alla nuova legislazione e si trovano in perfetta corrispondenza con la triplice partizione della città — di tradizione sicuramente non germanica — in pars pubblica, pars ecclesiae e cives[730] e sembrano indicare che l'autorità pubblica, la Chiesa ed i cittadini abbiano eletto ognuno un certo numero di scabini per conto proprio.

Comunque, pur ammettendo che questo sistema sia esclusivo della città di Lucca, la quale presenta una costituzione sensibilmente diversa da altre città tosco-lombarde anche in certe linee fondamentali, non è meno vero che allorquando il conte ed il popolo partecipavano insieme e simultaneamente, a norma dei capitolari, alla scelta degli stessi scabini, il consenso di quest'ultimo fu manifestato secondo lo speciale sistema giuridico che regolava la costituzione cittadina, in quanto che la giurisdizione territoriale degli scabini si estese sulla città e sul suburbio insieme; ma la loro nomina fu demandata solo agli urbani.

Non è a credere che in questo caso si dovesse fare eccezione alla regola per cui eran riserbate ad essi le maggiori facoltà, ed anche senza tener conto di alcuni pochi documenti nei quali si parla di «scabini urbis»[731] se ne può ricavar la prova dal modo con cui si faceva l'elezione. Questa, richiedendo un generale consenso, [269] aveva luogo nell'assemblea cittadina e quindi dal momento che la partecipazione attiva alle deliberazioni di questa era prerogativa degli urbani; era anch'essa, al pari delle altre facoltà, sottratta ai suburbani.

E lo stesso è a dirsi della competenza.

Riservato al re il giudizio delle cause più gravi e dei maggiori reati ed al conte i casi più rilevanti in cui si trattasse della vita e della libertà di una persona e della restituzione di immobili[732], tutte le altre questioni divennero competenza del centenario nel comitato e degli scabini in città.

La delimitazione non fu regolata con criterî troppo precisi — lo nota anche l'Expositio[733] — nè applicata dovunque nello stesso modo — prova anche questa e sensibile di resistenza di un organismo giuridico abituato a funzionare indipendentemente e magari in opposizione alla legge; ma cominciò allora a formarsi la antitesi fra il placitum e il bannum, che si trova più tardi consolidata in modo preciso[734]; per la quale le maggiori facoltà giudiziarie sono comprese nel banno e le minori nel placito e queste ultime, varie di numero e di qualità da luogo a luogo, sono caratterizzate dalla mancanza assoluta di ogni giurisdizione criminale.

Il consolato del placito conservò, sotto il nome del resto solo in parte nuovo, l'antica ed originaria natura di tribunale popolare. È composto solo di cittadini ed anche nell'epoca più tarda basta che uno solo sia giudice; e questo compie, volta a volta, secondo le esigenze della causa ed il proprio criterio, funzioni di arbitro e di giudice; ma è completamente privo di ogni giurisdizione criminale mentre il nucleo centrale della sua competenza civile è costituito dagli atti dei minori [270] e delle donne; competenza che si spiega solo dove e quando ai minori e alle donne da norme di carattere singolare è fatta una condizione giuridica tutta speciale: e questa condizione speciale gli uni e le altre l'ebbero solo nel diritto germanico[735] per il quale al re è affidata la protezione dei più deboli e dei meno difesi: minori, donne e forestieri.

Questa protezione dal re affidata, con lo stabilirsi in Italia, ai suoi rappresentanti locali, passò, con la riforma carolingia, agli scabini, ai quali, per il modo con cui si formò la costituzione cittadina, fu affidata anche un'altra — e ben importante — incombenza: quella del riconoscimento e dell'autenticazione degli atti notarili.

Con i Langobardi, cessate del tutto le curie, l'exceptor civitatis, che era il trascrittore degli atti municipali, perdette il suo ufficio; ma soddisfacendo ad un bisogno sicuramente sentito, quale quello di stendere memoria di atti che se pure eran perfetti all'infuori e prima della redazione in scritto, trovavano nello scritto una maggiore quanto innegabile sicurezza, andò acquistando sempre maggiore autorità; e questa autorità, rilevata anche da Liutprando[736], diviene con Rachi[737] quella di scrivane publico per eccellenza onde già nel periodo franco[738], il notaio diventa la persona privilegiata ad negotia hominum publice et authentica conscribenda[739], caratteristica del territorio langobardo.

[271]

Assurto alla dignità ed all'importanza di persona il cui intervento è indispensabile per la validità della confezione di un documento e divenuto uomo di fede pubblica, esso non può essere più soltanto lo scrivano della città e dei suoi abitanti — exceptor civitatis — ma deve essere investito della sua autorità da chi della fede pubblica è la personificazione per eccellenza e cioè dal re e da quegli a cui egli abbia delegata tale facoltà (conti palatini), ed allora esso esercita nella città la funzione cui il re lo ha esplicitamente abilitato, onde diviene il notaio del re nella città — notarius regis —. Ma per l'opera tecnica di questo ufficiale, che doveva conseguire la fiducia — e non sempre se la meritava — dei cittadini, era naturale procedimento che, creato il corpo degli scabini, a questi, eletti dalla fiducia dei cittadini e scelti talvolta nella categoria dei notai, poichè tutti al pari degli altri giudici, dovevano essere «legibus eruditi et bonae opinionis»[740] fosse demandata la cognizione di tale materia.

Così in tratti generalissimi si son seguite le linee dello sviluppo dell'assemblea cittadina e dell'assemblea germanica.

L'una e l'altra hanno origine, natura, sviluppo ed azione diversa.

E questo costituisce una fondamentale differenza fra la costituzione della nostra Italia tosco-lombarda e tutti gli altri paesi.

Nei territori germanici, il potere politico e giudiziario si raccoglie in un'unica assemblea, che è naturalmente l'assemblea barbarica per eccellenza; che si riunisce intorno ai capi ed è da questi presieduta — conventus, dice la legge alamannica, secundum antiquam [272] consuetudinem fiat in omni centena coram comite aut suo misso aut centenario — che costituisce il placito — ipsum placitum fiat de sabbato in sabbatum aut quali die comes aut centenarius voluerit — e nel quale si discutono tutti gli affari di qualche rilievo della comunità[741].

Nella Gallia avviene un contemperamento ed una fusione degli antichi istituti romani con le nuove istituzioni germaniche, le quali finiscono con una vittoria completa, sicchè l'assemblea dei liberi prende il primo posto nell'organizzazione civile e giudiziaria, e scalza con fortuna le basi delle vetuste magistrature romane[742].

[273]

Non altrimenti in Spagna il conventus publicus vicinorum, che la legge Visigotica menziona a proposito di eredità, di fughe di servi, e di esecuzione di sentenze, è il nocciolo del concilium che nei secoli successivi costituisce l'assemblea giudiziaria degli uomini liberi presieduta dal conte[743], da cui origina più tardi il Comune.

Nella nostra Italia, invece, per la speciale condizione in cui era ridotto il paese quando lo conquistarono i Langobardi e per il carattere ostile dei conquistatori, vincitori e vinti ebbero, sul principio, costituzione separata e diversa.

Allora a fulcro dell'organizzazione barbarica fu l'assemblea dei liberi, mentre germe della organizzazione indigena fu la riunione davanti alla chiesa; e poichè da prima lontane l'una dall'altra, in seguito si avvicinarono e più tardi, pur senza toccarsi e confondersi, si completarono a vicenda per sopperire ai bisogni della società e per formare un unico e nuovo organismo politico e giuridico, la costituzione italiana si presentò come il resultato di questo doppio processo di formazione storica.

Ed invero, l'umile riunione davanti alla chiesa, già elevatasi al tempo langobardo e sviluppatasi ancor più in seguito, produce l'assemblea generale, che origina il Comune: l'assemblea germanica, strumento principale di governo nei primissimi anni, perde rapidamente le sue funzioni politiche, si trasforma in un organismo giudiziario e, divenuto cittadino, prepara e fucina il diritto che occorre alle nuove esigenze, ai nuovi tempi e fonde armonicamente antiche consuetudini e nuovi sistemi, [274] sicchè divenuti insufficienti gli uni e gli altri ricorre ai vecchi e non mai dimenticati testi romani e dai rudimenti delle istituzioni e dai casi pratici del Codice, assurge al sistema e riprende il Digesto. Ed è allora — quando il Comune drizza superbo il suo bel gonfalone e la voce solenne degli antichi giuristi viene riascoltata ed intesa — che l'antica costituzione d'Italia, non di Roma, ha la sua rinascita.

§ 13.

— La città italiana, Roma compresa, si è formata aggruppandosi con preordinato sviluppo intorno alla piazza formata dall'incrociarsi perpendicolare del cardus maximus col decumanus i quali si spingono fino ai confini del suburbio e formano così quattro zone entro la città ed altrettante nel suburbio, perfettamente corrispondenti e subordinate a quelle.

In virtù di tale sistema i componenti di ogni quartiere uniti dall'esercizio dei diritti d'uso collettivo dei boschi e dei pascoli e delle terre comuni, situate nella zona suburbana corrispondente al loro quartiere e stretti dal vincolo intimo della responsabilità collettiva del gruppo per il delitto di un singolo, provvedevano congruamente al sostentamento di tutto il centro urbano, evitando pericolosi antagonismi e cooperavano efficacemente al mantenimento della quiete interna; mentre ad ogni quartiere era assegnata in modo semplice ed equo la parte di mura e la porta da difendere come era determinato il concorso che doveva ricevere dai suburbani.

Con lo sciogliersi della città dai primi e rudimentali viluppi ed il progressivo affinarsi della sua costituzione fino a raggiungere il fulgido organismo del municipio in pieno fiorire, nei nuovi organi si trasmuta la primitiva struttura, sempre attestata tuttavia in modo più formale che reale, da fugaci accenni delle fonti.

Ma quella indigena struttura tornò in prima linea quando la rovina economica, sociale e politica e l'imperversare [275] delle invasioni riportarono le città italiane alle condizioni terribili della lotta primitiva per l'esistenza[744].

Allora queste divisioni, che rispondevano a bisogni sentiti da qualsiasi convivenza — sostentamento, quiete interna, difesa contro l'esterno — furono da prima tollerate e poscia accolte dai Langobardi i quali fissatisi in Italia con un brusco distacco dallo stadio nomade in cui erano fino ad allora vissuti, impossibilitati così per incapacità propria come per insuperabile resistenza dell'ambiente a crearsi una costituzione improntata alla loro stirpe, furono attratti da quella rudimentale a cui era ridiscesa l'Italia.

Fu anche qui l'antica ossatura italiana che affiorò, mentre la grande Roma dell'evo antico moriva e che fornì lo scheletro alla nuova costituzione, la quale non poteva averlo dai Langobardi, nomadi e senza coesione, nè poteva riceverlo dal mondo romano, poichè la rovina di questo non consentiva più qualsiasi azione energica.

Le prime fonti medioevali, continuando più antica abitudine, indicano il quartiere col nome della porta[745] a cui mette capo; e questo nome talvolta era determinato da ragioni topografiche e locali; come la porta romana di numerose città, la porta vercellina di Milano etc. e non di rado — specialmente in seguito — fu quello di un santo[746].

[276]

Arechi, il noto duca di Benevento, nel 774 con una munificentissima donazione[747] al Monastero di S. Sofia da lui fondato, concesse a quest'ultimo fra l'altro cento carrate annue di legna. I boschi da cui dovevano esser tratte pertinevano tutti nello stesso modo alla città; ma ciò nonostante l'onere fu distribuito in modo irregolare: una porta fu esclusa dalla contribuzione e delle altre tre la Porta turrea doveva corrispondere 50 carri, la Porta Rufini 30 e 20 la Porta Sicardi.

Documenti langobardi della maggior purezza provano, dunque, che i varî quartieri di una stessa città potevano esser gravati in proporzione diversa l'uno dall'altro; ed allora si rende verosimile l'ipotesi che pure al tempo langobardo, continuando ininterrottamente un più vetusto uso italiano, risalga il sistema di distribuire per quartiere i dazî e le imposte gravanti sulla città.

Lo Statuto di Verona, pervenuto a noi nella redazione del 1228, ma che contiene in gran parte disposizioni di età di gran lunga anteriore, vuole che «datia solvantur in waitis propriis»[748].

E — a riprova — si può aggiungere che queste guaite, che son ricordate anche da Carlo Magno nelle sue leggi italiche, non sono altro — come abbiamo veduto — che la sculca langobarda e, attraverso ad essa, l'excubiae romane, e tutte si facevano per quartieri[749].

[277]

A questa differenziazione negli oneri naturalmente corrispondeva un'altra differenza di natura, diciamo così, attiva che completava la figura del quartiere con un ambito limitato ma determinato ed effettivo di attribuzioni e di facoltà distinte da quelle degli altri quartieri e non assorbite — almeno normalmente e di regola — dai diritti della città, complessivamente considerata.

E questa autonomia reciproca e di fronte alla città va aumentando col tempo. Due documenti milanesi del 1158 e del 1175[750] ricordano i Consules electi a comunantia Porte Vercelline de pascuis: pro desbrigandis et recuperandis pascuis ipsius porte.

Della consistenza delle portae è altra e più sicura prova la menzione esplicita degli urbium vici fatta dal sinodo ticinese dell'850[751], la quale illumina la disposizione del capitolare langobardo dell'803 che ordina che si eleggano quattro o otto uomini in ciascuna pieve per risolvere le eventuali questioni fra laici ed ecclesiastici per la prestazione delle decime. E altra prova può considerarsi la caratteristica variante portata da uno dei due vetustissimi codici santambrosiani che contengono le leggi langobarde[752].

Il cap. 141 di Liutprando stabilisce che le donne che istigate dai propri mariti avessero fatta irruzione o commessa violenza in un vico o in una casa, debbano essere decalvate e condotte per i vici più prossimi ed ivi fustigate — publicus faciat eas decalvare et frustare per vicus vicinantes ipsius loci —.

Il codice in parola — almeno se è vera la lezione datane dal Muratori — ha «vicos civitatis»[753].

L'amanuense — e non è punto detto che sia stato [278] il primo a iniziare la variante — aveva davanti agli occhi la visione delle condizioni reali della città. Ed ho parlato di amanuense per non dire, come ne avrei gran voglia, che non è punto improbabile che la variante sia la conseguenza pensata e voluta dell'opera di un giurista.

Questi quartieri, però, erano strettamente uniti nella città che li comprendeva e li completava e come non ebbero personalità giuridica distinta da quella della città nel tempo romano[754]; così non ne ruppero la compagine nemmeno nell'epoca successiva, sebbene sieno giunti ad avere una fisonomia propria molto accentuata[755].

I vicini dei singoli quartieri avevano tutti eguali facoltà rispetto alla porzione dei beni comuni assegnata al loro quartiere: ma le maggiori facoltà dispositive riguardo a tali beni erano loro sottratte e demandate al gruppo intiero di tutti i vicini della città; e la città tutta intiera rispondeva solidalmente, come si è veduto, se la suprema autorità non imponeva altrimenti, degli oneri imposti ad una sua parte.

La compagine della città non fu allentata nemmeno in seguito quando sulle antiche divisioni per quartiere se ne andarono sovrapponendo altre di varia natura. [279] Fra queste, per l'importanza acquistata in seguito, meritano di essere ricordate per le prime quelle che traevano origine dal formarsi entro l'ambito urbano di nuovi centri di vita, di azione e di interessi, che si popolarizzavano intorno a quelle chiese cardinali, di cui già ci siamo occupati, e che, moltiplicandosi rapidamente, giunsero a costituire in un'epoca più tarda il sistema predominante di divisione del suolo intramurano.

Nè valse a diminuire la coesione del centro urbano un altro elemento di cui pur si sarebbe potuto credere assai potente l'azione disgregativa.

In ogni città c'era una curtis regia[756] la quale era il centro dell'amministrazione pubblica, a cui convergevano le prestazioni civiche e le finanze; e questa curtis era di solito a capo del vasto conglomerato di terre che costituivano la dotazione della corona e che non di rado si trovavano accanto ai fondi assegnati all'autorità pubblica preposta in modo speciale alla città, onde costituivano anch'essi un complesso imponente di beni che avevano uno sbocco entro la città attraverso alla cella.

Quantunque normalmente, quando era consentito dalle condizioni del luogo la corte regia si sia installata entro l'arce che non infrequentemente si trovava nell'interno delle antiche città italiane[757] emergendo anche materialmente di fronte al resto della città; e quantunque questo castello attraverso le donazioni dei fiacchi discendenti di Carlo Magno sia passato in mani più energiche, pur tuttavia queste curtes non hanno agito in modo sensibile nella costituzione cittadina nemmeno nei rapporti esterni delle divisioni territoriali.

[280]

Almeno io non ne ho trovato traccia alcuna.

E dal momento che non ha influito la curtis più potente e maggiormente fornita di facoltà di natura pubblica oltre che privata, corre appena l'obbligo di accennare che nessuna azione han potuto esercitare le altre curtes private di cui serbano ricordo i documenti[758].

[281]

CONCLUSIONE

La costituzione della nostra Italia, fino dai tempi più antichi ai quali si può risalire, fu una costituzione di città, ed i vari gruppi etnici furono leghe di città.

I gruppi primitivi si erano, in una certa fase del loro sviluppo, fondati su una piccola zona di territorio, la quale provvedeva ai bisogni della pastorizia e dell'agricoltura, ed aveva il suo centro nel luogo più facilmente difendibile, rafforzato da opere stabili di difesa.

I limitatissimi scambî di prodotti avvenivano, probabilmente, in un ambito ristrettissimo che non oltrepassava il cerchio delle gentes.

Forum, secondo la più arcaica delle cinque definizioni datene da Varrone (v. 145) le quali segnano altrettante fasi per cui è passata l'idea adombrata dalla parola, è la piazzetta davanti al sepolcro familiare «quod nunc vestibulum sepulchri dici solet». Sono i sepolcri gentilizi intorno ai quali si riunivano, nei giorni di sacra, tutte le famiglie appartenenti alla medesima gens. I primi contratti, lo scambio delle derrate e delle merci, la consegna delle cose date in permuta si compiva in presenza delle famiglie contraenti; e la stessa mancipatio con i suoi cinque classici testimoni, si spiega più agevolmente nella sua genesi in un convegno gentilizio che in un pubblico mercato. I patti primitivi delle gentes, in mancanza di garanzia dello Stato, non avevano [282] altra sanzione che la sacertà: e sacer doveva essere, prima ancora delle XII tavole e non soltanto a Roma, colui che violasse i patti privati, fossero questi di cambio, di vendita, di mutuo etc. Nè a proteggere i patti s'invocarono gli Dei del cielo, ma bensì gli Inferi; chè presso lo Stige si giurano i patti e gli spiriti dei defunti sono quelli che vegliano sulla fede dei vivi.

Questo carattere sacrale si spiega facilmente riflettendo che il formulario dell'antico diritto romano — e si può, quindi, agevolmente comprendere quanta parte del diritto stesso — proviene dai pontefici, ed è senza dubbio sacrale il formulario dei negotia per aes et libram, vale a dire dei negozî che servono tanto a trasferire diritti di proprietà — mancipatio — quanto a creare rapporti obbligatorî — nexum —.

Ed inoltre se obbligare allude, secondo il Perozzi, alla garanzia del terzo — il praes o vindex — perchè il nexus rimane in catene; la parola latina contrahere richiama alla mente la figura di un terzo il quale avvicina le parti e rende possibile lo scambio, ossia, giuridicamente parlando, perfeziona il negozio e questo terzo, nel primitivo ordinamento, non può essere un estraneo, dev'essere un congentile.

In seguito, per la diuturna lotta per l'esistenza, gran parte di questi nuclei sparì a vantaggio di quelli più forti e più favoriti dall'ubicazione e dalla fortuna; e questi si accrebbero della popolazione e del territorio di quelli.

Ma l'uno e l'altra non furono equiparati alla condizione dei popoli e dei territorî a cui venivano aggiunti: una parte dei nuovi venuti fu aggregata alla città, ma all'esterno di questa, e qui continuarono a venerare le loro originarie divinità: ed i nuovi territorî furono assoggettati alla giurisdizione della città, ma non raggiunsero con essa quell'intimità di rapporti che aveva stretto la città al suo territorio originario. Ed è da allora, presumibilmente, che la città comincia ad avere un contenuto [283] suo particolare e ad assumere aspetto e natura giuridica speciale.

Il prolungato contatto di quelli che vivevano dentro la città con quelli che abitavano nella sua immediata vicinanza, reso più intimo dallo stato continuo di guerra esterna, produsse una coesione, il primo resultato della quale fu l'accettazione da parte della città delle divinità venerate nel suburbio e delle divinità di quella da parte di questo: ciò che a noi è rivelato dalla proibizione di seppellire o bruciare i cadaveri entro la città: proibizione inconcepibile senza questa equiparazione, perchè la venerazione dei defunti costituiva un vero e proprio culto, l'oggetto del quale, il cadavere, non poteva sicuramente esser deposto in luogo sacro a divinità straniere e, quindi, nemiche.

La derivazione etimologica di forum, infatti, da foris, foras, fores, con l'o breve, indica la situazione esterna dal luogo chiuso, dalla città, e concorda pienamente con il sistema, di origine orientale e di importazione etrusca, di cui le XII tavole ci conservano la più antica formulazione per l'Italia, che «in urbe neve urito mortuum neve sepelito».

La città, intanto, sorge quando il gruppo che la compone ha raggiunto un'energia sociale ed economica che vincoli in modo definitivo e assoluto gli abitanti al territorio e crei tali rapporti fra questo ed il capoluogo da permettergli di cingersi tutt'all'intorno di mura.

È questo un concetto ed un uso italiano antichissimo: con esso furon fondate le città della confederazione etrusca e di quella latina e, probabilmente, anche quelle, più antiche, dei Liguri; con esso fu fondata Roma, e questa ad esso si attenne nella fondazione di tutte le colonie.

Con solenne rito sacrale l'aratro segnava per primo il perimetro della città ed il solco del vomero significava il giro della fossa, mentre la zolla sollevata indicava il cerchio del muro: — aratrum circumducere, si dice la fondazione della città — e la città (urbs) trae il suo [284] nome da urbo: «urbare est aratro definire»; così come aratrum inducere ne simbolizza la distruzione.

Aver dimora stabile e fissa entro il cerchio delle mura e goderne la protezione e la difesa era un privilegio, una condizione eminente di fronte a tutti gli altri, ai quali tale dimora e tale difesa non erano concesse.

Di quì una prima e fondamentale distinzione fra i cittadini e tutti gli altri che vivevano nel territorio aperto.

La città, inoltre, così aumentata di popolazione, ha bisogni speciali per i quali si differenzia sempre di più, con naturale svolgimento, dal terreno che la circonda e la completa; mentre per altra parte con lo sviluppo della vita cittadina si intensificano i rapporti fra la città stessa e la zona di territorio che le è in immediato contatto e si accentua una differenza di natura strettamente giuridica fra questa ed il rimanente territorio aperto.

La città, infatti, fu protetta con difese speciali e fisse, fra le quali primeggiano le mura; e poichè la loro costruzione e riparazione era molto gravosa — moenia deriva da munera —; a comparteciparvi, insieme con gli urbani, fu chiamata anche una parte della popolazione, la quale abitava in immediata vicinanza, e che di tale compartecipazione fu opportunamente compensata. Questo compenso accentuò la differenziazione che per spontaneo e naturale sviluppo si era già formata fra il territorio più propriamente cittadino e la rimanente campagna e le conferì e precisò carattere e natura strettamente giuridica. Onde la necessità di delimitarla in modo preciso e distribuirla nella maniera più conveniente per la difesa ed i bisogni della città.

Questa determinazione fu fatta con misure varie a seconda delle consuetudini dei varî popoli; onde fu più o meno estesa; ma sempre questo territorio fu suddiviso con uno stesso sistema; e cioè in quattro parti, corrispondenti alla divisione interna della città. La misura latina, accolta ed applicata da Roma, fu quella dei mille passus e le due vie che, intersecandosi perpendicolarmente, [285] quadripartivano la città ed il suburbio furono il decumanus ed il cardo maximus.

Nella città, intanto, per il contatto di elementi numerosi e per l'aumento delle ricchezze e degli agi, moltiplicandosi il bisogno di nuovi oggetti di lavoro e di lusso, si va sviluppando, tra le classi inferiori sprovviste di terre o impedite ad averne per concessione, l'artigianato; e questo, naturalmente, nel suo continuo svolgimento, accresce alla sua volta gli oggetti d'artificio per le nuove esigenze dell'agricoltura, della pastorizia e della vita civile.

Di quì l'origine di un nuovo sistema di scambio.

Lo scambio dei generi di prima necessità, prodotti in gran prevalenza nel suburbio per bisogni principalmente urbani, aveva luogo fuori delle porte e senza gravame alcuno, perchè la città dominante, gravando questi prodotti, avrebbe in realtà gravato su sè stessa; ed anzi la città ebbe cura che questo scambio affluisse in modo continuo e periodico, finchè divenne rapidamente ebdomadario.

Ma lo scambio dei prodotti manufatti, giovando prevalentemente alla campagna, fu agevolato dalla città a cui interessava, ma fu da questa regolato a proprio profitto. Essa assegnò a questo fine una piazza apposita entro la città, curando che questa piazza fosse a fronte del tempio della divinità tutelare che simboleggiava la città; determinò un giorno fisso e volle che lo scambio fosse soggetto a norme e a gravami speciali che dettero origine al mercato, divenuto così il luogo d'offerta di manufatti e di opere dell'artigianato, fatta in una pubblica piazza entro la città a persona indeterminata, ma in un giorno fisso e da persona qualificata. E a questo mercato accorrevano tutti coloro che vivevano nel territorio giurisdizionalmente soggetto alla città, la quale lo fissò a periodi più larghi ed in occasione di feste solenni che sospendevano dovunque il lavoro dei campi e degli artefici.

In tal modo si viene lentamente formando quel sistema [286] municipale, le cui origini si perdono nelle ombre più remote della storia.

Il centro murato, come il migliore e più sicuro, fu abitazione privilegiata dei cives optimo iure, godenti di un diritto singolare, in nome della collettività a cui appartenevano.

Il primo e principale diritto della collettività si manifestava nei riguardi dei beni comuni, i quali, essendo indispensabili alla vita urbana, divennero diritto speciale dei soli urbani, distribuito proporzionalmente per porte e per quartieri; ed a loro soli fu riserbata la decisione degli affari che concernevano la città sia in pace che in guerra.

E come la religione era religione di Stato ed il culto una magistratura; così i templi e gli edifici ed i loca dei templi furono affidati alla custodia dei soli urbani e soggetti alla loro vigilanza, non solo entro la città ed il suburbio; ma entro tutto il territorio al quale giurisdizionalmente la città era preposta.

Il suburbio fu dominato dalla città, e ne divenne il complemento, con una trasformazione che ebbe per limiti estremi da un lato i bisogni del centro murato e dall'altro la suscettibilità e la capacità di trasformarsi proprie del terreno rurale.

Il diritto pubblico interno si formò con riguardo alla condizione civica speciale; onde ai cittadini fu concesso di avere il domicilium, che costituiva l'elemento necessario ed indispensabile per il godimento dei diritti civili e politici, non solo entro le mura, ma anche entro tutto il suburbio o in una parte di esso — per esempio — 500 passi; e dentro il perimetro suburbano il cittadino godè delle maggiori garanzie — imperium domi — al pari che entro le mura.

E poichè questi diritti erano in diretta ed immediata relazione con la costituzione della famiglia, così anche per questo riguardo il suburbio fu assoggettato ed equiparato, in vista degli interessi cittadini, alla città stessa e perciò, per es., le tombe familiari e gentilizie poterono [287] aver sede in esso e gli atti dei minori e dei tutori che riguardavano case e beni entro la città ed il suburbio furono esenti da ogni intervento dell'autorità pubblica.

Il suburbio fu escluso da ogni partecipazione attiva alla vita pubblica ma ebbe anch'esso qualche vantaggio: in correspettivo della cooperazione al mantenimento ed alla difesa delle mura, ebbe il diritto di rifugiarvisi dentro nei momenti di pericolo; ed in contraccambio dei vantaggi economici procurati alla città, ebbe una condizione giuridica speciale per la quale i suoi abitanti, in genere piccoli proprietarî, erano esenti da tutti gli oneri rusticani, che gravavano i lavoratori della terra nella campagna.

Inoltre fra i suburbani e gli urbani, si incuneava una classe speciale formata da coloro che abitavano i sobborghi in immediato contatto con le mura ed in continuazione delle porte, i quali si collocavano in condizione abbastanza prossima agli urbani, senza confondersi con essi.

Base del regime cittadino rimase sempre la prevalenza degli urbani: civis, per eccellenza, fu solo il civis urbanus, il quale costituì uno speciale sodalizio — sodalicium urbanorum — compose i collegi — collegium urbanum — ed ebbe ed elesse i suoi magistrati — magistratus urbanus —. Ad essi soli furono riservate le cariche e gli onori e fra essi, e fra essi soltanto, si trovavano coloro che godevano di tutti i diritti di cittadinanza; la quale, data la posizione speciale ed egemonica di Roma, comprendeva, oltre le maggiori facoltà di ogni città, anche il godimento di un certo numero di diritti e di facoltà nei rispetti delle altre città e di Roma.

Roma, prima parte involontaria di una confederazione etrusca e più tardi della confederazione latina, forte di una genuina e vigorosa costituzione di Stato, assodata dalla pressione compatta della plebe sul comune delle genti originarie e patrizie, rocca salda di confine nel territorio latino, collocata nel cuore della penisola, [288] al confluente etnico, delle stirpi italiche e della gente etrusca, su di una vera linea strategica che separa il nord dal sud e pressata in cerchio dalle attività di una vasta regione (Bonfante), ebbe quest'origine e questa formazione e per lunghi secoli si governò e si resse con questo regime.

Solo verso la metà del secolo secondo dopo Cristo, ampliata enormemente nei suoi confini che i successivi allargamenti delle cinte di mura spostavano di continuo in più larga cerchia, essa abbandonò l'antico e glorioso sistema ed equiparò i continentia aedificia alla città, fece degli abitanti dei sobborghi dei veri e propri cittadini e iniziò forme e sistemi di governo di carattere sempre più particolare.

Ma Roma rappresenta l'eccezione. La regola era costituita dalle altre città italiane.

Anche quando, nell'epoca sillana, il territorio, politicamente così vario d'Italia, acquista un'unità compatta con l'estensione della cittadinanza romana, il solum italicum è assimilato all'ager romanus e reso suscettibile di dominium ex iure Quiritium e via via per leges datae il nuovo territorio dello Stato dominante venne a costituirsi come un insieme coordinato di municipii, autonomi quanto all'amministrazione ed alla giurisdizione inferiore, con uno schema abbastanza uniforme in cui tornano le cariche e gli organi della città di Roma (duoviri invece di consules, decuriones invece di senatores etc.); questi organi e questi magistrati sono eletti e formati, secondo l'antico sistema, soltanto dagli urbani.

Quando fu istituita la vigesima hereditatum, che, come dice la parola, colpiva le eredità e forse anche, stando a Dione Cassio, le donazioni; questa non ebbe vigore entro il perimetro del suburbio e tanto meno poi entro la città.

Ed anche nella decadenza questo sistema speciale di rapporti si mantiene in gran parte fermo. Abolito l'antico privilegio dell'immunità finanziaria di cui fino allora aveva goduto l'Italia, il territorio non fu nè tutto [289] nè contemporaneamente sottoposto a tributo. La plebs rustica extra muros posita fu sottoposta alla capitatio ed all'annona solo molto più tardi e soltanto nell'anno 400 i praedia urbana cominciarono ad esser assoggettati alla tertia.

Nell'epoca di Caracalla, probabilmente per la ripercussione della constitutio antoniniana del 212 e per effetto di altre costituzioni imperiali, le magistrature si concentrano nelle curie, formate col voto esclusivo dei cittadini, con esclusione dei plebeii homines; ma questi continuano a godere dei beni pubblici e a mantenersi distinti dai suburbani sui quali, per la lenta stratificazione sociale, si consolidano le originarie prestazioni in oneri fissi ed immutabili.

È il fatale avviamento alla rovina.

Il decadere dei commerci, il languire delle industrie, il ristagno degli affari, l'estendersi del latifondo, le preoccupazioni delle invasioni, prima irrigidiscono, poi spezzano i vincoli amplissimi e fecondi che tenevano unito l'Impero. Il centro di esso va lentamente spostandosi da Roma: la cittadinanza, estesa da Caracalla, non è più la cittadinanza di Roma, ma quella dell'Impero; la capitale non è più soltanto Roma e di divisione in divisione, cercando appoggio solido al suo gran corpo cadente, l'Impero, bipartito, quadripartito, diviso in diocesi e suddiviso in provincie, si appoggia principalmente sulle città, dove viene a convergere ogni elemento di vita.

Ma qui le vecchie e gloriose forme della civiltà e dell'opulenza intristiscono: le curie, le corporazioni sole, per quanto fatte ereditarie, non bastano più, come non bastano i nuovi funzionarî dall'Impero creati per sostenerla, quali il curator ed il defensor; e tutti i cittadini indistintamente, ricchi e poveri, chiamati a difenderla, sono chiamati a trattarne gli affari, ripristinando l'antica contio dell'epoca remota, composta di tutti gli urbani, e questa va acquistando importanza sempre maggiore, perchè risponde meglio alle esigenze di un [290] organismo vitale che degrada sempre più in basso; mentre a tenerne separati i suburbani, che tanti altri rapporti, fra i quali principalissimi la difesa delle mura, le prestazioni finanziarie, il mercato ed il culto, tenevano strettamente legati alla città, valse il consolidamento delle condizioni dei lavoratori della terra incominciato fino dal secolo quarto ed ormai troppo avanzato perchè potesse aver mutamento dai fugaci tentativi giustinianei.

La concione, composta di soli urbani, raccolta davanti alla Chiesa, la quale appariva ed era ormai l'unica istituzione da cui si poteva aspettare qualche sollievo, si mostrò come principale depositaria delle tradizioni cittadine e prestò agli urbani sicuro rifugio, allorchè il dominio gotico gravò più forte sui Romani vinti e disarmati, con un sistema d'organismo burocratico anche più odioso di quello bizantino.

La politica dei Goti tende a restringere il campo di azione della contio, che si vorrebbe ridotta ad una riunione di natura religiosa, utile soltanto alla pubblicazione delle leggi e dei precetti; ma ciò valse a salvarla come organismo indipendente, da cui il popolo goto, anche per ragioni religiose, restava escluso.

I Langobardi, che avevano conquistato l'Italia con la forza delle armi e vi si insediarono come conquistatori, non si abbassarono ad accogliere alcuna cooperazione dai vinti e quindi stesero sul paese il loro potere assoluto; ossia imposero in modo violento all'Italia la propria organizzazione.

Ma questa organizzazione era per più aspetti scarsa: scarsa di contenuto e scarsa di mezzi d'azione. I varî nuclei popolari da cui resultava la nazione germanica erano abituati a vivere in forme di larga autonomia, ed è noto che essi non si adattavano a piegarsi all'autorità preminente di un solo, se non sotto la pressione di gravi avvenimenti esterni e temporanei, quali la guerra, le conquiste, le migrazioni etc.

Abitualmente ogni gruppo provvedeva da sè ai pochi [291] bisogni di un popolo nomade. Pertanto per ogni deliberazione era congruo sistema la decisione collettiva di coloro che del gruppo formavano la guida e la difesa e cioè dei liberi atti alle armi; mentre, per i negozi che interessavano più gruppi, tutti concorrevano alla formazione di una volontà collettiva più ampia, sotto l'autorità del più prode in guerra e miglior giudice in pace.

In Italia, appena compiuta la conquista di una larga zona di territorio, la momentanea unione generale si scisse nell'indipendente governo dei singoli duchi, bramosi di riconquistare la propria libertà d'azione nei limiti del proprio distretto.

Un decennio di interregno fu prova bastante per dimostrare l'impossibilità di resistere ai Bizantini, ancora signori di gran parte d'Italia, da una parte e ai Franchi dall'altra, continuamente stimolati dal pontefice; senza contare la necessità di tenere a freno una popolazione numerosa e persuasa che la nuova invasione, al pari delle altre, avrebbe dovuto esser solo passeggera.

Si tornò allora ed in modo stabile al sistema monarchico; ed il re ebbe cura di consolidare la sua autorità in modo più energico.

Per questo egli frenò il potere dei duchi, sostituendo ad essi, quando gli fu possibile, ufficiali di propria nomina esclusiva — gastaldi —; e restrinse l'autorità delle varie assemblee regionali che con essi collaboravano, riserbandosi la trattazione degli affari di interesse generale e di maggiore importanza. Egli si valse abilmente della impossibilità di convocare una generale assemblea di tutti i liberi per modificare la costituzione e il funzionamento dell'assemblea che più e normalmente gli stava vicina.

Il re intese così ad accentrare ogni potere nelle sue mani, senza giungere a modificare il fondamento della vecchia organizzazione, sicchè anche Liutprando, che dei re langobardi fu il più forte, si trovò sempre a fronte l'aperta ribellione dei duchi.

[292]

I Langobardi non avevano civiltà, non conoscevano industrie, nè avevano conservato con le regioni da cui provenivano relazioni capaci di scambi fecondi; sicchè la loro venuta in Italia non creava per alcun verso bisogni nuovi, i quali dessero origine ad uno scambio qualsiasi, sia pure fittizio e momentaneo, capace di produrne altro più durevole. Per quanto intenso fosse il movimento accentratore del potere regio, questo non poteva iniziare un movimento che facesse convergere alla capitale e da essa riespandere nel territorio dello Stato un'attività capace di mutare l'assetto economico del paese — chè tale non poteva certo mostrarsi l'affluire delle imposte alla curtis regia di Pavia ed il modestissimo scambio cui dava luogo lo smercio di quei prodotti, la gran maggioranza dei quali era certo in natura.

Nè le varie regioni eran più strette fra loro per esser soggette allo stesso dominio. Ognuna formava un organismo a sè: ogni ducato aveva i suoi liberi, che erano ad esso legati, distribuiti nelle minori suddivisioni e che dovevano accorrere alla chiamata del rispettivo capo; che non avevano attitudini a lavorar la terra in maniera da trarne profitti tali da soddisfare i bisogni loro e permetterne un commercio, perchè, anzi, il lavoro della terra non era considerato degno di chi per natura ed elezione era portato all'uso delle armi contro gli uomini e gli animali; nè avevan attitudine alcuna ai commerci; quindi, una volta fissatisi in una regione, nessun mezzo di muoversi e di prosperare: un'invincibile tendenza a fissarvisi, resa più accentuata dai bisogni delle guerre continue, le quali, nemiche sempre di scambi e di commerci, richiedevano inoltre sedi fisse di riunione, da cui muovere verso il luogo indicato dal re.

La mancanza assoluta di un'energia creativa impedì dunque allo Stato langobardo di riuscire a dominare in modo effettivo il nuovo territorio e di imprimergli un aspetto ed uno sviluppo improntato al suo organismo; mentre quel disgregamento proprio delle stirpi germaniche, [293] che con le continue lotte interne aveva facilitato la vittoria di Cesare e dei Romani, rendendo più grave la loro dispersione in un ampio territorio, fece sì che l'azione dei Langobardi si mostrò quasi del tutto negativa.

Di tale situazione si valse abilmente e con fortuna l'altro grande organismo in cui si raccoglieva allora gran parte delle energie sociali: la Chiesa.

I Langobardi, infatti, nei primi anni in cui infierì la conquista e turbinò il governo indipendente dei duchi, non si avvicinarono alla chiesa cattolica: ne confiscarono, almeno in parte, i beni e li dettero al fisco o al culto ariano, contrapponendo quasi in ogni città una chiesa ariana a quella cattolica.

Ma il contatto continuo con i vinti, fra i quali si trovavano come disseminati senza un continuo ed intimo rapporto spirituale reciproco, e la fortunata propaganda dei sacerdoti cattolici produsse una forte e rapida conversione al cattolicismo, la quale già molto sensibile al tempo di Autari, che volle ostacolarla proibendo il battesimo, in meno di mezzo secolo era già arrivata ai gradini del trono con Teodolinda e Agilulfo.

Questa conversione fu dovuta allo spontaneo sentimento dei singoli Langobardi, non fu un atto oculato e voluto di governo, nè la conseguenza di un patto stipulato fra la suprema autorità della Chiesa e la maggiore autorità dello Stato. Perciò i Langobardi entrarono nella religione cattolica come neofiti penitenti accolti per misericordia nel grembo della grazia e non come alleati — tanto meno come vincitori; entrarono, cioè, in essa con dedizione quasi completa, accettandone in tutto e per tutto gli insegnamenti, il dogma, i precetti, la costituzione, senza chiedere e senza imporre modificazioni o compensi speciali.

La loro conversione fu un trionfo completo per la Chiesa cattolica la quale finì per assorbire il nuovo popolo senza nulla cambiare in sè stessa e fu una rovina per lo Stato langobardo, il quale, anche quando [294] la maggior parte dei suoi cittadini fu convertita al cattolicismo, ebbe sempre la Chiesa cattolica irriducibilmente e doppiamente nemica: nemica perchè per essa lo Stato langobardo continuò ad essere il nemico del dogma cattolico e dell'Impero che del dogma era il difensore per antonomasia e contro di esso sollevò continuamente insidie e nemici, finchè non ebbe ottenuta la fortunata discesa di Carlo Magno; nemica perchè parallelamente riuscì a tener viva all'interno una continua ostilità che non tardò a minare le basi dello Stato.

I Langobardi finirono per esser stretti dalla fede che accomuna le anime e livella le persone; ma le persone a cui furono pareggiati non erano che vinti e le anime a cui furono accomunati erano anime abituate ad una vita, ad un pensiero, ad una civiltà consolidata con secoli e secoli di storia e non mai spenta. Così il livellamento elevò questi ultimi, mentre abbassava i primi; e l'accomunamento, che ne fu conseguenza, mettendo a contatto una civiltà evoluta ed il vuoto della barbarie, empì questa di quel tanto di cui era suscettibile e la rese tollerante, se non fautrice, di un ulteriore suo sviluppo.

Quando cominciò l'alterna lotta fra il partito ariano e nazionalista e quello cattolico e romanizzante per la conquista del potere, la nuova religione metteva contro ai Langobardi fedeli alle origini ed al culto avito, non più i soli italiani numerosi ma deboli e vinti; ma altri Langobardi, non meno forti e non meno armati, i quali nel bisogno d'armi ricorrevano ai fratelli di fede e scindevano il regno in lotte fratricide, che rompevano sempre più la cerchia della dominazione germanica e aprivano nuove crepe che facilitavano agli Italiani maggiori avanzamenti.

Inoltre la Chiesa esplicò anche un'altra azione modificatrice, che aveva ricevuto inizio già dal tempo in cui il culto cattolico era diventato culto ufficiale dello Stato romano.

Da allora, oltre ai compiti di natura esclusivamente [295] religiosa, considerando la Chiesa come uno dei suoi organi, lo Stato affidò ad essa altre funzioni che col culto erano solo apparentemente o indirettamente collegate; e queste funzioni divennero più importanti mano mano che l'Impero diveniva più debole e si trovava nell'impossibilità di sopperire alle gravi necessità del momento.

Nell'epoca bizantina il vescovo aveva un'ingerenza riconosciuta nel governo locale, partecipava alla nomina dei funzionarî ed all'esame ed al controllo dell'amministrazione cittadina e sorvegliava anche i giudici e la amministrazione della giustizia e qualche volta, se il mutuo consenso delle parti lo voleva, aveva anche autorità di decidere — episcopalis audientia —.

Con i Goti prima, con i Langobardi poi, la Chiesa perdette una parte di queste funzioni e l'incarico ufficiale di compierle; ma altre, per quella parte almeno che poteva essere consentita dal nuovo stato di cose, essa continuò ad esercitare, perchè in realtà consistevano sopratutto in manifestazioni generiche dello spirito di fratellanza e di carità, quali l'aiuto dei poveri e degli oppressi, il riscatto dei prigionieri, l'alimentazione e la protezione dei derelitti, etc., ed anzi sviluppò a questo riguardo un movimento, per il quale le istituzioni di beneficenza, già all'epoca romana appoggiate ai municipî si trovarono più tardi addossate alla Chiesa per modo che si fondarono e si dotarono chiese con l'incarico e l'obbligo di mantenere o vestire continuamente un determinato numero di poveri oppure offrire dei banchetti etc. etc.: movimento così intenso che ha inspirato e costituito tutto il sistema delle opere pie fino al nostro tempo.

Ma per quanto numerose ed importanti sieno state le funzioni civili esercitate dalla Chiesa, specialmente per l'impotenza dello Stato germanico, questa non riuscì mai ad organizzare completamente la società. Vi si opponeva la sua finalità che trascendeva i confini di ogni Stato ed i limiti della vita terrena ed accomunava [296] idealmente popolazioni e paesi troppo disformi fra loro e mirava a fini troppo diversi da quelli mondani. E vi si opponeva del pari e forse ancora più vigorosamente la sua costituzione interna.

Era questa, com'è noto, il prodotto di una imitazione quasi servile dell'organizzazione civile. A ciò la Chiesa si era in origine indotta, per sua convenienza, perchè nessuna organizzazione migliore di quella romana poteva esser presa a modello nè poteva essere più efficace: tanto meno fu indotta a staccarsene quando, divenuta religione di Stato, le divisioni e gli ordinamenti di quello furono obbligatoriamente i suoi. Ma mentre questi ultimi erano come una sopra-struttura imposta al paese; le istituzioni civili delle città italiane erano invece la resultanza di antichissimi ed ottimi sistemi; e quindi queste ultime continuarono a vivere per forza propria e non per forza ed opera della Chiesa, anche dopo che fu sparito l'Impero ed il suo pesante organismo burocratico.

La pieve è il pago italiano: esso si mantiene perchè il suo territorio consta di terre private proporzionatamente completate da terre comuni; i cui prodotti trovano nel convegno settimanale del capoluogo ed in quello più raro della città lo smercio opportuno.

La processione pagana prima, le rogazioni cristiane poi, girando i confini del pago e della pieve, cooperano a mantenerli fissi, ma non li determinano.

Basta pensare, infatti, che il pago sopravvisse alle leggi Giulie, le quali avrebbero voluto abolirlo: da allora all'epoca del trionfo del cattolicismo troppo tempo intercorse, perchè si possa attribuire alla Chiesa la virtù di averlo fatto resistere.

La pieve cittadina è costituita anch'essa da un antichissimo pago, il pagus suburbanus, che chiude nel suo interno la città che ne è il capoluogo. Eppure, malgrado lo spirito di fratellanza della Chiesa — del resto molto minore di quanto generalmente si ritiene — i suburbani non sono mai equiparati agli urbani e la differenza, [297] mantenuta rigidamente anche dalla Chiesa, non è certo di creazione ecclesiastica, anzi deve essere soltanto accolta dalla Chiesa come forza irriducibile delle istituzioni laiche e civili.

A soddisfare i bisogni della società italiana di quel tempo, costituita dai nuclei di eredità romana, per numero e per civiltà prevalenti, e dagli elementi langobardi preminenti per posizione sociale e per forza di armi; mentre i due maggiori organismi, lo Stato e la Chiesa, erano entrambi per ragioni diverse egualmente impossibilitati a soddisfarvi, agì un altro e diverso organismo: la città.

Incapaci di concepire, non che di formare un ordinato sistema di governo, spinti a conservare le divisioni territoriali dalla convenienza che presentavano per la esazione dei tributi, i Langobardi accettarono tutto l'organismo che serviva a questa esazione e che resultava dall'insieme di numerosi e diversi elementi, i quali l'intimo e antico contatto aveva fusi armonicamente ed abituati da secoli a funzionare.

Il regno fu diviso in ducati, ognuno dei quali normalmente corrispose al territorio di un antico municipio o di più municipi riuniti, e la città che era capoluogo di quello, fu sede anche del duca o del gastaldo, e con lui naturalmente, dei famigliari e dei nobili che gli si raccoglievano intorno ed ai quali offriva sicurezza e difesa, maestosi edifici e agi sconosciuti ma presto apprezzati.

Con le mura e con le torri la città si prestava a facile difesa, poichè per la sua ampiezza poteva accogliere buon numero di armati ed era la sede dell'autorità pubblica ed il naturale punto di riunione da ogni parte della regione. Essa serviva inoltre a mantenere la pace e la tranquillità interna delle classi; e a questo scopo, secondo il sistema penale germanico, fu aggiunta un'altra penalità a quella normale per ogni delitto, allorchè fosse commesso entro le mura.

Così il centro urbano acquistò nel diritto pubblico [298] langobardo una speciale consistenza giuridica di fronte a tutti gli altri centri, anche se cinti di mura; in quanto che questa maggiore protezione, essendo stata accordata alla città perchè capoluogo di una regione, fu tolta in modo preciso e assoluto a tutti gli altri, i quali vennero a trovarsi in una condizione riconosciuta e consacrata legalmente inferiore.

A proteggere in tal modo la città il legislatore langobardo fu mosso da ragioni di convenienza e di polizia: ma, intanto, sia pure involontariamente, esso veniva a convalidare, in modo mirabile, il concetto giuridico italiano della città: sicchè le antiche tradizioni che rendevano le mura cittadine oggetto di un vero e proprio culto, si mantenevano in vita con una continuità che dalle più remote leggende d'Italia e di Roma fluisce ininterrotta per tutto il medioevo fino all'età dei Comuni.

Si formò così il principio della pace speciale, che faceva della città un suolo giuridicamente privilegiato e aumentava l'importanza sociale di coloro che vi abitavano.

La città aveva conservato lo scheletro suo primitivo: anzitutto il suburbio, immiserito ed in qualche parte, magari, deserto, ma sempre ad essa legato ed avvinto dal bisogno della difesa e dalle necessità del mercato, era tuttora designato col classico nome delle leggi di Costantino e delle epigrafi più vetuste, e continuava a sussistere con l'antichissimo e speciale regime. In secondo luogo le terre comuni: il titolo giuridico ne era cambiato; ma ciò, dati i tempi, non modificava la destinazione e l'indole della loro consistenza giuridica.

La città, infatti, anche nello Stato in cui era discesa al tempo dei Goti, era pur sempre un organismo non solo capace di vivere — e lo dimostrò sopravvivendo all'impeto della conquista — ma di gran lunga superiore al più valido organismo di governo barbarico.

Come capoluogo del territorio sottoposto alla sua giurisdizione, essa continuava ad attirare in sè quel po' di commercio che si poteva tuttora sviluppare e forniva [299] gli oggetti e gli artifici richiesti dalla vita sociale continuando l'antica tecnica del mestiere; ed accanto a questo mercato non frequente nè intenso, se ne manteneva in vita un altro, periodico e settimanale, che non si estendeva al di là del suburbio, ma che forniva alla città gli elementi necessari alla sussistenza.

La città doveva inoltre fornire facile ricetto a quei Langobardi che, nelle nuove condizioni sociali, avevano perduto le terre guadagnate con la conquista, perchè il gruppo cittadino, composto di italiani, ad essi non poteva rifiutar l'ammissione; mentre i beni comuni rimasti alla città consentivano al nuovo venuto una condizione di esistenza di gran lunga migliore di qualsiasi lavoratore della terra.

Anche a questo riguardo avvenne ai Langobardi quanto era avvenuto per la loro conversione. La città, composta di elementi cattolici e vinti, fu sottoposta a tributo insieme col suo suburbio, nei primi tempi dell'invasione e la ripartizione fra i quartieri di questi tributi, di cui città e suburbio erano solidalmente responsabili, spettò ai soli urbani, i quali ne decidevano nella generale antichissima riunione, che si teneva davanti alla Chiesa.

Quando la conversione religiosa ebbe cominciato ad avvicinare un po' i vincitori ai vinti, i Langobardi convertiti frequentarono, naturalmente, le riunioni in cui si trattavano gli affari di maggiore importanza della Chiesa e siccome nello stesso modo e con le medesime forme si trattavano anche quei pochissimi affari di natura civile, che erano rilasciati alla cittadinanza dall'autorità pubblica; così anch'essi si trattarono insieme con gli altri.

La cosa era resa tanto più agevole dal fatto che la cittadinanza, fino dal tempo goto, formava un unico collegio — collegium civitatis — che era composto dei soli urbani; era cioè una forma associativa rudimentale, facilmente accessibile alle menti rozze dei Langobardi e nello stesso tempo arieggiava l'originaria costituzione [300] germanica della marca, in quanto che solo gli urbani godevano di facoltà sui beni pubblici e sulla cosa pubblica; così come ai soli commarcani era dall'antico sistema germanico concesso ogni potere.

I Langobardi, entrando in quest'organizzazione, come erano entrati nella Chiesa cattolica e cioè individualmente e alla spicciolata, furono assorbiti da questa come dall'altra ed in breve stretti dai vincoli della Chiesa, vennero immedesimati nella città. Tale assorbimento, aumentando l'importanza della città, faceva sempre più decadere le antiche ed originarie istituzioni langobarde; mentre, d'altro canto, l'assemblea generale del regno era asservita al re e quella locale ridotta solo, mutando le facoltà originarie, ad amministrare la giustizia, andava perdendo lentamente anche la ragione di esistere.

Quando con Carlo M. fu istituito lo scabinato, il maggior vantaggio di questo colpo portato all'antico sistema langobardo, lo sentì la città, che col privilegio, stabilito per legge, della nomina degli scabini, ebbe, oltre l'assemblea per trattare gli affari politici, anche un tribunale proprio per giudicare le controversie minori; ma appunto perchè minori più frequenti e quindi più importanti, fra i suoi componenti.

Entro la città vi era inoltre il rappresentante dello Stato e lo Stato ha anch'esso cooperato a formare la costituzione della città — piuttosto negativamente — è vero, ma la sua azione è innegabile. La riduzione del concetto di cittadinanza al concetto di urbanitas è la conseguenza dell'opera germanica nell'elaborazione di elementi italiani; e il maggiore sviluppo dell'assemblatorio cittadino si ottiene quando la massa dei Langobardi gravita in esso aumentandone il peso e l'importanza.

Più difficile è determinare l'importanza reciproca e la posizione scambievole della chiesa cittadina e della cittadinanza.

Mentre lo Stato langobardo si sovrappone dovunque alla città nello stesso modo; la Chiesa si è insediata [301] luogo per luogo, inspirandosi allo stesso fine ma impiegando mezzi diversi; e le conseguenze di questo modo di procedere, sensibile a parecchi secoli di distanza, è stato accompagnato anche da varie cause speciali; fra le quali, prima di ogni altra, la maggiore o minore rapidità dei Langobardi a convertirsi e ad entrare nell'ingranaggio religioso e cittadino.

A Lucca, per esempio, sino dai primi documenti, vediamo assimilati ai cives anche taluni gruppi di arimanni che non son certo italiani e accanto ai notarii ecclesiae, diffusi dovunque, compaiono degli scabini ecclesiae di cui non si ha traccia altrove, così come altrove non si ha traccia di un curator investito di carattere ecclesiastico; nè fuori che a Lucca si trovano dei lociservatores di così intenso sapore ecclesiastico.

Ma la costituzione lucchese si può considerare, per certi rispetti, eccezionale. Del resto essa non contraddice affatto all'asserzione che il primo posto, nella organizzazione civile, è tenuto dalla cittadinanza.

Esternamente ed apparentemente la Chiesa sembra avviarsi ad una grande preminenza: riconosciuta al vescovo la facoltà di cooperare col conte all'amministrazione della città e ridotto poi quest'ultimo quasi esclusivamente nella campagna; i re d'Italia prima, gli Ottoni in seguito fecero del vescovo il caposaldo del loro governo.

Ma in realtà i vescovi agiscono non come capi di una diocesi; ma come preposti alla pieve cittadina. E il loro potere è l'esponente del potere della città. È ad essa, ai suoi componenti e cioè ai cives che spetta il primo posto.

Questi cives, isolati dai Goti e dai Langobardi, si stringono fra loro in un nucleo tenace, che, assorbendo l'elemento germanico, gli imprime il suo suggello e ne adopera l'energia a far salire il proprio livello.

I cittadini hanno il proprio notaro, che è l'antico notaro della città. Al tempo romano era l'attuario delle curie, perchè nelle curie si raccoglieva il governo cittadino: [302] ora che la città si riduce a nuove condizioni, esso diviene il notaro dei cives; e accanto a questa istituzione, che conserva le antiche tradizioni, continuano a vivere anche altre forme antiche: il curator, con funzioni finanziarie, il perequator, il racionator etc.

E con i cives, naturalmente, cresce d'importanza la civitas.

Ma il suo sviluppo ha dei limiti: nelle condizioni generali dell'agricoltura povera ed abbandonata e nell'impossibilità da parte dello Stato germanico, di coordinare le varie energie locali. Questi limiti fecero sì che l'energia cittadina — energia economica ed energia giuridica — non si estendesse al di là del suo suburbio. Così che il regno fu spezzato e rotta l'antica unità del territorio col suo capoluogo, chè, mentre questo rapidamente progrediva, quello rimaneva inattivo; mentre nella città cresceva in potenza l'organo che meglio rispondeva alla sua organizzazione, e cioè il vescovo: nella campagna il potere restava affidato agli organi dello Stato germanico che meglio rispondevano ai bisogni di un'economia eminentemente terriera.

Quando il movimento ascensionale della città raggiunse un grado tale da permetterle di avere un magistrato tutt'affatto proprio — il consolato —; il contado all'intorno era ancora tutto soggetto alle grandi signorie laiche, le quali separavano le varie città l'una dall'altra senza alcuna coesione d'indole generale e superiore.

Così strette da un cerchio economicamente e politicamente diverso ed ostile, le città svilupparono un diritto pubblico che s'imperniava tutto sull'appartenenza non ad un regno ma ad una città e che entro lo stesso regno contrapponeva città e città, fino ad originare la rappresaglia; e, siccome il centro di questa organizzazione restava la città murata, cittadinanza e urbanitas furono sinonimi.

Era la cittadinanza medioevale ed il nuovo diritto pubblico italiano.

Ma questo sviluppo non sarebbe stato possibile, se [303] l'energia economica e sociale non fosse stata regolata e guidata con norme opportune ed appropriate. Ed anche a questo provvide la città, la quale, specialmente dopo l'istituzione dello scabinato, elaborò consuetudini e norme giuridiche proprie, per cui dallo scheletro scarno dell'Editto si giunse allo studio sistematico del diritto: alle Pandette.

Mentre il Comune drizza superbo il suo bel gonfalone, torna a farsi sentire la voce solenne degli antichi giuristi e l'Italia rinasce a nuova vita.

Così, sia pur in modo imperfetto e sommario, si possono tratteggiare le vicende della costituzione giuridica delle nostre città tosco-lombarde.

Da questa ricerca scaturiscono, a mio modo di vedere, due conclusioni: una d'indole generale, di indirizzo e di metodo; l'altra, che in parte rientra in questa e che direi di proporzione.

Quando Roma ebbe con fortuna iniziato quel gran movimento ascensionale che toccò culmini non più raggiunti, faro luminoso, centro di ogni specie di attività, attrasse, costrinse a sè le energie di tutti i territori soggetti al suo dominio, e la sua lingua, la lingua della signora di tutto il mondo, fu la lingua dell'universo e scrittori d'ogni provincia accolsero, coltivarono, perfezionarono quella che sola aveva dignità di lingua, di fronte alle altre parlate, che non erano che dialetti: così come il suo diritto era il diritto per eccellenza e rétori e poeti, filosofi e grammatici, storici e giuristi furon tutti dominati dalla sua grande potenza.

Più tardi, quando questa potenza cominciò a decadere, l'idea grande di Roma non decadde. Non decadde allora e non sparì in seguito: nemmeno quando il mondo attonito seppe violate e rotte dall'orda famelica e disordinata dei barbari tante volte nei secoli percossi dall'aquila superba, le mura fatali che Annibale, vincitore di numerose e cruente battaglie, invasore felice di tre paesi, conquistatore fortunato di quasi tutta l'Italia, non aveva osato avvicinare. Nemmeno allora sparì: si [304] trasformò. Divenne il più caro, il più santo dei ricordi e delle tradizioni e fu il termine di paragone delle fervide menti avide, nel doloroso presente, del ritorno di un passato luminoso di vittorie e di prosperità, e del tempo felice in cui l'immensa pace romana copriva del suo manto maestoso quasi tutto il genere umano. E a render più saldo questo culto nel tempo in cui la religione era senza dubbio il conforto maggiore; il dolce cantor di Virgilio, per divina volontà quasi profeta di una venuta che doveva trasformare il mondo, legava con vincoli spirituali sempre più intensi l'antico mondo al nuovo.

Le antiche tradizioni popolari di giustizia, di diritto, di tecnica del mestiere, che erano e risalivano al tempo romano, furono credute — e non tutte lo erano — romane ed ogni città volle vita ed origine da Roma e da quelli che in essa raggiunsero fama e splendore; e queste antiche leggende, queste tradizioni vetuste nel remoto medioevo furono la vita spirituale delle nostre città, in cui notai e giudici avevan continuamente sott'occhio formule e parole d'antichi tempi, e in cui la Chiesa continuava a parlare al cuore con la voce di Roma, simbolo superbo di gloria e di redenzione per il popolo italiano.

Nell'800 un re franco di grande ingegno e di grande potenza, ma barbaro, non italiano, intese, cingendo in Roma la corona, di continuare, non di far rinascere — chè rinasce solo ciò che è morto — l'antico Impero.

Fu un'utopia, ma un'utopia di tal forza che ha vissuto fino al secolo decimonono, incardinando per secoli il diritto pubblico dell'Europa intiera: qual prova maggiore di intensità e di forza per una tradizione?

Di poche diecine d'anni è posteriore il primo documento a noi noto in cui appaiono i primi segni del differenziarsi di nuove lingue sul gran fondo comune della lingua romana e da allora, più intensamente che altrove, la tradizione di Roma si consolida in Italia; nell'Italia [305] che da Roma e da Roma sola voleva trovar l'origine per le sue molteplici città.

Queste tradizioni si maturano, si ampliano nei secoli e sbocciano gloriose nel fulgore delle repubbliche, che si specchiano in Roma, e che assurgono a nuova civiltà, fino al trionfo dell'Umanesimo, che ridestò intiera l'antica gloria.

Anche in seguito, pur spezzata, frazionata, divisa e sottoposta al dominio straniero, l'Italia sentì la sua unità nella grande discendenza da Roma: e tutti gli scrittori di storie locali, che dal cinquecento all'ottocento hanno illustrato le vicende della propria patria, ne iniziaron le origini con la discendenza da Roma e da Roma mossero alberi genealogici e costruzioni sociali.

All'epoca del nostro riscatto, Roma, Roma la grande, fu contrapposta al barbaro ed all'oppressore e sui campi cruenti delle battaglie, nell'oscure torture delle prigioni e dei patiboli, gli esempi di amor di patria dell'antica Roma sostenevano i forti spiriti dei martiri e degli eroi, mentre nella bocca e nella mente del popolo l'incitamento alla vittoria suprema suonava nell'alata parola del poeta che all'itala madre cingeva il superbo elmo di Scipio.

Nè gli studiosi della nostra storia giuridica si sottrassero a questa corrente; troppo compresi della gran lotta per l'indipendenza per non ricollegare agli antichi i nuovi oppressori.

Il culto di Roma tocca l'apogeo con Federigo Carlo di Savigny.

Questo illustre e geniale tedesco, studioso eminente del diritto di Roma, sentì, guidato sui primi passi dal genio di un grande, sebbene quasi dimenticato, italiano — Antonio d'Asti — sentì che quel complesso meraviglioso di norme, frutto di lunghi secoli e di studî mirabili, non poteva morire, non poteva esser morto; sentì che quel paese, ove tanto fuoco aveva per secoli scaldato le menti, regolato i rapporti, guidate le azioni, doveva, pur nel più gelido stato, conservarne pure le faville [306] sotto le ceneri; ed ideò una costruzione storica, per cui il diritto di Roma si manteneva in vita per tutti i secoli del medio evo, e la costituzione romana, abbattuta ma non mai estinta, si reggeva pur col passar dei secoli e delle stirpi, per risorgere a nuova vita, mentre a nuova vita risorgeva lo studio del diritto all'epoca comunale.

Fu grande questa concezione e luminosa quant'altra mai; e il Savigny conta fra gli spiriti vivificatori della nostra stirpe e del nostro paese; come grandi resultati portò il metodo storico e giuridico da lui inaugurato.

Ma Roma non è, non è mai stata l'Italia. Questa tradizione che fa capo a Roma, e a Roma soltanto, deve ora essere ristretta ai suoi naturali confini; e deve cessare il metodo che Roma e il diritto romano vuole esclusivamente cercati nel corso della storia italiana.

Roma rappresenta un'eccezione e come tale, per la sua immensa importanza, ha e deve avere gli studiosi della sua storia, della sua costituzione e del suo diritto. La regola è data dalle altre città ed è la costituzione di queste città, non affatto quella di Roma, che porge gli elementi, che sopravvivono al tempo romano e che a contatto con gli elementi germanici producono un nuovo periodo storico. Dunque anche questa costituzione deve aver il suo storico ed il suo studioso e questi deve essere lo storico non del diritto e della costituzione di Roma, ma della costituzione e del diritto d'Italia.

Come Roma non è l'Italia, così la costituzione e il diritto di Roma non sono tutto il diritto italiano. E se noi vogliamo conoscere la nostra storia dobbiamo sceverar la storia d'Italia da quella di Roma, tenendo di questa il debito conto, sì, ma come parte di un tutto che è nato prima di lei, ha vissuto in modo diverso e separato da lei e che quando quella è morta — perchè Roma, come città antica, è veramente morta — non solo non si è spenta con lei, ma ha fornito gli elementi e i fondamenti della nuova costituzione. Noi dovremo studiare il nostro diritto, non soltanto contrapponendolo [307] e distinguendolo da quello degli altri popoli stranieri, ma anche da quello di Roma stessa.

E valga il vero.

L'Hegel, con una ricerca poderosa, ha troncato il sogno così caro al Savigny della continuazione delle antiche curie romane nel consolato medioevale; pochi anni fa il Solmi ha fatto altrettanto per le corporazioni; dimostrando che le corporazioni medioevali non si riattaccano affatto a quelle del tempo romano.

Ma, diciamolo forte, con questo non si apre un baratro fra l'evo antico ed il medio. La continuazione esiste ed esiste ugualmente, ma deve essere ricongiunta alle primi origini della costituzione dell'Italia: dell'Italia, non di Roma.

Tali almeno le risultanze delle ricerche di questo studio. E se anche queste resultanze dovessero essere riconosciute inesatte o completamente errate; altre prove e più sicure si dovranno portare in suffragio di quest'asserzione.

Quando, abbandonato l'antico preconcetto per il quale si riteneva che le leggi langobarde dovessero considerarsi come depositarie del più puro diritto germanico; se ne intraprese un esame più accurato: apparvero in esse tracce non dubbie di un diritto che fu detto romano e giustamente, perchè emanato dagli Imperatori di Roma. Ma quest'espressione apparve ben presto troppo generica.

Il Nani rilevò che fra il diritto romano puro e l'Editto langobardo c'era stata una elaborazione della legge romana che aveva servito di tipo al legislatore langobardo. Ed il Tamassia, poco dopo, identificava questa elaborazione intermedia nella Lex Romana Visigothorum, più comunemente nota col nome di Breviario Alariciano, che è una riduzione ed un compendio del Codice Teodosiano; pur mettendo in rilievo che nell'Editto stesso si trovano tracce, oltre che di diritto visigoto ed ecclesiastico, anche di diritto giustinianeo e di un diritto che, sull'esempio del Brunner, chiamò volgare.

[308]

E contemporaneamente al Tamassia allo stesso scopo dedicava profonde e fruttuose ricerche il Del Giudice; mentre il Calisse dimostrava che il diritto classico italiano aveva mantenuto la sua fisonomia anche dopo la legislazione giustinianea, così sulle leggi langobarde come nei documenti di quel tempo.

Così a proposito della fiera ferita, degli sponsali sciolti per ingiustificato ritardo di un biennio ad effettuare le nozze, della perdita totale dell'usufrutto per parte della vedova passata a seconde nozze, dell'affrancazione dei servi, delle scritture contrattuali, delle forme degli atti e del numero dei testimoni, della mancipazione nella donazione e nella vendita, dell'uso frequentissimo di dichiarare cittadini romani i servi manomessi, della fiducia, del testamento, della falcidia.

E il quadro generale fu confermato col resultato degli studii del Tamassia sull'alienazione degli immobili, sul testamento del marito, sulla falcidia etc. e di quelli, numerosi, del Besta; mentre nuovi studii pubblicati e nuovi documenti messi in luce rivelano nuove tracce dell'antico diritto italiano, dalla mancipatio al diritto del passo necessario.

Orbene questo diritto, che qualche volta è stato detto teodosiano, è più propriamente italiano ed esso deve essere messo in relazione e completato con tutti gli altri elementi giuridici conservati dalle consuetudini, dagli statuti, dai documenti, e da ogni altro materiale, che ci ha serbato notizia della nostra vita giuridica.

Il Brunner ha chiamato diritto volgare questo diritto, che considerò come una modificazione, una storpiatura del diritto romano, per opera di elementi locali. L'espressione non è esatta e il suo pensiero non ha colto nel vero. Ciò che a lui parve un fenomeno particolare ed eccezionale è invece un fenomeno generale e complesso per il quale le norme giuridiche e le consuetudini delle varie regioni d'Italia sono state inquadrate dal diritto romano, ma non soprafatte e annientate. Dal diritto romano risulta infatti da un lato l'autonomia [309] concessa alle varie regioni italiane — e questo è già qualche cosa per la storia della costituzione giuridica dell'Italia — e da un altro — e questo è infinitamente di più perchè è proprio l'ossatura intima della costituzione italiana — che le norme e le consuetudini locali ebbero un'importanza preponderante e devono esser considerate come l'elemento principale, il quale, nelle sue varietà regionali, è stato coordinato dal diritto romano, ma non distrutto.

La distruzione comincia più tardi: quando con la scuola di Bologna assurge al primo posto il diritto giustinianeo e questo diritto si diffonde e si applica in tutta l'Italia.

Storia italiana, dunque, fatta con elementi italiani.

Accettando, poi, almeno nelle linee generali, le conclusioni delle nostre ricerche si è tratti anche ad una altra considerazione, pur essa di metodo.

Se la città italiana ha conservato una fisonomia propria e durante l'epoca langobarda e quella franca è andata acquistando sempre maggiore importanza e consolidandosi in un assetto giuridico sempre più completo, tanto che l'evoluzione è terminata quando sono sbocciati i Comuni, quando cioè, l'Italia superiore e media è apparsa costituita di città libere; è chiaro che nè lo Stato, che ne ha permesso il primo e l'ulteriore sviluppo, nè la Chiesa, che per un tempo abbastanza lungo, per mezzo dei vescovi, ha tenuto il governo delle città, sono state le forze veramente direttive della società italiana di quel tempo: se avesse prevalso l'autorità regia, avremmo avuto una costituzione simile a quella franca; se avesse avuto il predominio l'autorità ecclesiastica, si sarebbe dovuto finire in qualche cosa di simile allo Stato della Chiesa. Dunque l'organismo più potente, l'elemento centrale della nostra storia e della nostra costituzione è la città.

Orbene se questo è, ne consegue che la città deve essere considerata come punto di riferimento e di partenza [310] per la risoluzione dei più gravi problemi, che interessano la nostra storia giuridica.

Tutto il fenomeno storico della nostra costituzione si svolge intorno ai cardini della città; dunque è la città che ne è il centro e da questo centro si deve muovere.

Ma dire città val quanto dire elemento laico, elemento civile, elemento italiano, chè la Chiesa è universale e lo Stato è rimasto per lunghi secoli straniero.

Auguriamoci che la storia d'Italia la facciano gli Italiani.

[311]

INDICE

I. La città romana gota e bizantina.
 
§ 1. L'antica cerchia di Roma primitiva.
    Le origini di Roma Pag. 1-4
    Il vallo e la fossa 4-6
 
§ 2. La cerchia murata del IV.º secolo av. Cr.
    Patres, patres minores e plebei 6-9
    Importanza delle mura 9-10
 
§ 3. I mille passus. Determinazione territoriale 10-12
 
§ 4. Determinazione dei mille passus rispetto alle magistrature.
    Il domicilium 12-14
    Condizione giuridica speciale dei beni dei minori situati entro i mille passus 15
    Esegesi dell'orazione di Severo — sua interpolazione 16-17
    Origine della distinzione dei beni in urbani, suburbani e rustici 18-19
    La fiducia 19-20
 
§ 5. Mille passus, urbs e suburbium.
    La preminenza degli urbani 20-23
 
[312]
§ 6. Differenze fra Roma e le altre città. Pomoerium e continentia aedificia.
    Equiparazione dei continentia aedificia al suolo intramurano a Roma 23-25
    Carattere eccezionale per Roma di questa equiparazione 25-26
    Origine e cause 27-28
 
§ 7. Determinazione dei mille passus rispetto ai plebei.
    La plebs extra muros posita 28-29
    Esegesi del tit. 55 del lib. XI. del Cod. Giustinianeo 29-34
    Condizione giuridica di questa plebs 34-39
    Sua importanza come classe sociale 40
 
§ 8. Determinazione dei mille passus rispetto ai beni pubblici. I beni pubblici nel diritto romano. Esame e critica della teoria del Rudorff 40-48
    Triplice distinzione di essi fatta dalle fonti 49-51
    Diritti degli urbani a questo riguardo 52-53
 
§ 9. Determinazione dei mille passus rispetto al culto.
    Il pagus suburbanus 53-55
 
§ 10. Città e campagna negli ultimi tempi dell'Impero romano d'occidente.
    Trasformazioni del governo della città durante la decadenza 55-57
    Riammissione dei plebei prima esclusi 58-61
    Cause e conseguenze 62-64
 
§ 11. La conquista gota.
    Il collegium cittadino 64-68
    I beni pubblici 69
 
§ 12. Città e campagna sotto i Bizantini.
    Sopravvivenza della condizione giuridica della plebs extra muros posita 69-71
 
[313]
§ 13. Le divisioni territoriali interne della città.
    I quartieri. 71-73
    Loro attribuzioni 74
    Quartieri, corpora e numeri 75-77
 
§ 14. Conclusione. 77
 
II. La città langobarda-franca.
 
§ 1. Territorium.
    Continuazione delle divisioni territoriali civili romane e loro coincidenza con quelle ecclesiastiche 79-80
    Eccezioni a questo sistema dovute non a perturbamenti del tempo langobardo ma a preesistenti pagi italiani 81-83
 
§ 2. Suburbium.
    La legge di Carlo Magno 84
    Traccie e denominazione 84-86
    L'espressione intra civitatem usata nei documenti medioevali per indicare il suburbio e la legge dell'imperatore Costantino 87-90
    Estensione del suburbio diversa da regione a regione ma sempre antichissima 91-96
    Condizione giuridica speciale dei suoi lavoratori mantenutasi dal tempo romano 97-104
 
§ 3. Campanea.
    Esistenza di un territorio strettamente cittadino 104
    Sua differenziazione così dal suburbio come dal comitato 104-109
    Sua natura giuridica 109
 
§ 4. Bona publica e arimannie.
    Origine e natura delle terre arimanniche 109-110
    Esame e critica delle varie opinioni degli scrittori a questo riguardo e specialmente di quella del Checchini 112-117
[314]
    Le famose arimannie mantovane 118-120
    Il publicum 121-122
 
§ 5. Il populus cittadino.
    Sua costituzione resultante dall'unione dell'urbs col suburbium e con la campanea 122-123
    Origine e natura di questa unione 123-126
    I famigerati populi di Paolo Diacono 127-132
 
§ 6. I suoi elementi: pars ecclesiae, pars publica, cives.
    Notarius regis, notarius ecclesie e exceptor civitatis 132-134
    I cives di Verona 134-136
    Continuazione dell'antico sistema italiano per il quale alla riparazione delle mura e degli edifici pubblici concorrono lo Stato, la Chiesa cittadina e i cittadini 136-142
    Eccezione fatta a questo riguardo dalla c. d. Legge romana udinese 137-138
    I cives di Cremona 138-145
 
§ 7. La Chiesa come istituzione cittadina. La pieve: origine, elementi, sviluppo e modificazioni. Origine della parrocchia a tipo moderno: le chiese cardinali.
    Numerosi elementi da cui risulta l'azione della Chiesa e necessità di sceverarli ed esaminarli partitamente 145-146
    Sistemi di propaganda 147
    Differenze fra gli ordines officiorum delle varie chiese 148-150
    Origine, natura ed importanza di queste differenze 150-152
    La pieve 152-153
    Sua sovrapposizione all'antico pago italiano 153
    Elementi di questo rintracciabili attraverso la pieve cristiana. Communia, vicanalia e interconciliaricia 153-161
    Munitio e magistri pagorum 161-162
[315]
    Feriae pagorum 162-163
    Sistema tenuto dalla Chiesa cattolica 163-166
    La pieve cittadina 166-175
    Inizio, sul finire del secolo ottavo, della sua differenziazione dalla pieve rurale 171
    Allargamento del suo territorio. Decima novalium e fondazione di nuove cappelle estendentisi anche ultra suburbii fines 171-174
    Inizio di una speciale officiatura delle chiese dei santi più venerati 175-177
    I decomani milanesi 178-179
    La chiesa di S. Ambrogio di Milano e il diploma arcivescovile dell'anno 789 179-180
    Altri privilegi concessi a questa chiesa dall'arciv. Tadone nell'866 181-183
    Chiese decumane, cardinali e sedali 183-187
    Le caratteristiche di queste chiese. La parrocchia moderna 188-189
    Ordo laico e ordo ecclesiastico. Derivazione di quest'ultimo dall'ordo civile del municipio italiano 189-190
    Ordinarii e ordinarii cardinales 190-194
    Azione ed intervento dei laici nelle elezioni 194-198
    La consacrazione. — La consacrazione delle chiese cardinali 199
    La mensurna divisio dei primi secoli 199-200
    Sua trasformazione da offerta volontaria in collecta obbligatoria 200-202
    Origine della decima 202
    Decima franca e decima italiana 202-206
    Il rifacimento degli edifici del culto 206-207
    Le oblazioni: loro trasformazione da volontarie in obbligatorie 207-208
    Condizione speciale, a questo riguardo, delle chiese cardinali 208-209
    I beni della Chiesa 209-213
    Le chiese cardinali e l'origine del beneficio ecclesiastico 213-215
 
[316]
§ 8. Il mercato cittadino.
    Estensione 216-220
    Sistema di scambio 220-221
    Generi di scambio 221-227
    Ubicazione 227-229
    Azione ed importanza 229-235
 
§ 9. Il centro urbano e la sua natura giuridica.
    Urbs, castrum e vicus 235-237
    Continuazione dell'antico sistema italiano per il quale le maggiori facoltà erano prerogativa esclusiva degli urbani 237-244
    Azione della città 244-246
    Azione del diritto pubblico germanico 246-247
    Pace romana e pace germanica. Civis romano e urbanus medioevale 247-249
 
§ 10. L'assemblatorio cittadino.
    Il communi consensu richiesto dalla legge dell'anno 400 per l'alienazione dei beni delle città 249-250
    Il conventus ante ecclesiam e l'Editto di Rotari 250-252
    Continuazione dell'antica assemblea degli urbani 252-253
    Il praeceptum dei Piacentini 253-255
    L'asamblatorium di Milano 255
    Asamblatorium, consulatus e origine del Comune 255-258
 
§ 11. L'assemblea regionale longobarda.
    Gli antichi anfiteatri romani e il termine parlascium con cui sono indicati nei documenti medioevali 258-261
    Traccie della coesistenza di due diverse riunioni in epoca remota 261-262
    L'assemblea regionale langobarda 262-263
    Suo decadimento fino ad esser ridotta ad esercitare una funzione quasi esclusivamente giudiziaria 263-265
    Riforma di Carlo Magno. Lo scabinato 265
    Il placito 265-266
 
[317]
§ 12. Azione dell'uno e dell'altra nella costituzione della città.
    Elezione degli scabini 266-268
    Loro competenza. Il consolato del placito 268-270
    Assemblatorio e placito 270
    La costituzione dell'Italia e quella degli altri paesi 271-274
 
§ 13. Le divisioni territoriali interne della città.
    Continuazione degli antichi quartieri italiani 274-275
    Loro rapporti reciproci e con la città 275-276
    Costituzione interna 277
    Importanza 277-278
    Compagine della città 278-280
 
Conclusione. 281-310

NOTE:

1.  I dati non discussi sono tolti dalla geniale storia del diritto romano del nostro Bonfante (Milano, 1910) e dalle opere fondamentali del Mommsen e del Marquardt (Paris, 1888-93).

2.  Cuq E. Les institutions juridiques des Romains. Paris. 1891, pag. 38.

3.  Recenti studi ormai accolti nella scienza (vedili citati in Pacchioni G. Corso di diritto romano, vol. I. Innsbruck 1905 pag. 6) hanno dimostrato come sia erronea l'opinione comune, fin qui dominante, che trovava il significato originario di pater in vincoli di parentela. Questo senso è anzi completamente da escludersi: i resultati etimologici danno la sola ed unica idea di dipendenza.

4.  Cfr. la nota di N. Tamassia nella Rivista Italiana per le Scienze Giuridiche vol. XXII a. 1896 pag 870 e segg., le cui conclusioni sono accettate anche dallo Schupfer (ibid. vol. XXXV a. 1903, pag. 13).

5.  Pais E. Storia di Roma, vol. I, parte I. Torino 1898, pag. 218 e segg. e 268 e segg.

6.  Cfr. De Marchi A. Ricerche intorno alle insulae o case a pigione di Roma antica in Mem. del R. Ist. Lomb. classe lett. sc. stor. e mor. 1891 ser. III vol. XVIII-IX pag. 244.

7.  È merito del Niebuhr (Vorträge über röm. Alterthümer 1858, pag. 168 e segg.) aver pensato per il primo che l'«ambitus» fosse prescritto per non funestare, quando c'era un morto, la casa del vicino.

8.  Pais loc. cit. pag. 217.

9.  Ritengo non accettabile la teoria che ha tentato di mettere il mito dell'uccisione di Remo in relazione con l'obbligo della difesa della città contro il nemico a cui il passaggio non deve esser possibile che vinto e sotto le forche caudine, e ciò perchè le forche consistendo in una lancia posta trasversalmente su altre due infisse in terra viene a riprodurre simbolicamente la rappresentazione di una porta e si lega dunque a questa.

Si può osservare in contrario anzitutto che il culto delle mura, come ho detto, è posteriore a quello della fossa e del vallo; poi che numerose leggende lumeggiano la difesa della città; e, infine, l'esistenza di anteriori gruppi vicinali fuori del vallo stesso.

10.  Tramandataci da Gellio XIII, 14.

11.  Ciò è tanto vero che nel caso in cui manchino magistrature patrizie, l'«jus auspiciorum» ritorna ai «patres». Cfr. Willems P. Le droit public romain. Louvain 1883 pag. 240 e pag. 293.

Del resto insieme con i discendenti degli antichi «patres» entravano a far parte dei patrizi anche talune delle principali famiglie nemiche vinte, alle quali si concedevano subito la piena cittadinanza ed il diritto agli onori. Il Pais (ibid. I. 2. pag. 293) dimostra che tale procedimento si seguì con i Nomentani, con gli Aricini, con i Lanuvini, con i Pedani etc.

E questo spiega anche — a mio credere — perchè nella lunga lotta delle origini invece che schiatte, genti o tribù emergano contrapposti i due soli elementi dei patrizi e dei plebei.

12.  Pais loc. cit. I. 1. pag. 331 e I. 2. pag. 341 nota.

13.  Id. ibid. I. 2. pag. 207-8.

14.  Bonfante P. Diritto romano. Firenze, Cammelli 1900. special. pag. 157 in cui sono raccolti i resultati di numerosi suoi lavori, diretti a chiarire questo punto importantissimo del diritto di Roma.

15.  Il Cutrona (Circolo Giuridico 1904, pag. 218-228), in una sua indagine sulla proprietà agnatizia in Roma, sostiene che i diritti dei «filii familias» siano dei diritti riflessi a nessuno dei quali è data in tutela un'azione diretta: non che il figlio, nessuno, per esempio, avrebbe azione per impedire al padre di spogliare i suoi discendenti; indirettamente, però, l'assemblea, tutelando gli interessi della collettività, provvede agli interessi di questi figli. Ma, a parte l'esattezza di alcune comparazioni con altri popoli primitivi, il Cutrona si limita a mettere in luce il fatto, facilmente comprensibile, che l'organo tutore della collettività protegge indirettamente anche quei componenti che, pur non essendo con essa in immediato contatto, fanno parte integrante e vitale del nucleo sociale.

16.  Il Mommsen, Disegno del diritto pubblico romano trad. Bonfante Milano, 1895 pag. 33, trova ozioso avanzar delle congetture sul rapporto tra le case di città in possesso privato e la partecipazione dei loro possessori agli agri gentilizi. A prescindere dal riflesso germanistico dell'idea della sors barbarica, che sembra inspirare questa frase, mi pare indubbio che il problema debba esser impostato diversamente. Nè la casa privata nè la partecipazione agli agri gentilizi sono elementi fondamentali di paragone: quella non ha valore se non in quanto custodisce e conserva i sacra; questa non è che una delle conseguenze, e forse non la maggiore, dei benefici che risentono coloro che formano l'assemblea deliberante dello Stato, per partecipare alla quale è necessaria la proprietà di quella determinata casa.

17.  Festo. 247: Patres.... agrorum partes attribuerant tenuioribus ac si liberis suis.

18.  Inquilinus — dice il De Marchi loc. cit. pag. 288 nota 28 — sta a «incola» come «libertus» sta a «libertinus» e si usò prima forse come contrapposto ad «exquilinus» ossia abitante delle «exquiliae» cioè della parte unita a Roma solo posteriormente. E ci si avvicina a Festo che definisce l'«inquilinus», come colui «qui eumdem colit focum vel eiusdem loci est cultor». L'unica idea contenuta nell'etimologia della parola è quella del domicilio. Infatti così l'«inquilinus» come l'«exquilinus» sono del pari esclusi dalla partecipazione alla vita pubblica.

19.  Dallari G. Le nuove dottrine contrattualiste intorno allo Stato, al diritto ed alla società. Modena 1901. — Id. Il nuovo contrattualismo nella filosofia sociale e giuridica. Torino 1911.

20.  La derivazione di moenia da munera mostra quanto ne dovevano esser gravosi la costruzione e il mantenimento.

21.  Praetor indica veramente il capo dell'esercito, ma questo non è costituito che dai cittadini.

22.  Willems loc. cit. pag. 48.

23.  Pacchioni loc. cit. pag. 105-107.

24.  Zdekauer L. Mille passus e continentia aedificia in Bullettino dell'Istituto di Dir. Romano, vol. II fasc. VI.

25.  Dig. L. 16. 154.

26.  Ibid. XXVII. l. 13. 2.

27.  Bonfante P. La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato in Riv. Ital. di Sociol. 1902.

28.  r. XCI.

29.  r. XVII.

30.  Pacchioni loc. cit. pag. 189-90.

31.  Dalla legge di Costantino del 346 (Cod. Theod. X. 8. 4) confrontata con l'altra di Arcadio e Onorio del 395 (Ibid. X. 9. 2) e con quella di questi due imperatori del 400 (Ibid. XI. 20. 3) si rileva che solo in quest'anno i «praedia urbana» cominciarono a pagare la tertia che consisteva nel pagare ogni tre anni il reddito di un anno intiero.

32.  Dig. XXVII. 9. leg. 1. § 2.

33.  È tipica la disposizione del Cod. Theod. XII. 11. 1. riportata anche nel Cod. Just. XI. 32. 2.

34.  Cod. Iust. V. 37. 22.

35.  Dig. L. 16. 198.

36.  Da Plinio (N. H. XIX. 19. 50) sappiamo che «in duodecim tabulis legum nostraram nusquam nominatur villa: semper in significatione ea hortus, in horti vero heredium». Da questo passo, oltre la conferma della forza dell'immobile ereditario nella costituzione di Roma, si vede come fossero privi di ogni importanza i beni lontani dalla città (villae); mentre invece tutto si basava sulle terre entro la città stessa o nella sua immediata vicinanza (horti): vicinanza determinata dai «mille passus». Infatti nei quis, dicono le antiche norme (cfr. Bullettino della Commissione Archeologica Comunale. XII. Roma. 1884. pag. 59) INTRA TERMINOS PROPIUS URBEM ustrinam fecisse velit neive stercus cadaver inserisse velet.

È da notare l'uso dell'avverbio intra.

37.  Tale significato è dimostrato dalla legge tarentina che chiama «domicilium» l'edificio coperto di tegole.

38.  Infatti, secondo Festo, loc. cit. i sobborghi sono «continentia aedificia itineribus regionibusque distributa, nominibusque dissimilibus dispartita».

39.  Mille passus cit. pag. 281-82.

40.  Hermotino 24.

41.  Corp. Inscr. Latin. VIII. 1641.

42.  Guerin V. Étude sur l'île de Samos. Paris, 1856 pag. 213.

43.  Dig. L. 16. 239. § 8.

44.  Magistratus qui INTRAMURANUS non est nec URBANUS, etiamsi administrator eius Romae est, ad urbem dicitur. (In IV. Verr. 6. riportata dal Forcellini). Questo passo è da riconnettesi all'altro, pure di Asconio (in C. Verrem. II. 2. 817. ed. Orelli. Cicero. V. pag. 208) «Statim Romae et ad urbem».

45.  Corp. Iscr. Lat. V. 5446, 5447.

46.  Ibid. pag. 565.

47.  Si melioribus viris (dice Simmaco. Ep. X. 37) OFFICIA INTRAMURANA mandetis.

48.  Corp. Iscr. Lat. II. 2428. Bracaraugusta. — Sodalicium Urbanorum. D. S. F. C.Ibid. II. 3244. — D. M. S. Hi (sic) jacet Laetus annorum XXV pius in suis collegium urbanum EI POSUIT etc.

49.  Orelli. 110. — M. Herennio M. F. Picenti Cos (an. di Roma 720) Municipes Municipi Augusti Intramurani Patrono. Id. 3706. — Cn. Caezio Ath[icto] Aalecto inter C[entum]viros (ob) Pietatem Ex M[unificentiam] eius [e]rga Divinam (et) Municipum Augusti Veios [Ce]ntumviri et Seviri et Augustales et Municipes [In]tra. Murani EX AERE QUOD (IN) ORCHESTRA CONLATUM EST [LU]DIS QUOS FECERUNT [V]ergilius Cogitatus [I]ulius Senecio II viri.

Corp. 1. Lat. X. 5060. — P. Tettio Pf. Rufo Fontiano. — Q. Tr. Pl. Pr. Altinates urbani. — Patrono D. D.

Ibid. IX. 1475. (Ligures Baebiani). — L. Irvinio A. ... civis urbanus.

Ibid. IX. 982. (Compsa). — Apriscius Porrenda — curaverunt cuius — dedicatione decuri — onibus singulis V.populo intramurum morantibus X SINGULOS.

50.  Ibid. Addit. XI. 6257 (Aquilonia). — M. Lucceius C. F. IiiI vir aed. pot. piscinam purgandam et loricam imponendam de urbanorum opereis coeravit.

Cfr. anche IX. 3188. Anche la legge della colonia giulia genitiva (rub. 98) mostra che gli edili presiedevano alle opere pubbliche, ma mentre secondo essa a tali opere era obbligato chiunque «intra eius coloniae fines domicilium praediumve habet», qui al contrario sono obbligati soltanto gli urbani, cioè quelli che abitano entro le mura.

51.  Corp. 1. Lat. IX. 2855 (Histrium). — Huic ... (M. Baebis ... Svetonio Marcello) ... decuriones funus publicum statuam equestrem clipeum argenteum locum sepulturae decreverunt et urbani statuam pedestrem.

52.  Corp. I. Lat. IX. 2835. — Herculi ex voto aram L. Scantius L Lib. Modestus VI vir Mag. Larium August. Mag. Cerialium Urbanorum. L. d. d. d. — Addirittura tipico è il caso dell'iscrizione di Aventicum (cfr. Inscr. Helvet. 155).

53.  A Rimini, per esempio, al tempo della colonia romana esistevano tutti e quattro i borghi corrispondenti alle quattro porte. Cfr. Tonini L. Rimini avanti il principio dell'era volgare. Rimini, 1848, pag. 75. E gli esempi si potrebbero addurre numerosi a dismisura. Costrettovi dall'economia del lavoro non ho potuto dare che un cenno fugacissimo di questo fatto, completamente ignorato dagli storici di Roma e del suo diritto, quantunque di importanza fondamentale: mi riservo di tornarci con maggiore ampiezza in una trattazione a parte per la quale ho già raccolto molto materiale.

54.  Altre ragioni, oltre quelle dello Zdekauer, si possono addurre contro l'opinione mommseniana.

Il pomerio è un luogo sacro — effato — non perchè sia dentro le mura, ma perchè è dentro il cerchio dei mille passi i quali costituiscono un limite sacrale determinato così esattamente che entro di esso ci sono i cittadini: fuori gli altri.

Il ManentiJus ex scripto e jus ex non scripto — in Studi Senesi 1906 vol. I pag. 247-48 — studiando la genesi dell'«jus civile», ha affacciata l'ipotesi che il diritto della «civitas» sia stato considerato come l'«jus proprium civitatis» in contrapposto non al diritto di altri popoli, ma ai costumi gentilizi dei gruppi antecedenti alla «civitas» romana e cioè in contrapposto al diritto primitivo di quei complessi tribali e gentilizi di stirpe diversa dai quali fu composta l'«urbs». Io accedo in linea generale alla sua opinione; ma ritengo indispensabile limitarla nel tempo alla costruzione delle mura e nello spazio ai «mille passus», che chiudevano i varii elementi nell'ambito preciso di un formidabile crogiuolo.

55.  Detlefsen. Das Pomerium Roms und die Grenzen Italiens. Hermes. 1886 XXI.

56.  Uelsen H. Das Pomerium Roms in der Kaiserzeit. Hermes. XXII, 1887.

57.  Nissen E. Die Stadtgründung der Flavier — Rheinisches Museum. XLIX. 1894.

58.  Merlin A. A propos de l'extension du pomerium par Vespasien. in Mélanges d'archéologie et d'histoire. XXI, 1901. 1-2. pag. 97-115.

59.  Zdekauer loc. cit. pag. 288.

60.  Dig. L. XVI. 87.

61.  Willems loc. cit. pag. 360.

62.  Ann. lib. XII. cap. XXIII-XXIV.

63.  Era una tradizione cara ai romani e facilmente spiegabile con l'autorità del condottiero che per le sue conquiste avesse meritato l'onore del trionfo. Per questo è accolta da A. Gellio (loc. e ed. cit. XIII. 14.), da Vopisco (Vita Aureliani, 21.) e anche da Dione Cassio nella sua storia (LIII. 2); ma dal fatto che allargare il pomerio cittadino era permesso soltanto a chi avesse allargato i confini dell'impero, non ne consegue che a tutti quelli che avevan fatto delle conquiste spettasse di diritto tale facoltà; e tanto meno poi che i limiti del pomerio si allargassero, quasi direi, automaticamente, coll'allargarsi dei confini.

64.  Dig. L. 16. 147.

65.  Dig. L. 16. 238.

66.  Ibid. L. 2. 7. 52.

67.  Cod. Theod. Nov. dell'a. 445 al PP. Albino.

68.  Instit. I. II. 4.

69.  cfr. Karlowa. Römische Rechtsgeschichte. Leipzig 1885 pag. 708 e segg.

70.  Dig. L. 4. 4 § 2.

71.  Il Cod. Theod. XI. 11. 1. dice «forte».

72.  Il Cod. Theod. ibid. dice «ultimo subiugetur extio».

73.  Le parole fra parentesi sono quelle della legge di Valentiniano e Valente non accolte nel codice giustinianeo.

74.  Cod. Iust. X. 10. 1.

75.  Cod. Iust. I. 47. Cfr. Liebenam. Städteverwaltung im römischen Kaiserreich. Leipzig 1900, pag. 93 e segg.

76.  VIII. 5, 15, 24, 36, 65, 35, 53, 60, 34, 65, e XII. 16. 1. Per i mancipes balneorum et salinarum cfr. Cod. Theod. XI. 20. 3.

77.  I mancipes o praepositi non possono essere presi ab ordine (curia) nec a magistratibus (duumviri), ma preferibilmente devono essere scelti fra i veterani che ne siano degni e si mostrino idonei. Cod. Iust. XII. 41. 7. in cui è riportata la disposizione di Onorio e Arcadio dell'a. 400 (Cod. Theod. VIII. 5. 84).

78.  Fu istituito da Augusto, ma più tardi assunto a spese dello Stato da Nerva e Traiano, cfr. Bonfante P. Storia cit. pag. 449. e Hirschfeld O. Untersuchungen auf dem Gebiete dev röm. Verwaltungs Geschichte. — Berlin, 1876. pag. 98-108.

79.  Marquardt I. loc. cit. pag. 132 e segg. a cui son da aggiungere le numerose notizie date da Gotofredo.

80.  Patrimoniorum autem munera duplicia sunt: nam quaedam ex his muneribus possessionibus sive patrimoniis indicuntur, veluti agminales equi, vel mulae, et angariae atque verhedi. Dice Arcadio Charisio. Dig. IV. 4. 18 § 21.

81.  Cod. Theod. VIII. 5. 1. Con Giustiniano solo per i coloni rimane in vigore la legge di Onorio e Teodosio per la quale «colonos munquam tìscalium nomine debitorum ullius exactoris pulsit intentio». Cod. Iust. XI. 47. 15.

82.  Ibidem II. 30. 2.

83.  Cod. Iust. X. 24. 1.

84.  Cfr. Gotofredo nel commento alla leg. 4. tit. 5. libro VII. Angaria nel cod. teod. (cfr. VI. 39. 2 e 5; e VIII. 5. 23) indica propriamente il servizio di trasporto fatto con carri tirati da buoi (due paia, secondo le disposizioni di Costantino, andate, però, assai presto in disuso): mentre la rheda era tirata da 8 mule nell'estate e da 10 nell'inverno e il birotum da tre (Cod. Theod. VIII. 8. 5. e Cod. Iust. VIII. 5. 3.). E tale si mantiene anche dopo: cfr. Cod. Iust. I. 2. 11 nov. XVII. 9 e nov. CXXVIII. 22 e il passo di Procopio (Historia arcana XXIII) riportato dal Leicht nei suoi Studi sulla proprietà fondiaria nel medio evo. II. Oneri pubblici e diritti signorili. Verona Padova. Drucker. 1907. pag. 46 nota 2.

Parangaria era l'angaria prestata su una via diversa da quella pubblica ed in cui mancavano le «stationes» a distanze determinate e regolari.

A questo «cursus clabularis» prestavano gli animali i provinciali (Cod. Iust. VIII. 5. 2, 5, 22.) mentre al cursus davano solo le operae.

85.  Cod. Iust. XI. 48. 4.

86.  Cod. Theod. 14. 1. XI.

87.  Ibidem leg. 26.

88.  Leicht P. S. Studi cit. pag. 10-11.

89.  Questa conlatio equorum si faceva «pro rerum necessitate, ut instrueretur usus armorum, castrensi usu efflagitante» (cfr. Paratitl. di Gotofredo lib. XI. 16.) ed era ben differente dal cursus publicus.

90.  Cod. Theod. XI. 17. 1.

91.  Così Schulten A. Die römischen Grundherrschaften eine agrarhistorische untersuchung. Weimar. 1896. pag. 2-12.

Però la rigidità delle sue asserzioni deve esser limitata dalle giuste riserve che fanno l'His. Die domänen der römischen Kaiserzeit. Leipzig. 1896. pag. 115-117 e Beaudoin E. Les grands domanes dans l'empire romain d'après des travaux recents. Nouv. Rev. Histor. de droit franc. et étrang. 1907. e segg. pag. 549 e segg. e Savagnone F. G. Le terre del Fisco nell'impero romano. Palermo. 1902. cap VI. pag. 188 e segg. e cap. IV. pag. 758 e segg.

92.  Cfr. Vassalli F. E. Concetto e natura del Fisco. Estr. Studi Senesi vol. XXV sopra tutto § 5, pag. 27-31 in cui studia la formazione del fisco imperiale e la sua individualizzazione.

93.  Vassalli loc. cit. ritiene che anche il concetto di fisco indichi semplicemente una personalità di diritto privato ed ha ragione in linea generale; ma una più esatta valutazione dell'elemento giurisdizionale non soltanto esterno — l'unico che egli abbia considerato — cfr. pag. 57 e 58, — ma anche interno, avrebbe ridotto questo concetto ai suoi giusti limiti e ne avrebbe mostrato la rapida compenetrazione di elementi pubblici e come non sempre esso si presenti quale persona giuridica di diritto privato. Cfr. infatti Leicht loc. cit. pag. 29-32.

94.  Dig. L. 6. 5 § 11. Coloni Caesaris a municipalibus muneribus liberantur ut idoneiores praediis fiscalibus habeantur.

95.  Cod. Theod. I, 32. 7.

96.  Con questi coloni sono completamente assimilabili i coloni homologi — Cod. Th. XI. 24. 6. more gentilitio adscripti vicis — non quelli adscripti dominis — con le donne dei quali Valentiniano e Valente proibirono nel 370 ogni connubio (ibidem III. 1. 24) e che essendo barbari, gentiles, erano addetti alla difesa dei valli e dei fossati, avevano in compenso una terra da coltivare a certi patti: oppure con certe condizioni — more gentilitio — veniva loro affidata dallo Stato, al quale appunto corrispondevano le imposte, una terra da coltivare.

97.  XI, 7. 2.

98.  Loc. cit., pag. 10-11.

99.  Con questa legge concordano e si coordinano la leg. ult. de executor, et exactor, la leg. 31 de annona et tributis e la leg. 186 de decurionibus.

100.  Oltre il notissimo passo di Frontino ed. Lachmann pag. 53, 7. «Habent autem in saltibus privati non exiguum populum plebeium et vicos circa villam»; cfr. Schulten A. loc. cit. pag. 45-46.

101.  Quei tributarî di cui parla la legge giustinianea sono i discendenti di quelli che nella legge teodosiana son detti possessori e nel rifacimento tribonianeo sono chiamati rusticani. E contemporaneamente comincia un lento moto di progressivo elevamento che si compie dal basso per il quale i coloni si trasformano in enfiteuti. Cfr. Solmi A. Storia del diritto italiano. Milano. 1909. pag. 89. Io condivido l'opinione del Fustel de Coulanges. Histoire des institutions politiques de l'ancienne France. Paris. 1889. pag. 601 che on appellait tributarii dans la langue du quatrième siècle, les hommes qui coltivaient le sol sans en avoir la propriété et sous condition d'en payer une redevance.

A torto F. Thibault. L'impôt direct dans les royaumes des Ostrogoths, des Wisigoths et des Burgundes. Nouv. Rev. Hist. de droit franc. et étr. XXVI. 1902. ritiene che la parola «tributarius» della leg. 12. Cod. Just. XI, 48 (servos, vel tributarios, vel inquilinos apud dominos suos volumus remanere) indichi solamente i coloni: essa indica tutti quei «residentes in terra aliena» che non erano servi o inquilini: i coloni ne formavano la massima parte, non la totalità. E a minor ragione egli ricorda a questo proposito i passi di Cassiodoro nei quali «tributarius» indica colui che paga il «tributum» ossia il possessor. Quello è un rapporto di diritto privato: questo di diritto pubblico. Invece mostra giustamente la discendenza diretta del «tributum» pagato dai coloni nel secolo ottavo, dal «tributum» dei possessores romani. Thibault. F. L'impôt direct et la propriété foncière dans le royaume des Lombards. Nouv. Rev. Hist. XXVIII. 1904 pag. 181, 82.

102.  Lo mostra chiaramente il tit. del Digesto De officio Procuratoris Caesaris vel Rationalis.

103.  Marquardt I. loc. cit. pag. 116 e Vassalli loc. cit.

104.  Böcking. Notitia dignitatum utriusque imperii. Bonnae. 1839.

105.  Bonfante P. Manuale cit. pag. 511.

106.  Cfr. Windscheid trad. ital. I. § 146 n. 15 e indicazioni ivi citate.

107.  Rudorff F. Gromatische Institutionen. Berlino. 1852. pag. 393 e segg.

108.  Brugi B. Dei pascoli accessori a più fondi alienati, in Archivio Giur. F. Serafini. 1886. XXXVIII. 1-2. Id. Dei pascoli comuni nel diritto romano germanico e italiano, in appendice al Comm. delle Pandette del Glück VIII. pag. 42.

109.  Roberti M. Dei beni appartenenti alle città dell'Italia Settentrionale dalle invasioni barbariche al sorgere dei comuni, in Archiv. Giur. 1903. LXX. 1.

110.  Calisse C. Gli usi civici nella Provincia di Roma. Prato. 1906.

111.  Finocchiaro Sartorio A. I beni comuni di diritto pubblico nel loro svolgimento storico. Città di Castello. 1908.

112.  Dig. XLIII. 8. fr. 2. § 21.

113.  Dig. XLIII. II. fr. 1. § 2.

114.  Ferrini C. Pandette cit. n. 220 pag. 272-73.

115.  Cod. Theod. Nov. XXIII.

116.  Per la pensio dovuta per l'occupazione di suolo pubblico cfr. Cod. Iust. XI. p 9. 1. da mettere in relazione con il tit. 7. Ne quid in loco publico vel itinere fiat. Dig. XLIII. e specialmente leg. 2. § 17. Sul «vectigal» cfr. Liebenam. loc. cit. pag. 312 e segg.

117.  Su questa triplice distinzione vedi le belle pagine del Mommsen e del Marquardt nel manuale citato vol. 1 e 2.

118.  Ranelletti O. Concetto natura e limiti del demanio pubblico in Riv. Ital. per le Sc. Giurid. vol. XXV. pag. 195 e segg.

119.  Vassalli F. E. loc. cit., pag. 46-59 § 11-15.

120.  Bonfante P. La progressiva diversificazione del diritto pubblico e privato in Riv. ital. di sociologia. 1902.

121.  Che il diritto romano non ammetta la consistenza giuridica di un patrimonio immediatamente destinato a fini determinati e duraturi, amministrato da persone fisiche, è dimostrato dal fatto che si attribuisce la funzione ad una persona collettiva preesistente.

Tale è la base delle istituzioni alimentarie. Cfr. Ferrini, loc. cit., n. 79, pag. 107 e Schupfer F. Il diritto privato dei popoli germanici con speciale riguardo all'Italia, vol. I. Lapi. 1907. pag. 163-65.

122.  Dig. L. 16. 15. Ulpiano.

123.  Dig. I. 1. § 2. Ulpiano.

124.  Schulten A. Die Landgemeinde im römischen Reichs, in Philologus LIII. N. F. VII. Berlin 1895, pag. 629-686. Non mi pare si possa accogliere, almeno nella forma con cui l'A. l'espone, la teoria della distinzione dei castella in autonomi e incorporati; ma mi sembrano però decisive le prove da esso addotte per dimostrare come la divisione in pagi, vici e castella sia anteriore alla dominazione romana e comune a tutte le popolazioni italiche. A questo proposito sono fondamentali le ricerche del Voigt. Drei epigraphische Constitutionen Constantin's des Grossen und ein epigraphisches Rescript des Praef. Praet. Ablarius. Leipzig. 1860. pag. 53-81

125.  Oltre le belle pagine del Bonfante basta a provare la persistenza di questi elementi una semplice scorsa alle Inscriptiones Aemiliae Etruriae Umbriae Latinae del Bormann. Berlin 1888, nel Corp. Inscr. Lat. vol. XI. Di Mantova, «Tuscorum trans Padum sola reliqua» (Plinio. Natur. Hist. III, 130) Virgilio ci dice che «non genus omnibus unum — Gens illi triplex populi sub gente quaterni». Rimini, Budrio, Ravenna ed altre si vantavano umbre anche nell'età imperiale (Strabone. Cosmographia V. 214, 216, 217. — Plinio. Nat. Hist. III, 115). Quanto ai latini Gaio dice (I, 79) che «proprios populos, propriasque civitates habebant». Per gli Etruschi cfr. Ducati P. Osservazioni archeologiche sulla permanenza degli Etruschi in Felsina in Atti e Mem. della R. Deput. di Stor. Patr. per le Prov. di Romagna ser. III, vol. XXVI, 1908, pag. 54-91. Per il loro diritto l'opera, un po' manchevole, di C. Casati Elements du droit étrusque. Paris 1895.

126.  Oltre il Mommsen ed il Marquardt cfr. Mennessier M. De la ferme des impôts et des sociétés vectigaliennes. Nancy. 1888. e Lefebre F. De la société en general et specialment de la société vectigalienne en droit romain. Rennes. 1888.

127.  Dig. L. 1. fr. 2, § 4.

Notissimo, a questo riguardo, è il passo di Gaio III, 145.

A proposito dei «fundi vectigales» ricordati nella nota I a pag. 43 destinati ad istituzioni alimentarie bisogna fare un'osservazione. Donatario, nel caso di Plinio, che donò i propri beni al municipio di Como, per riprenderli gravati da un «vectigal» molto inferiore al loro reddito, per poter trovar sempre uno «a quo ager exerceatur», è il municipio, con l'onere della prestazione alimentaria. Ma — ed è cosa del massimo rilievo — il soggetto non è la città, ma il fisco imperiale il quale dà a mutuo i denari ai «possessores», ha un credito corrispondente ed impiega un suo funzionario per esigere gli interessi e devolverli alla cassa alimentare che non è che un dipartimento dell'amministrazione fiscale, cfr. Ferrini, loc. cit., n. 69-80 e sopra tutto pag. 111-112 e Segré G. Sulle istituzioni alimentarie imperiali in Bull. Istit. di Dir. Rom. II, 1889, pag. 78-106. Da un «nudum preceptum» (Dig. XXX, 114, 14 quia talem legem testamento non possunt dicere) si va al legato ad una città (Dig. XXXII, 38, 5) ed al fisco direttamente (Inscriz. di Preneste. Corp. Inscr. Latin., XIV, 2234). Ora quando si pensa che alle «civitates» (municipia e coloniae), è stata ristretta la capacità negli ultimi tempi della repubblica e che l'autorizzazione imposta loro dalla legge giulia o dalle due di tal nome, estesa poi a tutto l'impero con senatoconsulti (Dig. III, 4, fr. 1, princ.) e costituzioni imperiali (Dig. XLVII, 22, fr. 1, 3.), non è affatto un conferimento di personalità giuridica, ma ha un mero significato politico; si vede come (anche nel caso in cui la volontà di un singolo ponga delle condizioni per perpetuare uno scopo determinato e scelga come mezzo la città, il municipium), sul substrato della volontà del singolo si innesta quella dello Stato, di fronte al quale l'entità giuridica della città sembra attenuarsi fino a metter quasi direttamente a contatto il singolo con il Fiscus.

Fu l'imperatore Leone che permise alle città di vendere i beni avuti «hereditatis vel legati seu fideicommissi aut donationis titulo» e solo allo scopo «ut summa pretii exinde collecta ad renovanda sive restauranda publica moenia dispensata proficiat» (Cod. Iust. XI, 31, leg. 3.).

128.  Marquardt I. loc. cit. pag. 193.

129.  A Capua, per es., tutto il territorio fu incamerato nel demanio pubblico, (Livio 26, 16, 18) mentre abitualmente era il terzo (Dionisio 2, 35, 50, 53) e qualche volta la metà (Livio 36, 39, 3) cfr. Marquardt loc. cit., pag. 192 e segg.

130.  Per Italiam nullus ager est tributarius, sed aut colonicus aut municipalis aut saltus privati, dice Frontino (ed. cit. pag. 35). Ma, anche ammettendo che ce ne fossero, la teoria del Rudorff rimarrebbe inaccettabile perchè il fatto che il vero «vectigal» deve esser raccolto dai pubblicani è l'indice della differenza sostanziale che passava fra i beni dello Stato — populus romanus — e quelli delle città: pubblici i primi, privati i secondi: «sola ea publica sunt quae populi romani sunt», dice Ulpiano; «civitates privatorum loco habentur» conferma Gaio, Dig. L, 16, 17. Cfr. Vassalli, loc. cit. pag. 53.

Nell'epoca imperiale questo concetto si modifica profondamente. Cfr. Dig. L, 16, 16; ma al secolo quarto si avevano ancora tracce rilevanti della varietà di condizione giuridica in cui si trovavano i beni una volta costituenti l'«ager publicus» e poi ceduti ai privati. Cfr. il noto passo di Arcadio Carisio Dig. L. 4, 18, § 25.

131.  Cod. Theod. X, 3, 2. Saltus qui significa pascolo. Cfr. Cod. Iust. II, 66, Cod. Theod. leg. 2 de pascuis, Frontino. De controversiis agrorum (ed. Lachmann) pag. 17, 18, 19, 54 Festo (Bruns. Fontes, VI, Aufl. 1893, II, pag. 36), Varrone, De legibus, V, 36.

La proibizione ai curiali si mantiene e si fa anche più rigida nel diritto giustinianeo, nel quale, non solo «decurio etiam suae civitatis vectigalia exercere prohibetur» (Dig. L, 2, 6, § 2), ma si impediscono anche le locazioni per interposta persona (Dig. L, 8. 2, § 1).

132.  Cod. Theod. X, 3, 5. Aedificia, hortos, atque areas aedium publicarum et ea reipublicae loca quae aut includuntur moenibus aut pomeriis sunt connexa, vel ea quae de jure templorum, aut per diversos petita aut aeternabli domui fuerint congregata vel civitatum territoriis ambiuntur sub perpetua conductione, salvo dumtaxat canone, quem sub examine habitae discussionis consistit adscriptum, penes municipes collegiatos et corporatos urbium singularum conlocata permaneant omni venientis extrinsecus atque occultae conductionis ademptatione submota.

133.  Dig. I, 8, 6 § 1.

134.  Cod. Theod. XV, 1, 46.

135.  Dig. L. 16. 211.

136.  Ibid. L. 16. 60.

137.  Dig. I. 8. 8 § 2.

138.  Ne è un esempio evidente la disposizione di Leone ed Antemio del 468, riportata nel codice teodosiano (XI. 24. 6) ed accolta da Giustiniano (Cod. X. 55 l. un.), che proibisce agli «habitatores metrocomiae» di vendere i loro beni ad estranei.

139.  L'avverbio penes è usato dalla legge bene a proposito: penes te est quod quodadmodo possidetur. (Dig. L. 16. 63. Ulpiano).

140.  Dig. L. 1. 1 § 1.

141.  Dig. L. 16. 228.

142.  Dig. L. 16. 239 § 6 Pomponio. Del resto è da ricordare a questo proposito come la vita dei romani si accentrasse nella città. Cfr. Schulten A. Die Landgemeinde cit. pag. 633 e segg.

143.  Cfr. § 4 e 5.

144.  Praedium... et ager et possessio huius appellationis species sunt. Dig. L. 16. 115. Giavoleno.

145.  Labeone ritiene «loci appellationem non solum ad rustica verum ad urbana quoque praedia pertinere»; cfr. Dig. L. 16. 60 e specialmente § 1.

146.  Non c'è neanche bisogno di dire che con la distinzione dei beni seguita dalle leggi costantiniane ed onoriane non ha nulla a che vedere quella di Ulpiano, secondo la quale «urbanum praedium non locus facit sed materia» (Dig. L. 16. 198). Tanto è vero che invece di praedia si parla di loca.

147.  Per il loro numero cfr. Liebenam loc. cit. pag. 229 e segg. Per le funzioni cfr. Declareuil loc. cit. pag. 331 e segg. e Solmi Storia cit. pag. 24-25.

148.  Questo concetto è confermato dalla condizione dei beni comuni delle colonie. Tutti i coloni erano in uguale posizione di fronte allo Stato, uguali erano gli oneri, uguali i diritti; e la concessione, per la quale e secondo la quale godevano delle terre, era un atto che ne fissava ex novo i limiti e le prerogative. Oltre alla terra individuale, ce ne era un'altra che, appunto per essere comune a soggetti uguali, era comune a tutti e della quale l'alta sovranità spettava allo Stato per il riconoscimento di un modestissimo canone: «vectigal, quamvis exiguus praestant». Appunto perchè rilasciata non ad una preesistente città, ma a coloro, come singoli, che avrebbero formato il nucleo cittadino, solo l'unanimità dei consensi dava luogo ad una valida alienazione. Nelle colonie mancava quella plebs che, non avendo obblighi, non aveva (fatta eccezione di Roma) diritti e non c'era il precedente stato di cose da considerare: se, quindi, lo Stato, date le condizioni ed i fini speciali in cui la colonia veniva dedotta, riteneva che alcuni beni fossero necessari all'uso di tutti, ne proibiva l'alienazione. Nel caso della Colonia Genetiva Julia, per esempio, erano di uso comune così le piazze e le strade e gli aedificia in genere, su cui tutti camminavano e di cui tutti godevano, come le selve da cui tutti traevano le legna, come i terreni adibiti alla pastorizia ed all'agricoltura per il sistema relativo di sfruttamento del suolo (cfr. Lex colon. genetivae Iuliae, r. LXXXII). Bisogna inoltre considerare che su tutte indistintamente le terre della colonia gravava l'obbligo della difesa del territorio, che era il fine per cui la colonia stessa era stata dedotta. Ora le terre dei singoli potevano essere vendute, perchè l'onere rimaneva sulla terra: non così le terre pubbliche le quali dovevano rimaner sempre in tale condizione che chiunque ne fruiva, anche temporaneamente, fosse soggetto ai carichi militari: «Qui in ea colonia intrave eius coloniae fines domicilium praediumque habebit neque eius coloniae colonus erit, is eidem munitioni uti colonus parebo» (cfr. ibid. r. XCVIII).

149.  Löning E., Geschichte d. deuts. Kirchenrechts, II. pag. 4-5.

150.  Zdekauer L., Mille passus cit., pag. 281-82.

151.  Quando il concetto della cittadinanza romana comincia a perdere di rigidità, la ripercussione naturalmente si fa sentire su quello dell'incolato, il quale si avvantaggia di tanto di quanto l'altro si attenua. Si tende ad un equiparamento, raggiunto il quale, la città accetta le divinità del suburbio e questo quelle della città. Però questo equiparamento avvenne molto lentamente: la proibizione di seppellire e bruciare cadaveri entro le mura — che presuppone identiche divinità nelle città e nel territorio adiacente — malgrado i reiterati comandi degli imperatori (Dig. III. 44. 12. Cod. Theod. IX. 17. 6) non fu attuata che a stento per la tenace opposizione di numerosi regolamenti municipali (Dig. XLVII. 13. 3 § 5. Ulpiano).

152.  Corp. Inscr. Latin. X. 1, 814, 853, 924, 1042 etc.

153.  L'Imbart de la Tour, La paroisse rurale cit. ha acutamente osservato che la chiesa cattolica tentò sempre di soppiantare il paganesimo insediandosi negli stessi luoghi ad esso destinati, per fruire della forza dell'abitudine, per cui si tende a continuare ad andare dove si è sempre andati.

154.  Lupus M. De parochiis ante annum Christi millesimum. Bergomi. 1788. Diss. II. cap. IV. pag. 164 e segg.

155.  Troya. Cod. Dipl. Lang., IV. 1. num. 151. pag. 381.

156.  Il Declareuil (loc. cit. XXVI. 1902. pag. 234-67. 437-68. 554-607. XXVIII. 1904. pag. 306-368. 474-500), oltre a credere che la decadenza sia cominciata assai tardi, pensa che il cristianesimo non abbia apportato alcun turbamento alla costituzione dell'impero. Per quel che riguarda la Chiesa si può accedere senza difficoltà alla sua opinione, a sostegno della quale sta, anzi, un argomento fondamentale, del quale il Declareuil non si è giovato. È difficile ammettere che avanti il riconoscimento ufficiale, iniziato con l'editto di Milano, il cristianesimo riuscisse, anche sotto il governo dei più miti imperatori, a modificare un regime che dava ai sacerdoti pagani un'elevata condizione sociale ed un saldo substrato economico (cfr. A. Crivellucci, Intorno all'editto di Milano negli Studi Storici IV, pag. 267 e segg. e Carassai C. La politica religiosa di Costantino il Grande e la proprietà della Chiesa in Arch. Soc. Romana di St. Patr. XXIV. 1901 e bibliografia ivi citata). Ma, per il resto, le sue conclusioni non sono accettabili; e prima di tutto, anche non tenendo conto del metodo con cui egli ha raccolto d'ogni dove materiali e notizie senza considerare l'immensa varietà dell'impero, tolgono vigore alla sua conclusione le lacune, dall'autore stesso confessate, nel quadro delle istituzioni, alcune delle quali tutt'altro che lievi: così per i curatores dell'ultimo tempo repubblicano e dei primi secoli dell'impero, e per i munera, dei quali abbiamo da Scevola e da Arcadio Carisio una tripartizione (personalia, patrimoniorum, mixta) puramente esemplificativa, mentre sarebbe stato proprio da un esame di questi munera che si sarebbe potuto dimostrare — se possibile — che le condizioni dell'impero d'occidente non erano ancora in decadenza. E, inoltre, la riforma di Diocleziano (a. 282) e quella ancor più grave di Galerio (a. 311) investono troppo profondamente tutto l'organismo statuale perchè si possa ammettere che indichino uno stato di cose temporaneo e non maturato da tempi lontani.

157.  Baudi di Vesme B. L'origine romana del comitato longobardo e franco, in Atti del Congr. Intern. di Scienze Storiche. Roma, 1904. vol. IX pag. 231 e segg.

Dell'esistenza di questo Comes, di cui si conoscono molti altri esempi oltre i due soli citati dal Baudi di Vesme, non si può dubitare; ma questi, tratto dall'amore della teoria gabottiana sull'origine signorile del comune, è caduto in un equivoco. Questi Comites esistono, è vero, ma sono ufficiali dello Stato, non, come egli crede, ufficiali municipali. Anzitutto non si può credere che una modificazione così profonda nelle istituzioni municipali non abbia lasciato qualche segno nei documenti relativi alla diocesi italiciana dai tempi di Diocleziano alla caduta dell'impero d'occidente; mentre ciò è escluso dalle accurate indagini del Cozzarelli (cfr. Studi di Storia e Diritto vol. XXIV 1. 2. 3. 4). E, di più, nessuna delle formule dei territori in cui le curie e le gesta sono rimaste anche dopo la loro sparizione dall'Italia (cfr. Zeumer K. Formulae merowingici et karolini aevi, in Mon. Germ. Hist. Legum. V.), nè alcun documento tra quelli, relativamente non scarsi, a noi pervenuti, ricorda il comes al posto del defensor e degli altri ufficiali municipali (cfr. i doc. editi dal Martène e Durand, dall'Imbart De La Tour, dall'Esmein, dal Tardif, etc.). E nemmeno in via eccezionale si può ammettere carattere municipale e cittadino in quel conte di Marsiglia del 440, su cui il Baudi d. V. poggia tutta la sua argomentazione. Varî lavori serî ed autorevoli, per quanto a lui sconosciuti, quali quello del Duval-Arnould (Études d'histoire du droit romain au V siècle d'après les lettres et le poème de Sidoine Apollinaire. Paris. 1888). quello dell'Esmein, a proposito di alcune lettere di Sidonio Apollinare (nelle sue Mélanges d'histoire du droit et de critique, Paris 1886, pagina 379 e segg.), e quelli dell'Allard (in Rev. des questions hist. 1908), dimostrano in modo irrefutabile che esso non differiva dai conti così esaurientemente studiati da Gotofredo (cfr. il Glossarium al Cod. Theod. e cfr. anche ciò che sotto questa voce dice il De Ruggero. Dizionario epigrafico di antichità romane. II. 1. pag. 468-530). Nei primi secoli dell'impero, a capo di ogni provincia stava un rector munito d'imperium, nominato dall'imperatore, incaricato della sorveglianza delle amministrazioni municipali. Più tardi, per i bisogni della difesa e per la pronta decisione delle numerose liti, tali divisioni apparvero troppo ampie; onde, a volta a volta che se ne sentiva più impellente il bisogno, furono inviati e stabiliti nelle città dei comites con le loro comitivae. Così li troviamo a Napoli, a Ravenna, a Roma, a Siracusa (cfr. Gaudenzi A. Un'antica compilazione di dir. rom. e visig. con alcuni frammenti delle leggi di Eurico. Bologna. 1886. pag. 109-111 e Mayer E. Ital. Verfassungsgesch. Leipzig. 1910. II. pag. 109). Essi come provano le formule di Cassiodoro, mantengono inalterato il carattere e le funzioni degli antichi rectores, dai quali differiscono solo per la minore estensione del territorio affidato alla loro sorveglianza.

E nemmeno sono ufficiali municipali, contrariamente a ciò che crede il Baudi d. v., i comitiaci ricordati nel papiro reatino del 557 (Marini Papiri diplom. n. 79, pag. 121): le formule di Cassiodoro (Variar. II. 10-11 — V. 6. — VIII. 27), da lui non citate, la nota iscrizione piemontese (ed. Marini loc. cit. pag. 266 nota 28) ed un passo di Scevola (Dig. XXVI. 8. leg. pen.) dimostrano all'evidenza che in alcuni casi di tutela e curatela, concernenti famiglie distinte e ragguardevoli, l'atto si rogava presso il Procurator Caesaris, che è tutt'altro che una magistratura municipale (Inter Curatorem minoris et creditorem minoris acta sunt apud Procuratorem caesaris infrascripta etc. Cfr. anche Maffei S. Historia diplomatica etc. Mantova. 1727. pag. 57).

158.  I minores possessores erano aggregati alle curie per gli oneri, ma, e questo è il punto fondamentale, la riscossione dei tributi da essi pagati non era affidata nè al curator, che sappiamo eletto ad colligendos civitatis publicos reditus (Dig. L. 4. 18 § 9) nè ai curiali, ai quali spettava l'esazione della capitatio plebeia (Cod. Just. XI. 28. 2), ma bensì al defensor (cfr. Lécrivain Ch. Le sénat romain depuis Dioclètien in Bibl. de l'Ecole d'Athènes et de Rome, vol. 411. Paris. 1888. pag. 48 e Leicht P. S. Studi cit. II. pag. 27).

159.  A torto il Baudi di Vesme dice che i defensores furono istituiti in un'epoca molto antica, a somiglianza dei tribuni della plebe di Roma. La defensio, cui egli accenna, non ha affatto carattere pubblico: è la difesa, la rappresentanza in giudizio della città. Di essa parlano in modo da togliere ogni dubbio Ulpiano (Dig. L. 4. 16), Ermogeniano (Dig. L. 4. 1 § 2. Defensio civitatis id est ut syndicus fiat): e da Arcadio Carisio (Dig. L. 4. 18. § 3 Defensores quos Graeci syndicos appellant) per la sua natura, rilevata da tempo (cfr. Bethmann-Holweg. Der Civilprozess des gemeinen Rechts. II. pag. 415 e segg.) è distinta anche da quella della rappresentanza (syndicus) dei collegi (Ferrini loc. cit. n. 73 pag. 99). Il defensor è ricordato per la prima volta nel 365. La comparazione con i tribuni della plebe è una inesatta idea di Cuiacio (cfr. Opera omnia. Paris. 1874. I. col. 63 e III col. 55-56).

Come si vedrà non solo non condivido l'opinione di coloro che ritengono che l'elezione del defensor fosse fatta con il suffragio universale (Chénon E. Étude historique sur le Defensor Civitatis in Nouv. Rev. Histor. XIII. pag. 332-33); ma non mi sembra nemmeno da accogliere l'interpetrazione predominante (cfr. Liebenam. loc. cit. p. 449) della nota legge di Valentiniano, Teodosio ed Arcadio dell'anno 387 (Cod. Theod. I. 29. 2) e dell'ancor più nota Interpretatio, che spiega il decretum, con il quale le città devono eleggere il defensor, come il consensus civium e la subscriptio universorum.

160.  Riportati nel concilio di Reggio dell'855. Mansi, loc. cit. XIV. col. 216.

161.  Cfr. Liebenam. loc. cit. pag. 136 e segg.

162.  Cod. Just. XI. 69. 8 e VIII. 12. 7.

163.  Ne dette per il primo l'esempio Giuliano l'Apostata nel 362. Cfr. Cod. Theod. X. 3. 1. confermato da Ammiano Marcellino. (Rerum Gestarum libri qui supersunt. Leipzig. 1874-75. libr. XXV. cap. IV) che parla di vectigalia civitatibus restituta cum fundis. Ma le distrazioni non cessarono: Teodosio nel 443 ne ordina nuovamente la restituzione (Cod. Theod. nov. Theod. XXIII).

164.  Cod. Just. X. 48. 1.

165.  Cod. Just. VIII. 12. 12.

166.  Hoc facto impendiis ordinandis (dicono Arcadio e Onorio) ut adscriptio currat pro viribus singulorum, deinde adscribantur pro aestimatione operis futuri territoria civium.

167.  Cod. Theod. VII. 13. 6. a. 370. Valente.

168.  Cfr. Leicht P. S. Studi cit. II. pag. 15-16, e la bella osservazione del Mommsen (Das römische Militarwesen seit Diokletian in Hermes. XXIV, pag. 239 e segg.) da lui riportata.

169.  Cod. Theod. X. 20. 2. a. 358. gyneciarii. — X. 19. 5. a. 369. metallarii. — X. 22. 4. a. 888. fabricenses. — XII. 1. 146. a. 396. collegiati singularium urbium. XIV. 7. 1. etc.

170.  L'uso delle armi era proibito a chi non apparteneva all'esercito. Cicerone (Verrin. V. 3) ricorda l'editto di L. Domizio pretore di Sicilia che proibiva ne quis telum haberet e gli altri editti ne quis servus cum telo esset. Plinio (Nat. Hist. XXIV. 14) ricorda una simile ordinanza emanata per Roma durante il terzo consolato di Pompeo. Nell'anno 364 Valentiniano e Valente avevano emanato una disposizione analoga passata poi nel Codice giustinianeo (XI. 46. 1.) che restaurò, per questo, un uso accolto anche dai Goti e da Teodorico che ut nullus romanus usque ad cultellum uteretur vetuit. Cfr. Tamassia N. Alcune osservazioni sul Comes Gothorum, in Arch. Stor. Lombardo. 1884. pag. 415 nota 4.

171.  Cod. Theod. Nov. Valent. III. T. IX a. 440. De reddito jure armorum.

172.  Tanto l'uno che l'altro sono un edictum ad populum. Su di esso, oltre il magistrale e sempre giovane commento di Gotofredo, cfr. Gaudenzi A. L'opera di Cassiodorio cit., pag. 301 e segg.

173.  Cod. Theod. Nov. Valent. V. 2 e 3. a. 440.

174.  A Roma appare già formato nel 640. Cfr. Liber Pontificalis ed. Duchesne. I. pag. 329.

175.  Cod. Theod. Nov. Theod. XXIII. De locis R. P.... restituendis.

176.  Gli imperatori cedettero completamente alle città il diritto di proprietà e di disposizione sui beni pubblici. La riprova è data dal fatto che la nomina del curator, il quale dapprima è un funzionario imperiale, la cui mansione specifica è il coordinamento dell'autonomia locale con l'unità dell'impero (cfr. Lècrivain Ch. Le mode de nomination des Curatores Reipublicae in Mélanges d'Arch. et d'Hist. 1884. IV. 3-4. pag. 356 e segg. e la memoria del Liebenam in Phylologus vol. 4, pag. 290 e segg.), diviene elettiva (Cod. Theod. XII. 2. 171), non quando e perchè, come crede il Lècrivain, le città perdono i loro beni, ma quando l'imperatore lascia alle città, purchè si difendano, il libero uso delle proprietà.

177.  Cod. Theod. Nov. Maior. Tit. 3.

178.  Cod. Theod. Nov. Theod. II. 24 § 4. Cod. Just. XI. 60. 3. Cfr. anche Leicht, Studi cit. II. pag. 41.

179.  Lex colon. Genetivae Juliae r. 98.

180.  Cod. Just. XII. 41. 5. a. 413.

181.  Cod. Theod. Nov. Maior. Tit. 3.

182.  Cod. Just. I. 1. 4.

183.  Tamassia N. Alcune osservazioni intorno al Comes Gothorum cit., pag. 248.

184.  Gaudenzi A. L'opera di Cassiodorio a Ravenna, in «Atti e Mem. R. Dep. Stor. Patr. di Romagna». 1886. pag. 427.

185.  Editto di Teodorico § 69.

186.  Cassiodoro Variarum VII, 11, 12.

187.  Brunner. Zur Rechtsgeschichte d. röm. u. germ. Urkunden, pagine 113 e segg., 124 e segg.

188.  Tamassia N. Fonti gotiche della storia longobarda, in «Atti Regia Accad. di Torino», 1896-97, vol. XXXII, pag. 683-707. Id. Una professione di legge gotica in un documento mantovano del 1045, in «Arch. Giuridico», 1902. Id. Le professioni di legge gotica in Italia, in «Atti e Mem. R. Accad. Sc. Lett. Arti in Padova», vol. XIX, disp. I, pag. 14 dell'estr.

189.  Gaudenzi A. Gli editti di Teodorico e di Alarico e il diritto romano nel regno degli Ostrogoti. Torino, 1884, pag. 41.

190.  Leicht P. S. Studi cit. II, pag. 41.

191.  Gaudenzi A. L'opera di Cassiodorio, cit. pag. 448.

192.  Cfr. Cassiodoro. Var., I, 28, tutta basata sulla leg. 35 Cod. Theod., XV, 1, confermata da numerosissimi esempi. Teodorico infatti ricostruì le mura di Spoleto, di Verona e di molte altre città, acquedotti, opere pubbliche etc. (Maffei S. Verona illustrata. I. 9. pag. 448). Nella sua cronaca, all'a. 500. Patricio et Hispatio coss., Cassiodoro dice che al tempo di Teodorico plurimae renovantur urbes, munitissima castella conduntur, consurgunt admiranda palatia.

193.  Salvioli G. Sullo stato e la popolazione d'Italia prima e dopo le invasioni barbariche. Palermo. 1900. pag. 32 e segg.

194.  Solmi A. Le associazioni in Italia avanti le origini del comune. Modena. 1898. pag. 125.

195.  Cap. 64... quisquis ingenuus, nulli tamen quolibet modo obnoxius civitati...

196.  Cod. Theod. XV. 1, 23, Graziano, Valentiniano e Teodosio, a. 384 e Cod. Just., VIII, 12, 7.

197.  Edict. Theod., cap. 69.

198.  Lex Romana Wisigothorum, XIV, 1, 1.

199.  Cod. Theod., XIV, 7, 1.

200.  La sorveglianza spettò ai Vigili delle porte, aggiunti dai Goti all'amministrazione municipale, nominati dal re ed investiti in parte di quel carattere militare (Mommsen. Ostgoth. Studien in N. Arch. XIV, 1888, pag. 494) di cui è compenetrata la giurisdizione del comes Gothorum, che, quantunque in alcuni punti se ne distaccasse, (Mommsen, loc. cit., pag. 529) imitò gli judices militares romani (Del Giudice P. Sulla questione della dualità del diritto in Italia sotto la dominazione ostrogota. Rendic. R. Accad. Lombarda, s. II, vol. XXXIX, 1906, pag. 795), sui quali si adagiò facilmente (Tamassia N. Alcune osservazioni sul Comes Gothorum, pag. 259).

201.  Cod. Just., I, 3, 16.

202.  Tale, almeno, sembra l'ipotesi più probabile, dato che, secondo l'opinione dominante, non felicemente combattuta dal Roberti, beni comuni si trovano nell'epoca romana e nella langobarda e nelle successive, senza soluzione di continuità, e sono appunto caratterizzati dal diritto d'uso da cui sono gravati a vantaggio di determinati gruppi.

203.  Cod. Just., XI, 4, 1.

204.  Infatti ad essi sono equiparati nell'immunità dalla giurisdizione ordinaria, essendo, come quelli, giudicati dal rationalis. Cfr. Cod. Just., III, 26, 7. Di questo elemento mi sembra non abbia tenuto il conto che merita il Savagnone nel suo studio su Le terre del fisco nell'impero romano. Palermo. 1902.

205.  Aemilia. Camilia. Claudia. Clustumina. Cornelia. Fabia. Galeria. Horatia. Lemonia. Menenia. Papiria. Pollia. Papinia. Romilia. Sergia. Voltina. Veturia.

206.  Vedi l'acuta nota di S. Perozzi nel Comm. alle Pandette del Glück, lib. XXI. 1. § 1106. pag. 4.

207.  Loc. cit., VI. pag. 197.

208.  Caes. 41.

209.  Aug. 40.

210.  Divisi in rispondenza delle strade che escono dalle porte, distinti con appositi nomi e addossati alle mura: proprio come i borghi medioevali che si formano entro le stesse linee.

211.  Dig. XLIII, 8, 2 § 22.

212.  De leg. agr. II. 35.

213.  Epig. VII. 61. 3.

214.  Cfr. Hermes. XIV. pag. 604.

215.  De Marchi, loc. cit., pag. 244.

216.  Cfr. Revue Historique. 1902, pag. 437.

217.  Cfr. specialmente Cod. Theod. XII. 1. 179. § 1.

218.  Le note carte cremonesi che ricordano le regiones, benchè recentemente difese dal Mayer. Die angeblichen Fälschungen des Dragoni. Leipzig. 1908, sono da ritenersi frutto di una falsificazione.

219.  Declareuil, loc. cit., pag. 444-45: e Liebenam, loc. cit. pag. 109 e segg.

220.  Dig., L, 8, 1 e 5; XLVIII. 12. 3 § 1.

221.  Dig., XXX. 1. 22; XLVIII. 12. 3. § 1.

222.  Historia VII. 3 (della traduzione latina).

223.  Per le istituzioni alimentarie di Nerva, Traiano e degli imperatori successivi, cfr. Segrè, loc. cit., e sopratutto le belle pagine del Willems, loc. cit., pag. 491 e segg.

224.  Le multe inflitte agli ecclesiastici da Valentiniano (a. 392), con una deroga al sistema comune, furono devolute ai poveri. E lo stesso fece Atalarico (Cassiodoro. Variar. VIII, 24). È certo che la erogazione venne affidata alla Chiesa.

225.  Tamassia N. I sermoni di Pietro Crisologo in Studi Senesi. 1906. I. pag. 63.

226.  Ep. IX, 100 a. 599, e Troya. Cod. dipl., IV, 1, 208. Contiene una netta distinzione degli homines callipolitani castri in habitatores loci ipsius da una parte e homines massae dall'altra, con netta separazione giuridica. Massa qui ha il senso che solo più tardi troviamo per indicare, insieme con l'espressione corpi santi, il territorio intorno alla città.

227.  Muratori. Antiq. Ital. Diss. XXI (to. II. col. 222. D).

228.  Id. ibid. Diss. LXXIV.

229.  Beretta E. De tabula chorografica M. Ae. sect. VI in Rer. Ital. Script. X. pag. 31 e segg.

230.  Cfr. Maffei S. Verona illustr. libr. VII, pag. 134. De Vita G. Antiquitates Beneventanae, to. I. Diss. 1. cap. 3. Catalanus M. De eclesia firmana eiusque episcopis et archiepisropis. Fermo, 1783, pag. 12 e segg. Rovelli G. Storia di Como. Milano 1789, vol. II, pag. 22-28.

231.  Pabst. Geschichte der langobardischen Herzogtümer. Forschungen zur Deutschen Geschichte II. Göttingen, 1862, pag. 437 e segg.

232.  Davidsohn R. Storia di Firenze. Vol. I. Firenze, 1907, pag. 94.

233.  Lusini V. I confini storici del Vescovado di Siena in «Bullettino senese di Storia Patria». Vol. V, a. 1901, fase. 3 e segg.

234.  È nota la dotta discussione, a questo proposito, del Crivellucci (Le chiese cattoliche e i longobardi ariani in Italia in «Studi Storici» IV. pag. 385-423 — V. pag. 153-177 e 531-554 — VI. pag. 93-115 e 589- 604) e del Duchesne (Les évêchés d'Italie et l'invasion lombarde in «Mélanges d'archéologie et d'histoire». XXIII. 1-3. 1903 p. 83-116).

Nell'Italia settentrionale si è perduto — e per opera dei Bizantini, non dei Langobardi — il solo vescovado di Brescello: nell'Italia centrale quello di Populonia. Degli altri alcuni furono disorganizzati — due per più di un secolo — ma non distrutti. Cfr. Id. Rectification etc. ibid. a. 1906. XXVI. pag. 565-567.

Il vescovado di Roselle fu trasportato a Grosseto solo nel 1138 da Innocenzo II (Kehr P. Fr. Regesta Pontificum Romanorum. III. Etruria. Berlin. 1908 n. 8 pag. 260), ma non furono certamente i Langobardi a causarne la decadenza: in un documento della badia amiatina (inedito nel R. Archivio di Stato di Siena) dell'867 sono ricordati il gastaldo ed uno scabino della città di Roselle; ed il 14 settembre dell'892 da Roselle datò un suo diploma l'imperatore Guido (Schiaparelli L. I diplomi di Guido e di Lamberto. Roma. 1908 n. 18 pagine 44-45).

235.  Rubr. IX.

236.  Dig. L. 13. 4. Forma censuali cavetur ut agri sic in censum referantur: nomen fundi, cuiusque, et in qua civitate et in quo pago sit, et quos duos vicinos proximos habeat.

237.  Maffei S. Verona illustrata cit. pag. 381 e segg. Ed altrettanto si faceva in tutta Italia. Cfr. Inscr. Regni Neapol. ed. Mommsen numeri 216. 1354, in cui si ha la tavola alimentare dei liguri bebiani e l'iscrizione di Volcei.

238.  Voigt. loc. cit. pag. 140 e segg.

239.  Questo è il senso del Decreto di papa Gelasio (492-95) riportato nel Decreto di Graziano c. 5, C. XVI, 423. — di un'epoca, cioè, in cui nessuna perturbazione era stata portata da elementi estranei.

240.  Troya. Cod. dipl. lang. IV. 1. n. 400. 406. 407.

241.  Leicht. Studi cit. I. pag. 39 e 68-9.

242.  La decadenza del sistema dei mansi e la loro decomposizione, manifesta nel secolo IX (cfr. Schupfer Il diritto privato cit. II. pagine 81-92) non mi pare abbia influito sul frazionamento delle pievi. Lo attesta chiaramente il secondo concilio pavese dell'855 che si esprime così (ed. Pertz, nei «Mon. Germ. Hist. Leges I. pag. 432 cap. 11): In sacris canonibus praefixum est, ut decimae juxta episcopi dispositionem distribuantur. Quidam autem laici, qui vel in propriis vel in beneficiis suas habent basilicas, contempta episcopi dispositione, non ad ecclesias ubi baptismum et praedicationem et manus impositionem et alia Christi sacramenta percipiunt, decimas suas dant, set vel propriis basilicis, vel suis clericis pro suo libitu tribuunt.

243.  S. Pier Damiano in un bellissimo passo di una sua lettera del 1076 al marchese Goffredo (Ep. VII. 13) dice che la marchesa Willa aveva nel comitato aretino villam novem quidem mansionibus EX ANTIQUO MORE distinctam, quae postmodum JUXTA MODERNAM CONSUETUDINEM in plurimos est divisa.

244.  Mon. Germ. Hist. Leges II. ed. Boretius. Capit. Reg. Franc. I. 1. n. 45. Divisio regnorum. 806. febr. 6. pag. 128. n. 4.

245.  Cfr. il lessico del Forcellini a q. v.

246.  Molendinum edificatum sub urbem huius civitatis Parme, in Affò I. Storia di Parma, vol. I Parma 1792, n. 57 pag. 839 a 935.

Sub urbe Regio in via publica ipsius loci. Cod. dipl. lang. (Porro) n. 672 a 963.

247.  Cod. Dipl. Lang. (Porro) n. 39.

248.  Ughelli2. Italia sacra. Venezia, 1720, V. col. 705.

249.  Memorie e Documenti per servire all'istoria del ducato di Lucca. Vol. V, parte II, n. 832, pag. 506.

250.  Memorie e Documenti per servire alla storia del ducato di Lucca. IV (Barsoochini) p. II. 2.

251.  Luzzatto G. I servi nelle grandi proprietà ecclesiastiche italiane dei secoli IX e X. Pisa, 1910, pag. 19-20.

252.  Tiraboschi G. Memorie modenesi I. 66. a 904.

253.  Idem. ibid. I. 90. a 943. pag. 111.

254.  Diploma di Corrado I. a. 1031 in Muratori. Antiq. Ital. Diss. II.

255.  Bolla dell'antipapa Clemente ai canonici di Reggio, a. 1092 in Muratori. Antiq. Ital. Diss. XXI.

256.  Si potrebbe supporre, in tal caso, che il suburbium non fosse riconnesso alla città fino dall'epoca romana, ma sibbene da qualcuna delle frequenti concessioni che si trovano nei diplomi degli ultimi Carolingi e dei loro successori.

Anche il diploma di Federigo I. del 1156 (ed. Lupi, Cod. dipl. cit. I. col. 578), probabilmente spurio, ma egualmente valido ad attestare l'uso e la frequenza dell'espressione, usa l'indicazione in circuitu. L'imperatore concede al vescovo, fra l'altro, nominatim omnes districtiones et publicas functiones Pergamensis civitatis et villarum et castellorum que sunt IN CIRCUITU IPSIUS CIVITATIS ad eumdem comitatum pertinentes.

Della possibilità che villae e castra potessero trovarsi entro il suburbium dirò più avanti.

257.  Cod. dipl. lang. (Troya) IV. 1. n. 498.

258.  Ibid. (ID.) n. 962. 564. 995. etc.

259.  Schiaparelli L. I diplomi di Berengario I. Roma, 1903, n. 14 pag. 48-49 a. 896.

260.  Cfr. Brunetti F. Codice Diplomatico Toscano I. 2. Firenze 1838, n. 70 a. 806. pag. 70. v. 7. 21. 24. 31 e 14. Per mettere in maggior rilievo la differenza fra infra e intus non è fuor di luogo osservare che si tratta di un placito.

261.  Diploma di Ottone III. ai canonici di Parma dell'anno 996. — Mon. Germ. Hist. Diplomat. II. 2. Die Urkunden Otto des III, n. 210, pag. 622 — in cui sono ricordate le mansiones INFRA civitatem Bononiam insieme con quelle in SUBURBANO TERRITORIO Ferrarie e con le SUBURBANAS TERRAS di Parma.

262.  Ughelli2. loc. cit. VIII. col. 51: monasterium Salvatoris infra civitatem Beneventanam. — ibid. col. 92: monasterium S. Modesti intus hanc novam civitatem Beneventanam e passim.

E non è soltanto nei documenti concernenti le città che intra ha questo significato.

Nel diploma dell'arcivescovo di Milano Todone del febbraio 866 a favore del monastero di Sant'Ambrogio, fra le altre concessioni c'è quella di INTRA ecclesiam Sanctorum Vitalis et Agricolae, in honore sanctorum Petri et Pauli ecclesiam infirmorum construere.

Il Puricelli (Ambrosianae basilicae Monumenta. Milano, 1645, numero 115, pag. 201) presso intra apre una parentesi dicendo: «non intra sed iuxta legendum est.»

Che nel documento sia stato scritto intra è certo, perchè se fosse stato possibile il menomo dubbio di lettura, il Puricelli non avrebbe esitato a indicarlo: d'altra parte è egualmente sicuro, per le notizie che il Puricelli stesso dà, che la chiesa di S. Pietro e Paolo era presso e non dentro la chiesa di S. Vitale e Agricola. A me sembra si possa ragionevolmente supporre che ci si trovi dinanzi ad una deviazione, non irrilevante, dell'antico significato romano di infra.

A Lodi un documento del 9 luglio 931 (Vignati C. Laus Pompeia in «Bibl. Hist. Ital. cura et studio societatis langobardicae» Milano, 1879, II. n. 10 pag. 16) contiene la permuta di una terra IN civitate Laude prope ecclesia S. Stephani con un'altra terra INTRA civitatem Laude prope porta mediolanense. La differenza di indicazione di un terreno che sappiamo di sicuro essere stato entro la città (cfr. Id. ibid. pag. LVII) con quella del secondo induce a credere che quest'ultimo fosse fuori delle mura.

Anche l'Editto langobardo (Roth. 340) usa l'avverbio infra. Se qualcuno, inforcato il cavallo di un'altro, cavalcherà INFRA viciniam idest PROPE ipsum vicum, pagherà due soldi di pena; si in antea, cioè fuori del territorio vicinale, in actogild reddat. Dunque infra indica lo spazio situato fra il vico, al centro, e i confini, alla periferia.

263.  Cfr. pag. 16 e segg.

264.  La critica ormai ha pacificamente ammessa l'origine comune e lo svolgimento molto somigliante del notariato dell'Italia langobarda e dell'Italia romanico-bizantina (Mayer E. Ital. Verfassungsg. I. pag. 114 e segg.) e con altrettanta concordia è ammessa, col Brunner, la diretta derivazione del documento medioevale da quello romano; ed è del pari innegabile che i singoli e specifici rilievi del Muratori (Antiq. Ital. diss. VIII. to. I. col. 426), del Lupi (Codex Diplomaticus Bergomensis. Bergomi 1799 to. II. animadv. XLIV col. 494), dell'Handloike (Die lombardischen Städte unter die Herrschaft der Bischöfe, und die Entstehung der Communen, Berlin. 1883 pag. 111), dello Schupfer (Il diritto privato dei popoli germanici etc. II. Città di Castello, 1909 pag. 51 e segg.) danno modo di affermare con sicurezza che i notai medioevali, pur nel loro barbaro latino, si attennero con cura scrupolosa all'uso di termini tecnici e precisi. Ma è altrettanto indiscutibile la grande varietà degli atti di uno stesso tipo, derivante, secondo me, da cause che risalgono a ben remota antichità: varietà che si è cominciato appena ora a mettere in luce da recenti e buoni studi diplomatici.

265.  Il Nissen (Templum und Institum e Pompeianische Studien zur Städtekunde des Alterthums. Leipzig. 1877) ha messo opportunamente in luce l'importanza di Pompei come tipo delle città italiche che erano regolari, contrariamente alle antiche città greche.

266.  D'Achery L. e Mabillon I. Acta Sanctorum ordinis S. Benedicti, Venezia, Coletti-Bettinelli, 1733, vol. II. p 330.

267.  Iaffè. Reg. Pontif., a. 768-772, n. 2389.

268.  Mansi. Conciliorum amplissima collectio, vol. XIII. col. 1006, cap. XLI. e Hludowici II, Synodus Ticinensis a. 850. c. b. ed. Pertz. in «Mon. Germ. Hist.» III. pag. 397.

269.  Id. Ibid., col. 1008.

270.  Id. Ibid., vol. XIV, col. 931-2; e Pertz, loc. cit.

271.  Ordo romanus, c. 6. Ad maiorem missam debent esse sex suburbani, diaconi septem etc. in Martène. De antiqua disciplina Eccles. in Div. off., pag. 504.

272.  Ughelli. loc cit., vol. V, col. 728, a. 921. Nell'a. 921, Raterio, vescovo di Verona, col suo testamento dispose fra l'altro «ut advenientibus omnibus kalendis in curriculis totius anni pascant pauperes duodecim pro anima domini Berengarii senioris mei Domini amabilis imperatoris, et cum de hoc seculo evolaverit omni anno die anniversaria pascant pro anima eius pauperes trecentos et sacerdotes sanctae ipsius ecclesiae cardinis omnes..... (lacuna nel testo) seu et SUBURBANOS omnes ita ut in tribus diebus ante eius annualem et tribus omnes generaliter sacerdotes DE INTUS ET DE FORIS omni die missas cantent et Domino preces offerant pro eius anima». Ughelli-Coleti. loc. cit., V, col. 728.

273.  Bolla di Alessandro II dell'a. 1061; al monastero di Senatore di Pavia in suburbio ticinensi ecclesiam S. Georgii et S. Pancratii, in Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXX.

274.  Diploma di Ottone III ai canonici di Parma dell'a. 996 in nota 5 pag. 88.

275.  Mayer, loc. cit., pag. 434, nota 9.

276.  Cfr. Diploma di Enrico IV del 26 maggio 1111 confermante quelli dei precedenti re ed imperatori. Affò I. Storia di Parma, I, pag. 343.

277.  Mayer, loc. cit., pag. 434, nota 9.

278.  Mansi, loc. cit. vol. XIV, col. 791. Il vescovo concede un massaro di nome Gisulfo insieme con tutte le cose che «per ipsum reguntur in suburbano vico episcoporum». La concessione fu confermata dal metropolita milanese Angelberto nel sinodo provinciale. Ibid. col. 792-93.

279.  Synodus romana in causa Formosi pp. c. 8. e Massa ha anche un altro e ben diverso significato: indica un complesso organico di beni nell'amministrazione della Chiesa. Un bellissimo esempio ci è offerto dal Liber diurnus, ed. Sickel. Vienna, 1889, VI, 5 e XL, in cui si parla del presbyter preposto alla chiesa di una massa. Gregorio M. Epist. VI, 18-X, 28-X, 52 e dal diploma di Federigo I del 1177 al monastero di Pomposa. (Muratori, Ant. Ital. Diss. XLVII). Sulle massae d'Arno, di Bagno e Trabaria ha pubblicato uno studio P. Fabre nell'«Arch. della Soc. Rom. di Stor. Patr.» vol. XVII a. 1894.

280.  D'Achery-Mabillon. loc. cit, vol. I. pag. 351 e Delisle in Orderici Vitalis historia eccles. 1885 pag. LXXIX-LXXXIV.

281.  Cfr. Capitulare mantuanum primum mere ecclesiasticum a. 787. c. 11 (ed. Boretius in «Mon. Germ. Hist.» Capit. Reg. Franc. I. 1. n. 92, pag. 195). La data, però, non è esatta: il Patetta (Sull'introduzione in Italia della collezione di Ansegiso e sulla data del cosidetto capitulare mantuanum duplex attribuito all'anno 787 in «Atti della R. Accad. di Torino» 1890, vol. XXV, pag. 883-85) ha dimostrato che invece è da ascriversi all'anno 813.

282.  Lupi. De Parrochiis pag. 253. E il Concilio di Reggio o Pavia dell'a. 850 stabilisce (cap. XIII) sicut episcopus matrici preest, ita singulis plebibus archipresbiteros praeesse volumus. Mansi, loc. cit. vol. XIV, col. 935.

283.  Lupi. Cod. dipl. cit. I, col. 323. Eccone i confini secondo un documento del 928 (ibid. col. 900-901). A recta via (partendo dalla cattedrale di S. Alessandro) usque ad locum qui vocatur Cultel et Canale et per montes et per valles et per culta et per inculta usque ad locum qui vocatur Brene. Ex altera parte civitatis a Laticis antrum quod vulgo dicitur Lantrum, recta via usque ad Sorisole per omnem illum locum qui vocatur Castellum per montes et per valles usque Lemine».

Su questo documento sono da vedersi le giuste osservazioni di A. Mazzi. Corografia bergomense, Bergamo 1880, sotto la voce Bergamo.

In un documento del 1174 (Lupi. Cod. dipl., II, col. 1281), con cui la chiesa di S. Michele fu eretta in parrocchia, si legge che quei vicini, avendo asserito «ex sua parte quod praefata aecclesia S. Michaelis habebat jus baptizandi tum ex parte comitum, tum etiam popter usum longi temporis», i canonici risposero «hoc non licere eisdem hominibus aut ecclesie cum non esset plebs neque haberet titulum sed essent SUBURBANI».

Degli aumenti successivi del territorio suburbano parlerò a proposito dei diplomi imperiali dell'epoca franca e precomunale.

284.  Luitpr. Historia Langubardorum. Mon. Germ. Hist. Ss., II, 16.

285.  Roberti. Dei beni appartenenti alle città cit., pag. 30-31, nota 4, dell'Estr.

286.  Schupfer Fr. Aldi liti e romani cit., pag. 70.

287.  Ughelli-Coleti. Italia Sacra, V, 707-08. Partizione delle decime fatta dal vescovo Rotaldo nell'813. Damus atque concedimus sanctae matriculari ecclesiae tres portiones decimarum, quae a fideli populo civitatis dantur; quartam pauperibus reservamus. Primo quidem omnium decimas, quae a populo civitatis dantur, omnibus canonicis communiter concedimus; deinde omnes decimationes que dantur ab hominibus habitantibus in Villa, que stat iuxta Portam Sancti Firmi largimur illi canonico qui subdiaconibus atque acolitis de secretario praeesse debet studio. Cunctas denique decimas, quae dantur a villanis indigenis, seu advenis habitantibus sive habitaturis in Villa S. Zenonis confessoris usque ad portam civitatis opportune septem subdiaconibus et totidem acolitis damus, exceptis tribus massariciis, quae in nostra potestate reservamus.

288.  Queste città sono espressamente ricordate nell'atto di divisione di Carlo M. Cfr. Capit. Reg. Franc. ed. Boretius in «Mon. Germ. Hist.» n. 45, c. 4, pag. 128.

289.  Cfr. Brugi B. Le dottrine giuridiche degli agrimensori romani comparate a quelle del Digesto, Verona-Padova, 1897.

Per la Sardegna differenze notevolissime nella larghezza dell'iter culturas accedentium, dovute al permanere di preesistenti usi locali, sono state messe in rilievo dal Besta, Il diritto sardo nel medio evo, Bari 1898, n. 141, pag. 85.

290.  Cfr. il passo nel glossario del Du Cange a q. v.

291.  Luchaire A. Les communes françaises à l'époque des Capétiens directs. Paris. 1890. pag. 69-72.

292.  Huvelin P. Essai historique sur le droit des marchés et des foires, Paris, 1897, pp. 188, e 200-01.

293.  Vedi il glossario del Du Cange alla voce cit.

294.  Luchaire A. loc. cit., pag. 69.

295.  Cfr. Mon. Hist. Patr., XIII, 1561.

296.  La prova e la confutazione di questa ipotesi non può esser data che dal materiale metrologico: si conoscono, infatti, tre specie di leghe; la leuca mayor di 2962 m., la leuca minor che misura solo 2222 m., ed infine la leuca gallica.

297.  In Mon. Germ. Hist. Capitul ed. Boretius. II. 125.

298.  Leicht. Studi cit., I, pag. 51.

299.  S'intende che io parlo del massaro come lavoratore e coltivatore della terra; non del servo, dello schiavo, incaricato dal padrone delle funzioni e dei lavori propri del massaro. Quest'ultimo non acquista mai la personalità giuridica, che è propria dell'altro, per quanto ne possa compiere tutte le mansioni. Tale distinzione è indispensabile per avere un'idea esatta di quelle classi rurali, a proposito delle quali e più specialmente del massaro è sorta, or non è molto, una proficua discussione fra l'Hartmann (Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens, pag. 57-62) e il Solmi (Rec. all'Hartmann in «Riv. It. di Sociologia IX. 1905. pag. 15 dell'Estr.), alla quale ha preso parte anche il Volpe (in «Studi Storici» dir. da A. Crivellucci. 1905, pag. 176-77).

300.  Cfr. Pivano S. I contratti agrari in Italia nell'alto m. evo. Torino. 1904. pag. 314-15.

301.  Sulla tendenza comune nel basso impero, e continuata anche dopo, di rendere assoluti ed ereditari i vincoli dei lavoratori della terra e tutti i contratti relativi all'economia rurale cfr. Leicht Studi cit, I, pag. 46-47.

302.  Cfr. nota 2 pag. 86.

303.  Schiaparelli L. I diplomi di Ludovico III e di Rodolfo. Roma, 1908, n. XV, pag. 67.

304.  Ed. in Mon. Hist. Patr. vol. I. chartarum n. 87 col. 143-44.

305.  Questo è dimostrato dalla ripetizione, oltre che del castrum vetus, dei nomi dei servi. Tale ripetizione è stata rilevata anche dal Cipolla (Di Audace Vescovo di Asti e di due documenti inediti che lo riguardano in «Miscellanea di Storia Italiana» vol. XXVII a. 1889 pag. 183 nota 1) il quale, ritenendo che la condizione di servientes possessori di beni immobili sia contradetta dalla parola massaritia, che indica il manso e considerandola poco verosimile e conciliabile con la condizione nella quale appaiono trovarsi i servi, pensa che il diploma del 938 autorizzi senz'altro ad intendere che anche nel primo diploma si sia trattato di veri e propri servi.

306.  Tamassia N. Una professione di legge gotica cit., pag. 6. Anche il Leicht (Studi cit. I. pag. 104) riporta un documento lombardo dal quale si vede che vi erano beni comuni del comitatus.

307.  Schupfer Fr. Il diritto privato dei popoli germanici, vol. I. pagina 42 e segg.

308.  Mayer. Ital. Verfass cit., I, pag. 281. Solmi. Storia cit. pag. 188.

309.  Kandler. Cod. diplom. istriano n 804, riportato dal Roberti, dal Finocchiaro-Sartorio e dallo Schupfer. Cfr. anche Waitz. Die deutsche Verfassungsgeschichte. II. 1883. pag. 490-92.

310.  Lo Schupfer. (Dir. priv. cit. I. pag. 64 e 66) veramente crede che la natura del diritto dei cittadini sia puramente d'uso, di fronte alla proprietà eminente del sovrano, il quale può disporre di questi beni senza commettere un arbitrio; ma tale sua concezione è così intimamente legata all'affermazione dell'esistenza di forme economiche collettivistiche presso i Langobardi, dopo la loro discesa in Italia, che non può non risentirsi dei gravi colpi portati a quest'ultima, sopra tutti dal Leicht e dal Solmi.

311.  Paul. Diac. Hist. Langub. V. 36.

312.  Ficker J. Forschungen zur Reichs und Rechtsgeschichte Italiens. IV. Innsbruch 1874, n. 27, pag. 35.

313.  Cfr. Die Urkunden Otto d. III. ed. cit. n. 53 pag. 456-7.

314.  Muratori. Ant. Ital. Diss. VIII.

315.  Cronaca piacentina, ad an. ediz. Borra. Parma 1862.

316.  A. 1037. Odorici. Storie bresciane vol. V. pag. 50. e Gradonicus I. H. Pontificum brixianorum series commentario historico illustrata. Brescia, 1755, pag. 159.

317.  Ughelli2. Ital. Sacra Vol. V, col. 712. a. 1178.

318.  Anche il documento veronese chiama communis la CAMPANEA: ma bisogna pensare che siamo in epoca in cui, il comune essendo già formato, ogni terra non appartenente a singoli è communis.

319.  Muratori. Antiq. Ital. Diss. XIII.

320.  Roth H. Geschichte des Benefizialwesens. Erlangen. 1850, pagine 374-75.

321.  Leicht P. S. Ricerche sull'arimannia cit., pag. 9 e segg. in Studi e Frammenti. Udine 1903.

322.  Checchini A. I fondi militari romano-bizantini considerati in relazione con l'arimannia in «Archivio Giuridico F. Serafini» 1900.

323.  Infatti in tutto il primo capitolo non ricorda che i bona vacantia e quelli confiscati per legge ai proscritti ed ai condannati per nozze incestuose e per crimine di lesa maestà; ed i palatia nelle città consuete (in civitatibus consuetis).

324.  Enrico IV parla di arimanniam eiusdem civitatis (Padova) omnemque districtum ac quicquid ad imperialem potestatem pertinet. Berengario I chiama la terra arimannica terram juris regni nostri. Cfr. Checchini, loc. cit., pag. 462.

325.  Leicht P. S. Ricerche cit. e Studi cit., vol. I, pag. 41-42.

326.  Checchini A. I fondi militari etc. pag. 461-62.

327.  Leicht P. S. Studi cit., II, pag. 92. Ma al Leicht non è sfuggita l'impossibilità del rude Stato germanico a costituire rapporti così complicati come quelli dell'arimannia. Egli ha pensato che essi ne fossero già compenetrati nel loro diritto nazionale: ed a questo è arrivato perchè crede che l'ordinamento militare bizantino abbia avuto una notevole influenza su quello langobardo (pag. 88) e da ciò sieno derivati dei punti di identità.

A me, come dico, pare si tratti di semplici analogie spiegabili con i punti a comune di due civiltà una all'inizio e l'altra all'occaso.

328.  Loc. cit., pag. 443-44. La stessa tesi riguardo alle concessioni di terre fatta da Genserico ai suoi vandali, è sostenuta dal Martroye (Genséric, la conquête vandale en Afrique et la destruction de l'empire d'occident. Paris 1907, pag. 297 e segg.) e dal Roberti (Arimannie vandaliche in Africa in «Studi in onore di F. Ciccaglione. Catania, 1909, vol. I, pag. 103 e segg.).

329.  Loc. cit., pag. 466-67.

330.  Muratori. Antiq. It. Diss. XIII. Cfr. anche Pivano S. Stato e Chiesa in Italia da Berengario I ad Arduino. Torino 1908, pag. 20. Il Muratori dètte di questo diploma — è vero — un'interpetrazione estensiva che in realtà esso non ha, essendo rilasciato al solo vescovo di Arezzo e non a tutti i vescovi d'Italia, come egli pensò. Ma non mi sembra onesto — però — tacere che i diplomi dello stesso imperatore a Cremona (Pivano, loc. cit., pag. 21) e a Verona (Ughelli, loc. cit., V, col. 724), con formulario identico a questo, dimostrano una volta di più la sicurezza d'intuito di lui, che, partendo da un punto, che, considerato isolatamente, è inesatto, emetteva tuttavia un giudizio in complesso vero e sicuro.

331.  Cito l'ed. del Pasqui U. Documenti per la storia di Arezzo, Firenze, 1899, n. 49, pag. 71-72.

332.  Böhmer, Acta Imperii Selecta, vol. I. Insbruch. 1870, n. 63, pag. 60.

333.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. XIII. col. 736.

334.  Id. Ibid.

335.  Lupi. Cod. dipl. bergam., II, pag. 1169-70, cit. dal Checchini, pag. 461.

336.  Cit. dal Checchini, pag. 462.

337.  Leg. Lang. Guido 3. Nemo comes neque loco eius positus neque sculdasius ah arimannis suis aliquid per vim exigant praeter QUOD COSTITUTUM LEGIBUS EST.

Doc.to dell'a. 937 riportato dal Ducange: de villa Raucho et de omnibus arimannis in ea morantibus omniaque districtionem omnemque publicam functionem et querimoniam quam ANTEA publicus nosterque missus facere consueverat... custodiant et observent. Cfr anche Savigny C. F. Storia del dir. rom. nel m. e. Trad. ital., I, Firenze 1844, pag. 135-148. Cfr. anche il diploma di Federigo I al comune di Ferrara dal 1164, in Muratori Antiq. Ital., Diss. XLVIII.

338.  Leicht. Ricerche cit., pag. 8-9

339.  Cfr. Schupfer. Il dir. priv. cit., I, pag. 67 e segg. e II, pag. 91; Pertile loc. cit., III, pag. 35 e segg. Vaccari P. Ricerche di storia giuridica, Pavia 1907, pag. 3-43. Il colonato romano e l'invasione long. Cfr. però per lo stato personale le giuste osservazioni del Leicht. Studi cit., II, pag. 108, oltre a ciò che ne dice nel vol. I, pag. 51 e segg.

Vedi il bel documento del 746. Troya. Cod. Dipl. Lang., n. 594, e le osservazioni del Tamassia. Fidem facere e manum facere in «Arch. giurid.», 1903, pag. 536 e segg.

Noti documenti (Troya. Cod. Dipl. Lang., n. 480 e Reg. farf., n. 16 e 35) mostrano concessioni regie di una terra con facoltà di alienazione e di permuta, senza perdita da parte del sovrano dell'alto diritto sulla terra stessa. Al re, infatti, è dovuto sempre il pagamento del canone stabilito col primo cessionario e, qualche volta, anche la facoltà di sostituire una terra diversa a quella già concessa.

È un'altra prova dei tratti comuni che hanno due civiltà in condizioni opposte.

340.  Cfr. i documenti riportati dal Pertile. loc. cit., III, pag. 38.

341.  Ricerche cit., pag. 15-17.

342.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. XLV.

343.  Id. Ibid.

344.  Mem. e Doc. p. la storia di Lucca, IV, ed. Bertini. Lucca, 1818, pag. 309. Lo stesso nel documento lucchese dell'819, edito dal Muratori. Antiq. Ital., Diss. XIII.

345.  Ibid., Id., vol. IV, pag. 309.

346.  Della Rena C. Storia degli antichi duchi e marchesi di Toscana. Firenze, 1690-1764, vol. III, pag. 41. Per la data cfr. Overmann, Gräfin Mathilde von Tuscien, Innsbruck, 1895, pag. 156.

347.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. XIII.

348.  Id. Ibid.

349.  Solmi A. Le diete imperiali di Roncaglia e la navigazione del Po presso Piacenza. Estr. dall'Archiv. Stor. per le Prov. Parmensi. N. S. vol X, 1910, cfr. pag. 20-21 e 31-32; in cui sintetizza il sistema cui dette il nome nel lavoro sulle associazioni.

350.  Darmstädter, loc. cit., pag. 7. Alboino occupò i castelli di Verona e di Pavia; Liutprando ed Astolfo i palazzi bizantini di Ravenna.

351.  Ne offre esempio sicuro la Legge Salica (Tit. XLV De migrantibus). Leggi e documenti provano che anche presso i Langobardi ebbe vigore lo stesso sistema.

352.  Salvioli G. Città e campagne cit., I.

353.  Troya. Cod. dipl. lang., n. 812, a. 764, n. 671, a. 753, e Chroust, Untersuchungen über die langob. Konigsurkunden. Graz. 1888, n. 15, pag. 204 e n. 20 pag. 181.

354.  Capitulare ital. Capitula Pippini 4, 19, ed. Padelletti pag. 368 e 373, e Capit. Papiense, 787, oct. c. 9, ed. Boretius. n. 94, pag. 199, e Capit. Hlotarii, a. 832, c. 7. Capit. Hludov., II. a. 850, c. 7 e 8. Capit. C. Pap., Capit. Hludov., a. 850 c. 6 e 3, per i palazzi imperiali in città.

355.  Epist. ad Pippinum filium, a. 807. Capitulare italicum. Capitula Karoli Magni, 142, ed. Padelletti pag. 365-66. e Odorici. Storie bresciane, vol. III, Cod. diplom.. 17 apr. 761. n. XXI, pag. 39. «intra muros civitatis brixiane prope portam mediolanensem loco qui dicitur Parevaret».

356.  Cfr. Cod. Just. XI. 74. 4. Onorio e Teodosio, a. 423. Che queste angarie conservino anche nel secolo nono il significato, il valore e la natura di imposizioni pubbliche è luminosamente dimostrato dal diploma dell'882 al vescovo di Reggio.

357.  Troya. Cod. dipl. lang., n. 566, ripubblicato dall'Hartmann. Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens in frühen Mittelalter. Analekten. Gotha, 1904, pag. 125.

358.  Ughelli. Italia Sacra, VIII, col. 32.

359.  Id. ibid., V, col. 711.

360.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. XXXI.

361.  Ficker. Forschungen cit., IV, n. 81, pag. 124.

362.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. XLV. Questi due documenti sono relativamente tardi, ma la nota ostilità di alcuni dei re Franchi e dei re d'Italia contro l'episcopato toscano (Cfr. Leicht, Studi cit., II. pag. 109) spiega perchè questi oneri perdurassero ivi più a lungo che altrove.

363.  Cfr. Pertile2. loc. cit. VI. 1. pag. 29 nota 11.

364.  Tamassia N. Le associazioni in Italia nel periodo precomunale, Estr. dall'Archivio Giuridico, 1898, fasc. 1, pag. 16.

365.  Id. ibid., pag. 15-16.

366.  Solmi A. Per la storia delle associazioni nell'alto m. evo, Estr. dall'Archivio Giuridico, 1899, fasc. 1, pag. 7-8.

367.  Id. ibid, pag. 7.

368.  Cod. dipl. Lang., (Troya), n. 765, a. 761.

369.  Ughelli2. loc. cit., V, col. 708, a. 813. De vestimentis que de Pisile veniunt, vel Ginicro decimam partem. Il pisele ed il gineceo sono elementi ben noti del sistema curtense.

370.  Cfr. Voigt K. Die königlichen Eigenklöster in Langobardenreiche Gotha 1908.

371.  Tiraboschi. loc. cit., II, pag. 69-70, a. 895.

372.  a. 852, 19 ottobre,.... ut annis singulis ad predictam parte nostre hecclesie reddere debeatis pro ipso monasterio vestitum unum bonum caprenum sicuti ipso monasterio in parte palatii consuetus fuit et ipse dominus imperator nobis concessit. Lami. Sanctae ecclesiae Florentinae Monumenta. Firenze, 1758 II, 968.

373.  a. 1048 circa. Muratori. Antiq. Ital., Diss. LVI.

374.  Leicht. Studi cit., I, pag, 22. Cfr. anche Solmi. loc. cit., pagina 100.

375.  c. 340.

376.  Cod. Theod. IV, 8, 5 e Cod. Just. VII, 16, circumductio.... circumlustratis provinciae populis e Cod. Theod. Nov. Valentin. X. in fine.

377.  L'abate Teofrido nel suo discorso «De SS. Reliquiis» parla dei singuli.... civitatum populi a cui le reliquie furono concesse in conforto (in solatium). Cfr. Muratori. Anecdota, I, Milano 1697, pag. 8, nel commento al v. 45 del Natale XI.

378.  Cod. Theod., XII, 12, 16, a. 426. Teodosio e Valentiniano parlano dei «civitatum postulata, decreta urbium, desideria populorum».

379.  Cod. Theod., IX, 33, I. Si quis.... suscipere plebem.... temptaverit. E l'Interpr.: Si quis populum ad seditionem concitaverit.

380.  Tale è il caso di Cremona, Sospiro, Bergamo etc. Cfr. più avanti pag. 143.

381.  Cfr. specialmente Capit. Ital. Lud. P. 35. 36.

382.  A Piacenza, come si è veduto, la pensio del sapone grava su tutta la città. Lo stesso avviene per imposizioni varie in altre città: così a Cremona sono tutti gli abitanti (... Rothecarius, Dodito, Gudipertus et ceteri habitatores) che al placito di Lodovico II., tenuto a Pavia nell'851-52, accusano il vescovo di violenze e soprusi contro le loro navi.

E non si può supporre che tutti i cremonesi esercitassero il commercio fluviale: come non si può ammettere che tutti gli abitanti di Benevento fossero costretti alle prestazioni che un bel documento, che avrò modo di illustrare trattando delle divisioni cittadine interne, mostra gravare sulla città considerata nel suo complesso.

E lo stesso concetto domina anche per i minori centri locali. Re Astolfo nel luglio del 755 conferma alla Basilica di S. Lorenzo presso Bergamo la casam tributariam donatale già dal re Ariperto e aggiunge la concessione di omnes scuvies et utilitates quas homines exinde in puplico habuerunt consuetudinem faciendum excepto quando utilitas fuerit cesas faciendum ubi consuetudinem habuerunt. Nam ab aliis scuvies et utilitatibus puplicis quieti permaneant (Cod. dipl. lang., Troya IV, 4, n. 693).

383.  Cfr. Decretio Clotharii regis nel Pactus pro tenore pacis domnorum Childeberti et Chlotarii regum (ed. Boretius in Monum. Germ. Hist. Capitularia regum francorum, I, 1), cap. 9: «Decretum est ut qui ad vigilias constitutas nocturnas fures non caperent eo quod per diversa intercedente conludio scelera sua pretermissas custodias exercerent, centenas fierent. In cuius centena aliquid deperierit, capitale qui perdiderit recipiat, et latro, vel si in alterius centenam appareat deduxisse et ad hoc admonitus si neglexerit, quinos solidos condempnetur; capitalem tamen qui perdiderat, ad cetena illa accipiat absque dubio, hoc est de secunda vel tertia».

384.  Cfr. nota 3 pag. 128.

385.  Cod. Just. XII. 41. 5. a. 413.

386.  Sino dal tempo romano il sistema fiscale legava tutti gli abitanti alla terra e questa, distinta nelle singole divisioni territoriali, alla città che si trovava a capo di ognuna di esse (cfr. infatti il libro X del Cod. Just.; la massima parte delle disposizioni del quale ebbe sicuramente applicazione in Italia per essere stata compresa nel Cod. Theod.); ma non separò la città dal suburbium, nè confuse quest'ultimo con il territorio circostante.

Un passo che calza perfettamente a questo proposito ci è fornito da Gregorio di Tours, il noto vescovo e storico del secolo sesto. Egli narra (In gloria confessorum liber. cap. 62. — ed. Arndts e Krusch nei «Mon. Germ. Hist.» Scriptores rer. meroving. I. pagina 784) che l'imperatore romano Leone, richiestone da un arcidiacono, che gli aveva guarita la figlia; concesse alla città di Lione l'esenzione dal tributum dovutogli in tertio circa muros miliario civitatis. Anche a dubitare (e non sarebbe punto fuor di luogo) che l'origine del privilegio lionese sia proprio dovuta al fatto narrato da Gregorio di Tours; non si può ragionevolmente dubitare che, almeno ai suoi tempi, Lione godesse di tale esenzione e da epoca abbastanza remota; perchè, continuando la sua narrazione, egli aggiunge: unde usque hodie circa muros urbis illius in tertio miliario tributa non reddentur in publico.

Ammesso pure, in ipotesi, che la concessione non risalisse al tempo romano — e non c'è ragione di credere che ciò non sia potuto avvenire — è indubitabile che una distinzione precisa, in materia di imposte, della città e del suo suburbio dal territorio circostante, quale Gregorio di Tours ci fa vedere, non sarebbe stata possibile se non avesse avuto a base un precedente stato di fatto e di diritto vigorosamente stabilito, nettamente applicato e comunemente usato. Basti solo pensare che l'estensione della zona riconnessa alla città è così vasta — tre miglia — da non poter presentare caratteri e dati di fatto capaci di servire ad una delimitazione dal rimanente e che Gregorio di Tours rileva la peculiare condizione di Lione e del suburbio che sono esenti dal tributo; ma non accenna affatto come strano il caso che l'immunità finanziaria, concessa al centro murato, si estenda per un certo ambito determinato anche al di fuori. Per le tre miglia v. pag. 96.

387.  La πςοτίμησις aveva preparato il terreno alla coattiva unione di terre e di persone per il pagamento delle imposte. Cfr. Tamassia N. Il diritto di prelazione e l'espropriazione forzata negli statuti dei comuni italiani in «Archivio giuridico» 1885 vol. XXXV.

388.  Accanto ai gruppi arimannici, i quali costituirono una lunga catena serpeggiante lungo la spina centrale della conquista langobarda (Cfr. anche Leicht Studi cit., II, pag. 89); ebbe sicuramente vita l'elemento militare indipendente, basato senza dubbio sulla terra, ma non vincolato inesorabilmente ad una determinata terra, come gli arimanni; e che li superò di importanza e di numero. All'individualismo germanico ripugna tanto la costrizione, che io ritengo che l'arimanno, inteso come colui cui è concessa la terra specificatamente detta arimannia, sia ben differente dal vero e proprio esercitale.

389.  Brescia, per esempio, fu prediletta dai nobili Langobardi.

390.  Bergamo fu pure un centro favorito dai Langobardi. Cfr. Schupfer. Istituz. cit., pag. 152.

391.  E così si spiega perchè nei documenti non si parli mai di tertiae e di terze parti fatta eccezione di quei tertiatores della Liburia che è stato dimostrato essere un caso speciale e singolarissimo.

392.  Cod. dipl. lang. (Troya), n. 401.

393.  Ibid. (Id.), n. 479.

394.  Ibid. (Id.), n. 431. A questi notai della città si possono aggiungere pure Arioald notarius de Mantua (Cod. Dipl. Lang.Porro — n. 93. a. 818) e Gisulfus notarius brixianus (Ibid. — Id. — n. 270 a. 877).

Vedi anche il placito tenuto a Trento nell'845 (ed. Muratori. Antiq. Ital., Diss. XXI) dai messi dell'imperatore e del duca Liutfredo; la «paginam judicati» è stesa da Grimoaldus notarius civitatis Tridentine. Un documento dell'anno 769 (Cod. Dipl. Lang.Porro — n. 39) ci fa conoscere anche Thomas subdiaconus notarius sancte ticinensis ecclesie.

395.  Non menziono il receptor perchè l'unico esempio di esso (Cod. dipl. lang., ed. Troya, n. 453; ed. Porro, col. 16, n. IV, a. 725) è dovuto ad un errore di lettura e di interpetrazione. Lo Schiaparelli (in «Archiv. Stor. Ital.» sez. V, to. XLIII, pag. 166, nota 3 e tomo XLVIII, pag. 196, nota 1) ha dimostrato che l'abbreviatura, che ricorre anche in altre carte langobarde, è «reg p» e va sicuramente sciolta «reg(ia) p(otestas)»; il passo relativo del documento citato deve, quindi, esser restituito «notarius reg(iae) p(otestatis)».

396.  Ughelli-Coleti. loc. cit., V, Col. 711.

397.  Hegel C. Storia della costituzione dei municipi italiani, trad. Corti. Milano 1861, pag. 881, nota 4.

Però non ne fa alcun uso per lo studio della costituzione cittadina.

398.  Leicht P. S. Nobili e popolani in una piccola città dell'alta Italia, Rec. al lavoro del Patetta sullo stesso titolo. Estr. dall'«Archivio Giuridico», 1904, pag. 6.

399.  Mayer E. Ital. Verfassungsg. cit., I, pag. 413.

400.  Il documento parla di vicarius civitatis al tempo langobardo, mentre le fonti non chiamano mai con simile termine chi è a capo di una città. Non mi pare azzardato pensare che l'autore della notitia, che scriveva in tempo franco, abbia usato il termine adoperato dai Franchi, ignorando l'altro. Importante è che sia vero il fatto della controversia e la sua risoluzione. E questo è sicuro. Anche il Cipolla (Fonti edite della storia della regione veneta dalla caduta dell'impero romano fino alla fine del secolo X.º in «Monumenti Storici pubblicati dalla R. Deput. Ven. di Stor. Patr.» vol. VIII. S. IV. vol. II. Venezia 1888, n. 56 pag. 80) dà conto di questo documento senza accenno alcuno alla possibilità di un dubbio sulla sua autenticità.

401.  Cod. Theod., V, 1, 32, Arcadio Onorio Eusebio, a. 395.

402.  Cod. Just., VIII, 11, 11.

Tracce di questa tripartizione si trovano anche nelle città tedesche di origine romana.

Nel diploma con il quale nel 1120 Bertoldo duca di Zaringia in loco proprii fundi sui Friburc, secundum jura Coloniae liberam constituit fieri civitatem è stabilita la seguente disposizione:

«Quicumque carens herede legitimo friburc moritur, omnia sua bona XXIV consules diem et annum in sua tenebunt potestate: si autem nullus heredum suorum venerit, una pars pro remedio animae suae, altera domino, tertia dabitur ad munitionem civitatis. (Cfr. Eichhorn. Ueber den Ursprung der städtischen Verfassung in Deutschland. in «Zeitschrift für geschicht. Rechtswissenschaft» 1815, II, nota 175). E Colonia — lo dichiarano apertamente i suoi statuti (Cfr. Eichhorn. loc. cit., nota 204) — aveva l'jus italicum.

403.  Cfr. Boretius. Capit. Reg. Franc. I. 1. n. 105 pag. 216.

404.  VIII, 11, 10.

405.  Ughelli-Coleti2, loc. cit., VIII, col. 32.

406.  Capitulare mantuanum secundum generale c. 7. ed. Boretius loc. cit. n. 93 pag. 197.

407.  I Langobardi, dopo la vittoriosa discesa di Carlo Magno, passarono sotto la corona dei re franchi; ma, come è noto, non entrarono a far parte del regno e si mantennero separati ed, in certo grado, autonomi. Dal momento che i capitolari franchi parlano a questo proposito di antiqua consuetudo, non si può dubitare che essi attuassero in Italia quel sistema che avevano adoperato i Langobardi.

408.  Capitula italica c. 3. ed. Boretius loc. cit. pag. 216.

409.  P. Diacono. Hist. Lang., IV, 29.

410.  Da tutta la narrazione di P. Diacono e dal complesso delle notizie che abbiamo della conquista langobarda, appare come cosa eccezionale e dovuta a specialissime condizioni strategiche l'occupazione del territorio di Cremona fatta dai conti di Bergamo e di Brescia e si ha quindi una riprova del fatto che i Langobardi come sistema, si servirono delle divisioni territoriali preesistenti.

411.  Solmi. Le diete di Roncaglia cit.

412.  Cfr. Böhmer. Regesta Carolinorum. Frankfurt, 1831 pag. 630.

413.  Memorie e Documenti per servire all'istoria del ducato di Lucca. V. p. II, Lucca 1827, n. 30.

Questo Gaudenzio, ricordato in molti documenti, è detto in uno del 746 (ibid., n. 33) magister: probabilmente della schola vescovile lucchese perchè è un chierico che lo chiama così; infatti l'atto dice: «Ego Perteradus clericus ex dectato Gaudentio presbitero magister meo iscripsi».

414.  Non mi pare che questo concetto sia stato applicato nè dal Liebe G. Die Städte des Mittelalters und die Kirche in «Neue Jahrb. für d. klass. Altertum» 1901, to. VII-VIII, 3.; nè da altri.

415.  Questa mi sembra sia stata la ragione del fatto rilevato già da tempo (cfr. Muratori L. A. Liturgia romana vetus tria sacramentaria complectens etc. nella «Raccolta delle opere minori», Napoli, 1760, to. 11, pag. 2-3) ma non spiegato.

416.  Cfr. concil. veneticum (presso Tours) a. 461, c. 15, ed. Labbé-Mansi. cit., vol. IV, col. 1057; concil. agathense, a. 506, c. 30, ibid., IV, col. 1368; concil. epaonense, a. 571, c. 27, ibid., IV, col. 1570.

417.  Cfr. concil. gerundense, a. 517, c. 1. ed. cit., IV, col. 1568; concil. toletanum., IV, a. 633, c. 3, ibid., V, col. 1700; concil. bracarense, I, a. 563, c. 19-23, ibid., V, col. 838.

418.  Cfr. Harnack. Die quellen der sogenannten apostolischen Kirchenordnung, Leipzig, 1886, pag. 98 e segg.

419.  Cfr. su questo punto Duchesne L. Les origines du culte chrétien, Paris, 1902; Phebei F. A. De variis ecclesiae liturgiis et de liturgia latina; Mabillon J. De liturgia gallicana etc. Lutetiae Parisiorum, 1685; Migne J. P. Origines et raison de la liturgie catholique etc., Paris, 1844; Gerbert P. M. De veteri liturgia alemannica in «Novelle letterarie di Firenze», 1763, col. 299, 317, 331, 365, 398, 437, 474 etc.

Per l'Italia ha un certo interesse lo studio di P. Cagin. L'euchologie latine étudiée dans la tradition des formules et des formulaires, Liège, 1912, perchè pone acutamente in rilievo l'importanza del palinsesto latino veronese degli statuti apostolici per le interpolazioni in esso contenute.

420.  Vedi pag. 45 nota 1.

421.  Vedi pag. 89, specialmente nota 2. A questa forza e a questo mantenersi di antichi elementi di diritto deve la sua origine il diritto di cui il Brunner (Urkunde cit., pag. 113 e segg. e 124 e segg.) avvertì per primo l'esistenza e che chiamò diritto romano volgare con un'espressione che discuteremo più avanti.

422.  Cfr. Magani F. L'antica liturgia romana, Milano, 1909.

423.  Cfr. Delle antichità longobardico-milanesi illustrate con dissertazioni dai monaci della congregazione cisterciese di Lombardia, Milano, 1793, vol. III, diss. XXV, pag. 1 e segg.

424.  La maggior quantità di notizie si può spigolare dal Liber pontificalis di Agnello su cui vedi Lanzoni F. Il Liber pontificalis ravennate in «Rivista di Sc. Storiche» diretta da R. Maiocchi, VI, aprile-giugno 1909 e le Note marginali al «Liber pontificalis» di Agnello R. di A. Testi-Rasponi nel Vol. XXVI, 1909, XXVII, 1910, e I della 4. serie 1911 degli «Atti e Memorie della R. Dep. di St. Patr. per la Romagna».

425.  Cfr. Pastè C. R. Rito eusebiano in «Archivio Soc. Vercellese di St. e d'Arte», Vol. II, 1910 e segg.

426.  Cfr. Uccelli G. B. Della badia fiorentina, Firenze, 1858; Davidsohn Storia cit., I, pag. 56 e segg.; II, pag. 1104 e Forschungen, I, pag. 19 e la bolla di papa Lucio al capitolo fiorentino (ed. Ughelli loc. cit., to. II, col. 495, a. 1144); e, sopratutto, Mores et consuetudines ecclesiae florentinae, ed. D. Moreni Firenze, 1794.

427.  Cfr. l'Ordo officiorum ecclesiae senensis ab Oderico eiusdem ecclesie canonico a. MCCXIII compositus, ed. G. C. Trombelli, Bologna, 1766.

428.  Cfr. la bolla di Anastasio IV.º del 1153 (ed. Ughelli loc. cit., III, col. 395); e, sopratutto Matthei A. Ecclesiae pisanae historia, Lucca, 1768.

429.  Ecco la parte principale della bolla con cui Gelasio II.º nel 1118 conferma gli antichi usi della chiesa di Lucca (ed. Ughelli loc. cit., I, col. 819). Petitiones vestras clementer admittimus et vobis antiquas ecclesiae matricis consuetudines confirmamus; ut videlicet unctiones infirmorum et sepolturae civitatis propriae ad matricem ecclesiam pertinentes et officium et participatio beneficii funerum ad alias ecclesias pertinentium vobis nulla clericorum calliditate, aut laicorum quorumlibet substrahatur: electiones priorum et collationes clericorum in aliena ecclesia infra urbem vel extra in suburbiis sine consensu episcopi et priorum, qui locopositi nominantur, matricis ecclesiae non fiant. Et nulla episcopatus vestri praeter eorum consensum alicui subiiciatur ecclesiae, neque publica et majora negotia aliqua sibi ecclesiarum ipsis invitis arripiat, aut publicas poenitentias tribuat: nec sententias et interdictum matricis ecclesie tentet infringere: nulla etiam vestri episcopatus persona sine consensu episcopi vel priorum qui locopositi nominantur, matricis ecclesiae excomunicetur et quod ab episcopo ligatum fuerit a nemine irritum duci tentetur. Sane civitatis vestrae clerici et qui in suburbiis sunt, solitas obedientias videlicet in litaniis, in processionibus comunibus, in festivitatibus et stationibus majoris ecclesiae eidem impendant ecclesiae, ut vobiscum adsint. Porro in quintae feriae nocte ante pascha nulla ecclesia secundum morem vestrae ecclesiae campanas sonet, neque in sabbato sancto cereum benedicat, sed ad baptismum praedicti clerici, prout consuetum est veniant. Nulla praeterea ecclesiarum missas solemnes celebret in festivitate B. Martini, et S. Reguli et in secunda feria paschae et in processionibus quadragesimae donec stationis solvatur conventus. Nullus etiam clericorum officium vivorum aut mortuorum ad matricem ecclesiam pertinens facere vel celebrare praesumat.

430.  Cfr. i documenti editi dall'Ughelli loc. cit., III, col. 282 e segg.

431.  Cfr. Id. ibid., II, col. 194 e segg. ed anche Campi loc. cit., passim.

432.  Cfr. Statuta ecclesiae parmensis ed. Barbieri L. nei «Mon. Hist. ad prov. parm. et plac. pertinentia», Parma, 1866.

433.  Cfr. Muratori. Liturgia cit., pag. 61 e segg.

434.  Cfr. Ughelli loc. cit., II, col. 3 e segg.

435.  Cfr. l'Ordo totius officii ecclesie paduane per totum circulum anni secundum diversorum temporum mutationes illustrato da F. S. Dondi Orologio (Dissertazione sopra li riti della chiesa di Padova fino al secolo XIV, Padova, 1816) che lo ritiene scritto fra il 1261 e il 1263.

436.  Il Tamassia quando si è proposto di dimostrare l'attività del popolo appartenente ad una circoscrizione ecclesiastica in alcuni fatti che presuppongono in esso qualche cosa che lo avvicina ad una persona giuridica, almeno per l'istante in cui l'atto si compie (Chiesa e popolo. Note per la storia dell'Italia precomunale, in «Archivio Giurid. F. Serafini» N. S., Vol. VII, fasc. 2, a. 1901, pag. 300-322) ha, veramente, dimostrato di sentire che un'indagine sulla costituzione delle nostre città deve tenere in massimo conto la chiesa locale e non può assolutamente prescindere dalla storia delle diocesi e delle parrocchie italiane, ma avendo di mira altro scopo, non è andato più in là dell'enunciazione del concetto.

A noi non interessa conoscere come il cristianesimo si sia diffuso. (Cfr. per questo Harnack A. Die Mission und Ausbreitung des Kristentums in den ersten drei Jahrhunderten, Leipzig, 1902; Negri G. Una figura storica nel cristianesimo nascente in «Meditazioni vagabonde» Milano, 1897, pag. 227 e segg.; Duchesne Histoire ancienne de l'église, Paris, 1906, Vol. I; Federici V. Della primitiva propagazione del cristianesimo in «Rassegna Nazionale», 1906, fasc. 3; Semeria G. Venticinque anni del cristianesimo nascente, Roma, 1900; Belgrano L. T. I primordi del cristianesimo in Piemonte e in particolare a Tortona in «Bibliot. d. Società Stor. Subalpina», Vol. XXXII, p. I, Pinerolo, 1905; Ferretto A. I primordi e lo sviluppo del cristianesimo in Liguria ed in particolare a Genova in «Atti della Società ligure di stor. patria», Vol. XXXIX, Genova, 1907, pag. 171 e segg.; Paschini P. Le origini della chiesa di Aquileia in «Riv. per le scienze storiche» 1904. fasc. 1-4; P. M. da Carbonara e F. Savio S. Marziano e le origini della diocesi di Tortona, Alessandria, 1903; Zattoni G. Il valore storico della passio di S. Apollinare in «Riv. Stor. Critica delle sc. teolog.», II, fasc. 9, sett., 1906; Boggio E. Le prime chiese cristiane nel Canavese in «Atti della soc. d'archeolog. e belle arti per la prov. di Torino», Vol. V, 1887); ma, invece, come si è organizzato e la scelta delle fonti deve esser fatta tenendo presente lo svolgimento di questa organizzazione. Sebbene, infatti, fino dagli ultimi anni del primo secolo dopo Cristo cominciassero ad apparire segni palesi di un profondo cambiamento nel sentimento religioso del tempo e si andasse maturando una tendenza di conciliazione fra il paganesimo ed il cristianesimo (cfr. Baur loc. cit.) occorsero ancora due secoli, rotti non infrequentemente da sanguinose persecuzioni (cfr. Duchesne L. Storia della chiesa antica, Vol. I, cap. XIII, XIV pag. 119 e 149; XIX, pag. 197-212; XXVII pag. 292-310; Vol. II, cap. I, pag. 9-38), prima che quest'ultimo fosse ufficialmente tollerato (cfr. Crivellucci A. Storia delle relazioni fra lo Stato e la Chiesa, Vol. I, Bologna 1886, pag. 107). Nè con questo riconoscimento, che pure segnò un gran passo innanzi, la via fu spianata: dovette trascorrere più che una settantina d'anni, non esente da qualche violento tentativo di ripristino (cfr. Duchesne loc. cit., II, cap. IX, pag. 178 e segg. e Negri G. Giuliano l'apostata in «Nel passato e nel presente», Milano, 1891), prima che Graziano rifiutasse nel 375 il titolo di pontefice massimo, portato da tutti i suoi predecessori; e solo cinque anni dopo, nel 380, il cristianesimo fu dichiarato religione ufficiale dello Stato; (cfr. Stutz loc. cit., pag. 17; e Crivellucci loc. cit., I, pag. 316) e soltanto a poco a poco, con stenti, con fatiche e con incertezze, i vescovi riuscirono ad ottenere la giurisdizione arbitrale ed ecclesiastica, il diritto di asilo e di intercessione e tutte le altre prerogative che ne fecero veri e proprî organi dello Stato.

437.  Cod. dipl. long., Troya. n. 771, a. 753, febbr. 10.

438.  Cfr. Hegel C. Storia della costituzione dei municipi italiani, trad. Conti, Milano-Torino, 1861, pag. 344; Leicht P. S. Studi cit., I, pag. 11 e segg.; Mayer E. Ital. Verfassung. cit., II, pag. 432 e segg.

439.  Su alcune caratteristiche del diritto di regalia cfr. Solmi A. Diete di Roncaglia cit., pag. 36 e segg.

440.  È una sentenza dei consoli di Milano riportata in parte da F. Berlan. Le due edizioni milanese e torinese delle consuetudini di Milano dell'anno 1216, Venezia, 1872, pag. 154.

.... prefatus Gigottus condempnavit predictos consules tam nobilium quam rusticorum de suprascripto loco Vellate, suo nomine et nomine omnium hominum ipsius loci, tam nobilium quam rusticorum, ne de cetero impediant massarios ecclesie S. Marie Montis, habitantes in territorio de Vellate, ubi dicitur in Vigni, pascuare in pascuis sive vicanalibus loci de Vellate cum bubus et bestiis suis, sicut alii vicini loci de Vellate faciunt.

441.  Schupfer F. Diritto privato cit., II, pag. 54 e Leicht P. S. Studi cit., I, pag. 37-88.

442.  Praeterea in locis, quae sunt de districtu, illud obtinet quod viganalia per consensum dominorum et vicinorum debent dividi vel vendi; quod alias fieri non potest, nisi dominorum omnium et vicinorum consensu Communia taliter inter dominos et vicinos dividuntur ut medietas terrarum omnium vel pretii illarum omnium viganalium vel fructuum, si forte vendantur, ad dominum cuius est totum districtum, iure nostrae civitatis, assignatur; alterius vero medietatis partem accipit pro parte terrarum, quas in ipso loco habet. Si vero totum districtum non habet, sed partem, secundum partem sui districti, iure districti, de praedictis viganalibus partem conseguitur, et de alio quod remanet, pro numero terrarum ut dictum est.

Cfr. Berlan F. Le due edizioni milanese e torinese delle consuetudini di Milano cit. rubr. XXIV, pag. 254.

L'edizione del Berlan è la migliore: cfr. Lattes A. Il dir. consuetud. cit., pag. 33, nota 95.

443.  Per un'applicazione di questo concetto cfr. Leicht P. S. Ricerche sulla responsabilità del Comune in caso di danno, Udine, 1904.

444.  Anche il Mayer (Ital. Verfassungsg. cit., Vol. I, pag. 281 e segg.) ritiene che fino dal tempo langobardo esistano e si differenzino comunalia e vicanalia e che i primi sieno i beni su cui gli abitanti della città vantavano diritti di uso di natura pubblica, indipendenti da qualsiasi rapporto di diritto privato; mentre i vicanalia sarebbero delle terre gravate di oneri a favore di altre terre in quanto ne costituivano delle pertinenze, rimaste indivise fra i vari fondi per volontà dei proprietarî. I comunalia furono rivendicati in proprietà dai comunisti cittadini assai presto; i vicanalia giunsero ad essere dei comunalia attraverso ad uno stadio intermedio, nel quale i vicini riuscirono abusivamente a carpire un diritto di condominio ai domini.

Prima di tutto non è esatto parlare di comunalia solo a proposito della città. Senza punto entrare a discutere l'opinione del Mayer sulla natura giuridica dei beni comuni cittadini, si può osservare che le consuetudini milanesi, che costituiscono il testo su cui s'impernia la sua asserzione, parlano di comunalia a proposito di locus. E il locus, a detta del Mayer stesso, non è affatto la città. Ma anche ammettendo che la parola ne abbia tradito il pensiero, la sua opinione non è fondata perchè manca di un'indagine indispensabile per poter giungere alla conclusione che egli sostiene. Bisognava, cioè, dimostrare che i domini di cui parlano le Consuetudini Milanesi sono dei domini di diritto privato, dei semplici proprietarî e non dei titolari di facoltà giurisdizionali. E questo non lo ha fatto: nè lo poteva fare. A togliere ogni dubbio a questo riguardo ed a dimostrare il carattere giurisdizionale che contraddistingue questi domini, non c'è niente di meglio che riportare alcuni passi della rubrica de oneribus et districtis et conditionibus, che è proprio quella stessa in cui è contenuta la disposizione concernente i vicanalia e che dal titolo stesso dimostra la natura pubblica del diritto signorile.

«Amplius si eiusdem loci plures sint domini licet inter ipsos districtabilium praesumatur facta divisio, unus, etiam invitis coeteris socijs quanquam minimam partem in eo loco districti habent omnes districtabiles compellere potest, ut Castrum reficiant, et murum et fossatum et portinarium ponant ad guajtam, et sgieraguajtam, et fossatum circa Castrum et Villam, et portas, et clavaturas ferreas et in Villa, et Castro, et in eo incastellent quia tale onus utpote individuum ab hominibus districtalibus fieri debet et per quemlibet dominorum posse postulari Sapientes nostra Civitatis crediderunt.

Porro, quod est notabilius, nostra Consuetudine obtentum invenitur, ut si plures dominorum suos districtabiles tam in Castro quam in Villa ab omni onere districti liberaverint, alter, qui eos non liberavit, potest eos cogere tam suos quam ab aliis dominis liberatos ad reficiendum castrum. Sed, et quod est mirabilius, si omnes domini qui suos districtabiles divisim possidebant eos liberaverint ab omni onere districti licet nullos dominorum illum quem liberavit possit ad reficiendum castrum compellere, tamen poterit ab altero dominorum liberatus coartari ad reficiendum quod per nostram consuetudine obtinet. Ut si plures domini suos districtabiles ab omni onere districti liberaverunt, alter qui eos non liberavit poterit cogere eos tam suos quam ab alijs dominis liberatos ad pondera stateras et mensuras recipiendas per eum seu ab eo quia hoc jus, et reficiendi castrum in communi remansisse creditur, nisi vel regionibus Castrum inter dominos, et refetio eiusdem in divisione venerit quod raro accidit».

Esistevano, senza dubbio, dei domini per diritto privato; ma sicuramente non erano questi, che godevano di facoltà pubbliche di tale natura.

Secondo il mio pensiero, al tempo langobardo le terre comuni si distinguevano in terre comuni di diritto privato e terre comuni di diritto pubblico e queste ultime potevano essere comuni rispetto al comitatus (cfr. doc. citato dal Leicht Studi cit., I, pag. 51) rispetto alla città, rispetto al locus, rispetto al vicus, rispetto al concilium e rispetto ad un determinato gruppo gentilizio. Queste ultime soltanto propendo a ritenere col Besta (Nuovi appunti di storia giuridica sui documenti lucchesi cit.) che sieno sorte all'epoca e per opera dei Langobardi e costituiscano le famose fiwaide.

445.  Dallari G. Intorno all'evoluzione della proprietà in «Riv. ital. di sociologia», a. XIII. fase. 1, pag. 17 e segg.

446.  a. 1178. Johannes causidicus, assessor domini Archiepiscopi, precipit per eius parabolam ut de cetero ipse Johannes eiusque successores utatur de vigano seu communi prenominati loci sive sit tensatum sive non, sicut alius vicinus de ipso loco utitur ipso communi et vigano.

Cfr. Puricelli, loc. cit. pag. 1003.

447.  a. 1189, marzo 7. dederunt... omnia sedimina cum hedifitiis eorum campos, vineas, silvas, buscos, zerbos, communiantias seu viganalia, atque omnes res cultas et incultas...

Cfr. Frisi A. F. Memorie storiche di Monza e sua corte. Milano, 1794, to. II, Codice diplomatico, n. 78, pag. 73-74.

448.  Cfr. Lattes A. Il dir. consuetudinario delle città lombarde cit. pag. 32 e segg.

449.  Cfr. Statuti di Milano (vol. II, carte 159t-160). Aliquae Communantiae, Vicanalia, vel Pascua, vel Bona aliqua immobilia vel Jura aquarum Civitatis et Ducatus Mediolani, vel alicuius Universitatis, quae etiam praesentibus Statutis ligetur, non possint ab aliqua singulari persona vel Universitate vendi, alienari, nec obligari... Et si fructus vel redditus dictarum Vicanalium, vel Communantiarum, vel Pascuum vel Bonorum ipsius Universitatis, venderentur, vel compartirentur, detur sua pars cuilibet habenti facere in eis. (Dal Berlan, loc. cit., pag. 153).

450.  a. 1094. 8 dec. sunt tam campis quam pratis, pascuis, vineis et silvis seu stellariis cum areis earum cultis et incultis, divisis et indivisis, usibus aquarum aquarumque ductibus seu cum vicanalibus atque conciliis atque ecclesiis et capellis et rebus una cum omnibus condiciis et redditibus et honoribus ad iam dictas res.

Vignati C. Cod. dipl. laudense cit. I, n. 49, pag. 77.

451.  Cfr. Athanasii. Apologia contra arianos, in Opera omnia, Parisiis, 1698, I, 1, pag. 124: universae eius loci ecclesiae episcopo subiaceant: ita tamen ut singuli pagi suos presbyteros habeant.

452.  Cfr. Cod. dipl. long. Porro, n. 171, a. 851, col. 292.

453.  Cfr. ibid. n. 519, a. 926, col. 886.

454.  Cfr. ibid. n. 497, a. 922, col. 856.

455.  Cfr. ibid. n. 617, a. 956, col. 1055.

456.  Cfr. ibid. n. 661, a. 962, col. 1141.

457.  Roth. 79.

458.  Leicht. Studi cit., Vol. I. pag. ...

459.  Cfr. loc. ed ed. cit., pag. 16. Per pagos id est per magistros pagorum operas a possessoribus ad eas (vias) tuendas exigere soliti sunt.

460.  Cod. Theod., VII, 20, 2; e le citazioni riportate da Gotofredo nel commento a queste leggi e nelle altre indicate nell'indice sotto q. voce.

Si chiamavano anche parochi.

Proxima Campano ponti quae villula tectum. Praebuit et parochi quae debet ligna salemque. Dice Orazio Satyr., V, 45, ed anche altrove conferma che parochi dicuntur qui hospitibus et peregrinis publice exhibent necessaria.

Qualche volta (cfr. Cod. Theod., II, 29, 1) son detti anche praepositi pagorum.

461.  Capitulare mantuanum secundum generale c. 3., ed. Boretius cit. n. 93, pag. 196.

462.  Cfr. Capitul. Pippini Italiae regis a. 782-86 (ed. Boretius cit., n. 91, pag. 191), c. 1.

463.  Cfr. Mommsen T. Droit public romain, to. VI, p. I, pag. 134, trad. Girard, Paris, 1889; e Voigt, loc. cit., pag. 156 e segg.

464.  Cfr. i passi riportati sotto queste voci dal Forcellini nel suo Lexicon.

465.  Cfr. Tibullo. Elegie, II, 1.

466.  Siculo Flacco. De condit. agror. cit. (ed cit., pag. 164-65) dice: Sed et pagi saepe significanter finiuntur. De quibus non puto quaestionem futuram quorum territoriorum ipsi pagi sint, sed quatenus territoria. Quod tamen intellegi potest vel ex hoc magistri pagorum quod pagus lustrare soliti sunt; ut intueamur quatenus lustrent.

467.  Cfr. Duchesne L. Les origines du culte chrétien, cit. pag. 287-89, cap. 8, § 5, n. 9.

468.  Fu San Paolino da Nola che sagacemente pensò di utilizzare per il culto cristiano le campane che prima avevano adoperato i pagani.

Cfr. a questo proposito le vecchie ma buone osservazioni di Ferrarii B. De ritu sacrarum ecclesiae veteris concionum, Ultrajecti, 1692, pag. 85.

469.  Cfr. Muratori, Anecdota cit., I, pag. 18, comm. al v. 169 dei Natale XI di S. Paolino di Nola.

470.  A Roma il giorno consacrato era il 25 aprile, data tradizionale nella quale gli antichi Romani celebravano la festa dei Robigalia. Il rito principale di essa era una processione che uscendo dalla città per la via Flaminia si dirigeva verso il ponte Milvio, poi si portava sino ad un santuario suburbano situato a qualche distanza, fino al quinto miglio sulla via Claudia (cfr. Ovidio. Fasti, IV, 901). Il Flamen quirinalis immolava in questo tempio un cane e un montone. La processione cristiana che le fu sostituita seguiva lo stesso percorso fino al ponte Milvio; partiva dalla chiesa di S. Lorenzo in Lucina, la più vicina alla porta Flaminia, faceva stazione a S. Valentino fuori delle mura; poi al ponte Milvio. Di qui, invece di incamminarsi sulla via claudia, volgeva a sinistra verso il Vaticano; si fermava ad una croce di cui l'ubicazione non è specificata e poi nell'atrio di S. Pietro ed infine entro questa chiesa, dove aveva luogo la stazione.

Se ne ha ricordo fino dal 598 (cfr. Iaffè 1153. Ep., app. 3).

Queste le testuali parole del Duchesne (loc. cit.) il quale aggiunge anche la spiegazione del perchè le feste cristiane si celebravano nelle stesse epoche di quelle pagane.

Roma ci offre un esempio tipico per la limpidezza del fatto e l'antichità dell'epoca; ma il fenomeno è generale ed avremo occasione di parlarne più distesamente fra poco.

471.  Su ciò ho accennato qualche cosa nel § 5 della prima parte (pag. 20 e segg.); a proposito dei Flamini vedi il commento di Gotofredo alle leggi 21, 46, 60, 75, 77, 148, 166 De decur. e il paratitlon in tit. De paganis sacris et templ.; di cui (se non mi inganno) nè il Mommsen nè il Marquardt hanno saputo trarre vantaggio.

472.  S. Ambrogio. (Opera omnia ed. G. di Frisce e N. Le Nourri 1686-90, Ep. V, 30) chiama S. Damaso romanae ecclesiae sacerdos e nello stesso senso usano questa parola S. Paolino da Nola (Natale, XIII, V. 568 in Muratori Anecdota cit., I. pag. 102) e S. Leone M. (Ep., X, 6 e Jaffè Reg. cit., n. 407) imitando le leggi romane (cfr. Cod. Theod., XII, 1, 148... ordinando sacerdote provinciae); e l'uso continua fino al secolo decimoprimo.

473.  Cfr. il can. 6 del concilio ticinense dell'850 (ed. cit. XIV, col. 931).

Oportet plebium archipresbyteri per singulos unumquemque patrem familias conveniant, quatenus tam ipsi quam omnes in eorum domibus commorantes, qui publice crimina perpetrarunt, publice poeniteant; qui vero occulte deliquerunt, illis confiteantur quos episcopi et plebium archipresbyteri idoneos ad secretiora vulnera mentium medicos eligerint, qui si forsan in aliquo dubitaverint, episcoporum suorum non dissimulent implorare sententiam. Similiter autem et singulis urbium vicis et suburbanis per municipalem archipresbyterum et reliquos ex presbyteris strenuos ministros procuret episcopus.

474.  Risale ai primissimi tempi della chiesa: fu formulato rigidamente in un canone di un concilio aquisgranense e di qui riportato da Burcardo (III, 3). Cfr. Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXXIV, col. 408.

475.  Vedi i canoni dei concilî e le altre disposizioni riportate dal Lupi. De Parrochiis cit., pag. 59-60; 97, 192, ecc.

476.  Gregorii Turonensis. In gloria confessorum cit., c. 56. Securinum presbyterum diebus dominicis singulis in ecclesiis duabus quae viginti millibus distarent inter se missas celebrasse.

477.  Lupi. Cod. dipl. cit., I, col. 362-63: E son da vedere anche le buone osservazioni di A. Abati Olivieri. Memorie di Gnara, terra del contado di Pesaro, Bologna, 1777, pag. 43 e segg. e di G. Colucci. Treia, antica città picena oggi Monteschio, Macerata, 1780, pag. 183-84.

478.  Cod. dip. long., Troya n. 446.

Nel 724 specioso, vescovo di Firenze dona al capitolo della sua chiesa la propria corte e le altre cose poste in loco Greve ubi et Cintoria nominatur infra plebe et episcopio beati Joannis Baptiste vel Reparate, unde ego episcopus esse ideor, seu infra plebe et territorio sancti Iuliani sito Septimo.

Il Muratori (Antiq. Ital., diss. VI) pubblica un placito tenuto nel comitato aretino in loco Piscinate infra plebem sancti Stephani; nel diploma dell'879 (cfr. Pasqui. Docti cit., n. 16). Carlo il Grosso prende sotto la sua speciale protezione la chiesa aretina «cum omnibus ecclesiis baptismalibus ac titulis».

Nei primi del secolo decimoprimo il vescovo di Torino Landolfo (1030-1038) concede la pieve di S. Pietro di Gassino cum titulis quatuor (cfr. «Mon. Hist. Patr.», Cartharum, I, n. 519).

Da un documento dell'803 (ed. Tiraboschi G. Memorie modenesi, I, cod. dipl., n. XVIII) appare che il locus Colegaria era costituito da sei decanie. L'imperatore Lotario nel suo diploma dell'833 alla chiesa di Aquileia (Muratori Diss. 70) parla di ecclesias parochiales AC titulos earum. In altro documento dell'844 (ed. Tiraboschi loc. cit., I, cod. dipl. n. XXIV) è ricordato il salto bonetia in loco ubi dicitur vico longo sito in plebe sancti Stephani. Cfr. anche Pöhl A. Bischoffgut und Mensa episcopalis, Bonn, 1911-12.

479.  Il Lupi (Cod. dipl. berg. cit., I, col. 262-63) ha dimostrato che il nome di ecclesia servì ad indicare le sole chiese cattedrali e plebane rurali, mentre le altre chiese furono dette basilicae ed oratorie e, più tardi, capellae.

Il concilio di Pavia dell'850 (ed. Pertz in «Mon. Germ. Hist.» Leges, III, pag. 397) stabilisce al can. 13 che sicut episcopus matrici preest, ita singuli plebibus archipresbyteros preesse volumus qui imperiti vulgi sollicitudinem gerant et presbyterorum qui per minores titulos habitant, vitam jugi circumspectione custodiant.

E. Hacht (Die Grundlegung der Kirchenverfassung Westeuropas, Giessen, 1888, pag. 50-51) ritenne che l'istituzione delle pievi rurali sia dovuta a questa disposizione; ma fin da un secolo circa prima di lui, il nostro Lupi aveva dimostrato con un lavoro poderoso e geniale, degno in tutto e per tutto della dissertazione — tanto lodata, e giustamente, dal Savigny — premessa al codice diplomatico bergomense, che esse risalgono indiscutibilmente ad una remota antichità. Cfr. De parrocchiis cit., dissert. I. passim e specialmente cap. 5, 6, 7.

La ragione delle disposizioni emanate dai due concilî pavesi si deve ricercare nel bisogno di rinsaldare le istituzioni ecclesiastiche, che non potevano non risentire lo sgretolamento che preparava e caratterizzava il feudo.

Vedine un rapido accenno a pag 83-84.

480.  Cfr. Mazzi A. Note suburbane cit. pag. 168.

481.  Cfr. nota 2 pag. 165.

482.  Cfr. il diploma del 1015 (ed. Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXXIV) con il quale Enrico III concede a Marciano vescovo di Mantova tutte le chiese battesimali della sua diocesi a cominciare dalla plebem mantuane civitatis, che è ricordata anche nel diploma di conferma del 1055 (Cfr. Id. ibid.).

483.  Cfr. Lupi Cod. dipl. berg. cit., II. col. 745-46, a. 1084 «... basilica et plebe sancti Alexandri et sancti Vincentii que est de civitate Bergomi».

Cfr. anche Lupi De parrocchiis cit., pag. 147 e segg. e Mazzi A. Studi bergomensi, Bergamo, 1888, pag. 90-91 e Mazzi A. Note suburbane, Bergamo, 1892, pag. 169-70.

484.  Cfr. la bolla di papa Niccolò II al capitolo dei canonici di Sovana del 27 aprile 1061 (ed. Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXII) nella quale si ricorda «Sigizo presbytero olim custos de plebe in urbe posita», e il docto dell'850 edito dall'Ughelli, loc. cit., Vol. V, col. 720-721.

485.  Cfr. il doc. dell'864 cit. a pag. 178 nota 2.

486.  Ecco un bellissimo passo di Amulone eletto vescovo di Lione nell'anno 840 che specifica i varî attributi della pieve completando il quadro offertoci dalla disposizione del concilio di Pavia riportata a pag. 84 in nota.

Unaquaeque plebs in parroechiis et ecclesiis, quibus attributa est, quieta consistat, ubi sacrum baptisma accipit, ubi sanguinem et corpus Domini percipit, ubi missarum solemnia audire consuevit, ubi a sacerdote suo poenitentiam de reatu, visitationem in infermitate, sepulturam in morte consequitur, ubi etiam decimas et primitias suas offerre praecipitur, ubi filios suos baptismati gratia initiari gratulatur, ubi verbum Dei assidue audit, et agenda ac non agenda cognoscit, illuc vota et oblationes suas alacriter perferat, ibi orationes et supplicationes suas Domino effundat, ibi suffragia sanctorum quaerat. ... Ibi itaque unaquaeque plebs pupillis et viduis pauperibus et peregrinis de facultatibus quas Deus tribuit elemosinarum largitionem exibeat, hospitalitatis officia impendat..... Haec est enim legitima et ecclesiastica religionis forma, haec antiqua fidelium consuetudo.

Amulonis archiep. lugdunensis Epistola I ad Theodboldum episcop. lingonensem. in «De La Bigne M. Maxima bibliotheca veterum patrum et antiquorum scriptorum ecclesiasticorum, Vol. XIV, Lugduni, 1677, pag. 331.

487.  Cfr. Concil. agathense, c. 21, ed. cit., Vol. IV, col. 1386.

488.  Ibid.

489.  Cfr. Concil. antisiodor. c. 3.

Non licere conventus in domibus propriis vel vigilias in festivitatibus sanctorum facere

Su queste vigilie cfr. Duchesne, Les origines cit., pag. 230 e segg.

490.  In domibus ab episcopis sive presbyteris oblationes celebrare nullatenus licet, dice papa Felice IV (a. 530, riportato nel Decreto di Graziano, De consecratione, D. I, c. 11) confermato da Gregorio Magno che proibisce rigorosamente «missas publicas ab episcopo in coenobio fieri.» (Cfr. loc. cit. Epp., II, 41).

491.  Satius est missam non cantare aut non audire quam in illis locis ubi fieri non oportet, stabilisce il Decreto di papa Felice IV (a. 530) riportato anch'esso nel Decreto di Graziano (De consecratione, dist. I, cap. 11).

492.  In dominicis diebus (stabilisce il c. 1, del Concil. Nanetense) vel festis antequam missam celebrent, plebem interrogent, si alienus parochianus in ecclesia sit, qui proprio contempto presbytero, ibi missam velit audire.

Cfr. Lupi, De parrochiis cit., pag. 206.

493.  A Brescia erano vicinissimi alla città la corte di Cerropinto ed i beni spettanti ad curtem nostram publicam vel ad curtem ducalem, donati dal re Desiderio al monastero di S. Salvatore (cfr. Cod. Dipl. Long.Troya — n. 727, a. 759 e n. 878, a. 767, su quest'ultimo vedi anche quanto è stato detto a pag. 87,) e le altre terre tutte rimaste alla pubblica autorità, come si rileva dal noto documento del 1037 nel quale si dice Monte Digno et Castenedolo sunt de foris muro ipsius civitatis, (cfr. Gradonicus, loc. cit., pag. 159, e segg.).

A Cremona le selve che gli imperatori avevan concesse al vescovo e sulle quali i cittadini vantavano ed esercitavano larghi diritti di uso sono dette in circuito civiatis, (cfr. Diploma di Corrado I ai cremonesi dell'a. ed. e loc. cit.).

Lo stesso è a Lodi: nell'atto del 1142 con il quale il vescovo dà in pegno tutte le rendite del patrimonio del vescovado si ricordano le biade e i prati per due miglia intorno alla città. Cfr. Cod. dipl. laud. cit., (ed. Vignati, n. 108, pag. 137-39).

A Pisa dal diploma di Enrico IV (ed. Stumpf Die Kaiserurkunden cit., n. 4745) si sa di «terras que fuere pascua vel paludes... et communia pascua... in civitate vel prope eam usque ad medium miliarium».

Per Bergamo e per la generalità di questo fatto vedi Mazzi A. Note suburbane cit., pag. 27 e segg.

494.  Tale è il caso della cappella di S. Grata a Bergamo secondo un documento del 1176 con cui il vescovo Guala ne definisce i confini.

Cfr. Mazzi A. Note suburbane cit., pag. 142-43.

495.  Cfr. il doc. del 783 ed. dal Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXXIV.

496.  Lupi. Cod. dipl. cit., II, col. 1087 e 1373.

497.  a. 899 gen. in «Monum. Hist. Patr.», Chart. I, n. 54, col. 89-91. E la stessa formula è ripetuta nella donazione del vescovo Audace del marzo del 905: cfr. ibid. I, n. 66, col. 111-13.

498.  Odorici, loc. cit., VI, 30 e Mazzi. Note suburbane cit., pag. 170 e 184-85.

499.  Lupi. Cod. dipl. bergom. cit., I, col. 1185-86.

500.  Cfr. Trombelli G. C. De cultu sanctorum dissertationes decem, Bologna, 1740, Vol. I, p. 2, Diss. VI, pag. 101 e segg.

501.  Cfr. De Rossi E. Roma sotterranea cit., I, pag. 129-30 e Bullett. Archeolog. crist. cit., s. II, a. 5, pag. 150 e segg.

502.  Dig. XI, 7, 39.

503.  Cfr. il Natale XI di S. Paolino da Nola, v. 131, ed. cit.

504.  Cfr. Paschini. Note cit., pag. 15.

505.  Cfr. Lupi. De Parrochiis cit., pag. 185-86. L'idea prima dell'altare è appunto quella di essere eretto sopra le ossa di un santo.

506.  Vedi il commento del Muratori, al Natale XI e XIII di S. Paolino da Nola nel Vol. I degli Anecdota cit.; e Delle Antichità longob. milan. cit., Diss. XIX, Vol. III, pag. 77 e 195.

507.  Cfr. S. Agostino. Ep. 121. In oratorio praeter orandi et psallendi cultum penitus agatur. Cfr. anche l'ep. 109.

508.  Cfr. Duchesne. Origines cit., pag. 283-84.

509.  Cfr. i passi respettivi (In Hex. III, 5 e Confess. IX, 6 e X, 33) cit. nelle Dissertaz. longob. milan. cit., Diss. XXX, n. 17, Vol. III, pag. 347-48.

510.  De vasis vero fusilibus vel etiam productilibus, quae simpliciter signa vocantur, quia eorum sonoritate quibusdam pulsis excitata significantur horae, quibus in domo Dei statuta celebrantur officia; de his inquam, hic dicendum videtur, quod eorum usus non adeo apud antiquos habitus proditur, quia nec tam multiplex apud eos conventuum assiduitas, ut modo est, habebatur: apud alios enim devotio sola cogebat ad statutas horas concurrere; alii praenuntiationibus publicis invitabantur et in una celebritate proxime futuram discebant.

Walafrido Strabone. De officiis divinis sive de exordiis et incrementis rerum ecclesiasticarum nello «Speculum antiquae devotionis» del Cohlèe, Mons, 1549, c. 5.

511.  Amulonis Archiep. Lugdun. Epist. I, ad Theodboldum episc. in De La Bigne, loc. cit., pag. 331-32.

Si votum et desiderium est populorum fidelium, diversorum martirum et ceterorum sanctorum limina suppliciter frequentare, sunt dies certi et legitimi, quibus id, iuxta antiquam ecclesiae observantiam, devote exercere conveniat; tempore videlicet generalium rogationum, et pro diversis tribulationibus et necessitatibus indictarum litaniarum, seu quadragesimalium ieiuniorum, sive etiam in vigiliis et natalitiis martirum. Quae omnia et ex universali ecclesiae lege descendunt, et sacerdotum praedicatione ac denuntiatione commendantur, et omnium fidelium obedientia et pietate attentius observanda sunt.

Fino dal secolo quarto, a detta di Teodoreto, i cristiani si recavano agli oratorî dei martiri «non semel, bisve, aut quinquies quotannis sed frequenter».

Cfr. Lupi De parrochiis cit., pag. 226-27.

512.  Cfr. Delle antichità long. milanesi cit., to. I, diss. V.

513.  Cfr. Mabillon. Praefationes in Acta Sanctorum ordinis S. Benedicti, Praef. ad. sec. II, § 42, obs. 7.

514.  Cfr. Nitti Di Vito F. Di un'iscrizione reliquiaria anteriore al 1000, Estr. dall'«Arch. Stor. Ital.» s. V, to. XII, a. 1893.

515.  Sanctorum reliquiae in villaribus oratoriis non deponantur stabilisce il c. 25 del concilio epaonense del 617 ed. cit., IV, col. 1679.

516.  Il primo e più antico esempio ci è offerto dal Liber Pontificalis da cui si apprende che S. Simplicio, che pontificò nella seconda metà del secolo quinto (460-483), stabilì presso la chiesa di S. Pietro un turno settimanale affinchè vi fossero sempre dei preti per accogliere i penitenti e somministrare il battesimo — «costituit ad S. Petrum... ebdomadam, ut presbyteri manerent ibi propter poenitentes et baptismum» — (ed. Duchesne, cit., pag. 126).

Tale esempio, però, non deve esser preso proprio come prototipo perchè Roma ha una costituzione ecclesiastica tutt'affatto speciale.

517.  A. 864 dec. Manifesta causa est mihi Grecorii venerabilis presbiter de hordine sancte mediolanensis ecclesie... ut rebus omnibus.. quas habere... viso sum in vico et fundo Ueniaco... deveniat integrum in iura et potestatem de presbiteris decomanis, qui pro tempore Officiales fuerint in ecclesia beati Cristi confessori Ambrosii, ubi eius sanctum corpus requiescit, sita foris muro hac civitate, et illis decomanis oficialis videlicet sancti Uictoris, ubi ad corpus dicitur; nec non et uni ex oficialis sancti Naboris et Felicis martirum, qui prior in tempore fuerit, seo et uni ex oficialis sancte Ualerie, similiter qui prior fuerit; ita volo ut omnes isti prenom. oficiales abeant predictis rebus, ut quidquid Deus omnipotens exinde dederit, equaliter omnes usifructuare et inter se dividere debeant pro anime mee remedio; ea tamen racione ut unusquisque eorum binas tantum missas per singulos menses canere debeat mihi.... et patri meo et matri mee et fratribus meis... et speciale oficium uespertini seo matotini temporis cum nouem lectionibus faciant.

Bugati G. Memorie istorico-critiche intorno alle reliquie ed al culto di S. Celso martire Milano, 1782, pag. 211-12. Serie delle carte n. 1.

Le sue disposizioni andarono in esecuzione tre anni dopo.

A. 867 nov. Breve divisionum qualiter diviserunt inter se, id sunt Presbiteris Oficialis Basilice Beati Christi Confessoris Ambrosii, in qua eius s. corpus humadum quiescit, sita foris muro civitatis Mediolani, et ille Presbiter, qui modo prior est Oficiale Basilice Sancte Valerie, nec non et illis presbiteris Oficialis Basilice Sancti Uictoris qui dicitur ad Corpus, sed et ille prebiter qui modo prior est Oficiale Basilice Sancti Naboris et Felicis... ex ordinacione quondam Grecorii Presbitero de hordine S. mediol. eccles.... sitis in uico et fundo Ueniaco.

Id. loc. cit., pag. 213-18, n. II.

Il documento è importante anche per un altro lato. La donazione contempla una grande quantità di terre tutte situate nello stesso vico e fondo ed offre materiale ottimo per le indagini sulla costituzione agraria e rurale del tempo.

518.  Cfr. Barbieri, loc. cit., pag. 16, 71, 53, 157 e 158.

519.  Edito nel Vol. IV, pag. 297-300 delle Antichità longob.-milanesi cit.

520.  ... ipsam ecclesiam que usque nunc cella vocabatur...

Cfr. ibid., pag. 298.

521.  A. 866. Diploma dell'arcivescovo di Milano Tadone all'abate Pietro del monastero di S. Ambrogio. Ed. nel Vol. III delle Antichità longob.-milanesi cit., pag. 327-29.

Insuper etiam petiit ut intra ecclesiam santorum Vitalis et Agricole in honore sanctorum Petri et Pauli ecclesiam infirmorum ei costruere concederemus atque semitam per quam monasterium minus munitum erat claudere et in aliam partem transmutare permitteremus, illosque sacerdotes quos pro sua utilitate ad celebrandum missarum solemnia in eadem ecclesia OLIM NOVITER COLLOCAVERAT intra nostrorum CONCIVIUM SACERDOTUM consortium annumerari concederemus. Nos vero per consensum omnium nostrorum sacerdotum petitioni eius adsensum prebuimus et ipsos presbiteros ab eo in ecclesia sancti ambrosii NOVITER ORDINATOS in NOSTRORUM CONCIVIUM CONGREGATIONE PRESBYTERORUM suscipimus.... Insuper etiam confirmamus atque concedimus prefato abbati successoribusque eius sicut prisca consuetudo ex antiquo tenere videtur ut in dominicis seu in solemnibus diebus indutus sandaliis ceterisque ornamentis episcopalibus [et infula et anulo antiquo] more ornatus in ecclesia beati Ambrosii divinum celebrare officium. Preterea concedimus atque confirmamus prefato monasterio et fratribus omnes oblationes que a Christifidelibus in eadem ecclesia sancti Ambrosii quoquo modo a maioribus sive a minoribus delate fuerint omnesque res, omnesque possessiones ibidem collatas cunctasque videlicet curtes earumque appendicias, simulque decimas omnium laborum seu dominicatus eorum, simulque omnes aldiones servos et ancillas seu colonos sed et omnia que nunc habere videntur vel que deinceps Deo propitio adquirere valuerit.

Le parole fra parentesi, mancanti nel testo, sono state messe togliendole dal doc. del 1193 (ed. Ughelli, loc. cit., IV, col. 171-72) che riporta tutta la frase intiera.

522.  Cfr. Schiaparelli L. I diplomi di Berengario I. Roma, 1903, n. XIII, pag. 47.

523.  Affò I. Storia di Parma cit., Vol. I, pag. 362, doc. 73, a 978.

524.  La famosa chiesa di S. Giovanni, da privata che era in origine, essendo stata fondata dalla regina Teodolinda nel 602 (P. Diacono. De gest. Lang. cit., IV, 21 e 25) si trasformò rapidamente, tantochè alla metà del secolo nono appare fornita di tutti gli attributi di chiesa matrice e retta da un custos (a. 769 ... Garoin r. d. custodes basilice s. Johannis de fundo Moditia aut qui pro tempore custus in ipsa basilica fuerit. Cfr. Frisi A. F. Memorie storiche di Monza e sua Corte, Milano, 1794, Vol. I, c. 5, pag. 36 e segg. e Vol. II, n. II, pag. 3-4) che esercita le funzioni di capo di una pieve e ne porta anche il nome (a. 879 ott. Petrus archipresbiter huius ecclesie. Cfr. Id. Ibid., Vol. II, n. V, pag. 9. — a. 880 dec. 20. Vincentius archipresbiter et custus ecclesie et canonice. Cfr. Ibid., I, pag. 37 e III, pag. 263) insieme con i preti, i diaconi e i suddiaconi che vivono raccolti in canonica sino dal tempo di Carlo il Grosso e ne costituiscono l'hordo (... de hordine et congregatione s. Johannis dicono numerosi docti del sec. IX e X. Cfr. Id. Ibid., I, pag. 47), detto anche ordo major (1061 mag. ... isto campo deveniat in potestatem de omnibus presbiteris, diaconibus, suddiaconibus vel clericis qui de ordine majore predicte ecclesie sunt. Cfr. Ibid., II, n. XXXVI, pag. 39-40) per distinguerlo da quello dei decumani, i quali, qui come a Milano, formano un corpo ecclesiastico tutt'affatto differente (a. 1035 .... fiat prandium... ad presb. diac. et subdiac. vel clericis qui in eodem ordine ecclesie S. Joh. sunt ET ad presbiteros illos qui decimani sunt. Ibid., Vol. II, n. XXX, pag. 33-34 — a. 1053. Vitalis presbiter de ordine decomanorum s. modic. eccl. Ibid., pag. 38).

Gli ordinarii, al tempo di Berengario I saliti al numero di 32, oltre che dai decumani si distinguevano anche dai custodes, i quali, a norma della disposizione di Teodolinda (P. Diac. loc. cit. Ordinatio vero talis fuit. De rebus s. Johannis nullo modo se debet aliquis intromittere nisi tantum sacerdotes qui ibi deserviunt die ac nocte, tanquam famuli et famule qui ibi subiecti sunt communiter debeant vivere) erano i rappresentanti del diritto di proprietà dei beni, di cui era titolare la chiesa di S. Giovanni (Diploma di Berengario I ai canonici della chiesa di Monza, ed. Schiapparelli L. I dipl. di Ber. I, Roma, 1903, n. 6, pag. 26). — Il re dona tre corti ai canonici imponendo loro varî obblighi fra cui quello di dare annualmente loco oblationis, quinque anforas vini et urnam nec non et frumentum sextaria duodecim CUSTODIBUS eiusd. eccl. — a. 1198. Ego Lombardus Gairoldus custos ecclesie s. Jhoa. consigno dno magistro Corrado et dno Michaeli de Besozo et dno Faravo de Modoecia qui sunt ordinarii iste ecclesie ad partem et utilitatem iste ecclesie terram illam quam habeo et teneo ab ipsa ecclesia. (Cfr. Frisi. loc. cit., Vol. I, pag. 54) e riproducevano esattamente la posizione dei sacerdoti santambrosiani del diploma tadoniano dell'866 di fronte ai monaci istituiti nel 789, e della quale avremo da occuparci più avanti.

525.  Cod. dipl. long., Porro, col. 539.

526.  Campi. loc. cit., I, pag. 467.

527.  Cod. dipl. long., Porro, col. 979-80.

528.  Cfr. Lupi. Cod. dipl. cit., I, animadv. XXVII, col. 963-84, a cui si può aggiungere il doc. lucchese dell'a. 904 (ed. Muratori. Antiq. Ital. t. VI, col. 407) in cui si ricorda «Vincentius archipresbyter cardinis et vicedominus» e altri sei cardinales.

529.  Anche a Vercelli erano dette cardinales.

Nel frammento del sinodo vercellese del 964 rimastoci fra le opere di Attone (ed. Lupi. loc. cit.), è detto: «insuper admonitione suorum clericorum sancivit, ut antiquus exigit usus pessima ungariorum incursione vastatus, ecclesiae cardinales debitum praeberent baptisterio hac in civitate celebrato decenter obsequium. Ita ut in ipsis ex ecclesiis, quae sunt in villis, videlicet Patina..... presbyteri veniant sic expediti suis vestimentis, qui hic Vercellis pueros valeant baptismali tingere aqua.»

530.  A. 819. Breve ordinationis facio ego Petrus gratia dei episcopus, qualiter una cum consensu sacerdotus et aremannus huius lucane civitatis, ordinare videor te Andripertum presbiterum filio Pauli in nostra ecclesia sedalem sancti Donati, sita prope murum huius lucane civitatis; in eo vero tenore ut in tua sit potestate ipsa dei ecclesia, una cum casis et omnibus rebus ad eam pertinentibus abendum resedendum, gubernandum usufructuandum et officium dei die nocteque recto moderamine faciendo et nobis obediendum; sicut nostra sancta lex continet: et unum prandeum nobis et sacerdotibus nostris singulis annis die martis de alba semper preparare et dare debeas in festivitate ipsius ecclesie, portionem exinde de oblatis, et candelis tollendum ipse, sicut jam olim consuetas fuit; et semper nobis et sancte ecclesie nostre obedire, et servitium adimplere debeas, sicut consuetudo fuit; et qualiter ut supra te in eadem ecclesia firmavimus stavili ordine permaneas firmiter.

Ed. Muratori Antiq. Ital., Diss. XIII.

A. 838. Notitia brevis de inquisitione ecclesie beati Vincentii ubi requiescit umatum corpus beati Fridiani iuxta lucanam urbem.

Osprando, arciprete della cattedrale, disse: scivi Jacobum episcopum abentem ecclesia S. Fridiani infra istos triginta annos et ita eam ordinabat sicut alias ecclesias sedales et pertinens erat de isto episcopio S. Martini.

Giovanni chierico e scabino disse: Sibi (= scivi) Iohannem episcopum abentem ecclesiam S. Fridiani et dedit illam Jacobi germano suo in beneficio. Et postea habuit eam Jacobus episcopus in potestate S. Martini infra istos triginta annos, usque ad diem mortis sue.

Alamondo scavino disse: Scivi ecclesiam S. Fridiani abentem Jacobum episcopum et imperantem. Sed Adegrimus vassus domni regis illam voluit contendere ad parte Palatii, sed minime potuit, quoniam ipse episcopus eam pertinentem episcopatui sui faciebat. Pietro disse: Scivi Johannem ep. et Jacopum ep. abentem ecclesiam S. Fridiani et imperantes usque ad diem mortis eorum et wiganationem exinde faciebant de res ipsius ecclesie, et prandia recipiebat, sicut in cetere ecclesie sedales istius episcopati.

E tutte le altre deposizioni concordarono con queste.

Cfr. Muratori. Antiq. Ital. Diss. XXXI.

531.  Negli Acta sanctorum, Vol. III, Venezia, 1788 «Miracula S. Zitae virg. lucensis» pag. 511, è detto: «Prior... iniunxit... Mandriano quod ipse statim scalciatus et cum corrigia ad collum iret ad ecclesias civitatis lucensis sediales et majores.

532.  Il noto vescovo Raterio nel suo itinerario 7 (ed. Ballerini, cit. pag. 447) dice: «ad quod cum titularios omnes et illos de plebibus paratos, dei gratia invenissem, vos cardinales rogo etc.».

Chi sieno questi titularii che si distinguono dagli arcipreti rurali e dal clero della cattedrale è dimostrato dal documento seguente.

A. 995. Dum Johannes patriarcha s. aquilegensis aecclesiae in sinodo resideret in ecclesia beatae Mariae sitae in civitate Veronae... surgens Obertus episcopus eiusdem sedis beatae Mariae, queri cepit... de clericis habitantibus in titulis ipsius idest S. Mariae antiquae et S. Margaritae, quia ipsi secundum canonicam traditionem et antiquam consuetudinem sibi obedire vetarent, ita ut nec ad sinodum, nec ad processionem ipsius venire vellent, nec illud observare, quod ceteri tituli de eadem civitate faciunt scilicet et missas publicas precipuis festis interdictis ab episcopo facere non deberent... Tunc.... patriarca videns quod rectum et canonicum erat quod ipse episcopus sciebat (dicebat?)... statuit ut deinceps clerici de prefatis suis titulis parati essent obedire veronensi episcopo tam sinodali advocatione quamque et in processionis honore seu etiam in missarum, cum ab eodem episcopo interdictum solemnibus festis noverunt, observatione.

De Rubeis. Mon. eccl. aquil. cit. 223.

533.  Cod. Dipl. Long., (Porro), n. 797, col. 1398-99, 1 maggio 980.

Leo diaconus cardinalis sancte Marie Maioris de Cremona, rector diaconie sancte Marie in Bethel regionis quinte suprascripta civitate Cremona tibi Ambrosio presbitero per hanc cartulam ad tuas preces facta comittimus providemus et perdonamus quatinus in oraculum sito xenodochio sancte Marie in Bethel, ubi rector ordinatus esse videmur, debeas omni die et noctibus residere pro bona custodia offitio et luminaribus in predicto oraculo, ibique, permictente episcopo, valeas libere ac liceat diebus dominicis celebrare missam, sed ianuis clausis, ne populus a missarum solemniis in domo Domini a predicatione abstrahatur; aliis diebus, permictente episcopo, tibi perdonamus ut ianuis apertis valeas... missam celebrare. Set tibi predicto Ambrosio presbitero stricte inbemus, uti canonica lex abet, ut omni die festo et in omni die dominico in domo Domini ad missam et predicacionem episcopi cum populo accedas hora tercia; similiter stricte tibi iubemus, ut nullo modo nec libere nec licite nec ianuis apertis vel clausis in eodem oraculo missam celebrare presumas in Natale Domini, nec in die Sancte Pasche, nec in Ascensione, nec in Pentecoste, vel in die translacionis domine nostre sancte Marie matris Dei.

534.  Con i documenti riportati nelle note precedenti concorda completamente, integrandoli, il c. 2 del capitulare di Teodulfo, vescovo aurelianense, del 797 e del quale già si è avuto occasione di rilevare qualche altro punto di identità con la costituzione ecclesiastica italiana.

535.  S. Ambrogio fu seppellito accanto a S. Protaso e a S. Gervaso, primi santi tutelari di Milano, e la sua festa, che avveniva insieme con quella degli altri due, il 19 di giugno, era celebre anche per la chiesa romana per essersi fatta in tal giorno una pace fra i romani ed i langobardi ai tempi di Gregorio Magno e della quale questo pontefice fece cenno anche nell'«Introibo» della sua messa che incomincia: «Loquetur dominus pacem in plebem suam.»

Cfr. Delle antichità long. mil. cit. Diss. XXV, p. 3, vol. III, pag. 209. Vedi anche ibid. Diss. XXXVII, vol. IV, pag. 314.

536.  Lo tentarono S. Eusebio a Vercelli e S. Agostino in Affrica, come ci è reso noto da S. Ambrogio; ma pochi anni dopo la loro morte il sistema andò in disuso.

537.  A torto, quindi, si tenterebbe di riannodare a questa coabitazione del clero antico, l'origine delle canoniche del secolo X.º e XI.º. Cfr. Muratori Ant. Ital. Diss. LXII.

538.  Et nos habemus in ecclesia senatum nostrum cetum presbyterorum, dice S. Agostino (Opera omnia, Parigi, 1704, V, pag. 16).

539.  Cfr. Gregori M. Ep. I, 6 e 60 e Lupi. De parrochiis cit. pag. 380 e segg.

540.  Nel 787 Dateo, arciprete della cattedrale di Milano, fonda un brefotrofio presso di essa stabilendo che i presbyteri ex ordine cardinali vi abbiano una sala a disposizione (Muratori A. Antiq. ital. diss. XX). Nel doc. dell'864 riportato nella nota 2 a pag. 178 è ricordato Gregorio prete de hordine s. mediol. eccles. Nel doc., pure milanese, del 789, più volte ricordato, l'arciv. Pietro fa esplicita menzione del consenso dato dai «sacerdotibus et levitis cunctisque ordinis nostri gradus». (Cfr. Delle antich. long. mil. cit. IV, pag. 298). In un altro doc., anch'esso milanese, del 1034 (Muratori Antiq. diss. LXI) si ricordano i «presbyteri diaconi et suddiaconi cardinales de hordine s. mediol. eccl.». Nel 1151 gli «ordinarii eccles. s. Alexandri» di Bergamo (la cattedrale) stipulano un'interessantissima convenzione con i loro cuochi. Cfr. Lupi Cod. cit. II, col 1105-1106.

Ed ho citato solo alcuni esempi dei più interessanti. Vedine altri in Lupi. De parr. pag. 380 e segg. e in Muratori Antiq. diss. LXI.

541.  Esmein A. Cours élémentaire d'histoire du droit français, Paris, 1898, pag. 148 e Schulte loc. cit. pag. 650 e segg.

542.  Presbyteri ruris in ecclesia civitatis episcopo presente vel presbyteris urbis ipsius offerre non presumant. Concil. neocesarense a. 314 c. 13. Sulla sua applicazione in occidente vedi Galante. Elem. di dir. eccles. cit. pag. 23 e Lupi. De parroch. cit. pag. 293 e segg. diss. III, cap. 3.

543.  Il principio, sanzionato dal c. 13 del sinodo ottavo — oporteat in magna ecclesia in minori gradus constitutos ad maiores honores opportune contendere, sed non eos qui foris sunt, inter eos admitti — fu confermato pienamente da Giustiniano (Nov. III. 2) e da varî concilî posteriori. Cfr. Lupi De parr. cit. pag. 328.

544.  Prisca loci consuetudo — dice Arnolfo loc. cit. I, 1. — ut, decedente metropolitano, unus ex majoris ecclesiae precipuis cardinalibus quos vocant ordinarios succedere debeat.

545.  Questo avveniva quasi esclusivamente quando si trattava di custodes martyrum, i quali, fino dal tempo di Silvestro I (314-335) erano messi fra il diacono e il suddiacono. Cfr. Thomassin L. Nova et vetus ecclesiae disciplina cit. vol. I, parte I, libr. 2, cap. 92, § 2, pag. 299.

Il custos della chiesa di S. Ambrogio, p. es., è non di rado (cfr. Puricelli loc. cit. n. 8, a. 740; e n. 11, a. 781, 2 maggio e Delle antichità long. mil. cit. Diss. XXVII, vol. III, pag. 256) chiamato venerabilis e reverendissimus.

546.  Con questo termine intendo i preti già stabilmente fissati presso le chiese che a Milano sono dette decumane, a Lucca sedali, a Bergamo cardinali, etc.

547.  Al documento citato a pag. 187, nota 2 si può aggiungere quello del 974 in cui si ricorda Giovanni prete decomano della santa chiesa milanese ed officiale della chiesa di S. Maria detta di Podone (cfr. Delle antichità long. milan. cit. vol. III, Diss. XXX, pag. 371) e sopra tutto il passo del testamento di Attone vescovo di Vercelli (ed. Del Signore cit. prefaz. pag. XVII) in cui, nel lasciar loro le due valli di Leventina e Bellenica, distingue nettamente il clero raccolto nella cattedrale dai decumani sparsi per la città: presbyteris seu diaconis cardinalibus sancte mediolanensi ecclesie et sacerdotibus decomanis qui in eadem civitate pro tempore fuerint.

548.  a. 1117. Dum in Dei nomine in civitate Mediolani in Arengo publico in quo erat Domnus Jordanus archiepiscopus, ibique cum eo eius presbiteri et clerici maioris ordinis et minoris praedictae mediol. eccl..... veniens d. Ardericus ven. laudensis episcopus cum suis clericis majoris ordinis et minoris....

Giulini loc. cit. parte V, pag. 545.

549.  Cfr. nota 1 a pag. 190.

Per Lodi vedi il doc. del sec. X (ed. Vignati loc. cit. n. 13, pag. 19) «Cardinales presbyteri, diaconi et subdiaconi».

550.  Tutti i documenti parlano sempre di presbyteri. E, del resto, si capisce facilmente che dovendo compiere delle funzioni, a cominciar dalla messa, per le quali la Chiesa aveva stabilito indispensabile il grado del presbiterato, dovevano essere preti.

In seguito, però, forse per quella corruzione degli ordini ecclesiastici che a Milano appare fino dai primissimi decenni del secolo nono (cfr. Puricelli De S. Arialdo cit. IV, 1); sembra che potessero essere decumani anche i diaconi. Almeno Arnolfo (loc. cit. III, 8) racconta che Arialdo era ex decomanis diaconus. Il Giulini — con ragione, secondo me — suppone (loc. cit. parte IV, pag. 13, ad an. 1056) che non solo fosse, per abuso, attribuito il nome di decumani ai preti di molte chiese di Milano che non erano di quell'ordine; ma che fino dai tempi di Arnolfo fosse divenuto un titolo generale a tutti gli ecclesiastici di qualunque ordine, che non fossero ordinarii.

551.  a. 871. febbraio.

Ego Vuerulfo, qui et Podo vocatur.... offero.. in.. ecclesia S. marie, sita intra han civitatem Mediolani, prope locus, ubi quinque vias dicitur, quam ego in propria mea terra aedificavi, petiam unam de terra cum casas.... et volo.... ut.... deveniat in manus et potestate de PRIMICERIO PRESBITERORUM DECUMANORUM S. MEDIOLANENSIS ECCLESIE, ad ordinandum presbiterum unum, qui in jam dicta ecclesia s. marie officiare debeat et custodire die noctuque pariter et fideliter et faciat ipse presbiter de jam dicta terra et casas que cum jam dicta ecclesia tenere videtur, usufructuario nomine, quaecumque voluerit.... autem volo ut presbiter ille qui in eadem ecclesia officiale fuerit, dare et offerre debeat candelas duas optimas, omnes missas ipsius s. marie, ad archiepiscopatum s. mediol. eccl..... et pascere debeat per omni anuale meo presbiteros duodecim et pauperes decem et missa speciale canere debeat per omne mense, duas in anno. Et ipse primicerius, qualis in tempore fuerit, propter honorem ordinationis ipsius ecclesie,.... habeat massaricium unum juris mei, qui reiacet in vico et fundo Raudo, ut nulla impositio propter ordinationem ipsius ecclesie quesierit, nisi illum massaricium.

Giulini. Memorie cit. vol. I, append. pag. 464-65.

Consimile è il testamento dell'arciv. Andrea dell'11 genn. 903, ed. ibid., vol. II, append. pag. 475-79.

552.  997. nov. 19. Ego Andreas presbiter et Primicerius de hordine Decomanorum Sancte Mediolanensis Ecclesie Officiale Basilice Sancte Genitricis Virginis Marie, que dicitur iemalis... volo et iubeo... ut petia una de terra... deveniat in potestate de presbiteris illis, qui tunc tempore et in perpetuum in basilica Sancti Laurentii, constructa foris ab ac civitate, non longe ad portam quod clamatur Ticinense, Officiales fuerint... mei et parentum meorum, seu Domni Landulfi quotidie missas, vesperas, et matutinum et reliquum officium faciant.

Saxii. J. A. Archiepiscoporum mediolanensium series historico-chronologica etc. Milano, 1755, vol. II, pag. 378-79.

553.  Erano 30: 15 sacerdoti, 10 diaconi e 5 suddiaconi. Cfr. Delle antichità cit. Diss. XXV, vol. III. pag. 225. Questi ultimi, però, erano esclusi dalle assemblee in cui si discutevano le questioni di maggior rilievo. In un diploma dell'arciv. Ariberto, del 1032 (ed. Puricelli loc. cit.) presenti senioribus superioris ecclesiae suae cardinalibus, presbyteris et cardinalibus si sottoscrivono l'arcidiacono, il vicedomino, dodici preti e due diaconi; ed in un altro dello stesso arciv. (ed. Muratori Antiq. It. Diss. LXI) si vedono convocati venerabilibus suae ecclesiae cardinalibus, presbyteris videlicet et diaconibus.

I suddiaconi non sono ricordati mai.

554.  Cfr. Delle antichità cit. diss. XXX, vol. III. III, pag. 345 e segg.

555.  Cfr. Giulini Memorie cit. parte III, pag. 366.

556.  Presbyteri decumanorum extra chorum cantant, dice Beroldo loc. cit. ed. Muratori Diss. LVII.

557.  Dopo un primo stadio di formazione, comunemente noto col nome di periodo apostolico, la comunità cristiana, sotto l'influsso dello spirito giuridico organizzatore dei Romani (Friedberg-Ruffini. Trattato cit. pag. 26), cominciò ad acquistare, ancora prima di divenire religione di Stato, un aspetto sempre più rispondente a quello religioso e civile romano; e gli ecclesiastici furon ben presto rivestiti di un carattere ufficiale in tutto simile a quello dei funzionarî civili, nello stesso modo dei quali, con le stesse parole e con le stesse forme erano nominati (Id. ibid. pag. 32 e segg.) e tutti coloro che erano investiti del ministerio ecclesiastico si vennero a contrapporre ai laici costituendo anch'essi un ordo distinto dalla plebs in modo del tutto identico a quello che avveniva nella costituzione civile.

558.  Cfr. Concil. carthag. IV, a. 418-19, c. 22.

559.  In ordinandis sacerdotibus et clericis, diceva S. Agostino (cfr. Possidio Vita Augustini cit. c. 21), consensum maiorem cristianorum et consuetudinem ecclesiae sequendam esse.

560.  Cfr. i documenti riportati e indicati dall'Imbart de la Tour Les élections episcopales dans l'Eglise de France du IX au XII siècle, Paris, 1891, pag. 12 e segg. e passim.

561.  Cod. Theod. XVI, 2, 33.

562.  Cfr. i passi riportati dall'Imbart de la Tour. Les élections episcopales cit. pag. 12 e segg.

563.  Il sinodo romano di Eugenio II dell'826 (c. 8) stabilisce: «Episcopi in subiectis baptismalibus plebibus, ut certe propriis, curam habere debent, ut cum in ipsis presbyteros necessitas occurrerit ordinandi, ut reverentius observentur, convenit ibidem habitantium habere consensum».

E il concilio ticinese dell'850, già tante volte citato, conferma che «in ordinandis plebium rationibus, civium instituta serventur et primum quidem ipsius loci presbyteri vel ceteri clerici idoneum sibi rectorem eligant; deinde populi qui ad eamdem plebem adspicit, sequatur assensus».

E dall'esempio offerto dalla pieve di Mosciano a quelli delle pievi modenesi e parmensi, le prove dell'autonomia dei centri rurali è dovunque dimostrata; ciò che produce come conseguenza che quella della pieve urbana, che dai centri rurali è circondata, sia anche maggiore.

564.  Cfr. Tamassia N. Longobardi, Franchi etc cit., pag. 113-18 e Solmi A. Stato e Chiesa secondo gli scritti politici da Carlo M. fino al concordato di Worms, Modena, 1901, pag. 3 e segg.

565.  Tamassia loc. cit., pag. 196 e segg. Solmi loc. cit., pag. 55-57.

566.  In Gallia, come si rileva anche dalla formula del Missale francorum (ed. Duchesne Origines cit., pag. 359. «Secundum voluntatem Domini, in locum s. memoriae illius nomine, virum venerabilem illum testimonio presbyterorum et totius cleri et consilio civium ac consistentium credimus eligendum») le elezioni vescovili anticamente erano indipendenti; ma sotto i Merovingi, per le violenze e le agitazioni del popolo, il potere regio ebbe occasione ed agio di intervenirvi per modo che da un semplice mantenimento dell'ordine si passò rapidamente ad una vera e propria ingerenza; cosicchè la Chiesa fu costretta ad iniziare una lotta, che ridusse — è vero — l'autorità regia alla sola conferma; ma le dètte, appunto perchè limitandola l'ammetteva, pieno ed esplicito e riconosciuto diritto di intervenire nell'elezione. L'Hauck, (Die Bischofswalhen unter der Merovingern. Erlangen, 1883), forse un po' impressionato dall'opinione del Fustel de Coulanges, (La Monarchie francque, Paris, 1888, pag. 523-566 e, sopra tutto, 555-558) che ritenne che l'autorità regia ridusse a nulla l'intervento del clero e del popolo; ha pensato che questa limitazione sia stata una grande conquista da parte della Chiesa; ma, in realtà, egli ha considerato il fatto rispetto ai suoi presupposti immediati; ma non alla costituzione primitiva della Chiesa. Il can. 10 del quinto Concilio di Orléans (ed. Maassen, cit., pag. 103) incomincia «Sed cum voluntate regis... pontifex consacretur».

Questo già ai primissimi del secolo settimo. L'editto di Clotario è del 614. (Cfr. «Monum. Germ. Hist.» Leges, I, pag. 14).

Sorto in seguito l'astro dei Carolingi, la Chiesa fu trasformata in istituzione territoriale e, pienamente sottratta alla dipendenza del pontefice (cfr. Friedberg-Ruffini, loc. cit., pag. 16), divenne loro docile e poderoso strumento di governo.

567.  Quest'affermazione si limita, s'intende bene, al periodo franco, durante il quale l'azione del pontefice nelle elezioni vescovili ebbe un'importanza così limitata che non occorre fermarcisi su.

568.  Nell'epoca romana questo fatto si rileva più facilmente perchè l'elezione del vescovo è regolata minutamente dalle leggi e queste graduano la facoltà degli elettori in proporzione diretta della loro posizione nella vita civile.

Vedi a questo proposito a pag. 59 e segg. e Cod. Theod. Nov. XVII a. 445.

569.  Vedi i passi riportati a questo proposito dal Friedberg-Ruffini, dal Calisse, dall'Imbart d. la Tour e dal Vacandard E. Les élections épiscopales sous les mérovingiens in «Rev. d. questions histor.». XXXII, 126, avril, 1898. «Expectarentur — dice un tipico passo di S. Leone M. (Ep. X, 6 — Iaffè Reg. 467) — vota civium, testimonia popolorum; quaereretur honoratorum arbitrium, electio clericorum».

570.  E ciò sopra tutto per la ragione che il clero, come istituzione, è ritenuto di origine divina e gode, quindi, di un gran prestigio.

571.  A notariis ecclesiae — dice S. Agostino (Ep. 110) — ... excipiuntur quae dicimus et dicitis... Hoc ad ultimum rogo ut gestis istis dignemini subscribere qui potestis.

Su questo decretum quod clerus et populus formare debet de electo episcopo cfr. specialmente l'Ordo romanus in Bibl. patruum cit., X, col. 104.

572.  S. Agostino li ricorda varie volte.

Dilectissimis fratribus, clero, senioribus et universae plebi aecclesiae Hipponensi.... salutem — Ep. 137.

Silvanus a Cirtha traditor est et fur rerum pauperum, quod omnes vos episcopi, presbyteri, diacones et seniores scitis — Contra Crescon. III c. 29 ed. cit. vol. VII pag. 177.

E la stessa precisa frase si trova anche nelle Gesta purgationis Felicis et Caeciliani in calce alle opere di Optato, Parigi, 1567, pagina 268 — Ep. di forte.

E nello stesso significato troviamo la parola anche nel medioevo.

Nel testamento del prete Teodaldo dell'a. 768 (ed. Frisi loc. cit., II, n. 2, pag. 4) è detto: «obsecro principes terre istius vel presolis adque senioris ecclesie S. Johannis ut... omnia stavilem permittatis permanere. E in una donazione al monastero di S. Ambrogio, dell'a. 863 (ed. Giulini loc. cit., vol. I, append. pag. 444-45) si stabilisce che se i monaci non adempiono agli obblighi loro imposti a proposito di un ospedale fondato dal donatore, l'ospedale stesso passi agli officiales della Chiesa di S. Giovanni di Monza «sine ulla contrarietatem senioribus ipsius ecclesiae».

Nè son casi isolati. Cfr. a. 787 (Muratori Antiq. ital., III, col. 587) pontifex (arciv. di Milano) de ipso ordine presbyterum seniorem... ordinare dignetur. — a. 951-962 (Vignati, Cod. dipl. laud. cit. I, n. 13, pag. 18-19). Radbertus presbiter de cardine s. laud. eccl. scribere per iussu domni senioris communuimus. — a. 933. (Tiraboschi. Mem. Nonantola cit., n. 82), una per consilio et consensum seniorum sacerdotis et clerum b. s. Geminiani motinensis, il vescovo Gottifredo fa una concessione enfiteutica.

Il Tamassia (I sermoni di Pietro Crisologo cit.,) ha indicato alcuni passi che gettano uno sprazzo di luce sui rapporti che con anacronismo scusabile possono esser detti prefeudali, della società romana.

I documenti ora indicati, che contengono il nome di senior, di ben nota diffusione nel campo feudale, possono, forse, esser presi in considerazione anche da questo punto di vista.

573.  Agostino. Conc. II in Psalm. 36, to. 8, pag. 201. «Cum incestos contra legem decretaque omnium sacerdotum communioni sanctae adiungeret, cumque obsistente massima parte plebis, etiam seniorum nobilissimorum litteris conveniretur etc.».

Liberati. Breviarium cit., c. 14. ed. cit. to V, pag. 763. «Collecti sunt nobiles civitatis ut eum qui esset vita et sermone dignus pontificatu eligerent».

574.  In ordinationibus eorum clamant et dicunt: dignus es et iustus e S. Ambrogio. De dignitate sacerdot. c. 5. E S. Agostino (Ep. 110): Dignus et iustus est dictum est vicies.

Altri esempi per il medioevo ci sono offerti da Gregorio di Tours, loc. cit. passim e specialmente l'ep. 25 del libro quarto, ad Donnulum.

575.  Cfr., oltre i trattati generali già citati, il Reville Les origines de l'épiscopat, Paris, 1894.

576.  Vedi il doc. dell'838 nella nota 2, a pag. 186.

577.  Vedi il doc. riportato nella nota 1, a pag. 186.

578.  Q. Florentis Tertulliani Apologeticus adversus gentes, Venezia, 1525, c. 37, cap. XXXIX.

De disciplina christianorum. Si quod arcae genus non de ordinaria summa quasi redemtae religionis congregatur: modicam unusquique stipem menstrua die, vel cum velit et si modo possit, apponit. Nam nemo compellitur, sed sponte confert.

Id. Ep. 34 in Opera omnia Parigi, 1666, pag. 49.

Presbiteri honorem designasse nos illis jam sciatis ut et sportulis iisdem cum presbyteris honorentur et divisiones mensurnas aequatis quantitatibus partiantur.

Id. Ep. 66, ibid., pag. 109.

Quae nunc ratio et forma in clero tenetur, ut qui in ecclesia domini ordinatione clerica promoventur, in nullo ab administratione divina avocentur nec molestiis et negotiis saecularibus alligentur, sed in honore sportulantium fratrum tamquam decimas ex fructibus accipientes, ab altari et sacrificiis non recedant.

E quando qualche ecclesiastico mancava ai suoi doveri era punito in modo molto semplice e chiaro: «Interim (cfr. Ep. 28, pag. 41) se a divisione mensurarum tantum contineant, non quasi a ministerio ecclesiastico privati esse videantur».

579.  Cod. Just. I, 3, 33, § 1. Leone e Antemio (467-471). Non oportet episcopos aut clericos cogere quosquam ad fructus offerendos, aut angarias dandas, aut alio modo vexare, aut excommunicare, aut anathemate damnare, aut denegare communionem, aut idcirco non baptizare, quamvis usus ita obtinuerit.

580.  Leonis M. (440-460). Sermo de collectarum die (ed. Ballerini-Caccia).

Providenter, dilectissimi, a sanctis patribus pieque dispositum est, ut in diversis temporibus quidam essent dies, qui devotionem fidelis populi ad Collationem publicam provocarent. Et quia ad ecclesiam maxime ab unoquoque opem quaerente decurritur, fieret ex possibilitate multorum voluntaria et sancta Collectio, quae per Praesidentium curam necessariis serviret expensis: ad cuius operis desideratum vobis, ut credimus, fructum dies vos vicinus invitat, accedentibus admonitionibus nostris, ut ad ecclesias regionum vestrarum sabbato proxime futuro misericordiae munera deferatis.

Id. Sermo IV.

Quia in die dominica prima est futura Collectio, omnes vos devotioni voluntarie praeparate, ut unusquisque secundum sufficientiam habeat in sacratissima oblatione consortium.

Id. Sermo V.

Ad horum operum, Dilectissimi, piam curam dies nos apostolicae invitat, in quo sanctarum Collectionum prima Collectio est prudenter a Patribus et utiliter ordinata; ut quia in hoc tempore gentilis quondam populus superstitiosius daemonibus serviebat, contra prophanas hostias impiorum, sacratissima a nobis nostrarum elemosinarium? celebraretur oblatio: quod, quia incrementis ecclesiae fructuosissimum fuit, placuit esse perpetuum. Unde hortamur sanctitatem vestram, ut per ecclesias regionum vestrarum quarta feria de facultatibus vestris quantum suadet possibilitas ac voluntas, expensas misericordiae conferatis, ut possitis illam beatitudinem promereri, in qua sine fine gaudebit, qui intelligit super egenum et pauperem.

581.  Il capitolare di Mantova del 787 prescrive che la decima sia pagata alla presenza di almeno due testimoni ne ideo ibi juramentum aliquod faciendi necessitas contingat. (Cfr. M. G. H. Capitularia, I § 8, pag. 197).

E questo sistema di giuramento concorda pienamente con l'uso estesissimo del giuramento quale ci è unanimente dimostrato dalle fonti romane (Cfr. Dig. XII, 2, 3-I, 3, § 4 e 2, 4 e 5) e con quello attestatoci dai documenti posteriori. Il Tiraboschi, p. es., ha pubblicato un doc. del secolo X (Mem. Modenesi cit., I, cod. dipl. n. 117, pag. 142) che suona così: «Incipit nomina virorum hac mulierum qui pro dei timore et christi amore dederunt singuli denarios pro redemptione animarum suarum in luminaria ad illuminandum ecclesiam dei ut eorum animas illuminet deus in sanctum paradisum et ipsi omni anno Deo auxiliante hoc facere similiter promittunt».

E si possono citare anche altri esempi posteriori nei quali si vede sempre intervenire il giuramento. Cfr. anche lo statuto della Chiesa di Parma citato a pag. 1, n. 1 e a pag. 103-104.

582.  Cfr. Cod. dipl. long. — Troya, — n. 216.

583.  Cfr. pag. 200 nota e nota 3 di questa pagina.

584.  Di decimas parla il capitolare fissato dal re Liutprando con i mercanti di Comacchio nel 730 (Cfr. Hartmann. Zur Wirtschaftsgeschichte Italiens in frühen Mittelalter. Analekten. Gotha. 1904, pag. 123-24); decime pagavano talvolta cittadini e vicini per il godimento degli antichissimi diritti d'uso (Cfr. Solmi A. Manuale cit., pag. 188) e la decima parte dei frutti della terra da loro lavorata corrispondevano numerosi lavoratori (Cfr. Cod. dipl. long.Troya — n. 433, a. 721; n. 476, a. 729; n. 526, a. 740) così in occidente come in oriente (cfr. Zachariae V. Lingenthal. Geschichte des grieschisch-roemischen Rechts, Berlin, 1892, II, pag. 255-56 e n. 843).

585.  S. Agostino. Comm. in Psalm. 146 (Opera omnia cit. VIII, pag. 698). Precidite ergo aliquid et deputate aliquid fixum, vel ex annuis fructibus vel ex quotidianis quaestibus vestris... Exime aliquam partem redituum tuorum. Decimas vis? decimas exime quamquam parum sit.

Id. Homil. 48, X, pag. 48. Maiores nostri copiis omnibus abundabant quia Deo decimas dabant et Caesari censum reddebant.

586.  Capit, di Lestimes a. 743 (in «Mon. Germ. Hist.» Boretius. I, n. 11, pag. 28). — Statuimus quoque cum consilio servorum Dei et populi christiani propter imminentia bella et persecutiones ceterarum gentium quae in circuitu nostro sunt, ut sub precario et censu aliquam partem ecclesialis pecuniae in adiutorium exercitus nostri cum indulgentia Dei aliquanto tempore retineamus ea conditione, ut annis singulis de unaquaque casata solidus, idest duodecim denarii, ad ecclesiam vel monasterium reddatur; eo modo, ut si moriatur ille cui pecunia commodata fuit, ecclesia cum propria pecunia revestita sit. Et iterum si necessitas cogat ut princeps iubeat, precarium renovetur et rescribatur novum.

Col capitolare del 768 (Id. ibid. 1, Capit. aquit. c. 1, pag. 42) Pipino aggiunse l'obbligo della restaurazione della chiesa a cui appartenevano le terre beneficiate.

E nel 779, col capit. aristallense (Id., ibid. I, c. 13, pag. 50), Carlo Magno aggiunse l'obbligo del pagamento della decima e della nona. De rebus vero ecclesiarum und nunc census exeunt decima et nona cum ipso censu sit soluta et unde antea non exierunt similiter nona et decima detur; atque de casatis quinquaginta solidum unum et de casatis triginta solidum dimidium et de viginti trimisse unum.

La bibliografia sul beneficio ed i suoi rapporti col feudo è troppo nota perchè occorra accennare anche solo i principali lavori.

587.  Cfr. ibid. I, pag. 46.

588.  Cfr. Pippini capitulare italicum a. 801 (806)-810 (ibid. I, 1, n. 102, pag. 210, c. 6). E questa disposizione deriva in linea retta da Carlo M. nella sua «Epistola in Italiam emissa», a. 790-800 (ibid. n. 97, pag. 203), e con il c. 60 del suo capitolare italico.

589.  Capit. Ital. c. 31.

590.  Capitulare cum episcopis langobardicis deliberatum, a. 780-90. (Ibid. n. 89, c. 9, n. 89). E questo costume e questa consuetudine di cui parlano e come di cosa antica vescovi langobardi, non poteva essersi formata che in Italia e prima dell'invasione franca. Non potè essere lo stato langobardo ad istituire un contributo che ripugnava all'indole del suo popolo, a vantaggio di un culto che non era il suo e per il quale, nei primi tempi specialmente, non furono usate soverchie tenerezze; mentre nessuno dei re divenuti cattolici l'ha — che si sappia — istituito. E si sarebbe saputo; chè un capitolo dell'Editto, una parola di Paolo Diacono, un passo delle lettere e degli scritti cui dette luogo la lunga controversia terminata con la calata dei Franchi, non avrebbe mancato di farcelo sapere.

Abbiamo dunque una riprova dell'ininterrotto perdurare della antica collecta.

591.  Loth. 43. Che la decima di cui qui si parla sia quella italiana è dimostrato da vari fatti. E cioè: 1.) che in esso si parla sempre e soltanto di decima e mai si ricorda o menziona la nona; 2.) che si istituisce una speciale procedura la quale consiste nella nomina di una commissione di quattro o otto o più «homines optimi» per ogni pieve i quali sieno testimoni inter sacerdotes et plebem. La pieve è il complesso dei parrocchiani e tale commissione sarebbe un assurdo per testimoniare il soddisfacimento di uno degli obblighi nascenti dal rapporto giuridico intercorrente fra una chiesa, che poteva benissimo non essere una pieve ed uno speciale individuo; 3.) infine, che si commina ai renitenti la prigione e la confisca dei beni, senza mai far parola di omissione di beneficio.

592.  Eccone un esempio tipico.

Et hoc ea consideratione introductum est, ut detracta portione dominorum, coloni de sua parte dumtaxat decimam solvant, quia domini in civitate vel in aliis locis plerumque habitant, et spiritualia ibi non recipiunt ubi decimae solvuntur, et ideo de sua parte fructuum decimas dare non tenentur. Liber Consuetudinum Mediolani c. 25 Ed. Berlan cit. pag. 256.

593.  Cfr. Capit. ital. Pipin. 4, 17; Lud. P. 30; Loth. 20.

594.  Cfr. l'epist. di Gelasio ad episc. Lucaniae c. 5 (ed. cit. to. IV pag. 1189) «Baptizandis consignandisque fidelibus pretia nulla praefigant, nec illationibus quibuslibet impositis exagitare cupiant renascentes.... Et ideo nihil a predictis prorsus exigere moliantur...» E il conc. illiberit. c. 48 (ed. cit. I. pag. 97) proibisce già — emendari placuit — che «qui baptizantur nummos in concham non mittant».

Per le oblazioni in caso di matrimonio si può citare come tipo il c. 3 dei Responsa Bulgarorum di Niccolò I. che è dell'866 (Cfr. l'edizione corretta fattane dal Duchesne. Origines cit. pag. 433-34) ma che riproduce in modo perfetto nella forma e nella sostanza il sistema di celebrazione degli sponsali e del matrimonio romano.

«Et primum quidem in ecclesia domini cum oblationibus quas offerre debent Deo per sacerdotis manum statuuntur».

Cfr. anche Statut. eccl. parm. cit. pag. 101 nella ricca nota illustrativa fattane dal Barbieri.

Per le oblazioni per i defunti, oltre questo stesso statuto sotto tale titolo, pag. 48 e pag. 194, nota 2, sono da vedersi la dissertazione 18 del Muratori Anecdota cit. I. pag. 190-95 ed il Natale XII di S. Paolino da Nola, nel punto ove narra il miracolo di S. Felice.

595.  Cfr. i passi e i documenti riportati ed illustrati da N. Comneno Papadopoli nelle sue Praenotationes mistagogicae, Padova, 1697 r. 1, s. 5 e 6, pag. 28-37 e r. 3, s. 2, 3, 4, pag. 137-138. Mi limito a queste pochissime citazioni perchè sarebbe del tutto superfluo fare sfoggio della numerosissima bibliografia sull'argomento che per l'esperienza che ne ho fatta è, almeno per il nostro tema, perfettamente inutile.

596.  Cfr. pag. 181 nota 1.

597.  Cfr. pag. 186 nota 2.

598.  Oltre tutti i lavori che fanno più o meno capo al De Rossi e al Duchesne, i quali hanno formulato a questo proposito due diverse opinioni degne del pari di considerazione; è uscito recentemente l'articolo di R. Saleilles. L'organisations juridique des premierès communautés chrétiennes nelle «Mélanges P. F. Girard». Paris, 1912, II, pag. 469-509, di una notevole chiarezza.

599.  Questa mi sembra la interpetrazione più logica del passo di Ulpiano Liber. singul. reg. XXII. 6 (ed. Baviera Fontes iuris romani antejustinianei, Firenze, 1908, pag. 235-36) che è, a parer mio, l'unico veramente fondamentale sull'argomento.

Deos heredes instituere non possumus praeter eos quos senatusconsulto constitutionibusque principum instituere concessum est, sicuti Jovem Tarpeium, Apollinem Didymacum Mileti, Martem in Gallia, Minervam iliensem, Herculem gaditanum, Dianam Ephesiam, Matrem Deorum Sipylenem, Nemesim quae Smirmae colitur et Caelestem Salinensem Carthagini.

E questo paragrafo è intimamente connesso con quello precedente in cui si afferma che la testamentifactio passiva non è accordata, fatta eccezione che nel caso di testamento di un liberto, nemmeno ai municipî.

600.  Cfr. il cap. 36 del 2. libro della Vita di Costantino di Eusebio e la Nov. 131. cap. 9 di Giustiniano.

601.  Cfr. Capitul. mantuanum primum c. II. (ed. Boretius I, 1, n. 92, pag. 195) De decimis vero que a populo in plebibus vel baptismalibus æcclesiis offeruntur nulla exinde pars maiori æcclesiæ vel episcopo inferatur.

602.  Cfr. Mem. Lucchesi cit. V, p. II, pag. 22, n. 34, a. 746 e Muratori. Antiq. cit. III, 811-819, a. 796

Cfr. i docc. riguardanti la gestione patrimoniale delle pievi indicati dal Pertile. loc. cit. I, pag. 342, a. 89; e Mazzi A. Studi cit. pag. 9 e 27-28; Tiraboschi, Mem. mod. cit. I, pag. 155, a. 996; pagina 158, a. 998; II, pag. 137, a. 1003: Ughelli2. loc. cit. V, col. 508, a. 997 e IV, col. 1007, a. 1004 (cfr. Provana. Studi critici cit. pag. 347).

Alla prova di questa asserzione che involge intimamente la vita civile e quella religiosa son dedicati i §§ 9 e 10.

Cfr. Tamassia N. Postille storiche e giuridiche alle opere di Zenone vescovo di Verona in «Studi storici e giuridici offerti a F. Ciccaglione» Catania 1909, I, pag. 8-10.

Cfr. Galante A. Il diritto di patronato nei documenti langobardi negli «Studi in onore di V. Scialoja» Milano, 1905, vol. I.

603.  Cfr. pag. 181 nota 1.

604.  Cfr. i documenti riportati ed illustrati nella Diss. quarta delle Antichità long. milan. cit., la quale però è inspirata per non dire addirittura dominata dall'idea di mostrare la ragionevolezza delle pretese dei monaci contro i sacerdoti, riunitisi a vita canonica nel secolo XI.

605.  Cfr. nota a pag. 183, nota 2.

606.  Vedi le belle e giustissime parole di N. Tamassia in Fidem facere e manum facere cit., pag. 536-37 sul tipo dei documenti lucchesi; alle quali è da aggiungere anche quanto egli dice a tale proposito a pag. 367-71.

607.  Sulla personalità giuridica del beneficio e lo sviluppo della sua formazione cfr. Ruffini F. La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino, 1896, § 8-10, pag. 48-74; uno studio che dev'esser segnalato fra la moltitudine dei lavori che si sono occupati di questo argomento e dei quali fornisce un'abbondante indicazione bibliografica il Galante, loc. cit. pag. 273 nota e nelle note ai §§ segg.

608.  Cfr. Capitulare italicum. Capitula Karoli M. 136. Capitul. Hludovici Pii (a. 825?) c. 9. Leges I. 244, ed. Boretius; e le altre disposizioni riportate dal Du-Cange nel suo Glossarium e dal nostro Muratori nella XXX Dissertazione.

609.  La ragione della tenacia di tale consuetudine, che finiva con l'annullare l'antico precetto ecclesiastico del riposo festivo, era di natura prevalentemente, se non sostanzialmente, economica. Usufruendo di un giorno festivo per lo smercio dei prodotti si guadagnava una di quelle giornate di lavoro, che le numerose prestazioni, alle quali sopratutto i lavoratori della terra erano obbligati, riducevano fortemente.

610.  Vedine la dimostrazione particolareggiata per Bergamo in Mazzi A. Corografia bergomense nei secoli VIII, IX, X, Bergamo, 1888. pag. 225 e segg.

Vedi anche Capitul. Aquisgranense a. 809, c. 9, in «Monum. Germ. Hist.» Leges, ed. Boretius I, pag. 156.

611.  Di ciò si è tentato di dare la dimostrazione nel paragrafo precedente. Mi limito qui ad aggiungere le parole della concessione dell'imperatore Lodovico II alla pieve rurale di Juvenalta nel cremonese.

«Pro plenissima quietitudine confirmamus eidem sancto loco aqueductus tam ad divisa molendina quam ad navigia deducenda, sive in Olio atque etiam mercata ibidem devenientia tam in montanis quamque in planicie ut abhinc in futurum SICUTI ANTIQUITUS CONSUETUM FUIT deducat.

612.  Landulphi Sen. loc. cit., III, 20.

Di questo storico è stato dato — e meritatamente — un severo giudizio (vedi, per es. quel che ne dicono i Bollandisti to. VI, julii 28, S. Nazario); ma ciò non può toccare in nulla la veridicità della sua notizia riguardo all'ubicazione ed alla composizione del mercato, perchè egli ne fa menzione incidentalmente e come di cosa normale anche al suo tempo. E, per di più, la sua notizia è confermata anche da Arnolfo. Cfr. infatti, loc. cit., III, 10.

613.  Capitul. Ital. c. 11. Cap. Forma communi c. 14-18 in «Monum Germ. Hist.» Leges, I, ed. Boretius, pag. 37-38.

614.  Ibid. c. 14.

L'Expositio a questo capitolo richiama i due capitoli di Rotari 18 e 358. In realtà il richiamo è molto impreciso. Nel primo caso il Rotari, proteggendo con la pena fortissima di 900 solidi quemcumque ad regem venientem, dimostra chiaramente che si tratta di persone care al re e che si recano da lui per suo e non per proprio vantaggio e lo conferma stabilendo che la pena sia divisa fra il re stesso e l'offeso. Si tratta dunque di gasindi e non di iterantes di viaggiatori comuni, come nel cap. 14 di Carlo M., nel quale è ripresa anche la disposizione del cap. 368 di Rotari.

615.  Cfr. Decretio Chlotarii regis (a. 511-558) § 9, 3 (Et si persequens latronem suum comprehenderit integram sibi composicionem accipiat; et si per trustem invenitur, mediam composicionem trustis adquirat...) e § 16 in «Monum. Germ. Hist.» Capitul. Meroving. pag. 5-7.

Sull'interpretazione di questi passi vedi Tamassia N. La Delatura in «Archivio Giuridico F. Serafini» 1897, vol. LVIII, p. 346-367 e specialmente pag. 362-64.

616.  Era tanto un privilegio, che degenerò ben presto in un abuso e Pipino dovette provvedervi. Cfr. Capit. Ital., c. 1 e 15.

617.  Vedi Gierke H. Erbrecht und Vicinenrecht in Edikt Chilperichs in «Zeitschrift für Rechtsgeschichte» II, 1887, pag. 480 e segg.

618.  Cfr. la legge salica nel famoso tit. De migrantibus, al quale va aggiunto quell'importantissimo (per quanto mutilo) frammento edito per la prima volta dal Merkel (Lex salica Extrav. XI, pag. 101) che dice: «Non potest homo migrare nisi convicinia et erba et aquam et v | am |... | concedente? |».

Geniale, ma da accogliersi con molte riserve, è il lavoro del Fustel de Coulanges Étude sur le titre «De migrantibus» Paris 1886.

619.  Vedine indicati un bel numero dallo Schupfer Dir. Priv. cit., II, pag 42 e segg.

620.  Nelle formule di Marcolfo I, 7 ed. Zeumer cit. in «Monum. Germ. Hist.» III, pag. 47.

621.  Cfr. Tiraboschi. Mem. Nonantola cit., II, n. 19, pag. 36. È una concessione livellare fatta dall'abate nonantolano Rodolfo a un certo Gualprando in persona et vice totius COMMUNIS de Battona.

622.  Per il mercato nelle pievi rurali vedine gli esempi riportati dal Mayer (Ital. Verfassungsg. cit. § 20, n. 49, vol. I, pag. 339) e del quale è pure da vedere ciò che dice dei rapporti della pieve con il castello rispetto al mercato (Ibid., IV, § 51, vol. II, pag. 437 e segg.).

623.  Capitulare missorum in Theodonis villa datum secundum generale c. 13 (ed. Boretius in «Monum Germ. Hist.» Capit. Reg. Franc. I, n. 44).

De teloneis placet ut antiqua et iusta telonea a negotiatoribus exigantur tam de pontibus quam et de navigiis seu mercatis; nova vero seu iniusta ubi vel funes tenduntur, vel cum navibus sub pontibus transitur seu et his similia, in quibus nullum adiutorium iterantibus praestatur, ut non exigantur; similiter etiam nec de his qui sine negotiandi causa substantiam suam de una domo ad aliam ducunt aut ad palatium aut in exercitum.

Cfr. anche Ansegisi capitulare III, 12 (ed. Id., pag. 427); sulla cui introduzione e l'applicazione in Italia vedi Patetta F. Sull'introduzione in Italia della collezione di Ansegiso. Torino, 1890. Estr. dagli Atti della R. Accademia delle Scienze.

Sulla mancanza nei Capitolari e nelle leggi di accenni ai commestibili e alle cibarie cfr. anche Leicht P. S. Statuta vetera Civitatis Austriae. Cividale, 1902, pag. VII e bibliografia ivi citata. Egli ha dimostrato che anche i documenti e gli statuti friulani confermano l'opinione del Sohm, del Maurer e del Ritschel che, anche i pesi e le misure, insieme e oltre alle cibarie (delle quali, come si è detto, nessuna legge imperiale o Capitolare si occupa) erano rilasciate alle consuetudini locali ed ha messo in evidenza anche un altro lato di grande importanza per noi, dimostrando che il traffico delle cose commestibili era permesso anche nei luoghi dove era esplicitamente vietato il mercato: ciò che significa — dato che il diritto di mercato si risolve in sostanza nel diritto di percepire una tassa da parte del titolare — che il commercio dei commestibili non era gravato da alcuna contribuzione.

624.  Schupfer F. La pubblicità nei trapassi della proprietà secondo il diritto romano del basso Impero etc. in «Rivista italiana per le scienze giurid.» vol. XXIX, fasc. 1-2, a. 1905, pag. 43 e segg. Vedi però anche le vecchie ma buone pagine di J. C. Bulengerus De vectigalibus populi romani in «Thesaur. roman. antiquit.» vol. VIII, Venezia, 1735, cap. 5, col. 843 e segg.

Esempi dell'epoca medioevale sono riportati dal Mayer Ital. Verfassungsg. cit. I, pag. 331, n. 8.

625.  a. 812 (?) Carlo M. dona a Rataldo vescovo di Verona il forum ed il mercatum soliti a farsi nella festività di S. Zeno a Verona. Cfr. Cipolla C. Verzeichniss der Kaiserurkunden in den Archiven Veronas I in «Muhlbacher's Mittheilungen» II, 88. Innsbruck 1881.

626.  Interessante è a questo proposito il can. 48 degli Statuta eccles. antiqua (ed. Bruns H. T. Canones apostolorum et conciliorum saeculorum IV, V, VI, VII. Berlin 1839 I, pag. 146) compilati, molto probabilmente, nella seconda metà del secolo quarto (cfr. Maassen E. Geschichte der Quellen und der Literatur des kanonischen Rechts in Abendlande bis zum Ausgange des Mittelalters. I, Gratz, 1870, p. 393), il quale stabilisce che il chierico che «non pro emendo aliquid in mundinis vel in foro deambulat» debba esser degradato. Questo canone, infatti, ebbe larga applicazione in Italia, tanto che se ne riscontra l'influenza diretta in varie raccolte, a cominciare da un canone del famoso Attone vescovo di Vercelli. Cfr. Attonis vercellensis opera-Canones n. 43 (ed. Del Signore, Vercelli, 1768, parte II, p. 278).

627.  I primi germi delle fiere medioevali si trovano nelle ultime fiere dell'impero romano. Cfr. Huvelin loc. cit., pag. 135.

628.  Cfr. Huvelin loc. cit., passim, Goldschmidt E. Universalgeschichte des Handelsrechts Stuttgart, 1891, pag. 221 e segg. e bibliografia ivi citata. Fondamentale, però, rimane sempre il lavoro del Bourquelot Étude sur les foires de Champagne. Paris, 1865.

629.  Cfr. Muratori Antiq. Ital. Diss. XXX. e gli esempi da lui indicati. Anche il commercio dei barbari che si concentrava nei mercati che si tenevano nei giorni di feste religiose e di assemblee politico-giudiziarie, sia di diversi popoli — concilia — che di varie centenae di uno stesso popolo. Cfr. Huvelin loc. cit. pag. 141.

Ciò rese più facile la continuazione delle antiche consuetudini italiche sulle quali quelle germaniche poterono adagiarsi facilmente.

630.  Cfr. Capitul. Ital. di Carlo M. c. 52.

631.  Cfr. Moriondo J. B. Monumenta aquensia. I, Torino, 1789, col. 106-7, n. 92, a. 1197.

Credo non inutile riportare integralmente la parte più interessante di questo bel documento.

Omnis bestia quadrupes vendita in foro Aquensi et Arcivolio debet curadiae in duobus denariis ab autore, totidem a venditore. De agnis et haedis nihil sicut et de fructibus et de ovis et de his omnibus quae brachio portantur. Idem de pullis et de piscibus recentibus. De caballo tamen den. XII. De onere pullorum ovorum den. 1. De fasce hominis circulorum mealia (uvae alia) datur. De fasce boum den. II. Tellaria habentes pisces, negotiatores drappi et ferri et merces vendentes in foro, ut sedeant, unusquisque den. II. curadiae debet. De torta lini den. II dantur. De soma lebetum idem. De fasce scutellarum et scutorum idem. Artifices sitularum et situlorum omni anno situlam debent et situlum. Ferrarii cultellum et mensuram. Facientes conchas et lanceas et juga idem. De fasce bailorum I den. De carro lignorum II den. De barroccio I den. De carro et barroccio vini II den. De fasce ollarum et testarum idem. De asino veniente onerato nihil; si egreditur oneratus I den. De mezena I den. Sextarium vero capiendum est ad pugnum venditoris. Ex his omnibus predicti memorati antiqui aeque concordaverunt.

632.  L'esenzione accordata ad Asti ai commestibili può nel complesso esser considerata come un fatto comune di un fenomeno generale.

Le città che più a lungo furono soggette ai pedaggi e alla curatura verso l'impero offrono a questo proposito un buon mezzo di riprova. A Siena, per esempio, che durò a lungo in tale soggezione, gli elenchi che ancor si conservano nel R. Archivio di Stato, delle imposizioni e dei tributi dai quali erano colpite le merci che si negoziavano nel mercato cittadino, per gran parte del secolo decimoterzo sono limitati ad un numero di voci relativamente assai scarso. E non si può supporre che la causa si debba ricercare in un tardo svilupparsi del commercio senese, perchè fino dai non ultimi decenni del secolo decimosecondo si hanno tracce numerose ed importanti dell'attività straordinaria dei senesi. Il Lisini (Indice di due antichi libri di imbreviature notarili in «Bullettino senese di Storia Patria» vol. XIX 1912) illustrando degnamente quasi un migliaio di atti dei primi anni del secolo XIII., completa quanto fino ad ora era stato appena intraveduto (cfr. Schulte Geschichte des mittelalterlichen Handels und Verkehrs zwischens West-deutschland und Italien mit Ausschluss von Venedig. Leipzig, 1900, I. pag. 247) e accennato (cfr. Paoli C. Siena alle fiere di Sciampagna Siena 1898 pag. 19 e segg. e Schaube Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebiets bis zum Ende der Kreuzzüge. München 1906, passim) e dimostra che il commercio dei senesi era in questo tempo di primissimo ordine.

Sugli istituti di diritto commerciale, sopratutto in un'epoca più tarda cfr. Arcangeli A. Gli istituti del diritto commerciale nello statuto senese del 1309-10 in «Rivista di diritto commerciale» di Sraffa e Vivante a IV., 1906, fasc. 3-4.

633.  Cfr. nota 1 a pag. 222.

634.  Cfr. Huvelin loc. cit., pag. 176.

635.  Ne offre chiara prova la città di Vercelli. Nel 913 il re Berengario concedeva ai canonici delle due cattedrali vercellesi di S. Maria Maggiore e di S. Eusebio (ed. Schiaparelli cit.) mercatum publicum qui singulis kalendis augusti in beati Eusebii festivitate continuatim subsequentibus Et mercatum ebdomadalen qui omni die sabati perficitur. L'uno e l'altro passarono più tardi nelle mani del Comune (Cfr. Adriani G. B. Statuti e monumenti storici del Comune di Vercelli. Torino, 1877, pag. 189, § 260), il quale non vi portò alcun mutamento e conservò anche l'antica distinzione del mercato settimanale dal mercato dei commestibili di prima necessità, strettamente vicinale. Infatti il § CCXCIII (ibidem pag. 209) si esprime così: «Item non prohibebo alicui de districtu civitatis tam laicis quam clericis et poderio ea quae necessaria fuerint ad usum suum et familie sue et usum vicinorum suorum sue ville quibus possint solummodo ad comedendum et bibendum vendere et etiam transeuntibus possint vendere ad bibendum et comedendum. Item non prohibebo mercatum nec ea que necessaria fuerint tam clericis quam lajcis ad usum suum vel locis sive castris qui et que tenentur sive custodiuntur a communi sive pro communi civitatis etc.

Al tempo dello statuto, per quanto relativamente assai antico come lo dimostra la formula in prima persona, caratteristica del breve potestarile, il mercato ebdomadale ha assorbito completamente quello vicinale entro la città, mentre nel resto del territorio, ne rimane ancora distinto.

Anche a Bergamo si verifica lo stesso fatto: l'antico forum viene col tempo a prendere il nome di mercatum. Cfr. Mazzi A. Nota cit. pag. 323.

636.  Cfr. Huvelin loc. cit. pag. 151-53 e le citazioni ivi riportate.

637.  Cod. Dipl. Long.Troya — n. 308.

638.  Cfr. Solmi. Diete di Roncaglia cit.

639.  Vedi nota 2 a pag. 217 e Antichità longobardiche milanesi cit., I, pag. 165-68.

640.  Nei centri rurali, invece, la riconnessione del mercato alla parrocchia si manifesta anche nell'ubicazione. Normalmente in ognuno di essi vi era una sola piazza più o meno grande sulla quale i parrocchiani si radunavano fino da antichissimi tempi per i loro bisogni spirituali e materiali; tanto che anche Rotari parla del conventus ante ecclesiam come di una riunione normale diffusa in tutta l'Italia langobarda.

In alcuni luoghi questo spianato ha conservato a lungo dei nomi tipici che ne illuminano la natura. Cfr., per esempio, per Barga di Garfagnana il bel Dizionario geografico fisico storico della Toscana di E. Repetti (Firenze 1833) sotto q. v. e le Relazioni di alcuni viaggi fatti nelle diverse parti della Toscana di G. Targioni Tozzetti vol. V, Firenze 1773, pag. 332.

A Toscanella nel 775 fu rogato un atto in Foro ante ecclesiam S. Andree (cfr. pergamena originale nel R. Archivio di Stato in Siena, prov. S. Salvatore di Monteamiata); nel febbraio del 787 in vico Tofinana ante ecclesiam S. Paternano (ibid.); nel maggio del 794 nel vico Foro ante ecclesiam S. Andrea (ibid.); nell'aprile dell'819 nel vico Margharita ante ecclesiam S. Petri (ibid.); nel novembre dell'823 in vico Marianu ante ecclesiam S. Johannis (ibid.).

641.  Cfr. pag. 90 nota 1.

642.  Traccie abbondanti di tale sistema si sono mantenute a lungo a Parma. L'Affò (loc. cit., vol. I) ha ricostruito molto bene la pianta dell'antica città, al tempo romano chiamata col significativo nome di Crisopoli; e da essa si rileva che il punto centrale era costituito dal forum e se ne trova la posizione esatta. Un documento del 3 gennaio del 1092 (ibid., pag. 340) ricorda la chiesa di S. Pietro «que prope forum posita est». E anche oggi la chiesa dell'apostolo si trova sulla piazza quadrata, che da secoli e secoli è rimasta inalterata nella sua tipica forma.

643.  Cfr. Faccio C. La corte regia di Vercelli nel basso medioevo in «Archivio della Società vercellese di storia e d'arte» a. I, 1909, n. 3-4, pag. 83-84.

644.  Cod. Dipl. Long.Troya — n. 295, a. 724. In civitate cremonensi in curte regia et in laubia eiusdem curtis sita platea magna eiusdem civitatis.

645.  Historiola di Rodolfo not. ed. Odorici loc. cit, p. XVII-XVIII ...in platea Brixie.

Questo documento, come quello citato nella nota precedente, sono di un'autenticità tutt'altro che indiscutibile (cfr. Wunstenfeld T. Delle falsificazioni di alcuni documenti concernenti la storia d'Italia nel medioevo in «Archivio Storico Italiano» 1859, to. X, disp. 3, pag. 81 e segg.); ma possono servire egualmente quando s'interpetrino con discrezione e se ne voglia dedurre solo una prova generica dell'esistenza di una piazza centrale in queste due città fino da epoca remota.

646.  Memorie e documenti lucchesi cit., V, 2, n. 374, a. 811. Austrifonso diacono dona ad una monaca la chiesa di S. Michele in Foro, da lui costruita.

La cattedrale era ancora fuori delle mura. Cfr. Davidson loc. cit., I, pag. 238.

647.  Campi Hist. cit., I, pag. 324. Il vescovo Podone fonda nell'antico foro una chiesa dedicata a S. Pietro, nella quale fu seppellito nell'839. Il foro è ricordato pure in un altro documento dell'anno 857 (Id. Ibid. pag. 212) col quale il canonico Leone fa donazione di 28 tavole di terra situate presso di esso.

648.  Cod. Dipl. Long.Porro — n. 292, a. 679. Actum foro civ. Bergomi.

649.  Cfr. nota 2 della pag. preced.

650.  Cfr. Bosisio G. Intorno al luogo del supplizio di Severino Boezio, Pavia, 1855

651.  Muratori. Antiq. Ital. Excerpta e chartis pisani archivii archiep. a. 1112. In foro pisane civitatis que curia marchionis appellatur.

Per l'ubicazione dell'antica cattedrale cfr. Davidsohn loc. cit., I, pag. 197.

652.  Muratori. Antiq. Ital., Diss. LXII. Società fra i Ferraresi e i Modenesi a. 1198. È ricordato frequentemente il forum.

Prima del mille la cattedrale era sicuramente fuori delle mura. Cfr. Tiraboschi Mem. moden. cit., II, Cod. Dipl., n. 166, pag. 3.

653.  Ughelli. Italia sacra cit., V, col. 713. Concio Verone in die dominico in domo fori fieri solet.

654.  Un documento del 1018 ricorda il forum vetus (cfr. Davidsohn, loc. cit., pag. 204) il quale — e si conferma anche qui la distinzione del forum e del suo contenuto dal mercatum — si differenzia anche per l'ubicazione dal «mercatum regis in civitate Florentie» (cfr. Lami. Mon. cit., pag. 885).

655.  Cfr. il diploma di Carlo il Calvo del 1 marzo 876 in Pasqui. Doc. cit., n. 43, pag. 61-63.

656.  Anche a Rimini fino da antichissimi tempi si ha notizia di un forum publicum. Cfr. Tonini L. Rimini dal principio dell'era volgare al MCC. Rimini, 1856, pag. 338.

A Bari pure da epoca immemorabile accanto al pretorio ed alla sede catapanile, ove poi sorse la chiesa di S. Nicola, c'era il forum. Cfr. Besta E. Il diritto consuetudinario di Bari e la sua genesi cit., pag. 45.

657.  Nella città franco-germanica la costituzione e, conseguentemente, il diritto si possono distinguere in due grandi periodi ben differenti l'uno dall'altro. Nel primo la città è governata e retta da poteri privati o pubblici che non sono di natura urbana, che non si differenziano, cioè, da quelli che reggono il territorio circostante; anzi, sono proprio quelli stessi che dominano al di fuori di essa. E, come ciascun grande proprietario accentra in sè un certo numero di facoltà e di poteri, che nel loro complesso costituiscono il diritto della curtis, il diritto curtense; ne consegue che la città non si differenzia giuridicamente dal territorio aperto e dai gruppi minori che vi sono sparsi e lo compongono. Nella città possono trovarsi a contatto varî di questi sistemi; ma essa, in quanto e perchè città, può costituire e costituisce un'unità di fatto ma non un'unità giuridica.

In seguito, dove la situazione topografica si manifestò più favorevole al commercio, in immediato contatto con la parte esterna delle mura della città si vennero da ogni parte raccogliendo individui delle più svariate provenienze e gradazioni sociali, dal libero ricco ed indipendente al servo fuggito dal dominio signorile, attrattivi dall'unico scopo del commerciare. L'identità del fine e la comunanza del luogo portò rapidamente ad un'unione, se non ad una fusione, di tutti questi elementi, pur così eterogenei, e fece sì che insieme con il mercato e con le sue mansiones, sorgessero tutt'intorno le case dei mercanti, dominate, non di rado, dalla chiesa comune; e che lungo la parte del borgo che non si appoggiava alle mura, corressero fossi e steccati, fatti scavare e costruire dai mercanti stessi stretti, per bisogno di reciproca difesa, in quelle gilde che appaiono ai primi albori dei comuni franco-germanici. E il numero dei borghi originati da mercatores fu tale che furono chiamati quasi indifferentemente mercatores e burgenses. E questi borghi, per la speciale origine e conformazione costituirono come un terreno neutro, nel quale vigevano usi, consuetudini e sistemi di scambio differenti da quelli che avevano vigore all'intorno.

Però tale stato di cose non si prolungò molto a lungo. La vicinanza immediata con la città, le relazioni inevitabilmente venutesi a stringere fra quelli dentro e quelli fuori le mura, l'aumento sempre più forte di ricchezza da parte dei mercanti ed il bisogno derivatone di una difesa e di una protezione più valida che solo le mura potevano offrire, fecero sì, che questi mercatores, tendessero ad entrare a far parte della città. Dal canto suo la città, sempre meno soggetta al potere centrale con lo svolgersi del sistema feudale, non aveva potuto mantenere inalterata la sua rigida economia agraria primitiva e non era in grado di opporre ostacoli troppo forti ai gruppi ormai omogenei che le si erano stabiliti sotto le mura; e così questi mercatores riuscirono a divenire cittadini. Ma questo nuovo elemento divenuto in breve predominante, impresse rapidamente alla città un organizzazione rispondente ai proprî bisogni ed alle proprie attitudini e con l'organizzazione anche il diritto, che creato sopratutto per gli scambi, ebbe come caratteristica, una natura essenzialmente internazionale; l'opposto, cioè, del diritto curtense che aveva fino ad allora predominato.

E questa è la seconda fase delle città tedesche, quella che si apre al tempo dei Comuni.

Come si vede la città franco-belgo-germanica non gode mai in maniera apprezzabile di un diritto suo proprio ad essa esclusivo: nella prima fase è retta da norme giuridiche che si applicano e vigono indifferentemente così dentro come fuori di essa; nella seconda riceve da elementi che non le sono originari un nuovo diritto che, se non costituisce tutto il complesso delle norme giuridiche, ne forma però la parte di gran lunga maggiore e più importante e questo diritto nuovo destinato a regolare rapporti d'indole commerciale, è, per necessità intrinseca della sua natura e del suo scopo, alieno da ogni tendenza particolaristica.

658.  Quanto si è detto nella nota 4 a pag. 220 a proposito delle misure è pienamente confermato dai documenti fiorentini, dai quali ci è fatto conoscere che non di rado il tipo delle varie misure era espresso in una pietra murata presso le porte della città. «Ut sit mensurata cum pede qui designatus est in petra iuxta portam S. Pancratii posita» dice un documento del 1088, edito, insieme con molti altri posteriori che fanno menzione di questa misura da Tubalco Panichio. Del piede Aliprando e del piede della porta nella «Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici» del Calogerà, to. X, Venezia, 1734, pag. 170.

659.  Serafini F. Sulla nullità degli atti giuridici compiuti senza l'osservanza delle forme prescritte dalla legge. Roma, 1874, pag. 6.

660.  Cfr. Paoli C. Mercato Scritta e Denaro di Dio in «Archivio Storico Ital.» s. V, to. XV, disp. 2 del 1895, pag. 307-315.

661.  Zdekauer L. Mercato Scritta e Denaro di Dio nota a proposito della ricerca del Paoli con lo stesso titolo in «Rivista ital. per le scienze giurid.» 1895, fasc. 1.

662.  Ecco un brano di innegabile evidenza tolto dalla prima novella intitolata «Vannino da Perugia e la Montanina» di Gentile Sermini da Siena (ed Livorno, 1874, pag. 10): «Disse la Nuta: Dammi tu la fede di farlo (di ricevere Vannino) se Andreoccio (il marito) va fuora della città? Sì, disse la Montanina, e la fede impalmò alla Nuta».

Non meno evidente è un esempio offertoci dai Fioretti di S. Francesco (c. 21) «Frate lupo, dice s. Francesco, io voglio che tu mi facci fede di questa promessa, acciocchè io meno possa fidare e distendendo santo Francesco la mano per riceverne fede, il lupo levò su il piè diritto dinanzi e dimesticamente lo puose sopra la mano di santo Francesco, dandogli quello segnale di fede ch'egli potea.

Questa stretta di mano simbolica si chiamava la palmata. Non per nulla anche oggi il linguaggio comune conserva la parola impalmare per indicare una forma speciale del contratto di matrimonio.

663.  Cfr. Gregorio di Tours. Hist. Franc. V, 3; III, 4, 8; In gloria confess. c. 67 Isidoro Origin. VIII, 2, 4 e 11, I, 67.

Questi passi sono stati indicati, illustrati e pubblicati da N. Tamassia in Fidem facere e manu fidem facere e Manum facere citt.

664.  Si trova nelle tavolette cerate daciche (Bruns Fontes cit. pag. 205-209); in un documento del Codex antiquissimus pataviensis il formulario del quale è del quinto secolo (Monum. Boic. XXVIII, 2, n. 2. p. 5); nella Vita Macriani c. 12 (Scriptores hist. augustae ed. Teubner II, 111) e perfino nelle commedie di Plauto. (Cfr. Costa E. Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto pag. 277 e segg.)

È merito del Tamassia averlo dimostrato e di aver indicate queste fonti.

665.  Cfr. Mitteis Römischen Privatrecht cit. I, pag 294 e segg.

666.  Roth. 244.

667.  Cfr. la notizia veronese di cui già ci siamo occupati a pagina 134-36.

668.  Cfr. Cronica q. dicuntur Fredegarii IV, 71 nei «Mon. Germ. Hist.» S. S. I, pag. 15.

669.  La misura della protezione speciale accordata dall'Editto alla città si rileva dal confronto con le altre disposizioni che stabiliscono la scala delle aggravanti dello scandalum rispetto al luogo in cui è commesso e cioè: il palazzo del re, «ubi rex presens est» (Roth. c. 36), la chiesa (Roth. c. 35), la città dove si trova il re (Roth. c. 37, 38) la città (Roth. 39, 40).

670.  Cfr. Kuhn. Entstehung der Städte cit. pag. 440.

671.  Dig. XLIX, 16, 3 § 17 ... si vallum quis transcendat aut per murum castra ingrediatur... E il cap. 244 di Rotari: Si quis per murum de castro aut civitate sine noticia iudecis sui exierit foras aut intraverit.

672.  La cosa è tanto più verosimile in quanto che nella maggior parte dei casi la civitas era il capoluogo delle singole circoscrizioni: e queste, come si è veduto, in linea di massima furono lasciate inalterate dai Langobardi. Anche Paolo Diacono mostra un'esattezza degna di osservazione nel distinguere la civitas dal castrum. Oltre passi di minore importanza (cfr. per es. Hist. Langub., II, 13 ..... haut longe a cenitense castro vel tarvisiana distet civitate); uno mi par degno di nota: (ibid., II, 9). Indeque Alboin Venetias fines quae prima est Italiae provincia sine aliquo obstaculo, id est civitatis vel potius castri foroiuliani terminos introisset. Al tempo romano Forumjulium era un castrum e P. Diacono non osa chiamarla completamente una civitas nemmeno dopo anni ed anni da che i Langobardi l'avevano eletta sede di ducato e ricorda che era un semplice castrum.

673.  L'importanza del centro urbano è comprovata dalla severità delle leggi nel punire coloro che in qualche modo, anche solo attraversandole di soppiatto, violassero la santità — è il termine usato dalle fonti — delle mura. Chi violaverit muros, dice Pomponio (Dig. I, 8, 11), è punibile di morte. Questa legge si riannoda all'antichissimo mito del salto del vallo da parte di Remo, di cui già si è parlato, consacra l'obbligo dei cittadini di non passar che per le porte, e concerne solo Roma. Ma a provar che questo culto delle mura non era esclusivo di Roma e che in conseguenza non era esclusivo di Roma il contenuto giuridico di cui esso era l'esponente e, cioè, la preminenza assoluta degli intramurani, Marciano, Sabino e Cassio dichiarano concordi (Dig. I, 8, 1 e 2) che le mura e le porte di tutte le città erano, al pari di quelle di Roma, sanctae et quemadmodum divini juris.

674.  Cfr. pag. 48-52 e specialmente la legge riportata nella nota 2 a pag. 48-49, e pag. 67-69.

675.  Cfr. Cod. dipl. long.Troya — n. 602.

676.  Cfr. pag. 135, dove si parla proprio di cives, e pag. 143.

677.  Ratherii episc. veron. Opera. Veronae, 1765, col. 564-66. Il passo è stato per la prima volta indicato agli studiosi da N. Tamassia Raterio e l'età sua in «Studii giuridici dedicati ed offerti a F. Schupfer» II, Torino, 1908, pag. 85-94.

678.  Gradonicus F. Pontificum brixianorum series. Brescia, 1755, pag. 159 e segg.

679.  Vedi a pag. 119-120. Questi diplomi sono stati ritenuti sospetti così dal Niese, come dal Besta (Nuove vedute sul diritto pubblico italiano nel medio evo in «Riv. ital. p. le scienze giurid.» li 1-2, pag. 38-39); ma se si ammette l'interpetrazione datane in questo volume così nei rispetti dell'arimannia come della cittadinanza, ogni ragione di sospetto viene completamente a mancare.

680.  Lupi. Cod. dipl. berg. cit. II. col. 729. Cfr. anche Mazzi A. Studi bergomensi cit. pag. 9.

681.  La partecipazione dei nobiles e dei sapientes, che pure ne vivono fuori, alla vita della città è dovuta all'azione del sistema feudale. Cfr. Pertile loc. cit. I. pag. 342.

682.  Ficker loc. cit. IV, n. 85, p. 129.

683.  Id. ibid. n. 86, pag. 131.

684.  Mazzi A. Studî cit. pag. 107.

685.  Id. ibid. pag. 33.

686.  Cfr. Patetta F. Studi storici e note sopra alcune iscrizioni medioevali. Modena 1907, pag. 122-23. Riporto le sue precise parole perchè non si potrebbe fare della Relatio riassunto più esatto ed imparziale.

687.  Lupi. Cod. dipl. cit., II, n. 1267 e Mazzi A. Studi cit., pagina 119-25.

688.  Roth. 21.

689.  Cod. dipl. long. — Troya — n. 693, 971, 985. Cfr. anche Schupfer Istituzioni politiche cit., pag. 384.

690.  Brunetti, loc. cit., n. 25.

691.  Cfr. Plinio. Natur. Hist. XXVII, 1.

692.  Cfr. Zdekauer L. Il Constituto del Comune di Siena dell'anno 1262, Milano 1897, pag. 61-62 della prefazione.

693.  Cfr. nota 2 a pag. 237.

694.  Cfr. pag. 61 e segg.

695.  Roth. 343.

696.  Roth. 279, 280.

697.  Roth. 312.

698.  Roth. 35.

699.  Sul contenuto del populus vedi § 5, pag. 122 e segg.

700.  Cap. italicum. Cap. Loth. 13.

701.  c. 5, ed. cit. pag. 100. Esso riprende alla lettera il concetto della leg. un. tit. 56 libro XI del Cod. Just.

702.  Capit. ital. c. 37.

703.  Giulini Mem. cit. VII. p, I, pag. 890-91. Testam. dell'arciv. Ansperto a. 879.

704.  Delle antichità long. milan. cit. I. p. 242.

705.  È del 25 agosto 1097 ed è edito dal Del Giudice Studî cit., pag. 61.

Che nell'espressione — consulatu civium — non si trovi la menzione del consolato, del gruppo dei consoli della città di Milano non si può ammettere (dice il Del Giudice, a cui sottoscrivo pienamente, fatta eccezione del modo d'intendere la parola cives) per tre ragioni e cioè: primo, che la voce cives nell'uso delle fonti milanesi del secolo undecimo, non designa già (come avvenne più tardi) tutto il popolo, ma solo la borghesia in senso stretto, cioè un ceto particolare opposto alla nobiltà rappresentata dalle due classi feudali dei capitanei, e dei valvassori o militi. Per tal modo vi sarebbero stati, a tenore di questo documento, i consoli dei borghesi (cives) e non quelli dei capitanei e dei militi; il che è contradetto dalle più antiche sentenze a noi pervenute dai tribunali consolari le quali portano il nome dei consoli delle varie classi. In secondo luogo è da osservare che dei molti nomi di persone segnate come testimoni o presenti all'atto, non uno si legge che porti il titolo di consul mentre non mancano gli appellativi di giudice, di messo imperiale, di notaio. Eppure, se la carta fosse stata scritta nel consolato cioè nel luogo di residenza dei consoli ed alla loro presenza, non sarebbe mancata l'indicazione del loro nome. La terza difficoltà è questa: che negli anni successivi al 1097 non vi è parola di consoli in atti pubblici dove la loro presenza o partecipazione sarebbe stata necessaria. Non rimane adunque che interpetrare la data della carta cremonese come indicante la località dove si radunavano i cives; dove si teneva il consilium civitatis.

706.  Del Giudice. Studi cit. pag. 50.

707.  Id. ibid. pag. 52.

708.  Ed. dal Muratori. Antiq. ital. diss. XV, col. 853-55.

709.  Nec marchionem aliquem in Tusciam mittemus sine laudamento hominum duodecim electorum in colloquio facto sonantibus campanis, dice il notissimo diploma di Enrico IV ai pisani dell'anno 1081.

710.  P. Diacono, loc. cit. IV, 31 e II cap. ult.

711.  Cfr. Memorie e doc. cit. IV, 1, pag 199.

712.  Cfr. Friedlaender E. Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms. II, pag. 538 e segg.

713.  Cfr. Tamassia N. Fidem facere cit. pag.

714.  Nelle nostre colline di Pisa, dice G. Lami (Lezioni di antichità toscane, etc. Firenze, 1766, vol. I, lezione 4ª, pag. 86-87) è un tratto di paese, vicino al Bagno ad acqua, che si chiama parlascio. È questo un monticello sulla cui cima si vedono le rovine di una mediocre rocca o fortezza di figura quadra con torrioni e baluardi tondi negli angoli. Sotto questa rocca verso levante è la chiesa dei SS. Quirico e Giulitta ed a ponente di questa chiesa è un borgo, pure detto parlascio, e non vi è stata mai trovata traccia alcuna di antico anfiteatro romano.

715.  L'antico perilascium, trasformato in postribolo — effectum postribolum — fu donato nell'800 alla chiesa aretina per togliere lo sconcio. Cfr. Pasqui U. Documenti cit. I. n. 16, pag. 29-30.

716.  Fino dal secolo decimo si ha ricordo di una porta a parlascio, per la sua vicinanza al parlascium. Cfr. Lami, loc. cit. I, pag 90.

717.  Cfr. Lami, loc. cit. I, pag. 96; Alvisi E. Il libro delle origini di Fiesole e di Firenze, Parma, 1895, pag. 38 e Manni M. D. Notizie storiche intorno al parlagio ovvero anfiteatro di Firenze, Bologna, 1746. pag. 13-17 e 26.

a. 1171... infra civitatem Florentinam prope Perilascio picculo.

a. 1133... in civitate Florentina in loco Parlascio picculo.

a. 1030... prope Perilasium majorem.

718.  Tiraboschi. Memorie di Nonantola cit. n. 197, a. 1089, «pecia una de terra prope civitatem Cremone in loco parlassi».

719.  Cfr. Mazzi A, Perelassi, Bergamo, 1884.

720.  Davidsohn, loc. cit. I, pag. 513.

721.  Liutpr. c. 99.

722.  Aist. c. 2, 8.

723.  Cfr. Tamassia N. Le alienazioni degli immobili e gli eredi secondo gli antichi diritti germanici e specialmente il langobardo. Milano, 1885, pag. 159.

724.  Liutpr. c. 62.

725.  Cap. ital. K. M. 49, 68, 114 etc.

726.  Vedine gli ess. riportati dal Muratori Antiq. Diss. LXIII.

727.  Cfr. i documenti pubblicati dal Pertile loc. cit. VI, 1, pag. 25 e segg. e specialmente pag. 33.

728.  Mem. e doc. cit. IV, n. 475, a. 825 Anspald cler. scavinus ecclesiae, — n. 589, a. 838 Gonfrid. scab. eccl. — n. 648, a. 847 Iohannes clericus scab. eccl.

729.  Cod. dipl. lang. — Porro. — col. 1561, a. 915 Petrus scavino huius comitato (lucense).

730.  Cfr. il § 6, pag. 132 e segg.

731.  Cfr. Mem. e doc. cit., V, n. 698. a. 853. A. Scabinus florentine urbis.

732.  Cfr. Pertile, loc. cit. VI, pag. 34.

733.  Cap. it. K. M. 35 e 93.

734.  Cfr. a questo proposito Zdekauer L. Il Constituto dei Consoli del placito del Comune di Siena in «Studi Senesi» vol. IX, 1892, pag. 57-58.

735.  Cfr. Id. ibid., pag. 60-61. Lo Zdekauer è stato il primo e l'unico, ch'io sappia, a sentire come l'indagine sulla competenza doveva segnare il primo passo per determinare l'origine del Consolato del Placito e come esso si riannodi ad antichissimi sistemi germanici.

736.  Liutp. c. 22, 29, 91, 117.

737.  Rach. c. 8.

738.  Cfr. Chart. I, 45, a. 887; un documento è ritenuto privo di valore legale non perchè sia falso ma perchè non è stato scritto o firmato da un notarius scriba publicus.

739.  È la nota definizione datane da Rolandino nel proemio del suo Tractatus notularum.

740.  Loth. 98. Per l'intervento dei notai nel placito come scabini è tipico l'esempio del giudice astense Graseverto.

Cfr. Ficker, loc. cit., III, pag. 21 e 22 e Cipolla. Di Audace cit., pag. 194-96. A Piacenza, a. 879 uno scabino è archinotarius. Cfr. Mayer Ital. Verf. cit., § 5, nota 83.

741.  Lex alam. XXXVI, 1, 2; Lex Baiuw. II, 15, 1. E mi piace riportare qui anche un caso pratico contemporaneo al periodo che si sta studiando in Italia in questo volume.

Loersch H. Schröder R. Urkunden zur Geschichte des deutschen Privatrechtes. Bonn. 1881, n. 53, pag. 35. Traditio capturae ad Suuarzetmuore. Isti tradiderunt... Isti tradiderunt et nihil acceperunt... Anno ab incarnatione Domini 827 et regni Hludounici imperatoris 14 factus est Conventus publicus in loco qui dicitur Suuarzetmuor et Hrabanus abbas fuit in eo et Poppo Comes et majores natu de comitatu eius, quorum nomina sunt: Liutpraht, Uuidarold, Uuotan, Gundacar, Herimot, Friduhelm, Nidhart, Ortheri, Otto, Alspraht, Einrat, Helmolt, Ratger, coram quibus Herimot et Berahart dixerunt se in illa captura aliquam habere portiunculam, sed tamen eorum adquisitio ita difinita est et pacata, ut dominus Hrabanus abbas illis duos boves et duo pallia lanea et linea, duos gladios daret, et illi negaverunt et abdicaverunt coram suprascriptis nobilibus viris, quod ulterius in illa captura nullam communionem habeant. Coram his vero testibus datum fuit quod dominus Hrabanus abbas promisit, et negatum et traditum ab Herimote et Beraharte et Munihelme et Attamanne et Nidgere et Lungane.

Seguono i nomi di 23 testimoni dei quali i primi due monaci.

742.  Mentre si conserva il sistema dell'allegazione apud publica gestis municipalibus (cfr. doc. edito dal Savigny Stor. cit., I, pag. 348); il testamento di Beltramo dell'anno 615 e quello di Adoindo del 642 è in forum delato, turbis circumstantibus a indice reseratum recitatunque (Id. ibid., pag. 116); le donazioni sono fatte in mallo publico (cfr. Dachery. Spicilegium sine collectio veterum aliquot scriptorum. Parigi, 1723, pag. 878, luglio 874) e l'assemblea generale acquista sempre maggiore importanza.

743.  Lex Wisig. VIII, 5, 6 — IX. 1, 8; 2, 5 — VI, 2, 3 — XII, 2, 14 — VIII, 4, 14 — VII, 4, 7 — III, 4, 17 — VI, 2, 4 — VII, 2, 6 — VIII, 1, 3 — IX, 2, 2 — IX, 3, 3 — XII, 2, 4. Per i suoi rapporti con l'origine del Comune cfr. De Hinojosa E. Origen del Régimen Municipal en Léon y Castilla in «Estudios sobre la historia del derecho espanol» Madrid, 1903, pag. 5 e segg.

744.  Cfr. pag. 1 e segg. e pag. 72 e segg.

745.  La cosa è tanto nota che è inutile citare la numerosa bibliografia a questo riguardo. Basti ricordare per tutti Pertile loc. cit. II, 1, pag. 15-16; Leicht P. S. Antiche divisioni delle terre a Cividale. Estr. dalle Mem. Stor. Cividalesi 1907; Luzzatto G. Vicinie e Comuni in «Riv. ital. di Sociologia» 1909, fasc. 3-4, che ne riporta numerose prove e Tamassia N. Due documenti napoletani del 1139, che è importante perchè oltre a indicare e a servirsi di buon materiale, prova il perdurare ininterrotto delle antiche divisioni territoriali cittadine in regioni ed in quartieri dipendenti dalle singole porte anche in provincie esenti dalla dominazione langobarda.

746.  Anche questo è notissimo. È da osservare che lo stesso avveniva anche in territori non langobardi. Belisario fece ribattezzare a Roma la porta di S. Sebastiano ponendola sotto la protezione dei due santi orientali Giorgio e Conone (Diehl O. Études cit. pag. 262) e che qualche volta la porta riceveva il nome di un santo venerato in una chiesa fuori delle mura. Ciò che è una prova novella dell'intimità del vincolo che univa il suburbio alla città. — Tale è il caso della porta di S. Stefano a Vercelli. Cfr. Adriani loc. cit., pag. 628, nota.

747.  Ughelli loc. cit. VIII, col. 32.

748.  Ed. Carmagnola cit., cap. 209.

749.  A quanto già si è detto si può aggiungere Berlan. Il libro delle consuetudini mil. cit. pag. 145 e segg. e specialmente 147.

750.  Giulini loc. cit. ad an., vol. V, pag. 503 e vol. VI, pag. 463.

751.  Nei «Mon. Germ. Hist.» Leges, ed. Pertz, III, pag. 397.

752.  Boretius I, 1, c. 8, pag. 197.

753.  Cfr. Muratori, Diss. XXIII, col. 824 e RR. II. SS. I, 2, pag. 81, libro VI, legge 88.

754.  Il quartiere non figura fra le corporazioni militari provviste di personalità giuridica ricordate dal libro V del Codice Teodosiano.

755.  Eccone un esempio che rendo noto perchè inedito e che debbo alla cortesia del prof. A. Anzillotti. Pistoia 1109 febbraio. Breve di investitura di una terra con casa entro la città prope Sala Loteringa fatta da Marchesello di Oggicione a Bonico Romanelli. Ita tamen quod si ipse Marchesellus (il locante) et frater suus sit ita impeditus quod non audeat habitare in porta Caldatica vel in porta S. Petri quod ipsi possint venire ad habitandum in predicta domu donec fuerint ausi redire ad habitandum in domu illorum tunc deinde debent ipsa scomborare.

Ed è nota la grave discordia sorta nel 1188 fra due porte della città di Lucca. Cfr. gli Annali di Tolomeo ed. Muratori in «RR. II. SS.» XI, col. 1274.

756.  Cfr. Mazzi A. Note suburbane cit. pag. 27 e segg.

757.  Tipico è il castrum vetus di Asti, passato alla Chiesa astese fra il 936 e il 937. Cfr. Cipolla C. Di audace cit., pag. 209 Lo stesso avviene a Verona (Ughelli V, col. 711. a 818), a Reggio (Tiraboschi Mem. di Nonantola cit., II, pag. 58), a Modena (a. 1108... casa in civitate Mut. que jacet prope Castello — a. 1133... iuxta murum castelli episcopi — Id. loco cit.), a Genova ed in numerose altre città. Cfr. Mazzi A. Note cit., pag. 39.

758.  Cfr. i due documenti indicati dal Davidsohn. Storia cit. pagine 522-23.

Nota del Trascrittore

Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Nella nota 458 a pag. 161 il numero della pagina citata, mancante nell'originale, è stato indicato con ... .

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