The Project Gutenberg eBook of La pace domestica; L'elisir di lunga vita; La borsa: Racconti scelti This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: La pace domestica; L'elisir di lunga vita; La borsa: Racconti scelti Author: Honoré de Balzac Release date: April 10, 2021 [eBook #65051] Language: Italian Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PACE DOMESTICA; L'ELISIR DI LUNGA VITA; LA BORSA: RACCONTI SCELTI *** BIBLIOTECA UNIVERSALE LA PACE DOMESTICA L'ELISIR DI LUNGA VITA — LA BORSA RACCONTI SCELTI DI ONORATO BALZAC MILANO EDOARDO SONZOGNO, EDITORE 14 — Via Pasquirolo — 14 _1893._ Milano. — Tip. dello Stab. di E. Sonzogno. PREFAZIONE Abbiamo già dato la biografia di Balzac, allorquando si pubblicarono i volumi contenenti _Mercadet l'affarista, Il lutto, Fisiologia del matrimonio, Gl'impiegati_. Quale prefazione a questo volume che si sta pubblicando, il quale contiene _La pace domestica, L'elisir di lunga vita, La borsa_, reputiamo opportuno citare il giudizio che dello stesso Balzac hanno pronunziato quei due grandi luminari della letteratura francese, che furono Vittor Hugo e Lamartine. Victor Hugo ha scritto: «Il nome di Balzac lascierà una traccia luminosa alla nostra epoca ed a quella che vi seguirà. Egli era dei primi fra i grandi, dei più alti fra i migliori. Tutti i suoi libri ne formano un solo, un libro vivo, luminoso, profondo, ove si vede il viavai, il camminare, il moversi, con un non so che di sgomento e di terribile, misto alla realtà dell'intero nostro incivilimento contemporaneo; un libro maraviglioso che il poeta intitolò _commedia_ e che avrebbe potuto intitolare _storia_; che prende tutte le forme e tutti gli stili; che supera Tacito e tocca Svetonio; che attraversa Beaumarchais e giunge fino a Rabelais; un libro che è tutto osservazione ed imaginazione; che prodiga il vero, l'intimo, il borghese, il triviale, il materiale e che, in certi momenti, attraverso tutte le realtà della vita repentinamente e largamente strappate, lascia tutto ad un tratto scorgere l'ideale più tetro e tragico. A sua insaputa, il voglia o no, consenziente o no, l'autore di quest'opera immensa e strana è della forte stirpe degli scrittori rivoluzionarii. Egli va dritto alla meta. Afferra pel corpo la società moderna; strappa a tutti un brandello, agli uni l'illusione, agli altri la speranza, a questo un grido, a quello una maschera; fruga il vizio, disseca la passione, scruta, scandaglia l'uomo, l'anima, il cuore, le viscere, il cervello, l'abisso che ciascuno ha in sè.» E Lamartine scrisse di lui: «I tre caratteri predominanti del talento di Balzac sono: la verità, il patetico e la moralità. Bisogna aggiungervi l'invenzione drammatica, che lo rende in prosa eguale e spesso superiore a Molière. So che a questa parola si leverà un grido di scandalo e di sacrilegio da tutta la Francia; ma, senza punto detrarre all'autore del _Misantropo_ di ciò che la perfezione del suo verso aggiunge all'originalità del suo talento e proclamandolo, come tutti, incomparabile e inimitabile, il mio entusiasmo per il gran commediografo del secolo di Luigi XIV non mi renderà mai ingiusto ed ingrato verso un altro, inferiore in locuzione; eguale, se non superiore, in convinzione; pure incomparabile in fecondità: Balzac! Quante volte leggendolo e svolgendo con lui i prodigiosi ed inesauribili meandri della sua inventiva, ho esclamato fra me e me: «La Francia ha due Molière; il Molière in versi e il Molière in prosa!» Balzac è anzitutto il gran geografo delle passioni. Non so che istinto rivelatore ed osservatore gli ha insegnato che i luoghi e gli uomini sono vincolati da legami segreti; che il tal sito è un'idea, la tal muraglia è un carattere, e che per ben riuscire in un ritratto fa d'uopo dipingere una camera. Quest'analogia e fedeltà stanno ai suoi romanzi come il paesaggio alle grandi scene del dramma. Gl'imbecilli si lagnano della minuziosità apparente di descrizione; gl'intelligenti l'ammirano. In lui tutto incomincia con un simile ambiente de' suoi personaggi, prefazione dell'uomo. Anzi è appunto in ciò ch'egli spiegò il maggior estro. Ecco, per esempio, il principio di _Eugenia Grandet_, ecco l'avaro, assai diversamente concepito da quello di Plauto, di Terenzio e di Molière. La commedia di carattere va fino al riso nelle caricature di questi grandi commediografi. In Balzac va fino al pianto. Gli uni si burlavano ridevolmente dell'avaro nel motto famoso: Che fare in quella galera? L'altro fa detestare il vizio e odiare il vizioso.» LA PACE DOMESTICA L'avventura riprodotta in questa scena accadde verso la fine del mese di novembre 1809, nel punto in cui il fuggitivo impero di Napoleone era all'apogeo del suo splendore. Le fanfare della vittoria di Wagram rimbombavano ancora nel cuore della monarchia austriaca. La pace era segnata tra la Francia e la coalizione. I re ed i principi vennero allora, come astri, a compire le loro evoluzioni intorno a Napoleone, che si procurò la soddisfazione di trascinarsi dietro l'Europa, magnifico saggio della potenza che spiegò più tardi a Dresda. Mai, al dire dei contemporanei, Parigi aveva vedute feste più belle di quelle che precedettero e seguirono il matrimonio di questo sovrano con un'arciduchessa d'Austria, mai nei giorni più splendidi dell'antica monarchia, tante teste coronate accorsero sulle rive della Senna, e mai l'aristocrazia francese fu ricca e brillante come allora. I diamanti sparsi a profusione sulle acconciature, i ricami d'oro e d'argento delle uniformi, fecero tale contrasto coll'indigenza repubblicana, che sembrava vedere le ricchezze del globo affluire nei saloni di Parigi. Un'ebbrezza generale aveva come colpito questo impero d'un giorno. Tutti i militari, senza eccettuare il loro capo, godevano da ricchi improvvisati i tesori conquistati da un milione d'uomini colle spalline di lana, le cui esigenze erano soddisfatte con alcune aune di nastro rosso. A quell'epoca la maggior parte delle donne affettava quella facilità di costumi e quel rilassamento della morale che segnalò il regno di Luigi XV. Sia per imitare i modi della monarchia caduta, sia che certi membri della famiglia imperiale ne avessero dato l'esempio, come lo pretendevano i _Frondeur_ del sobborgo San Germano, è certo che uomini e donne, tutti si lanciarono nei piaceri con una intrepidità che pareva presagire la fine del mondo. Ma v'era allora un'altra ragione di questa licenza. La passione delle donne pei militari divenne una specie di frenesia e combinava troppo bene colle viste dell'imperatore perchè vi mettesse un freno. Le frequenti riprese di guerra, che fecero somigliare ad armistizii tutti i trattati conclusi da Napoleone, esponevano le passioni a scioglimenti così rapidi quanto le decisioni del capo supremo di questi kolbach, di questi dolman e di questi pennacchi, che piacquero tanto al bel sesso. I cuori furono allora nomadi come i reggimenti. Da un primo ad un quinto bollettino della grande armata, una donna poteva essere successivamente amante, sposa, madre e vedova. Era la prospettiva d'una prossima vedovanza, quella di una dotazione, o la speranza di portare un nome consegnato alla storia, che rendeva così seducenti i militari? Le donne furono trascinate verso di essi dalla certezza che il segreto delle loro passioni sarebbe sepolto sui campi di battaglia, e la causa di questo dolce fanatismo si deve cercare nella nobile attrattiva che ha su di esse il coraggio? Forse queste ragioni, che il futuro storico dei costumi imperiali si divertirà senza dubbio a pesare, entravano tutte per qualche cosa nella loro facilità ad abbandonarsi agli amori. Checchè ne sia confessiamolo gli allori coprirono allora molti falli, le donne cercarono con ardore quegli arditi avventurieri, che loro parevano vere sorgenti d'onori, di ricchezze e di piaceri, ed agli occhi delle giovinette, una spallina, quel geroglifico futuro, significava onore e libertà. Un tratto di quell'epoca unica nel nostri annali e che la caratterizza, fu una passione sfrenata per tutto ciò che brillava; mai non vi furono tanti fuochi artificiali, mai il diamante raggiunse sì alto valore. Gli uomini, avidi come le donne di quei ciottoli bianchi, se ne impadronivano al pari di esse. Forse la necessità di dare al bottino la forma più facile al trasporto, mise nell'armata i giojelli in voga. Un uomo non era tanto ridicolo come lo sarebbe oggi, quando lo sparato della sua camicia o le sue dita presentavano agli sguardi dei grossi diamanti. Murat, uomo affatto orientale, diede l'esempio di un lusso assurdo presso i militari moderni. Il conte di Gondreville, uno dei Luculli di quel Senato conservatore che nulla conservò, non aveva protratta la sua festa in onore della pace che per far meglio la corte a Napoleone, sforzandosi di eclissare gli adulatori dai quali era stato prevenuto. Gli ambasciatori di tutte le potenze amiche della Francia col beneficio dell'inventario, i personaggi più importanti dell'impero, perfino alcuni principi, erano in quel momento riuniti nei saloni dell'opulento senatore. La danza languiva; ognuno attendeva l'imperatore, la cui presenza era stata promessa dal conte. Napoleone avrebbe mantenuta la parola senza la scena che scoppiò la sera stessa fra Giuseppina e lui, scena che preludiò al divorzio di quegli augusti sposi. La notizia di quell'avventura, allora tenuta segretissima, ma che fu raccolta dalla storia, non pervenne alle orecchie dei cortigiani, e non influì altrimenti che per l'assenza di Napoleone sulla gajezza della festa del conte di Gondreville. Le più belle donne di Parigi, affrettatesi a recarsi da lui, sulla fede di una diceria, vi facevano in quel momento una gara di lusso, civetteria, abbigliamenti e bellezza. Orgogliosa delle sue ricchezze, la banca vi sfidava gli splendidi generali ed i grandi uffiziali dell'impero, recentemente rimpinziti di croci, titoli e decorazioni. Questi grandi balli erano sempre occasioni colte dalle famiglie ricche per produrvi le loro ereditiere agli occhi dei pretoriani di Napoleone, nella folle speranza di cambiare le magnifiche loro doti contro un incerto favore. Le donne che si credevano abbastanza forti della sola loro beltà venivano a provarne la potenza. Là, come altrove, il divertimento non era che una maschera. I volti sereni e ridenti, le fronti calme nascondevano calcoli odiosi; le dichiarazioni d'amicizia erano menzogne, e più di un personaggio diffidava meno de' suoi nemici che degli amici. Queste osservazioni erano necessarie per spiegare i fatti del piccolo imbroglio, soggetto di questa scena, per quanto mitigata, dei costumi che regnavano allora nei saloni di Parigi. — Volgete un po' gli occhi verso quella colonna spezzata che porta un candelabro, non vedete una giovine donna, pettinata alla Chinese? Là, nell'angolo a sinistra. Essa ha delle campanule azzurre nel mazzo di capelli castani che cadono a fiotti sulla sua testa. Non vedete? è così pallida che la si crederebbe sofferente, è graziosa e molto piccina; in questo momento volge la testa verso di noi; i suoi occhi azzurri, tagliati a mandorla ed incantevolmente soavi, pajono fatti apposta per piangere. Ma, guardate! ella si abbassa per guardare madama de Vaudremont attraverso questo dedalo di teste sempre in moto, le cui alte pettinature le intercettano la visuale. — Ah! ci sono, caro mio. Tu non avevi che a indicarmela come la più bianca di tutte le donne che sono qui, e l'avrei riconosciuta; essa ha la più bella carnagione ch'io abbia mai ammirata. Da qui ti sfido a distinguere sul suo collo le perle che separano ognuno degli zaffiri della sua collana. Ma essa deve avere della virtù o della civetteria, giacchè è molto se i merletti del suo corsetto permettono di sospettare la bellezza dei contorni Che spalle, che bianchezza di giglio! — Chi è? chiese, quello che aveva parlato per il primo. — Non lo so. — Aristocratico! volete dunque, Montcornet, tenervele tutte per voi? — Ti sta bene il burlarmi! rispose Montcornet sorridendo. Credi avere il diritto di insultare un povero generale come me, perchè, rivale fortunato di Soulanges, tu non fai una sola piroetta che non allarmi madama di Vaudremont? Oppure è perchè io non sono arrivato che da un mese nella terra promessa? Siete ben insolenti voi altri amministratori che restate inchiodati sulle vostre sedie mentre noi siamo in mezzo alle bombe. Via, signor referendario, lasciateci spigolare nel campo il cui possesso precario non vi resta che al momento in cui noi altri lo abbandoniamo. Che diamine! bisogna che tutti vivano! Amico mio, se tu conoscessi i tedeschi, mi faresti, io credo, qualche servizio presso la parigina che ti è cara. — Generale, poichè voi avete onorata della vostra attenzione questa donna che vedo qui per la prima volta, abbiate la carità di dirmi se l'avete vista a ballare. — Eh, mio caro Marziale, da dove vieni? Se ti mandano in ambasciata, auguro male dei tuoi successi. Non vedi tre ranghi delle più intrepide civette di Parigi fra essa e lo sciame dei ballerini che ronza sotto il lampadario, e non hai avuto bisogno del tuo occhialetto per scoprirla all'angolo di quella colonna, ove pare sepolta nell'oscurità, ad onta delle candele che brillano sopra la sua testa? Fra essa e noi scintillano tanti occhi e tanti diamanti, ondeggiano tante piume, tanti merletti, fiori e treccie, che sarebbe un vero miracolo se qualche ballerino potesse scorgerla in mezzo a questi astri. Come, Marziale, non hai tu indovinata la moglie di qualche sottoprefetto della Lippe o della Dyle, che viene a tentare di rendere prefetto il suo marito? — Oh! lo sarà, disse con vivacità il referendario. — Ne dubito, replicò il colonnello del corazzieri ridendo, sembra così nuova all'intrigo come tu alla diplomazia. Scommetto, Marziale, che tu non sai perchè si trova là. Il referendario guardò il colonnello dei corazzieri della guardia con un'aria che dava a divedere altrettanta indifferenza quanta curiosità. — Ebbene, disse Montcornet continuando, ella sarà senza dubbio arrivata alle nove precise, forse la prima, e probabilmente avrà imbarazzato molto la contessa di Gondreville la quale non sa cucire due idee. Respinta dalla padrona di casa, cacciata di sedia in sedia da qualche nuova arrivata, fino nelle tenebre di questo cantuccio, ella vi si sarà lasciata chiudere, vittima della gelosia di queste dame che non avranno chiesto di meglio che seppellire così quella figura pericolosa. Essa non avrà avuto amici per incoraggiarla a difendere la piazza che ha dovuto occupare di tratto in prima linea; ognuna di queste perfide danzatrici avrà intimato agli uomini della sua congrega di non impegnare la nostra povera amica, sotto pena di terribili castighi. Ecco, mio caro, come questi esseri così teneri e candidi in apparenza avranno stretta la loro coalizione contro l'incognita; e ciò senza che alcune di quelle donne si sia detto altro che: — Conoscete voi, mia cara, quella piccola dama azzurra? To', Marziale, se tu vuoi in un quarto d'ora essere soprafatto di occhiate lusinghiere e di interrogazioni provocanti più che forse non ne riceverai in tutta la tua vita, tenta di forzare la triplice barriera che difende la regina della Dyle, della Lippe, o della Charente. Vedrai se la più stupida di queste donne non saprà trovare al momento un'astuzia capace di trattenere l'uomo più determinato a mettere in luce la nostra gemente incognita. Non ti pare che abbia un po' l'aria di un'elegia? — Vi pare, Montcornet? sarebbe dunque una donna maritata? — Perchè non sarebbe vedova? — Sarebbe più attiva, disse ridendo il referendario. — Forse è una vedova il cui marito giuoca alla _bouillotte_, replicò il bel corazziere. — Infatti dopo la pace, vi sono tante di queste vedove! rispose Marziale. Ma, mio caro Montcornet, noi siamo due ingenui. Quella testa manifesta ancora troppa innocenza, respira ancora troppa gioventù e freschezza sulla fronte e intorno alle tempie, perchè sia una donna. Che toni di carne vigorosi! nulla di logoro nei rilievi del naso. Le labbra, il mento, tutto in questa figura è fresco come un bottone di rosa bianca, benchè la fisionomia ne sia come velata dalle nubi della tristezza. Cosa può far piangere questa giovinetta? — Le donne piangono tanto per poco, disse il colonnello. — Non so, riprese Marziale, ma ella non piange per essere là senza ballare; il suo cordoglio non data da oggi; si vede che per questa sera si è fatta bella con premeditazione. Essa ama già, lo scommetterei. — Bah! forse è la figlia di qualche principuccio di Germania; nessuno le parla, disse Montcornet. — Ah! come è disgraziata una povera ragazza! replicò Marziale. Si può avere più grazia e più finezza della nostra incognita? Ebbene, non una delle megere che le stanno intorno, e che si dicono sensibili, le rivolgerà la parola. Se parlasse, vedremmo se i suoi denti sono belli. — Oh, oh, tu bolli come il latte alla minima elevazione di temperatura! gridò il colonnello, un po' piccato di trovare così presto un rivale nel suo amico. — Come, disse il referendario, senza accorgersi dell'interrogazione del generale, e dirigendo l'occhialino su tutte le persone che stavano loro d'intorno, come! nessuno qui potrà nominarci questo fiore esotico? — Eh, sarà qualche damigella di compagnia, gli disse Montcornet. — Buono! una damigella di compagnia che porta zaffiri degni d'una regina ed un abito di _malines_! Contatela ad altri, generale. Anche voi non sareste molto forte in diplomazia se nei vostri apprezzamenti passaste in un momento dalla principessa tedesca alla damigella di compagnia. Il generale Montcornet fermò per il braccio un ometto grasso, i cui capelli mezzo grigi e gli occhi intelligenti si vedevano nei vani di tutte le porte e che si mischiava senza complimenti ai diversi gruppi, nei quali era accolto con rispetto. — Gondreville, caro amico, gli disse Montcornet, chi è quella graziosa donnina seduta laggiù sotto quell'immenso candelabro? — Il candelabro? Ravrio, mio caro, me ne ha dato il disegno Isabey. — Oh! ho già riconosciuto il tuo gusto ed il tuo fasto nel mobilio, ma la donna? — Ah! non la conosco. Sarà senza dubbio un'amica di mia moglie. — O la tua amante, vecchio briccone. — No, parola d'onore! La contessa di Gondreville è la sola donna capace di invitare persone che nessuno conosce. Ad onta di questa osservazione piena d'acrimonia, il grosso ometto conservò sulle sue labbra il sorriso di soddisfazione interna che vi aveva fatto nascere la supposizione del colonnello dei corazzieri. Costui raggiunse in un gruppo vicino il referendario occupato, ma inutilmente, a cercare notizie sulla sconosciuta. Lo prese pel braccio e gli disse all'orecchio: — Mio caro Marziale, sta in guardia! Madama di Vaudremont ti osserva da alcuni minuti con un'attenzione deplorabile; è donna da indovinare, al movimento solo delle tue labbra, ciò che tu mi dicesti; i nostri gesti sono già stati troppo significativi, ella ne ha benissimo scoperta e seguita la direzione, ed io la credo in questo momento più occupata di noi stessi della piccola dama azzurra. — Vecchia astuzia di guerra, mio caro Montcornet. Del resto che m'importa? Io sono come l'imperatore; quando faccio delle conquiste le mantengo. — Marziale! la tua fatuità ha bisogno di una lezione. Come! borghese, tu hai l'onore di essere il marito designato di madama de Vaudremont, una vedova di ventidue anni, che ha la miseria di quattromila napoleoni di rendita, di una donna che ti mette in dito dei diamanti belli come questo, aggiunse prendendo la mano sinistra del referendario che gliela abbandonò con compiacenza, ed hai ancora la pretesa di fare il Lovelace, come se fossi colonnello e costretto a mantenere nelle guarnigioni la riputazione militare! Ohibò! Ma rifletti dunque a tutto ciò che puoi perdere. — Almeno non perderò la mia libertà, replicò Marziale con un riso forzato. Gettò uno sguardo appassionato a madama de Vaudremont la quale non gli rispose che con un sorriso pieno d'inquietudine, giacchè aveva visto il colonnello esaminare l'anello del referendario. — Ascolta, Marziale, ripresa il colonnello, se tu volteggi intorno alla mia giovane sconosciuta, io intraprenderò la conquista di madama de Vaudremont. — Permesso, caro corazziere, ma voi non otterrete nulla, disse il giovine referendario mettendo la nitida unghia del suo pollice sotto uno del denti superiori, e cavandone un piccolo strepito motteggiatore. — Pensa che io sono celibe, riprese il colonnello, che la mia spada è tutta la mia fortuna, e che sfidarmi così è mettere Tantalo a sedere davanti ad un banchetto che divorerà. — Prrr! Questo insolente cumolo di consonanti fu la risposta alla provocazione del generale. La moda di quel tempo obbligava un uomo a portare al ballo i calzoni di casimiro bianco e le calze di seta. Questo grazioso costume metteva in rilievo la perfezione delle forme di Montcornet, allora in età di trentacinque anni, e che attirava gli sguardi per l'alta statura obbligatoria nei corazzieri della guardia imperiale, la cui bell'uniforme dava maggior risalto alla sua imponenza, ancora giovane ad onta della pinguedine che doveva all'equitazione. I suoi baffi neri completavano l'espressione franca di una faccia veramente militare la cui fronte era larga e scoperta, il naso aquilino, la bocca vermiglia. I modi di Montcornet, improntati di una certa nobiltà dovuta all'abitudine del comando, potevano piacere ad una donna che avesse avuto il buon senso di non fare di suo marito uno schiavo. Il colonnello sorrise guardando il referendario, uno dei suoi migliori amici di collegio, la cui piccola statura svelta l'obbligò, per rispondere alla sua canzonatura, ad abbassare un po' l'amichevole sua occhiatina. Il barone Marziale De la Roche-Hugon era un giovane provenzale che Napoleone proteggeva e sembrava designare per qualche pomposa ambasciata. Egli aveva sedotto l'imperatore con una compiacenza italiana, col genio dell'intrigo, con quell'eloquenza da salone e quella scienza dei modi che surrogano tanto facilmente le qualità eminenti di un uomo solido. Benchè vivace e giovane, la sua figura possedeva già lo splendore immobile della latta, una delle qualità indispensabili ai diplomatici e che permette loro di nascondere le proprie emozioni, di mascherare i sentimenti, se pure questa impassibilità non annunzia in essi l'assenza di ogni emozione e la morte dei sentimenti. Si può considerare il cuore dei diplomatici come un problema insolubile, giacchè i tre più illustri ambasciatori dell'epoca si sono segnalati per la persistenza nell'odio e per le affezioni romanzesche. Tuttavia Marziale apparteneva a quella classe d'uomini capaci di calcolare il loro avvenire in mezzo ai più ardenti piaceri; egli aveva già giudicato il mondo ed occultata la sua ambizione sotto la fatuità dall'uomo fortunato in amore, mascherando il suo talento sotto la livrea della mediocrità, dopo aver osservato la rapidità con cui si avanzavano le persone che davano un po' d'ombra al padrone. I due amici furono costretti a lasciarsi dandosi una cordiale stretta di mano. Il ritornello che preveniva le dame di formare le quadriglie di una nuova contradanza, cacciò gli uomini dal vasto spazio in cui stavano discorrendo in mezzo alla sala. Questa rapida conversazione, tenuta nell'intervallo che separa sempre le contradanze, ebbe luogo davanti al camino del gran salone del palazzo Gondreville. Le domande e risposte di questa chiacchierata, abbastanza comune in un ballo, erano state come susurrate da ciascuno dei due interlocutori all'orecchio del vicino. Tuttavia le girandole e i candelabri del camino spandevano sui due amici una luce così abbondante, che le loro figure troppo vivamente illuminate non poterono nascondere, malgrado la loro discrezione diplomatica, l'impercettibile espressione dei loro sentimenti, nè all'astuta contessa, nè alla candida sconosciuta. Questo spionaggio del pensiero è forse per gli oziosi uno dei piaceri che trovano nel mondo, mentre tante ingenue vittime vi si annojano senza osare di convenirne. Per comprendere tutto l'interesse di questa conversazione è necessario raccontare un avvenimento che per invisibili legami andava a congiungersi coi personaggi di questo piccolo dramma, allora sparsi nel salone. Alle undici di sera circa, nel momento in cui le danzatrici riprendevano i loro posti, la società del palazzo Gondreville aveva veduto apparire la più bella donna di Parigi, la regina della moda, la sola che mancasse a quella splendida riunione. Essa si faceva una legge di non mai arrivare che nel momento in cui le sale offrivano quel movimento animato che non permette alle donne di conservare a lungo la freschezza del volto nè quello della toeletta. Questo momento rapido è come la primavera del ballo. Un'ora dopo, quando il piacere è passato, quando sopraggiunge la stanchezza, tutto vi è logoro. Madama de Vaudremont non commetteva mai il fallo di restare ad una festa per mostrarvi dei fiori languenti, dei ricci cadenti, delle guarnizioni sciupate, con una figura simile a tutte quelle che, incalzate dal sonno, non sempre lo ingannano. Essa si guardava bene di lasciar vedere, come le sue rivali, la sua bellezza sonnolente; sapeva sostenere abilmente la sua riputazione di civetteria, ritirandosi sempre da un ballo altrettanto brillante come quando vi era entrata. Le donne si dicevano all'orecchio con un sentimento d'invidia che preparava e metteva tante toelette quanti balli vi erano in una sera. Questa volta madama de Vaudremont non doveva essere padrona di lasciare a suo capriccio il salone dove arrivava allora trionfalmente. Fermatasi un istante sulla porta, gettò degli sguardi osservatori, benchè rapidi, sulle donne, i cui abbigliamenti furono tosto studiati affine di convincersi che il suo li eclisserebbe tutti. La celebre civetta si offerse all'ammirazione dell'adunanza, condotta da uno dei più bravi colonnelli dell'artiglieria della guardia, un favorito dell'imperatore, il conte di Soulanges. L'unione momentanea e fortuita di questi due personaggi ebbe senza dubbio qualche cosa di misterioso. Udendo annunziare il signor di Soulanges e la contessa di Vaudremont, alcune donne che facevano tappezzeria si alzarono, e alcuni uomini passati nella sala vicina si affollarono alle porte delta sala principale. Uno di quei burloni, che non mancano mai in queste numerose riunioni, vedendo entrare la contessa ed il suo cavaliere disse: — «Ora le donne avevano altrettanta curiosità di contemplare un uomo fedele alla sua passione, come gli uomini di esaminare una bella donna difficile a conservare.» Benchè il conte di Soulanges, giovane di circa trentadue anni, fosse dotato di quel temperamento nervoso che produce nell'uomo le grandi qualità, le sue forme gracili e la sua tinta pallida prevenivan poco in suo favore; i suoi occhi neri annunziavano molta vivacità, ma in società era taciturno, e nulla in lui rivelava uno di quei talenti oratorii che dovevano brillare alla destra nelle assemblee legislative della Ristorazione. La contessa di Vaudremont, donna alta, leggiermente pingue, d'una pelle splendida per bianchezza, che portava bene la sua testolina, e possedeva l'immenso vantaggio di inspirare l'amore colla gentilezza dei modi, era di quelle creature che mantengono tutte le promesse fatte dalla loro bellezza. Quella coppia, divenuta per alcuni momenti oggetto dell'attenzione generale, non lasciò lungo tempo il campo alla curiosità di esercitarsi sul suo conto. Il colonnello e la contessa pareva comprendessero perfettamente che il caso li aveva messi in una posizione imbarazzante. Vedendoli avanzarsi, Marziale si slanciò nel gruppo di uomini che occupava il posto al camino, per osservare attraverso le teste che gli facevano una specie di barriera, madama de Vaudremont coll'attenzione gelosa che dà il primo fuoco della passione: una voce segreta sembrava dirgli che il successo di cui s'inorgogliva era forse precario; ma il sorriso di fredda cortesia con cui la contessa ringraziò il signor De Soulanges ed il gesto che fece per congedarlo sedendosi presso madama de Gondreville, distesero tutti i muscoli che la gelosia aveva contratti sul suo volto. Tuttavia, vedendo in piedi a due passi dal canapè sul quale trovavasi madama de Vaudremont, Soulanges, che pareva non comprendere lo sguardo con cui la giovine civetta gli aveva detto che essi rappresentavano l'uno e l'altra una parte ridicola, il provenzale dalla testa vulcanica tornò ad aggrottare le nere sopraciglia che ombreggiavano i suoi occhi azzurri, carezzò, per darsi un po' di contegno, i ricci dei suoi capelli bruni, e senza tradire l'emozione che gli faceva palpitare il cuore, sorvegliò il modo in cui si conducevano la contessa ed il signor de Soulanges, pure scherzando coi vicini; fu allora che strinse la mano al colonnello, il quale veniva a rinnovare con esso la conoscenza; ma l'ascoltò senza intenderlo, tanto era preoccupato. Soulanges gettò occhiate tranquille sulla quadrupla fila di donne che incorniciava l'immenso salone del senatore, ammirando quella decorazione di diamanti, di rubini, di perle, di manipoli d'oro e di teste adorne il cui splendore faceva quasi impallidire i lumi delle candele, il cristallo dei candelabri e le dorature. La calma noncurante del suo rivale fece perdere la bussola al referendario. Incapace di moderare la segreta impazienza che lo trasportava, Marziale si avanzò alla volta di madama de Vaudremont per salutarla. Quando comparve il provenzale, Soulanges gli lanciò uno sguardo torbido e stornò con atto impertinente la testa. Un grave silenzio regnò nella sala in cui la curiosità era al colmo. Tutte le teste tese presentavano i sentimenti più bizzarri; ognuno attendeva e temeva uno di quegli scandali che le persone bene educate si guardano sempre dal provocare. Tutto a un tratto la pallida figura del conte divenne rossa come lo scarlatto delle sue pistagne, ed i suoi sguardi si abbassarono d'un tratto a terra per non lasciare indovinare il soggetto del suo turbamento. Vedendo la sconosciuta modestamente situata al piede del candelabro, passò con aria triste dinanzi al referendario e si rifugiò in una delle sale da giuoco. Marziale e l'assemblea credettero che Soulanges gli cedesse pubblicamente il posto per paura del ridicolo che si attacca sempre agli amanti detronizzati. Il referendario rialzò fieramente la testa, guardò la sconosciuta, poi, quando si assise con tutta disinvoltura presso madama de Vaudremont, l'ascoltò con aria tanto distratta che non udì queste parole pronunziate dalla civetta sotto il ventaglio: — Marziale, mi farete il piacere di non portare questa sera l'anello che mi avete carpito. Ho le mie ragioni, e ve le spiegherò fra breve, quando ci ritireremo. Mi darete il braccio per andare dalla principessa di Wagram. — Perchè avete accettato il braccio del colonnello? chiese il barone. — Lo incontrai sotto il peristilio, ella rispose; ma lasciatemi, ci guardano tutti. Marziale raggiunse il colonnello dei corazzieri. La piccola dama azzurra divenne allora il vincolo comune dell'inquietudine che agitava ad un tempo e così diversamente il corazziere, Soulanges, Marziale e la contessa di Vaudremont. Quando i due amici si erano separati lanciandosi la sfida che chiuse la loro conversazione, il referendario mosse verso madama de Vaudremont e seppe collocarla nel mezzo della più brillante quadriglia. Mercè quella specie d'ebrezza in cui una donna è sempre immersa dalla danza, ed il moto del ballo in cui gli uomini si mostrano col ciarlatanismo della toeletta, la quale non dà loro minori attrattive che alle donne, Marziale credette potersi abbandonare impunemente all'incanto che lo trascinava verso l'incognita. Se riuscì a sottrarre all'attività inquieta degli occhi della contessa i primi sguardi che gettò sulla dama azzurra fu ben tosto sorpreso in flagrante delitto, e, se fece scusare una prima preoccupazione, non giustificò l'impertinente silenzio che oppose più tardi alla più seducente delle interrogazioni che una donna possa rivolgere ad un uomo: Mi amate questa sera? Più egli era distratto, più la contessa si mostrava stringente ed importuna. Mentre Marziale ballava, il colonnello andò di gruppo in gruppo cercando notizie sulla giovine sconosciuta. Dopo avere stancata la compiacenza di tutte le persone, ed anche quella degli indifferenti, si decideva ad approfittare d'un momento in cui la contessa di Gondreville pareva libera, per chiedere ad essa medesima il nome di quella dama misteriosa, quando scoperse un leggiero vuoto fra la colonna spezzata che sosteneva il candelabro e i due divani che vi mettevano capo. Il colonnello approfittò del momento in cui la danza lasciava vacante una parte delle sedie che formavano parecchie linee fortificate difese da mamme o donne in età, ed imprese ad attraversare quella palizzata coperta di scialli e fazzoletti. Cominciò a complimentare le vedove; poi, di donna in donna, di galanteria in galanteria finì per raggiungere presso l'incognita il posto vuoto. A rischio d'impigliarsi nei grifoni e nei draghi dell'immenso candelabro, si mantenne là sotto il fuoco della cera, con gran dispetto di Marziale. Troppo astuto per interpellare di primo tratto la piccola dama azzurra che aveva alla destra, il colonnello cominciò col dire ad una signora, grande, abbastanza brutta, che era seduta alla sua sinistra: — È questo, signora, un magnifico ballo! Che lusso! che movimento! Parola d'onore, le donne sono tutte belle! Se voi non ballate, gli è senza dubbio che non ne avete voglia. Questa insipida conversazione intavolata dal colonnello aveva per iscopo di far parlare la sua vicina di destra, che, silenziosa e preoccupata, non gli porgeva la menoma attenzione. L'ufficiale teneva in riserva una quantità di frasi che dovevano finire con un: E voi madama? sul quale contava molto. Ma ebbe una strana sorpresa vedendo alcune lagrime negli occhi della sconosciuta, che pareva interamente assorta in madama de Vaudremont. — La signora è senza dubbio maritata? arrischiò alla fine il colonnello Montcornet con voce titubante. — Sì, signore, rispose l'incognita. — E vostro marito è qui senza dubbio? — Sì, signore. — E allora perchè restate a questo posto? forse per civetteria? L'afflitta sorrise tristamente. — Accordatemi l'onore, madama, di essere vostro cavaliere per la contradanza che segue, e certo non vi ricondurrò qui. Vedo presso il camino un posto vuoto, venite. Quando tanta gente ha tutta la smania di dominare, e la follia del giorno è la monarchia, non capisco perchè voi rifiutereste di accettare il titolo di regina del ballo, che pare spetti alla vostra bellezza. — Signore, io non ballerò. L'intonazione secca delle risposte di quella donna era così scoraggiante, che il colonnello si vide costretto ad abbandonare la piazza. Marziale, che indovinò l'ultima domanda del colonnello ed il rifiuto che gli toccava, si mise a sorridere e si accarezzò il mento facendo brillare l'anello che aveva in dito. — Di che cosa ridete? gli disse la contessa de Vaudremont. — Dell'insuccesso del povero colonnello, che ha fatto un passo da collegiale.... — Vi avevo pregato di togliervi l'anello, disse la contessa interrompendolo. — Non l'avevo capito. — Se non capite nulla questa sera, sapete però veder tutto, replicò madama de Vaudremont alquanto piccata. — Ecco un giovane che mostra un brillante molto bello, disse allora la sconosciuta al colonnello. — Magnifico, egli rispose; quel giovine è il barone Marziale de la Roche-Hugon, uno de' miei migliori amici. — Vi ringrazio d'avermi detto il suo nome, ella replicò; mi sembra molto gentile. — Sì, ma è un po' leggiero. — Si direbbe che sia in buoni rapporti colla contessa di Vaudremont, chiese la giovine signora interrogando cogli occhi il colonnello. — Nei migliori! La sconosciuta impallidì. — Via, pensò il militare, essa ama quel diavolo di Marziale. — Credevo che madama de Vaudremont fosse da tempo impegnata col signor de Soulanges, soggiunse la giovin donna un po' rimessa dal cruccio interno che aveva alterato lo splendore del suo viso. — Da otto giorni la contessa lo burla, rispose il colonnello. Ma dovete aver visto quel povero Soulanges quando entrò; tenta ancora di non credere alla sua sfortuna. — L'ho veduto, disse la dama azzurra. Poi aggiunse un: «signore, vi ringrazio,» che equivaleva ad un congedo. In quel momento la contradanza stava per finire, e il colonnello, deluso, non ebbe che il tempo di ritrarsi dicendosi a modo di consolazione: — È maritata. — Ebbene! valoroso corazziere, esclamò il barone trascinando il colonnello nel vano d'una finestra per respirarvi l'aria pura dei giardini, a che punto siete? — È maritata, mio caro — E che cosa importa? — Oh diavolo! io sono un uomo costumato, e non voglio più rivolgermi che alle donne le quali posso sposare. D'altronde, Marziale, mi ha formalmente dimostrata l'intenzione di non ballare. — Colonnello, scommettiamo il vostro leardo contro cento napoleoni che questa sera ballerà con me. — Accetto, disse il colonnello prendendo la mano del vagheggino. Intanto vado a vedere Soulanges; egli forse conosce questa dama, che mi parve si interessasse di lui. — Mio bravo, avete perduto, disse Marziale ridendo. I miei occhi si sono incontrati coi suoi, e me ne intendo; Caro colonnello, non ve ne avrete a male se ballerò con lei dopo il rifiuto che vi è toccato. — No, no, riderà bene chi riderà ultimo. Del resto, Marziale, io sono bel giuocatore e buon nemico; vi prevengo che essa ama i diamanti. Ciò detto, i due amici si separarono. Il generale Montcornet si diresse verso la sala da giuoco, ove vide il conte di Soulanges seduto ad un tavolo di _bugliotta_. Benchè fra i due colonnelli non esistesse che quell'amicizia banale che è determinata dai pericoli della guerra e dai doveri del servizio, il colonnello dei corazzieri fu dolorosamente colpito nel vedere il colonnello d'artiglieria, che conosceva per uomo saggio, impegnato in una partita nella quale poteva rovinarsi. I mucchi d'oro e di biglietti sparsi sul fatale tappeto attestavano il furore del giuoco. Un circolo silenzioso d'uomini circondava i giuocatori che erano al tavolo. Tutti si udivano pronunciare parole come: _Passo, giuoco, tengo, mille luigi, tenuti_; ma guardando quei cinque individui immobili pareva non parlassero che cogli occhi. Quando il colonnello, spaventato dal pallore di Soulanges, s'avvicinò a lui, il conte guadagnava. L'ambasciatore austriaco, un celebre banchiere, si alzava completamente spogliato di somme considerevoli. Soulanges divenne ancora più cupo e, raccogliendo una massa d'oro e di biglietti, non contò nemmeno: un amaro dispetto increspo le sue labbra: pareva minacciasse la fortuna invece di ringraziarla dei suoi favori. — Coraggio, gli disse il colonnello, coraggio Soulanges! Poi, credendo di fargli un vero servizio strappandolo al giuoco. — Venite, aggiunse, ho una buona notizia a darvi, ma ad una condizione. — Quale? chiese Soulanges. — Quella di rispondere a quanto vi chiederò. Il conte di Soulanges si alzò bruscamente, mise con aria incurante quanto aveva guadagnato in un fazzoletto che aveva tormentato convulsivamente, ed il suo viso era così stravolto, che nessun giuocatore pensò di trovare fuori di proposito che si ritirasse. Anzi i volti degli altri parvero rasserenarsi quando quella testa sgarbata e triste non fu più nel cerchio luminoso che descriveva al di sopra della tavola una lampada da _bugliotta_. — Questi diavoli di militari se la intendono come i ladri in fiera, disse a voce alta un diplomatico della galleria prendendo il posto del colonnello. Una sola figura smorta e stanca si volse verso il sopraggiunto, e gli disse lanciandogli uno sguardo vivacissimo: — Chi dice militare, non dice civile, signor ministro. — Mio caro, disse Montcornet a Soulanges attirandolo in un canto, questa mattina l'imperatore ha fatto i vostri elogi e la vostra promozione al maresciallato non è più dubbia. — Il padrone non ama l'artiglieria. — Sì, ma adora la nobiltà, e voi siete un ex! Il padrone, riprese Montcornet, disse che quelli i quali si erano ammogliati a Parigi durante la campagna non dovevano essere considerati come in disgrazia. Ebbene? Il conte di Soulanges pareva non capir nulla di questo discorso. — Orsù, spero adesso, continuò il colonnello, che mi direte se conoscete una graziosa donnina seduta ai piedi d'un candelabro... A quelle parole gli occhi del conte si animarono. Prese con tutta violenza la mano del colonnello: — Mio caro generale, gli disse con accento sensibilmente alterato, se altri fuori di voi mi facesse questa domanda, gli spaccherei il cranio con questa massa d'oro. Lasciatemi, ve ne prego. Questa sera ho più voglia di bruciarmi le cervella che... Odio tutto ciò che vedo. Quindi parto. Questa gioja, questa musica, queste faccie stupide che ridono mi assassinano. — Mio povero amico, riprese con voce dolce Montcornet, battendo amichevolmente sulla mano di Soulanges; voi siete appassionato! Che direste dunque se vi facessi sapere che Marziale pensa tanto poco a madama de Vaudremont, da essere innamorato di quella damina? — Se le parla, gridò Soulanges balbettando per la rabbia, lo spianerò come il suo portafogli, quand'anche quel balordo fosse nel circolo dell'imperatore. E il conte cadde come annientato sulla poltrona verso la quale il colonnello l'aveva condotto. Quest'ultimo si ritirò lentamente, essendosi accorto che Soulanges era in preda ad una collera troppo violenta perchè potessero calmarlo o gli scherzi o le cure di un'amicizia superficiale. Quando il colonnello Montcornet rientrò nel gran salone del ballo, madama de Vaudremont fu la prima persona che si presentò agli occhi suoi, e notò sul suo volto, d'ordinario così calmo, le traccie di un'agitazione mal celata. Vicino ad essa era vacante una sedia; il colonnello andò a sedervisi. — Scommetto che avete dei dispiaceri, egli disse. — Un'inezia, generale. Vorrei essere via di qui; ho promesso di assistere al ballo della granduchessa di Bug, e bisogna che prima vada dalla principessa di Wagram. Il signor De la Roche-Hugon, che lo sa, si diverte a civettare colle vedove. — Non è proprio questo il soggetto della vostra inquietudine, e scommetto cento luigi che questa sera resterete qui. — Impertinente! — Ho dunque detto la verità? — Ebbene! che cosa penso? riprese la contessa dando un colpo di ventaglio sulle dita del colonnello. Se lo indovinate, sono capace di ricompensarvi. — Non accetto la sfida; avrei troppe probabilità favorevoli. — Presuntuoso! — Voi temete di vedere Marziale ai piedi... — Di chi? domandò la contessa ostentando sorpresa. — Di quel candelabro, rispose il colonnello mostrando la bella incognita, e guardando la contessa con un'attenzione che la impacciava. — Avete indovinato, rispose la civetta celandosi il viso sotto il ventaglio, col quale si mise a giuocare. La vecchia dama di Grandlieu, che, come sapete, è maliziosa al pari di una scimia, riprese dopo un momento di silenzio, mi ha detto poco fa che il signor De la Roche-Hugon correva dei pericoli a corteggiare quella sconosciuta che si trova qui come una guastafeste. Preferirei vedere la morte anzichè questa figura crudelmente bella e pallida come una visione. È il mio cattivo genio. Madama di Grandlieu, continuò dopo essersi lasciato sfuggire un atto di dispetto, che non va al ballo se non per veder tutto fingendo di dormire, mi ha terribilmente inquietata. Marziale mi pagherà caro il tiro che mi giuoca. Tuttavia, generale, poichè è vostro amico, impegnatelo a non darmi dei dispiaceri. — Ho veduto un uomo che si propone nientemeno che di bruciargli le cervella se si rivolge a quella damina. Quell'uomo, madama, mantiene la parola. Ma io conosco Marziale; siffatti pericoli sono altrettanti incoraggiamenti. Vi ha di più: noi abbiamo scommesso... e qui abbassò la voce. — Davvero? chiese la contessa. — Sul mio onore. — Grazie, generale, rispose madama de Vaudremont lanciandogli un'occhiata piena di civetteria. — Mi farete l'onore di ballare con me? — Sì, ma la seconda contradanza. Durante questa voglio sapere dove può finire questo intrigo, e sapere chi è quella piccola dama azzurra; ha l'aria di una donna di spirito. Il colonnello, vedendo che madama di Vaudremont voleva restar sola, si allontanò, soddisfatto di avere cominciato così bene il suo assedio. Si incontrano nelle feste alcune signore le quali, come madama di Grandlieu, sono là al pari di vecchi marinai occupati sulla riva del mare a contemplare i giovani marinai alle prese colle tempeste. In quel momento madama di Grandlieu, che pareva interessarsi ai personaggi di questa scena, potè facilmente indovinare la lotta a cui era in preda la contessa. La giovine civetta aveva un bel farsi vento con grazia, sorridere a tutti i giovani che la salutavano ed usare tutte le astuzie di cui si serve una donna per occultare la sua emozione; la vedova, una delle più perspicaci e maliziose duchesse che il secolo diciottesimo avesse legate al decimonono, sapeva leggere nel suo cuore e nel suo pensiero. La vecchia dama pareva conoscesse i movimenti impercettibili che rivelano le affezioni dell'animo. La piega più leggiera di quella fronte bianca e pura, il più insensibile trasalire delle guancie, i moti delle sopraciglia, l'inflessione meno visibile delle labbra il cui mobile corallo nulla poteva occultarle, erano per la duchessa come lo scritto di un libro. Dal fondo della sua poltrona, che riempiva completamente colla sua veste, la civetta emerita, chiacchierando con un diplomatico che l'aveva ricercata per raccogliere gli aneddoti ch'ella narrava così bene, ammirava sè stessa nella civettuola giovine; le acquistò simpatia vedendola occultare così bene il suo dolore e gli strazii del suo cuore. Madama de Vaudremont provava infatti tanto dolore quanta era la gajezza che fingeva: aveva creduto di trovare in Marziale un uomo di talento sul cui appoggio contava per abbellire la sua vita con tutti gli incanti del potere; in quel momento riconosceva un errore altrettanto crudele per la sua riputazione come pel suo amor proprio. In lei, come in tutte le altre donne di quell'epoca, la subitaneità delle passioni ne aumentava la vivacità. Le anime che vivono molto e presto non soffrono meno di quelle che si consumano in una sola affezione. La predilezione della contessa per Marziale datava dalla vigilia, è vero; ma il più inetto dei chirurgi sa che la sofferenza causata dall'amputazione di un membro vivo è più dolorosa di quella di un membro ammalato. Nel gusto di madama de Vaudremont per Marziale vi era dell'avvenire, mentre la sua passione precedente era senza speranze ed avvelenata dai rimorsi di Soulanges. La vecchia duchessa, che spiava il momento opportuno di parlare alla contessa, si affrettò a congedare il suo ambasciatore; giacchè a fronte di amanti in collera ogni altro interesse vien meno, anche per una donna in età. Per impegnare la battaglia, madama de Grandlieu lanciò a madama de Vaudremont un'occhiata sardonica che fece temere alla giovine civetta di vedere il suo destino nelle mani della vedova. Vi sono sguardi da donna a donna che somigliano alle fiaccole nello scioglimento d'una tragedia. Bisogna aver conosciuto questa duchessa per apprezzare il terrore che l'espressione del suo volto cagionava alla contessa. Madama de Grandlieu era alta, ed i suoi lineamenti facevano dire di lei: ecco una donna che ha dovuto esser bella! Si copriva le gote con tanto belletto che le sue rughe quasi più non apparivano; ma, lontani dal ricevere uno splendore fittizio da quel carmino carico, i suoi occhi non erano che più appannati. Portava una gran quantità di diamanti e si vestiva con abbastanza gusto per non cadere nel ridicolo. Il suo naso appuntito faceva presentire l'epigramma. Una dentiera ben disposta conservava alla sua bocca una smorfia d'ironia che ricordava quella di Voltaire. Però la squisita cortesia dei suoi modi raddolciva tanto il giro malizioso delle sue idee, che non la si poteva accusare di malignità. Gli occhi grigi della vecchia dama si animarono; uno sguardo trionfale, accompagnato da un sorriso che significava: — Ve l'aveva pare promesso! — attraversò la sala e sparse l'incarnato della speranza sulle gote pallide della giovine donna che gemeva a piedi del candelabro. Questa alleanza fra madama de Grandlieu e l'incognita non poteva sfuggire all'occhio esperto della contessa di Vaudremont, che intravide un mistero e volle penetrarlo. In quel momento il barone della Roche-Hugon, dopo di aver finito di interpellare tutte le anziane senza poter conoscere il nome della dama azzurra, si rivolgeva, non sapendo dove dare il capo, alla contessa di Gondreville, e non ne riceveva che questa risposta poco soddisfacente: — È una dama che mi ha presentata la vecchia duchessa di Grandlieu. Volgendosi per caso verso la poltrona occupata dalla vecchia signora, il referendario sorprese lo sguardo d'intelligenza lanciato all'incognita, e benchè da qualche tempo non si trovasse in troppo buoni rapporti con lei, risolse di abbordarla. Vedendo quel nabisso di barone che gironzava intorno alla sua poltrona, la vecchia duchessa sorrise con una malignità sardonica e guardò madama de Vaudremont con un'aria che fece sorridere il colonnello Montcornet. — Se la vecchia zingara si atteggia all'amicizia, pensò il barone, gli è che senza dubbio mi vuol giuocare qualche brutto tiro. — Madama, le disse, mi dicono che siete incaricata di vegliare sopra un tesoro ben prezioso. — Mi pigliate per un drago? chiese la vecchia dama. Ma di chi parlate? aggiunse con una dolcezza di voce che fece rinascere in Marziale la speranza. — Di quella damina sconosciuta che la gelosia di tutte queste civette ha confinata laggiù. Voi senza dubbio conoscete la sua famiglia? — Sì, disse la duchessa, ma che volete farne di un'ereditiera di provincia, maritata da qualche tempo, una giovane di buona nascita che non conoscete, voi altri, essa non va in nessun luogo. — Perchè essa non balla? È tanto bella! Volete che stringiamo un trattato di pace? Se vi degnate informarmi di tutto ciò che ho interesse a sapere, vi giuro che la vostra domanda di restituzione del bosco di Marigny pel demanio straordinario sarà caldamente appoggiata presso l'imperatore. — Signore, rispose la vecchia dama con una ingannevole gravità, conducetemi la contessa di Vaudremont. Vi prometto di rivelarle il mistero che rende tanto interessante la vostra incognita. Ecco, tutti gli uomini che sono alla festa sono giunti allo stesso grado di curiosità di voi. Gli occhi si dirigono involontariamente verso questo candelabro ove la mia protetta si è modestamente collocata; essa raccoglie tutti gli omaggi che le si vollero rapire. Fortunato colui che piglierà per ballerine! Qui si interruppe fissando la contessa di Vaudremont con una di quelle occhiate che dicono così bene: Noi parliamo di voi. Poi aggiunse: Penso che preferirete apprendere il nome dell'incognita dalla bocca della vostra bella contessa piuttosto che dalla mia? L'attitudine della duchessa era così provocante, che madama de Vaudremont si alzò, venne presso a lei, si sedette sulla sedia che le offerse Marziale, e senza fare attenzione a lui: — Indovino, madama, le disse ridendo, che parlate di me; ma confesso la mia inferiorità, non so se in bene o in male. Madama di Grandlieu strinse colla mano secca e rugosa la bella mano della giovine donna e con un tono di compassione, le rispose a voce bassa: — Povera piccina! Le due donne si guardarono. Madama de Vaudremont capì che Marziale era di troppo, e lo congedò dicendo con aria imperiosa: Lasciateci! Il referendario, poco soddisfatto al vedere la contessa sotto il fascino della pericolosa sibilla che l'aveva attirato presso di sè, le lanciò uno di quegli sguardi d'uomo, potenti su un cuore cieco, ma che appaiono ridicoli ad una donna quando comincia a giudicare colui di cui si è invaghita. — Avreste la pretesa di scimiottare l'imperatore? disse madama di Vaudremont volgendo a metà il capo per contemplare il referendario con aria ironica. Marziale aveva troppa esperienza di mondo, troppa finezza e calcolo per esporsi a romperla con una donna così bene accetta alla corte, ed alla quale l'imperatore voleva dare marito; contava d'altronde sulla gelosia che si proponeva di destare in lei come sul miglior mezzo per indovinare il secreto della sua freddezza, e si allontanò tanto più volontieri che in quel momento una nuova contradanza metteva tutti in moto. Il barone parve cedesse il posto per le quadriglie, andò ad appoggiarsi ai marmo d'una _console_, incrociò le braccia sul petto e rimase tutto occupato del colloquio delle due dame. Di tratto in tratto teneva dietro agli sguardi che ambedue gettarono a più riprese sull'incognita. Paragonando allora la contessa a quella bellezza nuova che il mistero rendeva così attraente, il barone si abbandonò agli odiosi calcoli che fanno d'abitudine gli uomini fortunati in amore: egli ondeggiava fra una fortuna da afferrare ed un capriccio da accontentare: il riflesso dei lumi dava tale risalto alla sua figura pensierosa e cupa sulle tappezzerie di moerro bianco alle quali appoggiava i suoi capelli neri, che lo si sarebbe potuto paragonare a qualche cattivo genio. Da lontano certo più di uno pensò: Ecco un altro povero diavolo che non pare divertirsi molto! Colla spalla destra leggiermente appoggiata sullo stipite della porta che si trovava fra la sala da ballo e quella del giuoco, il colonnello poteva ridere in incognito sotto i suoi folti mustacchi, godere il piacere di contemplare il tumulto del ballo; vedeva cento belle teste turbinare ai capricci della danza; leggeva in alcune figure, come su quelle della contessa e del suo amico Marziale, i segreti della loro agitazione; poi, volgendo il capo, si chiedeva qual rapporto esistesse fra l'aria triste del conte di Soulanges, sempre assiso sul divano, e la fisionomia addolorata della dama incognita sul volto della quale apparivano tratto tratto le gioje della speranza e le angoscie di un terrore involontario. Montcornet era là come il re della festa, trovava in quel quadro vivente l'intero panorama del mondo, e ne rideva raccogliendo i sorrisi interessati di cento donne brillanti e magnificamente abbigliate: un colonnello della guardia imperiale, posto che corrispondeva al grado di generale di brigata, era certo uno dei più bei partiti dell'esercito. Era all'incirca mezzanotte. Le conversazioni, i giuochi, la danza, la civetteria, gli interessi, le malignità ed i progetti, tutto arrivava a quel grado di calore che strappa ad un giovane questa esclamazione: — Che bel ballo! — Mio angioletto, diceva madama di Grandlieu alla contessa, voi siete in una età nella quale di falli io ne ho commessi parecchi. Vedendovi testè soffrire mortalmente, mi venne in mente di darvi alcuni caritatevoli avvisi. Commettere degli errori a ventidue anni, non è un guastare il suo avvenire, lacerare la veste che si ha da portare? Mia cara, noi non impariamo che molto tardi a servircene senza isdruscirla. Continuate, cuor mio, a procurarvi dei nemici abili e degli amici che non abbiano una linea di condotta, e vedrete che fior di vita condurrete un giorno. — Ah! madama, una donna ha un gran da fare per essere felice, non è vero? esclamò ingenuamente la contessa. — Mia piccina, alla vostra età bisogna saper scegliere fra i piaceri e la felicità. Voi volete sposare Marziale, che non è abbastanza sciocco per fare un buon marito, nè abbastanza appassionato per essere un amante. Egli ha dei debiti, mia cara: è un uomo da mangiarsi la vostra sostanza; ma questo non sarebbe nulla se vi procurasse la felicità. Non vedete come è vecchio? Quest'uomo deve essere stato ammalato le tante volte, ed ora fa le ultime armi. Fra tre anni sarà un uomo finito. Comincierà l'ambizioso e forse riuscirà. Io non lo credo. Chi è poi? un intrigante che può possedere a meraviglia lo spirito degli affari e chiacchierare piacevolmente; ma è troppo presuntuoso per avere un vero merito; non andrà lontano. D'altronde, guardatelo! Non si legge sulla sua fronte che in questo momento non vede in voi una giovane e bella donna, ma i due milioni che possedete? Egli non vi ama, cara mia, vi calcola come un affare. Se volete maritarvi, prendete un uomo più avanzato d'età, che goda riputazione e sia a metà del suo cammino. Una vedova non deve trattare il proprio matrimonio come un capriccio amoroso. In quel momento gli occhi delle due donne si fissarono sulla bella figura del colonnello Montcornet. — Se volete rappresentare la difficile parte della civetta e non maritarvi, riprese la duchessa con bonomia, ah! cara mia, saprete meglio d'ogni altra accumulare le nubi d'una tempesta e dissiparla. Ma, ve ne scongiuro, non prendete mai piacere a disturbare la pace delle famiglie, a distruggerne l'unione, e la fortuna delle donne che sono felici. Io, mia cara, l'ho rappresentata questa parte pericolosa. Oh! mio Dio, per un trionfo dell'amor proprio si assassinano spesso delle povere creature virtuose; giacchè, mia cara, donne virtuose ne esistono realmente. Sono venuta qui per pregarvi. Sì, voi siete la causa della mia comparsa in questa sala che puzza di popolo. Non ci sono degli attori? Altre volte si ricevevano nel _boudoir_; ma in sala, ohibò! Perchè mi guardate con aria tanto sbalordita? Ascoltatemi: se volete burlarvi degli uomini, mettete in fiamme il cuore di quelli che non hanno doveri da compire; gli altri non ci perdonano i disordini che li hanno resi felici. Approfittate di questa massima dovuta alla mia vecchia esperienza. Questo povero Soulanges, per esempio, al quale avete fatto girare la testa!... ebbene, sapete su chi cadevano i vostri colpi?... Egli è ammogliato da sei mesi, adorato da un'incantevole creatura che egli ama e che inganna; essa vive nelle lagrime e nel più doloroso silenzio. Soulanges ebbe a momenti dei rimorsi più crudeli che non fossero dolci i suoi piaceri. E voi, furbetta, l'avete tradito. Ebbene! venite a contemplare l'opera vostra! La vecchia duchessa prese la mano di madama de Vaudremont, e si alzarono. — Ecco, le disse madama di Grandlieu mostrandole collo sguardo l'incognita pallida e tremante sotto i bagliori del candelabro, ecco la mia nipotina: la contessa di Soulanges oggi ha finalmente ceduto alle mie istanze, ha acconsentito a lasciare la camera di dolore in cui la vista del suo bambino non le arrecava che ben scarse consolazioni. La vedete? vi sembra bella? ebbene, cara mia, giudicate di quello che doveva essere quando la felicità spandeva la sua luce su quella figura. La contessa volse altrove in silenzio la testa e parve in preda a gravi riflessioni. La duchessa la condusse fino alla porta della sala da giuoco: poi, dopo avervi gettata un'occhiata, come se volesse cercarvi qualcuno: — Ed ecco Soulanges, disse alla giovine civetta con un tono di voce profondo. La contessa rabbrividì vedendo nell'angolo meno illuminato della sala la figura pallida e contratta di Soulanges appoggiato ad una poltrona. L'abbattimento delle membra e l'immobilità della fronte rivelavano tutto il suo dolore; i giuocatori andavano e venivano dinanzi a lui senza fargli più che tanta attenzione, come se non esistesse. Il quadro che offrivano la moglie in lagrime ed il marito tetro e cupo, separati l'uno dall'altra in mezzo a quella festa, come due metà di un albero colpito dal fulmine, ebbe forse qualche cosa di profetico per la contessa. Temette vedervi un'imagine delle vendette che l'avvenire le serbava. Il suo cuore non era ancora abbastanza logoro: serrò la mano della duchessa ringraziandola con uno di quei sorrisi che hanno una certa grazia infantile. — Mia cara ragazza, le disse la vecchia all'orecchio, pensate bene che noi sappiamo tanto respingere gli omaggi degli uomini come attirarli. — È vostra, se non siete uno sciocco. Queste ultime parole furono susurrate da madama de Grandlieu all'orecchio del colonnello Montcornet, mentre la bella contessa si abbandonava alla compassione che le inspirava l'aspetto di Soulanges, giacchè l'amava ancora abbastanza per volerlo restituire alla felicità. — Oh! come saprò pregarlo, disse a madama de Grandlieu. — Guardatevene bene, mia cara! esclamò la duchessa ritornando alla sua poltrona; scegliete un buon marito e chiudete la porta a mio nipote. Non offritegli neppure la vostra amicizia. Credetemi, ragazza mia, una donna non riceve da un'altra donna il cuore di suo marito: è cento volte più felice di credere d'averlo riconquistato ella stessa. Conducendo qui mia nipote, credo averle dato un eccellente mezzo di riguadagnare l'affezione di suo marito. Non vi chiedo che di ammaliare il generale. E quando le mostrò l'amico del referendario, la contessa sorrise. — Ebbene, madama, sapete finalmente il nome di questa incognita? domandò il barone con aria piccata alla contessa quando fu sola. — Sì, disse madama de Vaudremont guardando il referendario. Il suo volto esprimeva tanta astuzia quanta gajezza. Il sorriso che spandeva la vita sulle sue labbra e sulle sue guancie, l'umida luce degli occhi suoi, erano simili a quei fuochi fatui che ingannano il viaggiatore. Marziale, che si credeva sempre amato, prese allora quell'attitudine della quale si compiace tanto un uomo presso quella che ama e disse con aria pretensiosa: — Non ve ne avrete a male, se sembro tenerci molto a sapere quel nome? — E non ve ne avrete a male, replicò madama de Vaudremont, se per un resto di amore non ve lo dico, e se vi proibisco di fare il più piccolo passo verso quella giovine dama? Arrischiereste forse la vostra vita. — Madama, perdere il vostro favore non è più che perdere la vita? — Marziale, disse severamente la contessa, è madama di Soulanges. Suo marito vi brucierebbe le cervella, se pure ne avete. — Ah, ah! replicò ridendo il vagheggino, il colonnello lascierà vivere in pace colui che gli ha rapito il vostro cuore e si batterebbe per sua moglie? Che inversione di principii! Ve ne prego, permettetemi di ballare con quella piccola dama. Potrete così avere la prova del poco amore che vi portava quel cuore di ghiaccio, giacchè se il colonnello non trova di suo genio che io faccia ballare sua moglie dopo avere tollerato che vi... — Ma ella ama suo marito. — Ostacolo di più che avrò il piacere di vincere. — Ah! disse la contessa con un sorriso amaro, voi ci punite egualmente dei nostri errori e dei nostri pentimenti. — Non andate in collera, disse vivamente Marziale. Oh! ve ne prego, perdonatemi. Via, non penso più a madama di Soulanges. — Meritereste bene che vi mandassi a lei. — Ci vado, disse il barone ridendo, e tornerò più innamorato che mai di voi. La più bella donna del mondo non può impadronirsi di un cuore che vi appartiene. — Vale a dire che volete guadagnare il cavallo del colonnello. — Ah! traditore, disse ridendo e minacciando col dito l'amico che sorrideva. Il colonnello arrivò, il barone gli cedette il suo posto presso la contessa cui disse in modo sardonico: Madama, ecco un uomo che si è vantato di guadagnare le vostre buone grazie in una sera. Allontanandosi si applaudì di avere rivoltato l'amor proprio della contessa e spacciato Montcornet; ma ad onta della sua finezza abituale, non aveva capito l'ironia di cui erano piene le parole di madama de Vaudremont, e non si accorse che ella aveva fatto verso il suo amico tanta strada, quanta egli verso di lei, benchè inscienti l'uno dell'altra. Nel momento in cui il referendario si avvicinava farfalleggiando al candelabro sotto cui la contessa di Soulanges, pallida e timida, non sembrava vivere che cogli occhi, suo marito arrivò presso la porta della sala cogli sguardi scintillanti di passione. La vecchia duchessa, attenta a tutto, si slanciò verso suo nipote, gli chiese il suo braccio e la sua carrozza per uscire, pretestando una noja mortale e lusingandosi di prevenire così un deplorevole scandalo. Innanzi di partire fece un singolare segno d'intelligenza a sua nipote, indicandole l'intraprendente cavaliere che si preparava a parlarle, e questo segno pareva dirle: — Eccolo, vendicati! Madama de Vaudremont sorprese l'occhiata della zia e della nipote, una subitanea luce la illuminò, temette d'essere lo zimbello di quella vecchia signora così dotta e così astuta nell'intrigo. A quel pensiero l'amor proprio di madama de Vaudremont provò forse maggiore interesse della curiosità a trovare il filo di quell'intrigo. La preoccupazione interna alla quale fu in preda non la lasciò padrona di sè. Il colonnello, interpretando a favor suo l'indirizzo che si rivelava nei discorsi e nei modi della contessa, divenne più ardente e più insistente. I vecchi diplomatici svogliati, che si divertivano a seguire le espressioni delle fisionomie, non avevano mai trovato tanti intrighi cui tener dietro ed indovinare. Le passioni che agitavano le due coppie diversificavano ad ogni passo in quelle sale animate, riproducendosi con altre gradazioni su altre figure. Lo spettacolo di tante passioni vive, di tutte queste lotte amorose, vendette dolci, favori crudeli, sguardi infiammati, li richiamava con maggior vivezza alla loro impotenza. Finalmente il barone aveva potuto sedersi vicino alla contessa di Soulanges. I suoi occhi erravano furtivamente su un collo fresco come la rugiada, profumato come un fiore di campo. Ammirava da vicino le bellezze che da lungi l'avevano sbalordito. Poteva vedere un piedino ben calzato, misurare coll'occhio un vitino snello e grazioso. A quell'epoca le donne annodavano la cintura dell'abito precisamente al di sotto del seno, ad imitazione delle statue greche, moda spietata per le donne il cui busto avesse qualche difetto. Gettando degli sguardi furtivi su quel seno, Marziale rimase incantato della perfezione di forme della contessa. — Non avete ballato una sola volta questa sera, signora, egli disse con voce dolce e lusinghiera; ritengo, non sarà per mancanza di cavaliere. — Non vado nel mondo, sono sconosciuta, rispose freddamente madama di Soulanges che nulla aveva capito nello sguardo della zia. Marziale allora, per darsi un contegno, manovrò il bel diamante che ornava la sua mano sinistra; le fiamme lanciate dalla pietra parvero gettare una subita luce nell'anima della giovine contessa, che arrossì e guardò il barone con una espressione indefinibile. — Amate il bello? chiese il provenzale, per tentare di riannodare la conversazione. — Oh! molto, signore. A quella strana risposta i loro sguardi s'incontrarono. Il giovane, sorpreso dall'accento penetrante che svegliò nel suo cuore una vaga speranza, aveva tosto interrogato gli occhi della giovine signora. — Ebbene, madama, non è temerità da parte mia il proporvi di fare con voi la prima contradanza? Un'ingenua confusione colorò in rosso le bianche gote della contessa. — Ma, signore, ho già rifiutato un ballerino, un militare. — Sarebbe quel gran colonnello di cavalleria che vedete laggiù? — Precisamente. — È mio amico, non temete di nulla. Mi accordate il favore che oso sperare? — Sì, signore. Quella voce accusava un'emozione così nuova, così profonda che l'anima logora del referendario ne fu scossa. Si sentì invaso dalla timidità di un collegiale, si disorientò, la sua testa meridionale si infiammò, volle parlare, le sue espressioni gli parvero sgraziate, al confronto delle risposte spiritose ed acute di madama Soulanges. Fu buona ventura per lui che la contradanza cominciasse. In piedi presso la sua bella danzatrice si trovò più a posto. Per molti uomini la danza è un modo di essere; spiegando le grazie del corpo ritengono di agire più potentemente che collo spirito sul cuore delle donne. Il provenzale voleva in quel momento usare tutti i suoi mezzi di seduzione. Aveva condotta la sua conquista alla quadriglia. Mentre l'orchestra eseguiva il preludio della prima figura, il barone provava un'incredibile soddisfazione di orgoglio quando, passando in rivista le ballerine collocate sulle fronti di quel formidabile quadrato, si accorse che l'abbigliamento di madama di Soulanges sfidava perfino quello di madama de Vaudremout, che per un caso, forse procurato, taceva col colonnello il _vis-à-vis_ del barone e della dama azzurra. Gli sguardi si fissarono un momento su madama de Soulanges, un mormorio lusinghiero annunziava essere essa il soggetto del discorso di ogni cavaliere colla sua ballerina. Le occhiate d'invidia e d'ammirazione si incrociavano su di lei così vivamente, che la giovine donna, timida per un trionfo al quale pareva volersi sottrarre, abbassò modestamente gli occhi, arrossì e non fece che diventare più deliziosa. Non rialzò le pupille che per guardare il suo ballerino, inebriato, come se avesse voluto scaricare su di lui la gloria di questi omaggi e dirgli che preferiva il suo a tutti gli altri: mise dell'ingenuità nella sua civetteria, o piuttosto parve abbandonarsi a quella prima ammirazione dalla quale comincia l'amore con quella buona fede che non si incontra se non nei cuori giovani. Quando ballò gli spettatori poterono facilmente credere non spiegasse le sue grazie che per Marziale; e, benchè modesta e nuova ai maneggi delle sale dorate, seppe al pari della più consumata civetta alzare a proposito gli occhi su di lui e abbassarli con una finta modestia. Quando le nuove leggi di una contradanza, inventata dal ballerino Trenis, alla quale diede il suo nome, condussero Marziale davanti al colonnello: — Ho guadagnato il tuo cavallo, gli disse ridendo. — Sì, ma hai perduto ottanta mila lire di rendita, replicò il colonnello mostrandogli madama de Vaudremont. — E che m'importa? rispose Marziale; madama di Soulanges vale dei milioni. Alla fine di quella contradanza, più di un bisbiglio susurrò a più di un orecchio. Le donne meno belle facevano della morale coi loro ballerini a proposito dei vincolo nascente fra Marziale e la contessa di Soulanges. Le più belle erano sbalordite da una tale facilità. Gli uomini non concepivano la fortuna del piccolo referendario nel quale non trovavano nulla di molto seducente. Alcune donne indulgenti dicevano che non bisognava precipitare un giudizio sulla contessa; i giovani sarebbero bene infelici se uno sguardo espressivo od alcuni passi eseguiti con grazia fossero sufficienti per compromettere una donna. Marziale solo conosceva la portata della sua felicità. All'ultima figura, quando le dame della quadriglia vennero a fare il molinello, le sue dita strinsero quelle della contessa, e gli parve sentire attraverso la pelle fina e profumata dei guanti che le dita della giovane rispondessero all'amoroso suo appello. — Madama, le disse nel punto in cui finì la contradanza, non tornate in quell'angolo odioso dove avete finora seppellito la vostra figura e la vostra toeletta. L'ammirazione è il solo profitto che possiate ritrarre dai diamanti che ornano il vostro collo così bianco e le vostre treccie così bene ordinate? Venite a fare una passeggiata nelle sale e godervi della festa e di voi stessa. Madama de Soulanges seguì il suo seduttore, il quale pensava che gli sarebbe più certamente appartenuta, se fosse riuscito a metterla in pubblico. Ambedue fecero allora alcuni giri attraverso i gruppi, che ingombravano le sale del palazzo. La contessa di Soulanges, inquieta, si arrestava un momento prima di entrare in ciascuna sala, e non vi penetrava se non dopo aver teso il collo per gettare uno sguardo su tutti gli uomini. Questa paura, che colmava di gioja il referendario, non pareva calmata se non quando egli aveva detto alla tremante sua compagna: — Rassicuratevi, non c'è. Giunsero così fino ad un'immensa galleria di quadri, situata in un'ala del palazzo, e donde si godeva in anticipazione del magnifico aspetto di un desco preparato per trecento persone. Siccome la cena stava per cominciare, Marziale trascinò la contessa verso un gabinetto ovale che prospettava sui giardini, ove i fiori più rari ed alcuni arbusti formavano un boschetto profumato sotto brillanti tappezzerie azzurre. Il mormorio della festa la veniva a morire. Entrandovi la contessa trasalì, e rifiutò ostinatamente di seguirvi il giovane: ma dopo aver gettati gli occhi sopra uno specchio, senza dubbio vi vide dei testimonii, giacchè andò a sedersi con abbastanza disinvoltura sopra un'ottomana. — Questo gabinetto è delizioso, ella disse ammirando una tappezzeria color del cielo tempestata di perle. — Tutto vi respira amore e voluttà, disse il giovane estremamente commosso. Col favore della luce misteriosa che vi regnava guardò la contessa e sorprese sulla sua fisionomia dolcemente agitata un'espressione di imbarazzo, di pudore, di desiderio, che lo incantò. La giovine donna sorrise, e quel sorriso sembrò ponesse una fine alla lotta dei sentimenti che si urtavano nel suo cuore, prese col modo più seducente la mano sinistra del suo adoratore, e ne levò l'anello sul quale aveva fermata l'attenzione. — Il bel diamante! esclamò coll'ingenuo accento d'una giovinetta che lascia travedere le lusinghe d'un primo tentativo. Marziale, commosso dalla carezza involontaria ma inebbriante che la contessa gli aveva fatto levandogli il brillante, fissò su di lei sguardi scintillanti come l'anello. — Portatelo, le disse, in ricordo di quest'ora celeste e per amore di... Essa lo contemplava con tale estasi, che egli non finì: le baciò la mano. — Me lo regalate? ella disse con aria meravigliata. — Vorrei offrirvi il mondo intiero. — Non scherzate? rispose colla voce alterata da una soddisfazione troppo viva. — Non accettate che il mio diamante? — Non me lo riprenderete mai? chiese. — Mai. Ella si mise l'anello in dito. Marziale, contando su una prossima felicità, fece il gesto di passare la mano sul corpo della contessa, che si alzò di botto, e disse con voce chiara, senza emozione di sorta: — Signore, accetto questo diamante con tanto minor scrupolo, inquantochè mi appartiene. Il referendario rimase interdetto. — Il signor di Soulanges lo prese non ha guari sulla mia tavoletta e mi disse d'averlo perduto. — Siete in errore, madama, disse Marziale, piccato, l'ho avuto da madama de Vaudremont. — Precisamente, replicò ella sorridendo. Mio marito si è fatto prestare da me questo anello, l'ha regalato a lei, essa ve ne ha fatto un dono; il mio anello ha viaggiato, ecco tutto. Questo anello mi insegnerà forse tutto ciò che ignoro e mi apprenderà il segreto di piacer sempre. Signore, riprese, se non fosse stato mio, siate certo che non avrei arrischiato di pagarlo così caro, giacchè, a quanto si dice, una giovane presso voi è in pericolo. Ma ecco, continuò facendo scattare una molla nascosta sotto la pietra, vi sono ancora i capelli del signor di Soulanges. E si slanciò nelle sale con tanta prestezza che pareva inutile tentare di raggiungerla, e d'altronde Marziale confuso non era in vena di proseguire l'avventura. Il riso di madama de Soulanges aveva trovato un'eco nel gabinetto, in cui il giovine bellimbusto scorse fra due arboscelli il colonnello e madama de Vaudremont che ridevano di tutto cuore. — Vuoi il mio cavallo per correre dietro alla tua conquista? gli disse il colonnello. La buona grazia con cui il barone sopportò le celie con cui l'assalirono madama de Vaudremont e Montcornet gli valse la loro discrezione su quella serata, nella quale il suo amico scambiò il cavallo di battaglia con una donna giovine, ricca e bella. Mentre la contessa di Soulanges varcava l'intervallo che separa la Chaussée d'Antin dal sobborgo San Germano, in cui dimorava, fu in preda alle più vive inquietudini. Prima di abbandonare il palazzo di Gondreville ne aveva percorse le sale senza incontrarvi nè sua zia nè suo marito, partiti senza di lei. Dei terribili presentimenti vennero allora a tormentare la sua anima ingenua. Testimonio discreto delle sofferenze provate da suo marito dal giorno che madama de Vaudremont l'aveva attaccato al suo carro, sperava che un prossimo pentimento le avrebbe ricondotto lo sposo. Era quindi con una incredibile ripugnanza che aveva acconsentito al piano concepito da sua zia, madama di Grandlieu, ed in quel momento temeva di aver commesso un errore. Quella serata aveva rattristata la sua anima candida. Sgomentata da principio dall'aria sofferente e cupa del conte di Soulanges, lo fu ancora più dalla bellezza della sua rivale, e la corruzione del gran mondo le stringeva il cuore. Passando sul Ponte Reale, buttò via i capelli profanati che si trovavano sotto il diamante, già offerto come pegno di puro amore. Pianse ricordando le vive sofferenze alle quali era da lungo tempo in preda, e fremette pensando che il dovere delle donne le quali vogliono ottenere la pace in casa le costringeva a seppellire nel fondo del cuore angoscie crudeli come la sua. — Ahimè! diceva, come possono fare le donne che non amano? Dov'è la sorgente della loro indulgenza? Io non posso credere, come dice mia zia, che basti la ragione per sostenerle in tali abnegazioni. Sospirava ancora quando il suo servitore abbassò l'elegante predella dalla quale si lanciò nel vestibolo del suo palazzo. Salì precipitosamente le scale, e quando giunse nella sua camera, trasalì di terrore vedendo suo marito seduto presso il camino. — Da quando, mia cara, andate al ballo senza di me, senza prevenirmi? chiese con voce alterata. Sappiate che una donna senza suo marito è sempre spostata. Voi eravate singolarmente compromessa nell'angolo oscuro in cui vi eravate cacciata. — Oh mio buon Leone, ella disse con voce carezzevole, non ho potuto resistere al piacere di vederti senza che tu mi vedessi. Mia zia mi ha condotta a questo ballo, e vi sono stata ben fortunata. Queste parole disarmarono gli sguardi del conte della loro severità fittizia, giacchè egli si era fatto a sè stesso vivi rimproveri udendo il ritorno di sua moglie, che senza dubbio al ballo era stata informata di una infedeltà che egli sperava averle occultata, e giusta il costume degli amanti che si sentono in colpa tentava, movendo pel primo querela alla contessa, di evitare la sua collera troppo giusta. Guardò in silenzio sua moglie che gli parve più bella che mai. Felice di vedere suo marito sorridente e di trovarlo a quell'ora in una camera dove da qualche tempo veniva con minor frequenza, la contessa lo guardò così teneramente che arrossì ed abbassò gli occhi. Questa clemenza inebbriò tanto più Soulanges in quanto che succedeva ai tormenti che aveva provati durante il ballo; prese la mano di sua moglie e la baciò per riconoscenza; non si trova spesso della riconosoenza nell'amore? — Ortensia, che hai al dito che mi ha fatto tanto male alle labbra? chiese ridendo. — Il mio diamante, che tu dicevi perduto ed io ho ritrovato. Il generale Montcornet non sposò madama de Vaudremont, ad onta della buona intelligenza nella quale ambedue vissero per alcuni momenti, giacchè essa fu una delle vittime dello spaventevole incendio che rese eternamente celebre il balio dato dall'ambasciatore d'Austria, in occasione del matrimonio dell'imperatore Napoleone colla figlia dell'imperatore Francesco II. L'ELISIR DI LUNGA VITA AL LETTORE Nell'esordio della vita letteraria dell'autore un amico morto da tempo, gli fornì il soggetto di questo studio che più tardi trovò in una raccolta pubblicata verso il principio di questo secolo; e, secondo le sue congetture, è una fantasia dovuta al Hoffmann di Berlino, pubblicata in qualche almanacco di Germania e dimenticata nelle opere di lui dagli editori. La Commedia Umana è abbastanza ricca d'invenzioni per permettere all'inventore di confessare un innocente prestito; come il buon La-Fontaine, egli del resto avrà trattato al modo suo e senza saperlo un fatto già narrato. Questo non fu uno di quegli scherzi di moda nel 1830, epoca in cui ogni autore _faceva dell'atroce_, per il piacere delle ragazze. Quando sarete arrivato all'elegante parricidio di Don Giovanni, cercate di indovinare la condotta che in circostanze presso a poco simili terrebbero quegli onesti che, nel secolo decimonono, prendono danaro a vitalizio sulla fede di un catarro, e quelli che affittano una casa ad una vecchia per tutto il resto dei suoi giorni. Risusciterebbero essi i loro assicurati? Desidererei che dei pesatori giurati di coscienze esaminassero qual grado di somiglianza può esistere fra Don Giovanni ed i padri che maritano le loro figlie a motivo _delle speranze_. La società umana che, al dire di alcuni filosofi, cammina nella via del progresso, considera come un passo verso il bene l'arte di attendere la morte? Questa scienza ha creato dei mestieri onorevoli, mediante i quali si vive della morte. Lo stato sociale di certe persone è quello di sperare una morte; la covano, accoccolandosi ogni mattina sopra un cadavere, e se ne fanno un guanciale per la sera: sono i coadjutori, i cardinali, i sopranumerari, i tontinieri, ecc. Aggiungetevi molte persone delicate, che hanno premura di acquistare una proprietà il cui prezzo è superiore ai loro mezzi, ma che stabiliscono logicamente ed a freddo le probabilità di vita che restano ai loro padri od alle loro suocere, ottuagenarie o settuagenarie, dicendo: — «Prima di tre anni erediterò necessariamente e, allora....» Un omicida ci dà meno nausea di una spia. L'omicida ha forse ceduto a un moto di pazzia, può pentirsi, riabilitarsi. Ma la spia è sempre spia; è spia in letto, a tavola, camminando, di giorno, di notte; è vile ogni minuto. Si può essere omicida come è vile una spia? Eppure non ravvisate nella società una folla di esseri indotti dalle nostre leggi, dai nostri costumi, dagli usi, a pensare incessantemente alla morte dei loro, ad agognarla? Essi pensano ciò che vale una bara contrattando dei _cachemires_ per le loro donne, salendo le scale di un teatro, desiderando di andare ai _Bouffons_, sospirando una carrozza. Assassinano delle care creature, incantevoli di innocenza, nel momento in cui la sera offrono loro da baciare le fronti infantili dicendo: «Buona sera, papà!» Vedono ad ogni momento degli occhi che vorrebbero chiudere e che si riaprono ogni mattina alla luce come quelli di Belvidero in questo _studio_. Dio solo sa il numero di parricidii che si commettono col pensiero! Figuratevi un uomo che deve passare mille scudi di rendita vitalizia ad una vecchia, e che ambedue vivono in campagna, separati da un ruscello, ma abbastanza estranei l'uno all'altra, per potere odiarsi cordialmente senza mancare a quelle convenienze umane che mettono una maschera sul viso di due fratelli, di cui l'uno avrà il maggiorasco, l'altro una legittima. Tutta la civiltà europea riposa sull'_eredità_ come sopra un perno; sarebbe stoltezza sopprimerlo, ma non si potrebbe, come nelle macchine che formano l'orgoglio della nostra epoca, perfezionare questa ruota essenziale? Se l'autore ha conservato questa vecchia formola: _Al lettore_ in un'opera in cui cerca di rappresentare tutte le forme letterarie, si è per fare un'osservazione relativa ad alcuni studii ed in ispecie a questo. Ognuna delle sue composizioni è basata su delle idee più o meno nuove, la cui manifestazione gli sembra utile; può tenere alla priorità di certe forme, di certi pensieri, che, di poi, sono passati nel dominio letterario, e si sono talvolta volgarizzati. Le date della primitiva pubblicazione di ciascun studio non devono dunque riuscire indifferenti a quelli dei lettori che vorranno rendergli giustizia. La lettura ci procura amici sconosciuti, e quale amico è un lettore! Abbiamo degli amici noti che non leggono una riga di nostro! L'autore spera aver pagato il suo debito dedicando quest'opera DIIS IGNOTIS. . . . . . . . In un sontuoso palazzo di Ferrara, una sera d'inverno Don Juan Belvidero, dava un festino ad un principe della casa d'Este. A quell'epoca una festa era uno spettacolo meraviglioso che solo potevano realizzare ricchezze da re o da gran signore. Sedute intorno ad un tavolo illuminato da candele profumate, sette allegre dame scambiavano dolci propositi fra ammirabili capi d'opera, i cui candidi marmi si staccavano sulle pareti di stucco rosso e contrastavano coi ricchi tappeti di Turchia. Vestite di seta, scintillanti d'oro e cariche di pietre preziose che brillavano meno degli occhi loro, tutte raccontavano energiche passioni, ma diverse come lo erano le loro bellezze. Esse non differenziavano nè di parole nè di idee; l'aria, uno sguardo, qualche gesto e l'accento servivano alle loro parole di commentarii libertini, lascivi, melanconici o scherzosi. Una pareva dire: — La mia bellezza sa riscaldare il cuore gelato dei vecchi. L'altra: — Amo restare sdrajata sui cuscini, per pensare con ebbrezza a quelli che mi adorano. Una terza, novizia di queste feste, voleva arrossire: — In fondo del cuore sento un rimorso, ella diceva. Sono cattolica ed ho paura dell'inferno. Ma vi amo tanto, oh tanto, che posso sacrificarvi l'eternità. La quarta, vuotando una tazza di vino di Chio, sclamava: — Viva l'allegria! Ad ogni aurora io prendo una nuova vita. Dimentica del passato, ebra ancora degli assalti della vigilia, tutte le sere esaurisco una vita di felicità, una vita piena d'amore! La donna seduta presso Belvidero lo guardava con occhi infocati. Era silenziosa. — Non mi affiderei ai _bravi_ per uccidere il mio amante, se mi abbandonasse! Poi aveva riso; ma la sua mano convulsiva rompeva una scatola d'oro da confetti, miracolosamente scolpita. — Quando sarai tu granduca? dimandò la sesta al principe con una espressione di gioja omicida fra i denti, e di delirio bacchico negli occhi. — E tu, quando morrà tuo padre? disse la settima ridendo e gettando il suo mazzo a Don Giovanni con un gesto inebriante di civetteria. Era una innocente giovinetta, avvezza a scherzare con tutte le cose sacre. — Ah! non me ne parlate, gridò il giovine e bello Don Juan Belvidero, non vi è al mondo che un padre eterno, e sventura vuole che l'abbia io. Le sette cortigiane di Ferrara, gli amici di Don Giovanni ed il principe stesso gettarono un grido d'orrore. Duecento anni dopo e sotto Luigi XV la gente di buon gusto avrebbe riso di quella sortita. Ma fors'anche sul principio di un'orgia le anime avevano ancora troppa lucidità. Ad onta del fuoco delle candele, del grido delle passioni, dell'aspetto dei vasi d'oro e d'argento, del fumo dei vini, ad onta della contemplazione delle donne più incantevoli, vi era forse ancora, nel fondo dei cuori, un po' di quella vergogna per le cose umane e divine che lotta fino a tanto che l'orgia l'abbia annegata negli ultimi fiotti d'un vino spumante. Tuttavia i fiori erano già appassiti, gli occhi si inebetivano, e l'ubbriachezza guadagnava terreno, secondo l'espressione di Rabelais, fino ai sandali. In quel momento di silenzio, s'aprì una porta e, come al convito di Baldassare, Dio si fece riconoscere; comparve sotto le sembianze di un vecchio domestico dai capelli bianchi, dal passo tremante, dalle sopraciglia contratte; entrò con aria triste, sprezzò con un'occhiata le corone, le tazze di vermiglia, le piramidi di frutta, lo splendore della festa, la porpora dei volti sbalorditi ed i colori dei cuscini su cui si affondavano le candide braccia delle donne; finalmente gettò il lutto su quella follia dicendo con voce cavernosa queste tristi parole: — Monsignore, vostro padre è moribondo. Don Giovanni si alzò dicendo ai suoi ospiti un gesto che può tradursi così: «Scusatemi, non sono cose che accadono tutti i giorni.» La morte di un padre non sorprende spesso i giovan nel mezzo degli splendori della vita, nel seno delle follie di un'orgia? La morte è così subitanea ne' suoi capricci come una cortigiana nelle sue collere; ma, più fedele, non ha mai ingannato alcuno. Quando Don Giovanni ebbe chiusa la porta della sala, camminò in una lunga galleria altrettanto fredda quanto oscura, e si sforzò di assumere un'apparenza teatrale; pensando alla sua parte di figlio aveva buttata via col tovagliolo la mattana. La notte era nera. Il servitore silenzioso che conduceva il giovine verso una camera mortuaria, faceva scarsamente lume al suo padrone, di modo che la _morte_, ajutata dal freddo, dal silenzio, dall'oscurità, per una reazione d'ubbriacatura forse, potè insinuare alcune riflessioni nell'animo di questo dissipatore, che interrogò la sua vita e divenne pensieroso come un uomo sotto processo che s'incammina al tribunale. Bartolomeo Belvidero padre di Don Giovanni era un vecchio nonagenario che aveva passata la maggior parte della sua vita nei traffichi mercantili. Avendo spesso attraversati i magici paesi dell'Oriente, aveva acquistate immense ricchezze e cognizioni, come egli diceva, più preziose dell'oro e dei diamanti dei quali allora più non si curava. — Preferisco un dente ad un rubino ed il potere al sapere, diceva qualche volta sorridendo. Questo buon padre si compiaceva nell'udire Don Giovanni raccontargli una scappata giovanile, e diceva con aria maligna prodigandogli l'oro: Mio caro figlio, non fare altre sciocchezze che quelle le quali ti divertiranno. — Era il solo vecchio che provasse piacere a vedere un giovane; l'amor paterno lo illudeva nella contemplazione di una vita così brillante. All'età di sessant'anni Belvidero si era innamorato di un angelo di pace e di bellezza. Don Giovanni era stato il solo frutto di questo tardo e passeggero amore. Dopo quindici anni il buon uomo deplorava la perdita della sua cara Juana. I numerosi suoi servitori e suo figlio attribuivano a questo dolore del vecchio le singolari abitudini che aveva contratte. Rifugiato nell'ala più incomoda del suo palazzo, Bartolomeo non ne usciva che assai di rado, e Don Giovanni stesso non poteva penetrare nell'appartamento di suo padre senza averne ottenuto il permesso. Se questo volontario anacoreta andava e veniva nel palazzo, o per le vie di Ferrara, pareva in cerca di cosa che gli mancasse; camminava tutto impensierito, indeciso, preoccupato come un uomo in lotta con un'idea o con un ricordo. Mentre il giovane dava delle feste sontuose, ed il palazzo rimbombava degli scoppii della sua gioja, i cavalli scalpitavano nelle corti e i paggi questionavano giocando ai dadi sui gradini, Bartolomeo mangiava sette oncie di pane al giorno e beveva dell'acqua. Se gli occorreva un po' di pollame, era per darne le ossa ad un barbone nero, suo fedel compagno. Durante la malattia, se il suono del corno e gli abbajamenti dei cani lo sorprendevano nel sonno, si accontentava di dire: — Ah! è Don Giovanni che rincasa. Su questa terra non si era mai incontrato un padre così comodo e così indulgente, quindi il giovane Belvidero, avvezzo a trattarlo senza complimenti, aveva tutti i difetti dei fanciulli viziati; viveva con Bartolomeo come una cortigiana capricciosa vive con un antico amante, facendo passare un'impertinenza con un sorriso, vendendo il suo buon umore e lasciandosi amare. Ricostruendo mentalmente il quadro dei suoi anni giovanili, Don Giovanni si accorse che gli sarebbe stato difficile trovare in difetto la bontà di suo padre. Sentendo in fondo al cuore nascere un rimorso, nel momento in cui attraversava la galleria, si sentì quasi spinto a perdonare a Belvidero d'aver vissuto così a lungo. Tornava a sentimenti di pietà filiale, come un ladro diventa uomo onesto per il possibile godimento di un milione bene occultato. In breve il giovane attraversò le alte e fredde sale che componevano l'appartamento di suo padre. Dopo aver provato gli effetti d'un'atmosfera umida, respirata l'aria densa, l'odore stantìo che esalava dalle vecchie tappezzerie e dagli armadii coperti di polvere, si trovò nell'antica camera del vecchio, davanti a un letto nauseabondo, presso un focolare quasi spento. Una lampada posta sopra un tavolo di forma gotica, gettava a intervalli ineguali degli sprazzi di luce più o meno forti sul letto e mostrava così la figura del vecchio sotto aspetti sempre diversi. Il freddo fischiava attraverso le finestre mal chiuse; e la neve sferzando i vetri produceva uno strepito sordo. Questa scena faceva un contrasto così spiccato con quella che Don Giovanni aveva lasciata, che non potè a meno di trasalire. Poi ebbe freddo quando, avvicinandosi al letto, un barbaglio abbastanza violento di luce, spinto da un soffio di vento, illuminò la testa di suo padre; i lineamenti ne erano scomposti, la pelle aderente alle ossa aveva delle tinte verdognole che la bianchezza del guanciale su cui riposava il vegliardo rendeva ancora più orribili; contratta dal dolore, la bocca semichiusa e priva di denti lasciava passare alcuni sospiri la cui lugubre energia era sostenuta dagli urli della tempesta. Ad onta di questi segni di distruzione, su quella testa splendeva un carattere incredibile di potenza. Uno spirito superiore vi combatteva la morte. Gli occhi, infossati dalla malattia, avevano una fissità singolare. Pareva che Bartolomeo cercasse col suo sguardo di morente di uccidere un nemico steso ai piedi del suo letto. Quello sguardo fisso e freddo era tanto più spaventoso, in quanto che la testa restava in una immobilità simile a quella dei cranii posti sulle tavole dei medici. Il corpo, nettamente disegnato dalle coperte del letto, annunziava che le membra del vecchio avevano la stessa rigidezza. Tutto era morto, meno gli occhi. I suoni poi che uscivano dalla bocca avevano qualche cosa di meccanico. Don Giovanni provò una certa vergogna di arrivare al letto di suo padre morente conservando sul petto il mazzolino di una cortigiana, e portandovi i profumi di una festa ed il sentore del vino. — Tu ti divertivi! sclamò il vecchio, vedendo suo figlio. Nello stesso momento la voce pura e leggiera d'una cantante che rallegrava i convitati, fortificata dagli accordi della viola sulla quale si accompagnava, dominò i rantoli dell'uragano, e risuonò fino in quella funebre stanza. Don Giovanni voleva non intendere quella selvaggia affermazione data a suo padre. Bartolomeo disse: — Non te ne faccio un carico, figliuol mio. Questa parola piena di dolcezza fece male a Don Giovanni, che non perdonò a suo padre quella pungente bontà. — Che rimorso per me, padre mio! gli disse ipocritamente. — Povero Juanino, rispose il morente con voce sorda, sono sempre stato così buono con te, che tu non desidererai la mia morte? — Oh, sclamò Don Giovanni, se fosse possibile rendervi la vita dandovi una parte della mia! (Queste cose si possono sempre dire, pensava lo scialacquatore; gli è come se offrissi il mondo alla mia amante.) Appena finito il suo pensiero, il barbone abbajò. Quella voce intelligente fece fremere Don Giovanni: credette di essere stato compreso dal cane. — Sapeva bene, figlio mio, che potevo contare su di te, gridò il moribonda Io vivrò. Va, tu sarai contento. Vivrò, ma senza toglierti un giorno di quelli che ti appartengono. — Ha il delirio, disse fra sè Don Giovanni. Poi aggiunse a voce alta: Si, caro padre, voi vivrete certo, tanto come me, giacchè la vostra imagine sarà continuamente nel mio cuore. — Non si tratta di questa vita, disse il vecchio signore raccogliendo le sue forze per mettersi a sedere, giacchè fu agitato da uno di quei sospetti che non nascono se non sotto il capezzale dei morenti. Ascolta, figlio mio, continuò con una voce affievolita da quest'ultimo sforzo, io non ho maggior voglia di morire che tu non l'abbia di far senza innamorate, vino, cavalli, falconi, cani ed oro. — Lo credo bene, pensò il figlio inginocchiandosi davanti al letto e baciando una delle mani cadaveriche di Bartolomeo. Ma, riprese a dire, padre mio, mio caro padre, bisogna sottomettersi alla volontà di Dio! — Dio son io, replicò il vecchio brontolando. — Non bestemmiate! gridò il giovane vedendo l'aria minacciosa che assunsero i tratti di suo padre. Guardatevene bene; avete ricevuta rastrema unzione ed io non potrei più consolarmi, se vi vedessi morire in peccato. — Vuoi ascoltarmi? gridò il morente ringhiando. Don Giovanni tacque. Regnò un orribile silenzio. Attraverso i pesanti fischi della neve, gli accordi della viola e la voce deliziosa arrivarono ancora, deboli come lo spuntare del giorno. Il moribondo sorrise. — Ti ringrazio di aver invitato delle cantanti, d'aver condotto della musica. Una festa, delle donne giovani e belle, bianche coi capelli neri! tutti i piaceri della vita. Falle restare, io sto per rinascere. — Il delirio è al colmo, disse Don Giovanni. — Ho scoperto un mezzo per risuscitare. Guarda! Cerca nel cassetto del tavolo, l'aprirai spingendo una molla nascosta dal grifone. — Ci sono, padre mio. — Là, bravo, prendi una boccettina di cristallo di rocca. — Eccola. — Ho impiegato venti anni a.... In quel momento il vecchio sentì avvicinarsi la sua fine, e raccolse tutta la sua energia per dire: appena avrò reso l'ultimo sospiro, mi strofinerai tutto con quell'acqua, ed io risusciterò. — Ve n'è ben poca replicò, il giovane. Se Bartolomeo non poteva più parlare, aveva ancora la facoltà di intendere e di vedere; a quelle parole volse la testa verso Don Giovanni con un movimento spaventosamente brusco; il suo collo restò torto come quello di una statua di marmo dal pensiero dello scultore condannata a guardare da un lato: i suoi occhi ingranditi contrassero una ributtante immobilità. Era morto, morto perdendo la sua sola, la sua ultima illusione. Cercando un asilo nel cuore di suo figlio, vi trovava una tomba più vuota di quella che di solito gli uomini fanno ai loro morti. Quindi i suoi capelli furono sparpagliati dall'orrore, ed il suo sguardo convulso parlava ancora. Era un padre che si levava dal suo sepolcro per domandare vendetta a Dio! — To'! il buon uomo è finito, esclamò Don Giovanni. Nella premura di presentare alla luce della lampada la boccetta misteriosa, come un bevitore consulta la sua bottiglia alla fine del pranzo, non aveva veduto imbianchire l'occhio di suo padre. Il cane estatico contemplava alternativamente il padrone morto e l'elisir, come Don Giovanni guardava tratto tratto suo padre e la fiala. La lampada gettava delle fiamme ondeggianti. Il silenzio era profondo, la viola muta. Belvidero trasalì credendo di vedere suo padre che si muoveva. Intimidito dall'espressione fredda dei suoi occhi accusatori, li chiuse, come avrebbe spinta una persiana mossa dal vento in una notte d'autunno. Si tenne ritto, immobile, ingolfato in un mondo di pensieri. Tutto ad un tratto uno strepito aspro, simile allo stridore di una molla irrugginita, ruppe quel silenzio. Don Giovanni, sorpreso, per poco non lasciò cadere la boccetta. Un sudore più freddo dell'acciajo d'un pugnale, esci dai suoi pori. Un gallo di legno dipinto si alzò al di sopra di un orologio e cantò tre volte. Era una di quelle macchine ingegnose coll'ajuto delle quali i dotti di quell'epoca si facevano svegliare all'ora fissata pei loro lavori. L'alba tingeva già in rosso le finestre. Don Giovanni aveva passate dieci ore a riflettere. Il vecchio orologio era più fedele al suo servizio ch'egli non lo fosse nel compimento dei suoi doveri verso Bartolomeo. Quel meccanismo si componeva di legno, di molle, di corde, di ruote, mentre egli aveva quel meccanismo particolare all'uomo che chiamasi un cuore. Per non esporsi più a perdere il misterioso liquore, lo scettico Don Giovanni lo ricollocò nel cassetto della piccola tavola gotica. In quel momento solenne udì nelle gallerie un sordo tumulto; erano voci confuse, risa soffocate, passi leggieri, fruscii di seta, insomma lo strepito di una allegra brigata che cerca di raccogliersi. La porta si aperse, ed il principe, gli amici di Don Giovanni, le sette cortigiane, le cantatrici, apparvero nello strano disordine in cui si trovano delle danzatrici sorprese dal chiarore del mattino, quando il sole lotta colle fiamme delle candele che impallidiscono. Arrivavano tutti per dare al giovine ereditiero le consolazioni d'uso. — Oh! oh! il povero Don Giovanni avrebbe dunque presa sul serio questa morte? disse il principe all'orecchio della Brambilla. — Ma suo padre era un gran buon uomo, ella rispose. Le meditazioni notturne di Don Giovanni avevano impressa sui suoi lineamenti un'espressione così singolare, che impose silenzio a quel gruppo. Gli uomini restarono immobili. Le donne, i cui labbri erano arsi dal vino, le cui gote erano chiazzate dai baci, si inginocchiarono e si misero a pregare. Don Giovanni non potè a meno di trasalire vedendo gli splendori, le gioje, le risa, i canti, la gioventù, la bellezza, il potere, tutte le personificazioni della vita, prosternarsi così davanti alla morte. Ma in questa adorabile Italia, stravizzo e religione si accoppiavano allora così bene, che la religione era uno stravizzo, lo stravizzo una religione. Il principe strinse affettuosamente la mano a Don Giovanni, poi tutte le faccie avendo formulata simultaneamente la stessa smorfia tra la tristezza e l'indifferenza, quella fantasmagoria disparve lasciando vuota la sala. Un bel quadro della vita! Discendendo le scale il principe disse alla Roverbella: — Eh! chi avrebbe creduto Don Giovanni uno spaccone d'empietà! Ama suo padre! — Avete osservato il cane nero? chiese la Brambilla. — Eccolo immensamente ricco, soggiunse sospirando la Bianca Cavatoline. — Che m'importa? sclamò la fiera Varenese, quella che aveva spezzata la scatola da confetti. — Come? Che t'importa? esclamò il duca. Coi suoi scudi adesso è altrettanto principe quanto lo sono io. Da principio Don Giovanni, agitato da mille pensieri, ondeggiò fra diversi partiti. Dopo avere consultato il tesoro ammassato da suo padre, tornò la sera nella camera mortuaria coll'anima gonfia di un terribile egoismo. Trovò nell'appartamento tutte le persone della casa occupate a disporre gli ornamenti del letto di parata sul quale _fu monsignore_ doveva essere espostoli giorno dopo, in mezzo ad una superba camera ardente, curioso spettacolo che tutta Ferrara doveva venire ad ammirare. Don Giovanni fece un segno, ed i suoi uomini si fermarono tutti, interdetti, tremanti. — Lasciatemi solo qui, disse con voce alterata, non vi ritornerete che al momento in cui io uscirò. Quando non risuonarono più che debolmente i passi del vecchio servitore che se ne andava per l'ultimo, Don Giovanni chiuse affrettatamente la porta, e, sicuro d'essere solo, esclamò: — Proviamo! Il corpo di Bartolomeo era steso su una lunga tavola. Per togliere agli occhi di tutti lo schifoso spettacolo di un cadavere che l'estrema decrepitezza e la magrezza rendevano simile ad uno scheletro, gli imbalsamatori avevano gettato sul corpo un drappo che l'avviluppava, meno la testa. Quella specie di mummia giaceva nel mezzo della camera ed il drappo, naturalmente morbido, ne disegnava vagamente le forme, ma acute, stecchite, gracili. Il volto era già segnato da larghe chiazze violacee che indicavano la necessità di completare l'imbalsamazione. Ad onta dello scetticismo di cui era armato, Don Giovanni tremò sturando la magica fiala di cristallo. Quando arrivò presso alla testa, fu anzi costretto di attendere un istante, tanto tremava. Ma quel giovane era stato di buon'ora sapientemente corrotto dai costumi d'una corte dissoluta; una riflessione degna del duca d'Urbino venne a dargli un coraggio eccitato da un vivo sentimento di curiosità; gli sembrava anzi che il demonio gli avesse suggerito queste parole che rimbombarono nel suo cuore: _Imbevigli un occhio!_ Prese un pannolino e dopo averlo con parsimonia intinto nel prezioso liquore, lo passò leggiermente sulla pupilla destra del cadavere. L'occhio si aperse. — Ah! ah! disse Don Giovanni stringendo in pugno la boccetta, come noi stringeremmo in sogno il ramo al quale siamo sospesi al di sopra di un precipizio. Vedeva un occhio pieno di vita, un occhio di fanciullo in una testa da morto; la luce vi tremolava in mezzo ad un fluido giovanile e, protetto da belle ciglia nere, scintillava simile a quei lumi isolati che il viaggiatore vede in una campagna deserta nelle sere d'inverno. Quell'occhio fiammeggiante pareva volesse slanciarsi su Don Giovanni, e pensava, accusava, condannava, minacciava, giudicava, parlava. Vi si agitavano tutte le passioni umane. Erano le preghiere più tenere; una collera di re, poi l'amore di una giovinetta che chiede grazia ai suoi carnefici; finalmente lo sguardo profondo che getta un uomo nel salire l'ultimo gradino del patibolo. Scintillava tanta vita in quel frammento di vita, che Don Giovanni spaventato rinculò, passeggiò per la camera, senza osare di mirare quell'occhio che rivedeva sulle pareti, sulle tappezzerie. La camera era seminata di punte piene di fuoco, di vita, d'intelligenza. Dappertutto brillavano degli occhi che gli abbajavano dietro. — Sarebbe risuscitato per altri cento anni, gridò involontariamente quando, ricondotto davanti a suo padre da un'influenza diabolica, contemplò quella scintilla luminosa. Tutto ad un tratto la pupilla intelligente si chiuse e si riaperse subitanea, come quella di una donna che acconsente. Se una voce avesse gridato: «Sì!» Don Giovanni non ne avrebbe provato maggior spavento. — Che fare? pensò. — Sì, disse l'occhio ammiccando con una sorprendente ironia. — Ah! ah! gridò Don Giovanni, v'è della stregoneria. E s'avvicinò all'occhio per schiacciarlo. Una grossa lagrima rotolò sulle guancie appassite del cadavere, e cadde sulla mano di Belvidero. — Scotta, gridò egli sedendo. Questa lotta l'aveva estenuato come se, a somiglianza di Giacobbe, avesse combattuto contro un angelo. Finalmente si alzò dicendo: — Purchè non si versi sangue! Poi, raccogliendo quel tanto di coraggio che basta per essere vile, schiacciò l'occhio, comprimendolo con un pannolino, ma senza guardarlo. Si udì un gemito, inatteso, ma terribile. Il povero barbone spirava urlando. — Che sia a parte del segreto? si domandò Don Giovanni guardando la bestia fedele. Don Giovanni Belvidero passò per un figlio pio. Inalzò un monumento di marmo bianco sulla tomba di suo padre, ed affidò l'esecuzione delle sue statue ai più celebri artisti dell'epoca. Non fu perfettamente tranquillo se non il giorno in cui la statua paterna, inginocchiata davanti alla religione, impose l'enorme suo peso su quella fossa, in fondo alla quale seppellì il solo rimorso che avesse sfiorato il suo cuore nei momenti di fisica stanchezza. Inventariando le immense ricchezze ammassate dal vecchio orientalista, Don Giovanni divenne avaro; non aveva da provvedere a due vite umane? Il suo sguardo profondamente scrutatore penetrò nel principio della vita sociale, ed abbracciò tanto meglio il mondo, in quanto lo vedeva attraverso una tomba. Analizzò gli uomini e le cose, per finirla in una volta col passato rappresentato dalla storia, col presente raffigurato dalla legge, coll'avvenire svelato dalla religione. Prese l'anima e la materia, le gettò in un crogiuolo, non vi trovò nulla, e da allora divenne _Don Giovanni_! Padrone delle illusioni della vita, si lanciò giovine e bello nella vita, sprezzando il mondo, ma facendosene padrone. La sua felicità non poteva essere quella felicità borghese che si pasce di un _lesso_ periodico, d'un buon scaldaletto per l'inverno, d'una lampada per la notte e di pantofole nuove ogni trimestre. No, egli non si impadronì dell'esistenza come una scimia che afferra una noce, e senza trastullarsi a lungo, spogliò saggiamente i volgari involucri del frutto per gustarne la polpa saporita. La poesia ed i sublimi trasporti della passione umana non gli vennero più tra i piedi. Non commise l'errore di quegli uomini potenti i quali, imaginando talvolta che le piccole anime credano alle grandi, si avvisano di scambiare gli alti pensieri dell'avvenire colla moneta spicciola delle nostre idee vitalizie. Egli ben poteva come essi camminare i piedi sulla terra, la testa nei cieli; ma amava meglio stare seduto ed asciugare col suoi baci più di un labbro di donna tenera, fresca e profumata; giacchè simile alla morte, dove passava divorava tutto senza pudore, volendo un amore di possesso, un amore orientale dai piaceri lunghi e focili. Non amando nelle donne che _la donna_, si fece dell'ironia un abito naturale all'anima sua. Quando le sue amanti si servivano di un letto per salire al cielo, ove andavano a perdersi in un'estasi delirante, Don Giovanni ve le seguiva, grave, espansivo, sincero quanto può esserlo uno studente tedesco. Ma diceva io, quando la sua innamorata, folle, smarrita, diceva _noi_! Sapeva mirabilmente lasciarsi trascinare da una donna. Era sempre abbastanza forte per lasciarle credere che tremava come un giovine collegiale che in un ballo dice alla sua prima ballerina: «Amate la danza?» Ma sapeva anche ruggire a proposito, sfoderare la potente sua spada e sfracellare i commendatori. V'era dello scherno nella sua semplicità e del riso nelle sue lagrime, giacchè sapeva piangere come una donna quando dice a suo marito: «Regalami carrozza e cavalli, o muojo tisica.» Pei negozianti il mondo è una balla o una massa di biglietti in circolazione; per la maggior parte dei giovani è una donna; per alcune donne è un uomo; per certi individui è un salone, una consorteria, un quartiere, una città; per Don Giovanni l'universo era lui. Modello di grazia e di nobiltà, d'uno spirito seducente, attaccò la sua barca a tutte le rive; ma facendosi condurre non andava che dove voleva essere condotto. Più visse, più dubitò. Esaminando gli uomini indovinò spesso che il coraggio era temerità; la prudenza poltroneria; la generosità astuzia; la giustizia un delitto; la delicatezza una ingenuità; la probità un'organizzazione; e per una fatalità singolare si accorse che le persone veramente probe, delicate, giuste, generose, prudenti e coraggiose, non godevano presso gli uomini considerazione di sorta. Che gelido scherzo! si disse. Non viene da un Dio. Ed allora, rinunciando ad un mondo migliore, non si levò mai il cappello udendo pronunciare un nome e considerò i santi di pietra nelle chiese come opere d'arte. In tal modo, comprendendo il meccanismo delle società umane, non urtava mai troppo i pregiudizii, perchè non era tanto potente come il carnefice; ma maneggiava le leggi sociali con quella grazia e quello spirito così ben resi nella scena con Monsieur Dimanche. Fu infatti il tipo del Don Giovanni di Molière, del Faust di Goethe, del Manfredo di Byron o del Melmoth di Maturin. Grandi imagini tracciate dai più grandi genii d'Europa, ed ai quali non mancarono gli accordi di Mozart come forse la lira di Rossini. Imagini terribili che il principio del male, esistente nell'uomo, fa eterne, e delle quali di secolo in secolo si ritrovano alcuni esemplari; sia che questo tipo entri a trattare cogli uomini incarnandosi in Mirabeau, sia che si accontenti di agire in silenzio come Bonaparte, o di conglobare l'universo in un'ironia come il divino Rabelais; oppure anco sia che rida degli esseri invece di insultare le cose, come il maresciallo di Richelieu; e meglio ancora, sia che si burli degli uomini e delle cose come il più celebre dei nostri ambasciatori. Ma il genio profondo di Don Giovanni Belvidero riassunse, in anticipazione, tutti questi genii. Si burlò di tutto. La sua vita era uno scherno che comprendeva uomini, cose, instituzioni, idee. Quanto all'eternità, aveva chiacchierato famigliarmente una mezz'ora col papa Giulio II ed alla fine della conversazione gli disse ridendo: — Se bisogna assolutamente scegliere, amo meglio credere a Dio che al diavolo; la potenza unita alla bontà offre sempre più risorse che il genio del male. — Sì un Dio, vuole che si faccia penitenza in questo mondo... — Voi dunque pensate sempre alle vostre indulgenze? rispose Belvidero. Ebbene! per pentirmi dei falli della prima mia vita, ho in riserva tutta un'esistenza. — Ah! se intendi così la vecchiaja, esclamò il papa, arrischii di essere canonizzato. — Dopo il vostro inalzamento al soglio pontificio si può credere qualunque cosa. E se ne andarono a vedere gli operaj occupati a costruire l'immensa basilica consacrata a san Pietro. — San Pietro è l'uomo di genio che ci ha costituito il nostro doppio potere, disse il papa a Don Giovanni, e merita questo monumento. Ma alle volte, di notte, penso che un diluvio passerà la spugna su di ciò e bisognerà ricominciare... Don Giovanni ed il papa si misero a ridere: si erano intesi. Uno sciocco sarebbe andato il giorno dopo a divertirsi con Giulio II da Raffaello, o nella deliziosa villa Madama; ma Belvidero andò a vederlo officiare pontificalmente per convincersi dei suoi dubbii. In un'orgia La Rovere avrebbe potuto smentirsi e commentare l'Apocalisse. Ad ogni modo questa leggenda non fu intrapresa per fornire materiali a quelli che volessero scrivere delle memorie sulla vita di Don Giovanni; è destinata a provare agli uomini onesti che Belvidero non è morto nel suo duello con una pietra, come vogliono far credere alcuni litografi. Allorchè Don Giovanni Belvidero raggiunse l'età di 60 anni, venne a stabilirsi in Ispagna. Là, nella sua tarda età, sposò una bella ed incantevole andalusa. Ma, per calcolo, non fu nè buon padre, nè buon marito. Aveva osservato che non siamo mai amati teneramente se non dalle donne delle quali non ci curiamo più che tanto. Dona Elvira, santamente allevata da una vecchia zia nel fondo dell'Andalusia, in un castello a poche leghe da San Lucar, era tutta abnegazione e grazia. Don Giovanni indovinò che quella giovinetta sarebbe donna da combattere lungamente una passione prima di cedervi; sperò quindi poterla conservare virtuosa fino alla sua morte. Fu uno scherzo serio, una partita a scacchi che voleva riservarsi di giuocare negli ultimi suoi giorni. Forte di tutti gli errori commessi da suo padre Bartolomeo, Don Giovanni risolse di far servire le minime azioni della sua vecchiaja alla riescita del dramma che doveva compiersi al suo letto di morte. Quindi la maggior parte delle sue ricchezze restò sepolta nelle cantine del suo palazzo a Ferrara, ove andava di raro. Quanto all'altra metà della sua sostanza, fu collocata a vitalizio, per interessare alla durata della sua vita la moglie ed i figli, specie di astuzia che suo padre avrebbe dovuto usare; ma questa speculazione machiavellica non gli fu molto necessaria. Il giovine Filippo Belvidero suo figlio divenne uno spagnuolo così conscienziosamente religioso quanto suo padre era empio, in virtù forse del proverbio: _a padre avaro figliuol prodigo_. L'abate di San Lucar fu scelto da Don Giovanni per dirigere le conscienze della duchessa di Belvidero e di Filippo. Questo ecclesiastico era un sant'uomo, bello della persona, mirabilmente proporzionato, che aveva dei begli occhi neri, una testa alla Tiberio, logorata dai digiuni, bianca di macerazioni, e giornalmente tentato come lo sono tutti i solitarii. Il vecchio signore sperava forse di potere uccidere anche un frate prima di fluire la prima locazione della sua vita. Ma sia che l'abate fosse abbastanza forte quanto poteva esserlo lo stesso Don Giovanni, sia che Dona Elvira avesse più prudenza o virtù che la Spagna non accordi alle donne, Don Giovanni fu costretto a passare i suoi ultimi giorni come un vecchio curato di campagna senza scandali in casa. Alle volte si divertiva a trovare il figlio o la moglie in fallo nei doveri di religione, e voleva imperiosamente che eseguissero tutte le obbligazioni imposte ai fedeli della corte di Roma. Finalmente non era mai tanto felice come quando udiva il galante abate di San Lucar, Dona Elvira e Filippo occupati a discutere un caso di conscienza. Intanto, ad onta delle cure prodigiose che il signor Don Giovanni Belvidero metteva per la propria conservazione, i giorni della decrepitezza arrivarono; con quell'età dolorosa vennero gli strilli dell'impotenza, strilli tanto più strazianti, quanto più ricchi erano i ricordi della sua bollente giovinezza, e della sua voluttuosa maturità. Quest'uomo in cui l'ultimo grado dell'ironia era di impegnare gli altri a credere alle leggi ed ai principii dei quali egli si burlava, si addormentava la sera su un _forse_! Questo modello di buon genere, questo duca, vigoroso in un'orgia, superbo alle corti, grazioso colle donne, i cui cuori erano stati da lui torti come un villano torce un laccio di vimini, quest'uomo di genio aveva un catarro ostinato, una sciatica importuna, una gotta brutale. Vedeva che i suoi denti l'abbandonavano, come alla fine di una serata, le dame più bianche, le meglio abbigliate se ne vanno ad una ad una lasciando la sala deserta e smobiliata. Finalmente le ardite sue mani tremarono, le sue svelte gambe vacillarono, ed alla sera l'apoplessia gli serrò il collo colle sue mani adunche e glaciali. Da quel giorno fatale divenne torbido e duro. Accusava la devozione di suo figlio e di sua moglie, pretendendo a volte che non gli prodigassero le loro cure toccanti e delicate colla voluta tenerezza se non perchè aveva fatto vitalizio di tutta la sua sostanza. Elvira e Filippo versavano allora lagrime amare e raddoppiavano le carezze al malizioso vecchio la cui voce arrocata si faceva affettuosa per dir loro: — Amici miei, mia cara moglie, mi perdonate, non è vero? Io vi tormento un poco. Ahimè! Gran Dio! come si servì di me per provare queste due creature celesti! Io, che dovrei essere la loro gioja, sono il loro flagello. — Così li incatenò ai piedi del suo letto, facendo loro dimenticare dei mesi intieri di impazienza e di crudeltà con un'ora in cui per essi spiegava i tesori sempre nuovi della sua grazia e di una falsa tenerezza. Sistema paterno che gli riescì infinitamente meglio di quello che suo padre aveva usato con lui. Finalmente arrivò a tal grado di malattia che per metterlo a letto bisognava manovrarlo come una feluca che entra in un canale pericoloso. Poi il giorno della morte arrivò. Questo brillante e scettico personaggio, la cui Intelligenza sopraviveva sola alla più terribile delle distruzioni, vide entrare un medico ed un confessore, le sue due antipatie. Ma con essi fu gioviale. Non aveva per sè un lume scintillante dietro il velo dell'avvenire? Su questa tela, di piombo per gli altri, diafana per lui, le leggiere, incantevoli delizie della gioventù scherzavano come ombre. Fu in una bella sera d'estate che Don Giovanni sentì l'avvicinarsi della morte. Il cielo di Spagna era d'un'ammirabile purezza, gli aranceti profumavano l'aria, le stelle distillavano luci vive e fresche, la natura sembrava dargli dei pegni sicuri della sua risurrezione; un figlio pietoso ed obbediente lo contemplava con amore e rispetto. Verso le undici volle restar solo con quell'essere candido. — Filippo, gli disse con una voce così tenera e così affettuosa che il giovane trasalì e pianse di gioja. Mai quel padre inflessibile aveva pronunciato; Filippo, in tal modo. — Ascoltami, figlio mio, continuò il moribondo. Io sono un gran peccatore. Quindi, durante tutta la mia vita ho pensato alla mia morte. Fui già l'amico del gran pontefice Giulio II. Quell'illustre pontefice temette che l'eccessiva irritazione dei miei sensi non mi facesse commettere qualche peccato mortale nell'intervallo in cui avessi a morire e quello in cui avessi ricevuto l'estrema unzione; mi regalò una fiala nella quale esiste l'acqua santa già tempo scaturita dalla roccia nel deserto. Ho conservato il segreto su questa dilapidazione del tesoro della chiesa, ma sono autorizzato a rivelare questo mistero a mio figlio _in articulo mortis_. Troverete la fiala nel cassetto di questa tavola gotica che non ha mai abbandonato il capezzale del mio letto... Il prezioso cristallo potrà servirvi ancora, mio amato Filippo. Giuratemi, per la vostra salute eterna, di eseguire puntualmente i miei ordini. Filippo guardò suo padre. Don Giovanni era troppo al fatto dei sentimenti umani per non morire in pace sulla fede di un tal sguardo. — Tu meritavi un altro padre, aggiunse Don Giovanni. Oso confessarti che nel momento in cui il rispettabile abate di San Lucar mi amministrava il viatico, io pensava all'incompatibilità di due potenze così grandi come il diavolo e Dio... — Oh! padre mio! — E riflettevo che quando Satana farà pace, dovrà, se non vuol essere un gran miserabile, stipulare il perdono dei suoi aderenti. Questo pensiero mi perseguita. Andrai dunque all'inferno se tu, mio figlio, non adempi la mia volontà — Ditemela subito, papà. — Appena avrò chiusi gli occhi, continuò Don Giovanni dopo alcuni minuti, prenderai il mio cadavere, ancora caldo, e lo stenderai su una tavola in mezzo a questa stanza. Poi spegnerai questa lampada; deve bastare la luce delle stelle. Mi spoglierai dei miei abiti; e mentre tu reciterai dei _pater_ e degii _ave_ sollevando l'anima a Dio, avrai cura di umettare con quest'acqua santa i miei occhi, le mie labbra, tutta la testa per prima, poi successivamente le membra del corpo; ma, caro figlio mio, la potenza di Dio è così grande che non dovrai stupirti di nulla! Allora Don Giovanni, che sentiva avvicinarsi la morte, aggiunse con voce terribile: — Tieni ben franca la fiala. Poi spirò dolcemente nelle braccia d'un figlio le cui lagrime abbondanti caddero sulla sua faccia ironica e smorta. Era circa la mezzanotte quando Don Filippo Belvidero collocò il cadavere di suo padre sulla tavola. Dopo averne baciata la fronte minacciosa e i capelli grigi, spense la lampada. Il lume dolce prodotto dal chiaro di luna, i cui riflessi bizzarri illuminavano la campagna, permisero a Filippo di intravedere indistintamente il cadavere di suo padre come qualche cosa di bianco in mezzo all'ombra. Il giovine imbibì del liquore un pannolino, ed assorto nella preghiera unse fedelmente quella testa sacra in mezzo ad un profondo silenzio. Intendeva, è vero, dei fremiti indefinibili, ma li attribuiva agli scherzi del venticello fra le cime degli alberi. Quando ebbe bagnato il braccio destro, si sentì stringere fortemente il collo da un braccio giovane e vigoroso, il braccio di suo padre! Gettò un grido straziante e lasciò cadere la fiala che si spezzò. Il liquore svaporò. La gente del castello accorse, munita di torcie. Quel grido li aveva spaventati e sorpresi, come se la tromba del giudizio universale avesse scosso l'universo. In un momento la camera fu piena di gente. La folla tremante vide Don Filippo svenuto, ma tenuto fermo dal braccio potente di suo padre che gli serrava il collo. Poi, cosa sopranaturale, gli astanti videro la testa di Don Giovanni, giovane e bella come quella dell'Antinoo; una testa dai capelli neri, dagli occhi brillanti, dalla bocca vermiglia che si agitava spaventevolmente senza poter muovere lo scheletro cui apparteneva. Un vecchio servo gridò: — Miracolo! E tutti gli spagnuoli ripeterono: Miracolo! Troppo pia per ammettere i misteri della magia, Dona Elvira mandò a cercare l'abate di San Lucar. Allorchè il priore vide il miracolo cogli occhi proprii, risolse di approfittarne da uomo di spirito e da abate che meglio non domandava di un aumento delle sue rendite. Dichiarando tosto che il signor Don Giovanni sarebbe infallibilmente canonizzato, decretò la cerimonia dell'apoteosi nel suo convento, che d'allora in poi, disse, si chiamerebbe San-Juan-de-Lucar. A quelle parole la testa fece un smorfia abbastanza comica. Il gusto degli Spagnuoli per siffatte solennità è così noto, che non deve essere difficile credere alle baldorie religiose colle quali l'abate di San Lucar celebrò la traslazione del _beato Don Juan Belvidero_ nella sua chiesa. Alcuni giorni dopo la morte di quell'illustre signore, il miracolo della sua imperfetta risurrezione si era subitaneamente narrata di villaggio in villaggio in un raggio di oltre cinquanta leghe attorno a San Lucar, ed era già uno spettacolo vedere i curiosi per le strade; essi vennero da tutte le parti, ingolositi da un _Te Deum_ cantato al chiarore delle fiaccole. L'antica moschea del convento di San Lucar, meraviglioso edifizio inalzato dai Mori e le cui volte udivano da tre secoli il nome di Gesù Cristo sostituito a quello di Allah, non potè contenere la folla accorsa a vedere la cerimonia. Stipati come formiche, gli hidalgos in mantello di velluto, armati delle loro buone spade, stavano in piedi attorno ai pilastri senza trovar posto da piegare le ginocchia, le quali non si piegavano che là. Incantevoli paesane, i cui corsetti disegnavano le vaghe forme, davano il braccio a vecchi coi capelli bianchi. Giovani dagli occhi di fuoco si trovavano a fianco di vecchie signore in gala. Poi erano coppie ansimanti di gioja, fidanzate curiose condotte dai loro innamorati; sposi recenti; fanciulli timidi condotti a mano. Tutta gente ricca di colori, brillante di contrasti, carica di fiori, smaltata, che faceva un grazioso tumulto nel silenzio della notte. Le ampie porte della chiesa si aprirono. Quelli che, venuti troppo tardi, restarono di fuori, vedevano di lontano attraverso le porte aperte una scena di cui le decorazioni vaporose delle nostre opere moderne non saprebbero dare una debole idea. Devote e peccatori, premurose di guadagnarsi le buone grazie di un nuovo santo, accesero in suo onore migliaia di ceri in quella vasta chiesa, lumi interessati che davano un magico aspetto al monumento. Le nere arcate, le colonne e i loro capitelli, le cappelle profonde e brillanti d'oro e d'argento, le gallerie, i rabeschi saraceni, i tratti più delicati di quella scultura gentile, si disegnavano in quella luce sovrabbondante come le figure capricciose che si formano in un braciere ardente. Era un oceano di fuochi, dominato nel fondo della chiesa dal coro dorato ove sorgeva l'altar maggiore, la cui pompa avrebbe rivaleggiato con quella del sole nascente. Infatti lo splendore delle lampade d'oro, dei candelabri d'argento, delle bandiere, dei pennoni, dei santi e degli _ex voto_ impallidiva davanti alla cassa in cui si trovava Don Giovanni. Il corpo dell'empio scintillava di pietre preziose, fiori, cristalli, diamanti, oro, piume bianche come le ali di un serafino, e sostituiva sull'altare un quadro di Cristo. Intorno a lui brillavano numerosi ceri che lanciavano nell'aria onde di fuoco. Il buon abate di San Lucar, parato cogli abiti pontificali, colla mitra tempestata di pietre preziose, il rocchetto, il pastorale d'oro, sedeva re del coro, sopra una poltrona di un lusso imperiale, nel mezzo di tutto il suo clero, composto d'impassibili vecchi dai capelli d'argento, vestiti di fini camici e che lo circondavano, simili ai santi confessori che i pittori aggruppano intorno al Padre Eterno. Il gran cantore ed i dignitarii del capitolo, decorati delle brillanti insegne della loro vanità ecclesiastica, andavano e venivano in mezzo alle nubi d'incenso, simili agli astri che circolano sul firmamento. Quando giunse l'ora del trionfo, le campane destarono gli echi delle campagne, e quell'immensa assemblea lanciò verso Dio il primo grido delle lodi col quale comincia il _Te Deum_, grido sublimo! Erano voci pure e leggiere, voci di donne in estasi, miste alle voci gravi e forti degli uomini, migliaja di voci così potenti, che l'organo non ne dominò l'assieme ad onta dei muggiti delle sue canne. Soltanto le note acute, giovanili, dei ragazzi del coro, e le lunghe note di alcuni bassi, suscitarono delle idee graziose, dipinsero l'infanzia e la forza, in quell'incantevole concerto di voci umane confuse in un sentimento d'amore. — _Te Deum laudamus!_ Dal seno di quella cattedrale gremita di donne ed uomini inginocchiati, il canto uscì simile ad una luce che scintilla d'un tratto nella notte, ed il silenzio fu rotto come da un colpo di tuono. Le voci si sollevarono colle nubi d'incenso che gettavano veli diafani ed azzurrognoli sulle fantastiche meraviglie dell'architettura. Tutto era ricchezza, profumo, luce, melodia. Nel punto in cui quella musica d'amore e di riconoscenza si lanciò verso l'altare, Don Giovanni, troppo galante per non ringraziare, troppo spiritoso per non capire la burla, rispose con un riso terribile e si compose con dignità nella sua cassa. Ma il diavolo avendo richiamato alla sua mente l'eventualità che correva di essere preso per un uomo ordinario, un santo, un Bonifacio, un Pantaleone, turbò quella melodia d'amore con un urlo al quale si unirono le mille voci dell'inferno. La terra benediva, il cielo malediva. La chiesa ne tremò sulle antiche fondamenta. — _Te Deum laudamus!_ diceva l'assemblea. — Andate a tutti i diavoli, bestioni che siete! Dio, Dio! _Carajos demonios_, animali, quanto siete stupidi col vostro decrepito Dio! E un torrente d'imprecazioni si sprigionò come un torrente di lave ardenti in una eruzione del Vesuvio. — _Deus Sabaoth, Sabaoth!_ gridarono i cristiani. — Voi insultate la maestà dell'inferno, rispose Don Giovanni, la cui bocca digrignava i denti. Poco dopo il braccio vivo potè passare al di sopra della cassa e minacciò l'assemblea con gesti pieni di disperazione ed ironia. — Il Santo ci benedisce, dissero le vecchie, i fanciulli ed i fidanzati, gente credula. Ecco come spesso siamo delusi nelle nostre adorazioni. L'uomo superiore si burla di quelli che lo complimentano, e complimenta qualche volta quelli dei quali si burla in fondo al cuore. Nel momento in cui l'abate, prosternato davanti all'altare, cantava: — _Sancte Johannes ora pro nobis!_ udì abbastanza distintamente: — O minchione! — Che cosa succede lassù? gridò il sottopriore vedendo moversi la cassa. — Il santo fa il diavolo, rispose l'abate. Allora quella testa viva si staccò violentemente dal corpo che non viveva più e cadde sul cranio giallo del celebrante. — Ricordati di donna Elvira, gridò la testa divorando quella dell'abate. Quest'ultimo gettò un grido orrendo che turbò la cerimonia. Tutti i preti accorsero e circondarono il loro sovrano. — Imbecille, di' dunque che vi è un Dio! gridò la voce nel momento in cui l'abate, morsicato nel cervello, spirava. LA BORSA Per le anime facili alle espansioni vi è un'ora deliziosa che giunge al momento in cui la notte non è fatta ed il giorno se n'è ito. La luce crepuscolare getta allora le sue molli tinte od i suoi riflessi bizzarri su tutti gli oggetti e favorisce una fantasticheria che si sposa vagamente agli effetti di luce ed ombra. Il silenzio che regna quasi sempre in quel momento lo rende specialmente caro agli artisti che si raccolgono, si piantano ad alcuni passi dai loro lavori cui non possono più attendere, e li giudicano inebriandosi dei soggetto il cui intimo significato si appalesa allora alla seconda vista del genio. Favoriti dal chiaroscuro i ripieghi materiali dell'arte per far credere alla realtà scompajono completamente. Se si tratta di un quadro, le persone che rappresenta, pare camminino e parlino: l'ombra si fa ombra, il giorno è giorno, la carne è viva, gli occhi si muovono, il sangue scorre per le vene, le stoffe hanno dei fruscii. L'imaginazione viene in ajuto della naturalezza d'ogni particolare, e non si vedono più che le bellezze dell'opera. A quell'ora l'illusione regna dispotica; forse sorge colla notte; l'illusione non è per il pensiero una specie di notte che noi popoliamo di sogni? L'illusione spiega allora le sue ali, trascina l'anima nel mondo delle fantasie, mondo fertile di voluttuosi capricci, in cui l'artista dimentica il mondo positivo, la vigilia, il domani, l'avvenire, tutto, perfino le sue miserie, le buone come le cattive. In quell'ora magica un giovine pittore, uomo di talento, e che nell'arte non vedeva che l'arte, era salito sulla scala addoppiata che gli serviva a dipingere una tela grande, alta, pressochè finita. Là, criticandosi, ammirandosi in buona fede, abbandonandosi al corso dei suoi pensieri, si ingolfava in una di quelle meditazioni che rapiscono l'anima e la fanno più grande, accarezzandola e consolandola. Certo la sua fantasticheria durò a lungo. La notte sopraggiunse. Sia ch'egli volesse discendere dalla scala, sia che avesse fatto un movimento imprudente credendosi sul tavolato, il fatto non gli permise un esatto ricordo del suo accidente, cadde, battè la testa sopra uno sgabello, restò privo di sensi e senza moto per un lasso di un tempo la cui durata non potè conoscere. Una voce soave lo destò dalla specie di assopimento in cui era immerso. Allorchè schiuse gli occhi, prontamente li richiuse sotto l'impressione di una viva luce; ma attraverso il velo che avviluppava i suoi sensi udì il bisbiglio di due donne e sentì la testa riposare fra due giovani, timide mani Riprese in breve i sensi ed alla luce di una di quelle lampade antiche, che diconsi _a doppia corrente d'aria_, potè scorgere la più deliziosa testa di giovinetta che mai avesse veduto, una di quelle teste che passano ben spesso per un capriccio del pennello, ma che tutto ad un tratto realizzò per lui le teorie di quel bello ideale che ogni artista si crea e dal quale ha origine il suo talento. Il volto della sconosciuta apparteneva, per così dire, al tipo tino e delicato della scuola di Proudhon, e possedeva pure quella poesia che Girodet dava alle sue figure fantastiche. La freschezza, delle tempie, la regolarità delle sopraciglia, la purezza delle linee, la verginità fortemente scolpita in tutti i tratti di quella fisionomia facevano della fanciulla una creazione perfetta. La taglia era svelta e sottile, le forme delicate. I suoi abiti, benchè semplici e puliti, non annunziavano nè ricchezza nè miseria. Ritornando in sè il pittore espresse la sua ammirazione con uno sguardo di sorpresa e balbettò confusi ringraziamenti. Trovò che la sua fronte era stata stretta con un fazzoletto, e ad onta dell'odore particolare agli studi di pittore, riconobbe l'acre sentore dell'etere, senza dubbio adoperato per farlo riavere dallo svenimento. Poi finì per vedere una vecchia che rassomigliava alle marchese dell'antico regime, e che teneva la lampada dando dei consigli alla giovine sconosciuta. — Signore, rispose la giovinetta ad una delle domande fattele dal pittore in quel momento in cui era tuttora nella confusione di idee prodotte dalia caduta, mia madre ed io abbiamo udito il rumore del vostro corpo sul pavimento, ci parve di udire un gemito. Il silenzio susseguito alla caduta ci ha spaventate e ci siamo affrettate a salire. Trovando la chiave alla porta ci siamo per buona sorte permesso d'entrare, e vi abbiamo visto steso a terra senza movimento. Mia madre andò a cercare quanto occorreva per fare una compressa e rianimarvi. Voi siete ferito alla fronte, là, ve ne accorgete? — Adesso sì, egli disse. — Oh non sarà nulla, osservò la vecchia. La vostra testa, per buona sorte, è caduta su questo mannichino. — Mi sento infinitamente meglio, rispose il pittore, non ho più altro bisogno all'infuori d'una carrozza per restituirmi a casa. La portinaia andrà a cercarmene una. Egli voleva rinnovare i suoi ringraziamenti alle due incognite, ma ad ogni frase la vecchia l'interrompeva dicendo: — Domani, signore, abbiate cura di applicarvi delle sanguisughe, o farvi fare un salasso, bere qualche tazza di decotto vulnerario; curatevi, le cadute sono pericolose. La giovinetta guardava di soppiatto il pittore ed i quadri dello studio. Il suo contegno ed i suoi sguardi erano di una perfetta decenza; la sua curiosità rassomigliava a distrazione ed i suoi occhi sembravano esprimere quell'interesse che le donne prendono, con una spontaneità tutta grazia, ad ogni nostra sfortuna. Le due sconosciute alla presenza del pittore sofferente sembravano dimenticare le opere sue. Allorchè egli le ebbe tranquillate sul proprio conto, uscirono esaminandole con una sollecitudine priva ad un tempo di enfasi e di famigliarità, senza fargli domande indiscrete nè cercare di inspirargli il desiderio di conoscerle. Le loro azioni ebbero l'impronta di una natura squisita e del buon gusto. I loro modi nobili e semplici produssero dapprima poco effetto sul pittore; ma più tardi, quando si risovvenne di tutte le circostanze di questo avvenimento, ne fu vivamente colpito. Arrivando al piano inferiore a quello in cui si trovava lo studio del pittore, la vecchia sclamò con dolcezza: — Adelaide, tu hai lasciata aperta la porta. — Era per venire in mio soccorso, rispose il pittore con un sorriso di riconoscenza. — Mamma mia, voi siete discesa appena adesso, replicò la giovinetta arrossendo. — Volete che vi accompagniamo fino abbasso? disse la mamma al pittore. La scala è scura. — Grazie, signora, mi sento molto meglio. — Tenetevi fermo alla sbarra. Le due donne restarono sul pianerottolo per far lume al giovane ascoltando i suoi passi. Per comprendere tutto ciò che questa scena poteva avere di curioso e di inatteso per il pittore, è d'uopo aggiungere che solo da alcuni giorni egli aveva collocato il suo studio negli abbaini di quella casa, nel luogo più oscuro e più pantanoso della via Suresne, quasi dirimpetto alla chiesa della Maddalena, a due passi dal suo appartamento che si trovava in via dei Campi Elisi. La celebrità che il suo talento gli aveva acquistata, avendolo fatto uno degli artisti più cari alla Francia, cominciava a non più sentire le strette del bisogno e godeva, a dir suo, delle sue ultime miserie. Invece di andare a lavorare in uno di quegli studii situati presso le barriere ed il cui modico affitto era altra volta in rapporto colla modestia dei suoi guadagni, aveva soddisfatto ad un desiderio che si rinnovava tutti i giorni evitando una lunga corsa e la perdita di un tempo divenuto per lui più prezioso che mai. Nessuno al mondo avrebbe inspirato tanto interesse come Ippolito Schinner, se avesse acconsentito a farsi conoscere; ma egli non confidava con leggierezza i segreti della sua vita. Era l'idolo di una madre povera che l'aveva educato a costo delle più grandi privazioni. La signorina Schinner, figlia d'un fittabile alsaziano, non era mai stata maritata. La sua anima tenera era stata crudelmente oltraggiata da un uomo ricco che non vantava troppa delicatezza in fatto d'amore. Il giorno in cui, ancora ragazza, ed in tutto lo splendore della sua bellezza, subì, a spese del suo onore e dei suoi ideali, quella disillusione che ci colpisce così lentamente e così presto, giacchè crediamo il più tardi possibile al male e ci sembra arrivi sempre troppo presto, quel giorno fu un secolo di riflessioni, e fu pure il giorno de' pensieri religiosi e della rassegnazione. Ella rifiutò l'elemosina di colui che l'aveva ingannata, rinunziò al mondo e si fece una gloria del suo fallo. Si dedicò tutta all'amore materno chiedendogli le sue delizie in compenso dei godimenti sociali cui rinunciava. Visse del suo lavoro accumulando nel figlio un tesoro. Così, più tardi, un giorno, un'ora, la compensò dei lunghi e lenti sacrificii della sua indigenza. All'ultima esposizione suo figlio aveva ottenuto la croce della legione d'onore. Nei giornali, unanimi in favore di un talento sconosciuto, risonavano ancora le lodi sincere. Gli artisti stessi riconoscevano Schinner per un maestro ed i negozianti coprivano d'oro i suoi quadri. A venticinque anni Ippolito Schinner, cui sua madre aveva trasmessa l'anima sua di donna, aveva, meglio che mai, compresa la sua posizione nel mondo. Volendo rendere a sua madre le gioje di cui l'aveva privata la società per tanto tempo, viveva per lei, sperando, mercè la gloria e la fortuna, di vederla un giorno felice, ricca, considerata, attorniata dagli uomini più celebri. Schinner aveva quindi scelto i suoi amici fra gli uomini più onorevoli e più distinti. Difficile nella scelta delle sue relazioni, voleva sempre più inalzare la sua posizione, già così elevata per il suo talento. Costringendolo alla solitudine, questa madre dei grandi pensieri, il lavoro cui si era dedicato nella sua gioventù l'aveva mantenuto nelle belle credenze che sono il decoro del primi giorni della vita. La sua anima adolescente non sconosceva alcuno di quei mille pudori che fanno del giovane un essere a sè il cui cuore abbonda di felicità, di poesia, di speranze vergini, deboli agli occhi dei disillusi, ma profonde perchè semplici. Era stato dotato di quelle maniere dolci e gentili che si addicono così bene all'anima e seducono anche quelli che non le comprendono. Era ben fatto. La sua voce che partiva dal cuore ne palesava agli altri i nobili sentimenti, ed attestava nell'accento una vera modestia, un certo candore. Chi lo vedeva, si sentiva attratto a lui da una di quelle influenze morali che i dotti non hanno ancora esaminate a fondo; essi vi troverebbero qualche fenomeno di galvanismo, o l'azione di non so qual fluido e formulerebbero i nostri sentimenti con certe proporzioni di ossigeno e di elettricità. Questi particolari faranno forse comprendere alle persone ardite per carattere ed agli uomini bene incravattati perchè, durante l'assenza del portinaio che aveva mandato a cercare una carrozza in fondo alla via della Maddalena, Ippolito Schinner non fece alla portinaja interpellanza qualsiasi sulle due persone che gli avevano dimostrato il loro buon cuore. Ma, quantunque egli rispondesse con dei sì e dei no alle domande, naturali in simile circostanza, che gli vennero rivolte da questa donna sul suo accidente e sull'intervento officioso delle inquiline del quarto piano, non potè impedirle di obbedire all'istinto dei portinaj: essa gli parlò delle due sconosciute secondo gli interessi della sua politica ed i giudizii sotterranei della portineria. — Ah! disse, è senza dubbio la signorina Leseigneur e sua madre! Sono qui da quattro anni e non sappiamo ancora che cosa facciano. La mattina, solo però fino a mezzodì, una vecchia servente, mezzo sorda, e che non parla più di un muro, viene a far loro i servizii. La sera, due o tre vecchi signori, decorati come voi, signore, di cui uno ha carrozza e servitori ed al quale si danno da cinquanta mila lire circa di rendita, vengono da lei e vi restano spesso molto tardi. Sono, del resto, inquilini molto tranquilli, come voi, signore. E poi, economi, vivono di nulla. Appena arriva una lettera, la pagano. È strano, signore, la madre ha un nome diverso della figlia. Ah! quando vanno alle Tuileries, la signorina è motto attraente, e non esce una volta senza essere inseguita da giovinotti ai quali chiude la porta in faccia, e fa bene. Il padrone di casa non permetterebbe. La carrozza era arrivata. Ippolito non volle saperne di più e tornò a casa sua. Sua madre, cui raccontò la sua avventura, tornò a medicargli la ferita e non gli permise di tornare il dì dopo allo studio. Sentito un medico, vennero date diverse prescrizioni ed Ippolito restò in casa per tre giorni. Durante questa reclusione la sua imaginazione disoccupata gli ricordò con vivacità, e quasi a frammenti, i particolari della scena che aveva avuto sotto gli occhi dopo il suo svenimento. Il profilo della giovinetta si delineava nettamente sulle tenebre della sua visione interna: rivedeva il volto appassito della madre e sentiva ancora lo mani di Adelaide; ricordava un gesto, che a primo tratto l'aveva poco colpito, ma le cui grazie squisite erano messe in rilievo dal ricordo; poi venne un momento in cui i suoni d'una voce melodiosa abbellita a distanza dalla memoria, si ripresentarono d'un tratto, come oggetti che dal fondo dell'acqua emergono alla superficie. Così, il giorno in cui gli fu permesso di riprendere i suoi lavori, tornò per tempo al suo studio; ma la visita, che aveva incontestabilmente il diritto di fare alle sue vicine; era la vera causa della sua premura; dimenticava già i suoi quadri incominciati. Nel momento in cui una passione rompe i suoi ritegni, si trovano del piaceri inesplicabili che comprendono quelli che hanno amato. Così alcuni comprenderanno perchè ii pittore salì lentamente gli scalini del quarto piano, ed avranno la chiave del segreto delle pulsazioni che si succedettero nel suo cuore al momento in cui vide la porta bruna del modesto appartamento abitato dalla signorina Leseigneur. Quella ragazza che non portava il nome di sua madre aveva destate mille simpatie nel giovine pittore; voleva vedere fra loro certe analogie di posizione e le regalava le sventure della sua origine. Lavorando, Ippolito si lasciò andare colla massima compiacenza a pensieri d'amore, e, per uno scopo che non sapeva bene spiegarsi, fece molto strepito per obbligare le due dame ad occuparsi di lui come egli si occupava di loro. Si trattenne fino tardi nello studio, vi pranzò; indi verso le sette discese dalle sue vicine. Nessun pittore di costumi ha osato iniziarci, forse per pudore, ai secreti veramente curiosi di certe esistenze parigine, ai misteri di quelle abitazioni d'onde escono toelette così fresche e così eleganti, donne brillanti che, ricche in apparenza, lasciano in casa vedere dappertutto i segni di una fortuna equivoca. Se la pittura è qui disegnata con troppa franchezza, se vi trovate delle lungaggini, non ne accusate la descrizione che forma, per così dire, corpo colla storia; giacchè l'aspetto dell'appartamento abitato dalle due vicine ebbe una grande influenza sui sentimenti e sulle speranze di Ippolito Schinner. La casa apparteneva ad uno di quei proprietarii in cui è insito un orrore profondo per le riparazioni e gli abbellimenti, uno di quegli uomini che considerano la loro posizione di proprietario parigino come uno stato. Nella gran catena delle specie morali questa gente tiene il mezzo fra l'avaro e l'usurajo. Ottimisti per calcolo, sono fedeli allo _statu quo_ dell'Austria. Se parlate di smuovere un infisso od una porta, di praticare la più necessaria delle innovazioni, i loro occhi brillano, la loro bile si commuove, si impennano come cavalli spaventati. Quando il vento ha rovesciato qualche comignolo dei loro camini, sono ammalati e si privano di una serata al _Ginnasio_ od alla _Porta San Martino_, a motivo delle riparazioni. Ippolito, che a proposito di certi abbellimenti da praticare nel suo studio aveva avuto gratis la rappresentazione di una scena comica col signor Molineux, non si meravigliò delle intonazioni nere ed untuose, delle tinte oliacee, delle macchie ed altri accessorii abbastanza disgustosi che decoravano le stanze. Quelle stigmate di miseria non sono del resto senza poesia agli occhi di un artista. La signorina Leseigneur venne ella stessa ad aprire la porta. Vedendo il giovine pittore, lo salutò; poi, nello stesso tempo, con quella destrezza parigina e con quella presenza di spirito che è un dono della fierezza, si rivolse per chiudere la porta di una tramezza a vetri attraverso la quale Ippolito avrebbe potuto vedere alcune biancherie stese sopra corde al di sopra di fornelli economici, un vecchio letto di cinghie, la bragia, il carbone, i ferri da stirare, la fontana filtrante, il vasellame e tutti gli utensili necessarii all'economia domestica di una casa ristretta. Alcune cortine di mussolina abbastanza pulite nascondevano questo _cafarnao_, parola d'uso per designare famigliarmente questa specie di laboratorio, del resto male illuminato dalla scarsa luce presa a prestito da una corte vicina. Col rapido colpo d'occhio degli artisti, Ippolito vide la destinazione, i mobili, l'assieme e lo stato di questa prima camera divisa in due. La parte rispettabile, che serviva contemporaneamente d'anticamera e di sala da pranzo, era coperta da una vecchia tappezzeria color aurora ad orli vellutati, senza dubbio fabbricata da Reveillon, i cui buchi e le macchie erano stati accuratamente dissimulati mediante ostie da suggellare. Delle incisioni che rappresentavano le battaglie d'Alessandro, lavoro di Lebrun, ma colle cornici dalle dorature scolorite, decoravano simmetricamente le pareti. Nel mezzo di questa camera vi era un tavolo d'acajù massiccio, di forma antica e dagli orli logori. Una piccola stufa, il cui tubo dritto o senza gomito era appena visibile, si trovava dinanzi al camino il cui focolare conteneva un armadio. Per uno strano contrasto, le sedie presentavano qualche traccia di uno splendore passato: erano di acajù scolpito; ma il marocchino rosso del sedere, i chiodi dorati e la passamanteria mostravano cicatrici numerose come quelle dei vecchi sergenti della guardia imperiale. Questa stanza serviva da museo a certe cose che non si incontrano se non in tale specie di famiglie anfibie, oggetti senza nome che partecipano ad un tempo al lusso ed alla miseria. Fra le altre curiosità Ippolito vide un cannocchiale magnificamente ornato, sospeso al di sotto del piccolo specchio verdastro che decorava il camino. Per fare il pajo con questo strano mobile vi era tra il camino e la tramezza una misera credenza dipinta in acajù, quello fra tutti i legnami che meno si riesce a simulare. Ma il pavimento rosso e sdrucciolevole, ma i logori tappetini collocati davanti alle sedie, ma i mobili, tutto risplendeva per quella proprietà di manutenzione che da un falso bagliore alle cose vecchie, meglio rilevandone i difetti, l'età, i lunghi servizii. Regnava in quella stanza un sentore indefinibile risultante dalle esalazioni del cafarnao mescolate ai vapori della sala da pranzo ed a quelli della scala, benchè la finestra fosse semiaperta e l'aria della strada agitasse le tende di percallo, accuratamente distese, in modo da nascondere gli stipiti in cui gli inquilini precedenti avevano segnata la loro presenza con diverse incrostazioni, specie di affreschi domestici. Adelaide aprì prontamente l'uscio dell'altra camera in cui introdusse il pittore con certo piacere. Ippolito, che aveva già veduto presso sua madre gli stessi sintomi d'indigenza, li osservava colla singolare vivacità d'impressione che caratterizza i primi acquisti della nostra memoria, ed entrò meglio che altri non l'avrebbe fatto nei particolari di questa esistenza. Riconoscendo gli oggetti della sua età infantile, questo buon giovine non sentì di questa miseria occultata disprezzo, nè orgoglio del lusso che aveva conquistato per sua madre. — Ebbene, signore! spero che non sentirete più gli effetti della vostra caduta? gli disse la vecchia, levandosi da una vecchia poltrona collocata all'angolo del camino, e presentandogli una sedia. — No, signora. Vengo a ringraziarvi delle premure che mi avete usato, e sopratutto la signorina che m'ha udito cadere. Dicendo questa frase, satura dell'adorabile stupidità che danno all'anima i primi turbamenti dell'amor vero, Ippolito guardava la giovinetta. Adelaide accendeva la lampada a doppia corrente d'aria, allo scopo di far scomparire una candela inastata sopra una gran bugia di rame e adorna di scanalature sporgenti per l'abbondanza dello scolo. Fece un lieve saluto, andò a riporre la bugia nell'anticamera, ritornò per collocare la lampada sul camino e sedette presso sua madre, un po' indietro del pittore, per poterlo guardare, con suo comodo dandosi l'aria di essere occupatissima del contegno della lampada la cui fiamma sotto l'influenza dell'umidità di un vetro sporco, gettava faville dibattendosi con un lucignolo nero e mal tagliato. Vedendo il gran specchio che ornava la caminiera, Ippolito vi gettò prontamente gli occhi per ammirare Adelaide. La piccola astuzia della giovinetta non servì dunque che ad imbarazzarli ambedue. Discorrendo colla signora Leseigneur, giacchè Ippolito le dava a caso questo nome, esaminò la sala, ma con prudenza e di soppiatto. Il focolare era così pieno di ceneri, che si vedevano appena le figure egiziane degli alari in ferro. Due tizzoni cercavano di riunirsi avanti un ceppo, interrato con tanta cura come fosse il tesoro d'un avaro. Un vecchio tappeto d'Aubusson, ben rattoppato, ben ripulito, logoro come l'abito di un invalido, non copriva tutto il pavimento smorzandone appena il freddo. I muri avevano per ornamento una tappezzeria rossastra che figurava una stoffa di damasco a disegni gialli. Nel mezzo della parete opposta a quella in cui si trovavano le finestre, il pittore vide una apertura segreta e le pieghe fatte nella tappezzeria dalle due porte di un'alcova ove senza dubbio andava a dormire la signora Leseigneur. Un canapè situato dinanzi a questa apertura segreta la mascherava imperfettamente. In faccia al camino v'era un tavolo d'acajù molto bello, i cui ornati non mancavano nè di ricchezza nè di buon gusto. Un ritratto appeso al di sopra rappresentava un militare d'alto grado: ma la scarsità della luce non permise al pittore di distinguere a quale arma appartenesse. Quell'orribile sgorbio pareva, del resto, fatto in China anzichè a Parigi. Alle finestre alcune tende di seta rossa erano scolorite come i mobili tappezzati in giallo e rosso che guarnivano questa sala a doppio uso. Sul marmo del tavolo, una preziosa guantiera di malachite sosteneva una dozzina di tazze da caffè magnificamente dipinte e senza dubbio fatte a Sèvres. Sul camino troneggiava l'eterna pendola dell'Impero, un guerriero che guida i quattro cavalli d'un carro la cui ruota porta ad ogni raggio la cifra di un'ora. Le candele dei candelabri erano gialle pel fumo, e ad ogni angolo dell'intelajatura si vedeva un vaso di porcellana nel quale si trovava un mazzo di fiori artificiali, pieni di polvere ed ammuffiti. Nel mezzo della stanza Ippolito osservò un tavolo da giuoco in pieno assetto e delle carte nuove. Per un osservatore vi era un non so che di desolante nello spettacolo di questa miseria imbellettata come una vecchia che vuol far dire il falso al suo viso. A questo spettacolo ogni uomo di buon senso si sarebbe proposto in segreto e ili primo acchito questa specie di dilemma: O queste due donne sono la stessa probità, o vivon d'intrighi e di giuoco. Ma, vedendo Adelaide, un giovane puro come Schinner doveva credere all'innocenza la più perfetta e dare le cause più onorevoli all'incoerenza del mobilio. — Figlia mia, disse la vecchia alla giovinetta, ho freddo, fateci un po' di fuoco e datemi il mio scialle. Adelaide andò in una camera attigua alla sala e ritornò portando a sua madre uno scialle di cascemir che, nuovo, aveva dovuto essere di gran valore, essendone indiani i disegni; ma, vecchio, senza freschezza e tutto a rattoppi, armonizzava coi mobili. La signora Leseigneur vi si avviluppò in modo assai artistico e coll'abilità di una vecchia che vuol far credere alla verità delle sue parole. La giovinetta corse lestamente al cafarnao e ritornò con una manciata di legna minuta che gettò bravamente sul fuoco per riattizzarlo. Sarà molto difficile tradurre la conversazione che ebbe luogo fra queste tre persone. Guidato dal tatto che si acquista colle disgrazie provate dall'infanzia, Ippolito non osava permettersi la menoma osservazione relativa alla posizione delle sue vicine, vedendo intorno a sè i sintomi di un imbarazzo così mal celato. La più semplice domanda sarebbe stata indiscreta, e non doveva essere fatta che dopo un'amicizia già antica. Tuttavia il pittore era profondamente preoccupato di questa miseria celata, la sua anima generosa ne soffriva; ma sapendo ciò che ogni specie di pietà, anche la più amica, può avere di offensivo, si trovava impacciato nel disaccordo che esisteva fra i suoi pensieri e le sue parole. Le due donne parlarono dapprima di pittura indovinando benissimo gli imbarazzi segreti che produce una prima visita; esse forse li provavano e la natura dei loro spirito fornì loro mille risorse per farli cessare. Interrogando il giovine sui procedimenti materiali dell'arte sua, sui suoi studii, Adelaide e sua madre l'incoraggiarono a discorrere. Gli indefiniti i nonnulla della loro conversazione, animati dalla benevolenza, condussero in modo affatto naturale Ippolito a fare alcune osservazioni o riflessioni che dipingevano la natura dei suoi costumi e dell'animo suo. I dispiaceri avevano prematuramente avvizzito il volto della vecchia, che una volta senza dubbio era stata bella; ora non le rimanevano più che i tratti salienti, i contorni, in una parola lo scheletro di una fisionomia il cui insieme indicava una gran finezza, molta grazia nel muovere gli occhi nei quali si trovava l'espressione particolare alle dame dell'antica corte e che non si saprebbe definire. Questi lineamenti, così fini, così delicati, potevano ben anche denotare dei cattivi sentimenti, far supporre l'astuzia e l'inganno femminile portato ad un alto grado di perversità anzichè mostrare le delicatezze di un'anima bella. In fatto il volto delle donne ha una cosa che mette in imbarazzo l'osservatore volgare, che cioè vi è impercettibile la differenza fra la franchezza e la doppiezza, il genio dell'intrigo e il genio del cuore. L'uomo dotato di vista penetrante indovina queste gradazioni inafferrabili, prodotte da una linea più o meno curva, da una fossetta più o meno marcata, da una sporgenza più o meno tonda o prominente. L'apprezzamento di questi diagnostici è tutto riservato all'intuizione, che sola può far scoprire quello che altri ha interesse ad occultare. Il volto di questa signora era il _fac simile_ dell'appartamento che abitava; pareva altrettanto difficile sapere se quella miseria occultava dei vizii od un'alta probità, come il riconoscere se la madre d'Adelaide era un'antica civetta abituala a lutto pesare, tutto calcolare, tutto vendere, o una donna piena di nobiltà e di qualità amabili. All'età di Schinner il primo movimento del cuore è di credere al bene. Quindi, contemplando la fronte nobile e quasi sdegnosa di Adelaide, guardando quegli occhi pieni d'anima e di pensieri, respirò, per così dire, i soavi e modesti profumi della virtù. Nel mezzo della conversazione colse il destro di parlare dei ritratti in generale, per avere il diritto di e sa- minare l'orribile pastello di cui tutte le tinte erano impallidite, e da cui era in gran parte caduta la polvere. — Senza dubbio voi avete affetto a questa pittura a motivo della rassomiglianza, mie signore, giacchè il disegno è orribile, disse guardando Adelaide. — È stato fatto a Calcutta in gran fretta, rispose la madre con voce commossa. Contemplò lo schizzo informe con quell'abbandono profondo che deriva dai ricordi di felicità quando si ridestano e piombano sul cuore come una rugiada benefica alle cui fresche impressioni amiamo abbandonarci; ma nell'espressione del volto della vecchia signora apparvero altresì le traccie di un eterno cordoglio. Almeno il pittore volle interpretare così l'attitudine o la fisionomia della sua vicina, presso la quale andò a sedersi. — Madama, aggiunse, qualche tempo ancora, od i colori di questo pastello saranno scomparsi. Il ritratto non esisterà più che nella vostra memoria. Là voi vedrete una figura che vi è cara, gli altri non ne capiranno più nulla. Volete permettermi di riportare quella figura sulla tela? Vi sarà fissata più durevolmente che sulla carta. Accordatemi, in grazia della nostra vicinanza, il piacere di farvi questo servizio. Vi sono momenti in cui un artista ama sollevarsi dalle sue grandi composizioni con lavori di minore portata: il rifare questa tosta Rara per me una distrazione. La vecchia udendo queste parole trasalì, n Adelaide gettò sul pittore uno di quelli sguardi concentrati che pajono uno zampillo dell'anima. Ippolito voleva appartenere alle sue due vicine con qualche vincolo ed acquistarsi il diritto di mescolarsi alla loro esistenza. La sua offerta rivolgendosi alle più vive affezioni del cuore, era la sola che gli fosse possibile fare; accontentava il suo orgoglio d'artista, e non aveva nulla d'offensivo per le due dame. Madama Leseigneur accettò senza entusiasmo nè rammarico, ma con quella conscienza delle grandi anime che sanno l'importanza dei vincoli che si stringono con simili obbligazioni e che ne fanno un magnifico elogio, una prova di stima. — Si, ella disse; e quello dei capitani di vascello. Il signor De Ruvilie, mio marito, è morto a Batavia in seguito ad una ferita ricevuta in un combattimento contro un vascello inglese che incontrò sulle coste d'Asia. Egli montava una fregata di cinquantasei cannoni e la _Revenge_ era un vascello di novantasei. La lotta fu affatto ineguale, ma egli si difese così coraggiosamente che vi durò Ano alla notte e potè mettersi in salvo. Quando tornai in Francia, Bonaparte non era ancora al potere, e mi fu rifiutata una pensione. Allorchè ultimamente la sollecitai di nuovo, il ministro mi disse con durezza che se il barone De Ruville fosse emigrato, l'avrei conservato! che oggi sarebbe senza dubbio contrammiraglio; finalmente Sua Eccellenza Ani per oppormi non so qual legge sulle prescrizioni. Questo passo, al quale alcuni amici mi avevano spinta, non lo feci che per la mia povera Adelaide. Ho sempre provato ripugnanza a stendere la mano in nome di un dolore che toglie ad una donna la voce e le forze. Non amo questa stima pecuniaria di un sangue versato irreparabilmente... — Mamma mia, la conversazione su questo soggetto ti fa sempre male. A queste parole d'Adelaide la baronessa Leseigneur De Rouville chinò la testa e tacque. — Signore, disse la giovinetta ad Ippolito, io credevo che il lavoro dei pittori in generale non facesse gran fracasso. A tale questione, Schinner arrossì pensando al rumore che aveva fatto. Adelaide non insistè e gli risparmiò una bugia, alzandosi d'un tratto allo strepito d'una carrozza che si fermava alla porta; passò nella sua camera, dalla quale ritornò tosto con due candellieri dorati guerniti di candele incominciate che prestamente accese, e senza attendere il suono del campanello apri l'uscio della prima stanza di cui abbassò la lampada. Il suono di un bacio ricevuto e dato rimbombò Ano nel cuore di Ippolito. L'impazienza che il giovine provava di vedere colui Che trattava così famigliarmente Adelaide non Ai soddisfatta tanto presto. I sopraggiunti ebbero colla giovinetta una conversazione a voce bassa che egli trovò molto lunga. Finalmente la signorina De Rouville ricomparve seguita da due uomini, il cui abito, la fisionomia e l'aspetto erano tutta una storia. In età di circa sessanta anni il primo portava uno di quegli abiti, inventati credo da Luigi X VII! allora regnante, o nel quale il più difficile problema abbigliativo era stato risolto da un sarto che doveva restare immortale. Questo artista conosceva, per certo l'arte delle transizioni che costituì tutto il genio di quell'epoca politicamente così mobile. Non è forse merito assai raro quello di saper giudicare i proprii tempi? Questo abito, che i giovani d'oggi possono ritenere una favola, non era nè civile nè militare e poteva passare a volta a volta per militare e per civile. Dei fiori di giglio ornavano le risvolte delle due falde posteriori. I bottoni dorati erano pur essi a dori di giglio. Sulle spalle, due striscio vuote aspettavano delle spalline inutili. Questi due sintomi di milizia eran là come una petizione senza postilla. Nel vecchio, sulla bottoniera del suo abito di panno turchino fiorivano diversi nastri. Egli aveva senza dubbio in mano il suo tricorno guernito di un nastro d'oro, giacchè i nivei ricci dei suoi capelli incipriati non presentavano traccia della pressione d'un cappello. Pareva non avesse più di cinquantanni e sembrava godere di una robusta salute. Pure accusando il carattere leale e franco dei vecchi emigrati, la sua fisionomia dinotava anche i costumi libertini e facili, le gaje passioni e la noncuranza di quei moschettieri una volta così celebri nei fasti della galanteria. I suoi gesti, il suo portamento, le sue maniere, annunziavano che non voleva correggersi, nè del suo realismo, nè della sua religione, nè dei suoi amori. Una figura veramente fantastica teneva dietro a queste pretensioso _voltigeur de Louis XV_ (era il nomignolo dato dai bonapartisti a questi nobili avanzi della monarchia) ma per ben dipingerla bisognerebbe farne la parte principale del quadro di cui non è che un accessorio. Figuratevi un individuo secco e magro, vestito come il primo, ma che non ne era, per così dire, che il riflesso o l'ombra. L'abito nuovo nell'uno era vecchio e sdruscito nell'altro. La cipria del capelli sembrava meno bianca nel secondo, l'oro dei fiori di giglio meno splendente, i tentativi di spalline più disperati e più raggrinzati, l'intelligenza più fiacca, la vita più di quella del primo inoltrata preso il termine fatale. Finalmente, realizzava quel motto di Rivarol su Champcenetz: «È il mio Chiaro di luna.» Egli non era che il bis dell'altro, un bis pallido e meschino, giacchè correva fra i due tutta la differenza che esiste fra la' prima e l'ultima tiratura di una litografia. Questo vecchio muto fu un mistero pel pittore e restò sempre un mistero. Il cavaliere — era cavaliere — non parlò e nessuno parlò a lui. Era un amico, un parente povero, un uomo che si attaccava al vecchio galante come una damigella di compagnia presso una vecchia signora? Teneva il mezzo fra il cane, il pappagallo e l'amico? Aveva salvato le sostanze o soltanto la vita del suo benefattore? Era il _Trim_ di un altro capitano Tobia? Altrove, come dalla baronessa De Rouville, eccitava la curiosità senza mai soddisfarla. Chi poteva, sotto la Ristorazione, ricordarsi l'attaccamento che prima della Rivoluzione legava questo cavaliere alla donna del suo amico, morta da vent'anni? Il personaggio che pareva il più nuovo di questi due avanzi, si inoltrò con galanteria verso la baronessa De Rouville, le baciò la mano, e si sedette presso di lei. L'altro salutò e si collocò presso il suo tipo, ad una distanza rappresentata da due sedie. Adelaide venne ad appoggiare i gomiti sullo schienale della poltrona occupata dal vecchio gentiluomo, imitando, senza saperlo, la posa che Guerin ha data alla sorella di Didone nel celebre suo quadro. Benchè la famigliarità del gentiluomo fosse quella di un padre, pel momento parve che le sue libertà spiacessero alla giovinetta. — Ebbene, mi fai il broncio? disse gettando su Schinner uno di quegli sguardi obliqui pieni di finezza e di malizia, sguardi diplomatici la cui espressione tradiva la prudente inquietudine, la curiosità cortese delle persone bene educate che vedendo uno sconosciuto sembra domandino: — È dei nostri? — Ecco il nostro vicino, gli disse la vecchia mostrandogli Ippolito. Il signore è un celebre pittore il cui nome vi deve essere noto malgrado la vostra indifferenza per le arti. Il gentiluomo riconobbe la malizia della sua vecchia amica nell'omissione del nome, e salutò il giovane. — Certamente, egli disse, ho inteso parlar molto dei suoi quadri all'ultima esposizione. Il talento ha dei bei privilegi, signore, aggiunse guardando il nastro rosso dell'artista. Questa distinzione, che noi dobbiamo conquistare al prezzo del nostro sangue e di lunghi servizii, voi l'ottenete da giovani; ma tutte le glorie sono sorelle, aggiunse portando la mano alla sua decorazione di San Luigi. Ippolito balbettò alcune parole di ringraziamento, e ricadde nel suo silenzio accontentandosi di rimirare con entusiasmo la bella testa della giovinetta che l'aveva incantato. In breve si immerse in quella contemplazione senza più pensare alla miseria profonda dell'appartamento. Per lui il volto di Adelaide si staccava da un'atmosfera luminosa. Rispose brevemente alle domande che gli furono rivolte e che fortunatamente capì, grazie a una facoltà singolare dell'anima nostra, il cui pensiero può, qualche volta, in certo modo raddoppiarsi. A chi non è accaduto d'essere assorto in una meditazione voluttuosa o triste, di ascoltarne nell'interno la voce ed assistere ad una conversazione o ad una lettura? Ammirabile dualismo che spesso ajuta a compatire i nojosi. Feconda e ridente la speranza gli versò mille pensieri di felicità, e non volle più nulla osservare intorno a sè. Dopo un certo lasso di tempo si accorse che la vecchia dama e sua figlia giocavano col vecchio gentiluomo. Quanto al satellite di colui, fedele alla sua condizione di ombra, si teneva in piedi dietro l'amico, il cui giuoco lo preoccupava, rispondendo alle mute domande che gli faceva il giuocatore con delle piccole smorfie approvative, che ripetevano i movimenti interrogatorii dell'altra fisionomia. — Du Holga, perdo sempre, diceva il gentiluomo. — Scartate male, riprese la baronessa De Rouville. — Ecco tre mesi che non ho potuto guadagnarvi una partita sola, egli riprese. — Ha gli assi il signor conte? domandò la vecchia dama. — Sì, ancora uno segnato, egli disse. — Volete che vi dia un consiglio? diceva Adelaide. — No, no, resta dinanzi a me. Perbacco! sarebbe perdere troppo il non averti in faccia. Finalmente la partita finì. Il gentiluomo estrasse la sua borsa, e gettando due luigi sul tappeto, non senza mal umore: — Quaranta franchi, giusti come l'oro, disse. Eh diavolo! sono le undici! — Sono le undici, ripetè il personaggio muto guardando il pittore. Il giovine, intendendo questa parola un po' più distintamente di tutte le altre, pensò che era tempo di ritirarsi. Ritornando allora nel mondo delle idee volgari, trovò alcuni luoghi comuni per prendere la parola, salutò la baronessa, sua figlia, i due sconosciuti, ed uscì in preda alle prime felicità dell'amor vero, senza cercare di analizzare i piccoli avvenimenti di quella serata. Il giorno dopo il giovine pittore provò il desiderio più violento di rivedere Adelaide. Se avesse dato ascolto alla sua passione, sarebbe andato dalle sue vicine fino dalle sei del mattino, arrivando allo studio. Fu però ancora tanto ragionevole da attendere fin dopo mezzodì. Appena credette poter presentarsi a madama De Rouville, discese, suonò, ed arrossendo come una ragazza domandò timidamente il ritratto del barone De Rouville alla signorina Leseigneur che era venuta ad aprirgli. — Ma entrate, gli disse Adelaide che senza dubbio l'aveva udito discendere dal suo studio. Il pittore la seguì, timido, sconcertato, non sapendo proferir parola tanto la felicità lo rendeva stupido. Vedere Adelaide, udire il fruscio della sua veste, dopo aver desiderato per tutta una mattina di essere presso di lei, dopo essersi alzato cento volte dicendo: — Vado abbasso, e non essere ancora disceso; era per lui vivere con tale esuberanza, che simili sensazioni troppo prolungate gli avrebbero logorata l'anima. Il cuore ha la potenza singolare di dare un prezzo straordinario ai nonnulla. Che gioja non è per un viaggiatore il raccogliere un filo d'erba, una foglia sconosciuta, se in quella ricerca ha rischiata la vita. I nonnulla dell'amore sono così: la vecchia non era nella sala. Quando la giovinetta vi si trovò sola col pittore, portò una sedia per staccare il ritratto, ma accorgendosi che non poteva toglierlo via senza mettere il piede sul tavolo, si volse ad Ippolito e gli disse arrossendo: — Non sono abbastanza grande. Vorreste prenderlo voi? Un sentimento di pudore, rivelato dall'espressione della sua fisionomia e dall'accento della sua voce, era il vero motivo della sua dimanda, ed il giovine, così comprendendola, le gettò uno di quegli sguardi intelligenti che sono il linguaggio più dolce dell'amore. Adelaide vedendo che il pittore l'aveva indovinata, abbassò gli occhi per un movimento di fierezza il cui segreto appartiene alle vergini. Non trovando una parola, e quasi intimidito, il pittore prese allora il quadro, l'esaminò con gravità e mettendolo in luce presso la finestra, se ne andò senza dir altro alla signorina Leseigneur che: — Ve lo restituirò presto. Tutti e due in quel rapido istante avevano provata una di quelle vive commozioni i cui effetti sull'animo possono paragonarsi a quelli che produce un sasso gettato nel fondo di un lago. Le riflessioni più dolci nascevano e si succedevano, indefinibili, moltiplicate, senza meta, agitando il cuore come le rughe circolari che piegano per lungo tempo l'onda diramandosi dal punto dove è caduto il sasso. Ippolito tornò al suo studio, armato di quel ritratto. Il suo cavalletto era già stato munito di una tela; una tavolozza era carica di colori; i pennelli erano puliti, il luogo e l'ora opportuni. Quindi fino all'ora del pranzo lavorò al ritratto con quell'ardore che gli artisti mettono nei loro capricci. Ritornò la sera stessa dalla baronessa De Rouville, e vi rimase dalle nove alle undici. All'infuori dei differenti soggetti di conversazione, quella sera somigliò esattamente alla precedente. I due vecchi arrivarono alla stessa ora, ebbe luogo la stessa partita a picchetto, dai giocatori furono dette le stesse frasi, la somma perduta dall'amico di Adelaide fu dello stesso importo di quella perduta il giorno prima; soltanto Ippolito, un po' più incoraggiato, osò discorrere colla giovinetta. Passarono così otto giorni, durante i quali i sentimenti del pittore e quelli di Adelaide subirono quelle deliziose e lente trasformazioni che conducono le anime all'accordo perfetto. Di giorno in giorno lo sguardo con cui Adelaide accoglieva l'amico era divenuto più intimo, più confidente, più gajo, più franco; la sua voce, le sue maniere ebbero qualche cosa di più molle, di più famigliare. Tutti e due ridevano, discorrevano, si comunicavano i loro pensieri, parlando di sè stessi coll'ingenuità di due fanciulli che nello spazio di un giorno hanno stretta amicizia, come se si fossero veduti da tre anni. Schinner giocava al picchetto. Ignorante e novizio, faceva naturalmente l'alunnato e, come il vecchio, perdeva tutte le partite. Senza essersi ancora confidato il loro amore, i due amanti sapevano di appartenersi l'un l'altro. Ippolito aveva esercitato con fortuna il suo potere sulla timida amica. Molte concessioni gli erano state fatte da Adelaide la quale, timida e devota aveva di quei falsi malumori che l'amante meno abile e la giovinetta più primitiva inventano e di cui si servono di continuo, come i fanciulli viziati abusano del potere che loro dà l'amore della madre. Ogni famigliarità era cessata fra il vecchio ed Adelaide. La giovinetta aveva naturalmente compresa la tristezza del pittore ed i pensieri occulti nelle pieghe della sua fronte, nell'accento brusco delle poche parole che pronunciava allorchè il vecchio baciava senza riguardo alcuno le mani od il collo di Adelaide. Dal canto suo la signorina Leseigneur chiedeva al suo amante stretto conto delle menome sue azioni. Era così infelice, così inquieta quando Ippolito non veniva; sapeva così bene rimproverarlo per le sue assenze, che il pittore cessò di trovarsi coi suoi amici e di andare in società. Adelaide lasciò trapelare la gelosia naturale alle donne udendo che talvolta, uscendo da madama De Rouville alle undici, il pittore faceva ancora delle visite e si recava nei saloni più brillanti di Parigi. Da principio pretendeva che questo genere di vita fosse pernicioso alla salute: poi trovò modo di dirgli, con quella profonda convinzione alla quale danno tanta forza l'accento, il gesto, e lo sguardo d'una persona amata: «Che un uomo obbligato a prodigare a più donne in una volta il suo tempo e le grazie del suo spirito, non poteva essere oggetto di una viva affezione.» Il pittore fu dunque condotto, tanto dal dispotismo della passione che dalle esigenze di una fanciulla innamorata, a non vivere che in quel piccolo appartamento in cui tutto gli piaceva. Mai vi fu amore più puro e più ardente. Da una parte e dall'altra la stessa fede, la stessa delicatezza, fecero crescere quella passione senza l'ajuto dei sagrifizi coi quali molti cercano di provarsi il loro amore. Fra essi esisteva uno scambio continuo di sensazioni dolci, e non sapevano chi più ne dava e più ne riceveva. Una involontaria tendenza rendeva sempre più stretta l'unione delle anime loro. Il progresso di questo sentimento vero fu così rapido, che due mesi dopo l'accidente cui il pittore doveva la felicità di avere conosciuta Adelaide, la loro vita era diventata una vita sola. Cominciando dal mattino la giovinetta udendo il passo del suo innamorato poteva dire a se stessa: è là! Quando Ippolito tornava da sua madre, all'ora del pranzo, non mancava mai di venire a salutare le sue vicine, e la sera, all'ora solita, accorreva colla puntualità d'innamorato. La donna più tirannica e più ambiziosa in amore non avrebbe quindi potuto fare il menomo rimprovero al giovine pittore. Anche Adelaide godeva una felicità, affatto pura ed illimitata vedendo realizzarsi in tutta la sua estensione l'ideale che alla sua età è tanto naturale sognare. Il vecchio gentiluomo veniva meno di frequente; il geloso Ippolito l'aveva la sera sostituito al tappeto verde, nella sua costante sfortuna al giuoco. Tuttavia, in mezzo alla sua felicità, pensando alla disastrosa situazione di madama De Rouville, giacchè aveva avuto più di una prova della sua miseria, non poteva spacciare un pensiero importuno. Già più volte ritornando a casa si era detto: — Come! Venti franchi tutte le sere! E non osava confessarsi i suoi sospetti odiosi. Impiegò due mesi a fare il ritratto, e quando fu finito, verniciato, messo in cornice, lo contemplò come una delle sue opere migliori. Madama la baronessa De Rouville non gliene aveva più parlato. Era noncuranza o fierezza? Il pittore non voleva spiegarsi questo silenzio. Fece con Adelaide il lieto complotto di mettere il ritratto al suo posto durante la passeggiata che sua madre faceva ordinariamente alle Tuileries. Adelaide salì sola, per la prima volta, allo studio di Ippolito, col pretesto di vedere il ritratto nella luce favorevole sotto la quale era stato dipinto. Restò muta ed immobile, in preda ad una contemplazione deliziosa in cui fondevansi in un solo tutti i sentimenti della donna. Non si riassumono essi tutti in una giusta ammirazione dell'uomo amato? Allorchè il pittore, inquieto di quel silenzio, si chinò per vedere la giovinetta, essa gli stese la mano, senza poter dire una parola; ma due lagrime eranle cadute dagli occhi. Ippolito prese quella mano, la coperse di baci, e per un momento si guardarono in silenzio, essendo ambedue per confessarsi il loro amore e non osandolo. Il pittore teneva nelle sue la mano d'Adelaide ed uno stesso calore, uno stesso movimento loro appresero che i loro cuori battevano ambedue colla stessa forza. Troppo commossa, la giovinetta si allontanò dolcemente da Ippolito, e disse gettandogli un'occhiata piena d'ingenuità: — Voi farete ben felice mia madre! — Che? vostra madre soltanto? egli domandò. — Oh, io lo sono anche troppo. Il pittore abbassò la testa e rimase silenzioso, stordito dalla violenza dei sentimenti che l'accento di questa frase svegliò nel suo cuore. Comprendendo allora tutto il pericolo di quella situazione, essi discesero e misero il ritratto al suo posto. Ippolito pranzò per la prima volta colla baronessa e con sua figlia. Fu festeggiato, complimentato da madama De Rouville con una rara bonomia. Nella sua tenerezza, tutta in lagrime, la vecchia dama volle baciarlo. La sera, il vecchio emigrato, aulico camerata del barone De Rouville, col quale aveva vissuto fraternamente, fece alle sue due amiche una visita per annunziar loro che era stato nominato vice-ammiraglio. Le sue navigazioni terrestri attraverso la Germania e la Russia gli erano state contate come campagne navali. All'aspetto del ritratto strinse cordialmente la mano al pittore ed esclamò: — In fede mia! benchè la mia vecchia carcassa non valga la pena di essere conservata, darei ben volontieri cinquecento pistole per vedermi così somigliante come il mio vecchio Rouville. A questa proposta la baronessa guardò il suo amico e sorrise lasciando scaturire dal suo volto i sintomi di una subita riconoscenza. Ippolito credette indovinare che il vecchio ammiraglio voleva offrirgli il prezzo dei due ritratti pagando il suo. La sua fierezza d'artista, forse tanto come la sua gelosia, si offese di quell'idea e rispose: — Signore, se fossi ritrattista non avrei fatto questo qui. L'ammiraglio si morse le labbra e si mise a giocare. Il pittore restò presso Adelaide, che gli propose di fare una partita; accettò. Giocando, osservò in madama De Rouville un ardore pel giuoco che lo sorprese. Mai quella vecchia baronessa aveva dimostrato un desiderio così ardente di guadagno, nè un piacere così vivo palpando le monete d'oro del gentiluomo. Durante la serata, brutti sospetti vennero a turbare la felicitò di Ippolito e gli inspirarono la diffidenza. Madama De Rouville viveva dunque del giuoco? Non giocava essa in quel momento per soddisfare qualche debito, o spinta da qualche necessità? Forse non aveva pagato l'affitto. Quel vecchio pareva abbastanza fino per lasciarsi prendere impunemente il danaro. Quale poteva dunque essere l'interesse che lui, ricco, attirava in quella povera casa? Perchè una volta era così famigliare con Adelaide, e perchè ad un tratto aveva rinunziato ai privilegi acquistati, forse dovuti? Queste riflessioni gli vennero involontariamente, e l'eccitarono ad esaminare con nuova attenzione il vecchio e la baronessa. Fu malcontento delle loro arie d'intelligenza e degli sguardi obliqui che gettavano su Adelaide e su lui. «Mi ingannerebbero?» fu per Ippolito un'ultima idea, orribile, demoralizzante, ed alla quale credette quel tanto che bastava per esserne torturato. Volle restare dopo la partenza dei due vecchi per confermare i suoi sospetti o dissiparli. Aveva cavata la sua borsa per pagare Adelaide; ma, in preda ai suoi pensieri tumultuosi, mise la borsa sulla tavola e cadde in una fantasticheria che durò poco; indi, vergognandosi del suo silenzio, si alzò, rispose ad una interrogazione banale fattagli da madama De Rouville e si avvicinò a lei per potere, discorrendo, meglio esaminare quel vecchio volto. Uscì in preda a mille incertezze. Appena aveva fatti alcuni gradini, si ricordò di avere dimenticato il danaro sul tavolo e ritornò. — Vi ho lasciato la mia borsa? disse alla giovinetta. — No, rispose ella arrossendo. — La credeva là, egli riprese, mostrando il tavolo da giuoco; ma, vergognoso per Adelaide e per la baronessa di non vedervela, le guardò con aria inebetita che le fece ridere, impallidì e continuò tastando il gilè: «Mi sono ingannato; l'ho senza dubbio.» Salutò ed uscì. In uno dei lati di quella borsa vi erano quindici luigi, nell'altro degli spiccioli. Il furto era così flagrante, così sfrontatamente negato, che Ippolito non poteva più conservare dubbio sulla moralità delle sue vicine. Si fermò sulla scala, la discese con pena: le gambe gli tremavano, aveva le vertigini, sudava, gelava, e si trovava impotente a lottare coll'atroce commozione cagionatagli dalla rovina di tutte le sue speranze. In quel momento raccapezzò nella memoria una quantità di osservazioni, futili in apparenza, ma che corroboravano i terribili sospetti ai quali era stato in preda, e che servivano a riprova della verità dell'ultimo fatto, aprendogli gli occhi sul carattere e sulla vita di quelle due donne. Avevano dunque aspettato che fosse consegnato il ritratto per rubare la borsa? Combinato, il furto era ancora più odioso. Il pittore si ricordò, per sua sventura, che da due o tre sere Adelaide, mentre sembrava esaminare con una curiosità di ragazza il lavoro speciale della rete di seta usata, probabilmente verificava il danaro contenuto nella borsa, con scherzi in apparenza innocenti, ma che senza dubbio avevano lo scopo di spiare il momento in cui la somma fosse abbastanza rilevante per essere sottratta. — Il vecchio ammiraglio ha forse delle eccellenti ragioni per non sposare Adelaide, ed allora la baronessa avrà cercato di... A quella supposizione si fermò non completando nemmeno il suo pensiero che fu distrutto da una riflessione assai giusta. — Se la baronessa, pensò, spera di farmi sposare sua figlia, esse non m'avrebbero derubato. Poi, per non rinunciare alle sue illusioni, al suo amore già così saldamente radicato, tentò di cercare qualche giustificazione nel caso. — La mia borsa sarà cascata per terra, diceva; sarà restata sulla mia poltrona. Forse l'ho; sono tanto distratto! Si frugò convulsivamente e non trovò la maledetta borsa. La sua memoria crudele gli raffigurava tratto tratto la fatale verità. Vedeva distintamente la sua borsa distesa sul tappeto; ma, non dubitando più del furto, scusava Adelaide, dicendo che non si dovevano giudicare così lestamente i disgraziati. Vi era senza dubbio un segreto in quell'azione così degradante. Non voleva che quella fiera e nobile figura fosse una maschera. Tuttavia queil'appartamento così miserabile gli parve spoglio della poesia dell'amore che tutto abbellisce; lo vide sporco e indecente, lo considerò come il simbolo di una vita intima senza nobiltà, disoccupata e viziosa. I nostri sentimenti non sono, per così dire, scritti sulle cose che ne circondano? Il mattino dopo si alzò senza aver dormito. Il dolore del cuore, questa grave malattia morale, aveva fatto in lui enormi progressi Perdere una felicità sognata, rinunziare a tutto un avvenire, è un tormento più acuto di quello cagionato dalla rovina di una felicità provata, per quanto sia stata completa: la speranza non è forse migliore del ricordo? Le meditazioni in cui cade tutto ad un tratto l'anima nostra sono allora come un mare senza sponde nel seno del quale noi possiamo nuotare per un momento, ma in cui è necessario che il nostro amore si anneghi e muoja. È una morte orribile. Non sono i sentimenti la parte più brillante della nostra vita? Da questa morte parziale derivano in certe organizzazioni delicate o forti le grandi rovine prodotte dalla disillusione, dalle speranze e dalle passioni tradite. Così fu del giovine pittore. Uscì per tempissimo, assorto nelle sue idee, dimenticando tutto il mondo. Per un caso che non aveva nulla di straordinario, incontrò uno dei suoi amici più intimi, camerata di collegio e di studio, col quale aveva vissuto meglio che con un fratello. — Ebbene, Ippolito, cos'hai? gli disse Francesco Souchet, giovine scultore che aveva allora ottenuto il gran premio e doveva partire per l'Italia. — Sono sfortunatissimo, rispose gravemente Ippolito. — Non è che un affare di cuore che ti possa dare affanno. Danaro, gloria, considerazione, nulla ti manca. A poco a poco le confidenze cominciarono, ed il pittore confessò il suo amore. Quando parlò della via Suresne e d'una giovinetta alloggiata ad un quarto piano: — Alto là! gridò allegramente Souchet. È una giovinetta che vedo tutte le mattine all'Assunzione ed alla quale fo la corte. Sua madre è una baronessa! Ci credi tu alle baronesse alloggiate al quarto piano? Brrr!... Ah! tu sei un uomo dell'età dell'oro; ma essa ha una figura, un'aria che dicono tutto. Come! Non hai indovinato che cosa è alla maniera con cui tiene il suo scialle? I due amici passeggiarono a lungo, e loro si unirono parecchi giovani che conoscevano Souchet e Schinner. L'avventura del pittore, giudicata di poca importanza, fu loro contata dallo scultore. — Ed anch'esso ha veduto quella ragazza! Furono osservazioni, risa, burle, fatte innocentemente e con tutto il brio degli artisti, ma delle quali Ippolito soffriva orribilmente. Un certo intimo pudore lo metteva in triste posizione vedendo il segreto del suo cuore trattato con tanta leggierezza, la sua passione lacerata, fatta in brandelli, una giovinetta sconosciuta e la cui vita pareva così modesta, sottoposta a giudizii veri o falsi, pronunciati con tanta indifferenza. Affettò di essere spinto da uno spirito di contraddizione; chiese seriamente a ciascuno le prove delle sue asserzioni, e gli scherzi ripresero da capo. — Ma, caro amico, hai veduto lo scialle della baronessa? diceva Souchet. — Hai seguito la piccina, la mattina, quando trotta all'Assunzione? diceva Giuseppe Bridau, un birichino dello studio di Gres. — Ah! la madre ha, fra le altre virtù, un certo abito grigio che considero come un tipo, disse Bixion, il caricaturista. — Ascolta, Ippolito, riprese lo scultore, vieni qui verso le quattro ed analizza un po' gli andamenti della madre e della figlia. Se dopo hai dei dubbii, ebbene! da te non si caverà mai nulla. Sarai capace di sposare la figlia della tua portinaja. In preda ai sentimenti più opposti, il pittore abbandonò i suoi amici. Adelaide e sua madre gli sembravano esseri superiori a queste accuse, ed in fondo al cuore provava rimorso di avere sospettata la purezza di quella giovane così semplice e così bella. Andò al suo studio, passò davanti alla porta dell'appartamento in cui si trovava Adelaide, e provò il senso di dolore al cuore che non lascia luogo ad esitanze. Amava la signorina De Rouville con tanta passione che, ad onta del furto della borsa, l'adorava ancora. Il suo amore era quello del cavaliere Des Grieux che ammira e purifica la sua bella perfino sulla carretta che conduce alla prigione le donne perdute. — Perchè il mio amore non la renderebbe la più pura di tutte le donne? Perchè abbandonarla al male, al vizio, senza porgerle una mano amica? Questa missione gli piacque. L'amore trae profitto da ogni cosa. Nulla più seducente per un giovane che fare la parte del genio del bene presso una donna. Vi è qualche cosa di romanzesco in tale impresa che s'addice alle anime esaltate. Non è forse la massima devozione sotto la forma più elevata, più gentile? Non vi è della grandezza nel sapere che si ama abbastanza per amare ancora là ove l'amore degli altri si estingue e muore? Ippolito si assise nel suo studio, contemplò il suo quadro senza punto lavorarvi, non vedendo le figure che attraverso alcune lagrime che gli ondeggiavano negli occhi, tenendo sempre la tavolozza alla mano, avanzandosi verso la tela come per raddolcire una tinta, ma non toccandola. La notte lo colse in quell'attitudine. Svegliato dalla sua fantasticheria dall'oscurità, discese, incontrò il vecchio ammiraglio sulle scale, gli gettò una triste occhiata salutandolo, e fuggì. Aveva avuta l'intenzione di entrare dalle sue vicine, ma l'aspetto del protettore d'Adelaide gli gelò il cuore e fece svanire la sua risoluzione. Si chiese per la centesima volta quale interesse poteva condurre quel vecchio libertino, ricco di ottantamila lire di rendita, in quel quarto piano ove perdeva circa quaranta franchi tutte le sere; e quell'interesse credette indovinarlo. Il giorno dopo ed i seguenti Ippolito si ingolfò nel lavoro per cercare di combattere la sua passione, colla foga delle idee e della concezione. Riescì a mezzo. Lo studio lo consolò senza però arrivare a soffocare i ricordi di tante ore carezzevoli passate presso Adelaide. Una sera, nel lasciare il suo studio, trovò la porta dell'appartamento delle due signore semichiusa. Vi era una persona in piedi nel vano della finestra. La disposizione della porta e della scala non permettevano al pittore di passare senza vedere Adelaide; la salutò freddamente, lanciandole una occhiata indifferente; ma, giudicando dalle sue le sofferenze di quella giovinetta, provò un sussulto interno nel pensare all'amarezza che quello sguardo e quella freddezza dovevano gettare in un cuore innamorato. Coronare le più dolci feste che mai abbiano rallegrate anime pure con un dispetto di otto giorni, collo sprezzo più profondo, più completo!... triste scioglimento! Forse la borsa era stata trovata, e forse ogni sera Adelaide aveva aspettato il suo amico. Questo pensiero così semplice, così naturale, fece provare nuovi rimorsi all'innamorato. Si domandò se le prove d'attaccamento che la giovinetta gli aveva date, se le incantevoli conversazioni, improntate da un amore che l'aveva entusiasmato, non meritavano almeno un'inchiesta, non valevano una giustificazione. Vergognandosi di aver resistito per una settimana ai voti del cuore e trovandosi quasi reo per quella lotta, la sera stessa andò da madama De Rouville. Tutti i suoi sospetti, tutti i suoi cattivi pensieri, svanirono all'aspetto della giovinetta pallida e dimagrata. — Mio Dio, che avete? le disse dopo avere salutata la baronessa. Adelaide non gli rispose, ma gli lanciò un'occhiata piena di malinconia, un'occhiata triste, scoraggiata, che gli fece male. — Avete senza dubbio lavorato molto, disse la vecchia, siete cambiato. Noi siamo la causa della vostra reclusione. Questo ritratto avrà ritardato alcuni quadri importanti per la vostra riputazione. Ippolito fu felice di trovare una scusa così buona alla sua indelicatezza. — Sì, disse, sono stato molto occupato, ma ho sofferto... A quelle parole Adelaide alzò la testa, guardò il suo amante, ed i suoi occhi inquieti non gli rimproverarono più nulla. — Voi ci supponevate molto indifferenti a ciò che di bene e di male vi può accadere? disse la vecchia. — Ebbi torto, egli rispose. Tuttavia vi sono dolori che non si potrebbero confidare ad alcuno, nemmeno ad un sentimento meno recente di quello di cui voi mi onorate... — La sincerità, la forza dell'amicizia non si devono misurare dal tempo. Ho visto dei vecchi amici non scambiarsi una lagrima nella sventura, disse la baronessa crollando la testa. — Ma che avete dunque? chiese il giovine ad Adelaide. — Oh! nulla, rispose la baronessa. Adelaide ha passato alcune notti per finire un lavoro femminile e non ha voluto darmi ascolto quando le dicevo che un giorno più un giorno meno poco importava... Ippolito non ascoltava. Vedendo quelle due figure così nobili, così calme, arrossiva dei suoi sospetti ed attribuiva la perdita della sua borsa a qualche caso inesplicabile. Quella serata fu deliziosa per lui, e fors'anche per lei. Vi sono segreti che le anime giovani comprendono così bene! Adelaide indovinava ciò che pensasse Ippolito. Senza volere confessare i suoi torti, il pittore li riconosceva; ritornava alla sua amante più invaghito, più affettuoso, cercando così di guadagnare un tacito perdono. Adelaide gustava gioje così perfette, così dolci, che non le parevano pagate troppo con tutta la sciagura che aveva così crudelmente straziato l'anima sua. L'accordo così vero dei loro cuori, quell'intimità piena di magia, fu però turbata da una parola della baronessa De Rouville. — Facciamo la nostra partitina? ella disse, giacchè il mio vecchio Kergarouët mi tiene il broncio. Questa frase risvegliò tutti i sospetti del giovine pittore, che arrossì guardando la madre di Adelaide; ma non vide su quel volto che l'espressione di una bonomia sincera; nessuna seconda intenzione ne distruggeva la piacevolezza; la finezza non era perfida, la malizia pareva dolce, e nessun rimorso ne alterava la calma. Allora si mise alla tavola da giuoco. Adelaide volle dividere la sorte del pittore, pretendendo che non conoscesse il picchetto, ed avendo bisogno d'un socio. Madama De Rouville e sua figlia si fecero durante la partita dei segni d'intelligenza che inquietavano tanto più Ippolito, inquantochè guadagnava; ma poi alla fine un ultimo colpo rese i due amanti debitori della baronessa. Volendo cercare delle monete nelle tasche, il pittore ritirò le mani da sopra la tavola, ed allora vide davanti a sè una borsa che Adelaide vi aveva fatto scivolare senza ch'egli se ne accorgesse; la povera ragazza teneva l'antica, e per darsi contegno si occupava a cercarvi del danaro per pagare sua madre. Il sangue di Ippolito affluì tutto al suo cuore con impeto sì grande che fu sul punto di venir meno. La borsa nuova sostituita alla sua e che conteneva i suoi quindici luigi, era ricamata in perle d'oro. I cappii, le nappine, tutto attestava il buon gusto di Adelaide, che senza dubbio aveva esaurito il suo peculio negli ornamenti di quel grazioso lavoro. Era impossibile dire con maggior delicatezza che il dono del pittore non poteva essere ricompensato che con un attestato d'affezione. Quando Ippolito, soprafatto dalla felicità, volse gli occhi su Adelaide e sulla baronessa, le vide tremanti di gioja e felici dell'amabile soperchieria. Egli si trovò piccolo, meschino, babbeo; avrebbe voluto punirsi, lacerarsi il cuore. Alcune lagrime gli spuntarono negli occhi, si alzò con un moto irresistibile, prese Adelaide fra le braccia, la strinse al seno, le rapì un bacio, poi, con una buona fede d'artista: — Ve la chiedo in moglie! sclamò guardando la baronessa. Adelaide gettava sul pittore degli sguardi mezzo corrucciati e madama De Rouville, un po' sorpresa, cercava una risposta, quando la scena fu interrotta dallo strepito del campanello. Il vecchio ammiraglio comparve seguito dalla sua ombra e dalla signora Schinner. Dopo avere indovinato la causa dei dispiaceri che suo figlio aveva inutilmente cercato di nasconderle, la madre di Ippolito aveva preso informazioni su Adelaide da alcuno dei suoi amici. Giustamente allarmata dalle calunnie che pesavano su quella giovinetta all'insaputa del conte di Kergarouët, il cui nome gli fu detto dalla portinaja, era andata a narrarle al vice-ammiraglio, che nella sua collera diceva di «voler andare a tagliare le orecchie a quei furfanti.» Animato dalla sua bile, aveva comunicato alla signora Schinner il segreto delle perdite volontarie che faceva al giuoco, giacchè la fierezza della baronessa non gli lasciava che quel mezzo ingegnoso per soccorrerla. Allorchè madama Schinner salutò madama De Rouville, questa guardò il conte di Kergarouët, Ippolito, Adelaide, e disse colla grazia del cuore: — Pare che questa sera siamo in famiglia. FINE. INDICE Prefazione Pag. 3 La pace domestica 7 L'elisir di lunga vita 43 La borsa 67 Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. Per comodità di lettura è stato aggiunto un indice a fine volume. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK LA PACE DOMESTICA; L'ELISIR DI LUNGA VITA; LA BORSA: RACCONTI SCELTI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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