The Project Gutenberg eBook of Profili, impressioni e ricordi This ebook is for the use of anyone anywhere in the United States and most other parts of the world at no cost and with almost no restrictions whatsoever. You may copy it, give it away or re-use it under the terms of the Project Gutenberg License included with this ebook or online at www.gutenberg.org. If you are not located in the United States, you will have to check the laws of the country where you are located before using this eBook. Title: Profili, impressioni e ricordi Author: Neera Release date: May 3, 2022 [eBook #67974] Language: Italian Original publication: Italy: Cogliati, 1920 Credits: Barbara Magni and the Online Distributed Proofreading Team at http://www.pgdp.net (This file was produced from images made available by The Internet Archive) *** START OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PROFILI, IMPRESSIONI E RICORDI *** NEERA PROFILI IMPRESSIONI e RICORDI _EDIZIONE POSTUMA_ MILANO CASA EDITRICE L. F. COGLIATI 1920 PROPRIETÀ LETTERARIA STAB. GRAFICO REGGIANI — MILANO — VIA DELLA SIGNORA, 15 PROFILI _UN IDEALISTA_. ALBERTO SORMANI _Io cerco di essere eclettico od a meglio dire tollerante in fatto d’arte. Ammetto tutte le forme o quasi, purchè vi sieno soddisfatte certe tendenze universali dell’anima umana. Ma la mia natura mi porta a cercare nell’arte le forme più alte, a rendermene conto, a determinarle e a seguirle nell’opera mia se le forze non me ne mancheranno. E per ciò sono e mi dichiaro idealista, altamente, fortemente, fieramente idealista._ (Dagli scritti di ALBERTO SORMANI). Sono quasi cinque anni; e il tempo che tutto cancella, che tutto affievolisce, non ha ancora cancellata, non ha affievolita la indimenticabile memoria. Era un giorno della fine di giugno, verso sera. Il caldo, quell’anno, aveva anticipato la sua afa snervante. Egli entrò nel mio salotto un po’ pallido e con un abbandono affatto insolito si lasciò cadere sulla poltrona. — Sono stanco — disse. Chi lo avrebbe pensato, allora, che quella doveva essere la stanchezza ultima, la stanchezza misteriosa e fatale — a ventisei anni, nel vigore della salute e delle forze? Sono stanco, aveva detto Lui, che non si confessava stanco mai, mai scoraggiato, mai dômo. Lo guardai in viso e mi parve mesto. Soggiunse: — ho gran bisogno di andare in campagna. — Mi afferrai a questa speranza, esortandolo a partire subito, persuasa che nel suo dolce Pomelasca si sarebbe riavuto prontamente. Poi parlammo d’altro. Calava la sera, pesante. La stanza riempivasi d’ombre; i due rettangoli delle mie finestre si aprivano alla luce smorta dei fanali, nella via poco frequentata. Gli era cara quella oscurità crepuscolare e per fargli piacere indugiai ad accendere la lampada. Nell’ambiente bigio udivo la sua voce senza quasi vederlo; ah! non era la solita voce potente dallo squillo di bronzo ben temprato; aveva come un velo. Egli attendeva in quei giorni alla traduzione francese dell’_Ultima passeggiata_, che avrebbe mandata all’_Ermitage_, ostinandosi a cercare una parola che non fosse _banc_ per tradurre _sedile_. Gli dissi che se non l’aveva trovata lui, io non la troverei certamente. Insistette perchè avessi a cercarla e glielo promisi. Mi veniva intanto alla mente «_Le banc de pierre_» la soavissima romanza di Gounod che ha tanti punti di contatto coll’_Ultima passeggiata_. Avrei voluto potergliela ridire, ma era impossibile. Non si riusciva quella sera a entrare in un discorso seguito. Ogni tanto uno di noi lanciava una parola che sembrava cadere e frangersi contro un ostacolò invisibile. La sua attitudine scorata mi disorientava nel modo più assoluto. Pensai di leggergli un breve lavoro del quale Egli aveva già approvata la tesi. L’abitudine di leggere insieme eragli molto cara. Quando leggeva, leggeva bene, e quando ascoltava, ascoltava anche meglio. Il suo volto intelligente e serio prestavasi ad una attenzione intensa; c’era tanta simpatia nel suo sguardo avido di intellettualità che una corrente si stabiliva subito fra il pensiero di chi leggeva e il suo. Intendeva a volo, gustava prontamente; un leggerissimo movimento della bocca tradiva solo la sua approvazione che restava interna, come un piacere che volesse trattenere, mentre la parola di biasimo gli usciva ratta e decisa. Ma anche la lettura quella sera non andò. Alzando gli occhi lo vidi pallido, con un aspetto sempre più affaticato. Chiusi il manoscritto, sentendomi invasa io pure da un malessere. Mentre cercavo fra me che cosa avrei potuto dire al mesto amico, il paralume della lampada che avevo accesa allora, prese fuoco. Ci alzammo tutti e due per spegnerlo e quando il pericolo fu finito, Egli mi spiegò concitatamente come dovevo fare per evitarlo un’altra volta. Poi ricadde nel silenzio. Un odore di bruciaticcio persisteva nella stanza; dalla lucerna tutta nuda diffondevasi una luce antipatica che volli palliare in qualche modo. Egli mi pregò a desistere soggiungendo ch’era già tardi. E restammo così, seduti di fronte, con quella luce sfacciata e malinconica ad un punto. Ma ogni cosa era malinconica quella sera. Disse: È l’ora. Io pensai ancora disperatamente che non dovevamo lasciarci a quel modo, che avevo una quantità di cose da dirgli, solo non le ricordavo più, ma perchè non le ricordavo? Anch’Egli sembrava aspettare o cercare qualche cosa. Si alzò, ma non si mosse. Vidi sul tavolino dei versi per nozze e volli darglieli. — Per far che? — Egli chiese con un sorriso stanco, molto triste. E il sorriso che gli corrisposi fu più triste ancora, perchè l’ombra cresceva dentro di me; mi mancavano ormai anche le parole. Ci fermammo in piedi davanti al caminetto. L’uscio era lì dietro a noi, l’uscio che doveva aprirsi e chiudersi per sempre sull’amico. Disse ancora: — È tardi nevvero? Oh! come sentivo la fuga irrimediabile del tempo. C’è un dramma del Maeterlink intitolato «_L’Intrusa_» dove si vede la morte che passeggia in mezzo ai vivi, suscitando nello spettatore un misterioso turbamento. Ebbene, quel turbamento io e Lui lo abbiamo veramente sentito: io e Lui, non spettatori ma attori della fatale tragedia. Disse finalmente: Vado. Allora non trovando più argomenti lo supplicai con gli occhi. Ci guardammo così per alcuni istanti in un modo incredibilmente angoscioso. Nel suo volto pallidissimo l’occhiaia larga e profonda sembrava accogliere un fuoco spento. Tutto doveva accadere come accadde, con uno schianto interno e muto del quale nessuno di noi due sapeva darsi ragione. Ci salutammo colle solite parole: la stretta delle nostre mani non fu nè più intensa, nè più prolungata, ed Egli partì! Udii sbattere la porta, giù abbasso, udii il suo passo nella via deserta. Mi affacciai alla finestra e quando Egli alzò il capo gli replicai la buona sera. — Buona sera — rispose, e la sua voce — la voce che non dovevo udire mai più — salì, si disperse nella notte quieta. Di nuovo la tristezza mi prese con singolare violenza, con un affanno, una inquietudine, una specie di rimorso, e con un terrore ignoto che mi fa domandare anche adesso se realmente i presentimenti esistono, se un filo misterioso tante volte spezzato e sempre rinascente non ci comunica qualche volta i segreti del mondo ultrasensibile. Sono passati quasi cinque anni ed ho ancora davanti l’angoscia inesplicabile di quella sera. Inesplicabile? Non so. Chi oserebbe affermarlo poichè due settimane dopo Egli era morto? Prima di parlare di Alberto Sormani, del suo ingegno, de’ suoi ideali, della sua opera, ora che già dissi come lo perdei, mi è di malinconica dolcezza rammentare in qual modo lo conobbi. Nell’inverno del 1890 ero molto debole, convalescente, per cui vivevo ancor più rinchiusa e solitaria del solito, non ricevendo che gli amici intimi. Una lettera che trovai alla mia porta mi sorprese e mi occupò qualche giorno per un non so che di strano, direi meglio di originale, che trapelava dalla scrittura alta e ferma, quale i grafologhi attribuiscono al genio ed all’orgoglio; dallo stile, dalle idee, da una audacia nuova e altera. L’ignoto scrivente mi apriva una disputa sul mio romanzo, l’_Indomani_, lusingando il mio amor proprio di autore e mostrando un ingegno acuto; ma io ero debole, malata, e poi non ho mai avuto passione per la polemica; infine, l’esperienza mi aveva raffreddata sulla maggior parte di queste lettere di ignoti che ci destano un palpito così soave per lasciarci, più tardi, una amarezza di più. Mandai una carta di visita in forma di ringraziamento e non ci pensai altro. Passato qualche tempo l’ignoto tornò a scrivere. Domandai allora a qualcuno che vive nel mondo letterario di chi fosse questo nome a me sconosciuto. Nessuno lo sapeva. Con una seconda carta mi scusai di non potere, per la mia salute, rispondere e credevo proprio che tutto fosse finito. Invece mi giunsero, con un crescendo di fermezza che dimostrava una fede sicura e un carattere tenace, due numeri della _Gazzetta Letteraria_ (24 e 31 agosto 1889) contenenti una novella intitolata: _Speranza triste_, firmata Alberto Sormani. Scrivo colla maggiore semplicità, con una schiettezza intera, perchè mi pare il solo modo degno di parlare di lui. Dirò dunque che la mia prima intenzione era di non leggere la novella e la lasciai infatti per due o tre giorni sul tavolino. Fu in un momento di ozio, di noia, di distrazione che la ripresi? Certo fu con somma indifferenza che incominciai a guardare le prime parole:..... «Che cosa è restato a questo mondo di donna Clara Sormani?» — Quando ebbi finito di leggere e che me ne stetti muta, coi giornali aperti sui ginocchi, una completa rivoluzione era avvenuta dentro di me. Vedevo forse per la prima volta sorgere da poche pagine scritte una vera anima ardente e aristocratica, delicata e sdegnosa — e così viva! L’ignoto che aveva bussato alla mia porta sotto un mantello di pellegrino si scopriva e mostrava le sue insegne regali. Conosco senza dubbio altre novelle più leggiadramente composte, meglio soggette ai freni dell’arte, e neanche potevano sfuggirmi in questa _Speranza triste_ le scorrettezze, le inesperienze, certe crudità, certi stridori di forma; ma come tutto ciò scompare davanti alla straordinaria sincerità della visione, alla elevatezza intima del pensiero! Dal cozzo di frasi potenti con frasi meschine, che non appare nel caso presente frutto di ignoranza o di cattivo gusto ma eccesso di passione, ne viene alla novella un contrasto di bagliori e di tenebre che non è forse la sua minore attrattiva. Si leggono molte cose vere che non sono così vere come questa fantastica creazione dove un’anima si mostra intera; e succede che mentre vediamo spesso sotto ricche vesti spuntare le ossa rachitiche di un corpo deforme, qui i succinti veli e i poco abili drappeggi e la stoffa maneggiata con dita inesperte non riescono a guastare l’armonia delle forme elette. Non ci troviamo davanti a un capolavoro letterario, ma abbiamo la rivelazione di una individualità superiore; per cui, tutto all’opposto di quanto avviene ogni giorno, invece dell’opera che soprafà l’artista siamo presi dall’artista stesso che ci impone violentemente il dilemma: o amatemi o abbonatemi. È difficile infatti presentarsi in una volta sola con tante qualità e con tanti difetti. Ancor più difficile conoscere quelle qualità e non subirne il fascino e dimenticare tutto il resto. Alcune persone scrupolose non approvarono il soggetto del racconto che è un amore tra fratello e sorella. Confesso che sulle prime l’audacia della narrazione è tale, che ne rimasi io pure impressionata; ma anche senza conoscere Alberto Sormani, come appunto allora non lo conoscevo, l’impressione svanì subito nella purezza del concetto che non lascia alcun dubbio sulle intenzioni dell’autore. Chi poi lo conobbe, chi seppe quale signorile altezza egli portava in tutte le sue concezioni artistiche e ricorda come un altro scrittore egualmente aristocratico, Chatheaubriand, abbia trattato lo stesso argomento forse con minore intensità di sentimento, deve ammettere che non si può imputare la scelta del soggetto a uomini che si mostrano assolutamente superiori alle convenzioni della folla. Per Alberto Sormani poi c’è una ragione di più. L’individualismo spiccatissimo della sua psiche, la raffinatezza delle sensazioni, l’assorbimento continuo e fisso del pensiero dominante in lui qualsiasi altra manifestazione della vita, non potevano fargli concepire l’amore se non per una sorella. Sorella d’anima, s’intende, nel concetto primo, che restringendosi vieppiù e isolandosi nella contemplazione interna lo condusse alla sublime abberrazione di quel vocativo: sorella, suora, soror mea; il _nome divinamente dolce_. È come l’amore di Sigmondo e di Brunechilda nell’Anello del Nibelungo; un simbolo, un mito, una condensazione della più vaporosa idealità; ed anche nella celebre Trilogia questo sforzo dell’immaginazione verso un concetto che supera la portata delle menti comuni fu biasimato, ma senza toglier nulla della poesia e della passione di quella immortale leggenda. In una delle sue prime lettere Egli me ne parlava così: «È da quei tempi (quando era in collegio) che data la concezione della mia _Speranza_. Vissi così lungamente con quella mia sorella non mai esistita, sentii così vivamente la necessità ch’ella esistesse, che veramente per me la differenza tra la sua realtà e la sua non realtà non è grande. «Molte pagine che ho poi messe nel mio scritto non sono che la trascrizione letterale di quei miei pensieri. Da un pezzo mia sorella non la ricordavo più. Solamente qualche volta alla visione od al ricordo confuso di un volto, di un disegno, mi prendeva di soprassalto un desiderio infinito, dolce e torturante nella sua tristezza artistica, di averla ancora viva, di passeggiare con lei, di confidarmi a lei, unica che potessi amare. «Fu leggendo alcune parti delle _Mémoires d’outretombe_ di Chatheaubriand, ove parla di sua sorella Lucilla che pare lo amasse e che pare egli non sapesse comprendere — una fanciulla triste e fantastica — io mi sdegnai contro quel poeta senza cuore e volli protestare scrivendo in ben altro modo della sorella mia. Tutta la _nostra_ vita mi invase la mente d’un tratto con una tale commozione, che tornando a casa dalla biblioteca per scrivere, facevo fatica a trattenere le lagrime. Quel lavoro fatto affrettatamente mi portò un grande sfogo e dopo mi parve quasi d’aver resa viva la mia povera sorella, di averla vicina quando voglio. La nostalgia appassionata si è mutata in un senso sempre più vago di malinconia dolce e di confidenza amica.» E in un’altra lettera «Amo quelle mie pagine, perchè c’è dentro qualche cosa dell’anima mia. Ma tuttavia, come _Speranza_ è inferiore a ciò che posso fare, che farò certamente, che sto già facendo! Io vorrei dall’arte qualche cosa di delicatamente bello, delle pagine luminose e profonde, tenebrose e celesti nello stesso tempo.» Maturata nel pensiero a Pomelasca, la dolce casa de’ suoi avi, nell’età fervida dei vent’anni, quando il sogno femminile domina la mente dei giovani, quasi prodromo ai più forti sogni di gloria, Egli amava questa novella con singolare predilezione. _Speranza_, come si vede, era per Lui una persona viva; diceva che avrebbe voluto essere un gran pittore per farne il ritratto, così chiara ne aveva dinanzi la fisionomia e lo sguardo. Creata da lui, inaccessibile e invisibile agli altri, era la sua donna, la sua Musa, il rifugio d’ogni suo desiderio, d’ogni sua fervida immagine. E gli sembrava, nella novella, imperfetta. Voleva ampliarne i contorni, rivederla, correggerla, farne veramente il suo capolavoro. In mezzo alle tante occupazioni degli ultimi anni, alle lotte del giornalismo, alle fatiche della polemica, tornava nei momenti più calmi alla sua _Speranza triste_ (fatidico nome!) e aggiungeva una scena, un periodo, sempre con quell’ardore chiuso e divoratore che era la caratteristica del suo modo di amare. L’_Ultima Passeggiata_ doveva far parte della novella quando egli fosse riuscito nell’intento di renderla perfetta e di pubblicarla in un piccolo volume illustrato da lui stesso e del quale aveva già in mente il formato, la copertina, i caratteri, tutto corrispondente alla semplice e profonda mestizia del concetto. _Ultima passeggiata_ è una specie di poesia in prosa, che, se come genere appartiene forse alla decadenza dell’arte, rispecchia pure quando è sincera un particolare stato dell’animo non indegno di attenzione. Egli ripensa l’ultima volta che percorse insieme alla sorella i soavi sentieri di Brianza, le ombre dei boschi di Inverigo e dopo una invocazione alle piante dell’Orrido dice alle stesse piante: «L’autunno ch’ella incominciava a morire io pensavo che il vostro dolore fosse per lei; pensavo che fosse una disperazione in voi a vedere la vostra povera regina che si incamminava malinconica e pallida verso la morte. Ora lei non c’è più. Ella è nelle regioni oscure e non può venire insieme a me. Io vengo solo, io sono sano, io sono forte, io sono anche malinconicamente felice. E voi piangete ancora, voi vi addolorate e vi disperate sempre, egualmente. A qualcuno questi versi potranno non piacere come versi, ma è innegabile che palpita in essi un vero soffio poetico, una freschezza di ispirazione spesso sorretta da frasi felici. «I suoi occhi dicevano che non voleva morire che era così giovane ancora e così bella. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . «Scendeva sempre tacendo per le roccie tagliate a gradini; guardava le acque piangenti come sorelle, le piante spogliate come sorelle, le foglie morte in terra come sorelle morte. La sincerità, l’originalità non vengono meno mai. Il dolore, alato, non perde mai il suo carattere austero e immateriale. «Ora vedendovi ancora o cose tristi, come quel giorno, cerco ancora di lei. Il poeta è colpito dalla mestizia eterna dei luoghi, mentre egli si trova sano e forte ed anche «malinconicamente felice». Quanta grazia in questo pensiero! E finisce col chiedere a sè stesso se non è tutta la natura e la vita «una illusione amara un vano simulacro di un’anima che non c’è. Il dubbio che l’anima manchi agli esseri ed alle cose è naturale e scusabile in chi sente fortemente e qualsiasi manifestazione gli pare inadeguata all’altissimo ideale suo; ma è anche momentanea quando si trova di fronte a un carattere come quello di Alberto Sormani che nella sua stessa forza ritemprandosi batte il volo ben lungi dallo scetticismo e dallo scoramento. Il progresso della forma è evidente fra _Speranza triste_ e l’altra novella _Gesù e Maria_ pubblicata nella _Vita moderna_ sei mesi dopo la sua morte (21 e 28 Gennaio 1894). Scrivendo di queste pagine che scoppiarono improvvisamente nel mondo dei vivi come una voce dell’al di là, come l’estremo saluto d’oltre tomba, mi trema la mano. Ricordo con una lucidità meravigliosa una delle prime volte che Egli me ne parlò fra i tuoni e le tempeste in quell’idillico paese, in quel Lanzo d’Intelvi, dove Fogazzaro pose l’incontro del Poeta con Violet — e il silenzio che seguì e le vicende — e questo riapparire della novella, dopo la di lui morte, per quanto incidentalmente lo spieghi la pedestre ragione umana, mi scuote e mi penetra ancora quasi un misterioso avvertimento. Il soggetto stesso della novella ha una singolare potenza suggestiva. Gesù, stanco dell’arida e infruttuosa predicazione, sale, in un pomeriggio estivo, alla casetta di Maria. Anche qui il misticismo simbolico domina tutta l’azione. Guai chi lo prendesse alla lettera! Quell’uomo non è Gesù, quella donna non è nè Maria di Bethania, nè Maria di Magdala, bensì sono l’uomo e la donna dei suoi ideali, il fratello e la sorella ancora che rappresentano l’unione intima, superiore, indistruttibile degli elementi migliori. Gesù pensa che Maria, unica fra tutti, poteva comprendere la sua anima e si abbandona alla dolcezza dell’affetto. Il dialogo, di religioso che era in principio, si fa appassionato: Gesù teme di sè stesso e, per provare Maria, la interroga. Maria gli risponde incitandolo a morire per il trionfo dell’ideale. Gesù vede, per la prima volta, dentro di sè; vede la propria agonia solitaria, il gelido sepolcro, e trema e parla cupamente a sè stesso: «La morte è una cosa triste...» Maria grida, trasfigurata dall’entusiasmo: «Al di là della morte c’è la vita! Va, parti, muori! trionfa! Sieno queste le nostre nozze per l’eternità!» E Gesù si avvia verso il suo Calvario. È impossibile leggere queste pagine ardenti e non ripensare alle ultime parole di un libro famoso «L’amore di una donna ha dato un Dio al mondo.» Non occorreva, ma per eccesso di precauzione un poscritto avverte che questa novella non è storica. Che importava dei fatti ad Alberto Sormani, Egli che viveva tutto per le idee! Anche l’amore della donna non era per Lui che un tramite di elevamento, una forma oscura e misteriosa dell’ideale. Guardiamo Speranza, guardiamo Maria. Il loro amore è adorazione. Esse non amano l’uomo, ma il suo genio. Speranza dice ad Alberto: «Sii grande.» Maria dice a Gesù: «Sii grande.» E Speranza, che si chiamava Clara, «era così oscura» e Maria era «bella come i fiori oscuri dei giardini: dolce ed oscura come le figure che piangono sulle tombe nei cimiteri.» «I capelli dell’una e dell’altra e gli occhi sono scuri.» Questo aggettivo che ritorna spesso alla penna di Alberto Sormani, più che l’imitazione di un maestro a Lui caro, risponde a un vero ideale dell’anima sua, essa pure scura e misteriosa nel fondo benchè attraversata da una gran luce. Aveva la sua anima i molteplici aspetti di un organismo potente, ricco fino all’esuberanza. Coloro che assistendo alle rumorose riunioni del _Circolo popolare_ o della _Associazione degli studenti_, udirono Alberto Sormani, tuonante sopra tutti, combattere con ardore le battaglie dell’individualismo, pronto sempre all’attacco, attento alla replica, audace, positivo, violento e così giusto e così fermo nel colpire, trincerato in quella sua dialettica che aveva tutto il bagliore e la resistenza di un’armatura nuova, non può forse immaginarselo passeggiatore sentimentale nei cimiteri, egualmente penetrato di entusiasmo per le bellezze di un’alba pallida o di un tramonto rosato, per le ombre dei cipressi sulle tombe abbandonate, per i fiori e principalmente per i fiori appassiti; infine per tutto ciò che è sogno, poesia, rapimento di una immaginazione oltre ogni dire sensibile. Egli amava pure con passione l’ambiente intellettuale delle biblioteche, delle pinacoteche e l’ambiente mistico delle chiese. Il Duomo lo attirava colle ombre de’ suoi colonnati, colla profondità e l’altezza delle vôlte, col suo silenzio, col suo mistero. Per un gran tempo vi passò qualche ora tutti i giorni, uscendone esaltato e commosso. Era poeta nel significato più intimo della parola, ed era artista, ed era pensatore. Tolgo ancora dalle sue lettere: «Io sento dappertutto delle sensazioni vivamente, straordinariamente eccitanti. Io mi meraviglio e mi _diverto_ sempre di tutto, sempre fremente di non riuscire a vedere l’intimo fondo di tutto. Vedo in tutto una gran luce di mistero, sento delle intimità nascoste; riunisco sempre tutto a qualche cosa di sublimemente grandioso e a qualche cosa di sublimemente grandioso lancio continuamente, senza tregua, tutto il mio essere, tutte le mie forze, tutto il mio amore. Provo una gran sete e mi disseto continuamente. Tutto mi sembra grande, profondo, inenarrabile e a tutto mi unisco con una specie di dolcezza... Cerco di vivere molto con me stesso e colle grandi cose senza parole. Quello che mi circonda pensa con me, si commuove con me. Mi sono abituato così fin da ragazzo, fin da bambino. Ripeto la frase di Marco Aurelio e dico al mondo: Io amo con te!» «Questo mi pare di dovere applicare a tutta la vita e non per un esercizio della fantasia ma per un bisogno del cuore. Il mondo è per me non solo ciò che posso sentire, ma tutto ciò che posso pensare, e dirigo il mio pensiero sempre a ciò che posso trovare di bello e di profondo; immagino le cose più delicatamente vibranti, immagino specialmente delle anime che diventano per me come cosa viva e le amo! — in un modo sfrenato, appassionatamente dolce, con una compassione che entra in loro, che si confonde a loro e che abbraccia lo spazio ove io le pongo colla mente e le cose che riflettono su di loro il loro incanto.» E ancora «Quante volte perduto nei pensieri della natura e dell’arte, ho sprezzato tutto ciò che le misere creature umane potrebbero darmi; ho sentito un desiderio di essere solo, di non avere alcun contatto irritante ed abbassante. Mi pareva di avere nell’anima mia dei popoli e dei mondi che erano già troppi e che amavano misurarsi coll’infinito. Chi mi darà solamente la parola per esprimere, le lagrime per sfogare un sentimento al di cui paragone ogni altro mi sembra freddo e gretto e limitato e vile?» Non ho mai conosciuto un’anima così ardente per tutte le cose ideali, così aperta al sentimento raro e squisito dell’ammirazione e così larga ne’ suoi voli da comprendere in un eguale entusiasmo Gesù e Darwin con un ecletismo grandioso che faceva stupire molti, che sembrava qualche volta una posa, una ricerca paradossale. Ma se posa c’era, se c’era il paradosso, queste erano manifestazioni inerenti al suo specialissimo modo di sentire e per ciò assolutamente sincere. Temperamento complicato ma schietto, padrone di sè eppure sempre pronto a darsi, a profondersi tutto fino al sacrificio per una idea che gli sembrasse nobile e alta; di una onestà e di un disinteresse rari a trovarsi, la sua vita era una ricerca febbrile della perfezione. Sottoporre la materia al pensiero era uno de’ suoi ideali più vagheggiati; era anzi il suo punto di partenza per raggiungere tutti gli altri ed aveva riportato in questo campo tali vittorie che lo rendevano un po’ sdegnoso e superbo per le debolezze degli altri. «Non ho tempo di essere buono» mi disse una volta in cui gli avevo rimproverato la sua mancanza di carità e sotto questa dichiarazione ingenua e profonda si intravvede la lotta per uscire dalle piccole virtù, dalle virtù a buon mercato che dovevano riuscire così facili a lui e che egli calpestava sprezzantemente, fisso lo sguardo a una meta sublime. In quest’impeto di calda giovinezza aveva talvolta una foga barbara che il tempo avrebbe mitigata. Non si accontentava facilmente degli altri è vero. Quando si ha un forte ideale è impossibile ammirare incondizionatamente una porzione di esso, che per quanto perfetta ci lascierà ancora un desiderio insoddisfatto; ma, è d’uopo aggiungere, non si accontentava interamente neanche di sè. Pur ritenendosi superiore, vagheggiava una scala sempre più ascendente e le sue potenze altruistiche si concentravano con indicibile amore nel sogno di una umanità più alta e più pura. Preferendo la superiorità all’eguaglianza non impediva a nessuno di arrivarvi; al contrario invitava, incitava all’altezza, persuaso che tale modo di amare gli uomini è il solo veramente inefficace. E se qualche volta la sua parola prorompeva irruente era perchè amava la battaglia e stuzzicava per il desiderio della risposta e gettava nel mondo come una sfida le sue ragioni colla palpitante commozione di provocarne delle altre, anche migliori, anche più grandi, divorato come era del bisogno della luce! Francesco d’Assisi si sentiva tormentato fin da giovinetto dall’idea di uscire dalla volgarità e di raggiungere una meta alta. Soleva dire a’ suoi compagni: «Vedrete che un giorno sarò adorato dal mondo intero.» E intanto era così allegro, così gaio, che in alcuni momenti dubitavano della sua ragione. Come era gaio, come era allegro qualche volta anche Alberto Sormani, senza perdere mai di vista il suo scopo, conservando nell’apparente abbandono un substrato di personalità intangibile!... Tanto ricca e poliedrica è la sua figura che se per un lato non temetti di confrontarlo a Francesco d’Assisi, oso anche più applicargli alcuni canti di Walt Whitmann. Quella pienezza di vita e di sogni, quell’ardore di ideale, quella coscienza superba del proprio valore, ma con qualche cosa di più delicato e di più simpatico, erano anche suoi. Ognuno può riconoscerlo nel canto dell’_Excelsior_: «Io domando. Chi è colui che è proceduto più innanzi? Perchè io voglio procedere più innanzi ancora. «E chi è il più giusto? Perchè io voglio essere il più giusto della terra. «E chi è il più cauto? Perchè io voglio essere il più cauto altresì. «E chi è il più felice? Questi son io, perchè nessuno è più felice di me. «E chi è il più prodigo? Perchè io prodigo incessantemente tutto il meglio che ho. «E chi è il più franco e il più veritiero? Perchè io vorrei essere il più franco e il più veritiero degli uomini. «E chi è colui che ha goduto l’amore di maggior numero di amici? Perchè lo so ben io che vuol dire l’amore appassionato degli amici. «E chi ha gli ideali più vasti? Perchè io vorrei cingerli tutti colle mie braccia. Alla pagina 71 del secondo volume di Walt Whitmann, Egli stesso segnò i passaggi seguenti: «Oh! qualche cosa di pernicioso e di spaventoso! «Qualche cosa molto diversa da questa vita piccina e pia! «Qualche cosa di non ancora provato e che rapisca in estasi! «Qualche cosa sfuggita alla presa delle àncore e che veleggi libera! In queste parole del _Canto dei tripudii_, Egli vedeva forse riprodotta la parte più segreta del suo io, quella che chiamava colla sua parola prediletta _oscura_ e di cui esageravasi forse la impenetrabilità; come pure gli piaceva in certe occasioni a negare la propria schiettezza, mentre era così sincero sempre, anche quando per vaghezza di parere più complicato caricava le tinte del suo colore preferito. Ma ad ogni modo un fondo oscuro c’era nella sua anima e vi si agitavano strane passioni, flore fantastiche e grandiose di un oceano in tempesta. Penso ancora a lui irresistibilmente leggendo il Manfredo di Byron: «Il mio spirito non camminò colle anime degli uomini; nè guardò sulla terra con occhi umani; la sete della loro ambizione non fu mia; le mie gioie, i miei rancori, le mie passioni e le mie potenze mi fecero straniero. Questo sentimento di trovarsi straniero in mezzo agli uomini, Alberto Sormani lo provava vivamente e numerose pagine delle sue lettere ne fanno fede. Prendo una frase: «Non potete credere come mi sento solo anche colle persone più care». E soggiungeva che in tale solitudine gustava una malinconica dolcezza mista di compassione e di orgoglio. Egli, così ricco di passioni, non aveva però nessuna di quelle che corrono per il mondo. Le esche meglio apprezzate dagli altri lo lasciavano indifferente; la febbre delle ricchezze e dei piaceri non alterava di una benchè minima pulsazione il battito delle sue arterie; solo le conquiste del pensiero gli sembravano degne di Lui, e per questo i versi del Manfredo lo rammentano con una precisione scultoria. Egli era veramente — prendo a prestito una frase che sembra creata per lui — il solo uomo in piedi in mezzo ad una generazione di vecchi adolescenti sdraiati. Ma come Alberto Sormani non ebbe della sua generazione i gusti molli e sensuali, non ebbe neppure l’arido scetticismo e la calcolata maniera. Io so con quale sdegno giudicava queste animuccie fredde dall’alto e dal fondo de’ suoi entusiasmi generosi e so anche con quale amore misterioso e ardente slanciavasi verso ogni manifestazione di vita spirituale, fiutando quasi nell’aria con una finezza meravigliosa ogni grande anima che si schiudeva: «Se sapeste (ancora le sue lettere) a qual punto io sento l’ammirazione e l’entusiasmo! Sono gioie immense, quasi tremende, e pensando che le ho e le avrò sempre alla mia portata, quando vorrò, mi par quasi di sfidare ogni cosa nella vita, sicuro di una specie di felicità che non mi verrà tolta mai.» Ma era egli dunque così tetragono alle voci della natura umana, da non ascoltare nemmeno l’appello della gloria? A questo risponde egli stesso in una lettera della sua polemica con Pietro Sbarbaro: «Anch’io sogno la gloria, ma una gloria appartata, ristretta, supremamente aristocratica. Parlare a poche anime, ai migliori, agli eletti, ai fratelli. Se per mezzo di questi il mio pensiero potrà passare nel mondo e dominarlo ed inspirare magari gli Sbarbari dell’avvenire, non me ne lamenterò; ma passare senza essere profanato, senza il tramite volgare della popolarità, senza che io mi sia mai dato un momento in pascolo alla folla. Il sospiro eterno di chi pensa altamente è di essere amato da poche anime alte, di possederle come cosa nostra. Fosse un’anima sola, essa può bastare all’anima nostra e può bastare in qualche caso ad irradiarne la luce per tutto il mondo e per tutto l’avvenire.» Aristocratica — altra delle parole che Egli amava — è l’aggettivo proprio della sua mente e chi lo conobbe può dire se anche le forme esterne corrispondessero a quest’intima armonia, se veramente fosse l’anfora di squisito lavoro contenente uno squisito profumo. Tante doti riunite lo rendevano fiero di sè stesso, ma la sua era l’alta fierezza di chi prende per motto: _nobiltà obbliga_. Egli si sentiva orgoglioso dell’influenza esercitata su chiunque lo avvicinava; influenza elevatrice e purificatrice, di una portata morale di cui è difficile in così poche pagine rilevare l’estensione. Tutti i suoi amici conoscono il bisticcio che Egli fece sul proprio nome, metà per scherzo, metà sul serio, come gli accadeva spesso: «Albero erto io son Sor agli umani. È forse meno noto questo autoritratto: «Severo, fier, bastevole a me stesso, son cortese con tutti e tutti sdegno, Penso molto all’amor, lo sdegno anch’esso fissa la mente a più splendente regno. Ho pochi affetti: la mia mamma morta, una sorella che non visse mai... qualche memoria... Poche donne amai d’una passione austera, oscura e smorta.» Come si vede la preoccupazione dell’altezza lo seguiva sempre anche nelle cose apparentemente frivole, alle quali egli non dava certo importanza, ma dove gli riusciva pure impossibile di dimenticarsi del tutto. E in questo ritratto che gli assomiglia tanto, la sua schietta originalità gli ha fatto evitare lo scoglio nel quale urtarono molti dei nostri uomini più insigni, giustamente rimproverati dal Carducci di aver posto in rima i connotati del loro passaporto. Egli, natura interna se ve ne furono, non fa cenno alcuno della propria persona, non si guarda nello specchio per copiarsi i lineamenti del volto; volendo esattamente riprodurre sè stesso tocca la sua anima e la fa vibrare sdegnosa e sincera. Sdegnoso, sincero, ardente, ecco come appare Alberto Sormani in tutte le sue manifestazioni; tuttavia quest’ultima parola ardente non va presa nel significato volgare che si è soliti attribuirle. Corretto e spesso rigido e altero, il suo fuoco era tutto nell’anima «una calma perennemente ardente» diceva lui stesso. I suoi sensi gli ubbidivano sempre o piuttosto Egli li avvinceva alle sue idee al pari di ignobili schiavi. Essendogli impossibile di vivere senza entusiasmi, era sempre innamorato di qualcuno o di qualche cosa: di un prato, di un monte, di una combinazione di nuvole, di un profilo visto da lontano, di un quadro di cui aveva letta la descrizione, di un poema sognato, di un colore, di una nota, di una semplice parola, di meno ancora; ed è incredibile lo spreco di forze che Egli si regalava, che prodigava in queste orgie della fantasia da vero poeta pazzo e sublime che brucia sè stesso per conoscere l’intima essenza della fiamma. Si capisce che dovesse disprezzare, essendo lui tanto prodigo, i poeti freddi che giuocano colle rime senza darsi mai alla musa. Una sua pagina su tale argomento può servire di scuola a molti: «Ho riletto la *** di *** e mi ha dato da pensare. Adesso che lo conosco bene non ho più la minima opinione della sua poesia. Eppure il temperamento non gli mancherebbe, ma è una cosa che mi fa male a vedere come ispirazione, commozione, meditazione e concentramento sono per lui cose vuote di senso. Egli prende un foglio di carta, prende quel soggetto qualunque, molto vago, che gli pare si possa prestare a fare dei versi e comincia a scriverne uno, proprio così come vien viene; un verso sonoro, un verso dolce un po’ generico, che si presti ad essere continuato... Poi non ha altra preoccupazione che di trovare dei versi che si riuniscano coi primi che ha scritto. I pensieri vengono di volta in volta naturalissimamente, insieme alle rime; o ripete qualche suo movimento antecedente, oppure prende nell’immenso serbatoio delle reminiscenze qualche frase, qualche idea di patrimonio comune, di quelle che possono sempre piacere quando sieno manipolate in qualche combinazione nuova e così la poesia si finisce quasi per incanto. Questo non è il metodo del solo *** ma di molti altri. Non potete immaginarvi quale sia la mia repulsione per roba scritta così. Se mi venisse il dubbio che Dante componesse in questo modo non saprei più trovarci nè bellezza, nè forza, nè altezza. Ciò che si scrive deve essere cercato con passione, anche con fatica, deve essere quello o null’altro. Accontentarsi di ciò che capita è prostituire l’arte.» Con tanto sentimento della poesia, con tanta genialità di concetti, era Alberto Sormani poeta? Io non esito a dire di sì. Non si deve giudicarlo da alcuni versi scritti in fretta o per celia e con giovanile irriflessione pubblicati. Egli ne lasciò pure taluno degno di lui. Scelgo questo saggio da un piccolo poema intitolato «_Il giorno e l’anima_» che parmi renda abbastanza bene i caratteri generali della sua poesia, pregi e difetti insieme. MEZZOGIORNO. Arde il cielo purissimo d’incanto che si dilata grave e sonnolento Tutto — pare — potrebbe in un momento incendiarsi e bruciare. Io son d’amianto. Io non brucio e nell’anima mi sento sol di domande come dolce canto placido e molle un desiderio. E intanto del mondo nel pensier colgo un accento, E rispondon per me su dal villaggio le campane dii Dio tenere e gravi che misteriosamente san le ore. «Se a mezzo sei dell’arco del vïaggio, non t’arrestar. Temi i consigli pravi del Sol ch’è insieme padre e corruttore.» Tuttavia, mi affretto a dirlo, non è scrivendo versi che egli avrebbe spiegate le sue forze maggiori. La poesia non era campo sufficiente, nè completamente adatto a tutte le sue qualità; parodiando un altro suo motto dirò che non aveva tempo di essere poeta. E del resto potrebbe la mia parola rendere i foschi ardori della sua anima, le sue speranze ed i suoi ideali meglio della sua parola stessa? Ascoltiamolo: «In tesi generale il mio ideale è questo — dedicare la mia vita ai miei simili, all’umanità, al mondo, nel modo che può essere più utile. Per me personalmente ho pochissimi bisogni. Posso quindi offrirmi il lusso di vivere per gli altri, di darmi, di espandermi, di gettar via la parte migliore della mia attività. È l’amore fatto in grande, perchè anche l’amore è fondamentalmente qualche cosa in più che ci avanza fisicamente e che si dà per le future generazioni. Questo bisogno di _darmi_ arriva in me a un colmo frenetico; non capisco più niente altro di bello al mondo; per me tutta la vita è lì; il resto non diventa bello e grande se non in quanto vi è riunito. L’amore, l’amicizia, l’arte, la scienza, la gloria, la bellezza, la natura — tutte cose per me magnifiche quando abbiano una connessione con un ideale di ragione sociale — da sè sono _pulvis, cinis, umbra_. «Da questo lato non intendo ragioni, è la mia unica passione assorbente, è la mia ragione di vivere. Se non avessi cominciato fino da un’epoca che non ricordo più, per una fatalità insita nel mio sangue ad eccitarmi dalla mattina alla sera coi sogni dell’opera mia a favore dell’universo, credo che potrei essere come tutti gli altri, interessarmi _per sè_, all’arte, alle donne, a centomila altre cose. Ma così non si ritorna più indietro. Se mi persuadessi di non poter far nulla per l’ideale credo che rinuncerei molto facilmente ad una vita che mi sembrerebbe arida, fredda, noiosa, che non avrebbe più per me alcuna attrazione. Io credo d’avere tutt’insieme un aspetto normale, qualche volta perfino quieto. Ma per capire qualche cosa di me, pensate che sotto al mio vestito del secolo XIX batte costantemente quell’entusiasmo mistico, chiamatelo pure ascetico, che portava gli Apostoli a spargere per tutto il mondo la nuova fede odiata e perseguitata, quell’ardore maniaco che trascinava i martiri ad amare quasi i terribili supplizi da cui erano minacciati. Io non ci tengo certo al martirio per il martirio, ma il martirio per l’ideale è qualche cosa che mi esalta positivamente. Vi basti il dirvi che ho pensato spesso alla possibilità che anche nei tempi moderni c’è di sacrificarsi e di pagare di persona. Nelle grandi lotte che forse s’impegneranno fra poco, io ho opinioni così terribili e sono così deciso a sostenerle apertamente che vedo la possibilità di esser preso di mira e di cadere vittima di qualche attentato, se non addirittura d’essere appeso _alla lanterna_. Ebbene penso a questa eventualità con una specie di gioia; ci vuole forse più ardore per questo, di quello che fosse necessario ai cristiani in vista del paradiso. «Voi non potete credere, non ne avete una idea, non l’avete forse mai sentito a dire da nessuno, ma io mi sento la febbre _materialmente_ tutte le volte che penso a ciò che potrei fare e che _devo_ ad ogni modo cercare di fare. Notate una cosa — nel campo dell’ideale non mi sento più alcuna superbia, nessuno mi riconoscerebbe più. Sono pieno di umiltà — non pretendo ad alcun primo posto — io non esisto più, se non come mezzo; se il mio posto, se il mio dovere è d’essere avanti, vado avanti — altrimenti sto indietro colla stessa serenità di cuore e collo stesso ardore. Se non sono Gesù sarò S. Pietro, od un apostolo qualunque, o l’ultimo dei discepoli e dei credenti — l’unica mia ambizione è di fare il massimo che mi è concesso dalle mie forze. «Non sentite la grandezza e la semplicità di un tale programma? «Quello che io voglio è l’unione degli uomini di buona volontà, ognuno occupando le sue forze, coll’intento deciso e completo del Bene. È un’utopia? Sì, se si pretende questa unione perfetta. No, se ci accontenteremo di promuoverla, di incoraggiarla, di avvicinarci lontanamente all’unione vera. Ad ogni modo — questa è la gioia — nessuno può impedirmi di fare io il mio dovere rispetto agli altri, anche se gli altri non lo faranno per la loro parte. Basterebbero dieci persone al mondo come le penso io per indirizzare tutta l’umanità su nuova via di progresso vero. E probabilmente ce n’è più di dieci. Bisogna trovarle e riunirle. Io le cercherò dalla mia parte; esse cercheranno probabilmente dalle loro e ci ritroveremo. Non ho mai preteso di essere io il migliore di tutti; se lo penso qualche volta è per eccitarmi di più. L’unione degli uomini di buona volontà! — è la semplicissima idea che deve rigenerare il mondo. Non sapete che non sono stati uniti mai? Non pensate che cosa possono fare insieme? Le opere che disgiunti essi non riescono mai a compiere verrebbero fuori allora in una luce sfolgorante. È terribile, sapete, vivere soli per fare le cose grandi! Lo scoraggiamento entra per tutte le parti. È per questo che in una mattina nebbiosa e solitaria come oggi, ho sentito il bisogno di scaldarmi con uno dei libri ove il fuoco dell’anima è più chiaro ed evidente (_Il Diario di Cavour alla Biblioteca di Torino_). Da letture come queste, esco sicuro e baldanzoso. Oh! quando questi solitari si daranno la mano! Una catena di ferro, indissolubile! Non è facile, è una impresa grandiosa, bisogna prepararla pazientemente. Io forse, chissà, non la vedrò... ma spero che potrò lavorare per renderla possibile.» Non sono squarci di letteratura questi che io cito, nè esercizi di bello scrivere da inserire nelle Antologie. Sono le semplici manifestazioni di un’anima nei colloqui dell’amicizia; ma è così appunto che io spero di far conoscere Alberto Sormani, perchè molto probabilmente una grande maggioranza dei lettori si sarà già domandata: Chi era questo Alberto Sormani? — e che abbiano oppure non abbiano visto il suo nome in calce a qualche articolo disseminato su per i giornali, resterebbe sempre per i più inesplicabile l’immenso dolore lasciato dalla sua perdita e il lutto che perdura in pochi cuori a lui fidi, quel lutto che fece dire a un suo compagno di battaglia: _Nessun morto è più vivo in mezzo ai vivi_. — Questa è l’impressione che devono provare necessariamente tutti quelli che lo hanno conosciuto ed amato. Invano si cerca intorno a noi una tale forza di entusiasmo unita alla conoscenza esatta del proprio valore, un tale ardore di vita ideale, una rinuncia così completa delle gioie materiali ed un olocausto così pieno d’amore alle più alte cime del pensiero. Alberto Sormani non fu solamente un uomo morto giovane, una bella intelligenza troncata sul fiore; egli fu sopratutto l’espressione più ardita della nostra fede, colui che ci sosterrà ancora nelle lotte dell’avvenire facendoci pensare nei momenti di maggior scoraggiamento: «Eppure l’ideale esiste, noi lo abbiamo veduto!» Gli avrebbe la società concesso il modo di esplicare tutte le sue potenze? Sarebbe egli diventato un uomo grande, un riformatore o un apostolo?... Tutte le volte che mi propongo questo quesito mi sembra di veder ridere sinistramente nell’ombra la Sfinge della vita. Certo la vita Egli non la conosceva ancora. La sorte che fu per lui la più amorosa delle madri gli aveva sgombrato di ogni spina il sentiero; nessuno può dire come Egli avrebbe sostenuto l’urto della sventura; tuttavia questo sorriso del destino che lo accompagna nella breve carriera, se appare a tutta prima una menomazione di merito, risulta in ulteriore esame quasi la prova del fuoco del suo carattere. La prosperità più assai che non la sventura ammollisce gli animi, li rende inetti, voluttuosi, egoisti; ed appunto perchè egli era ricco, libero e felice, il suo austero distacco dalle morbidezze e dalle blandizie acquista una vera espressione di superiorità, e la sua scelta fra una esistenza sicura appoggiata a un materiale benessere e la malagevole, aspra, lontana vetta a cui egli tendeva prodigando le intere sue forze come il giovinetto di Longfellow, innalza tutta la sua vita a una nobiltà di concetto che risponde anticipatamente con sicurezza all’avvenire che gli fu negato. — Ma la Sfinge ride, ride ancora... ed io accolgo questo riso crudele quasi con riconoscenza, rammentando l’antica fede che faceva morir giovane il prediletto. Aveva Egli mai pensato a questa possibilità di morir giovane? Seriamente e a lungo credo di no. Si sentiva così forte, così sicuro, così pieno di ardire! pure, troppe volte l’immagine della morte si affaccia al suo pensiero perchè si possa negare in lui un misterioso presagio. Fra le abitudini intellettuali, che occupavano tutta intera la sua giornata e parte delle sue notti, c’era anche quella di scrivere su foglietti volanti ogni idea che gli passava per la mente. Codesti fogli, ammucchiati a diverse migliaia senza ordine di data, sono una prova dello spaventoso lavorìo di quel cervello e in uno di essi appunto trovai questa nota: «Muor giovane chi al cielo è caro — dunque io morirò?» Alcuni versi sulla propria tomba che cito, non per il loro valore, ma perchè hanno, come ogni cosa che usciva dalla sua penna, un profondo senso di realtà, sono per tale aspetto significativi: SULLA MIA TOMBA. Colui che dorme qui forse fu grande: Ei lo credette. Forse si sbagliò. Il verbo suo nel mondo non s’espande, del genio sue vestigie non restò. Ora tace per sempre il suo pensiero; neppur la sua superbia esiste più; ogni cosa di lui nel fondo nero del nulla e dell’oblio travolta fu. Morì giovane o vecchio? ah, cosa importa? che importa il nome suo, la sua città? È tutta roba intieramente morta; nè per lui, nè per voi, senso non ha. Amò? sognò? soffrì? Vano è cercare il segreto de’ suoi finiti dì. La sola cosa ch’ei volea lasciare dopo di sè, nel nulla lo seguì. Tutto ciò che di grande egli ha pensato insieme a lui è morto intieramente Il mondo suo con lui si è inabissato; era tutto per lui; ora è niente, Questa tomba di un Grande senza gloria non offre nome o data al passeggier, nulla che possa servire alla storia di un mondo che del tutto gli è stranier. Passate. Questa tomba alta e severa non domanda nè lagrime, nè fior. Assoluta è la sua morte ed intiera, senza sdegni, senz’odio e senza amor. Osservo che nella terza strofa Egli pone in dubbio se la morte lo côrrà giovine o vecchio, ma nella quinta esprime sicurezza che tutto ciò che era di grande in lui non avrebbe potuto esplicarsi nè sopravvivergli. Un po’ di maniera è l’ultima, dove il terzo verso suona fiero e schietto, ma che termina con una specie di negazione di ciò che Egli fu e resterà nella memoria di tutti; un ardente amatore, un implacabile odiatore. Ma la passionalità intensa del suo temperamento si dimostra anche meglio in questa pagina delle sue ultime lettere: «Sento una grande malinconia a pensare alla mia morte... Veramente la morte è quasi l’unico ostacolo vero che mi vedo davanti per riuscire a fare quello che vorrei. La morte o la pazzia. Alla pazzia non penso perchè è inestetica e repugnante. Ma se morissi giovane, ecco che di me non resterebbe assolutamente nulla. Porterei via tutto con me nella mia testa. Tanto pensiero, tanto amore non rifiorirebbero più!... di ciò che ho pubblicato non conta neppure parlare. Forse _Speranza_ potrebbe cadere sotto gli occhi di qualche anima gentile e profonda che resterebbe un po’ commossa e si domanderebbe cosa sia successo del mio nome ignoto. Nulla più. Di utile per il mondo non ci sarebbe una frase, una parola. Come è doloroso questo pensiero! Quando avrò prodotto, quando avrò dato il frutto mio, mi parrà di respirare. Sarò sicuro di qualche cosa che non potrò perdere più. E poi c’è l’altro modo di rivivere dopo morto; se non nell’opera per sempre, almeno nell’affetto e nel cuore per qualche tempo. «Vorrei qualcuno che pensasse a me, spesso e molto, che _sapesse_ chi ero io e che venisse sulla mia tomba a darmi lagrime e fiori. Mi pare che le mie ossa fremerebbero di gioia!» O amico, ecco le lagrime, ecco i fiori! Perchè l’immortalità è concessa solo al genio e non è dato all’affetto di rendere immortale l’affetto? Ho invidiato la rosa vermiglia che spuntava dopo poche settimane sulla sua zolla, al disopra del suo cuore, e che potrà dare sempre rose vermiglie alla sua tomba! Riposa, la sua tomba, nel piccolo cimitero di Inverigo, a destra, appena varcato il cancello; riposa nella terra nativa che gli era tanto cara. E ancora gli danno ombra gli alti cipressi dalla chioma severa, ancora fremono intorno alla sua spoglia le brezze aleggianti dalla Grigna e dall’Albenza, ancora il Lambro mormora a’ suoi piedi la canzone eterna dell’amore e del dolore, la canzone della vita. L’affetto per la Brianza, per Inverigo, e principalmente per la vecchia casa che sorge fuori del paese, sopra una piccola altura circondata di rosai e di olea fragrans, era vivissimo in Alberto Sormani, ed era quasi atavistico, unito a memorie vicine e lontane, compenetrato nei muri e direi nell’aria e nel cielo dell’antica terra feudale. Da Missaglia, dove il conte Paolo Sormani moveva nel 1635 conducendo quattromila brianzuoli a sostenere l’assalto del duca di Rohan, venne poi la famiglia a stabilirsi nel territorio di Inverigo, ivi continuando le tradizioni patriarcali e di stretta vita intima che avevano da tempo surrogate le fiere gesta di Paolo Sormani. Ma qualche cosa di ferreo e di severo restava ancora nel sangue dei Sormani della penultima generazione quando venne a portarvi una corrente di dolcezza nuova e quasi una forma più mite e più gentile degli antichi ideali, quell’angelo che fu la madre di Alberto Sormani. Nessuna penna è abbastanza delicata per descrivere il puro idillio che precedette la nascita di Lui; ma è con uno slancio di irresistibile simpatia, quasi di riconoscenza, che una penna di donna deve portare il suo tributo umile e modesto ma pieno di calore alla donna ammirabile della quale, morendo, tutti dissero: È salita al cielo una santa. A dipingerla basterebbe una frase, una frase breve e sublime pronunciata una sera in cui per dedicarsi tutta al marito abbreviò le solite orazioni e si scusava con sè stessa e con Dio pensando che forse «_Amarsi così equivale a pregare_». Da parte di un’anima profondamente religiosa non conosco niente di più elevato, più umano, più squisitamente femminile di tale pensiero, ed è pure essa la donna che nell’attesa della maternità vi si iniziava con un fervore intimo e raccolto penetrata dal mistero altissimo, della missione di «_preparare un’anima_» come ella stessa diceva. Per trovare nella storia una creatura che le assomiglia dobbiamo pensare alla madre di Lamartine, quale il grande poeta ce la descrisse nelle sue memorie dall’infanzia. Come si intende che il figlio di una tale creatura debba essere Egli stesso un uomo eccezionale! Ho osservato molte volte che la maggior parte degli uomini grandi ebbero per madre una donna di speciale sensibilità. Non ho tempo ora, nè sarebbe mio compito, il raccogliere dati in proposito; è però facile scorgere anche da un rapido esame che quasi mai il genio passa direttamente da uomo a uomo; sembra che la sua condizione di vita sia quella di maturare in un caldo e appassionato cuore di donna. È questa pure la ragione più intima della mancanza di genio nella donna; ella può avere la diatesi del genio, cioè quegli elementi misteriosi e profondi che la destinano ad essere madre dell’uomo superiore, a cui il sesso darà i mezzi opportuni per esplicare la lunga ed occulta preparazione del grembo materno. Ed ecco pure una ragione per frenare le donne nella loro smania di produrre opere di mente; ogni conquista da esse fatta in questo campo è un furto all’uomo futuro. L’eccezionalità benefica che aveva preparato la culla di Alberto Sormani in quel dolce nido di rose e di olea fragrans, che lo fece nascere da una famiglia distinta per ingegno e per virtù, in un ambiente di assoluta purezza e di moralità severa, lo accompagnò poi per tutta la vita. Morta appena trentenne l’angelica madre, Egli trovò nella seconda madre la continuazione delle stesse virtù; così che nel suo cuore l’adorazione per l’estinta si mesceva al più caldo, al più riconoscente affetto per la nobilissima donna che ne tenne le veci con tanta intellettualità amorosa, e che lo comprendeva, che sapeva seguirlo negli alti voli della mente, che — degna del doloroso compito — ne raccolse l’ultimo respiro. Ma perchè la natura che aveva profusi nel formarlo i suoi elementi migliori, lo ritolse così presto alla sua gioia ed all’altrui aspettativa?.... Ah! l’ipocrita domanda del Fariseo, il commento volgare del poema altissimo. Ben sta a noi il piangerlo perchè siamo deboli e piccini, e perchè avendolo amato, non ci riesce di strapparci dagli occhi la sua immagine; ma che cosa deve rimpiangere la natura? Essa lo fermò a scopo ideale, non per lui, nè per noi, ma per tutti. Che importa l’essere? Egli fu. Possiamo noi immaginarci il raggiante amico passato come una meteora nei nostri sogni, passato nella intatta bellezza dei vent’anni, possiamo immaginarlo invecchiare poco a poco, ingrassare, divenire padre di famiglia, consigliere municipale, deputato, ministro, «raccogliere il frutto delle onorate fatiche» e morire coperto di decorazioni e perpetuarsi nell’oltraggio di un monumento mal riuscito? Ridi, Sfinge, ridi. Anche noi rizziamo il capo già curvo dai singhiozzi e teniamo alto il cuore davanti alla luce del suo ideale, che è la sola cosa che Egli amasse in terra, quella che non morrà. Così non fiori tristi io reco sulla tomba dell’Amico, ma fiori di gloria, fiori olezzanti che ne recingano degnamente la fronte altera. E rivivo dolcemente con Lui sui sentieri di Brianza che Egli percorse passo a passo, la mente piena di sogni. Lo rivedo nella prima infanzia tanto giuliva, quando apriva gli occhi al mattino con quell’_appassionato destarsi_ che la madre con una delle sue frasi felici descriveva così bene in una sua lettera; quando, primogenito adorato, era il sorriso della vecchia casa; quando la sua mente così attenta, così seria, veniva aprendosi via via a tutte le bellezze. Saluto i suoi primi, forse i suoi soli dolori, che non dovevano lasciare lunga traccia nell’animo infantile: la morte di un fratellino e la morte della mamma. Egli ha narrato questi episodî della sua puerizia in due bozzetti «_Gita triste_» e «_Morticino_» che sono un gioiello di spontaneità, di grazia, ma più ancora di quella sua dote specialissima che era la sincerità. — Poi le memorie della scuola, il collegio, il ginnasio, il liceo. Egli notava tutto. Poi l’Università a Torino, dove si era iscritto al corso di medicina, a dove era sempre mischiato ai crocchi nei quali c’era un’idea da discutere, gridando sempre più di tutti, esaltandosi, proclamando il trionfo di tutto ciò che è alto, tenendo conferenze, discorsi, arringhe, facendo anche delle stravaganze, ebbro della sua forte gioventù e del suo indomito idealismo, esercitandosi a quella potenza di attrazione e di dominio che lo designavano irresistibilmente al comando. Le sue lettere da Torino spesso scritte a matita portano le date le più eccentriche: _dalla Biblioteca — dalla sala di Clinica — dalla lezione di Anatomia — dai boschetti lungo il Po — dal Monte dei Cappuccini in una sera di luna_. Ampia, ricca, esuberante esistenza la sua, dove la noia non trovava mai posto e di dove erano bandite tutte le occupazioni, tutti i pensieri volgari. De’ suoi professori, di qualcuno de’ suoi amici di Università, serbava un ricordo appassionato e profondo. Tornò a Milano nel 1891, affrontando il difficile problema di sapere come avrebbe meglio potuto dirigere le sue facoltà a servizio dello scopo umanitario che si era prefisso: aveva allora ventiquattro anni e gliene restavano due di vita.... Un sottile conoscitore degli uomini disse che la natura degli ingegni, la loro luce naturale e non il grado di forza, variabile come la salute, forma il loro vero pregio e la loro eccellenza. Vi sono cervelli luminosi atti a ricevere e a trasmettere la luce. Essi irradiano e rischiarano; la loro azione finisce qui. È necessario unire all’opera loro quella di agenti secondarî per darle efficacia. Così anche il sole fa sbocciare ma non coltiva. La tendenza verso il bene, la prontezza nell’afferrarlo e la costanza nel volerlo; l’intensità, la pieghevolezza dell’impulso, la vivacità e la giustezza degli slanci verso lo scopo indicato sono gli elementi che formano combinandosi la tassa intrinseca dell’uomo e che determinano il suo valore. Tale era Alberto Sormani; un ingegno irradiatore e rischiaratore; una volontà pronta, elastica, tutta di slancio. Se si tien conto degli uomini nulli che l’occasione trasforma in eroi, è pur giusto valutare alla loro stregua ideale gli uomini a cui l’occasione manca, che non hanno la fortuna di poter lanciare una pietra o una parola nel momento opportuno, ma che lanciano continuamente dal fondo delle loro anime superiori ininterrotte scintille di luce, che sono quasi polle aperte nella mediocrità umana perchè i migliori possano dissetarsi e ritemprarvi le loro aspirazioni. E però negli ultimi due anni, Egli trovò modo di impiegare anche le facoltà dell’azione e datosi con quella foga entusiastica che gli era propria alla fondazione del giornale l’_Idea Liberale_ vi trasfuse tanta parte della sua mente e con tanta genialità di forma, giovanile arditezza e calore di persuasione che non solo gli crebbero intorno gli ammiratori e gli amici, ma gli stessi avversarî tenne in rispetto. Originale, audace, paradossale qualche volta, elevato sempre e largo nel volo, affrontò gli argomenti i più disparati, forte di una dialettica seducente e di uno stile limpido e sicuro. Le questioni morali e sociali lo interessavano in prima linea, ma Egli sapeva con pari fortuna svolgere un tema d’arte, dotato come era di un gusto squisito che non lo ingannava quasi mai. Mostrò pure di possedere in un grado sorprendente la finzione poetica con quell’articolo sopra un Wirdtel immaginario che sbalordì tutti i suoi amici e più ancora coloro che, avvezzi a conoscerlo sotto il punto di vista di un positivismo pratico, non potevano supporgli uno sfondo di dilettantismo. Ma egli possedeva, l’ho già detto, un temperamento ricco fino all’esuberanza, complicato di innumerevoli filoni dove la vena aurifera predominava senza escludere le altre. L’_Idea Liberale_ promulgata da una piccola schiera di giovani intelligenti, nata a lottare sopra un terreno aspro e impreparato, contro un nemico forte dell’ora propizia e del numero, con scarsi mezzi, senza esperienza e pochi aiuti, rappresentando la battaglia dei meno contro i più, doveva necessariamente tentare il suo ingegno ardimentoso; ed Egli vi si slanciò con incredibile entusiasmo, con quella dedizione eroica e febbrile che nessuno può immaginare di coloro che non lo hanno intimamente conosciuto: perchè non prendere nè cibo, nè sonno e non riposarsi mai, sono frasi di cui parecchi fanno uso per accentuare una piccolissima attività; ma Egli veramente era riuscito ad eliminare dalla sua vita ogni cura materiale, tutto prono al suo ideale di spiritualismo ardente, di propaganda del pensiero. La morte lo colse sulla breccia, a tradimento. Non sogliono morire così gli eroi? Molte volte, trovandolo sordo ai consigli dell’amicizia, confidai in qualche saggio ammonimento della natura per frenare l’eccesso del suo zelo. Pensavo nella mia lunga e malinconica esperienza: _vivrà, saprà!_ Invece non visse e non seppe; scese nel mistero della tomba tutto intero, senza avere lasciato ai rovi del cammino un lembo solo del suo ideale, senza menomarsi, senza concedere senza piegare. _Non flectar_ potrà dire la sua ombra grandiosa affacciandosi sulla soglia dei regni bui. Ed ora che cosa spero io da queste pagine? Gloria per Lui? Fama per me? No. Non spero, non desidero che amore per tutte le alte idealità che Egli ha amate, perchè esse continuino invisibili e sparse ad alimentare la grande anima umana. Mi sembra di interpretare in tal modo il più profondo de’ suoi desideri, quello che deve essergli rimasto prima di spegnersi nell’ultimo raggio della intelligenza, quello a cui pensava forse scrivendomi in uno di quei lampi presaghi che ora non posso rammentare senza una commozione che rasenta il terrore: «Qualche volta la morte può rendere eterno ciò che la vita avrebbe consunto ed ucciso.» Così, in queste pagine dedicate all’opera di pace che Egli sempre promulgò e sostenne[1], risuoni ancora una volta la voce di Alberto Sormani, ad altre lotte ad altre guerre eccitando che non sieno le stragi fratricide del passato; risuoni nel cuore dei forti, memento e stimolo alla unione superiore che Egli vagheggiava fra gli uomini di buona volontà; risuoni eziandio per coloro che temono e paventano. Alberto Sormani, il prode caduto nelle battaglie dell’ideale, solleva dal sepolcro la bellissima testa e dice a costoro: «Non è la terra una valle di lagrime «Ma un monte luminoso da salir. «Si cade. Non importa. Altri rimangono «E ascendon l’erta con novello ardir. UN NOME CHE RISORGE. Il materialismo, dall’ultimo quarto del secolo scorso fino allo scoppio dell’immane tragedia che insanguina il mondo, sembrava avere travolto nelle sue branche di piovra arte, letteratura, costumi. Nella corsa vertiginosa al denaro che dà il piacere immediato agonizzavano i nobili sentimenti di amor patrio, le sante tradizioni della nostra storia, e anche i nomi di coloro che la patria e la storia dovrebbero incidere nelle loro pagine più gloriose giacevano dimenticati in ingiusto oblio. Fra essi lontana più di tutti nelle nuvole di quel tempo detto, non senza una punta di sarcasmo, romantico, Giuseppe Mazzini. Se accadeva di pronunciare il suo nome, subito lo si faceva seguire dalla qualifica di visionario e pur ammettendone le buone intenzioni gli veniva negata la praticità dell’ingegno, il concetto esatto della realtà. Una generazione cresciuta nell’idolatria del proprio benessere non poteva seguire i voli di una mente che, oltrepassando le meschine verità dell’ora, fissava con lucidità profetica quello che doveva essere l’avvenire d’Italia. Occorse che un branco di barbari si levasse in armi contro le nazioni civili perchè dai rivi di sangue e dai mucchi di cadaveri l’ideale del grande italiano prendesse consistenza di fatto e i traviati del materialismo si avvedessero finalmente che la sola via di salvezza era quella indicata nella preghiera di Mazzini: «_Signore, salvaci, oh! Salvaci dalla morte dell’anima!_» Ora il nome di Mazzini appare in tutti gli scritti che si occupano del nostro risveglio patriottico; un’onda di idealismo ha sollevato i cuori dei nostri giovani, essi riconoscono l’opera fecondatrice del profeta ed apostolo il quale predicò non solo col verbo, ma fu nella vita uno degli esemplari più alti e più puri della razza umana. È una gloria imperitura per Genova l’aver dato i natali ai due uomini che più poeticamente e idealmente rappresentarono le aspirazioni dell’Italia: l’Aedo impersonato nella bionda giovinezza di Goffredo Mameli; il Veggente, Mazzini, dalla figura austera, dall’occhio profondo, scrutatore. Giorgio Sand venendo in Italia non oserebbe più definire Genova con questo giudizio sommario: _Rien qu’a se mettre à la fenêtre on se sent devenir pain de sucre, caisse de savon ou paquet de chandelles_. Gli uomini del tempo di Mazzini nutriti di una fede ardente, volte le forze del pensiero alle misere condizioni della patria, vivevano di timori e di speranze che affinavano il loro modo di sentire tenendoli in una atmosfera di sentimenti elevati teneri ed eroici. Erano gli anni delle congiure e dei grandi amori. Quei giovani pronti a dare la vita per il trionfo dell’idea, i pensatori, i soldati, i martiri della forca e del boia erano pur anche squisiti e fedeli amanti. Quale donna non invidia colei che Pisacane amò per diciassette anni fra i contrasti e le tristezze? O l’idillio commovente del Duca di Castromediana che le carceri borboniche strapparono dalle braccia della fidanzata e che ella raggiunse, già vecchia, per mescolare un’ultima volta insieme le loro chiome bianche? La donna non era allora come nella letteratura moderna la creatura malefica, la distruggitrice. Prati la chiamava l’angelo che ha «lagrime negli occhi e rose in fra le dita»; Mazzini, grande estimatore della donna, arse per lei di un culto simile a quello della patria. Credente nell’immortalità dell’anima credeva nell’immortalità dell’amore, Egli chiama l’affetto condiviso «_una cosa di Dio_». La storia contemporanea deve perciò, rievocando il morto di Staglieno, non disgiungerlo dalla donna che egli amò più di ogni altra, anzi la sola che tenne posto nella sua vita, indivisa dal suo stesso ideale. Scrittore focoso e trascinante, dotato di un fascino personale che la luce della vita interiore rendeva più intenso, molti cuori femminili si accesero per il pallido asceta; le ammiratrici, le amiche, le discepole gli facevano ressa intorno e se egli non fu insensibile a tutte una sola amò di vero, alto, tenerissimo amore: Giuditta Sidoli. Nessuna romanzesca avventura presiedette a questa unione, neanche il pimento dell’adulterio, chè, liberi entrambi, il solo olocausto che il cospiratore aveva fatto di se stesso alla patria e la possibilità di morire da un giorno all’altro per essa fu la ragione che gli impedì di contrarre un vincolo di famiglia colle responsabilità e i doveri da quella derivanti. Ma aveva il Mazzini incontrato nella Sidoli un cuore all’altezza del suo e la loro intesa fu mirabile di costanza, di dignità, di fusione perfetta. Noi non siamo obbligati qui a chiudere gli occhi sulle stravaganze e peggio di certe coppie amorose scusando tutto in nome della passione. Fa tanto bene all’animo riconoscere che la passione non è necessariamente corrompitrice e che i suoi gesti possono comporsi in armonia di virtù quando le anime sono pure. Giuditta nacque in Milano da Cesare Bellerio e da una nobile Sopranzi nel 1804 un anno prima che nascesse Mazzini: fu posta in educazione nel collegio di S. Filippo e secondo l’andazzo del tempo aveva appena sedici anni quando, nel collegio stesso, le presentarono lo sposo scelto dai suoi genitori. Per sua fortuna non era un vecchio reduce da tutte le battaglie di Citera, come avveniva spesso, ed anche di questo dobbiamo rallegrarci, che la bella figura di lei non esce contaminata dal sozzo mercato tra la gioventù e la vecchiaia. Giovanni Sidoli era un ardito, avvenente e facoltoso giovane di Reggio Emilia, patriota anch’esso e cospiratore e fu presso a lui certamente che Giuditta sviluppò il sentimento della patria oppressa. Breve per altro fu la luna di miele. Sidoli inscritto nella lista dei Carbonari e perseguitato dalla polizia dovette prendere la via dell’esilio; Giuditta lo raggiunse lasciando alla custodia dei suoceri una bambina appena nata; Sidoli intanto veniva condannato a morte in contumacia. Alcuni anni rimasero gli sposi a S. Gallo di Svizzera, ma in seguito a una grave malattia di lui si trasportarono a Montpellier dove, malgrado le cure assidue della moglie, Sidoli dovette soccombere. Giuditta vedova a ventiquattro anni con tre altri bambini nati in terra d’esilio ritorna a Reggio; vi torna col cuore gonfio di tutte le amarezze dei proscritti, portando un lutto nel quale si accresce l’odio per il tiranno e l’aspirazione a liberarsi dal giogo straniero. Nella casa del suocero, reazionario sanfedista attaccato al vecchio regime, ella freme non nascondendo i sentimenti liberali che le facevano quasi un obbligo di continuare l’opera del marito; infatti compromessa per le sue relazioni coi capi del partito liberale già amici di suo marito venne bandita dal Ducato. Eccola a riprendere la fuga all’estero, colla dolorosa necessità di lasciare i suoi piccoli ai nonni, triste per il passato, incerta dell’avvenire. Sostò dapprima in Svizzera, poi accompagnata da un parente seguì il consiglio di portarsi a Marsiglia, ricetto di una numerosa colonia di profughi italiani. A Marsiglia il destino che riunisce qualche rara volta le anime gemelle sparse per il mondo le fece incontrare Giuseppe Mazzini. Di ciò che fu questo legame fra due esseri di eccezione dànno fede le lettere dello stesso Mazzini. Al Melegari scrive: «_Se amo la Sidoli? Io, anima perduta, quando amo è per sempre; nella mia morale la costanza sta in cima, complemento necessario di tutti gli affetti_». E sempre e con tutti dichiara altamente non solo l’amore, ma la stima e la venerazione per le virtù superiori della sua amica. La presenta a Gino Capponi ed egli a sua volta subisce il fascino di quella nobile personalità femminile; dice poi il Capponi al marchese Potenziani presentandogliela a sua volta: «_Ben difficilmente potreste trovare persona che la valga per ogni dote della mente e dell’anima, degna d’ogni interesse e d’ogni stima_». Ma più ancora pone sulla fronte della Sidoli una mistica ghirlanda di fidanzata ideale l’affetto che ebbe per lei la veneranda madre di Mazzini. È un caso raro, forse unico, nella psicologia femminile che, per chi sa quale virtuosa donna ella fosse, circonda subito la Sidoli del più alto rispetto. I rigori della polizia intercettavano la corrispondenza di Mazzini coll’amica, allora Mazzini ne chiedeva ansiosamente alla madre e questa gli ricopiava le lettere ricevute. Calmato ma non pago egli risponde: «... _ditele, sia presto sia tardi, ch’io l’amo; l’amo più assai ch’ella non creda e ch’io possa dirle e sono certo d’amarla fino all’ultimo giorno dacchè, non solo non ho diminuito il mio affetto, ma l’ho ritemprato e infiammato quando pure cessai di sperare per la mia vita individuale; gli uomini, generalmente, non durano in un affetto quando non ne sperano più gioie; se durano amano davvero! Diteglielo_». Lettere di vero amore, ardenti e delicate, quelle di Mazzini a Giuditta: «_Io ti benedico non una, ma mille volte; o angelo di consolazione, tu sei la mia vita; il resto non è che dolore e tristezza_», così scrive il baldo giovane alla donna che ha sì biondi capelli e bruni occhi incantatori; mia quando, vecchi entrambi, ella agonizza lontana, le scrive ancora non aver mai cessato un momento di pensare a lei. L’amor di patria che tanto aveva contribuito a unire indissolubilmente queste due nobili creature fu pure la cagione d’ogni loro amarezza per le continue persecuzioni e i bandi in una esistenza agitata, piena di sorprese e di pericoli. La Sidoli soffriva anche per la lontananza dei figli e tale sofferenza, accettata nei primi tempi come momentanea, aumentando vieppiù i figli crescevano in età, ella si adoperava affinchè le fosse concesso di tornare in patria. Questa decisione la obbligava a separarsi da Mazzini sempre proscritto, ma per quanto egli ne soffrisse e di ciò tenesse parola colla madre e cogli amici il sentimento che faceva agire la sua amica era troppo legittimo e coscienzioso perchè egli, l’autore dei _Doveri_, potesse nemmeno pensare a contrastarlo. Non fu il più lieve dei sacrifici che quei due nobili cuori compirono insieme. Il decreto però che doveva far rimpatriare la Sidoli non veniva ed ella per portarsi almeno vicina alla sua prole tentò di soggiornare a Parma dove, tollerata dal Governo indolente di Maria Luisa, rimase alcuni anni ottenendo tratto tratto il permesso di una corsa a Reggio per abbracciare i figli, ma scortata dai gendarmi e vigilata come un malfattore finchè, assolta in collegio l’educazione delle figliuole, potè finalmente, secondata dal desiderio stesso delle fanciulle, averle presso a sè. Non era tuttavia la pace. Morta Maria Luisa nel 1847 le succedette quel tiranno di triste memoria che fu Carlo III e le condizioni pubbliche peggiorarono. L’amicizia della Sidoli con Mazzini la rendeva oltremodo sospetta, si violava il segreto della sua corrispondenza, i suoi passi erano spiati e riferiti all’autorità suprema; fu sottoposta a perquisizioni e per quanto ella avesse saputo sottrarre destramente le carte più compromettenti, venne arrestata e chiusa nella prigione di S. Francesco in Parma. Non per questo la forte donna si lascia abbattere, ma solo preoccupata delle figlie che aveva dovuto abbandonare, è lei che infonde a quelle magnanimità e coraggio mostrandosi perfettamente tranquilla, ripetendo loro le più tenere frasi d’affetto materno, consigliandole a vivere nei giorni di prova come se fossero sempre insieme. Dice ancora: «Vi confesso che l’essermi sentita chiudere l’uscio dietro non mi diede quel senso molesto che potete pensare. Mi riesce invece insopportabile il vedermi aprire la porta a voglia altrui». Delicatezza di donna e di signora che le mie lettrici comprenderanno bene. Liberata dal carcere è bandita anche da Parma; ripara in Svizzera per la terza volta, ma portando con sè le figlie tanto amate. Durante questi anni Mazzini scriveva alla madre: «_Vorrei vi giungessero nuove della mia Giuditta. Ci penso spesso e ne sogno_» ed all’amico Elia Benso: «_Non ho più riveduto Giuditta; abbiamo dovuto rompere ogni corrispondenza perchè le era apposta a delitto_». E ancora alla madre: «_La lettera di Giuditta che mi trascrivete mi è stata cara, cara. Ditele quanto mi fu cara e che l’amo come l’amavo; ditele che sotto questo cielo di Londra vivo più concentrato che mai, vivo d’anima; nella mia anima essa è scolpita ed io, lontano, parlo, penso vivo con lei_». L’ultimo pellegrinaggio di Giuditta Sidoli fu per prendere definitiva dimora a Torino, movendo verso una vecchiaia serena, circondata dalle figlie spose e dai nipotini che l’adoravano. Se qualcuno, verso il 1870, vedendo passare sotto i portici di Po una signora distinta, dal portamento eretto, bella ancora nella aureola dei capelli bianchi e delle vesti abbrunate, chiedeva al vicino: Chi è?... udendone il nome si fermava riverente e commosso quasi sentisse passargli vicino il grande spirito di Giuseppe Mazzini. L’AMORE CHE NON MUORE Vi è un’ora, la più dolce e insieme la più malinconica, ora che volge il desìo non solo dei naviganti ma di tutti coloro che i flutti della vita solcarono nel lieve burchiello del destino. Dolce e melanconica ora del vespero sopra ogni altra contemperata di sogni e di nostalgie! Tutti i poeti la cantarono, tutti gli amanti la vissero. La prima falce di luna che tra le affaccendate opere del giorno e i silenzi della notte pone la sua parentesi d’argento sa quanti cuori aspettarono quest’ora, quante ombre radettero i muri, quanti femminei petti balzarono nell’attesa di un passo.... di un uscio che si apre.... È certamente in quest’ora che l’appassionata Marcellina Desborde-Valmore cantava con tutto lo schianto della donna abbandonata: Devant ma chaise Une chaise attend. Ce fut la sienne..... La nôtre un’istant e chi ha provato quanto spasimo vi può essere nella contemplazione di una sedia vuota comprenderà il pianto che goccia da questi versi così semplici e così veri. Io penso, in quest’ora dolce e malinconica; a un’altra donna che pure nei vesperi solinghi conobbe l’amore ammantato di tutta la poesia che vi porta il fascino dell’arte e di un’alta intellettualità. Al di sopra di Zurigo stretta nelle linee cosmopolite della sua cultura e del suo commercio deve aleggiare ancora, raccolto, appartato su quella collina Verde che ne conobbe i sospiri, il nobile spirito di Matilde Wesendonk. Per l’amore che la commosse, per il silenzioso dolore che la sublimò, amo questa donna e mi è grato parlarne ad altre donne che al pari di me la ameranno. Fu nel 1852 che Riccardo Wagner incontrò nella casa di un amico i coniugi Wesendonk. Egli era già ammogliato e già aveva conosciuto le amarezze di una unione male assortita cui inasprivano le continue lotte finanziarie trasportate da una città all’altra, dall’uno all’altro alloggio nelle disagiate condizioni di una vita errabonda, perseguitato dai creditori, incerto sempre dell’indomani. I Wesendonk furono subito per lui buoni amici e in quella casa largamente ospitale, circondato da un lusso che egli aveva sempre inseguito senza poterlo raggiungere, apprezzato, fatto segno a squisite gentilezze, colmo di onori e di affetto, l’animo esacerbato di Wagner si adagiò nella morbidezza suadente di un sogno. Non paghi di accoglierlo nella propria famiglia i Wesendonk posero a disposizione di Wagner e di sua moglie una graziosa casina attigua al loro palazzo, sulla collina Verde che domina Zurigo. Da allora, è facile immaginarlo, la relazione si fece più intima, i rapporti quotidiani. Al cader del sole il Maestro prese la dolce abitudine di recarsi dalla sua vicina a suonarle sul piano le composizioni elaborate durante il giorno. Gli spiriti fraterni si attiravano, le anime si comprendevano. Era Matilde Wesendonk una leggiadra creatura, intelligente, fine, distinta, dal cuore leale e sensibile. Il musicista poeta non poteva fare a meno di ammirarla e lei di subire il fascino del suo ingegno. Musicista ella stessa divenne a poco a poco sua allieva, sua collaboratrice. Matilde scriveva piccoli poemi in versi e Wagner li vestiva di note. L’ora del vespero li trovava riuniti sulla tastiera, chini entrambi, entrambi rapiti in una di quelle sovrumane dolcezze dove pare che la materia si sciolga per lasciar vaporare l’anima verso l’infinito. Terribile l’amore che si insinua per le vie ideali; esso distrugge i forti di difesa prima ancora che si avverta il pericolo. La donna che respingerebbe indignata un attacco diretto si addormenta nel profumo di una simpatia spirituale come sotto un padiglione di rose. Wagner non può vivere oramai lontano dall’amica; non gli basta vederla tutti i giorni, le scrive per un invito, per un annuncio, per un convegno. Gradatamente i biglietti si accalorano, la frase diventa più tenera, più espressiva. Nell’incanto di questo amore nascente concepisce il gran dramma passionale di _Tristano e Isotta_; parola per parola, nota per nota esso è scritto sotto l’ispirazione di Matilde. L’ultimo giorno dell’anno le invia, insieme ad una pagina dello spartito, i seguenti versi: Bienheureux Arraché à la doleur Libre et pur Toujours a toi — Les lamentations Et les renoncements De Tristan et Isolde Dans le chaste langage des sons, Leurs larmes, leurs baisers, Je depose cela à tes pieds A fin qu’ils celébrent l’ange Qui m’a porté si haut. Amore nobile e puro; ma quale è il più nobile il più puro degli amori che abbia potuto interamente sottrarsi alla legge comune, che non abbia provato almeno la tortura della rinuncia? È significativo questo punto di una lettera di Wagner «_Il demonio lascia uno dei nostri due cuori per entrare nell’altro. In qual modo vincerlo? Oh! quanto siamo da compiangere! Non ci apparteniamo più. Demonio, Demonio, torna Dio!_» La volgarità di un duplice adulterio consumato fra i queruli sospetti della signora Wagner e la dignitosa serenità del signor Wesendonk doveva ripugnare innegabilmente alle loro anime elette. Pare si affacciasse alla mente di Wagner la possibilità del duplice divorzio; ma troppo era Matilde ligia al decoro della sua casa, a’ suoi figli, al marito stesso che, se non amava d’amore, era pur sempre stato un leale compagno. Dinanzi alla passione crescente e turbatrice i due amanti non trovarono altro scampo che in una eroica separazione. Come, dove, attinsero essi la forza sovrumana di rompere una consuetudine che durava ormai da anni è il segreto della loro grandezza. Solo sappiamo che soffersero immensamente e l’uno e l’altra. Wagner descrive nel suo giornale la notte che precedette la partenza. Fu un supplizio. Esaltato dall’insonnia dolorosa egli pensò al tempo in cui si era immaginato di morire lì, in quella camera, coricato come ora, e che Lei verrebbe a trovarlo per l’ultima volta circondandogli la testa colle sue care braccia, ricevendone l’anima in un bacio supremo. Questa morte se l’era rappresentata tante volte quasi con felicità nei minimi particolari. Ecco: l’uscio verso la scala era chiuso. Ella entrava sollevando la portiera dello studio, lo abbracciava, lo guardava morire.... Nell’ultima luce de’ suoi occhi si fissava il volto dell’amata... — Ora anche la possibilità di morire così gli era tolta per sempre! Questa la notte di passione dell’uomo; la donna non lasciò scritto quale fu la sua.... Wagner scende in Italia per la via del Sempione. Sulla terrazza dell’Isola Bella, con un tempo troppo splendido per poter durare, egli pensa alla felicità imperitura di essere amato da Lei. Da Venezia le scrive: «_Senza dubbio tu non credi che io voglia lasciare senza risposta la tua lettera meravigliosa. Le formidabili lotte che noi abbiamo sostenute potevano finire diversamente che con la vittoria riportata sopra tutte le nostre aspirazioni, sopra tutti i nostri desideri? Forse non sapevamo, anche negli istanti più ardenti, quando eravamo l’uno presso all’altro, che questa era precisamente la nostra meta?_» Sì, ma altro è parlare di un sacrificio lontano intanto che le mani si stringono, che le labbra si incontrano, che tutto l’essere trema ed avvampa nel contatto; altro è ritrovarsi soli nel posto dove si fu in due, penetrarsi di vuoto e di silenzio nell’aria stessa che fremette sotto le note di una voce adorata, e pensare che tutto è finito, irremissibilmente finito! Anche nel fastoso salotto dei Wesendonk vi doveva essere una sedia bagnata di lagrime. Tuttavia alla donna squisita nel gran dolore della rinuncia sarà stato di conforto e di sublime elevazione una lettera come questa: «_Spero di guarire per te. Vivere colla mia arte per consolarti ecco il mio còmpito ed ecco ciò che si accorda col mio temperamento, col mio destino, colla mia volontà, col mio amore. Così sono tuo. Qui finirò Tristano e con lui, se posso, tornerò per vederti, per consolarti, per farti felice. Su valoroso Tristano, su valorosa Isotta! assistetemi, venite in mio aiuto. Di qui il mondo saprà il nobile cordoglio dell’amore, i lamenti della più dolorosa voluttà — e raggiante come un Dio, e puro, tu mi vedrai allora! Credi o mia unica! tu mi tieni nelle tue mani, è con te sola che posso arrivare alla finalità estrema. Abbi fiducia in me; una fiducia assoluta, illimitata. Ciò vuol dire solamente: sii persuasa che posso tutto con te, nulla senza di te!_» La corrispondenza epistolare continua per molto tempo in questa forma ardente e poetica. La donna gentile che aveva fatto altre volte miracoli d’affetto per mitigare nelle forme più delicate la penosa esistenza dell’amico non si stanca di inviargli nuove prove di intima tenerezza. Sono doni delicati e gentili. È un servizio di thè affinchè egli abbia ancora l’illusione di ricevere dalla sua mano la tazza ospitale; è un piccolo cane che ella alleva per lui e che gli manderà solo quando le si sia _molto molto affezionato_.... Per un’anima come quella di Matilde Wesendonk l’unione spirituale, l’amore che è ancora amore avendo rinunciato ai diritti dell’amore, doveva essere una squisita e torturante voluttà. Certo ella non chiede più altro al destino: sapere di essere per lui l’unica donna al disopra delle contingenze della vita, la sua fede, la sua coscienza, l’amica ideale, le basta. Chiude il suo spasimo in sè, dignitosa e muta. Si rivedono un giorno e Wagner è sorpreso e profondamente colpito dal mutamento che la sofferenza rinchiusa ha stampato sul di lei volto. L’amore e il dovere non hanno ancora finito di straziare il nobile cuore di Matilde Wesendonk. _For ever or never._ Meglio non incontrarsi mai che incontrarsi per lasciarsi. Tuttavia questo volontario abbandono confortato da tanto ricambio di tenerezza doveva ritornare come raggio di giorni felici alla memoria della sventurata quando Wagner, seguendo il suo volubile miraggio, tolse da lei la fiaccola dell’ideale per accenderla ai piedi di un’altra donna. Quanto è pietosa la morte ai grandi amori! Matilde Wesendonk dovette invidiare la sorte di Isotta che portò intatto nella tomba l’amore di Tristano, mentre ella vide il suo smarrirsi lentamente e finire nelle ombre dell’oblìo. Il bisogno di essere felice, di avere una casa e una donna presso a sè «_la pace! la pace!_» guidarono Wagner, rimasto vedovo, a un secondo matrimonio. Matilde, soave larva ammantata nel silenzio, si allontanò definitivamente verso il passato. Ma non fu questa la colpa di Wagner. Era uomo. Ciò che non si avrebbe voluto vedere in lui è quella viltà di maschio appagato che gli fa rinnegare dinanzi all’idolo nuovo l’idolo tanto adorato un tempo e il modo egoistico ed ingrato di abbandonare colei che egli aveva chiamata l’unica, che era ben degna di rimanere nel suo cuore come in un tempio. Una indignazione e una amarezza ci coglie nel leggere con quanta fredda indifferenza dettando le sue memorie alla seconda moglie egli parla di Matilde che era stata l’angelo de’ suoi giorni più travagliati. Si sa che la gratitudine non fu la miglior dote del grande Maestro, ma quando si apprende che l’autore di _Tristano e Isotta_ rinnegando la vivida fiamma che lo aveva così altamente ispirato tentò di distruggere le lettere d’amore scritte a Matilde Wesendonk, l’ammirazione per l’artista si risente della antipatia che ci desta l’uomo. È sopratutto nell’istante difficile e crudele della separazione che si palesa la nobiltà e la delicatezza dell’amante. Togliendo il suo amore alla donna che lo ama ancora per recarlo ad un’altra egli segue il comando di una forza occulta, fatale, alla quale forse non può resistere; ma il suo dovere se è un uomo di cuore, se è solamente un gentiluomo, è di rendere il distacco meno penoso che sia possibile a colei che lo deve subire. Ma se Wagner dimenticò di dovere a quella donna ore di ineffabile dolcezza, ore di tenera e profonda e quasi materna consolazione, se dimenticò di doverle il suo capolavoro, il capolavoro esiste. L’amore che ispira un’opera d’arte è il carbone tramutato in diamante è il patrimonio ideale degli amanti che verranno. Wagner stesso, in una di quelle lettere che Matilde seppe difendere conservandole all’immortalità, consacra questa verità divina. Dice la lettera: «_Cara! non provare mai il rimorso del tuo amore per me. Non dolerti di quelle prove di amore che furono l’ornamento della mia povera vita. Non li conoscevo questi fiori di delizia sbocciati sul suolo vergine di un amore nobile fra tutti. Ciò che avevo sognato come poesia divenne una miracolosa realtà. Il tuo cuore, i tuoi occhi, le tue labbra mi hanno rapito al mondo. Percorso da un brivido sacro davanti alla mia gloria ho il ricordo di essere stato amato da te con una tenerezza così dolce e così pudica. Respiro ancora il profumo inebbriante dei fiori che tu posasti sul mio cuore. Sono essi come i fiori che ornavano un tempo il corpo dell’eroe, prima che egli fosse convertito dalla fiamma in cenere divina, in questa tomba di fiamma e di profumi si precipitava l’amante per unire le sue ceneri a quelle dell’amato. Formavano allora un solo elemento; non più due esseri vivi, ma una sostanza divina e primordiale nella eternità. No, non rimpiangerli, non rimpiangerli mai!_». Così. _Non più due esseri vivi ma una sostanza divina e primordiale nella eternità._ Invano per umiliante condiscendenza al nuovo amore egli volle rinnegare l’estasi a cui era salito con Matilde Wesendonk. Nulla si distrugge, nulla si cancella nel mondo spirituale. La morte attende il figlio di carne che un’altra donna gli ha dato; ma quello che nacque nell’ora astrale del congiungimento di due anime, il figlio che la più pura essenza del suo essere concepì nell’estasi dell’amore e dell’arte, quello non morrà. Agli occhi materiali del pubblico sembrerà più felice la donna che potè fregiarsi del nome di Wagner, vivere presso a lui, spezzare con lui il pane di tutti i giorni, adagiarsi nel raggio della sua gloria. E forse fu felice. Ma io ripeto a Matilde Wesendonk: Tu hai dato all’eroe i fiori migliori del tuo cuore, essi germogliarono in ghirlande di eternità. Non rimpiangerli, non rimpiangerli mai! Fu vostra l’ebbrezza che altri amanti conobbero, ma il vostro privilegio è di averla cristallizzata in una forma imperitura. La meravigliosa fecondazione di un cervello per opera d’amore è il polline sacro che trasmette agli uomini futuri l’immortalità delle forze ideali. Nobile Matilde, finchè la passione di Tristano e Isotta farà battere un cuore, finchè le armonie del celeste poema susciteranno gli animi alla poesia dell’infinito, tu sarai congiunta a Colui che tanto amasti. Egli è tuo. Isotta sei tu. UN BARDO DEL 1830. Fu precisamente otto mesi dopo la data tempestosa del venticinque febbraio 1830 — rimasta celebre negli annali della «Comèdie Française» per la battaglia d’arte combattuta alla prima rappresentazione di _Hernani_ — che nasceva a Friburgo dal maestro di cappella di S. Nicola, all’ombra della vecchia cattedrale svizzera, un bambino. Forse i genii e le bizzarre fate del romanticismo che avevano assistito colle capigliature spioventi e coi larghi cappelli pittoreschi al dramma focoso di Vittor Hugo, reduci da Parigi si erano raccolte intorno alla culla del neonato quando egli aprì sulla vita le profonde pupille piene di mistero. Certo egli doveva incarnare quel tipo di _bohèmien_ che Murger prima e tanti altri dopo di lui si incaricarono di rendere popolare. Étienne Eggis (tale era il nome del neonato) crebbe sotto i gotici pilastri della cattedrale, nell’onda delle armonie che l’abile mano paterna sapeva trarre dall’organo famoso, imbevendo l’anima di sogni; e nel silenzio delle arcate, nelle nuvole di incenso che egli stesso agitava coi turiboli d’argento nelle feste solenni, le prime visioni poetiche gli sorrisero. La musica, per la quale aveva una grandissima attitudine, lo attraeva; ma studiando latino presso i Gesuiti si sviluppò in lui il gusto delle lettere; così rimase per lungo tempo incerto sulla carriera da prendere. Friburgo che è città tedesca, ma cattolica e vicina alla Francia, coltivò nel giovine Eggis le caratteristiche delle due nazioni tanto che egli scriveva indifferentemente il tedesco o il francese e nelle due lingue pensava. Aveva anche dei parenti in Francia che lo sollecitavano a formarsi uno stato indipendente e proficuo lasciando andare le fisime poetiche che non dànno da vivere. Intanto gli anni passavano. Eggis uscito dall’adolescenza si era fatto alto alto, con lunghi e folti capelli neri, una carnagione delicata e bellissimi occhi. Mentre suo padre pensava ancora con inquietudine che cosa ne avrebbe fatto, gli venne offerto un posto di precettore in una casa principesca, a Monaco di Baviera, e il giovinetto partì. È in questo modo che molti scrittori avevano già esordito: Grimm, Rousseau.... Parini forse egli non lo conosceva. Ma il padre e i parenti di Francia (la madre era morta consunta quando Étienne Eggis aveva appena sei anni) si rallegrarono per poco della fortuna avuta. Eggis si stancò della vita regolare e subordinata, della disciplina che al suo orgoglio sembrava umiliante, sentendosi a disagio fra i principi padroni, troppo lontani da lui, e la turba dei domestici che lo premeva da vicino. Lasciò la casa e si inscrisse alla Facoltà di legge. Il padre allora si mette in moto per procacciargli una borsa che gli permetta di vivere a Monaco fino a studi completi e questa decisione, appunto per la sua praticità, irrita il futuro _bohèmien_ che volge subito le spalle al diritto e si dà a stampare versi per i giornali di Monaco. Da quel punto la sua vocazione è decisa. Egli scrive a un amico: «Una voce in fondo al cuore mi dice che il mio nome sarà conosciuto dai posteri, che berrò alla coppa della gloria; e la gloria che voglio non è di quelle che vanno a morire fra i muri di una piccola città. Se non potrò conquistarla, allora morirò giovane.» È la seconda profezia che doveva avverarsi. La fantasia sbrigliata di Eggis, una volta rotto il freno, non si arresta più. Ripugnante ad ogni regola e ad ogni vincolo, eccolo, vagabondo, ebbro di giovinezza e di illusioni, a percorrere le città e le campagne tedesche, riposando sotto gli alberi, dissetandosi alle fontane, vivendo di musica e di canzoni, cogliendo sul ciglio delle strade nella aureola del sole o nella furia del vento le impressioni fuggevoli del viatore. Nessuno potrebbe dire meglio di quanto narrò egli stesso l’ebbrezza di quei primi anni di libertà: En cousant une rime aux deux coins d’une idée Je m’en allais, rêveur, le bâton à la main, La tête de soleil ou de vent inondée, En laissant au hasard le soin du lendemain. Je dérobais mon lit aux mousses des clairières, Ma harpe me donnait la bière et le pain noir Et je dormais paisible aux marges des carrieres Sous le ciel qu’empourpraient les nuages du soir. Je n’avais pour tous biens qu’une pipe allemande, Les deux Faust du grand Goëthe, un pantalon l’été, Deux pistolets rayés non sujets à l’amende, Une harpe légère et puis... la liberté! Je lisais, en passant, des vieilles cathédrales Les lieds marmoréens par les siècles écrits. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Mais malgré tout, parfois, une vague souffrance Assombrissait mon coeur et voilait ma gaité Une sécréte voix m’appelait vers la France Et me parlait de gloire et de célébrité. La sua seconda patria, la Francia, lo attirava irresistibilmente. Egli aveva scritto dei versi mirifici per Vittor Hugo; il grande poeta aveva risposto, e questa risposta non lasciò più tregua al giovane entusiasta: Grisant mon jeune coeur d’illusions candides Seul, et toujours à pied, je m’en vins vers Paris. Come un colpo di fulmine la notizia che Étienne era partito per Parigi piombò a Friburgo nella modesta casa del maestro di cappella che non sapeva più su quale orientazione dirigere oramai l’avvenire di suo figlio. Étienne intanto scriveva a un parente: «Perdonatemi di essere partito senza salutarvi; non ho salutato nemmeno mio padre. La vita della nostra piccola città mi è diventata insopportabile. Ho nel cuore una attività orribile che mi divora e che mancando di sfogo rende i miei giorni tristi e le mie notti senza riposo.» Che cosa intendeva Étienne Eggis per attività? È lecito domandarlo. La sua attività, non v’ha dubbio, era tutta nella fantasia. Dichiarandosi incapace di attendere alle umili cose della vita, sciupava l’ingegno a correr dietro alle chimere. Madamigella di Sénancour, una buona cugina che gli dava spesso de’ saggi consigli lo ammonisce: «Tu non hai voluto ascoltarmi, povero Étienne. Senza alcuna idea di come vanno le cose in questa baraonda di Parigi non hai consultato altro che la tua passione e contro la volontà di tutti coloro che si interessano a te sei venuto a sommergerti nel vortice. Ahimè! tu non sarai la prima farfalla che si brucia le ali a questa fiamma più divoratrice che vivificante! Balzac con tutto il suo ingegno ha scritto trenta volumi prima di essere conosciuto.» Parole d’oro. Tuttavia Étienne Eggis pubblicò proprio allora il suo primo lavoro in versi: _En causant avec la lune_, il quale ebbe un mediocre successo, dovuto per la sua parte migliore a un articolo di Jules Janin a cui non era dispiaciuta l’originalità fresca ed energica del bardo gallo-tedesco. Arsène Houssaye fu pure fra i protettori del giovane friburghese. Lo scrittore alla moda abitava allora un castello di gran lusso ai Campi Elisi ed aveva un padiglione dove accolse l’Eggis offrendogli tutto quanto può dare 1 ospitalità amica, compreso la mensa, i sigari ed il piano di cui Eggis non poteva fare a meno, e sul quale, tra un articolo è l’altro per i giornali parigini, improvvisava con tanta genialità che i vicini ne erano rapiti. Questa bella vita durò tre mesi, poi Eggis non si vide più. Aspetta e aspetta, Arsène Houssaye, inquieto, fa abbattere la porla del padiglione e lo trova completamente vuoto; nè Eggis, nè piano, nè mobili. Tutto era sparito! Qualche giorno dopo arriva una lettera di scusa abbastanza singolare firmata «il vostro affezionato ladro Étienne Eggis.» Houssaye prese l’avventura da uomo di spirito; rise, perdonò e restarono amici. Ma l’augello non tornò più in gabbia. La vita randagia ricomincia e con essa i tentativi, le ripulse agli uffici dei giornali, le lunghe attese dagli editori. Lo si vede in Italia e in Germania; pubblica un secondo volume di versi: _Voyages aux pays du coeur_ e quattro altri ne annuncia. Maxime du Camp lo raccomanda agli amici, Emile Girardin gli predice che riuscirà, Théophile Gautier gli fa l’onore di appropriarsi un vocabolo inventato da lui, l’aggettivo _ensoleillé_, che prima dell’Eggis non esisteva nella lingua francese. Il vecchio Béranger lo saluta «Buona sera, poeta Eggis!» ma la gloria non viene. Privo di una regolare occupazione egli è obbligato a ricorrere continuamente all’aiuto della famiglia che alla fine è stanca. La buona cugina di Sénancour si lagna della eccessiva instabilità del giovane: «Egli ha abbandonato le persone colle quali lo avevo messo in rapporto.» E così sempre, dovunque, sferzato alle spalle dal suo istinto vagabondo, dalla mancanza d’ordine e di metodo. I disinganni si accumulavano; ad ogni tratto, stanco, ferito, riposava a Friburgo dove, ad onta di tutto era ancora amato. Ma bisognava vivere. Gli si cercarono impieghi diversi, nessuno riuscì. Tornò in Italia, tornò in Germania. Scrisse romanzi, articoli, poemi, satire, bizzarrie. Insegnò musica, ne compose, ne eseguì egli stesso giorno per giorno, all’avventura, come nei primi tempi della giovinezza quando percorreva le strade della vecchia Alemagna coi due volumi del _Faust_ sotto il braccio e una canzone sempre pronta sulle corde della sua chitarra. Ma i baldi sogni già svanivano lontano, impallidiva l’illusione, l’entusiasmo si spegneva a poco a poco. A trentadue anni vagheggia il suicidio. Parmi interessante l’osservazione che nella molteplice opera di Étienne Eggis l’amore e la donna tengono pochissimo posto. Non una di quelle passioni che sembrano prediligere i poeti attraversa la sua vita. Se qualche fanciulla gli sorrise lungo gli interminabili sentieri del suo vagabondaggio egli non si fermò a raccogliere quel sorriso. Una delle sue poesie incomincia: Je n’aimerai jamais, je n’ai jamais aimé e quantunque dopo si ravveda e quasi terrorizzato dalla sinistra profezia soggiunga: Je n’ai que vingt-un ans, je veux croire à l’amor resta nel lettore l’impressione che l’Amore al pari della Gloria gli apparve solo nel miraggio della fantasia. Ben più sanguinanti di vera ferita sono questi altri due versi: Comme deux fiancés que l’amour vient d’unir La souffrance et mon coeur ont marché dans la vie. La sofferenza! Ecco la fida compagna di Étienne Eggis. Di tutto egli doveva soffrire, e più che tutto del suo carattere in disaccordo colle realtà dell’esistenza che faceva di lui uno spostato, un ribelle. Nei versi _Aspirations insensées_, egli interroga tutto il creato, dalle cupe immensità dell’oceano agli abissi inesplorati dove guizza appena il bagliore tortuoso del fulmine e dice che vorrebbe arrivare a stringere tutti gli esseri che piangono e Tout ce que sous les cieux En soi porte une ulcère, Qui’ incessamment lacère Quelque deuil anxieux; Tout coeur qui se retire Pour pleurer en secret Et dont nul ne connaît L’invisible martyre. Credendo di cantare i dolori dell’universo è il grido del suo proprio dolore che egli lancia al vento ed alle selve. Sostando per un momento nella sua corsa errabonda ritorna col pensiero ai giorni dell’infanzia, alla vecchia cattedrale di S. Nicola; dove egli era così dolce raccogliersi nell’ombra di un altare quando l’organo suonava le divine melodie di Beethoven, e restarci anche quando l’ultima eco dei suoni aveva cessato di ripercuotersi sotto le ampie arcate, restarvi colla fronte china nelle mani bagnate di lagrime... Non è mia intenzione di fare qui una disanima delle opere poetiche di Étienne Eggis. Altri vi ha già pensato e da lungo tempo. L’eminente scrittore svizzero Philippe Godet, fin dal mille ottocento sessantasei, raccolse in un volume le migliori poesie delle due raccolte: _En causant avec la lune_ e _Voyages aux pays du coeur_ pubblicandolo a proprie spese (con magnanimo altruismo di confratello) presso il libraio Berthoud a Neuchâtel. L’opera è preceduta da uno studio biografico-letterario fatto con acume e premiato al Concorso di Storia letteraria dall’Istituto nazionale ginevrino. Chi vuole conoscere direttamente i versi del disgraziato bardo cerchi questo volume che porta il titolo: _Poésies d’Étienne Eggis_. Io mi accontenterò di chiudere il breve cenno colle ultime notizie sulla sua fine. Verso il 1865 alcuni svizzeri che studiavano a Berlino vi incontrarono l’Eggis e così lo descrivono: «Un giovine molto alto, pallido, magro, con lunghi capelli, l’occhio sognatore... Si capiva subito che era _qualcuno_, benchè vivesse nella più profonda miseria, suonando nelle birrerie sotterranee della grande città. Improvvisava per ore ed ore dicendo che quando era seduto davanti al piano dimenticava di aver fame. Buon ragazzo del resto, dolce, quasi timido, generoso. Se per caso aveva del denaro lo divideva subito con altri più poveri di lui. Tutti lo amavano e lo compiangevano». Egli era in quel tempo già attaccato dalla tisi che aveva consunta la sua povera madre a ventisei anni, la madre che gli era sempre presente, la quale cantò in dolcissimi versi più volte, sopratutto nel _Souvenir d’enfance_: C’était une nuit froide et sombre.... Ma non posso citare tutto il volume. Basta. Venne il giorno in cui Étienne Eggis non potè più abbandonare la squallida stanzetta che gli serviva di alloggio — squallida e triste colla finestra che dava sopra un cortile tetro privo d’aria e di luce — a lui, povero Eggis, a lui che sospirava i ghiacciai e le foreste della patria, la canzone dei pastori sui monti, il bel cielo azzurro così vicino a Dio!... Morì nella notte dal 12 al 13 febbraio 1867. Chi lo assistè negli ultimi momenti lo udì ripetere: «Vi è qualcuno che sia più da compiangere di me?» UNA GRAN DAMA al tempo della Rivoluzione Francese. Mi accade sovente quando vado a Roma di entrare nella Chiesa di S. Luigi dei Francesi per deporre un fiore di memoria sulla tomba di Paolina di Beaumont. S. Luigi dei Francesi non attira l’attenzione dei forestieri per ricchezza di marmi o di opere d’arte; la chiesa è quasi sempre deserta e la piccola piazza che la fronteggia con quell’unico negozio di coroncine e di oggetti sacri le conserva intorno un silenzio di religiosa intimità dove mi piace immaginare abbiano a trovar pace le ossa di colei che fu tanto tormentata in vita. Scrivendo queste parole ho sotto gli occhi una vignetta che rappresenta la contessa di Beaumont accosciata su un breve divano, tra i rigonfi dell’abito dai riflessi violacei, col braccio cadente in una posa di supremo abbandono, lo sguardo fisso quasi magnetizzato in una visione di terrore scorta da lei sola. Appare forse qui più avvenente di quello che fosse in realtà, ma tutta la sua grazia e la sua dolcezza e l’intima eleganza devono esservi fedelmente riprodotte. Guardandola mi corrono sulle labbra i versi di Ippolito Pindemonte alla Malinconia: Come mi piace quel di vïola tuo manto e quello sparso tuo crin! più dell’attorta chioma e del manto, che roseo porta la Dea d’Amor e del vivace suo sguardo, oh quanto il tuo mi piace, contemplator. Così, pallida e fine, velata di inestinguibile tristezza, toccando appena la terra col suo piede leggero, passò in mezzo agli uomini la figlia del conte di Montmorin in uno dei periodi più agitati della storia, quando la grande rivoluzione sconvolse la Francia nelle sue più profonde radici irrorandola di sangue. Tutto le fu avverso nella breve esistenza e fin l’unico tardivo amore venuto da così alto cielo non le diede che frutti di cenere. Suo padre, il conte di Montmorin, che era stato ministro degli esteri sotto Luigi XVI apparteneva alla più antica nobiltà dell’Alvernia; uomo integro, di alta onestà, gran signore nei modi e nei sentimenti: ma, secondo ramo dei marchesi di Montmorin, il conte non disponeva di molte ricchezze; le accrebbe sposando sua cugina più ricca di lui, dalla quale ebbe due maschi e due bambine, ultima delle quali Paolina. Soccorreva alle grandiose spese della famiglia anche la carica del Ministro cogli annessi vantaggi e tuttavia lo sperpero superava le entrate. La sola tavola largamente ospitale, come era costume del tempo, costava moltissimo; nella stalla si nutrivano 24 cavalli e 11 palafrenieri. Paolina crebbe in questo lusso principesco. A otto anni entrò nel Convento di Fontevrault dove una zia paterna era badessa e dai tredici ai sedici passò a compire la sua educazione di gran dama in un altro convento riserbato alle grandi famiglie francesi, nel quale le nobili fanciulle avevano ciascuna una governante e una cameriera addette alla propria persona. Uscita di là, sempre secondo le abitudini del secolo, le si annunciò che era fidanzata al conte di Beaumont, un ragazzaccio ignorante e di gusti volgari che sposò senza quasi conoscere e dal quale fece divorzio più tardi ritornando intanto a vivere nella casa paterna. Per il suo corredo si erano spese venticinque mila lire (moneta corrente) e le furono assegnate, come a sua sorella, diciotto mila lire annue di appannaggio. Uscita dalle peripezie di questo infelicissimo matrimonio dovette credere di aver fatto un cattivo sogno e di cominciare appena allora a vivere. Presso il padre, che ella adorava e di cui si fece in breve la confidente e la collaboratrice, Paolina raggiunse quella età fiorita della donna durante la quale ogni respiro è profumo, ogni attitudine seduzione inconscia. Non molto bella di volto avea però due occhi profondi, straordinariamente soavi, che ne illuminavano l’interessante pallore, e un dolce sorriso e una personcina snella, sottile, quasi fragile, quasi aerea, di una eleganza di Ninfa o di Ondina. Intelligenza pronta e vivace, avida di imparare, avendo il dono prezioso dell’entusiasmo e dell’ammirazione, trovò subito nella società eletta che frequentava il salotto di sua madre di che soddisfare i suoi gusti e prendere interesse cogli amici di suo padre alle questioni politiche estere ed interne che già incominciavano a preoccupare la Francia sullo scorcio del secolo XVIII. Fu quello il periodo più brillante della sua vita, il suo breve Zènit che le permise di stringere amicizie onorevoli e durature. Nominata dama di Corte e vivendo nel gran mondo di un tempo che non aveva soverchi scrupoli di morale, la maldicenza non la intaccò che assai leggermente e senza poter addurre prove. Trovandosi così, nè fanciulla nè sposa, ella trascorreva la sua esistenza di crisalide nel tepore degli affetti domestici, attendendo alle pratiche per il suo divorzio. Maturavano intanto i germi della rivolta nelle classi popolari. I nobili erano malvisti, specialmente quelli che stavano accanto al trono. La posizione del conte di Montmorin, notoriamente amico del Re, era delle più difficili. Egli vedeva il pericolo, ma devoto alla sua fede dinastica non tremò e non cedette nemmeno quando, avvicinandosi la bufera gli amici lo consigliavano di mettersi al sicuro. «Convengo — egli diceva — della verità delle vostre osservazioni, ma nessun pericolo personale mi impedirà di fare tutto ciò che credo utile a Sua Maestà.» Questo attaccamento leale e fermo il ministro degli esteri doveva pagarlo colla strage di tutta la sua famiglia e col proprio martirio. Gli avvenimenti incalzavano rapidi e truci. Quando si seppe della fuga di Luigi XVI a Varennes, il popolo, giudicando complice Montmorin, ne assalì il palazzo domandando la sua testa. Le teste rotolavano allora sulle piazze di Parigi come palle da bigliardo e le teste si chiamavano Andrea Chénier in attesa di essere l’ultima dei Re Capeto. Che fosse in quei giorni la vita della contessa di Beaumont è facile immaginare. Datano da allora i principii della malattia di languore che non doveva più abbandonarla. Il pianto, l’insonnia, l’inquietudine, lo spavento di tutte le ore, di tutti i momenti passati a fianco di quel padre a cui la legava il più tenero affetto, minavano il lei l’essenza stessa della vita. Nel tetro inverno del 1792 quasi all’appello di una Nemesi implacata cade la prima vittima della famiglia. Il minore dei figli, Augusto, partito per l’Isola di Francia in qualità di Insegna di Vascello muore in un naufragio. Paolina, di cui era il beniamino, ne è inconsolabile. Non prevedeva l’avvenire! Le condizioni del monarca intanto erano peggiorate e con esse quelle del suo ministro, Luigi XVI debole, pusillanime, sempre indeciso trascinava nella sua disgrazia la disgrazia dei suoi fedeli. Non vi era più sicurezza per nessuno; le signore della famiglia Montmorin furono insistentemente pregate di abbandonare Parigi che non era più posto per donne. Lo stesso conte aveva dovuto allontanarsi dalla sua abitazione e viveva nascosto in Parigi, ma ricercato attivamente fu scoperto per un’imprudenza della sua albergatrice, arrestato e sottoposto a uno di quegli interrogatori _pro forma_ di cui si hanno larghi esempi nei processi del tribunale rivoluzionario. Il ministro, l’amico del Re, doveva aver torto e lo ebbe. Ciò che avvenne immediatamente dopo la sentenza la mia penna si rifiuta a scrivere. Se il lettore vuole averne un’idea ricordi l’obbrobrioso supplizio della principessa di Lamballe. Non un particolare della infame tragedia potè restare ignoto alle signore di Montmorin. Rifugiate le misere insieme al figlio superstite in un maniero di Borgogna presso la contessa di Serilly loro cugina vi poterono rimanere nascoste un po’ di tempo e piangervi in silenzio tutte le loro lagrime. Alcuni amici ci venivano di notte a portar loro notizie di Parigi sempre allagata di sangue; era una tristissima vita, ma dall’essere tutti riuniti nello stesso dolore ne veniva a ciascuno una tregua se non un conforto, ma fu breve riposo. La infedeltà di un servo denunciò i fuorusciti al tribunale rivoluzionario e il giorno appresso venivano arrestati. La contessa di Montmorin, che in seguito allo strazio del marito non faceva altro che invocare la morte liberatrice, appariva calma; sua figlia maggiore, la contessa della Luzerne, pazza di terrore era corsa a rinchiudersi nella propria camera dalla quale fu estratta a forza. Anche Paolina si presentò, ma i manigoldi colpiti dalla sua magrezza, dal suo languore, dalla sua trasparenza d’ombra non volevano incaricarsene. Ella salì egualmente sulla carrozza che doveva trasportarli tutti; quando però furono in aperta campagna (compassione o crudeltà raffinata?) la fecero discendere suo malgrado. Si pensi lo strazio della poveretta abbandonata sola sul margine di una strada, vedendo allontanarsi la carrozza che trasportava i suoi cari verso la morte. Simili ore equivalgono ad anni nella misura del dolore che una creatura umana può sopportare. Quanto tempo errò ella e come e dove non sappiamo, finchè potè trovare rifugio nella capanna di un povero vignaiuolo. A Parigi intanto sua sorella assalita da febbre violentissima fu trasportata nell’ospedale delle prigioni dove moriva quasi subito; il domani la contessa di Montmorin e il figlio Calisto eroicamente forti dinanzi alla morte salivano i gradini della ghigliottina. E venne un altro inverno, rigido, crudissimo e nella capanna del buon vignaiuolo la Niobe desolata dei Montmorin, affranta, disfatta, colla visione terrorizzante del passato e quella paurosa dell’avvenire, si trascinava a stento dal letto al focolare. Un suggello che era stato eseguito per lei negli anni migliori recava incisa una quercia col motto: — _Un souffle m’agite et rien ne m’ebranle_ — Sembrava veramente un miracolo che fosse ancora al mondo. Ad alleviare la sua solitudine due vecchi domestici, marito e moglie che si trovavano da trentacinque anni al servizio della sua famiglia vennero a raggiungerla e a dividere con lei la mala sorte. Confiscati tutti i suoi beni, parenti ed amici o dispersi o perduti, ricoverata dalla pietà di un contadino, vivendo stentatamente colla vendita di pochi gioielli che erano rimasti, ben di lei si può dire coi versi dell’Aleardi: «Oh mia povera bella e tu nascevi «tra i felici del mondo; oh va, ti fida «nelle promesse d’una culla d’oro!» Mentre tutto sembrava perduto e nessuna speranza più sorrideva all’infelice, la sorte le preparava la sola fortuna forse che doveva sorridere alla sua vita. Non molto lungi da quella capanna di Borgogna dove aveva trovato asilo la contessa di Beaumont-Montmorin viveva allora la maggior parte dell’anno uno degli uomini più intelligenti, più alti, più puri che avesse allora la Francia. Uscito da quella famiglia Joubert che doveva dare a Napoleone uno dei suoi migliori generali, quegli che Dio misericordioso pose sul cammino di Paolina si era foggiato, lungi dalla società, una sua vita tutta di pensiero e di nobili azioni. Il suo carattere era di una tale elevatezza morale, il commercio delle sue idee così vivace e pronto, il suo cuore così appassionato che non poteva più stare senza di lui chi una volta lo aveva conosciuto. La pietosa odissea della figlia di Montmorin era giunta all’orecchio di Joubert. Egli ne fu profondamente impressionato. Andò a trovarla e quel giorno fu per entrambi il principio di una nobile e bella e vera amicizia. È stato ripetuto tante volte non essere possibile amicizia vera fra due persone di sesso diverso che a me, strenua sostenitrice di idealità, non par vero di poter presentare questo esempio interessante. Joubert era allora ammogliato da pochi mesi e data la serietà dei suoi principi morali non è nemmeno da supporre che non amasse sua moglie, ma appunto perchè amicizia ed amore hanno principi e finalità diverse, l’uno può esplicarsi senza bisogno dell’altro. Certo nelle anime ardenti anche l’amicizia, quando nasce da una profonda simpatia spirituale, veste carattere di passione e questo fu precisamente il caso di Joubert. Anche il suo matrimonio in fondo era stato una buona azione, decidendosi egli a trent’otto anni e con una salute precaria a sposare un’orfana inconsolabile per poterle essere sempre vicino a consolarla. Un movimento di pietà fu pure quello che lo spinse verso madama di Beaumont e se la simpatia seguì rapida e vivace non dovette uscir mai dall’orbita spirituale nella quale si svolse tutta la sua vita. Fitta, più fitta che mai in quell’inverno del 1794 cadeva la neve sulla capanna del vignaiuolo e Joubert con passo alacre saliva il piccolo sentiero che molti anni dopo doveva guardare ancora con occhio commosso. Sono di Joubert i seguenti pensieri sull’amicizia: «Chi non vede i suoi amici dal lato più bello li ama poco». «Quelli che amano sempre non hanno tempo di lamentarsi e di essere infelici». «L’amicizia è una pianta che deve saper resistere ai periodi di siccità». «Vi sono persone che la morale non l’hanno altro che in pezza; non riescono mai a farsene un abito». «Se il mio amico è guercio io lo guardo di profilo». Leggendo questi pensieri si comprende quale raro e prezioso amico egli fosse e se in ognuno di esso è manifesta l’elevatezza del carattere, in quest’ultimo c’è tutta la sua originalità e la sua bonomia. Ma la contessa di Beaumont, che aveva così begli occhi, non era necessario guardarla di profilo. Si intesero e si unirono subito con tutti i legami di due intelligenze affini, l’una riboccante di pensieri e di meditazioni cresciute in solitudine; assetata l’altra di verità consolatrici. Joubert aveva trovato il suo vaso d’elezione, l’eco simpatica che si compenetrava delle armonie della sua anima e gliele rimandava in suoni celesti. Per la contessa di Beaumont il solitario di Villeneuve sur Jonne dovette essere come la voce che trasse Lazzaro dal sepolcro. A contatto di un’anima così alta, ricevendo a fiotti ininterrotti sul suo cuore assiderato il calore di un affetto delicato e profondo, ella rinasceva a poco a poco, riaffacciandosi alla vita. La lettura che era stata fino allora la sola ricreazione del suo spirito ricevette dalla scelta di Joubert una direzione più estesa e più sicura; essa le fu di grande risorsa nei brevi giorni e nelle lunghe sere d’inverno sotto la capanna del vignaiuolo. Un desiderio tuttavia la pungeva vivamente; non lasciò nemmeno passare la stagione dei geli che volle recarsi a Parigi per avere notizie dei parenti dispersi e vedere se fosse possibile di rientrare nel possesso de’ suoi beni e Joubert, sempre previdente, la raccomandò a un suo fratello che stava a Parigi. Ma quale impressione dovette farle la città, trasformata dal ferro e dal fuoco della rivoluzione! Le vie avevano cambiato nome, i più bei palazzi ridotti a ristoranti e a locande, nelle chiese profanate il berretto rosso piantato sopra un alabarda sostituiva la croce; nelle vetrine dei rivenduglioli si vedevano ornamenti sacri, tovaglie d’altare, statue, vecchi messali. Con quale emozione Paolina si accostò al palazzo Montmorin saccheggiato completamente! Del giardino rimaneva appena un cipresso che lei stessa aveva piantato da fanciulla. Nelle poche settimane che si fermò a Parigi ebbe la consolazione di ritrovare sua cugina di Serilly scampata alla ghigliottina per la presenza di spirito della contessa Montmorin la quale nel giorno stesso dell’arresto dichiarò che sua cugina era incinta. Salvandole così la vita la contessa Montmorin aveva pagato l’ospitalità concessa a lei e alla sua famiglia. E di nuovo la contessa di Serilly volle che Paolina tornasse presso di lei a attendervi la restituzione di parte almeno dei suoi averi. Fu un periodo di calma relativa alternato di scoraggiamenti e di invincibili tristezze. Il passato era stato troppo atroce; non poteva dimenticare. Passeggiava senza piacere, leggeva senza interesse. Un male sottile rodeva la sua salute che era sempre stata delicata; la voce le usciva fievole e tremante come dinanzi ad una visione continua di terrore. Joubert raddoppiava le sue cure, ma senza frutto. Una domanda la tormentava insistentemente. Che cosa faccio al mondo? Poco tempo dopo le venne a mancare anche sua cugina Serilly e parve che sulla sua solitudine si rinchiudesse la porta di bronzo del destino. Il secolo finiva. Sul principio del 1800 Paolina si stabilì a Parigi indottavi dalla necessità di sorvegliare da presso i suoi affari. Un grazioso appartamento della rue Neuve du Luxembourg la accolse e ben presto nel piccolo salotto azzurro illuminato da una sola lampada, sacrario di memorie a cui i vecchi fedeli domestici testimoni degli antichi splendori della famiglia conservavano quel carattere di _ancien régime_ che la repubblica stava cancellando dovunque, accorsero a poco a poco amici e conoscenti che si credevano perduti nell’uragano della rivoluzione, formando un cenacolo ristretto ma omogeneo dove si parlava di tutto fra persone sicure. Un emigrato, amico di Joubert narrava il suo soggiorno di profugo a Londra e l’incontro che vi aveva fatto con un uomo di straordinario ingegno. Ascoltato con molto interesse da quel pubblico nuovo e attento non stancavasi di narrare le loro scorrerie nei campi e il ritorno a notte alta per vie solitarie, alla luce tremolante di qualche raro fanale, discutendo sui più alti problemi dell’anima, entrambi entusiasti, entrambi rapiti in quei voli divini dello spirito che danno sì belle ore alla giovinezza. Questo amico stava per arrivare a giorni dovendo mettere alle stampe un libro magnifico. L’amico era il visconte di Chateaubriand, il libro _Atala_. Chateaubriand aveva allora trentadue anni. Era bello. Era sopratutto fascinatore per temperamento, per bisogno di essere amato, per una segreta voluttà di dominio che specialmente ne’ suoi rapporti colle donne si avvantaggiava di uno sguardo magnetico. Un uomo può credere di conoscere a fondo un altro uomo, ma vi sarà sempre una donna che lo conosce meglio, vale a dire da quel punto di vista in cui l’uomo non si mostra mai al suo simile e che è una metà almeno della sua psiche. Si aggiunga che Chateaubriand tornava da un lungo viaggio in terre sconosciute; il deserto svolgeva ancora davanti a’ suoi occhi solitudini smisurate; il vento portava ancora alle sue nari il profumo dei cactus e dei tamarindi. C’era intorno a lui, nella sua persona, nel suo modo di esprimersi la rivelazione di una forza selvaggia acuita dai ricordi dell’infanzia trascorsa in Bretagna nel tetro castello paterno, sugli scogli battuti dall’oceano, nelle foreste abitate dagli elfi e dai gnomi delle antiche leggende. Questo è l’uomo che Joubert presentò nel piccolo salotto azzurro e come poteva egli non fare una profonda impressione su Paolina la cui sensibilità era stata scossa fino allo spasimo? Si trovava appunto in quella età della donna che è come il meriggio per un fiore; e non aveva ancora amato! Dal suo infelice matrimonio era uscita offesa, brutalizzata a guisa di farfalla nelle mani di un tristo ragazzo e per il seguito delle sue sventure non credeva, non sperava più nulla. Che era mai quella luce nuova, quel palpito non mai provato, quel rinascere alla vita quando la potente individualità di Chateaubriand apparsa nel piccolo salotto col suo bagliore astrale, col suo fuoco di vulcano in ebollizione ricondusse ogni valore alle minime proporzioni tanto che ognuno si ricantucciò modestamente, spontaneamente dinanzi a quella regalità assoluta? Non era più il salotto della contessa di Beaumont, era il salotto di Chateaubriand. Paolina potè credere sulle prime di cedere anche lei al pari di tutti gli altri all’ammirazione per l’uomo singolare; la sua mente, nutrita di buone letture si estasiava al suono musicale delle di lui parole, alla magia dello stile che nelle pagine di _Atala_ e di _Réné_ lette fra un silenzio religioso evocava in frasi luminose ed ampie i cieli dorati dell’America, gli aromi intensi delle foreste vergini, i venti che scuotono sui tramonti color di rosa le ghirlande delle liane. Nella sincerità del suo entusiasmo ella confessava ad un’amica: «_Le style de Mr. de Chateaubriand me fait éprouver une espéce de fremissement d’amour: il ìoue du claveçin sur toutes mes fibres_». Noi la vediamo questa giovane donna un po’ languida, un po’ patita, ma così seducente nel suo pallore, con quei begli occhi oblunghi che i patimenti avevano reso più teneri come una fiamma velata di pianto; la vediamo con un bianco scialle incrociato sul suo vitino di fanciulla, protendersi graziosamente dalla poltrona per non perdere una sola parola dell’incantatore. Ma che cosa saranno stati i loro colloqui quando si trovavano soli! (egli andava da lei in principio tutti i giorni poi due volte al giorno). Il salotto azzurro era ben chiuso. Saint Germain e sua moglie attraversandolo con passo discreto avevano messo in bell’ordine i mobili d’acaìou, le porcellane fine, la coppa arabescata a fondo oro, i quadri, i ritratti, tutte le care memorie che contribuivano a dare a quel nido provvisorio l’aspetto signorile dell’ambiente in cui era nata. Le finestre prospicenti il giardino del Ministero di Giustizia tendevano una cortina di fresco verde fra quel dolce asilo e il mondo; l’ora felice suonava sul quadrante misterioso del tempo: «_Mr. le Vicomte de Chateaubriand_» annunciava con un inchino rispettoso il buon Saint Germain. Che balzo nel cuore di Paolina! Il colpo di fulmine aveva mirato preciso e toccato a fondo; la creatura devastata dal dolore e che si credeva insensibile ritrovò fede, entusiasmo, illusioni, sogni, tutto ciò che rende bella la vita. La passione la trasformava ed ella vi si gettò senza scrupoli e senza ipocrisia. E Chateaubriand? Il più acuto dei suoi critici dice che egli amava allo stesso modo di Giove o di Luigi XIV. Io non mi sento di discutere questo paragone. È però certo che uomini della tempra di Chateaubriand non possono darsi interamente a nessuna donna ed a nessuno. È troppo vasto il mondo che hanno dentro di loro. Dice ancora il critico eminente: «Ciò che voleva Chateaubriand nell’amore era meno l’affetto della tale o tal altra donna che l’occasione del turbamento e del sogno; non era tanto la persona che egli cercava quanto il ricordo, il rimpianto, il crollo della propria giovinezza, l’adorazione di cui si sentiva oggetto, il rinnovamento di una situazione cara. Ciò che si chiama l’egoismo in due restava per lui l’egoismo a uno solo. Egli teneva a sconvolgere e a consumare più che ad amare». Se questo ritratto è vero anche solamente in parte si comprende come la forte individualità di Chateaubriand abbia potuto interessarsi alle fragili grazie della contessa di Beaumont. Non fosse altro per legge di contrasto, egli che tornava dalle rudi esperienze di un lungo viaggio in mare e di soste non meno lunghe in paesi selvaggi, doveva subire il fascino delicato fino alla raffinatezza di quella gran dama superstite di una società scomparsa. Egli l’amò certamente, sia pure alla sua maniera, ma non è questa la maniera di una quantità di uomini che pure non sono Chateaubriand? _Atala_ venne pubblicata nella primavera del 1801. L’autore era pressochè sconosciuto; solo un piccolo gruppo di iniziati aveva avuto occasione di conoscere i lampi e le folgori di quel forte ingegno, ma per la stessa selvaggia originalità contrastante col gusto allora caro al pubblico di una letteratura artificiosa e vuota si temeva un possibile insuccesso. Paolina più di chiunque visse le ansie e i timori dell’aspettativa comunicandoli a Joubert, a quell’alta anima pura che amando lei di un affetto superiore ad ogni calcolo umano s’era messo per amor suo ad amare Chateaubriand. Se Chateaubriand rappresentava la felicità di Paolina, Joubert doveva necessariamente desiderarne il trionfo. Questo venne e fu completo; sorpassò anche la previsione degli amici; la singolarità di quel libro anzichè nuocergli piacque. A noi italiani può interessare il fatto che, per tre edizioni inglesi, due tedesche e due spagnuole, nella nostra lingua se ne fecero sette. Il successo accese in Chateaubriand una febbre di lavoro. Volle terminare il _Genio del Cristianesimo_ già incominciato a Londra, e vagheggiava un posto tranquillo dove potesse lavorare lungi dai rumori e dalle distrazioni di Parigi; ed ecco la donna amante mettersi alla ricerca dell’eremo desiderato. Fu nel bel mese di maggio, quando fiorivano le rose sulle spalliere solatie e la vite gonfiava le sue prime gemme che i due partirono per Savigny, piccolo villaggio non lungi da Parigi; partirono ebbri dei loro sogni, sogni di gloria per l’uomo, di tenerezza e d’amore per la donna; ma così giovani entrambi e così nuovi nella loro gioia che potevano credersi due scolari in vacanza. Rimangono le lettere di Paolina a Joubert per testimoniare l’armonia ininterrotta di un periodo che fu di vera felicità. Quel leggero alzarsi al mattino, quella gaia colazione presa insieme e poi il lavoro condiviso seduti alla stessa tavola, quello scambio di sguardi e di parole ad ogni momento non è forse la vita ideale che ogni donna sogna? Alla sera erano brevi passeggiate nei dintorni per verdi vallette, per sentieri solitari. Prima di rientrare sedevano nell’orto presso un bacino d’acqua viva, e in quel silenzio, in quella luce morente, guardando le prime stelle che si accendevano nel firmamento ella narrava colla sua voce languida il primo disinganno del disgraziato matrimonio e gli orrori della rivoluzione fino al giorno in cui i carnefici della sua famiglia l’avevano abbandonata sulla strada, sola, senza difesa. Ma più del racconto delle proprie sventure ella preferiva ascoltare da lui i ricordi originalissimi della sua infanzia, la sua emigrazione, i suoi viaggi. La luna intanto sorgendo sul loro capo segnava nelle vie del cielo l’eterna storia degli uomini. Pensava Paolina che il tempo non si arresta mai? Venne il mese di dicembre e fu necessario abbandonare la casetta di Savigny. Il _Genio del Cristianesimo_ era finito e le ansie per il successo ricominciavano, ma Paolina non era più sostenuta dalla dolce intimità di Savigny. Qualche cosa si scioglieva intorno a lei, sotto i suoi occhi che non vedevano ancora, ma che indovinavano; coll’acuta sensibilità de’ suoi nervi ammalati avvertiva l’avvicinarsi di un pericolo ignoto ed egli non era più là per rassicurarla. Egli doveva occuparsi della nuova pubblicazione e coltivava a questo scopo un progetto che le tenne nascosto più che fosse possibile. Volgendo gli occhi al nuovo astro che sorgeva sulla Francia Chateaubriand volle dedicare il suo libro a Napoleone e tale manovra copriva un primo passo per ottenere la nomina di capo segretario nell’ambasciata presso la Santa Sede a Roma. Ma vi era un ostacolo da rimuovere prima di presentarsi a S. S. il Papa. Chateaubriand tra i viaggi e le avventure aveva dimenticato di essere marito. Congiunto già da dieci anni con incredibile leggerezza ad una fanciulla che quasi non conosceva egli non l’aveva più vista da allora. Una riconciliazione era necessaria, fosse pure apparente, e per conseguenza un viaggio in Bretagna dove la Signora di Chateaubriand trascorreva rassegnata la sua bizzarra vedovanza. Quando la Contessa de Beaumont fu informata da Chateaubriand stesso che le chiese consiglio sul viaggio in Bretagna, ella molto dignitosamente lo incitò a seguire le vie consuete; ma, più il rispetto di se stessa le imponeva di rimanere calma, più la lotta interna la attanagliava con raffinati supplizi. Il salotto azzurro si riaperse ai soliti amici, ma era come un tempio vuoto, mancava il dio animatore. La tristezza di Paolina cresceva di giorno in giorno. Se la felicità gustata per sette mesi a Savigny (sette mesi o un istante?) aveva risollevata la sua salute, l’amaro rimpianto del passato, l’inquietudine dell’oscuro avvenire la gettarono in uno stato di prostrazione che rincrudì i suoi mali. Joubert ne soffriva con tutta la sincerità del suo affetto ardente e puro; avrebbe voluto che si recasse al Mont d’Ore. Ma il male di Paolina era troppo profondo; esso si attaccava a una stanchezza, a un disgusto della vita che nel terrore di doverla sopportare ancora a lungo confidava al suo giornale intimo questi gridi che sono vere confessioni di un’anima ferita a morte. «_Si je dois exister encore longuetemp que deviendrai-je? Ou me cacher? Quel tombeau choisir? Comment empecher l’éspérance d’y penetrer? Quelle puissance en murera la porte? M’eloigner en silence, me laisser oublier, m’ensevelir pour jamais tel est le devoir qui m’est imposé et que j’espère avoir le courage d’accomplir._» Chateaubriand intanto che era partito per Roma nel maggio di quel 1803 le scriveva regolarmente, ebbro del suo viaggio e della sconfinata ammirazione per Roma delle cui meravigliose bellezze sentiva il fascino esaltatore. Non è sempre felice chi parte in confronto di chi resta? E se colui che parte per il più bel paese del mondo è ricco di salute e di energie, di speranze, di promesse e la povera abbandonata in preda a un male inesorabile si aggira sola nei luoghi dove furono felici insieme, dove ogni oggetto è come una croce piantata sopra una fossa, non devono quegli entusiasmi, quelle estasi, quella felicità lontana da lei trafiggerla di mille punte avvelenate? Egli le parlava del Colosseo, del Campidoglio, della superba grandezza romana e lei piangeva nel piccolo salotto azzurro pensando ai bei giorni di Savigny. L’uomo saliva ardimentoso la sua parabola di gloria, la donna si reclinava sul suo sogno d’amore distrutto. Eppure amava ancora. Amava coll’appassionato trasporto degli amori tardivi che sembrano concentrare in se i sogni, i desideri, le rinuncie del passato; tesori d’affetto accumulati dall’esperienza, tenerezze tanto più ardenti quanto si sentono fuggitive. Il proposito di nascondersi, di murarsi in una prigione dove la ingannevole speranza non potesse penetrare si sgretolò nelle sue mani stanche. Mostrando di cedere alle esortazioni dell’amicizia ella partì per la cura del Mont-d’Ore, ma pochi giorni dopo prendeva la via di Roma. Chiunque pensi che cosa erano i viaggi allora e quanti disagi e fatiche comportassero, può di leggeri comprendere i timori e le inquietudini del buon Joubert per l’avventata risoluzione della sua amica. Chateaubriand che ve l’aveva incoraggiata, sperando bene per lei dal clima di Roma, incaricò un amico di andare ad incontrarla a Milano per alleviarle la lunghezza dèi viaggio ed egli stesso si portò a Firenze a riceverla. Quando la vide rimase atterrito; non era più che un’ombra. La vettura procedeva al passo ed ella scorgendolo ebbe appena la forza di sorridere.... Presero insieme la via di Perugia e da quel momento, se pure egli non era stato l’amante che una simile donna meritava, fu fino all’ultimo il gentiluomo perfetto, l’amico assolutamente devoto. Roma apparve loro in fondo a quella meravigliosa via Appia i cui silenzi ripetono nella vastità luminosa dell’orizzonte l’eco di venti secoli di storia. Oh! come la pallida donna, i giorni della quale erano già contati, dovette sfiorare con mesti sguardi la muta poesia delle tombe! E come nell’afflosciamento della persona esile e stanca sui cuscini della vettura la piccola mano avrà palpitato sotto la mano cara! L’appartamento che Chateaubriand aveva scelto per la contessa di Beaumont si trovava in piazza di Spagna, presso la viuzza di S. Sebastiano ed aveva un giardino piantato ad aranci che saliva verso il Pincio ricongiungendosi probabilmente all’aranceto dell’attuale Hôtel de Russie. Il viaggiatore che visita ora piazza di Spagna e si sofferma a leggere l’iscrizione lapidaria della casina dove abitarono i poeti Shelley e Keatz e forse ricorda i versi di Keatz: «Oh dove sono i canti «di primavera, dove?». deponga un fiore di memoria là dove chiuse sua breve vita questa dolce e malinconica figura di donna per la quale il primo canto fu il canto del cigno. Scendendo dalla vettura ella era così affranta che non poteva reggersi in piedi. I medici giudicarono subito che non vi era speranza di salvarla; il polmone profondamente leso non la lasciava respirare che a stento. Parve tuttavia che riposata dal viaggio faticoso si risollevasse tanto che nelle ore migliori potè uscire qualche volta in carrozza sotto i lecci di Villa Medici, intorno alle fontane di Villa Borghese, verso le meraviglie dell’antica Roma per le quali Chateaubriand le era il più prezioso degli interpreti. Egli la circondava di speranza e di tenerezza, parlando di condurla a Napoli, dare di là le sue dimissioni all’Ambasciata e non lasciarsi più, esuli volonterosi in qualche eremo lontano dove vivrebbero soli col loro amore. Cullata dal suono di quella voce che l’incantatore sapeva in certi momenti rendere irresistibile, la donna prossima a sparire beveva avidamente gli ultimi profumi della terra colle ultime illusioni del cuore. Gli indifferenti che la vedevano passare appoggiata ai cuscini della carrozza, in una di quelle pose di suprema distinzione di cui ella possedeva il segreto, delicatamente ravvolta nel suo cachemir a fondo bleu e così smunta, così immateriale, si sentivano presi da un istintivo sentimento di compassione. Un giorno andando al Colosseo prese freddo; ricondotta subito a casa si pose a letto e non si rialzò più. Il momento della separazione fu straziante, dolce insieme e doloroso. Chateaubriand sentendo il valore dell’affetto che stava per perdere fu eloquente, appassionato. Riandarono insieme i bei giorni di Savigny, piansero; egli giurò di amarla sempre e questo ritorno dell’ora divina illuminò di un sorriso celeste la sua agonia. Fu Chateaubriand che posandole la mano sul cuore ne raccolse l’ultimo battito. L’autore del _Genio del Cristianesimo_, il segretario dell’Ambasciata francese presso il Santo Padre non poteva lasciar morire senza i conforti religiosi la figlia di colui che era stato ministro del suo re. Egli stesso l’aveva persuasa al passo estremo. I Sacramenti le furono portati con tutta la solennità della chiesa Romana e solenni riuscirono anche i funerali la sera del cinque novembre al lume delle torce, con grande concorso di popolo e di rappresentanze ufficiali. Un particolare delicato e commovente è che nessuna mano profana toccò la salma di Paolina. Ella aveva raccomandato nel suo testamento di ravvolgerla in un tessuto di crespo della China che il di lei fratello Augusto le aveva spedito dai suoi viaggi per farsene un abito da ballo. Questo tessuto che portava sempre con sè fu cinto dalla fedele S. Germain e da Chateaubriand stesso intorno al fragile corpo. Il dolore di Chateaubriand fu sincero. Egli chiese alla famiglia (oramai rappresentata dal solo conte della Luzerne cognato di Paolina) il permesso di prendere con sè i due vecchi domestici dell’amica perduta; a questo pensiero di una gentilezza squisita egli aggiunse l’altro di avocarsi la cura per erigerle un monumento nella chiesa di S. Luigi dove fu sepolta. Lo si trova infatti nella prima cappella a sinistra entrando; non so come l’abbiano giudicato i contemporanei, per me fu una completa delusione. Quei ritrattini che dovrebbero rappresentare le tragiche figure della famiglia Montmorin appesi alla parete come fotografie nel salotto di un piccolo borghese, sono una concezione così goffa e puerile che fanno pena a vedersi. Ma anche l’iscrizione dettata da Chateaubriand non è quale si avrebbe potuto attendere dal suo ingegno e dal suo cuore. APRES AVOIR VU PÉRIR TOUTE SA FAMILLE, SON PÈRE, SA MÈRE, SES DEUX FRÈRES ET SA SŒUR, PAOLINE DE MONTMORIN CONSUMÉE D’UNE MALADIE DE LANGUEUR, EST VENUE MOURIR SUR CETTE TERRE ÉTRANGÈRE. I-A DE CHATEAUBRIAND A ÉLEVÉ CE MONUMENT À SA MÉMOIRE! Meglio gli si perdonerebbero le facili consolazioni che egli trovò pochi mesi dopo, se nella eternità del marmo avesse saputo scolpire una di quelle frasi alate che facevano fremere Paolina quando egli le leggeva le pagine dell’_Atala_ e di _René_. Un altro cuore meno immaginoso, ma non meno ardente ed infinitamente più serio doveva portare il lutto eterno di quella perdita, Joubert, che da quando ella decise il viaggio a Roma non aveva cessato un sol giorno di addolorarsi e di tremare per la salute dell’amica, che aveva rotta ogni corrispondenza e non apriva nemmeno quelle che riceveva, indifferente a tutto che non fosse lei. Quando fu morta scrisse a un amico: «Non vi dico nulla del mio dolore, esso sarà eterno. Chateaubriand la rimpiangerà sicuramente al pari di me, ma gli mancherà meno a lungo. Da nove anni io non avevo avuto un pensiero dove ella non vi si trovasse e lo stesso sarà per l’avvenire; il suo ricordo e il dolore della sua assenza si congiungevano ad ogni azione della mia vita.» Profeta per sè e per gli altri vent’anni dopo egli cercava ancora sulla collina il sentiero che guidava alla capanna dove la dolce amica aveva cercato rifugio nei giorni del Terrore e lo mostrava a Chateaubriand; ma Chateaubriand stava scrivendo le _Memorie d’oltre tomba_, questo bellissimo romanzo della sua vita, dedicandolo, quasi riassunto di tutti i suoi amori, ad una donna sola affinchè ella passeggiando fra le colonne di quel tempio che egli le aveva eretto vi incontrasse il proprio nome. E non era il nome di Paolina di Beaumont. EMMA LYON. Ricordo perfettamente in _Trafalgar square_ la statua di Nelson ritta sulla altissima colonna dalla cui vetta piramidale domina tutta Londra a fianco delle torri di Westminster, quale aquila librata al di sopra di ogni miseria umana; e ricordo me, misera formichetta appoggiata a quell’eccelso monumento, ripensare ancora una volta come già pensai tante altre all’acuto e turbante problema dell’amore nei grandi uomini. Tutte le osservazioni da me fatte in proposito mi guidarono alla conclusione che i grandi uomini dinanzi al mistero dell’amore sono eguali agli uomini medî, ed anche ai piccoli uomini, cioè ciechi. Esiste, è vero, qualche eccezione; ma l’eroe di Trafalgar non parmi fra queste. Gli amici (chi non ne ha?) trovarono crudele la fermezza del governo inglese a non voler riconoscere nessuno dei meriti che Emma Lyon accampava alla riconoscenza della nazione, non escluso quello di essere stata l’amante di Nelson. Ma, Dio mio, dove si anderebbe a finire se si dovesse tener conto di tutte le donne che si sono trovate sulla strada di un grande uomo? Ci sarebbe il rischio di vedere duplicati e magari triplicati un bel giorno i monumenti di tutti i paesi del mondo. Uno spavento. Non ammetto neppure la poetica trovata della donna ispiratrice. La donna, certo, può ispirare, ma non diversamente di quel che ispirarono ai poeti d’ogni tempo la luna, le stelle, il mare, i fiori. Ispirazione, sì, purchè si intenda inconscia. La forza dell’amore, non bisogna dimenticarlo, sta sempre in colui che lo sente, non nell’oggetto che lo ispira. Voi non siete la Iddia ma il nudo altare dice poco galantemente alla donna ma con profonda verità un poeta moderno. Vediamo ora come fosse l’altare sul quale il grande Nelson accese la sua fiamma. Nascere in un villaggio sconosciuto da poveri parenti, condurre un asino al mercato e attendere ai più umili uffici non è tale fatto che possa influire sui destini di una donna. Giovanna d’Arco, Santa Genovieffa, tante altre che ometto per brevità non cominciarono in modo diverso la loro vita gloriosa. Solamente, come dicono i francesi, _il y a falot et falot_. Noi si potrebbe tradurre: Tutto dipende dalla qualità del legno. Passando di servizio in servizio Emma mette a dura prova la pazienza delle sue padrone. «Nessuna regolarità nel disimpegno, nessuna coscienza nel lavoro, nessuna cura della persona. Quando ella aveva stracciate le calze alle spine delle siepi ne riuniva i buchi con uno spillo e questo era il suo modo di aggiustarle». Troviamo tale particolare molto intimo nel libro recente di Fanchier-Magnon: _Lady Hamilton_. Ecco, sono persuasa che la maggior parte degli uomini a cui caddero sotto gli occhi queste parole non vi fecero nessun caso; ma io lo domando alle madri, alle educatrici, a tutte le donne che dirigendo una famiglia ed un istituto fecero lunga esperienza del carattere delle fanciulle, domando loro se quelle calze rattoppate con uno spillo non sono decisamente sintomatiche per l’avvenire di Emma. Invano una signora si adopera a educarla, a correggerla, a ispirarle buoni sentimenti. Prima ancora di compiere i quindici anni Emma entra nella vita galante, seguendo una irresistibile vocazione, la sola vocazione che avesse. E anche qui è da osservare che nessun slancio di passione, nessuna illusione sentimentale la trascina al primo passo. Ella cade nelle braccia di uno qualunque, per ricompensarlo di un servigio reso, senza annettere importanza a sì piccola cosa. Non c’è neanche lo svolgimento di una relazione amorosa; pochi mesi dopo tutto era finito salvo la nascita di una bambina; e appena appena convalescente, per non perder tempo, accetta le offerte di un vecchio signore. La madre di Emma approva, pare, la carriera prescelta poichè salvo rare eccezioni le due donne non si abbandonarono mai dando, se si vuole, un esempio edificante di affetto materno e filiale. In casa del signore dove c’è baldoria tutto l’anno Emma si trova nel suo elemento. È là che incomincia a sviluppare l’attitudine al canto ed alla musica che dovrà servirle più tardi per brillare in società. Anche la sua bellezza prende un rigoglio maggiore. Tranne i capelli bruni raramente attribuiti alle inglesi, ella rappresenta il tipo classico della sua razza; eleganza di forme, perfezione di lineamenti, colorito di gigli e di rose, occhi di quell’azzurro cupo che noi troviamo solamente nei romanzi e sorriso d’angelo. Romney, Reynold, la Vigée Lebrun, Angelica Kauffmann, Romney soprattutti che le fu ardente ammiratore, si ingegnarono a trasmetterci una bellezza chiamata a’ suoi tempi divina, ma forse non riuscirono completamente nell’intento. Vi sono nelle fisonomie, molto più trattandosi di fisonomie mobili e cangianti come era appunto quella di Emma Lyon, raggi e baleni che il migliore dei pennelli non riesce a fissare sulla tela. Ad onta di tali pregi il vecchio signore si stancò anch’esso di Emma e, semplicemente, come un servitore che non accomoda più, la licenziò. Ella aveva peraltro conosciuto in quella casa un nobile di gran famiglia e di mezzi ristretti che si chiamava sir Greville, che aveva gettato gli occhi su di lei per raccogliere la successione del vecchio e che, astuto e freddo, aspettava senza impazienza il suo turno per averla alle migliori condizioni possibili. A questo punto si entra in un ordine di fatti così repugnanti che l’immoralità della donna ci appare quasi la fioritura mostruosa ed inconsapevole di un letamaio. È inutile seguire passo a passo il cammino di Emma che si fa chiamare per turno Lyon, secondo la sua nascita, o Hart per tentare di nascondersi, ed è così governante di bimbi, commessa di negozio, cameriera, damigella di compagnia, modella di pittori e soggetto ricercatissimo per quadri viventi. Ma tutte queste diverse professioni non riuscendo di suo gusto ella volle rientrare nell’unica per la quale si sentiva proprio nata e scrisse e riscrisse al vecchio protettore il quale non si diede neppure la pena di rispondere. Allora rivolse le sue suppliche a sir Greville che la aspettava al varco e che trattandola un po’ altezzosamente, un po’ paternamente le promise il suo appoggio purchè si acconciasse docilmente a una vita modesta, senza lusso, senza divertimenti, chiusa in casa a esclusiva disposizione del nuovo proprietario. _Neppure una parola d’amore fu pronunciata._ Emma accettò, felice. L’ineffabile sua madre che ha pure sentito il bisogno di cambiar nome e di farsi chiamare la signora Cadogan le sta accanto in qualità di governante di casa. Tutto cammina sulle rotelle. Ma sir Greville aveva uno zio del quale doveva essere l’erede, lord Hamilton, ambasciatore inglese a Napoli. Tra i due uomini, quantunque uno avesse trentatre anni e l’altro cinquantacinque, correvano rapporti di reciproca simpatia come tra giovani camerati. Quando Hamilton venne a Londra, in congedo per qualche tempo, la casa di suo nipote gli venne aperta a due battenti ed egli non tardò a diventare l’amico della leggiadra creatura che ne faceva gli onori. Entusiasmato della sua bellezza, si pose in mente di correggerne l’educazione e se Emma non riuscì mai a imparare la grammatica fece invece qualche progresso nella musica, nella danza ed apprese alcune nozioni elementari che le permisero di rappresentare al vivo i capolavori dell’arte antica. Ella era a volta a volta Niobe, Cleopatra, Medea, trasformandosi in ciascuno di questi personaggi con un istinto meraviglioso della posa, servendosi d’uno scialle per tutto drappeggio. Lord Hamilton stava più che mai sotto il fascino. Incredibile a dirsi, il più felice dei tre era ancora sir Greville. Guidato unicamente dal proprio interesse egli pensava che fosse giunto per lui il momento di fare un ricco matrimonio, quindi di sbarazzarsi della donna che aveva in casa. Contemporaneamente, essendo l’erede presuntivo di suo zio, gli premeva assai che lord Hamilton ancora vegeto e robusto non si incapricciasse a sua volta di prender moglie, così pigliando due piccioni ad una fava decise di appioppargli la docile Emma per rallegrare il resto dei suoi giorni. Il piano, concepito con astuzia infernale, minacciò di naufragare per la inaspettata resistenza di Emma la quale trovandosi così bene a posto a Londra con un giovinotto non voleva persuadersi di andare a stare a Napoli con un vecchio e, secondo la sua abitudine, scrisse e riscrisse a Greville dicendogli che ella venerava e rispettava lord Hamilton ma che non lo avrebbe mai amato nello stesso modo che amava lui, Greville. Preghiere, scongiuri, minacce, tutto fu inutile. Emma, sempre seguita da sua madre, finì coll’andare a Napoli da lord Hamilton e il vecchio diplomatico innamoratissimo ebbe la faccia tosta di presentarla in qualità di vedova al corpo diplomatico il quale un po’ torcendo la bocca, un po’ ingoiando rassegnato una pillola che cadeva da tanta altezza, si arrese ad accoglierla. Molti chiamarono Emma Lyon una buona ragazza. Sì, ella aveva la bontà speciale delle creature del suo stampo, cioè una mancanza di volontà e una tale assenza di principî non dirò di morale ma neppure di dignità femminile che fece di lei una festuca mobile in balia degli avvenimenti. Non era passato gran che dalla sua convivenza coll’ambasciatore a Napoli ed ella dichiarava di amarlo come nessun altro al mondo. Buona ragazza fino all’ultimo, conservava una nutrita corrispondenza con Greville, chiamandolo caro amico e mettendolo a parte della felicità della sua nuova luna di miele.... Da questo momento un destino sempre più avventuroso si incarica di portare Emma ai più alti fastigi sociali. Sotto la protezione dell’ambasciatore inglese ella assiste alla caccia del re Ferdinando IV, si lega in amicizia colla duchessa d’Argyl, penetra nella migliore società, riceve i personaggi della corte. La sua bellezza conquista tutti. Infine lord Hamilton la sposa e sotto questo colpo inaspettato chi dovette rodere catene fu sir Greville al quale Emma con sottile veleno femminile scriveva: «Non potrò mai ringraziarvi abbastanza per avermi fatto conoscere il migliore uomo del mondo, colui che amo e che amerò sempre. Non potete immaginarvi come noi siamo felici. Credo vi farà piacere il saperlo». Feste, ricevimenti, pranzi, gite, una corona di adoratori, un marito che la sodisfa in ogni capriccio, un successo che va crescendo di giorno in giorno inebriarono la neo lady Hamilton. Ella fa un altro passo ancora e diventa l’amica inseparabile della regina di Napoli Maria Carolina. C’è, è ben vero, sopratutto dal lato degli inglesi, qualche intransigente puritano che non si piega alla fortuna insolente della bella avventuriera; ma sotto l’egida del marito, e coll’amicizia della regina Emma non se ne cura. Ella si crede oramai in diritto di osare qualunque cosa. Giunge intanto il famoso 10 settembre 1793, giorno in cui un naviglio inglese entra nella baia di Napoli col suo capitano Orazio Nelson incaricato di reclutare soldati per tener testa alle prepotenze dei rivoluzionari francesi. Impressionato dalle notizie di Parigi ove la ghigliottina funzionava su tutte le piazze, Ferdinando mosse ad incontrare colui che già il popolo acclamava come il salvatore d’Italia, e nell’odio contro i francesi Nelson, il re, la regina erano tutti d’accordo. Lady Hamilton si scoperse pure un odio simile ed entrò subito a far parte degli ammiratori di Nelson. Trionfando in quel momento la politica inglese la moglie dell’ambasciatore divenne il perno intorno al quale si aggiravano le nuove speranze. La regina la incoraggiava con tutte le sue forze. Emma poteva scrivere in quel torno a sir Greville: «Non abbiamo tempo di scrivervi perchè da tre giorni e da tre notti non facciamo altro che preparare lettere di importanza per il nostro governo». Eh? Chi se lo sarebbe immaginato! Meno di tutti sir Greville. In realtà questa figlia di contadini che si chiamava ora lady Hamilton si era gettata corpo ed anima negli intrighi politici servendo a vicenda Maria Carolina e Nelson il quale già stretto in viva amicizia coll’ambasciatore si sentiva più che mai avvinto dal fuoco che gli metteva l’ambasciatrice. Egli, uomo semplice, puro, un po’ ingenuo di quella rude ingenuità dell’uomo di mare abituato a vivere tra cielo ed acqua, egli religioso, egli che fino allora era stato tenero marito, credette di vedere in questa donna un essere straordinario, eccezionale. La sua riconoscenza si cambiò presto in amore e l’amore fu con pari slancio ricambiato. Lodandosi e ammirandosi a vicenda giunsero in uno stato di esaltazione visibile per tutti, tranne che per il marito. Lord Hamilton non si accorse mai di nulla e la sua cecità giunse al punto di accettare la vita in comune. La vittoria di Aboukir aveva messo Nelson sopra un tale piedistallo dal quale nessuno osava guardarlo altrimenti di come si guarda un eroe. Nelson non era un Adone. Piccolo, meschinello, calvo, aveva perduto un braccio all’assalto di Teneriffa e lasciato un occhio ad Aboukir. Ma Emma non amava in lui l’uomo. L’ambizione l’aveva ubriacata. Avendo per amica una regina era naturale che l’eroe del giorno dovesse essere il suo amante. Noi sappiamo del resto che per lei questa cosa aveva poca importanza. Maturavano intanto le congiure contro il trono dei Borboni. In seguito all’esempio di Maria Antonietta, sua sorella, la regina di Napoli si persuase della necessità di una fuga che pur tuttavia per l’ansia di mettere in salvo tutti gli oggetti di valore minacciò di eguagliare la misera fuga di Varennes. Lo zelo e l’energia di lady Hamilton riuscirono a salvare ogni cosa. Messo a posto sicuro il tesoro, nella notte che precede il Natale gli Hamilton, con Nelson s’intende, accompagnarono il re e la regina a Palermo, perseguitati da uno spaventoso uragano durante il quale lady Hamilton potè sviluppare dinanzi al suo eroe una serie di atti coraggiosi che poi si compiacque descrivere per lettera a sir Greville eletto suo corrispondente perpetuo. Gli arresti dei rivoltosi, la condanna di Caracciolo, ognuno dei fatti che segnarono quella pagina di storia italiana ebbero lady Hamilton a ispiratrice e consigliera. Congiunta oramai al destino di Nelson, acquiescente in singolare cecità il marito, questo terzetto sfila dinanzi all’Europa intera. Da Napoli a Palermo, da Palermo a Napoli, poi a Vienna, poi a Londra gli indivisibili vanno sempre insieme, non dandosi neppure la pena di salvare le apparenze. L’aristocrazia di Vienna tuttavia, più severa della napoletana, non fece buon viso a tanta impudenza e invano lady Hamilton sollecitò un invito a corte! Lentamente la fortuna incominciava a voltarle le spalle. Quella bellezza che aveva in particolar modo contribuito ai suoi successi subiva l’inevitabile insulto degli anni; le magnifiche forme si deformavano in una degenerazione adiposa. Chi la vide allora ebbe a giudicarla volgare e priva di distinzione. Solo i due mariti (chiamiamoli così) restavano sotto il fascino. A Londra intanto, nel ritiro austero della propria casa, nascondeva le sue lagrime la moglie abbandonata di Nelson. Quando la triade scandalosa entrò nella capitale inglese una grande folla di persone accolse il vincitore di Aboukir e gli inseparabili Hamilton. Ma la signora Nelson nessuno la vide. Spinta da un sentimento che è facile comprendere, la povera reietta volle appena mirare una volta la sua rivale e con questa intenzione si mescolò al pubblico nella serata di gala offerta in teatro ai reduci, ma appena scorse il marito seduto accanto a colei che glielo aveva tolto, svenne. Molti allora furono i commenti, si capisce, e non benigni. In seguito a ciò la signora Nelson restrinse ancor più il suo isolamento recandosi a vivere in campagna nella dignità di un silenzio assoluto. Ora trova posto un avvenimento che sorpassa in audacia tutti gli altri. Emma, portando in grembo un figlio di Nelson, se ne sgrava nella stessa casa del marito senza che costui si fosse accorto di nulla, nè prima, nè durante, nè poi. Un colmo! Qualche tempo dopo sua moglie e l’amico gli presentano una bambina che dicono di avere raccolta per carità e che per combinazione si chiama Orazia. L’ottimo lord Hamilton approva l’atto umanitario e così il terzetto si muta in quartetto con soddisfazione generale. Sempre d’accordo, quantunque le finanze comuni fossero un po’ sbilanciate, Nelson e gli Hamilton acquistano una proprietà incantevole in mezzo a verdi praterie dove scorre una specie di fiumicello in riva al quale l’ambasciatore passa gli ozi ben meritati a pescare colla lenza, mentre Nelson ed Emma continuano a filare il perfetto amore adornando tutte le pareti della nuova casa dei loro due ritratti in tutte le pose e in tutte le dimensioni. Nella piena serenità di questo idillio la morte coglie lord Hamilton. Egli spira tranquillo fra le braccia della moglie fedele e del leale amico. Ambedue lo piangono con una sincerità commovente; ma forse qualche lagrima la vedova spremette ancora quando, aperto il testamento, si trovò che l’erede era sir Greville e che a lei non restava che una misera pensione per non morir di fame. Era per l’avventuriera la disgrazia definitiva; per Greville una luminosa rivincita. Giunto finalmente in possesso di quel patrimonio al quale aveva agognato tutta la vita egli gettò la maschera di amico e di corrispondente schierandosi addirittura contro la vedova di suo zio. Da questo momento l’astro di Emma Lyon declina. Invano Nelson sollecita per lei ricompense e dal governo inglese e dalla ex regina di Napoli. Nulla ottiene. Nelle mani di Emma ciò che le restava della artistica grandezza sbriciolavasi ogni giorno in spese pazze e in un disordine completo. I debiti si accumulano, i creditori sono alla sua porta. Nelson, chiamato a nuove campagne, si strugge lontano da lei e le scrive lettere appassionate: «Cara sposa, buona e adorabile amica, che cosa non darei per esservi vicino! Possiamo almeno contare sull’avvenire che ci darà ancora molti giorni di felicità circondati dai figli dei nostri figli. Dio onnipotente potrà, quando il voglia, appianare ogni ostacolo». L’ostacolo, è bene saperlo, era la moglie di Nelson della quale si sperava prossima la fine. Invece però delle desiderate gioie domestiche l’ammiraglio è chiamato a nuove campagne. La gloriosa giornata di Trafalgar si prepara nel mistero di quell’avvenire che egli aveva diversamente invocato. Il 21 ottobre 1805, poche ore prima che tuonasse il cannone, Nelson incomincia il suo testamento, con una preghiera a Dio; poi raccomanda in caso di morte al Re e all’Inghilterra le sorti di lady Hamilton e della piccola Orazia. Infine termina con parole d’amore esaltato alla sua adorata Emma; ma la lettera rimase incompiuta. Chiamato dal primo colpo di cannone, l’ammiraglio prese il suo posto di avanguardia e poco meno di un’ora dopo cadeva colpito a morte. Nelson non era più, ma aveva salvato l’Inghilterra. Emma, che non seppe mai reggersi da sola, privata di appoggio rovinò rapidamente verso l’estrema miseria. I suoi ultimi anni furono un continuo combattimento coi creditori. Non potendo persuadersi di un crollo così completo della sua fortuna, ella che aveva brillato alla corte di Napoli come stella di prima grandezza, che possedeva ottocento lettere della ex regina, che aveva arringato le folle ed era stata arbitra del cuore di due grandi uomini aspettava ancora, aspettò sempre una ricompensa che le sembrava dovuta. Si illudeva anche di avere diritto, dopo la sua morte, ad essere sepolta in San Paolo accanto a Nelson. Nientemeno! La incoscienza più assoluta accompagna questa donna fino all’ultimo. Scacciata di casa in casa per mancato pagamento di pigione, non cessa di far baldoria come può. Incarcerata per debiti dirama inviti per commemorare a suo modo lo anniversario della battaglia di Aboukir, cioè a tavola. «Venite (ella scrive agli amici) noi _beveremo_ alla sua (di Nelson) memoria gloriosa». Alcune persone caritatevoli si unirono per pagarle i debiti e trarla fuori di carcere. Poco tempo dopo ricadeva e nei debiti e nella prigione. Fu allora consigliata di lasciare l’Inghilterra. Si ridusse infatti a Calais dove morì nella più squallida miseria a cinquantatre anni. Mai cicala cantò più alto nei meriggi ardenti, e qual cicala cadde a sera Emma Lyon, sparendo da quel mondo dove aveva fatto tanto rumore senza lasciare nessun rimpianto. Il bel corpo che fu suo vanto, sua fortuna e suo disonore insieme si dissolvette sotto le zolle di un piccolo cimitero grigio, desolato, abbandonato; e la sua memoria, se mai si aggira ancora intorno alla eccelsa colonna di _Trafalgar square_ è per mettere un’ombra sulla fronte del grande Nelson. I TRAVESTIMENTI NEL SECOLO XVIII Molti anni or sono s’avrebbe potuto incominciare questo articolo così: «Ora che si avvicina il carnevale non è forse fuori di proposito parlare di travestimenti», ma a quest’alba del millenovecentoundici l’argomento è già passato nel dominio della storia e a voler trarnelo fuori occorre far opera di esumazione coi suoi bravi documenti alla mano. Il travestimento carnevalesco fu l’ultimo guizzo di una consuetudine che nei tempi andati non aspettava il carnevale per manifestarsi. Non era forse un travestimento l’abito maschile che una fra le più belle eroine di Walter Scott si imponeva per scorrere inosservata sui montuosi sentieri della Scozia? E nemmeno sola, perchè leggendo le avventure di tempi anche più lontani ci incontriamo sovente in donne che dovendo affrontare i pericoli di strade mal sicure e di alloggi problematici si mettevano al coperto delle insidie sotto apparenze virili. Con un mantello sulle spalle e un cappellaccio calcato sugli occhi si sentivano protette. L’ombra del maschio le difendeva. Una donna sola in quelle età remote non avrebbe potuto percorrere cinque miglia senza incappare in qualche spiacevole avventura. Come devono riderne le emancipate _miss_ americane che attraversano mezzo mondo in gonnella corta, nevvero? Nata da un vero bisogno nei secoli più rozzi questa moda, diremo così, di vestire abiti maschili appena le circostanze potevano offrirne il pretesto rimase a lungo nei costumi delle donne e prese vaste proporzioni nel periodo del romanticismo. Ma prima ancora che il paggio di Lara e il patetico Jocelyn facessero versare tante lagrime alle belle svelando il mistero del loro sesso, il grande, l’olimpico Goethe che nessuno di noi saprebbe immaginare in attitudine scherzosa, aveva pure attraversato i verdi sentieri di Sesenheim travestito da oste, con un fardello di pasticcini in mano, per sorprendere in incognito la dolce Federica seguendo una logica di seduzione che sfugge al nostro moderno criterio. Pochi anni dopo lord Byron, meditando Lara, compiva dei viaggetti di piacere da Londra a Southwell con un’amica in costume maschile che egli spacciava per suo fratello. La contessa d’Houdetot, che vuolsi abbia ispirato la _Nuova Eloisa_, attraversava a cavallo, vestita da uomo, la foresta di Montmorency per andare a trovare Gian Giacomo Rousseau all’Eremitaggio. Ella chiamava queste scappate: sorprendere l’orso nella sua tana. Il cardinale di Rohan, uno dei quattro cardinali di Rohan che tennero seggio a Strasburgo, ma il solo di cui si occupò tanto la cronaca, non temeva mostrarsi in carrozza colla marchesa di Marigny sotto le spoglie di un elegante abate. Nel 1792 le due sorelle Fernig, travestite cogli abiti dei fratelli, si batterono valorosamente insieme alla guardia nazionale comandata dal loro padre contro scorrerie nemiche che minacciavano il confine tra la Francia e il Belgio. Avvicinandoci ai nostri tempi, troviamo ancora la contessa d’Agoult vestita spesso da uomo ne’ suoi viaggi con Liszt; Balzac, il quale fece pure un viaggio in Italia accompagnato da una donna sotto le spoglie dell’altro sesso; il generale Massena che intraprese la guerra di Spagna portandosi insieme la sua amante celata sotto la divisa di ufficiale dei dragoni; Dumas, a testimonianza di Ernesto Rossi, si traeva dietro le quinte dei teatri parigini una fanciulla in abiti virili. Questi esempi, che cito a memoria, chiunque abbia letto corrispondenze e ricordi dell’epoca potrà moltiplicare all’infinito. Certo, la lettura di tali documenti dovette sembrare troppo frivola agli illustri scienziati i quali volendo provare la degenerazione di Giorgio Sand citarono in prova l’abito maschile che la grande romanziera indossava in alcune circostanze speciali e precisamente quando, giunta a Parigi sola, sconosciuta, decisa a lanciarsi nella lotta per la vita si mescolava alla folla degli studenti e protetta dall’abito maschile frequentava liberamente i teatri e le taverne del quartiere latino. Ella non faceva proprio atto di eccentricità nè di degenerazione poichè tante donne prima di lei e contemporaneamente a lei non esitavano a portarlo allorchè per un verso o per l’altro ne avevano la convenienza. Ma purtroppo gli scienziati qualche volta si appassionano tanto intorno alle loro teorie che quando credono di aver afferrato un principio (rimati o ti accoppo) tutto deve convergere alla loro dimostrazione, anche i fatti che meno vi si prestano. Guardiamo un po’ in casa nostra; che cosa era il settecento veneziano sotto il rapporto del costume se non una continua mascherata, un travestimento diurno e notturno, un vivere sempre colla baùta in tasca e il domino sul braccio? Amori, piaceri, vendette, congiure, tutto si compiva sotto la maschera. Nessun divertimento sembrava piccante se non si alteravano i propri connotati. Al riparo di un palmo di stoffa sul viso le mogli gelose inseguivano i mariti, gli amanti si davano convegno, i rivali si sfidavano, i motti salaci uscivano dalle labbra senza che le guancie arrossissero. Uno spirito particolare, lo spirito della maschera, dava ardire ai più timidi. Fino alla metà del secolo decimonono tali costumanze ebbero uno strascico in tutta Italia. Ai veglioni dei principali teatri accorrevano le signore della più scelta società e della più irreprensibile condotta. Convien dire che erano molto diversi dai veglioni attuali, dove le donne vanno per svestirsi, mentre nel concetto di allora vi si andava per nascondersi, per divertirsi in incognito, e nulla era più ambito che far ammattire mezzo teatro col fuoco di fila della scherma motteggiatrice e partirsene poi senza essere riconosciuti. Sotto i larghi _chauve-souris_ che giustificavano pienamente il loro nome stendendo a guisa di ali le maniche voluminose e gli impenetrabili cappucci, il galante (vi erano allora dei galanti) doveva indovinare la signora al tocco leggiero della manina inguantata, a un profumo impercettibile, a un riso represso. In provincia, nelle famiglie, nei piccoli crocchi, il primo pensiero che veniva al giungere del carnevale era quello del travestimento; e chi non aveva a propria disposizione un costume da turco, da diavolo, da negromante, da zingara ricorreva ancora allo scambio dei sessi. Gli uomini cingevano la gonnella, le donne infilavano i calzoni, i bambini mettevano la cuffia della nonna e il pastrano del nonno cogli occhiali sul nasino camuso. Se la storia del travestimento, nata da necessità temporanee, prese il suo più brillante sviluppo sotto l’influenza del romanticismo e contò ne’ suoi fasti la gaia leggerezza di una società sul tramonto, si deve pur dire che negli ultimi giorni di vita diede guizzi più alti e raggiunse quasi i fastigi dell’eroismo quando, sotto la dominazione austriaca che ogni pensiero di libertà comprimeva con ferreo giogo, l’amore di patria dava le prime scosse al pauroso colosso celato sotto travestimenti satirici che gli permettevano di circolare in mezzo alla folla, inteso da chi doveva intendere. A Milano il carnevale era aspettato con impazienza da alcuni spiriti inquieti di patriota cui giovava la maschera con allusioni, motteggi e caricature a tener vivo negli animi il pensiero della riscossa. La maschera politica chiuse gloriosamente da noi il ciclo del travestimento. Ora bisogna andar fino a Oberammergau per incontrarvi sotto la forma di funzione religiosa ciò che rimane ancora di questa passione antica. Non si potrebbe tacere, poichè ho accennato principalmente al secolo XVIII, colui che vi tenne un posto singolarissimo per questo, che avendo portato durante quarant’anni le insegne d’uomo ed essere stato capitano dei dragoni, dottore in diritto civile e diritto economico, avvocato, ambasciatore, ministro plenipotenziario, si confessò improvvisamente donna, vestì da donna e donna morì. Ma questa bizzarra istoria mi porterebbe troppo lontano. Dirò come la sultana Scheherazade al suo signore «Se permettete, sarà per un’altra volta». Per la _bonne bouche_ tuttavia voglio tracciare alle mie lettrici il breve schizzo di una donna vestita da uomo che ebbi occasione di conoscere a Parigi nella scorsa primavera. È russa. Chi sia veramente non si sa. Si fa chiamare _Nikto_ e questo nome di guerra appariva appunto in quei giorni sui manifesti di un concerto — il concerto Nikto. Coi suoi capelli bianchi foltissimi, corti e ben pettinati, vestita con inappuntabile eleganza maschile, il piccolo piede imprigionato in due stivaloni che le salivano fin presso il ginocchio, la piccola mano nervosa e ferma, il volto intelligente, fine, un po’ beffardo, senza rughe, di una freschezza sana fra la tinta sobria della cravatta e il candore dello sparato, ella era un _monsieur_ molto interessante e mi trovavo sempre imbarazzata quando dovevo rivolgerle la parola. _Monsieur?.... Madame?._.. — _Appelez-moi Nikto_ — mi disse colla sua voce sicura benchè bassa e un poco velata. Ultima traccia del romanticismo in quella città medesima che del romanticismo vide le più ardenti battaglie, o pioniera delle nuove aspirazioni femministe?.... Chi lo sa! IL CASO STRAORDINARIO DEL CAVALIERE D’ÉON (Ancora dei travestimenti del secolo XVIII) Si sa che il romanzo storico non è più di moda, ma la storia stessa ci offre talvolta avventure così bizzarre da disgradarne la fantasia di qualunque romanziere. Tale l’intreccio di casi che io mi farò ora a narrare sulla scorta di una pubblicazione uscita a Bruxelles nel 1837 documentata da materiali autentici estratti dagli Archivi degli affari esteri. Nasceva a Tonnerre, piccola città del dipartimento della Yonne, il 5 ottobre 1728 un bambino che i registri della parrocchia attestarono figlio del nobile Luigi d’Éon de Beaumont e che fu battezzato coi nomi di Carlo Genovieffa Luigi Augusto Andrea Timoteo. (Carlo era il nome del padrino e si capisce che solo per non far torto alla madrina, che si chiamava Genovieffa, imposero al bimbo fra cinque nomi maschili, anche questo femminile). Il bimbo crebbe sano e sbarazzino come tutti gli altri, entrò in collegio, prese il diploma in ambe le leggi e appena laureato divenne segretario di un signor Sauvigny amico della sua famiglia e intendente militare a Parigi. Fu allora che gli si sviluppò la passione delle armi nelle quali si rese presto celebre, senza pregiudizio delle lettere, da lui pure coltivate con discreto successo, nè della vita mondana condotta di pari passo alla scapigliata gioventù del suo tempo «società variopinta, mosaico ambulante, unione di bene e di male dove le coscienze erano fatte a pezzi e bocconi e dove ogni uomo portava il vizio e la virtù cuciti insieme nello stesso vestito». Non bisogna mai dimenticare l’ambiente quando si vuole studiare un individuo. Sembra tuttavia che il cavaliere D’Éon conservasse una certa ingenuità provinciale fra le corruzioni di Parigi. Anche il suo aspetto era dolce e delicato; aveva lunghi capelli biondi, occhi azzurri, un piccolo piede, la vita sottile ed il labbro appena adombrato di un velo d’oro sottile come la peluria di una pesca. Egli toccava poco più di vent’anni quando una sera, in un crocchio di gentiluomini e dame della Corte, fu deciso di andare tutti insieme a un ballo in costume che il re dava a Versailles, e poichè ognuno cercava il proprio travestimento e D’Éon, imbarazzato, non diceva nulla, venne proposto a unanimità per quel bel ragazzo biondo l’abito di donna. C’era presente una graziosa contessa che offerse subito uno de’ suoi. D’Éon doveva poi confessare nelle sue «Memorie» essere stata quella la prima donna che gli fece battere il cuore. Ma lo aspettava ben altro nelle splendide sale della reggia dove trovavansi adunate le ricchezze e il lusso della Francia intera. Luigi XV, il cui regno fu dall’arguta malizia del grande Federico diviso in tre epoche — Gonnella I, Gonnella II, Gonnella III, — si trovava alla seconda gonnella, la marchesa di Pompadour e, manco a dirlo, fra due schiere di cortigiani proni la bella favorita incedeva in quelle sale con sicurezza da regina, sfolgorante di gioielli; mentre il monarca annoiato, apatico, sembrava guardare con indifferenza lo svolgersi delle danze, e le beltà in aspettativa ansiose di succedere alla Pompadour. I suoi sensi spossati, la sua immaginazione intorpidita gli rendevano sempre più rara la vibrazione del desiderio. Ma a un tratto il suo sguardo si anima, la sua attenzione segue con curiosità nuova una bionda giovinetta che gli appare diversa dalle altre, fine ed energica, delicata e forte, con un mistero inafferrabile diffuso in tutta la persona, quasi un profumo di fiore esotico, di cosa rara. Il re chiama il fido Lebel, il triste ministro de’ suoi piaceri, e gli chiede se conosce quella fanciulla. Lebel non la conosce, ma allontanatosi pochi minuti per raccogliere informazioni, ritorna annunciando che è una signorina di provincia venuta alla festa insieme alla contessa di Rochefort, al duca di Nivernay e al conte Du Barry. Questo conte Du Barry, che era un pessimo soggetto, apparve al re ed al suo segretario quale via già pronta e tracciata per giungere alla colombella. Il piano è subito stabilito. Lebel non durerà molta fatica a far smarrire la fanciulla in uno dei tanti corridoi del palazzo e il resto verrebbe da sè. Un occhio tuttavia più acuto di quello del re, più interessato a guardare che non quello di Lebel, aveva seguito ogni gesto del complotto; era l’occhio vigile di madama di Pompadour, sempre aperto, sempre in sospetto. Poichè tutti quei raggiri le erano ben noti e ben sapeva dove andavano a finire i conciliaboli del re col suo segretario e cameriere intimo, non sospetto, ma certezza le scatenò in seno tutte le furie della gelosia. Da galeotto a marinaro, ideò ella pure, immediatamente un piano di difesa. Fra i suoi privilegi eravi una chiave degli appartamenti del re e decise di servirsene subito. Fu così che quando l’infame Lebel avendo incontrato la fanciulla smarrita nei labirinti del palazzo la spinse a tradimento nelle camere segrete; ella, o a meglio dire il cavaliere D’Éon, si trovò di fronte, altera, corrucciata, furibonda, la marchesa di Pompadour!... Equivoco dei più buffi, nel quale il giovinotto si trasse di impaccio a tutto suo profitto, dicesi, placando la collera gelosa della favorita colle prove più convincenti del granchio preso. Il raccoglitore di queste «Memorie» si ferma forse con troppa compiacenza sui particolari di un abboccamento che dovette certo essere interessante, ma che non ebbe testimoni. I costumi del secolo, è vero, autorizzano ogni supposizione per quanto ardita. D’altra parte la tentazione dovette essere forte, gli scrupoli leggieri e l’occasione oltre ogni dire propizia.... Comunque, quando poco tempo dopo entrò il re, la marchesa potè accoglierlo con una clamorosa risata presentandogli non senza sarcasmo sotto le vesti femminili che lo avevano tratto in inganno il signor cavaliere D’Éon. Sua Maestà prese lo scherzo in buona parte e per quella volta tutto finì lì. Questa farsa tuttavia non era che il principio di un lungo dramma. Poche settimane erano trascorse allorchè il cavaliere D’Éon fu invitato a presentarsi dal principe di Conti, che egli conosceva già per avere praticato insieme qualche scorreria sui fianchi del Parnaso, ed al quale si sentì annunciare a bruciapelo l’intenzione di Luigi XV di spedirlo in Russia per una missione diplomatica di speciale importanza che _lui solo_ poteva compiere. Sorpreso, sbigottito, eppure già vellicato dalle carezze dell’ambizione, il giovinotto fu portato di nuovo alla presenza del re per avere più ampie e dirette spiegazioni. Ecco di che si trattava. Prossima alla guerra dei sette anni, la Francia trovavasi allora in contestazione con quasi tutte le potenze d’Europa; la Russia stessa, amica dapprima e alleata desideratissima, si era posta in grande freddezza, freddezza sostenuta da Bestucheff, cancelliere, senatore e favorito della imperatrice Elisabetta, nemico giurato dei francesi. Invano i ministri di Luigi XV avevano tentato di spedire messi a Pietroburgo muniti di autografi del re per la stessa imperatrice; erano stati tutti respinti al confine. L’ultimo che vi si era arrischiato giaceva da un anno carico di ferri nella fortezza di Schlusselbourg. Stando le cose a questo punto, Luigi XV, che serbava l’impressione assolutamente ingannatrice del cavaliere D’Éon in femminili spoglie, aveva concepito l’audace progetto di spedirlo così travestito in Russia, visto che Bestucheff delle donne non diffidava, e farlo giungere fino al trono della imperatrice. La proposta a tutta prima dovette sembrare al cavaliere D’Éon una poco decorosa mascherata, ma la prigione di Schlusselbourg che si rizzava minacciosa in fondo alla gaia prospettiva era anche fatta per solleticare il suo amore di gloria e di combattimento. Accettò. Siccome una fanciulla a quei tempi non poteva viaggiare sola ed era prudente fortificare la mina che si voleva introdurre in paese straniero, fu scovato fuori uno scozzese, un nobile Douglass, persona fine, intelligente, istruita, che possedeva inoltre sufficienti cognizioni mineralogiche utilissime a fornire il pretesto di una escursione scientifica. Lo si incaricò delle osservazioni esterne e delle esplorazioni politiche, mentre la damigella D’Éon, sua nipote, doveva introdursi nella reggia e consegnare nelle proprie mani dell’imperatrice le istruzioni segrete che il re di Francia aveva scritte di suo pugno sopra diversi fogli di carta sottile, parte nascosti fra una doppia suola delle sue scarpette, parte nel cartone del libro da messa. Sempre per non destare sospetti i due viaggiatori la presero lunga, percorrendo senza fretta la Germania, frugando negli scavi, discendendo nelle mine in cerca di terreni primordiali e intermediari, occupati esclusivamente a cercare campioni di quarzo, di antracite, di serpentina ecc. Traversando la Sassonia il bravo Douglass non volle perdere l’occasione di una visita alla famiglia del duca di Meklemburgo-Strelitz che egli conosceva e nella quale non dispiacevagli di produrre la finta nipote come ad una prova generale delle di lei attitudini a rappresentare una signorina dell’alta società; prova che riuscì al di là del desiderio, perchè la più giovane figlia del duca, come suole avvenire in quell’età, si accese di una così viva simpatia per la damigella francese che non volle staccarsi dal suo fianco e abbracciandola e baciandola la condusse a vedere tutta la casa, tutto il giardino, e più ancora la sua cameretta.... Sir Douglass sudava sangue ed acqua. Quando riuscì a strappare la sua sedicente nipote alle pericolose espansioni della piccola duchessa costei pregò la damigella francese di recare una lettera (la posta in quel tempo lenta e mal sicura consigliava spesso tal genere di ambasciate) ad una amica residente a Pietroburgo «così — soggiunse — ella mi parlerà di voi, voi le parlerete di me e non ci dimenticheremo». La lettera portava questo indirizzo: _Alla signorina Nadège Stein, damigella d’onore di S. M. l’imperatrice di Russia_. Neanche a farlo apposta il destino non poteva aprire una via più rapida ai due viaggiatori per farli penetrare proprio là dove essi volevano! Ma, ancora una volta, da un piccolo avvenimento fortuito dovevano nascere peripezie senza fine. Intanto che lo scozzese e la sua compagna attraversavano la Prussia, la Curlandia, la Livonia, diretti a Pietroburgo, a Parigi la scomparsa del cavaliere D’Éon aveva messo i suoi amici in subbuglio. Il segreto del travestimento confidato a qualcuno, posto di fronte al contegno riservato del cavaliere, fece dire, per burla forse o per fare dello spirito o della malignità, che probabilmente egli era una donna davvero. Questi i primi germi gettati al vento. Più tardi saranno raccolti da chi avrà interesse a farlo. Tutta l’astuzia del piano concepito a Versailles minacciò tuttavia di cadere al confine del Sacro Impero. La nazionalità scozzese non fu passaporto sufficiente per Sir Douglass. Respinto, dovette tornare indietro colla sua raccolta di minerali. La damigella invece passò incolume coi preziosi autografi nella suola delle scarpette, si presentò a Nadège e fu da questa condotta alla presenza dell’imperatrice, alla quale fece intera confessione dello stratagemma immaginato dal re di Francia per comunicare direttamente colla sovrana di tutte le Russie. Qui il cronista si indugia ancora in particolari scabrosi sull’incontro di Elisabetta e del singolare messaggero. Preferisco lasciarli indovinare, mentre mi è pur d’uopo raccogliere la nuova tentazione offerta al cavaliere D’Éon nella appassionata amicizia che anche Nadège non tardò a tributargli e che divenne, per forza ineluttabile delle cose, amore ardente. Costretta a ridurre tre volumi nelle proporzioni di un articolo, non posso dilungarmi su tutte le avventure capitate in Russia alla falsa zitella e mi affretto alla conclusione. Raggiunto lo scopo di stabilire buoni rapporti fra Luigi XV ed Elisabetta, il cavaliere D’Éon tornò a Parigi ma rifece altre due volte il viaggio a Pietroburgo stringendo sempre più i dolci legami che lo univano a Nadège. Disgraziatamente l’imperatrice se ne accorge, e il cavaliere D’Éon, che sa in qual modo si vendica l’orgogliosa sovrana, trema per la diletta. L’importante dunque era di lasciare la Russia per sempre, di fame uscire anche Nadège orfana e senza famiglia e giunti ambedue in Francia sposarsi. Il cavaliere D’Éon sentiva di dovere questa riparazione alla specie di inganno che lo aveva fatto entrare nella intimità della ingenua fanciulla; egli non poteva abbandonarla dopo averle preso tutto, anche l’onore. Ma la tirannica imperatrice non avrebbe facilmente dato il permesso di allontanarsi alla sua damigella ed occorreva dunque ricorrere all’astuzia. Il cavaliere prese a pretesto la salute per rientrare in Francia, Nadège scrisse alla sua amica Sofia Carlotta di Meklemburgo-Strelitz che moriva dalla voglia di rivederla e che volesse fare ella stessa la domanda di un breve congedo alla imperatrice. Partendo poi separatamente, i due amanti speravano di avere scongiurato l’uragano imperiale. D’Éon stesso si incaricò di portare la lettera di Nadège alla piccola duchessa, come già aveva portato quella della duchessa a Nadège, spinto forse inconsapevolmente dal desiderio di rivedere la cara fanciulla che lo aveva abbracciato e baciato così teneramente sotto gli occhi scandalizzati di Sir Douglass... Purtroppo devo confessare che l’eroe di queste «Memorie» non è un eroe incorruttibile dinanzi al bel sesso, il lettore se ne sarà già accorto; ma egli era anche predestinato alle avventure erotiche le più straordinarie, perchè appena giunto a Strelitz, in abiti femminili si intende altrimenti non l’avrebbero riconosciuto, si ammala; Sofia Carlotta vuole curarlo ella stessa, lo cura, lo guarisce, e poi... insomma se ne innamora. Infedele colle attenuanti concesse alla sua bizzarra situazione, il cavaliere D’Éon non dimentica Nadège, l’aspetta anzi. Lasciato il castello di Strelitz, ripreso l’abito virile, si porta a Versailles latore di un nuovo patto e di una convenzione marittima ottenuti dalla imperatrice Elisabetta. Luigi XV lo riceve in udienza privata e riconoscendo i servigi da lui resi alla Francia gli decreta una pensione di duemila lire (che non venne mai pagata). Di Nadège, intanto, nulla. Anche la duchessina di Strelitz scrive che non ne sa nulla. Inquieto, presago di sventura, D’Éon si informa presso il medico dell’ambasciata francese a Pietroburgo e dopo alcuni mesi di ansiosa aspettativa viene a sapere che Nadège non appartiene più alle damigelle d’onore, non è nemmeno a Pietroburgo, è sparita, e tutte le ricerche in proposito riuscirono vane. Qualunque fosse il dolore di D’Éon rimasto nella più crudele incertezza sulla sorte della sua amica, egli non ebbe tempo di ascoltarlo. Facendo parte dell’armata dell’alto Reno il campo di battaglia lo aspettava ed egli vi si gettò con folle ardore. A Hoëxter intraprende con pochi uomini il trasporto delle polveri rimaste sulla riva destra del Weser passando e ripassando due volte il fiume sotto il canone dei nemici. A Ultropp, ferito ripetutamente, carica nondimeno i montanari scozzesi e li ricaccia fra le balze. A Osterwick con ventiquattro dragoni scelti si getta improvvisamente sull’avversario e fa prigioniero di guerra un intero battaglione. Ma una incredibile notizia giunge al campo. Il giovane re d’Inghilterra Giorgio III sposa una modesta e sconosciuta principessa, tedesca: Sofia Carlotta di Meklemburgo-Strelitz! La sorpresa del cavaliere D’Éon fu pari a quella di tutta Europa, quantunque le sue ragioni potessero essere diverse. Questo matrimonio almeno consigliò una sosta alla guerra che durava da sette anni e il cavaliere approfittando dell’armistizio passò in Inghilterra desideroso di vedere la sua piccola amica ed infermiera colla corona della Gran Brettagna sul biondo capo. La neo regina, turbata forse sulle prime dalla inaspettata apparizione, acconsentì a riconoscere il cavaliere D’Éon e gli fece buon viso; del che egli ne approfittò per raccomandarle ancora la povera Nadège, argomentando che l’imperatrice di Russia avrebbe risposto questa volta alla regina d’Inghilterra. Sofia Carlotta, buona, scrisse; ma invano. D’Éon stava per perdere qualsiasi speranza e la perdette infatti quando giunse l’annuncio della morte di Elisabetta e poco dopo una lettera della sua succedanea Caterina alla regina d’Inghilterra, nella quale, avvertendo di aver trovato fra le carte della defunta le richieste notizie su Nadège, annunciava di avere diramato ordini in tutto l’Impero perchè se ne facessero accurate ricerche, ricerche che erano riuscite assolutamente infruttuose. Non rimaneva dunque al cavaliere D’Éon che piangere la morte della disgraziata fanciulla, ciò che egli fece non senza un secondo pensiero più doloroso ancora e più segreto. Suo figlio era nato?... Portando la sua angoscia in fondo al cuore non cessava per altro di tenersi pronto agli ordini del re e fu lui che, conclusa la pace definitiva, ebbe incarico di consegnare alla corte di Versailles le ratifiche del re d’Inghilterra. Luigi XV abbracciando in tale occasione il cavaliere D’Éon gli conferì la croce di San Luigi nominandolo ministro plenipotenziario a Londra. D’Éon doveva avere allora trentacinque o trentasei anni e giunto così innanzi nel favore del re era ben naturale che suscitasse invidie e gelosie. Segue infatti a questo punto delle sue «Memorie» un periodo denso di cabale, di soprusi, di calunnie d’ogni genere, di ingratitudine d’ogni specie, particolarmente da parte di colui che egli aveva servito con tanta abnegazione. Luigi XV si mostrò più che mai debole e vile non osando tener fronte ai nemici di D’Éon, abbandonandolo alla gogna della pubblica diffamazione pur continuando a servirsi segretamente di lui. Esiliato a Londra, privo di mezzi, una donna gli era rimasta consolatrice ed amica: Sofia Carlotta. Ma da questa augusta protezione gli doveva venire appunto l’ultimo colpo della sventura. Giorgio III lo sorprese una sera, ad ora troppo inoltrata, nell’appartamento della regina e ne seguì un vivo alterco fra i coniugi. I sospetti del re, già vaghi per l’antica dimestichezza, risorsero acuti, violenti. Qualcuno allora che si trovava presso alla regina espresse il dubbio che il cavaliere D’Éon fosse donna. La regina fu felice di poter confermare che effettivamente ella lo aveva conosciuto donna e sempre ritenuto tale. Giorgio III si afferrò ad una versione che rialzava il suo amor proprio ferito e scrisse a Luigi XV per sapere tutta la verità su questo mistero del suo ex ambasciatore; ma scrisse pure il confidente della regina implorando l’aiuto di una parola che ne salvaguardasse l’onore. Posto così fra il re e la regina, dovendo verità all’uno e galanteria all’altra, Luigi XV dibattè l’aneddoto salace fra consiglieri intimi dove si venne alla conclusione che dichiarando il cavaliere D’Éon femmina si rendeva servizio a tutti e due. Vennero quindi spediti subito a Londra i documenti, lettere, messaggi ecc., relativi al soggiorno della _damigella D’Éon_ in Russia e al posto che ella vi aveva occupato per un certo tempo di _lettrice_ di S. M. Elisabetta. Giorgio III si affrettò a comunicare la singolare scoperta a’ suoi amici e in un baleno la seppero la Corte prima, tutta Londra poi. Il solo che non sospettasse nulla era D’Éon. Da ogni parte intanto, poichè siamo in Inghilterra, sorgono scommesse. Chi punta per l’uomo, chi per la donna. La sua sessualità diventa un affare di borsa, si arrischiano somme favolose, si giuoca sopra di lui all’alta ed alla bassa. Quotato come una rendita, negoziato come un titolo, diventa una lotteria ambulante, il centro di mille curiosità ingorde di scandalo. Eccitato, disgustato dalla incredibile sarabanda che gli danza intorno, il cavaliere D’Éon distribuisce colpi di spada e colpi di bastone così virilmente assestati che la fiduciosa tranquillità di Giorgio III torna ad essere scossa. Per tal modo e molto involontariamente ribadisce egli stesso la propria catena. Essendo in giuoco l’onore di una regina, l’amor proprio di un re e la parola del suo proprio re, D’Éon non può più essere uomo, non lo deve. Comunicazioni segrete incominciarono a preparare il disgraziato alla sua nuova sorte. Invano egli si ribella, prega, scongiura, promettendo qualunque sacrificio si voglia da lui ma non di abbandonare l’abito sotto il quale ha servito la Francia e si è battuto da valoroso, l’abito al quale lo legano diritti di natura e diritti di conquista. Al punto in cui si trovavano le cose era impossibile retrocedere. D’ordine di Luigi XV al cavaliere D’Éon fu significato dovere egli riprendere le vesti femminili per il rimanente della sua vita. Alle sue lagrime, alla sua disperazione, si concede solo la facoltà di portare (ironica mascherata) la croce di San Luigi. Dopo altre vane resistenze l’amaro calice fu vuotato e una sera di novembre dell’anno 1777 il cavaliere D’Éon scomparve per sempre sostituito dalla _chevalière D’Éon_. E basta, nevvero? Il romanzo sembra terminato, ma non è terminata la storia. Quella Nadège che egli credette morta, nascosta dalla vendetta dell’imperatrice in una fortezza dove nessuno era riuscito a scoprirla, aveva potuto dopo quindici anni di prigionia evadere e con sforzi inauditi raggiungere l’uomo da lei sempre amato... ritrovandolo donna. Ecco dunque una nuova combinazione crudele, di quella crudeltà mista di buffoneria che aggiunge allo strazio l’insulto dello scherno. Ancora, attaccandosi a un filo di speranza, D’Éon fece pratiche presso il governo succeduto a Luigi XV affinchè nell’intento di unirsi alla sua antica fidanzata gli fosse permesso di riprendere il suo posto di maschio. Sarebbe stato troppo però, anche per un governo che non aveva paura delle metamorfosi. Il capitano dei dragoni, il dottore in diritto canonico e diritto civile, il censore reale per la storia della letteratura, l’ambasciatore in Russia, il ministro plenipotenziario di Francia e d’Inghilterra, la migliore spada del suo tempo, il vincitore di venti duelli trasformato in donna doveva restare donna. E visse ottantatre anni!!.... Per molto, molto tempo, si videro a Londra due povere vecchie uscire insieme rientrare insieme; una curva dagli anni appoggiata ad una canna col pomo d’avorio portava sul petto la croce di San Luigi; l’altra un po’ meno anziana, dava il braccio alla compagna che vi si abbandonava confidente. Erano il cavaliere D’Éon e Nadège. L’ULTIMO MADRIGALE ALLA MARCHESA DI SÉVIGNÉ Come è stato? Così. Non sono collezionista. Tuttavia, quasi senza accorgermene, venni a poco a poco radunando un certo numero di ritratti di belle donne, infinitamente più interessanti, a mio credere, che non le cartoline e i francobolli. Qualcuna di esse è celebre per la sola bellezza, qualche altra per nascita cospicua, avventure o singolare ingegno; ma di tutte interessandomi in special modo la femminilità, senza curarmi d’altre distinzioni, ho domandato scusa fin dal principio alla nobile principessa di Lamballe per averla messa insieme alla bella Otero, ed ella mi perdonò indulgente e benigna qual si conviene a chi nasce da sangue sabaudo. Sdegnoso invece è lo sguardo che dall’alto del suo gran collare mi lancia la marchesa Durazzo nel quadro di Van Dyck e la sua esile manina di patrizia, stringendo il ventaglio chiuso, m’ha tutta l’aria di essere pronta a batterlo sul viso dell’impertinente che le mancasse di rispetto. Terribili queste dame di una repubblica! Atteggiata in una immobilità che vorrebbe essere severa, anche le larghe pupille di Bianca Cappello mi guatano sospettose; oh! ma di essa non mi curo, la conosco troppo bene; questa Draga del rinascimento non mi ha mai avvinta al suo carro. Quanto è più leggiadro al cospetto il morbido profilo di Lucrezia Aguiari detta la bastardina, che le ore segrete rallegrò di un Papa! Una volta tutte queste Bellezze le tenevo accatastate in una cartella, ma poi spinta dalla brama di averne tutto il giorno davanti agli occhi lo squisito godimento estetico, mi feci a disporle lungo una parete del mio salottino sostenendole alla bene e meglio con qualche spillo. Non ho potuto però sino ad ora scongiurare il pericolo di vederle traballare di tanto in tanto e qualcuna cadere... Ahi! crudele destino delle belle. Su, su, Beatrice d’Este, state ritta. Allacciate ancora i nastri della adorabile cuffietta che Leonardo ha immortalata sulle vostre fluenti anella. Su, su, vago innamorante volto di fanciulla principesca, il vostro feroce marito è morto; non abbiate più la costante preoccupazione di dominarlo. Ora non troverete intorno a voi che devoti ammiratori e cavalieri fidati. Su, su, Maria Antonietta, povera regina! Non è ancor giunta l’ora tragica. Eccovi qui elegante e lieta nella veste color di viola che vi dipinse madama Lebrun con guardinfante, svolazzi e falpalà. Come è grazioso il vostro volto di bionda sotto il cappello piumato! Su, tenete ben alta la rosa che sorretta dalle vostre dita regali quasi paventa di accettare la sfida che le dànno i gigli del vostro seno. Maestà, i posteri vi contemplano e vi ammirano nel coraggio tranquillo delle vostre ultime ore. Chi è questa brava signora seduta con un telaio sui ginocchi la quale solleva dal trapunto la bellissima faccia e ci guarda con una espressione sì arguta e misteriosa? Ah! vi riconosco Giovanna Antonietta Poisson marchesa di Pompadour. Boucher non deve avervi adulata poichè ben si ritrova nella vostra fisionomia l’attico brio e l’affascinante arte della parola che tanto aiutarono la vostra bellezza nella conquista di Luigi XV, e sì atroci tormenti di gelosia dovevano destare nella duchessa di Chateauroux, la spodestata rivale, che non temette di schiacciare in un momento di furore i vostri piedini invadenti per tenervi lontana dal Re. Invano. E costei dalle opulenti spalle su cui ondeggia semisciolta la bruna chioma di italiana non è Maria Mancini che per poco non divenne regina di Francia? Maria Mancini, la quale obbligata a lasciare la Corte per le imperiose ragioni di Stato lanciò al suo regale amante il celebre motto: «Mi amate, siete re, ed io parto!» Meravigliosa perfezione di volto e di forme: ispirato da lei anche l’ingegno mediocre di Mignard ha rasentato dipingendola il capolavoro. Un giovane Paride di mia conoscenza le ha già decretato il pomo fra tutte queste belle. Ma fermiamoci, di grazia, davanti al pastello della contessa Potoscki. Non la conoscete? Nata principessa Massalsky, maritata principessa di Ligne, divorziata e rimaritata col brillante conte Potoscki, la sua vita (pari a quella della coetanea e compatriota contessa Krasinska trisavola della regina Margherita) fu un lungo e doloroso romanzo d’amore. Non vi illuda il roseo volto ridente e il nastro cilestrino che le recinge la cinerea chioma; ella pianse le amare lagrime dell’abbandono e dopo di avere regnato nel mondo e sui cuori dovevano le sue ossa sepolte in un cimitero di Parigi — e dimenticate — andare disperse nella fossa comune. Fu una delle donne più appassionate del secolo XVII. Poca passione ci viene, a dir vero, dalla composta bellezza della Guiccioli, la celebre amica di Byron, quantunque ella ci guardi con stellanti occhi e le dovizie del seno elegante e puro mostri in sottilissimo artificio di veli con un sereno impudore di statua. O pietre di Ravenna ditelo voi se ella amò quanto fu amata! Tante e tante altre qui sono beltà d’ogni tempo e d’ogni paese, cui sorrise la vita co’ suoi più dolci miraggi. Impavida sotto il suo diadema di gemme chi la direbbe una borghese di Aiaccio questa Letizia Bonaparte che sciogliendo il grembo fecondo sopra un divano posticcio dava alla luce una famiglia di re? Signora, i miei complimenti. Improvvisamente mi ricordo di una vecchia stampa ritagliata fuori da un giornale nientemeno che ai tempi remoti della mia adolescenza: il ritratto della marchesa di Sévigné. Corro a cercarlo e lo trovo dopo un lungo lavoro di scavi attraverso montagne di carta. Marchesa di Sévigné — bel nome sonoro e bel tipo di dama in quel 1600 che fu chiamato il secolo d’oro della Francia. Ci deve essere a Pitti un suo ritratto, ed un altro è preposto alle famose _Lettere_ nella edizione Garnier, ma entrambi lasciano molto a desiderare. Questo invece che ho davanti è assai piacente. Rappresenta la marchesa nella piena maturità degli anni, il bel viso aperto e sereno, specchio fedele del suo temperamento, fra una cornice di riccioli che spartiti in due cascate le piovono a destra ed a sinistra trattenuti leggiadramente con aereo intreccio di nastrini; un quadratino di velluto, messo in angolo, le copre la cervice in omaggio forse ai pregiudizi del tempo che facevano credere fosse la testa scoperta causa di guasto ai denti. Ma simile paura non si estendeva certo alle spalle le quali sorgono nude qui come in tutti gli altri suoi ritratti. La vita di questa donna rimasta vedova poco più che ventenne, che non ebbe nè amori nè avventure mai, cui l’unica passione furono i due figli, principalmente la figlia, forma un certo contrasto nella galleria di queste Bellezze dove le peccatrici abbondano. È una nota alta e serena, è un esempio confortante che non voglio lasciarmi sfuggire. Presto un cartoncino, un po’ di gomma, per dare consistenza alla vecchia stampa tanto da poterla mettere nella raccolta. È tardi, quasi mezzanotte; forse fu per troppa fretta o la carta del giornale era fradicia, o la colla cattiva, non so; con terrore mi accorgo che il ritratto si spacca, si scioglie, mi si disfà tra le mani... Marchesa, marchesa, non fuggite! Ah! qual momento. Le nobili fattezze sono scomposte, il naso cade sulla bocca, gli occhi si squagliano, sulla fronte si addensano le rughe... No, no, fermatevi. Rattengo il fiato, ma la mano mi trema, la carta continua ad assottigliarsi. Non è più un ritratto che ho davanti, è una caricatura. E sono stata io, io, a distruggere una memoria che mi era tanto cara, vecchia come la mia vita, che non potrò rinnovare oh! no, certo. Piena di rimorso e di tristezza mi chino sul misfatto e sotto al povero volto, con uno slancio di contrizione, scrivo: Marquise Sévigné je vous demande pardon pour avoir gâté (ah! le crime sans nom) votre beau visage! À cette étourdie ne soyez point cruelle: songez, je vous prie, que vous êtes immortelle même défigurée. Versi sbagliati, pessimi, ridicoli, tutto quello che volete. Ma sfogai così un poco il mio dolore e la bella marchesa dopo secoli di riposo ricevette ancora il suo ultimo madrigale. MARIA DEI MEDICI UN PERIODO DI ITALIANITÀ IN FRANCIA. L’italiano che andando a Parigi più delle attrattive rumorose e volgari dei grandi _boulevards_ preferisce la solitudine suggestiva della riva sinistra così piena di memorie, si fermerà con particolare interesse sotto gli alti alberi che circondano il palazzo del Lussemburgo fatto edificare per propria dimora da una principessa italiana, che doveva avere serbato nelle pupille le linee di bellezza della nativa Firenze. Figlia di quel granduca Francesco Medici che, due mesi dopo la morte della moglie, aveva sposato l’avventuriera Bianca Capello e s’era ritirato con lei in amenissima villa, incurante dei figli, Maria nella sua malinconica giovinezza dovette aver pensato al matrimonio come al solo porto di felicità. Bella e ricca non sembrava difficile cosa; si presentarono infatti diversi partiti, ma o per una ragione o per l’altra caddero tutti. Ella d’altronde s’era fissa in mente di diventare regina di Francia; glielo avevano predetto e ci credeva. Il re di Francia peraltro aveva moglie, ma che cosa può arrestare il destino! Correvano stretti rapporti di interesse fra le due corti di Francia e di Toscana. I monarchi francesi, collo sperpero delle loro favorite, erano sempre senza denari e i Medici, che, per il traffico degli avi, ne avevano guadagnati tanti acconsentivano ai prestiti i quali non erano allora la facile operazione di banca che vediamo ai nostri giorni. Il trasporto di centomila scudi, a mo’ d’esempio, metteva in moto diciassette carri, cinque compagnie di cavalleria e duecento fanti. Ora avvenne che essendo morto d’improvviso (si diceva di veleno) il granduca Francesco e il re di Francia chiedeva nuovi denari, il successore nicchiando un poco lasciò comprendere che il re di Francia Enrico IV non avendo avuto figli da Margherita di Valois sua moglie avrebbe fatto bene ad ottenere sotto questo pretesto il divorzio e sposando poi Maria dei Medici rendere più facile l’affare del prestito. In questo matrimonio Maria fu mercanteggiata come una balla di stoffa fra chi vuole dar meno e chi voleva prendere di più, ma i Medici non erano una razza sentimentale e la zitella si avvicinava alla trentina. Ella non fece nessuna obbiezione a questo sposo di quarantasette anni, divorziato, donnaiolo, un po’ sudicio negli abiti e nella persona. Non diventava regina di Francia? il suo sogno! Bisogna scalare qualche cosa, ai sogni che si realizzano. Colei che il 13 Ottobre 1600 lasciava Firenze salutata da un popolo in festa e imbarcatasi a Livorno sostava nella paradisiaca conca di Portofino a dare un ultimo sguardo al cielo d’Italia era una donna felice. Che le importava oramai della triste vita passata e delle tragedie della sua famiglia? Aveva vinto. La sua bionda bellezza aureolata dal trionfo risplendeva in una armonica maturanza di carni floride e di nobile incesso, di magnifica salute e di volontà decisa. Nei ritratti che si trovano di lei non appare forse una grande genialità di espressione, ma le linee generali confermano l’appellativo di bella donna che le decretarono i contemporanei e in tutti la vediamo cinta dei pomposi abbigliamenti senza i quali le regine di una volta non si mostravano in pubblico. L’alto collare alla Medici, foggiato con trine che hanno la trasparenza dell’aria, sorge da un corsaletto trapunto di perle dove la stoffa è così lavorata e cincischiata in arricciature, in pieghe, in sboffi, in losanghe, a intarsi d’ogni genere che non rimane di liscio neppure un palmo; l’ermellino regale fa da sfondo e da tutte queste sapienti combinazioni esce l’eburneo collo e il sen di neve che i poeti del tempo faceano a gara a mettere in rima. Intanto che la principessa fiorentina viaggiava tra feste e tripudii verso la sua nuova dimora (e il viaggio colle necessarie soste durò quasi due mesi), Enrico IV che si era facilmente sbarazzato della moglie ebbe a sostenere ben più aspra lotta colla sua favorita in titolo Gabriella d’Entragues seducentissima dama niente disposta a sostenere la rivalità pericolosa della sposa novella. La placò finalmente il dono del marchesato di Verneuil coll’annesso castello e centomila scudi. È probabile che tale somma abbia poi figurato nella lista civile fra le spese del matrimonio. Il re, galante deve averla rassicurata anche sul capitolo della sua fedeltà avvenire poichè contemporaneamente al Delfino nacque l’anno appresso il marchese di Verneuil. Quando Maria dei Medici entrò in Francia l’italianismo era in piena voga. Compagnie italiane recitavano a corte e nei principali teatri di Parigi acclamatissime e desiderate; lo studio della lingua italiana faceva parte di ogni buona educazione; si argomentava nei salotti sul modo perfetto di pronunciare questa o quella parola; si tenevano accademie per discutere i versi dell’Ariosto. Una canzone del tempo terminava con questi versi: Si vous n’étés Italien Adieu l’espoir de la fortune; Si vous n’étés Italien Vous n’attrapperez jamais rien. Una persona che contribuì largamente a diffondere in Francia il gusto delle cose italiane fu la celebre fondatrice del salotto azzurro, la bella, saggia e intellettuale marchesa di Rambouillet. Nascendo a Roma dal marchese Nivonne Pisani ambasciatore presso la Santa Sede e da una Savelli del patriziato romano, ella era per metà italiana e fino ai dodici anni visse in Italia. Andata sposa di poi al marchese di Rambouillet incominciò subito quella sua vita di intelligente amore per l’arte e per le opere del pensiero che aiutata da un largo censo le permise di trasformare il suo palazzo in un tempio di bellezza e di armonia. E parlava e leggeva di preferenza libri italiani e faceva recitare in casa sua commedie italiane da attori chiamati espressamente dall’Italia affinchè non andasse smarrita la tradizione del dolce idioma; nè mancavano poeti francesi tanto addentro nella nostra lingua da poter scrivere e poetare in essa. Esempio veramente interessante è il seguente sonetto che Ménage dedicò alla fiorente vecchiaia della marchesa: LA BELLA ATTEMPATA. «Florida è sempre e fresca e vaga e bella, A nissun’altra, a se medesma eguale: E, quel che strugge ogni cosa mortale, Il tempo, sue bellezze rinnovella. Tal ebbe il crine nell’età novella. Tale la bocca, ebbe la guancia tale: Sporgon gli occhi splendor almo immortale, E men fiammeggia l’amorosa stella. Se quel bel sole col fulgor celeste In su ’l cader più dolce e meno ardente Gli occhi m’abbaglia e mi consuma il core. O fortunati voi, voi che ’l vedeste A mezzogiorno e lucido e cocente Qual fu l’abbaglio e quanto fu l’ardore!» Il salotto azzurro così chiamata per i ricchi addobbi di velluto azzurro ricamato in argento, prima che da inabili imitatrici degenerasse nelle leziose smancerie che Molière flagellò sotto il titolo di _Precieuses ridicules_ fu un nobile palladio di elevazione nel gusto e nel senso morale. I costumi, sull’esempio della marchesa vi erano onesti e la conversazione castigata; l’amore considerato premio alla virtù e non soddisfacimento materiale dell’istinto, innalzava la donna alla più delicata idealità della sua missione. Questi meriti della Signora di Rambouillet nelle cui vene scorreva tanto sangue italiano sono poco noti a noi italiani e mi piacque insistervi abbinando la considerazione che circondò in Francia questa donna di valore all’altra contemporanea influenza italiana esercitatavi da Maria dei Medici con intelletto forse minore, ma coll’innegabile prestigio di una regina giovane, avvenente e per eredità di famiglia avida di dominazione. Pare tuttavia che il temperamento di questa Medici non sia sempre stato in proporzione di forza colla tendenza dominatrice perchè lasciò che su di lei prendessero soverchio ascendente un libertino qual era Concino Concini e una intrigante come Eleonora Galigai. Troppo lontano ci porterebbe l’indagare fino a qual punto Concino meritò di essere chiamato il favorito della regina, se fu veramente lei a crearlo maresciallo d’Ancre e lei a fargli sposare la Galigai che era bruttissima per mettersi al riparo della gelosia. La cronaca scandalosa del tempo la accusa anche di tardivi amori col cardinale di Richelieu, ma si può credere alle cronache scandalose? L’ultima parola degli storici più coscienziosi è che Maria dei Medici fu donna onesta e moglie irreprensibile. Possiamo dunque essere sicuri che le seimila messe da lei lasciate a suffragio dell’anima sua saranno state più che sufficienti per assolverla dai peccati veniali. È giustizia aggiungere all’opera di italianità da lei esercitata a Parigi l’avervi attirato Gian Battista Marino, poeta noto ai nostri giorni solo per le sue immagini strampalate, ma che ebbe allora grandissima voga, che trovò a Parigi colla moda dominante del preziosismo il terreno propizio a’ suoi voli pindarici e fama, onori, ricchezza. Ricordiamo che insieme al salotto della Rambouillet dove l’elevazione dello spirito e delle belle maniere era sorvegliato da una donna di seri intendimenti, fioriva il salotto della Scudery autrice di quella ridicolaggine che era la carta geografica del paese _di Tendre_ sulla quale il perfetto innamorato doveva studiare le strade e i fiumi per giungere attraverso _Jolis vers_ e _Billet Galant_ a ciò che si trova anche senza la carta geografica. Un tale ambiente era quello che ci voleva per gustare i versi del cavalier Marino: «Sudate o fuochi a preparar metalli», e l’altro: «Zappo l’onda, aro il sasso e mieto il vento.» poesia di decadenza, imputabile più che ad un solo uomo alla corrente dissolvitrice di un periodo di transazione. Naturalmente la musa del cavalier Marino sollevò il turibolo dei suoi incensi alle più ardite iperboli per ingraziarsi sempre più la benevolenza della regina. Migliaia di versi contano le sue bellezze una ad una: gli occhi di luce così possente che: «_ammolliscono la durezza degli scogli_» il labbro «_chiude in poco spazio un paradiso_» il seno «_valle di gigli ove passeggia aprile_» e quando parla del naso dice: «_sorge nel mezzo del viso un edificio bianco._» L’assassinio di Enrico IV compiuto dalla mano di Ravaillac pone fine ai madrigali galanti, ma non rende ingrato il cavalier Marino che alla tragica vedova sua benefattrice dedica ancora in elogi e rimpianti i frutti migliori del suo poetare. Maria, proclamata reggente fino alla maggiore età del figlio, mostrò avvedutezza e prudenza, quella avvedutezza e quella prudenza che appena sposa seppe spiegare in mezzo agli intrighi dei cortigiani e delle amanti del re, che la sostenne più tardi quando Margherita di Valois (prima moglie divorziata di Enrico IV) tornò a Parigi e le due regine incontrandosi dovevano pur fare _à mauvais jeu bon visage_, dignitose e corrette per non far ridere la platea. La nobile condotta della principessa medicea come non l’aveva salvata dalla maldicenza al tempo di Concino Concini, non la risparmiò neppure quando apparve alla corte Armando Duplessis più tardi cardinale di Richelieu che tornava allora dai successi di Roma, giovane, bello elegante e scaltro. La storia però riconduce anche qui ogni fatto al suo posto e se Maria fu allontanata da quello che, per una trentina d’anni, era stato il suo regno non è già perchè Richelieu volesse sbarazzarsi di una donna gelosa, come insinuarono i maligni, ma perchè il nuovo, ambiziosissimo cardinale, avido di dominare da solo l’animo del giovane re, lo persuase con abili raggiri a tenere lontano la madre. Maria emigrò a Bruxelles poi a Londra, infine a Colonia dove tranquillamente finì i suoi giorni. I FRATELLI ZUCCARI. A chi visita diligentemente il Pantheon di Roma non sarà forse sfuggita, a sinistra, poco lungi dalla pietra che ricopre gli avanzi di Raffaello, la tomba di un altro pittore quasi contemporaneo: _Taddeo Zuccari_, e si sarà forse domandato: Chi era costui? Era infatti, prima che un libro di Corrado Ricci risuscitasse i disegni della _Divina Commedia_, quasi totalmente dimenticato il nome dei fratelli Zuccari, pittori. Dice di essi il Vasari nella edizione bolognese del 1681: «Essendo duca di Urbino Francesco Maria, nacque nella terra di Sant’Agnolo in Vado l’anno 1529 adì primo settembre ad Ottaiano Zuccheri pittore un figliuolo maschio al quale pose in nome Taddeo; il qual putto avendo per dieci anni imparato a leggere e scrivere ragionevolmente se lo tirò il padre appresso e gli insegnò alquanto a disegnare. Ma veggendo Ottaiano quel suo figliuolo aver bellissimo ingegno e poter divenire altro uomo nella pittura che a lui non poteva essere, lo mise a stare con Pompeo da Fano, suo amicissimo e pittore ordinario; le opere del quale non piacendo a Taddeo e parimenti i costumi, se ne tornò a Sant’Agnolo.» Non è questo il principio di una esistenza comune? Tanto comune che Ottaiano la trovò naturalissima, ed avendo abbandonato la momentanea velleità di fare di suo figlio altro uomo che egli non fosse, si oppose con tutte le sue forze quando il fanciullo a quattordici anni dichiarò di volersi recare a Roma per imparare il disegno, come non gli sarebbe mai riuscito standosene a casa, sotto la direzione mediocre del padre, già impacciato di numerosa figliuolanza. La risoluzione di Taddeo era di quelle che non mutano per ostacoli o per controversie, e per quanto il padre negasse il suo consentimento, volle partire e partì. Arrivando nella grande città, solo, così giovinetto ed inesperto, aveva però in mente di cercare appoggio presso un cugino, pur esso pittore — ed era forse questa anche l’unica speranza e consolazione del padre — ma il parente, niente allettato dalla comparsa del piccolo vagabondo, lo pose senza cerimonia fuori dell’uscio e glielo sbatacchiò in faccia; per cui eccolo veramente solo e veramente abbandonato in quella Roma che egli voleva conquistare. Questo è certo il periodo più interessante della vita di Taddeo. È in esso che si venne sviluppando la singolare tenacia della sua volontà, la resistenza alla sventura, la fede nel suo ideale, l’austera dignità del carattere. Deciso a non ricorrere al padre, mai, per nessun bisogno, anzi facendogli sapere che stava benissimo, visse randagio, accomodandosi a tutte le privazioni, girando di bottega in bottega a macinar colori per guadagnare da sfamarsi, dormendo sotto i porticati delle chiese, pigionale del lastrico e del cielo. Credette una volta di potersi mettere a posto presso un Calabrese, possessore di certi cartoni di Raffaello che a Taddeo facevan gola assai; ma anche qui naufragò, prima contro la grettezza del maestro che non gli permetteva nessun lavoro altro che manuale, poi (trascrivo ancora lo stile ingenuo ed efficace del Vasari) «costui, insieme con sua moglie, donna fastidiosa, non pure lo facevano macinar colori giorno e notte, ma lo facevano non ch’altro patire del pane; del quale acciocchè non potesse neanche averne a bastanza, nè a sua posta, lo tenevano in un paniere appiccato al palco, con certi campanelli che ogni poco che il paniere fosse tocco suonavano e facevano la spia.» Di questo Taddeo non si sarebbe doluto, avvezzo a ben altre contrarietà, se gli fosse stato possibile di copiare i vagheggiati cartoni; ma perchè ciò avvenisse in nessun modo, lo mandavano a letto al buio, togliendo l’olio dalla lucerna. Non ancora però cedeva l’ardente smania del giovinetto che, ritto contro la finestra, disegnava sui vetri al lume della luna; così come disegnava durante il giorno con una scheggia di cristallo sulla macina dei colori, come disegnava quasi fino in sogno. Un aneddoto grazioso a proposito di queste visioni, di questa seconda vita poetica che si soprapponeva alla brutale realtà, lo raccontava e lo illustrò pure più tardi il fratello Federigo. Essendosi un giorno Taddeo, stanco e febbricitante, addormentato sulla sponda di un fiumicello, gli parve di vedere che le pietre e la ghiaia tutto intorno recassero dipinti di Polidoro e di Raffaello. Colpito dalla scoperta di un simile tesoro, anche desto non abbandonò l’illusione e tutto infervorato, caricò più che potè di quelle pietre in un fardello, recandosi col peso di esse fino a casa, dove solo più tardi riconobbe la propria allucinazione. Dove finiva dunque in lui il senso della realtà e dove cominciava il mondo fantastico? Non aveva egli sempre vissuto più di sogni che di pane? e durante le innumerevoli notti trascorse sotto le stelle, quali fili misteriosi lo avevano allacciato alla comprensione della bellezza invisibile? Ma nè l’istoriare a lume di luna i vetri della sua cameretta, nè il disegnare a memoria con un scheggia acuminata sulla macina dei colori le opere dei grandi appena intraviste, nè il sognare continuamente di pittura e di pittori portavalo molto innanzi. Egli comprese che bisognava cercare ancora, lottare ancora. Lasciò l’inospitale casa del Calabrese e tornò all’alloggio dei porticati, alle gradinate dei templi, sotto quel cielo fatale di Roma ricco di splendori e di febbri. Certo la visione poetica doveva essere molto forte in quell’adolescente e tenergli luogo di tutto. Sotto gli archi, presso i ruderi di una grandezza che egli pensava di arricchire di nuova gloria, le memorie della casa paterna, l’affetto della madre, tutto ciò che era tenerezza e mollezza di nido doveva apparirgli come una tentazione da cacciare, il solo vero ostacolo per la realizzazione del suo sogno. Eppure l’ostacolo si impose. Penetrato dalle febbri miasmatiche che il dormire all’aperto gli aveva appiccicato in modo invincibile, sopraffatto dalle fatiche fisiche, dagli stenti, dalla malattia, gli fu triste necessità far ritorno a Sant’Agnolo. Non ho potuto trovare una data esatta in proposito, ma risulta chiaramente dai fatti che ben poco tempo rimase in famiglia. Appena ristabilito nella salute prese per la seconda volta il suo bastone di pellegrino e si riaffacciò alle porte di Roma, dove lo attirava un fascino misterioso e potente. Questa volta almeno fu più fortunato. Allogatosi presso un certo Giacomone, libero di molestie materiali, tranquillo, fece in breve tempo rapidissimi progressi. Da questo momento tutta la sua vita cambia; sembra che una fata lo abbia toccato colla magica verga, intanto che delirava per febbre nelle ultime notti trascorse a ciel stellato, e costretta la sventura a partirsi da lui. Fu subito conosciuto ed apprezzato, per modo che quello stesso parente dal quale era stato respinto nei giorni del bisogno venne a lui pieno di cortesia e di promesse, lo indusse a rappatumarsi e s’accordarono per lavorare insieme «avendo Taddeo che era di buona natura tutte le ingiurie dimenticate» conclude lo storico contemporaneo. E — senza nessuna intenzione di menomare la bontà d’animo di Taddeo — si capisce come un uomo preoccupato di alte mire non volesse perdersi in bizze e in puntigli da femminuccia. Questo primo trionfo del fanciullo reietto portava in sè stesso la più nobile e più completa vendetta. Slegato dal maestro, assunse i freschi per una cappella di Santa Maria a Vitto, oltre Sora, nel principio degli Abruzzi; poi per commissione di un gentiluomo romano, e non senza esitazioni da parte di costui che dubitava per la immatura età del pittore, condusse a termine la facciata di una casa a chiaroscuro, destando la meraviglia degli intelligenti. Aveva allora dieciotto anni. Da quel tempo fino al 1550 continuò a lavorare, non ad opere di grande importanza, ma sempre bene e con profitto. Intanto papa Giulio III inaugurava il proprio pontificato con un Giubileo e per tale straordinaria ricorrenza vennero dal paesello di Sant’Agnolo a Roma il padre e la madre di Taddeo, conducendo uno dei sette figlioli che eran loro rimasti. Finite poi le feste e la gioia del rivedersi se ne tornarono a casa «lasciando detto putto chiamato Federigo» alla custodia del maggiore fratello e coll’intenzione di fargli imparare belle lettere; intenzione che venne a modificarsi col tempo perchè Taddeo pur non risparmiando gli studii letterarii al giovinetto, si persuase che avesse maggior attitudine al disegno, onde incominciò a farlo addestrare in quest’arte con ben diverso appoggio e fortuna che egli stesso non avesse avuto. Seguitò poi i lavori nella chiesa di Sant’Ambrogio dei milanesi, a Santa Lucia della Tinta, e finalmente chiamato dal duca Guidobaldo a Urbino vi si recò «lasciando in Roma chi avesse cura di Federico e lo facesse attendere a imparare.» A Urbino le cose non andarono perfettamente bene, perchè avendo dovuto assentarsi il Duca, diede ordine che l’artista fosse provveduto di quanto occorreva al compimento del lavoro e i suoi incaricati per contro lo lasciarono mancare di ogni cosa, motivo che determinò Taddeo a far ritorno in Roma, dopo aver perduto due anni di tempo e però altro particolare che lumeggia il suo carattere fiero e delicato — trovato il Duca «si scusò destramente senza dar biasimo a nessuno.» Lungo cammino sarebbe il voler seguire tutte le opere eseguite da Taddeo, e quelle di lui con aggiunta di giovani scolari, e quelle iniziate per aprire la via e dar nome al fratello Federigo; furono tante e così varie che gli emuli e gli invidiosi non gli risparmiarono l’accusa di rapacità, della quale parmi si possa facilmente scagionare riflettendo che egli si era assunta l’educazione di Federigo non solo, ma anche di un altro fratello e che tutta una famiglia bisognosa gli stava alle spalle. Il forte fanciullo che aveva lottato corpo a corpo colla miseria, fatto uomo, non poteva aver scordato i giorni senza pane e le notti senza letto e se, giunto esclusivamente per i suoi meriti ad una posizione invidiata, celebre, adulato, la fortuna non lo accieca, la gloria non lo fa ingrato, la vicinanza dei principi e della reggia non lo rende egoista, ma modesto e perseverante continua a lavorare non più per sè, ma per i suoi, trovo tutto questo logico e conseguente non solo, ma anche bello. Tuttavia, avendogli il cardinale Alessandro Farnese proposto gli affreschi del palazzo di Caprarola, ivi si ritirò e stette parecchio tempo solitario lavorando attorno a quelle splendide sale della _Solitudine_ e del _Sonno_, alle quali concorse l’ingegno di Annibal Caro suggerendo allegorie e motti latini. Ed ecco, vicino alla figura dolcemente austera di Taddeo Zuccari crescere con espansione propria e carattere affatto differente il giovinetto Federigo. A lui la fortuna aveva, fin dagli albori, sorriso. Più bello, di carattere fantasioso, vivace ed anche petulante per insofferenza di freni, lo pungeva vivamente l’emulazione; e per quanto affezionato e devoto al fratello niente altro bramava che uscire dalla sua ombra e fare da sè. L’occasione gli fu porta da Taddeo stesso che gli cedette gli affreschi di una casa in Roma; ma prudente e timoroso guardiano del giovane esordiente lo andava sorvegliando in questo primo lavoro. È naturale che egli sentisse per Federigo una trepida affezione mista di indulgenza paterna e della severità di maestro. Così però non la intendeva Federigo, smanioso di misurare le proprie forze davanti al pubblico; per cui dopo di avere pazientato un po’ di tempo e sofferto con relativa calma le correzioni ed i ritocchi, un bel giorno ruppe il freno e in un eccesso di rivolta preso il martello ruppe e buttò a terra tutto quanto Taddeo aveva creduto bene di aggiungere al suo lavoro. Per fortuna questa bizza non alterò menomamente l’alleanza dei due fratelli che continuarono a lavorare insieme nel miglior accordo, dividendosi l’opera; Taddeo fece allora il ritratto alla figlia del duca d’Urbino e Federigo accudì ai dipinti nel palazzo d’Aracoeli e nell’appartamento fabbricato da Innocenzo IX; finchè chiamato dal patriarca Grimani a Venezia per finire la cappella di San Francesco della Vigna, vi si fermò a dipingere due affreschi rappresentanti la storia di Lazzaro e la conversione della Maddalena e si sarebbe assunta ben anche la facciata principale della sala del Gran Consiglio, se le gare e le contrarietà sorte fra i pittori veneziani non ne avessero privato e lui ed essi. Taddeo rimasto solo a Roma e malinconico — che forse gli penetrava nella sensibile anima il vuoto della vita e della gloria — attendeva quietamente, con un grande amore raccolto a quello che doveva essere il suo ultimo lavoro, l’_Assunzione della Vergine_ nella chiesa della Trinità. Invano gli amici lo sollecitavano a prender moglie; la potenzialità de’ suoi vincoli terreni era stata esaurita nella sua stessa famiglia e principalmente in Federigo, al quale sembrava aver ceduto tutti i vantaggi della sua giovinezza di stenti, legandogli la parte luminosa di quella duplice esistenza che incominciata collo scherno e colla miseria doveva finire in una quasi apoteosi. Il sogno interno che lo aveva sorretto quando lacero e affamato dipingeva a chiar di luna, trovava una continuazione nella visione ultima della sua vita. Affatto staccato dalle cure materiali e di lusso esterno, a cui invece Federigo dava molta importanza, chiuso nella solitudine morale dove la sua tempra erasi fortificata, la morte lo colse quasi inavvertitamente. Un lieve malessere che parve cagionato dal caldo eccessivo di quell’anno 1566 andò crescendo rapidamente fino al 2 di settembre giorno in cui morì, a trentasette anni appena. Dice il Vasari che Taddeo ebbe una maniera di dipingere dolce, pastosa e abbondante, lungi da ogni crudezza, e che faceva specialmente molto belle le teste, le mani e i nudi in genere; nel quale giudizio concorda pure l’Orlandi. Di carattere lo definisce altero, sanguigno, subitaneo e sdegnoso, ma amorevole cogli amici che aiutò sempre in tutti i modi. Il Lanzi gli è un po’ meno favorevole; trova che il suo stile non è scelto nè studiato abbastanza, piuttosto facile e popolare che sublime, pur confermandone l’abilità speciale per le teste. Quella stessa avidità di fare, nata dalle dure lotte colla miseria che lo incalzava a crearsi rapidamente una posizione, forse il presentimento di una morte immatura, furono cause di aiuto alla ineguaglianza del suo stile, talvolta trascurato se stretto dal tempo o dal bisogno, finissimo invece quando si abbandonava al lavoro senza estranee preoccupazioni, come lo dimostra il quadro della _Natività_ passato dal duca d’Urbino alla nobile famiglia Leopardi, dove ignoro se si trovi ancora. Ma qualunque sieno i meriti di Taddeo Zuccari, pittore, se troppo esaltato a’ suoi tempi o se trascurato ai nostri, ho già detto di non voler cercare, per la ragione semplice ma buona della incompetenza mia a discorrere di un’arte che ammiro senza conoscere. Io ho voluto principalmente studiare la psicologia di quest’uomo, un _bel caso di_ rettitudine innata, di anima veramente artistica, un esempio di fede e di perseveranza dove sarebbe stato così facile lo scetticismo, una dignità intima che domina tutte le cause esterne. Dopo la morte di Taddeo, Federigo, già conosciuto e creato cavaliere della Repubblica di Venezia succedette all’opera ed alla fortuna del fratello. Terminò i lavori della cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze, rimasti imperfetti per la morte del Vasari; quelli della cappella Paolina a Roma, ed avendo in seguito a questi provocata la malevolenza dei cortigiani se ne vendicò con un quadro detto della _Calunnia_ dove i suoi nemici sono rappresentati con orecchie d’asino. Questo scherzo gli valse l’esilio. Riparò in Francia e lasciò dipinti suoi all’antico castello di Meudon; passò in Inghilterra, dove ritrasse le sembianze delle due regine rivali: Maria Stuard ed Elisabetta, i quali si ammirano ancora nella Galleria dei ritratti a Londra; prese dimora in Olanda, in Fiandra e finalmente in Spagna dipingendo per l’Escuriale; era di carattere mobile e focoso, facile all’ira, non sembrandogli abbastanza riconosciuto il suo merito dai Grandi di Spagna, quantunque il Re lo colmasse di onori e di regali, fece ritorno in Italia soggiornando per due anni e mezzo a Torino. Qui lasciò molti affreschi nella Galleria del Palazzo Ducale. Innumerevoli poi sono i quadri e gli affreschi disseminati da Federigo nelle città italiane: a Parma, a Mantova, a Pesaro, a Urbino, a Orvieto, a Pavia nel Collegio Borromeo, a Milano nella Pinacoteca di Brera, ecc. Illustrò con molti disegni il poema di Dante, finchè potè tornare a Roma, al suo Monte Pincio prediletto; sul quale eresse dalle fondamenta la palazzina che tuttora esiste, che egli curò e dipinse con infinito amore «_il mio Tugurio_ — la chiama in una lettera ad un amico — _pur fatto con tanto mio diporto_.» Sorgeva intanto un’altra opera in Roma, alla quale Federigo dedicò le migliori sue forze, l’accademia di San Luca, cui Gregorio XIII conferì il Breve circa l’anno 1504. Nel giorno dell’inaugurazione, Federigo fu per plauso unanime eletto Principe della nuova Accademia e venne accompagnato a casa in trionfo da professori, letterati e scolari in gran numero. Egli amò poi sempre questa istituzione della quale fu zelante, operoso, generoso duce. Nel caso che fosse morto senza figli voleva anche nominarla sua erede universale. Quando invece morì, in Ancona nel 1609, era già padre e nonno, avendo sposata una Francesca Genga da Urbino, dalla quale aveva avuti parecchi figli. L’opinione di chi scrisse sui pittori del cinquecento è che Federigo avesse molto e svariato ingegno, ma molta anche fortuna, dovuta in parte ai precedenti del fratello e certamente assai all’insieme delle sue doti personali «aspetto e tratto signorile, coltura, destrezza a guadagnarsi gli animi, liberalità grandissima che gli assorbì le cospicue somme guadagnate e profuse in fabbriche, in arredi, in servitù.» Fu anche scrittore. Il suo maggior lavoro: _L’idea dei pittori, scultori e architetti_ è un libro faragginoso e indigesto, nel quale però (scrive il padre Pungileone nel _Giornale arcadico del 1832_) si trova tratto tratto molta intelligenza dell’arte e desiderio dell’utile; e utili insegnamenti vi erano pure nei discorsi da lui pronunziati essendo principe dell’Accademia di San Luca, per cui si può dire che ne’ suoi scritti è il letterato che fa torto al pittore, caso mai; ma come pittore fu giudicato intendente anche da quello spirito fine e colto del cardinale Federigo Borromeo, che pregiò assai lo Zuccari e lo tenne in conto di «coloro che sanno vedere e penetrare nei segreti dell’arte.» È di Federigo Zuccari questa definizione: _il pittore deve saper rappresentare tutte le cose che si possono dipingere e rappresentarle non quali sono ma quali dovrebbero essere_: canone d’arte idealista che potrebbe accontentare anche adesso i più inquieti cercatori di forme aristocratiche. Un altro scritto suo: _Il passaggio per l’Italia colla dimora in Parma_, è un opuscolo di facile e piacevole lettura, anzi sono due opuscoli in cui si trovano descritte minuziosamente parecchie feste date in occasione delle nozze fra il duca Francesco Gonzaga di Mantova e la principessa Margherita di Savoia. Succose e brillanti sono le pagine dedicate a magnificare la bellezza e l’eleganza delle dame alla corte di Torino, la loro speciale acconciatura del capo e un certo ballo chiamato _la Nizzarda_ che noi saremmo ben meravigliati di veder ballare adesso al Quirinale. «_Tre quarti detta mia vita e posso ben dire quattro quinti furono consumati in viaggi, ma mi sentirei di valicare ancora gli Appennini e le Alpi_» scrive in questo opuscolo, il quale non è alla fine che una lunga lettera diretta a Pierleone Casella e — pare — collettivamente a molti de’ suoi amici in Roma, fra cui artisti, preti, discepoli e una donna, una pittrice, Lavinia Fontana. Il fasto di una vita passata quasi tutta in viaggi e in soste alle principali corti d’Europa, accolto e complimentato dovunque dai più gran signori, circondarono Federigo di uno splendore che per lui diventò bisogno. Si credette che dovesse lasciare tesori, ma in realtà la sua famiglia ebbe appena di che vivere onoratamente dopo la sua morte, e mandando a nozze una figliuola le diedero in conto di dote parecchi quadri fra i quali _la Calunnia_ stimato più di mille scudi. Alla tanto amata Accademia di San Luca lasciò invece la palazzina sul Pincio, per uso degli artisti poveri che venendo in Roma non trovassero alloggio. Come non credere che egli avesse, con questo atto, pensato alla dolce memoria di Taddeo e a quei primi anni di lotte oscure e pertinaci che dovevano preparare a lui tanti trionfi? Gli storici non si sono pronunciati sul merito relativo dei due fratelli. Tre secoli li hanno confusi quasi in una sola persona. Si dice gli Zuccari come si dice i De Goncourt. Può anche darsi che, discepolo d’uno dell’altro, in un periodo di decadenza dell’arte quale fu la fine del cinquecento, il loro valore artistico risentisse degli stessi pregi e degli stessi difetti; ma considerati nella loro personalità mi pare che non si possa confonderli. Sono due figure speciali, originali e in diverso modo simpatiche. Nella sala dell’Accademia di San Luca si vede un ritratto ad olio di Federigo Zuccari, e un altro se ne trova, un po’ dissimile a dire vero, negli Uffizi di Firenze; questo ha il volto maschio ed espressivo, la barba nera cadente sul collare arricciato ed una catena d’oro che gli fu data a Venezia insieme al titolo di cavaliere e che egli soleva portare sempre. Ma il ritratto di Taddeo, malamente riprodotto nella vecchia edizione del Vasari, non riesce a darmi tutta intera la fisonomia sua, che doveva essere non solo «altera», come dice il biografo, ma pure soffusa di una intima malinconica dolcezza. Oh! dove sarà andato a finire il ritratto che ne fece Federigo quando, fanciullo ancora, stava alzato nelle notti di luna per disegnare sui vetri della finestra? IMPRESSIONI LA COSCIENZA DEL FANCIULLO Un giorno, sulle rive d’uno dei nostri laghi, lungo la spiaggia incantevole che tutti gli stranieri ammirano quale sintesi della poesia e compendio della bellezza, ascoltavo il dolce e confuso chiacchierio di un bambino nascosto nelle alte erbe che chiamava ad ogni tratto: mamma! mamma! senza che alcuno rispondesse. Finalmente da un piano superiore dove la madre stava falciando giunse la risposta, dura, aspra, formulata in una sola parola che passò sibilando fra l’ondeggiamento delle alte erbe; ed era, questa risposta della madre al pargoletto, la stessa famosa che diede Cambronne all’esercito nemico...! Ricordo che ne provai acuto dolore, quasi di schiaffo che mi avesse arrossata la guancia. Qualche cosa attraverso l’innocenza di quel bambino era stata brutalmente offesa in me, e proprio ciò che ognuno ha di più sacro: la dignità umana. Quante volte da allora la molla profonda dell’anima mia scattò e lagrime invisibili mi bruciarono gli occhi davanti allo scempio che giornalmente si fa delle anime tenerelle, questo prezioso deposito che i secoli si trasmettono d’uomo in uomo, che dovrebbe farci tremare di commozione e piegare i ginocchi come dinanzi al più grande miracolo della Divinità. Pensate a un bambino appena nato, a questo mistero che viene a noi da lontani, ignoti, atavici germi, che passa per un istante nelle nostre mani per poi continuare la sua strada verso un futuro ancora più ignoto, ancora più lontano; anello che ribadito ieri si slancia ad agganciare il domani; parte viva della lunga catena che l’umanità ha trascinato in sua corsa vertiginosa salendo alle vette più eccelse e toccando i più miserevoli abissi. Un bambino ha in sè la grazia ingenua del fiore, la poesia sconfinata dei cieli, il mistero profondo del mare. Non conosco nulla di più bello e di più sacro. È sopratutto sopra questo secondo aggettivo «sacro» che vorrei arrestare le mie considerazioni, essendo il primo già largamente accettato per consenso quasi unanime. Difatti non sono le carezze, i complimenti, le esterne compiacenze che mancano ai nostri bambini, ai nostri fanciulli. Nella concezione affatto materialista che si ha ora della felicità tutto ciò che è dote fisica o che può condurre ad una tangibile conquista attrae principalmente l’attenzione e le cure dei genitori; e il florido aspetto, le belle vesti, l’istruzione precoce, i dilettevoli passatempi che ognuno di essi secondo la propria condizione ed anche fuori di essa si sforza di non lesinare li persuade di compiere tutta intera la loro missione verso la prole; ma in grande maggioranza amano i propri figli e non li rispettano. Non occorre discendere fra la gente rozza e male educata per trovare la conferma di quello che dico. Il motto di Cambronne o qualche altro dei molti equivalenti esce anche da una bocca abituata a parlare elegantemente in società se la persona che la possiede non ha dominio su sè stessa e interrotta nelle sue occupazioni dalla querula voce di un bambino più che alle ragioni di questo ubbidisce allo scatto incomposto dei propri nervi. Amare un fanciullo non basta se si dimentica un solo istante che nelle tenebre della sua coscienza ignara noi rappresentiamo il Faro. Guai se brancicando al buio il fragile l’inesperto schifo vede oscillare la luce che deve essere la sua guida! A ben considerare occorre all’educatore una cosa sola, ma è la più difficile: l’esempio. Nelle famiglie odierne il fanciullo ode sempre a parlare anzitutto di denaro. Il tale è ricco; oppure non è ricco. Ci vogliono molti denari per vivere bene. Uno è bravo se guadagna molti denari. Le ragazze si maritano se hanno la dote. Nella scelta di una professione bisogna guardare la più lucrosa. Oh! che bella cosa essere ricchi! Oh! se vincessi un terno al lotto! Si tratta di un testamento? Oh! se avesse lasciato a me! C’è una tombola? Tutti prendono un biglietto e per dei mesi non si discorre d’altro. Il denaro! Il denaro! Questo mostro dai mille tentacoli, ignorato dai fanciulli di una volta, afferra i nostri piccini appena abbiano l’uso della ragione e ne piega subito la fresca impressionabilità verso un concetto della vita così volgare che raramente vi trova posto in seguito per agire la molla delle idealità superiori. Secondo argomento: la maldicenza. Il fanciullo impara presto che l’amicizia è una menzogna, la virtù una ipocrisia, l’idealismo una sciocchezza, i maestri tutti ignoranti, i ministri tutti birboni, le donne tutte civette, gli uomini tutti imbecilli. Prima ancora che egli vi si possa affacciare, lo specchio delle sue illusioni è contaminato. L’ironia precede l’esperienza; lo scetticismo, frutto amaro del dolore, sforza i teneri virgulti e li costringe ad essere nòcciolo secco e cattiva sementa assai prima che essi diventino bòcciolo e fiore. E ciò è male. Tutto nella natura procede a gradi. Noi non siamo diversi in ciò dall’albero e dobbiamo rispettare nelle fibre giovinette la necessaria gioia dell’illusione che solo il vento e le tempeste hanno il crudele diritto di abbattere e di ferire. La pornografia infine, se non in tutte le famiglie certamente, in molte però anche delle più oneste si introduce col frizzo, coll’aneddoto, coll’allusione. È difficile rinunciare al piacere di far ridere i commensali con un fatterello grassoccio, o di colpire una rivale con una rivelazione scandalosa. Qualche volta non è pornografia proprio, ma è un fattaccio di cronaca cittadina, grossolano, ripugnante, volgare; è un furto, è un omicidio, una vendetta, una crudeltà; oppure è la descrizione minuta di una operazione chirurgica, di un parto... tutte ombre nere che sulla pellicola delicata della coscienza infantile lasciano una macchia. Si dice: il fanciullo non capisce. E non è vero. Il fanciullo capisce sempre, capisce tutto, qualche volta capisce a rovescio ed è peggio. Se anche non capisce chiaramente il fatto, gli resta indelebile l’impressione che il babbo e la mamma hanno parlato di cose brutte che si sono interessati o hanno riso o hanno confabulato sopra argomenti che gli vogliono nascondere e la fiducia nel babbo e nella mamma se ne va. Il faro invece di dar luce boccheggia sconciamente e fa fumo. Altra volta il padre o la madre sconcertati e seccati dalla attenzione che leggono nei chiari occhi aperti del fanciullo gli gridano aspramente: «Perchè stai qui ad ascoltare? Vattene!» e il fanciullo se ne va sentendo confusamente il peso di una ingiustizia, poichè chi guarderà, chi ascolterà, da chi dovrà egli imparare se non dal padre e dalla madre? Il fanciullo è terribile giudice. La sua coscienza pura va diritta al bene ed al male, non conosco mezzi termini nè attenuazioni. Quando un superiore nervoso e stizzoso lo sgrida fortemente per una lieve mancanza egli vede subito il difetto di chi vorrebbe correggerlo, distingue lo sfogo iracondo dalla equa riprovazione, constata la deficenza dell’educatore e diffida. Quando castigato per un atto scomposto o per un impeto di collera vede l’educatore che si atteggia scompostamente e che si abbandona esso pure alla collera le sue nozioni sul bene e sul male, sulla giustizia, sul rispetto, sulla verità si alterano in modo deplorevole. La giovane coscienza si ripiega su sè stessa, si interroga, discute, e fin da allora incominciano quelle deviazioni che più tardi si manifesteranno con grandi falle nel carattere. Non sono pochi i genitori i quali pensano che il fanciullo abbia solo dei doveri. Il fanciullo ha anche dei diritti; i diritti sacrosanti della sua innocenza, della sua credulità, della sua debolezza. Egli non deve essere in mano nostra la cera molle del nostro capriccio, lo zimbello dei nostri nervi, il bersaglio dei nostri malumori, il balocco che si palleggia, si getta, si alza, si depone colla semplice norma del nostro beneplacito. Noi dobbiamo pensare che i nostri figli ci valuteranno un giorno atto per atto, parola per parola, e ben fortunato fra essi sarà colui che ripassando colla memoria la propria infanzia potrà rivedere la figura del padre in una linea inalterata di dignità e di giustizia, quella della madre in una continua ma illuminata e saggia dedizione d’amore. Infine — dirà qualcuno — è una costrizione regolare della nostra libertà. Certamente. Noi ci prendiamo pure e spesso con molta leggerezza la libertà di mettere al mondo una creatura. Ora ogni libertà si paga come qualsiasi altra cosa e una persona onesta deve far fronte ai propri impegni. Procreare è di tutti gli animali, educare è dell’uomo, ma non si educa nè si dirige alcuno se non si sa educare e dirigere sè stessi. Il disastroso concetto dell’eguaglianza che il nostro secolo vorrebbe applicare a tutta quanta la disuguagliantissima mole delle cose create induce pure nell’errore che si debba parlare ed agire in presenza dei nostri figli nello stesso modo che parliamo ed agiamo coi nostri simili d’età, chiamando ciò schiettezza ed amore del vero; mentre la verità è che la mente del bambino non può giudicare un fatto se non dal suo punto di vista infantile e quindi è necessario preparare i piani a norma della sua visuale mostrandogli solo, come in un cibo ben combinato, ciò che il suo incompleto organismo può assimilare. Questa non è ipocrisia: è rispetto, è dovere. Il bimbo d’oggi sarà domani cittadino, sarà popolo, sarà folla. Dovrà pur conoscere che la libertà degli uomini non può essere simile alla libertà degli asini i quali sferrano calci nell’aria e chi li piglia son suoi. Anche troppo abbiamo allentato quei freni morali che soli traendo l’umanità dalle selvaggie forme primitive l’avevano condotta ai più alti fastigi della gloria e del progresso. Inebbriati dalle nostre vittorie credemmo di poter fare getto del bagaglio importuno dei nostri doveri, ma le crudeli esperienze dovrebbero oramai averci aperto gli occhi. Il dovere, o l’obbligo, o la legge, comunque a seconda dei casi si chiami il concetto fondamentale dell’ordine, è la ragione prima dell’essere e della vita. Che ne sarebbe del mondo se una sola volta il sole mancasse di ubbidire al supremo potere che gli impone di versarci tutti i giorni il suo calore e la sua luce? E noi che rappresentiamo verso i nostri bambini la parte gloriosa del faro e del sole teniamo a mente che essi devono imparare da noi, non dalle nostre parole, ma dalla nostra condotta, la dura disciplina di sè stessi, altrimenti ne faremo degli impulsivi e dei nevrastenici. Del resto l’uomo orgoglioso di un successo oratorio o di quello di un romanzo, la signora che si pavoneggia sotto lo sfolgorio dei brillanti appesi alle sue orecchie, perchè non dovrebbero sentirsi molto più fieri di un bel gesto tracciato dinanzi ai loro figli? Non effimero, non vano nella superficialità di un trionfo momentaneo, sarebbe questo un successo vero e profondo che andrebbe a perpetuarsi come di onda in onda una fresca linfa giù per i rami novelli. Si ambisce tanto di vedere il nostro nome illustrato nelle colonne di un giornale, si sogna di immortalarlo nel bronzo di una epigrafe e non pensiamo che sta in noi scolpirlo nella carne viva dei nostri discendenti, renderlo immortale nel trionfo di una razza più pura, più nobile, più bella. L’ereditarietà e l’imitazione sono i due temi che i genitori dovrebbero meditare sopra ogni altro; dunque correggere sè stessi per educare gli altri; presentarsi in forma di esempio il più possibilmente perfetto in vista delle copie che ne verranno fuori. Un genitore irascibile che punisce l’irascibilità del figlio commette una atroce ingiustizia e un delitto di lesa educazione. Egli dovrebbe prima castigare sè stesso e poi dire al figlio: Vediamo chi di noi due vincerà meglio il nostro difetto. E ad ogni sforzo da lui fatto per dominarsi risponderà allora un risultato educativo veramente efficace. Solo a questo modo si può agire direttamente sulla coscienza del fanciullo e se non si risveglia la sua coscienza ogni altra opera è vana. Sono quasi diciassette secoli che un grande conoscitore degli uomini lasciò scritto: «A quell’età (era fanciullo) mi dilettavo di giuocare e ciò castigavasi in me da coloro che facevano lo stesso; ma le leggerezze degli uomini vengono chiamate negozi e quelle dei fanciulli sono dai medesimi uomini punite. Solitamente chi educa la gioventù non perdona nulla ad essa e tutto a sè». Purtroppo in diciassette secoli non abbiamo cambiato di molto. Se poi dalla famiglia passiamo alla scuola le osservazioni che si possono fare non sono per nulla consolanti. Il livello morale delle scuole è molto basso, mancando in quasi tutte il soffio ideale, quanto dire il fuoco che trasforma la pasta indigesta del sapere nel pane meraviglioso che nutre l’anima. Diamo pure all’anima quel significato che meglio risponde al nostro sentimento, ma dobbiamo riconoscere che solamente in esso sta riposto il nucleo delle migliori energie nostre. L’intelligenza che non si appoggia sulla coscienza non arriva mai a grandi risultati e lo scopo principale dell’educazione non è tanto la cultura quanto l’allenamento dato alle giovani sensibilità che si tendono verso il sapere colle loro cento bocche assetate ed affamate. L’otto luglio 1904 veniva promulgata dal Parlamento una legge sulla morale civile da impartirsi nelle scuole per opera dei maestri e il ministro relatore conchiudeva la sua arringa dicendo che la morale deve vivificare e penetrare ogni atto, ogni sentimento. Benissimo e facilissimo se la morale fosse una derrata ammucchiata nelle aule della scuola e gli scolari altrettanti sacchi da riempire, se l’essenziale nella educazione fosse la dottrina insegnata e non, come à realmente, una fiamma sacra che l’educatore deve agitare con fede e con entusiasmo. Dice Maeterlink ammirevolmente: «Non bisogna che la saggezza abbia una forma; bisogna che la sua bellezza sia così varia come la bellezza della fiamma». È appunto questa fiamma che manca nelle nostre scuole. Incominciando dai libri di lettura che corrono per le mani dei nostri figlietti, a parte pochissime eccezioni, quale miseria di contenuto educativo! quali fra gli strazi della grammatica e del buon senso errori grossolani di psicologia infantile e di concetto morale! Per commuovere non sanno far altro che mostrare il solito poverello vestito di cenci, per far ridere non trovano che trivialità da Bertoldino e da Cacasenno. Oh! Andersen, quale grande anima aveva il tuo cigno perduto fra gli anitroccoli in confronto a questi piccoli eroi volgari di una età che non comprende più nulla della vera grandezza umana! Bisogna anche dire che i racconti di Andersen nascevano dalla sua anima profonda per un irresistibile slancio d’amore verso la bellezza e i libri invece che vediamo troppo spesso nelle mani dei nostri fanciulli, furono scritti quasi tutti a scopo di lucro, perchè se un libro scolastico viene approvato l’utile dell’autore è certo. Vi è anzi un modulo speciale per conformarsi al comune livello di mediocrità e tutto fa credere che se un libro come quello di Andersen si permettesse di concorrere per le nostre scuole sarebbe respinto senz’altro. I maestri? Ma che cosa volete pretendere dai maestri? Chi si è mai sognato di chiedere a un maestro la prova della sua vocazione, della sua moralità, della sua elevatezza? Il maestro è un povero diavolo che fa il maestro come avrebbe fatto il ragioniere o l’impiegato, per mettersi a posto senza grande fatica e assicurarsi un pane per la vecchiaia. Tolta la prospettiva della pensione metà dei concorrenti diserterebbero la cattedra. E poi non viene anche lui, il maestro, da una famiglia? Se non ha avuto in casa esempi di nobiltà, se non fu cresciuto in una atmosfera sana, se i vizi, le male passioni, l’organismo squilibrato lo avvinsero con una completa indipendenza del suo diploma didattico, come farà a dare agli altri ciò che è sempre mancato a lui stesso? Come potrà educare se non fu educato? È un circolo vizioso che ci riconduce inesorabilmente alla fonte prima di qualsiasi coscienza d’uomo: la famiglia. Osserviamo di grazia questo fatto, che i nostri fanciulli allevati in un ambiente puro e gentile, quando abbiano presa dimestichezza colla scuola, si trasformano sotto i nostri occhi meravigliati ed inquieti in turbolenti monelli e udiamo dalle loro labbra innocenti parole che ci disgustano e assistiamo ad atti, a gesti, a pensieri che mai avremmo voluto riscontrare in essi. Noi sentiamo allora che una folla di nemici invisibili sta assediando queste nostre creature e stringendocele al seno ci domandiamo con profonda pietà delle vittime quanti colpevoli vi sono fra i padri e fra le madri! È dunque vano chiedere aiuto alla scuola, poichè la scuola è il lido sul quale si riversa la marea ognor crescente del popolo che travolge insieme pagliuzze d’oro e scorie impure; e non dalla scuola ci è lecito attendere la formazione della coscienza dei nostri figli, bensì noi dobbiamo armarli d’ogni miglior schermo affinchè possano resistere all’onda corrompitrice che nelle scuole dilaga, principio inevitabile e fatale di quella che incontreranno poi nel mondo. Solo quando dalle famiglie più illuminate usciranno uomini puri, avremo la scuola educatrice. Solo allora. STORTURE, DEVIAZIONI E ATROFIA DEL SENTIMENTO. Le idee che verrò esponendo in questo articolo mi vennero uno degli scorsi giorni mentre ammiravo dalla Trinità de’ Monti il panorama superbo di Roma ravvolto nel roseo crepuscolo d’autunno. Standomi così a contemplare dietro la cupola di San Pietro fin sul lontano Gianicolo la nobile figura di Garibaldi caracollante in mezzo alle nuvole sul suo destriero di bronzo, mi noiava un qualche cosa di scuro che vedevo colla coda dell’occhio ballonzolare intorno a me ed era il cucciolo bastardo di un mendicante che portava sulle orecchie spelacchiate un cappello di bersagliere. Anche a non voler accettare la teoria troppo facile di Dumas padre, al quale bastava mettersi alla finestra per trovare il soggetto di un romanzo, è pur vero che talvolta un minimo incidente dà la stura a tutto un ordine di pensieri e di considerazioni. La vista disgustosa di quel cane ornato dell’emblema che è per noi italiani uno dei più cari, e in questo momento sacro, mi ricondusse alla memoria un paio di giarrettiere tricolori che mi erano apparse il giorno prima nella bacheca elegante di un negozio di mode. No veramente, non vi è nulla di sacro per certi sfruttatori, neppure il sentimento augusto della patria. Mi riconduco qui a un mio tema prediletto nella fede del quale trovo ogni giorno conferma, sia guardando le opere dei nostri grandi, sia inoltrandomi nelle nostre piccole esperienze. Quante volte non abbiamo udito ripetere in questi ultimi tempi fino alla sazietà, fino alla nausea, che non si deve dar retta al sentimento e vediamo invece che in ogni superiorità di uomo, in ogni ascesa di popolo è il sentimento che porta alle vere altezze. Vi è bensì una scuola che sotto pretesto di positivismo ha dichiarato guerra al chiaro di luna, ma il chiaro di luna continuerà a beare le notti quando la scuola sarà morta; esso è tanto positivo quanto una fiamma a gas ed è infinitamente più bello. Tutto ciò che si è fatto per distruggere il sentimento lo ha schiacciato, deformandolo, come una vesciva vuota sulla quale ogni mano può imprimere una sagoma e del turgido globo che si innalzava prima nell’aria comporre forme di scherno e di pietà. Alla profanazione del sentimento portato a fare da richiamo nei cinematografi con figure di carta che stralunano gli occhi sulle faccie glabre intanto che un cartellone avverte «in preda alla passione ed alla gelosia» sono venute ad aggiungersi da un po’ di tempo in qua le cartoline per bimbi. Non so se qualcuno dei miei lettori le abbia osservate. Per me che ho il culto delle innocenti anime infantili è uno spettacolo che mi fa male. Non bastano più le pecorelle, le galline, il mulino per allettare il fanciullo che vuole anche lui la sua cartolina e si ricorre ad una grottesca trasformazione di quadri celebri. Ecco l’_Edera_ dove un soldino di cacio in brache corte si allaccia freneticamente ad una pupazzetta di quattro anni. Ecco _Vertige_, la scena d’amore perversa e sottile che i parigini ammirarono in una delle loro esposizioni mondane, ridotta per marionette vive ad esempio anticipato per quando saranno uomini e donne. Ed altri ed altri! È in questi fatti una deformazione assoluta del sentimento educativo. Nè meno impressionante, senza uscire dall’argomento cartoline che ha preso nella nostra vita una importanza di primo ordine, sono certe scenette che vorrebbero mettere in evidenza l’opera buona delle dame della Croce Rossa. Hanno riunito una dama giovanissima e bella con un giovane e bellissimo soldato, li hanno posti nella attitudine del più dolce «flirt», lei sorreggendogli il braccio ferito (oh! lievemente) lui chinandosi verso la fronte che si offre al bacio in un perfetto idillio, il quale deve muovere a sdegno i veri feriti spasimanti nel loro letto di dolore e le vere donne pietose che li curano con abnegazione completa della loro personalità. Vien voglia di gridare: Scherzate coi fanti e lasciate stare i santi. Queste confusioni di sacro e di profano, di cose profonde e di superficialità volgari indicano un disorientamento psichico che non è solamente di oggi. Ce lo attesta da oltre un ventennio l’andamento dei processi criminali, la singolare tendenza dei giurati a commuoversi per l’assassinio e la stupefacente complicità del pubblico che lo acclama quando è prosciolto. È il sentimento della compassione che si è traviato per vie oblique allontanandosi dalla giustizia e dalla verità; così un’anfora di vino generoso destinato a scaldare i cuori se viene rovesciata sulla mensa ne imbratta i lini ignobilmente. Infinite sono le applicazioni che si potrebbero fare alle storture del sentimento nelle sue diverse forme e gradazioni le quali arrivano talvolta all’atrofia. Atrofia del sentimento, della dignità e dell’orgoglio nazionale mi è sempre parsa la supina acquiescienza degli italiani, specie nelle città settentrionali, alla lenta, continua, insistente invasione dello spirito tedesco fra noi. Usi, abitudini, mode, arte, letture, stoviglie e scarpe tutto andava intedescandosi in un modo irritante, cioè irritante per i sentimentali che non sono molti; gli altri accettavano con assoluta indifferenza vestita di una ammirazione che doveva mettere al coperto dai rimorsi. La convinzione che i tedeschi ci fossero superiori deprimeva intanto ogni iniziativa; la lingua tedesca diventava quasi obbligatoria nelle famiglie; si mandavano le fanciulle nei collegi tedeschi per impararla bene. Ma perchè? — io chiedevo sgomenta e non persuasa. — Mi si rispondeva vagamente che era necessario per la loro istruzione. Era pure necessario far venire per i piccoli bambinaie tedesche; i _krapfen_ sostituivano le ciambelle e gli insipidi _zwieback_ i panini freschi. Tutto ciò era ammesso come cosa naturale, inevitabile. E calavano i tedeschi; calavano a frotte, essi e le loro mercanzie, melliflui, insinuanti, così semplici nelle loro faccione tonde, così innamorati dell’Italia! C’era da tenersene onorati. Ricordo una tedesca di Kiel la quale volendo ad ogni costo conoscere l’Italia mi scrisse se potevo trovarle una famiglia disposta ad alloggiarla, nutrirla e illuminarla dietro il corrispettivo magnifico di farle imparare la lingua tedesca. Soggiungeva queste testuali parole: «Mi adatto a qualunque cosa, dormo in qualsiasi posto, mangio qualsiasi cibo, accetto abitudini, persone, circostanze». C’è in tale dichiarazione uno scorcio perfetto dell’anima tedesca. Conosco qualcuno che l’ha ammirata anche in ciò. A me fece ribrezzo. Non è uno dei minori difetti della scuola positivista l’osservazione immediata e superficiale che non tiene conto delle molle invisibili e giudica gli uomini al pari di un tavolino il quale consta di un piano, di quattro gambe e qualche volta di un tiretto. Ma il tiretto interno delle anime è chiuso allo sguardo dei mercanti di mobili. Occorre una sensibilità diversa per penetrarne i delicati congegni. È per questo che i grandi avvenimenti della storia, le conquiste della scienza, la riforma dei costumi, prima ancora che appaiono in linee concrete di fatto sono quasi sempre avvertiti da sottili spiriti di poeti, di pensatori. Ogni gloriosa assunzione umana ebbe il suo profeta e il profeta non è altro che un uomo dalla sensibilità sopracuta che sorpassa l’incidente materiale per figgersi nella luce delle verità superiori sulle quali unicamente appoggia il progresso del mondo. Eccomi un po’ allontanata dal cane col cappello di bersagliere; un poco, non molto, se vogliamo prenderlo come simbolo di ciò che venni esponendo. E neanche parrà troppo lontana dall’argomento la citazione che desidero fare di un sonetto quasi inedito dal quale si vede come il sentimento di un poeta ha saputo precorrere, sotto forma satirica, la repulsione che oramai è divenuta generale per la sopraffazione tedesca. Il poeta è Giovanni Rizzi, trentino, che viveva a Milano quarant’anni fa e del quale forse qualche anima onesta e italiana come la sua si ricorderà ancora: PARERE A UN EDITORE. Lo vuol, caro sor Checco, un mio parere? Non si fermi a guardar se è bello o brutto, Il libro non si vende e il suo mestiere È di vendere i libri innanzi tutto. Io conosco un tedesco, un uomo istrutto Naturalmente! — e che fa ’l chincagliere; Lui, se si tratta di farle un piacere, In dieci giorni gliel traduce tutto. Lei fa scrivere intanto da Berlino (E quel che scrive è ’l chincaglier, s’intende) Che l’opera in Germania fa furore. Il libro allor comincia a far cammino, Non si legge, lo ammetto, ma si vende Che è appunto quel che preme a un editore. CONFORTI. Condivido pienamente l’opinione di coloro che ascrivono tra le più delicate soddisfazioni concesse all’uomo quella di poter alleviare le sofferenze degli altri uomini. È un privilegio quasi divino poichè se ne adorna la corona della Vergine: _Consolatrice degli afflitti_. Benissimo. Ma come si fa a consolare? a consolare veramente, in modo che l’afflitto ne provi un reale sollievo? Col denaro si fa molto, si fa per modo di dire in grande e in visibile. Ai tempi nostri la forma di consolazione che si chiama beneficenza ha invaso il mondo, ma non è di ciò che intendo parlare. Oltre che l’aiuto materiale non è alla portata di tutti, ci deve pur essere nelle risorse spirituali dell’uomo una sorgente di balsami segreti per le ulceri del fratello. Nell’ora suprema del dolore, quando le forze esterne si prodigano invano intorno a noi, non può forse chinarsi un’anima verso la nostra anima ansiosa, sulla nostra carne dolorante, a versarvi un prodigioso nettare d’oblio o la sacra esaltazione che spezzando le sue catene in un rapido volo d’aquila ci ponga dinanzi all’infinito? Io ho cercato, oh quanto! la parola alta, la parola buona, che rispondesse a tale bisogno e confesso di non averla trovata. Ma poichè avviene di tutte le cose come di un quadro, che a ben giudicarlo occorre mettersi nel punto di vista opportuno, Dio stesso si è incaricato questa volta di portarmi tanto vicina al dolore, che sarà tutta colpa mia se perdo l’occasione di raccogliere documenti in proposito e se la lezione sarà di qualche profitto a me o ad altri non mi voglio dolere di averla pagata troppo cara. Già nell’epistolario di Giuseppe Verdi avevo letto che il grand’uomo si irritava moltissimo tutte le volte che in occasione di sventura un amico gli diceva: coraggio! È veramente questa la parola preferita a un certo grado di coltura. La visitatrice intellettuale entra nella camera dell’infermo (prendiamo questo esempio dell’infermo che è di una così dolorosa attualità) franca e spigliata; gode per suo conto ottima salute, ha compiuto allora la quotidiana passeggiata igienica che le ha disposto magnificamente lo stomaco alla colazione; tutte le sue energie vibrano e palpitano come una muta di levrieri tenuta al guinzaglio. «Dunque soffrite? molto? molto? Oh, ma passerà. Bisogna reagire contro il male, non farsene schiavi. Perchè non uscite? Come? Non potete? Oh, ma si può sempre quello che si vuole. Su, su, coraggio!» Pronuncia l’ultima parola ritta sulla soglia dell’uscio, con un movimento altero del capo che fa somigliare l’_asprit_ del suo cappello al pennacchio di un condottiero in marcia. Coraggio! È come se uno aprisse un pacco di banconote sotto gli occhi di un poverello gridando: banconote, banconote! E poi chiudesse il pacco e se lo mettesse in tasca. Felice dono il coraggio, ma bisogna darlo, non dirlo. C’è la donnina semplice, piena di cuore e di buone intenzioni, colei che sarebbe capace di addossarsi un po’ del vostro male se potesse. Ella ascolta la narrazione delle vostre sofferenze colla attitudine inquieta di un topolino costretto a passare da una fessura troppo stretta. Corre di qua e di là il topolino, corrono di qua e di là gli occhietti teneri e commossi in cerca della parola che dovrebbe essere all’infermo pari al _sesamo apriti_ della grotta meravigliosa e finalmente, umile, stretta nelle spalle, mormora «Un po’ sarà questo tempo....» — Voi scattate: ma se sono giornate che non potrebbero essere più belle! — L’ultimo filo di voce della donnina conclude: «Già... anche il troppo bello... qualche volta....». Ecco un’altra visitatrice, la visitatrice professionale che gira tutto il giorno da un ospedale all’altro e che si è fatta una specialità del genere. Il suo modo di consolare è questo: «Eh! di che cosa vi lagnate? Voi soffrite? Ma chi non soffre a questo mondo? E che è mai il vostro male di fronte a tanti disgraziati che si trovano negli ospedali? Vederli, gli ospedali, quante miserie, quanti dolori ben peggio dei vostri! Torno ora dal letto di un povero soldato al quale gli obici tedeschi hanno sfracellato le due gambe e tagliuzzata la faccia in modo che ciò che rimane sembra un mostruoso arabesco. Quelle sono miserie!». La voce della consolatrice si fa aspra, quasi volesse rimproverare all’infermo di non soffrire abbastanza, mentre egli, con quel po’ po’ di quadro che gli ha messo sotto gli occhi sente ora, oltre ai propri spasimi, le gambe che gli dolgono e un molesto verzicare di sensazioni nuove sulla pelle della faccia. Ma chi è quella bofficciona dalle vesti di prefica? Al posto degli occhi ha due puntolini da capocchia di spillo che al pari di capocchia luccicano e brillano e par che ridano, ma afflitti nell’angolo da una lagrima perenne non lasciano mai sicuri se ella pianga o se rida. La sua compassione è elegiaca: «Oh, poveretto, oh, poveretto, quanto mi duole vederla soffrire! Potessi prendermi io un po’ del suo male lo farei volentieri, creda! Ma io non posso nulla, nessuno può nulla, Dio solo è il padrone, Lui sa quello che si fa e le vuol bene. Questa malattia ne è una prova perchè la mette in grado di farsi dei meriti, di salvarsi l’anima. Pensi all’anima, all’anima! Tutto il resto è nulla.» L’ammalato è rispettosissimo di tutte le cose che concernono l’anima, ma i suoi nervi spasimano sotto le sofferenze e non si persuade che quello sia proprio un vantaggio per lui. Gli uomini in genere sono cattivi consolatori. Più delle donne hanno paura del male e sfuggono ogni aspetto del dolore; la loro schiettezza un po’ rude li rende inabili alla menzogna pietosa. È ancora alle donne che bisogna ricorrere per trovare il conforto fatto istituzione. Le suore che si sono votate al pio ministero di vegliare gli ammalati per una ragione superiore a qualsiasi interesse umano, portano in sè un carattere di spiritualità che imprime ad ogni loro gesto una singolare forza di penetrazione. Esse entrano nella camera dell’infermo come un elemento nuovo ed egli sente che tra lui e il mondo e gli eventi quali li aveva considerati fino allora s’è rizzata una visione di incomparabile dolcezza, non più ristretta a facoltà personali, ma rivelata in una luce incorporea di fede. Le nostre monache sono mal conosciute; si hanno notizie superficiali sui conventi e sulla vita che vi si conduce; la psicologia di queste giovani donne che hanno rinunciato a tutte le gioie dell’esistenza sfugge all’affrettata analisi moderna. Si propende a vedere in esse delle vittime o delle inconsapevoli, ma a conoscerle da vicino si va incontro a qualche sorpresa. La _Monaca di Cracovia_ e la _Signora di Monza_ avevano gettato un’ombra sinistra sulle antiche mura conventuali, ma la carità illuminata del secolo ventesimo spalancò le porte dei misteri paurosi. Ora le suore della carità si muovono libere in qualsiasi tempo. Fra le penombre di queste nostre fosche sere si vedono rasente i muri impavide e sole recarsi dai loro ammalati; nell’alba livida il loro bianco soggolo sfiora sui crocivii le piume fantastiche dell’avventuriera che esce dai ritrovi notturni. Non ignorano il male le piccole suore che disprezzando l’amore degli uomini a venticinque anni hanno già chiuso la loro vita in Dio. Io chiesi: «In queste vostre uscite non vi assalgono mai le tentazioni?». «Oh, certo, (rispose per tutte una fanciulla dai grandi occhi ridenti) il diavolo fa il suo mestiere. Ma noi non lo temiamo più». «Siete giovani (incalzai) molte di voi sono belle, ve lo devono dire». «Oh, se lo dicono!! Dicono anche che il Signore pare faccia apposta a chiamare a sè le più belle. Oh, è ben naturale!! (Nei grandi occhi si accese una luce di astro). Deve forse scegliere le brutte Lui che è il Signore?». Ebbene non è magnifico questo volontario e gaio e conscio olocausto dei due maggiori doni che allietino una vita di donna? Non vi è in esso il segreto del balsamo che queste donne versano al capezzale dell’infermo? Anche lo scettico quando la mano lieve della suora tesse intorno alle sue sofferenze una ininterrotta catena di bontà non chiede il nome di questa forza che egli ignora, ma la accetta benedicendola. Ed è singolare la facoltà di trasformazione che attende in queste giovani reclute del bene sempre nuove conquiste. Esse erano tutte prese dalle cure dei loro ammalati, il tempo mancava per altre occupazioni, ma ecco i bimbi dei profughi irredenti, ecco gli orfani dei soldati morti per la Patria e la casa del silenzio si apre e sotto le volte use ai passi misurati, al parlare sommesso, prorompe una schiera di bambine seminude affamate; hanno due, tre, quattro anni, non conoscono altra parola che mamma, molte di esse non camminano ancora, non sanno spiegarsi e quando vogliono qualche cosa piangono. Tutte le abitudini delle suore sono sconvolte; le anziane fra esse non ricordano di aver mai preso in braccio un bambino; le novizie guardano a quella vita nuova apportatrice di gioie alle quali esse hanno rinunciato per sempre. In pochi giorni il convento è trasformato; la regola cede alla necessità; le piccoline che non sanno ancora obbedire comandano. Le suore turbate, commosse, gareggiano nel fare ognuna qualche cosa per le ospiti improvvisate. All’ora del pranzo, senza aspettare nessun invito, guidate dall’istinto si avviano in cucina; la suora che sta ai fornelli se le trova avvinghiate alla sottana; una è riuscita a mettersele in collo, un’altra dà la scalata alle sue braccia. — Oh suor Cesarina, come può muoversi con quel grappolo di testine intorno? — Suor Cesarina, confusa, sorridente, graziosamente impacciata, risponde; — Ma se non vogliono lasciarmi! — Il sentimento della maternità sbocciato e maturato in un attimo nel cuore delle pie vergini suggerisce a ciascuna un gesto di affetto. Improvvisamente le piccole tiranne gridano: — Vogliamo andare dalla Madre Superiora! — E s’avviano tutte insieme, lungo il corridoio, incespicando ad ogni passo, appoggiandosi colle manine al muro. Sembrano una lunga teoria di formichette. Ma una cade, piange, ed è uno scompiglio generale. Le suore accorrono; oramai non fanno più altro; le piccoline hanno conquistato il convento; sono esse le padrone. E anche questa trasformazione dell’ascetismo in maternità è così femminile come il riconoscimento della propria bellezza offerta con gioia a Dio. _Servite il Signore in letizia._ Il dolore, specie il dolore fisico, non si attenua con nessuna parola, anzi le parole come abbiamo visto guastano sovente l’intenzione irritando l’ammalato. Oh! volto penetrato di vera compassione che tacito ti chini sui sofferente, oh! mano che stringe la sua colla intensità ardente di una trasfusione di sangue, oh! sguardo, finestra dell’anima che tutto dice e tutto dà, voi siete i consolatori! Poichè amare ed essere amato è la maggiore delle felicità la sventura serve a rivelarci chi ci ama davvero. Vi sono poi i datori di felicità universale, le grandi anime dei pensatori e dei poeti aperte a tutti come le mistiche piscine che tengono raccolte nelle loro linfe la salute degli uomini. Ringraziamo questi immortali benefattori dell’umanità sofferente. Per essi Giordano Bruno non sente il morso dell’empio rogo che lo circonda, Heine canta nella sua tomba di sepolto vivo e l’ultimo martire dell’italianità tende stoicamente il fiero capo al boia. Non si passa impunemente in mezzo al fuoco. Sfiorando la vita degli eroi, entrando nella mente dei pensatori, qualche fiamma di quell’atmosfera ardente ci investe nelle meschine abitudini della nostra mente, ci scuote e ci sprona anche fra le strette del dolore. Trasportati in un vortice di luce e di purezza noi viviamo per alcuni istanti la vita degli esseri superiori. Sorpassandoci ci dimentichiamo e, fosse pure concentrato in una sola goccia, il balsamo dell’oblìo è pur divina cosa per colui che soffre. L’AMORE NEI GRANDI UOMINI Quella che fu legge provvida di natura prima ancora di divenire regola d’arte, l’armonia, dal firmamento immobile ove danzano gli astri alla terra che tutta ribolle del fermento di vita, sospira con uno de’ suoi più supremi aneliti alla fusione dell’essere umano oltre il limitato congiungimento comune a tutto ciò che vive. In altri tempi questa aspirazione si chiamava l’incontro dell’anima gemella. Io non saprei come chiamarla oggi, e forse non è nemmeno necessario darle un nome, appartenendo essa al nucleo di conquiste che la rozza psiche dei nostri antichissimi padri fece sue attraverso secoli di civiltà sempre più incalzante. Dalla istintiva concezione amorosa dell’uomo selvaggio che dovette consistere nell’afferrare la donna come una preda, alla sovranità femminile riconosciuta dai cavalieri e dai trovatori fino alle rivendicazioni suffragiste dei nostri giorni, il cammino è lungo e glorioso. Il così detto femminismo anzichè essere quella trovata moderna che appare a tutta prima non è che una tappa nella instancabile evoluzione dello spirito alla ricerca di mete più alte. Non sempre il movimento è progresso, spesso anzi non si fa altro che percorrere il circolo di una palestra scambiandolo per il giro del mondo, ma anche allora la divina legge dell’armonia veglia e aspetta. Arduo è tuttavia il giudizio quando si vogliono spiegare alla stregua del nostro intendimento certe vie oscure per le quali procedono le forze della natura in urto al concetto che dell’armonia ci siamo formati noi stessi. Ricordo ancora l’accento sdegnoso di un giovane di grande ingegno mentre affermava che ogni persona superiore deve saper scegliere la persona degna del suo amore. Egli aveva dimenticato che i nostri sommi maestri nella scienza delle passioni dipingevano l’Amore cieco. Tutto ciò è misterioso nella ignota attrazione degli esseri che dopo mille diverse definizioni non ne sappiamo ancora nulla e una grande meraviglia ci coglie ogni volta che assistiamo a squilibrati connubi di persone in assoluto antagonismo di educazione e di istinti. Si è tentato di spiegare ciò dicendo che i contrasti si attirano reciprocamente e che anche questa è una legge di natura. Ma a quale scopo se poi non conduce alla felicità? A volersi internare in tale soggetto è certo che le vite dei grandi uomini ci offrono larga materia a commenti, incominciando da Socrate che figlio di saggia donna e saggio egli stesso si appaiò tuttavia così male con quella lunatica Xantippe. Perchè? — vorrei domandare al mio giovane amico sdegnoso; ma risponde un antico: Amor che vien per le più dolci porte Sì chiuso che no ’l vede uom passando Riposa nella mente e là tien corte. Il sorgere inavvertito dell’amore è detto qui benissimo e soavemente. Con maggior crudezza di espressione si potrebbe aggiungere che in ogni assalto di passione amorosa c’è quasi un processo di tradimento, di colpo dato alle spalle. Nemmeno un eroe potrebbe evitarlo. E quando il dardo è penetrato, quando «riposa nella mente» quale più ampia distesa e feconda di elementi psichici trasformatori della mente di un grande? Pensiamo: Se il ruzzolare di una moneta d’argento suggerisce a Rossini la sinfonia del _Guglielmo Tell_ e il dondolio di una lampada getta nel cervello di Galileo la prima idea del pendolo, sarà tutto un mondo di visioni che sorge nella mente del poeta, dell’artista, del pensatore percorso dal dardo fatale. Basterà a lui una scintilla per farne fuori un astro, un fiore per evocare un giardino; e basterà un profumo, un suono, un colore, una linea per suscitargli la febbre creatrice del bello, nella quale la sua immaginazione ardente verrà poi cristallizzando il sogno generoso della sua anima fatta per le regali prodigalità del delirio. L’uomo mediocre e bottegaio, avvezzo a misurare i propri slanci nello stesso modo che misura i propri quattrini, si guarderà bene attorno tenendo salda la bilancia del pro e del contro prima di abbandonarsi all’affetto. Ha per questo le maggiori probabilità di fare una buona scelta e la soddisfazione di ritenersi superiore a Socrate. Ma per Dante occorre appena che Beatrice appaia vestita di nobilissimo color sanguigno perchè «nella segretissima camera del core lo Spirito della Vita cominci a tremare fortemente», e la bella contessa Geltrude Cassi non fa altro che passare, florida noncurante e gaia per le sale austere del palazzo Leopardi, ma il pallido giovinetto piangerà per lei le sue lagrime più roventi e dallo spasimo del suo cuore fiorirà una delle più appassionate liriche d’amore che vanti la poesia italiana. Che dire dell’impressione provata da Edgardo Pöe quando, trovatosi una notte d’estate in cammino verso Boston, scorge attraverso la cancellata di un giardino una donna vestita di bianco che passeggia solitaria? Egli non vede solamente la donna nella sua forma reale come la vedrebbe chiunque altro; egli vede «la luna cadente nel sogno e nel mistero quale fascia diafana di seta e d’argento sui volti aperti e attoniti di mille rose», e vede quelle rose morire «di una morte statica» e da lungi, nel silenzio altissimo, i viali, l’erbe, le acque, le piante «spegnersi a poco a poco nella luce di perla della luna» e solo rimanere l’incantesimo di due pupille levate su di lui «due Veneri in fulgor pria dell’aurora». Preparata così, la visione amorosa deve naturalmente salire a un diapason ove non è più possibile ragionare col criterio comune. Non solo dunque l’uomo superiore può come un altro cadere nell’inganno sentimentale, ma vi è meglio di chiunque altro esposto per le stesse forze della sua immaginazione. Quanto la tavolozza è più ricca sempre più alta e più vivida sarà la gamma dei colori di cui l’illusione si ammanta. Se non fosse questa supersensibilità dell’uomo di genio il mondo non avrebbe i capolavori che il miraggio prima dell’amore, poi il conseguente disinganno ispirano all’artista, al poeta. Noi sappiamo che sotto lo spasimo della passione, come Leopardi scrisse le strofe immortali del _Primo amore_, Donizetti pensò la musica straziante della _Favorita_, Musset le _Notti_, Chopin il _Preludio in si minore_, ed alle vibrazioni che destano in noi queste larghe echi di pianto il nostro cuore balza della ineffabile ebbrezza di sentirsi compreso; perchè anche noi abbiamo amato e abbiamo pianto, anche noi passammo attraverso le ansie di quelle ore che tengono sospeso sulle nostre fronti il brivido della morte. Leggendo i versi di Leopardi e di Musset, ascoltando la musica di Donizetti e di Chopin, l’impressione più immediata è quella di sentire battere vicino a noi l’ala di un’anima sorella. Ma non illudiamoci. È il medesimo effetto di prospettiva che ci fa credere delle nostre stesse proporzioni gli angeli e i santi colossali dipinti sulle vôlte delle basiliche. Occorrono centinaia di rose per formare una goccia sola della essenza che serve ai Re di Persia e, quando la voce del poeta fruga negli anditi più riposti del nostro cuore spremendone l’intimo pianto, pensiamo che egli dovette piangere cento volte più intensamente per raccogliere da quelle lagrime l’estratto di arte che ha il potere di farci fremere con una nota, con una parola. * Stabilito questo assioma della singolare sensibilità dell’uomo di genio, che fa di lui un essere esposto a tutte le vibrazioni, non bisogna dimenticare un altro fattore nella accusa fattagli di debolezza amorosa e di mancato discernimento. Le persone prudenti che portano scarpe di gomma quando piove e un _cache-nez_ quando tira vento prendono probabilmente meno infreddature di colui che si arrischia nell’imperversare della bufera solo per cogliere un effetto di luce o una sensazione di terrore e va ad esporre il capo libero quando infuria il temporale per conoscere direttamente la forza della tempesta. Sono anche, questi prudenti, animuccie parsimoniose che se acconsentono qualche volta a dare vogliono essere ben sicure di ricevere l’equivalente e non si sobbarcano all’alea di una passione, o affetto, o desiderio, o capriccio, senza essere ben sicure che la spesa vale l’acquisto. Hanno paura del dolore, temono il disinganno, e per questo mercanteggiano. Il loro potere amatorio è scarso, scorre appena una sottilissima vena di altruismo nel loro sentimento e vogliono risparmiare, pensano al futuro. Che sarebbe mai di loro se il turbine di una passione infelice entrasse nella composta architettura della loro vita e ne sfiancasse gli argini lasciandoli nudi in mezzo alla rovina? L’artista invece, il poeta, il pensatore, quello fra gli uomini che più di tutti esercita l’altruismo ininterrotto di comunicare agli altri la fiamma della sua anima, non teme il disinganno, non ha paura del dolore. Poichè l’opera sua attinge continuamente alle fonti stesse del suo essere e sono le sue lagrime che gli forniscono la materia del canto, ed è col suo sangue che compone le occulte verità ignote alle moltitudini; poichè ogni sofferenza umana espressa nella forma della sua arte prima di elettrizzare gli uomini passa nel crogiuolo incandescente del suo cervello, egli apre le braccia alla bellezza, sempre, si chiami essa innocenza o voluttà, ebbrezza o martirio. La commozione, elemento primo e indispensabile per creare, è talmente congiunta all’intimo istinto di queste creature privilegiate che riesce loro quasi indifferente il soffrire o il godere. Conoscere è ciò che urge alla loro inestinguibile sete. Sono attirate dal vortice della passione come il guerriero dal cozzare delle armi. La vita? La morte? Parole vane. La loro ragione di esistere è una sola: quella di sovrapporre la vita esclusiva del loro pensiero all’ammasso di bisogni e di abitudini che costituiscono la vita normale. Qualcuno che non le capisce le chiama egoiste perchè si trovano ben difficilmente a livello delle preoccupazioni di tutto il mondo e il cittadino che si scalmana per la refezione scolastica, la signora che ha appiccicato i numeri ai biglietti di una fiera di beneficenza guardano con alterezza diffidente l’individuo senza cuore che passa le sue giornate a cercare un vocabolo, una nota, o la combinazione di due colori, digiuno magari, cozzante colla fronte nei pali delle lampade che egli non vede a cagione del sole che brilla nel suo cervello. Vi è poi nel fatto positivo di una simpatia fra uomo e donna (nostro punto di partenza) quella _x_ incognita che fa sentenziare a Schopenhauer: «Qualunque sieno le smanie sentimentali ogni passione amorosa ha la sua origine nella attrazione dei sessi.» E sta bene. Questo spiegherebbe tutto. Solamente, l’arida soluzione ci lascia insoddisfatti poichè un oscuro legame deve pure esistere fra le vibrazioni sensorie e quelle psichiche, ed è certo che nella visione di una umanità completamente evoluta vagheggiamo questo sogno delle anime grandi congiunte nell’anima sorella. I pochissimi fra i miei lettori che avranno avuto occasione di vedere nel palazzo Gamba di Ravenna il delizioso ritratto della Guiccioli non dureranno fatica a comprendere il folle amore di Byron per questa leggiadrissima donna; ma se pensano al successore del poeta, al fatuo marchese de Bussy che la Guiccioli si diede per marito dopo la morte dell’immortale amante devono concludere sospirando: «Ah! meritava maggior rispetto il cantore di Parisina!» Una somigliante impressione di malessere ci resta in seguito alla lettura della vita di Goethe, di questo grande fra i grandi, l’olimpico, il magnifico Goethe, dalla intelligenza chiara e salda come cristallo di roccia, il quale, pare, non avrebbe dovuto far altro che sollevar l’indice per attrarre a sè una ideale donna. Ma il suo sogno d’amore non era così grande come il suo sogno di gloria; egli all’amore non chiese mai più di una morbida e fuggevole carezza. E quando, già avanzato di età, lo vediamo cadere nella seduzione di una fanciulla incontrata per caso lungo la strada e sposarsela diciotto anni dopo averla resa madre, l’aureola di colui che fu chiamato il genio del suo secolo si attenua un poco.... Perchè non seppero fare una scelta più felice delle loro compagne Chateaubriand, Sterne, l’austero Milton, il cavalleresco Azeglio, il nostro venerando Manzoni? E sui profondi dissidî dei coniugi Carlyle chi ci dirà l’ultima parola? E Balzac che attese otto anni l’ineffabile istante di unirsi alla contessa Hanska dalla quale voleva dividersi pochi mesi dopo? E Barbey d’Aurevilly, ingegno così acuto, e Nietzsche dal vasto intelletto, non si ingannarono forse entrambi dolorosissimamente adornando colla loro fervida immaginazione un poetico miraggio di donna che esisteva solo perchè essi l’avevano creata? Fin qui i poeti e i romanzieri. Ma l’uomo dallo sguardo d’aquila e dalla ferrea volontà, l’uomo che nessuno potrà accusare di sentimentalismo, Napoleone, assai prima che la ragione di Stato gli imponesse il matrimonio di convenienza, non fu tutto preso, lui che doveva conquistare il mondo, da una donna nè molto giovane, nè molto bella, nè molto intelligente, voglio dire la volubile e superficiale Giuseppina? Per contro prova della cecità amorosa degli uomini grandi riesce interessante uno sguardo dato agli amori delle grandi donne. Anche qui l’esempio incomincia da lontano. Chi era Faone? Altri giovani più avvenenti, più prodi, più saggi, più degni della vibrante anima di Saffo non esistevano in Mitilene? E Collalto Collaltino «il conte crudele» meritava egli l’amore disperato di Gaspara Stampa? Tanto per l’antichità. Ma la donna dal virile ingegno che fu madama di Staël ama l’essere insignificante che fu Narbonne; e madama Rolland dallo spirito così serio lo sciocco e vanesio La Blancherie. Marcellina Desbordes-Valmore, la prima poetessa di Francia, prodiga gli accenti appassionati della sua lira a un cuore che non la comprese e la Sand che conobbe i deliri amorosi di Musset, il biondo ed elegante poeta, si riaccende e scrive lettere infuocate a un oscuro leguleio di provincia, calvo, rachitico, miope, freddoloso, che veste una ridicola palandrana e porta tre o quattro _foulards_ annodati intorno alla testa. Tutto è mistero nell’amore, profondo, assoluto mistero. L’uomo di genio che scopre nuove forze della natura, che soggioga gli elementi, che crea una bellezza, che tiene nelle sue mani fatidiche l’arcano di mille vite, che pensa, che studia, che combatte, che strappa ogni giorno una vittoria sia alla materia bruta, sia allo spirito superbo, anch’esso, il grande uomo, nulla può contro l’amore. IL SORRISO DELLA DUSE. È destino di quasi tutte le persone che escono dalla folla e le si impongono, di restare per la storia immobilizzate nel gesto e nella posa che le rivelò per la prima volta e le rese celebri. Ora, questo gesto e questa posa non rendono mai la psiche intera; anzi molte volte la offuscano nel giudizio dei contemporanei e sempre in quello dei posteri. La coltura scolastica è tutta basata su questo preconcetto, su questa restrizione della psicologia a un simbolo determinato che, se pure è vero, ha il difetto gravissimo di essere unilaterale. Adamo sotto il suo albero, Cleopatra fra la perla e l’aspide, Alessandro colla spada tesa sul nodo gordiano sono disegni primitivi e dei primitivi hanno l’ingenuità e la manchevolezza. Ma noi non possiamo più accontentarci di semplici abbozzi, di un gesto staccato dal movimento generale, di una attitudine occasionale, che non abbia la sua rispondenza vibrante precisa e completa nell’intimo plesso dei nervi! Così intorno a Eleonora Duse si è venuta formando una leggenda di dolore, che l’ultimo repertorio minaccia di consacrare all’immortalità, rivelando ai futuri nipoti un lato solo della personalità e dell’ingegno della grandissima attrice, la quale è grande appunto per l’estensione della gamma che sa percorrere. Non si era ancora rivelata al pubblico dell’alta Italia quando io, domandandone a un giornalista di Napoli dove ella incominciava a sollevare rumore, gli chiesi «È bella?» — ed egli mi rispose — «Sì, quantunque la sua bellezza fragile e delicata non sembri di quelle destinate a ricevere risalto dal palcoscenico». Venne a Milano e Leone Fortis scrisse subito dopo la prima recita «Non è bella». Ella stessa poi confessava dolcemente e malinconicamente senza ombra di astio nè di rancore: «Il mio primo successo fu di bruttezza» esagerando per generosità il giudizio che un critico autorevole aveva espresso forse un po’ precipitosamente. La verità è che Eleonora Duse presentandosi nei drammi lagrimosi, che la tradizione consacra specialmente al trionfo delle prime attrici, dovette rinunciare alla sua più grande bellezza, al raggio incomparabile che le illumina il volto, quando il sorriso tremolando ne’ suoi occhi che sono stelle si arresta sulla sua bocca che è un fiore. Questo sacrificio, una dei più grandi che possa compiere una donna, le ha fruttato la gloria. La Duse apparirà ai posteri col volto disfatto di Odette, di Santuzza, di tutte le creature di passione e di dolore che ella ha incarnate all’alba dei suoi successi; ma se i posteri crederanno ancora al suo ingegno, non crederanno alla sua bellezza, poichè tutte le fotografie, tutti i ritratti contemporanei la rappresentano nell’espressione del dolore; non escluse le fotografie fatte a Parigi che proprio non saprei lodare non esclusa la tela di Lembach ammirata alla terza esposizione d’arte a Venezia. Ebbene, io voglio dire questo per la verità: chi non ha visto la Duse sorridente non conosce la Duse. La bellezza antica fatta di linee convenzionali, con un substrato di salute e di nervi inattaccabili, armonizzava col dolore antico. Nel saluto di Andromaca noi possiamo immaginare che le lagrime sparse per la partenza dello sposo, sebbene calde e sincere, non offuscassero di troppo gli occhi belli e le guance color di rosa della figlia del re tebano. La compostezza, il ritegno, la rassegnazione dell’animo non permettevano neppure alla fisionomia soverchi cambiamenti. Vediamo Niobe solenne e maestosa nel marmo che ha eternata la sua disperazione e sentiamo che noi, quella disperazione la proveremmo più violenta, più scomposta, più fatale all’estetica, e che le nostre membra e i nostri lineamenti resi convulsi dallo spasimo non potrebbero conservare le linee della bellezza pura, quale la voleva l’arte greca. E ancora, leggendo certi romanzi d’altri tempi, ci meravigliamo che l’eroina dopo di avere attraversato innumerevoli prove, patito disagi, sofferto la fame, si trovi nel suo pallore più bella di prima; mentre di noi sappiamo benissimo che in circostanze simili non resterebbe che un povero cencio. Egli è che allora le donne erano un po’ nella realtà e molto nella finzione incomparabilmente più floride, più robuste, più resistenti; e quelle prove, quelle privazioni, quegli stenti, che appena le impallidivano senza alterarle, accrescevano l’incanto di una bellezza, alla quale non mancava appunto altro che la commozione. Policleto, lo scultore che per il primo, dicesi, affrontò la posa sopra una sola gamba rompendo la tradizione arcaica della rigidezza, iniziò, precursore di secoli, il movimento ardito della scultura moderna ricercatrice anzitutto dell’espressione. E colui che seppe iniziare sul palcoscenico la sostituzione degli oggetti reali all’antico cartello che recava la scritta: _qui si dovrebbe rompere uno specchio: qui si immagina l’entrata di un cavallo_, era pur esso un pioniere del realismo a oltranza che ha bisogno anche in teatro di veri palpiti e di vere lagrime. La Lecouvreur in Francia, mentre trionfava il manierismo barocco, seppe portare sulla scena il fascino di una recitazione naturale e veramente sentita. La seguì la Desclée cogli storici slanci morbosi, ma sinceri, del suo temperamento appassionato. Eleonora Duse le riassume entrambe, più moderna, più vibrante ancora nella evoluzione di una psiche fatta trasparente a furia di sottigliezza. Come si potrebbe chiedere a queste anime tormentate l’impassibilità estetica di Niobe e di Andromaca? Eleonora Duse quando soffre è livida, quando piange ha gli occhi gonfi, quando si strugge nell’inseguimento di un vano fantasma d’amore ha le guance divise da un solco autentico, profondo, che la invecchia, che la fa sembrare brutta, e tutta la sua persona si accascia, si annienta. La voce sola rimane, voce incomparabile di donna che scompare nell’olocausto alla grande idealità dell’arte. Poichè dunque le parti dolorose hanno dato la celebrità a Eleonora Duse, e poichè nella sofferenza ella cede la sua porzione di bellezza e in tale attitudine di rinuncia ella fu ritratta e dalla fotografia e dal pennello e gran parte del pubblico la conosce solamente così, io voglio proclamare alta e forte la bellezza del suo sorriso. È così breve la scena del ritorno dal teatro nel 1º atto di _Odette_! così breve quella del brindisi nel 1º della _Signora delle Camelie_, seguite entrambe da scene strazianti che le cancellano dalla mente dello spettatore. Tuttavia quale incanto in quei pochi momenti! Appena le esigenze del dramma concedono alla Duse il possesso naturale della sua personalità, noi vediamo una signora squisita, che sa scherzare e farsi fare la corte e offrire una tazza di thè, e motteggiare e schermirsi con una luce negli occhi e fra le labbra che attira i baci. Chi oserebbe dire che non è bella la _Locandiera_ con quel suo guarnellino rosso fiammante quando declama i versi della Nonna: Viva Bacco e viva Amore, L’uno e l’altro ci consola; Uno passa per la gola, L’altro va dagli occhi al cuore? E Pamela, la deliziosa ingenua tanto biricchina? Perchè nessun ritratto la ferma agli sguardi sotto una di cotali spoglie seducenti, mentre il movimento interno della letizia imprime a tutta la sua figurina una giovinezza meravigliosa e pare che attraverso le lagrime sparse da’ suoi begli occhi un ricordo lontano (forse sognato) di illusioni e di follie danzi nell’iride nera delle larghe pupille? Coloro che videro quel sorriso devono provarne la nostalgia; così restano nei recessi più palpitanti della memoria certi incantevoli mattini di primavera tutti trilli di allodole e rosai in fiore. E perchè Eleonora Duse, non solo ammirata ma amata in tutto il mondo, non si fa ritrarre nella attitudine semplice e piena di franchezza di quando riceve una visita? Perchè non offre alla lente fotografica il suo sguardo incantatore di donna e di veneziana, dove la gaiezza di uno spirito vivace è in continuo contrasto coll’ombra di un pensiero malinconico, ma non tanto da impedire a tratti l’irradiamento di una amabile malizia? Ah! solo il pennello di Leonardo avrebbe potuto ritrarre l’espressione inquietante e indefinibile di una bellezza tutta di luce e di mistero, scura come i canali della sua laguna e al pari di essi punteggiata da raggi d’oro. IL SENTIMENTO NELLA POESIA di GIOVANNI BERTACCHI. Ricordo un giorno d’estate, or non sono molti anni; percorrevo la rupestre via che da Campodolcino sale allo Spluga costeggiando il piccolo e ridente Liro tra praterie intense di verde e silenzi lontani di vette, sempre più ripide, confuse nel cielo. Un uomo camminava dinanzi a me; nero l’abito, lento il passo, il capo chino; la sua persona snella si tagliava netta su l’azzurro dell’aria. Mi parve di riconoscerlo, ma in qual modo richiamare la sua attenzione? Non era abbastanza in confidenza da gridarne il nome nel bel mezzo di una strada, sia pure di campagna. Professore? È certamente il titolo che gli compete, ma mi suonava ostico e goffo là in quel paesaggio di naturali bellezze dove tutto era semplice e schietto. Guardai il cielo, le acque, i monti, l’erba e dissi a voce alta: Poeta! Egli si rivolse. Era lui, Giovanni Bertacchi. Parecchie volte ebbi in seguito occasione di rivederlo, o nel fido ritrovo in Galleria, o nelle adunanze dove la sua parola alàta suscitava i più caldi entusiasmi. Ricordo il discorso tenuto al Teatro della Scala per la Lega Navale che fu una specie di rivelazione, tanto l’abituale ritrosia del Bertacchi seppe innalzarsi al livello della circostanza nobilissima e mentre il poeta sgranava come da un filo di perle le più lucenti immagini della fantasia, la voce di quell’uomo esile e delicata penetrava senza sbalzi, limpida e ferma in ogni angolo del teatro. Egli fu magnifico di sicurezza nell’accenno alle _due sorelle del confine orientale che nutrivano di speranza il loro esilio_. Si era ancora lontani dalla guerra coll’Austria, ma il pubblico comprese a volo e un vivacissimo applauso fece battere in quel momento molti cuori. Giovanni Bertacchi, modesto pioniere che aveva recato sotto la volta del maggior teatro italiano e alla presenza di un Principe di Savoia il voto lunganime della Nazione, mi parve grande. E sempre, nei discorsi pronunciati poi, nelle conferenze, in certe improvvisazioni piene di sapore e di originalità, l’anima del poeta mi si riconfermava in quel suo mirabile accordo fra la vita reale ed il sogno che fa di lui uno dei poeti meglio equilibrati della nostra letteratura. Ma se voglio spiegarmi la precisa individualità di Giovanni Bertacchi mi è d’uopo rievocarlo qual io lo vidi in quel giorno di un morente estate sulla via dello Spluga, tra i prati verdi che costeggiano il Liro e le alte montagne piene di silenzio. Giovanni Bertacchi è il figlio genuino della sua terra. Tutto ciò che raccolsero di calore le zolle soleggiate degli altipiani, tutto ciò che concentrarono in aromi le resine dei boschi, e la trasparenza delle luci e la purezza delle linfe e la sana fecondità dei germi deposti dai secoli sui muschi immacolati, tutte queste forze segrete della natura adunate intorno a un cervello di pensatore, lo plasmarono così libero e sicuro d’onde i canti che egli getta al vento e alle selve, figliazione spontanea di un connubio d’amore fra l’anima e le cose. Egli stesso lo dice. Dai trucioli biondi che il padre sollevava lavorando al torno, dai ceppi di faggio spaccati nel domestico cortile, dalle slitte salienti nella neve o dai faticati cavalli sotto le pesanti diligenze, dai datteri scuri e dalle melarance d’oro che giungevano per l’Epifania al fondaco materno suscitando nella infantile fantasia visioni immaginarie di esotici paesi dai nomi strani. Tutti gli schemi dei pensier futuri tutti i preludi delle mie canzoni stavano là, stavano là nei buoni giorni immaturi. E in una sintesi sempre più larga della vita inanimata egli segue le vicende dell’albero che la scure del taglialegna ha intaccato, conta i rami divelti, li segue nel loro destino: Essi van lungi; e diverran le cose che accompagnano i dì; talami, mense, usci fidati e pie madie odorose. Essi nei popolati ampli quartieri saran domani travature immense, e carene di navi entro i cantieri. Coloro che conoscono Bertacchi solamente nella sua ultima produzione patriottica hanno bensì una prova del suo ingegno e del suo sentimento, ma non hanno intero nè il suo ingegno nè il suo sentimento. Il grande slancio di redenzione che ha scosso l’Italia negli ultimi due anni chiamò il nostro poeta ad una dichiarazione di fede allargando la cerchia dei suoi estimatori, ma il vero poeta così come nacque, come si formò, come avvenne la cristallizzazione perfetta del suo sogno in una forma d’arte è d’uopo cercarlo nei sei volumi delle sue poesie antecedenti. Volendo giudicare un poeta non è forse inutile chiedersi: Che cosa egli ama? Che cosa crede? Le letterature di tutti i paesi hanno i loro poeti della fede, del dubbio, della negazione assoluta, hanno i mistici e gli epicurei ed hanno sopratutto disgraziatamente i poeti che nulla avendo da dire si sbizzariscono a mettere insieme ingegnose combinazioni di suoni e di colori che dovrebbero nel loro intento sostituire l’assenza di quel fuoco interno che solo crea la poesia. Giovanni Bertacchi è panteista. Egli ama la natura, egli crede nella vita. Gli uomini e gli alberi, il pensiero che nasce in un cranio e il filo d’erba che spunta dalla terra lo interessano egualmente, anzi formano ai suoi occhi una verità sola e una sola bellezza. Le acque di un fiume scroscianti dai vergini ghiacciai al mare non lo commuovono meno delle lagrime dei suoi fratelli poichè non esistono divisioni di materia e di spirito dinanzi al concetto di una forza unica che regola tutto il creato e non soverchia un amore in un cuore che tutti li accoglie in sè. Con un senso più reale della vita egli si accosta alla dolcezza del poverello d’Assisi nella fraternità per tutte le creature, ma non acconsentirebbe a seguirlo nell’ascetismo della rinuncia. Pensa certamente che poichè il divin Creatore dispose che al soddisfacimento di ogni atto necessario alla vita corrispondesse una sensazione di piacere, sia contro natura il rinunciarvi. Deplora la ricerca di alcuni scienziati che vorrebbero ridurre i cibi in pillole e rievoca le bellezze non tutte materiali che accompagnano i variati simposii: Tovaglie bianche dai riflessi azzurri, negli alberghi dell’Alpi, in riva ai laghi, nelle navi, sui treni, ove più vaghi entran dell’aria i nimbi ed i sussurri. Oh, che musica dolce andrà smarrita se cessi il tintinnio delle stoviglie, che le memorie delle mie famiglie perpetuò nel corso della vita! Chi ci darà le confidenze care dell’amicizia che s’indugia a cena, mentre il vino e l’affetto in calda vena scendono ai cuori, e canta un focolare? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . non sentite il tepor che si sprigiona dalla parola dei conviti umani? Non vedete da torno ai freschi pani, come fida è la vita e come buona? No: non togliete ai nostri di quest’ora che ricongiunge i sogni ed i ricordi; questa tregua che fa lieti e concordi chi viaggia, chi pensa e chi lavora. Oh lasciateci il pane, ove si serba la luce aprica delle messi bionde; lasciateci le carni ove s’infonde l’umor del suolo e la virtù dell’erba. Umili ispirazioni, dirà qualcuno. È vero. Il pane, il vino, il focolare domestico non escono dalla cerchia delle cose comuni, ma è appunto perchè da questa cerchia dove altri si immiseriscono in un grossolano epicureismo, Bertacchi sa togliersi con un geniale battito d’ali che noi lo amiamo. Egli non è il poeta che scende a trescare col volgo, bensì è colui che accostandosi al volgo lo solleva a sè; l’artefice intelligente che sa trarre dall’argilla forme immortali; il palombaro che si lascia calare in rozze vesti sul fondo del mare per estrarne la perla; è infine il maestro delle anime che seduto al povero banchetto tramuta l’acqua in vino. Cantore sincero se mai ve ne furono, non rinnega il cielo ristretto dove aperse gli occhi alla luce ed è ammirabile la quantità di luce che intravide in quel piccolo spazio. Il soggetto più pedestre acquista nella sua penna una inaspettata nobiltà tanto più educatrice quanto meno interessata. Noi dobbiamo credergli quando dice che la vita è buona, perchè egli non nacque tra i felici del mondo. Eppure la felicità non gli apparve come una usurpazione fatta da altri uomini. La felicità è uno stato di grazia che difficilmente le circostanze possono alterare; e da quante piccole cose l’uomo possa trarre momenti felici è genialmente adombrato nella poesia _Gli elementari_, della quale mi piace ricordare le ultime strofe Udite il suono che vi vien di fuori, ma cercate anche in voi la voce ascosa. Una musica dorme in tutti i cuori, come dorme una voce in ogni cosa. Essa è l’antica, mistica parola che in noi diffonde il mormorio divino. Se pur non veda alcuno in suo cammino, l’anima che l’udì non è più sola. Quando ognuno di voi, nella sperduta solitudine sua l’abbia avvertita, ei sarà l’uomo, egli vedrà compiuta nel giro d’ogni dì tutta la vita. Dove è racchiuso il nocciuolo di tutta la saggezza umana. Questo indugiare del Nostro a raccogliere le voci dei diseredati della fortuna lo fecero ascrivere con troppa fretta fra i seguaci di teorie alle quali deve ripugnare il suo spirito contemplativo. A tale sentimento parmi ispirato il _Canto solitario e fraterno_ che incomincia: Per la canzone antica che il paterno martello in me depose, io le vostre cercai mani callose, figli della fatica. Ma soggiunge subito dopo per affermare la libertà de’ suoi sogni: Ma non so qual ventura in cuor mi pose un debito di canto per l’erba e l’acqua che mi passa accanto dal monte alla pianura. Sento i cheti castelli e le traviste beltà sognanti, e i parchi ampi e tranquilli; amo i possenti eroi delle conquiste, e delle antiche avemarie gli squilli. Ed a quale altezza giunga la visione poetica in questo solitario pensatore è fatto chiaro dall’_Io migrante_, una delle più belle liriche moderne. Volendo riassumere la poesia di Giovanni Bertacchi io me la figuro talvolta come un’arpa sospesa ai rami di una selva accarezzata dal vento delle Alpi passata tra aiuole di rose, sposando i suoi dolci accordi al canto dell’allodola e al tintinnio di mandre lontane. La pace virgiliana dei campi domina come sfondo la sua produzione, ma non esce da tale funzione secondaria e decorativa. Il fattore primo è sempre l’uomo. Non abbiamo qui i paesaggi stilizzati e freddi dei poeti decadenti; cielo, monti, alberi, acque vivono per il Nostro in quanto vive egli stesso, in quanto vive l’uomo e la commozione che egli ritrae da un’alba, da un tramonto, da un giuoco di nubi si collega intimamente alle gioie alle tristezze alle ebbrezze umane. La poesia di Bertacchi è materiata di sangue e di anima, poichè la sua passione dà vita a tutte le cose; egli non aspetta dalle forme esterne lo squillo dell’ispirazione, ma accostandosi a ciò che è semplice forma la riveste della propria visione, vi imprime il suggello della propria individualità. Oltre al fatto di essere nato in mezzo alla vergine natura e di averne assorbite le intime linfe generatrici, ebbe Bertacchi la fortuna che, se accompagnò nei tempi andati i nostri maggiori poeti, si trova in molta decadenza presso i poeti moderni. Voglio dire che la psiche di Bertacchi vibra tutta d’amore, più vicina che mai alla visione che io ebbi dell’opera sua paragonandola a un’arpa sospesa tra i rami di una selva; percossa dal canto delle allodole, lambita dal profumo dei rosai. Quante volte ricorre la rosa nell’immaginazione del nostro poeta! Nel _Sogno sulle Alpi_ troviamo questo elegiaco lamento al quale faranno eco tutti coloro che amarono Addio!... Nel malinconico poema della vita questa parola triste cupo un iddio vergò... Sbocciata appena all’anima la rosa ecco è sfiorita che l’anima sognò. Quanto originale, viva, fresca è l’invocazione _A quella che non seppe mai_. Dio dei fati gemelli, o dio che fai coppie di rose, e coppie di destini, molti cuori si passano vicini senza parlarsi o rivelarsi mai! . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Pur noi vivemmo insieme una gemella ora d’aromi; insieme entro la cheta luce scendemmo come ad una meta comune, o inconsapevole sorella, Lui, gli aromi, la cheta luce, il rinchiuso amore! La fusione non potrebbe essere più perfetta tra le cose e l’anima come in questi deliziosi versi tutti pervasi di una signorile grazia malinconica. La malinconia, quella stessa che Pindemonte vagheggiava in vesti color di viola, sta in fondo ad ognuna di queste liriche; malinconia ritenuta che non arriva mai alla disperazione, che non s’aggrappa al sarcasmo, che non conclude allo scoramento ed alla negazione, ma che per quel diffuso senso panteistico del poeta che non lo lascia mai solo nel suo dolore, lo accoglie maternamente, quasi lo assorbe in se. Che fare? È la legge della natura. Nascere, fiorire, morire. Il poeta nè se ne meraviglia nè, quasi, se ne accora, perchè la bellezza dell’amore sta appunto nella sua evoluzione Tutti gli amori sono cinti così d’un’inquieta melanconia: l’ignoto ed il lontano parlano al cuore degli amanti un vago linguaggio di malie; tutti gli amori sono pensosi come cupi enigmi son dolorosi come sacrifici consumati nell’ombra; È la concezione dell’amore secondo i sentimentali. Essi soli amano dell’amore tutto; ansie, dolori, tristezze, amarezze, lotte, sacrifici. Dove la persona sensuale non vede che un piacere da cogliere, colui che ha vero intendimento d’amore non chiede altro che di amare. Essere amato è certamente nei suoi desideri, ma intorno all’ora suprema, che per altri è lo scopo unico e fuggitivo dell’amore, egli intreccia tutta una fioritura di sensazioni che ve lo iniziano di gran lunga prima che essa scocchi e lo accompagnano ancora quando è trascorsa Noi viviamo in prima nell’albe incerte dell’idea, salendo al pieno giorno d’un atteso bene, per calare di poi verso i pensosi vesperi del ricordo. Or tu degusti di bacio in bacio, lentamente, i frutti della vita, che un giorno erano fiori nei rimpianti rosai del tuo passato. Ritroviamo l’immagine del rosaio in quel patetico _Canto delle sensazioni perdute_ dove il poeta rimpiange il profumo della prima rosa, il fresco della prima fronda che gli sbattè sul volto, al mattino, nei boschi e la puntura della prima spina sulla piccola mano. Ognuna di queste sensazioni egli non le troverà mai più. _Nevermore!_ Lo sconsolato ritornello del corvo di Edgardo Poe. E in Bertacchi, come in Poe, come in tutti i poeti che tuffarono la penna nel proprio sangue prima ancora che nell’inchiostro, noi sentiamo la commozione vera, sentiamo il fratello, cioè l’uomo che ha sofferto come noi, che al pari di noi conobbe l’ora del meraviglioso inganno che ci trasporta, noi minima frazione del gran tutto, al vertice sublime della vita universale dove ogni singolo dolore viene assorbito ad alimento di nuove vite. Nella _Stanza straniera_ il poeta persegue non per curiosità, ma per la sua propria passione interna gl’incontri del caso Coppie vaganti, avventurose e meste, circonfuse di colpa e di mistero, due dolcissime cose. È un brevissimo poemetto questa _Stanza Straniera_; è meno ancora, è una divagazione di pensiero in pensiero e di luogo in luogo, ma la tenue tela è di una tale freschezza che solo la vince il signorile ritegno della forma. Un poema compiuto per la mole e per la forma sono le _Malie del passato_. In queste pagine che appaiono come il diario di un giovane, la musa agreste del Bertacchi congiunta a quel suo profondo sentimento della natura e dell’amore, si fonde in armonia perfetta. Le descrizioni della vita campestre ricorrono sobrie e vivaci; quelle del nascente amore perfette di verità e di grazia. Bertacchi eccelle nell’arte così difficile di parlar d’amore. Si pecca generalmente per i due estremi; o il poeta vuol essere casto e riesce freddo, o vuole colorire e offende il gusto. L’equilibrio nel Nostro è la naturale conseguenza della sua chiara mente latina, del suo organismo sano, della sua squisita sensibilità. Le pagine dove è descritto il sorgere dell’amore di Furio per la dolcissima Lina, balzano all’occhio colla elegante visione di un ramo di pesco che ricama di fiori rosei la trasparenza argentea di un mattino d’aprile. La dichiarazione dell’amore, quella dichiarazione sì a lungo desiderata, pensata in tante forme, trattenuta fino all’ultimo istante con sì naturale ritrosia sboccia alla fine con una semplicità la di cui efficacia fa ricordare, sia pure colla dovuta riverenza, esempi maggiori L’ombra calava, e i due, guidati dall’inconscia forza d’un solo intento, furono vicini quanto bastava, un attimo. Non fu già di parole il rivelarsi loro, ma muto, spento, tutto nel tremante bacio che Furio le stampò sul viso sgomento e bianco... Angoscioso, solenne come un rintocco funebre, mentre canta nel cuore di Lina qual promessa di nuove gioie il primo bacio, il poeta avverte ... Ecco l’amore, ecco la prova! Dopo questa, nulla di simile, giammai, nulla, per tutta quanta la vita! Rimane sola abbandonata la fanciulla in mezzo agli oggetti consueti che soli oramai le parleranno del suo sogno svanito, mentre Furio parte incontro alla vita, incontro all’avvenire. Mi piace chiedere questi modesti appunti sopra una poesia che amo col riprodurre uno scorcio ammirabile, di sei versi appena, che mi sembra un piccolo gioiello Fummo per poco in un grand’orto in fiore; poi ciascuno tornò l’anima sola riaffacciata alla sua landa brulla. Fummo... Oh certo imparò tutto il dolore chi ne’ suoi giorni udì questa parola, questo tonfo dell’anima nel nulla. Non saprei dove trovare in altri ridotta al minimo di parole in una forma purissima e cristallina, l’eterna vicenda dell’amore. Fedele alle immagini che gli offre la natura, il poeta rappresenta questo stato d’animo come un grande orto fiorito nel quale i papaveri spiegano al vento le loro tuniche vermiglie, gonfie di passione e i fiordalisi tremuli sui loro steli guardano ansiosi e timidi coi loro occhietti azzurri, mentre i gialli ranuncoli squillano la fanfara della vittoria sul popolo minuto delle erbe senza nome che profumano in silenzio, quasi taciti riti compiuti nell’ombra. E veramente tutte le illusioni balzano, ondeggiano, profumano nei nostri cuori quando vi nasce l’amore. Un grand’orto in fiore! È così. Stringata in tre brevi parole ma compiutamente intera è l’inevitabile evoluzione: fummo per poco. E poi quel ritorno di ciascuno alla realtà della propria vita anteriore, alla landa brulla che era prima, che sarà ancora l’esistenza dopo quell’immenso sogno di felicità. Non una parola di più, non una parola di meno. L’epilogo è un tempo di verbo: _fummo!_ ma così preciso, così violento che noi sentiamo l’anima del poeta esulare dal proprio dolore verso i limiti inafferrabili del dolore umano come un vero tonfo nel nulla. RICORDI DI VIAGGIO CAPODISTRIA. Bella Capodistria al sole in un mattino di giugno! Il vaporetto lasciandosi dietro la bianca e dolente Trieste compie una breve traversata che riesce anche più breve nella piacevole ammirazione del paesaggio, serrato dalla verde cintura della riva fra i due azzurri del cielo e del mare sovra il quale palpitano le caratteristiche vele rosse come grandi ali spiegate verso l’ardore di un sogno. E veramente si sogna movendo incontro all’Istria misteriosa, ripetendo i nomi delle piccole città quasi sconosciute, perchè non si trovano sulla via dei nostri affari o delle nostre consuetudini, ricordando — per far tacere il lieve rimorso della nostra trascuratezza — i versi appassionati di un poeta istriano: O patria, o lembo del divin paese, Il sol che ti riscalda, italo, ardente, L’alma di Dante e di Ferruccio accese; E l’urne e i templi, il circo, ogni ruina Consolano di fede il tuo presente O sorella di Roma.... Ci avviciniamo intanto all’isoletta che sorregge Capodistria, unita con una larga diga alla terra ferma, chiusa a tergo da un anfiteatro di colline ubertosissime ricche ancora di quei vigneti sui quali, cessato l’impero di Roma, la repubblica veneta prelevava per il suo Doge arne parecchie di squisitissimo vino. La prima contrada, a chi si avanza con la impazienza della scoperta, può forse apparire una delusione. A me, una certa monotonia di linee piatte ed incolori e la solitudine di mortorio fecero correre il pensiero ad uno di quei silenziosi paesini del Zuidersee — Marken o Volendam — dove le guide invitano il forestiere per fargli gustare la sensazione arcaia della antica Olanda. Questo involontario raffronto, non suggerito da alcun ragionamento, ma balzato fuori da impressioni fuggitive cui basta una luce od un segno per ricondurre dai lontani recessi della memoria, mi rese più vivo il senso di sorpresa e di ammirazione quando svoltato un angolo deserto, mi trovai dinanzi la nobile facciata del palazzo Taco. È una specialità dell’Italia quella impronta particolarmente signorile che la storia e l’arte nostra hanno impressa su certe vecchie dimore sperdute in piccole città, in piccoli villaggi e che apparendoci così improvvisamente dentro l’umile cornice rusticana sembra dare una salutare sferzata al nostro orgoglio di grande razza. Cotali segni, che io chiamerei il blasone gentilizio di un popolo, si cercherebbero invano altrove. Lo Zuidersee fuggì subito dal mio pensiero. Dinanzi al palazzo Taco sentii di calcare il suolo italiano. Ma questa non era che una preparazione al miracolo della piazza — la piazza che si chiama _dei Signori_ come quelle di Treviso, di Verona, di Vicenza, di Spalato, di altre ed altre nostre piazze venete. — È serrata, la piazza di Capodistria, fra il Duomo, il palazzo del Podestà e la volta pittoresca di Callegaria sorella gemella di Frezzeria e di Merceria; e al pari delle case alte, addossate, piene di finestre fra il gotico e il bizantino; al pari della gente che vi abita; al pari del dialetto che vi si parla, deliziosamente, profondamente, straziantemente venete. Delle antichissime mura romane che in duplice giro vuolsi circondassero la città si ha tuttora la porta detta della Muda e lo stemma che dalla primitiva denominazione di Capri (poi mutata in Capo ed estesa a tutta l’Istria) reca un caprone ritto sulla montagna. Venezia e Roma hanno fatto ciascuna a Capodistria un dono delle loro civiltà. L’Austria, attuale dominatrice, vi ha pure edificato qualche cosa: un grande ergastolo! Sotto l’arco di Callegaria mi fermai a guardare la lapide murata intorno alla bocca del Leone — ricordo della Serenissima — ma più ancora a decifrare al disopra dell’iscrizione latina due brevi parole scritte in rosso; Viva Oberdan. — Non si fermi — mi disse rapidamente la mia guida; è meglio che _Essi_ ignorino. E al vedere la mia meraviglia soggiunse sorridendo: — Probabilmente non se ne sono accorti. Il momento in cui le scoprissero le farebbero subito cancellare. Mi corsero alla mente gli ingenui stratagemmi nostri quando eravamo sotto il medesimo paterno governo: le passeggiate intenzionali a Porta Romana; il cappello degli uomini a forma italiana; le pellegrine delle donne foderate di rosso; le teste di zucca portate in maschera e sulle quali si picchiava allegramente. Passava in quel mentre un vecchio signore dall’aspetto imponente e la persona che mi accompagnava lo salutò col titolo di marchese. Chiesi chi fosse. — Oh quello è un bel tipo. Un fervente patriota che si reca tutti i giorni sul molo per vedere se arrivano le navi italiane. Era fanciullo quando le vide nel 1859 passare e dileguarsi.... E non è il solo originale del genere. C’è un altro vecchio signore che dopo aver combattuto per l’indipendenza italiana nel dolore immenso di vedere spezzato il suo sogno proprio dinanzi all’Istria sbarrò in segno di lutto il portone della sua casa, vi si rinchiuse in voto perpetuo e non potendo muoversi diversamente tenne il tavolino da scrivere al primo piano e il calamaio al secondo, obbligandosi a fare le scale ogni qual volta gli occorreva di intingere la penna. Di tali spiriti bizzarri, in cui pare si condensino in salsedine e in amarezza le lagrime che sdegnano di bagnare il ciglio, vi è dovizia su questa terra dalla tradizione sarcastica e mordace. Il proprietario di una barca al quale l’I. R. Governo aveva imposto di cambiare il nome che suonava _Libertà_ cancellò Libertà e vi sostituì _Come prima_, in barba al censore che non ne capì nulla. Sono le minute rappresaglie di un popolo che illude come può il malessere dell’ora presente e il tormento dell’attesa. — Ha veduto il nostro Carpaccio? — Non ancora. Entriamo in Duomo. L’opera magnifica fiancheggia l’altare maggiore e lo domina, alta, solenne. Di contro alla parte oscura la nudità luminosa del giovanetto martire Sebastiano irraggia le tenebre con una luce d’alba. La commozione dell’opera d’arte mi prende, come già dinanzi al palazzo Taco, come sotto i merli ghibellini della piazza; ma più profonda, qui, quasi lancinante nella sensazione improvvisa di un simbolo.... Mi stacco a fatica dal bellissimo Carpaccio e seguo il mio accompagnatore per viuzze deserte, lungo muricciuoli di piccoli orti sopra i quali trasvolano voci di donna cadenzate nella molle pronuncia veneta. Passiamo davanti al ginnasio; i fanciulli giuocano nel cortile ed io li guardo attraverso il verde rameggiare del viale che lo precede con un senso di compassione per quella gaia adolescenza cui attende il risveglio della coscienza che si troverà senza patria. A Capodistria c’è anche un museo; un minuscolo museo allogato in un paio di stanze alle quali si accede su gradini che non posso certo paragonare alla Scala dei Giganti. Eppure quante volte, da questa rumorosa città in cui vivo, ripenso il dolce silenzio di Capodistria e le due stanze dove un’anima sensibile ai ricordi ha saputo riunire tanti documenti della passata vita istriana e se ne pasce come di un amore. Qualcuno ha detto che il più sentimentale dei musei è il museo Carnavalet di Parigi; questo è certamente vero per il contenente e per il contenuto di quel palazzo che vide un tempo la grazia serena della marchesa di Sevigné e che alberga ora accanto al ceffo feroce di Marat il volto angelico di Carlotta Corday, gli occhi pieni di lagrime di Maria Antonietta, il ghigno satanico di Voltaire. Ma in queste due povere stanze dove entra insieme al profumo degli orti il chioccolare di qualche gallina e la pace dell’orizzonte chiuso dal mare e l’aria indefinibile di sospensione e di mistero che si respira in tutte queste terre irredente, anche qui le molle segrete che governano i sentimenti ci inducono ad una simpatia irresistibile e pietosa. Nel grigio crepuscolo della servitù che opprime questa gente, amore di patria e religione di memorie si sono rifugiate fra questi arredi; quadri, libri, mobili, stoviglie, vesti, da ognuna delle quali esce una voce meravigliosa per colui che sta qui genuflesso come in un tempio, sacerdote di un’ara invisibile, custode di un cimitero glorioso. Il sole dei campi entra per le nude finestre, batte sulle nude pareti, sveglia il luccichio di una doratura impallidita, fruga nei ghirigori complicati di un stipo, si frange sulla vetrina dove stanno a guardare dalle miniature ingiallite le belle dame contemporanee delle dogaresse. E tutto intorno è silenzio!.... Non si vede, non si ode nessuno. Guardo il nobile vecchio sulla cui fronte c’è la luce che emana da ogni vita interiore e mi pare di comprenderne il significato. — Lei sta sempre qui? — Sempre. — Che esistenza è la sua!!... Mi fraintese. Credette che volessi compiangerlo, mentre lo ammiravo e lo invidiavo in quel suo monastico rifugio di un ideale. Rispose con umiltà: — Sono felice così. Alcuni piatti di terraglia paesana sono schierati con particolare compiacenza in una bacheca, a parte. Portano delle scritte: _W. San Marco. Serenissima._ Altre ancora che non rammento. Ad un certo punte credo di legger male. Rileggo. C’è proprio scritto: _W. l’Italia._ — Ed è permesso?... chiedo con ansia fra trepida e giuliva. — Oh! sono piatti antichi: Non fanno paura. — risponde. Ma che lampo nei suoi occhi!... — _1911._ IMPRESSIONI E APPUNTI PERSONALI SU LONDRA. Ho sempre fatto il sogno di un uomo che viaggiando in terre lontane, sia nell’elegante scompartimento di un _rapid-express_, sia sulla tolda di un grande transatlantico, o sotto la tettoia di una di quelle stazioni mondiali dove una volta almeno nella vita si danno convegno i rappresentanti di tutte le nazionalità, quest’uomo (nella mia mente egli è, si capisce, un poeta o un artista) incontra la donna ideale, colei che in una mirabile fusione indipendente da ogni canone stabilito di bellezza riunisce tutte le qualità che sono in fondo ad ogni nostro desiderio di amore. È il fascino della linea impeccabile? è quello più ardente della pupilla? è quello più misterioso del sorriso? è quello più profondo ancora della voce? O è piuttosto il fascino senza nome che risulta da un ignoto complesso di cose per cui l’anima colpita e presa esclama col suo grido più semplice e più eloquente: _È Lei!_ Lei! la nostra compagna, la creatura fatta del nostro sangue medesimo e della nostra carne e dei nostri nervi; che sente, che pensa, che ama come noi sentiamo, amiamo, pensiamo — solo modo concesso di rivelarci interamente — perchè chi mai ci comprenderà in modo assoluto se non chi ci è assolutamente uguale? L’inganno amoroso non parte forse sempre da questo preconcetto? Ma nel mio sogno non c’è nè inganno nè disinganno. Il poeta incontra la sua donna — dove non monta — lontano, in terra straniera, divisi da usi, da abitudini, da destini; una sola volta i loro sguardi calano reciprocamente nelle loro anime — ed è tutto — e non si incontreranno mai più. Che importa? Il poeta ha guardato in faccia il suo ideale. Basta tale gioia per una vita. A questo io pensai la prima volta che vidi Londra, or fa un anno, in una deliziosa giornata di sole; il dolce sole londinese che non irrita, che dà l’impressione di un leggerissimo velo sopra un bel volto; lo ripenso ora tornandovi accompagnata da una pioggerella minuta. Chi mai ha sparso per il primo la voce calunniosa che Londra è malinconica? Intanto che cosa vuol dire malinconica? Per me è malinconico lo spettacolo di una miseria che vuol parere grandezza, di una vanità che vuol parere eleganza. È malinconico il giardino pubblico di una cittaduzza di provincia, il monumento economico ad un eroe, la palazzina di carta pesta con fronzoli in stile _liberty_; sì, tutto ciò è malinconico fino alle lagrime. Ma quando siamo dinanzi alla colonna di Trafalgar square, quando ci aggiriamo nei viali di Hyde-Park o che al di sopra delle acque cupe del Tamigi vediamo adergere la sobria magnificenza del Parlamento inglese, ah! non è malinconia che fa gonfio il cuore, bensì un’onda di entusiasmo per il forte popolo che sa estrinsecare sotto tutte le forme il suo grande valore. Questa di trovarsi in presenza di un valore intrinseco e sincero è l’impressione confortante che colpisce appena giunti, che accompagna poi ancora svolgendosi in onde sempre più larghe di ammirazione, quasi di gratitudine. Non so se annuncio un mio sentimento particolare o se mi faccio interprete di altri che pure lo provano, ma ogni immagine di bellezza dà una tale gioia a tutto l’essere nostro che non conosco invero maggiore benefizio alla tribolata esistenza dei mortali. E chi dice che il cielo di Londra è brutto si è mai soffermato a gustare una squisita sinfonia di toni grigi, questa tinta signorile che si potrebbe chiamare il trionfo definitivo del bianco e nero? In un solo giorno, in un’ora, nel momento istesso il cielo di Londra, dalla impressionabilità pensosa di una fronte di poeta, passa dal grigio argento al grigio perla, al grigio rosato, al grigio azzurrino di certe pupille di bimbo, al grigio fosco e corruscante di minacciose procelle; poi, intanto che lo si guarda, fonde tutte queste gradazioni in una marezzatura cangiante sulla quale vengono a scoppiare all’improvviso, come squillo di risata birichina, poche battute di sole. E chi crede ancora che a Londra si può morire in mezzo alla strada senza che nessuno se ne curi? L’inglese non ha la curiosità facile e superficiale di altri popoli che appaiono per questo più servizievoli; ma se ricorrete ad un inglese, al primo che vi capita, pur che vi riesca di farvi intendere, troverete l’assistenza semplice e pronta; quando mai se proprio non vi intende apparirà pure in fondo ai suoi occhi un sentimento benevolo di solidarietà umana. Ma lo scherno, ma il disprezzo, ma il godimento imbecille di chi ride del vostro imbarazzo, questo giammai. Gustavo Flaubert andato una volta a vedere il Righi e ricevutane una impressione di freddezza scrisse che i paesi senza storia non lo interessavano affatto. Ecco un giudizio che non si potrebbe certo ripetere per Londra. Tutta Londra, da Whitehall a Cheapside, da Westminster alla Torre di Guglielmo il Conquistatore, trasuda da ogni pietra le lagrime e il sangue delle sue memorie, e la storia di Londra è la storia dell’Inghilterra. È qui che palpitano ancora le vecchie tradizioni, in questo paese dall’anima profonda dove i sentimenti hanno saldezza di roccia. Io sentii ciò sopratutto in un giorno di festa, nella città parata in singolare vivezza di colori e i soldati sotto le armi per il passaggio della famiglia reale. Luceva il bel volto pallido del sole soffuso del suggestivo incanto del suo velo e brillavano sotto di esso gli elmi dorati con piume rosse, neri con piume nere, d’argento con piume bianche, lungo quelle vie senza polvere, silenziose al passo come se un tappeto di velluto le coprisse, mentre la folla raccolta in due ali se ne stava dignitosa nell’attesa e centomila piccolissime bandiere sospese in alto turbinavano al vento dando l’impressione di centomila mani agitate in segno di gioia. Così, forte e calmo, ardente e composto è questo popolo presso cui tutte le nobili idee trovano un’eco di simpatia e le grandi iniziative un appoggio. Mascherata dalle spalle erculee di un _policeman_ la mia debole voce mormorò con intimo convincimento: _Rule Britannia!_ Ma vi è a Londra un posto dove tutti coloro che amano gli inglesi e l’Inghilterra, che si sono occupati della sua letteratura, che hanno ritenuto i nomi dei suoi poeti, dei suoi re, dei suoi uomini di Stato, delle sue donne anche, non deve mancare di vedere ed è la Galleria dei ritratti recentemente annessa alla grande Galleria nazionale. Appena entrati due poeti sommi ci accolgono: Shelley dalla fronte pensosa, Byron dal volto passionale; poi Ruskin dagli occhi pieni di cielo e Bulwer, bellissimo, che seppe far rivivere nella sua nordica immaginazione gli ultimi giorni di Pompei. Chi è questo bel vecchio dall’espressione bonaria e astuto insieme? È Richardson, il romanziere alla moda nel secolo decimottavo; l’autore di quella ingenua e deliziosa _Pamela_ che qualche nostra attrice ci regala ancora di tanto in tanto sui teatri di prosa per nostra consolazione. Ecco Dikens, il grande e troppo dimenticato Dikens, che assomiglia un poco ad uno dei nostri migliori scrittori di romanzi. Ecco il patriarcale Walter Scott seduto dinanzi ad un camino antico, il fido cane accovacciato ai piedi: e par che danzino intorno a lui con leggiere movenze di silfidi le armoniose creature de’ suoi sogni, suscitando i malinconici laghi della Scozia coi diruti castelli perduti sulle scogliere e gli innamorati eroi correnti nella notte a fantastici convegni. Si guarda con stupefazione la robustezza erculea di Bacone e di Darwin trovandola bene appropriata all’uno che dovette reggere il confronto col più grande uomo dell’Inghilterra e all’altro che capovolse la concezione del mondo. Oh! il maraviglioso volto ascetico del cardinale Manning! e lord Brougham, lord Palmerston, Beniamino Disraeli, i due Walpoole — Orazio specialmente — sulla cui fisionomia canzonatoria si cerca con un po’ di curiosità il riflesso della grande passione che risentì per lui l’ottantenne marchesa Du Deffant. Una certa delusione la si prova dinanzi al ritratto di Giorgio Williers duca di Bukingham. La storia gli ha assegnato un posto nel cuore di Anna d’Austria regina di Francia ai piedi della quale, ci insegna la cronaca galante, egli lasciò cadere un giorno tutte le perle che ornavano il suo mantello; e ricordiamo i versi che il vecchio poeta Voiture improvvisò alla regina una sera in cui ella gli domandò a che cosa pensasse, Io pensavo che fareste (Noi poeti siam bizzarri) Se in mia vece qui vedeste Bukingham il vostro amor. Tempi singolari in cui i poeti si permettevano tutte le licenze! Ma davvero Giorgio Williers duca di Bukingham è troppo florido, troppo ben pasciuto. I nostri ricordi sentimentali ne soffrono. C’è una sfilata di attori celebri: Irving, dal rigido profilo puritano, Kean nella cui faccia si legge tutto il programma della sua vita: _genio e sregolatezza_: la Vestri, altri ed altre. Di un interesse speciale, riunite in un gruppo come le gemme più preziose della corona, cinque donne mi fanno battere il cuore: Giorgio Eliot, la Browning, Carlotta Brönte, Cristina Rossetti, la signora Carlyle. Non so perchè Gaetano Negri scrivendo con tanta simpatia della Eliot la chiamasse brutta. Nei tre ritratti che abbiamo di lei non risulta tale. Il primo la rappresenta giovane, eretto il bel busto sotto la testa un po’ grossa ma ricca di biondi capelli, i lineamenti regolari, gli occhi soavissimi ed azzurri. Anche nell’ultimo, preso quando aveva sessant’anni, i capelli hanno conservato tutta la loro opulenza e il volto non dispiace. Carlotta Brönte è veramente la donna di provincia del secolo decimonono nel cui interno l’anima vigila sempre accesa e detta romanzi intanto che manipola il pane e che tutto intorno a lei è freddo, gretto, meschino. Cristina Rossetti pare una santa staccata dai muri di un antico chiostro italiano. La Browning, non bella ma strana, ci affascina colla bruna chioma spiovente, cogli occhi oblunghi, larghissimi, luminosi, pieni di un mistero che la bocca forse troppo ampia ma fremente di vita lungi dal distruggere rende più inquietante. Si desidererebbe più limpido, più visibile alle pupille che vi si figgono ansiose, il ritratto della signora Carlyle, imperfettamente reso in un piccolo disegno, quasi la tenera donna volesse anche dopo morta restare nelle tenebre che accompagnarono la sua vita di eroismi oscuri. E chi è questa elegante simpaticissima signora dalla bellezza quasi moderna, che piace subito, che ispira ammirazione e fiducia? Duchessa Malborough — dice l’iscrizione della ricca cornice dorata — e la celebre canzonetta ci viene spontanea alle labra: _Malborough s’en va à la guerre_. Sì, essa è l’impareggiabile sposa del grande Malborough che gli fu compagna fedele fino alla morte e che, rimasta vedova per il tragico avvenimento che la canzone rese popolare, ricusò ogni altro matrimonio rispondendo: «Colei che è stata moglie di lord Malborough non può appartenere a nessun altro uomo». Ben diversa è la psiche di lady Hamilton contessa di Gramont che la guida chiama semplicemente: la bella Hamilton. Abbiamo di lei due ritratti presi a vent’anni di distanza che fanno riflettere malinconicamente a ciò che deve essere per una bella donna l’invecchiare, quando questo grave passaggio fisiologico non sia sorretto dalle virtù della duchessa di Malborough. Lady Hamilton nel fiore sbocciato della sua giovinezza si presenta col primo ritratto in una decente scollatura che non distoglie lo sguardo dal fresco viso; ma più tardi, quando l’età fatale incalza, colei che nessuno più chiama la bella Hamilton investita dall’ardore terribile di chi rischia l’ultima battaglia brucia tutte le sue navi... o per lo meno le trine che ricoprono gli ultimi avanzi della sua bellezza famosa e ci fa esclamare: Povera donna! A chi appartiene quel faccione florido e tranquillo di buona borghese che rattoppa le sue calze? È Maria Tudor, la feroce nemica dei protestanti. Si stenta a crederlo e si cerca con interesse il vicino ritratto della più interessante delle sue vittime: Giovanna Grey, pallida e gentile. Strana, orribile faccia è quella di Enrico VIII marito di sei mogli. Sulle larghe mascelle bestialmente sviluppate, tali che invadono l’intero volto, gli occhi e la bocca di una impressionante piccolezza sembrano mostri osceni che si raccolgono un istante per prendere lo slancio, labbra di sanguisughe, tentacoli di piovre, una cosa mai vista e che ipnotizza col suo stesso orrore molto più se si pensa alla dichiarazione che egli faceva col più perfetto cinismo: «Quando amo desidero, quando desidero voglio e quando voglio prendo». La figlia di questo mostro, la regina Elisabetta nata da Anna Bolena e chiamata alternativamente la grande Elisabetta o la regina vergine, probabilmente con eguale fondo di verità, quantunque brutta volle lasciarci quattro ritratti e porta in ognuno dei quattro un abito così ricco di complicazioni che sfido a descriverlo il più esperto cronista mondano. Di questi quattro ritratti il migliore è opera di un pittore italiano, Federigo Zuccari, fondatore della romana Accademia di San Luca. Ancora dello Zuccari è il ritratto di Roberto Dudley conte di Lancaster favorito titolare della regina, tanto bello quanto stolto, dissero i contemporanei e che appare sulla tela più stolto che bello. Ciò pure torna a lode del pittore poichè seppe dalla vaga scorza estrarre l’intima volgare essenza, ciò che si direbbe modernamente ritrarre l’anima. Qui finiscono questi miei appunti personalissimi, semplici note di taccuino segnate senza ordine prestabilito, alla ventura, ma ci vorrebbe ben altro per descrivere tutto quello che si vede nella Galleria dei ritratti a Londra. Alcuni, molti fra essi, hanno pregi pittorici non comuni. Tutti — i pochi di cui ho accennato e gli innumerevoli che non trovarono posto in questo articolo — ci parlano il linguaggio profondo dei morti così suggestivo quando ci si affacciano dalle vecchie tele dove l’arte ha saputo immortalarli. ATTRAVERSO L’OLANDA. Quando il reverendo Lorenzo Sterne, parroco inglese, mettendo nella valigia mezza dozzina di camicie, un paio di brache di seta nera e il ritratto di Elisa, si dispose alla traversata da Dover a Calais per vedere la Francia, non pensava certo al rumore che il suo modesto viaggio doveva fare nel mondo; viaggio bizzarro nel quale non è descritta nessuna città, nessun monumento, nessun costume di popolo, nessun ricordo storico, nessun documento artistico, ma solo impressioni sentimentali. Questa grande parola allora molto alla moda, ora decaduta al punto che una poetessa modernissima ha inveito violentemente contro «gli esecrabili bisogni sentimentali», mentre spiega il successo del libro in un tempo e in una società preparati ad accoglierlo, dà pure la ragione del perchè i libri di viaggio interessano sempre anche se moltiplicati sullo stesso soggetto. Non siamo più gli ingenui ascoltatori di Marco Polo che tante cose strabilianti ebbe a narrare reduce dal suo viaggio intorno al mondo. Le nozioni materiali dei luoghi anche lontani sono oramai, specialmente coll’aiuto delle riproduzioni grafiche, alla portata di tutti. Non è che il temperamento del viaggiatore che può darci ancora delle impressioni inedite. Un albero è sempre un albero, ma gli alberi di Grubicy non sono quelli di Gignous e le montagne di Carcano non sono le montagne di Segantini. Avvertito o no, è il sentimento che guida il giudizio; esso solo trae dalle cose il riposto significato non eguale per tutti, come non è eguale il suono di un istrumento toccato da una mano piuttosto che da un’altra. Gli esecrabili bisogni sentimentali, con buona pace della poetessa futurista, continueranno ancora per un pezzo a frugare nella profonda anima umana. L’italiano che si reca in Olanda ricorre invariabilmente col pensiero al viaggio di De Amicis, impressionista per eccellenza, e se non gli scaturisce dal cuore l’ammirazione ad ogni passo rimane un po’ male, dubitando della propria sensibilità, mentre non si tratta che di sensibilità diverse. Confesso che andando a Rotterdam cercai ansiosamente le case descritte da De Amicis. «Vi sono le case che pare caschino dal sonno, quelle che si rovesciano indietro spaventate, quelle che si inclinano l’una verso l’altra come per confidarsi dei segreti, quelle che si cascano addosso le une alle altre come ubriache; alcune che pendono indietro in mezzo a due che pendono avanti come malfattori trascinati da due guardie; schiere di case che fanno riverenza a un campanile; gruppi di casette tutte inclinate verso una nel mezzo che par congiurino contro qualche palazzo». Le cercai, non le trovai, e dinanzi ad alcune case semplicemente un po’ storte dissi a me stessa: Una delle due: o che io manco di immaginazione o che De Amicis ne ha troppa per avere trovato tutto quel diavolìo di scene in alcuni muri fuori di perpendicolo. Ma è certo che abbiamo ragione tutti e due; egli di averle viste così, io di non averle viste. Un’altra cosa che non mi apparve affatto è l’animazione di Amsterdam paragonata nientemeno che al Trafalgar _square_ di Londra e alla Maddalena di Parigi, luoghi quanto mai indicati per chi vagheggiasse un suicidio sotto gli omnibus e le automobili, mentre il _Dam_ della capitale olandese, come qualunque brava ed onesta piazza di una città di provincia, mostra di avere il maggior rispetto per la vita dei passeggieri, i quali non formano più la folla variopinta dei costumi che dalla Frisia, da Groninga, dal Zuidersee accorrevano ad alimentare la curiosità del forestiero mezzo secolo fa, ma lisciati ed uguagliati dal progresso vestono gonne strette e giacche all’inglese come tutti gli altri, sì che le cuffie a corni ed i caschi dorati sono oramai l’eccezione. Gran peccato questo scomparire delle antiche foggie; s’avrebbe ancora potuto incontrare uno di quei cappelli mirabolanti dei quali un museo di Frisia conserva il campione: vedere per credere; un gran cerchio di legno largo come due tavolini da caffè, coperto da una tenda frangiata. Le eleganti moderne lo potrebbero invocare a giustificazione dei loro cappelloni a guantiera. Guardate un po’ che cosa portavano le nostre nonne!.... Ciò che non ha cambiato in Olanda sono quelle case mute e senz’occhi che possono apparire graziose quando si presentano minuscole e sparse nel mezzo di una prateria o lungo lo specchio di un canale, ma che allineate per centinaia e centinaia di metri nelle vie di una città, tutte simili, tutte piatte, tutte fredde, generano una indicibile impressione di monotonia e di uggia. Sono case fatte di vetro e di legno; il vetro delle finestre, il legno delle porte; e porte e finestre così serrate, così fitte che di muro (quando è muro) vi è appena quella striscia indispensabile per tenerle insieme. Botteguccie che seguono a botteguccie, usciolini a usciolini; hanno della gabbia e della scatola le più semplici; se qualcuna tenta di vincere le compagne in altezza e in ricchezza assume l’architettura di un croccante. Nessuna ci dà quel senso di comodità, di riposo, di ampiezza delle nostre case, dove l’abbondanza del muro è così avvolgente e suggestiva. Non vi sono linee grandiose, non mistero di portici, non fantasia di spezzature, non contrasto di ombre e di rilievi. L’assenza di balconi e di persiane toglie loro ogni apparenza di vita perchè una persiana ha tre modi almeno di presentarsi: aperta, chiusa e semichiusa; ed ognuna di queste attitudini ha una fisionomia propria, direi un’anima. Il balcone poi è così ricco di vita e di cambiamenti che la sua mancanza dà a noi italiani un senso di incompleto e di monco. Dinanzi a quegli usciolini piccoli e sempre chiusi, a quelle finestre vetrate e sempre chiuse colla immancabile esposizione interna di vasetti e di ninnoli, senza che mai nulla si muova, che si agiti, che adduca un cambiamento di forma e di colore, si sospetta che anche le persone che abitano quelle case debbano avere una mentalità e una sensibilità ben diverse dalle nostre, altri bisogni, altre passioni. La placidità olandese, oramai passata in proverbio accanto alla furia francese, alla flemma britannica e alla vendetta côrsa, confermata dagli ultimi versi del sonetto sull’Olanda ... i larghi letti insidiati invano su cui l’amore ha scritto a stampatello: Chi va piano va sano e va lontano, è forse una leggenda. Le kermesse ad ogni modo vorrebbero dire che la placidità olandese è una specie di vino imbottigliato; più sta chiuso e più fermenta, finchè fa saltare il tappo e allora... alla grazia di Dio! Volli chiedere informazioni in proposito ad uno dei non molti olandesi che parlano francese e mi rispose essere davvero una specie di frenesia dalla quale sono prese specialmente la gente di campagna e le serve. Le care serve colla cuffietta immacolata e la scopa in mano tutto il giorno non hanno altro pensiero che quello di accumulare denaro tutto l’anno per darsi alla pazza gioia nei giorni della kermesse. Ciascuna si sceglie il suo ciascuno e via per le osterie a bere, mangiare, ballare, ubriacarsi.... — _La noce enfin!_ — concluse il mio interlocutore. Io stetti un momento perplessa, poi arrischiai timidamente: — _Jusque au fond?_ — _Naturellement._ — _Et les conséquences?_ — _Oh! dé-sas-treu-ses!_ — soggiunse l’olandese alzando le mani sopra la testa. È per questo che il governo ha proibite le kermesse e, tranne in qualche remoto villaggio, non si praticano più. In Amsterdam, no certamente. Rotterdam, la seconda grande città olandese, è, direi, più mossa, più varia di Amsterdam. La ferrovia che la attraversa tutta sopra un lungo e pittoresco viadotto le conferisce un non so quale aspetto cosmopolito che sembra riallacciarla agli altri paesi che non sono Olanda; tuttavia le case perdendo le caratteristiche antiche gareggiano anche qui nella emulazione del piatto, del liscio, dell’eguale. Anche all’edificio della Borsa, che nelle città commerciali tiene il posto d’onore, non pare abbiano data soverchia importanza. La Borsa di Londra somiglia a una fortezza, quella di Bruxelles sta fra il teatro e la chiesa, quella di Amsterdam fra la chiesa e il manicomio; quella di Rotterdam è solo una casa un po’ più casa delle gabbie e delle scatole che la circondano. Ma che bella improvvisata quando, percorrendo rassegnati una delle solite vie a botteghe ed a usciolini chiusi, ci appare una galleria ampia e chiara sopra uno sfondo verde che attrae irresistibilmente e cedendo all’attrazione ci troviamo in una piazza vastissima che potrebbe non sembrare olandese se a un lato di essa non si elevasse alto, nero, maestoso, imponente, il più bello il più gigantesco mulino che abbia battuto le ali fra la Schelda e la Mosa! Che cosa sieno i mulini a vento in Olanda è difficile dire a chi non li abbia visti. Per me sono come i _cabs_ a Londra; tale nota nel paesaggio che, ove sparissero, sparirebbe una rivelazione di grazia presso quel popolo senza grazia che è l’inglese e una forma di eleganza in questa Olanda così poco elegante. Io non vidi mai per il mio desiderio abbastanza _cabs_ a Londra, come non mi stancai mai di cercare mulini in ogni cantuccio d’Olanda; e il vedermene uno dinanzi, all’improvviso, dove non mi sarei immaginata certo di trovare un mulino, cioè sulla grande piazza di una grande città, mi riempì del più gaio stupore. Il mulino di Rotterdam è una bellezza per gli occhi e per l’immaginazione. È linea ed è simbolo. È come la bandiera dell’Olanda, del suo indefesso lavoro e delle sue conquiste famose, sventolante colle antenne superbe al vento del nord. Me ne godevo la vista ed il pensiero seduta fuori di un piccolo caffè, ed era questo un diletto squisito per l’anima mia, se non che volgendo e rivolgendo il capo a destra per vederlo sempre meglio vidi pure, seduta alle mie spalle in un cantuccio ombrato, una gentil coppia di amanti così eterei, così romantici, così fuori del mondo in quel loro divino assorbimento che tutti i ricordi d’Italia mi assalirono e non osai più volgere il capo per non interrompere l’estasi dei due felici. Non potevo tuttavia impedire a me stessa che un qualche furtivo sguardo non deviasse ancora nella loro direzione. Dal posto in cui mi trovavo il giovane mi rimaneva nascosto e poco scorgevo anche del volto di lei sotto le tese del gran cappello, ma una sua piccola e delicata mano abbandonata in grembo veniva accarezzata con tanta dolcezza dall’amico e il loro silenzio rotto appena da sospiri e da flebili accenti aveva una tale soavità commossa, che fra essi e il mulino e le fantasie suscitate passai una delle ore più deliziose del mio soggiorno in Olanda. Sì poco basta talora a improvvisare un’oasi di felicità in questa nostra deserta esistenza. Passava appunto una signora con un mantello color cioccolata e quattro bottoni sulla schiena. Ella aveva forse scelto il mantello in causa di quei quattro bottoni. Doveva aver pensato: È un ornamento originale e di buon gusto, mi starà bene. Filando poi per le vie di Rotterdam, la preoccupazione di quei quattro bottoni e del grazioso effetto che producevano sui riguardanti la riempiva certo di una piacevole illusione. Ma Amsterdam e Rotterdam sono città troppo progredite per soddisfare il gusto di esoticismo che si ha sempre quando si viaggia. Bisogna vedere le città morte del Zuidersee — suggeriscono le guide stampate e le guide parlanti. Sette ore di imbarcazione sul mare interno ci mettono a contatto dell’Olanda genuina. Andiamo. Ecco dunque per primo Brock, leggiadrissimo villaggio a fior d’acqua, incappucciato di un verde intenso e così fresco, così silenzioso, così umido e fragrante e riposante che per tutti i luglio e gli agosto che ancor mi rimangono di vita nei giorni più torridi mi vedrò sorgere dinanzi la visione di Brock, sinonimo di paradiso estivo. Le singolarisime cose che diedero un tempo fama burlesca a questo paese sono quasi scomparse; solo rimane più che mai rigido il silenzio assoluto e l’assenza totale degli abitanti. Le gabbiette umane più che mai minuscole e dipinte hanno qui più che mai porticine e finestrine inchiodate. Si vedono bensì dietro a certi vetri bazzecole di legno e di terraglia che vorrebbero essere, forse, da vendere; ma poichè tutto è chiuso ermeticamente ed anima viva non appare, quelle mostre platoniche che stanno probabilmente lì da anni ed anni dietro i loro vetruzzi inviolati sembrano roba imbalsamata. Monnikendam, che vien dopo, ha l’aspetto più serio e insieme una tristezza e un malcontento di grande passato distrutto. Due bambine in costume colle bionde ciocche sfuggenti dalla cuffietta e i piedi sperduti entro larghi zoccoli di legno a punta offrono meschini gingilli tratti dal fondo di un paniere. Anche qui tutte le porte e tutte le finestre e tutte le botteghe chiuse; non un uomo, non una donna, non un bimbo; nè cani, nè galline; nemmeno una mosca che rompa col suo breve volo l’immobilità, la solitudine e il silenzio. Si lascia Monnikendam coll’impressione che le due bambine in costume facciano parte di una messa in scena di città morta ad uso e consumo dei forestieri. Sulle due isolette di Marken e di Vollendam riappare la vita, Marken protestante, Vollendam cattolica; entrambe ridenti e liete dell’ampio mare che spumeggia intorno alle loro linde casuccie o, a meglio dire, cabine — una o due camere al più, di legno, erette su palafitte — luccicanti all’interno di stuoie distese sul pavimento, di piatti appesi alle pareti, di tendine bianche, di innumerevoli cianciafruscole sparse Gli abitatori vivono di pesca. Di uomini non se ne vedono perchè stanno al largo tutta settimana coi loro battelli e tornano appena alla domenica; ma le donne sono tutte sulla soglia e le fanciulle bionde e magre, con quel petto spianato che tanto dispiaceva al De Amicis, passeggiano in su e in giù sferruzzando calze di grossa lana nera. Ripensando all’Olanda dopo esserne usciti, con quella visione del paesaggio fatto di acqua e di erba dove pascolano le belle mucche bianche a macchie scure, dove le antenne dei mulini girano silenziose sul cielo pallido, collo sfondo del mare di un colore monotono tra il giallastro e il bigio — dolce visione non perturbatrice — sentiamo che la nostra curiosità è paga. Non ci tormenterà la nostalgia dell’Olanda come sempre tormentano chi le ha avvicinate una volta sola le sacre pietre di Roma o il golfo di Napoli o la incantatrice Venezia. Abbiamo visto l’Olanda, siamo contenti di averla veduta e basta. Forse, quando dopo molti anni i porti, le isole, i prati verdi, le città silenziose saranno dileguate a poco a poco dalla mia memoria, un mulino alto, nero, maestoso, imponente, il più bello il più gigantesco mulino che abbia battuto le ali fra la Schelda e la Mosa, mi passerà ancora dinanzi agli occhi e rivedrò nel piccolo caffè i due innamorati taciti e sospirosi. Ah! chi sa se si ameranno ancora! UN CANTUCCIO DI PARIGI ALL’USO DELLE PERSONE SEMPLICI. Tutte le volte che si parla di Parigi la mente è abituata a immaginare subito una città di delizie dedita esclusivamente al lusso ed ai piaceri. È forse partendo da questo preconcetto divenuto oramai un luogo comune, e per l’orrore dei luoghi comuni, che io fui invece subito e sempre colpita dagli aspetti deliziosamente provinciali, adorabilmente ingenui, di questa terribile moderna Babilonia. Certo non anderò a cercare la provincia in Rue de la Paix nè l’ingenuità alle Folies Marigny. Io vado più in là. Io cedo tutta la riva destra ai _boulevardiers_ di professione, agli stranieri che piombano su Parigi come d’estate i mosconi sulla carne scoperta, avidi di sensazioni acute e di curiosità proibite, alle signore eleganti, ai giovinotti dal portafoglio ricolmo, ai vecchi _marcheurs_, agli omnibus sgangherati, ai cocchieri insolenti, ai marciapiedi sudici, agli _encombrements_ che vi impediscono di camminare, ecc. ecc. Quando penso a Parigi, io ripasso la Senna invariabilmente perchè delle città al pari che degli uomini ricerco il cuore e il cuore di Parigi batte nella vecchia isola di Saint Louis e di Enrico IV, laggiù dove le torri di Notre Dame come vigili candelabri eretti al cielo sembrano tenere alta sopra le attuali miserie la fede che i nostri padri bagnarono nel loro sangue. E dalla piccola isola toccando la riva sinistra, non senza volgere uno sguardo alla guglia quasi spirituale della Sainte-Chapelle, entro in quel quartiere latino dove le anime solitarie e pensose anderanno sempre a cercare le loro migliori sensazioni. Quanti nomi! Quanti secoli di storia! Non era l’antica Lutezia che una meschinissima borgata e sulla collina dove ora sorge il Pantheon pascolavano le pecore, quando una fanciulla dall’angelico profilo e dagli occhi pieni di sogno stendeva le piccole mani per trattenere l’invasione degli Unni. La nascente Parigi aveva già la sua protettrice: Santa Genovieffa! Chi vuole conoscere in poco più di venti minuti il passaggio da un mondo all’altro deve prendere in piazza della Maddalena il venerabile omnibus del Pantheon, mediante il quale, dopo di aver gustato per pochi istanti la risurrezione degli antichi viaggi in diligenza, si trova a mille miglia dal _boulevard des Italiens_ e dalla _Avenue de l’Opera_. Ecco il ponte sul quale in una oscura notte di novembre pochi fedeli amici passarono accompagnando il cadavere dell’attrice Adriana Lecouvreur che una legge del tempo proibiva di seppellire in terreno sacro. Ecco il Lussemburgo, palazzo e giardini, dove ogni pietra narra una storia. Ecco la Sorbonne, ecco l’architettura arcaica di Cluny sotto le cui ombre meravigliose giuocano i bambini del popolo, ecco i Licei famosi dai quali uscirono i più grandi scrittori della Francia, ecco la via Soufflot tutta piena di libri, ecco la mole imponente del Pantheon e accanto, meno vasta ma più pregiata dai buongustai, la chiesa antichissima di _Saint Étienne aux Monts_ dove si conserva l’arca di Santa Genovieffa, dove una elegante transenna fiancheggiata da due scale aeree richiama le belle opere del nostro Rinascimento. In questo quartiere dedicato allo studio ed agli studenti invece dei negozi di novità non si vedono che quaderni, matite, cartelle, dizionari, e in fatto di eleganza alcune botteghe di camicie fatte e di cravatte a buon mercato; ma quanta giovinezza vera, quanta forza, quanto soffio di idee e di speranze nove batte l’ali in questo cantuccio trascurato di Parigi e nei piccoli giardini di queste case dove gli uccelletti si arrischiano ancora a sospendere i loro nidi, dove c’è un silenzio di orto di curato e dei sedili vuoti che la fantasia popola a suo piacere. E non erano queste le strade percorse da Mimì Pinson?... Ohimè, Mimì Pinson è morta senza discendenti. Abbiamo ora le studentesse, purtroppo! Mimì Pinson non cercava altro che l’amore, le studentesse lo cercano pure, ma complicato di filosofia e di questione sociale. Chi sa che cos’hanno, povere donne in quelle loro teste arruffate! Si vedono, verso sera, passare in giri fitti, rapidi e convergenti proprio come rondoni, finchè vanno a dar di capo in una delle innumerevoli _tavernes_ del _boulevard Saint Michel_, dove tra il fumo delle sigarette e gli _chop_ di birra (quando sono in fondi) gli studenti d’ambo i sessi incrociano sguardi e discussioni infiammate. A guardarli dalla finestra è una sfilata di cappelli originalissimi, d’ogni colore, forma e dimensione, perchè pare che nella scelta del cappello gli studenti sogliano mettere una affermazione di principii. Quelli delle studentesse poi si distinguono per certe penne spennacchiate che percuotono loro le spalle facendo pensare a scopinetti, a fronde d’albero, a batti panni, a code bizzarre di animali ignoti, a tutto insomma fuorchè ad un ornamento femminile. Più tardi, quando la mole del Pantheon non appare che nelle forme incerte di un gigante accovacciato e l’infelice _Pensatore_ che Rodin immaginò certo in un giorno di cattiva digestione, uno di quei giorni fatali che capitano anche agli uomini grandi, dorme sul suo equivoco sedile, ripassano a coppie... lente, silenziose, la mano stretta nella mano... e le stelle brillano in alto indulgenti e serene.[2] È in una soffitta del _quai St. Michel_ che Giorgio Sand, abbattendosi su Parigi all’inizio del suo volo di procellaria, andò a cercare il primo rifugio: ben lontana allora dal sospettare che in una aiuola del giardino del Lussemburgo i tardi nepoti verrebbero ansiosi a contemplarne la nobile sembianza scolpita nel marmo, fra un popolo di regine troneggianti in mezzo agli alti alberi che videro passare Maria dei Medici. E tutto intorno a queste memorie una bonomia di vita semplice, di mattinate operose e insieme tranquille, lungo i marciapiedi solitari percorsi appena da qualche borghesuccia che va per le sue provviste o dai professori nel loro incesso dignitoso avviati a sparire negli ampi portoni dei Licei e delle Università; di meriggi sereni in cui sfilano lunghe schiere di alunni attraversando vie quasi deserte e negozietti sulle soglie dei quali le donne in camiciola bianca vengono a prendere il fresco sedute sulle loro seggioline di paglia, come a Codogno, a Gorgonzola, oppure (parlando a fiorentini) a Prato ed a Signa. Tipico in questo quartiere è un alberghetto del quale non dirò il nome, ma che potrebbe chiamarsi senza anacronismo albergo dei Tre Mori, della Rosa bianca o delle Armi di Rohan. La sua unica porta è fiancheggiata da due vasi di semprevivi, modesti sì ma eloquenti emblemi, destinati forse a mitigare l’effetto che in alcune persone impressionabili potrebbe fare una esposizione di pompe funebri che si trova proprio a fianco coi disegni di tutti i _corbillards_: prima, seconda, terza classe: e dei moduli di partecipazione graduati a tutti i lutti. Non credo però che i frequentatori di quell’alberghetto se ne siano mai preoccupati, essendo per la maggior parte studenti, artisti, giovinotti che fioccano dalla provincia a Parigi per farsi una posizione e che vi alloggiano più o meno a lungo finchè abbiano trovato qualche cosa di meglio; ciò che peraltro non deve essere facile perchè in fondo i Tre Mori o la Rosa bianca o le Armi di Rohan non è che una continuazione della vita di famiglia, la piccola, umile, serena, intima vita di famiglia in provincia — e se non è precisamente Nanterre o Perpignan certo non è ancora Parigi. Ogni mobile qui è di antica data e non bisogna sofisticare troppo se le stoffe in qualche posto mostrano l’orditura, poichè ci aspetta la dolce sorpresa di trovare sul caminetto la stessa pendola che abbiamo sempre visto in casa della nostra nonna, e appese alle pareti un gran numero di quelle stampe vecchiotte che formano la delizia dei collezionisti. Che importa se la luce elettrica vi è un mito, se una fila di moccoletti attende sulla scansia i relativi proprietari e se le terraglie di camera appaiono spesso scompagnate?... I letti sono ampi, morbidi e vi si dormono i più beati sonni dell’innocenza. A ciò provvede particolarmente un avviso appiccicato sopra il muro «_Il est defendu de faire entrer quelq’un coucher avec soi._» Siamo oramai lontani dal tipo di studente errabondo e povero che ispirò Murger nella «Bohème» e che Étienne Eggis parlando di se stesso ci descrisse in quella strofa deliziosa di spontaneità. Je n’avais pour tout bien que ma pipe allemande Deux volumes du gran Goethe, un pantalon d’été.... Gli studenti che battono alla porta di questo alberghetto (suonare il campanello quando non si trova nessuno) hanno la loro mamma a casa che li ha provvisti di abiti per il caldo e per il freddo ed essi non devono preoccuparsi altro che di passare le classi. Dinanzi a loro, nell’ampia Parigi, la Parigi vorticosa e turbinosa della riva destra, danzano a frotte le illusioni adescatrici e perfide. Qui, nel quartier latino, si sogna e si ama; ma la lotta per la vita è laggiù che li attende... Essi lo sanno, i giovani, e colgono finchè possono le rose dei vent’anni. Nella cripta del Pantheon dormono i grandi uomini il loro sonno immortale, mentre tutto intorno sorgono queste speranze novelle figgendo gli sguardi nell’avvenire. Forse trovasi fra costoro il grande uomo futuro?.... COLMAR. Le gazzette di questi giorni annunciarono che in Alsazia si sta in una grande attesa dei prossimi avvenimenti guerreschi e in questa attesa, non priva di serie preoccupazioni, si provvede a mettere al sicuro nell’interno della Germania gli oggetti d’arte, principalmente le celebri tele dei quattrocentisti raccolte nel museo di Colmar. Colmar, nome grazioso di una piccola città della quale ignoravo completamente l’esistenza fino a quattro anni or sono. Mi trovavo a Strasburgo, ed al pari di ogni straniero che visita la capitale dell’Alsazia, facevo colazione una volta tanto alla casa Kammerzel che si addita come il modello più puro dell’antica architettura tedesca. A rendere più vivo il colore locale sedeva alla mia tavola stessa una brigata di tedeschi autentici, così grossi e tozzi e rumorosi e maleducati che mi sentii subito invasa da quel malessere speciale che devono provare, io penso, i pesci fuor d’acqua e che io avvertii sempre in presenza di questa razza che sento profondamente diversa dalla mia, sopratutto nel suo esemplare ultimo; perchè io giungo, non dico a simpatizzare ma ad accostarmi alla piccola Germania di una volta dalle casuccie di legno sul cui tetto nidificano le cicogne e nell’interno si conduceva una vita semplice e parca, tutta intessuta di minute economie borghesi che non impedivano di essere felici perchè i gusti erano primitivi e i cuori contenti. Ma questa generazione venuta su dopo il settanta, imbevuta di orgoglio filosofico e di smania di godere, questi tedeschi tanto lontani dal mugnaio _Sans Souci_ e dalla sua candida fede nella giustizia, queste Gretchen che hanno trovato una soluzione tanto più comoda dell’infanticidio per aggiustare le loro marachelle, questi Faust che non vegliano più fra i dibattiti dell’anima perchè l’anima già da un pezzo l’hanno data al diavolo, questa gente prepotente e volgare, sudicia e boriosa non ha nulla di comune con noi. Tale convincimento mi venne più forte che mai intorno a quella tavola del Kammerzel, fra quegli uomini sazi di cibo che si scompisciavano dalle risa al racconto di un compagno e le loro donne che si frenavano appena, facendo saltellare sui grossi petti, le grosse catene d’oro, agitando le braccia dense e corte con uno sbatacchiamento di anitra che voglia uscir dal fosso. Ero la sola rappresentante della latinità, taciturna in mezzo a quel rumoroso dilagare di ilarità teutonica, e siccome nessuno della comitiva parlava nè l’italiano nè il francese, mi rivolsi a un cameriere per conoscere il soggetto di tanta allegria. Trattavasi dell’avventura di uno di quei signori che nell’attesa del primo bimbo aveva almanaccato nove mesi colla moglie sul nome da imporgli e quando fu trovato con piena soddisfazione di entrambi nacque una bimba. Come? — esclamai — è tutto qui? — Tutto qui! — mi rispose l’alsaziano con una ironia nell’accento e tale lampo di malizia negli occhi che mi furono chiosa e compenso, e pensai: «Ecco un suddito poco rispettoso della strapotente Germania». Fu da quel casuale incontro che di parola in parola (non era egli un irredento?) venni a sapere l’esistenza della città di Colmar, del museo d’arte antica e di antiche abitazioni in vecchio stile curiose a vedersi. Non ci volle di più per decidermi nel mio ritorno in Italia a farvi una sosta fra una corsa e l’altra. Pochi giorni dopo facevo la mia entrata a Colmar, unica viaggiatrice in un modestissimo tram che mi portò attraverso vie monotone e piatte, senza espressione, senza colore, senza vita. Non uno sfondo di verde, non un movimento di acque, nulla, nulla. E neppure una casa antica! Passai bensì dinanzi alla chiesa di S. Martino, ma era in riparazione e cinta di assi che non me la lasciavano vedere. Questo disinganno della mia prima corsa nell’ignoto dal quale mi ripromettevo le più gradite sorprese mi consigliò meglio a cercare subito il museo che sapevo collocato nell’ex-chiostro degli Underlinden e qui finalmente la mia curiosità fu paga. Il custode che stava pranzando colla sua famiglia non si scomodò più che tanto al mio apparire. Avendogli detto che non potevo aspettare in causa del treno da riprendere mi accompagnò oltre l’andito e accennando con un gesto cortese: «_Quatre pas à peine, la porte de l’église est à gauche, entrez, il n’y a personne._» Visitare una raccolta d’arte insieme a una persona competente che ne addita e spiega i pregi è senza dubbio piacere più perfetto e lezione più preziosa; ma anche queste visitine di contrabbando fatte senza il Baedeker, senza il cicerone, senza l’amico compiacente, hanno un loro sapore aspretto di frutto acerbo che non è da disprezzarsi e riesce specialmente gradito alle fantasie vagabonde le quali sogliono domandare alle cose, più della forma concreta, l’imprecisione del sogno che da esse si svolge. Così io mi sprofondai subito nel silenzio delizioso del portico che recinge il cortile del chiostro con quelle arcate di un gotico leggero come una trina, con quei pilastri eleganti sotto la frastagliata ombra dei tigli. Io volli cogliere nei cantucci remoti i sospiri delle cento vergini che vi passarono la vita, sospiri di rimpianto e di malinconici ricordi, sospiri eziandio di mistico amore; aneliti di cuor ardenti verso l’inafferabile bene, verso l’amante immortale. Non è a credere quanto su questa via galoppasse la mia immaginazione fino a vedere materialmente i veli bianchi delle suore apparire e sparire tra gli arabeschi delle magnifiche arcate e le loro voci argentine salire al cielo tra il profumo dei tigli. In buon punto mi sovvenni le parole della guida: «_Quatre pas à peine, la porte de l’église est à gauche, entrez, il n’y a personne._» Nella chiesa, abbastanza vasta, ad una sola navata, le tele dei primitivi sono disposte su panche e cavalletti ricevendo dalle alte finestre una luce grigia uniforme, quasi opaca, che congiunta al silenzio ed alla austerità delle nude pareti dà l’immediata impressione di ciò che è veramente quel singolarissimo museo. Dubito che esista un’altra raccolta di quadri di una ispirazione così uniforme e posta in una più omogenea cornice. È tutta l’arte incerta della fine del Medio Evo che si affaccia da questi dipinti dal disegno infantile, dal colore smorzato, come si temesse di dare troppa gioia all’occhio. Erano tempi, quelli, di macerazione della carne e i corpi appaiono stecchiti, le membra rigide, i volti contratti dallo spasimo. Giovanni Huss non aveva agitato invano sulle turbe spaurite i campanelluzzi della sua follia ascetica, egli che imponeva alle donne di stringersi sul petto una tavoletta di legno per soffocare l’esuberanza che poteva dare scandalo e indurre in tentazione. Il crudele dissidio fra spirito e materia, che tormentò gli uomini durante quei tetri crepuscoli della coscienza, ha lasciato parte delle sue inquietudini su queste tele dolorose, dolore fisico, dolore di anime e non, come nei nostri primitivi, la soavità penetrante di frate Angelico o l’ingenuità sorridente di Giotto, sanno carpire al segreto della bellezza femminile il fascino delle loro madonne. Nei pittori tedeschi la rozzezza dei tempi è duplicata dalla rozzezza propria alla razza. Sulla pala d’altare di Mattia Grunewald, che rappresenta la deposizione dalla croce, (già posta in salvo fra le migliori opere della raccolta) la più attempata delle tre Marie, quella che sta accanto al feretro dove porranno Gesù, è un tipo così prettamente e volgarmente tedesco che noi potremmo giurare di averla incontrata nel retro fondo di uno dei tanti negozi che il popolo invasore per eccellenza aveva aperti nelle nostre città. Intanto il pallido raggio di sole che illuminava le finestre era scomparso, un grigiore sempre più malinconico avviluppava tutte quelle imagini del dolore, quei crocifissi, quei martiri, quei santi. Per un improvviso richiamo all’antitesi rammentai la vendita. Doucet che, proprio in quei giorni, metteva a soqquadro Parigi, Doucet, il sarto delle più raffinate eleganze parigine, essendo anche uomo di gusto, aveva per trent’anni della sua vita inseguito con ricerche intelligenti tutto ciò che potè mettere insieme dell’arte del secolo XVIII, che per i soli quadri e statue venne valutata per dieci milioni di franchi; valutata e pagata perchè l’asta raggiunse prezzi favolosi. Ricordo alcune cifre: 360.000 franchi un quadro di Fragonard _Sacrificio a Minotauro_, uno del genere di Chardin 300.500, il ritratto della moglie di Talleyrand 400.000. Bellissima donna, d’accordo, ma 400.000 lire appese ad un chiodo!.... L’occasione era propizia per alcune riflessioni morali sullo squallido deserto che circondava l’arte che avevo sotto gli occhi e la folla tumultuante a Parigi intorno alle opere grassocce di Chardin e di Fragonard, alle voluttuose eleganze di Latour e della Vigée-Lebrun; ma l’ora incalzava e dovetti pensare al ritorno. Entrava in quel mentre il custode forbendosi la bocca e nell’istante medesimo io rimasi impietrita dinanzi a ciò che, nel fermento delle mie idee sull’arte, mi parve una straordinaria visione. Era un ritratto di donna sospeso fuori della raccolta d’arte antica, in alto, fino a toccare il soffitto, tanto che balzai sopra alcuni gradini posticci che si trovano lì presso per vederlo meglio: — Ma quella è l’imperatrice Eugenia — dissi. Il custode me lo confermò aggiungendo: — È di Wintheralter. — Due meraviglie: la donna e l’artista. L’imperatrice nel pieno fulgore dell’età, della bellezza, del dominio esce dal quadro viva per opera di un pittore rotto nell’esercizio intelligente dell’arte sua, maestro in tutte le seduzioni della femminilità aristocratica. Il volto di colei che salì al trono in virtù della sua bellezza, somigliantissimo nell’espressione, dolce e severa ad un tempo, corona di luce il busto che la stoffa di colori svariati, vivacissimi eppure armoniosissimi, veste da vera sovrana nella moda di un tempo in cui le donne sapevano vestirsi. Chiesi al custode come mai quella reliquia di una fortuna trapassata fosse venuta a smarrirsi in un luogo così estraneo alla destinazione che certamente doveva avere; ma egli non lo sapeva. Scrivendo oggi questi ricordi a quattro anni di distanza penso: — Maestà, non voi di sicuro interneranno nelle città della Germania, aspettate. Presto verranno i soldati di Francia a liberarvi e, poichè sono cavalieri, vi perdoneranno. — Rimanevano da vedersi le cose arcaiche; avevo ancora nella memoria le costruzioni di questo genere ammirate a Bruges e a Gand, la mia curiosità era viva. Vidi la casa Pfister, corretta e regolare nella sua esatta riproduzione delle antiche case tedesche, e il Rathaus e la casa denominata _delle teste_, con una bella porta; ma più ancora mi piacque quella dei _Cavalieri di S. Giovanni_ che negli eleganti loggiati e nel traforo aereo del parapetto di mezzo ricorda i migliori esempi di certi palazzi veneziani. Bellissimi poi il cortile e il pozzo della _tribù dei sarti_; principalmente il pozzo che nel disegno ardito, di una signorilità rara in queste regioni, si accosta all’architettura del nostro Rinascimento. Ma il treno stava per partire. Addio Colmar. Sul punto di accommiatarmi dalla mia guida una profonda scappellata, alla quale la guida risponde con ossequioso rispetto, mi mostra un signore dall’aria distinta, dall’abito mezzo borghese e mezzo prelatizio. — Monsignore — mormora piano la guida — la prima autorità di Colmar! — Caspita! Salutai anch’io. Che cosa potevo pretendere di più? _1914._ NEL PAESE DI FEDERICA. Quando all’uscire dalla stazione di Basilea la verde pianura dall’Alsazia si apre ai nostri sguardi, subito l’occhio corre a cercare a sinistra la molle ondulazione dei Vosgi e dall’altra parte, oltre il Reno, che luccica tratto tratto in lontananza, una curiosità alimentata di leggenda e di poesia agreste ci indugia a lungo sulle prime arborescenze della Foresta Nera. Il treno si avanza fra prati irrigui e campi a coltivo attraversando un paesaggio dai contorni morbidi, un po’ incerto di colore in queste grigie giornate invernali, ma che deve essere in primavera tutto sorriso d’alberi e di erba fiorita, con trilli di allodole nei boschetti che appaiono qua e là a interrompere la monotonia della linea piana. E via via che si procede Strasburgo sembra venirci incontro col fascino sentimentale delle sue memorie. Non a caso mi esce dalla penna questo aggettivo «sentimentale», perchè le belligere avventure della antica colonia romana conquistata dagli Alemanni e favorita da Carlo Magno, la città prosperosa che accogliendo nel 1500 la Riforma immortalò fra le sue mura i nomi di Giacomo Sturm, l’energico difensore delle libertà protestanti, e di Giovanni Sturm, l’umanista, fino alla guerra angosciosa dei Trent’anni che la fece cadere in vassallaggio dei re di Francia, sono ormai troppo lontane da noi per farci battere il cuore e meglio ci seduce ciò che sappiamo di Strasburgo durante i due secoli precedenti la Rivoluzione per lo sviluppo grandissimo che vi ebbe la sua Università e per i personaggi che la attraversarono, sopra i quali domina sovrano il genio di Goethe. Esiste ancora quell’albergo dello _Spirito_ dove il giovane studente venuto a Strasburgo per compiervi gli studi di legge discese appena arrivato? Io lo cercai subito e lo trovai lungo la riva dell’Ill; ma l’albergo non c’è più e solo la modesta casa segna in una targhetta il nome dell’illustre ospite. In un’altra contrada, all’antico mercato del pesce, altra targhetta su altra casa. Qui Goethe trovò stabile e piacevole alloggio. Ora vi è aperto un negozio di camicie a un marco e mezzo e di grembiuli a ottantacinque pfennige. Ma la fantasia non si scoraggia. Nelle belle, ampie, allegre vie di Strasburgo (forse le medesime progettate fin dal tempo di Goethe), sopra gli innumerevoli ponti dove si vedono anche oggi svolazzare i farfalloni neri che adornano il capo di qualche alsaziana fedele alla tradizione, nei cantucci remoti dove le acque gorgoglianti dell’Ill, divise in duplice ramo, formano rinsacchi pittoreschi, presso le vecchie sostruzioni di puro stile tedesco, la casa Kammerzel, il Rabenhof, il Planzbad, l’ombra del grande poeta è con noi e ci tornano insistentemente alla memoria le parole che egli pensava dall’alto della Cattedrale gettando il suo primo sguardo sulla città e sulle amene campagne che la circondano. «Un simile sguardo in un paese a noi perfettamente nuovo e nel quale dobbiamo fermarci per un certo tempo ha qualche cosa di speciale, di misterioso e di piacevole; tutto si presenta ai nostri occhi come una carta bianca sulla quale nulla ancora sta scritto. Questa carta ancora non porta il ricordo di piaceri o di sofferenze; lo spazio vivace e svariato per noi è tuttora muto; amore e passione ancora non hanno segnato questo o quel punto. Eppure il cuore già prova un presentimento di quanto sta per avvenire, una inquietudine si sparge in tutto il nostro essere. Che ci attendano gioie, che ci attendano dolori, essi avranno più o meno il carattere del paese in cui ci troviamo.» Dove eri allora, o Federica? È con trepido passo che mi accosto io pure alla Cattedrale, trovandola ammirevole nei particolari ma non totalmente soddisfacente nella linea d’insieme, che mi pare manchi di slancio e di eleganza; se pure non si vuole dedurre dalla sua forma il significato mistico di una mano ripiegata coll’indice rivolto al cielo. Salgo i trecento scalini che guidano alla spianata superiore, arrestandomi a decifrare i geroglifici di una pietra fissata nel muro e vi leggo a mezza voce, lentamente, il nome di Goethe con una cotal mia aria melensa propria dei momenti di concentrazione, quand’ecco sbucar fuori un signore lungo e magro, il quale, con cipiglio di pedagogo che sorprende Crapotti o Massinelli in fallo, mi scaraventa contro in una gamma crescente di indignazione: — Goethe?... ma è un poeta! Un grande poeta!!! Un poeta tedesco!!! — Mi sprofondo in ringraziamenti. I primi mesi trascorsi da Goethe a Strasburgo in piacevoli distrazioni, studi geniali e simpatiche amicizie, ricevettero l’impressione di un avvenimento che mise sottosopra la città e fece interrompere i corsi universitari. Fu il passaggio di Maria Antonietta che si recava a Parigi per sposare il Delfino. Bella, distinta, imponente, graziosa, la giovanissima fidanzata apparve in una carrozza di vetro all’ammirazione del popolo e Goethe che era accorso a visitare il padiglione ove ella veniva accolta doveva provare una dolorosa commozione e un senso di raccapriccio nel vedere che il più splendido arazzo scelto per decorare la sala principale raffigurava la truce istoria di Giasone, Medea e Creusa. «Come! — esclamò ad alta voce senza curarsi dei commenti della folla. — È permesso di presentare alla futura regina, sotto pretesto di festeggiarla, l’esempio del più sciagurato matrimonio che sia mai stato conchiuso?» Per calmarlo i suoi compagni lo assicurarono che non tutti stanno a meditare sul significato dei quadri, che per loro conto non avevano sentito nulla e che certamente nè la popolazione di Strasburgo nè la gaia fidanzata non avrebbero avuto sì bizzarri pensieri. Il ricordo di Maria Antonietta risorge ancora più che mai romantico e sentimentale dinanzi al palazzo elegantemente barocco che fu la dimora episcopale di quattro cardinali di Rohan poichè l’ultimo di essi, Luigi, preso da folle amore per la sovrana, doveva poi essere travolto nella oscura macchinazione detta della Collana della regina, che gli costò fortuna, onore e vita. Di un’altra storia d’amore collegata alla storia di Francia, resa popolare da romanzi e da commedie ci risovviene nel coro della chiesa di S. Tommaso, dinanzi al monumento di Maurizio di Sassonia, opera pregevolissima dello scultore Pigalle, il quale ebbe un’idea originale e suggestiva rappresentando il maresciallo che discende intrepido nella tomba di cui la Morte tiene sollevato il coperchio, mentre una donna in lagrime tenta di trattenerlo invano. Questa donna deve rappresentare la Francia, ma è così seducente che il pensiero corre ad Adriana Lecouvreur.... Fra tante memorie della nazione che per due secoli signoreggiò l’Alsazia vien fatto di domandarci: Ma questa Alsazia, infine, è francese o è tedesca? Certo la Francia non è passata invano fra questo popolo; qualche cosa della gentilezza latina vi si è infiltrata plasmando la pesantezza del tipo tedesco in una forma di grazia e di leggiadria che si ritrova dovunque, che dà brio e movimento a tutta la vita della città, collegata forse alle sue origini prime di colonia romana. Tuttavia sui muri delle sue chiese e delle sue case, nelle pagine più ardenti delle sue tradizioni, forse nel segreto della maggior parte dei cuori, l’Alsazia è tedesca. La guerra del settanta ha chiusa la parentesi. I strasburghesi di oggi parlano esclusivamente il tedesco, i nomi delle vie e le insegne dei negozi sono in lingua tedesca; appena qualche albergo e qualche farmacia porta sotto alla scritta tedesca un’umile traduzione francese: _Pharmacie de la Vierge — du Cigne — de la Rose_. A questo proposito interrogai molte persone, chiedendo loro se preferivano dirsi francesi o tedeschi. Le risposte furono, a dir vero, ambigue. Temevano di compromettersi? Una vecchia che vendeva spagnolette abbrustolite sulla piazza di S. Tommaso e che per ragioni di età, aveva balbettato le prime parole in francese, mi rispose: _Que dojs-je vous dire? On travail’ait avant, on travaille après._ Le feci osservare che ella parlava bene il francese: _Dame! Quand j’allais à l’ecole on payait un sou d’amende pour chaque mot allemand._ Credo che ora avvenga il contrario. Le statue di Gutenberg, di Kleber, di Goethe, altre ancora, popolano i giardini della città. Io penso a colei che non si vede. * Era l’ora del tempo e la dolce stagione quando Wolfango Goethe allegro studente e bellimbusto ebbe il capriccio di travestirsi con poveri panni antiquati per accompagnare un amico in visita presso una simpatica famiglia di campagna, il Pastore della chiesa protestante di Sesenheim che aveva moglie e due figlie. Il travestimento era un po’ la mania del secolo. Io non so se al giorno d’oggi un giovinotto ricco, elegante, colto troverebbe gusto a presentarsi in una casa, prima ridicolmente camuffato con abiti fuori d’uso, poi nelle spoglie domenicali di un garzone d’osteria. Aveva ragione chi disse che i nati dopo la rivoluzione francese non sanno che cosa voglia dire la gioia di vivere. Questa gioia il futuro autore dell’amarissimo _Faust_ la gustò appieno recandosi da Strasburgo a Drusenheim e di là a Sesenheim, a cavallo, in una giornata splendente di sole, lungo i sentieri che fiancheggiano il Reno, ebbro dei sogni indecisi eppure così dolci di una sana giovinezza. Trovò una casa decrepita ma pittoresca tanto da ricordargli le tele dei maestri olandesi. «Tutto era silenzio; non vi era anima viva nè nel villaggio nè nel cortile». Solo il Pastore stava nel suo studio e accolse gentilmente i visitatori scusandosi di doverli ricevere in una abitazione prossima alla rovina e mostrò loro i progetti per la fabbrica di una nuova casa. Intanto erano rientrate la madre e la sorella maggiore. — E Federica? Dov’è Federica? — chiesero tutti. — Non datevi pensiero — rispose il padre — ella verrà. «In questo momento si aprì la porta e comparve la fanciulla. Era come una stella splendente sorta sul cielo della campagna. Le due sorelle vestivano alla tedesca e questo costume andava bene sopratutto a Federica. La sottana era bianca e lasciava scorgere i più graziosi piedini che si possano vedere; il busto era stretto e bianco; nero il grembiule. Camminava con passo leggerissimo come non sentisse il proprio peso, eppure le lunghe treccie bionde che scendevano dalla testa graziosa parevano pesanti per il collo gracile. Aveva gli occhi azzurri, lo sguardo chiaro, il naso piccolo ed alquanto rialzato; muoveva la testa con vivacità come se al mondo non vi fossero nè crucci, nè rammarichi; al suo braccio pendeva il cappello di paglia. Così io ebbi il piacere di vederla al primo momento in tutta la sua grazia e gentilezza.» Su questa delicata visione che rassomiglia a un pastello dii Greuze, l’amore si iniziò rapidamente. Una passeggiata nel bosco al lume della luna, un incontro fortuito e delizioso sulla collina, tutto lo slancio di due temperamenti sensibili, tutta l’attrazione dell’età e della bellezza compirono l’incanto. Le visite a Sesenheim si moltiplicarono. Goethe potè scrivere ancora: «Vi sono donne che piacciono sopratutto in una stanza ed altre che suscitano la nostra simpatia fuori di casa, in mezzo alla natura libera. Federica apparteneva a queste ultime. L’essenza del suo carattere, le stesse sue forme parevano sempre più belle quando camminava sopra un alto sentiero; le grazie della sua persona e del suo contegno sembrava allora facessero a gara colla terra coperta di fiori e il suo viso sereno sfidava la limpidezza del cielo. Ma questa piacevole atmosfera di cui era circondata ella la introduceva anche in casa. Il contegno di Federica in società faceva nascere il benessere; simile a un buon genio si portava di qua e di là a mitigare le asprezze, a colmare ogni vuoto, sempre con quel suo passo leggero che pareva volasse. A lato di Federica io mi sentivo infinitamente felice. Ero loquace, brioso, spiritoso, un po’ impertinente. Lo stesso avveniva per Federica: era franca, allegra, espansiva, gentile. Pareva che ambedue non vivessimo che per la società, mentre non vivevamo che l’uno per l’altra.» Intorno ai due innamorati non vi era ombra di sospetto. Ognuno si fidava alla purezza di sentimento della fanciulla, all’onestà del giovane; e poi non era nelle abitudini del tempo e del paese la sorveglianza di simili cose. I sentieri di Sesenheim, le isolette del Reno, Hagenau, Philippsburg, tutta la bella campagna in giro raccolse l’eco di quella innocente e ardente felicità. Ma fino a quando? Lo spirito irrequieto e la intelligente curiosità di Goethe che sempre lo spingevano a nuove investigazioni, lo distrassero alla fine dall’idillio amoroso. Altre gite, altri paesi, altre compagnie, studi e piaceri nuovi assorbirono la sua attività. Ascoltiamo ancora una confessione che è preziosa quanto istruttiva: «Mi abbandonai tanto più volentieri a questi divertimenti giacchè la mia passione per Federica cominciava ad inquietarmi. Una passione come questa che nasce e vive senza scopo ben determinato assomiglia ad una bomba lanciata di notte che sale in curva lucente e si confonde quasi colle stelle e pare persino fermarvisi, ma che poi scende e fa strage ove cade. Federica era rimasta la stessa. Non rifletteva o non voleva riflettere al fatto che la sua relazione con me un giorno o l’altro doveva finire.» Quale indifferenza in queste parole! Il genio freddo e lucido del poeta trova la felice metafora della bomba lanciata in alto che si confonde quasi colle stelle e pare persino fermarvisi, ma poichè cadendo la strage non avviene nel suo cuore, che importa? Indirettamente fa una colpa a Federica di essere tanto costante. Perchè non cambiava anche lei? «Diradai le mie visite; l’assenza mi fece proprio libero e il mio amore per la cara fanciulla si sviluppò nella conversazione scritta, poichè la nostra corrispondenza non era altro. In tali momenti potevo fare a meno di pensare all’avvenire; l’andamento della mia vita mi distraeva molto rendendomi possibile una attività svariatissima che dedicava il mio interesse a tutte le questioni del momento.» Eccolo ben lontano da Federica, ed ecco l’ultima scena. Occupatissimo a rifare sul disegno originale il campanile della cattedrale di Strasburgo alla vigilia della partenza definitiva da quella città, si ricorda della fanciulla: «In mezzo a tanto trambusto non potei far a meno di rivedere ancora una volta la mia Federica. Furono giorni penosi. Quando dal cavallo le diedi la mano per l’ultima volta ella aveva le lagrime agli occhi ed anch’io mi sentivo assai male. Tornando verso Drusenheim fui preso da uno dei più strani presentimenti. Non cogli occhi del corpo, ma cogli occhi della mente vidi me stesso — vestito con un abito che non avevo mai portato, di color grigio e oro, a cavallo — venirmi incontro per la medesima strada. Quando mi scossi dal mio stupore la visione era sparita; ma è strano il fatto che dopo nove anni, vestito per caso con un abito grigio e oro, mi trovai su questa via allo scopo di rivedere Federica. Comunque sieno queste ed altre cose simili, fatto sta che quella visione in quel momento contribuì molto a tranquillarmi e a mitigare il dolore di dover abbandonare per sempre la bella Alsazia con tutto ciò che vi avevo acquistato. Uscito dalla confusione della separazione mi trovai abbastanza calmo e feci un viaggio tranquillo ed allegro.» Davvero non si potrebbe essere più olimpicamente impudenti nella confessione del proprio egoismo. Nel momento in cui ella piange egli vede _se stesso_ e ciò lo consola subito. Quell’abito grigio e oro gli stava bene senza dubbio e gli permette di continuare il viaggio tranquillo non solo ma anche allegro. Va il poeta incontro ad altri amori e non si chiede neppure un istante in quale stato lascia il cuore della dolce Federica. Lui attende la gloria, lui una vita esuberante, intensa, colma di ogni dono; e quando nove anni dopo (vestito di grigio e oro) la curiosità lo spinge a ripassare pei verdi sentieri alsaziani e a rivedere Federica, egli la ritrova come l’ha lasciata nella vecchia casa cadente, dolce, tenera, rassegnata all’oblio, con qualche piccola ruga forse sotto gli occhi che sapevano il pianto, forse con qualche prematuro capello bianco nelle bionde treccie... Ed è lei che votandosi al celibato pronuncerà senza un rimprovero per colui che l’ha lasciata la frase semplice e sublime: «La fanciulla amata da Goethe non deve darsi a un altro uomo.» No, nessuno degli amori di Goethe fu circondato da una poesia così pura, nessuna delle donne da lui amate regge al confronto di Federica; e ci prende un malinconico rimpianto nel non ritrovare il suo nome fra le pagine dell’Immortale, mentre la ragazza che gli versava il vino a Francoforte rivive in Margherita e perfino alla placida Carlotta egli eresse un monumento sulla tomba del giovane Werther. Quante volte mi venne il desiderio, nei pochi giorni di sosta a Strasburgo, di fare una corsa a Sesenheim! Ma perchè sarei andata? Neppure una pietra deve essere rimasta della casa del Pastore già cadente un secolo fa, neppure la memoria del luogo; e non certamente l’albero dove Federica soleva riposare, non sui sentieri gli stessi fiori che ella coglieva percorrendoli col suo passo leggero che sembrava volasse. Altrove, altrove o Federica è la tua memoria! Io la cerco dall’alto della Cattedrale spingendo lo sguardo sulla pianura che dalla molle ondulazione dei Vosgi si stende verso il Reno e si perde all’orizzonte in un velo di nebbia. Più lontano, più lontano ancora, sovra i monti, al di là del fiume, negli spazi sconfinati, dovunque palpiteranno giovani cuori femminilmente amorosi e anime fatte per comprendere la bellezza di un sentimento che tutto si dona senza nulla chiedere in ricambio, là vivrà eternamente Federica. NELLA VECCHIA STRADA. Incomincia il nome a indicare che la via è antica; un nome ispirato non a grandi o medi o piccoli uomini come si usa adesso, ma che, tolto dalla posizione stessa della via, ne rievoca la vita primitiva e i confini angusti entro i quali chiudevasi un tempo la città. Parimenti non appare, la vecchia strada, tagliata dritta con un colpo d’accetta, rigida nella regolarità di misure prestabilite che ne costringano lo sviluppo a guisa di giovane corpo spianato nella guaina di un busto dozzinale; e non è tutta bianca, e non è tutta bella, e non è nemmeno tutta pulita perchè quando il carbonaio scarica la merce dinanzi alla botola del suo stambugio una larga striscia nera rimane per molti giorni sul lastrico. Corrono, è vero, i fili elettrici da una casa all’altra, ma poichè pendono da essi brandelli di carta rossa e celeste noi sappiamo subito che corrono pure i fanciulli traendosi dietro nell’aria le loro comete e cervi volanti, ciò che non potrebbe accadere in una via nuova rispettabile e imponente percorsa da automobili. La vecchia strada si distende a sghimbescio dietro una vecchia chiesa e un vecchio palazzo che ne occupano buona parte, di fronte a casuccie meschine, a botteghe umili di prima necessità: il fornaio, il macellaio, il fruttaiolo, il ciabattino, il ramaio, il venditore di legna e carbone e l’osteria, si sa, più necessaria di tutte. In un certo punto le casuccie si spingono così innanzi (proprio da gente che non conosce le belle creanze e fa i propri comodi) da toccare quasi il cornicione del palazzo signorile il quale, scuro scuro e sempre chiuso, se pure ha l’aria di tenere il broncio, sopporta tutto senza recriminazioni. Accanto al palazzo la canonica della chiesa, scura anch’essa in una tinta di rosso bruno, accoglie dietro le sue finestre ornate da qualche vaso di violaciocche le piccole suore di San Vincenzo trotterellanti ogni mattina in cerca di elemosine per i loro poveri. Entrano le piccole suore dal fornaio sollevando il coperchio del paniere dove scompariranno i pani già messi da parte per loro e rinchiudendolo si chinano ad accarezzare i piccoli bimbi, a distribuire santini ai più grandicelli. Il sorriso che rivolgono alla fornaia sembra dire: «La vostra missione è di fare dei figlioli, la nostra è di fare carità». La fornaia sorride essa pure, ma è difficile dire che cosa esprima quel sorriso. Con maggiore titubanza entrano le piccole suore dal macellaio dove la grossa padrona troneggia dietro il banco, pettoruta, rubiconda, sprizzante salute e ciccia, con due buccole di brillanti appese ai loboli carnosi delle orecchie e due occhi cupidi che si rivolgono continuamente al garzone, bel giovinotto ricciuto e forte nella sua camicia color di rosa affaccendato fra i quarti di bue e di vitello appesi in giro. Tutta quella carne, e l’odore del sangue, e le occhiate della donna, turbano le monachelle. Mettendo nel paniere una viscida milza offerta dal garzone, la più vecchia si avvicina al banco a chiede timidamente: — Vostro marito va meglio? — Oh! tossisce sempre. Oramai si sa che è etico. Non c’è rimedio. Il garzone, battendo col matterello una larga bistecca, ripete: «Non c’è rimedio». Le suore escono ad occhi bassi. Il ciabattino è scapolo, socialista e superuomo insieme. Rifiuta l’elemosina alle mani morte, taccona le ciabatte con dignità, predica alla sera all’osteria contro i signori e nei giorni di festa vestito egli stesso come un signore, col sigaro in bocca, passeggia su e giù gettando sulla sua bottega chiusa guardataccie che sembrano di sfida. Placidissimi i fruttaioli, marito e moglie, due colossi biondi ruzzolati giù dalle balze del Canton Ticino, stanno piantati all’imboccatura della strada a guisa di due molossi custodi, indifferenti a tutto ciò che non sia il loro negozio, vendendo caldarrosti l’inverno e ciliegie in primavera col ritornello invariabile che _tutto è cresciuto_. Alla finestra della loro abitazione pende una gabbia con dentro un merlo. Nei mesi freddi diventa anche polentaio il buon fruttaiolo. A mezzodì in punto (l’ora che fa uscire gli operai dalla fucina) lo si sente gridare sulla soglia della sua bottega: _È cotta!_ Il ramaio non si vede mai ma si sente sempre. Toc toc toc, le lastre battute risuonano sotto i colpi cadenzati del martello e questo rumore che sarebbe anacronismo altrove compie a perfezione la fisionomia rugosa e passatella della vecchia strada; questo rumore antico, questo rumore che ai nostri padri, nonni e bisnonni cullò i sensi non ancora raffinati nelle piccole città industriose, nei villaggi solatii, mentre le massaie badavano a tener lucidi i bei rami onore e decoro delle loro cucine, questo rumore caro tuttavia a chi non soffre di nervi per la sua gaia forza evocatrice, questo rumore semplice e onesto è come il cuore della vecchia strada. Durante la rigida stagione gli usci e le finestre chiuse ne attutiscono il rimbombo, ma appena il sole scendendo a scacchi dal bruno palazzo aristocratico balza nella via, tutte le imposte si aprono e la musica del rame percosso e ripercosso trionfa di ogni altro rumore. Fin qui la prima metà della strada; nella seconda le esigenze del progresso hanno fatto abbattere i fabbricati vetusti, poichè i nipoti eredi si credettero in dovere di introdurre un po’ d’ordine, di raddrizzare le linee, di livellare i tetti; così le case da quel lato sono decorosamente moderne e si specchiano con compiacenza nell’ampio fabbricato delle scuole eretto sopra le rovine di un convento. E però questo pezzo di strada vecchia rimesso a nuovo è freddo e senza carattere. Le arterie della vecchia strada pulsano sempre fra le botteguccie, la canonica e il palazzo. È sotto il panciuto verone di ferro battuto che l’arrotino si ferma una volta la settimana a tendere la sua cote, girando la ruota con un movimento lento della gamba, attento alla chiamata delle donne di tra le persiane semichiuse. Colui che conduce a mano il carretto della terraglia annunciato da uno stridulo suono di tromba non si accontenta di aspettare le donne, le chiama acutamente: Donne! Donne! Passa anche quello che vende pizzi e tendine; passa quello che vende fiori gridando: botanica! Passa quello che vende acciughe, e quello che vende limoni, e il cenciaiolo, e il musicista. La musica è generalmente rappresentata dall’organetto; organetti scordati da far accapponare la pelle a un sordo; ciò nondimeno i ragazzetti si mettono a ballare in mezzo alla strada, uomo con uomo, molleggiando i ginocchi, i gomiti aperti, ridendo. Fanno pure la loro apparizione i suonatori di chitarra, i canzonettisti napoletani, i ciechi, i pagliacci vestiti di maglia, le scimmie in giubbetto rosso a ricami d’oro e il canto del merlo nella sua gabbia. Alcune volte, di notte, il silenzio altissimo della vecchia strada addormentata viene interrotto da una passata di mandolinisti. È allora tutta una dolcezza di note patetiche che sfiora le finestre facendo sospirare tra il sonno e la veglia qualche fanciulla, qualche sposa desta ancora accanto al marito che dorme. Tutti coloro che abitano nella vecchia strada o che la frequentano spesso vi si sentono un po’ padroni. Si conoscono da anni, stanno sulle soglie a ciarlare, si lagnano insieme del caldo in luglio e del freddo in gennaio; amano la loro vecchia strada quantunque brutta, si sentono solidali in essa e par loro quasi una patria. Ma i veri padroni sono i fanciulli. Ve ne è un nugolo. Durante il giorno vanno e vengono dalla scuola confusi coi loro compagni delle altre contrade che quasi non si distinguono. Alla sera invece, quando dalla vecchia strada non passa più nessuno e sicuramente nessun veicolo attenta ai loro giovani giorni, sgusciano fuori da ogni banda rincorrendosi da un capo all’altro con mosse così giulive e snelle, con tanta gioia di vivere che ne infondono anche a chi li sta a riguardare. Si mettono in fila e si saltano l’un l’altro come paracarri; poi fanno la guerra; poi la maratona. Il lastrico della via è ricoperto da disegni cabalistici, i muri soffrono purtroppo lo sfogo di artisti impazienti. A tratti una mamma sbuca fuori improvvisamente a prendere qualcuno per le orecchie; acuti strilli allora fendono l’aria. Vi sono i belli — e le belle — che fanno pensare: quando sarò grande... Vi sono eziandio i meschinucci che si vorrebbero abbracciare per la compassione dei mali che li aspettano. Un umorista decenne osservando dei fili d’erba fra i tegoli del palazzo esclama: Al vecchio tetto spuntano i capelli! Un tuffolino intanto sfuggito per la prima volta dalle dande arriva tutto barcollante e appoggia contro il portone gentilizio le piccole natiche rosee. A una data ora i fanciulli si squagliano, la strada rimane deserta, è notte. Il cornicione del palazzo protende la sua ombra bruna nel silenzio; alle finestre delle suore, dietro le violaciocche, il lume è spento da un pezzo; gli altri lumi si spengono a poco a poco; non rimangono che i fanali a lunga distanza punteggianti il velo delle tenebre. Un soffio fresco e molle lambe i muri; sembra il respiro della vecchia strada addormentata. Da un balcone, nella casina del macellaio, una cortina si solleva lentamente.... INDICE PROFILI Un idealista — Alberto Sormani pag. 7 Un nome che risorge » 53 L’amore che non muore » 63 Un bardo del 1830 » 75 Una gran dama » 85 Emma Lyon » 113 I travestimenti del secolo XVIII » 129 Il caso straordinario del cavaliere d’Éon » 137 L’ultimo madrigale alla marchesa di Sévigné » 155 Maria dei Medici » 161 I fratelli Zuccari » 171 IMPRESSIONI La coscienza del fanciullo » 190 Storture, deviazioni e atrofia del sentimento » 203 Conforti » 211 L’amore nei grandi uomini » 221 Il sorriso della Duse » 233 Il sentimento nella poesia » 241 RICORDI DI VIAGGIO Capodistria » 259 Impressioni e appunti personali su Londra » 267 Attraverso l’Olanda » 279 Un cantuccio di Parigi » 291 Colmar » 299 Nel paese di Federica » 309 Nella vecchia strada » 323 NOTE: [1] La _Vita Internazionale_, 1898. [2] Un amico mi avverte di modificare il mio giudizio su questo lavoro che è uno dei pezzi più lodati della scoltura moderna. Ecco: come pezzo di scoltura, io non ho nulla a ripetere. La mia impressione, dirò così negativa, è data dalla premessa del titolo a cui non mi pare che l’opera risponda. Non nego che quando lo troveranno in uno scavo di qui a cinque o sei mila anni non l’abbiano a mettere in un Museo al posto d’onore, ma se a qualcuno pigliasse vaghezza di sapere che cosa rappresenta quell’uomo nudo seduto sopra quel cubicolo l’imbarazzo sarà grande. Certo a nessuno verrà in mente che possa essere un pensatore e non sarà niente di male per un oggetto da Museo. Ma quando un artista come Rodin innalza una statua proprio davanti al monumento che racchiude le maggiori glorie della Francia e lo chiama il _Pensatore_ è permesso, senza mancare di riverenza, di aspettarsi qualche cosa di più che una esercitazione accademica. Nota del Trascrittore Ortografia e punteggiatura originali sono state mantenute, correggendo senza annotazione minimi errori tipografici. *** END OF THE PROJECT GUTENBERG EBOOK PROFILI, IMPRESSIONI E RICORDI *** Updated editions will replace the previous one—the old editions will be renamed. Creating the works from print editions not protected by U.S. copyright law means that no one owns a United States copyright in these works, so the Foundation (and you!) can copy and distribute it in the United States without permission and without paying copyright royalties. Special rules, set forth in the General Terms of Use part of this license, apply to copying and distributing Project Gutenberg™ electronic works to protect the PROJECT GUTENBERG™ concept and trademark. Project Gutenberg is a registered trademark, and may not be used if you charge for an eBook, except by following the terms of the trademark license, including paying royalties for use of the Project Gutenberg trademark. 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Of course, we hope that you will support the Project Gutenberg™ mission of promoting free access to electronic works by freely sharing Project Gutenberg™ works in compliance with the terms of this agreement for keeping the Project Gutenberg™ name associated with the work. You can easily comply with the terms of this agreement by keeping this work in the same format with its attached full Project Gutenberg™ License when you share it without charge with others. 1.D. The copyright laws of the place where you are located also govern what you can do with this work. Copyright laws in most countries are in a constant state of change. If you are outside the United States, check the laws of your country in addition to the terms of this agreement before downloading, copying, displaying, performing, distributing or creating derivative works based on this work or any other Project Gutenberg™ work. 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Except for the limited right of replacement or refund set forth in paragraph 1.F.3, this work is provided to you ‘AS-IS’, WITH NO OTHER WARRANTIES OF ANY KIND, EXPRESS OR IMPLIED, INCLUDING BUT NOT LIMITED TO WARRANTIES OF MERCHANTABILITY OR FITNESS FOR ANY PURPOSE. 1.F.5. Some states do not allow disclaimers of certain implied warranties or the exclusion or limitation of certain types of damages. If any disclaimer or limitation set forth in this agreement violates the law of the state applicable to this agreement, the agreement shall be interpreted to make the maximum disclaimer or limitation permitted by the applicable state law. The invalidity or unenforceability of any provision of this agreement shall not void the remaining provisions. 1.F.6. 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It exists because of the efforts of hundreds of volunteers and donations from people in all walks of life. Volunteers and financial support to provide volunteers with the assistance they need are critical to reaching Project Gutenberg™’s goals and ensuring that the Project Gutenberg™ collection will remain freely available for generations to come. In 2001, the Project Gutenberg Literary Archive Foundation was created to provide a secure and permanent future for Project Gutenberg™ and future generations. To learn more about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation and how your efforts and donations can help, see Sections 3 and 4 and the Foundation information page at www.gutenberg.org. Section 3. Information about the Project Gutenberg Literary Archive Foundation The Project Gutenberg Literary Archive Foundation is a non-profit 501(c)(3) educational corporation organized under the laws of the state of Mississippi and granted tax exempt status by the Internal Revenue Service. The Foundation’s EIN or federal tax identification number is 64-6221541. Contributions to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation are tax deductible to the full extent permitted by U.S. federal laws and your state’s laws. The Foundation’s business office is located at 809 North 1500 West, Salt Lake City, UT 84116, (801) 596-1887. Email contact links and up to date contact information can be found at the Foundation’s website and official page at www.gutenberg.org/contact Section 4. Information about Donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation Project Gutenberg™ depends upon and cannot survive without widespread public support and donations to carry out its mission of increasing the number of public domain and licensed works that can be freely distributed in machine-readable form accessible by the widest array of equipment including outdated equipment. Many small donations ($1 to $5,000) are particularly important to maintaining tax exempt status with the IRS. The Foundation is committed to complying with the laws regulating charities and charitable donations in all 50 states of the United States. Compliance requirements are not uniform and it takes a considerable effort, much paperwork and many fees to meet and keep up with these requirements. We do not solicit donations in locations where we have not received written confirmation of compliance. To SEND DONATIONS or determine the status of compliance for any particular state visit www.gutenberg.org/donate. While we cannot and do not solicit contributions from states where we have not met the solicitation requirements, we know of no prohibition against accepting unsolicited donations from donors in such states who approach us with offers to donate. International donations are gratefully accepted, but we cannot make any statements concerning tax treatment of donations received from outside the United States. U.S. laws alone swamp our small staff. Please check the Project Gutenberg web pages for current donation methods and addresses. Donations are accepted in a number of other ways including checks, online payments and credit card donations. To donate, please visit: www.gutenberg.org/donate. Section 5. General Information About Project Gutenberg™ electronic works Professor Michael S. Hart was the originator of the Project Gutenberg™ concept of a library of electronic works that could be freely shared with anyone. For forty years, he produced and distributed Project Gutenberg™ eBooks with only a loose network of volunteer support. Project Gutenberg™ eBooks are often created from several printed editions, all of which are confirmed as not protected by copyright in the U.S. unless a copyright notice is included. Thus, we do not necessarily keep eBooks in compliance with any particular paper edition. Most people start at our website which has the main PG search facility: www.gutenberg.org. This website includes information about Project Gutenberg™, including how to make donations to the Project Gutenberg Literary Archive Foundation, how to help produce our new eBooks, and how to subscribe to our email newsletter to hear about new eBooks.